Obama ha cancellato le sanzioni all'Iran ma 25 Stati Usa le imporranno per conto loro
di Glauco Maggi
La battaglia per approvare o bocciare l'accordo nucleare che Obama ha firmato con l'Iran si aprira' la settimana prossima in Congresso, ma qualsiasi sara' l'esito a Washington, a Teheran devono smorzare l'entusiasmo sulla prevista cancellazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, loro obiettivo vitale. Barack l'ha promessa ai mullahs in qualita' di capo del governo centrale USA, ma i singoli Stati americani hanno il potere di imporle per conto loro, e molti, 25, hanno gia' deciso che lo faranno.
Tra gli altri, i piu' ricchi e popolosi, dalla California al Texas, dalla Florida allo Stato di New York. Cio' e' possibile perche' il presidente ha scelto la formula dell'ordine esecutivo nel confezionare l'intesa, perche' se lo avesse presentato come Trattato internazionale avrebbe dovuto ottenere i due terzi dei voti in Senato, un miraggio visto che i repubblicani hanno la maggioranza assoluta di 54 su 100. La "furbata" consentira' alla Casa Bianca di far passare la misura soltanto grazie al veto che il presidente sicuramente usera' quando sul suo tavolo arrivera' la mozione di bocciatura da parte di entrambi i rami del parlamento. A quel punto, a Obama bastera' avere con se' 34 senatori democratici che voteranno contro la richiesta della maggioranza semplice, in mano al GOP, di annullare il suo veto, impedendo ai repubblicani di raggiungere i necessari 67 voti su 100.
Il senatore dell'Oklahoma James Inhofe
Questa tattica, pero', ha un rovescio sostanziale. Lo hanno spiegato il senatore del GOP James Inhofe dell'Oklahoma e l'Attorney General dello stesso stato, Scott Pruitt, dalle colonne del Wall Street Journal. "L'accordo in effetti permette all'Iran di mantenere la tecnologia che guida a un'arma nucleare, nel mentre continua i suoi abusi dei diritti umani, la sponsorizzazione del terrorismo, l'imprigionamento di ostaggi americani e le minacce agli alleati americani, compreso Israele", hanno scritto i due. "Fortunatamente gli Stati americani hanno il potere di limitare queste minacce, se decidono di farlo".
Il fatto che il governo non abbia chiesto la convalida del Senato, libera legalmente gli Stati da ogni obbligo federale, e consente loro di procedere con tutte le sanzioni che ritengono di promuovere. Il segretario di Stato John Kerry lo ha ammesso esplicitamente durante l'audizione congressuale del 28 luglio, quando ha detto che il patto siglato da Obama non tocca la possibilita' degli Stati di imporre sanzioni all'Iran, aggiungendo che l'amministrazione prendera' le iniziative utili a spingere gli Stati a non interferire, poiche' il presidente si era detto d'accordo, come parte del patto con l'Iran, ad "attivamente incoraggiare " gli stati USA a far cadere le loro sanzioni.
Sta avvenendo il contrario, e come suggeriscono Inhofe e Pruitt, anzi, gli stati dovrebbero rafforzare ed espandere queste sanzioni. A prescindere da cio' che ritiene Obama dell'Iran, gli Stati USA hanno "numerose ragioni morali e di reputazione per proibire gli investimenti di risorse pubbliche, come quelle dei fondi pensione , in aziende che fanno affari con paesi che sponsorizzano il terrorismo, e di proibire alle agenzie di Stato di fare business con queste aziende".
In concreto, i due repubblicani dell'Oklahoma hanno spedito oggi una lettera, con la proposta di bozza delle sanzioni da applicare, a tutti e 50 gli Stati Usa, esortando i 25 Stati che hanno gia' sanzioni in essere a renderle ancora piu' stringenti. La vittoria che avra' in Congresso Obama, insomma, rischia di essere di Pirro. Insieme alla spaccatura del partito DEM, con una frazione di parlamentare, soprattutto ebrei, che voteranno contro il patto, gli Stati stanno mobilitandosi per ripristinare le sanzioni che Barack vuole eliminare.
(Libero, 31 agosto 2015)
La preghiera ostentata
di Claudia Sermoneta
"Li legherai come segno sul tuo braccio, saranno come segnali fra i tuoi occhi". Inizialmente ammetto di essere rimasta stupita e anche moralmente infastidita dalla nuova moda del #Telfie, viralmente ostentata sui vari social network, sulle pagine instagram e facebook, "Humans of Judaism". Di fatto selfie scattati in località incantevoli indossando Talled e Tefillin: Galapagos, Bora Bora, Costarica, ma anche davanti al Colosseo.
Ho constatato quanto la preghiera, che dovrebbe essere un momento personale e intimo, venga così esibita, condivisa pubblicamente come una qualsiasi foto vacanziera. Mi sono chiesta quale fosse il senso di questa esposizione in un momento privato, di profondo ringraziamento, di lode o anche aiuto interiore. Mostrare a tutti che in qualsiasi posto al mondo, anche in vacanza, si possa trovare tempo da dedicare alla preghiera? Fare tendenza incentivando i giovani ad avere un colloquio personale e diretto con H'?
Non so quale sia la risposta ma ho riflettuto sul senso della parola connessione, questo termine così moderno, usato e abusato oggigiorno, che mi ricorda quanto questa sia la parola più giusta e adeguata per descrivere quella unione spirituale che ci unisce intimamente ed eternamente a D.O e al popolo ebraico ovunque, in qualsiasi tempo e luogo. Con, ma soprattutto senza foto.
(moked, 31 agosto 2015)
«Quando pregate, non siate come gli ipocriti, che amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ricompensa.»
dal Vangelo di Matteo, cap. 6
L'Iran tratta con la Cina l'acquisto di reattori nucleari da 1.000 megawatt
TEHERAN - L'Iran è in trattative con la Cina per acquistare reattori nucleari da 1.000 megawatt. Lo ha detto il responsabile dell'Organizzazione iraniana per l'energia atomica, Ali Akbar Salehi, in un'intervista rilasciata all'agenzia locale "Irna" durante una visita a Pechino. "Possiamo avere una collaborazione in questo settore, dato il loro interesse nel progetto e le buone proposte avanzate", ha detto Salehi, secondo cui "la Cina ha compiuto notevoli progressi nella messa a punto di impianti ad uso commerciale della potenza di 1.000 megawatt". La cooperazione in questo settore potrebbe essere avviata con la firma di un accordo "entro uno o due mesi": i cinesi, ha aggiunto il funzionario iraniano, sono anche disposti a finanziare il costo del progetto. Parlando dei legami sino-iraniani, Salehi ha detto che Teheran considera la Cina come "un amico in tempi difficili", sottolineando che Pechino ha sempre mantenuto un atteggiamento positivo durante i colloqui sul programma nucleare iraniano con il gruppo di paesi 5+1 (Cina, Francia, Regno Unito, Russia Stati Uniti più la Germania). Intanto Iran e Cina hanno raggiunto un accordo per la modernizzazione del reattore ad acqua pesante di Arak. Lo riferisce l'agenzia di stampa "Irna", precisando che Salehi ha discusso col presidente di China National Nuclear Corporation (Cnnc) del rafforzamento della cooperazione bilaterale nel settore dell'energia nucleare, con l'obiettivo di produrre almeno 20 mila megawatt di energia elettrica. La Cina è il più grande partner di Teheran per quanto riguarda il settore petrolifero e nel mese di luglio ha importato 2,44 milioni di tonnellate di petrolio iraniano, pari a 575,700 barili al giorno, in crescita del 3 per cento rispetto a un anno fa, ma in calo del 14,3 per cento rispetto a giugno con un dato parti 671.800 barili al giorno.
Nell'attuale clima di sanzioni la Cina e il mercato asiatico hanno rappresentato per l'Iran una delle principali entrate derivanti dall'esportazione petrolifera. Attualmente, la produzione di petrolio greggio iraniano è stimata intorno ai 2,7 milioni di barili al giorno. Secondo quanto riferito più volte in questi mesi dal ministero del Petrolio, la futura cancellazione delle principali restrizioni, nel quadro della firma dell'accordo sul nucleare iraniano avvenuta a Vienna lo scorso 14 luglio, consentirà a Teheran di aumentare la propria produzione di 500 mila barili al giorno in pochi mesi. Insieme a questo nuovo impulso l'Iran ha già dato il via ad una serie piani di sviluppo dei suoi giacimenti che aggiungeranno al totale altri 1,5 milioni di barili, con una esportazione quotidiana di 2 milioni. Secondo l'accordo firmato con l'Aiea nel quadro dei colloqui di Vienna lo scorso 14 luglio, la Repubblica islamica è tenuta a fornire all'Agenzia informazioni esaurienti sul suo programma nucleare al fine di poter stilare una relazione sulla questione entro la fine dell'anno dalle cui conclusioni dipenderà di fatto la cancellazione delle sanzioni economiche. L'Iran sta tentando da tempo di evitare un'indagine all'interno dei suoi siti legati ad attività militari. In particolare il sito di Parchin sarebbe stato utilizzato in passato per compiere esperimenti e studi nell'ambito degli ordigni nucleari. Da parte sua l'Aiea ha più volte sottolineato che non è sufficiente per la redazione di un rapporto efficace il semplice invio di documenti, precisando l'assoluta necessità di avere accesso diretto al sito di Parchin.
Fonti interne all'Aiea hanno confermato che l'Iran sta mantenendo le promesse sancite dalla firma dell'accordo sul nucleare. In un comunicato Serge Gas, portavoce dell'Aiea, ha precisato che "gli accordi separati dal Piano d'azione congiunto firmati con l'Aiea sono in linea con i requisisti dell'Agenzia". Ad oggi i contenuti degli accordi separati non sono stati ancora resi pubblici e quindi non è chiaro se essi siano in linea con quanto richiesto dal gruppo dei 5+1. In questi giorni il senatore del Partito repubblicano statunitense, Lindsey Graham, che presiede il comitato di supervisione finanziaria per l'Aiea, ha minacciato di fare pressioni per interrompere i fondi erogati dagli Usa se l'Agenzia non rende pubblici i suoi accordi con l'Iran. Secondo il Piano di azione congiunto firmato a Vienna, Teheran ha accettato di tagliare le scorte di uranio arricchito che passeranno dalle attuali 10 tonnellate a 300 quintali, con una riduzione del 98 per cento. L'accordo prevede inoltre una moratoria di 15 anni sull'arricchimento dell'uranio al di sopra del 3,67 per cento. Per quanto riguarda le centrifughe utilizzate per arricchire il combustibile radioattivo, il loro numero sarà ridotto di due terzi, passando dalle attuali 19 mila a poco più di 5.000 mila. Di queste ultime oltre mille saranno riconvertite per la produzione di isotopi per uso medico, utilizzati soprattutto nella lotta contro il cancro. Il taglio combinato delle centrifughe e delle scorte di uranio porta ad un anno il tempo che all'Iran sarebbe necessario per produrre materiale per una bomba atomica.
(Agenzia Nova, 31 agosto 2015)
Auschwitz, proteste per i nebulizzatori nell'ex lager
Docce nell'ex lager. I visitatori ebrei : «Sembrano quelle delle camere a gas».
I nebulizzatori ad Auschwitz
Da qualche anno a questa parte li si vede dappertutto, dalle stazioni della metropolitana ai marciapiedi delle città. I nebulizzatori sono l'unica chance di ristoro per chi cammina nel caldo torrido dell'estate. Un angolo per trovare sollievo e abbassare la temperatura corporea. Ma ad Auschwitz, lì dove 70 anni fa, in locali che ospitavano finte docce, venivano gasati milioni di ebrei, fanno uno strano effetto.
Il caso sul Jerusalem Post I visitatori dell'ex campo di concentramento polacco che se li sono trovati davanti domenica 30 agosto, sono rimasti a bocca aperta. «A me, ebreo che ha perso tanti parenti nell'Olocausto, sono sembrate le docce a cui gli internati erano costretti prima di entrare nelle camere a gas», ha commentato Meir Bulka, 48 anni, al Jerusalem post, aggiungendo di non essere l'unico ebreo a essersi sentito offeso.
Un portavoce del memoriale, intervistato da Mashable, ha provato a difendere la scelta, spiegando che quei nebulizzatori sono stati messi a ridosso dell'ingresso di un museo per rinfrescare l'aria, dal momento che in quell'area non c'è ombra: «Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre i rischi legati al caldo. La salute dei visitatori è la nostra priorità».
«Il gas non usciva dalle docce»
I custodi del memoriale si sono scusati personalmente con Bulka, e in un comunicato ufficiale hanno aggiunto che «le finte docce installate dai tedeschi dentro alcune delle camere a gas non erano usate per liberare lo Zyklon B, che inveceve veniva rilasciato in un modo completamente diverso». Ma a Bulka e ad altri visitatori ebrei resta un po' di amaro in bocca.
(Lettera 43, 31 agosto 2015)
Una nuova alleanza sull'energia
di Maurizio Molinari
Il Mediterraneo cambia aspetto grazie alla scoperta del mega-giacimento di gas nelle acque egiziane da parte di Eni: non è più solo teatro di tragedie di immigrati e sanguinosi atti di terrorismo ma anche palcoscenico di opportunità di sviluppo collettivo. Gli 850 miliardi di metri cubi di gas naturale, in appena 100 kmq di spazio marino del «Zohr Prospect», descrivono il più grande campo di questo tipo finora scoperto fra Gibilterra ed il Bosforo. E le ricadute sono di portata strategiche.
Anzitutto per l'Egitto di Al-Sisi, il gigante del mondo arabo giunto alla soglia dei 90 milioni di abitanti, aggredito dal terrorismo jihadista e assediato da povertà, carenza d'acqua e di energia. Dopo il summit economico di Sharm el-Sheikh, a metà marzo, Eni firmò accordi con investimenti per 5 miliardi di dollari accettando la scommessa del Cairo di esplorare lo spazio off-shore. Cinque mesi dopo Descalzi consegna ad Al-Sisi la possibilità di emanciparsi nei decenni a venire da una dipendenza energetica talmente assillante da averlo obbligato a firmare, appena 72 ore fa a Mosca, un non facile accordo con i russi di Rosneft sulla fornitura di gas liquido.
Al-Sisi ritiene che la possibilità di ricostruire l'Egitto, sopravvivendo alla morsa jihadista, si lega alla miscela fra nazionalismo e crescita del benessere collettivo messa in mostra con l'inaugurazione del raddoppio del Canale di Suez. Da qui il valore del giacimento «Zohr Prospect», anche per arginare Isis in Nordafrica.
Le opportunità per l'Italia sono altrettanto strategiche. Il nostro approvvigionamento energetico è legato alle forniture dalla Russia e Nordafrica, ostacolate dalle guerre civili in Ucraina e Libia, e la scoperta egiziana significa poter disporre di una valida alternativa. Una sorta di «Libia 2». Il recente sequestro di quattro tecnici italiani nei pressi del terminal energetico di Mellitah, in Tripolitania, ha per la prima volta portato una minaccia diretta all'hub logistico da cui passa gran parte del gas nordafricano che arriva in Sicilia. E' un campanello d'allarme sui rischi portati dalla crisi libica alla sicurezza energetica di 60 milioni di italiani a cui ora si affaccia una possibile risposta nel Mediterraneo Orientale, anche perché alla scoperta di Eni in Egitto si somma l'interesse di Edison per due giacimenti del gas naturale israeliano: Karish e Tanin. Se a ciò aggiungiamo il gas naturale cipriota, non è difficile arrivare a tratteggiare un'area di fonti energetiche gestita da Paesi legati all'Occidente e con relazioni amichevoli fra loro.
E' la possibile genesi di un network di interessi alternativo a quelli che attraversano aree di crisi endemica, Stati falliti o Paesi a noi ostili. Non è un caso che, durante la cena a Palazzo Vecchio nella Sala delle Udienze già luogo di lavoro di Machiavelli, il premier Matteo Renzi abbia anticipato all'ospite israeliano Benjamin Netanyahu l'annuncio di Eni arrivato puntuale la mattina seguente. I giornali egiziani avevano tratteggiato la notizia quello stesso giorno e non si trattava dunque di una rivelazione. Ma fonti israeliane, presenti alla cena, si soffermano sulla comune valutazione positiva di Renzi e Netanyahu in merito al «Zohr Prospect» perché l'interesse è coincidente: se per l'Italia significa differenziare le fonti energetiche, per il premier di Gerusalemme è un'arma preziosa da adoperare al fine di accelerare in patria la liberalizzazione del mercato del gas.
Non a caso il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz, si è affrettato a far sapere al Parlamento che «mentre noi perdiamo tempo nella definizione dell'assetto regolatorio, il mondo intorno a noi sta cambiando». Ovvero, liberalizziamo in fretta, superando il duopolio Noble Energy-Delek nella gestione del gas naturale off-shore di «Leviathan» e «Tamar» davanti a Tel Aviv e Haifa, prima che gli egiziani ci rubino clienti e mercati dall'Europa alla Giordania fino all'Africa. La convergenza di interessi fra Renzi, Al-Sisi e Netanyahu sull'energia, consolidata dalle intese con Grecia e Cipro, suggerisce la possibile genesi di un club di Paesi del Mediterraneo dotati di alta tecnologia e risorse naturali, dunque capaci di dare vita ad un polo energetico alternativo ai colossi di Mosca e del Golfo. Consegnando al Mediterraneo un imprevisto ruolo di protagonista di una formula di sviluppo economico capace di generare risposte efficaci alle sfide dell'emigrazione di massa e del terrorismo islamico.
(La Stampa, 31 agosto 2015)
Hitler torna dall'amato Wagner. Bayreuth ricorda la sua passione
Al museo foto e testimonianze delle visite del dittatore: una verità rimossa per anni.
di Alberto Mattioli
La folla acclama l'arrivo di Hitler al Festival di Bayreuth del 1939
BAYREUTH - Hitler torna a casa Wagner, a Bayreuth. Finalmente il museo di villa Wahnfried, la dimora costruita da Richard per sé e i suoi successori (ovviamente con i soldi di un altro, nel caso Luigi II di Baviera) prende atto che dagli Anni Venti in poi Bayreuth fu ampiamente frequentata, foraggiata e usata dal futuro Cancelliere e dai suoi amici. insomma che Wagneropoli fu una capitale del Terzo Reich. Di certo, quella culturale.
Il nipote di Richard, Wolfgang, smise di abitare Wahnfried e la trasformò in museo nel 1976, in occasione del centenario del primo festival, quando la nuova produzione dell'«Anello del Nibelungo» di Patrice Chéreau cambiò per sempre il modo di mettere in scena Wagner, anzi il teatro musicale in generale. Alla rivoluzione scenica non corrispose quella museale: le sale non erano solo un po' polverose, ma anche singolarmente reticenti sull'ospite imbarazzante accolto, coccolato e forse amato dalIa padrona ci casa, Winifred Wagner, la moglie inglese e nazistissima dell'unico maschio di Richard, Siegfried, morto nel '30. Vado a memoria, ma di Hitler mi sembra che non fosse ostensa nemmeno una foto. C'era un Goebbles alla Festspielhaus e tutto finiva lì.
Sedie scomodissime
Ora Wahnfried, aperta dopo lunghi lavori conclusi in ritardo (come le stagioni, nemmeno i tedeschi sono più quelli di una volta) rimane devotamente consacrata al culto di Richard, che del resto è sepolto lì fuori insieme a Cosima e a un po' dei suoi cani, beninteso i quadrupedi, non quelli ascoltati negli ultimi Festival. Si vedono o si rivedono le reliquie amate, i libri della biblioteca (con tutti i classici, e perfino Gioberti), le partiture, i vestiti (Wagner, genio dell'immagine, iniziò prestissimo a vestirsi da Wagner, con icone immutabili come il cappellone di velluto nero), il sofà sul quale morì (a palazzo Vendramin, attuale casinò di Venezia), molto bric-à-brac del miglior cattivo gusto ottocentesco e perfino una sedia originaria della Festspielhaus che, con la sua paglia di Vienna, dà l'idea di essere meno scomoda di quelle attuali, rigorosamente senza imbottitura, senza braccioli e con lo schienale a 90 gradi, così nessuno si abbiocca dopo che le maschere hanno chiuso a chiave le porte. Anche qui, qualche presa di distanza c'è. In sala da pranzo, si ammette che il Maestro ogni tanto alzava un po' il gomito e accanto al frontespizio del famigerato «Giudaismo nella musica» una didascalia informa che si tratta di «un diffamatorio pamphlet antisemita».
Repliche sotto le bombe
Però ci sono anche due nuovi spazi. Nel sotterraneo, si racconta la storia dei festival, con le maquettes delle scene e i costumi. E poi è aperta per la prima volta al pubblico anche la Siegfried Haus, la casa di Siegfried, che durante gli anni tremendi era nota come Führerbau, perché lì veniva ospitato Hitler (ma anche Richard Strauss o Toscanini, quando dirigevano a Bayreuth). E qui con l'ausilio di fotografie e video si dicono un bel po' di cose, sui rapporti fra la Famiglia e «Onkel Wolf», zio lupo, come lo chiamavano Wolfgang e Wieland, i due maschi di Siegfried e Winifred: dal «Mein Kampf» scritto su carta intestata di Wahnfried alle ripetute visite del Cancelliere, da Winifred con la foto di Hitler sulla scrivania ai suoi due figli che sfilano in camicia bruna. Si vede Hitler affacciarsi da una finestra della Festspielhaus davanti a una folla di spettatori con il braccio levato e i militari feriti o invalidi precettati ai festival «di guerra», con le rappresentazioni anticipate per non essere interrotte dai bombardamenti.
Famiglia di nazisti
Nella stanza che dà sul giardino, ancora nel '75, Winifred, processata e blandamente condannata dopo la guerra, ripeté per cinque ore a favor di telecamera che «aver conosciuto il Führer era stata un'esperienza che non avrei mai voluto perdere». La famiglia reagì malissimo, ma in fondo faceva comodo addossare tutte le colpe alla sola Winifred, mentre nazisti più o meno lo erano stati tutti, tranne una figlia, Friedelind, che fuggì in America anche perché si era innamorata di Toscanini.
Insomma, nel complesso una bella operazione verità. Del resto, l'ultimo «Parsifal» visto a Bayreuth, con la genialissima regia di Stephan Herheim, raccontava l'opera appunto come un'autobiografia della Nazione, finalmente redenta dalla democrazia dopo l'autoritarismo del Secondo Reich e i crimini del Terzo. Il passato passa soltanto se lo si conosce bene. E tutto.
(La Stampa, 31 agosto 2015)
Quando paesi arabi e Occidente accetteranno una ridivisione del Medio Oriente?
Cento anni fa gli Accordi Sykes-Picot disegnavano la carta del Medio Oriente come l'abbiamo conosciuta finora
A causa della conflittualità regionale e di stati arabi sempre più indeboliti e a pezzi, potrebbe essere solo questione di tempo prima che le potenze mondiali e gli stessi leader arabi del Medio Oriente si adeguino alla realtà e accettino una nuova suddivisione della regione.
Forse il prossimo futuro vedrà affermarsi una sorta di accordo "Sykes-Picot Due", sebbene su scala minore. O più semplicemente i confini disegnati de facto continueranno per il momento ad essere accettati, ufficiosamente.
Come si ricorderà, furono gli Accordi Sykes-Picot raggiunti durante la prima guerra mondiale quelli che originariamente tracciarono le linee di spartizione dell'Impero Ottomano. Inglesi e francesi suddivisero la regione in base ai loro interessi, tenendo ben poco in considerazione i gruppi etnico-linguistico-religiosi presenti sul terreno....
(israele.net, 31 agosto 2015)
Il binario 21 diventa luogo di accoglienza
di Stefano Pasta
Binario 21
A Milano, il binario 21 della Stazione Centrale è legato alla vergogna della deportazione nazifascista. Nei sotterranei, ora trasformati nel Memoriale della Shoah, ci sono le rotaie da cui partivano i treni merci carichi di centinaia di ebrei destinati alle camere a gas. Si salvarono in pochissimi, tra cui Liliana Segre, partita tredicenne nel 1944 per Auschwitz e poi tornata senza famiglia. Fu lei nel 1997, insieme alla Comunità di Sant'Egidio e alla Comunità ebraica, a ritrovare il luogo tra i capannoni abbandonati della Stazione. In questo stesso posto dorme su una brandina il quindicenne eritreo Merawi; nelle tasche dei pantaloni ha il biglietto del treno per la Germania. Il sudanese Abu è più grande, ha 20 anni: «Guarda cosa succede in Libia», mi dice mostrandomi la ferita di un proiettile sulla gamba. Vicino ai due giovani, tenta di prendere sonno anche la siriana Asma, 78 anni, insieme alla figlia che lavorava all'università e parla cinque lingue. «Fuggiamo da Homs, la città è bombardata». Eritrei, siriani, iracheni, sudanesi, etiopi, palestinesi e anche altre nazionalità. Sono i profughi - oltre 1.500 dal 22 giugno - ospitati dalla Comunità di Sant'Egidio insieme alla Fondazione Memoriale della Shoah.
Nei sotterranei del binario 21 possono mangiare, lavarsi, dormire qualche notte in attesa di ripartire verso il Nord Europa, dove tutti progettano di andare. Il centro è inserito nella rete di accoglienza di Milano (74mila in 22 mesi), ma grazie alla solidarietà di tanti è all'insegna della gratuità e non ha alcun costo per le istituzioni pubbliche. C'è chi dona il proprio tempo, chi regala il latte per il mattino, chi offre il proprio telefono per chiamare la famiglia. Prima di addormentarsi, Merawi, arrivato sei giorni fa a Brindisi, bacia il cellulare mentre avvisa la mamma in Eritrea che è ancora vivo nonostante il viaggio nel Mediterraneo. Finita la telefonata, chiede a un volontario se conosce i nomi dei cadaveri sbarcati a Ferragosto, asfissiati nella stiva di un barcone al largo della Libia: la madre gli ha chiesto di controllare se ci sia il cugino, anche lui quindicenne. La solidarietà attorno al Memoriale della Shoah unisce una curiosa mescolanza di uomini e donne di tradizioni religiose diverse. La cena viene preparata a turno dagli anglicani della città, da alcune parrocchie milanesi, dagli ebrei Lubavitch della cucina solidale Betavon e dai buddisti del tempio di via dell'Assunta a Corvetto. Volontari cristiani, ebrei e islamici si alternano per aiutare i profughi, mentre la notte dorme con loro Adil, marocchino e musulmano.
Spiega Giorgio Del Zanna della Comunità di Sant'Egidio: «C'è un'aspirazione profonda che unisce le differenti tradizioni religiose: prendersi cura dei poveri della nostra città". Continua: «La gente ha voglia di aiutare perché, se è vero che l'ostilità è contagiosa, la solidarietà lo è altrettanto. Lo vediamo a Milano e nelle altre città in cui aiutiamo i profughi. L'accoglienza al binario 21 di oggi è la rivincita verso il silenzio complice degli anni della Shoah». Quando è stato aperto il Memoriale, Liliana Segre ha voluto che la parola "indifferenza" fosse scritta a caratteri cubitali all'ingresso. Un monito per l'indifferenza dei milanesi di allora di fronte a quanto accadeva «sotto i loro occhi», ma anche quella della Svizzera, dove nel 1943 suo padre organizzò la fuga pagando i contrabbandieri. Passata la frontiera, trovarono un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi - ricorda sempre Liliana - supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia». Non ci fu nulla da fare, furono portati al carcere di San Vittore e poi ad Auschwitz, dove fu sterminata la sua famiglia.
Nelle sere inoltrate del Memoriale, quando la maggior parte degli ospiti si è addormentata, Adil chiede se qualcuno è ancora sveglio e vuole raccontare la sua storia. Lui le trascrive a mano, in arabo. Capita di ascoltare famiglie irachene di Erbil colpite dalla violenza dell'Isis, siriani in fuga dal quinto anno di guerra, adolescenti eritrei che scappano dal servizio militare obbligatorio a vita, sudanesi ed etiopi che sognano un futuro diverso. Addouma, sudanese di 21 anni, dice: «Ho preso questa decisione sapendo che poteva essere la mia fine o la mia occasione di cambiamento, il pensiero di provare non mi mollava mai». Ha pagato 2.500 dollari un trafficante per arrivare da Alessandria d'Egitto sulle coste italiane. «Prima di salire sulla barca, ci hanno picchiato come bestiame e insultato. La metà delle persone è scappata per la paura, perché la maggior parte di noi non aveva mai visto il mare. Passati sette giorni in acqua, ci hanno spostato su un'altra barca più grande dove c'erano già altre persone; dopo tre giorni abbiamo perso tutto il cibo e l'acqua dolce, mentre iniziavamo a imbarcare acqua. Una donna è morta per la sete, l'ho toccata ed era caldissima per la febbre. Il corpo è rimasto con noi per quattro giorni mentre andavamo alla deriva, finché una nave della Marina italiana ci ha salvato».
Muhsin invece non aspetta l'invito di Adil, parla inglese e ha molta voglia di raccontare la sua storia a persone amiche. Ha solo 16 anni e arriva da Aleppo, la città più popolosa della Siria. Insieme guardiamo una foto del suk di adesso e di prima della guerra. «Da qualche giorno manca ancora l'acqua», dice mostrandomi un messaggio spedito da un suo amico rimasto nella città sotto assedio dal luglio 2012. I bollettini internazionali lo confermano: Aleppo è nuovamente senz'acqua potabile, con temperature tra i 40 e i 50 gradi. Intanto, il 9 agosto colpi di mortaio nel centro e in una scuola della periferia che ospita i profughi hanno fatto 30 morti. Attualmente il 60% della città è controllato dalle forze governative, mentre il resto è conteso da vari gruppi in guerra tra di loro, compresi l'Isis e Jabhat al-Nusra. «Due anni fa - dice Muhsin - siamo scappati in Egitto con la mia famiglia. Sei mesi fa mio papà ha preso il barcone per arrivare in Svezia, dove ora ha ottenuto i documenti. Eravamo d'accordo che andasse prima lui per vedere la situazione e per permettermi di finire la scuola». Con l'estate è arrivato il turno del sedicenne, mentre la madre e la sorella sono per ora rimaste al Cairo. L'unica via possibile era quella illegale, non c'erano alterative ai trafficanti: Muhsin mi mostra le foto che ha scattato sulla barca, mentre vicino al Memoriale della Shoah mangiamo un gelato alla ricerca di un po' di normalità. La mattina successiva si parte con un treno diretto verso nord. Tre giorni dopo mi manda via WhatsApp una sua foto dalla capitale danese Copenaghen. Passano 48 ore e arriva una nuova foto dalla svedese Göteborg. L'adolescente è sorridente, insieme a una zia. «Tutto bene - mi scrive - sono con mio papà!».
Poi però aggiunge: «Un po' mi manca la mamma, spero arrivi presto».
(Corriere della Sera, 31 agosto 2015)
"L'America potente" di Cheney e quella di Obama che cede all'Iran
Il libro dell'ex vicepresidente.
di Glauco Maggi
Dick Cheney
Pochi giorni prima del voto decisivo in Congresso sul patto di Obama con Teheran, che tutti i repubblicani e anche diversi democratici giudicano l'ultima e piu' grave manifestazione di cedimento del presidente alle minacce, agli attacchi e alle pretese dei nemici dichiarati degli Stati Uniti e dei suoi alleati, una critica a tutto spiano alla politica estera di Barack viene dall'ex vicepresidente di George W. Bush, Dick Cheney. Oggi sono uscite le anticipazioni del Libro-Manifesto sull' "eccezionalismo americano" scritto da Cheney e dalla figlia Liz, attivista repubblicana con l'ambizione di seguire il babbo in politica (ha accarezzato persino l'idea di fare la senatrice in passato, ma poi ha rinunciato). Il titolo e' un programma: "Exceptional: Why the World Needs a Powerful America," "Eccezionale: perche' il mondo ha bisogno di una America potente" . Sara' nelle librerie il primo settembre, per i tipi della Simon & Schuster.
Ecco qualche stralcio tratto dalla autopresentazione che gli autori hanno fatto sul Wall Street Journal.
"L'accordo nucleare di Obama con l'Iran richiama tragicamente alla mente l'Accordo di Monaco del 1938 del primo ministro britannico Neville Chamberlein. Entrambi sono stati negoziati da una posizione di debolezza da un leader che voleva concedere praticamente tutto per placare un dittatore ideologico. Hitler ebbe la Cecoslovacchia. I mullahs a Teheran hanno avuto miliardi di dollari e la strada aperta a un arsenale nucleare. Monaco porto' alla Seconda Guerra Mondiale. L'accordo di Obama condurra' a un Iran dotato di armi nucleari e, piu' che probabilmente, al primo uso di un'arma nucleare da Hiroshima e Nagasaki. Il Congresso Usa dovrebbe rigettare il piano e reimporre le sanzioni che hanno portato l'Iran alla trattativa. E' possibile prevenire l'Iran dall'ottenere le armi nucleari, ma solo se gli Usa negoziano da una posizione di forza, rifiutano di concedere punti fondamentali e riconoscono che l'uso della forza militare sara' richiesto se la diplomazia non riesce a convincere l'Iran ad abbandonare la sua pretesa di armi nucleari".
"Nel 1983, quando gli USA affrontarono la minaccia posta dalla Unione Sovietica, il presidente Ronald Reagan spiego' la responsabilita' unica dell'America. 'Sta a noi nel nostro tempo', ha detto, 'scegliere, e scegliere saggiamente, tra il duro ma necessario compito di preservare la pace e la liberta', e la tentazione di ignorare il nostro dovere e ciecamente sperare per il meglio mentre i nemici della liberta' crescono piu' forti giorno dopo giorno'. Stava a noi allora - come sta a noi adesso - perche' noi siamo la nazione eccezionale. L'America ha garantito liberta', sicurezza e pace per la piu' larga fetta dell'umanita' di qualsiasi altra nazione nella storia. Non c'e' nessuno come noi. Non c'e' mai stato".
"Da quando Franklin Roosevelt ci ha proclamato l' 'Arsenale della Democrazia' nel 1940, i presidenti sia repubblicani sia democratici hanno capito l'indispensabile natura del potere americano. Presidenti da Truman a Nixon, da Kennedy a Reagan, sapevano che la forza dell'America doveva essere salvaguardata, la sua supremazia mantenuta. Nel 1940 la leadership americana fu essenziale per la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, e la liberazione di milioni dalla morsa del fascismo. Nella Guerra Fredda la leadership americana ha garantito la sopravvivenza della liberta', la liberazione dell'Europa Orientale e la sconfitta del totalitarismo sovietico. In questo secolo sara' essenziale per la sconfitta dell'Islam militante'.
"Eppure, malgrado l'esplosivo espandersi della ideologia e delle organizzazioni terroristiche, lo stabilirsi del Califfato dello Stato Islamico nel cuore del Medio Oriente, e le crescenti minacce da Iran, Cina, Nord Corea e Russia, il presidente Obama ha abbandonato questa tradizione che dura da 75 anni, largamente bipartisan, di assicurare la preminenza e la forza dell'America. Ha abbandonato l'Iraq, lasciando un vuoto che e' stato tragicamente e minacciosamente riempito dai nostri nemici. Ed e' in corsa per abbandonare pure l'Afghanistan".
"Obama ha fatto tagli pericolosi all'esercito USA. Combinati con il 'sequestro' disposto nella Legge di Controllo del Budget del 2011, questi tagli hanno, secondo l'ex capo di staff dell'esercito Ray Odierno, lasciato le forze armate impreparate come non sono mai state in nessun momento della loro storia. Il capo delle Operazioni navali Jonathan Greenert ha testimoniato in Congresso che 'la preparazione navale e' al suo punto piu' basso in molti anni'. Secondo il capo di staff dell'aviazione, la attuale flotta di aerei ' e' ora la piu' piccola e la piu' vecchia nella storia del nostro servizio'".
La sola speranza di riscossa, per i Cheneys, e' votare bene fra un anno. "Nel momento in cui gli USA affrontano un mondo di minacce crescenti alla sicurezza, noi dobbiamo essere risoluti nel prendere le azioni giuste e non perdere la speranza. Se un presidente ha lasciato un sentiero di distruzione al suo passaggio, un altro puo' salvarci. La persona giusta nella Stanza Ovale puo' rinvigorire la forza e le alleanze dell'America, battere i nostri nemici e mantenerci salvi . Non sara' facile. C'e' una strada possibile davanti, ma devono essere prese decisioni difficili e c'e'poco tempo. Dobbiamo scegliere con saggezza."
Cheney non ha detto nel libro quale sia, per lui, il candidato piu' qualificato, e anche nelle interviste televisive di promozione non si e' sbilanciato. A una domanda specifica su Trump di un giornalista della CBS Dick non ha voluto commentare, ma la figlia Liz, per spiegare il grande successo nei sondaggi di Donald (l'ultimo, della Reuters, lo da' al 33%, 20 punti sopra il secondo, Mike Huckabee) ha detto che "con la sua campagna ha toccato un nervo" degli americani. Del resto, lo slogan di Trump e' "Fare ancora grande l'America", che sembra il sottotitolo del libro dei Cheney.
(Libero, 30 agosto 2015)
Verso il record di forniture made in Italy
di Laura Cavestri
È la "start-up nation", la terra promessa dell'innovazione. Seconda solo alla Silicon Valley californiana. Eppure, se i numeri dell'interscambio fra Italia e Israele non sono giganteschi, un paese che ha estremo bisogno d'innovazione (l'Italia) non può ignorare il più innovato dei paesi (Israele). Ad esempio, nelle biotecnologie, nell'aerospazio e nelle tecnologie ambientali.
È un rapporto storicamente favorevole e radicato, quello tra Roma e Tel Aviv. Che ha poco più di 8 milioni di abitanti, un Pil atteso in crescita, quest'anno, del 3,4% (l'anno scorso era al 2,8) e una disoccupazione in calo (al 5,4%, nel 2010 era all'8,3%). E dove, assieme al "Made in Italy" agroalimentare (frutta, caffè, acque minerali) l'export italiano si concretizza con macchinari e attrezzature meccaniche, aeromobili e veicoli spaziali, prodotti chimici.
E armi. L'Italia è uno dei maggiori fornitori di armi e alta tecnologia militare a Israele. Anzi, da soli quasi eguagliamo le forniture di Francia, Germania e Regno Unito. I droni dell'esercito israeliano sono equipaggiati con radar prodotti dalla Selex Galileo, una società del gruppo Finmeccanica. Nel 2014 sono iniziate le forniture da parte della Alenia Aermacchi, sempre parte di Finmeccanica, di 30 aerei addestratori avanzati M-346 ordinati dal ministero della Difesa israeliano a luglio 2012. Il contratto ha un valore di circa 140 milioni di dollari.
Da loro, invece, acquistiamo altri prodotti chimici e materie plastiche, agrofarmaci per l'agricoltura ma anche pietre preziose lavorate e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio. In ogni caso, se importiamo complessivamente sempre meno (l'anno scorso l'Italia ha acquistato per circa 904 milioni di euro), le nostre vendite hanno ritrovato la spinta della crescita (+6% rispetto al 2013), raggiungendo l'anno scorso gli oltre 2,2 miliardi di euro, che si avvicinano al "record" del 2011 di 2,3 miliardi. Restiamo in sella come 6o fornitore mondiale di Tel Aviv. Mentre gradualmente scendiamo (in 5 anni dall'11o al 13o posto) nella graduatoria dei loro clienti.
Eppure, le opportunità sono enormi. Perché il Paese che più spende al mondo in ricerca scientifica in rapporto al Pil cerca sinergie nelle biotecnologie e nella farmaceutica legata all'agricoltura, alle tecnologie ambientali per il recupero delle acque e l'impiego di energie rinnovabili, informatica e medicina.
Dal 2003, c'è un accordo di cooperazione nel campo della ricerca scientifica, dello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico che dà vita a un bando per progetti congiunti. Infine, servono infrastrutture (strade, metropolitane, ferrovie, aeroporti) per colmare gli squilibri tra aree del Paese. Ma anche per quei giacimenti di gas che contribuiscono, tra l'altro, a mantenere alta la tensione con Hamas.
(Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2015)
Oliver Sacks (1933-2015)
di Rachel Silvera
Oliver Sacks
Ha destato cordoglio in tutto il mondo ebraico la scomparsa del neurologo inglese, americano d'adozione, Oliver Wolf Sacks. Nato a Londra da genitori ebrei nel 1933, Sacks aveva nella sua famiglia eccellenze nel mondo della scienza e della politica: sua madre Muriel è stata una delle prime donne-chirurgo, suo cugino, l'israeliano Robert John Aumann, ha vinto il premio Nobel per l'economia nel 2005 e un altro cugino, Abba Eban, ha ricoperto il ruolo di ministro degli Esteri e dell'Educazione dello Stato di Israele.
Docente alla New York University e alla Columbia oltre che dell'Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York, Oliver Sacks si è occupato per tutta la vita di ricerca nell'ambito delle malattie neurologiche, dal Parkinson alla Sindrome di Tourette, vantando numerosi pubblicazioni in Italia edite da Adelphi. Tra i libri più conosciuti al grande pubblico spiccano "Risvegli", dedicato ad una particolare patologia neurologica originata dall'encefalite letargica che ha ispirato nel 1990 una trasposizione cinematografica con Robert De Niro e Robin Williams, e "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello", una collezione di casi di pazienti dai risvolti più vari e curiosi. Il suo ultimo lavoro è l'autobiografia "On The Move: A Life", che verrà pubblicata ad ottobre.
Solo pochi giorni fa, il New York Times aveva pubblicato un articolo di Sacks in cui si rievocava uno Shabbat particolare: quello nel quale si era riappacificato con la propria religione. "Mia madre e i suoi 17 fratelli - scriveva - e sorelle ricevettero un'educazione ortodossa: in tutte le fotografie, mio nonno porta la kippah, e mi hanno detto che se gli cadeva, di notte, si svegliava. Anche mio padre proveniva da un ambiente ortodosso. Entrambi i miei genitori erano molto consapevoli del Quarto Comandamento («Ricordati del giorno di sabato per santificarlo»), e lo Shabbat (Shabbos, come lo chiamavamo noi, ebrei lituani) era un giorno completamente diverso dal resto della settimana. Nessun lavoro era permesso, né guidare, né usare il telefono; era proibito accendere una luce o una stufa. Essendo medici, i miei genitori facevano delle eccezioni. Non potevano staccare il telefono o evitare del tutto di guidare; dovevano essere disponibili, se necessario, per vedere i pazienti, o operare, o far nascere dei bambini".
Una volta rivelata la propria omosessualità Sacks si scontrò con il rifiuto della madre che lo portò al progressivo distacco dalla religione. Una crisi risolta anni dopo, proprio durante una cena di Shabbat con il cugino ebreo ortodosso Robert John Aumann: "Quanto fosse profondamente cambiato l'atteggiamento, anche tra gli ortodossi, fu definitivamente chiarito da Robert John quando invitò Billy e me a unirci a lui e alla sua famiglia per il pasto di apertura dello Shabbat. La pace dello Shabbat, di un mondo che si ferma, in un tempo fuori dal tempo, era palpabile, pervadeva tutto, e mi ritrovai immerso nella malinconia, qualcosa di simile alla nostalgia, a chiedermi: e se A e B e C fossero stati diversi? Che persona sarei stata?".
E, una volta scoperto di avere una malattia allo stadio terminale, spiegava Sacks sulle colonne del New York Times, ciò che gli è tornato in mente non è stato altro se non il valore dello Shabbat, sua eredità e testamento: "E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile - hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare".
(moked, 30 agosto 2015)
Le «pietre» che ricordano le vittime della strage
Sono state posate questa mattina [30 agosto] a Meina le «pietre d'inciampo" che ricordano la strage degli ebrei avvenuta sul Lago Maggiore. Nella foto Rossana Ottolenghi, figlia di Becky Behar, sopravvissuta alla strage.
(La Stampa - Novara, 30 agosto 2015)
Roma punta ai pozzi di metano e prepara il super gasdotto
Renzi-Netanyahu, intesa per il gas israeliano. Lo sviluppo dei giacimenti e l'ipotesi di un "tubo" via Cipro e Grecia.
Seduti in un tavolo per quattro, con a fianco solo le consorti, Matteo Renzi e Benjamin Netanyahu hanno parlato di quanto più li unisce in questo momento, ovvero il dossier-energia. Il motivo è l'interesse dell'Italia ad entrare da protagonista nello sfruttamento dei giacimenti di gas naturale in Israele e il coincidente obiettivo del premier di Gerusalemme di definire il nuovo assetto regolatorio, accelerando il debutto sul mercato globale.
Tutto verte attorno a Edison, la società italiana controllata dai francesi di Edf, già impegnata nello sfruttamento da parte del consorzio Ratio Oil dei giacimenti minori di Neta e Roi ed ora impegnata della richiesta di acquisto dei più grandi Karish e Tanin ovvero un totale di almeno 70 miliardi di metri cubi di gas naturale. L'offerta di Edison ha il sostegno del governo italiano, desideroso di differenziare le fonti di approvvigionamento nazionale alla luce delle crisi in Ucraina e Nordafrica, ma si scontra con l'aspra battaglia regolatoria in atto nello Stato ebraico.
A innescarla sono state le dimissioni di David Gilo, capo dell'Antitrust, contrario all'attuale assetto che assegna al consorzio guidato dai texani di Noble Energy e dagli israeliani di Delek un «duopolio di fatto» nella gestione del gas, i cui maggiori giacimenti sono Leviathan e Tamar con risorse complessive stimate per almeno 52 miliardi di dollari. Il polemico abbandono di Gilo ha fatto scadere i termini dell'offerta Edison e creato un'impasse nella redazione del nuovo assetto regolatorio, con Israele divisa fra pro e contro il consorzio Noble-Delek e il ministro dell'Economia Arye Deri intenzionato a rimandare ogni decisione fino alla nomina del nuovo capo dell'Antitrust.
Allungare i tempi implica uno stallo che non piace a Netanyahu, la cui ambizione è sfruttare l'energia per moltiplicare la proiezione globale di un'economia già protagonista nel mercato hi-tech. Da qui la scommessa dell'Italia di offrire al premier una possibile via d'uscita: Karish e Tanin venduti ad Edison consentirebbero di superare le obiezioni sull'assenza di concorrenza senza però modificare il controllo dei maggiori giacimenti.
Altri due fronti aperti
Ma non è tutto perché l'Italia è in pista anche sugli altri due fronti della partita del gas israeliano: esportazione e consumo interno. Sull'export i due governi dialogano da tempo sulla realizzazione di un possibile tracciato Israele-Cipro-GreciaItalia per far arrivare il gas alla rete di distribuzione europea attraverso il gasdotto transadriatico (Tap) ma è un progetto che si scontra con difficoltà tecniche - e costi assai alti - dovuti ai fondali sottomarini fra Cipro e la costa ellenica. Da qui l'ipotesi alternativa di coinvolgere l'Egitto, facendo arrivare il gas israeliano fino a Damietta dove la spagnola Union Fenosa, controllata da Eni, ha un centro di liquefazione che consentirebbe l'export via mare.
La cooperazione trilaterale Israele- Italia-Egitto aggiungerebbe l'energia alle convergenze sulla sicurezza. Riguardo al consumo interno israeliano, l'Italia ha compiuto un passo in febbraio con la firma a Gerusalemme del memorandum d'intesa fra Israel Fuel Choice Initiative - il progetto di Netanyahu sui carburanti alternativi -, Fiat Chrysler Automobiles (Fca), Iveco e Magneti Marelli per lo sviluppo di tecnologie basate sul gas tese a sostituire la benzina per automobili, camion e autobus.
In una nazione di oltre 8 milioni di abitanti dove gran parte dei trasporti avvengono su gomma e la benzina è ancora l'unico carburante, l'Italia si è così posizionata in pole position per il debutto di alternative tipo-diesel, andando anche qui incontro alle politiche di Netanyahu che punta entro il 2020 a produrre almeno il 20 per cento dell'elettricità da carburanti non-fossili e vorrebbe procedere in tale direzione anche sul fronte dell'autotrazione per ridurre la dipendenza dal greggio straniero che pesa per il 20 per cento sull'import.
Triplice partita
Dietro la volontà dell'Italia di entrare nella triplice partita del gas israeliano - produzione, export e consumo - c'è anche l'ipotesi, all'esame di Renzi e Netanyahu, di imprimere un risvolto strategico all'impegno sull'energia sostenendo lo sviluppo dei Paesi africani più poveri, nella fascia subsahariana, per promuovere prosperità al fine di arginare l'emigrazione di massa e combattere i jihadisti.
(La Stampa, 30 agosto 2015)
Il soldato israeliano violento blocca il bimbo palestinese
La piccola pasionaria palestinese Ahed Tamimi, rappresentata in questo video nella scena in cui tenta di provocare i militari israeliani al fine di consentire le riprese della Pallywood palestinese. Giorni fa la promettente giovane attrice al servizio della filmografia palestinese si è esibilita nella scena del morso della mano a soldato israeliano. LOccidente si diverte a queste scene, quindi perché voler distinguere tra finzione e realtà, tra menzogna e verità? Che cosè verità? Tutto ciò che è contro Israele DEVE essere vero: è questo lirrinunciabile criterio di accertamento della verità. M.C.
Un controverso video sulle violenze in Cisgiordania fa il giro del mondo e scatena polemiche contro Israele. Nelle immagini, un ragazzino palestinese con un braccio ingessato viene bloccato duramente da un soldato israeliano, nel villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania. Poco dopo, un gruppo di palestinesi, incluse diverse donne e una ragazzina si scagliano sul militare, aggredendolo. La giovane, di circa 15 anni, finisce col mordere il soldato. A questo punto, il comando israeliano decide di soprassedere e sospendere il fermo del ragazzino, di cui in precedenza era stato deciso l'arresto, «perché lanciava sassi contro i militari». Il tutto si è svolto davanti a operatori e fotografi dei media internazionali.
Alcuni esprimono «dubbi» sull'autenticità della scena, e accusa i palestinesi di «aver orchestrato» l'aggressione. In particolare, la ragazzina che morde il soldato a una mano «è Ahed Tamimi» la teenager ribattezzata nel 2012 la «piccola pasionaria» palestinese, quando divenne celebre per essere stata ripresa mentre si lanciava a pugni chiusi contro una pattuglia israeliana in Cisgiordania. Tanto celebre che il presidente turco Recep Tayyp Erdogan le consegnò il "Premio Handala" per il coraggio. È figlia di attivisti palestinesi nel villaggio di Nabi Saleh, «in passato finiti in carcere per aver istigato i giovani a lanciare pietre contro i soldati e organizzare marce senza permesso», scrive il Daily Mail.
Il portavoce dell'Esercito israeliano ha confermato che la vicenda si è svolta nell'ambito di violenti scontri, e che il ragazzino con il braccio rotto lanciava sassi contro i militari. Dopo l'intervento delle donne e della ragazzina, «è stato deciso di non procedere al fermo».
(La Stampa, 29 agosto 2015)
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La Pallywood della famiglia Tamimi
È chiarissimo ciò che è avvenuto: i palestinesi hanno spedito i loro bambini e le rispettive mamme per fabbricare una propaganda antiisraeliana. Hanno lanciato pietre contro un soldato israeliano, l'hanno privato della maschera antigas, e l'hanno assalito.
Quando questi ha intercettato un lanciatore di pietre, la massa lo ha assaltato, l'ha morso e immobilizzato. Si tratta del ripugnante clan Tamimi, che approva l'uccusione dei propri figli fino a quando il biasimo ricade sull'esercito israeliano....
(Il Borghesino, 30 agosto 2015)
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Pallywood: il video di Nabi Salah arriva alla Knesset
Il video girato nel villaggio palestinese di Nabi Salah che ha fatto il giro del mondo perché mostra un militare israeliano abbandonato a se stesso, accerchiato e messo in difficoltà da donne palestinesi esaltate e ben "addestrate" è diventato un caso nazionale e per iniziativa del partito di Avidgor Liberman approda alla Knesset.
