1. QUELLO CHE INTERESSA AGLI AMICI DEI PALESTINESI
La distruzione di Israele per gradi
di Marcello Cicchese
Dopo l'«assalto» di Israele alla flottiglia dei «pacifisti» e il successivo «massacro» compiuto dai militari israeliani (così hanno presentato le cose molti giornali), da diverse parti è stato sollevato il timore (o la speranza) di una terza intifada palestinese. Il semplice fatto di far balenare questa possibilità tende a far credere che la seconda intifada sia stata uno scoppio incontenibile di rabbia popolare prodotta dalla «disperazione» in cui sono stati fatti piombare i poveri palestinesi. E se la disperazione aumenta - si pensa - è chiaro che il fatto potrebbe ripetersi e aggravarsi.
Ma le cose non stanno così, per il semplice fatto che la disperazione non c'entra niente con tutto quello che è avvenuto e sta avvenendo nei territori palestinesi. L'interpretazione autentica di quello che avrebbe voluto essere l'intifada del 2001 fu fornita in prima persona dall'allora autorevolissimo ministro palestinese per
le questioni su Gerusalemme, Faysal al-Husseini. In un suo discorso tenuto a Beirut nel marzo 2001 ( Notizie su Israele 1), questo raffinato esponente dell'aristocrazia palestinese aveva pazientemente esposto ai libanesi anti-israeliani - che forse erano un po' troppo precipitosi nella loro ira contro lo Stato ebraico - una lezione accademica il cui titolo avrebbe potuto essere «La distruzione di Israele per gradi». Il sistema da usare per ottenere lo scopo deve prevedere - secondo la lezione - una sapiente alternanza di atti di finta pace con atti di vera guerra. Con la finta pace degli accordi di Oslo, di cui era stato uno degli artefici, e sotto il governo di Ehud Barak, diversi "tabù" israeliani erano stati infranti e alcuni importanti risultati raggiunti: la legittimazione giuridica dell'OLP, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1949, la messa in discussione di Gerusalemme come "unica e indivisibile capitale di Israele". L'elezione di Ariel Sharon a capo del governo minacciava di vanificare i risultati ottenuti con la finta pace e quindi era giunto il momento di passare ad atti di vera guerra. Ecco uno stralcio della sua lezione di strategia terroristica:
«Noi siamo convinti che gli scontri in Gerusalemme scuoteranno il mondo dall'Indonesia al Marocco. E questo sarà un segno per gli USA, che saranno costretti a capire che il loro appoggio a Israele distruggerà la stabilità in tutta la regione. Ci troviamo davanti a una battaglia, e a questa adesso ci stiamo preparando. Non dobbiamo permettere che Sharon abbia successo sulla questione della sicurezza, perché questo significherebbe la nostra sconfitta politica.»
Dunque nessuna incontenibile rabbia popolare era alla base della seconda intifada, ma un preciso calcolo politico mirante a ottenere il coinvolgimento internazionale contro Israele, a cominciare dagli Stati Uniti. A distanza di nove anni si può dire senza ombra di dubbio che quella intifada è fallita e che Israele ha vinto la sua battaglia.
Non ci sarà dunque una terza intifada simile alla seconda per il semplice fatto che gli organizzatori hanno capito che ormai la cosa non funziona. Ci sarà invece, anzi è già cominciata e continuerà a tempo indeterminato, una terza intifada diversa nella tattica dalla precedente, ma del tutto uguale nell'obiettivo finale: la distruzione di Israele attraverso il coinvolgimento della comunità internazionale. Gli attentati suicidi presentati come atti di disperazione popolare, oltre che essere sempre più difficili da eseguire per le fastidiose ed efficaci contromisure israeliane, non commuovono più molto il mondo, anche perché qualcuno ha cominciato a temere che possano essere esportati anche in casa propria. E anche il tema delle crudeli sofferenze imposte ai poveri palestinesi dal «muro dellapartheid» è stato ormai ampiamente sfruttato senza ottenere risultati apprezzabili.
A qualche degno epigono del compianto (dai palestinesi) Faysal al-Husseini deve allora essere venuta in mente la brillante idea di valorizzare il tema dell'«assedio a Gaza», e la cosa sta ottenendo risultati davvero incoraggianti per gli ideatori. Il termine «occupazione» non può più essere applicato a una Gaza ormai «judenrein», cioè totalmente purificata da ogni contaminazione ebraica (ma guai a parlare di antisemitismo quando si nomina Hamas). Il termine «assedio» invece è ricco di suggestive risonanze. L'assedio classico tende a far capitolare il nemico per fame, e chi non si commuoverebbe al pensiero dei poveri palestinesi fatti morire d'inedia dagli spietati ebrei? Per la precisione si dovrebbe parlare di israeliani, e nelle dichiarazioni ufficiali questo si fa, ma nello stesso tempo si fa in modo che qualche arabo-israeliano alzi la sua voce di dissenso, come è avvenuto con la presenza di una deputata araba-israeliana tra i «liberatori» della flottiglia turca. Quindi è chiaro che se gli arabi-israeliani si dissociano, quelli che restano non possono che essere ebrei.
