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Notizie 1-15 agosto 2018
Israele riapre il confine di Kerem Shalom con la Striscia di Gaza
Israele ha deciso di riaprire oggi il confine di Kerem Shalom con la Striscia di Gaza. La mossa è destinata ad alleggerire le condizioni di vita dei palestinesi in quei territori, poiché da lì passano diversi beni necessari alla loro sopravvivenza. Inoltre, ha affermato un comunicato dell'esercito israeliano, "sarà estesa di nove miglia nautiche la zona di pesca definita per la Striscia di Gaza". Il confine era stato chiuso un mese fa, come reazione agli aquiloni incendiari che partivano dai territori palestinesi.
(AGI, 15 agosto 2018)
Sul Monte Scopus, le pietre del sapere
Cent'anni fa furono poste le prime pietre dell'Università Ebraica, un momento che segnerà la storia di Israele.
Dodici pietre a simboleggiare le dodici tribù d'Israele, La storia dell'Università Ebraica di Gerusalemme iniziò con un gesto fortemente simbolico: la posa delle prime pietre angolari, dodici appunto (poi diventate 14). Era il 24 luglio 1918 e nelle cronache di allora si parla di seimila persone raccoltesi attorno al cerimoniere, Chaim Weizmann - futuro primo Presidente d'Israele - per celebrare la prima università di Eretz Israel. "Il paesaggio della cerimonia era una delle cose più belle mai viste, indimenticabile. Il sole al tramonto inondava le montagne del Moab e le alture della Giudea. Mi sembrava come se le montagne avessero cambiato forma e fossero stupite. Come se avessero intuito che questo fosse l'inizio del ritorno dei loro figli", scriverà dopo la posa delle pietre Weizmann con parole dal suono profetico. In quel 21 luglio prese il via la storia di una delle più prestigiose università del mondo, davanti a dignitari, rabbini e persone comuni venute dall'Yishuv ma anche da oltremare. Come il nonno del professor Sergio Della Pergola, rav Raffaello Della Pergola arrivato a Gerusalemme da Alessandria d'Egitto e chiamato a rappresentare l'ebraismo della Diaspora. ''A mio nonno fu riconosciuto il grande onore di posare una delle dodici pietre - racconta il nipote Sergio, illustre demografo nonché docente proprio dell'Università Ebraica - Nato a Firenze nel 1877, mio nonno fu chiamato nel 1910 a guidare la complessa e numerosa comunità di Alessandria d'Egitto". Sotto la sua guida, la comunità si affermò come un centro culturale e religioso sul Mediterraneo, passando in una decina d'anni da 15000 membri a 25000. Fervente sostenitore del sionismo e della costruzione di uno Stato ebraico nella Palestina mandataria, rav Della Pergola fu, nelle parole del nipote, "un uomo giusto che non risparmiò il proprio tempo e i propri risparmi per alleviare il disagio dei singoli e della comunità ebraica": Un'autorità dunque sotto tutti i profili, Per questo fu chiamato dall'Yishuv (l'insediamento ebraico precedente alla nascita d'Israele) a poggiare una pietra sul Monte Scopus, un gesto sognato da diverso tempo, ancor prima dell'arrivo del sionismo.
L'impulso a creare un'istituzione di istruzione superiore nella terra di Israele nacque infatti nell'ultima parte del XIX secolo, prima della nascita del movimento sionista All'epoca furono avanzate diverse idee, alcune delle quali caddero in disparte, altre furono realizzate in un secondo momento. I primi progetti per la creazione dell'università furono presentati in una serie di articoli scritti nel 1882 da Zvi Hermann Shapira, un rabbino, professore di matematica e sionista convinto. Shapira presentò le sue idee al primo Congresso sionista nel 1897, ma non fu presa alcuna decisione. Chaim Weizmann, Martin Buber e Berthold Feivel pubblicarono nel 1902 un opuscolo intitolato Eine Judische Hochschule, che esponeva i principi per l'organizzazione di un'università del popolo ebraico. Nel 1913, l'11o Congresso sionista mondiale decise di istituire un'Università a Gerusalemme, la cui lingua d'insegnamento sarebbe stata l'ebraico. E così si arrivo alla posa. Purtroppo però di quelle prime, non c'è più traccia. "In pieno spirito mediorientale - sottolinea il professor Della Pergola - le pietre furono rubate". E così, come le tribù, anche le pietre andarono perdute: anche se in realtà alla fine furono 14, all'ultimo nel 1918 si decise di aggiungerne due. Del loro destino non si sa nulla ma a 100 anni dalla loro posa - e poi scomparsa - l'Università Ebraica ne ha portate delle altre: nel luglio scorso infatti, nel corso di una cerimonia affidata al professor Della Pergola, sono state posizionate 14 capsule del tempo con altrettanti messaggi provenienti da ogni parte del mondo. ''Abbiamo scritto la nostra visione per i prossimi 100 anni. Il nostro compito è continuare a lavorare affinché questa visione si realizzi'' ha dichiarato il presidente dell'Università Asher Cohen, richiamando la sfida lanciata un secolo fa da Chaim Weizmann.
''Qual è il significato dell'Università Ebraica? Quale sarà il suo ruolo? Da dove attingerà i suoi studenti e quali lingue si parleranno in questa sede? - dichiarò allora Weizmann- A prima vista, potrebbe sembrare un paradosso che una terra che ha una popolazione così piccola, una terra che ha ancora bisogno di tutto, una terra priva di elementi fondamentali come aratri, strade e porti che in una tale terra stiamo creando un centro per lo sviluppo spirituale e intellettuale. Ma il paradosso non esiste se si conosce l'anima ebraica". Ma l'università non fu ideata solo per gli ebrei. Sin dall'inizio i suoi ideatori e fondatori la percepirono come uno strumento utile al Medio Oriente: l'università era ed è aperta ai membri di tutte le religioni e culture.
(Pagine Ebraiche, agosto 2018)
Un pericoloso sviluppo dell'ideologia della sinistra
di Ugo Volli
Antisemitismo tra i cosiddetti "progressisti". Che ci sia una aperta tendenza antisemita nel partito laburista inglese e non tanto nascosta in fondo in buona parte della sinistra europea e americana, e che essa si giustifichi con la "solidarietà antimperialista" con la "lotta del popolo palestinese" è un fatto evidente, confermato da mille episodi recenti. Dopo l'articolo che ho dedicato all'antisemitismo di Corbyn qualche giorno fa sono emersi altri due episodi significativi che riguardano il leader laburista: il suo omaggio ai terroristi che sequestrarono e uccisero dopo orrende torture 11 atleti israeliani, con partecipazione alla preghiera islamica, un discorso in cui paragona Israele al nazismo e la partecipazione al matrimonio di un suo "carissimo amico", dichiaratamente antisemita e negatore della Shoah. Di Corbyn si parla molto, ma le stesse osservazioni si potrebbero anche fare, se ci fosse una stampa disponibile a investigare, per la maggior parte dei leaders socialdemocratici di paesi come la Svezia, la Norvegia e anche di alcuni tedeschi.
Le giustificazioni sono spesso peggiori del male. Per esempio una candidata laburista protetta da Corbyn ha dichiarato che è solo un'opinione e non un fatto che ammazzare degli atleti israeliani centri con l'antisemitismo. O ci sono le pietose smentite dello stesso Corbyn e del suo ufficio stampa in cui cerca di far credere che in tutte le occasioni di antisemitismo cui ha partecipato, "se c'era dormiva". Per esempio, a proposito degli onori ai terroristi di Monaco, ha dichiarato: "ero presente alla deposizione della corona, ma non penso di essere stato coinvolto". "Non penso di essere stato coinvolto": Era sonnambulo? Ubriaco? Stava facendo jogging da quelle parti? Mah.
C'è però un atteggiamento più generale e insidioso a questo proposito, che si va diffondendo, soprattutto a partire dagli Stati Uniti, che cerca di giustificare in generale l'antisemitismo. Ne trovate un'analisi qui. In breve, l'idea è che il crimine politico più grave sia il razzismo, e che esso vada definito da due fattori: "discriminazione più potere". Il potere in sé è male, agli occhi dell'ideologia anarcheggiante che domina il "progressismo" attuale. Quando esso prende di mira un gruppo sociale, diventa "razzismo". Ma quando un gruppo escluso dal potere ne attacca un altro, anche con argomenti riferiti a identità collettive immaginarie, non c'è nulla di male. Quindi se un bianco (per esempio un poliziotto, per definizione emblema del potere) maltratta un nero (magari anche un criminale), anche se non vi è nessuna relazione coi rispettivi gruppi etnici, secondo queste teorie che sono già diventate pratica politica e giornalistica, ciò dev'essere considerato a priori razzismo. Ma se un nero attacca un bianco, no, e neppure se un non-bianco usa un linguaggio che ai nostri occhi è chiaramente razzista, per attaccare "i bianchi", dire per esempio che devono tutti morire o che sono esseri inferiori, questo non sarebbe razzismo.
L'esempio più noto è quello di Sarah Jeong, una blogger coreano-americana di argomenti tecnologici, che è stata assunta nello staff editoriale del New York Times. E' venuto fuori che aveva usato spesso su Twitter espressioni ovviamente razziste, come "White men are b***s***" and "#CancelWhitePeople." Ma è stata difesa dal giornale, che è il principale organo del progressismo americano, e da ambienti dell'estrema sinistra democratica proprio con gli argomenti che ho detto: dato che i bianchi sono il potere, proporne la cancellazione in blocco non sarebbe razzismo. Così il gruppo di estrema sinistra nera in sospetto di terrorismo "black lives matter" (le vite nere contano) ha rifiutato con scherno la proposta di integrazione "all lives matter" (tutte le vite contano), come "razzista".
Il problema è che anche gli ebrei sono considerati "bianchi", anzi un gruppo di "bianchi"particolarmente potente. Dunque diffamare gli ebrei non sarebbe razzismo. E' ciò che sostengono per esempio a proposito di uno dei più famosi antisemiti neri americani, Louis Farrahkhan Linda Sarsour e Melissa Harris-Perry, leader del femminismo americano più politicizzato all'estrema sinistra. Naturalmente l'idea che gli ebrei siano tutti privilegiati economicamente e dotati di un potere più o meno occulto è uno degli stereotipi antisemiti più pericolosi e persistenti. E dunque l'argomentazione di questi gruppi è di per sé antisemita. Ma essi sono in realtà impermeabili all'accusa e perfino fieri di essa. Quel che conta è "essere dalla parte giusta": il razzismo contro Trump o gli ebrei va bene per loro, perché lo è. Che poi queste fossero anche le idee di un certo Hitler non ha grande importanza, forse era anche lui "dalla parte giusta".
(Progetto Dreyfus, 15 agosto 2018)
La storia dimenticata degli ebrei sefarditi di Macedonia
Solo da poco la piccola repubblica post-jugoslava ha iniziato a fare i conti con il capitolo dell'Olocausto che si svolse sul proprio territorio. Reportage da Skopje.
di Stefano Colombo
Nel 1492, pochi mesi prima che Cristoforo Colombo raggiungesse le coste americane, la monarchia cattolica spagnola di Castiglia e Aragona emetteva l'editto di Granada, che decretava la repentina espulsione degli ebrei dalla penisola iberica. Il provvedimento arrivava al culmine di una lunga ondata di violenza antisemita, sfociata in eventi come il massacro del 1391 a Siviglia e l'espulsione degli ebrei dall'Andalusia nel 1483.
Se alcuni membri della comunità ebraica decisero allora di convertirsi - almeno di facciata - al cristianesimo, molti scelsero di lasciare la Spagna. I numeri non sono certi, ma si parla di circa 50-100.000 ebrei che lasciarono la penisola iberica. Questo esilio forzato produsse quella che viene definita diaspora sefardita, dal toponimo biblico per Spagna, "Sepharad." Meta di questi migranti furono allora il Portogallo, le coste settentrionali dell'Africa, gli staterelli italiani, l'Inghilterra, le terre fiamminghe, ma anche i territori dell'Impero Ottomano nel Medio Oriente e nei Balcani. Si dice che il sultano Solimano il Magnifico ironizzò sulla decisione di re Ferdinando: "Lo chiami re colui che impoverisce i suoi stati per arricchire i miei?", pronunciò secondo la leggenda.
La Macedonia, allora ottomana, divenne presto un luogo fertile per l'insediamento degli esuli sefarditi. Nell'area vivevano ebrei già dall' epoca romana, ma fu solo in questo momento che Monastir (oggi Bitola) divenne, assieme a Skopje e Stip, un centro culturale dalla presenza ebraica preponderante. L'amministrazione ottomana garantiva a questa comunità una relativa autonomia, libertà di culto e di commercio, in cambio del pagamento regolare dei tributi. Nel 1497 a Bitola già comparve un cimitero ebraico, probabilmente il primo di tutta la regione balcanica.
Per oltre 400 anni la comunità sefardita ha convissuto pacificamente nel patchwork di religioni e culture balcanico, tanto da mescolare molte sue caratteristiche con quelle locali. Anche la lingua, il ladino (parlato dai primi esiliati), assorbì tratti di altre lingue del bacino mediterraneo, quali il greco, il turco o l'italiano - pur conservando molte sonorità dello spagnolo. Questa lingua, studiata in alcune università statunitensi e israeliane, è oggi riportata in auge da artisti e cantanti tradizionali, come Sarah Aroeste.
La sua famiglia lasciò Bitola durante le guerre balcaniche di inizio Novecento. Sarah ricorda che da piccola era "confusa dal fatto che mio nonno chiamasse la propria patria Grecia, si definisse turco e dicesse di parlare spagnolo."
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La fine dell'Impero Ottomano e la nascita del regno jugoslavo non intaccarono di molto la vita della comunità ebraica macedone. Come accadde nel resto dei Balcani e non solo, il vero spartiacque furono gli anni Quaranta e l'invasione dell'area da parte della Bulgaria nazista (1941). Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei in Macedonia erano stimati attorno ai 10.000 membri, di cui 8000 nella sola Monastir. Durante il conflitto circa il 98% di essi venne trucidato nel campo di Treblinka. La Bulgaria, in quanto membro dell'Assepur rifiutandosi di deportare gli ebrei con cittadinanza bulgara, rastrellò quelli che abitavano nella neoacquisita regione macedone. Prima vennero imposte restrizioni sul lavoro e la libera circolazione, quindi nel 1941 venne creato il ghetto di Monastir; infine la mattina dell'11 marzo 1943 iniziarono le vere e proprie deportazioni. L'enorme magazzino statale di tabacco Monopol a Skopje fu convertito in centro temporaneo di detenzione in quanto provvisto di linea ferroviaria: da qui in sei giorni tre lunghi convogli ferroviari portarono i deportati a Treblinka.
Una fotografia scattata nel marzo del 1943 ritrae alcuni ebrei macedoni che salgono su uno di questi convogli. L'immagine era stata probabilmente commissionata da Aleksander Belev, il commissario bulgaro per gli Affari Giudaici, così da documentare la deportazione. Il ragazzino che vi compare è stato riconosciuto decenni dopo da Rachel Kornberg come suo fratello Victor Nahmias. Victor non sopravvisse, ma Rachel fu più fortunata. Ora vive negli Stati Uniti e ha da poco compiuto 100 anni. Suo nipote Neil ci ha raccontato la sua storia.
I Nahmias erano una numerosa famiglia di mercanti di Monastir. Il padre e gli zii di Rachel avevano un negozio che vendeva tessuti, Barouch Franco; avevano filiali anche a Skopje e a Salonicco. Negli anni Venti si erano trasferiti in una zona più ricca della città, in via Re Pietro, oggi ancora riconoscibile dalla Stella di David al primo piano. La famiglia era attratta dallo stile di vita europeo occidentale e Rachel frequentò una cosiddetta "scuola francese", con curriculum di studi identico a quello europeo.
Preoccupata per il futuro di Rachel durante l'occupazione bulgara, la madre si accordò con il vicino di casa, un console albanese, il quale la prese in casa come "au pair musulmana". Del 10 marzo 1943 - l'ultima volta che vide sua madre - Rachel ricorda:
Le dissi ciò che il console mi aveva detto sui tedeschi, che stavano pianificando di prendere uomini e donne tra i 18 e i 25 anni. Mia madre mi guardò e disse: "Guarda, sono quasi le 5, non hai molto tempo da perdere. Vai e non pensare a me. Tuo padre arriverà domani, tuo fratello parte domattina presto. Dopo che tuo padre arriva verremo a trovarti ... ". Mi spinse alla porta, non ricordo se l'ho abbracciata. Alla porta venne mio fratello più piccolo. Dove stavo andando, mi chiese. Mia madre rispose "dal vicino". Immaginava gli avrei spiegato tutto dopo che me ne fossi andata. Mia madre chiuse la porta dietro di me e quella fu l'ultima volta che la vidi. Il giorno dopo, l'11 marzo, presero tutti gli ebrei - giovani, vecchi, malati. Mio fratello più piccolo non ebbe il tempo di fuggire. I tedeschi quel giorno bloccarono la città. Tutti i negozi erano chiusi, non c'era nessuno per le strade.
Quando qualcuno sembrò riconoscerla, il console portò Rachel a Tirana e da lì a sud, ad Elbasan. Così riuscì a sopravvivere. Oltre a lei soltanto un altro dei fratelli Nahmias, Jacques, passò indenne le vicende belliche: era riuscito a scappare a Milano, poi a Roma, dove sposò un'italiana.
Dei pochi ebrei rimasti in vita in Macedonia molti emigrarono, principalmente in Israele. Oggi a Bitola la comunità, una volta fiorente, non esiste più; a Skopje si contano 225 praticanti.
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Dopo il collasso della federazione jugoslava lo stato macedone ha timidamente inaugurato una serie di azioni pubbliche per commemorare gli ebrei macedoni morti durante l'Olocausto.
Oggi l'edificio del Monopol esiste ancora e una placca ricorda le deportazioni. A Bitola all' entrata del cimitero il visitatore è accolto dalla lista di tutti i deportati. Il cimitero municipale Butel di Skopje ha una sezione separata per le vittime ebree. Infine, nel 2005 a Skopje sono iniziati i lavori di costruzione per il Memorial Center degli ebrei di Macedonia.
Progettato da Berenbaum Jacobs Associates, il nuovo museo racconta la storia millenaria degli ebrei macedoni, dai primi insediamenti alla contemporaneità, passando per il felice periodo ottomano. Il centro è stato aperto ufficialmente pochi mesi fa.
L'inaugurazione del Memorial Center, la cui placca esterna riporta la dicitura anche in lingua ladina, è stata un segno importante. Oggi la Macedonia sembra dimostrare una nuova attenzione per la memoria dell'Olocausto. La cantante Sarah Aroeste è convinta che questa rinnovata cura sia ben rappresentata "dalle collaborazioni sponsorizzate dallo stato con Israele, ad esempio, per il restauro del cimitero [di Bitola] e dai numerosi festival culturali promossi dal governo dedicati agli artisti e alla storia ebraica". Lo scorso anno Sarah è stata invitata a Bitola a esibirsi. Lì, sostiene, "le persone sembravano affamate di sapere di più riguardo alla storia delle comunità ebraiche che vennero annichilite negli anni Quaranta".
(il submarine, 14 agosto 2018)
Gli ebrei di Rodi
L'antica comunità dove la "soluzione finale" ha avuto successo.
di Esther Fintz Menascé
Il 23 luglio, una data che tutti gli ebrei italiani dovrebbero ricordare e che invece mi pare quasi nessuno di essi ricordi. Il 23 luglio 1944, una domenica caldissima a Rodi, per quelle circa duemila persone tra cui oltre 600 bambini cui i tedeschi impartirono l'ordine di incamminarsi dall'improvvisata prigione in cui li avevano trattenuti per qualche giorno verso il porto principale. Erano tutti ebrei divenuti o nati italiani, i circa quaranta di nazionalità turca essendo stati strappati ai tedeschi dal giovane console turco Selahattin Ulkumen (in seguito riconosciuto tra i Giusti in Israele). Affinché quell'esodo forzato fosse visto da pochi i tedeschi fecero risuonare l'allarme aereo, ma non pochi capirono e videro, e alcuni testimoniarono. Come l'aviere ventenne Gino Manicone, che scrisse:
"Il 23 luglio 1944, giorno sicuramente maledetto da Dio, io mi trovavo tra la folla che assisteva al passaggio di quella cordata di derelitti che veniva crudelmente spintonata verso il porto per l'imbarco. Fu un momento terribile, allucinante per un giovane di ventun'anni. Mai immaginavo che la crudeltà umana potesse raggiungere tale abiezione, tale stato di degradazione. Per molte notti non riuscii a prendere sonno perché quel quadro di dolore immenso ritornava forte nella mia mente, scuotendola con paurosi incubi. Quello che io vidi fu nulla di fronte alle atrocità cui furono sottoposti in seguito gli ebrei di Rodi".
Molti anni dopo ebbi il piacere di incontrare l'ex aviere avendo letto alcuni dei suoi tanti lavori su Rodi e avendogli inviato a mia volta un volume di mia sorella Nora purtroppo uscito postumo. Grande e gradita fu la mia sorpresa nel leggere in un suo biglietto di ringraziamenti queste parole a proposito del mio nonno paterno, Michele Menascé, uno dei deportati da Rodi: "Vedendo la fotografia riportata nel volume ho riconosciuto tuo nonno Michele, un personaggio che avevo più volte visto aggirarsi nel quartiere israelita della città murata di Rodi, una splendida figura di uomo probo, importante e significativo, che svolgeva la funzione di Giudice Conciliatore. Mentre camminava lento, ma sicuro, attorno a lui si agitava sempre un alone di grandissimo rispetto. Alla mia vista tanto era solenne e ieratica la sua personalità, che mi sembrava la controfigura del grande Demostene". Mio nonno non giunse ad Auschwitz, come invece la nonna, la loro figlia Norma con il marito Salvatore Capelluto e le loro tre bambine, le mie cuginette Rascelica (diminutivo affettuoso giudeo-spagnolo di Rachele) e le gemelline Gioia e Fortunata, rispettivamente di nove e cinque anni quando vi arrivarono per esservi subito eliminate. Così, poco dopo la fine della guerra, la sua fine fu raccontata a mio padre da suo zio Jacques, un fratello del nonno che viveva a Parigi e riportava quanto un sopravvissuto gli aveva riferito (traduco dall'originale in francese):
"Sbarcati in Grecia i tedeschi trasferirono gli ebrei in un campo e diedero loro l'ordine di spogliarsi, uomini, donne e bambini, con il pretesto di cercare i gioielli e i valori che avrebbero potuto nascondere. Michele, indignato per questa indecenza, ebbe il coraggio di protestare con veemenza; era religioso e questa esibizione gli parve una mostruosità. I tedeschi, furiosi per il suo atteggiamento, selvaggiamente lo percossero a morte".
(Karnenu, KKL Italia Onlus, settembre 2018)
Israele: quando trattare con il nemico diventa la cosa più prudente da fare
Una polemica tra il Ministro Bennet e il Ministro Lieberman apre una questione non da poco: quando, come e se conviene trattare con il nemico
Trattare o no con il nemico? E se si, come e quando farlo? L'annuncio del Ministro della difesa israeliano, Avidgor Lieberman, di riaprire il valico di Kerem Shalom e di consentire l'allargamento della zona di pesca di fronte alla Striscia di Gaza nel caso cessino le violenze lungo il confine tra Gaza e Israele ha scatenato non poche polemiche in Israele....
(Rights Reporters, 15 agosto 2018)
Tregua a Gaza, il vertice segreto con Al-Sisi
Riaprono i valichi
di Giordano Stabile
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi si sono incontrati, in segreto, lo scorso maggio, per mettere fine alla crisi di Gaza e arrivare a una tregua permanente fra Israele e Hamas. Le indiscrezioni dei media israeliani sono state confermate ieri dal ministro delle Finanze Moshe Kahlon, mentre quello della Difesa Avigdor Lieberman ha annunciato la riapertura, oggi, del valico di Kerem Shalom «se la situazione rimarrà calma». È la conferma ufficiale che accanto al binario morto di attacchi e rappresaglie è attivo anche il binario della diplomazia e che una svolta positiva per la Striscia è possibile.
La mediazione dell'Egitto va avanti dallo scorso autunno e aveva portato a un primo accordo fra Hamas e l'Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen, per un governo di unità nazionale che negoziasse la pace con Israele. Gli sviluppi diplomatici sono stati però bloccati dalla questione posta dall'ala militare del movimento islamista palestinese, che rifiuta di deporre le armi, e dall'irrompere della decisione di Donald Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme. Lo stallo è degenerato in una quasi guerra. Prima un misterioso attentato al premier palestinese Rami Hamadallah. Poi le marce del ritorno organizzate da Hamas al confine, e represse nel sangue da Israele, 160 morti da marzo. Infine gli attacchi con razzi e mortai sulle città israeliane vicine alla frontiera, con i raid israeliani in risposta.
Ma il binario diplomatico non si è mai fermato. La mediazione è guidata dall'Egitto e dall'inviato speciale dell'Onu Nikolay Mladenov. E a maggio, mentre nella Striscia la situazione degenerava, sono intervenuti di persona Al-Sisi e Netanyahu. L'obiettivo è la fine del blocco, poiché anche l'Egitto tiene chiuso o semichiuso il suo valico a Rafah, e il lancio della ricostruzione con fondi internazionali. Il tutto a partire da un cessate-il-fuoco permanente. Anche per Il Cairo è essenziale «disinnescare» Gaza. La pace e la ricostruzione avrebbero ricadute economiche e in posti di lavoro in Egitto. E renderebbero più facile sconfiggere il terrorismo dell'Isis nel confinante Sinai. Il ministro Kahlon ha confermato che «tutto quello che accade a Gaza viene fatto con il coinvolgimento dell'Egitto» e un primo risultato si potrebbe vedere oggi con la riapertura del valico di Kerem Shalom, indispensabile per portare sollievo a 1,9 milioni di abitanti stremati.
(La Stampa, 15 agosto 2018)
Netanyahu mette all'angolo Corbyn. "Omaggia i terroristi di Monaco"
Il duello su Twitter per il tributo nel 2004 del laburista inglese ai leader Olp che contrattacca: la nuova legge sullo Stato-Nazione discrimina i palestinesi.
di Giordano Stabile
Benjamin Netanyahu attacca su Twitter Jeremy Corbyn per la corona di fiori deposta nel cimitero di Tunisi vicino alla tomba di uno degli ideatori della strage alle Olimpiadi di Monaco del '72. E Corbyn risponde, anche lui con un tweet, per condannare invece «l'uccisione di 160 manifestanti a Gaza» negli ultimi cinque mesi e la nuova legge sullo Stato-Nazione che «discrimina i palestinesi».
Non si erano mai visti un premier straniero e il capo dell'opposizione britannico duellare sui social, senza nessuna formalità diplomatica, e per di più su una materia incandescente che rischia di azzoppare la corsa del 69enne leader laburista verso una possibile vittoria alle prossime elezioni, se il governo di Theresa May dovesse collassare.
Le simpatie di Jeremy
La materia è quella delle vicinanza di Corbyn alla causa palestinese, una simpatia che per le autorità israeliane e la comunità ebraica britannica esonda nell'antisemitismo. Per questo Netanyahu ha voluto dire la sua, dopo che il quotidiano «Daily Mail» ha rispolverato venerdì scorso il caso dell'omaggio, nel 2014, alle tombe dei palestinesi a Tunisi. Un gesto che per il leader israeliano deve essere «condannato da tutti, destra, sinistra, e tutto quello che sta in mezzo». Il caso è riesploso perché il «Daily Mail» ha scoperto, dall'analisi delle foto, che Corbyn reggeva la corona di fiori vicino alla sepoltura di Atef Bseiso, capo dell'Intelligence dell'Olp, ritenuto una delle menti dell'attacco Monaco e assassinato a Parigi dal Mossad nel 1992.
Corbyn ha sempre sostenuto, e continua a farlo, che la sua era una commemorazione dei 47 palestinesi uccisi nel bombardamento del quartier generale dell'Olp a Tunisi del 1985. Il «Daily Mail» ribatte però che le loro tombe si trovano a 15 metri di distanza dal luogo dove Corbyn è stato fotografato. Tanto è bastato per riaccendere le polemiche sulle posizioni anti-israeliane del leader laburista, innescate anche dal rifiuto del Labour di aderire alla definizione di antisemitismo stilata dalla International Holocaust Remembrance Alliance.
Ma la visita al cimitero di Tunisi è vista in Israele come un oltraggio soprattutto per via dei legami con il massacro di Monaco, undici atleti uccisi, una ferita ancora aperta. In quell'estate del 1972 lo choc fu così forte che il governo di Golda Meir lanciò una delle più complesse e durature operazioni del Mossad, «Collera divina». Si scatenò una caccia ai dirigenti dell'Olp e agli uomini del gruppo «Settembre nero» in tutto il mondo, che si è prolungata per vent'anni fino all'uccisione appunto di Atef Bseiso a Parigi nel 1992. Ci furono innumerevoli blitz, specie a Beirut, negli Anni Settanta la principale base palestinese.
Uno dei più drammatici fu l'uccisione nel 1979 di Ali Hassan Salameh, il «Principe rosso», considerato il vero ideatore dell'attacco di Monaco, ma anche un informatore della Cia e un mediatore fra Olp e Stati Uniti. In Israele la caccia ai terroristi di «Settembre nero» non si è mai chiusa ma per Corbyn l'omaggio ai palestinesi sepolti a Tunisi era un gesto per «finirla con il ciclo della violenza e cercare la pace con un nuovo ciclo di dialogo», con tutti. Finora però si è attirato soltanto la «collera divina» di Netanyahu e di gran parte degli ebrei nel mondo.
(La Stampa, 15 agosto 2018)
Lieberman: riapertura del valico di Kerem Shalom se a Gaza permane una "calma relativa"
GERUSALEMME - Se presso la linea di demarcazione tra Israele e Striscia di Gaza permarrà "una calma relativa fino a domani mattina", il valico di Kerem Shalom tra lo Stato ebraico e l'enclave palestinese, chiuso a luglio scorso dalle autorità israeliane, verrà riaperto. È quanto reso noto oggi dal ministro della Difesa di Israele, Avigdor Lieberman. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", Lieberman ha inoltre affermato che, se non si verificheranno scontri presso la linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e la Striscia di Gaza, la zona di pesca per le imbarcazioni palestinesi al largo di Gaza tornerà a nove miglia marine dalla costa. Per Lieberman, la possibile riapertura del valico di Kerem Shalom e la riestensione della zona di pesca intendono rendere noto ai palestinesi che "il mantenimento della pace a Gaza è un loro primario interesse".
(Agenzia Nova, 14 agosto 2018)
Benedetto XVI ripreso per un nuovo articolo sul dialogo ebraico-cattolico
Diversi rabbini di lingua tedesca e teologi cristiani hanno criticato aspramente Benedetto XVI. Il rabbino Homolka: "Incoraggia un nuovo antisemitismo su basi cristiane".
di Matteo Orlando
Diversi rabbini di lingua tedesca e teologi cristiani hanno bruscamente criticato il Papa emerito Benedetto XVI per il suo recente articolo sul dialogo ebraico-cattolico che appare nell'attuale numero della rivista internazionale Communio.
Si tratta di uno strumento di formazione teologica che lo stesso Joseph Ratzinger aveva co-fondato nel 1972 con due importanti teologi dell'epoca, Hans Urs von Balthasar ed Henri de Lubac.
L'articolo, di 20 pagine, uscito nell'edizione tedesca del numero di luglio-agosto di Communio, è datato 26 ottobre 2017 ed è firmato "Joseph Ratzinger-Benedetto XVI".
È stato originariamente scritto come una riflessione sul 50o anniversario del documento del Concilio Vaticano II Nostra Aetate, la dichiarazione del 1965 sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, e doveva servire come strumento di formazione destinato ad un uso interno presso il dicastero pontificio guidato dal sessantottenne cardinale Kurt Koch, che è il presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani e della Commissione per le Relazioni Religiose con gli Ebrei.
Dopo che il porporato svizzero ha chiesto a Benedetto XVI il permesso di pubblicarlo, la sua diffusione su Communio con il titolo "Gnade und berufung ohne reue" (che sarebbe la traduzione in tedesco del passo biblico di Romani 11,29: 'I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili') e il sottotitolo "Anmerkungen zum Traktat De Iudaeis" ("Commenti sul trattato De Iudaeis") ha subito generato delle polemiche.
Un rabbino, Walter Homolka, rettore del collegio Abraham Geiger di Potsdam, ha accusato Benedetto XVI attraverso un'intervista concessa al settimanale tedesco Die Zeit, di incoraggiare "un nuovo antisemitismo su basi cristiane", mentre il rabbino capo di Vienna Arie Folger ha affermato al Jüdische Allgemeine, il più grande quotidiano ebraico in Germania, che è "problematico" che il precedente papa insista su una impostazione cristologica dell'Antico Testamento.
Michael Bohnke, professore di teologia sistematica all'Università di Wuppertal, ha sostenuto che "dopo Auschwitz, non mi sarebbe mai aspettato di leggere qualcosa di simile da un teologo tedesco".
Ma cosa avrà mai potuto scrivere di tanto sconvolgente il mite papa emerito?
"Dopo averlo esaminato con molta attenzione ... sono arrivato alla conclusione che le riflessioni teologiche contenute dovevano essere introdotte nel futuro dialogo tra la Chiesa e Israele", ha scritto Koch, mentre Jan-Heiner Tück, editore dell'edizione tedesca di Communio, ha affermato che il testo di Benedetto XVI è "notevole per diversi motivi" e, in un'intervista con Kathpress, ha detto che papa Francesco"ha una seconda voce", per così dire, al suo fianco, specialmente da quando l'attuale papa ha parlato delle relazioni ebraico-cristiane in Evangelii gaudium e in altre occasioni.
Tück ha detto che l'articolo di Benetto XVI fornisce "cibo esplosivo per il pensiero" e dovrebbe essere affrontato "benevolmente".
Il già papa si occupa principalmente di due questioni: la teoria della sostituzione e l'espressione del "patto mai revocato". "Entrambe le tesi - che Israele non è stato sostituito dalla Chiesa e l'Antica Alleanza non è mai stata revocata - sono fondamentalmente corrette, ma per molti aspetti sono imprecise e devono essere ulteriormente esaminate criticamente", ha scritto Benedetto XVI.
Il 17 novembre 1980, a Mainz (Germania) San Giovanni Paolo II aveva affermato che l'Antica Alleanza non è mai stata revocata e rimane ancora valida.
Benedetto XVI dimostra che non è Dio che rescinde l'alleanza, ma il popolo che viola l'alleanza con Dio. La ri-istituzione dell'Alleanza del Sinai nella Nuova Alleanza nel Sangue di Gesù, "nel Suo amore che supera la morte, conferisce all'Alleanza una forma nuova e valida per sempre".
Questa affermazione sembra un ritorno ad una visione cattolica orientata verso una conversione al cristianesimo dei fedeli delle religioni non cristiane. "L'intero percorso di Dio con il suo popolo trova finalmente la sua somma e la sua forma finale nell'Ultima Cena di Gesù Cristo, che anticipa e contiene la Croce e la Resurrezione", ha aggiunto il papa emerito.
Per Benedetto XVI non esiste realmente una sostituzione, ma un"viaggio" che conduce"a una sola realtà, con la necessaria scomparsa del sacrificio degli animali", praticato nell'Antica Alleanza,"che viene sostituito dall'Eucaristia".
Benedetto XVI ha riflettuto anche sulle differenze tra la comprensione ebraica e cristiana del Messia e sulla fondazione di Israele come stato.
La fondazione di Israele è stata una conseguenza della Shoah e un evento puramente politico, ha detto, aggiungendo che non ha alcun significato teologico e non fa parte della storia della redenzione. La Chiesa Cattolica non è d'accordo sul progetto sionista di un "insediamento fondato teologicamente", nel senso di "un nuovo messianismo politico", di uno "stato confessionale ebraico" che comprende se stesso come il compimento delle promesse divine [risalto aggiunto].
La stoccata finale di Benedetto XVI è arrivato con il ricordo del secondo capitolo della Lettera a Timoteo, versetti 12-13: Se perseveriamo con Cristo "con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso".
Insomma, Benedetto XVI. vede nella questione della messianità di Gesù"il vero problema tra ebrei e cristiani". In Gesù Cristo e nel suo sangue (Eucaristia), il popolo del Sinai è stato "trasformato" in una nuova ed eterna alleanza; questo è legato anche alla distruzione del tempio pochi anni dopo la crocifissione di Gesù.
La formula "alleanza mai cancellata" può essere stata utile in passato, ma non è adatta a lungo termine"per esprimere la grandezza della realtà in modo ragionevolmente adeguato".
La Conferenza rabbinica ortodossa della Germania ha inviato una lettera aperta al cardinale Koch il 2 agosto per chiarire "se la Chiesa cattolica può apprezzare l'ebraismo contemporaneo" e come"questo apprezzamento si esprima teologicamente".
La Conferenza internazionale delle comunità confessanti il 5 agosto, invece,"con grande gratitudine" ha accolto le parole di Benedetto XVI come un "chiarimento incoraggiante", che è stato significativo per i cristiani protestanti mentre è stato"falsamente ritratto nella stampa come anti-ebraico".
(il Giornale, 14 agosto 2018)
I leader ebrei, soprattutto quelli più dialogici, silludono di poter avere con la CCR (Chiesa Cattolica Romana) un rapporto puramente politico e solo vagamente religioso. Questo significa non aver capito che cosè la CCR. Se lavessero capito, non sarebbero ogni tanto sorpresi e scandalizzati da certe dichiarazioni, considerate come passi indietro, quando in realtà non cè stato nessun passo avanti. Più volte abbiamo sottolineato che il contrasto tra Stato del Vaticano e Stato dIsraele è strutturalmente teologico, e dunque insanabile, a meno che la CCR non decida di sciogliersi come istituzione. Il passaggio messo in risalto lo rivela chiaramente: lo Stato confessionale ebraico non ha peso teologico; non può averlo, non deve averlo perché questo toglierebbe peso teologico allo Stato confessionale cattolico. Saranno contenti gli ebrei laici universalisti e antinazionalisti: anche loro sono contrari allo Stato confessionale ebraico perché questo toglie peso ideologico allo Stato liberal-democratico, lunico che riescono a concepire, perché sono teologicamente incapaci di fare altro. Non è qui il caso di farlo, ma è bene avvertire che, pur dando valore alle citazioni bibliche portate dallex papa (ma non alle sue deduzioni), esistono teologie evangeliche che trattano questo tema, traendone risposte ben diverse da quelle di Ratzinger. Non è affatto detto che convincerebbero gli ebrei, ma sarebbe comunque bene che cominciassero a prenderle in considerazione, sia pure per contrastarle, invece di continuare a spremere dichiarazioni papali nella speranza di trarne un succo almeno accettabile, se non proprio gradevole. Per poi restarne regolarmente sorpresi e delusi. M.C.
Una spia d'allarme le bandiere palestinesi sventolate sabato sera a Tel Aviv
Ancora sulla legge dello Stato nazionale del popolo ebraico, per un dibattito scevro da errori e disinformazione
Bandiere palestinesi sabato scorso in piazza Rabin, a Tel Aviv, durante la manifestazione dell'Alto Comitato Arabo di Monitoraggio contro la legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico
«Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non avrebbe potuto chiedere di meglio - scrive l'editoriale del Jerusalem Post (13.8.18) - Dal suo punto di vista, le bandiere palestinesi sventolate in piazza Rabin a Tel Aviv la sera di sabato scorso dicono tutto. Solo una minoranza dei circa 20.000 partecipanti alla manifestazione ha issato i colori del nazionalismo palestinese, ma sapevano bene che avrebbero attirato tutta l'attenzione. Allo stesso modo, mentre la maggior parte degli slogan erano appelli all'eguaglianza o contro il governo, il mantra che naturalmente è riecheggiato più forte è stato il minaccioso: "Con il sangue e lo spirito, libereremo la Palestina"....
(israele.net, 14 agosto 2018)
Svezia, l'antisemitismo di importazione (islamica)
La Svezia sta superando la Francia in fatto di antisemitismo. Fra associazioni teoricamente anti-razzista, ma di fatto anti-semite, iniziative dei comuni e del governo e atti di puro vandalismo, la vita degli ebrei di Svezia è resa sempre più difficile dall'onda crescente di islamizzazione.
di Lorenza Formicola
La Svezia è in procinto, se non lo ha già fatto, di superare la Francia in fatto di antisemitismo.
Quando a dicembre 2017 il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele, a Malmö è scoppiata la guerriglia. Una cappella del cimitero ebraico è stata attaccata con bombe molotov, a Göteborg lo stesso trattamento è stato riservato alla sinagoga della città. Sempre a Malmö, da un po', i luoghi ebraici sono circondati dai medesimi pali e blocchi di cemento, ormai stilema delle capitali europee per l'antiterrorismo. Ad oggi, si può dire tranquillamente che gli ebrei di Malmö sono sotto assedio ed è loro consigliato di non indossare simboli troppo visibili in pubblico: il rischio di essere aggrediti è troppo alto.
Ma i media si occupano solo degli episodi più eclatanti. Molte organizzazioni che diffondono esplicito antisemitismo non ricevono alcuna attenzione né dai media svedesi né dai cosiddetti movimenti "antirazzisti". Un caso su tutti potrebbe essere il gruppo Youth Against Settlements (YAS), che ha la sua base a Hebron (Cisgiordania) e va in visita nelle scuole superiori svedesi in un'enorme campagna contro gli ebrei. Zleikha Al Muhtaseb e Anas Amro, i due uomini cooptati per la tournée in Svezia, su Facebook non lasciano dubbi su chi siano e quali siano le loro intenzioni. Celebrando, infatti, martirio e intifada, rientrano perfettamente nello spirito della YAS che ha sostenuto, recentemente, le rivolte organizzate da Hamas - l'organizzazione terroristica antisemita - al confine tra Israele e Gaza.
Quelli della YAS sono stati invitati direttamente dal ministro degli Esteri svedese, Margot Wallström, a tenere lezioni per le istituzioni pubbliche del Paese, al punto da diventare un'organizzazione legittimata proprio dal governo svedese. In un corollario, dunque, che vuole che l'antisemitismo sia abbracciato direttamente dallo Stato.
Ma la YAS è in buona compagnia. Un'altra organizzazione dalle chiare tendenze antisemite, supportata da istituzioni pubbliche in Svezia, è il Gruppo 194. Nome che riporta alla Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottata l'11 dicembre 1948, durante la guerra arabo-israeliana del 1948-1949. La risoluzione è usata dai palestinesi per provare a dimostrare il riconoscimento internazionale di un "diritto al ritorno" a quel che oggi è il cuore di Israele, e per cancellare Israele, come mostrano apertamente le cartine palestinesi. Il gruppo 194, è un'organizzazione politica pro-palestinese, dagli stretti legami con il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (DFLP), un gruppo terroristico. Ed è suonato un po' strano, allora, quando il Consiglio dei lavoratori e dei servizi sociali della Municipalità di Malmö, in data 27 ottobre 2017, ha concesso 132.000 corone (circa $ 15.000) al Gruppo 194 e ad altre due organizzazioni, in modo da poter pattugliare il sobborgo di Rosengård durante la notte, presumibilmente per rendere l'area sicura. Oggi, è un fatto che le organizzazioni pro-palestinesi sono finanziate dal comune di Malmö.
Il gruppo 194 sostiene l'estremismo violento e sulla loro pagina Facebook - poi abbandonata prima di essere chiusa direttamente dal social network - si possono vedere le foto di minori che impugnano i Kalashnikov. Ma sono diverse le immagini antisemite, come il fumetto raffigurante un ebreo che beve sangue e mangia un bambino con la kefiah al collo. Il gruppo 194 è stato anche premiato dal comune di Malmö in occasione di un galà organizzato, e ha ricevuto contributi da vari altri comuni svedesi per diversi anni. Ma perché il comune di Malmö supporta un'organizzazione di questo tipo con il denaro dei contribuenti?
Diversi fattori ed episodi hanno finito con il rafforzarsi a vicenda e creare un vuoto in cui l'eco dell'antisemitismo arabo e musulmano s'è fatta talmente assordante da coprire il contraddittorio ed essere ormai accettata dalle autorità svedesi. A contribuire a questo clima è stata sicuramente l'immigrazione su larga scala da paesi in cui l'antisemitismo è la regola; il forte impegno a favore della Palestina tra i politici svedesi che ha portato nel Paese ad un dibattito surreale; la logica politica capace di rinunciare a tutto a patto di guadagnare i voti degli immigrati; il multiculturalismo svedese che non è più capace di operare una distinzione tra cultura e razzismo; e il terrore di apparire critici dell'immigrazione.
Un processo che è andato talmente avanti da essere stato capace di interiorizzare l'antisemitismo, al punto che le organizzazioni che demonizzano Israele e diffondono l'antisemitismo sono considerate del tutto normali. Oldoz Javidi, candidata parlamentare per il partito femminista, Feminist Initiative, ad esempio, ha affermato che tutti gli ebrei israeliani dovrebbero trasferirsi negli Stati Uniti in modo che "i palestinesi possano vivere in pace e ricostruire il paese che un tempo era loro".
Prepotente allo stesso modo è l'antisemitismo delle moschee svedesi. Nell'aprile 2017, una moschea nella città svedese di Borås ha invitato a parlare un condannato in Germania per aver chiesto l'omicidio di ebrei. E nel luglio 2017, un imam in una moschea nella città svedese di Helsingborg ha, invece, dichiarato che gli ebrei erano i discendenti delle scimmie e dei maiali. Due esempi su tutti. E quando, poi, il governo, dopo diversi scandali legati all'estremismo nelle comunità religiose musulmane, ha voluto indagare sui criteri per il sostegno finanziario dello stato, Ulf Bjereld - professore dell'università di Göteborg con alle spalle una lunga storia di difesa del mondo islamico in diversi contesti - è stato nominato a capo dell'indagine. Ma Bjereld è anche presidente dei socialdemocratici della fede e della solidarietà in Svezia, un'organizzazione che è stata criticata più volte per aver giustificato e legittimato l'antisemitismo del Partito socialdemocratico, il partito di governo svedese.
Nel dicembre 2017, Nima Gholam Ali Pour ha presentato una mozione al consiglio comunale di Malmö per mappare e analizzare l'antisemitismo nella città. Una misura bocciata, ma che avrebbe dato ai politici un quadro chiaro del perché l'antisemitismo è aumentato da quelle parti, e indotto a pensare come adottare misure correttive. Ma si tratta di un proposta che probabilmente non verrà mai presa in considerazione perché una simile indagine sull'antisemitismo a Malmö costringerebbe le autorità a rendersi conto che l'antisemitismo arabo e musulmano è un problema enorme.
(La Nuova Bussola Quotidiana, 13 agosto 2018)
Hapoel Haifa a Reggio: il piano per proteggere squadra e tifosi israeliani
Giovedì alle 20 al Mapei Stadium Città del Tricolore il match contro l'Atalanta. Sotto i riflettori l'aspetto della sicurezza.
di Andrea Bassi
REGGIO EMILIA - In arrivo al Mapei Stadium giovedì ci sono gli israeliani dell'Hapoel Haifa. Soprannominati "gli squali". Affronteranno l'Atalanta nel terzo turno di qualificazione di Europa League. A prescindere dal nomignolo, alta sarà l'attenzione nei loro confronti da parte delle forze dell'ordine. In occasione della partita infatti è prevista l'adozione delle misure che scattano ogni volta che in campo gioca una squadra di Israele, stato considerato sensibile a livello internazionale. La gestione del piano di sicurezza è stata oggetto di due riunioni che si sono tenute questa mattina e oggi pomeriggio, rispettivamente in prefettura e questura. Questura alla quale spetta un ruolo di regia.
Circa trecento saranno i tifosi dell'Haifa presenti in città e allo stadio. Tutte le forze dell'ordine saranno presenti per garantire la sicurezza, con turni a partire dalle prime ore del mattino. 250 il numero di uomini e donne che verranno dispiegati tra poliziotti, carabinieri, fiamme gialle e vigili urbani. Particolarmente sotto controllo saranno gli spostamenti dei giocatori e dello staff dell'Hapoel Haifa. Al momento non risulta il coinvolgimento di agenti provenienti dallo Stato ebraico. Per spostarsi i sostenitori ospiti potranno utilizzare due navette concesse da Seta.
All'andata l'Atalanta si è imposta 4-1 dominando tutti i 90 minuti. Un risultato difficile da ribaltare per l'Hapoel Haifa. Soprattutto in presenza del buon momento che stanno vivendo i bergamaschi. Spinti dalle promettenti ultime prestazioni, i tifosi nerazzurri saranno numerosi a Reggio. Sugli spalti ne sono previsti almeno ottomila. Un banco di prova è stato, quasi un anno fa, Italia-Israele. Valevole per le qualificazioni ai mondiali, vide un alto dispiegamento di forze dell'ordine. Tutto filò liscio. In quell'occasione rimasero abbassate le serrande dei negozi della zona dello stadio. Misura che stavolta però non è prevista.
(Reggionline, 13 agosto 2018)
Soluzione due stati
Sondaggio congiunto. E' punto più basso di sostegno
La fiducia nella Soluzione a due stati è condivisa da sempre meno israeliani e palestinesi: solo il 43%, punto più basso nel decennio. Lo indica un sondaggio congiunto pubblicato oggi da Tami Steinmetz Center for Peace Research dell'Università di Tel Aviv e dal Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah, in Cisgiordania con fondi dell'Ue, che mostra una caduta libera, tra l'8% e il 9% tra i due blocchi di popolazione, del progetto.
Solo tra gli arabi israeliani il sostegno rimane stabile molto alto, l'82%. Tra i motivi del crescente calo di interesse della Soluzione a 2 stati c'è, sia per gli israeliani ebrei sia per i palestinesi, l'attuale espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che ne impedirebbe l'attuazione. Ma anche la mancanza di reciproca affidabilità percepita dalle parti.
(ANSAmed, 13 agosto 2018)
In Israele il turismo dei record sfida la grande tensione del Medio Oriente
Israele sta conoscendo un vero e proprio boom turistico: nei primi sei mesi del 2018 gli arrivi hanno superato il tetto storico dei due milioni, generando introiti per 3,3 miliardi di dollari. Il ministro Yariv Levin: chi sceglie Israele non lo fa più soltanto per i luoghi sacri.
di Roberto Bongiorni
«Fully booked». È una risposta in cui ci si può imbattere con frequenza se non ci si organizza per tempo. Che sia nella dinamica Tel Aviv, o nell'austera Gerusalemme, fino alle assolate spiagge di Eilat, sul Mar Rosso, molte strutture alberghiere israeliane hanno spesso tutte le stanze occupate. Non che siano poche. Al contrario. Ma il flusso turistico senza precedenti che da tre anni si sta riversando in Israele ha colto di sorpresa persino l'organizzata ed efficiente rete del ministero del turismo.