E' stato il partito Yisrael Beytenu, di cui Liberman è il leader, a chiedere una riunione d'emergenza della Commissione per gli Affari Esteri e Difesa della Knesset per discutere quello che lo stesso Liberman ha definito "un episodio vergognoso che dimostra la debolezza dell'esercito israeliano soggetto sempre più spesso a limiti di comportamento che ne pregiudicano l'efficienza". In particolare Liberman denuncia che il militare aggredito da personaggi ben noti per organizzare settimanalmente gravi provocazioni nei confronti dei militari del IDF con l'appoggio di ONG straniere, è stato incredibilmente abbandonato a se stesso e solo dopo diverso tempo altri militari sono intervenuti in suo soccorso. Il militare, sebbene armato e addestrato, non ha potuto rispondere come doveva all'attacco perché sempre più regole vincolano e limitano l'azione dei militari israeliani....
(Right Reporters, 30 agosto 2015)
Energia - L'Iran pronto a rafforzare cooperazione con la Cina nel settore nucleare
TEHERAN - L'Iran è pronto e determinato a incrementare la cooperazione strategica con la Cina nel campo dell'energia nucleare. Lo ha dichiarato il direttore dell'Organizzazione per l'energia atomica dell'Iran (Aeoi), Ali-Akbar Salehi, nel corso di una intervista esclusiva all'agenzia di stampa "Irna" da Pechino, dove si trova in visita ufficiale. Ribadendo il "ruolo costruttivo" giocato dalla Cina nell'ambito dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano, Salehi ha spiegato che i due paesi godono di una "relazione privilegiata" che è entrata "in una nuova fase" dopo la firma dell'accordo internazionale sul nucleare a Vienna, il 14 luglio scorso. Tra i progetti congiunti discussi dai due paesi, il direttore dell'Aeoi ha citato in particolare quello relativo allo sviluppo e alla realizzazione di piccole centrali nucleari "multidimensionali" da 100 megawatt, in grado di generare al contempo energia elettrica, vapore per usi industriali e di desalinizzare l'acqua marina.
(Agenzia Nova, 30 agosto 2015)
"Pecore in erba" arriva a Venezia: "Una risata per seppellire l'intolleranza"
di Arianna Finos
L'esordio di Alberto Caviglia sbarcherà alla Mostra del Cinema, che si inaugurerà il 2 settembre, con una satira che documenta il profilo di un "Forrest Gump" antisemita: tra gli ospiti di questo "finto" documentario personaggi noti della cultura italiana, da Gipi a Corrado Augias fino a Vinicio Marchioni.
"Pecore in erba" è un un finto documentario sulla vita di Leonardo Zuliani, che manifesta fin dalla nascita un sentimento di odio verso gli ebrei. Crescendo, l'antisemitismo si trasforma nella crociata di una rocambolesca vita - tra Candide e Forrest Gump - che lo vede tifoso, disegnatore, scrittore, imprenditore e attivista politico al centro della ribalta mediatica italiana e mondiale.
L'esordiente Alberto Caviglia, 34 anni, usa l'ironia (ma il retrogusto è amaro) e arruola un folto gruppo di intellettuali, giornalisti, artisti che si prestano a commentare le gesta del protagonista nel "documentario": Carlo Freccero, Ferruccio De Bortoli, Fabio Fazio, Corrado Augias, Linus, Gipi, Elio, Margherita Buy, Giancarlo De Cataldo, Vinicio Marchioni. Il regista del film - in sala il 24 settembre gioca con gli stereotipi: Zuliani è ossessionato dal complotto "pluto giudaico massonico", cui si devono la morte di Lennon, di Kennedy e della madre di Bambi. Si allea con la tifoseria estrema, la sinistra estrema, la lega Nerd (ingegneri nucleari anti- immigrati) con i fascisti greci di "Tramonto di Bronzo". Diventa fumettista di successo con Bloody Mario in cui disegna le morti cruente del compagno di classe ebreo, scrive il thriller La morte corre da Sion e una versione della Bibbia (Redux) da cui viene espunta la parola ebreo. Diventa ricco grazie al kit "dell'amore" con una tanica di benzina e la bandiera israeliana. E intanto opinionisti e intellettuali s'affretteranno a difendere la sua libertà d'espressione contro "il preoccupante fenomeno dell'antisemifobia".
Alberto Caviglia spiega la genesi del film: «Sono ebreo, sensibile al tema. Ho cercato un approccio diverso rovesciando la prospettiva: ho trasformato un antisemita in un eroe che cerca di esprimersi in una società altrettanto ribaltata. Diversa eppure inquietantemente simile alla nostra, in cui l'antisemitismo non viene più percepito come qualcosa di condannabile, ma una caratteristica innata che va manifestata liberamente. Il mio personaggio è un'antisemita puro, nel senso che non ha bisogno di ideologie per giustificare il suo odio».
- Quello della satira è un approccio rischioso.
«Per tutto il tempo delle riprese non ho mai dormito. Mi chiedevo: si può fare? Ne verrà capito il senso?».
- Che risposta si è dato?
«Ho pensato che nell'ebraismo l'ironia è stata anche un'arma di sopravvivenza in situazioni drammatiche».
- I modelli comici sono Woody Allen, i Monty Python, Sacha Baron Cohen.
«Sì. Il nome del personaggio, Leonardo Zuliani, è in onore di Leonard Zelig di Woody Allen. E, di sicuro, avevo ben presente Il dittatore di Baron Cohen. L'ambizione era mischiare ironia ebraica e commedia all'italiana. Accostare alto e basso. Punto a un pubblico ampio».
- Leonardo si scatena contro il compagno di classe ebreo.
«Appartengo alla comunità ebraica romana ma ho frequentato medie e liceo pubblici. All'inizio non è facile non reagire alle battute. Hai voglia di rispondere, lo fai e ti dispiaci perché l'hai fatto nel modo sbagliato, o hai perso un amico. Così inizi ad accumulare. Ti stupisci nel che nel 2015 ci siano profanazioni e scritte sui muri e striscioni allo stadio, senza che nessuno reagisca. La mia risposta è stata questo film».
- L'ascesa mediatica del suo antisemita fa venire in mente il caso francese Dieudonné: la comicità antisionista, il saluto romano all'incontrario.
«Conosco il fenomeno e lo trovo inquietante. Non l'ho avuto presente in fase di scrittura, ma in effetti c'è una certa affinità».
- Come ha convinto tanti intellettuali, giornalisti, attori?
«Due mesi prima del ciak mai avrei immaginato una tale partecipazione. Il traino è stata l'idea: associare antisemitismo e satira. Con ognuno ci sono arrivato in modo diverso. Il primo giorno ho girato con Fabio Fazio, ero nervoso, alla fine ero abituato alle celebrità. Freccero ha conquistato la troupe con la sua simpatia. Mai avrei pensato di riuscire a coinvolgere Gipi. La verità è che molti di loro li ho presi per sfinimento».
(la Repubblica, 29 agosto 2015)
Melodie napoletane conquistano Gerusalemme
Il Coro Polifonico di Ercolano
GERUSALEMME - Le melodie del '700 napoletano hanno conquistato Gerusalemme con le voci del Coro Polifonico di Ercolano nel tour che li ha portati in terra d'Israele.
Ad ospitare l'evento organizzato dai Legionari di Cristo in collaborazione con il Ministero del Turismo israeliano, è stato l'Auditorium Notre Dame Jerusalem Center che nel 2000 fu inaugurato da Giovanni Paolo II. Il gruppo campano che aveva tenuto uno serie di concerti nella città di New York, in occasione del Columbus Day, ha portato in giro per il mondo le sonorità di canti che hanno saputo aprirsi alla contaminazioni di culture del Mediterraneo. Una metafora che la Polifonica di Ercolano, partendo dalle interazioni di generi musicali che superano ogni barriera linguistica, ha voluto trasferire alla convivenza di pace tra religioni nel cuore della città del Santo Sepolcro.
Per l'ensamble il concerto di Gerusalemme è stata anche l'occasione per ricordare la candidatura di Ercolano a Capitale italiana della Cultura 2016 nella sfida che la vedrà impegnata nel confronto con Aquileia, Como, Mantova, Parma, Pisa, Pistoia, Spoleto, Taranto e Terni.
(PRIMAPRESS, 28 agosto 2015)
Netanyahu a Renzi, insieme nella comune lotta al terrorismo
Il «faccia a faccia» Palazzo Vecchio. Il premier israeliano loda l'Italia «Paese innovatore» e ammomisce: «Civiltà sotto assedio da Isis e minacciato da Iran».
«Dear Bibi», «my good friend Matteo». Vertice a Firenze, a Palazzo Vecchio, tra il presidente del consiglio italiano Renzi e il premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo la visita privata della delegazione alla città toscana. Nell'agenda, lotta al terrorismo e cooperazione economica.
«Collaborazione tra Italia e Israele»
«Possiamo espanderci insieme nel settore scientifico, della ricerca, dell'agricoltura e questo ci aiuterà nella comune lotta al terrorismo» è stato l'esordio del premier israeliano . «C'è una regola semplice che è fondamentale per il futuro delle nostra società: il futuro appartiene a chi innova e in questo l'Italia è sempre stata fantastica».
«Iran, un pericolo per Nord Africa e mondo intero»
«La nostra civiltà è sotto assedio dallo Stato islamico e dall'Iran che cerca, a scopi militari, di implementare le sue scorte atomiche. Questo è un pericolo che viene dallo stato islamico dell'Iran. Un pericolo per il mondo e in particolare per il Nord Africa». Lo ha detto Benjamin Netanyahu incontrando Matteo Renzi.
«Accomunati da grande storia culturale»
«Ci unisce l'essere figli di una grande storia culturale, una comunanza di valori, volta a mantenere pace, nella lotta contro il terrorismo e contro tutte le forme di barbarie, soprattutto in Medio Oriente e nel Mediterraneo. L'Italia è al fianco di Israele per riportare la pace in tutta la regione» ha detto Renzi nella onferenza stampa a Palazzo Vecchio. «La cooperazione fra Itaalia ed Israele non è soltanto a livello di governo e diplomatico ma anche di amicizia fra i due paesi. Scienza, energia, cultura. Questa visita di Bibi e Sara Netanyahu a Firenze dimostra la forza dell'unione fra i nostri due paesi» ha proseguito il presidente del Consiglio. «Quando Renzi è venuto a parlare nel nostro paese, ha fatto a tutti un impressione straordinaria, ha commosso tante persone, come raramente era successo prima, ed io lo posso dire perché ne ho sentiti tanti di discorsi alla Knesset». Ha detto invece il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
«Impressionato da Expo»
«Mio buon amico, Matteo Renzi, questa visita ha suscitato in me profonda impressione. Una grande impressione ha suscitato in me la visita ad Expo Milano. L'Expo l'esempio della creatività italiana» ha detto Netanyahu durante l'incontro.
(Corriere della Sera, 29 agosto 2015)
«Italiani, pagate troppe tasse». Il grafico di Bibi
Il premier all'Expo prende un foglio e traccia la curva di Laffer: ecco dove sbagliate.
di Elisabetta Soglio
II grafico disegnato da Netanyahu sul retro del menù a Expo
MILANO - Prima ha sgranato gli occhi: «What?!». Poi ha chiesto una penna e, disegnando un grafico sul retro del foglio con il menù della cena, Benjamin Netanyahu ha improvvisato la lezione di fiscalità. Suo interlocutore, nella saletta riservata del ristorante di Palazzo Italia, il commissario unico di Expo Giuseppe Sala. Proviamo a ricostruire la scena. Siamo, giovedi sera, al termine della visita (blindatissima) di Netanyahu all'Expo: padiglione di Israele, poi Cina, Stati Uniti e infine lo spazio italiano. Tutto bellissimo, «un grande successo», ripete lui davanti ai microfoni e in separate sedi. Al tavolo del ristorante gestito da Peck siedono anche la moglie del premier israeliano, Sara, e il commissario del Padiglione Italia Diana Bracco. Si parla ancora di Expo, «un'organizzazione davvero incredibile per un evento con così tante complessità», si complimenta. Poi la politica in tema: «Ho sentito che il vostro primo ministro Matteo Renzi sta avviando una manovra per abbattere le tasse», è lo spunto. Ed ecco la domanda a Sala: «Ma lei quanto paga di tasse?». «Mah, circa il 50 per cento. Stupore di Netanyahu: «Come?!». Il premier scuote la testa e chiede a Sala una penna. La discussione si anima e interviene anche Diana Bracco, che è imprenditrice ed è stata ai vertici dell'associazione degli industriali: «Per le aziende è peggio, la tassazione in Italia è altissima». Arriva il cameriere con la penna e Netanyahu illustra il principio della curva di Laffer su un asse c'è il «tax rate», l'aliquota fiscale e sull'altro le «tax revenues», le entrate fiscali. Se tu tieni al massimo di 100 o al minimo di 0 (zero, ndr) le tasse, quello che incassi è sempre zero. Se tracci però la curva che incrocia i due dati, trovi un punto di equilibrio e verifichi che risali questa curva solo diminuendo le tasse. «Noi abbiamo fatto così garantisce il premier israeliano e ha funzionato. Siamo riusciti a tagliare l'aliquota fiscale dal 36 al 25 per cento e gli introiti fiscali sono cresciuti». Netanyahu, che fino al 2005 è stato ministro delle Finanze, garantisce che la teoria funzioni. Sala e Bracco ascoltano e memorizzano la curva di Lasser. La cena, dopo il risotto alla milanese, prosegue con il «branzino all'amo arrostito in foglie di lattuga, bottarga e vellutata di zucchine in fiore». Sala piega il foglio dove, dietro agli elaborati nomi dei piatti serviti, c'è la ricetta per pagare meno tasse garantendo più entrate allo Stato: «Posso conservarlo? chiede a Netanyahu. «Certo, non è un segreto».
(Corriere della Sera, 29 agosto 2015)
"Iran più pericoloso dell'Isis. Europa e Usa non s'illudano"
Il dietro le quinte della visita di Netanyahu. Oggi sarà da Renzi.
di Maurizio Molinari
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu all'aeroporto di Firenze. Ad accoglierlo il primo cittadino Dario Nardella
FIRENZE - L'Iran punta a dominare il mondo e si infiltra anche in Libia, Isis può essere battuto solo con truppe di terra, Abu Mazen non vuole l'accordo di pace e l'Africa può essere terreno di cooperazione: sono i messaggi che Benjamin Netanyahu porta oggi a Matteo Renzi, accompagnati da una previsione sull'accordo di Losanna sul nucleare di Teheran, ovvero che ad affossarlo sarà il successore di Obama. A descrivere idee e contenuti del premier di Gerusalemme sono i suoi più stretti collaboratori che lo accompagnano nella visita. «Isis minaccia tutti - esordisce uno di loro - e può essere battuto ma serve l'intervento di terra ed al momento non c'è una leadership internazionale per guidarlo». Isis si affaccia sull'Italia dalla Libia «a cui Israele guarda per l'impatto che ha sull'Egitto» e fra le constatazioni c'è «la presenza di gruppi sostenuti dall'Iran che operano, si infiltrano». D'altra parte, aggiunge un altro funzionario, «Qassem Soleimani, capo della Forza Al Qods dei pasdaran, ha minacciato la Giordania».
Il disegno di Teheran
Sono le conferme del «disegno dell'Iran di conquistare la nostra regione e dominare il mondo» con un progetto su più binari: «La corsa all'arma nucleare, la realizzazione di missili intercontinentali, il sostegno a gruppi come gli houthi in Yemen e gli Hezbollah in Libano per destabilizzare i Paesi, cellule terroristiche in 32 Paesi, attacchi cibernetici e un'industria bellica con 60 mila dipendenti per realizzare dai satelliti ai sottomarini». Visti da Gerusalemme, lo Stato Islamico del Califfo e la Repubblica Islamica di Ali Khamenei sono «due volti della stessa minaccia» e la richiesta all'Europa è di «combatterle entrambe» tenendo però presente che «Teheran corre verso l'atomica mentre Isis si muove sui pick-up» e dunque è l'Iran il pericolo maggiore. «L'accordo di Losanna offre a Teheran più strade per l'atomica - aggiungono le fonti israeliane - e gli consente da subito di avere maggiori risorse per perseguire le aggressioni contro i vicini, costruire missili che minacciano l'Europa del Sud e presto minacceranno gli Usa». Da qui la necessità di battersi contro l'intesa sul nucleare «molti Paesi della regione, dall'Arabia Saudita agli Emirati fino all'Egitto, chiedono a noi di premere su Washington». La battaglia al Congresso sulla risoluzione anti-accordo terminerà con il voto in settembre e la previsione è che passerà nella prima votazione ma poi Obama metterà il veto e «potrebbe non esserci la maggioranza qualificata per annullarlo». La battaglia però continuerà «perché non è un Trattato ma un atto esecutivo del Presidente che potrà essere rovesciato dal successore». Israele dunque guarda al dopo-Obama sull'Iran: se Netanyahu si batte con tanta determinazione è perché scommette sul nuovo presidente Usa, in carica dal 20 gennaio 2017. Ciò contiene un messaggio per le aziende italiane che corrono a Teheran: «Avranno guadagni facili nel breve termine, ma nel lungo termine sarà contro-producente».
I dubbi sulla strategia Usa
La tesi dell'amministrazione Usa sulla possibilità di innescare una rivoluzione in Iran non convince: «Il successo della repressione dipende dal numero delle persone che si uccidono e in Iran sono tante». Dunque «sebbene in Iran la maggioranza della popolazione guardi con favore all'Occidente a governare resterà il regime di Ali Khamenei» che «adopera Rouhani e Zarif come dei portavoci». Sul fronte del negoziato di pace, l'incontro con Renzi serve per chiedere all'Italia di non seguire la Francia nell'«International Support Group» ovvero la creazione di un gruppo di nazioni per favorire la ripresa dei negoziati fra Israele e palestinesi. «Con un gruppo simile Abu Mazen non accetterebbe mai nulla» spiega un collaboratore del premier, secondo il quale la formula per arrivare ad un'intesa con i palestinesi è «due Stati-nazione, ognuno dei quali assorbe i suoi profughi, con quello palestinese smilitarizzato».
Una posizione elaborata nei dettagli: «Il nodo non sono gli insediamenti o i confini ma cosa vi sarà dentro, chiediamo il riconoscimento di Israele come Stato ebraico per scongiurare il ritorno dei profughi palestinesi che ci distruggerebbe, noi abbiamo assorbito 800 mila ebrei fuggiti dai Paesi arabi, tocca ad Abu Mazen fare altrettanto con i suoi profughi». Immaginare un ritiro totale di Israele dalla Cisgiordania «è improponibile perché lo abbiamo fatto a Gaza e ci siamo ritrovati sotto i missili di Hamas» senza contare che «anche con il ritiro completo Abu Mazen non accetterebbe Israele come Stato ebraico perché vuole far tornare i profughi a Haifa e Jaffa».
«Italia ponte con l'Europa»
In tale quadro Israele guarda all'Italia come ad un «ponte con l'Europa» con cui promuovere «sicurezza e prosperità nel Mediterraneo» cooperando anche in Africa - a cominciare dal Sahel - per creare sviluppo al fine di battere la povertà, fermare l'esodo di popolazioni e tagliare le radici al jihadismo.
(La Stampa, 29 agosto 2015)
Netanyahu fa il turista: «Che bellezza, Firenze è una città meravigliosa»
Accademia, Uffizi e Forte: si commuove davanti a Botticelli. Strade chiuse, traffico bloccato a singhiozzo, sicurezza ai massimi livelli.
di Ilaria Ulivelli
Sara e Bibi
Scortato a ogni sospiro da quaranta uomini armati fino ai denti, non avrebbe dovuto muovere passo dall'albergo, secondo i piani comunicati dal Mossad, i servizi segreti israeliani. Invece, arrivato a Peretola con tre ore di anticipo rispetto al programma iniziale, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, variabilmente per mano o abbracciato alla bionda moglie Sara, si è immerso nella bellezza di Firenze. Come e più della cancelliera tedesca Merkel a gennaio: a tempo di record era ai piedi del David all'Accademia, affacciato sull' Arno dalla finestra degli Uffizi, a rimirare il panorama al Forte Belvedere. Con la città bloccata, gli autobus in coda, le auto stoppate da barriere umane armate, con sensi di marcia invertiti all'improvviso, strade chiuse e un dispiegamento di forze dell'ordine pauroso che come Netanyahu può solo Barack Obama.
Alle tre del pomeriggio è sbarcato al Vespucci: ad accoglierlo sulla pista il sindaco Dario Nardella, l'amico e presidente di Areoporti Toscani Marco Carrai che con Bibi è rimasto a fare il cicerone per tutta la giornata e l'ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon. «Firenze è una città meravigliosa e sono davvero felice di essere qui», ha detto a Nardella mentre gli stringeva la mano. Qualche parola con il sindaco, convenevoli, ma niente incontri ufficiali: il premier è in visita privata.
A posteriori, dopo il pomeriggio culturale del primo ministro israeliano, la comunità ebraica si è domandata perché non sia stato possibile organizzare un incontro con l'intera comunità anziché con una ristrettissima delegazione. «Non posso dire che non sia stato possibile ma non ci è stato chiesto. E' stato organizzato in questo modo», cerca di minimizzare la polemica Sara Cividalli, presidente della comunità ebraica di Firenze al termine del breve colloquio che Netanyahu ha avuto con i pochi membri della comunità ricevuti all'hotel Four Seasons dove alloggia. Anche se era stata disponibilità per accogliere oltre venti persone in delegazione, ne sono arrivate meno di dieci: la lista era di sette. Polemica? «Si è persa un'occasione: penso che la comunità avrebbe desiderato incontrarlo, esserci e porre delle domande». Cividalli, sul tema, precisa che «noi non abbiamo richiesto nulla, tutto è stato organizzato dall'ambasciata. In questi ultimi 15 giorni ho avuto ordini e contrordini continui da Israele. Noi abbiamo subito quello che è stato deciso».
E la visita alla sinagoga? «Non sappiamo - dice Cividalli - se andrà a visitarla, per il momento non è prevista». Ma oggi è il giorno del riposo ebraico, lo Shabbat. Netanyahu è rientrato ieri sera in albergo e l'unico impegno che ha fissato per oggi è l'incontro con il presidente del consiglio Matteo Renzi a Palazzo Vecchio. E poi la cena in un ristorante del centro. Quindi potrebbe essere il giorno per la visita alla sinagoga di via Farini, magari per assistere alla funzione.
A proposito di Renzi, è un «partner chiave» nella lotta «tra le forze del progresso e della modernità e le forze del buio che ci vogliono spingere indietro», ha detto Netanyahu. Parole forti che sottolineano il profondo legame con l'Italia e con il governo del nostro Paese. «Stiamo lottando non solo per il nostro modo di vivere ma per la verità - ha aggiunto -. E stiamo lottando contro le bugie che vengono diffuse su di noi». Firenze è una città bellissima. Una foto con la moglie davanti al David, all'Accademia. Poi, a chiusura, l'arrivo agli Uffizi. Si è commosso ammirando la Primavera del Botticelli in un'estasi da sindrome di Stendhal: è rimasto a lungo in quella sala prima di concedersi un abbraccio con la moglie, romanticamente affacciati sull Amo. Dopo, un rapido assaggio, guidato da Paola Grifoni - segretario regionale del ministero dei Beni culturali e reggente del Polo museale fiorentino - nella sala all'Annunciazione di Leonardo, al Tondo Doni di Michelangelo, da Piero Della Francesca e nella sala dei Duchi. Fine del tour al Forte Belvedere. E buonanotte, Firenze: è già sorta una bellissima luna piena.
(La Nazione, 29 agosto 2015)
Brutta figura la comunità ebraica di Firenze. E non per questo cresceranno nella stima politica dei non appartenenti alla comunità. Nemmeno di quelli di sinistra. M.C.
Il governo iraniano fa saltare l'atteso concerto di Barenboim a Teheran
È stato infine l'Iran a far cadere il progetto del maestro israelo-argentino Daniel Barenboim di tenere un concerto a Teheran con la Staatskapelle di Berlino, già osteggiato da Israele. Parlando con l'agenzia Fars, il portavoce del ministero della cultura Hossein Noushabadi ha spiegato che la presenza dell'orchestra tedesca a Teheran è stata cancellata perché «gli artisti legati al regime sionista non hanno posto in Iran». La Staatsoper aveva annunciato l'altro ieri che l'orchestra, di cui Barenboim è direttore artistico, stava trattando con l'Iran per l'evento, sostenuto anche dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, atteso per una una visita ufficiale in Iran ad ottobre. Ma ancor prima della conferma dei colloqui in corso, la ministra della Cultura israeliana Miri Regev aveva contestato l'idea, annunciando una lettera di protesta al governo tedesco.
In linea con i principi della Repubblica islamica, ha detto Noushabadi, «il ministero della Cultura è contrario alla presenza di ogni artista o gruppo da dovunque nel mondo che abbia legami con Israele». L'orchestra, ha proseguito, doveva esibirsi nella prestigiosa Vahdat Hall, «ma quando è stato chiaro che il direttore e suoi membri avevano nazionalità israeliana ci siamo subito opposti, e così personalmente anche il ministro», Ali Jannati. Il portavoce ha infine precisato che l'idea era stata promossa non dall'Iran ma da soggetti tedeschi, non invitati. Israele, ha ribadito, è ritenuto «illegittimo» dall'Iran in quanto «illegale occupante» della Palestina.
(Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2015)
E una conferma del fatto che agli ebrei non basta dirsi anti-israeliani per essere accolti da chi si dice antisionista ma in realtà è antisemita. M.C.
Agente Shin Bet: potevo uccidere il killer di Rabin
Ygal Amir, l'assassino di Yitzhak Rabin, poteva fare la fine di Lee Oswald: un agente dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) era pronto ad ucciderlo a sangue freddo due giorni dopo l'attentato mortale al premier israeliano che avvenne a Tel Aviv il 4 novembre del 1995. Lo ha rivelato al quotidiano Maariv lo stesso ex agente dello Shin Bet, Dvir Kariv, che ha pubblicato un libro di memorie dal titolo 'Yitzhak'.
Kariv ha anche confermato nell'intervista che Amir aveva già cercato almeno altre due volte di uccidere Rabin: la prima nel gennaio del 1995 al museo Yad va-Shem a Gerusalemme e la seconda il 22 aprile dello stesso anno probabilmente a Ramat HaSharon, un sobborgo di Tel Aviv. Secondo il suo racconto, Kariv la notte stessa dell'attentato fu il primo agente dello Shin Bet ad incontrare faccia a faccia Amir per l'interrogatorio in una stanza dell'edificio del Servizio.
"Lui - ha ricordato Kariv - risplendeva di gioia, quasi come un sole". In quella stessa stanza Kariv invece era in preda alla disperazione e sconvolto dall'assassinio: in borsa, contro i regolamenti, aveva la pistola di ordinanza. La tentazione di farne uso fu forte, ma prima - si disse - doveva "far parlare l'assassino, fargli raccontare se c'erano mandanti o congiurati". La sua eliminazione - si convinse - poteva aspettare un paio di giorni.
L'occasione arrivò il giorno del funerale di Stato di Rabin, trasmesso in diretta tv in tutto il paese. Amir - che si trovava in una piccola stanza circondato dagli agenti, tra cui lo stesso Kariv - al momento culminante della cerimonia si mise sull'attenti. "Ora lo uccido", si disse l'uomo dello Shin Bet mettendo nel conto anni di carcere pur di fargli pagare quel gesto. Ma si fermò ancora una volta: la democrazia israeliana - ammise con se stesso - doveva prevalere. Perché Amir - ha detto al giornale - aveva cercato di eliminare non solo Rabin, ma anche il sistema democratico dello Stato ebraico.
E così Kariv rimise a posto la pistola, la portò a casa, la smontò e per lungo tempo non la toccò più. "Non mi pento - ha ammesso con Maariv - ma la lotta all'estremismo si conduce con l'educazione nelle scuole. E anche la pubblicazione del mio libro ha questo intento". Perché Kariv è convinto che "l'assassinio di Rabin poteva essere impedito" e che "anche oggi è possibile uccidere il primo ministro di Israele, visto che il terrorismo ebraico rappresenta una minaccia".
(RaiNews, 29 agosto 2015)
Il presidente israeliano Rivlin in visita a Tabga
TEL AVIV - «Israele, come Stato ebraico e democratico, tiene alle sua responsabilità di proteggere la libertà e la sicurezza di tutte le fedi». Si è espresso in questi termini il presidente israeliano, Reuven Rivlin, incontrando ieri i rappresentanti delle comunità cristiane nella valle del Giordano, inclusa l'area di Eretz Ha Minzarim, detta anche la "terra dei monasteri". Il presidente ha visitato la chiesa della Moltiplicazione dei pani a Tabga, sulle rive del lago di Tiberiade, incendiata a giugno scorso in un'azione attribuita a estremisti ebrei. A Tabga, Rivlin ha incontrato il nunzio apostolico in Israele, arcivescovo Giuseppe Lazzarotto, l'abate Gregory Collins, responsabile del sito, e l'incaricato d'affari tedesco, Monika Iwersen. «È un onore essere qui come vostro ospite. L'affettuoso benvenuto che mi avete rivolto, in questo bellissimo posto, è un segno della forte amicizia tra ebrei e comunità cristiane nella Terra Santa, e in tutto il mondo» ha detto Rivlin. «Siamo qui oggi per chiarire che non c'è una guerra religiosa in Terra Santa». Gli ultimi episodi di violenza «sono attacchi di fondamentalisti contro l'intera società; sono attacchi di persone che cercano la guerra e la distruzione contro persone che vogliono vivere in pace».
(L'Osservatore Romano, 29 agosto 2015)
E vero che non cè una guerra religiosa in Israele,
Stando allarticolo sembrerebbe che Rivlin abbia detto Terra Santa, chissà perché, visto che lui è il Presidente di Stato dIsraele, non della Terra Santa, espressione a cui non corrisponde alcuno stato.
ma è anche vero che cè una guerra religiosa contro Israele, dentro e fuori la Terra Santa. Guerra tenace, strisciante, condotta nellambiguo stile della curia, a cui appartiene il giornale che qui riferisce. M.C.
Israele - Trovata la nave scomparsa del Barone Rothschild
Ricercatori: "Siamo quasi sicuri sia quella".
di Massimo Lomonaco
I ricercatori israeliani ne sono quasi sicuri: il relitto scoperto a Dor Beach nel 1976, non distante da Haifa, potrebbe essere la nave del barone Edmond James de Rothschild scomparsa senza lasciare traccia più di un secolo prima a poche miglia della costa dell'allora Palestina.
La nave faceva parte insieme ad altre due di una piccola flotta usata per trasportare materie prime dalla Francia verso una fabbrica di vetro fondata dal barone a Tantura, nei pressi della spiaggia ora nota come Dor Beach. Il barone, sionista convinto, era uno dei principali sostenitori dell'immigrazione ebraica in Palestina che finanziò sostenendo numerosi insediamenti. Tra questi Rishon le Zion e soprattutto Zichron Yaacov, in ricordo del fratello James Mayer de Rothschild, dove ancora sorgono gli immensi vigneti di cabernet che coprono l'intera zona, una collina a pochi chilometri dal mare di Dor Beach. Nel 1893 il Barone costruì proprio sulla spiaggia di Tantura una fabbrica di vetro per bottiglie destinate al vino di Zichron. A capo della fabbrica c'era Meir Dizengoff, pioniere tenace e futuro sindaco di Tel Aviv, città ebraica nata nel 1909. Per il trasporto delle materie, de Rothschild aveva cosi' acquistato tre piccole navi ingaggiando equipaggi di origine ebraica. ''Sappiamo che due delle tre navi del barone sono state vendute, ma - hanno spiegato Deborah Cvikel e Micky Holtzman, ricercatori del 'Leon Recanati Institute for Maritime Studies' dell'Università di Haifa - non abbiamo informazioni riguardanti la terza nave''.
Il relitto ritrovato a meta' anni '70 presenta pero' ''caratteristiche strutturali del tutto simili alle navi del barone, trasportava un carico analogo, ed è salpata e affondata nello stesso periodo''. Non solo, grazie ad alcuni registri - ha fatto sapere l'ufficio stampa del turismo di Israele - è stato possibile risalire all'acquisto delle navi e ai loro modelli. Il relitto e' stato analizzato per la prima volta nel 1999 e di nuovo nel 2008: in base a questi ultimi reperti (vasi, piastrelle in ceramica e tegole) si e' scoperto che la maggior parte di essi erano marchiati con il nome della fabbrica in cui sono erano stati realizzati e tutte francesi attive alla fine del XIX secolo.
Il ritrovamento di un disegno raffigurante un leone, segno distintivo della fabbrica 'Guichard Frères', ha aiutato poi a delimitare ulteriormente la data in cui la nave potrebbe essere affondata, dal momento che questa azienda appare nell'annuario commerciale di Marsiglia tra il 1889 e il 1897. Infine in uno dei vasi e' stato trovato del solfato di bario, materiale usato per migliorare la trasparenza e la lucentezza del vetro. ''Sembrano esserci numerosi elementi che la collegano con Zichron Yaacov, con la fabbrica di vetro a Tantura, e con le altre navi del barone. Forse - hanno detto i ricercatori - potremmo ora dedurre che la terza nave non è stata venduta e condannata all'oscurità come le sue sorelle, ma affondò col suo carico ancora a bordo''.
(ANSAmed, 28 agosto 2015)
28 Agosto 1941: il primo massacro di massa degli ebrei
di Alessandro Guardamagna
Guardie tedesche sorvegliano un gruppo ebrei in Kamenets-Podolsk prima della loro trasporto ad un sito fuori città per l'esecuzione
Nell'Ucraina occupata dalle truppe del Terzo Reich verso la fine di Agosto del 1941 decine di migliaia di ebrei vennero uccisi dalla Gestapo e dalle unità delle SS.
Iniziata poco più di due mesi prima, l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica - nome in codice Operazione Barbarossa - si era spinta alle porte di Mosca, ormai oggetto di raid aerei della Luftwaffe, e aveva portato all'occupazione di vaste aree dell'Ucraina. Il 26 Agosto Hitler, che prevedeva un rapido collasso di quanto rimaneva delle forze sovietiche, faceva mostra dei territori conquistati invitando l'alleato italiano, il duce Benito Mussolini, a Brest-Litovsk, dove i tedeschi avevano distrutto la cittadella. In Ucraina la popolazione aveva inizialmente visto nei Tedeschi dei liberatori dall'oppressione del regime staliniano, e degli alleati nella lotta per l'indipendenza. I Tedeschi invece iniziarono già da Luglio ad arrestare coloro che si attivavano per l'organizzazione di un governo autonomo provvisorio e rinchiusero migliaia di Ucraini nei campi di concentramento. Inoltre attuarono una politica di smembramento territoriale, assegnando parte del territorio ucraino alla Polonia e alla Romania, facendo dilagare il malcontento.
Di lì a poco i veri orrori furono riservati agli ebrei presenti nel territorio ucraino, dove si erano rifugiati decine di migliaia di ebrei ungheresi precedentemente espulsi dalla madrepatria. Le autorità ungheresi ne avevano spinti 11.000 oltre il confine, che andarono ad aggiungersi a quelli che vivevano in miseria nei ghetti, agli angoli delle strade, o più spesso vagavano nelle campagne alla ricerca di cibo. Le autorità tedesche inizialmente tentarono di rimandarli indietro, ma quando da Budapest arrivò il rifiuto di riprenderli, l'Obergruppenführer e generale delle SS Friedrich Jeckeln propose di affrontare il problema costituito dalla presenza dei profughi con la "liquidazione completa di quegli ebrei entro il primo Settembre".
Il 28 Agosto squadre speciali delle SS e della Gestapo, coadiuvate da miliziani ucraini, fecero marciare più di 20.000 ebrei, fra cui circa 15.000 di origine ungherese, fino ad una area piena di crateri di bombe nelle vicinanze della città di Kamenetsk-Podolsk. Qui, ammassati a file intere nei pressi dei crateri, fu ordinato loro di spogliarsi, prima essere mitragliati. Coloro che non morirono falciati dalle raffiche vennero sepolti vivi sotto il peso dei cadaveri. Mentre il massacro avveniva, arrivò in città un treno militare ungherese. I macchinisti erano ebrei ed uno di loro, Gàbor Mermelstein, ricordò di aver guidato il convoglio oltre la città, attraverso i boschi di aceri teatro delle esecuzioni dove vide " un fossato di forma quadrangolare, ai quattro lati del quale vi era gente in piedi. Centinaia di persone innocenti, venivano falciate dalle raffiche di mitragliatrici. Non dimenticherò mai quel che vidi e provai: i volti terrorizzati, gli uomini, le donne ed i bambini che andavano verso la tomba senza opporre nessuna resistenza " In un sintetico messaggio - tuttora conservato negli Archivi Federali Tedeschi - inviato al comandante supremo delle SS Himmler il 30 Agosto, Jeckeln indicava che il numero di "Ebrei liquidati dalle SS e dalla polizia nella Russia meridionale a Kamenetsk Podolsky sale a 23.600 ". Le sue parole, insieme alle fotografie del massacro, e ai resti rinvenuti dopo la guerra, sono una prova che annulla qualsiasi tentativo revisionista della portata degli orrori dell'olocausto.
L'eccidio durò tre giorni e fu il primo compiuto in Europa dell'est a causare la morte di decine di migliaia di persone. Ne faranno seguito altri, fra cui quelli di Babi Yar (29-30 Settembre 1941), alla periferia di Kiev dove 33,771 ebrei furono uccisi in una singola operazione di rastrellamento, e di Odessa, dove nell'Ottobre di quell'anno saranno sterminati 50.000 ebrei, principalmente ad opera di soldati Rumeni. Complessivamente in Ucraina circa 600.000 ebrei, pari ad un decimo di quelli uccisi nella Seconda Guerra Mondiale, furono eliminati dalle unità speciali chiamate Einsatzgruppen C delle SS, istituite sotto la guida di Reinhard Heydrich, e dalla Gestapo in esecuzioni di massa prima della fine del conflitto. Quello che è stato spesso volutamente taciuto è che l'uccisione degli ebrei da parte dei Nazisti fu solo l'ultimo passo di un percorso che a partire dalla fine degli anni '30 vide intere comunità di decine di migliaia di persone private della proprietà, dei diritti civili, trasferiti in "zone sicure", poi deportati in capi di detenzione, utilizzati come animali da lavoro, picchiati, uccisi, i superstiti di nuovo deportati all'esterno dei confini dello stato da autorità Ungheresi, Sovietiche, Rumene, ed infine, dopo esser stati spostati forzatamente per migliaia di chilometri, lasciati a se stessi. Molti in Europa dell'est furono responsabili di questo prima di e durante l'invasione tedesca, al punto che in determinate aree dell'ex-Unione Sovietica e dell'Europa orientale è difficile distinguere fra i rastrellamenti e lo sterminio degli ebrei attuati per volontà di Stalin e quello compiuto dai Nazisti. Le stragi dei diversi regimi inevitabilmente si sovrappongono, e i superstiti sfuggiti all'uno spesso finirono per cadere vittime dell'altro e viceversa.
(Parmadaily.it, 28 agosto 2015)
2o Convegno Regionale EDIPI-Lombardia a Vigevano il 12 e 13 settembre.
Con il tema "Israele l'orologio di Dio" si terrà a Vigevano (PV) il secondo convegno regionale di Evangelici d'Italia per Israele dedicato alla Lombardia in concomitanza con l'Expo di Milano.
L'attualità del tema verrà evidenziata dalle relazioni del presidente EDIPI Ivan Basana e dalla moglie Andie che ritorneranno da Israele solo il giorno prima dell'evento, quindi con notizie quanto mai fresche.
Verrà presentata in anteprima l'edizione italiana della pubblicazione "Future" del pastore Meno Kalisher che cura la più grande congregazione ebreo-messianica a Gerusalemme.
Assisteremo inoltre all'esordio ufficiale negli incontri di EDIPI della corale "l'Arpa di Davide".
Fuori programma, al sabato pomeriggio un momento conviviale con una stuzzicante dissertazione culinaria utile alla mente ma anche al palato su il "Salame d'Oca" che proprio a Vigevano e Mortara trovò l'area di produzione tra le comunità ebraiche del '500.
Ulteriori interessanti contributi saranno portati dai pastori Ferruccio D'Angelo, Corrado Maggia, Eduard e Katia, quest'ultimi della chiesa evangelica organizzatrice dell'evento River Church. Gradito ospite sarà il pastore Antonio Rozzini, presidente della sezione italiana dell'Ambasciata Cristiana Internazionale di Gerusalemme (I.C.E.J.)
L'appuntamento è per sabato e domenica 12-13 settembre a Vigevano in via Sacchetti 1 presso lo Spazio Congressi Evergreen.
Per informazioni: annalisaedipi@gmail.com
Locandina
(EDIPI, 28 agosto 2015)
Obama inizia la caccia casa per casa ai voti per l'accordo con l'Iran
La strategia aggressiva del presidente per convincere i senatori democratici a rifiutare la fronda "no deal" di Schumer.
NEW YORK - Il vecchio adagio di Tip O'Neill "all politics is local" vale anche quando sul tavolo ci sono questioni geopolitiche globali, come l'accordo nucleare con l'Iran. L'offensiva di Barack Obama per racimolare i voti necessari per blindare il deal al Congresso non è un annuncio a reti unificate, piuttosto una minuziosa strategia locale. Questa settimana il presidente ha organizzato una serie di interviste con network televisivi non illustri ma improvvisamente diventati cruciali perché vengono trasmessi negli stati dove ci sono ancora senatori democratici indecisi sul voto. Il presidente ha rivolto appelli agli ascoltatori (ed elettori) del Michigan, dello stato di Washington, del Delaware, della Pennsylvania del Maryland e del New Jersey per convincere senatori come Chris Coons, Bob Casey, Cory Booker e Maria Cantwell a non unirsi alla fronda anti accordo guidata dal peso massimo democratico Chuck Schumer.
E certo i senatori in questione non potranno non tenere conto dell'opinione del proprio elettorato, già bombardato da campagne televisive in favore della mano tesa con l'Iran. La Casa Bianca ha già dalla sua 29 dichiarazioni di voto favorevoli fra i democratici del Senato. Per difendere il veto che il presidente ha già promesso in caso di una prima bocciatura, la Casa Bianca ha bisogno soltanto di cinque voti fra i quindici senatori ancora indecisi. Obiettivo più che abbordabile, ma Obama vuole una vittoria rotonda, senza ricorrere a un veto che darebbe uno sgradito segnale di debolezza politica. Per ottenerla servono dodici voti, da conquistare stato per stato, casa per casa.
(Il Foglio, 28 agosto 2015)
I palestinesi sono alla fame e Abu Mazen si fa la reggia
Costerà 13 milioni di dollari la nuova sede in cui il presidente Anp riceverà i suoi ospiti. Bel modo di investire i fondi della cooperazione internazionale.
di Luigi Guelpa
Il nuovo palazzo di Abu Mazen a Ramallah
La costruzione di una lussuosa dépendance da 13 milioni di dollari, per accogliere a Ramallah gli ospiti stranieri, sta mettendo in crisi l'amministrazione del presidente palestinese Abu Mazen. Le critiche piovono un po' dappertutto: dall'occidente, che attraverso i fondi rimpolpa le casse della Cisgiordania, ma anche dagli stessi palestinesi, che considerano, alla luce delle reali criticità, un inutile sperpero di denaro l'edificazione del Presidential Guest Palace.
Abu Mazen si difende, raccontando che i finanziamenti arrivano dalla Pecdar, il Consiglio economico per lo sviluppo e la ricerca, una società a cui fa capo la maggior parte dei progetti di rilancio in Cisgiordania.
In realtà i forzieri della Pecdar sono ricolmi di valuta straniera. Negli ultimi dieci anni la sola Unione Europea ha destinato almeno 7 miliardi di dollari per il sostegno dell'autorità nazionale palestinese (Anp). Dal 2000 a oggi Arabia Saudita e Qatar hanno contribuito a varie iniziative di non ben precisato sviluppo con 15 miliardi di dollari, ai quali ne vanno aggiunti altri 3 dell'Iran, che però partecipa anche con la fornitura di armi e missili M-302, di fabbricazione siriana e con la capacità di arrivare fino a Tel Aviv. A detta di Mazen il denaro non sarebbe sufficiente, al punto da indurlo a recarsi personalmente a Teheran da Hassan Rouhani per batter cassa. Un summit che Anp ha edulcorato, rispetto ai reali intenti, riferendo che servirà per «favorire la riunificazione delle fazioni palestinesi e rafforzare le relazioni bilaterali tra l'Anp e Iran». E' venuta meno invece la sponsorizzazione dell'Egitto, garantita nell'anno della presidenza Morsi su impulso dei Fratelli musulmani, ma rimane intatta quella erogata dal Pegase, meccanismo internazionale per sostenere l'Autorità Palestinese nel raggiungimento della propria autonomia economica. Dal 2013 ad oggi Pegase, del quale fa parte (ironia della sorte) anche Israele, ha elargito 80 milioni di dollari.
Un vero e proprio oceano di denaro che verrebbe utilizzato anche per «stipendiare» le famiglie dei terroristi rinchiusi nelle carceri israeliane, sulla falsa riga della «mesata» della camorra, e finanziare i viaggi nel mondo del presidente Mazen e di tutto il suo staff, parenti inclusi. La dependance da mille e una notte è solo la ricca ciliegina di una torta le cui fette sono votate allo sperpero. Secondo quanto pubblicato dalla stampa di Ramallah occorreranno 2 anni per portare a compimento il progetto. Il complesso, che occuperà uno spazio complessivo di 27mila metri quadri, disporrà anche di una struttura per l'amministrazione presidenziale e le guardie e persino due piattaforme di atterraggio per gli elicotteri.
Abu Mazen è recidivo e si espone a critiche feroci almeno quanto quelle della primavera del 2014, quando destinò la somma di 6mila dollari (spiccioli...) di fondi destinati allo sviluppo culturale del Paese al «Dalai Group». Peccato che il leader di questa band musicale sia tale Abu Hazzah, 54 anni, che nel 1978, assieme ad altri 10 fedayyin, sequestrò un autobus che viaggiava su una strada litoranea nei pressi di Tel Aviv, uccidendo 38 persone, fra cui 13 bambini, e ferendone 71. Fu una delle più efferate stragi che hanno insanguinato Israele. Per chi non lo sapesse il presidente palestinese è anche un grande appassionato di calcio e avrebbe confidato ai suoi collaboratori di voler ingaggiare, con uno stipendio da 2 milioni di dollari, Diego Maradona e affidargli la nazionale di calcio in vista delle qualificazioni ai mondiali di Mosca dei 2018. Al momento l'Anp sta utilizzando i fondi assegnati dalla Fifa per lo sviluppo del calcio tra i bambini della Striscia di Gaza per foraggiare la trasferta della squadra in tournée in Germania sulla rotta Hannover-Magonza. Un viaggio tutt'altro che low cost.
Gli atteggiamenti di Mazen iniziano però a creare fratture anche all'interno dell'Anp. Nei giorni scorsi ha destato scalpore la rimozione di Yasser Abed Rabbo dal ruolo di segretario generale dell'Olp. Rabbo ricopriva tra le altre cose un ruolo di primo piano all'intemo della Palestinian Peace Intiative (Ppc), una ong che da Ginevra opera a favore della fine del conflitto arabo-israeliano con importanti finanziamenti. Secondo alcune fonti accreditate Rabbo avrebbe scoperto dei prelievi di denaro non giustificati da parte di «alte sfere» del partito di Al Fatah."
(Libero, 28 agosto 2015)
L'ineffabile côté sentimentale degli stragisti assassini
A proposito di crimini contro l'umanità, e di chi se ne vanta.
di Arnold Roth
Ai primi di questo mese, come ogni anno, abbiamo commemorato l'anniversario della micidiale esplosione che squarciò una pizzeria affollata di bambini e ragazzi nel centro della capitale di Israele. Una strage che sconvolse vite, prospettive, attitudini e che, in misura relativamente piccola, influenzò le scelte politiche, almeno per qualche tempo.
Io e mia moglie siamo i genitori di una delle ragazzine assassinate in quel giorno. In effetti, la maggior parte delle 15 vite spezzate nell'attentato compiuto nel 2001 da una banda terrorista islamista nella pizzeria Sbarro di Gerusalemme erano vite di bambini e ragazzi (la 16esima vittima, una madre il cui figlio aveva allora due anni, versa tutt'ora in stato vegetativo). Un dettaglio fondamentale: i bambini massacrati quel giorno non furono colpiti per errore, non erano "danni collaterali", non furono vittime involontarie di fuoco incrociato, non erano asserragliati dentro qualche edificio che ospitava armi, munizioni o combattenti. Erano proprio loro il bersaglio: furono dichiaratemene e deliberatamente presi di mira in quanto civili e minorenni....
(israele.net, 28 agosto 2015)
Rafforziamo la nostra amicizia». Il messaggio di Netanyahu a Renzi
Ieri all'Expo il premier ha anticipato alcuni temi del vertice
di Ilaria Ulivelli
Massima sicurezza. Il Mossad (i servizi segreti israeliani) concede poco o niente alla libertà del primo ministro Benjamin Netanyahu. No al percorso del Principe, niente visita agli Uffizi, nemmeno per idea una passeggiata in centro. Anche se Matteo Renzi avrà sicuramente in tasca qualche carta per un'improvvisata: il vertice è organizzato per domani sera in Palazzo Vecchio, nella Sala dei Gigli, dove il premier Renzi aveva già incontrato la cancelliera tedesca Merkel nel gennaio scorso. Lì, insieme, potrebbero cenare anche se al momento l'ipotesi viene eslusa stretti fra le maglie della sicurezza che ha preteso la chiusura al pubblico del Museo di Palazzo Vecchio a partire (probabilmente, ma non è ufficiale) dalle 14 di domani (in tempo per scandagliare e bonificare agoli e tutti gli anfratti).
BUONI AUSPICI dall'Expo, prima tappa della due giorni e spiccioli italiana del primo ministro israeliano che ieri ha parlato del rapporto che lega Israele e Italia, «un'amicizia forte» che può essere rafforzata soprattutto nei campi del «turismo, tecnologia, scienza, cultura», ha detto Netanyahu a Milano. «Israele e Italia collaborano in Africa in un solo Paese», ha detto il premier riferendosi al Senegal. «Potremmo aiutarne molti di più, perché non dieci, venti? Vogliamo e dobbiamo rafforzare la nostra collaborazione e sono pronto a parlarne con Renzi a Firenze».
E il suo arrivo in città dove, salvo sorprese, Benjamin Netanyahu resterà fino a domani sera dopo il vertice, è previsto per oggi alle 15 all'aeroporto di Peretola. A fare gli onori di casa il sindaco Dario Nardella, di ritorno dalle ferie, con il presidente di Toscana Aeroporti Marco Carrai, propiziatore dei buoni rapporti fra Italia e Istraele dove il manager, legato da una solida e antica amicizia con Renzi oltre che da un'inossidabile collaborazione professionale , tesse fondamentali relazioni economiche. Ormai da anni Carrai frequenta assiduamente Tel Aviv, suoi i rapporti diplomatici con Gerusalemme per conto di Renzi. Uno dei temi di questo incontro italiano tra i due premier sarà proprio quello economico, come annunciato ieri dal primo ministro israeliano all'Expo. E Carrai ne ha da dire. La società di ingegneria Aicom, di cui Stefano Carrai, fratello di Marco, è consigliere delegato, sarebbe al lavoro per progettare un impianto di energia rinnovabile nel deserto israeliano. Più gruppi toscani sarebbero invece dentro l'affare della metropolitana di Tel Aviv. Già nei mesi scorsi, ancora prima del viaggio di Renzi in Israele, quando il premier ha invitato ufficialmente Netanyahu, Firenze è stata teatro di incontri e cene ad alto livello tra manager e uomini di governo israeliani e italiani, a quanto pare favorite da Marco Carrai.
