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Notizie su Israele 460 - 14 aprile 2009

1. Antisemitismo redentivo
2. L'incubo di Israele
3. Invito alla fermezza
4. Memoria del passato
5. I Kennedy israeliani
6. Un importante ritrovamento
7. Altri articoli
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 44:21-22. «Ricòrdati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato, tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato. Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.»
1. ANTISEMITISMO REDENTIVO




Obiettivi politici e obiettivo finale

di Marcello Cicchese

Faysal Al-Husseini
Otto anni fa iniziava "Notizie su Israele" nella forma di una "Lettera circolare a persone che possono essere interessate". La prima spinta alla nascita di questo servizio è stata un discorso dell'allora "Ministro palestinese per le questioni su Gerusalemme", Faysal Al-Husseini, che parlando a Beirut, in piena seconda Intifada, davanti a un pubblico di avvocati libanesi, dopo essersi complimentato con gli Hezbollah per la gloriosa vittoria ottenuta con il ritiro delle truppe israeliane dal territorio libanese, spiegava il motivo della "moderata" azione dell'Autorità Palestinese verso Israele, e precisamente verso l'odiato governo Sharon. Qualcuno avrebbe potuto pensare che il semplice fatto che l'Autorità Palestinese continuasse a dialogare con le autorità israeliane significasse una resa a Israele e la rinuncia all'obiettivo primario di una "Palestina che si estende dal fiume al mare". Faysal Al-Husseini, che pochi mesi dopo morirà improvvisamente, nel suo discorso spiegava che bisogna distinguere tra obiettivo politico e obiettivo strategico. Il primo è determinato dal secondo, ed è proprio in quest'ultimo che tutto il popolo palestinese deve riconoscere la sua unità. Nel suo discorso si preoccupava quindi di spiegare perché lui continuava a mantenere aperto il dialogo con il governo Sharon, affinché nessuno credesse che l'Autorità Palestinese aveva rinunciato al suo obiettivo strategico. E per spiegare la cosa usò queste parole:
    «C'è anche una fine differenza che tutti devono ben capire. Io posso essere obbligato a mantenere i contatti con il governo di Sharon per ottenere alcune cose di importanza vitale per il nostro popolo. Ma questo non giustifica il mantenimento di relazioni con israele da parte di altri [stati arabi]. Io mantengo i contatti [con Israele] per porre fine alla relazione. E' cosa ben diversa dalle relazioni che altri stati vogliono mantenere fra di loro.
    C'è differenza tra l'obiettivo strategico del popolo palestinese, che non è pronto a concedere neppure un briciolo del territorio palestinese, e l'obiettivo politico che si vuol ottenere con l'equilibrio delle forze, secondo l'attuale sistema internazionale.
    La prima cosa è diversa dalla seconda. Possiamo vincere o perdere [le singole battaglie], ma i nostri occhi continueranno a puntare l'obiettivo strategico, cioè una Palestina che si estenda dal fiume al mare. Quali che siano le cose che adesso possiamo ottenere, esse non ci faranno dimenticare questa altissima verità.»
Per Faysal Al-Husseini l'obiettivo strategico che accomuna i palestinesi è dunque la scomparsa dello Stato d'Israele per far
posto a una "Palestina che si estenda dal fiume al mare". Gli obiettivi politici intermedi possono invece essere diversi e si ottengono soprattutto attraverso il dialogo condotto nelle dovute sedi internazionali.
Questo modo di procedere non è nuovo. Una persona che l'ha usato magistralmente è Adolf Hitler, che chiamava "visione del mondo" (Weltanschauung in tedesco) il suo obiettivo strategico. Nel suo libro "La Germania nazista e gli Ebrei", Saul Friedländer descrive bene la parte avuta dalla Weltanschauung hitleriana nel tentativo di sterminio degli ebrei:
    "Anche nel clima di incertezza successivo alla sua ascesa al potere, Hitler non perse mai di vista i propri obiettivi ideologici riguardo agli ebrei, come pure agli altri temi che costituivano l'essenza della sua visione del mondo. Benché evitasse di rilasciare dichiarazioni pubbliche sulla questione ebraica, non sempre riuscì a contenersi. Nel discorso conclusivo dell'adunata di partito di Norimberga del settembre 1933, definito (per l'occasione), «Congresso della vittoria», parlando a proposito delle fondamenta razziali dell'arte Hitler si abbandonò a una serie di commenti sprezzanti sugli ebrei: «È un segno dell'orribile decadimento spirituale dell'epoca passata il fatto che si parli di stili senza riconoscerne le sue determinanti razziali .... Ciascuna razza chiaramente delineata appone la propria firma nel libro delle arti, nella misura in cui non è priva, contrariamente agli ebrei, di una qualsiasi capacità artistica creativa». Quanto alla funzione svolta da una visione del mondo, Hitler la definì nel suo discorso:
    «Le visioni del mondo», dichiarò, «considerano l'acquisizione del potere politico una semplice precondizione per poter realizzare la loro vera missione. Nel termine stesso, "visione ad mondo", è insito l'impegno solenne a compiere tutte le imprese basate su una specifica concezione di fondo e su una direzione visibile. Giusta o sbagliata che sia, tale concezione è il punto di partenza che determina l'atteggiamento da tenere nei confronti di tutte le manifestazioni e gli accadimenti della vita, è dunque una regola obbligatoria e imprescindibile per qualsiasi azione».
    In altre parole, la visione del mondo così come definita da Hitler rappresentava un'entità semireligiosa che abbracciava immediati obiettivi politici. Il nazismo non era un discorso meramente ideologico; era una religione politica che esigeva la dedizione totale dovuta ad una fede religiosa.
    La «direzione visibile» che la visione del mondo avrebbe dovuto assumere implicava l'esistenza di «obiettivi finali» che, a dispetto della loro formulazione confusa e generica, si presumeva avrebbero guidato l'elaborazione e realizzazione di piani a breve termine. Prima dell'autunno del 1935 Hitler non lasciò intendere, né in pubblico né in privato, quale potesse essere l'obiettivo finale della sua politica antiebraica. Già molto prima, tuttavia, in qualità di agitatore politico alle prime armi, egli aveva definito l'obiettivo di una sistematica politica antiebraica nel suo primo, famigerato testo politico, la lettera sulla «questione ebraica» del 16 settembre 1919 indirizzata a un certo Adolf Gemlich. Nel breve periodo gli ebrei avrebbero dovuto essere privati dei loro diritti civili: «L'obiettivo finale, tuttavia, dev'essere l'inesorabile eliminazione di tutti gli ebrei»."

