Inizio ยป
<- precedente        seguente ->


Notizie su Israele 456 - 3 marzo 2009

1. Due pesi, due misure
2. Piena cittadinanza anche nei doveri
3. La donna che rinunciò a farsi saltare in aria
4. I cristiani visti dagli ebrei israeliani
5. Ebraismo messianico in Israele
6. Archeologia
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Lamentazioni 3:25-26. L'Eterno è buono per quelli che sperano in lui, per l'anima che lo cerca. Buona cosa è aspettare in silenzio la salvezza dell'Eterno.
1. DUE PESI, DUE MISURE




Le guerre al terrorismo non sono tutte uguali

di Michael Freund

Sri Lanka e Israele
Qual è la differenza fra lo Sri Lanka e Israele? La domanda può sembrare bizzarra, e invece è assai pertinente, e molto più significativa di quanto non si possa pensare. Giacché infatti, a parte tutte le altre risposte più ovvie come le rispettive dimensioni dei due paesi, la loro posizione geografica, la loro struttura sociale, la topografia e il clima, c'è in particolare una differenza che è emersa in modo evidente nei mesi scorsi.
Si consideri la seguente notizia. Lo scorso dicembre truppe governative hanno lanciato una campagna militare coordinata, con migliaia di soldati pesantemente armati all'attacco di roccheforti terroristiche nello sforzo di infliggere un duro colpo decisivo a nemici estremisti. Dopo aver sopportato per anni attacchi suicidi e dopo parecchi cessate il fuoco falliti, le autorità hanno deciso che non avevano altra scelta che quella di ricorrere a una forza schiacciante per ribaltare l'equazione strategica sul terreno: si sono convinte che andasse fatto qualcosa di decisivo per mettere finalmente in ginocchio i terroristi.
Sebbene questa descrizione di eventi possa suonare familiare, non si cada nell'errore di pensare che riguardi soltanto il nostro piccolo angolo di Medio Oriente. Infatti, mentre le Forze di Difesa israeliane entravano nella striscia di Gaza per colpire Hamas, un'analoga serie di eventi aveva luogo circa 5.400 km più a est, nello Sri Lanka, dove l'esercito veniva lanciato alle calcagna delle Tigri Tamil.
    Eventi analoghi, sì, ma con una cruciale differenza: mentre Israele veniva universalmente condannato per aver osato difendersi, non si sentiva levarsi neanche un pigolio sulla versione data dallo Sri Lanka della sua guerra al terrorismo.
    Per anni le Tigri Tamil, che l'FBI ha definito "la più spietata ed efficiente organizzazione terroristica del mondo", si sono battute per ritagliarsi una regione autonoma nella parte settentrionale dell'isola. Scalpitanti sotto il dominio della maggioranza cingalese, le Tigri hanno terrorizzato il resto del paese per quasi tre decenni montando temerari attentati terroristici contro obiettivi civili e militari nella speranza di riuscire a staccarsi, formando uno stato etnico Tamil indipendente. E sono risusciti a creare una enclave in stile striscia di Gaza, dove hanno imposto un pesante regime di brutalità e ferocia. Esattamente come Hamas, le Tigri, note anche con l'acronimo LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam), hanno usato i civili come scudi umani contro l'esercito dello Sri Lanka e hanno sottomesso i loro oppositori interni con l'intimidazione e l'assassinio.
    Nel 2005 i cittadini dello Sri Lanka eleggevano alla presidenza Mahinda Rajapaksa, che escludeva ogni autonomia Tamil ripromettendosi di riconsiderare il processo di pace alla luce dell'intransigenza delle Tigri. Quando i terroristi violarono un cessate il fuoco mediato dai norvegesi (qualche eco del fallito processo di Oslo?), l'anno scorso il governo decideva di tentare la strada di una vittoria sul campo anziché continuare a perseguire una pace instabile.
    "Abbiamo dato chiare istruzioni - dichiarava domenica scorsa il ministro della difesa sri-lankese Gotabhaya Rajapaksa al Washington Post - niente cessate il fuoco e niente negoziati finché non avremo completamente sconfitto le LTTE. Le LTTE userebbero cessate il fuoco e colloqui di pace per riorganizzarsi e rifornirsi di armi. Ci sono già state decine di negoziati e più di dieci cessate il fuoco, tutti falliti. Dopo ogni periodo di negoziati, tornano alla carica più forti di prima. Abbiamo deciso che quando è troppo è troppo".
    Dopo aver approntato la risposta militare e aver raccolto dietro ad essa il sostegno del grosso della popolazione, il governo è passato all'offensiva prendendo il controllo della penisola di Jaffna, nel nord, per poi procedere alla conquista di diversi altri avamposti delle Tigri. Allo stato attuale sembra che una sconfitta definitiva dei ribelli sia prossima.
    Eppure il conflitto nello Sri Lanka, che è già costato il doppio di vite umane della controffensiva israeliana a Gaza, viene a mala pena registrato dal radar dell'opinione internazionale. Evidentemente le guerre al terrorismo non sono tutte uguali.
    Certo, i gruppi per i diritti umani hanno severamente criticato sia il governo dello Sri Lanka che le Tigri Tamil per il trattamento dei civili. Ma la crisi non si può certo dire che figuri nella lista delle priorità internazionali: non si è visto nessun appello nelle università occidentali per il boicottaggio dello Sri Lanka; non si è letto quasi nessun editoriale sui maggiori organi di stampa che denunciasse con parole vibranti l'operazione anti-terrorismo nell'isola; le televisioni non aprono tutte le sere i loro notiziari con le immagini di quel conflitto né con l'aggiornamento in tempo reale della conta dei morti; nessun leader europeo è accorso nella regione a fare pressione sul governo affinché richiami le sue truppe cessando i combattimenti senza condizioni.
    Si tratta di pura e semplice ipocrisia senza vergogna. Giacché, oltretutto, lo Sri Lanka si batte per impedire un'insurrezione secessionista e non - come Israele - contro un movimento terrorista votato alla sua distruzione (dopo il completo ritiro israeliano dall'enclave di Gaza). Eppure lo Sri Lanka può procedere praticamente indisturbato, mentre Israele deve subire una costante e martellante condanna internazionale.
    Il conflitto nello Sri Lanka, naturalmente, non è che uno dei tanti conflitti che attirano molta meno attenzione di Israele. Quando è stata l'ultima volta che avete visto un diplomatico o un dimostrante scatenarsi furibondo in televisione per crisi come quelle in Somalia, in Birmania o nella Repubblica Democratica del Congo? Dal momento che i mass-media ignorano queste crisi, la maggior parte della gente non ricorda nemmeno che esistono: molti probabilmente non saprebbero nemmeno indicare questi luoghi sulla carta geografica. Chi invece può dire di non aver sentito praticamente ogni giorno della crisi israelo-palestinese?
    Ecco dov'è la tragedia dell'atteggiamento ipocrita della comunità internazionale: prendendosela costantemente e solamente con Israele non solo si comporta in modo ingiusto verso lo stato ebraico, ma per di più ignora una serie innumerevole di altre crisi in giro per il mondo, lasciandole marcire praticamente all'infinito.
    Qual è dunque la vera differenza fra lo Sri Lanka e Israele? Per quanto concerne la comunità internazionale, è tutta qui: c'è la (cattiva) notizia quando ci sono di mezzo gli ebrei; non c'è nessuna notizia quando si tratta di Tamil e di cingalesi.

