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Ultra ortodossi Neturei Karta

di Giulio Busi

«Quello che noi vogliamo non è un ritorno ai confini del '67, ma che tutto il paese sia restituito ai palestinesi».
    È difficile immaginare un programma politico più chiaro e più estremo di questo: nessuna mediazione, nessuna mano tesa, nessun tentennamento. Tanto meno una spartizione della terra tra i due contendenti. Semplicemente, l'orologio della Storia deve tornare indietro di un secolo almeno, con le lancette là dove si trovavano all'inizio del Novecento, quando il sionismo era solo un'utopia irrealizzabile e la Palestina ancora saldamente in mano ai suoi abitanti arabi.
  

    Se vi siete chiesti quale gruppo fondamentalista islamico abbia espresso recentemente una posizione così intransigente, siete sulla strada sbagliata. La frase in apertura è stata pronunciata da un rappresentate ufficiale dei Neturei Karta, i falchi dell'antisionismo religioso militante ebraico. La restituzione incondizionata di tutto Israele ai palestinesi e l'abolizione immediata dell'«entità sionista» è del resto l'obiettivo dichiarato di questo movimento.
    Non va dimenticato che la ruggine tra l'ambiente tradizionalista e i sionisti è vecchia quanto il sionismo stesso, anche se si è espressa nel corso dei decenni con voci, motivazioni e accenti diversi. All'inizio, gli scettici e gli avversari erano sicuramente in maggioranza. Poi, dopo la fondazione dello Stato di Israele, la rivoluzione sionista si è consolidata, è divenuta realtà storica concreta, ha mostrato punti di forza e limiti, tanto che si può oggi parlare, anche in Israele, di un post-sionismo in cerca di un propria identità futura.
    Un manipolo di ultra-ortodossi, attivo, vociante, colorato, continua però una lotta intransigente, fatta di proclami, manifestazioni di protesta, disobbedienza civile, interventi eclatanti. Le immagini di un gruppo di rabbini, vestiti nelle tradizionali fogge del l'Europa orientale, che s'intrattenevano con Ahmadinejad per discutere della fine del l'usurpazione israeliana in Palestina ha fatto, qualche anno fa, il giro del mondo.
    Ma al di là del folklore, le vere motivazioni religiose e la consistenza stessa di questo gruppo rimangono quasi sconosciute. Innanzitutto, quanti sono? Poche dozzine di fanatici, come affermano di solito le fonti israeliane, o centinaia di migliaia, secondo le stime più generose? Una valutazione prudente parla di circa quattrocento famiglie in Israele, concentrate nel quartiere ortodosso di Meah Shearim a Gerusalemme, e di altre centinaia, tra Londra, Brooklyn e il Canada.
Neturei Karta significa, nell'aramaico del Talmud, «i guardiani della città». Le loro origini risalgono ai primi del Novecento, quando una parte dei vecchi abitanti ebrei di Gerusalemme cominciò a organizzarsi per fronteggiare la minaccia dei nuovi immigrati sionisti, politicizzati e poco o nulla osservanti delle norme religiose. Guardiani dell'ortodossia, insomma, ma anche difensori del Messia.
    Ed è appunto il messianesimo a dividere irrimediabilmente i Neturei Karta dal sionismo. L'esilio è stato decretato da Dio come conseguenza dei peccati del popolo ebraico, e solo un intervento divino può mettere fine alla diaspora. Pensare di riconquistare la Terra Santa con mezzi umani, attraverso un'attività politica e senza attendere l'età messianica è atto blasfemo. «Il sionismo è Satana, l'angelo della morte», contro cui si deve lottare senza compromessi.
    Per dimostrare il rifiuto di quella che, nei loro proclami, definiscono l'«entità sionista», i Neturei Karta non si recano a pregare al Muro del Pianto, conquistato dagli israeliani nel 1967, o hanno addirittura lasciato Israele per ritornare a vivere nella diaspora. Coloro che sono rimasti a Meah Shearim, si rifiutano categoricamente tanto di pagare la tasse quanto di prestare servizio militare, e non accettano in alcun modo contributi pubblici. Mentre molti gruppi religiosi si sono via via avvicinati al sionismo, ne hanno preso atto o addirittura lo hanno reinterpretato in chiave tradizionalista, questo manipolo di duri e puri continua tenacemente ad aspettare la fine dell'avventura satanica: la capitolazione di Gerusalemme e di Tel Aviv e il ritorno del potere politico in mano ai palestinesi.
    Proprio la simpatia, e anzi il sostegno attivo offerto agli arabi è l'aspetto più controverso del movimento. Il rabbino Moshe Hirsch, leader della frangia oltranzista dei Neturei Karta, morto nel maggio 2010 a 86 anni, fu per esempio legato da amicizia a Yasser Arafat, e ricoprì la carica di ministro per gli affari ebraici nel governo dell'Autorità palestinese. «Il nemico del mio nemico è il mio amico»: l'eterna, primitiva regola della politica si tinge in questo caso di motivazioni teologiche. Inutile dire che la situazione è paradossale, poiché un gruppo ebraico iper-osservante si trova in questo modo a sostenere un governo arabo laico contro gli interessi di uno Stato voluto e gestito in nome del giudaismo. Per i molti oppositori, simili alleanze, e le profferte filo-palestinesi (o le aperture all'Iran) non sono altro che un modo teatrale di guadagnare l'attenzione dei mass-media, la messa in scena di un pugno di esagitati, chiusi nella nostalgia del passato. Secondo i documenti diffusi dai Neturei Karta stessi, raccolti e tradotti (con molta, forse troppa simpatia) da Furio Biagini in un recente volume, stare dalla parte degli arabi palestinesi sarebbe invece il modo migliore per dimostrare al mondo che la via del popolo ebraico è diversa da quella di ogni altra nazione, e passa attraverso il rifiuto del potere mondano per affidarsi alla sola provvidenza divina.

(Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2011)