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Le Beatitudini di Gesù (1)

di Marcello Cicchese

Con questo articolo inizia una serie di meditazioni riprese da un fascicolo (non più in circolazione) dal titolo "Le Beatitudini di Gesù - Un tentativo di comprenderle e applicarle alla nostra vita". Ne riportiamo la prefazione:

    «Gli studi sulle "Beatitudini" raccolti in questo quaderno non sono il frutto di una particolare erudizione sull'argomento: non hanno quindi alcuna pretesa di rigore tecnico e di originalità "scientifica". II contesto di vita in cui sono nati è quello di una piccola comunità cristiana, a cui sono stati rivolti in forma di predicazione. In un secondo tempo sono stati rielaborati e pubblicati sul mensile "Credere e Comprendere" [anni 1981-'82], con lo scopo di favorire una riflessione sull'argomento [...]. L'obiettivo di questo fascicoletto sarà raggiunto se qualche lettore sarà invogliato a considerare con maggiore attenzione le parole di Gesù e a modificare in modo corrispondente la sua vita.»

PROMESSE E BEATITUDINI

Dal Vangelo di Matteo, cap. 5

  1. Gesù, vedendo le folle, salì sul monte; e postosi a sedere, i suoi discepoli si accostarono a lui.
  2. Ed egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo:
  3. Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno de' cieli.
  4. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati.
  5. Beati i mansueti, perché erederanno la terra.
  6. Beati quelli che sono affamati ed assetati della giustizia, perché saranno saziati.
  7. Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta.
  8. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
  9. Beati quelli che s'adoperano alla pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
  10. Beati i perseguitati per cagion di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli.
  11. Beati voi, quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.
  12. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande ne' cieli; poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.

E' difficile parlare o scrivere sulle beatitudini. Che cosa si può dire che non sia già stato detto? D'altra parte, proprio perché sono state dette così tante cose, dobbiamo parlarne anche noi, perché dobbiamo anche noi "prendere posizione", come si dice in altri ambienti e in altre occasioni: dobbiamo cioè tentare di esprimere qual è la nostra comprensione di queste parole di Gesù e quale atteggiamento pratico discende da questa comprensione.
  Dobbiamo riconoscere che la nostra tradizione di chiesa non ci aiuta: queste parole così poco dottrinali, così poco rassicuranti per le nostre coscienze, vengono di preferenza lasciate da parte. Molto meglio, così sembra, è dedicarsi alla spiegazione di passi meno ardui e più familiari. Il fatto è che queste parole di Gesù non sono paragonabili a certi capitoli del Levitico in cui si tratta, per esempio, degli animali puri e di quelli impuri o delle leggi di purificazione dei lebbrosi guariti: non sono cioè passi della Scrittura che si possono in un primo momento anche non commentare perché non più direttamente attuali per il popolo di Dio. Le beatitudini, nel contesto del sermone sul monte, vogliono presentare aspetti essenziali dell'opera che Dio compie sulla terra in Cristo: non possono dunque per nessuna ragione essere messe da parte, se non si vuole rischiare di presentare, come diceva Lutero ad altro proposito, un "mezzo Cristo" e un "mezzo vangelo". Ben difficilmente. per fare soltanto un esempio, si potrebbe essere davvero sicuri di aver capito Giovanni 3:16 o Efesini 2:8 se non si è capito anche Matteo 5:11-12.
  Lo scopo di questo articolo non è quello di dire cose particolarmente originali, ma piuttosto quello di tentare un inquadramento del messaggio delle beatitudini, in modo che sia possibile riflettere utilmente su di esse e far sì che ci parlino e condizionino le nostre scelte di vita.
  Quando si pensa alle beatitudini si tende a trascurare che ogni versetto di Matteo 5:3-10 è composto di due parti: la prima è una "beatitudine", la seconda è una "promessa". Questa seconda parte non è affatto meno importante della prima: è vero piuttosto il contrario. Sono le promesse di Dio, le opere che Egli compie e sta per compiere che danno fondamento alle dichiarazioni di beatitudine.
  Nel vangelo di Matteo, il sermone sul monte appare come la prima ampia spiegazione della predicazione di Gesù, che all'inizio viene presentata con le scarne parole del Vangelo di Matteo:

    "Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino" (Matteo 4:17).

Nelle beatitudini Gesù proclama che quello che era stato annunciato dai profeti sta per diventare realtà: beati dunque coloro che saranno trovati adatti al regno di Dio.
  Un esempio di come l'annuncio di ciò che Dio sta compiendo precede in importanza la dichiarazione di beatitudine possiamo vederlo nelle parole che Gesù manda a dire a Giovanni:

    "Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono mondati e i sordi odono; i morti risuscitano, e l'Evangelo è annunciato ai poveri. E' beato colui che non si sarà scandalizzato di me" (Matteo 11:4-6).

Il tempo dell'attesa è finito: Gesù è colui che doveva venire, e non c'è da aspettarne un altro. Lo Spirito del Signore è sul suo unto (Isaia 61:1-3); egli è venuto per portare una buona notizia ai poveri: beati dunque i poveri; è venuto a bandire liberazione ai prigionieri: beati dunque quelli che saranno trovati nelle carceri: è venuto a consolare quelli che hanno preso il lutto: beati dunque coloro che fanno cordoglio.
  L'inizio dei vangeli sinottici lascia avvertire molto nettamente che qualcosa di decisivo sta avvenendo: il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, beati coloro che saranno trovati adatti per questo regno; ravvedetevi e credete a questa buona notizia.
  Nel Decalogo i vari precetti rivolti in forma imperativa al popolo sono preceduti da una proposizione, espressa in forma indicativa, che ricorda ciò che Dio ha fatto per il suo popolo:

    "lo sono l'Eterno, l'lddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù" (Esodo 20: 2).

Questa affermazione solenne intorno a ciò che Dio ha fatto per il popolo dà senso a tutti i comandamenti, i quali indicano ciò che il popolo è chiamato a fare in risposta all'azione liberatrice di Dio. La solenne affermazione iniziale potrebbe essere ripetuta davanti ad ogni comandamento, perché in realtà è da essa che ogni singolo precetto acquista forza e significato.
  In modo analogo si potrebbe dire che le beatitudini, pronunciate non sul Sinai, ma su un altro monte, espressione di una nuova legge relativa ad una nuova presenza di Dio nel mondo, assumono il loro vero senso dalla solenne affermazione di Gesù: il regno di Dio è vicino. Anche in questo caso viene solennemente annunciato che Dio ha fatto, o sta facendo, qualcosa di grande per il suo popolo. E anche in questo caso si potrebbe utilmente ripetere questa affermazione davanti ad ogni beatitudine, perché soltanto la realtà dell'azione di Dio giustifica il contenuto di ogni singola beatitudine.
  In realtà, senza la fede nella presenza del regno di Dio, ben difficilmente si potrebbe sostenere che le beatitudini sono delle massime di sapienza sagge e equilibrate. Quale persona sana potrebbe dire che è buona cosa essere oltraggiati, perseguitati, calunniati? Ma, dice Gesù, se il vostro essere perseguitati è la conseguenza del vostro cercare la giustizia del regno di Dio, allora rallegratevi, perché vi tocca la stessa sorte privilegiata che prima di voi è toccata ai profeti di Dio.
  Per questo loro aspetto di radicalità e paradossalità le beatitudini di Gesù si differenziano dal resto della letteratura sapienziale, a cui formalmente appartengono. In questo tipo di letteratura, presente anche nella Bibbia, per esempio nei Salmi e nei Proverbi, viene presentata la felicità come conseguenza di un giusto atteggiamento nei confronti di una data visione della vita. Naturalmente, per gli autori biblici, la beatitudine è annunciata su coloro che hanno un giusto rapporto con Dio (Salmo 34:8), con la legge (Proverbi 29:18), con il prossimo (Proverbi 14:21). Ma, naturalmente, per chi ha una diversa visione della vita, diverse sono anche le corrispondenti beatitudini. Un interessante esempio di beatitudine "laica" possiamo trovarlo nel profeta Malachia:

    "Ora dunque noi proclamiamo beati i superbi; sì, quelli che operano malvagiamente prosperano; sì, tentano Dio, e scampano” (Malachia 3:15).

Tutte queste beatitudini hanno comunque in comune una promessa di felicità misurabile secondo canoni comunemente accettati. La diversità di tono usato da Gesù è dovuta al fatto che egli chiama beati coloro che si trovano in situazioni che oggettivamente sono di privazione e di dolore. In realtà, nelle beatitudini di Gesù dobbiamo riconoscere lo stesso stile provocatorio, lo stesso salto di qualità che si nota quando ai "voi avete udito che fu detto", egli contrappone i suoi "ma io vi dico". Tutto il sermone sul monte ha un carattere di durezza, spigolosità, scarsa maneggevolezza che non può, non deve essere sostituito da una pacata, ordinata, distaccata esposizione dottrinale. Queste parole di Gesù ci pungono sul vivo, ci umiliano, ci scuotono, ci spingono all'azione. Il loro apparente aspetto di paradossalità è legato al carattere del Regno di Dio, che non è un regno di questo mondo, cioè non conquista il potere, non governa la terra, con i metodi e i "valori" usati dai "re delle nazioni". Il re dei Giudei finisce sul patibolo. Beati sono coloro che lo seguono fino in fondo: fin d'ora sono partecipi della sua risurrezione, fin d'ora possono "camminare in novità di vita" (Romani 6:4) e aspettare, secondo la sua promessa, "nuovi cieli e nuova terra nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13).
  Le beatitudini sono dunque strettamente collegate con lo scandalo e la pazzia della croce di Cristo: e come "la pazzia di Dio è più savia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1 Corinzi 1: 25), così coloro che avranno fondato la loro vita sulle parole di Gesù, saranno paragonati ad uomini avveduti che hanno costruito la casa sulla roccia (Matteo 7:24), mentre altri che, nel loro "realismo", avranno mantenuto dalle parole di Gesù un rispettoso e prudente distacco, saranno paragonati a uomini sciocchi, che hanno costruito la casa sulla sabbia.
  Non si possono dunque capire e soprattutto non si possono mettere in pratica le parole di Gesù contenute nelle beatitudini senza credere nella radicale novità introdotta nella storia degli uomini dalla vita, dalla morte in croce, dalla risurrezione di Gesù; e, viceversa, non ci si può illudere di aver compreso la parola che Dio ha dato agli uomini in Gesù Cristo senza sentire nel profondo dell'essere che le beatitudini proclamate da Gesù contengono davvero la più alta sapienza che sia stata data agli uomini:

    "una sapienza non di questo secolo né dei principi di questo secolo che stan per essere annientati, ma ... la sapienza di Dio misteriosa ed occulta che Dio aveva innanzi i secoli predestinata a nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuta; perché se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signor della gloria" (1 Corinzi 2: 6-8).

In conclusione, il giusto contesto in cui leggere le beatitudini può essere proprio la croce di Cristo: la croce che Egli per primo ha portato e alle cui sofferenze sono chiamati a partecipare coloro che vogliono seguirlo.
  Se è vero che una certa lettura "secolare" delle beatitudini tende ad usare questi detti di Gesù come supporto di impegni etici sociali o individuali prescindendo dall'opera di Cristo sulla croce, è anche vero, d'altra parte, che una certa lettura "religiosa" del vangelo tende a presentare l'opera di salvezza di Cristo prescindendo dal messaggio delle beatitudini. Entrambe le operazioni sono illegittime: le beatitudini hanno senso soltanto in bocca a Gesù, e Gesù non può essere conosciuto e accettato se non si riconoscono e non si accettano i suoi annunci di beatitudine.

    "E beato colui che non si sarà scandalizzato di me ... " ( Matteo 11:6).

(da "Credere e Comprendere", aprile 1981)

* * *

Le Beatitudini di Gesù (2)

BEATI I POVERI

    "Beati i poveri in ispirito, perché di loro è il regno dei cieli" (Matteo 5:3).

Molto si è detto e scritto sul significato del termine "povero" nella Bibbia. Si può dire, in forma riassuntiva, che nell'Antico Testamento i poveri costituiscono una categoria di persone che, essendo prive di sufficienti mezzi di sussistenza, sono anche prive di autonomia, di potere, di prestigio. I poveri non hanno importanza nella società, non contano, corrono sempre il rischio di essere esposti agli arbitrii dei potenti.

    "Il povero è odiato anche dal suo compagno, ma gli amici del ricco sono molti" (Proverbi 14:20).

