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Notizie su Israele 470 - 3 settembre 2009

1. Presa di posizione
2. Musica e immagini
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Salmo 130:7-8. O Israele, spera nell'Eterno, perché presso l'Eterno vi è misericordia e presso di lui vi è redenzione completa. Egli redimerà Israele da tutte le sue iniquità.
L'articolo che compariva in questa pagina è diventato un libro. Il testo completo dell'articolo è stato quindi sostituito da alcuni estratti che possano dare un’idea del suo contenuto.



1. PRESA DI POSIZIONE




Dalla parte di Israele, come discepoli di Cristo

di Marcello Cicchese

    Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei.
    L’avvento dell’Illuminismo, con il conseguente declino dell’influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l’idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all’esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati “nazioni”.
    Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della “cuius regio, eius religio”: il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono “emancipati”. Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa.
    La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l’idea di avere - come i non ebrei - libertà d’azione in una terra da poter considerare - insieme ai non ebrei - come loro patria, era troppo attraente.
    La cosa cominciò con Napoleone. [...]


Nostalgia della nazione ebraica

    Le considerazioni fin qui fatte possono aiutare a rendersi conto che dalla fine dell'Ottocento la cosiddetta "questione ebraica" si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L'emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell'ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
    Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria da cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
    Le cose invece sono andate diversamente nell'Europa dell'est. Anche in quelle zone si era avviato, anche se lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercò di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell'impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo "Auto-emancipazione". Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell'individuazione del motivo profondo che, secondo l'autore, sta alla base dell'antisemitismo moderno: l'assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
    Varrà la pena di fare lunghe citazioni di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
    "Come nei tempi passati, l'eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
    Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
    Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo." [...]


Emancipazione e assimilazione non risolvono il problema

    I vantaggi ottenuti dagli ebrei a partire dalla fine del Settecento con i vari editti di emancipazione che li equiparavano agli altri cittadini fece pensare a molti di loro che la risoluzione del problema ebraico consistesse nel percorrere fino in fondo la via dell'assimilazione. Abbiamo già visto come, nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, molti ebrei di differenti nazioni europee erano fieri di poter essere cittadini a pieno titolo della nazione in cui vivevano, e in certi casi sembravano addirittura voler dimostrare di essere ancora più patrioti degli altri. La partecipazione convinta degli ebrei alla prima guerra mondiale, raccomandata dai dirigenti delle diverse comunità ebraiche come segno di fedeltà alla nazione, avrebbe dovuto sancire la definitiva omologazione degli ebrei facendo vedere chiaramente che per la loro patria erano pronti anche a morire. Si può citare, a conferma, la solenne frase con cui il giornale "Il Vessillo Israelitico" presentò l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915:
    "L'Italia è in guerra e noi all'Italia daremo noi stessi interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. Daremo tutto noi - ebrei - alla patria nostra: daremo i figli, le sostanze nostre, le nostre vite. Tutto l'Italia ha diritto a pretendere da noi e tutto noi le daremo".13
Quanto al sionismo, ben pochi in Italia lo vivevano come un desiderio di raggiungere la propria vera patria. A riprova di questo si può portare il fatto che tra il 1926 e il 1938 solamente 151 ebrei italiani sono emigrati in Palestina. Quelli che appoggiavano il sionismo dicevano di farlo per scopi filantropici, cioè per solidarietà verso gli ebrei che fuggivano dall'est o dalla Germania nazista a causa della persecuzione. Gli ebrei che invece avevano la possibilità di essere cittadini a pieno titolo di una nazione, come gli italiani, non desideravano un'altra patria, ma agivano spinti dall'obbligo morale di aiutare i loro correligionari meno fortunati, ancora privi di una patria. Altri vi aggiungevano che il sionismo, come aspirazione a ritornare in Sion, poteva anche servire a risvegliare certi valori tradizionali dell'ebraismo che molti assimilati tendevano a dimenticare e trascurare, ma questo tuttavia non doveva né voleva sminuire l'attaccamento alla patria degli ebrei italiani. [...]


Il concetto biblico di nazione ebraica

    E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché la risposta a questa domanda può aprire o no la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
    Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo, ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
    Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
    La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui. [...]


La pietra di scandalo

    Il profeta come Mosè del libro del Deuteronomio e il Servo dell'Eterno di Isaia 53 sono due figure bibliche che corrispondono certamente ad un'unica persona: il Messia. Ma chi è il Messia? E' una persona, un sistema politico, una metafora linguistica? E' già venuto? Deve ancora venire? Sulle risposte a queste domande le strade si dividono. E' chiaro - ma non è inutile sottolinearlo con decisione - che dirsi cristiani significa confessare che il Messia è già venuto in Israele una prima volta nella persona di Gesù, come attestato negli scritti del Nuovo Testamento.
    Si sa bene che per molti questo è uno scandalo e una pietra d'inciampo. Certo, sarebbe auspicabile che a causa di questo argomento non volino pietre in direzione di chi ci crede, né si accendano roghi destinati a chi non ci crede, ma non è auspicabile che per ragioni di buona educazione ecumenica ci si accordi nel non parlarne affatto. Il problema esiste, resta scottante, è centrale: non deve dunque essere evitato.
    In forma molto schematica si può dire che:
    - la soluzione dei problemi del mondo è collegata alla soluzione della questione ebraica;
    - il nocciolo della questione ebraica sta nel concetto di nazione ebraica;
    - la nazione ebraica ha il suo centro unificante nella persona del Messia.
Non ha senso quindi sperare di risolvere alla radice i problemi del mondo trascurando la persona del Messia, e, viceversa, non si può riflettere in modo approfondito sulla persona del Messia senza essere indotti a prendere seriamente in considerazione i problemi del mondo. [...]


