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Notizie su Israele 475 - 5 dicembre 2009

1. La donna polacca che salvò 2500 bambini ebrei
2. Per capire le accuse mosse agli israeliani
3. Yemen judenrein
4. Intervista allo scrittore Yehoshua Kenaz
5. Panorama messianico da Gerusalemme
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 44:21-22. «Ricòrdati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato, tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato. Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.»
1. LA DONNA POLACCA CHE SALVÒ 2500 BAMBINI EBREI




La Sendler's list che sfuggì a Hitler

di Angelo Paoluzi

Irena Sendler
Le guerre che il nazismo ha scatenato in Europa alla fine degli anni '30 (è stato ricordato nelle settimane scorse l'anniversario della vile aggressione contro la Polonia) hanno avuto, per la prima volta nella storia, una caratteristica: sono state guerre contro i bambini. Come prova il grido rabbioso di Adolf Hitler dopo il fallito attentato del 14 luglio 1944: "Spegnete i figli della congiura!", condannando a morte almeno cinquemila familiari, di ogni età, del gruppo degli oppositori. Ma ovunque nel mondo occupato dai complici del paranoico dittatore (non a caso sterile e impotente) per cinque anni si è messa in moto una filiera di resistenza che ha risparmiato migliaia di bambini ebrei, russi, slavi, polacchi, zingari e di ogni altra nazione o etnia condannata allo sterminio.
    Molte vicende devono ancora essere narrate; memorie e archivi si aprono per rivelare quanto, in tempi di ferocia, l'umanità fosse disposta a rischiare in generosità. Abbiamo così saputo di recente che 2500 bambini ebrei polacchi sono stati sottratti al genocidio, fra il 1942 e il 1945, per merito di una organizzazione, "Zègota", guidata da una donna, Irena Sendler, poi dichiarata "giusta fra le nazioni". È stata assicurata, di quei 2500, una discendenza, ormai alla terza generazione, dispersa per il mondo; non tutti sono sempre consapevoli del modo con il quale sono stati risparmiati ma c'è una "Associazione dei Bambini dell'Olocausto in Polonia" - presieduta da Elzbieta Fikowska, lei stessa salvata a sei mesi - che raccoglie un migliaio di superstiti e mantiene la memoria di quegli avvenimenti.
    Sono vicende narrate in un libro, Nome in codice Jolanta (San Paolo, Cinisello B. 2009, pagg, 298, euro 20), collazionato da Anna Mieszkowska e con prefazione, nell'edizione italiana, di Moni Ovadia.
    Nel 1943 Czeslaw Milosz (futuro Nobel, nel 1980, per la letteratura) in una delle poesie composte a Varsavia durante la Resistenza, cui ha partecipato, ha scritto: «Se guardassimo meglio e più saggiamente/ Un nuovo fiore ancora e più d'una stella/ Nel giardino del mondo scorgeremmo» (da "Speranza", in Poesie, Adelphi, Milano 1983). Sono tre versi nella cui filigrana si spiega l'esplosione di dignità e solidarietà di un popolo, come quello polacco, oppresso da una occupazione spietata, ridotto ai limiti della sussistenza fisica, con una tradizione di stolido antisemitismo mai del tutto eliminato (né ieri, né oggi, e negli stessi ambienti cattolici). "Zègota" raccoglieva ebrei e non ebrei - questi ultimi erano la maggioranza perché, nonostante l'occupazione, potevano muoversi più agevolmente -, professionisti e operai, comunisti e liberali, atei e preti. Poteva contare su diffuse complicità in tutti i settori della popolazione, nelle amministrazioni, tra le forze di polizia, talvolta persino su militari cattolici tedeschi; e compattamente fare affidamento sulla struttura ecclesiale, cattolica e protestante.
    Quei bambini erano così aiutati a fuggire nascosti nelle cassette della frutta e delle verdure, sotto gli assiti dei tram, nelle ambulanze; attraverso le macerie delle case distrutte, le fognature o cunicoli appositamente scavati. Erano adottati, quasi sempre con nomi falsi, da famiglie con figli numerosi, oppure venivano ricoverati in asili, collegi, orfanotrofi, istituzioni scolastiche per lo più facenti capo alla Chiesa. Nel corso del racconto emerge - la Sendler e i suoi principali collaboratori non erano per lo più praticanti - come risultato naturale che "nessuno" dei bimbi affidati alle strutture ecclesiali abbia corso pericoli, nessuno sia morto, e che da qualche parte, sia pure a rischio, si sia tenuta memoria delle identità: non ci sono stati battesimi forzosi se non sui certificati falsi. Con un fenomeno collaterale, al quale si allude qua e là senza insistere troppo: la regressione, specialmente fra le classi colte, dell'antisemitismo, e la conversione a una fraterna solidarietà.
    Al centro di tutto questo, si diceva, Irena Sendler, una giovane insegnante politicamente vicina ai socialisti e trovatasi nel dramma della guerra, dell'occupazione e dell'oscena spartizione del suo paese fra Terzo Reich e Unione sovietica.
    La figura della Sendler (scomparsa a 98 anni nel 2008) è riemersa per una fortuita circostanza: cinque studentesse dell'università di Uniontown, nel Kansas, per partecipare alle "Olimpiadi di Storia" svilupparono nel 1999 un avvenimento che avevano letto su un diffuso settimanale, quello cioè di una donna che in Polonia aveva salvato 2500 bambini ebrei durante l'occupazione nazista. Il professore che le seguiva le aveva messe in guardia: non ci sarà qualche zero in più? Ma le cinque ragazze si erano documentate e avevano organizzato uno spettacolo, della durata di pochi minuti, e dal titolo Olocausto. La vita in un barattolo (il barattolo era quello in cui era nascosta la preziosa lista dei nomi veri dei bimbi salvati).
    La pièce aveva fatto il giro dell'America, risvegliando l'interesse dell'opinione pubblica, anche se dal 1965 la Sendler aveva già ottenuto l'onore di un albero nel "giardino dei giusti" dello Yad Vashem.
    Il libro racconta tutto questo, sia le vicende accadute, sia il recupero della memoria, talvolta in modo un po' disordinato, ma con passione. Diventa un ammonimento a chi volesse dimenticare o, ancor peggio, a chi intendesse riscrivere la storia e relativizzarne il lato oscuro con l'abbandono fatalistico al male. Se Irena Sendler lo avesse pensato altre migliaia di vittime innocenti si sarebbero aggiunte all'elenco dello sconvolgente Olocausto del Novecento.