I poveri costituiscono dunque la parte debole, umiliata ed emarginata della società, e per questo fatto sono paragonabili ai ciechi, agli storpi, agli zoppi. Come questi ultimi, i poveri sono elementi sociali non completi, privi di qualcosa: se ai ciechi manca la vista e agli zoppi manca un arto, ai poveri mancano i mezzi per vivere dignitosamente nella società. Come i ciechi, gli storpi e gli zoppi, anche i poveri, oltre a non avere peso sociale, possono addirittura essere considerati colpevoli dello stato in cui si trovano: essere cioè giudicati colpiti da Dio a motivo di qualche recondita colpa a loro attribuibile. I poveri rischiano insomma di essere giudicati peccatori proprio in quanto poveri. Spesso nelle società antiche la posizione di debolezza sociale veniva interpretata religiosamente in tal modo che i miseri e deboli venivano  giudicati lontani da Dio tanto quanto i ricchi e potenti erano invece considerati vicini a Dio.
  Nell'Antico Testamento leggiamo invece che Dio "sta alla destra del povero" (Salmo 109:31), "rileva il misero dalla polvere e trae su il povero dal letame" (1 Samuele 2:8). I poveri vengono così presentati come coloro che, non potendo sperare in altri appoggi umani, sono spinti ad invocare l'Eterno e a porre la loro fiducia unicamente in lui.

    "Chi è pari a te, o Eterno, che liberi il misero da chi è più forte di lui e il bisognoso da chi lo spoglia?" (Salmo 35: 11).

I termini ebraici tradotti con "povero", "misero", afflitto" acquistano così anche un significato spirituale, esprimente la relazione di dipendenza che lega il povero al Signore da lui invocato. Ma questo senso spirituale di cui si carica il termine "povero" in alcuni passi della Bibbia, soprattutto nei salmi, non cancella tuttavia il fondamentale significato di povero, inteso come colui che appartiene a una categoria sociale di persone deboli e maltrattate. Così come l'espressione "povero in ispirito", pur costituendo un arricchimento del termine "povero", non individua un concetto diverso da quello indicato usualmente dal termine.
  Una volta che sia chiaro il significato predominante che la Bibbia attribuisce al termine "povero", sorgono le consuete, inevitabili domande. Chi sono oggi i poveri? Costituiscono una categoria di persone moralmente migliori? La povertà è un valore spirituale in se stesso? Sono soltanto i poveri che possono essere salvati? E' lecito a un cristiano essere ricco?
  Credo che, per quanto comprensibili e legittime, tutte queste domande non contribuiscono alla comprensione del nostro testo, perché indirizzano l'attenzione su un oggetto sbagliato. Nonostante l'apparenza, non credo che il vero oggetto di queste parole siano i poveri, così come non credo che nelle beatitudini successive si voglia dire qualcosa di preciso sugli afflitti, i mansueti, i misericordiosi, ecc. Si può anzi dire che ben difficilmente si riuscirebbe a delimitare con esattezza categorie di persone rispondenti a Ile caratteristiche presentate in questo passo del vangelo.
  L'oggetto vero di queste parole di Gesù è il Regno di Dio, cioè l'azione di salvezza che Dio sta compiendo sulla terra. L'accento va dunque messo sulla seconda parte del versetto: "di loro è il regno dei cieli". Un'espressione simile viene usata da Gesù quando dice: "Lasciate i piccoli fanciulli e non vietate loro di venire a me, perché di tali è il regno dei cieli" (Matteo 19:14). Anche in questo caso è fuorviante interrogarsi sulle caratteristiche morali dei bambini e sulla loro presunta innocenza: Gesù non dice che i bambini sono buoni, ma sgrida i discepoli che non hanno capito che il regno di Dio non predilige i potenti e le persone importanti, ma le persone deboli e socialmente poco considerate come i bambini di quel tempo.

    "Egli ha operato potentemente col suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del cuor loro; ha tratto giù dai troni i potenti ed ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni i famelici e ha rimandato a vuoto i ricchi" (Luca 1:51-53).

Le domande più appropriate che dovremmo porci sono allora di questo tipo: che regno è mai questo, che privilegia le parti deboli e disprezzate della società? E chi è colui che annuncia un simile regno? Quale autorità è la sua? Che posto occupa in questo regno?
  Una prima risposta può essere: questo è il regno messianico annunciato dai profeti e atteso dal popolo d'Israele. Infatti, nelle profezie riguardanti questo regno, ai poveri, agli umili, agli oppressi vengono promesse liberazione e gioia.

    "In quel giorno, i sordi udranno le parole del libro, e liberati dall'oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno; gli umili avranno abbondanza di gioia nell'Eterno, e i più poveri fra gli uomini esulteranno nel Santo d'Israele" (Isaia 29:18-19).

Una seconda risposta può essere: Gesù è l'Unto del Signore (Isaia 61:1), "il ramo che esce dal tronco d'lsai" (Isaia 11:1), il servo dell'Eterno (Isaia 53:13) attraverso cui Dio compie la sua opera di salvezza e di liberazione dalla schiavitù del male.

    " ... gli fu dato il libro del profeta Isaia; e aperto il libro trovò quel passo dov'era scritto: 'Lo Spirito del Signore è sopra me; per questo egli mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato a bandir liberazione ai prigionieri, ed ai ciechi ricupero della vista; e a rimettere in libertà gli oppressi, e a predicare l'anno accettevole del Signore!" ...  Ed egli prese a dire loro: Oggi s'è adempiuta questa scrittura e voi l'udite" (Luca 4:17-21).

Con le parole "Beati i poveri" Gesù testimonia che Egli è colui che doveva venire, come dicono le profezie, perché infatti sta accadendo che "l'evangelo è annunciato ai poveri" (Matteo 11:5).
  Lo scoprire che le parole di Gesù sui poveri sono strettamente legate al messaggio del regno di Dio può forse risultare fastidioso per molti.
  Il "politico", interessato soprattutto ai suoi programmi di miglioramento delle condizioni sociali degli uomini, si accontenterebbe di due o tre versetti che gli assicurino di avere Gesù dalla sua parte, e volentieri tralascerebbe tutto il resto. Ma al "politico" bisogna dire che egli è certamente libero di svolgere la sua azione nel mondo, ma che se vuole rifarsi alle parole del vangelo deve riconoscere che il centro delle parole di Gesù non è costituito dai poveri, ma dal Regno di Dio, annunciato dai profeti e realizzato nella vita, nella morte, nella risurrezione e nella venuta di Cristo. Le parole di Gesù non sono massime di saggezza da citare in modo isolato, ma acquistano il giusto significato solo nel contesto del piano di salvezza di Dio.
  Il "pio" invece, interessato soprattutto alla sua salvezza personale, si accontenterebbe di due o tre versetti che gli assicurino di andare in cielo dopo la morte, e volentieri tralascerebbe tutto il resto. Il "pio" si trova a disagio davanti alle parole di Gesù sui poveri e, quando deve prenderle in considerazione, di solito le accosta immediatamente ad altri passi della Bibbia, come se ne volesse attenuare la pericolosità. Qui si dice che l'evangelo è annunciato ai poveri, ma altrove si ordina di predicare l'evangelo ad ogni creatura; qui si dice che il Regno di Dio è dei poveri, ma altrove si assicura che chiunque crede in Gesù ha la vita eterna; qui si dice che molto malagevolmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel Regno di Dio, ma altrove si riferisce che Gesù ha chiamato Zaccheo, il quale era ricco; e così via. E' certamente bene accostare i passi della Bibbia, perché ogni unilateralità di interpretazione può risultare dannosa, ma qualche volta si ha l'impressione che certi accostamenti non ottengano l'effetto di spiegare le parole di Gesù, quanto piuttosto quello di annullarle. E così può accadere che un tipo di predicazione resti del tutto privo di alcuni specifici ed ineliminabili elementi del vangelo come, per esempio, la posizione dei poveri, cioè dei deboli, degli emarginati, delle persone non importanti nei confronti del Regno di Dio.
  Le parole di Gesù sui poveri si comprendono in relazione al messaggio di Gesù sul Regno di Dio e, viceversa, il Regno di Dio annunciato da Gesù ha qualcosa a che fare con i poveri. In che senso? Nel senso che Dio inizia con Gesù una nuova creazione, che si compirà quando appariranno "nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13); e i poveri, come i ciechi, gli zoppi, gli storpi, gli orfani, le vedove costituiscono la parte debole dell'umanità, quella in cui le conseguenze del peccato entrato nella creazione e passato su tutti gli uomini sono più evidenti e visibili. Non si dice che i poveri siano più buoni e meritevoli degli altri, ma che Dio è venuto a sanare situazioni distorte dal peccato. E l'esistenza di impressionanti squilibri tra chi non ha il necessario per vivere e chi spreca il superfluo è un evidente segno del peccato che è presente nella nostra società. Nel programma del Regno di Dio è previsto che tali squilibri verranno aboliti.

    "Ogni valle sarà colmata ed ogni monte ed ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose saranno fatte diritte e le scabre saranno appianate; ed ogni carne vedrà la salvezza di Dio" (Luca 3: 5-6).

Se questo è il programma del Regno di Dio, non deve sorprendere che i destinatari naturali del vangelo siano le categorie più deboli dell'umanità. A loro viene annunciata l'opera di liberazione che Dio sta compiendo.

    "Ascoltate, fratelli miei diletti: Iddio non ha egli scelto quei che sono poveri secondo il mondo perché siano ricchi in fede ed eredi del Regno che ha promesso a coloro che l'amano?" (Giacomo 2: 5).

A questo punto sono da prevedere le obiezioni. Ma allora la salvezza non è offerta a tutti? Non sono forse tutti peccatori e non hanno tutti bisogno del perdono di Dio? E' certo che la salvezza di Dio è offerta a tutti, ma si deve anche dire che il Regno di Dio non è come un carrozzone che va in giro per il mondo invitando tutti ad entrare senza peraltro dire nulla su quello che c'è dentro. Il Regno di Dio ha un contenuto, un programma: davanti a questo programma non tutti si troveranno nella medesima situazione. Chi, in questo mondo ingiusto, si è ben collocato ed
  è diventato ricco e potente, "molto malagevolmente" entrerà nel Regno di Dio, perché per lui significherà un abbassarsi, uno spogliarsi, un riconoscere che la sua posizione partecipa più di altre al peccato che è nel mondo, e che la sua potenza è debolezza davanti a Dio, e che "la 'debolezza di Dio" è più forte della sua potenza.

    "Infatti, fratelli, guardate la vostra vocazione: non ci sono tra voi molti savi secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili" (1 Corinzi 1:27).

Dio non seleziona in anticipo le persone, ma il carattere del Regno di Dio fa sì che le persone vengano selezionate, perché molti, spesso anche a motivo della loro posizione sociale, trovano poco conveniente entrare in questo regno.
  Non sono buoni i poveri, né buona è la povertà: buono è Dio che viene a cancellare dalla terra la povertà, l'ingiustizia, la violenza, l'odio, la sofferenza.
  Posso convertirmi a Dio da ogni posizione sociale, ma devo sapere che se mi converto, entro in un Regno in cui gli ultimi sono i primi, in cui "il fratello d'umil condizione si gloria della sua elevazione, e il ricco della sua umiliazione" (Giacomo 1:9). E questa nuova realtà in cui entro non potrà che condizionarmi in tutte le scelte di vita, anche e prima di tutto in quelle riguardanti i beni materiali, miei e degli altri.

    "Voi conoscete la carità del Signor nostro Gesù Cristo il quale, essendo ricco, s'è fatto povero per amor vostro, onde, mediante la sua povertà, voi poteste diventar ricchi" (2 Corinzi 8:9).

(da "Credere e Comprendere", maggio 1981)

* * *

Le Beatitudini di Gesù (3)

BEATI QUELLI CHE FANNO CORDOGLIO
    "Beati quelli che fanno cordoglio perché essi saranno consolati" (Matteo 5:4).
Queste parole di Gesù non ricorrono molto frequentemente nei sermoni e nelle conversazioni tra credenti, molto probabilmente perché non si prestano ad essere citate in modo staccato. E' uno di quei tanti passi che non parlano immediatamente alla nostra coscienza di uomini moderni, ma hanno bisogno di essere inseriti, anche formalmente, nel mondo espressivo biblico. L'intenzione di Gesù è infatti, anche in questo caso, di proclamare che in lui si stanno adempiendo le parole di Isaia:

    "Lo spirito del Signore, dell'Eterno è su me, perché l'Eterno m'ha unto ... per consolare tutti quelli che fanno cordoglio ... " (Isaia 61:1-3, cfr. Luca 4:16-21).

I termini tradotti con "fare cordoglio" e "consolare" hanno dunque un significato profetico-teologico e non possono quindi essere interpretati con categorie psicologiche o sociologiche.
  L'espressione "fare cordoglio" traduce quasi sempre, nella versione Riveduta, verbi che in greco o in ebraico indicano il dolore, l'afflizione che si esprime con lacrime, lamenti, atti esterni per la morte di una persona cara o per una sventura che ha colpito, o sta per colpire, il gruppo al quale appartiene colui che piange. Quando, per esempio, a Giacobbe portano le vesti insanguinate del figlio Giuseppe, si dice che

    "Giacobbe si stracciò le vesti, si mise un cilicio sui fianchi, e fece cordoglio del suo figlio per molti giorni" (Genesi 37:34).

