1. ISLAM E OCCIDENTE SPIEGATI DA BERNARD LEWIS
"Ecco perché i musulmani ci odiano"
di Angelo Allegri
Bernard Lewis, uno dei più grandi esperti mondiali di islam, ci racconta perché l'Oriente vuol distruggere l'Occidente: "Nel mondo arabo storia, politica e religione si identificano. E quindi noi siamo gli infedeli, il nemico".
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Bernard Lewis |
«Lo scontro di civiltà? Non è una trovata polemica, né tantomeno politica. È, molto semplicemente, una realtà storica». Bernard Lewis, 92 anni, è il più illustre islamista vivente. Il suo primo viaggio in Medio Oriente è del 1937: giovane studente dell'università di Londra si stabilì in Palestina per studiare arabo ed ebraico. Col tempo ha imparato anche aramaico, turco, iraniano, oltre a una mezza dozzina di dialetti diffusi nella regione. Dall'ufficio dell'università di Princeton, sulla costa est degli Stati Uniti, parla con entusiasmo del suo ultimo libro uscito in Italia, Le origini della rabbia musulmana, pubblicato pochi giorni fa da Mondadori, una raccolta di saggi con un denominatore comune, i rapporti tra il mondo musulmano e il nostro, il rancore dell'islam verso l'Occidente.
- Allora, professor Lewis, perché l'islam ci odia?
- «Le do due ragioni: perché ha un grande senso della storia e perché definisce la sua identità in termini religiosi».
- E cioè?
- «Nel mondo occidentale, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa, tendiamo a vivere nel presente, a dimenticare la storia, a cancellarne la consapevolezza. Nel mondo musulmano non è così. Le faccio un esempio: ai tempi della guerra tra Irak e Iran, negli anni '80, mi colpì il fatto che la propaganda radiofonica delle due parti era piena di allusioni alla secolare storia di rivalità tra i due Paesi. E parlo di allusioni, riferimenti appena accennati, soprattutto al periodo medioevale, che perfino i contadini analfabeti riuscivano a cogliere. Quanto al secondo aspetto bisogna tener presente che in occidente tendiamo a definirci per nazionalità, per Paese. Nell'islam quello della nazionalità è uno sviluppo recente, non molto radicato. Noi definiamo la nostra identità su base nazionale e solo in seconda battuta su base confessionale. Loro fondano l'immagine di sé sulla religione e solo dopo vedono il Paese, la nazione».
- E dunque
- «Dunque noi parliamo di occidente e di islam in modo più o meno generico. Loro vedono in maniera nettissima la distinzione tra i due mondi. E la interpretano nel senso più forte, come separazione tra credenti nel vero Dio e infedeli. E sono del tutto consapevoli della tensione, che dura ormai da 14 secoli, tra due realtà religiose, naturalmente simili ma incompatibili».
- Che cosa intende?
- «Voglio dire che islam e cristianesimo hanno più cose in comune tra di loro che con tutte le altre religioni. Da questo punto di vista si può quasi parlare di uno scontro interno tra religioni rivelate. Da sempre islamici e cristiani si parlano e discutono. Possono farlo perché hanno una piattaforma che li unisce. Non potrebbero farlo con cinesi o indiani».
- Eppure, lei dice, sono anche incompatibili.
- «Al mondo ci sono molte religioni ma solo due, tra le maggiori, hanno la pretesa universalistica di possedere la verità ultima ed esclusiva: cristianesimo ed islam. Da qui nasce il conflitto, più dalle similarità che dalle differenze: dal senso della propria missione divina. Da questa concezione di partenza il mondo cristiano si è via via allontanato. Non dimentichiamo invece che il mondo islamico ha appena iniziato il quindicesimo secolo della sua era. Pensiamo a che cosa era il cristianesimo del quindicesimo secolo, in preda alle guerre di religione tra protestanti e cattolici. Loro vivono ancora in quel mondo».
- Da qui lo scontro di civiltà
- «Ancora più precisamente lo scontro tra due civiltà religiosamente definite. Certo oggi noi non siamo più soliti parlare di cristianità contrapposta all'islam, usiamo toni più sfumati, ma il fondamento è quello. E ripeto, la cosa più interessante è che la consapevolezza dello scontro sia molto più alta nel mondo islamico che in quello occidentale».
- Guardando al mondo occidentale, lei scrive nel libro, l'islam teme soprattutto una cosa, il secolarismo.
