Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-31 agosto 2016


Erdogan si riconcilia con Israele

ANKARA - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha firmato la legge che ratifica l'accordo per la normalizzazione dei rapporti con Israele. Lo riferiscono i media filogovernativi turchi dopo che il 20 agosto l'accordo è stato approvato dal Parlamento di Ankara.
A fine giugno Turchia e Israele si sono accordati per la normalizzazione delle relazioni interrotte dal 2010 dopo il blitz delle forze israeliane sulla nave turca Mavi Marmara, che faceva parte della Freedom Flotilla diretta verso la Striscia di Gaza. Nell'assalto sono morti 10 cittadini turchi.
L'intesa prevede il reinsediamento dei rispettivi ambasciatori e, tra l'altro, indennizzi da parte di Israele per 20 milioni di dollari per le vittime del blitz sulla Mavi Marmara. Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, resta il blocco marittimo israeliano ma la Turchia potrà realizzare infrastrutture e da luglio è iniziato l'invio di aiuti umanitari attraverso il porto israeliano di Ashdod.
Sul versante siriano invece la Turchia "non accetta" la tregua con la milizia curda nel nord della Siria annunciata ieri dagli Usa. Lo ha affermato il ministro per gli Affari europei Omer Celik.
Fonti della sicurezza citate dal quotidiano Hurriyet riferiscono che le affermazioni degli americani "non hanno nulla a che vedere con la realta'". L'esercito turco, aggiungono, "non siederà mai allo stesso tavolo con il braccio siriano di una organizzazione terroristica. La nostra posizione è chiara: le milizie curdo-siriane PYD/YPG devono ritirarsi a est dell'Eufrate".
Il ministro turco per gli Affari Europei, Omer Celik, ha poi definito "razzismo culturale", le parole del commissario Ue, Guenther Oettinger, che ha affermato ieri essere "improbabile" che la Turchia diventi membro dell'Ue, durante la presidenza di Recep Tayyip Erdogan.
Secondo Oettinger, l'ingresso della Turchia "non sarà possibile per il prossimo decennio", un tema destinato a essere discusso "quando Erdogan non sarà più al potere".
Ai microfoni dell'agenzia di stato Anadolu, Celik ha anche risposto all'Alta rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, colpevole di essersi detta preoccupata e aver chiesto una reazione più "calma" alla Turchia, in seguito al colpo di stato fallito lo scorso 15 luglio. «E' chiaro che non stanno dalla nostra parte, se ci chiedono di reagire in maniera pacata con chi ci ha puntato la pistola alla testa».

(metro, 31 agosto 2016)


Viceministro degli Esteri di Mosca in visita a Gerusalemme nei prossimi giorni

GERUSALEMME - Il viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, sarà in visita in Israele la prossima settimana prima di un possibile incontro tra il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Lo riferisce la stampa israeliana, secondo la quale lo scopo della visita è promuovere un possibile incontro tra i due leader. L'agenzia di stampa turca "Anadolu" riporta oggi le dichiarazioni di un funzionario palestinese per il quale Abbas sarebbe disponibile ad un incontro con Netanyahu. "Negli ultimi mesi ci sono stati vigorosi tentativi da parte della Russia per mediare un incontro israelo-palestinese", ha detto il funzionario ad "Anadolu".

(Agenzia Nova, 31 agosto 2016)


Si è spenta Alberta Levi Temin, la voce di Napoli che ha raccontato la Shoah

di Chiara Cepollaro

Alberta Levi Temin

Si è spenta all'età di 97 anni Alberta Levi Temin, fondatrice dell'Associazione Amicizia Ebraico - Cristiana di Napoli.
Seppur non partenopea di nascita, Alberta è stata per la città di Napoli una figura di rilievo nell'ambito dello scambio culturale e religioso, del dialogo e dell'insegnamento circa la diversità; originaria di Ferrara, si è trasferita a Napoli nel 1945, dopo essere sfuggita alle deportazioni naziste del 1943 a Roma. Ma solo dopo molti anni ha trovato la forza e l'energia per raccontare la sua storia, gli orrori della Shoah e le persecuzioni di quegli anni. Solo quando si è cercato di mettere in discussione la natura dell'olocausto, in nome di quel revisionismo storico che intendeva minimizzarne le azioni. Allora Alberta si è sentita chiamata in causa, realizzando che raccontare a questo punto era un dovere.
Siamo agli inizi degli anni '90 e la Levi Temin inizia a parlare agli studenti, ai ragazzi italiani, visitando scuole ed istituti, dando voce a chi voce non aveva più perché vittima di un massacro insensato e fuori ogni logica.
Dall'incontro con una scuola media di Casavatore è nato, inoltre, il libro "La storia di Alberta", scritto dai docenti Marotta e Saltalamacchia.

(Vesuvio live, 31 agosto 2016)


Scoperta ad Ankara una "scuola" dell'Isis

I media locali riferiscono i che nella struttura da cinque anni venivano indottrinati almeno 30 minori. Gli investigatori hanno verificato che in alcuni casi a consegnare i piccoli ai "maestri" sono stati gli stessi genitori.

Una "scuola" dell'Isis è stata scoperta da reparti dell'antiterrorismo turco nel centro della capitale Ankara. Secondo quanto riferito dai media locali, la struttura dove si insegnavano le tecniche di combattimento e l'utilizzo di vari armamenti, era gestito da uomini dello Stato islamico e da cinque anni venivano indottrinati circa trenta minori, di cui venticinque bambine, tra i 9 e i 18 anni ancora da compiere. Gli investigatori turchi hanno scoperto che a consegnare i bambini ai "maestri" sono stati in alcuni casi gli stessi genitori, mentre diversi ragazzini sono stati adescati su internet e poi reclutati - spesso costretti con la forza - per sostenere i fedeli dell'autoproclamato califfo Al-Baghdadi. La polizia ha chiuso la struttura, che formalmente era una libreria, e fermato almeno diciassette sospetti, oltre ai bambini. Da gennaio in Turchia sono state 815 le persone arrestate nelle operazioni di lotta al Daesh. Lo ha detto il ministro dell'Interno Ala, poco prima di farsi da parte. Oltre la metà dei fermati sono stranieri.

(il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2016)


Israele chiude una radio palestinese

A Dura nei pressi di Hebron in Giudea-Samaria

L'esercito israeliano la notte scorsa ha chiuso "per istigazione" una stazione radio palestinese a Dura, sud di Hebron, arrestando 5 persone e confiscando equipaggiamenti tecnici e trasmettitori.
"Durante la notte - ha detto un portavoce militare - l'esercito, in cooperazione con la polizia, lo Shin Bet (sicurezza interna) e l'amministrazione civile, ha compiuto una perquisizione nella radio Al-Sanabel a Dura a causa della sua istigazione. Nel corso della perquisizione ha sequestrato le attrezzature e arrestato cinque impiegati che sono stati interrogati dalle forze di sicurezza".

(ANSAmed, 31 agosto 2016)


Dopo dieci mesi ancora giallo sull'ebreo accoltellato

Non è emerso nulla di determinante, pur dopo dieci mesi di indagini capillari, nel caso dell'aggressione di via San Gimignano. E l'accoltellamento per strada di Nathan Graffi, certificatore di cibo kosher, rimane un mistero.
   L'agguato risale al 12 novembre scorso in zona Bande Nere. Inizialmente era stato ipotizzato anche un movente terroristico o a sfondo religioso. Pista che però è stata esclusa dalla Procura. Non sono stati trovati comunque elementi utili a individuare l'autore dell'aggressione del quartiere ebraico. Gli accertamenti svolti dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, dal pm Enrico Pavone e dalla Squadra mobile non sono conclusi. L'inchiesta a carico di ignoti per lesioni potrebbe però essere archiviata nelle prossime settimane se non dovesse emergere alcuna novità. La difficoltà dell'indagine sta anche nel fatto che non ci sono riprese di telecamere di sorveglianza utili in qualche modo. Graff inoltre è stato aggredito alle spalle e ha potuto dire ben poco sul colpevole. Neppure i diversi testimoni sentiti dagli inquirenti hanno saputo fornire indicazioni significative su quanto accaduto quella sera. L'uomo, ebreo 40enne, intorno alle 20 venne avvicinato da uno sconosciuto con un passamontagna mentre rincasava.
   Qualche giorno dopo la polizia aveva diffuso un identikit (allontanandosi il responsabile era tolto il passamontagna) che descriveva l'aggressore come di età compresa tra i 35 e i 40 anni, alto 180-185 centimetri, di corporatura magra, carnagione chiara, capelli chiari, occhi chiari, naso sottile, labbra sottili, mento regolare con fossetta, zigomi pronunciati. Anche questo tentativo però è andato a vuoto. Così come le ricerche relative all'ipotesi di una rapina violenta e le verifiche sul passato della vittima e su eventuali dissapori con qualcuno per motivi personali o professionali.

(il Giornale, 31 agosto 2016)


''Protocolli di Sion'', svolta in Israele. «Ora tradotti anche in ebraico»

E' il primo esempio di teoria del complotto. «Giusto conoscere il Male».Finora non era accessibile il famigerato testo utilizzato in tutte le campagne antisemite.

Il progetto
L'iniziativa è del linguista Adi Amsterdam, realizzata anche con una raccolta fondi
Lo studioso
«Per ora solo poche copie Ma voglio raggiungere un pubblico più vasto»
Meccanismi di un plagio
«L'idea di pubblicarli mi è venuta leggendo il Pendolo di Foucault di Eco»

di Aldo Baquis

 
TEL AVIV - Ad oltre un secolo dalla sua prima pubblicazione, esce adesso in Israele in versione ebraica uno dei più odiosi testi classici dell'antisemitismo: i "Protocolli dei Savi di Sion", un pamphlet attribuito all'Ochrana, la polizia segreta dello Zar di Russia. Anche se facilmente reperibile in lingue diverse sul web, in Israele il libro non era stato mai stato tradotto per intero. Come peraltro per il "Mein Kampf' di Hitler, anche in questo caso alcuni capitoli significativi erano stati tradotti molti anni fa in ebraico in edizioni critiche, per fini accademici. Anche così avevano sollevato polemiche, com'è ovvio.
  In passato è stato ripetutamente dimostrato che i Protocolli sono un falso colossale. «Eppure - nota adesso il traduttore Adi Amsterdam, un linguista del Centro accademico David Yellin di Gerusalemme - continuano ad essere pubblicati ogni anno non solo in farsi o in arabo, ma anche in portoghese o in giapponese. La bugia non vuole morire». In sostanza, i "Protocolli" sono il primo esempio materiale della teoria del complottismo. E come in genere succede proprio anche alle più fantomatiche tesi complottistiche, sono durissimi a morire. Già Umberto Eco, nell'introduzione del celebre romanzo grafico di Will Eisner sui "Protocolli", notò che la loro persistente divulgazione sul web era «come se dopo Copernico, Galileo e Keplero si pubblicassero ancora libri di testo secondo cui il Sole ruota attorno alla Terra». Proprio Eco ha ispirato Amsterdam, con il suo "Pendolo di Foucault". «Lo lessi per la prima volta al liceo, una ventina di anni fa - ricorda. - Ancora non c'era Internet e sui nostri libri di testo i Protocolli venivano discussi in forma succinta. Il libro di Eco accese la mia curiosità, sono tornato a leggerlo più volte».
  La sua è stata una iniziativa solitaria, avviata nel 2008, poi sospesa per alcuni anni, e ora giunta in porto grazie a una colletta sul web. Alcuni gli consigliarono di desistere perché, gli fu fatto notare, la pubblicazione dei "Protocolli" in Israele rischiava suo malgrado di portare acqua al mulino di antisemiti nel mondo e perché «con le menzogne non c'è mai spazio per discussioni». La sua è comunque una traduzione critica: a centro pagina sono riportati i progetti farneticanti attribuiti agli ebrei per la graduale conquista del mondo, ma subito a fianco ci sono note erudite che riportano citazioni dai testi plagiati e poi plasmati dagli agenti zaristi: in particolare i "Dialoghi all'Inferno fra Machiavelli e Montesqieu" del giornalista francese Maurice Joly, un acerrimo avversario di Napoleone III, nonché il romanzo "Biarritz" del tedesco antisemita Hermann Goedsche.
  Amsterdam si dilunga poi sul contesto storico dei vari brani e mette in luce le contraddizioni interne negli stessi Protocolli. Gli ebrei sono a volte rappresentanti come socialisti, o come capitalisti. Qua vorrebbero abbattere i regimi mediante rivolte interne, là vorrebbero piuttosto fomentare un conflitto mondiale. In un Protocollo si vantano di aver acquisito il controllo sui mezzi di comunicazione, ma in un altro ammettono che quello resta un obiettivo da conseguire.
  «Purtroppo i protocolli sono ancora oggi una materia viva sul web», aggiunge Amsterdam. Vorrebbe che la sua traduzione non resti confinata in poche centinaia di copie nelle facoltà di letteratura, ma che anzi raggiunga un pubblico più vasto. Nella prefazione paragona gli israeliani che si recano all'estero a J osef K., il protagonista del "Processo" di Kafka che viene giudicato senza conoscerne la ragione. Dalla lettura dei Protocolli, conclude, gli israeliani potranno studiare le «imputazioni» degli antisemiti, per quanto appaiano loro assurde o menzognere, e potranno difendersi meglio.

(Nazione-Carlino-Giorno, 31 agosto 2016)


Aleppo, ucciso il portavoce dell'Isis. Era l'ispiratore degli attacchi in Europa

Considerato il numero due de] Califfato. Al Adnani era a capo delle operazioni esterne.

WASHINGTON L'Isis ha perso la sua testa pensante, l'uomo che ha diretto gli attacchi in Europa, il portavoce capace di ispirare un'ondata di terrore. Amaq, l'agenzia del movimento, ha annunciato che Abu Mohammad al Adnani è morto mentre ispezionava i mujaheddin nel settore di Aleppo, Siria.
   Non è chiaro per mano di chi. I russi? I ribelli? I curdi? O gli Stati Uniti che parlano di un raid contro un alto esponente jihadista ad Al Bab? La notizia è stata comunque accolta con la solita prudenza: c'è sempre il timore di una notizia falsa per scrollarsi di dosso i troppi segugi.
   Dall'inizio dell'estate, dopo che Al Adnani aveva esortato a colpire durante il Ramadan e c'era stato il massacro di Nizza «in risposta al suo appello», gli americani, i russi e chiunque avesse un conto aperto con l'estremista hanno raddoppiato gli sforzi per trovarlo. Era nato un centro di coordinamento ad Amman dedicato solo al grande bersaglio, inseguito dalle spie e da una taglia di 5 milioni dollari. Un interesse connesso alla sua funzione di responsabile dell'Emni, la struttura clandestina responsabile di attentati all'estero. Le inchieste sostengono che l'attività è iniziata già tra il 2013 e il 2014, con i primi reclutamenti, l'individuazione di tattiche, rotte, per poi raggiungere il picco negli ultimi 2 anni.
   Originario della provincia siriana di Idlib, il jihadista dispone di capi regionali - con una forte componente francofona - che devono gestire i rispettivi teatri. E in questa cupola che si muovono Abu Soleymane al Fransi, Fabien Clain, Abu Ahmad, il «ceceno» Chataev. Sotto di loro dei referenti che a volte si limitano a fare da tramite con i terroristi e in altre ne assumono la direzione operativa sul campo, come Abaaoud al Bataclan. Sempre Al Adnani segue la diffusione dei filmati che glorificano la lotta: un detenuto ha rivelato che presiedeva una riunione mensile dedicata solo a questo aspetto.
   L'Emnì agisce lungo due direttrici. La prima è quella che prevede l'infiltrazione di un commando, simile a quelli responsabili degli assalti a Parigi e Bruxelles. Sono nuclei spesso formati su base familiare. Fratelli, cugini, congiunti, amici del quartiere sono i migliori complici e il collante che li unisce a elementi inseriti in seguito, usando anche lo schermo dei profughi. il gruppo è preparato per l'incursione, anche se è poi il «capitano» sul posto a decidere i dettagli. C'è ampia autonomia.
   L'altra minaccia è rappresentata dai simpatizzanti che già si trovano nel Vecchio Continente o in altri scacchieri, i lupi solitari che tali non sono. A innescarli un discorso sul web e in alcune occasioni un contatto. Reale, ossia un complice in carne ed ossa. Virtuale, uno che se ne sta dietro un computer.
   Rachid Kassim, un francoalgerino vicino ai due killer del parroco in Normandia, ha spiegato come comportarsi: «Prima fai il giuramento, quindi chiede ai fratelli di proseguire la lotta, infine agisci. Sarò io a diffondere il tuo messaggio». Quanto alle armi, Al Adnani suggerisce la soluzione più facile: «Chi non ha una pistola può usare una coltello, una pietra, un'auto». Lo seguiranno in molti. E altri sono pronti a vendicare la sua fine per rispondere ad una perdita pesante.

(Corriere della Sera, 31 agosto 2016)


Palestinesi: quando la "montagna di fuoco" erutterà

di Khaled Abu Toameh (*)

Qualche ora dopo che gli agenti di sicurezza avevano linciato un detenuto, il presidente dell'Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas ha esortato gli imprenditori palestinesi che vivono all'estero a sostenere l'economia palestinese investendo nei Territori palestinesi. Egli ha dichiarato che l'Ap sta "lavorando per garantire la sicurezza necessaria per incoraggiare gli investimenti".
   Secondo Abbas, "i territori palestinesi vivono in una condizione di stabilità dal punto di vista della sicurezza, a cui stiamo lavorando a favore dei residenti e degli investitori, garantendo il rispetto dello stato di diritto e aumentando la trasparenza e la responsabilità".
   Deve essere bello creare la propria realtà, soprattutto se l'autentica realtà dei fatti è quella dell'81enne Abbas. Nel suo discorso pronunciato davanti agli imprenditori, Abbas non ha fatto alcun riferimento all'ultima ondata di "caos nella sicurezza" nelle zone controllate dall'Ap in Cisgiordania, in particolare a Nablus, la più grande città palestinese.
   Cinque palestinesi, tra cui due poliziotti dell'Autorità palestinese, sono stati uccisi durante uno dei peggiori episodi di violenza intestina che ha colpito la Cisgiordania negli ultimi anni. Abbas dunque sta prendendo in giro gli imprenditori o spera che essi siano sordi e ciechi come lui. La violenza scoppiata a Nablus non sorprende chi ha seguito attentamente la situazione in Cisgiordania negli ultimi mesi. A giugno, altri due agenti di sicurezza dell'Ap, Anan Al-Tabouk e Uday Al-Saifi, sono rimasti uccisi in una sparatoria con uomini armati a Nablus. L'Autorità palestinese ha dichiarato che le uccisioni sono state compiute da "criminali" e ha promesso di punire i colpevoli. Le tensioni a Nablus hanno raggiunto l'apice il 23 agosto, quando decine di poliziotti dell'Ap hanno linciato Ahmed Halawah, un ax agente di polizia sospettato di essere a capo di una famosa banda appartenente alla fazione di Fatah. Halawah è stato picchiato a morte da un poliziotto dell'Autorità palestinese poco dopo essere stato arrestato e condotto nel carcere di Jneid, gestito dall'Ap. La leadership dell'Autorità palestinese, che ha successivamente ammesso che Halawah è stato linciato dai suoi poliziotti, dice di aver chiesto l'apertura di un'inchiesta sul caso. I suoi dirigenti hanno dichiarato che si è trattato di "un errore inammissibile". Il pestaggio a morte del detenuto ha causato un'ondata di proteste in tutta la Cisgiordania, con molti palestinesi che hanno invocato l'apertura immediata di un'inchiesta sulle circostanze del capo e chiesto che i responsabili siano processati.
   L'Associazione forense palestinese ha diramato un comunicato che condanna fermamente il linciaggio di Halawah definendolo "un crimine e una violazione dei diritti umani". L'ordine degli avvocati ha chiesto di attribuirgli ogni responsabilità, aggiungendo: "Gli episodi spiacevoli e dolorosi, come l'uccisione di Ahmed Halawah, non fanno gli interessi dei cittadini del paese e aggravano le divisioni nella nostra società". L'associazione ha inoltre esortato l'Ap e le sue forze di sicurezza a rispettare la legge e i diritti umani del palestinesi e le loro libertà pubbliche.
   Preoccupati per le diffuse condanne del linciaggio di Halawah, alcuni funzionari dell'Autorità palestinese hanno cominciato a lanciare minacce dirette e velate contro i detrattori. L'avvocato palestinese Wael Al-Hazam, che ha invitato Abbas a "ritirare" le sue forze di sicurezza da Nablus, ha ricevuto la visita di non identificati uomini armati che hanno sparato contro la sua abitazione 14 colpi d'arma da fuoco. Il legale e i suoi familiari non sono rimasti feriti nell'attacco che era un chiaro un messaggio di avvertimento a chiunque osasse alzare la voce contro la violazione dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese. E in questo caso, il messaggio è arrivato. Poco dopo l'attentato alla sua casa, l'uomo ha rilasciato una dichiarazione in cui ha affermato: "Quattordici colpo d'arma da fuoco sono abbastanza per farmi tacere. Sono un uomo di legge e non posso rispondere ai proiettili. La mia penna e la voce sono la mia unica arma. Non ho milizie militari per difendermi". L'episodio intimidatorio ha avuto luogo poco dopo che agenti della sicurezza dell'Ap avevano minacciato l'avvocato di non partecipare a un programma televisivo per parlare dell'ultima ondata di violenza scoppiata nella sua città.
   I disordini a Nablus hanno spinto molti palestinesi a chiedere ad Abbas di posticipare le prossime elezioni amministrative della città. In una riunione d'emergenza convocata il 25 agosto a Nablus, diversi esponenti e fazioni palestinesi hanno concordato sul fatto che nelle attuali circostanze è impossibile tenere le elezioni.
   Secondo Sarhan Dweikat, un membro anziano di Fatah, è necessario rinviare le elezioni per "proteggere il tessuto sociale e preservare il nostro progetto nazionale, che si trova a dover affrontare una minaccia esistenziale alla luce del caos nella sicurezza e dell'anarchia a Nablus. (...) Le condizioni esistenti a Nablus non assicurano un clima favorevole allo svolgimento delle elezioni".
   È difficile immaginare come Abbas, illuso come sembra essere, possa accogliere le richieste di posticipare le elezioni amministrative. Il suo patetico tentativo di convincere gli imprenditori palestinesi a investire il loro denaro nelle aree sottoposte al controllo dell'Autorità palestinese nel momento in cui le fiamme stanno inghiottendo il suo giardino è un ulteriore segno del rifiuto - o dell'incapacità - di quest'uomo di guardare in faccia la realtà.
   Questo è lo stesso presidente che dice di voler condurre il suo popolo verso uno Stato e un futuro migliore. Abbas probabilmente continuerà a ingannare i leader mondiali, facendogli credere che lui e l'Autorità palestinese sono pronti per la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, il sangue versato a Nablus e in altre città palestinesi è la prova che Abbas sta per perdere il controllo della Cisgiordania, proprio come nel 2007 dovette cedere Gaza a Hamas. Se fino a oggi sembrava che Hamas costituisse la minaccia più grande al governo di Abbas in Cisgiordania, ora è evidente che non è così. La vera minaccia arriva dai lealisti locali di Abbas che si sono trasformati in ribelli.
   In effetti, scene di illegalità e "caos nella sicurezza" costituiscono la norma in molte città, villaggi e campi profughi, segnale questo che l'Ap potrebbe perdere il controllo delle bande armate e delle milizie. I palestinesi parlano di falatan amni o "caos nella sicurezza". Un articolo pubblicato sul sito del Gatestone a giugno menziona un numero sempre maggiore di episodi di anarchia e illegalità nelle zone della Cisgiordania che sono sotto il controllo dell'Autorità palestinese, Nablus in primis.
   Nablus è stata ribattezzata dai palestinesi come la "Montagna di Fuoco", un riferimento agli innumerevoli attacchi armati condotti dal 1967 dagli abitanti della città contro gli israeliani. Ma quanto è accaduto di recente nella città cisgiordana mostra con quale facilità l'incendio bruci il piromane. L'Autorità palestinese sta pagando il prezzo di aver ospitato, finanziato e incitato i membri di bande armate e miliziani che fino a poco tempo fa erano salutati da molti palestinesi come "eroi" e "combattenti della resistenza". Com'era prevedibile, la maggior parte di questi "fuorilegge" e "criminali" (come li descrive l'Ap) è legata a diverso titolo a Fatah, la fazione di Mahmoud Abbas.
   Ora la "Montagna di Fuoco" minaccia di trasformarsi in un vulcano che sta per eruttare davanti ad Abbas e al governo dell'Autorità palestinese. La situazione dei giorni scorsi a Nablus solleva seri interrogativi sulla capacità dell'Ap di attuare le misure di sicurezza più elementari e contenere le bande armate e i miliziani. Inoltre, la violenza senza precedenti ha ulteriormente distrutto la fiducia dei palestinesi nell'Autorità palestinese e i suoi leader in vista delle elezioni amministrative, fissate per l'8 ottobre. Il sogno di Hamas di estendere il suo controllo alla Cisgiordania ora sembra più realistico che mai. Stando così le cose, Abbas offrirebbe la Cisgiordania a Hamas su un piatto d'argento, a meno che egli non si svegli e si renda conto di aver commesso un grosso errore autorizzando le elezioni amministrative. E la delegazione di imprenditori che ha incontrato Hamas? Si potrebbe immaginare che essi siano abbastanza furbi da evitare investimenti destinati all'insuccesso. Nablus farà sicuramente al caso loro: probabilmente spariranno dal caos dei territori controllati dall'Autorità palestinese. Le cose sono diventate evidenti quando il 18 agosto, nella città vecchia di Nablus, due membri delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese, Shibli bani Shamsiyeh e Mahmoud Taraira, sono stati uccisi in uno scontro con uomini armati. Ore dopo, poliziotti dell'Ap hanno colpito a morte due uomini armati palestinesi accusati di essere coinvolti nell'uccisione degli agenti delle forze di sicurezza. I due sono stati identificati come Khaled Al-Aghbar e Ali Halawah. I familiari di uno dei due uomini hanno accusato l'Autorità palestinese di aver compiuto un'esecuzione sommaria, affermando che i loro congiunti sono stati catturati vivi e solo in seguito uccisi. Hanno anche chiesto l'istituzione di una commissione indipendente d'inchiesta che faccia luce sulle circostanze connesse all'uccisione dei due uomini. E alla richiesta si sono unite le organizzazioni palestinesi per i diritti umani.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 31 agosto 2016 - trad. Angelita La Spada)


Il genio ebraico di Gene e i suoi fratelli

La scomparsa di un attore dalla comicità surreale e principesca. La sua scuola era la migliore: una linea genealogica che parte da Lubitsch, e probabilmente ancora prima dal gigante del muto Erich von Stroheim, e arriva a Billy Wilder, a Mel Brooks, alla produzione migliore di Woody Allen, alla grandissima Nora Ephron.

di Paolo Delgado

Gene Wilder

Sarebbe significativo e quasi magico se Jerome Silberman, scomparso due giorni fa all'età di 83 anni, troppi dei quali spesi a combattere prima la sclerosi multipla e poi l'Alzheimer, avesse scelto il proprio nome d'arte, nel 1959, come omaggio a Billy Wilder. Non è così. Il nome "Gene Wilder" è sì un omaggio, ma a Thornton Wilder, lo scrittore preferito di Jerome/Gene. Giovane attore fresco di metodo e Actor's Studio, figlio e nipote di ebrei russi emigrati nel Wisconsin, Jerome decise di rifarsi il nome perché il suo gli pareva poco adatto a campeggiare nei cartelloni del Macbeth. Poi scoprì che anche il nuovo nome non è che c'azzeccasse molto con il teatro elisabettiano. In compenso era perfetto per quel tipo di comicità tra slapstick e surreale, a volte quasi volgare in apparenza ma sempre principesca nella sostanza, che a Hollywwod contava già un manipolo di autori geniali, quasi tutti ebrei di provenienza russa o mitteleuropea tra cui Billy Wilder. Avevano già piantato le pietre miliari della comicità holywwodiana. Avrebbero continuato a farlo nei decenni seguenti. La scuola di Gene era la migliore: una linea genealogica che parte da Ernst Lubitsch, e probabilmente ancora prima dal gigante del muto Erich Von Stroheim, e arriva a Billy Wilder, a Mel Brooks, alla produzione migliore di Woody Allen, alla grandissima Nora Ephron. Il marchio di Lubitsch era vistosissimo già in The Producers, la prima collaborazione di Gene e Mel Brooks, una di quelle coppie che non riesci a parlare dell'uno senza che ti venga subito in mente l'altro. Si erano conosciuti grazie ad Anne Bancroft, la futura Mrs. Robinson, allora fidanzatina di Mel Brooks e interprete in teatro con Gene del brechtiano Madre Coraggio. Fu amore a prima vista e Brooks, che stava lavorando a Primavera per Hitler, gli promise che se mai fosse riuscito a portarlo sul palcoscenico o sullo schermo lo avrebbe chiamato a interpretarlo. Ci vollero tre anni, e a chiamare Gene per quello che sarebbe diventato l'insuperato capolavoro del politicamente scorretto The Producers, in Italia Per favore non toccate le vecchiette, non fu l'amico Melma un gigante di Broadway come Zero Mostel, uno che aveva visto la carriera stroncata per dieci anni e passa quando, interrogato come sospetto rosso dalla Commissione per le Attività antiamericane, aveva cortesemente declinato l'invito a salvarsi denunciando qualche collega sovversivo: «Sorry, ma la mia religione ebraica non consente delazioni".
  Brooks, Mostel e Wilder resero The Producers tanto immortale che quando nel 2001 lo stesso Brooks decise di portarlo a Broadway fu un trionfo che ancora continua, e il remake diretto per lo schermo dalla coreografa Susan Stroman ha quasi bissato il successo dell'originale. Quel film guardava a Lubtisch, il regista ebreo che nel 1942 aveva sfidato tutti le norme del culturalmente e politicamente accettabile in Vogliamo vivere! (il cui remake proprio Mel Brooks avrebbe interpretato 40 anni dopo): in piena guerra ironizzava su Hitler e sul nazismo, nel cuore del perbenismo americano esaltava l'infedeltà, dimostrava che su tutto si può e si deve saper ridere. Era il degno allievo di quello Stroheim che in Queen Kelly, anno di grazia 1928, aveva diretto la scena a tutt'oggi forse più sfacciata della storia del cinema: quella in cui l'elastico delle mutandine della protagonista, Gloria Swanson, si strappa di fronte al principe e lei, invece di avvampare di vergogna, se le sfila e le lancia al quasi sovrano che, prima di intascarle, non manca di annusarle a fondo. Lubitsch, Billy Wilder, Brooks e Gene Wilder, ciascuno a modo proprio, avevano la stessa capacità di stracciare nei loro film il paravento ipocrita del perbenismo bugiardo. Guardavano la realtà a nudo ma, a differenza del tragico Stroheim, sapevano riderne e usarla per far ridere. Il miglior frutto del sodalizio tra Gene e Mel, Frankenstein jr., scritto a quattro mani partendo da un'idea di Wilder, è un'enciclopedia di tutto quanto fa politicamente scorretto. Entrambi sapevano che per infrangere i pregiudizi sulla deformità, sul colore, sulla razza o sulle tendenze sessuali la strada non è l'imposizione per decreto ma il saperne ridere.
  Come regista Wilder ha diretto quattro film tra cui uno ottimo, Il fratello più furbo di Sherlock Holmes, e uno meno buono ma di grandissimo successo, La signora in rosso. Prima che la sclerosi lo costringesse al ritiro ha avuto tempo di costituire una delle ultime grandi coppie comiche del cinema americano, con Richard Pryor: uno che veniva dal ghetto nero invece che da quelli europei ma condivideva in tutto e per tutto il graffio dissacrante dei grandi comici ebrei come Gene Wilder.

(Il dubbio, 31 agosto 2016)


Ex capo del Mossad Tamir Pardo: la minaccia più grande del paese è la guerra civile non l'Iran

GERUSALEMME - La minaccia più grande per Israele non è l'Iran, ma una potenziale guerra civile. Lo ha dichiarato l'ex capo del Mossad (Istituto per l'intelligence e servizi speciali), Tamir Pardo, nel suo intervento all'annuale commemorazione dei militari drusi caduti nel nord del paese, secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Nella sua prima apparizione pubblica dal suo ritiro avvenuto lo scorso giugno, Pardo ha dichiarato che la minaccia più pressante per Israele non è l'Iran ma la crescente polarizzazione all'interno della società israeliana: "Se una società attraversa una certa linea nelle sue divisioni e di odio, allora vi è una possibilità reale di vedere un fenomeno come una guerra civile. Non c'è una minaccia esterna per l'esistenza di Israele, l'unica vera minaccia esistenziale è la divisione interna". Secondo Pardo, l'attuale divisione interna può portare alla guerra civile e il paese si starebbe già dirigendo in quella direzione. L'ex capo del Mossad ha aggiunto che la società non deve avere solo grandi leadership, ma anche persone disposte a prendersi responsabilità se vuole evitare queste divisioni. Pardo ha anche affrontato la questione palestinese, osservando che senza una soluzione diplomatica del conflitto, Israele non sarà "mai in grado di raggiungere una normalizzazione con i suoi vicini arabi".

(Agenzia Nova, 30 agosto 2016)


E’ normale che chi ha combattuto tutta la vita in tarda età desideri avere finalmente un po’ di pace. Il rischio che sta alla porta è il wishful thinking. M.C.


La fabbrica di Schindler

Sulla strada per diventare un Memoriale dell'Olocausto

di Andreas Pieralli

Oskar Schindler

Quello di trasformare ciò che resta della fabbrica di Schindler in un Memoriale dell'Olocausto era un vecchio progetto. Sin dal 2004 il comune di Brn?nec, un piccolo paese di 1300 abitanti al confine tra Boemia e Moravia, ha cercato di risanare gli edifici, ma la mancanza di fondi, le questioni irrisolte sulla proprietà e la contaminazione chimica dell'area ne hanno ostacolato la realizzazione. Gli storici e gli addetti ai lavori si erano ormai rassegnati al destino del sito industriale di inestimabile valore storico che, fino a qualche anno fa, sembrava destinato alla demolizione.
Questo fino a quando i nuovi proprietari non hanno deciso di donare larga parte del complesso all'Endowment Fund Memorial of Shoah and Oskar Schindler al prezzo simbolico di 1 corona. Il progetto, quindi, ha preso nuova vita, grazie anche allo zelo e all'entusiasmo dello scrittore e attivista Jaroslav Novàk - fondatore e presidente del Fondo. "L'obiettivo è di costruire una copia fedele sulle strutture originali del campo di concentramento, comprese le torre di guardia e gli spazi della fabbrica, il lazzaretto e il campo dei prigionieri" spiega Novàk. "Vogliamo costruire un memoriale dove le persone che verranno a visitarlo si ritroveranno nel 1945 e potranno sentirsi più vicini alle emozioni di coloro che vi furono imprigionati", conclude il presidente del Fondo. Si procederà però per tappe. Adesso, come spiega Novàk, l'obiettivo più importante è di "mettere in sicurezza gli edifici affinché sopravvivano all'inverno".
   Il progetto prevede un'esposizione dedicata alla vita di Oskar Schindler e di sua moglie Emilie e al destino di alcuni prigionieri. Il memoriale, inoltre, dovrebbe ospitare anche altre esposizioni, conferenze ed eventi sul tema. Tra le varie idee, anche quella di utilizzarlo come scenario per i film sull'Olocausto. Nelle immediate vicinanze, invece, è in programma un percorso didattico. Secondo le speranze più ambiziose, l'area ristrutturata e dedicata all'educazione storica e civica delle nuove generazioni potrebbe addirittura diventare una delle principali attrazioni turistiche della Boemia orientale - come si augura Radko Martínek, governatore della regione di Pardubice, che riferisce del vivo interesse per il progetto dei media non solo tedeschi, ma anche statunitensi e sudamericani.
   Rimane per il momento ancora un'incognita. La situazione è critica tenuto conto del pessimo stato degli stabili. Il sindaco di Brn?nec Blahoslav Ka?par e la Regione di Pardubice hanno promesso di aiutare, e già qualcosa è stato fatto - sono state infatti rimosse tonnellate di terreno contaminato. Tuttavia senza un intervento più massiccio dello Stato oppure di donatori privati, difficilmente il progetto vedrà la luce.
Per molti Oskar Schindler, imprenditore tedesco nato a Svitavy, in Moravia, rimane una figura controversa pur avendo salvato centinaia di ebrei. I critici puntano il dito sul fatto che guadagnò ingenti somme sfruttando il lavoro dei prigionieri ebrei. Fu anche membro del partito nazista, oltre che dei servizi segreti militari tedeschi. Ma, com'è nello spirito del progetto della Foresta dei Giusti, è solo guardando al Bene nell'uomo che possiamo superare il Male che porta dentro di sé. Schindler è passato alla storia per aver fatto spostare più di 1100 ebrei dalla sua fabbrica di oggetti smaltati di Cracovia, salvandoli dalla morte certa che li attendeva in Polonia. Rimasto scioccato nel 1942 dal rastrellamento del ghetto ebraico di Cracovia di cui fu testimone, Schindler decise di aiutare i "suoi" ebrei portandoli nella sua fabbrica di Brn?nec, oggi in Repubblica Ceca, divenuta più tardi un'importante fabbrica tessile, dove i prigionieri ebrei avrebbero trovato rifugio producendo munizioni antiaereo.
   Nel 1993 la storia di Schindler è diventata celebre in tutto il mondo grazie al film Schindler's List di Steven Spielberg, basato sull'omonimo romanzo dello scrittore australiano Thomas Keneally. Per aver salvato complessivamente 1200 ebrei, il 18 luglio 1967 la commissione dello Yad Vashem lo ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni, decisione confermata ed estesa alla moglie Emilie nel 1993. Come da lui stesso richiesto, le spoglie mortali di Oskar Schindler riposano in un cimitero cattolico di Gerusalemme.

(Gariwo, 30 agosto 2016)


Bimbi bravi 'pedoni' per la strada, ma il cellulare li mette a rischio

ROMA - I bambini sono bravi pedoni? I ricercatori della Ben-Gurion University in Israele hanno stabilito che la capacità dei più piccoli di attraversare in sicurezza la strada viene maggiormente ostacolata durante una chiamata al cellulare rispetto a quanto avvenga per un adulto. Lo studio sarà pubblicato sul numero di novembre 2016 di 'Safety Science'.
   Tal Oron-Gilad, ricercatore di Ingegneria Gestionale dell'ateneo israeliano, fa notare che "più di un terzo delle morti per incidenti stradali nei Paesi a basso e medio reddito sono tra i pedoni, soprattutto bambini, che oggi hanno sempre più accesso ai telefoni cellulari". Ecco perché gli studiosi hanno voluto approfondire il tema: lo studio è stato condotto presso il laboratorio virtuale della struttura, uno dei più sofisticati del mondo e che consente ai ricercatori di misurare le reazioni pedonali a scenari di realtà virtuale.
   Il simulatore è stato utilizzato con 14 adulti e 38 bambini, che hanno sperimentato scenari di attraversamento stradale durante delle conversazioni telefoniche: sono stati invitati a premere il pulsante di risposta ogni volta che ritenevano che fosse sicuro attraversare la strada, mentre i ricercatori monitoravano i loro movimenti oculari. "I risultati hanno confermato che i bambini avevano più probabilità di distrazione", dice Oron-Gilad. "Occorre sensibilizzare l'opinione pubblica su questo problema, soprattutto nei luoghi dove i bambini tornano a casa da scuola da soli", conclude.

(Adnkronos, 30 agosto 2016)


Museo 2.0 per l'ebraismo italiano. «Sarà un cantiere aperto sul futuro»

Della Seta, direttrice del Meis di Ferrara: «Cerco un pubblico nuovo»

di Pierfrancesco Giannangeli

Incontro millenario
L'abbraccio della fede giudaica con il nostro Paese è una delle radici del mondo occidentale
Strategie di dialogo
Anche musica, teatro e cinema per arrivare al cuore delle persone.
L'evento
Il 3 settembre la festa del libro ebraico. «Ma non guardiamo solo al passato»

 
FERRARA - Fino allo scorso anno è stata Consigliere per gli affari culturali all'ambasciata d'Italia in Israele. Fino al 2014, invece, è stata direttore generale della Fondazione Italia-Israele per la cultura e le arti, e ancora prima, dal 2004 al 2008, direttore di chiara fama dell'Istituto italiano di cultura in Israele. Studiosa (un passato al fianco dello storico Renzo De Felice) e giornalista, Simonetta Della Seta da metà aprile è la nuova direttrice del Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (Meis). È, in sostanza, la custode di duemila e duecento anni di storia degli ebrei in Italia, e la promotrice di un'istituzione culturale che intende essere sempre più dinamica e in empatia con i visitatori, nella logica del museo 2.0. Alla vigilia della Festa del libro ebraico, il 3 e il 4 settembre, Della Seta illustra la sua idea del Meis, da oggi al 2020. A partire dalla tavola rotonda che, nella domenica della Festa, metterà insieme alcuni tra i più importanti direttori dei musei ebraici in Europa e in Israele.

- Della Seta, qual è il futuro dei musei ebraici?
  «I musei oggi non sono luoghi del passato, di oggetti in vetrina, ma poli esperienziali che servono a sollecitare curiosità, a stuzzicare l'identità delle persone, ad aggiungere storie alla nostra conoscenza. Sono luoghi di suggestione, tanto più un museo ebraico».

- Al centro dell'ebraismo c'è il porsi domande: a maggior ragione un museo dedicato non può essere luogo di certezze, ma di interrogativi aperti.
  «Le domande comunque sono tante. Come gli ebrei vogliono raccontare loro stessi, ma anche cosa gli altri vogliono sapere degli ebrei. E poi, come si fa a far nascere una vera curiosità intorno all'ebraismo, che non sia politica e legata a una congettura del momento? Insomma, qual è la scintilla che può attirare tutti, di qualsiasi età?».

- Quali sono i passi che ha in mente per il Meis?
  «Innanzitutto c'è uno stadio regionale. Crescendo, spero che il Meis possa dialogare con tutti i centri culturali dell'Emilia Romagna e del centro nord, creando sinergie. Poi c'è un discorso nazionale su questo polo che sta nascendo, su come può attirare gli italiani e porsi negli itinerari culturali. In questo senso sto lavorando per un accordo con il Miur al fine di portare giovani e creare attività didattiche e pedagogiche. Infine il pubblico internazionale. Questo è un cantiere doppio, di spazi e di contenuti. E un posto nuovo, che deve attirare anche i non ebrei, per diventare un luogo europeo e un punto di riferimento anche dall'altra parte dell'Atlantico. Questo grande abbraccio millenario dell'ebraismo con l'Italia è la radice del mondo occidentale».

- Allora quali strategie mettere in campo per arrivare ai risultati?
  «Nuove tecnologie e rigore. Gli strumenti della tecnologia rendono efficace l'interpretazione degli oggetti e li fanno arrivare vicino al cuore delle persone. Poi sto attirando attorno al Meis esperti di storia, museologia, allestimenti, ma anche di racconti. Perché gli oggetti stanno al loro posto e devono stimolare il dibattito, ma alle persone si arriva soprattutto con le storie, quindi l'arte, la musica, il teatro, il cinema».

- In questo contesto, come si colloca l'imminente Festa del libro ebraico?
  «E un appuntamento che ho trovato e che non ho voluto smantellare, perché il mio obiettivo è di costruire su ciò che hanno fatto gli altri. Ho solo cercato di infondere in questo appuntamento un nuovo spirito di incontro, a partire dalla copertina del programma, fatta di lettere ebraiche che scendono su Ferrara. Altro pilastro è fare di questo appuntamento un momento di laboratorio per il nuovo Meis, e il convegno internazionale ne è una testimonianza».

(Nazione-Carlino-Giorno, 30 agosto 2016)


Così la Francia cerca di rifondare un "islam repubblicano"

Formazione degli imam, adozione del modello di rapporti stato-religione usato per cristiani ed ebrei, divieto dei fondi esteri per la costruzione e il finanziamento delle moschee. Dopo infiniti tentativi falliti, Parigi tenta un approccio più intransigente per la creazione di un "islam di Francia".

di Mauro Zanon

Parigi. Per l'ex ministro dell'Interno, Jean-Pierre Chevenèment, è "una causa nazionale che deve riunire la sinistra e la destra"; per l'attuale inquilino di Place Beauvau, Bernard Cazeneuve, si tratta di "una nuova tappa per riuscire la costruzione di un islam di Francia nel rispetto dei valori della République". Lo stato francese e i rappresentanti della comunità musulmana hanno (ri)lanciato ieri la grande marcia verso la costruzione del tanto agognato "islam di Francia", precisando i contorni della futura Fondation pour l'islam de France, che vedrà la luce il prossimo autunno. Si tratta del segnale più importante lanciato dal governo socialista dopo i tanti, troppi proclami di questi due anni, un segnale che porta la firma di Bernard Cazeneuve, il ministro più solido dell'esecutivo fino alle polemiche attorno al dispositivo di sicurezza durante gli attentati di Nizza che hanno rischiato di farlo saltare, ora consapevole di intestarsi la più importante sfida del quinquennato di Hollande. Sullo sfondo delle aspre polemiche sul burkini e al termine di un'estate marcata dagli attentati jihadisti di Nizza e di Sainte-Etienne-du-Rouvray, Cazeneuve ha aperto le porte del suo ministero per una serie di "consultazioni" sia con i membri del Conseil français du culte musulman (Cfcm), organo ufficiale riconosciuto dalla République in materia di islam, sia con "personalità della società civile", parlamentari e figure del mondo dell'impresa.
   Quella di ieri è stata la giornata più importante da quando, lo scorso luglio, erano apparse sul Canard Enchainé le prime indiscrezioni attorno all'idea di un concordato tra islam e République, E non solo perché Cazeneuve ha fornito dettagli precisi, date e nomi riguardanti la costruzione della nuova Fondation pour islam de France - la prima, nata nel 2005 per volontà dell'allora primo ministro Dominique de Villepin e chiamata Fondation des oeuvres de l'islam (Foìf), era stata pensata come cassa di finanziamento del Cfcm, ma si è sgretolata su sé stessa vittima delle divisioni interne alla comunità musulmana - ma anche perché, per la prima volta, è parsa esserci la volontà di viaggiare nello stesso senso di marcia tra stato e rappresentanti del culto musulmano, e alla stessa velocità.
   "E' un'opera di ampio respiro", ha dichiarato Chevènement, ex candidato alle presidenziali e grande figura della gauche sovranista che assumerà il prossimo novembre le redini della fondazione. Giunto all'hotel de Beauvau, Chevènement ha tagliato corto sulle polemiche che lo hanno visto protagonista la scorsa settimana quando il suo appello alla "discrezione" nello spazio pubblico rivolto ai musulmani è stato manipolato e trasformato in appello "islamofobo", sottolineando invece che è stato il primo a lavorare per la costruzione di un "islam di Francia": nel 1999, quando da ministro dell'Interno avviò la prima "consultazione dei musulmani di Francia", che portò nel 2003 alla nascita del Cfcm. Accanto a Chevènement, sederanno, tra gli altri, lo scrittore Premio Goncourt Tahar Ben Jelloun, l'islamologo riformatore Ghaleb Bencheickh, il rettore della grande moschea di Lione, Kamel Kabtane, e imprenditrice musulmana Najoua Arduini-Elaftani.
   In ragione della legge del 1905 sulla separazione tra stato e culti, la Fondation de l'islam de France permetterà di raccogliere finanziamenti per progetti esclusivamente profani: sovvenzioni di tesi di ricerca sull'islam, borse di studio, formazione profana degli imam e dei cappellani nelle carceri. Accanto a essa, come prescritto dalla medesima legge sulla laicità, sarà un'associazione cultuale, amministrata da rappresentanti della comunità musulmana, a occuparsi del capitolo religioso, quindi della fondazione delle moschee e della formazione religiosa degli imam. "La Fondation, laica, di utilità pubblica, non potrà finanziare il culto, ossia la costruzione delle moschee o la formazione teologica degli imam. Avrà per vocazione quella di sostenere i progetti nei settori dell'educazione, della cultura, delle attività dei giovani, potrà incaricarsi della formazione profana degli imam, dello sviluppo della ricerca in islamologia", ha spiegato Cazeneuve al quotidiano cattolico La Croix.

 Nessun finanziamento dall'estero
  L'organo, pensato sul modello delle fondazioni di utilità pubblica già esistenti come quella del giudaismo francese, del protestantesimo o della Fondation Notre-Dame, beneficerà di fondi pubblici per il suo avvio, accanto a finanziamenti provenienti dalle imprese e da privati", ha aggiunto il ministro dell'Interno. Né la fondazione laica, né l'associazione cultuale saranno autorizzate a ricevere finanziamenti dall'estero, in quanto considerati poco trasparenti e difficilmente compatibili con il progetto di un islam repubblicano.
   "Questo divieto verrà inserita nel loro statuto", ha precisato Cazeneuve. Il cda della Fondation pour l'islam de France sarà composto da undici persone, tra le quali il presidente del Cfcm, Anouar Kbibech, e tre rappresentanti dello stato. Assieme al cda, vi sarà un "consiglio di orientamento", formato da una ventina di persone tra avvocati, professori, dirigenti e altri attori della società civile, che avrà il compito di cercare i progetti da finanziare. "Dare alle istituzioni musulmane i mezzi finanziari contribuirà a rafforzare il loro ruolo nella prevenzione della radicalizzazione, in particolare attraverso l'abilitazione degli imam", ha dichiarato Anouar Kbibech a margine dell'incontro a Place Beauvau. Secondo Kbibech, per questa fondazione, "tutti lavorano con uno spirito costruttivo, affinché questa sia la volta buona". Per Cazeneuve, che su questa sfida si gioca il suo futuro, la rifondazione dell'islam di Francia "comporta che tutti i musulmani, con l'insieme dei francesi, si impegnino in una difesa totale della République dinanzi al terrorismo e al salafismo, perché appartengono a essa prima di tutto".

(Il Foglio, 30 agosto 2016)


L'eroe scout palestinese che ha assassinato mio padre

Quello che segue è il testo della lettera che ho inviato a Scott Teare, Segretario generale dell'Organizzazione Mondiale del Movimento Scout, l'organizzazione-ombrello che raccoglie 64 organizzazioni scoutistiche nazionali, tra cui la Tzofim israeliana (in Italia le associazioni scout riconosciute dall'Organizzazione Mondiale del Movimento Scout sono AGESCI e CNGEI, riunite nella Federazione Italiana dello Scoutismo).

Caro signor Teare,
il 13 ottobre 2015 Baha Alyan e un suo complice sono saliti a bordo dell'autobus numero 78, a Gerusalemme, e hanno perpetrato un efferato attacco terroristico assassinando brutalmente tre civili innocenti e ferendone altri quindici. Il mio amato padre, Richard Lakin, 76 anni, è tra quelli che sono stati uccisi. Alyan e il suo complice hanno sparato alla testa di mio padre e poi, dopo che era caduto a terra, lo hanno ripetutamente pugnalato al capo, al volto, al petto e al ventre colpendo la maggior parte dei suoi organi vitali....

