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Notizie su Israele 457 - 14 marzo 2009

1. Panorama messianico da Gerusalemme
2. La guerra terroristica globale
3. Antisemitismo, una patologia psichiatrica
4. A colloquio con Aharon Appelfeld
5. Un'ignoranza disarmante
6. Una guerra di "intelligence" spirituale
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 46:12-13. Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia! Io faccio avvicinare la mia giustizia; essa non è lontana, la mia salvezza non tarderà; io metterò la salvezza in Sion e la mia gloria sopra Israele.
1. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME




La guerra contro Hamas a Gaza

"Il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti." (Efesini 6:12)

di Gershon Nerel

Dalla fine del dicembre 2008 fino al gennaio 2009 lo Stato d'Israele è stato di nuovo costretto a difendersi contro il terrorismo islamico. Questa volta la guerra è durata ventidue giorni. Negli ultimi otto anni il gruppo terroristico Hamas ha lanciato razzi dalla Striscia di Gaza quasi ogni giorno (!). Gli obiettivi erano città e paesi israeliani come Sderot, Beeri. Kisufim e Ashkelon. Gli attacchi contro la popolazione civile ebraica sono continuati ad aumentare anche dopo che Israele nel 2005 si era completamente ritirato dalla Striscia di Gaza. Il passo fatto allora non è stato altro che una evacuazione unilaterale.
    Ai civili israeliani questi attacchi hanno provocato non soltanto danni materiali, traumi psichici e feriti, ma anche morti. Anno dopo anno gli attacchi terroristici dei palestinesi sono continuamente aumentati, fino a che per Israele sono stati superati i limiti di tolleranza. L'offensiva di ritorsione dell'esercito israeliano è cominciata con massicci attacchi di bombardamento dell'aviazione su giganteschi arsenali di razzi a lunga gittata, preparati per grandi città in Israele come, tra le altre, Ashdod e Jawne/Gedera vicino a Tel Aviv, Kirjat Gat e Beersheba nel Negev e perfino Bet Shemesh vicino a Gerusalemme.
    Durante la guerra la maggior parte dei razzi usati da Hamas erano stati nascosti in edifici pubblici dei palestinesi, anche in scuole e asili, e perfino in moschee. Hamas ha lanciato centinaia di razzi e di proiettili teleguidati sul sud di Israele. Molte case e edifici pubblici sono stati colpiti e gravemente danneggiati o totalmente distrutti. Quasi un milione di israeliani hanno dovuto vivere dentro rifugi. Dei bambini non hanno potuto più andare a scuola o all'asilo, e nelle regioni colpite l'economia si è quasi azzerata.
    Le perdite in vite umane nel sud di Israele sono state comunque molto contenute. Questo fatto è già di per sé un miracolo. Nonostante che Hamas sparasse da Gaza centinaia di proiettili e razzi sulla popolazione civile di Israele, la maggior parte dei colpi cadeva in aperta campagna o procurava soprattutto danni materiali. In questo si può vedere chiaramente l'opera di una «mano invisibile» che ha deviato il percorso delle bombe mortali indirizzandolo lontano dalle persone. Quando un razzo riusciva a colpire un appartamento, o era vuoto o gli occupanti erano usciti poco prima. Alla radio e alla televisione si udivano spesso persone che, piene di gratitudine, dicevano: «Nes gadol» (un grande miracolo) o: «Nes mishamaijm» (un miracolo del cielo). Altri dicevano semplicemente di aver avuto «Mazal» (fortuna). Il potenziale di morte dei razzi e dei proiettili sparati da Hamas era enorme, ma il Signore è stato particolarmente misericordioso verso il suo popolo Israele.
    Per il suo contrattacco a Gaza l'esercito israeliano ha dovuto mobilizzare anche migliaia di riservisti. Tra di loro c'erano anche ebrei messianici. In questa guerra hanno combattuto fianco a fianco riservisti e giovani credenti in Yeshua di leva, ufficiali e soldati semplici. Durante il loro servizio militare gli ebrei messianici hanno avuto molte occasioni per testimoniare della loro fede nel Messia, il Figlio di Dio, e della loro speranza.
    L'ultima guerra tra Israele e i terroristi islamici di Gaza ci ha fatto capire ancora una volta che la guerra in realtà si combatte tra lo spirito del Corano e lo spirito della Bibbia. Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano sono due lunghe braccia del mondo musulmano che gravita intorno all'Iran, il cui dichiarato obiettivo è la distruzione di Israele. Il cosiddetto «Islam radicale» pretende per sé l'intero paese promesso da Dio esclusivamente a Israele. Questa pretesa non è un piano segreto, ma usa la «tattica del salame» per annientare a poco a poco lo Stato ebraico. Satana si oppone al ristabilimento di Israele perché vuole impedire il compimento delle profezie degli ultimi tempi riguardanti il popolo e la terra d'Israele. Voglia il nostro Redentore darci occhi aperti e tanta forza per umiliarci davanti a Lui e prepararci al Suo ritorno!

