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Notizie su Israele 495 - 27 ottobre 2010

1. La questione palestinese fa dimenticare i palestinesi
2. Il giuramento di fedeltà allo stato ebraico
3. Ebrei in Italia
4. I falsi dell'odio
5. In Israele si allarga il divario tra ricchi e poveri
6. La pietra di scandalo delle nazioni
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Sofonia 1:14-15. Il gran giorno dell'Eterno è vicino; è vicino, e viene in gran fretta; s'ode venire il giorno dell'Eterno, e il più valoroso grida amaramente. Quel giorno è un giorno d'ira, un giorno di distretta e d'angoscia, un giorno di rovina e di desolazione, un giorno di tenebre e caligine, un giorno di nuvole e di fitta oscurità.
1. LA QUESTIONE PALESTINESE FA DIMENTICARE I PALESTINESI




I palestinesi devono contare solo su se stessi

Efraim Karsh
In un articolo del New York Times del 1o agosto 2010, Efraim Karsh, professore di studi mediorientali al Londoner King's College, contrasta la diffusa convinzione che al mondo arabo stia a cuore il benessere dei palestinesi. L'autore arriva alla conclusione che per una pace in Medio Oriente sarebbe di grande utilità che i palestinesi alla fine capissero che nel conflitto con Israele loro devono contare solo su se stessi. Tra l'altro scrive:
    «Da molto tempo è opinione corrente che la soluzione del conflitto palestinese-israeliano sia la premessa per la pace e la stabilità in Medio Oriente. Poiché ad arabi e musulmani sta così appassionatamente a cuore la questione della Palestina - così almeno si continua ad argomentare - la situazione di stallo israelo-palestinese alimenta rabbia e disperazione regionali, fornisce legittimazione a gruppi terroristici come Al Qaeda e impedisce la formazione di una coalizione regionale che potrebbe bloccare l'aspirazione dell'Iran alla bomba atomica.»
Ma alla convinzione secondo cui «il popolo e i regimi arabi sono sempre stati interessati al processo di pace e si sentono impegnati a sostenere i bisogni dei palestinesi» Karsh oppone un recente studio della rete televisiva Al Arabiya, secondo cui il 71 percento dei corrispondenti arabi non ha alcun interesse ai colloqui di pace israelo-palestinesi.
    «La verità infatti è», sostiene convinto il prof. Karsh, «che dalla metà degli anni '30 la politica araba presenta un altro quadro. Mentre la "questione palestinese" è da molto tempo centrale per la politica interna araba, del benessere dei palestinesi gli stati arabi si preoccupano molto meno che del loro proprio interesse.»
A sostegno di questo il prof. Karsh porta diversi esempi:
    «E' ben noto che l'attacco di diversi stati arabi contro lo Stato d'Israele nel maggio del 1948, è stata una guerra per il territorio, molto più che per i diritti dei palestinesi.»
Riferisce, per esempio, che il segretario generale della Lega Araba, Abdel Rahmann Azzam, aveva rivelato apertamente a un reporter britannico quali erano gli obiettivi del re giordano di quel tempo: «Il re Abdallah di Transgiordania voleva annettersi le colline centrali della regione per avere accesso al Mediterraneo. Gli egiziani erano interessati al Negev. La Galilea interessava i siriani, e la costa da Akko in giù doveva andare al Libano.»