Un Messia che delude

    A ciascuno dei dodici apostoli Gesù aveva detto: "Seguimi". Non era una proposta, era un ordine. Perché i dodici hanno ubbidito senza fiatare, anzi molto volentieri? Perché erano convinti che Gesù era il Messia, il Re d'Israele: dunque aveva autorità, e per loro era un onore essere stati scelti per seguirlo e servirlo. Da Lui evidentemente si aspettavano quello che era stato promesso dai profeti: l'instaurazione del regno messianico. Gesù stesso del resto ne aveva dato un solenne annuncio fin dall'inizio del suo ministero:
    "Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»." (Matteo 4:17).
Le cose però cominciarono ben presto a mettersi male: gli scribi facevano obiezioni teologiche, i farisei erano infastiditi per la perdita di autorità che subivano presso il popolo, i sadducei temevano che un possibile sollevamento del popolo sull'onda dell'entusiasmo messianico provocasse una violenta reazione romana. Giuda a un certo punto capì che le cose andavano a finire male, e anche Tommaso forse temeva che qualcosa di brutto si stesse preparando perché vedendo Gesù che si avviava deciso verso Gerusalemme disse agli altri: "Andiamo a morire con lui" (Giovanni 11:16). A parte questi due, tutti gli altri erano convinti che Gesù avrebbe lasciato agire gli avversari fino all'ultimo momento, affinché tutti si scoprissero e venisse fuori chi veramente aveva creduto in lui fino alla fine e chi no. Pietro dunque era sincero quando disse convinto: «Quand'anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26:36). Non era una sbruffonata: poco prima aveva visto Gesù risuscitare Lazzaro. Quindi - avrà pensato - se Gesù vuole vedere chi è disposto a farsi uccidere per lui, io sono pronto. E quando nel giardino di Getsemani vide avvicinarsi una folla di centinaia di persone armate di spade e bastoni avrà pensato: questo è il momento. Erano lì per pregare, ma lui si era portato dietro una spada. Chiese a Gesù se dovevano colpire, ma come al solito non aspettò nemmeno la risposta e mirò alla testa di uno che stava davanti a lui. In seguito si scoprì che era il servo del Sommo Sacerdote. Gli staccò un orecchio, ma solo perché quell'altro fece in tempo a scansarsi. E' certo che Pietro non voleva colpire di fino: lui voleva spaccare la testa. Questo, davanti alla forza preponderante di una folla minacciosa, per lui significava morte sicura. Aveva mantenuto la sua promessa: aveva dimostrato di essere pronto anche a morire per Gesù. Aveva compiuto un atto di coraggio e di fede. [...]


Quello che non avevano capito i contemporanei di Gesù

    Ancora oggi molti sostengono che gli ebrei hanno rifiutato Gesù perché si aspettavano un regno politico terrestre, mentre non avevano capito che il regno di Dio è di natura puramente spirituale. C'è un brano famoso nel Vangelo di Luca, il cosiddetto "cantico di Zaccaria":
    "Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo:«Benedetto sia il Signore, il Dio d'Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita»" (Luca 1:67-75).
Un esegeta protestante riformato dell'inizio del secolo scorso commenta così queste parole:
    "Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E' probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d'un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo."20
E per quanto riguarda i nemici di Israele, il commentatore dà questa spiegazione:
    "Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d'ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza. 21 [...]



Sovranità e grazia di Dio

    Ci sono due aspetti dell'opera di Dio che il Messia avrebbe manifestato e portato sulla terra, esprimibili con i concetti di sovranità e grazia, che nella Bibbia compaiono con termini come "regno di Dio" e "perdono dei peccati". Nel regno messianico Dio agirà come sovrano, la sua volontà sarà pienamente compiuta sulla terra come è fatta in cielo. Sarà dunque un regno di perfetta giustizia, dove Israele sarà il centro del mondo e Gerusalemme sarà il centro d'Israele. La profezia di Isaia presenta la nuova Gerusalemme come una città vuota preparata da Dio, in cui a un certo momento la nazione ebraica viene invitata ad entrare:
    "In quel giorno, si canterà questo cantico nel paese di Giuda: Noi abbiamo una città forte; l'Eterno vi pone la salvezza per mura e per bastioni. Aprite le porte ed entri la nazione giusta, che si mantiene fedele" (Isaia 26:1-2).
La nuova Gerusalemme sarà dunque una città forte, preparata per essere il centro di un regno governato dalla perfetta e inderogabile giustizia di Dio. La nazione ebraica è invitata ad entrare, ma per poterlo fare deve essere una nazione giusta. Se così non fosse, il suo solo ingresso causerebbe la fine della perfetta giustizia di quel regno. E non basterà che sia presente una giustizia nazionale, cioè un governo che sappia regolare in modo equo il rapporto tra i suoi più o meno giusti cittadini: sarà indispensabile che tutti i membri del popolo siano giusti, uno per uno, perché sta scritto:
    "Il tuo popolo sarà tutto un popolo di giusti; essi possederanno il paese per sempre; essi, che sono il germoglio da me piantato, l'opera delle mie mani, per manifestare la mia gloria" (Isaia 60:21). [...]


La Shekinah abbandona il Tempio

    Prima che su Israele si abbattesse questo terribile giudizio, in Gerusalemme era avvenuto un fatto ancora più grave e inquietante: la gloria di Dio (Shekinah ) aveva abbandonato il santuario. La Shekinah rappresenta la presenza sensibile dell'Eterno in tutta la sua purezza e sovranità. Vicino a lei l'impuro non può sussistere e il ribelle non può continuare a vivere. La Shekinah dimorava nel luogo santissimo, in cui nessuno poteva entrare se non il Sommo Sacerdote una volta l'anno nel giorno dell'espiazione, lo Yom Kippur, dopo aver compiuto scrupolosamente tutti i prescritti rituali di purificazione.
    Prima che il Tempio potesse essere contaminato e distrutto dai peccatori, era necessario che la Shekinah di Dio lasciasse la sua dimora, e questo è avvenuto. Nella descrizione che ne fa il profeta Ezechiele, la Shekinah lascia il luogo santissimo lentamente, in tre tempi, come esitando, come se aspettasse un ultimo, tardivo ravvedimento del popolo. Come primo movimento sale sui cherubini e si sposta sulla soglia del Tempio:
    "E la gloria dell'Eterno s'alzò sui cherubini, movendo verso la soglia della casa; e la casa fu ripiena della nuvola; e il cortile fu ripieno dello splendore della gloria dell'Eterno" (Ezechiele 10:4).
Poi, portata sempre dai cherubini, s'innalza di nuovo e si posiziona all'ingresso della porta orientale del cortile del Tempio:
    "La gloria dell'Eterno partì dalla soglia della casa e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le loro ali e s'innalzarono su dalla terra; io li vidi partire, con le ruote accanto a loro. Si fermarono all'ingresso della porta orientale della casa dell'Eterno; e la gloria del Dio d'Israele stava sopra di loro, su in alto" (Ezechiele 10:18-19).
Infine lascia la città e si ferma sul monte degli Ulivi:
    "Poi i cherubini spiegarono le loro ali, e le ruote si mossero accanto a loro; la gloria del Dio d'Israele stava su di loro, in alto. La gloria dell'Eterno s'innalzò in mezzo alla città e si fermò sul monte situato a oriente della città" (Ezechiele 11:22-23).
Secondo una tradizione rabbinica, la Shekinah rimase tre anni e mezzo sul monte degli Ulivi, in attesa di un ravvedimento del popolo, dopo di che sparì.
    Il primo Tempio fu distrutto, e anche se dopo il ritorno di alcuni esuli da Babilonia ne fu ricostruito un secondo, in tutto l'Antico Testamento non è mai scritto che la Shekinah sia tornata ad abitare in esso. La gloria, espressione di santità e sovranità di Dio, aveva abbandonato Gerusalemme. Al popolo era arrivata a suo tempo la parola del Signore:
    "Parla a tutta la comunità dei figli d'Israele, e di' loro: »Siate santi, perché io, l'Eterno, il vostro Dio, sono santo»" (Levitico 19:2).


