1. ARCHEOLOGIA IN ISRAELE
Frammenti di iscrizione greca trovati a sud di Gerusalemme gettano nuova luce sui Maccabei
Tre frammenti di un'iscrizione greca, ritenuta parte della 'stele di Eliodoro', sono stati trovati recentemente in uno scavo dell'Israel Antiquities Authority nel Parco Nazionale di Beit Guvrin.
La stele di Eliodoro, che risale al 178 a.e.v. e che consiste di 23 righe incise su calcare, è considerata una delle iscrizioni antiche più importanti rinvenute in Israele.
Dov Gera, che ha studiato le iscrizioni, ha stabilito che i frammenti erano in realtà la parte inferiore della 'stele di Eliodoro'. Questa scoperta conferma l'idea che la stele originariamente fosse situata in uno dei templi situati dove oggi si trova il Parco Nazionale Maresha- Beit Guvrin.
I nuovi frammenti sono stati scoperti in un complesso sotterraneo dai partecipanti al programma Dig for a Day (scava per un giorno) dell'Archaeological Seminars Institute.
Come è stato scritto dai professori Cotton e Wörrle nel 2007, questa stele reale in pietra reca un proclama da parte del re dei Seleucidi, Seleuco IV (padre di Antioco IV). Il contenuto della stele ha fatto luce sul coinvolgimento del governo dei Seleucidi nei templi locali, menzionando un tale di nome Olympiodoros, il 'supervisore' designato dei templi di Coele Syria-Phoenicia, compresa la Giudea.
L'ordine del re fu inviato a Eliodoro, che era probabilmente la stessa persona menzionata nel libro Maccabei II. Secondo la storia narrata in Maccabei, Eliodoro, come rappresentante del re Seleuco IV, cercò di rubare del denaro dal Tempio di Gerusalemme ma invece fu picchiato con violenza grazie all'intervento divino.
Tre anni dopo, Seleuco IV fu assassinato e gli successe il figlio Antioco IV, che fu il governante, secondo Maccabei II, che finì coll'emettere un editto di persecuzione contro il popolo ebraico e dissacrò il Tempio di Gerusalemme, il che portò alla rivolta dei Maccabei.
In breve, si può stabilire che questa stele reale ebbe origine nella città di Maresha, ed aggiunge importanti testimonianze archeologiche e contesto storico per la comprensione del periodo che portò alla rivolta dei Maccabei, un evento celebrato tutti gli anni con la festa ebraica di Hannukah.
Ian Stern, direttore degli scavi per l'Israel Antiquities Authority, aggiunge: "Questa scoperta è il frutto di uno sforzo congiunto da parte del programma 'Dig for a Day' dell'Archaeological Seminars Instititute, dell'Israel Antiquities Authority e dello staff dell'Israel Nature and Parks Authority del Parco Nazionale di Beit Guvrin".
(Ha'aretz, 16 febbraio 2009, da israele.net)
2. CRIMINI CONTRO L'UMANITA'
Gaza: la sporca guerra di Hamas
di Fausto Biloslavo
«Morire con noi è un grande onore. Andremo in Paradiso assieme, oppure sopravviveremo fino alla vittoria. Sia fatta la volontà di Allah». Così reagivano i miliziani di Hamas alle suppliche dei civili palestinesi di non usare le loro case come postazioni durante la terribile offensiva israeliana nella Striscia di Gaza dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Ora che i riflettori internazionali si sono spenti, Panorama è andato a vedere cosa succede a Gaza. E ha scoperto l'altra faccia della guerra, altrettanto sporca, che non ci è stata raccontata: interi palazzi presi in ostaggio, la popolazione utilizzata come scudo umano e, per i dissidenti, ancora oggi il rischio di beccarsi un proiettile in quanto «collaborazionisti».
Pericolo tutt'altro che teorico: dalla fine di dicembre 181 palestinesi sono stati sommariamente giustiziati, gambizzati o torturati perché contrari a Hamas. Ma non è finita: oggi il movimento islamico che governa Gaza con Corano e moschetto vuole controllare tutto, compresi gli aiuti e la ricostruzione.
