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Notizie su Israele 486 - 18 maggio 2010

1. L'emozionante storia del «Figlio di Hamas»
2. A colloquio con Mosab Hassan Yousef
3. Puro antisionismo, nient'altro che antisionismo
4. Il nocciolo del problema mediorientale
5. Rabbini belgi vengono a pregare a Mantova
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmo 118:14-15. L'Eterno è la mia forza e il mio cantico, ed è stato la mia salvezza. Un grido d'esultanza e di vittoria risuona nelle tende dei giusti: La destra dell'Eterno fa prodezze.
1. L'EMOZIONANTE STORIA DEL «FIGLIO DI HAMAS»




Il «Principe verde»

Si è convertito dall'islam al cristianesimo e invece di essere un terrorista di Hamas è diventato una spia del servizio segreto israeliano per l'interno Shin Bet. Il palestinese Mosab Hassan Yousef, figlio dello sceicco Hassan Yousef, uno dei fondatori di Hamas, ha condotto per anni una doppia vita. Per il credente musulmano di una volta oggi Allah è il "più grande terrorista".

di Dana Nowak

Mosab Hassan Yousef
«Avrei voluto diventare un eroe e rendere fiero di me il mio popolo... e invece agli occhi del mio popolo sono diventato un traditore», così comincia l'autobiografia del palestinese che è nato nel 1978 in un piccolo villaggio presso Ramallah in Cisgiordania. Adesso Yousef ha pubblicato l'emozionante storia della sua vita in un libro che è uscito nella traduzione tedesca il 25 marzo scorso, pubblicato dalla casa editrice Hänssler
    Fin da bambino Yousef prese parte alla prima "Intifada" come lanciatore di sassi, desideroso di arrivare ad essere rispettato come combattente della resistenza. Più tardi diventò leader del movimento studentesco islamico nella sua scuola. Quando suo padre fu imprigionato da Yasser Arafat, il suo odio non si rivolse più soltanto contro Israele ma anche contro le autorità dell'Autonomia Palestinese e contro i palestinesi secolari. Spinto dal desiderio di vendetta e alla ricerca di armi, attirò su di sé l'attenzione dell'esercito israeliano, fu arrestato e alla fine approdò, a 18 anni, nella prigione "Moskobije" a Gerusalemme Est. Nel suo libro Yousef parla di un modo di procedere estremamente brutale dei soldati israeliani. Ha dovuto resistere per ore legato a una sedia, con una musica assordante nelle orecchie e un cappuccio puzzolente in testa. Poi, dopo alcuni giorni, arrivò l'offerta: lo Shin Bet (Shabak) proponeva a Yousef di diventare un suo agente. «Lavoriamo insieme e portiamo pace alle persone», diceva al palestinese il collaboratore del servizio segreto. In un primo momento Yousef rifiutò. «Non posso fare quello che va contro tutto quello che io credo», rispose come motivazione. Ma poi acconsentì - con un pensiero nascosto di vendetta in testa. Se gli israeliani gli daranno delle armi, con quelle lui ucciderà: era questo il suo piano. Nonostante la promessa, Yousef dovette rimanere ancora un certo tempo in prigione, perché una liberazione troppo veloce sarebbe parsa sospetta. Fu trasferito nell'istituto di pena di Megiddo.
    Nelle prigioni israeliane ogni organizzazione palestinese può gestire le sue persone: in questo modo si riducono certi problemi sociali e i conflitti tra i singoli gruppi vengono rinforzati. Secondo quello che scrive Yousef, il tempo in prigione sotto il controllo di Hamas ha cambiato la sua vita. Ha potuto constatare che Hamas opprime e tortura brutalmente le sue persone: ficca chiodi sotto le unghie, scioglie plastica sulla pelle nuda, strappa i peli del corpo. Secondo il suo libro, dopo queste esperienze lui abbandonò i suoi propositi di vendetta. «Lo Shin Bet non ha cercato di spezzare la mia volontà per indurmi a fare cose cattive. Cercavano invece di fare tutto quello che era nelle loro possibilità per formarmi, per farmi diventare più forte e più intelligente... Erano così cordiali, quelle persone. Evidentemente erano molto interessati a me.»
    Dopo la liberazione, il suo primo, lungamente atteso incarico fu quello di andare in collegio e prendersi un diploma, finanziato dagli israeliani.
    Secondo le sue dichiarazioni, col passar del tempo Yousef diventò una delle più affidabili fonti all'interno della direzione di Hamas e ricevette il nome di "Principe verde", verde per il colore dell'islam, Principe per la sua appartenenza alla famiglia di uno sceicco di Hamas. Grazie al suo aiuto - così dichiara - sono state arrestate decine di palestinesi di alto rango, tra cui il leader di Fatah Marwan Bargouti e il comandante di Hamas Ibrahim Hamid. Molte celle terroristiche sono state scovate attraverso le informazioni che ha trasmesso. Piani di assassinio contro rappresentanti del governo israeliano sono stati scoperti e tentativi di attentati suicidi sono stati sventati. Secondo il libro, i leader dell'ala militare di Hamas avevano fiducia in Yousef e gli comunicavano i loro problemi. In questo modo è diventato anche l'interlocutore per altri rami militanti, e li riforniva di esplosivi. Ritardava le azioni progettate fino a che scopriva dove si trovavano le cellule degli attentatori, dopo di che passava le informazioni allo Shin Bet. La doppia vita di Yousef procedeva a pieno ritmo e nessuno della sua famiglia notava qualcosa.
    