Nell'articolo si dice ancora:
    «Dal 1948 al 1967, quando gli egiziani governavano la striscia di Gaza e i giordani la Cisgiordania, questi stati non si sono preoccupati della fondazione di una nazione palestinese. Non si sono interessati dei diritti umani di questa popolazione, e non si sono nemmeno dati da fare affinché la gente potesse avere condizioni di vita migliori. Gli stati arabi non hanno mai esitato a sacrificare i palestinesi, quando questo era utile ai loro interessi.»
A questo proposito il prof. Karsh porta l'esempio del Settembre nero del 1970 in Giordania, quando re Hussein fece trucidare migliaia di palestinesi per rendere sicuro il suo regime. Ricorda anche la storia dei profughi palestinesi in Libano, massacrati già nel 1976 dai militari libanesi che avevano le spalle coperte dalla Siria.
    «Nessuno degli stati arabi è mai venuto in aiuto dei palestinesi. La storia delle forze di governo arabe che hanno deliberatamente strumentalizzato la questione palestinese a vantaggio dei propri interessi, disinteressandosi del tutto del destino dei palestinesi, potrebbe essere proseguita a lungo.»
Se questo è lo sfondo, è un segno positivo il fatto - così argomenta il prof. Karsh - che così tanti arabi diventino in modo evidente sempre più indifferenti davanti al conflitto palestinese-israeliano.
    «Se l'interventismo interessato dei regimi arabi toglie ai palestinesi il diritto all'autodeterminazione, allora la più grande, in realtà l'unica speranza di ottenere una pace tra arabi e israeliani sta nel rifiuto del falso collegamento tra questa particolare questione e altri problemi regionali o globali. Quanto più i palestinesi riconosceranno che la loro questione è soltanto loro, tanto prima si adatteranno all'idea dell'esistenza dello Stato d'Israele e capiranno la necessità di un accordo negoziato.»
(Nachrichten aus Israel, ottobre 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. IL GIURAMENTO DI FEDELTÀ ALLO STATO EBRAICO




Non badate alle grida di dolore

di Raphael Israeli (*)

Nel nostro paese è venuta alla luce la necessità, insieme al vantaggio, di emendare la Legge sulla Cittadinanza, per cui per diventare cittadini, con l'eccezione di chi beneficia della Legge del Ritorno, è richiesto il giuramento di fedeltà a Israele in quanto Stato ebraico (non c'è differenza con il giuramento di lealtà alla democrazia). I primi a sollevare grida di dolore e a esprimere la loro preoccupazione sulla democrazia israeliana sono stati gli arabi israeliani, come si autodefiniscono i cittadini palestinesi di Israele. Ad ascoltare le loro proteste, si direbbe che hanno inventato loro la democrazia e che adesso cercano di insegnarla agli israeliani, in procinto di passare ad un regime "fascista", distruggendo quello "democratico". Alcuni israeliani, da finti liberali, sostengono queste tesi prive di senso. Gli arabi che protestano sanno sicuramente che tutti gli Stati mediorientali abusano in fatto di nazionalismo senza battere ciglio ( mai facendo riferimento alla democrazia come componente della loro identità ), eppure mai hanno espresso critiche verso questi apprezzati governi, paesi che gli ebrei hanno dovuto abbandonare perchè perseguitati. E' interessante notare come migliaia di arabi dalla Giordania e dal Sudan arrivino e chiedano rifugio politico in questo repressivo paese, e nessuno pensi di cercare rifugio in Siria o in Libia. Ma queste sono bazzecole. Gran parte della battaglia si svolge a livello diplomatico, ma è ignorata da coloro che, da entrambe le parti, si oppongono all' emendamento. Il Paragrafo 20 della Carta Nazionale Palestinese, che non è mai stato nè emendato nè annullato, stabilisce che gli ebrei non sono una nazione, per cui non hanno diritto ad uno Stato. C'è una ragione perchè il "moderato" Mahmud Abbas, un negatore della Shoah, rifiuti di riconoscere Israele quale Stato del popolo ebraico. C'è una ragione per cui tutti i leader degli arabi israeliani , anche fra gli eletti alla Knesset, chiedano la realizzazione del diritto al ritorno dei profughi. Sanno che, se questo si avverasse, la maggioranza dei cittadini di Israele sarebbe formata da arabi/palestinesi, vale a dire la fine dello Stato di Israele, e questo ci dice quale tipo di democrazia vogliono difendere. Per cui la richiesta di riconoscere Israele come Stato ebraico non è un capriccio, ma il risultato di un profondo convincimento da parte di coloro che vedono il futuro dello Stato come la loro linea guida. Se quelle sagge persone degli accordi di Oslo avessero chiesto, in cambio del riconoscimento di Israele al diritto dei palestinesi all'autodeterminazione, un diritto uguale per il popolo ebraico, allora tutto il mondo avrebbe sostenuto questo diritto di reciprocità. E se noi, in cambio del riconoscimento dell'OLP (organizzazione per la liberazione della Palestina), avessimo chiesto che il Sionismo venisse riconosciuto in parallelo il movimento di liberazione del popolo ebraico, allora tutti i problemi che oggi stiamo affrontando si sarebbero risolti automaticamente. Non si sarebbero nemmeno più posti problemi in quel famigerato documento perchè, contrariamente ai pareri di molti leader israeliani che o non l'hanno letto o non l'hanno capito, quel documento non conteneva, e non contiene ancora adesso, nulla contro Israele, ma moltissimo contro il Sionismo, che i palestinesi pretendono di sradicare e che serve loro da piattaforma, sulla quale ammucchiare ogni sventura, indecente e insultante, del loro repertorio. Infine, stiamo pagando il conto dell'inefficienza lasciata dagli accordi di Oslo. Per cui non allarmiamoci sia per le dure proteste dei palestinesi o per le grida di dolore degli estremisti di casa nostra. Facciano pure, tanto l'emendamento prosegue la sua strada.