Il palazzo Andalous, nel quartiere al-Karama di Gaza City, è ridotto a uno scheletro di cemento. Gli israeliani hanno pestato duro e a questa coppia di palestinesi di mezza età non resta che raccogliere i cocci di un appartamento ancora da pagare. Ci accompagnano su quel che resta delle scale interne, a patto che Panorama usi solo i soprannomi di famiglia. «Sapevamo che andava a finire così. Fin dai primi giorni dell'attacco i muqawemeen (i partigiani della "resistenza" palestinese, nda) si erano piazzati al dodicesimo e al tredicesimo piano, con i cecchini. Ogni tanto cercavano invano di sparare a uno di quegli aerei senza pilota che usano gli israeliani» racconta Abu Mohammed, scuotendo il capo. Nel palazzo, non ancora finito, vivevano 22 famiglie: oltre 120 civili, compresi donne e bambini. Gli israeliani hanno cominciato a telefonare sui cellulari degli inquilini intimando l'evacuazione. Poi, ai miliziani è arrivato un messaggio più esplicito: un caccia ha sganciato una bomba nel cortile deserto dall'altra parte della strada, senza fare vittime, ma aprendo un cratere enorme. «Una delegazione di capifamiglia ha scongiurato i miliziani di andarsene» riprende l'inquilino. «La risposta è stata: "Morirete con noi o sopravviveremo assieme"».
Il 13 gennaio gli F16 israeliani hanno centrato il palazzo alle 9 e mezzo di sera. «Di notte andavamo a dormire da parenti: ci siamo salvati, ma non abbiamo più la casa e dobbiamo pagare ancora 9 anni di mutuo» si dispera Om Mohammed, un velo sul capo. La Banca islamica non concede deroghe.
In un altro palazzo di Gaza, nel quartiere al-Nasser, vivevano circa 170 civili divisi su otto piani. Quando i miliziani si sono piazzati sul tetto, un ex colonnello palestinese è andato a parlamentare spiegando che avrebbero attirato le bombe israeliane sui bambini del palazzo. «Sarà un grande onore se morirete con noi» hanno risposto i difensori di Gaza. L'ufficiale ha insistito: per toglierselo di torno gli hanno sparato una raffica di kalashnikov sopra la testa.
A Sheik Zayed, 20 chilometri a nord, un farmacista palestinese era barricato con la famiglia al secondo piano del suo condominio. I militanti islamici hanno piazzato una trappola esplosiva sulla strada di fronte e si sono nascosti al terzo piano con il detonatore. «Volevano far saltare in aria il primo carro armato israeliano che passava. Ho cercato di spiegare che la reazione sarebbe stata furiosa e avrebbero colpito anche i nostri appartamenti. Alla fine, per salvarci, ce ne siamo dovuti andare» accusa il farmacista con un velo di rassegnazione negli occhi.
Nel quartiere Tel al-Awa di Gaza, invaso dall'incursione terrestre degli israeliani, c'è chi ha fatto l'ostaggio due volte. «Chiamami Naji, che significa sopravvissuto, perché se scrivi il mio vero nome mi ammazzano» scongiura il capofamiglia palestinese. «Quelli di Hamas arrivavano di notte a dormire nel sottoscala. Prima in uniforme, poi con abiti civili e le armi nascoste. Abbiamo cercato di sprangare il portone, ma non c'è stato nulla da fare. L'intero palazzo era usato come scudo dai miliziani, che avrebbero potuto essere bombardati in qualsiasi momento».
Quando gli uomini di Hamas vinsero le elezioni nella Striscia, Naji era contento del cambiamento, ma ora li odia. «Lanciano i razzi (su Israele, nda) senza alcun risultato militare, se non l'autodistruzione» spiega il sopravvissuto. «Lo fanno per ottenere soldi dai loro padrini iraniani e siriani». All'arrivo degli israeliani, nel quartiere i partigiani della «resistenza» erano spariti. Per trovarli i soldati sono entrati nel palazzo. Assieme agli altri uomini del condominio, il palestinese è stato tenuto prigioniero per un giorno e una notte. «Per due volte ho fatto l'ostaggio nella stessa guerra» sospira Naji. «E quelli di Hamas mi hanno addirittura minacciato che avremmo fatto i conti alla fine delle ostilità, perché protestavo».
In altri casi gli sgherri delle brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, non si sono limitati alle minacce. Usama Atalla aveva 40 anni e cinque giorni prima gli era nata l'ultima figlia, Iman. L'hanno ammazzato il 28 gennaio, 11 giorni dopo il cessate il fuoco. Atalla era maestro elementare e attivista di al-Fatah, il partito del presidente palestinese moderato Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen. «Criticava apertamente Hamas, ma non ha mai imbracciato un'arma contro di loro» sostiene Mohammed Atalla, familiare della vittima.
Gli assassini sono andati a prenderlo a casa con due fuoristrada pieni di gente armata. Con il volto mascherato hanno mostrato dei tesserini della sicurezza interna palestinese. «Solo alcune domande di routine. Fra mezz'ora ve lo riportiamo» hanno detto alla famiglia. Il maestro elementare è stato torturato per una notte intera. Poi l'hanno ucciso con un proiettile nel fianco sparato a bruciapelo, poco prima di abbandonarlo agonizzante davanti all'ospedale Shifa.