- «È di sicuro il peggior nemico degli islamici: ridurre o minimizzare il significato della religione nella vita umana. L'evoluzione che nei secoli si è verificata nel mondo cristiano è legata al punto di partenza: sin dall'inizio il cristianesimo ha visto una distinzione tra ambito religioso e ambito diverso dalla religione, tra Dio e Cesare. Nel mondo musulmano non è così. Guardi quanto sono diverse le circostanze: Gesù fu crocefisso, i suoi seguaci perseguitati. Quando i cristiani si impadronirono dell'impero romano c'era già una chiesa come istituzione separata. Maometto non fu crocifisso, creò non solo una comunità religiosa ma anche uno stato, di cui divenne subito il capo. La loro storia è di totale compenetrazione e identificazione tra governo e religione. Pensi che nella lingua araba, pure molto ricca di termini e sfumature, fino a tempi moderni non esistevano coppie di parole come laico-ecclesiastico o religioso-secolare. Quando sono state introdotte è avvenuto solo grazie alla minoranza cristiana di lingua araba che ha sviluppato un vocabolario di impronta culturale occidentale».
- Chi alla persistenza di uno scontro di civiltà si è sempre ispirato è Osama bin Laden. Per lui gli occidentali erano e rimangono "Crociati".
- «Osama ha saputo parlare in maniera esemplarmente efficace all'immaginario collettivo dei suoi correligionari, diventando agli occhi delle masse arabe una specie di Robin Hood rispettato e ammirato. Un uomo incorrotto che, a differenza di quasi tutti gli altri leader della regione, non ha approfittato della sua posizione per passare dalla povertà alla ricchezza, ma che anzi era ricco e ha scelto la povertà. Anche se io penso che ormai dobbiamo parlarne al passato: non credo che sia ancora vivo o quanto meno nelle condizioni di esercitare un ruolo significativo. Le immagini e le dichiarazioni dei primi tempi avevano davvero una forza notevole. Era un maestro di oratoria e prosa in lingua araba, e gli arabi hanno sempre avuto un debole per i grandi oratori. Le sue parole, al di là dei suoi atti hanno avuto un grande impatto. Ma i suoi messaggi più recenti sono incerti e sfuocati. Da far dubitare, appunto, che sia lui a parlare»
(il Giornale, 25 marzo 2009)
2. SHLOMO VENEZIA RACCONTA LO STERMINIO DEGLI EBREI
"Io, uno dei dodici sopravvissuti del Sonderkommando"
La toccante testimonianza di Shlomo Venezia davanti agli studenti di Rovigo
di Elisa Barion
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Shlomo Venezia |
ROVIGO - Nelle docce ha visto mandare a morte migliaia di persone, giorno e notte, senza sosta. E' Shlomo Venezia, l'unico sopravvissuto in Italia (una dozzina nel mondo), delle squadre speciali del Sonderkommando del campo di concentramento Auschwitz Birkenau. Davanti agli studenti dell'istituto Marco Polo e del liceo scientifico Paleocapa nell'auditorium dello scientifico, martedì 24 marzo Shlomo Venezia ha raccontato come l'orrore e la cattiveria degli uomini possono non avere limiti, precisando che quello che dice è solo una parte: "Non voglio dire troppo delle atrocità che ho visto con i miei occhi, perché sono sconvolgenti".
Per ore i ragazzi hanno assistito in silenzio al racconto lucido e preciso della deportazione e alla permanenza dello scrittore, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz. Italiano di origine ebraica, Venezia è nato a Salonicco nel 1923. "Eravamo circa 300 ebrei in città - ha raccontato - protetti dal console italiano finché è stato possibile".
Nel 1941 infatti, le truppe tedesche fecero irruzione ad Atene, e nel 1944, ogni tentativo di mediazione è risultato inutile, così lui, i suoi cugini, sua madre e le sue sorelline (il padre, partito volontario per l'Italia, era morto durante la Grande Guerra) sono stati arrestati con tutti gli altri membri della loro piccola comunità.
"In dieci giorni sono stati deportati circa 10 mila persone - ha proseguito Venezia - i tedeschi sbarravano gli accessi ai quartieri e arrestavano chiunque, non c'era modo di evitarli".
"Io facevo il corriere del mercato nero, perché nessuno poteva uscire dal quartiere per andare a comprare da mangiare, e quello era la nostra risorsa".
Una volta arrestati con la promessa di un lavoro e di una casa "perché i tedeschi ci ingannavano", lui e la sua famiglia sono stati depredati di ogni bene e "sempre mentendoci - ha raccontato - ci dicevano di stare uniti".
Poi il racconto si è fatto via via più drammatico in un crescendo a dir poco commovente: "Ci hanno caricati su un treno spingendoci a colpi di manganello, come fossimo bestie. Una volta saliti, mi sono accorto che per affrontare il viaggio della deportazione avevamo a disposizione 20 chili di carote, 150 litri d'acqua e 3 cassette di uva passa. Praticamente niente, considerando che non sapevamo quanto sarebbe durato il viaggio".
