Approfondimenti
Il salmista ignoto
di Marcello Cicchese
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Il salmo 119 è il più lungo e il più strano di tutti i salmi. È unico. Chi per la prima volta avesse la pazienza di leggerlo di continuo tutto, dall'inizio alla fine, potrebbe forse arrivare alla conclusione che si tratta di un abile virtuosismo letterario. L'autore - così sembra - prende sette termini di significato affine (parola, legge, comandamenti, precetti, statuti, giudizi, testimonianze), le collega tra loro in un insieme di frasi abilmente intrecciate e di significato simile, ottenendo alla fine una composizione di un certo interesse letterario, ma apparentemente povera di contenuto.
La formalità dell'opera potrebbe essere sottolineata da come si presenta il testo: ventidue strofe corrispondenti alle ventidue lettere dell'alfabeto ebraico, in cui ogni versetto comincia con la lettera della strofa in cui si trova. Un'indubbia abilità letteraria. Quanto al contenuto, l'incredulo potrebbe concludere che si dicono sempre le stesse cose, e che il testo non ha né capo né coda, e che continuando con quello stile si potrebbe andare avanti all'infinito. A quest'ultima osservazione si potrebbe rispondere subito facendo osservare che l'opera non può essere allungata per il semplice fatto che non ci sono altre lettere ebraiche da usare per aggiungere altre strofe. Ventidue sono le lettere ebraiche e ventidue devono rimanere le strofe. Non manca alcuna lettera all'abbecedario di Dio. L'apparente virtuosismo del salmo potrebbe farne venire in mente un altro a cui si potrebbe accostare, non letterario ma musicale: L'Arte della fuga di Johann Sebastian Bach. Qualcuno che avesse la pazienza di ascoltare per intero, di continuo, per quasi un'ora e mezza, questo
capolavoro di Bach al pianoforte, potrebbe forse concludere che secondo lui è sempre la stessa musica, più volte ripetuta e con poche variazioni. In realtà le cose non stanno così: le variazioni che si susseguono sono come fini ricami artisticamente pensati e magistralmente disposti in un ordito musicale fortemente strutturato. In quella partitura, scritta negli ultimi anni della sua vita, Bach ha messo in rilievo la ricchezza della struttura musicale che sta alla base del contrappunto, e anche, secondo studiosi del grande musicista, ha voluto esprimere quello che sta alla base del suo personale modo di intendere e vivere la musica: in altre parole Bach ha espresso se stesso come musico. Qualcosa del genere si potrebbe dire del virtuosista del salmo 119. Quanto alla reazione che questo salmo può provocare in un credente, si può dire che può mettere in imbarazzo sia ebrei sia cristiani. Il salmo è ebreo che più ebreo non si può. E' formalmente intraducibile, perché come si potrebbe rendere in altra lingua il "virtuosismo letterario" dell'acrostico? Considerato il valore che in ambito ebraico si attribuisce al testo scritto, e in particolare ad ogni singola lettera, è inevitabile che ogni traduzione in altra lingua sia destinata a far perdere per strada pezzi di significato che il testo potrebbe contenere. Quanto al tema, non potrebbe essere più ebraico: la Torà, presentata in una molteplicità di formulazioni variamente intrecciate. D'altra parte, questo testo così tanto ebreo è privo di essenziali riferimenti alla storia del popolo ebraico: non vi si nomina mai Israele né alcun personaggio della sua storia; non si parla di tempio, né di tabernacolo sacerdoti sacrifici. Si parla ripetutamente di precetti, ma non si dice mai in quale modo concreto si potrebbe metterli in pratica. Non dico tutti, ma almeno uno, almeno il sacro Shabbat, che tanta discussione ha provocato e provoca ancora tra gli ebrei. E invece niente: il Sabato non è neppure nominato. L'imbarazzo dei cristiani invece è diverso. Abituati a non tenere in gran conto "la legge fatta di comandamenti in forma di precetti" (Efesini 2:15), che l'apostolo Paolo presenta come un "muro di separazione" che Gesù ha abolito nel suo corpo (Efesini 2:14), i cristiani possono rimanere perplessi davanti ad un'esaltazione così appassionata della legge ebraica. Come considerare questo salmo? Come inserirlo nella presentazione del piano di salvezza di Dio? Se i riferimenti alla legge presenti nel testo sono da intendere come un generico invito a tenere in gran conto la parola di Dio nel suo significato più ampio, dove si troverà un fedele cristiano che in tutta onestà potrebbe ripetere in preghiera le ardite espressioni con cui il salmista si rivolge a Dio:
io ho osservato le tue testimonianze (22), io osserverò sempre la tua legge (44), io non devìo dalla tua legge (51), io non ho dimenticato la tua legge (61), io osservo i tuoi precetti con tutto il cuore (69), io non ho abbandonato i tuoi precetti (87), ho giurato e lo manterrò di osservare i tuoi giusti giudizi (106), io non mi sono sviato dai tuoi precetti (110), io osserverò i comandamenti del mio Dio (115), io ho fatto ciò che è retto e giusto (121), io non dimentico i tuoi precetti (141), osserverò i tuoi statuti (145), osserverò le tue testimonianze (146), non ho dimenticato la tua legge (153), non devìo dalle tue testimonianze (157), ho messo in pratica i tuoi comandamenti (166), ho osservato i tuoi precetti e le tue testimonianze (167), ho scelto i tuoi precetti (173), non dimentico i tuoi comandamenti (176).