(Nachrichten aus Israel, marzo 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

Dalla stampa di guerra israeliana:





2. LA GUERRA TERRORISTICA GLOBALE




Tahadiyeh, Hudna? Che roba è?

da un articolo di Rafael Yisraeli

Fino a tempi recenti gli eserciti combattevano penetrando in territorio nemico, conquistando territori o ritirandosi, prendendo il controllo o perdendolo. Alla fine le parti arrivavano al tavolo dei negoziati per risolvere la disputa, fino al conflitto successivo, con un accordo di pace o un armistizio, con accomodamenti ai confini e sulle regioni di influenza, con scambi di prigionieri, garanzie su certi diritti e impegni certi obblighi.
    Invece, da quando è stata lanciata dall'interno del mondo musulmano la guerra terroristica globale, sono saltate tutte le norme riconosciute. Non è chiaro chi combatte, e perché. Piccoli gruppi non statuali ingaggiano attività ostili e non c'è modo di far finire il conflitto se non stando alle loro regole, e dal momento che essi sono asserragliati all'interno della popolazione civile, e spesso protetti da essa, non c'è modo di difendersi senza scatenare l'ira furibonda del resto del mondo.
    Questi gruppi asimmetrici impongono la loro concezione e la loro terminologia, e il mondo si adegua obbediente. Hamas e Hezbollah parlando di hudna, un concetto islamico radicato nella loro tradizione e nei loro precedenti storici, e tutti noi sembriamo costretti a seguirli adottando lo stesso concetto, e dimenticando termini internazionalmente riconosciuti come cessate-il-fuoco, armistizio e tregua, che comportano obblighi ben precisi per tutto il mondo tranne che per questi gruppi.
    Di recente, giacché il concetto di hudna - anch'esso legato a regole e precedenti storici islamici - sembra a Hamas fin troppo istituzionalizzato e potrebbe comportare - il cielo non voglia - un riconoscimento, per quanto indiretto, di Israele, i militanti terroristi se ne sono usciti con un'altra trovata: la tahadiyeh, che indica una "tregua temporanea". E per fugare ogni possibile dubbio, si rifiutano esplicitamente di estenderla a più di un anno, diciotto mesi al massimo al termine dei quali sarebbero pienamente autorizzati a riprendere le ostilità, dopo aver rimpolpato le loro forze, essersi riposizionati e aver imbottito ben bene di trappole esplosive la popolazione civile. Mentre per noi una tregua è un fine in se stesso capace di portare sollievo alle nostre comunità di confine, per loro sarebbe solo il prezzo da pagare per ottenere vantaggi.
    È chiaro come il sole come mai Hamas e Hezbollah usano questi concetti. Meno chiaro è come mai noi dovremmo accettarli senza riserve. Possiamo benissimo respingerli e attenerci rigorosamente ai termini internazionalmente accettati, che hanno un preciso significato e vengono applicati in base al diritto.
    Quando il mondo ci spinge ad accettare una hudna o una tahadiyeh, noi dovremmo chiedere se capiscono di cosa realmente si tratta e se loro lo accetterebbero. Non si dimentichi che la coalizione guidata dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan ha rifiutato e ancora rifiuta qualunque cessate-il-fuoco, e addirittura esclude qualunque contatto o negoziato con al-Qaeda e con i talebani finché non si arrenderanno. È lo stesso che fecero gli Alleati nella seconda guerra mondiale. Rinunciare alla resa di quei nemici e allo stesso tempo accettare la loro terminologia e le loro condizioni appariva veramente inconcepibile.
    Di più: come si può pretendere che si conducano due negoziati in parallelo, uno con il governo avversario e l'altro con i nemici giurati di quel governo? Siamo vincolati dagli accordi firmati con l'Autorità Palestinese e quegli accordi non parlano di hudna o cose simili. Ci sono due possibilità: o l'Autorità Palestinese non rappresenta i palestinesi e allora dobbiamo puntare a un accordo con Hamas in quanto vero rappresentante dei palestinesi, oppure ci atteniamo ai rapporti che abbiamo con i palestinesi rifiutandoci di cercare un'intesa con Hamas, sia direttamente che attraverso l'Egitto. Inutile dire che Hosni Mubarak sarà il primo a volerci impedire di fare un accordo separato con la Fratellanza Musulmana che minaccia il suo regime.
    Non è possibile attenersi agli Accordi di Oslo, per quel che possono ancora valere, con l'Autorità Palestinese, e nello stesso tempo cercare di patteggiare una hudna o un cessate-il-fuoco con una fazione rivale. Gli abitanti di Gaza non sono anch'essi palestinesi? O forse intendiamo riconoscere due distinte entità palestinesi?
    Bisogna porre fine a questa confusione. Bisogna decidere chi riconosciamo e con chi ci associamo; bisogna tornare ad applicare il sistema di concetti internazionali che hanno validità legale e forza cogente; e bisogna smetterla di riconoscere legittimità a una seconda entità palestinese, cosa che ci porterebbe ad accettare due stati di Palestina, oltre alla Giordania (che è già uno stato a maggioranza palestinese su territorio palestinese) e alle rivendicazioni di identità nazionale che si vanno cristallizzando fra gli arabi israeliani.