LA GASTRONOMIA toscana farà da sfondo al vertice che di nuovo porterà Firenze sotto i riflettori della politica internazionale. Pare che un consigliere di Netanyahu sia vicino di casa di Dario Cecchini, il macellaio di Pantano che recita Dante mentre prepara il tonno del Chianti.
Prepariamoci, dunque, ai fuochi d'artificio. Anche se dopo il suo arrivo, oggi pomeriggio, Benjamin Netanyahu ha già in programma una lunga serie di incontri privati che terrà in albergo. Per ora, l'unica concessione del Mossad è la visita alla sinagoga dove incontrerà una ristrettissima delegazione della comunità ebraica fiorentina, un'occasione anche per scambiarsi gli auguri: il capodanno ebraico cade il 14 settembre.
(La Nazione, 28 agosto 2015)
Fine del processo: l'ereditàdi Kafka è di Israele
Il tribunale di Tel Aviv ha deciso in via definitiva contro la figlia della segretaria di Max Brod
di Roberto Bertinetti
Franz Kafka
I manoscritti delle opere di Franz Kafka sono di proprietà dello Stato di Israele e rimangono custoditi nella Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Lo ha stabilito in via definitiva la Corte distrettuale di Tel Aviv in una sentenza che respinge la richiesta di restituzione avanzata da Eva Hoffe, figlia di Esther Hoffe, la segretaria di Max Brod, amico e biografo di Kafka, che aveva avuto in consegna le pagine dallo scrittore boemo di lingua tedesca. Come è noto, Kafka chiese nel 1924 all'amico di bruciare i suoi testi in larghissima misura inediti, ma Brod decise di non rispettarne la volontà e li portò con sé quando nel 1939 fuggì in Palestina. Alla morte di Brod, nel 1968, i materiali non ancora resi pubblici passarono per un breve periodo a Esther Hoffe, che a sua volta li trasmise alla figlia prima che una decisione di un tribunale obbligasse Eva Hoffe a depositare le carte alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme.
A breve inizierà il processo di catalogazione del lascito di Brod, che in seguito sarà riunito in un'edizione critica. Secondo quanto emerso nel corso delle udienze, il fondo Kafka della Biblioteca contiene un vero e proprio tesoro: decine di lettere indirizzate a grandi autori europei come Thomas Mann, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig e Jaroslav Hasek, album di disegni, taccuini pieni di esercizi per imparare l'ebraico, appunti di vita quotidiana, una prima stesura de] racconto Preparativi di nozze in campagna, una bozza del romanzo Il castello e i brani iniziali dell'incompiuto Riccardo e Samuele.
La controversia era nata a causa della vaghezza del testamento di Brod, in cui si affermava che l'intero archivio Kafka doveva «preferibilmente» essere messo a disposizione di «un istituto culturale ebraico».
Esther Hoffe, e in seguito sua figlia Eva, hanno a lungo sostenuto di essere loro le uniche eredi e hanno più volte offerto in vendita il lascito di Brod al governo israeliano, che invece aveva fatto ricorso al tribunale. L'inappellabile sentenza appena emessa pone la parola fine allo scontro.
(la Repubblica il venerdì, 28 agosto 2015)
Quell'ultima spiaggia per gli ebrei europei
di Gabriele Nicolò
Un avvenimento carico di storia. È stato riaperto mercoledì 26 agosto il White Horse Café, luogo simbolo del ghetto di Shanghai, dove erano soliti incontrarsi i rifugiati ebrei durante la seconda guerra mondiale. Più di trecento alte personalità hanno partecipato all'evento, compreso un rappresentante del World Jewish Congress (Wjc). All'epoca Shanghai era conosciuta come the port of last resort, ovvero una sorta di ultima spiaggia per le migliaia di ebrei che tentavano di fuggire dalle persecuzioni tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Ora la Cina sta ricordando il ruolo che ebbe Shanghai nel garantire ospitalità e rifugio agli ebrei di tutta Europa perseguitati dalla furia nazista come parte delle celebrazioni del settantesimo anniversario della vittoria sul Giappone: celebrazioni che la prossima settimana culmineranno in una solenne parata militare.
Nel 1941 il Giappone, alleato della Germania nazista, conquistò Shanghai e successivamente trasferì ventimila ebrei nel ghetto, situato nel distretto settentrionale di Hongkou, dove si trovarono a convivere con i cinesi residenti in condizioni di estrema povertà.
Nonostante sporadiche angherie da parte delle autorità, scamparono allo sterminio, grazie al fatto che i giapponesi non si piegarono alle richieste di Berlino, ricorda Judy Kolb, un rifugiato ebreo nel ghetto. «Shanghai ha salvato le nostre vite» continua Kolb, allora bambino.
A sua volta Pan Guang, decano del Center of Jewish studies in Shanghai, spiega che Shanghai era l'unica città in cui gli stranieri potevano entrare senza
documenti, addirittura senza passaporto. La storia dei rifugiati ebrei a Shanghai è anche un modo per ricordare l'amicizia nata e sviluppatasi tra i cinesi e gli stranieri, rileva Doug Young, professore di giornalismo alla Fudan University, in un articolo pubblicato sullo «Shanghai Daily».
Durante la cerimonia di riapertura del White Horse Café, il vice amministratore delegato del World Jewish Congress, Maram Stern, ha affermato che la vita nel ghetto era veramente dura, e chi vi soggiornò soffrì tantissimo, come pure i cinesi residenti. Tuttavia, ha osservato Stern, se si paragonano a quelli di Varsavia, di Theresienstadt, di Lodz , il ghetto di Shanghai si potrebbe probabilmente definire un paradiso, visto che fu un rifugio sicuro per decine di migliaia di ebrei. E alla luce di questo, continua Stern, «ringraziamo il popolo cinese a nome delle comunità ebraiche di tutto il mondo».
The White Horse Café fu aperto per la prima volta nel 1939. E stato ricostruito, con lo stesso aspetto originale in un nuovo sito, di fronte allo Shanghai Jewish Refugees Museum. Il proprietario vendette il locale a un residente del luogo dopo la guerra.
Fu demolito nel 2009 nell'ambito di un progetto per la costruzione di una metropolitana. Ma lo Shanghai Jewish Refugees Museum ha recuperato e conservato gli elementi strutturali dell'edificio in vista della sua ricostruzione. E il nuovo caffè è stato edificato nel pieno rispetto dello stile originario.
Tra i presenti alla cerimonia di mercoledì 26 vi era anche Ron Klinger, i cui nonni da Vienna erano venuti a Shanghai nel 1938. Furono loro, l'anno successivo, ad aprire il locale. E ora sulle pareti del nuovo caffè si possono ammirare vecchie foto dell'epoca donate dalla famiglia Klinger.
(L'Osservatore Romano, 28 agosto 2015)
Il premier Netanyahu all'Expo: «Questo evento parla del successo dell'Italia»
MILANO - La visita a Expo del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, segna uno straordinario successo diplomatico dell'Italia per quanto riguarda i rapporti con Israele. Visibilmente soddisfatto di essere lì, accanto a quel «campo verticale» divenuto non solo il simbolo di Israele ma un'icona dell'intera Expo, Benjamin Netanyahu nella sua visita privata a Milano ha voluto esplicitamente elogiare l'Italia: «Sono davvero contento di essere qui, in questa situazione, vicino a questo campo, insieme a mia moglie - ha esordito, e quella che doveva essere solo una «dichiarazione» si è trasformata in un discorso vero e proprio -. Questa Expo parla del successo dell'Italia e siamo a maggior ragione contenti di essere stati tra i primi ad impegnarci per essere presenti. Oggi posso dire che siamo davvero contento di averlo fatto».
Giunto al Sito di Rho protetto da imponenti misure di sicurezza, Netanyahu è stato accolto al padiglione dal ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina, dal Commissario, Giuseppe Sala e dal prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca. Intorno al padiglione, una ressa di persone che premevano per entrare, ma le misure imposte erano ferree: padiglione chiuso, blindato, «off limits» per chiunque non fosse stato debitamente controllato dal servizio d'ordine israeliano.
«Il fatto che siamo qui - ha detto il premier in una dichiarazione davanti al «campo verticale» - è la dimostrazione che stiamo sconfiggendo la teoria di Malthus, secondo cui l'umanità sarebbe stata sconfitta a causa della disparità tra cibo e popolazione». Israele è la dimostrazione vivente che non è così. Anzi: Israele grazie alle sue conoscenze è riuscito a sviluppare un sistema agricolo tale per cui «oggi la popolazione è dieci volte superiore a quando lo Stato fu fondato».
La dichiarazione di Netanyahu
La scienza, la tecnologia, possono sconfiggere la fame e il deserto. «Israele è stato un pioniere nelle scienze dell'irrigazione - ha detto il premier - e negli ultimi 70 anni ha fatto grandi progressi, al punto che oggi grazie alle nostre tecnologie ricicliamo l'80% dell'acqua che usiamo». Israele è pronto a condividere il suo sapere «con chiunque nel mondo». Ed è pronto a farlo proprio partendo da Expo, rafforzando in termini di cooperazione la «grande amicizia che lega Israele all'Italia».
Un esempio su tutti: Italia e Israele hanno sviluppato progetti di cooperazione comuni con un solo Paese africano (il Senegal). «Perché non farlo con dieci Paesi, con venti? - ha sottolineato Netanyahu -. La scienza di Israele è più forte di ogni boicottaggio. Nel mondo gli uomini cambiano le loro abitudini, migliorano il loro stile di vita grazie alle invenzioni israeliane. Noi facciamo questo in tutto il mondo, e questo è più forte di qualsiasi boicottaggio».
È questo - ha ricordato - ciò di cui lui intende parlare con Matteo Renzi, quando lo incontrerà sabato a Firenze. «Sono contento di affrontare questi temi qui a Expo, e sono contento di farlo con l'Italia. Il premier Renzi ha tenuto uno straordinario discorso poche settimane fa nel nostro Parlamento. Con l'Italia abbiamo un'ottima collaborazione in più settori, turismo, tecnologia, cultura, e l'amicizia che ci lega è sempre più forte». Più che una dichiarazione, un discorso. Quindi la visita ai padiglioni di Usa e Cina, e una cena a Palazzo Italia con la moglie, Sara, il commissario Sala e la presidente di Expo, Diana Bracco.
(Il Secolo XIX, 27 agosto 2015)
Per Netanyahu come per Fiamma Nirenstein
Abbiamo ricevuto da un nostro lettore.
Caro Direttore,
apprezzo sempre la tua rassegna e soprattutto i tuoi commenti, come oggi quello relativo alla visita del Primo Ministro di Israele a Firenze. I giudizi di esponenti dell'ebraismo riportati nell'articolo di Repubblica, giornale che si segnala sempre per la sua ostilità ad Israele e il suo antisionismo, destano soprattutto grande tristezza e riflessioni amare. L'ideologia, a sinistra fa sempre premio sull'appartenenza e sulla identità. Se il Primo ministro è Barak o il Presidente Peres a nessun ebreo liberale (non usiamo in Italia il termine infausto di destra) verrebbe in mente di fare dei distinguo o di usare quella sottile ma spesso corrosiva e sarcastica polemica del dire e non dire. Lo stesso è accaduto per Fiamma Nirenstein, lo stesso accade per Netanyau. Forse poiché questo atteggiamento non mi piaceva quando militavo nella sinistra ho creduto bene allontanarmene.
PS: grande simpatia e convivialità invece per l'imam di Firenze appartenente alla Fratellanza musulmana e presidente UCOI, contrario all'esistenza di Israele!
Guido Guastalla
(Notizie su Israele, 27 agosto 2015)
Presentazione Eurobasket 2015: Israele, possibile sorpresa o cenerentola?
La nazionale israeliana di pallacanestro punta a riscattare la pessima prestazione ai precedenti europei. Ma quante possibilità hanno gli uomini di Coach Edelstein di superare, almeno, il girone?
di Luca Sisto
Quando pensiamo alla storia, ma anche allo stato attuale del basket israeliano, non è la selezione nazionale la prima a venire in mente agli appassionati. Associando la parola "basket" allo stato di Israele,
è impossibile non avere in testa un colore in particolare: il giallo. Giallo come la "marea" di tifosi della più importante squadra di club del Paese, nonché una delle principali compagini europee, il Maccabi Tel-Aviv.
Saltano alla mente epiche sfide di Coppa Campioni/Eurolega, lungo tutta la storia delle due competizioni. I più giovani ricorderanno le gesta degli uomini guidati dall'attuale coach dei Cleveland Cavs, David Blatt, il quale condusse il Maccabi alla conquista di un'insperata Eurolega nel 2014, in finale contro il Real Madrid. I lettori con almeno 30 anni sulla carta d'identità penseranno al Maccabi di Pini Gershon, vero e proprio santone del basket israeliano, che guidò Maceo Baston, Anthony Parker e compagnia alla vittoria di due titoli europei consecutivi nel 2004 e nel 2005. Vale la pena notare come il basket in Israele stia però cambiando. La leadership del Maccabi nel campionato locale non è più come in passato e ciò si riflette anche sulla nazionale, con giocatori provenienti anche da altre compagini a rappresentare Israele. Vedremo tra poco che, all'NBA Omri Casspi e all'ex NBA Gal Mekel, vanno aggiunti, fra i giocatori più rappresentativi, atleti appartenenti in larga parte alle nuove forze del basket israeliano, come Hapoel Gerusalemme e Maccabi Haifa (che hanno vinto un campionato per parte nelle ultime 5 edizioni, rispettivamente nel 2015 e nel 2013, strappando il titolo al Maccabi Tel Aviv).
La storia
La storia della selezione nazionale israeliana ai campionati continentali vanta scarsa gloria. Un acuto, su tutti, ha però fatto la storia. Nel 1979, la squadra guidata dalla guardia Miki Berkovich, riuscì, agli Europei
giocati in Italia, a spaventare la corazzata sovietica, giungendo fino in fondo alla competizione. Attraverso una formula del tutto particolare, Israele perse nel girone finale contro l'URSS di Belov, ma ebbe anche occasione di rivincita per il primo posto assoluto, piazzandosi seconda nel girone. Come detto, i sovietici si confermarono superiori anche nella finalissima, conquistando l'oro e relegando, si fa per dire, la sorpresa Israele sul secondo gradino più alto del podio. Berkovich ebbe modo, nella sua carriera, di dimostrare di che pasta fosse fatto, tanto da meritare considerazione quale uno dei 50 atleti più importanti della storia del basket continentale. L'ultima partecipazione israeliana ad Eurobasket, nel 2013, nonostante la presenza di David "Blu" Blutenthal, non fu esattamente delle più esaltanti. La squadra è riuscita a strappare una sola vittoria, contro il Belgio, concludendo all'ultimo posto del girone e perdendo anche dalla discutibile selezione britannica.
L'Europeo 2015
L'edizione 2015 vede Israele inserita nel gruppo con Russia, Bosnia, Francia, Finlandia e Polonia. Le ultime due menzionate sembrano le più abbordabili, ma non partono affatto sfavorite nei confronti di
Israele. Esordio complesso il 5 settembre contro una Russia sì in crisi d'identità, ma che sta probabilmente aspettando le partite ufficiali per tirar fuori tutto il suo potenziale. Anche in assenza di adeguato ricambio generazionale, la Russia parte con i favori del pronostico nel confronto con Israele. Probabile anzi che Coach Edelstein punti a risparmiare i suoi distribuendo il minutaggio, in vista della gara, contro la Finlandia, del giorno successivo. Partita questa, inutile dirlo, assolutamente da vincere. Il 7 è il turno della coriacea Bosnia, la quale non dovrebbe avere troppe difficoltà a portare a casa la vittoria su Israele. Un giorno di riposo, e poi il 9 settembre è la volta della Polonia. Anche questa è una partita da vincere ad ogni costo per mantenere speranze di passaggio del turno, unico vero obiettivo di Israele. Il girone eliminatorio si conclude il 10 contro la Francia, una delle favorite per la vittoria finale, che dovrebbe arrivare alla partita già qualificata, ma che non avrà difficoltà a battere Israele pur con le seconde linee in campo.
La squadra
Sebbene non sia stato ancora comunicato il roster finale da Coach Edelstein e dal redivivo Pini Gershon, in veste dirigenziale, è possibile in base alle ultime amichevoli segnalare una serie di giocatori chiave di
Israele. Non prenderanno parte alla competizione gli infortunati Yotam Halperin e Guy Pnini, storici membri della nazionale israeliana, così come poche chance dovrebbe avere l'inossidabile Yaniv Green. Starting lineup che conterà sull'americano naturalizzato D'or Fischer in posizione di centro. Attualmente a libro paga dei campioni in carica dell'Hapoel Jerusalem, Fischer assicura una presenza di tutto rispetto sotto le plance. In ala grande partirà in quintetto Lior Elyahu, in forza anch'egli alla squadra della capitale. In ala piccola la stella Omri Casspi, dei Sacramento Kings, a cui si chiederà uno sforzo maggiore in termini di minutaggio e tiri, rispetto al gioco da role player a cui è stato relegato nel suo girovagare per la NBA. Raviv Limonad dell'Hapoel Tel Aviv e l'altro veterano Afik Nissim, dell'Hapoel Eilat, si giocheranno lo spot di guardia. L'ex NBA, nell'ultima stagione in Russia (dopo essere stato tagliato dai Dallas Mavs) al Nizhny Novgorod, Gal Mekel, sarà la point guard titolare. A giocarsi i restanti minuti da play, il capitano del Maccabi Tel Aviv Yogev Ohayon, un po' in ombra nell'ultima stagione con i Gialli.
Il principale cambio in ala è l'ottimo Shawn Dawson, nell'ultima stagione al Maccabi Rishon LeZion, che ha ben figurato soprattutto nelle due ultime amichevoli, perse entrambe contro la fortissima Serbia di Coach Sasha Djordjevic. Difficile dire quante chance abbia Israele di passare il turno. Sicuramente il roster è completo in ogni ruolo, ma l'assenza di due veterani come Halperin e Pnini potrebbe pesare non poco negli equilibri della squadra, già piuttosto delicati per mancanza di alternative sufficientemente pericolose sul perimetro.
Gli obiettivi
In via del tutto personale, mi sento di escludere, anche per questa edizione, la selezione israeliana da una qualsivoglia lotta per il passaggio alla fase successiva ad eliminazione diretta. Pur superando la prima fase, mi riesce difficile credere che Israele abbia le carte in regola per andare più lontano di così. Resta da non sottovalutare però, sia l'impatto fisico degli ottimi rimbalzisti presenti sotto canestro, sia la solita grande voglia dei giocatori di rappresentare il proprio Paese, un orgoglio che gli israeliani sentono come poche altre nazionali al mondo.
(Vavel, 27 agosto 2015)
Campi palestinesi in Libano: altri morti in regolamento conti, fuga di massa tra i profughi
Le violenze tra le varie fazioni nel campo di Ain el-Heloue, vicino Saida (non distante da Sidone) portano a cinque il conto complessivo dei morti. Situazione esplosiva tra i 54.000 registrati cui si sono aggiunti i nuovi arrivati dalla Siria. E il clima da faida non si attenua.
ROMA - Ancora due morti nel più grande campo profughi palestinese in Libano, nonostante il cessate il fuoco stipulato l'altro ieri tra le diverse fazioni. Un membro di Fatah, il movimento del presidente palestinese Abu Mazen, e un civile sono stati uccisi a colpi d'arma da fuoco nella notte da un "gruppo di uomini armati non identificati" nel campo di Ain el-Heloue, vicino Saida, non lontano da Sidone.
FUGA DI MASSA - Il campo profughi è stato teatro nei giorni scorsi di numerose violenze tra fazioni rivali che hanno causato la morte di 3 persone, il ferimento di altre 35 e la fuga di quasi mille residenti del campo. Nel campo profughi risiedono e sono registrati 54.000 palestinesi, ma attualmente i residenti sono molti di più dopo l'afflusso di migliaia di profughi dalla Siria in guerra. E il clima da faida non sembra destinato ad attenuarsi.
(Quotidiano.net, 27 agosto 2015)
Ancora una volta, le sofferenze di questi palestinesi non sembrano né interessare i grandi media internazionali, né far indignare i devoti moralisti del palestinismo. M.C.
Il rabbino Levi: "È il primo ministro, lo rispetto"
Cividalli: ci sono tutte le posizioni politiche tra di noi, sia di destra che di sinistra. Jelinek: non si può nemmeno più di tanto giudicare la sua figura se non si vive in quel Paese.
La Sinagoga di Firenze
«E' una mezza visita privata, di cui comunque non posso riferire nulla. Salvo che ho rispetto per il primo ministro israeliano». Forse basterebbero le parole di rav Levi, del rabbino capo della comunità fiorentina, a certificare l'accoglienza un po' distante, benché piena di deferenza, che gli ebrei fiorentini preparano per Netanyahu. Non è questione di appartenenza politica: tendenzialmente progressista, nella comunità fiorentina non manca certo un gruppo anche piuttosto nutrito vicino alle posizioni dei conservatori del Likud. A fare la differenza è semmai il fatto che non ci sarà "contatto": a ieri non era previsto alcun incontro pubblico tra "Bibi" e la comunità nel tempio di via Farini. «Non si pub certo dire ci sia entusiasmo, ma nemmeno ostilità. Ci sono persone che sono andate al mare perché non vogliono avere nulla a che vedere con Netanyahu e questo è vero. Ma ci sono anche altri che invece avrebbero piacere di parlare col primo ministro. Al di là del giudizio sulla politica israeliana il fatto che non ci sia alcun incontro pubblico rende piuttosto fredda anche l'attesa, confessano membri influenti della comunità fiorentina.
Spiegava ieri la presidente, Sara Cividalli - che negli ultimi 15 giorni è stata l'unico punto di riferimento dell'ambasciatore israeliano in Italia Naor Gilon per l'organizzazione dell'evento - che ancora alla vigilia dell'arrivo «non c'è nessun tipo di certezza sul programma della visita. Il segreto organizzativo certo non/agevola anche l'eventuale partecipazione di chi fosse interessato ad eventuali iniziative. Peggio poi se non c'è nemmeno nulla di previsto: «Probabile che non ci sarà un incontro pubblico con la comunità ma è tutto coperto dal massimo riserbo», conferma Cividalli. Secondo la numero uno della comunità fiorentina «ci sono tutte le posizioni politiche tra di noi, di destra e di sinistra: in ogni caso è la visita del primo ministro dello Stato di Israele, a cui tutti gli ebrei fiorentini sono legati. Ma gli iscritti non sanno nemmeno che viene. E non ci sarà un'organizzazione comunitaria per accoglierlo». Conferma pure Enrico Fink, intellettuale, musicista e "assessore alla cultura" della comunità, che «fa assolutamente piacere che arrivi il premier israeliano ma è un arrivo che non c'entra tanto con la comunità, nel senso che non la coinvolge più di tanto». Dice Tomas Jelinek, il gestore del ristorante kosher di via Farini Ruth, che «non si pub nemmeno più di tanto giudicare la figura di Netanyahu se non si vive in Israele». Ugo Caffaz, ex consigliere comunale Ds e storico membro della comunità fiorentina, la pensa diversamente. Racconta di averlo scritto anche via sms a Renzi: «Mi va bene la sua visita, ma voglio sapere se è per due popoli e due stati, del resto non mi interessa nulla. Io credo che la Toscana e Firenze possano essere il luogo adatto per firmare un vero e proprio accordo di pace. Prima di morire vorrei la pace tra Israele e Palestina».
(la Repubblica, 27 agosto 2015)
«Prima di morire vorrei la pace tra Israele e Palestina». Tra quelli che dicono di volere ardentemente la pace tra Israele e Palestina ci sono molti che vogliono soltanto farsi in pace gli affari propri senza essere troppo coinvolti in questioni di verità e giustizia. M.C.
Gli impostori - Viviamo il tempo degli impostori culturali, ma non ce ne rendiamo più conto
Il filosofo e il poeta, il critico e lo studioso, tutti noi indossiamo maschere per ingannare.
di Alfonso Berardinelli
La scorsa settimana, ricevendo dalle mani del giornalaio il Venerdì di Repubblica, ho avuto un momento di commozione. Sulla copertina ho letto questo titolo: "Il tempo degli impostori", e non ho avuto occhi né testa per altro. Il mio pluridecennale attrito con questo giornale, così protagonistico nell'opinione nazionale di sinistra, è all'improvviso scomparso. Mi è sembrato che su quella copertina sventolasse la mia personale bandiera perché, se devo fare i conti con me stesso, l'idea che "il tempo degli impostori" sia stato esattamente il nostro, è un'idea che non mi è mai uscita dalla testa.
Mi accorgo subito però che il Venerdì di Repubblica scopre il problema a proposito di tutt'altro. Grazie alla perspicacia di Marco Cicala, che ha letto un romanzo di Javier Cercas intitolato appunto "L'impostore", il problema sembrerebbe esteso a tutta la nostra vita. Quando leggerò il romanzo, se lo leggerò, imparerò certo qualcosa di nuovo. Ma quello che al momento mi interessa non è quel libro, mi interessa il modo e la misura in cui il titolo di copertina ha direttamente a che fare con quello "stato presente dei costumi degl'italiani" di cui si occupò Leopardi quasi due secoli fa.
L'impostore che ha attirato Javier Cercas è stato un superman della bugia: si era fatto passare per combattente antifranchista nella guerra civile del 1936, poi come oppositore nei lunghi anni della dittatura, infine come deportato in un lager nazista. I giornalisti ci hanno creduto, lo hanno esaltato e la sua fama è stata incredibilmente longeva. Insomma un impostore gigantesco.
E' proprio questo che ai miei occhi lo rende meno interessante e che non giustifica abbastanza un titolo a effetto come "Il tempo degli impostori". E' inutile dire che un tale personaggio, un Picasso, un Maradona dell'impostura, come dice lo stesso Cercas, ci mostra come la verità possa essere tradita in ognuno di noi. In realtà, invece, tutti penseranno che tipi così sono assolute eccezioni e in quanto tali prima o poi verranno smascherati.
Più interessante è l'impostura socialmente diffusa, quella che può diventare perfino di massa, quindi invisibile, normale, accettata. E mi interessa l'impostura culturale: quella praticata anche inconsapevolmente da intellettuali di primo piano che quasi nessun altro intellettuale, per ragioni di quieto vivere o di buona educazione, proverà a smascherare.
Il fatto è che la cultura e la politica sono in se stesse delle maschere, sono un ingrediente primario nella costruzione della propria identità. La vita sociale e pubblica, per essere affrontate, esigono una costruzione apposita, un io in parte fittizio e l'esibizione di un'immagine artefatta di sé. In società nessuno di noi può presentarsi nudo. Non si può fare, è una questione di pudore, di tatto, di rispetto per gli altri. La costruzione dell 'io sociale è tuttavia un problema di misura, i cui limiti a volte e sempre di più sono superati. L'io sociale diventa così un'impostura. Esibire capigliature da mohicani, look barbarici, sventolare bandiere rosse, sentirsi e mostrarsi comunisti o anarchici in piena attività rivoluzionaria, guidare enormi fuoristrada ma non fuori strada, comportarsi come "creativi" senza saper creare, parlare come anticapitalisti avendo un quotidiano e disperato bisogno di merci superflue ... sono tutte imposture, neppure più riconosciute come tali.
Quando naturalezza, sincerità, onestà e senso della misura non si capisce più che cosa siano e sono anzi disprezzate come "borghesi" e conformiste, allora chiunque può scegliere di apparire come crede e di sembrare quello che non è. Si tratta certo di cultura: cioè di coltivata impostura, di stilizzazione enfatica, recita ininterrotta, metodica finzione.
Fin qui siamo ai comportamenti di massa. Meno visibili e riconosciuti sono certi stili dell'impostura adottati dalle élite. I critici e studiosi di letteratura che decenni fa recitavano da scienziati usando gerghi inutilmente astratti, erano degli impostori. Il poeta che usa un linguaggio ritenuto poetico, ma non sa né vedere né recitare se stesso, è un impostore. Il credente che tratta Dio come un'arma e un alleato, è un impostore. Il politico che nasconde il suo io vorace e afferma di lavorare per il bene comune, è un impostore. Il filosofo che parla di princìpi primi e di cose ultime, ma non di come vive in loro compagnia, è un impostore ... Forse sono un impostore anch'io. Recito la parte del critico perché mi viene spontanea, ma vorrei essere solo lasciato in pace. Purtroppo non ci riesco. Gli impostori non mi lasciano in pace. E' tutta colpa loro.
(Il Foglio, 27 agosto 2015)
I palestinesi fuggono da Gaza
Da un paese-prigione verso l'Eldorado israeliano. Ma sono arrestati e respinti. Nella nazione d'origine sono sospettati come spie di Israele.
di Ettore Bianchi
Ormai la parola d'ordine è andarsene, scappare dai territori occupati, dall'inferno di Gaza. Destinazione: la confinante Israele, dove cercare di rifarsi una vita e, soprattutto, vivere dignitosamente e senza la paura della guerra. Ma il desiderio di riscatto dei palestinesi appare spesso come un'impresa temeraria.
Essi, una volta varcata clandestinamente la frontiera, finiscono per trovarsi fra l'incudine e il martello: da un lato, lo Stato ebraico li considera delle spie e, dall'altro, i connazionali vedono in loro dei traditori.
Lungo il confine corre una barriera, che in alcuni punti non supera i 3 metri d'altezza, anche se sono installati rilevatori elettronici che segnalano agli agenti di polizia eventuali movimenti sospetti. Così recentemente ad alcuni ventenni, che si sono cimentati con la traversata, è capitato, una volta messo piede in Israele, di essere circondati dai soldati e di essere subito perquisiti, quindi condannati a sette mesi di carcere per ingresso illegale nel paese. Scontata la pena, sono stati riaccompagnati al confine di Gaza. Il loro ragionamento era che, comunque, non avevano niente da perdere facendo un tentativo, per quanto difficile fosse.
Non pochi si sono accodati a questi palestinesi: in 186 sono stati fermati, dallo scorso settembre a oggi, mentre cercavano di mettere piede in territorio israeliano. Una minoranza fra loro era costituita da terroristi, ma in gran parte erano persone disperate, in fuga dalla violenza e dalla povertà, in cerca di lavoro.
Ultimamente Hamas ha rafforzato i controlli nelle aree di confine. L'obiettivo è evitare fughe sul suolo nemico: aleggia lo spettro del reclutamento dei palestinesi tra le file dei servizi segreti di Tel Aviv. Ma sono soprattutto i più giovani a fuggir perché non ne possono più di vivere in una sorta di prigione dove la popolazione continua ad aumentare, ma le prospettive sono sempre meno rosee. Proprio per questo in molti considerano Israele un'Eldorado, l'ancora di salvezza a cui aggrapparsi, cercando magari un'occupazione come braccianti agricoli.
Poi c'è il duro scontro con la realtà. Se si viene arrestati dalla polizia, bisogna innanzitutto subire un lungo e duro interrogatorio, anche se non violento. Gli israeliani temono di avere di fronte degli infiltrati dei servizi di Hamas. Va a finire che i poliziotti offrono ai palestinesi dei soldi per collaborare con loro. Se si rifiuta e si viene rispediti a Gaza, a propria volta bisogna subire lo stesso trattamento dai servizi di sicurezza locali: anch'essi temono le spie.
C'è anche chi si è pentito di aver intrapreso questa avventura. Due adolescenti, all'inizio del 2013, scapparono in Israele. Uno di loro portava con sé un coltello. Fermati dai poliziotti, furono poste loro domande dettagliate su tutte le persone e le abitazioni del loro quartiere di Gaza. Prima nelle carceri israeliane, poi i contro-interrogatori in terra palestinese: un'esperienza che non consiglierebbero a nessuno. E, come se non bastasse, su di loro e sulle loro famiglie adesso aleggia l'onta del tradimento. Se i più vecchi sostengono che non vale comunque la pena finire tra le braccia del nemico, i giovani ribattono che l'alternativa è rimanere nella Striscia, dove però il futuro è un miraggio.
(ItaliaOggi, 26 agosto 2015)
Mazara del Vallo, più visitatori alla kasbah che dal «Satiro»
L'itinerario ebraico per coloro che arrivano in città inizia con la Piazza San Michele dei Normanni
di Salvatore Giacalone
La kasbah di Mazara del Vallo
MAZARA DEL VALLO - Boom di visitatori alla kasbah, di più del Satiro danzante forse perché, in questo caso, incide il prezzo d'ingresso. Alla kasbah invece si entra e si esce dopo avere percorso un dedalo di stradine rimesse a nuovo, con decorazioni di maioliche sui muri delle case e a fianco delle porte e delle finestre, ove si racconta la storia della città islamica e cristiana. Una storia e un agglomerato urbano pieno di fascino che richiama, oltre che visitatori, anche studiosi di urbanistica araba e medievale. Questa estate novità assoluta sono state le visite guidate al quartiere della Giudecca.
Gli Ebrei rimasero a Mazara fino al 1493. Non fu un periodo economicamente fiorente per la città perché gli ebrei erano principalmente artigiani, fabbri, falegnami, infatti inseguito al decreto di espulsione emanato circa un anno prima dal re di Spagna Ferdinando il Cattolico, gli Ebrei furono cacciati da tutti i domini della Spagna e quindi dalla Sicilia. Alcuni Giudei mazaresi preferirono all'esilio la conversione al cristianesimo. Dopo l'espulsione la loro sinagoga, che è l'attuale chiesa di S.Agostino, fu ceduta agli Agostiniani.
(Giornale di Sicilia, 27 agosto 2015)
Assad: la Russia non ci abbandonerà
Il presidente siriano ha fiducia che Mosca continuerà a sostenerlo: Putin non abbandona gli alleati come fanno gli Stati Uniti.
"La Russia non abbandona i suoi alleati come fanno gli Stati Uniti. Sono convinto che Mosca continuerà a sostenermi". Il presidente siriano, Bashar al Assad, ha parlato dei suoi alleati alla tv libanese Al Manar: "Anche l'Iran resterà al nostro fianco. Siamo sullo stesso asse, l'asse della resistenza" Gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali hanno chiesto fin dal 2011 l'uscita di scena di Assad per poter trovare una soluzione politica al conflitto civile siriano e, dopo l'accordo sul nucleare con l'Iran del mese scorso, l'amministrazione americana ha lanciato segnali di essere intenzionata a collaborare con Mosca su varie questioni, compreso il conflitto in Siria.
Assad, tuttavia, si è detto convinto che il presidente russo Vladimir Putin non accetterà di abbandonarlo al suo destino: "Abbiamo una forte fiducia nei russi - ha affermato - poiché hanno provato attraverso questa crisi, per quattro anni, che sono sinceri e trasparenti nelle relazioni con noi". "Gli Stati Uniti abbandonano i loro alleati, abbandonano i loro amici", ha proseguito il presidente siriano, "ma questo non e' mai avvenuto nella politica della Russia, ne' durante l'Unione Sovietica, ne' oggi con la Russia, la Russia non ha mai detto che sosteneva questo o quel presidente per poi decidere di abbandonarlo". Lo stesso scenario, secondo Assad, vale per Teheran: "Il potere dell'Iran - ha detto - e' il potere della Siria, e una vittoria per la Siria e' una vittoria per l'Iran".
Putin: anche la Siria nella coalizione antiterrorismo. Alle parole di Assad ha indirettamente risposto Putin, che ha mostrato la determinazione della Russia nel non abbandonare il regime di Damasco. Russia ed Egitto concordano sulla formazione di una larga coalizione antiterrorismo che comprenda anche la Siria. "E' stato sottolineato che e' di essenziale importanza creare un largo fronte anti-terrorismo che coinvolga i player chiave internazionali dai paesi della regione, inclusa la Siria", ha dichiarato Putin in una conferenza stampa trasmessa in diretta tv dopo l'incontro con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.
(globalist, 26 agosto 2015)
Sono in molti ad essersi accorti che Obama è un fedifrago. Oppure, usando le immaginose parole del profeta Isaia si puo dire che è come il Faraone dEgitto: un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di colui che vi si appoggia e gliela fora. M.C.
Zubin Mehta dirige la Israel Philharmonic Orchestra
L'8 settembre, ore 20, al Teatro alla Scala, Milano
Zubin Mehta
Martedì 8 settembre alle ore 20 Zubin Mehta torna sul podio della Scala alla guida della Israel Philharmonic Orchestra, nell'ambito del 'Festival delle Orchestre Internazionali per Expo', che vede sfilare sul palcoscenico del Teatro alla Scala 15 compagini provenienti da 8 Paesi di diverse parti del mondo (Austria, Germania, Israele, Italia, Stati Uniti, Svizzera, Ungheria, Venezuela).
Quella tra La Scala e la Israel è una sinergia cominciata con Claudio Abbado che la diresse nel 1969. Da allora i musicisti israeliani hanno suonato più volte sul palco del Teatro alla Scala sotto la direzione di John Eliot Gardiner, Lorin Maazel e Zubin Mehta. Proprio con Mehta l'Orchestra torna l'8 settembre per eseguire la Sinfonia n. 9 in re magg. op.125 di Gustav Mahler; si tratta dell'ultima sinfonia che Mahler riuscì a terminare, prima della Decima rimasta incompiuta.
La Israel Philharmonic Orchestra fu fondata nel 1936 da Bronislaw Huberman e il suo concerto inaugurale, il 26 dicembre del 1936, fu diretto da Arturo Toscanini. L'Orchestra suona regolarmente a Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, e tiene concerti speciali in tutto Israele; inoltre è regolarmente presente nei festival più prestigiosi e nelle principali sale da concerto. Nell'ambito di Key Note, il programma di educazione e sensibilizzazione musicale, i musicisti della Israel Philharmonic Orchestra si esibiscono in numerose scuole e tengono concerti per bambini nella loro sede al Mann Auditorium di Tel Aviv.
Zubin Mehta, nato a Bombay nel 1936, ha ricevuto la sua prima educazione musicale sotto la guida del padre, violinista e fondatore della Bombay Symphony. Nel 1954 ha raggiunto Vienna, dove ha partecipato a un programma di direzione d'orchestra guidato da Hans Swarowski presso la locale Akademie für Musik.
Nel 1961 aveva già diretto i Wiener Philharmoniker, i Berliner Philharmoniker e la Israel Philharmonic; di recente ha festeggiato i suoi 50 anni di collaborazione con le tre Orchestre.
Dal 1977 Direttore Musicale e dal 1981 Direttore Musicale a vita della Israel Philharmonic, ha diretto quest'ultima in oltre 3000 concerti e tournée nei cinque continenti.
Impegnato come scopritore di nuovi talenti musicali in tutto il mondo, assieme al fratello Zarin è Condirettore della Mehli Mehta Music Foundation di Bombay, dove oltre 200 fanciulli vengono educati allo studio della musica classica occidentale. La Buchmann-Mehta School of Music di Tel Aviv sviluppa nuovi talenti in Israele, mentre è attivo un nuovo progetto d'insegnamento per i giovani arabo-israeliani nelle città di Shwaram e di Nazareth con docenti locali e membri della Israel Philharmonic.
Alla Scala ha diretto regolarmente dal 1962: nell'ultimo concerto, nel 2014, ha diretto Die Schöpfung di Haydn con l'Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala, mentre l'ultimo titolo operistico è stato Aida di Verdi con la regia di Peter Stein nel 2015. Mehta tornerà a Milano il 29 e 30 settembre 2015 per l'attesa Messa da Requiem di Verdi nella Chiesa di San Marco. Nel 2016 porterà alla Scala Der Rosenkavalier di Richard Strauss nell'allestimento di Harry Kupfer.
(Teatrionline, 26 agosto 2015)
Teheran difende il suo ruolo di potenza regionale
di Emiliano Pompei
ROMA - «La Repubblica islamica non permetterà agli Stati Uniti di fare incursioni nel paese»; l'avvertimento è arrivato direttamente dal leader della rivoluzione islamica in Iran, l'ayatollah Imam Sayyed Ali Khamenei, guida suprema iraniana e rappresentante del clero sciita. Khamenei, è infatti intervenuto all'VIII Summit di Tehran organizzato dall'Assemblea della televisione e della radio iraniana; si è trattata di una tre giorni dedicata quest'anno alle prossime sfide del paese: il terrorismo internazionale e quello takfirista, quest'ultimo considerato la minaccia più pericolosa interna al mondo musulmano.
Ad introdurre il meeting, che ha visto la partecipazione del ministro dell'informazione Omran al-Zoubi, dei vertici della televisione e della radio iraniana (Irtv), ma anche di altre figure internazionali della politica e dell'informazione, soprattutto mediorientale, è stato il segretario generale di Irtv, Ali Karimian, nel corso di una conferenza stampa registrata il 17 agosto. Nel suo intervento, poi, il leader islamico ha fatto riferimento ad alcuni tentativi di intrusione da parte della diplomazia Usa, cavilli che sarebbero inseriti all'interno dello storico accordo sul nucleare iraniano.
L'accusa contro l'amministrazione Obama ha raggiunto livelli più alti quando Khamenei ha invocato l'aiuto dell'Onnipotente contro il progetto americano di disintegrazione della Siria e dell'Iraq. A margine del suo intervento ha voluto ricordare, sottolineandolo, il sostegno e il ruolo dell'Iran nel corso degli anni al mantenimento degli equilibri regionali, oltre che alla resistenza palestinese, definito dallo stesso come «uno dei capitoli più brillanti della storia islamica». Lo stesso Ali Akbar Velayati, consigliere di Khamenei, si è espresso con toni che riportano indietro di mesi il dialogo politico, fuori dalle celebrazioni euforiche del mondo occidentale in generale. Ed e' proprio a loro, ai paesi alleati della politica estera statunitense che si è rivolto il funzionario iraniano, quando ha dichiarato che oltre 80 paesi al mondo partecipano alla cospirazione contro la Siria, facilitando tra le altre cose l'apertura dei confini siriani, così da permettere le infiltrazioni dei mercenari terroristi «come quella della BlackWater statunitense, che ieri terrorizzavano la gente in Afghanistan e oggi hanno creato gruppi ancora più grandi per finire il lavoro nella regione».
Infine, sempre durante le attività della riunione hanno avuto luogo due eventi degni di nota. L'istituzione del Global Media Union Award, un premio da assegnare alla persona che ha rappresentato meglio i problemi dell'uomo e della società attraverso l'eleganza delle sue opere artistiche, e poi la presentazione di una nuova agenzia fotografica di informazioni, la "Halal Media", un vero e proprio marchio che si occuperà anche di produzione cinematografica e televisiva. Il progetto, che si rivolge ai più giovani, ha come obiettivo proprio quello di intercettare le nuove abitudini comunicative. Magari suggerendo loro dei validi indirizzi.
(agccommunication, 26 agosto 2015)
Zahavi e Soudani, gol Champions per Maccabi e Zagabria
Sette reti del bomber israeliano fanno sognare club di Tel Aviv.
di Francesco Tedesco
I giocatori del Maccabi festeggiano dopo la qualificazione
NAPOLI - Due città lontane, accomunate dalla passione per il calcio e che oggi festeggiano insieme il ritorno tra le grandi della Champions League. Il Maccabi Tel Aviv e la Dinamo Zagabria hanno passato i play-off grazie ai gol di due attaccanti che fanno sognare i tifosi, l'israeliano Eran Zahavi e l'algerino "adottato" dai croati El Arabi Hilal Soudani. In primo piano il Maccabi, che torna in Champions League dopo 11 anni di assenza grazie ai gol del "traditore" Zahavi, l'attaccante cresciuto nell'Hapoel Tel Aviv e che ora, dopo una breve e non fortunata parentesi italiana al Palermo, è la punta di diamante del Maccabi. Un caso che lo scorso anno portò anche alla sospensione di un derby di Tel Aviv quando un tifoso dell'Hapoel ha invaso il campo, aggredendolo. In questa estate 2015, invece, Zahavi ha aggredito le difese avversarie, segnando sette gol e portando il Maccabi in Champions. Gli israeliani sono partiti infatti dal secondo turno preliminare e Zahavi ha subito segnato una doppietta a metà luglio, nel 5-1 che ha seppellito i maltesi dell'Hibernans, poi ancora una doppietta nel turno successivo, durissimo, contro i cechi del Viktoria Plzen che avevano vinto 2-1 a Tel Aviv. Qualificazione in dubbio? Ci pensa Zahavi che va in Repubblica Ceca e infila due gol, firmando il successo per 2-0 e la qualificazione. Poi il capolavoro dei play-off, in cui Zahavi praticamente da solo ha sotterrato il Basilea, che lo scorso anno era arrivato agli ottavi di Champions. All'andata l'attaccante porta avanti il Maccabi ma il Basilea fa due gol e sembra avviato a vincere la gara: Eran, però, non ci sta e al 96' infila di testa il 2-2.
Ieri, gara di ritorno e stessa storia: dopo 11' il Basilea zittisce lo stadio Bloomfield con il gol di Zuffi, ma i tifosi del Maccabi hanno fiducia e Zahavi li ripaga dieci minuti dopo, segnando il gol che regala la qualificazione. Per la squadra di Tel Aviv è il ritorno in Champions League dieci anni dopo, l'ultima apparizione è del 2004/2005.
Ha dovuto aspettare solo due anni, invece, la Dinamo Zagabria che ritorna alla fase a gironi di Champions anche grazie ai gol di Soudani. L'attaccante algerino è stato decisivo nel doppio confronto del play off contro i sorprendenti albanesi dello Skenderbeu. Un gol in Albania nel successo per 2-1 della Dinamo e una doppietta nella gara di ritorno. Ieri sera, a Zagabria, è stato infatti proprio lui ad aprire con un colpo di testa le marcature. Ma gli albanesi non hanno mollato, pareggiando subito con Esquerdinha e riaprendo la qualificazione per qualche minuto. Poi la valanga Dinamo non si è più fermata e, grazie anche al secondo gol di Soudani, è arrivato il 5-1 finale. Per l'attaccante algerino, cresciuto nell'Aso Chlef e poi emigrato in Portogallo, si corona il sogno dell'Europa dei grandi e infatti ieri sera, a fine gara, ha subito twittato una sua foto con la scritta "Welcome Champions League". Dopo un titolo algerino con il Chlef, sua città natale, e una coppa di Portogallo vinta con il Vitoria Guimaraes, Soudani è ormai un idolo a Zagabria e da settembre vuole stupire l'Europa.
(ANSAmed, 26 agosto 2015)
Netanyahu in visita giovedì a Expo
Per la visita del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu a Expo, in programma giovedì, saranno messe in atto «misure di sicurezza adeguate» che tuttavia non graveranno sulla città. Il questore di Milano Luigi Savina ha ricordato l'eperienza del 2014 con l'Asem, quando in un solo giorno si sono concentrati a Milano 54 capi di Stato e di governo tra i più importanti del mondo. «Quindi - afferma Savina - non è una novità. Sicuramente ci saranno misure di sicurezza adeguate ma la città non ne risentirà, come non ne ha risentito in questi mesi (di Expo, ndr) in cui Milano è stata teatro della presenza dei più importanti capi di stato».
(Libero, 26 agosto 2015)
Israele e l'Italia finanziano i curdi comprando il loro greggio
Il Financial Times scrive che negli ultimi mesi Israele ha importato tre quarti del suo fabbisogno di petrolio dal Kurdistan iracheno, la regione semiautonoma nel nord del paese.
di Daniele Raineri
Raffinerie nel Kurdistan
ROMA - Il Financial Times scrive che negli ultimi mesi Israele ha importato tre quarti del suo fabbisogno di petrolio dal Kurdistan iracheno, la regione semiautonoma nel nord del paese, e questo commercio molto discreto fornisce un finanziamento prezioso ai curdi che sono impegnati nella guerra contro lo Stato islamico. La compravendita, nota il giornale finanziario, è anche un segno di decisionismo da parte curda e di relazioni in peggioramento tra Erbil, capitale del Kurdistan, e Baghdad. Il fatto che i curdi abbiano contratti petroliferi negoziati in autonomia è da tempo motivo di tensione e l'anno scorso era arrivato un accordo che avrebbe dovuto risolvere il contenzioso. Il governo federale teme inoltre che la regione stia puntando alla piena indipendenza dall'Iraq.
Il commercio del petrolio del Kurdistan avviene grazie a contratti segreti e pre-pagati (questo dettaglio è importante, come si leggerà più avanti) mediati da alcune delle compagnie più grandi del mondo in questo settore, incluse Vitol e Trafigura. Tra i grandi acquirenti ci sono anche l'Italia, la Francia e la Grecia.
I dati: tra l'inizio di maggio e l'11 agosto, Israele ha importato più di diciannove milioni di barili di greggio curdo, che valgono circa un miliardo di dollari secondo l'andamento dei prezzi di quel periodo. Il Financial Times spiega che queste informazioni sono state ricavate dalle bolle di trasporto, da fonti del settore e dai dati dei satelliti che seguono lo spostamento del petrolio. Quella quantità di greggio equivale al 77 per cento della domanda media da parte di Israele, che corrisponde a 240 mila barili al giorno. Più di un terzo di tutte le esportazioni di petrolio dal nord dell'Iraq, fatte passare per il porto turco di Ceyhan, sono andate a Israele durante il periodo di osservazione. Fonti del settore dicono al Financial Times che Israele potrebbe avere anche immagazzinato oppure rivenduto all'estero una parte del petrolio. Alcuni analisti suggeriscono che il Kurdistan sta applicando uno sconto agli israeliani sul prezzo del petrolio, ma funzionari del governo regionale smentiscono. I curdi del nord dell'Iraq sono alleati con Israele da decenni - come numerosi video estremisti dello Stato islamico non mancano di rimarcare. Gerusalemme sostiene pubblicamente la lotta per l'indipendenza del Kurdistan dall'Iraq, i curdi tengono un basso profilo per non creare frizioni con i vicini. Il governo di Baghdad non riconosce Israele e ha relazioni strette con l'Iran, un nemico dichiarato.
L'acquisto di petrolio da parte di nuovi compratori è arrivato al momento giusto, perché il crollo del prezzo del petrolio ha aggravato la crisi fra Baghdad ed Erbil. In teoria c'è un accordo (benedetto dall'Amministrazione americana) che dice: curdi e governo centrale iracheno esportano assieme il greggio estratto in Kurdistan e i curdi in cambio ricevono una parte del budget nazionale. Ma Baghdad è indietro con i pagamenti perché sostiene che i curdi stanno mandando poco petrolio e questo ritardo ha aperto dei vuoti nelle casse di Erbil - proprio mentre i curdi stanno combattendo e si sono presi sulle spalle l'incarico di fare da barriera di sicurezza contro lo Stato islamico (e nel farlo dimostrano sul campo più efficienza dell'esercito regolare iracheno). I cosiddetti contratti pre-pay negoziati da Vitol e Trafigura sono per loro natura pagati per intero in anticipo rispetto alla consegna del greggio e questo ha permesso al governo federale curdo di coprire gli ammanchi nel budget. Entrambe le compagnie coinvolte rifiutano di commentare la notizia.
Un secondo grande compratore è l'Italia. Secondo i calcoli del Financial Times le raffinerie italiane da maggio hanno acquistato il 17 per cento del greggio esportato dal nord dell'Iraq, circa 450 mila barili al giorno. Una parte del petrolio passa attraverso Cipro, dove è trasferito da nave a nave, che è una tattica spesso usata per mascherare la provenienza del petrolio.
(Il Foglio, 26 agosto 2015)
L'Iran pronto a rafforzare cooperazione con la Cina nel settore nucleare
TEHERAN - L'Iran è pronto e determinato a incrementare la cooperazione strategica con la Cina nel campo dell'energia nucleare. Lo ha dichiarato oggi il direttore dell'Organizzazione per l'energia atomica dell'Iran (Aeoi), Ali-Akbar Salehi, nel corso di una intervista esclusiva all'agenzia di stampa "Irna" da Pechino, dove si trova in visita ufficiale. Ribadendo il "ruolo costruttivo" giocato dalla Cina nell'ambito dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano, Salehi ha spiegato che i due paesi godono di una "relazione privilegiata" che è entrata "in una nuova fase" dopo la firma dell'accordo internazionale sul nucleare a Vienna, il 14 luglio scorso. Tra i progetti congiunti discussi dai due paesi, il direttore dell'Aeoi ha citato in particolare quello relativo allo sviluppo e alla realizzazione di piccole centrali nucleari "multidimensionali" da 100 megawatt, in grado di generare al contempo energia elettrica, vapore per usi industriali e di desalinizzare l'acqua marina.
