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Il diritto di Israele di vivere nella terra dei suoi padri ha una dimensione religiosa

di Rinaldo Diprose

Testo dell'intervento alla presentazione del libro: "Questa Terra è la mia Terra", di Eli E. Hertz (Ed. EDIPI, The New Thing, Padova, 2011), il 22 settembre, 2011.

Se mia moglie Eunice ha accettato di tradurre questo libro e io ho accettato di scrivere una Prefazione per l'edizione italiana, è perché siamo convinti della sua importanza, non solo per il tema che tratta ma anche per la scelta dell'autore di fare ricorso alla documentazione ufficiale del caso, in particolare a quanto sancito dalla legge internazionale. Infatti sono i fatti stessi a dimostrare il diritto di Israele di esistere in un territorio che va dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.
    Commentando l'eventualità che l'ONU accogliesse la richiesta di Abu Mazen di riconoscere in modo unilaterale uno stato palestinese, ho scritto quanto segue: "Anche se l'avvallo dell'ONU non ha valore vincolante, quando esso diverge dalla legge internazionale questo dovrebbe preoccupare chi ha a cuore la stabilità delle nazioni e il futuro della giustizia. Per chi ritiene vincolante il patto che Dio fece con Abraamo, Isacco e Giacobbe (Salmo 105:7-11), la posta in gioco appare ben più alta" (Prefazione).
    Forse per deformazione professionale (mi occupo di teologia biblica), oggi desidero indirizzare la vostra attenzione alla sostanziale corrispondenza fra gli aspetti legali trattati da Eli Hertz e la visione profetica contenuta negli Scritti sacri d'Israele. L'affermazione del salmista (105:7-11) che definisce la Terra Promessa l'eredità perenne del popolo d'Israele, si basa su ben otto dichiarazioni contenute nel libro della Genesi. Ad esempio: "In quel giorno il SIGNORE fece un patto con Abramo, dicendo: «Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate »" (Genesi 15:18; cfr. 12:7; 13:15; 15:7; 17:8; 28:13, 15; 35:12). Inoltre la Genesi documenta il fatto che i patriarchi Abraamo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe fecero propria questa promessa (si veda Ge 24:7; 28:4; 48:4 e 50:24).
    Secondo la Torah, nel caso che Israele avesse trasgredito la legge e si fosse ostinato a continuare a camminare nella disubbidienza, il castigo avrebbe assunto la forma di allontanamento del popolo eletto dalla Terra e la sua conseguente dispersione fra le nazioni (Levitico 26:14-15, 23, 27). Per quanto concerne la Terra stessa, essa sarebbe rimasta desolata e avrebbe goduto i suoi sabati (vv. 31-35). Però a motivo della promessa fatta ad Abraamo, Isacco e Giacobbe, Dio avrebbe ricondotto gli esuli nella Terra con un'azione paragonabile all'Esodo dei tempi di Mosè. Ecco le parole della Torah: "per amor loro mi ricorderò del patto stretto con i loro antenati, che feci uscire dal paese d'Egitto, sotto gli occhi delle nazioni, io sono il SIGNORE" (Levitico 26:40-45; cfr. Geremia 23:7-8).
    La prospettiva profetica relativa al ritorno alla Terra riguardava sia il periodo che seguì l'esilio babilonese sia i tempi che il profeta Osea definisce "gli ultimi giorni" (Osea 3:4-5). Il breve libro di Gioele, nel parlare del presente e del futuro d'Israele, parla anche delle altre nazioni. Innanzitutto insegna che Dio avrebbe giudicato le nazioni colpevoli di aver devastato il paese d'Israele. Insegna pure che Egli avrebbe manifestato la sua potenza nel benedire nuovamente il paese. Segue l'annuncio che avrebbe sparso il suo Spirito su ogni carne con segni e prodigi, una circostanza che i profeti Geremia, Isaia ed Ezechiele mettono in relazione con i tempi del nuovo patto (Geremia 31:31-37; 32:40; Isaia 32:14-20; Ezechiele 16:60-62; 37:26-28).