(Jerusalem Post, 25 febbraio 2009 - da israele.net)



2. PIENA CITTADINANZA ANCHE NEI DOVERI




In Israele i disabili entrano nell'esercito

Shimrit Kroiteru è una ragazza down: ha già indossato la divisa dei riservisti.

di Francesco Battistini

«Sono contenta. Contentissima. Oh, come sono contenta…». La simpatia irresistibile di certi ragazzi, quando ridono senza contegno. Shimrit sale sul piccolo podio, arrossisce, le dicono di parlare più vicino al microfono, lei fa una risata: «Sono contenta. Ho realizzato il sogno della mia vita. Volevo fare la soldatessa. Mi trattano come una soldatessa vera. Mi hanno dato anche delle cose da fare. Il primo giorno, non sapevo bene i miei compiti. Ma adesso ho imparato ed è tutto più facile».

- Divisa dei riservisti
Shimrit Kroiteru è davvero come gli altri ragazzi israeliani, adesso: ha la divisa dei riservisti, sta facendo anche lei il servizio militare obbligatorio, poi si congederà e tornerà alla sua vita normale. Normale e con qualche difficoltà: Shimrit è una ragazza down. Non s'era mai visto. Una naja che arruola i disabili. Quelli che una volta erano i riformati per antonomasia, che non dovevano nemmeno sottoporsi alla visita militare perché tanto li scartavano subito, adesso avranno un posto in uno degli eserciti più forti, più armati, meglio addestrati e motivati del mondo: Tsahal. Per quasi sessant'anni, anche le forze armate israeliane hanno di regola evitato d'arruolare persone con problemi mentali. Da qualche tempo però, un'associazione che si batte per i diritti di chi soffre d'handicap gravi, Akim, ha intrapreso una battaglia per ottenere piena cittadinanza, anche nei doveri.

- Progetto pilota per 50 disabili
C'è voluto un po', ma alla fine l'idea è passata: quest'anno, il ministero per gli Affari sociali e l'esercito partono con un progetto-pilota e tentano l'inserimento di 50 giovani disabili nelle forze armate. Shimrit e un suo commilitone, Gilad Rozdial, i primi due, sono stati seguiti con particolare attenzione. Un documentario sui loro primi giorni in divisa è stato presentato anche a Shimon Peres, il presidente, che li ha ricevuti privatamente nella sua residenza: «Ognuno di loro vive con speranza - ha detto il presidente israeliano - e noi non sappiamo quali scoperte mediche, in futuro, li aiuteranno a sopravvivere alle loro difficoltà. Però sappiamo che oggi, per aiutarli, non c'è migliore medicina della nostra disponibilità». Shimrit e Gilad prestano servizio nella Sar-El, un'unità speciale di volontari, e naturalmente non partecipano a operazioni militari in senso stretto: fanno pulizie, custodiscono gli equipaggiamenti, aiutano nella logistica. «Non c'è ragione di escludere le persone disabili dalle attività dell'esercito - spiega il generale Ami Zamir, che ha preso in carico il progetto -. Tutti quanti in Israele condividiamo lo stesso destino». L'iniziativa, molto propagandata dal governo israeliano, è già finita sui blog arabi, con qualche ironia: «Non sanno più cosa inventarsi per farci la guerra. Arruolano anche gli handicappati» (Herzum76); "suggerisco a Netanyahu di dare più soldi per i poveri di questo Paese, invece di metterli in uniforme" (YoffaMan). Se ne devono fare una ragione: se il progetto funziona, nel 2010 ne metteranno in divisa altri cento.