(Ha'aretz, 22 febbraio 2009 - da israele.net)





3. ANTISEMITISMO, UNA PATOLOGIA PSICHIATRICA




L'antisemitismo, ad oggi, è stato inquadrato, studiato, interpretato sempre quale fenomeno sociale, culturale, storico e religioso. Tutto vero. Il fenomeno è sociale, culturale, storico e religioso ma la causa esula dalla manifestazione esteriore. L'antisemitismo è fondamentalmente un problema psicologico, se non psichiatrico, per chi ne è affetto. Oltre, ovviamente, a costituire un problema, molto più grave, per chi lo subisce. La genesi dell'antisemitismo non è ricollegabile ai fenomeni di cui sopra. Per fare un esempio, i grossolani falsi dei Protocolli dei Savi di Sion, il manifesto della razza, i programmi televisivi antisemiti dei paesi arabi, sono solo il frutto dell'antisemitismo o meglio sono i catalizzatori di questo. L'antisemitismo nasce nella testa della gente. Esso è generato da una sorta di frustrazione, di fallimento della propria persona che vuole riscattarsi prendendosela con chi appare ai suoi occhi più capace ma, al contempo, più indifeso. Basta leggere la storia di Hitler o di altri famosi antisemiti per trovare conferma di questo. La manifestazione dell'antisemitismo sovente avviene quale patologia collettiva e, spesso, si accentua nei momenti di crisi sociale quando si cerca un facile ed inerme capro espiatorio per le tante difficoltà (per tale ragione, i regimi dei paesi culturalmente o economicamente più arretrati alimentano l'antisemitismo). Questo è accaduto ed accade tuttora in Europa dove c'è una crescita esponenziale degli episodi di antisemitismo. Il caso più emblematico di psicosi collettiva antisemita è attualmente quella del popolo arabo che, comunque imbevuto di propaganda antisemita, riversa sugli ebrei e sullo Stato di Israele tutti i propri fallimenti storici (innanzitutto l'incapacità di costruire uno stato palestinese) ed i massacranti conflitti endogeni (gli arabi hanno ucciso milioni di arabi; anche se nessuno se ne accorge). Le parole più significative, in proposito, sono quelle del filosofo tunisino Mezri Haddad il quale, nel 2006, scriveva che «l'opinione pubblica araba ha trovato nell'antisemitismo il perfetto catalizzatore per le sue ferite narcisistiche e per le sue frustrazioni sociali economiche e politiche». Vero. La malattia è contagiosa e i tanti falliti, frustrati ed ignoranti che possono infettarsi sono tanti. Evitiamo il contagio.

(Abruzzo Liberale, 10 marzo 2009)





4. A COLLOQUIO CON AHARON APPELFELD




Il viaggio alla riscoperta di me stesso e del mio popolo

a cura di Luigi Crema e Rossano Salini

Aharon Appelfeld
Nel suo ultimo romanzo, Aharon Appelfeld trasporta tutto il dramma della propria vita nelle vicende di una piccola bambina ebrea dell'Europa dell'Est: l'allontanamento dalla propria famiglia, il vagare in un mondo dominato dall'odio, e a un tratto la riscoperta di una possibilità nuova per essere se stessa. Un "paesaggio con bambina" (questo il titolo del romanzo) che è il paesaggio stesso dell'esistenza dell'autore, orfano, esule, vagabondo, prima di approdare al porto di una nuova patria e di una nuova identità.
Di questo, e di molto altro, Appelfeld ha parlato nei giorni scorsi presentando il suo ultimo libro al Centro Culturale di Milano, dove lo abbiamo raggiunto.