La plateale discesa in campo della Turchia, supportata dal plauso dell'Iran, rappresenta poi il vero capolavoro di questa nuova impresa. A farsi avanti non è più una delle nemiche storiche di Israele, cioè una di quelle nazioni che hanno già preso sonore sberle dal nemico che volevano distruggere, ma una nazione islamica «moderata», amica fino ad ora di Israele. Anche lei vuole portare aiuti umanitari a Gaza, e guai a dire che i palestinesi da quelle parti non stanno poi così male. I palestinesi DEVONO stare male, perché devono essere per il mondo la rappresentazione plastica della malvagità degli ebrei che occupano lembi della sacra terra islamica. E' questa la loro vocazione storica. Benessere dei palestinesi e Stato d'Israele non possono, non devono coesistere.
Chissà se un giorno i palestinesi capiranno che del loro benessere e dello Stato di Palestina a molti loro amici non interessa proprio niente. Quello che a loro interessa è la sparizione di Israele. Questo non avverrà, ma il tentativo di ottenerlo continuerà a produrre lutti e sofferenze. A cominciare dai palestinesi.
(Notizie su Israele 487, 8 giugno 2010)
2. SENZA ISRAELE STAREMMO TUTTI MEGLIO?
Teoria e pratica dell' antisionismo. Condanne a senso unico
di Giordano Masini e Marianna Mascioletti
I fatti dello scorso lunedì [31 maggio 2010], e il clamore che ne è seguito sui mezzi d'informazione, paiono affermare con chiarezza che Israele è nei guai. Ancora una volta ha perso una battaglia mediatica, ancora una volta ha offerto il fianco a critiche che ben di rado sono circoscritte ai singoli eventi (tre notevoli eccezioni, per fortuna) e che più spesso si appuntano, più o meno velatamente, sulla questione del diritto di Israele all'esistenza.
In realtà, pare che in questi pochi giorni la notizia si sia un po' "sgonfiata". I morti sono dieci in meno rispetto a quelli annunciati inizialmente: da diciannove sono diventati nove. Se fossimo maligni, potremmo commentare che, nell'area, non si è nuovi alle resurrezioni (in ordine cronologico, uno e due); dato che maligni non siamo, non possiamo che rallegrarci del ridimensionamento dei danni, rammaricarci che danni ci siano stati e cercare di capire meglio non tanto quello che è successo lunedì, ma quello che succede ogni volta che Israele, come centinaia di commentatori in tutto il mondo non mancano di rilevare, "sbaglia".
Capita che Israele sbagli, questo è sicuro: d'altra parte, la convivenza dello Stato ebraico con chi ha per statuto la missione di annientare - oh coincidenza - proprio lo Stato ebraico non dev'essere precisamente delle più facili, e rende quasi impossibile parlare di equidistanza. Troviamo particolarmente adeguata alla circostanza la citazione di Von Clausewitz inserita da Andrea Gilli in questo articolo: "in guerra tutto è semplice, ma anche le cose più semplici diventano difficili".
Ciò che appare straordinario è il vigore con cui, ancor prima di conoscere con precisione i fatti, gran parte dei media mondiali si precipita sempre a stigmatizzare l'errore e a condannare quella che, ad oggi, è l'unica democrazia del Medio Oriente.
Israele sbaglia, Israele dovrebbe rispettare la legalità internazionale, Israele dovrebbe imparare dai suoi errori e dalle sue sofferenze
D'altronde Israele sconta un peccato originale, quello della sua stessa esistenza, e alla fine il discorso torna sempre lì, al fatto che Israele sarebbe nato in casa d'altri, e se ora il mondo è così magnanimo da concedere ad Israele di esistere, Israele in cambio dovrebbe essere così gentile da lasciar morire la sua gente senza far troppo rumore.
Si ritrovano tutti ad essere paladini della legalità internazionale, quando c'è di mezzo Israele, tanto da prendere sul serio un Sudan
che si fa promotore, in seno al Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani, di un'inchiesta indipendente sull'abbordaggio della Mavi Marmara, e da non essere sfiorati dall'idea che la cosa possa apparire ridicola. Tanto nessuno lo farà notare.
Colpisce, dunque, il fatto che il legalitarismo non si spinga fino a ricordare che Israele è uno stato riconosciuto dall'assemblea delle Nazioni Unite, nato secondo i progetti dei sostenitori del movimento sionista.
E, signori, la cosa vi sorprenderà, ma "sionista" non è una parolaccia.
Il sionismo politico nacque ufficialmente in seguito all'affare Dreyfus: nella libera e illuminata Francia di fine '800, un capitano d'artiglieria dell'esercito francese fu accusato di spionaggio senz'altra prova che il suo essere ebreo (e quindi, per definizione, traditore), degradato e mandato ai lavori forzati.