(Corriere della Sera, 26 febbraio 2009)





3. LA DONNA CHE RINUNCIO' A FARSI SALTARE IN ARIA




Arin, kamikaze che non vuole morire

Vent'anni e dieci chili di esplosivo addosso. Aveva da fare solo un ultimo gesto. Ma in quel momento ha scelto di vivere. "Ho visto una signora israeliana spingere un carrozzina con dentro un bebè, in quell'istante mi sono fatta mille domande: ho io il diritto di togliere la vita ad un neonato? e quale è la delega che mi avrebbe dato Allah per uccidere? E poi le mie dita, come pietrificate, non hanno voluto pigiare quel bottone". Così Arin Ahmed, una donna kamikaze palestinese, ricorda oggi gli ultimi istanti che le hanno fatto rinunciare di portare a termine la missione di morte per la quale era stata inviata, sette anni fa, in una cittadina a sud di Tel Aviv. Arin è uscita di recente da un carcere israeliano, dopo sette anni di reclusione. Gli anni del carcere le hanno fatto cambiare idea. Oggi Arin crede nel dialogo con Israele e vorrebbe fare l'attivista di pace. Detesta "quelli di Hamas" che l'hanno accusata di vigliaccheria: "Nessuno ha il diritto di biasimarmi, è stata una scelta che ha riguardato la mia vita". L'articolo che segue è stato scritto poche settimane dopo i fatti avvenuti.