Ed è questa la sorpresa. Siamo in un Paese circondato da nemici e noto anche per il conflitto più incancrenito dell'ultimo secolo, quello israelo-palestinese. Da cinque anni la cruenta guerra civile in Siria sta destabilizzando la regione. I jihadisti e l'esercito di Assad si contendono i territori a ridosso delle alture del Golan. I caccia israeliani effettuano con regolarità incursioni militari contro le basi iraniane in Siria o contro i convogli di armi destinati agli Hezbollah libanesi. Nella tormentata striscia di Gaza sono ripresi i lanci di razzi. Eppure, a dispetto degli altri Paesi della regione, in Israele il turismo continua a crescere a ritmi impensabili. Nei primi sei mesi del 2018 gli arrivi hanno sfondato per la prima volta il tetto storico dei due milioni, generando introiti per 3,3 miliardi di dollari. Si tratta di un incremento del 19% sullo stesso periodo del 2017, anno in cui peraltro il turismo era cresciuto del 26 per cento . Quale è stato il segreto di questo successo? «Non c'è una sola ragione alla base di questo boom turistico - ci spiega il ministro del Turismo, Yariv Levin -. Con un'accurata politica di marketing abbiamo trasformato un turismo che prima era legato prevalentemente al pellegrinaggio ed alla visita dei luoghi sacri in un turismo a 360 gradi. Trasversale, da quello di élite a quello cosiddetto di massa. In un territorio ridotto abbiamo bellissime spiagge, città con grandi monumenti, il deserto, i boschi della Galilea. A cui si aggiunge il valore dei luoghi sacri. Abbiamo dato il via ad una strategia di cooperazione ed incentivi con le compagnie aeree straniere, facilitando loro l'apertura di tratte dirette. Solo dalla Romania ve ne sono sette».
Il ministro prosegue, spiegando come da Eilat, sul mar Rosso, vi erano solo 4 voli settimanali dall'Europa. Ora ve ne sono 48, e nelle settimane di picco anche 50. «Solo dalla Polonia sono state create sei tratte. Il turismo polacco è più che raddoppiato da 65mila a 150mila visitatori. Insomma 54 nuove rotte in Israele da tutto il mondo non sono poche. Da Montreal, da Shangai, New Delhi, dalle maggiori città cinesi. Quest'anno aprirà la rotta Londra- Eilat».
Sembrano lontani i ricordi della Seconda Intifada (2001-2005). Quando gli attentati kamikaze seminavano il terrore e le strade della città Vecchia di Gerusalemme erano deserte. «Israele - prosegue Yariv Levin - è ormai ritenuto un luogo sicuro, forse il più sicuro del mondo. D'altronde in un periodo in cui le capitali europee sono state vittima di gravissimi attentati terroristici, noi non siamo stati colpiti dal terrorismo jhihadista. Il 40% dei turisti che arriva in Israele poi vi ritorna. È una percentuale altissima».
Il Paese dell'hi-tech, la nazione delle start up, sta dunque cercando di cambiare stimolando altri settori capaci di ridurre le sperequazioni sociali e creare lavoro. «Oggi - prosegue il ministro - il turismo in Israele rappresenta meno del 3% del Pil. Ma dal punto di vista occupazionale offre lavoro a 100mìla persone. Il nostro obiettivo è di portarlo al 5% del Pii».
Obiettivi ambiziosi ma raggiungibili. A condizione che vengano realizzati grandi progetti infrastrutturali. «Israele è piccolo, ha solo un aeroporto internazionale. Ma nel 2019 prevediamo 25 milioni di passeggeri, il che significa che l'aeroporto Ben Gurion entrerà nella categoria più alta dei grandi aeroporti mondiali Abbiamo eseguito dei lavori per aumentare la sua capacità, ma in futuro potrebbe non essere sufficiente». «In novembre - prosegue il ministro - aprirà il nuovo aeroporto di Eilat. Allo studio c'è anche il progetto di convertire una base aerea in aeroporto civile. Uno dei progetti più interessanti che stiamo studiando è la costruzione di un aeroporto su di un'isola artificiale. Qui potrebbero essere convogliati per esempio i voli low cost».
Altro punto critico sono le strutture alberghiere. Quelle di extra lusso non mancano. Come il prestigioso Hotel Mamila di Gerusalemme, a poche centinaia di metri dalla cittadella di Davi d. «La nostra clientela è composta per l'80% da stranieri.Nonostante disponiamo di molte stanze, 194, di cui 35 suite e 130 standard, in alcuni mesi siamo stati al completo», ammette il direttore delle pubbliche relazioni, Emanuel Shapira Rabbanian. Costruire nuove strutture alberghiere è dunque un passo necessario. Ma richiede tempo. In quest'ottica per venire incontro al settore il ministero del turismo ha elaborato incentivi governativi destinati a chi converte in alberghi edifici adibiti ad uffici, magazzini, persino fabbriche. «Abbiamo riscontrato interesse non solo da parte delle aziende locali ma da diversi partner internazionali». Con un punta di orgoglio il ministro conclude. «Il giro di Italia qui in Israele è stata una straordinaria occasione che ha contribuito e contribuirà all'espansione del nostro settore turistico. Siamo davvero fiduciosi».
(Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2018)
Netanyahu: tutti condannino Corbyn
Per l'omaggio ai terroristi di Monaco
Ammessa la visita, le polemiche non si placano. Già da tempo nell'occhio del ciclone per le
accuse di ambiguità sul fronte della lotta all'antisemitismo, il leader laburista britannico è finito nel mirino del premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo la pubblicazione di immagini che lo ritraevano nel 2014- a Tunisi a una cerimonia con dirigenti dell'Autorità palestinese. Corbyn aveva posato una corona di fiori sulla tombe di alcuni componenti del commando terrorista responsabili della strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco '72, poi uccisi dal Mossad. Ieri Corbyn ha ammesso la presenza. La stilettata più feroce è arrivata dal premier israeliano Netanyahu che ha twittato: «L'atto richiede una condanna inequivocabile da parte di tutti: sinistra, destra o qualsiasi altro schieramento». Ma Corbyn non ha chiuso l'episodio e ha risposto con parole che rinfocoleranno la polemica: «Quello che merita una inequivocabile condanna è l'uccisione a Gaza da parte delle forze israeliane di oltre 160 dimostranti palestinesi da marzo, incluse decine di bambini».
(Corriere della Sera, 14 agosto 2018)
Ministro dellIstruzione israeliano: fallita la nostra politica di moderazione a Gaza
GERUSALEMME - La politica di moderazione perseguita da Israele nella gestione della crisi con l'enclave palestinese della Striscia di Gaza "ha fallito". Lo ha dichiarato Naftali Bennet, ministro dell'Istruzione israeliano che è anche membro del Consiglio di sicurezza nazionale dello Stato ebraico. In un'intervista rilasciata oggi all'emittente radiotelevisiva pubblica israeliana "Kan", Bennet ha inoltre affermato che Israele "deve prendere in considerazione risposte alternative" al movimento palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2006. In particolare, ha avvertito il ministro dell'Istruzione israeliano, "se continuerà a ricorrere alla formula della tranquillità", lo Stato ebraico "finirà per subire un Hamas sempre più forte a Gaza", paragonabile al partito sciita libanese Hezbollah.
(Agenzia Nova, 13 agosto 2018)
Le tecnologie agricole delle startup israeliane a sostegno degli agricoltori africani
Le tecnologie agricole sviluppate dalle startup israeliane possono aiutare gli agricoltori in Africa. È quanto sostiene una delegazione africana che nei giorni scorsi è stata in visita in Israele per conoscere le ultime innovazioni in campo agricolo.
Il gruppo, guidato da Agnes Kalibata, presidente di AGRA un'organizzazione che si occupa di prodotti agricoli in Africa, è stato ospitato dall'organizzazione no-profit Start-Up Nation Central (SNC), con sede a Tel Aviv, e ha incontrato rappresentanti dell'industria tecnologica israeliana e funzionari del governo.
L'obiettivo di AGRA, fondata nel 2006, è di ridurre la povertà e la fame in Africa investendo in agricoltura. L'organizzazione opera in tutto il continente con milioni di piccoli agricoltori - che costituiscono il 70% della popolazione africana - per incrementare la produttività e i redditi delle aziende agricole.
Come riporta il Times of Israel, l'idea della delegazione africana è di individuare in Israele le tecnologie agricole che sono "pertinenti con le sfide presenti in Africa".
Gli agricoltori africani lottano contro il suolo improduttivo, le forniture d'acqua inaffidabili e i semi di bassa qualità. La visita della delegazione di AGRA in Israele, conosciuta come Startup Nation, è servita per identificare le tecnologie che possono essere implementate sul campo, ma anche le persone che potranno comprendere le sfide future e sviluppare prodotti su misura per queste esigenze.
Gli imprenditori israeliani interessati a schierare le loro tecnologie in Africa, a settembre parteciperanno all'African Green Revolution Forum, una conferenza sull'agricoltura che si terrà a Kigali, in Ruanda. Saranno presenti circa 2.000 agricoltori e funzionari governativi africani, a cui gli imprenditori israeliani mostreranno le loro tecnologie e studieranno i bisogni locali.
Shira Goldblum, responsabile delle partnership strategiche di Start-Up Nation Central, ha dichiarato:
"AGRA ha il compito di trasformare l'agricoltura africana. Aiutare i contadini africani a diventare imprenditori agricoli di successo e sostenibili è un'opportunità estremamente importante. La delegazione giunge in un momento in cui sia gli agricoltori africani che gli imprenditori agroalimentari israeliani possono concretamente implementare le più recenti tecnologie per affrontare gli ostacoli storici, economici e ambientali che impediscono la crescita sostenibile delle aziende agricole"
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(SiliconWadi, 13 agosto 2018)
Che cosa rappresentano quelle bandiere palestinesi in Piazza Rabin
La manifestazione contro la legge dello stato nazione unisce la sinistra israeliana e gli arabi di Israele.
Si è tenuta un paio di giorni in Piazza Rabin a Tel Aviv, la sede più importante per i raduni politici di massa in Israele, una seconda manifestazione dopo quella dei drusi della settimana scorsa, contro la legge che proclama Israele Stato nazionale del popolo ebraico. Meno seguita della prima, ma comunque con un pubblico intorno alle trentamila persone, questo incontro era organizzato dalle organizzazioni degli arabi israeliani e naturalmente appoggiata dall'estrema sinistra. Il fatto stesso che si sia svolta pacificamente e senza inciampi di sorta dimostra la falsità della tesi fondamentale che vi si sosteneva, quella dell'incipiente o già realizzata fine della democrazia israeliana, della perdita di diritti per gli arabi, dell'apartheid e di tutta la propaganda antisionista che si è diffusa a piene mani in Europa nelle ultime settimane, a proposito di questa legge, legittima e non dissimile da analoghe clausole costituzionali in molti paesi occidentali. E insieme ne dimostra la necessità. Vediamo il perché.
La manifestazione, come dicevo, è stata organizzata dallo Higher Arab Monitoring Committee, un'organizzazione di raccolta degli arabi israeliani e vi hanno aderito tutte le Ong e i partitini di estrema sinistra; gli oratori principali erano il leader arabo Mohammad Barakeh, la professoressa di sociologia alla Hebrew University Eva Illouz, il deputato arabo Ayman Odeh l'editore di Haaretz Amos Schocken: una convergenza fra estrema sinistra intellettuale ebraica e dirigenti politici arabi che non è certo nuova. Quel che è una novità e che ha colpito molto i commentatori è stato il fiorire di bandiere palestinesi fra il pubblico e lo slogan più importante scandito durante la manifestazione: "Con lo spirito e il sangue ti libereremo o Palestina".
Mentre da Gaza avevano appena smesso di lanciare razzi, palloni incendiari e bombe molotov sul territorio israeliano, a distanza di una settimana dall'ultimo sanguinoso attentato palestinista, arabi israeliani e estrema sinistra si ritrovavano a negare l'identità ebraica di Israele in favore non si capisce bene se di due stati o di uno stato binazionale, ma certamente della "liberazione della Palestina". Quella stessa bandiera che durante gli scontri a Gaza è stata spesso esposta insieme alla svastica, veniva esposta nel "tempio della democrazia israeliana" come segno del progetto politico alternativo all'idea fondamentale del sionismo, cioè lo stato nazionale del popolo ebraico.
Difficile meravigliarsi che un progetto del genere sia adottato dagli arabi israeliani, perché fa parte della politica del doppio binario tradizionale per i palestinisti: Arafat parlava in inglese di pace e in arabo esaltava il terrorismo; Abbas rimprovera Trump per aver distrutto le prospettive di un accordo e finanzia i terroristi; gli arabi israeliani usano i loro privilegi di deputati alla Knesset, con tanto di immunità parlamentare e di supporto logistico e finanziario per andare in giro per il mondo a denunciare l'oppressione sionista, se non a contrabbandare materiali proibiti nelle prigioni e a partecipare alle flottiglie per Gaza; i propagandisti palestinisti vogliono uno stato binazionale e senza identità nei territori dello stato di Israele e allo stesso tempo rivendicano uno stato nazionale loro sullo stesso territorio, assicurando senza alcuna vergogna di volerlo judenrein, cioè senza nessuna presenza ebraica collettiva e neppure individuale.
Più preoccupante è che le bandiere e gli slogan palestinisti non rappresentino una linea rossa per la sinistra israeliana, da tempo totalmente isolata dal paese e priva di solidarietà col popolo ebraico, ma ormai così accecata dall'ideologia e dall'odio viscerale per Netanyahu da non pensare neppure al pericolo evidente e concreto che il progetto palestinista rappresenta per la sopravvivenza fisica loro e delle loro famiglie. La rinuncia al sionismo è ormai compiuta. Gli elettori israeliani l'hanno capito e li hanno da tempo condannati all'insignificanza politica. Speriamo che anche le comunità della diaspora capiscano il senso di queste posizioni, spesso sopravvalutate perché si ammantano di prestigio intellettuale e "morale".
(Progetto Dreyfus, 13 agosto 2018)
La notizia manipolata dalla Bbc. Israele protesta
Israele ha presentato una protesta "formale" alla Bbc per un titolo pubblicato sulla pagina Facebook dell'emittente britannica sull'escalation della violenza a Gaza: "Raid israeliani uccidono una donna incinta e un bimbo". Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano ha chiesto una immediata "modifica" del titolo, che ha manipolato la realtà. Con un tweet postato sul proprio account, il portavoce Emmanuel Nahshon, ha scritto "@BBCWorld questo è una protesta formale di @IsraelMFA. Questo titolo è un travisamento intenzionale della realtà (equivalente educato di "questa è una BUGIA", se non l'avete capito). Gli israeliani sono stati presi di mira da Hamas e l'azione dell'IDF è stata lanciata per proteggerli. Cambiatelo IMMEDIATAMENTE !!! @IsraelMFA", dove MFA sta per ministero degli Esteri israeliano e IDF per Le Forze di Difesa Israeliane. "I razzi di Hamas - ha scritto il portavoce dell'ambasciata a Londra Udi Aviv in una lettera inviata alla Bbc e resa nota dal ministero degli Affari esteri a Gerusalemme - hanno colpito Israele prima che questi rispondesse con i raid aerei. Per questo, chiedo che il titolo sia modificato secondo l'ordine degli eventi occorsi".
(Shalom, 13 agosto 2018)
Holocaust.ch e Shoah.ch non sono più della Confederazione Elvetica
I due domini sono ora di proprietà della Federazione svizzera delle comunità israelitiche.
BERNA - La Confederazione Elvetica non è più proprietaria dei nomi di dominio internet www.holocaust.ch e www.shoa.ch, che deteneva dai tempi dello scandalo dei fondi in giacenza nelle banche elvetiche di vittime dell'Olocausto scoppiato a metà degli anni Novanta.
I due indirizzi internet sono stati rilevati dalla Federazione svizzera delle comunità israelitiche (FSCI), ha indicato oggi all'agenzia Keystone-ATS Philipp Rohr, responsabile della comunicazione dell'Amministrazione federale delle finanze (AFF).
Nel pieno della vertenza sui fondi ebraici in giacenza il Consiglio federale aveva creato nel febbraio 1997 il Fondo svizzero in favore delle vittime dell'Olocausto, indipendente da quello di 1,25 miliardi di dollari scaturito dall'accordo globale firmato successivamente, il 12 agosto 1998, da UBS e Credit Suisse con organizzazioni ebraiche e gruppi di querelanti collettivi negli USA. Essa mirava a sostenere persone nel bisogno e loro discendenti vittime della Shoah. Gli ultimi aiuti erano stati decisi nell'agosto 2001.
L'AFF si occupava della segreteria del Fondo. È stata dunque implicata in taluni compiti, come la registrazione di nomi di dominio, ha precisato Rohr. Dieci anni dopo gli ultimi versamenti, effettuati nel 2008, non c'era più motivo di conservare questi nomi di dominio, che costavano tra i 30 e i 40 franchi all'anno.
(tio.ch, 13 agosto 2018)
Israele nazione del popolo ebraico distrugge il sogno degli odiatori
La Nation State Basic Law, la legge cioè che riconosce Israele quale "nazione del popolo ebraico" non toglie e non dona Diritti a nessuno, nella sostanza non cambia nulla né per gli ebrei né per i non ebrei. Allora perché tante proteste?
Israele nazione del popolo ebraico. Dallo scorso 19 luglio l'equazione che vuole Israele uno Stato Ebraico è legge. Fino ad ora ci siano sempre tenuti fuori dalle discussioni in merito a questa controversa legge, ma le proteste strumentali viste a Tel Aviv da parte degli arabi e l'uso davvero sfacciato che ne fanno i nemici di Israele per attaccare la democrazia israeliana ci spingono a prendere un minimo di posizione.
Che la legge sia apparsa da subito divisiva è fuor di dubbio anche se di per se la Nation State Basic Law non cambia nulla né per i cittadini di fede ebraica né per quelli di altre fedi. Non concede maggiori diritti a nessuno e soprattutto non toglie Diritti a coloro che ebrei non sono. Dichiararsi uno Stato Ebraico non significa, come dicono alcuni, favorire la discriminazione o addirittura l'apartheid, parola talmente abusata da finire per svilire persino il significato importantissimo del termine stesso. D'altro canto non ci sembra che questo termine venga usato per la Repubblica Islamica dell'Iran o per tutti quei regimi islamici che nel nome hanno l'Islam quale indicativo. Eppure in quei regimi si che ci sono discriminazioni in base alla religione....
(Rights Reporters, 13 agosto 2018)
Pagamenti digitali: Visa punta sulla startup israeliana Behalf
TEL AVIV - Visa ha investito nella startup israeliana Behalf. La società, con uffici a Tel Aviv e New York, fornisce soluzioni per il capitale circolante delle piccole imprese, che possono quindi fornire credito immediato e termini di pagamento flessibili ai propri clienti.
L'accordo prevede che Visa offra alle piccole imprese clienti di Behalf una Carta virtuale Visa, una soluzione di pagamento basata sul credito che offre alle aziende un finanziamento istantaneo per gli acquisti aziendali. Sarà inizialmente offerta negli Stati Uniti, con un piano di espansione verso altri mercati nei prossimi mesi.
- La partnership fa parte della strategia globale Visa, che punta ad ampliare l'offerta verso le piccole imprese attraverso la collaborazione con startup e fintech. Il progetto prevede un investimento fino a 100 milioni di dollari in startup europee, come annunciato dal ceo di Visa Europa, Charlotte Hogg.
«Questa intesa - spiega David Simon, responsabile globale delle piccole e medie imprese di Visa - è un'altra importante testimonianza di come Visa collabori con le società fintech per contribuire a migliorare le esperienze digitali e portare nuove soluzioni sul mercato per superare le sfide comuni delle piccole imprese».
- «Le piccole imprese - aggiunge Shahar Friedman, general manager di Visa in Israele - sono la linfa vitale dell'economia globale, e Visa si impegna ad abilitare nuove esperienze di pagamento per questi importanti clienti. Questa partnership è il risultato della stretta collaborazione tra Visa Innovation Studio di Tel Aviv e il dinamico ecosistema startup israeliano». Behalf è il primo investimento fatto da Visa in un'impresa israeliana.
(Nazione-Carlino-Giorno, 13 agosto 2018)
Gli ebrei britannici alzano la voce
Cambia la comunità con l'antisemitismo del Labour, ma è cambiato anche il clima politico.
Scrive l'Atlantic (1/8)
Qualche volta penso di non riconoscere più gli ebrei britannici", scrive Ben Judah sull'Atlantic. "Per decenni la mia comunità è rimasta in silenzio, guardinga, trattenuta nel mettersi sotto gli occhi di tutti. Ma la scorsa settimana vedendo gli ebrei britannici protestare contro l'antisemitismo del Partito laburista di Jeremy Corbyn mi sono dato un pizzicotto per crederci. Erano davvero ebrei britannici quelli: pubblicamente furiosi, indignati, che sfogavano la loro paura e il loro disgusto mentre affrontavano quello che potrebbe ben essere il prossimo governo britannico? Ero basito, perché crescendo non avevo mai avvertito quell'orgoglio, o quel coraggio. Da dove veniva questa ritrovata combattività? Non era così una volta. Niente riassumeva meglio l'essere un ebreo britannico delle lettere che il giornalista Chaim Bermant diceva ricevere il Jewish Chronicle ogni volta che facevano passare l'annuale graduatoria di quelli come noi messi orgogliosamente in prima pagina. Non appena andavano in stampa, erano subissati dalle lamentele: di signori, signore, membri stimati del Parlamento i quali insistevano che no, loro in realtà non erano ebrei. Mi sono vergognato quella volta che Clement Freud, nipote di Sigmund, mandò una rettifica al giornale puntualizzando con una certa veemenza che dal giorno del suo matrimonio lui era di fatto un anglicano, e non più un ebreo.
Ogni tanto desideravo essere un altro tipo di ebreo: un americano, un israeliano, magari un iracheno come i miei antenati, perché almeno essi sapevano come esserne fieri. Perché gli ebrei britannici sussurravano sempre quando usavano la parola ebreo in pubblico.
Ma ora non sussurrano più. Lo scalpore suscitato dall'antisemitismo del Partito laburista di Corbyn ha galvanizzato la comunità. In marzo, centinaia di ebrei britannici hanno manifestato, con 24 ore di preavviso, contro l'antisemitismo del Partito laburista. Avvocati e banchieri, uomini tranquilli in giacca e cravatta davanti al Parlamento di Westminster hanno gridato: 'Dayenu'. Ora basta. Le organizzazioni che guidano la comunità, il Jewish Leadership Council e il Board of Deputies, hanno respinto il ramoscello d'ulivo rinsecchito che Corbyn aveva offerto loro nei colloqui d'aprile. Due settimane fa, il movimento degli ebrei laburisti, affiliato al Partito laburista, ha compiuto una missione che sembrava impossibile. E' riuscito a far sottoscrivere da 68 rabbini britannici - molti dei quali nemmeno si riconoscono reciprocamente il titolo di rabbino - una lettera che condanna il partito per aver 'ignorato la comunità ebraica'. La scintilla per quest'ultima ribellione è stata la riscrittura che il Partito laburista ha fatto del proprio codice di condotta rispetto all'antisemitismo. Piuttosto che lavorare con la definizione stabilita dall'Associazione internazionale per la memoria dell'Olocausto (Ihra) e largamente condivisa, ha adottato un suo proprio codice annacquato [...].
Il punto cruciale in tutto questo è stato inevitabilmente Israele. Il nuovo codice del Labour consente di fatto l'equiparazione tra Israele e i nazisti. I più radicali intorno a Corbyn, come il responsabile della strategia, Seamus Milne, sono convinti che il vecchio codice dell'lhra possa mettere a tacere coloro che desiderano mostrare la vera natura dello stato di Israele. Al contrario, molti nella comunità ebraica ritengono che proprio questo tipo di critica sia il disgustoso virus dell'antisemitismo. E, interrompendo la loro tradizionale discrezione, hanno voluto dirlo così, ad alta voce.
L'altra settimana, i tre principali giornali della comunità ebraica sono usciti con un editoriale comune, fatto senza precedenti, intitolato 'United we stand'. Descriveva un eventuale governo Corbyn come una 'minaccia esistenziale' per gli ebrei in Gran Bretagna. [...] Improvvisamente, però, ho sentito la mancanza dei vecchi ebrei e della loro diffidenza. Dopo aver visto stampate le parole 'minaccia esistenziale', ho alzato le mani. Perché, avendo preso sulle proprie spalle il compito delicato di parlare a nome della comunità ebraica, su qualcosa di scivoloso come l'antisemitismo, dove parole specifiche vogliono dire tutto, i giornali della comunità diffondevano nel mondo parole come 'minaccia esistenziale', come se non significassero niente.
Una volta gli ebrei britannici non avrebbero diffuso sinonimi di genocidio con tale noncuranza e in un momento delicato e importante come questo. E questo mi colpisce. Ciò che è cambiato non è tanto la comunità, quanto la politica britannica. Questo è la Gran Bretagna della Brexit. Un paese conosciuto per la sua moderazione ha improvvisamente scoperto l'estremismo. Qualcosa di veramente importante è cambiato. Gli avversari politici ora sono 'traditori'. I giudici che scrivono regole indesiderate 'nemici del popolo'. [...] Gli scozzesi e gli inglesi, così a lungo orgogliosi della loro cultura politica, radicalizzati da due referendum si sono lasciati scivolare in una politica tra le più emotive d'Europa. E questo include anche gli ebrei.
La retorica dell'antisemitismo si rispecchia nel populismo e nella demagogia, nel lento dispiegarsi di un linguaggio catastrofico che ha preso il sopravvento in Gran Bretagna.
La comunità ebraica non è più così educata. Ora vediamo titoli di fuoco, ebrei di sinistra e pro Corbyn definiti traditori. Il problema dell'antisemitismo nel Labour di Corbyn è grave e reale, ma definirlo una 'minaccia esistenziale' fa un torto alle molte vere minacce esistenziali che hanno affrontato gli ebrei, oggi e nel corso della storia. [...].
Quello che ho capito è che non sono gli ebrei britannici di una volta a mancarmi, ma la Gran Bretagna di una volta. Un paese in cui il discorso politico era misurato e proporzionato, a volte futile persino. Dove nessun dibattito pubblico si trasformava in panico esistenziale e in una dichiarazione di guerra. Quello che mi manca, nella febbrile Gran Bretagna di oggi, è l'impassibilità".
(Il Foglio, 13 agosto 2018)
Israele Stato-Nazione. La legge che divide. Perché no
"Ferisce la convivenza tra noi e gli altri popoli"
di Abraham B. Yehoshua
Qual è, a mio parere, il motivo dell'approvazione della nuova legge che sancisce il carattere ebraico dello Stato di Israele, l'ebraico come unica lingua ufficiale e incoraggia lo sviluppo futuro degli insediamenti, sottolineandone il valore nazionale? Perché questo provvedimento suscita l'indignazione dell'ala liberale di Israele, dell'opposizione in Parlamento e di molti accademici, che la vedono come un ulteriore avvicinamento a uno stato di apartheid non solo nei territori palestinesi della Cisgiordania ma anche entro i confini della Linea Verde?
Anche il presidente Reuven Rivlin, per anni membro del Likud (il partito di maggioranza al governo), ha criticato apertamente il premier Netanyahu e i suoi ministri chiedendo il rinvio dell'approvazione del recente decreto, o almeno alcuni suoi significativi emendamenti.
La legge ha suscitato le forti proteste della comunità drusa, profondamente legata all'identità israeliana. Una comunità che ha rappresentanti in Parlamento (per lo più, ironicamente, nei partiti di destra) e i cui figli si arruolano nell'esercito e prestano servizio in unità di combattimento e di élite. Una comunità che parla l'arabo, retrocesso dalla nuova legge da lingua ufficiale - a fianco dell'ebraico - a «speciale»: una definizione poco chiara e non ben definita.
Anche la minoranza palestinese è giustamente insorta contro questo decreto in cui non compaiono i termini «democrazia» e «uguaglianza», presenti invece nella Dichiarazione di Indipendenza redatta alla fondazione dello Stato, nel 1948, in cui si specifica che Israele assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di religione, razza o sesso.
Nemmeno agli ebrei della diaspora è chiaro l'onnicomprensivo concetto di «nazionalità ebraica» che li vede inclusi. Un ebreo, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, il cui compito è di interpretare la costituzione di quello stato, può ritenersi parte della nazione ebraica? E in che modo la sua nazionalità americana si integrerà con quella ebraica? C'è una sovrapposizione fra le due o sono in contraddizione? Se l'ebraismo è per lui solo una componente culturale o religiosa della sua identità americana, Netanyahu ha il diritto di imporgli una nazionalità chiaramente connessa allo Stato di Israele che lui forse non desidera?
Malgrado sia essenzialmente dichiarativa, la nuova legge è comunque superflua e colpisce gravemente l'identità israeliana, un'identità nella quale si accomunano tutti i cittadini dello Stato. Il nome della nazione in cui viviamo è Israele e tutti i suoi cittadini posseggono una carta d'identità israeliana, non ebraica. Che bisogno c'è quindi di un provvedimento simile? Dopotutto, già nel 1947, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale durante la quale un terzo del popolo ebraico è stato sterminato, le Nazioni Unite riconobbero il suo diritto a uno Stato.
Se volessimo chiarire il motivo profondo di questa norma giuridica provocatoria e inutile, ho l'impressione che lo si debba cercare non nel passato ma nel futuro. Ovvero nel dibattito sull'avvenire della Cisgiordania, dove circa due milioni e mezzo di palestinesi vivono sotto occupazione militare. L'auspicata soluzione di due Stati per due popoli appare sempre più inattuabile col passare del tempo, soprattutto a causa della presenza di quattrocentomila israeliani negli insediamenti in Cisgiordania, che sarà impossibile sradicare con la forza se non a prezzo di una sanguinosa guerra civile.
Lo schieramento per la pace sostiene che il proseguimento della costruzione di insediamenti e il deliberato e continuo rinvio del processo di pace trasformeranno profondamente l'identità ebraica di Israele, la cui popolazione, in futuro, sarà costituita dal quaranta per cento di palestinesi e dal sessanta per cento di ebrei. Per difendersi da questa asserzione, considerata dalla maggior parte degli israeliani più teorica che politica, il governo Netanyahu, convinto che le parole possano cambiare la realtà dei fatti, ha varato in maniera affrettata e irresponsabile una legge nazionalista che definisce Israele come Stato del popolo ebraico, rendendo così nebulosi i diritti democratici delle minoranze presenti nel Paese.
Che lo si voglia o no Israele sta scivolando lentamente verso una realtà di doppia nazionalità, costituita dal sessanta per cento di cittadini ebrei e dal quaranta per cento di palestinesi, fra cui due milioni con cittadinanza israeliana e altri due milioni e mezzo privi di diritti civili in Cisgiordania. Due milioni e mezzo di palestinesi che, prima o poi, chiederanno i loro diritti e noi, a dispetto delle parole vuote della recente legge, non potremo negarglieli.
(La Stampa, 13 agosto 2018)
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Israele Stato-Nazione. La legge che divide. Perché sì
"Protegge la nostra identità dai nemici esterni"
di Mordechai Kedar
Molto si è scritto contro la nuova legge israeliana che proclama lsraele uno Stato nazionale del popolo ebraico. Molti, in Israele e all'estero, si chiedono a cosa servisse questa legge, come si concilia con la democrazia e quale sarà ora lo status delle minoranze, in particolare degli arabi musulmani, che rappresentano circa il 20 per cento della popolazione israeliana.
Per comprendere la necessità di questa legge dobbiamo capire la sfida rappresentata dall'esistenza stessa di Israele in Medio Oriente. Prima di tutto l'aspetto religioso: secondo l'islam, il giudaismo e il cristianesimo sono «din al-ba tel» («religioni false»), mentre solo l'islam è «din al-haqq» («religione della verità»), e di conseguenza da quando il mondo ha conosciuto l'islam il giudaismo non vale più nulla, e non esiste alcun motivo di fondare uno Stato ebraico.
Inoltre, secondo l'islam, gli ebrei (e i cristiani) dovrebbero vivere sotto la legge islamica come «Dhimmis» («Protetti fintanto che si comportano secondo le regole islamiche») e «pagare la jizya e rimanere sottomessi» (Corano 9:29). Di conseguenza, gli ebrei non avrebbero diritto ad avere uno Stato, un esercito, una polizia, e dovrebbero vivere umiliati, alla mercé dei musulmani. L'islam ha forgiato la cultura del Medio Oriente negli ultimi 14 secoli, e le altre minoranze religiose mediorientali - i cristiani, i drusi, gli alawiti e altri - hanno accettato questa idea musulmana.
Quanti italiani accetterebbero di vivere sotto il governo islamico?
Secondo punto, l'aspetto nazionale: il fatto che Israele sia uno Stato nazionale del popolo ebraico viene rifiutato da tutti i suoi vicini. Per esempio, l'articolo 20 della Carta nazionale palestinese recita (tra parentesi, il mio commentario): «Il Mandato palestinese e tutto quello che ne deriva» (la decisione internazionale di fondare uno Stato ebraico) «è ritenuto nullo. Le rivendicazioni di legami storici o religiosi degli ebrei con la Palestina sono incompatibili con i fatti storici e con la concezione vera di quello che costituisce uno Stato» (nella Terra Santa non c'è una storia ebraica). «Il giudaismo, essendo una religione, non è una nazionalità distinta, e gli ebrei non costituiscono una nazione distinta con una propria identità: essi sono cittadini degli Stati dai quali provengono» e quindi noi ebrei dovremmo lasciare la terra dei nostri padri e tornarcene in Polonia (Auschwitz), Germania (Dachau), Iraq, Marocco ecc.
Ogni Paese al mondo, Italia inclusa, sostenendo la fondazione di uno Stato palestinese, sostiene implicitamente anche queste idee. La nuova legge vuole rendere chiaro quanto possibile che noi, ebrei, siamo una nazione, che «la terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato fondato lo Stato israeliano; lo Stato d'Israele è la casa nazionale del popolo ebraico, che così realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all'autodeterminazione; il diritto di esercitare l'autodeterminazione nazionale nello Stato d'Israele appartiene esclusivamente al popolo ebraico», recita la legge. Proprio come l'Italia, Stato nazionale del popolo italiano, la Francia, Stato nazionale dei francesi, Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico.
Esistono però anche ebrei israeliani che si oppongono alla legge sullo Stato nazionale per varie ragioni, in primo luogo politiche: molti appartenenti alla sinistra della mappa politica non amano Netanyahu in quanto tale, e criticano tutto quello che fanno lui e la sua coalizione.
Un'altra ragione, più importante, è quanto accaduto alla Corte Suprema dal 1992, quando venne nominato giudice Aharon Barak, che si dedicò alla «rivoluzione costituzionale» (una frase che egli stesso ha coniato) israeliana, privilegiando e promuovendo i diritti umani a spese del carattere ebraico dello Stato. Il migliore esempio di questa rivoluzione è il movimento arabo al-Ard, il cui scopo era quello di cancellare il carattere ebraico e sionista di Israele. Il movimento cercò di correre alle elezioni della Knesset nel 1965, ma venne respinto dalla Corte Suprema. 31 anni dopo, nel 1996, la Corte Suprema presieduta da Aharon Barak permise al Partito Balad di candidarsi alla Knesset, nonostante avesse - e abbia tuttora - un programma molto simile a quello di al-Ard negli Anni Sessanta.
In Israele abbiamo anche quelli che credono nel multiculturalismo, che naturalmente si oppongono alla legge. Quando noi israeliani vediamo cosa è successo in Europa per colpa del multiculturalismo, vogliamo allontanarci quanto possibile da questa idea distruttiva. Se gli europei vogliono commettere un suicidio culturale auguriamo loro buona fortuna. Noi invece non vogliamo perdere il nostro carattere nazionale, la nostra patria, il nostro Stato e la nostra cultura. La legge sullo Stato nazionale deve garantire che Israele non venga sacrificata sullo stesso altare su cui l'Europa sta commettendo un suicidio culturale.
(La Stampa, 13 agosto 2018)
Gitai: con un viaggio in tram svelo le contraddizioni di Israele
Nel film, fuori concorso a Venezia, gli attori interagiscono con i passeggeri
di Giuseppina Manin
E' il tram più affollato di Gerusalemme. Circa duecentomila i passeggeri, arabi e ebrei, che ogni giorno salgono e scendono dalle 23 fermate della Linea rossa, 14 chilometri da est a ovest della Città Santa attraversandone varietà e differenze. «Dai quartieri palestinesi di Shuafat e Beit Hanina fino al cimitero di Mount Herzl dove sono sepolti Golda Meir, Rabìn, Peres» spiega Amos Gitai, voce scomoda e autorevole del cinema israeliano, da 40 anni impegnato a raccontare la tormentata saga del suo Paese con film quali Kadosh, Kippur, Free Zone fino al recente Rabin, the Last Day. E se la storia tira dritto nelle sue follie e orrori, lui la insegue senza tregua. Stavolta aggrappandosi in corsa a un tram che si chiama desiderio. Di una pace troppo a lungo rinviata.
A Tramway in Jerusalem, fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è una commedia utopica e un reportage inedito. «Quel microcosmo di persone stipate come sardine nella stessa vettura che si sopportano l'un l'altro accettando attriti e controversie senza scannarsi, è la metafora ironica e ottimistica di una città divisa che, almeno per lo spazio di un tragitto, mette da parte conflitti e violenze e cerca di simulare una convivenza possibile».
La vita potrebbe essere così, persino a Gerusalemme. «L'esistenza di uomini e donne è la stessa che altrove. Gerusalemme è il centro spirituale delle tre grandi religioni monoteistiche, giudaismo, cristianesimo, Islam. Che una volta al giorno si ritrovano fianco a fianco su questo tram, diventato simbolo di normalizzazione».
Tra fiction e non fiction, Gitai registra l'ordinario via vai di gente di origini e culture diverse, e fa salire sul tram anche alcuni attori, palestinesi, israeliani, europei. Volti noti come Noa, Pippo Del Bono, Mathieu Amalric, si mescolano con i passeggeri. «Noa è un'amica di lunga data, è lei che apre la storia in modo molto delicato. Pippo è un prete cattolico lacerato dal dramma della Passione di Cristo. Quanto ad Almaric, legge a suo figlio Elias un testo di Flaubert, contrappunto laico sulla religione che impregna da sempre questa terra». Piccoli momenti di vita normale che sembrano vincere la demagogia dell'odio. Ma basta scendere alla propria fermata e tutto ricomincia.
Eppure lo sguardo di Gitai è sorridente. il paradosso della speranza corre sui binari del suo tram. «Saül Tchernikovskì, un poeta, scrive che l'uomo è "l'impronta del paesaggio dove nasce". lo sono cittadino di uno Stato che spero estenderà le sue regole democratiche a tutti e manterrà le istituzioni che permettono di continuare il dialogo. Israele è stato il rifugio degli ebrei in un certo momento della storia, la domanda è che tipo di società diventerà».
I tempi sono oscuri. «Viviamo in uno tsunami xenofobo e razzista. Ovunque vengono eletti politici che diffondono odio verso l'altro. In questo contesto è essenziale che le arti tengano aperte le frontiere del dialogo, della cultura della convivenza. Picasso l'ha fatto dipingendo Guernica. Noi stiamo cercando di dirlo con un film».
A Venezia ne porterà un altro, A Letter to a Friend in Gaza. Due titoli complementari? «Se il primo è quasi una fantasia su questa città la cui bellezza da secoli è speciale proprio perché mosaico di contraddizioni, il secondo cerca di rispondere all'attuale crisi tra Israele e Gaza. Con due attori palestinesi e due israeliani evochiamo le ragioni del conflitto attraverso testi di Mahamood Darwish, Izhar Smilansky, Emile Habibi, Amira Hass. In assenza di soluzioni politiche, diamo la parola ai poeti, agli scrittori, ai giornalisti. La mia Lettera rende omaggio a quella scritta da Albert Camus a un immaginario amico tedesco nel '43. Ma è anche un gesto civile che a volte il cinema deve osare per cercare di stabilire un dialogo diretto con la realtà».
(Corriere della Sera, 13 agosto 2018)
«A Gaza o tregua completa o niente»
Lo ha dichiarato il premier Netanyahu: «La nostra è una campagna militare contro il terrorismo»
Israele non si accontenterà con Gaza di null'altro che di «una tregua completa». Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu nella riunione di governo a Gerusalemme riaffermando così la mancanza attuale di un cessate il fuoco concordato come annunciato invece da Hamas.
Da giovedì scorso la calma, rispetto alla fiammata dei giorni precedenti, è tornata al confine con la Striscia. «Siamo - ha aggiunto - nel mezzo di una campagna contro il terrorismo: c'è stato uno scambio di colpi e non finirà tutto in un solo momento. La nostra linea è chiara: un totale cessate il fuoco e non saremo soddisfatti con meno».
«Abbiamo distrutto centinaia di obiettivi di Hamas e non rileverò i piani operativi preparati: il nostro obiettivo - ha concluso - è ristabilire la pace e lo raggiungeremo in pieno».
(Tel Aviv City, 12 agosto 2018)
Residenti del sud di Israele protestano a Tel Aviv
di Claire Dana-Picard
Una calma tesa è tornata nelle località nel sud di Israele dopo il massiccio lancio di razzi dalla Striscia di Gaza della scorsa settimana. Ma la popolazione è esasperata da questa situazione intollerabile che li costringe a correre ogni volta nei rifugi per proteggersi dagli attacchi.
Centinaia di persone hanno espresso la loro indignazione protestando sabato sera (Motsaei Shabbat) nel centro di Tel Aviv, al crocevia di Azrieli, un luogo molto frequentato della città. Esigendo che il governo "faccia qualcosa per fermare questo continuo terrorismo da Gaza", hanno temporaneamente bloccato la strada, provocando grossi ingorghi.
I manifestanti hanno detto ai media che non ne possono più di essere considerati cittadini di seconda classe. Uno di loro, intervistato dal sito web di H'adashot, ha detto di essere venuto per denunciare la mancanza di azione del governo di fronte alle azioni terroristiche di Gaza.
Il lancio di razzi per ora è cessato e la tregua sembra essere stata rispettata durante lo Shabbat, ma questo non ha impedito ai terroristi di proseguire le loro azioni ostili in altre forme, in particolare usando palloncini incendiari. Uno di questi proiettili è atterrato davanti alla sala da pranzo di un kibbutz, costringendo i residenti a correre verso i rifugi. A seguito di questi attacchi sono scoppiati almeno 16 incendi vicino al confine della Striscia di Gaza.
Inoltre, sabato pomeriggio (Shabbat), un aereo israeliano ha preso di mira un camion che trasportava un commando di tre terroristi che si stavano preparando a lanciare palloni e aquiloni attrezzati con materiali infiammabili verso il sud di Israele.
In questo contesto già di per sé estremamente teso, gli arabi di Gaza hanno provocato scontri, come fanno di solito, vicino alla barriera di sicurezza, nonostante il cessate il fuoco ufficiale. Hanno cercato di attraversare illegalmente il recinto e lanciato sassi e pietre contro i soldati israeliani, che sono stati costretti a rispondere.
(Chiourim.com, 12 agosto 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Perché va ribadito ogni giorno il diritto di esistere di Israele?
Lettera al Direttore di Varese News
Caro direttore
perché anche oggi, come ogni giorno, mi tocca ribadire il diritto di esistere del mio popolo? Perché dobbiamo sempre spiegare, motivare, dimostrare? Perché, nonostante la grandissima generosità che Israele dimostra perfino nei confronti di chi la vuole eliminare, deve giustificarsi per essere in grado di difendersi, quando è il caso?
Perché in tutto il mondo ci sono quintali di sostenitori dell'inventata "causa palestinese" che non devono neppure sapere di cosa parlano mentre i pochi che si dichiarano sionisti devono spiegare e conoscere e motivare? Perché noi dobbiamo continuamente affermare il nostro diritto ad esistere e ad autodeterminarci? Perché non la smettono di riversare la propria indolenza e frustrazione su di noi ed odiarci perché studiamo, lavoriamo e quindi produciamo, inventiamo, evolviamo?
Basta, finitela, ci state provando da millenni, non ci siete mai riusciti, non ce ne andremo, non moriremo, non ci estingueremo e neppure diventeremo come voi amanti della morte, lividi di rancore, non ricorreremo agli insulti personali, non approfitteremo delle vostre debolezze! Noi vivremo, prospereremo, continueremo a fare fiorire la nostra amata Eretz Israel così come porteremo luci alle nazioni in tutto il mondo, lo abbiamo sempre fatto e lo faremo sempre, così come tra noi ci saranno ladri, puttane, malfattori, peccatori di ogni genere, perché siamo umani esattamente come voi e dobbiamo imparare ad essere migliori, esattamente come voi!
Però davvero basta, anche io, anche noi, vogliamo occuparci delle nostre vite, fare la nostre piccole grandi cose, vogliamo poter essere e stare o andare senza doverci costantemente guardare da tutti! Per lo più ci riusciamo, siamo talmente abituati che abbiamo sviluppato la capacità di vivere abbastanza serenamente, nonostante tutto l'odio, la falsità, il rancore
ma davvero i benpensanti paladini dei "più deboli" quelli proprio no, non li riesco a tollerare preferisco i nemici espliciti, quelli che dichiarano il proprio antisemitismo, quelli che perlomeno non tentano di dimostrare la propria superiorità morale rispetto a me con la scusa di essere "dalla parte dei poveri palestinesi"!
Neanche sanno di cosa parlano, neanche conoscono la storia, non hanno mai visto un "palestinese" neppure in fotografia (visto che la maggior parte delle foto che circolano sono finte!), non hanno neppure vagamente idea di come sia fatta Israele e faticherebbero a trovarla su una carta geografica fisica, figurarsi indicarne le reali dimensione eppure si sentono investiti del diritto di giudicare noi, si sentono in diritto d'impartirci lezioni, d'insultarci perché ci permettiamo di difenderci, di difendere Israele
se questo non è odio anti-ebraico davvero non so cosa possa essere, sicuramente un problema loro non mio, non me ne voglio fare carico, se lo devono risolvere, che si occupino di ecologia, di meteoropatia, di scie chimiche, non di noi, non d'Israele, non del Popolo Ebraico!
Sono davvero stufa di dover ripetere sempre le stesse cose, sono millenni che non studiano, che non s'informano, che giudicano e ci uccidono o realmente o lasciando che accada. Non sarà più.
Ariel Shimona Edith Besozzi
(Varese News, 12 agosto 2018)
Bloccati dai missili di Hamas in un albergo vicino a Gaza
Il titolare e un dipendente di un'azienda di calcestruzzi sono da una settimana in Israele per lavori nell'edilizia. «Viviamo nella paura».
di Rosario Padovano
PORTOGRUARO - «I razzi di Hamas ci passano sopra la testa. Siamo bloccati e abbiamo paura». Il titolare della ditta portogruarese Dacem, che si occupa di calcestruzzi, Massimo Daneluzzi residente a Gruaro, e il suo dipendente e concittadino Matteo Artico, sono in un albergo di Ashkelon, località israeliana che si affaccia sul Mediterraneo e si trova a pochi chilometri da Gaza.
Da una settimana Daneluzzi e Artico si trovano nello Stato ebraico per alcuni lavori commissionati da ditte locali che lavorano nel campo dell'edilizia. Di fatto, però, sono ostaggi della pioggia di missili che Hamas ha lanciato in questi giorni verso le città israeliane poste appena oltre il confine, tra cui Sderot. Per loro è impossibile spostarsi verso Tel Aviv o zone ritenute più sicure.
L'escalation militare tra palestinesi e Israele potrebbe costringere Daneluzzi e il suo assistente a chiedere l'aiuto diretto della Farnesina per un corridoio che metta al riparo gli italiani. Al momento i due non hanno ancora contattato il Ministero degli Esteri o l'ambasciata d'Italia a Tel Aviv. «Anche l'anno scorso, lavorando in Israele, eravamo capitati al centro di una crisi.
Stavolta però è tutto diverso e soprattutto molto più pericoloso. Di fatto è impossibile muoversi. Siamo riparati in un albergo, lavoriamo alle nostre commesse con il cuore in gola», continua, «la scorsa notte abbiamo sentito per 125 volte il rumore delle sirene e, in lontananza, qualcosa di simile a fuochi d'artificio. Invece era sicuramente il rumore dei missili che colpivano Sderot, una ventina di chilometri da noi».
Proprio le strutture ricettive di Ashkelon, località turistica, potrebbero essere un obiettivo alla portata di Hamas per alzare il tiro a livello internazionale, visto che negli alberghi al confine con la Striscia soggiornano molti stranieri.
Per rendersi conto dell'angoscia dei civili israeliani basta collegarsi al sito dell'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs. Daneluzzi e Artico sono al centro di una guerra. Portogruaro e Gruaro vivono questa situazione con il fiato sospeso.
(la Nuova di Venezia, 12 agosto 2018)
Israele, tra leggi e manifestazioni
Sui quotidiani israeliani si parla della manifestazione organizzata dalla minoranza araba ieri a Tel Aviv contro la Legge sull'identità ebraica d'Israele. Polemiche per la presenza di molte bandiere palestinesi." Gli organizzatori hanno commesso un grave errore consentendo l'uso delle bandiere", ha scritto l'ex primo ministro laburista Ehud Barak su Twitter, definendo le bandiere palestinesi un "servizio gratuito" per coloro che sostengono la legge oggetto della protesta. "Non c'è testimonianza migliore della necessità della legge dello Stato nazionale - ha commentato Netanyahu sui social - Continueremo a sventolare la bandiera israeliana e a cantare Hatikva con grande orgoglio".
(moked, 12 agosto 2018)
Corbyn e Israele, un punto di non ritorno
Nel 2014 Corbyn portò fiori sulle tombe dei terroristi palestinesi che uccisero gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco '72.
di Paolo Lepri
E' il momento di cambiare rotta, di assumersi la responsabilità degli errori. Le immagini del leader laburista Jeremy Corbyn che rende omaggio a uomini dalle mani sporche di sangue innocente - il sangue delle vittime del massacro anti-israeliano di Monaco, nel 1972 - provocano uno scandalo nelle coscienze e rappresentano un punto di non ritorno.
Si azzerano, come passando uno straccio sulla lavagna del sentimento, anni di discussioni sul virus che si annida nel Labour. Bisogna inchinarsi ai tanti che hanno combattuto la loro battaglia in un partito che, ricordiamolo, ha adottato la definizione di antisemitismo dell'Alleanza internazionale per il ricordo dell'Olocausto tralasciandone alcuni capitoli, come l'accusa agli ebrei di essere più leali a Israele che al loro Paese.
La linea di Corbyn non dimostra soltanto l'incapacità di tenersi in equilibrio tra le critiche legittime a Benjamin Netanyahu e la difesa del diritto di esistere di Israele oppure tra la rivendicazione del patrimonio positivo della comunità ebraica e la dissociazione implicita dai valori che quella comunità cementa. Quanto sta avvenendo è il segno di una cultura che va cambiata. Il Labour è l'unica grande forza progressista europea in cui resiste un internazionalismo dogmatico che non vuole avere nemici nella galassia minore dell'antagonismo, che legge la realtà come se negli ultimi decenni niente fosse accaduto.