Lo stato maggiore dell'esercito si rese conto dell'errore e trovò il vero colpevole quasi subito, ma decise di non rivedere la sentenza, poiché ammettere di aver sbagliato per pregiudizi antisemiti sarebbe stato troppo imbarazzante. L' "affaire" fu infine risolto, dopo più di dieci anni, a favore del povero Dreyfus, che fu reintegrato nell'esercito e riabilitato, sia pure con la salute devastata dagli anni di lavori forzati e l'umiliazione di aver dovuto domandare la grazia, come un colpevole. Questo però fu possibile soprattutto grazie all'impegno del colonnello Picquart (inizialmente anche lui imbevuto del pregiudizio antisemita) e agli infuocati articoli dello scrittore Emile Zola, il più famoso dei quali è lo storico "
j'accuse!".
Un giovane giornalista, anch'egli ebreo, di nome Theodor Herzl, mandato dal suo giornale a seguire gli sviluppi della vicenda, comprese che in qualunque Paese, anche nella terra dei Lumi, l'antisemitismo avrebbe sconfitto sistematicamente qualunque sforzo per l'integrazione: scrisse perciò "Lo Stato Ebraico", in cui teorizzava, appunto, il diritto all'autodeterminazione del popolo ebraico, che avrebbe dovuto creare un proprio stato nella Terra Promessa, dove finalmente gli ebrei sarebbero stati al sicuro da un odio antisemita talvolta strisciante, talvolta palese, ma quasi sempre e quasi ovunque presente.
Lo stato d'Israele nacque, dopo varie vicissitudini tra cui lo sterminio di sei milioni di ebrei, il 14 maggio 1948, su quello che era stato fino a poco prima un territorio sotto mandato britannico: subito, come atto di benvenuto, i Paesi arabi confinanti, che avevano rifiutato la proposta di uno stato palestinese (più conosciuta come "Due popoli, due stati"), gli dichiararono guerra, tanto per far capire l'aria che tirava. Israele vinse quella guerra - di difesa, ricordiamolo - e ne ha vinte anche altre: sta però perdendo quella dei mass media, a causa anche dell'abitudine linguistica, ormai comune, di usare la parola "sionismo" come alibi per poter dire degli ebrei esattamente quello che se ne diceva nel classico antisemitismo europeo, ma senza essere accusati di razzismo.
Pensandoci, per chi non ama molto gli ebrei (pardon, i sionisti) è anche comodo averli (quasi) tutti lì, in uno stato democratico, in cui il linciaggio fisico degli oppositori politici non è praticato, e che quindi è facile criticare animatamente sia quando attacca, sia quando si difende, sia quando non fa nulla, così, tanto per non perdere l'allenamento.
Difficile, invece, trovare, non solo tra i filopalestinesi ma anche tra gli "equidistanti", chi critichi chiaramente, senza mezzi termini, senza se senza ma e senza però, senza dover portare per forza Israele a contrappeso, il fatto che Hamas voglia cancellare l' "entità sionista" dal mondo, il fatto che addestri i bambini alla lotta armata, il fatto che neghi la Shoah. In fondo so' ragazzi, so' vivaci, è carattere. E soprattutto, aggiungiamo noi maligni, non hanno la mano tenera con chi dissente o è sospettato di farlo.
L'antisionismo arabo è chiaramente e dichiaratamente antisemita, questa non dovrebbe essere cosa da meritare troppi approfondimenti, ma quello europeo e occidentale no, è cosa diversa. Dell'antisemitismo, tuttavia, sfrutta caratteri e semplificazioni: nell'individuare sempre e comunque in Israele la causa ultima dei mali del mondo, nel sospirare che in fondo di Israele si sarebbe potuto fare a meno, e che senza staremmo tutti meglio. E, come l'antisemitismo era il "fornitore ufficiale" di alibi per i totalitarismi del ventesimo secolo, oggi è l'antisionismo che ci permette di sorvolare sul fallimento dell'islamismo integralista e delle ideologie residuali del nostro occidente nostalgico.
La legittimità di ciò che fa Israele si può criticare, si dice, senza essere accusati di antisemitismo. Certo. E anche quando per criticare Israele neghiamo ogni logica e ogni evidenza, sorvoliamo su crimini perpetrati altrove, ignoriamo la minaccia islamista al punto di farci prendere per il naso dai fondamentalisti di ogni dove, anche in quel caso forse è ancora improprio parlare di antisemitismo. Ma non è improprio, a questo punto, sostenere che l'antisionismo è ipocrita e genocida almeno quanto l'antisemitismo.
Il nostro è un antisionismo pietoso e compassionevole, anche se si nutre dello stesso sangue dell'antisemitismo nazista. Come l'antisionismo impegnato e sincero di Roberto Vecchioni, che si ritrovò anni fa a cantare il dramma e la sofferenza di Marika, una giovane kamikaze palestinese che fece una strage in un ristorante di Haifa: "Canta Marika canta, come sei bella nell'ora del destino, ora che stringi la dinamite come un figlio al seno", magari ignorando, poveretto, che prima di farsi saltare in aria Marika trovò il tempo di spingersi nel punto più affollato del ristorante, e di portare vicino a sé una carrozzina con un neonato, ché i sionisti è meglio farli a pezzi da piccoli, e il fatto di essere un sionista di terza o quarta generazione non assolve dai peccati presunti dei sionisti di prima. E che non si provi a dire che Marika ha sbagliato, per carità, perché se pure avesse sbagliato è stato Israele a indurla all'errore.