- Visione del mondo laica e visione del mondo religiosa
- La differenza tra una visione del mondo laica e una visione del mondo religiosa sta nel fatto che nella prima la religione si svolge nel quadro della politica, mentre nella seconda la politica si svolge nel quadro della religione. Nella visione laica si parla di religione e si agisce con la politica. Nella visione religiosa si parla di politica e si agisce con la religione. Di qui discende una differenza sostanziale nel modo di considerare le parole, cioè il dialogo tra due parti contrapposte.
    Se, come sostiene Friedländer, «il nazismo [...] era una religione politica che esigeva la dedizione totale dovuta ad una fede religiosa», si capisce che cosa voleva intendere Hitler quando dice: «Le visioni del mondo considerano l'acquisizione del potere politico una semplice precondizione per poter realizzare la loro vera missione». La stessa convinzione muove l'Islam radicale, da Ahmadinejad a Hezbollah, dai talebani a Hamas.
    I laici occidentali considerano la politica, soprattutto quando è espressa in forma democratica, il quadro naturale in cui i problemi devono essere trattati, e quindi sono soddisfatti quando vedono gli avversari sedere al tavolo delle trattative, perché ritengono questo semplice fatto un trionfo della politica sulle uggiose fantasie religiose dei contendenti. Il loro obiettivo finale è il raggiungimento di un equilibrio politico che mantenga la pace. Ai religiosi invece, del raggiungimento dell'equilibrio politico non interessa assolutamente niente. A loro interessa il compimento della missione universale che li muove, e giudicano buono o cattivo il dialogo a seconda della velocità positiva o negativa con cui li aiuta ad avvicinarsi all'obiettivo finale.
    Stranamente, in ogni progetto di redenzione universale del mondo prima o poi compaiono gli ebrei. E stranamente, sempre agli occhi dei redentori gli ebrei si presentano come un ostacolo. Non ce l'hanno con gli ebrei in quanto tali - dicono - ma con l'impedimento che rappresentano in quel particolare momento e in quella particolare situazione per il progetto redentivo. Tolto l'impedimento, gli ebrei potrebbero rimanere. Solo che prima o poi i redentori si convincono che l'ostacolo al compimento del progetto di redenzione universale sta nel fatto che gli ebrei ci sono. Quindi, per togliere l'impedimento non resta che togliere gli ebrei. E' quello che Friedländer chiama "antisemitismo redentivo". Niente a che vedere con i pogrom, con gli scoppi di rabbia popolare antiebraica, con le svastiche nei cimiteri ebraici e neppure con gli insulti del tipo "sporco ebreo". Il progetto redentivo universale persegue la creazione di un uomo nuovo in una società nuova e richiede, per il bene di tutti, e se lo capiscono anche delle persone di provenienza ebraica, che non si parli più di ebrei. Se loro insistono a denominarsi tali, se non vogliono rinunciare al loro nome e a quel che significa, devono rassegnarsi a sparire. In un modo o nell'altro.
    Si dirà che nessuno oggi dichiara di volere lo sterminio fisico degli ebrei, ma ciò non toglie che prima o poi questo potrebbe presentarsi come un'assoluta necessità, anche contro la volontà di molti, per il perseguimento dell'obiettivo finale di una certa visione religiosa del mondo.
    Il perseguimento dell'obiettivo finale della visione del mondo islamica richiede la sparizione dello stato ebraico. Gli ebrei possono rimanere, ma non possono rivendicare una terra e uno stato per loro. E se insistono? Allora sono guai.

- Tre visioni del mondo religiose
- Ci sono oggi tre visioni religiose del mondo che gareggiano per la supremazia: quella cattolica, quella islamica e quella onuista (dell'Onu).
    La prima visione, quella cattolica, è in fase regressiva. Il continuo agitarsi del papa per segnalare ovunque la sua presenza fa capire che si trova all'inseguimento. Continuerà a far sentire la sua voce, forse con toni sempre più alti, ma sta perdendo sempre di più influenza sui fatti politici che contano.
    La seconda visione, quella islamica, è in fase aggressiva. "L'Islam dominerà il mondo", sta scritto su certi cartelli agitati da radicali islamici. Non è il caso di scandalizzarsi: è una scritta che onestamente esprime l'obiettivo finale della visione religiosa dell'Islam: dominare il mondo. E non soltanto con la spiritualità e la cultura, ma anche con la spada, se necessario. Per ottenere una pace stabile con l'Islam è sufficiente lasciare che esso domini il mondo in tutto e per tutto. Dov'è il problema?
    La terza visione, quella onuista, è in fase espansiva. L'onuismo sta assumendo sempre di più i caratteri di una visione religiosa del mondo, in cui la spiritualità personale degli adepti si manifesta in liturgiche cerimonie pacifiste, con bandiere, inni e atti simbolici. Naturalmente oggi non tutti i pacifisti vedono nell'Onu il loro Vaticano, ma esso è destinato ad avere sempre più importanza e ad assumere la funzione di strumento istituzionale della religione onuista per il conseguimento della pace mondiale.
    Tutte e tre le visioni religiose del mondo hanno visto, o vedono, o vedranno nell'esistenza del popolo ebraico un fastidioso ostacolo al compimento della loro missione universale. La prima l'ha visto nel passato, la seconda lo vede nel presente, la terza lo vedrà nel futuro. Per la prima la pietra d'intoppo è stata il Regno messianico; per la seconda è la terra; per la terza sarà la "pace".

- Qual è per Israele il pericolo maggiore?
- Nel momento attuale sembra che il pericolo maggiore per Israele sia costituito dall'Islam, che nella sua visione del mondo non può tollerare che una terra considerata islamica come la Palestina rimanga sotto il governo degli ebrei. Ma probabilmente non sarà l'Islam a costituire il vero pericolo per Israele. Tutto fa pensare che l'Islam non riuscirà a vincere la guerra e Israele non riuscirà a ottenere la pace. Lo stato di continua belligeranza farà crescere nel mondo il desiderio di una pace stabile e porterà adepti all'onuismo pacifista.
    L'obiettivo finale delle "nazioni unite", perseguito nel nome di un progetto di pace universale, sarà la distruzione di Israele. Ma fallirà, come sono falliti tutti i precedenti tentativi.
    Per il seguito si consiglia di leggere la Bibbia.

