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«Israele e il Messia - percorsi paralleli»

di Gabriele Monacis

1 - L’intera Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, costituisce un unicum narrativo percorso da una linea centrale costituita, dall’inizio alla fine, dalla storia del popolo d’Israele.

Spesso si guarda all’Antico e al Nuovo Testamento come due libri separati. Per certe ragioni, di tipo storico e linguistico, questo potrebbe corrispondere anche al vero. Ad esempio, l’Antico Testamento è scritto in ebraico, il Nuovo è scritto in greco, per giunta in un periodo storico, il primo secolo dopo Cristo, in cui l’Antico Testamento esisteva già da alcuni secoli.
  Ma quando si guarda all’Antico e al Nuovo Testamento come due libri separati, non si pensa tanto al fatto che siano stati scritti in due lingue diverse – l’ebraico e il greco, appunto – e in due periodi storici distanti fra loro. Piuttosto, si fa leva sulla convinzione - o per meglio dire sul luogo comune - che l’Antico Testamento racconta la storia di Israele, e quindi interessa agli ebrei. Il Nuovo Testamento, invece, racconta la storia di Gesù, e quindi interessa ai cristiani. Pertanto gli uni si rapportano solo alla prima parte, che parla della loro storia e delle loro origini. Gli altri, i cristiani, pensano che la loro fede sia un’espressione solo della seconda parte, il Nuovo Testamento, e quindi possono benissimo fare a meno dell’Antico.
  Se così stessero le cose, non si capisce bene perché esista ancora un libro che si chiama Bibbia, che è appunto l’unione dell’Antico e del  Nuovo Testamento, messi uno dopo l’altro. Quando invece, secondo questo luogo comune diffuso un po’ dappertutto, questi due libri dovrebbero essere già separati da un pezzo.
  L’evidenza storica dei fatti dimostra la realtà seguente: che nel mondo esiste un libro, la Bibbia, che nel corso dei secoli, e fino ai giorni nostri, viene continuamente redatto, stampato, venduto, e anche tradotto, come un libro unico, nonostante la percezione comune che lo vede come un libro da dividere.
  E se questa evidenza dei fatti va nel verso contrario a quel luogo comune, raramente messo in discussione, che direzione bisogna prendere? La realtà delle cose dice che la Bibbia, in quanto tale, deve essere intesa e considerata come un unicum da leggere dall’inizio alla fine, senza separarne le sue due parti costituenti: l’Antico e il Nuovo Testamento. E se un luogo comune ci spinge a vedere le cose diversamente, esso va esaminato alla luce della Bibbia stessa e messo seriamente in discussione.
  Volendo dunque considerare la Bibbia come un libro unico, dove si potrebbe trovare un collegamento tra le sue due parti costituenti, cioè l’Antico e il Nuovo Testamento? Partendo dal presupposto che esista una linea rossa che attraversi l’intera Bibbia, dall’inizio alla fine, e ne colleghi le diverse parti, dove potrebbe trovarsi questa traccia?
  La storia di Israele è indubbiamente presente nella gran parte del libro che chiamiamo Bibbia e quindi può essere adoperata a questo scopo. Seguirne la narrazione biblica aiuterebbe il lettore a collocare i diversi libri biblici lungo questa traccia. 
  Questa linea narrativa può essere vista come l’asse intorno al quale l’intero libro si sviluppa e si espande. Un po’ come succede in un albero. Prendiamo ad esempio un possente e maestoso cedro del Libano. Il suo asse di simmetria verticale attraversa le sue parti costituenti, come il tronco e i rami. Pur non essendo una sua componente tangibile, l’asse di simmetria di un albero è comunque individuabile da un osservatore esterno, il quale comprende che proprio attorno a quella linea ideale, l’asse di simmetria appunto, si sviluppano tutte le parti che formano l’albero: il tronco, i rami e volendo anche le radici, che pure sotterranee, si espandono in ogni direzione attorno a quell’asse in modo pressoché simmetrico.
  Molti non troveranno sbagliato pensare alla storia di Israele come l’asse narrativo dell’Antico Testamento. A parte i primi capitoli, infatti, la Bibbia inizia molto presto a raccontare la storia di Abramo, il primo patriarca del popolo di Israele. Da lì in poi, la narrazione segue un filo narrativo che non si interrompe mai: l’uscita dall’Egitto, poi il periodo dei giudici in terra di Canaan e in seguito quello della monarchia, la quale finisce con l’esilio babilonese e il successivo ritorno a Gerusalemme, nella terra promessa.
  Ma se questa è, a grandi linee, la narrazione dei fatti che segue praticamente tutto l’Antico Testamento, come può essere vero che la linea narrativa del Nuovo Testamento sia ancora la storia di Israele? Come è possibile che l’Antico e il Nuovo Testamento, per continuare la metafora dell’albero, siano uno il completamento dell’altro e abbiano un asse di simmetria comune?
  L’unione delle due parti integranti della Bibbia è un dato di fatto. Così ci è giunto questo libro, dopo secoli e secoli di storia. Nonostante le loro differenze linguistiche e la lontananza temporale tra i periodi storici in cui sono stati scritti, il Nuovo Testamento è collocato dopo l’Antico Testamento a formare un unico libro: la Bibbia.
  Ma allora dov’è l’incastro tra queste due parti che con troppa fretta e superficialità vengono separate dai lettori moderni? Vedremo di capirlo meglio in una prossima occasione.


