1. E' L'ODIO PER ISRAELE CHE DEVE ESSERE SGOMBERATO
Perché gli insediamenti aiutano la pace
di Raphael Israeli
Uno degli assiomi del "processo di pace" è che gli insediamenti siano il principale "ostacolo alla pace", quasi che rimuovendoli si produrrebbe istantaneamente la pace sulla terra. È ben risaputo, invece, che prima del 1967 non c'erano insediamenti eppure non c'era pace, a meno che naturalmente non si considerino "insediamenti" anche i villaggi e le città all'interno di Israele pre-'67, visto che gli arabi consideravano anch'essi su "territorio occupato". Dunque il grande contributo dato dagli insediamenti è quello d'aver preso il posto delle città israeliane nella parte del "territorio occupato", con la considerevole eccezione di Hamas e di una buona parte del mondo arabo. Ecco perché la formula secondo cui rimuovere gli insediamenti equivarrebbe alla pace è infondata e ridicola.
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Forze di occupazione israeliane in un insediamento vicino a Ramallah |
L'approccio arabo fondato sul rifiuto totale di Israele non è mai dipeso dagli insediamenti su una particolare porzione del paese. Ciò che non sopportano è l'insediamento ebraico in generale sulla Terra d'Israele/Palestina. Basta dare una sfogliata ai libi di testo usati nelle scuole della "moderata" Autorità Palestinese per vedere che Haifa, Giaffa e persino Tel Aviv sono considerate città palestinesi, mentre Hamas ritiene che la terra waqf (bene islamico inalienabile) su tutta la Terra d'Israele/Palestina debba essere confiscata allo stato ebraico, che non ha alcun diritto alla terra né al di là, né al di qua della ex Linea Verde del 1949-'67.
Nel 2000 a Yasser Arafat venne offerto un ritiro israeliano dal 95% dei territori (Cisgiordania e striscia di Gaza) in cambio di un accordo che ponesse fine al conflitto. Rifiutò, perché non lo considerava un ritiro completo dalla Terra d'Israele/Palestina. Nonostante il tentativo di fare un ulteriore passo lasciando la striscia di Gaza (estate 2005), non solo congelando ma smantellandone tutti gli insediamenti, ciò che Israele ottenne in cambio fu altre aggressioni e distruzioni, qualcosa di assai diverso dalla pace che dovrebbe scaturire dalla rimozione del famoso "ostacolo". In altre parole, non solo gli arabi non considerano gli insediamenti più antichi di Israele diversi da quelli più recenti che "minacciano la pace", ma lo smantellamento di questi ultimi non ha fatto che innescare l'attacco contro i primi.
Oggi sappiamo che uno dei fattori che spinse Anwar Sadat a recarsi a Gerusalemme (per avviare la pace) fu la paura che gli insediamenti nella zona di Rafah e del Sinai, se non fossero stati sradicati, sarebbero cresciuti fino a diventare vere e proprie città che nessun accordo di pace avrebbe più potuto rimuovere. Siriani e palestinesi, invece, credevano di non aver nulla da perdere continuando a rifiutare il negoziato, giacché le "loro terre" stavano lì ad aspettarli, congelate nel tempo, fino a quando sarebbero riusciti cortesemente a strapparle a Israele, per poi continuare gli attacchi da quelle posizioni. Non riescono a capire che hanno perduto quelle terre a causa della loro aggressione, e che è immorale e suicida restituire a un aggressore le posizioni da cui potrebbe rinnovare la sua aggressione, giacché lasciare che se la cavi senza danno non fa che incoraggiarlo ad attaccare ancora. Vi può essere deterrenza solo una volta che l'aggressore ha pagato per la sua aggressione un prezzo tale da dissuaderlo dall'attaccare a capriccio. È quello che è successo alla Germania.
Sicché, fino a quando non vi sarà un accordo per una composizione definitiva del conflitto, solo le attività negli insediamenti ebraici possono costituire un sufficiente incentivo tale da spingere gli arabi, come Sadat, a darsi una mossa e cercare la pace, giacché più aspettano e più perdono terreno.