«Dall'inizio della guerra abbiamo documentato 27 esecuzioni sommarie. Altre 127 persone sono state rapite, torturate o gli hanno sparato nelle gambe. Almeno 150 costrette agli arresti domiciliari. Di un centinaio di prigionieri di Hamas non sappiamo nulla. I numeri potrebbero essere più alti, ma molti casi non vengono denunciati perché la gente è terrorizzata». La denuncia sulla sporca guerra di Hamas contro i suoi oppositori arriva da Salah Abd Alati, della Commissione indipendente sui diritti umani di Gaza. Da Ramallah, capoluogo della Cisgiordania dove governa Abu Mazen, sono stati resi pubblici i nomi di 58 gambizzati. Ad altri 112 palestinesi hanno spezzato le gambe a colpi di spranga o con blocchi di cemento. In gran parte sono sostenitori di al-Fatah: li accusano di collaborare con Israele contro Hamas. Da Ramallah il ministro palestinese per i Prigionieri e i rifugiati, Ziyad Abu Ein, ha parlato di «terrorismo» e «di crimini commessi contro il popolo palestinese».
Una delle vittime è Aaed Obaid, ex poliziotto militare fedele ad al-Fatah. Occhi azzurri, barbetta rossa e volto scavato, è disteso dolorante su un divano di casa a Gaza City. Sotto la coperta nasconde la gamba sinistra fasciata. «Il 26 gennaio, verso le 7 di sera, ero seduto fuori del portone e parlottavo con mio fratello» racconta. «È arrivato un fuoristrada color argento, come quelli che usa Hamas, con quattro uomini armati e mascherati. Mi hanno preso, incappucciato e trascinato via. Non avevo fatto nulla». Prima l'hanno portato a un centro di addestramento dei miliziani dicendogli che lo avrebbero giustiziato. Poi lo hanno fatto pregare e ricaricato in macchina. «A un certo punto si sono fermati vicino all'ospedale Shifa facendomi sdraiare a terra. Mi hanno sparato due colpi di kalashnikov nella gamba sinistra, senza neppure dirmi di cosa mi accusavano».
Il fratello del gambizzato, Adel Obaid, è uno dei prigionieri di al-Fatah rilasciato dal carcere di Saraia, nel centro di Gaza, prima che gli israeliani lo bombardassero. Baffi curati, ha l'ira negli occhi. «Alcuni prigionieri sono rimasti feriti sotto le bombe e portati allo Shifa. Ne hanno uccisi almeno sette sui letti d'ospedale».
Dopo avere utilizzato la guerra per regolare i conti interni, ora Hamas vuole controllare la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione. Per farlo ha provato a confiscare gli aiuti dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.
Il 4 febbraio i poliziotti di Hamas hanno sequestrato 406 razioni di cibo e 3.500 coperte destinate a 500 famiglie palestinesi. Il giorno dopo il capo dell'Onu a Gaza, John Ging, ha dichiarato duro a Panorama: «È la prima e sarà l'ultima volta che rubano i nostri aiuti. Devono restituirli senza discutere». Nella notte, poche ore più tardi, sono state sequestrate altre 300 tonnellate di rifornimenti alimentari». L'Unrwa ha deciso di sospendere l'arrivo di aiuti a Gaza fino a quando non venisse riconsegnato il maltolto. Il 9 febbraio i fondamentalisti hanno ceduto e restituito tutto, ma puntano sempre a gestire il consenso attraverso gli aiuti.
«Quello che passa da Rafah, il valico con l'Egitto, finisce in mano a Hamas. Della distribuzione si occupano i Comitati sociali delle moschee, per il 90 per cento controllate dal movimento islamico» spiega Mkhaimer Abusada, docente di scienze politiche all'Università al-Azhar di Gaza. Le liste di distribuzione, che favoriscono chi appoggia Hamas, sono l'arma del consenso in cambio di aiuti. A fine gennaio la polizia ha fermato le autobotti di un'organizzazione umanitaria locale, che lavora per una ong italiana. Volevano le liste della distribuzione dell'acqua.
Per incontrare il responsabile di una ong palestinese, finanziata dall'Unione Europea e dall'agenzia americana Us Aid, giriamo guardinghi di notte. L'appuntamento è a Jabaliya. Il presidente dell'ong ha paura di Hamas, non degli israeliani. «Vogliono imporci i loro uomini per controllare la distribuzione» accusa la fonte di Panorama. «Ci hanno intimato di non condurre statistiche sulle case distrutte: metteranno le mani anche sulla ricostruzione. Conosco decine di famiglie che hanno subito l'aggressione israeliana, ma sono discriminate negli aiuti perché non appoggiano Hamas».