Mosab con il padre e altri notabili di Hamas


Il sermone sul monte cambia la vita di Yousef

Il palestinese riferisce poi di un altro incontro che ha cambiato la sua vita. Avvenne alla fine degli anni '90. Durante una passeggiata nelle strade della Gerusalemme vecchia incontrò un uomo della Gran Bretagna che lo invitò a partecipare ad un gruppo biblico nell'edificio della YMCA (Young Men's Christian Association). «Se ho potuto imparare così tanto dagli israeliani, forse anche altri "infedeli" possono avere qualcosa di valido da insegnarmi ». L'invito di Gesù: «Amate i vostri nemici! Pregate per quelli che vi perseguitano affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli" ha cambiato definitivamente la sua vita. Da quel momento cominciò a frequentare i culti e il gruppo biblico. Si pose la domanda che cosa farebbero i palestinesi se Israele sparisse, se tutto tornasse come prima del 1948. «Continuerebbero ancora a litigare», Per una ragazza senza il velo, per chi è il più forte e il più importante, e per chi è che comanda.
    Il processo che lo ha portato a diventare definitivamente cristiano è durato sei anni. Alla fine si è fatto battezzare di nascosto nel mare di Tel Aviv da un'americana di passaggio che era in visita alla sua comunità. Il suo lavoro di spia è finito nel 2007. Da quel momento Yousef vive negli USA. Nell'estate del 2008 ha confessato pubblicamente il suo cristianesimo. Da allora ha avvertito gli ebrei: «Siate pienamente consapevoli: mai e poi mai avrete pace con Hamas. L'islam, e l'ideologia che lo guida, non gli permetterà mai di firmare un patto di pace con gli ebrei. Hamas crede, e la tradizione lo conferma, che il profeta Maometto ha combattuto gli ebrei, e quindi Hamas deve combattere gli ebrei fino alla morte», ha detto al quotidiano israeliano Haareretz. Dopo la sua confessione pubblica, i parenti di Yousef si aspettavano che lo sceicco di Hamas ripudiasse suo figlio, e visto che lui non lo faceva, si sono allontanati dalla sua famiglia. Ma dopo che Yousef, all'inizio di quest'anno, dichiarò di aver lavorato per dieci anni per lo Shin Bet, allora anche suo padre l'ha ripudiato. Oggi il leader sconta una pena di sei anni in una prigione israeliana.
    Negli ultimi mesi Yousef ha fatto continuamente notizia sui giornali con la sua inusuale critica all'islam. Ha definito Allah come "il più grande terrorista". L'islam non è una religione pacifica. «Lo so, è pericoloso e offenderà molte persone. Ma più tu segui i passi del profeta dell'islam e del dio dell'islam, tanto più arrivi a diventare un terrorista», ha detto Yousef in un'intervista con l'agenzia di stampa AP. Il trentaduenne è ben consapevole del pericolo che corre chi fa simili dichiarazioni. Ma lui sembra tranquillo: «A dire il vero, essere uccisi non è la cosa peggiore che può succedere».
    
Il padre di Mosab condotto in prigione


«Verità e perdono»

Per il conflitto mediorientale Yousef vede soltanto una soluzione: "Verità e perdono". La sfida non sta nel fatto di trovare una soluzione, ma anzitutto di essere abbastanza coraggiosi da accoglierla. Con la pubblicazione della sua storia Yousef vuole mostrare al suo popolo che la verità rende liberi. E al popolo israeliano vuol far sapere che c'è speranza: «Se io, figlio di un'organizzazione islamistica che si è votata all'annientamento di Israele, posso arrivare al punto non solo di amare gli ebrei, ma addirittura di rischiare la mia vita per loro, allora vuol dire che c'è speranza».

(Israelreport, 2/2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. A COLLOQUIO CON MOSAB HASSAN YOUSEF




La mia storia doveva essere raccontata

a cura di Jörn Schumacher

- Quante interviste le hanno fatto negli ultimi mesi?
- Non lo so di preciso, ma saranno decine. L'interesse dei media è molto grande.