(Europa, 28 novembre 2009)





2. PER CAPIRE LE ACCUSE MOSSE AGLI ISRAELIANI




Un musulmano in un paese ebraico

di Tashbih Sayyed

Il dott. Tashbih Sayyed era quello che si può tranquillamente definire un musulmano liberale. Nato in Pakistan nel 1941 (e morto nel 2007), membro del Jihad Watch Board., redattore capo di Pakistan Today e Islam World Today, tra il 1967 e il 1980 ha lavorato per la Pakistan Television Corporation, battendosi sempre per la democrazia e contro il terrorismo.
Dopo l'attacco alle Torri Gemelle del 2001 e l'ondata filofondamentalista che inneggiava alla jihad, invece di accodarsi alla massa per dichiarare guerra agli infedeli, Sayyed ammise apertamente e a gran voce che esisteva un problema all'interno dell'Islam che andava risolto. Una volta disse ad un suo amico: "La mia vita intera è dedicata ad un solo scopo: far capire ai Musulmani che la loro teologia ha bisogno di essere riformata e reinterpretata. Chiunque pensa che non ci sia nulla di sbagliato è o cieco o un apologeta.
Ci sono molte cose nelle Scritture che hanno bisogno di essere riformate e contestualizzate, in modo che esse non possano essere usate dai terroristi per giustificare omicidi, attentati e delitti d'onore". Nonostante questo non abbandonò mai la religione musulmana, perché credeva in una riforma dall'interno.
Nel 2005 compì il suo primo viaggio in Israele, al termine del quale scrisse il seguente articolo dal titolo: "Un musulmano in un Paese ebraico" che è tuttora di stretta attualità. Elena Lattes


Quando sono atterrato a Tel Aviv con il volo LY 0008 dell'El Al il 14 Novembre 2005, con mia moglie Kiran, la mia mente era impegnata nell'organizzare e nel riorganizzare la lista di cose che avevo intenzione di compiere. Volevo usare la mia prima visita in Israele per sentire la forza dello spirito ebraico che rifiuta di cedere alle forze del male, nonostante migliaia di anni di antisemitismo. Non volevo indagare sugli episodi di coloro che si immolano, ma i motivi della determinazione degli israeliani a vivere in pace.
    Ci sono molte cose di cui volevo parlare, soprattutto della loro riluttanza a fare qualcosa contro la scorretta informazione che continua a dipingerli come cattivi.
    Sebbene capisca perché i media, che coprono ragionevolmente la maggior parte degli eventi in modo accurato, scelgono di ignorare le regole etiche del giornalismo quando si tratta di Israele, non potevo comprendere la profondità della riluttanza israeliana a sfidare la stampa negativa in maniera efficace.
    Il biasimo mediatico mi ricordava l'era nazista, quando i giornali tedeschi erano tutti sotto il Ministro hitleriano per la Propaganda, Joseph Goebbels, che raccoglieva ogni parola di odio contro gli ebrei.
    Proprio come i giornali tedeschi che rifiutavano di stampare la verità sulle terribili atrocità commesse nei campi di sterminio in Europa, o che affermavano che era tutta un'esagerazione, i media oggigiorno ignorano il terrorismo arabo. Volevo vedere se c'era qualche verità nelle accuse secondo le quali Israele sarebbe uno Stato di apartheid, discriminatorio e non democratico.
    Sapevo che un vero Stato Ebraico non poteva non essere democratico, poiché il concetto di democrazia ha sempre fatto parte del pensiero ebraico e deriva direttamente dalla Torah (Pentateuco N.d.T.). Per esempio quando nel Preambolo della Dichiarazione di Indipendenza, Jefferson scrisse che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la Vita, la Libertà e il raggiungimento della Felicità, egli si stava riferendo al Pentateuco secondo il quale tutti gli uomini sono creati ad immagine divina. Ero sicuro che Israele non poteva essere razzista o discriminatorio, poiché si basa sull'idea del patto tra Dio e gli ebrei, nel quale entrambe le parti hanno accettato su di sé doveri e obblighi, sottolineando il fatto che il potere è stabilito attraverso il consenso di entrambe le parti piuttosto che attraverso la tirannia del più forte.
    La mia concezione dello Stato ebraico trovò conferma quando dovetti compilare il questionario di ingresso, prima di atterrare a Tel Aviv: non chiedeva la mia religione come invece prevedeva la legge in Pakistan e al contrario dell'Arabia Saudita nessuno mi chiese un certificato attestante la religione.
    Mentre il volo si avvicinava alla Terra Promessa, continuai a rimuginare sulla lista delle accuse mosse abitualmente ad Israele dai suoi nemici:
    gli israeliani vivono in un perpetuo stato di terrore;
    Israele non è democratico;
    I cittadini arabi musulmani non hanno pari diritti.