(*) Raphael Israeli è professore di Studi mediorientali all'Università ebraica di Gerusalemme. Nella primavera 2011 è previsto un suo tour italiano.

(Haaretz, 13 ottobre 2010 - da Informazione Corretta, trad. Angelo Pezzana)





3. EBREI IN ITALIA




Per gli ebrei di Puglia solo vino purificato

di Cesare Colafemmina

È noto l'interesse del giudaismo per il vino. Uno dei più grandi poeti della Puglia giudaica, Amittay ben Shefatya da Oria (IX secolo), compose un componimento dedicato al vino, e quello di Oria e dintorni era famoso per la sua alta gradazione e dolcezza. Il suo componimento è una diatriba tra la vite e gli alberi, che contestano alla prima il suo sussiego nel vantare i pregi del vino e quindi la sua pretesa di superiorità sulle altre piante. Gli alberi rinfacciano alla vite gli effetti dannosi della bevanda, e con argomenti talmente stringenti, da costringere la vite a ridimensionare la sua prosopopea e ad ammettere che anche il vino deve essere preso con moderazione e giusta misura. Ottenuta questa ammissione, gli alberi smettono la polemica e riconoscono alla vite il suo ruolo importante nella vita e nel culto.
    Proprio l'uso cultuale del vino - pensiamo al qiddush, o benedizione, prima del pasto - rendeva i giudei prudenti nella sua produzione e commercio, per timore che potesse essere impuro. Sappiamo che il poeta Amittay possedeva a Oria una vigna, che egli stesso accudiva. A Molfetta era attestato nel Medioevo il toponimo «Lo palmento de li Iudei», dove il termine «palmento » indica il frantoio per uve. Questa preoccupazione per la kasherut , o purezza rituale, si ritrova in una lettera scritta da un maestro ebreo di Tropea, in Calabria. Egli scrive che, passando per Nicastro, incontrò un produttore e commerciante ebreo di vino, e intavolò con lui una discussione sulla purezza della bevanda che egli portava. Il commerciante, infatti, aveva prodotto il vino con uve acquistate presso un cristiano e lo aveva poi riposto in botti nella cantina di un altro cristiano. Troppi cristiani per questo vino, sentenziò il maestro. Qualche non giudeo potrebbe averlo toccato e averlo reso per ciò inadatto e proibito agli ebrei.
    L'incontro del saggio con il mercante di vino a Nicastro avvenne in un periodo immediatamente seguente l'espulsione degli ebrei dalla Sicilia e dalla Spagna (1492). Ma già un secolo e mezzo prima sono attestati mercanti ebrei di vino sul versante tirrenico della Calabria centrale, dove ancor oggi si producono vini prelibati. Nel mese di aprile 1351 il giudeo Xico de Mariffa esportò una gran quantità di vino rosso e di frutta da San Lucido a Cagliari. Nel '300 non mancano altri casi di ebrei calabresi che fanno export-import di vino. Nel 1361 fu un ebreo barese, Sussen de Baro, che esportò da Trapani a Cagliari vino e stoffe. A differenza della Calabria e della Sicilia, sembra che in Puglia la produzione vinicola non fosse così importante nel commercio dei giudei come invece era quella del grano e dell'olio. Questo lo si desume da quelle località, di cui ci sono giunti in buon numero protocolli notarili dei secoli XV-XVI. Riferiamo alcuni dati, riferenti la tipologia dei contratti. Il 23 agosto 1444 Iacobo de Genua e Masello del Falzamia, abitanti a Mola, si obbligano a versare a Garzono Zizo, abitante a Rutigliano, la somma di 1 oncia e 20 tarì dovuti per una certa quantità di vino che avevano acquistato dal giudeo. Il 16 giugno 1469 Francesco de Aparma di Bitonto si obbliga a versare nella festa di San Leone dell'anno seguente ai fratelli Ysac e Marullo di Vitalis di Bari la somma di 1 oncia e 20 tarì dovuta per l'acquisto di un bue. Col patto che se i creditori invece del denaro avessero voluto vino mosto dell'annata, egli era tenuto a darne loro almeno 3 salme, al prezzo che tale vino avrebbe avuto il giorno della consegna.
    Il 17 gennaio 1525 Mastro Angelo di Troia calzolaio e sua moglie Antonella si obbligano a versare entro il mese di luglio a magistro Moyse, cittadino e abitante di Giovinazzo, la somma di venti tarì dovuta per l'acquisto di una certa quantità di vino. A scelta del creditore, essi potevano consegnargli, quando avrebbero vendemmiato le loro vigne, una quantità di vino mosto corrispondente alla somma di cui erano debitori. Una simile opzione è attestata a Bari. Qui il 16 marzo 1540 Iacobo Calabrese e Pietro Giovanni de Rubo di Carbonara si obbligano a restituire a Salamone Zizo la somma di 4 ducati e mezzo. La restituzione sarebbe avvenuta nei seguenti termini: metà somma entro la prossima festa di San Leone e l'altra metà entro il prossimo mese di settembre. La seconda rata poteva però essere costituita da una quantità corrispondente di vino mosto prodotto dalle loro vigne, valutato al prezzo che il mosto avrebbe avuto il giorno della consegna.
    I mercanti giudei, naturalmente, non si bevevano tutto il vino che acquistavano (anche perché certamente non era kasher, puro) e rivendevano il vino che ricevevano a soddisfazione dei debiti. Così a Giovinazzo il 17 maggio 1538 Berardino Formoso e Giorgio De Lella si dichiararono debitori nei confronti di magistro Vitale di 9 ducati per aver acquistato da lui 5 salme di vino limpido e odoroso (clari et odoriferi); essi avrebbero soddisfatto il debito entro la prossima fiera di San Martino (11 novembre). Se non avessero rispettato il termine, avrebbero pagato l'interesse, secondo l'uso giudaico di 25 grana per oncia al mese, più l'integra restituzione della somma principale. Un contratto di Trani fa pensare anche a una rivendita al dettaglio del vino su cui il debitore impegnava la soddisfazione del debito. Il 15 dicembre 1539, infatti, Gerolamo Marrone di Trani dichiarò di dovere a Elia