- Dopo che si è dichiarato pubblicamente come spia per Israele, suo padre lo ha ripudiato. Nonostante questo, ha ancora contatti con la sua famiglia?
- Al momento non ho alcun contatto diretto con loro. Non è il caso, metterei a rischio la loro vita. Ma mi arriva qualche notizia attraverso amici.

- E' molto pericoloso per lei adesso?
- E' stato sempre pericoloso per me, fin da quando ero bambino. In questo non c'è niente di nuovo per me.

- Non è ancora più a rischio dopo la pubblicazione del suo libro?
- Può sempre capitare di tutto. Io faccio quello che è giusto e penso che questo corrisponde al piano di Dio.

- Vede forse adesso qualche politico dalla parte palestinese che potrebbe guidare il popolo nella giusta direzione? E' forse Mahmud Abbas?
- Non ho fiducia nei politici. I politici devono essere affidabili, se vogliono ottenere qualcosa. Bisogna cambiare il cuore di un bambino palestinese se si vuole cambiare le cose. Fino a che i singoli palestinesi e i singoli israeliani non avranno un autentico desiderio di pace, non si potrà raggiungere nessuna pace. Quello di cui hanno bisogno è eterna pace, libertà, perdono e gli alti valori del nostro Signore: solo allora potrà esserci pace duratura. Fino a che si avrà fiducia in qualche politico che voglia influenzare questi poveri uomini, non si segue la strada giusta. Non ci sono cattivi leader soltanto in Medio Oriente, ma credo che siano deboli e che avrebbero bisogno di più coraggio e più senso di responsabilità. Non parlo adesso soltanto dei palestinesi, ma anche degli israeliani. Anche se Mahmud Abbas e il governo israeliano si accordassero per una pace, c'è una cosa che ancora manca: le persone devono guarire nel cuore, perché possano mantenere questa pace.

- Crede che ci sarà pace se Israele sgombrerà gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est diventerà la capitale dello stato palestinese?
- Non credo che abbattere case sia una soluzione. Non stiamo parlando di un punto qui o lì. Qui parliamo di mezzo milione di coloni che sono cittadini israeliani: si chiede qualcosa di impossibile. Non si può semplicemente cambiare il paese. Questa soluzione non è perfetta. Sarebbe una soluzione perfetta e ci sarebbe pace tra le due nazioni se i bambini andassero insieme a scuola. Se si evacuassero gli insediamenti, domani ci sarebbero nuovi problemi, forse potrebbe essere l'acqua.

- Che cosa pensa della soluzione dei due stati?
- La soluzione dei due stati è grandiosa. Ma la domanda è: porterebbe pace in Medio Oriente? Io conosco i cuori delle persone che stanno lì, e temo che la soluzione dei due stati potrebbe risolvere un paio di problemi, ma ne creerebbe di ancora più pericolosi. Si può imparare da quello che è successo nella striscia di Gaza: la rivalità tra Fatah e Hamas ha fatto sì che Hamas arrivasse a controllare la popolazione nella striscia di Gaza. I problemi che c'erano prima del ritiro israeliano da Gaza erano molto più piccoli rispetto a quelli che sono venuti dopo. Anche se venisse uno stato palestinese, se poi i dirigenti dello stato non lo sanno governare, sarebbe una catastrofe. La soluzione dei due stati è un'idea meravigliosa, ma bisognerebbe prima essere sicuri che i governanti dei due paesi siano persone qualificate e abbastanza coraggiose da sapere portare avanti il processo di pace.

- Ha mai pensato a diventare lei stesso un politico?
- No, non voglio andare in politica. Fin dai primi tempi, non ne avevo nessuna voglia.

- Crede che dopo l'uscita del suo libro i cristiani palestinesi siano in pericolo perché secondo qualcuno potrebbero essere spie di Israele?
- Alcuni cristiani sono un po' paranoici quando si tratta di questo. Da quando è stato pubblicato il libro, non ho mai sentito parlare di attacchi ai cristiani. Non devono pensare di essere più importanti del loro Dio, perché il nostro Dio è stato perseguitato. Chi pensa di essere più importante del nostro Dio, dovrebbe verificare la sua fede. La persecuzione c'è. Io non ho chiesto ai cristiani il permesso quando ho cercato di impedire l'uccisione dei loro figli e delle loro mogli e di persone innocenti. Ritengo di aver fatto una cosa giusta. Se per loro questo è vergognoso, dovrebbero pensare che ho messo a rischio la mia famiglia. I cristiani in Medio Oriente si vergognano, ma la mia storia doveva essere raccontata. E io non mi vergogno di fare quello che è giusto. Non si tratta di me, non desidero che per causa mia qualcuno sia perseguitato o ferito. Non ho nemmeno mai chiesto una protezione. La mia protezione è soltanto il Signore. Ma si trattava di salvare la vita a persone innocenti.