(israele.net, 30 agosto 2016)


Il link-spia israeliano al servizio degli Emirati

Aziende di Tel Aviv vendono alle polizie politiche straniere tecnologie di spionaggio frutto del know-how della nota unità 8200 dell'esercito.

di Michele Giorgio

Ahmad Mansour

GERUSALEMME - Ahmad Mansour se l'è vista brutta negli ultimi anni. All'inizio del 2011, dopo aver firmato una petizione che chiedeva riforme democratiche ai ricchi regnanti di Dubai, Abu Dhabi e degli altri Emirati, fu travolto da una campagna diffamatoria online orchestrata dall'apparato di sicurezza. Twitter, Facebook, televisione e radio diffusero informazioni false su di lui. Lo fecero passare per un degenerato nemico dello Stato. Poi ad aprile venne incarcerato per quasi otto mesi per aver «insultato i governanti». Infine a novembre fu condannato a tre anni per lo stesso "reato". Le proteste internazionali lo salvarono dalla prigione.
   Da allora Mansour prosegue, tra mille ostacoli e minacce, la sua attività a difesa dei diritti umani. Sa che i servizi di sicurezza lo tengono costantemente sotto controllo. Così quando qualche settimana fa ha ricevuto un sms sospetto con l'invito a cliccare su un link, ha deciso di rivolgersi al Citizen Lab (un gruppo di esperti di sicurezza dell'Università di Toronto). Un eccesso di cautela che si è rivelato provvidenziale.
   Se avesse cliccato quel link, gli hanno spiegato, il suo iPhone 6, grazie a uno spyware (un programma di spionaggio), sarebbe diventato uno strumento perfetto per sorvegliarlo in tutto: gli spostamenti, i messaggi inviati e ricevuti, le telefonate. E, sorpresa tra le sorprese, dietro allo spyware utilizzato dalla polizia politica degli Emirati per tenerlo sotto controllo, c'è il Nso Group, una società israeliana specializzata nella vendita di software spia che impiega ex membri dell'unità 8200 dell'intelligence militare incaricata di intercettare le comunicazioni elettroniche: email, socia! network e telefonate. Lo scopo principale della 8200, ha scritto in passato la stampa israeliana, è quello di «controllare ogni aspetto della vita dei palestinesi».
   Registra qualsiasi dettaglio «dannoso» alle loro vite - preferenze sessuali, problemi finanziari, malattie e relazioni extraconiugali - per servirsene, a tempo debito, «per estorcere o ricattare le persone». Tra le telefonate intercettate con più regolarità ci sarebbero proprio quelle a sfondo sessuale. «Nell'intelligence i palestinesi non hanno alcun diritto - spiegò Nadav, un sergente al quotidiano britannico Guardian, dopo il dissenso espresso due anni fa da 43 membri dell'unità 8200- Non è come per i cittadini israeliani: se si vogliono raccogliere informazioni su di loro, è necessario andare in tribunale». I dati raccolti servono in molti casi a far diventare determinate persone spie dell'occupante, minacciando di rivelare fatti personali delicati. L'attivista degli Emirati Ahmad Mansour perciò doveva diventare un libro aperto e ricattabile per i suoi controllori e la Nso ha messo a disposizione dei servizi di sicurezza degli Emirati, ufficialmente ancora "nemici" di Israele, il software giusto, Pegasus. Il mondo è rimasto all'oscuro per settimane. I possessori di un iPhone o di un iPad hanno installato su suggerimento della Apple un aggiornamento di emergenza, iOS 9.3.5, senza sapere che risolve tre punti deboli, sfruttati da Pegasus, del sistema operativo del gigante di Cupertino.
   La vicenda di Mansour e la vulnerabilità nel sistema di sicurezza della Apple hanno acceso i riflettori su questo settore dell'economia israeliana che viaggia a gonfie vele. Il Nso Group, con sede a Herzliya - ora di proprietà della società statunitense Francisco Partners Management - opera in completa segretezza. Non ha nemmeno un sito web ed è una delle 27 società di sorveglianza elettronica con sede in Israele, secondo i dati contenuti in un recente rapporto della Ong britannica Privacy International. In Israele la percentuale di tali imprese è dello 0,33 ogni 100.000 persone (negli Stati Uniti è dello 0,04). Tutte queste società affermano di lavorare contro il crimine e il terrorismo. Parole magiche di questi tempi, specie perché arrivano da Israele indicato come «modello di sicurezza» dall'Europa e dagli Usa mentre gli attivisti dei diritti umani lanciano l'allarme sulla scarsa attenzione nei confronti dell'abuso di tale tecnologia da parte di governi che intendono colpire oppositori e dissidenti.
   Le competenze di Israele derivano in parte dal suo esercito che investe generosamente nella cosiddetta cyberguerra. L'unità 8200 è considerata un laboratorio per le future start-up. Dopo aver lasciato il servizio militare, i suoi membri sfruttano le loro conoscenze per fondare aziende o farsi assumere da quelle esistenti, più di 300, che per la maggior parte producono programmi per proteggere le istituzioni pubbliche dagli attacchi informatici. «Il 10% di queste aziende invece lavora a tecnologie che consentono l'infiltrazione dei sistemi informatici», spiega Daniel Cohen, esperto israeliano di cyberguerra. Secondo Privacy International, tali imprese hanno fornito la tecnologia per monitorare Internet e la telefonia mobile alla polizia segreta in Uzbekistan e Kazakhstan, così come alle forze di sicurezza di Colombia, Trinidad e Tobago, Uganda, Panama e Messico.

(il manifesto, 30 agosto 2016)


L'agonia della Lega Araba

Lo scorso 25 luglio, in Mauritania, ha avuto luogo il ventisettesimo summit della Lega Araba.
   Si tratta di una organizzazione internazionale nata al Cairo nel 1945, e di cui fanno parte 22 nazioni arabe, incluse Somalia, Sudan, Mauritania, Gibuti e le Comore. Il suo scopo è quello di rafforzare le relazioni, promuovere gli interessi comuni e coordinare le politiche dei paesi membri.
   L'agenda del summit, tenutosi sotto una grande tenda nella capitale mauritana, era apparentemente fitta; tema centrale di discussione era la minaccia del terrorismo, per poi toccare le crisi di Siria, Iraq, Yemen e Libia, terminando con "un classico", ovvero la questione palestinese.
   Il primo ministro egiziano ha evidenziato la necessità di una "strategia araba" per contrastare il terrorismo e la radicalizzazione, peraltro imputandone le cause principalmente alle ingerenze straniere in Medio Oriente. Il presidente yemenita Hadi ha invece lanciato un appello invitando i ribelli houthi alla resa, mentre il ministro degli esteri saudita ha ribadito che non potrà esserci soluzione alla crisi siriana finchè al Assad rimarrà al potere. Infine, il segretario generale della Lega Araba ha rimarcato il supporto all'ultima iniziativa francese diretta a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese.
   In realtà, il summit è stato un fallimento, tanto che si è deciso di terminarlo con un giorno di anticipo.
   Infatti, vi hanno partecipato solo sette capi di stato ed erano assenti gli attori principali come il presidente egiziano al Sisi, quello palestinese Abbas, il re saudita Salman e quello di Giordania Abdullah II; nonostante il mandato d'arresto internazionale per crimini contro l'umanità si è invece presentato il presidente sudanese al Bashir.
   Inoltre, non si è andati al di là di vaghe, vuote e più volte ripetute dichiarazioni d'intenti. Ad esempio, non è stato affrontato un tema centrale e concreto, come quello del progetto di creare una forza di difesa comune inter-araba. Poi, durante i lavori preparatori, sono emerse inconciliabili divisioni: ad esempio l'Iraq si è dissociato dalla richiesta saudita di condanna dell'Iran, mentre i sauditi hanno preferito svicolare in merito alla condanna della recente incursione turca nel Kurdistan iracheno.
   Dunque il summit, che dovrebbe rispecchiare l'identità e l'unità araba, invece ne dimostra l'incapacità di affrontare le gravissime divisioni interne e crisi non solo politiche e di sicurezza, ma anche sociali ed economiche. Infatti, sintetizzando la situazione alla luce del fallimento del summit, emergono quattro considerazioni principali.
   La prima è che il mondo arabo è diviso, sulla base di alleanze regionali fondate sulla polarizzazione politica, religiosa e petrolifera tra Arabia Saudita e Iran.
   Secondariamente, il teatro mediorientale vede come attori principali paesi non arabi, come Iran, Turchia, Stati Uniti e Russia. In altri termini, in Medio Oriente, c'è un vuoto di potere che qualche anno fa ha facilitato l'affermazione del Da'ish, oggi favorisce ingerenze esterne e guerre civili, un domani forse porterà alla disintegrazione di molti degli stati che oggi conosciamo.
   In terza battuta, i governi sembra ben poco riescano a fare per affrontare i problemi politici, economici e sociali che hanno portato alla Primavera Araba; infatti, mentre molti paesi sono dilaniati da guerre civili od oppressi da dittature, in pochi tentano delle riforme, fra cui la Tunisia in politica e l'Arabia Saudita nel settore economico.
   Infine, la Lega Araba, già da tempo in profonda crisi di legittimazione, è ormai esautorata da alleanze regionali e organizzazioni come il Consiglio di Cooperazione del Golfo.
   Eppure, a fronte di un quadro così critico, la dichiarazione emessa durante il summit che ha fatto più scalpore è quella di un ministro libanese; lamentandosi delle strutture ospitanti ha definito "miserabile" la Mauritania. Altro che fratellanza araba.

(Qui Finanza, 30 agosto 2016)


Turchia-Israele: possibile scambio di ambasciatori nelle prossime settimane

ANKARA - Il diplomatico israeliano ha ricordato che attraverso la fiducia reciproca Turchia e Israele "potranno condividere aspirazioni ed interessi comuni". I tre aspetti più significativi su cui i due paesi lavoreranno in futuro sono l'aumento delle relazioni economiche, l'energia e la condivisione di informazioni. Secondo Oron, il valore degli scambi tra Turchia e Israele potrebbe raggiungere gli 8 miliardi di dollari. Sul piano energetico invece, l'inviato israeliano ha ricordato che le riserve di gas naturale nel Mediterraneo orientale rappresentano un nuovo aspetto delle relazioni tra Ankara e Gerusalemme. Il diplomatico ha osservato che diverse aziende turche e israeliane stanno discutendo la realizzazione di un gasdotto tra Israele e Turchia per il trasporto del gas naturale del giacimento di Leviathan verso l'Europa. "Questo è un accordo strategico che permetterà le esportazioni di gas di Israele verso la Turchia e ciò rappresenta un altro vantaggio per Israele", ha aggiunto Oron.

(Agenzia Nova, 29 agosto 2016)


Il video del lottatore iraniano costretto a non lottare contro un israeliano

Fa parte di un documentario di Al Jazeera del 2013, sta tornando a girare in queste ore: l'allenatore gli spiega che dovrà fingere un infortunio e lui si dispera.

Negli ultimi giorni è tornata a girare online una scena di un documentario di Al Jazeera del 2013. Il documentario mostra la preparazione di tre giovani atleti iraniani di lotta libera in vista dei Mondiali di Lotta tenuti a Budapest, in Ungheria, nel settembre di quell'anno. Nella scena che sta girando online, pubblicata dall'account Facebook Al Jazeera Witness, si vede un allenatore spiegare a un giovane lottatore - Peyman Yarahmadi - che dovrà fingere un infortunio per non combattere contro un avversario israeliano nella fase finale del torneo.
Per tutta la scena l'allenatore tiene una busta del ghiaccio sul polso destro del ragazzo, così da rendere più credibile la bugia dell'infortunio. Fra le altre cose, l'allenatore spiega a Yarahmadi che nel caso decida di lottare il suo nome sarà "cancellato per sempre" da quello della squadra. Il ragazzo piange ma apparentemente accetta la decisione dell'allenatore. Sin dalla Rivoluzione khomeinista del 1979, l'Iran non riconosce l'esistenza di Israele: non è raro che i suoi atleti rifiutino di combattere contro avversari israeliani in competizioni internazionali.
Non è chiaro perché il video sia tornato a circolare a tre anni di distanza dalla sua pubblicazione. Forse c'entra uno degli episodi extra-sportivi di cui più si è parlato durante le Olimpiadi appena concluse: la decisione del judoka egiziano Islam el Shehaby di non stringere la mano al suo avversario israeliano Or Sasson dopo aver perso l'incontro degli ottavi di finale della categoria sopra i 100 chili. Il Comitato Olimpico Internazionale ha condannato l'atteggiamento di el Shehaby, ma la federazione egiziana di judo non sembra averlo squalificato o multato.
Yarahmadi, che oggi ha 22 anni, ha proseguito poi con successo la sua carriera: come ha ricostruito il sito israeliano Israellycool, nel 2015 ha vinto i Campionati Asiatici nella categoria sotto ai 74 chili, anche se quest'anno non ha partecipato alle Olimpiadi, non è chiaro per quale motivo.

(il Post, 29 agosto 2016)


Rosenthal, il bomber ebreo e quelle svastiche a Udine. «Io, ripudiato e fortunato»

di Paolo Tomaselli

Il figlio al Watford
Mio figlio giocava nel Watford della famiglia Pozzo, ma non abbiamo parlato di quella storia
Trappola ad Haifa
Gli azzurri giocano a casa mia: Israele è un po' leggera come squadra, ma ha molto entusiasmo

«Il mio sogno era quello di giocare in Italia, non vedevo l'ora: nel 1989 il vostro campionato era il più bello del mondo. L'Udinese mi aveva già presentato, poi all'improvviso si appigliò a un difetto congenito che avevo alla schiena, che però non mi ha mai impedito di fare una bella carriera, né prima né dopo. In quei giorni sui muri della città comparvero alcune svastiche e scritte razziste contro di me, israeliano ed ebreo. Ma non ho mai creduto che l'Udinese mi avesse scaricato per questo, perché si era spaventata: magari mi sbaglio, ma credo che fosse più che altro una questione d'affari. Hanno avuto l'occasione di prendere Abel Balbo e l'hanno sfruttata, senza rispettare gli accordi presi con me».
   Come tutti i ragazzi israeliani, Ronny Rosenthal ha fatto la leva obbligatoria per tre anni. Tra Belgio, Inghilterra e Nazionale, ha costruito un percorso di tutto rispetto, da centravanti potente e combattivo. Il suo arrivo a Udine - e soprattutto il suo burrascoso addio a presentazione già avvenuta - è rimasto nella memoria come il primo clamoroso caso di razzismo legato a un giocatore straniero in arrivo nel nostro campionato. Ci furono delle interrogazioni parlamentari, sia a Roma che a Tel Aviv. Il centravanti israeliano fece causa al club di Giampaolo Pozzo e ottenne presto un risarcimento di 60 milioni di lire.
   Da anni Rosenthal fa lo scopritore di talenti in giro per l'Europa: «Kompany e Berbatov i miei colpi migliori». E non ha rimpianti: «Ho sempre amato molto l'Italia. E quell'episodio, che al momento mi aveva amareggiato e disorientato, si è rivelato invece la mia fortuna: andare a giocare in Inghilterra mi ha cambiato la vita. È stato un vero happy end».
   La vicenda ha anche un lato ironico: dopo gli anni d'oro al Liverpool («Il club della mia vita») e al Tottenham, Rosenthal ha chiuso la carriera nel Watford, oggi di proprietà della famiglia Pozzo assieme all'Udinese. Non solo: «Mio figlio Tom era uno dei talenti del vivaio del Watford quando il club era stato già comprato dagli italiani e poi è stato venduto in Belgio, in una normale operazione di mercato. Ho anche parlato con Gino, il figlio di Giampaolo. Lui era un ragazzo nel 1989, chissà se si ricorda di me. In ogni caso non abbiamo parlato di quella storia. Ammiro l'Udinese per come è cresciuta, per i giocatori fantastici che ha avuto in questi anni e per come si muove sul mercato: oggi una vicenda come quella di allora non si ripeterebbe, c'è molta più professionalità».
   Tra una settimana gli azzurri giocano ad Haifa, la città di Rosen thal che con Israele ha giocato 60 partite, segnando 11 gol. Per l'ex centravanti è l'occasione anche di fare un paragone tra la sua squadra, che sfiorò le qualificazioni ai Mondiali del go e del 94 e quella di oggi: «Conosco bene il commissario tecnico Alon Hazan, perché siamo stati compagni di squadra e lui era un bel centrocampista: ama giocare il pallone. Israele è una buona squadra, ma non molto più di questo: il problema del nostro calcio sono le accademie giovanili che non preparano atleti di alto livello. Qualcosa si sta muovendo, anche a livello di infrastrutture: l'Italia giocherà in uno stadio modernissimo e con un pubblico molto caloroso. Ma si è lavorato poco sui ragazzi, importando troppi stranieri per cercare di fare strada nelle coppe europee. I nostri calciatori hanno mediamente un certo talento tecnico, ma per giocare a livello internazionale servono più forza, più aggressività, più resistenza».
   Squadra leggerina insomma, quella israeliana. Nel girone con Italia e Spagna sarà difficile ripetere certe imprese come quella del Parco dei Principi nel 1993, con la vittoria sulla Francia 3-2, in cui Rosenthal fece 3 assist decisivi: «Quello è uno dei ricordi migliori, ma forse il punto più alto fu lo spareggio del 1989 contro la Colombia per andare a Italia go: fummo molto sfortunati. Israele ha vinto anche una Coppa d'Asia, poi l'ingresso nella Uefa nel 1994 ha complicato le cose. Ma un percorso come quello dell'Islanda all'Europeo ci ha insegnato che anche un piccolo Paese può emergere: però servono tempo e programmazione, una vittoria ogni 10 anni, anche se di prestigio, non serve a nulla. Per questo dobbiamo ritrovare solidità e continuità. Ma so comunque che per la sfida all'Italia c'è grande entusiasmo: gli azzurri sono più forti, ma devono fare attenzione perché gli israeliani sono molto motivati. Tutto può succedere».
   Succede anche che la Palestina abbia chiesto l'esclusione dalle competizioni per Israele, per i troppi casi di razzismo nel suo calcio. L'allora presidente della Fifa Blatter ha incontrato il premier Netanyahu, per organizzare in futuro una partita della pace e allentare la tensione: «Il calcio è sempre più avanti della politica: lo prova il fatto che nella squadra israeliana ci sono giocatori musulmani. E diversi ebrei giocano nei club di matrice araba. Non dobbiamo mischiare calcio e politica. Nei miei giorni turbolenti e un po' assurdi di Udine ho imparato anche questo».

(Corriere della Sera, 29 agosto 2016)


"Con la Festa del Libro ebraico, il Meis è sempre più una realtà"

 
Una tappa importante per raccontare alla città e all'Italia il percorso di avvicinamento del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah verso il traguardo più importante, l'inaugurazione. Questo il leit motiv sottolineato dagli interventi alla conferenza stampa di presentazione della Festa del Libro ebraico di Ferrara, che aprirà i battenti la sera di sabato 3 settembre. A raccontare questa nuova edizione della Festa - organizzata dalla Fondazione Meis, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell'Unione delle comunità ebraiche italiane e della Comunità ebraica di Ferrara - il presidente del Meis Dario Disegni, la direttrice Simonetta Della Seta assieme al sindaco Tiziano Tagliani e al vicesindaco Massimo Maisto. A loro fianco, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara Andrea Pesaro e il rappresentante del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo Daniele Ravenna. "È un onore e una grande responsabilità questa Festa che ci permette di raccontare alla città e all'intero Paese a che punto siamo con questo grande e importante progetto che è il museo del Meis, di cui si sta avvicinando l'apertura", ha spiegato il vicesindaco Maisto in apertura della conferenza, tenutasi nelle scorse ore nella prestigiosa sala degli Arazzi della residenza municipale. "La grande differenza rispetto al passato è il più forte collegamento tra la Festa e il Meis", ha sottolineato Disegni, spiegando che "oggi la Festa sarà il momento per annunciare l'apertura del museo, che avverrà nel settembre 2017, con una grande mostra a cui sta lavorando un gruppo di esperti". "I lavori al cantiere procedono spediti, - ha aggiunto Disegni - sotto la guida dell'architetto Carla Di Francesco e grazie al generosissimo contributo del MIBACT che, nell'ambito del piano approvato lo scorso maggio dal CIPE, ha stanziato 25 milioni di euro per finanziare il completamento del progetto, previsto nel 2020". Una grande responsabilità e un forte segno di fiducia da parte del Ministero, per un Museo che, ha spiegato la direttrice Della Seta, vuole essere una realtà che parla sia al mondo ebraico che a tutta la società civile, italiana e internazionale. "In questo momento abbiamo due cantieri: quello architettonico e quello delle idee, di preparazione dei contenuti del nuovo Museo - ha sottolineato Della Seta - La Festa esisteva già prima del nostro arrivo, ma abbiamo voluto valorizzarla, per far incontrare Ferrara e il mondo dell'ebraismo, e per dare vita a un laboratorio di pensiero allargato, che abbia come cuore il Meis. Autori, artisti, direttori di musei e festival ebraici, figure di primo piano come Anna Foa, Sergio Minerbi, Elena Loewenthal saranno qui, verranno appositamente a Ferrara per la Festa e per il Museo, per parlare in modo vivo della cultura ebraica, per promuovere l'abbraccio tra due culture, parlare anche ai non ebrei, passando per il Talmud, la storia. L'incontro su "La partecipazione degli ebrei italiani alla Prima guerra mondiale" sarà, ad esempio, il prologo della conferenza internazionale sulla partecipazione al conflitto degli ebrei europei, che in primavera vedrà proprio Ferrara e il Meis capofila".
  "La Festa del Libro Ebraico per noi è un momento strano, che ci porta nel passato, a quando l'ebraismo era un aspetto importante nella vita ferrarese, e al contempo nel futuro, perché questa presenza possa tornare con forza", le parole di augurio del presidente della Comunità ebraica Andrea Pesaro mentre a ribadire l'impegno del Mibact è stato Daniele Ravenna: "Porto i saluti del Ministro Dario Franceschini, che segue il Meis da lontano, ma con grande attenzione. E confermo l'impegno del Mibact a portare a termine il percorso di questo nuovo Museo nazionale, che dovrà inserirsi nella rete dei musei internazionali". Un auspicio richiamato anche dal sindaco Tagliani: "Vorrei che, attraverso il Meis, Ferrara riscoprisse le proprie radici culturali e civili. In questo senso, il Museo è una sfida a far crescere, in parallelo all'istituzione, anche la nostra comunità, a scoprire il valore delle differenze e del dialogo".
  Parlando del programma, primo e atteso appuntamento della Festa (che aprirà ufficialmente alle 21 di sabato), il concerto del israelo-americano Avishai Cohen Quartet che, in collaborazione con il Jazz club Ferrara, suonerà nel giardino di Palazzo Roverella. Alla stessa ora, ingresso gratuito negli attuali spazi temporanei del Museo (via Piangipane 81), tra la mostra "Torah fonte di vita", dove è esposta parte della collezione del Museo della Comunità ebraica di Ferrara, e "Omaggio a Giorgio Bassani" di Ferrara Off, che fa tappa al bookshop del Meis con la propria biblioteca itinerante di letteratura.
  Ad aprire la giornata di domenica, il dialogo sugli "Stampatori ebrei a Ferrara" tra il rabbino capo di Ferrara, Luciano Caro, e il direttore dell'area Comunicazione dell'UCEI, Guido Vitale. La citata tavola rotonda su La partecipazione degli ebrei italiani alla Prima guerra mondiale vedrà confrontarsi lo storico Alberto Cavaglion, Carlotta Ferrara degli Uberti del University College London, il direttore del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano Gadi Luzzatto Voghera e Anna Quarzi dell'Istituto storia contemporanea di Ferrara.
  Si parlerà poi del grande progetto di traduzione del Talmud in italiano, con la presentazione del primo volume del "Progetto Talmud: Trattato RoshHashanà", con Clelia Piperno (direttore del progetto), rav Gianfranco Di Segni (coordinatore della traduzione) e ShulimVogelmann (La Giuntina).
  A seguire il tradizionale conferimento del premio Pardes: quello alla saggistica andrà allo scrittore e storico Riccardo Calimani, già presidente della Fondazione Meis; a Ernesto Ferrero, già direttore del Salone internazionale del libro di Torino e presidente del Centro internazionale di studi Primo Levi, sarà conferito quello alla carriera e all'autore Emilio Jona quello per la letteratura.
  Grande attesa poi per la tavola rotonda internazionale sul tema "Una memoria per il futuro: la missione dei musei ebraici". Dalle 16.30, al Ridotto del Teatro comunale, i direttori di alcuni dei più importanti musei ebraici del mondo si confronteranno sul tema di come raccontare il passato ebraico al grande pubblico. Attorno al tavolo si troveranno, Paul Salmona del Museo d'arte e di storia dell'ebraismo di Parigi, Emile Schrjver del Museo ebraico di Amsterdam, Dariusz Stola del Museo di storia degli Ebrei Polacchi di Varsavia, Orit Shaham Gover del Museo delle diaspore di Tel Aviv, e, in qualità di padrona di casa, Simonetta Della Seta, direttrice del Meis. Il confronto, introdotto dal presidente Dario Disegni, sarà moderato dal direttore de La Stampa Maurizio Molinari. Previsto un intervento conclusivo del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini.
  Per tutta la giornata di domenica, alla Sala estense di Palazzo Roverella, gli Incontri con l'autore sono animati da autorevoli ebraisti e nomi illustri della cultura, tra i quali Riccardo Calimani, rav Roberto della Rocca, Simon Levis Sullam, Donatella Calabi, Mauro Perani e Sergio Minerbi. Nell'ambito del ciclo "Guardare e ascoltare, una storia da imparare", vengono, invece, proiettati presso la videoteca e biblioteca Vigor (via Previati 18) il video "Il ghetto di Venezia, 500 anni di vita", diretto da Emanuela Giordano, e una "Intervista impossibile a Donna Gracia Mendes Nasi", per la regia di Carlo Magri, mentre alle 19, nella sede dell'associazione "RroseSélavy" (via Ripagrande 46), taglio del nastro della mostra "Alefbeth. Segni dell'alfabeto ebraico", a cura di Gloria Soriani.

(moked, 29 agosto 2016)


Mantova, al cimitero ebraico servono lavori: appello al Comune

La Comunità fatica a provvedere alla manutenzione. Ci sono lapidi del '700 dal valore storico inestimabile.

di Barbara Rodella

MANTOVA - «Nei cimiteri ebraici non si ha, o almeno non predomina, l'impressione del lutto. Qui il lutto è remoto, travolto dai secoli: prevale la sensazione della pace, del riposo eterno». Così Primo Levi descriveva nel 1985 l'antico cimitero ebraico di Venezia e le sue parole risultano perfette anche oggi per illustrare il cimitero israelitico di Mantova.
   Basta sbirciare tra le fessure del portone d'ingresso in via Legnaghese per capire che in quella che appare una vasta area delimitata dal muro perimetrale il tempo sembra quasi essersi fermato.
   E' lì che risiede la storia di una comunità importante e presente nel nostro territorio dal XII secolo, è lì che dimorano la memoria, il ricordo, la cultura di un popolo. Non stupiamoci quindi se troviamo una famiglia in viaggio dalla Francia intenta a leggere il cartello con gli orari di apertura appeso all'entrata o una coppia americana che con la guida in mano visita, guarda ed ammira le varie lapidi.
   Oggi il cimitero necessita di manutenzione: l'erba è alta e servirebbero almeno un paio di sfalci all'anno. La comunità, però, pur producendo il massimo sforzo, non riesce a provvedere a tutto: problemi di budget. E così è di qualche giorno fa la richiesta di un aiuto al Comune, se non altro per eliminare le erbacce.I rappresentanti della Comunità si sono rivolti all'assessore Martinelli.
L'area è divisa in due zone. L'area interna ospita le salme traslate dal primo cimitero cittadino del Gradaro. Le lapidi oggi rimaste sono una ventina. Risalgono al 1700 e riportano epitaffi in ebraico. Il loro valore storico ed epigrafico è inestimabile. La parte considerata nuova accoglie invece tutte le sepolture dal 1865 circa ad oggi. Si contano più di 2000 tombe. Come la cremazione, anche la tumulazione è vietata. Solo se sepolto in terra, il corpo risponde al dettato biblico: "polvere sei e alla polvere resterai". La religione ebraica inoltre vieta l'esumazione del corpo, nessuno può dunque modificare i sepolcri che diventano immutabili ed eterni.
   Il cimitero, luogo di storia e cultura, viene sempre più spesso inserito nel percorso dei turisti. Parenti o visitatori, però, per circa un mese troveranno chiuso. "Chiuso per manutenzione" recita l'avviso. Ed infetti la zona necessita di parecchi lavori per poter tornare a splendere. L'erba alta ha ormai invaso tutti i vialetti e la disposizione parallela delle tombe è solo da immaginare.
Le siepi sono incolte e alcune lapidi rotte. La zona dei cippi più antichi poi è inavvicinabile. A dirlo prima di tutto sono, con tono preoccupato, Emanuele Colorni, presidente della comunità ebraica, e il consigliere della comunità Miriam Jarè.
   Il camposanto è di proprietà della comunità che lo gestisce. Il degrado colpisce lo spettatore più delle tombe in liberty che, come spiega la Jarè, solitamente colgono l'attenzione, anche se poco rispondono alla tradizione ebraica che predilige strutture più semplici. La casa dei viventi- così viene chiamato il cimitero perché i cari continuano a vivere nel cuore di chi li ha amati- sembra quasi essere stata dimenticata, invece «sono i problemi di budget della comunità» ad impedire quei lavori di manutenzione che restituirebbero dignità alla casa dei sepolcri.
   «I luoghi che hanno una storia- commenta Colorni- vanno valorizzati ma noi non abbiamo i mezzi. L'ultimo intervento, sfalcio erba e ripristino siepi, è stato eseguito circa due mesi fa ma ora dobbiamo intervenire nuovamente. I fondi che abbiamo arrivano dall'8x1000 ed è l'Ucei (Unione comunità ebraiche italiane) che distribuisce il ricavato ai vari nuclei in base al numero degli associati e alle necessità di ogni gruppo. Stiamo cercando di avere altri aiuti. Al momento sopravviviamo, vorremmo avere i mezzi per mantenere in modo decoroso le nostre proprietà».
   «Anche la manutenzione privata - continua la Jarè- sta scomparendo. Basti pensare che la comunità conta oggi una settantina di iscritti. Spiace per questa situazione». Due le operazioni più urgenti: lo sfalcio dell'erba e la disinfestazione delle siepi che, colpite da un parassita, vanno curate con un trattamento mirato.
   «Per una trentina di giorni- conclude Jarè - l'area rimarrà chiusa. Il nostro obiettivo è rivederla fruibile per la vigilia della festa di Yom Kippur. Quest'anno cade l'undici ottobre e come per tradizione, ci troveremo al mattino per una preghiera collettiva per tutti i morti».

(Gazzetta di Mantova, 29 agosto 2016)


Protesta del velo: Iran, pure gli uomini indossano l'hijab

Su impulso della giornalista esiliata Masih Alinejad, gli uomini del Paese islamico solidarizzano con mogli, amiche e donne di famiglia.

 
In Iran va in scena la protesta del velo, ossia uomini che lo indossano e scrivono: "Ecco cosa provano le donne". Tutto merito di un'iniziativa lanciata dalla giornalista Masih Alinejad, in esilio dal 2009 tra Londra e New York, nella campagna 'My Stealthy Freedom' che, nel 2014, è partita da Facebook, per poi coinvolgere pure gli altri social.
   La reporter invitava a fotografarsi senza velo, postando poi le immagini, per protestare contro lo Stato dove l'hijab, il velo islamico, è obbligatorio per leggere dal 1979, su ordine dell'ayatollah Khomeini. Migliaia di adesioni, da parte di donne, ma pure di uomini per difendere la dignità femminile. Facendo una ricerca, oggi, l'hashtag #meninhijab è tuttora in auge grazie agli uomini; hanno infatti cominciato a postare foto con il velo, accanto a mogli, amiche, sorelle.
   Dietro a questa nuova iniziativa c'è ancora una volta Alinejad: "Ho pensato che sarebbe stato fantastico invitare gli uomini a sostenere i diritti delle donne". La giornalista ha notato che, tra i maschi, inizia a scomparire il fastidio e il pregiudizio verso le donne che si ribellano alle imposizioni rigide della religione islamica. Le donne che si mostrano senza velo in pubblico, in Iran, possono essere condannate al carcere fino a due mesi, alla multa e pure alla fustigazione. Chi si rifiuta di indossare l'hijab, infine, non può frequentare una scuola e difficilmente trova un'occupazione.
   Nel maggio scorso, otto modelle erano state arrestate per aver postato su Instagram le loro foto senza velo. In due anni, l'operazione 'Spider II', aveva portato pure all'individuazione di 170 persone tra modelle, fotografi e makeup artist, accusati tutti a vario titolo di comportamento anti-islamico. L'Iran che vuole aprirsi al mondo, in realtà, a livello di istituzioni resta ancorato a quella rivoluzione di tanti decenni fa.

(Italy Journal, 29 agosto 2016)


In Italia, gli uomini che volessero manifestare analoga solidarietà con le donne islamiche soggiogate dalla prepotenza dei maschi potrebbero decidere di andare in spiaggia col burkini.


Confessione di un sionista democratico

"L'11 giugno 2009 pubblicai un pezzo in cui preponevo una formula di dieci parole. Tre giorni dopo, quella formula divenne la posizione ufficiale di Israele".

La verità è che la colpa è mia. Sono io quell'irrazionale, stupido e ignorante che ha messo al centro del dibattito pubblico israeliano la richiesta che Israele venga riconosciuto come stato nazionale del popolo ebraico. Non prendetevela con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Non rimproverate Ruth Gavison, Tzvia Greenfield, Gadi Taub o Ben Dror Yemini. La colpa è mia. Sono io il rinnegato, il colpevole. Sono io il nazionalista senza speranza che crede profondamente in uno stato ebraico e democratico....

(israele.net, 29 agosto 2016)


Museo della Shoah, il sì del Comune

Il Campidoglio firma il contratto con la ditta aggiudicatrice, due anni per i lavori. Incognita: C'è una clausola legata alla sentenza del Consiglio di Stato.

di Erica Dellapasqua

Foto del progetto dell'architetto Luca Zevl per il museo di Villa Torlonia
Avanti con la realizzazione del Museo della Shoah a Villa Torlonia. Sempre in ritardo rispetto agli annunci (gli ultimi volevano l'inaugurazione il 27 gennaio 2015 in concomitanza col settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz) l'iter è comunque proseguito ed è arrivato, due settimane fa, all'attesa firma del contratto tra il Comune di Roma e la ditta aggiudicataria dell'appalto, la Sac Società Appalti Costruzioni, adesso formalmente incaricata «della progettazione esecutiva e dell'esecuzione dei lavori di costruzione dell'edificio a largo Simon Wiesenthal».
   All'articolo 2 dell'accordo, sui tempi di realizzazione, si legge che «il contraente dovrà ultimare tutte le opere entro il termine di 600 giorni». Quasi due anni, salvo «sorprese» da parte del Consiglio di Stato che deve ancora pronunciarsi nel merito del ricorso delle aziende seconde classificate.
   Quindi, seppur con l'incognita di questa sentenza, il Comune ha firmato il contratto. Un impegno «definitivo» in una storia lunga e tortuosa che fin dai titoli di testa, Museo della Shoah, suggeriva l'importanza del fattore tempo anche sul piano simbolico: consentire ai sopravvissuti all'Olocausto di assistere all'inaugurazione. Poi, negli anni, varie frenate e ripartenze, dal rischio di veder sfumati i finanziamenti all'alternativa dell'Eur, spuntata sotto l'ex giunta di Ignazio Marino sempre per rispondere all'esigenza «tempo» ma alla fine archiviata (l'Avvocatura ipotizzò il danno erariale esistendo già un progetto e un esproprio in un'altra destinazione) mentre si allestiva almeno uno spazio del ricordo temporaneo a Casina dei Vallati, accanto alla Sinagoga.
   Adesso, passati vent'anni, tre sindaci e un commissario straordinario dal lancio del progetto del Museo, che alla fine si farà a Villa Torlonia così come l'aveva immaginato e voluto fin dall'inizio l'ex sindaco Walter Veltroni, tutti i tasselli sembrano ricomporsi e formare una strada in discesa. Quasi tutti.
   Come anticipato, manca ancora il «nullaosta» del Consiglio di Stato, che pur avendo respinto la richiesta di sospensiva dei ricorrenti (le cui motivazioni sono state già rigettate dal Tar) deve pronunciarsi nel merito. L'incognita è specificata anche nel contratto tra le parti, Comune e ditta, che vincolano l'accordo al buon esito del giudizio: «La data per l'udienza di merito era stata fissata il 19 maggio 2016 - si legge sul contratto pubblicato il 5 agosto-. Nelle more diconoscere la decisione il dipartimento Lavori pubblici ha confermato il rilascio del nullaosta alla stipula del contratto», ovviamente condizionato alla pronuncia dei giudici. In caso di accoglimento delle istanze dei ricorrenti, è evidente, il
quadro si ribalterebbe, ancora, per l'ennesima volta.
   Intanto, comunque, le firme ci sono e anche gli impegni di spesa (più o meno 13 milioni di euro) con un orizzonte lavori che guarda, almeno, ai prossimi due anni. Qualcosa in più di una speranza di vederlo realizzato, quindi, adesso c'è.

(Corriere della Sera, 29 agosto 2016)


Israele: morto ex ministro della Difesa Ben Eliezer

E' morto a 80 anni in un'ospedale di Tel Aviv Benyamin 'Fuad' Ben-Eliezer. Più volte ministro e responsabile della difesa (2001-2002) nel governo di Ariel Sharon, Ben-Eliezer è stato in quegli stessi anni segretario del partito laburista israeliano. Nato in Iraq a Bassora nel 1936 e arrivato in Israele nel 1950, Ben-Eliezer nella sua lunga carriera pubblica e' stato anche generale dell'esercito e capo dell'amministrazione dei Territori Palestinesi (1983-84). Si era dimesso da deputato laburista della Knesset nel dicembre del 2014 a seguito di uno scandalo finanziario per il quale la polizia aveva chiesto la sua incriminazione con l'accusa di corruzione, frode e riciclaggio.
Non è comparso davanti al magistrato in tribunale per discutere delle accuse a causa delle sue precarie condizioni di salute, ma si è sempre proclamato innocente.

(ANSA, 28 agosto 2016)


Rinviata l'udienza per un dipendente Onu accusato di aver finanziato Hamas

GERUSALEMME - Il giovane ingegnere, che lavorava nel nord della Striscia di Gaza per il Programma di sviluppo dell'Onu (Undp), era stato arrestato il 16 luglio scorso con l'accusa di essere stato reclutato da un membro di Hamas per deviare fondi a favore del movimento palestinese. Burash ha iniziato a lavorare per l'Undp a partire dal 2003 come ingegnere, occupandosi di demolire le abitazioni danneggiate in seguito ai combattimenti. Secondo le indagini dei servizi segreti israeliani, nel 2014 sarebbe stato indottrinato da esponenti di alto profilo di Hamas con l'obiettivo di sfruttare la sua posizione all'interno dell'ufficio per aiutare l'organizzazione militante che governa Gaza.

(Agenzia Nova, 28 agosto 2016)


È morto Settimio Piattelli, uno degli ultimi testimoni dell'olocausto

Aveva 95 anni. Era sopravvissuto alla deportazione e alla detenzione nel campo di concentramento di Auschwitz. La comunità ebraica di Roma: «E' un pezzo di storia che se ne va».

Dalla testimonianza di Settimio Piattelli

È morto all'età di 95 anni Settimio Piattelli, uno degli ultimi testimoni italiani della Shoah. A diffondere la notizia è stata la Comunità ebraica di Roma. «È sopravvissuto alla deportazione, vittima delle atrocità nazifasciste e testimone della memoria della Shoah. Un altro pezzo di storia che se ne va. Che il suo ricordo sia di benedizione», si legge in una nota ufficiale.
«Se ne è andato di Shabbat, come i Giusti», si legge su Moked, il portale dell'ebraismo italiano. Catturato nel maggio del 1944 assieme al fratello Nello, a pochi giorni dalla liberazione della Capitale, Settimio fu trasferito prima a Fossoli e poi ad Auschwitz-Birkenau.
«Auschwitz ce l'hai qui dentro er cervello, nun va via più, nun può andare via mai» era solito dire Piattelli, le cui parole sono riportate dallo studioso Marcello Pezzetti nel suo libro della Shoah italiana. Commossa anche la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, che afferma: «La sua sofferta testimonianza dall'abisso dell'orrore e lo straordinario esempio quotidiano che ci ha poi donato, insieme agli altri sopravvissuti, restano un lascito indimenticabile per l'intera società italiana. In questa triste giornata rivolgiamo un pensiero commosso alla famiglia di Settimio. Che il suo ricordo sia di benedizione».

(La Stampa, 28 agosto 2016)


Bariloche, rissa tra licei, i neonazi contro gli ebrei. Ora dovranno andare al museo della Shoah

L'episodio, avvenuto nella città dove fu scovato l'ex gerarca Priebke, indigna il Paese che diede rifugio ai leader del Terzo Reich.

di Omero Ciai

I giovani si erano mascherati da Hitler.
Sui loro profili Facebook inni antisemiti
A coordinare l'accoglienza fu Peròn.
L'operazione prefigurata da Forsyth in un libro

Ha sconvolto l'Argentina la provocazione di un gruppo di ragazzi del liceo tedesco di Lanùs, provincia di Buenos Aires, che si sono mascherati da nazisti, con baffi alla Hitler e svastiche sulle braccia, per insultare e picchiare altri ragazzi di un liceo ebraico. Scenario della rissa una discoteca di Bariloche, nella Patagonia argentina, dove i liceali ricchi della capitale vanno a festeggiare con qualche giorno di dissipatezza la raggiunta maturità. L'episodio ha indignato tutti: professori, presidi, il centro Simon Wiesenthal, le autorità locali. È stata decisa una punizione esemplare: gli adolescenti dei due istituti visiteranno insieme il Museo dell'Olocausto nel quartiere della Recoleta della capitale argentina. Ma quel che più preoccupa è, sfogliando i profili Facebook dei ragazzi coinvolti, il loro inneggiare all'ideologia nazista prima e dopo la provocazione in discoteca.
   Non è stato un caso neppure la scelta di Bariloche, cittadina simbolica in Argentina per essere stata prescelta come rifugio dai criminali nazisti m fuga dall'Europa. Vicenda leggendaria fu quella della scoperta a Bariloche di Erich Priebke, responsabile insieme a Herbert Kappler dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944. Era il maggio di cinquant'anni dopo, quello del 1994, quando una troupe del network americano Abc, guidata dal giornalista Sam Donaldson, rintracciò l'ufficiale nazista all'uscita del collegio tedesco "Primo Capraro" di Bariloche, dove lavorava come direttore. Donaldson lo avvicinò mentre saliva in macchina e gli chiese semplicemente: «Lei è Priebke?». La scena, con Priebke che annuisce imbarazzato, fece il giro del mondo. L'Italia chiese e ottenne l'estradizione. Venne processato e condannato. E trascorse gli ultimi anni, fino alla morte nel 2013, agli arresti domiciliari.
   Un altro episodio, molti anni prima di Priebke, aveva già in parte svelato l'operazione che in un libro di fiction pubblicato nel 1972, lo scrittore britannico Frederick Forsyth aveva immaginato come il Dossier Odessa, un'organizzazione segreta costituita dai gerarchi hitleriani per difendersi e sopravvivere dopo la caduta del regime nazista. È il sequestro a Buenos Aires, nel 1960, di Adolf Eichmann, lo stratega della "soluzione finale" nei campi di concentramento nazisti. Eichmann era fuggito in Argentina nel 1950 grazie a un passaporto falso rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra. Per anni si nascose con la famiglia a Buenos Aires dove venne rintracciato, per caso, dalla figlia di un ebreo sfuggito all'Olocausto. Il Mossad israeliano organizzò il suo rocambolesco sequestro. E lo portò in Israele dove venne processato, condannato a morte e impiccato nel 1962. Ma per avere un'idea eloquente di quello che fu la vera "Operazione Odessa" bisognerà aspettare la pubblicazione delle ricerche di Abel Basti, giornalista e scrittore specializzato nella storia dei nazisti in Argentina, e soprattutto dello storico Uki Goni che in un libro del 2002, The real Odessa, tradotto in italiano da Garzanti, riuscì a ricostruire la realtà di quello che Forsyth aveva soltanto ipotizzato.
   In gran segreto l'accoglienza dei nazisti venne coordinata in prima persona da Juan Per6n, generale e presidente dell'Argentina dal 1946 al 1955. Peròn, che anni dopo mentre si trovava in esilio nella Spagna della dittatura franchista spiegherà che, come militare, si era indignato per i processi di Norimberga, organizzò nella sede della presidenza, la Casa Rosada, una vera e propria rete di salvezza. Incaricò i suoi servizi segreti di occuparsi dei nazisti che, con i passaporti falsi, sbarcavano al porto di Buenos Aires, spesso provenienti da Genova, dove tra Chiesa e Croce Rossa, funzionava un équipe di collaborazionisti nazi. In cambio il fondatore del peronismo ebbe oro e gioielli. Così arrivarono in Sudamerica Priebke, Eichmann e Joseph Mendele, il famoso" dottor Morte", che poi scomparì in Brasile. E molti altri ufficiali nazisti, non solo tedeschi.
   A Buenos Aires c'è ancora oggi un albergo, alla fine dell'Avenida Corrientes, che fu un centro di ospitalità e smistamento dei rifugiati nazisti. Invitato, all'inizio del Duemila, da un solido mecenate come Paolo Rocca di Techint, anche Ryszard Kapuscinsky volle visitarlo. Lo scrittore polacco s'installò nella torre e, per qualche settimana, vi rivide le bozze di In viaggio con Erodoto, uno dei suoi ultimi libri. Il germe del nazismo in Argentina arriverà fino a suggerire ai militari assassini dell'ultima dittatura ( '76-'83) la "soluzione finale" dei campi di concentramento e dei desaparecidos contro gli oppositori politici. E per questo, forse, non c'è da stupirsi se i ragazzi travestiti da nazi nella discoteca di Bariloche durante una festa di adolescenti a fine liceo hanno causato tanta preoccupazione in Argentina.

(la Repubblica, 28 agosto 2016)


Scianna: il ghetto tra ieri e oggi

Alla Casa dei Tre Oci di Venezia una mostra del grande fotografo siciliano sui 500 anni del quartiere ebraico in Laguna «Anche in un mondo costretto in così poco spazio, forte la presenza di vita. Immortalo architetture, persone, assenze».

 
Tre pietre d'inciampo. Così vengono chiamate delle mattonelle in ottone che si incontrano davanti all'ultima residenza nota dei deportati. Nella pavimentazione del Ghetto sono incise memorie dei terribili destini delle persone che rastrellate dai nazisti nella Seconda guerra mondiale conclusero la loro tragica vita nei forni del campo di sterminio di Auschwitz. Foto Ferdinando Scianna
Due settimane di lavoro sul campo, 50 scatti inediti e una firma eccezionale: Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943) festeggia con un reportage fotografico i 500 anni del Ghetto ebraico di Venezia. La full immersion del grande fotografo, fatta di chiacchiere con la gente del posto e intrusioni nella vita quotidiana, ha consentito la realizzazione della mostra "Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo", curata da Denis Curti e aperta fino all'S gennaio 2017 nella Casa dei Tre Oci. Scianna ci racconta la dimensione contemporanea di una storia iniziata cinque secoli fa in quel ghetto nato per puro caso: «La storia del Ghetto di Venezia - afferma il fotografo - nasce in maniera banale: in quel campo, chiamato getto, venivano gettati dei resti di fabbrica. Gli ebrei olandesi e di altre nazionalità, però, pronunciavano getto "ghetto". Il Ghetto è poi diventato simbolo di qualcosa di tragico; oggi è una metafora, e questo è un bene, poiché nel momento in cui non è una metafora diventa un pasticcio».

- Il concetto di ghetto, di ghettizzare, è molto attuale. Ma a differenza del passato, quando c'erano delle vere e proprie mura ad isolare una comunità, come a Venezia, oggi l'isolamento avviene tramite un gesto o un saluto mancato. In che modo la macchina fotografica può cogliere l'isolamento immateriale?
  «Abbiamo attribuito troppi poteri alla macchina fotografica. Il visibile, che è ciò che viene immortalato, implica la pelle: l'anima di una bella donna o di un bell'uomo entra in gioco poco quando c'è l'aspetto estetico. Quello che oggi facciamo è tentare di ghettizzare la parte sgradevole di ciò che vediamo. Dobbiamo però cercare di smontare tutti ghetti che ci circondano - nei confronti degli anziani, dei bambini - e dobbiamo stare attenti ai ghetti che indicano sterminio».

- Pensando al Ghetto viene in mente un luogo del passato, dove il tempo si è fermato. Ma il tempo passa inesorabile: come convivono nella vecchia Venezia ebraica gli elementi della contemporaneità e i ricordi del passato?
  
«Il fotografo immortala quello che c'è oggi. I luoghi portano la traccia della storia che li ha attraversati. Spesso la traccia è l'assenza. Di questo ero consapevole quando ho accettato di fare il reportage. C'è ancora oggi una particolare architettura del ghetto, che si sviluppa in altezza arrivando a sfiorare gli otto piani, che racconta di una dimensione carceraria, di un mondo costretto in poco spazio. E' come una muraglia. C'è anche una forte presenza della vita, che lì si manifesta da 500 anni. Ma non ci sono solo ebrei in quell'area. Gli ebrei sono pochissimi, in tutta Venezia saranno poche centinaia; arrivano come turisti religiosi in questo spazio simbolico e se ne vanno. Va molto il turismo Kosher. Le persone del posto dicono "due ebrei, tre opinioni": pur essendo pochi non sempre si amano. Varcando la soglia del ghetto entri nel loro universo. Ma in quell'universo ci sono anche i bambini che non c'entrano nulla e che giocano per i fatti loro. Ho raccontato con gli occhi del fotografo, col mio essere siciliano, con i miei 73 anni. Nel racconto di quel mondo c'è anche il mio modo di essere».

- Quali caratteristiche del ghetto l'hanno maggiormente emozionata?
  
«Una caratteristica è quella architettonica, poiché descrive uno spazio che potrebbe o meno essere veneziano. C'è qualcosa di diverso in quell'architettura che non assomiglia a nient'altro».

- E le pietre d'inciampo?
  
«Queste non sono molte, ma rappresentano un "memento". Mentre cammini ti trovi davanti questo rettangolo su cui è inciso il nome della persona deportata che custodisce una storia di violenza e che fa riflettere».

- Ha avuto modo di parlare con qualche cittadino ebreo che ha sempre vissuto lì?
  
«Ho parlato per tutto il tempo con quei quattro gatti che vi abitano. Penso che i siciliani potrebbero fare degli eccellenti ebrei, perché sono capaci di ammazzarsi per qualche metro quadro di terrazzo lasciatogli in eredità. C'è un rapporto drammatico con la realtà e la modernità. Ricordo la mia educazione da bambino cattolico: ciò che non era obbligatorio era proibito. Così sono gli ebrei, e le loro caratteristiche li hanno fatti resistere allo sterminio.»

- Ci sono degli elementi in comune tra il folklore e la tradizione siciliana e quella ebraica?
  
«Le tre grandi religioni monoteiste hanno tante cose in comune che spesso sono sfociate nella dimensione rituale. La cerimonia in Sinagoga ricorda certi rituali della Settimana santa. Anche la divisione drastica tra uomini e donne mi ha fatto pensare a certe cose che ho visto in Sicilia».

- E' riuscito a trovare caratteristiche della sua Sicilia in giro per il mondo?
  
«Probabilmente vedo la Sicilia dappertutto, anche dove non c'è. Ma questo è un vizio "siciliocentrico" che hanno tutti i siciliani».

(Il Messaggero, 28 agosto 2016)


Islam, la base dem incalza Sumaya: "Niente ambiguità"

L'esponente eletta ospite alla Festa dell'Unità. Continua la guerra con lsmail.

di Matteo Pucciarelli

MILANO - La domanda precisa, e probabilmente la più spinosa della serata, il pubblico del Pd gliela deve porre per ben tre volte: «Ma se in un quartiere, o in una scuola, ci si dovesse trovare con una maggioranza musulmana, quale principio prevarrebbe? La laicità o il Corano?», La consigliera comunale ( del Pd) Sumaya Abdel Qader sembra tergiversare un po'. Ma alla fine tranquillizza tutti: «Vale la legge del Paese nel quale viviamo. Se mai dovesse accadere, mi impegnerò a garantire la laicità e il rispetto per qualsiasi sensibilità religiosa».
   È il secondo giorno della festa dell'Unità di Milano e la protagonista è lei: 38 anni, tre figli, tre lauree, lo hijab sempre sulla testa e vicina al Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche milanesi accusato di qualche ambiguità nella condanna dell' estremismo islamico. Per "colpa" sua un'altra dirigente musulmana del Pd ha lasciato il partito dopo le elezioni amministrative e ieri ha disertato l'incontro successivo, cioè Maryan Ismail, che accusa: «Il partito vuole rappresentare sempre di più l'ideologia ortodossa, escludendo ancora una volta volontariamente la voce dei musulmani laici e integrati nel tessuto sociale da decenni».
   Di sicuro nel confronto dal titolo "#Tutta colpa di Sumaya", alla consigliera non è stato risparmiato nulla da parte di un pubblico sensibile al tema della laicità e dei diritti e a quello della libertà religiosa. «Ma lei si sente di dover chiedere scusa per i recenti attentati?», altra domanda. Lei: «È come chiedere al popolo italiano di scendere in piazza per dissociarsi dalla mafia. Impossibile farlo, nonostante la gran parte viva in antitesi con quei valori».
   E poi, cosa ne pensa della poligamia? Prima una risposta che appare ambigua («È una pratica vietata dalla legge e non è nelle esigenze delle persone. Se domani gli italiani chiedessero un referendum si potrebbe fare? Boh, lo chiedo a voi», rumori in platea). dopo spiega meglio: «Se si vuole fare un discorso serio, non si può prescindere dalle parità di genere». Oltretutto «non siamo in uno Stato a maggioranza musulmana ... ». La sensazione è che per lei, che rivendica l'amore per lo studio, gli esami non finiranno qui.