L'antisionismo assolve e libera dalla responsabilità individuale, perché ogni crimine perpetrato dai carnefici antisionisti tutto sommato trova origine e giustificazione nelle sofferenze subite dai medesimi, e nella rabbia che tali sofferenze suscitano negli antisionisti occidentali. Perché i sionisti sono come i nazisti, e i palestinesi come gli ebrei, e lo sforzo apparentemente più patetico, ma incredibilmente più fruttifero, degli antisionisti arabi ed occidentali è proprio quello di dipingere Israele per ciò che non è, cioè una nazione di barbari assassini con propositi genocidi.
Israele affama, sfrutta, stermina, massacra, e si compiace del gusto di farlo lentamente. Gaza è il campo di concentramento in cui Israele tiene segregato e uccide un popolo, e deve essere senz'altro così, perché se così non fosse, se a Gaza la popolazione fosse tenuta per caso in ostaggio da Hamas dopo aver preso il potere con un colpo di stato in cui i dirigenti di Fatah sono stati trucidati per strada, se davvero Hamas avesse trasformato Gaza in una zona di guerra permanente, se davvero insegnasse ai bambini ad uccidere gli ebrei, allora forse dovremmo riconoscere che ci siamo sbagliati, e i nostri sbagli, da più di sessant'anni, grondano di sangue ebreo. O sionista, fate voi.
(libertiamo, 5 giugno 2010)
3. «LA PIÙ GRANDE PRIGIONE DEL MONDO»
ll mito dell'assedio di Gaza
di Jacob Shrybman*
Quando il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon parla di "assedio della striscia di Gaza" (come se si trattasse di Sarajevo o di Leningrado), bisognerebbe chiedersi di quale assedio, o blocco, stia parlando visto che nella striscia di Gaza sono entrate, solo nel 2009, 738.576 tonnellate di aiuti umanitari.
Dopo la campagna militare israeliana anti-Hamas del gennaio 2009 (circa 1.300 morti), le Nazioni Unite hanno garantito al milione e mezzo di abitanti della striscia di Gaza aiuti per 200 milioni di dollari, mentre alla fine del gennaio scorso - nonostante tutti i piani per raccogliere più fondi - garantivano solo 10 milioni di dollari alle vittime del terremoto di Haiti (230.000 morti su 3 milioni di abitanti). Naturalmente senza considerare il fatto che gli abitanti di Haiti non avevano attaccato nessuna popolazione civile vicina per quasi dieci anni.
La comunità internazionale ha accettato ciecamente un'impudente menzogna circa l'assedio israeliano alla striscia di Gaza, ignorando i dati di fatto reali. Da anni gli aiuti umanitari internazionali affluiscono speditamente nella striscia di Gaza, e non si sono in alcun modo fermati dopo l'operazione Piombo Fuso, visto che 30.576 autocarri di aiuti vi sono entrati nel 2009. Sempre nel 2009 sono state trasferite nella striscia di Gaza 4.883 di materiale mediche. Proprio il mese scorso è stata portata a Gaza una nuova macchina per la tomografia assiale computerizzata.
La striscia di Gaza viene anche spesso definita "la più grande prigione del mondo", intendendo che gli abitanti vi sarebbero rinchiusi come in una gabbia a cielo aperto. Eppure, sempre nel 2009, sono stati 10.544 i pazienti e loro accompagnatori che sono usciti dalla striscia di Gaza per ricevere trattamento medico in Israele: solo la scorsa settimana quasi cinquecento pazienti e loro accompagnatori sono passati da Gaza in Israele per essere curati.
Ecco perché lo scorso 24 febbraio il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Robert Serry, nel corso di un incontro con il presidente israeliano Shimon Peres ha dichiarato che "non c'è una crisi umanitaria a Gaza". Serry ha solo lamentato la penuria di alcuni materiali da costruzione che, ha spiegato il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, Gerusalemme tende a bloccare perché sa per esperienza che Hamas spesso li sequestra e li utilizza per i propri scopi paramilitari (fabbricazione di razzi e bunker).
Invece due congressisti americani come Keith Ellison e Brian Baird, che hanno visitato Sderot con lo Sderot Media Center, hanno corroborato l'idea di un "assedio di Gaza". Evidentemente ignorano il fatto che il loro segretario di stato Hillary Clinton ha stanziato 900 milioni di dollari in aiuti da mandare alla striscia di Gaza all'indomani dell'operazione Piombo Fuso. Un rapporto USAID e Dipartimento della Difesa che si è occupato di calcolare gli aiuti mandati ad Haiti dopo il devastante terremoto, ha rilevato che, alla fine del mese scorso, tutti i programmi di aiuti governativi americani inviati ad Haiti ammontavano a poco più di 700 milioni dollari, vale a dire quasi 200 milioni meno di quelli per la striscia di Gaza controllata da un'organizzazione terroristica.
È passato più di un anno dalla campagna israeliana anti-Hamas e la comunità internazionale ancora si dà credito alla frottola dell'"assedio di Gaza". Intanto lo Sderot Media Center ha registrato più di 230 fra razzi e obici di mortaio che hanno
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raggiunto Israele in quest'ultimo anno.