Il profeta Michea, davanti alla visione di Samaria ridotta a un mucchio di pietre esclama:

    "Per questo io farò cordoglio e urlerò, andrò spogliato e nudo, manderò dei lamenti come lo sciacallo, grida lugubri come lo struzzo" (Michea 1:8).

Talvolta si fa cordoglio o si invita a far cordoglio per esprimere pubblicamente dolore e  pentimento per l'infedeltà davanti a Dio:

    "Esdra ... non mangiò pane, né bevve acqua, perché faceva cordoglio per l'infedeltà di quelli che erano stati in esilio (Esdra 10:6).

Oppure si fa cordoglio per esprimere il dolore provocato dal giusto giudizio di Dio sulle infedeltà degli uomini:

    "Il Signore, l'Iddio degli eserciti, è quegli che tocca la terra, ed essa si strugge, e tutti i suoi abitanti fanno cordoglio" (Amos 9:5).

In conclusione possiamo dire che nella Bibbia il far cordoglio denota una manifestazione pubblica di dolore e lutto di qualcuno il cui ambiente vitale (famiglia, città, popolo) è stato colpito da una sventura o da un giudizio divino. Resta quindi esclusa ogni interpretazione puramente psicologica; e forse questo è uno dei motivi per cui la beatitudine sugli afflitti viene così poco citata.
  Nel libro del profeta Isaia, da cui Gesù ha tratto le parole di questa beatitudine, Dio annuncia da una parte che il popolo avrà occasione di far cordoglio a motivo dei giudizi che stanno per abbattersi su Gerusalemme, e dall'altra promette che verrà un giorno in cui Egli "consolerà" il popolo e ristabilirà Gerusalemme:

    "Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della servitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che ella ha ricevuto dalla mano dell'Eterno il doppio per tutti i suoi peccati (Isaia 40:1);
    "Rallegratevi con Gerusalemme e festeggiate a motivo di lei, o voi tutti che l'amate! Giubilate grandemente con lei, o voi tutti che siete in lutto per essa! … Come un uomo cui sua madre consola, cosi consolerò voi, e sarete consolati in Gerusalemme" (Isaia 66:10,13).

La consolazione di Dio consiste dunque nella sua opera di salvezza a favore del popolo e di tutta la creazione. Dio interviene in una situazione di dolore e di afflizione e crea un nuovo stato di cose in cui trovano conforto coloro che gemono sotto il peso dell'afflizione e fanno cordoglio per l'infedeltà del popolo.
  Anche al tempo di Gesù il popolo d'Israele gemeva sotto il peso di una situazione umiliante: il dominio dei Romani. Alcuni vedevano in questo stato di cose il giusto castigo di Dio per il peccato del popolo e aspettavano, come il giusto e timorato Simeone, "la consolazione di Israele" (Luca 2:25).
  Gesù proclama che in lui Dio è venuto a consolare il suo popolo: beati dunque coloro che fanno cordoglio perché essi saranno consolati.
  Se questo può essere, nel suo insieme, il giusto senso da dare a queste parole di Gesù, dobbiamo chiederci quale significato possono avere per noi oggi. Credo che per applicare queste ed altre parole di Gesù a noi che viviamo tra la risurrezione e il ritorno di Cristo, si debba da una parte tener presente che in Gesù le profezie messianiche si sono veramente adempiute, e dall'altra che il loro compimento pieno e manifesto avverrà alla sua venuta. In Gesù gli ultimi tempi messianici sono iniziati, la consolazione di Dio è giunta agli uomini, e forse per questo motivo lo Spirito Santo sparso sugli uomini, secondo la profezia di Gioele, viene anche chiamato nel vangelo di Giovanni il "Consolatore". Ma d'altra parte, il male, benché vinto è ancora presente tra gli uomini, i quali sono chiamati a fare cordoglio per questo stato di cose, a ravvedersi, a lasciarsi consolare da Dio mediante il suo perdono, la sua pace, la sua forza.
  Per noi che crediamo, fare cordoglio potrebbe forse significare il riconoscere nelle nostre sofferenze, di qualunque tipo esse siano, una partecipazione alle conseguenze del peccato che è entrato nel mondo, nella convinzione che dove c’è sofferenza c'è peccato; non peccato personale, ma peccato dell'umanità, della creazione, che "con brama intensa “aspetta la manifestazione dei figli di Dio" (Romani 8: 19). Il fatto che soffriamo come tutti gli altri ci deve ricordare che siamo peccatori come tutti gli altri e che non è possibile per noi una piena liberazione dal nostro male personale se non viene vinto il male che è nel mondo e attanaglia tutti gli uomini.
  Fare cordoglio potrebbe inoltre significare per noi la disposizione ad umiliarci, come Esdra e Daniele, per la situazione di peccato, cioè di ingiustizia, di egoismo, di violenza, di inganno di odio in cui siamo immersi, e di cui non siamo probabilmente i principali responsabili, ma di cui non siamo neanche del tutto incolpevoli. In questo atteggiamento può rientrare anche il cordoglio per i propri peccati, intesi però non solo e non tanto come peccati individuali quanto come corresponsabilità nel peccato di tutti.
  In questa situazione di cordoglio, prendere sul serio le promesse di consolazione può significare il credere fino in fondo che soltanto nella risurrezione di Cristo si trova la soluzione radicale ai mali e alle sofferenze del mondo; che soltanto il Consolatore può dare oggi la vera pace, quella pace che il mondo non conosce e non dà, e che soltanto nei nuovi cieli e nella nuova terra ogni lacrima sarà asciugata, "né ci sarà più cordoglio, né grido, né dolore, poiché le cose di prima sono passate" (Apocalisse 21: 4).
  Dobbiamo però anche renderci conto che se la nostra fiducia in queste parole di consolazione è reale, essa si deve esprimere nel rifiuto di ogni altra consolazione. Se ci consoliamo da soli non conosceremo la consolazione di Dio. Purtroppo, davanti ai peccati e alla sofferenza del mondo abbiamo trovato molte forme di autoconsolazione: una situazione economica garantita, una pietà tutta centrata sul rapporto io-Dio, l'erezione di innumerevoli steccati di disinteresse davanti a problemi umani che non ci toccano direttamente. Certamente non possiamo farci carico dei problemi di tutto il mondo: il Signore non ci chiede questo. Ma forse dovremmo avere quel po' di fede che è sufficiente a darci il coraggio di vivere su questa terra un po' meno protetti e corazzati: se davvero ci decidessimo a vivere nella "debolezza di Dio" incontreremmo forse qualche occasione in più per "fare cordoglio", ma conosceremmo anche più profondamente e fin d'ora la ricchezza delle consolazioni di Dio. La pace che anche in questi tempi di sofferenza Dio concede a coloro che credono e sperano in Lui è un'anticipazione di quella consolazione escatologica che porterà giustizia e pace e gioia fra tutti i popoli e in tutta la creazione. Dunque non può essere, neanche oggi, una pace tutta privata, personale, perché per sua natura questa pace desidera comunicarsi, estendersi. Quando questo non riesce, quando le forze della malvagità tuttora operanti sulla terra si oppongono all'espansione della pace di Cristo, allora chi annuncia questa pace ne subisce il contraccolpo. E non può che soffrirne, e far cordoglio per sé e per gli altri. In simili situazioni diventano attuali le parole di Gesù:

    "Beati quelli che fanno cordoglio, perché essi saranno consolati".

(da "Credere e Comprendere", luglio 1981)

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Le Beatitudini di Gesù (4)

BEATI I MANSUETI

"Beati i mansueti, perché essi erederanno la terra" (Matteo 5:5).

Come nelle prime due beatitudini, anche questa beatitudine annunciata da Gesù scaturisce da una promessa: "essi erederanno la terra". Se, come sembra ragionevole supporre, questo versetto è una citazione del salmo 37, si può osservare che l'implicita domanda: "chi erediterà la terra? " è presente nel pensiero del salmista, e ad essa egli risponde ripetutamente: "chi spera nell'Eterno" (v. 9), "i mansueti" (v. 11), "gli uomini integri" (v. 18), "quelli che Dio benedice" (v. 22), "i giusti" (v. 29).
  Se per il salmista la terra è evidentemente la terra promessa, il "paese" concesso da Dio al suo popolo, in bocca a Gesù questo termine sta a significare la nuova creazione redenta, la nuova terra che, con il nuovo cielo (Apocalisse 21:1), costituirà l'ambiente in cui "Dio abiterà con gli uomini" (Apocalisse 21:3).
  Questa nuova terra di Dio apparterrà dunque ai mansueti: questa è la promessa di Gesù. Chi sono questi "mansueti"? Il termine ebraico usato nel salmo 37 e in altri passi dell' Antico Testamento, così dicono gli esperti, ha in realtà un significato un po' meno moralistico di quello contenuto nel corrispondente termine greco e in quello italiano. I mansueti, i miti dell'Antico Testamento sono coloro che per motivi economico-sociologici  si trovano in una situazione bassa, subordinata, servile: non sono dunque molto diversi dai "poveri". Essi sono i miseri, gli umiliati, i bisognosi i quali, essendo oggetto della promessa della terra da parte di Dio, sono chiamati ad avere un atteggiamento di fiduciosa speranza, a "confidare in Dio e a fare il bene" (Salmo 37:3), a "non crucciarsi a cagione dei malvagi" (v. 1) perché "Egli opererà" (v. 5). In virtù della promessa divina, dunque, questi "umiliati" sono chiamati ad essere effettivamente "mansueti", a non volersi cioè appropriare della terra con la violenza, perché la terra appartiene a Dio ed Egli ha stabilito di darla in eredità ai miseri e agli umili.
  Nella versione delle beatitudini di Matteo, pur essendo preponderante l'indicativo, cioè l'annuncio di ciò che Dio sta per compiere, non manca l'aspetto esortativo, conseguenza della fiducia che deve essere posta nell'opera di Dio. Quindi se il salmista asserisce: "gli umili erederanno la terra e godranno abbondanza di pace", nel vangelo di Matteo viene detto: "beati i mansueti", cioè beati coloro che con mite e umile serenità vivranno nella fiduciosa attesa del compimento della promessa di Dio. L'esortazione alla mansuetudine è dunque presente nelle parole di Gesù, e in quanto tale riguarda tutti noi, ma essa scaturisce dall'annuncio dell'opera di Dio e non da qualche astratto imperativo morale a cui gli uomini dovrebbero adeguarsi.
  Che il Regno di Dio appartenga ai mansueti trova la sua conferma nel fatto che il re si insedia nel suo regno in modo mansueto, non violento:

    "Dite alla figlia di Sion: Ecco il tuo re viene a te mansueto, e montato sopra un'asina, e un asinello, puledro d'asina" (Matteo 21:5, cfr. Zaccaria 9:9).

Con ciò Gesù manifesta che il suo regno "non è di questo mondo" (Giovanni 18:36), perché ogni regime "di questo mondo" ha alle sue origini una "rivoluzione" violenta e si sostiene attraverso l'uso della forza. Si dirà, con molte buone ragioni, che certe forme di violenza sono assolutamente necessarie per evitare guai peggiori e per sconfiggere altre violenze ingiuste, e tutto ciò è purtroppo vero nell'ambito dei giochi di forza "di questo mondo", ma la fede cristiana si fonda sul fatto che nell'uomo Gesù, Dio è entrato in questo mondo e ha vinto il male di questo mondo non con le sue stesse armi, ma con le armi di un altro mondo, le armi della pace e dell'amore. Il Regno di Dio è una realtà in cui la vittoria finale non arride a chi fa uso della sua forza, ma a chi lascia che "la debolezza di Dio" vinca gli uomini.
  Si torna sempre, quindi, alla croce e alla risurrezione di Cristo. E non potrebbe essere che così. Ciò che Dio ha fatto, sta facendo e farà in Gesù Cristo è ciò che deve determinare l'agire dei cristiani, e non altro. Quando invece questo collegamento essenziale con l'opera di Cristo viene perso di vista o viene lasciato nello sfondo, le esortazioni morali finiscono per diventare vaghi moralismi, fondati, più che sul vangelo, sulle varie filosofie del momento.
  La mansuetudine, per esempio, è stata una virtù apprezzata nel mondo greco-ellenistico. Essa denota la grandezza d'animo di chi è capace di accettare il destino favorevole o avverso non solo con passiva rassegnazione, ma anzi con volontaria accettazione; esprime la saggezza di chi non si lascia dominare dalle passioni, ma reagisce con serena calma e superiore distacco alla stoltezza degli uomini e ai lati sgradevoli delle vicende umane.
  Gesù però non ha avuto questo tipo di virtù. Gesù non è uno stoico. Gesù è l'unico uomo che nella pazzia di questo mondo ha confidato interamente in Dio. E il mondo ha giudicato lui un pazzo:

    "Si è confidato in Dio; lo liberi ora, se Egli lo gradisce" (Matteo 27:43).