Ma chi è costui? vien voglia di dire. Ed è proprio questa la domanda che potrebbe mettere in imbarazzo sia ebrei sia cristiani. Comincio allora col raccontare il mio imbarazzo di cristiano. Fin da giovane ho capito che la Bibbia o si capisce con tutto se stesso o non si capisce. Nel mio tragitto di fede abbastanza presto mi sono sentito attratto dal salmo 119, e forse proprio per riuscire a spiegarmi il motivo di questa attrazione ho cominciato a studiarlo più a fondo. In seguito ho esposto i risultati del mio studio in due "campi" evangelici estivi a cui sono stato invitato come oratore. Per chi fosse interessato, ne metto qui a disposizione gli appunti. Come risulta anche da questi appunti, la chiave di lettura del salmo, considerato come parte della letteratura sapienziale, è esortativa: il credente è invitato a prendere esempio dal salmista, a osservare la realtà con i suoi occhi e a rapportarsi a Dio con le sue parole. A conferma del fatto che la Bibbia o si capisce con tutto se stesso o non si capisce, è a partire da fatti di vita personale che ho cominciato a vedere il salmo sotto una nuova luce. Nello sciagurato periodo degli arresti domiciliari improvvidamente imposti ai cittadini dalle nostre autorità durante il covid, nel nostro quotidiano culto familiare avevamo deciso di leggere le ventidue strofe del salmo 119, una al giorno. E così abbiamo fatto. Finito il covid, per qualche imprecisato motivo dopo qualche tempo abbiamo ripreso la lettura giornaliera di questo salmo, strofa per strofa. Ai miei familiari avevo fatto una breve introduzione di questo tipo: questo è un salmo che non ha particolari riferimenti storici o cultuali a Israele, né si rivolge a Dio con espressioni per noi irripetibili come nei salmi imprecatori, quindi le sue parole possono aiutarci a formulare le nostre preghiere e lodi a Dio nel timoroso rispetto della sua parola. Ma è proprio il sincero desiderio di usare in preghiera le parole di questo salmo che alla fine mi ha costretto a chiedermi: ma chi è che può pregare il Signore in questo modo? L'interesse per il salmo allora ha cambiato forma: dal devozionale è passato allo storico. L'attenzione è andata oltre l'aspetto devoto delle parole usate dal salmista per concentrarsi sulla persona di chi le pronuncia. Ed è arrivata la domanda: chi è l'autore? Le congetture in letteratura non mancano. Nelle 340 pagine dedicate al salmo 119 nel suo commentario "The Treasury of David", Charles H. Spurgeon non ha dubbi: l'autore è senz'altro Davide. E sottolinea la sua convinzione con una frase ad effetto: "Non possiamo lasciare questo salmo in mano al nemico: è bottino di Davide". Altri invece ipotizzano che l'autore sia Ezechiele, o Esdra, o un anonimo ebreo postesilico. Lo spazio temporale delle congetture quindi è molto ampio, e anche per questo forse è meglio rinunciare a fare ipotesi e tenere presente che nella Bibbia anche i silenzi parlano. Non si tratta dunque di soddisfare una curiosità, ma di riflettere sulla posizione che questa persona occupa nel suo rapporto con Dio e col suo popolo. Per semplicità narrativa, nel seguito a questo autore ignoto daremo un nome fittizio: Ariel. Diremo allora che Ariel è senz'altro un pio israelita, ma certamente non è uno qualsiasi. I suoi pensieri non sono diretti soltanto al Dio che è nei cieli, ma anche agli uomini che si muovono intorno a lui sulla terra. Ariel medita sugli statuti di Dio, ma è spinto a farlo in modo particolare quando si trova in difficoltà in mezzo agli uomini. Ariel ha dei nemici, e non sono nemici qualsiasi:
Anche quando i principi si siedono e parlano contro di me,
il tuo servo medita i tuoi statuti (23).
Ariel dunque non è uno sconosciuto ai potenti della terra: i principi sanno chi è, e su di lui non fanno soltanto pettegolezzi, ma siedono e parlano contro di lui; il che significa che lo prendono in considerazione e nella sede adatta, là dove siedono le persone autorevoli, parlano (cioè prendono decisioni) contro di lui. E che fa Ariel come reazione? lui medita. E che cosa medita? gli statuti di Dio. Indubbiamente strana, come reazione. Per meditare gli statuti di Dio - potrebbe dire un credente ebreo o cristiano - c'è sempre tempo, ma in una situazione dove si fanno strada menzogna e ingiustizia bisogna pur prendersi la responsabilità di dire o fare qualcosa. Sarà anche così, ma per Ariel la prima cosa da fare non è reagire a quello che gli uomini fanno, ma riflettere su quello che Dio ha detto. Anche in altre simili circostanze Ariel persevera nello stsso atteggiamento: ad ogni frecciata che gli arriva in orizzontale dagli uomini, lui risponde alzando gli occhi in verticale verso Dio.
I principi mi hanno perseguitato senza ragione, ma il mio cuore ha timore delle tue parole (161).
I nemici parlano contro di lui e mentono spudoratamente:
I superbi hanno ordito menzogne contro di me,
ma io osservo i tuoi precetti con tutto il cuore (69).
Siano confusi i superbi, perché, mentendo, pervertono la mia causa; ma io medito i tuoi precetti (78).
I nemici deridono. Probabilmente gli dicono: ma non ti accorgi di quanto sei ridicolo? Quand'è che abbandonerai la tua maniaca puntigliosa osservanza della legge? Ma Ariel non demorde:
I superbi mi coprono di scherno,
ma io non devìo dalla tua legge (51).
I nemici allora cercano di colpirlo per vie traverse:
I superbi mi hanno scavato delle fosse; essi, che non agiscono secondo la tua legge (85).
Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono sviato dai tuoi precetti (110).
I lacci degli empi mi hanno avvinghiato, ma io non ho dimenticato la tua legge (61)
Gli empi sono disturbati dal fatto che Ariel non si comporta come loro. Quando non si scontrano apertamente con lui, gli tendono trappole, tentano di "avvinghiarlo", cioè di spingerlo in una situazione in cui di lui si potrebbe dire che è un trasgressore della legge come tutti, come loro. Ariel rivolge gli occhi al cielo e rassicura il Signore:"ma io non ho dimenticato la tua legge", io non mi sono sviato dai tuoi precetti". Gli empi però non scherzano, anche loro sono tenaci: aspettano l'occasione buona per farla finita con quel molesto implicito accusatore dei loro costumi:
Gli empi mi hanno aspettato per farmi perire, ma io considero le tue testimonianze (95). Mi hanno fatto quasi sparire dalla terra; ma io non ho abbandonato i tuoi precetti. (87).
Non è un bel vivere, quello di Ariel: sapere che qualcuno s'interessa a te, ti conosce, ti studia, cercando il momento adatto per colpirti a morte non è piacevole. Ma lui reagisce considerando le testimonianze di Dio, che vanno intese come formule di garanzia della Sua giustizia, potenza e fedeltà. Da queste testimonianze Ariel si sente protetto, perché da esse si ricava la certezza che le questioni di giustizia sono stabilmente assicurate fin dall'origine. Sono assicurate? ma chi l'ha detto? l'ha detto Dio. Ma è proprio vero? ci sono testimoni, Dio stesso è testimone: è testimone di Se stesso. Ecco perché Ariel dice: "ma io considero le tue testimonianze". E non solo le considera, ma le ama:
Ariel ama le testimonianze che rivelano quello che Dio farà agli empi che sono sulla terra. Gli empi dunque non sono da temere, e tanto meno da invidiare. Infatti:
La salvezza è lontana dagli empi, perché non cercano i tuoi statuti (155).