"Ho addirittura tentato di fuggire dal treno - ha ammesso - ma non me la sono sentita di abbandonare la mia famiglia. La loro sorte sarà la mia, mi sono detto. Nonostante un mio conoscente vedendomi dal finestrino mi avesse gridato in greco "Cercate di scappare perché vi ammazzano tutti!".
Il treno che ha trasportato Shlomo Venezia nel campo polacco arrivò a destinazione con a bordo circa 1.500 persone, pronte per la "soluzione finale", così veniva chiamato lo sterminio sistematico di tante vite.
"Scesi dal treno davanti a tutti perché volevo aiutare mia madre, ma un soldato mi ha colpito alla testa con un manganello. A calci mi ha messo in fila con altre persone. Non ho mai più rivisto mia madre e le mie sorelle".
Lo scrittore, passata la selezione prima di entrare nel campo ("Dei 1.500 scesi dal treno, sono stati selezionati 220 ragazzi e 110 ragazze. Gli altri mandati subito a morire"), fu tatuato e mandato a lavorare ("Ci vennero a prendere dicendo che serviva qualche pezzo. Avevamo smesso di essere persone, eravamo pezzi da lavoro"). Fece il barbiere nel famoso Sonderkommando: il suo compito era tagliare i capelli ai morti nelle camere a gas, da cui poi si facevano tessuti e moquette per i sommergibili.
Solo in un secondo momento scoprì che le squadre del Sonderkommando dovevano essere periodicamente eliminate per mantenere il segreto sulle atrocità a cui assistevano. Prima che accadesse a lui, dopo 8 mesi, il 27 gennaio 1945 arrivarono gli americani ad aprire le porte del campo di concentramento.
Fra i più importanti testimoni del dramma della Shoah, ha raccolto le sue memorie nel libro "Sonderkommando Auschwitz".
(RovigoOggi.it, 24 marzo 2009)
3. UN'UTILE LEZIONE PER GLI STUDENTI
Una malattia della storia: il negazionismo
di Ilaria Mori*
La premessa metodologica necessaria per affrontare l'argomento del revisionismo storico a scuola al termine della scuola secondaria superiore è costituita dal fatto che gli studenti dovrebbero aver interiorizzato dal precedente percorso di studio le seguenti nozioni:
A) ogni opera storica reinterpreta il passato e quindi tutti gli storici sono revisionisti. Revisionisti, per esempio, sono stati gli storici delle Annales a cui si deve l'introduzione della storia sociale ed economica, di una storia 'policentrica', in netta rottura con la storia politica e militare che aveva dominato fino a ottant'anni fa la storiografia ufficiale;
B) ogni storico porta con sé le sue passioni anche politiche e civili, le sue interpretazioni, nonché lo spirito dei tempi;
C) Benedetto Croce affermava che ogni storia è una storia contemporanea nel senso che la ricostruzione di un'epoca storica ha sempre delle ricadute sull'attualità politica.
Ma questo, ovviamente, non significa che tutte le interpretazioni possono essere messe sullo stesso piano: ci sono interpretazioni che si fondano su evidenti manipolazioni e falsificazioni oppure che sono prive di una convincente profondità analitica.
- Revisione e negazione della storia
Ai giorni nostri per revisionismo intendiamo la corrente che cerca di riscrivere la storia contemporanea. Gli studi più noti che hanno suscitato polemiche e controversie di particolare intensità riguardano l'interpretazione delle origini del fascismo e del nazismo e in alcuni casi il tentativo di "relativizzare" l'orrore dello sterminio degli ebrei. In tale contesto gli studiosi più accreditati sono Nolte, De Felice e Furet.
Col termine negazionismo si intende, invece, l'obiettivo da parte di alcuni 'studiosi' di dimostrare con argomentazioni variabili:
a) che la Shoah non si è mai verificata perchè il regime nazista non voleva sviluppare una politica di sterminio;
b) che il numero degli ebrei morti durante la Seconda guerra mondiale è di gran lunga inferiore a quello accertato dalla storiografia;
c) che le camere a gas, l'uso dello Zyklon B, dei forni crematori sono aspetti della propaganda postbellica. Oggi la maggiore espressione dei negazionisti è l'Institute for Historical Review, fondato alla fine degli anni 70 negli Stati Uniti, a cui fanno riferimento alcuni storici tra cui D. Irving, R. Faurissone del più noto negazionista italiano C. Mattogno. La differenza sta nel fatto che il revisionismo riformula il giudizio su un evento, ne dà un'interpretazione diversa basandosi sulle fonti, ma non ha come fine la sua cancellazione.