(la Repubblica, 28 agosto 2016)



Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema. Marana tha.
(2 Corinzi 16:22)  

 


Islamici ed ebrei insieme e con il cuore: il terremoto fa crollare anche i pregiudizi

Tra le macerie di Amatrice lavorano i volontari di Islamic Relief e lsraAid

di Massimo Malpica

Hemi Pedhazur da Tel Aviv
«Quando si tratta di aiutare non c'è posto per la religione o, peggio, per la politica»
Il marocchino Ossama El Hamriti
Collabora con l'Ordine di Malta,praticamente i crociati: «Per me non ci sono problemi»

Il terremoto che ha sconvolto l'Italia centrale ha portato dolore e lutti, ma anche scatenato una gara di solidarietà. Ha fatto crollare case e palazzi, ma anche un po' di pregiudizi. Così ecco che tra le macerie di Amatrice, sul retro del palazzetto dello sport, si incontrano mentre lavorano fianco a fianco i volontari di Islamic Relief ltalia e quelli di IsraAid. Musulmani ed ebrei in azione, insieme, per alleviare le sofferenze di una città famosa per un sugo a base di un animale, il maiale, tabù per entrambe le religioni. Non male, visto che qualche starlette vegana ha affidato ai social il suo dimenticabile pensiero, sentenziando che il sisma ad Amatrice, col suo carico di lutti e distruzioni, sarebbe opera del karma, proprio per aver la cittadina ideato il condimento col guanciale di maiale (e peccato per i fondamentalisti che tra i volontari ci siano anche i buddisti vegani della «Supreme Master Ching Hai international association», evidentemente meno schizzinosi, quando si parla di solidarietà).
   Insomma, il terremoto distrugge, ma cancella anche diffidenze radicate. «Quando si tratta di aiutare chi ha bisogno, si pensa ad aiutare, non alla politica o alla religione», taglia corto Hemi Pedhazur, volontaria di IsraAid arrivata da Tel Aviv a dare una mano. Sono in due ad Amatrice, ma altri volontari ebrei volati in Italia da diversi Paesi sono al lavoro ad Arquata e ad Accumoli. «Non ho problemi a lavorare accanto alla Islamic Relief, stiamo qui per la stessa ragione, aiutare chi ha bisogno, e tanto basta», spiega ancora Hemi. E sulla stessa linea è anche Ossama El Hamriti, 23enne nato a Carpi, di famiglia marocchina, prossimo a laurearsi in economia e finanza a Modena. Lui è qui con altri otto volontari di Islamic Relief Italia, ed era già stato sul campo per i terremoti dell'Aquila e in Emilia, dove la sua organizzazione aveva portato aiuti e generi di prima necessità. «Qui abbiamo incontrato ex sfollati aquilani, ora volontari, che sono venuti ad abbracciarci appena ci hanno visti. In Abruzzo siamo stati una delle ultime ad andarcene, e anche qui siamo venuti per dare una mano, senza limiti di tempo, visto che facciamo tutti parte dello stesso paese».
   A coordinare e orientare gli aiuti e i soccorsi sono Croce Rossa e Protezione civile, così i ragazzi di Islamic Relief sono stati inviati a lavorare con il Sovrano Militare Ordine di Malta, praticamente i Crociati. Ma Ossama non fa una piega. «Collaboriamo con l'ordine di Malta alla gestione del palazzetto dello sport, portando aiuti agli sfollati all'interno». Ma davvero non ci sono pregiudiziali a lavorare con volontari di ogni paese e colore, dagli israeliani alle "salamandre" di Casapound, dai buddisti agli eredi dei Cavalieri Ospitalieri? Il volontario musulmano giura di no. «Non è una collaborazione scritta sulla carta, ognuno è autonomo, ma si viene qui, si incontrano altre realtà e si cerca di convivere con tutte, aiutandosi a vicenda e cercando di ottenere l'unico fine di portare speranza nelle vite di persone che hanno perso tutto: case, amici, madri, padri». Perché in fondo la morale di Hemi da Tel Aviv è la stessa di Ossama da Carpi. Più che la fede, conta aiutare. «Qui non si parla di credo, ma si parla di persone bisognose. E anche nell'Islam le persone vengono prima di tutto. Pure della religione».

(il Giornale, 28 agosto 2016)


Un piccolo paese dal cuore grande

di Deborah Fait

L'orologio del campanile di Amatrice si è fermato alle 3.36 del mattino quando la prima grande scossa di terremoto ha distrutto il centro Italia. Meno di tre ore dopo, tra le 6 e le 7 di quella stessa mattina, erano già allestiti in Israele (IsrAID) gli aiuti da mandare in Italia: medici, psicologi, infermieri, cani da salvataggio, ospedali da campo, pronti a partire al primo OK del Ministero degli esteri italiano.
  Come sempre Israele è in prima linea nel mandare il proprio sostegno a tutti i paesi colpiti da disastri naturali, di guerra e di terrorismo. E' un grande orgoglio soprattutto al pensiero che aiuti concreti vengono inviati anche a Paesi nemici come l'Iran. Ricordo i terremoti del 2010 e del 2013 che devastarono vaste aree di quel paese dove Israele arrivò per primo, come al solito, ma fu rifiutato perché sui pacchi di cibo e medicinali era visibile quello che per gli iraniani è l'abominio, la bandierina di Israele. Gli aerei con il loro prezioso carico tornarono in patria , gli addetti di IsrAID levarono le bandierine e rimandarono il tutto in Iran lanciando dall'alto cibo e medicinali sulle popolazioni. Senza l'odiata bandiera sionista gli aiuti furono ipocritamente accettati.
  Israele a tutt'oggi è presente a Haiti dal giorno del terremoto che distrusse l'Isola nel 2010. IsrAID ha offerto un programma contro la malnutrizione in Malawi, ha portato aiuti quando un vulcano ha eruttato in Congo nel 2002, durante lo tsunami in Thailandia nel 2005, aiuta i rifugiati in Ciad, e' stato presente con medici e psicologi durante l'uragano Katrina a New Orleans, ha organizzato un lungo programma di riabilitazione dopo il terremoto in Cina nel 2008, dopo il tifone nelle Filippine nel 2009, e ancora in India, in Pakistan nel 2010, in Giappone dopo lo tsunami del 2011, ancora negli Stati Uniti dopo il tifone Sandy e ancora ancora, in Sierra leone, in Sud Sudan, in Kenia, in Giordania, in Sud Corea, , Uganda, in Grecia, a Lesbo per aiutare chi fugge dalla Siria, all'Aquila nel 2009 e adesso ancora nell'Italia devastata. A Haiti soprattutto ma anche in Giappone, in ex Jugoslavia, come in Thailandia molti bambini portano il nome di Israel in onore di chi li ha aiutati a nascere in mezzo alle devastazioni. IsrAID è presente costantemente in 35 paesi, riesce a raggiungere 1 milione di persone addestrando più di 5000 locali in modo professionale.
  Ha a disposizione centinaia di professionisti e volontari in maggioranza medici, paramedici, infermieri, terapisti e meravigliosi cani addestrati per il salvataggio in ambienti ostili e pericolosi.
  Si, sono arrivati, primi come sempre! Hanno le magliette e i caschi arancioni colla bandierina di Israele. Sono arrivati ad aiutare gli italiani, unendosi alle squadre del soccorso civile di tante regioni , soprattutto dal Veneto e Friuli, purtroppo esperto di terremoti. La comunità ebraica italiana ha organizzato raccolta di sangue e ogni genere di aiuti.
  Si sono offerti anche altri Paesi, gli USA, la Comunità europea, Serbia, Russia, Francia, Germania. Tantissimi telegrammi di cordoglio da altrettanti Capi di Stato con la differenza che, mentre Bibi Netanyahu e Ruven Rivlin, il presidente dello Stato, esprimevano la loro solidarietà, IsrAID era praticamente già in volo verso i luoghi del terremoto con tutte le sue squadre specializzate.
   Mi manca però qualcuno, non so, sto pensando a paesi ricchissimi dove persino le tavolette dei WC sono in oro massiccio, si, quei paesi che galleggiano sul petrolio, come si chiamano? Ahh ecco, Arabia Saudita, Qatar (il paese più ricco del mondo), Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Brunei, paesi di sceicchi che spendono nei Casinò cifre pari al PIL di molte nazioni del mondo e con cui l'Italia ha rapporti commerciali, sceicchi che hanno comprato pezzi interi d'Italia oltre alla compagnia di bandiera, che non hanno ancora accolto un solo profugo delle centinaia di migliaia che premono sui confini d'Europa.
  Non so, forse sono stata disattenta ma nell'elenco degli aiuti dall'estero all'Italia in ginocchio, non ho letto nessuno di questi nomi.
  Eppure, che strano, Israele così odiato, piccolo come una regione italiana, questi ebrei considerati alla pari del demonio da tanti che usano la parola sionismo come fosse una parolaccia, non si risparmia mai quando può portare aiuto.
  I paesi dei nababbi arabi che sono amati, ammirati, rispettati e temuti stanno là tra montagne d'oro e eserciti di concubine senza preoccuparsi di solidarietà, parola che probabilmente non esiste nel loro vocabolario.
  Se lo ricorderanno gli italiani? Ne dubito. Sono pronta a scommettere che al primo capo musulmano che arriverà in Italia, i soliti lecchini correranno a vestire le statue e a velare i quadri che occhio islamico non può sfiorare. Il mio pensiero di dolore va a tutti gli abitanti colpiti dal terremoto e ai familiari delle vittime.

(Inviato dall'autrice, 27 agosto 2016)


Le ebree "ortodosse" indossano lo Zanua, non il Burkini

Lettera scritta al quotidiano VicenzaPiù. Il giornale presenta l'autrice come "una delle otto ebree di Vicenza".

di Paola Farina

 
Il Burkini va a ruba anche tra ebree ortodosse, induiste e mormone... e chi lo ha detto? Lo riporta un articolo ripreso da questo giornale; lasciamo in pace "le ebree ortodosse", perché mi sembra che qui si confonda Renzi con Brunetta…
   Ortodosso non è sinonimo di ebraismo conservatore, ma significa in linea coi principi di una dottrina ideologica, politica o religiosa, che segue regole tradizionali (e vale per tutte le religioni). Zia Bianca era ebrea ortodossa sefardita, vestiva in modo sobrio-elegante ed in spiaggia indossava costumi interi neri, tutti sobri ed elegantissimi!
   Nemmeno le ebree harediot (Harediot al femminile, Haredim al maschile in ebraico significa «coloro che tremano davanti alla parola di Dio», ossia quella vasta galassia di gruppi religiosi che formano il cosiddetto fondamentalismo ebraico) indossano il burkini in spiaggia o in piscina. Portano sempre un copricapo, una gonna sotto il ginocchio o lunga e di solito maglie lunghe con maniche lunghe, talvolta le calze anche in agosto, inoltre non frequentano spiagge aperte a tutti…, ma spiagge loro riservate dove possono andare a giorni alterni, vietato l'accesso ai maschi (e viceversa sulle spiagge dedicate ai maschi)… insomma nessuna speranza per un flirt da spiaggia. Va precisato che ci sono molte sfumature tra ebraismo Habbad, Naturei Karta (quelli che io amo di meno), Satmar, "Hardalim" = Haredim nazionali, cioè Haredim che fanno il militare e Haredim che non fanno il servizio militare, Haredim ashkenazim e sefardim.
   Le donne sposate portano sul capo, secondo la mia amica, Simona di Roma, un "chissui-rosh", secondo me il "tichel", che alla fine è la stessa cosa, ovvero un copricapo che lascia scoperto il viso e un po' di capelli. Questa divergenza tra due donne italiane cresciute nello stesso ambiente, la dice lunga sulla complessità della cultura ebraica… intorno alla quale gravitano saccenti, filosofi, giornalisti e politici che ostentano il max del mix del non sapere. La copertura di testa, inoltre, varia molto secondo le correnti religiose: le harediot portano cappello o parrucca, le moderne un fazzoletto. Carla, mia amica di pancia e di pelle, che ha lasciato Vicenza nel 1966 e vive in Israele mi scrive: "Le ebree religiose moderne, dette "datiot leumiot", cioè "religiose nazionali", che fanno il militare o il servizio civile, portano la testa coperta ed un costume - zanua - , cioè pudico o modesto, con mezze maniche, costume fino al ginocchio e sopra un gonnellino. Così per esempio lo porta Maia, moglie di mio figlio Raffaello. Mia figlia l'anno scorso è stata al moshav Matta, dove abbiamo la casa. Tutte le piscine intorno erano state affittate dagli Haredim, quindi poteva entrare lei con la bambina e doveva lasciare fuori da solo il bambino, il che era abbastanza pericoloso. Anche al mare le Harediot hanno spiagge solo per loro, con giorni alterni per donne ed uomini (haredim). È difficile entrarci e fotografare".
   Nelle piscine pubbliche, all'università ed in vari circoli, ci sono anche strutture per soli uomini e per sole donne.
   L'ebraismo si basa su un principio fondamentale: il libero arbitrio, la possibilità di ogni individuo di intraprendere la propria strada, quindi chi si veste "secondo regole", lo fa per libera scelta. La Torah, la legge ebraica, suggerisce una via, poi a seguirne o diversificare il suggerimento spetta all'essere umano, uomo o donna che sia! Dal mio punto di vista credo che ognuno possa presentarsi in spiaggia vestito o spogliato come meglio crede, purché il mezzo nudo o il nudo non vada a scadere fino ad offendere la sensibilità di altre persone; non sono contraria al burkini, ma sono contraria a quello che rappresenta, ovvero la sottomissione a un diktat, che la donna accetta con vassallaggio perché non può fare altrimenti... Non so però se il burkini o lo zanua siano connaturali con l'igiene in un luogo pubblico e non mi riferisco al mare aperto… ma a una piscina (non c'è garanzia che questo abbigliamento venga usato solo come costume da bagno).
   Per amor di chiarezza, le donne che in Israele indossano il burkini sono israeliane musulmane arabe che frequentano spiagge libere, le stesse frequentate da donne ebree, vestite, in bikini, in costume in topless come garba a loro ed anche da uomini. Io sono indifferente al divieto del burkini perché non cambierà nulla, gli integralisti sono incompatibili con l'Occidente ed il fatto che siano infastiditi dal Crocefisso deve portare a una riflessione… Abbiamo fatto entrare in Europa milioni di persone ed ora pretendiamo che si occidentalizzano… suvvia… sono loro che cercano di spiegarci quanto sia bello "il velo" e non quello del baby doll… o del perizoma e che pretenderebbero che noi andassimo incontro alle loro esigenze e non loro alle nostre. Sono entrate persone che scappano dalla guerra, ma sono entrati sia i pentiti, sia i sostenitori dell'Isis e molti ibridi con la jjhad in testa (altro che il burkini). Francamente di fronte ai tanti problemi di natura ben più grave, il burkini mi fa sorridere. Pensarci prima è stato impossibile, perché gli italiani sono bravi nella prima accoglienza, poi non hanno mezzi e competenza per risolvere i problemi ed è questo che mi spaventa; il burkini è il niente ed il tutto, un nuovo strumento da promuovere, un nuovo mezzo per ricollocare un'azienda fallita di costumi da bagno tradizionali, un pretesto per obbligarci a concedere, un parlare per puntare il dito contro noi occidentali, accusandoci di razzismo perché non accettiamo questa cultura, seppur noi siamo più tolleranti di loro… insomma basta rompere i cabbasisi per il burkina, dateci la possibilità di costruire chiese e sinagoghe nei vostri paesi, solo allora si potrà parlare di vera democrazia, libertà religiosa ed interscambio culturale.
   Ho impiegato molto tempo per confrontare i dati… per trovare il maggior numero di confronti sui costumi da bagno delle "ebree ortodosse", ma credetemi… gli ebrei censiti al mondo sono meno di 14 milioni, ma proprio per i vari esodi e quella grande voglia di portarsi appresso un pezzo di cuore e di vita personale, le diversità non sono poche; nonostante il mio impegno profuso ci sarà di certo qualcuno che mi farà notare qualche imperfezione.... Fotografare donne religiose in costume è una impresa impossibile. Ho recuperato un website di un'azienda israeliana che produce burkini islamici per donne musulmane e costumi modesti per donne ebree: ovvero laddove c'è il business si convive pacificamente!

(VicenzaPiù, 27 agosto 2016)


Niente dolci israeliani su Brussels Airlines. "Allora via dai cieli di Tel Aviv"

Anziché preoccuparsi del terrore islamico, in Belgio c'è chi pensa a boicottare l'unica democrazia del Medio Oriente.

di Giulio Meotti

ROMA - Gli europarlamentari, i loro assistenti, i loro portaborse, che a Roma si imbarcheranno sui voli di linea della Brussels Airlines diretti nella capitale dell'Unione europea, a bordo non troveranno più i tipici snack israeliani alla vaniglia Ahva. No, non sono né scaduti né esauriti. Semplicemente la compagnia del Belgio, che per il 45 per cento è di proprietà della Lufthansa, ha deciso di boicottarli. Un attivista del Palestine Solidarity Movement partito dal Ben Gurion Airport di Tel Aviv per Bruxelles si era ritrovato fra le mani il celebre dessert, rendendosi conto che era prodotto in Israele, così ha detto ai compagni attivisti di mobilitarsi. Questi si sono lamentati con la compagnia aerea che ha acconsentito rapidamente a rimuovere il dolce israeliano. Il dolce viene prodotto "nei territori occupati illegalmente in Cisgiordania".
  "Il ministero degli esteri belga deve intervenire", avevano scritto gli attivisti del boicottaggio di Israele. La Brussels Airlines ha risposto che "come azienda che serve un pubblico internazionale pieno di persone provenienti da una vasta gamma di culture, è nostra responsabilità che i prodotti presenti siano ben voluti da tutti". Yaakov Malach, proprietario del marchio Ahva, ha risposto che "la nostra fabbrica è piena di palestinesi, arabi-israeliani, ebrei, samaritani, tutti lavorano qui. La pace inizia qui, non dalle compagnie aeree. La pace viene da luoghi in cui le persone lavorano fianco a fianco". Furiosi, gli israeliani sono andati a controllare. E il Kohelet Policy Forum ha scoperto che uno degli azionisti della Brussels Airlines, la banca olandese Ing, fornisce servizi nella parte settentrionale di Cipro occupata dai turchi. Tanto per capire chi dà lezioni di "occupazione" e moralità agli israeliani. Il ministro del Turismo d'Israele, Yariv Levin, ha definito"inaccettabile" la decisione della compagnia aerea e che da oggi la loro è la "bandiera nera della vergogna". "Tale società non ha posto nei cieli dello stato di Israele e il suo nome dovrebbe essere cancellato dall'aeroporto Ben Gurion", ha aggiunto Levin. Intanto sui social media si è scatenata la protesta contro la compagnia aerea. Il designer e personalità televisiva Shai DeLuca-Tamasi ha annullato quattro biglietti prenotati con la Brussels Airlines per una vacanza in famiglia. E' nata la pagina Facebook per boicottare la Brussels Airlines: "Se boicottano i prodotti israeliani, noi non voliamo con Brussels Airlines". Utenti hanno inondato la pagina Facebook di Brussels Airlines, con commenti che accusano i manager della compagnia aerea di essere dei "razzisti" e di "discriminare gli israeliani e gli ebrei".
  Quello della Brussels Airlines non è il primo caso di una grande azienda europea che elimina alcuni prodotti israeliani. Il magazzino di lusso di Berlino conosciuto come KaDeWe, il più grande d'Europa, è finito al centro delle polemiche per aver ritirato delle bottiglie di vino israeliane. La scelta, poi ritrattata, sarebbe stata dettata dalle controverse linee guida dell'Unione europea del 2015 (contro cui il Foglio aveva lanciato una campagna). Intanto, le merci israeliane stanno scomparendo da alcune città europee. Come Leicester, la decima più grande città del Regno Unito, dove il Consiglio comunale dominato dal Labour l'ha trasformata nella prima città della Ue a mettere al bando i prodotti "made in Israel". Lo stesso hanno fatto i Consigli comunali di Swansea e Gwynedd. Un caffè di Londra ha invece esposto la scritta "No Israeli products here". Ricorda qualcosa? Anziché preoccuparsi di Molenbeek e del terrorismo islamico, in Belgio c'è chi pensa bene di boicottare l'unica democrazia del medio oriente.

(Il Foglio, 27 agosto 2016)


Parigi scopre che i suoi prof insegnano jihad

Licenziati in dieci

Lo ha confermato su Europe 1, dopo alcune indiscrezioni apparse nei giorni scorsi: una decina di insegnanti schedati «S» per radicalizzazione sono stati rimossi dal loro incarico. La ministra dell'Istruzione francese, Najat Vallaud-Belkacem, ha dichiarato giovedì che una decina di insegnanti oggetto di schedatura «S», che rappresentano cioè una minaccia per la sicurezza dello Stato, sono stati sospesi dal ruolo. «Le informazioni ci sono state trasmesse dal ministero dell'Interno e la nostra risposta è semplice: sospensione immediata e procedimento disciplinare attivato ( ... ) in vita di una esclusione definitiva», ha spiegato la ministra, prima di precisare che gli insegnanti sono stati allontanati dall'universo scolastico in ragione di «fatti concreti che fanno pensare che possono essere pericolosi per gli studenti». Accanto agli insegnanti, dalle affermazioni della ministra dell'Istruzione, è emerso che anche tra gli studenti vi è un aumento degli episodi di radicalizzazione. Dall'inizio dell'anno accademico 2015-2016 alla primavera di quest'anno, sono stati segnalati ben 600 allievi per sospetta radicalizzazione, la maggior parte dei quali nei licei. In Francia sono circa 20.000 gli schedati «S», numeri inquietanti che non risparmiano nessun settore.

(Libero, 27 agosto 2016)


Odio a scuola

di Daniele Scalise

Con loro aveva condiviso i banchi di scuola fin dalle elementari ma il vero incubo sarebbe arrivato solo più tardi, alle medie. L'involontario protagonista è un ebreo di undici anni, età in cui non si è più bambini e non si è ancora ragazzi, gracile nei suoi trenta chili di peso, pronti ad allargarsi in uno stupore o a rimanere annichiliti dopo un'umiliazione. È cosa nota quanto i pari siano capaci di immense crudeltà, di indicibili beffe e spesso e volentieri di non sopportabili violenze. Succede però che a volte lo siano più della media. I carnefici del piccolo ebreo sono due coetanei di origine maghrebina, bulletti alti dai muscoli scattanti e le maniere brusche come si conviene a ogni maschio pronto a impossessarsi di quel ruolo da duro che gli suggerisce il suo genere e gli impone la sua cultura. All'inizio i bulletti si accontentano di deriderlo: «Uno di questi giorni ti riduciamo a una saponetta». Il ragazzino di solito non reagisce ma se ne sta serio, impietrito. Nemmeno a casa osa dire nulla. Quando sei così mortificato, quando senti il coltello dell'odio che ti devasta il cuore cerchi solo di dimenticare il più presto possibile, di nascondere come puoi quella ferita. Non ne parli perché il solo parlarne la rinnova e la fa sanguinare. Non fai altro che pregare il cielo che quella sia l'ultima volta anche se raramente lo è.
   Quando non basta più, quando le parole, gli insulti, le minacce non sono più sufficienti a soddisfare la libido gonfia e pulsante, i due delinquentelli passano alle vie di fatto e prendono a picchiarlo sodo. Prima qualche sberla, poi il gusto è troppo e allora giù calci e pugni in quantità. Tanto da lasciare segni. Sul corpo del bambino ebreo di undici anni, trenta chili di peso, vengono a galla, giorno dopo giorno, lividi vasti, poi delle scorticature lunghe e inspiegabili, poi dei tagli più profondi. Per giorni e giorni, per due lunghissimi mesi. I due bulletti accompagnano le sberle, i calci e i pugni con il solito «sporco ebreo» e rincarano la dose: «Prima o poi vi facciamo scomparire dalla faccia della terra». Fin quando il preside del liceo - un liceo di gente molto per bene in un quartiere molto per bene - viene a conoscenza della storia ormai non più celabile perché i genitori del piccolo ebreo, appena si sono resi conto di quel che accadeva, sono corsi da lui e gli hanno chiesto di fare qualcosa.
   Lo sbigottito capo dell'istituto decide di espellere i due teppistelli ma i loro genitori si rivolgono a un tribunale. In fin dei conti che mai avranno fatto i loro figlioletti? Giustificano e minimizzano l'accaduto sostenendo che «in fondo si è trattato di una piccola crudeltà durante l'ora di ricreazione ... ». Alla fine il tribunale decide: i due ragazzi maghrebini possono tornare a scuola perché dare a qualcuno dello «sporco ebreo», tormentarlo, umiliarlo e picchiarlo ogni volta che gira l'angolo, non è motivo sufficiente per comminare una punizione così definitiva come un'espulsione. «Se le azioni dei due allievi giustificano una sanzione» si legge nella sentenza, «questa non deve per forza essere la più grave.» Non bastasse, lo Stato si offre di ripagare le famiglie dei due teppistelli con tremila euro per rifondere le spese processuali. Commenta soddisfatta la Lega dei diritti dell'uomo, molto vicina alla comunità araba: «La lotta contro l'antisemitismo non può giustificare la designazione di capri espiatori». Il ragazzo con i suoi undici anni e i suoi trenta chili di peso cambierà scuola. Non è nemmeno pensabile che continui a frequentare lo stesso luogo in cui torneranno i suoi carnefici. Cala il silenzio sulla scuola per bene, sul quartiere per bene, sulle famiglie per bene degli altri alunni, sicuramente molto annoiate da tutto quel rumore.
   Tranquilli (tranquilli?): non è successo in Italia ma in Francia, nell'esclusivo sesto arrondissement parigino nell'agosto 2004: Tranquilli (tranquilli?): da noi certe cose, si sa, non potrebbero mai accadere. È opinione diffusa che in Italia non vi siano che tracce deboli, residuali e insignificanti di antisemitismo. I nostri ragazzi in fondo ci assomigliano: un po' indisciplinati ma non certo crudeli. Al massimo possono allagare una scuola per evitare un compito in classe, niente di più. Potete dormire tranquilli. Soprattutto se non siete ebrei.

(Notizie su Israele, 27 agosto 2016)


L'Egitto riaprirà il valico di Rafah martedì 30 agosto per il passaggio di pellegrini palestinesi

ANKARA - Le autorità egiziane riapriranno eccezionalmente il valico di Rafah al confine con la Striscia di Gaza martedì prossimo per consentire ai pellegrini palestinesi di attraversarlo. Lo ha riferito oggi Hisham Adwan, direttore palestinese del valico, all'agenzia di stampa turca "Anadolu". Almeno 2 mila fedeli musulmani palestinesi della Striscia di Gaza dovrebbero partecipare quest'anno al pellegrinaggio dell'Haji. Nel 2015 milioni di pellegrini si sono recati in Arabia Saudita per partecipare alle celebrazioni dell'Haji, il grande pellegrinaggio che coinvolge tutto il mondo islamico. Il pellegrinaggio dello scorso anno è stato segnato dalla tragedia di Mina, dove a causa della calca, dovuta a problemi organizzativi, hanno perso la vita quasi mille persone.

(Agenzia Nova, 27 agosto 2016)


L'israeliana spacecom acquisita da un gruppo cinese

Il provider satellitare israeliano SpaceCom è stato acquisito dal gruppo cinese Beijing Xinwei Technology per 285 milioni di dollari (250 milioni di euro).

 
AMOS-6 nella camera pulita di Israel Aerospace Industries (IAI)
Il passaggio di proprietà di SpaceCom è avvenuto tramite una controllata lussemburghese del gruppo di Pechino, che unirà in questo modo tutti i suoi assest satellitari in un'azienda con diritto del Granducato.
Space Communication possiede una flotta di 3 satelliti con un quarto, AMOS-6, ormai pronto per essere lanciato il prossimo 3 settembre da un Falcon 9 di SpaceX. Una volta completato il passaggio, la gestione dei satelliti continuerà dalle strutture dell'azienda in Israele attraverso la Big Bird, azienda di diritto israeliano controllata dal gruppo cinese.
AMOS-6 è costruito dalla Israel Aerospace Industries (IAI). Parte del payload del satellite è stato acquistato da Facebook, che lo utilizzerà per lanciare il suo servizio di connessione ad internet in Africa.
La SpaceCom è stata finora controllata dal gruppo di telecomunicazioni di Tel Avic Eurocom, che negli ultimi anni ha provato più volte a vendere, senza successo, i suoi asset satellitari.
«Il mercato globale dei satelliti per telecomunicazione è in una fase di consolidamento, con le aziende che partecipano alle fusioni che riescono a migliorare la loro competitività», ha spiegato l'Amministratore delegato di SpaceCom David Pollack in un comunicato.
Pochissime le notizie sul Beijing Xinwei Technology Group. Nel comunicato diffuso da SpaceCom c'è scritto che il gruppo è uno dei principali conglomerati cinesi con una capitalizzazione presso la Borsa di Shanghai pari a 7,6 miliardi di dollari. Fondato nel 1995 da due esperti di telecomunicazioni cinesi, vanta asset per 2,5 miliardi di dollari.

(Fly Orbit News, 26 agosto 2016)

AMOS-6 nella camera pulita di Israel Aerospace Industries (IAI)


Delegazione imprenditoriale turca arriva in Israele per rafforzare business sull'energia

A seguito del recente riavvicinamento tra Israele e Turchia, i rapporti nel business tra i due Paesi si intensificano, soprattutto nel settore dell'energia. Lo dimostra l'arrivo, nelle ultime ore in Israele, di una delegazione turca, che ha visto la partecipazione di Ahmed Zorlu, proprietario del colosso energetico Zorlu e personalità vicina al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. In programma anche un incontro con Erez Halfon, presidente della compagnia petrolifera israeliana Eilat Ashkelon Pipeline Company (Eapc) proprietaria dell'impianto di gas naturale di Dorad, il secondo sito energetico più grande di Israele. La visita si focalizza su opportunità di cooperazione tra i due Paesi per sviluppare nuovi progetti nel crescente settore energetico israeliano. Recentemente Israele ha aumentato il suo export di gas verso l'Europa e i turchi sono interessati a molteplici progetti israeliani nel settore del gas, che includono la costruzione di un gasdotto tra la Turchia e il campo di Leviathan, il più grande giacimento di gas, al largo delle coste mediterraneee di Israele.

(Agenzia Nova, 26 agosto 2016)


"Israele non vedrà i prossimi 25 anni: ad Allah piacendo"

L'eliminazione di Israele "entro 23 anni" è l'obiettivo principale di un'unità militare iraniana creata di recente per combattere nei paesi arabi della regione. Lo ha detto la scorsa settimana l'ex comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, il generale Mohammad Ali Al Falaki, parlando del cosiddetto "Esercito di Liberazione Sciita", agli ordini di Teheran, che conduce operazioni militari fuori dall'Iran. Lo ha riferito Al Arabiya, citando un'intervista all'agenzia di stampa iraniana Mashregh. Falaki ha sottolineato che l'unità militare, già attiva in Iraq, Yemen e Siria, è strategicamente posizionata per distruggere lo stato ebraico giacché già combatte in prossimità delle frontiere d'Israele. La scadenza "23 anni" fa riferimento alle parole diffuse nel 2015 dalla Guida Suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, all'indomani della trattativa sul nucleare con le potenze occidentali: "Nel regime sionista dicono che non avranno più preoccupazioni dall'Iran per i prossimi 25 anni - twittò in quell'occasione Khamenei - Ma tanto per cominciare Israele non vedrà i prossimi 25 anni: ad Allah piacendo, fra 25 anni non ci sarà più nulla del regime sionista".

(israele.net, 26 agosto 2016)


ReoGo: Il dispositivo israeliano per la riabilitazione

ReoGo: Il dispositivo israeliano per la riabilitazione

ReoGo è un dispositivo pensato per la riabilitazione dopo le lesioni neurologiche. Si tratta di una piattaforma portatile e facile da usare ideata da Motorika per permettere ai pazienti che hanno subìto un ictus o altre lesioni neurologiche di riqualificare il cervello attraverso il movimento ripetitivo. Consiste in un braccio motorizzato che offre cinque modalità di funzionamento che vanno dal sostegno passivo per coloro che non riescono a muoversi fino al movimento guidato in casi di poca mobilità. ReoGo aumenta la motivazione del paziente attraverso una varietà di giochi interattivi e stimolanti che imitano i movimenti naturali della mano.
Completamente motorizzato, il sistema è costituito da un braccio robotico ergonomico che, insieme ad un software avanzato, combina esercizi specifici, personalizzati e coinvolgenti per la riabilitazione. I giochi sono stati progettati da importanti terapisti. Secondo l'azienda, ReoGo è altamente efficace per la terapia degli arti superiori.
Caratteristiche di ReoGo:
  • Facile da installare e da utilizzare;
  • L'interfaccia utente è altamente intuitiva, con supporto multi-lingua;
  • Software di gestione avanzato con valutazione globale che permette al terapeuta di progettare e personalizzare il trattamento in tempo reale, a seconda delle capacità del paziente e dello stato di salute;
  • Feedback dettagliati sui progressi del paziente;
  • Il monitoraggio della qualità del movimento;
  • Possibilità di esportare i dati relativi al progresso del trattamento;
  • Cinque modalità di funzionamento che consentono il trattamento di tutte le fasi della riabilitazione, partendo dal soggetto completamente passivo fino ai pazienti attivi;
  • Dispone di una biblioteca con una vasta gamma di esercizi e giochi per i vari obiettivi di riabilitazione.
Negli Stati Uniti, Giappone, Italia, Germania e Israele sono state condotte valutazioni cliniche su una terapia basata sull'utilizzo di questo strumento. In totale sono stati valutati circa 350 pazienti colpiti da ictus e le conclusioni mostrano che la piattaforma è sicura, non ha effetti collaterali ed ha un effetto positivo sulla riabilitazione che viene mantenuta nel tempo.
Video

(SiliconWadi, 26 agosto 2016)


Guerra delle Falkland, Israele vendette armi all'Argentina

La conferma arriva da documenti dell'epoca declassificati dall'archivio del Foreign Office britannico.

LONDRA - Israele vendette armi ed equipaggiamento all'Argentina della dittatura militare ai tempi della guerra delle Falkland, le isole che Buenos Aires rivendica come sue con il nome di Malvinas.
La rivelazione, già contenuta in un libro pubblicato nel Paese sudamericano nel 2011, trova ora conferma autorevole in documenti dell'epoca declassificati dall'archivio del Foreign Office britannico e citati dai media.
I file fanno riferimento a passi di protesta compiuti a quel tempo riservatamente dal Regno Unito nei confronti dello Stato ebraico, sulla carta alleato di Londra. Ma anche al fatto che ancora nel 1984 le forniture belliche in effetti proseguivano.
Fra le armi israeliane utilizzate dall'Argentina durante il conflitto dell'82, spiccano alcuni caccia Skyhawk, con i quali le forze di Buenos Aires bombardarono diverse unità della Royal Navy provocando la morte di decine di marinai.
Stando al libro del 2011, gli israeliani riuscirono ad aggirare i divieti e a vendere armi all'Argentina del generale Leopoldo Galtieri stivandole su cargo mascherati e attraverso il Perù. "Israele è stato uno dei pochi Paesi a fornire armi all'Argentina durante la guerra delle Falklands e continua a farlo", si legge ora in uno dei documenti rilasciati dal Foreign Office, un memorandum scritto nel 1984 dal diplomatico C.W. Long, all'epoca capo del Near East and North Africa Department.
Secondo alcuni storici, dietro la decisione di sostenere la giunta argentina (a dispetto delle storiche responsabilità degli ambienti militari di quel Paese nella fuga di vari criminali nazisti) vi era pure "l'odio per la Gran Bretagna" coltivato fin dai tempi della lotta armata condotta in gioventù contro l'ex potenza mandataria in Palestina dall'allora premier, Menachem Begin. Ma i documenti inglesi evidenziano soprattutto gli interessi economici dell'industria della difesa israeliana. Mentre i media non escludono anche una componente di 'ripicca', visto che il Regno Unito vendeva a sua volta armamenti a Paesi arabi considerati nemici dallo Stato ebraico.

(Corriere del Ticino, 25 agosto 2016)


Fotografia: il Ghetto di Venezia nel reportage di Scianna

Nel Palazzo dei Tre Oci per i 500 anni di storia del Ghetto

ROMA - Apre domani a Venezia, alla Casa dei Tre Oci sull'isola della Giudecca, la rassegna fotografica 'Ferdinando Scianna. Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo', in occasione dei 500 anni della fondazione del Ghetto ebraico a Venezia.

Cena di Shabbat nella sede del gruppo Chabad-Lubavitch Preghiera del mattino nel Midrash Luzzatto dentro la sinagoga Levantina Insegnamento del rabbino nel Midrash Luzzatto dentro la sinagoga Levantina Visitatori di una comunità ebraica americana attraversano il ponte del Ghetto Vecchio Meditazione notturna in Ghetto Nuovo Il sapore visivo della tradizione nell'immagine di un uomo che attraversa il Ghetto Le arcate dentro le quali è ospitato il banco rosso Signore vestite a festa per Shabbat     mootools lightbox gallery by VisualLightBox.com v6.0m  
Foto di Ferdinando Sciannna

Il grande fotografo siciliano ha realizzato un reportage fotografico in pieno stile Street Photography, raccogliendo immagini di vita quotidiana nel Ghetto, senza tralasciare ritratti, architetture, interni di case e luoghi di preghiera. Chiese, ristoranti, campi, gondole sono i soggetti che animano il panorama visivo del progetto. Da segnalare, in questa narrazione, la compresenza di una dimensione simbolica, storica, rituale, connessa a sua volta con luoghi e gesti, nella semplicità descrittiva di un tempo presente e ordinario.

(ANSAmed, 25 agosto 2016)


I Lumi di Chanukkah in mostra a Palazzo Ducale di Mantova

L'esposizione che tanto successo ha riscosso a Casale Monferrato visitabile nella città lombarda dal 4 al 28 settembre

cASALE MONFERRATO - Dopo il grande successo della mostra I Lumi di Chanukkah - oggetti rituali del mondo ebraico -, presso il Castello del Monferrato una selezione di opere giunge a Palazzo Ducale di Mantova per un nuovo importante appuntamento all'insegna dei ponti ideali, identitari e storici. Una mostra che inaugura il 4 Settembre 2016 e che sarà fruibile al pubblico fino al 28 settembre 2016 presso il Refettorio di Corte Vecchia.
A unire le due città infatti il passato grandioso del Ducato di Mantova e del Monferrato.
Il Castello di Casale Monferrato fu dimora dei Paleologi e in seguito fortezza Gonzaghesca, qui si celebrarono nel 1517 le nozze -mai consumate-. fra Maria Paleologi e Ferdinando di Gonzaga, che si sposò in seconde nozze con Margherita Paleologi a Mantova nel 1531.
Da qui, simbolicamente, parte la collezione Lumi di Chanukkah, e viaggia fino a Palazzo Ducale di Mantova, città nella città, cuore pulsante per ben 4 secoli del ricco regno gonzaghesco.
Ad accumulare Casale Monferrato e Mantova infatti anche molti elementi generati dalla politica colta, aperta e tollerante dei Gonzaga che hanno visto nel mondo ebraico una risorsa e non un pericolo.
Da queste premesse lungimiranti nasce la mostra che raccoglie una selezione di 34 opere di artisti e designer internazionali che hanno lavorato sul tema ebraico della festa di Chanukkah, o Festa della Luce, interpretandolo e declinandolo in stili, linguaggi e visioni differenti.
Da queste premesse nasce la mostra negli spazi quasi inediti e suggestivi del Refettorio di Corte Vecchia (Santa Croce) che vede esposte una selezione di 36 Chanukkiot provenienti dalla collezione della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica di Casale Monferrato.
La collezione delle Chanukkiot di Casale Monferrato nasce circa 20 anni fa da un designer e un artista, uno ebreo e l'altro no, che condividono una visione e le danno corpo. Partono dalla storia, riflettono sul valore intimo, personale, dell'identità ebraica e sul suo senso nella contemporaneità: riconoscono nella Festa di Chanukkah un simbolo di luce, resistenza, volontà di esistere e disegnano due chanukkiot che sono opere d'arte. Poi invitano altri artisti a fare la stessa cosa. Il processo prende vita e il contagio funziona: minimo comune denominatore l'esigenza di esistere, quella degli ebrei, e quella delle opere d'arte. Due esigenze diverse ma fortissime, originali, non compromettibili. Ad oggi circa 180 designer e artisti di fama internazionale si sono misurati con le lampade rituali che esprimono nella celebrazione della festa delle luci l'identità del popolo ebraico.
Il progetto è stato possibile grazie alla collaborazione fra Palazzo Ducale di Mantova, Comune di Casale Monferrato, Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica di Casale Monferrato e del Piemonte Orientale ONLUS, Associazione di cultura ebraica "Man Tovà - la città della manna buona".

(Casalenews, 25 agosto 2016)


Turchia - Zeybekci: la distensione con Israele apre la via del gas

 
Il ministro dell'Economia turco, Nihat Zeybekci

ROMA - La distensione dei rapporti con Israele avra' come effetto "il passaggio del gas naturale dal Mediterraneo orientale verso il mondo intero attraverso la Turchia", uno sviluppo "molto importante che avra' influenze positive". Ne e' convinto il ministro dell'Economia turco, Nihat Zeybekci, che in un'intervista all'AGI ricorda come lo Stato ebraico sia "un partner commerciale molto importante, lo e' sempre stato" e tale "resta", con "5 miliardi di dollari interscambio".
   Dopo sei anni di tensione diplomatica, a fine giugno Ankara e Gerusalemme hanno raggiunto un accordo di riconciliazione. Tra i punti dell'intesa, il pagamento di 20 milioni di euro da parte dello Stato ebraico come risarcimento per la morte di 10 attivisti turchi nel raid delle teste di cuoio israeliane sulla nave Mavi Marmara che nel giugno 2010 era in rotta verso Gaza per cercare di forzare il blocco. Inoltre, Israele ha dato il via libera all'invio di aiuti umanitari turchi nell'enclave palestinese attraverso pero' il porto di Ashdod. In cambio, Ankara si e' impegnata a non perseguire i militari israeliani coinvolti nell'operazione.
   La normalizzazione dei rapporti permettera' di sviluppare il progetto per portare il gas del giacimento israeliano Leviatano in Europa attraverso un gasdotto che passera' per la Turchia, con ricadute positive per entrambi i Paesi coinvolti. Israele non e' l'unico tassello nella politica di distensione attuata recentemente dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Dopo la crisi causata dall'abbattimento di un caccia russo da parte di due F-16 turchi nei cieli della Siria nel novembre scorso, alla fine di giugno Ankara e Mosca hanno ripreso gradualmente il dialogo, percorso culminato nell'incontro tra Erdogan e il presidente russo Vladimir Putin a San Pietroburgo il 9 agosto.
   Una ritrovata intesa che apre a una nuova stagione nei rapporti economici tra Turchia e Russia, come ha auspicato lo stesso Zeybekci che nell'intervista ha indicato "l'obiettivo molto ambizioso di aumentare a 100 miliardi di dollari l'interscambio commerciale". "Stiamo effettuando i passi necessari per raggiungerlo - ha aggiunto - vorremmo liberalizzare il nostro commercio in vari settori, a cominciare da quelli prioritari come infrastrutture, energia, turismo, agricoltura e metallurgia".
   Ankara, infatti, nonostante le recenti turbolenze politiche, e' piu' decisa che mai a continuare sulla strada della crescita e dello sviluppo economico, rassicurando imprese e investitori sulla tenuta del Paese e sui tanti progetti da realizzare. Proprio questo e' lo scopo della visita compiuta in Italia dal ministro, parte di quella "campagna informativa" lanciata "per eliminare tutti i dubbi e le preoccupazioni sulla stabilita' economica del nostro Paese".
   E da questo punto di vista, ha sottolineato Zeybekci, la reazione e' stata generalmente di fiducia. Anche la decisione di Fitch della settimana scorsa di confermare il rating della Turchia ma di rivedere l'outlook da stabile a negativo ce la "potevamo pure aspettare alla luce dei fatti recenti", ha confermato il ministro. Che ha aggiunto, "siamo venuti qui apposta, dobbiamo soprattutto combattere la percezione sbagliata" che si ha della Turchia in questo momento e "far capire a imprenditori e societa' civile che ci impegneremo al massimo per superare questo periodo nel modo migliore, subendo il minor danno possibile".
   Dopo il tentato golpe del 15 luglio scorso, "siamo riusciti a ridurre al minimo i danni grazie alla grande fiducia di investitori e cittadini che ha dato i risultati desiderati". Anche Moody's "non si e' pronunciata ma ha lasciato il suo giudizio invariato. Non voler valutare la Turchia e la sua credibilita' in un momento difficile e' una dimostrazione di fiducia".

(AGI, 25 agosto 2016)


Festival del Cedro, ospiti il rabbino Moshe Lazar e la cantastorie Francesca Prestia

                                                   Il rabbino Moshe Lazar                                                                                            La cantastorie Francesca Prestia

Sabato 27 agosto alle ore 21, a Santa Maria del Cedro si terrà il "Festival del Cedro", promosso dal presidente del Consorzio del Cedro Angelo Adduci.
Principale ospite della serata sarà il noto rabbino Moshe Lazar, della Comunità ebraica di Milano, che parlerà sul significato simbolico e rituale del cedro nella tradizione ebraica e sul senso del loro ritornare, ogni anno, sulla riviera calabra per raccogliere il sacro frutto, uno dei migliori del mondo.
Nei miti e nelle leggende la Calabria per gli ebrei ha rappresentato una terra dove dimorare durante il loro pellegrinare. E nel corso dei secoli in ogni luogo hanno fondato comunità laboriose. Medici, artigiani, commercianti, astronomi, scienziati, tipografi diedero un contributo fondamentale alla storia calabrese.
Francesca Prestia, donna cantastorie, arricchirà la serata con la sua ballata "I figli di Aschenaz". Il brano, scritto in collaborazione con il prof. Giovanni Sole, è dedicato alla raccolta dei cedri in Calabria per la festa del Sukkot. Gli ebrei allontanati dalla Calabria agli inizi del Cinquecento, ritornano a Santa Maria del Cedro rinnovando il loro millenario legame. La cantastorie ha incluso nel suo repertorio la ballata "I figli di Aschenaz" per ricordare una pagina di storia della regione in gran parte dimenticata. Nella ballata riecheggia la storia di un popolo che ha vissuto nelle numerose giudecche disseminate nelle nostre città e borghi antichi.

(ntaCalabria, 25 agosto 2016)


Yad Vashem - Fantoni, un altro Giusto italiano

di Giorgio Bernardelli

C'è un nuovo italiano fra i Giusti tra le nazioni riconosciuti dallo Yad Vashem. Ancora una volta è una figura legata a Firenze: si tratta dell'intellettuale liberale Renato Fantoni, protagonista della Resistenza che nel dopoguerra nella città del Giglio fu anche assessore alla casa nella prima giunta comunale guidata da Gaetano Pieraccini. A dare la notizia del riconoscimento ufficiale decretato a Gerusalemme è il portale dell'Unione delle comunità ebraiche italiane che proprio attraverso il suo mensile Pagine ebraiche nel dicembre 2014 aveva ricostruito la storia di come Fantoni, nei giorni più bui della persecuzione, avesse dato ospitalità in una sua casa a Pian del Mugnone agli amici ebrei Eugenio Artom e Giuliana Treves e al loro maggiordomo Amedeo.
   A far riscoprire questo aspetto della vita dell'intellettuale fiorentino, a cui Firenze ha già dedicato la via della stazione ferroviaria di Rifredi, sono stati il figlio adottivo Piero Sarti Fantoni e la nipote della coppia, Fortunee Treves, la cui testimonianza è stata decisiva per i criteri seguiti dallo Yad Vashem. Già nel maggio 1945 Artom (amministratore delegato della compagnia di assicurazioni "La Fondiaria" fino alle leggi razziali e membro del Consiglio della comunità ebraica di Firenze) citò l'impegno di Fantoni in una dichiarazione ufficiale alla Comunità ebraica. Ma dagli archivi recentemente è riemersa anche una lettera scritta dalla signora Giuliana nel 1951: «La vostra accoglienza così immediata. affettuosa e senza riserve - scriveva a Fantoni -, oltre alla salvezza materiale, ha ridato col vostro esempio anche la fede nella fratellanza umana». Renato Fantoni sarebbe poi morto nel 1954, ali' età di sessant'anni.
   «È una notizia straordinaria, il giusto omaggio a un grande uomo che ho avuto il privilegio di poter chiamare babbo, anche se per troppo poco tempo. Non riesco a smettere di piangere, il titolo di Giusto è il mio modo per dirgli grazie», ha dichiarato Piero Fantoni, la cui famiglia, ricorda il portale dell'Ucei, fu massacrata dai nazisti a Cerreto Maggio e che, da bambino a casa Fantoni ritrovò la fiducia negli uomini e la speranza nel futuro. Secondo le statistiche aggiornate al 1 gennaio 2016 sono complessivamente 671 su 26.120 gli italiani a cui è stato attribuito il titolo di Giusti tra le nazioni. Un numero cresciuto negli ultimi anni se si pensa che nel 1994 erano appena 120 e ancora una decina di anni fa erano circa 400. In questo contesto il nome di Fantoni va ad aggiungersi ad altri molto significativi per Firenze, da quello del cardinale arcivescovo Elia Dalla Costa che insieme al rabbino Nathan Cassuto diede vita a una delle più significative reti per il salvataggio degli ebrei. Un'opera a cui diede contributo Gino Bartali (Giusto tra le nazioni), ma anche tanti religiosi e persone comuni. Non va dimenticato che la Comunità ebraica di Firenze contò comunque 248 vittime nella Shoah, tra cui lo stesso rabbino Cassuto, arrestato il 26 novembre 1943 in una retata nella sede dell'Azione cattolica, che segretamente ospitava le riunioni della Delasem, l'ente clandestino ebraico di assistenza ai profughi.

(Avvenire, 25 agosto 2016)


Lo chef internazionale israeliano Moshe Basson propone una cucina biblica

A Gerusalemme si può provare nel suo ristorante Eucalyptus

di Mario Del Monte

 
Moshe Basson

Domenica 12 Giugno si è svolto a Milano il concorso "The Vegetarian Chance", il festival internazionale di cultura e cucina vegetariana. Ospite d'eccezione e giudice del con test è stato lo chef israeliano Moshe Basson, specializzato in cucina biblica ovvero tutti quei piatti che vengono menzionati nei testi sacri rigorosamente preparati con ingredienti e metodi di cottura antichissimi. Oltre ad essere esperto in cucina mediterranea e storico dell'alimentazione lo chef Basson si batte da anni per la rivalutazione dei cibi antichi ed è stato nominato Cavaliere della Repubblica Italiana nel 2006. Il suo amore per la cucina nasce nel 1951 quando si trasferisce con la famiglia dall'Iraq a Gerusalemme e comincia ad aiutare il padre nella sua panetteria di Beit Safafa. Grazie ai consigli delle donne incontrate nei villaggi coltiva la sua passione fino a decidere di aprire un ristorante a Gerusalemme nella casa di famiglia. Una casa decisamente particolare visto che era stata costruita intorno ad un albero di Eucalipto piantato da lui stesso molti anni prima a Tu Bishvat, il Capodanno degli Alberi. L'Eucalyptus è oggi uno dei ristoranti più famosi al mondo ed ha ricevuto diversi riconoscimenti fra cui quello della Vegan Friendly Society israeliana. La cucina biblica consente infatti un'ampia scelta di piatti vegani e gli ingredienti utilizzati nel suo locale sono principalmente raccolti fra le colline della città. Questo perché, come ha spiegato lo chef Basson nello show cooking "prima della faine" che si è tenuto al termine del concorso, la Bibbia ci racconta che l'uomo, prima del diluvio universale, era vegetariano.
   Nella due giorni della kermesse internazionale, giunta quest'anno alla terza edizione, c'è stato spazio per diversi aspetti della cucina vegana: tra un piatto di legumi e un assaggio di cioccolato diversi esperti del settore sono intervenuti per dire la loro sul futuro della cucina e sugli effetti di questa sulla salute dell'uomo. Il primo posto del concorso è stato assegnato dalla giuria ad Antonio Zaccardi che con il suo tacos di mandorle, un piatto a base di frutta secca e profumi di zafferano, fiori ed erbe, ha convinto per presentazione, sostenibilità, valore nutrizionale e, ovviamente, gusto. Il Presidente della giuria e fondatore del festival Pietro Leemann al termine della premiazione ha sottolineato come quest'anno sia notevolmente cresciuto il livello dei concorrenti che hanno dimostrato di aver studiato duramente per rendere i vegetali i veri protagonisti delle pietanze.
   Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo ha lodato l'iniziativa di portare Basson al The Vegetarian Chance descrivendola come "un'occasione eccezionale per scoprire un volto inedito della nostra Israele. Attraverso la cucina del nostro Moshe Basson, e non solo, condurremo tutti i visitatori del festival a scoprire quanto sia varia l'offerta turistica della nostra terra dove la sola Tel Aviv è stata prescelta come la miglior destinazione al mondo per l'offerta di cibo vegetariano dalla preziosa CNT Traveller di Condenast per l'abbondanza di materia prima, per le piramidi scintillanti di melanzane, peperoni e cavolo ammucchiati come pin-up al mercato Carmel della città."