E quando i nemici si fanno avanti con malizia cercando di seminare dubbi in Ariel, lui sa come superarli in fatto di intelligence, e dice al Signore:
I tuoi comandamenti mi rendono più saggio dei miei nemici; perché sono sempre con me.
Ho maggiore comprensione di tutti i miei maestri, perché le tue testimonianze sono la mia meditazione (98-99).
Le testimonianze a cui Ariel si riferisce possono essere considerate "comandamenti con promessa". Se all'inizio del salmo dice: "Beati quelli che osservano le sue testimonianze" (2), è perché sa che nell'osservanza della volontà di Dio è contenuta una promessa di beatitudine. Ariel dunque può essere deriso, oppresso, ma non è depresso. Al contrario: è gioioso. Non perde tempo a soppesare le minacce e le derisioni dei nemici, ma da queste è invogliato a considerare con sempre maggiore impegno le testimonianze del suo Signore. E allora gioisce.
Gioisco seguendo le tue testimonianze, come se possedessi tutte le ricchezze (14).
Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, perché sono la gioia del mio cuore (111).
Sì, le tue testimonianze sono il mio diletto; esse sono i miei consiglieri (24).
Ariel dunque ha un rapporto con Dio di devota e totale sottomissione alla sua legge, e trova la forza di resistere alle angherie dei suoi nemici applicandosi sempre più convintamente e con gioia alla considerazione attenta e appassionata della parola di Dio in tutte le sue espressioni.
Non si pensi però che Ariel è uno di quelli che si rifugiano nell'intimo del privato per sfuggire alle brutture del pubblico. Vedremo in seguito che Ariel è capace di fare considerazioni non soltanto sulla legge di Dio, ma anche sugli uomini che si muovono intorno a lui. E anche con parole forti.
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L'ignoto autore del salmo 119, che per comodità abbiamo chiamato Ariel, nel suo scritto dà espressione a un insieme di considerazioni, riflessioni, interrogativi, timori, preghiere che gli provengono dal suo fermo proposito di continuare a vivere sulla terra in uno stretto rapporto di ubbidiente fede col suo Signore che è nel cielo. A un certo punto si rivolge a Dio e dice:
Sorprende che Ariel si consideri straniero sulla terra, perché tutto fa pensare che egli stia muovendosi su quella terra che è la patria dei comandamenti di Dio: Israele. Sono i suoi abitanti che gli pongono problemi:
E' una questione di vicinanza e lontananza. In un certo senso siamo vicini - pensa Ariel - perché apparteniamo alla stessa famiglia spirituale. Si avvicinano a me, ma restano lontani dalla legge di Dio. E questa è un'infamia, perché non si avvicinano per camminare insieme a me "secondo la legge dell'Eterno" (v.1), ma per trascinare anche me lontano da quella legge. Le difficoltà di Ariel coi suoi simili non sono di generica moralità, ma riguardano il valore che ha in sé la legge di Dio e il posto che occupa nella considerazione degli uomini. I superbi e gli empi che egli incontra nel suo percorso, e con cui si scontra, non sono valutati e giudicati per la gravità dei loro peccati, per ingiustizie e violenze che possano aver commesso, ma tutto si concentra nel rapporto che essi mantengono con il bene unico e prezioso della legge di Dio. Non solo non la osservano, ma più che questo la ignorano, la disprezzano, e deridono chi vuole attenersi ad essa con scrupolo e gratitudine verso il legislatore. Ariel, al primo posto tra quelli che vengono derisi, osserva, soffre e piange. Piange non per quello che gli fanno, ma per come viene trattata la legge di Dio:
Rivi di lacrime mi scendono dagli occhi, perché la tua legge non è osservata (136).
La gravità dell'inosservanza della legge sta nel fatto che essa è un bene prezioso negletto e calpestato proprio da coloro a cui Dio l'ha consegnato. Perché i nemici di Ariel non sono pagani ignoranti, ma esponenti autorevoli del popolo della legge. La loro azione dunque è un tradimento. E questo è orribile:
L'orrore esprime un sentimento di ripugnanza di fronte a un modo di agire innaturale, contro natura, contrario alla natura del popolo di Dio. All'orrore si aggiunge una furente indignazione. Sì, Ariel oltre a piangere può essere anche furioso:
Abbandonano, si badi bene. Abbandonare la moglie non è come non avere una moglie: lo stesso si può dire della legge di Dio. Non è dunque un sentimento di tenera compassione quello che prova Ariel verso quegli empi, perché essi hanno ricevuto la legge di Dio, ma l'hanno ignorata, calpestata e abbandonata. E nel tentativo di giustificare se stessi adesso si avvicinano con comportamenti ambigui, percorrendo tortuosi sentieri di menzogna. Di qui la sua forte azione di rigetto:
Io odio gli uomini dal cuore doppio, ma amo la tua legge (113);
Odio e detesto la menzogna, ma amo la tua legge (163).
Perciò ritengo giusti tutti i tuoi precetti, e odio ogni sentiero di menzogna (128).
Detestare i bugiardi e gli imbroglioni è cosa tutto sommato normale per ogni persona onesta, ma perché accostare ogni volta al vizio altrui la propria virtù? Eppure è così che agisce Ariel: a fronte di tortuosi comportamenti di uomini infedeli alla legge e menzogneri ribadisce ogni volta la sua integrale dirittura:
Io ho scelto la via della fedeltà, mi sono posto i tuoi giudizi davanti agli occhi (30);
ed è sicuro che i suoi avversari non potranno coglierlo in fallo:
Sorge allora una domanda: ma se Ariel vuol essere un pio israelita fedele alla legge di Dio in tutto, che motivo ha di continuare a confrontarsi con quelli che invece a quella legge non ci pensano proprio e deridono chi come lui lo vuole fare? Se quelli dimenticano le parole di Dio e abbandonano la legge, in fondo sono fatti loro, penserà qualcuno. Non sarà che Ariel è come quelli a cui Isaia rimprovera di dire agli altri: "Fatti in là, non ti accostare, perché io sono più santo di te" (Isaia 65:5)? L'obiezione è seria, perché proprio questa è la reazione, soprattutto fra i crdenti, che si avrebbe davanti a chi volesse sbandierare la sua fedeltà a Dio con parole simili a quelle di Ariel. Qualcosa dunque fa pensare che il centro del messaggio non può consistere in una spinta a imitare il salmista in tutto e per tutto. La chiave di lettura dev'essere un'altra. Un versetto può servire a metterci sulla strada:
Qualcosa di simile si trova in un altro salmo:
Lo zelo di Ariel lo consuma; quello di Davide lo divora. Lo zelo di Davide ha come oggetto la casa di Dio; quello di Ariel la legge di Dio. Tutti e due incontrano ostacoli e si scontrano con nemici interni al popolo. Davide è riconosciuto da tutti come servo dell'Eterno, con tutto quello che questa espressione significa; Ariel si rivolge a Dio presentandosi ripetutamente (ben 13 volte) come tuo servo.