A Beit Lahiya, nel nord della Striscia, Fatima ha la casa semidistrutta. «Sono andata dalla Società islamica, un'organizzazione vicina a Hamas che si occupa di aiuti e ricostruzione. Non voto per loro. Guarda caso non ero registrata nella lista di distribuzione» riferisce la donna di mezza età avvolta in un velo multicolore.
A Gaza un giornalista ha perso una bella casa di due piani. Si è visto consegnare 380 euro per trovare una prima sistemazione. «Gli amici di Hamas si sono intascati 4 mila euro. A un mio vicino che ha avuto solo i vetri rotti, ma è dei loro, gli aiuti sono arrivati subito» protesta il giornalista.
Nonostante il disastro, il movimento islamico ha dichiarato vittoria. Fra i palestinesi della Striscia gira una battuta amara: «Ancora un paio di vittorie come questa e Gaza scompare dalla Terra». Ma qualcosa sta cambiando: un sondaggio del Centro Beit Sahour per l'opinione pubblica palestinese rivela che il consenso per Hamas nella Striscia è crollato dal 51 per cento di novembre al 27,8 dopo la guerra.
(Panorama, 14 febbraio 2009)
3. DONNE D'ISRAELE
Edna Calò Livne: La pace inizia dai ragazzi
di Daniela Gross
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Edna Calò Livne |
"Quando mio marito Yehuda partì per la guerra del Libano, nell'82, ero incinta del nostro primo figlio. 'Tu non dovrai mai andare in guerra', ripetevo a quel bimbo dentro di me. Ma le cose purtroppo sono andate in modo assai diverso". Solo pochi giorni fa Angelica Edna Calò Livne, romana di nascita, dal 1975 in Israele, ha visto partire per il corso ufficiali il suo terzo figlio. E prima di lui era stata la volta degli altri suoi due ragazzi. Ma la speranza di pace di questa signora, che ha superato i 50 e sembra una ragazzina, non è affatto spenta.
Nel nord d'Israele, dal kibbutz di Sasa, Edna, ricci neri a cascata, un'energia e un'allegria invidiabili, continua a coltivare nei suoi ragazzi i valori della convivenza, del dialogo, del rispetto, l'amore per l'ambiente, il senso dell'arte. Strumento principale, il Rainbow theatre che dal 2001 vede recitare insieme, con grande libertà creativa, ragazzi ebrei e arabi, cristiani, drusi e circassi, religiosi e laici. E accanto al teatro una radio, The all peace radiostation, anch'essa multiculturale; la formazione per i ragazzi che a loro volta vogliono farsi educatori dei coetanei; una squadra di calcio; incontri e conferenze e, a breve, un nuovo progetto nel campo dell'ecologia. Il tutto sotto il cappello di una fondazione, "Beresheet la Shalom - Un inizio di pace" che oggi coinvolge in Israele quasi 800 ragazzi di religioni ed etnie diverse. Una realtà che tanti italiani hanno ormai imparato a conoscere anche attraverso il Diario dalla Galilea che per alcuni anni Edna Calò ha tenuto su Repubblica e da poco è divenuto un libro (Proedi editore).
- Edna, come inizia l'avventura di Beresheet la Shalom?
- E' nata sull'onda della seconda intifada. Il primo dei miei figli era in esercito. Ero preoccupata, per un anno sono stata malissimo. Poi ho accompagnato in Italia, a una colonia dell'Ose (Organizzazione sanitaria ebraica), un gruppo di bimbi israeliani vittime del terrorismo. Lì mi sono resa conto che bisognava fare qualcosa per promuovere la pace. Mi occupavo da anni di teatro creativo e sociale, avevo insegnato in molte scuole. Così ho pensato di mettere insieme bambini ebrei e arabi per farli lavorare insieme.
- Quale accoglienza ha trovato il tuo progetto in Israele?
- Non è stato facile. Ho incontrato dei no sia al kibbutz sia al Regional council cui avevo chiesto di metterci a disposizione una struttura per gli incontri. Ma ho deciso di andare avanti lo stesso. Così ho chiamato i ragazzi arabi che lavoravano nelle cucine e li ho fatti incontrare con coetanei ebrei e cristiani. L'esperienza è cresciuta al punto che oggi il teatro copre la regione da Nahariya fino oltre Zfat. Vi partecipano, ogni lunedì circa 30 giovani per un totale che finora è di quasi 150 ragazzi.
- Negli anni il tuo progetto si è sviluppato anche nelle modalità. Tanto che dopo la radio, il calcio e la formazione adesso è in arrivo anche un progetto legato all'ambiente.