Il segretario dell'Onu Ban Ki-moon dovrebbe visitare il kibbutz
Nirim per vedere un edificio distrutto da un Qassam solo la settimana scorsa, o il moshav Netiv Haassara nelle cui serre, colpite da un Qassam giovedì scorso, è rimasto ucciso un lavoratore thailandese, anziché contribuire a promuovere il mito dell'assedio di Gaza andandovi in pellegrinaggio.
* Jacob Shrybman è vice direttore dello Sderot Media Center
(YnetNews, marzo 2010 - da israele.net)
4. QUAL È IL CONFLITTO? QUESTO È IL PROBLEMA
La pace possibile? Quella dopo il '67
Nel Medio Oriente il conflitto si può risolvere se è sulle terre, non sul diritto ad esistere dello Stato ebraico
di David Harris*
Qual è il più grande ostacolo alla pace israelo-palestinese? La confusione sul conflitto a cui fare riferimento: 1947 o 1967? Se è quello del 1947, quando l'Onu raccomandò la divisione in due Stati del mandato britannico in Palestina, è in gioco l'esistenza di Israele. Se il mondo arabo avesse accettato il piano dell'Onu, non ne sarebbe scaturito alcun conflitto. Due Stati - uno ebraico, l'altro arabo - sarebbero sorti l'uno accanto all'altro. Ma mentre i leader ebrei l'accettarono, gli arabi lo rifiutarono. Questi non riconobbero l'antico e durevole legame tra il popolo ebraico e la regione, e considerarono invece gli ebrei i moderni Crociati. La loro opposizione condusse ad un attacco nel 1948 da parte di sei eserciti, finalizzato alla distruzione di Israele. Fallirono, ma non smisero di provarci. Nel 1967, con l'Egitto e la Siria che lanciavano orribili appelli all'annientamento di Israele, scoppiò il conflitto. In meno di una settimana le forze israeliane ne uscirono vittoriose e conquistarono terre in Egitto, Giordania e Siria. Israele ritenne di aver acquisito un nuovo assetto negoziale. Avrebbe potuto cedere terra, con rettifiche modeste, in cambio di una pace sicura, così come fatto da molte altre nazioni uscite vittoriose da guerre di autodifesa, tenendo conto delle nuove realtà sul terreno. Se è così, allora la natura del conflitto è sui confini definitivi, non sulla legittimità di Israele. Altrimenti, stiamo continuando la guerra del 1947. Con Egitto e Giordania la questione è risolta. Nel 1979, Israele e Egitto firmarono un trattato di pace. Due leader improbabili lo resero possibile. Anwar Sadat che aveva poco prima capeggiato le forze armate dell'Egitto contro Israele, si dimostrò una figura coraggiosa. Egli preferì costruire il futuro dell'Egitto invece di negare ad Israele il proprio. E Menachem Begin, per lungo tempo icona della destra israeliana - che aveva precedentemente dichiarato di voler trascorrere gli anni della pensione in Yamit, un insediamento israeliano nel Sinai - approvò la sua restituzione all'Egitto nel 1982, nonostante le fortissime resistenze dei suoi residenti.
Quindici anni più tardi, Israele e la Giordania strinsero la pace, grazie a Yitzhak Rabin, un soldato diventato uomo di pace, e Re Hussein, un uomo di stato con una forte visione politica. Ma con i palestinesi è stata un'altra storia. Quattro leader israeliani consecutivi - Barak, Sharon, Olmert, e Netanyahu - hanno fatto appello ad una praticabile soluzione bi-nazionale. La leadership palestinese, comunque, ha spedito chiaramente segnali contrastanti su quale sia per loro il problema di fondo, se il conflitto del 1947 - ovvero il diritto di Israele ad esistere - o quello del 1967 - ovvero un accordo sulla terra. Yasser Arafat dimostrò di non essere un Sadat o un Re Hussein. Il giudizio sul suo successore e antico consigliere, Mahmoud Abbas, è ancora in corso. La situazione è divenuta, nel frattempo, ancora più complicata. Hamas, un'organizzazione terrorista appoggiata dall'Iran, ha preso il pieno controllo di Gaza due anni dopo che Sharon ebbe completato il ritiro unilaterale israeliano nel 2005, e l'Iran, coi suoi aggressivi programmi nucleari e missilistici, minaccia l'esistenza di Israele. Negli ultimi 16 mesi, la politica americana ha tentato di accelerare il processo di pace, ma ha fallito, fraintendendo i messaggi dei giocatori chiave. Mentre nel 2008 vi furono colloqui diretti israelo-palestinesi senza indispensabili pre-condizioni, la situazione è entrata in una fase di stallo nel 2009. Finalmente, tuttavia, stanno riprendendo dei colloqui di "prossimità", con un destino incerto. Sebbene Israele cerchi negoziati faccia a faccia, l'Autorità palestinese vuole che Washington "consegni" Israele, qualcosa che, nel mondo reale, non accadrà. Così si ritorna alla questione del 1947 contro il 1967. Se i palestinesi sono veramente seri sulla pace e su un nuovo inizio, è ora di apprenderlo dalle lezioni del passato. Le richieste dei massimalisti non raggiungono un accordo; questo lo ottengono invece i compromessi difficili. Il che richiede una coraggiosa leadership. Sadat e Hussein, Begin e Rabin, lo hanno dimostrato. Effettivamente, Sadat e Rabin pagarono con le loro vite la ricerca della pace. È giunto il tempo per i leader palestinesi di mostrare le loro carte. Se la battaglia è sul 1947, allora Israele continuerà a resistere, come ha fatto notevolmente finora. Ma se si tratta del 1967, allora un accordo, comunque difficile, è possibile. Nessuno sarà soddisfatto pienamente, ma un compromesso funzionale può essere trovato. Gli elementi di base di un accordo bi-nazionale - riguardo a confini, sicurezza, sistemazioni dei rifugiati, fine delle richieste, e Gerusalemme - non sono un mistero. Ma prima di tutto, di cosa si tratta, 1947 o 1967?