Israele come personalità corporativa

    A questo punto per alcuni le cose saranno del tutto chiare: Israele ha disubbidito a Dio e di conseguenza si abbatte su di lui la punizione divina, pesante, completa e definitiva. Che dire allora delle innumerevoli promesse fatte da Dio a questo popolo nella Bibbia? Alcune risposte date:
    1) devono essere intese in senso allegorico e trasferite ad una realta istituzionale politicamente visibile chiamata Chiesa;
    2) devono essere intese in senso spirituale e applicate personalmente a me;
    3) devono considerarsi abrogate se contengono benedizioni per Israele e sempre valide se contengono maledizioni.
Con risposte come queste, non può sorprendere che sia nato e continui a prosperare un antisemitismo cosiddetto cristiano, che qualcuno pensa di addolcire chiamandolo "antigiudaismo" o "antisemtismo teologico". Sarebbe sorprendente il contrario.
    Occorre allora tornare a sottolineare che nella Bibbia il popolo d'Israele costituisce una personalità corporativa con cui Dio tratta come se fosse una singola persona. A Mosè Dio aveva ordinato:
    "Tu dirai al faraone: "Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: «Lascia andare mio figlio, perché mi serva»; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito"»." (Esodo 4:22-23.
Nell'Antico Testamento il termine "figlio di Dio" viene usato soltanto in due casi: per indicare il popolo d'Israele, come abbiamo visto sopra, e per indicare il suo Messia, come si legge nel Salmo 2:
    "Io annunzierò il decreto: l'Eterno mi ha detto: «Tu sei mio figlio, oggi io t'ho generato. Chiedimi, io ti darò in eredità le nazioni e in possesso le estremità della terra. Tu le spezzerai con una verga di ferro; tu le frantumerai come un vaso d'argilla»" (Salmi 2:7-9).
L'altra espressione usata per indicare sia il popolo d'Israele, sia il suo Messia è "servo dell'Eterno", che compare nel libro di Isaia. Un passo in cui si intende certamente il popolo è il seguente:
    "Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l'amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: «Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato, tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te saranno svergognati e confusi; i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno; tu li cercherai e non li troverai più. Quelli che litigavano con te, quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla, come cosa che più non è; perché io, l'Eterno, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto! Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto», dice l'Eterno. «Il tuo salvatore è il Santo d'Israele" (Isaia 41:8-14). [...]


Un passo in cui invece si intende il Messia è il seguente:
    "Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni. Egli non griderà, non alzerà la voce, non la farà udire per le strade. Non frantumerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante; manifesterà la giustizia secondo verità. Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge" (Isaia 42:1-4).
Con un accurato calcolo si arriva a stabilire che nella seconda parte del profeta Isaia il servo dell'Eterno viene nominato 19 volte: di queste, 12 si riferiscono al popolo, 7 si riferiscono al Messia.
    Esiste dunque un collegamento per così dire vitale tra il popolo e il suo Messia, che non è possibile tentare di rompere senza serie conseguenze per chi ci prova. Il Messia staccato da Israele si trasforma in qualcosa d'altro che ben presto assume le sembianze di un idolo; Israele staccato dal suo Messia diventa una realtà politico-sociale priva di identità e di speranza per il futuro.
    Il Nuovo Testamento conferma questo collegamento vitale quando cita un passo del profeta Osea:
    "Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori d'Egitto" (Osea 11:1)
applicandolo alla fuga di Giuseppe in Egitto:
    "Là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: «Fuori d'Egitto chiamai mio figlio»" (Matteo 2:15).
Il Messia è collegato indissolubilmente al popolo come suo rappresentante giuridico nel patto che Dio ha stabilito con Israele. E' stato inviato a Israele una prima volta nella persona di Gesù di Nazaret. La luce apparsa ai pastori nella cosiddetta "notte di Natale", e ai magi d'Oriente qualche tempo dopo, esprime la presenza della Shekinah di Dio che si avvicina al popolo in forma velata. Gesù viene a portare la santità di Dio sulla terra, anzitutto nella sua persona, avendo egli vissuto in tutto e per tutto come un irreprensible pio ebreo, e poi nel popolo, come possibilità ottenuta dal Padre di portare sulla terra il perdono dei peccati. [...]