Sappiamo, dall'esempio di Gaza, che l'obiettivo degli arabi non era quello di rimuovere Israele da una preziosa porzione di terra, ma quello di sradicare gli ebrei e cacciarli dalla terra rimanente. E allora è meglio continuare con le costruzioni "per la pace" nelle comunità al di là dei confini, e parlare di sgombero solo quando vedremo nei nostri vicini autentici segni di una cultura di pace e buon vicinato, con la dovuta considerazione della nuova realtà sul terreno che cambierà tanto più, quanto meno gli arabi si affretteranno verso un accordo di pace.
(Haaretz, 6 settembre 2009 - da israele.net)
2. STORIA DI UN GRUPPO DI CONVERTITI ALL'EBRAISMO
Afro-americani in Israele. Lettera dal deserto del Negev
di Enrico Girmenia
Questa è la singolare storia di un gruppo di afro-americani che si sono convertiti all'ebraismo e che, dopo aver lasciato l'America, si sono insediati nel deserto del Negev, nel sud di Israele.
Il gruppo fu fondato a Chicago da Ben Carter, un operaio metalmeccanico che nel 1966 riferì di aver ricevuto in sogno una rivelazione, da parte dell'angelo Gabriele, secondo cui gli afro-americani erano discendenti di una delle tribù perdute di Israele.
Ben Carter (che ha cambiato il proprio nome in Ben Israel dopo il suo arrivo in Terrasanta), era convinto che fosse giunto il tempo, per i discendenti del popolo di Israele presso gli afro-americani, di ritornare nella terra dei padri per ristabilire il regno di Dio sulla terra applicando i principi delle Sacre Scritture. I membri della comunità stabiliscono una sorta di confronto tra la propria esperienza di schiavi in America e ciò che hanno vissuto gli antichi israeliti in Egitto prima della liberazione, così come riportato nel libro dell'Esodo. Il carattere crudele della schiavitù è parte del piano di Dio perché essi possano di nuovo ritornare nella terra promessa di Israele.
Nel 1967 ben Carter guidò un piccolo gruppo di ebrei neri prima in Liberia, un paese fondato da ex schiavi provenienti dall'America, per un breve soggiorno allo scopo di purificarsi dalle negative influenze acquisite durante il periodo della schiavitù, poi in Israele, nel 1969, con un permesso temporaneo di soggiorno.
Inizialmente il gran rabbinato di Israele non volle riconoscerli come beneficiari della "Legge del ritorno" che garantisce il riconoscimento della nazionalità israeliana a tutti coloro hanno un'ascendenza ebraica comprovata o che siano convertiti secondo le norme dell'ortodossia. Il gruppo rifiutò un compromesso proposto, che cioè si convertissero formalmente all'ebraismo, in quanto essi si consideravano già ebrei a tutti gli effetti.
Visti con diffidenza dalle autorità israeliane, ad essi fu concesso di insediarsi nel deserto del Negev presso la cittadina di Dimona.
Qui essi edificarono un villaggio dove realizzare i principi della vita religiosa comunitaria, costruirono la propria scuola, misero a punto un sistema di difesa della salute basato sui principi della medicina preventiva e cominciarono a farsi conoscere come laboriosi e pacifici cittadini. Molti membri della comunità lavorano come semplici operai o sono impegnati in attività che loro stessi hanno promosso come i ristoranti vegetariani, l'artigianato ed una fabbrica per la produzione del "tofu".
Recentemente ai membri della comunità è stato riconosciuta la condizione di residente permanente e tutto il gruppo si sta avviando verso una sempre maggiore integrazione. Negli ultimi anni, vincendo la loro connaturata ritrosia per la violenza e le armi, sempre più giovani membri della comunità prestano servizio nell'esercito israeliano, a testimonianza di un diffuso sentimento di appartenenza ai destini dello stato che li ha inizialmente guardati con scetticismo e diffidenza.
I membri del gruppo preferiscono uno stile di vita comunitario e vivono raggruppati in tre villaggi del deserto del Negev: Dimona, Mitzpe Ramon e Arad. Il loro numero è attorno alle 2000 unità.
In Israele la comunità è ben conosciuta come un'oasi di armonia sociale, libera dalla criminalità e dalla droga. Molte persone vengono a visitare il villaggio di Dimona ed i membri del villaggio sono ben contenti di ricevere i visitatori stranieri per illustrare loro i vantaggi del loro sano stile di vita.