Gli israeliani vivono in un perpetuo stato di terrore
    Da Tel Aviv a Tiberiade, da Gerusalemme a Izreel, dalle alture del Golan al confine con Gaza, non riuscii a trovare nessun segno di paura. In effetti la gente si sentiva così sicura che nessun negozio, nessun benzinaio, nessun mercato o nessun residence dove andammo e dove sapevano che eravamo musulmani ritenne necessario perquisirci o interrogarci. Specialmente quando Kiran e io andammo una sera in via Ben Yehuda a Gerusalemme, la trovammo brulicante di gente di tutte le età. Il terreno era tremolante per la musica e i giovani, ragazzi e ragazze, erano così intenti a divertirsi che non si curavano affatto di guardarsi intorno. I turisti erano impegnati negli acquisti e l'intera folla sembrava muoversi al ritmo della musica.
    Non potevo non paragonare il senso di sicurezza in Israele con l'atmosfera di insicurezza che esiste nel Paesi musulmani. Dall'Indonesia all'Iran, dall'Afghanistan all'Arabia Saudita, la gente non è sicura di niente. Nella capitale pakistana, Islamabad, e nel porto di Karachi, mi veniva costantemente consigliato di non fare grandi acquisti pubblicamente per non incoraggiare i ladri a seguirmi. Non sentii nessuna notizia di violenza, di orribile assassinio o di rapina in Israele.

Israele non è democratico
    Come musulmano sono molto più sensibile all'assenza di libertà democratiche in qualunque società e non credo che qualcuno, se non gli antisemiti, potrà negare che Israele è una democrazia.
    La democrazia in Israele è proporzionale e rappresentativa, ma le coalizioni democratiche per rendere effettiva ogni decisione hanno necessariamente i loro problemi.
    Si presentò a noi il primo giorno a Cesarea. L'aria era piena di dibattiti e discussioni politici. La decisione di Ariel Sharon di lasciare il Likud e formare un nuovo partito politico dominava la hall dell'albergo e sottolineava i problemi causati dalla necessità di avere una coalizione democratica.
    "L'obiettivo di una società libera e democratica israeliana è di raggiungere un compromesso soddisfacente, ma spesso le conclusioni sono meno soddisfacenti, specialmente per la maggioranza. Essa richiede coalizioni e unità, ma anche controlli e bilanci su ogni potenziale abuso dei diritti della minoranza. Questo è migliore del sistema americano repubblicano rappresentativo che è veramente una rappresentanza di potere e di interessi specifici. Negli Usa hai una democrazia per pochi, in Israele hai una democrazia per tutti".
    Ho tentato faticosamente di trovare uno Stato musulmano che ha una vera democrazia e dove alle minoranze religiose sono concessi uguali diritti, ma ho fallito. La mappa del mondo musulmano è troppo affollata di re, despoti, dittatori, falsi democratici e autocrati teocratici e la persecuzione delle minoranze è una parte essenziale del comportamento sociale islamico. Ma qui, protetto dai princìpi democratici di Israele, ai cittadini arabi musulmani sono riconosciuti tutti i diritti e privilegi della cittadinanza israeliana. Quando si tennero le prime elezioni per la Kneset, nel 1949, agli arabi israeliani fu riconosciuto il diritto di voto e la possibilità di essere eletti al pari degli ebrei israeliani. Oggigiorno gli arabi israeliani hanno pieni diritti civili e politici necessari per una completa partecipazione nella società israeliana. Essi sono attivi nella vita sociale, politica e civile del Paese e sono rappresentati nel Parlamento, agli Affari Esteri e nel sistema giudiziario.
    La fede israeliana nella democrazia spiega anche il loro rifiuto a rispondere al terrorismo islamista in modo violento. Nonostante fossi consapevole della debolezza umana che permette alla rabbia di opprimere le migliori intenzioni, non riuscii a trovare israeliani che agivano per vendetta contro i loro compatrioti arabi. La mia esperienza come musulmano mi portava ad aspettarmi il peggio dal comportamento umano; i musulmani sotto l'influenza dell'Islam radicale si sono scatenati nel terrore contro i non-musulmani perfino quando fu appurato che le accuse di offese antiislamiche erano false.
    Ho pensato che ci volesse uno sforzo sovrumano per ignorare le atrocità subite e rimanere liberi dalle emozioni di vendetta. Nella mia esperienza delle società musulmane, alle minoranze non è mai stato concesso il beneficio del dubbio. L'odio per i non musulmani e lo scoppio della violenza contro le minoranze religiose tra i radicali musulmani sono rimasti una norma piuttosto che un'eccezione. Come musulmano non-wahabita ho personalmente affrontato le loro barbarie e ho visto Cristiani, Induisti e altre minoranze perseguitate in base a falsi pretesti. Ho pensato che se gli wahabiti in Arabia Saudita possono condannare un insegnante a 40 mesi di prigione e 750 frustate per aver lodato Gesù, non sarebbe irragionevole da parte israeliana punire i palestinesi per gettare pietre ai fedeli al Muro Occidentale e bruciare la tomba di Giuseppe.
    Ma perfino in questo campo gli israeliani hanno rivelato il mondo sbagliato. Nonostante le quotidiane provocazioni, hanno tentato con successo di non scendere allo stesso livello di depravazione dei loro nemici Arabi.
    Il mondo è abituato alla violenza quotidiana che viene perpetrata contro le minoranze religiose nel mondo Musulmano. Solo un paio di giorni fa, i fedeli musulmani in Pakistan hanno irrotto attraverso le mura di una chiesa, incendiandola e scardinandone le porte. Stavano reagendo a delle voci secondo le quali un cristiano aveva dissacrato il libro santo, il Corano. Hanno fracassato l'altare di marmo della Chiesa del Santo Spirito e infranto le finestre di vetro. Hanno anche incendiato un'abitazione cristiana e la vicina scuola femminile di Sant'Antonio. In un momento le fiamme hanno lambito i muri e il fumo nero ha riempito il cielo. Per giorni i clericali wahabiti hanno continuato ad incitare i seguaci musulmani ad uscire dalle loro case e difendere la loro fede scatenando il terrore.
    Mi chiedo se un giorno un israeliano potrà trovare giustificabile copiare quel che gli Wahabiti stanno facendo in Iraq e in altri posti - sequestrando, uccidendo e decapitando gli infedeli. Più recentemente il corpo di un autista indù, Maniappan Raman Kutty, è stato trovato con la gola tagliata nel sud dell'Afghanistan per nessuna ragione evidente, se non quella della sua fede.
    Ma non c'è niente nella storia che potrà sostenere i miei timori: gli Ebrei nonostante siano soggetti agli atti più barbari di terrorismo, non hanno ancora reagito per vendetta contro i loro persecutori. E concludo che la mia prima visita in Israele mi aiuterà a sciogliere l'enigma sull'insistenza israeliana nel continuare a rimanere un obiettivo del terrore islamico.