- La sua esperienza esistenziale è come una sorta di viaggio alla riscoperta delle radici proprie e del proprio popolo. Un viaggio emblematico della condizione dell'uomo moderno. Come la sua esperienza può avere un valore anche per noi europei, che viviamo la stessa drammatica lontananza dalle nostre radici?
- La mia personale identità è come l'incrocio di tre identità diverse, spesso quasi conflittuali tra loro. Io, innanzitutto, provengo da una famiglia ebraica che si concepiva totalmente appartenente alla cultura europea: quella era infatti la loro formazione, data anche dal fatto di aver frequentato scuole e università europee. Pur senza rinnegare l'origine ebraica, si sentivano del tutto assimilati all'Europa. Questi erano i miei genitori, con cui io ho vissuto nove anni, e con cui sono cresciuto da europeo. Poi c'è stata la guerra, che mi ha separato da loro: mia madre è stata uccisa, mio padre rinchiuso in un campo di concentramento. Io invece sono riuscito a scappare, e ho vissuto per alcuni anni nei boschi.

- Come è avvenuta la riscoperta delle altre due identità di cui parlava?
- La mia seconda identità è appunto quella ebraica, vissuta fuori dalla mia famiglia, tra gli ebrei che volevano integrarsi nell'Europa del XX secolo. Questo non è stato possibile: è arrivato l'Olocausto, e ha detto agli ebrei che non potevano appartenere all'Europa, ma solo alla loro ebraicità. Da questa seconda frattura nasce, infine, la mia terza identità, che è quella israeliana. Io sono arrivato in Israele per trovare una casa, e una lingua.

- Dunque l'esistenza stessa dello Stato d'Israele è stato un nuovo orizzonte di ricerca d'identità e di significato nella sua vita?
- È stato certamente così; ma bisogna stare attenti a non semplificare. Israele era uno Stato di pionieri, e non fu per nulla facile costruirlo. Nel 1946, infatti, era uno Stato molto ideologizzato: il motto era "dimentica il tuo passato, il tuo brutto passato in Europa". E ancora: "costruiremo un nuovo ebreo", un "ebreo forte". Io invece non volevo assolutamente diventare qualcosa di nuovo: io desideravo sempre di più diventare come i miei genitori, e come i miei nonni.

- Lei ha spesso sottolineato la presenza di questi due piani: il rapporto con i genitori, e il rapporto, diverso, con i nonni.
- Questi rapporti sono stati per me il centro di tutto. Io volevo essere come i miei genitori, e in un certo senso li ho riportati in vita attraverso i miei libri. E allo stesso tempo volevo essere come i miei nonni, che a differenza dei miei genitori erano molto religiosi, pur senza essere dei predicatori, ma dei semplici contadini.

- A proposito di questo riportare in vita attraverso i libri: lei dice che la parola serve per unire passato e presente, ma aggiunge che la parola da sola non basta. Bisogna recuperare la melodia, quella melodia radicata, ad esempio, nella tradizione della preghiera e della salmodia. Cosa significa?
- La melodia è forse la parte più profonda di un essere umano, perché è la lingua dell'interiorità. È questa, ad esempio, la lingua che porta alla scoperta dell'inconscio. Il linguaggio che noi usiamo quotidianamente è un po' come una copertura: parliamo per fare un'impressione, o per esprimere quello che desideriamo. Ma la melodia viene fuori da noi, e noi stessi non sappiamo bene cosa sia. Ogni scrittore dovrebbe avere la sua propria melodia. E in questo si può riconoscere un valido scrittore: nel percepire che quello che dà non sono solo parole.

- Molti scrittori probabilmente non comprenderebbero nemmeno quello che lei sta dicendo…
- Allora non chiamiamoli scrittori, ma solo autori di parole vuote.

- Le parole vuote sono anche quelle che impediscono il dialogo tra le diverse culture, come quella israeliana, araba ed europea. Come recuperare - prima del livello politico - la possibilità di dialogo tra le diverse culture?
- È difficile rispondere. Certamente il dialogo vero dovrebbe essere il modo migliore di comunicare con gli altri: tu esprimi, porti te stesso all'altro, e poi ti aspetti un responso, comprendendo la persona che hai di fronte. Ma questo veicolo diventa troppo spesso un meccanismo vuoto. Basta guardare le conferenze politiche, che sono piene di puri slogan, dove nessuno si ascolta. Ecco, questo è il contrario di una vera lingua: l'utilizzo di slogan.

- Quindi il dialogo avviene grazie al recupero di quello di cui parlavamo prima: un'identità forte, e una lingua capace di esprimerla dal profondo.
- Il dialogo avviene tra identità forti, cioè tra persone forti che parlano tra loro per comunicare la propria anima, e non per gettare all'altro slogan vuoti. Se accade così spesso di perdersi in chiacchiere è perché la gente non è educata a parlare davvero.