2 - La genealogia di Gesù all’inizio dei Vangeli rappresenta l’incastro indissolubile tra Antico e Nuovo Testamento

A differenza di ciò che avviene nelle traduzioni della Bibbia nelle diverse lingue, dove l’ordine dei libri va dalla Genesi al profeta Malachia, il canone dell’Antico Testamento in ebraico va dal libro della Genesi a quello delle Cronache.
   Volendo considerare il primo e il secondo libro delle Cronache come un unico libro, al suo inizio si trova una lunga genealogia che occupa i primi nove capitoli. Essa comincia con Adamo e finisce con gli esuli che tornano a Gerusalemme dopo l’esilio a Babilonia. Alla fine del libro delle Cronache si trova l’editto del re Ciro, l’evento che mette fine all’esilio dei figli di Israele a Babilonia e li spinge a tornare nella loro terra.
   La Scrittura rivela che l’emanazione di questo editto non fu un’iniziativa del re di Persia, ma fu l’Eterno a destare lo spirito di Ciro e a spingerlo ad emanare questo editto. A voce e per iscritto, il re lo fece pubblicare per tutto il suo regno, dicendo: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!' (2 Cronache 36:23).
   Proprio con queste parole si conclude l’Antico Testamento in lingua ebraica: con la voce di un re pagano, di Persia e non di Israele, che ha ricevuto dall’Iddio dei cieli il dominio su tutti i regni della terra e a cui viene comandato di costruire all’Eterno una casa in Gerusalemme.
   Il vangelo di Matteo, il primo libro del Nuovo Testamento, inizia con queste parole: Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abraamo.
   Da una prima osservazione, sembra che il primo libro del Nuovo Testamento voglia riallacciarsi all’ultimo libro dell’Antico Testamento attraverso la genealogia di Gesù Cristo, collegandolo a due importanti perni della storia di Israele: Davide e Abramo, appunto. Sembra proprio che l’incastro tra l’Antico e il Nuovo Testamento avvenga qui, con la genealogia di Gesù Cristo.
   Questa genealogia nel vangelo di Matteo ricorda la lunga genealogia del libro delle Cronache anche per un altro motivo. Fissa tre capisaldi: il primo e il secondo sono, come detto, Abramo e Davide; il terzo caposaldo è un evento storico: il ritorno in terra di Israele dalla deportazione in Babilonia. Proprio come la genealogia del libro delle Cronache, che nel capitolo nove termina con i nomi di coloro che si stabilirono a Gerusalemme dopo il ritorno dall’esilio.
   Scorrendo i nomi presenti nella genealogia di Gesù Cristo del primo capitolo del vangelo di Matteo, si osserva che sono quasi tutti di uomini, ad eccezione di cinque donne. Come dei punti bianchi su uno sfondo nero, questi cinque nomi balzano all’occhio del lettore, per spingerlo a guardare in una certa direzione. Quale?
   La prima donna è Tamar, nuora di Giuda, a cui partorì i gemelli Perez e Zerac. La seconda è Raab, la prostituta di Gerico, la quale non venne distrutta insieme con la sua città per aver protetto le spie dei figli di Israele. Da questa donna, Salmon generò Boaz. Il quale, a sua volta, generò Obed da Rut, la terza donna menzionata nella genealogia del vangelo di Matteo. Rut era moabita e venne presa in moglie proprio da Boaz per ridare vita alla discendenza della famiglia di Naomi, il cui marito e i cui figli erano morti nel paese di Moab. Il nome della quarta donna non viene menzionato. Di lei è detto che era stata la moglie di Uria. Il libro di Samuele parla ampiamente di questa donna, Bat Sheba, a cui Davide si unì quando era ancora moglie del suo fedele soldato Uria. Dopo la morte di quest’ultimo in battaglia, Bat Sheba partorì Salomone a Davide. La quinta donna è Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo.
   Considerando le storie di queste cinque donne, c’è una caratteristica che le accomuna tutte: i figli che esse partorirono nacquero tutti da unioni, per così dire, non convenzionali. Tamar, come detto, era la nuora di Giuda, al quale la donna si unì non rivelando la propria identità, ma facendogli credere di essere una prostituta. Raab faceva questo mestiere nella sua città, Gerico. Lei, insieme alla sua famiglia, furono gli unici a scampare alla distruzione che Dio aveva stabilito sulla loro città. Dopo questo evento, essi entrarono a far parte integrante del popolo di Israele. Rut, che era moabita e quindi non era una figlia di Israele, partorì a Boaz Obed, il quale diventò il nonno del re Davide. Bat Sheva, come detto, era stata moglie di Uria quando Davide si unì a lei. Da quell’unione nacque un figlio, che morì molto presto. Di Maria, la quinta donna, e della nascita di Gesù, è scritto così: “Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo” (Matteo 1:18).
   Non può essere un caso, dunque, che i nomi delle donne menzionate in questa genealogia siano tutti legati ad unioni che, per un motivo o per un altro, escono dagli schemi classici e da ciò che umanamente ci si auspicherebbe in una famiglia che si rispetti. Non solo quelli delle donne, ma da un punto di vista morale, neanche i nomi dei figli nati da costoro sarebbero dovuti rientrare nel lignaggio di una famiglia che appartiene al popolo di Israele, tanto meno la famiglia del Messia di Israele. 
   E invece nella genealogia di Gesù Cristo ci sono i figli nati dall’unione tra un suocero e una nuora, nel caso di Giuda e Tamar; da una madre che faceva, o aveva fatto, la prostituta, nel caso di Raab; da una donna moabita, quindi straniera e pagana, nel caso di Rut; da una donna che nella sua vita era andata con un uomo che non era suo marito, nel caso di Bat Sheba; da una donna che era rimasta incinta prima di sposarsi, nel caso di Maria.
   Da un punto di vista morale, questi nomi, e le vicende ad essi legate, sarebbero piuttosto da celare, non da riportare nei resoconti storici. Se si vuole preservare il buon nome di una famiglia, il senso comune direbbe che i nomi dei figli nati da questi comportamenti deplorevoli e quelli delle loro madri andrebbero rimossi dai registri, in modo che con il tempo vengano dimenticati da tutti e la storia della famiglia dimostri una certa conformità di costumi.
   E invece no. Nella genealogia di Gesù Cristo, i nomi di quelle donne vengono riportati a uno a uno. E i loro figli diventano punti fermi nella storia della famiglia del Messia di Israele. Perché? Non sarebbe meglio che certe cose cadessero nell’oblìo? Ai fini di presentare una persona così importante come il Messia, tutto ciò sembra contro producente. Infatti è contro producente nei confronti dell’onore degli uomini, ma non nei confronti di Dio.
   La genealogia che apre il vangelo di Matteo sembra fatta apposta per ricordare, e non dimenticare, che quei fatti non solo fanno parte della storia di Israele, ma sono fondamentali per comprendere la venuta del Messia. Evidentemente, il Nuovo Testamento si pone come continuazione dell’Antico anche e soprattutto alla luce di quelle unioni che non soddisfano le aspettative degli uomini. Anche perché il Messia stesso nacque da Maria in una circostanza non convenzionale: non per volontà degli uomini, ma di Dio.
   Che significato ha dunque il fatto che, in apertura del Nuovo Testamento, la genealogia di Gesù Cristo ripercorra la storia di Israele proprio ricordando dei fatti che non contribuiscono ad innalzare l’onore dei suoi antenati? Quale significato acquista, in questo senso, la venuta del Messia? Proveremo a dare una risposta a questa domanda in una prossima occasione.