di Jean Paul Mari

Arin Ahmed
È un bel giorno per morire. Il cielo è azzurro, l'aria primaverile già calda e stormi di uccelli cantano sugli alberi del parco. Arin Ahmed sente sul corpo il peso dell'esplosivo chiuso nei sacchetti di plastica. Sotto un pergolato, alcuni pensionati ebrei russi giocano a carte, altri a scacchi. In rue Rothschild, accanto alla banca Discount, la giovane donna osserva passare tanta gente comune, adolescenti, mamme coi bambini per mano. Non sa nulla del celebre barone al quale è dedicata la via che lei sta ora percorrendo. Non conosce i marciapiedi di Rishon-Le Zion, tranquilla quanto squallida periferia di Tel Aviv. Non sa neppure in che città si trova. Quelli che l'hanno portata qui, le hanno semplicemente detto che si trovava "nel punto giusto". Arin cerca con lo sguardo Issam, l'altro kamikaze, un ragazzo di 16 anni con i capelli tinti di biondo, vestito di nero dalla testa ai piedi. Le hanno ripetuto più volte che deve soltanto aspettare che Issam si faccia saltare in aria, aspettare che arrivino le ambulanze e la polizia, i volontari, i curiosi e i parenti affranti. Aspettare che ci sia abbastanza gente. Poi non dovrà fare altro che tirare con forza la cordicella collegata al detonatore e alla decina di chili di esplosivo fissati sotto la camicia. È indubbiamente un bel giorno per morire. E per raggiungere Jad, il suo grande amore, morto combattendo contro Israele. Finito tutto, potranno finalmente ritrovarsi nel paradiso dei martiri. E mai più nessuno potrà separarli. Con la mano stretta sulla cordicella, Arin osserva la folla, gli anziani pensionati, le donne che spingono la carrozzina. Pensa alla ragazza israeliana, sua coetanea, che le ha scritto alcune lettere. Mercoledì 22 maggio: il cielo è d'un azzurro luminoso e lei ha 20 anni. No, non è un bel giorno per uccidere. In un attimo, Arin decide di rinunciare alla sua missione.
    A Betlemme, Najah, sua zia, è in preda all'agitazione. Arin è uscita al mattino per andare all'università. Poi doveva passare dall'estetista, riprendere le lezioni e tornare a casa prima delle 16. Sono già le 18: due ore di ritardo, non è da lei. Di solito Arin non nasconde nulla a Najah, giovane insegnante di matematica di 35 anni, donna saggia, velata e affettuosa. Non si è mai sposata per potersi occupare al meglio di Arin, che ha perso il padre da piccola e la cui madre è rimasta in Giordania. Najah è un modello per Arin: una zia ma anche una sorella, una madre e persino un padre, severo quando occorre. Arin vorrebbe viaggiare come lei, andare in Egitto e in Giordania, ma per il momento si accontenta di prenderne in prestito i libri e confidarle i suoi segreti. Arin aveva sogni da ragazza saggia. Innanzitutto di completare gli studi di economia e commercio iniziati nella scuola secondaria evangelica luterana, un istituto privato, decisamente caro ma con una grande reputazione. Poi lavorare, prendere la patente, guadagnare dei soldi e vivere la propria vita.
    Arin era laica, non portava il velo e vendeva prodotti di bellezza per raggranellare qualche soldo. Parlava l'arabo, l'ebraico e il tedesco, discuteva in inglese con lo zio Omar, ingegnere meccanico formatosi a Long Beach, in California, e adorava usare il suo PC per navigare in Internet, mandare e-mail ai suoi corrispondenti stranieri e israeliani. La sua vita era inquadrata, fra Najah, le altre due zie, la nonna un po' autoritaria e lo zio Omar. Ma l'Intifada sconvolge tutto.
    Un giorno Najah si vede arrivare Jad Attallah, 26 anni, che chiede la mano di Arin, con la quale esce da più di un anno e mezzo. Jad vive nel sinistro campo di rifugiati di Dheisheh. È alto, impettito e serio, fin troppo serio dietro quel suo paio di occhiali d'acciaio. A 13 anni, durante la prima Intifada, aveva scagliato pietre contro i soldati israeliani ed era stato colpito alla testa da un proiettile di metallo avvolto nella plastica. Da allora soffre di disturbi alla vista, forti emicranie e un odio feroce nei confronti delle "forze d'occupazione". Come il fratello più giovane, Zeid, assediatosi nella Chiesa della Natività di Betlemme, catturato e poi espulso verso Gaza. Ufficialmente Jad lavora come sarto a domicilio, in realtà vive solo per le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. È un soldato, un combattente più propenso all'azione che alla politica. Najah lo sa e si oppone al matrimonio. D'altro canto, anche il padre di Jad ha rinunciato a seguire il figlio, che un giorno verrà sicuramente arrestato o ucciso. Cosa potrebbe mai offrire ad Arin se non un futuro come moglie di un detenuto o vedova di un martire? Da allora i due ragazzi si amano di nascosto. In modo assolutamente casto, ovviamente. Nei campi della Palestina non si scherza con l'amore. Quando Arin chiede a Jad di rinunciare alle sue attività, lui le risponde: "Ormai è troppo tardi".
    Qualche settimana più tardi, Jad muore a bordo della sua automobile. Trasportando degli esplosivi, sostiene il Shin Beth (i servizi di sicurezza israeliani, ndr), polverizzato da un razzo lanciato da un elicottero, affermano al campo di Dheisheh. È l'8 marzo. Najah non osa dirlo ad Arin, le chiede semplicemente di ascoltare il notiziario di mezzanotte. Arin si mette a urlare, pazza di rabbia e di disperazione: grida che non è vero, vorrebbe uscire in piena notte, per correre da Betlemme a Dheisheh nonostante il coprifuoco. All'alba, Najah l'accompagna all'ospedale Hussein de Beit-Jala. L'impiegato dell'obitorio non vorrebbe far entrare quelle donne, ma Najah insiste per farsi aprire la cella frigorifera dove si trova il corpo bruciato di Jad, coperto da un telo di plastica. "Abbiamo pregato per due ore, in silenzio", dice Najah. I funerali si tengono il giorno stesso, al "cimitero dei martiri", all'ingresso di Dheisheh, su un pezzo di terreno offerto da un abitante del campo, che per questo ha sacrificato la sua futura casa. Il cimitero è un cantiere permanente, con 25 tombe recenti, coperte di fiori, e una quindicina di fosse supplementari, già rivestite di cemento, per le future vittime. Sulla lapide, davanti alla tomba di Jad, una citazione del Corano: "Non crediate che gli uomini caduti in combattimento siano morti, sono sempre vivi nel nostro grande paradiso".
    Quel giorno vengono seppelliti altri tre attivisti, in mezzo a un'enorme folla. Secondo la tradizione, il sangue dei martiri è profumato. Arin afferra il sudario verde e rosso e lo allunga a Najah: "Guarda, senti, è sempre con noi". È l'ora del coprifuoco. I soldati israeliani sparano in aria per disperdere la folla. Najah e Arin ci mettono due ore per evitare i checkpoint e percorrere il labirinto di qualche chilometro che le riporta a casa. Alla sera, Arin vuole dormire da sola, "per piangere, sognare e ricordare". È una bambina, con un grande sorriso infantile, che può nascondere una profonda tristezza e Najah è preoccupata, perché la vede sempre più silenziosa. Il nuovo coprifuoco imposto dalle truppe israeliane dura trentanove giorni di fila. L'intera famiglia rimane segregata, attaccata al telefono e alle informazioni delle televisioni locali. Fuori i latrati dei cani risuonano nelle strade deserte. Arin piange nel vedere che nessuno può più appendere il ritratto di "Jad, il combattente martire" sui muri del quartiere, come vuole la tradizione. La ragazza passa il tempo con un libro di cucina, preparando dolci.
    Due settimane dopo, riceve una drammatica telefonata dalla sua migliore amica: suo zio, un cristiano di 45 anni, è sceso ad aprire il garage, i soldati hanno aperto il fuoco e lui è rimasto ucciso sul colpo. Arin, sconvolta, è costretta a fare le condoglianze per telefono. Najah assiste impotente mentre Arin sprofonda sempre più nella disperazione. Le propone allora di partire per la Giordania, per cambiare vita: Arin accetta. Poi avviene una violenta lite familiare, con la nonna esasperata che esige la verità su Jad. Ma Arin si rifiuta di parlare: "State fuori dalla mia vita", si impunta. E poi passa quasi a una minaccia: "Vi spezzerò il cuore".
    Tornata all'università, Arin rivede Alì al-Mograbi, un attivista del Tanzim. Fra studenti si discute di politica, si parla anche di Jad. Improvvisamente Arin si lascia sfuggire: "Voglio morire da martire". Non si può dire una cosa del genere a un tipo come Alì, che appartiene a una cellula terroristica come molti membri della sua famiglia, da quando uno dei suoi fratelli è stato assassinato dai soldati israeliani. Quando un emissario dell'Autorità palestinese è andato a trovare il padre dei ragazzi, per chiedere loro di cessare le attività armate, il vecchio ha risposto: "Che cosa posso dire a degli uomini che hanno deciso di vendicare la morte del fratello?". Arin ha gridato che vuole morire, come prova d'amore nei confronti di Jad. La ragazza sa che non verrà chiamata al suicidio prima di tre o quattro mesi, il tempo necessario per la preparazione. Si sente libera. Non sa che si è appena distrutta la vita.
    Quattro giorni dopo, un mercoledì, Alì aspetta Arin all'ingresso della facoltà: "È per oggi. Congratulazioni!". Frastornata, la ragazza lo segue. In un appartamento segreto, compie le sue ultime abluzioni, si infila gli abiti religiosi e registra la "tradizionale" videocassetta dei futuri martiri. Riceve poi la cintura carica di esplosivo e conosce Issam, 16 anni, il secondo kamikaze. Gli attivisti hanno fretta di combattere la politica di Sharon e di dimostrare che l'occupazione dei territori non può mettere fine al terrorismo. Arin è stata certamente aggiunta alla missione all'ultimo minuto, per aumentarne l'impatto. La loro guida verso Israele si chiama Ibrahim Sarahna, un antiquario di Dheisheh. Sposato con un'israeliana di origine russa, può circolare fuori dai territori e per questo servizio viene ampiamente retribuito. Ibrahim mostra loro il veicolo col quale li condurrà sul luogo dell'attentato: una vettura rubata, senza freni, che mostra di aver avuto già qualche incidente: un rottame che rischia di fermarsi da un momento all'altro. Arin è scioccata: evidentemente la sua vita non vale un granché. Arrivati a Rishon-Le Zion, Ibrahim sceglie un punto per Issam e deposita Arin un po' più lontano. Le rimedia un walkie-talkie e un numero in codice in caso di emergenza. Poi sparisce. Arin si ritrova a camminare lungo il marciapiede di una città che non conosce. Improvvisamente è come se si levasse un velo: l'esplosivo, la videocassetta, il suo suicidio, la morte degli innocenti e l'ulteriore sangue che ne scaturirà... Non può essere lei! Tra una frase senza ritorno, gettata lì quasi per caso ("Voglio morire..."), e quel marciapiede, Arin non ha avuto tempo per respirare o per pensare, presa in un turbinìo che le dà le vertigini. Prende il walkie-talkie e compone il numero in codice. Dall'altra parte la voce di Ibrahim l'autista, dapprima sorpreso, che cerca di convincerla a continuare nella sua missione: "Non puoi tornare indietro. Per Jad, per vendicare la sua morte, per ritrovarlo nel grande paradiso di Allah dove ti sta aspettando. Sarai una delle poche donne che sono riuscite a trasformarsi in bombe umane. Diventerai un'eroina per il tuo quartiere, la tua città, il tuo popolo! Pensa a Jad, pensa a lui che ti sta aspettando! E vai avanti!". Non serve a nulla, Arin dice di no. Ritrova Issam, a 200 metri di distanza, e gli annuncia la sua decisione. Di colpo molla anche lui, richiama Ibrahim e gli chiede di riportarlo a Betlemme. Ibrahim non osa prendere una simile decisione e gli dà il codice di uno dei capi della cellula. Nuova chiamata, nuovo tentativo di persuasione, nuovo rifiuto. Alla fine Ibrahim e la moglie tornano a prenderli con la loro macchina. La missione è fallita, lui è furibondo. Ma Issam, 16 anni, era stato lungamente preparato a morire. Quando l'auto sta per ripartire, chiede a Ibrahim di farlo scendere. Arin non l'ha visto vagabondare nel pergolato, vicino ai giocatori di scacchi fino alle 21, in attesa del momento più propizio. Al momento dell'addio, lei si è limitata a dirgli: "Perdonami. Ho troppa paura. Salutami tutti quelli che incontrerai là in alto...". Stava pensando ancora a Jad.
    "Come fate a convincere una persona normale a farsi saltare in aria?", ha chiesto un giorno un avvocato al suo cliente, responsabile di tante operazioni suicide. L'altro ha puntato un dito sul petto: "Dentro di te, c'è un'altra persona pronta a fare 'quello'. Il mio lavoro consiste nel tirare fuori quella persona". La spaventosa esplosione ha provocato tre morti e 27 feriti, di cui quattro in gravissime condizioni. Una delle vittime è un ragazzo di 16 anni, come Issam. Quelli che conoscono gli attentati kamikaze sanno che la cintura di esplosivi piena di chiodi dilania il corpo dell'attentatore ma spesso ne scaraventa la testa ancora intatta a parecchi metri di distanza. Hanno identificato Issam grazie ai vestiti neri e ai capelli tinti di biondo.
    A Betlemme, Najah tira un profondo sospiro di sollievo quando vede tornare Arin, pallida come un cencio. Najah l'assale di domande, ma Arin mormora di essere stanchissima e si rifiuta di parlare. Il giorno dopo, Najah si occupa della madre e Arin torna all'università. Dentro l'organizzazione di Ali al-Mograbi la discussione si fa accesa. C'è chi vorrebbe giustiziare Arin, per evitare che possa parlare, ma uno dei fratelli Mograbi si oppone: "Non siamo dei criminali!". Verranno poi tutti arrestati. Ibrahim Sarahna e la moglie russo-israeliana vengono seguiti e localizzati in un albergo israeliano, dove tentavano di nascondersi. Il loro arresto dà origine a una situazione incredibilmente complicata, che vedrà coinvolto anche il Shin Beth. Dapprima, infatti, si pensa di aver arrestato Ibrahim Sarahna, nato a Sheisheh, collaboratore d'Israele e sposato con Marina Pinsky, un'ebrea russa. Peccato che la coppia si fosse separata e che l'uomo fosse del tutto innocente, visto che era già in prigione per il furto di un'automobile. Poi ci si rende conto di aver catturato un altro Ibrahim Sarahna, un omonimo, nato nello stesso posto e sposato con una russa ortodossa di nome Irena Polychuk, un'ex prostituta che avrebbe "usurpato" l'identità di Marina Pinsky per emigrare in Israele! Il "falso" Ibrahim viene discolpato, mentre il "vero"