- Come recuperare questa capacità di parlare?
- Come dicevo, bisogna educarsi. Innanzitutto è il cuore che ci aiuta e ci permette di rivelare noi a noi stessi. Poi bisogna saper



creare la propria lingua: per esempio, sentire almeno un'ora al giorno la musica può aiutare in questo, perché le parole comparate alla musica sono più "brutali". La musica invece è connessa alla purezza: quando ascolti Bach, Mozart, Schubert, ascolti qualcosa di puro. La buona letteratura riscopre questa musica delle parole.

- Parlando di dialogo non si può non arrivare a toccare l'argomento dell'attuale situazione in Medio Oriente: vede segni di un progresso nel dialogo politico tra arabi e israeliani?
- La situazione è tragica. Ci sono due nazioni che vogliono vivere sullo stesso territorio, ed entrambe dicono: "questo territorio è il mio". Noi sappiamo bene che l'unica cosa che possa risolvere questo scontro è la via del dialogo e del compromesso. Ma nello stesso tempo sappiamo che gli arabi, parlando in termini teologici, definiscono gli ebrei come dei mostri; questa idea deve per forza cambiare. Ora, poi, incombono grandi paure: in Israele si percepisce una fortissima preoccupazione per il fatto che l'Iran sta preparando la bomba atomica con l'intento di distruggere Israele, proprio come Hitler voleva eliminare gli ebrei. Quindi ritengo che solo quando si abbandonerà l'approccio della demonizzazione dell'altro attraverso argomenti teologici, allora si potrà trovare un compromesso vero, non forzato. Quello che vedo ora sono solo momenti alternati di progresso e di regresso.

(ilsussidiario.net, 6 marzo 2009)





5. UN'IGNORANZA DISARMANTE




Quando la Mecca è a Gerusalemme

di Lucilla Efrati

La Mecca? Si trova a Gerusalemme. I chassidim sono antichi egizi o antichi palestinesi. Lo stato d'Israele è nato da un'invasione armata degli israeliani contro lo stato di Palestina mentre la qibla, la direzione di preghiera islamica, è una festa di pellegrinaggio. Sono solo alcuni degli svarioni che Daniela Santus, docente di Geografia culturale e dei paesi mediterranei all'università di Torino, si ritrova sotto gli occhi qualche giorno fa correggendo la prova scritta dei suoi studenti.
La frustrazione della professoressa Santus, 47 anni è immensa. E' convinta che "gli studenti devono essere stimolati a riflettere, a raccogliere informazioni, ad ascoltare opinioni che magari si allontanano dagli stereotipi mentali che i media o i partiti politici hanno inculcato loro; devono essere sollecitati a leggere i quotidiani e a confrontarli". E proprio per questo da tempo è impegnata nella didattica attiva, anche attraverso l'organizzazione di laboratori e incontri. Davanti a quella prova d'esame si lascia però prendere dallo sconforto e da molti interrogativi che trovano voce in una lettera aperta destinata ad amici e colleghi.

- Professoressa Santus perché questa lettera?
- Mi occupo da anni di geografia culturale, con particolare riferimento all'area mediorientale. Sono sempre stata convinta del fatto che, alla base di tutto l'antisemitismo (definirlo antisionismo mi sembra abbastanza stucchevole) che sta rimettendo radici nel mondo, ci sia una grande ignoranza. Anni fa, ad esempio, ai giovani dell'estrema sinistra che mi avevano violentemente attaccata per il fatto di aver invitato Elazar Cohen, dell'Ambasciata israeliana, a lezione, avevo chiesto se fossero mai stati nei territori palestinesi o se avessero mai parlato, in loco, con persone residenti a Gerusalemme Est per conoscere davvero come la pensavano. Non l'avevano mai fatto. E così, forte della mia convinzione, ho moltiplicato gli sforzi cercando di portare se non conoscenza, almeno curiosità. Purtroppo, mentre correggevo gli ultimi esami scritti, mi sono resa conto che è quasi del tutto inutile. La mia lettera, inviata soprattutto ad amici e colleghi, era uno sfogo. Quasi a chiedere loro se stavo sbagliando in qualcosa o se davvero è impossibile sconfiggere l'apatia che ci circonda.