Il Messia sofferente

    Israele si è presentato agli occhi di Dio come un popolo che non era soltanto genericamente malvagio, come tutti i popoli della terra, ma trasgressore di una precisa volontà rivelata da Dio. Per motivi di giustizia e di mantenimento della sovranità di Dio, doveva dunque esserci una punizione.
    E' in questo momento che entra in gioco la figura del Messia sofferente. Come rappresentante giuridico di tutta la nazione, Gesù si è assunto davanti a Dio la responsabilità oggettiva di tutti i peccati del popolo. La punizione destinata al popolo è caduta su di Lui.
    "Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e grazie alle sue ferite noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma l'Eterno ha fatto ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti." (Isaia 53:5-6).
I primi che hanno capito e fatto proprie queste parole, per quello che era possibile individualmente, cioè l'ottenimento del perdono dei peccati, la guarigione dalla schiavitù del peccato e la pace, sono stati degli ebrei. Tuttavia è vero che Israele come nazione non è stato liberato dalla mano dei suoi nemici, che le promesse gloriose del regno messianico non si sono attuate, che Dio non sembra governare né su Israele né sul resto del mondo. Come si spiega tutto questo?
    Torniamo al binomio sovranità-santità di Dio. Esso può essere espresso anche nella forma sovranità-grazia di Dio perché, come emerge anche dal sermone sul monte di Gesù, il livello di santità richiesto da Dio per entrare nel suo regno non può in alcun modo essere raggiunto con sforzi umani. Si può allora esprimere la cosa in questo modo: nel piano di Dio il Messia è destinato a svolgere per Israele le funzioni di Re e Salvatore; quando questo sarà una realtà per Israele, si compirà anche la promessa fatta ad Abramo di essere strumento di benedizione per tutte le genti, perché il Messia inviato a Israele si manifesterà anche come Re e Salvatore di tutto mondo. La difficoltà sta nel mettere insieme, nel Messia, le due figure di Re e Salvatore, e nel collegare correttamente Israele e mondo. [...]


Un popolo perdonato, una nazione santa

    In ambito evangelico si sottolinea giustamente che Gesù è morto "per i miei peccati" e vuole diventare "il mio personale Salvatore". Questo è vero, ma non è tutto. E in qualche caso quello che si tace può diventare tanto importante negativamente quanto è importante positivamente quello che si dice. Le parole "Gesù doveva morire per la nazione" (Giovanni 11:51) si riferiscono in prima battuta non a me personalmente, singolo gentile, ma a Israele come collettività. Soltanto in seguito l'evangelista aggiunge: "e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi". Tra i figli di Dio dispersi posso esserci anch'io, se sinceramente ho creduto in Cristo e "l'ho accettato come mio personale Salvatore" (espressione che però non compare mai nella Bibbia). Di tutto questo posso lodare con tutto il cuore il Signore che mi ha salvato, ma non mi è lecito mutilare la Scrittura per ricavarne un riassuntino maneggevole



per i miei propri scopi. Il "mio Salvatore personale" non deve diventare il patrocinatore dei miei interessi personali.
    L'accostamento di nazione e dispersione nel testo citato di Giovanni può anche fornire uno spunto interessante per valutare la contrapposizione, oggi attualissima nel mondo ebraico, tra nazione e diaspora. Dov'è il posto degli ebrei oggi? In Israele, rispondono alcuni, perché è lì che il popolo ebraico può sopravvivere e testimoniare al mondo dell'unico vero Dio; lo Stato ebraico è uno strumento che serve a questo scopo. Nel mondo, rispondono altri, perché è nella dispersione fra tutte le nazioni che si può essere presenti come un sale che conserva e comunica al mondo un aroma particolare del tutto unico; lo Stato ebraico è un intralcio al compimento di questa missione.
    Gesù è morto affinché Israele vivesse come nazione e il suo popolo etnico ora disperso fosse un giorno riunito sulla sua terra sotto un unico pastore. Israele però non può accontentarsi di sopravvivere, non può sperare di ottenere il permesso di vivere come tutte le altre nazioni, né da Dio, né dal mondo. Al mondo il permesso l'ha chiesto Theodor Herzl con il suo sionismo diplomatico, seguito poi da quello più muscoloso di Ben Gurion e compagni, ma gli ebrei ultra-ortodossi in fondo non hanno torto quando dicono che il sionismo è una forma di assimilazionismo nazionale: gli ebrei, non essendo riusciti ad essere accettati nelle varie nazioni come singoli cittadini uguali a tutti gli altri, hanno tentato di essere accettati nel mondo come una nazione uguale a tutte le altre, e non ci sono riusciti. Israele infatti è l'unica nazione di cui si continua a discutere se ha o no il "diritto all'esistenza". Si direbbe che anche per il mondo Israele non può esistere come nazione uguale a tutte le altre: deve essere una "nazione santa". Solo la "santità" richiesta dalla comunità internazionale potrebbe darle il diritto all'esistenza.
    Riguardo a Israele le nazioni si dividono in due: le buone e le cattive. Le cattive lo vogliono distruggere, le buone lo vogliono educare. Al discoletto Israele le nazioni buone dicono: se non vuoi che le cattive ti distruggano - o, per meglio dire, che noi acconsentiamo a che loro ti distruggano -, tu devi fare quello che ti diciamo noi. Questo, lo chiamano "processo di pace". Proprio come aveva detto Gesù in un altro contesto e ad altre persone, caricano Israele di "pesi difficili da portare", mentre loro "non li toccano neppure con un dito". Ma un giorno sarà smascherata la loro ipocrisia. [...]


Il rifiuto politico di Gesù da parte dei potenti della terra

    Vedremo in seguito le benefiche conseguenze che il perdono accordato a Israele ha portato anche a coloro che non appartengono a quel popolo, ma per ora rimaniamo in ambito ebraico ed esponiamo alcune tesi che restano sempre di attualità e non mancheranno di sollevare discussioni.
    E' da rigettare l'idea che oggi Israele sia un popolo maledetto, anche se soltanto temporaneamente, a causa del suo rifiuto di Cristo. Al contrario, il Messia Gesù, come rappresentante giuridico di tutto il popolo, nella sua morte ha preso su di sé la maledizione e nella sua risurrezione ha portato benedizione. Israele dunque è un popolo benedetto da Dio e fonte di benedizione per gli altri popoli, secondo la promessa fatta ad Abramo:
    "Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra»" (Genesi 12:2-3).
E' da rigettare l'idea che i mali che hanno colpito e colpiscono ancora il popolo ebraico siano una dimostrazione dell'ira di Dio che incombe ancora su di lui. Al contrario, la persistenza degli ebrei in mezzo a popoli che contro di loro hanno esibito il peggio della loro malvagità, dimostra che Israele si trova ancora oggi sotto la misericordia di Dio. Ed è anche un avvertimento: il progetto di Dio andrà avanti, quali che siano le decisioni prese dai potenti della terra che continuano a dare ordini a Israele e pretendono di decidere chi dovrà abitare sul monte Sion:
    "Perché tumultuano le nazioni, e meditano i popoli cose vane? I re della terra si ritrovano e i principi si consigliano assieme contro l'Eterno e contro il suo Unto, dicendo: Rompiamo i loro legami e gettiamo via da noi le loro funi. Colui che siede nei cieli ne riderà; il Signore si befferà di loro. Allora parlerà loro nella sua ira, e nel suo furore li renderà smarriti: Eppure, dirà, io ho stabilito il mio re sopra Sion, monte della mia santità. "Io spiegherò il decreto: L'Eterno mi disse: Tu sei il mio figlio, oggi io t'ho generato. Chiedimi, io ti darò le nazioni per tua eredità e le estremità della terra per tuo possesso. Tu le fiaccherai con uno scettro di ferro; tu le spezzerai come un vaso di vasellaio. Ora dunque, o re, siate savi; lasciatevi correggere, o giudici della terra. Servite l'Eterno con timore, e gioite con tremore. Rendete omaggio al figlio, che talora l'Eterno non si adiri e voi non periate nella vostra via, perché d'un tratto l'ira sua può divampare. Beati tutti quelli che confidano in lui!" (Salmo 2).
"Io ho stabilito il mio re sopra Sion, monte della mia santità" è una frase che coniuga sovranità e santità di Dio. Nessuno può pensare di poter prendere decisioni sul monte Sion senza tener conto della volontà già espressa da Dio. [...]