Da quando sono giunti in Israele essi hanno adottato una dieta strettamente vegetariana eliminando la carne, il pesce, il pollame e tutti i derivati animali (in accordo con quanto scritto in Genesi 1, 29), così come il latte ed il formaggio. Essi digiunano completamente il sabato ed hanno eliminato il sale dalla loro dieta in alcuni giorni della settimana.
Praticano la circoncisione dei maschi otto giorni dopo la nascita (Levitico 12, 3), così come è nella pratica tradizionale dell'ebraismo. Anche le norme concernenti la condizione di purità della donna sono seguite (Levitico 12, 2-5). Quando una donna è nel periodo mestruale ella vive separata dal marito e non dorme accanto a lui.
I rapporti prematrimoniali sono proibiti e questa sembra essere una delle strade seguite per prevenire l'AIDS. C'è da aggiungere che l'età del matrimonio giunge molto più precocemente rispetto agli standard occidentali e si aggira sui diciotto anni per l'uomo e per la donna, di solito al termine del ciclo dell'istruzione obbligatoria.
Attualmente la comunità sta lavorando a un progetto per trasferire la loro esperienza in materia di prevenzione sanitaria in Africa.
Le donne vestono abiti tradizionali che si ispirano a motivi tribali africani, con colori vivaci e disegni geometrici. Gli uomini indossano abiti più modesti, ma sempre ispirati a motivi etnici ed indossano sempre un copricapo in segno di modestia.
Il gruppo si astiene dall'alcol, con l'eccezione di un tipo di vino che essi stessi producono. Il tabacco ed altre droghe sono totalmente bandite. Normalmente essi non assumono prodotti farmaceutici occidentali e praticano un tipo di medicina tradizionale centrata sulla dieta, l'assunzione di prodotti naturali e la terapia fisica (massaggi, esercizio ginnico, etc.). Ma quando si verifica una emergenza che non possono controllare con i loro sistemi di cura, non esitano a rivolgersi all'ospedale più vicino.
Essi credono che il sistema di medicina preventiva che hanno faticosamente messo in piedi con gli anni sia la dimostrazione che è possibile avere dei benefici vivendo in accordo con la parola di Dio e che nella Bibbia siano contenute sufficienti indicazioni per condurre una vita sana ed in armonia con la creazione.
Molte delle pratiche religiose dei Black Hebrews sono simili a quelle degli ebrei ortodossi: essi osservano il sabato e le altre festività: Passover, Shavuot, Yom Kippur, Succot. Insegnano ai loro figli la lingua ebraica, studiano la Torah e adottano nomi ebraici.
Altre pratiche sono invece decisamente diverse da quelle del giudaismo tradizionale, come ad esempio la poligamia e il digiuno completo il sabato.
Molti membri della comunità lavorano come domestici o come muratori, altri vendono gioielli tradizionali o cantano Gospel in un coro conosciuto in tutto il paese. Il dieci percento dei guadagni di ogni singolo lavoratore va in un fondo comune che serve per le spese correnti, quali l'istruzione, la sanità, etc..
I comuni membri del gruppo si chiamano tra loro fratelli e sorelle. La conduzione della vita associativa è affidata ai membri più esperti e motivati. I vari gruppi sono guidati dai cosiddetti ministri, che operano in accordo con Ben Carter, riconosciuto da tutti come una sorta di Messia.
Essi cercano di essere un modello per l'uomo della moderna società occidentale che ha perduto il senso della dimensione religiosa e spirituale della vita.
(L'Espresso, 8 settembre 2009)
3. LA SICILIA, STORICA TERRA MADRE DEGLI EBREI
Un itinerante viaggio alla ricerca dei Quartieri Ebraici
in Sicilia
di Ivana Cataudella
l nucleo ebraico in Sicilia, costituiva la più importante comunità dell'Italia meridionale dal punto di vista numerico, economico e culturale.