(Agenzia Nova, 26 agosto 2015)
Il Maccabi Tel Aviv elimina il Basilea e spinge la Roma in terza fascia
Sono la Dinamo Zagabria, il Maccabi Tel Aviv, il Malmoe, il Valencia e lo Shakhtar Donetsk a planare oltre i playoff della Champions League e a centrare l'accredito per la fase a gironi. Ma la notizia che più piacerà ai tifosi (e ai giocatori) della Roma è legata al Basilea. Perché l'eliminazione degli svizzeri in Israele ha liberato una poltrona nella terza fascia del sorteggio di giovedì pomeriggio (ore 17.45): la occuperanno così i giallorossi di Rudi Garcia, che eviteranno quindi l'ultima urna, la quarta, di certo la più pericolosa.
Quanto al panorama europeo, la serata è stata ricca di sussulti. Ripartendo dal successo raccolto la scorsa settimana (2-1), la Dinamo Zagabria ha piegato gli albanesi dello Skenderbeu in casa grazie a una doppietta di Soudani e ai gol di Hodzic e di Taravel (4-1). Vano, insomma, il sigillo di Esquerdinha. Una rete di Zuffi e una Zahavi, viceversa, hanno confezionato la sfida di Tel Aviv tra il Maccabi e il Basilea (1-1): determinante, a rifletterci, il pareggio raccolto dagli israeliani in trasferta, giusto una settimana fa (2-2). E, come detto, ne beneficerà generosamente la Roma.
(Il Messaggero, 25 agosto 2015)
Ucraina, Olocausto dei proiettili: scoperte duemila fosse comuni
Morì oltre un milione e mezzo di ebrei
di Federica Macagnone
Un orrore senza fine, senza tempo. Verità rimaste nascoste sotto la coltre dell'omertà e della paura e che adesso, a settanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, vengono a galla: i racconti dell'Olocausto nazista in Ucraina stanno rivelando tutto il loro orrore grazie al pionieristico lavoro di un prete cattolico, Padre Patrick Desbois, che ha deciso di mettersi alla ricerca della verità su quelle esecuzioni raccapriccianti che sono state tenute al buio per troppo tempo.
Circa duemila fosse comuni, dove sono state sepolti tra l'altro bambini e donne di religione ebraica, sono state localizzate ma si potrebbero scoprire fino a 6mila siti dove le persone sono state ammucchiate durante quello che è stato definito "l'Olocausto dei proiettili": a differenza di quanto accaduto in Polonia e in Germania, dove le camere a gas sono state usate come mezzi di sterminio, in Ucraina molte delle vittime sono state uccise sotto il fuoco dei proiettili e sepolte in fosse comuni. In molti casi, agli ebrei fu ordinato di scavare buche e spogliarsi prima di essere uccisi. In tanti furono ammassati sotto i cadaveri, ancora vivi. Poi le fosse furono coperte di terra: secondo i testimoni, per giorni, il terreno dal quale sgorgava sangue, sembrava respirasse. Storie terribili, storie di morte.
Adesso la verità si fa strade tra il cumulo di silenzio che ha regnato per anni. «Fino all'avvento di Gorbaciov, sotto l'Urss non si è mai parlato dell'Olocausto degli ebrei, l'Olocausto fu ignorato in Unione Sovietica - ha dichiarato Alla Gerber, storica e scrittrice, presidente della Fondazione Holocaust di Mosca, la cui famiglia è stata sterminata dai nazisti - Gli ebrei ammazzati dai nazisti durante l'occupazione tedesca venivano citati come russi caduti durante la Guerra di liberazione. Solo ora comincia a prendere corpo un vero e proprio archivio della Shoah. Stalin prima tradì gli ebrei per dimostrare amicizia a Hitler, poi per nascondere le proprie responsabilità nei pogrom (cioè i massacri antisemiti). I comunisti, successivamente, hanno cancellato l'Olocausto per coprire le proprie stragi e per non ammettere la diffusa complicità popolare nella Shoah per mano dei collaborazionisti».
Padre Patrick Desbois, adesso, si è messo alla ricerca della verità per fare giustizia su quelle morti, seguendo i racconti del nonno, prigioniero di guerra tenuto in un campo di concentramento dai nazisti nel Ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale: in poco tempo ha scoperto, tramite i racconti dei testimoni, che tante persone venivano uccise per divertimento, per rabbia, per noia, per ubriachezza o per violentare le ragazze.
Lo storico Mikhail Tyaglyy ha detto al MailOnline che il numero delle vittime ebraiche in Ucraina è tra 1 milione e 400mila e 1 milione e 600mila.
La ricerca di Desbois lo ha portato in quattro luoghi intorno a Rava Ruska, vicino al confine tra Ucraina e Polonia, dove 15.000 ebrei furono uccisi e dove suo nonno, Claudio Desbois, venne detenuto in in campo come prigioniero di guerra. Giorno dopo giorno, frequentando quei luoghi, scoprì che gli anziani che avevano assistito alla tragedia degli ebrei e che avevano taciuto per tutta la vita sotto il regime sovietico avevano bisogno di parlare, di liberarsi di quell'orrore stampato per sempre nei loro occhi e nelle loro menti.
Yaroslav è stato uno dei primi testimoni. Ha condotto il sacerdote in un sito poco fuori dalla città dove nel 1942 aveva assistito al massacro di un ragazzino ebreo di 13 anni. Dopo di lui tanti altri hanno seguito il suo esempio.
Yaroslav ha descritto come gli ebrei arrivavano a piedi ed erano costretti a spogliarsi prima di essere portati su un lato di una fossa comune di Rava Ruska e giustiziati con una velocità che era frutto di una meccanicità dei movimenti spaventosa: i loro corpi furono ammassati, i vestiti e gli oggetti di valore furono portati via.
«Abbiamo visto arresti, uccisioni, esecuzioni - ha raccontato Olha Havrylivna - Un giorno li abbiamo visto riempire una fossa di corpi. Mi ricordo che ore dopo la terra ancora si muoveva: alcuni erano vivi. Era difficile guardare, è stata una tragedia. Una grande tragedia».
«I nazisti uccidevano prima vecchi e bambini, lasciavano in vita solo le persone di età compresa tra i 18 e i 45 anni che potevano lavorare - ha raccontato Gregory Haven - Eravamo a tre chilometri di distanza, abbiamo sentito gli spari, le persone cadevano come mosche. Ho visto un giovane ebreo che portava i cadaveri in un carrello verso il cimitero ebraico. Era l'inverno del 1942, la terra era rossa per il sangue. Gli ebrei venivano spogliati, abbiamo visto i tedeschi che prendevano abiti, soldi, anelli, orologi d'oro. Le donne venivano denudate in strada e massacrate di botte in tumulti organizzati dai nazisti».
«Non potrò mai dimenticare quando ho visto uccidere un bimbo di due anni - ha raccontato un testimone - un nazista lo ha scippato dalle braccia della madre e ha iniziato a sbattergli la testa al muro fino a ucciderlo. C'era sangue dappertutto, i genitori in lacrime non hanno potuto far nulla per salvarlo».
«Mio nonno non parlava mai - ha raccontato il sacerdote a caccia della verità - Diceva solo che fuori dal campo, dove era prigioniero, era anche peggio. Volevo capire perché, e ho scoperto che 18.000 ebrei sono stati fucilati nel villaggio di Rava Ruska. Gli ucraini anziani come Yaroslav, testimoni di questo orrore, hanno voluto mettere fine al loro voto di silenzio sulle cose terribili che hanno visto in gioventù. Le persone che erano presenti alle uccisioni hanno voluto parlare prima di morire: molti di loro sono stati "arruolati" per scavare le fosse comuni, per riempirle, per trainare carri di cavalli che trasportavano cadaveri, per vendere gli abiti. La gente deve capire che Rava Ruska è stato un enorme centro di sterminio: prima per gli ebrei, poi per i prigionieri politici, e quindi per la popolazione locale. Ogni persona qui è stata uccisa. Non possiamo dimenticarlo».
In 32.000 sono stati sepolti intorno a Rava Ruska e nelle città vicine come Bakhiv, dove per anni i contadini hanno scavato e hanno trovato fosse comuni e corpi umani. In tutto, un milione e mezzo di ebrei ucraini sono stati uccisi dalle truppe di Hitler.
«La sfida è raccogliere più prove possibili sullo sterminio degli ebrei in queste zone e scoprire le fosse comuni - ha continuato il sacerdote - Domani i testimoni scompariranno e i negazionisti sono già pronti a dire che gli ebrei hanno falsificato la storia. Io dico sempre che l'Olocausto non è stato uno tsunami. È stato un crimine. E quando c'è un delitto ci sono anche le prove ed è facile trovarle in questi villaggi. Se non si comprende l'importanza di quanto è successo c'è il rischio che la storia possa ripetersi».
(Il Messaggero, 25 agosto 2015)
Israele: scoppia la guerra del Ketchup contro la Heinz perché ha poco pomodoro
Il ministero della salute israeliano ha stabilito che il Ketchup della Heinz deve essere venduto con la dicitura "condimento di pomodoro" dopo che il diretto concorrente israeliano Osem si era lamentato che il prodotto più famoso del mondo nel settore non aveva la quantità sufficiente di pomodoro per essere chiamato ketchup.
Secondo i test israeliani il ketchup Heinz è risultato con tenere solamente il 21% concentrato di pomodoro, mentre per la legge locale il ketchup ne deve avere almeno il 41%.
Un portavoce della Heinz Europa ha ricordato che l'etichetta del retro del ketchup venduto in Israele riflette le attuali norme locali per l'etichettatura degli ingredienti ed il nome ebraico del prodotto aggiungendo che "L'originale ricetta della Heinz Tomato Ketchup venduto in Israele e lo standard per ketchup in tutto il mondo rimane invariato."
Meno male che da due anni il Ketchup della Heinz non è più proprietà della signora Teresa Heinz, moglie di John Kerry il Segretario di Stato Usa, John Kerry, che recentemente è visto come fumo negli occhi da molti israeliani per la gestione fatta della politica estera Usa in in Medio Oriente per conto del Presidente Obama. Molti maliziosi avrebbero potuto pensare ad una qualche forma di ritorsione.
(Ultima Edizione.Eu, 25 agosto 2015)
Israele rilascia emigrati africani
Circa 600 emigrati eritrei e sudanesi sono stati rilasciati oggi dal centro di detenzione di Holot (nel sud di Israele) dopo una recente sentenza della Corte Suprema che ha stabilito il limite massimo di un anno durante il quale una persona può essere detenuta senza processo. Altri 1.178 saranno rilasciati nei prossimi giorni. Molti di loro non sanno però dove andare in Israele, visto che un'ordinanza del ministero degli interni proibisce loro di tornare o andare a Tel Aviv ed Eilat.
(ANSA, 25 agosto 2015)
Il rabbino "scomunica" il Gam Gam: «Quel ristorante non è kosher»
Il capo religioso della comunità ebraica di Venezia precisa che il locale, il cui titolare è accusato di evasione fiscale, non è certificato.
di Vettor Maria Corsetti
«La tradizione ebraica nella sua espressione ortodossa ha tra i suoi capisaldi il principio che la legge dello Stato è legge: pertanto, la partecipazione alla vita della collettività nazionale impone a qualsiasi ebreo che voglia seguire i dettami della legge ebraica, specie se si fregia del titolo di rabbino, l'obbligo di pagare le tasse».
A dirlo è il rabbino capo della Comunità ebraica di Venezia, Rav Scialom Bahbout. Che, nel commentare l'indagine in corso della Guardia di finanza sul gestore del ristorante kosher "Gam Gam", accusato di evasione fiscale per un milione e mezzo di euro, precisa che la prima non ha alcuna relazione amministrativa e tanto meno religiosa con il secondo. E che, «in quanto unico autorizzato da anni nella circoscrizione di Venezia a rilasciare certificati di idoneità in materia, e pur fornendo alla sua Comunità una serie di servizi kosher», l'Ufficio rabbinico non riconosce il ristorante "Gam Gam" come tale.
Nella circostanza, Rav Scialom Bahbout si augura che la verifica delle Fiamme gialle si concluda in una bolla di sapone. Ma ipotizzando per essa tempi lunghi, e preoccupato per il danno d'immagine «già notevole anche per la Comunità ebraica» (che per inciso, ha in libera concorrenza un suo Kosher Restaurant, il Ghimel Garden, estraneo all'accertamento e inaugurata all'inizio dell'estate in campo del Ghetto Novo), ribadisce l'assenza di relazioni con il "Gam Gam", specie per il fatto «che i lettori sono naturalmente portati a non fare alcuna distinzione tra un ristorante kosher gestito da un rabbino e la Comunità ebraica stessa».
(Il Gazzettino, 25 agosto 2015)
Cartellone: "Ambasciata Iran a Tel Aviv"
Provocazione pacifista di artisti israeliani in centro città.
Un grande cartellone pubblicitario alto come un palazzo di quattro piani ha attirato a Tel Aviv la perplessa attenzione dei passanti. Sul cartellone vi sono infatti una accanto all'altra le bandiere di Israele e Iran e una scritta annuncia che "l'ambasciata iraniana in Israele verrà presto aperta qui". Siti israeliani riferiscono che il cartellone potrebbe essere stato fatto e collocato da artisti israeliani con il gruppo d'arte 'Hamabul', che invoca un riavvicinamento tra i due Paesi.
(ANSA, 25 agosto 2015)
EDIPI e la Giornata della Cultura Ebraica
L'associazione Evangelici d'Italia per Israele, si sta organizzando per una presenza capillare nelle diverse iniziative per la Giornata della Cultura Ebraica 2015.
Domenica 6 settembre si inaugurerà infatti a Firenze, scelta quest'anno come città capofila, la 16sima Giornata Europea della Cultura Ebraica. Il tema di quest'anno sarà "Ponti e attaversamenti".
Sono previsti appuntamenti ed iniziative culturali in 72 luoghi d'Italia tra grandi città (Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) e piccoli centri (Santa Maria del Cedro, Soncino, Lugo di Romagna e Trani).
Particolarmente interessante l'iniziativa a Padova con la presentazione del nuovo catalogo per il recentissimo Museo Ebraico di Padova. E' stato infatti inaugurato poche settimane fa nella vecchia sinagoga aschenazita, restaurarata qualche decennio fa dopo l'odioso incendio da parte dei fascisti perpetrato durante da seconda guerra mondiale.
Come ogni anno i vari soci di EDIPI si attiveranno nelle diverse iniziative delle varie città di apparteneza, regalando agli interessati la pubblicazione di Derek White "L'ebraicità di Gesù", l'unico "vero ponte" che è importante attraversare!
(EDIPI, 25 agosto 2015)
Parigi, la voglia di futuro batte la paura
Lo European Center for Judaism che deve essere costruito a Parigi
Aprirà nel 2017 e si innalzerà su sette piani dall'architettura futuristica lo European Center for Judaism, il nuovo Centro per ebraismo europeo che avrà sede a Parigi presso il 17esimo arrondissement, nella zona di Neuilly (quartiere dove si concentra una densa popolazione ebraica) e che promette di far accedere ad un nuovo mondo: quello "dell'ebraismo del domani". Una scelta dalle connotazioni fortemente simboliche, dopo il drammatico attacco al supermercato casher Hypercacher, l'appello del premier israeliano Benjamin Netanyahu che in risposta invitò gli ebrei francesi, la comunità più grande d'Europa, a fare l'aliyah e a trasferirsi in massa e il dibattito sul pericolo dell'antisemitismo nel Paese e in Europa.
"Questa è la miglior risposta per chi pensa che il futuro degli ebrei di Francia sia da un'altra parte" ha commentato il presidente francese Francois Hollande, spiegando che parte dei finanziamenti per la realizzazione del polo culturale avverrà, per un quarto, grazie al supporto del governo. La superficie inoltre è stata devoluta a costo zero dalla municipalità parigina.
L'annuncio ha costituito il cuore dell'incontro all'Eliseo tra il presidente francese e il presidente dello European Jewish Congress Moshe Kantor, nominato Officier de la Légion d'Honneur, la più alta onorificenza dello Stato. Saranno infatti proprio Kantor, definito da Hollande "un uomo di pace, un uomo di cultura, un amico e un amico della Francia", e l'Ejc i maggiori promotori dello European Center for Judaism, un luogo dedicato allo studio e alla divulgazione che ospiterà anche una grande sinagoga, due sale espositive, una palestra, vari uffici, un mikveh (il bagno rituale) e anche un'ampia terrazza per costruire la sukkah, la capanna che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo l'uscita dall'Egitto.
"C'è chi si chiede se sia il giusto momento per costruire, proprio mentre molti ebrei se ne stanno andando" ha spiegato Joèl Mergui, presidente del Consistoire Central de France, facendo riferimento alla crescita delle alyiot verso Israele. "Ma - ha continuato - nessuno ha il diritto né di criticare chi parte né di decidere del futuro della maggioranza che resta e questo nuovo centro dimostra che solo noi e nessun altro disponiamo di quel futuro".
(Pagine Ebraiche, agosto 2015)
L'Autorità palestinese dovrà pagare dieci milioni agli Usa
NEW YORK - L'Autorità nazionale palestinese dovrà pagare agli Usa 10 milioni di dollari perchè ritenuta responsabile di aver sostenuto sei attacchi terroristici in Israele tra il 2002 e il 2004. Attacchi in cui sono rimasti uccisi o feriti cittadini americani.
Lo ha stabilito un giudice federale di Manhattan. Alla cifra andrà aggiunto anche un milione di dollari per ogni mese di durata del processo di appello. La somma è comunque inferiore ai 20 milioni di dollari chiesti dai legali delle vittime, e coincide con quella dei legali dell'Autorità palestinese. L'amministrazione Obama due settimane fa aveva espresso preoccupazione per una cifra troppo alta che avrebbe potuto causare problemi economici e politici all'Anp, provocando danni anche al processo di pace in Medio Oriente.
(blitz quotidiano, 25 agosto 2015)
Hezbollah, il sogno nel cassetto è la guerra a Israele
Beirut, i miliziani sollecitati dall'Iran difendono Assad dai jihadisti in Siria, ma vorrebbero abbattere Tel Aviv. Nei cimiteri della valle si piangono i caduti rendendo sempre omaggio alle vittime "degli aerei sionisti".
di Carlo Antonio Biscotto
Combattenti di Hezbollah giurano solennemente di continuare il loro percorso di guerra contro Israele
Qualche giorno fa, tentando di fare il punto sulla complessa situazione della guerra in Siria, Robert Fisk scriveva sull'Independent che anche Hezbollah figura tra i protagonisti della partita a scacchi; su mandato dell'Iran, l'organizzazione sostiene e finanzia Assad in funzione anti-Isis. La storia del Partito di Dio, fondato in Libano nel 1982 come milizia durante il conflitto in Libano meridionale, è infatti intimamente legata all'Iran.
Per capire meglio la storia di Hezbollah bisogna fare visita ad un minuscolo cimitero al confine con la Siria dove sulle lapidi disadorne figurano le foto e i nomi di moltissimi giovani uomini caduti sotto le bombe "degli odiati aerei sionisti". Qui, nella valle della Bekaa, è scritta con il sangue la storia di Hezbollahe qui, 30 anni dopo, le famiglie si riuniscono per piangere la morte dei loro cari caduti nell'ultimo anno, in qualche regione della Siria.
Ne è passato di tempo dal 1982; oggi Hezbollah non ha più le caratteristiche di un movimento terrorista, ma come forza combattente appoggia il vacillante regime di Assad il cui esercito sembra ormai allo sbando. Il braccio armato del Partito di Dio è con ogni probabilità il contingente meglio armato e addestrato e, insieme ai curdi, l'unico vero ostacolo al dilagare dei miliziani dell'Isis in tutta la Siria. Ma il prezzo pagato da Hezbollah in termini di vite umane è stato altissimo. Negli ultimi tre anni si calcola che siano caduti in Siria circa 1500 miliziani, pari ad un decimo circa del totale della forza combattente. Un tempo sarebbe stato impensabile per Hezbollah assediare città arabe con il supporto aereo dell'aviazione siriana, ma oggi i miliziani non solo impiegano blindati e missili telecomandati, ma anche modernissimi droni. "Non sono più guerriglieri, ma un vero e proprio esercito", commenta Jeffrey White del Washington Institute per il Medio Oriente.
Malgrado l'impegno in Siria, il sogno nel cassetto di Hezbollah rimane legato alle ragioni della sua fondazione: la rivincita contro Israele. Tutti i combattenti ribadiscono che Israele è in cima alla lista delle loro priorità politiche e militari. Ancora oggi combattenti veterani presidiano la fitta ragnatela di bunker e tunnel sotterranei al confine con Israele, nel sud del Libano. "Quei combattenti che non vedono quasi mai la luce del sole, vivono ogni giorno della loro vita come se il giorno dopo dovesse riprendere il conflitto con Israele", dice uno dei comandanti. Ma al momento è la Siria al centro delle operazioni militari. Dalla zona sud di Beirut ogni giorno partono per la Siria furgoni pieni di nuovi combattenti, spesso giovanissimi. "Il numero dei soldati che reclutiamo è addestriamo è senza precedenti", spiega un ufficiale della milizia. Dalla valle della Bekaa transitano in continuazione convogli di Hezbollah, ambulanze, cingolati, blindati, cucine da campo. Non è la prima volta che Hezbollah combatte fuori dei confini libanesi, ma questa volta la decisione ha sollevato grosse polemiche. I critici non vedono di buon occhio la dipendenza dall'Iran e temono, che dopo l'accordo nucleare, l'Iran non sia più un alleato di cui fidarsi in vista della resa dei conti con Israele.
(il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2015)
Beirut - Palestinesi in fuga dal campo profughi
I civili residenti stanno cercando riparo dagli scontri in Libano tra i miliziani di Al Fath e le fazioni islamiste - Ci sono tre morti.
BEIRUT - Centinaia di civili residenti nel campo profughi palestinese di Ein el Hilweh, in Libano, sono stati costretti a fuggire e trovare riparo nelle strade della vicina città di Sidone a causa degli scontri che da giorni oppongono miliziani di Al Fatah e membri del gruppo islamista Jund al-Sham.
Lo riferiscono media libanesi, mentre il bilancio dei combattimenti dalla scorsa notte ad oggi è salito a 3 morti e almeno una ventina di feriti.
Ein el Hilweh, il più grande campo palestinese in Libano, ospita circa 70.000 profughi e da anni è teatro di scontri tra miliziani di Al Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) e fazioni islamiste palestinesi.
Le tensioni hanno subito una nuova impennata a partire da sabato, a causa di un tentativo fallito di assassinare un dirigente locale di Al Fatah. I combattimenti, nei quali sono stati impiegati anche lanciarazzi e mitragliatrici pesanti, hanno causato seri danni ad alcune abitazioni.
(Corriere del Ticino, 25 agosto 2015)
Sulle sofferenze di questi palestinesi non si parla molto, ma non è strano: non si può attribuirne immediatamente la causa ad Israele.
Così Gerusalemme apre le sue case al mondo intero
Un luogo pieno di vita dove il fascino della Old City si alterna a quartieri più moderni, Dall'avveniristico Val Leer Institute al pittoresco mercato di Yehuda.
di Anna Maria Catano
E' la Gerusalemme che non ti aspetti. Una città vivace, piena di gioventù, di luci, di movimento. Da vivere 24 ore su 24 (anche il sabato nonostante Shabbat) perché piena di locali trendy, ristoranti kosher ed etnici d'ogni genere, di eventi, festival, concerti. Una metropoli millenaria che apre le porte ai suoi ospiti. In senso letterale. Da giovedì 22 a sabato 24 ottobre in occasione di «Open House Worldwide» è possibile visitare (gratuitamente e senza prenotazione) oltre 120 location tra appartamenti privati, case storiche e di design e siti di rilevanza architettonica. Altre 160 accoglieranno i visitatori, in contemporanea, anche a Tel Aviv.
Sono davvero tante le storie che s'intrecciano dentro ognuna di queste dimore. Un autentico spaccato dello stile di vita del Paese e dei suoi abitanti che qui sono confluiti da ogni parte del mondo. Nel pittoresco tranquillo villaggio di Ein Karen, dove secondo la tradizione nacque Giovanni il Battista, Rachel Nethanel, ebrea sefardita di origine marocchina, ha trasformato una vecchia stalla di sassi in una deliziosa villetta dal design mediorientale. Miriam Siebenberg, invece, insieme al marito Theo, ha voluto la sua dimora sopra le rovine del tempio di Salomone, a pochi passi dal Muro del Pianto: i due coniugi hanno autofinanziato gli scavi. Ed oggi Miriam è fedele ed appassionata custode di un museo casalingo che conserva reperti di tremila anni fa. Apre i battenti in occasione di Open House anche il nuovissimo Van Leer Institute che ospita Accademia di Scienze e Letteratura d'Israele. Un gioiello d'architettura contemporanea, firmato da due famose archistar, Brachaand Michael Chyutin. E il Templer Cemetery della German Colony, ultima dimora dei gentili che hanno contribuito a rendere grande lo Stato d'Israele. Nessuna città al mondo vanta un simile crogiuolo di etnie, razze, tradizioni, culture. Perdersi tra i vicoli della Città Vecchia è sicuramente un primo modo per scoprireGerusalemme. Accanto alla trimillenaria Old City, cuore delle tre religioni monoteiste, e costruita interamente in pietra - perché nel deserto era impossibile cuocere i mattoni - ci sono oggi molti quartieri moderni da vedere. Un'esperienza divertente è il mercato di Mahane Yehuda da visitare il venerdì quando è affollato per la spesa della cena di Shabbat (il sabato ebraico). O passeggiare nell'affollata area intorno a via BenYehuda.O lungo l'elegante Mamilla road, la strada dello shopping griffato.
Per conoscere meglio la storia travagliata del Paese e dei suoi abitanti - che hanno saputo in meno di un secolo trasformare il deserto in un fazzoletto di terra verde - c'è il Museo d'Israele che custodisce una vasta collezione di opere arte e l'avveniristica costruzione a forma di giara capovolta dove sono conservati i Rotoli del Mar Morto. E Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto, che commemora l'orrore della storia collettiva di sei milioni di vittime attraverso singole vicende individuali. Mentre all'esterno c'è il Giardino dei Giusti dove migliaia di alberi sono dedicati alla memoria di coloro che hanno rischiato la vita per salvare gli ebrei perseguitati.
Dove alloggiare? Appena inaugurato il Waldorf Astoria, fiore all'occhiello della catena Hilton, ma la storia d'Israele è stata «scritta» al lussuoso King David, dove sono passati re e diplomatici. Decisamente più economici due boutiquehotel, Arthure Melody, non lontani dalla porta di Jaffa. E l'intramontabile YMCA che vanta lo stesso architetto dell'Empire State building.
Per chi non volesse limitarsi alla sola Gerusalemme dal 13 al 20 ottobre il Giornale organizza un tour alla scoperta dei tesori di Gerusalemme, Bedemme, Haifa, Akko, Cesarea, Tel Aviv, Ramla, Mirabel, Arsuf, Jaffa, Monte Tabor, Corno di Hattin, Masada e Mar Morto.
Per informazioni e prenotazioni: Passatempo, tel. 035.403530; info@passatempo. it.
(il Giornale, 25 agosto 2015)
Mondiali di atletica, storico argento per Israele nel salto triplo
Israele festeggia la prima medaglia al femminile ai mondiali di atletica, ad ottenerla nel salto triplo l'ucraina, naturalizzata israeliana, Hanna Knyazyeva-Minenko, argento a Pechino alle spalle della colombiana Caterine Ibarguen. Per tagliare lo storico traguardo Knyazyeva-Minenko, 25 anni, ha dovuto migliorare il record nazionale di 17 centimetri portandolo a 14.78 metri fermandosi a 12 centimetri dal 13.90 della Ibarguen, bronzo per la kazaka Olga Rypakova, 14.59. La Knyazyeva-Minenko era finita ai piedi del podio alle olimpiadi di Londra del 2012 quando gareggiava per l'Ucraina, dal 2013 ha ottenuto la cittadinanza israeliana.
«Tutti in Israele stavano guardando questa gara sognando la prima medaglia mondiale, non posso spiegare quanto mi senta emozionata», spiega a fine una commossa Knyazyeva-Minenko. «Non mi sono presentata a Pechino al 100%, avevo qualche problema al piede ma nonostante tutto ho fatto il salto più lungo della mia carriera», conclude l'atleta israeliana il cui nome va ad unirsi a quello di Alex Averbukh, russo naturalizzato israeliano, che nel 1999 e nel 2001 conquistò un bronzo e un argento mondiale.
(sportnews.eu, 24 agosto 2015)
L'Iran riceverà il sistema missilistico russo S-300 entro la fine dell'anno
TEHERAN - L'Iran riceverà dalla Russia la versione aggiornata del sistema di difesa aerea S-300 entro la fine del 2015. Lo ha detto il ministro della Difesa iraniano, Hossein Dehqan, parlando ad una trasmissione televisiva. L'esponente del governo iraniano ha sottolineato che Usa e Israele avevano costretto Mosca ad annullare la fornitura degli S-300 all'Iran, ma grazie a nuovi accordi tra i due stati il sistema missilistico sarà a disposizione del regime degli ayatollah entro fine anno. Il valore della transazione dovrebbe essere di circa 800 milioni di dollari. Dehqan ha aggiunto che Teheran intende acquistare anche aerei da combattimento russi ed acquisire nel frattempo la tecnologia necessaria per la costruzione dei velivoli. Il ministro ha detto che l'industria della difesa iraniana è in grado di progettare e produrre attrezzature difensive all'avanguardia, e che il dicastero cercherà di trasferire le nuove tecnologia all'industria civile. Dehqan ha spiegato che la forza militare dell'Iran non è rivolta contro i paesi vicini e nessun altro paese, ma ha solo scopo "difensivi della sovranità nazionale". Parlando dei conflitti che infiammano il Medio Oriente, il ministro ha detto che in Iran e in Siria è in atto un "complotto per dividere i musulmani". Dehqan ha inoltre ammesso che la repubblica islamica fornisce "aiuto consultivi ai legittimi governi di Siria, Iraq e Yemen". In merito alla questione nucleare, il ministro ha detto che l'Iran non ha mai perseguito un programma militare in questo settore, ma ha avvertito che "non accetterà alcuna limitazione sui suoi missili".
(Agenzia Nova, 24 agosto 2015)
Neturei Karta, i "Guardiani della città" di Gerusalemme
di Elena Lattes
Un gruppo dei Neturei Karta
Proseguendo il percorso iniziato fra le minoranze oltranziste e talvolta anche violente, troviamo in Israele alcuni gruppi di haredim, o, come vengono definiti in Italia, ultra-ortodossi. Vestiti per lo più di nero, con pesanti cappotti e cappelli anche quando fa molto caldo, vivono in gran parte in quartieri specifici (il più emblematico è sicuramente Mea Shearim a Gerusalemme) e non vedono di buon occhio tutto ciò che è considerato non conforme alla Bibbia.
Anche se dall'esterno possono sembrare tutti uguali, in realtà sono suddivisi in varie correnti, spesso perfino in aperto conflitto tra loro, soprattutto per questioni di differenze interpretative dei Testi sacri. Alcuni, tra i quali i più famosi sono i Neturei Karta e i Satmar, sono contro lo Stato di Israele che, ai loro occhi, è una sorta di blasfemia poiché è stato ricostituito dal sionismo socialista ed è laico e pluralista.
Secondo la loro ideologia, infatti, soltanto con l'arrivo del Messia e con la ricostruzione del Terzo Tempio, gli ebrei potranno autogovernarsi. Fra i due sopracitati il più estremista è quello dei Neturei Karta, il cui nome significa in aramaico "Guardiani della città". Fondato a Gerusalemme negli anni '30 in opposizione al movimento sionista, sono attualmente circa cinquemila in tutto il mondo. Vivono principalmente nella capitale israeliana, ma alcuni di loro, a causa dell'ostilità e dell'insofferenza verso l'ebraismo laico, l'hanno lasciata per trasferirsi in Europa e negli Stati Uniti. Auspicano la distruzione dello Stato "eretico" e alcuni non mancano occasione di dimostrarlo (la maggioranza è comunque silenziosa e conduce sostanzialmente una vita appartata e lontana dai riflettori) arrivando perfino a bruciarne le bandiere nelle pubbliche piazze durante il giorno dell'Indipendenza.
La loro avversione nei confronti di Israele è così forte che sostengono il fondamentalismo islamico e gli antisemiti più agguerriti: uno di loro fu nominato da Arafat ministro nel governo palestinese per "gli affari ebraici" con funzioni analoghe a quelle che ebbe Franz Rademacher, capo del "dipartimento ebraico" del Minsitero degli Esteri nel governo nazista; altri hanno incontrato più volte Ahmadinejad e partecipano ai convegni negazionisti che si tengono periodicamente in Iran. Naturalmente sui loro siti ufficiali plaudono il recente accordo con Obama riguardante il nucleare. In Francia, in nome di una libertà di pensiero, che però non ammettono all'interno dell'ebraismo stesso, hanno manifestato solidarietà a Dieudonné intervenendo in conferenze stampa organizzate nel teatro dell'attore franco-camerunense e facendosi fotografare mentre compiono insieme a lui il gesto della quenelle (braccio disteso che ricorda il saluto nazista). Gli stessi hanno dichiarato il loro supporto a Jobbik, il partito razzista ungherese.
Secondo quanto affermano alcune testate giornalistiche sembrerebbe che appartenga a questa "setta" anche l'assassino di Shira Banki, la sedicenne pugnalata insieme ad altre quattro persone al gay pride di fine luglio. Aveva già accoltellato ferendo diversi manifestanti nel 2005 e per questo il tribunale israeliano l'aveva condannato a dieci anni di carcere. Pena che aveva finito di scontare poche settimane prima. Ora è in custodia cautelare e a breve verrà processato. E' accusato di omicidio premeditato a causa dei suoi precedenti, ma lui non vuole assistenza legale poiché non riconosce l'autorità giudiziaria che, secondo lui, non è conforme alla legge ebraica dei Testi sacri.
(Agenzia Radicale, 24 agosto 2015)
A Gaza insegnanti delle scuole Onu in sciopero contro i tagli
Annunciato un anno di aspettativa senza stipendio
GAZA - Migliaia di insegnanti e dipendenti dell'agenzia dell'Onu per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) hanno scioperato e sono scesi in piazza a Gaza per protestare contro i tagli annunciati durante l'estate. Per superare la crisi finanziaria in cui è piombata, anche a causa dell'insufficienza delle donazioni internazionali, l'agenzia ha intenzione di adottare pesanti contromisure, fra cui un anno di aspettativa senza stipendio per parte del personale e l'aumento del numero degli alunni per classe.
"L'amministrazione e il commissario generale devono migliorare la qualità dei servizi ai rifugiati, non ridurli - ha detto intervenendo sul palco il sindacalista Suhail al-Hindi - Devono fare un passo indietro su queste decisioni ingiuste che tolgono diritti a tutti i livelli, dai servizi sanitari all'istruzione".
Alla manifestazione che si è svolta di fronte al quartiere generale dell'agenzia Onu hanno partecipato oltre 13mila persone.
(askanews, 24 agosto 2015)
Cento lumi per Casale Monferrato
Lampade di Chanukkah: una collezione tra storia, arte e design.
di Maria Paola Forlani.
In occasione di Expo la città di Casale Monferrato presenta una mostra unica e inedita: la collezione completa di oltre centosettanta Chanukkiot d'arte contemporanea della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale. Un'occasione irripetibile per apprezzare i lumi di Chanukkà realizzati da artisti di livello mondiale, ebrei e non, che hanno interpretato e reinterpretato il simbolico candelabro a nove bracci utilizzato, appunto, per accendere i lumi, uno per ogni sera, durante la celebrazione della festa di Chanukkà (la festività ebraica che commemora la consacrazione di un nuovo altare del tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata dagli ellenici).
Arman, Topor, Recalcati, Pomodoro, Mondino, Palladino, Del Pezzo, Luzzati, Colombotto Rosso, Nespolo sono solo alcuni degli artisti che hanno reso la collezione casalese tra le più importanti a livello internazionale, esposta nelle sale del secondo piano del Castello del Monferrato (fino al 1 novembre 2015).
La ricorrenza di Chanukkah (inaugurazione), nota anche come Chag ha-Orot (festa delle luci) cade nella stagione invernale, il 25 del mese di Kislev, e dura otto giorni. Essa rievoca il periodo altamente drammatico della storia del popolo ebraico, allorché, nel II secolo avanti Era Volgare, gli abitanti della Giudea, politicamente assoggettati al regime seleucide della Siria, ne subivano ancor più la forzata assimilazione della cultura ellenistica dominante.
La precettistica religiosa era stata drasticamente limitata, la circoncisione e l'alimentazione rituale (Kasherut), in particolare, severamente vietate, il Santuario di Gerusalemme profanato, il popolo sconvolto e demonizzato. È in questo contesto di disperazione che inizia a manifestarsi una reazione di riscatto, inizialmente attivata dai membri di una famiglia sacerdotale di Modi'in: il padre Mattatia e i suoi cinque figli. Costoro, noti come Asmonei e, più tardi, anche come Maccabei, sotto la guida del Yehudah, condurranno il popolo ebraico alla vittoria sui suoi oppressori e, quindi, alla liberazione materiale e spirituale del paese. Due sono i principali elementi istitutivi della festa di Chanukkah: il miracolo dell'olio, avvenuto nel Santuario, con la sua riconsacrazione al culto; il miracolo della vittoria "dei pochi sui molti, dei deboli sui forti, dei giusti sui malvagi".
Il primo, evidente come tale per la sua umana imprevedibilità, consistette nel fatto che un piccolo quantitativo di olio, trovato nei locali del tempio, che avrebbe potuto alimentare la lampada perpetua a sette bracci (menorah) solo per un giorno, ne durò invece otto, il tempo, cioè necessario ai sacerdoti per prepararne di nuovo, in stato di purità. Il secondo miracolo di per sé non si apparenta come tale, ma, in un ottica umana, altrettanto straordinario e inatteso, consistette nell'esito favorevole agli ebrei dello scontro armato con le soverchianti forze nemiche.
Per ricordare questo duplice ordine di miracoli e per tramandarli alla posterità, venne istituito, dai Maestri dell'epoca, un rituale particolare: l'accensione per otto giorni consecutivi di una speciale lampada a otto becchi chiamati chanukkià o hanukijah o hannukkiah. Questa lampada viene accesa, durante la festa, in ogni casa ebraica dopo il tramonto, negli otto giorni seguenti il giorno corrispondente al 25 di Kislev, con la seguente modalità: un lume la prima sera, due lumi la seconda e così via sino all'ottava sera, allorché la chanukkiah apparirà accesa con tutti i suoi lumi.
È prassi che la chanukkiah venga accesa ovviamente dopo il tramonto, preferibilmente nell'ora in cui tutta la famiglia è riunita. Nella liturgia del periodo, oltreché la lettura di appositi brani della Torah, la Bibbia ebraica, è prescritta la recitazione, nell'ambito della 'Amidah, una delle preghiere fondamentali dell'ebraismo e, privatamente, della preghiera di ringraziamento dopo i pasti, del passo iniziale con le parole "Per i miracoli, per gli atti di valore, per le vittorie " e dopo la 'Amidah segue l'Hallel, preghiera contenente inni e lodi al Signore che viene recitata nei giorni festivi. È altresì prescritto che, durante l'accensione dei lumi, non ci si possa "servire" della loro luce, ma esclusivamente contemplarli, meditando con ciò sulla presenza salvifica di D-o nella vita del suo Popolo.
Le chanukkiot del Museo dei Lumi di Casale sono 115. Più una. La prima. Che non c'è. Perché è stata inviata in Israele dove ancora oggi viene accesa con le altre nella Sinagoga italiana di Gerusalemme. Questa collezione dei Lumi di Chanukkà, per la prima volta dalla sua nascita, avvenuta nel 1994 si può ammirare in un'unica sede espositiva, un evento, per la rilevanza degli artisti e per la bellezza delle opere, unico ed affascinante.
Gli artisti hanno tutti sentito l'impulso di dare prova alla loro creatività per inventare una forma per quell'oggetto che una forma già ce l'ha. Ed è la sua sostanza. Un oggetto così pregnante e carico di contenuti, simbolo del legame tra il popolo ebraico e la luce; un oggetto dal design millenario così identificante da essere tutt'uno con il suo significato religioso e da imporre precisi vincoli formali e funzionali. Chanukkiah è per definizione il candelabro con otto bracci più lo shammash, il servitore che non deve essere uguale agli altri, ma più alto, o più basso, e comunque fuori allineamento.
A leggere le testimonianze di Aldo Mondino, Antonio Recalcati, Giosetta Fioroni, Lucio Del Pezzo e tutti gli artisti presenti si coglie sempre la precisa intenzione di partire dalla storia antica, per trovarvi nuovi significati, senza mai piegarli o manipolarli, ma intersecandoli ai valori del proprio credo - religioso e artistico - e ampliandoli a comprendere valori universali di pace e poesia.
(tellusfolio.it, 24 agosto 2015)
Vendita di petrolio curdo a Israele: Baghdad chiede "spiegazioni" a Erbil
BAGHDAD - Il ministero del Petrolio iracheno ha chiesto "spiegazioni" ai curdi di Erbil e ha convocato i responsabili della società petrolifera Somo per chiarimenti sulle notizie circa le presunte esportazioni petrolifere dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno verso Israele. "Abbiamo chiesto a Somo delucidazioni in merito alle esportazioni dalla regione del Kurdistan a Israele. Pubblicheremo un comunicato stampa dopo aver sentito l'opinione dei rappresentanti della compagnia", ha detto un portavoce del dicastero al sito internet "Iraqi news", invitando anche i curdi di Erbil a "chiarire la loro posizione" in merito alla vicenda. Secondo quanto riferito dal quotidiano londinese "Financial times", tre quarti delle importazioni petrolifere israeliane provengono dalla regione autonoma del Kurdistan. Da mesi i curdi di Erbil vendono in modo autonomo la maggior parte del petrolio estratto dai campi di Kirkuk, area controllata dai curdi ma ufficialmente sotto la giurisdizione del governo federale, in segno di protesta per il mancato rispetto dell'accordo firmato nel novembre 2014. Quest'ultimo prevede la cessione da parte del Kurdistan iracheno di 550 mila barili di petrolio al giorno a Baghdad, equivalente più o meno a un quinto delle esportazioni totali dell'Iraq, in cambio del 17 per cento del budget nazionale iracheno alle autorità curde per far fronte alle spese della pubblica amministrazione, oltre ad una quota sempre del 17 per cento del bilancio del ministero della Difesa, per il sostegno dei guerriglieri Peshmerga. Il "Financial Times" ha evidenziato un deciso avanzamento del petrolio del Kurdistan iracheno sui mercati mondiali, mettendo "Italia, Francia e Grecia" in prima fila tra i "compratori emergenti" del combustibile nord-iracheno. Secondo il quotidiano, le raffinerie italiane hanno importato in media più di 450 mila barili di petrolio al giorno tra maggio e agosto, una quantità pari al 17 per cento delle esportazioni provenienti dal nord dell'Iraq. Grecia e Turchia avrebbero acquistato rispettivamente quantitativi pari l'8 per cento e il 9 per cento delle forniture. Un altro 17 per cento delle esportazioni settentrionali irachene sarebbe andato a Cipro per essere trasferito su altre navi cisterna allo scopo di proteggere l'identità dei compratori finali. Quando il Kurdistan ha iniziato a piazzare in modo indipendente importanti quantitativi di petrolio, nel 2013 e 2014, il governo iracheno ha avviato azioni legali nei diversi paesi compratori, compresi gli Stati Uniti, per dissuadere i clienti internazionali ad acquistare il petrolio curdo. Questa strategia ha effettivamente ostacolato le esportazioni petrolifere del governo di Erbil. Tuttavia, secondo fonti curde, almeno tre società (due delle quali hanno sede in Europa) avrebbero già espresso disponibilità ad acquistare segretamente petrolio curdo in anticipo. Le transazioni si svolgerebbero infatti attraverso offerte "pre-pay" segrete mediate dalle maggiori società di trading di petrolio del mondo, come Vitol e Trafigura. Secondo il quotidiano britannico, le raffinerie e le compagnie petrolifere israeliane hanno importato più di 19 milioni di barili di petrolio curdo tra l'inizio di maggio e l'11 agosto, per un valore complessivo pari a circa 1 miliardi di dollari, pari al 77 per cento della domanda israeliana di circa 240 mila al giorno. Più di un terzo di tutte le esportazioni spedite dall'Iraq settentrionale al porto turco di Ceyhan sarebbero finite in Israele. Gli analisti del settore ritengono che Israele possa aver beneficiato di uno "sconto" sull'acquisto del petrolio curdo e ipotizzano che Israele utilizzi il petrolio per garantire sostegno finanziario ai curdi. L'emergere di Israele come uno dei maggiori grandi acquirenti di petrolio dal nord dell'Iraq, tuttavia, potrebbe alimentare le già alte tensioni tra Erbil e il governo federale. Baghdad, come molte capitali del Medio Oriente, rifiuta di riconoscere Israele e non ha mai stretto legami ufficiali con Tel Aviv. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno più volte esortato Erbil ad appianare le divergenze con Baghdad sulla vendita di petrolio. Alle prese con una profonda crisi economica, il governo curdo ha urgente necessità di entrate per soddisfare il fabbisogno di una vasta fetta della popolazione che dipende dai fondi statali per il proprio sostentamento. Il protrarsi del contenzioso potrebbe avere gravi conseguenze anche sulla situazione interna irachena. Se anche la provincia di Bassora dovesse decidere di vendere in maniera autonoma il proprio petrolio, i danni all'integrità nazionale del paese potrebbero essere irreparabili. L'Alta commissione elettorale indipendente irachena ha garantito la scorsa settimana un primo, importante via libera alla richiesta di maggiore autonomia da parte della provincia di Bassora, regione che ospita la maggior parte dei pozzi petroliferi del paese. Una dichiarazione rilasciata dal Consiglio dei commissari elettorali ha accolto una domanda firmata da 57.933 cittadini per formare la "regione amministrativa di Bassora", seguendo l'esempio dei curdi del nord. Tale decisione è comunque oggetto di un ricorso davanti alla Commissione giudiziaria per le elezioni.
(Agenzia Nova, 24 agosto 2015)
Oltremare - Il dottor Stranamore
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Il semaforo passa al rosso e mi fermo, ritorno indietro di qualche passo per mettermi all'ombra, che anche quel minuto di sole (e anche alle nove del mattino) si può ben evitare in questa estate che ci ha arrostito anche la pazienza. Dalla nuova angolatura, mi entra nel campo visivo dell'angolo dell'occhio destro qualcosa che potrebbe essere una lontana bandiera italiana e quindi metto a fuoco e resto a bocca aperta lì, in mezzo alla strada, per un quarto di secondo di troppo - finché le persone si girano a guardare che cosa mi ha trasformata in una statua di sale.
La bandiera non è italiana, ha solo i colori del tricolore, ma è la bandiera iraniana. Cubitale. Su di un gigantesco sfondo bianco, con accanto una bandiera israeliana, e sopra la scritta "In questo palazzo, prossima apertura: l'Ambasciata iraniana". Sei piani interi, tetto incluso, di un palazzo arrotondato che fa angolo con la centralissima Kikar Rabin, su Frishman - la strada che porta plotoni di francesi fino alla spiaggia giorno e notte.
Non so ancora spiegare questo maxicartellone pubblicitario, perché non ho capito che cosa dovrebbe pubblicizzare, ma ho fiducia che fra pochissimo tempo lo scoprirò. Però questo brivido di totale surrealismo politico, piantato in mezzo al cuore della Tel Aviv frenetica e lavoratrice, mi ha prodotto una dolorosa nostalgia per Peter Sellers. No, non ho preso un colpo di sole. Una delle più fondamentali interpretazioni di Peter Sellers è stata quella in "Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba".
Quel titolo mi torna in testa come un mantra in questi giorni, quando ex politici fanno dichiarazioni quantomeno fuori luogo su quando e come Bibi avrebbe dovuto e potuto sganciare bombe sull'Iran, e non lo ha poi fatto. Me lo immagino come nei film degli anni della guerra fredda, con la valigetta incatenata al polso, dite voi chi è schiavo di chi. Lui non lo so, noi abbiamo imparato a ignorare la bomba e ad amare Tel Aviv. A ciascuno il suo titolo.
L'antisemitismo come linguaggio politico non è estraneo alla sinistra. Compito della sinistra è individuarne i segni nel presente e combatterlo. Deve però essere chiaro, vista la lunga storia dell' antisemitismo nella sinistra, che può essere considerata una scelta «di sinistra» anche assumerlo come linguaggio proprio e coltivarlo. L'hanno fatto in tantissimi nel corso dell'Ottocento, lo faceva Benito Mussolini quando era un riconosciuto leader socialista, lo fanno in molti anche oggi, come abbiamo visto. Con la differenza che un secolo fa lo si faceva apertamente, senza infingimenti: l'ebreo (o meglio, la sua icona) era un nemico e andava combattuto con l'arma della retorica. Oggi - certo a causa della Shoàh che rende politicamente impresentabile chiunque si proponga come apertamente antisemita - c'è maggior cautela e si usano i medesimi modelli linguistici e concettuali del passato mutando tuttavia icone e modelli di astrazione: non più l'ebreo ma il sionista, o l'americano imperialista. Anche loro sono protagonisti di un complotto occulto per la conquista del mondo e l'espropriazione dei deboli, come si leggeva nei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ma sono più presentabili. Ripeto, si può compiere questa scelta, ed è considerata da molti una scelta «di sinistra». Voglio dire che, una volta acquisito il fatto che l'antisemitismo è un linguaggio politico e una pratica che attraversa anche la storia della sinistra e ne impregna frange consistenti, è possibile che denunciarne la presenza sia una pratica sterile e impolitica. E' possibile cioè che settori delle leadership della sinistra abbiano piena coscienza di questa presenza, ma la tollerino perché in fondo questa è considerata almeno in parte utile per raccogliere consensi in certi ambienti. Censurabile, ma utile.
(da "Antisemitismo a sinistra" di Gadi Luzzatto Voghera)
"Ha cantato come un gigante"
Dopo il caso Matisyahu, la stampa spagnola vede i boicottatori d'Israele come un movimento violento e intollerante
"Tremila anni senza un posto dove stare, e vogliono che io rinunci il mio latte e miele". Il cantante reggae ebreo-americano Matisyahu ha cantato anche di Israele, sabato notte, al festival reggae spagnolo che inizialmente lo voleva boicottare.
Il concerto ha avuto luogo dopo che Matisyahu ha accettato le scuse da parte degli organizzatori e loro, che in un primo tempo avevano ceduto alla campagna di pressioni e intimidazioni del movimento BDS per il boicottaggio di Israele, lo hanno re-invitato ad esibirsi al Rototom Sunsplash Reggae Festival.
Alcuni attivisti filo-palestinesi, un centinaio secondo il giornale spagnolo El Pais, lo hanno accolto a fischi e insulti quando è apparso sul palco, ma non appena ha iniziato a esibirsi i fischi sono stati coperti dagli applausi e dalle acclamazioni del resto del pubblico che affollava la sala di Benicassim, vicino a Valencia, nella Spagna orientale....