Salvezza storica e salvezza personale

    E' necessario, ancora una volta, eliminare la confusione sempre riemergente tra individuale e politico, tra salvezza personale e salvezza storica. Il Vangelo di Giovanni dichiara che sul piano della sovranità storico-politica la luce venuta nel mondo in Gesù è stata rifiutata da tutti, "dal giudeo prima e poi dal greco", da Caiafa e da Pilato, da ebrei e da gentili. A questa netta affermazione Giovanni aggiunge un "ma":
    "ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d'uomo, ma sono nati da Dio" (Giovanni 1:12, 13).
Dal piano politico, in cui si muovono la casa d'Israele e il mondo, e in cui avviene il rifiuto della sovranità di Dio manifestatasi nel Re Messia, si passa ora al piano individuale, in cui diventa possibile ottenere il perdono dei peccati e acquisire addirittura "il diritto di diventare figli di Dio". Questa possibilità è aperta a "tutti quelli" che credono nel Messia Salvatore, "al giudeo prima e poi al greco".
    Torniamo allora al Servo dell'Eterno di Isaia che abbiamo lasciato scoraggiato perché, dopo aver cercato di svolgere fedelmente l'incarico ricevuto da Dio "fin dal seno materno" di "ricondurgli Giacobbe e raccogliere intorno a lui Israele, a un certo momento esclama amaramente: "Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza" (Isaia 49:4). Poco dopo arriva la consolazione dell'Eterno:
    "Egli dice: «É troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d'Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra»" (Isaia 49:6).
La sovranità di Dio si manifesta anche nella sua capacità di usare la disubbidienza degli uomini per il compimento dei suoi scopi. Nella sua prima venuta come Servo sofferente dell'Eterno il Messia non ha potuto raccogliere intorno a Dio i figli di Giacobbe perché il popolo non ha voluto. E' stato respinto e messo a morte, ma in questo modo ha svolto l'altro compito che Dio aveva preparato per Lui: diventare luce delle nazioni facendo arrivare a tutti la "buona notizia" della possibilità di essere riconciliati con Dio e diventare suoi figli. Questo spiega la differenza tra i due mandati affidati da Gesù ai discepoli. Se all'inizio aveva ordinato:
    "Non andate fra i gentili, e non entrate in alcuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele" (Matteo 10:5-6),
alla fine ordinerà:
    "Andate per tutto il mondo e predicate l'evangelo ad ogni creatura" (Marco 16:15)
Proprio questo hanno fatto i primi discepoli: hanno predicato la buona notizia della salvezza che si poteva ricevere credendo nel Messia Gesù, cominciando dai giudei, perché a loro per primi doveva essere annunciata questa possibilità. [...]


La salvezza viene dai giudei

    Per secoli gli ebrei hanno vissuto in diaspora e tuttora vi si trovano, anche se una parte minoritaria di loro è raccolta nello Stato d'Israele. E' poco sottolineato il fatto che, dopo la morte di Cristo, la prima diaspora ebraica è stata costituita da ebrei che avevano creduto in Gesù come Messia:
    "Vi fu in quel tempo una grande persecuzione contro la chiesa che era in Gerusalemme. Tutti furono dispersi per le regioni della Giudea e della Samaria, salvo gli apostoli. [...] Allora quelli che erano dispersi se ne andarono di luogo in luogo, portando il lieto messaggio della Parola" (Atti 8:1,4).
Si noti però che come "chiesa" qui non s'intende la mastodontica multinazionale religiosa dei nostri tempi, ma un gruppo minoritario all'interno del popolo ebraico che le circostanze hanno spinto a svolgere un compito che è specifico di Israele: essere luce delle nazioni. Il "lieto messaggio della Parola" infatti è stato accolto, con sorpresa di tutti, anche dai gentili, e anzi in misura maggiore che dagli ebrei. Pochi anni dopo, come conseguenza della conquista di Gerusalemme da parte dei romani, la quasi totalità del popolo ebraico andò in diaspora. Essendo stato distrutto il Tempio, è venuto a mancare l'elemento fondamentale per adorare Dio in modo conforme alla legge data da Mosè. Gesù però l'aveva preannunciato.
    Un giorno una donna "palestinese", appartenente a una popolazione ostile che abitava nella Samaria, una zona oggi contesa chiamata Cisgiordania, ricordò a Gesù che tra ebrei e samaritani esisteva un contrasto insanabile a proposito dell'adorazione: per gli uni si doveva adorare Dio sul monte Sion a Gerusalemme, per gli altri sul monte Garizim, nelle vicinanze dell'attuale Nablus. Risposta:
    "Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre»" (Giovanni 4:21).
«Finalmente una parola chiara!» diranno con entusiasmo gli ecumenici. «Basta con queste dispute su luoghi e forme di adorazione, basta con la pretesa di possedere in proprio la verità! La verità è che ciascuno, ebreo, cristiano, musulmano o altro che sia, deve essere libero di seguire la propria strada che conduce a Dio, purché lo faccia con convinzione e serietà. Seguendo ciascuno la propria via, arriveremo tutti all'unico vero Dio!»
    Quelli che parlano e operano in questo modo hanno effettivamente una cosa in comune: che adorano quello che non conoscono. Ciascuno dice di avere la luce e si muovono tutti nelle tenebre dell'ignoranza. [...]