I cittadini arabi musulmani di Israele non hanno pari diritti
    Quando il nostro autobus con aria condizionata percorse le curve della strada montagnosa che porta nel cuore della Galilea, non potevo non vedere l'ergersi dei minareti che identificavano una quantità di cittadine arabo palestinesi che punteggiavano i lati delle colline. Le imponenti cupole delle moschee sottolineavano la libertà di cui i Musulmani godono nello Stato ebraico. Grandi abitazioni arabe, intensa attività edilizia e grandi automobili delineavano la prosperità e l'agiatezza della vita palestinese all'ombra della Stella di David.
    Sulla strada dalla città di David all'albergo Royal Prima a Gerusalemme, chiesi al mio tassista palestinese come si sentiva nell'andare nei territori sotto l'Autorità Palestinese. Mi disse che non aveva mai potuto pensare di vivere fuori di Israele. La sua risposta sfatò il mito diffuso dagli antisemiti secondo il quale i cittadini arabi israeliani non sono felici qui.
    Un altro palestinese mi informò che gli arabi in Israele hanno pieni diritti elettorali. Infatti Israele è uno dei pochi Paesi nel Medio Oriente dove le donne arabe possono votare. In contrasto con il mondo arabo non israeliano, esse godono dello stesso status degli uomini. Le donne musulmane hanno il diritto di votare e di essere elette nei pubblici uffici. Esse, infatti, sono più libere in Israele che in qualunque altro Paese musulmano. La legge israeliana proibisce la poligamia, il matrimonio con bambine e la barbarie delle mutilazioni genitali femminili.
    Inoltre ho scoperto che non ci sono casi di delitti d'onore. Lo status delle donne musulmane in Israele è di gran lunga superiore a quello di qualunque Paese nella regione, gli standard di salute sono tra i più alti nel Medio Oriente e le istituzioni sanitarie israeliane sono aperte a tutti gli arabi al pari degli ebrei.
    L'arabo, come l'ebraico, è lingua ufficiale e sottolinea la natura tollerante dello Stato ebraico. Su tutti i cartelli stradali i nomi in arabo campeggiano accanto a quelli in ebraico. E' la politica ufficiale del governo israeliano favorire la lingua, la cultura e le tradizioni della minoranza araba nel sistema educativo e nella vita quotidiana.
    La stampa araba israeliana è la più vibrante e indipendente di qualunque altro Paese nella regione. Ci sono più di 20 periodici che pubblicano ciò che più loro aggrada e sono soggetti soltanto alla stessa censura militare delle pubblicazioni ebraiche. Ci sono programmi quotidiani in arabo in televisione e alla radio.
    L'arabo è insegnato nelle scuole secondarie ebraiche. Più di 350mila bambini arabi frequentano le scuole israeliane. Quando Israele fu fondata c'era una sola scuola superiore araba. Oggi ce ne sono centinaia, le università israeliane sono rinomati centri di studio per la storia e la letteratura araba nel Medio Oriente.
    Consapevole delle restrizioni che i non-wahabiti sono costretti a subire durante i rituali religiosi condotti in Arabia Saudita, Kiran (mia moglie) non poteva nascondere la sua sorpresa di fronte alle libertà e alla facilità con cui le persone di tutte le religioni e fedi adempiono ai loro doveri religiosi alla Chiesa del Santo Sepolcro, alla Tomba del Giardino, presso il Mare di Galilea, nei tunnels recentemente scoperti del Muro Occidentale, il Muro Occidentale stesso, la tomba del Re David e tutti gli altri luoghi sacri che abbiamo visitato.
    Tutte le comunità religiose in Israele godono della piena protezione dello Stato. Gli arabi musulmani, come molti cristiani di diverse confessioni, sono liberi di esercitare le loro fedi, di osservare il loro giorno settimanale di riposo e di festa e di amministrare i loro stessi affari interni.
    Circa 80mila Drusi vivono in 22 villaggi nel nord di Israele. La loro religione non è accessibile dall'esterno ed essi costituiscono una comunità arabofona separata culturalmente, socialmente e religiosamente. Il concetto druso di taqiyya richiede ai suoi fedeli la completa lealtà al governo del Paese nel quale risiedono. In base a questo, oltre che per altri motivi, i drusi svolgono il loro servizio militare. Ogni comunità religiosa in Israele ha i suoi consigli e le sue corti e piena giurisdizione sugli affari religiosi, inclusi lo status personale, come matrimonio e divorzio. I luoghi santi di tutte le religioni sono amministrati dalle loro autorità e protetti dal governo.
    Un giornalista indù che venne a visitarmi mi parlò dell'apertura che la società ebraica rappresenta. Mi disse che più del 20% della popolazione non è ebrea e di questa, circa un milione e duecentomila sono musulmani, 140mila sono cristiani e 100mila drusi. Un altro israeliano non ebreo mi disse che i cristiani e i drusi sono liberi di arruolarsi nelle forze di difesa dello Stato ebraico. I beduini hanno prestato la loro opera nelle unità di paracadutisti e altri arabi si sono presentati volontariamente per assolvere il servizio militare.
    Le grandi case possedute dagli arabi israeliani e la quantità di edifici in costruzione nelle città arabe dimostrano la falsità della propaganda secondo la quale Israele discriminerebbe gli arabi israeliani dal comprare la terra. Ho scoperto che all'inizio del secolo, il Fondo Nazionale ebraico fu fondato dal Congresso mondiale sionista per comprare terra in Palestina per gli insediamenti ebraici.
    Dell'area totale di Israele, il 92 percento appartiene allo Stato ed è gestito dal Land Management Authority. Non è in vendita per nessuno, né per gli ebrei né per gli arabi.
    Il Waqf (la fondazione islamica addetta alla protezione dei beni religiosi N.d.T.) possiede terra che è per uso e beneficio espressamente per gli arabi musulmani. La terra governativa può



