Notizie 16-31 agosto 2018
Tel Aviv, rione popolare contro africani
Centinaia di abitanti di un rione popolare di Tel Aviv - dove la presenza di migranti stranieri e' molto marcata - hanno dato vita la scorsa notte ad una "manifestazione di collera" in cui hanno invocato la espulsione immediata dei circa 35 mila migranti eritrei e sudanesi che vivono in Israele. Hanno anche duramente criticato il governo per non aver saputo ancora risolvere la questione, malgrado le promesse pronunciate un anno fa dal premier Benyamin Netanyahu durante una visita in quelle strade. "Da allora nulla e' stato risolto, anzi la situazione e' molto peggiorata" ha affermato l'organizzatrice della protesta, Sheffi Paz. Al termine della manifestazione i dimostranti hanno stracciato e bruciato una bandiera dell'Eritrea e hanno dato fuoco all'immagine del ministro degli interni Arie Deri (del partito religioso Shas) "reo" di mostrarsi disponibile ad una intesa fra Israele e l'Onu per una eventuale ricollocazione in Occidente, che però allungherebbe i tempi della permanenza in Israele.
(ANSAmed, 31 agosto 2018)
Il presidente filippino Duterte in Israele
Vedrà Netanyahu e Yad Vashem
Il presidente filippino Rodrigo Doa Duterte arriverà in Israele nel pomeriggio di domenica due settembre per una visita di Stato che è stata criticata dall'opposizione di centro sinistra e da una parte dei media.
Duterte - attaccato per il paragone tra la sua lotta ai trafficanti di droga con la Shoah e Hitler e il mancato rispetto dei diritti umani - incontrerà il premier Benyamin Netanyahu lunedì e subito dopo visiterà Yad Vashem, il Mausoleo della Memoria a Gerusalemme.
In programma anche visite al presidente Reuven Rivlin e con la comunità filippina in Israele. La partenza avverrà mercoledì cinque settembre dopo la deposizione di una corona di commemorazione al monumento in onore dei filippini che salvarono gli ebrei durante la Shoah.
(ANSAmed, 31 agosto 2018)
L'ambasciatore di Israele Ofer Sachs alla Notte delle candele
Il sindaco Gregori: ''Per Vallerano un grande motivo di orgoglio''
VALLERANO - A distanza di una settimana dalla conclusione della Notte delle candele 2018, organizzata dall'associazione Piccole serenate notturne Notte delle candele, con il patrocinio dell'Amministrazione comunale di Vallerano, è tempo di bilanci e, già, di programmazione in vista dell'edizione 2019.
''Bilancio sicuramente positivo - commenta il sindaco Adelio Gregori - da un punto di vista dell'affluenza, con alcuni spunti per noi di orgoglio come la visita privata dell'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, che ho avuto il piacere e l'onore di accompagnare personalmente per le vie del centro storico di Vallerano, illuminato da 100mila candele. È stata una visita tanto inaspettata, quanto gradita, al termine della quale l'ambasciatore Sachs mi ha confidato di essere rimasto sorpreso e colpito dal fascino della manifestazione e dalla sua complessità da un punto di vista organizzativo''.
In generale, l'edizione 2018 della Notte delle candele è stata caratterizzata da una presenza di numerosi visitatori stranieri, con un pullman di turisti che, addirittura, è venuto a Vallerano dall'Ungheria.
''A bocce ferme - prosegue Gregori - sento il dovere di ringraziare tutti coloro che si sono impegnati per garantire al meglio il sistema di sicurezza che, meticolosamente, avevamo programmato nei giorni precedenti alla manifestazione. Parlo della questura di Viterbo, che ha coordinato questa macchina davvero complessa, dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dei Vigili del fuoco, di tutti i volontari, in particolare della Protezione Civile, e, chiaramente della nostra Polizia locale, affiancata da quelli del Comune di Vignanello. Per il prossimo anno, considerata ormai la dimensione e l'appeal mediatico nazionale della Notte delle candele (ancora oggi UnoMattina ha dedicato all'evento un bellissimo servizio), il Comune intende, ancora di più, perfezionare e potenziare tutte le procedure di sicurezza, così come i sistemi di orientamento e i servizi dedicati ai visitatori, di concerto con l'associazione organizzatrice, a cui va il nostro ringraziamento e apprezzamento per il lavoro svolto''.
SCHEDA - Nato in Israele nel 1972, Ofer Sachs rappresenta lo Stato ebraico in Italia dal 2016. In precedenza, dal 2006 al 2011, ha fatto parte della squadra del ministero dell'Agricoltura impegnata nelle relazioni con la Ue a Bruxelles. Nel 2011 è diventato direttore generale del ministero dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale ed infine, prima di diventare ambasciatore, nel 2012 ha assunto il ruolo di Ceo del Israel Export & International Cooperation Institute, un'organizzazione non-profit del governo di Israele dedita alla promozione dei prodotti israeliani nel mondo.
(Viterbo News, 31 agosto 2018)
I veleni contro Israele sono come una droga: difficilissimo disintossicarsi
di Paolo Salom
Un presentatore della Bbc, il suo nome è Andrew Marr, qualche tempo fa, parlando delle violenze in Siria e delle responsabilità della Russia, ha citato, come termine di paragone, Israele, "il cui esercito ha ucciso tanti bambini a Gaza". La notizia non è tanto nell'insulto gratuito, quanto nel fatto che l'ente televisivo britannico ha ufficialmente sanzionato il suo anchorman per avere diffuso "notizie non verificate". Meno male, direte voi. Ma la questione resta: ossia il fatto che un anchorman inglese abbia dato per pacifico e scontato che "Israele (o gli ebrei) uccida i bambini", un "fatto" che non ha bisogno di essere dimostrato. Ricordo il presidente turco Erdogan, alcuni anni fa, quando era ancora il benvenuto in Europa, osservare con estrema tranquillità di fronte ai rappresentanti delle élites mondiali radunati a Davos, in Svizzera, che "Israele sa come uccidere i bambini". Di fianco a lui, un Shimon Peres insolitamente fuori di sé, paonazzo per la rabbia, aveva cercato di replicare all'accusa citando fatti e realtà. Ovviamente le sue parole sono state presto dimenticate, mentre la frase di Erdogan, nella sua semplicità, si è inserita nella bacheca della coscienza pubblica.
Perché accade tutto ciò? Soprattutto, in un contesto come quello mediorientale, dove i bambini sono sì vittime, ma degli adulti che parlano la stessa loro lingua? In Siria per via della guerra civile, a Gaza perché Hamas li invia sapientemente in prima linea. Ma alle cronache passa soltanto il concetto che è Tsahal a brutalizzare gli indifesi.
Ritengo che tutto ciò risponda a due meccanismi strettamente collegati. Il primo: una coscienza formatasi sul concetto di derivazione religiosa che gli ebrei sono "cattivi" (due millenni di antigiudaismo cristiano e dimmitudine islamica non si cancellano in qualche decennio, nonostante l'effettiva buona volontà di molti, specie nella Chiesa); il secondo: la cinica - e abilissima - capacità degli arabi di inserire il loro conflitto con lo Stato ebraico in un contesto che nel lontano Occidente viene appunto immediatamente recepito come veritiero, a prescindere dalla realtà fattuale.
Per intenderci: è come il processo che permette alla droga di inserirsi nell'organismo umano, andando a occupare recettori predisposti ad accogliere determinate molecole. E come è noto, liberarsi dall'assuefazione impone uno sforzo sovrumano.
Dunque? Al termine di un'estate calda, mentre ci prepariamo all'inizio di un nuovo anno, vale la pena soffermarsi su un automatismo causa-effetto che ci sorprende (come è capitato a Peres con Erdogan) facendoci perdere la calma (capita) o anche spingendoci in distinguo e prese di distanza che nascono soltanto dal desiderio di non essere considerati "cattivi". Reazioni comprensibilissime. Ma, che ci piaccia o no, inadatte a disinnescare un pensiero magico che ha radici molto profonde.
Averne coscienza è comunque un primo passo verso la sua demolizione.
Shanà tovà.
(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2018)
Israele - Stato nazionale del popolo ebraico
di Galliano Nabissi
La Knesset (Parlamento israeliano) ha approvato la legge che definisce lo Stato come"La casa nazionale del popolo ebraico". Una legge che è nel sogno sionista con la Costituzione dello Stato e nella Dichiarazione di Indipendenza.
Israele non fa altro che riaffermare ciò che la legge dice,cioè che lo Stato si chiama Israele,il suo inno nazionale è la Hatikvà(la speranza),il suo simbolo la Memorah e la sua bandiera ha in mezzo il Magen David(la stella di David).Per capire la storia del popolo d'Israele inoltre non si può prescindere da Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura,contrariamente è un'impresa destinata a fallire.
Israele ha il diritto di proclamarsi Stato ebraico e di decidere dei propri diritti in una zona del mondo molto pericolosa e instabile,senza provocare sdegno e proteste internazionali.
Una legge né discriminatoria,né antidemocratica; non c'è articolo che priva gli arabi di tutti i diritti individuali all'interno di Israele,ne l'autodeterminazione in Cisgiordania e Gaza che non fanno parte dello Stato di Israele;anzi riafferma l'impegno di Israele nei confronti di esse.
In realtà è un modello di protezione di questi diritti. Uno dei maggiori esperti di diritto internazionale dice che la legge fondamentale di Israele non sarebbe fuori luogo tra le costituzioni democratiche liberali dell'Europa che includono disposizioni simili e che non hanno suscitato polemiche tra gli Stati europei,sette hanno disposizioni costituzionali simili sulla nazionalità.
Israele viene contestato,criticato,condannato,travisato con strombazzamenti vari,con storture e false rappresentazioni della realtà . Tutto questo avviene mentre il movimento terrorista Hamas"chiede" il cessate il fuoco,ma contemporaneamente continua a lanciare da Gaza razzi incendiari e missili contro le città israeliane Ora si dice che ci sarà una nuova tregua,speriamo che avvenga presto,che si materializzi e sia più resistente di quella precedente non rispettata.
Di questa continua violenza contro Israele l'ONU non si è mai sentito"preoccupato",si" preoccupa "solo quando Israele ha le pelotas gonfie,si alza in volo e va a bombardare i siti dei terroristi.
Termino ricordando che se le mie parole,i miei scritti da sempre rischiano di apparire scomodi ai soliti"amici" di Israele,non rinuncerò mai di essere fedele ai miei principi,ideali e alla mia libertà di pensiero e di questo,ringrazio tutti coloro che mi hanno dato e mi danno la possibilità di farla conoscere.
(Radioerre, 30 agosto 2018)
Hamas: «Entro due mesi a Gaza cessate il fuoco con Israele»
Parla il leader Sinwar
L'accordo per un cessate il fuoco con Israele sarà siglato entro ottobre: lo ha promesso ieri il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar. PARLANDO ai giornalisti, Sinwar ha detto che il movimento islamista ha compiuto dei passi verso la fine dell'assedio israeliano che soffoca Gaza da oltre undici anni: c'è stato uno scambio indiretto (attraverso la mediazione dell'Egitto) di condizioni tra Hamas e il governo israeliano. Ci vorrà del tempo, ha aggiunto, ma un accordo finale sulla tregua dovrebbe arrivare entro un paio di mesi.
Secondo fonti interne, il cessate il fuoco dovrebbe portare all'apertura dei valichi verso l'esterno e uno scalo marittimo a Cipro, in cambio della fine della Grande Marcia del Ritorno e del lancio di palloncini incendiari verso Israele. Non proprio, dunque, la fine dell' assedio: potrebbe attenuarsi la gravissima crisi umanitaria ed economica che devasta da anni la vita di due milioni di persone, ma i confini resterebbero tutti controllati da Israele.
Sinwar, però, ha detto qualcosa in più: le forze di sicurezza di Gaza ricadrebbero sotto un'autorità nazionale legittima», ovvero un governo di unità nazionale. Che è quello che Hamas e Fatah promettono da anni e che sembravano aver raggiunto un anno fa con la firma dell'accordo di riconciliazione mai implementato.