Discernere i segni dei tempi

    La cena del Signore dovrebbe far avvertire a chi vi partecipa l'humus ebraico, che è di tipo storico, non magico. L'importanza centrale dell'atto sta nel riportare alla mente la successione temporale degli interventi di Dio in una storia di cui si è partecipi. Si fa qualcosa nel presente (mangiare il pane e bere dal calice), che ricorda un fatto del passato (la morte del Signore), in attesa di un evento futuro (il ritorno di Gesù).
    Dio è sempre lo stesso e il suo progetto di salvezza è stato stabilito una volta per tutte prima dell'origine del mondo, ma il modo in cui esso si realizza nella storia avviene in un susseguirsi di tempi particolari in cui Dio si rapporta agli uomini in modi sempre diversi, ma finalizzati ad un unico obiettivo. E' necessario dunque essere ben attenti e imparare a discernere i "segni dei tempi", cosa che i contemporanei di Gesù non hanno saputo fare:
    "I farisei e i sadducei si avvicinarono a lui per metterlo alla prova e gli chiesero di mostrar loro un segno dal cielo. Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perché il cielo rosseggia!" e la mattina dite: "Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!" L'aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli? Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno, e segno non le sarà dato se non quello di Giona». E, lasciatili, se ne andò" (Matteo 16:1-4).
In quella occasione Gesù, sapendo che sarebbe stato rigettato dal suo popolo, ha annunciato la venuta di un'ora nuova rispetto al passato, un tempo diverso da quello che Israele aveva vissuto e stava vivendo in quel momento, ma che era stato annunciato a suo tempo dai profeti:
    "I figli d'Israele infatti staranno per parecchio tempo senza re, senza capo, senza sacrificio e senza statua, senza efod e senza idoli domestici" (Osea 3:4).
Il Tempio sarebbe stato distrutto, Gesù l'aveva detto. E senza Tempio si possono fare molte cose, ma non quelle più importanti che la legge mosaica richiede: i sacrifici, con i quali i peccati vengono coperti davanti a Dio. [...]


Il Messia trionfante

    Il popolo ritornerà al Signore e questo permetterà l'insediamento del "trono di Davide", il ristabilimento di Israele come nazione, sulla sua terra e con il suo Re. E significherà anche la sconfitta di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, anche "cristiano", ne avranno cercato la distruzione.
    Sarà questa la manifestazione del Maschiach Ben David, il Messia Gesù che ritornerà sulla terra in forma trionfante, come se ne parla negli ultimi versetti che precedono il famoso brano di Isaia 53:
    "Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, sono rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante al punto da non sembrare più un uomo, e il suo aspetto al punto da non sembrare più un figlio d'uomo), così molte saranno le nazioni, di cui egli desterà l'ammirazione; i re chiuderanno la bocca davanti a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, apprenderanno quello che non avevano udito" (Isaia 52:13-15).
Sarà stabilita sulla terra la sovranità di Dio in forma politico-giuridica, e non soltanto intimo-pastorale come oggi. Nel salmo 2 si parla di un "decreto" che sarà emesso da Dio:
    "Io spiegherò il decreto: L'Eterno mi disse: Tu sei il mio figlio, oggi io t'ho generato. Chiedimi, io ti darò le nazioni per tua eredità e le estremità della terra per tuo possesso. Tu le fiaccherai con uno scettro di ferro; tu le spezzerai come un vaso di vasellaio" (Salmo 2:7-9).
Sarà un insediamento su un seggio regale:
    "L'Eterno ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi. L'Eterno estenderà da Sion lo scettro della sua potenza: Signoreggia in mezzo ai tuoi nemici! Il tuo popolo s'offre volenteroso nel giorno che raduni il tuo esercito. Parata di santità, dal seno dell'alba, la tua gioventù viene a te come la rugiada. L'Eterno l'ha giurato e non si pentirà: Tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec. Il Signore, alla tua destra, schiaccerà dei re nel giorno della sua ira, eserciterà il giudizio fra le nazioni, riempirà ogni luogo di cadaveri, schiaccerà il capo ai nemici sopra un vasto paese; berrà dal torrente per via, e perciò alzerà il capo" (Salmo 110).
Sarà un regno, non una democrazia. [...]


La prima predicazione apostolica

    Cerchiamo adesso di porci nei panni di coloro che hanno udito la predicazione di Pietro in quella festa di Pentecoste. Ai suoi connazionali l'apostolo ha rivolto un discorso sconvolgente che suona più o meno così: voi aspettavate un Messia che vi liberasse dalle mani dei vostri nemici; sappiate che il Messia è venuto, voi l'avete rigettato e l'avete consegnato nelle mani dei vostri nemici; loro l'hanno ucciso; il Messia però è risuscitato, è stato con noi una quarantina di giorni e poi se ne è ritornato in cielo.
    E adesso? Si saranno chiesti impauriti gli uditori, che succederà? Da quel cielo dove ora il Messia si trova non possono che pioverci addosso fuochi e fulmini. La conclusione di Pietro invece è un'altra:
    "Ora, fratelli, io so che lo faceste per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma ciò che Dio aveva preannunziato per bocca di tutti i profeti, cioè, che il suo Cristo avrebbe sofferto, egli lo ha adempiuto in questa maniera. Ravvedetevi dunque e convertitevi, perché i vostri peccati siano cancellati e affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro e che egli mandi il Cristo che vi è stato predestinato, cioè Gesù, che il cielo deve tenere accolto fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose; di cui Dio ha parlato fin dall'antichità per bocca dei suoi santi profeti. Mosè, infatti, disse: "Il Signore Dio vi susciterà in mezzo ai vostri fratelli un profeta come me; ascoltatelo in tutte le cose che vi dirà. E avverrà che chiunque non avrà ascoltato questo profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo". Tutti i profeti, che hanno parlato da Samuele in poi, hanno anch'essi annunziato questi giorni. Voi siete i figli dei profeti e del patto che Dio fece con i vostri padri, dicendo ad Abraamo: "Nella tua discendenza tutte le nazioni della terra saranno benedette". A voi per primi Dio, avendo suscitato il suo Servo, lo ha mandato per benedirvi, convertendo ciascuno di voi dalle sue malvagità»" (Atti 3:17-26).
Pietro annuncia ai suoi fratelli israeliti che in Gesù si sono adempiute, in modo inaspettato, le profezie riguardanti il Messia sofferente. Dio ha voluto benedirci - annuncia l'apostolo - compiendo quello che aveva più volte promesso: l'espiazione dell'iniquità del popolo (Daniele 9:24). La benedizione del perdono dei peccati scende ora su Israele e presto si estenderà a tutti i popoli della terra perché sta scritto che "nella tua discendenza tutte le nazioni della terra saranno benedette". Per ottenere personalmente il beneficio del perdono è necessario che ciascuno creda a questo messaggio e si converta dalle sue malvagità. Il cielo ora "tiene accolto" il Messia, ma un giorno Dio manderà di nuovo "il Messia che vi è stato predestinato" e arriveranno i "tempi della restaurazione di tutte le cose". [...]