essere presa in affitto da chiunque, senza distinzione di razza, religione o sesso. Tutti gli arabi cittadini di Israele hannola possibilità di prenderla in locazione.
    Ho chiesto a tre arabi israeliani se erano costretti a subire discriminazioni sul lavoro. Tutti e tre mi hanno detto la stessa cosa: normalmente non c'è discriminazione, ma ogni qualvolta un bombarolo suicida si fa esplodere, uccidendo gli israeliani, alcuni si sentono a disagio con noi. Ma questo sgradevole sentimento è anche del tutto temporaneo e non dura a lungo.
    La mia prima visita in Israele non ha soltanto consolidato le mie opinioni che Israele è vitale per la stabilità della regione, ma mi ha anche convinto che la sua esistenza convincerà un giorno i musulmani della necessità di riformare la loro teologia e la loro sociologia.

    Un viaggio attraverso il deserto israeliano mi ha mostrato un altro importante aspetto della vita: i Profeti non sono solo coloro che compiono miracoli, la gente che crede in se stessa può anche compiere atti incredibili.
    Ettari ed ettari di dune di sabbia sono state trasformate nella terra più fertile possibile: grano, cotone, girasoli, piselli, arachidi, mango, avocado, limoni, papaya, banani e ogni altro tipo di frutta e verdura che gli israeliani vogliono consumare, è cresciuta all'interno del Paese. Infatti gli israeliani hanno provato oltre ogni dubbio perché Dio promise a loro questa terra, soltanto loro possono mantenerla verde.
    La terra è ripetutamente descritta nella Torah (Pentateuco, N.d.T.), come una buona terra "una terra dove scorrono latte e miele". Questa descrizione può anche non sembrare consona alle immagini del deserto che vediamo nelle notizie della sera, ma ricordiamoci che la terra è stata ripetutamente abusata dai conquistatori [che erano] determinati a farne un posto inabitabile per gli Ebrei.
    In poche decadi questi ultimi hanno ripreso il controllo della terra e l'enorme miglioramento nella loro agricoltura è ben testimoniato. L'agricoltura israeliana oggi ha una produzione altissima. È efficace ed è in grado di soddisfare il 75% dei bisogni interni, nonostante la scarsità di terra disponibile.
    Guardando allo sviluppo e alla trasformazione che la terra ha attraversato grazie allo spirito innovativo ebraico, al duro lavoro e impegno, alla libertà per tutti i tempi a venire, sono convinto che è vero che Dio ha creato questa terra, ma è anche un fatto che solo un Israele può impedire che la terra muoia.