No, tutto è invece è cambiato, ma non si vuole capire che la lotta di un popolo senza Stato è stata dirottata su una strada senza uscita dagli attentati suicidi e dal fondamentalismo di Hamas. Corbyn non si rende conto che l'escalation antioccidentale del terrorismo islamico ha reso indispensabile compiere scelte di campo per isolare la minaccia e proteggerne i bersagli. Non è facile dimenticare il paragone assurdo da lui tracciato qualche tempo fa: «I nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele come i nostri amici musulmani per l'autoproclamato Stato Islamico».
Un uomo che aspira a entrare nel numero 10 di Downing Street guarda il mondo con un cannocchiale rovesciato.
(Corriere della Sera, 12 agosto 2018)
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Corbyn sbugiardato: portò fiori ai terroristi
Negava di aver reso omaggio ai fedayn di Monaco '72: un giornale lo incastra
di Fiamma Nirenstein
Fu nel settembre del 1972 che l'orrore del terrorismo palestinese raggiunse il suo picco: 11 atleti israeliani che partecipavano alle Olimpiadi di Monaco furono presi in ostaggio da un commando. Due atleti furono torturati e uccisi sul posto, altri 9 trucidati all'aeroporto. Una vecchia vicenda purtroppo piena di significati contemporanei. Essi riguardano da vicino Jeremy Corbyn, che in una foto pubblicata dal Sunday Times, scattata in Tunisia nel 2014, onora con una corona di fiori la tomba di quei terroristi. Il leader dei laburisti inglesi, che potremmo trovarci presto primo ministro in Inghilterra, ha negato di essere là proprio per onorare quegli specifici palestinesi, ma le foto sono spietate: Corbyn prega con le mani rivolte verso l'alto, come un fedele musulmano, sulla tomba di Atef Bseiso, che ideò l'attacco a Monaco; lui ha detto che era là per ricordare le vittime di un attacco aereo israeliano a Tunisi (per altro tutti ben certificati terroristi, come Salah Khalaf capo di Settembre Nero) ma quelli sono seppelliti a una quindicina di metri da dove Corbyn si commuove. E solo una delle tante espressioni antisemite e antisraeliane del leader socialista che ha chiamato fratelli gli uomini di Hamas; ma nonostante l'alto prezzo politico dentro e fuori del partito, il leader del Labour non vuole, non può rinunciare al suo odio. E la rappresentazione in termini iperrealistici della scivolata della sinistra europea verso l'antisemitismo di cui ha sempre accusato la destra, ma è difficile immaginare che persino per un gesto così rivoltante Corbyn paghi un prezzo: anzi al suo estremismo si ispirano tutti quelli che di fronte alla crisi della sinistra immaginano un nuovo tipo di populismo che sgomini quello di destra.
Corbyn ha incoronato la sua carriera pubblica di antisemita sostenendo dopo un viaggio a Gaza di aver visto lo stesso tipo di distruzione che i nazisti avevano portato a Stalingrado e a Leningrado; e ha fatto storia per aver portato il partito a rifiutare la definizione internazionale di antisemitismo (scritta dall'Alleanza Internazionale per la Memoria) basata su 11 esempi di antisemitismo contemporaneo, spingendo i giornali ebraici inglesi a una protesta collettiva anche se in genere sono su posizioni opposte. Corbyn e i suoi non accettano di considerare antisemita la comparazione di Israele ai nazisti (che gli piace particolarmente): Corbyn è una pellaccia di antisemita, la sua schiera può esserne fiera: loda i terroristi, nega l'Olocausto, ha partecipato a conferenze sul tema e ha donato denaro a Paul Eisen, un noto negazionista; ha tenuto una riunione in parlamento durante il Giorno dell Memoria del 2010 col maggiore negazionista olandese Hajo Meyer; è stato spesso implicato in manifestazioni di puro incitamento antisraeliano, e il suo palese odio per lo Stato Ebraico è diventato senso comune presso molti membri del suo partito. La confusione dell'opinione inglese può portare quest'uomo sullo scranno di primo ministro e creare quindi una situazione di persecuzione antiebraica? La risposta è si: nessuno dei populismi sospettati di antisemtismo si è spinto lontano come lui, sulla tomba degli assassini di Monaco.
(il Giornale, 12 agosto 2018)
Israeliani e palestinesi: al Cairo tre negoziati più uno
di Janiki Cingoli
Dopo gli ultimi scontri armati, fatti oramai quasi quotidiani, tra Hamas e l'esercito israeliano, con il lancio di oltre 180 razzi, oltre ai consueti aquiloni e palloni incendiari verso Israele, e 150 operazioni mirate dell'aviazione israeliana, una precaria tregua sembra nuovamente essere entrata in vigore a mezzanotte, grazie alla mediazione egiziana.
Nel frattempo, al Cairo si intrecciano tre negoziati paralleli.
I tentativi in corso sono così importanti che il Premier israeliano Netanyahu ha annullato una visita in Colombia da tempo programmata, convocando domenica scorsa il Consiglio di Sicurezza del Governo in un bunker sotterraneo a Tel Aviv, per garantire la massima segretezza alla discussione; mentre quattro alti dirigenti di Hamas dell'esterno, guidati dal capo militare di Hamas in Cisgiordania, Saleh al-Arouri, arrivavano a Gaza via Egitto, con garanzia di incolumità fornita dai servizi segreti israeliani.
Due di questi negoziati sono condotti in parallelo dai servizi di sicurezza egiziani, il primo rivolto a ottenere il ripristino della tregua tra israeliani e palestinesi, interrotta il 30 di marzo con l'inizio delle "Manifestazioni per il Ritorno" del venerdì, indette da Hamas al confine con Israele, e duramente represse dalle forze armate israeliane.
La proposta egiziana prevede l'impegno di Hamas a interrompere le marce del venerdì e il lancio di aquiloni e palloni incendiari sulle zone di confine israeliane, che hanno provocato numerosi incendi ai boschi e alle piantagioni, oltre che i lanci di razzi e i tentativi di infiltrazione in Israele.
Di ritorno, verrebbe garantita la riapertura più prolungata del valico di Erez con Israele, l'allargamento dell'area di mare consentita ai pescatori della Striscia, ristretta dopo l'esplodere dei primi incidenti a fine marzo, una riapertura stabile del valico di Rafah con l'Egitto, la fine delle incursioni israeliane su Gaza.
Il secondo canale negoziale è quello interpalestinese, volto a ridare vita all'accordo siglato tra Fatah e Hamas alla fine del '17, e mai in realtà entrato in vigore. L'accordo prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale, composto di tecnici (che è stato creato, ma non è mai entrato in funzione a Gaza) e l'indizione a breve di nuove elezioni presidenziali e legislative.
Il nocciolo della disputa tra le due fazioni è che Hamas punta a attribuire a questo governo provvisorio la responsabilità amministrativa della popolazione, sempre più onerosa e difficile da mantenere, tenendo per sé il controllo delle forze militari di cui dispone, ben più forti di quelle dell'Autorità palestinese. Altro punto di contrasto è il diritto di riscuotere le tasse da parte di tale governo. Il Presidente palestinese Abbas vuole invece che all'Anp sia garantito il controllo totale della Striscia, non un controllo dimezzato.
Il nuovo negoziato al Cairo parte quindi in salita, perché Abbas vede come un affronto e si sente emarginato per i negoziati indiretti in atto tra Hamas e Israele, accusa Hamas di tradimento, e ha posto agli egiziani 14 condizioni per l'accoglimento della loro proposta, che sostanzialmente la rendono inattuabile.
Accanto ai due tentativi egiziani, è in atto un tentativo a più largo raggio del Coordinatore speciale dell'Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, "che considera le proposte egiziane come un primo stadio, cui far seguire un piano più ambizioso per la riabilitazione di Gaza, con la creazione di un porto e successivamente di un aeroporto al servizio della Striscia, da costruire in territorio egiziano e sotto il controllo del Cairo, per evitare l'afflusso di armi, ed il varo di un vasto piano per la ricostruzione delle abitazioni dell'area, devastate dall'ultima guerra del 2014.
Allo scopo sarebbero già stati reperiti ingenti fondi, del Qatar, degli Emirati, dell'Europa, di altre organizzazioni internazionali, per oltre 600 milioni di dollari. Questi fondi sarebbero utilizzati direttamente sul terreno, sotto il controllo egiziano e di altri donor.
Su tutti questi canali negoziali in atto, aleggia infine il piano di pace Usa, di un cui rilancio si parla insistentemente in questi giorni, e che probabilmente attende l'esito di questi tentativi per materializzarsi, come riporta ancora in questi giorni un importante articolo del quotidiano israeliano Ha'aretz", ripreso sull'Huffington Post da Umberto Di Giovannangeli.
Perché al Cairo si vada avanti, un primo problema è che, senza un accordo Fatah - Hamas, Israele dovrebbe procedere scavalcando l'Autorità palestinese. La cosa non dispiacerebbe del tutto a Netanyahu, che non considera l'Anp un interlocutore credibile, e anche i governi arabi e le organizzazioni internazionali potrebbero decidersi a procedere direttamente, in nome dell'emergenza, senza attendere il benestare di Abbas.
Il Premier israeliano potrebbe vedere questa addirittura come un'opportunità, perché non lo impegnerebbe in una ripresa del negoziato di pace più generale, e manterrebbe in piedi la frattura interpalestinese.
Quanto ai maggiori Stati arabi, i sauditi hanno sempre guardato con un'attenzione particolare alla Striscia di Gaza, considerandola come una potenziale piattaforma per la sua rinnovata proiezione verso il Mar Rosso; e inoltre la nuova generazione di leader arabi, di cui il saudita Mohammad bin Salman (MBS) rappresenta l'esponente più emblematico, contrariamente alla precedente generazione non vede la costituzione di uno Stato palestinese come un obbiettivo essenziale, ma come un potenziale rischio di deriva estremistica, un possibile nuovo anello dell'arco di influenza sciita.
Ma vi è un secondo ostacolo: Hamas detiene i corpi di due soldati israeliani deceduti nella guerra del '14, e di due civili che hanno sconfinato nella Striscia, e per rilasciarli pretende la liberazione di prigionieri palestinesi, in particolare di quelli che erano stati rilasciati nel 2011 nello scambio per la liberazione del soldato Shalit e successivamente riarrestati, dopo l'eccidio dei tre giovani israeliani nel giugno 2014.
Israele non vuole neanche sentirne parlare, al massimo potrebbe rilasciare quelli che non si sono macchiati di atti terroristici sanguinosi. Così, tutto è bloccato.
La cosa più probabile è che si arrivi nelle prossime settimane almeno al primo stadio, al ripristino della tregua e della situazione esistente il 29 marzo, prima dell'inizio delle manifestazioni per il Ritorno, rinviando a un secondo stadio la discussione del piano Mladenov, lasciando intanto nel suo cantuccio Abbas.
Ma intanto, nuovi incidenti scoppiano a ripetizione, anche molto gravi come quelli di questi ultimi giorni.
Israele è perfettamente consapevole che, anche se scatena una guerra, con tutte le possibili perdite di militari e civili che potrebbero derivarne, oltre alle gravi perdite inflitte ai palestinesi che lo isolerebbero sul piano internazionale, al suo termine si ritroverebbe esattamente al punto di oggi; il suo obbiettivo non è quello di abbattere Hamas, cui potrebbero sottentrare gruppi jihadistici ancora più pericolosi, e tanto meno quello di riassumersi il pesante onere della popolazione civile della Striscia, in quanto potenza nuovamente occupante. Come scrive Amos Harel sul quotidiano israeliano Ha'aretz, è un po' uno di quei film in cui ci si sveglia la mattina e si è costretti a ripetere sempre lo stesso giorno da capo.
Ma si cammina sul filo del rasoio. Basta che uno dei razzi di Hamas cada su un asilo israeliano facendo una strage di bambini, o che una bomba israeliana sbagli mira e faccia una strage di civili palestinesi a Gaza, perché la guerra ritorni. Speriamo che anche questa estate non sia funestata da questi lutti, invece di essere un'estate che porti pace e ristoro a questa Striscia in condizioni così drammatiche.
(L'HuffPost, 10 agosto 2018)
Buber. La nuova alleanza fra tedeschi ed ebrei
Tornano gli scritti sull'educazione del grande pensatore che negli anni 30 coltivò un progetto pedagogico fondato sulla cultura, la letteratura e la storia.
La coappartenenza ai due mondi non gli impedì di partecipare nel 1899 al congresso sionista di Basilea da cui prese le distanze nel 1903, criticando Theodor Herzl per l'identificazione fra Sion e Stato-nazione
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Dopo la Seconda guerra mondiale s'impegnò per la riapertura del dialogo con la Germania, contro la tesi della colpa collettiva sostenuta da Karl Jaspers, e per la riconciliazione tra palestinesi e israeliani
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di Simone Paliaga
Viviamo - bisogna ripeterlo - in un'epoca nella quale si realizzano momento dopo momento i grandi sogni e le grandi speranze dell'umanità: ma come caricature! Qual è la causa di questa illusione diffusa e incombente? Io penso che non sia altro che il potere del sentimento fittizio. Questo potere lo chiamo ineducazione dell'uomo di oggi. Contro di essa c'è la vera Bildung, la vera formazione, al passo con i tempi, che porta gli uomini a un legame vissuto con il proprio mondo e che a partire da ciò li fa elevare alla fedeltà, alla messa alla prova, alla responsabilità, alla decisione, alla realizzazione» scrive Martin Buber in Bildung e Weltanschauung del 1935, raccolto nel 1953 con altri interventi pedagogici nei Discorsi sull'educazione, ora riediti da Armando Editore (pagine 108, euro 12). Non è un argomento marginale quello dell'educazione, nel pensiero di Buber. Per lui il cammino dell'uomo gravita proprio intorno alla formazione. Non a caso Francesco Perrari avverte in La comunità postsociale. Azione e pensiero politico di Martin Buber (Castelvecchi, pagine 142, euro 19,50), che il pensatore ebreo «sostiene l'urgenza di un progetto educativo attraverso la cultura, la letteratura, la storia perché sono gli elementi mediante i quali è possibile "agire attraverso la vita stessa''». La riflessione pedagogica è tanto indispensabile per la passione sionista del Buber dei primi anni del Novecento come per la riconciliazione tra palestinesi e israeliani in vista dell'edificazione di uno Stato binazionale e per la riapertura del dialogo con la Germania dopo la guerra, in contrasto con l'ipotesi di colpa collettiva agitata da Karl Jaspers. Non a caso l'amico Ernst Simon definì il pensatore ebraico Gosher HaG'sharim, "costruttore di ponti". Altrimenti non si coglierebbe la ricerca continua di risanare le relazioni spezzate tra le persone, le nazioni e tra uomo e Dio. Progetto che resterebbero rinchiusi nel mondo ideale però se non intervenisse l'educazione.
Nato nel 1878 a Vienna, fin dai primi studi Buber crede, a differenza di intellettuali come Gershom Scholem, in una profonda alleanza tra spirito tedesco e spirito ebraico. A testimoniarlo non è solo l'influenza esercitata sul suo pensiero dialogico da Wilhelm Dilthey e Georg Simmel ma anche la collana di monografie che pubblica nei primi due lustri del Novecento con testi di Werner Sombart, Ferdinand Tonnies, Fritz Mauthner o Lou Andreas-Salomé. Non gli impedisce però, la coappartenenza tra i due mondi, di partecipare nel 1899 al Terzo congresso sionista di Basilea dal cui progetto prende le distanze nel 1903, criticando la sovrapposizione di Sion e Stato-nazione. Il divorzio con Theodor Herzl non lo induce comunque ad abbandonare il sogno della]ildische Renaissence, o di avviare con Franz Rosensweig una traduzione della Scrittura in tedesco, o di dare voce alla tradizione chassidim, o ancora di promuovere la nascita della Hebrew University di Gerusalemme fino a diventarvi docente, nel 1938, in fuga dalla Germania.«L'uomo in quanto creatura - ammonisce Buber- non può creare, solo ricreare o trasformare, ciò che è stato creato. Ma può, e ognuno può, aprire se stesso e gli altri alla creatività: può esortare il creatore a salvare e portare a compimento la creatura fatta a sua immagine». Non solo nella sua passione per l'azione, dunque, ma anche nella dimensione teologica alligna l'attenzione di Buber per l'insegnamento di cui coltiva, fin dal 1934, una visione dialogica e non trasmissiva, centrata sull'incontro tra uomini.
Nel rapporto con gli allievi «le forze creative del bambino vanno sviluppate - continua-, e su di esse, così come sulla capacità di essere naturalmente attivi e autonomi, va costruita l'educazione di tutta la persona». Il cardine della pedagogia di Buber mostra come «l'influenza decisiva - precisa il pensatore ebraico - non derivi dal dare libero sfogo all'impulso, ma dalle forze che questo impulso incontra, una volta liberato». Solo l'azione dell'educatore quindi riesce a condurre l'uomo fuori dall'isolamento. Se lasciato a se stesso infatti l'impulso creativo porta all'autoreferenzialità o alla violenza. Se guidato, invece, procede verso «i due elementi irrinunciabili per la costruzione di una vera esistenza umana: il coinvolgimento attivo e l'ingresso nella reciprocità».
Solo così l'ipertrofia di alcuni elementi dell'uomo, come la libido o la competitività, svaniscono e affiora «la polifonia originaria dell'interiorità umana, all'interno della quale nessuna voce può essere ricondotta ad un'altra e l'unità non può essere scomposta analiticamente, ma solo individuata ascoltando tutti i suoni contemporaneamente». Restituendo unità all'esistenza umana l'educazione favorisce l'affiorare nel bambino di un «grande carattere capace - conclude Martin Buber-, grazie alle sue azioni e ai suoi atteggiamenti di rispondere alle richieste della situazione a partire da una profonda disponibilità e dalla responsabilità di tutta una vita» senza cadere nelle caricature dei grandi sogni e speranze dell'umanità.
(Avvenire, 12 agosto 2018)
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«In verità vi dico: uno di voi mi tradirà»
Il primo giorno degli azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua?» Ed egli disse: «Andate in città dal tale e ditegli: "Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te, con i miei discepoli"». E i discepoli fecero come Gesù aveva loro ordinato e prepararono la Pasqua.
Quando fu sera, si mise a tavola con i dodici discepoli. Mentre mangiavano, disse: «In verità vi dico: Uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono a dirgli uno dopo l'altro: «Sono forse io, Signore?» Ma egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Certo, il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui; ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Meglio sarebbe per quell'uomo se non fosse mai nato». E Giuda, il traditore, prese a dire: «Sono forse io, Maestro?» E Gesù a lui: «Lo hai detto».
Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. Vi dico che da ora in poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio». E dopo che ebbero cantato l'inno, uscirono per andare al monte degli Ulivi.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 26
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Perché un accordo di lungo periodo tra Israele e Hamas è impossibile
Nei giorni scorsi si sono susseguite molte indiscrezioni che parlavano di un accordo nel lungo periodo tra Israele ed Hamas, ma a volerlo sono solo gli arabi. In realtà non è nell'interesse di Israele fare un accordo di questo tipo.
Bando alla ciance, lo sbandierato accordo tra Israele e Hamas che dovrebbe mettere fine alle ostilità per almeno cinque anni non è nell'interesse di Gerusalemme. Lo hanno detto chiaramente gli inviati israeliani al Cairo che dovevano trattare un cessate il fuoco con Hamas mediato dall'Egitto e dall'inviato ONU per il Medio Oriente, Nikolay Mladenov.
«Israele non ha alcun interesse a fornire su un piatto d'argento una vittoria politica ad Hamas» ci dice una fonte del Ministero degli Esteri israeliano. «Un accordo come quello che vorrebbero gli egiziani e l'inviato ONU per il Medio Oriente fornirebbe ad Hamas una grande vittoria politica che Israele non può concedere, specialmente in un momento in cui il gruppo terrorista palestinese è in fortissima difficoltà» continua la fonte....
(Rights Reporters, 11 agosto 2018)
Manifestazioni e scontri al confine con Israele
di Francesca Paci
Resta un'atmosfera tesa da prima della pioggia al confine di Gaza, dove ieri, nonostante il formale cessate il fuoco, almeno 9 mila palestinesi hanno manifestato per la "Marcia del Ritorno" in cinque diversi punti della barriera difensiva che li separa da Israele. Il bilancio serale non lascia ben sperare circa la possibilità di un'escalation: secondo il ministero della sanità di Gaza ci sarebbero 2 morti, tra cui un medico volontario caduto a Rafah, e almeno 84 feriti. L'esercito israeliano ha fatto sapere di aver risposto ai «violenti tumulti con mezzi di dispersione e in accordo con le procedure standard operative» e di aver colpito «una postazione di Hamas». Ma oltre la coltre di fumo che amalgama spari, gomme bruciate e esplosivi, il20esimo venerdì di protesta si lascia dietro una scia inquietante in cui l'Ue, attraverso l'alto rappresentate per la politica estera Federica Mogherini, coglie e denuncia l'allarme per una situazione «pericolosamente vicina a un nuovo conflitto».
Mesi di scontri crescenti
La giornata era inizia sotto auspici decisamente migliori, dopo che Hamas aveva parlato con la tv qatarina al Jazeera di un accordo per la sospensione delle ostilità e, nonostante la smentita delle autorità israeliane, sembrava che le acque cominciassero a rientrare negli argini. La notte tra mercoledì e giovedì aveva visto un intensificarsi delle ostilità con una pioggia di razzi contro il Negev, 3 morti a Gaza e feriti da ambo le parti, decine e decine di raid sopra la Striscia, una tensione tale da far ventilare a Gerusalemme un intervento su larga scala a Gaza, che in linguaggio militare significa un' altra guerra. Per questo ieri mattina il cessate il fuoco era stato letto come un segnale positivo soprattutto dell'Egitto, che nelle ultime settimane sta lavorando con le Nazioni Unite a una tregua di lunga durata.
Nulla da fare. Dopo mesi di scontri crescenti, iniziati il 30 marzo nel nome della "Marcia del ritorno" capitanata da Hamas e costati la vita ad almeno 160 palestinesi, torna lo spettro del 2014, l'ultimo durissimo conflitto consumatosi a Gaza, il terzo dal 2008. Il contesto però è cambiato rispetto al 2004: Trump ha sostituito Obama scegliendo un linea molto più filoisraeliana simboleggiata dallo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. I palestinesi sono schiacciati tra il nuovo ordine mondiale, le faide interne alla leadership di Ramallah e Hamas, tentato dalla strategia della spallata popolare per recuperare il consenso perduto.
(La Stampa, 11 agosto 2018)
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La tregua di Gaza è finita prima di iniziare. Chi negozia tra missili e raid
di Rolla Scolari
MILANO - E' durata poche ore la tregua tra Hamas e Israele. L'esercito israeliano ha annunciato nella serata di ieri di aver colpito con l'artiglieria una postazione del movimento islamista che controlla Gaza dopo che dal confine - dove da mesi il venerdì continuano le proteste - è stato lanciato materiale esplosivo contro i soldati oltre la barriera di separazione. Negli scontri, due palestinesi, tra cui un paramedico, sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco, oltre 240 persone sono rimaste ferite, secondo fonti mediche locali. Hamas ha chiesto ai cittadini di tornare a manifestare venerdì mattina, dopo che fonti egiziane avevano annunciato il raggiungimento di una tregua, non confermata ufficialmente dalle parti. Nella notte tra giovedì e venerdì era cessato il lancio di missili da Gaza, e i jet israeliani erano rimasti a terra, in seguito a due giorni di violenze. Da quando a marzo sono iniziate proteste e scontri settimanali tra palestinesi ed esercito israeliano lungo il confine, la situazione rischia ciclicamente di precipitare. Soltanto quando un intervento di terra israeliano sembra imminente, con trattative in corso mentre volano missili e cadono bombe, torna la calma, che dura pochi giorni o, come accaduto ieri, poche ore. Si tratta di "deterrenza reciproca", spiega al Foglio Efraim Halevy, che è stato direttore del Mossad: "Né Hamas né Israele vogliono un conflitto totale, ma neppure mostrarsi deboli davanti all'opinione pubblica interna", e quindi portano avanti lo scontro fino all'ultimo, quando lasciano spazio alla diplomazia. E la diplomazia ha in queste ore un nome. Nickolay Mladenov, 47 anni, ex ministro degli Esteri bulgaro, è Coordinatore speciale dell'Onu per il medio oriente. Sarebbe a lui, rivela il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, che telefonano i leader di Hamas per inviare messaggi a Israele. E il governo israeliano, solitamente tiepido con i funzionari dell'Onu, organizzazione che per molti politici locali sarebbe troppo favorevole ai palestinesi, apprezza il suo operato. Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre dal 2008, e i mediatori finora sono stati altri, come Qatar e Turchia. E' anche in assenza di questi poteri regionali, investiti nel frattempo da crisi politiche o economiche, che si rafforza l'operato di un funzionario con abilità come Mladenov, spiega una fonte diplomatica al Foglio. L'Egitto del rais Abdel Fattah al Sisi è al momento l'unico paese straniero con diretti interessi nella calma a Gaza: in guerra contro gruppi jihadisti nel vicino Sinai non può permettersi instabilità nella Striscia. E proprio attraverso l'operato del capo dell'intelligence del Cairo, Abbas Kamel, e dell'inviato dell'Onu, starebbero emergendo i contorni di un'intesa su Gaza da sottoporre alle parti. I giornali arabi parlano già di "accordo dei cinque anni": durata di un ipotetico cessate il fuoco. Gli scontri di ieri però raccontano una realtà diversa. In Israele, scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano liberal Haaretz, Benjamin Netanyahu è già - non ufficialmente - in campagna elettorale, e per lui Gaza rappresenta una debolezza. Ogni soluzione possibile porta con sé un rischio politico. Un'operazione di terra causerebbe vittime civili palestinesi e la morte di soldati israeliani. Il tentativo di mantenere lo status quo lungo la Striscia. Un possibile accordo di tregua esporrebbe Netanyahu alle critiche degli alleati-avversari della destra più radicale, che preferirebbero un atteggiamento muscolare. Lo stesso potrebbe accadere al leader di Hamas, Yahya Sinwar, che però, a differenza di suoi predecessori, spiega al Foglio Tareq Baconi, autore di Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance, è un leader con una forte credibilità all'interno sia dell'ala politica sia militare del gruppo e avrebbe il sostegno necessario per far passare un'intesa e le concessioni a essa legate.
(Il Foglio, 11 agosto 2018)
Quante guerre ci sono nel mondo?
di Paolo Magliocco
TORINO - Gli scontri tra palestinesi e israeliani, con la minaccia di un intervento di terra da parte delle forze israeliane, fanno temere l'esplodere di un vero e proprio conflitto aperto.
Secondo l'ultima edizione dell'Atlante mondiale delle guerre e dei conflitti la situazione in Medio Oriente è già quella di una vera e propria guerra. In effetti, la dichiarazione di Camp David del 2000, sottoscritta dal Primo Ministro israeliano Ehud Barak e dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat davanti al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton che indicava l'obiettivo di «porre fine a decenni di conflitto e raggiungere una pace giusta e duratura» non ha mai prodotto i suoi effetti.
E il conflitto israelo-palestinese, secondo l'Atlante messo a punto da un gruppo di giornalisti e ricercatori guidati da Raffaele Crocco, è solo una delle 36 guerre che oggi si stanno svolgendo nel mondo. Tre anni fa, di ritorno dal suo viaggio a Sarajevo, papa Francesco aveva descritto questa situazione come «una terza guerra mondiale combattuta a pezzetti».
L'Atlante spiega come anche solo la situazione del Medio Oriente possa essere vista come una guerra mondiale in miniatura, con il coinvolgimento delle potenze mondiali nella guerra civile in Siria, in corso ormai da sette anni, e con la guerra civile in Libano.
Il Continente più colpito dai combattimenti è l'Africa, con 14 situazioni di conflitto, dalla Libia al Sud Sudan e alla Somalia, in guerra dal 1991. In Asia la guerra riguarda Afghanistan, Iraq e Yemen, ma anche il Tibet cinese, l'India e il Pakistan. Ci sono conflitti anche in Europa: in Cecenia, a Cipro, in Georgia, in Kosovo e in Ucraina.
Le Missioni di pace delle Nazioni Unite in corso nel tentativo di arginare queste situazioni sono sedici e alcune durano da ormai settant'anni, come quella per il Medio Oriente iniziata nel 1948 e quella per il conflitto tra India e Pakistan avviata nel 1949. In tutto i militari Onu impegnati sono quasi 90 mila, più personale di polizia, osservatori civili e militari, volontari, per un totale di oltre 122 mila persone e una spesa che supera gli 8 miliardi di dollari.
(La Stampa, 11 agosto 2018)
... per un totale di oltre 122 mila persone e una spesa che supera gli 8 miliardi di dollari. E se scoppiasse la pace? Che fine farebbero le oltre 122mila persone mantenute in vita dalla perduranza delle guerre? Un dubbio che però certamente non agita i sorveglianti delle guerre, perché conoscendo da vicino come stanno le cose, sanno benissimo che il loro il lavoro non ostacolerà minimamente il perdurare delle guerre, e quindi con esse perdurerà anche, a tempo indeterminato, il loro invidiabile impiego. M.C.
«Per loro Dreyfuss non è un uomo, ma l'ebreo che sgozza la patria. .. »
Emile Zola insorge contro l'«antisemitismo imbecille» fomentato dalla stampa «vile e ignobile» che mette i francesi l'uno contro l'altro. Articolo pubblicato su "Le Figaro" il primo dicembre 1897.
di Emile Zola
Contavo di scrivere per Le Figaro tutta una serie di articoli sul caso Dreyfus, un'intera campagna, via via che gli avvenimenti si fossero svolti. Per caso, durante una passeggiata, ne avevo incontrato il direttore, Fernand de Rodays. Ci eravamo messi a discorrere, accalorandoci, proprio in mezzo ai passanti, e da lì era nata bruscamente la mia decisione di offrirgli degli articoli, avendolo sentito d'accordo con me. Mi trovavo così impegnato, quasi senza volerlo. Aggiungo, tuttavia, che prima o poi ne avrei parlato, poiché tacere mi era impossibile. Non dimentichiamo con quale vigore Le Figaro cominciò e soprattutto finì per sposare la causa.
Il concetto è noto. Ed è di una bassezza e di una stupidità semplicistica, degne di quelli che l'hanno immaginato. Il capitano Dreyfus viene condannato da un tribunale militare per alto tradimento. Da quel momento, diventa il traditore, non più un uomo ma un'astrazione, colui che incarna l'idea della patria sgozzata, venduta al nemico vincitore. Non si tratta solo di tradimento presente e futuro, rappresenta pure il tradimento passato, poiché a lui si ascrive l'antica sconfitta, nell'ostinata convinzione che solo il tradimento abbia potuto far sì che fossimo battuti.
Ecco quindi l'anima nera, il personaggio abominevole, la vergogna dell'esercito, il bandito che vende i fratelli, proprio come Giuda ha venduto il suo Dio. E, trattandosi di un ebreo, è semplicissimo: gli ebrei che sono ricchi e potenti e senza patria, del resto, lavoreranno sott'acqua, con i loro milioni, per toglierlo dai guai; compreranno le coscienze e tesseranno attorno alla Francia un complotto esecrabile pur di ottenere la riabilitazione del colpevole, pronti a sostituirgli un innocente. La famiglia del condannato, anch'essa ebrea, naturalmente, entra nell'affare. Affare sì, poiché è a peso d'oro che si tenterà di disonorare la giustizia, d'imporre la menzogna, di sporcare un popolo con la più impudente delle campagne. Il tutto per salvare un ebreo dall'infamia e sostituirlo con un cristiano. Insomma, si crea quasi un consorzio finanziario.
Vale a dire che alcuni banchieri si riuniscono, mettono dei fondi in comune, sfruttano la credulità pubblica. Da qualche parte, c'è una cassa che paga per tutto il fango smosso. C'è una vasta impresa tenebrosa, uomini mascherati, forti somme consegnate di notte, sotto i ponti, a degli sconosciuti, ci sono grandi personaggi da corrompere, pagandone a prezzi folli l'antica onestà. E a poco a poco questo sindacato si allarga, finisce per essere un'organizzazione potente, nell'ombra, tutta una spudorata cospirazione per glorificare il traditore e per annegare la Francia sotto una marea d'ignominia.
Esaminiamolo, questo sindacato. Gli ebrei si sono arricchiti, e sono loro a pagare l'onore dei complici, profumatamente. Mio Dio, chissà quanto avranno già speso! Ma, se sono arrivati appena a una decina di milioni, capisco benissimo che li abbiamo sacrificati. Siamo di fronte a cittadini francesi, nostri uguali e nostri fratelli, che l'antisemitismo imbecille trascina quotidianamente nel fango. Si è tentato di schiacciarli per mezzo del capitano Dreyfus; del crimine di uno di loro, si è cercato di fare il crimine di un'intera razza. Tutti traditori, tutti venduti, tutti da condannare. E volete che gli stessi non protestino furiosamente, non cerchino di discolparsi, di restituire colpo su colpo in questa guerra di sterminio della quale sono oggetto? Va da sé, naturalmente, che si augurino con tutto il cuore di vedere risplendere l'innocenza del loro correligionario; e se la riabilitazione appare loro possibile, chissà con quanto ardore si staranno impegnando per ottenerla. Ciò che mi lascia perplesso è che, se esiste uno sportello dove si va a riscuotere, non ci sia nel sindacato qualche autentico briccone. Vediamo un po, voi li conoscete bene: come si spiega che il tale, o il tal altro, o il tal altro ancora, non lo siano? E' incredibile, ma tutta la gente che si dice gli ebrei abbiano comprato gode di una solida reputazione di probità.
C'è forse un fondo di civetteria? Forse, gli ebrei vogliono soltanto merce rara, essendo disposti a pagarla? lo, però, dubito molto di questo sportello, anche se sarei prontissimo a giustificare gli ebrei qualora, portati all'esasperazione, si difendessero con i loro milioni. In un massacro, ognuno si serve di quello che ha. E parlo di loro con la massima tranquillità perché non li amo e non li odio. Non ho amici ebrei particolarmente vicini al mio cuore. Per me sono uomini, e tanto basta. Ma per la famiglia del capitano Dreyfus è ben diverso, e qui se qualcuno non comprendesse, non s'inchinasse, sarebbe un cuore davvero arido. Sia ben chiaro! tutto il suo oro, tutto il suo sangue, la famiglia ha il diritto e il dovere di offrirlo, se crede innocente il suo rampollo.
Quella è una soglia sacra che nessuno ha il diritto di insozzare. In quella casa che piange, dove c'è una moglie, dei fratelli, dei genitori in lutto, è d'obbligo entrare con il cappello in mano; e soltanto gli zotici si permettono di parlare ad alta voce e mostrarsi insolenti. il fratello del traditore! è l'insulto che si getta in faccia a quel fratello. Sotto quale morale, sotto quale Dio viviamo, mi chiedo, perché ciò sia possibile, perché la colpa di uno dei componenti venga rimproverata a tutta la famiglia? Non c'è niente di più vile, di più indegno della nostra cultura e della nostra generosità. I giornali che ingiuriano il fratello del capitano Dreyfus, solo perché ha fatto il suo dovere, sono un'onta per la stampa francese.
E chi mai doveva parlare, se non lui? E' compito suo. Quando la sua voce si è levata a chiedere giustizia, nessuno più aveva il diritto d'intervenire, si sono fatti tutti da parte. Lui solo aveva la veste per sollevare la spinosa questione di un possibile errore giudiziario, della verità su cui far luce, una verità lampante. Hanno un bell'accumulare ingiurie, nessuno potrà oscurare il concetto che la difesa dell'assente l'hanno in mano quelli del suo sangue, che hanno conservato la speranza e la fede. E la prova morale più forte in favore dell'innocenza del condannato è proprio la convinzione incrollabile di un'intera e onorata famiglia, di una probità e di un patriottismo senza macchia.
Poi, dopo gli ebrei fondatori, dopo la famiglia che ne è a capo, vengono i semplici membri del sindacato, quelli che si sono fatti comprare. Due tra i più anziani sono Bernard Lazare e il comandante Forzinetti. In seguito, sono venuti Scheurer-Kestner e Monod. Ultimamente, si è scoperto il colonnello Picquart, senza contare Leblois. E spero bene, dopo il mio primo articolo, di far parte pure io della banda.
Del resto, appartiene al sindacato, viene tacciato d'essere un malfattore e d'essere stato pagato, chiunque, ossessionato dall'agghiacciante brivido di un possibile errore giudiziario, si permetta di volere che sia fatta la verità, in nome della giustizia. Siete stati voi a volerlo, a crearlo, questo sindacato. Voi tutti che contribuite a questo spaventoso caos, voi falsi patrioti, antisemiti sbraitanti, semplici sfruttatori della pubblica sconfitta.
La prova non è forse completa, di una luminosità solare? Se ci fosse stato un sindacato, ci sarebbe stata un'intesa; e dov'è l'intesa? E' semplicemente nato in alcune coscienze, all'indomani della condanna, un senso di malessere, un dubbio, di fronte all'infelice che grida a tutti la sua innocenza. La crisi terribile, la pubblica follia alla quale assistiamo, è sicuramente partita da lì, dal lieve brivido rimasto negli animi. Ed è il comandante Forzinetti l'uomo di quel brivido che tanti altri hanno provato, quello che ce ne ha fatto un racconto così cocente.
Poi, c'è Bernard Lazare. Preso dal dubbio, lavora a far luce. La sua inchiesta solitaria si svolge però in mezzo a tenebre che gli è impossibile diradare. Pubblica un opuscolo, ne fa uscire un secondo alla vigilia delle sue rivelazioni di oggi; e la prova che lavorava da solo, che non era in relazione con nessun altro membro del sindacato, è che non ha saputo, non ha potuto dire niente della verità vera. Un sindacato proprio strano, i cui membri si ignorano!
C'è poi Scheurer-Kestner, a sua volta torturato dal bisogno di verità e di giustizia, e che cerca, tenta di arrivare a una certezza, senza sapere niente dell'inchiesta ufficiale, dico - che contemporaneamente veniva svolta dal colonnello Picquart, messo sulla buona strada dalle sue stesse funzioni presso il ministero della Guerra. C'è voluto un caso, un incontro, come si saprà in seguito, perché i due uomini che non si conoscevano, che lavoravano ognuno per conto proprio alla stessa opera, finissero all'ultimo momento per raggiungersi e procedere fianco a fianco.
La storia del sindacato è tutta qui: uomini di buona volontà, di verità e di equità, partiti dai quattro punti cardinali, senza conoscersi e lavorando a leghe di distanza, ma incamminati tutti verso uno stesso fine, procedendo in silenzio, esplorando il terreno e convergendo tutti un bel mattino verso lo stesso punto d'arrivo. Com'era inevitabile, si sono trovati tutti e presi per mano a quel crocevia della verità, a quel fatale appuntamento della giustizia. Come vedete siete voi che, ora, li riunite, li costringete a serrare i ranghi per dedicarsi a un medesimo sforzo sano e onesto, questi uomini che voi coprite d'insulti, che accusate del più nero complotto, quando miravano unicamente a un'opera di suprema riparazione. Dieci, venti giornali, ai quali si mescolano le passioni e gli interessi più diversi, una stampa ignobile che non posso leggere senza che mi si spezzi il cuore per lo sdegno, non ha cessato, come dicevo, di convincere il pubblico che un sindacato di ebrei fosse impegnato nel più esecrabile dei complotti, acquistando le coscienze a peso d'oro. Lo scopo era in un primo momento quello di salvare il traditore e sostituirlo con un innocente; poi, quello di disonorare l'esercito, di vendere la Francia come nel 1870. Sorvolo sui romanzeschi particolari della tenebrosa macchinazione. E questa opinione, lo riconosco, è diventata quella della grande maggioranza del pubblico. Quante persone ingenue mi hanno avvicinato in questi otto giorni, per dirmi con aria stupefatta: «Come! Dite che Scheurer-Kestner non è un bandito? e anche voi vi mettete con quella gentaglia? Ma non lo sapete che hanno venduto la Francia?». Il cuore mi si stringe per l'angoscia, perché so bene che una simile perversione dell'opinione pubblica rende molto facile imbrogliare le carte. E il peggio è che i coraggiosi sono rari, quando c'è da andare controcorrente. Quanti ti mormorano all'orecchio di essere convinti dell'innocenza del capitano Dreyfus, ma che non se la sentono di assumere un atteggiamento pericoloso, nella mischia!
Dietro l'opinione pubblica, sulla quale contano naturalmente di potersi appoggiare, ci sono gli uffici del ministero della Guerra. Non voglio parlarne, oggi, perché ancora spero che giustizia sarà fatta. Ma chi non si rende conto che siamo di fronte alla cattiva volontà più cocciuta? Non si vuole riconoscere di aver commesso degli errori e, vorrei dire, delle colpe. Ci si ostina a coprire i personaggi compromessi e si è pronti a tutto, pur di evitare il tremendo repulisti. E la cosa è talmente grave, che gli stessi che hanno in mano la verità, dai quali si esige furiosamente che la dicano, esitano, aspettano a gridarla pubblicamente, nella speranza che la stessa si imponga da sé e che venga loro risparmiato il dolore di doverla dire. Ma
è pur sempre una verità quella che, da oggi, io vorrei diffondere in tutta la Francia. Ossia che si è sul punto di farle commettere, a lei che è la giusta, la generosa, un autentico crimine. Non è più la Francia, dunque, perché si possa ingannarla a tal punto, aizzarla contro un infelice che, da tre anni, espia, in condizioni atroci, un crimine che non ha commesso? Sì, esiste laggiù, in un'isola sperduta, sotto un sole spietato, un essere che è stato separato dai suoi simili.
E non solo il mare lo isola, ma undici guardiani lo circondano notte e giorno come una muraglia vivente. Undici uomini sono stati immobilizzati per sorvegliarne uno solo. Mai assassino, mai pazzo furioso è stato murato in modo così totale. E l'eterno silenzio e la lenta agonia sotto l'esecrazione di una nazione intera!
Osereste dire, ora, che quest'uomo non è colpevole? Ebbene, è proprio quello che affermiamo, noi, gli appartenenti al sindacato. E lo diciamo alla Francia e ci auguriamo che prima o poi ci ascolti poiché sempre essa si infervora per le cause giuste e belle. Le diciamo che noi vogliamo l'onore dell'esercito, la grandezza della nazione. E' stato commesso un errore giudiziario e, finché non sarà riparato, la Francia soffrirà, malaticcia, come per un cancro segreto che corrode a poco a poco le armi. E se, per farla ritornare sana, è necessario ricorrere al bisturi, si faccia! Un sindacato per agire sull'opinione pubblica, per guarirla dalla demenza in cui l'ha gettata certa ignobile stampa, per riportarla alla sua fierezza, alla sua secolare generosità. Un sindacato per ripetere ogni mattina che le nostre relazioni diplomatiche non sono in gioco, che l'onore dell'esercito non è affatto in causa, che solo alcune individualità possono essere compromesse.
Un sindacato per dimostrare che qualsiasi errore giudiziario è riparabile, e che perseverare in un errore del genere, con il pretesto che un consiglio di guerra non può sbagliarsi, è la più mostruosa delle ostinazioni, la più spaventosa delle infallibilità. Un sindacato per condurre una campagna fino a che verità sia detta, fino a che giustizia sia resa, al di là di tutti gli ostacoli, quand'anche occorressero ancora anni di lotta. Sì, di questo sindacato faccio parte anch'io e spero tanto che voglia farne parte tutta la brava gente di Francia!
(Il Dubbio, 11 agosto 2018)
"L'Università Ebraica, l'eccellenza è davvero messa al centro"
di Ada Treves
Si illumina, Manuela Consonni, docente dell'Università Ebraica di Gerusalemme e direttrice del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo presso la stessa università, quando racconta dell'istituzione in cui, come dichiara convinta "è cresciuta", e pur sottolineando più volte che non vuole assolutamente fare discorsi apologetici è evidente come si tratti di un rapporto positivo e ricco. "Sono arrivata a Gerusalemme giovanissima, nel 1989, per studiare alla Rothberg International School, che accoglie gli studenti 'd'oltremare', ed è stata per me un'esperienza importantissima, anche per motivi personali: poco dopo l'arrivo ho avuto dei seri problemi di salute, e tutto lo staff, a partire dal professor Immanuel Etkes allora rettore della Rothberg, esperto di chassidut del Baal Shem Tov mi ha mostrato grande solidarietà e affetto e mi hanno accompagnata e sostenuta in un periodo difficile". Arrivata con una borsa di studio legata all'ambasciata israeliana e al ministero degli Affari Esteri, Consonni ha poi visto subito riconosciuto il valore del suo percorso di studio e ricerca dal dottorato, ottenuto summa cum laude con il professor Sergio Della Pergola, ai suoi PostDoc, il Max Planck alla Freie Universität di Berlino, quello presso la School of Theory and Criticism alla Cornell Univesity e il terzo alla Scholion, il centro interdisciplinare in Jewish Studies alla stessa Università Ebraica, che nonostante le numerose offerte ricevute non ha mai voluto lasciare. Non ha dubbi: "Dal punto di vista dell'esperienza accademica non ci sono confronti possibili, è il milieu migliore che si possa trovare. Anche dal punto di vista umano
ovviamente conta il fatto che io venga trattata molto bene, e sentirmi stimata è importante, ma si tratta davvero di un centro di eccellenza. Sia nel mio specifico campo di studi, che negli altri ambiti". Professore associato presso il Dipartimento di Storia ebraica contemporanea e alla Scuola di storia, oltre che Direttore del Dipartimento di Studi romanzi e latinoamericani, è da qualche anno anche a capo del Centro studi sull'antisemitismo con l'obiettivo dichiarato di riportare lo studio di tale materia all'interno dell'Università Ebraica. "Il Vidal Sassoon racconta è stato il primo centro internazionale dedicato allo studio dell'antisemitismo, ed è stato voluto e fondato da Yehuda Bauer, massimo storico della Shoah e presidente onorario della International Holocaust Remembrance Alliance". Finanziato dal "re dei coiffeur, reso famoso grazie allo stile semplice ed elegante delle famosissime che si affidavano alle sue forbici da Mary Quant a Mie Farrow a Helen Mirren", filantropo che ha dedicato tutta la sua vita a cercare di sradicare l'antisemitismo dalla società, il Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo, noto come SICSA, ha aperto nel 1982, due anni prima della morte del suo mecenate. Dopo il primo direttore, Yehuda Bauer, figura chiave nella creazione e nello sviluppo degli studi sulla Shoah e ancora membro del comitato accademico del Centro, la SICSA è stata diretta da Robert Wistrich, autore prolifico che ha dato forma all'attuale comprensione dell'antisemitismo, che l'ha guidata dal 2002 al 2015. Sotto la sua direzione, il Centro si è molto occupato del fenomeno dell'antisemitismo politico di sinistra e della delegittimazione di Israele e del sionismo. E dopo di lui la direzione è passata a Manuela Consonni, esperta del post-Shoah da un punto di vista politico, intellettuale, sociale e letterario, in particolare sui temi di identità, pregiudizio e "alterità" degli ebrei in Europa.
"Considero un grande privilegio essere parte del corpo docente dell'Università Ebraica, è una enorme ricchezza, un patrimonio vero per Israele, l'istituzione di Buber, di Scholem, in cui il centro della matematica è stato fondato da Einstein
non è strano che io non abbia mai voluto cambiare 'casa'. Mi hanno cercata altre istituzioni, negli anni, ma qui per me le soddisfazioni sono enormi, ed è davvero un posto dove è gratificante lavorare, studiare, e fare ricerca". Considerata un vero "avamposto" di democrazia e apertura, l'Università Ebraica di Gerusalemme, continua Consonni, è un luogo dove l'eccellenza non è solo accademica, ma anche umana: il lavoro di qualità viene premiato, e i rapporti interpersonali sono ricchi e positivi e nonostante siano ovviamente presenti le problematiche tipiche di tutti gli ambiti accademici c'è grande solidarietà.
"Non bisogna poi dimenticare gli studenti, che sono meravigliosi. C'è anche fra loro un grande senso di orgoglio, e di appartenenza. Pluralismo e democrazia sono presenti a tutti i livelli, ed è importantissimo ricordarlo, soprattutto di questi tempi. Non dimentichiamo che nonostante si chiami 'università ebraica' essere ebrei non è affatto caratteristica necessaria, neppure per eccellere: abbiamo direttori di dipartimento anche di nomina recente che sono arabi israeliani, e sono cose di cui andiamo fieri. Il reclutamento, qui, è preso sul serio: contano il rigore negli studi, la serietà e il valore delle persone. Non altro".
(Pagine Ebraiche, agosto 2018)
La nipote di Bob Marley celebra il suo Bat Mitzva.
E il padre Ziggy festeggia con un concerto a Tel Aviv
di Roberto Zadik
Cosa c'entra la famiglia del grande Bob Marley e suo figlio Ziggy col mondo ebraico? A prima vista non sembrerebbero esserci legami. Ma invece già questa "leggenda del Reggae" - morto a soli 36 anni l'11 maggio 1981 per un tumore al cervello e passato alla storia per il carisma dal vivo e canzoni come "No woman no cry", "Is this love" e "Redemption song" - sembrava essere molto affascinato dall'ebraismo anche se era di cultura Rastafariana. Titoli come "Exodus", "Iron Lion Zion" e quel simbolo "Hay" che in alcune immagini gli si vede al collo, sono dettagli interessanti e alcuni gossip sostengono avesse un padre inglese di origini ebraico siriane.
L'«ebreo» Ziggy Marley
Questo, però, non vale per il figlio Ziggy, il cui vero nome è David Nesta Marley perché, secondo il "Times of Israel", la moglie Orly Agai è israeliana di origini persiane e che in questi giorni, sabato 4 agosto, ha celebrato il Bat Mitzva di Judah Victoria, sua figlia maggiore in una sinagoga di Gerusalemme assieme a amici e parenti. Ma da bravo musicista ha festeggiato anche per prima con un favoloso concerto.
Lo scorso 31 luglio, il musicista che compirà 50 anni il prossimo 17 ottobre, si è esibito in un trionfale live a Tel Aviv, al Barby Club davanti a migliaia di fans in adorazione. L'erede del leggendario papà Bob, è salito sul palco salutando la folla con un "Shalom Tel Aviv" intonando sia i classici reggae che soprattutto le canzoni recenti come "I will be glad" (Sarò felice) dal suo ultimo lavoro "Rebellion Rises"il suo settimo album calorosamente accolto dalla critica. Poco prima ha rivelato il sito, il simpatico Ziggy aveva suonato in Germania davanti a un vasto pubblico e sul palco israeliano è riuscito a replicare la stessa verve intrattenendo gli spettatori con improvvisazioni e grande energia.
Vincitore di vari premi e riconoscimenti, nella sua carriera cominciata negli anni '80 quando cantava "Tomorrow people", Ziggy Marley ha sette figli, 4 di religione ebraica, Judah, Gideon e Abraham e altri tre avuti da altre partner e sembra essere molto legato a Israele, non solo per via della moglie, ma anche perché è la quarta volta che torna nello Stato ebraico. Autore originale e idealista, come suo padre, scatenato ma anche riflessivo, nella sua performance israeliana ha cantato successi come "See Dem Fake Leaders" (Guardateli questi falsi leader) e la vivace "World Revolution" (Rivoluzione Mondiale). "Noi gente del mondo vogliamo fare qualcosa che cambierà il mondo al meglio" ha gridato nella sua esibizione intonando poi una bella canzone come "Love is my religion" con alcune note di "All You Need is love" dei Beatles. Ma non solo canzoni nuove e di sua produzione bensì anche classici paterni,fu sempre molto legato al padre che morì quando lui aveva 13 anni, come "One Love" mischiando musica e discorsi politici e ideologici e religiosi. "Solo quelli che davvero ci credono vedranno i loro sogni realizzati, che la pace trionfi sui mali del mondo" ha annunciato speranzoso specificando che la fede è molto importante per lui.