Un altro caso di negazione genocidaria meno noto e forse meno studiato è quello che riguarda lo sterminio degli Armeni avvenuto durante la 1a guerra mondiale da parte del governo ottomano. Una stima seria non può scendere sotto il milione di morti, ossia la metà degli Armeni presenti nel 1914 nell'impero. Il negazionismo è diventato l'ufficiale paradigma storico della repubblica turca, sebbene siano disponibili negli archivi europei testimonianze e informazioni approfondite e dettagliate sulle atrocità commesse. Uno dei principali obiettivi della posizione negazionista è quella di dissipare le obiezioni del Parlamento europeo all'entrata della Turchia nell'Unione.
- Il negazionismo della Shoah
Per i negazionisti l'Olocausto sarebbe un' invenzione tesa a screditare, a demonizzare la Germania di Hitler e/o un mito creato al fine di favorire gli interessi degli ebrei nel mondo e giustificare la nascita e la difesa di Israele. Le tesi del negazionismo, prive di una credibile e convincente profondità analitica, hanno la pretesa di presentarsi come scientifiche in ambito storiografico "autorappresentandosi, anzi, quale unica storiografia dotata di rigore scientifico analitico, con l'obiettivo di delegittimare la storiografia corrente, naturalmente respinta perché ideologicamente e politicamente orientata" (F. Germinario, Razzismo, antisemitismo, negazionismo, ISRAT,2007). I negatori dello sterminio pongono una questione semplice ma dirimente: prima di costruire analisi e riflessioni sulla Shoah si deve dimostrarne la verità storica e quindi quell'unicità che la rende l'evento simbolo degli orrori del XX secolo definito da T. Todorov "il secolo delle tenebre" in opposizione al "secolo dei lumi"(in Storia, verità e giustizia: i crimini del XX secolo, a cura di M. Flores). Le camere a gas, in particolare, sono oggetto di critica investigativa da parte di questi storici fino a sostenerne l'inesistenza così come essi denunciano uno scenario di grande bugia da dissolvere, di pericoloso complotto sionistico da smascherare.
Il metodo storiografico dei negazionisti si fonda sulla ricerca dello scoop che possa coinvolgere il grande pubblico storicamente poco informato; tra i presunti fondamenti probatori più sensazionali del negazionismo ci sono quelli che si ricavano, per esempio dal libro The Hoax of Twentieth Century (1976), di A. R. Butz, docente di ingegneria presso l'università di Chicago, in cui l'autore sostiene che lo Zyclon-B fosse utilizzato nei campi con funzione di insetticida e che le morti sarebbero state provocate per lo più dalla diffusione del tifo. Altro esempio eclatante è il Rapporto Leuchter del 1988 ( F. Leuchter è un ingegnere e ricercatore di Boston che progettò una nuova camera a gas per il penitenziario di stato del Missouri) la cui prefazione è a cura dello storico negazionista R. Faurisson. In tale documento si sostiene l'assenza di residui di cianuri negli ambienti di Auschwitz-Birkenau destinati allo sterminio; inoltre è impossibile credere che gli inservienti, anche se con le maschere, potessero entrare subito nei locali senza che essi stessi venissero uccisi dai veleni letali. Faurisson, professore dell'università di Lione, diventato autore di riferimento per molti negazionisti propone una versione "economicista" del negazionismo (M. Mustè e C. Scognamiglio, Il giudizio sul nazismo, pag. 69). Partendo dal confronto tra l'antisemitismo nazista e il razzismo proprio del colonialismo occidentale giunge a postulare la contraddittorietà di sterminare coloro che potevano essere sfruttati economicamente come mano d'opera, soprattutto in un contesto di guerra totale. Dopo la pubblicazione del suo libro (Memoire en défense contre ceux qui m'accunsent de falsifier l'histoire,1980) Faurisson veniva condannato, per la prima volta, per contestazione di crimine contro l'umanità.
E le immagini dei prigionieri-scheletro riprese dagli americani? Lo stato di quei prigionieri, sostengono i negazionisti, sarebbe dovuto all'abbandono senza cibo e medicine in seguito allo sfaldamento del fronte tedesco.