- L'idea è di dare vita a un centro ecologico, in collaborazione con il sistema dei parchi naturali, per educare i ragazzi alla pace attraverso le arti e l'ecologia. I giovani devono riuscire a trovare le risorse dentro se stessi realizzando un'armonia con le persone e con l'ambiente che li circondano. Solo così possiamo pensare di costruire il futuro.
- Quest'accelerazione delle iniziative significa che le diffidenze iniziali sono state superate?
- In parte sì. Tante delle cose che facciamo arrivano in modo naturale. Spesso ho la sensazione di navigare su una bella barca. Scivolo accanto alle persone, tendo la mano e loro salgono a bordo. A volte siamo controcorrente e tantissimi ostacoli ci s'infrangono addosso. Ma quando mi sembra d'affondare l'acqua d'improvviso si calma.
- Perché la scelta del teatro per lavorare con i ragazzi?
- Il teatro è uno strumento potente. Recitando si entra in un altro personaggio. Si allarga il proprio repertorio e s'interpreta ciò che si ha dentro, senza sentirsi minacciati. E quando vedi che gli altri ti accettano prendi coraggio e vai avanti. Più in generale il progetto di Beresheet la Shalom ha successo perché parliamo ai ragazzi di comunità, di ciò che dà speranza. Questo li rende più forti e li fa sentire profondamente partecipi.
- Come avete vissuto, nel vostro gruppo, il periodo della guerra di Gaza?
- Sono stati momenti molto difficili. Per questo abbiamo cercato di parlarne. Ci siamo seduti in cerchio e abbiamo cercato di capire come ci sentivamo. Avevamo tutti le lacrime agli occhi. La cosa
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straordinaria è che nessuno dei ragazzi ha accusato la controparte o ha avuto parole di opposizione, di scontro. Hanno parlato tutti di speranza e d'amicizia esprimendo la loro profonda preoccupazione.
- Quale riscontro può avere adesso in Israele un'iniziativa come Beresheet la Shalom?
- In Israele oggi c'è molta sfiducia e delusione. La gente non crede molto in progetti come il nostro. Ma poi ci vengono a vedere e quando si rendono conto che la cosa funziona davvero si emozionano tantissimo.
- In tutti questi anni hai mai avuto paura?
- Solo una volta. Quando al tempo dell'intifada decidemmo di incontrarci nei territori con un gruppo palestinese per la giornata dedicata al pane della pace. Qualche giorno prima ebbi un attacco d'ansia spaventoso. Poi di shabbat, al Tempio italiano di Gerusalemme, mi capitò tra le mani la parashà della settimana in cui si parlava proprio di pane, di pace e di serenità. Per me fu un segno: dovevamo andare avanti e così facemmo. Non accadde nulla a nessuno di noi.
- Edna, l'intero progetto è nato dal pensiero dei tuoi figli. Loro come vivono quest'impegno per la pace?
- Abbiamo fatto tutto insieme. Il piccolo, Or, partecipa agli spettacoli da quando ha quattro anni. I primi due, Gal e Yotam, oggi sono alla guida dei nostri progetti. Il terzogenito Kfir è stato tra i primi a partecipare al Rainbow theatre. All'inizio non voleva perché la regista era sua madre. Lo provocai chiedendogli se non si rifiutava di recitare per la presenza di ragazzi arabi. Così ci venne a vedere e alla prima occasione salì in scena. Da quel giorno fu uno dei personaggi principali. Di recente, quando si è arruolato, mi ha detto che una delle cose più belle che gli sono capitate è stata proprio l'esperienza del Rainbow theatre. E' stata per me una soddisfazione immensa.
(Notiziario Ucei, 16 febbraio 2009)
4. LA GUERRA SEGRETA
Scienziati iraniani decimati
di Gian Micalessin
Il primo a lasciarci le penne è l'ingegnere Ali Mahmoudi Mimand, il padre del programma missilistico iraniano ucciso, otto anni fa, da una misteriosa esplosione all'interno del complesso militare industriale Shahid Hemat a sud di Teheran. L'altra vittima illustre, spedita all'altro mondo nel febbraio 2007 da una fuga di gas radioattivo, è il professor Ardenshir Hassenpour, un cervello della fisica iraniana catalogato dall'intelligence occidentale come il massimo esperto di Teheran nel settore della ricerca militare.
Le due morti misteriose sono solo due episodi della guerra segreta lanciata dal Mossad per fermare lo sviluppo militare iraniano e arginare la sua corsa al nucleare. Prima e dopo decine d'altre operazioni mozzafiato scandiscono la spietata campagna di eliminazione e sabotaggio lanciata dal Mossad e guidata personalmente da Meir Dagan, numero uno, dal 2003, della più temuta agenzia di spionaggio dello Stato ebraico. L'esistenza del «programma decapitazione», come viene definito il piano per l'eliminazione degli scienziati iraniani coinvolti nei piani nucleari e nello sviluppo di missili atomici, viene confermata da fonti della Cia citate dal quotidiano inglese Daily Telegraph. «I danni inferti dal piano vengono messi a segno in modo da impedire di capire quanto sta succedendo - racconta al quotidiano un ex agente della Cia - l'obbiettivo è rallentare il più possibile la ricerca fino a quando non si troverà una soluzione definitiva».