A questo proposito il sito Jewcy.com racconta vari dettagli sul matrimonio fra la star e la moglie, vissuta dall'età di 14 anni a Los Angeles e che ora si occupa di amministrare la carriera del marito. In una intervista citata dal sito e rilasciata nel 2011 a Ynet Ziggy Marley parla della sua fascinazione verso l'ebraismo e di come "devo rispettare le feste ebraiche anche perché non ho scelta" ha detto scherzando. Seriamente ha aggiunto "mi piace tutto dell'ebraismo perché mantengono vive le tradizioni e questo non accade in altre culture". Egli ha anche fatto notare che ben prima di sua moglie egli attraverso suo padre, di cultura Rastafari, conosceva i testi biblici e leggeva testi ebraici restandone, ogni volta, profondamente colpito.
(Bet Magazine Mosaico, 10 agosto 2018)
Incontro Hamas-Fatah al Cairo la prossima settimana
IL CAIRO - Medio Oriente: incontro Hamas-Fatah al Cairo la prossima settimana - I rappresentanti dei due partiti palestinesi rivali, Fatah e Hamas, si incontreranno la prossima settimana al Cairo. Lo riferisce il quotidiano egiziano "Al Ahram". L'incontro rientra nel quadro degli sforzi del governo egiziano di raggiungere una riconciliazione intra-palestinese. I funzionari della sicurezza egiziana avranno colloqui separati con i rappresentanti dei due partiti palestinesi, prima di giungere a colloqui diretti con l'obiettivo dell'unificazione. Lo scorso 12 ottobre Il Cairo aveva consentito ad Hamas, che amministra la Striscia di Gaza dal 2007, e a Fatah, anima dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), di trovare un accordo per la cessione del controllo di Gaza a Ramallah. Nonostante la visita del premier palestinese, Rami Hamdallah, a Gaza le parti non hanno concretizzato mai l'intesa. Inoltre, nelle ultime settimane Il Cairo ha ospitato per due volte una delegazione di Hamas guidata da Saleh al Arouri, fondatore del braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam. Al centro dei colloqui un possibile accordo di cessate il fuoco con Israele. L'annuncio dell'incontro fra responsabili di Hamas e Fatah al Cairo giunge mentre negli ultimi giorni è cresciuta la tensione fra Israele e Gaza e all'indomani della visita a Washington del ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry. Negli Stati Uniti, il capo della diplomazia egiziana ha incontrato fra gli altri anche l'inviato Usa per il Medio Oriente, Jason Greenblatt.
(Agenzia Nova, 10 agosto 2018)
Gaza, una pioggia di missili su Israele. Gerusalemme avverte: operazione vicina
Hamas ha lanciato oltre 180 ordigni provocando undici feriti. Uccisi almeno tre palestinesi.
di Simona Verrazzo
ROMA - Oltre 180 razzi lanciati dalla Striscia di Gaza verso Israele e almeno tre morti palestinesi. E" il bilancio della notte di guerra, tra mercoledì e giovedì. Dalla serata di due giorni fa, Hamas ha lanciato oltre 180 razzi contro il territorio israeliano, provocando almeno undici feriti tra i quali una donna di trent'anni in gravi condizioni. Diverse persone sono state portate nei centri medici sotto choc.
Il raid
A riferirlo su Twitter è il portavoce delle forze armate dello Stato ebraico, secondo cui i razzi del movimento gruppo islamista palestinese, al potere nella Striscia di Gaza dal giugno 2007, hanno colpito in particolare le comunità al confine, tra cui le città di Sderot e Netivot. E nel primo pomeriggio di ieri quattro razzi sono caduti in un'area disabitata del Consiglio regionale di Eshkol. La contraerea israeliana ha intercettato trenta missili, mentre la maggior parte di quelli non intercettati sono atterrati "in aree all'aperto", con le sirene di allarme nel sud del paese che sono suonate 125 volte. La reazione dello Stato ebraico non si è fatta attendere. «In risposta, le forze armate hanno colpito oltre 150 obiettivi terroristici nella Striscia di Gaza», si legge in un comunicato dell'esercito israeliano, tra cui vi sono una fabbrica per componenti per i tunnel, un'area usata dal comando navale di Hamas, un deposito di armi e un punto di raccolta per ufficiali a Khan Younis.
Le postazioni
Nella prima mattinata di ieri, un velivolo israeliano ha colpito una squadra di lanciatori di razzi che aveva «appena tirato verso Israele». Il raid, come riferito dai media palestinesi, ha provocato almeno tre morti, tra cui una donna incinta, Enas Khammash (23anni), con sua figlia di 18 mesi, Bayan. Secondo l'agenzia di stampa palestinese Wafa, la terza vittima, nella parte settentrionale, è stata identificata come Ali Al Ghandour, 30 anni. La tensione è aumentata nella serata di mercoledì, con i primi lanci di razzi dalla Striscia di Gaza, dopo che Hamas aveva preannunciato che avrebbe risposto all'uccisione da parte di Israele di due suoi militanti nei giorni scorsi.
I Colloqui in Egitto
Questi nuovi venti di guerra arrivano mentre sono in corso, in Egitto, i colloqui di pace per la riconciliazione nazionale tra le fazioni palestinesi. Il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha accusato Israele di voler sabotare la riconciliazione nazionale, in particolare tra il gruppo nella Striscia di Gaza e l'Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania. In discussione anche l'alleggerimento del blocco economico imposto dall'enclave costiera palestinese e il un cessate il fuoco con Israele.
(Il Messaggero, 10 agosto 2018)
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Gaza, razzi e raid aerei. Israele avverte Hamas: operazione su vasta scala
Il Gabinetto di Sicurezza di Netanyahu: continueremo a usare la forza I miliziani accusano: escalation voluta per boicottare le trattative di pace
Avigdor Lieberman
Ministro Israeliano alla Difesa
Faremo qualsiasi cosa si renda necessaria per fermare gli attacchi missilistici da Gaza
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Fawzi Barhoum
Portavoce di Hamas
Israele vuole contrastare gli sforzi dell'Egitto e dell'Onu per ottenere un cessate il fuoco
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di Francesca Paci
ROMA - Nonostante l'attivismo egiziano per fermare l'escalation delle ultime ore e i ripetuti annunci di un cessate il fuoco, la situazione a Gaza resta tesa. Ieri sera, durante la riunione del gabinetto di sicurezza presieduta dal premier Netanyahu nella base di Camp Rabin, i caccia israeliani hanno ripreso a bersagliare la Striscia (in serata è stato colpito un palazzo a Ovest di Gaza City) e le sirene anti-missile sono risuonate a Beer Sheva (per la prima volta dal conflitto del 2014) e nei kibbutz a ridosso della cittadina frontaliera di Sderot, dove si contano 4 feriti.
Mercoledì notte, per la terza volta nel solo mese di luglio, gli scontri iniziati a fine marzo con le manifestazioni palestinesi per la «Marcia del Ritorno», hanno rischiato di scivolare in una nuova guerra ad alta intensità. Colonne di fumo nero si levano dal confine blindato. E mentre dalla moschea al-Furqan di Gaza City al campo profughi di Jabalya si invoca vendetta per le 3 vittime dei raid ( tra cui una donna incinta e la figlia) e i circa 30 feriti, l'esercito israeliano fa sapere di aver intercettato con il sistema di difesa Iron Dome 30 dei 150 razzi lanciati sul proprio territorio, di aver colpito oltre 140 postazioni di Hamas e di essere «più vicino che mai ad un'operazione su vasta scala a Gaza».
Il Gabinetto di Sicurezza israeliano, dopo varie ore di riunione per discutere della situazione, «ha dato istruzione alle forze della Difesa di Israele perché continuino ad usare la forza contro i terroristi », ha detto in una nota il portavoce dell'ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Il contesto è altamente infiammabile. Sullo sfondo della crisi c'è il lavoro di Egitto e Onu per una tregua di lungo termine tra Israele e le diverse fazioni palestinesi che nei giorni scorsi ha visto convergere a Gaza e poi al Cairo diversi leader di Hamas in esilio per discutere la riconciliazione nazionale, l'alleggerimento del blocco economico sulla Striscia, il cessate il fuoco con Israele. Una settimana fa il leader islamista Khalil Al- Hayya aveva parlato ad Al Jazeera di «uno stato molto avanzato» dei negoziati indiretti. Secondo alcuni portavoce di Hamas, tra cui Fawzi Barhoum, il proseguimento dell'escalation, interrotta da Hamas ieri pomeriggio, sarebbe dunque responsabilità israeliana, «un sabotaggio per colpire le trattative» e «mascherare con la guerra la perdita del proprio potere di deterrenza».
Se Israele ripete con le parole del ministro della difesa Lieberman che come sempre farà «il necessario» per fermare i missili, la strategia dei signori della Striscia è confusa. Dalla presa di Gaza contro i fratelli coltelli dell'Anp nel 2007, Hamas ha attribuito a Ramallah, a Israele, agli Usa e al disinteresse mondiale per la causa palestinese il proprio impasse politico senza riuscire a recuperare consenso. Uno studio del Palestinian Center Far Policy and Survey evidenzia che il 45% dei gaziani sogna di emigrare (in Cisgiordania il 19%), che il 60% vuole un accordo tra Hamas e l'arcinemico di Fatah Dahlan e che solo il 32% voterebbe oggi Hamas alle amministrative contro il 36% d'inizio 2018 (Hamas cresce invece in Cisgiordania, dal 26% al 30%).
«Hamas è alla disperazione, la vita a Gaza è intollerabile: la disoccupazione è cronica, l'acqua imbevibile, l'elettricità gira meno di 4 ore al giorno e non c'è via d'uscita per 2 milioni di abitanti» nota Hussein Ibish dell'Arab Gulf States Institute di Washington, aggiungendo che i palestinesi uccisi negli scontri per la «Marcia del Ritorno» (165 in 4 mesi) sono per Hamas «la prima buona notizia da tempo». Gli studiosi la chiamano la «social warfare strategy», la nuova e antica strategia della guerra sociale, l'arma della manipolazione dell'opinione pubblica internazionale, l'amplificazione delle contraddizioni nel fronte avverso e la mobilitazione delle proprie società contro nemici militarmente superiori. Un gioco pericoloso. Fonti a Gerusalemme danno il conflitto al 90%. A Gaza si scruta il cielo senza stelle, oltre il confine, gli israeliani dormono nei rifugi.
(La Stampa, 10 agosto 2018)
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Chi ha abbattuto, sotto una pioggia di razzi, le trattative per una tregua fra Israele e Gaza?
Non è difficile capire che la decisione di affossare il possibile accordo di cessate il fuoco non è stata presa al Cairo e nemmeno a Gaza. E' stata presa a Teheran.
Meno di una settimana fa rappresentanti israeliani, egiziani e di Hamas esprimevano ottimismo, in varia misura, circa un possibile accordo di cessate il fuoco a lungo termine tra Israele e Gaza. La stessa Hamas affermava che le trattative mediate da Egitto e Onu erano in "fase avanzata" e che presto sarebbe stato possibile arrivare un accordo, che si prevedeva suddiviso in fasi su un periodo di cinque anni. In cambio della cessazione completa degli attacchi da parte di Hamas, compresi i lanci di aerostati incendiari e i tentativi di sfondare il confine, vi sarebbe stato un allentamento delle restrizioni ai valichi di frontiera con Israele ed Egitto e l'avvio di progetti economici e umanitari, con un aumento delle forniture di elettricità e di altri servizi atti a migliorare la vita quotidiana della popolazione di Gaza. Si stava già parlando di un porto e un aeroporto nel confinante Sinai egiziano ad uso della striscia di Gaza....
(israele.net, 10 agosto 2018)
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"I media riportino i fatti. È Hamas a innescare la violenza"
di Noemi Di Segni*
Ci sono fatti, ci sono interpretazioni dei fatti e purtroppo ci sono silenzi assoluti o titoli che restituiscono al lettore ascoltatore, già poco informato, una realtà totalmente diversa da quanto avviene in queste ultime 24 ore. È quanto sta gravemente accadendo su alcuni quotidiani e siti d'informazione italiani ed esteri, sui fatti al confine di Gaza. Non si può invertire l'ordine cronologico delle notizie e parlare di bombardamenti israeliani a Gaza come se fossero scelte deliberate senza un motivo scatenante: oltre 170 razzi lanciati da Hamas contro insediamenti civili. Mentre speriamo che le forze politiche condannino il comportamento di Hamas, sottolineiamo che non si può rivolgere lo sguardo sofferente solo verso un lato. Nessun paese al mondo rimarrebbe inerme di fronte a chi minaccia ed attacca i suoi cittadini. Un'informazione realmente libera, interessata a raccontare le vicende di un territorio e riflettere sulle ragioni e le conseguenze che per l'intera area ne derivano riporta anzitutto tutti i fatti. Se alla responsabilità di chi innesca conflitti armati o solo apparentemente pacifici, usando come scudo i propri figli, si aggiunge la leva dell'informazione selettiva, arma perfetta di chi ben sa che Israele ne risponde sul piano della reputazione umanitaria, allora sì che il conflitto si trasformerà in guerra. E allora cosa racconterete? di cosa vi preoccuperete?
* Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(moked, 9 agosto 2018)
La legge Mancino e gli ebrei
Riceviamo e pubblichiamo.
Gentile Direttore,
apprendo dalla Stampa che il ministro L. Fontana, chiede di abrogare la legge Mancino per gesti legati all'ideologia nazifascista. Secondo la sig. Fontana la legge è un'arma nelle mani dei globalisti filo-islamici. Da quest'ottica il ministro ha visto giusto. Pochi si sono resi conto che la legge non venne fatta per proteggere le Comunità ebraiche dall'antisemitismo dilagante nella democratica Europa, ma per facilitare e tollerare l'invasione musulmana del Continente. George Ben Soussan ne sa qualcosa! Le Comunità ebraiche che hanno difeso giustamente questa legge, devono però rendersi conto che non venne fatta per proteggere gli ebrei, bensì per favorire l'ondata indiscriminata di profughi musulmani che invadevano il Continente europeo con la complicità delle benemerite ONG. Pertanto illudersi che gli ebrei siano a casa propria in Europa, vuole significare la scarsa conoscenza della storia (Inquisizione-Shoà), su cui è pericoloso addormentarsi. Detto questo avrei una proposta singolare da aggiungere ed è questa:
'' Imporre una pesantissima tassa in ''denaro'' per coloro che esternano azioni razziste-antisemite, dettate dai loro pregiudizi, che sono duri a morire. Tra le parole e il denaro c'è sempre una buona differenza e forse il denaro, può essere un deterrente maggiore della Legge Mancino per prevenire la barbarie. Grazie e shalom.
Fulvio Canetti
(Notizie su Israele, 10 agosto 2018)
70 anni fa rinasceva la lingua ebraica
L'affascinante storia di come, grazie alla tenacia di un uomo che aveva un sogno, nel 1948 l'ebraico, insieme all'arabo, divenne la lingua ufficiale del nascente stato d'Israele.
di Michele Genisio
1897: in un salotto di Basilea s'incontrano attorno a un tavolino due tipi, diversi l'uno dall'altro come la notte dal giorno. Qualcosa in comune però ce l'hanno: sono entrambi ebrei e animati da un grandioso ideale. L'uno, Theodor Herzl, sogna di far rinascere lo stato ebraico, che si è dissolto definitivamente da più di 1700 anni, quando l'imperatore Adriano nel 135 ha spianato Gerusalemme e cancellato il nome di Giudea dalle mappe geografiche.
L'altro, Eliezer Ben Yehuda, sogna di far rinascere l'antica lingua ebraica, che da 2000 anni non è più comunemente parlata dagli ebrei. Si ascoltarono Theodor e Eliezer, con cordialità. Anche se solo formale. Appena finito l'incontro infatti iniziano a sparlare l'uno dell'altro. «Creare uno stato ebraico?! Quello è matto! È una utopia irrealizzabile?!» dice l'uno. «Resuscitare la lingua ebraica?! Quello è fuori di testa! È morta e sepolta. È più facile resuscitare un cadavere!» dice l'altro. Ma tutti e due hanno la testa dura
ed entrambi i loro sogni si realizzano.
È ben nota la vicenda della nascita dello stato d'Israele. Forse meno nota è quella della rivitalizzazione della lingua ebraica. In fin dei conti: è più facile far rinascere uno stato o una lingua? Difficile rispondere. I fatti però dicono che diverse nazioni sono state ricostituite, ma nessuno al mondo è riuscito a far rinascere una lingua. Salvo gli ebrei. L'Irlanda ha provato a far rinascere l'irlandese, con grandissimi sforzi e molti investimenti. Ma risultati modesti. Anche il tentativo di una nuova lingua come l'esperanto non è mai decollato. Pensate: far rinascere l'ebraico era un'impresa simile a far rinascere il latino come lingua parlata in Italia. Una pazzia! Eppure oggi l'ebraico è tornato ad essere una lingua viva, parlata in terra di Israele e da tanti ebrei sparsi nel mondo.
Come mai la lingua ebraica era morta? È una lunga storia. L'ebraico era la lingua degli antichi ebrei, gente come Abramo Sara Mosè Deborah Rachele Davide e compagnia bella. In ebraico è stata scritta la Bibbia (Antico Testamento). Ma già ben prima dei tempi di Gesù l'ebraico non era più usato, ed era stato soppiantato dall'aramaico, parlato in tutto il Vicino Oriente, un po' come l'inglese ai nostri giorni. Gesù, sua mamma e gli apostoli parlavano aramaico.
Con la diaspora degli ebrei, dopo il 135, la situazione non migliorò per il vecchio ebraico. Restò relegato nelle sinagoghe e tra le scartoffie dei rabbini. Gli ebrei parlavano le lingue del luogo in cui vivevano; a Roma parlavano un giudaico-romanesco, a Venezia un giudaico-veneziano; quelli dell'Europa orientale parlavano lo yiddish; quelli espulsi dalla Spagna parlavano il ladino; molti di quelli che vivevano in territori musulmani parlavano l'arabo. L'ebraico era rimasto per la lettura della Bibbia, per il culto in sinagoga, per qualche affare legale. Finché quel giornalista lituano, Eliezer Ben Yehuda, decise di svegliarlo come se fosse la Bella Addormentata nel Bosco. Non bastava però un bacio.
Serviva un'impresa colossale. In un celebre articolo del 1878 Ben Yehuda scrisse un accorato appello agli ebrei di parlare solo in ebraico. Ma la risposta fu tutt'altro che entusiasta: i più ortodossi si opponevano all'uso dell'ebraico nella vita quotidiana perché era una lingua sacra e non si poteva mescolare con atti profani; quelli che simpatizzavano per i bolscevichi consideravano controrivoluzionaria e retrograda la scelta dell'ebraico perché non favoriva la visione internazionale. Insomma, peste e corna da entrambe i fronti. Eliezer però non si scoraggiò.
Nel 1888 si trasferì in Palestina e cominciò a lavorare sodo per trovare nuovi vocaboli adatti ai tempi moderni, che non esistevano ai tempi della Bibbia. Che cosa ne sapevano le matriarche Lia e Rebecca della locomotiva? E che ne sapeva re Davide di un cannone? Ben Yehuda inventò i nuovi termini. Aveva inoltre preso una ferrea decisione: di parlare con suo figlio solamente in ebraico, proibendo a chiunque di rivolgersi a lui in un'altra lingua. Giorno dopo giorno, i membri della comunità di immigrati ebrei in cui viveva provavano a usare le parole che aveva coniato. Alcune funzionavano e si tenevano, altre no e venivano abbandonate. Il lavoro tenace di Eliezer in poco tempo venne apprezzato. Sempre più ebrei iniziarono a parlare il nuovo ebraico, segno di una ritrovata identità.
Nel 1948 l'ebraico, insieme all'arabo, divenne la lingua ufficiale dello stato d'Israele che allora nasceva. Settant'anni fa. E da settant'anni si è tornati a parlare per le strade di Tel Aviv, di Haifa e di Gerusalemme come parlavano gli antichi patriarchi e profeti. O in un modo un po' simile. Un ponte fra il presente e il passato biblico è stato costruito. Grazie alla tenacia di un uomo che aveva un sogno.
(Città Nuova, 9 agosto 2018)
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Aggiungiamo, sullargomento, un brano tratto dal libro Dio ha scelto Israele.
La guerra delle lingue
Poche settimane dopo il suo arrivo a Gerusalemme il responsabile della "Alliance Israélite Universelle", Nissim Behar, offrì a Ben Yehuda di entrare a far parte del corpo docente di una scuola per ragazzi. Eliezer pose come condizione di poter insegnare l'ebraico, e si accorse con piacere che proprio per questo motivo lo volevano assumere. Anzi, poiché nel bilancio dell'associazione non era prevista una voce esplicita per pagare un docente di ebraico, Behar ricavò lo stipendio per Ben Yehuda decurtando il salario dei due insegnanti di religione.
Il metodo usato in quella scuola è diventato oggi molto comune: insegnare l'ebraico con l'ebraico. Nella scuola si parlava sempre e soltanto ebraico, senza ricorrere mai a traduzioni in altre lingue. I risultati non tardarono a farsi vedere. Cominciarono a formarsi gruppi di ragazzi che parlavano tra di loro in ebraico, e lentamente questo fatto si diffuse.
Ben Yehuda continuò a battersi affinché l'ebraico diventasse la "lingua di curriculum" in tutti i tipi di scuola, religiosi e laici, e le altre lingue, russo, tedesco, inglese, francese fossero insegnate come lingue straniere. Gradualmente l'abitudine si estese, ma naturalmente non mancarono resistenze, anche molto forti.
Lo scontro più aspro passò alla storia come la "guerra delle lingue".
Nel 1913 un gruppo di facoltosi ebrei tedeschi aveva finanziato la costruzione a Haifa di una scuola tecnica chiamata "Technion". A un certo momento si venne a sapere che la lingua di curriculum stabilita era il tedesco e che l'ebraico era bandito.
La notizia provocò subito reazioni, anche all'estero, e nonostante gli ebrei tedeschi fossero i maggiori finanziatori del suo dizionario di ebraico, Ben Yehuda non esitò a gettarsi nella lotta. Sulla pubblica piazza affrontò personalmente Ephraym Cohen, direttore di tutte le scuole finanziate dai tedeschi, e gli ingiunse di far annullare l'ordine. Gli fu risposto che la disposizione veniva da molto in alto e che lo stesso Kaiser aveva espresso il desiderio che la lingua ufficiale di tutte le scuole in Palestina fosse il tedesco. Si può immaginare in quale considerazione tenesse Ben Yehuda il gradimento del Kaiser!
Poiché non ottenne quello che riteneva assolutamente giusto, fu decretata immediatamente la mobilitazione. Gruppi di docenti decisero di abbandonare le aule, chiudere le scuole e reclutare studenti per la battaglia. Ephraym Cohen rimase solo nel suo edificio vuoto. Ragazzi e istruttori sfilarono per le strade gridando: "Abbasso i tedeschi! Viva l'ebraico!" Bambini ebrei bruciarono i loro libri scolastici tedeschi davanti al consolato di Germania. Ben Yehuda fece sapere che non ci sarebbe più stato bisogno di libri scolastici tedeschi e cominciò a organizzare scuole di emergenza in cui l'insegnamento era effettuato in ebraico. La battaglia continuò a infuriare per diversi mesi e, come in ogni guerra civile, spinse tutti a schierarsi chi da una parte chi dall'altra, e la linea di divisione passava spesso anche all'interno di una stessa famiglia.
L'atmosfera cominciò a placarsi soltanto dopo l'intervento dell'ambasciatore americano presso il governo turco, Henry Morgenthau, che, di passaggio da Gerusalemme, si accorse del marasma esistente e decise di intervenire. Invitò gli esponenti delle due fazioni ad un banchetto in suo onore e con un discorso che esortava alla pace e all'amore riuscì a riportare un po' di distensione negli animi.
Nessuno dei due schieramenti ottenne, nell'immediato, una vittoria netta, ma non molti anni dopo sarà l'insegnamento dell'ebraico a riportare il definitivo trionfo.
(Notizie su Israele, 10 agosto 2018)
Kushner: ridefinire i numeri dei palestinesi rifugiati
5,8 i milioni dì persone che attualmente godono dell'asilo politico garantito dall'Onu.
di Rolla Scolari
Jared Kushner, genero del presidente americano Donald Trump e suo consigliere con il mandato di risolvere il conflitto arabo-israeliano, starebbe pensando di toccare uno dei tabù più radicati del Medio Oriente: lo status di rifugiati assegnato dall'Onu ai discendenti dei palestinesi che lasciarono le loro terre a seguito del conflitto del 1948-1949 che portò alla nascita di Israele. Secondo alcune email dell'amministrazione americana il cui contenuto è stato in parte pubblicato dal sito della rivista «Foreign Policy», l'obiettivo di Kushner e della sua squadra è quello di ridefinire i numeri dei rifugiati palestinesi. Quando infatti fu creata l'Unrwa - l'Agenzia dell'Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi - a essere intitolati a usufruire dei suoi servizi erano i rifugiati del 1948-49. Negli anni successivi, su pressione dei Paesi arabi, l'Onu incluse in tale definizione anche i loro discendenti. È l'unico caso simile nella storia dell'assistenza ai rifugiati da parte delle Nazioni Unite: oggi il numero dei palestinesi che gode di tale status è di circa 5,8 milioni. Durante il conflitto, 700mila palestinesi lasciarono i loro villaggi e città o ne furono allontanati. «In ogni zona di crisi, il numero dei rifugiati cala con il tempo a seguito di decessi e integrazione - afferma una fonte diplomatica americana - mentre i palestinesi sono gli unici ad aumentare in forza delle norme che l'Unrwa si è data». Da qui la decisione dell'Amministrazione Trump di alterare il metodo del conteggio, con la convinzione che questo possa ridurre l'impatto politico del «diritto al ritorno» che per ogni leadership palestinese è condizione fondamentale per arrivare a un'intesa definitiva con Israele.
La strada dell'integrazione
Secondo quanto rivelato dalla rivista americana, Kushner si propone anche di chiedere a quei Paesi arabi che ospitano i rifugiati - come Giordania e Libano - di assorbire i palestinesi che da 70 anni vivono sui loro territori, in gran parte ancora in campi profughi' offrendo di aiutare tale integrazione versando loro i fondi che fino a oggi gli Stati Uniti hanno destinato all'Unrwa. La politica di Libano, Siria e Giordania è stata però per decenni - e continua a essere oggi - quella di non integrare i profughi palestinesi.
Taglio dei fondi
«È importante fare uno sforzo onesto e sincero per smembrare Unrwa», ha scritto Kushner in una email, definendo anche l'agenzia «corrotta». Le email indicano dunque un ulteriore sviluppo della posizione dell'Amministrazione Trump, che ha già ordinato il taglio dei finanziamenti di Unrwa scendendo da 365 milioni di dollari a 60 milioni.
Se le precedenti amministrazioni americane consideravano l'agenzia un elemento fondamentale per la stabilità regionale, ora il presidente si avvicina alle posizione di Israele, secondo cui l'Unrwa «svolge un ruolo decisivo nel perpetuare, esacerbare ed espandere il problema dei rifugiati palestinesi», come spiega l'analista israeliano Ben Caspit su al-Monitor. È lo stesso Caspit a sottolineare come la questione di Unrwa rappresenti però per Israele anche «un dilemma»: gli aiuti economici e sociali che garantisce contribuiscono infatti alla precaria stabilità di Cisgiordania e Gaza. Se dovessero venire a mancare aumenterebbero di molto i rischi per la sicurezza.
(La Stampa, 9 agosto 2018)
Milizie sciite contro gli Usa in Iraq. La replica dell'Iran alle sanzioni
Teheran prepara ritorsioni. A rischio anche l'Afghanistan. Il ministro Zarif: nessuno ci impedirà di esportare il petrolio
La prima ondata
Il 6 agosto Trump fa scattare una prima ondata di sanzioni ripristinando le misure restrittive.
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L'Europa
L' Ue di Federica Mogherini incoraggia le imprese a incrementare gli affari con l'Iran.
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La replica di Zarif
«Gli Usa non ci impediranno di esportare petrolio»: lo dice il ministro degli Esteri iraniano.
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di Francesco Semprini
NEW YORK - Le sanzioni all'Iran, reintrodotte dagli Stati Uniti dopo l'uscita dall'accordo sul nucleare, rischiano di scatenare ritorsioni sul piano militare contro obiettivi americani in teatri terzi, a partire da Iraq e Afghanistan.
È quanto suggeriscono fonti informate secondo cui, visti i ripetuti raid israeliani su postazioni iraniane in Siria, gli iraniani sono costretti a spostare l'attenzione su altri teatri di scontro.
Sono due gli effetti dell'offensiva economica di Donald Trump, successiva all'abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa): attacchi a obiettivi Usa, appunto, e una «fuga in avanti» verso il conflitto con Israele, qualora il fronte europeo di opposizione alle sanzioni americane dovesse sgretolarsi.
Per capire la strategia di Teheran bisogna fare un passo indietro. Durante il confitto in Siria, le milizie sciite e Hezbollah sono stati decisivi e funzionali contro gli jihadisti. I russi tuttavia non hanno mai nutrito grande simpatia per Hezbollah e hanno visto sempre con diffidenza i tentativi iraniani di ampliare le proprie sfere di influenza in Siria. Anche per non urtare Israele con il quale Putin ha buone relazioni sul piano militare. Ecco allora che, con l'attenuarsi delle ostilità, la Russia ha dato il via a un'opera di contenimento delle forze sciite in territorio siriano, specie a ridosso del confine con Israele, anche insediando otto postazioni di polizia militare a Quneitra, nel Golan.
Ma non solo: i recenti raid israeliani (e americani) contro obiettivi iraniani in Siria sono stati tacitamente approvati dalla Russia.
Messa sotto pressione nel territorio sotto controllo di Assad, Teheran sarebbe pronta a puntare su obiettivi Usa in Iraq, attraverso i gruppi sciiti alleati. Ed ecco perché l'Arabia saudita, su sollecitazione di Washington, ha affrontato la questione con Moqtada al Sadr, dopo la sua riconversione a leader sovranista della colazione Sairoon vincitrice alle elezioni col motto «nessuna ingerenza straniera intacchi l'Iraq».
Altro bersaglio è l'Afghanistan: in alcune aree l'influenza sciita è forte e c'è stato un rafforzamento della presenza di brigate filo-Teheran. Un aspetto quest'ultimo che tocca anche l'Italia visto che la zona di confine tra Iran e Afghanistan è quella a ridosso della provincia di Herat dove operano i nostri militari. L'applicazione delle sanzioni - viste da Teheran come un tentativo americano di indebolire l'Iran e la sua influenza nella regione - rende ancora più complicato lo scenario. Inoltre se il fronte europeo anti-sanzioni guidato da Federica Mogherini dovesse scricchiolare, si potrebbe assistere a una fuga in avanti verso l'escalation militare contro Israele. «Se strozzata economicamente l'Iran avrà bisogno di un nemico per riaffermare il suo 'ezat-e-nafs' ovvero la fierezza», spiegano le fonti.
Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif spiega al riguardo che l'Ue si è mossa nella direzione giusta, anche se al momento non ha ancora conseguito risultati sufficienti. «Gli Stati europei hanno aumentato l'acquisto di petrolio e hanno contattato governi in tutto il mondo chiedendo che il nostro greggio venga acquistato», dice. «Gli americani non possono pensare che l'Iran non esporterà petrolio e altro, devono avere ben chiare le conseguenze di tutto ciò».
L'indicazione è chiara e si riferisce ai primi di novembre, quando entreranno in vigore le sanzioni sul commercio di greggio. Sarà allora che alla guerra economica di Trump, Teheran potrebbe rispondere con la sua "ezat-e-nafs" militare. -
(La Stampa, 9 agosto 2018)
Acqua per Gaza: completato il più grande campo fotovoltaico della Striscia
L'Unione Europea ha realizzato il più grande campo fotovoltaico della Striscia di Gaza per alimentare progetti che forniscono acqua potabile alle persone in gravi difficoltà.
La scorsa settimana l'Unione Europea ha completato il più grande campo fotovoltaico di Gaza che fornirà 0,5 megawatt di elettricità al giorno per alimentare l'impianto di desalinizzazione di Gaza meridionale.
Questo impianto è stato finanziato dall'UE e attualmente fornisce acqua potabile a 75.000 abitanti delle zone di Khan Younis e Rafah. Grazie all'impianto fotovoltaico realizzato e ai nuovi investimenti previsti, si riusciranno a raggiungere circa 250.000 persone in difficoltà nella parte meridionale di Gaza entro il 2020.
Il Commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l'allargamento nella Commissione Juncker, Johannes Hahn, ha commentato che lo scarso approvvigionamento energetico di Gaza è una delle sfide principali da vincere per garantire l'accesso all'acqua potabile e sicura per la popolazione locale.
"Il campo fotovoltaico è essenziale per rispondere alle urgenti necessità idriche di Gaza e creare condizioni di vita dignitose per la sua popolazione, mitigando così le tensioni in un'area altamente sensibile ai conflitti".
L'intervento rientra nel piano dell'UE che sta investendo in infrastrutture idriche a lungo termine in tutta la Palestina, con particolare attenzione alla Striscia di Gaza, dove il 97% dell'acqua non è potabile. Inoltre l'altissima densità della popolazione che vive nella zona sta mettendo a dura prova le infrastrutture, che rischiano di crollare a causa dei ripetuti conflitti, della chiusura israeliana che dura da più di dieci anni e della divisione intra-palestinese. L'obiettivo è garantire a tutti un accesso autosufficiente, equo, abbordabile e sostenibile all'energia, all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari.
(Infobuild Energia, 9 agosto 2018)
In Medio Oriente l'Iran assume un ruolo sempre più importante
Il Grande gioco iraniano in Siria: strategia ed interessi
La nuova Siria che si sta configurando in questi giorni rappresenta il punto di frattura da cui sorgerà il nuovo Medioriente. Un terreno di scontro tra Russia, Stati Uniti e Cina. Coloro che pensano ad una ripetizione della Guerra Fredda sulle rive dell'Eufrate si stanno sbagliando. Mosca non vuole in nessun modo la completa espulsione degli Stati Uniti dal quadrante mediorientale, ma solo un suo ridimensionamento.
Ma un altro importante fattore da considerare non può che essere l'Iran.
L'alleanza Teheran-Damasco
L'alleanza tra l'Iran e la Siria è una costante storica. Un asse strategico dal 1979, anno del defenestramento della dinastia Pahlavi.
È una relazione privilegiata che ruota intorno a tre fattori: l'ostilità verso Israele, il contro-bilanciamento dell'influenza occidentale in Medioriente e il contenimento del sunnismo revanscista.
Il ruolo dell'Iran è ben approfondito da molto tempo nei rapporti con la Siria. Nel 1980, la Siria è stato l'unico Paese arabo a schierarsi con Teheran nella guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein, fornendo loro armi e materiali, missili terra-aria e razzi anticarro, autorizzando inoltre piloti dell'aviazione iraniana ad atterrare nelle basi siriane in caso di emergenza. Non ultimo, addestrava gruppi di dissidenti curdo-iracheni.
In cambio riceveva petrolio a prezzi stracciati e, in seguito, know-how per il programma di armi
Nella crisi siriana si ridisegnano le sfere d'influenza e le mappe geografiche. In una sempre più probabile spartizione della Siria in sfere d'influenza i progetti iraniani sono lungimiranti. E Teheran vi sta investendo i suoi cervelli migliori.
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chimiche. La storia insegna che l'asse Damasco-Teheran assomiglia molto a un patto di ferro. Difficile che possa incrinarsi in futuro.
Nella crisi siriana si ridisegnano le sfere d'influenza e le mappe geografiche. In una sempre più probabile spartizione della Siria in sfere d'influenza i progetti iraniani sono lungimiranti. E Teheran vi sta investendo i suoi cervelli migliori. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza continua al fronte del maggior generale Qassem Suleimani, numero uno della forza Quds dei pasdaran. L'uomo risponde direttamente alla Guida suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei.
È spesso in primissima linea, per galvanizzare le milizie sciite siriane, irachene, afghane, pakistane e l'onnipresente Hezbollah, che nei combattimenti degli ultimi anni ha perso un terzo dei suoi uomini.
L'aiuto iraniano alla Siria
Ma qual'è concretamente l'apporto iraniano in Siria? Fin dal 2011, Teheran è andata immediatamente in soccorso dell'alleato siriano, messo in difficoltà dalle prime sedizioni interne. Il Ministero dell'Intelligence e della Sicurezza (VEVAK) disponeva già di centri di ascolto e intercettazione nel nord-est del paese e nei pressi del Golan. Monitorava la situazione, nell'ambito del trattato di mutua difesa con la Siria, fornendo un aiuto cruciale sia in termini di sicurezza pubblica, sia d'intelligence. Quando la situazione è precipitata, a inizio 2011, Mohammed Nasif Kheirbek, uomo del clan Assad e dell'intelligence nazionale, si è offerto come intermediario con gli iraniani.
Ha promosso la creazione di un insieme di depositi di stoccaggio e di arsenali nell'aeroporto di Latakia, dove imperano oggi i russi. La missione ha avuto successo, perché il complesso industriale dell'IEI (Iranian Electronic Industry), contraente della Difesa, si è subito attivato, trasferendo materiali preziosi al General Intelligence Directorate siriano: dai disturbatori di radiofrequenze ai jammer campali, per un valore non inferiore ai 3 milioni di dollari.
Esperti iraniani hanno cominciato a fare la spola con Damasco per formare unità anti-ribellione e fornire
In una sorta di regola generale nell'organizzazione iraniana, il Ministero dell'Intelligence e della Sicurezza fornisce le informazioni, il sostegno logistico e le trasmissioni; i pasdaran fanno il lavoro sul "campo" e la forza Quds si occupa delle operazioni di forza più ardite e violente.
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know-how di sorveglianza delle reti telefoniche e informatiche.
Nell'organizzazione iraniana, usualmente il Ministero dell'Intelligence e della Sicurezza fornisce le informazioni, il sostegno logistico e le trasmissioni; i pasdaran fanno il lavoro sul "campo" e la forza Quds si occupa delle operazioni di forza più ardite e violente. I Guardiani della Rivoluzione vantano una lunga esperienza di operazioni contro-insurrezionali.
Hanno mandato alla corte di Assad gli uomini più esperti, provenienti dalle provincie più calde del paese. Quando Damasco ha cominciato a perdere terreno a nord e a est, nell'estate del 2012, Teheran ne ha puntellato le difese nel ridotto centrale e meridionale.
Ha aiutato Assad a formare nuove unità militari e ad addestrare le vecchie. Il 416o battaglione di forze speciali è stato inquadrato dagli iraniani nel complesso di al-Dreij, fra Damasco e Zabadani, città chiave, dove i pasdaran agiscono almeno dal 1982 in direzione del Libano, organizzandovi i rifornimenti di armi agli Hezbollah.
Fra il 2011 e il 2012, l'Iran ha avviato anche la formazione di gruppi di miliziani sciiti, con una duplice finalità: bilanciare lo sgretolamento dell'apparato militare siriano, rafforzandone la massa di manovra, e garantirsi una forza stabile nel caso di rovesciamento del regime di Assad. Secondo alcuni esperti statunitensi, la National Defence Force (gruppo militare siriano organizzato dal governo del presidente Bashar al-Assad) è stata voluta e addestrata da membri dei pasdaran e di Hezbollah. Si tratta di circa 50-70.000 uomini, prevalentemente siriani sciiti e alatiti.
Ne paga addirittura gli stipendi, che variano da 100 a 160 dollari mensili, a seconda del grado. Ha inoltre mobilitato gli ex miliziani sciiti iracheni e formato per prima la brigata Abu Fadl al-Abbas, cui ne sono seguite diverse altre.
Anche le famigerate brigate di Hezbollah in Iraq, i combattenti di Asa'ib Ahl al-Haqq e gli irregolari della milizia Badr sono passati all'azione, ricevendo ordini, armi ed equipaggiamenti da Teheran, che ha garantito al regime uomini motivati e un imprescindibile sostegno logistico, via aria. Sempre i pasdaran hanno reclutato nuovi combattenti fra i rifugiati afghani in Iran.
Hezbollah in Siria
Ecco per l'appunto Hezbollah. Non è chiaro quanti miliziani sciiti libanesi siano in teatro: le stime variano da 2.000 a 4.000, riservisti compresi. Il che equivarrebbe a un quarto circa delle disponibilità del movimento. Ogni zona di operazioni di Hezbollah ha un comando indipendente. Gli operativi agirebbero in
Lungo la frontiera libanese gli Hezbollah non rispondono a nessuno e si muovono indipendentemente, non tanto per proteggere le popolazioni sciite, quanto piuttosto per preservare i corridoi di transito delle armi iraniane.
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seno a unità multinazionali, comprendenti pasdaran, membri della forza Quds e altri miliziani, coordinati con le unità regolari del regime e i consiglieri russi. Ma c'è un'eccezione, lungo la frontiera libanese, dove gli Hezbollah non rispondono a nessuno e si muovono indipendentemente, non tanto per proteggere le popolazioni sciite, quanto piuttosto per preservare i corridoi di transito delle armi iraniane.
Dal 2000 almeno, i pasdaran si servono della piattaforma siriana per i trasferimenti di armi a Hezbollah. Con il conflitto in corso, la via aerea è divenuta la più sicura e ha soppiantato le direttrici terrestri e marittime. Anche le compagnie commerciali collaborano al "ponte aereo": Iran Air, Mahan Air e Yas Air trasportano combattenti, munizioni, razzi, cannoni e antiaerei.
Gli aiuti militari iraniani in Siria
Al centinaio e passa di velivoli commerciali si sommano i cargo militari: almeno 3 Antonov An-74 e 2 Ilyushin Il-76. Il traffico è intenso. Teheran fa affluire in Siria pezzi di ricambio per gli MBT T-72, razzi Falaq-2, missili Fateh-110, obici da 120 mm, lanciarazzi da 107 mm, jeep e altri veicoli. Tecnici iraniani avrebbero contribuito anche alla realizzazione delle bombe al cloro, usate ripetutamente dai lealisti del regime.
Grazie ai filmati apparsi su Youtube, abbiamo visto più volte droni iraniani sorvolare Idlib, Homs, Damasco e Aleppo: UAV da ricognizione come i Mohajer 4, gli Ababil-2, i Mirsad-1, gli Shahed 129 e gli Yasir. Da Teheran arrivano anche buona parte dei fondi per la manutenzione in Russia della flotta aerea siriana. Un mix di aiuti che si somma al supporto russo.
Dal dicembre del 2013, alcune fonti siriane affermano che l'impegno iraniano nel conflitto siriano è costato almeno sei miliardi di dollari Usa ogni anno, mentre altre fonti occidentali ipotizzano un sostegno finanziario addirittura doppio.
È probabile, secondo molteplici fonti, che gli scontri più rilevanti in Siria cesseranno alla fine di questo anno 2018. Non avranno ancora termine, probabilmente, i piccoli scontri tra le varie etnie e quindi tra i loro referenti
Il primo dato che salta agli occhi è che le forze di Bashar al-Assad hanno vinto. Tutti gli attori internazionali operanti sul terreno non hanno difficoltà a riconoscerlo. Ma né Assad né la Russia hanno da soli la forza di compiere la ricostruzione del Paese.
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esterni; ma il grosso delle azioni armate certamente cesserà, ormai le aree di influenza si sono stabilizzate. Il primo dato che salta agli occhi è che, malgrado tutto, le forze di Bashar al-Assad hanno vinto. Tutti gli attori internazionali operanti sul terreno, amici o nemici, non hanno difficoltà a riconoscerlo. Certo, né Assad né la Russia hanno da soli la forza di compiere la ricostruzione del Paese.
Il gioco si farà davvero duro quando si arriverà al momento della ricostruzione. La più importante leva futura dell'influenza esterna sarà ancora una volta la Repubblica Araba Siriana.
Russia e Iran detengono, già ora, la maggioranza dei contratti per la ricostruzione, mentre acquisiranno la gran parte del settore pubblico, per ripagarsi delle spese militari in cui sono incorsi per mantenere il regime di Assad.
La Banca Mondiale valuta il costo della ricostruzione a 250 miliardi. Altre valutazioni, meno ottimistiche, ma più realistiche, pensano che la ricostruzione nazionale siriana arrivi fino a 400 e perfino a 600 miliardi di dollari statunitensi.
Dopo sei anni dallo scoppio del conflitto, nel 2011, la grande diaspora di businessmen siriani si è ritrovata in Germania, alla fine di febbraio 2017. Da lì è stata fondata la Siba, Syrian International Business Association. Per quanto riguarda la grande ricostruzione siriana, sono già attivi i governi russi, iraniani e cinesi che si sono già assicurati i più grossi contratti nei settori degli idrocarburi, dei minerali, delle telecomunicazioni, delle costruzioni immobiliari e delle reti elettriche.
Per quanto riguarda le normative, Damasco sta continuamente modificando le norme riguardo alla struttura delle società operanti, ai permessi di lavoro, alle importazioni, ai trasferimenti di valuta. Una
egemonia statuale, nella vecchia tradizione baathista, il vecchio socialismo nazionale siriano che però si
È stato il Capo di Stato Maggiore delle forze armate iraniane, ad annunciare l'intenzione di costruire anche una base navale sul territorio siriano, per controllare il mare davanti al Libano, creando un ulteriore motivo di preoccupazione per il vicino Israele.
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adatta alla struttura dei mercati contemporanei.
Tornando all'Iran, e alla fase di ricostruzione della Siria, pensate che è stato Mohammad Bagheri, Capo di Stato Maggiore delle forze armate iraniane, ad annunciare l'intenzione di costruire anche una base navale sul territorio siriano. Questo per controllare il mare davanti al Libano, creando un ulteriore motivo di preoccupazione per il vicino Israele e non solo. L'idea di una presenza iraniana in un punto strategico come le acque adiacenti Beirut potrebbe non piacere a Putin, che conta una propria base a Tartus, vero avamposto russo nel Mediterraneo.
Altre fonti vicine all'Ayatollah Khamenei, invece, parlano di una possibile base, anche sottomarina, in un'area ancora più occidentale, tra Cipro o alcune isole greche del Dodecanneso. In entrambi i casi l'effetto immediato sarebbe un innalzamento della tensione nell'intera area mediorientale.
L'Iran non ha mai nascosto d'altro canto che il suo obiettivo, con la partecipazione alla guerra in Siria, è di egemonizzare la regione ai confini con Israele per meglio tenere sotto scacco lo Stato ebraico.
Ora un'ultima considerazione: lo sviluppo del programma missilistico iraniano. L'aumento dei fondi destinati al programma dell'ultimo anno confermano la volontà dell'establishment iraniano di perseguire il consolidamento della capacità missilistica. Diversi analisti militari giudicano l'arsenale balistico di Teheran il più completo e avanzato della regione. Oltre alla varietà di missili a breve e medio raggio, che garantiscono un importante sistema di difesa per il paese, e accrescono la capacità di deterrenza sullo stretto di Hormoz, nel settembre del 2017 l'Iran ha testato un missile nominato Khorranshahr, una versione iraniana del nord coreano Hwasong-10, con una gittata di oltre 2000 chilometri, dimostrando di poter colpire i principali nemici nella regione: Israele e Arabia Saudita.
(Progetto Dreyfus, 9 agosto 2018)
I tram di Milano portano per le strade Tel Aviv e Gerusalemme
Prosegue la campagna Two Sunny Cities, One Break dell'ente del Turismo, fino a gennaio 2019 sulle linee 3, 12, 16, 24 e 27.
Prosegue la campagna Two Sunny Cities, One Break dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo e fa tappa sui più mezzi di trasporto milanesi, i tram.
Fino a gennaio 2019, infatti, i tram delle linee 3, 12, 16, 24 e 27, porteranno per le strade di Milano le immagini di Tel Aviv e Gerusalemme, due città baciate dal sole tutto l'anno (inverno incluso) da visitare in un unico viaggio.
"Siamo entusiasti di portare lanciare la nostra campagna tram a Milano, una città collegata in 4 ore con oltre 20 voli diretti alla settimana all'aeroporto Ben Gurion, situato a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme. Si tratta della prima campagna su tram del ministero del Turismo di Israele dopo oltre 20 anni e riteniamo che questo mezzo, così rappresentativo di Milano, sia perfetto per raggiungere un pubblico ampio di potenziali visitatori", ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia.
La campagna lanciata per la prima volta con spot tv e web lo scorso gennaio, è pensata per invitare gli italiani a visitare Israele per un citiesbreak nel quale unire due destinazioni: Tel Aviv, con le sue spiagge e architetture Bauhaus, città dinamica e innovativa aperta 24 ore su 24; Gerusalemme, centro di cultura e spiritualità, dalla città vecchia fino ai quartieri più moderni, sede di musei, centri culturali e luoghi di intrattenimento.
(Guida Viaggi, 8 agosto 2018)
Re Abdallah riceve Abu Mazen ad Amman
Il presidente palestinese dovrebbe poi andare in Qatar.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha incontrato ad Amman il re giordano Abdallah e il principe ereditario Hussein bin Abdallah. Lo riferisce l'agenzia Wafa secondo cui sono stati affrontati "gli ultimi sviluppi" della causa palestinese, le relazioni tra i due paesi ed anche le "sfide che affronta Gerusalemme". Nella riunione allargata che ha fatto seguito all'incontro tra Abu Mazen e il monarca hashemita hanno partecipato da parte palestinese anche il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat, il membro di Fatah Hussein al-Sheikh e il capo della sicurezza Majid Faraj. Abu Mazen - che da maggio scorso non lasciava la Cisgiordania per problemi di salute - dovrebbe poi proseguire per il Qatar.
(ANSAmed, 8 agosto 2018)
Fonti Usa: il piano di Trump "scontenta" sia Israele che i palestinesi
ROMA - Il piano per la pace in Medio Oriente del presidente americano Donald Trump "scontenta" sia Israele che i palestinesi. E' quanto ha detto un "alto funzionario dell'amministrazione Usa" al quotidiano israeliano Haaretz, il quale citando altre fonti sostiene che il futuro Stato palestinese pensato da Trump sorgerebbe "nel Sinai" penisola egiziana che confina con la Striscia di Gaza."Leggendo il piano l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) non sarà felice perché contiene alcune pagine che non l'accontenteranno ma sarà felice di alcune altre", ha detto al giornale il funzionario Usa in condizioni di anonimato ,aggiungendo che "sarà lo stesso per gli Israeliani"."Il piano presenterà alle due parti un modo pragmatico per risolvere il conflitto", ha aggiunto, sottolineando che "le questioni cruciali saranno confini, Gerusalemme e sicurezza". Secondo le fonti di Haaretz "la squadra di Trump pensa che il piano sarà accolto positivamente da Israele e da grandi Paesi arabi a prescindere della posizione palestinese".Haaretz citando altre fonti definite "ben informate" riferisce di "una verità non rivelata sulla possibilità che lo Stato palestinese sorga nel Sinai", penisola egiziana che confina con la Striscia di Gaza". Indiscrezione bollata dall'amministrazione Usa come "teoria del complotto". "La sostanza del piano sarà applicata in Cisgiordania e la Striscia di Gaza ed è possibile che l'amministrazione Trump cerchi di suggerire per il Nord del Sinai progetti economici che possono migliorare la situazione a Gaza", ha affermato le fonti del giornale.