de Moyse la somma di 16 ducati che egli si impegnava a pagare in due rate annuali di 8 ducati l'una. Il pagamento doveva avvenire nel seguente modo: nel prossimo mese di settembre e in quello dell'anno seguente egli avrebbe posto nella bottega dell'ebreo Sciabadullo una botte della capacità di sei salme piena di vino. Il ricavato della vendita del vino sarebbe servito a pagare le due rate in cui era stato frazionato il debito. Quanto in ogni anno avrebbe superato la rata di 8 ducati, sarebbe stato del debitore. Recuperati i 16 ducati, il creditore a nome proprio e di suo figlio Rafael, avrebbe dato quietanza al Marrone dell'avvenuto pagamento e lo avrebbe dichiarato libero da ogni obbligazione.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 ottobre 2010)





4. I FALSI DELL'ODIO




Quando il risentimento diventa filosofia

di Donatella Di Cesare

Una nazione di ingannatori: è questo il modo in cui Immanuel Kant definisce gli ebrei nella sua celebre opera Antropologia dal punto di vista pragmatico. Ma Kant non fa che rilanciare un'accusa che percorre tutta la filosofia. Il popolo eletto e disperso, estraneo e separato all'interno delle nazioni, suscita un odio profondo. La filosofia abdica al senso comune e si rende anzi complice. Le eccezioni sono rarissime - ad esempio Giambattista Vico. Per contro c'è un nesso di salda continuità che attraversa i secoli e le diverse correnti filosofiche. L'accusa della menzogna trova il suo apice in una nota dei Parerga e paralipomena di Schopenhauer: "gli ebrei sono i grandi maestri nel mentire". La riprende Hitler in Mein Kampf: "nell'esistenza dell'ebreo […] vi è una caratteristica che spinse Schopenhauer a pronunciare la sua famosa frase: l'ebreo è un gran maestro di menzogne". Il risentimento antiebraico dei filosofi offre dunque una legittimità alla soluzione finale della questione ebraica? Certamente sì. Ed è questo un tabù che stenta a cadere, come se la ragione filosofica non avesse mai potuto consentire la barbarie. Se n'era già accorto Lévinas quando nel 1936 aveva scritto un libretto intitolato Alcune riflessioni Filosofia dell'hitlerismo. Da un canto voleva dire che il nazismo non andava preso come una follia passeggera, perché scaturiva da una filosofia che rischiava di far accettare l'eredità biologica come un destino, l'opposto dunque dell'esodo, e perciò l'opposto dell'ebraismo. Ma Lévinas cominciava anche a riflettere sulle idee filosofiche e teologiche che avevano portato al nazismo. L'accusa di mentire aveva d'altronde un precedente illustre in Lutero che nel 1543 pubblicò il violento pamphlet: Degli ebrei e delle loro menzogne. Leggendo quelle pagine sinistre si comprende perché il nazista Julius Streicher, sul banco degli imputati a Norimberga, lo chiamò in causa. Il cristianesimo "spirituale" della Riforma, religione moderna dell'interiorità, che mal sopportava il "legalismo", individuò nell'ebreo il nemico. L'odio affiorò negli umanisti come Erasmo da Rotterdam, ma anche fra gli eretici come Giordano Bruno, spesso icone della tolleranza. Dove si fa largo la tolleranza aumenta anzi il risentimento. L'esempio eccellente è quello di Voltaire autore del pamphlet Juifs. Per la religione laica, che esalta l'universalità della ragione, l'ebraismo è lo scandalo della schiavitù della Legge. La "tolleranza" mostra tutti i suoi tratti intolleranti verso quel popolo che fa finta di essersi adattato alle leggi dei paesi in cui vive, ma resta un popolo asiatico in Europa. Lo dice Herder e lo ripeterà Fichte. Gli sforzi di Mendelssohn per fare