Nella seconda metà del XV secolo, in Sicilia, si presume che gli ebrei fossero circa 30.000, quasi il 5% della popolazione totale, allora composta da circa 600.000 abitanti. La Sicilia, fu una delle mete più importanti per gli ebrei partiti dalla Palestina, all'inizio della diaspora nel 70 d.C. Essi vi rimasero fino al 1492, quando Re Ferdinando "il cattolico", con il suo editto, li scacciò da tutti i territori sottoposti al dominio spagnolo, cancellandone tradizioni e storia. Riferendosi alla toponomastica, che ha conservato alcune antiche denominazioni giudaiche, si può risalire ai principali luoghi che indicano la presenza degli ebrei in Sicilia.
Palermo, contava circa ottomila ebrei residenti. La Giudecca, occupava la zona della "Meschita" (moschea araba) divenuta la Sinagoga, punto mediano della loro cultura religiosa, che ricadeva nell'aria dell'attuale complesso del convento di San Nicolò da Tolentino.
A Trapani, il Palazzo della Giudecca, è una delle maggiori testimonianze ebraiche in Sicilia.
A Salemi, la Giudecca era nella Via Misericordia.
Siracusa, era la sede di un'altra importante comunità, situata nel ghetto dell'isola di Ortigia. La Sinagoga di Ortigia era l'attuale S. Giovanni Battista. La Giudecca, si trovava fra strette viuzze, all'interno di una specie di quadrilatero delimitato dalla Via Maestranza a Nord, dalla Via Roma a Ovest, dalla Via Larga a Sud e dalla Via Alagona a Est.
Catania è stata una città ampiamente occupata dalla presenza giudea, dall'attuale Piazza Dante fino a piazza Duomo. Alcuni storici, hanno individuato due ghetti, la giudecca di Susu e quella di Jusu, con Sinagoghe esistenti nell'attuale Via Recupero, vicino la chiesa di S. Cosmo e Damiano e in Via Sant'Anna. Il fiume Amenano, nel medioevo si chiamava Judicello, proprio perché attraversava una parte del grande ghetto di Susu e di Jusu. Vizzini, aveva il ghetto nell'attuale borgo artigiano della "cunziria".
Caltagirone ospitava insediamenti ebraici vicino all'attuale galleria Don Sturzo mentre a Mineo, gli insediamenti erano sotto la chiesa di Santa Agrippina.
A Messina, la maggiore concentrazione di ebrei si trovava nel quartiere Paraporto tra il Duomo e il torrente Portalegni, che oggi dovrebbe essere lungo Via Tommaso Cannizzaro. La Sinagoga, si trovava dove, successivamente, fu costruita la chiesa di San Filippo Neri. La Giudecca , divenuta Via Cardines, partiva dalla porta Sud della città, conosciuta come Porta di Siniscalco, del Gesù o della Giudecca.
Il Comune di Naso (ME), registrava la presenza di ebrei in contrada Batia o Bazia. Nel quartiere di Badia, l'attuale chiesa dedicata a Santa Maria della Catena era la Sinagoga, prima del 1492.
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Taormina, ospitava la Giudecca vicino porta Catania e la
Sinagoga quasi accanto al monastero di San Domenico.
Savoca (ME), ospitava una Sinagoga, i cui resti sono ancora visibili in quella che è chiamata oggi chiesa di San Michele.
A San Fratello (ME), l'attuale Contrada Catena la Giudecca. A Piazza Armerina (EN), il Quartiere Canali, zona sud-occidentale della città, era abitato quasi esclusivamente da ebrei. La Sinagoga, era ubicata in quella che successivamente fu trasformata in Chiesa di S.Lucia.
Ad Agira (EN), si trova una parte di un altare della Sinagoga, ricostruito nella Chiesa Collegiata del San Salvatore.
A Ragusa, la Sinagoga si trovava nel quartiere dell'attuale Chiesa dell'Annunziata a Ibla.
A Scicli, la zona ebraica era ubicata nel quartiere della Meschita, dove si riscontrano toponimi del tipo "li putej di li judei", per indicare l'area riservata alle botteghe artigiane.
Modica ospita il Quartiere ebraico Cartellone, che si estendeva da San Francesco alla Cava sino all'Olivella. Il nome del quartiere pare si debba a un cartello che avvisava i cristiani dell'inizio del quartiere ebraico.
Tanti altri sono i luoghi che ospitarono gli ebrei in Sicilia. Una breve sintesi questa, che mostra la Sicilia come terra madre, che ha accolto dei figli dalle sorti avverse.