Dov'è il centro del mondo?

    «Il centro del mondo è Israele. Il centro di Israele è Gerusalemme. Il centro di Gerusalemme è Mea Shearim, e il centro di Mea Shearim sono gli Stüblach», ha detto poco tempo fa un ebreo ultraortodosso a un giornalista che lo interrogava. Mea Shearim è il quartiere ebraico di Gerusalemme abitato da ebrei particolarmente pii che vogliono vivere secondo le regole stabilite dalle tradizioni rabbiniche; gli Stüblach sono, in lingua yiddish, le innumerevoli minisinagoghe del quartiere in cui i devoti si immergono giorno e notte nello studio della Torà.
    La dichiarazione dell'ebreo ultraortodosso è interessante, ma da un punto di vista biblico dovrebbe essere corretta così:
    «Il centro del mondo è Israele. Il centro di Israele è Gerusalemme. Il centro di Gerusalemme è il monte Sion».
     "Mea Shearim o Sion?" Un bel dilemma, che potrebbe esprimerne altri come "rabbinismo o sionismo?" "moralità o storia?"
    Per secoli l'ebraismo è vissuto in diaspora. In diaspora è vissuto e cresciuto nei primi secoli anche il cristianesimo, formato da gentili che si sono uniti agli ebrei che avevano creduto in Gesù come Messia. In diaspora avrebbe dovuto rimanere sempre anche il cristianesimo, nella convinzione di non avere alcun diritto - e di fatto alcuna possibilità - di anticipare i tempi stabiliti da Dio per il suo popolo Israele. La costituzione di una nuova centralità territoriale "cristiana" alternativa a quella ebraica rappresenta il peccato politico del cristianesimo ufficiale, perché pretende, senza averne alcun diritto, di essere l'espressione visibile della sovranità di Dio sulla terra. [...]


La storia di Gesù

    I cristiani evangelici di una certa corrente hanno alcune cose in comune con gli ebrei ultraortodossi: entrambi i gruppi credono nella venuta del regno di Dio con centro in Gerusalemme ed entrambi sono convinti che questo regno sarà instaurato dal Messia e non sarà il frutto di sforzi militari o politici umani. La differenza principale consiste, naturalmente, nell'individuazione della persona del Messia. Esistono però anche altre differenze che suddividono entrambi i gruppi, provocate dalle diverse risposte alla domanda: in che modo bisogna aspettare la venuta del Messia?
    In modo molto schematico, si può dire che, riguardo ai tre dilemmi indicati sopra, gli ebrei ultraortodossi scelgono Mea Shearim, rabbinismo e moralità. Per prepararsi adeguatamente alla venuta del Messia, e forse anche affrettarla, evitano l'arena politica mondana, si chiudono in un volontario ghetto religioso, studiano le interpretazioni rabbiniche della Torà e cercano di mettere in pratica le norme di condotta che da esse ricavano.
    Gli ebrei ultraortodossi, come molti cristiani evangelici, non hanno interesse per la storia: quello che conta per loro è unicamente il comportamento personale, da esaminare e vivere in un confronto continuo con quello che pensano, dicono e fanno gli altri appartenenti al gruppo. Quello che accade fuori non interessa, a meno che non abbia influenza diretta sul singolo o sul gruppo. Fuori ci sono i lupi, da cui guardarsi e a cui rivolgersi soltanto allo scopo di portarne qualcuno dentro il gruppo dopo un'adeguata revisione del suo modo di pensare e di comportarsi.
    Nell'ottica autenticamente biblica invece il riferimento alla storia è indispensabile. Parlare di Gesù, che è il centro del messaggio cristiano, significa parlare di storia. E parlare di storia in relazione a Gesù significa parlare di Israele. Può essere utile allora esaminare attentamente il linguaggio con cui per la prima volta nella storia un ebreo parla di Gesù a un gentile. L'apostolo Pietro, spinto da circostanze per lui imprevedibili, rivolge la parola a un centurione romano:
    "Allora Pietro, cominciando a parlare, disse: «In verità comprendo che Dio non ha riguardi personali; ma che in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito. Questa è la parola ch'egli ha diretta ai figli d'Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo. Egli è il Signore di tutti. Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com'egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nel paese dei giudei e in Gerusalemme; essi lo uccisero, appendendolo a un legno. Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che egli si manifestasse non a tutto il popolo, ma ai testimoni prescelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha comandato di annunziare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito giudice dei vivi e dei morti. Di lui attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome»" (Atti 10:34-43).
Pietro espone all'ignorante militare romano la "storia di Gesù di Nazaret", informandolo che Dio ha rivolto la parola ai "figli d'Israele" affinché portassero a tutti "il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo". Sono dunque i perdonati "figli d'Israele" che hanno annunciato ai gentili la possibilità di essere perdonati in Gesù. Il perdono è accessibile a tutti, ebrei e gentili, ma i gentili hanno dimenticato che "la salvezza viene dai giudei"; hanno dimenticato che fin dai tempi antichi a Israele era stata annunciata la venuta di un Messia attraverso il quale tutti avrebbero potuto essere perdonati, "il giudeo prima e poi il greco". Questo fatto non è una novità, non è una deviazione o un'invenzione tardiva dei cristiani, ma fa parte del patrimonio donato a Israele e annunciato negli scritti dei suoi profeti. Infatti "di lui (Gesù) attestano tutti i profeti che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome" (Atti 10:43). [...]


