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Notizie su Israele 476 - 17 dicembre 2009

1. Archeologia in Israele
2. Per veder finire l'era dei Rapporti Goldstone
3. Aspetti poco noti delle leggi razziali 1938
4. Tecnologia in Israele
5. Un esempio di colto «odio di sé»
6. Affinché la terra ritrovi la sua armonia
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 46:12-13. Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia! Io faccio avvicinare la mia giustizia; essa non è lontana, la mia salvezza non tarderà; io metterò la salvezza in Sion e la mia gloria sopra Israele.
1. ARCHEOLOGIA IN ISRAELE




È stata ricomposta la stele di Eliodoro

Dai frammenti di un'iscrizione in greco nuove conferme sulla storia dei Maccabei

La stele di Eliodoro
GERUSALEMME - È un antico comunicato reale che descrive l'incarico ad un nuovo esattore di tasse. E il suo testo, decifrato dopo che quattro recenti reperti archeologici sono stati riuniti, conferisce una chiara verosimiglianza agli avvenimenti che causarono la rivolta dei Maccabei nel 167-164 a.c. e alla storia di Hanukka. Il significato del comunicato, inviato dal re siro-greco Seleuco IV (187-175 a.c.) ai governanti della Giudea, è emerso quando si è capito che tre frammenti di pietra con iscrizioni, trovati a Tel Maresha di Beit Guvrin tra il 2005 e il 2006, dovevano essere riuniti a un più grande pezzo di stele, donata al Museo d'Israele nel 2007.
    La ricostituita stele, o tavola inscritta, riporta un testo del re, datato 178 a.c.: undici anni prima della rivolta dei Maccabei. La notizia della ricomposta stele di Eliodoro, come è stata ribattezzata dagli archeologi israeliani, è stata annunciata dal quotidiano 'Jerusalem Post' citato dal sito online Israele.Net.
    La stele contiene istruzioni per il suo capo ministro Eliodoro, riguardanti l'incarico, conferito ad un certo Olimpiodoro, di cominciare a raccogliere denaro da tutti i templi della regione, cosa che segnò l'inizio di un periodo negativo nella politica dei seleucidi rispetto all'autonomia ebraica.
    Quel periodo culminò in una spietata persecuzione da parte dei seleucidi ai danni degli ebrei di Giudea, e nelle misure restrittive per il Tempio del 168-167 a.c., che generarono la rivolta dei Maccabei, come viene ricordato nella storia di Hanukka. I tre pezzi più piccoli, che provengono dalla base della stele, sono stati dissotterrati sotto l'egida dell'Istituto dei seminari archeologici di Ian Stern. Da 25 anni Ian Stern porta volontari dilettanti a partecipare ai suoi scavi a Tel Maresha, nel parco nazionale Beit Guvrin.
    Durante un seminario del dicembre 2005, i fortunati partecipanti trovarono in una grotta della zona un manufatto di pietra rotto, con un'iscrizione in greco. Benché il ritrovamento fosse eccezionale, il suo pieno significato storico all'epoca non apparve del tutto chiaro. "L'iscrizione conteneva 13 righe, molte delle quali interrotte. Il reperto era importante perché la scritta non era su pietra locale gessosa, ma su calcare di Hebron di qualità migliore", ha spiegato Stern.
    Nei mesi seguenti di giugno e luglio, furono trovati altri due pezzi con testo greco nello stesso sito di Tel Maresha, il che accrebbe l'interesse per il potenziale significato dei reperti. Più tardi, all'inizio del 2007, una grande stele con sezioni mancanti alla base venne data in prestito al Museo d'Israele dal cofondatore Michael Steinhardt e da sua moglie Judy, di New York.
    Considerata una delle più importanti iscrizioni antiche mai trovate in Israele, la stele non è più stata esposta dopo quei mesi di maggio e giugno, a causa di una ristrutturazione della sezione archeologica del museo. Acquistata dagli Steinhardt sul mercato antiquario all'inizio del 2007, la stele del 178 a.c. contiene 28 righe di testo greco, che descrivono le istruzioni reali a Eliodoro.
    Nel marzo 2007, poco prima che la stele fosse esposta al Museo d'Israele, Hannah M. Cotton-Paltiel dell'Università di Gerusalemme, specializzata in lingue classiche, e Michael Woerrle della commissione per la storia antica e l'epigrafia dell'Istituto archeologico di Monaco di Baviera, pubblicarono una traduzione e una ricerca analitica del testo della stele.
    Lo stesso anno, ignaro di una possibile connessione con la stele, l'archeologo Ian Stern si consultava con Dov Gera dell'Università Ben-Gurion, uno specialista della storia ebraica durante il Secondo Tempio e di epigrafia greca, a proposito dei tre pezzi trovati a Maresha. Gera, che si mise al lavoro per decifrare le iscrizioni solo sul primo pezzo portato alla luce da Stern, ha detto che inizialmente "non aveva fatto molti progressi".
    "È solo più tardi, nell'autunno 2008, nei depositi della Israel Antiquities Authority, che sono riuscito a vedere riuniti tutti i pezzi che Stern aveva trovato sul sito, e ho cominciato a riconoscere la loro somiglianza con il pezzo del Museo d'Israele, che avevo visto quando era esposto - ha raccontato Gera - Lavorando con i tre pezzi al deposito, e passando del tempo in biblioteca e altro tempo a casa, ci fu un momento particolare nel quale mi resi conto che i tre pezzi appartenevano alla stessa iscrizione": come quella sulla stele che aveva visto l'anno precedente al Museo d'Israele.
    Quando la stele venne ricomposta per la prima volta - a febbraio scorso - con i tre frammenti trovati dagli archeologi volontari, Stern ricorda con orgoglio: "Combaciavano perfettamente". Un altro ricercatore che ha lavorato con Stern, Yuval Goren dell'Università di Tel Aviv, è certo, sulla base della patina e dei resti di terra che vi sono attaccati, che la stele acquistata dagli Steinhardt doveva provenire dalla stessa area di cave gessose dove sono stati trovati gli altri tre pezzi. Insieme, la stele e i suoi frammenti costituiscono la più grande iscrizione del genere mai rinvenuta in Israele.
    Il testo decifrato, indirizzato da Seleuco IV al capo dei ministri Eliodoro e a due altri funzionari seleucidi, Dorymene e Diofane, combacia perfettamente con il secondo libro dei Maccabei. Seleuco IV era il fratello maggiore di Antioco IV, che gli succedette e la cui persecuzione degli ebrei è citata in Maccabei II come la causa della rivolta dei Maccabei.