(il manifesto, 31 agosto 2018)
"Cacciarono dall'Iraq prima noi ebrei, ora i cristiani. Per questo li aiutiamo"
La missione dei filantropi israeliani
di Giulio Meotti
ROMA - Il 6 agosto 2014, l'Isis conquistò il villaggio cristiano di Batnaya, in Iraq. I vicini di casa di Carlos Barbar riuscirono a fuggire, ma il padre di Carlos non era in grado di camminare e la famiglia non aveva un'auto. Carlos rimase a proteggere i genitori. I terroristi ordinarono a Carlos di convertirsi all'islam, di pagare la tassa sui dhimmi o di andarsene. Uno dei terroristi gli strappò la croce dal collo e disse a Carlos di calpestarla. "Gli risposi, 'ti metto un piede sul collo, ma mai sulla croce, ho il mio Dio ed è anche il tuo"', ha raccontato Carlos. La canna di un fucile lo colpì alla testa e crollò. Al risveglio, Carlos pendeva dal soffitto. "Mi hanno immerso la testa nell'acqua sporca, mi hanno picchiato con un bastone pieno di chiodi, mi hanno legato e messo il sale sulle ferite". Dopo mesi di agonia, Carlos è riuscito a raggiungere prima Baghdad e da lì Amman, in Giordania, dove oggi riceve assieme ad altri 14 mila cristiani un aiuto molto particolare. Un aiuto israeliano.
La libertà religiosa è sempre stato un aspetto fondamentale della International Fellowship of Christians and Jews sin dal suo inizio quarant'anni fa. Tuttavia, la più grande organizzazione filantropica in Israele (raccoglie 180 milioni di dollari all'anno in donazioni) era stata finora conosciuta per il suo aiuto agli ebrei perseguitati, dall'Etiopia all'Unione sovietica. Adesso, con la campagna "Rescue the Persecuted", l'organizzazione israeliana ha ampliato la sua missione aiutando i cristiani perseguitati. "Avevamo già aiutato la comunità copta in Egitto, dove i bambini sono stati strappati dagli autobus e uccisi solo in quanto cristiani", ha detto alla stampa israeliana il fondatore, Yechiel Eckstein, aggiungendo che l'organizzazione assiste anche cento famiglie druse fuggite dalla Siria, dove sono massacrate dagli islamisti.
Poiché i cristiani iracheni sfollati dall'Isis non sono ancora riconosciuti come rifugiati, vivono in un limbo, non possono tornare a casa, ma non possono nemmeno lavorare o stabilirsi appieno nel loro nuovo paese, come la Giordania in questo caso. L'organizzazione filantropica israeliana così ha raccolto per loro 600 mila dollari. L'obiettivo è arrivare a cinque milioni all'anno. "Come le comunità ebraiche di tutto il medio oriente e il Nord Africa, c'erano comunità cristiane in questi luoghi da duemila anni, ma ora sono state spazzate via", ha detto Eckstein.
La clinica israeliana di Amman non ha nomi ebraici fuori e non vi si porta la kippah per sicurezza. Ma i cristiani iracheni aiutati da Eckstein se lo ricordano bene, quando avevano dei vicini di casa ebrei in Iraq, prima dei pogrom, delle fughe e del salvataggio israeliano via Kurdistan. Una storia che si è ripetuta coi cristiani. Le storie che Eckstein ha sentito in clinica sono strazianti. Dall'incontro con un ragazzo sfregiato a vita con olio bollente dall'Isis a un uomo sepolto vivo e salvato dopo tre giorni. I fondamentalisti islamici lo avevano promesso: "Prima il Popolo del Sabato (gli ebrei, ndr), poi quello della Domenica (i cristiani, ndr)". Sono stati di parola.
(Il Foglio, 31 agosto 2018)
Colloquio telefonico tra Al Sisi e Abbas
GERUSALEMME - Il presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, ha avuto un colloquio telefonico con l'omologo palestinese, Mahmoud Abbas. Lo riferisce il portavoce della presidenza egiziana, Bassam Radi, sulla pagina Facebook ufficiale. Al Sisi ha ribadito la "disponibilità a continuare i propri sforzi per raggiungere la conciliazione e rafforzare l'unità nazionale palestinese, così come il ritorno di un'autorità legittima che si assume le proprie responsabilità nella Striscia di Gaza". Inoltre, il capo dello Stato egiziano ha affermato che intende proseguire con gli sforzi per "il rilancio dei negoziati israelo-palestinesi e raggiungere una soluzione equa e onnicomprensiva della causa palestinese". Da parte sua, il leader dell'Autorità nazionale palestinese ha ringraziato l'Egitto per il suo ruolo a sostegno dei diritti dei palestinesi e della riconciliazione nazionale, contribuendo alla creazione di uno Stato indipendente con Gerusalemme est capitale. Le parti hanno concordato di mantenere un coordinamento continuo su questioni di interesse comune.
(Agenzia Nova, 30 agosto 2018)
Italia e Israele lavorano insieme per un quadro nazionale israeliano delle qualifiche e dei titoli
A Tel Aviv il vice ministro riafferma «il notevole impegno del governo italiano a rinsaldare le buone relazioni con un'attenzione speciale sull'alta formazione».
di Fabiana Magri
Oltre a diffondere «uno sviluppo sostenibile e una migliore qualità della vita» il Sottosegretario all'Istruzione Lorenzo Fioramonti affida alla formazione scolastica anche il compito di veicolare «la ricerca della pace». A Tel Aviv per il lancio del progetto "Istituzione del quadro nazionale israeliano delle qualifiche e dei titoli (NQF) come meccanismo per favorire lo sviluppo del capitale umano di Israele" con l'ambasciatore all'Unione Europea in Israele Emanuele Giaufret e quello d'Italia Gianluigi Benedetti, il vice ministro Fioramonti riafferma «il notevole impegno del governo italiano a rinsaldare le buone relazioni tra Israele e Italia, con un'attenzione speciale sull'alta formazione» e si dice «fortemente convinto che questo tipo di diplomazia informale, grazie alla mobilità di scienziati, accademici e studenti, possa creare importanti opportunità future per contribuire alla pace in Medio Oriente e alla stabilizzazione nella regione».
Per i prossimi 24 mesi (con un budget di 1,8 milioni di euro messo a disposizione dall'Unione Europea grazie allo strumento «Twinning») una squadra bi-nazionale di tecnici formata dal Ministero italiano dell'Istruzione, da «Cimea» (Centro Informazioni Mobilità Equivalenze Accademiche), «Studiare Sviluppo» e dalle omologhe istituzioni israeliane, sarà impegnata nell'istituzione del quadro nazionale israeliano delle qualifiche e dei titoli (NQF) in linea con quello europeo (EQF). Il fine è facilitare, tra tutti gli Stati aderenti al progetto, il riconoscimento reciproco delle qualifiche accademiche e stimolare azioni di mobilità nei settori scientifico e universitario. «In questi mesi - ha detto Claudia Fellus consigliere residente di «Twinning» - aiuteremo Israele a creare uno strumento su misura, utile e concreto, che duri oltre la fine del progetto».
(La Stampa, 31 agosto 2018)
Hamas: l'opposizione dell'Anp dove porterà?
Il leader di Hamas Yahya Sinwar ha detto ieri che la calma nella regione potrà regnare anche senza un accordo per la crisi di Gaza. Ma l'Anp si oppone perché lo considererebbe una vittoria e legittimazione dell'amministrazione americana che tenta di perseguire il cosiddetto "deal of the century".
di Giovanni Quer
Israele e Hamas stanno trattando in via indiretta un accordo di tregua per alleviare la crisi di Gaza, soggetta a sanzioni di Israele, Egitto e Autorità Palestinese, e neutralizzare il pericolo militare, compresi missili, infiltrazioni e tunnel.
Il leader di Hamas Yahya Sinwar ha detto ieri che la calma nella regione potrà regnare anche senza un accordo. Lo avrebbe detto alla conferenza stampa organizzata dopo il vertice Hamas-Jihad Islamico, durante il quale si sarebbe stabilito che la fine dell'embargo è in capo alle priorità delle due organizzazioni terroristiche.
L'Anp si oppone all'accordo, perché lo considererebbe una vittoria e legittimazione dell'amministrazione americana che tenta di perseguire il cosiddetto "deal of the century". I giornali vicini all'amministrazione di Ramallah riportano che Abu Mazen ha parlato ieri con il presidente egiziano al-Sisi, coinvolto nelle trattative tra Hamas e Israele, sottolineando l'importanza "dell'unità nazionale" e della "legittimità dell'Anp".
Secondo il quotidiano libanese al-Akhbar, l'opposizione dell'Anp sarebbe più netta e si dirigerebbe anche contro l'Egitto. Il giornale riporta fonti palestinesi che disapprovano le iniziative egiziane e vorrebbero la supervisione diretta degli accordi di tregua. Nel timore che un tale accordo possa legittimare Hamas, l'Anp pretende dall'Egitto che prima porti avanti il processo di riconciliazione interna e poi si faccia tramite per una tregua con Israele.
Per contro, il rappresentante di Hamas in Libano Osama Hamdan ha detto, come riportato dal sito dell'organizzazione, che l'Anp "ha deciso di opporsi al consenso nazionale", identificando le sanzioni imposte da Ramallah a Gaza con "l'assedio", cioè l'embargo imposto da Israele, operando un'equiparazione tra dirigenza di Ramallah e nemico sionista. La tregua, secondo Hamdan, è necessaria per mantenere "l'unità nazionale" e per alleviare le sofferenze di Gaza.
Critiche all'Anp vengono anche da dentro Fatah. In un comunicato trasmesso attraverso la moglie Fadwa, il leader militare di Fatah Marwan Barghouti, fondatore delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, ha attaccato l'Anp per l'opposizione a Hamas mentre continua la collaborazione con Israele su questioni di sicurezza. Barghouti, acclamato da non poche fazioni politiche come il prossimo leader dell'Anp, usa in funzione anti-Abu Mazen la posizione oltranzista del boicottaggio totale di Israele, comprese le collaborazioni di sicurezza.
Israele può raggiungere un accordo con Hamas, che pur minaccia di lanciare in pochi minuti lo stesso numero di missili lanciato negli ultimi due mesi, visti anche gli sforzi investiti nel coinvolgere altre organizzazioni come Jihad Islamico. I benefici per la sicurezza e la tranquillità del confine sud sono evidenti. Proprio la divisione tra Hamas e Anp gioca a favore dell'accordo.
Una possibile conseguenza di un tale accordo sul fronte palestinese potrebbe sortire però effetti negativi. La popolarità di Hamas, diffusa anche tra i non islamisti per le sue posizioni oltranziste, rischia di consolidarsi ulteriormente e indebolire Abu Mazen, la cui successione di potere si trasformerà in un "chi è più anti-Israele", nelle parole e nei programmi. Se Hamas dovesse risultare vincitore nelle trattative, non v'è dubbio che l'immagine costruita al pubblico sarebbe quella del movimento che più si oppone al nemico sionista e più è capace di perseguire gli interessi dei palestinesi. Sulla stessa linea la voce di Barghouti, di cui molti chiedono la scarcerazione.
Se Israele deve garantire la sicurezza dei confini al sud come prima cosa, deve anche muoversi cautamente per garantire in un futuro un partner con cui mantenere un dialogo e una collaborazione quotidiane (pur se non ufficiali).
(formiche.net, 30 agosto 2018)
Sciopera il personale non diplomatico delle ambasciate israeliane all'estero
GERUSALEMME - Sciopero a sorpresa del personale non diplomatico delle rappresentanze israeliane all'estero, che protestano per la mancata soluzione di problemi salariali del loro nuovo contratto. L'agitazione, scattata oggi senza preavviso, ha bloccato l'attività dei consolati e messo in grave difficoltà le rappresentanze diplomatiche, riferiscono i media israeliani. Lo staff non diplomatico rappresenta il 60% del personale all'estero del ministero degli Esteri e l'80% delle delegazioni all'estero dei ministeri della Difesa, l'Economia e il Turismo. Il loro sciopero, scrive il sito Ynet news, rischia di bloccare ogni attività delle rappresentanze all'estero, specie negli Stati Uniti. Cerimonie e ricevimenti sono stati annullati e riunioni presso l'Onu e l'Unione Europea si sono svolte in assenza dei rappresentanti israeliani che avrebbero dovuto parteciparvi.