(Shalom, luglio 2016)


Spariti gli alunni ebrei dalle scuole di Francia

di Graziella Giangiulio

PARIGI - Non è più tempo era gli ebrei di Francia e Belgio di andare nelle scuole pubbliche. Decine di migliaia di giovani ebrei francesi e belgi, riporta Arutz Sheva 7, in un periodi di forti tensioni nei loro paesi stanno crescendo più "isolati" rispetto alle generazioni precedenti. Mentre 30 anni fa la maggior parte degli ebrei francesi iscrivevano i loro figli nelle scuole pubbliche, ora solo un terzo lo fa. I restanti due terzi sono divisi equamente tra scuole ebraiche e le scuole private non ebrei, secondo Francis Kalifat, il neo eletto presidente del Crif, che unisce le comunità ebraiche francesi.
    Il cambiamento è stato particolarmente drammatico nella zona di Parigi, che ospita circa 350mila ebrei, il 65 per cento degli ebrei francesi. «Nella regione di Parigi, non ci sono praticamente più ebrei tra gli alunni delle scuole pubbliche», ha detto Kalifat, che attribuisce la loro assenza a «una brutta atmosfera di vessazioni, insulti e aggressioni» contro gli ebrei a causa della loro etnia, e alla crescita simultanea del sistema di educazione ebraico. Mentre la maggior parte episodi di antisemitismo consistono in insulti, spesso non segnalati alle autorità, in alcuni casi si tratta di minacce di morte e aggressioni armate.
  L'aumento antisemitismo scolastico in Francia, registrato per la prima volta in un rapporto interno del ministero dell'Istruzione nel 2004, è coinciso con un aumento di episodi di antisemitismo diffuso. Se prima del 2000, solo poche decine di incidenti erano stati registrati ogni anno in Francia; da allora in poi, ne sono stati segnalati ogni anno a centinaia. Dagli attentati di Tolosa del 2012, le scuole ebraiche francesi sono protette da soldati armati. In Belgio, la Lega contro l'antisemitismo ha documentato molteplici incidenti tesi a rendere le scuole pubbliche del paese "libere da ebrei". Non sono mancate le polemiche e le accuse verso il sistema socratico di Bruxelles che sarebbe più riluttante rispetto al francese nel punire gli alunni per comportamenti anti-semiti.
  Oltre a tracciare l'antisemitismo tra gli studenti, le autorità civili e statali dei due paesi stanno registrando, per la prima volta da decenni, un crescente numero di incidenti che coinvolgono insegnanti, sia come vittime che come carnefici. L'atmosfera è tale, riporta po, l'emittente, che sta spingendo molti genitori ebrei francesi a partire per Israele, che sta registrando infatti livelli record di immigrazione proprio dalla Francia. Dal 2012, 20mila ebrei hanno preso questa decisione.

(agc, 25 agosto 2016)


Erdogan si butta nella guerra di Siria

I piani egemonici del «sultano». La Turchia manda i carri armati a Jarablus: «Sono contro l'Isis». Ma Ankara vuole soprattutto bastonare i curdi.

di Carlo Panella

Svolta clamorosa della Turchia di Tayyip Erdogan che ieri all'alba ha passato con una colonna di carri armati il confine con la Siria e ha attaccato e conquistato, con un forte impiego dell'aviazione e dell'artiglieria pesante, la città di Jarablus, subito al di là della linea frontaliera e controllata da anni dall'Isis. Per anni le televisioni di tutto il mondo hanno mandato in onda le immagini dei vessilli neri del Califfato dell'Isis che svettavano su tutti i minareti di Jarablus, visibili a occhio nudo dal territorio turco. Prova indiscutibile di una tolleranza, anzi di una complicità oggettiva con l'Isis di un Erdogan che accettava senza reagire la sfida di un provocatorio presidio armato del Califfato subito al di là dei propri confini. Il tutto, all'interno di una ambigua strategia turca che favoriva chiunque si opponesse a Beshar al Assad, anche i terroristi di al Baghdadi. Una strategia fortemente contestata da ampia parte degli stessi vertici militari turchi e ragione non secondaria del tentato golpe poi fallito del 15 luglio scorso.
   Pur pienamente giustificato, l'attacco via terra e via aria di armate turche sul territorio siriano costituisce indubbiamente - e volutamente - una violazione della sovranità siriana e infatti il governo di Damasco ha reagito con furibonde proteste. Dietro le colonne dei carri armati turchi infatti si sono mossi ben 5.000 miliziani ribelli siriani turcomanni e soprattutto della laica Free Syran Army, alleati di Ankara, che intendono prendere possesso della città in funzione anti Assad, oltre che anti Isis, per poi probabilmente marciare sulla vicina Aleppo, per impedirne la caduta nelle mani del regime di Damasco.
   Naturalmente non è stata casuale la coincidenza tra questa mossa di Erdogan e la contemporanea visita ad Ankara del vice presidente Usa Joe Biden, la prima dopo il fallito golpe. Una sfida aperta alla pasticciata strategia americana in Siria e la marcatura di una piena autonomia di azione della Turchia nella crisi siriana, peraltro anche nei confronti di una Russia tenacemente alleata di Assad.
   Joe Biden, naturalmente, dovrà affrontare con Erdogan anche lo spinoso tema dell'estradizione dagli Usa di Fetullah Gülen, il teologo islamico che la Turchia accusa di essere stato il promotore del golpe del 15 luglio e che imbarazza non poco Washington, che teme di essere accusata dalla comunità internazionale, a ragione, di cedere a pressioni turche per nulla motivate sul piano legale. Un imbarazzo che è trapelato dalle parole di Joe Biden, che si è confermato come gaffeur, dichiarando: «Vorrei che Gülen fosse in un altro paese e non negli Stati Uniti». L'imbarazzo di Biden è poi accresciuto dal contemporaneo attacco aereo disposto da Erdogan contro la città siriana di Kharkamis, controllata dai curdi del Ypg, alleati degli americani - ma anche di Assad - nel contrasto all'Isis. L'apertura di questo secondo fronte militare turco in Siria, oltre a costituire uno schiaffo nei confronti degli Usa, segna una seconda sfida aperta ad Assad e alla Russia.Nei progetti russo-siriani, infatti, la nascita di una repubblica curda del Ypg - denominata Rugava - nel nord della Siria costituisce un fatto strategico, anche perché grazie a questa blasfema alleanza Assad ha potuto liberare consistenti forze militari dal presidio del nord del Paese. Specularmente, la nascita di questa entità curda in Siria è intollerabile per la Turchia, anche perché funziona come «santuario» per i ribelli curdo-turchi del Pkk, alleato del Ypg, che conducono dal luglio scorso una guerra senza esclusione di colpi - e di attentati - contro i militari e le città turche.
   Dunque, da ieri è iniziata una escalation militare nella crisi siriana, dagli sviluppi imprevedibili.

(Libero, 25 agosto 2016)



Parashà della settimana: Ekev (In conseguenza)

Deuteronomio 7:12-11:25

 - "Se osserverete queste leggi e le avrete eseguite, il Signore tuo D-o manterrà per te il patto che giurò ai tuoi padri. Ti amerà, ti benedirà e ti moltiplicherà" (Deuteronomio 7.12).
La prosperità e la pace del popolo ebraico dipendono dall'osservanza dell'Alleanza stabilita con D-o. Il ricordo delle ribellioni accadute nel deserto del Sinài dovrebbero servire al popolo dalla "dura cervice" per evitare gli errori commessi e ritornare a D-o (teshuvà)
Ekev significa "tallone" ma anche "in conseguenza" dell'obbedienza alle leggi verrà mantenuto da D-o il patto contratto con Israele. Difatti la ricompensa (benedizione) per aver eseguito i precetti non si trova davanti ai tuoi occhi ma nel tallone cioè nella parte nascosta ma di certo essa verrà.
La parola Ekev secondo la tradizione orale, fa allusione alla fine dell'esilio, alla fine di un ciclo storico e più precisamente alla fine della civiltà di Edom (Roma).
Il riferimento a questa interpretazione è scritto nel libro della Genesi. "E dopo Esaù uscì suo fratello Giacobbe che teneva la mano sul tallone di Esaù" (Genesi 25.26).
Nella profezia di Daniele la civiltà di Edom è rappresentata dalla statua sognata da Nabucodonosor, re di Babilonia, che distrusse il primo Tempio in Gerusalemme.
Secondo l'interpretazione della profezia, la statua con le gambe di ferro (Roma) e i piedi di argilla (Islam) simboleggia il quarto ed ultimo esilio del popolo ebraico.
L'argilla mescolata al ferro provocherà la caduta della statua realtà questa sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui l'Islam avrà invaso tutti i paesi con una immigrazione di massa incontrollata sarà l'inizio della fine della civiltà occidentale.
Simbolicamente nella mescolanza tra ferro ed argilla l'Occidente verrà ad identificarsi con l'Islam, perdendo la sua identità per rovinare su se stesso.

Israele: la terra della benedizione
"Perché la terra in cui tu vai ad installarti non è come l'Egitto…….essa è una terra di cui il Signore si prende cura e sulla quale si posano i Suoi occhi dal principio alla fine dell'anno" (Deuteronomio 11.10).
La Torah vuole richiamare la nostra attenzione su un fatto straordinario che spesso dimentichiamo. La benedizione di D-o è sempre presente sulla Terra d'Israele e non è un caso che in questa parashà viene nominato l'Egitto il paese simbolo della potenza e della prosperità.
Uno dei problemi degli ebrei è quello di ritenere che altrove si trovi la benedizione di D-o. Per questi motivi avvennero le rivolte del popolo che voleva tornare in Egitto, come fanno oggi molti di questi ebrei che preferiscono stare in America.
La Torah afferma con chiarezza che solo sulla Terra d'Israele viene data la benedizione a condizione di osservare le leggi che D-o ha comandato (Deuteronomio 11.13).
Questo massà u matan (do ut des) è difatti un atto materiale ma per niente in contrasto con il giudaismo che ha ricevuto il dono della Torah per vivere su questo mondo, essendo il regno di D-o tra gli uomini e non tra i fantasmi delle ideologie.

Un paese di grano e di orzo, di uva e melograni ecc..
Dopo l'elenco dei sette prodotti agricoli presenti nella Terra d'Israele, la Torah riporta la benedizione da recitare dopo il pasto.
"Mangerai e ti sazierai e benedirai il Signore tuo D-o per la buona terra che ti ha dato" (Deuteronomio 8.10).
Due qualità del paese vengono descritte in questa parashà: i prodotti agricoli e la ricchezza del sottosuolo consistenti in giacimenti di rame e di ferro a cui oggi potremmo aggiungere anche i giacimenti di gas naturale.
Il paese darà ai nuovi abitanti tutte le risorse necessarie per una vita economica normale compreso il nutrimento di base rappresentato dal pane. Questo alimento conferisce al pasto una santità particolare a cui fa seguito una benedizione di ringraziamento, che non riguarda solo il sostentamento quotidiano, ma anche il "buon paese che il Signore ti ha donato".
A riguardo la Torah mette in guardia e continua: "L'uomo non vive di solo pane, ma anche della parola di D-o" (Deuteronomio 8.3).
La lotta per la conquista del pane quotidiano (in lingua ebraica pane e lotta hanno le stesse consonanti n.d.r.) non deve autorizzare l'uomo ad allontanarsi dall'osservanza della legge di D-o, ritenendo se stesso l'artefice della sua prosperità.

Il timore di D-o
"Che cosa chiede a te il Signore se non di temerLo?" (Deuteronomio 10.12).
Tutto è nelle mani di D-o ad eccezione del timore di D-o che è nelle mani dell'uomo. In effetti soltanto con un atto di libertà da parte nostra possiamo riconoscere il Creatore del mondo e sottometterci alla Sua volontà.
In cosa consiste il timore di D-o? Non a caso la Torah a riguardo riporta le seguenti espressioni:
"Circonciderete il prepuzio del vostro cuore e non siate di dura cervice…. perché il Signore vostro D-o fa la giustizia della vedova e dell'orfano ed ama lo straniero" (Deuteronomio 10.16).
Non la paura, ma la libertà di scelta è il criterio essenziale della vita dell'uomo, nel fare la volontà di D-o. E' in questo che la strada dell'uomo e quella della bestia si separano. Cosa chiede D-o all'uomo? Di essere temuto, amato e servito (Deuteronomio 11.13).
Quale è il servizio che Egli chiede? La preghiera rispondono i nostri maestri.
La preghiera non deve essere solo una domanda per avere un aiuto, ma anche una riflessione su noi stessi. Il verbo ebraico da cui deriva la parola tefillà (preghiera) è una coniugazione riflessiva che significa "interrogarsi" sul proprio comportamento verso D-o e verso il prossimo.
Questo è il senso della preghiera, che deve portare l'uomo a migliorare il suo operato, affinché il Creatore del cielo e della terra, possa risiedere in mezzo a noi. F.C.

*

 - "Ama dunque l'Eterno, il tuo Dio, e osserva sempre quello che ti dice di osservare: le sue leggi, le sue prescrizioni e i suoi comandamenti" (Deuteronomio 11:1).
  Mosè ripete al popolo l'invito ad amare Dio e a osservare i suoi comandamenti. Qualcuno si è chiesto se anche l'amore per Dio rientra tra i comandamenti o se invece è una raccomandazione rivolta da Mosè al popolo. Può sembrare strano che Dio ordini di amarlo; a livello umano questo certamente non è possibile; potrei costringere qualcuno alla sottomissione, potrei asservirlo ricattandolo, ma non potrei mai costringerlo ad amarmi. L'amore vero è libero, spontaneo o non è amore, così si pensa usualmente tra uomini. Ma quando entra di mezzo Dio le cose diventano meno scontate.
  Esaminiamo allora alcuni passaggi biblici, così come sono, cercando anzitutto di capire chi è il soggetto dell'azione. Grammaticalmente si potrebbe pensare che quando Mosè parla in prima persona si riferisce a se stesso e quando parla in terza persona si riferisce a Dio. Osserviamo allora il proseguimento dei discorso iniziato nel capitolo 11. A un certo punto Mosè dice: "Osservate dunque tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché siate forti..." (v. 8). Qui può sorgere la domanda: chi è che dà i comandamenti, Dio o Mosè? Credo che tutti risponderemmo: Dio, certamente; e aggiungeremmo che Mosè dà i comandamenti al popolo nel senso che glieli trasmette da parte di Dio. Più avanti, infatti, parlando dell'opera del Signore usa la terza persona: "... affinché prolunghiate i vostri giorni sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri e alla loro progenie..." (v. 9). Poco più avanti però continua: "Se ubbidirete diligentemente ai miei comandamenti che oggi vi do, amando l'Eterno, il vostro Dio, servendolo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, io darò al vostro paese la pioggia nella stagione giusta: la pioggia d'autunno e di primavera..." (vv.13,14). Chi è qui il soggetto che parla? Non può essere Mosè, perché certamente non è lui che può dare la pioggia al paese. Dunque il soggetto è Dio, ed è lo stesso soggetto che ordina al popolo di ubbidirgli, amarlo e servirlo con tutto il cuore e con tutta l'anima.
  C'è anche un altro versetto in questa parashà che è abbastanza chiaro a questo proposito: "Ed ora, Israele, che cosa chiede da te l'Eterno, il tuo Dio, se non che tu tema l'Eterno, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu l'ami e serva all'Eterno, che è il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua" (Deuteronomio 10:12).
  Chiedendogli di ascoltarlo, temerlo, servirlo e amarlo, Dio chiede all'uomo una stessa cosa. Ma noi facciamo fatica a capirlo, perché quando parliamo di amore abbiamo l'illusione di sapere di che cosa parliamo, e ci meravigliamo quando nella Bibbia non troviamo le stesse cose che abbiamo in mente. Davanti a certi passaggi ostici, alcuni si tolgono d'impaccio dicendo che sono antropomorfismi a scopo didattico; altri invece, più sofisticati, tentano di spiegare il testo usando concetti intellettualmente più elevati. E qualche volta credono perfino di esserci riusciti.
  Ma non è la Bibbia a fare uso di antropomorfismi tratti dal linguaggio corrente, siamo noi, al contrario, che nel linguaggio corrente facciamo uso di teomorfismi tratti dalla Bibbia. Questo è particolarmente vero quando si parla d'amore, perché "Dio è amore" (1 Giovanni 4:8). Dunque, quando parliamo d'amore, che lo sappiamo o no, che lo vogliamo o no, facciamo riferimento a Dio. Quando i nostri nonni (o i nostri genitori nel caso di chi scrive) cantavano quella dolce canzone degli anni '30: "Parlami d'amore Mariù, tutta la mia vita sei tu", non si rendevano conto di imitare nel linguaggio una forma di relazione che ha la sua reale autenticità soltanto nel rapporto tra l'uomo e il suo Creatore. Ogni sofisticazione di questa realtà è un teomorfismo che conduce all'idolatria.
  Certo, anche il nostro limitato, offuscato, distorto concetto di amore ha una temporanea funzione limitativa e regolativa nei rapporti umani, ma dobbiamo essere consapevoli che quando ne parliamo stiamo usando, in modi che talvolta possono essere utili (e talvolta no), un concetto che nel fondo ci è sconosciuto.
  E allora che si fa? come si può arrivare a conoscere qualcosa che ci è sconosciuto? "Io alzo gli occhi ai monti, da dove mi verrà l'aiuto?" si chiede il salmista (Salmo 121:1). Come sempre, l'aiuto può venirci soltanto da "Colui che ha fatto il cielo e la terra", e questo, Dio lo fa con il semplice atto di rivolgerci la Parola.
  Proprio qui sta la peculiarità che distingue il popolo ebraico da tutti gli altri: a lui, e soltanto a lui come popolo e nazione, Dio ha rivolto la parola. Anche nel dare ordini e nell'annunciare o eseguire castighi Dio ha manifestato il suo amore per il popolo, perché l'amore che si muove in linea verticale dall'Alto in basso contiene anche, per sua natura, ordinamenti punitivi. "Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, l'Eterno, il tuo Dio, corregge te" (Deuteronomio 8:5).
  La punizione di Dio è espressione d'amore perché è preannunciata dalla sua parola. Per esercitare soltanto la sua autorità, il Signore non ha bisogno di parlare; le nazioni che si trovavano sulla terra destinata ad Israele furono distrutte "per la loro malvagità" (Deuteronomio 9:5) senza ricevere alcun preavviso.
  Dio dunque ordina al popolo di amarlo, ma il solo fatto di formulare quest'ordine dopo aver dato tante manifestazioni d'amore, quasi mai contraccambiato, è un segno di grazia. Dio però accetta che il suo ordine, nella sua formulazione storica, possa essere trasgredito. E ne soffre, e si arrabbia, ma non demorde. Riprende un faticoso percorso fatto di parole, ordini, avvertimenti, punizioni, liberazioni, fino a che non arriverà il giorno in cui il suo amore sarà pienamente contraccambiato.
  E tutti gli altri? Quello che resterà del mondo dopo il compimento dell'inevitabile giudizio finale di Dio si rallegrerà con Israele.
  "Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa dell'Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al disopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno ad esso. Molti popoli v'accorreranno, e diranno: 'Venite, saliamo al monte dell'Eterno, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri'. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell'Eterno" (Isaia 2:2-3).
  Ma per questo bisognerà aspettare il ritorno del Messia. M.C.

  (Notizie su Israele, 25 agosto 2016)


Intesa Israele-Palestina per gli animali di Gaza

di Lucia Capuzzi

Ci volevano Laziz e i suoi compagni per mettere d'accordo, almeno una volta, israeliani e palestinesi. Il ministero palestinese dell'Agricoltura, l'ente israeliano responsabile dei Territori (Cogat) e il ministero della Difesa dello Stato ebraico hanno lavorato fianco a fianco - sotto lo sguardo vigile dell' associazione internazionale "Four Paws" (Quattro zampe) - per trasferire gli ultimi reduci dello zoo di Khan Younis (Gaza). Quindici animali in tutto -s cimmie, pellicani, gazzelle, istrici e la "star", la tigre Laziz - sono stati portati via dalla struttura, ormai decadente, attraverso il valico di Erez e da lì sono stati ricollocati. La gran parte degli ex ospiti è andata negli zoo di Israele e Giordania, dove potranno ricevere migliori cure e trattamento. Laziz, invece, è stata portata più lontano: il felino, di nove anni, è stato caricato su un aereo con destinazione Sud Africa, dove avrà maggiori possibilità di adattamento. Certo, prima dovrà fare dei test. Secondo "Four Paws", le sue condizioni sono buone.
Il trasferimento non è stata un'operazione banale. È stato necessario un lungo lavoro di preparazione per mettere d'accordo i due eterni rivali. Tanto che gli animali sono stati ricollocati in diverse tappe. A marzo era partito il penultimo gruppo, di cinque esemplari. Aperto dieci anni fa con un centinaio di animali, Io zoo di Khan Younis è stato messo a dura prova dalle successivi crisi che hanno colpito l'area. Impossibile per le autorità della Striscia continuare a provvedere al mantenimento degli ospiti. E, così, con l'aiuto di "Four Paws" li hanno lasciati andare. Verso una vita migliore.

(Avvenire, 25 agosto 2016)


Ampio sequestro di armi in Giudea e Samaria

Armi sequestrate in Giudea e Samaria
Armi sequestrate in Giudea e Samaria
GERUSALEMME - Il Idf ha condotto una operazione in Giudea e Samaria contro impianti di produzione di armi illegali.
Queste fabbriche sono state usate da terroristi che hanno attaccato obiettivi israeliani in questi settori. Nel corso della notte del 23 agosto, un'operazione congiunta delle brigate della Giudea e Samaria, dello Shin Bet, e delle forze di polizia è stato lanciata contro le infrastrutture di produzione e distribuzione di armi nella zona di Betlemme e Hebron, riporta Arutz Sheva7. Si è trattato dell'azione più ampia presa contro la produzione e la distribuzione di armi dallo scorso anno e ha portato alla confisca di grandi quantità di armi e all'arresto dei loro distributori. Le armi venivano contrabbandate in molti luoghi tra cui la Giordania. Il Idf ha chiuso rapidamente il cerchio sull'organizzazione composta da arabi. Decine di indagini sugli attacchi in Giudea e Samaria nel corso degli ultimi anni hanno portato alla collusione, prosegue l'emittente, che le armi non sono state acquistate per l'attacco in sé e per sé, ma sono state usate più volte. Attraverso una vasta operazione di intelligence sono stati trovati una trentina di impianti di produzione di armi. Nel corso dell'operazione sette fabbriche che producevano centinaia di armi che erano già state distribuite sono state localizzate e chiuse, portando al sequestro di un ampio arsenale di parti di ricambio.
L'operazione, che è durata alcune ore, è stata caratterizzata anche da una serie di proteste; durante i sequestri, due arabi che possedevano grandi impianti sono stati arrestati per ulteriori indagini.

(agc, 24 agosto 2016)


Terremoto - L’Unione delle Comunità Ebraiche attiva un punto per donare il sangue

Al Centro trasfusionale del Fatebenefratelli di Roma

ROMA - L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità Ebraica di Roma, in collaborazione con l'Associazione Medica Ebraica e il Gruppo Ebraico Donatori, hanno attivato un punto dedicato per la donazione del sangue, a sostegno delle persone colpite dal sisma.
Si invita a recarsi al Centro trasfusionale del Fatebenefratelli, Lungotevere de' Cenci 5, Roma e destinare la donazione al "gruppo ebraico donatori 201".

(askanews, 24 agosto 2016)

*


Terremoto - Netanyahu offre a Renzi assistenza per ricerche e salvataggio

ROMA - Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha inviato le condoglianze al popolo italiano per le vittime del terremoto che ha colpito il paese e l'augurio di un pronto ristabilimento per i feriti. Lo ha reso noto l'ufficio del primo ministro stesso. Netanyahu ha anche offerto al Presidente del Consiglio Matteo Renzi assistenza per le ricerche e il salvataggio.

(Agenparl, 24 agosto 2016)


Da Israele un trattamento per le ustioni

 
Da Israele un trattamento per le ustioni. L'azienda israeliana MediWound Ltd ha sviluppato una formula innovativa chiama NexoBrid che potrà migliorare notevolmente il trattamento delle gravi ustioni cutanee.
Le ustioni possono causare molte complicazioni locali e sistemiche (disidratazione, infezione ecc).
Le ustioni generalmente si presentano come piaghe sulla superficie della pelle che impediscono di valutare con precisione la gravità dell'ustione stessa. La prima procedura medica ha lo scopo di rimuovere queste croste ma può causare alcune complicazioni perché si potrebbe causare il danneggiamento dei tessuti sani.
NexoBrid, ideato dalla Prof.ssa Lior Rosemberg, Direttrice di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva al Soroka Hospital, si presenta come un farmaco-lozione che va somministrato localmente. Composto da una miscela di vari enzimi, NexoBrid rimuove il tessuto necrotico evitando l'intervento chirurgico. Oltre ad essere più efficiente, meno costoso e meno gravoso per il paziente, questo metodo innovativo riesce a rimuovere tutto il tessuto necrotico in solo 4 ore, preservando allo stesso tempo il tessuto sano. Ciò consente di risparmiare tempo ed avviare rapidamente il processo di guarigione riducendo il rischio di complicanze.

(SiliconWadi, 24 agosto 2016)


Ristoranti con cucina Kosher di Roma

La comunità ebraica ha una buona presenza in Italia, specialmente a Roma, nell'area dell'ex ghetto. Nonostante l'integrazione e la convivenza tra i fedeli ebrei ed il resto della città sia ormai un dato di fatto, è anche vero che non molti conoscono le tradizioni e il fascino di questa antica religione. Sono pochi i ristoranti al di fuori dell'area attorno al Tempio Maggiore, la principale sinagoga di Roma (se non d'Italia), che propongono cucina Kosher, ovvero una cucina che rispetti i precetti e le leggi imposte dalla legge ebraica. Alcune carni considerate impure non possono essere mangiate, così come esiste una ferrea regolamentazione sul modo di trattare le materie prime e gli ingredienti per preparare piatti che non violino i tabu culinari della tradizione giudaica.
   Nonostante nella cultura ebraica non manchino giorni dedicati al lutto e al digiuno, il calendario delle festività ebraiche è ricco di momenti di gioia e di celebrazione della felicità e dello stare insieme. In questi momenti, le tavole delle famiglie ebree si riempiono di piatti succulenti e dall'aspetto meraviglioso (come i blintzes, frittatine tipiche dello Shavuoth, ripiene di ricotta lavorata con uova e formaggio piccante, oppure di mele grattugiate amalgamate con mandorle tritate, zucchero, cannella, buccia e succo di limone). Il gusto per il buon cibo è di casa quindi tra gli ebrei, che amano accompagnare alle pietanze anche balli e festeggiamenti vari e con un significato sempre rituale.
   Un esempio di una festa gioiosa e ricca di significato è quella indetta per celebrare l'ingresso di un ragazzo o di una ragazza nell'età adulta, l'età della responsabilità di fronte alla Halakhah, la legge ebraica. Si tratta del Bar Mitzvah (o Bat Mitzvah se si tratta di una ragazza) e segna momento in cui un ragazzo viene ammesso a partecipare all'intera vita della comunità al pari degli adulti e diventano personalmente responsabili della ritualità, dell'osservanza dei precetti, della tradizione e dell'etica ebraica. Dal tredicesimo (per le ragazze è il dodicesimo) compleanno in poi i ragazzi sono ritenuti in grado di distinguere il bene dal male e devono rispondere delle proprie azioni di fronte a Dio e alla comunità.
   Generalmente, una volta conclusa la celebrazione per così dire "rituale" del Bar o Bat Mitzvah, si può passare ai veri e propri festeggiamenti, i B'nai Mitzvah. Tali festeggiamenti includono tipicamente un seudat mitzvah, ovvero un pasto celebrativo con la famiglia, gli amici, e i membri della comunità. Le feste di Bar e Bat Mitzvah in America sono spesso affari sontuosi svolti presso hotel e Country club con centinaia di ospiti. Tali feste secondo l'ortodossia hanno il ruolo di rendere il festeggiato così felice che da quel momento in poi si impegnerà a ricambiare l'affetto ricevuto rispettando e osservando le mitzvot, i precetti della legge ebraica. In Italia le celebrazioni sono di solito più modeste, ma in ogni caso lo scopo è sempre quello di rendere felice i ragazzi, poiché quello è il loro giorno speciale.
   Come già accennato, i ristoranti a Roma in cui poter celebrare delle feste ebraiche sono pochi, ecco perché lo staff di Feste Ebraiche a Roma ha creato un portale in cui poter trovare la location ideale per i propri festeggiamenti. Ciascun ristorante presente sul sito può all'occorrenza preparare piatti kosher per i suoi ospiti. Basta scegliere la struttura e chiamare per un preventivo.

(A-Zeta.it, 24 agosto 2016)


Chiudete quell'ateneo. Non dovrebbe esistere

di Fausto Carioti

 
A sinistra, l'imprenditore Giampiero Paladini, convertito all'Islam quattro anni fa
Bisognerebbe chiedere al ministro Stefania Giannini di chiudere la prima ( e per ora fortunatamente unica) università islamica d'Italia, dopo che il responsabile della segreteria dell'istituto ha invocato la «soluzione finale per i sionisti» e le sue parole sono arrivate sui giornali israeliani. Ma non si può fare, perché quell'università, che pure ha nel proprio comitato scientifico un luminare del calibro di Franco Cardini, non esiste. Almeno non come soggetto accreditato dal ministero dell'Istruzione. Lo dice la stessa Giannini alla giornalista di Libero Brunella Bolloli: «La cosiddetta università islamica di Lecce non è affatto riconosciuta dal Miur e non ci risulta alcuna loro richiesta di accreditamento». Eppure i responsabili del sedicente ateneo, sul sito, sostengono che esso sia «in attesa del riconoscimento Miur». Qualcosa non torna.
   La storia di quella che avrebbe dovuto essere «la corrispondente della Cattolica di Roma e Milano, ma di matrice musulmana», è stata opaca sin dall'inizio. Il suo fondatore e attuale presidente, l'imprenditore salentino Giampiero Khaled Paladini, non ha mai spiegato chi sarebbero stati i finanziatori. E ancora oggi non si è capito quanti e quali soldi ci siano dietro al progetto.
   Nel novembre del 2014 Paladini convocò alcuni giornalisti nello studio del suo avvocato e spiegò i suoi progetti. Volò molto alto: disse che i suoi punti di riferimento erano l'Unione delle comunità islamiche, e questo era prevedibile, ma citò anche la Qatar Foundation, che per capirsi è quella
che appartiene agli sceicchi del ricchissimo staterello arabo e sponsorizza il Barcellona di Lionel Messi. Per realizzare l'ateneo, raccontò la Gazzetta del Mezzogiorno, sarebbero stati coinvolti anche «i Paesi della Lega Araba e quelli aderenti all'Opec». «È già stato avviato il progetto "Un milione di barili per la gloria di Allah e per il dialogo dei popoli del Mediterraneo", nato proprio per finanziare la nascita dell'ateneo islamico», annunciò quel giorno Paladini. Solo questa voce, alla quotazioni di allora, avrebbe dovuto garantire entrate per 65 milioni di euro.
   Fatto sta che né sul sito della Qatar Foundation, che pure elenca in modo minuzioso tutti i progetti che sponsorizza, né in quelli delle altre istituzioni citate da Paladini, è mai apparsa traccia della Università islamica d'Italia. Né si è visto il milione di barili promesso, che avrebbero dovuto essere importati in Italia, lavorati in due raffinerie e venduti sul mercato per foraggiare l'ateneo. Intanto, anziché nell'imponente struttura dell'ex Deposito tabacchi di Lecce, che era l'obiettivo iniziale, la gloria culturale dell'Islam italiano si è accomodata nei più modesti locali
di via Matteotti, in una sede teoricamente provvisoria.
   Chi la stia finanziando è ancora un mistero: sul sito dell'istituzione (unislamitalia.it), dove peraltro abbondano i refusi, essa è presentata come «una libera e nonprofit Università secondo la legge italiana», ma non c'è alcun riferimento ai generosi sottoscrittori. L'unica cosa chiara è il ruolo della Confime come fondatrice dell'ateneo. Si tratta della Confederazione imprese mediterranee, che raggruppa alcune aziende del Sud ed è presieduta dallo stesso Paladini. Ha la sede a Roma, in un palazzone condominiale che affaccia sulla tangenziale.
   In ogni caso le ambizioni restano intatte. L'ateneo per ora si limita a proporre un corso di Laurea coranica e società occidentale («2.500 euro annui, escluse borse di studio e incentivi»], per il quale non occorre l'accreditamento del Miur, e nei prossimi mesi dovrebbe avviare due master: uno in Diritto e finanza islamica («realizzato col supporto delle più importanti organizzazioni delle banche islamiche presenti in Bahrain», garantisce la brochure) e l'altro in Strutture aerospaziali (per ambedue la tassa d'iscrizione è di 25.000 euro).
   Ma già a ottobre, spiega quello che con una certa enfasi è chiamato «Master Plan», dovrebbe decollare la facoltà di Scienze Umanistiche, seguita nel 2017 da quella di Scienze Agrarie e l'anno successivo da Medicina e Scienze Infermieristiche. Come questo sia possibile senza che ancora sia stato chiesto l'accreditamento, è un mistero la cui soluzione solo Allah conosce.

(Libero, 24 agosto 2016)


Napoli - «Israele, assassini»: bufera sulla De Majo

Un post della consigliera Dema scatena la protesta delle associazioni: «È odio anti-semita»

di Valerio Esca

NAPOLI - «È ancora una volta davanti a immagini come queste, che mostrano semplicemente la potenza militare di uno Stato che si abbatte su un popolo senza riconoscimento e senza esercito, che il governo di Israele si mostra per quello che è: un manipolo di assassini senza scrupoli. Un vero governo del terrore». Questo è soltanto un estratto del lungo post su Facebook pubblicato dalla consigliera comunale di Napoli, Eleonora de Majo. La giovane «pasionaria» arancione, da poco eletta nell'assise cittadina nella lista Dema, torna a far discutere con i suoi messaggi anti-Israele.
   «È stata una lunga notte per la gente di Gaza - scrive la de Majo -. Israele ha dato avvio al più duro bombardamento dal 2014. Chissà stavolta che nome inventerà per questa ennesima barbarie». La consigliera, militante del centro sociale Insurgencia, non ha mai nascosto la sua posizione filo-palestinese e conclude così il suo post: «Bisogna avere il coraggio di scriverlo e gridarlo, come lo scriviamo e lo urliamo davanti a tutti gli altri Stati autoritari del mondo. Bisogna farlo perché a Gaza, ogni volta che cadono le bombe, i morti sono migliaia e il numero dei bambini tra i morti è una vergogna per l'umanità».
   Passano poche ore dalla pubblicazione ed esplode la polemica. Sugli scudi l'associazione di Napoli-Israele fa sapere: «Mentre il mondo brucia, mentre l'Isis fa esplodere i bambini usandoli come kamikaze e mentre Hamas ammazza omosessuali a Gaza lanciandoli dai tetti dei palazzi, a Napoli, in Consiglio comunale, c'è qualcuno che continua a nutrire il proprio odio anti-semita. Non è quello che auspichiamo nei rapporti con la nuova amministrazione de Magistris».
   Poche parole che riaprono una vecchia ferita. La ruggine risale al 27 aprile 2013, quando de Magistris consegnò, al Maschio Angioino, la cittadinanza onoraria al presidente palestinese Abu Mazen. Successivamente, a Natale dello stesso anno, il leader dell'Anp ricambiò il riconoscimento e ospitò a Betlemme il sindaco di Napoli. Quello che le associazioni filo-israeliane più contestano all'amministrazione de Magistris riguarda la sua vicinanza «ideologica» alla questione palestinese, alla quale il primo cittadino ha sempre risposto con la filosofia dei «Due popoli, due stati».
   L'ultima querelle in ordine di tempo si è avuta durante la seduta del Consiglio comunale sul bilancio, quando il capogruppo di Napoli in Comune, Mario Coppeto, presentò un ordine del giorno (approvato dall'assise) per conferire la cittadinanza onoraria a Bilal Kayed, militante palestinese, detenuto in un carcere israeliano, in sciopero della fame da quasi due mesi. A quel punto inevitabile la bagarre con l'opposizione di centrodestra, che si giocò a suon di ordini del giorno. Il tutto si concluse con l'approvazione di un altro odg in riconoscimento della cittadinanza onoraria ai rappresentanti delle Comunità abramitiche del Medioriente e il rinvio della discussione ad un Consiglio monotematico sul tema. Al di là della questione palestinese altre polemiche sono cadute sull'ex pm quando, il 15 febbraio scorso, a Palazzo San Giacomo, fu insignito della stessa onorificenza di Abu Mazen anche il leader curdo, Òcalan.

(Il Mattino, 24 agosto 2016)


Babbo bastardo islamico cresce i figli da kamikaze

Il fratello del ragazzino con la maglia di Messi si è fatto esplodere su ordine del padre. Usare bimbi come «martiri» non è una prerogativa Isis. Lo facevano Khomeini e Arafat.

di Carlo Panella

Il ragazzino di 12 anni bloccato a Kirkuk
L'orrore si aggiunge all'orrore. Il ragazzino di 12 anni che è stato bloccato a Kirkuk in Iraq, perché sotto la maglia del giocatore Messi portava un troppo visibile giubbotto esplosivo, faceva parte di un'orrida famiglia il cui padre aveva appena spinto non solo lui, ma anche il fratello di 15 anni a fare, due ore prima, un attentato in una moschea sciita, provocando per fortuna soltanto due feriti. L'obbiettivo del mini attentatore fortunosamente intercettato, invece era una moschea nella via Husseinya, nel quartiere turcomanno Tesin di Kirkuk. Quindi due obietti tipici dell'Isis: gli odiati sciiti che vengono considerati dai jihadisti degli idolatri, perché venerano i 12 Imam, e la minoranza turcomanna, che è sunnita, ma che resiste in Iraq all'espansione del Califfato nero di Abu Bakr al Baghdadi. Naturalmente, il quindicenne intercettato si difende ora sostenendo di fronte ai poliziotti che lo hanno interrogato di «essere stato rapito, sedato e costretto dall'Isis a compiere un attentato». Ma la polizia sostiene una ben diversa tesi.

 Scuola d'orrore
  Questa terribile famiglia proviene da Mosul, «capitale» dell'Isis e del suo Califfato e, secondo la polizia irachena, si è trasferita a Kirkuk, per iniziativa del padre, miliziano jihadista, che avrebbe istigato i suoi figli a diventare «martiri» uccidendo idolatri e infedeli. Non è la prima volta che un intero nucleo famigliare partorisce kamikaze, ma in questo caso l'orrore, oltre che dal ruolo del padre, è dato dalla giovanissima età dei due kamikaze.
  È questa la conseguenza di una vera e propria mitologia del «martirio», anche di ragazzini, che non è affatto patrimonio indecente del solo Isis, ma che ha precedenti raccapriccianti in Palestina e in altri Paesi islamici. Durante l'Intifada delle stragi che Yasser Arafat promosse dal 2001 al 2005, dopo avere rifiutato la restituzione di ben il 95% dei Territori da parte di Israele, la televisione e i media dell'Anp, assieme alle moschee, lanciarono il mito della morte da kamikaze dei giovani martiri. Ancora oggi sul sito di Palestinan Media Watching, una organizzazione israeliana che monitora i media palestinesi, si possono trovare spaventose clip che esaltano, con musiche, trucchi vari e scenografie paradisiache, il sacrificio di martiri come Wafa, una adolescente palestinese che si era fatta esplodere a Tel Aviv uccidendo un ebreo di 80 anni e alcuni passanti.

 Lo scisma
  Dunque, la prassi diabolica di spingere adolescenti a diventare kamikaze, largamente praticata anche da Boko Haram in Nigeria, e in Turchia, non è affatto patrimonio esclusivo dell'Isis o dei jihadisti.
  Lo è stato anche dei palestinesi sotto gli ordini di Arafat per una ragione tanto semplice quanto misconosciuta da chi, incredibilmente, sostiene che questo terrorismo non è islamico, non è parte di una guerra di religione.
  A partire dal 1980 infatti, nel corso della guerra Iran Iraq, infatti, Khomeini è riuscito a introdurre nel corpo dell'islam un vero e proprio scisma che fa del martirio non una eventualità, ma un nuovo dogma di fede secondo il quale il buon musulmano, oltre a rispettare i 5 precetti dell'islam deve tendere assolutamente al martirio.
  Con questo passaggio Khomeini mandò centinaia di migliaia di ragazzini, i Bassiji, a farsi esplodere sui campi minati iracheni e trasformò il suo islam in una vera e propria religione di morte. Una fede apocalittica e mortifera che purtroppo dimostrò di avere in sé una tale carica persuasiva, perché aderente ad una parte fondamentalista e oscura dell'islam, da riuscire a contagiare anche il mondo sunnita.

(Libero, 24 agosto 2016)


Il comunismo del pensiero unico

Intervista a Ryszard Legutko, filosofo ed ex dissidente polacco, autore di "Demon in Democracy": ''Le coscienze in occiden.e sono sradicate e asservite con una violenza che farebbe arrossire i regimi sovietici".
   
di Giulio Meotti

ROMA - La Polonia era spaccata in due come nessun altro paese dell'Europa comunista. Mai quanto lì la società parallela, clandestina, era sviluppata, potente, ricca di riviste, edizioni clandestine, dissenso. Furono queste ad animare la "solidarietà degli squassati" di cui parlava il filosofo ceco Jan Patocka, morto ostracizzato. Ryszard Legutko fu uno dei principali animatori di questa solidarietà underground, in quanto responsabile culturale di Solidarnosc e direttore del samizdat (rivista del dissenso, ndr) Arka. Legutko sarebbe poi stato protagonista della democrazia dopo la caduta della Cortina di ferro, in quanto ministro dell'Istruzione e docente di Filosofia all'Università Jagellonica di Cracovia. Adesso, in un saggio uscito in America col titolo di "Demon in Democracy", Legutko traccia un parallelo ardito e affascinante fra il regime comunista e le democrazie liberali. E' quella che il grande poeta polacco Czeslaw Milosz ribattezzò "la mente prigioniera", in un libro apparso nel 1953 a Parigi, in cui svelò l'espropriazione del pensiero nei paesi del "socialismo reale", il brutale sradicamento delle coscienze e degli intelletti. Come aveva previsto il suo compatriota Stanislaw Witkiewicz in un romanzo del 1932, una specie di oppio mentale, la "pillola di Murti-Bing", che consentirà ai conquistatori di ottenere l'assenso dei conquistati, nonostante la miseria, gli alloggi che sono celle, le scarpe sformate, le lunghe code davanti a negozi sprovvisti.
  "Numerosi segnali indicano che la civiltà occidentale sta scivolando verso un nuovo dispotismo", dice Legutko al Foglio. "Questa tendenza in democrazia è stata sottolineata da molti studiosi di politica, da Platone a Tocqueville e Ortega y Gasset, ma una volta che la regola democratica è stata istituita e santificata, gli avvertimenti sono stati respinti. Lasciatemi elencare due di questi segni. Il primo è una profonda politicizzazione: oggi tutto tende a essere politica e quindi tutto tende a essere sottoposto a regolamenti politici, la vita familiare, le scuole, la religione, anche il sesso. Il privato è politico, come le
L'esistenza privata è arrivata a essere considerata come 'struttura di potere', e come tale protagonista di un riarrangiamento aggressivo secondo i criteri politici di equa redistribuzione del potere. Gli apostoli del nuovo dispotismo professano che i genitori hanno troppo potere sui figli, i mariti sulle mogli, gli insegnanti sugli studenti, gli eterosessuali sugli omosessuali, l'Europa sulla non Europa.
femministe hanno orgogliosamente dichiarato, e tale dichiarazione fa eco a quella dei comunisti che in passato hanno cercato di abolire la barriera che proteggeva la sfera privata dalla pressione politica. L'esistenza privata è arrivata a essere considerata come 'struttura di potere', e come tale protagonista di un riarrangiamento aggressivo secondo i criteri politici di equa redistribuzione del potere. Gli apostoli del nuovo dispotismo professano che i genitori hanno troppo potere sui figli, i mariti sulle mogli, gli insegnanti sugli studenti, gli eterosessuali sugli omosessuali, l'Europa sulla non Europa, e così via. Com'era prevedibile, i tribunali e le legislature passano all'azione cambiando queste presunte strutture di potere, ridefiniscono il matrimonio e la famiglia, regolano i rapporti tra genitori e figli, aboliscono le clausole di coscienza, impongono la nuova morale che legifera su tutto, compreso il clero, e fanno molte altre cose altrettanto oppressive. Tutte queste pratiche di ingegneria sociale rendono quasi impossibile trovare un nascondiglio contro il potere intrusivo delle istituzioni politiche. Le nuove leggi in materia di matrimonio, adozione di bambini, vita e morte, vita sessuale, leggi che cambiano drasticamente le regole che esistevano da tempo immemorabile, sono imposte con tale scrupolosità che farebbero arrossire i comunisti. Nessuna scuola, nessuna regione, nessuna comunità, nessuna persona può sfuggire al lungo braccio del nuovo ordine".
  In secondo luogo, vi è sempre più ideologia nelle società democratiche. "L'ideologia consiste in una serie di direttive e spiegazioni semplicistiche che coprono tutto, dal passato al futuro, dalle norme generali ai casi concreti. Per ogni ideologia, compresa quella attuale, la distinzione di base non è quella tra bene e male, bello e brutto, giusto e ingiusto, ma tra corretto e scorretto, tra ciò che si accorda con le direttive ideologiche e cosa no". Per fare un esempio: "Oggi l'unico modo accettabile per parlare di donne è quello considerato corretto dall'ideologia femminista. Ogni altro discorso è inammissibile e illegittimo. La legislazione, i programmi scolastici, le opere scientifiche, i media, sono tutti conformi a questo linguaggio. Lo stesso vale per la santa triade dell'ideologia moderna: 'Classe, razza e genere'. Non si può pubblicare un articolo su una rivista scientifica a meno che non si seguano i criteri di correttezza. Questa pratica orrenda di controllo ideologico è stata quasi universalmente accettata e pochi studiosi la considerano discutibile, e ancora meno hanno il coraggio di resisterle. Il controllo ideologico del linguaggio non è una questione da poco, perché di fatto equivale al controllo di ciò che si pensa e come si pensa. In ogni regime dispotico il controllo del linguaggio è stato il primo obiettivo, mentre la liberazione della lingua dal giogo ideologico è stato il presupposto di una rivolta. La distinzione tra corretto e scorretto si estende al passato, così che ci sono scrittori corretti e non corretti, filosofia corretta e non, domande corrette e non".
  Numerose le fonti di questo nuovo conformismo. "E' stato un processo lungo e ci sono certamente diverse cause. L'ispirazione politica diretta è stata il Sessantotto. Non solo si è spostato lo spettro politico molto più a sinistra, ma si è riusciti a legittimare l'ipotesi generale che 'non vi è alcuna alternativa' rispetto a ciò che è stato considerato allora e ciò che è considerato oggi come progresso. Siamo giunti a credere che non ci sono alternative all'uguaglianza, alla proliferazione di 'diritti umani' (sotto questa bandiera molta ingegneria sociale è stata effettuata), alla liberazione sessuale, all'aborto e all'eutanasia, agli omosessuali che hanno tutti i diritti degli eterosessuali, al multiculturalismo. Se non c'è alternativa, non vi
Intellettualmente i figli e i nipoti del Sessantotto assomigliano ai loro cugini comunisti: "I quali hanno creduto che non ci fosse alternativa al comunismo. Secondo loro, opporsi era da idioti, fascisti e lacchè dell'imperialismo".
è alcun punto in discussione. E qualsiasi opposizione va considerata, nel migliore dei casi, come un ostacolo al progresso, e, nel peggiore dei casi, come fascismo o follia".
  Secondo il filosofo polacco Ryszard Legutko, intellettualmente i figli e i nipoti del Sessantotto assomigliano ai loro cugini comunisti: "I quali hanno creduto che non ci fosse alternativa al comunismo. Secondo loro, opporsi era da idioti, fascisti e lacchè dell'imperialismo", continua Legutko al Foglio nel presentare il suo libro "Demon in Democracy". "Una causa più generale di quello che vediamo oggi è il ruolo fondamentale che per molti secoli l'Europa ha attribuito all'uguaglianza. La maggior parte delle rivoluzioni più sanguinose è stata realizzata in nome dell'uguaglianza, mettendo da parte altre idee come la giustizia, la virtù, la moderazione e la libertà. Il problema con l'uguaglianza è che non ce ne è mai abbastanza: più egualitaria la società diventa più rivendicazioni di uguaglianza compaiono sulla scena. L'uguaglianza davanti alla legge ha smesso di soddisfare tali affermazioni molto tempo fa. Ora vi è una richiesta per l'uguaglianza di status, il prestigio, la dignità, il rispetto e molte altre 'uguaglianze', che sono sempre più impossibili da soddisfare. Il politicamente corretto è l'ultima tappa di questa ricerca, e si vede dalla sua assurdità. In nessun luogo questo processo è più visibile che nel campo dell'istruzione e della cultura, dove le gerarchie sono state abolite o stanno per essere abolite. Un esempio calzante è l'offensiva contro il canone letterario, la lista delle più grandi opere della letteratura che ogni persona istruita dovrebbe conoscere. Bellezza e arte sono viste come una gerarchia inaccettabile, e ci sono tentativi sia di abolire il canone sia di sostituirlo con uno nuovo, in cui i maschi bianchi del passato sono rimossi e i mediocri politicamente corretti prendono il loro posto. Poiché l'uguaglianza è impossibile in pratica, questa richiede una grande e potente macchina burocratica che si impone sulla società e tutti i suoi segmenti. Il nuovo dispotismo deve molto a questa lunga tradizione della lotta europea per l'uguaglianza, anche se i mezzi usati oggi sono molto più miti rispetto a quelli utilizzati in passato".