    Eliodoro è descritto nello stesso libro come colui che causò il primo conflitto aperto tra i seleucidi e gli ebrei, cercando di impadronirsi dei fondi del Tempio di Gerusalemme nello stesso anno del comunicato, il 178 a.c. Nel messaggio, che presumibilmente era destinato ad essere visto dai residenti di Maresha - uno dei centri della comunità ebraica dell'epoca - Eliodoro viene formalmente informato che Olimpiodoro è stato designato, tra gli altri compiti, a supervisionare la raccolta delle tasse con 'moderazione' da tutti i maggiori santuari entro le satrapie, o province, di Coele-Syria (poi Palestina e Israele) e Fenicia (lungo la costa mediterranea del moderno Libano).
    Si presume che questo nuovo incarico sia stato reso necessario dalla morte o dal licenziamento di un precedente governatore. Secondo Gera, l'incarico di Olimpiodoro come supervisore di tutti i santuari di Coele-Syria e Fenicia, compreso in particolare il Tempio di Gerusalemme, era inteso ad espandere la giurisdizione finanziaria dell'impero seleucide. Fino a quel momento, l'impero non aveva tassato gli ebrei della regione. Il re precedente, Antioco III, padre di Seleuco IV e di Antioco IV, aveva concesso ampia autonomia religiosa ai popoli delle satrapie del suo impero durante il suo regno, dal 222 al 187 a.c., e Seleuco IV aveva continuato a rispettare le decisioni di suo padre riguardo agli ebrei. Ma solo fino all'impero cominciò verosimilmente a restare a corto di denaro.
    Come ha osservato Stephen Gabriel Rosenberg del W. F. Albright Institute of Archeological Research di Gerusalemme, "gli ebrei di Gerusalemme avevano accolto Antioco III spalancando le porte della città al suo esercito nel 200 a.c., e in cambio lui aveva concesso uno statuto che permetteva loro di vivere secondo le loro abitudini ancestrali, esentava i sacerdoti dalle tasse e dava perfino contributi reali per la manutenzione del Tempio e per i sacrifici".
    La designazione di Olimpiodoro e la nuova richiesta di pagare tasse all'impero, come scritto sulla stele, rappresentava quindi evidentemente un cambiamento cruciale nell'atteggiamento dei seleucidi verso gli ebrei. Può anche essere stato considerato, in Giudea, una diretta violazione dell'autonomia religiosa ebraica: la violazione di uno status quo scritto, concordato con lo statuto di Antioco III. I templi all'epoca erano il posto più sicuro in cui nascondere il denaro, sottolinea Ian Stern.
    La tentazione di impadronirsi di una parte dei beni del tempio degli ebrei a Gerusalemme per l'indebitato impero seleucide - che era in debito con Roma per un indennizzo richiesto dall'impero romano in risposta all'espansione seleucide nella regione - fu evidentemente troppo forte. Secondo Maccabei II, fu Simon di Bilgah che, per disprezzo verso l'alto sacerdote ebreo Onias, menzionò al governatore seleucide locale che il Tempio di Gerusalemme "conteneva ricchezze inaudite; suggerendo di trasferirle sotto il controllo di Seleuco IV".
    Come scritto in Maccabei II (e dipinto nella 'Espulsione di Eliodoro dal Tempio', di Raffaello), Eliodoro fu mandato da Seleuco a impadronirsi del tesoro contenuto nel Tempio. Al suo ingresso, Eliodoro fu affrontato da un cavallo con un cavaliere in armatura d'oro, fiancheggiato da due giovani che lo buttarono a terra. La sua vita fu risparmiata per intervento del sacerdote Onias, ma venne cacciato dal Tempio a mani vuote.
    L'archeologo Gera ipotizza che non fosse Eliodoro, bensì Olimpiodoro, che tentò di entrare nel Tempio e che ne venne cacciato, e che l'apparente confusione e/o revisione storica fosse destinata a mettere in una luce negativa in tutta la regione la figura più importante, Eliodoro, piuttosto che una figura minore come Olimpiodoro. Tre anni dopo, nel 175 a.C., Eliodoro assassinò Seleuco IV e assunse il potere, solo per essere rapidamente rovesciato da Antioco IV, di ritorno dalla prigionia a Roma.
    In generale si ritiene che Antioco IV cercò di ellenizzare gli ebrei (ma un professore dell'Università di Gerusalemme, Doron Mendels, in un nuovo libro, 'Jewish Identities in Antiquity', sostiene che, sebbene nel decennio degli anni 160 a.c. il regno greco dei seleucidi decretasse che gli ebrei dovevano smettere di obbedire ai comandamenti rituali ebraici, esso non richiedeva loro specificatamente di adottare le pratiche ellenistiche).
    Nel 169/168 a.c. il Tempio venne trasformato in un santuario dedicato al dio greco Zeus, il tesoro del tempio saccheggiato, il Sancta Sanctorum dissacrato e tutte le pratiche religiose ebraiche furono messe fuori legge. Verso il 167 a.c., mentre circolavano false voci sulla morte di Antioco in Egitto, in Giudea scoppiò la rivolta.
    Alla notizia della rivolta, il re marciò con il suo esercito sulla Giudea nel tentativo di soffocarla. Come descritto in Maccabei II, "Quando questi avvenimenti furono riferiti al re, egli pensò che la Giudea fosse in rivolta. Furioso come un animale selvaggio, partì dall'Egitto e assaltò Gerusalemme. Ordinò ai suoi soldati di abbattere senza pietà quelli che incontravano e di massacrare quelli che si rifugiavano nelle proprie case. Fu un massacro di giovani e vecchi, di donne e bambini, di vergini e neonati. Nello spazio di tre giorni, ci furono 80.000 perdite, di cui 40.000 incontrarono una morte violenta e altrettanti furono venduti in schiavitù".
    Le violenze innescarono la rivolta dei Maccabei contro l'impero, guidata da Mattatia e dai suoi cinque figli: Judah, Eleazar, Simeon, Yohanan e Jonathon. Nel 164 a.c. la rivolta finiva con successo e il Tempio dissacrato veniva liberato e purificato il giorno 25 di Kislev: celebrato fino a oggi come il primo giorno di Hanukka.
    Secondo David Mevorah, curatore dei periodi ellenistico, romano e bizantino al Museo d'Israele, la stele, ora conservata nel museo insieme ai tre frammenti trovati da Ian Stern, sarà esposta al pubblico - ricomposta - quando verrà aperto il nuovo dipartimento di archeologia nell'estate 2010 a Gerusalemme.