(Adnkronos, 30 agosto 2018)
Deserto Pd
Riportiamo questo articolo che ha un debole riferimento a Israele solo in suggestive allusioni bibliche al popolo che vaga nel deserto anelando alla Terra Promessa. E' il Pd. La cui attuale sorte può mettere malinconia anche a chi non lo vota da molti anni. Sì, perché qualunque cosa si pensi, non c'è da rallegrarsi della sparizione di una sinistra capace di essere presente in modo efficace sulla scena politica. Sta vagando nel deserto, il Pd, dice l'autore; gli auguriamo di uscirne e di raggiungere la meta agognata. Ma se il suo obiettivo metaforico è la Terra Promessa, si ricordi che quella Terra Promessa è stata promessa al popolo d'Israele. Non cerchi dunque di entrarci, metaforicamente parlando, portandosi dietro i palestinesi, perché quelli, concretamente parlando, i legittimi abitanti della Terra Promessa li vogliono buttare a mare. E questo non si addice ad una sinistra degna di rispetto. M.C.
di Franco Del Campo
Attraversare il deserto. E' il destino del Partito democratico, condannato a vagare nel deserto, come il popolo di Israele, punito per aver adorato il Vitello d'oro, che per quarant'anni non poté avvicinarsi alla Terra promessa, fino a quando la generazione idolatra non fu completamente estinta, compreso Mosè. Oggi, nell'era di twitter e facebook, forse i tempi della maledizione biblica si sono accorciati, ma la punizione dovrà essere espiata fino in fondo. I fischi ai funerali di Genova sono stati "vox populi" e quindi "vox dei" e al Pd non resta che sperare in una penitenza un po' più breve per ritornare ad avvicinarsi alla terra promessa del governo del paese. Il Pd dovrà praticare la virtù evangelica dell'umiltà per evitare l'estinzione e per guadagnarsi un eventuale perdono, anche se il popolo della rete, che si riflette sempre più nelle scelte elettorali, sembra un Moloch distratto e crudele, poco incline al perdono. Come dargli torto. Il Pd, secondo i suoi critici più severi, ha adorato il Vitello d'oro, si è lasciato affascinare dal profeta Marchionne ed ha rinnegato l'antica alleanza con i sindacati, ha dato alla Confindustria quasi tutto quello che chiedeva, senza avere in cambio la crescita dei posti di lavoro sperata. I suoi "sacerdoti" si sono allontanati dal popolo, non hanno più ascoltato richieste e sofferenze. E così, adesso, deve vagare per il deserto. Ma, il deserto, è punizione e purificazione perché costringe a guardarsi dentro per sopravvivere. Capacità, di guardarsi dentro e di ascoltare chi ti era vicino e adesso ti ha abbandonato, che sembra mancare alla "casta sacerdotale" del Pd. Forse, il Pd non ha commesso tutti i peccati che gli vengono rinfacciati quotidianamente dai barbari infedeli che adesso sono al potere, ma poco importa. La sua "casta sacerdotale" dovrà vagare nel deserto fino all'estinzione, e solo dopo, quando - forse - saranno cresciuti nuovi piccoli profeti disarmati, abituati a sporcarsi le mani nel volontariato, nella difesa della natura, vicino ai più deboli, dotati di scienza e coscienza da mettere al servizio di tutti, forse sarà perdonato.
Ai barbari invasori, ex padani a cinque stelle, alla ricerca continua di mulini a vento da combattere e sconfiggere, è concesso di dire tutto e il contrario di tutto, con grande efficacia, di dilagare sui mass media, alla faccia del fantasma della "par condicio". Chi, invece, si metterà a frequentare il deserto delle periferie, tradite anche dal nuovo governo del cambiamento, dovrà parlare all'orecchio di chi non vuole ascoltare perché -non a torto- non si fida più di nessuno. Non sarà facile. Non sarà facile essere europeisti in un'Europa incapace di gestire la solidarietà sui migranti, che l'Italia chiede da tempo. Non sarà facile contrastare il bombardamento mediatico del ministro dell'Interno, eccitato dalla probabile imputazione per "sequestro di persona", al quale è arrivato il pronto sostegno di Berlusconi nella polemica contro la magistratura. Non sarà facile persuadere gli italiani che bisogna "restare umani" e al tempo stesso risolvere concretamente il problema biblico dei migranti, che arrivano in modo incontrollato e poi vengono abbandonati nelle strade e nei giardini delle nostre città, sotto le nostre finestre, senza che ci sia una diffusa cultura ed organizzazione dell'accoglienza. Ci sarebbe l'esempio di Riace, il piccolo comune calabro rivitalizzato da migranti integrati e disposti a lavorare e a vivere in un territorio che era semi abbandonato, ma il ministro onnipresente dice che ci sono delle irregolarità, forse perché funziona. Non sarà facile reclutare sul territorio una nuova classe dirigente diffusa, senza "obbedienze", per la quale l'onestà non sia uno slogan ma una pratica di vita, a costo di perdere i voti degli amici degli amici. Non sarà facile.
(Articolo 21, 31 agosto 2018)
Israele: «Pronti a colpire obiettivi iraniani»
GERUSALEMME - Israele ha ribadito le sue minacce di attaccare obiettivi militari iraniani in Siria e postazioni dell'esercito siriano. La notizia giunge dopo che martedì è stato annunciato un accorcio di cooperazione militare fra il regime di Bashar al-Assad e Teheran, in base al quale consiglieri militari iraniani resteranno in Siria al termine della guerra che va avanti nel Paese dal 2011. L'Iran fornisce sostegno politico, finanziario e militare al regime siriano. «L'accordo fra Assad e l'Iran costituisce un test per Israele: la nostra reazione sarà chiara e netta. Non permetteremo all'Iran di stabilirsi militarmente in Siria», ha detto il ministro israeliano dell'lntelligence, Yisrael Katz. «Reagiremo in Siria con tutta la nostra potenza contro ogni obiettivo iraniano che minaccerà Israele e, se la difesa antiaerea siriana interviene contro di noi, ne pagherà il prezzo», ha aggiunto. Chiaro anche Benjamin Netanyahu: «Chi ci minaccia di distruzione - ha insistito il premier - pone se stesso in pericolo».
(Avvenire, 30 agosto 2018)
La CCR e Israele
di Marcello Cicchese
Qualcuno potrebbe pensare che lo scandalo provocato dall'esplosiva relazione dell'«Arcivescovo di Ulpiana, Nunzio apostolico» Carlo Maria Viganò pubblicata sul quotidiano "La Verità" del 26 agosto, in cui si scopre il coperchio su uno stomachevole secchio di immondizia fatta di veri e propri "crimini contro l'umanità" per la devastazione morale di giovani in via di formazione e sviluppo, siano la prova incontestabile della impossibilità per la CCR (Chiesa Cattolica Romana) di proclamarsi strumento divino, con l'autorità di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso su tutto quello che riguarda Dio e gli uomini, e di avere l'autorità di aprire e chiudere le porte del Regno dei Cieli. Non è così. Almeno nell'autocoscienza della CCR.
L'Arcivescovo Carlo Maria Viganò termina la sua relazione su quell'immonda realtà fatta non soltanto di perversioni sessuali ma anche di complicità e silenzi, tra cui quello di Jorge Mario Bergoglio, detto Papa, con queste parole:
«E nei momenti di grande prova che la grazia del Signore si rivela sovrabbondante e mette la sua misericordia senza limiti a disposizione di tutti; ma è concessa solo a chi è veramente pentito e propone sinceramente di emendarsi. Questo è il tempo opportuno per la Chiesa, per confessare i propri peccati, per convertirsi e fare penitenza.
Preghiamo tutti per la Chiesa e per il Papa, ricordiamoci di quante volte ci ha chiesto di pregare per lui!
Rinnoviamo tutti la fede nella Chiesa nostra madre: «Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica». Cristo non abbandonerà mai la sua Chiesa! L'ha generata nel suo sangue e la rianima continuamente con il suo Spirito! Maria, madre della Chiesa, prega per noi! Maria Vergine Regina' madre del Re della gloria, prega per noi!».
Secondo questa concezione, la CCR può uscire addirittura rafforzata da questi scandali, perché - penserà qualcuno - se Dio ha mantenuto in vita una simile istituzione religiosa per così tanto tempo, nonostante ci sia in essa così tanto letame, vuole dire che esiste unelezione dipendente soltanto dalla scelta di Dio e non dalla maggiore o minore fedeltà degli uomini. La CCR avrebbe dunque una priorità per posizione, non per moralità. Ma questa è una caratteristica che Dio ha concesso storicamente soltanto al suo popolo Israele, e a nessunaltra istituzione storica.
Si ha quindi un altro motivo per dire che la CCR si oppone strutturalmente, come istituzione, alla realtà di Israele. Biblicamente però si può essere certi che, per quanto riguarda istituzioni storiche, Israele rimarrà, la CCR no. Gli attuali scricchiolii che si sentono venire da quelle parti non sono doglie di parto ma segni premonitori di crollo.
Laspetto più grave della relazione di Viganò sta dunque nelle sue parole conclusive. Che sono false. Ed è proprio la falsità di quelle parole, luso improprio e menzognero del nome di Cristo, che apre le porte a tentazioni diaboliche a cui gli uomini non sono in grado di resistere.
Inoltre è vero: la nefandezza dei costumi non ha mai scandalizzato le persone al punto da far cambiare posizioni che si ritengono sostenute da realtà superiori alle umane debolezze. La CCR potrebbe anzi diventare attraente per settori umani che fino ad ora si sono sentiti esclusi, come omosessuali e affini. Sta già accadendo. I tradizionalisti invece potrebbero veder confermata lincrollabilità della CCR.
Che poi limmoralità dei chierici non sia decisiva per indurre le persone a smettere di dare credito alla CCR, è magistralmente espresso in forma ironica dal Boccaccio, che in una sua novella del Decamerone fa comparire un certo Abraam giudeo di Parigi che, pressato a convertirsi dal cristiano Giannotto di Civignì, decide di andare a Roma a vedere come stanno effettivamente le cose, e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
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Il Decameron - Giornata Prima, Novella Seconda
di Giovanni Boccaccio
Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran rnercatante e buono uomo, il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un così valente e savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione. E per ciò amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornasse alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in quella intendeva e vivere e morire: né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli, così grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica. E come che il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell'uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava. Così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finiva giammai, tanto che il giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
- Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu dì che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t'ho; ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.
Quando Giannotto intese questo, fu in sé stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
- Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver convertito; per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelerata e lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe.
E ad Abraam rivolto disse:
- Deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te sarà d'andare di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se', ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea? E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai di chiarire? Per le quali cose al mio parere questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale. E perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia.
A cui il giudeo rispose:
- Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in una, io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il voler suo, disse:
- E tu va con buona ventura; - e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette. Il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di Roma, là dove pervenuto da' suoi giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire ad alcuno per che andato vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del papa e de' cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra che egli s'accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v'era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso alla lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l'uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero, o a' sacrifici o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o di alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia "procureria" posto nome, e alla gulosità "sustentazioni" quasi Iddio, lasciamo stare il significato de' vocaboli, ma la menzione de' pessimi animi non conoscesse, et a guisa degli uomini a' nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece. Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de' cardinali e degli altri cortigiani gli parea.
Al quale il giudeo prestamente rispose:
- Parmene male, che Iddio dea a quanti sono; e dicoti così che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o esemplo di vita o d'altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori (se piggiori essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella.
E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito Santo esser d'essa, sì come di vera e di santa più che alcun'altra, fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e quivi, secondo il debito costume della vostra santa fede, mi fa battezzare.