 "Ero interessato al consenso comunista"
  Ilya Ehrenburg, sulla rivista Novi Mir, negli anni Sessanta diede libero sfogo al suo rimorso sul meccanismo con cui l'intellettuale in clima totalitario si era asservito al tiranno, dopo avere soppresso il libero giudizio con i veleni partoriti dal suo stesso intelletto. Fu così che Stalin trasformò i cittadini in quello che Ehrenburg definì "un popolo di imbecilli".
  "In tutta la mia vita sotto il vecchio regime comunista ero interessato a come il sistema funzionava, quali erano le sue radici e che impatto hanno avuto sulla gente", continua Legutko. "Ero particolarmente curioso di sapere come il comunismo fosse riuscito a coinvolgere così tante persone nel sistema, a renderle complici volontari e involontari. Non c'era solo il terrore e l'intimidazione. Il servilismo è venuto da dentro, per così dire, e la gente, tra gli intellettuali e gli artisti, acconsentì a mentire, o almeno ad astenersi dal dire la verità. Era evidente che il sistema era irrimediabilmente inefficiente eppure per molti decenni si è creduto che questa inefficienza fosse solo transitoria, e che sostanzialmente il sistema funzionasse. Quello
E' come nella storia di Andersen sui vestiti nuovi dell'imperatore che tutti lodano anche se non c'erano vestiti e l'imperatore era nudo. Il rifiuto del vecchio regime è stato possibile perché, alla fine, le persone hanno imparato a ignorare quei costumi ideologici e a vedere l'imperatore nella sua nudità.
che scoprii non era molto rassicurante, cioè che è estremamente difficile vedere le cose come sono se vi è una forte industria ideologica. E' come nella storia di Andersen sui vestiti nuovi dell'imperatore che tutti lodano anche se non c'erano vestiti e l'imperatore era nudo. Il rifiuto del vecchio regime è stato possibile perché, alla fine, le persone hanno imparato a ignorare quei costumi ideologici e a vedere l'imperatore nella sua nudità. E' stata una straordinaria esperienza osservare milioni di persone che finalmente hanno visto le cose che non erano stati in grado di vedere prima. Quando il nuovo sistema della democrazia liberale è emerso, si sperava che alla fine ci saremmo liberati da tutti quegli intermediari ideologici e che saremmo stati in grado di risolvere le differenze ricorrendo all'evidenza empirica e agli argomenti razionali. Ci è voluto un po' di tempo prima di capire che, invece di aria fresca, l'atmosfera era diventata soffocante quasi come prima. Anche in questo caso abbiamo creato una ortodossia e stabilito una serie di risposte a tutte le domande. Ci hanno detto di lodare il sistema per la sua 'pluralità' e la 'diversità', e molti lo hanno lodato fino alla nausea anche se era chiaro a qualsiasi occhio senza pregiudizi che la diversità stava diventando sempre più limitata".
  Secondo Legutko, non c'è migliore esempio di quello fornito dalle istituzioni europee, in particolare il Parlamento Ue a Bruxelles. "Centinaia di deputati dicono esattamente le stesse cose su quasi tutto. Quando la stragrande maggioranza fa rispettare un insieme di idee e lo chiama 'diversità' con regolarità assordante, amplificato da tutti i tipi di strumenti di propaganda, molte persone credono che prima o poi essere conformi a questo insieme di idee sia infatti la più alta forma di diversità. Come in passato nella Polonia comunista, questa lingua menzognera nelle istituzioni europee è un riflesso della mente gravemente distorta che è stata contaminata dall'ideologia e che ha cessato di vedere le cose come sono".
   
 Le accuse al cristianesimo
  Quello a cui stiamo assistendo oggi è un esperimento di ingegneria sociale il cui scopo è quello di creare una nuova società. "Se per secoli l'educazione si basava sulla metafisica classica e il patrimonio cristiano, gli ingegneri sociali di oggi rifiutano entrambi", dice Legutko. "E nuovi programmi educativi non sono più radicati nella metafisica classica e nel cristianesimo. Tutti questi sono considerati sospetti. Il cristianesimo
La metafisica classica è un male perché considera la verità oggettiva, e i nuovi ideologi dicono che la verità è sempre di genere. La metafisica classica è colpevole di affermare l'esistenza dell'Asso- luto, che, ancora una volta, è politicamente dannosa per la politica di emancipazione perché mette restrizioni sull'azione della gente e mette in guardia contro l'arroganza.
è accusato praticamente di tutti i peccati contro il politicamente corretto: nei confronti delle donne, contro gli omosessuali, contro la libertà di scelta, contro il sesso libero. Mentre la metafisica classica è un male perché considera la verità oggettiva, e i nuovi ideologi dicono che la verità è sempre di genere. La metafisica classica è colpevole di affermare l'esistenza dell'Assoluto, che, ancora una volta, è politicamente dannosa per la politica di emancipazione perché mette restrizioni sull'azione della gente e mette in guardia contro l'arroganza. La tradizione giuridica classica non va bene dal punto di vista del politicamente corretto perché stabilisce regole che sono troppo restrittive. Il Parlamento europeo approva leggi, per esempio, in materia di molestie sessuali, che rifiutano la massima classica secondo la quale ognuno è innocente fino a prova contraria. E così via. In generale direi che la nuova egemonia è essenzialmente anti europea, cioè, si ispira a idee che si trovano al di fuori del corpo principale della cultura europea, questa cultura che è stata creata da Atene, da Roma e dal cristianesimo. Come il marxismo e i regimi che erano basati su idee marxiste, i nuovi ingegneri sociali desiderano emanciparsi dalla saggezza del patrimonio europeo. Commettono lo stesso errore dei loro predecessori: credono che liberandosi dalle vecchie regole l'umanità ne potrà beneficiare e avere più libertà. Sono consapevoli che le nuove regole impongono sulle persone vincoli perniciosi. Nonostante la propaganda rumorosa, abbiamo meno libertà, meno pluralismo, meno spazio del dibattito pubblico. E, come allora, le nostre menti sono diventate più sensibili alla pressione esterna di cui abbiamo poco controllo - conclude Legutko - L'imperatore è nudo, ma elogiamo la bellezza esuberante e la ricchezza dei suoi vestiti".

(Il Foglio, 24 agosto 2016)
   


Pokémon Go

וילכו אחרי ההבל ויהבלו
Andarono dietro al vapore e svaporarono
                                        Geremia 2:5

Una traduzione corrente suona così:
Andarono dietro alla vanità e diventarono essi stessi vanità.

Come si vede, il testo ebraico è molto più secco ed incisivo
. Il termine tradotto con "vanità" è hevel (הבל), ed è quello usato anche nel libro dell'Ecclesiaste: Vanità delle vanità, tutto è vanità (הבל הבלים הכל הבל). Il dizionario di ebraico biblico di Louis Alonso Schökel, alla voce hevel, dice: «Soffio, vento, sospiro; vuoto, nulla, stoltezza, vacuità, irrealtà, vanità, illusione, fatuità. Prevalente è l'aspetto metaforico di vacuità (mentale, o verbale o esistenziale), inconsistenza, fugacità».

La vacuità che gli appassionati di Pokemon Go inseguono correndo dietro alla realtà evaporata di mostriciattoli apparenti e sparenti non mancherà di produrre prima o poi i suoi effetti sugli inseguitori.
Si conferma, come sempre, quello che dice la Scrittura:

בני איש במאזנים לעלות המה מהבל יחד
Gli uomini, messi sulla bilancia tutti insieme, sono più leggeri del vapore.
                                                                                       Salmo 62:9

 
(Notizie su Israele, 24 agosto 2016)


Tel Aviv: scoperto il meccanismo per fermare le metastasi del melanoma

di Guglielmo Gatti

A 24 ore dall'annuncio dell'importante scoperta italiana, ecco un nuovo passo per sconfiggere il melanoma. Scienziati israeliani e tedeschi hanno reso noto di aver individuato il meccanismo attraverso il quale il tumore maligno della pelle si diffonde agli altri organi del corpo umano e il modo di fermarne le metastasi. Tanto da far dire al dottor Carmit Levy, direttore del team di studiosi israelo-tedesco, che la scoperta «è un passo importante sulla strada per un completo rimedio al più mortale cancro della pelle. Confidiamo - ha aggiunto - che i nostri risultati ci aiutino a trasformare il melanoma in una malattia non minacciosa e facilmente curabile». Lo studio - pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology - dimostra che prima di diffondersi ad altri organi, «il tumore emette minuscole vescicole con molecole endogene di acido ribonucleico (microRna). Sono loro a provocare cambi morfologici nel derma in preparazione del ricevimento e del trasporto delle cellule cancerose». I ricercatori - che fanno parte della Tel Aviv University e del German Cancer Research Center di Heidelberg - hanno anche annunciato di aver trovato «sostanze chimiche che possono mettere fine al processo e che sono promettenti candidati farmaci».

 Da Tel Aviv si apprende che il cancro si può combattere prima che invada il derma
  Dopo aver ricordato che «la minaccia del melanoma non risiede nel tumore iniziale che appare sulla pelle, quanto piuttosto nelle sue metastasi», Levy ha spiegato che la ricerca si è concentrata «sugli stadi iniziali della malattia prima della fase invasiva e che con grande sorpresa degli scienziati sono stati scoperti cambiamenti, prima non riportati, nella morfologia del derma, lo strato interno della pelle. Il passo successivo è stato scoprire cosa erano questi cambiamenti e come fossero collegati al melanoma». Punto di svolta è stata la scoperta che - contrariamente a quanto si sapeva fino ad oggi - prima ancora che «il cancro stessa invada il derma, emette appunto minuscole vescicole di microRna e che queste inducono cambi strutturali nel derma stessa per ricevere e trasmettere il tumore alle cellule. Ed oggi ci è chiaro che bloccando queste vescicole, siamo in grado di fermare anche la malattia». I farmaci candidati individuati sono due sostanze chimiche: la prima, SB202190, inibisce il rilascio delle vescicole dal melanoma al derma; la seconda, U0126, previene i cambi morfologici nel derma stesso anche dopo l'arrivo delle vescicole. Entrambe le sostanze - ha sottolineato Levy - sono state testate con successo in laboratorio e possono servire come candidate a future medicine. «Per di più - ha aggiunto il direttore del team tramite l'ufficio stampa del governo israeliano - i cambi nel derma, come le vescicole stesse, possono essere usate come indicatori potenti per la diagnosi precoce del melanoma».

(Il Secolo d'Italia, 23 agosto 2016)


Accordo fra Israele e Kazakhstan per la fabbricazione di droni

Il kazako Imangali Tasmagambetov e l'israeliano Avigdor Lieberman

GERUSALEMME - Israele e il Kazakhstan hanno raggiunto un accordo in materia di produzione congiunta di aeromobili a pilotaggio remoto (Apr). È quanto riferito dal ministero della Difesa kazako che tuttavia non ha specificato quale tipologia di droni sarà prodotta dai due paesi. L'accordo è stato raggiunto durante una riunione fra i ministri della Difesa dei due paesi, il kazako Imangali Tasmagambetov e l'israeliano Avigdor Lieberman, che si è svolta ieri a Tel Aviv. In base all'accordo, i droni saranno realizzati in Kazakhstan sulle base della tecnologia israeliana. "Questo progetto sarà attuato nel settore dedicato all'aviazione del centro tecnico di Astana, che ha la capacità necessaria di produzione e di risorse umane per la fabbricazione, l'assemblamento e la manutenzione tecnica degli Apr, se verrà fornito delle tecnologie appropriate e di attività di formazione condotte da specialisti", ha detto Tasmagambetov durante l'incontro.

(Agenzia Nova, 23 agosto 2016)


Guerra in Siria: che cosa nasconde l'attrito tra Russia e Iran

Teheran non intende più concedere a Mosca la base aerea di Nojeh. Colpa di un comportamento non proprio da gentiluomini

La spiegazione l'ha fornita il ministro della Difesa iraniano Hossein Deghan, quando incalzato da alcuni deputati che volevano chiarimenti sul perché il governo iraniano avesse concesso alla Russia l'uso della base aerea iraniana di Shahid Nojeh per bombardare le postazioni dei ribelli in Siria, è stato costretto a una precipitosa retromarcia. E ha dovuto spiegare in parlamento che la cooperazione politico-militare con la Russia - che tanto scalpore aveva suscitato negli ambienti diplomatici la settimana scorsa - non prevedeva affatto carta bianca all'aviazione putiniana in territorio iraniano. Non prevedeva soprattutto - è questo il sospetto - che i russi annunciassero a tutti il contenuto di un accordo per l'uso della base aerea che, per Teheran, avrebbe dovuto rimanere segreto.
   «I russi vogliono dimostrare a tutto il mondo di essere una superpotenza, in modo da garantirsi un ruolo nel decidere il futuro politico della Siria. Ovviamente nel farlo hanno voluto mettersi in mostra e non si sono comportati da gentiluomini».
   Questa la frase che spiega esattamente quale è il punto dell'attrito tra Russia e Iran sulla Siria: l'accordo per la concessione ai russi della base aerea iraniana avrebbe dovuto rimanere segreto, stando a quanto scrive la stampa americana, e il precipitoso (e unilaterale) annuncio della settimana scorsa da parte di Mosca, quasi che l'Iran si fosse messo a disposizione spalancando le porte ai cacciabombardieri russi, ha finito per indispettire Teheran e la sua opinione pubblica, sempre molto gelosa delle sue prerogative formali e sovrane.
   Un classico autogoal politico-diplomatico - quello di Mosca - dettato più dalla necessità di esibire simbolicamente, e agli americani, i muscoli in Medioriente che da attriti sostanziali con Teheran sul futuro di Assad o sulla cooperazione energetica. Il fatto è che l'Iran è un grande Paese, e tale si percepisce, e trattarlo con sufficienza - non concordando tutte le mosse - significa commettere il più ingenuo degli errori. Tanto più in un Paese come l'Iran che mai, nemmeno ai tempi dello shah, aveva concesso agli americani l'uso delle proprie basi aeree, come ha correttamente notato il diplomatico americano di lungo corso John Limbert sul New York Times.
   In buona sostanza, non cambia molto. L'attrito - con quell'accento sui gentiluomini - attiene più alla dimensione diplomatica che a quella militare. In Siria, Russia e Iran continuano a essere alleate, almeno in questa fase, con l'esercito di Assad, uscito malconcio nelle ultime settimane dalla battaglia di Aleppo.
   Gli aerei militari russi continueranno a bombardare i nemici di Assad - soprattutto i ribelli che operano nella Siria nord-occidentale - partendo dalla base militare di Mozdok, nel sud della Russia, e passando dal corridoio aereo che attraversa il Mar Caspio, l'Iran e l'Iraq.
   Gli iraniani continueranno a dare manforte sul terreno agli uomini di Assad, sfruttando i buoni rapporti con le milizie sciite presenti sul terreno.
   La speranza moscovita di ridurre il tempo di volo del 60 per cento e di trasportare bombe molto più grandi e potenti - grazie all'uso della base iraniana - rimarrà tale almeno per un po'. O, per usare le parole del ministro della Difesa iraniano, «almeno per il momento». Gli americani, intanto, stanno alla finestra e sperano di strinfere un accordo con Putin per il futuro della Siria.

(Panorama, 23 agosto 2016)


Terrorismo - Israele rafforza prevenzione e contrasto delle minacce cyber

Stefano Mele: "Misure utili per arginare propaganda in Rete"

Stefano Mele

ROMA - La nuova normativa israeliana per il contrasto al terrorismo, che entrerà in vigore a novembre di quest'anno, "tra le varie previsioni di reato introdotte, guarda anche al tema particolarmente attuale dell'utilizzo di Internet per scopi terroristici". A dirlo a Cyber Affairs è Stefano Mele, avvocato specializzato in Diritto delle Tecnologie, Privacy, Sicurezza delle Informazioni e Intelligence.
   Seppure "questo genere di organizzazioni non sia riuscito finora a compiere veri e propri attacchi terroristici nel e attraverso il cyber spazio, e da più parti si dubita fortemente che questo potrà avvenire nel prossimo futuro", rimarca Mele, "gruppi come lo Stato Islamico da tempo fanno della rete Internet e delle tecnologie degli strumenti impareggiabili per svolgere attività di propaganda, proselitismo, reclutamento, radicalizzazione e per una prima fase di indottrinamento, così come per il finanziamento e la pianificazione, preparazione e coordinamento delle attività terroristiche".
   Per queste ragioni, rimarca ancora l'esperto, "delimitare e arginare questo genere di comportamenti attraverso norme equilibrate rappresenta, quindi, senz'altro uno dei principali obiettivi per anticipare eventuali attacchi terroristici e per depotenziare brand particolarmente forti come, ad esempio, quello dello Stato Islamico, che ancor oggi appare essere particolare attrattivo soprattutto in Europa".
L'attuale normativa per il contrasto al terrorismo predisposta dal governo israeliano, sottolinea ancora, "mira proprio al raggiungimento di questa fondamentale esigenza. Nel far ciò, tuttavia, il governo di Benjamin Netanyahu non ha guardato all'introduzione di una specifica fattispecie normativa atta a punire l'utilizzo di Internet per scopi terroristici, ma - in maniera corretta, secondo Mele - ha inserito l'ambito digitale all'interno delle fattispecie di reato di incitamento al terrorismo e di solidarietà verso questo genere di attività e verso le organizzazioni che li commettono. Spetterà, quindi, al lavoro degli interpreti e di coloro che dovranno applicare questa normativa verificare caso per caso se un incidente informatico possa rientrare o meno, a seconda dei suoi effetti, nella rinnovata e particolarmente ampia definizione di atto terroristico".
   Un lavoro, conclude Mele, "certamente molto delicato e che, se male interpretato, rischia di comprimere alcune libertà fondamentali del popolo israeliano, ma che, se opportunamente tarato, garantirà uno strumento utilissimo per il contrasto al terrorismo e alla sua propaganda anche nel cyber spazio".

(askanews, 23 agosto 2016)


''Invasione'' di israeliani a San Martino

È il raduno organizzato da ex studenti che vivono e lavorano in tutto il mondo

di Nicola Savino

VITERBO - Metti una settimana a Viterbo. A San Martino al Cimino, per la precisione. Meta scelta per l'annuale ritrovo di un numeroso gruppo di under 30 di origine israeliana che hanno scelto proprio il cuore della Tuscia per l'appuntamento 2016. Ex studenti, compagni di classe e di università, con relativi compagni o mogli o fidanzate che da tempo organizzano questo ritrovo scegliendo ogni anno un Paese e una terra diversi. E stavolta per trascorrere una settimana di relax hanno optato per il Balletti Park Hotel sulla Sammartinese. Circa quattrocento i partecipanti che hanno letteralmente ''requisito'' l'intera struttura alberghiera e le relative pertinenze.

(Viterbo News24, 23 agosto 2016)


All'Università islamica c'è chi invoca la "soluzione finale per i sionisti", lo "sterminio" di Israele

Un post su Facebook del responsabile della segreteria della Fondazione Università islamica di Lecce recita così: " Gli ebrei reali sono vittime". Che dice, ministro Giannini?

di Giulio Meotti

ROMA - Pensata sul modello della Cattolica di Milano ma con la faccia rivolta a est, in direzione della Mecca, l'Università islamica d'Italia è stata lanciata un anno fa a Lecce. Sede legale, amministrazione, rettorato, moschea e college per cinquemila studenti. Tre i corsi di laurea previsti finora, Scienze umanistiche, Scienze agrarie-ambientali e Medicina. Come ha spiegato la Gazzetta del Mezzogiorno, "dietro il progetto dell'Università islamica promosso a Lecce dalla Confederazione di imprese mediterranee ci sono i barili di petrolio provenienti dalla Lega araba e dall'Opec, l'organizzazione che riunisce i paesi esportatori di 'oro nero'. Non solo. Ci sono l'Unione delle comunità islamiche d'Italia (Ucoii) e la Qatar Foundation". Emblematico il motto della raccolta fondi: "Un milione di barili di petrolio per la gloria di Allah". Fra i partner accademici dell'Università islamica d'Italia troviamo anche l'Università al Azhar del Cairo. Voluta da Giampiero Khaled Paladini, presidente della Fondazione e imprenditore-filantropo convertito all'islam, questa università nel fine settimana è stata al centro di un caso diplomatico fra Italia e Israele. Il primo a riportare le parole di Raffaello Yazan Abdallah Villani, responsabile della segreteria della Fondazione università islamica di Lecce e referente dell'associazione Mediterraneo Islam Italia, è stato il Centro di documentazione ebraica di Milano.
   La notizia è poi rimbalzata su tutti i siti di informazione israeliani. "Un [sic] altra soluzione finale", ha scritto su Facebook il dottor Villani. "Ma questa volta fatta bene… ci vorrebbe. Ma per i sionisti… solo per loro. Sterminio completo. Gli ebrei reali sono vittime". Il post, poi cancellato, è stato scoperto dall'ambasciata di Israele a Roma e dal ministero dell'Interno ed è stato condannato dal fondatore dell'Università islamica Paladini: "Tale situazione sarà sottoposta al Comitato scientifico di Unislamitalia, ma fin da subito posso esprimere il mio personale pensiero: tale dichiarazione non è condivisibile assolutamente nei suoi contenuti né nel linguaggio usato". Che un funzionario di una università accreditata presso il Miur invochi la cancellazione dello stato ebraico, paragonandola alla soluzione finale pianificata dai nazisti a Wannsee per i sei milioni di ebrei, non è cosa da poco. Molti nomi noti siedono nel board scientifico della Università islamica d'Italia. Come Franco Cardini, celebre medievista e islamologo, ma anche Abdel Fattah Hassan, imam della Grande moschea di Roma, che all'Università islamica d'Italia sarà responsabile del corso di formazione per imam. Cosa ne pensa delle parole di Villani il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, che un anno fa aveva elogiato l'Università islamica di Lecce come un esempio di "diplomazia culturale"?
   Un "ponte" verso l'islam che, nelle intenzioni di alcuni suoi funzionari, sembra anche auspicare una "Endlösung der Israel-Frage". La soluzione finale per i sei milioni di ebrei israeliani.

(Il Foglio, 23 agosto 2016)

*


L'università islamica sogna la Shoah

Proteste da Israele per le frasi di un funzionario dell'ateneo di Lecce: «Ci vorrebbe un'altra soluzione finale»

di Brunella Bolloli

«Ci vorrebbe un'altra soluzione finale, ma questa volta fatta bene. Sterminio completo ma per i sionisti, solo per loro». Il mondo combatte contro il terrorismo, ma in Puglia c'è chi invoca un nuovo massacro di ebrei. Il problema è che non si tratta di qualche anonimo squilibrato che, ad agosto, ha preso un colpo di calore, bensì del responsabile della segreteria della neonata Fondazione Università islamica di Lecce, un ateneo annunciato in pompa magna con tanto di soldi provenienti dall'Opec, secondo gli organizzatori, che dovrebbe cominciare i corsi ad ottobre.
   Raffaello Yazan AbdAllah Villani, questo il nome del funzionario della scuola per musulmani, il 4 agosto ha postato un delirante messaggio sul suo profilo Facebook, augurandosi la fine completa dei sionisti «ma solo per loro ... perché gli ebrei reali sono vittime». Il messaggio nel frattempo è stato oscurato, ma la notizia dei vergognosi commenti antisemiti pubblicati sul social network dai seguaci di Villani è stata ripresa da alcuni siti di informazione israeliani, tra cui Ynet e Times of Israel, e ieri ne ha parlato Moked, il portale dell'ebraismo italiano. I post erano talmente offensivi e intrisi di antisemitismo da scatenare la denuncia, oltre che lo sdegno, dell'Unione delle Comunità Ebraiche italiane (Ucei). Denuncia fatta in collaborazione con l'ambasciata d'Israele a Roma. In pratica si è sfiorato l'incidente diplomatico tra il nostro Paese e Israele. La questione è stata perfino portata all'attenzione del ministero dell'Istruzione e della Ricerca sebbene l'Università islamica di Lecce non abbia ancora tutti i crismi e le autorizzazioni per essere equiparata ad un vero ateneo.
   A sollecitare la cancellazione del post incriminato sarebbe stato lo stesso Viminale, sollecitato da alcuni funzionari israeliani che avrebbero trasmesso i commenti di Villani al presidente di un gruppo interparlamentare IsraeleItalia, il quale aveva presentato una richiesta formale al governo italiano e al ministro degli Interni, Angelino Alfano, che è dovuto intervenire per scongiurare il peggio.
   In verità, Villani non è nuovo a polemiche sui social. Da tempo si lascia andare a sfoghi in chiave anti-sionista. Prende di mira politici europei, oltre a buddisti, una quantità variegata di giornalisti italiani, che ha definito «una massa di deficienti senza cervello che scrivono per il padrone di tumo», e, soprattutto, gli «ebrei infami». Alcuni osservatori ricordano sue preoccupanti esternazioni: immagini di uomini e donne con i visi coperti dalla kefya, con fionda in mano e il commento: «Allah benedici la Palestina, Allah uccidi tutti i nemici della Palestina».
   Forse anche per le polemiche scaturite da tali frasi pronunciate dal responsabile della segreteria, l'università Islamica di Lecce fatica a vedere la luce. Cominceranno, certo, alcuni corsi in autunno, specie di lingua araba, ma poca cosa rispetto all' ambizioso progetto originario partorito da un'idea di Giampiero Khaled Paladini, 56enne salentino convertito all'Islam e presidente di Confime, la Confederazione imprese mediterranee, si è molto discusso. La città, che conta 3500 residenti extracomunitari bene integrati, certamente non ne sentiva la mancanza. Il Comune, guidato da Paolo Perrone, fin da subito ha manifestato molte perplessità di fronte all'ambizione di Paladini di fare arrivare nella città di Sant'Oronzo, culla del barocco salentino, cinquemila studenti desiderosi di formarsi sulle orme di Maometto con corsi di recitazione del sacro Corano, master in diritto e finanza islamica e studi in teologia coranica e società occidentale. Perrone, interpellato da Libero, è chiaro sull'argomento: «È sembrata da subito una cosa non fattibile. Non potevamo dare il nostro via libera in assenza di un progetto reale, che non ci è mai stato mostrato, e con nessuna garanzia sui costi, su chi avrebbe finanziato l' opera e su tutto il resto». Palladini, una laurea in Legge in tasca e la folgorazione per il mondo musulmano, l'anno scorso aveva parlato di un campus alla periferia della città con mensa, residenze, impianti sportivi e, ovvio, una moschea. «È infatti in corso l'acquisto di terreni e di una villa per un investimento complessivo di 45 milioni di euro», aveva spiegato a Tgcom24. «Vari percorsi didattici e tre facoltà in tutto».
   L'obiettivo dell'ateneo, diceva l'ideatore, sarà quello di formare «una nuova classe dirigente islamica che saprà imporre la pace religiosa in Europa». Addestrare cioè gli imam del futuro, moderati e non estremisti. Peccato, però, che il suo collaboratore Villani in quanto a messaggi di pace tra i popoli non la pensi esattamente come lui, visti gli scritti inneggianti a un nuovo Olocausto messi in Rete, che hanno fatto rischiare un incidente diplomatico.
   Palladini si è detto dispiaciuto per una «dichiarazione», quella del suo segretario, «assolutamente non condivisibile né sui contenuti né per il linguaggio usato». Villani, intanto, ha deciso di autosospendersi. Così potrà evocare la Shoah altrove.

(Libero, 23 agosto 2016)

*


E se si chiedesse qualcosa anche allo "Sportello dei Diritti"?

 
L'esternazione su Facebook del segretario della Fondazione dell'Università Islamica di Lecce, Raffaello Yazan Abdallah Villani, è apparsa il 4 agosto. Il presidente della medesima Fondazione, Giampiero Khaled Paladini, sembra che ne sia venuto a conoscenza soltanto due giorni fa attraverso una nota comparsa sul sito dell'associazione "Sportello dei Diritti" e riportata sul Corriere Salentino. Il presidente Paladini allora ha scritto una breve nota in cui afferma che è grazie a Giovanni D'Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", che ha appreso "solo adesso" la notizia. Il fatto interessante però è che la nota di Giovanni D'Agata non appare affatto come una critica a Rodolfo Villani, ma piuttosto come un'accusa alla stampa israeliana e ai gruppi italiani amici di Israele che hanno strumentalizzato la vicenda. In quello che è avvenuto il presidente dello "Sportello dei Diritti" non vede un'altra manifestazione di vergognoso antisemitismo, ma un "nemico in più" da combattere: le lobby collegate al sionismo. Ecco la conclusione della nota dello "Sportello dei Diritti", riportata anche in un articolo del Corriere Salentino:
    «Un fatto eclatante ed un incidente diplomatico sfiorato, rileva Giovanni D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti", che evidenzia come sia potente l'influenza delle relazioni tra Israele e Italia che arrivano a spegnere sul nascere il pensiero di chi osa criticare le politiche sioniste, mentre comprende che l'Università Islamica di Lecce, per la quale la nostra associazione si è sempre battuta, ha un nemico in più rappresentato proprio dalle lobby collegate al sionismo.»
(Notizie su Israele, 23 agosto 2016)


Unifil villeggia, Hezobollah si arma, militarizza e spadroneggia nel sud Libano

Nel sud Libano ormai è noto a tutti meno che a UNIFIL, è stato creato uno stato nello stato da Hezbollah che da tempo ha messo su una vera e propria organizzazione statale e un esercito pesantemente armato anche con droni di ultima generazione gentilmente forniti dall'Iran.
Hezbollah nel sud del Libano controlla tutto, controlla e benevolmente accetta la presenza di UNIFIL che gli fa da parasole e contribuisce all'economia dell'area fortemente depressa.
   Insomma, UNIFIL con i suoi oltre 7.000 uomini e un raggruppamento elicotteri italiano che dal 1979 è dislocato nel sud del Libano come attività primaria ormai ha solo il mantenimento del personale senza un vero e proprio compito operativo, e per economia dell'area .
Praticamente oltre 7.000 uomini si danno il cambio ogni sei mesi per passare, sotto il comando italiano, un turno di vacanze lautamente pagato.
   In questa situazione ovviamente Hezbollah si prepara alla guerra e se non fosse per l'attenta opera di intelligence di Israele e dell'opera di controllo e prevenzione dell'IDF, oltre che dall'ormai famoso addestramento dei civili che sono gli occhi e le orecchie dell'apparato difensivo israeliano, potrebbe tranquillamente attaccare in ogni momento.
   E' di pochi giorni fa la notizia che poco oltre il confine un agricoltore a israeliano ha trovato una borsa contenente esplosivi, probabilmente pronti per una azione terroristica di Hezbollah contro i civili anche se inizialmente si pensava a criminalità locale.
   Questo fatto dimostra come Hezbollah, che per bocca del suo leader Hassan Nasrallah minacciato Israele di un riaccendersi delle ostilità dopo 10 anni, tenti sempre di portare in Israele esplosivi e droghe sotto gli occhi "distratti" di UNIFIL. E se la maggior parte delle volte non riesce nell'intento, lo si deve non certo ad UNIFIL che villeggia nel paese dei cedri, ma alla costante opera di intelligence e la capacità delle pattuglie dell'IDF che controllano l'area.
E UNIFIL ? Già UNIFIL, perché mai l'ONU, che spende oltre l'80% del budget per mantenersi, continua a mantenere un ingente spiegamento di forze in Libano praticamente per far effettuare un turno di sei mesi di villeggiatura a personale delle varie nazioni ?

(Osservatorio Sicilia, 23 agosto 2016)


Pallamano - Campionato Europeo 2 under 18: Italia fermata da Israele in finale

Un solo goal ha fermato gli azzurrini della pallamano, che contro Israele nella finale di 2a divisione del campionato Europeo di pallamano a Kaunas, Lituania, si giocavano il passaggio in prima divisione. Purtroppo gli azzurri hanno faticato a rompere le maglie della difesa israeliana, pur riuscendo a creare un maggior numero di occasioni. Un 26-25 che lascia un po' di amaro in bocca, poiché l'impressione destata è stata di una squadra che vale più della seconda divisione in cui milita.

(Fonte: SportFace, 22 agosto 2016)


Ombre sulla polemica tra Mosca e Teheran per la base di Hamadan

Jet russi nella base aerea di Hamadan

MOSCA - Da dove nasce la polemica scoppiata oggi tra Mosca e Teheran? L'interazione tra i due Paesi sulla base iraniana di Hamadan - usata da alcuni giorni per raid sulla Siria - è regolata da accordi bilaterali, e la Russia utilizza solo l'infrastruttura di Hamadan, senza che negli accordi rientri la fornitura o vendita all'Iran di armi. A dichiararlo è Ministero degli Esteri russo, che sottolinea come non sia necessario il consenso del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, per utilizzare la base. Il commento segue il rincorrersi di dichiarazioni relative a un malcontento iraniano, apparentemente in merito a come da Mosca sarebbe stato sbandierato per il mondo, l'uso della base iraniana. Ma che di fatto potrebbero rispecchiare un'impazienza iraniana su forniture militare promesse da Mosca.

 Polemica rientrata?
  Il Ministero della Difesa di Mosca in giornata ha chiarito attraverso il suo rappresentante ufficiale, il generale Igor Konashenkov: "La base aerea di Hamadan nella Repubblica islamica dell'Iran sarà utilizzata ulteriormente dall'aviazione russa sulla base degli accordi reciproci in materia di lotta contro il terrorismo, e in funzione della situazione in Siria". Il portavoce del ministero della Difesa russo ha anche aggiunto che però al momento i bombardieri e i jet partiti dall'Iran hanno fatto rientro in patria. "Tutti gli aerei russi che hanno partecipato a questa operazione si trovano nel territorio della Federazione Russa", ha detto.

 Contraddizioni da Teheran
  Va notato che se prima il ministro della Difesa iraniano Hossein Dehghan aveva parlato di frasi "sconsiderate" della Russia che voleva dimostrare di essere una "superpotenza" utilizzando la base iraniana per i suoi raid in Siria e aveva aggiunto che la struttura non era stata data in alcun modo in concessione alla Russia. "È una specie di spettacolo", ha detto. Lo stesso ministro due giorni fa, all'indomani dell'inizio dei raid dei bombarideri e dei jet russi dalla base, aveva detto che i russi "potranno usare la base per tutto il tempo necessario". Peraltro i ministri della difesa della Russia, Iran e Siria si erano incontrati a giugno a Teheran per discutere della strategia militare congiunta.

 La svolta strategica
  Lasciando molte facce interdette, dal 16 agosto scorso la Russia aveva utilizzato la base iraniana per la prima volta in quella che Mosca definisce una "campagna anti-terrorismo" in Siria, facendo partite i bombardieri a lungo raggio Tupolev e i jet russi dall'Iran, per attacchi aerei contro lo Stato islamico e Jabhat Al Nusra, ossia i gruppi jihadisti in Siria. In uno sviluppo a sorpresa, i bombardieri russi Tu-22M3 sono apparsi nella base iraniana di Hamadan, in Iran, e il ministero russo della Difesa aveva confermato il dispiegamento. Le immagini erano state pubblicate inizialmente su Twitter da Warfare Worldwide. Oltre ai Tu-22M3, nella foto si vedevano aerei da trasporto militare IL-76 colorati in base alle varianti previste dall'aviazione militare russa.

 Cooperazione militare e commerciale
  Il riavvio dei negoziati e la fornitura dei sistemi russi antimissile S300 all'Iran è stato il calcio di inizio per una nuova stagione della cooperazione militare tra i due Paesi. L'Iran è noto che vorrebbe anche i caccia intercettori a lungo raggio Su-30 russi. Ed è anche su questo forse che verte la tensione delle ultime ore. Dehghan ha infatti spiegato oggi che Teheran si aspetta che Mosca onori gli impegni sul resto delle consegne di sistemi di difesa aerea S-300 a settembre. "La parte principale del lotto è stato consegnato. Spero che i sistemi di difesa aerea rimanenti saranno consegnati a Teheran entro il prossimo mese", ha detto secondo Sputnik. L'affare del costo di circa 800 milioni di dollari venne in realtà concluso quasi 10 anni prima, nel 2007. Mosca avrebbe dovuto consegnare a Teheran cinque divisioni di sistemi missilistici S-300 composte da 40 rampe di lancio. Tuttavia a causa delle sanzioni internazionali contro l'Iran la Russia è stata costretta a bloccare la procedura. L'Iran spoerse querela contro Mosca al tribunale di Ginevra chiedendo 4,2 miliardi di dollari.

 Il permesso dell'Onu
  Secondo Mikhail Ulyanov, il capo del dipartimento del ministero degli Esteri russo per la non proliferazione e il controllo degli armamenti , ha ribadito che Mosca sta esclusivamente utilizzando l'infrastruttura presso Hamadan in Iran come campo di volo, il che esonera dalla approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Altrimenti si dovrebbe "procedere in base alla Risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza Onu, che stabilisce le misure di regolamentazione delle forniture di armi all'Iran. In questo caso, non stiamo parlando di forniture di armi o di vendita", ha sottolineato Ulyanov.

(askanews, 22 agosto 2016)


"Dichiarazione assolutamente non condivisibile"

Dopo la notizia del funzionario del segretario della fondazione dell'Università islamica d'Italia, a Lecce, puntuale arriva la precisazione di Giampiero Khaled Paladini, presidente della Fondazione, in esclusiva allo "Sportello dei Diritti".

"Grazie a Giovanni D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti", ho appreso solo adesso della Ynet. Tale situazione sarà sottoposta a discussione prossima del Comitato Scientifico di Unislam personale pensiero: tale dichiarazione non è condivisibile assolutamente nei sui contenuti né ne DNA la ricerca ad oltranza del dialogo per la pace con tutte le parti in causa e rifugge da ogni odio razziale a tutti i livelli. Siamo impegnati insieme a cristiani ed ebrei nella messa in cantiere componenti religiose e laiche per la lotta alle guerre e per il contrasto al radicalismo e ad ogni fo mediatico che possano determinare conflitti e l'arretramento nei rapporti di cooperazione cultura più stretti e continui tra comunità musulmana, cristiana ed ebraica".

(Corriere Salentino, 22 agosto 2016)


Eitan, il nuovo trasporto truppe ruotato israeliano

Il ministeri della Difesa israeliano ha reso note a inizio agosto le prime foto del prototipo del nuovo trasporto truppe corazzato (APC) Eitan, un ruotato 8?8 destinato a rimpiazzare (insieme al cingolato Namer ricavato dallo chassis del carro Merkava e prodotto finora in 120 esemplari) le diverse versioni e varianti dei cingolati della famiglia M-113 presenti in circa 6 mila esemplari nelle caserme e nei depositi di Tsahal e impiegati anche come portamortaio, ambulanza e lanciamissili anticarro.
L'Eitan è un veicolo da 30/35 tonnellate propulso da un motore da 750 HP, con una velocità massima di 90 km/h su strada asfaltata e in grado di trasportare 12 militari (3 di equipaggio e 9 fanti).
Il generale di brigata Baruch Matzhliah, a capo della "Tank Authority" del Ministero della Difesa, ha detto che al termine dei test sul prototipo verrà deciso quanti veicoli produrre.
Come ha evidenziato il Jane's Defence Weekly, la necessità di rimpiazzare gli M-113 è legata non solo all'età dei mezzi ma anche alle insoddisfacenti prestazioni registrate nelle operazioni a Gaza del 2014 contro i sistemi anticarro portatili di Hamas.
Matzhliah ha precisato che l'Eitan sarà un veicolo complementare al Namer, che garantirà il vantaggio di muovere con rapidità verso il campo di battaglia senza bisogno di veicoli portacarri necessari invece per i mezzi cingolati.

(Analisi Difesa, 22 agosto 2016)


Quello che le Olimpiadi ci dicono sul razzismo arabo

Il vero problema è l'odio del mondo arabo: non solo verso Israele, ma verso i singoli israeliani

Israele può consolarsi un po' con i rimbrotti ricevuti dal judoka egiziano Islam El-Shehaby che si è rifiutato di stringere la mano o di fare l'inchino cerimoniale al suo avversario israeliano Or Sasson. Shehaby è stato infatti rimproverato dal Comitato Olimpico Internazionale per comportamento "in contrasto con le regole del fair play e lo spirito di amicizia incarnato nei valori olimpici". Tutto qui. Per la maggior parte dei mass-media, l'incidente non rappresenterebbe altro che l'ennesimo caso di tensioni del Medio Oriente che tracimano dentro le Olimpiadi, come la squadra olimpica libanese che si è rifiutata di far salire atleti israeliani a bordo dello stesso autobus, e le notizie (non confermate) sulla judoka saudita Joud Fahmy che avrebbe dato forfeit pur di evitare di incontrare una israeliana al turno successivo....

(israele.net, 22 agosto 2016)


Razzo da Gaza, gli israeliani replicano attaccando Hamas

Dopo il lancio sulla città di Sderot, colpiti due obiettivi a nord della striscia. Non cl sono
notizie di vittime.

L'esercito israeliano ha confermato di aver attaccato due obiettivi di Hamas nel nord della Striscia in risposta al lancio da Gaza di un missile sulla cittadina di Sderot nel sud del paese. L'attacco è avvenuto sia con l'aviazione sia con colpi di artiglieria sparati da carri armati.

 L'obiettivo
  Secondo il portavoce del ministro della sanità di Gaza Ashraf al-Qidra, citato dall'agenzia Maan, un giovane palestinese di circa 20 anni è stato ferito dai colpi di artiglieria israeliana diretti verso un campo di addestramento militare a Beit Hanoun, nel nord della Striscia, non distante dal valico di Erez. Fonti locali, citate anche queste dalla Maan, parlano di altri due feriti palestinesi ma non ci sono al momento conferme.
Fino ad ora il lancio da Gaza verso Sderot - il razzo è caduto nei pressi di alcune case non distante da una stazione ferroviaria e un collegio - non è stato rivendicato ufficialmente anche se alcune fonti riportate dai media parlano delle Brigate «Abu Ali Mustafà», ala militare del Fronte popolare della liberazione della Palestina nell'enclave palestinese. L'ultimo razzo lanciato dalla Striscia verso Israele è stato lo scorso primo luglio ed è caduto su una casa disabitata sempre di Sderot. L'esercito israeliano - che ha contato in totale quattordici razzi arrivati dalla Striscia dall'inizio dell'anno ad oggi - ha detto di ritenere Hamas, come forza che detiene il controllo di Gaza, «responsabile» di ogni tiro verso lo stato ebraico.

 La novità
  L'esercito israeliano ha cominciato ad addestrare i soldati all'uso del primo robot da com battimento. E previsto - dicono i media - che la nuova arma sia usata in largo numero dall'esercito. Dotato di batterie al litio con un'autonomia di oltre due ore, il soldato robot - messo a punto dalla compagnia israeliana Roboteam - ha un microfono e cinque telecamere che possono essere usate di giorno e di notte con una visuale a 360 gradi in modo da fornire all'operatore una chiara visione di dove si trovi l'arma e di permettere una veloce reazione ad ogni situazione. In grado di percorrere 3 chilometri e mezzo in un'ora, il robot può portare un peso fino a 10 chili ed è equipaggiato con due braccia che gli consentono di portare e raccogliere oggetti. Le nuove armi - dal costo di decine di migliaia di dollari - saranno usate principalmente a fianco dei soldati veri e propri in modo da aiutarli nelle operazioni sul campo.

(Il Messaggero, 22 agosto 2016)


La fuga dei giovani italiani. «Noi, i soldati di Israele»

Lo stipendio è basso, ma alla fine in tanti restano. La carrista Nancy: «Qui ho trovato la mia dimensione».

di Marco Pasqua

Sempre più i ragazzi ebrei che decidono di prestare il servizio militare per Tel Aviv. Molti vivono nei kibbutz e vengono arruolati per un periodo che varia da uno a tre anni.

Hanno scelto di lasciare gli affetti, la sicurezza della loro casa, di congedarsi da genitori, parenti e amici, per rischiare la vita, ogni giorno. Si chiamano "chayal boded" ovvero "soldati soli" (Ione soldiers, in inglese), ragazzi e ragazze ebrei italiani che, già all'età di 18 anni, decidono di arruolarsi nell'IDF, le forze di difesa israeliane. Scelgono con la testa e il cuore, perché vogliono difendere la terra dei loro padri. E' un moto quasi spontaneo, quello che li ha portati a imbracciare l'M 16 in dotazione alle truppe israeliane e a combattere, per un periodo che varia da uno a 3 anni. Perché dei 6300 "soldati soli" arruolati nell'IDF, la metà ha ruoli operativi. Ragazzi che sanno di poter morire durante un attentato o un'operazione militare. In quattro anni, il numero di soldati soli nello Tsahal, l'esercito, è aumentato del 24%. Gli italiani che hanno lasciato la loro famiglia a casa, secondo i dati dell'IDF, sono circa 60. I soldi non sono mai il motore, vista la paga riservata ai militari: dai 200 ai 300 euro.

 Vita in comune
  Molti vivono nei kibbutz, altri condividono appartamenti per risparmiare. Quello che li guida, a sentirli parlare, mentre si prendono una pausa durante l'orario di servizio, è l'amore per Israele. «Venivo spesso in vacanza a Tel Aviv - racconta Nancy Saada, 24 anni, originaria di Milano - e ho sempre avuto un forte
 
 
attaccamento a questa terra. I miei nonni sono dovuti fuggire, per sopravvivere, dal Libano e dalla Libia». Nancy, oggi, è istruttrice di carri armati: nello specifico, insegna a guidare il "Nagmash", un mezzo da 11 tonnellate, relativamente rapido (viaggia fino a 60 Km/h), che viene usato per trasportare soldati e feriti nelle zone di guerra. Niente volante, ma solo due bastoni, gli "stikim". Si è arruolata nel dicembre del 2014 e il suo servizio terminerà a dicembre di quest'anno. «Questo è un esercito in cui credo tanto, dove c'è una moralità molto alta - dice, parlando al telefono dalla base di Eliat -. Lavoriamo molto, la mia giornata inizia alle 7 e si chiude a sera tardi, ma qui ho trovato la mia dimensione». L'Italia è il Paese in cui è cresciuta e dove torna, in vacanza, per salutare parenti e amici. Da giovane, ricorda, è stata vittima, con la famiglia, di alcuni episodi di antisemitismo: «Durante la festa delle capanne, disegnarono nel mio giardino delle svastiche. Altre volte, alle fermate del bus sono apparse le scritte 'Juden raus'. Episodi che non posso dimenticare». Silvia T., 21 anni, è arrivata a Tel Aviv da Torino. Si è arruolata nell'aprile del 2015 e presta servizio in Cisgiordania, sulle ambulanze, con il personale paramedico. Ha visto corpi mutilati, cadaveri, ha aiutato persone in fin di vita. «Qui soccorriamo tutti e affrontiamo ogni genere di emergenza - racconta -. Quando ho prestato giuramento, ho promesso di non fare differenza tra le persone che assistiamo e questo è un valore da cui non possiamo prescindere, mai».

 Uomini e donne
  La cosa più bella di questo lavoro è il "grazie" che raccoglie quando aiuta uomini e donne in difficoltà: «Quello che proviamo dopo aver salvato una vita è indescrivibile». Micol Debash, 24 anni, ha lasciato la capitale, dove era impiegata come addetta stampa presso la comunità ebraica e nell'IDF si occupa di relazioni internazionali. Un altro romano è Dario Sanchez, che, grazie alle sue esperienze nel settore della comunicazione, si è arruolato come fotografo e documenta, quotidianamente, le attività dell'esercito. Un esercito che ha scelto di affidarsi ai giovani, alla loro energia e al sano entusiasmo per quella che rimane una missione. «Amo l'Italia - ammette Shirel Sasson, 24 anni - e ogni volta che torno dai miei mi emoziono. Ma quello che ho trovato in Israele è unico». Nessuno mostra segni di pentimento, anche se, quotidianamente, convive con il pensiero di un attacco terroristico. La paura è un sentimento che non conoscono, o che hanno imparato a dissimulare. «Rifarei questa scelta a occhi chiusi», dice Nancy, prima di tornare dai suoi "Nagmash".

(Il Messaggero, 22 agosto 2016)


Piccola maggioranza israelo-palestinese a favore dei due stati

Un sondaggio indica che solo una piccola maggioranza di palestinesi (51%) e di israeliani (59%: 53% di ebrei israeliani e 87% di arabi israeliani) si schiera a sostegno della Soluzione a 2 Stati, pur non fidandosi dell'altra parte.
Il sondaggio è stato effettuato dall'Israel Democracy Institute (Idi) di Gerusalemme e dal Palestinian Center for Policy and Survey (Psr) di Ramallah, con fondi Ue e in partnership con il Konrad-Adenauer Stiftung.
Pubblicata oggi, l'inchiesta - 1,270 i palestinesi e 1,184 gli israeliani coinvolti - indica anche un gradimento minore se agli intervistati si prospetta un accordo di pace basato su punti che derivano da precedenti negoziati: solo il 39% dei palestinesi e il 46% degli israeliani (39% di ebrei israeliani e 90% di arabi israeliani) lo sostiene.
I punti dell'ipotetico accordo sono: la Palestina come stato smilitarizzato, il ritiro israeliano ai confini del '67 con eguali scambi di territorio, la riunificazione familiare in Israele per 100,000 rifugiati palestinesi, Gerusalemme ovest capitale di Israele e quella est della Palestina con il Quartiere ebraico della Città Vecchia e il Muro del Pianto sotto controllo israeliano mentre la Spianata delle Moschee, il quartiere musulmano e quello cristiano andrebbero ai palestinesi. Il consenso ad una simile intesa aumenterebbe però di un quarto per i due campioni di intervistati se l'accordo includesse anche un'intesa regionale arabo-israeliana.
Ma chi dovrebbe fare l'accordo? Il 44% dei palestinesi preferisce negoziati multilaterali mentre il 40% degli israeliani propende per negoziati bilaterali. Se prevalessero i primi, il 28% degli israeliani e il 22% dei palestinesi si schierano per un supporto arabo (Arabia Saudita, Giordania, Egitto). Altri sponsor multilaterali come Usa, Ue o Onu non raccolgono che pochi consensi.
Equanime il giudizio del campione per quanto riguarda la responsabilità del fallimento di precedenti negoziati: la maggioranza dei palestinesi incolpa gli israeliani e viceversa.
Così come solo il 43% dei palestinesi e la stessa percentuale di israeliani crede che l'altra parte voglia veramente la pace.

(ANSAmed, 22 agosto 2016)


Termina per il momento l'utilizzo base area iraniana Hamadan da parte dell'Aviazione russa

La base aerea di Hamadan

TEHERAN - L'utilizzo della base aerea di Hamadan, nell'Iran nord occidentale, da parte dell'Aviazione russa per lanciare raid in territorio siriano si è momentaneamente concluso. Lo ha annunciato oggi il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Ghasemi, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa iraniana "Tasmin". Parlando in una conferenza stampa, Ghasemi ha sottolineato le importanti relazione strategiche con la Russia, soprattutto nella lotta contro lo Stato islamico, precisando che l'utilizzo della base frutto di un protocollo d'intesa per azioni comuni è avvenuta nel quadro della lotta contro il terrorismo. In merito all'utilizzo della base aerea di Hamadan il portavoce ha precisato che l'operazioni dell'Aviazione di Mosca sono per il momento terminate.
  La notizia della momentanea interruzione dell'utilizzo della base aerea di Hamadan da parte di Mosca giungono in concomitanza con una serie di critiche mosse da diversi esponenti politici iraniani contrari alla concessione dell'aeroporto militare ai jet russi. Intervistato da "Tasmin" il presidente della commissione parlamentare per la sicurezza e la politica estera, Alaeddin Boroujerdi ha sottolinea che l'articolo 146 della Costituzione iraniana proibisce la creazione di qualsiasi tipo di base militare straniera in Iran, anche per scopi pacifici, ma ha tuttavia osservato che i velivoli russi utilizzano l'aeroporto di Hamadan e lo spazio area solo per il rifornimento. Il deputato ha anche ricordato che la concessione della base è parte dell'accordo di cooperazione che coinvolge Iran, Russia, Iraq e Siria nella lotta contro i gruppi terroristici in Siria.
  Ieri il ministro della Difesa, Hossein Dehgan ha sottolineato in una conferenza stampa a Teheran che l'Aviazione russa potrà utilizzare la base aerea Shaid Nojeh ad Hamadan (Iran) per tutto il tempo di cui ha bisogno. Secondo il ministro, la decisione dell'Iran di permettere all'aviazione russa di utilizzare la base di Hamadan fa parte della cooperazione contro lo Stato islamico richiesta dal governo siriano. "E' una decisione militare - ha aggiunto - realizzata nel quadro della cooperazione nella lotta contro l'Is e altri gruppi terroristici". Il ministro ha anche commentato le critiche sull'utilizzo dei russi della base di Hamadan espresse da alcuni membri del parlamento (Majlis). "Il Majlis non ha nulla a che fare con questo argomento", ha risposto Dehgan. "Molto presto - ha aggiunto - saremo in grado di vedere i risultati delle azioni anti-terrorismo da parte di Iran e Russia in Siria".
  La Russia ha dato il via ai primi raid aerei in Siria partendo dalla base di Hamadan, nell'Iran nord occidentale, lo scorso 16 agosto utilizzando sia bombardieri Su-24 e che quelli a lungo raggio Tu-22 M3. L'accordo fra Russia e Iran per l'utilizzo dell'aeroporto di Hamadan rappresenta secondo gli analisti un salto sia nelle relazioni tra Mosca e Teheran che della strategia volta ad aumentare l'influenza russa in Medio Oriente, a partire dal conflitto in corso in Siria. Nonostante i bombardieri russi stiano già utilizzando la base, l'accordo deve essere ancora sottoposto al vaglio del Consiglio della federazione russa (Camera alta) e del Majlis, il parlamento iraniano.
  La base aerea iraniana ha consentito di ospitare e far successivamente decollare verso la Siria un numero non precisato di bombardieri Tu-22M3 ed aerei da trasporto Ilyushin Il-76 consentendo una riduzione delle ore di volo per raggiungere gli obiettivi dello Stato islamico in Siria. In questi mesi i bombardieri russi a lungo raggio sono decollati dalla base russa di Mozdok e per raggiungere la Siria percorrono circa 2 mila chilometri, mentre dalla base di Hamadan la distanza che i velivoli dovranno percorrere è di circa 700 chilometri. L'utilizzo della base iraniana, quindi, ha permesso di ridurre le ore di volo e i costi del carburante, oltre a migliorare la tempestività dei bombardamenti.