(Agenzia Radicale, 30 novembre 2009)





3. YEMEN JUDENREIN




Dopo 2500 anni non ci sono più ebrei in Yemen

di Deborah Fait

L'argomento e' stato toccato cosi', en passant, senza darvi troppa importanza.
Triste, sì, quando una cosa finisce si prova sempre una grande malinconia, anche quando si sente parlare della tigre siberiana che sta scomparendo o della balenottera bianca in via di estinzione.
Triste.
Malinconico.
Nel caso di esseri umani, tragico.
Quando si tratta di una civilta' e di una cultura soffocate e portate ad estinguersi, addirittura drammatico.
Il professor Hayim Tawill, esperto studioso degli ebrei yemeniti, ha detto:
"Questa e' la fine degli ebrei della diaspora dello Yemen. That's it".
Sì, gli ebrei dello Yemen, quegli ebrei bellissimi, dalla pelle bronzea, quegli ebrei le cui donne camminano come regine, a testa alta, con i capelli raccolti in retine fatte di monete d'oro.
Quegli ebrei i cui uomini portano peyot arricciatissime e lunghe fino alle spalle, uomini dal profilo aquilino di una bellezza antica.
Non ci sono piu'.
That's it!
Li hanno portati via perche' rischiavano seriamente di essere ammazzati dai loro connazionali arabi.
La tragedia degli ebrei yemeniti, come di tutti gli 800.000 ebrei del mondo arabo, ebbe inizio nel 1948 con la fondazione dello stato moderno di Israele. Prima della data fatidica gli ebrei del mondo arabo vivevano alla meno peggio, con molta attenzione perche' erano dhimmi quindi soggetti ad essere maltrattati e uccisi, ma nel 1948 ebbe inizio la loro fine e ad Aden gli arabi, in un pogrom, ammazzarono centinaia di ebrei.
Tra il 1949 e il 1950 50.000 ebrei furono trasportati in Israele coll'operazione "Tappeto Volante".
I pochi che restarono in Yemen sapevano esattamente come poter sopravvivere, dovevano diventare trasparenti e silenziosi, cento, mille volte dhimmi.
La vita degli ebrei nel mondo islamico non e' mai stata come la propaganda araba vuol far apparire e la dhimmitudine, cioe' lo stato di tolleranza, e' sempre stato molto duro. Gli ebrei dovevano pagare una tassa speciale per avere il permesso di vivere, gli ebrei dovevano portare vestiti speciali, di un colore particolare, a loro non era permesso parlare in presenza di musulmani.
Gli ebrei rimasti in Yemen dopo il 1950 hanno vissuto nel pericolo quotidiano e negli ultimi anni, con la presenza di Al Qaeda anche al governo del paese, il pericolo si era fatto talmente concreto che Israele e la comunita' ebraica statunitense decisero di chiedere al governo del paese il permesso di portare via tutti i sudditi ebrei.
Oggi, dopo 2500 anni, si conclude la storia degli ebrei yemeniti, belli, regali, con la loro cultura antichissima, il loro ebraico biblico, i loro canti tristi e dolcissimi.
Li hanno portati via, una parte negli USA e tutti gli altri in Israele.
Le donne anziane continueranno a portare i capelli raccolti nelle cuffie di monete d'oro e continueranno a camminare come regine, a testa alta, gli occhi grandi e scuri nei quali poter leggere la storia antica del Popolo Ebraico.
Le ragazze e i ragazzi giovani indosseranno i jeans, andranno a scuola, respireranno la liberta' e non avranno piu' paura, potranno parlare davanti a tutti, cantare, gridare, divertirsi e soprattutto potranno vivere.
A 18 anni si metteranno il fucile in spalla e andranno a difendere Israele da quella stessa gente che per millenni aveva tormentato e ucciso i loro avi, l'antica regalita' si trasformera' in fierezza e in orgoglio, la fierezza e l'orgoglio che si respirano in Israele.
"Siamo ebrei e israeliani, non siamo piu' dhimmi, mai piu' nessuno potra' ammazzarci per capriccio o per divertimento"
Dopo 2500 anni la saga degli ebrei dello Yemen si conclude per sempre.
Il mondo arabo e' judenrein.
That's it.

(Informazione Corretta, 7 novembre 2009)





4. INTERVISTA ALLO SCRITTORE YEHOSHUA KENAZ




Israele, vita vera contro i miti

di Elena Loewenthal

Yehoshua Kenaz non ha nulla dello stereotipo cui dovrebbe assomigliare. È uno scrittore israeliano, ma niente affatto militante, per nulla sanguigno, né ammantato di un'aura sofferta. È un uomo mite e straordinariamente colto. Conosce la letteratura francese come pochi altri, ne ha tradotto i classici in ebraico. È una grande voce d'Israele, classico egli stesso. Nato a Petach Tikwah nel 1937, appartiene a pieno titolo a quella generazione di grandi autori ormai famosi in tutto il mondo, ma coltiva da sempre una vocazione intimistica, domestica. Attraverso essa, l'Israele di Kenaz diventa qualcosa di molto diverso dal solito. Una casa di riposo per anziani, un condominio «sventrato» sulla pagina, un dimesso salotto di qualche decennio fa: questi sono i suoi territori narrativi. Lo spazio intimo diventa, nei suoi libri, un animato scenario di sentimenti e avvenure. È pubblicato in italiano da Nottetempo e dalla Giuntina.
Yehoshua Kenaz sarà a Roma il 28 ottobre, per il Festival Internazionale di Letteratura Ebraica. Parlerà della «sua» Tel Aviv.