(Notizie su Israele, 30 agosto 2018)
(da Facebook)
«Torinodanza filo israeliana». E' polemica
Volantini in centro
Manca poco all'inaugurazione del festival Torinodanza, al via il 10 settembre. E come ogni anno, puntuali, sui muri del centro città sono comparsi volantini contro Israele. Se nel 2016 a scatenare la protesta era stata la decisione di affidare l'apertura della rassegna alla Batsheva Dance Company, questa volta è bastata la presenza in cartellone di due spettacoli (su un totale di 18) di Sharon Eyal, coreografa proveniente dalla famosa compagnia israeliana.
Il 29 e 30 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri andranno in scena «OCD Love» e «Love Chapter 2», appuntamenti inseriti nel programma del festival grazie al sostegno dell'ambasciata d'Israele in Italia.
Ed è proprio questa collaborazione ad essere finita del mirino del collettivo studentesco torinese collegato alla rete internazionale Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), che di recente ha protestato anche contro il Giro d'Italia.
«Ancora una volta Torinodanza è sponsorizzato dall'ufficio culturale dell'ambasciata israeliana in Italia, il cui logo che celebra i 70 anni di Israele compare in bella mostra», scrivono invitando a boicottare la rassegna. «In realtà - spiega la direttrice del festival, Anna Cremonini -, l'ambasciata dà solo un piccolo contributo, come fanno quasi tutti i Paesi che partecipano. Dal Canada alla Francia.
È un'abitudine felice ed elegante delle rappresentanze culturali, oltre che un segno di interesse e adesione al progetto». La direttrice rivendica poi la scelta di ospitare Sharon Eyal: «Il livello di ricerca di questa giovane coreografa è molto interessante ed è giusto che trovi spazio in un festival internazionale come Torinodanza».
(Corriere Torino, 30 agosto 2018)
Iran, il suo uomo a Tel Aviv era il ministro dell'Energia
Gonen Segev fra il 1995 e il 1996 è stato ministro dell'Energia di Israele. Ora è accusato di essere una spia al servizio dell'Iran. Di solito accadeva il contrario. Alavi, capo degli 007 di Teheran: "Avevamo agganciato il membro di un governo potente".
di Fabio Scuto
GERUSALEMME - E' in una cella senza nome, non ha nemmeno un codice identificativo, ma il detenuto "X" del carcere di massima sicurezza nelle vicinanze di Gerusalemme, è su tutte le prime pagine dei giornali israeliani. Il carcerato misterioso si chiama Gonen Segev ed è un ex ministro, arrestato alla fine del suo mandato per traffico internazionale di stupefacenti; falsificò il suo passaporto diplomatico israeliano allungandone la durata per evitare i controlli all'aeroporto di Amsterdam.
Pagato il suo debito con la giustizia anche per frodi finanziarie, Segev lasciò Israele nel 2007 e dal 2012 viveva in Nigeria, dove gestiva una clinica piuttosto frequentata.
Finito nelle mani del Mossaci nel maggio di quest'anno nella Guinea Equatoriale, Segev è accusato di aver passato segreti al peggior nemico di Israele: l'Iran degli ayatollah. E ieri il capo dell'Intelligence iraniana, in una rara dichiarazione pubblica, senza mai farne il nome, ha fatto capire che Gonen era stato "arruolato" dalla Vevak, il servizio segreto di Teheran. Nelle udienze che si sono svolte dal 5 luglio presso la Corte Penale di Gerusalemme- davanti a tre giudici, a porte chiuse e sottoposte a censura per motivi di sicurezza - Gonen Segev stando alle indiscrezioni fatte trapelare, ha cercato di vendere la sua verità: avrebbe contattato gli iraniani, ma solo per fingersi un traditore e ottenere informazioni da girare poi al suo Paese . Un modo per riscattare il suo passato. Deputato nel 1992, ministro dell'Energia nel 1995, dopo aver lasciato la politica nel 1996 è scivolato via via in un mondo di ombre e loschi traffici.Nel 2002 cercò di vendere sistemi d'arma ai guerriglieri dello Sri Lanka, nel 2003 con la complicità della moglie tentò una truffa alla sua banca, nel 2004 cercò di contrabbandare 6 kg di ecstasy (32.000pasticche) dall'Olanda. Pizzicato dalla sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion, finì in carcere e perse la licenza di medico per indegnità.
Scontata la pena lasciò Israele e nel 2012 si stabilì ad Abuja, in Nigeria. Gli investigatori israeliani sono convinti che il Paese non sia stato scelto a caso, in Nigeria la presenza diplomatica iraniana è piuttosto numerosa. Lo Shin Bet ha le prove dei suoi contatti con l'ambasciata iraniana in Nigeria e di due viaggi a Teheran per incontrare i suoi "gestori", ai quali avrebbe passato "dozzine di rapporti". Secondo l'accusa avrebbe fornito informazioni acquisite quando era ministro dell'Energia e avrebbe aiutato a localizzare basi e istituzioni chiave nel sistema di difesa israeliano, oltre a fornire i nomi di diversi funzionari dell'intelligence. Segev, attraverso i suoi avvocati, nega di aver lavorato contro gli interessi di Israele.
Lo scorso maggio l'ex ministro ha avuto la percezione che qualcosa intorno a lui si stava muovendo, che la sua clinica di Abuja era sotto controllo. Prese poche cose e molto denaro contante, Segev ha cercato di entrare in Guinea Equatoriale nel maggio 2018, dove è stato trattenuto a causa del suo passato criminale e consegnato agli uomini della sicurezza israeliana che lo attendevano sul posto.
Martedì in una rara dichiarazione pubblica il potente ministro dell'Intelligence iraniana, Mahmoud Alavi, ha confermato, dopo precedenti smentite, che un ex ministro israeliano arrestato quest'anno e accusato di spionaggio per l'Iran era in realtà un agente di Teheran. "Di recente avete sentito che abbiamo agganciato un membro di un gabinetto di un potente paese", ha detto Alavi alla tv iraniana. Anche se non ha specificato a quale paese si riferiva, siti di news iraniani e molti commentatori l'hanno considerata come una prima ammissione dei rapporti con Segev. Il ministro Alavi ha anche annunciato che l'Iran ha arrestato dozzine di spie, senza però specificare quando siano avvenuti gli arresti né la nazionalità dei detenuti. Alavi ha anche rivelato altri dettagli sulla lotta all'Isis, responsabile di diversi attacchi, come quelli al Parlamento e al Mausoleo dell'ayatollah Khomeini a Teheran nel giugno dell'anno scorso: 230 "cellule terroristiche" smantellate, 180 i sospetti arrestati, e 130 le indagini ancora aperte. La guerra delle ombre continua.
(il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2018)
Il trabocchetto siriano. Come Siria, Iran e Russia hanno imbrigliato Israele
L'accordo di cooperazione militare tra Siria e Iran, raggiunto con la benedizione di Putin, non mette in sicurezza il territorio siriano, mette in sicurezza solo le mire iraniane e russe sulla Siria. E non sono mire pacifiche
Ora c'è l'ufficialità, l'Iran rimarrà in Siria molto a lungo. Ufficialmente per aiutare Damasco nella ricostruzione e per garantire la sicurezza, in realtà per garantire a Teheran il mantenimento del cosiddetto "corridoio sciita" e per fare in modo che l'Iran e i suoi alleati di Hezbollah possano preparare in tutta calma il loro attacco a Israele.
L'accordo firmato ieri dal ministro della difesa iraniano, Amir Hatami, e dal suo omologo siriano, Ali Abdullah Ayoub, viene definito "dettagliato e circostanziato" e punta a mettere in sicurezza la presenza iraniana e dei suoi alleati in Siria dagli attacchi preventivi israeliani, almeno sotto l'aspetto legale e del Diritto Internazionale....
(Rights Reporters, 29 agosto 2018)
La manomissione della sicurezza di Gaza
Hamas è ancora oggi l'entità più pericolosa per la Palestina, più pericolosa della macchina distruttiva israeliana.
di Jibril al-Abidi*, Sharq al-Awsat (11/08/2018).
Nessuno ignora il fatto che Israele cerchi sempre una scusa per opprimere i palestinesi attraverso i bombardamenti utilizzati come addestramento per i suoi soldati, ma tutta questa ingiustizia è dovuta anche alla manomissione di Hamas, l'ala militare dei Fratelli Musulmani.
In passato Gaza godeva di un aeroporto internazionale che la collegava al resto del mondo, un porto per la navigazione e la pesca. A Gaza i palestinesi erano abili pescatori! Ma dal giorno del Colpo di Stato e da quando Hamas ha il controllo sulla Striscia di Gaza, la zona soffre di una cattiva gestione dell'elettricità e dell'acqua ed è rimasta fuori dal mondo, senza collegamenti aerei e marittimi; le assurde politiche di Hamas non hanno favorito alcun equilibrio politico, hanno aumentato i raid aerei israeliani che distruggono tutta la Striscia e rendono la vita un vero inferno. Non è un segreto che l'ex regime libico abbia usato Hamas per i propri scopi, poiché l'organizzazione palestinese è andata oltre confini, fino a Bengasi, dove le trappole esplosive causano la morte di tanti libici; ma Hamas continua a essere ancora oggi l'entità più pericolosa per la stessa Palestina, più pericolosa della macchina distruttiva israeliana che uccide civili innocenti sia a Gaza che in Cisgiordania. Dalla sua fondazione nel 1987, Hamas è stato in conflitto non solo con gli israeliani ma anche con il resto delle fazioni di resistenza palestinesi, rendendolo un movimento malvagio all'interno del consenso palestinese. Hamas, che sostiene di portare avanti un progetto di resistenza, si vede in contrasto con Fatah, che prende in considerazione un progetto di negoziato pacifico, mentre Hamas fa il "doppio gioco", un movimento di guerra durante la pace e un movimento di pace durante la guerra.
Hamas ha ostacolato molti progetti per risolvere la crisi palestinese, tra cui l'iniziativa del re Abdullah bin Abdul Aziz nel 2002, che mirava a stabilire uno stato palestinese riconosciuto a livello internazionale sui confini del 1967 e il ritorno dei profughi e il ritiro dalle alture del Golan. In questa assurdità, il movimento di Hamas rimane un progetto distruttivo per qualsiasi consenso palestinese o addirittura arabo per risolvere la questione palestinese. È l'innocente popolo palestinese che sta pagando il prezzo come risultato di questa continua manomissione.
* Jibril al-Abidi è uno scrittore e ricercatore libico.
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(Arab Press, 29 agosto 2018 - Traduzione e sintesi di Sabrina Campoli)
Nasrallah prenda nota: "Si è visto che ragnatela!"
Secondo il capo di Hezbollah, Israele sarebbe sull'orlo del collasso, un paese con i cittadini molli, grassi e codardi
Siamo a fine agosto, anche in Israele una stagione caratterizzata da scarse notizie dalla vita politica. Quest'anno, poi, la stagione di stanca rischia di essere presto seguita dalla "stagione scriteriata": il periodo prossimo al momento in cui vengono indette nuove elezioni, quando i mass-media vengono inondati da coloro che cercano di rimpiazzare il governo in carica dicendo che tutto va malissimo. Diranno che Israele sta andando a pezzi, che va verso la teocrazia, che sta diventando fascista, un fiasco completo sul piano economico e totalmente isolato su quello diplomatico, e che il cittadino israeliano medio non vede l'ora di andarsene. I rappresentanti governativi, naturalmente, replicheranno che le cose non sono mai andate così bene. È la stagione delle esagerazioni, quando il paese di cui sentiamo parlare sui mass-media somiglia ben poco a quello in cui vive la maggior parte di noi. E in mezzo a tutto quel vociare, è importante saper distinguere tra realtà e smodate esagerazioni....
(israele.net, 29 agosto 2018)
Ecco i nuovi missili di Israele: colpiranno tutto il Medio Oriente
di Lorenzo Vita
Israele continua a rafforzare il suo arsenale in vista di una possibile escalation con i suoi avversari in Medio Oriente. E lo fa attraverso un accordo del ministero della Difesa e Israel Military Industries che ha dato il via all'acquisizione di nuovi missili per centinaia di milioni di scicli che, a detta del ministro Avigdor Lieberman, "consentiranno alle Idf (Israel defense forces ndr) di coprire qualsiasi parte della regione entro pochi anni".