degli ebrei dei cittadini con uguali diritti sono vani. Come ha notato Hannah Arendt "la moderna questione ebraica nasce nell'illuminismo; è l'illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l'ha posta". Il culmine è raggiunto però dagli Scritti teologico-giovanili di Hegel per il quale l'ebraismo è un particolarismo che va superato nell'universalità del cristianesimo. Ma Hegel, che non può sopportare l'"estraneità" che caratterizza il popolo ebraico, è però il primo a chiarire la questione in termini politici. Gli ebrei considerano tutto "non come proprietà, ma come un prestito". La terra è infatti solo concessa; l'unico "diritto di proprietà" è quello di Dio (Lev. 25, 23). Nel loro uguale dipendere "dal loro invisibile Signore", come cittadini sono "un nulla". Così viene pronunciata la condanna di annientamento del popolo ebraico. Al contrario di quel che in genere si crede, non è Nietzsche (il cui caso è ben più complesso) ma è Hegel a preparare il contesto per l'antisemitismo. Tuttavia la parola "antisemitismo", che spunta solo nel 1879 nella stampa tedesca, si rivela del tutto riduttiva, perché fa credere che si tratti di una forma specifica di razzismo. In realtà la "razza" è solo una scusa, escogitata dall'Ottocento positivista, per motivare il secolare odio verso gli ebrei. Quest'odio non è però né semplice ostilità di una maggioranza verso la minoranza, né semplice razzismo. Piuttosto è la ripugnanza suscitata dall'altro, dall'ebreo che mina perciò l'identità altrui. La questione si era già posta in Spagna con la Sentencia Estatuto, stipulata a Toledo il 5 giugno del 1449 per introdurre la distinzione dei "cristiani di pura origine cristiana". La filosofia che, pur nella sua autonomia, ha tratto alimento dalla teologia cristiana, ne ha condiviso le difficoltà. Prima fra tutte quella di spiegare la presenza della sinagoga dopo la chiesa, il mistero di Israele che resta. Agostino aveva cercato di risolverlo sostenendo che gli ebrei dovevano essere protetti sia per testimoniare la continuità del cristianesimo, sia perché, alla fine dei tempi, si sarebbero convertiti per ultimi. Ma perché non eliminare già quell'estraneo che si spaccia per europeo e invece è un ebreo? L'accusa di mentire si amplia: l'ebreo che, come aveva detto Hegel, non ha nulla in proprio, a ben guardare non ha neppure una "cultura propria", afferma Hitler, cioè riproduce quella altrui, non ha creatività né genio. Queste parole le aveva già scritte Otto Weininger, che era ebreo, descrivendo nel suo libro Sesso e carattere l'immagine di sé che aveva introiettato. Subito dopo, nel 1903, si era tolto la vita a Vienna, a soli ventitre anni. Rileggendole Ludwig Wittgenstein rielaborerà il suo rapporto con l'ebraismo annotando "Il più grande pensatore ebreo non è che un talento. (Io, per esempio)". Ma alle soglie del Novecento emerge soprattutto la "minaccia" del popolo ebraico, disperso e trasversale, in grado di cancellare i confini, di minare dunque le nazioni e gli stati, in procinto addirittura di costituire apertamente uno Stato ebraico che dominerebbe il mondo: il monito di Fichte risuona, in modo pedissequo, ma non meno insidioso, nel discorso tenuto il 24 settembre del 2009 all'assemblea delle Nazioni Unite da Ahmadinejad. I filosofi ebrei del Novecento, da Rosenzweig a Lévinas, sapranno non solo rivendicare l'alterità ebraica, ma anche scorgere il tratto violento dell'Occidente nella volontà di appropriarsi dell'altro, di inglobarlo, di totalizzarlo. Perciò sapranno anche indicare una nuova via alla filosofia.