Anche se l'espressione tuo servo è usata spesso come forma di cortesia anche in altre culture, in questo contesto il significato più adatto è quello letterale: il salmista si rivolge a Dio non come un qualsiasi pio israelita, ma come un servo dell'Eterno chiamato a svolgere un incarico che gli è stato affidato. Dovrà essere il testo stesso a far intuire qual è l'incarico, ma che di questo si tratti può essere avvalorato da due versetti:
Mantieni la parola data al tuo servo, che inculca il tuo timore (38);
Ricordati della parola detta al tuo servo; su di essa mi hai fatto sperare (49).
Ciò di cui qui si parla non è un ordine generale rivolto a tutti, ma una precisa parola data o una parola detta allo specifico servo dell'Eterno che ha scritto questo salmo e noi abbiamo chiamato Ariel. Questo può spiegare lo zelo che Ariel mette nello svolgere il suo incarico, perché per lui è un impegno che certamente lo onora, ma d'altra parte gli procura innumerevoli nemici e lo spinge a rivolgere preghiere appassionate al suo Signore. Ariel dichiara in modo chiaro di avere un rapporto personale con Dio:
Tu hai fatto del bene al tuo servo, o Eterno, secondo la tua parola (65);
e ardisce chiedere a Dio di continuare a fargli del bene, affinché possa continuare a svolgere nel modo migliore il suo incarico:
L'incarico assegnato al salmista potrebbe consistere nel dover essere in mezzo al popolo la presenza personificata della parola di Dio nella forma di un servo dell'Eterno che da una parte assume su di sé il peso della perfetta osservanza di quella parola e dall'altra svolge il compito di ricordarla incessantemente agli altri col suo esempio, i suoi inviti e le sue riprensioni. Incarico arduo, indubbiamente. Si direbbe impossibile. Eppure il salmista sembra esserci riuscito, stando alle ripetute dichiarazioni di fedeltà riportate nel numero precedente, tra cui ne ricordiamo qui soltanto alcune a mo' di esempio:
Si può discutere caso per caso se i verbi usati in queste dichiarazioni sono da intendere al passato (ho osservato) o al presente (osservo) o al futuro (osserverò), ma in ogni caso sono espressioni così insistentemente ripetute che non si può evitare di indicarne un significato coerente e ragionevole, traendone le dovute conseguenze sul piano dell'interpretazione. C'è un passaggio in particolare che merita speciale attenzione: il versetto 44. Ne riportiamo qui alcune traduzioni in italiano:
Le traduzioni più soddisfacenti sono le tre ultime (cattoliche). Tutte comunque cercano di rendere il valore temporale della promessa di fedeltà del salmista, che non dichiara soltanto la risolutezza della sua osservanza alla legge di Dio, ma ne sottolinea anche la durata nel tempo. Riportiamo allora il testo originale:
e la traduzione CEI;
Custodirò (ואשמרה) la tua legge (תורתך) per sempre (תמיד), nei secoli (לעולם), e in eterno (ועד),
Questa traduzione rende al meglio il testo perché traduce singolarmente i tre termini del versetto che indicano la progressione temporale. Il termine לעולם (leolam), tradotto con nei secoli, è particolarmente interessante perché l'espressione עולם הבא (olam habà) indica in ambito ebraico il Regno di Dio che viene. Ha dunque un valore escatologico. L'ignoto autore del salmo dichiara dunque che lui sarà fedele alla legge di Dio per sempre, nei secoli dei secoli e in eterno. Alla sorpresa che può generare una dichiarazione così ardita si aggiunge il fatto che in tutto il salmo non è presente alcuna confessione di peccato, alcuna espressione di pentimento. Chi è dunque costui? Non si sa. Il salmista è ignoto. E' mai esistito? Esisterà un giorno? Domande a cui ebrei e cristiani possono cercare di dare una risposta. Nel seguito proveremo a proporne una.
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Il tentativo di dare un'interpretazione a un libro o a un capitolo problematico della Bibbia si aggira spesso intorno a un'unica domanda.
Nel caso del libro di Giobbe: perché quell'uomo giusto deve subire una così atroce sofferenza da parte di Dio?
Nel caso del salmo 109: perché il Re Davide, conosciuto come "il dolce cantore d'Israele", chiede a Dio di colpire il suo nemico con maledizioni di una così feroce violenza?
Nel caso del salmo 119: chi è l'ignoto salmista che osa rivolgersi a Dio con parole di autoelogio così audaci?
In tutti e tre i casi citati è in gioco la problematicità di un rapporto Dio-uomo. Nel modo in cui sono poste le domande, l'interrogativo parte sempre dall'uomo per arrivare a Dio.
Giobbe subisce sofferenze da parte di Dio. Perché?
Davide chiede a Dio maledizioni sul suo nemico. Perché?
Il salmista ignoto osa rivolgersi a Dio con incredibile audacia. Perché?
Nel cercare risposte plausibili di solito facciamo così: osserviamo come si muovono i personaggi umani della scena (che pensiamo di conoscere perché sono uomini come noi) e ci sforziamo di capire come mai hanno avuto un rapporto così difficile con Dio (che invece facciamo fatica a capire). In sostanza, è a partire dalla nostra conoscenza dell'uomo che cerchiamo di arrivare a capire chi è Dio. O per meglio dire: cerchiamo di immaginare una figura di Dio che si armonizzi con la comprensione che come uomini abbiamo di noi stessi. Con poche parole abbiamo descritto come si costruisce un idolo.