L'obiettivo del governo di Benjamin Netanyahu è quindi chiaro: nessun luogo del Medio Oriente potrà sentirsi al sicuro dall'area di azione dei missili israeliani. Ed è un monito che vale non solo per l'Iran ma per tutti gli attori coinvolti nell'area.
Cosa prevede l'accordo
Il contratto siglato fra il ministero della Difesa e il gigante israeliano delle armi prevede l'acquisizione di missili ad alta precisione di diversi tipi, alcuni classificati e quindi inaccessibili alla stampa, che avranno un raggio d'azione fra i 30 e i 150 chilometri.
Questo limite sembra contraddire quanto detto da Lieberman sulle capacità di raggiungere qualsiasi obiettivo in Medio Oriente, ma il fatto che esista una parte classificata lascia pensare che non sia da considerare totalmente esaustivo. O che probabilmente si prevede, nel medio termine, un aumento del raggio d'azione.
Tra i missili che le Idf stanno acquistando dall'Imi c'è inoltre una versione migliorata del sistema di razzi d'artiglieria Accular. Come spiega Ynet, "il sistema può lanciare 18 missili di precisione nel territorio nemico in un minuto. È un sistema efficace, facile da usare, accessibile ed economico, ed è stato messo a disposizione dei comandanti di brigata e battaglione. Può essere utilizzato per colpire individui, strutture e infrastrutture e può colpire più obiettivi contemporaneamente".
Israele rafforza l'arsenale balistico
Da tempo la Difesa israeliana ha deciso di investire sui missili. Fa parte di una politica strategica molto chiara che ha condotto, nel febbraio di quest'anno, a creare anche una nuova unità di artiglieria per missili terra-terra con una portata fino a 300 chilometri. In quell'occasione, Lieberman approvò un budget iniziale di mezzo miliardo di dollari. Una cifra che fa comprendere gli investimenti senza precedenti del governo israeliano nella Difesa e soprattutto nel programma missilistico.
Già in quest'occasione, si parlo di un programma di ammodernamento dell'arsenale missilistico partendo dal corto e medio raggio per poi proseguire verso lo sviluppo di nuovi missili a lungo raggio. E i media israeliani parlarono anche in quel caso di Israel industrial military come azienda incaricata.
Un messaggio rivolto a Hamas e Hezbollah
Il fatto che Israele renda noto questo accordo in questa fase di tensione in Medio Oriente, non è una causalità. Netanyahu, insieme all'amministrazione di Donald Trump, ha avviato una politica di enorme pressione sull'Iran e sui suoi alleati regionali, a partire da Hezbollah e dal governo siriano. Israele si è posto come obiettivo quello di colpire la strategia regionale iraniana. Ed è disposto a tutto: anche alla guerra. E lo si è visto con i raid in Siria dove l'aviazione dello Stato ebraico ha colpito semplicemente perché si è dichiarata minacciata dalla presenza di truppe legate a Teheran.
Non va dimenticato poi che proprio nei giorni scorsi, l'Iran ha testato un nuovo missile. I Guardiani della Rivoluzione hanno lanciato dalla base di Bandar-e-Jask un missile Fateh-110 Mod 3 che si è inabissato nel Golfo Persico dopo un volo di circa 100 miglia. Si è trattato di un missile anti-nave, ma fa parte di una strategia di messaggi che si mandano tra avversari.
In questo scontro, vanno poi inseriti due nemici israeliani molto più prossimi e che si legano fra loro ormai in maniera quasi inscindibile, come dimostrato dalle stesse esercitazioni delle Idf: Hamas e Hezbollah. I due gruppi, che rappresentano i nemici di Israele nel fronte sud e fronte nord, rientrano perfettamente nel raggio d'azione dei nuovi missili. Ed è significativo che la Difesa israeliana abbia rafforzato proprio questo settore. Molti ritengono che Israele sia pronto a una nuova guerra per colpire in maniera definitiva sia l'organizzazione che controlla Gaza sia il Partito di Dio in Libano. E questi segnali non inducono all'ottimismo.
(Gli occhi della guerra, 29 agosto 2018)
Soltanto Bontempelli disse no
Su 896 docenti universitari, fu l'unico a rifiutare la cattedra di un ebreo espulso. Nel dopoguerra venne estromesso dal Senato a causa di un'antologia per le scuole medie inneggiante al Duce.
di Gian Antonio Stella
E solo Massimo Bontempelli disse no. Ottant'anni dopo, a rileggere la storia infame dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» firmati dal re Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore il 5 settembre 1938 («la data della vergogna per la cultura italiana», ha scritto lo storico Giovanni Belardelli) spicca il silenzio assordante degli 895 docenti universitari su 896 che dissero sì. E accettarono servili e contenti (quando non sgomitarono per contendersi il bottino) quelle cattedre regalate loro grazie alla espulsione dei professori ebrei.
Una pagina nera. Diventata nerissima quando, a guerra finita, i docenti espulsi, costretti all'esilio o scampati ai campi di sterminio, chiesero di riavere il loro posto. E si trovarono davanti a una montagna tale di ostacoli burocratici, accademici e politici (dice tutto il titolo del decreto del 27 maggio 1946: «Riassunzione in ruolo di professori universitari già dispensati (sic!) per motivi politici e razziali») che molti preferirono nauseati lasciar perdere, altri rimasero là dove si erano rifugiati e qualcuno si uccise per il doppio rifiuto. Come il biologo Tullio Terni, che si tolse la vita con una fiala di cianuro il 25 aprile 1946, primo anniversario della Liberazione. Alla vigilia di quel decreto firmato dal diccì Guido Gonella che, scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan nel libro La doppia epurazione (il Mulino, 2009), non voleva «turbare gli equilibri dati al momento della fine del conflitto».
Equilibri che chi aveva approfittato della «manna» (così la chiamò Ernesto Rossi) dell'espulsione di tutti quei docenti e di altri 727 studiosi ebrei buttati fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, ringhiosamente difese, rivolgendosi perfino alla magistratura neo-democratica per non restituire il posto arraffato grazie alle leggi fasciste. Una vergogna tale, ricorderà Giorgio Israel ne Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime (il Mulino, 2010 ), che dopo decenni era «assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivavano un'adorazione intatta!».
Basti ricordare, come fece anni fa sul «Corriere della Sera» Paolo Mieli, il matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 scriveva: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l'intervento giudaico» e solo sette anni dopo, ricordando il matematico Guido Fubini morto esule nel 1943 a New York, «ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro "gli stolti, infami provvedimenti razziali", da lui a suo tempo applauditi e ora definiti "eterna vergogna"».
«La reintegrazione dei docenti ebrei», ha scritto Pierluigi Battista ricordando l'esempio pisano, «fu registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza». Una vergogna rimasta a lungo velata, fino ai libri di denuncia come L'università italiana e le leggi antiebraiche di Roberto Pinzi (Editori Riuniti, 1997) e altri ancora.
Ecco, in questo impasto di orrori, furbizie, omertà, complicità e ipocrisie che infettarono l'università italiana a cavallo tra il «prima» e il «dopo» le leggi razziali, la guerra perduta e la lotta di Liberazione, Massimo Bontempelli pagò dazio due volte. Prima perché marchiato dai fascisti come «idiota e carogna», poi perché bollato dagli «antifascisti» ( compresi certi convertiti dell'ultima ora) come un «voltagabbana» dal passato destrorso.
Nato a Como nel 1878, studente anarchico («fui orgoglioso di portare qua e là pacchi di manifesti sovversivi»), laurea in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e in Lettere con una sull'endecasillabo, docente, poeta, interventista, corrispondente di guerra, collaboratore del Fascio politico futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tessera del Partito fascista fatta insieme col suo amico Luigi Pirandello (dirà: «Mai fatto vita di partito; anzi fino al 1948 non ero mai stato iscritto ad alcuno: il fascista non conta, non era un partito, era un'anagrafe»), cominciò a staccarsi dal regime nel 1936, dopo la guerra d'Abissinia. La prova? «Molti episodi documentatissimi», scriveranno anni dopo vari intellettuali (dal critico Luigi Baldacci al poeta Eugenio Montale, dal musicista Goffredo Petrassi al pittore Renato Guttuso) indignati per una feroce critica a Bontempelli di Mario Picchi, che sull'«Espresso» aveva scritto d'una «miserabile coscienza morale» per poi rincarare: «Artista piccolino, fascista grandicello».
«Bontempelli è stato vittima d'un trattamento disonesto e di un abuso», scriverà Carlo Bo. «Eppure nei famosi vent'anni del periodo fra le due guerre è stato uno degli spiriti più vivi e attenti ai moti della società italiana».
Certo è che diede prova d'aver la schiena dritta almeno in due momenti chiave. Il primo, dicevamo, quando fu l'unico (unico!) docente a rifiutare il dono di una cattedra «per chiara fama» rapinata a un ebreo, nel suo caso il grande Attilio Momigliano. Il secondo quando, nel novembre di quel 1938, ricordò Gabriele d'Annunzio, davanti ai gerarchi convenuti a Pescara, denunciando «il nuovo costume intonato al feticismo della violenza». Denuncia che gli costò non solo gli insulti di Achille Starace («Ho tolto la tessera all'accademico Bontempelli perché più idiota e carogna di così si muore»), ma l'ostracismo totale: vietata la ristampa dei suoi libri, vietato chiedergli conferenze ... Più l'imposizione del domicilio coatto: Venezia. Ma solo per sopire lo scandalo. «Fu il periodo più bello della sua vita», scriverà Bo nel suo ricordo dopo la morte, definendolo «un prosatore stupendo» e «il più libero e nello stesso tempo più depurato del secolo». «Nel palazzo sul Canal Grande che lo ospitava diventò per la parte più responsabile della cultura italiana un riferimento, un piccolo faro d'ìndipendenza». Cosa che non gli bastò, anni dopo, a evitare l'umiliazione più grande della sua vita.
Scampato dopo 1'8 settembre 1943 alla condanna a morte decretata contro di lui dai nazisti per un libro del 1919 contro la Germania, sopravvissuto alla guerra, candidato a Siena col Fronte delle sinistre alle elezioni del 1948, Massimo Bontempelli fu eletto al Senato, ma subito trascinato davanti alla Giunta per le elezioni. Gli rinfacciarono d'aver firmato nel 1935 un pezzo intitolato Milizia santa su un'antologia (Oggi) di letture per le scuole medie contenente, come tutti i libri dell'epoca, parole d'esaltazione per il regime e il Duce. Antologia, tra l'altro, che lo scrittore aveva delegato, secondo il critico Franco Petroni, «a un perseguitato dal fascismo, che aveva bisogno di fare un po' di soldi e non poteva firmare col proprio nome».
Un peccato secondario, rispetto a quelli dei tanti razzisti riciclati come il fisiologo Sabato Visco, che era stato «capo dell'ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop», o il giurista Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza (e destinato perfino alla presidenza della Corte costituzionale), o l'ex segretario di redazione della «Difesa della razza» Giorgio Almirante (eletto in quella stessa tornata) e altri ancora.
Eppure fu lui, che Bo definiva «tutto fuor che uno scrittore impegnato e questo perché la sua fantasia non accettava nessun legame con la realtà», ad essere buttato fuori dal Senato come fascista. Il solo che, dopo quelle leggi infami sull'università, aveva avuto il fegato e la dignità di dire no.
LEGGI RAZZIALI
A partire dal settembre 1938, dopo il «Manifesto della razza» pubblicato nel luglio precedente, il regime fascista adottò una serie di provvedimenti antisemiti passati alla storia nel loro complesso come leggi razziali. Furono vietati i matrimoni tra ebrei e «ariani», fu epurato tutto il pubblico impiego, compresi gli enti parastatali. Gli studenti e i docenti ebrei vennero esclusi dalle scuole e dalle università e lo stesso avvenne nelle banche e nelle assicurazìoni. Furono interdetti agli israeliti il servizio militare e i ruoli professionali di notaio e giornalista. Fu vietato loro di essere proprietari di beni immobili al di sopra di un certo valore e di prendere a servizio personale domestico non ebraico. Gli ebrei di nazionalità straniera vennero espulsi dall'Italia.