(askanews, 8 agosto 2018)
Il duello tra Teheran e Israele ora si sposta nel Mar Rosso
Cargo, manovre, aerei spia. E i pasdaran valutano di chiudere lo «stretto del petrolio».
di Guido Olimpio
C'è una nave, in apparenza un innocente cargo, in mezzo al Risiko che oppone Usa, Israele, regimi del Golfo e l'Iran. La Saviz è da mesi nelle acque del Mar Rosso, a nord di Bab el Mandeb. E stata segnalata, fotografata e monitorata dall'intelligence, ma anche dagli esperti che hanno sfruttato al meglio le fonti aperte garantite dal web.
In passato i sauditi l'hanno accusata di aver trasferito armi agli insorti sciiti dello Yemen, gli Houti, avversari della coalizione guidata da Riad. Più di recente è stata sospettata di aver assistito gli insorti in un presunto attacco condotto contro una petroliera dell'Arabia Saudita. Episodio controverso che tuttavia ha spinto la monarchia sunnita a lanciare l'allarme sui rischi per una rotta commerciale primaria.
E possibile - ha scritto l'esperto H.I. Sutton - che la Saviz si tenga in queste acque con compiti di spionaggio. Tiene d'occhio il traffico marittimo, fornisce dritte ai ribelli yemeniti protagonisti in passato di azioni clamorose, con l'uso di missili e imbarcazioni riempite d'esplosivo. Colpi contro la flottiglia schierata da Arabia ed Emirati, scontro impari - viste le forze impiegate - ma che ha riservato brutte sorprese per l'alleanza messa in piedi da Riad. Non poche le perdite tra i militari, però più alte quelle dei civili yemeniti, vittime del conflitto falciate a migliaia dalle bombe.
Sempre la Saviz potrebbe spiare lo scalo di Assab, in Eritrea. Dal 2015 ospita una base importante degli Emirati, una piattaforma dal quale partono missioni militari nello Yemen. Il porto, insieme a quello somalo di Berbera, e a punti d'appoggi minori rappresenta una collana di installazioni messe in piedi dai militari emiratini, una strategia ambiziosa sorretta da finanziamenti importanti. c'è poi il timore del rilascio di mine navali, peraltro già presenti lungo la costa, la ripetizione di quanto avvenne a metà degli anni 80 quando numerosi ordigni furono «sganciati» sulla via d'acqua - si disse - da un finto peschereccio. Indiscrezioni sulle quali comunque pesa la propaganda di tutti i protagonisti.
In questo le petro-monarchie non sono le sole a giocare. Anche Israele si è inserito. E non poteva mancare, vista la sfida prolungata con Teheran. Gli israeliani hanno le loro pedine nel Corno d'Africa e vogliono, a loro volta, bilanciare le mosse dell'Iran. Il premier Netanyahu, solo pochi giorni fa, ha ammonito che qualsiasi tentativo khomeinista di bloccare lo stretto di Bab el Mandeb provocherà una reazione internazionale alla quale Gerusalemme aderirà. Il 5 agosto, un appassionato di temi aeronautici ha rilevato lo strano volo di una formazione israeliana: due aerei per lo spionaggio elettronico e altrettanti velivoli da rifornimento si sono diretti verso le acque dello Yemen, quindi - dopo sei ore sono rientrati. Non è chiara quale sia stata la loro missione, ma certamente ha suscitato interesse e illazioni. Anche perché la cornice internazionale si presta.
Washington ha annunciato nuove sanzioni contro gli iraniani, presto ne seguiranno altre. I pasdaran, secondo una dialettica consolidata, hanno minacciato la chiusura di Hormuz in nome dello slogan «il petrolio è per tutti o per nessuno». Quindi hanno lasciato spazio alle evoluzioni di unità navali nel Golfo Persico proprio per rimarcare che non si faranno intimorire dalle minacce esterne. Toni alti dopo il classico gioco della carota e del bastone di Donald Trump, che ha ventilato un summit con il presidente Rouhani ma ha poi picchiato con le misure. È destino che il pendolo della crisi iraniana non si arresti mai.
(Corriere della Sera, 8 agosto 2018)
Proposta shock in Austria
Introdurre una lista di consumatori di carne kasher
di Gianmatteo Ercolino
Malgrado superi a malapena il milione e mezzo di abitanti, la Bassa Austria è ad oggi lo stato federato (o Bundesland, per dirlo alla tedesca) più grande dell'intera nazione. Il suo capoluogo, la millenaria St.Pölten, è divenuta la città più grande fin da quando, da un punto di vista strettamente amministrativo, la vicina Vienna ha iniziato a rappresentare una città indipendente in quanto capitale. Per il resto, negli ultimi decenni la maggior parte dei turisti e dei visitatori che hanno scelto di recarsi nella Bassa Austria non lo hanno fatto tanto per la bellezza delle sue città o dei suoi borghi, quanto per le sue meraviglie naturali. In effetti, in uno stato del genere è possibile trovare davvero di tutto: dalle immancabili Prealpi, ambita meta di sciatori e alpinisti, fino alla cintura boschiva del Wienerwald. Dalle pianure ungheresi situate nelle provincie orientali, fino ai colli posti al confine con la Boemia e la Moravia. Per non dimenticare di elementi naturali, per così dire, più utili, come il Danubio, che attraversa quasi integralmente la regione garantendo intensi commerci fluviali all'interno della stessa, fino ai vasti terreni agricoli i quali, malgrado lo sviluppo della tecnologia e del settore terziario, continuano a costituire tutt'ora uno dei cardini dell'economia locale.
Proprio nel settore dell'agricoltura, negli ormai lontani anni '80, lavorava un ragazzo di Waidhofen an der Thaya, la stessa cittadina che diede i natali al campione automobilistico Alexander Wurtz. A dir il vero, la scelta d'impegnarsi nell'agricoltura, forse dettata più dal fatto che i suoi genitori gestivano un'azienda nel settore che da una reale passione, non trovò continuità nel tempo. Ben presto il giovane ragazzo comprese che il suo reale interesse era un altro: la politica. Fu così che nel 1990, a soli 25 anni, il nostro protagonista venne eletto consigliere municipale nel Pfaffenschlag e, solo quattro anni dopo, divenne il più giovane presidente distrettuale della storia del suo partito. Furono solo i primi capitoli di una carriera politica che con gli anni lo avrebbe portato a diventare un'autentica celebrità in Austria, fino al punto che ad oggi le sue pagine social vengono seguite da decine di migliaia di utenti. Quel ragazzo si chiamava Gottfried Waldhäusl, e sarebbe col tempo diventato uno degli uomini più controversi e più discussi dell'intero Paese.
Malgrado, infatti, Waldhäusl non abbia mai ottenuto alcun incarico al livello nazionale, ne ha viceversa ottenuti numerosi a livello locale, fino al punto da diventare uno dei protagonisti della crescita dell'FPO (il partito ultranazionalista austriaco) dall'8,2 al 14,8% delle ultime elezioni. Il motivo di tutta questa popolarità? Il suo carisma, il suo linguaggio chiaro ed esplicito e
le sue uscite politicamente scorrette. Negli anni scorsi, il consigliere aveva definito "idiota" il sistema dei richiedenti asilo, esortando il governo federale a negare ai bambini extracomunitari la possibilità di frequentare le stesse scuole dei bambini austriaci, in quanto quest'ultimi ne avrebbero subito un "blocco dell'apprendimento". Più tardi, Waldhäusl avrebbe definito il governatore della Bassa Austria Erwin Proll un "dittatore seduto in poltrona", mentre nel 2011, avrebbe chiamato in maniera dispregiativa "omosessuali" gli esponenti del partito popolare, rei di non condividere le sue politiche sociali.
Tuttavia Waldhäusl, che nel frattempo ha ottenuto un'immancabile promozione ad assessore, negli ultimi giorni sembra aver davvero superato ogni limite. Sta facendo discutere la sua proposta di creare una lista per classificare tutti gli ebrei che dovessero far uso di carne Kasher. A suo dire, infatti, per ottenere gli alimenti necessari ad ottemperare ai propri rigidi dettami religiosi, gli ebrei austriaci arriverebbero a macellare in maniera indecorosa e spesso anche scarsamente igienica numerosi animali. In realtà, tale accusa non solo non è stata dimostrata dagli esperti, ma sembra perfino bizzarra: com'è possibile che Waldhäusl, dopo aver manifestato per anni una scarsa attenzione al tema, abbia improvvisamente riscoperto un fervente sentimento animalista?
In altre parole, sono in molti a sostenere che dietro questa richiesta vi sia un celato sentimento antisemita; la comunità ebraica ha subito parlato di una stigmatizzazione religiosa: "Il fetore dell'era nazista trasuda da questa proposta. È disgustoso registrare gli ebrei in Austria, trattando la carne kasher come merce che deve essere messa in quarantena dal resto della popolazione" ha dichiarato il portavoce del Simon Wiesenthal Center di Los Angeles. "Il prossimo passo? Una stella sul petto?" gli ha fatto eco la Jewish Committee.
Il Presidente della comunità ebraica Oskar Deutsch si è detto preoccupato dalla possibile introduzione di divieti o di restrizioni in merito alla libertà di mangiare carne Kasher in futuro, e perfino gli storici "rivali" musulmani hanno espresso la propria solidarietà bollando come "inaccettabili" le parole di Waldhäusl.
Quest'ultimo, in un certo senso, è stato lasciato da solo perfino dal proprio partito. Il leader dell'FPO della bassa Austria Klaus Schneeberger, infatti, forse proprio per gettare acqua sul fuoco in seguito alle polemiche degli ultimi giorni, si è affrettato a prendere le distanze dal suo compagno di partito: "Nessuno vuole registrare gli ebrei che comprano carne, ovviamente".
Sarà, eppure l'ultima provocazione di Waldhäusl non potrà certo passare inosservata. Sorge anzi spontaneo riflettere su quanti elettori, nel profondo del proprio cuore, condividano e apprezzino un simile linguaggio politico; diversamente, esponenti politici simili non otterrebbero un tale consenso. Fino a quando l'opinione pubblica non incomincerà a premiare una dialettica politica basata sulla logica anziché sul rancore, i tanti Waldhäusl di questo mondo continueranno a dar vita ad esternazioni come quella sulla carne Kasher, ed anzi, un domani potrebbero perfino decidere di rincarare ulteriormente la dose.
(International Post, 8 agosto 2018)
Israele: una donna capo di uno squadrone dell'aviazione
E' la prima volta nella storia dell'aeronautica israeliana
Per la prima volta nella storia dell'aviazione israeliana, una donna è stata nominata comandante di uno squadrone. L'annuncio e' giunto oggi dal comandante dell'aviazione militare, gen. Amikam Norkin, che ha affidato lo squadrone 122 'Nachson' al maggiore G., di 34 anni, che sara' adesso elevata in grado. L'ufficiale, precisa il portavoce militare, ha dato buona prova di se' in svariati incarichi di pilotaggio e negli anni 2015-7 è già stata vice comandante dello squadrone 122, a cui ora ritorna. Il suo incarico entrerà in vigore fra due mesi. ''E' per me un gran privilegio e un'immensa responsabilità'' ha detto G., citata dal portavoce militare. ''Adesso mi attende il vero impegno. Sono fiera di prestare servizio nell'aviazione israeliana''.
(ANSAmed, 7 agosto 2018)
Leggi razziali, i rettori chiedono scusa. «Dopo 80 anni un monito attuale»
Pisa, cerimonia degli atenei italiani per condannare la cacciata degli ebrei
di Marco Gasperetti
PISA - Non sarà solo un ricordo, stavolta. E 80 anni dopo quella firma infame, i rettori delle università italiane chiederanno scusa non solo agli ebrei e all'umanità tutta, ma alla Cultura (con la maiuscola) anch'essa oltraggiata, umiliata, violata. Il 20 settembre all'Università di Pisa, a otto chilometri dall'allora tenuta reale di San Rossore dove il re Vittorio Emanuele III il5 settembre 1938 promulgò le leggi razziali, l'ultimo capitolo di una storia oscura sarà definitivamente chiuso anche se mai sarà dimenticato. L'università di Pisa, in collaborazione con Normale, Sant'Anna e Imt di Lucca, organizzerà una tre giorni della memoria che culminerà con la lettura di un documento firmato dai rettori in cui oltre a condannare l'atto infame che cacciò dalle scuole di ogni ordine e grado gli ebrei, si chiederà scusa per ciò che la storia italiana produsse e l'incapacità del mondo accademico di allora di arginare l'onda razzista.
Nessuno dei circa ottanta rettori che parteciperanno all'iniziativa era nato quando la firma del sovrano fu apposta sul primo decreto. Ma ciò non cambia il fardello che l'università, l'ultimo grado e dunque il più elevato dell'istruzione, si è portato sulle spalle sino a oggi. «E io non capisco perché si sia aspettato così tanto per chiedere perdono - dice il direttore della Scuola Normale, Vincenzo Barone -. Anche oggi il "razzismo" è uno strumento che la politica usa quando è in difficoltà per tenere buoni i più poveri dando la colpa delle loro disgrazie ai "diversi" e non alla cattiva distribuzione della ricchezza». E, come ha detto ieri il rettore dell'Università di Firenze al Corriere Fiorentino, l'iniziativa pisana sarà anche «un monito forte per il presente e per il futuro».
Colpiti dalle leggi razziali furono Emilio Segrè, Franco Modigliani, Enrico Fermi (che aveva la moglie ebrea), Federigo Enriques, Giuseppe Levi, Gino Luzzatto, Rita Levi-Montalcini, Elio Toaff, solo per citare alcuni nomi. Molti ragazzi dallo straordinario talento furono cacciati dalle scuole. E ci furono scienziati e docenti che si schierarono a favore della cultura della razza. «Quelle leggi chiusero definitivamente le porte a un'università che avrebbe dovuto favorire inclusione, incontro e tolleranza - spiega Gaetano Manfredi, presidente della Conferenza dei rettori italiani -. Provocarono un danno enorme alla ricerca, oscurarono la cultura. Noi rettori saremo a Pisa per ricordare e chiedere scusa. Anche perché la storia dell'umanità ci dimostra che vi sono purtroppo stagioni durante le quali soffiano venti di divisione, come sta accadendo oggi».
Il programma prevede per il 5 settembre una cerimonia nel parco di San Rossore, a cui parteciperà il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni. Poi dal 20 al 22 settembre un convegno all'università di Pisa e le scuse solenni del mondo accademico.
(Corriere della Sera, 8 agosto 2018)
Torneo di baseball - Centinaia di ragazzi in festa durante la cerimonia delle premiazioni
Riportiamo molto volentieri larticolo finale di Gazzetta di Parma sul torneo di baseball di Sala Baganza. I dodicenni del Team Israel possono dire di avere svolto un validissimo servizio per il loro paese: hanno portato e ricevuto amicizia, hanno suscitato simpatia. Questo va ad onore, bisogna dirlo, anche dei cittadini di Sala Baganza e dei giornalisti di Gazzetta di Parma. NsI
di Andrea Ponticelli
SALA BAGANZA - «E anche per quest'anno è andata». Andrea Corsini, l'interbase della serie A componente di quell'immenso esercito di volontari del Sala baseball, lo dice con tristezza.
Si è appena conclusa la cerimonia delle premiazioni, condotta da Chiara Cacciani della Gazzetta, ma lui vorrebbe continuare a vivere l'incantesimo di un torneo «Fontana» ancora una volta fonte di spettacolo, di emozioni, d'amore per il batti e corri. Sono gli stessi sentimenti che si provano da anni ad ogni edizione, ma ogni anno diventano ancora più belli perché si specchiano nello stupore di chi vive il torneo per la prima volta. Come i ragazzi di Israele, circondati da un efficiente e mai invasivo servizio di sicurezza: ridevano, scherzavano, ballavano (i dodicenni sono uguali in tutto il mondo) ma così educati da ringraziare tutti i dirigenti del Sala per l'ospitalità. Anche loro avvolti dall'affascinante magia delle premiazioni. Dicono che le società farebbero ponti d'oro per partecipare al torneo solo per vivere la cerimonia finale. Non stentiamo a crederlo.
Certi spettacoli si vedono solo a Sala: il quindicenne americano che si prende sulle spalle il dodicenne di Staranzano; il ragazzino della Crocetta minibaseball simpatico e tenero ballerino; le squadre che formano un gigantesco tunnel serpentone come un arco di trionfo per le squadre quando salgono sul palco; i ragazzi che attendono giù dal palco i loro amici premiati perché vivono la loro stessa felicità; l'arbitro Frigeri, un veterano del torneo, premiato per avere arbitrato - da solo - tutte le partite del minibaseball. E sullo sfondo un mantra vincente: il buonumore batte sempre valido.
(Gazzetta di Parma, 7 agosto 2018)
"Gli ebrei bevono sangue": bufera per il post di un politico inglese
di Nathan Greppi
Damien Enticott, consigliere comunale nella città inglese di Bognor Regis per il Partito Laburista, è stato sospeso dal suo partito per aver pubblicato su facebook un post secondo il quale gli ebrei sono dediti a bere sangue per scopi rituali. Secondo il JTA, la settimana scorsa Enticott aveva detto alla rivista ebraica Jewish Chronicle che non aveva pubblicato lui il post: per difendersi, disse che condivide la casa con altre persone, e che si può accedere al suo computer senza password, perciò qualcun altro l'avrebbe pubblicato usando il suo profilo.
Tuttavia, lunedì 30 luglio Enticott ha scritto un nuovo post, e questa volta ha ammesso che il post antisemita era opera sua. Quest'ultimo diceva così: "Rituale Ebraico - Bevono sangue e succhiano i c***i ai neonati," in riferimento a un presunto rito praticato dagli ebrei ortodossi. Ha aggiunto di aver scritto che "Hitler avrebbe la soluzione per il problema israeliano." Si sarebbe giustificato dicendo che è stato per "la frustrazione nel vedere civili disarmati venire fucilati dai soldati israeliani. [
] Io sono antisionista, non antisemita."
Enticott ha affermato che secondo lui il Partito Laburista "farà la cosa giusta" reintegrandolo, aggiungendo che si rifiuta di seguire qualsiasi corso disciplinare. Se sarà espulso dal Labour, ha detto, conserverà comunque il suo posto da consigliere comunale come un indipendente. Nel suo post di lunedì ha anche scritto questo: "Alla fine, continuerò a esprimermi liberamente per il mio elettorato e le mie scuse saranno solo per la gente di Hatherleig Ward (la frazione di Bognor Regis che rappresenta, ndr) se sarà necessario. Sono solo gli abitanti di Hatherleigh Ward coloro che rappresento veramente come consigliere e a cui devo tenere conto."
(Bet Magazine Mosaico, 6 agosto 2018)
La mano del Mossad dietro l'eliminazione del "chimico" di Assad
Secondo fonti del New York Times l'omicidio dello scienziato siriano Aziz Asber sarebbe stato ordinato dai servizi segreti israeliani
di Umberto De Giovannangeli
Una "eliminazione mirata" targata Mossad. Un avvertimento diretto a Bashar al-Assad: Israele farà di tutto per impedire al rais di Damasco di sviluppare un piano di riarmo chimico e missilistico. Lo scienziato siriano Aziz Asber, morto in circostanze poco chiare nel fine settimana, era "coinvolto in attività terroristiche, quindi accolgo la sua dipartita". A dirlo o oggi all'emittente radiofonica Radio Army è il ministro dell'Intelligence e dei Trasporti israeliano, Yisrael Katz. Le dichiarazioni di Katz giungono in risposta alle indiscrezioni pubblicate dal quotidiano statunitense New York Times, secondo cui ad uccidere Asber sarebbero stati agenti del Mossad, il servizio segreto esterno israeliano. Il quotidiano statunitense cita un funzionario dell'intelligence di un Paese mediorientale, secondo cui il Mossad avrebbe ucciso lo scienziato sabato 4 agosto, servendosi di un'autobomba. Asber era esperto di razzi e sarebbe stato in contatto con i vertici di Damasco e Teheran, spiega la fonte. Secondo la ricostruzione che fa il NYT lo scienziato siriano sarebbe stato seguito per mesi.
Aziz Asber stava lavorando a un progetto per la riconversione e l'upgrade dei missili SM600 Tishreen che sarebbero dovuti diventare più precisi e in grado di colpire qualsiasi città israeliana. Collaborava attivamente con la Forza Quds comandata dal generale iraniano Qasem Soleimani. Inoltre, lo scienziato avrebbe portato avanti un programma segreto per lo sviluppo di un'unità per la produzione di armamenti, chiamato Sector 4. La struttura sotterranea avrebbe dovuto sostituire quella distrutta lo scorso anno proprio dai caccia israeliani, prosegue il quotidiano statunitense, riferendosi all'attacco contro una fabbrica per la produzione di armi a Masyaf avvenuto nel settembre 2017 per il quale Damasco ha accusato proprio Israele. Secondo la fonte, il Mossad pedinava Asbar da tempo, già prima dell'inizio della guerra civile (marzo 2011). Per l'Osservatorio inoltre, il generale ucciso era molto vicino al presidente Bashar al-Assad e all'Iran, e curava di recente la produzione di missili terra-terra a corto raggio
L'attacco ad Asber era stato rivendicato da un gruppo ribelle siriano affiliato a Tahrir al-Sham, un conglomerato che comprende l'ex Fronte Al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda. Le Brigate di Abu Amar avevano diffuso via Telegram un messaggio in cui affermavano di aver piantato "sistemi esplosivi" che hanno ucciso Asbar. Secondo rivelazioni emerse in passato il Mossad aveva avuto la possibilità di eliminare lo stesso Soleimani, quando organizzò l'operazione per uccidere a Damasco Imad Mughnyeh, capo militare dell'Hezbollah. Il leader guerrigliero fu dilaniato da una bomba piazzata nel suo Suv il 12 febbraio 2008. Quella mattina il team di sorveglianza israeliano lo aveva visto insieme ad una persona che sembrava proprio Soleimani. Un avvistamento seguito da consultazioni tra il direttore del Mossad dell'epoca, Meir Degan, e il premier Olmert che si oppose all'attacco perché aveva dato garanzie precise agli Usa. La missione riguardava solo Mughnyeh.
L'agguato scatterà quasi 12 ore dopo, quando l'esponente Hezbollah esce da un edificio della capitale siriana. Ventidue aprile 2018: uno scienziato palestinese esponente di Hamas viene ucciso a Kuala Lumpur, in Malaysia. La famiglia della vittima accusa il Mossad israeliano. Secondo quanto riferito dalla polizia la vittima, Fadi Mohammad al-Batsh, 35 anni, ricercatore specializzato in energia, è stato ucciso mentre si recava alle preghiere del venerdì. L'uomo è stato avvicinato da due individui a bordo di una potente motocicletta. Uno dei due ha esploso 10 colpi d'arma da fuoco, quattro dei quali hanno raggiunto lo scienziato alla testa e al corpo. Immagini delle telecamere di sicurezza hanno permesso di ricostruire che i due aggressori hanno atteso la vittima per 20 minuti. Fonti israeliane non hanno voluto commentare la notizia. Batsh, sposato e padre di tre figli, viveva in Malaysia da 10 anni.
Nel gennaio 2010 infine, Massoud Ali Mohammadi, un professore di fisica delle particelle all'Università di Teheran, era stato ucciso dall'esplosione di una motocicletta fuori dalla sua casa nella capitale. Il professore aveva anche lavorato per i Guardiani della rivoluzione. I leader politici e i media ufficiali in Iran hanno subito accusato i servizi segreti israeliani e statunitensi, ritenuti anche responsabili del rapimento dello scienziato nucleare Shahram Amiri, scomparso nel maggio 2009. A novembre dello stesso anno, due scienziati con ruoli chiave nel programma nucleare iraniano erano invece stati presi di mira a Teheran da due attacchi dinamitardi di cui l'Iran ha incolpato Israele e Stati Uniti. Uno degli scienziati, Majid Shahriari, è stato ucciso. Un anno dopo, il 12 novembre, un'esplosione in un deposito di munizioni della Guardia rivoluzionaria nella periferia di Teheran ha ucciso almeno 36 persone tra cui il generale Hassan Moghadam, responsabile di programmi di armamento per l'Unità d'élite in un'operazione che si ritiene sia stata condotta dal Mossad insieme alla Cia. Nel gennaio 2010 anche un leader di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh, viene assassinato in un hotel di Dubai. La sofisticata operazione era stata attribuita ad un commando di 18 agenti del Mossad tra cui due donne, in gran parte con falsi passaporti di Paesi occidentali, che riuscirono a far perdere le loro tracce.
(L'HuffPost, 7 agosto 2018)
Romantiche astrazioni
I più esaltati tra i denigratori intellettuali dello stato ebraico sono ammaliati dalle loro proiezioni, dalle romantiche astrazioni di popoli innocenti, puri e oppressi. Il residuo delle battaglie da combattere a nome degli umiliati e offesi del Terzo Mondo è la Palestina, la battaglia delle battaglie contro il Leviatano americano e quello che è considerato il suo braccio operativo in Medio Oriente. Se poi questo programma coincide con i proclami di Bin Laden, di Hezbollah o Hamas, tanto meglio, poiché per gli anti-israeliani al cubo (e quasi necessariamente antiamericani) il terrorismo islamico, il jihadismo è sempre e solo una reazione.
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Italiani che tradivano ebrei italiani in fuga
di Antonio Carioti
C'è anche l'arresto di Liliana Segre, ex deportata e senatrice a vita, tra le vicende rievocate nel libro di Franco Giannantoni La Shoah, delitto italiano (Edizioni Amici della Resistenza, pp. 285) frutto di minuziose ricerche sul caso di Varese. Nel dicembre 1943 la ragazza, allora tredicenne, e il padre Alberto (poi morto ad Auschwitz) erano riusciti a raggiungere la Svizzera, ma furono respinti da un ufficiale filotedesco della guardia confinaria elvetica. Poi furono i finanzieri italiani che li spogliarono di ogni bene e li consegnarono ai nazisti. E qui veniamo al punto doloroso e rimosso su cui insiste la documentata ricostruzione di Giannantoni. A fronte dei nostri connazionali che si adoperarono per offrire soccorso agli ebrei braccati, troviamo la fauna variegata di coloro che collaborarono alla persecuzione: le spie prezzolate e quelle occasionali, magari mosse da rancori personali; gli appartenenti alle strutture poliziesche della Repubblica sociale fascista; i solerti burocrati che si adeguarono alle direttive dei tedeschi. Altro che italiani brava gente, ammonisce Giannantoni: sarebbe ora di guardare in faccia i lati peggiori del nostro passato.
(Corriere della Sera, 7 agosto 2018)
I cuori di Ayelet dipinti sulle svastiche "L'amore vince"
Così una donna israeliana ha scelto di sfidare l'odio. Vedevo i simboli nazisti andando in bici e ho pensato che dovevo fare qualcosa. Così ho preso la bomboletta spray
di Laura Montanari
LUCCA - Otto cuori rossi a spray dove c'erano otto svastiche nere. I muri parlano di chi li abita. «L'ho fatto per voi che vivete in una terra così bella come la Toscana» dice Ayelet. Ci sono le mani di questa signora israeliana che da quattro anni e mezzo ha preso casa sulle colline in provincia di Lucca. C'è lei dietro i cuori lasciati, come molliche di pane, su un cassonetto della Caritas a Segromigno in Monte, sulla saracinesca di un negozio abbandonato davanti a una chiesa, su una cabina dell'Enel vicino a un semaforo, sul muretto accanto a un bar lungo la strada di curve e olivi che da Capannori porta a Montecarlo di Lucca.«Vedevo quei simboli nazisti andando in giro in bicicletta in mezzo a panorami stupendi e ho sentito che dovevo fare qualcosa. Anzi mi dicevo: ma perché la gente qui intorno non fa qualcosa?».
Così Ayelet ha cominciato da sola «il lavoro» qualche mese fa: prima una mano di vernice bianca dove c'erano svastiche o croci celtiche. «Poi mi sono seduta sul muretto e ho aspettato che asciugasse. Non mi sono nascosta, ho fatto tutto in pieno giorno». Quindi ha preso la bomboletta spray, ha disegnato un cuore rosso fuoco e sopra, la scritta a caratteri ebraici: amore. «Non love, ma amore in ebraico, la lingua del Vecchio Testamento: mi sembrava un messaggio più forte».
Naturalmente questa non è una storia di writers, ma di memoria e di ferite consegnate al presente. «Non c'entra il fatto che io sia ebrea o che viva tra Tel Aviv e Capannori - dice Ayelet Ben David, quarant'anni passati da un po', una che di mestiere organizza eventi legati al food - quei segni sono una memoria che non dobbiamo cancellare, non sono simboli lontani chiusi nelle pagine dei libri di Storia, basta fare pochi chilometri da Lucca per arrivare a Sant'Anna di Stazzema».
Il paese della strage nazista del 1944: cinquecentosessanta morti. Vecchi, donne, bambini. Quelli che erano rimasti nelle case. «Oppure spostarsi più in là e camminare lungo la linea Gotica sulle Apuane». Ayelet parla al telefono, dalla Val d'Aosta dove si trova in vacanza. Non sa che a Segromigno dentro i suoi cuori rossi si sono affacciate nuove croci uncinate, bianche e nere. Ma questa oramai non è una battaglia soltanto sua.
Il sindaco di Capannori Luca Menesini ha dato mandato di ripristinare i cuori a un gruppo di writers (da mesi già al lavoro su altri muri del Comune per cancellare le scritte di odio e sostituirle con murales pacifisti). «I miei nonni fuggirono dalla Grecia prima dell'arrivo dei nazisti e si rifugiarono in Palestina riprende a raccontare la signora dei cuori rossi come l'hanno chiamata sulle cronache del Tirreno - Ma è nel passato di tutti che vanno ricercate le ragioni del mio gesto. Non dipende dal fatto che io sia o meno ebrea. Quelle svastiche non si possono tollerare sui muri, ci ho messo un po' a capirlo. Ma viene il giorno in cui qualcosa o qualcuno ci spinge a fermarci un minuto a pensare. Io vorrei che quei cuori fossero condivisi, che diventassero una battaglia comune in nome della libertà e della democrazia».
A Segromigno in Monte, duemila abitanti scarsi, frazione di Capannori, di scritte inneggianti al nazismo ce ne sono svariate, mescolate a «Forza Milan», «Amo Paola» e a un campionario di inni ultrà. In tanti passano e nemmeno se ne accorgono: «Una svastica dove?» chiedono distratti in un bar lungo la provinciale. Ayelet, appassionata di sport e ciclismo spiega: «Passavo da quelle strade in bicicletta incontravo le chiese dove i preti predicano sui valori importanti come la tolleranza e l'amare il prossimo. Mi fermavo al bar e il caffè era buono e la gente accogliente. Poi alzavo lo sguardo e vedevo sulla via quella svastica. Mi sembrava così dissonante, così senza vergogna».
All'inizio vorrebbe segnalare la cosa alla polizia o al Comune con una denuncia, ma pensa: «Quanto tempo ci impiegheranno a toglierle?». Così decide per il fai da te e si ferma a comprare un barattolo di vernice bianca e una bomboletta spray. Come tempo prima ha fatto un'anziana signora berlinese, Irmela Mensah Schramm, che per più di vent'anni ha girato per le strade di diverse città della Germania, con una spatola e dei colori. Forse perché in fondo, come scriveva Italo Calvino, abbiamo tutti una ferita più o meno segreta e si combatte per riscattarla.
(la Repubblica, 7 agosto 2018)
Cucina kosher, ecco le regole di base
Si sente spesso parlare di cucina kosher, ma sappiamo cos'è?
di Ilaria Scremin
Si tende spesso a pensare che la cucina kosher sia in generale la cucina ebraica, ma non è proprio così. E' piuttosto, la cucina che applica le regole della religione ebraica alla preparazione dei cibi. La Torah parla chiaro: i cibi kasherut devono seguire alcune regole di base imprescindibili. Da un lato insomma vi è la cucina ebraica tradizionale, dall'altro la cucina kosher, cioè la cucina basata sui precisi dettami della religione ebraica. Chiarito questo punto, non ci resta che elencarvi le regole di base della cucina kosher.
Ecco quali sono le regole di base della cucina kosher.
- Si consumano solo animali puri, con zoccolo fesso, ovvero suddiviso in due parti, e ruminanti. Niente maiali, dunque.
- I pesci devono avere le pinne e anche le squame. Niente crostacei e nemmeno frutti di mare. E nemmeno anguilla, per esempio
- Gli uccelli come galline, polli, faraone, oche, tacchini si possono mangiare. Banditi i rapaci.
- La macellazione delle carni deve avvenire per mano di un macellaio rabbino qualificato. Le carni devono essere etichettate in modo che sia chiaro che la macellazione è avvenuta per mano di un rabbino.
- Non si possono mangiare carne e prodotti derivati del latte assieme. Una volta digerito il primo si potrà consumare il secondo.
- Analogamente, gli utensili usati per lavorare i prodotti a base di carne devono essere ben distinti da quelli usati per lavorare e servire i formaggi e latticini.
- I prodotti devono essere perfettamente privi di insetti o bachi. Si ai pesticidi e al riposo dei terreni per almeno 7 anni.
(Ricette per cucinare, 7 agosto 2018)
"A Gaza una pace duratura o guerra"
Cosa succede tra Israele e palestinesi?
di Costantino Leoni
Sono ore cruciali per il futuro di Gaza. L'accordo voluto dalle Nazioni Unite per tentare di scongiurare un ulteriore bagno di sangue potrebbe essere siglato o stracciato in qualsiasi momento. Sono tanti gli interrogativi, così come molte, forse troppe, sono le parti in causa.
Dopo mesi di forti tensioni iniziate con le manifestazioni dei gazawi durante la Marcia del Ritorno, Nikolay Mladenov, inviato speciale Onu per il Medio Oriente, ha tentato il tutto per tutto per evitare un nuovo conflitto che, qualora iniziasse, andrebbe a colpire una popolazione ormai devastata da una prolungata situazione di assedio.
Il diplomatico bulgaro si è messo al lavoro individuando nell'Egitto di Al Sisi il mediatore perfetto. Il generale egiziano ha agito da intermediario tra il duo palestinese Hamas-Fatah e Benjamin Netanyahu. Una prima bozza dell'accordo è stata presentata in settimana e prevede, oltre al cessate il fuoco, una serie di investimenti in denaro per assicurare un minimo di vivibilità ai gazawi stremati da decenni di bombardamenti e violenze. Se tutto dovesse andare per il meglio, gli abitanti della Striscia vedranno il sorgere di nuove scuole e ospedali, oltre che un impianto di desalinizzazione delle acque finanziato interamente dall'Onu e un allentamento progressivo del blocco israeliano. Ora il problema, per tutte le parti coinvolte, sarà quello di riuscire a mettere in pratica quelle che per il momento sono solo buone intenzioni.
Il ritorno a Gaza dei Falchi di Hamas
Il 3 agosto scorso, esponenti di spicco di Hamas, con il tacito assenso di Israele, hanno potuto rimettere piede nella Striscia dopo diversi anni. È la prima volta dal 2012 che l'intero establishment del movimento islamico si riunisce a Gaza; segno evidente della storicità di un evento che segnerà, nel bene o nel male, il conflitto israelo-palestinese. Per l'occasione l'Egitto ha riaperto il valico di Rafah. Una colonna di auto si è quindi diretta verso Gaza City, trasportando i pezzi da novanta di Hamas: Saleh Aruri, Musa Abu Marzouk, Hussam Badran, Moussa Doudin e Izzat Resheq. Aruri è il rappresentante all'estero delle Brigate Izzedine al Qassam, responsabile di sanguinosi attentati e in cima alla lista dei ricercati da Tel Aviv. Diciotto anni passati nelle carceri israeliane, esiliato ed espulso per le sue attività terroristiche da ben quattro diversi Paesi, Aruri ha coordinato decine di attentati terroristiche in Israele e Cisgiordania. È considerato da tutti come la vera mente dietro al riavvicinamento di Hamas all'Iran dei pasdaran. Ad accogliere nuovamente a casa i dirigenti costretti all'esilio, oltre che a presiedere la storica riunione, è stato il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
I tre punti dell'accordo
Tre sono i punti fondamentali che Hamas dovrà discutere: la proposta egiziana di riconciliazione con Fatah, il cessate il fuoco con Israele voluto da Mladenov in cambio di un allentamento del blocco imposto sulla Striscia e uno scambio di prigionieri. Netanyahu inoltre, vuole indietro le salme di due militari israeliani caduti in combattimento durante la guerra del 2014. Su questo punto si è detto inamovibile. Senza il ritorno a casa dei corpi dei suoi soldati l'accordo sarà destinato a naufragare.
Ma andiamo con ordine: già il primo punto dell'accordo è difficilmente realizzabile. Come primo requisito per imbastire un dialogo di trattative, Al Sisi pretende che Hamas e Fatah tornino a dialogare e tentino di ragionare come una sola Nazione. Fino ad ora Israele ha avuto gioco facile dei palestinesi anche per questa ragione. Sembra però che i dirigenti politici palestinesi non vogliano minimamente prendere in considerazione questa ipotesi. Negli incontri di Gaza, Hamas ha accuratamente evitato di far entrare esponenti di altre fazioni palestinesi. Teoricamente Badran doveva tenersi costantemente in contatto con i dirigenti di Fatah, ma sembra che nessuna chiamata sia stata effettuata da Gaza City a Ramallah. Il timore dei dirigenti Hamas è quello di perdere le eventuali elezioni a Gaza previste dall'accordo. Se dovesse perdere il controllo della Striscia, il movimento di Ismail Haniyeh non avrebbe più nulla da mettere sul tavolo delle trattative.
Lo scontro tra Hamas e Fatah mette a rischio i colloqui
Dall'altra parte del Giordano, Fatah ha fatto sentire la sua voce e si dice contrariata per essere stata, di fatto, esclusa dalla trattativa che si sta svolgendo principalmente tra Hamas e gli israeliani.
Da Gaza intanto Hamas affida al suo portavoce, Sami Abu Zuhri, una nota in cui si legge che il movimento che governa la Striscia sarebbe "disgustato dalla posizione tenuta da Fatah, che non fa che istigare tensioni per mantenere Gaza in stato d'assedio. Fatah da anni sostiene una campagna mediatica sistematica contro Hamas". Abu Zuhri ha poi accusato direttamente Abu Mazen definendolo "un leader scaduto". Il riferimento è al fatto che Abu Mazen, eletto nel 2005, ha concluso effettivamente il suo mandato nel 2009. Accuse rispedite al mittente dallo stesso Abu Mazen: "Hamas non non è autorizzato a firmare alcun accordo con Israele perché non ha uno status rappresentativo", ha detto al Jerusalem Post un alto funzionario di Fatah a Ramallah. "L'Anp è l'unico partito legittimo che rappresenta i palestinesi. Noi crediamo che il parlare di una tregua nella Striscia di Gaza fa parte di un disegno del regime israeliano e americano per far passare il piano di pace di Trump e trasformare così la causa palestinese da una questione politica in una questione umanitaria".
L'accordo potrebbe dunque non reggere neppure l'urto del primo ostacolo: riavvicinare le due fazioni palestinesi. Se però miracolosamente dovesse riavviarsi una sorta di dialogo tra Hamas e Fatah, allora partirà la seconda fase dell'accordo, quella che prevede l'entrata in vigore di una tregua quinquennale tra Hamas e Israele lungo il confine della Striscia. Se così fosse il valico egiziano di Rafah e quello israeliano di Kerem Shalom si riaprirebbero, ossigeno puro per i polmoni devastati di Gaza e dei suoi abitanti.
"Se l'accordo non si farà sarà guerra"
Emissari israeliani intanto sono volati alla volta di Doha per sondare il terreno in vista di una possibile soluzione positiva dell'accordo. Il Qatar è tra i principali finanziatori della resistenza palestinese, da lì arrivano i soldi, lì si trova il centro nevralgico di tutto il sistema. La riuscita della tregua dipenderà molto da quello che gli emissari israeliani riferiranno. Proprio di questo hanno discusso i ministri israeliani insieme al gabinetto della sicurezza dello Stato ebraico e con il premier Benjamin Netanyahu nella tarda serata di domenica.
L'incontro si è concluso dopo due ore di consultazioni ma, stranamente, nessuna notizia è trapelata alla stampa. Netanyahu, che per poter partecipare all'incontro ha annullato un viaggio di Stato in Colombia, si è lasciato sfuggire una frase per nulla difficile da interpretare: "L'esercito è pronto per ogni evenienza". Se l'accordo non si farà, sarà guerra, dunque. Ancora una volta.
(Gli occhi della guerra, 7 agosto 2018)
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Israele-Gaza, trattative in bilico
Un cessate il fuoco duraturo che garantisca la sicurezza dei cittadini del Sud d'Israele in cambio di un accordo per migliorare le condizioni di vita nella Striscia di Gaza. Sono questi i piani di cui stanno discutendo Israele, Egitto, Hamas, Autorità nazionale palestinese e il coordinatore Onu per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov. I termini di questi piani non sono però chiari: negli ultimi giorni i quotidiani israeliani così come di altri paesi dell'area hanno presentato diverse prospettive. L'ultima, è quella raccontata nelle scorse ore dal quotidiano Haaretz, secondo cui Gerusalemme e il Cairo sarebbero d'accordo sul dare il via a una serie di progetti a Gaza, sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, per migliorare la situazione dell'enclave controllato dal movimento terroristico di Hamas. Si tratterebbe di un investimento di 650 milioni di dollari, che non prevede il coinvolgimento diretto di Hamas o dell'Autorità nazionale palestinese. La priorità d'Israele in ogni caso è la cessazione delle violenze sul suo confine: ogni possibile accordo deve passare per la fine dei lanci di missili così come di aquiloni incendiari da parte dei palestinesi. Di questo si è parlato durante la riunione di gabinetto di inizio settimana del governo del Premier Benjamin Netanyahu: cinque ore di discussione ma nessuna decisione finale sul piano mediato dal rappresentante Onu nella regione Nickolay Mladenov. "Non c'era molto ottimismo tra i ministri", scrive Yediot Ahronoth, secondo cui all'interno del governo in pochi ritengono possibile raggiungere un accordo con Hamas. Il movimento terroristico vorrebbe il rilascio di prigionieri di alto rango in cambio delle spoglie dei soldati israeliani Hadar Goldin e Oron Shaul e della liberazione di Avraham Mengistu, ragazzo con disturbi psichici dal 2014 tenuto prigioniero. "Un accordo con Hamas non è attualmente all'ordine del giorno", ha affermato Ze'ev Elkin, membro del Gabinetto di Sicurezza israeliano.
(moked, 6 agosto 2018)
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Ma chi vuole la pace in Medio Oriente?
Perché i palestinisti hanno rifiutato una mezza dozzina di accordi negli ultimi cento anni.
di Ugo Volli
Si potrebbe fare la storia del conflitto arabo-israeliano usando solo i rifiuti arabi (o meglio della sua parte "militante" islamista o vicina alle dittature fasciste e comuniste) di fare la pace. Si potrebbe incominciare con l'accordo firmato il 3 gennaio 1919 fra Chaim Weizmann, leader dell'organizzazione sionista mondiale e l'emiro Faysal re della Siria e fratello del re di Giordania, in cui gli arabi accettavano la dichiarazione Balfour in cambio del riconoscimento della loro indipendenza. L'accordo non ebbe seguito, per l'opposizione britannica e della parte araba intransigente. In effetti Faysal fu probabilmente avvelenato qualche anno dopo, nel mandato gli inglesi dettero potere al nemico suo e degli ebrei Amin Huseini, nominandolo Muftì di Gerusalemme. Anche suo figlio Abdallah, re di Giordania, che trattava con il neonato stato di Israele, fu ucciso sulla spianata del tempio di Gerusalemme da un cugino del Muftì: due occasione d'accordo perse.
Nel 1936, su istigazione del Muftì, il Mandato di Palestina fu agitato da una grande rivolta araba contro gli inglesi e soprattutto contro gli ebrei. Gli inglesi crearono la Commissione Peel, per trovare una soluzione al conflitto La Commissione Peel, propose di creare due stati indipendenti: uno per gli ebrei e uno per gli arabi: la prima "soluzione a due stati". La spartizione proposta da Peel era fortemente sbilanciata a favore degli arabi, che avrebbero avuto l'80% del territorio conteso mentre agli ebrei sarebbe dovuto bastare il restante 20%. Nonostante le dimensioni minuscole dello stato che veniva loro proposto, Il comitato sionista votò a favore dell'offerta. Gli arabi invece rifiutarono, e ricominciarono i pogrom.
Subito dopo la guerra mondiale ci fu un altro rifiuto arabo, il più noto: di fronte al fallimento del mandato britannico, l'assemblea generale dell'Onu aveva votato nel '47 (col voto contrario degli stati arabi e l'astensione inglese) una spartizione anch'essa assai favorevole agli arabi. Ma anche questa volta essi rifiutarono e iniziarono una "guerra di sterminio" contro il neonato stato ebraico. Nel '49, avendo perso la guerra, rifiutarono di fare la pace e accettarono al massimo degli accordi armistiziali. Lo stesso avvenne di nuovo del '67, dopo la guerra dei sei giorni con la risoluzione dei "tre no" presa nel vertice dei paesi arabi a Khartoum il 1 settembre, tre mesi dopo la fine della guerra: "no peace with Israel, no recognition of Israel, no negotiations with it".
(Progetto Dreyfus, 7 agosto 2018)
Sala Baganza, torneo di baseball - I giovanissimi israeliani si fanno onore
Dall'articolo della Gazzetta di Parma sui risultati della 34a edizione del Torneo giovanile internazione di baseball di Sala Baganza, riprendiamo il trafiletto che riguarda la squadra israeliana, classificatasi al secondo posto tra dodici squadre in competizione.
Tra gli Under 12 baseball lo Staranzano ha sconfitto in finale i simpatici israeliani di Team Israel per 4-3, nonostante il tentativo di rimonta finale. Gli israeliani si consolano comunque con il premio di miglior lanciatore a Theo Friesem, con una media PGL di 0.00. Miglior battitore invece Tommaso Radin dello Staranzano, che ha totalizzato una media battuta di .813.
(Fonte: Gazzetta di Parma, 6 agosto 2018)
Israele valuta azioni militari nella striscia di Gaza
Al termine di una consultazione di tre ore sulle proposte giunte dall'Egitto e dall'emissario dell'Onu, Nickolay Mladenov, per un cessate il fuoco al confine con la striscia di Gaza, il consiglio di difesa del governo israeliano ha emesso ieri sera un comunicato molto stringato. Nella nota il consiglio afferma di aver ascoltato le valutazioni del capo di stato maggiore, generale Gady Eisenkot, e precisa, a nome del premier Benjamin Netanyahu, che l'esercito è« pronto a ogni sviluppo». Secondo il governo israeliano, nella fase attuale è possibile solo un'intesa limitata in base alla quale, in cambio del ripristino della calma sul confine da parte di Hamas, Israele garantirebbe aiuti di carattere economico, fra cui la riapertura dei valichi.
Ieri intanto un drone israeliano ha colpito una postazione di Hamas al confine: due persone sono rimaste ferite. Lo riferiscono esponenti di Hamas. La base vicino a Beit Lahiya, nel nord della striscia di Gaza, era usata da un piccolo gruppo che si faceva chiamare Al Mujahedin. Secondo un comunicato dell'esercito israeliano, il drone ha colpito due bersagli, «un veicolo usato per lanciare palloncini incendiari» e una «brigata terrorista che ha lanciato palloni incendiari» in Israele.
(L'Osservatore Romano, 6 agosto 2018)
I Falasha, gli ebrei di Etiopia
La "Legge del Ritorno" non è stata applicata almeno a novemila persone che ora vivono in baracche e povertà, separati dalle loro famiglie
I falasha, tredicesima tribù d'Israele
I falasha sono la minoranza di religione ebraica originaria della regione dell'Amara nel nord dell'Etiopia le cui origini rimangono ancora oggi avvolte nel mistero. Interpretazioni religiose ritengono si tratti dei discendenti frutto dell'unione tra Salomone e la Regina di Saba, mentre gli storici suppongono che la comunità ebrea etiope provenga più realisticamente dalla fusione tra le popolazioni africane e un gruppo di ebrei fuggiti dopo la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C.. Potrebbe trattarsi di discendenti della tribù di Dana una delle dodici tribù perdute dell'antico regno di Israele.
Dopo la formazione dello Stato d'Israele nel 1948 a tutti gli ebrei del mondo gli israeliani diedero il diritto di trasferirsi nella "terra promessa" secondo la famosa Legge del Ritorno, ma su questa comunità ebraica perduta nacque un dibatto politico-religioso incentrato sul riconoscimento della loro effettiva "ebraicità".
Gran parte della minoranza ha potuto compiere la "aliyah" (migrazione) grazie al pronunciamento favorevole di alcuni rabbini illustri negli anni 70. Vedendoli minacciati dalla povertà e dal sanguinario regime comunista del DERG in Etiopia, Israele organizzò delle missioni militari organizzate dal Mossad per evacuarli. Le operazioni "Mosè"a "Giosuè" e "Salomone" trasportarono migliaia di falasha in Israele con dei ponti aerei segreti che partivano dal vicino Sudan o direttamente dall'Amara etiope.
Ebrei di serie B, in Etiopia come in Israele
Oggi la comunità di ebrei etiopi in Israele, che preferisce essere chiamata "Beta Israel" (Casa d'Israele), conta circa 135mila persone. Contrariamente a quanto si possa credere, la vita in Medio Oriente è tutt'altro che semplice. Gli ebrei etiopi si sentono "ebrei di serie B", perché la loro inclusione sociale ed economica nella società israeliana è difficile, subiscono frequenti casi di razzismo e hanno poca rappresentanza politica.
Ancora peggiore è la situazione della parte di loro che è stata volutamente lasciata in Etiopia, i cosiddetti falasha mura. Questi ebrei etiopi che non sono stati inclusi nella Legge del Ritorno perché i loro antenati furono costretti a convertirsi al cristianesimo per un breve periodo durante il XIX secolo da missionari anglicani. Attualmente si stima siano 9000, di cui 7000 a Gondar, città luogo d'origine di tutta la comunità e il resto ad Addis Abeba per lo più concentrato in un ghetto di baracche fatiscenti e senza servizi situato a poca distanza dall'Ambasciata israeliana. Discriminati dagli etiopi, hanno difficoltà a trovare lavoro, alloggi e nel mandare i figli a scuola.