(Il Resto del Carlino, 15 dicembre 2009)





2. PER VEDER FINIRE L'ERA DEI RAPPORTI GOLDSTONE




Prendere il toro per le corna

di Noah Pollak

Dal 1948 al 1973 i nemici di Israele hanno combattuto conflitti che per lo più si attenevano alle dottrine di guerra tradizionali. Le guerre avevano una data di inizio e di fine, i soldati indossavano uniformi, gli eserciti combattevano per conto di stati sovrani. Ogni volta, tuttavia, risultarono sconfitti, spesso in modo umiliante.
    Dopo la guerra di Yom Kippur del 1973, gli Stati Uniti cercarono di interrompere l'incessante conflitto stringendo un'alleanza che garantiva a Israele un consistente vantaggio militare rispetto a qualunque aggressione regionale. Gli arabi capirono l'antifona: Egitto e Giordania finirono col chiedere la pace, e gli altri nemici di Israele da allora non hanno più lanciato una guerra convenzionale.
    Ma non per questo quei nemici hanno cessato di guerreggiare. Oggi Siria e Iran - il cosiddetto "blocco della resistenza" - persegue una diversa strategia che consiste nell'incrementare le risorse delle milizie terroristiche che attaccano Israele al posto loro. Nonostante le sconfitte tattiche subite sul campo di battaglia da gruppi come Hamas e Hezbollah, la strategia nel suo complesso funziona. Essa permette a Siria e Iran di prendersi il "merito", in Medio Oriente, come quelli che osteggiano Israele senza rischiare ritorsioni sul loro suolo; separa la conflittualità continua da ogni possibile rischio per i loro regimi, diminuendo in questo modo il deterrente a continuare la guerra; costringe in combattimenti in aree densamente abitate da popolazione civile, compromettendo la superiorità militare delle Forze di Difesa israeliane e assicurandosi una cospicua dose di danni civili di cui mass-media e Ong - due soggetti che oggi tendono sempre più a coincidere - danno tutta la colpa a Israele, e non ai gruppi terroristi che scatenano le guerre.
    E poi, cosa forse più importante, la strategia della "resistenza" crea un'inversione morale: sia nella guerra in Libano che in quella nella striscia di Gaza, agli occhi dei mass-media e dell'opinione pubblica Israele è stato tramutato da aggredito che combatte per difendersi in aggressore che commette atrocità. Se il massimo obiettivo, in guerra, è sconfiggere le forze armate nemiche, bisogna dare atto a Siria e Iran d'aver messo in campo una strategia in grado di trasformare spesso la superiorità militare d'Israele in un handicap.
    Oggi, molto tempo dopo che i combattimenti sono cessati, Israele è ancora fatto oggetto di una cinica campagna di vituperio internazionale per le ultime guerre combattute. Lamentarsi dei due pesi e due misure non serve: lo stato ebraico sarà sempre il bersaglio privilegiato di attivisti che sanno bene quanto sia più facile dare addosso a una società piccola, libera e autocritica - specie se abitata da cittadini che bramano l'approvazione del resto del mondo - piuttosto che battersi contro stati più forti o superpotenze. Il che è ancora più vero quando si può costringere Israele a combattere una guerra ogni pochi anni garantendo in questo modo ai suoi denigratori un costante rifornimento di "prove" della sua criminale cattiveria.
    La nuova strategia di combattere per interposti gruppi terroristi, dotati della forza e del perfezionamento di eserciti regolari senza però i limiti e le responsabilità di quelli, sta dando frutti. L'obiettivo non è quello di sconfiggere Israele sul campo di battaglia, ma di condurre una guerra di usura che eroda la sua fiducia in se stesso, che ne metta in discussione la limpidezza morale, che lo trasformi in un paria tra i popoli democratici.
    E tuttavia il successo di questo modello di guerra dipende da un fattore importante: dal fatto che Israele accetti di combattere sul terreno imposto da Siria e Iran. Molti sostengono che Israele ha ristabilito la sua deterrenza rispetto a Hamas e Hezbollah. Può darsi, ma è solo temporanea: lo testimoniano i missili, le granate e le munizioni da mortaio sulla nave Francop. Di più, Israele esercita la sua deterrenza solo sui quadri inferiori della gerarchia dei gruppi terroristi, che sono in grado di rinnovare i loro ranghi e le loro risorse molto più facilmente di quanto non faccia un regime statale. È difficile credere che negli anni a venire non vi sarà un altro conflitto con Hezbollah, che innescherà il solito ciclo di eventi perfettamente prevedibile: vittime civili in Libano, condanna di Israele, indagini farsa di Onu e Ong, peggioramento del senso di isolamento d'Israele, che renderà ancora più difficile arrivare alla pace.
    Ma la situazione potrebbe essere ribaltata spostando l'obiettivo della controffensiva sugli stati che sponsorizzano Hamas e Hezbollah. Carl Von Clausewitz sosteneva che "una delle valutazioni più importanti" consiste nell'individuare "il centro di gravità delle forze nemiche", per attaccare lì dove l'attacco avrà più effetto. Combattendo a Gaza e in Libano, Israele attacca la periferia del nemico, non il suo centro di gravità, e le sue vittorie saranno sempre temporanee. Private, invece, di stato-padrino, Hamas e Hezbollah sarebbero ridotti all'ombra di se stessi: perderebbero gran parte delle loro armi, dei soldi, dell'addestramento, del supporto ideologico che li rende attori tanto potenti.
    I modi per esercitare pressione contro il centro di gravità non devono necessariamente conformarsi ai metodi tradizionali: nulla esclude di contrastare l'asimmetria con l'asimmetria, o di perseguire nuove iniziative economiche e diplomatiche. Ma una cosa è certa: se Israele vuole veder finire l'era dei rapporti Goldstone e delle navi cariche di missili, deve spostare il mirino sulla sorgente del problema. La deterrenza non funzionerà mai se non includerà l'intero spettro dei nemici.

(Jerusalem Post, 23 novembre 2009 - da israele.net)





3. ASPETTI POCO NOTI DELLE LEGGI RAZZIALI DEL 1938




1942 - Esclusione degli ebrei dal campo dello spettacolo

di Luciano Tas

Si conoscono abbastanza le leggi razziali del 1938 che escludevano gli ebrei dalle scuole (docenti e discenti), dall'amministrazione pubblica, dall'esercito, dalle banche, dalle assicurazioni e poi via via da ogni tipo di lavoro. Tutto per la difesa della pura razza italiana e di quegli indifesi quaranta milioni di italiani ariani dalle ire concupiscenti di quarantamila ebrei, appena sbarcati in Italia da non più di cinquecento o al massimo duemila anni, e armati fino ai denti. Si conosce meno un'altra legge, la numero 517 del 19 aprile 1942, anno XX dell'era fascista, firmata da Vittorio Emanuele, Mussolini, Pavolini e Grandi, quest'ultimo anche nella sua qualità di Guardasigilli. Il titolo della legge è "Esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo". Come si rileva, dalle leggi antiebraiche del 1938 erano passati quasi quattro anni, con l'Italia impegnata da quasi due in una guerra andata male fin dal primo giorno e avviata ad essere perduta disastrosamente. Ma, si sa, la difesa della razza prima di tutto.

Recita il primo articolo: "E' vietato l'esercizio di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza ebraica, nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto o in parte da persone di razza ebraica".

Era questo il passo decisivo verso la salvezza del paese e la tutela della sua integrità ariana, minacciata tra gli altri da quel Trio Lescano (tre ebree olandesi) le cui canzoncine, come tuli-tuli-tulipan, trasmesse sprovvedutamente dall'EIAR, diffondevano germi (appartenenti anche loro alla razza ebraica) di alta pericolosità per le innocenti orecchie degli ascoltatori?