- Che cosa pensa, lei che era musulmano e adesso è cristiano, dell'affermazione che gli ebrei sono il popolo eletto di Dio?
- Questa non è un'affermazione, sta scritto nella Bibbia. Dio sceglie delle persone. Se Dio chiama qualcuno, chi è chiamato vuole starlo a sentire, è il figlio del Re! E' soltanto per Gesù che in tutte le nazioni ci sono dei figli di Dio. Appartiene al popolo di Dio chi crede nel Messia. Israele - e io intendo la nazione Israele, non il governo - è la nazione di Dio, ma se non credono nel Messia, la colpa è loro. Questo però non significa che Dio non mantiene le sue promesse.

- Qual è il messaggio che l'ha portata alla fede in Gesù Cristo come il Messia e nella Bibbia?
- Come si può leggere nel libro "Figlio di Hamas", non è stata la singola decisione di un giorno. E' stato un lungo viaggio di trasformazione. Ma la cosa più importante è stata proprio l'insegnamento del Signore, i principi che ha stabilito, "Amate i vostri nemici", questa è diventata una regola importante nella mia vita. E anche l'esempio di Gesù, che ho conosciuto personalmente, e il suo sacrificio. I suoi standard sono più alti di quelli di qualsiasi altro dio. Ha uno sguardo sull'intera umanità molto più alto di quello, per esempio, di Allah. Se qualcuno dica: Allah è Dio, per me non ha nessun significato. Quello che conta è la persona che ci sta dietro, chi veramente è e che cosa vuole. Questo distingue il nostro Dio da tutti gli altri dei.

- Quale comunità frequenta?
- Nessuna in particolare. Non appartengo a nessuna denominazione. Sono un seguace di Gesù Cristo. I miei fratelli e sorelle cristiani sono la mia famiglia, e il corpo di Cristo è molto più grande di qualsiasi comunità o chiesa di mattoni. Non sono diventato cristiano a causa dei cristiani. Gli uomini sono tutti uguali: sono peccatori. Non ho mai preso qualche persona come esempio: il mio esempio è Dio, il Perfetto, Colui che noi possiamo vedere attraverso il suo Figlio. E' Lui che io vorrei seguire.

- Molte grazie per il colloquio!

(Israelreport, 2/2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Messaggio di Mosab





3. PURO ANTISIONISMO, NIENT'ALTRO CHE ANTISIONISMO




«La zanzara sionista sta succhiando il sangue degli arabi, americani ed europei»

Facendo seguito al suo articolo "Lo scarafaggio sionista", il giornalista kuwaitiano Fakhri Hashem Al-Sayyed Rajab ha comparato i sionisti a delle zanzare che succhiano il sangue. Ha detto che i sionisti uccidono indiscriminatamente della gente innocente usando metodi di guerra illeciti, che controllano la politica mondiale e che mantengono una rete di spionaggio globale.

Qui di seguito presentiamo alcuni brani dell'articolo:

"A continuazione del nostro precedente articolo sullo scarafaggio sionista, che ha ricevuto forti critiche dai siti web sionisti ebrei e che lo hanno tradotto in inglese con il titolo di 'Zionist Cockroach,' oggi discuteremo della zanzara sionista.

"La zanzara possiede una caratteristica molto particolare: succhiare il sangue di uno specifico gruppo sanguigno. La femmina della zanzara è molto esperta in questo. Ha cento occhi, quarantotto denti, tre cuori e sei pungiglioni che assomigliano a dei coltelli. Ha tre paia di ali e può usare dei raggi infrarossi per identificare la sua preda. Quando affonda i suoi denti, secerne un fluido che anestetizza l'area [del morso] e favorisce la circolazione del sangue, rendendolo più facile da succhiare.

"Io paragono la zanzara al sionista: anche il sionista succhia il sangue - non solo il sangue degli arabi, ma anche quello degli americani ed europei che pagano le tasse. Consente che vengano uccise delle persone innocenti adducendo a pretesto il fatto che [secondo lui] tutta l'umanità sarebbe stata creata allo scopo di servire [il sionista]. La zanzara non fa distinzione fra giovani e vecchi, proprio come l'ebreo, per il quale non c'è differenza nell'uccidere un bambino di cinque anni oppure un vecchio di cento anni, dal momento che il bambino [crescerebbe per diventare] un combattente, mentre il vecchio diventerebbe un testimone della storia.

"La zanzara ha contribuito a diffondere la malaria trasferendo la malattia da una persona all'altra; in maniera simile, i sionisti hanno diffuso i crimini contro l'umanità da un paese all'altro, attraverso il controllo delle politiche di questi paesi a proprio beneficio.