(israele.net, 24 agosto 2015)
Anche la Calabria celebra la "Giornata europea della cultura ebraica"
di Ilaria Calabrò
Torna la "Giornata europea della cultura ebraica", il tradizionale appuntamento coordinato e promosso in Italia dall'Unione delle comunita' ebraiche italiane, che invita a scoprire il patrimonio culturale ebraico, con centinaia di eventi tra visite guidate a sinagoghe, quartieri e musei ebraici, spettacoli, mostre, concerti, degustazioni kasher e incontri culturali.
La manifestazione, giunta alla sedicesima edizione e alla quale aderiscono trentadue Paesi europei, e' da sempre una proposta di condivisione e di incontro tra culture: intenti ben espressi dal tema dell'edizione 2015, "Ponti & AttraversaMenti", minimo comun denominatore degli eventi e degli appuntamenti organizzati in ognuna delle settantadue localita' che aderiscono quest'anno in Italia. Sono cinque le localita' della Calabria che aderiscono alla manifestazione: Bova Marina, Cosenza, Reggio Calabria, Santa Maria del Cedro e Vibo Valentia.
Si parte domenica 6 settembre a Santa Maria del Cedro, dove dalle ore 9.00 si apriranno le manifestazioni presso l'ex Carcere dell'Impresa, sede dell'"Accademia internazionale del cedro", con visite guidate all'interno dell'opificio cinquecentesco. Alle 10.30 avra' luogo un convegno-dibattito sul tema della Giornata, con Franco Galiano seguito alle ore 12.00 da un break con degustazioni a base di cedro e pietanze tipiche.
Nel pomeriggio, visita alle cedriere e deposizione di una corona commemorativa nel borgo storico, presso l'epigrafe dedicata alle comunita' ebraiche e a quelle contadine della riviera dei cedri. Sempre domenica 6 settembre, a Vibo alle ore 17.00, incontro presso l'auditorium del Sistema bibliotecario vibonese (via Ruggero il Normanno) sul tema della Giornata, con i saluti di Roque Pugliese referente in Calabria della 'Giornata europea della cultura ebraica', di Elio Costa sindaco di Vibo Valentia e di Raimondo Bellantoni assessore comunale alla cultura. A seguire, "Ponti musicali. La musica ponte di ricostruzione della memoria, recupero dell'identita' e armonia tra culture", concerto del duo pianistico De Stefano-Tatievskaya.
A Reggio Calabria l'appuntamento e' per il 7 settembre alle ore 9.30, a palazzo San Giorgio (piazza Italia), con la conferenza stampa di presentazione dell'iniziativa "Una Chanukkia' per Reggio Calabria". Introduzione di Roque Pugliese, saluti istituzionali di Giuseppe Falcomata' (sindaco di Reggio Calabria) e di Patrizia Nardi (assessore comunale alla cultura). A seguire previsti gli interventi dell'editore Franco Arcidiaco e di Enrico Molinaro, presidente dell'associazione "Prospettive mediterranee".
Sempre lunedi' 7 settembre 2015 a Cosenza alle ore 17.30 nel Palazzo della Provincia (piazza XXV Marzo) incontro con il presidente della Provincia di Cosenza Mario Occhiuto e con Roque Pugliese. Seguiranno gli interventi di Alfredo Apolito vicepresidente Lions Club Cosenza e di Enrico Molinaro. Nella stessa occasione sara' inaugurata la mostra "Identita'" curata da Alessandra Carelli e Roberto Sottile.
Infine martedi' 8 settembre a Bova Marina presso il Parco archeologico dalle 9.00 alle 14.00 e dalle 14.30 alle 17.00, saranno effettuate visite guidate ai resti dell'antica Sinagoga, rara testimonianza di uno dei piu' antichi insediamenti ebraici in Italia scoperta nel 1983.
Le visite saranno curate da Emilia Andronico presidente del Parco. Negli stessi orari, sara' aperto gratuitamente l'Antiquarium "Archeoderi" (vallata del San Pasquale), che ospita i pregevoli reperti di eta' imperiale romana rinvenuti negli scavi.
(strettoweb.com, 24 agosto 2015)
Tel Aviv da vedere: la nuova zona di Sarona
Nell'agosto del 1871 un gruppo di templari provenienti dalla Germania acquistò dai greci un appezzamento di terreno a nord di Jaffo e, sullo stile di altri villaggi già costruiti a Gerusalemme e Haifa, nell'ottobre dello stesso anno, oltre quarant'anni prima che nascesse la vera e propria città, iniziarono la costruzione di una trentina di casette. Era una zona pietrosa e sabbiosa e per combattere la malaria vi piantarono un migliaio di eucalipti.
Fu adibito a centro agricolo i cui prodotti, soprattutto uva, arance, grano e uova, erano destinati a sfamare tutto il circondario, ma negli anni '30 del secolo scorso alcuni degli abitanti, che da poco meno di trecento erano ormai arrivati a quasi mille, cominciarono a collaborare con i nazisti....
(Progetto Dreyfus, 24 agosto 2015)
A EXPO Iran e Italia parlano di nuove frontiere di collaborazione
MILANO EXPO - Dopo la visita del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a Teheran lo scorso 4 agosto, Italia e Iran si avvicinano anche attraverso Expo Milano 2015, dove oggi la Repubblica islamica iraniana ha festeggiato il suo National Day. "I Paesi partecipanti a Expo Milano 2015 dovrebbero collaborare per arrivare a una produzione sufficiente di cibo sano per tutte le persone del mondo. L'Iran è pronto a cooperare per supportare la produzione agricola attraverso lo scambio di esperienze scientifiche", ha affermato il ministro dell'Industria, delle Attività Minerarie e del Commercio, Mohammad Reza Nematzadeh, aprendo le celebrazioni ufficiali. In rappresentanza dell'Italia una delegazione composta dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, dal commissario generale di Expo Milano 2015 Bruno Antonio Pasquino e dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia.
Il sottosegretario Ferri ha voluto esprimere la propria soddisfazione per il ritrovato ruolo dell'Iran nello scenario regionale e internazionale pur sottolineando che l'amicizia esistente tra Italia e Iran non si è mai spenta, anche negli anni difficili delle sanzioni economiche imposte a Teheran. "Quello delle risorse energetiche è il settore storicamente più propizio nelle nostre relazioni commerciali - ha spiegato Ferri -, ma accanto all'energia, sono molti i settori in cui sarà possibile aprire nuove forme di collaborazione: dalle infrastrutture, ai trasporti, al turismo". L'obiettivo è incrementare gli scambi commerciali che prima delle sanzioni erano arrivati a 7 miliardi di euro, mentre nel 2014 ammontavano a 1,1 miliardi. A questo proposito il ministro Nematzadeh ha ricordato che il suo Paese accoglie investimenti iraniani e stranieri con condizioni favorevoli. In rappresentanza dell'Iran è intervenuto anche il ministro della Cultura Ali Jannati, che ha parlato della stretta collaborazione culturale tra Italia e Iran. I due Paesi, entrambi riconosciuti come culle di cultura e civilizzazione, vantano anche una forte collaborazione culturale: le università italiane hanno visto un incremento di sette volte nel numero di studenti iraniani negli ultimi 10 anni. "L'Italia crede nel dialogo fra le civiltà, quale strumento principe delle relazioni internazionali", ha evidenziato il sottosegretario Ferri.
In serata, presso l'Auditorium, performances culturali e dibattiti hanno concluso la giornata a Expo dedicata al Paese mediorientale. All'esposizione universale milanese il padiglione iraniano propone tre temi - tradizione, sostenibilità, apertura verso la diversità - riassunti da un elemento che li contiene tutti: il sofreh, un riquadro di stoffa che identifica la tavola imbandita, uno degli oggetti più importanti per la cultura culinaria iraniana. La struttura dell'area espositiva richiama l'immagine di un'enorme tenda gonfiata dal vento. Il soffitto è ricoperto di specchi che creano un mosaico, dove si riflettono i numerosi spazi verdi con le colture tipiche dell'Iran.
Dopo l'accordo sul nucleare raggiunto a Vienna lo scorso 14 luglio tra il Gruppo 5+1 e l'Iran, con la mediazione dell'Alto Rappresentante per la Poltica Estera Europea Federica Mogherini, la Repubblica islamica d'Iran sta tornando, dopo decenni di sanzioni, a far parte a pieno titolo della comunità internazionale. Come annunciato dal ministero degli Esteri Paolo Gentiloni, in visita a Teheran lo scorso 4 agosto, l'Italia punta a diventare il primo partner commerciale dell'Iran nell'ambito dell'Unione Europea. Giunto a Teheran, insieme al ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, Gentiloni ha incontrato il presidente iraniano Hassan Rouhani e alte cariche istituzionali iraniane. Come riferito dallo stesso titolare della Farnesina, Rouhani "ha indicato, dal suo punto di vista, una serie di settori di maggiore interesse (per gli scambi bilaterali con l'Italia): autostrade, alta velocità ferroviaria, energia e sanità". "L'Italia al momento è al secondo posto in Ue nell'interscambio con l'Iran, ma ci sono le condizioni per arrivare al primo posto", ha detto Gentiloni indicando i numerosi campi di collaborazione in cui l'Italia ha già una presenza radicata in Iran: energia, design, alimentare, automotive, tecnologia, turismo, e ancora, macchine agricole, gioielleria, pellicceria, aeronautica e costruzioni navali.
(OnuItalia.xom, 23 agosto 2015)
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Expo. Anche Pisapia al National Day dell'Iran
Il Paese mediorientale dalla storia gloriosa, celebre per l'ospitalità del suo popolo e per i suoi giardini meravigliosi conosciuti in tutto il mondo.
Mohammed Reza Nematzadeh
RHO - È stata celebrata domenica 23 agosto la cerimonia ufficiale che ha dato il via al National Day dell'Iran, il Paese mediorientale dalla storia gloriosa, celebre per l'ospitalità del suo popolo e per i suoi giardini meravigliosi conosciuti in tutto il mondo. Tra i partecipanti alle celebrazioni che si sono tenute all'Expo Centre dalle 11, erano presenti Mohammed Reza Nematzadeh (Ministro dell'Industria, delle Miniere e del Commercio), Ali Jannati (Ministro della Cultura), Cosimo Ferri ( Sottosegretario alla Giustizia italiana), Bruno Antonio Pasquino (Commissario Generale di Expo Miano 2015) e Giuliano Pisapia (Sindaco di Milano).
L'obiettivo è collaborare per far nascere nuove opportunità di crescita
"Celebrare il National Day dell'Iran per noi è un onore" ha dichiarato Cosimo Ferri "I nostri due Paesi sono legati da un'amicizia sincera. Oggi celebriamo un Paese dalla storia eccezionale, con cui intrecciamo da tempo delle relazioni prolifiche di crescita e sviluppo non solo economiche, ma anche e soprattutto culturali". Anche Mohammed Reza Nematzadeh, nel suo intervento, ha voluto ringraziare l'Italia per l'ospitalità ricevuta, ma anche invitare i Paesi Partecipanti a lavorare insieme per il bene del Pianeta: "Questa è una giornata molto importante per l'Iran, mentre il Tema di Expo Milano 2015 è molto importante per il futuro di tutti. Dobbiamo trovare delle soluzioni comuni per combattere la fame nel mondo". Alle 11.30 la numerosa delegazione iraniana si è spostata verso Palazzo Italia per la visita ufficiale al Padiglione e l'incontro con Diana Bracco (Presidente di Expo Milano S.p.a), a cui è seguito un lunch ufficiale e la visita al Padiglione nazionale. Dalle 17 alle 19 presso l'Auditorium è prevista l'esibizione di diversi artisti persiani che si esibiranno in un lungo spettacolo per celebrare il National Day iraniano all'insegna della cultura e del folklore locale.
Iran, un Paese saggio tra tradizione, sostenibilità e apertura alla diversità
"L'approccio iraniano al Tema di Expo Milano 2015 è all'insegna della saggezza" ha commentato Ferri" Equità, carità appagamento e gratitudine sono le quattro parole chiave dell'attitudine iraniana al cibo". L'arioso Padiglione dell'Iran è concepito proprio affinché i visitatori possano cogliere la ricchezza agroalimentare del Paese e la gratitudine profonda del suo popolo nei confronti di Dio e della natura, attraverso l'allestimento di un orto ricchissimo di piante tipiche provenienti da tutte le sette regioni climatiche dell'Iran e che sono, come nel caso del pistacchio e dello zafferano, motori trainati dell'economia nazionale.
(MI-Lorenteggio, 23 agosto 2015)
Khamenei ha recentemente autorizzato l'uscita di un libro-pamphlet in cui si teorizza la distruzione di Israele nel quadro di una «egemonia dell'Iran sulla regione» destinata a sostituire l'«egemonia dell'Occidente». Per negare il diritto all'esistenza di Israele, nel libro si adoperano tre verbi: annichilire, dissolversi, rimuovere. Tutto questo naturalmente non disturba i governi occidentali, compreso quello italiano. Gli affari sono affari, che c'entra Israele. M.C:
Iran-Russia, imminente la firma dei contratti per i sistemi missilistici S-300
TEHERAN - Procedono i contatti fra Russia e Iran per la vendita dei sistemi missilistici terra-aria S-300. Nonostante le sanzioni internazionali impongano il divieto di vendere armi a Teheran, l'accordo fra i due paesi siglato lo scorso aprile sembra in dirittura d'arrivo. Il ministro della Difesa iraniano, Hossein Dehqan, ha dichiarato infatti che la prossima settimana una delegazione della Repubblica islamica sarà a Mosca per mettere tutto nero su bianco. Il valore della transazione dovrebbe essere di circa 800 milioni di dollari. In realtà, il sistema missilistico S-300 non rientra tra i sistemi vietati previsti nell'accordo sul nucleare di Teheran siglato il 14 luglio scorso a Vienna, ma gli Stati Uniti hanno espresso comunque i loro timori per la transazione.
(Agenzia Nova, 23 agosto 2015)
A scuola in Israele. "La tolleranza non è un lusso"
di Ada Treves
Inizio scuola in Israele
"In un paese come il nostro la tolleranza non è un lusso. È una precondizione per l'esistenza. Quest'anno una nostra studentessa non tornerà a scuola: è stata assassinata perché marciava con i suoi amici durante la Pride Parade. Non possiamo fare finta di nulla. Essere in disaccordo è permesso, può essere anzi auspicabile. Alzare le mani, invece, non lo è mai". Con queste parole il ministro israeliano per l'Istruzione, Naftali Bennett ha annunciato che l'inizio dell'anno scolastico avrà una caratterizzazione speciale. L'estate appena trascorsa non è stata una stagione di guerra, ma i fatti delle ultime settimane hanno portato il ministero a proporre anche per l'anno scolastico che inizierà il primo settembre prossimo un programma ad hoc: la prima settimana di scuola sarà tutta dedicata a lezioni su razzismo, violenza e tolleranza. Il ministero ha pubblicato sul suo sito del materiale speciale su pregiudizio, incitamento alla violenza e sull'importanza di accettare le differenze, scritto specificamente con in mente le violenze della scorse settimane.
Vi si trovano materiali utili per tutto l'anno, utili per lavorare in classe sull'idea di cittadinanza così come per integrare lezioni di varie materie, o per preparare la Giornata internazionale della tolleranza (16 novembre) e la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Come riportano le testate israeliane Michal Cohen, dirigente del ministero, ha scritto un messaggio a tutti i presidi, sottolineando la responsabilità degli educatori. Bisogna mettere al centro del proprio lavoro l'insegnamento dei principi etici, l'amore per l'umanità e l'idea che il diffondersi dell'odio vada prevenuto in tutti i modi. Il sistema educativo, ha scritto, deve agire come correttivo di una situazione che si configura come malattia sociale, e deve rendere centrali alcuni valori fondamentali: protezione della dignità umana, della libertà, della morale e della giustizia, insieme ad amore per l'umanità e responsabilità reciproca.
È bene anche ricordare come sia passato un anno da quando in Israele l'ipotesi che non fosse possibile tenere il primo settembre come apertura dell'anno scolastico aveva tenuto con il fiato sospeso gli studenti di tutto il paese. I sindaci delle città del sud erano preoccupati per la solidità della tregua, e il rischio di nuovi attacchi era alto. Dopo molte esitazioni l'anno scolastico era poi iniziato come previsto, ma con una modifica alla programmazione, con le prime due settimane di lezioni dedicate non alle normali attività di apertura di un anno scolastico, ma ad attività specifiche, volte a ridurre la tensione, e a discussioni sugli avvenimenti dell'estate. Così in classe si erano presentati insegnanti preparati appositamente, psicologi ed esperti, per per programmi speciali, con una attenzione prioritaria al recupero della serenità degli studenti. Uno dei temi centrali dei programmi scolastici per l'anno appena trascorso, era stato comunicato dal ministero, era la tolleranza: dalla solidarietà ai valori, all'analisi di come gli slogan possano essere distruttivi per una società, tutto in direzione di una educazione all'apertura e all'ascolto. Una scelta ritenuta necessaria da tutti gli educatori, convinti dell'importanza di stimolare anche nei più piccoli una discussione profonda e sincera sui valori, per far capire ai bambini l'importanza di costruire una società aperta e sana, in cui loro stessi possano crescere.
(moked, 23 agosto 2015)
Teheran, riaperta l'ambasciata britannica
Il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond ha riaperto ufficialmente l'ambasciata del Regno Unito a Teheran. L'Unione Jack è tornata a sventolare nel giardino dello storico edificio ottocentesco nel centro della capitale.
"Prima di tutto si vuole garantire che l'accordo sul nucleare sia un successo - ha detto Hammond -anche incoraggiando commercio e investimenti una volta tolte le sanzioni.
La riapertura avviene quattro anni dopo le violente manifestazioni culminate con l'assalto agli uffici diplomatici britannici a Teheran. Era il momento in cui le sanzioni contro l'Iran venivano inasprite a causa del programma nucleare.
Quella di oggi è stata la prima visita di un ministro degli Esteri britannico in Iran dal 2003.
(euronews, 23 agosto 2015)
Accuse e veleni, dopo dieci anni. Abu Mazen lascia la guida dell'Olp
Si dimettono tutti i vertici del partito. Ora punterà sul suo "delfino". II leader palestinese resta per il momento capo dell'Autorità nazionale. II figlio travolto da uno scandalo su soldi e donazioni.
di Alberto Flores d'Arcais
Abu Mazen si è dimesso, da ieri sera non è più il capo dei palestinesi. Mahmoud Abbas ( questo il vero nome del leader dell'Olp) ha deciso di fare un passo indietro per forzare il comitato esecutivo dell'organizzazione fondata da Yasser Arafat a nuove elezioni interne.
Non è una mossa inaspettata, la notizia era trapelata già il 19 agosto scorso, quando - attraverso media libanesi (ripresi da quelli di Israele) - lo stesso Abu Mazen aveva fatto filtrare di essere pronto a lasciare il gruppo dirigente dell'Olp, nel tentativo di fermare "il frazionismo e le rivalità" che stanno sgretolando il principale movimento politico palestinese.
Le dimissioni non cambiano invece nulla per quanto riguarda l'Autorità palestinese, il governo che guida, sia pure tra mille difficoltà, i Territori della Cisgiordania. Abbas resta a tutti gli effetti il presidente dell'Autorità, l'uomo che (almeno in teoria) dovrebbe portare il popolo palestinese ad avere un proprio Stato, leader riconosciuto come tale dai paesi occidentali, dalle Nazioni Unite e dallo stesso Israele.
Perché le dimissioni dalla leadership dell'Olp allora? Da tempo Abu Mazen, nato a Safed (la città dei "cabalisti" in Alta Galilea quando si trovava sotto il mandato britannico) formatosi nella Mosca sovietica (si è laureato all'università Patrice Lumumba con una tesi su "Le relazioni segrete tra nazismo e sionismo") è in difficoltà anche all'interno del proprio partito (Fatah), il principale gruppo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
È solo di pochi giorni fa l'ennesima accusa di corruzione che ha investito i dirigenti dell'Olp, soldi (e donazioni europee) destinati a migliorare la vita dei palestinesi di Cisgiordania e finiti invece in appartamenti (e non solo) di lusso dei vari capi e capetti locali. Con l'aggravante - per Abbas - che questa volta lo scandalo ha toccato direttamente (è coinvolto il figlio) il presidente palestinese.
La corruzione c'è sempre stata, era molto diffusa anche ai tempi di Arafat. Ma il fondatore dell'Olp - che ha spesso anteposto le ricchezze personali alle necessità del proprio popolo era troppo carismatico per essere toccato. Abu Mazen ha resistito dieci anni, ma negli ultimi tempi la fronda contro di lui è diventata sempre più forte, anche perché, oltre alla corruzione, il leader palestinese non è riuscito a ottenere molto sul piano politico-diplomatico e si porta appresso il "peccato" di aver perso Gaza a favore dei rivali di Hamas.
Con le sue dimissioni e con quelle di oltre metà del comitato esecutivo dell'Olp (gli uomini a lui più fedeli) Abu Mazen tenta il tutto per tutto per imporre un suo delfino (lui ha 80 anni).
Prima mossa la inevitabile convocazione del Consiglio Nazionale (il parlamento palestinese) che dovrebbero riunirsi dopo quasi vent'anni che non accadeva- entro un mese e l'elezione di un nuovo Comitato esecutivo. L'unico organismo abilitato a prendere decisioni che riguardano i palestinesi.
(la Repubblica, 23 agosto 2015)
Ebraismo e razzismo: un nesso poco studiato. Parola di Israel
di Anna Foa
Il saggio di Giorgio Israel, matematico e storico della scienza oltre che studioso di temi ebraici, ripropone accresciuto e aggiornato un saggio apparso presso il Mulino nel 2002. Il saggio è stimolante e ricco di suggestioni, anche se reso di difficile lettura dall'affastellarsi a volte un po' casuale di terni, critiche, polemiche senza che sia facile individuarne la tesi dominante o il filo conduttore. Un punto essenziale nell'analisi di Israel c'è ed è significativo e spesso trascurato dagli studi sull'antisemitismo: la questione della razza. Israel, che alla questione della cultura razzista nell'Italia degli anni Trenta e alle leggi cosiddette "razziali" ha dedicato libri importanti, s'interroga fin dalle prime pagine sul perdurare di un linguaggio, quello che fa un uso corrente della parola "razza", e di una cultura ornai scartata dalla scienza. E non solo del perdurare, ma di una sorta di "ritorno in auge" dell'idea che le razze esistano e che ve ne siano di superiori e di inferiori. Tutte idee che avevamo sperato che la tragedia del razzismo nazista e poi gli sviluppi della scienza avessero messo definitivamente nell'oblio.
Un razzismo, insiste Israel, che il riaffermarsi di identità separate e il multiculturalismo hanno esteso e ribadito, contribuendo ad erigere muri fra culture e esaltando diversità spesso basate su aspetti fisici che già avevano fatto da base alle vecchie distinzioni razziste, quali il colore della pelle. Dal rifiuto della "razza" e fin del più ambiguo termine "etnia" Israel muove in un'analisi articolata e ampia dell'identità ebraica, dell'antisemitismo, della riflessione sulla Shoah. Suggestioni interessanti anche se un po' slegate, quasi riflessioni in margine a letture e dibattiti.
Un altro tema "forte" del libro è la polemica contro i detrattori dell'emancipazione ebraica, contro cioè quanti, da parte ebraica, deprecano l'assimilazione per ribadire l'identità. Israel è invece attento alle trasformazioni rilevanti che questa identità ha avuto nel periodo del raggiungimento dell'uguaglianza, trasformazioni che non hanno mai determinato la rinuncia collettiva all'identità ebraica ma semmai un suo riaggiustamento, di cui il sionismo è una delle forme anche se non l'unica Di notevole interesse il capitolo, assente nell'edizione del 2002 di questo volume, sull'unicità della Shoah, un tema oggi molto dibattuto in cui Israel rifiuta con nettezza di considerare l'unicità in senso morale, e polemizza duramente con il filosofo Emil Fackenheim, sostenitore di una visione metafisica dell'Olocausto. L'analisi di Israel sull'unicità storica si sofferma, più che sulla questione dei genocidi del Novecento, sul rapporto tra Lager e Gulag, appoggiandosi al Vassilij Grossman e al suo grande libro Vita e destino. Tematiche importanti e troppo assenti nel nostro dibattito culturale.
Dove portano questi fili dispersi? Forse, più che all'elaborazione di un'immagine in positivo, soprattutto a riflessioni in negativo, polemiche verso l'uso che la sinistra italiana ha fatto della questione ebraica e della Shoah. Non senza che la verve polemica impedisca l'emergere di tematiche rilevanti, di letture troppo a lungo neglette, di battaglie importanti come quella sulla razza.
Chiude il libro un testo del 1946, ritrovato da Israel fra le carte del padre Saul: la trascrizione di una conferenza tenuta a Roma da David Wdowinski, uno dei leader dell'insurrezione del ghetto diVarsavia, revisionista seguace di Jabotinkij. Una storia poco conosciuta, quella della partecipazione dei gruppi revisionisti (quindi, considerati dagli altri gruppi come fascisti) alla rivolta, egemonizzata nella memoria storica da sionisti e bundisti. In anni in cui la storiografia ha ripreso a scavare nel pensiero e nell'azione politica di Jabotinkij, questa relazione tenuta a Roma in anni lontani appare come un tassello significativo di una storia ancora in parte da esplorare.
(Avvenire, 23 agosto 2015)
Nel tempo della Festa
La sospensione sabbatica, l'inoperosità; o l'ebbrezza dionisiaca della dissipazione. Due visioni a confronto. Di Cesare: abbiamo smarrito l' arte di sentirci comunità. Capossela: ci serve una ltaca per ricomporre il mondo.
Conversazione di Donatella Di Cesare con Vinicio Capossela
Donatella Di Cesare - Festeggiare è un'arte. Se nell'antichità la festa era ben nota, nel nostro mondo appare sempre più lontana e irraggiungibile. Non è difficile intuire perché. La festa è il tempo della liberazione a cui tutti sono chiamati - nessuno escluso. Di più: la festa è comunità, anzi, è la rappresentazione della comunità nella sua forma più completa e elevata. Solo quando la comunità si riunisce, quando si raccoglie, la festa può essere celebrata. Perciò la festa è un'opera d'arte che è comune e che accomuna. È come quando si danza in un cerchio prendendosi per mano. Così la comunità si ricostituisce festeggiando. Supera l'isolamento, l'estraneità, le divisioni prodotte dal lavoro, i conflitti della quotidianità. Ecco perché la festa è sospensione del lavoro, ingresso di un tempo altro. Vale, però, anche l'inverso: dove non c'è festa, dove non si sa più festeggiare, non può costituirsi neppure una comunità. Il nostro disincanto ci fa provare una intensa, acuta nostalgia per la festa, per la comunità, per un tempo in cui intrattenerci. Ma forse è possibile un nuovo incantamento ....
Vinicio Capossela - Da tre anni in Alta Irpinia portiamo avanti un vecchio sogno, più che un festival una Festa, che abbiamo chiamato «Sponz Fest», per darci un'occasione di comunità. Viviamo in un mondo frammentato. Una comunità è una specie di unità iniziale, primigenia, spesso immaginata, una Itaca in cui ritrovare un senso di appartenenza. Questo, ancora più che nelle attività sociali e politiche, avviene nella Festa. Dal momento che Itaca è perduta per sempre, l'unico modo che abbiamo per ricomporre il mondo è la Festa. «Sponzare» significa inzupparsi, imbeversi, ammollare, perdere il recinto dell'individualità, perdere la rigidità della forma. È vero, la festa è una forma d'arte, come l'arte della Gioia, che passa per una ritualità, una celebrazione. L'arte della Festa è un'arte da prendere seriamente perché ci conceda il ricreo. Un'arte in cui occorre essere generosi. L'ebbrezza, lo spirito dionisiaco, è una cosa che ci misura come uomini. I greci dividevano gli uomini dai barbari per la capacità di padroneggiare il vino, il dio che invade.
Donatella Di Cesare - Penso che tu abbia un concetto più greco, o pagano, della festa. La festa per me non è l'ebbrezza dei riti dionisiaci o dei saturnali romani. Piuttosto è la sospensione sabbatica, l'inoperosità, uno stato di eccezione. Non si contrappone ai giorni lavorativi, ne costituisce il compimento. Karl Kerényi, un grande storico delle religioni e dei miti, ha parlato della perdita della festa, che caratterizza la modernità, e l'ha paragonata alla condizione di chi danza senza ascoltare più la musica. Si continua a danzare nel frastuono, coprendo anche la perdita della musica. Festa e musica richiedono cadenza armonica, procedono con ritmo comune, dischiudono un altro tempo, il tempo dell'altro.
Vinicio Capossela - C'è sempre stato nell'uomo il bisogno di uscire da sé, della dissipazione, dell'Euforia (essere invasi dal dio). In una società così egoica (è un'epoca questa in cui ogni anno si vede Giove allo specchio, scriveva Célìne), il consumo dissipatorio prende spesso strade individuali. Essere soli tra molti, urlare nel frastuono, sono comunque forme di ritualità che obbediscono a un istinto innato. Mircea Eliade diceva anche che abbiamo solo una pallidissima idea delle grandi Feste dell'antichità. Il cui presupposto era l'accumulo e il cui fine la dissipazione. Il Caos rituale che rigenerava l'ordine, quasi che la terra stessa ne avesse bisogno. Trovo l'eco di questo istinto nelle Feste dei Balcani, quando i suonatori forsennati vengono ricoperti, «decorati», come dicono, di banconote, fino a spendere tutto, a dissipare ogni accumulo. C'è una voluttà liberatoria nel mettere Dioniso in trono. Come se l'uomo riaffermasse la sua libertà dai beni, dall'accumulo.
Donatella Di Cesare - Ma nella festa esiste anche la dimensione del ricordo. Nel tuo romanzo Il paese dei coppoloni (Feltrinelli), che ha tono e afflato epici, si parla di musica che sa farsi ricordare. Ed è scritto: «Ma scendi per la costa giù fino allo scalo. Lì sta il fratello mio Vituccio, che tutto conserva. E vai dal compare suo Galluccio che alzava la polvere con la fisarmonica, e sta qui sulla Variante. Forse da loro la musica si fa ricordare. E da tanti altri, vivi e morti, che in molti hanno fatto arrivare reco di musica e musicanti per l'aria ... ». Non c'è festa senza ricordo. Senza un passato che torna, nella musica, ma anche nei gesti, nelle parole, nella celebrazione della festa. Ecco perché festeggiare vuol dire anche saper celebrare e commemorare. La comunità si estende a quelli che non ci sono più, ai «molti» che ci hanno tramandato note e sillabe per la festa del nostro presente.
Vinicio Capossela - Il tempo della Festa è un po' come il tempo del mito ... una crepa, una interruzione nel compatto tempo dell'Utile, dell' Accumulo, del Lavoro. Un tempo che vuole superare la caducità delle cose. Un tempo che ogni volta rinnova la creazione del mondo, un tempo per il superamento del confine di noi stessi. In questo senso la musica può essere una fonte originaria. Quando capiti ad Anoghia, a Creta, e vedi tutto il paese danzare una festa di nozze, non si può non vedere come quelle danze abbiano un'eco di duemila anni. Si comprende perché Zeus sia stato allattato sulle pendici dello Psiloristis che sovrasta il paese. Perché è in quelle danze. Suonare con la banda della posta, in cui diversi membri hanno suonato allo sposalizio di mio padre, è un altro modo per me di rompere il tempo e dare continuità all'Eco di una comunità.
Donatella Di Cesare - La festa è la liberazione della comunità. Si sciolgono vincoli e costrizione. Si annullano le disuguaglianze. Si toglie la schiavitù. La festa è tempo di riscatto. Festeggiamo anche per riscattare i vinti, per far sì che rivivano nel ricordo della polvere alzata dalla loro fisarmonica. Siamo attesi a quella Variante dalla loro musica e dal suo diritto di essere suonata.
Vinicio Capossela - Davanti al dio della Festa spesso si sono infranti i ruoli. Nelle Feste dei folli gli ultimi diventavano primi e viceversa. Nelle ritualità collettive più ancestrali si superava anche il confine tra uomo e animale. Davanti allo stadio, al vino e alla morte, siamo tutti uguali. Forse per questo la Festa infrange anche il confine della morte. Le musiche che la alimentano spingono l'euforia fino a dove sconfina col buio. Fino al terrore panico uguale per tutti: tornerà in vita il dio, o ce lo siamo frecato tutto?
Donatella Di Cesare - Non sorprende che per alcuni filosofi sia la festa a fondare la storia - non viceversa. Perché è !'incontro fra generazioni in cui rinasce e si rinsalda la comunità. Irrompe un tempo altro, in cui il più remoto passato viene ripreso per guardare al futuro. Perciò la festa ha un tratto utopico. È un assaggio dell'avvenire.
Vinicio Capossela - Penso sempre ai grandi festeggiamenti di Sposalizio che duravano giorni, le grandi feste semipagane della civiltà della terra. A Calitri si usava avvolgere la nuova coppia di fili di carta colorati, fino a renderla un'unica cosa, come l'involtino di carne del piatto nuziale. Danzargli intorno, stringerla, quasi che la comunità andasse a digerire la nuova coppia, inghiottendola, per potersi poi perpetuare a mezzo di essa. In quel momento, in quel ballo che non finiva mai, in cui si cadeva sponzati come il baccalà, tutto girava come nella danza dei dervisci, fondendo, centrifugando, passato e avvenire alla fiamma della Vita.
Donatella Di Cesare - Tu scrivi nel tuo libro della luna sul bosco: «Indorò di giallo il buio tra le fronde dei rami ritorti, lo fece ritrarre a folate. Prese quota e volò lentamente, imperante sul tempo. Prese il dominio del cielo e tolse la notte dagli occhi». La festa è un po' come la tua luna: fa risplendere tutto in una nuova luce. È questo il suo splendore. Non gli ornamenti, ma quella veglia notturna in attesa che la luna si alzi. Allora quel che è quotidiano, consueto, abitudinario indietreggia. E l'inconsueto si fa largo. Le cose sono le stesse, ma nulla è più come prima. Lo splendore della festa fa apparire tutto nella sua luce essenziale.
Vinicio Capossela - Quel momento, quella veglia d'attesa, è il segnale affinché il nascosto, il mistikò, si sveli. Il segnale di liberazione per quanti vanno a «volta di luna». È la luce d'accesso al molteplice. Al femminile, all'inconscio. È il segnale per la libera uscita degli uccelli notturni, di cui non valgono nemmeno le penne. Non sono insomma utili da mangiare. È il segnale del privilegio dell'immaginazione. La Festa non è soltanto Euforia, è soprattutto poter reimmaginare il mondo, uscire dalla menzogna della realtà e avventurarsi nella Verità dell'immaginazione. La luce del plenilunio può consentire a una trebbiatrice di involarsi alla luna. Quella luna deve senz'altro risuonare di serenate, di lieder, di lamenti d'innamorati, ronzare di tutti i senni perduti sulla terra. Dà nuova luce alle cose. Per questo abbiamo scelto di svolgere la nostra festa nelle notti del plenilunio, in modo che ogni mulo mannaro possa ragliare alla luna.
Donatella Di Cesare - La festa è l'interruzione del presente, che domina incontrastato le nostre vite. È tempo pieno, tempo celebrato nella inoperosità festiva che invita a trattenersi, a indugiare, a partecipare. La festa è condivisione in cui non si resta spettatori, ma si viene coinvolti e innalzati a una nuova verticalità.
Vinicio Capossela - È differenza sostanziale essere spettatori di una festa, o prendervi parte. Personalmente amo più le musiche che si mettono a disposizione della Festa, che quelle che passano per la celebrazione di un artista a mezzo degli spettatori. Alle feste di sposalizio c'era una categoria che ho sempre amato, i cosiddetti «accappantì», i non invitati. Era la Passione a fargli l'ìnvito, la sete di vita. Erano i martiri del Ricreo. Il Ricreo per loro era ogni atto che induceva gioia, dall'accoppiamento in poi. Erano martiri, perché sapevano che il dio della Festa esigeva il loro sacrificio. Dovevano essere disposti a dissiparsi affinché la Festa potesse rifulgere, consumante di Vita.
(Corriere della Sera, 23 agosto 2015)
Interessante e deprimente confronto fra un interlocutore che ha dimenticato di appartenere a un popolo che Dio ha tratto fuori dal mondo dei pagani e un altro interlocutore che nel mondo dei pagani ci è sempre vissuto e vuole rimanerci. M.C. Mosè e Aaronne andarono dal faraone e gli dissero: «Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: "Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una Festa nel deserto"» (Esodo 5:1).
Enel e Israele a caccia di start up tecnologiche
Francesco Starace
L'intesa tra l'Enel e il ministero dell'Economia israeliano è sostanzialmente raggiunta permettendo, nelle prossime settimane, di cominciare la caccia alle start up innovative nell'energia. Lo schema è il seguente. L'Enel indica agli israeliani interessi e priorità, ottiene in cambio la segnalazione delle start up che hanno in corso progetti collegabili, le seleziona e decide in quali investire. Lo farà rendendo disponibile liquidità, il network di relazioni e occasioni di sperimentazione sul campo. Senza, tranne eccezioni, acquistare quote. Il governo israeliano verserà somme analoghe nelle casse delle start up.
Tra i progetti ci sono l'utilizzo di droni per la pulizia dei pannelli solari e l'innovazione nelle batterie di accumulo dell energia o utilizzate per il bilanciamento della rete. E' un accordo pilota che sarà il laboratorio d'iniziative simili con altri Paesi a cui lavora l'area del gruppo battezzata dnnovazione e sostenibilità», in cui operano 500 dipendenti trasversali sia alle attività dell'Enel sul territorio sia ai diversi settori, organizzata per volontà dell'amministratore delegato, Francesco Starace. Ne è responsabile Ernesto Ciorra, ex consulente della Busacca e associati, che riferisce a Starace. L'Enel porta in dote la presenza in 32 Paesi, progetti concreti a cui lavorare, i contatti con 400 università, tre centri di ricerche. Accordi analoghi sono in chiusura con fondi esteri. E il caso di True North (americano), Aster (franco-svizzero), Capital one (israeliano), Startup Europe (italo-americano).
(Corriere della Sera, 22 agosto 2015)
La dura vita nelle strade di Tehran
"Almeno 20.000 senzatetto iraniani vivono negli scatoloni di cartone nelle strade di Tehran", ha ammesso un alto esponente del regime, anche se il vero numero dei senzatetto nella capitale iraniana si ritiene sia di diverse volte più alto rispetto ai dati ufficiali.
"Il 10% di coloro che dormono negli scatoloni di cartone soffrono di malattie contagiose e un altro 10% è affetto da AIDS", ha riferito lunedì l'agenzia di stampa di stato IRNA citando il portavoce dell'Organizzazione dei Servizi Sociali del Comune di Tehran. Farzad Hoshyar Parsian ha aggiunto che questi problemi hanno "complicato" la situazione nella capitale iraniana.
Uno dei vice-presidenti del governo di Hassan Rouhani ha detto il mese scorso che le donne rappresentano un terzo dei senzatetto che vivono nelle strade in Iran.
"Le nostre ricerche indicano che ci sono 15.000 persone che dormono negli scatoloni di cartone nel paese, 5.000 delle quali sono donne", ha detto Shahindokht Mollavardi.
Il dato dei 20.000 senzatetto di Tehran fornito dallo stesso Comune di Tehran da solo fa apparire irrisorio il dato nazionale fornito da Mollavardi.
Il vero numero degli iraniani che vivono nelle strade è sostanzialmente più alto dei dati ufficiali.
"Per poter meglio comprendere la portata di questa tragedia bisogna tenere presente che stiamo parlando di una nazione seduta su un oceano di petrolio. Ma a causa delle politiche dei mullah il popolo iraniano, di ogni ceto sociale, subisce indigenza, povertà e miseria. Ciò spiega perché la società iraniana si trovi in una fase talmente esplosiva e perché i mullah siano così paranoici", ha detto Shahin Gobadi, portavoce dell'Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano, PMOI (Mujahedin-e Khalq, MEK).
Lo scorso anno un vice-direttore dell'Organizzazione per i Servizi Sociali del Comune di Tehran, ha annunciato che l'età media delle donne senzatetto nella capitale iraniana è di 32 anni.
Il Capo del Comitato Sociale del Consiglio Comunale di Tehran, Fatemeh Daneshvar a Giugno ha detto che il numero delle donne incinte e dei bambini che vivono nelle strade della città è in aumento.
Le donne senzatetto e i bambini di strada vivono in condizioni terribili, sopravvivendo nei palazzi abbandonati, nei containers, nelle automobili, nei parchi o persino nelle strade stesse.
I bambini di strada subiscono quotidianamente gravissimi traumi sociali e psicologici nelle strade.
Determinare il numero dei bambini di strada in Iran è praticamente impossibile. In un rapporto del 2005 del Dipartimento di Stato americano, per stessa ammissione del governo iraniano, furono contati 60.000 bambini di strada in Iran.
Molte organizzazioni per i diritti dei bambini sospettano che il numero sia notevolmente più alto e parlano di 200.000 o più. Di questi circa il 55% sono figli di rifugiati afghani.
Il leader supremo del regime iraniano e la sua famiglia, hanno ammassato un enorme fortuna, ammontante a miliardi di dollari, nonostante il popolo iraniano, compresa la maggioranza della classe lavoratrice, viva nella povertà e nell'indigenza.
Gran parte delle ricchezze personali di Khamenei si trovano nelle mani dei suoi figli e delle sue figlie e grosse somme si trovano nelle banche del Regno Unito, di Siria e Venezuela.
(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 22 agosto 2015)
Israele coltiva riso e soia in verticale
Viaggio nei padiglioni di Expo. L'innovazione fa risparmiare acqua.
di Federica Balza
Il padiglione di Israele a Expo 2015
MILANO - «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo», così recita un salmo dei canti di Re David. E sul concetto di verità, intesa come ricerca per innovare e progredire, che si fonda l'unione del Padiglione Israele ai temi di Expo. Cosciente delle proprie ridotte dimensioni che, unite alle scarse risorse naturali, non garantiscono competitività nell'ambito delle esportazioni internazionali, il Paese impegna i propri studi, ispirati dai testi sacri, per fornire, a sé stesso e al mondo, idee. Un'innovazione legata alla tradizione ben espressa dalla ricorrenza, proprio quest'anno, della «schmita» - l'anno sabbatico delle terre d'Israele dove, ogni sette, i campi devono riposare dalle colture - eccellente esempio di sostenibilità ambientale.
Nasce così un padiglione la cui struttura, lunga e stretta, ricorda quella geografica dei confini israeliani. con un campo verticale di settanta metri - unità modulari coltivate a soia, grano, riso e mais - il padiglione mostra esternamente una tecnologia frutto di una collaborazione scientifica italo-israeliana di cui Elazar Cohen,commissario generale del Padiglione, spiega il contributo: «Il sistema di irrigazione a goccia computerizzato al nostro padiglione non innaffia il terreno ma la singola pianta, quando necessario. In questo modo non solo è possibile risparmiare risorse idriche ma anche ridurre l'inquinamento nell'agricoltura: i campi allagati nidificano una grande biomassa di batteri e ogni chilo di riso richiede circa 5.000 litri d'acqua. Con questa rivoluzionaria tecnologia sarà possibile utilizzare solo 1.500 litri». Tradizione e modernizzazione in un connubio che si evince tal quale nello spazio interno suddiviso in quattro aree che approfondiscono, dapprima, il concetto del mi-dor le-dor- il passaggio di generazione in generazione della Pasqua ebraica - raccontando con un filmato la storia e la vita di tre generazioni il cui ingegno nello sfruttamento delle scarse risorse ha reso Israele economicamente sostenibile. Suggestiva la stanza buia in cui luci proiettano al cielo un campo virtuale dal quale emergono quattro grandi progetti: la ricreazione del Super Wheat, il grano privo di modifiche genetiche; l'applicazione di tecnologie digitali e satellitari per la gestione dei campi, la cosiddetta « agricoltura 3.0»; un progetto d'avanguardia di irrigazione in Africa e un centro di mungitura industriale in Asia. Gli ebrei sefarditi, durante la notte, recitano una preghiera che invoca pace nel mondo e sazietà: un messaggio che Israele ha qui concretizzato con eccellenti proposte.
(Il Giorno, 22 agosto 2015)
L'accordo canaglia
Articolo OTTIMO!
Teheran non rinuncia all'ideologia. Ecco perché Obama non può dire di aver trattato con l'Iran come Nixon con la Cina e Reagan con l'Urss.
Al termine del lungo negoziato, Mosca di fatto metteva da parte la concezione della rivoluzione proletaria internazionale.
Nonostante la Guerra fredda, era rimasto aperto il confronto basato sul riconoscimento reciproco degli interessi in gioco.
La sua spregiudicata politica regionale qualifica Teheran come una controparte inaffidabile, falsa e doppiogiochista.
di Antonio Donno
Ancora questa settimana, l'ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell'Iran, ha detto che l'accordo sul nucleare non equivale a un avvicinamento all'ideologia americana o liberale. E d'altronde non s'interrompono le dichiarazioni belliciste, soprattutto verso Israele, di Teheran. Eppure il 14 luglio scorso il presidente Barack Obama, nell'intervista al New York Times che doveva suggellare mediaticamente il deal, aveva lasciato intendere dell'altro. Fra i vari argomenti, Obama ha ricordato come nel passato il presidente Nixon abbia negoziato con la Cina e il presidente Reagan con l'Unione sovietica a proposito del medio oriente e del mondo islamico. L'accordo con l'Iran, secondo Obama, deve essere inserito nella tradizione negoziale di cui Nixon e Reagan erano stati illustri precursori. Quest'affermazione, poco rilevata nella stampa nazionale, se non completamente ignorata, risponde a un'esigenza pubblicitaria di Obama, ma è completamente fuori luogo. Anzi, operando questo inserimento, Obama rende un cattivo servigio alla tradizione delle relazioni internazionali degli Stati Uniti e al significato stesso che Washington ha storicamente annesso alla propria pratica negoziale con la controparte.
Nel 1969, la Casa Bianca e il Cremlino iniziarono un lungo round di negoziati condotti da Kissinger e da Dobrynin, ambasciatore sovietico a Washington, su una serie di questioni di interesse comune (il famoso back-channel), negoziati che si interruppero alla vigilia della guerra dello Yom Kippur. Fu un negoziato alla pari tra le due superpotenze che, dopo decenni di confronto, avevano deciso di assestarsi su uno status quo accettabile da ambedue le parti. Cioè, avevano deciso di non mettere più in campo il formidabile apparato militare, ideologico e politico che aveva caratterizzato gli anni della Guerra fredda perché non era più loro interesse continuare in un logoramento che non aveva portato ad alcun vantaggio concreto per le due parti sulla scena internazionale. Di fatto, Mosca rinunciava a sostenere l'inutile concezione della rivoluzione proletaria internazionale, che, tra le altre negatività, aveva prosciugato le casse dello stato sovietico; d'altro canto, gli Stati Uniti riconoscevano la pericolosità di continuare a insidiare il blocco sovietico agitando la bandiera della democrazia e della libertà, accettandone, perciò, la realtà scaturita dagli esiti della Seconda guerra mondiale. Il realismo metteva in soffitta l'ideologia. Le due superpotenze coesistevano, essendo giunte a una sorta di maturità politica basata sulla consapevole accettazione della realtà effettuale. Realismo, coesistenza, maturità, consapevolezza, accettazione dell'altro. Occorre tener ben presenti questi concetti quando andremo a considerare il significato dell'accordo Stati Uniti-Iran di oggi.
Lo storico negoziato con la Cina comunista, opera di Nixon e Kissinger (e di Mao e Chou En-IaD, rispondeva, con le dovute differenze, agli stessi criteri seguiti nel negoziato con l'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti volevano sganciarsi dal Vietnam, che da tempo costituiva un peso insopportabile per Washington, anche a causa di un'opinione pubblica interna ormai insofferente. Ma, per far questo, occorreva gestire il "dossier Cina", un dossier fermo al 1949, data di nascita della Cina comunista. Il negoziato con la Cina presentava margini d'incertezza ben più gravi rispetto a quelli posti da Mosca. La Cina era ancora solo una grande potenza regionale, ma le sue coste dominavano il Pacifico e fronteggiavano un alleato storico degli Stati Uniti, il Giappone. Sul piano ideologico, contendeva a Mosca la leadership del presunto movimento internazionali sta proletario, il "sol dell'avvenire" che avrebbe abbattuto l'odioso sistema capitalistico. O, almeno, così si definiva il comunismo cinese. La realtà della Cina era ben diversa. Dopo gli orrori della "rivoluzione culturale", la Cina si presentava come un paese povero, arretrato, non in grado di competere con l'Unione sovietica e gli Stati Uniti sul piano internazionale: aveva bisogno di una forte legittimazione internazionale per poter assumere il ruolo di una grande potenza, almeno sulla carta. Questa legittimazione le fu fornita dagli Stati Uniti. La Cina, da parte sua, dovette cambiare gli abiti e indossare quelli della diplomazia internazionale sul piano formale e su quello sostanziale: abiti che l'Unione sovietica aveva cambiato già da molto tempo, perché non poteva fare altrimenti. La rivoluzione come momento catartico della storia universale era ormai un ferrovecchio, impresentabile sul piano diplomatico e politico. Così fu per la Cina comunista.
Pechino aveva bisogno di Washington, così come Washington aveva bisogno di Pechino. Il bisogno reciproco era il terreno più propizio per un'intesa. A sua volta, il raggiungi mento dell'intesa poggiava su alcuni presupposti insuperabili. Tuttavia, la Cina, per la sua presunta posizione di leader della "rivoluzione mondiale", non poteva calarsi le braghe e accettare subito di intraprendere negoziati con la più grande ed odiata potenza capitalistica mondiale. Così, scrive Kissinger nelle sue memorie, "iniziò un intricato minuetto fra noi e i cinesi, così finemente organizzato da permettere a ciascuna delle due parti di sostenere in qualsiasi momento che non esistevano dei contatti, talmente semplificato da non addossare ad alcuna delle due parti il peso di un'iniziativa, così ricco di sottintesi da non mettere a repentaglio le relazioni già esistenti fra i due paesi". Naturalmente, questo valeva più per la Cina, che non voleva perdere la faccia di fronte ai suoi sostenitori internazionali. Tuttavia, dopo un lungo e spossante valzer negoziale, si giunse alla stretta finale e al riconoscimento americano della Cina comunista. Era, questo, il passo decisivo perché la Cina desse il suo assenso all'uscita indolore degli Stati Uniti dal Vietnam.
Ma era proprio quest'assenso a costituire una novità, questa sì rivoluzionaria, per la posizione internazionale della Cina. Pechino, con quest'atto, rinunciava alla sua leadership rivoluzionaria mondiale e s'inseriva all'interno del sistema politico internazionale, accettando le logiche del confronto diplomatico, degli accordi politici ed economici, delle intese caratteristiche della politica internazionale. Di più: il suo prestigio si spostava dall'ambito dei movimenti rivoluzionari a quello dello scenario internazionale in cui si esplicita una logica di potenza fuori dagli schemi ideologici.