Ibrahim non resiste a lungo alle domande del Shin Beth.
    Per Arin è tutto molto più semplice. È un altro mercoledì nero: alle cinque del mattino Najah vede la casa circondata da una trentina di militari. "Eccoli che arrivano", esclama Arin. "Chi sono? Che cosa vogliono?", chiede Najah, esterrefatta. "Sono venuti a prendermi". Najah crede a un errore, a uno sbaglio nella lettura del documento di identità. I militari prendono Arin, ancora in pigiama, le bendano gli occhi e le legano le mani dietro la schiena per poi spingerla dentro un'auto blindata. Dapprima prelevano anche Nahel, il cugino di Arin, che viene però subito rilasciato. A bordo del veicolo, Arin gli chiede: "Ma ci uccideranno? Vogliono torturarci?". Una volta giunti al Russian Compound, la prigione di Gerusalemme, le guardie che la interrogano non hanno nessun problema a farsi raccontare l'intera vicenda.
    Un mese dopo, un uomo in abito scuro e cravatta bussa alla porta blindata del Russian Compound. È nato in Iraq, i suoi compagni l'hanno sempre chiamato Fouad, ma è meglio conosciuto con il nome di Benyamin Ben Eliezer, attuale ministro israeliano della Difesa. Accompagnato dal responsabile dello Shin Beth, ha deciso di cercare di comprendere il meccanismo umano che sta alla base dei gesti dei kamikaze. In una sala ammobiliata, le guardie accompagnano un giovane dall'aria inflessibile, arrestato poco prima di entrare in azione. Era stato arruolato sei mesi prima dalla Jihad islamica. Leggermente infastidito, il ministro lo ascolta mentre parla della gloria di morire come martire, uccidendo degli ebrei e liberando la Palestina, dell'ordine categorico di Allah e della ricompensa che attende i Puri in Paradiso. Poi è la volta di Arin. "Perché volevi suicidarti?", le chiede il ministro. "Avete ucciso il mio ragazzo". "Vivevate insieme?". "Oh no, certo che no! Non si può in una società come la nostra". "E volevi uccidere degli ebrei per vendicare la sua morte?". "Non lo so che cosa volevo fare. Ero rimasta ferita e provavo una forte rabbia". Poco a poco il vecchio ministro combattente d'Israele, ma anche gli agenti del Shin Beth che la interrogano, vengono conquistati dall'intelligenza di Arin, dalla sua freschezza e dal suo sorriso. A un certo punto il ministro le chiede: "Che cosa faresti se venissi rilasciata?". "Andrei a vivere in Giordania da mia madre, per continuare i miei studi e la mia vita". Il ministro la saluta e si alza per dirigersi verso l'uscita. Ma Arin lo ferma. Sa che il tribunale militare che l'aspetta, a differenza del tribunale civile, terrà in considerazione solo il fatto che aveva intenzione di commettere un attentato suicida. E sa anche che potrebbe essere condannata a decine di anni di prigione. Con le lacrime agli occhi, supplica il ministro: "Che cosa ne sarà di me? Non voglio che la mia vita sia rovinata per sempre. Non ho fatto niente. Ci ho rinunciato. Non l'ho fatto! Non dimenticatelo, per favore. Lasciatemi uscire di qui". Il ministro la guarda in silenzio, poi osserva gli uomini del Shin Beth presenti nella sala. I testimoni affermano che niente sul suo volto lasciava presagire cosa stesse pensando in quel momento. Ma tutti lo sentono pronunciare queste poche, precise parole: "Kul wahad wanasibuhu". Che tradotto dall'arabo significa: "A ciascuno il suo destino".