"Per quanto riguarda l'avere cento occhi - gli ebrei hanno punti di osservazione segreti in cento paesi [per fini di] intelligence e di spionaggio. E per quanto riguarda i sei coltelli, [gli ebrei] hanno tutto un arsenale di armamenti: bombe a grappolo ed al fosforo, testate nucleari, ed altri tipi di armi letali. [che sono utilizzate] contro i palestinesi. Riguardo poi ai quarantotto denti, hanno quarantotto tipi di tortura [che usano] contro i prigionieri arabi. Per quanto riguarda



invece le tre paia di ali ed i raggi infrarossi, questi sono i loro aerei che fanno saltare in aria senza pietà degli innocenti civili usando della tecnologia di punta, come i raggi infrarossi.

"E' deplorevole che il mondo intero resti a guardare indifferente [mentre Israele] massacra donne e bambini e demolisce le case sopra le teste dei loro proprietari, mentre loro [i.e. il resto del mondo] ridono e sghignazzano. E nessuno chiede il conto ad Israele [per i loro misfatti], e nessuno sembra capace di farlo a causa del timore della puntura velenosa della zanzara…"

(MEMRI, 14 maggio 2010)





4. IL NOCCIOLO DEL PROBLEMA MEDIORIENTALE




Accettare Israele come Stato ebraico

di Daniel Pipes

Per molto tempo si è pensato che la firma di un trattato di pace tra un Paese arabo di spicco e Israele avrebbe posto fine al conflitto arabo-israeliano. Ma il trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele ha cancellato quell'aspettativa; esso ha sortito l'effetto opposto di rendere altri Paesi e la stessa popolazione egiziana ancor più anti-sionisti.
    Gli anni Ottanta hanno fatto nascere la speranza che il conflitto sarebbe terminato con il riconoscimento di Israele da parte dei palestinesi. Il totale fallimento della Dichiarazione di Principi del 1993 (conosciuta altresì come Accordi di Oslo) ha in seguito sotterrato quell'aspettativa.
    E poi? A partire dal 2007, è emerso un nuovo interesse: far sì che i palestinesi accettino Israele come Stato ebraico sovrano. L'ex-premier israeliano Ehud Olmert ha posto i termini della questione: "Non intendo in alcun modo trovare un compromesso sulla questione dello Stato ebraico. Ciò costituirà una condizione per il nostro riconoscimento di uno stato palestinese".
    Olmert è stato il peggior primo ministro israeliano, ma aveva ragione a questo proposito. La diplomazia arabo-israeliana si è occupata di una miriade di questioni secondarie, senza affrontare il nodo nevralgico del conflitto: "Dovrebbe esistere uno Stato ebraico?" E la questione chiave è il disaccordo su questa risposta, e non i confini di Israele, il diritto di quest'ultimo all'autodifesa, il controllo del Monte del Tempio, il consumo delle risorse idriche, la costruzione di abitazioni nelle città cisgiordane, i rapporti diplomatici con l'Egitto o l'esistenza di uno stato palestinese.
    I leader palestinesi hanno reagito protestando con veemenza ed esprimendo il loro "categorico rifiuto" di accettare Israele come Stato ebraico. Hanno perfino simulato di essere sconvolti all'idea di uno Stato definito dalla religione, malgrado la loro stessa "Carta costituzionale dello Stato di Palestina", nella sua terza bozza, stabilisca che "l'arabo e l'Islam sono [rispettivamente] la lingua e la religione ufficiale palestinese". E così i tentativi di Olmert sono stati vani.
    Nel 2009, alla guida di Israele in veste di premier, Benyamin Netanyahu ha reiterato la posizione di Olmert nella sua linea diplomatica. Purtroppo l'amministrazione Obama ha approvato la posizione palestinese tornando ad affossare le richieste israeliane (Piuttosto, essa si focalizza sulla questione di edificare nuove unità abitative a Gerusalemme. Si è ben lontani dal cuore del problema.)
    Se i politici palestinesi non accettano la natura ebraica di Israele, che ne pensano i palestinesi ma anche più in generale il mondo arabo e musulmano? Sondaggi e altri riscontri evidenziano una media a lungo termine del 20 per cento di coloro che riconoscono l'esistenza di Israele sia nel periodo mandatario che adesso, sia che si tratti di musulmani residenti in Canada o di palestinesi che risiedono in Libano.
    Per saperne di più sulla corrente di opinione araba, il Middle East Forum ha incaricato la Petcher Middle East Polls di porre una semplice domanda a un migliaio di adulti in quattro paesi differenti: "L'Islam definisce [il vostro Stato]; qualora ne ricorrano le condizioni, accetteresti uno Stato ebraico d'Israele?" (In Libano la domanda è stata posta in modo leggermente diverso: "L'Islam definisce la maggior parte degli Stati in Medio Oriente; qualora ne ricorrano le condizioni, accetteresti uno Stato ebraico d'Israele?")
    Questi i risultati: il 26 per cento degli egiziani e il 9 per cento dei sauditi residenti nelle aree urbane hanno risposto (nel novembre 2009) affermativamente, e così ha fatto il 9 per cento dei giordani e il 5 per cento dei libanesi (intervistati nell'aprile 2010).
    I sondaggi rivelano un ampio consenso della popolazione a prescindere dal'attività lavorativa, dalla posizione socio-economica e dall'età degli intervistati. Per nessuna ragione spiegabile le donne egiziane, più degli uomini, e gli uomini sauditi e giordani, più delle donne, accetterebbero un Israele inteso come Stato ebraico, mentre rispondono affermativamente i libanesi di entrambi i sessi. Esistono però in Libano alcune variazioni significative, come del resto ci si potrebbe aspettare. In questo Paese, il 16 per cento degli intervistati residenti nella parte settentrionale (largamente cristiana) accetterebbe un Israele ebraico di contro all'1 per cento appena di consensi espressi nella Bekaa Valley (a prevalenza sciita).
    Ancor più significativo il fatto che ponderare queste risposte a seconda della dimensione delle popolazioni intervistate (rispettivamente 79, 29, 6 e 4 milioni) si traduce in una media complessiva del 20 per cento di coloro che accettano l'ebraicità di Israele, a chiara conferma della percentuale esistente.
    Anche se il 20 per cento costituisce una piccola minoranza, il fatto che essa perduri nel tempo e nelle aree geografiche è incoraggiante. Che un quinto di musulmani, di arabi e perfino di palestinesi accetti Israele come Stato ebraico denota l'esistenza di una base per risolvere il conflitto arabo-israeliano, malgrado quasi un secolo di indottrinamento e intimidazioni.
    I sedicenti mediatori di pace devono dirigere la propria attenzione sull'obiettivo di accrescere la dimensione di questa coorte di moderati. Passare dal 20 al 60 per cento muterebbe sostanzialmente la politica del Medio Oriente, ridimensionando il ruolo di Israele e consentendo alle popolazioni di questa regione danneggiata di occuparsi dei loro problemi reali. Non del sionismo o no, ma di problemi minori come l'autocrazia, la brutalità, la crudeltà, il complottismo, l'intolleranza religiosa, l'apocalitticismo, l'estremismo politico, la misoginia, la schiavitù, l'arretratezza economica, la fuga di cervelli e di capitali, la corruzione e la siccità.