Quando si tratta di rallentare Meir Dagan, già compagno d'armi di Ariel Sharon in una unità anti terrorismo, non ha rivali. Grazie alle talpe reclutate dal Mossad e alla collaborazione con la Cia gli agenti israeliani riescono a introdurre materiali difettosi nei centri di arricchimento dell'uranio. Uno dei colpi più micidiali va a segno ai primi del 2006 quando gli iraniani acquistano alcune pompe difettose destinate agli impianti di Natanz. Quei congegni, manomessi ad arte da uno scienziato nucleare americano del laboratorio di Los Alamos e introdotti attraverso la Turchia dalle talpe israeliane, causano una serie d'esplosioni a catena mettendo fuori uso almeno cinquanta centrifughe. Il duro colpo viene riconosciuto anche da Gholamreza Aghazadeh, capo dell'organizzazione dell'energia atomica iraniana, che parla di «chiara manipolazione». Lo scacco matto arriva nel febbraio 2007 quando un'altra esplosione, colpisce il reparto in cui si trovano il professor Ardenshir Hassenpour e i suoi collaboratori. Investito da una fuga di gas letale lo scienziato si spegne in pochi giorni. Quel colpo al cuore costringe gli iraniani a rivedere tutto il sistema di approvvigionamento e avvia una spietata caccia alla spia conclusasi, il 17 novembre scorso, con l'impiccagione di Ali Ashtari un importatore di materiali elettronici accusato di lavorare per il Mossad. Tra gli episodi sospetti rientra anche l'incidente aereo dello scorso agosto quando un aereo decollato dalla capitale della Kirghisia e diretto a Teheran si schianta al suolo causando la morte di 44 ingegneri e scienziati iraniani. E lo scorso settembre nella riunione di governo in cui annuncia le proprie dimissioni il premier Ehud Olmert ricorda la collaborazione con Meir Dagan con una frase che sembra l'implicito riconoscimento dell'operazione «decapitazione». «I successi conseguiti dal mio governo in varie aree tra cui alcune assolutamente non riferibili riceveranno un posto adeguato nella storia».
(il Giornale, 18 febbraio 2009)
5. AMOS OZ: «IL SABATO NIENTE SHOPPING»
Shabbat: il più bel dono che la cultura ebraica ha fatto al mondo
di Francesco Battistini
Lo shopping è fatto per l'uomo, non l'uomo per lo shopping. «E il sabato ebraico non dovrebbe diventare la Giornata nazionale degli acquisti». Di sinistra, laico, progressista. E teorico del compromesso, contro ogni fanatismo, amante della coesistenza. Quand'è troppo è troppo, però. E così anche Amos Oz, in un pomeriggio sul mare a Cesarea, ospite d'un convegno sul valore dello shabbat, il sabato del riposo ebraico, alla fine sbotta e se la prende col mostro del consumismo moderno.
Il drago di Oz sono le gigantesche mall israeliane, gli shopping center che a dispetto d' ogni legge restano aperti: «Dovrebbero rimanere chiusi, almeno quel giorno. Quand'ero ragazzo, nel mio kibbutz, non avevamo la sinagoga, ma il sabato era un momento di silenzio. Oggi, in questo Paese, lo shabbat è fatto solo di preghiera nella sinagoga e di spesa negli shopping center. Tutto questo mi amareggia. Questa giornata del riposo è il più bel dono che la cultura ebraica ha fatto al mondo. È un giorno diverso, da dedicare allo spirito e alla famiglia. Io spero che questo dono duri per sempre». Le parole dello scrittore israeliano, che era ospite di un' organizzazione religiosa, sono l' eco d' una polemica che in questi giorni sta dividendo la destra israeliana, fra il partito «laico» di Avigdor Lieberman, che vorrebbe un' interpretazione più elastica delle leggi sacre, e i partiti ultrareligiosi, che temono una «deriva secolare» dello Stato.
Il tema è sensibile e in realtà sono proprio i signori del marketing, che tanto irritano Oz, a invadere i supermercati israeliani con prodotti appositi: industrie di elettrodomestici come Whirlpool e Viking mesi fa hanno messo in produzione speciali forni a microonde che rispettano il precetto di non «accendere fuochi», ovvero interruttori, e perciò sono dotati di congegni che consentono procedimenti «indiretti» di cottura. Proprio a Malha, Gerusalemme, uno dei più grandi shopping center del Medio Oriente, sabato scorso era in offerta speciale un frigorifero con un tasto bianco, la «funzione shabbat»: se l' aprite nel giorno del riposo, la luce non s' accende.