(Notizie su Israele, 14 aprile 2009)





2. L'INCUBO DI ISRAELE




L'incubo di Israele? L'atomica iraniana

di Stefania Vitulli

Aharon Appelfeld, grande intellettuale ebraico, racconta cosa vuol dire vivere in uno Stato sotto un assedio perenne: "Siamo gli ultimi europei che resistono in Medio oriente e un miliardo di arabi vuole solo distruggerci".

Aharon Appelfeld
Ha gli occhi smisurati dei volti dei disegni, una coppola sempre in testa, veste di nero, di buon taglio. Lo sguardo guizza, il gesto è scattante e preciso. Soltanto la parola si fa attendere. Aharon Appelfeld parla con l'inquietante lentezza di chi ha vissuto troppo ghetto, troppo campo e troppa guerra: «E chi era sano di mente non parlava». Dopo essere scampato all'Olocausto, dopo aver vissuto oltre mezzo secolo in uno degli stati più pericolosi al mondo, lo scrittore israeliano più amato da Philip Roth ha raggiunto la lungimiranza senza rassegnazione: «Perché così tante persone ci odiano?», mi ha detto in altre interviste. Oggi è particolarmente inquieto. È in Italia per presentare la sua lectio magistralis La memoria e la parola al Centro culturale di Milano e il suo romanzo Paesaggio con bambina (Guanda, pagg. 148, euro 14). Ha appena letto i quotidiani: «Ha visto i giornali?», mi dice. «L'Iran ce l'ha praticamente fatta. Ha la bomba». Il presente è amaro. Forse ha deciso di parlare di memoria, a Milano, perché ricordare cura. «È la memoria che amplia i nostri orizzonti. Ci permette di pensare che non tutto è perduto».

- Per un ebreo ha una funzione diversa?
- «Siamo una nazione antica. Per noi la memoria è cruciale. Basta sapere come e che cosa ricordare. Gli ebrei spesso non ricordano la storia, ma quanto succede loro personalmente e nella "tribù". Accade perché non sono mai stati amati. Così è diventato l'amore il centro del loro pensiero: ama la tua famiglia. Ama il tuo prossimo. Ma non amare il tuo nemico».

- Qual è il peso dell'identità e della memoria nelle nuove generazioni di ebrei israeliani?
- «Dopo l'Olocausto gli ebrei della diaspora hanno voluto sfuggire al proprio destino, diventare indifferenti alla propria storia, Hanno cercato di assimilarsi o si sono convertiti al cristianesimo. Sento che gli ebrei europei e americani scompariranno in futuro: nessuno di loro riesce ad immaginarsi vittima di un orrore come quello della Shoah. Ma per Israele è diverso. Lì ci sono sei milioni di ebrei, sono tutti ebrei. Alcuni vogliono pensare al passato, altri non vogliono sulle spalle il fardello di milioni di arsi vivi. L'essere ebreo oggi è una questione complessa, che comprende anche sentimenti contraddittori».

- Come quelli che regolano il conflitto israelo-palestinese?
- «La questione ebraica in Palestina è una questione essenzialmente europea. Oggi un ebreo su due che vive in Israele è un sopravvissuto o figlio di sopravvissuti alla Shoah. Ebrei che non avevano un posto dove stare, tornati nelle loro case avite. Ebrei odiati in Europa, sterminati in Europa. La tragedia è che gli ebrei risultano dunque gli ultimi europei che vivano in Medio Oriente».

- Sta dicendo che gli arabi vi odiano in quanto europei?
- «Per i nostri vicini siamo gli ultimi imperialisti. Per questo vogliono che torniamo in Europa, dove siamo vissuti per duemila anni e a cui secondo loro ormai apparteniamo».

- Con quali effetti psicologici e sociologici?
- «Notevoli. Tsili, la piccola protagonista di Paesaggio con bambina, è una nomade psicologica. E il nomadismo è parte integrante della storia ebraica. Ma attenzione: In Israele si parlano 75 lingue diverse. La vicenda è universale».

- Allora come mai tutti questi malintesi quando si parla di ebrei?
- «Troppi pregiudizi. Troppe etichette. Anche da parte degli intellettuali. E invece sa che cosa distingue un ignorante da un intelligente? I fatti. Le persone intelligenti nell'affrontare la questione israeliana partono da una conoscenza diretta, dalla visione delle sfumature. In Europa invece si semplifica: gli ebrei? Prima vivevano qui. Dopo lo sterminio sono andati là perché sono stati espulsi. E adesso stanno facendo ai palestinesi quello che è stato fatto loro».

- E invece?
- «È tutto falso. Non ci sono campi di concentramento in Israele. Non siamo angeli, ma nemmeno diversi da altri Stati. La mia non è un'apologia: Israele ha un esercito, sono in corso dei conflitti. Ma ci sono brave persone e cattive, come dappertutto».

- Nel romanzo «Badenheim, 1939» lei descrive la serenità che precede la tragedia. Lei in Israele si sente in consapevole pericolo? O il peggio è passato con la Shoah?
- «Siamo circondati da oltre 200 milioni di arabi che non vogliono accettarci come vicini. E che sono attrezzati con armi moderne. In aggiunta, ci sono gli iraniani. E poi gli altri paesi musulmani, che dichiarano un giorno sì e uno no di volerci annientare e stanno mettendo in piedi un arsenale nucleare. Quindi: un miliardo di musulmani pensano alla distruzione di Israele e non la mettono in atto solo perché Israele è dotato di armi nucleari e loro no. Ma presto le avranno. Ogni bambino israeliano che veda la televisione si chiede: "Dove si trova la bomba e quando ce la lanceranno addosso?"».

- Costante paura.
- Non possiamo andare in Siria, né in Giordania, e nemmeno in Egitto, perché nonostante il trattato di pace, l'odio laggiù serpeggia. Dopo la paura dell'Europa, la paura del Medio Oriente. Possiamo solo sperare che non accada qualcosa di così terribile come l'Olocausto».