Da anni è in corso un braccio di ferro con le autorità israeliane riguardo la loro immigrazione. Nel 2015 la Knesset aveva votato a favore del trasferimento definitivo con un piano quinquennale da 284 milioni di dollari, ma poi il governo Netanyahu si è rimangiato tutto e i fondi per la loro migrazione devono essere approvati ogni anno nel bilancio. Cosa che ultimamente non è avvenuta. Oggi dopo innumerevoli proteste e scioperi della fame ad Addis Abeba e in Israele, i falasha mura sono ancora in Etiopia in attesa, separati da una parte delle loro famiglie che li sta aspettando in Israele. Una storia dolorosa che getta ombre sulla classe dirigente e su una parte dell'opinione pubblica israeliane. Gli ebrei, forse, non sono tutti uguali.
(RSI News, 6 agosto 2018)
Ahed Tamimi, l'icona teen palestinese che ha messo in difficoltà lo Stato ebraico
Rilasciata dopo otto mesi di carcere, ora è ancora di più che una star del web. Israele teme di essere caduto in una trappola mediatica.
Scrive il Jerusalem Post (25/7)
Ladolescente Ahed Tamimi, diciassette anni, è diventata un simbolo palestinese, il volto perfetto per rappresentare i loro sforzi", scrive Josefin Dolsten sul Jerusalem Post. "Quando Ahed Tamimi è stata rilasciata da un carcere israeliano dopo otto mesi, è stata festeggiata dalla famiglia e dagli amici nella sua cittadina natale di Nabi Saleh in Cisgiordania. L'attivista palestinese di diciassette anni è stata trattata come un'eroina in giro per il mondo per il presunto coraggio con cui ha sfidato i soldati israeliani.
Molti in Israele vedono Tamimi nell'ottica di un disegno palestinese per rovinare la reputazione di Israele sui media stranieri. E molti pensano che ci stia riuscendo. Tamimi viene da una ricca famiglia palestinese che ha storicamente un brutto rapporto con i soldati israeliani. Suo padre, Bassem, è stato uno dei leader delle proteste contro le autorità israeliane nel villaggio di Nabi Saleh. Il cugino, Ahlam Tamimi, ha partecipato al massacro di Sbarro, nel 2001, quando un kamikaze si è fatto esplodere in piazza a Gerusalemme, uccidendo quindici persone e ferendone centotrenta.
Ahed Tamimi è diventata nota nel 2012, quando un filmato l'ha ripresa mentre urlava e stringeva i pugni contro i soldati israeliani, dopo l'arresto di suo fratello. Il video ha fatto il giro del web, suscitando l'attenzione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che in seguito ha incontrato Tamimi e sua madre. Un municipio di Istanbul ha premiato Tamimi per i suoi gesti. Nel 2015, Tamimi è stata ancora ripresa in un video diventato virale. Le immagini mostrano un soldato che cerca di arrestare il fratello di Tamimi, all'epoca dodicenne. Mentre il soldato cerca di immobilizzare il ragazzo, Tamimi e alcune donne adulte cercano di fermarlo e a un certo punto la ragazza gli morde la mano.
Perché Tamimi è di nuovo tra le notizie? Domenica mattina (il 29 luglio, ndr) è stata rilasciata da un carcere israeliano, in cui era rinchiusa da dicembre per aver schiaffeggiato e infastidito dei soldati israeliani. A marzo Tamimi ha patteggiato una pena di otto mesi di carcere, e si è dichiarata colpevole di quattro capi d'imputazione. Dopo aver scontato la pena, la ragazza è diventata un'icona per i palestinesi. Dopo il suo rilascio, Tamimi si è recata presso la tomba di Yasser Arafat e ha incontrato il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, che l'ha lodata per essere 'un modello della battaglia palestinese per la libertà, l'indipendenza e lo stato libero'.
L'arresto di Tamimi ha destato una grande attenzione mediatica. Un gruppo di artisti americani-tra i quali gli attori Danny Glover, Rosario Dawson and Jesse Williams, gli scrittori Cornel West e Alice Walker e l'attivista Angela Davis - hanno firmato una lettera chiedendo la sua liberazione. Lunedì il nipote di Nelson Mandela, Mandla Mandela, ha detto che Tamimi riceverà un premio in Sudafrica per 'il suo coraggio, la sua resistenza e per essere un simbolo di speranza per milioni di persone'.
Cosa dicono i suoi detrattori? Gli attivisti filo-israeliani la chiamano 'Shirley Temper' (storpiando il nome dell'attrice bambina americana anni Trenta, 'temper' significa temperamento, ndr). I critici hanno anche coniato l'espressione 'Pallywood', un riferimento alla presunta strategia palestinese di distorsione mediatica per rovinare la reputazione di Israele. I detrattori dicono anche che i rapporti tra la famiglia Tamimi ed ex terroristi palestinesi sono una prova del loro fanatismo e della mancata volontà di trovare una soluzione pacifica. L'imprenditore australiano Arnold Roth, il cui figlio è stato ucciso nel massacro di Sbarro, scrive che i giornalisti sono caduti nella trappola di Tamimi. Roth aggiunge: 'Gli arabi palestinesi hanno molti bisogni ma quello che viene rappresentato da questa ragazza - la rabbia, l'amarezza e tanti fallimenti - non risolverà i loro problemi'.
Come ha fatto Tamimi a diventare un simbolo palestinese? Per gli attivisti filo-arabi, è il volto perfetto per rappresentare i loro sforzi: una ragazza di diciassette anni disarmata che affronta i soldati israeliani senza porre alcuna minaccia immediata. Molti hanno detto che i suoi capelli biondi, le sue treccine spettinate e il suo volto fotogenico sicuramente non guastano. Suo padre Bassem ha detto all'agenzia France Press l'anno scorso: 'Se avesse la pelle scura e il velo, riceverebbe la stessa attenzione mediatica?' Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti e attualmente deputato del partito Kulanu, ha twittato a dicembre: 'La famiglia Tamimi - che potrebbe non essere una vera famiglia - veste i propri figli con i vestiti americani e li paga per provocare i soldati israeliani in diretta. L'uso cinico e crudele dei bambini costituisce un abuso'. Il padre di Tamimi riconosce che questi video sono un modo efficace per spostare l'opinione pubblica a favore della Palestina.
Gli israeliani si sono fatti un autogol con l'arresto di Tamimi? Il vicepresidente del Parlamento israeliano Nachman Shai ha scritto sul Jerusalem Post che Israele 'è caduto nella trappola tesa dai Tamimi'. Shai scrive: 'Avremmo potuto condannarla agli arresti domiciliari. Oppure avremmo potuto ignorare l'incidente e aspettare per un periodo più tranquillo. Ogni altra soluzione sarebbe stata migliore della situazione che si è creata oggi con i superflui festeggiamenti palestinesi'. Il giornalista Allison Kaplan Sommer ha scritto su Haaretz, un quotidiano israeliano di sinistra, che il governo ha commesso un'ingenuità. Ha usato l'esempio di Tamimi per scoraggiare delle azioni simili, ma alla fine è successo il contrario. Ha scritto Kaplan: 'Al momento del rilascio di Tamimi domenica scorsa, dopo aver scontato una pena di otto mesi per quattro capi d'imputazione, è diventata una vera icona e non più solo una star del web'. Kaplan ha aggiunto che l'attenzione mediatica per il rilascio di Tamimi ha danneggiato la reputazione internazionale di Israele molto più del video provocatorio per cui era stata condannata".
(Il Foglio, 6 agosto 2018)
Un autogol di Israele? Può darsi. Ma in questa strana partita di calcio, Israele spesso si trova davanti alla scelta: o farsi fare gol dallavversario o farselo da solo. Una cosa comunque va detta: per contrastare lodio contro Israele, praticato o applaudito, gli argomenti morali o razionali non servono assolutamente a niente. E un odio al di là del bene e del male, al di là del vero e del falso. M.C.
La Corte tedesca: negare la shoah non attiene alla libertà di espressione
Negare il genocidio degli ebrei da parte dei nazisti non attiene alla sfera della libertà di espressione: lo ha confermato oggi la giustizia tedesca, interpellata da Ursula Haverbeck, una figura di primo piano del negazionismo in Germania. Il negazionismo "supera i limiti della serenità dei dibattiti pubblici e costituisce un disturbo per la pace pubblica", ha annunciato la Corte costituzionale tedesca. "La diffusione consapevole di accuse la cui falsità è stata stabilita non può costituire un contributo alla libertà di espressione e quindi non è coperta dalla libertà di espressione", ha insistito la Corte. La Corte costituzionale era stata interpellata da Ursula Haverbeck, 89 anni, figura di spicco del negazionismo tedesco e rappresentante del "revisionismo storico", condannata più volte per aver negato l'Olocausto. La sua ultima condanna risale all'ottobre 2017, quando le è stata comminata una pena di sei mesi di reclusione per avere dichiarato pubblicamente in un ristorante di Berlino che il genocidio degli ebrei da parte dei nazisti non era mai esistito e che non c'erano mai state camere a gas ad Auschwitz. Sostenendo che queste osservazioni facevano parte della sua libertà di espressione, Ursula Haverbeck si è quindi appellata alla Corte costituzionale tedesca. Ma per la Corte "una condanna per negazionismo è fondamentalmente compatibile con" l'articolo della Costituzione tedesca che regola la libertà di espressione nel Paese.
(Shalom, agosto 2018)
Si spera che attenga alla libertà di espressione il dire che un simile pronunciamento avrà effetti più negativi che positivi sulla vita della comunità ebraica in Germania. M.C.
Israele Stato nazionale ebraico. Una legge importante
di Giorgio Sacerdoti, giurista
La Legge fondamentale "Israele come Stato nazionale del popolo ebraico" adottata dalla Knesset il 19 luglio 2018 non merita le critiche di cui, soprattutto in chiave politica internazionale, è stata fatta sommariamente oggetto. Un esame attento delle sue disposizioni conferma che essa si colloca nel solco della realizzazione del sogno sionista con la costituzione dello Stato nel 1948 e nella direzione tracciata dalla Dichiarazione d'Indipendenza.
Non può essere messo in dubbio, come sancito nei due principi fondamentali espressi all'art.1 che "la terra d'Israele è la patria (homeland) storica del popolo ebraico dove è stato costituito lo Stato d'Israele" e che esso "è la patria (home) nazionale del popolo ebraico in cui esso realizza il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico alla autodeterminazione." Con questa proclamazione Israele si afferma come stato nazionale non tanto della nazione israeliana ma del popolo ebraico, in una dimensione storico-nazionale fondamentale che non è dissimile da quanto proclamano altre costituzioni di paesi in cui la realizzazione del proprio stato è stato oltremodo difficile, come è il caso dei paesi baltici.
Dalla proclamazione del carattere nazionale ebraico dello Stato d'Israele discendono logicamente le norme sui simboli dello Stato (nome, bandiera, il candelabro a sette braccia come emblema, Hatikvah come inno; la capitale (Gerusalemme indivisa); l'ebraico come lingua nazionale, fatto salvo uno speciale status della lingua araba; il calendario ebraico come quello ufficiale accanto al gregoriano; i giorni di festa nazionale, il sabato e le feste d'Israele come giorni di riposo (impregiudicato il diritto dei non ebrei di osservare i propri giorni di riposo settimanali e festivi). Molte di queste disposizioni si trovano già in leggi precedenti ma non erano inquadrate come espressione organica della natura di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico a livello costituzionale.
È ben vero che molte costituzioni democratiche europee, così quella italiana del 1948, non proclamano, per esempio, che l'Italia è lo stato nazionale del popolo italiano e che l'italiano è la lingua nazionale (però la nostra Costituzione "tutela con apposite norme le minoranze linguistiche"). Vi sono però paesi dove la costituzione definisce una lingua come nazionale (la Spagna), che menziona che lo stato è la realizzazione del diritto all'autodeterminazione della nazione (Slovacchia), mentre in ben sette paesi europei la costituzione riconosce l'esistenza di una religione ufficiale.
La Legge fondamentale, che come tale ha un valore costituzionale e si colloca accanto alle altre dodici così definite, emanate a partire dal 1958, che suppliscono alla mancanza in Israele di una costituzione organica, è importante anche per quello che non dice. La Legge anzitutto non definisce quale sia il territorio dello Stato in cui si realizza l'autodeterminazione. Resta così anche spazialmente indefinito l'ambito dell'art.7 "lo Stato considera lo sviluppo dell'insediamento ebraico (jewish settlement) come un valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne la realizzazione e il consolidamento". La Legge non contiene infine nessun riferimento alla religione o alle autorità religiose, né contiene una definizione di ebreo o di popolo ebraico, men che meno in chiave religiosa. La Legge si muove nell'ottica di una dimensione collettiva e nazionale, lo stesso termine di ebreo appare solo di sfuggita. Un elemento questo di unità contro ogni esclusione.
La Legge è infine importante perché sancisce a livello legislativo il rapporto tra Stato d'Israele e Diaspora, su un piano nazionale, sociale, culturale, sfuggendo alle insidie di un collegamento statalistico (come sarebbe la concessione della cittadinanza israeliana) o religioso (nessuna definizione in chiave religiosa di chi appartenga al popolo ebraico).
Dopo aver proclamato all'art.5 ("Ritorno degli esiliati") che "lo Stato sarà aperto all'immigrazione ebraica e al ritorno degli esiliati", materia su cui già dispone la legge del ritorno del 1950, l'art.6 ("Collegamento col popolo ebraico") sancisce che Israele si impegnerà ad assicurare la sicurezza dei membri del popolo ebraico in pericolo a causa del loro essere ebrei; agirà nell'ambito della Diaspora per rafforzare l'affinità tra Israele e i membri del popolo ebraico; opererà per preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del popolo ebraico tra gli ebrei nella Diaspora. Si tratta di un riconoscimento innovativo che impegna lo Stato d'Israele in prima persona alla salvaguardia degli ebrei nella Diaspora e del loro ebraismo, passando sopra, si può dire, a collegamenti più particolari, come adesione al sionismo, o a requisiti religiosi, fonte inevitabile di lacerazioni e polemiche viste le posizioni di chiusura del rabbinato ortodosso d'Israele che trovano nella Diaspora, soprattutto quella americana, forti critiche e opposizioni.
Manca però nella Legge del luglio scorso un elemento importante: nel momento in cui si proclama che Israele ha un carattere nazionale ebraico era opportuno ribadire che l'appartenenza o no al popolo ebraico, l'essere cioè ebrei, non può portare ad alcuna discriminazione in tema di riconoscimento dei diritti fondamentali ai cittadini israeliani non ebrei, siano essi arabi, drusi, immigrati russi non ebrei o chiunque altro. È vero che di per sé la Legge non implica alcuna discriminazione o restrizione dei diritti di qualsiasi cittadino israeliano per questo motivo. È anche vero che la Dichiarazione d'Indipendenza del 1948 impegna lo Stato a "creare uguaglianza completa di diritti, sociale e politica, per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di religione, razza o sesso, e ad assicurare libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura".
Al momento di formalizzare e rafforzare la natura ebraica dello Stato d'Israele sarebbe stato però opportuno ribadire l'altro pilastro del binomio di "Israele stato ebraico e democratico" proclamato nella Dichiarazione d'Indipendenza, cioè quello della tutela dei diritti fondamentali di tutti i suoi cittadini, ebrei o no.
(moked, 5 agosto 2018)
Israele non accetta piano di cessate il fuoco con Hamas. Troppe incognite
Dopo cinque ore di discussione sulla proposta di cessate il fuoco a lungo termine con Hamas, il Gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di "non decidere". Troppe concessioni ai terroristi e troppe incognite.
GERUSALEMME - Cinque ore di discussione non sono bastate ai Ministri israeliani per decidere se accettare o meno la proposta di cessate il fuoco a lungo termine con Hamas avanzata nei giorni scorsi dall'Egitto e dall'inviato dell'Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. Troppe concessioni e troppe incognite per il futuro.
Riunito su richiesta del Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il Gabinetto di Sicurezza oltre ad un piano chiaramente sbilanciato a favore dei terroristi si è trovato di fronte a una ulteriore richiesta di Hamas, cioè la liberazione di un certo numero di terroristi attualmente detenuti in Israele in cambio dell'avanzamento dei negoziati e della restituzione dei resti di due militari israeliani....
(Rights Reporters, 6 agosto 2018)
Quell'omicidio mirato in Siria e il giallo sui mandanti stranieri
di Lorenzo Vita
Il sangue continua a scorrere in Siria. Ma questa volta, non c'è una battaglia né eserciti: si tratta di un omicidio. L'assassinio dello scienziato Aziz Asbar, avvenuto nella città di Masyaf, nel governatorato di Hama, è uno di quegli episodi che forse, come tanti omicidi illustri, non troverà mai le risposte che si cercano. Ma è un assassinio che fa e farà discutere.
L'omicidio è avvenuto questa notte. Secondo la rete televisiva Al Manar, legata a Hezbollah, la sua auto è esplosa non appena lo scienziato ha chiuso la porta di casa e si è diretto verso la macchina. Con lui è morto anche il suo autista. Un attentato in piena regola, di cui adesso l'intelligence siriana vuole capire l'autore.
Chi era Aziz Asbar
Asbar gestiva un centro di sviluppo scientifico nella città dove è stato assassinato. Come scrivono i media israeliani, lo scienziato era considerato uno stretto collaboratore del presidente siriano Bashar al Assad e lavorava direttamente sotto di lui, senza alcuna mediazione. Quindi parliamo di uomo che aveva un peso specifico importante all'interno delle gerarchie militari e politiche del governo di Damasco.
Questa sua importanza nell'ambito del programma militare siriano è particolarmente evidente da come è stato definito dai media più vicini alla Siria e dai media israeliani, che hanno dato particolare risalto a questo omicidio. Per Al Manar , Asbar era uno "scienziato patriota": un uomo fedele al governo che aveva portato avanti la causa dell'esercito siriano in questi anni di guerra contro il terrorismo.
Per i siti israeliani, era un nemico. La sua figura era importante perché legata non solo all'arsenale chimico siriano ma anche al programma missilistico. Secondo il blog IntelliTimes, sito che si occupa di intelligence e legato ai servizi dello Stato ebraico, Asbar dirigeva il Dipartimento 4 del Centro di Masyaf, a cui era affidato lo sviluppo e la ricerca di tutti i programmi missilistici siriani.
Era il secondo scienziato più importante della struttura dopo il direttore del centro, Amr Armanazi. Molti lo considerano fortemente legato all'Iran e che avesse legami con scienziati della Corea del Nord.
L'ombra del Mossad sull'omicidio
Il governo siriano non ha ancora rilasciato dichiarazioni riguardo a questo assassinio. I media hanno immediatamente puntato il dito contro Israele. Anche il fatto che i media israeliani abbiano subito dato ampio risalto alla notizia, è un segnale di un forte interesse del Mossad per Asbar.
Ma è anche vero che sono molte le agenzie di intelligence regionali che hanno interesse a colpire i programmi militari siriani. Assad ha nemici in Israele, ma anche in altri Paesi coinvolti nella guerra. E Masyaf è vicina al fronte di Idlib.
Le accuse contro Israele nascono però da due motivi. Il primo è che chiaramente i servizi dello Stato ebraico hanno interesse a minare il programma missilistico siriano, soprattutto perché esso si ritiene parte integrante di quello dell'Iran. Ma soprattutto ci sono dei precedenti. Israele ha colpito già due volte il centro di ricerca di Masyaf.
Una prima volta a settembre dell'anno scorso. Il secondo attacco è avvenuto invece all'alba del 22 luglio. Secondo l'agenzia siriana Sana, l'attacco sarebbe avvenuto con un raid dell'aeronautica israeliana. In entrambi i casi, le Israel Defense Forces non hanno né confermato né smentito.
La rivendicazione del gruppo Abu Amara
Poche ore dopo l'omicidio, le Abu Amara Special Forces, gruppo che ha compiuto diversi attacchi contro il governo ad Aleppo, ha rivendicato l'attentato.
Del gruppo jihadista si sa poco. La sua area d'azione era sempre stata circoscritta ad Aleppo. Per un certo periodo, la sigla si è unita al Fronte del Levante.
Ma è chiaro che dopo le sconfitte dei gruppi radicali, ora si può assistere a un riassetto delle fazioni. E questo attentato potrebbe anche rientrare nella sfida dei gruppi salafiti per ottenere più potere. Una lotta intestina di una rete jihadista che si muove nell'ombra. E che ricorda che la guerra in Siria non finirà finché non sarà sradicato il terrorismo in ogni sua forma.
(Gli occhi della guerra, 5 agosto 2018)
Ciclismo - Europei MTB giovanili: A Pila ci sarà anche Israele
Sono 400 di 14 nazioni i bikers già iscritti all'evento in programma dal 22 al 25 agosto
PILA - Ci saranno anche i bikers di Israele al via dei primi campionati europei giovanili (Uec European Youth Championships) organizzati in Italia, a Pila, in Valle d'Aosta. Il team israeliano fa parte delle 14 nazioni che hanno iscritto almeno una squadra alle gare in programma dal 22 al 25 agosto sulla pista permanente di cross-country di Pila.
Oltre ad Israele e Italia saranno in gara bikers di: Austria, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Slovacchia, Scozia, Svezia, Repubblica Ceca, Cipro, Germania, Inghilterra e Olanda. La Danimarca ha già perfezionato l'iscrizione di ben 5 team. Le iscrizioni (www.pilabikeplanet.it) restano aperte sino a martedì prossimo 7 agosto.
"Abbiamo previsto - dice Felice Piccolo, a capo del Comitato organizzatore - anche squadre miste, formate cioè da bikers che, all'origine, non hanno una squadra già formata. Al momento , per completare altre squadre, sono necessari bikers delle categorie Esordienti (M) e Allieve (F)".
All'indirizzo www.pilabikeplanet.it/races troverete un form di richiesta da compilare per essere inseriti nella lista dei richiedenti squadra.
Ad oggi sono più di 130 le squadre da tre componenti l'una iscritte. Ma ci sono, ancora, tre giorni buoni per aderire. "Contiamo di superare le 150 squadre al via" - ha detto Piccolo.
(Federazione Ciclistica Italiana, 5 agosto 2018)
La tregua che piace a Israele: «Hanno preso Gaza per fame»
Articolo ripreso da un sito decisamente anti-israeliano. Sono interessanti comunque le informazioni che riporta. NsI
di Michele Giorgio
Il Muaz al Souri, 15 anni, è stato colpito venerdì verso le 19, quando si stavano concludendo le manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno. Un colpo sparato da un tiratore scelto israeliano non gli ha dato scampo. I medici hanno tentato l'impossibile per salvarlo, superando le difficili condizioni in cui operano ormai da anni gli ospedali di Gaza. Muaz è spirato ieri all'alba.
Il giorno prima sotto il fuoco israeliano era caduto Yahya Ahmed Yaghi, 25 anni. A seguire quanto accadeva lungo le linee di demarcazione con Israele venerdì c'erano anche Hussam Badran e Izzat Resheq, due esponenti di primo piano di Hamas giunti dall'estero per partecipare a una riunione a Gaza con pochi precedenti - l'ultimo risale al 2012 dopo l'offensiva israeliana Colonna di Fumo - dell'intera leadership del movimento islamico.
Al meeting hanno preso parte anche Musa Abu Marzouk e Saleh Aruri, quest'ultimo rappresentante all'estero delle Brigate Ezzedin al Qassam, l'ala militare, e dirigente di Hamas più ricercato da Israele. Aruri vive in Libano e non era mai stato prima a Gaza. Il governo israeliano si è impegnato con l'Egitto a non assassinarlo con un attacco aereo. «Generosità» legata alla ragione del vertice a Gaza presieduto dal capo dell'ufficio politico lsmail Haniyeh. I leader di Hamas si sono riuniti per dare una risposta definitiva al testo di un possibile accordo di tregua di lunga durata con Israele, mediato dall'Egitto e dall'inviato dell'Onu Nikolay Mladenov.
«E la risposta è stata positiva. Hamas ha accettato», assicurava ieri S.K., un giornalista con buone fonti nel gruppo dirigente di Hamas che ci ha chiesto di rimanere anonimo.
«Non sono mancate forti resistenze all'intesa - ha aggiunto - soprattutto del braccio armato e l'intervento di Saleh Aruri è stato decisivo per convincere i comandanti di Ezzedin al Qassam. D'altronde la direzione politica non aveva scelta. La situazione economica e umanitaria a Gaza è insostenibile, la popolazione vuole gli aiuti umanitari e non un altro attacco israeliano». Le altre fazioni palestinesi, ha aggiunto, «seguiranno Hamas, come è sempre avvenuto in passato. Si aspetta ora la risposta di Israele». Risposta che potrebbe arrivare già stasera al termine della riunione del governo israeliano o nei prossimi 2-3 giorni.
Che l'appuntamento sia di grande importanza lo testimonia la decisione del primo ministro Netanyahu di rinviare la sua visita ufficiale in Colombia. E ci sono voci di una partenza segreta per Doha di inviati israeliani. Il Qatar da anni è il principale sponsor finanziario di Hamas, ma dietro le quinte ha rapporti con Tel Aviv. «A questo punto dipende solo da Netanyahu e i suoi ministri perché tutti gli altri sono d'accordo: Egitto, Onu e Hamas. Israele non deve insistere con la restituzione dei due militari morti e dei due prigionieri, altrimenti salta tutto», ci spiega S.K. riferendosi ai corpi di due soldati caduti nel 2014 a Gaza e a due cittadini israeliani (un ebreo etiope e un beduino) nelle mani di Hamas.
A Gaza ne sono tutti consapevoli. Sul tavolo c'è un accordo di tregua largamente favorevole a Israele poiché non è destinato a mutare lo «status» di Gaza quale «prigione a cielo aperto» per oltre due milioni di palestinesi. Il blocco israeliano, terrestre e navale, si allenterà ma non sarà revocato.
Secondo quanto si è saputo, l'accordo prevede un cessate il fuoco in più fasi - la prima è la fine delle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno lungo le linee tra Gaza e Israele e del lancio di palloni incendiari - che, se tutto andrà bene, porterà a una tregua di 5-10 anni.
Israele da parte sua riaprirà il valico di Kerem Shalom (Karem Abu Salem) e altrettanto farà l'Egitto con il transito di confine di Rafah, tra Gaza e il Sinai. Saranno inviati aiuti umanitari e costruite infrastrutture essenziali a Gaza sulla base di progetti gestiti dall'Onu. A disposizione dei palestinesi saranno messi nel Sinai egiziano un aeroporto e un porto marittimo. È evidente che le chiavi di Gaza sono e resteranno saldamente nelle mani di Israele e anche dell'Egitto. «Dopo anni di assedio gli israeliani ci hanno preso per fame. Hamas in questi anni ci ha promesso vittorie militari e libertà. Ma avremo solo un po' di pane e qualche ora di elettricità in più. E non possiamo rifiutarli», commentava ieri con amarezza Yasser T., un insegnante della Striscia.
L'accordo prevede anche la riconciliazione tra Hamas e Fatah, il partito del presidente dell'Anp Abu Mazen. Il movimento islamico dovrebbe cedere definitivamente il controllo di Gaza, che mantiene dal 2007, al governo dell'Anp. Le due parti organizzeranno elezioni entro sei mesi. Lo scetticismo tra i palestinesi è forte.
(il manifesto, 5 agosto 2018)
«Gaza torni sotto il controllo dell'Autorità palestinese»
L'appello rivolto ad Hamas è del premier dell'Anp Rami Hamdallah
RAMALLAH - Un appello ai dirigenti di Hamas affinché, dopo il loro putsch armato del 2007, restituiscano adesso all'Autorità nazionale palestinese il pieno controllo sulla Striscia di Gaza è stato lanciato dal premier dell' Anp Rami Hamdallah, secondo quanto riferisce la agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa.
Hamdallah ha aggiunto che solo una volta assicurata in questo modo l'unità nazionale «il presidente Abu Mazen potrà affrontare le sfide che incombono sulla causa palestinese, in particolare il cosiddetto "Affare del secolo" ispirato dagli Usa», cioè un piano per un totale riassetto della regione, a cui l'Anp si oppone.
In questo contesto Hamdallah ha anche messo in guardia da progetti attribuiti dalla stampa a Jared Kushner, il consigliere e genero del presidente Donald Trump, di puntare alla chiusura definitiva dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi.
Intanto il portavoce di al-Fatah Osama Qawasmeh, riferendosi ai contatti internazionali per una tregua a Gaza, ha messo oggi in guardia da iniziative che a suo parere rischiano di separare definitivamente la Striscia dalla Cisgiordania.
(tio.ch, 5 agosto 2018)
Israele e la crisi per la Legge sullo Stato Nazione: tre aspetti da distinguere
di Giovanni Quer
La legge ha condotto a una crisi profonda che riporta in prima pagina il dibattito sull'identità israeliana proprio in un periodo in cui l'integrazione delle minoranze è diventato l'obiettivo di tutte le istituzioni più importanti
La legge sullo Stato nazione continua a causare una profonda crisi con le minoranze. Sulle reti sociali circola la notizia, non confermata, che il presidente Rivlin si sarebbe impegnato a firmare la legge, ma in arabo (cioè l'ultimo atto ufficiale prima che l'arabo sia declassato a legge speciale). Il sabato sera in piazza Rabin a Tel Aviv continuano le manifestazioni organizzate dalla comunità drusa cui partecipano altri oppositori della legge.
Ieri erano in 90.000 circa a manifestare contro una legge che secondo alcuni discrimina le minoranze, secondo altri le fa sentire marginali al tessuto sociale e politico. Tra i partecipanti molti giovani che urlavano "ci hanno preso la nostra israelianità". Ha preso la parola anche Shakib Shenan, padre di Kamil, soldato morto nell'attentato del 14 luglio 2017 a Gerusalemme, che ha detto "mio figlio diventerà un caduto di seconda classe?". Jaber Habish, ufficiale riservista, si è rivolto al Primo Ministro: "Noi non diamo un contributo allo Stato, ma facciamo il nostro dovere di cittadini. A chi dà un contributo spettano regali; a chi fa il proprio dovere, spettano diritti".
Tra gli oratori anche l'ex capo dei Servizi di Sicurezza Generale, Yuval Diskin, che ha attaccato duramente il governo per le iniziative populiste che creano odio e divisione. Tra i partecipanti anche l'ex Capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi e l'ex Capo del Mossad Tamir Pardo.
Netanyahu aveva iniziato una serie di incontri con la comunità drusa per arrivare a un accordo su una futura legge, ma le negoziazioni si sono interrotte quando all'ultima riunione di giovedì scorso il leader drusi Amal As'ad ha urlato "Stato di apartheid!" Netanyahu se n'è andato dalla riunione e il dialogo si è interrotto.
In un'intervista alla radio Kan Beth stamane, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked, tra i promotori della legge, ha detto che la nuova legislazione non discrimina nessuno, che ribadisce che i diritti nazionali sono riservati al popolo ebraico mentre lo Stato riconosce i diritti individuali di ciascun cittadino.
Qui la confusione generale sulla legge e la discussione che si è sviluppata sulla stampa internazionale. Tre sono gli aspetti della discussione sulla legge che si possono distinguere. Il primo riguarda l'autodeterminazione ebraica e la definizione della nazione come elemento principale che ha portato alla creazione di Israele. Il secondo riguarda l'atteggiamento di Israele verso le minoranze. L'ultimo invece riguarda il legame tra tale autodefinizione e il conflitto con i palestinesi.
Disquisire sulla necessità o legittimità di un'autodeterminazione nazionale ebraica è affascinante ed emozionante poiché è un caso unico nella storia moderna. Ancor più affascinante è la discussione sullo sviluppo della statualità ebraica, il rapporto tra democrazia è ebraismo, tra stato società e religione che concorre alla definizione dell'identità ebraica, l'insieme di valori che si riflettono nella vita sociale e politica ecc. Tuttavia, discutere senza alcun tipo di paragone o accostamento di esempi trasforma il discorso in un autoreferenziale accanirsi tra difensori e detrattori dello Stato Ebraico. È vero che non esistono altri Stati ebraici cui paragonare Israele, ma esistono altri Stati nazione. Pertanto l'astratta trattazione sull'idea di nazione ebraica e sul prodotto politico statale, cioè Israele, finisce per non aver altro contenuto se non la legittimità stessa di Israele in quanto tale e non in quanto Stato nazione.
Del secondo aspetto, cioè quale spazio hanno le minoranze in uno Stato ebraico, vi sono almeno due domande: possono esserci delle minoranze in uno Stato che ci definisce ebraico? E altra, quali diritti hanno le minoranze in Israele? La dirigenza delle comunità arabe in Israele, che sposa una identità nazionale palestinese, ritiene incompatibile l'idea di Stato ebraico con l'idea di tutela delle minoranze. L'obiettivo politico di parte dei partiti arabi è esercitare il diritto all'autodeterminazione nazionale palestinese sul territorio che oggi è Israele. E la legge lo esclude chiaramente. Israele riconosce però diritti individuali e anche collettivi anche delle minoranze, con diversi profili di tutela dei gruppi linguistici, religiosi e culturali.
Qui si inserisce la lotta delle minoranze come i drusi, i circassi, i beduini del nord e parte dei cristiani: più diritti in termini di eguaglianza sostanziale di accesso alle risorse e riconoscimento della complementarità nella costituzione dello Stato e della società, senza metterne in dubbio l'identità ebraica. A questo proposito, la crisi innescata dalla Legge sullo Stato Nazione riguarda l'assenza di un riferimento anche minimo alla tutela delle minoranze, e alla loro importanza nella costituzione di Israele e della sua società.
Il terzo elemento che occupa le discussioni sulla legge concerne l'effetto della legislazione sul conflitto, come ha ritenuto Bruxelles. Tale posizione è la più oscura: l'idea che Israele è uno Stato ebraico non dovrebbe esser messa in discussione da prospettive negoziazioni con la dirigenza palestinese o con altri Stati che ancora non riconoscono Israele. La posizione di Bruxelles può esser interpretata in due modi: ribadire l'autodeterminazione ebraica è un pericolo per la pace con i palestinesi? Oppure, l'autodeterminazione ebraica è un punto di discussione nelle negoziazioni? Se gli Stati circostanti si definiscono arabi ed islamici (a esclusione del Libano che si definisce solo arabo), come può la definizione di uno Stato ebraico costituire un ostacolo per un accordo di pace?
La legge ha condotto a una crisi profonda che riporta in prima pagina il dibattito sull'identità israeliana proprio in un periodo in cui l'integrazione delle minoranze è diventato l'obiettivo di tutte le istituzioni più importanti, compresi i vari ministeri, l'esercito, uffici pubblici e università.
(formiche.net, 5 agosto 2018)
Lo Stato d'Israele è nato con l'esclusivo scopo di essere la sede nazionale del popolo ebraico
Negare questo allo Stato d'Israele significa volerlo uccidere. Come Hamas, ma in modo democratico. Il "dibattito" in corso ci spinge a riportare un estratto di un articolo presente già da qualche anno sul nostro sito.
Tra tutti i popoli che sono nati in conseguenza della disintegrazione dell'Impero islamico, quello che più di tutti, o forse l'unico, a cui sarebbe stato naturale applicare l'articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, cioè "il principio che il benessere e lo sviluppo di tali popoli è un compito sacro della civiltà", era il popolo ebraico. Esso aveva:
- una collettiva identità religiosa costituita da un comune richiamo, mantenutosi vivo nei secoli, a ben precisi scritti, tradizioni e costumi ebraici;
- una collettiva identità storica annualmente ricordata nelle annuali feste ebraiche e ravvivata nell'impegno unitario assunto nella Conferenza di Basilea del 1897;
- una connessione storica con una ben definita zona dell'ex territorio turco, i cui confini non dovevano essere inventati secondo il capriccio dei vincitori, ma esistevano già delineati in documenti esistenti da secoli in antichi testi sacri che le stesse nazioni vincitrici consideravano autorevoli.
E qui bisogna dire che avvenne uno dei primi miracoli che hanno punteggiato la storia del sionismo. Si direbbe che le Potenze Alleate vincitrici, nonostante tutti i loro calcoli politici, e pensando di perseguire i propri interessi nazionali, siano state spinte dagli eventi a riconoscere gli elementi identitari presenti nel popolo ebraico. Il testo del Mandato per la Palestina, come elaborato nella Risoluzione di Sanremo del 24 aprile 1920, e successivamente approvato all'unanimità dal Consiglio della Società delle Nazioni nella riunione del 24 luglio 1922, è un chiaro riconoscimento del legame storico tra popolo ebraico e Palestina, e, insieme all'Articolo 22 del Patto delle Nazioni, costituisce la base della legittimità internazionale dello Stato d'Israele.
Riportiamo alcuni commi del Preambolo di questo documento:
... le principali Potenze Alleate si sono accordate, al fine di dare effetto alle disposizioni dell'Articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, per affidare a un Mandatario, scelto dalle dette Potenze, l'amministrazione del territorio della Palestina che precedentemente appartenne all'Impero turco entro i confini che potranno essere da loro determinati.
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Si noti che il Mandante non è costituito dalla Società delle Nazioni, ma dalle Potenze Alleate che, avendo costituito un Patto registrato da detta Società, si accingono ora a dare effetto a uno dei suoi articoli. Sono infatti le principali Potenze Alleate quelle che prendono le decisioni. In un Mandato, gli elementi fissi sono due: il Mandante, cioè le Potenze Alleate, e il Supervisore, cioè il Consiglio della Società delle Nazioni. Gli elementi variabili sono invece: il Mandatario e il Beneficiario. Nel caso del Mandato per la Palestina il Mandatario era la Gran Bretagna e il Beneficiario era il popolo ebraico. Il Preambolo continua così:
... le principali Potenze Alleate si sono anche accordate che il Mandatario debba essere responsabile per dare effetto alla dichiarazione originalmente fatta il 2 Novembre 1917 dal Governo di Sua Maestà Britannica e adottata dalle dette potenze, in favore della costituzione in Palestina di una nazione per il popolo ebraico...
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Dopo aver chiaramente indicato Mandatario e Beneficiario, il Preambolo indica i motivi di questa scelta:
... con ciò è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebraico con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese...
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Queste parole sono di un'importanza capitale: per nessun'altra nazione nata in Medio Oriente dopo la Grande Guerra si potrebbero dire le stesse cose. Le Potenze Alleate riconoscono una connessione storica esistente da secoli tra un popolo e una terra: questo significa che la connessione precede i fatti recentemente avvenuti e non è determinata ma soltanto riconosciuta dalle nazioni. Non dicono all'ebreo Weizmann: "Se ti comporti bene e resti nostro amico ti concediamo di diventare Re di una nazione che nascerà su quella terra per il tuo popolo", come più o meno hanno fatto con i fratelli arabi Hussein, ma riconoscono che esistono le basi per ricostituire la nazione degli ebrei in quel paese. La nazione ebraica in Palestina quindi non è stata inventata dalle Potenze Alleate vincitrici, ma riconosciuta come appartenente storicamente al popolo ebraico sulla terra che in quel momento era chiamata Palestina.
(Notizie su Israele, 5 agosto 2018)
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«Dio li ha abbandonati a passioni infami»
Lira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con lingiustizia; poiché quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo Dio manifestato loro; infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non lhanno glorificato come Dio, né lhanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo dintelligenza si è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle delluomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.
Per questo Dio li ha abbandonati allimpurità, secondo i desideri dei loro cuori, in modo da disonorare fra di loro i loro corpi; essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen.
Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato luso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento.
Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni dinvidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.
Dalla lettera dellapostolo Paolo ai Romani, cap. 1
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Proteste contro il caro-vita in Iran, un morto
TEHERAN - Un morto e almeno venti arresti: è il bilancio delle proteste contro il governo iraniano per la crisi economica nel paese, che si sono svolte ieri sera nella provincia settentrionale di Alborz. Lo riferisce Farsnews.
Le manifestazioni sono in corso da martedì in diverse città del paese, dovute tra l'altro alle conseguenze sulla popolazione dell'impennata dei prezzi e della drammatica svalutazione del rial, dopo il ritiro degli Stati Uniti dall'intesa nucleare. Situazione aggravata dalla minaccia di nuove sanzioni.
In particolare, ieri sera circa cinquecento manifestanti sono scesi in strada nella città di Karaj gridando slogan contro il sistema e lanciando pietre contro una scuola teologica, hanno riferito le autorità locali.
(Corriere del Ticino,4 agosto 2018)
Israele: sequestrata nave con bandiera svedese diretta a Gaza
La Marina israeliana ha sequestrato una barca a vela contrassegnata da bandiera svedese che stava cercando di violare l'embargo imposto sulla Striscia di Gaza, sabato 4 agosto.
I 12 passeggeri a bordo della nave, 2 dei quali sono giornalisti, provenivano principalmente dalla Svezia, ma vi erano altresì persone di nazionalità tedesca, britannica, spagnola, francese e canadese. Al momento si trovano in custodia presso il porto israeliano di Ashdod e verranno rimandati nei loro Paesi, secondo quanto riferito da una portavoce dell'Autorità di Immigrazione Israeliana.
L'imbarcazione, la SY Freedom for Gaza, trasportava per lo più rifornimenti medici a nome del gruppo Ship to Gaza, che aveva organizzato il viaggio. La nave faceva parte della Freedom Flotilla Coalition, composta da 4 imbarcazioni e partita a maggio dalla Danimarca. "La nostra organizzazione richiede che coloro che sono stati fatti prigionieri, la barca a vela e il carico che trasportava vengano riportati dove sono stati fermati e venga permesso loro di continuare tranquillamente il loro viaggio in acque internazionali e palestinesi, secondo quanto stabilito dalla legge internazionale" ha spiegato il gruppo Ship to Gaza nella dichiarazione rilasciata.
Da parte sua, l'esercito israeliano ha dichiarato di aver monitorato e intercettato l'imbarcazione secondo i dettami della legge internazionale, e che coloro che erano a bordo sono stati trattenuti per ulteriori indagini. "Le Forze di Difesa Israeliane hanno spiegato ai passeggeri della barca che stavano violando il blocco navale legale e che tutto il materiale umanitario poteva essere trasferito a Gaza attraverso il porto israeliano di Ashdod" ha chiarito l'esercito di Israele.
I funzionari di Hamas non hanno rilasciato alcun commento sul sequestro della nave.
(Sicurezza Internazionale, 4 agosto 2018)
Dunque sono partiti dalla Danimarca con una barca a vela, perché è più divertente, hanno costeggiato lOlanda, attraversato lo stretto di Dover, costeggiato la Francia, toccato la Spagna, costeggiato il Portogallo, attraversato lo stretto di Gibilterra; quindi si sono inoltrati nel Mediterraneo e dopo non si sa quanti giorni sono arrivati al previsto appuntamento con la marina israeliana che gentilmente li ha accompagnati al porto di Ashdod. I funzionari di Hamas non hanno detto niente sul sequestro, avranno capito che i flottigliani volevano soltanto divertirsi. E quando gli arriveranno i medicinali sequestrati alla flottiglia probabilmente guarderanno la data di scadenza. M.C.
Jared Kushner vuole chiudere la UNRWA e mettere fine all'equivoco sui rifugiati
Finalmente anche le alte sfere si accorgono che uno dei maggiori ostacoli alla pace è la UNRWA ma soprattutto lo status di rifugiato riconosciuto agli arabo-palestinesi senza alcun rispetto del Diritto Internazionale.
Jared Kushner, consigliere e genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sta facendo forti pressioni ad ogni livello affinché venga rivisto lo status di rifugiato "regalato" dalla UNRWA a milioni di arabi palestinesi, una decisione che viola il Diritto Internazionale in quando prevede, unico caso al mondo, che il suddetto status si trasmetta di padre in figlio mentre per il resto del mondo questa regola non vale.
A rivelarlo è la rivista Foreign Policy (1) che pubblica alcune email di Jared Kushner nelle quali il consigliere del Presidente Trump attacca duramente la UNRWA definendola «corrotta, inefficiente e dannosa per la pace»....
(Rights Reporters, 4 agosto 2018)
Viaggio nell'israele che si ribella allo "Stato-nazione" di Bibi Netanyahu
Riportiamo questo articolo da un sito manifestamente anti-israeliano, scritto da un autore altrettanto anti-israeliano. Si noti, mentre lo si legge, la multicolore, arcobalenica varietà degli oppositori alla legge. NsI
di Umberto De Giovannangeli
È la rivolta dell'intellighenzia. Che s'intreccia con quella delle minoranze etniche e della comunità gay. La rivolta contro una deriva fondamentalista che uccide gli stessi ideali originari del sionismo. Una deriva che rischia di trasformare definitivamente uno Stato democratico in uno Stato etnico. Stavolta non è in gioco "solo" la pace con i Palestinesi.
Stavolta la posta è l'identità stessa d'Israele, la sua essenza, il suo essere. Stavolta non esistono vie di fuga, compromessi possibili, incontri a metà strada: si vince o si perde. Lo sanno bene le centinaia di
Centinaia di artisti, scrittori, intellettuali israeliani hanno lanciato una petizione in cui si chiede al primo ministro Benjamin Netanyahu di abolire la legge dello Stato-nazione, che formalmente definisce Israele come Stato-nazione del popolo ebraico
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artisti, scrittori, intellettuali israeliani che sabato scorso hanno lanciato una petizione in cui si chiede al primo ministro Benjamin Netanyahu di abolire la legge dello Stato-nazione, che formalmente definisce Israele come Stato-nazione del popolo ebraico (a favore del provvedimento hanno votato 62 deputati su 120: contrari 55, compresi i rappresentanti dei partiti arabi) e una legge sulla maternità surrogata che discrimina la comunità LGTB.
I firmatari, tra cui David Grossman, Amos Oz, Abraham Yehoshua, Eshkol Nevo, Etgar Keret e Orly Castel-Bloom, hanno scritto: "Ci sono delle forzature che devono essere giudicate dalla Corte Suprema, ma ci sono violazioni che toccano il cuore del popolo ebraico e la sua patria, che meritano l'attenzione degli intellettuali e del giudizio della storia".
La legge dello stato-nazione, secondo la quale lo Stato di Israele è solo lo stato nazionale degli ebrei, autorizza espressamente la discriminazione razziale e religiosa, annulla l'arabo come lingua ufficiale accanto all'ebraico, non menziona la democrazia come fondamento del Paese e non menziona l'uguaglianza come valore di base: in quanto tale, la legge dello Stato nazione contraddice la definizione dello Stato come Stato democratico e contraddice la Dichiarazione di indipendenza su cui è stato fondato lo Stato d'Israele. E su questo la Knesset non può intervenire a colpi di maggioranza".
I firmatari della petizione si rivolgono direttamente a Netanyahu: "Durante gli anni del tuo governo, hai costantemente eroso le fondamenta del nostro Stato: hai danneggiato i rapporti tra Israele e gli ebrei americani e hai emarginato, riducendoli alla miseria, interi settori della società israeliana. Ma il colpo più grave è per i valori di uguaglianza e responsabilità reciproca su cui si basa la società israeliana e da cui trae la sua forza".
Da qui le richieste: "Chiediamo l'immediata abolizione della legge dello stato-nazione, che crea una frattura tra la società israeliana e l'ebraismo americano, discrimina gli arabi, i drusi e i beduini e mina la convivenza della maggioranza ebraica in Israele con le sue minoranze. richiede la tua risposta immediata alla richiesta di uguaglianza per i membri della comunità LGBT".
"Queste leggi violano il il diritto alla genitorialità dei membri della comunità LGBT, si uniscono a una lunga lista di misure prese dal governo israeliano sotto la tua guida che hanno danneggiato altri settori della società israeliana, colpendo i malati, gli anziani, i sopravvissuti all'Olocausto, disabili, madri single e immigrati etiopi".
"Quando in discussione vi sono i fondamenti stessi della convivenza civile, quando ogni diversità viene vissuta e trattata come una minaccia da estirpare, quando l'essere ebreo viene usato per discriminare e
La legge sullo Stato-nazione e quella che discrimina la comunità LGTB sono più che un campanello d'allarme, esse rischiano di essere una campana a morto per la nostra democrazia", dice ad HuffPost Etgar Keret.
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non per includere, come è stato nella nostra storia, allora quello è il tempo di una rivolta culturale, etica, democratica. La legge sullo Stato-nazione e quella che discrimina la comunità LGTB sono più che un campanello d'allarme, esse rischiano di essere una campana a morto per la nostra democrazia", dice ad HuffPost Etgar Keret. La sua presenza tra i promotori della petizione è tanto più importante perché parla ai giovani, che hanno decretato il suo successo.
Etgar Keret è tra i più popolari scrittori israeliani della nuova generazione. I suoi libri, tradotti in trentacinque Paesi (in Italia editi da Feltrinelli) e trentuno lingue, gli hanno valso molti premi prestigiosi e un riconoscimento unanime a livello internazionale.". Il suo cortometraggio Skin Deep ha vinto numerosi premi internazionali, mentre il suo primo lungometraggio, Meduse, girato insieme alla moglie Shira Gefen, ha vinto a Cannes il premio Caméra d'Or nel 2007.
"La coesione nazionale è un bene prezioso, che questa legge mette a repentaglio - ci dice Eshkol Nevo, un altro degli scrittori più affermati della nuova generazione, nipote di Levi Eshkol, che fu il terzo Primo ministro d'Israele -. Proprio perché andiamo fieri del nostro sistema democratico - aggiunge Eskhol Nevo - dobbiamo batterci perché non sia affossato da leggi che invece di esaltare il principio di uguaglianza, codificano una discriminazione tra cittadini dello stesso Stato".
A ribellarsi non sono solo le minoranze etniche, a cominciare dagli arabi israeliani (1.485.00 persone, circa il 20% della popolazione).
La protesta si è estesa anche alla comunità drusa, che in Israele guarda principalmente a destra e che, a differenza dei palestinesi nati in Israele, svolge il servizio militare in Tsahal o presta servizio nella Guardia di frontiera.
Per questo, è un segno dei tempi la lettera aperta che il capitano Amir Jmall, membro della comunità drusa d'Israele, ha rivolto al primo ministro Netanyahu sulla sua pagina Facebook: nella lettera, il capitano Jmall ha annunciato di voler chiudere la sua carriera militare e lasciare l'esercito, in segno di protesta per la legge sullo Stato-nazione. Non basta. Nella stessa lettera, Jmall ha anche chiesto ai leader della comunità drusa di lavorare per porre fine alla coscrizione obbligatoria dei Drusi nell'Idf (Le Forze armate israeliane).
Tre parlamentari drusi, di tre partiti diversi, hanno deciso di rivolgersi all'Alta Corte di Giustizia israeliana perché annulli la legge o, in subordine, ne cassi alcune parti sulla base della violazione dei diritti fondamentali, compreso il diritto all'uguaglianza. Nella legge, sostengono i tre parlamentari drusi, le minoranze non hanno uno status. Quella legge, insistono, "esilia i Drusi e altri gruppi, nonostante la lealtà manifestata allo Stato, la cui sicurezza hanno contribuito a difendere prestando servizio militare e pagando un alto tributo di sangue". Si sentono traditi.