Bisogna dire che purtroppo si corre il rischio di costruire idoli anche usando modi sbagliati di leggere la Bibbia. I cristiani evangelici degni di questo nome credono in modo unanime che la Bibbia sia interamente Parola di Dio; questa corretta dizione però dovrebbe essere precisata dichiarando che la Bibbia è storia sacra, cioè rivelazione delle gesta di Dio nella storia degli uomini, a partire dalla creazione di cieli e terra in Genesi per arrivare alla creazione di nuovi cieli e nuova terra in Apocalisse. Qualunque altro modo di leggere la Bibbia risulta essere inevitabilmente una lettura antropocentrica, e quindi, nei casi peggiori, idolatrica. Una lettura corretta della Bibbia deve essere, nei suoi modi e nei suoi riferimenti, una lettura teocentrica, cioè rivolta alla comprensione del muoversi di Dio in tutte le forme in cui la Scrittura lo rivela.
Questo fa risaltare non soltanto l'inevitabilità del ricorso alla Bibbia per cercare di comprendere il pensiero, le parole e le azioni di Dio, ma anche la sua sufficienza, perché il ricorso ad altre fonti può essere utile, ma non è mai indispensabile.
Nei tre casi sopra accennati, ciò che nella storia mette in evidenza il posto di Dio è che i personaggi umani entrano in scena come suoi servi. La cosa risulta evidente nel caso di Davide, più volte indicato da Dio stesso come "mio servo Davide" (2 Samuele 7:8).
La cosa dovrebbe essere evidente anche nel caso di Giobbe, che per ben sei volte Dio nomina come "mio servo Giobbe" (vv. 1:8, 2:3, 42:7, 42:8), ma questo di solito è trascurato dai commentatori.
Nel caso dell'ignoto autore del salmo 119 non si vede che Dio lo nomini come mio servo, ma è il salmista stesso che per ben tredici volte si rivolge a Dio presentandosi come il "tuo servo". La presente scelta interpretativa consiste appunto nel sostenere che il salmista ignoto, a cui abbiamo dato il nome fittizio di Ariel, è un servo dell'Eterno nel senso pieno della parola, cioè che ha ricevuto da Dio uno speciale incarico in cui rientra tra l'altro il mantenimento dell'anonimato per i posteri.
Sottolineare che Ariel è un servo mette in primo piano non lui, ma il suo padrone. Nelle antiche civiltà il servo era proprietà del padrone, espressione della sua personalità; e se verso l'interno il servo doveva ubbidienza al suo padrone, verso l'esterno egli esprimeva la gloria di colui da cui dipendeva. Colpire un servo significava automaticamente colpire il suo padrone.
Per questo Ariel alza la sua voce al cielo quando sulla terra è colpito dai suoi nemici:
"Perché permetti che il tuo servo sia trattato in questo modo? Fino a quando questo durerà?" avrebbe potuto pensare Ariel. E più avanti grida:
Io sono tuo, salvami,
perché ho cercato i tuoi precetti (v. 94).
In che senso sono tuo? La frase può essere completata correttamente in un solo modo: "io sono tuo servo".
Si puo capire meglio il senso di questa frase paragonandola con una particolare implorazione di Davide a Dio:
O Eterno, vivificami, per amore del tuo nome; nella tua giustizia, ritrai l'anima mia dalla tribolazione! Nella tua bontà distruggi i miei nemici, e fa' perire tutti quelli che affliggono l'anima mia; perché io sono tuo servo (Salmo 143:11-12).
Davide chiede a Dio di far perire i suoi nemici portando due motivi, fra loro collegati: "per amore del tuo nome" e "perché io sono tuo servo". "Dunque - dice in sostanza Davide al Signore - se possono continuare a colpire me che sono tuo servo, è il Tuo nome che ne patisce. Che diranno le nazioni?". E' un argomento molto efficace per convincere il Signore. Il primo ad usarlo è stato Mosè, che dopo il fattaccio del vitello d'oro riuscì a dissaduere Dio dal distruggere il popolo con queste parole:
Allora Mosè supplicò l'Eterno, il suo Dio, e disse: “Perché, o Eterno, la tua ira si infiammerebbe contro il tuo popolo che hai fatto uscire dal paese d'Egitto con grande potenza e con mano forte? Perché direbbero gli Egiziani: 'Egli li ha fatti uscire per far loro del male, per ucciderli tra le montagne e per eliminarli dalla faccia della terra'? Calma l'ardore della tua ira e pèntiti del male di cui minacci il tuo popolo (Esodo 32:11-12).
E l'Eterno si pentì (Esodo 32:14).
Dello stesso tipo è l'implorazione di Ariel, che nel suo testo fa uso ripetuto della dizione "tuo servo" perché è in quella qualità che egli si rivolge a Dio.
Per dare peso a questa conclusione, prendiamo in considerazione il seguente versetto:
L'espressione "mi hanno fatto e formato" fa venire subito in mente l'immagine genetica del Creatore che con le sue mani plasma l'argilla che costituirà l'uomo. In questo caso però l'immagine può arricchirsi di un altro significato. Consideriamo allora un altro versetto:
È questa la ricompensa che date all'Eterno, o popolo insensato e privo di saggezza? Non è il padre tuo che ti ha acquistato? non è egli colui che ti ha fatto e stabilito? (Deuteronomio 32:6).
L'espressione qui usata "fatto e stabilito" è nell'originale la stessa di quella tradotta nel salmo 119 con "fatto e formato". E' vero che il popolo d'Israele è stato generato da Dio come un padre genera un figlio, ma qui il popolo non viene rimproverato per come è venuto al mondo, ma per essere stato infedele al compito per il quale era stato stabilito.
Si può dunque passare da una lettura genetica del versetto 73 a una "istituzionale": Ariel ricorda al Signore che è stato Lui che lo ha fatto e stabilito in quell'incarico: gli chiede dunque di dargli la necessaria intelligenza per imparare ad eseguire fedelmente i Suoi comandamenti (che evidentemente già conosceva).
Ariel svolge il suo compito già col suo semplice essere presente in mezzo al popolo, perché con la testimonianza della sua fedeltà alla parola di Dio consola e fortifica quelli che temono il Signore:
Quelli che ti temono mi vedranno e si rallegreranno, perché ho sperato nella tua parola (v. 74).
E a questi timorati di Dio che si rallegrano alla sua presenza Ariel rivolge un invito che sarebbe pretenzioso se egli non avesse alcuna autorità morale, se fosse uno come tutti gli altri:
"E che dovrebbero fare da te, quelli che temono il Signore? Tu chi sei?" Potrebbero chiedergli i suoi nemici. Che risponderebbe Ariel?