- Avrei finito le domande, ma dispiace chiudere su questa nota tragica.
- «Ascolti: ogni volta che vado a Roma e guardo l'Arco di Tito, mi viene in mente che molti imperi hanno combattuto gli ebrei. I romani, I persiani. I greci. E siamo ancora vivi. Ed erano imperi, mentre noi non lo siamo mai stati. Ce la faremo, anche questa volta».

(il Giornale, 3 marzo 2009)





3. INVITO ALLA FERMEZZA




Il brillante debutto di Avigdor Lieberman

di Daniel Pipes

Avigdor Lieberman
Ieri [1 aprile 2009] Avigdor Lieberman è diventato ministro degli Esteri di Israele e ha festeggiato il suo insediamento con un discorso inaugurale che a detta dei media ha lasciato il pubblico accigliato, imbarazzato e stupefatto. La BBC, ad esempio, ci informa sul fatto che le sue parole hanno spinto "il suo predecessore Tzipi Livni a interromperlo e i diplomatici a sentirsi a disagio e a muoversi con imbarazzo".
Peggio per loro, il discorso mi ha lasciato esultante. Qui di seguito, alcuni degli argomenti trattati da Lieberman nel suo entusiasmante discorso di 1.100 parole.

L'ordine mondiale. L'ordine internazionale di Westfalia è morto, rimpiazzato da un moderno sistema che include stati, semi-stati ed irrazionali attori internazionali (p.es. Al-Qaeda, forse l'Iran).

Priorità mondiali. Queste devono cambiare. Il mondo libero deve focalizzare la propria attenzione sulla sconfitta di paesi, forze ed entità estremiste "che cercano di violarlo". I veri problemi arrivano "dal Pakistan, dall'Afghanistan, dall'Iran e dell'Iraq - e non dal conflitto israelo-palestinese".

Egitto. Lieberman elogia il Cairo in quanto "fattore di stabilità nella regione e probabilmente perfino oltre", ma annuncia al governo Mubarak che si recherà in visita in Egitto solo se la sua controparte si recherà a Gerusalemme.

Ripetere la parola 'pace'. Lieberman denigra i precedenti governi israeliani: "Il fatto che noi ripetiamo la parola 'pace' venti volte al giorno non renderà la pace più vicina".

L'onere della pace. "Apprezzo tutte le proposte fatte in modo così generoso da Ehud Olmert, ma non vedo alcun risultato". Adesso, le cose sono cambiate: "anche l'altra parte si assume la responsabilità" per la pace e deve dare il proprio contributo.

La Road Map. La notizia più sorprendente del discorso consiste nell'attenzione riservata da Lieberman alla Road Map e nell'approvazione di questo piano, un'iniziativa diplomatica del 2003 cui egli ha votato contro all'epoca, ma che è, come egli dice, "l'unico documento approvato dal Gabinetto [israeliano] e dal Consiglio di Sicurezza". Egli la definisce "una risoluzione vincolante" che il nuovo governo deve implementare. Al contrario, Lieberman osserva in modo specifico che il governo non è legato dall'accordo siglato ad Annapolis nel 2007 ("Né il Gabinetto né la Knesset lo hanno mai ratificato").

Attuare la Road Map. Lieberman intende "agire esattamente" in assoluto accordo alla Road Map, inclusi i suoi sotto-documenti Tenet e Zinni. Poi segue una delle due dichiarazioni principali del discorso:

Non accetterò mai di rinunciare a tutte le clausole - credo ce ne siano 48 - e di andare direttamente alla clausola finale, ai negoziati su un accordo permanente. No. Queste concessioni non ottengono nulla. Ci atterremo rigorosamente ad esse. Clausola uno, due, tre, quattro - smantellare le organizzazioni terroristiche, creare un efficace governo, effettuare un profondo cambiamento costituzionale in seno all'Autorità palestinese. Procederemo esattamente in accordo alle clausole. Siamo inoltre obbligati a mettere in atto ciò che ci è richiesto in ogni clausola, e così anche per l'altra parte. Essi devono attuare in toto il documento.

L'errore di fare concessioni. Lieberman rimarca "le sensazionali misure e le proposte di vasta portata" dei governi Sharon e Olmert e poi conclude dicendo: "Ma non mi pare che [esse] hanno portato alla pace. Al contrario (…) È proprio quando abbiamo fatto ogni concessione" che Israele è diventato più isolato, come alla Conferenza di Durban nel 2001. Poi segue l'altra sua dichiarazione basilare:

Stiamo inoltre perdendo quotidianamente terreno nell'opinione pubblica. Qualcuno pensa che le concessioni, come pure l'affermare costantemente: "Sono pronto a concedere", nonché l'utilizzo della parola 'pace', porteranno a qualcosa? No, provocheranno solamente tensioni, e cagioneranno sempre più guerre. "Si vis pacem, para bellum" - se vuoi la pace, preparati alla guerra, sii forte.

La forza israeliana. Lieberman conclude il suo discorso con un entusiasmante invito alla fermezza: "Quando Israele è stato più forte che mai in termini di opinione pubblica nel mondo? Dopo la vittoria della Guerra dei Sei giorni, non dopo tutte le concessioni previste dagli Accordi di Oslo I, II, III e IV".

Commenti di Daniel Pipes:

(1) Ho avuto delle riserve nei confronti di Lieberman, e ce l'ho ancora, ma con questo discorso è partito bene. Ha annunciato che "Israele è di nuovo al suo posto".
(2) Visto che la denominazione ufficiale della Road Map è "Una Road Map a base esecutiva per una soluzione permanente con due Stati del conflitto arabo-israeliano", confesso di essere sconcertato dai pezzi giornalistici (come quello intitolato dal Los Angeles Times "Foreign minister says Israel not bound to follow two-state path") che dichiarano che Lieberman ha proclamato la fine della soluzione a due Stati.
(3) C'è molta ironia nel fatto che adesso Lieberman sia il paladino della Road Map, un'iniziativa che lui e molti altri hanno condannato all'epoca. Per un'autorevole disamina delle sue origini, delle pecche e delle implicazioni si veda l'analisi di Daniel Mandel "Four-Part Disharmony: The Quartet Maps Peace".