(Pagine ebraiche, ottobre 2010)





5. IN ISRAELE SI ALLARGA IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI




Un ebreo su tre a rischio povertà

Si allarga la forbice fra ricchi e poveri in Israele malgrado i dati positivi sulla crescita dell'economia. Lo conferma un rapporto ufficiale dell'Ufficio centrale di statistiche israeliano, secondo il quale il tasso di disuguaglianza sociale tende oggi ad allontanare il Paese dai valori europei. Stando il rapporto, il reddito del 20% dei contribuenti israeliani piu' facoltosi supera di ben sette volte e mezzo quello della fascia piu' svantaggiata della popolazione, all'interno della quale si concentra buona parte della minoranza araba (circa un milione e mezzo di cittadini, sui 7,5 milioni dell'intera popolazione del Paese). Lo scarto tende a crescere (era di sei volte e mezzo dieci anni fa) ed e' piu' elevato di quello di qualsiasi Paese dell'Ue, dove la media delle differenze fra ricchi e poveri non supera un rapporto di 5 a 1.
    I dati rivelano inoltre che il 29% degli israeliani rischia oggi di precipitare al di sotto del livello di poverta' (calcolato in Israele a 2000 shekel al mese, circa 400 euro): una quota che sale quasi al 40% fra i giovanissimi, fra gli ebrei ultraortodossi (che di norma non lavorano) e fra gli arabi. Israele sta vivendo una fase di crescita sostenuta e ha risentito della crisi globale meno di altri Paesi a economia sviluppata. Di recente e' stato ammesso nell'Ocse, mentre l'86% dei cittadini si mostra soddisfatto del livello di sviluppo raggiunto dal Paese. In termini di giustizia sociale, dopo aver perso in larga misura gli elementi di socialismo che avevano ispirato i padri fondatori dello Stato sionista e che per decenni erano stati dominanti nella vita pubblica, sembra tuttavia distanziarsi ora anche dai modelli occidentali.

(ANSA, 18 ottobre 2010)





6. LA PIETRA DI SCANDALO DELLE NAZIONI




Gerusalemme Est è araba?

Ripetutamente si sente affermare che Gerusalemme Est è stata, nel passato, puramente araba e che per questo motivo deve diventare la capitale dei Palestinesi. È vero tutto questo?