La spiritualità di Ariel non è soltanto di natura intima e morale, e questo si vede dai suoi movimenti in pubblico, che fanno di lui una presenza politica in mezzo al popolo. I potenti del momento lo conoscono, lo scrutano, lo giudicano:
Anche quando i principi si siedono e parlano contro di me, il tuo servo medita i tuoi statuti (v. 23).
I principi mi hanno perseguitato senza ragione, ma il mio cuore ha timore delle tue parole (v. 161).
Ma se i principi (שרים, sarim) lo perseguitano e pensano di intimidirlo, lui reagisce dichiarando che porterà le testimonianze di Dio davanti ai re (מלכים, melakim), ed è certo che non potranno svergognarlo:
Ma chi sono questi re a cui Ariel si presenterà? E chi è Ariel che osa fare queste audaci dichiarazioni?
E' il desiderio di dare risposta a una domanda come questa che ha portato a formulare la tesi che è alla base di questo studio: il salmista ignoto è una prefigurazione del Messia. Bisognerà riparlarne.
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"L'autore ignoto del Salmo 119 è una prefigurazione del Messia". E' questa la tesi che sta alla base di questo studio. Chi non è convinto può sempre aggiungervi un punto interrogativo, e anche in questo modo può valer la pena di prenderla in considerazione perché nella Bibbia ebraica la figura del Messia appare al lettore in forma interrogativa non solo agli ebrei, ma anche ai cristiani che pure credono al Messia rivelato nei Vangeli.
La tesi dunque può interessare sia ebrei sia cristiani, indipendentemente dal nome che in seguito individuerà la persona del Messia.
Per come è formulata, la tesi manifesta che si sta facendo una lettura teocentrica della Bibbia, perché la figura del Messia rappresenta di per sé un intervento diretto e personale di Dio nella storia degli uomini.
E' necessaria questa precisazione perché il lettore occasionale o distratto della Bibbia tende quasi inevitabilmente a fare una lettura di tipo antropocentrico, cerca cioè di comprendere il muoversi di Dio nel racconto biblico a partire da quella che è la sua comprensione degli uomini. Così può avvenire che si dica, soprattutto fra lettori "intellettuali", ebrei e non, che il Messia biblico non è una persona, ma un sistema politico in cui regnano pace e giustizia. Con questa idea in mente, sarebbe meglio abbandonare del tutto la lettura della Bibbia e dedicarsi ad altro.
Tornando al Salmo 119, in questa sede si presuppone che esso abbia un autore in carne ed ossa, e si sostiene che il suo contenuto e la forma delle sue parole siano stati controllati da Dio al fine di annunciare in forma allusiva la venuta in Israele del suo Unto.
Non si può dire che questo sia un modo strano di dare una spiegazione unitaria al testo, perché i tentativi di individuare nell'Antico Testamento allusioni al Messia, o sue prefigurazioni, non mancano di certo in ambito ebraico o cristiano.
La particolarità teocentrica di questa tesi intepretativa sta nel sottolineare che il salmista - che per semplice comodità espositiva continueremo a chiamare Ariel - parla e agisce come "servo dell'Eterno", cioè esercitando un compito affidatogli da Dio in mezzo al popolo, e non come un qualsiasi pio israelita.
Il salmo sarebbe dunque una sorta di diario personale in cui il servitore racconta per iscritto a Dio le sue esperienze nello svolgimento del suo compito; ricorda la parola che gli è stata rivolta e con cui il Signore l'ha fatto sperare (v. 49); eleva a Lui fervide preghiere di soccorso per se stesso (v. 82) o di intervento su altri (v. 78).
Né il nome del salmista, né la situazione storica in cui si muove, né il suo preciso compito sono chiaramente indicati nel testo. Ma il dire e non dire, il periodare con riferimenti allusivi a significati possibili ma non dimostrabili, il lasciare il lettore col desiderio di comprendere meglio e più a fondo lo scritto, non è forse una caratteristica dello stile biblico quando si riferisce a realtà future non immediatamente comprensibili nel presente? In altre parole, una caratteristica dello stile profetico nella Bibbia?
Diciamo allora che forse si capisce meglio la figura di Ariel se lo si vede come un particolarissimo profeta, cioè uno strumento scelto da Dio per compiere un'operazione speciale in mezzo al popolo. Non si può negare che il Dio della Bibbia agisce spesso così. Si pensi a tutte le volte in cui suscitò un liberatore a Israele (es. Giudici 3:9, 15), o allo Spirito dell'Eterno che investì qualcuno per farne uno strumento di qualche sua operazione (es. Giudici 14:6; 1 Samuele 10:10, 11:6, 16:13; 2 Cronache 20:14, 24:20). Certo, qui non è detto esplicitamente che lo Spirito di Dio investì con il suo Spirito il salmista per farne un suo strumento, ma anche questa reticenza può far parte del carattere profetico del salmo.
Cerchiamo allora di immaginare, al solo scopo di favorire una riflessione, come potrebbe essere avvenuta questa operazione. Anche se non si conosce il periodo storico in cui si muove il nostro salmista, la cosa più verosimile è che sia vissuto nel periodo postesilico. Perché è soltanto dopo la distruzione del primo Tempio che "ritornò di moda" la legge in Israele; nei secoli precedenti si era perso perfino il ricordo dell'esistenza di un "libro della legge". Fu soltanto al tempo di re Giosia (sec. 7° a.C.) che il Sommo Sacerdote (!!) ritrovò "per caso" nella Casa dell'Eterno un libro che si scoperse essere il libro della legge di Mosè (2 Re 22:8-13).
E' del tutto naturale allora che molti abbiano potuto pensare che la catastrofica distruzione del Tempio fosse avvenuta come un tremendo castigo per l'inosservanza della legge di Dio.
Ma se la caduta di Gerusalemme era stata un castigo per la disubbidienza, allora si poteva sperare che anche la sua ricostruzione e il ristabilimento del Regno a Israele potesse avvenire come risultato dell'ubbidienza.
Ma quanta ubbidienza sarebbe necessaria per ottenere il risultato? Qui le risposte possono variare, ma sono comunque collegate a qualche forma di eroica ubbidienza alla legge da parte di qualcuno. Anche oggi, in qualche ambiente circola l'idea che una condizione preliminare per la venuta del Messia sia la piena osservanza dello Shabbat, anche una sola volta, da parte di tutti gli ebrei.