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(Corriere della Sera, 29 agosto 2018)
Wannsee 1942 e quella conferenza contro l'umano
«Verso la soluzione finale», un saggio per Einaudi di Peter Longerich, docente di storia tedesca a Londra.
di Claudio Vercelli
Della conferenza di Wannsee, tenutasi nella Berlino nazista il 20 gennaio 1942, in piena guerra, quei pochi che la conoscono spesso ritengono di sapere tutto quello che occorre conoscere di essa, mentre gli altri ne ignorano integralmente la sua stessa esistenza. Va quindi subito detto in cosa consistette, almeno sul piano formale. Poiché la sua comprensione ci restituisce il quadro all'interno del quale andò definitivamente maturando la politica del genocidio razzista. La materiale disponibilità di una copia del verbale della conferenza, redatto a caldo da Adolf Eichmann e conservatosi fino alla sua scoperta, nel 1947, rappresenta un'eccezione rispetto al calcolato oblio con il quale altri eventi di similare portata furono letteralmente resettati dalle memorie dei protagonisti nonché cancellati dal repertorio documentario. Fu infatti un simposio ristretto, aperto a una quindicina di alti funzionari e dignitari delle amministrazioni del Terzo Reich accomunate dall'essere coinvolte nell'identificazione di contenuti, pratiche e modalità della «soluzione finale della questione ebraica».
Tre erano i gruppi di partecipanti: gli esponenti degli organi statali, che garantivano la «legalità amministrativa» della scelta di assassinare undici milioni di potenziali vittime; i delegati delle autorità civili di occupazione, che dovevano gestire i luoghi in cui il crimine di massa si sarebbe consumato; i funzionari delle SS, in rappresentanza dei loro uffici centrali o di quelli distaccati nelle zone invase, ai quali era richiesta la competenza tecnica e l'azione concreta. La divisione dei ruoli non era per nulla armoniosa, scontando una vera e propria competizione tra gruppi corporativi. In questo campo di tensioni, spicca la figura di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza, officiante della seduta e vero architetto della «sostenibilità» dell'omicidio di massa. Durante i brevi lavori della conferenza non si decise il merito del genocidio degli ebrei. Gli esponenti ministeriali, figure altolocate nella piramide burocratica ma non al supremo vertice politico, non ne avevano i titoli, le attribuzioni e men che meno la delega. Né si pervenne alla definitiva identificazione del «come» procedere alla distruzione dell'ebraismo europeo. I fatti si erano già incaricati di dimostrare che nessuna procedura unitaria era fattibile se non ci si fosse costantemente confrontati con i continui mutamenti di scenario: esigenze belliche della Germania, disponibilità di mezzi di trasporto, competizioni tra amministrazioni naziste, conflitti di ruoli tra decisori ai massimi vertici istituzionali ma - soprattutto - l'oracolare «volere del Führer», che gli astanti erano chiamati a interpretare e tradurre in fatti concreti. SEMMAI Si trattò di un evento all'insegna di un duplice movente: la corresponsabilizzazione per compromissione delle amministrazioni partecipanti e la delimitazione reciproca delle loro sfere di influenza.
Più che parlarci esclusivamente della volontà omicida del nazismo la conferenza di Wannsee ci restituisce quindi lo spaccato di un regime al medesimo tempo dittatoriale e policratico, dove la promozione e il perseguimento di obiettivi sempre più enfatici, estranei alla stessa condotta bellica, diventava il punto di raccordo e di sintesi tra l'ampissima articolazione di poteri e sottopoteri che costituivano lo Stato hitleriano. Peter Longerich nel suo ultimo lavoro dedicato a Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee (Einaudi, pp. 208, euro 26), pondera i fattori di quadro, restituendo al lettore il senso della complessità che stava alla base della definitiva trasformazione della Germania in una società omicida.
L'autore, docente di storia tedesca presso l'Università di Londra, e fondatore del Royal Holloway's Holocaust Researeh Centre, in Italia è già conosciuto per un'ampia biografia dedicata a Joseph Goebbels, interamente costruita sui diari del ministro della propaganda. In questo nuovo libro si sforza di dare conto dei soggetti interessati, dei passaggi così come della mediazioni che compongono il processo decisionale che portò allo sterminio degli ebrei d'Europa.
L'intelaiatura e le procedure che legittimarono un tale esito, infatti, demandano perlopiù a eventi, gesti, affermazioni consegnati alla parola non scritta. Il doppio binario di un percorso che da una parte si poggiava sulle strutture dello Stato legale e, dall'altra, si rifaceva alla condizione di eccezione, ha reso difficile, spesso imprevedibile, non la comprensione dei risultati, ossia lo sterminio medesimo, bensì l'identificazione dei transiti intermedi, sottoposti ad un sistematico occultamento. Sono in realtà questi ultimi, invece, che ci restituiscono l'ampia compromissione di una pluralità di burocrazie nella realizzazione di un crimine ineguagliabile. Del pari, analizzando come fa Longerich documenti e fonti disponibili, delle quali il verbale della conferenza era solo un pur importante tassello, diventa molto più comprensibile il reticolo di apparati che, prima ancora di impegnarsi nella prassi omicida, fecero sì che essa potesse concretamente assumere una plausibilità pseudo-morale, per poi trasfondersi in azioni tanto concrete quanto continuative. Anche da ciò deriva al lettore la netta percezione della natura «moderna» dello sterminio, in quanto crimine burocratico, esercitato in una logica di totale anestetizzazione etica, dove i paradigmi dell'efficacia e dell'efficienza si sostituiscono a ciò che resta di una residua coscienza umana.
(il manifesto, 29 agosto 2018)
Giusto tra le Nazioni, chi era Carlo Angela
C'è un giorno in cui la vita, sia essa pubblica o privata, è segnata da uno spartiacque. Quel giorno per Carlo Angela è il 25 aprile 2002, quando il suo nome compare sulla stele d'onore del Giardino dei Giusti, nel Museo Yad Vashem dell'Olocausto di Gerusalemme.
Fino a quel momento, Carlo è noto per essere il padre di Piero Angela, il noto giornalista che ha portato la scienza nelle case degli italiani, lasciando poi il testimone al figlio Alberto.
Carlo Angela si laurea in medicina all'Università di Torino vicino a Olcenengo, quella provincia di Vercelli, che gli diede i natali nel 1875. Poco dopo si trasferisce a Parigi dove frequenta corsi di neuropsichiatria.
Uomo di spicco della Massoneria italiana, Carlo si avvicina alla politica prima delle elezioni del 1924 senza riuscire a entrare in Parlamento. Da quella candidatura in poi, la sua vita incrocia volutamente la politica solo dopo la Liberazione, quando diventa sindaco di San Maurizio Canavese, vicino Torino.
Ed è proprio nel piccolo comune piemontese, che Carlo Angela "incontra" le sorti del popolo ebraico quando è medico presso una casa di cura per malattie mentali, in cui falsifica esami e cartelle cliniche per proteggere numerosi ebrei e antifascisti facendoli passare per malati, salvandoli dall'inferno dei lager nazisti.
Quegli insoliti movimenti nella clinica, però, attraggono su di sé le attenzioni del regime, la cui polizia compie una rappresaglia l'11 febbraio 1944, facendo rischiare la fucilazione a Carlo Angela.
Carlo Angela ha compiuto un gesto umano e solidale lontano dal clamore. La sua figura è entrata a far parte dei Giusti per aver atteso i tre elementi richiesti: aver salvato ebrei, rischiando per la propria vita e senza aver ricevuto alcuna ricompensa.
Carlo Angela muore a Torino nel 1949, grazie a lui sono sopravvissuti molti ebrei.
(Progetto Dreyfus, 29 agosto 2018)
Tel Aviv rende omaggio a ventitré "Italkim"
Ventitré biografie di italiani e tra questi ben sei insignite con il massimo riconoscimento del paese.
TEL AVIV - Ventitré biografie di italiani e tra questi ben 6 insignite con il massimo riconoscimento del paese, il 'Premio Israel'. A tutti loro, gli 'Italkim' che negli anni '20 e '30 fecero l'aliyà (l'immigrazione) in quella che allora era la Palestina sotto Mandato inglese, è dedicata la mostra che si apre il domani al Museo di Arte Ebraica Italiana U. Nahon di Gerusalemme. Un omaggio - ha detto il presidente dell'istituzione Jack Arbib - a chi ha contribuito con la sua opera alla costruzione dello Stato di Israele di cui nel 2018 si festeggiano i 70 anni della nascita. Una aliyà «di grande qualità» - ha aggiunto - che per scelta, o per costrizione imposta dall'antisemitismo razzista allora crescente in Italia, portò «ragazzi e ragazze provenienti da famiglie borghesi agiate a diventare pionieri in un paese che poco conoscevano ma che amavano profondamente».
Le storie dei 23 Italkim sono diventate così il filo conduttore per raccontare «il loro apporto culturale, accademico e scientifico alla costruzione dello Stato sionista». Tra i 6 insigniti del Premio Israel ci sono uomini e donne che hanno aperto la via in molti campi del futuro stato: dal giurista Guido (Gad) Tedeschi, all'agronomo Yoel De Malach (Giulio De Angelis), al fisico Giulio Racah, al demografo Roberto
Bachi, al linguista Gad Tzarfati, ad Ada Sereni grande capo in Italia dell'emigrazione clandestina in Israele. Senza dimenticare lo psicologo Enzo Bonaventura ed Enzo Sereni, marito di Ada, tra i fondatori del kibbutz 'Givat Brenner', ucciso nel campo di concentramento di Dachau.
(Il Piccolo, 27 agosto 2018)
La verità sulle carceri israeliane secondo Ahed Tamimi
La giovane provocatrice palestinese smentisce la sua stessa propaganda (e si schiera con Hezbollah attirandosi impietose critiche dagli arabi sunniti).
La routine quotidiana nel penitenziario israeliano è fatta di canti, balli, letture, tv e studi per gli esami di maturità. E' quanto ha affermato in un'intervista all'emittente russa RT TV Ahed Tamimi, la giovane palestinese che ha scontato otto mesi di detenzione per la sua esplicita istigazione al terrorismo diffusa su video e le aggressioni, reiterate per anni, a calci pugni insulti e sputi contro soldati israeliani, sempre calcolatamente inscenate davanti alle telecamere (senza peraltro essere mai riuscita a suscitare la desiderata reazione violenta, da filmare e diffondere). Le sue parole costituiscono una clamorosa smentita delle menzogne della propaganda anti-israeliana sulle carceri israeliane....
(israele.net, 28 agosto 2018)
L'Europa non bada a spese per favorire i nemici di Israele
Bruxelles si preoccupa di rafforzare l'Iran colpito dalle sanzioni americane e apre il portafogli al regime degli ayatollah.
di Maurizio Stefanini
«Un grave errore» e «una pillola avvelenata», è stata definita dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la decisione dell'Unione Europea di stanziare 18 milioni di euro a favore di un Iran che insiste nella sua volontà di distruggere Israele. Ma non solo l'Ue va avanti: addirittura amplia il pacchetto. I 18 milioni di aiuti in «cooperazione economica, ambientale e sociale con l'Iran» decisi dalla Commissione Europea per garantire il suo impegno «al rispetto dell'accordo sul nucleare con Teheran» sono infatti compresi nell'ambito di un più ampio pacchetto di misure da 50 milioni complessivi che «mirano a offrire sostegno al Paese nell'affrontare le sfide economiche e sociali che lo attanagliano».
Nel dettaglio, 8 milioni di euro andranno alle piccole e medie imprese: «più lo sviluppo di specifiche catene di valore e assistenza tecnica all'Organizzazione per la promozione del commercio iraniana». Altri otto milioni saranno invece erogati per fornire supporto tecnico nel settore ambientale, mentre i restanti due andranno per la riduzione dei danni provocati dall'uso delle droghe. I progetti verranno attuati dalle agenzie degli stati membri, dall'International Trade Centre e altre organizzazioni, in stretta cooperazione con le controparti iraniane.