(Corriere della Sera, 20 febbraio 2009)
6. L'ATTESA MESSIANICA IN ISRAELE
Il Messia-boom
di Aviel Schneider
"Svegliatevi! Svegliatevi! Arriva il Messia!" grida agli uomini il cantante Ariel Silber. A metà novembre ha fatto risuonare, insieme ai suoi amici, le sue trombe e lo shofar ad un incrocio di Tel Aviv. "Vogliamo risvegliare il popolo per invitarlo a chiamare il suo Messia. Noi bramiamo il Messia", ha dichiarato Silber, che da qualche anno si è dato all'ebraismo religioso. "Senza Lui non riusciremo a fare niente".
I passanti non sono sembrati impressionati. Forse, dopo una lunga giornata di lavoro erano stanchi, o forse consideravano stravaganti questi invocatori del Messia. Come Jakob Damkani, che con i suoi cortei di trombe annuncia in Tel Aviv Yeshua (Gesù) come Messia. Un'ebrea vicina a Silber, di nome Betty Schiffer, ha detto che è suo dovere invitare il popolo al ravvedimento. "Noi preghiamo che il Messia finalmente si manifesti!" Vicino a lui un altro uomo ammoniva i passanti davanti all'imminente fine dei tempi. "Israele è in pericolo! Terribili guerre colpiranno il paese! Fra poco Israele sarà attaccato da Siria, Iran e Libano con armi chimiche", ha risuonato il suo megafono.
La recente invocazione del Messia di Silber è soltanto una delle molte che emergono oggi dalla popolazione di Israele. L'attesa ebraica del Messia appartiene alla quotidianeità della società israeliana. Poco tempo fa ho sentito per autoradio una trasmissione in cui la cantante israeliana Din Din Aviv parlava al Messia della sua famiglia e della sua fede. Sembra che ci sia una specie di Messia-boom nel popolo. Qualunque sia la corrente dell'ebraismo a cui si appartiene, il barometro dell'attesa messianica sale. Si manifesta con piccoli annunci privati sui quotidiani, con cartelloni e graffiti di grandi dimensioni, con cantanti secolari che improvvisamente parlano della loro nostalgia del Messia, o di "Ebrei per Gesù" che nel novembre scorso hanno annunciato il ritorno del Messia sulle strade della città di Kiriat Shmona, nel nord di Israele.
Naturalmente questi ultimi ebrei hanno irritato il movimento antimissionario Yad Le Achim. Di questo ha parlato abbondamente il primo canale televisivo di Israele, mostrando ebrei ortodossi che vanno per le strade e col megafono mettono in guardia la gente davanti ai missionari cristiani. "Ebrei, state attenti, i missionari vogliono la vostra anima!", ha tuonato un altoparlante. Non appena il nome di Gesù appare in un annuncio del Messia, molti si accendono, ma se qualcuno si presenta come Messia, la cosa non disturba nessuno. Come è successo l'ottobre scorso alla radio israeliana con il controverso guaritore Oren Zarif, che si presenta come il Messia d'Israele. Nessuno si arrabbia per questo.
Da un'inchiesta in internet (Ynet) è emerso che il 43% della popolazione ebraica di Israele aspetta il Messia sulla terra. Nella popolazione religiosa si arriva al 98%. "Stiamo vivendo nei giorni del Messia" mi ha detto recentemente il mio amico Amnon, che è cresciuto in una famiglia tradizionale.
Ho parlato con uno di questi propagandisti del Messia che proclamano la sua imminente venuta con annunci sui giornali. "Stammi a sentire bene, il Messia arriverà già nel 2009 o al più nel 2010", mi ha detto Segal al telefono. "Nel 2015 ci sarà il terzo Tempio in Gerusalemme e nel 2035 comincerà la risurrezione dei morti". E per telefono questo ebreo ortodosso ha continuato ad avvertirmi dicendo che non dobbiamo farci addormentare dai rabbini e dai dotti, perché la venuta del Messia è vicina.
Secondo la dottrina ebraica della fede, il mondo durerà 6000 anni, e stando al calendario ebraico noi viviamo nell'anno 5769 dalla creazione del mondo. I primi 2000 anni sono stati "Tohuwabohu" [informi e vuoti, da Gen. 1:2, ndt], i successivi 2000 anni sono stati gli anni della Torah, e sono cominciati con la fede di Abraamo in un Unico Dio. Gli ultimi 2000 anni sono indicati come i "Giorni del Messia", in cui noi oggi viviamo e che termineranno tra 200 anni abbondanti.