Ma ecco a rafforzare le difese l'articolo due della legge. "Sono vietate la rappresentazione, l'esecuzione, la proiezione pubblica e la registrazione su dischi fonografici di qualsiasi opera alla quale concorrano o abbiano concorso autori o esecutori italiani, stranieri o apolidi appartenenti alla razza ebraica e alla cui esecuzione abbiamo comunque partecipato elementi appartenenti alla razza ebraica. Sono del pari vietati lo smercio dei dischi fonografici e importazione di matrici di dischi previsti dal precedente comma e la successiva riproduzione delle matrici stesse".

L'Italia avrebbe potuto essere salvata in questo modo dalle orde angloamericane? Chissà. Certo buttare fuori gli ebrei dai palcoscenici e dagli schermi costituiva un robusto aiuto alle truppe italiane in Libia (l'Etiopia e l'Impero erano già andati) che qualche mese più tardi incominciavano una ritirata che si sarebbe conclusa solo con la cattura da parte inglese di trecentomila soldati italiani e tedeschi e la fine così anche della "Quarta Sponda", come si amava chiamare la Libia. Ma l'importante aiuto bellico non bastò. Eppure questa legge si dilunga nei più minuti particolari (non si sa mai).

Articolo tre. "E' vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione di film, soggetti e sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali, scientifiche e artistiche, e qualsiasi altro contributo di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazioni di doppiaggio o di post



sincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica".

C'è da stupirsi che questi provvedimenti non siano bastati per rovesciare le sorti della guerra. Ma, si sa, la difesa della pura razza ariana era una priorità assoluta, costasse quel che doveva costare, anche sapendo, come diceva una canzone dell'epoca, che "tutte le cose son come le rose che durano un giorno e niente di più". Le leggi razziali sono durate ben di più e hanno inferto ferite profonde al nemico più nemico che ci fosse, la comunità ebraica. E pazienza se dopo l'Africa l'Italia ha perso tutto. E l'onore? Mah.

La legge del '42 va avanti (articolo quattro), imponendo la più stretta sorveglianza ai film provenienti dall'estero, che dovevano essere accompagnati dagli "elenchi nominativi degli autori delle opere utilizzate per la produzione dei film medesimi e di coloro che hanno ad essa concorso con contributi artistici e tecnici…".

All'articolo cinque si legge che "sarà nominata una Commissione" "alla quale è attribuito il compito di provvedere alla compilazione e all'aggiornamento degli elenchi di autori e di artisti esecutori appartenenti alla razza ebraica". Saggia decisione, le precauzioni non sono mai troppe.

Ah, dimenticavo. Dice l'articolo sei che "Ai componenti della Commissione saranno corrisposti per ogni giornata di adunanza gettoni di presenza (…)". Beh, teniamo famiglia.

(Informazione Corretta, 14 dicembre 2009)





4. TECNOLOGIA IN ISRAELE




Pastori nomadi, ma computerizzati

Un allevatore arabo dell'area di Nazareth ha raccontato che prima gli servivano tre ore per mungere le 80 capre e pecore che possiede. Adesso gli basti 40 minuti

Alcuni pastori beduini israeliani stanno entrando nell' era della tecnologia Questo almeno è l'obiettivo di un programma governativo appena lanciato e che sta già dando qualche frutto.
    Insieme, il ministero dell'Agricoltura e un'azienda privata stanno aiutando alcune comunità di pastori arabi, beduini e drusi a modernizzare le loro attività, senza rinunciare alla tradizione. Afìmilk è una compagnia specializzata nella gestione computerizzata dell'allevamento da latte. Recentemente ha messo a punto un sistema di mungitura in grado di aumentare la produzione del 50 per cento, riducendo i tempi di mungitura: gli animali indossano una cavigliera che contiene un microchip che può essere collegato alla mungitrice per raccogliere e misurare alcuni dati-chiave, come la produzione di latte, la flora batterica e la temperatura, per poi trasmetterli a un computer centralizzato. In questo modo l'allevatore può fare decisioni strategiche su come gestire la mandria, senza stravolgerne l'assetto tradizionale: "Si possono ottimizzare decisioni su quando fare riprodurre un animale, quando lasciarlo riposare, quando pianificare una visita del veterinario, e via dicendo", dice Ran Malamud, un manager della compagnia Che aggiunge: "Stiamo pensando a un sistema analogo per la gestione delle risorse idriche". Ora il ministero sta fornendo incentivi per l'acquisto di questo tipo di sistemi nelle zone rurali popolate soprattutto da pastori arabi, che fanno capo a diversi gruppi. Tuttavia un'attenzione particolare è dedicata ai beduini, che sono considerati uno dei settori più poveri della società: circa 170 mila beduini vivono in Israele secondo le ultime stime. Di questi, la maggior parte vive nelle zone desertiche del Sud, cioè nel Negev, una piccola minoranza nel centro del Paese, e circa 50 mila nel Nord. Il programma di diffusione tecnologica è destinato soprattutto a questi ultimi. Un allevatore dell'area di Nazareth ha raccontato alla stampa israeliana che prima gli servivano tre ore per mungere le 80 capre e pecore che possiede, ma con il nuovo sistema ora bastano 40 minuti.