(Agenzia Nova, 22 agosto 2016)


L'assalitore egiziano liberato accoltella subito un ragazzo

Aveva massacrato un anziano nel Lodigiano per un euro. Rilasciato, ferisce il giovane che lo aveva bloccato.

di Flavia Mazza Catena

SANT' ANGELO LODIGIANO - Massacra un anziano a calci, pugni e bastonate. Viene lasciato libero e, qualche ora dopo, trova per strada il giovane che lo aveva bloccato, nella sequenza da arancia meccanica che avrebbe potuto uccidere il 67enne, e lo accoltella forandogli un polmone e facendolo finire dritto in sala operatoria.
   Finalmente arrestato, ora il trentenne egiziano è stato portato in cella di sicurezza nella caserma dei carabinieri di Lodi e stamattina dovrà affrontare, in tribunale a Lodi, il giudizio per direttissima per lesioni personali aggravate. Si chiama Moustafa Hussein, ha 30 anni. Da dieci anni circolava per Sant' Angelo Lodigiano e da qualche mese chiedeva, dal pomeriggio alla sera, la carità, di negozio in negozio in centro. E bisognava dargliela. E c'è anche chi gli ha detto no e si è trovato le gomme dell'auto tagliate come raccontano diverse persone in paese.
   Tre giorni fa l'egiziano blocca, fuori da un bar, per l'ennesima volta un anziano del posto. Si chiama Andrea Grossi, prende 500 euro di pensione al mese e ha fondato, per poi esserne l'animatore volontario per 35 anni, la locale sezione della Croce Bianca. L'uomo gli aveva dato due euro di mancia il giorno precedente. Stavolta non ha moneta. Cerca di spiegarlo all'egiziano che all'improvviso scatena l'inferno. Prima gli assesta, violentissimo, due pugni in faccia. Poi si guarda intorno veloce e, in pochi secondi, trova un manico di scopa abbandonato: inizia a colpire Andrea a bastonate dappertutto. All'addome, alle braccia, alle gambe e anche in testa. L'uomo trova la forza di chiedergli perché gli stia facendo tutto questo. Per tutta risposta, l'egiziano continua a assestare nuovi colpi. Intorno a loro diverse persone che, però, si allontanano velocemente temendo il peggio.
   Solo un ventisettenne, italiano, a un certo punto urla all'immigrato: «Cosa fai? Smettila subito, non vedi che lo stai ammazzando?», Dopo di che, prendendo colpi a sua volta, lo allontana dal pensionato. Sarà un ufficiale della polizia locale a disarmare del bastone l'egiziano e a placcarlo. Poi arrivano anche i carabinieri. E l'ambulanza. Andrea Grossi viene portato in ospedale. El' aggressore? Se ne torna a casa tranquillo. È così che due giorni dopo, a due passi da casa, incontra il ventisettenne che aveva difeso l'anziano e che ha la sfortuna di abitare vicino a lui, e lo colpisce diverse volte al torace con un coltello da tasca lungo cinque centimetri, mandandolo in prognosi riservata. Finalmente arriva l'arresto.
   Il sindaco di Sant'Angelo Lodigiano Maurizio Villa oggi chiederà, urgentissima, la riunione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica perché «fatti simili non si debbano mai più vedere». A Sant'Angelo Lodigiano gli stranieri rappresentano, ormai, il 18 per cento della popolazione. Solo un mese fa un nordafricano aveva fatto irruzione nella basilica locale, durante la Messa, terrorizzando e urlando frasi in arabo.
   E tutti ricordano ancora il massacro di capodanno di sette anni fa, quando fu ucciso brutalmente nel suo negozio, per rubare due soldi e quattro gratta e vinci, il tabaccaio settantacinquenne Mario Girati: da tre tunisini e un egiziano.

(il Giornale, 22 agosto 2016)


I brutti presagi di Momigliano sugli ebrei

di Alberto Cavaglion

L'intervista postuma e un genere promiscuo, atterra e rincuora. Ci sembra di riascoltare una voce perduta, ma sappiamo che si tratta di un'illusione. L'eco lontana si protende ormai verso «l'intervista impossibile», che invece diverte. Nell'attesa, accontentiamoci della dolcezza triste delle conversazioni postume. Di Primo Levi, a cura di Giovanni Tesio, è uscito nei mesi scorsi Io che vi parlo (Einaudi). Esce adesso - bizzarra coincidenza - una nuova edizione di Pagine ebraiche (Edizioni di Storia e Letteratura), uno dei libri più fortunati di Arnaldo Momigliano, storico dell'età classica scomparso nel 1987, lo stesso anno di Levi. In appendice, Silvia Berti inserisce una intervista rimasta a lungo in un cassetto.
   La premessa di Pagine ebraiche è datata luglio 1987, Hospital of tho University of Chicago. Momigliano non farà in tempo a vedere il volume stampato, ma in bozze dedica il volume alla memoria di Levi scomparso in aprile. Un anno prima, Levi aveva evocato Momigliano nei Sommersi e i salvati. Interessante osservare i giudizi sulla anomala fioritura di studi ebraici avvenuta negli Usa, dove «Mom» trascorreva larga parte del suo tempo. Una esplosione di interessi, favorita proprio dalla scoperta oltreoceano di Primo Levi, inattesa, ma sospetta, dato il contesto.
   Nel saggio più bello, un sintetico profilo della bimillenaria presenza ebraica nella penisola, uscito sulla New York Review of Books, si legge: «Sarebbe follia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell'opinione pubblica». E, in una lettera all'editore del 1986, altri brutti presagi. Sarà bene, sospira, che «il tometto» (sono definite cosi le Pagine ebraiche) veda presto la luce: «Gli ebrei non rimarranno molto di moda nella nostra penisola». Ecco dunque pronta la prima domanda che ci riserveremmo di fare nella intervista impossibile, tra circa un anno: «Professor Momigliano, in occasione del trentennale della scomparsa, sua e di Primo Levi, secondo lei, gli ebrei pensa che siano ancora di moda?»

(La Stampa, 22 agosto 2016)


Magda Goebbels era figlia di un ebreo. Ma le cose non cambiano

Secondo la "Bild", la moglie di Joseph Goebbels, potente ministro della propaganda nazista, era figlia naturale di un ebreo. Magda non impedì che il padre morisse a Buchenwald.

di Ilde Mattioni

Magda Goebbels, moglie di Joseph, potentissimo ministro nazista, architetto della propaganda del regime, era figlia naturale di un ebreo. Lo rivela la "Bild", in una sua ricostruzione. La scoperta, in realtà, confermerebbe il già noto, ma ha fatto un certo scalpore. In ogni caso, converrà riportare quando ricordava Fritz Lang, il regista di Metropolis e del Mostro di Norimberga.
Il 30 Marzo 1933, convocato da Joseph Goebbels nel suo ufficio, Lang si vide avanzare la proposta di «diventare una sorta di führer del cinema tedesco. Io allora gli dissi: "Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche"». Quel che Goebbels gli rispose è altamente indicativo: «"Non faccia l'ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!». Lang fuggii da Berlino quella notte stessa. Nelle parole di Goebbels si fissava troppa, agghiacciante verità.

(Vita, 21 agosto 2016)


Funzionario della Fondazione dell'Università Islamica di Lecce: "Soluzione finale per i sionisti"

Sfiorato l'incidente diplomatico con Israele

Lo scorso 4 agosto su Facebook, Raffaello Villani, segretario della Fondazione dell'Università Islamica di Lecce ha scritto un post nel quale chiariva la propria posizione sul sionismo antisemitismo. Lo comunica in una nota Giovanni D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti".
   I messaggi ritenuti offensivi sarebbero stati scoperti dall'Ambasciata di Israele in Italia, sarebbero stati rimossi a seguito di un intervento del Ministero dell'Interno. A riportarlo per primo il sito di notizie Ynet che addirittura avrebbe evidenziato una parte del messaggio del funzionario affermando che avrebbe scritto "ci deve essere una soluzione definitiva per i sionisti," e che veri ebrei sono le vittime del sionismo". Ovviamente la notizia è rimbalzata sui principali quotidiani israeliani, tra cui il "The Times of Israel" che ha criticato Villani, che lavora nel dipartimento di pubbliche relazioni dell'università, il quale sarebbe stato anche additato utilizzare il social per criticare il primo ministro italiano Matteo Renzi.
   Secondo il rapporto - continua la nota di D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti"- funzionari israeliani avrebbero trasmesso i commenti di Villani al presidente di un gruppo interparlamentare Israele-Italia, che ha presentato una richiesta formale al governo italiano e ministro degli interni. Sul sito online dell'importante media israeliano, si è subito strumentalizza la vicenda avendo anche ricordato che la costruzione della Università islamica di Lecce lo scorso anno ha causato polemiche nel sud della città italiana e riportato solo parzialmente l'intervista Newsweek dello scorso anno del fondatore dell'università, Giampiero Paladini, evidenziando solo una parte delle sue affermazioni ed in particolare che gli studenti del nascente ateneo sarebbero "i soggetti che sono influenzati dalla sharia [legge islamica]", la scuola servirebbe a "colmare divario filosofica tra l'occidentale e mondi islamici".
   Un fatto eclatante ed un incidente diplomatico sfiorato, rileva Giovanni D'Agata presidente dello "Sportello dei Diritti", che evidenzia come sia potente l'influenza delle relazioni tra Israele e Italia che arrivano a spegnere sul nascere il pensiero di chi osa criticare le politiche sioniste, mentre comprende che l'Università Islamica di Lecce, per la quale la nostra associazione si è sempre battuta, ha un nemico in più rappresentato proprio dalle lobby collegate al sionismo.

(Corriere Salentino, 21 agosto 2016)


Stando all'articolo, il segretario della Fondazione dell'Università Islamica di Lecce, Raffaello Yazan AbdAllah Villani, avrebbe scritto che "ci deve essere una soluzione definitiva per i sionisti". L'uso del condizionale dovrebbe servire a mettere in dubbio la veridicità, o quanto meno la correttezza, della notizia. In effetti, la citazione delle parole del segretario Villani non è esatta, perché lì non si parla di "una soluzione definitiva per i sionisti", ma di "un'altra soluzione finale... ", facendo evidentemente riferimento a quella precedente. Si precisa però che questa volta avrebbe dovuto essere limitata nell'estensione: "per i sionisti... solo per loro", ma perfezionata nell'esecuzione: "ma questa volta fatta bene... sterminio completo". Questo però non sarebbe antisemitismo, perché "gli ebrei reali sono vittime". I sionisti dunque sarebbero ebrei finti che per amore degli ebrei veri dovrebbero essere sterminati. Post su Facebook. M.C.


Iran, l'Ayatollah di Qom ringrazia il Papa: l'Islam non è terrorismo

Il religioso in una lettera indirizzata a Francesco, pubblicata oggi nel suo sito ufficiale, si complimenta con il Santo Padre per le dichiarazioni rilasciate al rientro dalla Polonia

ROMA - Il Grand Ayatollah Naser Makarem Shirazi di Qom, Iran, in una lettera indirizzata a Papa Francesco, pubblicata oggi nel suo sito ufficiale, si complimenta con il Santo Padre per le sue dichiarazioni, al rientro dalla Polonia, con le quali ha respinto qualsiasi identificazione tra Islam e terrorismo. «Sono felice di aver ascoltato queste sue considerazioni», scrive Makarem Shirazi, che poi osserva quanto sia importante respingere le identificazioni tra le religioni e ogni forma di violenza disumana e ogni estremismo. A rilanciare la lettera è il sito di informazione vaticana `il sismografo'.

(Vatican Insider, 21 agosto 2016)


Ma indossare il burkini non è un atto di culto

di Nicola Colaianni

In Francia il divieto dell'uso del burkini sulle spiagge ha riscosso l'approvazione del primo ministro Valls. In Germania la cancelliera Merkel ha aperto alla possibilità di divieti parziali dell'uso del burqa da parte delle donne musulmane.
   La contemporaneità dei due fatti ha creato inevitabilmente un'associazione d'idee tra burqa e burkini: da vietare entrambi come misura di prevenzione nei confronti del terrorismo islamista. Ma tra i due capi di vestiario non c'è alcuna affinità. Il burqa è un abito che copre non solo la testa ma anche il volto della donna, che diventa così irriconoscibile. Diffuso originariamente solo nell'Afghanistan, dove i talebani lo hanno imposto a tutte le donne. Il burkini, invece, è un costume da bagno, una specie di muta di stoffa, che copre solo le spalle e la testa della donna, non pure il volto. Un capo di abbigliamento inventato di recente da una modista australiana.
I burkini - dicono in Francia - vengono comunemente percepiti come un segno di appartenenza religiosa e «possono creare o esacerbare le tensioni».
Ci sono invece altri segni che - si direbbe - non esacerbano le tensioni. Per esempio...
Il segno non è avvenuto in Francia, ma qui...
Milano - Piazza Duomo
Si capisce che in certe situazioni il burqa possa essere vietato per motivi di ordine pubblico. Bisogna farsi riconoscere. In Italia, per esempio, una legge del 1975 prevede che in occasione di cortei o manifestazioni bisogna essere a viso scoperto. Nelle fotografie sulla carta d'identità la donna può essere ritratta anche con un velo sulla testa ( come la maggior parte delle donne musulmane o le suore cattoliche) ma sempre con il volto scoperto. Ma evidentemente non è questa la situazione del burkini. Alle Olimpiadi di Rio nessuno ha fatto storie vedendo così vestite le atlete egiziane di beach volley. Sulla spiaggia o in piscina, poi, ognuno può vestirsi come gli pare, a meno che non offenda il comune senso del pudore. Ma questo è un divieto che riguarda semmai chi indossa un costume adamitico o, nel caso delle donne, un topless, non certo la donna che per pudicizia si copra anche in spiaggia tutto il corpo. D'altro canto, non sono solo le donne musulmane a farlo, lo fanno anche le suore e, più raramente ormai, le nostre nonne. E basta sfogliare qualche album fotografico su «come eravamo» per renderci conto che agli inizi del secolo scorso, per esempio a Bari nel lido del «Filoscene» dietro il castello, perfino gli uomini si bagnavano vestiti con pantaloni e canottiera.
   Bene ha fatto, quindi, il ministro Alfano a sdrammatizzare la situazione. Ma con un eccesso di motivazione, cui diversi commentatori si sono associati: il rispetto della libertà di culto. Si tratta di motivazione impropria: andare al mare non è un atto di culto, è un divertimento anche per chi è credente e osservante dei precetti della propria religione. Il fatto è che il Corano si limita ad esortare le donne a «lasciar scendere il loro velo fin sul petto». Ordinariamente si tratta di un comune foulard. Se poi in alcuni paesi assume la foggia di un burqa o di un nikab o di uno chador, che coprono anche il volto, ciò dipende non dall'unica fede ma dalla cultura e dagli stili di vita, che sono diversi da paese a paese (l'islam è diffuso dall'estremo oriente all'Africa centrale al Marocco). In effetti la libertà nel modo di vestire è un aspetto dell'identità personale. Perciò non di rispetto della libertà di culto si tratta ma del fondamentale diritto all'identità personale, che rientra tra i diritti di libertà garantiti dal costituzionalismo moderno, in Italia come in Francia e dovunque vi sia uno stato costituzionale di diritto.
   Come mai allora nella civilissima Francia questa multa di 38 euro per chi indossa il burkini? Intanto ogni paese ha i suoi leghisti e così si comporta il sindaco della métropole della Costa Azzurra quando invoca «la salvaguardia del nostro patto sociale e della nostra nazione»: come se non ne facesse parte la liberté, che la rivoluzione francese ha insegnato al mondo. Ma la motivazione insieme più banale e più profonda è stata data dal tribunale amministrativo di Nizza. Quella banale: il burkini può complicare il lavoro dei soccorritori in caso di annegamento. Quella profonda: quegli indumenti vengono comunemente percepiti come un segno di appartenenza religiosa e «possono creare o esacerbare le tensioni» in un paese così duramente colpito dagli attentati terroristici. Generica com'è, con ogni probabilità la decisione non resisterà in appello. Ma indica che nelle relazioni sociali il pericolo è nella percezione che «noi» abbiamo di «loro». Dobbiamo lavorare, quindi, anche sulle nostre emozioni. Consapevoli che non è con l'islamofobia, in questo caso sul corpo delle donne, che si lotta contro il terrorismo delle organizzazioni islamiste.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 21 agosto 2016)


L'Università islamica di Lecce e la denuncia per antisemitismo

La notizia dei vergognosi commenti antisemiti pubblicati a inizio agosto sui social network dal responsabile della segreteria della Fondazione Università islamica di Lecce Raffaello Yazan AbdAllah Villani è stata ripresa nelle scorse ore da alcuni siti di informazione israeliani. Commenti che non erano passati inosservati e subito denunciati dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in collaborazione con l'ambasciata d'Israele a Roma. Come riporta l'Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, Villani aveva scritto sul suo profilo: "un altra soluzione finale……ma questa volta fatta bene….ci vorrebbe, ma per i sionisti…, solo per loro. sterminio completo. Gli ebrei reali sono vittime". Parole inaccettabili a cui è seguita la protesta dell'Unione e dell'ambasciata israeliana e la cancellazione immediata dei post. Il comportamento di Villani - non nuovo, riporta l'Osservatorio antisemitismo, a esternazioni sui social network di matrice antisemita-antisionista - è stato inoltre denunciato al ministero dell'Istruzione e della Ricerca.
Tra i media israeliani che hanno ripreso la notizia, il sito d'informazione ynet che, nella sua versione in ebraico, ricorda come la stessa nascita dell'Università islamica a Lecce (i cui primi corsi dovrebbero partire a ottobre) abbia generato negli scorsi mesi diverse polemiche con la perplessità del Comune della città a dare il via libera al progetto.

(moked, 21 agosto 2016)


A teatro musiche klezmer e canzoni in yiddish

Coi Mishkalè le atmosfere dell'Est Europa nella Bürsch. L'appuntamento a Piedicavallo.

di Paola Guabello

 
I Mishkalè

PIEDICAVALLO - Mishkalè è una realtà ormai consolidata della world music nazionale, tra i primi gruppi italiani a dedicarsi, con quindici anni di attività, ai suoni provenienti dell'Est europeo. Saranno loro questa sera al teatro Regina Margherita di Piedicavallo , a intrattenere il pubblico della Valle Cervo con uno spettacolo in cui rivivranno, attraverso la musica klezmer, le canzoni in yiddish e i racconti dell'Est Europa.

 Il Festival
  Dedicata a musica, danza, teatro, arte e letteratura del Biellese, e giunta quest'anno alla sua XXVI edizione, la rassegna ospita in questa occasione, una tipica orchestrina itinerante formata da sette musicisti che offrono musiche inebrianti, struggenti, vorticose. Con melodie e ritmi tipici il gruppo porta lo scompiglio dove si trova, facendo ricorso a un fitto repertorio di brani musicali di origine klezmer, yiddish e gitani, usciti dalle ricche tradizioni di quei popoli che per secoli hanno convissuto nei paesi dell'Europa dell'Est, protagonisti di magnifiche contaminazioni reciproche.
Il clima che si creerà, a partire dalle 21,15 sarà coinvolgente, ricco di intensità e vitalità. Fuori dagli schemi e dai cliché, il gruppo (che ha all'attivo tre produzioni discografiche di cui l'ultima realizzata nel 2015) si muove infatti tra i suoni e i generi con l'allegra libertà dei «musicisti nomadi» inseguendo soltanto la propria ispirazione per creare un suono eclettico, aperto e curioso, senza frontiere e limiti di nessun genere in un continuo gioco sul filo dell'imprevedibile. Così accompagnerà gli spettatori in un mondo a tratti fantastico e avvolto da un fascino malinconico del villaggi dell'Est.

(La Stampa, 21 agosto 2016)


Ebrei inglesi pochi ma buoni

Pur esigui di numero sulle isole britanniche, essi rivestirono un ruolo fondamentale nella cultura anglosassone medievale.

di Giulio Busi

Gli ingegneri del pregiudizio sono pieni di risorse. Se non trovano nessuno contro cui prendersela, se lo inventano, e tanto peggio per lui. Pensate alla Gran Bretagna in età anglosassone, dal V secolo fino alla conquista normanna, nel 1066. Di ebrei nemmeno l'ombra, o quasi. Per quello che ne sappiamo, prima dell'arrivo di Guglielmo il Conquistatore, mercanti e prestatori ebrei si tennero alla larga dalla grande isola, che per loro era ostile e pressoché impenetrabile. Dal punto di vista ebraico, il mondo anglosassone, cristianizzato e culturalmente vivace, rappresenta un vuoto, un'assenza plurisecolare. Verrebbe da pensare che, in simili condizioni, la figura dell'ebreo, e il fato collettivo del giudaismo, scompaiano dalla letteratura e dalle arti visive. Di chi non c'è non si parla, non lo si odia né lo si respinge, semplicemente lo s'ignora. Un libro ampio e documentato, che raccoglie i contributi di tredici studiosi di discipline diverse, approfondisce ora l'immagine dell'ebreo in questo laboratorio del negativo. E offre risultati su cui riflettere. Nonostante il loro status di invisibili nella concreta pratica sociale, gli ebrei rivestono un ruolo fondamentale nella cultura anglosassone d'età altomedievale. Se loro non ci sono - questo è il Leitmotiv - vorrà dire che sono stati sostituiti, e a ragione. La teologia anglosassone, le opere del grande Beda e di Alcuino, per fare due dei nomi maggiori, adottano la distinzione, di ascendenza paolina, tra l'Israele della carne, quello degli ebrei, e l'Israele dello spirito, impersonato dai cristiani. L'Israele della carne è obsoleto, ed è stato superato dalla venuta di Cristo. La Gran Bretagna, secondo l'orientamento che prevale tra i teologi, i poeti e gli artisti visivi anglosassoni, è il baluardo dell'Israele rinato. C'è una buona dose d'insularità in questa pretesa di rappresentare in scala il mondo intero, e l'intera storia della rivelazione. La compattezza del "noi" anglosassone, non ancora dichiaratamente nazionale ma identitario, operativo, dipende anche, e a tratti si direbbe, soprattutto, dal fatto che gli ebrei sono rarissimi. Appropriarsi del loro ruolo è un modo efficiente per riscrivere la storia e per fondare il proprio essere nel mondo. Questo lento sedimentarsi di un doppio simbolismo di Israele è una sorta di transfer narrativo, che ingloba l'altro come parte positiva del sé, e al tempo stesso lo esclude, rigettandolo nel non essere.Non c'è da stupirsi se, dopo un simile, lungo esercizio di discriminazione condotto in via allegorica, la venuta degli ebrei sull'isola abbia suscitato reazioni ostili, culminate nell'espulsione del 1290, la prima cacciata completa della storia occidentale. Dopo quella data, e fino alla riammissione nel 1664, la Gran Bretagna sarebbe nuovamente rimasta senza ebrei. Gli anglosassoni avevano fatto scuola.

Imagining the Jew in Anglo-Saxon Literature and Culture, a cura di Samantha Zacher, University of Toronto Press, pagg. 376, € 65

(Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2016)



Un Messia che delude

A ciascuno dei dodici apostoli Gesù aveva detto: "Seguimi". Non era una proposta, era un ordine. Perché i dodici hanno ubbidito senza fiatare, anzi molto volentieri? Perché erano convinti che Gesù fosse il Messia, il Re d'Israele: dunque aveva autorità, e per loro era un onore essere stati scelti per seguirlo e servirlo. Da Lui evidentemente si aspettavano quello che era stato promesso dai profeti: l'instaurazione del regno messianico. Gesù stesso del resto ne aveva dato un solenne annuncio fin dall'inizio del suo ministero:
    "Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»." (Matteo 4:17).
Le cose però cominciarono ben presto a mettersi male: gli scribi facevano obiezioni teologiche, i farisei erano infastiditi per la perdita di autorità che subivano presso il popolo, i sadducei temevano che un possibile sollevamento del popolo sull'onda dell'entusiasmo messianico provocasse una violenta reazione romana. Giuda a un certo punto capì che le cose andavano a finire male, e anche Tommaso forse temeva che qualcosa di brutto si stesse preparando perché vedendo Gesù che si avviava deciso verso Gerusalemme disse agli altri: "Andiamo a morire con lui" (Giovanni 11:16). A parte questi due, tutti gli altri erano convinti che Gesù avrebbe lasciato agire gli avversari fino all'ultimo momento per fare in modo che tutti si scoprissero e venisse fuori chi aveva veramente creduto in lui fino alla fine e chi no. Pietro dunque era sincero quando disse convinto: «Quand'anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26:36). Non era una sbruffonata: poco prima aveva visto Gesù risuscitare Lazzaro. Quindi - avrà pensato - se Gesù vuole vedere chi è disposto a farsi uccidere per lui, io sono pronto. E quando nel giardino di Getsemani vide avvicinarsi una folla di centinaia di persone armate di spade e bastoni avrà pensato: questo è il momento. Erano lì per pregare, ma lui si era portato dietro una spada. Chiese a Gesù se dovevano colpire, ma come al solito non aspettò nemmeno la risposta e mirò alla testa di uno che stava davanti a lui. In seguito si scoprì che era il servo del Sommo Sacerdote. Gli staccò un orecchio, ma solo perché quell'altro fece in tempo a scansarsi. E' certo che Pietro non voleva colpire di fino: lui voleva spaccare la testa. E questo, davanti alla forza preponderante di una folla armata e minacciosa, per lui significava morte sicura. Aveva mantenuto la sua promessa: aveva dimostrato di essere pronto anche a morire per Gesù. Aveva compiuto un atto di coraggio e di fede.
   Ma qui arriva la sorpresa: Gesù non lo loda. Ma neppure lo sgrida: sapeva fin dall'inizio che sarebbe andata a finire così. Semplicemente rifiuta l'atto di fede di Pietro. Gli dice: «Rimetti la spada nel fodero» (Giovanni 18:11). E aggiunge: «Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d'angeli?» (Matteo 26:53). Appunto, proprio questo probabilmente si aspettava Pietro. Ricordava bene l'esperienza dei cinquemila nel deserto che avevano fame e non si sapeva come fare. Gesù aveva chiesto che gli portassero i pani e i pesci che avevano a disposizione e li aveva miracolosamente moltiplicati. Anche adesso - qualcuno di loro avrà pensato - occorre che qualcuno metta a disposizione quel poco che ha. Questa volta i discepoli non aspettarono che Gesù facesse la richiesta: ormai avevano capito la lezione e si fecero avanti per primi: "Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade!»" (Luca 22:38), e aspettarono che Gesù moltiplicasse le spade come aveva fatto con i pani. Ma se Gesù moltiplica le spade e le fa diventare migliaia, poi chi le brandisce? Con il riferimento alla legione di angeli probabilmente Gesù ha toccato nel vivo il pensiero di Pietro, proprio quello su cui aveva fondato la sua fede. Forse Pietro non avrà detto esattamente: Gesù farà così; per lui poteva essere sufficiente appoggiarsi sul fatto che Gesù se vuole può fare così. Gesù ha confermato questo pensiero; in sostanza ha detto: se volessi, potrei fare così. Ma ha aggiunto: non lo voglio e non lo faccio. A questo punto ai discepoli sono venuti a mancare tutti i puntelli della loro fede e sono scappati. E' importante sottolinearlo: non sono le armi e i bastoni che hanno fatto scappare i discepoli, ma le parole di Gesù.
   Dopo aver annullato, con il riferimento alla legione di angeli, le aspettative dei discepoli, Gesù dà la vera spiegazione del suo comportamento davanti alla folla minacciosa: «Non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?» (Giovanni 18:11). Quello che Gesù vuole è fare la volontà del Padre, perché la volontà di Dio compiuta sulla terra in Israele è la salvezza di Israele e di tutta la terra.
   Ma fino all'ultimo la popolazione di Gerusalemme è rimasta col fiato sospeso nella speranza, o nel timore, che qualche fatto prodigioso avvenisse a conferma della messianità di Gesù. Perfino quando sulla croce gridò: «Elì, Elì, lamà sabactàni», alcuni dissero: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo» (Matteo 27:49).
   Ma Gesù non scese giù di croce e la delusione dei discepoli fu grande. Il loro cupo stato d'animo è ben espresso dall'episodio dei discepoli sulla via di Emmaus:
    "Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. E' vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon'ora al sepolcro, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto»" (Luca 24:13-24).
"Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele", sospirano sconfortati i due discepoli. Viene in mente il rimprovero rivolto da Mosè a Dio: "... tu non hai affatto liberato il tuo popolo" (Esodo 5:23) . E' illuminante la risposta di Gesù, che i discepoli considerano ancora come uno sconosciuto forestiero:
    "Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano" (Luca 24:25-27).
Gesù non rimprovera il materialismo dei discepoli, non dice che hanno sbagliato ad aspettarsi un regno politico terreno perché il suo regno è puramente spirituale; non li avverte dicendo che ormai il vecchio Israele sarà abbandonato da Dio e quindi adesso loro entreranno a far parte di un nuovo Israele che si chiamerà "Chiesa". Gesù li tratta male, in un certo senso li insulta anche, ma non per contrapporre al loro materialismo terrestre il suo spiritualismo celeste.


 


Pallamano - Campionato Europeo 2 under 18: Italia in finale contro Israele

di Giulio Gasparin

Un finale al cardiopalma ha consegnato la vittoria all’Italia sull’Austria per 27-26 dopo i tiri dai 7 metri. Gli azzurrini sono così avanzati alla finale del Campionato Europeo under 18 di seconda divisione dove nella serata di domenica affronteranno Israele, vittorioso 31-29 sull’Olanda.
Per gli azzurrini si è trattato di un campionato Europeo in crescendo, questo che si sta svolgendo a Kaunas, Lituania: l’Italia aveva infatti perso il match di apertura del girone preliminare per mano dell’Estonia, salvo trovare il passaggio del turno con un pareggio con l’Olanda e la vittoria sulla Moldavia nell’ultima giornata. In semifinale è stata poi una sfida punto a punto con l’Austria, vincitrice dell’altro girone di qualificazione con una vittoria all’ultimo turno proprio con l’Olanda che domani sfiderà la nazionale italiana. Il goal che ha chiuso la sfida dai sette metri è stato messo a segno da D’Antino, top scorer dell’incontro con addirittura 9 reti.
La sfida che varrà la vittoria della competizione sarà trasmessa live alle 18:00 ora italiana sul sito web.

(Sportface, 20 agosto 2016)


Eni: la scoperta del giacimento di Zohr è positiva perché favorisce il dialogo in Medio Oriente

 
ROMA - Il gas scoperto nel giacimento egiziano di Zohr favorisce lo sviluppo del Medio Oriente, crea connessione fisica e dà la possibilità di sviluppare le risorse di Cipro e Israele. È quanto emerge dall'intervento dell'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, nel quadro dell'incontro "Mappe: Pezzi di Guerra e Vie di Pace", all'interno del Meeting di Rimini. Nel dialogo con la presidente Rai, Monica Maggioni, l'Ad di Eni ha sottolineato l'importanza della grande scoperta effettuata da Eni nell'agosto del 2015 del giacimento di Zohr, al largo delle coste egiziane. Descalzi ha ricordato come il giacimento confina con le acque territoriali di Cipro e a est con quelle di Israele. "Questo gas che darà autosufficienza all'Egitto, crea una connessione fisica e offre possibilità a Cipro e Israele di sviluppare le proprie risorse, perché chi possiede le infrastrutture è l'Egitto", ha sottolineato Descalzi. L'Ad di Eni ha osservato come l'entità della scoperta ha dato il via a nuovi colloqui tra Egitto e Israele.

(Agenzia Nova, 20 agosto 2016)


Ebreo accoltellato in strada al grido «Allah akbar»

Per la polizia di Strasburgo l'aggressore è solo un folle

di Mauro Zanon

PARIGI - È stato aggredito in pieno giorno, mentre stava uscendo di casa per dirigersi verso la Grande sinagoga di Strasburgo, aggredito con un coltello e ferito all'addome al grido di «Allah akbar». È fuori pericolo il sessantenne ebreo ortodosso che ieri mattina, attorno alle 11, è stato vittima dell'ennesima aggressione antisemita di questo funesto 2016, il suo aggressore è stato arrestato dalla polizia ed è attualmente interrogato dalla Direction départementale de la sécurité publique, ma l'episodio conferma il clima insalubre che regna attualmente in Francia. La vittima, che indossava la kippah quando è stata attaccata dall'assalitore, abita nel quartiere ebraico di Strasburgo, una delle città francesi con il più alto numero di ebrei. Secondo quanto dichiarato dal grande rabbino di Strasburgo, René Gutman, l'aggressore aveva già attaccato un altro fedele nel 2010. Sullo sfondo dell'esodo degli ebrei francesi verso Israele, lo stesso Gutman ha in seguito chiesto che «siano presi dei provvedimenti contro l'aggressore, prima di aggiungere: «Se costui può riapparire in città e aggredire con il coltello una persona con la kippah, questo pone un problema».
   L'aggressore, secondo fonti vicine al dossier, è un noto antisemita e soffre di disturbi psichiatrici. La giustizia francese, nel passato, lo ha riconosciuto mentalmente instabile, è stato internato a più riprese in un ospedale psichiatrico, ed è tuttora seguito da uno psichiatra, secondo quanto riportato dal sito del settimanale L'Express. Ma questo non oscura il fatto che abbia anche gridato «Allah è grande» mentre accoltellava la sua vittima. Secondo il grande rabbino di Strasburgo Gutman, il ferito ha rischiato di morire «è un miracolato». E ancora: «Aggredire o uccidere qualcuno in nome di Dio non lo rende grande, ed è compito dei responsabili musulmani dire che non si invoca il nome di Dio invano». Ma per il momento, nessun responsabile del Conseil français du culte musulman, l'unico interlocutore riconosciuto ufficialmente dallo stato francese in materia di islam, ha reagito all'accaduto.
   La maggior parte dei media francesi, invece, si arrabbatta per sminuire la matrice religiosa dell'attacco, e mettere invece in primo piano il fatto che abbia avuto dei «precedenti psichiatrici», che sia uno psicolabile, un pazzo squilibrato, escludendo a priori la pista della radicalizzazione. Si erano comportati allo stesso modo con Mohamed Lahouaiej Bouhlel, lo stragista di Nizza, definendolo un «delinquente depresso», «forse uno squilibrato», «un semplice pazzo», prima di rendersi conto che era un affiliato dell'Isis, un radicalizzato che aveva giurato fedeltà ad al Baghdadi e aveva preparato per filo e per segno l'attentato del 14 luglio, seguendo alla lettera i consigli di Darai-Islam, la rivista in francese dello Stato islamico.

(Libero, 20 agosto 2016)


Turchia - Il parlamento approva la riconciliazione con Israele

Il parlamento turco ha approvato l'accordo di riconciliazione con Israele, mettendo fine a sei anni di tensione diplomatica. Lo riferisce l'agenzia stampa ufficiale turca 'Anadolu'. L'intesa, che è stata raggiunta in giugno, darà il via allo scambio di ambasciatori.
I rapporti si ruppero nel giugno 2010 in seguito al raid militare israeliano a bordo della Mavi Marmara, una nave turca che faceva parte della Freedom Flotilla, nel quadro di un'azione di militanti pro palestinesi per sfidare il blocco imposto alla Striscia di Gaza.
Nell'assalto morirono dieci cittadini turchi, uno dei quali con doppia cittadinanza americana. L'accordo raggiunto fra i due Paesi prevede che Israele versi 20 milioni di dollari allo Stato turco in favore dei familiari delle vittime, mentre Ankara si impegna a non perseguire gli israeliani coinvolti. Israele ha sempre affermato che i suoi soldati sono stati costretti a difendersi.

(Adnkronos, 20 agosto 2016)


Visto, non si stampi

Il medio oriente del New York Times è una grottesca parodia. La "sindrome Duranty" sull'islam.

di Giulio Meotti

Le trenta pagine di Scott Anderson pubblicate anche da Repubblica glissano totalmente sull'islam e l'odio per Israele. L'imam Qaradawi, guru della Fratellanza musulmana, diventa uno "impegnato nel pluralismo e la democrazia" . Sono andati in Iran ma non hanno trovato alcun antisemitismo. Va da sé che Rohani sia un "pragmatico" e "moderato". Titoli assurdi sulla Terza Intifada in Israele e disco verde per Hamas per maltrattare i giornalisti che scrivono la verità.

Ci ha pensato il Premio Pulitzer Bret Stephens sul Wall Street Journal a mettere in luce una grande lacuna dell'inchiesta del New York Times: "Il judoka israeliano Or Sasson ha sconfitto l'egiziano El Shehaby al primo turno delle Olimpiadi di Rio. L'egiziano ha rifiutato di stringere la mano del suo avversario, guadagnandosi i fischi dalla folla. Se si desidera una breve risposta sul perché il mondo arabo sta scivolando verso l'abisso, basta guardare questo piccolo incidente. L'odio per Israele e gli ebrei. Ma questo non trova spazio in un lungo articolo sulla disintegrazione del mondo arabo scritto da Scott Anderson nel fine settimana scorso per il New York Times Magazine, dove l'odio di Israele viene trattato come un granello di sabbia in Arabia".
  Giudizio condiviso da David French, che sulla National Review disseziona la mega inchiesta di Anderson, pubblicata in Italia anche dalla Repubblica nel weekend con la presentazione del direttore Mario Calabresi: "Il ruolo dell'islam è minimizzato dal New York Times", scrive invece French. "L'esame sulla disunione araba si concentra sulla guerra in Iraq e la primavera araba". Oltre al tribalismo, "vi è una seconda malattia che affligge il medio oriente, ed è questa che resta ai margini della storia di Anderson. E' la malattia che ci impedisce di alzare le mani in aria e lasciare la zona". Eppure, a leggere l'inchiesta di Anderson sembra che la storia del medio oriente sia soltanto una sequela di speranze tradite, neocolonialismo, faglie etniche, migrazioni.
  Il lungo saggio di Anderson è soltanto uno degli esempi di quello che William McGowan, vincitore di un National Press Club Award, in un libro dal titolo "Gray Lady Down" ha chiamato "il declino e la caduta del New York Times", la bibbia dell'intellighenzia liberal, l'oggetto di culto del giornalismo americano. "Il New York Times ha sempre svolto un ruolo centrale nella vita civile del nostro paese e nei dibattiti pubblici che forgiano democrazia e consenso", afferma McGowan, la cui conclusione è stata più che amara: "Il Times non sarà facile da sostituire, e questo rende il suo declino ancora più preoccupante".
  Il New York Times ha messo più volte in discussione sull'islam un must del giornalismo anglosassone: l'idea che la notizia sia obiettiva. C'è stato il caso del maggiore Nidal Malik Hassan, il militare islamico autore della strage di Fort Hood. Di "operazione di silenzio sulle motivazioni islamiste del suo gesto" ha parlato McGowan, accusando il Times di "postura antagonista". Che fa il paio con la tendenza del Times, in guerra, a "esagerare qualsiasi passo falso dell'esercito", a dare "scarso spazio all'eroismo delle nostre truppe in Iraq e Afghanistan", a diffamare l'esercito "dipingendolo come assassini di civili e abusatori dei prigionieri". C'è stata la disinformazione sul saccheggio del museo di Baghdad poi rivelatasi falsa, le continue analogie con il Vietnam, la campagna contro il generale Petraeus assieme alla ong Moveon e i commenti di Susan Sontag secondo cui le foto dei prigionieri di Abu Ghraib "sono il prodotto della visione bushiana con noi o contro di noi". C'è stata perfino l'apologia del terrorista Bill Ayers.
  "L'istinto disfattista del Times è risibile", afferma McGowan. "Il giorno in cui Saddam Hussein venne catturato nel dicembre 2003, un editoriale recitava: 'Le cose si mettono peggio'". Il peggio di sé il Times lo ha dato quando ha proposto ai lettori il libro "Poems from Guantanamo", che raccoglie le poesie scritte da terroristi detenuti nel carcere militare. "Il tono di superiorità, di partigianerie liberal e l'abbraccio della controcultura hanno segnato il regime di Arthur Jr. Sulzberger", scrive McGowan, che accusa il giornale di "esilio interno dall'America del New York Times".
  Il New York Times si è subito appassionato agli sforzi di Obama nel suo "riavvicinamento con il mondo islamico", dando grande risalto al discorso pronunciato al Cairo nel giugno 2009, un discorso modellato sulla correttezza politica e il relativismo culturale. Non una sola volta Obama ha scandito le parole "estremismo islamico" o "jihadismo". Invece, ha fatto riferimento genericamente a "estremisti violenti". Eppure il discorso di Obama sull'islam è stata musica per le orecchie del Times, che in un editoriale intitolato "The Cairo Speech" ha magnificato la naivetè di Obama e attaccato "l'arroganza e la prepotenza" di George W. Bush. Durante la presa del potere dei Fratelli Musulmani in Egitto nel 2011, il New York Times ha pubblicato i commenti di due apologeti dei Fratelli Musulmani, Tariq Ramadan e Essam El Errian. Senza considerare gli elogi che Neil MacFarquhar del New York Times ha scritto sul velo islamico. O quelli entusiastici a favore del progetto (fallito) di costruire una moschea a Ground Zero.
  In un articolo a firma David D. Kirkpatrick uscito il 18 febbraio 2011, il Times ha raffigurato il leader spirituale della Fratellanza, Yusuf Qaradawi, come uno "impegnato nel pluralismo e nella democrazia". Kirkpatrick ha scritto anche che "gli studiosi che hanno esaminato la sua opera dicono che Sheikh al Qaradawi ha sempre sostenuto che la legge islamica appoggia l'idea di una democrazia civile pluralista e multipartitica".
  In realtà, Qaradawi è un virulento antisemita che ha chiesto ad Allah di spazzare via il popolo ebraico. Inoltre, l'imam qatariota ha lavorato per minare il principio democratico della libertà di parola e per difendere la fatwa iraniana che ha invocato la morte dello scrittore Salman Rushdie, promuovendo un "giorno della collera" contro le vignette su Maometto stampate in Svezia e Danimarca.
  Qaradawi ha anche difeso la pratica delle mutilazioni genitali femminili e gli insegnamenti musulmani che chiedono la pena di morte per coloro che lasciano l'islam. Sull'islam, il New York Times ha adottato uno sfacciato doppio standard. Nel gennaio 2015, il Times ha censurato la copertina di Charlie Hebdo, il Maometto in lacrime con in mano il cartello "Je Suis Charlie". Una decisione giustificata dal direttore, Dean Baquet, secondo cui "le immagini del Profeta offendono i musulmani". Ben diverso il trattamento riservato dal quotidiano americano a Benedetto XVI e ai fedeli cattolici. Il New York Times qualche mese dopo ha pubblicato l'opera dell'artista Niki Johnson, intitolata "Eggs Benedict" ed esposta al museo d'arte di Milwakee: diciassettemila preservativi di vario colore che formano il volto del Papa emerito, Joseph Ratzinger. L'opera non è "basata sull'odio", ha riferito il Times, ha lo scopo di "criticare" la chiesa "sul sesso e la contraccezione". Un imam ridicolizzato da Charlie Hebdo fa scattare l'autocensura, mentre un Papa imbottito di profilattici no, quella è "arte". Succede anche che il New York Times, nei suoi patinati viaggi nel mondo, ammantati di "public journalism", finisca per ritrarre come una terra dorata anche la Corea del Nord. E' il caso della serie fotografica del celebre fotoreporter David Guttenfelder dal titolo "Illuminare la Corea del Nord". Cosa ce ne facciamo di un saggio fotografico con immagini di fabbriche dall'aspetto moderno e bambini ben nutriti e coccolati in un centro di riabilitazione fisica? Nelle foto di Guttenfelder sul New York Times, la Corea del Nord appare sotto forma di parchi acquascivoli, interni di chiese, negozi di abbigliamento ben forniti, piste di pattinaggio, una parodia terribile della verità. La fame intenzionale, il lavoro forzato, le esecuzioni, le torture, gli stupri… Tutto questo non arriva all'obiettivo di Guttenfelder e del Times.
  Come è successo nel reportage "What Iran's Jews Say" a firma di Roger Cohen, editorialista-principe del New York Times, in cui tesse l'elogio della vita pacifica che la comunità ebraica conduce in Iran attraverso "interviste" con i capi di questa comunità che spiegano quanto libera sia la loro esistenza. Un articolo riprodotto con grande evidenza e charme dall'organo del regime degli ayatollah, il Tehran Times. Quando venne eletto Hassan Rohani alla presidenza iraniana, i corrispondenti da Teheran del New York Times non riuscirono a trattenere la propria euforia e ngli articoli che seguirono, smentiti dal numero di esecuzioni capitali e repressioni, il Times ha definito Rohani "pragmatico riformista".
  Il giornale newyorchese ha molto sostenuto il patto atomico fra Iran e Stati Uniti con editoriali non firmati dal titolo "A safer world, thanks to the Iran deal". E' lo stesso New York Times che, contrariamente a tutte le prove, ha spiegato per settimane che al Qaeda non aveva nulla a che fare con l'attacco terroristico di Benghasi, in Libia, in cui sono rimasti uccisi l'ambasciatore Christopher Stevens e altri tre americani (Sean Smith, Glen Doherty e Tyrone Woods), ma che questo era colpa di un innocuo video islamofobo che aveva provocato l'ira dei musulmani. "Non c'è alcuna prova che al Qaida o altri gruppi terroristici internazionali hanno avuto un ruolo nell'assalto", si legge nell'articolo di ottomila parole, mentre "è stato alimentato in gran parte dalla rabbia per un video di produzione americana che denigra l'islam". Pubblicata il 28 dicembre 2013, l'inchiesta del New York Times è stata definita dai conservatori "una operazione spudorata di cheerleading per l'Amministrazione Obama".
  Su Israele è persino grottesca l'animosità del New York Times. Durante la Terza Intifada il quotidiano ha descritto i terroristi palestinesi come vittime di Israele. "2 Palestinians killed following stabbing attack in Jerusalem". Poi modificata in: "2 Palestinian attackers killed, 2 Israelis die in Jerusalem". Dunque per il Times i terroristi vengono "uccisi" e gli israeliani "muoiono"?
  L'Associazione Stampa Estera in Israele aveva ammesso che Hamas intimidava i giornalisti stranieri durante l'ultima guerra a Gaza nel 2014. Ma la corrispondente del New York Times da Gerusalemme, Jodi Rudoren, ha risposto in un tweet che lei non era a conoscenza di giornalisti molestati: "Ogni giornalista che ho incontrato e che si trovava a Gaza durante la guerra ritiene che le molestie di Hamas siano una sciocchezza".
  Vecchia storia la condiscendenza del New York Times nei confronti delle dittature. Herbert Matthews del New York Times ha coperto non pochi crimini comunisti nella Guerra civile spagnola, come i massacri di migliaia di preti e suore cattoliche. Dopo la Seconda guerra mondiale, il New York Times ha mandato Matthews a Cuba, dove ha magnificato il Gulag di Castro, definendolo come un leader che "ha forti idee di libertà, democrazia, giustizia sociale". Il New York Times ha definito Castro "uno dei più straordinari uomini del nostro tempo" e sotto la sua cura Cuba "è diventata un'isola felice". E come dimenticare Walter Duranty, il corrispondente da Mosca del New York Times negli anni Trenta, che mise deliberatamente a tacere la vessazione di sei milioni di contadini per opera di Stalin. Le chiamava, nelle sue corrispondenze, "esagerazioni o malevola propaganda" o, anche, "pure assurdità". Questi articoli guadagnarono a Duranty un Pulitzer "per l'imparzialità" e anche la gratitudine di Stalin, che gli disse nell'ultima intervista: "Lei ha fatto davvero un buon lavoro qui".