3 - La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia.

Il Nuovo Testamento inizia con queste parole:

    Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo (Matteo 1:1).

L’italiano traduce con il termine “genealogia” l’espressione che in greco significa letteralmente “libro (o rotolo) delle origini”. Anche nelle genealogie della Genesi si trova questa stessa espressione, ovviamente in ebraico: סֵפֶר תֹּלְדוֹת – sefer toldot (vedi Genesi 2:4 e 5:1).
  Come già visto, una genealogia si trova all’inizio delle Cronache, l’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in ebraico. La genealogia non è altro che una storia in estrema sintesi, in cui ogni nome è legato al precedente e al successivo da una qualche relazione, come lo sono gli eventi storici. Un anello dopo l’altro, in ordine cronologico, a formare una catena storica, fatta di nomi che al loro interno contengono storie di vita, quindi di eventi storici più o meno noti.
  Proprio questo “libro delle origini” diventa l’elemento che riprende la storia di Israele dell’Antico Testamento e la continua nel Nuovo Testamento, con la genealogia di Gesù Cristo. Questo incastro tra le due parti che costituiscono la Bibbia vede nel ritorno dall’esilio a Babilonia il preludio per un nuovo ristabilimento del popolo di Israele. Non solo nella sua terra, come avvenuto dopo il ritorno dall’esilio, ma anche con la sua storia.
  Ad una prima lettura, senza voler addentrarsi nei dettagli che riguardano i singoli nomi, le genealogie nel libro delle Cronache e nel vangelo di Matteo differiscono in due aspetti principali. Il primo riguarda il primo nome della lista. Nella genealogia delle Cronache è Adamo, in quella di Matteo è Abraamo. Anche Davide costituisce un caposaldo, il secondo dopo Abraamo. Gesù Cristo, nella genealogia di Matteo, è dunque figlio di Davide e figlio di Abraamo, coloro ai quali Dio promise qualche cosa che non avrebbero visto loro, ma i loro discendenti. Gesù Cristo, in questo senso, è il figlio della promessa di Dio.
  La seconda differenza riguarda i nomi femminili. Delle quattro donne dell’Antico Testamento menzionate nella genealogia di Matteo – Tamar, Raab, Rut e Bat Sheba - solo Tamar è menzionata anche nella genealogia delle Cronache. Le altre no. Oltretutto, era consuetudine che solo i nomi dei padri venissero riportati nelle genealogie, non quelli delle donne. Evidentemente, inserire il nome di queste quattro donne, e anche quello di Maria, la madre di Gesù, è frutto di una precisa volontà di chi ha redatto questa genealogia. Per quale motivo?
  Come visto in precedenza, i figli di queste cinque donne – le quattro dell’Antico Testamento più Maria – sono nati da unioni non convenzionali, per un motivo o per un altro. Ma non in tutti i casi l’unione è avvenuta per un peccato di tipo sessuale commesso dall’uomo e dalla donna.
  Nel caso di Tamar e Giuda e di Bat Sheba e il re Davide sì. La Scrittura dice esplicitamente che queste due coppie si unirono al di fuori del loro contesto matrimoniale, e quindi contro la legge morale. Tamar si travestì da prostituta per poter unirsi a suo suocero Giuda e avere dei figli da lui; nel caso di Davide e Bat Sheba, Dio stesso condannò la loro unione e il figlio che ne nacque morì in tenera età. Anche Raab, la prostituta di Gerico, ha senz’altro vissuto una vita non conforme alla legge morale comunemente riconosciuta, almeno fino a quando abitava a Gerico, e quindi prima di entrare a far parte del popolo di Israele.
  Nulla di questo tipo, però, si può dire di Rut, che sposò Boaz quando era vedova di uno dei figli di Naomi e gli partorì un figlio, di nome Obed. Né tanto meno si può dire di Maria, la madre di Gesù, che rimase incinta mentre era vergine per volontà dello Spirito Santo.
  Ma allora, se non è per un peccato commesso, che cosa hanno in comune queste cinque donne? Perché sono inserite intenzionalmente nella genealogia di Gesù Cristo in apertura del Nuovo Testamento? La risposta sta nel fatto che in tutte queste storie di donne e di unioni non convenzionali c’è un processo di riabilitazione delle persone coinvolte. Vediamo in quali termini.
  La figura di Giuda viene ristabilita all’interno della sua famiglia proprio dopo aver riconosciuto il proprio errore unendosi a Tamar. Di Tamar disse: “Lei è più giusta di me” (Genesi 38:26), riconoscendo così la propria responsabilità in quello che era successo. Nei capitoli successivi, lo si vede alla guida dei suoi fratelli quando questi si trovano in Egitto davanti a Giuseppe. Il loro padre Giacobbe, in punto di morte, ne riconosce la leadership e profetizza che il Messia sarà un suo discendente. La figura di Giuda è ristabilita, a partire dal suo pentimento, con un ruolo di primo piano, cosa che non aveva prima della storia con sua nuora Tamar.
  Raab, colei che aveva protetto le spie dei figli di Israele prima che Gerico venisse distrutta, viene risparmiata insieme con la sua famiglia. Non solo ne esce salva, ma viene integrata nel popolo di Israele, viene trapiantata da una città distrutta sotto il giudizio di Dio ad un popolo che vive sotto la benedizione di Dio. “Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico” (Giosuè 6:25).
  Rut era una moabita. Dopo la morte di suo marito in terra di Moab, vuole seguire sua suocera Naomi quando questa decide di tornare nella sua città, Betlemme. Ecco le parole di Rut a Naomi quando questa le chiedeva di rimanere a Moab: “Non insistere perché io ti lasci, e me ne vada lontano da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io e dove starai tu, starò pure io, il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rut 1:16). Non solo Rut si trasferì a Betlemme con Naomi, ma lì sposò Boaz e gli partorì un figlio, Obed, che sarebbe poi diventato il nonno del re Davide. Rut dà alla luce un discendente alla famiglia di Naomi, che era rimasta senza marito e senza figli e quindi era destinata a scomparire. Questa famiglia viene così ristabilita all’interno del popolo di Israele.
  Queste sono le parole che l’Eterno disse al re Davide attraverso il profeta Natan, dopo che il re aveva preso per sé Bat Sheba, la moglie di Uria: “Perché dunque hai disprezzato la parola dell'Eterno, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto morire con la spada Uria l'Ittita, hai preso per te sua moglie, e lo hai ucciso con la spada dei figli di Ammon.” (2 Samuele 12:9). La risposta di Davide fu breve ed essenziale: “Ho peccato contro l’Eterno”. L’Eterno perdonò Davide, che non morì. Morì invece il figlio che Bat Sheba aveva concepito e la casa di Davide attraversò un periodo molto difficile, in cui il re Davide dovette scappare per non essere ucciso dal proprio figlio Absalom, che voleva diventare re. Diventò re invece Salomone, il figlio che Bat Sheba aveva partorito a Davide in quegli anni turbolenti. A seguito del pentimento, Dio ristabilì Davide e impedì che perdesse il suo trono. Non solo. Proprio dalla donna con cui il re aveva peccato, nacque Salomone, colui che diventò re di Israele dopo Davide e che Dio stabilì saldamente nella sua casa.
  Le quattro donne dell’Antico Testamento, dunque, hanno tutte attraversato un processo di riabilitazione, di ristabilimento di una condizione che era compromessa in precedenza. Come un passaggio dalla morte alla vita, dalla maledizione alla benedizione.
  Si arriva così alla quinta donna della genealogia di Matteo: Maria, la madre di Gesù. Del suo passato prima che partorisse Gesù, si sa che era vergine e promessa sposa di Giuseppe. Ma essendo anche lei una delle donne inserite nella genealogia di Gesù Cristo, a quale processo di ristabilimento Maria ha preso parte? La risposta è nelle parole che un angelo del Signore rivolse a Giuseppe in sogno, quando questi si era proposto di lasciare Maria, che era rimasta incinta:

    “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. (Matteo 1:20,21).

Eccolo il ristabilimento di Israele, che invece di morire per i propri peccati, come poteva succedere al re Davide quando peccò con Bat Sheba, è salvato dai suoi peccati. E a salvarlo è Gesù Cristo, il figlio della promessa, che ristabilisce Israele nella sua posizione davanti a Dio.
  Il ritorno dall’esilio in Babilonia, l’evento con cui si conclude l’Antico Testamento nel libro delle Cronache e che costituisce uno dei tre capisaldi della genealogia di Gesù Cristo nel vangelo di Matteo, dopo quelli di Abraamo e Davide, diventa l’evento storico che anticipa la nuova fase della storia di Israele: come il popolo fu ristabilito nella sua terra dopo un periodo di esilio in Babilonia, così è ristabilito nella sua dimensione storica: è stato popolo fino alla nascita di Gesù Cristo e non smetterà di esserlo nel corso della storia. Cioè non morirà come popolo, perché è lui, dice l’angelo del Signore parlando di Gesù, che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  Il libro delle origini del Messia di Israele, la sintesi della storia della sua famiglia, partendo da Abraamo, passando per il re Davide e per il ritorno dall’esilio in Babilonia, diventa la catena storica che riprende la storia di Israele e la porta avanti, marcandone la direzione che questo seguirà. Come una retta che interpola dei punti, che in questo caso sono gli antenati e le antenate di Gesù Cristo.
  Ne viene fuori un ritratto storico fatto di peccati commessi seguiti da pentimenti e riabilitazioni, di momenti di disperazione seguiti da nuove e inaspettate ripartenze, di morti seguite da nuova vita. La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia. Perché è Gesù che salva il suo popolo dai loro peccati.


4 - Quando Dio interviene in favore dei figli d’Israele caduti in mani straniere, quello che vuole ottenere non è in primo luogo la libertà per loro, ma la possibilità per Dio di “abitare in mezzo a loro”.

Per i figli di Israele, l’esilio in Babilonia terminò quando Ciro, il re della potente nazione di Persia, emanò un suo editto e li lasciò partire. Secondo la Scrittura, l’uscita dei figli di Israele da Babilonia, che era caduta nelle mani dei persiani nel 539 a.C., non fu un’iniziativa di Ciro, ma fu per volontà dell’Eterno stesso, che destò lo spirito di questo re straniero, affinché lasciasse partire il Suo popolo.
  Questo epilogo, anche se con alcune differenze, ricorda l’uscita dei figli di Israele dall’Egitto. In quel caso, come in questo, fu l’Eterno a indurre il faraone, anch’egli un re straniero, a lasciar partire il Suo popolo, anche se con modi diversi in un caso rispetto all’altro.
  Ecco i due versetti con i quali si conclude il Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica:

    Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto: “Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'” (2 Cronache 36:22,23).