- Chi sono gli studenti che seguono i suoi corsi?
- Provengono soprattutto da istituti professionali per il turismo e da licei linguistici o europei. In buona percentuale sono stranieri, soprattutto maghrebini, rumeni e albanesi. Vi sono poi alcuni cinesi e libanesi. Mi capita anche di avere "ospiti" dei collettivi autonomi, che vengono soltanto per monitorare la mia "imparzialità" o quella dei conferenzieri da me invitati.
Qual è stata la sua reazione davanti agli strafalcioni degli studenti?
Mi sono sentita depressa, sfiduciata, stanca. Del tutto impotente. Negli anni ho cercato di affinare le mie tecniche didattiche. In aula uso supporti multimediali, propongo film e documentari. La carta d'Israele viene sempre commentata, cerco di coinvolgerli nella lettura e nel commento dei quotidiani. Ma la loro ignoranza è disarmante. Il Tigri e l'Eufrate vengono sempre, da qualche studente, fatti scorrere in Israele. Ormai non sanno nemmeno più chi era Arafat. Men che meno hanno idea di chi sia Abu Mazen e Hamas è confuso con un generale israeliano. Tzipi Livni? Una sconosciuta! Inutile dire lo sgomento quando cito i Rotoli del mar Morto o Masada! Nulla di nulla. E il guaio è che nulla resta. Negli anni ho fatto intervenire molti esperti alle mie lezioni. Quest'anno hanno parlato ai miei studenti l'imam Sergio Pallavicini e il rabbino Somekh. Alla fine neppure una domanda. Un'occasione sprecata.

- Da cosa dipende questa situazione?
- Temo da un disegno ben preciso cui purtroppo molti insegnanti non riescono - o forse non sanno - sottrarsi. Lo scorso anno, per fare un esempio, il mio figliolo più piccolo frequentava la prima media. Sul testo di storia (Paolucci, Signorini, Il corso della storia, Zanichelli) il capitolo dedicato agli ebrei era fortissimamente fazioso. La terra che Dio promise ad Abramo è definita sempre e soltanto Palestina, salvo poi identificare i filistei con gli "antichi palestinesi" che si stabilirono lungo la fascia costiera "del moderno Stato d'Israele". Non una parola su Canaan, non una parola sulla reale nascita del termine Palestina, non una parola sull'origine non araba e men che meno islamica dei filistei. In pochissime pagine il termine Palestina compare ben 11 volte eppure agli autori non viene in mente di spiegare che si tratta di un nome dato dai romani proprio nell'intento di de-ebraicizzare Eretz Israel.
Che dire poi del testo curato dal gruppo Geoidea, Il mondo. Le regioni nella prospettiva globale, De Agostini, in cui si afferma: "La vittoria d'Israele impedì la formazione di uno stato palestinese" e "nel 1967 gli israeliani conquistarono la Cisgiordania (della Giordania) e la Striscia di Gaza (egiziana)". In altre parole gli autori suggeriscono che fu l'autodifesa israeliana e non l'aggressione araba a non permettere la nascita di uno Stato palestinese e mi sembra anche si possa evincere che la Cisgiordania e Gaza - territori destinati alla Stato palestinese e, dopo la guerra d'indipendenza, occupati da Giordania ed Egitto - fossero in realtà territori di proprietà dei due rispettivi Stati. Sempre in riferimento alla Guerra dei Sei Giorni si fa riferimento alla conquista della città di Gerusalemme (non si dice la parte est!) da parte degli israeliani e si dice che, soltanto in seguito, divenne capitale d'Israele... lasciando intendere che, fino ad allora, fosse stata Tel Aviv. Del 1950 nessuna traccia.

- Si tratta di casi isolati?
- Niente affatto. Di tono analogo sono i testi Bompiani, parte di una collana per la scuola secondaria superiore diretta da Giuseppe Dematteis. Nel testo Geografia dei paesi extraeuropei, di Natale Garrè e Giovanna Merlo (1993) si attribuisce la mancata formazione di uno stato palestinese nel 1948 alla vittoria delle guerra d'indipendenza da parte d'Israele. Gli stessi autori, ne I sistemi economici mondiali (del 1998) sostengono che in Israele le attività economiche industriali sono gestite unicamente dagli ebrei. Niente di più falso: è una casualità? Allo stesso modo è una casualità che gli autori scrivano che gli arabi che vivono in Israele sono in situazioni estremamente problematiche poichè ricevono la cittadinanza, ma sono di fatto esclusi dalle cariche politiche? Cosa può ingenerare tutto ciò negli studenti? Anche questi autori, tra l'altro, indicano Gerusalemme come capitale solo dal 1967.
Ancora più estremo è il testo curato da Gianni Morelli e Alfredo Somoza, La nuova geografia dei continenti, Mondadori 1998: in esso si legge infatti che Tel Aviv è la sede del governo. A p. 246 gli autori sostengono che: "La vendita di armi all'estero costituisce la voce più importante dell'economia del piccolo Stato". Cosa vogliono suggerire? Dulcis in fundo... un testo universitario a cura di Dagradi e Farinelli intitolato Geografia del mondo arabo e islamico, Utet Libreria 1997. In esso, l'autrice del capitolo su Israele, M.L.Scarin, scrive che "nel 1947 nella regione della Palestina furono istituiti due Stati: uno ebraico...e uno arabo" (come fanno a capire, gli studenti, che in realtà furono soltanto proposti e non istituiti?). "Iniziarono le guerre arabo-israeliane: la prima fu quella del 1956" (e quella per la sopravvivenza del 1948?). "Gerusalemme venne proclamata capitale dello Stato nel 1980 (... perchè non l'altro ieri?). "Gli ebrei oltranzisti vorrebbero la distruzione di tutti gli edifici che ricordano la fede musulmana". Parlando di economia, l'autrice dimentica il terziario e il terziario avanzato e sostiene che l'agricoltura è uno dei settori più sviluppati. Parlando dei kibbutzim scrive che i bambini vengono educati in maniera ferrea e raramente si permette loro di compiere gli studi universitari.