(National Review Online, 11 maggio 2010 - Archivio Daniel Pipes)





5. RABBINI BELGI VENGONO A PREGARE A MANTOVA




Nell'antico cimitero di Mantova è sepolto Menahem da Fano, signore della cabala

La Gazzetta di Mantova ha scoperto un'area proibita, oggi nel totale abbandono. A pregare sul luogo dov'è sepolto è arrivato dal Belgio anche un folto gruppo di rabbini. Il demanio tiene chiusi sia l'antico cimitero ebraico, sia un paradiso naturale.

di Enrico Comaschi

MANTOVA - Quando lo scorso anno ha trovato quella richiesta nella sua casella di posta elettronica, l'architetto Giancarlo Leoni, dirigente della Provincia, ha stentato a capire. Un gruppo di rabbini belgi desiderava venire a Mantova per pregare sulla tomba di Menahem Azariah da Fano. In piena estate, con assoluta urgenza. E dopo una prima mail, una seconda ha confermato che non si trattava di uno scherzo. Da qualche parte, a Mantova, c'era la tomba di una delle figure più importanti della cultura ebraica. Talmudista e cabalista, Immanuel da Fano morì effettivamente nella nostra città nel 1620.
    Dopo una ricerca di qualche giorno, per la quale è risultato utilissimo il libro di Anna Maria Mortari e Claudia Bonora Previdi sui cimiteri ebraici in provincia (Il "giardino" degli ebrei. Cimiteri ebraici del Mantovano, edizioni Giuntina, 2008), era chiaro che si poteva dare il via libera alla missione dei rabbini belgi.
    Menahem Azariah da Fano è sepolto in quella che per i mantovani è terra proibita: la zona militare che dal Gradaro si tuffa direttamente nel lago Inferiore. Una zona che l'esercito ha abbandonato da tanto tempo e che, come molti possedimenti del Demanio, sembra inchiodata in modo definitivo dal suo ruolo cosiddetto "strategico" e dall'incuria statale. Ma anche la zona dell'antico cimitero ebraico della città, voluto nel 1442 dal marchese Francesco Gonzaga.