Tra i tre appellanti c'è Hamad Amar, parlamentare di "Yisrael Beitenu", il partito della destra ultranazionalista vicino al movimento dei coloni, il cui leader è il ministro dell'Educazione Naftali Bennett che è tra i più fieri sostenitori della legge, ma ha dovuto ammettere, di essersi reso conto in ritardo di come la legge abbia ferito i sentimenti della comunità drusa d'Israele. "Questo naturalmente non è nell'intenzione del governo israeliano", ha twittato. "Questi sono i nostri fratelli di sangue, che stanno fianco a fianco con noi sul campo di battaglia e che sono entrati in un patto di vita con noi. Noi, il governo di Israele, abbiamo la responsabilità di trovare un modo per riparare la frattura".
Una frattura che si sta allargando. Perché quella che si sta sviluppando, non è solo la rivolta delle minoranze etniche e degli intellettuali. In Israele, la rivolta è anche gay. Colorata, festosa, determinata. È l'Israele dei diritti delle minoranze che difende non solo i propri spazi sociali, culturali, legislativi, ma che pone con forza il tema dei temi oggi in Israele: quello della qualità della sua democrazia.
Che per essere tale, dice ad HuffPost Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, paladina dei diritti civili, "deve essere altro dalla dittatura della maggioranza".
L'Israele che non si rassegna alla deriva etnocratica, deve fare i conti, e scontrarsi, con due importanti e pesanti leggi con implicazioni drammatiche che sono state approvate la scorsa settimana, a maggioranza, dalla Knesset prima che il Parlamento israeliano chiudesse i battenti per la pausa estiva: la legge "Stato-nazione ebraica" e la legge che regolamenta le gestazioni surrogate.
Secondo la legge, coppie sposate e donne single potranno iniziare il percorso di gestazione surrogata, ma non uomini single. Nonostante il parere contrario dell'avvocato del governo, che riscontrava già due anni fa una discriminazione tra uomini e donne, il Parlamento ha votato il testo che esclude gli uomini non sposati. In questo modo le coppie omosessuali non potranno usufruire del percorso di surrogazione in Israele.
Domenica 22 luglio, decine di migliaia di dimostranti si sono riuniti, in serata, nella piazza Rabin di Tel Aviv e altre dimostrazioni si sono svolte a Gerusalemme presso la residenza ufficiale del premier Benjamin
Molte proteste avevano come obiettivo non soltanto la legge sulla gravidanza surrogata ma anche una lunga serie di discriminazioni di cui la comunità gay ritiene di essere vittima.
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Netanyahu, a Haifa e a Beer Sheva. Le proteste avevano come obiettivo non soltanto la legge sulla gravidanza surrogata ma anche una lunga serie di discriminazioni di cui la comunità gay ritiene di essere vittima. Secondo i manifestanti mentre esiste crescente comprensione per le loro istanze nel Paese, in Parlamento si moltiplicano le resistenze anche per l'ostilità dei partiti confessionali che sostengono la coalizione del premier Netanyahu. Le loro proteste sono sostenute fra l'altro dalla centrale sindacale Histadrut nonché da decine di aziende che hanno deciso di concedere una giornata di libertà a tutti i dipendenti membri della comunità LGTB.
Secondo la stampa si è tratta del primo "sciopero LGTB" nella storia di Israele ed ha rappresentato una significativa prova di forza del movimento di fronte alle istituzioni politiche del Paese.
Annota Elena Loewenthal su La Stampa:"Esponenti politici, compresi alcuni del Likud, ufficiali dell'esercito, il sindacato nazionale, e altre voci istituzionali non hanno fatto mancare la loro solidarietà alla protesta. E sui social network lo slogan 'tutti hanno diritto a una famiglia' accompagnato dalla bandiera arcobaleno, ha spopolato su profili di gay, etero, uomini, donne. In altre parole, quella grossa fetta d'Israele estranea alle restrizioni degli schemi tradizionali, liberale e aperta, ha alzato la voce sdegnata dal passo falso del governo - e soprattutto di Netanyahu che si è rimangiato la parola data sull'emendamento, con un gesto di sudditanza all'ala ortodossa e conservatrice dello schieramento politico
".
Yossi Shalom, assessore alla municipalità di Haifa per gli affari giovanili e LGTB, spiega "la legge discrimina principalmente le coppie di uomini omosessuali, ma anche uomini eterosessuali single, e per questo l'opposizione alla legge si è trasformata in una lotta principalmente di uomini omosessuali e di quanti sostengono la comunità", nonostante siano colpiti anche uomini eterosessuali single.
Lo scorso 30 aprile la Knesset ha approvato una legge che impone ai tribunali di emettere sentenze che tengano conto della "legge e tradizione ebraiche". In pratica, quando le leggi dello Stato non sono abbastanza esplicite, i giudici dovranno decidere in base alla halakha, cioè alla normativa religiosa tradizionale dell'ebraismo.
Il crescente potere degli integralisti religiosi, non si manifesta solo con le vittorie in Parlamento, ma anche annullando in pratica i progressi civili compiuti in teoria: per esempio, la vittoria festeggiata dagli omosessuali quando hanno conquistato il diritto ad adottare è stata completamente annullata dal fatto che, in nove anni, solamente tre coppie hanno potuto usufruire di questo diritto.
Nei mesi scorsi, la Knesset ha bocciato tutti e cinque i disegni di legge presentati per migliorare la condizione delle persone gay, lesbiche, bisessuali e trans. I disegni di legge puntavano a riconoscere le unioni civili, vietare le terapie riparative per i minori (molto praticate in Israele), riconoscere un risarcimento ai partner dei militari uccisi in azione, formare il personale sanitario perché sia preparato sulle questioni di genere e l'orientamento sessuale.
Come ha riportato il quotidiano Times of Israel, l'unico parlamentare apertamente omosessuale, Amir Ohana del Likud (il partito del premier Netanyahu), non era presente in aula per il voto.
Gideon Levy, firma storica di Haaretz, censore critico, e per questo odiato, della destra ultranazionalista al potere, racconta così il "passaggio d'epoca" maturato alla Knesset: "Il Parlamento israeliano ha
La legge sullo Stato-nazione mette fine al generico nazionalismo di Israele e mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano 'ebraico e democratico', una combinazione che non è mai esistita, né poteva esistere
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approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo Stato-nazione mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano 'ebraico e democratico' una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l'intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l'inganno
Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell'origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno Stato formato dai suoi cittadini, non uno Stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante".
(Nena-news.it, 4 agosto 2018)
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La rivolta intellettual-transgender
Intellighenzia e comunità gay, ecco i due poli della nuova rivolta antinazionalista. Ci sono poi le minoranze etniche e religiose, ma quelle non sono una novità. Riassumendo, tra gli oppositori alla legge ci sono:
- centinaia di artisti, scrittori, intellettuali israeliani tra cui David Grossman, Amos Oz, Abraham Yehoshua, Eshkol Nevo, Etgar Keret, Orly Castel-Bloom, Elena Loewenthal, Gideon Levy;
- ellegibittiani che protestano per la violazione del diritto alla genitorialità dei membri della comunità LGBT":
- minoranze etniche varie, dagli arabi israeliani fino alla comunità drusa, senza che siano citate le comunità cristiane.
Ma il gruppo che si sente più attaccato da questa legge e sembra proporsi come portabandiera della rivoluzione antinazionalista è quello formato da gay, lesbiche, bisessuali e trans. Loro non transigono. Altro che terra di Sion, Gerusalemme, anima ebraica e speranza due volte millenaria, quello a cui anela lanima transgender è poter vivere come popolo in una terra in cui essere liberi di formare famiglie di tutti i tipi, senza limitazioni di accoppiamento e genitorialità, senza dover essere sottoposti agli angusti precetti delle tradizioni ebraiche. La legge mette fine alla farsa di uno Stato israeliano 'ebraico e democratico' - dicono - e scelgono lo stato democratico. Netanyahu invece ha scelto lo stato ebraico. Si vergogni! M.C.
(Notizie su Israele, 4 agosto 2018)
Le famigerate Waffen-SS avevano una divisione islamica, la Handschar
di Nota Design
La foto qui a fianco, un'immagine forse comprensibilmente rara, ritrae soldati della 13esima divisione «Handschar» delle Waffen-SS tedesche mentre pregano rivolti alla Mecca. Fu scattata a Neuhammer am Queis (oggi in territorio polacco) nel 1943 durante l'addestramento. La 13esima era una divisione alpina, creata perlopiù reclutando soldati di etnia bosgnacca (bosniaci musulmani) nei territori jugoslavi già conquistati dalle forze tedesche.
Considerata al giorno d'oggi, l'idea che proprio le SS, il cuore del rigido arianesimo nazista, potessero disporre di una divisione islamica presenta delle incongruenze. La Handschar comunque fu la prima formazione militare nazista non di etnia tedesca. Sembra che il fatto fosse dipeso dal convincimento personale del Reichsführer-SS, Heinrich Himmler, romanticamente persuaso delle superiori doti da combattenti dei musulmani in quanto la fede islamica promette un paradiso particolarmente attraente ai caduti in battaglia.
Uno dei paradossi delle Waffen-SS, il «braccio armato» del Partito nazista, mai formalmente inquadrato nell'esercito regolare, la Wehrmacht, è che dei circa 900 mila uomini che vi prestarono servizio durante la seconda guerra mondiale, oltre la metà non erano tedeschi. L'ultima delle divisioni SS a essere costituita fu, dopo la caduta di Mussolini, quella italiana: la 29esima Waffen-Grenadier-Division «Italia». La divisione italiana si arrese agli alleati a Gorgonzola nell'aprile del 1945.
(ItaliaOggi, 4 agosto 2018)
Ma quanto odia gli ebrei, Corbyn...
Il leader laburista ancora in difficoltà per le accuse di essere antisemita e tifare per Hamas
di Giovanni Masotti
Se la sta vedendo brutta, bruttissima, il vetero-marxista e pacifista "senza se e senza ma" Jeremy Corbyn, 69 primavere, da 35 incollato alla poltrona di deputato in quel di Westminster, da tre alla guida dell'ammaccatissimo e soporifero Labour Party, ultimamente ringalluzzito solo dagli strafalcioni e le retromarce della imbarazzante premier conservatrice Theresa May, una che si è autoaffossata con le sue capriole sulla Brexit che non è più Brexit. Ma - vendetta, vendetta - da una manciata di ore l'ex-sindacalista duro e puro alfiere della «rivoluzione gentile» - in realtà un suicida programma a base di nazionalizzazioni selvagge e di aumento delle tasse ai "padroni" - se la passa peggio della malmessa nemica "Theresa la dubbiosa", che da un mucchio di tempo - poveretta - non si toglieva la soddisfazione di togliere dal frigo una bottiglia di champagne e che ieri, invece, ha brindato alle disavventure del nonno barbuto e filosofeggiante, che già in molti dipingevano come suo detronizzatore a Downing Street.
Eh, già. L'ex militante ferocemente anti-blairiano della coalizione "Stop the War", che - mentre sfilava contro la guerra in Iraq - ripeteva ossessivamente che «Marx ha molto da insegnare ai britannici», il campione della democrazia sociale e dei diritti dei lavoratori, è irreparabilmente inciampato nel suo "vizietto", emerso con ignominia da qualche mese ma non ancora nelle folli e brutali modalità rivelate dal Times. Un vizietto che, Oltremanica, non viene perdonato: un cieco e violento antisemitismo, che l'interessato aveva da qualche mese goffamente tentato di minimizzare. Riducendo la sua attività politica e i discorsi pubblici. Nascondendosi, insomma.
Un leader dimezzato, che - a questo punto - è stato assassinato dalle sue bugie. Perché i documenti esibiti dallo storico e compassato quotidiano londinese sono inoppugnabili. Originali. Non smentibili. Roba che scotta. Nel 2010, dunque - in occasione di un evento che commemorava l'Olocausto, organizzato dalla sinistra inglese - l'ineffabile Corbyn gelò la platea, azzardando papale papale che tra il governo israeliano e i nazisti non c'era poi tutta questa differenza, entrambi razzisti e spietati persecutori dei deboli e dei diversi. Due anni più tardi - 2012 -lo stupefacente socialistone non violento - ospite del programma tivù "Remember Palestine" - espresse il suo giubilo per il rilascio di oltre mille terroristi di Hamas, responsabili di sanguinose azioni, in cambio di altrettanti prigionieri israeliani, domandandosi - e domandando con aria di sfida - quali fossero alla fin fine le colpe «serie» di questi «fratelli». E si soffermò, con parole di umana comprensione, sul «fratello»
Abdul Aziz Umar, condannato a sette ergastoli per aver contribuito alla preparazione e alla realizzazione' nel 2003 a Gerusalemme, di un attentato kamikaze davanti a un affollato ristorante, che costò la vita a sette innocenti. Perle inanellate l'una dopo l'altra, regolarmente accompagnate dalla definizione di «amici» piamente attribuita ai terroristi di Hezbollah e di Hamas. Può questo allucinato e distinto signore, colui che sarebbe dovuto essere il salvatore dei declinanti laburisti british, continuare ad essere un leader politico? Sia nel partito, che fuori, si sono già dati - per fortuna - la risposta. Con qualche inutile ritardo.
(Libero, 4 agosto 2018)
La lunga lotta di Roma contro Israele
Lo scontro con il popolo ebraico coinvolse gran parte dell'Impero.
di Rino Cammilleri
Quanto fossero ingestibili gli ebrei l'Impero Romano lo sapeva. Bastava che uno di loro si atteggiasse a «messia» e ai romani toccava intervenire con grande dispendio. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero domato la rivolta del 66-70 d.C. distruggendo addirittura il Tempio, gli ebrei sopravvissuti e non venduti schiavi si rifugiarono presso i correligionari della diaspora. Ma il loro esclusivismo non mancava, neanche «all'estero», di creare problemi con gli autoctoni. Si conosce la «soluzione finale» con cui Adriano nel 135 d.C. la fece finita radendo al suolo Gerusalemme e cambiandogli pure nome.
Dopo l'insurrezione del «messia» Bar Kokhba, Gerusalemme divenne colonia romana, Aelia Capitolina, piena di templi pagani e col divieto assoluto per ogni ebreo di rimettervi piede, pena la morte. Ma non tutti sanno che tra il 70 e il 135 d.C. ci fu un'altra, grande rivolta, questa volta nella diaspora. La racconta per la prima volta Lidia Capponi ne Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano (Salerno Editrice, pagg. 140, euro 14,50). Dopo la mano pesante degli imperatori Flavi, Nerva aveva abolito il fiscus iudaicus, cioè la tassa che colpiva gli ebrei in quanto tali. Ciò aveva provocato malumori in quei «greci», cioè i pagani, che con gli ebrei vivevano a contatto.
Il successore di Nerva, Traiano, dopo la conquista della Dacia mosse contro l'impero dei Parti, nel quale stavano importanti comunità giudaiche. Per garantirsene se non l'appoggio almeno la neutralità, Traiano ventilò agli ebrei due golosissime opportunità: il ritorno in patria degli esuli (anche quelli di seconda e terza generazione vivevano con questo sogno) e la ricostruzione del Tempio a spese dello stato romano.
Incaricò all'uopo due personaggi altolocati scelti appositamente perché discendenti dei due più importanti profanatori del Tempio: Tiberio Giulio Alessandro Giuliano e Gaio Giulio Antioco Epifane Filopappo. Il primo era figlio di Tiberio Giulio Alessandro, che aveva abbandonato la religione ebraica per far carriera nell'impero ed era stato luogotenente di Tito nell'assedio di Gerusalemme culminato nel disastroso incendio del Tempio. Il secondo discendeva da quell'Antioco IV Epifane che aveva scatenato la rivolta dei Maccabei portando l'«abominio della desolazione» profetizzato da Daniele nel Tempio. Traiano conquistò l'Armenia e la Partia, occupando nel 116 la capitale dei parti, Ctesifonte. Il Senato gli diede il titolo di Parthicus e ne decretò la divinizzazione. Primo errore.
Secondo errore: Traiano fece erigere sue statue, ormai «divine», in Gerusalemme. Ma ormai le speranze messianiche le aveva sollevate e fu catastrofe: gli ebrei si ribellarono ad Alessandria, Cirene, Cipro e in tutto l'ex impero partico, costringendo Traiano a mandare legioni su legioni. Fu un bagno di sangue. La sinagoga di Alessandria, orgoglio dei giudei, fu rasa al suolo e la repressione costò centinaia di migliaia di morti. Traiano morì nel 117 e l'evento fu festeggiato per sempre dai rabbini.
(il Giornale, 4 agosto 2018)
Israele, nuovo stop alle forniture di gas e carburante alla Striscia di Gaza
Nuovo stop alle forniture di gas e carburante alla Striscia di Gaza. E' la risposta del governo israeliano al lancio di aquiloni e palloncini incendiari da parte dei palestinesi della Striscia, una pratica che nelle ultime settimane ha ridotto in cenere migliaia di acri di campi coltivati nel sud di Israele.
"Questi campi bruciati sono la nostra realtà quotidiana - dice un residente di Nir Am, kibbutz al confine con la Striscia -. Ogni giorno ci sono decine di incendi, causati da palloncini e aquiloni lanciati da Gaza allo scopo di terrorizzarci. Il nostro paese e l'esercito ovviamente non stanno facendo abbastanza, ma d'altronde cosa si può fare per fermare delle persone con degli aquiloni? Non ci resta che trovare una soluzione civile al problema".
Ad annunciare il blocco dei rifornimenti attraverso il valico di Kerem Shalom è stato il ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Israele, con la stessa motivazione, aveva già bloccato le forniture di gas e carburante alla Striscia di Gaza lo scorso 17 luglio.
(euronews, 3 agosto 2018)
L'Unrwa permette a Hamas di usare fondi umanitari per addestrare ragazzini alle armi?
L'Agenzia Onu per i palestinesi grida ai quattro venti d'essere ormai senza fondi, ma non risulta vero. Il problema è dove finiscono i suoi soldi.
Nel mese scorso i membri della Sottocommissione per il Medio Oriente della Camera degli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione per il fatto che gli aiuti umanitari non raggiungano davvero la popolazione palestinese a cui sono destinati, soprattutto nella striscia di Gaza.
Il Center for Near East Policy Research ha contattato 44 paesi che donano aiuti umanitari alla popolazione palestinese a Gaza attraverso l'Unrwa, l'Agenzia Onu dedicata esclusivamente ai profughi palestinesi (e loro discendenti), per determinare se qualche paese donatore avesse ridotto le sue elargizioni. Ebbene, ad eccezione degli Stati Uniti che hanno tagliato al 20% le loro donazioni all'Unrwa, ogni singola rappresentanza diplomatica dei paesi che donano all'Unrwa ha risposto con enfasi che non hanno diminuito di un solo centesimo i loro aiuti all'Agenzia per i palestinesi. Dopo aver registrato le risposte della comunità diplomatica, il Center for Near East Policy Research ha calcolato che un budget dell'Unrwa di 1,2 miliardi di dollari continua a fluire dai donatori ai cinque milioni di persone che beneficiano dei programmi Unrwa su salute, istruzione e benessere nella striscia di Gaza, a Gerusalemme, in Giudea e Samaria (Cisgiordania), Libano, Giordania e Siria. Ecco come risulta la ripartizione dei fondi per donatori all'UNRWA l'anno scorso....
(israele.net, 3 agosto 2018)
Il pericolo vero per Israele viene dal Nord
E consiste nell'avanzata imperialistica dell'esercito iraniano e dei suoi satelliti Hezbollah fino ai confini del Golan
di Ugo Volli
Possiamo anche emozionarci e indignarci per la faccia tosta dei palestinisti. Per esempio leggendo che il Ministero degli esteri dell'Autorità Palestinese ha espresso indignazione non per il vile assassinio di un pacifico cittadino israeliano, Yoram Ovadia, avvenuto giovedì scorso, ma per la visita di condoglianza che ha fatto alla vedova l'ambasciatore americano in Israele.
O del fatto che Dareen Tatour, una "poetessa" arabo-israeliana condannata a sei mesi di carcere per aver pubblicato durante il momento culminante dell'ondata di assassini di civili che allora si chiamava "intifada dei coltelli" una poesia in cui esaltava i "martiri" e invitava tutto "il suo popolo" a imitarli, si lamenti di essere repressa nella sua "libertà di parola".
Ma dobbiamo renderci conto che i crimini del terrorismo oggi, che includono anche le flottiglie, le ridicole icone di Pallywood come Ahed Tamimi e il concorso dei loro complici "progressisti" in Israele e anche in Italia, sono solo odiosa criminalità, teppismo autocompiaciuto, volgari reati da reprimere con la polizia e coi tribunali, come Israele fa con notevole moderazione. Perfino i roghi che devastano il sud di Israele a causa di ordigni incendiari volanti lanciati da Gaza sono un grave danno, un eco-crimine da far impallidire i peggiori inquinamenti al mondo, ma non sono un pericolo essenziale. Il problema vero, quello che mette a rischio l'esistenza stessa di Israele, in questi anni viene dal Nord, dall'invasione iraniana della Siria protetta dalla Russia e contrattata con la Turchia. C'è il pericolo vero che i ribelli al confine di Israele siano sostituiti dalle truppe mercenarie di Hezbollah, ben armate ed equipaggiate di missili.
Israele sta combattendo una guerra aerea difficile ma di successo contro il trasferimento dell'esercito iraniano ai suoi confini e conduce una campagna diplomatica soprattutto con la Russia per ottenere il ritiro degli iraniani e dei loro satelliti.
La notizia importante perché molto pericolosa è che la Russia ha offerto un ritiro degli armamenti pesanti iraniani a 85-100 km dal confine del Golan (non escludendo però che "qualche consigliere" sia ancora al confine) e ha dichiarato anche di "non essere in grado" di far ritirare gli iraniani dalla Siria.
Ora basta dare un'occhiata a una carta geografica per vedere che l'Iran neppure confina con la Siria e che nel punto più vicino, il suo territorio dista circa 900 chilometri in linea d'aria dal confine israeliano. La domanda è che ci fanno le truppe iraniane lì e la risposta sta in mille dichiarazioni degli ayatollah che dichiarano di voler distruggere "l'entità sionista" E' come se ci fossero dei soldati italiani al confine con la Danimarca e i nostri governanti dichiarassero di voler cancellare dalla mappa geografica Copenaghen e il suo paese. E se la superpotenza che arma l'Italia (nel nostro esempio fittizio, gli Stati Uniti) dicessero che non possono spingere l'Italia fuori dalla Germania, ma che sono riusciti a convincerci a ritirare l'armamento pesante all'altezza di Amburgo. Il fatto è che i carri armati, su buona strada e senza avversari sul terreno, fanno tranquillamente in formazione da battaglia 100 chilometri in due ore; gli aerei ci mettono otto minuti, decollo compreso, i razzi due.
C'è dunque un serio problema militare al nord di Israele. L'esercito iraniano non sarà granché, ma ha dietro una nazione di 80 milioni di abitanti (contro gli 8 di Israele) che è stata molto arricchita da i soldi che ha ricevuto da Obama e dall'appoggio tecnologico e finanziario dell'Europa (per fare solo un esempio, guardate qui come una società tedesca sta finanziando la guerra iraniana in Yemen). Tutte le provocazioni, le flottiglie, gli aquiloni, l'impudenza polemica dell'Autorità Palestinese, gli assalti di massa al confine di Gaza, le sciocche polemiche alimentate dalla sinistra contro la legge dello stato nazione di Israele sono "armi di distrazione di massa", come ha scritto qualcuno su altre vicende, o se vogliamo parlarne in termini militari sono diversioni, tentativi di dividere le forze e la vigilanza dello stato ebraico. Di questo bisogna essere consapevoli, se si vuole capire quel che accade in Israele e dintorni.
(Progetto Dreyfus, 3 agosto 2018)
Le mani di Putin sul Golan. I soldati iraniani si ritirano
Le milizie a 85 km dal confine con Israele. I russi garanti della tregua. La fine della presenza sciita era la condizione che aveva posto Netanyahu.
di Giordano Stabile
Gli iraniani accettano di ritirarsi ad almeno 85 chilometri di distanza dal Golan e Vladimir Putin consolida la sua presa sulla Siria, e sul Medio Oriente, con una mediazione al limite dell'impossibile fra l'Iran e Israele, e il dispiegamento delle truppe russe a garanzia della tregua. La vittoria di Bashar al-Assad sul terreno, la disfatta dei ribelli appoggiati dai Paesi del Golfo e dall'Occidente, e la propensione di Donald Trump a volersi districare dal pantano mediorientale, hanno messo lo Zar in una posizione di forza, guadagnata con l'azzardo dell'intervento militare a fianco del raiss nel settembre del 2015. Mancava però ancora un tassello decisivo, ed era il consenso dello Stato ebraico ai nuovi equilibri.
In Siria si è combattuta, fra le tante, anche una guerra per procura fra gli israeliani e gli iraniani. Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu la priorità strategica era impedire che le milizie sciite guidate dai Guardiani della rivoluzione aprissero un nuovo fronte alle porte di Israele. Dal 2013 l'aviazione israeliana ha condotto oltre cento raid contro convogli e installazioni militari «iraniane», abbattuto droni, distrutto postazioni anti-aeree fin nel centro della Siria. Lo scontro è diventato aperto nelle ultime settimane, quando le truppe di Assad hanno ripreso le province di Daraa e Quneitra e si sono affacciate davanti alle Alture del Golan.
Si è verificata una situazione anomala e pericolosa. Parte del Golan è stata conquistata nel 1967 e annessa da Israele nel 1981. Nel 1974, con la mediazione di Henry Kissinger, era stata istituita una fascia demilitarizzata, sorvegliata dai Caschi Blu. Nel 2014 però i combattenti jihadisti di Al-Nusra avevano cacciato i militari dell'Onu. Così, per la prima volta da oltre 40 anni, soldati siriani e israeliani si sono trovati faccia a faccia, senza più il cuscinetto delle Nazioni Unite. Non solo. Secondo i servizi d'Intelligence israeliani fra le truppe regolari si erano «mimetizzati» i miliziani sciiti guidati dell'Iran. Una situazione che poteva condurre a una massiccia campagna aerea, con il rischio di una guerra aperta.
Qui è intervenuta la mediazione di Putin. Il leader russo ha incontrato dodici volte Netanyahu in meno di tre anni e ha costruito un rapporto di fiducia. Nella sua visione la Russia non è semplicemente il protettore di Siria e Iran, dell'asse sciita, ma una potenza euroasiatica sopra le parti. Alla fine Netanyahu ha concesso di «non avere problemi con Assad», purché gli iraniani si ritirassero. In segreto sono stati organizzati colloqui a Soci, con la regia dell'inviato speciale
per il Medio Oriente Alexander Lavrentiev. Il quale ha annunciato l'intesa. «La presenza di forze iraniane in Siria è legittima - ha precisato - ma noi abbiamo chiesto se era necessaria vicino al confine con Israele e loro hanno risposto di no». Un modo diplomatico per dire che si erano ritirate a «85 chilometri» dalla frontiera.
Era quello che Netanyahu aveva chiesto a Putin lo scorso 9 maggio. I dettagli sono stati definiti dieci giorni fa in trattative che hanno visto la partecipazione anche del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov e il capo di Stato maggiore, generale Valery Gerasimov. Ieri però è emerso anche un altro aspetto, e cioè il dispiegamento della polizia militare russa lungo la fascia demilitarizzata nel Golan, in otto punti di osservazione. Mosca ha precisato che la presenza è «temporanea» e serve «ad accompagnare i Caschi Blu», tanto che ieri hanno effettuato «la loro prima missione di pattugliamento in sei anni», come ha specificato il generale russo Sergei Rudskoi. I punti di osservazione «saranno poi affidati alle forze governative siriane dopo che la situazione si sarà stabilizzata».
In questo modo la Russia ha disinnescato uno dei punti più caldi del Medio Oriente, dove oltretutto restano attive alcune cellule dell'Isis, e si appresta a dettare l'agenda futura della Siria. Il vertice del 16 luglio a Helsinki fra Trump e Putin sembra man mano tradursi in risultati anche sul terreno. Su un altro fronte, per esempio, i curdi dello Ypg hanno avviato colloqui con il regime che dovrebbero portare alla riconsegna dei territori del Nord-Est a Damasco, con il consenso turco e americano. In cambio i curdi otterranno alcune concessioni, come l'esenzione dal servizio militare dei loro combattenti anti-Isis e uno statuto speciale per la lingua curda. Il tutto con la garanzia dello Zar.
(La Stampa, 3 agosto 2018)
Accordo Hamas - Israele?
C'è aria nuova in Palestina. Sembra sia vicino un accordo tra Hamas e Israele. Una svolta. Erano giorni che la possibilità era nell'aria, nonostante gli scontri al confine della Striscia. E sembra proprio sia arrivato il momento.
La lunga contesa di confine tra Israele e Hamas
Netanyahu, scrive Haaretz, ha cancellato in tutta fretta un viaggio in Colombia per seguire da vicino gli avvenimenti.
È la prima volta che fa una cosa del genere. Segno che gli sviluppi del dialogo sottotraccia tra gli israeliani e Hamas hanno sorpreso anche lui.
L'Egitto ha fatto la sua parte, sostenendo e alimentando il dialogo tra avversi.
L'apertura viene dopo mesi di tensione, che iniziano con l'elezione di Gerusalemme a capitale di Israele da parte di Trump.
Iniziativa che innesca manifestazioni alla frontiera israeliana, affrontate con determinazione più che eccessiva dall'IDF (Israel Defense Forces).
Poi è la volta della crisi degli aquiloni e palloncini incendiari, che i palestinesi iniziano a far volare oltreconfine incendiando i campi israeliani.
Un nuovo modo di far guerriglia che ha messo a dura prova l'esercito israeliano, le cui difese si sono dimostrate impotenti contro marchingegni tanto rudimentali.
Certo, si poteva intervenire con determinazione sui lanciatori, ma finora l'esercito israeliano si è rifiutato di farlo.
E mentre si dipanava la crisi dei palloncini/aquiloni, che addirittura minacciava di diventare tempesta (una nuova guerra di Gaza è stata più volte minacciata), evidentemente i negoziati sono andati avanti.
E ciò nonostante non siano mancati episodi che potevano portare a un'escalation.
Per i palestinesi morti durante le incursioni israeliane. E per due operazioni di Hamas oltreconfine: l'uccisione di un soldato israeliano da parte di un cecchino palestinese e l'attacco di un palestinese alla colonia di Adam, che ha causato un morto e due feriti civili.
Le trattative sottotraccia
Ma nonostante tutto, si è continuato a negoziare. E ora sembra che il tempo si sia fatto breve.
Tanto che Timesofisrael annuncia l'arrivo nella Striscia di Gaza di Saleh al-Arouri, uno dei più autorevoli esponenti di Hamas, il quale avrebbe avuto rassicurazioni circa la sua incolumità durante l'inusitata visita.
A margine di questo movimento politico, Haaretz segnala che Israele ha fatto arrivare nella Striscia attrezzature per la costruzione di un impianto di desalinizzazione, in grado di creare 8 bacini d'acqua dolce per far fronte all'emergenza idrica dell'area.
Scrive Yaniv Kubovich su Haaretz: "Nei giorni scorsi alcuni alti funzionari dell'IDF si sono incontrati con un certo numero di interlocutori per consentire la costruzione immediata di ulteriori serbatoi".
"Negli ultimi mesi - aggiunge Kubovich - l'esercito israeliano ha insistito affinché si facesse qualcosa per alleviare la crisi umanitaria a Gaza, in particolare sulla questione dell'acqua".
La violenza scoppiata nella Striscia, infatti, è figlia della grave situazione umanitaria in cui versa la popolazione, come da tempo il Comando dell'IDF cerca di spiegare ai leader politici israeliani.
Questo passo fa intendere come per la prima volta da anni Israele sembra voglia affrontare la criticità di Gaza in modo diverso dal passato.
E, allo stesso tempo, che il dialogo sottotraccia tra Hamas e Israele ha assunto contorni ben definiti, con risultati altrettanto definiti.
Certo, non si può dar per scontato nulla nella magmatica situazione israelo-palestinese. E tutto può saltare. Ma i segni di uno sviluppo positivo del dialogo sono evidenti.
Sviluppi tutti da scoprire
Difficile dire cosa comporterà tutto questo. Se cioè si possa arrivare a qualcosa di più ampio di una tregua concordata e duratura.
Se cioè Hamas accetterà lo Stato Israeliano, in modi e forme da definire, e se Tel Aviv toglierà all'organizzazione palestinese l'etichetta di terrorista (e se accetterà uno Stato palestinese. ma ciò al momento più che difficile). Che poi sono i nodi cruciali di questa lunga contesa.
Né si può prevedere che conseguenza possa portare un'eventuale conciliazione Hamas - Israele nel complesso ambito palestinese, dato che i rapporti tra l'autorità nazionale palestinese che governa la Cisgiordania e Hamas sono sempre stati problematici.
Resta l'attesa per la possibile svolta. Che coincide temporalmente con la fine delle operazioni dell'esercito di Damasco nel Sud della Siria. E non sembra un caso.
(piccole note, 2 agosto 2018)
Corbyn e l'antisemitismo, basteranno le (goffe) scuse?
La sinistra britannica
di Matteo Perslvale
LONDRA - Quando, l'altro giorno, Jeremy Corbyn si era finalmente scusato, dopo mesi, per le ripetute accuse di aver quantomeno sottovalutato tendenze antisemite all'interno del partito laburista (se non proprio di aver favorito questo clima), gli osservatori più attenti avevano avvertito l'imminente arrivo di nuove rivelazioni. Il leader laburista insomma avrebbe cercato di chiudere la questione scusandosi. Non è bastato perché proprio ieri affollavano le prime pagine dei giornali altre notizie pessime per Corbyn, che indicano come non siano finiti i suoi problemi, tra le accuse di antisemitismo, e il rischio addirittura di una fuoriuscita di parlamentari laburisti di religione ebraica.
Si è infatti scoperto che otto anni fa Corbyn a una manifestazione davanti all'ambasciata londinese dello Stato ebraico paragonò la situazione di Gaza all'assedio nazista di Stalingrado durante la seconda guerra mondiale. E un filmato del 2012 mostra Corbyn che, intervistato dalla tv di Stato iraniana, getta dubbi sulla reale appartenenza a Hamas di 1000 palestinesi liberati da Israele in uno scambio di prigionieri (i 1000 detenuti erano stati condannati, in totale, per la morte di 600 israeliani). Joan Ryan, deputata laburista, ha chiesto immediatamente l'apertura di un'inchiesta parlamentare. Sono serviti a poco i distinguo del portavoce del partito laburista che ha cercato di spiegare come «Jeremy non voleva supportare le azioni dei prigionieri o dare a esse qualche tipo di imprimatur di legittimità, difendeva semplicemente i loro diritti secondo il diritto internazionale». Era d'altronde ancora freschissimo lo sforzo per limitare i danni dopo che Peter Willsman, un alleato di Corbyn, aveva pensato bene di difendere il leader contrattaccando e prendendosela con presunti «fanatici pro Trump» di religione ebraica.
Ora è chiaro che da una parte Corbyn non poteva controllare ogni volantino distribuito durante i suoi comizi. Ma certo che se il comizio avviene durante la giornata della Memoria (nel 2010) e nel volantino si sostengono odiose tesi su presunte falsificazioni storiche dell'Olocausto, non può non esplodere nuovamente la polemica. Basteranno nuove scuse? Improbabile.
(Corriere della Sera, 3 agosto 2018)
Israele, spie spiazzate dall'offerta di Trump a Rouhani
I servizi diplomatici e di intelligence israeliani sono rimasti "stupefatti per due giorni", dopo che Trump ha annunciato la sua disponibilità a incontrare Rouhani senza precondizioni prestabilite.
di Matteo Orlando
In Israele l'offerta del presidente Donald Trump di tenere colloqui con il leader iraniano Hassan Rouhani ha colto di sorpresa la comunità dei servizi segreti.
Secondo il sito di studi israeliano Debkafile, i servizi diplomatici e di intelligence israeliani sono rimasti "stupefatti per due giorni", dopo che Trump ha annunciato la sua disponibilità a incontrare Rouhani senza precondizioni prestabilite.
"Gli occhi e le orecchie della diplomazia e dell'intelligence di Israele non hanno riferito nulla su ciò che stava succedendo, perché davano per scontato che l'amministrazione Trump non accettasse un'iniziativa di portata così vasta senza far sapere a Gerusalemme", hanno scritto su Debkafile.
Sembra che emissari degli Stati Uniti e dell'Iran abbiano tenuto colloqui esplorativi, dall'inizio di giugno scorso, presso degli uffici governativi in Oman, senza che Israele ne sapesse nulla. Tra i "dialoganti" ci sarebbero stati il ministro degli esteri omanita Yusuf bin Alawi bin Abdullah e il ministro degli Esteri iraniano Muhamed Javad Zarif.
Questa disponibilità di Trump e questi incontri segreti hanno preoccupato l'Israele di Benjamin Netanyahu ed hanno fatto sollevare una serie di domande, la più importante delle quali è se l'amministrazione Trump abbia veramente cambiato rotta sull'Iran, tenendo all'oscuro dei mutamenti Israele.
Il presidente Donald Trump sull'Iran il 31 luglio aveva dichiarato: "Ho la sensazione che ci parleranno presto. E forse no, e va bene anche così". Il 7 giugno lo stesso Trump aveva commentato: "L'Iran è un posto diverso rispetto a due mesi fa, e vedremo cosa accadrà. E forse, alla fine, qualcosa accadrà con l'Iran".
Non si tratta di commenti privi di significato, dal momento che le dichiarazioni di Trump spesso innescano, quanto meno, reazioni mediatiche.
Un anonimo funzionario israeliano ha dichiarato al Debkafile che "anziani funzionari statunitensi hanno riferito ad Israele che non c'è alcun cambiamento nella dura politica americana contro l'Iran".
Tuttavia il semplice fatto che Trump sia disposto a sedersi con Rouhani è di per sé un cambiamento nella politica che interessa sia il Medio Oriente che il mondo intero. Ma è anche vero che l'inclinazione di Trump all'incontro con gli avversari dell'America, in particolare la Corea del Nord (Kim Jong Un a Singapore) e la Russia (Vladimir Putin a Helsinki), non ha comportato alcuna revoca delle sanzioni, tanto meno un cambiamento nella politica di Washington.
(il Giornale, 2 agosto 2018)
L'orologio dell'eroe Eli Cohen
"C'era grande eccitazione, perché è essenzialmente l'unica cosa di papà che è tornata, non abbiamo nient'altro oltre a questo orologio". A parlare la figlia della famosa spia israeliana Eli Cohen, Sofi Ben-Dor, dopo il ritrovamento dell'orologio appartenuto al padre, ucciso in Siria nel 1965. Le ricerche sono andate avanti per 18 mesi e sono costate al Mossaci, il servizio segreto israeliano di cui Cohen è stato un indimenticato agente, parecchie risorse ma per Israele l'orologio ha grande valore simbolico. In Israele Cohen viene considerato un eroe nazionale, oltre che, come scrive il New York Times, protagonista di "uno dei più grossi successi e insuccessi di sempre del Mossaci": un successo per le operazioni di spionaggio israeliane degli anni Sessanta, quando lo Stato di Israele esisteva da pochi anni e i vicini stati arabi contavano ancora di poterlo battere in un conflitto armato, e quindi di interrompere il flusso di ebrei in una terra che per secoli era appartenuta alla popolazione araba locale. Un insuccesso perché i tentativi fatti dal Mossad per recuperare il suo corpo stanno fallendo da 53 anni. Cohen, egiziano di origine ebraica, si trasferì in Israele nel 1957. Tre anni dopo iniziò la sua carriera nei servizi segreti e gli fu assegnata l'identità fittizia di un ricco uomo d'affari siriano di ritorno dall'Argentina. Aveva l'obiettivo di infiltrarsi negli ambienti dei funzionari siriani e ottenere informazioni militari e di politica interna. Ci riuscì, e continuò a riuscirci per anni: si pensa che la rapida vittoria di Israele contro la coalizione di Stati arabi nella guerra dei Sei giorni del 1967 si debba in parte alle informazioni raccolte da Cohen sulla Siria.
La sua fortuna finì nel 1964, il giorno in cui una sua trasmissione di dati in codice morse disturbò il segnale della radio del capo dell'esercito siriano. Cohen fu arrestato, interrogato, torturato, processato e condannato a morte. Nonostante Israele si fosse offerto di pagare un grosso riscatto, il 19 maggio 1965 fu impiccato a Damasco. Da allora non si sa più nulla del suo corpo, tranne che è stato seppellito e disseppellito diverse volte, in posti diversi: mentre la Siria rifiutava tutte le richieste per il suo rimpatrio, Israele organizzava missioni segrete di recupero. Gli ultimi 18 mesi di una di queste missioni, attivata 14 anni fa, sono stati impiegati per cercare di recuperare il suo orologio, che nel frattempo era finito nelle mani di un'altra persona. Non ci sono molti dettagli su come sia stato condotto il recupero, e si sa solo che i servizi segreti si sono imbattuti nel nuovo proprietario dell'orologio nel corso di un'operazione più vasta.
Il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha detto che l'orologio faceva parte dell'immagine del personaggio fittizio interpretato da Eli Cohen quando era sotto copertura, e che lui lo indossò "fino al giorno in cui fu catturato". Un così grande dispiego di forze per ottenere un orologio, per Yossi Cohen, è motivato dalla volontà di "far tornare in Israele un ricordo appartenuto a un grande combattente che ha dato un grande contributo alla sicurezza dello Stato". Nadia Cohen, vedova della spia israeliana, ha detto alla radio dell'esercito ai primi di luglio che "pochi mesi fa, il Mossad ha condiviso con noi la notizia che i suoi agenti avevano rintracciato l'orologio, che era in vendita. Non sappiamo dove, in quale luogo, in quale paese. E naturalmente il Mossad lo ha comprato ed ha fatto tutti i test per assicurarsi che fosse l'orologio giusto". "Ho deciso che l'orologio sarebbe rimasto al Mossad. Mi sentivo come se fosse parte del suo corpo, che un po' della sua pelle e un po' del suo sangue fossero in quell'orologio", ha aggiunto. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha elogiato il Mossad per "l'operazione determinata e coraggiosa, il cui unico obiettivo era quello di far tornare in Israele un ricordo di un grande combattente che contribuì in modo significativo alla sicurezza dello Stato".
(Pagine Ebraiche, agosto 2018)
Che cosa succede nello Stretto di Hormuz?
I pasdaran iraniani al servizio dell'ayatollah Ali Khamenei si starebbero preparando a un'esercitazione militare nel Golfo Persico. Ma un blocco dello Stretto innescherebbe immediatamente una risposta internazionale.
di Rolla Scolari
Le Guardie della Rivoluzione, i pasdaran iraniani al servizio della Guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, si starebbero preparando a un'esercitazione militare nel Golfo Persico. Secondo fonti ufficiali americane menzionate dall'emittente CNN, questo potrebbe accadere già nei prossimi giorni. Da mesi, politici e militari iraniani sollevano l'ipotesi di una chiusura dello strategico Stretto di Hormuz, per contrastare la promessa fatta dal presidente Donald Trump di sanzionare tutti quei paesi che continueranno ad acquistare greggio da Teheran. L'America a maggio si è infatti ritirata dall'accordo sul nucleare, firmato nel 2015 da diversi membri della comunità internazionale e dall'Iran. Quell'intesa ha messo fine ad anni di misure economiche nei confronti del paese, ma oggi Washington ne studia di nuove. Così, già a marzo il presidente iraniano Hassan Rouhani ha minacciato in caso di sanzioni un blocco dello stretto di Hormuz. Attraverso quei pochi chilometri di mare che separano l'Iran dalla Penisola arabica, e collegano il Golfo dell'Oman al Golfo Persico, passano milioni di barili di greggio al giorno. Nei mesi passati, i vertici delle Guardie della Rivoluzione hanno fatto minacce simili a quelle di Rouhani: se all'Iran non è permesso vendere il proprio greggio, non potranno farlo neppure gli altri paesi. E in questo caso, gli altri paesi sono quei potentati sunniti del Golfo, alleati dell'America e in perpetuo contrasto politico con il rivale regionale per eccellenza, l'Iran sciita.
La notizia di possibili esercitazioni militari iraniane capaci di bloccare la navigazione in quelle acque arriva pochi giorni dopo la dichiarazione di Donald Trump di essere pronto a incontrare i leader iraniani "senza precondizioni". Le parole del presidente americano sono state poco dopo rettificate dal segretario di stato Mike Pompeo: "Se gli iraniani mostreranno impegno a portare a termine cambiamenti fondamentali nel trattamento della popolazione, nella riduzione del loro atteggiamento maligno, nella volontà di aderire a un trattato nucleare che realmente blocchi la proliferazione, allora il presidente sarebbe pronto a sedersi e avere con loro una conversazione".
Per ora, la strategia americana resta quella annunciata da Brian Hook, del dipartimento di stato: "L'obiettivo degli Stati Uniti è quello di aumentare le pressioni sul regime iraniano riducendo a zero le rendite petrolifere". Il presidente Trump ha chiesto anche all'alleato saudita di aumentare la produzione di petrolio per contrastare la riduzione del greggio iraniano sul mercato internazionale. Con le nuove sanzioni americane imminenti, gli europei tentano in questi settimane di persuadere l'Iran a restare all'interno del trattato del 2015, ma per ora mancano proposte di negoziato concrete.
Dall'altra parte, l'Iran va avanti con le minacce sulla chiusura dello Stretto, come ha già fatto in passato, anche se per molti analisti le dichiarazioni di politici e militari non si concretizzeranno: attraverso lo Stretto torna verso l'Iran anche il petrolio raffinato che serve a un paese in questo momento attraversato da quotidiane manifestazioni contro il regime per la difficile situazione economica e il crollo della moneta nazionale.
Come spiegava già nel 2010 Yoel Guzansky in un articolo per l'Institute for National Security Studies dell'università di Tel Aviv, con la minaccia di chiusura di quelle acque l'Iran vuole scoraggiare la comunità internazionale dall'imposizione di misure economiche. La sola minaccia di un blocco, infatti, rischia di avere un impatto sul prezzo del petrolio a livello mondiale. Lo Stretto di Hormuz è il più importante snodo per il traffico di petrolio via mare. Secondo i dati della U.S. Energy Information Administration, agenzia indipendente di statistiche del Dipartimento per l'Energia americano, 18,5 milioni di barili al giorno passano per Hormuz, oltre il 30 per cento del traffico di greggio via mare mondiale. L'80 per cento del petrolio che transita per lo Stretto è diretto sui mercati asiatici di Cina, Giappone, India, Corea del Sud, Singapore. Una importante informazione fornita sempre dalla Energy Information Administration è che al momento "la maggior parte delle opzioni per aggirare Hormuz non è operativa".
Nel punto più stretto, la costa dell'Oman e quella dell'Iran distano soltanto 33 chilometri. Le petroliere viaggiano all'interno di due "corsie" di 3,2 chilometri, in entrata e in uscita. A vigilare su questa strategica rotta commerciale, c'è tra gli altri la Quinta Flotta americana, con base in Bahrein. Un blocco dello Stretto innescherebbe immediatamente una risposta internazionale perché, come ha ricordato il segretario alla Difesa americano James Mattis, "l'economia mondiale dipende dal rifornimento energetico che transita fuori da lì". Secondo il capitano William Urban, un portavoce del CENTCOM americano, ci sarebbe in queste ore nel Golfo Persico e in quello dell'Oman un aumento delle operazioni navali iraniane.
"Se l'Iran scegliesse di chiudere militarmente lo Stretto di Hormuz, gli Stati Uniti e gli alleati del Golfo sarebbero in grado in pochi giorni di riaprirlo", ha spiegato l'ammiraglio in pensione James Stavridis all'emittente CNBC. La forza navale americana è superiore a quella iraniana, anche se negli anni Teheran ha sviluppato quella che l'International Crisis Group ha definito una "forma di guerriglia marittima", ovvero l'utilizzo di piccole e veloci imbarcazioni per infastidire e provocare la marina degli Stati Uniti. Un qualsiasi tipo di scontro navale in quelle acque rappresenterebbe un raro confronto diretto tra America e Iran, che nella regione si contrappongono solitamente attraverso il sostegno dei rispettivi alleati. Nel 1988, dopo che una fregata americana fu colpita da una mina navale posta nel Golfo dall'Iran, l'America nell'operazione militare Praying Mantis danneggiò gran parte delle forze navali di Teheran.
(Il Foglio, 2 agosto 2018)
L'Iran annuncia la strategia per salvarsi dalle sanzioni americane
Il vicepresidente iraniano Eshaq Jahangiri ha fatto sapere che il governo ha iniziato ad implementare una strategia di "abile resistenza economica", che mira a fronteggiare le conseguenze delle sanzioni statunitensi.
In un'intervista con Sputnik, Seyed Hossein Naghavi-Hosseini, presidente della commissione speciale sul piano d'azione globale comune per il programma nucleare e portavoce della commissione per la sicurezza nazionale e la politica estera dell'Assemblea Consultiva Islamica (Parlamento dell'Iran) e Hoshayr Rostami, analista indipendente ed economista, direttore del dipartimento di Finanza della sede iraniana del Canadian Institute of Economics, hanno spiegato in cosa potrebbe essere innovativa ed "abile" la strategia rispetto agli altri progetti di Teheran.
Naghavi-Hosseini ha detto che uno dei punti della strategia economica della resistenza abile sarà la chiusura dello Stretto di Hormuz per le petroliere americane:
"L'Iran ha accesso al Golfo Persico, allo Stretto di Hormuz e al Golfo di Oman. Contraddice la logica secondo cui gli altri Paesi della regione possano vendere il petrolio e l'Iran no. La strategia dell'Iran consiste in questo: o tutti vendono petrolio, o nessuno. Gli americani sono consapevoli che l'Iran è in grado di fare questo passo."
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Ha inoltre notato che l'Iran, grazie alle sue ricche riserve di petrolio e gas, può essere una "pedina forte" in grado di sviluppare una partnership con le più grandi economie del mondo. Secondo Naghavi-Hosseinii, ci sono molti altri partner economici nel mondo, come il sud-est asiatico, l'America Latina, l'India e l'Africa, con cui "l'Iran può facilmente collaborare."
Hoshayr Rostami crede che la posizione geostrategica dell'Iran disponga di vantaggi che gli permetteranno di resistere agli Stati Uniti. L'esperto vede due possibili modi di realizzare la strategia "Abile resistenza economica". Prima di tutto la leadership iraniana deve scommettere sulle entrate non derivanti dalle risorse energetiche, ovvero sul gettito fiscale di altri settori, dal momento che non rientra nelle sanzioni, "Dobbiamo concentrarci sul gettito fiscale, perché le sanzioni non lo colpisce. In primo luogo occorre trovare nuove fonti di profitto per realizzare il programma di resistenza economica, perché al momento l'economia iraniana dipende dal petrolio." Inoltre ha notato che nell'ultimo anno gli introiti derivanti dalle tasse di altre attività hanno superato i profitti del petrolio.
In secondo luogo occorre razionalizzare la spesa pubblica, afferma l'economista.
"I costi attuali e la spesa pubblica sono molto alti. Queste spese devono essere ristrutturate", spiega l'esperto.