Considerazioni conclusive

    Si ritiene utile concludere con l’enunciazione sintetica di alcune tesi.
    
    Il popolo ebraico costituisce una nazione per un’esplicita volontà di Dio che non si è modificata con il tempo.
    L’attuale Stato d’Israele, costituito sulla sua terra, non è il regno messianico promesso a Davide, ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo.
    Dio non si aspetta che gli uomini edifichino il suo regno con le proprie mani, ma vuole verificare quale posizione ciascuno prende davanti alla manifestazione della sua volontà.
    Con una serie di prodigi che possono soltanto essere chiamati miracoli, Dio ha fatto in modo che si ricostituisse sulla terra d’Israele la nazione ebraica.
    Anche se per la ricostituzione di questa nazione Dio ha usato la sua potente autorità, ha voluto tuttavia che la fondazione dello Stato d’Israele avvenisse secondo gli usuali criteri di giustizia umani usati dalle nazioni affinché fosse evidente che chi vi si oppone è un ingiusto che vuole “soffocare la verità con l’ingiustizia” (Romani 1:18).
    Dio ama tutti gli uomini, ma la Scrittura rivela che esiste una successione storica temporale che non può essere trascurata: Dio ama “prima il giudeo, poi il greco”, prima Israele, poi le altre nazioni, proprio come ogni uomo moralmente sano ama prima sua moglie, poi tutti gli altri. Si dovrebbe diffidare di chi dice di amare tanto il prossimo ma mostra di non essere capace di amare sua moglie.
    Per il gentile che ha ottenuto il perdono dei suoi peccati credendo in Gesù come Signore e Salvatore, è - o dovrebbe essere - del tutto naturale sentirsi dalla parte d’Israele e schierarsi in sua difesa.
    Poiché Gesù continua ad amare Israele e aspetta il momento di “ricondurre a Dio Giacobbe”, la comunione spirituale con Lui provoca - o dovrebbe provocare - sentimenti di solidarietà e particolare amore per i membri di quel popolo, indipendentemente da come reagiscono davanti alla testimonianza del Vangelo.
    I veri credenti in Gesù devono aspettarsi, e accettare serenamente come parte del loro servizio di testimonianza, eventuali manifestazioni di anticristianesimo ebraico, ma devono essere del tutto intolleranti davanti a ogni forma di antisemitismo cristiano.
    Il concetto di nazione ebraica è fondato giuridicamente sull’atto costitutivo della promessa di Dio fatta ad Abramo e costituisce un elemento fondamentale a sostegno dell’esistenza e dell’identità del popolo ebraico. L’antisionismo, presentandosi come negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazionalità, costituisce l’ultima forma di odio antiebraico. Il suo nome potrebbe essere “antisemitismo giuridico”. Dopo l’antisemitismo teologico pseudocristiano e l’antisemitismo biologico pagano, quest’ultimo tipo di antisemitismo ha tutte le caratteristiche per diventare più esteso, più radicale, più viscido, e di conseguenza più pericoloso di tutti gli altri.
    Il fatto che espressioni come “figlio di Dio” e “servo dell’Eterno” siano usate dalla Bibbia per indicare sia il popolo, sia il Messia inducono a ricercare paragoni e analogie tra la storia di Gesù e quella d’Israele. Si pensi per esempio alle parole con cui Leon Pinsker riassume la storia degli ebrei:
    Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi.24
Al lettore dei Vangeli viene subito in mente il racconto del bambino Gesù che Maria "coricò in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo" (Luca 2:7). E anche l'episodio in cui Gesù descrive la sua posizione sulla terra:
    "Mentre camminavano per la via, qualcuno gli disse: «Io ti seguirò dovunque andrai». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»" (Luca 9:57-58).
Perché allora non dire apertamente che la chiave con cui potrebbe essere spiegato l'enigma di Israele si trova nella persona e nella storia di Gesù? Perché non consolare il popolo di Dio dicendogli che il debito della sua iniquità è stato pagato dalla morte in croce del suo Messia e che la certezza della risurrezione di Israele come "nazione giusta" davanti a Dio, degna di entrare nella nuova Gerusalemme al seguito del suo Re, sta nel fatto che il suo Messia è risuscitato dai morti e come tale "non muore più, la morte non ha più potere su di lui" (Romani 6:9)?
    Dichiarare questo, insieme al fatto che per partecipare un giorno alla gloria di Dio nel suo regno è necessario ravvedersi e credere personalmente in Gesù, riconoscendolo come Messia d'Israele e Salvatore del mondo, sarebbe un modo adeguato per essere "dalla parte d'Israele come discepoli di Cristo".


NOTE

1 Morasha, Breve storia degli Ebrei d'Italia, internet
2 "Allgemeine Zeitung des Judentums", 12, 1848, p.210.
3 Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi
  1993, p. 19
4 Renzo De Felice, ivi, p.207.
5 Leon Pinsker, Auto-emancipazione, il nuovo melangolo, 2004, pp. 39-40
6 Leon Pinsker, ivi, pp. 40-41.
7 Leon Pinsker, ivi, p. 41.
8 Leon Pinsker, ivi, pp. 41-42.
9 Leon Pinsker, ivi, pp. 42-43.
10 Leon Pinsker, ivi, pp. 48-49.
11 Leon Pinsker, ivi, p. 49.
12 Leon Pinsker, ivi, pp. 49-50.
13 Giampiero Carocci, Storia degli ebrei in Italia, Newton & Compton,
    2005, p. 31.
14 Renzo De Felice, ivi, p. 222.
15 Leon Pinsker, ivi, pp. 51-52.
16 Il termine "Eterno" traduce il Nome corrispondente al tetragramma.
17 Leon Pinsker, ivi, p. 48.
18 Leon Pinsker, ivi, p. 57.
19 Leon Pinsker, ivi, pp. 58-59.
20 Leon Pinsker, ivi, p. 61.
21 Robert Stewart, Commentario di Luca, Claudiana, 1911, p. 25.
22 Robert Stewart, ivi, p. 26.
23 Leon Pinsker, ivi, p. 48.
24 Leon Pinsker, ivi, p. 49.






2. MUSICA E IMMAGINI




Baruch Adonai




3. INDIRIZZI INTERNET




Israel and Zionism!

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