di Norbert Lieth

L'8 dicembre 2009 i Ministri degli esteri dell'UE si riunirono sotto la presidenza della Svezia per discutere sullo status futuro di Gerusalemme. L'UE parlò della necessità che Gerusalemme in futuro fosse «la capitale di due stati» ma evitò di definire Gerusalemme Est la capitale dello Stato palestinese, sebbene la Svezia fosse propensa a farlo. Ciò provocò forti proteste in Israele e negli Stati Uniti. In particolare la Germania, appoggiata da altri stati dell'Unione Europea, insistette per una formulazione meno compromettente.
    Il giornale Der Landbote riportò la notizia: «Nella dichiarazione finale dell'UE si afferma che l'UE non riconosce l'occupazione israeliana e la successiva annessione di Gerusalemme Est. Si afferma inoltre che non riconoscerà alcun cambiamento dei confini del 1967, inclusi quelli di Gerusalemme. Il ministro del Lussemburgo, Jean Asselborn, aveva lanciato l'appello all'UE a usare un "linguaggio chiaro": "Affermiamo tutti che Gerusalemme Est è stata occupata e quindi, se è stata occupata, non appartiene a Israele." Ha dichiarato di non capire perché Israele non sia disposto ad accettare "che la Palestina è costituita dalla Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme Est." Perché il ministro degli esteri lussemburghese parla della Palestina, costituita dalla Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme Est, ma evita di utilizzare la parola Israele? Perché l'UE insiste a parlare di Gerusalemme come capitale di due stati ma evita di affermare che Gerusalemme Est è la capitale dei palestinesi? Perché questa lotta e questi disaccordi, questi tira e molla? Si potrebbero trovare varie risposte.
    - Gerusalemme non è forse una pietra d'inciampo per le nazioni (Zaccaria 12:3)?
    - I signori dell'UE presagiscono forse che i problemi non possono che aumentare?
    - Oppure sono consapevoli che la storia di Gerusalemme insegna qualcosa di diverso, qualcosa che non si può semplicemente negare? Quando il re Davide conquistò Gerusalemme nel 1000 a.C. circa, gli abitanti della città non erano arabi nell'odierno senso del termine, bensì Gebusei (2 Samuele 5:6-9), una classe della popolazione cananea che non esiste più da molto tempo (Genesi 10:16; 15:21; Esodo 3:8). I Gebusei non erano arabi, come non lo erano altri popoli cananei che a quel tempo vivevano in questa regione: Filistei, Amorei, Ittiti, Ferezei e Ivvei. Questi popoli erano discendenti di Cam e non di Sem (Genesi 10:6-21), mentre gli arabi tipici fanno parte di un'etnia semitica.
    Davide comprò da un Gebuseo di nome Ornan (chiamato anche Arauna) l'aia a Gerusalemme est su cui in seguito fu costruito il tempio ebraico (2 Samuele 24: 17- 25; 1 Cronache 21:15-29; 2 Cronache 3:1). Nel 1993 è stata persino trovata una prova esterna alla Bibbia dell'esistenza del re Davide. «Durante gli scavi a TeI Dan è stata trovata una stele trionfale con un'iscrizione di trionfo in lingua araba. Probabilmente loda le imprese del re Azael che combattè contro Israele nel IX sec. a.C .. Il testo principale cita: "[lo uccisi Ieo]ram, figlio di [Acab], Re d'Israele. E [io] uccisi [Acaz]ia, figlio [di Ieoram, R]e della casa di Davide).»
    Dopo che gli ebrei furono deportati dalla loro patria nel 70 d.C., essa fu occupata inizialmente dai Romani e dai Bizantini. Fu solo nel 638 d.C. che avvenne la sua conquista da parte dei musulmani. Eppure, persino in questo periodo, Israele e Gerusalemme non furono mai completamente privi di ebrei. Esistono prove che, a partire dal 1844, gli ebrei costituirono nuovamente la parte maggiore della popolazione di Gerusalemme. Nel 1882 ci fu la prima grande ondata di ritorno degli ebrei nella loro patria. Fu solo con la guerra dell'anno 1948 che la legione araba conquistò Gerusalemme Est, scacciò la popolazione ebraica, saccheggiò le sue abitazioni, distrusse sinagoghe e violò intenzionalmente le tombe ebree sul Monte degli Ulivi. A questo punto sarebbe giusto chiedersi chi in realtà abbia occupato Gerusalemme Est, che nel 1967 fu soltanto liberata dagli Israeliani. In qualsiasi libro di storia serio si trovano informazioni su questi fatti storici. Resta soltanto da vedere se si è intenzionati a confrontarsi con essi.

(Chiamata di Mezzanotte, ottobre 2010)





MUSICA E IMMAGINI




Hachnisini Tachat Knafech




INDIRIZZI INTERNET




Lev Chadash

Segne-Israel.de




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