Tutto questo implicava una maturità nuova rispetto al passato: implicava tutto ciò che da tempo, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, aveva caratterizzato la posizione internazionale dell'Unione sovietica. Nonostante la Guerra fredda, Mosca, come del resto il suo competitore internazionale, aveva sempre tenuto aperto il confronto basato sul riconoscimento reciproco degli interessi in gioco. Ora Pechino si era posta in questo nuovo ordine, senza possibilità di ritorno al vecchio passato ideologico, ma ancora con qualche remora, che sarebbe stata ben presto superata: "Era evidente che per i cinesi - scrive Kissinger - il nostro arrivo aveva assunto un significato ancora più profondo che per gli americani. Per noi significava l'inizio di un nuovo corso vantaggioso nelle nostre relazioni internazionali. Per i cinesi comportava una crisi personale, intellettuale ed emotiva. [... ] Tuttavia ora, eccoli conferire con un paese loro nemico da venticinque anni". Per la Cina di Mao tutto ciò significava la presa di coscienza del nuovo, difficile ruolo che il paese stava assumendo, grazie proprio all'odiato nemico, nella scena internazionale. Ciò comportava maturità, consapevolezza, raziocinio e capacità di leggere il proprio futuro sgombro da doppiezze che avrebbero potuto causare la fine del "grande balzo" (questo, sì, il vero grande balzo) nelle relazioni internazionali. Chou Enlai, nonostante la sua grande esperienza, mostrava, ma per poco ancora, la difficoltà di questo passo rivoluzionario per il suo paese. Kissinger annota, in un passaggio molto efficace delle sue memorie, l'imbarazzo di Chou: "Questa ambivalenza morale si rifletteva in una certa pensosità di Chou, nella occasionale schizofrenia delle sue esposizioni, nella poca linearità dell'annuncio della mia visita, intercalato da racconti epici della "lunga marcia" e della guida ispiratrice di Mao. Tuttavia Chou possedeva una serenità interna che, come capii ben presto, lo metteva in grado di evitare le meschinità tipiche dei nostri negoziati con altri comunisti". La Cina comunista era comunque pronta ad assumere il nuovo ruolo senza doppiezze: era entrata a pieno titolo in seno alla comunità internazionale, con tutti gli oneri che ne derivavano.
Lo stesso ragionamento vale per Reagan. Prima dell'avvento di Gorbaciov al Cremlino, i rapporti tra le due superpotenze erano pessimi. Ma successivamente, una volta andato al potere, Gorbaciov si rese subito disponibile ad avviare negoziati con Washington. Tra Reagan e il leader sovietico s'instaurò un rapporto amichevole fondato sulla condivisione delle stesse preoccupazioni per l'ordine mondiale. Si susseguirono alcuni summit importanti che cementarono il comune interesse a stabilizzare le relazioni tra i due paesi, a tracciare linee comuni di intervento per raffreddare i punti caldi del sistema politico internazionale e ad affrontare la questione delle armi nucleari: Ginevra nel novembre 1985; Reykjavik nel 1986; Washington nel 1987; Mosca nel 1988. In una lettera di Gorbaciov a Reagan del 1985, riportata nelle memorie del presidente americano, il sovietico così scriveva: "Ovviamente, i nostri paesi sono differenti. Questo dato non può essere modificato. Vi è anche un altro fatto: quando i leader di due paesi [. . .] trovano in se stessi sufficiente saggezza e realismo per superare questioni dovute alle differenze nei sistemi sociali, nelle ideologie, allora noi cooperiamo con successo e realizziamo cose per i nostri popoli e per tutti i popoli".
Tornando all'accordo Stati Uniti-Iran di oggi, consideriamo ciò che ha detto l'ayatollah Ali Khamenei, guida suprema dello stato iraniano: "Abbiamo detto molte volte che non abbiamo un dialogo con gli Stati Uniti su questioni internazionali o regionali, e neanche su questioni bilaterali. A volte, come nel caso del nucleare, abbiamo negoziato con gli Stati Uniti, ma sulla base dei nostri interessi. Le politiche americane nella regione sono diametralmente opposte alle politiche dell'Iran". Il confronto tra le affermazioni di Gorbaciov e quelle di Khamenei rivela, senza ombra di dubbio, due posizioni molto diverse di fronte al negoziato. Può essere, d'altronde, che la rigidità di Khamenei risponda alla necessità di tenere buona la parte più oltranzista della classe dirigente iraniana e dello stesso popolo iraniano. Cioè, che sia un gioco di squadra. Ma, come i fatti stanno dimostrando, il progetto iraniano è quello di giungere al controllo del medio oriente: Libano, Siria, Iraq, Yemen rappresentano i punti di maggiore impatto della presenza iraniana nello scenario mediorientale. Giordania e Arabia Saudita hanno tutte le ragioni di sentirsi in pericolo. Benché le questioni regionali non facciano parte dell'accordo sul nucleare con gli Stati Uniti, occorre tenere presenti questi fattori per comprendere che cos'è oggi l'Iran, con il quale Washington ha concluso l'accordo.
Come Khamenei ha detto con la massima chiarezza, l'Iran si muove a livello regionale con una spregiudicatezza totale. E' uno "stato canaglia" nel senso pieno del termine, che si muove nello scenario regionale senza inibizioni, direttamente o per mezzo degli alleati locali, usufruendo del caos politico prodotto dalla presenza dell'Is di al Baghdadi. E' con questo "stato canaglia" che Obama ha concluso lo "storico" accordo. La differenza con l'Unione sovietica e la Cina ai tempi di Nixon e Reagan non può essere più drammaticamente evidente. Si trattava, in quel caso, di controparti veramente interessate a un accordo che prevedeva vantaggi significativi per ambedue i contraenti. Tutto questo si coniugava con la consapevolezza che il mancato rispetto dell'accordo avrebbe compromesso i vantaggi acquisiti. Era un'intesa basata sulla maturità politica, sulla consapevolezza dell'importanza reciproca di ciò che si era firmato, sulla correttezza nella gestione dei successivi rapporti, come i fatti hanno dimostrato. Al contrario, la sua spregiudicata politica regionale qualifica l'Iran come una controparte inaffidabile, doppiogiochista, falsa. L'ideologia rivoluzionaria fondata sulla supremazia dell'islamismo sciita è tuttora al centro del progetto politico iraniano.
E' questo il vero nodo della questione. Ai tempi di Nixon e Reagan, l'Unione sovietica e la Cina comunista avevano rinunciato all'ideologia come asse portante della loro presenza sullo scenario internazionale a favore di una scelta che le ponesse non più in contrapposizione ma in sintonia con il mainstream internazionale. Al contrario, l'Iran degli ayatollah è l'unica presenza ideologica nel panorama internazionale e il totalitarismo che vi è insito fa di quel paese uno stato inaffidabile da tutti i punti di vista. Ecco perché l'accostamento fatto da Obama tra il suo accordo con l'Iran e gli accordi stipulati da Nixon e Reagan con Mosca e Pechino è uno specchietto per le allodole.
(Il Foglio, 22 agosto 2015)
Israele non bombardava così la Siria da quarantadue anni
La Siria ha sparato quattro razzi contro Israele dalla zona di Quneitra, sulle alture del Golan, e non succedeva dalla guerra del 1973. Israele ha risposto con un bombardamento d'artiglieria in una fascia di territorio che è controllata dall'esercito di Damasco. E' il bombardamento contro la Siria più intenso da quattro decenni.
di Daniele Raineri
ROMA - A due anni esatti dalla strage con il gas nervino alla periferia di Damasco in cui morirono 1.400 civili siriani, si combatte su uno dei fronti che fino a oggi era rimasto calmo o quasi. Venerdì la Siria ha sparato quattro razzi contro Israele dalla zona di Quneitra, sulle alture del Golan, e non succedeva dalla guerra del 1973. Israele ha risposto nel giro di poche ore con un bombardamento d'artiglieria contro quattordici postazioni in territorio siriano, tra i dieci e i quindici chilometri oltre il confine, in una fascia di territorio che è controllata dall'esercito di Damasco. E' il bombardamento contro la Siria più intenso da quattro decenni, considerato che negli anni scorsi ci sono stati colpi di mortaio partiti dal lato siriano e che Israele ha cominciato a colpire oltre confine a partire dal febbraio 2013, per bloccare i trasferimenti di armi sofisticate verso il gruppo libanese Hezbollah.
Il comando israeliano dice ai media che a sparare i quattro razzi non è stato l'esercito siriano, ma la sezione palestinese della forza al Quds iraniana, "anche se consideriamo la Siria responsabile di cosa succede in quella zona". L'attacco "è stato pianificato da Saeed Izadi", il capo della sezione. "E' il loro modo di dire: sapete che siamo stati noi, ma l'uso dei razzi prova che siamo stati proprio noi", dice un ricercatore del Washington Institute, Nadak Pollak, al sito israeliano Times of Israel. "Se fossero stati colpi di mortaio si sarebbe potuto pensare a qualche proiettile vagante", finito al di qua del reticolato per errore. E' stato questo elemento dell'intenzionalità a provocare la risposta israeliana così intensa. La forza al Quds è il reparto iraniano che si occupa delle operazioni speciali all'estero e agisce grazie all'appoggio e alla presenza di milizie locali. In questo caso secondo l'esercito israeliano si trattava di quattro uomini del Jihad islamico, un gruppo palestinese di Gaza che ha il suo quartier generale a Damasco. Del resto non c'è gruppo islamista della regione che negli anni recenti non abbia fatto base in Siria, come Hamas e Hezbollah (e pure il Pkk, che non è islamista). Anche lo Stato islamico che distrugge monasteri vicino Damasco e filma esecuzioni di massa a Palmira ha usato la Siria come una retrovia sicura con l'appoggio deliberato del governo del presidente Bashar el Assad tra il 2003 e il 2009.
Venerdì mattina nella stessa area un drone israeliano ha colpito e ucciso quattro uomini a bordo di una macchina, che si pensa fossero legati all'attacco con razzi della sera prima. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato le dichiarazioni dell'esercito, a proposito della responsabilità dell'Iran agevolato dall'alleanza con la Siria. Il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, dice che l'attacco non è che un assaggio di quello che verrà ora che l'Iran sarà liberato dalle sanzioni internazionali e quindi avrà più fondi a disposizione per finanziare le operazioni in medio oriente.
Come per l'attacco con il gas nervino di due anni fa, anche questa politica aggressiva sul confine nord di Israele per ora è condonata al rais Assad perché la situazione nel paese è bloccata da una serie di fattori. Il primo su tutti è l'espansione dello Stato islamico in numerose aree (anche se la prima città effettivamente conquistata dallo Stato islamico in Siria è Palmira, nel maggio di quest'anno; per due anni il gruppo ha combattuto assai di rado Assad, e combatteva invece contro le fazioni dell'opposizione armata).
Infragilito dalla guerra civile, il governo di Damasco non ha bisogno di aprire un fronte con Israele, che tiene sempre aggiornata una lista di bersagli da colpire in Siria, ha i mezzi per reagire e ha pochi vincoli politici - al contrario della Coalizione internazionale che con Damasco mantiene una tregua. Ma Damasco non può fare altrimenti che seguire le disposizioni di Teheran, perché ha bisogno dell'alleanza.
(Il Foglio, 22 agosto 2015)
Da Israele l'iniziativa di una designer per piccoli creativi
Quando il progettista è un bambino. I giocattoli intelligenti di Yaela Uriely
E se i giocattoli per i più piccoli non arrivassero dagli scaffali di anonimi mega store? Se bambole, pupazzi, peluche, non fossero i soliti must-have sfornati in serie da brand commerciali? Perché no. Ma i bambini, che della battaglia contro massificazione e multinazionali se ne infischiano bellamente, forse non gradirebbero troppo. A meno che non fossero proprio loro i designer. Piccoli creativi, muniti di fogli, matite e pastelli, liberi di inventarsi la bambola del cuore. Un amico speciale a propria immagine e somiglianza, direttamente sfornato a partire da sogni e fantasticherie.
Bella l'idea, forse un secolo fa persino normale - quando i giocattoli li costruivano il nonno, il papà, l'artigiano sotto casa - ma che oggi suona come l'inedita alternativa per bimbi (e adulti) in cerca di un contatto con la propria libertà creativa. Oltre i clichè dei media e del mercato globale.
Come dare forma a tutto questo? Ci ha pensato Yaela Uriely, artista e toys designer, che nella sua fattoria in Israele, dove vive col marito e i due figli, ha impiantato un laboratorio personale, usando unicamente Internet per pubblicizzare e vendere i suoi lavori.
Yaela riabilita per il mondo dei più piccoli il culto dell'hand-made e sceglie di operare solo su commissione. Roba personalizzata, pezzi unici o in seria limitatissima, conferendo il ruolo di "artisti" ai bambini e tenendo per sé quello di artigiana. Con un costo modesto, che va dai 50 ai 70 euro, a seconda delle dimensioni, ci si vede consegnare a casa l'oggetto del desiderio, destinato a diventare la mascotte prediletta, l'inseparabile coperta di Linus. È sufficiente che i genitori spediscano via e-mail il progetto del piccolo committente, con tanto di dettagli e descrizione, perché Yaela si metta all'opera, confezionando i suoi Dolls'n'All. Il risultato è un mix di tenerezza, originalità, genuinità e immaginazione al galoppo: disegni infantili magicamente tramutati in realtà.
Gli effetti educativi? Facile immaginarli. L'autostima del bambino si rafforza, la creatività decolla e al gusto per l'omologazione si sostituisce il piacere dell'unicità. Belli, buffi, ecologici, ma soprattutto intelligenti. Ennesimo esempio vincente di didattica dell'arte e del design, stavolta interamente a conduzione familiare.
(Artribune, 22 agosto 2015)
Dall'Expo al G7, la ribalta dei violenti
L'area antagonista lancia una mobilitazione anti-Israele. Il rischio è un biennio ad alta tensione.
Alberto Giannoni
Non si sono ancora spenti i focolai di polemiche, come la giusta indignazione per le devastazioni del Primo maggio. E già si accendono nuovi motivi di preoccupazione. È notizia freschissima la scarcerazione di un militante antagonista che era stato arrestato per l'aggressione a bastonate di un vice questore. Ora si possono segnare sul calendario nuovi appuntamenti ad alta tensione, primo dei quali il 19 settembre. Con un nuovo scenario all'orizzonte: il G7 del 2017 a Milano.
La città ha conosciuto spesso negli ultimi anni occasioni di allarme sull'ordine pubblico, gestito peraltro in modo egregio dalle autorità di pubblica sicurezza. Gli eventi internazionali però calamitano sulla città l'attenzione di frange esagitate che trovano nella contestazione violenta dei grandi appuntamenti un pretesto per sfogare frustrazioni ideologiche e spesso anche personali. Per questo la notizia (rivelata dal Giornale ) che Milano ospiterà nelle aree dell'Expo il summit dei Paesi più sviluppati del mondo, fa subito pensare a un biennio di tensione. È accaduto anche per Expo. Per esempio per la cosiddetta «May parade». La sfilata del Primo maggio aveva sempre lasciato nelle strade del centro uno strascico di imbrattamenti vergognosi. Tre mesi fa, però, inserita nella mobilitazione dei cosiddetti «No Expo», ha fatto registrare un inquietante salto di qualità, con la comparsa nel corteo di frange violente riconducibili alla sinistre figure dei black bloc. Auto incendiate e devastazioni di ogni tipo sono state un pessimo biglietto da visita per l'esposizione universale, preannunciato da un tam tam di minacce, forse non adeguatamente valutate a Palazzo Marino. Destò grande sorpresa, per esempio, il fatto che i responsabili di alcune «incursioni» vandaliche avessero trovato la loro base in un ex albergo occupato da anarchici in Zona 7.
Alcune drammatiche scene viste a Milano il Primo maggio hanno ricordato i fatti di Genova del 2001, quando il G8 divenne - per una minoranza violenta - il pretesto per scatenare una contestazione «anti globalizzazione». A sua volta Genova non fu altro che il bis della guerriglia di Seattle (Usa). E c'è un filo rosso che tutto tiene: nella delirante analisi pseudo-politica degli antagonisti, l'Expo non è altro che una «fiera delle multinazionali», dunque un emblema del fantomatico «neo liberismo» che viene individuato come il nemico ideologico numero uno. Altro simbolo elevato a nemico da abbattere e combattere è ovviamente lo stato di Israele. Expo e Israele si incroceranno il 19 settembre. «Giornata - si legge nel delirante appello lanciato dalla campagna «No Expo No Israele» e firmato dal Fronte Palestina - nella quale è previsto l'arrivo di Abu Mazen all'Expo contestualmente, nello stesso mese, alla presenza di un rappresentante israeliano». Quel giorno, prosegue l'appello, lo stesso che ha preso di mira il candidato del Pd Lele Fiano, «deve essere un'occasione per far sentire la nostra voce, rilanciare la lotta contro Expo e la narrazione che ci propina, opporsi alla presenza di Israele come principale partecipante alla fiera delle multinazionali». La farneticante chiamata è «contro vecchi e nuovi fascismi, a sostegno dei prigionieri palestinesi e di tutti coloro che sono stati repressi per aver lottato contro Expo».
Se si pensa alle scene viste il 25 aprile si può valutare quale grado di intolleranza abbia maturato l'area antagonista milanese per la presenza stessa di Israele. Nel corteo che celebrava la Liberazione lo striscione della Brigata Ebraica (accompagnato da politici di tutti gli orientamenti e scortato dal servizio d'ordine del Pd) fu fatto oggetto di un'aggressione vergognosa, che grazie alle forze dell'ordine fu solo verbale. Il 19 settembre potrebbe dunque essere il primo test di una mobilitazione destinata a tenere sotto scacco Milano, città dell'Expo fino a ottobre, città del G7 per i mesi successivi. La sicurezza e l'ordine, a Milano, restano una priorità.
(il Giornale, 22 agosto 2015)
"L'Occidente ha bandito la guerra"
Scruton sulle ruspe islamiste che hanno spianato il monastero di Sant'Elian: "I cristiani uccisi dall'Isis pagano il nostro ripudio della forza militare e dei valori dell'Europa. Ma il loro è anche il nostro destino".
di Giulio Meotti
Roger Scruton
ROMA - Sant'Elian era un giovane medico cristiano originario di Homs, in Siria, che venne ucciso nel 284 d.C. dal padre, un legionario romano, per il rifiuto di rinunciare alla fede cristiana. Le sue ossa erano conservate in un monastero di millecinquecento anni a Qaryatayn. Ieri le ruspe islamiste lo hanno raso al suolo. I terroristi dell'Isis hanno anche disperso le ossa del santo cristiano. Un'immagine che ricorda altre ruspe, quelle che nel 1931, per ordine di Stalin, rasero al suolo la chiesa di Cristo Salvatore. Sui ruderi di quella bellissima chiesa fu costruita la più grande piscina dell'Unione sovietica. "Tutte le forme di violenza collettiva hanno una dimensione religiosa, dalla distruzione delle chiese sotto Stalin all'Isis", dice al Foglio Roger Scruton, influente filosofo inglese, docente alla St. Andrews University, fellow della British Academy e della Royal Society of Literature. "I cristiani sono vulnerabili e l'Isis andrà avanti nella loro decimazione finché l'occidente non fermerà militarmente lo Stato islamico. L'occidente è in ritirata dal mondo, ha perso ogni valore spirituale e culturale su cui si fonda l'Europa. Altrimenti, di fronte alle notizie di cristiani uccisi e di chiese rase al suolo, interverrebbe subito contro l'Isis. Ma verrà punito, anche tramite il multiculturalismo. La colpa è della cultura del ripudio. I cristiani d'oriente sono il capro espiatorio della nostra debolezza in questo momento esistenziale".
Doug Bandow, esperto di politica estera del Cato Institute, ha scritto un rapporto sui cristiani: "Stiamo assistendo all'omicidio di massa e al tentativo di sradicare il cristianesimo da dove è nato". Giorni fa il patriarca della chiesa siro-cattolica, Ignace Youssif III Younan, ha parlato di "pulizia religiosa". Prima del video del monastero, l'Isis ne ha diffuso un altro. "Sono un Nisrani", ripetono uno dopo l'altro dieci cristiani assiri nelle mani del Califfato, usando il nome arabo di "nazareno" che a Mosul venne impresso nelle case dei cristiani sfollati un anno fa, quando 60 mila cristiani fuggirono. L'Isis mostra anche donne cristiane rapite: se non sarà pagato il lauto riscatto, diverranno schiave del sesso. "C'è un senso di colpa profondo, ma anche l'eliminazione della guerra dalla nostra immaginazione pubblica e politica", ci dice Scruton. "E' la generazione cresciuta negli anni Sessanta che, memore della Seconda guerra mondiale, ha deciso che quella sarebbe stata 'l'ultima guerra'. I musulmani invece vogliono combattere per qualcosa e stanno eliminando nel loro passaggio città, culture, persone innocenti. Le femministe e coloro che hanno difeso tutta la vita le 'minoranze' sono silenti sul ritorno della schiavitù sessuale delle ragazze yazide. La sorte dei cristiani del medio oriente è importante per noi occidentali. Non dobbiamo voltare le spalle a queste comunità dal momento che il loro destino, nel lungo periodo, è anche il nostro destino". Come rispondere alla persecuzione dei cristiani? "Dobbiamo revocare il riconoscimento di regimi che non offrono protezione alle minoranze cristiane e che comprendono l'Arabia Saudita e diversi stati del Golfo. E' inaccettabile che i musulmani in occidente reclamino il diritto di praticare la loro religione, costruire moschee e madrasse, sfruttare le libertà che la nostra società sancisce, mentre vietano ai cristiani che vivono nel loro paese di fare lo stesso. La libertà religiosa è la conditio sine qua non del sostegno occidentale. Se rinunciamo alla libertà religiosa invieremo agli islamisti un messaggio che è pericoloso per noi stessi. Sarebbe come dire che le nostre libertà ci interessano meno della pace, a qualsiasi prezzo essa un giorno possa esserci imposta".
(Il Foglio, 22 agosto 2015)
La pulizia etnica dei palestinesi che non fa mai notizia
Le disgrazie di un arabo palestinese non fanno notizia se non se ne può incolpare Israele.
Non è un segreto che la maggior parte dei paesi arabi maltrattano da tempo i loro fratelli palestinesi sottoponendoli a una serie di leggi discriminatorie in stile apartheid e a norme che spesso negano loro i diritti fondamentali. In paesi come l'Iraq, il Libano, la Giordana, l'Egitto e la Siria i palestinesi vengono trattati come cittadini di seconda e terza categoria, un fatto che costringe molti di loro a cercare una vita migliore negli Stati Uniti, in Canada, Australia e in vari paesi europei. Di conseguenza, oggi, parecchi palestinesi si sentono a disagio nei loro paesi di origine e in altri paesi arabi.
La situazione dei palestinesi nei paesi arabi ha iniziato a deteriorarsi dopo l'invasione irachena del Kuwait, nell'agosto 1990. I palestinesi furono i primi a "congratularsi" con Saddam Hussein per la sua invasione del vicino paese, che soleva fornire annualmente all'Olp decine di milioni di dollari. In molti, però, fuggirono dal Kuwait a causa dell'anarchia e dell'assenza di leggi che prevalsero dopo l'invasione irachena. Quando il Kuwait venne liberato l'anno successivo da una coalizione guidata dagli Stati Uniti, circa 20.000 palestinesi furono espulsi dall'emirato petrolifero come ritorsione per aver appoggiato l'invasione del paese da parte di Saddam. Altri 150.000 palestinesi erano fuggiti dal Kuwait già prima della guerra: avevano previsto l'arrivo dell'attacco e temevano ciò che sarebbe loro accaduto una volta che il Kuwait fosse stato liberato. La maggior parte dei palestinesi che lasciarono spontaneamente il Kuwait, o che furono espulsi, si stabilirono in Giordania....
(israele.net, 22 agosto 2015)
Israele condurrà autonomamente la manutenzione degli F-35
GERUSALEMME - Le autorità militari israeliane insistono sull'intenzione di condurre autonomamente le opere di manutenzione, riparazione e revisione (Mro) dei loro F-35. Lockheed Martin, produttore del velivolo, vorrebbe invece creare dei centri di supporto regionali. "Abbiamo messo in chiaro che la manutenzione dell'aeromobile sarà effettuata nelle nostre basi", ha detto al sito web specialistico "Flightglobal" un alto ufficiale dell'aviazione militare israeliana, confermando che anche i sistemi operativi saranno inviati ad altri paesi solo "in caso di questioni tecniche". Lockheed Martin prevede di creare impianti di manutenzione regionali per l'aeromobile e quello europeo sarà dislocato a Cameri, in provincia di Novara, dove si trova lo stabilimento di Alenia Aermacchi destinato alla produzione di componenti alari ed all'assemblaggio finale degli F35. Tuttavia, Israele ha più volte insistito sul fatto che non invierà la sua flotta al di fuori del paese per le opere di Mro.
(Agenzia Nova, 21 agosto 2015)
Missili sul Golan, il governo: "Responsabilità di Teheran"
di Francesca Matalon
Tornano a suonare le sirene nel Nord di Israele, e stavota la responsabilità è siriana.
Alta Galilea e Golan le zone raggiunte ieri sera dal lancio di alcuni ordigni, la cui paternità è stata attribuita dall'esercito al Movimento per la Jihad Islamica coordinato e finanziato dal gruppo terroristico iraniano di al-Quds. "Tutti coloro che sono stati tanto veloci a manifestare favore nei confronti dell'accordo sul nucleare devono ora essere coscienti del fatto che è stato proprio un comandante iraniano a dirigere e sostenere la cellula che ha attaccato Israele", le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu a condanna dell'azione.
Il ministro della Difesa Moshe Yaalon ha inoltre aggiunto che il lancio (cui è seguita un'azione israeliana contro alcune cellule oltreconfine) sarebbe un avvertimento da parte di Teheran per futuri attacchi finanziati da un Iran "più ricco e più omicida", che svincolato dalle sanzioni economiche sarebbe ora maggiormente in grado di intervenire nello scacchiere mediorientale. "Sono queste le intenzioni del sanguinario regime di Teheran, e il mondo occidentale non può rimuovere questo fatto come polvere sotto il tappeto", il monito di Yaalon.
A causa della guerra civile siriana, è capitato in più occasioni che colpi di mortaio finissero in Israele, ma nel caso dei quattro razzi di ieri l'alto ufficiale dell'Idf Saeed Izadi ha confermato che si tratta senza dubbio di un'azione premeditata.
Secondo quanto dichiarato da Izadi, sono stati i vertici della divisione palestinese delle forze iraniane di al-Quds, l'unità speciale del corpo delle guardie della rivoluzione islamica responsabile delle operazioni extraterritoriali, apianificare l'attacco. A compierlo sarebbe stata poi la jihad palestinese, che opera prevalentemente nella Striscia di Gaza, il cui quartier generale si trova però a Damasco. Il Movimento per la Jihad Islamica dal canto suo ha tuttavia negato un coinvolgimento.
La risposta di Israele, attraverso raid aerei e colpi d'artiglieria, si è focalizzata su Quneitra e su alcune postazioni militari del regime di Assad. Al momento, ad operazione ancora in corso, si contano cinque vittime. "Una cellula jihadista diretta dall'Iran, a 10 chilometri dal confine, che stavamo tenendo sotto controllo" ha affermato un ufficiale di Tzahal.
"Non abbiamo nessuna intenzione di intensificare questo scontro, ma la nostra politica di rappresaglia in caso di attacchi contro civili israeliani resta invariata" ha sottolineato Netanyahu. Sulla stessa lunghezza d'onda il ministro Yaalon, che ha affermato: "Israele non ha mai tollerato eventi che minaccino la sicurezza dei suoi cittadini. Su questo punto non abbiamo nessuna intenzione di venire a compromessi".
(moked, 21 agosto 2015)
Capo di Hamas ammette "contatti positivi" con Israele
ROMA - Il capo in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha detto che ci sono stati "contatti positivi" che mirano a garantire una tregua di lungo periodo con Israele in un visto postato oggi da un sito internet arabo. I commenti di Meshaal, pubblicati da sito Al Arabi Al Jadid sono i primi da parte di un leader di Hamas che ammettono un contatto diretto con Israele da parte del movimento che non riconosce lo Stato ebraico. Anche Israele ha negato ogni colloquio, diretto o indiretto, con il movimento islamista che guida Gaza.
"Finora i contatti sembrano positivi. Ma non abbiamo ancora raggiunto alcun accordo. Non possiamo dire oggi che abbiamo qualcosa in mano. Ci sono solo discussioni", ha detto Meshaal. "La questione - ha continuato - è come risolvere il problema di Gaza. Noi siamo aperti a tutti gli sforzi: palestinesi, arabi, islamici, regionali e internazionali...Ma questo non deve accadere a spese dell'unità della Cisgiordania e della Striscia di Gaza".
Martedì l'Autorità palestinese, che guida la Cisgiordania, ha accusato Hamas di condurre negoziati segreti con Israele che dovrebbero prevedere la separazione dei territori palestinesi. Media arabi e turchi hanno parlato di un'ipotesi che prevederebbe una tregua di otto o dieci anni, in cambio della revoca israeliana del blocco su Gaza. "Ci sono stati negoziati e sono sul punto di raggiungere un accordo per una tregua da otto a dieci anni", ha affermato il ministro degli Esteri palestinese Riad al Maliki.
Secondo al Fatah, il partito del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), rivale di Hamas, a fare da mediatore è Tony Blair, l'ex primo ministro britannico ed ex inviato di pace per il Medio Oriente. "L'accordo Hamas-Blair... apre la strada alla divisione e all'isolamento della Striscia di Gaza", ha detto il portavoce di Fatah Ahmed Assaf. Inoltre, ha continuato, aiuta "Israele a ottenere il suo obiettivo di prevenire la creazione di uno stato palestinese basato sui confini del 1967".
Meshaal, nel suo messaggio, ha anche definito i punti che fanno parte delle discussioni: la ricostruzione di Gaza, l'apertura di punti di passaggio e l'apertura di un porto e di un aeroporto. E ha sottolineato che ogni accordo con Israele sarebbe "geograficamente limitato alla sola Striscia di Gaza".
(askanews, 21 agosto 2015)
Israele venderà dodici droni alla Giordania
Prima commessa militare con un paese arabo
Drone israeliano Heron Tp
GERUSALEMME - Israele si appresta a vendere 12 droni modelli Heron e Skylark alla Giordania, in quella che sarebbe la prima transazione nel settore militare con un paese arabo. I droni, riferisce il sito web di intelligence israeliana "Debka", sono necessari a rinforzare l'aeronautica giordana nella campagna anti-terrorismo contro lo Stato islamico in cui il regno hashemita è impegnato in Iraq e Siria. L'Heron è un veicolo di assalto che può raggiungere una velocità di 370 chilometri e un'altitudine di 7.400 chilometri e ha una lunghezza di volo di 70 ore a un'altezza di 14 chilometri. Questo modello può essere di grande supporto in attacchi aerei contro obiettivi situati in aree impervie dell'Iraq e della Siria, ma anche come prima arma difensiva ai confini giordani.
(Agenzia Nova, 21 agosto 2015)
Attentato al Cairo - Padre Samir: il vero obiettivo è distruggere Israele
di Pietro Vernizzi
Almeno 29 persone, tra cui sei poliziotti, sono rimaste ferite nell'esplosione di un'autobomba di fronte a un edificio della polizia egiziana al Cairo. La potente deflagrazione ha colpito il distretto di Shubra al-Khaima a nord della Capitale nelle prime ore di ieri mattina. Un comunicato del ministero dell'Interno ha spiegato che "un uomo ha improvvisamente fermato la sua auto di fronte al palazzo statale della sicurezza, è saltato fuori ed è fuggito a bordo di una moto". L'attentato è stato rivendicato sia dallo Stato Islamico sia dai black bloc egiziani. Ne abbiamo parlato con padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e uno dei massimi studiosi del mondo islamico.
- Chi sono secondo lei i veri autori di questo attentato?
I terroristi jihadisti del Sinai di recente hanno affermato che la linea da seguire in Egitto è che tutti coloro che non sono musulmani sono atei. Questa è diventata oggi la giustificazione sempre più diffusa per uccidere chiunque non la pensa come loro. Poiché i jihadisti non possono condurre una guerra in senso classico ricorrono agli attacchi terroristici.
- Con quale obiettivo?
Il gruppo del Sinai ha come scopo la distruzione di Israele e dei suoi amici. Tra questi ultimi hanno nominato espressamente l'Egitto. Fin dal '73 infatti il Cairo ha siglato un'intesa pacifica con Israele.
- Per quale motivo i gruppi del Sinai sono giunti a questo atto così efferato?
Il terrorismo è la risposta brutale di chi è disperato e non vede altra soluzione se non la violenza. Gli attentati terroristici però hanno come unico risultato che ogni anno c'è un nuovo pezzo della Palestina che diviene parte di Israele. Ritengo che questa strategia sia un grave errore non solo ovviamente sul piano umano, ma anche dal punto di vista del perseguimento degli interessi dei palestinesi.
- Perché?
Il terrorismo non può avere come conseguenza delle conquiste territoriali, e quindi l'unico risultato di gesti come quello di ieri sarà fare morire ancora più palestinesi. Bisogna prendere atto del fatto che Israele è più forte, e che se lo volesse potrebbe uccidere migliaia di arabi in un colpo solo.
- Perché è così certo che ci sia un legame tra questo attentato e la questione israeliano-palestinese? In Egitto il terrorismo è presente soprattutto nel Sinai. I jihadisti vi sono arrivati da Gaza attraverso dei tunnel nel 2012-2013 con il beneplacito dell'allora presidente Morsi. Quando è subentrato il presidente Al-Sisi, si è trovato con migliaia di jihadisti nel Sinai. Il loro scopo è lottare contro Israele e i suoi "alleati".
- Ma perché colpire proprio il Cairo?
Organizzando un attentato al Cairo sperano che la popolazione, stanca del sangue, faccia venir meno il suo sostegno ad Al-Sisi. Intendono inoltre fare del Sinai una base da cui possa partire la lotta contro Israele. E' una politica stupida che è praticata anche a Gaza, dove si uccidono alcuni israeliani, provocando poi la distruzione di centinaia di case di palestinesi. L'unica possibile soluzione è quella diplomatica.
- Quali sono gli intoppi lungo questa strada?
Israele sta occupando un numero sempre maggiore di territori ufficialmente palestinesi, sia a Gerusalemme che nelle zone sancite come arabe dall'Onu. Per questa ragione ritengo che Israele sia uno Stato terrorista, dove il terrorismo non è messo in atto da alcuni gruppuscoli ma dallo Stato stesso. Chiamo terrorista chi uccide e compie azioni di guerra senza essere nella legalità.
- Questo attentato è stato rivendicato dall'Isis. Significa che il Califfato ha deciso di schierarsi contro Israele?
Il Califfato entra in tutti i fenomeni di stampo terroristico, direttamente o mostrando attraverso il suo esempio che il jihadismo è una strada che paga. Questo ha ridato forza a movimenti che fino a poco tempo fa sembravano esauriti quali Al Qaeda. Adesso gruppi e gruppuscoli provano ha ripetere quanto è avvenuto in Siria e Iraq.
- Che cosa rappresenta l'Egitto in questa partita?
Ci sono tre Stati in Medio Oriente che si oppongono all'ideologia fondamentalista con particolare forza: Iran, Siria ed Egitto. Mentre i primi due si limitano a difendere il loro territorio, l'Egitto ha deciso di mettere al bando anche i gruppi ideologicamente affini ai terroristi. Siamo arrivati a una fase che richiede un accordo più globale,e da questo punto di vista l'Egitto ha un ruolo importante perché è il più grande Paese arabo e il più organizzato. Se oggi il jihadismo si diffonde nel mondo arabo-islamico, presto penetrerà il mondo intero.
(ilsussidiario.net, 21 agosto 2015)
La demolizione di un ponte a Tel Aviv
La struttura farà posto a una linea ferroviaria che attraverserà il centro della città.
Il ponte Maariv che attraversa il centro di Tel Aviv è stato demolito venerdì mattina con un'esplosione controllata e avviata dal ministro dei Trasporti israeliano Yisrael Katz in persona. È stato l'esponente del governo infatti a premere il pulsante che ha dato il via alla demolizione. Il ponte, che si trova da 39 anni in una delle zone più trafficate della città, è stato fatto saltare in aria per avviare la costruzione di una stazione della metropolitana. Per l'operazione tutta l'area è stata chiusa al traffico ed è stata interrotta l'erogazione di acqua ed elettricità nelle case circostanti il Maariv Bridge.
(Corriere della Sera, 21 agosto 2015)
All'Erez Museum di Tel Aviv la storia dei pionieri di Israele
Saranno esposti fino al 15 ottobre all'Erez Museum di Tel Aviv i negativi e le lastre fotografiche che raccontano la storia dei pionieri di Israele. Un'affascinante collezione di fotografie che risalgono al periodo del protettorato britannico, proveniente dagli archivi fotografici del KKL (Keren Kayemeth LeIsrael-Fondo Nazionale Ebraico) e comprendente una selezione di rari negativi su vetro. Numerose opere fotografiche della Terra di Israele, realizzate dai pionieri dal 1921 al 1960 tra cui le opere di Schweig, Kluger, Ben Dov, Oron, Malavsky, Feigin e molti altri. Inoltre alcuni di questi frammenti sono ammirabili in scatole luminose che ripristinano lo splendore qualitativo e antico delle fotografie. La storia di Israele viene raccontata dagli Archivi KKL, dai giorni precedenti alla nascita ufficiale dello Stato di Israele fino ad oggi, generando una sequenza temporale di oltre 100 anni di storia. Le fotografie mostrano una vasta gamma di tematiche che permettono la comprensione delle questioni cruciali che riguardavano la società nel corso delle generazioni.
(Travel Quotidiano, 21 agosto 2015)
Tre cuccioli di gatto delle sabbie nati in Israele
Allo Zoo Safari di Tel Aviv li ha dati alla luce Rotem, una femmina della specie "quasi minacciata" messa incinta da un maschio giunto dalla Svezia.
Sono nati circa tre settimane fa, nello Zoo safari a cielo aperto Ramat Gan, vicino Tel Aviv, in Israele, tre cuccioli di gatto delle sabbie, che alla nascita pesavano da 1,5 a 3 chili. A darli alla luce, una femmina di nome Rotem, unico esemplare della specie sopravvissuto nel parzo zoologico dopo che il suo "compagno", di nome Sela, è morto circa un anno fa. A metterla incinta, un maschio di nome Kalahari, giunto solo di recente da uno zoo della Svezia. La gravidanza ha colto di sorpresa gli esperti del parco che, considerate le scarsissime interazioni tra i due, davano per improbabile il lieto evento.
Il gatto delle sabbie (Felis margarita), unico felino "di casa" in aree desertiche, è una specie a lungo ritenuta estinta e oggi classificata dall'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) come quasi minacciata. La popolazione esistente non supera infatti i 200 esemplari, tutti ospitati negli zoo europei, nonostante numerosi tentativi di allevarli. L'habitat naturale di questo felino si trova nell'area tra Israele e Giordania, ma altre sottospecie sono state individuate in Arabia Saudita e in alcune aree del Nord Africa.
(Panorama, 21 agosto 2015)
Attacco Isis al cuore dell'Egitto. AI Sisi va a chiedere aiuto a Putin
Autobomba di fronte al palazzo della Sicurezza del Cairo: 29 feriti. I jihadisti del Sinai rivendicano. Le misure d'emergenza del presidente non funzionano
di Carlo Panella
Nuovo colpo al prestigio del presidente egiziano Fattah Al Sisi che - nonostante le sue leggi speciali contro il terrorismo e i suoi feroci proclami - dimostra nei fatti di non essere assolutamente in grado di contenere il terrorismo islamico.
L'attentato di ieri contro il palazzo della Sicurezza Nazionale, nel distretto di Shubra EI-Kheima, nella periferia nord del Cairo, è infatti una atroce beffa perfettamente riuscita:
dimostra incontestabilmente che il cuore stesso dell'apparato repressivo egiziano, ancora una volta, è più che vulnerabile. Secondo la prima ricostruzione fornita dal ministero degli Interni egiziano, verso le 2 del mattino di giovedì «un uomo ha improvvisamente fermato la sua auto davanti all'edificio della Sicurezza Nazionale, è saltato fuori ed è fuggito a bordo di una motocicletta che seguiva il veicolo». Poco dopo, la deflagrazione - «un terremoto» ha riferito un residente - che fortunatamente ha fatto, pare, solo 29 feriti, tra i quali 6 agenti, ma nessuna vittima. Questa stessa versione ufficiale dimostra la piena e dilettantesca impreparazione dell'apparato di sicurezza egiziano. È infatti evidente che la sede della Sicurezza N azionale del Cairo è obiettivo più che esposto ad attentati, ma ciò nonostante non era minimamente presidiato e difeso da una autobomba, tecnica abituale dei terroristi islamici. Pure, sarebbero bastati una banale gimcana, un presidio armato e altri normali accorgimenti - messi in atto ovunque - per impedire che i terroristi riuscissero a ridurre il palazzo ad un colabrodo. Esattamente come a colabrodo e con la stessa facilità, alcune settimane fa, era stato ridotto l'edifico che ospitava il consolato d'Italia e la scuola italiana nel cuore della capitale egiziana. Un precedente che evidentemente non ha portato a nessun provvedimento le autorità della Sicurezza del Cairo
L'unica novità di questo attentato è nella sarabanda di rivendicazioni che sono seguite. A ridosso dell' esplosione è stata infatti postata su Internet la rivendicazione di uno stravagante gruppo che si definiva «Black Block egiziano». Denominazione che riporta alle dinamiche di piazza europee e che per di più mal si accompagna ad un inconsueto incipit: «Nel nome di Allah Clemente e Misericordioso», terminologia tipicamente islamista, del tutto estranea alla pur fosca e demenziale cultura dei Black Block.
Poco dopo, però, è apparsa in rete una rivendicazione ben più attendibile a firma di una delle sigle del franchising dell'Isis: lo Stato Islamico del Sinai. Sigla che raduna una serie di organizzazioni che negli ultimi due anni hanno portato a segno decine di attentati nel Sinai, uccidendo un centinaio di militari e agenti egiziani, senza che mai le forze di sicurezza di al Sisi, pur dispiegate in massa (e con la attiva collaborazione di Israele) siano riuscite né a debellarle, né a infliggere loro dei seri colpi.
Nella rivendicazione del gruppo che fa capo all'Isis si dichiara che l'attentato è «la vendetta per l'impiccagione a maggio di sei fratelli martiri» accusati di attacchi contro soldati nei mesi successivi alla destituzione da parte di al Sisi dell'ex presidente islamista, Mohamed Morsi. La rivendicazione termina con un monito: «Abbiamo promesso a Dio che non ci fermeremo, mentre vi è ancora un solo prigioniero o altre vittime nelle vostre manie.
Al Sisi, dunque, si presenterà il 26 agosto al suo nuovo incontro a Mosca con il suo nuovo alleato Vladimir Putin con questo pessimo bilancio nel contrasto al terrorismo e con la riprova fattuale che le rigidissime norme varate due giorni fa, che danno pieni e incontrastati poteri all' esercito non solo per arrestare e condannare dei semplici sospettati, ma che anche mettono un bavaglio alla stampa (è punito chiunque non rispetti la versione ufficiale dei fatti, sempre manipolata, naturalmente). Sarà l'ennesimo vertice tra i due leader, che cconsolideràperaltro l'ennesimo insuccesso di Barack Obama. Sancirà infatti in modo definitivo che l'Egitto, Paese chiave nel Medio Oriente, è passato ormai in modo organico all'alleanza con Mosca, abbandonando definitivamente la storica alleanza con Washington. Oltre a discutere di terrorismo e situazione mediorientale C e di accordo Usa-Iran), probabilmente al Sisi firmerà al Cremlino nuovi contratti di forniture di armi. Ennesimo buon affare per Putin che utilizzerà questa consolidata partnership per dimostrare al mondo C e soprattutto agli Usa e alla Nato) che non solo non è affatto isolato, ma che è in grado di acquisire nuove alleanze di importanza strategica.
(Libero, 21 agosto 2015)
Mein Kampf, che scoperta
Fino a ogg il libro-manifesto di Hitler era proibito in Germania. Ora sta per uscire l'edizione critica. II responsabile risponde alle polemiche provocate dall'evento.
Colloquio con Andreas Wirsching di Stefano Vastano
Andreas Wirsching
Ventisette capitoli intrisi di razzismo, feroce antisemitismo e dell'apoteosi della guerra, fine ultimo della politica. "Mein Kampf", insieme autobiografia e programma politico di Adolf Hitler, è uno dei testi più violenti (e noiosi) della storia. Pubblicato nel luglio del 1925, questo furioso "Corano della fede e della guerra", come lo ribattezzò Churchill, è sino ad oggi un bestseller pubblicato in tutto il mondo.Tranne che in Germania. Dove lo Stato bavarese, che dal dopoguerra ne custodiva i diritti, ne ha vietato sinora la pubblicazione.
A 70 anni dalla fine della guerra e della morte dell'autore nel bunker di Berlino, il copyright scade il prossimo 30 dicembre. E a metà gennaio l'institut für Zeitgeschichte di Monaco pubblicherà la prima edizione critica del libro più tristemente famoso del Führer. Un evento editoriale che in Germania sta scatenando un acceso dibattito tra chi, a 90 anni dalla prima edizione, teme l'istigazione alla violenza di "Mein Kampf". «E chi come il nostro istituto», spiega in questa intervista Andreas Wirsching, direttore del prestigioso Istituto storico bavarese, «vuole pubblicarlo, ma con un serio apparato critico per disinnescarne il contenuto ideologico».
- Andreas Wirsching, a cosa serve leggere oggi "Mein Kampf? E una fonte storica importante. Decisiva per capire Hitler e la storia del nazionalsocialismo, dalla scalata al potere sino a ciò che in Germania, e in Europa, è accaduto dopo il 1933».
- L'obiettivo della vostra edizione critica qual è: decostrulre le tesi assurde del libro, o toglierci la paura dl Hitler?
«Dal prossimo gennaio chiunque potrà pubblicarlo in Germania, e il nostro obiettivo è darne un'edizione di riferimento contro ogni manipolazione. L'edizione avrà oltre 3.500 note al testo, con commenti o correzioni alle varie menzogne o "mezze verità" disseminate nel testo. Insomma, demistificare Hitler inquadrando "Mein Kampf" in una cornice storico-scientifica».
- Come mal in Germania ne era vietata la pubblicazione?
 «Pubblicare o meno "Mein Kampf" è sempre stata anche una questione di politica estera, di immagine della Repubblica Federale. Negli anni '50 e '60, quando vivevano tanti ex-nazisti, sarebbe stato un errore pubblicarlo. È e resta un libro con un nocciolo ideologico esplosivo».
- Quali sono i più pericolosi veleni di questo "nocciolo"?
 «Il veleno più letale è la fusione di razzismo, antisemitismo e guerra in un'ideologia radicale. Che viene spacciata come "soluzione" dei problemi complessi della società moderna. Per Hitler la storia è retta da leggi di natura, sulla cui base lui individua il Nemico da abbattere per la "salvezza" della Germania. Una mistificazione pseudoscientifica e quasi religiosa della politica: ecco il veleno più tossico di "Mein Kampf"».
- È un libro scritto male: II grande biografo di Hitler, Joachim Fest parlava dl "uno stile pleno di crampi"
  «Lo stile legnoso è stato subito criticato dai contemporanei. Per Otto Strasser, uno dei suoi più radicali seguaci, era l'opera di un liceale. Hitler sapeva di non essere un letterato, ma con quel testo mirava alla guida del magmatico arcipelago di ultra-destra. E in questo "Mein Kampf" è pienamente riuscito».
- Se il libro è grottesco e pieno di menzogne, perché i tedeschi gli hanno creduto?
 «Alle elezioni del 1928 il suo partito prese il 2,6 per cento dei voti, e sino al '29 Hitler non era che un'attrazione nelle birrerie bavaresi. Non solo le ripercussioni del "venerdì nero" alla Borsa di New York o l'alleanza con altri partiti d'estrema destra lo resero famoso. Decisivo è stato il contesto della Repubblica di Weimar: solo in un Paese fustigato dalla crisi economica, abbattuto dal crollo della Grande guerra, poteva far presa l'ideologia razzista e fanaticamente decisionista che Hitler ha sintetizzato in "Mein Kampf". La Repubblica di Weimar aveva il fianco scoperto di una tradizione disposta a seguire un nuovo Messia, e Hitler ha soddisfatto le aspirazioni di tanti tedeschi ad esser guidati dall'Uomo forte».
- La politica dl Hitler dal 1933 alla disfatta nel '45 è già anticipata in quelle pagine?
 «Le direttive di una brutale guerra di conquista dello "spazio vitale" all'Est e la sottomissione delle cosiddette razze slave sono programmate in "Mein Kampf". Ma non riduciamo i dodici anni del nazismo a un "hitlerismo" contenuto tutto in un libro. La ricerca storica ha messo in luce, oltre all'importanza del dittatore, il ruolo della società o della tradizionale culturale tedesca nell'adesione al nazionalsocialismo. E poi non dimentichiamo il viscerale opportunismo di Hitler: il patto con Stalin del '39 non è previsto in "Mein Kampf", ed è un ottimo esempio dello spregiudicato tatticismo della politica di Hitler».
- In Germania alcuni temono che anche la vostra edizione critica possa portare acqua al mulino del neonazisti...
 «Capisco queste paure, sollevate anche da superstiti dell'Olocausto. Ma non c'è solo l'alternativa tra l'empatia per le vittime del nazismo, e la fredda elaborazione dei testi nazisti dall'altro. La conoscenza dei documenti ci consente di comprendere gli errori delle ideologie del passato, e ciò è nel pieno interesse e rispetto delle vittime».
- Per smontarlo bisogna quindi leggerlo in edizione critica, o non è meglio riderne con Chaplin o Benigni per seppellire iI dittatore?
 «Charlie Chaplin ha girato il "Grande dittatore" nel 1940. Non so se il suo film sarebbe stato lo stesso quattro anni dopo, sapendo della Shoah. Certo, anche Benigni ha mostrato molti lati scurrili del nazismo. Ma la satira non riesce a spiegare tutti i volti del nazismo e di Hitler, meno che mai la loro estrema ideologia e violenza. Se tutto si riduce a empatia o ironia si rischia di banalizzare gli aspetti più criminali e disumani del nazismo. Ecco perché è importante pubblicare oggi l'edizione critica di "Mein Kampf"».
(l'Espresso, 21 agosto 2015)
Razzi dalla Siria sul nord d'Israele, l'esercito risponde
Israele ha lanciato colpi di artiglieria verso la Siria, colpendo un edificio pubblico e postazioni dell'esercito di Damasco nella località di Quneitra. E' la risposta al lancio di quattro razzi, dal territorio siriano, sulle Alture del Golan e in Alta Galilea, che non hanno provocato vittime ma hanno fatto risuonare le sirene d'allarme nelle cittadine israeliane di confine.
Israele ha attribuito la paternità dell'attacco alla Jihad islamica, sponsorizzata dall'Iran. Ma i rappresentanti del gruppo hanno smentito. La Jihad islamica aveva in precedenza minacciato azioni se un suo esponente, prigioniero in Israele, fosse morto in seguito allo sciopero della fame che aveva intrapreso.
(euronews, 21 agosto 2015)
Zahavi, l'urlo che fa sognare la Tel Aviv del calcio
Un pizzico d'italia nella festa israeliana
di Adam Smulevich
Si sa, le reti in trasferta valgono doppio. Se poi ti capita di segnarle all'ultimo secondo dell'ultimo minuto di recupero (ben sei), la cosa acquista un peso specifico supplementare.
Sogna uno storico approdo alla fase conclusiva della Champions League il Maccabi Tel Aviv, uscito ieri indenne dallo scontro con i rivali del Basilea nel terzo (e ultimo) preliminare che precede la fase a gironi della più importante competizione europea. Dentro o fuori: chi vince in Champions, chi perde nell'assai più modesta Europa League. Il primo set ha detto bene: 2 a 2 in Svizzera, un ottimo viatico per la gara di ritorno che si svolgerà in Israele tra una settimana.
C'è un po' di Italia in questa impresa: protagonista di giornata infatti è Eran Zahavi, fantasioso centrocampista approdato alcuni anni fa alla corte palermitana di Zamparini. Fu un'annata niente male, anche se non gli valse la conferma in rosanero.
Ieri Eran sembrava una furia: doppietta e molte giocate di classe. Suo il goal che ha aperto le marcature e suo soprattutto l'imperioso stacco di testa vincente al 96esimo minuto d'orologio.
Poi la grande euforia collettiva e Zahavi, quasi incredulo, che si lancia in un corsa urlata degna del miglior Tardelli (o Schillaci). Il sogno continua.