Chissà se qualche saggio ha mai sostenuto un'altra condizione da soddisfare per avere lo stesso risultato: che si trovi in Israele un giusto, anche uno solo, che mostri di saper osservare pienamente la Torà in tutta la sua vita. L'ipotesi potrebbe essere plausibile, perché in fondo appartiene allo stile di Dio fare misericordia a molti in risposta della giustizia di uno solo. Per esempio, Israele era stata infedele a Dio per secoli, ma nel tentativo di evitare l'amaro compito di consegnare Gerusalemme nelle mani degli spietati Babilonesi, il Signore fece diffondere da Geremia questo appello:
«Andate per le vie di Gerusalemme; guardate, informatevi; cercate per le sue piazze se vi trovate un uomo, se ve n’è uno solo che pratichi la giustizia, che cerchi la fedeltà; e io le perdonerò» (Geremia 5:1).
Ma non se ne trovò nessuno.
E questo è il punto. I giusti sono merce rara. Sembra proprio che non se ne trovino in circolazione. Almeno stando al metro di valutazione di Dio:
L'Eterno ha guardato dal cielo sui figli degli uomini per vedere se vi fosse qualcuno che avesse intelletto, che cercasse Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti, non c'è nessuno che faccia il bene, neppure uno (Salmi 14:2-3; 53:2-3).
Ma allora, se si pensa che il mondo sarà salvato quando sulla terra si troverà un giusto integrale che ha come prima qualità quella di adeguarsi pienamente alla volontà di Dio espressa nella sua legge, sarà proprio in quel giusto che si potrà riconoscere l'intervento di Dio che invia sulla terra il suo Messia. Potrebbe pensare qualcuno.
E anche questa è una visione antropocentrica della Bibbia, ma di tipo ebraico, perché quello che si fa dipendere dall'uomo è un intervento di Dio nella storia.
La visione antropocentrica cristiana (sbagliata) guarda invece da un'altra parte: punta l'attenzione sul desiderio che gli uomini hanno, o non hanno, di trasferisi vantaggiosamente dalla terra (in cui si sta scomodi) al cielo (in cui si sta bene).
Nella visione teocentrica si sostiene invece che la Bibbia pone la sua centrale attenzione sulla volontà di Dio, che dopo aver creato la terra su cui poi è avvenuta la disubbidienza della prima coppia umana, ha deciso di progettare ed eseguire un piano di riconquista salvifica della terra e di tutti gli uomini che in essa vivono col desiderio di essere eternamente uniti a Lui.
In questo piano Dio ha previsto la venuta in mezzo al suo popolo Israele di un suo inviato speciale, conosciuto col nome di Messia. Poiché tutto il male è entrato nel mondo per l'originaria disubbidienza del primo uomo, è ragionevole pensare che questo Messia inviato per rimettere le cose a posto debba avere come prima caratteristica quella di essere in tutto conforme alla volontà di Dio che l'ha inviato. Trovare o generare un inviato che possa svolgere sulla terra un compito simile è un problema di Dio, non dell'uomo. Ed è un arduo problema. Perché richiede che il Messia incaricato di vivere sulla terra in perfetta conformità al volere di Dio sia anche pienamente uomo. Riuscirà Dio a portare a termine questo compito, che di sua propria volontà si è dato? La domanda è lecita, perché in questo modo non si limita l'onnipotenza di Dio, ma si tiene presente che nel gioco rientra anche lo spazio di libertà che il Creatore ha stabilito fin dall'inizio per le sue creature.
Usando allora un linguaggio ad effetto, si potrebbe dire che il Salmo 119 contiene il resoconto delle parole appassionate rivolte a Dio da un suo anonimo servitore, qui chiamato Ariel, mentre svolge il particolare compito affidatogli di rappresentare in forma analogica una delle parti che competeranno al Messia: essere sulla terra la testimonianza vivente della piena osservanza della volontà di Dio espressa nella sua legge.
Si può certamente immaginare che Dio abbia provvisto il suo servitore Ariel di tutto ciò che era necessario per portare a termine il suo compito: si può pensare per esempio che Dio abbia investito anche lui del Suo spirito, come aveva già fatto con altri suoi servitori, ma è chiaro che Ariel era e rimane un uomo, con tutto quello che significa dalla caduta di Adamo in poi.
Che dire allora sulla conclusione di questa esperienza del salmista? E' riuscito Ariel a svolgere fino in fondo il suo compito analogico?
Qui il Salmo 119 mantiene quell'ineffabile fascino che gli proviene dal suo carattere fondamentalmente enigmatico. Ariel appare perfetto in tutto: nel suo dire e nel suo fare. Se il suo compito era quello che essere del tutto ubbidiente, lui assicura il Signore di averlo svolto:
E non viene mai smentito. Ariel parla di avvilimento, sconforto, ma mai si autoaccusa, mai chiede perdono.
Eppure manca l'apoteosi del lieto fine, come accade per esempio nel libro di Giobbe. L'esaurimento delle lettere ebraiche a disposizione impedisce che il testo possa essere allungato: il salmo appare formalmente completo, non c'è nulla da aggiungere o da togliere.
Ma passando dalla forma al contenuto, il lettore può restare con un senso di incompletezza: sembra esserci un'interruzione; sembra che la storia finisca con un interrogativo, come nel libro di Giona.
L'ultima strofa, corrispondente alla lettera TAV, si apre con un grido: una richiesta di intelligenza, dunque di sapienza, per sapere come muoversi. Prosegue con una supplica per ottenere liberazione, evidentemente perché avverte di essere costretto da forze esterne. Si alternano poi richieste di aiuto e assicurazioni di fedeltà al Signore.
L'ultimo versetto dà molto da pensare:
Io vado errando come pecora smarrita; cerca il tuo servo, perché io non dimentico i tuoi comandamenti (v. 176).
Nei miei appunti di anni fa aggiungevo un breve commento a questo versetto finale:
«Non c’è un lieto fine entusiastico ed euforico. E’ un finale che ci esorta a essere sobri. I momenti di smarrimento (non sappiamo se per circostanze esterne o per debolezza interna) sono sempre in agguato.»
E' un commento antropocentrico di vecchio stampo (cioè di quando ero più giovane) che ora considero non sbagliato come applicazione, ma certamente lacunoso. Il servo Ariel conclude il suo diario avvertendo il Signore di essersi perso per strada. Dice di andare errando come pecora smarrita per non si sa dove. Quindi Lo supplica di venire a cercarlo perché lui - assicura - non è di quelli che dimenticano i suoi comandamenti, quindi si aspetta che il Signore lo venga a cercare, lo ritrovi e lo riporti nell'ovile come una pecora smarrita e ritrovata.