- Quali effetti possono avere testi del genere sugli alunni?
- Se i ragazzi vengono sottoposti a bombardamenti continui di informazioni faziose (e i media fanno la parte del leone), come potrebbero poi capire che tutto ciò su cui si fondano le loro certezze sia un falso? Se sin dalla prima media si insegna loro che la patria ebraica si chiamava "Palestina" e che i filistei altri non erano che gli "antichi palestinesi" questi poveretti iniziano a pensare che l'Islam è sorto prima di Cristo in Palestina! E che gli ebrei hanno rubato la terra ai palestinesi: che è esattamente quanto i disinformatori vogliono.

- Qualche anno fa lei fu protagonista, all'Università di Torino, di un episodio che ebbe riscontro grande sui media.
- Nel 2005 l'estrema sinistra antagonista insorse contro la mia decisione di invitare a lezione il dottor Elazar Cohen, diplomatico dell'Ambasciata d'Israele. In quell'occasione il dottor Cohen poté svolgere la sua lezione soltanto grazie all'intervento della polizia. Io stessa potei continuare le lezioni solo grazie alla sua protezione. Devo ammettere che mi infastidisce il concetto per cui un israeliano può parlare soltanto con un palestinese accanto e non viceversa. L'anno dopo decisi di provare il mio assunto per cui a questi giovani contestatori non interessa nulla del dibattito, ma desiderano soltanto opporsi a Israele. Così, con l'aiuto della collega Sarah Kaminski e del mio preside Paolo Bertinetti organizzai una mattina di studio con i due rettori di Gerusalemme: quello dell'Università ebraica e quello dell'Università palestinese di Al Quds. L'ateneo diede molto risalto all'evento, ospitato in Rettorato. Ma non si presentò nemmeno uno studente. Ma come? Se fino a pochi mesi prima si stracciavano le vesti e lanciavano fumogeni perché non era stato garantito il dibattito, adesso che avevano entrambi i rettori seduti accanto a parlare di cooperazione non interessava più niente? Allo stesso modo pochi erano i docenti e i giornalisti che, tra l'altro, non scrissero neppure una riga sull'evento. Un israeliano e un palestinese che parlano di progetti comuni non interessano proprio a nessuno …

- Perché questo disinteresse?
- C'è un disegno: si vuole mantenere il conflitto. E perpetuare l'ignoranza. Perché soltanto nell'ignoranza può proliferare l'antisemitismo. D'altra parte la storia ce lo insegna. Quando c'è un problema è meglio dare gli ebrei in pasto all'odio popolare, prima che il popolo ne scopra la vera causa. E' stato così ai tempi delle crociate e dell'inquisizione, al tempo degli zar e della rivoluzione bolscevica, al tempo di Hitler e a quello di Stalin. Trovo assai preoccupante, ad esempio, che con il crescere dell'ignoranza cresca anche la percentuale di quanti credono che la "vera" causa della crisi finanziaria globale sia da ricercarsi nelle manovre economiche degli ebrei. Un brutto segnale davvero.