Gesù non è stato superiore alle passioni: ha provato spavento, angoscia, tristezza mortale (Marco 14:33-34), ha sudato sangue, ha pregato di essere liberato dall'esperienza che gli stava davanti, senza essere in questo esaudito; non si è consolato da solo, con la sua filosofia e la sua forza d'animo, ma il conforto gli è venuto dall'esterno, dall'alto (Luca 22:43), senza che tuttavia la sua agonia avesse termine. In questa posizione di umile sottomissione al Padre, Gesù ha rinunciato a chiedere di far venire una "legione di angeli" a liberarlo.
  Tutto questo ci ricorda che la mitezza cristiana non è una virtù interna, ma è l'espressione di una fede obbediente in Dio.
  Il saggio ricerca la mansuetudine come atteggiamento di superiorità e  distacco dalle passioni del rancore e dell'odio, e dalle loro conseguenze. Quando vi riesce, è perché in realtà è arrivato a sentirsi superiore agli altri uomini e a distaccarsi da loro: la mitezza pagana si trasforma troppo spesso in orgoglio e disprezzo. Si può essere calmi perché si è distaccati, non interessati.
  Ma al cristiano non è lecito distaccarsi dagli uomini e neppure dalle tensioni e dalle passioni della vita. Il cristiano che subisce un torto o vive in una situazione di ingiustizia non può, non deve rinunciare a soffrire, perché sa che ciò che gli sta accadendo è male, per lui che subisce come per chi compie l'ingiustizia, e perché mentre da una parte si rifiuta di accettare quella situazione, dall'altra sa di non dover uscirne con mezzi propri basati sull'uso della violenza. Non può né consolarsi da solo né risolvere da solo la questione: ha bisogno di "confidare in Dio", di essere confortato da Lui, di essere da Lui aiutato a trovare la giusta via d'uscita.
  La mansuetudine cristiana ha bisogno di speranza; e quest'ultima si fonda sulle promesse di Dio. Una mansuetudine che non abbia come base la speranza nell'opera di Dio, non è una virtù cristiana.
  Oggi la virtù della mansuetudine ha preso il nome di "nonviolenza". E' certo che le parole di Gesù dovrebbero spingere a confrontarci seriamente con questa corrente etico-politica; e forse i cristiani dovrebbero aspettarsi di essere più di altri classificati tra i non violenti. Purtroppo invece vecchie e meno vecchie tradizioni "cristiane" hanno favorito una colpevole insensibilità nei confronti delle forme di violenza organizzata (guerre, regimi dispotici). La mancanza di una seria riflessione sulla nonviolenza ha fatto trovare molti cristiani impreparati davanti alle correnti nonviolente laiche. Da una parte esiste ancora un'ingiustificabile indifferenza nei confronti di questi movimenti, come se le loro istanze non avessero nulla a che fare con gli obiettivi del vangelo. Si sente dire: "l'importante è convertirsi, tutto il resto viene dopo", ma questo "dopo" non è sempre facilmente osservabile in coloro che si dicono convertiti.
  D'altra parte ci può essere un inserimento acritico in questi movimenti, come se per la loro stessa natura fossero portatori di "valori" cristiani. Credo che la ricerca sincera da parte dei credenti di forme nonviolente di pensiero e di vita debba essere fondata su un esercizio continuo della fede nelle promesse di Dio e nell'opera dello Spirito Santo. E questa fede deve anche essere testimoniata. Con convinzione e, oserei dire, con "evangelica aggressività". Non è sufficiente inserirsi silenziosamente nei migliori movimenti sociali che agiscono nel mondo: dobbiamo anche saper esprimere non ciò che distingue noi dagli altri, ma ciò che distingue la buona notizia di Gesù Cristo dai nostri migliori progetti. Il nostro prendere posizione ci procurerà forse un certo calo di reputazione davanti ai nostri compagni di opera e ci darà occasione di esercitare la mansuetudine anche nei loro confronti. Ma non deve essere evitato.
  Diventare dei "rispettabili cristiani di sinistra" è tanto poco utile alla causa del vangelo quanto il restare dei "rispettabili cristiani di destra (o di centro)".

(da "Credere e Comprendere", ottobre 1981)


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Le Beatitudini di Gesù (5)

BEATI GLI AFFAMATI

    "Beati quelli che sono affamati della giustizia perché essi saranno saziati" (Matteo 5:6).
    "Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati" (Luca 6:21).

Non è facile stabilire con certezza se nei versetti sopra citati Matteo e Luca riferiscano il medesimo detto di Gesù con accentuazioni diverse,  oppure se i detti riportati dai due evangelisti siano soltanto formalmente simili, ma sostanzialmente diversi. A rigore la fame è cosa diversa dalla fame di giustizia; ci si potrebbe quindi ragionevolmente chiedere se nella beatitudine di Matteo l'accento principale sia messo sulla fame o sulla giustizia. La sintassi della frase (che secondo alcuni si presterebbe ad una traduzione del tipo "fame quanto alla giustizia") e l'analisi dei contesti in cui Matteo e Luca inseriscono queste beatitudini spingono tuttavia a supporre che le due versioni si riferiscano a un medesimo detto di Gesù e debbano quindi illuminarsi reciprocamente.
  Partendo da questa ipotesi si può dire allora che in Luca viene espresso, in modo tagliente, il fatto che il Regno di Dio non è compatibile con situazioni di sofferenza e ingiustizia come quelle costituite dall'esistenza di persone che non hanno di che sfamarsi. Anche in questo caso Gesù annuncia che si stanno compiendo le profezie, secondo cui

    "nel tempo della grazia ... nel giorno della salvezza ... non avranno fame né sete" (Isaia 49: 8-9; Apocalisse 7:16);
    "Ecco, i miei servi mangeranno, ma voi avrete fame, ecco, i miei servi berranno, ma voi avrete sete" (Isaia 65: 13).

L'ora è giunta, i tempi messianici sono iniziati, l'opera di salvezza si manifesterà in breve anche nell'abolire dal mondo la piaga della fame.
  Ma se la fame è un male da vincere, ci si potrebbe chiedere allora ragionando in modo puramente formale, perché mai Dio si accanisce contro coloro che di questo male non soffrono, cioè i sazi. Dio però non affronta il problema della fame nel mondo come facciamo noi. Noi, senza mettere in discussione la sazietà dei sazi, ci adoperiamo perché gli affamati arrivino ad entrare nella categoria dei sazi. Il Regno di Dio invece mette in discussione tutti, affamati e sazi, ed oltre a dire: "Beati voi che siete affamati" dice anche: "Guai a voi che ora siete sazi" (Luca 6:25). Dio non si limita a "colmare le valli", ma anche "abbassa i monti e colli" (Luca 3:5); e non soltanto "ricolma di beni gli affamati", ma anche "manda a vuoto i ricchi" (Luca 3:53).
  Evidentemente per Dio la fame degli affamati non è soltanto sventura, calamità, ma è anche e soprattutto peccato e ingiustizia. Per Dio la fame non è un problema soltanto degli affamati, ma è un problema di tutti. Il peccato del cosiddetto "ricco Epulone" (Luca 16:19-31) è stato forse quello di pensare che la fame fosse un problema di Lazzaro, mentre era soprattutto un problema suo. La vita di ogni uomo è costituita da una fitta rete di relazioni, e chi come il ricco del racconto di Gesù è stato capace di "godere ogni giorno splendidamente" continuando ad avere alla propria porta un altro essere umano malato e affamato, un giorno avrà fame. Avrà fame di vera vita, perché la sua vita si è consumata nel mantenimento di una relazione così inumana.
  Il Regno di Dio oggi non si preoccupa di allestire una distribuzione di prodotti alimentari, ma annuncia il cambiamento di una  situazione. Una situazione che ora è di peccato e ingiustizia. Per questo in Matteo si dice: "Beati gli affamati di giustizia". Non basta trovarsi di fatto nella situazione di persone affamate per essere partecipi dell'opera di salvezza di Dio: bisogna anche desiderare quella giustizia di Dio che non consentirà più l'esistenza di simili disumane situazioni sociali. E forse in Lazzaro si indica un tipo d'uomo che vuole sì sfamarsi, ma non aspira a un ribaltamento dei rapporti tra lui e il ricco nel mantenimento di una situazione di ingiustizia. Il male che deve essere vinto è radicato nel cuore dell'uomo, e soltanto Dio può vincerlo; ma noi dobbiamo essere affamati ed assetati della giustizia promessa da Dio.
  Se il Regno di Dio non cancella oggi la fame, è chiaro che la stessa cosa non riusciranno a farla neppure gli uomini. Soltanto nei nuovi cieli e nella nuova terra "in cui abita la giustizia" (2 Pietro 3:13), e non prima, i servi di Dio "non avranno più fame e non avranno più sete" (Apocalisse 7:16). Le parole profetiche sugli ultimi tempi sono forse di difficile interpretazione, ma in ogni caso sono chiare nel predire che la manifestazione finale di Gesù Cristo sarà preceduta da un periodo di profonda crisi in cui le forze della malvagità si scateneranno e il mondo assumerà aspetti e caratteri diametralmente opposti a quello dell'irrompente Regno di Dio in potenza. Così, se nel nuovo mondo di Dio la fame e la sete non esisteranno più, nel periodo che precederà la fine "vi saranno carestie" (Marco 13:8). Credere alle parole di questa profezia rende impossibile farsi molte illusioni sul futuro. Il nostro lavorare perché si realizzino, là dove è possibile, condizioni di vita più umane e giuste, non potrà essere sorretto dalla speranza di un graduale miglioramento della situazione generale dell'umanità come frutto dell'impegno degli uomini. Al contrario, è scritto che "negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili" (2 Timoteo 3:1).
  Questa valutazione pessimistica delle capacità degli uomini di guarire alla radice mali gravi come quello della fame, è indubbiamente evangelica. Non è invece evangelica la conseguenza che qualcuno ne trae: cioè che è inutile darsi da fare per tentare di migliorare un mondo che va alla rovina, ma l'unica cosa da fare è tentare di strappare qualcuno dalle fiamme dell'inferno. Chi ha questo atteggiamento considera la salvezza come l'attraversamento di una linea: che cosa ci sia di là e di qua di questa linea e quali cambiamenti di comportamento implichi oggi il passaggio da una parte all'altra non sembra essere molto importante. Assolutamente importante sembra essere invece il poter stabilire con la massima certezza possibile chi si trova da una parte e chi dall'altra della linea. Ma essere salvati significa entrare fin d'ora in quel mondo in cui Dio "fa ogni cosa nuova" (Apocalisse 21:5); significa avere fin d'ora la "vita eterna" (Giovanni 6:47), cioè la vita del "secolo avvenire" (Marco 10:30). Questo significa, molto concretamente, che chi ha ricevuto da Dio la vita eterna è spinto da questa nuova vita ricevuta a camminare nella stessa direzione in cui si muove il Regno di Dio. Se dunque Gesù nel suo annuncio del regno dei cieli promette che gli affamati saranno saziati, ciò significa che fin d'ora coloro che hanno creduto in questo annuncio sono chiamati a compiere azioni significative che anticipino, anche in questa realtà di peccato, le opere di salvezza che Dio porterà a termine alla fine dei tempi.
  Non siamo salvati per opere ma, essendo salvati, partecipiamo alle opere di Dio.
  Per questo l'apostolo Paolo ci mette solennemente in guardia avvertendo che "gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio" (1 Corinzi 6:9). Nel discorso del vangelo di Matteo sul giudizio finale i giusti, i benedetti sono coloro di cui Gesù dice:

    "Ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere" (Matteo 25: 35).