- Menzogne e complotti
Un'altra caratteristica delle argomentazioni negazioniste è il rifiuto della testimonianza diretta come fonte storica: i racconti dei superstiti dei campi nazisti vengono definiti "menzogne". Il diritto di parola non viene riconosciuto ai sopravvissuti perché la loro identità ebraica li qualifica come pericolosi sovvertitori dell'ordine e perché la loro natura li rende "perfidi": quei testimoni non sono credibili, raccontano il falso, perché il loro obiettivo sarebbe la conquista del potere. L'antisemitismo, anche dopo il 1945, ha mantenuto intatto il tema dell'esistenza di una cospirazione sionista anche se non ebraica (F. Germinario, op. cit. pag. 68). Simbolo del negazionismo è la figura di David Irving, la cui reputazione di storico stimato viene incrinata a partire dagli anni Novanta del secolo scorso per le sue simpatie verso gli ambienti dell'estrema destra che lo hanno spinto alla riabilitazione di Hitler, con il tentativo di scagionarlo dalle responsabilità dello sterminio degli ebrei, che non viene negato, ma indubbiamente ridimensionato; inoltre Irving confuta la sistematicità delle uccisioni attribuite al ricorso alle camere a gas. Per quel che riguarda il numero delle vittime della persecuzione antiebraica, Irving nega la fondatezza dei rapporti dei capi di polizia e dell'esercito, a suo avviso "gonfiate" dai redattori per dimostrare
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la loro efficienza. Inoltre, molti ebrei sarebbero stati trasportati in Palestina con una nuova identità, altri potrebbero essere morti sotto i bombardamenti alleati e altri vittime del freddo e della fame in Europa Orientale. La prof.ssa Deborah Lipstadt, autrice di un libro molto critico nei confronti del negazionismo, indica Irving come intenzionale manipolatore delle fonti finalizzate alla negazione dell'olocausto e all'apologia del führer. Nel 2000 il tribunale britannico che ha trattato la causa per diffamazione intentata da Irving alla storica ha messo in discussione l'imparzialità del querelante, sentenziando che aveva distorto e falsificato l'evidenza storica, riconoscendo in lui un rappresentante dell'antisemitismo.
- La distruzione delle prove, origine del negazionismo
D'altro canto non si deve dimenticare che il primo a praticare il negazionismo fu lo stesso regime nazista: man mano che le truppe nemiche avanzavano sia da Ovest che da Est i nazisti cercavano di distruggere le prove dei loro crimini, organizzando l'evacuazione degli internati (le famose marce della morte) bruciando i registri, facendo saltare in aria i forni crematori e cancellando molte tracce dell'impianto di morte costruito dal Terzo Reich. Primo Levi ricorda che le SS si divertivano a irridere cinicamente i prigionieri affermando che, qualora fossero sopravvissuti, il mondo non avrebbe creduto al racconto di fatti così mostruosi, e che la storia dei Lager, sarebbero stati loro [i nazisti] a raccontarla.
All'indomani della Seconda guerra mondiale la destra più radicale per potersi ripresentare nell'arena politica delle idee e delle competizioni elettorali si trovava nella condizione di dover negare o quanto meno minimizzare le proprie responsabilità nella produzione degli orrori della guerra che erano vivi nell'immaginario collettivo. F. Germinario sostiene che le posizioni storiografiche del negazionismo risultano la "precondizione necessaria e indispensabile" per riproporre la presenza dei movimenti di estrema destra europea sul "mercato politico" e che quella dei revisionisti e persino dei negazionisti è la caratteristica dei "vinti della storia" che per sopravvivere sono costretti a riscriverne una nella quale possono continuare a esistere (op cit. pag. 70-71).
- Analisi e critica del negazionismo
Per quanto riguarda il metodo storiografico e le strategie interpretative dei negazionisti risulta di particolare interesse lo studio di Valentina Pisanty Come si nega un fatto: le strategie interpretative dei negazionisti (in Storia, verità, giustizia, op. cit.). La ricercatrice, partendo dalla semiotica, si propone di analizzare la struttura logica degli scritti dei negazionisti per capire se vi sia un'ossatura argomentativa costante e se e come tale ossatura si discosti sensibilmente dal metodo interpretativo impiegato dagli storici di professione. La sua attenzione si concentra su alcuni nomi (per esempio Faurisson e il suo allievo H. Roques ) che hanno adottato uno stile apparentemente più accademico e scientifico per dare l'impressione del tutto "illusoria" che sia in corso un serio dibattito storiografico tra la storiografia "ufficiale" (sterminazionista) e quella "revisionista".
Il negazionismo può essere definito "un'ideologia" anzi, lo storico francese Pierre Vidal-Naquet lo definisce "una setta religiosa, un' opposizione settaria al culto dominante" in una serie di articoli dal titolo suggestivo Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah (Viella, 2008) in cui affronta le posizioni dei negazionisti pur rifiutandosi sempre di dibattere con loro faccia a faccia, non reputandoli interlocutori accettabili. Secondo lui la sacralizzazione della Shoah è rischiosa perché non deve essere considerata un culto suscettibile di creare un anti-culto, ossia un'eresia, né deve essere uno strumento politico. É un genocidio che insieme agli altri - quello degli zingari (simultaneo), degli armeni (precedente) e del Ruanda ( successivo) - deve impegnare gli storici cui spetta il compito di tener viva la memoria.