* Direttore esecutivo American Jewish Committee (AJC)
(l'Opinione, 21 maggio 2010 - trad. Carmine Monaco)
5. UN ESEMPIO UNICO IN MEDIO ORIENTE
Israele, l'unica oasi di libertà religiosa nel deserto del Medio Oriente
Rifugio non solo per gli ebrei
di Gaia Pandolfi
Israele "garantirà la libertà di religione, coscienza, lingua, istruzione e cultura e saranno salvaguardati i Luoghi Sacri di ogni Fede", stabilisce la dichiarazione di indipendenza dello Stato israeliano, approvata più di sessant'anni fa, nel 1948. E ancora oggi, Israele rappresenta un'oasi di libertà religiosa nel Medio Oriente. Fin dal 1967, infatti, quando conquistò la Città Vecchia di Gerusalemme, l'accesso ai luoghi santi cominciò ad avvenire in piena libertà e con la tutela dell'autonomia religiosa delle varie comunità. Mentre prima di allora, durante tutta la dominazione musulmana, importanti restrizioni si verificavano nei confronti dei non musulmani e per quasi vent'anni gli ebrei, pur rappresentando la maggioranza dei residenti, non ebbero alcun accesso a due delle quattro città sante dell'ebraismo. Il governo israeliano, invece, si è impegnato nella ricostruzione dei luoghi sacri per cristiani, ebrei e musulmani e sempre nel 1967 ha varato la legge per la Protezione dei Luoghi Sacri, che prevede conseguenze legali per chiunque compia atti vandalici contro un sito religioso.
La principale caratteristica della popolazione israeliana è la sua grande eterogeneità. Gli Ebrei rappresentano circa l'80 per cento degli abitanti, mentre gli Arabi il restante 20, fra musulmani (16,6 per cento), cristiani (1,7) e drusi (1,7). Gli Ebrei si suddividono, a loro volta, in religiosi o ultra-ortodossi e laici. Gerusalemme resta la città sacra per eccellenza, insieme a simboli religiosi come il Muro del Pianto, la Tomba di Cristo e il Monte del Tempio. A Gerusalemme vivono circa 481 mila Ebrei (oltre a gruppi religiosi minori) e 252 mila musulmani. Proprio gli Arabi rappresentano la grande minoranza non ebraica presente in Israele e costituiscono circa un quinto della popolazione. La maggior parte vive nei villaggi della Galilea, sulla pianura costiera esterna e nel Negev settentrionale. Gli Arabi israeliani sono in prevalenza musulmani sunniti, quasi un milione e mezzo di abitanti, oltre ai Beduini, musulmani arabi i cui antenati conducevano un'esistenza nomade e i Circassi, musulmani non arabi di origine caucasica. Il Tempio del Monte, al cui interno si trovano la Cupola della Roccia e la Moschea di al Aqsa, è uno dei luoghi sacri per gli arabi israeliani. In questi decenni Israele ha garantito una politica di grande libertà e garanzia religiosa per i musulmani del proprio Stato. Basti pensare alle oltre cento moschee che sono state costruite e ai costi degli Imam - regolarmente pagati - e alle numerose scuole arabe inaugurate dal governo israeliano. Soltanto Gerusalemme ospita circa 72 moschee, 139 chiese e 996 sinagoghe e non è poi così inusuale per le famiglie di madrelingua ebraica mandare i propri figli in una scuola araba. E la possibilità di scelta non manca, visto che nella città santa ci sono ben 524 scuole, fra cui alcuni prestigiosissimi (e costosissimi) licei arabi.
Circa 250 mila sono i cristiani che vivono in Israele, per la maggior parte membri della chiesa greco-ortodossa. Gerusalemme è per loro la città sacra per eccellenza, insieme alla Chiesa del Santo Sepolcro dove Cristo fu crocifisso e poi risorse, la Basilica dell'Annunciazione a Nazareth, nella storica regione della Galilea e la Chiesa della Natività a Betlemme, in Cisgiordania. Anche i Drusi, sebbene costituiscano una comunità religiosa separata, possono essere considerati all'interno della "percentuale" araba. Sono membri di una religione sviluppatasi dall'Islam sciita nel XI secolo, i cui fedeli erano concentrati in Siria, Libano e Israele. Attualmente nello Stato israeliano vivono poco più di 115 mila Drusi, dislocati in diciassette colonie sul Monte Carmelo, in Galilea e sulle alture del Golan. E la Tomba di Jethro, sacerdote madianita e padre di Zippora, la moglie di Mosè, è uno dei luoghi di pellegrinaggio più importanti. Inoltre, Israele rappresenta un rifugio per la minoranza religiosa dei Bahà'ì, nata in Persia nel XIX secolo ma costretta a fuggire per le persecuzioni del governo islamico iraniano.