Per questi giusti il regno è preparato "sin dalla fondazione del mondo"; a questi giusti è detto che "andranno a vita eterna".
  Il Regno di Dio è stato "preparato" per i giusti come le buone opere sono state  "innanzi preparate" da Dio affinché i salvati per grazia le pratichino (Efesini 2:10). I benedetti possono allora ereditare il regno d'amore di Dio perché sono già cittadini di questo regno e le loro opere d'amore lo testimoniano. Ma coloro che chiudono il loro cuore davanti alla necessità di chi ha fame e sete, si rivelano come cittadini di un altro regno: il regno di egoismo e  odio del "diavolo e dei suoi angeli". La loro sorte già stabilita è il "fuoco eterno".
  Se quindi il discorso sul giudizio finale non viene fatto per dire che i giusti saranno ricompensati per la loro bontà e gli ingiusti puniti per la loro cattiveria, tuttavia queste parole di Gesù non sono lì per essere dimenticate. Questo passo, e molti altri insieme a questo, rivela qualcosa del contenuto morale del Regno di Dio e avverte che gli eredi del Regno hanno qualcosa da fare su questa terra. Si può dunque accogliere la promessa contenuta in questa beatitudine come un invito a comportarsi in modo degno della posizione di cittadini del Regno di Dio anche in relazione ai problemi che possono venire dalla presenza di affamati.
  Se sfamare un affamato significa dargli la possibilità di vivere, dobbiamo allora anche ricordare che il pane che dà vita al mondo è Gesù stesso. Senza contrapposizione tra cibo fisico e spirituale, il senso di un servizio fatto al prossimo nel nome di una naturale e serena gratitudine verso Colui che ci ha accolti, sarà sempre quello di portare, anche nella forma del più semplice e pratico servizio, l'amore di Cristo che se ricevuto come tale trasmette vera vita, cioè vita eterna.
  Non è detto però che a noi spetti sempre la parte di coloro che danno da mangiare agli affamati. Ci potrebbe anche toccare la parte degli affamati. Proprio a motivo del suo servizio per il Signore, all'apostolo Paolo è accaduto di trovarsi "in fatiche ed in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità" (2 Corinzi 11:27). Le beatitudini di Gesù possono allora essere considerate anche come parole di conforto che Egli rivolge ai suoi discepoli, i quali nel seguire le orme del maestro si verranno certamente a trovare in situazioni sgradevoli. "Quando - potrebbe voler dire Gesù ai suoi discepoli - , per amore del mio nome vi verrete a trovare in situazioni di fame, di sete, di privazione, non pensate che questo sia un segno di abbandono da parte di Dio. Gli affamati di giustizia sono da considerarsi beati perché Dio stesso li sazierà. E' meglio mancare di pane e avere le promesse di Dio, piuttosto che avere molto pane ed essere esclusi dalle promesse di Dio".
  Va detto, a conclusione del discorso, che queste parole di Gesù fanno anche risaltare in modo netto il nostro peccato, cioè la nostra personale incoerenza. Questo può essere messo in relazione con uno dei fini che secondo alcuni si propone il sermone sul monte:  infrangere le nostre sicurezze attraverso un innalzamento delle pretese di santità della legge. Lutero per esempio diceva che il sermone sul monte è "Mosissimus Moses", cioè una specie di Mosè al quadrato. E anche se questa interpretazione non sembra adeguata ad esprimere tutta la ricchezza di contenuto di questo discorso di Gesù, tuttavia è un fatto che ben difficilmente si riesce a trovare qualche forma di autogiustificazione dopo aver preso in seria considerazione le parole nette e dure delle beatitudini.
  Oltrepassa i limiti di questo articolo e le capacità di chi scrive il dare indicazioni precise sul "che fare" nel concreto,  ma è bene non aggiungersi all'elevato numero degli interpreti per i quali "spiegare" il sermone sul monte significa di fatto "liquidarlo". Si deve lasciare che la parola di Dio faccia il suo lavoro contro di noi, affinché al momento opportuno possa compiere il suo lavoro per noi.

(da "Credere e Comprendere", novembre 1981)


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Le Beatitudini di Gesù (6)

BEATI I MISERICORDIOSI
    "Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta" (Matteo 5:7)

La parola "misericordia" contenuta nel versetto citato traduce due termini, uno greco e l'altro ebraico, che nella versione italiana Luzzi sono tradotti anche con diversi altri termini, come "benignità", "bontà", "benevolenza", “grazia", "pietà". E' bene quindi non soffermarsi troppo sul preciso significato del termine italiano, ma cercare piuttosto di riacquistare la pienezza di contenuto che i termini originali hanno negli scritti sacri. Perché per quanto si cerchi di ammodernare le traduzioni, resta il fatto che si può sperare di interpretare correttamente le parole di Gesù soltanto inserendole nel contesto del mondo biblico, e in particolare in quello dell'Antico Testamento.
  L'elemento fondamentale che sta alla base di questa beatitudine è, anche in questo caso, la promessa contenuta nella seconda parte del versetto, che più esplicitamente potrebbe essere tradotta: "perché Dio farà loro misericordia". La beatitudine si basa dunque sulla misericordia di Dio. Nell'Antico Testamento Dio è molto spesso presentato come un Dio misericordioso:

    "L'Eterno! L'Eterno! L’lddio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco in benignità e fedeltà" (Esodo 34:6)
    "Torna, o infedele Israele, dice l'Eterno ... giacché io sono misericordioso, dice l'Eterno" (Geremia 3:12).
E nel Nuovo Testamento, Maria può dire nel suo cantico:
    "Santo è il suo nome; e la sua misericordia è d'età in età" (Luca 1:50).

La misericordia di Dio si esprime fin dall'inizio del suo rapporto con gli uomini, quando Egli rinuncia a sterminare l'umanità malvagia di sulla faccia della terra e stabilisce con Noè - di cui è detto che "trovò grazia agli occhi dell'Eterno" (Genesi 2:8) - un patto in cui Egli s'impegna a non distruggere più la terra con il diluvio.
  Anche il patto con Abramo e con il popolo d'Israele si fonda sulla misericordia di Dio, nel senso che Egli s'impegna a benedire Abramo (Genesi 12: 2) e a non far mancare le sue benignità, nonostante le disubbidienze e le infedeltà del popolo.

    "lo gli conserverò la mia misericordia in perpetuo, e il mio patto rimarrà fermo con lui" (Salmo 89:28).
    "Quand'anche i monti s'allontanassero e i colli fossero rimossi, l'amor mio non s'allontanerà da te, né il mio patto di pace sarà rimosso, dice l'Eterno che ha misericordia di te" (Isaia 54:10).

La misericordia di Dio si esprime quindi innanzitutto nel fatto che Egli fa dipendere il suo atteggiamento di benevolenza non da particolari caratteristiche del popolo, ma dalla sua stessa decisione, cioè dall'impegno che nel suo amore Egli ha liberamente contratto con il suo popolo. A partire da questo patto di pace tra l'Eterno e il popolo, la misericordia divina viene spesso presentata come lealtà di Dio verso se stesso e come fedeltà nei confronti di chi si appella alle sue promesse.
  Invocare la misericordia di Dio significa allora chiedere a Dio di restare fedele al suo patto e di non fare mancare quindi il suo perdono, il suo aiuto, la sua benedizione:

    " ... ricordati di me, o mio Dio, e abbi pietà di me secondo la grandezza della tua misericordia!” (Nehemia 13:22);
    "Ritorna, o Eterno, e libera l'anima mia; salvami per amore della tua misericordia" (Salmo 6:4).

Anche nei momenti di maggiore abbattimento, quando il popolo geme sotto la conseguenza dei suoi peccati, si può ricordare l'impegno che Dio ha preso "nei giorni antichi" con i "padri" e si può attendere con fiducia che Egli torni a manifestare la sua misericordia verso il popolo.

    "Qual Dio è come te, che perdoni l'iniquità e passi sopra alla trasgressione del residuo della tua eredità ? Egli non serba l'ira sua in perpetuo, perché si compiace d'usar misericordia. Egli tornerà ad aver pietà di noi, si metterà sotto i piedi le nostre iniquità, e getterà nel fondo del mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà a Giacobbe, la tua misericordia ad Abrahamo, come giurasti ai nostri padri, fino dai giorni antichi" (Michea 7:18).

Il fatto che Dio è un Dio misericordioso determina il contenuto della beatitudine. Beati coloro che si comportano con i loro simili così come Dio si comporta con loro: cioè con misericordia. Il carattere di Colui che chiama determina le norme di comportamento di colui che viene chiamato:

    "Ma come Colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta"  (1 Pietro 1:15).

Uno dei passi biblici che illustra bene questa situazione è la parabola del servitore spietato (Matteo 18:21-35). In essa si osserva che il re è spinto dalla sua stessa compassione a rimettere il debito al suo servitore. Quest'ultimo a sua volta avrebbe dovuto essere spinto non tanto dalla sua stessa compassione quanto dalla compassione avuta verso di lui, a rimettere il debito al suo conservo. Cosa che invece non fa. Per questo il suo signore lo riprende violentemente dicendogli:

    "Malvagio servitore ... non dovevi avere misericordia del tuo conservo, com'io ebbi misericordia di te?" (Matteo 18:32-33).

Questo può farci riflettere sulla differenza qualitativa che esiste tra la nostra misericordia e quella di Dio. Nel suo essere misericordioso Dio si richiama a se stesso, cioè al patto di grazia che Egli ha deciso di stabilire con gli uomini. Noi invece non dobbiamo rifarci a noi stessi, ai nostri valori, ai nostri codici di condotta, ai nostri buoni sentimenti per essere indotti ad essere misericordiosi, ma fondamentalmente dobbiamo essere rinviati al fatto che Dio ci ha "usato misericordia".

    "Voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia" (1 Pietro 2:10).

La fiduciosa certezza di essere oggetto della benignità e della misericordia di Dio non può che cambiare il nostro atteggiamento nei confronti degli altri. Se Dio ha rinunciato a fare i conti con me, a pretendere da me tutto quello che gli spetta, non deve più essere possibile che il mio rapporto con l'altro sia regolato da un minuzioso conteggio di dare e avere in cui, tra l'altro, per un misterioso meccanismo di calcolo mi trovo sempre ad essere in credito. Essere misericordiosi significa smettere di contare i crediti che abbiamo, o che riteniamo di avere, ed essere invece preoccupati dei nostri debiti, cioè di quello che gli altri si aspettano da noi e di cui hanno bisogno per la loro vita.

    "Colui dunque che sa fare il bene, e non lo fa, commette peccato" (Giacomo 4:11).