(FrontPageMagazine.com, 2 aprile 2009 - dall'archivio di Daniel Pipes)



4. MEMORIA DEL PASSATO




La mia vita con il Talmud

di Nathan Englander

Nathan Englander
La mia vita ormai sta sotto il segno del Talmud. Un amico, conoscendo la mia educazione religiosa, mi ha convinto a intraprendere una nuova traduzione della Haggadah, la storia dell'Esodo raccontata a uso delle famiglie ebraiche, che viene letta ad alta voce in occasione della cena di Pesach.
Non mi sono lasciato convincere facilmente. Da parecchio tempo sono radicalmente e orgogliosamente laico. Ho però una caratteristica in comune coi miei familiari, tutti profondamente osservanti: lo zelo estremo nell'adempimento di qualunque impegno, una volta preso. «Nata per essere ascetica» è il motto che mia madre si sarebbe fatta tatuare sulla schiena, se fosse stata un tipo da tatuaggi.
    Lo zelo di mia sorella si esplica in particolare nelle grandi pulizie di Pesach. Durante la settimana santa è obbligatorio rimuovere ogni minima traccia di hametz (termine che sostanzialmente indica tutti i prodotti contenenti lievito). E per lei (con una nidiata di cinque bimbi) questo vuol dire raschiare ogni angolo a oltranza e sterilizzare la cucina a un livello da sala operatoria, pronta per un intervento chirurgico al cervello, o per una matzo-ballsoup (brodo con polpettine caratteristiche della cucina ebraica, ndt) a prova di certificato kosher. Se si volesse pulire di più, il grado successivo potrebbe essere uno solo: dar fuoco alla casa. Nel mio caso, il perfezionismo ossessivo ha trasformato un lavoro che nei miei piani doveva essere breve, veloce e divertente in qualcosa di assai diverso: testi religiosi ammucchiati in tutta la casa, infinite consultazioni con un ricercatore sulla scelta di ogni singola parola e un numero infinito di ore di lavoro a testa bassa. E intanto un altro anno se n'è andato.
    Al di là dei celebri testi medievali - il manoscritto miniato di Sarajevo, la Haggadah degli uccelli tedesca - ne esistono molte altre versioni, adatte a ogni tipo di Seder: femminista, vegetariana, perexalcolisti o per le forze armate Usa, neutra sul piano del genere (come la liturgia di Santa Cruz, ove il nome di Dio non compare mai), e persino una FaceBook Haggadah, che alla fine minaccia una "twitter version" per il prossimo anno (controllate voi stessi su Google).
    La Haggadah ci invita a osare e ad apprendere, ma quando si tratta di scegliere una liturgia io non vado molto lontano. Ho finito per scoprire che non c'è tradizionalista più accanito di un ebreo reietto: ho avuto un moto di autentico orrore scoprendo in quello che avevo scelto come testo guida l'assenza di un antico gioco di parole ebraico (tranquilli, ho provveduto a colmare la lacuna).
    Mentre ero immerso nelle mie elucubrazioni, intento a ponderare ardue scelte di prosa biblica, ho sperimentato a volte, come dolce effetto secondario, l'inatteso emergere dei ricordi. Ad esempio, alla vigilia della festa, la rituale ricerca del hametz: io bambino accanto a mio padre, nella cantina buia, a raccogliere al lume di candela ogni più piccola briciola lasciata cadere sulla mia strada.
    Ricordo anche gli anni in cui Pesach coincideva con la Pasqua, e mi rivedo sulla via della sinagoga con in testa lo yarmoulke e indosso il mio minuscolo completo, mentre salutavo con gesti gioiosi il coniglietto di Pasqua in cima al camion dei vigili del fuoco volontari. Ridevamo tutti, mia sorella, mio padre ed io; e anche il pompiere era scoppiato a ridere.
    La dolcezza di quell'incontro non è perduta: la festa di Pesach e il coniglietto pasquale, il vigile del fuoco con la sua uniforme e io con la mia. Una città è fatta anche di queste cose: cerimonie rituali diverse che si riconoscono a vicenda. A casa nostra ne avevamo tanti, di rituali. Ricordo come alle interminabili cene del Seder si rubava e si nascondeva l'Afikoman (la mezza azzima nascosta sotto al tavolo e distribuita ai commensali al termine del pasto ndr) - una tradizione che doveva servire a tenere svegli i più piccini. E tutti i preparativi della cena, il mortaio e il pestello d'ottone, la cucina satura di vapore, e poi i piatti - il servizio di porcellana della trisnonna che si usava solo due volte all'anno da oltre un secolo. il vino messo a decantare nelle caraffe, il sale servito in coppette di filigrana d'argento. Non che fossimo gente sofisticata - normalmente le nostre stoviglie erano semplici CorningWare bianche. Ma quelle due serate di evocazione del tempo della schiavitù si celebravano come fossimo re, coi poveri seduti accanto ai principi pronti a inchinarsi.
    Ricordo le erbe amare intinte nella salsa di rafano, e mi sembra ancora di vedere i volti accesi degli adulti. Le uova servite in acqua salata (una tradizione di famiglia). Il vino dolce. E il ragazzino che ero allora finito brillo sotto la tavola - non un ricordo, questo, ma un episodio che riferisco per sentito dire.
    Uno strano pensiero mi era venuto in mente l'anno in cui morì mio padre: dei commensali di quelle cene nessuno, tranne mia sorella, mia madre e me, era ancora in vita. Le feste di Pesach si fondono oggi tutte quante nella mia memoria, nel ricordo affettuoso dei parenti scomparsi da tempo.
    Ma il più vivido dei miei ricordi è quello della lettura della Haggadah - quelle stesse parole, quei ritmi che mi sono impegnato a rendere nella mia traduzione: «Se i canti ci colmassero la bocca come il mare, scorrendo come innumerevoli onde, se le lodi ci sgorgassero dalle labbra vaste come i cieli, dagli occhi splendenti come lune e soli, dalle mani aperte come aquile del cielo e i nostri piedi corressero agili come cerbiatti poco sarebbe ancora per ringraziarTi, Dio e Signore nostro».
    Studiando questo racconto costruito sulla memoria del passato ho scoperto fino a che punto sia al tempo stesso rivolto al futuro. Stiamo vivendo momenti di grande incertezza. Il sogno del ritorno a Sion, quando «le nostre labbra traboccheranno di risa e di canti gioiosi», ci condurrà in un Paese di muri e di guerre.E' bello allora prendere congedo da questa traduzione sentendo che la Hagaddah guarda a una promessa, non meno che alla rievocazione di un salvataggio. Come dicono gli ultimi versi del salmo sopra citato: "Per chi ha seminato tra le lacrime maturerà la gioia. Nel pianto cammina chi porta il sacco delle sementi. Ma ecco arrivare colui che viene nella gioia e porta con sé le messi».