Il fatto che in questi ultimi dieci anni storici, filosofi, sociologi si sentano particolarmente impegnati nella necessità di mantenere viva la memoria della Shoah è rivelatore che tale memoria attraversi una crisi non solo dovuta all'esaurimento della generazione dei testimoni ma soprattutto perché la condizione diffusa nella nostra società è quella in cui le specificità del passato storico svaniscono, il passato è tutto schiacciato sul presente oppure è percepito in una dimensione "neomitica" che non ha rapporti di continuità con il presente. La conseguenza più rischiosa consiste nel fatto che i più pensano che ciò che è stato non potrà riprodursi in forme nuove e a danno di altri.
* Insegnante di Italiano e Storia presso un liceo romano.
(Consozio AetnaNet, 27 marzo 2009)
4. MA DICONO CHE NON È ANTISEMITISMO
Gli ebrei turchi vogliono emigrare
Gli israeliani si stanno preparando ad una drastica crescita dell'immigrazione di ebrei turchi. Eli Cohen della Jewish Agency ha detto che per quest'anno si aspettano più di 250 ebrei da quel paese in massima parte musulmano. Nel 2008 gli ebrei immigrati sono stati 118.
Anche da Venezuela ci si aspetta una crescita simile. La situazione lì è peggiorata sempre di più soprattutto dopo l'attacco alla Sinagoga di Caracas e l'espulsione dei diplomatici israeliani. Nel frattempo nella parte nord-occidentale della Turchia, nella città di Bursa, è stata incendiata una Sinagoga, secondo quello che riferisce la comunità ebraica del paese. Fortunatamente nell'attacco non ci sono stati feriti, perché l'edificio attualmente non è più usato, dal momento che gli ebrei continuano sempre di più ad andare via da questa zona.
Dopo l'operazione militare di Israele nella Striscia di Gaza la situazione in Turchia è talmente peggiorata che adesso molti ebrei non si fidano molto ad andare in strada. Una donna ebrea di Instanbul, che vuole rimanere anonima, ha dichiarato al portale israeliano internet di notizie ynet che per paura lei non vuole essere riconosciuta come ebrea nella sua città: «Abbiamo paura anche soltanto a camminare in strada. L'atmosfera si è molto appesantita. Dappertutto si vedono slogan per i palestinesi e contro Israele e bandiere palestinesi. Una grande bandiera è stata appesa proprio davanti alla grande Sinagoga. Su molti negozi di proprietari ebrei sono stati disegnati graffiti anti-israeliani. Soltanto con molta esitazione ci attentiamo ad andare in strada. Allo Shabbat la Sinagoga è praticamente vuota. Molti temono di subire aggressioni, nonostante siano state rinforzate le forze di polizia. Da tutte le parti, ad ogni angolo di strada e in ogni trasmissione televisiva c'è solo un tema: Gaza. La guerra di Gaza e le dichiarazioni del primo ministro Erdogan hanno creato un'atmosfera molto spiacevole per noi ebrei, soprattutto per i giovani e i bambini» ha detto la donna ebrea di Istanbul. «A scuola e sul lavoro siamo esposti a dure critiche per quello che la nostra gente ha fatto a Gaza. Le inimicizie non provengono solo dai musulmani radicali, ma anche dai laici. Per questo molti di noi stanno pensando di lasciare la Turchia e di fare aliah in Israele.
(israel heute, marzo 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
5. IL PRIMO TRATTATO DI PACE ISRAELO-ARABO
Trent'anni da Camp David
di Elena Lattes
Sono passati 30 anni. Trent'anni senza guerre, che, per una regione come quella calda e turbolenta che è il Medioriente, è qualcosa che può essere in un certo senso considerato straordinario. Il 26 marzo del 1979, infatti, veniva firmato sui prati di Camp David negli Stati uniti, il primo trattato di pace israelo-arabo. Il Presidente egiziano Muhammad Anwar al-Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin (del Likud) si stringevano la mano sotto lo sguardo sorridente di Jimmy Carter (Partito democratico).
Poco più di un anno prima, il 20 novembre 1977, Anwar al-Sadat fu il primo leader arabo ad atterrare all'aeroporto di Ben Gurion e (l'unico finora) a tenere un discorso alla Knesset. Grande emozione suscitò in Israele tanto che uno dei più popolari cantanti israeliani di oggi, David Broza, scrisse una canzone che lo portò poi al successo: "Yihé tov" (Andrà bene), in cui canta: "Ecco, arriva il Presidente dell'Egitto, come sono contento nel riceverlo. Le piramidi negli occhi e la pace nella sua pipa...".
In maniera analoga e contraria il trattato di Camp David venne accolto malissimo nel mondo arabo: l'Egitto fu espulso dalla Lega (e il suo quartier generale si trasferì a Tunisi), per esservi riammesso soltanto 10 anni dopo; 18 Paesi ritirarono i loro ambasciatori dal Cairo; Sadat pagò con la sua vita nel 1981 e ancora oggi viene definito "traditore" dai fondamentalisti islamici e da alcuni nasseriani.