(CataniaOggi, 15 settembre 2009)
4. VISITA A UN GHETTO STORICO
Repubblica Ceca, il Ghetto di Trebíc
di Andrea Lessona
Cammino per il Ghetto ebraico di Trebíc. I miei passi si perdono nell'eco della storia, quando persone inermi venivano fatte marciare in fila e caricate sui camion. Partivano da qui, verso i campi di concentramento nazisti per non tornare mai più.
Oggi, questo luogo è Patrimonio dell'Umanità per volere dell'Unesco che nel luglio del 2003 lo ha inserito nella lista dell'Eredità Mondiale Culturale. Per non dimenticare. E il ricordo vive in queste vie dalle case colorate che hanno origini antiche.
Secondo vecchi documenti, i primi ebrei arrivarono a Trebíc tra il 1338 a il 1410. Ma solo nel XVIII secolo la zona è diventata un vero e proprio quartiere dove nel tempo sono sorte due sinagoghe, la residenza del rabbino, la scuola e l'ospedale.
I 123 edifici, quasi uno sopra l'altro, che vedo seguendo queste vie strette intersecate con piccole piazze, sono ancora quelli originali: solo cinque sono stati abbattuti.
Superando un passaggio a volta che lega il quartiere, arrivo sino alla Sinagoga Anteriore, costruita intorno alla metà del 1600. Non posso entrare, perché chiusa: oggi è usata per funzioni religiose dalla Chiesa Ussita Ceca. Ancora qualche passo lungo le stradine, costeggiando piccoli negozi, caffè e ristoranti alla moda, e mi trovo di fronte all'altra Sinagoga del Ghetto: quella Posteriore.
L'esterno bianco, quasi anonimo, tradisce l'imponenza architettonica e culturale dell'interno. Qui, l'eco della storia è ancora più forte: cammino piano nel salone principale e mi siedo su una delle piccole sedie di fronte alla guida che spiega le origini della chiesa.
E' stata realizzata nel 1669, poi tra il 1705 e il 1707 fu ammodernata in stile barocco. Pitture preziose scivolano dal soffitto lungo le mura: motivi ornamentali e floreali si distinguono nell'opacità della sala e si intervallano con scritte liturgiche.
Salgo al piano superiore: nei riflessi del sole, che entra ballerino dalle ampie finestre della struttura, distinguo il modellino in scala 1:100 del Ghetto ebraico nel 1850. Lo protegge una teca in vetro che come altre custodisce vecchi oggetti appartenuti agli abitanti di un tempo.
Esco dalla sinagoga e riprendo le vie strette e colorate per lasciare alle mie spalle il quartiere. Costeggio il fiume Jihlava che placido scorre a fianco di Trebíc, città accogliente e ricca di fascino nella regione Ceca della Vysocina.
Accompagnati in auto da Jikta, la guida locale, Paula, l'interprete, Federico ed io arriviamo proprio di fronte all'entrata del Cimitero ebraico sul pendio nord della collina Hràdek. Anch'esso come il Ghetto è Patrimonio dell'Umanità: gli unici due luoghi di questo tipo nel mondo che abbiano avuto tale riconoscimento fuori dallo Stato di Israele.
La Hall Cerimoniale all'ingresso, dove si celebrano funzioni funebri secondo le antiche tradizioni, è stata edificata nel 1903, ma le origini di questo posto risalgano al 1620. Nel 1888 è stato ampliato su un'area che oggi copre 11772 metri quadrati.
Entro dal cancello in ferro cigolante, e cammino nell'erba soffice sino a incontrare il Memoriale delle vittime della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Poi gli occhi vagano nel verde pace di questo luogo, intervallato dallo stile barocco e neoclassico delle oltre tremila tombe ospitate qui. La più vecchia risale al 1631.
Mentre Federico le immortala con la sua macchina fotografica, Paula mi spiega che i sepolcri contrassegnati da simboli particolari sono quelle delle famiglie più importanti. Le vedo sfilare insieme a quelle più povere, e penso che una volta Lassù torniamo tutti a essere uguali.
Esco dal cancello per ultimo. Lo accosto cigolante alla serratura, lasciandolo aperto per il prossimo visitatore.