(Pagine Ebraiche, n.2, dicembre 2009)





5. UN ESEMPIO DI COLTO «ODIO DI SÉ»




Il cammino verso la pace. Il mito etnico danneggia Israele

di Tony Judt*

Che cosa è precisamente il "sionismo"? La sua rivendicazione di fondo è sempre stata che gli ebrei costituiscono un popolo unico, che la loro diaspora e le loro sofferenze durate millenni non hanno affatto ridotto le loro caratteristiche peculiari e collettive, e che l'unico modo in cui possono vivere liberamente da ebrei - nello stesso modo in cui, per esempio, gli svedesi possono vivere liberamente da svedesi - è abitando uno stato ebraico.
    Ne consegue che la religione agli occhi dei sionisti ha smesso di essere l'unità di misura principale dell'identità ebraica. Per tutta la fine del XIX secolo, quanto più un numero crescente di giovani ebrei si andava emancipando a livello giuridico e culturale dal mondo del ghetto o dello shtetl, il sionismo ha iniziato a sembrare a un'influente minoranza l'unica alternativa possibile alla persecuzione, all'assimilazione forzata, all'annacquamento culturale. A quel punto, quasi paradossalmente, a mano a mano che l'indipendenza e la pratica religiosa hanno iniziato a regredire, ne è stata attivamente sostenuta una versione laica.
    Per esperienza personale posso confermare con certezza che il sentimento anti-religioso - spesso di un'intensità tale da risultare quasi imbarazzante - era diffuso negli ambienti israeliani degli anni 60 aventi simpatie a sinistra. La religione - mi dicevano - era di competenza degli haredim, di quei "folli" del quartiere Mea Sharim di Gerusalemme. "Noi" eravamo moderni, razionali, "occidentali": così mi spiegavano i miei insegnanti sionisti. Quello che non mi dissero, tuttavia, era che l'Israele al quale volevano che io mi unissi, si basava - e poteva basarsi unicamente - su una visione etnicamente rigida degli ebrei e dell'ebraicità.
    I fatti sono questi: fino alla distruzione del Secondo Tempio, avvenuta nel primo secolo, gli ebrei erano stati coltivatori in quella terra che oggi chiamiamo Israele/Palestina. Erano stati poi costretti nuovamente all'esilio dai romani e si erano sparpagliati in tutta la Terra, senza patria, senza radici, reietti. Poi, alla fine, "loro" erano "ritornati" e avevano ripreso ad arare i campi dei loro progenitori.
    È proprio questa versione dei fatti che lo storico Shlomo Sand cerca di decostruire nel suo controverso libro intitolato The invention of the Jewish people. La domanda è dunque: «Chi siamo noi di preciso?». Di sicuro negli Stati Uniti la stragrande maggioranza degli ebrei (e forse dei non ebrei) non ha alcuna familiarità con la storia che ci narra il professor Sand, probabilmente non ha mai sentito parlare di buona parte dei suoi protagonisti, anche se questi sono fin troppo in sintonia con quella versione caricaturale della storia ebraica che egli cerca di screditare. Se il lavoro populista del professor Sand si limiterà a indurre alla riflessione e a far provare il desiderio di saperne di più, sarà stato in ogni caso utile.
    In realtà nel suo lavoro c'è qualche cosa d'altro. Se è vero che sono esistite altre motivazioni per lo stato d'Israele e che tuttora ce ne sono - e non è un caso che David Ben-Gurion si adoperò, organizzò e coreografò il processo ad Adolf Eichmann - è chiaro che il professor Sand pregiudica la motivazione tradizionale all'origine dello stato ebraico. Insomma, una volta che ci troviamo d'accordo sul fatto che l'unica qualità "ebraica" di Israele è un'affinità immaginata o elettiva, come si suppone che dobbiamo procedere?
    Il professor Sand è egli stesso israeliano e aborre anche solo l'idea che il suo Paese non abbia una propria raison d'être. E giustamente. Gli stati o esistono o non esistono. L'Egitto o la Slovacchia non sono legittimati dalla legge internazionale in ragione di qualche teoria di fondo di "egizianità" o "slovacchità". Questi stati sono attori riconosciuti sulla scena internazionale, con i loro diritti e un loro status preciso, semplicemente in virtù del fatto che esistono, e della loro capacità di sostenersi e di difendersi.