(La Repubblica, 10 aprile 2009 - trad. Elisabetta Horvat, New York Times)





5. I KENNEDY ISRAELIANI




Con rabbia implacabile

di Giulio Meotti

Il padre di Bibi Netanyahu ha ancora consigli su come governare Israele. In confronto il figlio è una colomba. Epopea di un grande storico dell'Inquisizione.

Ben Zion Netanyahu
A Tel Aviv e a Gerusalemme si parla di loro come "i Kennedy israeliani". Per capire il nuovo primo ministro Benjamin "Bibi" Netanyahu bisogna guardare al suo vecchissimo e ancora durissimo padre, il celebre medievista Ben Zion, che nella storica casa del quartiere di Katamon, una zona modesta di Gerusalemme dove la famiglia vive da più di mezzo secolo, seguita a scrivere libri di storia sulle infinite persecuzioni degli ebrei. Anche dieci anni fa, quando il figlio fu eletto per la prima volta primo ministro, il professor Netanyahu rilasciò un'intervista ai giornali israeliani. E scoppiò un putiferio. "Dopo la guerra dei Sei giorni avremmo dovuto annettere i territori e portarci milioni di ebrei. Dovremmo ispirarci alla Reconquista spagnola, che non esitò a liberare Granada dall'oppressione musulmana. Capirono che avevano due alternative: conquistare territori o essere in uno stato di guerra permanente".

Fu Ben Zion a consigliare a Bibi di rigettare gli accordi di Oslo, in quanto "tradimento della sinistra laburista". Israele oggi si domanda quale influenza il venerando professore possa esercitare sul secondo mandato del figlio. Stavolta l'intervista l'ha rilasciata al Maariv. Il figlio non è riuscito a rimandarne l'uscita. A confronto con Ben Zion, il premier sembra un pacifista. Padre e figlio vengono da mondi opposti, il primo è nato a Varsavia cento anni fa mentre il secondo è venuto al mondo a Tel Aviv due anni dopo la nascita di Israele, fa parte della generazione della guerra del 1967, moderna, americanizzata, meno legata allo shtetl dell'est Europa e all'Olocausto. Se il padre è un purista ideologico, un ammiratore di Baruch Spinoza e un oppositore nato che vive di risentimenti, Bibi è un falco pragmatico geniale nel marketing politico. Ma non è possibile capire l'uomo e le idee del premier senza l'epopea sconosciuta al pubblico del padre professore, il più grande studioso mondiale d'Inquisizione spagnola. E' da lì che viene la tenacia, la perseveranza e il senso dell'outsider comune ai due, e poi la forza, l'ambizione e l'idealismo. Il patriarca delle prime battaglie sioniste instillò in tutti i suoi figli una viscerale identificazione con il miracolo della sopravvivenza ebraica.

Quest'anno compirà cent'anni, ma il professor Netanyahu è ancora lucidissimo, sta partendo per un nuovo tour accademico negli Stati Uniti, sua patria d'adozione. Quest'istrione irascibile è l'ultimo dinosauro della dottrina del "muro di ferro": solo quando i palestinesi riconosceranno di non poter vincere una guerra che li ha visti già vinti, forse si apriranno gli spiragli di un accordo fra le parti. "Gli ebrei e gli arabi sono come due capre che si fronteggiano su un ponte ristretto - ha detto al quotidiano Maariv - La capra più forte farà saltare quella più debole e credo che la potenza ebraica prevarrà".
Il professore non crede al processo di pace. "Gli arabi non vogliono la pace, subiremo altri attacchi da loro e dovremo reagire in modo fermo. L'operazione Piombo fuso non è stata abbastanza dura". Secondo Netanyahu, "la tendenza al conflitto è nella natura degli arabi, la loro personalità non gli consente compromesso o accordo, la loro esistenza è una guerra perpetua". Rifiuta l'idea di due stati per due popoli. "Non ci sono due popoli, ma il popolo ebraico e una popolazione araba, si fanno chiamare palestinesi soltanto per combattere gli ebrei". E la soluzione? "La forza, il dominio militare, questo porterà a una guerra sanguinosa perché la guerra è difficile per noi dal momento che non abbiamo tanta terra, mentre gli arabi possono ritirarsi finché vogliono. Ma è l'unico modo per sopravvivere qui". Parla della sinistra oggi alleata di governo con il figlio. "Il problema con la sinistra è che pensa che questa guerra con gli arabi sia come ogni altra guerra. Le guerre finiscono in compromesso, ma nel caso degli arabi la loro natura e carattere non consentono accordo".

Netanyahu e il ministro degli Esteri Lieberman sarebbero disposti a trattare con la Siria. "Non restituirei il Golan, lo abbiamo conquistato perché gli arabi ci sparavano addosso da quelle montagne e uccidevano i nostri contadini. Non si dà via la terra conquistata in battaglia e per cui è scorso del sangue". Ben Zion Netanyahu non si fida neppure degli arabi israeliani. "Tranne che una piccola minoranza, la maggioranza degli arabi israeliani sceglierebbe di sterminarci se potesse". Infine parla del figlio. "Bibi è sotto certi aspetti un grande uomo, è leale al suo popolo e ha senso di responsabilità. Anche se non sempre condividiamo le stesse idee". Lui, il padre professore, continua a credere nel climax novecentesco che, partendo dall'eziologia del malessere ebraico, espone la diagnosi terapeutica revisionista di cui fu fra i fondatori.
La fonte principale per questa grande storia è il volume in ebraico scritto da uno zio di Bibi, Saadya, dal titolo "The Saga of the Netanyahu Family". La famiglia ha radici lituane, legata al Gaon di Vilna, il leader del mondo ebraico anti chassidico del Settecento e uno dei più importanti rabbini di tutti i tempi. Il capostipite della famiglia che mise per primo piede in Israele nel 1920 fu Nathan Mileikowsky, così si chiamava prima che gli eredi cambiassero il nome in Netanyahu, che in ebraico significa "il dono di Dio". E' stato proprio Bibi ad adottarlo quando faceva l'università negli Stati Uniti. A quel tempo si firmava "Ben Nitay", lo stesso pseudonimo usato dal padre per scrivere sui giornali revisionisti dell'epoca in Palestina.