Oltre alla tutela delle minoranze religiose, Israele si è impegnato nel riconoscimento dei diritti politici e civili di ogni cittadino, a prescindere dal loro credo, con la legge sulla Dignità e la Libertà Umana votata dalla Knesset nel 1992. Non soltanto ebrei, ma anche musulmani e cristiani fanno parte dell'elite politica ed economica del Paese. Nel 2005, ad esempio, Oscar Abu Razek, arabo musulmano, fu nominato direttore generale del ministero dell'Interno, mentre un anno prima, per la prima volta dalla nascita dello stato di Israele, il cristiano Salim Joubram era entrato a far parte della Corte di Giustizia come giudice permanente. Il numero dei direttori delle imprese statali, che non professano l'ebraismo, è passato dal 5,5 del 2002 al 10 per cento del 2005, continuando a crescere anche in quest'ultimi anni. E anche la situazione per le donne della minoranza araba sembra essere migliorata: già nel settembre di sette anni fa, Samaher Zaina divenne la prima direttrice donna di una scuola superiore musulmana.
Purtroppo, però, Israele rimane l'unico Stato a tutelare la libertà religiosa in tutto il Medio Oriente. La vicina Palestina, ad esempio, continua a perseguitare i non musulmani che abitano nella striscia di Gaza, profanando i siti ebraici e cristiani. A Gaza vivono circa tre mila cristiani, che subiscono giornalmente le violenze e gli attacchi degli estremisti palestinesi. Anche per gli ebrei della Striscia la vita diventa ogni giorno più difficile. Tante sono le storie drammatiche, come quella di Tali Hatuel, una giovane assistente sociale, uccisa durante le proteste contro il piano di ritiro di Sharon da Gaza. Un commando palestinese prese d'assalto la sua auto, uccise lei, incinta all'ottavo mese, e poi, una per una, con un colpo alla testa, le sue quattro bambine: Hila di undici anni, Hadar di nove, Roni di sette e Meray di due. Il giorno in cui suo marito è stato costretto ad abbandonare la casa, ha messo cinque sedie sulla veranda e una candela su ognuna di esse.
In Iran, invece, dove la religione ufficiale è l'Islam, cristianesimo, ebraismo e zoroastrismo, uno dei più antichi culti persiani, sono considerati minoranze protette. Nonostante ciò prigionie, rapimenti ed intimidazioni sono all'ordine del giorno, e i fedeli Baha'i, considerati ancor meno di una minoranza, sono spesso espulsi dalle Università o espropriati persino delle proprie terre. In Arabia Saudita l'Islam è la religione di Stato e non esistono provvedimenti legislativi o legali per tutelare la libertà di culto nel Paese. Chiunque non sia musulmano non è considerato un cittadino, non è possibile praticare pubblicamente la propria fede, a meno che non sia l'Islam, e persino ai visitatori stranieri è vietato indossare o esporre simboli religiosi come crocifissi e bibbie. In Siria, dove non c'è una religione ufficiale, il sistema legale è ancora basato sulle leggi ottomane, francesi e della Sharia islamica e, sebbene la Costituzione preveda la libertà di culto, ci sono ancora alcune restrizioni a questo diritto: ad esempio, è previsto che soltanto un musulmano possa diventare presidente. Da ultimo, c'è il caso del Libano. La Costituzione tutela la libertà religiosa e l'uguaglianza fra tutti i cittadini, ma il potere resta ancora diviso fra cristiani e musulmani. Niente da fare, quindi, per Baha'i, buddisti e alcuni protestanti cristiani, non riconosciuti ufficialmente dal governo.
Nonostante la situazione odierna sia piuttosto complicata, Israele resta l'esempio da seguire per tutto il Medio Oriente: il rispetto e la tutela delle libertà civili e religiose sono il presupposto minimo per la stabilità interna e la credibilità a livello internazionale.
(l'Occidentale, 22 maggio 2010)
6. UNA TRISTE RICORRENZA
Auschwitz, la fossa della «Gerusalemme polacca»
14 giugno 1940, il lager entrava in funzione
Settant'anni fa, il 14 giugno del 1940, lo stesso giorno in cui le truppe naziste entravano a Parigi, il campo di concentramento di Auschwitz entrò in funzione e i primi 728 prigionieri vi fecero il loro ingresso. Altri 313 prigionieri li seguirono pochi giorni dopo. Erano militari, studenti e oppositori politici polacchi, provenienti dal carcere di Tarnow presso Cracovia e dal campo tedesco di Dachau, con l'aggiunta di prigionieri politici tedeschi già detenuti nel campo di Sachsenhausen, presso Berlino. Altri tremila prigionieri circa vi furono deportati da Varsavia entro il successivo mese di settembre. Il campo, nato come campo di quarantena e di smistamento dei polacchi - militari, oppositori politici, intellettuali - conteneva anche ebrei, ma in numero limitato e arrestati in quanto oppositori politici, non in quanto ebrei. Solo a partire dal 1942 Auschwitz sarebbe divenuto il luogo primario dello sterminio degli ebrei d'Europa: un milione e centomila ebrei deportati, di cui quasi un milione assassinati. Duecentomila in totale i deportati non ebrei.