(moked, 20 agosto 2015)
Artista ebreo "allontanato", le scuse del Rototom
«Un atto di giudeofobia intollerabile» ha tuonato oggi in un editoriale El Mundo. Un ritorno «ai tempi in cui bisogna dimostrare religione e purezza di sangue per restare nella società» ha accusato El Pais.
Ha suscitato un mare di condanne e di polemiche in Spagna e nel mondo la decisione del Festival di reggae Rototom di Benicassim, vicino a Valencia, che sabato ha cancellato il concerto dell'artista ebreo americano Matyshau perché non aveva, come gli era stato imposto per poter cantare, riconosciuto il diritto dei palestinesi ad uno stato. Una decisione presa dopo una campagna dell'associazione pro-palestinese Bds, vicina al movimento di Podemos e della coalizione nazionalista che ora governa Valencia, Compromis, che ha fatto scattare in Spagna un allerta anti-semitismo e provocato le condanne del governo di Madrid, di Israele e degli Usa, del Congresso ebraico mondiale e della Comunità spagnola.
Davanti all'alzata di scudi generale, e alla minaccia di un taglio dei fondi pubblici al festival, la direzione del Rototom guidata dall'italiano Filippo Giunta oggi ha fatto retromarcia. Si è scusata con l'artista per «l'errore», «frutto di una campagna di pressioni e minacce», che «ha impedito di gestire la situazione con lucidità». Matysahu è stato di nuovo invitato a esibirsi alla data prevista, sabato prossimo.
Sulla censura contro il cantante ebreo di New York - il cui vero nome è Matthew Paul Miller - era caduta una pioggia di condanne. Lo stesso Matysahu aveva definito «spaventoso e offensivo» che il festival abbia cercato di obbligarlo a fare «dichiarazioni politiche», chieste solo a lui. Il governo del premier Mariano Rajoy aveva denunciato «una forma di procedere che viola la libertà di coscienza», Israele una «intollerabile discriminazione» a «sfondo antisemita». Il Congresso ebraico mondiale aveva protestato con Rajoy. Condanne erano venute dai principali partiti spagnoli, ma non da Podemos e da Izquierda Unida, che avevano giustificato l'esclusione del cantante.
La vicenda si inserisce in un clima già di tensione, innescato in Spagna da dichiarazioni ritenute "intolleranti" da diversi commentatori da parte di esponenti delle giunte vicine a Podemos da giugno alla guida delle più grandi città del paese, da Madrid a Barcellona, da Valencia a Saragozza.
(Il Secolo XIX, 20 agosto 2015)
Egitto - Rapiti quattro palestinesi nel Sinai
Secondo quanto riferisce Hamas, quattro palestinesi sono stati rapiti in Sinai da uomini armati, che hanno intercettato e fermato un autobus diretto all'aeroporto del Cairo. Secondo il ministero dell'Interno di Hamas, i rapiti provenivano da Gaza ed erano entrati in territorio egiziano attraverso il valico di Rafah. Testimoni hanno riferito che miliziani presumibilmente affiliati all'Isis hanno fermato il bus mezz'ora dopo il suo ingresso nella penisola egiziana.
(RaiNews, 20 agosto 2015)
Presentato il libro "La presenza ebraica nella storia reggina"
Il 14 agosto a Catona, presso i locali del Lido dello Stretto, circondati da una cornice suggestiva quale lo stupendo panorama dello Stretto di Messina, è stato presentato il libro del compaesano Felice Delfino "La presenza ebraica nella storia reggina". Una presentazione/convegno durante la quale, insieme all'autore del testo, è stato presente un invitato speciale: Sergio Delgado Sotelo, giovane docente di storia medievale dell'Università dei Paesi Baschi, ed esperto di ebraismo basco. L'evento allietato dalle pregevoli composizioni del maestro Enrico Russo e dal cantante Aurelio Mandica, anch'essi entrambi catonesi, ha registrato una discreta affluenza di pubblico. I due relatori hanno tracciato un ampio ma coinciso excursus che, nei suoi molteplici aspetti, ha reso chiara l'idea sull'organizzazione socio-economica e religiosa delle comunità ebraiche collocate in precise aree geografiche.
L'autore del libro Felice Delfino, ha immediatamente puntualizzato come la storia ebraica di Reggio sia sicuramente una parte di storia poco trattata rispetto ad altre, tuttavia, merita particolare attenzione ed approfondimento. Esiste uno stretto inscindibile rapporto che è evidente dal nome I-Tal-Jah, adoperato ancora dagli ebrei italiani, per ricordare alle generazioni presenti e a quelle future che nel cuore dell'ebreo la penisola italiana è "l'isola della rugiada divina" donata da Dio ai giudei esiliati che sfuggivano al nemico per evitare il dramma fisico ed interiore della deportazione. Quando il nemico: babilonese prima (587 a.C.) e romano poi (70 d.C.) penetrò in Giudea, profanò e devastò il luogo più sacro della storia dell'antichità quale fu il Tempio di Gerusalemme, facendo incetta degli arredi sacri e di schiavi, il popolo della Giudea, si disperse in ogni angolo del mondo allora conosciuto, vivendo la diaspora. Ricorda Felice Delfino che tra le mete auspicabili per le famiglie ebree l'area dello Stretto di Messina fu una scelta vincente per posizione geografica prossima alla Sicilia e non solo, ed ottimale per gli ebrei dediti al commercio o ad altre attività imprenditoriali. La romana Regium col suo porto era città cosmopolita, una spiccata vocazione ecumenica diede spazio naturalmente anche al monoteismo ebraico.
Fu una presenza, quella ebraica, di cui beneficiò enormemente l'economia delle terre dove si sono stabiliti. I sovrani compresero l'importanza di questa presenza e l'agevolarono con privilegi che ai cristiani locali erano negati come la prerogativa del prestito di denaro; addirittura un mercato della seta a Reggio Calabria, indetto da Giovanna e Luigi d'Angiò, fu controllato dagli ebrei reggini che stabilivano anche il prezzo del nobile tessuto. Il sipario della presenza ebraica meridionale si calò nelle due distinte fasi storiche del 1511 prima, e del 1541 poi. Rispettivamente re Ferdinando il Cattolico e Carlo V promulgarono due editti di espulsione degli ebrei del Meridione, in loro assenza ecco innescarsi un lento ma inarrestabile processo di decadenza economica.
Agli ebrei reggini toccò così la stessa sorte degli ebrei sefarditi e siciliani in seguito al Decreto di Granada del 1492 - prosegue il prof. Delgado Sotelo - con un intervento che ora rivolge l'attenzione del pubblico dall'area geografica dello Stretto di Messina verso nord-ovest, appena al di là dei Pirenei: Poche sono le fonti documentarie sugli ebrei baschi ma sono tutte ben note; nei Paesi Baschi il centro ebraico più importante era Vitoria (per Vizcaya lo era Valmaseda); gli ebrei baschi come i loro confratelli reggini, parteciparono con successo al progresso economico ma col tempo saranno oggetto di violenza nei pogrom (1391) e poi dell'Inquisizione Spagnola. Il problema giudaico diventerà presto un problema controverso. Gli ebrei baschi vivevano principalmente nei centri delle tre regioni di Vizcaya, Guipuzcoa, Alava (la regione più ricca); alla fine del Medioevo vi è un aumento d'importanza delle comunità ebraiche basche e la Cronaca più famosa che ne parla è La bienandanzaz e fortunas de Lope Garcia de Salazar. Non sappiamo il numero esatto degli ebrei nei Paesi Baschi, ma siamo a conoscenza di un elevato numero di conversioni al cristianesimo. Anche qui, come nel sud Italia, esistevano una serie di leggi tra cui quella di portare un segno distintivo. Tuttavia, dobbiamo dire che la presenza ebraica nei Paesi Baschi ebbe meno importanza perché questa regione era periferica alla Corona di Castiglia.
Nel corso della serata non sono mancati gli interventi del pubblico. La valenza di quest'attenta opera di studio e di meticolosa ricerca realizzata dal Delfino - ha sottolineato lo studioso Paolo Arecchi - consiste anche nella sua peculiarità di aver inquadrato la microstoria del popolo giudaico della città in riva allo Stretto all'interno del contesto più ampio della macrostoria locale.
L'avv. Alfredo Rovere ha invece sottolineato l'importanza di studi come questo mirati ma indispensabili per la valorizzazione di un patrimonio culturale come quello reggino che ha è di massimo valore ma ha assoluta necessità di un rilancio concreto ed efficace.
È stata una serata piacevole alla scoperta delle nostre radici ebraiche, un passato che va divulgato e promosso perché come diceva lo scrittore Isaac Bashevis Singer "La cultura ebraica non è una sorta di erba selvatica che cresce per conto suo. È un giardino che si deve curare di continuo. Quando il giardiniere se ne scorda, o decide di scordarsene, le piante avvizziscono". Partendo da tal presupposto, una volta consci delle nostre radici ebraiche, noi reggini dobbiamo fare in modo che questa pianta non avvizzisca ma che cresca rigogliosa e soprattutto che rimanga viva nei nostri ricordi.
(stylife.it, 20 agosto 2015)
Israele e Palestina
Lettera al Corriere della Sera
Quando si parla di questione mediorientale e di Palestina non viene quasi mai detto che Israele è l'unico Paese di quell'area che si possa considerare un'autentica democrazia, dove si svolgono libere elezioni e dove i governi e le loro scelte sono sottoposte al giudizio e al voto del popolo. I cittadini possono pubblicamente esprimere il loro dissenso. Inoltre il potere giudiziario è indipendente dal potere politico. Negli altri Paesi dell'area prevalgono i regimi autoritari e la democrazia parlamentare non esiste. Se a Tel Aviv puoi cambiare un governo andando a votare, a Tunisi e al Cairo c'è stato bisogno di rivoluzioni di piazza. Non è poco.
Mario Pulimanti
Lido di Ostia- Roma
(Corriere della Sera, 20 agosto 2015)
Moran Atias a Expo 2015 presenta la sua terra: alimentazione e progetti in Israele
Moran Atias
Moran Atias ha prestato la propria immagine in favore del suo Paese natale. La showgirl e attrice è infatti 'virtualmente' presente nel padiglione di Israele allestito ad Expo Milano 2015. I visitatori sono accolti da un attore che simula un collegamento in diretta con la bella Moran; la donna abbandona il locale in cui stava passando la serata con gli amici e comincia a parlare della 'magia' della natura di Israele, capace di crescere in pochi decenni anche nei terreni più aridi. Un cambio d'abito corrisponde anche ad un cambio di argomento: Moran appare in un elegante abito nero per descrivere la cucina israeliana con tutte le sue sfumature: una base ebraica arricchita da influenze arabe, greche, francesi, spagnole ed italiane.
Dopo aver sorseggiato un bicchiere di vino israeliano (sempre 'virtuale'), l'attore si congeda ed invita i visitatori ad accomodarsi in una sala interna. Lì vengono accolti ancora una volta dalla Moran, decisa a raccontare la storia della sua famiglia. Questa corrisponde chiaramente al popolo israeliano in generale, al quale si rivolge con affetto e ammirazione per raccontarne la determinazione che li ha portati ad inventare strategie per coltivare la terra anche nei terreni più impensabili. La stessa fermezza ha permesso loro di creare una nuova specie di pomodori, più piccoli e dolci: i pomodorini ciliegini, presenti ormai sulle nostre tavole da tempo.
La sfida successiva è quella di sviluppare l'agricoltura sulle terre salate: Israele sembra avercela fatta, importando poi in tutto il mondo la tecnica utilizzata: frumento, pomodori, olive e spezie sono cresciuti grazie al metodo dell'irrigazione a gocce. Il metodo è stato importato in tutto il mondo ed oggi è presente in molte altre colture (come ad esempio quella del riso in Cina o nell'agricoltura domestica in Senegal). È sempre Moran a raccontarlo, facendosi aiutare da una 'cugina' agronoma. Il viaggio all'interno di Israele e della sua ricerca in campo agrario e alimentare prosegue con lo studio di casi in Cina e Australia, finché la modella congeda i visitatori ringraziandoli e invitandoli a visitare Israele. Un bel ritratto di questo popolo, spesso sui giornali per fatti di cronaca che non gli rendono probabilmente giustizia. Moran Atias ha provato a mostrarne altri aspetti, chissà che non sia proprio il suo fascino o un pomodorino ad aiutarne l'integrazione nella civiltà europea.
(VelvetBody, 19 agosto 2015)
Gerusalemme: violente proteste contro una nuova multisala cittadina
"Colpevole" di aver deciso di tenere aperte le proprie porte anche durante il giorno considerato "di riposo" dalla cultura ebraica, ovvero il Sabato.
di Pierre Hombrebueno
La protesta degli ultraortodossi
Caos a Gerusalemme, dove un gruppo di ebrei ultra-ortodossi ha protestato contro una nuova multisala, "colpevole" di aver deciso di tenere aperte le proprie porte anche durante il giorno considerato "di riposo" dalla religione ebraica, ovvero il Sabato. Per l'occasione, migliaia di uomini si sono radunati nelle zone di Romemah e Mea Sherarim, e quello che doveva essere un semplice corteo è irrimediabilmente caduto nella violenza, tra vetri spaccati e sassi lanciati contro la polizia locale. Sotto attacco anche i giornalisti, con diverse persone finite poi sotto arresto e dietro le sbarre.
Il cinema in questione è il Yes Planet di proprietà della Cineworld, che ha aperto giusto questa settimana. Come praticamente gran parte delle sale di tutto il mondo, anche il Yes ha comunicato di non seguire nessun giorno di chiusura, nemmeno lo Shabbat ebraico; essendo di proprietà privata, infatti, la sala non dovrebbe essere soggetta alle normali regolamentazioni applicate ad altri settori commerciali della città. Ha dichiarato Moshe Greidinger, amministratore delegato di Cineworld: "Mi aspettavo queste proteste. Sono cresciuto durante le 'guerre Shabbat', alla fine si riesce a raggiungere uno status quo e credo che sarà così anche stavolta".
Prima che il Yes Planet aprisse, diverse zone della città sono state riempite di centinaia di volantini con su scritto messaggi come "Lo Shabbat di Gerusalemme è in pericolo", "Vogliono dissacrare la città" e "Fermate questo flagello". Speriamo che le cose si calmino, trovando, prima o poi, un proprio equilibrio.
(FareFilm, 18 agosto 2015)
10 arabi israeliani, in mezzo a tanti altri, che sono l'orgoglio di Israele
"Israele è uno stato di apartheid", "la società israeliana è razzista", "gli arabi israeliani sono dei cittadini di serie B" Non si contano più questi ritornelli menzogneri, ignoranti, che mirano ad infangare l'immagine di Israele ed a delegittimare quella che è l'unica democrazia del Medio Oriente dove tutti i cittadini hanno gli identici diritti e le stesse speranze di poter raggiungere il successo. La prova ce la fornisce questo elenco di 10 arabi che hanno saputo cogliere le loro chances diventando delle personalità importanti in Israele. Che siano degli sportivi, degli uomini d'affari, o dei diplomatici, sono tutti riusciti, attraverso i loro percorsi e le loro realizzazioni, a creare l'orgoglio dei loro compatrioti. A quelle cattive lingue che vedessero queste 10 personalità come individui isolati, non rappresentativi dell'insieme degli arabi israeliani, si può ribattere che ci sarebbero volute pagine e pagine per compilare la lista di quegli uomini e quelle donne che si sono pienamente conquistato il loro posto in seno alla società israeliana.
È opportuno ricordare qui che gli arabi rappresentano un po' più del 20% della popolazione israeliana, e sono cioè 1,8 milioni di persone. Se pur esistono sempre delle disparità, questi esempi sono la prova che aver successo rimane sempre possibile, qualunque sia la vostra religione, la vostra età o il vostro sesso. E questo vale nonostante i fantasmi del BDS e dei loro amici anti-sionisti....
(Progetto Dreyfus, 17 agosto 2015)
"Vogliamo rimanere al Colosseo. Altre proposte non praticabili"
Parla il leader degli urtisti
di Adam Smulevich
Fabio Gigli
ROMA - "Leggo sulla stampa romana che per gli urtisti sarebbero stati pensati degli spazi tra piazza Risorgimento e via della Conciliazione. È una cosa tutta da verificare. E se fosse vero, sarebbe inaccettabile".
Fabio Gigli, storico presidente di categoria, parla a cuore aperto con Pagine Ebraiche. "Gli accordi erano altri - sostiene - e altre le prospettive. C'era stato garantito che saremmo tornati, in posizioni diverse, nell'area del Colosseo. Più passa il tempo e più quelle rassicurazioni sembrano perdere valore".
È passato oltre un mese dal trasloco ordinato dall'Amministrazione capitolina. Un mese in cui gli urtisti, gli ambulanti che esercitano questa professione dall'Ottocento (ad autorizzarli un provvedimento del papa), hanno continuato ad alzare la voce contro quella che ritengono un'ingiustizia: l'accostamento ad alcune realtà protagoniste del degrado urbano. Parole di fuoco contro il loro trasferimento, veicolate anche attraverso i social network, e denuncia quotidiana dell'emergenza sociale in cui versa l'intera categoria. Nelle nuove postazioni di via di San Gregorio, conseguenza di un flusso turistico assai meno significativo rispetto a prima, i più favoriti non riuscirebbero comunque a raggiungere la soglia di sopravvivenza. Lo aveva raccontato lo stesso Gigli, in un'intervista al nostro notiziario quotidiano di qualche giorno fa.
"Avevamo una stagione, sei mesi al massimo, di lavoro al Colosseo. Non ce l'abbiamo più. Altre soste - afferma oggi il leader urtista - non valgono niente". Perché, afferma, un conto è sacrificarsi e trovare una mediazione. Un conto invece è morire. "Ho la sensazione che ci stiano proponendo il suicidio. E di andare incontro allo stesso con il sorriso. Mi spiace, non ci sto".
Tra le misure allo studio anche l'organizzazione di un presidio per fine mese, quando gran parte dei romani sarà tornato in città. "Faremo senz'altro qualcosa - annuncia - ci stiamo lavorando". L'idea è quella di una manifestazione ad oltranza. Cioè fino a quando, conclude Gigli, "non si vedranno dei risultati".
(moked, 19 agosto 2015)
Uomini rana di Hamas catturano un delfino spia israeliano
di Sante Sallusti
Hamas cattura un delfino spia israeliano, ma non si tratta della flotta di sottomarini classe Dolphin. Hamas sostiene infatti di aver catturato un vero e proprio delfino utilizzato da Israele per lo spionaggio nelle acque della Striscia di Gaza. Anche se la cattura è avvenuta qualche settimana fa, solo oggi la Hamas Army Radio rivela che il mammifero era stato individuato da un commandos di uomini rana che operano al largo della costa della Striscia di Gaza, controllata dall'organizzazione palestinese. Fonti di Hamas sostengono che il delfino spia era infatti dotato di telecamere ed altre attrezzature, forse per rilevarne la posizione. Non è la prima volta che Israele viene accusata di reclutare animali come degli 007. In passato alcuni media turchi hanno accusato Israele di utilizzare uccelli con dispositivi di localizzazione per motivi di spionaggio anche se ufficialmente i volatili facevano parte di uno studio universitario. Nel 2010, invece, un funzionario egiziano ha ipotizzato che gli attacchi degli squali nel Mar Rosso potessero essere persino "telecomandati" da Israele mentre tre anni dopo fu segnalata alla polizia dell'Egitto un'anatra, dopo che un pescatore locale ha visto indosso al pennuto un dispositivo con scritte in ebraico. Nel 2011 invece alcuni media sauditi hanno accusato Israele di usare un grifone a fini di spionaggio. Infine, nel 2012, un'aquila con uno stemma israeliano è stato catturato in Sudan, indicato come una spia del Mossad. I media israeliani hanno commentanto la notizia del delfino agente segreto con sarcasmo pur ammettendo che esistono dei Paesi che hanno fatto un uso militare di tali mammiferi, considerati tra i più intelligenti in natura. Ed infatti la più grande riserva di armi nucleari nella base navale di Kitsap (Stati Uniti) è controllata da una flotta di delfini addestrati dalla marina americana.
Altri animali-spia israeliani catturati da Hamas
(Mainfatti, 19 agosto 2015)
In un grande saggio, Riccardo Calimani ripercorre la storia degli ebrei italiani nel Novecento
di Fabrizo Federici
Davvero un grande libro, questa "Storia degli ebrei italiani", volume terzo (dedicato a Otto e Novecento), di Riccardo Calimani, studioso già autore di parecchi saggi di storia e cultura ebraica, Premio europeo per la cultura 1997. Un libro che - sempre con precisi riferimenti documentari - focalizza gli ultimi duecento anni di storia dell'ebraismo italiano (chiudendo una trilogia iniziata nel 2013).
Storia che, ai primi dell'Ottocento, s'apre con una ventata di almeno apparente libertà, con l'eliminazione napoleonica di molte delle antiche restrizioni volute soprattutto dalla Chiesa. La Restaurazione, tuttavia, segna, almeno in alcuni Stati italiani (Stato della Chiesa e Regno di Sardegna), il ritorno al vecchio regime di discriminazioni cui i primi, significativi colpi saranno inferti, col nuovo clima del Risorgimento, solo nel 1848 con le "Lettere patenti" di Carlo Alberto sull'emancipazione di ebrei e valdesi, e l'abbattimento di mura e porte del Ghetto romano deciso da un Pio IX "prima maniera", favorevole a riforme liberali.
L'Ottocento, così, per gli ebrei italiani (come, del resto, per quasi tutti i loro fratelli europei), è un secolo altalenante, con grandi passi avanti sulla strada dei diritti civili e politici, ma anche gravi battute d'arresto. A favore dell'emancipazione ebraica, scrivono Mazzini e Cattaneo, Cavour, Gioberti e Tommaseo; ma a funestare la vita quotidiana di tante comunità israelite tornano le vecchie accuse di "omicidio rituale", e l'indegna pratica dei battesimi forzati di bambini (vedi gli amari casi Mortara a Bologna, e Coen a Roma). Proprio a Roma nel 1907 viene eletto sindaco l'ebreo, d'origini inglesi, Ernesto Nathan, mazziniano, anticlericale, massone la cui Giunta, sino al 1913, passerà alla storia forse come l'unica davvero efficiente e lungimirante che l'Urbe abbia mai avuto.
"Grande guerra" e avvento del fascismo (che, inizialmente, terrà buoni rapporti con le comunità ebraiche, riorganizzandole nel 1930 con la celebre "Legge Falco") sono in Italia le tappe principali d'un primo Novecento che, nato all'insegna dell'ottimismo umanitario e positivista, genererà invece in tutta Europa mostri da "Sonno della ragione" goyesco. Sulla "vexata quaestio" se la politica antisemita iniziata con le leggi razziali del '38 sia stata o meno un logico, inevitabile prodotto del fascismo, Calimani (che ha ben presente il De Felice della celebre "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo"), propende per una tesi - per far il paragone con le analoghe discussioni sul nazismo - di "funzionalismo intenzionale". E' vero che molti ebrei aderirono sin dall'inizio a un movimento fascista che non era di per sé antisemita; ma è anche vero che, in esso, furono sempre attive anche forti correnti antiebraiche (catalizzate da personaggi come Farinacei, Giovanni Preziosi, Telesio Interlandi), che presero il sopravvento con la deriva filonazista del regime soprattutto dal 1939.
Molto dipese, poi, dalle note oscillazioni personali di Mussolini, portato a vistose giravolte sia per calcolo politico che per fattori caratteriali. L'Autore evidenzia lo scontro sull'antisemitismo - larvato ma comunque evidente - tra il regime e la Chiesa cattolica che però nei suoi vertici, soprattutto con Pio XII, non riuscirà ad uscire da una linea complessivamente ambigua, destinata a mutare veramente solo molto tempo dopo, col Concilio Vaticano II.
Poi, il difficile ritorno alla vita, nell'Italia del 1945 "e dintorni". Calimani non manca di ricordare le brillanti, italiche carriere che, incredibilmente, fecero, nel dopoguerra, molti degli scienziati firmatari dell'indegno "Manifesto" razzista del 1938; e persino Gaetano Azzariti, già presidente, dal '38 al '43, del "Tribunale della razza", divenuto poi presidente della Corte Costituzionale (1957-'61). Mentre evidenzia le incredibili lungaggini burocratiche dei processi di reintegrazione nei diritti, risarcimenti e restituzione di beni mobili e immobili (comunque mai avvenuta d'ufficio, ma solo su diretta richiesta degli interessati) che si è protratta, in complesso, sino agli anni '90 con l'approvazione della "legge Bersani" del '97, parzialmente risolutiva.
Un libro che non può mancare, per chi ha dentro di sé il senso del rapporto col proprio passato, individuale e di comunità.
Riccardo Calimani, "Storia degli ebrei italiani- Nel XIX e nel XX secolo",
Milano, Mondadori, 2015, pp. 837, € 35,00.
(Shalom, luglio 20015)
Mosca consegnerà a Teheran il sistema S-300 aggiornato
TEHERAN - Il ministro della Difesa iraniano, Hossein Dehqan, ha dichiarato che la Russia fornirà la versione aggiornata del sistema di difesa aerea S-300 all'Iran, e ha precisato che l'accordo relativo potrebbe essere firmato la prossima settimana. Secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa iraniana "Irna", Dehqan ha ribadito che la Russia si è impegnata a firmare un accordo con l'Iran sulla consegna del sistema di difesa. "La parte russa - ha detto - è tenuta ad effettuare gli aggiornamenti necessari al sistema missilistico e a fornire all'Iran vettori adeguati". Lo scorso 31 luglio 2015, Vladimir Kozhin, consigliere del presidente russo Vladimir Putin per la cooperazione tecnico-militare, ha detto che la Russia stava approntando una versione più avanzata del suo sistema di difesa S-300 prima di provvedere alla spedizione in Iran che dovrebbe avvenire entro il 2016. Egli ha osservato che al vaglio vi sono anche alcune modifiche contrattuali e di prezzo. "Gli iraniani vogliono che il sistema sia spedito il prima possibile", ha precisato Kozhin sottolineando che da parte sua Mosca sta cercando di mantenersi nei tempi prestabiliti. Egli ha aggiunto che alcuni dei sistemi militari che erano stati destinati alla vendita all'Iran sono stati consegnati nel frattempo ad altri clienti, e che alcune parti di altri sistemi S-300 dislocati in Russia hanno subito sostanziali modifiche in questi anni.
L'Iran ha stipulato il contratto per l'acquisto dei sistemi antiaerei S-300 di produzione russa per un importo di circa 800 milioni di dollari nel 2007. Tre anni dopo il Consiglio di Sicurezza Onu ha vietato le consegne di avanzate armi all'Iran, e la Russia ha aderito di propria iniziativa al divieto, bloccando l'invio dei sistemi missilistici. Lo scorso aprile, però, il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che sblocca le consegne dei sistemi missilistici a Teheran, in considerazione dei progressi nei negoziati sul programma nucleare della Repubblica islamica, azione a cui sono seguiti una prima serie di colloqui con il ministro della Difesa iraniano, Hossein Dehqan. In un primo tempo Mosca aveva garantito l'invio di cinque batterie missilistiche entro la fine del 2015 consegna in seguito prorogata a causa dell'obsolescenza di alcuni impianti e dalla richiesta di Teheran di stipulare un nuovo accordo per l'invio del sistema aggiornato di ultima generazione. La decisione della Russia di portare a termine l'accordo con l'Iran sarebbe, secondo fonti militari dell'agenzia russa Interfax un tentativo per compensare l'errore geopolitico che la Russia ha fatto negli ultimi anni, accettando di aderire alle sanzioni Onu contro Teheran. La firma dell'accordo sul nucleare iraniano avvenuta lo scorso 14 luglio a Vienna ha spinto Mosca a prendere in considerazione la possibilità di consegnare all'Iran un sistema aggiornato, nonostante al momento contro la Repubblica islamica sia ancora in vigore l'embargo Onu sulle armi. In aprile lo stesso ministro degli Esteri Sergej Lavrov aveva ricordato che la decisione di sospendere di interrompere le procedure di consegna dei sistemi anti-missile era stata presa dalle autorità nel 2010, quando il contratto era già stato firmato e onorato, ed era frutto di una strategia dell'allora governo russo di sostenere gli sforzi dei sei negoziatori internazionali durante le prime fasi dei colloqui con Teheran. Lavrov aveva inoltre precisato che la mossa di finalizzare dopo cinque anni l'accordo con l'Iran ha tenuto conto delle specifiche della Risoluzione Onu 1929, che di fatto non pone alcuna limitazione alla consegna di armamenti di difesa aerea.
La dotazione da parte dell'Iran di uno dei più avanzati sistemi di difesa aerea, superato solo dal nuovo S-400, è un segnale del cambiamento di scenario in corso nella regione. Negli ultimi anni il Medio Oriente ha assistito ad una rapida corsa agli armamenti da parte dei paesi del Golfo, in particolare l'Arabia Saudita divenuto il primo importatore di armi al mondo. Le ragioni sono molteplici e vanno dall'aumento dell'egemonia iraniana ai pericoli connessi al crollo di stati come Siria e Iraq, dove prosegue l'avanzata lo Stato islamico. Prodotto dalla compagnia russa Almaz-Antey, il sistema S-300 consiste in una rete di missili a lungo raggio missile terra-aria poste su batterie mobili o fisse e azionate da sofisticati software di contromisure difensive specializzato soprattutto nell'intercettazione di aerei da guerra e missili da criocera, ma le versioni successive hanno anche la capacità di intercettare e distruggere missili balistici a testata nucleare. In seguito al congelamento del contratto firmato nel 2007 con Mosca l'Iran ha progettato e sviluppato una propria versione dello scudo missilistico S-300, conosciuto come Bavar (Credo) 373. La versione iraniana ha caratteristiche superiori rispetto al modello base russo, il cui progetto risale al 1979, in quanto gode di maggiore mobilità e riduzione delle tempistiche di lancio e preparazione delle batterie.
(Agenzia Nova, 19 agosto 2015)
Ebrei Usa favorevoli all'accordo con l'Iran si dissociano da Netanyahu
di Alberto Pasolini Zanelli
Il trattato fra Stati Uniti e Iran, firmato un paio di settimane fa, entro un mese dovrà essere ratificato dal Congresso ed entrare in vigore. Il voto e il dibattito che lo precede sono di un'importanza decisiva, non solo per il giudizio di merito su quell'accordo, ma anche come un giudizio conclusivo sulla presidenza Obama per quanto riguarda la politica estera. Mentre gli altri temi principali, inclusa l'economia, sembrano finora porre su un piano di sostanziale parità i due partiti americani (coinvolgendo dunque non solo le opinioni sull'attuale inquilino della Casa Bianca, che non sarà più candidato, ma l'intera impostazione del Partito democratico, soprattutto se a succedere a Obama sarà Hillary Clinton, che per quattro anni è stata segretario di stato e dirigente delle relazioni internazionali). Per questo i repubblicani hanno inaugurato la loro campagna elettorale concentrando le polemiche sul trattato con l'Iran e, di conseguenza, sul comportamento degli Usa verso Israele, recisamente contraria a ogni compromesso con il regime di Teheran. Il premier dello stato ebraico, Netanyahu, è venuto a Washington di persona davanti alle camere riunite per esporre il suo allarme e la maggioranza repubblicana al senato ha inviato un messaggio ai detentori del potere in Iran diffidandoli dal ratificare l'accordo. Tra gli aspiranti alla candidatura per la Casa Bianca, questo tema ha suscitato non contrasti ma concorrenza, al punto che uno dei candidati ha descritto addirittura Obama come colui che, attraverso quel patto, «accompagna gli ebrei alle camere a gas».
L'opinione degli ebrei, dunque, era da considerarsi scontata. Fino a ieri, allorché è stato reso noto l'esito di un sondaggio in cui gli ebrei americani sono stati invitati ad esprimere la propria opinione. E uscito che essi sono, almeno fino ad oggi, più favorevoli che contrari all'accordo così aspramente denunciato. Le domande erano diverse, variamente articolate, ma le risposte concordano. La maggioranza degli ebrei Usa è favorevole al trattato con l'Iran, in disaccordo con il governo di Gerusalemme, in sostanziale accordo con le scelte di Obama e del suo segretario di stato, John Kerry.
La domanda, che è stata posta dal Jewish Journal, chiedeva l'opinione «su un accordo in cui gli Stati Uniti e altri paesi alleggeriscono le sanzioni economiche contro l'Iran in cambio della limitazione di quest'ultimo ai propri programmi nucleari». Quarantuno interpellati su 100 hanno risposto «sì», 38 su 100 «no», 21 su 100 sono indecisi. A domande più specifiche, il divario si è allargato. Fra coloro che hanno espresso un'opinione (escludendo, cioè, gli indecisi), 63 su 100 considerano il trattato con un qualche favore, una maggioranza più larga rispetto al vaglio delle risposte degli elettori americani nel loro complesso (54% «sì», 46% «no»). Circa le conclusioni da trarne, il 54% gli ebrei americani raccomanda al Congresso di approvare il trattato, il 35% invita a respingerlo, il 12% è indeciso. La sorpresa è più forte, soprattutto perché quasi tutte le organizzazioni degli ebrei d'America hanno espresso e continuano ad esprimere opinioni radicalmente opposte, e così la quasi totalità dei deputati e senatori repubblicani più una buona parte dei democratici in dissenso da Obama.
Le spiegazioni del fenomeno sono principalmente due. La prima è che la maggioranza degli ebrei americani è orientata da sempre verso il Partito democratico, mentre i leader politici, economici e religiosi sono altrettanto saldamente simpatizzanti per i repubblicani. Il dato economico mostra una netta contrapposizione secondo il reddito, confermata dagli orientamenti di Trump e di altri leader del business, a cominciare da Sheldon Adelson, principale finanziatore della destra Usa e magna pars dell'Ajpac (Comitato di azione politica ebreo-americano) considerata fra le più potenti lobby degli Usa. Non è però solamente il reddito a fare di un ebreo americano un conservatore o un liberale: è anche la collocazione religiosa. Le domande del sondaggio sono state rivolte espressamente a «coloro che si considerano ebrei a prescindere dalla religione». Gli agnostici sono in maggioranza. Se le domande fossero state poste solo ai praticanti, il risultato sarebbe stato opposto.
(ItaliaOggi, 19 agosto 2015)
USA - Gruppo di democratici contro l'accordo con l'Iran
Robert Menendez ha annunciato una campagna contro l'accordo sul nucleare tra l'Iran e la comunità internazionale. L'influente senatore democratico, ex presidente della Commissione esteri, diventa così l'uomo che nell'Asinello guida la fronda contro Barack Obama, convinto di aver portato a casa uno dei pochi successi della propria politica estera. «Voterò contro l'accordo - ha detto Menendez in un'attesa conferenza stampa a South Orange nel New Jersey in vista dell'arrivo in Parlamento a settembre di una risoluzione di bocciatura dell'intesa- e, se chiamato ancora al voto, mi esprimerò per il superamento del veto presidenziale». Il presidente americano, infatti, potrebbe mettere un veto sul provvedimento ma un voto di due terzi della maggioranza lo farebbe venir meno.
(Libero, 19 agosto 2015)
Un tranquillo weekend di antisemitismo in Europa
Dalla Spagna alla Norvegia: artisti ebrei e israeliani cacciati dai festival culturali
di Giulio Meotti
Matisyahu
ROMA - E' stato un tranquillo weekend di antisemitismo in Europa. Non si esibirà il 22 agosto a Benicassim, vicino a Valencia, il musicista ebreo Matthew Paul Miller, in arte "Matisyahu", celebre rapper americano di musica reggae e hip hop. Il movimento per il boicottaggio di Israele ha ottenuto una grande vittoria al più grande festival reggae europeo, il Rototom Sunsplash, creato in Italia ma che dal 2009 si svolge nella città spagnola, riuscendo a impedire la performance del musicista ebreo. Come rivela il País, la direzione del festival aveva chiesto a Matisyahu di produrre un video o una dichiarazione scritta nella quale il cantante avrebbe dovuto sostenere uno stato arabo-palestinese, cosa che Matisyahu si è rifiutato di fare. Così la sua esibizione è stata annullata. In una dichiarazione su Facebook, gli organizzatori del festival Rototom hanno detto che la decisione è legata alla "sensibilità del festival sulla Palestina, la sua gente e l'occupazione del suo territorio da parte di Israele". Attivisti del boicottaggio avevano accusato il rapper ebreo di essere un "sionista", indegno di mettere piede in Spagna. Matisyahu sarà sostituito dall'artista giamaicana Etana e ha risposto dicendo che "la mia musica parla da sola, e io non inserisco la politica nella mia musica". Senza considerare il fatto che Matisyahu non è israeliano, ma ebreo.
La Federazione delle comunità ebraiche di Spagna ha accusato il festival di "codardia antisemita", mentre l'Anti-defamation league di "discriminazione antisemita". Da Gerusalemme, il ministero degli Esteri afferma: "Abbiamo sempre sostenuto che il boicottaggio non è legato allo stato palestinese o agli insediamenti, ma che non è altro che odio antiebraico". In Spagna era già successo quando il direttore della galleria d'arte ArtMalaga in Andalusia, Juan Carlos Rica, aveva inviato il seguente messaggio in risposta alla domanda dell'artista di Haifa Patricia Sasson: "Noi rifiutiamo di lavorare con qualsiasi persona legata a Israele".
Si cambia paese, la Norvegia, e la scena si ripete. Stavolta è protagonista il Festival del Cinema di Oslo, che questa settimana ha rifiutato il film "The Other Dreamers" del regista israeliano Roy Zafrani. Il film avrebbe la colpa di parlare dei bambini disabili in Israele, anziché dell'"occupazione". Zafrani ha ricevuto questa risposta da uno degli organizzatori del festival, Ketil Magnussen, che ammette di non aver neppure visto la pellicola: "Mi dispiace ma non possiamo proiettare il film. Noi sosteniamo il boicottaggio accademico e culturale di Israele, quindi a meno che il film non parli dell'occupazione illegale, o abbia a che fare con l'occupazione o con il blocco di Gaza, oppure ancora con la discriminazione dei palestinesi, non possiamo riprodurlo". Zafrani ha risposto accusando di "lavaggio del cervello" il festival, che riceve finanziamenti del governo norvegese. Intanto, a Parigi, un'altra manifestazione culturale con Israele protagonista deve svolgersi protetta da cinquecento poliziotti. Si tratta di "Tel Aviv sur Seine".
Dai festival della cultura in Europa sta arrivando l'eco di un articolo degli anni Ottanta scritto da una coraggiosa giornalista di Repubblica, Rossellina Balbi: "Davide, discolpati!".
(Il Foglio, 19 agosto 2015)
Attentatori vili che per uccidere una persona ne sfruttano il naturale altruismo
Una lettera all'Onu sulla recente serie di attacchi palestinesi contro israeliani.
L'ambasciatore d'Israele alle Nazioni Unite Ron Prosor ha indirizzato lunedì la seguente lettera al Segretario Generale dell'Onu e al Consiglio di Sicurezza:
«Oggi [17 agosto] un terrorista palestinese si è avvicinato a soldati delle Forze di sicurezza israeliane a sud di Nablus dicendo loro che non si sentiva bene e chiedendo dell'acqua da bere. Quando i militari lo hanno invitato ad avvicinarsi ha estratto un coltello e ha pugnalato uno dei soldati. Solo due giorni fa, un altro palestinese si era avvicinato a un soldato israeliano chiedendogli dell'acqua. Non appena il soldato si è voltato per prendergliene un po', il terrorista lo ha aggredito alle spalle con un pugnale. Poco più tardi, quello stesso giorno, un altro palestinese ha accoltellato alla schiena un agente israeliano della polizia di frontiera durante un controllo di sicurezza di routine....
(israele.net, 19 agosto 2015)
Giornata della cultura ebraica: a Firenze parte prima
Dalla fine di agosto concerti, assaggi di cucina ebraica, percorsi e visite guidate. Firenze è la capofila nazionale della giornata europea della cultura ebraica 2015.
A Firenze la giornata europea della cultura ebraica "parte" dieci giorni prima. In vista della data simbolo, il 6 settembre, la comunità ebraica fiorentina organizza un lungo calendario di eventi che vanno da visite guidate a concerti, laboratori per bambini e anche un tuffo nei sapori della cucina ebraica, quella kasher.
In questo 2015 Firenze è la città capofila della 16esima edizione della giornata della cultura ebraica, che abbraccia 32 paesi europei e 72 località italiane. Ecco una selezione dei migliori eventi in programma, che ruoteranno intorno alla Sinagoga, ma anche in altri spazi della città.
27 agosto - Balagan Cafè
Dopo la "vacanza" nel cuore di agosto, spalanca di nuovo le porte il Balagan Cafè, lo spazio all'aperto nel giardino di fronte alle suggestive architetture della Sinagoga di Firenze (via Farini 6).Giovedì 27 agosto, dalle ore 18.00, è previsto un concerto itinerante della Banda Improvvisa lungo le strade del centro storico, con tappe nei luoghi dell'ebraismo fiorentino.
La "festa" si sposterà poi nel giardino della Sinagoga con, alle ore 20, un apericena speciale in collaborazione con Unicoop Firenze, seguito dal concerto, questo volta nel giardino della Sinagoga, della Banda Improvvisa.
Dal 31 agosto - Una settimana di eventi
Dal 31 agosto partiranno poi tutta una serie di eventi tra cui flash mob a cura di "Centrale dell'Arte", dai ponti di Firenze (presi come simbolo di questa edizione) alla Sinagoga. E poi ancora ogni pomeriggio dal 31 agosto al 5 settembre laboratori gratuiti per famiglie e bambini nelle biblioteche fiorentine (consigliata la prenotazione); convegni e conferenze; musica (concerto del festival "Capriccio italiano" il 3 settembre al teatro del Cestello, con inizio alle ore 21).
5 settembre
Suoni e luci al Tempio Maggiore: dalle ore 22.00 nel giardino della Sinagoga di Firenze giochi di immagini, foto d'epoca e musica per raccontare la storia degli ebrei a Firenze. A seguire dalle ore 23.00 lo spettacolo di Roberto Paci Dalò "Ye Shanghai", dedicato al ghetto della megalopoli cinese.
(il Reporter, 19 agosto 2015)
Antisemitismo, buccia di banana per Corbyn
Stoccata dalla comunità ebraica: il deputato finanziò il negazionista Paul Eisen ed è amico di Hamas. Il laburista corre ai ripari: "L'olocausto è fra gli episodi più bassi della nostra storia".
di Caterina Soffici
Jeremy Corbyn
LONDRA - Mentre i sondaggi lo danno come favorito nella corsa per la leadership del partito laburista, Jeremy Corbyn è finito nel mirino degli ebrei inglesi che lo accusano di antisemitismo. Socialista di vecchio stampo, molto vicino al sindacato e pacifista, Corbyn è il tipico rappresentante di quella sinistra radicale che anche in Inghilterra è filo palestinese di default. Ma criticare la politica di Israele è un conto. Partecipare a raduni di un gruppo pro Palestina guidato da un antisemita negazionista è un altro. E questo è quanto viene imputato a Corbyn, che con le sue posizioni di sinistra estrema senza se e senza ma sta sbaragliando le altre candidature più centriste: Andy Burham, Liz Kendall e Yvette Copper al suo confronto sono uno più scialbo dell'altro.
La settimana scorsa il giornale della comunità ebraica britannica The Jewish Chronicle ha attaccato pesantemente Corbyn e gli ha chiesto di rispondere a sette domande dove lo si accusa di aver finanziato il gruppo Deir Yassin Remembered, fondato dal negazionista dell'Olocausto Paul Eisen e di aver rapporti con terroristi, di essere amico di Hamas, dell'Iran e degli estremisti islamici. Una patata bollente lanciata trai piedi a Corbyn a meno di un mese dalle elezioni che decideranno il futuro leader del Labour Party. Scrive il Jewish Chronicle: "E preoccupante che una persona con forti legami con razzisti e terroristi possa diventare il segretario di uno dei due maggiori partiti e quindi potenzialmente Primo Ministro".
Così ieri Corbyn è stato costretto a smentire pubblicamente in un'intervista a Channel 4 News definendo le accuse "sbagliate e ridicole". Ha ammesso di aver preso parte ad alcuni aventi del gruppo "Deir Yassin Remembered" e ha detto che forse potrebbe aver anche fatto una piccola donazione in denaro. Ma all'epoca, cioè 15 anni fa, il fondatore del gruppo Paul Eisen non era ancora diventato un negazionista. "Se lo fosse stato non avrei avuto niente a che fare con lui. Le mie azioni sono sempre state solo in favore delle vittime del massacro di Deir Yassim" ha detto Corbyn, che ha spiegato come il suo interesse era legato al motivo per cui era nato il gruppo, ovvero il ricordo del massacro di palestinesi avvenuto a Deir Yassin, villaggio a ovest di Gerusalemme, nell'aprile 1948.
Il candidato laburista è nel mirino degli ebrei londinesi da un mese. E le punzecchiature per le sue posizioni filopalestinesi sono state tante e continue. Lo accusano di essere amico di Hamas e di flirtare con gli estremisti. Ma in sua difesa sono scesi in campo un gruppo di ebrei critici contro la politica di Israele, che hanno a loro volta scritto una lettera al Jewish Chronicle, affermando che "c'è qualcosa di molto sbagliato e disonesto nelle accuse contro di lui, che non è un antisemita".
Corbyn a Channel 4 News ha negato categoricamente di aver mai avuto simpatie antisemite e ha detto che "il negazionismo è vile e sbagliato", che "l'Olocausto è stato uno degli episodi più bassi della nostra storia". E che "gli ebrei uccisi durante l'Olocausto sono le persone che hanno più sofferto nel corso del Ventesimo Secolo".
Basterà a placare gli animi? Di certo da qui alle primarie usciranno altri scheletri dall'armadio e altre patate bollenti finiranno tra i piedi della vecchia volpe socialista, in Parlamento da 32 anni.
(il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2015)
Esercitazioni delle forze di difese israeliano sulle Alture del Golan
Israele pronta a invadere la Siria?
di Jess McHugh
L'esercito israeliano ha iniziato la preparazione per una possibile invasione via terra della Siria, ha riferito domenica il notiziario israeliano Channel 2. L'esercito israeliano ha iniziato durante il fine settimana una grande esercitazione nelle occupate Alture del Golan, per preparare Israele su come dovrebbe agire nel caso fossero attaccati dai razzi provenienti da militanti del gruppo Stato islamico in Siria.
Il gruppo, conosciuto anche come ISIS, ha preso il controllo di vaste aree in Iraq e in Siria, mentre quest'ultima appare devastata da una guerra civile tra il regime del presidente Bashar Assad e vari gruppi ribelli. Il gruppo sta cercando di stabilire un califfato islamico sunnita teocratico in tutta la regione.
Le esercitazioni sulle alture del Golan, occupate da Israele dal 1967, in vista di un possibile attacco dello Stato Islamico, includono anche la difesa contro le armi chimiche, dal momento che sono state segnalate scorte di armi chimiche nelle mani dello Stato Islamico. I funzionari della difesa israeliana hanno detto le probabilità di un attacco chimico da parte dello Stato Islamico su Israele sono molto bassi, anche se vogliono essere pronti a tutto.
Nuove segnalazioni di attacchi chimici da parte dello Stato Islamico hanno iniziato a diffondersi giovedi, dopo che combattenti curdi di ritorno da uno sbarramento di artiglieria nel villaggio di Sultan Abdullah, a sud di Mosul, in Iraq, hanno mostrato sintomi compatibili con l'uso di gas mostarda. La sostanza chimica, che si è fatta una brutta reputazione sin dalla prima guerra mondiale, può avere gravi effetti sulla pelle, sul sistema respiratorio e ematopoietico e può portare alla morte.
Israele ha preso di mira lo Stato Islamico con attacchi aerei lungo tutto il confine con la Siria da aprile. L'eventuale offensiva preparata nel Golan sarebbe la prima invasione via terra israeliana nella lotta contro lo Stato Islamico.
Funzionari militari israeliani hanno detto che mentre la zona di confine è relativamente tranquilla, ma potrebbe anche cambiare molto rapidamente e vogliono essere preparati per ogni eventualità. Le autorità israeliane stimano che nei pressi della linea di demarcazione con la Siria nel Golan ci sono centinaia di militanti Hezbollah, un gruppo marchiato come terroristico dagli Stati Uniti e che è alleato con il regime di Assad e l'Iran.
(International Business Times, 18 agosto 2015)
"Via ebrei da Italia", scritta antisemita con svastica a Genova
GENOVA - Secondo i rapporti della Anti-Defamation League (ADL), l'organizzazione internazionale - con sede a New York - fondata nel 1913 per fermare la diffamazione nei confronti degli ebrei e assicurare loro giustizia e rispetto dei diritti fondamental, aumentano i casi di antisemitismo.
Anche Genova non ne è immune, come rivela Roberto Malini, collaboratore della ADL, scrittore, studioso della Shoah e co-presidente di EveryOne Group, organizzazione per i diritti umani. Il 16 agosto Malini ha rilevato e fotografato una scritta antisemita su un muro di via Balbi, all'altezza della Farmacia Pescetti. Il graffito dice a caratteri maiuscoli: "Via ebrei da Italia" ed è firmato con una svastica.
"I neonazisti sono ancora oggi in prima linea in queste odiose manifestazioni di intolleranza - spiega Malini - ma non sono i soli ad esprimere odio contro il popolo ebreo e lo Stato di Israele. Personalmente sono stato inserito più volte nelle liste di proscrizione di movimenti razzisti e neonazisti, fra cui StormFront e WhitePride, ma anche in alcuni blog del movimento di critica globale, che in un'occasione hanno minacciato di 'cucirmi una stella di Davide sul petto'. Non tutti ne sono consapevoli, ma gli attivisti, gli intellettuali e gli artisti che si impegnano per la memoria della Shoah e contro l'antisemitismo ricevono spesso censura e diverse forme di intimidazione e persecuzione. Il mio libro 'Dichiarazione', che affronta il tema dell'antisemitismo nella storia e nella contemporaneità, è sostenuto da UNICEF e Consiglio d'Europa ed è attualmente un best-seller della poesia civile contemporanea in Brasile, nella traduzione di Amina di Munno, è stato pubblicato in Italia solo grazie al coraggio civile dell'editore Il Foglio di Piombino. La scritta di via Balbi è incivile, ma rappresenta una corrente ideologica che si espande anche a causa del fatto che le istituzioni e i media non la combattono con sufficiente convinzione. Ne è una riprova il fatto che nessuno si è ancora preso la briga di cancellarla: basterebbe un flacone di alcool denaturato che si può acquistare nella farmacia limitrofa!".
Roberto Malini, a nome della ADL, di EveryOne Group e della società civile, ha chiesto in un breve appello al Comune di Genova e al Comando della Polizia Municipale di "rimuovere l'odioso graffito e a tutte le istituzioni genovesi di impegnarsi con maggiore costanza per combattere l'antisemitismo e il razzismo dilaganti, promuovendo una cultura di uguaglianza e rispetto reciproco, nonché ricordando ai cittadini e soprattutto alle nuove generazioni come la cultura dell'odio razziale abbia prodotto nella Storia atrocità come la ghettizzazione, i pogrom e la Shoah, ricacciando ogni volta la civiltà in un'epoca barbarica e priva di valori morali".
(Genova24.it, 17 agosto 2015)
Israele non intrattiene contatti con Hamas
Israele "non sta intrattenendo alcun rapporto con Hamas né direttamente, né attraverso altri Paesi, né attraverso intermediari". Lo precisa l'Ufficio del premier Benjamin Netanyahu riguardo a notizie di stampa su contatti indiretti tra lo Stato ebraico e Hamas per una tregua di lunga durata con Gaza. Anche con la Turchia, dicono fonti vicine al premier, "l'accordo è ancora lontano".