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In risposta alle corrispondenti dichiarazioni di Trump per ridurre a zero l'export petrolifero iraniano, Teheran potrebbe mettere pressione sulle grandi imprese che lavorano con gli Stati Uniti, afferma l'economista. Secondo lui, con queste dichiarazioni Trump sta cercando di portare in Iran il caos economico, ma non riuscirà ad annullare totalmente le esportazioni di petrolio iraniano:
"Facendo queste dichiarazioni, Trump cerca di esercitare pressione psicologica e creare il caos economico in Iran."
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In passato ci sono stati casi in cui abbiamo scambiato il petrolio per il cibo in Iraq. Conformemente alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Il fatto che gli Stati Uniti vogliano ridurre da soli le esportazioni di petrolio iraniano a zero è un compito molto difficile e pressoché impossibile. Occorre considerare la posizione geopolitica dell'Iran. Ad esempio le parole del presidente iraniano, secondo cui se non possiamo vendere il petrolio, allora gli altri Paesi incontreranno difficoltà, indicando lo Stretto di Hormuz. Tecnicamente è difficile per l'Iran. Ma se le sanzioni statunitensi ridurranno le nostre entrate, allora dovremmo compensare il danno causato dalle sanzioni sfruttando l'economia".
(Sputnik Italia, 2 agosto 2018)
Così la startup premiata dal Quirinale è dovuta «emigrare» in Israele
di Enrico Marro
Ha ricevuto personalmente dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il premio speciale Leonardo start-up, ma per trovare finanziamenti ha dovuto abbandonare l'Italia trasferendo l'intera azienda in Israele. Antonello Forgione è un medico di chirurgia generale e oncologia mininvasiva dell'ospedale Niguarda di Milano: nel 2007 ha iniziato a progettare MILANO (Minimal Invasive Light Automatic Natural Orifice), un robot chirurgico compatto che permette di operare i pazienti senza lasciare cicatrici.
La fortuna del robot chirurgo si chiama Israele
«Per cercare di valorizzare questa tecnologia nel 2010 ho frequentato il Global Executive Mba della Bocconi, dove ho incontrato Avi Aliman, un imprenditore israeliano che è diventato prima amico e poi socio». Nel 2012, assieme ad altri due ingegneri, Forgione e Aliman fondano ValueBiotech, che ottiene dallo Stato di Israele finanziamenti per 1,1 milioni di dollari «proprio mentre dall'Italia avevamo ricevuto la notizia che erano terminati i fondi stanziati per supportare le startup con il programma Smart&Start». Altri finanziamenti arrivano da un investitore cinese e dal Giappone, dopo l'esame del business plan e dei progetti da parte di ben sei ingegneri.
Grazie ai fondi dello Stato israeliano, oggi ValueBiotech è realtà
La startup è stata trasferita in un parco tecnologico vicino a Tel Aviv, con l'obiettivo di arrivare entro il 2020 a eseguire interventi non più a livello sperimentale ma in strutture ospedaliere reali, con pazienti veri. «Il robot MILANO permetterà ai chirurghi di entrare nelle cavità del corpo umano laddove le malattie si sono sviluppate - sottolinea il medico italiano - quindi rimuoverle e, al termine dell'intervento, non lasciare cicatrici visibili, dolorose e suscettibili di complicazioni. Se non avessimo avuto una vocazione internazionale nel Dna, credo che il progetto si sarebbe arenato pesantemente fino a fallire».
Tel Aviv
Quanto a Tel Aviv, «il territorio è pieno di aziende innovative e di imprenditori - spiega Forgione - non è l'Eldorado ma è nettamente superiore all'Italia perché fornisce un sostegno reale, non fatto di molte parole e pochi fatti. Lo Stato israeliano tra l'altro è presente in azienda e monitora l'utilizzo dei suoi finanziamenti, quindi non si tratta di soldi buttati, mentre nel nostro Paese i fondi sono pochi e maldistribuiti, quindi sostanzialmente inutili». In Israele il panorama imprenditoriale e tecnologico è così dinamico che è persino difficile trovare manodopera qualificata, conclude Forgione. Anche se un ingegnere guadagna il quadruplo che in Italia.
(Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2018)
Smantellare la UNRWA significa smantellare la questione palestinese
Lo strettissimo nesso tra la sopravvivenza della UNRWA e della cosiddetta "causa palestinese".
Da quando abbiamo avviato la nostra campagna per la chiusura della UNRWA sono cambiate diverse cose. In primo luogo siamo riusciti a portare all'attenzione dell'uomo della strada questa vera e propria invenzione che non rispetta nessuno dei dettami del Diritto Internazionale in merito alla gestione dei profughi. In secondo luogo abbiamo finalmente aperto un dibattito su quello che la UNRWA è realmente, cioè una organizzazione delle Nazioni Unite che opera completamente al di fuori della carta dell'Onu (ma abbiamo ottenuto tanto, per esempio la pubblicazione dei bilanci e della lista dei donatori) oltre ad incitare palesemente all'odio, quindi tutto meno che una agenzia umanitaria.
Purtroppo nel corso degli anni alcune organizzazioni che inizialmente avevano aderito alla campagna, contribuendo anche a darle risalto, non se la sono sentita di proseguire, vuoi per pressioni esterne (forti) vuoi per la paura di danneggiare la popolazione palestinese bisognosa di aiuti, in particolare quella di Gaza. E così siamo rimasti noi e pochi altri con il cerino in mano a fare la figura dei cattivi....
(Rights Reporters, 2 agosto 2018)
Biella - Dopo 49 anni, celebrato un matrimonio alla Sinagoga del Piazzo
BIELLA - «E Isacco introdusse Rebecca nella tenda di Sara sua madre, si unì a lei, sì che ella gli divenne moglie e la amò». Da questo passo della Genesi (24:67) prende origine la consuetudine ebraica di celebrare i matrimoni sotto alla chuppah, un baldacchino sotto il quale si riuniscono gli sposi e che simboleggia l'unione e la coabitazione di uomo e donna nel vincolo nuziale. Dopo 49 anni, lo scorso 29 luglio, la Sinagoga del Piazzo, il quartiere medievale di Biella, ha festeggiato nuovamente l'unione di due sposi, Alberto Calò e Angela Ferrari Calò. L'ultimo matrimonio, quello della biellese Eva Coen Sacerdotti Scialtiel, era stato celebrato nel 1969, dal Rabbino Sergio Sierra della Comunità di Torino.
Gli attuali sposi, Alberto e Angela, seppur residenti per lo più in Israele, hanno scelto di sposarsi nella Sinagoga del Piazzo con una scelta dettata dall'affetto, la propria Comunità - di cui lo sposo è consigliere - e dal legame che i Calò mantengono con Biella. Alberto Calò, adolescente, fece il suo bar mitzvah (maggiorità religiosa) nella Sinagoga del Piazzo, celebrato da suo nonno, Rav Gustavo Calò, ultimo rabbino capo della Comunità ebraica di Vercelli con Biella nell'immediato dopoguerra, dopo la Shoah e la relativa dispersione degli ebrei dalle nostre province. Rav Calò, uomo colto, già Rabbino di Verona nel 1907, di Corfù fino al 1918, di Bengasi, di Pitigliano fino al 1924, di Mantova dal 1927, fu nominato rabbino di Vercelli nel 1946.
Insegnante presso la scuola ebraica di Torino, fu l'ultimo Rabbino della nostra Comunità dal 1946 fino alla sua morte nel 1956. Espressa la volontà degli sposi di celebrare la loro unione in una Sinagoga tanto preziosa quanto famigliare, la sala di preghiera e la relativa chuppah sono state predisposte adeguatamente per ospitare gli sposi, i Rabbini e i numerosi ospiti e parenti. La Sinagoga del Piazzo è stata restaurata nel corso degli ultimi dieci anni grazie alla volontà dell'attuale amministrazione della Comunità ebraica di Vercelli che, avvalendosi di qualificate collaborazioni professionali e con contributi economici da parte di Fondazioni bancarie e enti esterni, ha restituito al Piemonte (la regione italiana più ricca di Sinagoghe) un vero gioiello del Settecento ebraico biellese.
Visitata da ebrei e non, da appassionati, cultori e storici, la Sinagoga del Piazzo è un luogo in cui si scopre la cultura ebraica della diaspora italiana pre-emancipazione, dove si respira la storia di un ambiente famigliare ed intimo grazie alle sue ridotte dimensioni, ed è testimonianza delle antiche famiglie ebraiche biellesi che hanno realizzato il suo allestimento settecentesco.
Il matrimonio dei coniugi Calò si è configurato come una emozionante cerimonia presieduta da Rav Elia Enrico Richetti, Rabbino di riferimento della Comunità Ebraica di Vercelli, con la presenza di Rav Alberto Moshe Somekh, al cospetto di invitati provenienti non solo dall'Italia ma anche da Israele, accorsi per portare il loro augurio agli sposi: Mazal Tov. Buona Fortuna.
(News Biella, 2 agosto 2018)
Israele-Colombia: Netanyahu cancella la visita
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha cancellato la visita in Colombia a causa delle condizioni di sicurezza nel sud dello Stato ebraico. Lo riferisce oggi un comunicato del capo dell'esecutivo che soltanto quattro giorni fa aveva annunciato il viaggio di Netanyahu in Sudamerica. "A causa della situazione nel sud, il primo ministro Netanyahu ha deciso di restare in Israele la prossima settimana e quindi ha cancellato il suo viaggio in Colombia", riferisce il comunicato. Il primo ministro israeliano avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia di insediamento del neo-eletto presidente colombiano, Ivan Duque, prevista il 7 agosto.
"E' la prima volta che Netanyahu cancella un viaggio all'estero negli ultimi anni per la situazione della sicurezza nel paese", ha sottolineato il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Da settimane le Forze di difesa israeliane sono in costante stato di allerta nel sud del paese a causa delle tensioni con il movimento palestinese Hamas, che governa la Striscia di Gaza. Dall'enclave, infatti, vengono spesso lanciati palloni incendiari e si verificano anche scontri tra manifestanti palestinesi e militari israeliani lungo la linea di demarcazione fra Gaza e Israele.
(Agenzia Nova, 2 agosto 2018)
Che cos'è "la resistenza che continua" e che cos'è l'apartheid?
Alcuni episodi degli ultimi giorni ci spiegano che cosa fanno i "resistenti" e perché i militari israeliani devono contrastarli.
di Ugo Volli
Resistenza palestinese e apartheid israeliana. Un po' distratti dalla fotogenica Ahed Tamimi (così bionda, così poco mediorientale, così poco araba, - lasciatemelo dire - così ariana, da simboleggiare senza volere il razzismo implicito e incosciente dei filopalestinisti europei), i media si sono dimenticati di che cosa significa la "resistenza" che Tamimi ha proclamato di voler "continuare" . Ma in realtà non ne hanno mai voluto parlare, perché è assai più comodo far passare il meme della ragazzina che insulta e schiaffeggia i soldati assai più grossi di lei, piuttosto che capire perché i soldati non si sono difesi dalle sue molestie e che cosa ci stanno a fare in Giudea e Samaria.
I soldati non si sono difesi perché vincolati a rigorose regole di ingaggio che impediscono loro di usare la forza contro i civili che non minaccino direttamente la loro incolumità. Quanto alle ragioni per cui stanno a subire gli sberleffi e gli attacchi dei facinorosi, vale la pena di fare un breve riassunto.
Per chi non ha memoria, ricordiamo dunque che giovedì scorso, per la festa ebraica dell'amore, Yotam Ovadia, un uomo che stava preparando una cena romantica per la moglie in un sobborgo di Gerusalemme è stato ucciso a tradimento con un coltello da Mohammed Yousef, un terrorista che aveva la stessa età della Tamimi, diciassette anni e che non l'aveva mai visto in vita sua. Il giorno dopo settemila persone hanno "manifestato" a Gaza, sotto la direzione di Hamas, per esercitare il loro "diritto" di sfondare il confine con Israele e spargersi nella comunità vicine a ripetere il gesto di Yousef. Il ministero della salute di Gaza, che in realtà funge da organo propagandistico di Hamas, aveva attribuito due morti alle azioni di difesa dell'esercito israeliano, ma di fronte alla smentita di Israele ha dovuto lasciar cadere l'accusa, ammettendo che l'esplosione che sveva ucciso i due era stata "accidentale", frutto cioè della loro malaccorta preparazione di una bomba.
Sempre da Gaza sono partiti ordigni incendiari che hanno prodotto dieci incendi in territorio israeliano venerdì, sei sabato, otto domenica. Non è affatto un record, è la media di tutti i giorni: una devastazione ecologica impressionante, cui è stata dedicata nella sede dell'Onu addirittura una mostra di foto, ma contro cui nessuno protesta, in particolare non i "progressisti" che attribuiscono a Trump ogni sorta di nefandezza ecologica. Come del resto non facevano per il terrorismo compiuto con gli automezzi, fino a che la tecnica non si è estesa in Europa: ammazzare gli ebrei oggi, si sa, non è particolarmente grave anche per coloro che ostentano sdegno per Auschwitz. Ma anche per i fuochi la moda è contagiosa, sembra che i terribili roghi attorno ad Atene siano stati volontari, forse frutto di terrorismo.
E infine sabato sera la polizia di frontiera israeliana ha pescato due ragazzi - sempre dell'età della Tamimi, 17 e 18 anni, mentre cercavano di contrabbandare in Israele due mitra, saltando la barriera di sicurezza, come aveva fatto Mohammed Yousef, come volevano fare i settemila di Gaza, naturalmente per "continuare la resistenza": quella barriera di sicurezza che l'illuminato sindaco di Napoli De Magistris, magistrato di formazione, ha definito di recente "barriera dell'apartheid". Perché agli occhi di gente come lui, evidentemente, gli ostacoli che rendono difficile l'omicidio degli ebrei, costituiscono "apartheid". Mentre quello che i teenager arabi o chi li mandava volevano fare con quelle armi, immaginiamo che per De Magistris e quelli come lui si chiami "resistenza".
(Progetto Dreyfus, 1 agosto 2018)
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"Fortunata Ahed Tamimi a non essere stata in una prigione dal regime di Assad"
Molti arabi sul web si chiedono retoricamente come mai i mass-media si concentrano tanto sulla vicenda della giovane provocatrice palestinese, anziché sulle immani sofferenze inflitte ogni giorno in altri paesi della regione
"Israele ha rilasciato Ahmed Tamimi in piena salute e senza un graffio", ha scritto su Twitter Yasser Wardh, fotografo e attivista siriano. Non è l'unico. Quando la giovane Tamimi è stata scarcerata, domenica scorsa (dopo aver scontato gli 8 mesi di detenzione patteggiati in un tribunale israeliano per istigazione al terrorismo e reiterate aggressioni a calci pugni insulti e sputi contro soldati israeliani), molti frequentatori dei social network arabi hanno commentato la sua condizione, mettendola a confronto con i prigionieri del regime siriano di Assad e gli innumerevoli prigionieri abusati e maltrattati praticamente in tutti gli altri paesi della regione....
(israele.net, 1 agosto 2018)
La "congiura umanitaria" di Pietromarchi, fascista pentito che salvò centinaia di ebrei
In una biografia l'evoluzione politica del diplomatico. Fedele al Duce, stretto collaboratore di Ciano, all'inizio della guerra rivide molti suoi giudizi. Epurato dopo il '45, poi riabilitato, divenne ambasciatore ad Ankara e Mosca.
di Michele Valensise
I regimi autoritari non si reggono solo su ideologi fanatici o carnefici volenterosi. Alla base del consenso che li puntella ci sono anche dirigenti di apparati e alti funzionari, che oscillano come un pendolo tra dubbi e obbedienza, riserve e illusioni. È tra loro che a volte la fedeltà allo Stato si intreccia malignamente con l'osservanza dei precetti del governo, anche quando questi dovrebbero essere disattesi per illegittimità o denunciati per conclamata illegalità.
Il secolo scorso, che ha visto l'ascesa e la dissoluzione di tante dittature, offre qualche esempio della fatica e dell'ambiguità necessarie per comporre la possibile contraddizione tra valori di fondo e direttive politiche indifendibili o illecite. Nell'Italia fascista, inizialmente il regime si avvalse nei suoi gangli amministrativi di personalità certo allineate con la sua ideologia, ma anche capaci di margini di autonomia intellettuale e di momenti di dignità personale.
Questi dilemmi sembrano segnare la vicenda umana e professionale di uno dei migliori diplomatici italiani di quegli anni, Luca Pietromarchi (1895-1978), nazionalista cattolico, stretto collaboratore di Ciano, responsabile degli Esteri per la Guerra civile in Spagna e poi per l'offensiva nei Balcani. A Ginevra, nei primi anni di carriera, aveva maturato sfiducia per il multilateralismo della Società delle Nazioni e condiviso il programma di Mussolini, fino a falsificare nel maggio 1940 i dati dei danni economici del blocco anglo-francese per l'Italia, per compiacere il Duce e offrirgli pubblicamente una carta a favore dell'entrata in guerra.
Protagonista di incontri e negoziati cruciali, diffidava tuttavia, con insofferenza esplicita, dei tedeschi e della subordinazione politica e militare di Roma a Berlino. Sposato con una donna di origine ebrea, si era riconosciuto nell'avversione del Vaticano alle leggi razziali, intravedendo nella Chiesa cattolica (e nella monarchia) un fattore di stabilità e di pace sociale in antitesi al regime.
All'inizio della guerra, la posizione privilegiata di osservatore del conflitto e delle spietate operazioni naziste contro ebrei, minoranze, oppositori e popolazioni soggiogate dalla occupazione militare tedesca, specie in Croazia, lo indusse a rivedere molti suoi giudizi e pregiudizi. Riconobbe la responsabilità delle gerarchie fasciste nella catastrofica gestione della guerra, in linea con quanto alla vigilia delle ostilità il cognato Bernardo Attolico aveva previsto dall'ambasciata a Berlino con rigore e lungimiranza.
Soprattutto aggirò le direttive governative di collaborazione con i nazisti per il rastrellamento degli ebrei nei Balcani, rifiutando di assistere impassibile ai crimini degli ustascia. Contro gli ordini, Pietromarchi promosse con altri coraggiosi diplomatici e militari italiani (tra cui Blasco Lanza d'Ajeta, Roberto Ducci, Vittorio Castellani), una «congiura umanitaria» che salvò centinaia di innocenti ebrei dalle persecuzioni del Reich e sulla quale negli anni seguenti nulla rivelò, con pudore oggi raro. Costretto in clandestinità dopo l'8 settembre, perché ricercato dai tedeschi, all'indomani della liberazione subì l'epurazione per «aver partecipato alla vita politica del fascismo» e fu poi reintegrato nel servizio diplomatico da Sforza nel 1947, concludendo la sua carriera come ambasciatore ad Ankara e Mosca e scrittore fecondo.
Un nuovo libro, molto ben documentato, dello storico Gianluca Falanga (Storia di un diplomatico, ed. Viella, pp. 436, € 33) ripercorre sconvolgimenti epocali per l'Italia e l'Europa attraverso il profilo e l'evoluzione politica di Luca Pietromarchi, avvalendosi anche di un prezioso diario personale messo ora a disposizione dalla famiglia. Falanga sistematizza particolari inediti e fa riflettere sul ruolo intraprendente della diplomazia del tempo. Ma ancora oggi, in un diverso contesto, il valore aggiunto della diplomazia resta nella sua capacità di proposta e se del caso di critica, non solo di esecuzione. Sicché è bene evitare sia di indebolire questo essenziale strumento super partes di difesa degli interessi nazionali, sia di tollerare un controllo d'altri tempi, puntuale e occhiuto, su eventuali dissonanze con la linea «ufficiale» del momento. Sarebbe sì un cambiamento, ma in peggio.
(La Stampa, 2 agosto 2018)
«Moriamo da ebrei liberi, qui nel Mediterraneo di una morte amichevole»
di Lanfranco Caminiti
Storia di un suicidio. 1938. Le leggi razziali arrivano in Italia, l'ebrea ungherese Eleonore Lindelfeld, in fuga dal Reich, si toglie la vita con i figli al largo della Sicilia.
«l direttore dell'albergo è stato molto gentile - ha esaudito subito la nostra richiesta e chiamato prontamente un pescatore del luogo e poi gli ha parlato per conto nostro. Il pescatore - un uomo anziano o tale sembra, piccolo, ossuto, asciutto, la pelle arsa dal sole di qua, e due occhi incredibilmente azzurri e luminosi, proprio come il mare e il cielo di Taormina - voleva venire lui, per questa "gita in barca". Ma noi abbiamo insistito, faremo da soli. Il direttore ha detto, a remare ci vuole forza e abitudine, si fa tanta più fatica se non si è abituati. Gli avrei voluto dire, quando eravamo ragazzi, remavamo a forza sul Danubio di Budapest, io e mio fratello, e gareggiavamo nei remi delle scuole. E venivano anche da Praga e da Vienna. Ma avrebbe forse intristito lui, e di sicuro anche me. Credo abbia anche trattato a nostro vantaggio - forse il pescatore aveva chiesto una cifra spropositata, o che a lui sembrava tale, e sa che ormai i nostri soldi stanno finendo. Alla fine, gli abbiamo dato una spilla di mamma, è l'ultimo gioiello che ci è rimasto, forse ci ha guadagnato qualcosa anche lui, ma ora è l'ultimo pensiero che ho.
Parlavano in dialetto stretto e non capivamo nulla - ma noi in poche settimane abbiamo imparato ad amare questa sonorità. E il Mediterraneo. E' bello lasciarsi andare a queste voci, quando al mercato vendono il loro pesce e la loro frutta - spesso arrivano fin sotto l'albergo, dove ci sono "i gnuri", e questo l'ho imparato, vuol dire: "i signori". Vorrei restassimo qui per sempre. C'è tanta luce qui - aveva ragione Goethe: «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn / Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht / Kennst du es wohl? Dahin!» ah, com'è ancora bella questa lingua.
Ma ora la so recitare anche in italiano: «Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? / Il mirto è immobile, alto è l'alloro / Lo conosci tu? Laggiù». Il mondo è diventato così oscuro. Ma domani, tutto sarà finito.
L'albergo è bello. Pulito - mamma ha una vera mania per la pulizia, e sentirle dire che gli asciugamani sono perfetti mi calma e mi rallegra il cuore - e accogliente. Ci hanno dato due stanze grandi, comunicanti, in una dormiamo io e Jenö, nell'altra mamma e Renée. Entrambe le stanze hanno una stretta veranda che dà sull'ingresso dell'albergo - due piccole colonne impreziosiscono l'accesso, noi siamo al primo piano - e si affaccia sul mare. Se ci sporgiamo un poco, vediamo anche l'Etna, col suo pennacchio. Abbiamo pensato anche all'Etna, al suo fuoco, alla lava. Ma Renée ne ha terrore, e poi dice che si stancherebbe a salire, così ci ha convinti. D'altronde, ognuno ha anche il diritto di scegliere come morire. Ormai ne parliamo con una tale distanza, come si trattasse di decidere dove andare a teatro stasera - è un epilogo ineluttabile.
In realtà, Renée non ama neanche il mare - o almeno non ama stare sulla spiaggia. Le poche volte che è scesa a Mazzarò o a Isola Bella ha portato sempre con sé l'ombrellino e era vestitissima. Dice che troppo sole le rovinerebbe la pelle - e non ha mai voluto sentire ragioni anche se io e Jenö le abbiamo parlato a lungo delle virtù dell'elioterapia. Non le abbiamo detto che abbiamo partecipato insieme anche a un campo di nudisti in Germania - allora non dovevamo nascondere la nostra circoncisione. Era il tempo della Lebensreform Bewegung, il movimento di riforma della vita, della cultura del corpo nudo, Freikörperkult. Luce e sole. Beh, qui ce n'è proprio tanto di Licht und Sonne. Non gliel'abbiamo detto, non certo perché se ne sarebbe scandalizzata - ma si sarebbe messa a piangere. Una volta è scoppiata a ridere di fronte alle nostre argomentazioni - e poi a piangere convulsamente. Così non ne abbiamo più parlato.
Noi, io e Jenö, speravamo che convincendo Renée lei sarebbe riuscita a spostare mamma dall'albergo, a farla uscire un po'. Ma la giornata di mamma è scandita dai pasti - colazione, pranzo e cena - e da qualche chiacchiera che fa nel pomeriggio con altri ospiti, nella sala da tè; lì c'è una radio, che sta quasi sempre accesa, e mamma ha imparato un motivetto dell'EIAR: «Della radio l'usignol / stamattina ha preso il vol/ l'uccellino della radio ha preso il vol».
Ha voluto che glielo traducessi. Scambia davvero pochissime parole con gli altri ospiti. Credo sia impaurita, che qualcuno possa andare a dire in giro che siamo ebrei. Che ci denuncino. Mussolini parla sempre più insistentemente di ebrei. Quando eravamo a Roma, tra i nostri amici girava voce che anche i fascisti stessero preparando ~ provvedimento sulla razza, e all'università circolava un "manifesto" redatto da docenti universitari. È la fine, anche l'Italia adotterà le leggi razziali.
Mamma parla di più con il personale dell'albergo - quelli che cambiano lenzuola e biancheria o che lavano i corridoi, e puliscono le maniglie, i vetri. Parla con loro come fossero alle sue dipendenze - non so come faccia, non conosce e non capisce una parola d'italiano, ma la sentiamo spiegare come vanno pulite perfettamente le posate, come usare il piumino senza far volare la polvere. Loro la ascoltano pazientemente. Sono tutti molto pazienti, con noi. Tutto è «wunderbar» - come dice mamma. In qualche modo, ora che si va avvicinando la fine, credo stia provando a ricostruire il mondo che amava, prima della Grande guerra, prima che l'Impero finisse. Ancora prima che ci trasferissimo tutti a Berlino.
Jenö è molto depresso. Questo colpo a Roma lo ha proprio prostrato. Era così contento di essere rientrato nel giro, del cinema. Beh, sì, non è che E' tornato carnevale sia proprio un capolavoro, e lui è il primo a saperlo. Una commediola brillante, basata su degli equivoci, con un lieto fine amoroso. Voglio dire, Jenö a Berlino ha lavorato con Carl Sternheim, uno dei maestri dell'espressionismo tedesco. In Die Hose, I pantaloni, c'è anche farina del suo sacco. E fu un successo di pubblico incredibile, non solo della critica. Tanto che poi Sternheim gli affidò anche la riduzione del libro di Zola, Thérèse Raquin, e anche quello fu un successo. Jenö ripeteva sempre quel concetto con cui Sternheim definiva l'espressionismo: «La caratteristica della forma d'espressione che oggi viene chiamata Espressionismo è la seguente: essa non esprime le cose essenziali e rifiuta tutto ciò che è accessorio, il che avviene ogni volta che il sostantivo si presenta senza articolo, senza epiteto, senza attributo e rende la nozione più esatta e più chiara». Lo ripeteva come l'avesse detto lui. Ma dal 1933 a Berlino non si poteva più lavorare, eravamo stati espropriati di ogni cosa e di ogni occasione di lavoro. Anche per Renée, che era un'attrice, si chiusero tutte le porte in faccia. Avevamo combattuto per la Germania, io ero stato anche funzionario della Polizia, a Berlino. Niente, tutto spazzato via. Avevamo tirato avanti per qualche anno, poi iniziammo a temere per la nostra vita. Mamma insistette tanto per tornare a Budapest, e così facemmo. Ma lì erano tutti terrorizzati e chi poteva preparava le valigie. Spendemmo un sacco di soldi, e poi pensammo di passare a Vienna. Ma anche lì i nazisti stavano prendendo il sopravvento e ormai si parlava apertamente di annessione alla Germania. Durammo poco, senza lavoro e continuando a spendere i nostri risparmi e i gioielli di mamma e Renée. Decidemmo di andare a Roma, sperando che l'Italia restasse fuori dalla follia nazista contro gli ebrei. Non andrà così. E per questo che abbiamo deciso di arrivare fino in Sicilia. E finirla.
Credo che a Jenö abbia fatto proprio del male sapere di Veit Harlan, l'attore, hanno anche lavorato insieme. Continua a ripetere, ma era sposato con Dora, un'ebrea. Arrivano notizie che Goebbels lo abbia preso sotto la sua ala protettrice e lo abbia promosso come regista di propaganda del regime - certo, sono scappati tutti verso Hollywood, a chi devono rivolgersi. Pare che stia preparando un film proprio sugli ebrei, forse il titolo sarà Süss l'ebreo. Non si dà pace, Jenö.
Il direttore dell'albergo è proprio gentile. Ha fornito ago e filo a Renée: nella sua carriera nel cinema ha lavorato anche come costumista, sa come fare. Un giorno ha deciso di andare in spiaggia, e noi eravamo contenti. Poi l'abbiamo vista rientrare con dei sassi «Li cucirò nei nostri vestiti, così non torneremo a galla», ha detto. Era agghiacciante, ma in qualche modo ci sembrò un gesto di tenerezza, di attenzione e di cura nei nostri confronti. E così per qualche giorno andava sulla spiaggia di Isola Bella e ne tornava con dei sassi, che nascondeva in una sporta. Adesso, lei è di là che cuce - ha voluto la mia giacca e quella di Jenö.
Scenderemo per la colazione, prenderò caffè e succo d'arancia. «Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn / Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht - Brillano tra le foglie cupe le arance d'oro / Una brezza lieve dal cielo azzurro spira». Amo il tedesco, la mia lingua. Ancora Goethe, certo.
Ma resteremo qui per sempre. In qualche modo, vicino a lui.»
Questa è la storia un po' romanzata - ho spostato qualche data e immaginato qualche scena - di quello che accadde davvero nel 1939 a Eleonore Lindelfeld, 73 anni, e ai suoi tre figli Eugene, Arthur e Renée Kuerschner, ebrei ungheresi da qualche settimana ospiti dell'Hotel Flora a Taormina: la mattina del 2 marzo scendono a Mazzarò, noleggiano una barca a remi e, una volta giunti allargo, insieme si lasciano cadere in acqua. La notizia troverà spazio, il 23 marzo nel Jewish Telegraph Agency, un ciclostilato che dava informazioni su quel che stava accadendo agli ebrei nell'Europa nazi-fascista, e il giorno stesso sul New York Times.
Nella loro camera d'albergo fu trovata questa lettera d'addio: «Caro amico, mia madre, di 73 anni, mio fratello, Eugene, mia sorella, Renée, e io andiamo oggi a morire, volontariamente e forzatamente. Il mare profondo, forse, ci accoglierà in una maniera più amichevole di come hanno fatto i governi dei paesi un po' dappertutto. Ci appesantiremo con delle pietre, così che i nostri corpi non tornino più a galla. La nostra risoluzione risale a sei mesi fa. È stato più facile per noi per la consapevolezza di aver sempre vissuto una vita onorevole e utile, talvolta anche costellata di qualche successo, e questo senza aver mai fatto del male a alcun essere umano. Non lasciamo pendenze in sospeso con nessuno né conti. Non abbiamo mai cercato aiuto da nessuno e non ne abbiamo mai accettato. Gli ultimi mesi a Roma e in particolare le ultime settimane a Taormina sono passate serenamente e pacificamente. Per un posto di addio alla vita abbiamo scelto uno dei luoghi più belli. Ricordo con piacere le ultime ore passate insieme a B. e il piacevole scambio dei nostri ricordi di guerra e di pace. Porgo un cordiale saluto a te e alla tua affascinante moglie. Arthur Kueschner, ex funzionario di Berlino».
I corpi, invece, aggallarono e furono recuperati. E tumulati nel cimitero di Taormina, nella parte acattolica. C'è una lapide, dove è scritto: «Sotto il roseto noi riposiamo, posti vi fummo quando i giorni tristi correan per noi miseri ebrei. Fummo accolti in quest'isola dorata, lasciammo in patria il nostro avvenire. Tremendo è per la madre sceglier la morte per sé e per i figli. In barca tutti e quattro andammo, poi uno dietro l'altro in acqua ci tuffammo. Quando ci ritrovarono, le corde ancora il corpo ci cingevano».
(Il Dubbio, 2 agosto 2018)
Sala Baganza - Vengono anche da Israele per giocare nel torneo di baseball
Il «Fontana» sempre più internazionale. In campo anche i ragazzi di Boston. Stasera il via con la sfilata inaugurale.
di Andrea Ponticelli
SALA BAGANZA (PR) - Nel Sala baseball sono abituati a ricevere centinaia di richieste per partecipare al loro torneo internazionale «Ermes Fontana», al via questa sera con la sfilata inaugurale dal centro sportivo fino alla Rocca, dove si terrà la cerimonia di apertura in stile olimpico.
Ma quando, qualche mese fa, hanno ricevuto una mail da Israele, non hanno potuto fare a meno di strabuzzare gli occhi per la sorpresa e il piacere.
«Addirittura una squadra di Israele che chiedeva di giocare con noi: abbiamo riletto la mail almeno dieci volte. E ovviamente le abbiamo dato subito il benvenuto tra di noi»: fieri e orgogliosi, quelli di Sala, di essere diventati così popolari in tutto il mondo grazie a un torneo che ad ogni edizione diventa sempre più bello e sempre più internazionale.
«Quest'anno abbracceremo addirittura tre continenti: attraverseremo l'oceano ospitando gli Under 15 di Boston, e viaggeremo fino in Asia con i dodicenni di Israele. Certo, le formazioni europee e italiane rimangono la nostra forza e la nostra popolarità, perché senza di loro sarebbe difficile trovare 36 squadre: ma quest'anno siamo troppo felici di poter stringere amicizia con gli israelianiWHAOO! Non capita spesso di sentire qualcosa del genere! (risalto aggiunto) ».
E adesso il sogno continua. A Sala ne hanno tutto il diritto. Sarà anche retorica, ma nel 1985 - anno della prima edizione - era pura fantascienza immaginare di poter ospitare un giorno una squadra americana, figuriamoci una israeliana. Sognare non costa nulla: perché non sperare allora di ospitare un giorno una squadra africana, o una cinese, o una giapponese?
Nell'attesa, immergiamoci da stasera nella magica atmosfera di questo torneo, da vivere godendo fino a domenica notte uno spettacolo incomparabile. Lo crea stasera la cerimonia di apertura (inutile tentare di descriverla, bisogna esserci); lo creano da domani e fino a domenica le partite, specialmente quelle del minibaseball sul campo dei Cipressi al Castellaro, costruito e offerto da Guido Merusi; lo offrirà domenica sera la cerimonia di chiusura all'americana. In generale, sarà spettacolo perché a Sala sanno coniugare la parola amicizia.
(Gazzetta di Parma, 1 agosto 2018)
Iran, Trump apre al dialogo per isolare gli ayatollah
Il presidente: trattiamo. Rohani freddo. Ma il popolo affamato preme (e gioca a favore degli Usa)
di Fiamma Nirenstein
Lo stile Trump, per cui prima viene la faccia feroce, e poi una mano tesa crea una situazione che l'interlocutore non si aspetta, sta ormai diventando un'abitudine, un «pattern»: lo abbiamo visto col Nord Corea, con gli europei e con la Nato, e adesso è la volta dell'Iran. Nella conferenza stampa con il nostro primo ministro Conte ha offerto di incontrarsi, senza rancore, senza precondizioni con la leadership iraniana, perché parlare male non fa, e incontrarsi è una delle sue specialità, da vero businessman, occhi negli occhi. Pochi giorni prima Trump aveva avuto uno scambio di battute aggressivo: annunciava che non avrebbe più sopportato «le parole demenziali di violenza e morte» tipiche della leadership iraniana, e l'Iran si autodefiniva «madre di ogni pace ma anche madre di ogni guerra» sfidandolo al duello finale. Ora Trump ha aperto d'un tratto le finestre. Avviene in articulo mortis, dato che scatta il primo gruppo di sanzioni, il 7 agosto quelle sull'acquisto del denaro e dell'oro, il4 novembre quello su petrolio, per cui potrebbe cadere il commercio con l'Iran dei due terzi. Anche quello tradizionale di tappe- ti e di cibo sta per cadere vittima delle rinnovate sanzioni. Una prospettiva disastrosa per un Paese già percosso da una crisi economica che ha ridotto la popolazione sul lastrico: ci vogliono 122mila riai per comprare un dollaro, il mercato dell'oro va ancora peggio e ha un bel fare il governo, coadiuvato dalle Guardie Rivoluzionarie, a opprimere ogni forma di protesta che ormai spunta in molti angoli del Paese. Inutile anche accusare spie, traditori, cospirazioni straniere e arrestare per crimini economici.
Trump col suo invito ha messo in ulteriore difficoltà gli ayatollah: lo scopo è fermare i progetti imperialisti dell'Iran e la sua evidente spinta a creare l'atomica. Il suo sogno, il cambio di regime. Adesso, sono in una bella trappola sia il presidente Rohani sia il supremo leader Khamenei: la gente non accetterà che respingano con disprezzo l'offerta, dicano che l'unica strada è quella per cui gli Usa tornino al trattato. II consigliere di Rohani Hamid Aboutalebi dice che si può parlare solo con chi mostrerà rispetto tornando al trattato. Ma la gente ha bisogno anche di pane, e una leadership che rifiuti a priori è ormai in contrasto con un popolo che in piazza ha gridato fino a pochi giorni fa «Basta con la Siria, occupatevi di noi».
Mike Pompeo ha commentato l'invito legandolo a un cambiamento della gestione del potere da parte degli ayatollah, di una riduzione della loro «malìgnìty», del loro addivenire a un vero accordo nucleare. In sostanza adesso la leadership iraniana, quali che siano le intenzioni di Trump se l'incontro dovesse aver luogo, è sempre più minacciata da una rottura verticale con l'opinione pubblica. E gli inviti di Rohani all'Europa a risolvere i suoi problemi economici, sono fra i meno convincenti che la politica ricordi.
(il Giornale, 1 agosto 2018)
La (saccente) sindrome "se soltanto Israele
"
In realtà gli israeliani non hanno alcun bisogno di essere spronati, persuasi o forzati a perseguire la pace: hanno bisogno d'essere convinti che sia possibile una pace vera e duratura.
La sindrome "se soltanto Israele
" consiste nell'errata convinzione, diffusa e propagandata da molti nel mondo diplomatico, accademico e dei mass-media (sempre rigorosamente "per il bene" di Israele) che, "se soltanto Israele facesse questo o quello", la pace con i palestinesi e con tutto il mondo arabo e islamico sarebbe cosa fatta. Poiché invece non lo fa, ecco che Israele costituisce il principale, se non l'unico, vero ostacolo che impedisce l'alba di una nuova era nelle relazioni israelo-arabe e israelo-palestinesi. Elementare, no?
Se solo quello sventurato di Israele avesse l'acume e la lucidità di queste anime "illuminate", allora sì che tutto andrebbe per il meglio. Infatti - stando a quanto dicono loro - Israele ha in mano tutte le carte giuste, solo che si rifiuta di giocarle. Il ragionamento è questo: come mai questi ottusi di israeliani non capiscono cosa bisogna fare per far cessare prontamente il conflitto? Eppure è così ovvio ed evidente....
(israele.net, 1 agosto 2018)
Erdogan in visita tra cene e onori, la Germania si spacca
Il viaggio a settembre
di Paolo Valentino
BERLINO - Apre un dibattito lacerante in Germania, la visita di Stato di Recep Tayyip Erdogan, confermata lunedì da un portavoce del governo tedesco e prevista in settembre in una data da stabilire. Controverso non è tanto il viaggio in sé, quanto le forme e i modi dell'accoglienza che verranno riservate al leader turco, il quale rivendica l'intero protocollo previsto in queste occasioni, compresi gli onori militari, la cena di gala offerta dal presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, l'omaggio al milite ignoto, la conferenza stampa insieme alla cancelliera MerkeL Protesta l'ex leader dei Verdi, Cem Ozdemir, figlio di immigrati turchi, secondo il quale «Erdogan non è il normale presidente di una democrazia» e non dev'essere ricevuto in pompa magna. Insorge l'Associazione dei giornalisti tedeschi, che definisce «impensabile» che Erdogan «riceva onori militari e si lasci fotografare sorridente insieme ai vertici dello Stato tedesco, mentre decine di giornalisti innocenti sono detenuti nelle prigioni turche». Ma il ministro degli Esteri, Heiko Maas, definisce la Turchia «partner stretto e importante» e difende la scelta del governo, dicendosi convinto che occorra «comportarsi in modo conseguente con chi è stato eletto alla guida di uno Stato». Sul piano della sostanza, aggiunge Maas, «bisogna parlare soprattutto con quelli con i quali ci sono molte questioni aperte». Detto altrimenti, «gli onori del protocollo diplomatico non impediranno di affrontare i temi difficili». Anche Elmar Brock, il deputato della Cdu che guida la Commissione esteri dell'Europarlamento, interviene a sostegno della visita pur non negando le responsabilità di Erdogan: «Abbiamo srotolato il tappeto rosso anche ad altri leader che hanno sangue nelle loro mani. Se parlassimo solo con quelli democratici, la Germania sarebbe presto in scarsa compagnia sulla scena internazionale». Era stato Steinmeier a confermare l'ìnvìto poco più di un mese fa, in occasione della telefonata in cui aveva congratulato, come da prassi, Erdogan per la sua vittoria elettorale. Un segnale che, a dispetto delle critiche per la sua deriva autoritaria e la retorica spesso aggressiva verso la Germania, il governo di Berlino vuole mantenere un dialogo intenso con Ankara. Ma i rapporti rimangono tesi. Tanto più .. dopo la vicenda di Mesut Ozil, il calciatore tedesco figlio di immigrati turchi criticato per essersi fatto fotografare con Erdogan, che ha annunciato di non voler più giocare per la nazionale, accusando i vertici della Federcalcio di «razzismo e mancanza di rispetto».
I dirigenti turchi hanno colto al volo l'occasione per attaccare la Germania. Lo stesso Erdogan è intervenuto definendo Ozil, che è nato a Gelsenkirchen ed è cittadino tedesco, «un patriota», sottinteso turco. Una cosa comunque Erdogan non avrà, nella visita di Stato di settembre. Come già aveva fatto in altre occasioni, da ultimo nel 2014, avrebbe voluto parlare ai suoi connazionali residenti in Germania. «Voi appartenete a una grande nazione, il vostro dolore è il nostro, la vostra gioia è la nostra», aveva detto a una folla di 20 mila persone in delirio a Colonia. Troppo incendiario, per i gusti del governo tedesco.
(Corriere della Sera, 1 agosto 2018)
Reggio Calabria - Anassilaos: viaggio nella poesia ebraica e israeliana
La Festa della Poesia Mediterranea e delle Minoranza Linguistiche organizzata dall'Associazione Anassilaos, si è conclusa con la serata dedicata alla poesia ebraica e in particolare alla poesia contemporanea israeliana. L'Italia è stata la principale culla della poesia post biblica, a partire dall'VIII secolo, durante il quale in Puglia fiorirono i primi esempi di poesia sinagogale, fino all'inizio del Novecento, quando questa vasta e lunga storia si concluse con i sonetti del rabbino e studioso Vittorio Castiglioni. Queste furono le composizioni conclusive che vedono la produzione letteraria ebraica spostare il proprio centro in Palestina.
A introdurre questo tema è stata la dott. Daniela Scuncia cedendo poi la parola alla dott. Filomena Tosi sulla questione della poesia israeliana dagli albori del XX secolo, circa. Una carrellata di immagini: fin dai primi coloni, e ancora Gerusalemme e Israele declinate nei paesaggi d'oro della pietra e del deserto, e suoni con le poesie elaborate come canzoni.
Un racconto denso di emozioni e di grandi poeti come Chaim Bialik, Shmuel Yosef Agnone il suo nuovo stile biblico premio Nobel nel '66 insieme a Nelly Sachs; la poetessa Hannah Szenes e la sua vita votata a salvarne delle altre e finita prima dei suoi 23 anni dopo la tortura e la fucilazione; e ancora Yehuda Amicaicolui che portò l'ebraico colloquiale nella poesia israeliana e cantò con delicatezza e ironia l'amore, la città di Gerusalemme, la sua terra. Figure straordinarie che hanno saputo tradurre in ricchezza linguistica e letteraria una condizione di profonda sofferenza collettiva offrendo anche ragioni di speranza.
La dott. Tosi ha sottolineato l'apporto della musica alla diffusione della poesia israeliana, quale peculiarità della lingua semitica come l'ebraico, la cui caratteristica importante è la radice. La radice è un morfema composto da tre o quattro consonanti (di solito tre). Da tali radici vengono derivate parole (vocaboli e verbi) riconducibili ad uno stesso campo semantico. Inoltre, la radice, modificata da prefissi, da suffissi e adeguatamente vocalizzata, assume significati diversi, e questo tipo di struttura rende la lingua facilmente modulabile oralmente e dal cantillare dei testi biblici al cantare dei versi poetici il passo si fa breve.
Anche la città di Reggio Calabria ha portato il suo contributo alla cultura, anche grazie alla stamperia d'avanguardia di Avraham ben Gartonche già nel 1475, a soli vent'anni dall'invenzione dei caratteri mobili di Gutemberg, aveva pubblicato il Commentario al Pentateuco diShelom ben Yshaq, oggi in possesso della biblioteca di Parma, nonostante la disponibilità al trasferimento di questo importantissimo documento presso la biblioteca cittadina Pietro De Nava.
La poesia diventa sempre più uno strumento per diffondere la pace e la conoscenza tra i popoli, per scoprirci uguali nella nostra umanità nonostante le diversità culturali. È su queste basi che si fonda la Festa della Poesia Mediterranea e delle Minoranze Linguistiche promossa dall'Associazione Anassilaos, una esperienza che è solo l'inizio di un percorso di scambio e di scoperta dei diversi paesi del Mare Nostro, nostro nel senso che appartiene a tutti noi.
(Strill.it, 1 agosto 2018)
Cosa fare per noi stessi
di Rav Alberto Moshe Somekh
C'è un versetto della Torah che leggeremo nella Parashah dell'ultimo Shabbat dell'anno (Nitzavim) e che ripeteremo in ciascuna delle Tefillot di Yom Kippur al termine della Confessione dei Peccati. Il versetto dice: "Le cose nascoste appartengono a H. nostro D., mentre quelle manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah" (Devarim 29,28). Che cosa si intende per "cose nascoste" e "cose manifeste", dalle quali dipenderebbe il destino della nostra Torah? E poi, cosa c'entrano "i nostri figli" in tutto questo discorso? Infine mi domando io: perché scegliere proprio questo versetto a conclusione del Widduy? Su quale importante trasgressione vuole farci riflettere? Posto a conclusione di uno degli ultimi capitoli della Torah, questo versetto contiene un messaggio programmatico. È quanto rileva il Maor wa-Shemesh, un commento chassidico di grande attualità e profondità. L'adesione ideale alle Mitzwot - scrive il nostro commentatore - non consiste tanto nella loro esecuzione pratica, quanto nel sentimento che le accompagna, perché lo scopo della Torah è creare in noi una personalità e un carattere e le singole Mitzwot sono asservite a questa finalità. A ciò alluderebbe la prima parte del versetto: "Le cose nascoste appartengono a H. nostro D." Ciò che per D. conta al di sopra di ogni altra cosa è la nostra interiorità che agli altri non è visibile. Molti benpensanti in buona fede la pensano in modo analogo: essi si riferiscono all'osservanza esteriore della Torah come componente puramente formale e sostengono che quella sostanziale risiede invece proprio nel nostro cuore.
Ma il cuore, ancorché sia al centro della nostra umanità, non basta. Il Maor wa-Shemesh sostiene che l'esteriorità è comunque fondamentale se non altro per uno scopo preciso: educare i nostri figli a seguirci. Se ci basassimo su qualcosa di esclusivamente interiore i nostri figli, che pure sono le persone a noi più legate, non sarebbero in grado di coglierlo in noi e di apprezzarlo.
Anche la Torah richiede la sua visibilità. E' per trasmettere ai nostri figli l'importanza del messaggio che dobbiamo viverlo nella pratica esteriore. A questo allude la parte finale del versetto:
"Mentre le cose manifeste sono per noi e i nostri figli in eterno affinché mettiamo in pratica tutte le parole di questa Torah". Ben si comprende a questo punto il riferimento ai nostri figli e all'eternità della Torah. Se vogliamo che essa passi a una nuova generazione occorre metterla in pratica, nel senso letterale del termine. Non sono sufficienti i significati dei precetti e le interpretazioni metaforiche. Non bastano la storia e la filosofia. In una sola parola, la Torah deve essere vissuta per ciò che ci chiede di fare.
E se non ci trovassimo nella condizione di dovere educare dei figli o dei nipoti? Il versetto risponde a questo aggiungendo la parolina "per noi": facciamolo comunque per noi stessi. Non solo una famiglia, ma neppure una Comunità si costruisce sulla sola dimensione interiore dei suoi membri. Il gruppo richiede comportamenti manifesti e condivisi nel solco di quella tradizione che ha tenuto vivo il nostro popolo per secoli. La crisi del mondo ebraico, specialmente in Italia, è sotto gli occhi di tutti. Voglio richiamare l'attenzione in particolare su due punti nevralgici della nostra vita comunitaria. Tantissimi giovani si astengono dal creare una famiglia. A ciò concorre certamente una difficile congiuntura economica che impedisce a molti di loro di accedere a una posizione lavorativa stabile. Ma questa scusante non vale in tutti i casi. Sembra piuttosto di trovarsi dinanzi a una vera e propria mentalità dettata dalla società globale. Al cuor non si comanda, ma ciò è vero fino a un certo punto: occorre far intervenire la mente e la pratica. Noi ebrei siamo depositari di un messaggio che può essere portato avanti in un modo soltanto. La nostra tradizione si fonda sull'educazione dei figli e affida questo progetto ai genitori. Per questo è necessario attivare una politica di incentivazione del matrimonio ebraico. Se il matrimonio ebraico è finalizzato all'educazione dei figli, è anche vero l'inverso. Non si perviene a nuovi matrimoni ebraici senza aver educato ragazzi e ragazze nella giusta direzione. Una volta trascorsa l'età del Bar/Bat Mitzwah molti giovani si perdono e non tornano più. Occorre indagare sulle cause di questo fenomeno drammatico. Oggi viviamo in un'epoca di alta specializzazione. L'ignoranza è penalizzante e in definitiva colpevole. Come avviene in altre discipline, solo chi avrà acquisito sufficienti conoscenze sarà motivato un domani a vivere la Comunità ebraica con consapevolezza e cognizione di causa.
Non è più sufficiente domandarsi cosa debbono fare gli altri per noi, e neanche cosa siamo in grado di fare noi per gli altri. È giunto il momento di interrogarci su che cosa possiamo ancora fare noi per noi stessi. Per scongiurare una Shoah spirituale di cui noi stessi siamo i principali responsabili. E se non ci affrettiamo a darci una risposta, "liberazione e salvezza arriveranno agli Ebrei in altre parti del mondo". Ma noi ci saremo auto-esclusi. Ciò è un peccato in tutti i sensi: un'occasione tristemente perduta, ma anche una grave colpa di cui chiedere perdono al S.B. onde porvi rimedio. "Sia gradito dinanzi al S.B. di darci la parte nostra e quella della nostra discendenza nella Tua Torah". In prospettiva, Shanah Tovah a tutti.
(Pagine Ebraiche, agosto 2018)
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