(Il Foglio, 20 agosto 2016)


I missili di Ortona e la strage di Bologna. ''Bomba per Lodo Moro, non neofascista''

In un libro di Cutonilli e Priore l'altra verita' sul 2 agosto del 1980. ''Tutto nasce in Abruzzo, c'e' di mezzo la pista legata alla Palestina''.

di Roberto Santilli

 
L'AQUILA - "La Strage di Bologna comincia a Ortona con gli arresti, nella notte tra il 7 e l'8 novembre del 1979, di Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri, e di Abu Anzeh Saleh, cittadino giordano, a Bologna. È con questi arresti e col ritrovamento nel furgone di Ortona di due lanciamissili terra-aria Sam-7 Strela di fabbricazione sovietica, che comincia a cedere l'accordo con le organizzazioni armate palestinesi per evitare attentati in Italia. La bomba che il 2 agosto del 1980 causa 85 morti ed oltre 200 feriti non è di matrice neofascista. Quella bomba è una diretta e terribile conseguenza della fine del cosiddetto Lodo Moro".
È uscito da poco, ma il libro I segreti di Bologna (Chiarelettere), scritto dall'avvocato Valerio Cutonilli insieme al giudice Rosario Priore, ha provocato un terremoto di polemiche con tutta probabilità inevitabile e che ha coinvolto in primis Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione familiari delle vittime della strage di Bologna ed esponente del Partito democratico, a dir poco furioso con entrambi gli autori per cui è arrivato a nominare il reato di depistaggio.
Del resto, ad essere analizzato a fondo - ma da un'angolazione totalmente diversa rispetto a quella conosciuta e certificata processualmente - è il più grave atto terroristico del secondo dopoguerra italiano, 36 anni fa, un "momento" da considerare all'interno del quadro della "Strategia della tensione", un quadro di sangue, polvere, dolore, bugie, depistaggi e, appunto, polemiche.
Per la strage, sono stati condannati come esecutori materiali i neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, nata a Chieti, e Luigi Ciavardini, nato all'Aquila e nel 1980 ancora minorenne.
Tre esponenti dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari.
Mancano ufficialmente i mandanti, verrebbe da dire ovviamente, ma nella ricostruzione non soltanto giudiziaria si è sempre parlato di servizi segreti deviati, criminalità organizzata, neofascisti come appunto i tre Nar.
Per la pista palestinese cui si fa riferimento nel libro, poi archiviata, c'è ampia documentazione della discussa Commissione parlamentare d'inchiesta sull'altrettanto discusso Dossier Mitrokhin.
"Per una questione di coerenza ideologica - comincia a riannodare i fili della 'sua' storia Cutonilli partendo dai fatti di Ortona - i tre arrestati, tre autonomi della sinistra extraparlamentare, non raccontano nulla alla magistratura durante gli interrogatori, ma i carabinieri non si accontentano della scoperta e riescono a sviluppare un'indagine molto accurata che porterà alla individuazione di Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il Fplp.
Anche se dovesse essere nata casualmente, la vicenda di Ortona è diventata di estrema rilevanza a livello internazionale. Ed è proprio da Ortona che si comincia a far luce sull'accordo, sul patto di non belligeranza, sul Lodo Moro".
"Nel 1967 i palestinesi, dopo la sconfitta nella Guerra dei 6 giorni - prosegue - cambiano strategia e decidono di portare in Europa, con il terrorismo, con i dirottamenti aerei, la questione tra Israele e Palestina.
Nei primi anni di attuazione di questa strategia, molte nazioni europee arrivano a negoziare con i terroristi, ottenendo la liberazione degli ostaggi dei dirottamenti aerei con il rilascio di persone arrestate, tutto questo a prescindere dall'orientamento politico dei governi".
Uno dei passaggi-chiave verso la scelta del Lodo Moro è la strage di Fiumicino del 1973, attentato terroristico palestinese in cui furono uccise 34 persone e ferite oltre 15.
"Ma c'è stato anche chi si è spinto più in là, come l'Italia - arriva al primo punto, fondamentale, della ricostruzione finita nel libro - che tra il 1973 e il 1974 raggiunge un accordo definitivo di non belligeranza, chiamato Lodo Moro, non soltanto con i settori più moderati dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ma anche con il Fplp, che aveva un orientamento marxista ed era vicino all'Unione Sovietica. Su quest'ultimo punto, in particolare, abbiamo scoperto che il capo delle operazioni speciali del Fplp era Wadie Haddad, la mente dei dirottamenti aerei in Europa, ricopriva il ruolo di agente del Komitet gosudarstvennoj bezopasnost: il Kgb".
L'Italia, in pratica, Aldo Moro in testa, per essere risparmiata e per mantenere buoni rapporti col mondo arabo anche per ragioni legate al sostentamento energetico in una ingarbugliatissima situazione internazionale e con i "padroni" Usa impegnati a guardare e ad agire altrove, Vietnam e dintorni, decide quindi di intrattenere rapporti segreti con chi all'epoca terrorizzava l'Europa e che anche dopo il 1974, dopo cioè la visita di Yasser Arafat all'Onu, è a capo del fronte del rifiuto della svolta politica dello stesso Arafat.
"Ma è con e dopo l'omicidio di Moro che cambiano le carte in tavola - 'vira' bruscamente, perché vira la storia dell'epoca, il racconto di Cutonilli -. Nasce infatti il governo di Francesco Cossiga, con l'Italia che di fatto rompe il patto nato con Moro e tiene dietro le sbarre Saleh".
E da lì, questa la tesi degli autori, si attiva un meccanismo che porterà ad Ortona prima e a Bologna poi.
Le minacce, documentate, al nostro Paese, "cominciano nel dicembre del 1979 ed arrivano fino al luglio del 1980, per poi cessare quando avviene la strage di Bologna, una strage che conferma le preoccupazioni del Sismi e degli altri apparati di sicurezza".
"In fretta viene individuata l'area politica ideologicamente e praticamente responsabile della strage - l'analisi di Cutonilli - con sullo sfondo il pericolo di far venire a galla il Lodo Moro che, alla fine, si traduce in un enorme, terribile pastrocchio che se scoperto avrebbe creato molto più di un semplice imbarazzo al Paese".
"Del resto - incalza l'autore - quando Arafat comincia a dialogare con le nazioni europee e in particolare con l'Internazionale socialista per ottenere la dichiarazione di Venezia, che punta al riconoscimento del diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese a condizione che i palestinesi riconoscano lo stato di Israele, dunque una soluzione politica e militare della questione, il Fplp e anche tutte le anime interne all'Olp di matrice marxista non ci stanno ed aumentano di conseguenza il volume di fuoco in Europa".
"Il pastrocchio si capisce però con l'arresto a Torino, nel febbraio del 1980, di Patrizio Peci, primo pentito delle Brigate Rosse che parla di palestinesi che armano le Br, quindi l'Italia intrattiene rapporti con chi arma il terrorismo rosso in Italia", spiega ancora.
L'esplosivo, secondo recenti dichiarazioni del giudice Priore, (che ha indagato tra l'altro anche sul rapimento e sull'uccisione di Moro e sulla strage di Ustica di cui si parla pure nel libro), sarebbe stato preparato per colpire il supercarcere di Trani, in provincia di Bari, dove era richiuso Saleh.
La vicenda, comunque, da Ortona si sposta nei tribunali di Chieti e dell'Aquila, in un turbine di pressioni "dall'alto" e in un quadro storico complicatissimo.
Tanto che in sede di Appello, al tribunale dell'Aquila un ufficiale del Sismi, in borghese, avvicina i giudici per "invitarli" ad essere indulgenti con Saleh, proprio mentre cresce la preoccupazione, carte alla mano, per un'azione del Fplp.
Nel libro, in ogni caso, c'è molto di più, tra cui una pista che parla sardo, un cadavere della strage che non sarebbe stato "contato" e pure la presenza, di cui si sa da anni, a Bologna - pernottamento all'hotel Centrale la notte tra l'1 e il 2 agosto - del militante tedesco esperto di esplosivi Thomas Kram, uno delle "Cellule Rivoluzionarie", considerato il braccio destro del terrorista Carlos 'lo Sciacallo', altro personaggio importantissimo della vicenda, detenuto in Francia dal 1994.
Pezzi di una ricostruzione che non può che far discutere.

(Abruzzo Web, 20 agosto 2016)


Leader di Hezbollah: Israele è più vicino che mai alla sua fine

"Siamo in grado di entrare in Galilea e oltre"

In un'intervista televisiva, il religioso libanese Hashem Safieddine, capo del Consiglio esecutivo di Hezbollah, ha detto che "Israele è più vicino che mai alla sua scomparsa" e ha avvertito che "il tempo delle operazioni sta per venire." Quando l'intervistatore ha chiesto se Hezbollah fosse in grado di entrare con forze di terra in Galilea, o "anche oltre la Galilea", Safieddine risposto: "Naturalmente. Noi abbiamo questa capacità." L'intervista è andata in onda l'8 agosto su Mayadeen TV.

(MEMRI, agosto 2016)


Antisemitismo in Europa, un male che riguarda tutti

La carneficina dei tanti nasce dalla minaccia sui pochi. Non basta sconfiggere l'Isis a Raqqa, se l'odio di cui l'Isis si alimenta è così diffuso, anche a casa nostra.

di Marco Ventura

Shalom Levy si è preso una coltellata in pancia perché portava in capo la kippah: il copricapo degli ebrei ha reso il Signor Levy un bersaglio. L'attacco al grido di allah akbar è avvenuto ieri nel quartiere di Strasburgo in cui risiedono quindicimila ebrei. Personalità eminente della comunità ultraortodossa Lubavitch, il sessantaduenne è riuscito a rifugiarsi in un bar. Non corre pericolo di vita. Davanti alle recenti carneficine, il fatto può sembrare trascurabile. Dopotutto è stato un episodio individuale, finito bene. Invece il ferimento di Shalom Levy insegna due cose molto importanti.
   In primo luogo, le aggressioni contro persone, simboli o proprietà legate all'ebraismo sono un grave problema europeo. Secondo una fonte britannica, gli insulti per strada e i graffiti antisemiti sono cresciuti a Londra del 60% nel primo semestre del 2016. La nostra reazione è debole. Siamo indulgenti con l'antisemitismo musulmano e con quello cristiano. Ci illudiamo che il male inflitto ai pochi non riguardi noi molti.
   Qui s'innesta la seconda lezione dell'accoltellamento di ieri. Il massacro di Nizza e l'aggressione di Strasburgo sono tanto diversi. Ci terrorizza il primo; ci tocca meno il secondo: poteva capitare anche a noi di essere falciati sul lungomare, ma ci sentiamo al riparo dalla lama antisemita perché non portiamo la kippah. Eppure Nizza e Strasburgo hanno la stessa sostanza. La macro violenza si nutre di micro violenza. La carneficina dei tanti nasce dalla minaccia sui pochi. Non basta sconfiggere l'Isis a Raqqa, se l'odio di cui l'Isis si alimenta è così diffuso, anche a casa nostra. Shalom Levy è stato aggredito in Avenue des Vosges, a pochi passi dalle istituzioni europee, a una cinquantina di chilometri dal campo di concentramento nazista dello Struthof. Ci vuol senso della storia per vedere il grande nel piccolo, il noi nel loro.

(Corriere della Sera, 19 agosto 2016)


Pace dal basso e pace dall'alto

Per costruire la convivenza, gli sforzi sul terreno devono essere accompagnati dalla volontà politica e da una manifesta disponibilità a negoziare un compromesso.

L'approccio bottom-up, dal basso verso l'alto, alla soluzione del conflitto israelo-palestinese postula che la pace inizia dalla gente comune. Solo quando israeliani e palestinesi accetteranno l'idea che le loro società sono inesorabilmente legate l'una all'altro, sarà possibile realizzare la pace. Le due società devono rassegnarsi al fatto che condividono la stessa area geografica, che le loro economie sono intrecciate fra loro in modo profondo e complicato, che l'incuria ambientale di un popolo ha conseguenze sull'altro e che israeliani e palestinesi devono imparare a comunicare tra loro per il progresso di entrambi i popoli. In breve, israeliani e palestinesi devono interiorizzare l'idea che le loro relazioni non possono essere ridotte ad un gioco a somma zero in cui una parte deve perdere se l'altro vuole vincere. Al contrario, la crescita e la prosperità di una parte, in ultima analisi, è vantaggiosa anche per l'altra....

(israele.net, 19 agosto 2016)


Netanyahu divide il mondo in rosso, blu e nero

di Davide Frattini

Netanyahu indica i paesi con cui Israele ha iniziato di recente rapporti diplomatici

Benjamin Netanyahu ama le mappe, gli piace studiarle, colorarle con le gradazioni dei cambiamenti geostrategici, muoverci sopra le bandierine come Winston Churchill, il leader straniero che lo ispira fin da ragazzo. II primo ministro israeliano srotola le cartine come una bandiera agli incontri con gli altri capi di governo, durante le conferenze stampa, quando deve convincere i diplomatici alle Nazioni Unite. Davanti ai deputati della Knesset ha mostrato una mappa utile per capire la sua visione, come valuta la situazione di Israele in mezzo al caotico Medio Oriente e nei rapporti con il resto del mondo. A sorpresa il pessimista Netanyahu vede più colori che nero, forse perché riveste anche l'incarico di ministro degli Esteri ad interim e i successi (o i fallimenti) nelle relazioni internazionali sono sua responsabilità. In rosso ha evidenziato i Paesi con cui Israele ha sviluppato o migliorato le relazioni in questi ultimi mesi: gran parte dell'Asia e alcune aree importanti in Africa e in Suda-merica, due continenti che considera fondamentali non solo per gli scambi commerciali. In blu le nazioni amiche: quasi tutta l'Europa (con il verdino dell'indifferenza in Scandinavia), il Nordamerica, l'Australia e la Nuova Zelanda. La macchia nera dei «nemici dichiarati» è concentrata in Medio Oriente (più la Corea del Nord), copre quello che il premier considera l'asse dell'espansionismo iraniano, tra l'Iraq, la Siria, il Libano. Nel neutro verdino sono colorati anche i Paesi sunniti che negli ultimi mesi stanno diventanco gli alleati non ufficiali e non pubblicizzati dello Stato ebraico. Come l'Arabia Saudita con cui Israele ha numerosi interessi in comune: primo fra tutti fronteggiare gli ayatollah di Teheran.

(Corriere della Sera, 19 agosto 2016)


Università di Tel Aviv: Studi antitumorali

Università di Tel Aviv: Studi antitumorali. L'unità di ricerca medica dell'Università di Tel Aviv da sempre sviluppa nuove tecnologie per la distruzione del tumore dall'interno verso l'esterno.
I Professori Yona Keisari e Itzhak Kelson hanno già iniziato alcuni studi nel 2012. La tecnica consiste nell'impiantare un filo radioattivo all'interno del tumore che diffonderà le radiazioni a corto raggio. A differenza dei tradizionali raggi radioterapici, queste particelle si diffondono all'interno del tumore e si espandono gradualmente prima di disintegrarsi.
In altri termini, è come se fosse una "bomba a grappolo" che, invece di esplodere in un solo punto, gli atomi che si trovano all'interno continuano a circolare e ad emettere particelle a distanza. Il processo può richiedere circa 10 giorni senza sprigionare elementi radioattivi e tossici.
Questa tecnica, non è solo efficace per l'uccisione delle cellule tumorali, ma permette anche lo sviluppo di una sorta di immunità contro di esse.
Gli esperimenti sui topi, effettuati in fase preclinica, mostrano che il 100% dei tumori trattati chirurgicamente hanno una recidiva, contro il 50% di quelli trattati secondo questa tecnica.
Gli studi stanno proseguendo ed i ricercatori stanno analizzando delle soluzioni per trattare alcune varietà di tumore: pancreas, polmone, colon, seno e cervello.

(SiliconWadi, 19 agosto 2016)


Ebreo ortodosso accoltellato a Strasburgo da un uomo che gridava 'Allahu Akbar'

 
La strada di Strasburgo dove un uomo ha aggredito un ebreo ortodosso al grido di "Allahu Akbar"
L'aggressore è noto per "precedenti psichiatrici". La vittima non è ferita gravemente
Un ebreo ortodosso è stato accoltellato per strada a Strasburgo, nell'est della Francia, da un uomo che gridava "Allahu Akbar". Lo riferiscono i media francesi, precisando che l'uomo è ferito non gravemente.
L'aggressore è stato arrestato dalla polizia. Secondo fonti locali citate dal sito del Journal du Dimanche, è noto per "precedenti psichiatrici". L'uomo colpito, secondo i primi
elementi raccolti dagli inquirenti, era seduto a un tavolino fuori da un caffè quanto è stato aggredito. L'aggressore gli ha provocato una ferita superficiale al petto. Le indagini restano al momento assegnate alla procura locale, perché in base alle verifiche finora condotte il fatto non è stato ritenuto di natura terroristica.
A Strasburgo vive una numerosa comunità ebraica, circa 15mila ebrei francesi, pari al 5% della popolazione della città.

(la Repubblica, 19 agosto 2016)


Striscia di Gaza, scontri con la polizia a Nablus: (?!?) quattro morti

Pubblicato il: 19/08/2016 10:39

Quattro palestinesi, tra cui due poliziotti, sono morti ieri sera a Nablus, nel nord della Striscia di Gaza, in seguito a scontri tra gli agenti e uomini armati. Gli scontri sono scoppiati dopo l'ingresso delle forze di polizia nella città vecchia di Nablus, quartiere densamente popolato, e le successive perquisizioni effettuate dagli agenti in cerca di armi. Lo ha reso noto il portavoce dei servizi di sicurezza palestinese Adnane al-Damiri.
"Due poliziotti che hanno preso parte a un'operazione importante sono stati uccisi durante uno scontro a fuoco'', ha detto il governatore di Nablus Akram Rajoub. "Nel corso delle perquisizioni alcuni uomini armati hanno sparato contro i poliziotti, che hanno risposto al fuoco'', ha aggiunto. Due ''criminali ricercati'' sono stati uccisi, ha precisato Damiri. L'operazione della polizia è proseguita questa mattina.

(Adnkronos, 19 agosto 2016)


“... a Nablus, nel nord della Striscia di Gaza...” , che l’ignoranza potesse arrivare fino a questo punto non era proprio immaginabile!



Scienza e cultura: accordi di cooperazione Slovacchia-Israele

Nel campo della scienza, la cooperazione riguarderà principalmente gli scambi di scienziati e ricercatori e la cooperazione diretta tra le università

di Filomena Fotia

Il Consiglio dei ministri slovacco ha deciso di proseguire per i prossimi tre anni la cooperazione in essere con Israele nei settori dell'istruzione, della scienza, della cultura, della gioventu' e dello sport. "La cooperazione attuale sara' ampliata per l'area della formazione sulla parita' di genere; l'istruzione e la formazione professionale; l'istruzione tecnica e la cooperazione nei settori delle tecnologie e dell'industria innovativa". Nel campo della scienza, la cooperazione riguardera' principalmente gli scambi di scienziati e ricercatori e la cooperazione diretta tra le universita'. Per quanto riguarda la cultura, Israele e Slovacchia dovrebbero unire le forze nella tutela del patrimonio culturale, il supporto per le mostre e la cooperazione tra artisti, musei e gallerie.

(MeteoWeb, 18 agosto 2016)


Anche il rabbino russo Lazar in Calabria a scegliere i cedri

Una tradizione secolare per la festa di Sukkot.

ROMA - Un rito che si ripete uguale da secoli: ogni agosto in Calabria arrivano i rabbini a Santa Maria del Cedro, a selezionare i cedri, il frutto perfetto che serve a celebrare Sukot, la festa più importante del calendario religioso ebraico. E fra gli altri è arrivato Berel Lazar, rabbino capo della Russia, italiano naturalizzato statunitense e russo.
Lazar spiega la tradizione secondo cui Dio prescrisse a Mosé: "Prenderete i frutti dell albero piu bello, dei rami di palma e dell albero piu frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio Vostro".
"Sukot è una una festa di pace e di gioia in cui si usano cinque tipi di piante fra cui il più bello è il cedro che cresce nel sud dell'Italia" spiega Lazar.
Sukot, o festa dei tabernacoli, è una festa di pellegrinaggio che dura otto giorni e ricorda la vita degli ebrei nel deserto verso la Terra promessa. Per la Calabria, è anche un'occasione economica importante. "Da qui" spiega Lazar - poi questi frutti vengono esportati in tutto il mondo compresa Mosca e la Russia. Gli ebrei utilizzano questo frutto della Calabria perché è il più perfetto; secondo la tradizione Adamo ed Eva mangiarono un cedro".
Berel Lazar, classe 1964, ha tredici figli. E' considerato vicino al presidente russo Vladimir Putin, che secondo parte del mondo ebraico russo proprio tramite Lazar esercita la sua influenza sulla federazione ebraica. Lazar, da parte sua, insiste che l'essenziale è unire, non dividere i popoli, e che le sanzioni occidentali contro Mosca varate dopo l'annessione della Crimea sono un errore.
"Sono sicuro che fra poco queste sanzioni verranno tolte", dice. "Per la Russia l'Italia è sempre stata un buonissimo amico e penso che nel futuro si potrà anche vedere possibilità di fare grandi progetti insieme".

(askanews, 18 agosto 2016)


Puniti tre soldati israeliani per una bravata su palestinesi

"Le indagini hanno stabilito che i comportamenti del sergente che comandava la pattuglia sono stati contrari ai regolamenti" dell'esercito israeliano, ha riferito il comando in un comunicato. Il sottufficiale e i due soldati che erano a bordo del veicolo con lui sono stati raggiunti dalle misure disciplinari.

Tre soldati israeliani sono stati puniti, uno con gli arresti e due con la consegna, per aver lanciato senza ragione una granata stordente all'indirizzo di alcuni palestinesi che fumavano tranquillamente la pipa in Cisgiordania. Sono stati ripresi in un video, che ha fatto il giro di Internet e in cui si vede la jeep israeliana che si ferma nei pressi di quattro giovani seduti al bordo della strada. Le immagini sono state acquisite da una telecamera di sorveglianza nel villaggio di Kafr Laqif, nel nord dei territori occupati da Israele.
Il video, che e' senza sonoro, mostra il veicolo militare che riparte dopo una dozzina di secondi e mentre si allontana, i palestinesi che s'alzano precipitosamente e si disperdono al prodursi di una forte esplosione testimoniata dal fumo. Nessuno sembra essere rimasto ferito.
"Le indagini hanno stabilito che i comportamenti del sergente che comandava la pattuglia sono stati contrari ai regolamenti" dell'esercito israeliano, ha riferito il comando in un comunicato. Il sottufficiale e i due soldati che erano a bordo del veicolo con lui sono stati raggiunti dalle misure disciplinari: per il sergente dieci giorni di cella, ai soldati la consegna nella base per sette giorni.
I soldati israeliani fanno uso normalmente di 'flashbang', le granate stordenti, per disperdere gruppi ostili di palestinesi. L'ordigno produce una forte deflagrazione e un lampo di luce accecante senza causare grosse ferite.

(Corriere Quotidiano, 18 agosto 2016)


La vera educazione alla pace in un campo estivo israeliano

L'esempio del torneo di calcio con ragazzi arabi ed ebrei organizzato da Givat Haviva

Un campeggio estivo per ragazzi israeliani si è concluso giovedì scorso con un torneo in stile coppa del mondo: cento ragazzini di 12 e 13 anni d'età sono stati suddivisi in sei squadre, ciascuna intitolata a un paese della coppa del mondo. La cosa interessante è che il torneo si è tenuto nella città arabo-israeliana di Baqa al-Gharbiyye e che, dei cento ragazzi partecipanti, cinquanta erano ebrei abitanti a Pardes Hanna-Karkur, Zichron Ya'akov e Binyamina, mentre gli altri cinquanta erano arabi israeliani abitanti a Iqsal, Barta'a e nella stessa Baqa al-Gharbiyye.
Il campeggio estivo, chiamato "Calcio per la pace", ha visto i ragazzini vivere, mangiare, dormire e giocare insieme per quattro giorni: un'esperienza che ha offerto loro l'occasione di abbattere le barriere psicologiche che spesso dividono le comunità araba ed ebraica della società israeliana, e di sbarazzarsi degli stereotipi negativi tramite interazioni sociali positive....

(israele.net, 19 agosto 2016)


Celtic, tifosi con bandiere Palestina: in campo squadra israeliana

 
GLASGOW - I tifosi del Celtic Glasgow espongono bandiere della Palestina durante la partita contro gli israeliani dell'Hapoel Beer Shev. I sostenitori scozzesi hanno esposto i drappi palestinesi ed ora potrebbero essere puniti dalla Uefa che vieta manifestazioni politiche durante le partite.
L'incontro, valevole per l'andata degli spareggi che danno l'accesso diretto ai gironi di Champions League, lo stesso che ha giocato la Roma pareggiando a Porto 1-1. è terminato con il punteggio di 5-2 in favore del Celtic. La suqdra scozzese però ora rischia di essere penalizzata dall'organo di controllo del calcio europeo.
Come scrive Il Giornale
"La qualifazione per gli scozzesi dovrebbe essere una pura formalità, a meno che l'Uefa non decida di punire severamente il club per le intemperanze dei suoi tifosi che, durante il match contro gli israeliani, hanno esposto delle bandiere della Palestina. (…)".
"Il glorioso club scozzese, che vinse la Coppa dei Campioni, edizione 1966-1967, battendo in finale l'Inter di Helenio Herrera allo stadio nazionale di Jamor a Lisbona, è a forte rischio squalifica per colpa dei suoi sostenitori che hanno esposto numerose bandiere della Palestina in senso provocatorio nei confronti degli avversari israeliani. L'Uefa, dunque, a breve dovrà pronunciarsi in merito a questo brutto episodio: il Celtic Glasgow sta già tremando all'idea di essere squalificato".

(blitz quotidiano, 18 agosto 2016)


Shoah, Polonia non responsabile. Varsavia vuole sancirlo per legge

di Daniel Reichel

Perché la Polonia vuole vietare per legge la definizione di Auschwitz come "Lager polacco"? È questo l'interrogativo su cui riflettono in queste ore diversi storici e opinionisti sui media internazionali. Un dibattito nato alla luce della proposta di legge al vaglio del parlamento polacco che perseguirà - il testo sarà votato a settembre e secondo molti passerà - chiunque sostenga che il popolo o lo Stato polacco abbiano responsabilità per i crimini nazisti o abbiano collaborato con loro, o in altri crimini contro l'umanità o di guerra. Gli eventuali colpevoli rischiano da una multa fino a tre anni di reclusione. La punizione si applica, spiegano tra gli altri i media israeliani, sia ai cittadini polacchi che stranieri e dovrebbe includere anche tutti coloro che violino la legge non intenzionalmente, ovvero non siano motivati dal voler danneggiare la reputazione della Polonia. "La normativa - scrive Haaretz - si applica anche a tutti coloro che deliberatamente o per errore si riferiscano al campo di sterminio di Auschwitz, costruito nella Polonia occupata dalla Germania nazista, come a un 'campo polacco'". A condurre le indagini sulle presunte violazioni, l'Istituto della Memoria Nazionale, ente governativo noto per le sue opinioni conservatrici rispetto al ruolo della Polonia nella Shoah. "Non sono state le nostre madri, né i nostri padri, i responsabili dei crimini della Shoah, commessi da criminali tedeschi e nazisti sul territorio polacco occupato - ha dichiarato il ministro della Giustizia Zbignew Ziobro - È nostro compito difendere la verità e la dignità dello Stato polacco e della nazione polacca, così come i nostri padri, le nostre madri e i nostri nonni".
   Per lo United States Holocaust Memorial Museum, "il governo polacco in esilio a Londra appoggiò la resistenza all'occupazione tedesca, incluse iniziative per aiutare gli ebrei." Tuttavia, all'interno di Polonia occupata dai nazisti, "mentre le forze tedesche implementavano le uccisioni, si appoggiarono su alcune agenzie polacche, come le forze di polizia polacche e il personale della ferrovia, per fare da guardia ai ghetti e per la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Singoli polacchi - continua l'istituto - spesso hanno aiutato nell'identificazione, denuncia, e cattura di ebrei in clandestinità, spesso approfittando della situazione con ricatti, e partecipando attivamente al saccheggio delle proprietà ebraiche".
   Sentita dal Times of Israel, Havi Dreifuss, docente di storia alla Tel Aviv University, ha detto di essere stupita della motivazione dietro alla legge già approvata dal gabinetto. "È ormai chiaro che è stata la Germania nazista a costruire i campi di concentramento e sterminio, ma altre ricerche portano alla luce alcuni aspetti discutibili della società e della popolazione polacca". Dreifuss ha ricordato come la storiografia contemporanea abbia trovato le prove concrete di due grandi massacri compiuti dai polacchi contro gli ebrei, nel 1941 a Jedwabne, e la strage di Kielce del 1946, in cui 42 persone furono uccise.
   Seppur parte della rinata comunità ebraica polacca - praticamente cancellata dalla Shoah, con circa tre milioni di vittime - si sia schierata a favore del provvedimento, molte voci si sono dette preoccupate per l'atteggiamento del governo nazionalista, diretto a cancellare ogni traccia di responsabilità polacca rispetto al genocidio degli ebrei. A dimostrare la gravità della situazione, le parole del ministro dell'Istruzione Anna Zalewska, che recentemente ha insinuato che il pogrom di Jedwabne, citato da Dreifuss e in cui abitanti polacchi uccisero - non è chiaro se con il supporto dei nazisti - oltre 300 concittadini ebrei, sia una questione di "opinione".

(moked, 18 agosto 2016)


Alcuni diranno che il governo polacco vuole impedire per legge che vengano fuori prove della partecipazione dei polacchi ai campi di sterminio, cosa che invece potrebbe essere vera. Per analogia, altri diranno che il governo italiano, pressato dagli ebrei, ha voluto impedire che venissero fuori prove sull’inesistenza dei campi di sterminio, cosa che invece è certamente falsa. Ma questa falsità avrà trovato un altro punto d’appoggio per la sua diffusione tra chi è distratto o in malafede. La comunità ebraica polacca si è schierata a favore del progetto di legge, come ha fatto pochi mesi fa la comunità ebraica italiana in un caso analogo. Forse qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi se sia stato davvero saggio appoggiare con tanta insistenza la legge sul negazionismo. M.C.


«Germania sì, Inghilterra no». Ebrei «in fuga» dalla Brexit

Il caso del doppio passaporto

LONDRA - Sono riusciti a sfuggire alla Shoah, spesso dopo lunghe peripezie e lasciando tutto quello che avevano in Germania. Ora gli ebrei rifugiati in Gran Bretagna durante il nazismo, e i loro discendenti, vogliono evitare di subire le conseguenze negative della Brexit. In centinaia stanno «inondando» con domande e moduli l'ambasciata tedesca a Londra per chiedere che venga loro riconosciuta la cittadinanza nel Paese che li aveva cacciati durante le persecuzioni iniziate dopo la salita al potere di Hitler.
   Secondo il Daily Telegraph, sono già state più di 400 le persone che si sono rivolte alla sede diplomatica nella capitale britannica e 100 già hanno avviato le procedure per avere il doppio passaporto, che permetterebbe loro di restare cittadini dell'Unione europea una volta che sarà concluso l'iter di uscita del Regno Unito dal «club» dei 28. I diritti degli ebrei riparati all'estero nel periodo 1933-1945 sono garantiti dalla carta costituzionale tedesca, la Legge fondamentale (Grundgesetz): all'articolo 116 si stabilisce che ogni ebreo, e i suoi discendenti, che si è visto revocare la cittadinanza possa riottenerla automaticamente. Pare proprio che sia stata la Brexit e il timore di perdere una connessione col resto d'Europa a far rompere gli indugi a molti e superare la diffidenza nei confronti della Germania.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 agosto 2016)


Tra la pace e i territori scelgo la pace

Una lunga intervista filmata del 1968, ritrovata per caso, è diventata un documentario premiato al Jerusalem Film Festival: un ritratto intimo dell'anziano statista, che spiega la sua visione sul futuro di Israele.

di Ariela Piattelli

 
David Ben Gurion nel suo kibbutz di Sde Boker in una foto del 1969

Il primo ministro David Ben Gurion attraversava il deserto, sulla strada di ritorno da Eilat. All'improvviso vide alcuni ragazzi che avevano piantato le tende, sfidando le rocce e l'aridità del Negev. Sorpreso, chiese perché fossero lì; quelli risposero che nel deserto stavano combattendo un'altra guerra d'indipendenza. «Lì vidi il mio sogno diventare realtà. E decisi, malgrado fossi primo ministro e ministro della Difesa, di unirmi a loro, e iniziare a costruire un futuro nel deserto, dove non c'è terra, né acqua, piante e pioggia». È così che il leader israeliano, all'apice della sua carriera politica, decise di trasferirsi nel kibbutz di Sde Boker, scommettendo nella missione estrema di popolare il deserto e dimostrare che si poteva vivere anche lì.
  Questo è uno degli aneddoti cruciali nella vita di Ben Gurion, una lezione che gli cambiò l'esistenza e che avrebbe raccontato nel '68 in un lungo colloquio inedito, rimasto sepolto, nel silenzio di un archivio, per quasi cinquant'anni. Le sei ore di intervista, che Ben Gurion rilasciò al giovane americano Clinton Bailey, hanno visto la luce grazie al regista Yariv Mozer e alla produttrice Yael Perlov: lavoravano all'archivio Spielberg di Gerusalemme al restauro di un film, quando per caso hanno scoperto la pellicola.

 Padre della patria
  Dal materiale ritrovato hanno tratto un documentario, Ben Gurion, epilogue, premiato al Jerusalem Film Festival 2016. Il ritratto mai visto è quello intimo di un padre della patria nell'ultima stagione della vita, che racconta la storia, il pensiero e la visione sul futuro d'Israele, un paese ancora in costruzione, citando personaggi, profeti, la Torah, tutto ciò che aveva studiato da bambino in Polonia e che non aveva mai abbandonato.
  Bailey lo intervistò nella sua casa di Sde Boker. La macchina da presa è rapita dalla vita spartana dello statista, in abiti informali, che pianta gli alberi e pranza nella mensa, e dai suoi scaffali traboccanti di libri. «Nel nostro kibbutz ho chiesto di essere chiamato David, non Ben Gurion» dice. Erano trascorsi soltanto quattro mesi dalla morte della moglie Paula. «Adesso sono solo, non posso farci nulla. Mi sento un uomo a metà, ma faccio quel che posso».

 Tipico ashkenazita
  Pragmatico, rude e di poche parole, mai una più del necessario, nel film Ben Gurion riflette l'atteggiamento tipico degli ashkenaziti, che non si perdono in fronzoli perché troppo impegnati nella sostanza delle cose. Il suo racconto s'inizia con l'arrivo in Palestina nel 1906: «C'era l'anarchia nel paese. I villaggi si facevano la guerra l'uno contro l'altro». Il giovane David trova il caos, lavora la terra, e le difficili condizioni lo mettono a dura prova. Contrae anche la malaria. A suo padre che gli chiede di tornare a casa risponde «Abba [papà], io non lascerò questo posto».
  Ben Gurion immaginava il futuro dello Stato ebraico composto da città, ognuna con una sua identità, nella convivenza pacifica e democratica. La sua visione era già chiara: «un libero e democratico Commonwealth in Palestina». Nel colloquio lo statista ricorda i momenti storici in cui fu impopolare, come quando nel '51 accettò dalla Germania di Adenauer l'indennizzo per le vittime della Shoah. «Certamente fu una decisione impopolare. Ma credo che pensare che tutti i tedeschi erano nazisti sia ingiusto. Non è ebraico pensarla così».

 La lezione di Einstein
  Rileggendo il passato, Ben Gurion spiega che poco prima della Shoah sarebbe stato impossibile mettere in salvo gli ebrei: «Non puoi salvare qualcuno se non sai quale sarà il suo destino. Quelli che accusano gli ebrei di non essersi difesi sbagliano. Loro erano impotenti». Ma lui, come Elie Wiesel, non perdonava ai leader dei paesi che combattevano Hitler di non essere intervenuti per fermare lo sterminio: «Churchill era un buon amico del sionismo, e aveva ragione nel pensare che il suo compito fosse sconfiggere Hitler. Loro però avrebbero potuto salvare molti ebrei. Gli si chiese di bombardare Auschwitz, Treblinka, avrebbero potuto farlo. Ma non lo hanno fatto…».
  Ben Gurion, che aveva dichiarato l'indipendenza dello Stato d'Israele, credeva nella costruzione del futuro fondato sulla continuità dell'operato delle persone. «Da solo non avrei potuto fare nulla. Non è una cosa che dipende da una persona. Ci sono cose che non possono essere fatte da un solo uomo, come la teoria della relatività». Era la lezione di umiltà di Albert Einstein: lo scienziato gli aveva spiegato che la formulazione della teoria era stata possibile anche grazie agli esperimenti di chi lo aveva preceduto. «Se noi non avessimo avuto i pionieri della prima generazione, allora non saremmo stati capaci di costruire tutto questo».

 «Questo è solo l'inizio»
  Sul futuro d'Israele, il vecchio statista poneva, come valori assoluti che dovevano guidare gli israeliani, la sicurezza, la pace e il rispetto dell'altro. «Le virtù che ci hanno chiesto i nostri profeti sono la verità, aiutare chi ha bisogno e amare gli altri come noi stessi». Le guerre che Israele aveva combattuto e i territori conquistati erano per lui destinati alla sicurezza del paese. Pensava ci sarebbero state altre guerre contro gli arabi, e avrebbe sacrificato parte della terra per ottenere la pace: «Se potessi scegliere tra la pace e i territori conquistati lo scorso anno [nel '67], sceglierei la pace. Rinuncerei a quei territori, a eccezione di Gerusalemme e delle alture del Golan. Ho sempre avuto paura per lo Stato. Non solo adesso. Lo Stato non esiste ancora. Questo è solo l'inizio…».

(La Stampa, 18 agosto 2016)


L'Agenda di George Soros su Israele

Il "miliardario messianico"
Il "miliardario messianico" non ha nulla a che vedere con gli "ebrei messianici"
spende milioni contro lo stato ebraico.

Hacker russi hanno violato la Open Society del miliardario George Soros, svelandone molte attività. A partire dal 2001, Soros ha investito dieci milioni di dollari in organizzazioni impegnate nella delegittimazione di Israele. Il "miliardario messianico" si conferma patrono mondiale dell'attivismo liberal. Sua la donazione di cento milioni di dollari a Human Rights Watch. "The Man Who Broke the Bank of England" ha avuto molti meriti in questo suo attivismo, come aiutare i democratici dell'est europeo, da Solidarnosc in Polonia a Charta 77 in Cecoslovacchia e, più recentemente, i dissidenti in Iran. Negli anni Ottanta, le fondazioni Soros erano impegnate a minare in modo sottile il monopolio di accesso all'informazione dei regimi socialisti. Soros dotò ogni biblioteca ungherese di fotocopiatrici, a condizione che non ne venisse controllato l'uso. Ha finanziato tante borse di studio a Oxford e Cambridge, aprendo le menti di tanti ragazzi sotto il comunismo. Quando l'Urss di Gorbaciov sembrava arrivata alla fine, Soros fornì a Boris Eltsin gli strumenti necessari per stampare i volantini. Quando Sarajevo era sotto assedio delle truppe serbe, Soros fornì acqua e gasolio alla popolazione civile. Morton Abramowitz, suo amico e storico collaboratore, ha giustamente detto che "Soros è l'unico privato cittadino con una propria politica estera". E questa passa anche dalla delegittimazione dello stato di Israele, che per Soros è un incidente della storia. Questa è una campagna molto meno nobile, perché Israele rappresenta proprio quel tipo di "società aperta" che potrebbe scardinare il cuore di tenebra del medio oriente.

(Il Foglio, 18 agosto 2016)


"Con le canzoni delle nonne stiamo conquistando il mondo"

Primo concerto italiano per le israeliane A-Wa.

 
ARIANO IRPINO - A giugno la rivista americana Rolling Stone le ha scelte tra le dieci novità della musica mondiale da scoprire e la ha consigliate in particolare «a chi ama le Haim, Ofra Haza, i Balkan Beat Box».
   Le A-Wa, tre sorelle israeliane di origine yemenita che cantano in un dialetto della comunità ebrea del loro Paese d'origine, sono già famose in patria, ma anche in Egitto, Tunisia e Marocco. La loro canzone Habib Galbi ha totalizzato quasi quattro milioni di visualizzazioni su YouTube: senza troppi proclami, sono protagoniste di una storia di dialogo in un'epoca e in luoghi di guerra.
   Per la prima volta in Italia domani a Ariano Irpino, nel programma dell'interessante Folkfestival, le sorelle Tair, Liron e Tagel Haim (32, 30 e 26 anni), si raccontano così: «La musica è magia, una canzone può farti scoprire storie, luoghi e persone che non conoscevi. È quello che è successo con Habib Galbi: ha successo perché comunica amore, divertimento, nostalgia, felicità, curiosità o empatia, a seconda di chi la ascolta. Per il primo album abbiamo raccolto canzoni folk delle donne ebree yemenite, trasmesse oralmente di generazione in generazione, e le abbiamo arrangiate secondo la nostra sensibilità. Alcune di queste canzoni le conoscevamo fin da bambine: ci sembrava di avere tra le mani un tesoro. Parlano di questioni sociali e problemi personali, ognuna di esse è il monologo di una donna diversa. Sono storie delle nostre nonne prima del loro arrivo in Israele, i temi sono l'amore, la gelosia, le speranze, le paure, i desideri. Siamo cresciute nel deserto, le nostre fonti di ispirazione sono la musica etnica e la collezione di dischi dei nostri genitori. Più la radio, grazie alla quale abbiamo conosciuto la musica dell'Occidente. Ci hanno conquistato i grandi cantanti come l'americana Ella Fitzgerald, l'egiziano Abd El Halim Hafez e il greco Stelios Kazantzidis, i cantautori come Bob Marley e Tom Waits. Ci siamo innamorate delle voci tribali di Aharon Amram e Bracha Choen, ci hanno affascinato le armonie della Motown e dei Beach Boys, il rock di Deep Purple e Led Zeppelin. Poi, quando è arrivata Mtv, abbiamo cominciato ad ascoltare il funk di Fugees, OutKast, The Roots. Sogniamo di lavorare con produttori come Pharrell Williams, Mark Ronson, e performer meravigliosi come Stromae».

(La Stampa, 18 agosto 2016)


Israele, nella città del futuro il parcheggio si trova con un'app

Rivoluzione tecnologica a Modiin, tra Gerusalemme e Tel Aviv. Dai rifiuti ai semafori tutto è regolato da un "cervellone elettronico".

di Lea Luzzati

75 mila
Gli abitanti della città israeliana Modiin. L'obiettivo dell'ammini- strazione è arrivare a oltre 200 mila abitanti,
50 per cento
La superficie di Modiin destinata ad aree verdi La città è stata progettata secondo i più alti standard urbanistici,
60 chilometri
Quelli che separano Gerusalemme da Tel Aviv. La città di Modiin si trova esattamente a metà strada,

Lungo i sessanta chilometri che separano Te! Aviv da Gerusalemme Modiin si trova esattamente a metà strada. La città sta anche a cavallo fra i confini d'Israele sanciti dall'Onu nel novembre del 1947 e quella «no man's lanci» stabilita nel 1949 all'armistizio con la Giordania e occupata dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967. Quando la piana costiera cede il passo alle prime montagne, sulla via verso Gerusalemme, Modiin compare come uno scomposto agglomerato di case bianche dentro un paesaggio brullo per molti mesi all'anno. Ma non è un'equidistanza puramente geografica, quella in cui questa città si trova fra Gerusalemme e Te! Aviv: due poli opposti nel tempo, nella storia, nella vita del presente. Te! Aviv è la città che ha appena compiuto cent'anni, costruita sulla sabbia e lanciata verso il futuro. Gerusalemme è la città eterna, con un piede per terra e l'altro nel cielo, sovraccarica di passato.
   Anche Modiin è sospesa fra passato e futuro. È infatti il luogo natale dei Maccabei, eroi combattenti che nel II secolo a.e. restituiscono la dignità dell'identità al popolo ebraico e al Tempio di Gerusalemme strappandoli all'ellenizzazione. Il popolo d'Israele ne celebra da sempre la storia attraverso la festa di Chanukkah e l'ammirazione per il coraggio, il sacrificio, la lotta per la libertà. Il sacerdote Mattatiahu e i suoi figli venivano proprio di qui, da questa città che si porta addosso una lunga storia.
   Eppure Modiin diventerà presto la città più «smart» di un Paese sempre più tecnologico, dove il futuribile entra ogni giorno che passa di più nella vita quotidiana. A incominciare da Waze, il navigatore interattivo che indica la strada in modo intelligente, per arrivare a Glassesoff, un'applicazione che aiuta a scacciare o anche solo tenere a freno la presbiopia. E ora, grazie a un accordo fra Bezeq, la compagnia di telecomunicazione leader del Paese, e il comune di Modiin, è stato avviato un progetto per creare una «smart city» veloce ed efficiente. Tutto o quasi sarà presto regolato e monitorato da un sistema centrale: dal parcheggio alla raccolta rifiuti, dalla gestione dei semafori alla manutenzione delle aree verdi. Grazie alla applicazione, l'automobilista potrà sapere in tempo reale dove c'è un parcheggio libero, e i rifiuti saranno raccolti non sulla base di un orario fisso (o casuale) ma a seconda delle esigenze del momento. Il tutto connesso dalle fibre ottiche.
   L'obiettivo della «smart city» che presto verrà è doppio: rendere la vita più semplice ai cittadini e risparmiare denaro ottimizzando servizi e risorse. Questa proiezione non sbalordisce certo un'umanità come quella d'Israele abituata a convivere con una tecnologia a portata di mano e soprattutto di cellulare. Start up e nuove tecnologie sono il pane quotidiano di una piccola ma grande Silicon Valley affacciata sul Mediterraneo dove l'innovazione porta avanti l'economia del Paese. Ed è quasi una beffa della storia, in fondo: Israele e ancor prima lo yishuv, cioè il mondo ebraico presente prima della fondazione dello Stato nel 1948, avevano come obiettivo primo quello di riportare il popolo alla terra - in termini ideali e materiali, attraverso il lavoro agricolo, produttivo. I pionieri sionisti partirono dall'Europa dell'Est cento e passa anni fa per costruire un ebreo nuovo capace di lavorare con le mani oltre che sui libri. Da allora Israele ha inventato l'irrigazione goccia a goccia, i pomodori a grappolo e l'itticoltura nel deserto. Ma oggi come oggi è prima di tutto sede di un'economia postmoderna fondata sull'high tech, regno del virtuale. Anche se in fondo, come a Modiin, ti aiuta a trovare parcheggio. Che nelle città del Paese è quasi una chimera.

(La Stampa, 18 agosto 2016)


La luce delle parole per svelare il «male radicale»

Parla Aharon Appelfeld, uno dei maggiori scrittori in lingua ebraica Evaso da un lager nazista, attinge nell'esperienza vissuta della Shoah la forza per guardare con rinnovata speranza a un possibile futuro dove neutralizzare i demoni del presente.

di Riccardo Mazzeo

 
Aharon Appelfeld

Aharon Appelfeld vive in Israele dalla fine degli anni Quaranta, ma sottolinea sempre le sue origini rumene. La sua famiglia, da sempre messa all'indice perché di origine ebraiche, viveva in una regione (la Bucovina) fino a quando fu deportata nei lager nazisti, dove quasi tutti i componenti furono assassinati. Lui, invece, è riuscito a evadere da un campo di sterminio. Per molto tempo ha vissuto come fuggiasco nei boschi, fino al momento in cui si è unito all'Armata Rossa. Con quella divisa ha combattuto i nazisti, ma poi a guerra finita ha deciso di andare in Palestina, ancora sotto protettorato britannico. Lì, in un kibbutz, ha studiato e cominciato a scrivere in ebraico, una lingua che ha subito amato al punto da diventare uno dei più importanti scrittori di lingua ebraica.
  Nei suoi romanzi - gran parte dei quali pubblicati in Italia da Giuntina, Feltrinelli e Guanda - i temi della Shoah e del «male radicale» tornano spesso, seppur filtrati dal pensiero di Martin Buber e Gershom Scholem, intellettuali che Appelfeld considera veri e propri maestri. Recentemente lo scrittore ha ricevuto in Italia il premio Hemingway. Più che un'intervista quella con lo scrittore israeliano è stata una lunga conversazione.

- Lei ha in comune con Edgar Morin la devastante esperienza traumatica della perdita della madre In tenera età: lei l'ha persa a nove anni, Morin a dieci. In che modo questa perdita ha influenzato il suo destino di scrittore?
  Mia madre era sempre con me quando era viva. Eravamo insieme nel tempo della paura e nel tempo della gioia. La sua presenza mi faceva sentire di non essere solo, poiché lei mi avrebbe sempre aiutato ad alzarmi se fossi caduto e salvato dai pericoli. Questa sensazione non mi ha mai abbandonato. Anche quando sono diventato adulto lei ha continuato a essere con me. L'amore che sento per i miei genitori, i nonni e tutti quelli che avevo attorno durante la mia fanciullezza e che perirono durante la guerra è diventato una parte di me. Li sento ancora più vicini adesso rispetto a quando erano in vita. La morte non ci ha separati. Nei miei libri esploro la loro vita.

- Un altro ebreo Importante, Boris Cyrulnlk, perse I genitori che vennero uccisi dal nazisti e fece molta fatica a sopravvivere. Nondimeno riuscì ugualmente a diventare uno psichiatra e a «tradurre» la sua capacità di capitalizzare le risorse interiori di cui disponeva nel costrutto della «resilienza», che viene considerato oggi un caposaldo dell'azione psicoterapeutica. Come può spiegare la sua resilienza nel superare gli enormi ostacoli che ha Incontrato sul suo cammino?
  Ho visto il male in tutte le sue forme. Il male è un'ombra scura, se ne sta sempre acquattato ma in tempi di rabbia e odio tende a gonfiarsi e a penetrare nelle nostre esistenze. Come possiamo fronteggiarlo? Tutto quel che possiamo fare è combatterlo, coltivare la speranza e accrescere la nostra luce. Nei miei romanzi desidero onorare coloro che hanno visto le tenebre ma non hanno mai rinunciato alla speranza.

- Nel suo ultimo libro «To the Edge of Sorrow» (in uscita in Italia per Guanda nel gennaio 2017, con la traduzione di Elena Löwenthal) lei mostra che c'è un modo per combattere il male. A un certo punto, uno dei partigiani riconosce la casa dove abitava suo zio e scopre che è abitata da altre persone, che indossano gli abiti dei suoi parenti e che hanno bruciato tutti i loro libri. Benché si senta ardere di rabbia, il partigiano e i suoi compagni cercano di fare la cosa più giusta e onorevole: raccolgono un po' di provviste e se ne vanno. Solo quando gli abitanti della casa sparano loro addosso li neutralizzano e incendiano la casa.
  Sono convinto che vi siano sempre, da qualche parte, partigiani come questi, che fanno del loro meglio per non perdere la propria umanità, ad esempio leggendo libri. Martin Buber è stato il mio maestro, ho studiato con lui. In seguito, siamo diventati amici e abbiamo avuto interminabili discussioni nelle strade di Gerusalemme. Non ha mai avuto alcun legame con delle istituzioni religiose ma ha sempre parlato molto di religiosità, che è un sentimento forte e caldo che ci eleva. Le istituzioni religiose possono essere oscure e staccate dalla realtà, mentre la religiosità è intimamente connessa agli individui.

- Martin Buber è molto citato da Tom Kitwood, autore di un Importante libro su uno dei disturbi maggiormente fraintesi, «Riconsiderare la demenza» (Erickson), nel quale spiega che, se si guardano solo i sintomi, e si dimentica che i pazienti sono esseri umani prima ancora di essere «pazienti», non si è affatto psicologi o psichiatri degni di questo nome.
  La religiosità è qualcosa che ciascuno di noi ha dentro di sé. Riveste un ruolo nell'individuo, consentendogli di connettersi con coloro che ama. Permette di elevarsi. L'uso che le grandi chiese di ogni fede fanno della religione è il vero pericolo. Esse dimenticano il vero scopo della religione, che è quello di elevare le persone.

- Per molti studiosi la società contemporanea tende a dimenticare, a rimuovere il passato. Nel suo romanzo c'è Il futuro (il piccolo Milio) e il passato (la nonna Tsirel). Possiamo dire che la letteratura possa servire ad uscire dall'oblio dell'eterno presente.
  La religiosità come la letteratura non può risolvere i grandi problemi ma almeno possono renderci consapevoli dei danni che arrecano. Ci mette in contatto con il bene, con ciò che è delicato, come ogni arte. Quando ci sediamo ad ascoltare Bach in qualche modo cambiamo, diventiamo persone differenti. Cerco sempre di «salvare» l'umanità nel mio libro. La domanda è: che cosa possiamo fare? Come possiamo andare avanti? Dovremmo rinunciare? La risposta si trova nella comunità, che è responsabile per se stessa, per i suoi vecchi e per i suoi figli.

- Un altro fatto molto commovente nel suo libro è che il piccolo Milio all'inizio non riesce a parlare ma, dopo che il gigante Danzig si prende cura di lui, alla fine del quarto capitolo riesce a dire le prime parole e pronuncia: «Cielo». Ogni volta che il bambino dice una parola nuova, il gigante è felice perché sta portando a termine la sua missione.
  Il gigante riveste un ruolo nel salvare l'umanità, per esempio rubando vestiti. Si devono avere vestiti caldi e naturalmente libri. Libri di diverse discipline e scritti in lingue diverse.

- Il protagonista ha una memoria molto vivida di «Delitto e castigo» di Dostoevskij, ma quando finalmente ne trova una copia se ne sente meno attratto, probabilmente a causa della situazione in cui si trova. Che cosa ha significato questo libro per lei?
  Quando l'ho letto ero molto giovane, l'ho portato davvero con me nel bosco. Semplicemente mi ispirava. Anche Kafka è uno scrittore che mi ha influenzato. Era una persona profondamente religiosa, nonostante tutto. Sapeva che il mondo era pieno di demoni. Basta pensare all'Olocausto, alla guerra, il mondo è pieno di demoni. Spiegare le cose è una modalità molto debole. Non si dovrebbe spiegare se stessi, bisognerebbe mostrare. Se lei parla del male, lo mostri! Lo mostri, non lo spieghi!

(il manifesto, 18 agosto 2016)



Parashà della settimana: Vaetchanan (Io supplicai)

Deuteronomio 3:23-7:11

 - Preghiera di Moshè
La parashà di Vaethchanan (lett. supplica) riguarda la preghiera di Moshè nostro maestro rivolta a D-o perché gli conceda la possibilità di entrare nella Terra d'Israele.
"Lasciami di grazia passare il Giordano affinché possa vedere la buona Terra che è al di là del fiume. Ma il Signore si adirò contro di me e non mi dette ascolto" (Deuteronomio 3.25).
Perché Moshè insiste tanto per entrare in Israele? Secondo la tradizione orale egli voleva vedere la guerra contro Amalek (cacciare gli abitanti idolatri) per conoscere il Nome del Signore nella sua forma completa. Ma D-o gli risponde: "E' abbastanza per te".
Resta comunque difficile dare una spiegazione alla preghiera di Moshè. I nostri saggi si domandano: "Perché mai ha pregato solo per se stesso e non per suo fratello Aronne?"
Rashì spiega che Moshè ha pregato per sé solo dopo la conquista del paese di Sihon, pensando che per questi meriti il verdetto divino nei suoi confronti venisse annullato. Cosa questa che non accadde a causa delle responsabilità di Moshè per le contestazioni del popolo verso il Signore durante le peregrinazioni nel deserto.
La risposta di D-o fu categorica: "Basta non ne parliamo oltre" facendo del profeta Moshè, con questo Suo dire, il primo "refusenik" della storia (Deuteronomio 3.25).