    Se noi dell'EDIPI e dell'Istituto Biblico Evangelico Italiano sosteniamo Israele è perché crediamo che il Dio d'Israele è il vero Dio e che le sue promesse sono veraci. Inoltre è perché siamo diventati beneficiari della promessa di perdono, propria del nuovo patto (Geremia 31:34; Vangelo di Luca 24:47), e dell'opera dello Spirito di Dio di cui parla il profeta Gioele (Atti degli Apostoli capp. 10_11, 15). Confessiamo volentieri che "la salvezza viene dai Giudei" (cfr. Vangelo di Giovanni 4:22).
    Ma Gioele prevede anche un "grande e terribile giorno del SIGNORE". Parlando delle nazioni in relazione a questo giorno il profeta afferma, da parte dell'Eterno: "Là [nella valle di Giosafat] le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni e del mio paese, che hanno spartito fra di loro" (Gioele 2:28_3:2). Il profeta Ezechiele ribadisce: "Così parla Dio, Adonai: Quando avrò raccolto la casa d'Israele in mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro davanti alle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese, che io ho dato al mio servo Giacobbe…" (Ezechiele 28:28).
    Nel suo intervento ieri all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Presidente Obama ha giudicato inopportuno un riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese, prima che Israele e i palestinesi raggiungano una pace fra di loro, con colloqui bilaterali. Non era un caso che, mentre Obama parlava in questi termini, un membro della delegazione palestinese seduto vicino a Abu Mazen scuoteva la testa in segno di disapprovazione. Tale gesto ricorda una frase detta dallo stesso leader di Al Fatah in un'intervista concessagli qualche mese fa dalla BBC. Ha detto che è tempo ormai che finisca l'occupazione della Palestina da parte di Israele, occupazione che va avanti da oltre sessant'anni! Ovvero dal 14 maggio 1948, data in cui Israele entrò in pieno possesso del territorio che l'ONU aveva assegnato a Israele il 29 novembre, 1947.
    Ma perché i leader arabo palestinesi ritengono che il territorio che l'ONU aveva destinato a Israele appartenga a loro e non a Israele e quindi non vedono necessari i colloqui bilaterali fra i due popoli? Credo che la risposta a questa domanda costituisca il principale ostacolo al raggiungimento della pace auspicata da Obama. Secondo l'insegnamento dell'Islam un territorio una volta occupato in qualche modo da musulmani non può mai più passare in mano di non musulmani. Questo principio viene applicato alla terra d'Israele (per un certo tempo governato dall'impero ottomano e calpestato da musulmani), nonostante Sura 5 e Sura 17 del Corano affermino che Allah diede la Terra Promessa ai figli d'Israele come eredità eterna. Inoltre secondo il Corano la religione musulmana avrebbe sostituito le due religioni monoteiste che l'avevano preceduto per cui queste non avrebbero più motivo di esistere.
    Quest'appello alla religione ricorda che anche il diritto di Israele di vivere nella terra dei suoi padri ha una dimensione religiosa. Parlando all'ONU nel 1985 nella veste di ambasciatore d'Israele, l'attuale primo ministro Benjamin Netanyahu definì il Sionismo "l'adempimento di antiche profezie," riconoscendo come fondamentale la visione profetica della storia. A chi pensa che la visione profetica non c'entri con le questioni attuali legate al conflitto israeliano-palestinese, ricordo che Hamas e l'Iran, ancora più sfacciatamente di Abu Mazen, affermano che il loro obiettivo di cancellare "Israele" dalla mappa del mondo ha motivazioni religiose (si veda lo Statuto di Hamas, art. 13; cfr. le dichiarazioni in materia di Mahmoud Ahmadinejad).
    Sapere che la vera posta in gioco è l'onore di Dio e che Egli ha fatto delle promesse precise, dovrebbe dare speranza alla parte israeliana. Intanto, stando le cose così, nel caso che ci saranno ancora dei colloqui bilaterali, appare opportuno che i rappresentanti israeliani non trascurino la visione profetica conservata negli Scritti sacri d'Israele.
    
(Notizie su Israele, 25 settembre 2011)