E' bene chiarire, a questo proposito, che la misericordia biblica non è una commozione o un generico stato d'animo, ma piuttosto un atteggiamento, un modo d'agire profondamente motivato. Per il servitore della parabola, avere misericordia del suo conservo avrebbe dovuto significare, molto concretamente, condonargli il debito. Per il buon samaritano, "usare misericordia" (Luca 10: 37) all'uomo ferito significò accostarsi a quell'uomo e prendersi cura di lui. E l'apostolo Paolo, parlando dei diversi compiti nella comunità cristiana, esorta chi fa "opere misericordiose" a farle con allegrezza (Romani 12:8).
  Sul fondamento dell'opera di Dio, il quale "ci ha salvati non per opere giuste che noi avessimo fatte, ma secondo la sua misericordia" (Tito 3: 5), si può dire dunque che la misericordia è un atteggiamento di benignità e di benevolenza che porta a considerare l'altro nella sua dignità e nei suoi bisogni reali, indipendentemente dai diritti o dai doveri che ha nei nostri confronti. La misericordia è l'esatto contrario di un atteggiamento giuridico, fiscale. Era infatti un sottile problema giuridico quello che Pietro poneva a Gesù chiedendogli quante volte dovesse perdonare il fratello che aveva peccato contro di lui. Gesù in sostanza gli risponde di non stare a preoccuparsi del problema giuridico del perdono, ma di preoccuparsi del fratello. Era anche un interessante problema giuridico quello che il dottore della legge poneva a Gesù chiedendogli chi fosse il prossimo che aveva il diritto di essere da lui amato (Luca 10: 29), ma Gesù gli risponde di non stare a preoccuparsi del problema giuridico del prossimo, ma di preoccuparsi piuttosto di essere proprio lui il prossimo di chi si trova nel bisogno.
  Ogni legislazione civile si propone di regolare i rapporti tra i cittadini per mezzo di precise norme che stabiliscono i diritti e doveri di ciascuno nei confronti degli altri. Al buon cittadino si chiede di essere in regola con le leggi. Nient'altro. Ma questo non è misericordia. Chi pensa di poter mantenere i suoi rapporti con gli altri soltanto osservando disposizioni legali potrà forse essere a posto con la legge degli uomini, ma certamente non sarà a posto con quella di Dio. Il servitore spietato che aveva cacciato in prigione il suo conservo era in regola con la legge: il debitore non aveva pagato quello che doveva pagare, e quindi doveva andare in prigione: questa era la regola. Il tutto potrebbe costituire il resoconto di un normale caso giudiziario. Ma poiché il servitore era uno che doveva la sua stessa vita al fatto che un altro lo aveva voluto considerare come una persona invece che come un debitore, il racconto appare come la descrizione di un'ignobile infamia. L'atteggiamento del servitore non doveva essere determinato dal diritto che gli dava la legge, ma dalla misericordia che gli era stata usata.
  Se confessiamo un Dio che è "ricco in misericordia" e che "per il grande amore del quale ci ha amati, anche quando eravamo morti nei falli, ci ha vivificati con Cristo" (Efesini 2:4~5), dobbiamo anche trarne le necessarie conseguenze: cioè che i nostri rapporti con gli altri non possono esaurirsi nell'adempimento di obblighi civili, ma devono essere determinati da quell'amore misericordioso che ci ha dato la vita e che attraverso di noi vuole raggiungere gli altri. Per chi ha riconosciuto l'intervento di Dio nella storia degli uomini, le leggi che regolano i suoi rapporti personali con gli altri uomini sono radicalmente cambiate: ci sono debitori che non sono più tali (Matteo 6:12) e debiti d'amore che prima non c'erano (Romani 13:8); ma considerando tutto quello che si è "gratuitamente ricevuto" (Matteo 10:8), il bilancio si chiude largamente in attivo.
  Se la nostra misericordia di uomini proviene dalla misericordia di Dio nei nostri confronti, appare tanto più sconcertante il fatto che molto spesso l'esercizio della misericordia sembra essere ostacolato proprio dall'attaccamento a principi religiosi. La storia, e purtroppo anche la vita di oggi, insegnano che in nome di Dio si può riuscire ad essere spietati. L'atteggiamento è più o meno sempre il solito: quando l'uomo religioso avverte che il "sacro" sta per essere contaminato, non guarda più in faccia nessuno e colpisce senza pietà. Ma non c'è altro Dio che un Dio misericordioso: a Lui soltanto e non a qualche Moloc straniero dobbiamo rendere il nostro culto. Ed Egli ci avverte che "ama la misericordia e non i sacrifizi, e la conoscenza di Dio anziché gli olocausti" (Osea 6:6). Ma l'uomo religioso, pur di far onore al suo Dio è disposto a presentargli anche degli olocausti umani, credendo forse in questo modo di anteporre Dio ad ogni altra cosa. I Farisei, pur di non profanare il sabato preferivano che gli uomini rimanessero nelle loro malattie; e quando Gesù, violando secondo loro il sabato, guarisce l'uomo dalla mano secca, decidono di farlo morire. Gesù doveva essere sacrificato in onore del loro Dio del sabato. E quanti altri olocausti umani erano disposti ad immolare per non profanare il loro recinto sacro: i pubblicani, le prostitute, i malati, i peccatori di ogni tipo dovevano essere abbandonati al loro destino per non disonorare quel Dio che secondo loro veniva da essi disonorato. Non avevano imparato che cosa significasse: "Voglio misericordia, e non sacrifizio" (Matteo 9:13).
  E noi che ci diciamo cristiani l’abbiamo imparato? O abbiamo anche noi i nostri recinti sacri per la purezza dei quali siamo pronti a immolare vittime umane in nome di un'istanza superiore divina? Dobbiamo fare bene attenzione alle nostre vie, perché se la mancanza di misericordia che si ha in nome del nostro umano egoismo può essere riconosciuta e confessata, la mancanza di misericordia che si ha in nome di Dio molto più difficilmente è riconosciuta come tale. E se non è riconosciuta, non è neppure confessata; e se non è confessata, non può essere perdonata. Ricordiamo allora che "il giudizio sarà senza misericordia per colui che non ha usato misericordia" (Giacomo 2:13). E ricordiamo anche, per metterle in pratica, le parole del profeta:

    "O uomo, Egli t'ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro chiede da te l'Eterno, se non che tu pratichi ciò che è giusto, che tu ami la misericordia, e cammini umilmente col tuo Dio? " (Michea 6:8).
(da "Credere e Comprendere", dicembre 1981)

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Le Beatitudini di Gesù (7)

BEATI I PURI DI CUORE

    "Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio” (Matteo 5:8).

"Vedere la faccia del re" significava nell'Antico Testamento avere accesso alla sua presenza, essere accolti con favore e benevolenza dal sovrano. Era un privilegio che naturalmente non tutti potevano avere, e che il re poteva espressamente negare anche ai suoi più intimi familiari, quando voleva esprimere la sua ira e il suo giudizio contro di loro. Illustrativo può essere il caso di Absalom, che dopo aver fatto uccidere il fratello Ammon cerca il perdono del padre, il re Davide, ma per due anni deve dimorare in Gerusalemme "senza vedere la faccia del re" (2 Samuele 14:28). Fino a che, stanco di aspettare, implora l'aiuto del suo amico Joab, dicendogli:

    "Or dunque fa' ch'io veda la faccia del re! e se v'è in me qualche iniquità, che mi faccia morire"  (2 Samuele 14:23).

Non si poteva dunque vedere il sovrano senza essere degno di lui, senza avere ottenuto da lui un giudizio positivo e favorevole.
  Se queste erano le condizioni per vedere un re umano, tanto più ardua doveva apparire la possibilità di vedere la faccia di Dio. A Mosè che chiede all'Eterno: "Deh, fammi vedere la tua gloria" (Esodo 33:18), Dio risponde:

    "Tu non puoi vedere la mia faccia, perché l'uomo non mi può vedere e vivere" (Esodo 33: 20).

Questo principio viene ripetutamente espresso nella Bibbia e sta a significare che l'uomo, nella sua posizione di peccato e impurità, non può comparire davanti alla maestà e alla santità di Dio senza restarne annientato. Per questo è detto che

    "Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio” (Esodo 3:6)

Le poche persone che in qualche modo hanno fatto l'esperienza di vedere Dio, si considerano oggetto di una particolare grazia da parte dell'Eterno che li ha mantenuti in vita. Giacobbe, dopo la sua lotta con l'angelo, esclama:

    "Ho veduto Dio a faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata" (Genesi 32:30).

E Isaia che ha potuto vedere "il Signore assiso sopra un trono alto, molto elevato", esclama:

    "Ahi, lasso me, ch'io son perduto ! Poiché io sono un uomo dalle labbra impure ... e gli occhi miei hanno veduto il Re, l'Eterno degli eserciti! " (Isaia 6:5).

Secondo le Scritture, l'impossibilità che l'uomo ha di vedere il Signore non dipende dai limiti delle sue facoltà conoscitive che secondo schemi filosofico-speculativi non gli consentirebbero di investigare un essere infinito come Dio, ma dipende invece dal fatto che l'uomo è peccatore, e quindi non può reggere ad un contatto diretto con la santità di Dio. La contrapposizione insanabile non è tra "infinito" e "finito" o, come piace dire ai filosofi, tra trascendenza di Dio e immanenza dell'uomo, ma tra santità di Dio e peccato dell'uomo. E se un giorno l'uomo potrà vedere Dio, ciò non avverrà mediante un processo di elevazione dal finito all'infinito, ma per un'opera di giustificazione e di santificazione.

    "Poiché l'Eterno è giusto; egli ama la giustizia; gli uomini retti contempleranno la sua faccia"(Salmo 11:7).
    "Procacciate pace con tutti e· la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore"(Ebrei 12:14).

Ma il peccato, secondo la Bibbia, non è la somma delle trasgressioni di tutti gli uomini, ma è piuttosto uno stato in cui tutta la creazione è caduta in conseguenza di un originario atto di ribellione dell'uomo a Dio. Per causa dell'uomo "il suolo è stato maledetto" (Genesi 3:17). Per il popolo d'Israele questo significava che in determinate zone della realtà erano presenti e attive potenze malefiche alle quali non ci si poteva avvicinare senza rimanerne contaminati. Si poteva quindi diventare impuri entrando in relazione, anche in modo esclusivamente fisico, con la morte, la lebbra, le deformità corporali, i culti a divinità straniere. Chi aveva contratto simili impurità rituali non poteva in nessun modo avvicinarsi alle cose sante, cioè agli oggetti relativi al culto di Dio, senza prima assoggettarsi alle relative pratiche di purificazione.

    "E se uno toccherà qualcosa d'impuro, una impurità umana, un animale impuro o qualsivoglia cosa abominevole, immonda, e mangerà della carne del sacrificio di azioni di grazie che appartiene all'Eterno, quel tale sarà sterminato di fra il suo popolo" (Levitico 7:21).

In questo modo doveva essere sempre mantenuto vivo il ricordo del fatto che l'uomo è immerso in una realtà di peccato e che in tale posizione non può accedere direttamente alla santità di Dio, ma ha bisogno di essere prima purificato, santificato.
  Il problema della purezza rituale era molto sentito al tempo di Gesù. I Farisei, in particolare, erano rigidissimi nel seguire le pratiche di purificazione. Si può quindi immaginare il ribrezzo che provarono nel venire a sapere che Gesù prendeva i cibi senza lavarsi le mani e addirittura toccava i lebbrosi che, dopo i cadaveri, erano quanto di più impuro ci potesse essere.
  Ma i Farisei si comportavano come tutte le persone religiosissime di tutti i tempi: erano scrupolosi in tutto fuorché nelle cose essenziali. E Gesù li attacca con grande durezza. "Voi - dice in sostanza Gesù - filtrate le vostre bevande per evitare di ingerire qualche eventuale moscerino impuro, ma con grande tranquillità siete capaci di ingerire un cammello. Voi rassomigliate a sepolcri dipinti di bianco, che dal fuori sembrano puri nel loro candore, ma dentro sono pieni dell'impurità delle ossa dei morti e di ogni altra immondizia. Voi siete impuri dentro. E' il vostro cuore che ha bisogno di essere purificato. Ma se il vostro cuore resta impuro, tutto il vostro corpo ne è contaminato, e nessuna abluzione potrà purificarlo" (cfr. Matteo 15:1-20; 23:13-36).
  L'atteggiamento di Gesù nei confronti della purezza rituale costituisce un attacco frontale all'intero sistema religioso dei suoi contemporanei. Non sorprende quindi che da una parte i discepoli riferiscano preoccupati a Gesù che "i Farisei, quando hanno udito questo discorso, ne sono rimasti scandalizzati" (Matteo 15: 12), e dall'altra che una schiera di persone irrimediabilmente impure, come i pubblicani, le prostitute, i lebbrosi, i ciechi, gli storpi, veda in Gesù un'insperata possibilità di essere accolti, perdonati, guariti.
  Resta tuttavia valido il fatto che per comparire alla presenza di Dio bisogna effettivamente essere puri; ma puri di cuore, sottolinea Gesù. Ma chi può esserlo? E che cosa significa, esattamente, essere puri di cuore?
  Come nell'antico patto i "puri" che potevano accedere alle cose sante di Dio erano in realtà dei "purificati", così anche nel nuovo patto i "puri di cuore" di cui parla Gesù non sono delle persone che possiedono in se stesse una loro propria purezza, ma sono piuttosto persone la cui coscienza è stata purificata da Dio (Ebrei 9:14). Gesù non promette una ricompensa a chi è in se stesso puro, ma offre Egli stesso la purificazione insieme con la relativa conseguenza: poter "vedere Dio". Nella lettera agli Ebrei l'opera di Cristo è presentata come la "purificazione dei peccati" (Ebrei 1:3) mediante un unico sacrificio di cui Gesù Cristo è contemporaneamente sommo sacerdote e vittima espiatoria.
  La purificazione compiuta da Dio in Cristo ha un carattere cosmico. Per mezzo della croce, Egli ha vinto le potenze della morte (Colossesi 2:15), e ha "purificato le cose" (Atti 10:15); d'ora in poi "nessuna cosa è impura in se stessa" (Romani 14:14), e di conseguenza non è più il caso di lasciarsi imporre precetti come "non toccare, non assaggiare, non maneggiare" (Colossesi 2:21 ), perché le cose non possono più trasmettere impurità all'uomo. Sembra piuttosto che sia vero il contrario: è l'uomo che in un certo senso può trasmettere la sua impurità alle cose che lo circondano.

    "Tutto è puro per quelli che sono puri; ma per i contaminati ed increduli niente è puro; anzi tanto la mente che la coscienza loro sono contaminate" (Tito 1:15).

Se la purezza che consente all'uomo di comparire alla presenza di Dio è un dono di Dio stesso, cioè una purificazione dei peccati, è anche vero che all'uomo viene chiesto di avere un "cuore onesto e buono" (Luca 8:15) affinché l'opera di Dio possa portare frutto in lui. L’onestà che Dio richiede è essenzialmente la disposizione a restare nella luce della parola di Dio quando questa illumina la nostra coscienza e ci rivela per quello che siamo: dei peccatori. Se ci chiudiamo alla luce di Dio e "diciamo di essere senza peccato" allora "inganniamo noi stessi", e quindi la nostra coscienza non può essere purificata, ma anzi si carica di una nuova doppiezza, dovuta allo sforzo di negare la realtà che ci viene presentata. E così "la verità non è in noi" (1 Giovanni 1:8); ma anzi è in noi la falsità di una coscienza ingannata. Se invece "confessiamo i nostri peccati", cioè diciamo "si" al giudizio di Dio su di noi e cessiamo di nasconderci come Adamo, allora ci riconciliamo con la verità, anche se è una verità triste e penosa per noi, e ritroviamo una forma di semplicità che Dio trasforma, per la sua grazia, in uno stato di purezza:

    "Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità" (1 Giovanni 3:9).