    Di conseguenza, la sopravvivenza di Israele non si basa sull'attendibilità della storia che racconta sulle proprie origini etniche. Se noi accettassimo ciò, potremmo iniziare a considerare che l'insistenza di Israele a fondare la propria esclusività sulla sola identità ebraica è un handicap significativo. In primo luogo, infatti, una simile affermazione ridurrebbe tutti i cittadini e gli abitanti d'Israele non ebrei alla stregua di cittadini di seconda categoria, e ciò avverrebbe anche qualora la distinzione fosse puramente formale. Essere musulmani o cristiani - o addirittura ebrei che non rispondono però alle sempre più rigide etichette odierne di "ebraicità" - comporta uno scotto da pagare.
    Implicita nel libro del professor Sand è la conclusione che Israele tutto sommato farebbe meglio a identificarsi e a pensarsi semplicemente come Israele. L'insistenza e l'ostinazione a voler identificare l'ebraicità universale in una piccola striscia di territorio per molti aspetti sono assolutamente disfunzionali e questo è il fattore singolo più importante responsabile dell'omessa soluzione al rompicapo israelo-palestinese. È un male per Israele e - vorrei far presente - è un male anche per gli ebrei di qualsiasi altro luogo della Terra che sono identificati con le sue iniziative.
    Che fare, allora? Il professor Sand non ce lo dice, e a sua difesa dovremmo ammettere che il problema potrebbe di fatto non avere soluzione. Presumo che sia favorevole alla soluzione di uno stato unico, se non altro perché questa sarebbe la conclusione logica delle sue tesi. Anch'io sarei favorevole a una soluzione di questo tipo, se non fossi così sicuro che entrambe le parti in causa le sono di fatto accanitamente e vigorosamente contrarie. Una soluzione che preveda due stati, invece, potrebbe essere tuttora il compromesso migliore, anche se lascerebbe Israele intatto nelle proprie etno-delusioni. Alla luce soprattutto degli sviluppi degli ultimi due anni, è tuttavia difficile essere ottimisti sulle prospettive di una soluzione di questo tipo.
    È mia intenzione, pertanto, concentrarmi su un altro punto. Se gli ebrei d'Europa o del Nord America prendessero le distanze da Israele (come molti per altro hanno già iniziato a fare), l'affermazione che «Israele è il loro stato» assumerebbe un risvolto irrazionale. Col tempo, perfino Washington potrebbe arrivare a comprendere quanto sia inconsistente collegare la politica estera americana alle delusioni di un piccolo stato mediorientale, e io credo che questa potrebbe essere la cosa migliore che possa accadere a Israele, che sarebbe così obbligato a prendere atto dei propri limiti e a farsi altri amici, preferibilmente tra gli stati confinanti.
    Possiamo pertanto auspicare che col tempo Israele possa instaurare una distinzione naturale tra coloro che per volere del destino sono ebrei ma sono cittadini di altri paesi; e coloro che sono cittadini d'Israele e per volere del destino sono ebrei.
    Tutto ciò potrebbe rivelarsi molto utile. I precedenti non mancano: le diaspore di greci, armeni, ucraini e irlandesi hanno tutte rivestito un ruolo poco benefico nel perpetuare l'esclusivismo etnico e il pregiudizio nazionalista nei paesi dei loro antenati. La guerra civile in Irlanda del Nord è finita almeno in parte perché un presidente americano ha imposto alla comunità di emigrati irlandesi negli Usa di smettere di inviare armi e contanti al Provisional Ira. Se gli ebrei americani smettessero di associare il proprio destino a Israele e usassero i loro assegni di beneficenza per scopi migliori, qualcosa di simile potrebbe accadere anche in Medio Oriente.