Se si considera la storia del popolo di Israele raccontata nel Tanach, quindi tenendo da parte il libro della Genesi in cui Israele non si era ancora formato come popolo, si osserva che la storia di Israele si apre e si conclude con lo stesso schema narrativo. Il popolo di Israele si trova in un paese straniero, l’Egitto all’inizio e Babilonia alla fine, e l’Eterno, in qualche modo, spinge il re di quella potente nazione a lasciarli partire. In Egitto, Israele era sotto la schiavitù del faraone, che fu spinto a lasciarli partire dal peso della potente mano dell’Eterno. In Babilonia, Israele era in esilio e il re Ciro emana un editto perché destato dall’Eterno, e lascia partire il Suo popolo affinché ritorni a Gerusalemme.
  Un altro elemento in comune tra le uscite di Israele dall’Egitto e da Babilonia, sta in ciò che i figli di Israele furono chiamati a fare una volta usciti da quelle nazioni. Il libro dell’Esodo racconta che, una volta giunti al monte Sinai e dopo aver stipulato il patto tra Dio e il Suo popolo, l’Eterno mostrò a Mosè il modello del Tabernacolo, cioè il luogo dove Dio avrebbe abitato in mezzo al Suo popolo. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno disse a Mosè: “Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti” (Esodo 25:8,9).
  Anche nell’editto di Ciro era previsto che i figli di Israele tornassero a Gerusalemme e costruissero lì una casa al loro Dio. Così disse il re di Persia, parlando dell’Eterno: “Egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda”. Lo scopo del ritorno di Israele nella sua terra è dunque ancora lo stesso: costruire un luogo in cui l’Eterno possa abitare insieme con il Suo popolo. E questo è ciò che fecero una volta tornati da Babilonia, anche se in mezzo a tante difficoltà.
  Gesù Cristo nacque sotto il re Erode, come raccontato all’inizio del vangelo di Matteo. Dunque anche Gesù, come Israele, prima in Egitto e poi in Babilonia, si trova sotto la dominazione di un re straniero, Erode appunto, che in quel tempo governava la Giudea. Come il faraone in Egitto, il quale ordinò che venissero uccisi tutti i figli di Israele nati maschi, anche Erode cercò di uccidere Gesù, per paura che il Messia diventasse re al suo posto. Proprio come Dio fece con Israele in Egitto e in Babilonia, Egli sottrasse la vita di Gesù dal potere di re Erode e lo mise al sicuro in Egitto. Ecco il racconto del vangelo di Matteo.

    Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”. Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto; là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto” (Matteo 2:13-15).

La frase che sottolinea il parallelo tra la storia di Gesù e quella di Israele è questa: “Chiamai mio figlio fuori dall’Egitto”. Dio chiama Gesù fuori dall’Egitto, così come Israele fu portato fuori dall’Egitto. Si vuole far notare che la Scrittura non pone tanto l’accento sul luogo in cui Dio mise in salvo colui che stava proteggendo. Israele fu messo in salvo fuori dall’Egitto (Osea 11:1); Gesù, al contrario, fu messo in salvo in Egitto. Ma l’adempimento di ciò che fu detto dal Signore per mezzo del profeta sta nell’azione stessa di Dio, che sottrasse sia Israele che Gesù, al potere di un re straniero, e li mise in salvo.
  Una volta che Israele uscì dalla nazione straniera, dall’Egitto ma anche da Babilonia, fu chiamato a costruire un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo a loro. Qui la domanda è d’obbligo. Se la storia di Gesù ricalca quella di Israele, in che modo la sua venuta permise la costituzione di un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo al Suo popolo? Infatti, negli anni in cui Gesù nacque e crebbe, il tempio a Gerusalemme esisteva già. Proprio il re Erode, dopo anni di lavori, l’aveva reso un edificio davvero imponente e maestoso. 
  Un elemento per rispondere a questa domanda sta proprio nell’incipit della genealogia di Gesù Cristo, in apertura del Nuovo Testamento. Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo. 
  In ebraico, la parola figlio, che nel primo versetto del Nuovo Testamento compare due volte, è בֶּן (ben). La parola “costruire”, invece, si dice בָּנָה (banà). Queste due parole, oltre ad essere simili nel modo in cui vengono pronunciate, hanno la stessa radice: ב.נ.י.. Proprio la radice in comune tra le parole ebraiche “figlio” e “costruire”, potrebbe essere il collegamento che lega, ancora una volta, la fine del Tanach con l’inizio del Nuovo Testamento.
  Gesù Cristo, figlio di Davide e figlio di Abraamo. A Davide, Dio aveva promesso di costruirgli una casa perenne: non sarebbe mai mancato un suo discendente sul trono di Israele, quindi un suo figlio. Ad Abraamo, Dio aveva promesso una discendenza molto numerosa. Lui, che al momento di quella promessa di figli non ne aveva ancora avuti. Nella Sua Parola, Dio garantisce ad entrambi che ci sarebbe sempre stato un loro figlio che avrebbe incarnato la promessa di Dio nel corso della storia. 
  Anche all’inizio del Nuovo Testamento, l’Eterno intende costruire un luogo in cui dimorare in mezzo a Israele, il Suo popolo. Questa volta, però, non lo fa in un’abitazione costruita dagli uomini, come ha fatto nel Tabernacolo nel Sinai o nel tempio a Gerusalemme. Lo fa proprio in un uomo, un figlio di Abraamo e di Davide. Un figlio del popolo di Israele. Se questo è ciò che il Nuovo Testamento sostiene fin dal suo primo versetto, significa che Dio può abitare in una persona? In un figlio di Israele discendente di Abraamo e di Davide?
  La risposta è sì, ma non è una novità del Nuovo Testamento. Infatti, questa risposta la si trova già in una profezia dell’Antico Testamento (Isaia 7:14), che il vangelo di Matteo riporta, perché si è adempiuta nel parto di una donna vergine. La nascita di Gesù avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi” (Matteo 1:22,23).
  Secondo questa profezia, il nome del figlio che sarebbe nato dalla vergine sarebbe stato Emmanuele, che significa “Dio è con noi”. Uno potrebbe chiedersi perché, nel vangelo di Matteo, l’angelo del Signore abbia detto a Giuseppe di chiamare questo figlio Gesù e non Emmanuele, come dice la profezia di Isaia. A questo riguardo, si fa notare che nella Bibbia un nome non è attribuito semplicemente per chiamare qualcosa o qualcuno, come un’etichetta. Un nome esprime una realtà, uno stato delle cose. Il nome Gesù in ebraico è יֵשׁוּעַ (yeshua), che significa “il Signore salva”. Infatti, dice l’angelo, sarà lui che salverà il suo popolo dai loro peccati. E questo è lo stato delle cose espresso dal nome Gesù.
  Lo stesso si può dire del nome Emmanuele. L’adempimento della profezia di Isaia non sta nel fatto che quel figlio, nato da una vergine, si chiami o meno Emmanuele. Sta nel fatto che proprio in quel figlio si è realizzato il significato di quel nome: “Dio è con noi”.
  Anche in questo caso, si vede come il Nuovo Testamento riprende la storia di Israele del Tanach e ne racconta lo sviluppo, la continuazione, con la nascita di Gesù Cristo. Il desiderio dichiarato di Dio nell’Antico Testamento, dall’inizio alla fine, era quello di dimorare in mezzo al Suo popolo. Gesù nasce per volontà dello Spirito Santo, quindi di Dio stesso, proprio per soddisfare quel desiderio di Dio: dimorare con i Suoi. Questa volta non lo fa in un’abitazione fatta da uomini, ma nella carne e nelle ossa di un uomo.