(Notiziario Ucei, 15 febbraio 2009)





6. UNA GUERRA DI "INTELLIGENCE" SPIRITUALE




L'apparizione di Rachele

di Aviel Schneider

Durante la seconda settimana di guerra contro Gaza, in Israele sono circolate voci in cui si diceva che la biblica madre Rachele aveva salvato la vita a dei soldati israeliani. «Una notte abbiamo fatto irruzione in una casa sconosciuta. Improvvisamente nell'oscurità abbiamo visto una donna. Intorno a lei sembrava che irraggiasse un chiarore. Ci ha avvertiti: non andate oltre, qui ci sono trappole esplosive!" Di questo tipo erano i racconti miracolosi che molto in fretta hanno fatto il giro nella popolazione. Anche a noi amici e soldati di riserva hanno raccontato di «una salvatrice vestita di bianco» ancora prima che queste voci apparissero sui media. In un caso la donna biancovestita ha avvisato i soldati israeliani che tre terroristi palestinesi erano in agguato in un cortile. Alcune pagine web israeliane hanno riferito di una donna bianca che avrebbe salvato la vita a molti soldati israeliani durante l'operazione "Piombo fuso".
    La pagina di notizie di Ynet ha riferito che il noto Rabbino Mordechai Elijahu nei giorni di guerra ha pregato per la protezione dei soldati israeliani presso la tomba di Rachele. «Non ho osato, sulla base di queste voci - ha detto il Rabbino di Safed e figlio di Rabbi Samuel Elijahu - chiedere a mio padre chi fosse questa donna. Gli ho parlato dei miracoli che diversi soldati hanno testimoniato indipendentemente l'uno dall'altro e gli ho chiesto se erano credibili. Mio padre ritiene che i miracoli siano veramenti avvenuti, perché ha chiesto aiuto a Dio in preghiera!"
    Pagine web religiose come Kipa, HaGeula e altri portali internet hanno pubblicato testimonianze di soldati e ufficiali israeliani a cui è apparsa madre Rachele nella guerra di Gaza. Ogni volta si diceva: «Il suo avvertimento ci ha salvato la vita!»
    Lo storico messianico Zwi Sadan dice che è un errore rigettare simili racconti come sciocchezze. «Io credo in esseri soprannaturali come gli angeli, che in occasioni imprevedibili incontrano delle persone». Di altro parere è Rabbi Shlomo Aviner, secondo cui bisogna essere prudenti e verificare simili miracoli. «Dei soldati israeliani sono caduti e nessuna madre Rachele li ha salvati", ha detto Rabbi Aviner, «altri sono tornati a casa dalla guerra come eroi, e anche loro durante i combattimenti nella striscia di Gaza non hanno incontrato nessuna madre Rachele». Dello stesso parere è anche Rabbi Josef Sini (Ynet): «Come non crediamo a un Nuovo Testamento, così non prendiamo sul serio simili storie che soltanto qualcuno diffonde. Quando Dio operava miracoli, lo faceva sempre davanti agli occhi di tutto il popolo.»
    Nella terza settimana di gennaio anche il leader religioso del partito ortodosso sefardita Shass, Rabbi Ovadja Josef, ha preso in considerazione le numerose voci e racconti di miracoli. Nella sua predica settimanale in Gerusalemme ha detto: «Quando i soldati hanno chiesto alla donna bianca che era davanti a loro chi fosse, lei ha risposto con voce bassa: Rachele», ha dichiarato Rabbi Josef ai suoi ascoltatori.
    «Se fosse Rachele, non posso giudicarlo. Ma sono sicuro nella recente guerra Dio ha operato», ha detto a israel heute Meno Kalisher, conduttore di una comunità messianica. «Anche su altre guerre del passato ci sono racconti simili».

COMMENTO - Anche molti cristiani evangelici hanno pregato per Israele durante la guerra di Gaza, e in modo particolare anche per la protezione dei soldati. Dio risponde a simili preghiere (anche se naturalmente sempre a modo suo), quindi è certo che ha operato in questa guerra. Ma dove Dio opera, opera anche il suo Avversario, il quale ha anche lui la capacità di fare "segni e prodigi" (Matteo 24:24). E quando appaiono visioni di uomini e donne morte, si può essere certi che è opera sua. Racconti come quelli riportati testimoniano di un fatto: che il contrasto che avviene su quella terra è sostanzialmente spirituale. Si può non essere d'accordo, e si deve essere liberi di poterlo fare senza correre pericoli da parte dei "religiosi", come nel caso dell'Islam di oggi o del cattolicesimo di qualche tempo fa. Ma la realtà dei fatti non fa che confermare quello che dice la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento. Come nelle guerre politiche, anche in questa guerra spirituale (di cui si sa già chi vincerà, anzi chi ha vinto) sono in corso azioni di depistaggio tramite invio di messaggi fuorvianti destinati a particolari ricevitori. E' una guerra di "intelligence" spirituale. M.C.

(israel heute, marzo 2009, - trad. www.ilvangelo-israele.it)





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