Gesù promette che i puri di cuore vedranno Dio. Se riconosciamo che per la grazia del Signore possiamo essere annoverati tra coloro che sono stati purificati in Cristo, allora, in preparazione all'evento promesso da Gesù, dobbiamo cominciare ad abituare i nostri occhi. Dobbiamo abituarci a guardare gli uomini e le cose con occhi limpidi, chiari, dobbiamo imparare a ricercare rapporti semplici, leali con tutti, a smettere di dividere la nostra coscienza in tanti scompartimenti ben isolati l'uno dall'altro, a deporre le nostre maschere con cui ci presentiamo agli altri.
  Bisogna dire che gli ambienti di chiesa non sempre favoriscono quegli atteggiamenti di sincerità, schiettezza, linearità, dirittura, integrità che forse dovrebbero essere collegati alla purezza di cuore di cui parla il vangelo. La necessità di apparire "buoni" spinge sovente alle mezze parole, alle vie indirette, ai silenzi diplomatici, alle sorridenti malignità. E quando qualcuno comincia a cedere nella sua fedeltà al Signore, molto spesso invece di cambiare in modo aperto e pubblico il suo comportamento preferisce elevare, nei confronti degli altri e di se stesso, una serie di muri protettivi che gli evitino di doversi porre con onestà davanti a Dio e davanti al prossimo. La realtà si separa dall'apparenza; la coscienza si divide. Troppo spesso il primo frutto della infedeltà è la perdita della purezza di cuore.

    "Nettate le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d'animo" (Giacomo 4:8).

Avendo creduto in Cristo, siamo stati purificati; essendo stati purificati abbiamo ricevuto la promessa di poter un giorno vedere il Signore nella sua santità; ed essendo destinati a vedere il Signore nella sua santità siamo chiamati a purificarci nella nostra coscienza e nelle nostre azioni.

    "Diletti, ora siamo figli di Dio; e non è ancora reso manifesto quello che saremo. Sappiamo che quando Egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è. E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica, com'esso è puro" (1 Giovanni 3:2-3).
(da "Credere e Comprendere", gennaio 1982)

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Le Beatitudini di Gesù (8)

BEATI I FACITORI DI PACE

    "Beati quelli che s'adoperano alla pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio" (Matteo 5.9).

Usare l'espressione "figlio di Dio" per indicare un singolo credente è oggi un fatto abbastanza normale e diffuso; ma non era così nei tempi antichi. In ambiente pagano l'espressione "figlio di Dio" era riservata ai Faraoni, ai monarchi ellenistici, agli imperatori, cioè a coloro che per la loro dignità regale erano reputati di natura quasi divina. Nell'Antico Testamento è invece il popolo d'Israele che viene considerato figlio di Dio:

    "Così dice l'Eterno: Israele è il mio figlio" (Esodo 4.22);

oppure sono delle creature celesti:

    "Or accadde un giorno che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno" (Giobbe 1.6);
    "Chi, nei cieli, è paragonabile all'Eterno? Chi è simile all'Eterno tra i figli di Dio (Salmo 89.6).

Gesù stesso parla di "figli di Dio" in questo secondo senso quando, riferendosi a coloro che saranno partecipi della risurrezione, dice:

“… non possono più morire, giacché sono simili agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione" (Luca 20.36).

Ciò che Gesù promette è dunque la possibilità per l'uomo di accedere a una posizione nuova davanti a Dio, paragonabile a quella che ora occupano soltanto le creature celesti. Una promessa simile viene ripetuta nell'Apocalisse:

    "Chi vince erediterà queste cose; e io gli sarò Dio, ed egli mi sarà figlio" (Apocalisse 21. 7);
ciò dimostra che anche questa beatitudine, come tutte le altre, ha un preciso riferimento agli ultimi tempi che sono iniziati con Gesù e si compiranno alla sua seconda venuta.
  Ma ogni promessa di Gesù riguardante il futuro ha una sua forma di realizzazione nel presente. Per questo l'apostolo Paolo può dire che

    "tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio" (Romani 8.14).
Di qui viene lesortazione a comportarsi da "figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa" (Filippesi 2.15). E poiché Dio è “l’Iddio della pace" (Romani 15.33), è naturale aspettarsi che i suoi figli si comportino da "facitori di pace". Resta da capire che cosa intende dire la Bibbia quando parla di pace.
  Il termine "pace" è largamente diffuso nella Scrittura ed ha un significato pieno, positivo: esprime lo stato di buona salute, benessere, prosperità di una persona, di una famiglia, di un popolo. La ricchezza di significato del termine ebraico "shalom" ne rende talvolta difficile la traduzione. Per fare soltanto un esempio, la Riveduta traduce il passo di Isaia 45.7 con "io do il benessere (shalom), creo l'avversità”, mentre la Diodati traduce, più letteralmente, con "io ... faccio la pace, e creo il male".
  Essendo un bene reale, positivo, la pace non viene soltanto augurata e sperata, ma anche data, portata, cercata:

    “… e io darò pace e tranquillità a Israele" (1 Cronache 22.9);
    “… e gli dissero: ‘Porti tu pace?' Ed egli rispose: 'Porto pace"' (1 Samuele. 16.4);
    “… cerca la pace e procacciala" (Salmo 34.14).

Per poter dare la pace, naturalmente bisogna averla: e chi può averla è in ultima istanza soltanto Dio, che è il creatore e il dispensatore di tutto ciò che è veramente buono. A Dio soltanto compete, secondo i suoi piani, dare la pace o ritirarla:

    "O Eterno, tu ci darai la pace" (Isaia 26.12);
    "Dice l'Eterno, io ho ritirato da questo popolo la mia pace" (Geremia 16.5).

La pace è salute. Salute dell'anima e della società.
  Il contrario della pace è malattia. Malattia dell'anima e della società, Le crisi esistenziali, le ingiustizie, le guerre sono espressioni della malattia profonda di cui soffre l'umanità. Ma mentre la guerra è soltanto una conseguenza della malattia, la pace non è soltanto una conseguenza della salute: la pace è guarigione.
  La pace nella Bibbia è sostanzialmente salvezza (o "salute", come traduce la Diodati), cioè intervento salvifico di Dio nella storia degli uomini. Dicendo questo non si restringe il concetto di pace, ma piuttosto si allarga il concetto di salvezza, L'opera di Dio guarisce a fondo i mali dell'umanità e quindi porta con sé serenità, gioia, giusti rapporti tra gli uomini:

    "Il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Romani 14.17).

Proprio questa comprensione dell'opera di Dio conduce l'apostolo Paolo all'esortazione di cui i Romani (e non soltanto loro) avevano particolarmente bisogno:

    "Cerchiamo dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione" (Romani 14.13).

Proprio perché la pace è salvezza portata da Dio sulla terra , nell’Antico Patto non si ha la realizzazione piena della pace di Dio. La vera pace deve ancora venire: essa è annunziata (Isaia 52.7), promessa (Isaia 66.12), attesa (Geremia 8.15). La pace viene con il Messia annunciato dai profeti; egli "sarà chiamato … Principe della pace" (Isaia 9.5) e "sarà lui che recherà la pace" (Michea 5.4). Il coro degli angeli che a Betlemme canta: "Pace in terra fra gli uomini che Egli gradisce" (Luca 2.14) annunzia con queste parole il compimento delle profezie: il Messia è giunto; in lui la pace di Dio è portata sulla terra.
  In un mondo che vive in una posizione di distacco dal suo creatore, cioè in un mondo che ogni giorno esperimenta nelle discordie, nelle contese, nelle guerre le conseguenze di quella primordiale lacerazione tra l'uomo e Dio, il termine biblico "pace" non indica uno stato di cose presente e osservabile oggi sulla terra, ma piuttosto un'azione di rappacificazione di tutto il creato con il Creatore.
  La pace biblica è dunque "riconciliazione". Riconciliazione con Dio, prima,  e tra gli uomini, poi. E’ attraverso Gesù Cristo che Dio compie la sua universale opera di riconciliazione:

    "Poiché in lui si compiacque il Padre ... di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della croce d'esso" (Colossesi 1.20).

Per chi crede nell'opera di riconciliazione di Dio dovrebbe essere impossibile parlare di pace senza riferirsi a Cristo, e, viceversa, dovrebbe essere impossibile parlare di Cristo senza annunziare la pace vera, profonda, concreta che in lui è possibile oggi sulla terra. Può accadere invece, e in parte accade, che coloro che parlano di pace e coloro che parlano di Cristo costituiscano due gruppi distinti e separati di persone. C'è da chiedersi allora: quale pace? e quale Cristo?
  Davanti alla possibilità di una distruzione del mondo per mezzo delle armi atomiche, molti invocano la pace, rifacendosi a varie ideologie. Ma non è necessario avere un concetto molto elevato della pace per provare repulsione di fronte a una simile follia, così come non è necessario avere un concetto molto elevato della vita per essere invogliati a tenersi lontani dal ciglio di un burrone. La pace non è soltanto un “no” alla guerra, così come la vita non è soltanto un “no” al suicidio. La pace è un "sì". Ma molti non sanno a che cosa.

    “Non hanno conosciuto la via della pace. Non cè timor di Dio dinanzi agli occhi loro" (Romani 3.17-18).

Gli uomini conoscono invece molto bene la via della guerra: della guerra santa, della guerra giusta, della guerra di liberazione. Sembra che all’uomo riesca più facile trovare dei motivi nobili per sparare e uccidere, piuttosto che per sanare, guarire, costruire. Durante la Resistenza, per esempio, era presente una forte carica ideale che spingeva gli uomini a tenere duro e a combattere. Ma che cosa è accaduto dopo la liberazione, quando questa carica ideale doveva trasformarsi in forza propulsiva di una società nuova e più giusta? L’idealismo è stato molto presto sostituito dal realismo politico; e di realismo in realismo siamo arrivati a trovarci invischiati in una quantità di problemi inestricabili, con il timore angoscioso di una catastrofe che prima o poi ci potrebbe cadere addosso senza che neppure riuscissimo a sapere da quale parte. Non abbiamo saputo costruire la pace, e ora ci troviamo sull'orlo della guerra. Ma una pace che ha come sbocco la guerra, non è vera pace.
  La pace degli uomini ha davanti a sé il timore della guerra. La pace di Dio ha dietro di sé la consapevolezza della guerra vinta.

    "Non cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché tu viva, in perpetuo" (Deuteronomio 23.6);
    "Io vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà" (Giovanni 14.27).

Sarebbe bene allora che i cristiani si mantenessero sobri e desti davanti ai molteplici inni alla pace che si stanno levando e probabilmente si leveranno ancora proprio perché forse ci troviamo davanti alla guerra. La partecipazione agli sforzi che si fanno per evitare di cadere nel baratro di un conflitto atomico può essere un compito in cui alcuni cristiani dovranno impegnarsi, così come altri cristiani dovranno impegnarsi, per fare un esempio, nell'opera di ricostruzione di qualche comune disastrato, ma non è certo necessario consegnarsi anima e corpo a qualche movimento per la pace considerato come arca di salvezza dell'umanità.
  La pace di Dio non è entrata nel mondo attraverso un movimento di liberazione di dimensioni mondiali, ma nella particolarità dell'uomo Gesù, in cui Dio si è abbassato e ha fatto la pace con gli uomini. La pace di Dio può essere ancora oggi presente nella particolarità di piccoli e insignificanti gruppi di persone che si lasciano condurre dallo Spirito di Dio e portano in mezzo ai loro simili quella pace profonda che non si lascia dividere in pace personale, pace sociale, pace politica, perché è un'unica realtà di salvezza offerta da Dio all'uomo.
  Offrire questa pace, testimoniare di questa pace, può certo contribuire a migliorare le sorti dell'umanità, ma non è detto che sia sempre così. Gesù ha avvertito:

    "Non sono venuto a mettere pace, ma spada" (Matteo 10.34).

perché sapeva che l'uomo può rifiutare la pace di Dio in nome della sua propria pace. Se la vita di Gesù è cominciata con il coro degli angeli che canta "Pace in terra", ed è finita con l'urlo della folla che grida "Crocifiggilo", crediamo forse che noi, suoi servitori, possiamo ottenere qualcosa di diverso e, secondo i nostri metri di valutazione, di migliore?
  Dio ci chiama, come figli suoi, ad essere facitori di pace. Ma della Sua pace, non della nostra.