(Repubblica Donne, luglio 2002)





4. I CRISTIANI VISTI DAGLI EBREI ISRAELIANI




Un sondaggio mette in evidenza profonde differenze di opinione fra laici e religiosI.

Si avvicina il viaggio del Papa in Terrasanta, e mentre si stanno spegnendo le ultime fiammate polemiche cresce l'interesse dei media in Israele per la visita. Un sondaggio pubblicato dal sito web dello Yedioth Ahronoth e realizzato dall'Istituto Smith su un campione di 500 persone offre indizi interessanti su come laici e religiosi israeliani vedono il cristianesimo e i cristiani. La maggioranza degli israeliani di religione ebraica ritiene che nelle scuole debbano essere insegnate nozioni sul cristianesimo, ma non sul Nuovo Testamento, e che lo Stato debba inoltre garantire la libertà di culto ma non permettere agli enti ecclesiastici cristiani di acquistare terreni a Gerusalemme. Il 60 per cento degli ebrei ortodossi e ultra-ortodossi si dice poi disturbato dalla vista di una persona con indosso una croce, mentre per la stragrande maggioranza dei laici (il 91 per cento) questo non costituisce un problema. Su quasi tutte le questioni i laici dimostrano dunque di avere un approccio più aperto rispetto agli ortodossi. I primi sono ad esempio in grande maggioranza (68 per cento) a favore dell'insegnamento del cristianesimo nelle scuole (il 52 per cento anche del Nuovo Testamento), mentre gli ortodossi e gli ultraortodossi sono nettamente contrari (rispettivamente il 73 per cento e il 90 per cento). Più del quaranta per cento degli ebrei israeliani , e fra questi l'80 per cento degli ortodossi, pensano che gruppi ebraici non dovrebbero accettare la carità dei cristiani evangelici. Lo studio ha messo in evidenza notevoli differenze di opinione fra laici e religiosi sul Cristianesimo, ed è stato pubblicato in un momento di crescente appoggio finanziario verso Israele da parte dei cristiani evangelici, che donano decine di milioni di dollari ogni anno. Il 55% degli intervistati si è detto favorevole al fatto che Israele accetti quel genere di aiuti, mentre il 41% è contrario. Lo studio è stato condotto dal Jerusalem Institute for Israel Studies, e dal Jerusalem Center per le relazioni ebraico-cristiane. Il 79% degli ortodossi si è detto contrario, mentre il 70% dei laici è favorevole. L'anno scorso la International Fellowship of Christians and Jews ha ricevuto 87 milioni di dollari da cristiani evangelici, destinati a coprire le spese per un'ampia gamma di programmi.
    "I risultati dello studio mostrano che abbiamo avuto un sacco di successo, e abbiamo ancora molto lavoro da fare per convincere gli israeliani che siamo amici sinceri in un mondo che sta diventando più ostile e più antisemita ogni giorno" ha dichiarato il rev. Malcom Hedding direttore esecutivo dell'Ambasciata Cristiana Internazionale, un gruppo evangelico con base a Gerusalemme. Il 74% degli ebrei israeliani non considera i cristiani come "missionari", e il 76% non è infastidito nell' incontrare un cristiano che indossa una croce.
    Allo stesso tempo, solo il 50% riconosce che Gerusalemme è centrale per la fede cristiana, e il 75% crede che lo stato non dovrebbe permettere a gruppi cristiani di comprare terreno per costruire nuove chiese a Gerusalemme. II 41% crede che il Cristianesimo sia la religione più vicina all'Ebraismo, mentre il 32% pensa che sia l'Islam. L'80% dei laici pensa di essere autorizzato a entrare in una chiesa (il 92% ne ha visitato qualcuna in viaggio all'estero), mentre l'83% dei religiosi ha detto che entrare in una chiesa è proibito.
Tre ebrei religiosi su quattro pensano che il Cristianesimo sia "idolatria", mentre il 66% dei laici non lo pensa. Il 56% dei laici ritiene che i soldati cristiani nell'esercito israeliano dovrebbero giurare sul Nuovo Testamento, ma il 62% dei religiosi crede che dovrebbe essere usata solo la Torah.