Una pace in cui pochi inizialmente credevano (nei trent'anni precedenti l'Egitto aveva mosso 4 guerre al suo vicino) e che rompeva alcuni schemi (e tuttora sfata alcuni pregiudizi): fu siglata da un ministro di destra, Begin, già esponente di spicco dell'Irgun (considerata da molti come un'organizzazione terroristica) e portò allo smantellamento degli insediamenti israeliani nel Sinai da parte dell'allora generale Sharon (anch'egli demonizzato, considerato dagli antisionisti un terrorista e uno contro la pace). Una dimostrazione, quindi, che quando qualcuno vuole veramente e sinceramente fare la pace con Israele, senza ambiguità di sorta, la ottiene: Israele cedette un territorio che è da solo più grande di quello che ora costituisce lo Stato ma Sadat non volle Gaza (evidentemente già allora si poteva avere un'idea dei problemi che poteva causare e avrebbe infatti causato).
A parte l'assenza di guerre (che è già di per sé notevole), questa è, però, una pace un po' fredda: gli egiziani non vanno per turismo in Israele ("se andate su una spiaggia di Tel Aviv non trovate un egiziano" ha scritto l'Haaretz, citato dal Corriere della Sera), Mubarak non ha mai fatto una visita di Stato oltre confine e ogni tanto scoppia qualche piccolo incidente diplomatico. Questo anniversario, poi, è stato del tutto ignorato nella terra dei Faraoni (mentre si è tenuto un ricevimento al Ministero degli Esteri israeliano e un convegno all'università di Gerusalemme) e fino all'ultimo non si sapeva se l'ambasciatore egiziano in Israele avrebbe partecipato al ricevimento. Inoltre, non sempre gli israeliani sono stati ben accolti in Egitto (a parte alcuni attentati in cui sono stati il principale obiettivo, l'anno scorso alcuni profughi non poterono tornare a visitare la loro terra d'origine "per motivi di sicurezza").
Dall'altra, però, ha portato ad una cooperazione in campo agricolo (Joint Agricultural Committee Egypt-Israel che organizza incontri semestrali, è responsabile di centinaia di progetti al fine di migliorare le conoscenze e le capacità di entrambi i Paesi e che ha prodotto numerosi seminari grazie ai quali molti egiziani hanno potuto conseguire una formazione in Israele), in campo economico, sanitario e perfino militare.
C'è anche un centro culturale israeliano al Cairo e uno omologo a Gerusalemme, ma purtroppo, al momento, poco attivi. Insomma, come ha notato il ministro degli Esteri Tzipi Livni durante il ricevimento, "non c'è dubbio che la cooperazione tra Israele e l'Egitto è più grande delle differenze di posizione" che dividono i due Paesi.
(Agenzia Radicale, 29 marzo 2009)
6. I ROTOLI DEL MAR MORTO SU INTERNET
Solventi e pixel: per i Rotoli. L'ultima chance di salvezza
Un team italiano collabora al restauro dei celebri manoscritti del Mar Morto. L'obiettivo è digitalizzarli e diffonderli sul Web: saranno accessibili dopo 50 anni di polemiche
di Cinzia Di Cianni
Anche l'Italia contribuirà alla salvaguardia dei Rotoli del Mar Morto, una delle più grandi scoperte archeologiche di tutti i tempi. Un'équipe del ministero per i Beni e le Attività Culturali collaborerà con i conservatori israeliani alla revisione dei protocolli di intervento. «La prima fase, quella analitica, è praticamente conclusa - dichiara Alessandro Bianchi dell'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che della missione è il coordinatore tecnico -. Nel 2009 condurremo alcune indagini con gli esperti israeliani per capire se le procedure possano essere migliorate».
Oggi ogni intervento di conservazione e restauro sui preziosi manoscritti segue una rigida procedura, definita 15 anni fa da un team internazionale. «Ma nel tempo sono emersi alcuni problemi che non siamo riusciti a risolvere - ammette Pnina Shor dell'Israel Antiquities Authority, la sovrintendenza archeologica israeliana -. In qualche frammento, per esempio, non si capisce se sia l'inchiostro a danneggiare il supporto, e perché. Quindi abbiamo deciso di rivedere i protocolli».