Il campo non fu costruito in una zona deserta, ma ai margini della città di Auschwitz, un nodo ferroviario situato vicino alle strade di comunicazione principali. Auschwitz, in polacco Oswiecim, era una città importante, che nella storia era passata più volte dalla dominazione tedesca a quella polacca. Con una popolazione in maggioranza ebraica, era un importante centro di cultura ortodossa ebraica, tanto da essere chiamata la «Gerusalemme di Oswiecim». Notevole era anche, tra gli ebrei della città, la diffusione del sionismo. Con l'occupazione nazista della Polonia, gli ebrei dell'intera regione furono fatti confluire nella città. Nell'aprile del 1940, quando si decise di costruire il lager, essi furono impiegati coattivamente nella sua costruzione. Il primo nucleo del lager utilizzò le baracche di un campo di sosta per emigranti lavoratori stagionali, costruito all'inizio del Novecento. Fu fin dall'inizio ideato come un campo molto grande, di 40 km?, destinato ad accogliere diecimila prigionieri, un numero altissimo. Nel maggio 1940, l'ufficiale delle Ss Rudolf Höss fu nominato capo del campo.
Il campo creato nel 1940, Auschwitz 1, rappresentò solo il primo nucleo di quella che sarebbe presto divenuta una vera e propria città concentrazionaria, formata da tre campi e da 39 sottocampi. All'inizio del 1942 vi si aggiunse Auschwitz II (Auschwitz-Birkenau), destinato principalmente allo sterminio degli ebrei. Nell'ottobre dello stesso 1942, fu creato Auschwitz III (Auschwitz-Monowitz), destinato ai prigionieri impiegati a lavorare come schiavi nello stabilimento del gruppo industriale chimico tedesco, l'IG Farben. Il gruppo si era infatti installato ad Auschwitz nel 1941, trasferendovi anche i dipendenti dell'impresa, con le loro famiglie. La città era stata trasformata in un modello di città moderna, all'avanguardia dal punto di vista urbanistico. Contemporaneamente, tutti gli ebrei della città erano stati rinchiusi in centri di raccolta e ghetti della zona, da cui furono poi deportati ad Auschwitz-Birkenau.
La gassazione tramite lo Zyklon B, un composto a base di cianuro, fu introdotta ad Auschwitz 1 il 3 settembre 1941 su seicento prigionieri di guerra sovietici e duecentocinquanta polacchi ammalati, e successivamente adottata in tutto il complesso di Auschwitz. Nel 1943 il campo di Auschwitz-Birkenau divenne il centro principale di sterminio degli ebrei. A quella data, infatti, degli altri quattro campi di solo sterminio creati in territorio polacco, Belzec e Majdanec erano stati chiusi mentre a Treblinka e Sobibor erano state sospese le gassazioni dopo due tentativi di rivolta dei prigionieri. Le gassazioni ad Auschwitz furono sospese nel novembre 1944. Il campo fu liberato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945.
Il periodo fra il giugno 1940 e l'inizio del 1942 è quindi quello in cui, prima che fossero costruiti Auschwitz 2 e 3, il campo fu destinato principalmente ai prigionieri polacchi, in tutto circa 150000, 75000 dei quali non sopravvissero. Anche in assenza di camere a gas e di una precostituita volontà di sterminio, le condizioni di questi prigionieri erano durissime, le violenze e le uccisioni numerosissime, il lavoro forzato terribile. La prima testimonianza diretta dal campo è quella di un ufficiale dell'esercito polacco, Witold Pilecki, sopravvissuto ad Auschwitz per essere accusato di spionaggio e assassinato dai comunisti nel 1948, che si fece arrestare nel settembre 1940 per poter entrare nel campo ed organizzarvi la Resistenza e che vi restò fino al 1943, quando riuscì ad evadere. Suoi sono i rapporti forniti già a partire dal novembre 1940 al governo polacco in esilio e ai governi alleati sulle terribili condizioni del campo. Relazioni in cui, tuttavia, Auschwitz appare come un terribile campo di concentramento destinato a sterminare i polacchi, e in cui lo sterminio degli ebrei appare solo marginalmente e sullo sfondo. Se tutte le testimonianze, le fonti e i libri sulla Shoah sparissero, e restassero solo le testimonianze di Witold Pilecki, nessuno avrebbe nel futuro la possibilità di capire che Auschwitz è stato anche e soprattutto il luogo dello sterminio degli ebrei d'Europa.
(Avvenire.it, 7 giugno 2010)
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