(La Stampa, 27 febbraio 2009)





5. EBRAISMO MESSIANICO IN ISRAELE




Chi vuole separare Yeshua da Israele?

di Gershon Nerel

Come negli ultimi duemila anni, anche oggi l'ebraismo istituzionale si adopera con impegno per porre una separazione tra Yeshua e il popolo ebraico. Se uno è nato ebreo, uomo o donna che sia, può credere tutto quello che vuole e continua comunque ad essere considerato membro a pieno titolo dell'ebraismo. Le cose invece vanno diversamente se un ebreo o un'ebrea credono in Yeshua come Messia e Figlio di Dio. Perché per gli ebrei che si attengono alla tradizione ebraica la conversione al cristianesimo equivale a un tradimento. Questa posizione non è sostenuta soltanto dai rabbini ortodossi, ma anche da molti loro colleghi dell'ebraismo conservatore e riformato, da giudici della Suprema Corte di Giustizia, da giornalisti laici e perfino da professori e studenti universitari. In altre parole, questa visione delle cose è ampiamente diffusa in tutti gli ambienti del popolo ebraico.
    Per l'ebreo medio, e non soltanto il normale cittadino "della strada", esiste una chiara linea di separazione tra ebrei e non ebrei, tra il "Messia degli ebrei che non è ancora venuto" e il Messia dei non ebrei (in ebraico: Goyim). In molti dibattiti tra ebrei e cristiani la parte ebraica evita quindi di includere gli ebrei credenti in Yeshua perché i rappresentanti dell'ebraismo istituzionale si considerano i soli veri ebrei. I partecipanti al dialogo provenienti da circoli ebraici "generalmente riconosciuti" sono in realtà pronti a discutere con cristiani non ebrei, ma la partecipazione di credenti ebrei in Yeshua viene rifiutata sprezzantemente come "irrilevante". Evidentemente si teme che la presenza a tali colloqui di discepoli ebrei di Yeshua potrebbe far crollare le barriere erette nel corso della storia tra "noi" ( i "veri" ebrei) e "gli altri" (i non ebrei). Vorrei illustrare questa particolare linea di separazione con due esempi.
    Recentemente un mio collega, anche lui credente in Yeshua, ha proposto a un professore dell'Università ebraica di invitarmi ad un colloquio su ebrei e cristiani nell'Israele di oggi. In questo incontro io avrei dovuto rappresentare il punto di vista degli ebrei credenti in Yeshua. Ho telefonato allora all'organizzatore di questo seminario. Lui mi ha pregato di inviargli per tempo, prima del colloquio che sarebbe avvenuto nell'Istituto Van-Leer in Gerusalemme, un e-mail con il mio curriculum e un elenco delle mie pubblicazioni accademiche. Ho soddisfatto a questa richiesta, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Quando alla fine ho telefonato di nuovo all'organizzatore, lui mi ha detto che il mio tema "non è rilevante per l'obiettivo di questo colloquio". Non ha nemmeno ritenuto necessario scusarsi per non avere risposto alla mia e-mail. Naturalmente ero deluso, ma non particolarmente sorpreso, perché non era la prima volta che mi capitava qualcosa del genere. A onor del vero, devo però anche dire che in altre occasioni sono stato invitato in ambienti accademici a esporre la posizione ebreo-messianica, ma di solito "soltanto" dal punto di vista storico, senza avere la possibilità di toccare "rilevanti" temi attuali.
    Un altro caso è stato perfino riportato dai media. Il 26 novembre 2008 è apparso sul quotidiano The Jerusalem Post un articolo con il titolo "Il Birthright-programm esclude gli ebrei messianici". Il sottotitolo diceva: "Certi atti smascherano degli aspiranti rivelandoli come non ebrei". Il Birthright-programm (in ebraico: Taglit) organizza viaggi gratuiti in Israele per giovani ebrei provenienti dagli USA. Da non molto tempo è stato introdotto un procedimento di selezione per impedire la partecipazione di ebrei messianici. Gli aspiranti devono rispondere in un questionario a una domanda sull'appartenenza religiosa e professarsi appartenenti all'ebraismo istituzionale. Inoltre, devono sottoscrivere una dichiarazione che tra l'altro dice: "Non appartengo a gruppi e non seguo pratiche che possono essere associate all'ebraismo messianico, a Jews for Jesus o a simili correnti ebreo-cristiane."
    Secondo una clausola contenuta nel questionario, gli aspiranti che confessano di essere ebrei credenti in Yeshua possono essere immediatamente esclusi dal programma. In questo caso perdono anche un simbolico assegno di credito e possono perfino essere obbligati alla restituzione di tutte le spese di viaggio sostenute dal programma (circa 2000 dollari). Questa esclusione dal popolo ebraico costituisce una discriminazione religiosa che in questa forma non tocca altri ebrei. Infatti non ha nessuna importanza il dichiararsi seguaci del buddismo o dell'ateismo.
    D'altra parte, queste forme di repressione non tolgono ai discepoli ebrei di Yeshua la loro identità ebraica e nemmeno li escludono dalla vita sociale in Israele. L'influenza degli ebrei messianici è già "de facto" chiaramente avvertibile, perché la realtà e il compimento quotidianamente osservabile delle profezie bibliche degli ultimi tempi sono più forti di qualsiasi pregiudizio.