Mogherini
«Con il rinnovamento delle relazioni Ue-Iran in seguito all'accordo sul nucleare, si è sviluppata una cooperazione in molti settori, e siamo impegnati a sostenerla», ha dichiarato l'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. «L'Ue dimostra il suo sostegno al popolo iraniano e al suo sviluppo pacifico e sostenibile», ha aggiunto il commissario Ue allo sviluppo Neven Mimica.
«L'Iran ha tentato di condurre un attacco terroristico sul suolo europeo poche settimane fa. È incredibile», ha commentato Netanyahu durante la sua visita nella capitale lituana Vilnius, dove ha visto tutti e tre i primi ministri baltici: il lituano Saulius Skvernelis, l'estone Juri Ratas e il lettone Maris Kucinskis. Il riferimento era al tentato attacco contro una manifestazione dell'opposizione iraniana in Francia alle fine di giugno. Lo Stato ebraico è preoccupato che gli sviluppi della crisi siriana possano portargli i Pasdaran alle porte di casa, e da vari mesi Servizi e Forze Armate israeliane stanno combattendo con gli iraniani nella stessa Siria senza esclusione di colpi. Anche a questa preoccupazione è legato l'irrigidimento di Trump. Secondo il primo ministro israeliano, è un siluro agli «sforzi per frenare l' aggressione iraniana nella regione e oltre la regione». Proprio un comunicato dell'opposizione iraniana in esilio ha ricordato che «molte multinazionali si sono già ritirate dagli affari con l'Iran perché la scelta è o l'Iran o gli Stati Uniti. Non molti sceglierebbero di fare affari con l'Iran invece che con una delle più grosse potenze del mondo». Il riferimento è a quell'esodo di imprese europee dall'Iran che è iniziato con la francese Total, malgrado la stessa Ue abbia minacciato punizioni contro i fuggiaschi.
Opposizione
Ma, dice sempre l'opposizione iraniana, «la cosa peggiore di tutta questa situazione è che l'Ue si sta dimenando per compiacere il regime teocratico in Iran non riuscendo a vedere il quadro complessivo. Non solo l'Ue sta completamente ignorando i crimini e le attività belliche del regime, ma sta anche mettendo le relazioni commerciali prima della vita dei suoi stessi cittadini tenuti in ostaggio in Iran. Perché i politici dell'Ue non chiedono che i loro cittadini vengano rilasciati con effetto immediato? I politici europei non hanno ascoltato o compreso la lunga lista di ragioni del presidente degli Stati Uniti per abbandonare l'accordo sul nucleare? O semplicemente non interessano loro?».
Il comunicato era corredato da una delle famose foto di Federica Mogherini in chador: per ricordare che l'Alto Rappresentante, peraltro islamologa per formazione, tanto aveva puntato all'intesa con l'Iran, da sperare di venirne insignita anche con il Premio Nobel per la Pace. Rimanendone per altro con un palmo di naso: «è bene vedere il Premio Nobel per la pace 2017 all'Ican, condividiamo un forte impegno a raggiungere l' obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari», aveva commentato, quasi parafrasando la vecchia storia della volpe e dell'uva. Ma forse sta sperando in quello che al Comitato per il Premio Nobel di Oslo decideranno nella prossima tornata.
(Libero, 28 agosto 2018)
La tecnologia avanzata del sistema sanitario israeliano
di Beatrice Casella
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Beatrice Casella
Laureata in economia internazionale e dello sviluppo, si è sempre appassionata del settore sanitario. Il tema della tesi di laurea triennale ha riguardato il tasso di mortalità infantile in Tanzania (paese dove ha vissuto alcuni anni). Per il suo master's degree si è concentrata sull'incidenza della politica e dell'economia nel garantire una salute globale. Praticante giornalista, ha lavorato a Milano con il Gruppo editoriale L'Espresso e attualmente lavora come Research Analyst per una società che si occupa di costruzioni sostenibili.
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In Israele, l'assistenza sanitaria universale di base è obbligatoria dopo che la legge sull'assicurazione sanitaria, la "National Health Insurance Law" o "National Health Insurance Act", venne approvata nel 1995. Anche prima di questa legge, circa l'85% degli israeliani era già sotto copertura.
Secondo un recente studio inglese, il sistema sanitario israeliano è considerato tra i 10 migliori del mondo principalmente grazie alla disponibilità delle cure preventive e le infrastrutture sanitarie molto avanzate. Tra queste risulta consono citare il Herzliya Medical Center, un ospedale privato ed una eccezionale istituzione medica nello stato israeliano.
La clinica propone un'ampia gamma di trattamenti medici, procedure e servizi quali, la diagnostica accurata, consulti con i migliori specialisti israeliani ed innovativi trattamenti chirurgici di livello elevato. Al giorno d'oggi, gli interventi ammontano a circa 200.000 e quasi tutti sono stati eseguiti in dipartimenti sempre di più all'avanguardia. Come parte di un servizio personalizzato, l'ospedale prevede che ogni paziente venga assegnato ad un Case Manager il quale gestisce tutte le pratiche amministrative, logistiche e mediche.
Questo centro medico è caratterizzato da qualità, professionalità e multilinguismo non facilmente riscontrabili in altre strutture ospedaliere, specialmente in Europa. In particolare, a differenza di altri paesi contraddistinti da un'industria molto forte del turismo medico, l'Herzliya Medical Center assume numerosi operatori sanitari multilingue, tra cui russi ed inglesi, tutti madrelingua.
Gli strumenti utilizzati appartengono a recenti tecnologie mediche grazie alle quali le apparecchiature di diagnostica consentono di eseguire qualsiasi analisi per identificare le malattie in una fase precoce, ovvero prima della comparsa dei sintomi clinici. In ultimo, grazie ai moderni mezzi di controllo lo staff medico riesce a monitorare eventuali cambiamenti critici nelle condizioni dei pazienti e per prevenire lo sviluppo di complicanze. Tutti i membri dello staff sono ben addestrati e sono in grado di assistere i pazienti in situazioni anomale e di emergenza.
Per sostituire le tecniche invasive quindi, sono state introdotte tecniche più sicure, come la colonscopia virtuale, sostituendo così la colonscopia standard, oppure una tomografia computerizzata del cuore, utilizzata come alternativa alla angiografia.
Il settore medico israeliano è in continuo sviluppo e miglioramento. Le cure mediche israeliane vantano i più recenti risultati della ricerca clinica e biomedica e presso l'ospedale vengono messi in pratica quotidianamente.
Il trattamento di alta qualità deriva anche da una grande preparazione del personale. L'ospedale collabora con più di 400 medici israeliani con una lunga e concreta esperienza. Chirurghi, anestesisti, oncologi, cardiologi e altri specialisti provengono da istituti di Israele o università straniere.
Pertanto, Israele è all'avanguardia nell'utilizzo degli strumenti digitali in ambito sanitario. Il cittadino che ha bisogno del proprio medico di medicina generale può prenotare via web, tutti i referti sono trasmessi per via elettronica, tutto è archiviato in un vero big data sanitario.
Israele ha ricevuto il più alto punteggio sulla qualità sanitaria in Medio Oriente e i suoi cittadini hanno un'aspettativa di vita di 82,5 anni - l'ottava più alta del mondo. Il sistema del paese assicura che ogni cittadino riceva la copertura sanitaria, ma i fornitori di assicurazioni devono competere per attirare clienti e ricevere fondi.
Difatti, anche se i sevizi sanitari sono di buon livello soprattutto nelle città principali, il costo delle spese mediche è elevato. Ad esempio, un'occlusione intestinale può costare più di 17.000 euro. Per tale motivo viene fortemente consigliato a tutti i turisti o stranieri che si recano nel Paese per lavoro, di sottoscrivere l'Assicurazione sanitaria Travel Care che prevede anche l'eventuale rimpatrio aereo sanitario.
(Health Online - Health Italia, 28 agosto 2018)
L'Israele moderno ha molte più tribù di quello biblico
A cinquant'anni dalla fondazione dello Stato ebraico Elisa Pinna ne esplora la varietà e i contrasti stridenti.
di Antonio Carioti
Nella tradizione biblica le tribù di Israele erano dodici, come i figli di Giacobbe. Oggi però, mostra la giornalista dell'Ansa, Elisa Pinna nel libro Latte, miele e falafel (Edizioni Terra Santa), nello Stato d'Israele nato settant'anni fa dal progetto sionista, le tribù sono molto più numerose. Anche perché a quelle ebraiche se ne aggiungono tre cristiane e altrettante musulmane, senza contare i drusi, di lingua araba, ma (a parte quelli del Golan, che si sentono siriani) fedeli alle autorità israeliane.
È un autentico mosaico quello descritto dall'autrice, con non poche sorprese per il lettore poco avvezzo alla complessità labirintica del Medio Oriente.
Colpisce per esempio che l'integrazione dei russi (a volte neppure di religione ebraica), giunti in Israele dopo il crollo dell'Unione Sovietica neI 1991, sia riuscita meglio rispetto a quella degli ebrei orientali provenienti dai Paesi arabi, che sono approdati nella Terra promessa molto tempo prima, ma si sentono ancora in gran parte cittadini di serie B e al tempo stesso, anche per via delle gravi persecuzioni subite nei luoghi di origine, nutrono una spiccata ostilità nei riguardi dei palestinesi.
Tuttavia i contrasti più stridenti sono altri: per esempio quello tra la ricca e secolarizzata Tel Aviv, una delle città più ospitali per i gay al mondo, e la comunità assistita dal governo degli ebrei ultraortodossi, chiusi in un fondamentalismo rigidissimo e persuasi che lo Stato d'Israele sia «solo una parentesi» nella vicenda millenaria del popolo eletto; oppure quello, ancora più drammatico, tra i rari pacifisti, impegnati a difendere i diritti umani dei palestinesi, e i sempre più numerosi coloni oltranzisti nazional-religiosi della Cisgiordania, convinti che gli arabi non abbiano alcun titolo per risiedere in una terra appartenente agli ebrei per diritto divino.
Non è facile districarsi in uno scenario così complesso e difficile da governare ma bisogna riconoscere a Elisa Pinna il merito di averne tracciato un quadro molto esauriente.
Nel giudizio politico, al forte pessimismo espresso da Bruno Segre, che paventa una catastrofe nel testo che chiude il volume, si può contrapporre un'esperienza storica che ha visto Israele sopravvivere con successo a molte crisi. Nonostante tutti i conflitti, si tratta di una società aperta. E questo le assicura un vantaggio importante in una regione mediorientale dove il fanatismo di ogni genere resta senza dubbio la malattia più grave.
(Corriere della Sera, 28 agosto 2018)
«Rubati dai nazisti, ridateli agli eredi»
Duello in Germania sugli Schiele contesi
di Elena Tebano
BERLINO - Da una parte la Fondazione tedesca nata per favorire la restituzione delle opere d'arte sottratte dai nazisti alle loro vittime, dall'altra gli eredi di un cabarettista (e collezionista) austriaco ebreo ucciso a Dachau, in mezzo un giudice di New York. E' polemica per la sorte di due acquerelli di Egon Schiele, ritrovati negli Stati Uniti in possesso del gallerista Richard Nagy, e dell'intera collezione a cui appartenevano. E soprattutto sui criteri usati per rintracciare le opere d'arte rubate agli ebrei perseguitati sotto il nazismo.
I due dipinti di Schiele, Signora in grembiule nero del 1911 e Ragazza che si copre il viso del 1912, che insieme valgono oltre 4 milioni di euro, facevano parte della collezione dell'austriaco Fritz Grünbaum. Il suo nome oggi dice poco fuori dall'Austria, ma è stato uno dei padri del cabaret teutonico e una delle sue battute circola ancora: «Voglio andare all'inferno» cantava negli Anni 30, perché lì «il clima è piacevole, mite e caldo» e «la gente ha carattere e fascino».