5 - La riabilitazione di Israele profetizzata nelle parole del profeta Geremia è cominciata a realizzarsi con la venuta del Messia Gesù.

L’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica, è quello delle Cronache, un libro che comincia con una lunga genealogia che parte da Adamo, continua con Abraamo e poi elenca i diversi discendenti del popolo di Israele, divisi per le dodici tribù, fino a quelli che si insediarono nuovamente a Gerusalemme dopo la deportazione in Babilonia. Dopo questa lunga genealogia, le Cronache raccontano il periodo della monarchia di Israele, che finì con la deportazione in Babilonia. La parte narrativa inizia dalla morte di re Saul e prosegue con il regno di Davide, che occupa gran parte della prima suddivisione del libro, quello che comunemente viene chiamato “primo libro delle Cronache”. In questo primo libro, un’attenzione particolare è dedicata ai preparativi del re Davide in vista della costruzione del tempio, con il censimento dei Leviti, la suddivisione dei cantori, l’istituzione dei portinai del tempio e altre iniziative, affinché tutto fosse pronto per quando il tempio sarebbe stato edificato.
  Il secondo libro delle Cronache inizia con il regno di Salomone, diventato re dopo la morte di suo padre Davide. Buona parte dei capitoli che raccontano il suo regno, è dedicata all’edificazione e alla consacrazione del tempio per mano del re Salomone. Dopo la sua morte, il regno viene diviso in due regni, quello di Israele a nord e quello di Giuda a sud. Dopodiché, la narrazione si concentra quasi esclusivamente sui re di Giuda che susseguirono a Salomone. In questi capitoli, l’attenzione è posta in particolare su ciò che questi re fecero nel tempio o per il tempio: restauri, profanazioni, purificazioni e altro. Anche nel secondo libro delle Cronache, il tempio, la casa dove l’Eterno dimorò in mezzo al Suo popolo, ha un ruolo centrale.
  Nell’ultimo capitolo delle Cronache, durante il regno dell’ultimo re di Giuda, Sedechia, avvenne ciò che il profeta Geremia aveva profetizzato che sarebbe accaduto se il re, i capi dei sacerdoti e il popolo non avessero abbandonato i propri peccati e non si fossero convertiti all’Eterno, Dio di Israele.

    I Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi. E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia (affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni (2 Cronache 36:19-21).

Il tempio di Salomone venne dunque distrutto dai Caldei. Ma il Tanach si conclude con due versetti dopo questi, cioè con l’adempimento della Parola del Signore per bocca di Geremia. Trascorsi i settant’anni da lui profetizzati, infatti, i figli di Israele poterono tornare nella loro terra, per ricostruire il tempio. Non è un caso, dunque, che il libro delle Cronache si concluda proprio con questa prospettiva: la ricostruzione della casa dell’Eterno come Sua dimora in mezzo al Suo popolo.
  Anche il Nuovo Testamento, come l’ultimo libro del Tanach, inizia con una genealogia, quella di Gesù Cristo, suddivisa in tre periodi storici con quattordici generazioni ciascuna: da Abraamo a Davide, da Davide alla deportazione in Babilonia e da quest’ultima a Gesù Cristo. Il tema con cui si conclude il Tanach, cioè il ristabilimento di Israele dopo l’esilio, sembra essere il tema che permea anche questa nuova genealogia, per anticipare il nuovo ristabilimento di Israele con Gesù Cristo. Questa volta non solo nella sua terra, ma con la sua storia.
  E come il ritorno da Babilonia ha comportato la ricostruzione della casa dell’Eterno, così Gesù Cristo, che nasce come figlio di Davide e figlio di Abraamo, diventa il figlio di Israele che incarna la dimora di Dio in mezzo al Suo popolo, secondo quella che era la Sua volontà fin dal Sinai: abitare in mezzo ai figli di Israele. In Gesù Cristo, però, ciò non è avvenuto in un’abitazione a mo’ di quelle degli uomini, ma è avvenuto in un uomo vero e proprio, in carne ed ossa.
  C’è ancora un altro aspetto che collega l’inizio del Nuovo Testamento con la fine del Tanach, ed è legato alle parole di Geremia riportate nel vangelo di Matteo. Alla fine del libro delle Cronache, questo profeta viene menzionato più di una volta, per mostrare che si era adempiuta la Parola del Signore detta per bocca di Geremia: sia quando Israele fu esiliato in Babilonia per settant’anni, sia quando Israele tornò nella sua terra dopo i settant’anni di esilio (vedi Geremia 29:10).
  Nei primi due capitoli del vangelo di Matteo, proprio all’inizio del Nuovo Testamento, per ben cinque volte al lettore è ripetuto che quei fatti avvennero per adempiere ciò che dissero i profeti dell’Antico Testamento. Per esempio: “affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta (1:22, 2:15) – o dei profeti (2:23)”; oppure: “poiché così è scritto per mezzo del profeta (2:5)”. Ma solo in un caso, il profeta viene chiamato per nome. “Allora si adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia” (2:17).
  L’espressione “per bocca di Geremia” si trova in questo versetto del secondo capitolo del Nuovo Testamento e due volte negli ultimi tre versetti del Tanach (2 Cronache 36:21-23). Questa ripetizione crea un ponte tra la continuazione della storia di Israele nel vangelo di Matteo e la storia di Israele passata, vista attraverso gli occhi del profeta Geremia. L’evento che collega la storia passata di Israele, la profezia di Geremia e la storia del vangelo, è un triste evento accaduto qualche tempo dopo la nascita di Gesù. Il re Erode, essendo stato informato che a Betlemme era nato il Messia, per paura che questi diventasse re al suo posto, fece uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e nel suo territorio, dall’età di due anni in giù. Questo evento tragico riporta il lettore a ciò che accadde ai primordi del popolo di Israele, quando il faraone d’Egitto decise di far annegare nel Nilo ogni figlio maschio che sarebbe nato tra i figli di Israele.
  La parola profetica, che cronologicamente si inserisce tra questi due eventi storici in parallelo e che viene adempiuta dalla strage di Betlemme ordinata da Erode dopo la nascita di Gesù, è ciò che fu detto per bocca del profeta Geremia:

    “Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più” (Matteo 2:18).

In che modo ciò che successe in quei tragici giorni a Betlemme adempì quello che fu detto per bocca di Geremia alcuni secoli prima? E perché viene tirata in ballo Rachele, che piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata?
  Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto considerare il contesto del capitolo 31 di Geremia da cui è preso il versetto qui citato dal vangelo di Matteo (Geremia 31:15). Il tema ricorrente nel capitolo 31 di Geremia, è la ricostruzione del popolo di Israele a seguito della sua devastazione, la gioia che essi provarono dopo il lutto, il popolo viene riunificato in un unico luogo dopo essere stato deportato fino alle estremità della terra. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno dice:

    Avverrà che, come ho vegliato su di loro per sradicare e per demolire, per abbattere, per distruggere e per nuocere, così veglierò su di loro per costruire e per piantare” (Geremia 31:28).

Geremia 31 parla dunque di una nuova fase storica del popolo di Israele: la riabilitazione di Israele dopo la sua demolizione. In questa nuova fase, l’Eterno promette un nuovo patto con la casa di Israele e con la casa di Giuda. Un patto che non sarà come quello stabilito all’uscita dall’Egitto e che essi violarono. Questo nuovo patto prevede che l’Eterno metterà la Sua legge nel loro intimo e la scriverà sul loro cuore. Egli sarà il loro Dio ed essi saranno il Suo popolo (31:31-33). In questa nuova fase, si raggiungerà un grado di avvicinamento tra Dio e il suo popolo che non ha pari nella storia di Israele.
  Ecco il motivo per cui il vangelo di Matteo riporta ciò che fu detto per bocca di Geremia: per affermare che quella fase di riabilitazione è iniziata con la nascita di Gesù Cristo. Come il popolo di Israele, impersonificato dalla figura di Rachele, pianse la deportazione dei suoi figli ai tempi di Geremia, a seguito della conquista operata dai Caldei, così piansero anche le madri di Betlemme e dintorni quando il re Erode fece uccidere i loro figli maschi al di sotto dei due anni. 
  Ma l’adempimento delle parole di Geremia non sta solo nella ripetizione di questo tragico evento storico. Sta soprattutto nel fatto che la riabilitazione di Israele, profetizzata in Geremia 31, è in atto con la nascita di Gesù Cristo. L’Eterno ricostruirà il popolo dopo la devastazione, ci sarà gioia dopo il pianto, Israele sarà riunificato in un unico luogo e non più disperso.
  Ma la domanda che riguarda Rachele non ha ancora una risposta: perché proprio lei viene menzionata, e non un’altra donna della storia di Israele? E qual è il legame tra il pianto di Rachele e quello delle madri di Betlemme? Cercheremo una risposta in una prossima occasione.


6 - Nella figura di Rachele, e precisamente negli ultimi momenti della sua vita, si trova una chiave di lettura per intendere momenti fondamentali della storia di Israele, fino alla venuta del Messia Gesù.

La figura di Rachele nella Scrittura è quella di una madre molto particolare. Non tanto per essere stata una delle mogli di Giacobbe a cui, nonostante fosse sterile, Dio diede miracolosamente due figli, Giuseppe e Beniamino. La particolarità di Rachele nella Scrittura sta nel racconto della sua morte, di come e dove morì. È la morte di Rachele, dunque, a fare di questa donna una madre unica nel suo genere.
   Rachele morì partorendo un figlio, Beniamino, l’ultimo tra i figli di Giacobbe. La morte di questa madre avvenne per dare alla luce un figlio, un tremendo e dolorosissimo atto d’amore. Inoltre, il libro della Genesi dice che Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre Giacobbe, con tutta la sua famiglia, stava tornando da Paddam-Aram nella sua terra di origine, per rivedere suo padre Isacco.

    C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”. E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino. Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme (Genesi 35:16-19).

Molti anni dopo, poco prima di morire, Giacobbe ricordò con queste parole quegli ultimi momenti tristi vissuti insieme alla sua amata Rachele.

    Quando tornavo da Paddan, Rachele morì, nel paese di Canaan, durante il viaggio, a qualche distanza da Efrata; e la seppellii lì, sulla via di Efrata, che è Betlemme. (Genesi 48:7).

Rachele dunque morì durante il viaggio, di ritorno nella terra di Canaan. Fu l’unica, tra le mogli dei patriarchi di Israele, a non essere mai vissuta nella terra che Dio aveva promesso loro. Lì lei fu solo di passaggio.
   Dopo essere stata ricordata da suo marito in punto di morte, Rachele viene menzionata altre tre volte in tutta la Bibbia. Quattro, se si considera un riferimento alla “tomba di Rachele” nella vita di Saul, prima che diventasse re di Israele (1 Samuele 10:2). A testimoniare che, anche dopo molti secoli, la tomba di Rachele esisteva ancora e il luogo della sua morte è rimasto un punto di riferimento per coloro che si trovavano nel territorio della tribù di Beniamino.
   Dopo la morte di Giacobbe, si diceva, Rachele è menzionata una volta alla fine del libro di Rut, quando Boaz decise di acquistare tutto ciò che apparteneva alla famiglia di Naomi e di sposare Rut, vedova di Malon.

    Tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme! (Rut 4:11).

Queste parole del popolo furono profetiche, in un certo senso, poiché da lì a poco Rut partorì a Boaz un figlio, Obed, che poi divenne il nonno di re Davide. È importante notare che nelle parole del popolo, il nome di Rachele è associato alla città di Betlemme, da cui la famiglia di Naomi proveniva.
   La volta successiva in cui si trova il nome di Rachele, e anche ultima per quanto riguarda l’Antico Testamento, è nel libro di Geremia. Qui è l’Eterno stesso a nominarla, per descrivere la sofferenza di Israele nel vedere i propri figli deportati a Babilonia ad opera dei Caldei, quando questi conquistarono il regno di Giuda.

    Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più” (Geremia 31:15).

Ma è l’Eterno che risponde a se stesso e dà speranza a Israele, chiedendogli di non piangere più, perché quei figli che le madri stanno piangendo torneranno dal paese nemico.

    Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico; e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini (Geremia 31:16,17).

L’unica volta in cui Rachele è menzionata nel Nuovo Testamento, è nel vangelo di Matteo, il quale afferma che sì adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia quando il re Erode ordinò di uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e dintorni – eh sì, ancora Betlemme – per uccidere anche Gesù, il quale era stato indicato come il Messia dai magi giunti dall’Oriente.

    Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più (Matteo 2:18).

Mettendo in ordine questi brani biblici accomunati dalla figura di Rachele, troviamo prima la sua morte sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre partoriva Beniamino. Il secondo brano è nel libro di Rut, quando il popolo la benedice affinché diventi una madre di Israele come lo fu Rachele. Il terzo brano è in Geremia, quando è l’Eterno a paragonare il pianto di Israele per i suoi figli con quello di Rachele. Allo stesso tempo, promette che quei figli di Israele torneranno. Pertanto, il pianto deve lasciare spazio alla speranza nella Parola di Dio. Il quarto brano è quello nel vangelo di Matteo. A seguito della nascita di Gesù, i bambini maschi di Betlemme vengono uccisi e il pianto di quelle madri viene paragonato al pianto di Rachele, che piange i suoi figli.
   Oltre alla figura di Rachele, che cos’è che hanno in comune questi quattro eventi della storia di Israele? Come detto in precedenza, è la morte di Rachele a rendere la figura di questa donna così particolare, perché è negli ultimi momenti della sua vita che si trova la chiave per leggere gli altri eventi della storia di Israele legati al suo nome. Compreso quello del Nuovo Testamento.
   La morte di Rachele è stata una porta per la vita di suo figlio Beniamino. Non una morte fine a se stessa, dunque. Ma un’espressione di amore smisurato della madre, che arrivò al punto di morire per dare la possibilità al figlio di vivere. E la città di Betlemme diventa il teatro di questo fatto tragico, il luogo in cui la morte e la vita si sono incontrate e si sono abbracciate per qualche istante.
   La morte ha lasciato spazio alla vita anche nella storia di Rut, nuora di Naomi, la cui famiglia era destinata a scomparire dalla storia di Israele e ad essere rimossa dalle genealogie future, in quanto tutti i componenti maschi della famiglia erano morti. Grazie al matrimonio tra Boaz e Rut, e al figlio Obed nato da questa unione, una famiglia di Israele che era defunta torna a vivere, la sua memoria improvvisamente riprende forma e spazio nella storia di Israele. E la città di Betlemme è di nuovo il luogo che ospita questa rinascita.
   Anche l’Eterno promette una certa rinascita alle madri di Israele piangenti, che vedevano i propri figli deportati a Babilonia. Se non una rinascita individuale di ogni singolo figlio deportato, certamente una rinascita di Israele inteso come popolo. Per bocca di Geremia, l’Eterno promette che la deportazione non sarà per sempre e i figli di Israele torneranno nella loro terra. La devastazione che era davanti a quegli occhi pieni di lacrime non era la fine di tutto. E il popolo era chiamato ad aggrapparsi a questa promessa dell’Eterno, che concede speranza ai disperati. Infatti, così avvenne. Dopo settant’anni di deportazione, Israele poté% tornare nella sua terra, come aveva promesso l’Eterno per bocca del profeta Geremia.
   Arriviamo così al brano del vangelo di Matteo, che evidentemente prolunga la retta che interpola gli eventi passati della storia di Israele, legati a Rachele e a Betlemme, e che passa anche per la nascita di Gesù Cristo, che avvenne proprio a Betlemme. Perché Israele dovrebbe smettere di piangere davanti a una tragedia come quella delle madri di Betlemme, che persero i loro figli per ordine di re Erode? In cosa consiste la speranza che offre la Scrittura in apertura del Nuovo Testamento?
   La speranza è proprio in Gesù, in questo figlio di Israele che è nato, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati, come disse l’angelo del Signore a Giuseppe. Questo figlio è come Beniamino, il figlio che Rachele partorì. Il quale prima era stato chiamato dalla madre morente Ben-Oni – ossia figlio della mia sofferenza; ma suo padre Giacobbe gli cambiò il nome e lo chiamò Ben-Iamin – ossia figlio della destra.
   La speranza di Israele risiede in questo figlio Gesù, il quale prese su di sé i peccati del popolo attraverso la sua sofferenza e morte - Ben-Oni. Ma poi fu risorto e salì alla destra del Padre - Ben-Iamin, dove siede tuttora, per dare speranza ai disperati, lui che dovette accettare di morire in croce, e per far rivivere i morti, lui che fu risuscitato. Ed è proprio in questo figlio Gesù, nel quale la morte ha lasciato spazio alla vita, che è conservata la speranza di Israele.

(Notizie su Israele, apr-mag 2024)

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