* L'autore è professore all'Università di New York e direttore del Remarque Institute

(Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2009 - trad. Anna Bissanti)





6. AFFINCHÉ LA TERRA RITROVI LA SUA ARMONIA




Israele, per favore, sparisci!

di Jacques Tarnero

E' un'idea che si sta facendo strada. Ormai viene espressa senza vergogna, protetta dall'apparente innocenza della sua domanda: «... e se la creazione dello Stato d'Israele fatta dall'Onu nel 1948 fosse stato un errore?» «E se per riparare un crimine l'Onu avesse contribuito a farne un altro?» Dopo sessant'anni di successi alterni, il progetto di far sparire questo Stato dalla carta geografica prende improvvisamente una nuova piega! «Per favore, facci il piacere di sparire! Sparisci, affinché la terra ritrovi la sua armonia!» E' questo il messaggio esplicito, o sussurrato, o magari subliminale che a quanto pare si bisbiglia, si scrive o si pensa da diverse parti. E' questo il messaggio indirizzato a Israele in modo sempre più insistente, mentre una voce molto più chiassosa annuncia che ben presto passerà all'azione e libererà la terra da questa sgradevole pustola. Il lavoro sporco dovrebber essere fatto da un clone islamico di Hitler, grazie alla bomba atomica che sta tentando di fabbricare.
    Nel frattempo in Occidente stanno preparandosi a tirare fuori i fazzoletti dopo che la bomba sarà esplosa su Tel Aviv, la città sionista per eccellenza, quella che non ha diritto di esistere. Anche se quasi tutto il mondo occidentale si trova d'accordo nel dire che Ahmadinejad non corrisponde ai canoni della buona creanza, nessuno osa guardare la cosa troppo da vicino. Come non si osa guardare troppo da vicino quell'altro eccentrico di Gheddafi, con la sua tenda, le sue amazzoni, i suoi dromedari e i suoi irragionevoli propositi. Il folclore orientale ha questo vantaggio: ai buoni spiriti progressisti ispira sempre un'indulgenza spregiativa, postcoloniale, mentre dovrebbe mettere in loro anche dello spavento. Nel presidente iraniano l'Occidente non riconosce un nuovo Hitler, ma un desposta in salsa orientale che esagera un po' troppo. «Essere persiano» è un fatto divertente, mentre «essere ancora israeliano» è un fatto serio.
    Ecco un paese grande come tre dipartimenti francesi che esaspera la terra intera con il suo spirito cattivo, la sua angusta rigidità. Tutti quelli che amano disquisire sulla Shoah s'inebriano delle loro proprie lacrime e aborriscono questo Stato che costruisce un muro (che orrore, un muro!) per imprigionarsi. Come sono commoventi gli ebrei quando sono battuti! Che bei libri sanno scrivere sulle loro peregrinazioni! Come sanno essere divertenti quando sono minacciati! Come sono intelligenti, sottili, deliziosamente nevrotici quando vivono in diaspora! Come sanno musicare bene, inventare, filosofare quando la fonte di pensiero è la loro dispersione, e come invece è grossolano, frusto e antipatico questo Stato!
    «Come si può essere ebrei dopo Gaza?» chiede un'esperta (ebrea) di questa propagandistica posizione, senza che mai venga in mente una domanda parallela: «Come si può essere umani con Ahmadinejad?» Non ci siamo forse riempiti la bocca con i «mai più»? «Se il razzismo antisemita è condannabile, non è forse reazionario il "filosemitismo"?», domanda un altro esperto (ebreo) non meglio identificato. Non ci sarebbe forse un uso abusivo del termine "ebreo", un'appropriazione indebita di un sostantivo che, per essere considerato, avrebbe diritto soltanto a una posizione di attributo in un'economia intellettuale di sinistra, sostiene un nostalgico di Mao, esperto in questioni dell'amore?