- Lei è uno dei «cantori» di Tel Aviv, la città che ha compiuto cent'anni. Il suo sguardo sulla città va nel profondo, come in Ripristinando antichi amori (di prossima ristampa per la Giuntina). C'è molto Perec, in questo libro. Che cosa ci racconta del suo rapporto con Tel Aviv?
- «Sono nato a Petach Tikwa, che all'epoca era un villaggio contadino (ora è inglobata quasi nella metropoli, da cui dista una decina di chilometri). A Tel Aviv sono arrivato che avevo vent'anni, e da allora è lo scenario di molte mie storie. Il condominio - e in particolare quello del romanzo qui citato (l'accostamento con Jacques Perec, sì, ma aggiungo subito: "toute proportion gardée…") - rappresenta per me un microcosmo della realtà più grande. Tel Aviv è diventata ben presto una città "letteraria", fonte di ispirazione per molti scrittori: il più grande resta Yaakov Shabtai. La mia Tel Aviv è il luogo del presente continuo, della vita quotidiana, con le sue brutture ma anche con la sua passeggera bellezza, le sue speranze effimere. È così che la amo».

- Nell'immaginario offerto dai media Israele è soltanto il luogo del conflitto. Per contro, i suoi libri abitano in una normalità quotidiana che sorprende il lettore. Ci racconta un poco di questa condizione che è il teatro delle sue storie?
- «Il fatto che Israele sia quel luogo rappresentato in televisione e sui giornali (del resto anche noi ci immaginiamo così altri paesi, di qui), spiega molti pregiudizi e stereotipi che nemmeno il più efficace dei libri potrebbe sradicare. Israele è sì un luogo di conflitto - anche se sarebbe meglio usare il plurale: di molti conflitti. Ma fra l'uno e l'altro si vive. Non sono sicuro che nei miei libri si trovi una "normalità" - non di rado mi è stato detto che contengono troppa follia. Che peraltro fa parte anch'essa della normalità…».

- Uno dei temi che il convegno di Roma affronterà è quello dello scrivere nel presente. Si sente dentro questa definizione? O preferisce delineare il passato?
- «Non sono sicuro di scrivere nel presente. Le mie storie possono essere ambientate nel passato remoto e in quello prossimo. Spesso non hanno tempo. Non so nemmeno dire se esse abbiano un qualche riflesso sul presente. Esiste una letteratura ebraica contemporanea, di giovani autori, che faccio del mio meglio per seguire, malgrado il fatto che se ne pubblichino così tanti. Quanto agli scrittori del passato, due li sento sicuramente miei: Y. Agnon e S. Yzhar. Sono i due capisaldi della letteratura israeliana, il primo sullo sfondo della cultura diasporica, il secondo profondamente "indigeno"».

- Torniamo al presente, e non solo quello dei libri. Come lo vede, qui in Israele? Quali prospettive si aprono secondo lei nel conflitto israelo-palestinese?
- «In apparenza, ci stiamo addirittura allontanando dalla possibilità di giungere a un accordo, un compromesso con i palestinesi: lo stallo è cronico. In questo senso, non sono ottimista. Eppure, voglio sperare in qualcosa. Nella possibilità, se non altro, che entrambe le parti arrivino ad accantonare i propri miti religiosi, in cambio di una prospettiva di vita vera».

(La Stampa, 22 ottobre 2009)





5. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME




Ebrei messianici e Licenza-Kashrut rabbinica

"Perciò io ritengo che non si debba turbare gli stranieri che si convertono a Dio; ma che si scriva loro di astenersi dalle cose contaminate nei sacrifici agli idoli, dalla fornicazione, dagli animali soffocati, e dal sangue" (Atti 15:19-20).