(TGCOM24, 18 agosto 2015)
Bambini palestinesi bruciano divise e bandiere dell'UNRWA
Strumentalizzati dall'ONU
Gli aspiranti-studenti hanno bruciato le loro divise scolastiche, davanti alla sede centrale soccorso e lavori delle Nazioni Unite (UNRWA) a Gaza. Le divise sono state pagate dai donatori. Ecco perchè non bisogna piu' dare un solo centesimo. La protesta era contro la decisione del dell'UNRWA di ritardare l'inizio dell'anno accademico in oltre 700 scuole del Medio Oriente.
E' la solita manovra dell'ONU per chiedere piu' fondi ai Paesi donatori.
(Imola Oggi, 18 agosto 2015)
I teatri di Londra sottomessi alla sharia
A due settimane dal debutto, il National Theatre cancella "Homegrown", la pièce sui giovani dell'Isis. L'autocensura dell'establishment inglese aveva già oscurato Aristofane e Marlowe.
di Giulio Meotti
ROMA - Qualche anno fa, nel pieno dell'affare delle vignette danesi su Maometto, il grande drammaturgo Simon Gray attaccò il direttore artistico del National Theatre, Ni- cholas Hytner, accusandolo di fare lo spavaldo sul cristianesimo e di essere mite sull'islam, sostenendo che avrebbe potuto ospitare l'irriverenza di Jerry Springer ma che non avrebbe mai irriso i musulmani in uno spettacolo teatrale. Allora Gray venne attaccato dall'establishment anglosassone come nemico della cultura. Adesso il compianto Gray è stato vendicato.
Fra due settimane, il National Theatre avrebbe dovuto ospitare la pièce "Homegrown", incentrata sulla radicalizzazione dei musulmani britannici che vanno a combattere con l'Isis in Siria o in Iraq. Ma chi aveva acquistato il biglietto si è visto rimborsare il costo. Perché l'opera teatrale è stata eliminata dal cartellone della stagione. La regista, Nadia Latif, era stata convocata dalla polizia per avere informazioni sul copione. Lei e il drammaturgo Omar ElKhairy hanno detto al Times che non pensano che la polizia abbia ordinato la cancellazione dello spettacolo teatrale, ma che il National Theatre abbia ceduto all'"autocensura" perché "temeva la polemica".
Adesso campeggia una dichiarazione sul sito del teatro: "Il National Theatre è spiacente di annunciare che la sua produzione di 'Homegrown' non avrà luogo I biglietti non sono più in vendita. Tutti i possessori di biglietti saranno rimborsati". In un'intervista con il Guardian a giugno, Paul Roseby, direttore del National Youth Theatre, era stato inamovibile nel difendere l'importanza dell'opera teatrale che intendeva far luce su un fenomeno impressionante: più di settecento cittadini inglesi partiti a combattere per il califfo, provenienti dalla classe media musulmana del Regno Unito, abiurata per giurare fedeltà alla guerra santa.
Figure di spicco del mondo delle arti britanniche hanno scritto una lettera aperta sul Times per protestare contro la decisione del National Theatre, fra i quali lo scultore Anish Kapoor, il drammaturgo David Hare, l'attore Simon Callow, il commediografo Howard Brenton e i capi del Pen Club, in cui dicono di "temere che la politica del governo in risposta all'estremismo sia la creazione di una cultura della cautela nelle arti".
Dal "Tamerlano" a "Lisistrata"
Non è la prima volta che la sharia, e la sua alleata prediletta che è la codardia delle élite, decidono cosa debba andare in scena nei teatri della capitale inglese. Il regista Richard Bean è stato costretto a censurarsi per un adattamento di Aristofane e della sua commedia "Lisistrata", in cui le donne della Grecia fanno sciopero del sesso per fermare i loro uomini che volevano andare in guerra. Nella versione di Bean, le vergini islamiche scioperano per fermare gli attentatori suicidi del jihad. Il Royal Court Theatre di Londra ha chiesto che il registra stralciasse la sua opera.
E il "Tamerlano" dell'elisabettiano Cristopher Marlowe, dove si arriva fino al punto di bruciare il Corano e sfidare Maometto a vendicarsi su di lui, è stato censurato al Teatro Barbican sotto la regia di David Farr. Così quei versi, là dove Tamerlano dice che Maometto "non merita d'essere venerato" e anzi "sta all'inferno", sono spariti. A un certo punto Marlowe fa bruciare il Corano da Tamerlano. Mentre il Corano brucia, gli fa anche sfidare il Profeta gridando: "E ora, se ne hai davvero il potere, vieni giù e spegni il rogo". La versione epurata non ha incluso la scena in cui il protagonista brucia il Corano. Al posto del testo sacro dell'islam, il regista ha appiccato il fuoco sul palco a un mucchio di libri anonimi. "Jihadi John" e il califfo ringraziano.
(Il Foglio, 18 agosto 2015)
Terrorismo, l'esempio israeliano
Lettera a Libero
Leggo: «Israele: bimbo palestinese bruciato vivo, nove arresti nelle colonie ebraiche». Differenza dirimente coi palestinesi: mai sentito che un palestinese sia stato arrestato e processato per aver fatto saltare un autobus pieno di bambini.
Roberto Bellia
(Libero, 18 agosto 2015)
Stato palestinese a Gaza in cambio della tregua con Israele? Hamas: mai
Il movimento palestinese Hamas non accetterà mai uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza in cambio di una tregua duratura con Israele, in quanto la Striscia corrisponde al solo 2% del territorio originario.
GERUSALEMME - Il movimento palestinese Hamas non accetterà «mai» uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza in cambio di una tregua duratura con Israele. Ad affermarlo è il vice capo del movimento islamico che controlla l'enclave palestinese, Ismail Haniyeh, come riporta il sito on-line del quotidiano panarabo «al Quds al Arabi».
Il no di Hamas
«Alcune parti cercano di deformare le posizioni del movimento affermando che Hamas avrebbe accettato uno Stato a Gaza attraverso una proposta di tregua duratura con Israele», ha affermato Haniyeh intervenendo in un convegno tenuto a Gaza City oggi, prima di aggiungere: «Ma noi non accettiamo uno Stato sul 2% della terra della Palestina». L'esponente islamico ha quindi ribadito che la strategia del suo movimento «è la liberazione di tutta la Palestina dall'occupazione israeliana».
Trattative segrete?
Negli ultimi tempi su media arabi e israeliani sono trapelate indiscrezioni secondo cui Hamas e Israele sarebbero a un buon punto di trattative segrete per una tregua tra i 5 e i 10 anni. Indiscrezioni che hanno provocato le critiche della fazione palestinese rivale al Fatah, che attraverso diversi suoi esponenti ha accusato Hamas di aver ormai rinunciato alla causa palestinese.
(askanews, 17 agosto 2015)
"Israele, di fronte alle violenze il rabbinato ha parlato chiaro"
Rav Giuseppe Momigliano
Si sono levate prontamente e hanno avuto l'eco dovuta le espressioni da parte dei rabbini capo dello Stato e da parte di tanti altri esponenti del rabbinato di condanna netta e categorica per i gravi fatti avvenuti recentemente in Israele. Lo afferma il presidente dell'Assemblea Rabbinica Italiana Giuseppe Momigliano riferendosi anche ad alcune allarmate prese di posizione che si sono registrate negli scorsi giorni.
"Desidero riportare - spiega il rav Momigliano - alcuni passi in ordine di importanza, non cronologico di comparsa. Innanzitutto la dichiarazione ufficiale dei due rabbini capo, diffusa il 3 agosto e ripresa anche in inglese, tra gli altri dal Jewish Chronicle".
"La Torah d'Israele è un insegnamento di vita, 'Le sue vie sono vie di dolcezza e tutte le sue strade sono di pace' (Mishlè, Proverbi 3,17). Chiunque levi la sua mano contro un'altra persona è considerato malvagio, tanto più quando colpisce con parole o causa danni nel corpo e - guai! - compie azioni ancora più gravi. A nome di tutti i rabbini e di tutti i giudici di tribunali religiosi d'Israele noi condanniamo ogni atto di violenza commesso contro ogni essere umano in quanto creato 'ad immagine di D.O', sia questi ebreo o non ebreo, soldato o civile. La violenza non è la via della Torah ed è proibita in modo assoluto. Preghiamo per l'unità del nostro popolo. Firmato: Izhak Yosef e David Lau".
Ecco alcune citazioni di un articolo del rav Eli Sedan, rabbino e direttore della scuola religiosa premilitare "Benè David" (riportato nel sito "Kippah").
"Ci sono dei giovani che ritengono di agire in nome di D.O e della Torah e compiono nel paese azioni scandalose e abominevoli. Bisogna dire ad alta voce che tutto ciò è falsità e menzogna, questa non è Torah, non è la fede nel D.O che libera il suo popolo, sono persone devianti, che prendono la Torah come pretesto per compiere violenze". "Questa è profanazione del nome di D.O!. La Torah ha ordinato di 'Non uccidere' e questo vale sia verso un ebreo che un non ebreo, verso il giusto come verso il malvagio. Non c'è autorizzazione all'omicidio. In guerra vigono le norme militari, ma solo l'autorità riconosciuta ha il potere di indire azioni belliche e stabilirne i comportamenti. Quando ancora esisteva il Santuario, abbiamo volontariamente rinunciato a sentenziare pene capitali".
"Chi uccide un ebreo a Yerushalaim o un arabo a Duma è un assassino, e se si giustifica attraverso la Torah profana il nome di D.O e, come i falsi profeti all'epoca biblica, mette in pericolo tutto il popolo d'Israele inducendoli in errore, facendo credere che questa sia la volontà del Signore. Lungi da noi pensare una cosa simile. Senza alcun dubbio questo è contro la Torah e contro la volontà del Signore e nessuno è autorizzato ad affermare diversamente in nome della Torah".
"C'è un modo assolutamente chiaro con il quale rapportarsi con gli assassini. Che la polizia si occupi di loro come si deve, siano allontanati dalla collettività e in questo modo non rendano impuro il paese con la loro iniquità e la collettività non sia responsabile dei loro misfatti!".
"Molti altri sulla stessa linea - riprende il rav Momigliano - potrebbero essere riportati. Sono affermazioni nette, categoriche, motivate, importanti anche perché fanno riferimento al pensiero ebraico, alla Halakhah e al rapporto tra le istituzioni religiose e l'autorità dello Stato d'Israele.Quando noi rabbini italiani abbiamo espresso il nostro pensiero, anche senza avere davanti queste dichiarazioni, non avevamo il minimo dubbio di condividere il giudizio del rabbinato ufficiale d'Israele, che si conferma per noi - e crediamo a buona ragione per le nostre Comunità - un punto di riferimento di assoluta importanza e autorevolezza nel campo della Halakhah e dei valori dell'ebraismo insegnati e realizzati. Forse una maggiore attenzione alle diverse fonti di informazione di Israele ci permetterebbe di conoscere meglio e di più il variegato mondo dell'ebraismo religioso che ivi si sviluppa, con dibattiti ed espressioni che vanno al di là degli angusti spazi in cui spesso vengono immaginati.
I gravissimi episodi qui deprecati - conclude il rav Momigliano - devono infine sviluppare il senso di matura coscienza e corresponsabilità che lega tutti gli ebrei per il futuro del popolo ebraico".
(moked, 17 agosto 2015)
Iran: costruiremo nuovi impianti nucleari con l'aiuto dell'Europa
Vice capo dell'agenzia atomica di Teheran: abbiamo bisogno di undici centrali
ROMA - L'Iran "ha bisogno" di undici nuove centrali nucleari nei prossimi 12 anni e intende chiedere l'aiuto dell'Europa per la loro costruzione nel caso di ratifica da parte di Teheran e del Congresso Usa dell'accordo nucleare siglato a Vienna lo scorso 14 luglio. Ad affermarlo è stato il vice capo dell'Agenzia atomica iraniana, Bahrouz Kamalvandi, come riporta il sito on-line di "al Aalam", tv satellitare iraniana in lingua araba.
"Dal punto di vista economico ed anche quello di garantire gli approvvigionamento dell'energia, nei prossimi 10 anni occorre che la nostra produzione di elettricità arrivi a 120 mila megawat e se il 10% sarà originato dall'energia nucleare bisogna allora produrre 12mila megawat da questa energia e siccome attualmente produciamo solo mille megawat allora abbiamo bisogno di costruire altri 11 reattori come quelli di Bushehr entro 10-12 anni", ha detto Kamalvandi.
"Costruire un impianto richiede dagli 8 ai 10 anni - ha proseguito il funzionario di Teheran -; ovvero se cominciasimo oggi, a causa dei costi finanziari non è possibile materialmente costruire questi reattori in contemporanea. Siamo in ritardo ma stiamo cercando a rimediare, abbiamo firmato un contratto con la Russia per due reattori e secondo le nostre previsioni entreranno in funzione entro quest'anno".
(askanews, 17 agosto 2015)
Mashav: Cooperazione e sviluppo al servizio del mondo
Sottotitolo
Mashav è l'acronimo ebraico di Israel's Agency for International Development Cooperation, una agenzia israeliana per la cooperazione e sviluppo internazionale.
Il programma di cooperazione è stato istituito alla fine del 1957, come divisione del Ministero degli Affari Esteri, con l'obiettivo di condividere con il resto del mondo, ed in particolare con i paesi in via di sviluppo, il know how e le tecnologie che hanno permesso il rapido sviluppo dello Stato di Israele.
Quello che iniziò come un programma modesto incentrato sulla costruzione e sviluppo di capacità umane nel momento in cui Israele era ancora in via di sviluppo, si è trasformato in un ampio programma di cooperazione che coinvolge tutto il mondo garantendo uno sviluppo sostenibile, sociale ed economico.
Israele da sempre mette al servizio di altri paesi l'esperienza accumulata in anni ed anni di impegno e dalla sua fondazione MASHAV ha formato, grazie all'attivazione di alcuni corsi, circa 270,000 partecipanti provenienti da 132 paesi ed ha sviluppato una moltitudine di progetti i cui obiettivi sono:
riduzione della povertà
sicurezza sulla fornitura alimentare;
miglioramento dei servizi sanitari;
miglioramento dei servizi educativi.
MASHAV è sia una manifestazione della volontà politica della Nazione sia un impegno ideologico dello stato ebraico basato sull'ideale del Tikkun Olam, ("riparazione del mondo"), ovvero una responsabilità condivisa al fine di aiutare l'umanità a riparare, trasformare e migliorare il mondo sotto l'aspetto sociale.
L'agenzia rappresenta gli sforzi sulla condivisione di competenze che da sempre contraddistingue lo Stato di Israele; sostenere ed aiutare coloro che devono affrontare grandi sfide per migliorare la qualità di vita nel proprio paese.
(SiliconWadi, 17 agosto 2015)
Il papa predica un mondo che non c'è
di Piero Ostellino
Riportiamo questo articolo che non parla di Israele per motivi che spiegheremo nel commento. NsI
Ciò che separa la predicazione pontificia della «dottrina dell'accoglienza» (degli immigrati) dalle istituzioni pubbliche italiane, apparentemente sorde a tale dottrina, si chiama etica della responsabilità. È, cioè, il calcolo dei costi economici e sociali che le istituzioni fanno dell'adesione alla dottrina dell'accoglienza e, al tempo stesso, la constatazione dell'indifferenza del Papa per tali costi.
Papa Francesco se ne frega dei costi perché proietta apparentemente la remunerazione morale dell'adesione alla dottrina in quella entità metafisica che chiamiamo Paradiso. Le istituzioni pubbliche non possono fregarsene perché a fondamento della politica c'è, appunto, l'etica della responsabilità, il laico e realistico calcolo delle conseguenze delle proprie azioni. È, inoltre, perfettamente inutile che alcuni laici invitino la Chiesa a farsi carico dell'immigrazione accogliendola, ad esempio, nei giardini vaticani, perché, nella fattispecie, la Chiesa ragiona esattamente come le istituzioni pubbliche, cioè non prende neppure in considerazione la provocazione perché ne calcola i costi e non li vuole affrontare. Il Papa dovrebbe sapere che non può chiedere alla politica di non tenere conto del fondamento morale sul quale essa si fonda e che si chiama etica della responsabilità, cioè il calcolo delle conseguenze di ogni propria azione, se non vuole passare, agli occhi di chi fa politica, come un cinico opportunista. La separazione fra la predicazione pontificia della dottrina dell'accoglienza (degli immigrati) e il realismo delle istituzioni pubbliche segnala la distanza che corre fra questo pontificato e la realtà effettuale. Il mondo è quello che è, ed è perfettamente inutile, per non dire concettualmente disonesto, che Papa Francesco ne immagini uno che non c'è e faccia carico alla politica di non tenerne conto.
L'accusa pontificia alle istituzioni pubbliche allontana la Chiesa dagli stessi credenti che vivono la loro fede come cittadini dello Stato moderno e interpretano le parole del Papa come una manifestazione di disonestà e di opportunismo intellettuale; è, in buona sostanza, un errore che il Papa commette ignorando il mondo come è, predicandone uno che non c'è e in nome del quale accusa poi la politica di non tenerne conto. Non è solo una questione di linguaggio. È una questione di sostanza che distingue la Chiesa dallo Stato, laico e contemporaneo. La politica non può abdicare all'etica della responsabilità senza rinnegare se stessa e la prova la offre la stessa Chiesa quando fa orecchie da mercante ai laici che la invitano a farsi carico dell'immigrazione ospitandola nelle proprie sedi, come, ad esempio, i giardini vaticani. La Chiesa, di fronte alla provocazione, reagisce esattamente come fanno le istituzioni politiche - rivelando di essere essa stessa una istituzione politica. Ne calcola i costi e la ignora ...
C'è, dunque, una buona dose di ingenuità, da parte dei laici che invitano la Chiesa a fare ciò che essa predica. Ingenuità che rivela l'incapacità di capire che la Chiesa è essa stessa, secolarmente, un'istituzione politica; la quale fa i conti fra ciò che le conviene e ciò che le costa e si comporta di conseguenza. Ecco perché bisogna saper distinguere fra la predicazione di Cristo e i comportamenti terreni della Chiesa, che di quelli si fa forte solo nei confronti degli altri e non affatto di se stessa ... Qui, siamo, che piaccia o no ai credenti, su un terreno storico e politico sul quale anche la Chiesa opera nei propri interessi istituzionali. Ecco perché occorre distinguere fra il messaggio di Cristo - che è parola di pietà e di redenzione - e la predicazione della Chiesa, che non è molto distante dai comportamenti di ogni istituzione politica. Un antico proverbio popolare - che rivela una buona dose di verità - suggerisce di fare come il prete dice, non come il prete fa. Non dico lo si debba seguire alla lettera, ma tenerne realisticamente conto non sarebbe poi tanto sbagliato.
In tante altre occasioni in cui il papa ha preso posizioni ambigue o chiaramente avverse nei confronti di Israele abbiamo detto che la Chiesa Cattolica è un'istituzione secolare che come tutte le altre istituzioni secolari fa politica per i suoi interessi istituzionali. L'uso ambiguo e strumentale del frasario moralistico-religioso che questo papa sembra saper fare molto bene, con o senza riferimenti a Dio e a Gesù Cristo, rende questa istituzione politica, che ha la particolarità di operare con parole e strumenti religiosi, moralmente peggiore delle altre. I laici che pensano di dar prova di larghezza di vedute ammirando questo papa non per quello che pretende di essere ma per quello che proclama ai microfoni mondiali, farebbero bene a togliergli l'aureola di una superiore moralità che non esiste. L'immoralità istituzionale della chiesa cattolica emerge tutte le volte che viene posta in modo diretto e pressante davanti a reali e concreti interessi che la riguardano. E' vero oggi per la questione dei migranti, ed è vero oggi come ieri per la questione di Israele. M.C.
Quanto detto vale naturalmente per listituzione ecclesiastica che il papa in quanto tale rappresenta, non per i singoli cattolici, tra cui ci sono certamente persone sincere e degne di stima.
Oltremare - Al Porto
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Per arrivare al Namal, al Porto di Tel Aviv che marca la fine della città verso nord ci sono due vie. O si cammina perpendicolari all'acqua fino a toccarla e poi si vira decisi verso destra, oppure si resta prudentemente sulla ciclabile fino al fresco Park Hayarkon, e arrivati al fiume si vira decisi verso sinistra. Chi mi conosce sa che la seconda opzione mi arride, in generale.
Quindi resto sulla pista ciclabile per quanto attualmente ingombrata di francesi che non sanno cosa sia una bicicletta e si mettono di traverso apposta e poi si agitano moltissimo quando gli si passa troppo vicini, e berciano insulti francofoni senza mai controllare di che nazionalità o composizione linguistica sia il ciclista. Nel mio caso, capisco gli insulti anche in marsigliese stretto ormai, e non rispondo perché resto una signora, io, anche d'estate a Tel Aviv.
Una volta arrivati al Namal, c'è chi deve subito spingersi fino a vedere il mare. Io, che so che il mare dal più al meno lo troverò anche l'indomani, amo ultimamente gironzolare in quello che al mio arrivo a Tel Aviv era un'accozzaglia di capannoni in larga parte abbandonati e strade sterrate, e oggi è un bel quartiere fatto di negozi e ristoranti. Stessi capannoni, marcati a numeri cubitali che nessuna Alice si possa perdere, ristrutturati e ripuliti. E fra gli edifici bassi e bianchi, strade larghe che anche a Tel Aviv sono rare, spiazzi inattesi qua e là, e parchi giochi su gomma (nel senso della pavimentazione) per bambini di ogni età. Sono spuntati come funghi. Fino a due anni fa ce n'era uno solo, abbandonato e scolorito in una radura che sembrava presa da un film di cowboy: mezzogiorno di fuoco moderno. Si è però riprodotto e ora è stato rinnovato, lui e la giustapposta palestra all'aperto. Perché i genitori portino i figli a giocare, e giochino un po' anche loro.
ROMA - In pieno spirito estivo, in Israele ad Agosto avrà luogo a Gerusalemme il festival della Birra presso il parco dell'Indipendenza dal 26 al 27 Agosto. Al Jerusalem Beer Festival (26-27 Agosto, 2015 dalle 18:00 alle 24:00) saranno presenti più di 150 tipi di birra israeliani e da tutto il mondo. Al festival parteciperanno inoltre birrifici premium, le loro boutique, ma anche produttori di birre artigianali dai gusti più rari, quali miele, caffè, banana, ciliegia, caramello ed erbe aromatiche. Per due giorni il Parco dell'Indipendenza si trasformerà in un bar a cielo aperto con musica ed esibizioni dal vivo, eventi culturali e molte altre iniziative. Il costo di entrata è di 40 NIS. Negli ultimi 5 anni Israele ha visto una forte crescita del numero di birrifici locali, con più di 20 birrifici autorizzati, ma anche dei micro birrifici, grazie a brand quali Jem's Beer Factory, Dancing Camel, LiBira, Shapira e Alexander.
(Prima Pagina News, 17 agosto 2015)
Hamas vola al Cairo per negoziare una tregua a lungo termine con Israele
A guidare la delegazione sarà Ismail Haniteh. Oltre all'Egitto previsti incontri in Qatar e Turchia
Ismail Haniyeh
Una delegazione di Hamas si sta preparando ad andare in Egitto per negoziare una tregua con Israele. Lo riporta il Jerusalem Post, citando fonti all'interno della Striscia di Gaza. Si tratta di un gruppo di alto livello e l'obiettivo è discutere una tregua a lungo termine tra lo Stato ebraico e il movimento. A guidare la delegazione sarà uno dei leader della formazione, Ismail Haniyeh. Oltre all'Egitto, il gruppo visiterà il Qatar e la Turchia. "Non si sa - sottolinea il quotidiano - se le autorità egiziane abbiano dato ai funzionari di Hamas il permesso di attraversare il valico di Rafah". La delegazione, però, è stata invitata al Cairo a partecipare a un meeting con i vertici dell'intelligence egiziana per "valutare su come raggiungere una tregua a lungo termine". La scorsa settimana, il capo dell'ufficio politico di hamas, Khaled Mashaal, aveva preso parte a un incontro a porte chiuse con la leadership turca. Sugli esiti dei colloqui non sono stati pubblicati documenti o rilasciate dichiarazioni. A giugno del 2014, la formazione che controlla la Striscia di Gaza, ha formato un governo di unità nazionale con il partito moderato Fatah della Cisgiordania, la fazione più ampia in cui sono confluiti gli appartenenti al vecchio Olp ed è riconosciuta da un'ampia maggioranza dei membri dell'Onu come unica rappresentanza palestinese. Nell'ambito del processo di pace, al momento sospeso, i palestinesi chiedono che siano ristabiliti i confini tra i due stati sovrani in base a quelli esistenti prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, con possibili scambi di territori e puntano a creare la loro nazione in Cisgiordania e a Gaza, con capitale Gerusalemme Est. Israele, invece, rifiuta di tornare alla condizione prima del 1967 e di dividere Gerusalemme, che ha annunciato più volte essere la loro "capitale eterna".
(il Velino, 17 agosto 2015)
Iran: l'accordo nucleare avrà un "impatto" con la Russia anche nel settore della difesa
MOSCA - L'accordo sul nucleare iraniano ha un "enorme impatto" sulla cooperazione della Repubblica islamica con la Russia, anche sul piano dell'industria militare e quindi dell'acquisto di armamenti. Lo ha detto il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif durante un incontro con il suo omologo russo Sergei Lavrov, dopo che il vice di Lavrov aveva specificato che tra le questioni affrontate nei colloqui ci saranno anche le forniture di S300, sistemi antimissile russi.
"La Repubblica islamica dell'Iran attribuisce grande importanza alle relazioni con la Russia e stiamo prendendo tutte le misure necessarie a rafforzare la cooperazione con voi", ha detto Zarif.
Secondo il ministro iraniano, l'accordo nucleare raggiunto nel mese di luglio ha grande importanza per lo sviluppo delle relazioni e la cooperazione tra i due Paesi "anche nel settore della difesa".
Dopo l'adesione della Russia alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 9 giugno 2010, con restrizioni sulla vendita all'Iran di armi e attrezzature militari, è stato bloccato un contratto per la fornitura di cinque divisioni di sistemi di missili antiaerei S300.
In aprile 2015, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato un decreto, che ha revocato il divieto di fornitura di sistemi S300 all'Iran....
(ContattoNews, 17 agosto 2015)
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Khamenei: non finiremo mai sotto l'influenza degli Stati Uniti
L'accordo sul programma nucleare iraniano, se sarà ratificato dai Parlamenti di Teheran e Washington, non spingerà mai la Repubblica islamica sotto l'"influenza politica ed economica" degli Stati Uniti. Lo ha affermato la Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, incontrando a Teheran esponenti del mondo dei media locali.
"(Gli Stati Uniti, ndr) credono che questo accordo - ancora non è chiaro se sarà approvato in Iran e in America - metterà l'Iran sotto la loro influenza", ha dichiarato Khamenei, riferendosi alla possibilità che il Congresso e il Majlis non ratifichino l'intesa. "Abbiamo bloccato questo percorso e assolutamente lo bloccheremo in futuro - ha detto il religioso, citato dal suo sito web - Non permetteremo un'influenza politica, economia e culturale degli Usa in Iran".
(Adnkronos, 17 agosto 2015)
Israele valuta intervento preventivo in Siria
Secondo diversi rapporti di intelligence la situazione nella parte siriana del Golan sarebbe diventata estremamente pericolosa per Israele, pertanto a Gerusalemme si starebbe pensando a un intervento preventivo che metta in sicurezza sia i villaggi israeliani che quelli drusi nella parte siriana....
(Right Reporters, 17 agosto 2015)
Umberto Pavoncello, l'ultimo ebreo romano del ghetto
di Aldo Grandi
È il 16 ottobre del 1943, il "sabato nero" del ghetto di Roma. Alle 5.15 del mattino le SS invadono le strade del Portico d'Ottavia e rastrellano 1024 persone, tra cui oltre 200 bambini. Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni piombati partiranno dalla stazione Tiburtina. Dopo sei giorni arriveranno al campo di concentramento di Auschwitz in territorio polacco. Solo 15 uomini e una donna (Settimia Spizzichino) ritorneranno a casa dalla Polonia. Nessuno dei duecento bambini è mai tornato... Quella mattina, la mattina del 16 ottobre 1943, nonna Bettina, all'anagrafe Bettina Vivanti, insieme a quattro bambini dai vestiti laceri e poveri, abitanti al civico 21 di via Portico d'Ottavia, uscirono all'alba riuscendo a passare sotto gli occhi dei nazisti che avevano circondato il ghetto. I tedeschi, spalleggiati dai fascisti, non lid egnarono di uno sguardo pensando fossero dei miserabili mendicanti mentre erano, in realtà, ebrei e romani da una infinità di generazioni che, per un puro caso del destino, sfuggirono alla deportazione e alla morte.
Nonna Bettina, ormai, non c'è più. E' morta qualche anno fa, ma al civico 16 di via Portico d'Ottavia, cuore del ghetto romano, alle spalle della sinagoga, c'è un ristorante, Nonna Betta, aperto nel 2008 dall'ultimo e unico ebreo romano in circolazione che ha voluto mantenere vivi i piatti della tradizione culinaria giudaico-romana a cui ha aggiunto, complice il socio egiziano Gamil, crstiano e da 30 anni a Roma, alcune pietanze della cucina medio-orientale. Lui si chiama Umberto Pavoncello, ebreo non errante e, nemmeno, particolarmente osservante, ma, di sicuro, uno dei più profondi conoscitori della cultura di quello che, nel corso dei secoli, a torto o a ragione, è stato più volte definito il popolo eletto o, in versione spregiativa, reietto.
Umberto ha 57 anni, è sposato e ha due figli che, nonostante la madre non fosse ebrea, ha educato, lei concorde, alle tradizioni e alla religione ebraiche. Infatti, i figli di madre giudea sono, a tutti gli effetti, considerati ebrei mentre i figli di solo padre ebreo hanno bisogno di procedere alla cosiddetta conversione all'ebraismo. Pavoncello ha lavorato per oltre 25 anni come agente pubblicitario e anche qualcosa di più, maturando una considerevole e consistente esperienza nel settore, poi, però, la crisi e, in particolare, il richiamo della propria origine, lo ha spinto a rilevare il ristorante più antico e unico almeno negli anni settanta e ottanta, giudaico del ghetto romano. Lo ha fatto con la complicità di Gamil, socio egiziano cristiano di rito copto che ha avviato con lui una cucina tradizionale, ma non rigorosamente kosher, trasmettendo quelli che possono essere considerati i piatti della cucina ebraico-romana che nonna Bettina aveva, per decenni, preparato a Umberto e alla sua famiglia.
Portico d'Ottavia, per chi non lo sapesse, è una delle zone più straordinarie e ricche di pathos della capitale. A poche decine di metri dall'isola Tiberina, da sempre, dal 1555 quando la Chiesa istituì il ghetto ebreo per evitare la commistione tra ebrei e romani, ha ospitato le migliaia di uomini, donne e bambini che, loro sì, costituiscono iol nucleo dei più antichi abitanti di Roma. Non a caso sono stati proprio loro a mantenere tradizioni, spirito, ricordi e alberi genealogici che dimostrano, inequivocabilmente, come le famose sette generzioni per essere romani doc sono, addirittura, poche rispetto a quelle che gli ebrei romani possono vantare. "Un ghetto - spiega Umberto Pavoncello con quel suo accento romano così dolce, non sguaiato né gridato, ma in grado di far restare ammirato e in religioso silenzio l'interlocutore - che la bolla papale volle istituire per dividere i cristiani da coloro che, era scritto proprio così, avevano ucciso Cristo. L'antisemitismo è sempre stato molto forte, purtroppo e anche nel film di Alberto Sordi, Il marchese del grillo, dispiace dirlo, c'è un pezzo dove l'attore se la prende proprio con l'ebreo Aronne dicendo la famosa frase: Tu sei giudeo, l'antenati tua hanno messo in croce nostro Signore.... posso esse ancora un po' incazzato pe' sto fatto!?" Non è stata una bella cosa.
"Mi ritengo fortunato - aggiunge Pavoncello - Questo è il posto più bello del mondo e io ho sempre avuto il numero 21 come punto di riferimento, la casa in affitto di nonna Bettina. Almeno fino agli anni ottanta del secolo scorso si respirava ancora, da queste parti, una bella atmosfera di paese. C'era ancora molta popolazione ebraica. Il ghetto arrivava fino al Tevere. Poi, a fine Ottocento i Savoia abolirono il ghetto di Roma e molti dei nostri antenati, in segno di ringraziamento, presero a chiamare i figli con i nomi dei principi della casa piemontese. Con l'apertura del ghetto i più ricchi tra gli ebrei scelsero di andare a vivere nei quartieri più prestigiosi di Roma che, fino ad allora, gli erano stati preclusi. Restarono a Portico d'Ottavia i più poveri che, con l'arrivo, negli anni Ottanta, di persone e intellettuali interessati ad acquistare appartamenti, finirono per essere sfrattati andando a Marconi, altro quartiere periferico di Roma. Il prestigio della zona andò di pari passo con l'aumento dei prezzi delle case. Qui ha abitato, ad esempio, Pier Paolo Pasolini. Noi, invece, siamo rimasti sempre qui pur non essendo ricchi".
"Quel 16 ottobre 1943 - racconta il ristoratore romano - ce lo ricordiamo tutti se non altro per i racconti di chi, pochi davvero, si salvò e grazie ai libri che sono stati, successivamente, pubblicati. Mia mamma si chiama, è ancora viva ed è la figlia di Bettina, Speranza Sonnino ed era nata nel 1931. Mio padre Attilio ed era nato nel 1926. Gli ebrei, a Roma, ci sono dal secondo secolo avanti Cristo. Basta questo per potersi dire romani? Io ho deciso di scrivere, nel dépliant del ristorante, che sono l'unico ebreo romano rimasto nel ghetto perché gli altri ristoratori vengono da fuori pur essendo ebrei e niente conoscono della tradizione gastronomica giudaico-romanesca. Sì, perché una cosa va detta e ci tengo a sottolinearla. Dal 1555 anno di istituzione del ghetto di Roma alla fine dell'Ottocento quando venne abolito, gli ebrei romani furono costretti a rinchiudersi su se stessi evitando rapporti con i cristiani e mentre il resto di Roma andava cambiando per ovvie ragioni, gli ebrei, al contrario, ripiegavano sulle proprie tradizioni e su se stessi. Così è stato anche per le ricette e alcuni piatti tipici della cucina giudaico-romanesca sono rimasti vivi grazie, proprio, a noi ebrei. C'erano, infatti, quelli che, una volta, venivano chiamati i cosiddetti piatti della frustrazione, ossia pietanze che, per motivi di carattere religioso, non potevano essere mangiati da noi ebrei. Mi riferisco, ad esempio, al maiale. Allora si cercava di aggirare l'ostacolo. Come? Sostituendo il maiale con altri tipi di carne. Qui da noi, ad esempio, la gricia, la carbonara e la matriciana si cucinano non con la pancetta, ma come abbiamo sempre fatto in casa, ossia utilizzando la carne secca di manzo. Questo vuol dire essere ligi alle tradizioni. Per me essere ebreo nel 2015 vuol dire una ricchezza in un'epoca dove la massificazione è sempre più evidente e si perdono le specificità. Non si tratta di sciovinismo, tutt'altro, bensì una ricchezza che cerca il confronto tra diversi popoli e culture al fine di arricchirsi reciprocamente. Nonna Betta vuole essere anche un luogo di apertura e di incontro per tutti coloro che vogliono conoscere più da vicino la storia degli ebrei a Roma".
(La Gazzetta di Lucca, 16 agosto 2015)
Il Pardo si inchina al cinema di Israele e alla Germania che rispetta la Memoria
Una scena del film "Tikkun"
Una scena del film "Der Staat gegen Fritz Bauer"
L'identità ebraica attraverso l'estrema complessità nella vita degli ebrei Haredim, Israele, il dovere di fare i conti con la Memoria.
Assegnando il premio speciale della giuria a "Tikkun", il possente racconto del giovane israeliano Avishai Sivan, e attribuendo a "Der Staat gegen Fritz Bauer" ("Lo Stato contro Fritz Bauer") di Lars Kraume l'ambito premio del pubblico di piazza Grande, il sessantottesimo Festival del film di Locarno fa calare il sipario su un'edizione straordinaria con un marcato riconoscimento delle grandi tematiche ebraiche contemporanee.
Il secondo lavoro di Sivan, di cui questo notiziario ha già riferito diffusamente e di cui torneremo a parlare nelle prossime settimane, travolge l'immaginario dello spettatore con i suoi bagliori in bianco e nero e lo introduce nel mondo dell'ortodossia ebraica più estrema proprio in una stagione in cui nell'universo ebraico tutte le ferite sono aperte e tutte le sensibilità sono accese.
Il film costituisce un'esperienza drammatica che sarebbe assai riduttivo ascrivere unicamente alla sfera dello spettacolo. La sua apparizione nelle sale, durante la prossima stagione, promette di rimettere la creatività di Israele, così come l'immenso valore del caleidoscopio sociopolitico di Israele, al centro dell'attenzione.
Ma al di là dell'emozione e della suggestione fortissima, è la capacità tecnica di Sivan e di tutto il suo staff ad essere messa in luce. Non a caso la stessa Giuria ha voluto assegnare un'ulteriore menzione speciale alla fotografia di Shai Goldman, l'operatore di "Tikkun", che con la sua estrema sensibilità ha offerto una dimostrazione vivida di quello che può ancora fare il cinema di qualità.
Ma la presenza di Sivan non è il solo segno di Israele al grande festival cinematografico elvetico. Sugli schermi di Locarno è passato fra gli applausi anche lo struggente "Haganenet" ("La maestra d'asilo") di Nadav Lapid e soprattutto, a porte chiuse, sei grandi film di domani, il meglio che bolle in pentola nella cinematografica israeliana e non è stato ancora compiuto perché a caccia di finanziamenti. Una piattaforma di lancio sempre più importante per la cultura ebraica e per la produzione culturale di Israele.
Di grande significato anche il riconoscimento del Festival al tedesco Lars Kraume, che racconta per la prima volta al grande pubblico la vicenda di Fritz Bauer, ebreo tedesco sopravvissuto alla Shoah, magistrato supremo della nuova Germania, Procuratore generale dell'Assia, che nell'immediato dopoguerra, in una Germania ancora pericolosamente infestata nelle sue strutture dalla presenza di ex nazisti, è costretto a tradire il suo paese per salvarne l'onore, e svolge un ruolo determinante nell'arresto del criminale Adolph Eichmann spingendo il Mossad ad agire là dove la magistratura tedesca sentiva ancora le mani legate dal terribile retaggio del passato.
Kraume tiene il ritmo senza tradire la vera, drammatica realtà di questa vicenda. Ma soprattutto mostra alle giovani generazioni il momento del difficile passaggio, determinante nell'identità della Germania contemporanea, fra il superamento del passato attraverso la negazione e la cancellazione della memoria e una dolorosa maturazione nazionale che proprio Fritz Bauer riuscì infine ad avviare con l'istruzione dei processi di Francoforte e infine la messa a nudo della pervasiva struttura criminale di Auschwitz.
Un confronto autentico con la Memoria viva e non con la ritualistica della memoria, che come è noto nella Germania di oggi si può considerare una conquista determinante e che in Italia dopo mille elusioni deve purtroppo essere ancora intrapreso. gv
(moked, 16 agosto 2015)
"L'accordo nucleare con Iran spiana la strada alla bomba atomica e minaccia Israele"
Il controverso imprenditore miliardario americano Donald Trump, candidato alle primarie dei Repubblicani per le presidenzali USA del 2016, ha definito "terribile" l'accordo firmato dall'Iran e i "sei" negoziatori internazionali nella notte del 14 luglio ed ha dato dell'incompetente al segretario di Stato americano John Kerry.
Donald Trump, candidato alle primarie dei Repubblicani per le presidenzali USA del 2016, ritiene che l'accordo sul programma nucleare iraniano apra la strada a Teheran per ottenere la bomba atomica.
"E' un accordo terribile", ha detto nell'intervista di oggi con la NBC.
Secondo lui, apre la strada all'Iran per "dotarsi di armi nucleari e guadagnare influenza in varie regioni del mondo." "Credo che questo accordo porti ad un olocausto nucleare," ha aggiunto Trump.
L'uomo d'affari è convinto che dopo questo accordo "Israele si troverà ad affrontare un grosso problema." "Obama ha di fatto messo Israele in questa brutta situazione", ha detto.
Trump ha definito "incompetenti il segretario di Stato John Kerry ed i suoi amici che hanno negoziato l'accordo con l'Iran."
Alla domanda su cosa farebbe se fosse eletto presidente, Trump ha sottolineato: "Farei dei controlli talmente rigidi sull'attuazione dell'accordo per cui l'Iran non avrebbe alcuna possibilità di trovare alcuna lacuna."
(Sputnik Italia, 16 agosto 2015)
Danit Peleg, la studentessa di Israele innamorata della stampa 3D. Il tramonto di ago e filo
Giovane, intraprendente, audace e talentuosa. Una studentessa di Israele sforna per la sua tesi di laurea una collezione moda molto particolare. Tutti gli abiti sono realizzati in maniera tecnologica. Ago e filo? Roba superata.
Giovani talenti crescono, nel panorama creativo sempre più fertile di Israele. Arte contemporanea, design, teatro, cinema, ed anche moda. Un vero e proprio laboratorio contemporaneo, fiorito nel cuore di un contesto culturale e politico logorato da infiniti conflitti ed aspre contraddizioni.
La storia di Danit Peleg è esemplare. Quando di mezzo ci sono talento, determinazione, spirito d'innovazione, capacità comunicativa, professionalità e un pizzico di audacia, succede che una studentessa dell'università di Shenkar, a Ramat Gan, trasformi la sua tesi di laurea in fashion design in un piccolo caso. Nel settembre del 2014 Danit diede inizio alla sua sfida: lanciare una mini collezione interamente realizzata in casa, sposando dimensione domestica e nuove frontiere della tecnologia.
I cinque abiti prodotti sono stati creati con una stampante 3D. Niente più ago, filo, forbici e schizzi a mano libera. Una nuova idea di produzione, che passa per l'informatica e che mette in soffitta la versione più romantica del tradizionale 'fatto a mano'.
Lo spunto iniziale è la celebre tela di Delacroix "La Libertà che guida il popolo". Scomposta digitalmente nel suo impianto strutturale e trasformata in immagine 3D, l'opera ha rivelato un incastro triangoli: da qui è partita la costruzione di forme, linee, volumi, da cui sono derivati gli abiti.
Dopo varie sperimentazioni, insieme a tecnici e professionisti del settore, la collezione ha visto la luce, grazie anche all'introduzione di FilaFlex, un nuovo tipo di filato particolarmente robusto ma molto flessibile, abbinato alla stampante Witbox.
I cinque modelli dall'aria futuristica - giacche, minidress, top e gonne - si modellano intorno al corpo con le loro strutture plastiche e flessuose, mentre le texture traforate riprendono i pattern geometrici propri delle scomposizioni tridimensionali. Sculture da indossare, capaci di accompagnare il corpo e di disegnare volumetrie decise, elastiche, esatte. È l'ultima frontiera della creatività, per le nuove generazioni di artigiani digitali.
(Artribune, 16 agosto 2015)
Dove non arriva la politica, arriva il calcio
Prima storica trasferta da 15 anni di una squadra palestinese nei Territori - Spalti gremiti e tanta sicurezza.
RAMALLAH - È stata da tutto esaurito la finale storica tra la squadra di Hebron (Cisgiordania) Ahli al-Khalîl e l'Ittihad Shujaiyeh di Gaza valida per l'accesso all'Asia Cup (la Champions locale), vinta dalla prima rappresentativa per 2 a 1 con una rete in zona Cesarini. L'incontro - giocato nello stadio di Hebron venerdì sera scorso - è andato però ben al di là del solo valore sportivo, visto che per la prima volta in 15 anni, le autorità israeliane hanno concesso ai giocatori di una squadra di Gaza di recarsi nei Territori per disputare lo spareggio valido per il campionato palestinese.
Sugli spalti moltissimi giovani, famiglie con bambini al seguito e un mare di bandiere rosse e verdi -i colori delle due società - e moltissime anche quelle gialle di al-Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen. Numerosissima anche la presenza delle forze di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese.
L'incontro - come quello dell'andata più di una settimana fa a Gaza, terminato in parità - è stato patrocinato da Jawwal, il primo operatore telefonico palestinese. Una finale che ha parlato anche italiano: l'allenatore dell'equipe di Hebron è infatti il tecnico Stefano Cusin, vero e proprio giramondo del pallone, anche come giocatore, con un curriculum importante in molti Paesi esteri che ha dato la sua impronta alla squadra cisgiordana. "Il calcio - ha detto - ha successo dove la politica fallisce". E il suo calcio indubbiamente ha portato la squadra di Hebron fuori dai confini palestinesi.
Prima dell'incontro il presidente della Federcalcio Jibril Rajoub ha sottolineato il valore politico della finale: "È venuto il momento per Israele - ha detto ai giornalisti - di consentire al calcio palestinese di svilupparsi secondo i parametri e le direttive della Fifa, oppure essere sanzionato". "È importante essere qui oggi - ha rimarcato con l'agenzia di stampa ANSA Naaim Alsweriky allenatore della squadra di Gaza - Per i miei ragazzi questa di stasera è stata la prima volta in Cisgiordania".
L'incontro, per alcuni commentatori, potrebbe rappresentare un'occasione per riunire le popolazioni di Gaza e della Cisgiordania, divise politicamente da quasi un decennio. Ora la squadra di Hebron si prepara a partecipare alla Champions League asiatica dove per la prima volta saranno rappresentati i colori del calcio palestinese.
(Corriere del Ticino, 16 agosto 2015)
Eurolega - Olimpia Milano e Maccabi Tel Aviv: impegno sociale a Chicago
Le due squadre hanno creato il "Give Back Ticket Program to battle violence".
Per la prima volta due squadre di Eurolega giocheranno una contro l'altra negli Stati Uniti. L'1 ottobre 2015, alle 7 di sera, allo United Center di Chicago andrà in scena la prima gara dell'Euro Classic tra Maccabi Tel Aviv e Olimpia Milano, che per l 'occasione giocherà sotto il marchio A|X Armani Exchange. Le due squadre hanno creato il "Give Back Ticket Program to battle violence". Circa 4,000 biglietti, nei settori "200 e "300 saranno venduti a un prezzo speciale di 25 $. Una consistente parte dei proventi andranno a Breakthrough e il suo "Coaches United Against Violence Program", che conta 18allenatori di leghe pubbliche che lavorano con studenti in comunità e scuole per insegnargli principalmente a risolvere i loro conflitti pacificamente. "L'Olimpia come il Maccabi è orgogliosa di poter dare qualcosa indietro alla città di Chicago per combattere le questioni di violenza che sono in realtà un problema globale. Sia noi che il Maccabi abbiamo avuto in passato grandi giocatori dell'area di Chicago. Chicago è una città di caratura mondiale che intendiamo supportare. Con questo programma contiamo di avere un impatto positivo anche su questa comunità", dice il general manager Flavio Portaluppi.
L'Olimpia in passato ha avuto giocatori provenienti da Chicago come Skip Thoren (Coppa dei Campioni 1966) e in seguito Kiwan Garris (che sarà presente alla partita di Chicago), James Singleton, Mason Rocca (ex Capitano dell'Olimpia e anche lui presente l'1 ottobre), David Moss.
(Sportando, 16 agosto 2015)
Tel Aviv, l'equilibrio tra Shabbat e shopping
di Rossella Tercatin
Tel Aviv
Shabbat e shopping sotto i riflettori a Tel Aviv. La Corte suprema ha infatti imposto un ultimatum di tre mesi al ministro degli Interni Silvan Shalom per risolvere la questione se gli esercizi commerciali della capitale economica di Israele possano restare aperti il sabato, giorno del riposo della tradizione ebraica, come attualmente prevede il regolamento municipale, oppure abrogarlo. Dove finisce la religione, dove inizia lo Stato. L'estate 2015 sembra essersi caratterizzata da tante domande in questa prospettiva. Come parte dell'accordo per portare i partiti haredim nella coalizione di governo, il premier Benjamin Netanyahu è sceso a compromessi che hanno preso corpo sotto il rovente sole di luglio. Prima fra tutti la cancellazione di alcune delle riforme in cammino nella precedente legislatura, tra cui quella per decentralizzare gli uffici del Rabbinato dedicati alle conversioni, passando da quattro a oltre trenta in tutto il paese. Cancellazione che è puntualmente avvenuta, con soddisfazione di Shas (la formazione haredi sefardita, che conta attualmente sette deputati sui 120 seggi della Knesset) e Yahadut HaTorah (ashkenazita, sei rappresentanti), che hanno tra l'altro incassato il blocco di un possibile percorso volto al sottrarre il monopolio delle certificazioni di kasherut dal Rabbinato centrale, sostanzialmente in mano a uomini che hanno in queste formazioni il punto di riferimento politico e religioso. Sconfitto in aula anche un disegno di legge per introdurre nello Stato ebraico il matrimonio civile.
Per quanto riguarda l'apertura dei negozi di Shabbat, la disputa si trascina in tribunale da circa due anni, da quando cioè la stessa Corte suprema aveva ingiunto alla municipalità di Tel Aviv di far rispettare il regolamento comunale che imponeva la chiusura di sabato (spesso violato) oppure di modificarlo. Diversi i tentativi in questo senso dell'amministrazione, che nella primavera 2014 ha varato una nuova misura per consentire l'apertura di circa 300 supermercati e chioschi di dimensione fino a 800 metri quadrati. Respinta dall'allora ministro degli Interni Gideon Sa'ar, con la motivazione che i troppi esercizi commerciali al lavoro avrebbero disturbato l'esperienza dello Shabbat come pilastro fondante della vita pubblica israeliana, il Comune riparò abbassando il limite a 500 metri quadrati, e a circa 164 negozi. Ma subito, Sa'ar lasciò il posto, affidando al suo successore, Gilad Erdan, il compito di prendere una decisione sul tema. Ma la questione non è stata affrontata da Erdan nel suo breve passaggio al dicastero, così come, almeno fino a questo momento, da Shalom, scelto da Netanyahu dopo le elezioni di marzo 2015. Da qui l'aut-aut della Corte suprema: il ministero degli Interni ha la facoltà di dire sì o no, ma non rimanere in silenzio.
Al di là del risultato finale, un tema che tocca il cuore di valori essenziali della società israeliana, la ricerca di un equilibrio fra l'identità del paese come Stato ebraico e la libertà di scelta di ogni individuo, tra pubblico e privato. Nella consapevolezza che sarà anche la risposta a queste sfide a dare forma all'Israele del terzo millennio.
(pagine ebraiche, agosto 2015)
Come la lobby pro-palestinese manipola i media occidentali
Qualche giorno fa a Parigi è stato presentato l'evento 'Tel Aviv su Seine', manifestazione estiva in cui si invitano paesi stranieri ad allestire una spiaggia artificiale sulle sponde del fiume, con stand, musica e cibi tipici. Come succede sempre più spesso quando c'è di mezzo Israele, le associazioni pro-Palestina e il Partie de Gauche si sono scatenati chiedendone l'annullamento. Danielle Simmonet, consigliera comunale dichiara: "Dopo un anno dal massacro di Gaza, Parigi organizza "Tel Aviv a Paris".
Quando diviene chiaro che l'evento non sarebbe stato annullato ma ulteriormente supportato dal Primo Ministro Valls e dal sindaco Anne Hidalgo, la polemica monta sui social network e la pressione costringe il Ministero degli Interni a disporre una sorveglianza doppia con 500 unità tra gendarmi e poliziotti, per evitare manifestazioni d'intolleranza e di antisemitismo. I media francesi rilanciano, Le Monde in testa, evidenziando come "molti utenti di Internet e numerose associazioni stiano protestando contro #TelAvivSurSeine" e il settimanale L'Express informa i lettori che l'evento "sta suscitando le ire di molti attivisti filo-palestinesi" e del network di simpatizzanti loro collegato....