La cartina della zona dietro al Gradaro prima del 1786

    I rabbini, racconta Leoni, ci hanno messo pochissimo per organizzare la spedizione e si sono presentati una mattina di luglio vestiti di nero, come vuole l'ortodossia. Quattro macchinoni scuri per una quindicina di rabbini in tutto. Ma nonostante le diplomazie si fossero mosse per tempo, la chiave per aprire i cancelli della zona militare non c'era. Si era persa in un labirinto di burocrazia.
    Risultato? Con un po' di ingegno, i cui termini non riveleremo in questa sede, la giusta dose di audacia e molta determinazione, il gruppo dei rabbini (compreso uno di loro in sedia a rotelle) è riuscito ad entrare. Ovviamente era vietato fare fotografie: i religiosi non lo hanno permesso. I rabbini, comunque, hanno provveduto con i loro mezzi a filmare tutto: l'impresa, dicono i presenti, è destinata a rimanere nitida nella memoria. Un'immagine surreale.
    Una volta entrati, è sempre il racconto della informale delegazione mantovana che li ha ricevuti, i rabbini si sono raccolti in preghiera per un'oretta al centro di un grande prato fra un capannone militare e qualche mezzo incidentato dei Vigili del fuoco. Soddisfatti, i rabbini sono tornati a casa a raccontare di aver ritrovato finalmente il luogo per pregare Menahem Azariah da Fano. E chissà che a qualcun altro non venga la stessa idea: entrare in una sorta di circuito turistico-religioso ebraico potrebbe spalancare scenari interessanti.
    Da questo punto di vista, oltre che da un punto di vista storico, proprio il libro di Anna Maria Mortari e Claudia Bonora si offre come completissimo manuale e come spunto di riflessione sull'importanza del patrimonio collettivo della memoria. Ma al di là dell'episodio in sè (dell'avventurosa mattinata si è saputo soltanto poche settimane fa), è scattata la molla della curiosità.
    Come sarà questo centralissimo e allo stesso tempo remoto angolo del centro storico della città? Quale ricordo visivo si saranno portati a casa i rabbini? Cosa potrebbe significare, per Mantova, la scoperta di un posto con radici così antiche? Cosa si vede da questo anacronistico avamposto militare?
Una cosa è certa: si tratta dell'unico punto di Mantova in cui il rapporto fra città e lago non è mediato da una strada (via Argine Maestro è sempre deserta, nonostante sia stata da poco asfaltata per servire il nuovo quartiere dell'Anconetta).
    E così, utilizzando lo stesso strategemma dei rabbini (top secret) anche la Gazzetta è riuscita ad entrare nella zona militare. Cioè nel cimitero ebraico voluto dai Gonzaga e fatto chiudere nel 1786 da Giuseppe II. L'impatto visivo è notevole: l'area, vastissima, è un paradiso. Ci sono alberi molto vecchi, come documentano le fotografie di queste pagine. L'erba è alta e i rampicanti hanno da tempo aggredito gli edifici militari che però appaiono ancora integri e, dunque, teoricamente utilizzabili. Al prato centrale si accederebbe, non fosse chiuso come zona militare, direttamente da via San Nicolò.
    E' quasi certo che proprio il viale centrale del cimitero fosse la prosecuzione della via, che termina con un cancello chiuso. Il cimitero, del resto, doveva arrivare fino al Gradaro. Non ci sono tracce di lapidi, l'ex cimitero è un parco naturale a due passi dal centro della città. Unico segno della sua 'sacralità', una stele che ricorda come a fianco del cimitero degli ebrei ci fosse anche un cimitero militare. Ma anche in questo caso, il Demanio (cioè lo Stato, che rappresenta o dovrebbe rappresentare gli interessi di noi cittadini), ha abbandonato tutto al suo destino.
    La vera sorpresa arriva quando ci si avvicina all'estremità del cimitero. L'area è una terrazza naturale appoggiata sulle mura della città: sotto, di un paio di metri, c'è il lago Inferiore, raggiungibile comodamente girando intorno alla recinzione. Ad oggi, il sentiero è utilizzato da pescatori e da disperati: ci sono rifiuti dappertutto, ma basterebbe poco per trasformare il percorso in una passeggiata da porto Catena fino all'edificio della Fossa Magistrale, tra l'altro parecchio suggestivo e per nulla noto ai più giovani
    Ma lo stupore non si ferma di fronte alla vista del lago. L'ex cimitero ebraico riserva un'altra chicca. A margine del prato principale, quasi invisibile per la vegetazione che la avvolge, c'è una polveriera asburgica (1738 circa). Ancora integra, perfetta. Ci sono le volte sotterranee, c'è un piano rialzato. Il tutto in abbandono, pieno di casse contenenti chissà cosa, ma apparentemente solido, stabile e fruibile. Il buio è pesto, ma basta un flash della macchina fotografica per rivelare un piccolo tesoro. Le immagini, del resto, parlano chiaro.
    Un paradiso naturale e un fondamentale luogo della memoria e della storia. Ecco cosa il Demanio si tiene stretto per non farci nulla. Eppure basterebbe così poco per liberare una risorsa così importante per Mantova. Il sindaco Sodano prenda nota. E basterebbe così poco per assaporare, come ha fatto la Gazzetta, una pacifica liberazione dell'area. Se non altro per onorare la memoria di mantovani ebrei e militari ancora sepolti sotto l'erba alta ed i fiori di campo che profumano di pioggia.