E qui il discorso si interrompe senza dirci se la pecora smarrita è stata ritrovata.
Questo senso di incompletezza rafforza in un certo senso l'accostamento che abbiamo fatto all'inizio tra il Salmo 119 e quel capolavoro di Johann Sebastian Bach che è L'Arte della fuga. Quest'opera è rimasta incompiuta, e dopo pochi mesi il compositore è morto. Più che incompiuta, si è bruscamente interrotta, perché nella partitura lo scritto termina con le ultime note in mezzo al rigo, senza che il pezzo abbia una chiusura. E' un fatto che tuttora crea un certo imbarazzo negli esecutori, che restano incerti su come devono finire il pezzo che stanno suonando, Uno di questi ha scelto una forma sensazionale, quasi drammatica: si è bruscamente arrestato sull'ultima nota, immobile per alcuni lunghi secondi, col dito alzato,
come fulminato
.
Gli studiosi di Bach suppongono che il musicista, avendo ormai raggiunto una maturità musicale che lo rendeva autonomo sul piano lavorativo e artistico, avesse voluto iniziare in quell'opera un suo originale progetto di elaborazione del contrappunto nella musica. Quel progetto si è interrotto.
Tornando a noi, se pensiamo a Dio come all'ideatore di un progetto redentivo del mondo, e sulla base della Bibbia crediamo che in questo progetto rientri l'invio sulla terra di un Messia, allora si può pensare che il Salmo 119 costituisca un momento di passaggio nella storia di questo progetto. Il resoconto che il salmista ignoto fa nel Salmo 119 presenta un'interruzione, ma il progetto di Dio non si interrompe. Certamente prosegue. E il seguito non può che essere cercato nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento.
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La serie di studi sul Salmo 119 presentata nei mesi scorsi ha come tesi che l'autore ignoto di questo salmo è una prefigurazione del Messia. La serie però si è interrotta "sul più bello", cioè quando sarebbe venuto il momento di trarne delle precise conseguenze da mettere in relazione col testo dei Vangeli, perché per un cristiano dire che l'autore del Salmo 119 è una prefigurazione del Messia è come dire che il salmista ignoto prefigura la persona di Gesù.
Non è raro che i cristiani scorgano in certe parole dei salmi i tratti di Gesù, ma non mi è mai capitato di sentir fare un accostamento tra l'autore ignoto del Salmo 119 e la persona di Gesù. E anche per me non è facile sviluppare questo accostamento in tutta la sua portata, ma ne avverto l'importanza e una forte spinta a farne oggetto di ricerca e riflessione. Anche se in tarda età, mi sostiene quella secca parola di Gesù che da giovane mi ha portato alla fede: "Cercate e troverete" (Matteo 7:7).
"Cercate Gesù dove lo si può trovare", si potrebbe dire a chi è in posizione di ricerca. Naturalmente il primo luogo in cui si può trovare Gesù è costituito dal complesso dei quattro Vangeli, seguito dal Nuovo Testamento in cui si trovano inseriti. Ma in questo caso più che di ricerca si deve parlare di disposizione all'accoglienza, perché la persona di Gesù si presenta in modo sufficientemente chiaro a coloro che odono la sua parola e la ritengono "in un cuore onesto e buono" (Luca 8:15). Ma anche chi ha incontrato Gesù nel Nuovo Testamento deve sentire il desiderio di ritrovarlo nelle pagine dell'Antico Testamento perché anche lì è presente, anche se non in forma manifesta, ma nascosta.
Ma più che nascosta, si potrebbe dire allusiva, perché la Bibbia non è una letteratura misterica accessibile solo a pochi iniziati, ma richiede tuttavia una sincerità di fondo senza la quale essa si richiude, o addirittura può inviare segnali devianti al lettore prevenuto.
In questa ricerca di Gesù nell'Antico Testamente ho ritrovato ultimamente la registrazione di una mia predicazione di quindici anni fa. Era proprio sul Salmo 119, ma non si presentava in relazione a questo salmo perché come titolo aveva "L'afflizione". In quel tempo non pensavo a un accostamento tra il salmista e la persona di Gesù: infatti riascoltandola si riconosce che tratto il tema in modo "tradizionale", cioè ricerco e commento quei passaggi del salmo che istruiscono il credente e lo aiutano a vivere in modo giusto i momenti di afflizione che incontra nella sua vita.
A un certo punto inserisco, come di sfuggita, una breve riflessione: "Questo salmo è particolarmente adatto a presentare la persona di Gesù. Ritengo che Gesù stesso nella sua vita si sia nutrito delle parole di questo salmo". Considero questa riflessione come una prima intuzione informe di una convinzione che anni dopo ha preso a consolidarsi in modo più preciso. L'accostamento tra il salmista ignoto e la persona di Gesù è ancora lungi dall'avere assunto forme ben delineate, ma una cosa certamente hanno in comune le due figure: la sofferenza.
Sulla base dei racconti evangelici, la trattazione cristiana della sofferenza di Gesù ha sempre occupato un posto di primaria importanza, ma l'accento principale di solito è messo sulla sofferenza della morte in croce di Gesù, attraverso cui è avvenuta l'espiazione dei peccati e la riconciliazione dell'uomo con Dio. E naturalmente tutto questo non ha corrispondente nell'esperienza del salmista ignoto.
La sofferenza legata alla morte di Gesù sulla croce ha fatto però trascurare la sofferenza legata alla vita di Gesù sulla terra. Gesù si è fatto "ubbidiente fino alla morte, e alla morte della croce" (Filippesi 2:8). L'ubbidienza di Gesù è arrivata fino alla morte perché è durata ininterrottamente tutta la vita, a cominciare dal momento della tentazione nel deserto.
Da quel momento Gesù ha dovuto continuamente confermare la sua ubbidienza al Padre resistendo alle insidie di Satana e sopportando l'incomprensione del suo popolo.
E questa ubbidienza continua è avvenuta in una sofferenza continua:
"[Gesù] benché fosse figlio, imparò l'ubbidienza dalle cose che soffri" (Ebrei 5:28).
È la sofferenza ubbidiente di Gesù in tutta la sua vita sulla terra che si può vedere prefigurata nella sofferenza ubbidiente dell'autore ignoto del Salmo 119.
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