Obbligo di osservare i precetti
"Non aggiungete niente a quanto I-o vi comando e non togliete nulla osservando i precetti del Signore vostro D-o" (Deuteronomio 4.2).
Questo comando significa che non sono permesse falsificazioni anche non intenzionali alle leggi della Torah, come ad esempio il modo di praticare la macellazione rituale, oppure l'osservanza di non mescolare carne e latte ecc…
Questa apparente rigidità non è una consuetudine ripetitiva ma una strada per non autorizzare le approssimazioni né le modificazioni riguardo all'adempimento delle regole, che potrebbero alterare o invalidare il valore stesso del precetto.
Condizione essenziale per compiere i comandi del Signore è la conoscenza della Sua Legge affinché "voi viviate" . Voler trasformare anche se per migliorare vuol dire distruggere. Se è necessaria una modificazione vuol dire che esiste un'imperfezione e colui che parla di imperfezione mette in dubbio l'origine divina della Legge. Ecco la ragione profonda di questo ordine "non aggiungere e non togliere".
"Io (Moshè) vi ho insegnato statuti e leggi, come mi ha comandato il Signore perché li eseguiate nel paese di cui state per entrare in possesso" (Deuteronomio 4.5).
Il popolo d'Israele ha ricevuto una Legge (Torah) prima ancora di ricevere un paese, cosa questa che spiega come gli ebrei siano diventati un popolo per la Legge e solo dopo hanno ricevuto un paese per la Sua osservanza.
Questa Torah è stata data al popolo dal profeta Moshè, che non ha mai messo il piede nella terra promessa ed è stato sepolto nel deserto, come atto simbolico a dimostrazione della perennità della Legge.

Ripetizione del Decalogo
Le differenze tra il primo e il secondo decalogo riguardano il giorno del Sabato. Nel primo decalogo (Esodo 20.8) viene detto "ricorda il giorno del sabato" mentre nel secondo (Deuteronomio 5.12) viene detto "osserva il giorno del sabato".
Nelle prime tavole viene messo in risalto il ricordo della Creazione del mondo e il sabato come giorno di riposo per D-o stesso che mise un freno alla Sua creazione. In questo caso il Sabato è in rapporto alla Creazione.
Nel secondo decalogo viene usato il termine di "osserva" in rapporto all'uomo liberato dalla schiavitù d'Egitto e restituito alla sua dignità e alla sua identità.
Le prime tavole vennero rotte perché era una Torah rapportata soltanto a D-o che non può funzionare. Le religioni che non rispettano l'uomo sono destinate a morire.
I maestri di Israele già nell'esilio babilonese hanno avuto il coraggio di affermare che D-o va inteso come un mezzo per arrivare all'uomo. In questo senso va interpretato il detto di Gesù in linea con i nostri maestri: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Il Signore ha dato una legge (lapidazione) ma l'uomo vi deve mettere un limite senza per questo abolire la legge, lasciando a D-o il compito di fare giustizia.

Ascolta Israele
"Ascolta Israele il Signore nostro D-o il Signore è Uno" (Deuteronomio 6.4).
Questa professione di fede accompagna l'ebreo dalla nascita alla tomba. La si recita quando fa sera e quando fa giorno. E' stato l'atto di fede che gli ebrei hanno pronunciato sui roghi dell'Inquisizione, santificando il Nome di D-o.
Questa espressione della Torah incarna tutta la storia del popolo ebraico ed è un "grido" per affermare l'Unità di D-o Benedetto. Quando si recita "Ascolta Israele" i fedeli con la loro mano coprono i propri occhi, perché nel nostro mondo questa Unità non è ancora presente.
Nella Torah è scritto "ascolta" e non "credo". Il giudaismo difatti è lontano da una filosofia astratta, essendo un imperativo morale di amare D-o e di servirLo durante tutta la propria vita. Tra le lettere che compongono questa espressione di fede ne troviamo due scritte in grassetto. Sono la ayn e la dalet. Tali lettere formano la parola "ED" che in lingua ebraica significa testimone. E' questo un monito per l'ebreo di essere "testimone" di un D-o che ha dato all'uomo il libero arbitrio affinché possa conoscerLo in tutta la Sua grandezza.

Matrimoni misti
In riferimento a questo argomento la Torah vieta le unioni miste come è scritto: "Non farete matrimoni con loro (Cananei). Non prenderai la loro figlia per tuo figlio perché essi farebbero allontanare tuo figlio da Me e servirebbero altri dei" (Deuteronomio 7.3).
Tasto dolente ed attuale. Le conseguenze tragiche dei rapporti illeciti con donne non-ebree sono presenti a tutte le epoche a cominciare dalla Genesi. "Esaù accorgendosi come le donne cananee spiacevano a suo padre, si recò presso Ismaele e prese moglie" (Genesi 28.8).
La legge ebraica è molto severa in materia di matrimoni misti perché vuole tutelare l'educazione dei figli, nel dare loro un'identità ebraica.
Spesso tale severità viene interpretata come razzismo, ma niente di tutto questo. L'ebraismo non è una razza né una religione, è un modo di vivere cioè un etica. La conversione anche se difficile, purché sia sincera e non interessata è ammessa.
Difatti quando il proselita presenta tutte queste garanzie egli è ben accetto nella famiglia ebraica perché non sarà solo il padre o la madre naturale dei suoi figli, ma ne sarà anche l'educatore e il responsabile morale. F.C.

*

 - Ad un popolo che si appresta ad entrare nella Terra promessa, Mosè ripete, tra molte altre raccomandazioni, i famosi "dieci comandamenti". Questi taglienti ordini divini sono stati dati ad un popolo specifico, in un preciso periodo storico. Poi sono stati dimenticati per secoli dallo stesso popolo che li aveva ricevuti; sono stati riesumati dopo tremendi cataclismi politici; e dopo altri secoli sono diventati patrimonio comune di popoli che forse ne dimenticherebbero volentieri la fastidiosa origine. L'origine però è qui: nella storia del popolo d'Israele.
  In italiano sarebbe meglio indicarli come "le dieci parole", sia perché sarebbe una traduzione più letterale, sia perché hanno una particolarità rispetto agli altri precetti: gli israeliti nel deserto avevano udito con le loro orecchie il suono tremendo di quelle dieci parole che piombavano su di loro come macigni tra tuoni e fulmini dall'alto del monte Sinai. E ne rimasero atterriti. Allora lasciarono a Mosè l'onore di essere soltanto lui a continuare ad ascoltare quella voce, chiedendogli di informarli di quello che il Signore avrebbe detto, perché - dicevano - loro avrebbero sicuramente ubbidito.
  Adesso Mosè, in prossimità del Giordano, ripete quelle dieci parole ed esorta in modo appassionato il popolo ad osservare tutti i precetti che il Signore aveva dato: «Ecco, io vi ho insegnato leggi e prescrizioni, come l'Eterno, il mio Dio, mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nel paese nel quale vi accingete a entrare per prenderne possesso» (Deuteronomio 4:5).
  E' importante il collegamento tra legge e paese di cui andavano a prendere possesso, perché più volte questo accostamento è ripetuto nella Bibbia (Deuteronomio 4:5, 4:14, 5:31, 6:1, 12:1, 30:16).
  Che cos'è dunque questa legge di provenienza divina: è un manuale di salvezza per insegnare agli uomini come si va in cielo, come sostiene qualcuno in ambito cristiano? è un manuale di etica per insegnare agli uomini come si vive sulla terra, come sostiene qualcuno in ambito ebraico? Sono domande stilizzate, ovviamente, e altrettanto stilizzata è una terza proposta che qui si presenta:
            la legge mosaica è la  legislazione civile  di  una  nazione santa,  per
            un popolo santo, su una terra santa, sotto il governo di un Dio santo.

  I quattro elementi qui nominati, Dio, nazione, popolo, terra devono rimanere uniti; parlare di legge mosaica separandola da tutto il resto significa deformarla, e in qualche caso violentarla.
  Volendo dire le cose in un altro modo, necessariamente schematico, ma proprio per questo più incisivo e quindi adatto ad essere preso eventualmente di mira da chi volesse farlo, si potrebbe dire che la legge mosaica non riguarda la soteriologia, cioè la dottrina della salvezza, né l'etica, ma la storia. Naturalmente è storia sacra, non mito, come sostengono i sapienti di questo mondo, ma storia reale di una nazione particolare in cui Dio interviene in prima persona: è storia di Israele, una nazione "messa a parte" da Dio.
  Quando si studia la storia di una nazione, uno degli oggetti di interesse è proprio l'insieme delle norme che ne regolano la vita e costituiscono quello che è considerato il "patto sociale" che sta a fondamento dello stare insieme della società.
  Ed è proprio nella particolarità di questa legislazione, cioè di questo straordinario patto sociale, che gli altri popoli avrebbero dovuto riconoscere il posto unico che Dio ha assegnato a questa nazione. Osserviamo infatti come continua il discorso di Mosè dopo aver raccomandato al popolo di osservare attentamente i precetti del Signore:
  «Li osserverete dunque e li metterete in pratica; poiché questa sarà la vostra sapienza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutti questi statuti, diranno: "Questa grande nazione è un popolo saggio e intelligente!". Quale grande nazione ha infatti Dio così vicino a sé, come l'Eterno, il nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha statuti e decreti giusti come tutta questa legge che oggi vi metto davanti?"» (Deuteronomio 4:7).
  I popoli dunque non avrebbero detto: "Ma come sono intelligenti questi ebrei!", ma: "Questa grande nazione è un popolo saggio e intelligente!" E l'intelligenza di una nazione si vede dalla sua legislazione, dal modo di governare delle sue autorità e dalla diligenza con cui i cittadini rispettano le leggi.
  Ma com'è possibile che i popoli ammirino questa legislazione se non c'è una nazione in cui essa si esercita a beneficio di un popolo che vive su quella terra e costituisce quella nazione?
  Anche la famosa frase trasformata in preghiera "Ascolta, Israele: l'Eterno, il nostro Dio, è l'unico Eterno" (Deuteronomio 6:4) è formulata al singolare, ed è una parola d'amore che Dio rivolge al suo popolo chiedendogli, anzi ordinandogli di amarlo: "Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze. E questi comandamenti che oggi ti do ti staranno nel cuore" (Deuteronomio 6:5-6).
  Ma si può esprimere e chiedere amore dando ordini? Sì, ma non tra pari. Quando la relazione è tra due che si trovano a livelli diversi, come padre e figlio, il primo è chiamato ad un amore attivo, il secondo ad un amore reattivo. L'amore attivo, che viene prima, dona e ordina; l'amore reattivo, che viene dopo, ringrazia e ubbidisce. Tutta la storia del rapporto d'amore tra Dio e "suo figlio" Israele si svolge secondo questo paradigma. E anche il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli segue questo schema: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti... Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Giovanni 14:15,21).
  Uno degli elementi che sono a fondamento della relazione d'amore tra Dio e il suo popolo, in un certo periodo della storia, è stata la legislazione mosaica espressa al Sinai, ma questa, essendo sottoposta ai mutamenti della storia, non ha i caratteri dell'universalità, né per il tempo, né per l'estensione fra gli uomini. Ha la forma di un patto sociale, ma non è né il primo né l'ultimo patto tra Dio e il suo popolo, perché si trova fra il patto con Abramo (Genesi 15:18, 17:1-14) e il nuovo patto (Geremia 31:31-37).
  Questi due patti, a differenza di quello mosaico, non sono stati violati dagli uomini perché dipendono esclusivamente da una decisione unilaterale e sovrana di Dio. Ed è in forza di loro che è garantita sia la sopravvivenza di Israele nella storia, sia la finale redenzione del mondo, aperta a tutti coloro che porranno la loro piena fiducia nel Messia d'Israele. M.C.

  (Notizie su Israele, 18 agosto 2016)


L'asse Pechino-Mosca-Teheran contro l'Occidente?

di Giuseppe Vatinno

Nel complesso quadro dello scacchiere medio - orientale si sta determinando una situazione nuova: la creazione di un asse militare tra Pechino, Mosca e Teheran a difesa di Damasco e con la posizione di Ankara ancora tutta da valutare.
Iniziamo da due elementi nuovi e sicuramente inquietanti per gli Usa e i suoi alleati: l'Iran ha concesso l'utilizzo della sua base militare di Hamedan (ad occidente, vicino al confine con l'Iraq) ai caccia- bombardieri russi che ora dovranno percorrere solo 700 Km invece dei soliti 2.000 dalla base russa di Mozdok - situata nell'Ossezia settentrionale - per bombardare le postazioni dell'Isis (ma anche dei ribelli anti - Assad) in Siria ed aiutare cosí l'esercito di Damasco a riconquistare città come Aleppo.
Contemporaneamentela la Cina si è detta disposta anche ad un impegno militare a supporto della Siria.
Questi due fatti segnano dal punto di vista geopolitico la discesa in campo ufficialmente di due giganti come la Cina e la Russia nel teatro di guerra.
In tutto questo la Turchia di Erdogan si è giocoforza dovuta riavvicinare al "nemico" Putin dopo i recenti contrasti; tuttavia la Turchia è un membro della Nato ora in aperto contrasto con gli Usa e l'Ue su cui pende la minaccia della massa di migranti che il dittatore turco potrebbe scaricare sul Vecchio Continente.
In questa situazione complessa la Russia si sta muovendo con destrezza: non ha fatto polemiche con gli Usa e l'Ue nonostante le sanzioni imposte ed ha anzi offerto cooperazione agli americani per le missioni aeree in Siria.
Alla Russia interessa preservare la sua base navale nel mediterraneo, in Siria; ma cosa ha avuto in cambio lo sciita Iran? Si pensa che in cambio abbia avuto armi.
Più difficile da interpretare invece la mossa di Pechino se non in funzione puramente anti-Usa il che la dice lunga sui rapporti tra i due Paesi, entrambi potenze atomiche.
Qualsiasi piccolo incidente locale farebbe in questo contesto da detonatore per una guerra che potrebbe facilmente divenire globale. Damasco come Danzica? Il rischio esiste con in più la presenza di una ulteriore incognita: le elezioni del Presidente Usa a novembre.

(Affaritaliani.it, 18 agosto 2016)


A Tel Aviv un cane ogni 17 abitanti. Il 26 agosto sarà una giornata dedicata a loro

In città sono 25 mila, un primato mondiale

Tel Aviv, la città più dog friendly del mondo

Un cane ogni 17 abitanti, 25 mila in tutto: un primato mondiale che fa di Tel Aviv la città più amica del tradizionale amico dell'uomo. Tanto che il comune ha deciso, per la prima volta in Israele, di dedicare il prossimo 26 agosto un giorno speciale incentrato sul mondo canino. Durante tutta la giornata - ha promesso il municipio - saranno molte le iniziative in programma per "i cittadini a quattro zampe" nel parco 'Bnei Dan Dog Park': a cominciare - nella città simbolo dell'innovazione tecnologica - dalle immancabili startup di supporto per i cani e i loro padroni. Per passare ai prodotti pensati per il "loro compleanno", al sushi e alle Spa. I cani sono una presenza ineludibile a Tel Aviv: basti pensare ai 70 parchi pubblici a loro destinati (1.3 per ogni chilometro quadrato) o alle speciali spiagge dove possono correre liberamente o agli innumerevoli negozi di specie. Il comune annunciando l'iniziativa ha sottolineato di considerare "il benessere dei cani una priorità alta".

(ANSA, 17 agosto 2016)


Piccoli killer crescono nei campi estivi di Hamas

di Luca Rampazzo

Per il terzo anno consecutivo, Hamas accoglierà nella Striscia di Gaza circa centomila giovani nei campi scuola estivi. Le iscrizioni sono in aumento rispetto agli anni precedenti, solo a luglio le presenze hanno superato le 50.000 unità, scrive The Tower. Il programma sarà come al solito all'insegna di una crudele eccitazione - corano e moschetto, il fascista islamico perfetto - ma talvolta suscita delle perplessità tra i genitori.
   Abou Chanab, il padre di uno dei giovani campeggiatori, rivela al quotidiano arabo Al Monitor, "sono rimasto sorpreso che mio figlio, 14enne, fosse addestrato su come indossare delle armi". Del resto non si può certo dire che Hamas nasconda le sue intenzioni. Nel corso di una conferenza stampa, Khalil al-Haya, alto ufficiale dell'organizzazione terroristica, ha dichiarato che i campi estivi servono appunto per "addestrare una nuova generazione che porti il Corano e il fucile" a "liberare la Palestina" dal "nemico sionista".
   Anche Ahmed al-Mudallal, capo della Jihad islamica, ospita nei suoi campi la bellezza di diecimila giovani, insegnandogli come rapire soldati israeliani o usare una mitragliatrice. Dichiara di farlo "per addestrare una generazione che possa difendere le proprie famiglie se necessario". Qualcosa ci dice che in questa feroce idea di "difesa" rientrano anche i civili israeliani accoltellati per strada o fatti a brandelli negli autobus o in discoteca.
   Grazie al cielo, penserete, c'è la comunità internazionale, pronta a offrire un'istruzione alternativa a quella dell'odio islamista. Le Nazioni Unite sono rappresentate a Gaza dall'UNRWA, l'agenzia per i rifugiati palestinesi. Il problema è che anche quelle organizzazioni che in teoria dovrebbero operare a fin di bene vengono infiltrate da Hamas, un'accusa che trova riscontro dopo l'arresto di due volontari collusi con il terrorismo.
   E allora? In un discorso breve ma assolutamente incisivo, il premier Netanyahu si è chiesto chi aiuta di più i palestinesi: Hamas, che oltre ad addestrarli al martirio ruba i soldi delle agenzie umanitarie per costruire tunnel con cui penetrare in Israele, rifornirsi di armi e lanciare razzi, oppure lo Stato ebraico, che si prende cura dei malati palestinesi e soccorre perfino gli attentatori islamisti feriti durante la Intifada dei coltelli quando rischiano la vita?
   Ascoltiamo Netanyahu: l'amarezza che traspare dalle sue parole è grande. Ricorda quella di Golda Meir, quando il primo ministro israeliano ebbe a dire "O arabi, noi vi potremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto ad uccidere i vostri".
   Citazioni a parte, chiediamoci dove finiscono i soldi delle donazioni per il popolo palestinese che vengono raccolte in mezza Europa da una miriade di gruppi e associazioni umanitarie (speriamo in buona fede). Chiediamoci chi paga i campi di addestramento e di reclutamento di Hamas. La risposta purtroppo è una sola, li paghiamo anche noi.
   Piccoli killer crescono, pronti a esplodere in qualche caffè di Gerusalemme o ad ingrossare le fila dello Stato Islamico.

(l'Occidentale, 17 agosto 2016)


Slovacchia-Israele: intensificare la cooperazione in ambito culturale e scientifico

BRATISLAVA - Il Consiglio dei ministri slovacco nella seduta odierna ha convenuto sulla necessità di proseguire per i prossimi tre anni gli accordi di cooperazione in essere con Israele nei settori dell'istruzione, della scienza, della cultura, della gioventù e dello sport.
"La cooperazione attuale sarà ampliata per l'area della formazione sulla parità di genere; l'istruzione e la formazione professionale; l'istruzione tecnica e la cooperazione nei settori delle tecnologie e dell'industria innovativa", riferisce una nota del ministero degli Esteri slovacco.
Nel campo della scienza, la cooperazione riguarderà principalmente gli scambi di scienziati e ricercatori e la cooperazione diretta tra le università.
La cooperazione nello sport sarà caratterizzata, invece, da programmi di scambio che coinvolgeranno giovani e società sportive.
Per quanto riguarda la cultura, Israele e Slovacchia dovrebbero unire le forze nella tutela del patrimonio culturale, la letteratura, opere audiovisive e diritti di proprietà intellettuale, gli scambi di informazioni sui prossimi eventi culturali, il supporto per le mostre e la cooperazione tra artisti, musei e gallerie.
La cooperazione dovrebbe anche comprendere il teatro, la danza, il cinema e il folklore tradizionale.

(Agenzia Nova, 17 agosto 2016)


50-60mila palestinesi ogni giorno illegalmente in Israele

Tra i 50 e i 60 mila palestinesi entrano ogni giorno illegalmente in Israele dalla Giudea-Samaria attraverso falle della barriera di sicurezza che separa i due territori. Lo ha detto il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, Gadi Eisenkot, parlando ad una Commissione di Controllo della Knesset (Parlamento). "Stiamo facendo grandi sforzi per chiudere le falle - ha osservato Eisenkot, citato dai media - ma ci sono ancora circa 100 chilometri senza barriera di sicurezza". In particolare - è stato spiegato - le zone dove sono maggiori le falle nella barriera sono quelle tra le colline di Hebron e il Mar Morto.
Ogni anno - ha sottolineato Eisenkot - sono arrestati circa 4.300 palestinesi entrati illegalmente in Israele, ma solo 1500 sono messi sotto accusa". Dall'altro lato, secondo il capo di stato maggiore sono circa 100.000 i lavoratori palestinesi che ogni giorno entrano in Israele in modo legale e che "non costituiscono una minaccia violenta".

(ANSAmed, 17 agosto 2016)


La società cipriota Energean acquisisce diritti di sfruttamento su due giacimenti offshore

 
NICOSIA - La società energetica israeliana Delek ha trovato un accordo con la compagnia cipriota Energean Oil and Gas per la cessione dei diritti di sfruttamento su due giacimenti nelle acque territoriali di Israele, Karish e Tanin. E' quanto riferisce oggi la stampa di Nicosia secondo cui l'accordo è stato trovato per una cifra di 148,5 milioni di dollari ed è stato richiesto alla società Delek, che controlla diversi giacimenti nel Mediterraneo orientale, in quanto il governo israeliano punta ad aprire il settore alla concorrenza internazionale. Energean acquisirà il 47 per cento dei giacimenti Tanin e Karhis dalla società statunitense Noble Energy e la parte restante dalle sussidiarie della società israeliana Delek, Avner oil exploration e Delek drilling. Nei giorni scorsi, il Consiglio del petrolio israeliano ha approvato la concessione di nuove aree di esplorazione nella Zona economica speciale del paese. La decisione del Consiglio, che fa capo al ministero delle Infrastrutture nazionali, dell'energia e delle risorse idriche, arriva dopo quattro anni in cui le acque antistanti ad Israele erano state interdette a nuove esplorazioni.

(Agenzia Nova, 17 agosto 2016)


L'antisemitismo, malattia del mondo arabo, provoca danni non solo sul campo di gioco

Un problema di mentalità che nel vicino oriente ha generato distruzione di capitale umano, guerre costose e ossessioni ideologiche. Un editoriale di Bret Stephens.

di Andrea Bonicatti

Venerdì, alle Olimpiadi di Rio, il judoka israeliano Or Sasson ha sconfitto l'egiziano Islam El Shehaby, il quale, dopo l'incontro, ha ignorato la mano tesa del suo avversario, guadagnandosi i fischi del pubblico. Si è venuto a sapere che El Shehaby aveva ricevuto pressioni da gruppi anti-israeliani perchè si ritirasse prima dell'incontro. Dopo molte polemiche con il Cio, la federazione egiziana di judo ha deciso di rispedire in patria il proprio atleta. In un editoriale apparso sul Wall Street Journal, Bret Stephens ha spiegato che questo gesto simboleggia l'odio cieco per gli ebrei e per Israele che pervade il mondo arabo, il quale si trova in declino anche a causa di questo atteggiamento. Stephens osserva come tale aspetto della realtà mediorientale sia spesso taciuto in analisi accademiche e articoli giornalistici. Rimane il fatto che, continua Stephens, negli ultimi 70 anni il mondo arabo, "si è liberato della sua popolazione ebraica, circa 900.000 persone, senza smettere di odiarla. Con il passare del tempo questo si è rivelato disastroso: una combinazione di capitale umano perso, guerre esageratamente costose, ossessioni ideologiche mal indirizzate e un panorama intellettuale funestato da teorie del complotto e dalla ricerca costante di un capro espiatorio. I problemi del mondo arabo sono i problemi della mentalità araba, e il nome di quei problemi è l'antisemitismo.
   La relazione tra stagnazione sociale e politica e antisemitismo non è una novità recente. Nel 2005 lo storico Paul Johnson, in una ricerca per Commentary, ne dava ampi esempi. La Spagna espulse gli ebrei nel 1492, "privando la madrepatria e le colonie di una classe sociale già nota per le sue capacità finanziarie". Nella Russia zarista le leggi antisemitiche causarono migrazioni di massa degli ebrei e "un enorme incremento della corruzione nella Pubblica amministrazione". La Germania nazista avrebbe potuto vincere la corsa allo sviluppo di armi atomiche, "se Hitler non avesse mandato in esilio negli Stati Uniti Albert Einstein, Leo Szilard, Enrico Fermi e Edward Teller". Questi fenomeni si sono ripetuti nel mondo arabo e, contrariamente all'immaginario popolare, precedettero la creazione dello stato di Israele. "Nel 1929 vi furono sanguinosi pogrom in Palestina, replicati in Iraq nel 1941 e in Libano nel 1945. Non è accurato accusare Gerusalemme di aizzare l'antisemitismo rifiutando di cedere territori in cambio di pace.
   Tra gli egiziani l'odio per Israele si affievolì appena dopo che Menechem Begin restituì il Sinai ad Anwar Sadat. Tra i palestinesi l'antisemitismo aumentò notevolmente durante gli anni del processo di pace di Oslo". Johnson aveva definito l'antisemitismo come una malattia "altamente infettiva, endemica in certe località e società, che non rimane confinata tra le persone più deboli o meno istruite". L'antisemitismo potrà anche essere irrazionale, ma la sua efficacia sta nel trasformare l'irrazionalità personale e istintiva, offrendole uno sbocco sistematico e politico, concludeva Johnson: "Per chi odia gli ebrei ogni crimine ha il medesimo colpevole e ciascun problema ha la stessa soluzione". Stephens nota come sia facile cedere all'antisemitismo, semplificando la propria visione del mondo, ma condannandosi a un permanente oscurantismo.
   A riprova di ciò, il commentatore elenca semplici fatti: "Non esiste alcuna grande università nel mondo arabo, non vi è una seria comunità scientifica locale e la produzione letteraria è minima. Nel 2015 l'ufficio brevetti degli Stati Uniti ha registrato 3.804 brevetti da Israele, e solo 364 dall'Arabia Saudita, 56 dagli Emirati Arabi Uniti e 30 dall'Egitto". Nonostante Israele convogli acqua in Giordania per aiutare lo stato arabo e offra intelligence all'Egitto per combattere l'Isis nel Sinai, osserva Stephens, la popolazione araba non se ne rende conto, e l'unica immagine che ha di Israele è di "soldati israeliani in tenuta antisommossa che malmenano un palestinese". La dolorosa realtà, nota Stephens, è che "le nazioni di successo provano a emulare i propri i propri vicini. Nel mondo arabo, invece, generazione dopo generazione, si è insegnato a odiare i propri vicini".
   Vi è comunque qualche speranza di cambiamento. Negli ultimi cinque anni il mondo arabo è stato costretto a confrontarsi con i propri fallimenti senza poter addossare alcuna colpa a Israele. Questo però non basta conclude Stephens: "Finché un atleta arabo non può rispondere alla cortesia di una stretta di mano da parte di un suo omologo israeliano, la malattia della mentalità araba e la sfortuna del suo mondo continueranno. Per Israele è un peccato. Per gli arabi è una calamità. Chi odia soffrirà sempre più di chi è odiato".

(Il Foglio, 17 agosto 2016)


La segretaria di Goebbels: "Non sapevo dello sterminio"

di Silvia Morosi e Paolo Rastelli

"Non abbiamo mai saputo nulla dello sterminio degli ebrei, è stato tenuto nascosto e ha funzionato". A parlare al Guardian (come ad altre testate internazionali) è Brunhilde Pomsel, 105 anni, ex segretaria del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels, l'ideologo che fu tra i principali artefici del fascino esercitato sulle masse dal Terzo Reich, che portò l'accettazione dei campi di sterminio e all'odio razziale. Oggi i suoi ricordi confluiscono nel documentario German Life «Una vita tedesca» (Ein deutsches Leben) che per la prima volta racconta al mondo uno dei lati nascosti del nazionalsocialismo e che sbarcherà in autunno negli Stati Uniti (la pellicola di Christian Krönes, Olaf S. Müller, Roland Schrotthofer e Florian Weigensamer è stata presentata in anteprima al Filmfest di Monaco appena concluso). Solo con la fine della Guerra, con la caduta del nazismo, le atrocità compiute dal Terzo Reich sono venute alla luce. Dal 1942, la giovane passava le giornate fuori dall'ufficio di Goebbels, con altri cinque segretari.
    "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità" (Goebbels citato da Leon Degrelle in Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz).
"Ogni tanto passavano i suoi figli a trovarlo, emozionati". Nel poco tempo che le è rimasto, "spero mesi e non anni", si aggrappa alla speranza che il mondo decida di "non girare la testa di nuovo, come allora" (vi abbiamo anticipato la notizia nella rassegna stampa della Digital Edition). Ora che resta una delle poche sopravvissute dell'entourage del gerarca, sottolinea di non volersi lavare la coscienza con la sua confessione. Nata a Berlino nel 1911, da ragazza aveva lavorato come stenografa per un avvocato ebreo e come dattilografa per un nazionalista di destra. Nel 1933 un amico del Partito nazionalsocialista tedesco le procura un impiego alla radio e nel 1942 viene trasferita al ministero della Cultura e Propaganda alle dipendenze di Goebbels. Iscrivendosi al partito nazista soltanto per ottenere il prestigioso posto al ministero. "Perché non avrei dovuto farlo? Tutti lo facevano. Tutto il Paese era come sotto una sorta di incantesimo", insiste.
"Sono stata lusingata di lavorare lì, perché era un premio per essere stata una dattilografa molto veloce. Nuotavo nel denaro, anche se non esisteva nulla da comprare", dice ricordando la sua busta paga. Rispettò sempre gli ordini, sapendo che il gerarca si fidava di lei e rispettando quel senso di obbedienza imparato in famiglia. "Ignara delle pene inflitte agli ebrei", descrive il suo «capo» come un uomo "bello e curato". Nel documentario Brunhilde descrive Goebbels come un "nano delirante", un "maiale" che il primo maggio 1945 si tolse la vita con la moglie Magda nel bunker di Berlino subito dopo aver avvelenato i suoi sei figli. Eppure quell'uomo "narcisista, freddo e rigido come il bastone da passeggio che portava", era anche l'unico "vero intellettuale in quella massa di disadattati che componevano la cerchia intima di Hitler".
    "Possiamo fare a meno del burro ma, nonostante tutto il nostro amore per la pace, non possiamo fare a meno di armi. Non si può sparare con il burro" (dal Discorso di Berlino del 17 gennaio 1936).
L'ex stenografa si dà la colpa, comunque, di essere stata vittima del sistema, di essersi "disinteressata alla politica in un momento come quello". L'ascesa del nazionalsocialismo è stato un momento davvero terribile, "molte persone in Germania non vedevano l'ora che Hitler salisse al potere". Quando il Ministero della Propaganda l'ha reclutata per lavorare per Goebbels, lei non ha potuto dire di no. "Era un ordine. Ovvio ero felice del lavoro, mi è piaciuto molto lavorare con gli altri, le donne erano piacevoli e accuratamente selezionati". E proprio il suo lavoro l'ha portata al centro di eventi storici catastrofici. Brunhilde Pomsel ha vissuto le conseguenze del tentativo di assassinio subito da Hitler nel 1944 ed è stata costretta, insieme agli altri segretari, nel 1945 a scappare dalla giustizia sommaria dell'Armata Rossa che stava conquistando Berlino. Pur avendo battuto a macchina, nel 1943, il famoso discorso di Goebbels sulla "guerra totale", la Pomsel non avrebbe avuto la minima idea di che cosa si trattasse. "Semplicemente, non stavo a sentire. Perché non m'interessava. È stato stupido, da parte mia. Lo so", ammette.
"Sapevamo che esisteva Buchenwald. Sapevamo che c'era un campo. E che gli ebrei venivano portati lì. Credo alla gente che dice che potevamo fare qualcosa per gli ebrei. Però nessuno ha fatto niente", considera. Il giorno dopo il compleanno di Adolf Hitler nel 1945, la sua vita subì un brusco arresto. A Goebbels e ai suoi venne ordinato di unirsi al Führer nel suo rifugio sotterraneo. In seguito, trovò vicino alla sua macchina da scrivere i nomi degli ebrei morti.
    "Quale sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno stato ebraico in qualche paese del mondo? Lo si saprà a suo tempo. Ma è interessante notare che i paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli ebrei, rifiutano costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono i geni della filosofia e della creazione artistica ma quando si chiede loro di accettare questi geni, chiudono le frontiere e dicono che non sanno che farsene. È un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa propria dei geni" (Da un discorso di Goebbels del marzo 1943, citato da Andrea Tornielli in Pio XII, a pagina 317).
Arrestata dai russi, è rimasta in prigione fino al 1950. Con gli incubi che non sembrano lasciarla in pace nemmeno oggi. Pur avendo rilasciato negli anni qualche intervista, dopo il suo ritorno in Germania, la Pomsel non si era dimostrata entusiasta all'idea di raccontare la sua vita davanti alla cinepresa. "Avevo paura. I registi mi dissero che stavano preparando qualcosa che doveva restare per sempre, perché certe cose bisogna registrarle, mantenerne il ricordo. Molta gente aveva parlato di me dal proprio punto di vista. Adesso toccava a me e accettai", spiega.
    "Si potrebbe definire l'ebreo come un'incarnazione deviata del complesso d'inferiorità. Non lo si può colpire più profondamente che descrivendolo con la sua effettiva essenza. Chiamalo mascalzone, farabutto, mentitore, criminale, assassino e omicida. Tutto ciò lo toccherà appena, internamente. Guardalo calmo e severo per un breve tempo e digli: «tu sei proprio un giudeo!» e tu ti accorgerai con stupore come nello stesso istante egli diverrà insicuro, imbarazzato e consapevole della propria colpa" (Kampf um Berlin citato da Victor Klemperer).
(Poche storie, 17 agosto 2016)


"Il Monte del Tempio non sarà governato dalle regole in vigore alla Mecca"

Israele respinge i tentativi in corso di vietare agli ebrei l'accesso allo storico sito di Gerusalemme

Israele non permetterà che sul Monte del Tempio di Gerusalemme vengano applicate le regole della Mecca e Medina. Lo ha detto lunedì il parlamentare israeliano Avi Dichter, presidente della Commissione esteri e difesa della Knesset, riferendosi alle città sante in Arabia Saudita nelle quali l'ingresso è vietato ai non musulmani. "L'idea - ha spiegato Dichter a Israel Radio - che venga fatto anche sul Monte del Tempio ciò che è stato fatto in Arabia Saudita, dove le due città sante dell'islam La Mecca e Medina sono luoghi in cui solo i musulmani hanno diritto di entrare, è un'idea totalmente sbagliata, e noi non permetteremo che si avveri. Continueremo a rispettare la santità della moschea di al-Aqsa Mosque - ha concluso Dichter - ed anche a difendere i nostri diritti sul Monte del Tempio"....

(israele.net, 17 agosto 2016)


«Ma il rispetto del Cremlino verso Israele non verra meno»

di Davide Frattini

 
Meir Javedanfar

GERUSALEMME - «La sua vecchia insegnante di tedesco vive a Tel Aviv, Vladimir Putin le ha comprato un appartamento per riconoscenza. E' una figura importante della sua storia personale come per la Storia dell'Unione Sovietica sono importanti gli 1,2 milioni di cittadini immigrati in Israele».
Meir Javedanfar è sicuro che il nuovo patto tra la Russia e l'Iran non modifichi «il rispetto» che il leader del Cremlino riserva allo Stato ebraico: «Rispetto e sospetto anche, per quegli oligarchi suoi oppositori che hanno trovato riparo a Tel Aviv e Gerusalemme. Per ora prevale la stima per un Paese che reagisce sempre quando la sua sicurezza è in pericolo». I jet israeliani hanno continuato a colpire in Siria, non ci sono stati incidenti, neppure sfiorati, con i sistemi di contraerea dislocati da Mosca.
   Javedanfar analizza ( e spiega agli studenti del Centro interdisciplinare a Herzliya) gli sviluppi contemporanei della nazione dov'è nato: ha lasciato l'Iran nel 1g87, otto anni dopo la rivoluzione islamica.
E' convinto che concedere le basi ai bombardieri russi sia un modo per Teheran di riguadagnare centralità nella campagna militare siriana: «L'intesa arriva pochi giorni dopo l'incontro tra Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, e Putin. Il regime vuole mandare un segnale alla Turchia e agli altri Paesi sunniti: siamo indispensabili, Mosca ha bisogno più di noi che di voi».
   Israele - spiega - non deve troppo allarmarsi perché «Putin offre all'Iran armamenti superati: batterie missilistiche S-300 invece delle S- 400, jet senza le strumentazioni più sofisticate». Nello scambio sono gli ayatollah a rischiare di più: «Lo Scià era accusato di essere ostaggio degli occidentali, di obbedire agli americani. Di fatto è la prima volta che l'Iran concede le sue basi a una potenza straniera. Può guadagnarci nel breve termine perché non ha intenzione di perdere la Siria: che i ribelli siano riusciti a rompere l'assedio dei quartieri sotto il loro controllo ad Aleppo ha preoccupato e sorpreso i generali russi e iraniani. Così si ritorna ai raid massicci dell'aviazione. Vogliono accelerare finché alla Casa Bianca c'è Barack Obama: sanno che non farà niente per fermarli. Hillary Clinton potrebbe invece decidere l'intervento militare».
Ma le critiche e le proteste in Medio Oriente arriveranno presto: «Le piste di decollo elargite a uno Stato non musulmano per bombardare dei musulmani. L'immagine di nazione avanguardia dell'Islam verrà intaccata».

(Corriere della Sera, 17 agosto 2016)


Wheelchair - 5 marocchini rifiutano di giocare contro l'Israele: squalificati con la condizionale

Qualche anno fa un episodio simile accadde nel circuito ATP quando il tunisino Malek Jaziri non scese in campo contro l'israeliano Weintraub.

Luigi Gatto

L'ITF ha sospeso con la condizionale cinque tennisti della squadra marocchina di tennis su sedia a rotelle dopo che hanno deciso di non giocare contro l'Israele per i noti conflitti tra i due Paesi. Pablo Augusto, Arria Noguera, Lhaj Boukartacha, Ayoub Ettali e Said Hamim sono accusati di aver commesso una "grave infrazione" secondo il codie di condotta del regolamento ITF Wheelchair. Dovessero commettere un'altra infrazione, verrebbero squalificati fino al 27 luglio 2018.
L'ITF si impegna a far rispettare i propri obiettivi e le finalità "senza distinzioni di sesso, razza, nazionalità, origini, religione o orientamento sessuale."
Qualche anno fa nel circuito ATP il tunisino Malek Jaziri non scese in campo contro l'israeliano Weintraub, in quel caso la Tunisia fu squalificata per un anno dalla Coppa Davis.

(Tennis World, 17 agosto 2016)


Perché il modello di Israele sulla sicurezza è già arrivato a Rio ma non ancora in Europa

Non basta dire che bisogna investire nella cyber security. La storia che c'è dietro alla commessa da 2,2 miliardi assegnata a un consorzio israeliano per i giochi.

di Jonathan Pacifici

Mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sugli schermi televisivi che trasmettono da Rio le prodezze degli atleti e il medagliere si riempie dei loro successi c'è un paese che con appena due bronzi all'attivo, le Olimpiadi le ha già vinte. E' Israele. Fin da quando la Grecia classica esaltava l'estetica della competizione sportiva, per Israele l'unica palestra era quella dei cervelli. L'accademia, lo studio, la morale. E così più di duemila anni dopo, mentre i muscoli competono nello spirito del fuoco sacro del Monte Olimpo da Gerusalemme e Sion, i migliori cervelli vegliano sulla sicurezza dei giochi. Non sono infatti gli atleti israeliani che passeranno alla storia delle Olimpiadi di Rio quanto le oltre trenta società del consorzio capitanato dalla Isds (International Security Defense Systems, società israeliana) che si sono aggiudicate i 2,2 miliardi (!) del budget della sicurezza dei giochi. Si tratta di alcune tra le migliori realtà nel campo della tecnologia applicata alla sicurezza, da colossi come la Elbit Systems Ltd a più giovani promettenti realtà come Argus e Kela.
  Anche in Europa, dinanzi alle rinnovate minacce del terrorismo, si parla molto della necessità di investire nella sicurezza in generale e nella Cyber Security in particolare e si guarda a Israele come modello. Spesso però non si capisce come la sicurezza non sia una scatola di cereali che si compra al supermarket, quanto il risultato di un ecosistema, di un tessuto complesso nel quale la parola chiave non è comprare, ma integrare.
  Per capire cosa c'è dietro questo tessuto può essere utile raccontare la storia di questa società. E' una storia personale. La storia comincia quando, un po' più di un anno fa, compare sull'iPhone di chi scrive un nome: "David Grau". Ho conosciuto David da ceo di una startup che aveva sviluppato un sistema di interpretazione del linguaggio umano. Permetteva cioè di scrivere liberamente un testo e di ottenere risposte dal sistema. "A che ora parte il prossimo autobus per Tel Aviv ?". Ed il sistema interrogava il database. Nel momento in cui ricevo la telefonata David è un dirigente di Athena, una delle più note società israeliane di consulenza nel campo della sicurezza. Fondata da veterani dei servizi segreti e presieduta da Shabtai Shavit, già capo del celebre Mossad, Athena fornisce consulenza a società private e governi di mezzo mondo. David si occupa dello sviluppo internazionale, e poche settimane prima abbiamo parlato di alcune opportunità in Italia. "La fusione si fa…", mi annuncia David. La fusione in questione è con il gruppo MER, uno dei colossi delle telecomunicazioni e della sicurezza. "… il board ha deciso di dismettere la divisione software". E' la divisione che sviluppa software nel campo dell'intelligence della quale abbiamo parlato poche settimane fa. "Peccato", dico io. "Non hai capito" ribatte lui. "E' per questo che ti chiamo. Il capo della divisione 'spinoffa' il progetto. Devi assolutamente parlarci". "Lo può fare?", chiedo. "La proprietà intellettuale è la sua, però cerca finanziatori, gli dedichi un'oretta?" Concordiamo che il mio assistente organizzerà una presentazione a stretto giro. Tra le centinaia di proposte che riceviamo la stragrande maggioranza è "a freddo". Ragazzi sconosciuti che mandano il materiale sul loro progetto tramite il nostro sito. Però ci sono anche le "referenze". I primi devono sudarsi un appuntamento e verranno invitati solo se le carte preliminari ci intrigheranno. I secondi ricevono lo "sconto" sulla prima selezione. Avranno l'ambito appuntamento perché presentati dalle persone giuste. David è persona di fiducia e l'appuntamento viene fissato. Ma lì finisce il trattamento di favore. Da qui in poi o il progetto ha le gambe o viene cestinato.
  Alcuni ritengono i Venture Capitalist un branco di gente superba. Non è così. E' umanamente impossibile dare l'attenzione a migliaia di progetti ed ogni VC ha un proprio sistema di selezione che inevitabilmente fa dei torti. Bessemer, uno dei fondi più importanti al mondo ha recentemente messo online il suo "anti-portfolio". Ovvero le società che si erano proposte e che non sono piaciute. Ci sono nomi come Apple, Google, Tesla, Checkpoint, Facebook, Intel e Paypal. E' un grande atto di trasparenza che porta con se un messaggio profondo. Non abbiamo sempre ragione. Ma non c'è altro modo che fare una selezione.
  Squilla il telefono: "Jonathan? Ciao sono Gabi ho avuto il tuo numero da David Grau… ti devo parlare". C'è stato un disguido con l'appuntamento, penso io. "Abbiamo un appuntamento fissato per la prossima settimana", lo tranquillizzo io. "Sì lo so, ma io ti devo parlare prima dell'appuntamento". Non è molto ortodosso come sistema ma qualcosa mi incuriosisce. "Ti ascolto". "Ho un problema. Negli incontri non vengo preso sul serio". "E perché mai?". "Ho ventotto anni". Pausa. "Vorrei raccontarti la mia storia. Ho prestato servizio militare nell'Intelligence di campo sulle alture del Golan. Monitoravamo l'esercito siriano. Dopo alcune settimane che ero lì sono giunto alla conclusione che stavamo lavorando 'con i piedi'. Così la notte invece di dormire mi sono messo a scrivere un codice. Sono tornato dal mio comandante con il file e gli ho detto: "provate questo". Gabi mi racconta di come il suo software abbia "scoperto" cose che fino ad allora non erano state capite. Dopo pochi giorni la sala di controllo della sua base viene visitata da ufficiali di grado sempre più alto, fino ai massimi vertici. E' uno dei tanti esempi di come in Israele anche il più gerarchico dei sistemi sia strutturalmente aperto all'innovazione lasciando che un giovane di leva spieghi qualcosa ai generali. Quando Gabi si congeda, Athena gli propone di sviluppare l'idea e trasformarla in un prodotto commerciale.
  Gabi è oggi il Ceo di 53N53 - che si legge Sense - una start up molto promettente: applica i suoi algoritmi agli input che vengono dai più disparati sistemi di allerta (telecamere, sensori, ed ogni altro dato utile) e li trasforma in una mappa utile a un intervento in tempo reale. Il sistema apprende le criticità e le "regole", modifica il peso specifico di eventi particolari e propone le soluzioni più adatte. Ciò consente di trasformare ogni "control room" rendendola in grado di gestire situazioni di emergenza in tempo reale siano esse legate al mondo fisico o alla CyberSecuriy. 53N53 chiaramente non ha gareggiato a Rio 2016, ma a Tokyo 2020 non mi aspetto niente di meno che un oro.

(Il Foglio, 17 agosto 2016)


Le api danno una speranza alle donne palestinesi

In Cisgiordania, vicino Ramallah, la produzione di miele è diventata una risorsa economica fondamentale per alcune donne. Un sostegno importante per i territori palestinesi, dove una persona su quattro è senza lavoro. Il progetto è supportato dal Comitato palestinese di sostegno all'agricoltura che aiuta 103 donne a gestire 64 piccole imprese agricole in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il video dell'Afp.

(Internazionale, 16 agosto 2016)


Rio 2016: arriva la stangata per lo judoka egiziano che non strinse la mano

Dopo numerose polemiche a Rio 2016 arriva la reazione del comitato olimpico egiziano per lo Judoka che non strinse la mano all'avversario israeliano.

Arriva all'epilogo la vicenda che ha fatto parlare il mondo intero, a seguito dell'episodio accaduto durate lo svolgimento delle Olimpiadi di Rio 2016, ora arriva una vera e propria stangata da parte della commissione disciplinare per Islam El Shehaby, lo Judoka egiziano che non strinse la mano al collega israeliano alla fine del match di #judo disputato per Rio 2016. Il gesto ha fatto in poco tempo il giro del mondo, e le immagini del gesto, che è lontano anni luce alla sportività di una disciplina come il Judo, ha macchiato le Olimpiadi di Rio 2016 di un episodio increscioso. Ora il comitato olimpico egiziano lo ha fatto tornare a casa.

 Il Judo è una disciplina
  Secondo quanto appreso dalle prime agenzie di stampa, sembrerebbe che alla base della decisione da parte del comitato olimpico egiziano nei confronti dello judoka egiziano Islam El Shehaby, ci sia la violazione delle basi principali dello Judo, ovvero il fatto che, in quanto disciplina giapponese, l'onore non è una tradizione ma un obbligo. Secondo quanto appreso da un portavoce al termine di un summit organizzato dei vertici dello sport egiziano, il comitato ha definito il comportamento dello Judoka a Rio 2016 contrario all'etica della disciplina espletata, definendo il suo comportamento estraneo a quelle che sono le regole del fair play ed allo spirito d'amicizia che caratterizza i giochi olimpici.

 Addio allo judoka egiziano
  Ora dovrà tornarsene in patria lo judoka egiziano che non strinse la mano al termine del match che lo vide sconfitto dal rivale israeliano Or Sasson. Al termine della gara infatti l'arbitro, dopo il gesto incriminato, obbligò lo judoka a tornare indietro e ad espletare l'inchino obbligatorio per la disciplina dello Judo. L'egiziano tornò indietro e dopo un breve inchino, obbligato dal vincolo dello Judo, subito andò via senza nemmeno voltarsi. Successivamente alla vicenda, lo judoka egiziano non rispose ai giornalisti presenti, e di lui è rimasto solo il ricordo di un brutto episodio a Rio 2016 che nulla a che fare con lo sport.

(Blasting News, 16 agosto 2016)


Il turismo dei mercati, Tel Aviv

 
Una tecnica collaudata per entrare al volo in sintonia con un posto nuovo dove si è appena arrivati è visitare un mercato alimentare. Luoghi sempre affollati, ricchi di atmosfera, che aiutano a comprendere le abitudini della gente del posto: cosa mangiano, a che ora, come stanno insieme agli altri. Sono, insomma, l'ideale per praticare quell'attività turistica per eccellenza, il people watching, e nel frattempo fare un spuntino. Tutti i mercati si somigliano un po', eppure sono diversi a ogni latitudine. I migliori tra loro non si limitano a vendere cibo genuino e locale, ma puntano alla qualità dell'offerta e in qualche caso strizzano l'occhio alle tendenze più recenti in fatto di cibo.
140 anni fa, una comunità di templari - una setta cristiana protestante della Germania meridionale - si trasferì in Terra Santa, in un insediamento che chiamarono Sarona. Oggi, le graziose casette in stile germanico della città modello dei Templari sono diventate un'attrazione turistica di Tel Aviv e la sede di un mercato alimentare con i migliori prodotti di Israele: frutta e verdura da Emek Hefer e Arava, agnello e vitello dalle alture del Golan, pesce fresco del Mediterraneo, vini locali. L'antico frantoio in uso ai Templari è stato restaurato, e la sua macina di pietra è tornata a produrre ottimo olio d'oliva. Tra gli stand più interessanti, l'hummus di Ali Karavan da Jaffa, l'halva la pasta dolce a base di sesamo di Halva Kingdom e lo stand di succhi freschi della chef Ruthie Rousso.

(Fonte: La Gazzetta dello Sport, 16 agosto 2016)


Psoriasi: da Israele un trattamento promettente

I ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biotecnologie dell'Università Ben Gurion, in collaborazione con la società farmaceutica Teva, hanno progettato un recettore naturale del sistema immunitario che potrebbe effettivamente diventare un farmaco promettente per il trattamento della psoriasi.
La psoriasi è una malattia autoimmune della pelle che colpisce tra l'1 e il 3 percento della popolazione mondiale.
Fino ad oggi non esiste alcun trattamento per la guarigione di questa condizione dermatologica non infettiva. I trattamenti proposti possono solo controllare la progressione della malattia, promuovendo la regressione transitoria delle lesioni cutanee.
La psoriasi è causata dalla trasmissione da parte del sistema immunitario di segnali errati che accelerano il ciclo di crescita cellulare della pelle.

 Una terapia innovativa per curare la psoriasi
  La psoriasi è trasmessa da citochine proinfiammatorie. In particolare ce ne è una che svolge un ruolo chiave nella progressione della psoriasi e di altre malattie autoimmuni, l'IL-17. L'obiettivo è quindi di inibire l'azione dell'IL-17 e rallentare la progressione della malattia.
La fase della ricerca è ancora ai primi passi, nessuna sperimentazione umana ha avuto ancora luogo ed il Prof. Amir Aharoni sottolinea che il team è alla ricerca di partner per usare un approccio simile per bersagliare altre malattie.
L'obiettivo finale è quello di sviluppare un farmaco unico contro la psoriasi che posa essere utilizzato come trattamento alternativo o complementare ad altri trattamenti in commercio.

(SiliconWadi, 16 agosto 2016)


Our god is a surfer

L'alternativa al conflitto Israelo-Palestinese viene dal mare. Perché nel mare ci sono solo fratelli e sorelle.

Our God is a Surfer è il nome del progetto del surfista e fotografo salentino Danilo "Dom" Calogiuri, un documentario sul conflitto tra Israele e Palestina per raccontare un'altra realtà, mostrare e dimostrare che una speranza e un'alternativa ad una vita piena di conflitti, c'è. E quest'alternativa viene dal mare!
Nell'immaginario comune, ormai influenzato solo dalle notizie che i media trasmettono quotidianamente, la situazione Israelo - Palestinese è in una fase di conflitto irreversibile. Entrambi i popoli rivendicano il diritto di occupare quelle terre con un proprio stato indipendente, il problema principale è che l'uno non accetta l'esistenza dell'altro.
Con questo documentario, Dom Calogiuri si propone di provare a raccontare anche un'altra realtà, mostrare e dimostrare che una speranza e un'alternativa ad una vita piena di conflitti, c'è. E quest'alternativa viene dal mare!

(Fonte: Surf Corner, 16 agosto 2016)



L'uovo ebraico e la gallina ebraica

E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché dalla risposta a questa domanda può dipendere l'ottenimento della cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
   Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
   Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
   La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui.


 


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.