(La Gazzetta di Mantova, 15 maggio 2010)





6. LIBRI




La lunga scia dell'antisemitismo

Due secoli di odio contro gli ebrei in un saggio di Francesco Germinario

di Riccardo Calimani

Che un singolare fenomeno di diffusione dell'odio abbia potuto intensificarsi a cavallo del XIX e XX secolo in Europa e abbia creato le premesse di tragedie future, può sembrare ben strano. Eppure sembra quasi che dopo decenni e decenni di insegnamento del disprezzo, si sia verificato nella cultura europea prima e nella politica subito dopo un cortocircuito potenzialmente devastante.
L'illuminismo prima, il positivismo scientista poi e infine l'irruzione delle idee romantiche hanno creato una miscela che ha finito per condizionare l'intero immaginario cultural-politico europeo. Nell'arco di cento anni dalla fine del Settecento alla fine dell'Ottocento si può ben dire che la trasformazione è stata radicale e profonda, quasi inaspettata.
Non che gli uomini prima di allora non avessero motivi per farsi guerra o sbudellarsi. Solo che alla fine dell'Ottocento tutti credevano a un'idea tanto di moda quanto fallace, e non è un caso che questa idea rivelatasi grazie alla genetica palesemente assurda sia ancora in auge con la sua carica di perversione: la razza. Questo è il quadro di riferimento concettuale che serve da base a Francesco Germinario per il suo Costruire la razza nemica (Utet), dedicato alla formazione dell'immaginario antisemita tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.
Semita è una parola che, nata alla fine del Settecento, aveva solo ed esclusivamente connotazioni linguistiche. Antisemita è un parola coniata dopo oltre un secolo che racchiude in sé significati razziali e che riflette quel percorso cui si è appena accennato poche righe fa.
Non che prima non ci fosse l'odio antiebraico diffuso in molte forme, ma si trattava di forme di antigiudaismo religioso che pur manifestandosi certo con violenza offrivano agli ebrei uno spiraglio: la conversione. Spiraglio di violenza non onorevole, che tuttavia metteva in luce come il marchio non fosse indelebile. Alla fine del XIX secolo si affermò una visione cospirazionista della storia alimentata dai famosi Protocolli e nutrita di effluvi legati a vecchie idee di cospirazione, si pensi alle congiure gesuitiche-ebraiche o legate alla massoneria. Drumont, Maurras, Vacher de Lapouge, ognuno con le sue fissazioni, contribuirono a rafforzare un'atmosfera culturale di idee irrazionali che sfruttando l'insicurezza diffusa tendeva ad alimentare da un lato la paura e dall'altro una latente necessità di obbedienza. Il passo successivo a questo decadentismo che in qualche modo si saldava con la paura del futuro in un mondo dove l'individuo contava sempre di meno fu l'invenzione dell'odio antisemita come farmaco per poter instaurare un nuovo ordine sociale e politico.
Si trattava però ancora di forme che propugnavano un totalitarismo d'istinto piuttosto ingenuo, non ancora elaborato e più spontaneo che organizzato.
Sarebbe stato necessario, come bene mostra Germinario, un nuovo passo in avanti tanto pericoloso quanto potenzialmente distruttivo: ebreizzare la storia ed ebreizzare la modernità. A tutto questo si doveva aggiungere uno sforzo per degiudaizzare Gesù. Solo così il totalitarismo antisemita si sarebbe liberato delle ultime resistenze e avrebbe potuto e dovuto dispiegare le sue potenzialità distruttive in un mondo dove disperazione e cospirazione finivano per coniugarsi e convincersi che la missione fosse quella di scovare gli ebrei invisibili, soprattutto quelli emancipati. Germinario analizza con documenti e riflessioni una realtà sfuggente e la rende comprensibile anche a coloro che non hanno molta dimestichezza con le aberrazioni del pensiero cosiddetto filosofico contemporaneo.

(Europa, 18 maggio 2010)





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