(Nachrichten aus Israel, febbraio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. ARCHEOLOGIA




Impronte di sigilli reali del periodo del Primo Tempio
e un'iscrizione alfabetica in ebraico del periodo asmoneo

Un grande edificio che risale all'epoca del Primo e del Secondo Tempio, in cui c'era un'incredibile quantità di iscrizioni, è stato scoperto da una spedizione di recupero condotta da Zubair Adawi, su incarico dell'Israel Antiquities Authority, nel villaggio di Umm Tuba, nella parte meridionale di Gerusalemme (tra Zur Baher e il quartiere di
Har Homa), prima dei lavori di costruzione effettuati da un'impresa privata.
Considerando l'area limitata dello scavo e la natura rurale della struttura che è stata portata alla luce, gli archeologi sono rimasti sorpresi nello scoprirvi tante impronte di sigilli reali che risalgono al regno di Ezechiele, re di Giudea (fine dell'VIII secolo a.e.v.). Quattro impronte di tipo "LMLK" sono state scoperte sui manici di grandi otri che erano usati per conservare vino e olio nei centri amministrativi reali. Sono stati trovati insieme alle impronte dei sigilli di due alti ufficiali di nome Ahimelekh ben Amadyahu e Yehokhil ben Shahar, impiegati nel governo del regno. Il sigillo Yehokhil era stato impresso su una delle impronte LMLK prima che il vaso fosse cotto in un forno: si tratta del caso molto raro in cui due impronte del genere appaiono insieme su un unico manico.
Un'altra iscrizione ebraica, di 600 anni posteriore alle impronte di sigillo del regno di Giudea, è stata scoperta su un frammento del collo di un vaso che risale al periodo asmoneo: una sequenza alfabetica che venne incisa con un sottile stilo di ferro sotto il bordo del vaso, nella scrittura ebraica caratteristica dell'inizio del periodo asmoneo (fine del II secolo a.e.v.). Le lettere da hey a yod e una piccola parte della lettera kaf risultano conservate sul frammento. Iscrizioni simili che portano sequenze alfabetiche sono state scoperte in passato, di solito su ostraca (iscrizioni scritte in inchiostro su frammenti di vasellame) o incise su ossari (contenitori di pietra in cui venivano sepolte ossa umane). L'iscrizione alfabetica scoperta in questo caso è unica e il suo significato richiede ulteriore studio: si trattava di un 'esercizio di scrittura fatto da un apprendista scriba o dovremmo attribuirgli qualche valenza magica?
I resti del grande edificio comprendevano parecchie stanze disposte intorno a un cortile. Fosse, installazioni agricole e silos sotterranei erano inseriti hewn nel cortile. All'interno del complesso sono stati anche rinvenuti un forno da vasaio, un grande columbarium con un nascondiglio-rifugio scavato nella roccia, vasellame e altro ancora. Le stoviglie recuperate dalle rovine dell'edificio indicano che esso risale alla fine dell'età del ferro (periodo del Primo Tempio) nell'VIII secolo a.e.v. Dopo la sua distruzione, insieme a Gerusalemme e a tutta la Giudea durante la conquista babilonese, gli ebrei lo rioccuparono nel periodo asmoneo (II secolo a.e.v.) e persistette per altri duecento anni fino alla distruzione del Secondo Tempio. Durante il periodo bizantino il sito venne nuovamente abitato come parte di un esteso insediamento rurale di monasteri e fattorie nella regione tra Gerusalemme e Betlemme.
Circa tre anni fa gli ingenti resti di un monastero di questo periodo sono stati portati alla luce e, insieme ai resti degli scavi attuali, confermano l'identificazione del luogo come Metofa, menzionato negli scritti dei padri della chiesa del periodo bizantino. Il nome del villaggio arabo, Umm Tuba, è quindi una derivazione del bizantino Metofa, che è il biblico Netofa ed è menzionato come il posto da cui provenivano due degli eroi di David (2 Samuele 23:28-29).

(MFA, 23 febbraio 2009 - da israele.net)





MUSICA E IMMAGINI




La valse grotesque




INDIRIZZI INTERNET




Israel News

The International Christian Embassy Jerusalem




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.