(da "Credere e Comprendere", febbraio 1982)

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Le Beatitudini di Gesù (9)

BEATI I PERSEGUITATI PER CAGION DI GIUSTIZIA
    "Beati i perseguitati per cagion di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli" (Matteo 5:10).

La serie delle beatitudini si conclude con un crudo richiamo alla possibilità della persecuzione. A questo punto Gesù lascia i toni generali e si rivolge direttamente ai discepoli: "Beati voi, quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia" (5:11). I "perseguitati per cagion di giustizia" saranno i discepoli. E lo saranno non per nobili ideali, ma "per causa mia".
  E' un finale che forse disturba un po' noi discepoli, sia perché l'accenno all'opposizione violenta può suonare leggermente stonato dopo le precedenti beatitudini che sembrano evocare un quadro di pace e dolcezza, sia perché facciamo sempre un po' di fatica ad accettare l'idea che "dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni" (Atti 14.22). In fondo qualcuno si potrebbe chiedere: ma perché chi vuole vivere secondo i principi d'amore, di pace e di giustizia predicati da Cristo deve sempre aspettarsi difficoltà e persecuzioni? Non è possibile far crescere in questo mondo il seme del vangelo con gradualità e senso della misura, evitando quelle incomprensioni e reazioni violente che provocano tante sofferenze e spesso danneggiano la giusta causa per cui si lavora?
  Forse anche molti ascoltatori di Gesù si aspettavano un Messia che avrebbe finalmente portato un po' di pace, di giustizia, di prosperità al popolo d'Israele e a tutto il mondo, e che avrebbe messo fine ai soprusi, alle violenze, alle angherie di cui soprattutto i più deboli e i più pii erano vittime. Non aveva forse detto il profeta:

    "In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare a Davide un germe di giustizia, ed esso farà ragione e giustizia nel paese. In quei giorni, Giuda sarà salvato, Gerusalemme abiterà al sicuro, e questo è il nome con cui sarà chiamato: 'l'Eterno, nostra giustizia"' (Geremia 34:15 )?

Gesù invece non soltanto non dichiara apertamente che avrebbe posto fine alle ingiustizie dei prepotenti, ma addirittura prepara i suoi seguaci a subire nuove ingiustizie, e proprio per cagione sua. Non è certo un programma che possa far esaltare le folle. Nessuna persona onesta e ragionevole può rallegrarsi al pensiero che i malvagi possano continuare a spadroneggiare, e che proprio i più onesti debbano continuare a subire le loro soperchierie. Quando si parla di lotta all'ingiustizia, s'intende proprio lo sforzo che si fa o si deve fare per ridurre le sopraffazioni dei prepotenti.
  Non c'è dunque da meravigliarsi se i discepoli credettero di vedere in Gesù lo strumento di cui Dio si sarebbe servito per raddrizzare tutto quello che era storto. Giacomo e Giovanni, sempre zelanti e in prima fila, avrebbero voluto cominciare subito, e a Gesù che si avviava a morire in croce a Gerusalemme chiesero il permesso di far scendere del fuoco dal cielo per consumare gli eretici samaritani colpevoli di aver vietato il transito alla comitiva del Messia che - secondo le aspettative dei discepoli - andava ad insediarsi sul trono a Gerusalemme (Luca 9:51-56). Eppure Gesù aveva detto loro chiaramente che “il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini” (Luca 9:44), ma “essi non capivano quelle parole che erano per loro coperte da un velo, in modo che non lo intendevano” (Luca 9:45).
  Del resto, come avrebbero potuto? Non rientrava nei loro schemi mentali che un Dio giusto e potente potesse permettere una così enorme ingiustizia. Non sta forse scritto che “Egli non permetterà che il giusto sia smosso" (Salmo 55:22)?
  Quando per la prima volta Gesù comincio a parlare della sua uccisione, l’apostolo Pietro, il più deciso di tutti, "trattolo da parte, cominciò a rimproverarlo dicendo: Dio te ne scampi, Signore; questo non ti avverrà mai" (Matteo 16:22).
  Totale fu dunque lo sconcerto che ebbero i discepoli nel vivere i fatti che portarono dall’arresto di Gesù alla sua uccisione sulla croce.

    "Si è confidato in Dio; lo liberi ora, se lo gradisce" (Matteo 27:43).

Queste parole di scherno dei sacerdoti e degli scribi ai piedi della croce devono aver avuto un effetto lacerante sugli animi di coloro che avevano messo la loro fiducia in Gesù come Messia. Com'è possibile che Dio non gradisca Gesù? che lo abbandoni nelle mani dei suoi nemici?
  Forse i dubbi dei discepoli sono anche i nostri dubbi. Se neppure un uomo giusto e buono come Gesù ha trovato aiuto e protezione da Dio, sarà dunque vero che la terra è destinata a rimanere nelle mani dei prepotenti, e che ogni speranza di giustizia è destinata a rivelarsi come pura e semplice illusione?
  Se siamo persone sensibili alla giustizia, disposte a lavorare affinché si instaurino tra gli uomini rapporti più giusti, siamo naturalmente portati a considerare come sconfitte tutte le situazioni in cui la menzogna e gli interessi illegittimi hanno il sopravvento. Forse siamo persone tenaci e non ci lasciamo abbattere, ma in fondo quello che ci aspettiamo è soprattutto una rivincita, un'occasione in cui la causa della giustizia possa finalmente trionfare in modo pubblico e manifesto.
  Gesù però non esorta a tenere duro nei momenti difficili aspettando con fiducia tempi migliori: Gesù invita quelli che per cagion di giustizia soffrono oltraggi e persecuzioni a rallegrarsi e considerarsi beati. E anzi aggiunge:

    "Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Luca 6.26).

E’ forse insana bramosia di persecuzione? Naturalmente quello che nella persecuzione deve spingere i discepoli a rallegrarsi non è la sofferenza, ma il fatto di essere partecipi dell'azione di Dio nel mondo. La pazzia della croce sta nel fatto che Dio ha scelto di porre fine alle ingiustizie del mondo accettando di subire in Gesù la più grande ingiustizia che gli uomini potessero mai perpetrare. Le parole di Gesù sulla croce:

    "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23.34)

costituiscono il giudizio più netto che sia mai stato pronunciato sulla malvagità e l'ingiustizia degli uomini; ma nello stesso tempo costituiscono l'inizio di una nuova giustizia, fondata in modo così radicale sull'amore di Dio per gli uomini che per sua natura deve essere priva di quei mezzi di difesa più o meno violenti che gli uomini considerano indispensabili.

    "Egli che non commise peccato, e nella cui bocca non fu trovata alcuna frode; che oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; che, soffrendo non minacciava ma si rimetteva nelle mani di Colui che giudica giustamente" (1 Pietro 2.23).

Oggi si parla molto di giustizia, e non si può dire che non ci sia chi sinceramente si dia da fare per migliorare le cose; né si può negare che in molti settori della vita sociale si siano fatti innegabili progressi. Si può dire però che nel complesso il mondo si presenta come un sistema chiuso: i progressi verso migliori forme di giustizia in certi settori e in certi momenti finiscono quasi sempre per essere bilanciati da nuove forme di ingiustizia che nascono in altri settori e in altri momenti. La soluzione radicale al problema dell'ingiustizia nel mondo può venire soltanto dall'esterno, ed essa è venuta da parte di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Egli ha introdotto sulla terra un regno che "non è di questo mondo", ma aspetta di essere pienamente compiuto nei tempi stabiliti da Dio. Questo regno è presente già oggi sulla terra, ma può essere riconosciuto ed in esso si può entrare soltanto accogliendo con piena fiducia la persona e la parola di Gesù.
  Se il regno di Dio non è "di questo mondo", è chiaro che anche i suoi annunciatori e testimoni devono avere canoni di comportamento che "non sono di questo mondo". Gesù infatti dice ai suoi discepoli:

    "Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (Matteo 10.16).

E nessuno, in questo mondo, si comporta così. Mandare le pecore in mezzo ai lupi è come invitare questi ultimi a dare sfogo alla loro aggressività. Chi lavora per la giustizia - si pensa - dovrà costruire robusti steccati per dividere le pecore dai lupi, oppure munirà le pecore di artigli e denti aguzzi in modo da dissuadere i lupi dal passare all'attacco.
  Gesù invece prevede chiaramente che i suoi discepoli saranno processati e flagellati, e non considera questo come una vittoria dell'ingiustizia, ma anzi come un'occasione di testimonianza (Matteo 10:18). La persecuzione che i discepoli dovranno conoscere non è un incidente, una dolorosa battuta d'arresto nell’avanzamento verso la giustizia: essa è parte integrante del programma; in essa, o meglio, nella giusta sopportazione della persecuzione, deve risplendere la luce della nuova giustizia portata nel mondo da Gesù Cristo.

    "Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me” (Giovanni 15.18);
    "Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (Giovanni 15:20) ;
    "Diletti, non vi stupite della fornace accesa in mezzo a voi per provarvi, come se vi avvenisse qualcosa di strano. Anzi, in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevene, affinché anche alla rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi giubilando" (1 Pietro 4:12-13).

Per i discepoli di Cristo la persecuzione per il nome di Gesù è un privilegio, ma anche una prova, che può trasformarsi in tentazione. In effetti può essere più difficile "soffrire facendo il bene, anziché facendo il male" (I Pietro 3.17). La fede nella giustizia e nell'amore di Dio viene messa duramente alla prova quando una condotta tesa a fare il bene ha come risultato sofferenze e delusioni. La tentazione di uscire dalla situazione semplicemente cessando di fare il bene e adeguandosi ai sistemi normalmente in uso è certamente molto grande. Ma sono proprio questi i momenti in cui Dio ci chiama a seguire le orme di Cristo:

    "Poiché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio" (1 Pietro 3:19);
    "Beato l'uomo che sostiene la prova; perché essendosi reso approvato, riceverà la corona della vita" (Giacomo 1.12).

Si deve dire però che le sofferenze patite come cristiano non devono mai essere cercate: non sarebbero più le sofferenze di Cristo, ma sarebbero le "nostre" sofferenze. Sapendo come la persecuzione può diventare una tentazione, il discepolo di Cristo deve sempre chiedere al Padre: non esporci alla tentazione. E quando il momento della prova arriva, il discepolo non deve temere i suoi persecutori, ma colui che attenta alla sua fede in Dio:

    "E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima; temete piuttosto colui che può far perire e l'anima e il corpo nella geenna" (Matteo 10:28);
    "Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano; ma io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno" (Luca 22.31-32).

Sopportare la persecuzione come seguaci di Cristo, "non rendendo male per male, od oltraggio per oltraggio, ma al contrario, benedicendo" (1 Pietro 3.9), amando i propri nemici e pregando per quelli che ci perseguitano (Matteo 5.44), non è dunque una sconfitta della giustizia o una tolleranza dell'ingiustizia, ma una vittoria del bene sul male (Romani 12.21). Dio ci chiama a partecipare personalmente a questa vittoria.
  Venendo a noi e ai nostri giorni, c'è da chiedersi come mai la predicazione del vangelo nel mondo occidentale provoca oggi un'opposizione così scarsa. Alcuni diranno che l'Occidente è ormai "cristianizzato"; altri sosterranno invece che ciò dipende dagli ordinamenti democratici dei nostri paesi. Ma si può davvero sostenere che i paesi occidentali sono più degli altri vicini al vangelo? oppure che il messaggio di Cristo è più facilmente trasmissibile e attuabile all'interno di strutture democratiche piuttosto che in regimi totalitari? A parte il fatto che ciò non è confermato dall'esperienza della chiesa dei primi secoli, crediamo davvero che il messaggio di Cristo abbia bisogno dei binari preparati dalle nostre democrazie per viaggiare più spedito?
  Le persecuzioni contro i cristiani si verificano quando i poteri costituiti avvertono che il vangelo ha delle implicazioni sociali e politiche che vengono giudicate pericolose. La mancanza di persecuzioni non potrebbe allora dipendere dal fatto che il messaggio che portiamo viene sentito come del tutto privo di ogni implicazione sociale e politica? La libertà di professare la fede non è forse la libertà che viene concessa a tutte le idee personali? La libertà di predicazione del vangelo non viene forse fatta rientrare fra le libertà di propaganda ideologica e commerciale che tutte le costituzioni democratiche liberali concedono? Ma la fede in Cristo è forse una delle tante idee personali che si possono avere? La predicazione del vangelo è forse uno dei tanti tentativi di conquistare uomini alle proprie idee per farli entrare nei ranghi del proprio gruppo? E il messaggio di Cristo è davvero privo di implicazioni sociali e politiche?
  Sono domande che dobbiamo porci. Certamente non dobbiamo avere nessuna nostalgia della persecuzione, ma dobbiamo vegliare affinché "il sale non diventi insipido".

    "E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati" (2 Timoteo 3.12).
(da "Credere e Comprendere", marzo 1982)


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