Su un fatto gli ebrei ortodossi e gli ebrei messianici concordano: quanto più ci avviciniamo a questo tempo, tanto più la cosa diventa eccitante!
(israel heute, gennaio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
7. LIBRI
La Diaspora e gli Ebrei secondo Anna Foa
Ricostruiti gli anni che vanno dal 1880 al 1970 con la nascita di una nuova 'cultura'.
di Stefania Losito
L'antisemitismo non nasce, come spesso ci si immagina, nel primo ventennio del Novecento con le prime forme di razzismo nei confronti della cultura ebraica, allungatesi nelle leggi razziali. Sorge invece, almeno ideologicamente, dal nome che il giornalista tedesco Wilhelm Marr, nel 1880 circa (dunque, mezzo secolo prima), diede a un fenomeno che andava facendosi strada in Europa orientale. Fino ad allora erano 'semiti' i popoli di razza considerata inferiore, come gli arabi, o i nordafricani. Da quel momento, dall'ultimo ventennio dell'Ottocento, semiti sono solo gli ebrei, numerosi e forse ritenuti fastidiosi per varie ragioni che spesso gli storiografi hanno considerato derivanti da una (al contrario) superiorità di cultura, di laboriosità, di capacità di produrre reddito.
E' da queste considerazioni che parte Anna Foa, storica all'Università di Roma, studiosa di storia degli ebrei e di Giordano Bruno, figlia degli ebrei laici Vittorio e Lisa, nella stesura del suo ultimo lavoro "Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento" (collana I Robinson, ed. Laterza, 2008, pagg.304, euro 19). Sette capitoli che vanno dal racconto delle due 'Europe' divise tra ebrei d'Occidente ed ebrei dell'Est fino alle 'nuove' identità. "Ed è proprio il termine 'innovazione' che voglio sottolineare - ha spiegato l'autrice durante la presentazione del libro alla Laterza con Alessandro Laterza e il direttore dell'Istituto per la Storia dell'Antifascismo e Italia contemporanea (Ipsaic) Vitantonio Leuzzi - innovazione che vuol dire nascita di una nuova cultura ebraica, quella degli emigrati ebrei russi nelle Americhe e nelle grandi città dell'Europa occidentale". Ebrei diversi, nati dopo la (e a ragione della) costruzione necessaria di una memoria figlia dello sterminio nazista, che trova la sua coscienza nel 1967. Anna Foa non usa mezzi termini, non è diplomatica nella definizione di un'Europa che "senza l'ebraismo non avrebbe cultura". Il suo lavoro, presentato in tutta la provincia in occasione del Mese della Memoria, ripercorre la grande emigrazione degli ebrei dalla zona Est del Vecchio continente alle Americhe, e nelle metropoli europee d'Occidente, come Parigi, Londra.
Nella narrazione Foa ammette che la cultura ebraica, prima ancora della Shoah, viene ben riportata solo dagli stessi israeliani, coloro che si sono rifugiati in quella striscia di Terra ancora, dopo sessant'anni e molto più, intrisa di sangue 'ideologico', 'religioso', di fede. Eppure, come spiega il premio Nobel per la Pace nel 1986 Elie Wiesel (di cui l'autrice riprende numerosi passi), "non è giocando con le parole e con i morti che potrete capire e sapere". Ma Anna Foa 'vuole' capire e sapere, 'vuole' spiegare che a capire e sapere 'vogliono' essere più i non ebrei che gli ebrei. Pur restando nei luoghi comuni sull'ebraismo, quei luoghi comuni che lei cerca di sovvertire, raccontando chi sono gli ebrei che hanno fatto cultura, "che hanno costruito l'Europa".
"Il Novecento che racconto comincia dal 1880 circa e finisce con gli anni Settanta del Novecento - ha detto ancora - si apre con l'emigrazione in America e si chiude con la perdita d'importanza dell'Europa e l'affermarsi sempre maggiore del mondo ebraico americano e di Israele. In questo arco di tempo il mondo ebraico muta e la diaspora europea tende a scomparire nei numeri, nella forza culturale, nell'identità, nel progetto. L'emigrazione in America, il sionismo, la rivoluzione russa, la Shoah, la nascita di Israele: le cesure che costellano il Novecento ebraico sono altrettanti passaggi epocali per la storia di tutti".
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ANNA FOA, "Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento" (collana I Robinson, ed. Laterza, 2008, pag .304, euro 19). Sette capitoli che vanno dal racconto delle due 'Europe' divise tra ebrei d'Occidente ed ebrei dell'Est, fino alle 'nuove' identità.
(Università di Bari, 17 febbraio 2009)
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