di Gershon Nerel

Il 29 e 30 giugno 2009 gli ebrei messianici sono entrati di nuovo nel mirino dei media israeliani. Alla televisione, alla radio e in internet si è parlato di loro. Sono apparsi articoli con titoli come «Ebrei per Gesù "kosher" per sentenza del tribunale» (Jerusalem Post), «Ebrei messianici ricevono luce verde per panifici kosher» (Haaretz), «Niente Licenza-kashrut per ebrei messianici» (ynetnews), «Contrasto tra kosher e cristiano» (JewishIsrael), «La Licenza-kashrut è indipendente dalla fede» (nrgmaariv).
    In Israele la maggior parte dei negozi di alimentari e ristoranti richiedono una Licenza-kashrut per la vendita e il servizio di generi alimentari kosher in modo da poter avere per i loro clienti un attestato che i loro prodotti corrispondono alle tradizionali leggi alimentari ebraiche.
    L'interesse del pubblico si è destato quando la Corte Suprema israeliana (abb. ebr. Bagatz) ha invitato il Gran Rabbinato d'Israele a rilasciare una ufficiale Licenza-kashrut a due panifici. Proprietaria di entrambi i panifici è Pnina Komforty, un'ebrea messianica di origine yemenita. Uno dei negozi si trova ad Ashdod e l'altro a Gan Yavne. Nel 2006 il Rabbino Capo di Ashdod ritirò la Licenza-kashrut per i panifici (Pnina Pie) della signora Komforty perché risultava che «era passata al cristianesimo». Il Rabbino ignorò la dichiarazione della signora Komforty in cui asseriva di avere semplicemente accettato la fede in Yeshua come Messia e Figlio di Dio, senza abbandonare la sua identità ebraica che continuava a considerare come sua preziosa identità. Purtroppo il Gran Rabbinato continua a sostenere l'opinione erronea che un ebreo che crede in Yeshua diventa un «apostata» e quindi a lui non si possono affidare le norme della kashrut.
    Il Rabbino di Ashdod l'ha detto chiaramente a Pnina: «Poiché lei crede al Nuovo Testamento, non ci si può fidare di lei per quello che riguarda le regole della kashrut».
    Il giudizio della Corte Suprema «nella questione Komforty» si basa su un noto caso precedente in cui la Corte aveva deliberato che gli spettacoli di danza del ventre in un ristorante, bar o albergo non sono da mettere in relazione con il cibo kosher e con la Licenza-kashrut . Quindi anche la fede in Yeshua della proprietaria di un panificio non rende i suoi prodotti non kosher, e il Gran Rabbinato non può per questo motivo esigere, per l'osservanza delle regole kosher, un controllo più stretto che per ogni altro panificio. Detto in altro modo, questo significa che anche dei musulmani o altri venditori di generi alimentari possono ottenere una Licenza-kashrut se rispettano le regole alimentari ebraiche e, in particolare, si attengono a una stretta separazione tra carne e prodotti caseari. In Israele i venditori di generi alimentari privi di una Licenza-kashrut hanno delle difficoltà perché la maggior parte dei clienti preferisce fare acquisti in un negozio kosher.
    Il giudizio della Corte Suprema contiene anche l'ingiunzione al Rabbinato di Ashdod di restiture senza alcuna condizione la Licenza-kashrut a «Pnina Pie». Due giudici su tre hanno ritenuto che il Rabbinato aveva largamente esulato dalla sua competenza quando aveva ritirato la licenza a Pnina Komforty soltanto perché è ebrea messianica. Non esiste alcuna connessione tra la fede in Yeshua e la panificazione kosher o non kosher. Il giudizio è stato inoltre inaspettatamente severo nella critica al controllore-kashrut che aveva imposto a Pnina di consegnargli ogni sera le chiavi del panificio. I giudici hanno considerato illegale questa richiesta. Con il suo comportamento, il Rabbinato non ha soltanto offeso il diritto di Pnina alla libera scelta del lavoro, ma anche il suo diritto alla libertà religiosa. Questi diritti fondamentali sono inseriti nella legislazione del Parlamento israeliano e valgono per ogni cittadino.
    Questo ben fondato giudizio della Corte ha provocato grande costernazione negli ambienti rabbinici e ha portato a reazioni di delusione. Portavoci del Rabbinato hanno detto che è assurdo che la laica Corte Suprema voglia prescrivere come devono essere osservate le norme alimentari. Tuttavia, nel procedimento giudiziario non si tratta dell'osservanza della kashrut, perché in fondo la signora Komforty è senza dubbio in grado di osservare le norme alimentari. Si tratta piuttosto di un'illegittima intrusione nella sua privata vita di fede.
    Anche i resoconti dei media sono motivo di preoccupazione. Un articolo era accompagnato da una caricatura in cui si vede un'ebrea vestita alla maniera ortodossa che guarda i prodotti esposti in una panetteria. Erano offerti «piccanti panini crociati» e «dolci cialde santa-cena». Vicino era appesa una Licenza-kashrut il cui bollo adornava un motivo di croce in un anello. In un fumetto si leggeva un'ironica osservazione dell'ebrea al venditore: «A dire il vero avrei preferito uno challah [il tradizionale pane del Sabato] o un paio di rugelbach [yiddish: pane ebraico con ripieno dolce]». Naturalmente questa caricatura non corrisponde ai fatti.
    Naturalmente Pnina Komforty è molto contenta di questo giudizio della Corte, che in questo procedimento si è opposta a che l'establishment rabbinico ortodosso possa fungere da sommo arbitro dello Stato d'Israele. Ma per lei l'esito del processo non è una vittoria personale. La sua conclusione è questa: «Se Dio è con noi, possiamo vincere anche i giganti! Lode e gloria al Dio d'Israele.»

(Nachrichten aus Israel, settembre 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. LIBRI




Marcello Cicchese, Dalla parte di Israele, come discepoli di Cristo, The New Thing, 2009, p. 128, € 10

Dalla presentazione:

Fare la presentazione di quest'ultima opera di Marcello Cicchese, mi riempie di gioia ed entusiasmo soprattutto per due motivi. Il primo risale all'inizio dell'attività editoriale di The New Thing, quando per primo mi suggerì l'idea di pubblicare il libro di Ramon Bennett Quando giorno e notte cesseranno che ha rappresentato e rappresenta tuttora un testo di assoluto riferimento relativamente alle profezie bibliche di Israele e all'odierna realtà messianica.
Il secondo motivo è invece quanto mai attuale e cioè l'importanza di avere a disposizione un testo essenziale, di semplice lettura (l'ho letto d'un fiato in una sola serata) ma soprattutto chiaro per far..... chiarezza su un argomento che anche autorevoli istituti di formazione evangelica definiscono caratterizzato da un grumo emotivo di convinzioni.
Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo guarda alle cose su Israele con la massima consapevolezza dottrinale e storica; inoltre le frequenti citazioni di Leon Pinsker evidenziano fatti e argomenti storici contenenti parole dal tono quasi profetico.
Questo testo stimola soprattutto a ritornare alle Scritture perché si comprenda meglio e si apprezzi la teologia di Israele, la vera chiave in cui si trova il progetto universale di Dio.
Spesso si parla di mistero di Israele ma emblematicamente l'autore chiude così il suo libro:
    Perché non dire apertamente che la chiave con cui potrebbe essere spiegato l'enigma di Israele si trova nella persona e nella storia di Gesù?
E' una vera sfida per tutti coloro che si ritengono discepoli di Cristo: essere dalla parte di Israele.

Ivan Basana
Presidente di Evangelici d'Italia per Israele





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