    Questo eterno «ritorno sulla questione ebraica», continuamente ripetuto, impastato, triturato, prepara qualcosa di diverso da un interrogativo posto alla condizione umana sulla questione ebraica. Incapaci di pensare il problema nelle categorie che sono sue proprie, per quanto «decostruite» nel corso della storia, i chierici cercano di cancellare la questione piuttosto che affrontarla. Il «segno ebreo» è accettato e preso in considerazione soltanto a condizione che resti nelle categorie che tradizionalmente gli sono state assegnate. E si onorano le vittime della Shoah soltanto per accanirsi poi contro i sopravvissuti che hanno avuto il torto di emigrare in Israele. La Shoahlatria si coniuga bene con la israelofobia più estrema, e per mettere in discussione la legittimità di Israele non è più necssario contestare la realtà del progetto nazista e la sua messa in atto, se è vero che Israele avrebbe il suo diritto ad esistere soltanto come riparazione della Shoah. Resta soltanto quel guitto del presidente iraniano a invitare dei negazionisti, perché ormai l'ultima moda consiste nell'aggiungere altre lacrime ai torrenti che già scorrono per affermare che i nuovi nazisti sono gli israeliani, e che, in quanto tali, il «regime sionista» da cui sono usciti deve essere annientato. Questo è il senso dell'equivalenza posta tra la stella di David e la croce uncinata, tanto che ormai viene usata in tutte le manifestazioni «anti-imperialiste». Che fortuna è stata per l'Onu e per il suo grottesco Consiglio dei diritti dell'uomo trovare un giudice ebreo per accusare Israele di crimini contro l'umanità!
    Il problema quindi non è più la «questione ebraica», ma la sua trasformazione nella «questione sionista». Il problema sarebbe dunque costituito da quella strana enclave al limite del Mediterraneo, estranea all'ambiente circostante, che rifiuta di disciogliersi. Ma da quand'è che si chiede al presente di correggere la storia che ha generato quel presente? Si chiede al presidente del Brasile, il simpatico Lula, di restituire l'Amazzonia ai Nambikwara? Si chiede a Obama di restituire il Far West ai sioux e agli cheyenne? Si chiede agli arabi di restituire il Magreb ai berberi? I polacchi reclamano forse di ritornare all'ovest dell'Oder? E i tedeschi all'est? Milioni di persone nel mondo sono state spostate dalla storia, in Europa, in India, nel Pakistan. Quante centinaia di migliaia di ebrei sono fuggiti dai paesi arabi per trovare rifugio in Israele? O il popolo d'Israele è l'unico al mondo a veder messo in discussione il suo diritto a un'esistenza nazionale perché una cattiva fede planetaria non vuole capire che essere ebreo significa due cose, che corrispondono in pari tempo a un destino individuale e a un destino comunitario condiviso. Che cos'è che costituisce un popolo, se non l'idea condivisa di appartenergli? E si contesterebbe soltanto agli ebrei questo diritto nato dalla realtà della loro storia, e che una loro preghiera ricorda continuamente: «l'anno prossimo a Gerusalemme!» Che pacchia è per gli ossessionati di anti-israelismo che sia un altro ebreo israeliano a spiegare «come fu inventato il popolo ebraico»!
    Ah! certo, la politica seguita dall'attuale governo israeliano non piace né alla riva sinistra né alla banlieu est, e tuttavia non è per questo che dovrebbe emendarsi, ma nel nome dell'interesse superiore del popolo d'Israele, cioè dell'interesse di coloro per i quali questo Stato fu fondato. Lo Stato degli ebrei potrà ancora chiamarsi "Israele" quando fra qualche anno la popolazione araba, considerando anche i territori controllati, sarà numericamente superiore a quella degli ebrei? Poiché non bisogna farsi alcuna illusione sulle buone intenzioni degli arabi, è urgente per Israele liberarsi di questi territori. E tutti quelli che sono disturbati da Israele si rassicurino: l'inquietudine del nome d'Israele li protegge, nonostante loro, perché quello che minaccia oggi Israele minaccia anche loro. E se le nostre libertà stanno ancora più o meno in piedi, è proprio perché Israele ne è il principale bastione. Credete davvero che senza Israele la terra starebbe meglio? O voi fratelli umani! Per non averlo capito, domani potrebbe essere troppo tardi!

(Association France-Israël, 29 novembre 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





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