Rinvenuti tra il 1947 e il 1956 in 11 grotte nella zona di Qumran, sulla riva nord-occidentale del Mar Morto, i manoscritti contengono più di 900 testi in ebraico, ma anche in aramaico e greco, datati fra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. Sono la più antica testimonianza scritta esistente del Vecchio Testamento: comprendono una o più copie dei libri della Bibbia ebraica, escluso il libro di Esther, più numerosi testi non canonici, giunti fino a noi in versioni greche, etiopi, siriane, armene e latine. Fra i reperti che hanno destato maggior curiosità, ci sono le regole comunitarie della setta degli Esseni - di cui, secondo alcuni, avrebbe fatto parte Gesù - e il Rotolo di Rame, che contiene un elenco di 64 luoghi sotterranei che custodirebbero il tesoro del Tempio di Gerusalemme.
I Rotoli non rappresentano solo un'eccezionale sfida culturale e religiosa, ma anche scientifica, visti i problemi posti dalla loro conservazione. A parte alcuni testi, abbastanza integri, la maggior parte di questo fragile patrimonio è disperso in 15 mila frammenti di pergamena e papiro, che presentano differenti livelli di deterioramento. Il clima secco del deserto di Giudea ha custodito per millenni il loro segreto. Ma, una volta estratti dalle grotte, i materiali sono stati danneggiati, talvolta in modo irreparabile, dai cambiamenti di umidità e temperatura, dall'esposizione alla luce e da manipolazioni malaccorte.
Ma oggi bisogna rimediare anche ad altri errori. «I primi a trattare i Rotoli furono gli studiosi. Lo scopo era decifrare i testi - ammette Pnina Shor - e usarono lo scotch per unire i frammenti. Poi li inumidivano e li pressavano tra lastre di vetro. Questo intervento è stato il più dannoso». Aggiunge Bianchi: «Come per molte opere d'arte, oggi anche per i Rotoli l'impegno è quello di rimediare a ciò che è stato fatto».
Nel 1991 le autorità israeliane hanno allestito un magazzino climatizzato, che riproduce le condizioni ambientali delle grotte, e ha creato un laboratorio speciale. «Abbiamo aperto centinaia di lastre - ricorda la Shor - estraendo, quando possibile, i frammenti. Poi copriamo il verso con carta giapponese e lavoriamo sul recto. Poiché i residui di adesivo disintegrano la pergamena, dobbiamo rimuoverli, usando solventi selettivi. Al termine della pulitura rinforziamo i bordi e riempiamo le lacune, quindi collochiamo i frammenti su supporti compatibili, come il cartone non acido». Ogni frammento richiede una procedura diversa e quindi le operazioni sono lente e costose. Purtroppo, il processo di invecchiamento non può essere fermato: la pergamena in qualche caso è gelificata e tanto annerita da non consentire di individuare i caratteri.
Così, qualche mistero rimane: alcuni manoscritti, come il «Genesis Apocryphon Scroll», pur essendo vergati con inchiostro a base di nerofumo, mostrano i segni di corrosione prodotti dal ben più aggressivo inchiostro ferrogallico. Un Rotolo trovato nella grotta 4, risalente alla seconda metà del I secolo a. C., invece, è tra i meglio conservati. Contiene i Dieci Comandamenti che figurano nel Deuteronomio 5. «E' un'emozione incredibile - commenta Pnina Shor - vedere che una copia della Bibbia di duemila anni fa è praticamente identica a quella di oggi».
Per molti anni dopo la scoperta solo un piccolo numero di studiosi ha avuto accesso ai manoscritti, il che ha suscitato malumori e polemiche. Finalmente, nel 2001, la Oxford University Press ha ultimato la pubblicazione della «Discoveries in the Judaean Desert», la raccolta integrale dei testi, a cui hanno contribuito 88 esperti ebrei, cristiani e musulmani. L'opera in 39 volumi ha consentito una più ampia diffusione dei contenuti dei Rotoli, ma il prossimo passo sarà ancora più ambizioso: la digitalizzazione e la diffusione su Internet. Il progetto consentirà a chiunque di studiare i testi, corredati da trascrizioni, traduzioni e interpretazioni.
Nell'agosto scorso è partito il progetto pilota, con la consulenza di Gregory Bearman, ex ricercatore del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, mentre la raccolta dei dati è guidata da Simon Tanner del Kings College di Londra. Sotto la luce di corpi illuminanti che non emettono calore né raggi ultravioletti, i tecnici dell'«Israel Antiquities Authority» hanno già scattato 4 mila foto, ma completare il lavoro è un'impresa titanica. Si utilizza una fotocamera digitale a colori a 39 megapixel, che assicura un'altissima risoluzione, poi una fotocamera a raggi infrarossi e, per alcuni frammenti, una multispettrale, che fa risaltare l'inchiostro, rivelando dettagli invisibili a occhio nudo.
ll progetto, che richiederà cinque anni, costerà qualche milione di dollari, che al momento non sono stati trovati. «I Rotoli sono un patrimonio universale - ricorda Pnina Shor -. Devono essere salvati, a ogni costo».
(La Stampa, 25 marzo 2009)
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