Ben Zion è nato a Varsavia nel 1909 da uno scrittore militante sionista della prima generazione che appena arrivò in Israele iniziò ad allevare polli. Ben-Zion è un ragazzo talentuoso e va a studiare con Joseph Klausner, il grande pioniere degli studi ebraici su Gesù, l'amico di Theodor Herzl nonché il prozio dello scrittore di sinistra Amos Oz.
Ben Zion sarà per tutta la vita legato e ossessionato da Vladimir Jabotinsky, di cui fu intimo segretario personale e che soltanto dopo sessant'anni sarebbe diventato la figura più popolare in Israele dopo esserne stato il demone nero che non meritava neppure l'eterno riposo nella terra che tanto amava. E questa ossessione è passata al figlio. Ancora lo scorso agosto, Bibi ha denunciato la rimozione della figura di Jabotinsky dai curriculum scolastici. Per far posto ai rifugiati palestinesi.

Ben Zion si innamorò del "lupo solitario" padre della destra israeliana che ordinava ai suoi seguaci di strappare la bandiera nazista dal consolato tedesco a Gerusalemme. Ben Zion e Jabotinsky si nutrivano dei grandi poeti italiani, erano imbevuti di cultura europea, di Nietzsche e Oscar Wilde, i libri in molte lingue erano ammassati sulla sua piccola scrivania. Accanto c'erano rotoli di carta su cui scrivevano dei feuilletons. A quelle riunioni partecipava spesso anche Eitan Livni, il padre di Tzipi ex ministro degli Esteri. Poeta, romanziere, giornalista, soldato, visionario e statista, Jabotinsky aveva l'aria del filologo in fuga dalla persecuzione, era un concentrato di onore estremo e tristezza apolide. Rivoluzionario morto a New York nel 1940 dopo un'esistenza di sconfitte, Jabotinsky portò con sé a New York il giovane storico Netanyahu. Il 19 marzo di quell'anno parlò al Manhattan Center davanti a quattromila persone. C'era anche Ben Zion. Nessun organo di stampa laburista darà la notizia della sua morte e Ben Gurion si oppose finché fu vivo al trasporto delle sue ceneri in Israele. Sarà proprio il ritorno delle spoglie a Gerusalemme il gesto con il quale il successore di Ben Gurion, Levi Eshkol, avviò la pacificazione fra destra e sinistra. Ma per Ben Zion e figli, l'affronto non fu mai digerito.

In una lettera dell'ottobre 1915, Jabotinsky chiarì il progetto futuro della destra israeliana di Netanyahu: critica di ogni posizione opportunistica; postulato della pressione morale; necessità di un'autodifesa senza tregua; realismo politico inteso come capacità di adattare repentinamente i mezzi tattici in vista degli obiettivi strategici. Durante gli anni Quaranta, Ben Zion Netanyahu, sempre più orgoglioso e cosciente del nazionalismo ebraico, fu uno dei pochissimi leader sionisti a denunciare l'Olocausto degli ebrei europei, ne perorò la causa al Congresso americano mentre faceva anche il ricercatore di storia al Dropsie College di Philadelphia. Ben Zion cercò disperatamente di inculcare negli americani l'idea di una partecipazione del giudaismo alla causa antinazista. Per tutta la vita sarà perseguitato dal sospetto di aver fatto parte del gruppo "fascista" che uccise Chaim Arlosoroff. Lo yishuv rimase profondamente colpito per l'omicidio del giovane intellettuale laburista. Fu il giallo per eccellenza della Palestina mandataria. La polizia britannica arrestò un giovane betarista polacco, mentre Achi Meir, autore di un vademecum sul terrorismo politico ("Rotolo dei sicari") reperito nella camera del presunto assassino del capo laburista, fu accusato di istigazione al terrorismo individuale. Meir era amico e sodale di Netanyahu nella "Banda degli zeloti".

Ben Zion tornò in Israele nel 1949, ma l'ostracismo della sinistra nei suoi confronti era tale che non riuscì a trovare un'adeguata posizione accademica. E' questa l'origine del suo risentimento. Fu Klausner a volerlo nella redazione dell'Enciclopedia Judaica. Intanto gli zii di Bibi cercavano fortuna in Florida e nell'industria americana dell'acciaio. Lo studio del professore divenne come un santuario per Bibi, Yoni e Ido. "Il padre ha avuto una grande influenza su Bibi" dice Gabriel Sheffer, collega di Ben Zion alla Cornell University. "Il suo lavoro è incentrato sulla storica inimicizia fra ebrei e arabi e sul fatto che non può essere superato e deve esserci un 'muro di ferro', per usare un'espressione di Jabotinsky". Le idee di Ben Zion passeranno al Bibi teorico dello scontro di civiltà, "la civiltà democratica occidentale di cui Israele è parte e la civiltà arabo islamica. Se Israele diventa debole e vulnerabile, anche la pace è debole e vulnerabile".
Dei suoi tre figli, Ben Zion amava più di tutti Yonathan e dopo la morte ne amministrerà il culto. Il 4 luglio di trentatre anni fa un commando di teste di cuoio israeliane fu protagonista di un clamoroso blitz a migliaia di chilometri di distanza da casa. Un'operazione in Uganda per liberare un centinaio di passeggeri ebrei di un jet della Air France dirottato da terroristi palestinesi. Il reparto è guidato da Joni Netanyahu, il fratello del premier, e da Muki Betzer, icona delle teste di cuoio. L'attacco si conclude con un successo e poche vittime. Tra loro Yoni. Benjamin era legatissimo al fratello. Entrambi facevano parte delle forze d'élite Sayeret Maktal specializzate nelle operazioni più a rischio. Insieme nel 1972 avevano partecipato a un'altra operazione di salvataggio degli ostaggi di un aereo, sequestrato all'aeroporto di Tel Aviv. Yoni era più grande di soli tre anni ed era il suo miglior amico negli anni della gioventù trascorsi negli Stati Uniti. Lì Bibi si trasferì ancora quattordicenne e ci tornò, dopo cinque anni di servizio militare in Israele, per laurearsi in architettura e in gestione aziendale. "Yoni si è battuto ed è morto per il popolo ebraico, ma la sua battaglia aveva orizzonti più ampi, una battaglia che dall'inizio della Storia ha contrapposto le forze delle tenebre a quelle dei lumi", si legge in un libro dell'attuale primo ministro. Sembra di leggere il padre.