(il reporter, 7 settembre 2009)
5. L'ALTRA FACCIA DELLA SHOAH
La Shoah dell'Urss: un milione di ebrei fucilati
di Chiara Buoncristiani
L'altra faccia della Shoah ha i connotati di un sterminio che comincia all'aperto, nei villaggi dell'Ucraina, della Bielorussia e del Baltico, dove i carnefici inseguono le vittime e poi le seppelliscono in fosse comuni, il tutto con la complicità della popolazione del luogo. Tra il 1941 e il 1944, circa un milione e mezzo di ebrei che vivevano nell'allora Unione Sovietica, in seguito all'invasione tedesca, sono assassinati dai colpi di fucile delle unità mobili delle SS o delle polizie collaborazioniste dell'Est europeo.
Nel 1941 all'esercito tedesco di stanza nei territori occupati viene impartito l'ordine esplicito di uccidere sul posto ebrei, slavi zingari e invalidi. Tremila uomini delle SS, divisi in quattro commando speciali che rappresentano altrettante "unità mobili di massacro". La routine quotidiana del terrore prevede che per ogni "azione delle unità mobili" siano eliminati non meno di mille persone, con una media di 40 omicidi a testa. Crimini che parzialmente precorsero e poi accompagnarono lo sviluppo dei campi di sterminio.
Sette anni di studi
Fino a pochissimi anni fa, il fenomeno dello sterminio degli ebrei per fucilazione, pur noto per sommi capi agli storici, non era mai stato ricostruito in modo sistematico ed è rimasto nell'ombra per mezzo secolo. A ripercorrere davanti al pubblico del Festival di Mantova le tracce di questo Olocausto sconosciuto, raccontando le testimonianze dirette raccolte in sette anni di studio e lavoro storico, sia sul campo sia attraverso la lettura degli archivi sovietici e tedeschi, è stato Padre Patrick Desbois, autore di «Fucilateli tutti!». La prima fase della Shoah raccontata dai testimoni (Marsilio, pp. 292, euro 19,50), capo della Commissione per i rapporti con il Giudaismo della Conferenza episcopale francese nonché presidente dell'associazione "Yahad-In Unum", fondata da un'iniziativa cattolica ed ebraica, il cui nome significa «l'uno e l'altro insieme», in ebraico e in latino, con l'obiettivo di documentare e ricostruire il massacro.
Dal giugno del 2002, villaggio dopo villaggio, con i suoi giovani collaboratori, il prete originario della Borgogna ha ritrovato e intervistato a lungo gli ormai anziani testimoni degli eccidi: «Quelli che hanno accettato di raccontarci i particolari delle azioni di sterminio sono tutti contadini poverissimi, erano soltanto bambini all'epoca e ora vogliono parlare prima di morire», ha spiegato Desbois, «ma chiunque faceva parte della classe media non ci ha voluto parlare perché riflette ancora gli indottrinamenti subiti al tempo dell'Urss».
Le fosse comuni
Grazie a queste testimonianze, raccolte durante i suoi ripetuti viaggi in Ucraina, il sacerdote francese ha riscoperto centinaia di fosse comuni, nelle quali sono stati portati alla luce bossoli di fucili e di mitragliatrici, ossa di uomini, donne e bambini assassinati, così come molti oggetti personali non corrosi dal tempo. In questo modo, sono state raccolte le prove dell'assassinio selvaggio di centinaia di migliaia di ebrei. «Il nostro scopo è quello di ricostruire il crimine, non di giudicarlo ed è per questo che le testimonianze raccolte non sono e non vogliono essere sentimentali».