Si intitola "Le Origini dell'Inquisizione" il capolavoro scandaloso che il professor Netanyahu ha pubblicato negli Stati Uniti con Random House. C'è voluta una vita intera per quelle 1.384 pagine che hanno cambiato per sempre gli studi sull'Inquisizione. La tesi di Ben Zion è che la Spagna cattolica non perseguitò gli ebrei, scacciandoli e torturandoli, soltanto perché ebrei. Anche quando 300 mila ebrei accettarono di convertirsi al cattolicesimo, la persecuzione continuò, contro di loro e i loro eredi. Ben Zion si è avvicinato alla storia dei "conversos", gli ebrei diventati cristiani e bollati come "marrani" (maiali), convinto che si trattasse di martiri che accettavano la formale conversione per praticare la fede dei padri di nascosto. Tre decenni di ricerche gli hanno dimostrato che la maggioranza degli ebrei s'era rassegnata al battesimo. Certi che la loro comunità
       i Kennedy israeliani
non avesse futuro, gli ebrei convertiti volevano educare figli e nipoti da buoni cattolici. Nella storiografia comunemente accettata, l'Inquisizione era una sorta di crociata per la purificazione religiosa e i marrani erano un ostacolo con il loro giudaismo clandestino nei piani del cattolicesimo spagnolo. Netanyahu non la pensa così. I marrani non erano ebrei in segreto, ma assimilati alla maggioranza cristiana. La soluzione prefigurata, scrive Ben Zion, fu moderna: "Uno sterminio di massa, un genocidio". L'Inquisizione come prototipo della persecuzione del secolo scorso. Non era nata per estirpare il giudaismo come religione, ma i conversos come popolazione. Gli ebrei come razza, non come membri della religione.

La morale del professor Netanyahu è che nemmeno l'assimilazione in buona fede e la rinuncia all'identità possono salvare gli ebrei. La persecuzione è eterna, cosmica. E' il grande messaggio che ha trasmesso ai figli. Uno è morto combattendo i terroristi, l'altro governa Israele col pugno di ferro. Nel giorno stesso in cui gli Stati Uniti celebravano il bicentenario della loro indipendenza, il piccolo Israele dei Netanyahu ricordava al mondo intero che la libertà è un valore per il quale ogni generazione deve essere pronta a battersi. Non a caso il capolavoro sulla Spagna è dedicato a Yoni. "Con rabbia implacabile".

(Il Foglio, 12 aprile 2009)





6. UN IMPORTANTE RITROVAMENTO




In un archivio di Sydney rispunta l'originale
della «lista di Schindler»

di Erica Orsini

LONDRA - Un foglio ingiallito dal tempo con una lista dattiloscritta di 801 nomi. In un primo tempo i ricercatori della State Library, la biblioteca statale di Sydney, gli hanno gettato un'occhiata distratta. Poi, un po' alla volta, hanno capito: avevano in mano una delle copie originali della ormai famosa lista di Oskar Schindler, il documento a cui è legata la salvezza di oltre un migliaio di ebrei durante la Seconda guerra mondiale reso celebre dal film di Steven Spielberg del 1993.
    Un esemplare è custodito allo Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di Gerusalemme. Quello spuntato ora dall'altra parte del mondo è l'unico altro originale di cui si abbia notizia (gli elenchi furono dattiloscritti in più copie). E il fatto che sia ricomparso a Sydney è legato alla presenza dello scrittore australiano Thomas Keneally, la prima persona che raccontò al grande pubblico la storia di Schindler.
    Fino ai primi anni '80 la vicenda era rimasta confinata ai ricordi dei protagonisti e a qualche frammentario articolo di giornale. In quel periodo Keneally, in viaggio negli Stati Uniti, entrò in un negozio di Beverly Hills per comprare un regalo. Il proprietario, Leonard Pfefferberg, un ebreo polacco che deve la sua vita a Schindler, una volta saputo che il cliente era uno scrittore, insistette per mostrargli la lista e raccontargli la storia. Keneally ne rimase folgorato e decise di raccontare al mondo quella vicenda rimasta sconosciuta per così tanto tempo. Nel 1982 fu pubblicato il suo libro, Schindler's Ark, che nello stesso anno vinse il prestigioso Booker Prize. Ma a dare notorietà planetaria alle gesta di Schindler fu una decina di anni dopo Spielberg che dalla storia trasse il film in bianco e nero destinato a conquistare una valanga di Oscar.
    Dopo aver pubblicato il suo libro però lo scrittore australiano decise di vendere tutti I documenti che non riteneva d'interesse storiografico ad un libraio antiquario che li rivendette a sua volta. Di passaggio in passaggio l'elenco, finito in una cartella di vecchi ritagli di giornale e di appunti di lavoro di Keneally, arrivò nel 1996 negli archivi della biblioteca di Sydney.
La scoperta di quelle 13 paginette con le centinaia di nomi e cognomi di ebrei salvati da Schindler si deve alla curatrice della biblioteca Olwen Pryke che le ha definite «uno dei documenti più significativi del ventesimo secolo». È stata lei a ricostruire i dettagli: «Questa lista venne compilata in tutta fretta il 18 aprile del 1945 - ha spiegato la Pryke - proprio negli ultimi giorni prima della fine della Seconda guerra mondiale, ed è grazie a questo elenco che 800 persone hanno evitato le camere a gas. Si tratta di una commovente testimonianza storica».
    Come è noto Schindler non era un santo: fu membro del partito nazista, grande bevitore e donnaiolo, ma seppe usare le sue doti d' imbonitore per una giusta causa. Morì senza un soldo in Germania nel 1974, lui e sua moglie Emilie sono ricordati tra i «Giusti» che rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei dal genocidio. Pfefferberg, che conservò gelosamente quell'elenco, figurava al posto numero 173 e si salvò insieme alla moglie Ludmilla.

(il Giornale, 8 aprile 2009)





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