Intervistato sul palco del Teatro Ariston di Mantova dal saggista Frediano Sessi (autore tra l'altro di Non dimenticare l'Olocausto e Prigionieri della memoria), Desbois ha anche spiegato l'origine del suo lavoro di ricerca: «Mio nonno fu deportato a Rawa Ruska e nel 2002 feci un viaggio in quel villaggio. Chiesi al sindaco se sapesse dove si trovava la fossa comune dei 12mila ebrei fucilati lì, ma lui mi disse che nessuno lo sapeva». A Desbois sono serviti altri tre viaggi a Rawa Ruska prima che il primo cittadino del paese perdesse le elezioni e al suo posto subentrasse un nuovo sindaco. «È stato lui a condurmi in un villaggio ancora più piccolo a pochi chilometri da lì, dove non c'era nemmeno l'acqua corrente. Lì ho incontrato gli anziani del posto, che, per la prima volta, hanno ammesso l'esistenza di una fossa comune indicandomi il luogo dove poi abbiamo scavato. Uno di loro mi ha detto di ricordare la camionetta che portava trenta giovani ebrei costretti a scavare la buca profonda otto metri dove poi sarebbero stati seppelliti. Poi il ricordo si è fatto più nitido e preciso, fino a far riemergere anche il momento in cui i soldati tedeschi, annoiati nell'attesa che scattasse il momento di sparare, chiesero un grammofono per ascoltare della musica».
Rigore e pietas
L'attività di censimento finora ha coperto metà dell'Ucraina e tre regioni della Bielorussia, ma da ottobre partirà anche in Russia.
Il libro di Desbois, con il rigore di un ricercatore e la pietas di un sacerdote, indaga anche sul fenomeno inquietante del collaborazionismo e fa riemergere dal buio e dal silenzio parole di testimonianza che restituiscono una giusta sepoltura, degna della specie umana, a coloro che furono travolti dalla furia omicida del progetto nazista di conquista dell'Est.
(Libero-news.it, 10 settembre 2009)
6. UNA NAZIONE CHE STA PER SCOMPARIRE?
Nell'estate del 1942 la "soluzione finale" degli ebrei voluta da Hitler era già in atto e le informazioni sullo sterminio in corso erano già ampiamente diffuse. A Varsavia era cominciata l'evacuazione del ghetto con il trasporto degli abitanti verso Trebllinka e altri campi di sterminio. I polacchi lo sapevano, e a conferma di questo si può citare un articolo pubblicato il 15 agosto 1942 su "Naród", periodico del Partito cristiano democratico del lavoro:
«In questo momento, da dietro le mura del ghetto sentiamo i gemiti e le urla disumani degli ebrei che vengono assassinati. L'astuzia spietata sta cadendo vittima dello spietato potere brutale e nessuna Croce è visibile su questo campo di battaglia, visto che tali scene risalgono a epoche precristiane. Se la cosa continua, non passerà molto tempo prima che Varsavia dica addio al suo ultimo ebreo. Se fosse possibile organizzare un funerale sarebbe interessante vedere la reazione. La bara susciterebbe tristezza, pianto o forse gioia? [...] Per centinaia di anni un'entità aliena, malevola, ha abitato i settori settentrionali della nostra città. Malevola e aliena dal punto di vista dei nostri interessi, così come da quello della nostra psiche e dei nostri cuori. Quindi non assumiamo atteggiamenti falsi come prefiche professioniste ai funerali - siamo seri e sinceri [...]. Compatiamo il singolo ebreo, l'essere umano e, per quanto possibile, se dovesse smarrirsi o tentare di nascondersi gli tenderemo una mano amica. Dobbiamo condannare coloro che lo denunciano. E' nostro dovere esigere che quanti si permettono di sogghignare e schernire mostrino invece dignità e rispetto di fronte alla morte. Ma non ci fingeremo affranti per una nazione che sta per scomparire e che, dopotutto, non è mai stata vicina ai nostri cuori» (Saul Friedländer, Gli anni dello sterminio, p. 536).
La nazione non è scomparsa, anzi si è costituita come Stato d'Israele sulla terra che biblicamente e storicamente le appartiene. Ma continuano ad esserci persone pronte a "compatire il singolo ebreo, l'essere umano" se qualcosa di simile all'Olocausto dovesse ripetersi, ma che non sarebbero per niente "affrante per una nazione che sta per scomparire e che, dopotutto, non è mai stata vicina ai loro cuori". Questo, gli ebrei israeliani l'hanno capito, e hanno deciso che piuttosto di essere compatiti mentre li stanno ammazzando e compianti dopo che sono morti preferiscono essere odiati mentre sono vivi. L'odio da molte parti aumenterà, ma da alcune parti aumenterà anche l'amore. M.C.
(Notizie su Israele, 17 settembre 2009)
MUSICA E IMMAGINI
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