Neppure nell'inferno in terra che era Dachau Grünbaum perse la sua ironia: si racconta che alla guardia che gli negava un pezzo di sapone per lavarsi abbia risposto «chi non ha i soldi per comprare sapone non dovrebbe gestire un campo di concentramento». Nel lager Grünbaum morì nel 1941, un anno dopo la stessa fine atroce toccò alla moglie Elisabeth. Erano stati internati nel 1938: subito dopo il loro appartamento era stato «arianizzato» e i nazisti avevano catalogato la collezione, 453 quadri, tra i quali opere di Dürer, Degas, Rembrandt, e oltre sessanta dipinti di Egon Schiele. Di molti si sono perse le tracce, i pezzi di Schiele sono ricomparsi nel 1956 in Svizzera a un'asta del mercante d'arte Eberhard Kornfeld, che disse di averli comprati da una «rifugiata». Solo trent'anni dopo, quando gli eredi di Grünbaum hanno chiesto di riavere le opere, il mercante sostenne che la «rifugiata» era la sorella di Elisabeth, che avrebbe nascosto i dipinti di Schiele per poi recuperarli dopo la guerra. Una versione sempre contestata dai discendenti del cabarettista.
E qui entra in gioco il «Deutsche Zentrum Kulturgutverluste», la fondazione governativa per «le opere culturali perdute», fondata nel 2015 dalla Germania proprio per restituire quello che è stato preso agli ebrei e alle altre vittime del nazismo. All'inizio, a differenza dell'Austria (nei cui musei statali si trovano altre opere provenienti dalla collezione Grünbaum e che ne rivendica il «legittimo» possesso), la Fondazione aveva inserito la collezione tra le opere rubate ai perseguitati. Adesso però l'ha tolta, dando credito alla versione dei mercanti d'arte. «Non è in discussione che Fritz Grünbaum sia stato perseguito dai Nazisti - ha detto al New York Times la portavoce tedesca Freya Paschen - questo non significa che tutta la sua collezione sia stata persa per colpa della persecuzione nazista». Tutto questo quando invece ad aprile un giudice americano ha stabilito che l'attuale proprietario dei due acquerelli Nagy debba restituirli agli eredi Grünbaum. Il gallerista ora ha fatto appello, ma la decisione del tribunale newyorchese ha riaperto la questione, che potrebbe riguardare anche altre opere della collezione. E soprattutto ha sollevato più di un dubbio sull'operato della Fondazione che dovrebbe aiutare a riparare almeno in parte le prevaricazioni del regime hitleriano.
(Corriere della Sera, 28 agosto 2018)
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Lo storico Michele Sarfatti aggiunge nuovi documenti del 1940 sul destino degli internati nel campo italiano.
di Mirella Serri
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni. La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l'entrata in guerra dell'Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l'Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei ... significa la loro condanna a morte». Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall'emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell'ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un'audace proposta: tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud. Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all'ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c'era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei». Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all'alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.
(La Stampa, 28 agosto 2018)
Dal Giappone a Israele: le donne ai vertici militari
di Francesco Palmas
Donne e forze armate: un binomio sempre più indissolubile, fatto di pagine memorabili, eroismo e coraggio. Gli esempi sono ormai tantissimi, perché il personale femminile si sta facendo strada anche nella [unzione chiave degli eserciti: il combattimento e la guerra. L'ultima novità viene dall'ultra-conservatore Giappone. Per la prima volta nella storia del Paese, una donna è diventata pilota di caccia, il 23 agosto scorso. Misa Matsushima ha appena ventisei anni. Sognava fin da bambina di poter volare su un jet da guerra. Ha colto l'occasione al volo non appena il ministero della Difesa, a Tokio, ha fatto cadere l'ultima barriera, levando l'interdizione alle donne di postulare per l'aviazione militare, in ruoli di prima linea.
Misa seguirà il cammino di Kiyotaké Shigeno, un pioniere dell'aeronautica nipponica. Raggiungerà presto la base di Nyutabaru e la quinta squadra aerea, volando su un F-15. Il suo. Le manca solo uno stage di poche settimane e, poi, sarà pronta per l'allerta operativa. Sono storie che incoraggiano, perché le donne possono portare maggiore sensibilità umana in caso di guerra, limitando il deragliamento attuale delle operazioni belliche dai canoni del diritto dei conflitti armati. Tre colleghe di Misa sono prossime a emularla, in un Paese in cui le donne rappresentano appena il 6,4% dei 228mila militari in servizio. Da questo punto di vista, Israele è avanti anni luce. Il 7 agosto scorso una donna è diventata numero uno dello squadrone 122 Nachson, un'unità molto speciale dell'aviazione di Tsahal. Il "maggiore G.", 34enne, sarà promossa a tenente colonnello: «Un gran privilegio e un'immensa responsabilità», racconta. «Adesso mi attende il vero impegno. Sono fiera di prestare servizio nell'aviazione israeliana». Se molti Paesi arruolano già le donne nelle forze armate, ne limitano però i compiti a incarichi ausiliari. Israele, che non esenta le donne dal servizio militare obbligatorio, conta nei ranghi molti battaglioni di fanteria leggera, per il 60-70% composti da ufficiali e soldatesse donne, volontarie per servire nella mischia della battaglia.
La selezione è molto dura. Metà delle candidate lascia le quattro unità leggere anzitempo, per incidenti o problemi muscoloscheletrici. Non è una cosa per tutte. Fra le prove di selezione bisogna superare un percorso combattente di 1,5 km, tappezzato di l5 ostacoli semi-insormontabili. Il tutto in meno di 17 minuti.
Poi ci sono le marce zavorrate di 25 km (un fante d'assalto uomo si spinge fino a 80 km). Presto, le donne di Tsahal potranno servire anche sui cani armati, un altro tabù prossimo a cadere. Come Israele, la Norvegia è all'avanguardia nella parità dei sessi in campo militare. Dall'anno scorso, il generale Tonje Skinnarland comanda l'aviazione da guerra di Oslo. Mai una donna aveva raggiunto un tale livello di responsabilità.
Non risultano omologhe in nessun'altra parte del mondo. Tonje non è nemmeno pilota, una prima assoluta per i capi di stato maggiore della Luftforsvaret, da sempre uomini e piloti. Ma non teme le sfide. Donne come lei ne vedremo altre in Norvegia, perché Oslo punta a una percentuale femminile nelle Forze armate pari al 20% degli effettivi entro il 2020. Dal 2016, il servizio di leva è obbligatorio per entrambi i sessi, un caso unico nella Nato. C'è da dire che, negli ultimi anni, sempre più donne stanno accedendo a ruoli di comando. L'ammiraglio americano Michelle Howard è stata per esempio la prima donna a tenere le redini del comando militare Nato di Napoli, prima di andare in pensione nel 2017. E, in Canada; il Generale Jennie Carignan ha sbaragliato tutti nell'ambito posto di capo di Stato maggiore per le operazioni dell'esercito.
La storia militare abbonda di esempi di donne combattenti e comandanti. Delle Amazzoni raccontano Omero, Erodoto ed Eschilo. Molte città medioevali tributano tuttora gli onori alle guerriere che combatterono per la libertà. Beauvais celebra ogni anno sulla piazza onomastica ]eanne Hachette, ancora trionfante nell'imponenza della sua statua. Per non dire di Orléans e di Giovanna d'Arco, che liberò la città, occupata dagli inglesi, nel 1429. Eroine della storia, come le donne pilota sovietiche della seconda guerra mondiale o come le guerriere curde dello Ypj, che hanno partecipato a tutte le battaglie contro il Daesh, nel nord della Siria. Le donne sono preziose. Il personale femminile ha potuto accedere a luoghi e informazioni altrimenti preclusi ai maschi, vista la rigida segregazione dei sessi vigente in alcune parti del mondo. Pagine eroiche. Se ne scriveranno altre, nella terribile realtà della guerra.
(Avvenire, 28 agosto 2018)
70 anni in prima linea per l'ospedale più grande del Medioriente
Eccellenze d'Israele: Ospedale Sheba Tel Hashomer- Creato nel 1948, è oggi una realtà all'avanguardia in molti settori della medicina. Un grande evento con il presidente Rivlin ne ha celebrato l'anniversario.
di Dodi Hasbani
I miei primi contatti con l'Ospedale Sheba Tel Hashomer risalgono a circa tre anni fa. Assieme a mia moglie Diana eravamo intenzionati a trovare un progetto per concretizzare una donazione in memoria dei nostri genitori.
Abbiamo valutato diverse proposte e scelto di creare una "step down unit" in Sheba. La struttura è stata inaugurata in giugno 2016 e da allora abbiamo avuto molte occasioni di frequentare l'Ospedale e, in particolare, l'equipe che si occupa del fund raising, magistralmente diretta da Ada Cegla, apprezzando l'ottimo lavoro che svolgono.
Quest'anno ho avuto l'onore di essere nominato Ambassador of Good Will di Tel Hashomer Sheba e quindi di essere anche coinvolto nelle celebrazioni per l'anniversario della fondazione.
Nato nel giugno del 1948, un mese dopo la proclamazione dello Stato d'Israele, anche l'Ospedale Sheba Tel Hashomer ha compiuto quest'anno 70 anni. Per celebrare questo importante traguardo è stata organizzata una settimana di eventi che ha avuto come momento culminante la cerimonia del 14 giugno alla presenza del Presidente di Israele Reuven Rivlin nella sua residenza privata a Gerusalemme. Sono state anche organizzate una interessantissima survey circa le più recenti innovazioni in campo medico, gite ed escursioni uniche e una serata di Gala presso l'Ospedale alla quale hanno partecipato 1100 sostenitori.
Il Presidente Rivlin ha ricordato la storia di Tel Hashomer nato come ospedale militare e, dopo cinque anni nel 1953, per volontà del Direttore Dottor Chaim Sheba, aperto anche alla popolazione civile.
Durante la cerimonia ha parlato il Professor Itzhak Kreis, specialista in Medicina Interna, master in Amministrazione Sanitaria e Salute Pubblica. Kreis ha servito per 30 anni nell'esercito, dirigendo come Ufficiale Medico Capo dal 2011 al 2014 le varie missioni di aiuto in aree di tutto il mondo colpite da disastri; nel 2016 ha lasciato l'IDF con il grado di Generale per assumere la carica di Direttore Generale di Tel Hashomer Sheba.
Oggi Sheba è il più grande ospedale del Medioriente; sorge su 61 ettari, ha 120 dipartimenti e cliniche, 1700 letti, esegue 2 milioni di esami, ha 8543 addetti che comprendono medici, para medici, infermieri, operatori sanitari.
In Sheba vengono curate in media 1.000.000 di persone ogni anno di tutte le condizioni sociali, nazionalità e religioni provenienti da tutto il mondo compresi i territori palestinesi e la Siria. Tra le tante specialità, è famoso il reparto di primo intervento dopo disastri naturali come terremoti, alluvioni tsunami, sempre pronto ad agire tempestivamente in ogni parte del mondo. In questi giorni il reparto era in Guatemala a portare aiuto alla popolazione gravemente colpita dall'eruzione del vulcano Fuego (a giugno, ndr).
L'ospedale in questi anni ha continuato il suo sviluppo ampliandosi con la costruzione di nuove strutture all'avanguardia interamente finanziate da donazioni, mentre il Servizio Sanitario Pubblico garantisce la gestione ordinaria. Attualmente Sheba ha la responsabilità a livello nazionale della presa in carico di tutti i pazienti che necessitano di terapie intensive, dei casi di riabilitazione più gravi in particolar modo per soldati e civili vittime di attentati, degli ustionati gravi.
Dal 2001 è leader mondiale della simulazione medica (MSR) per la formazione del personale medico e paramedico sia civile che di Tsahal. Accanto ai reparti di cura coesistono numerosi reparti di ricerca fra i quali: The Advanced Technology Center, The Sheba Cancer Research Center, The Joseph Sagol Neuroscience Center, The Cell Replacement Therapy for Diabetes.
Questo permette una continuità fra ricerca e cura con incredibili e quotidiani progressi impensabili fino a pochi anni fa.
(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2018)
Israele acquista nuovi razzi precisione
Accordo con industrie. Lieberman, aumentano capacità offesa
GERUSALEMME - Il ministero della Difesa e le Industrie militari israeliane (Imi) hanno firmato un accordo di centinaia di milioni di shekel per missili di alta precisione.
Alcuni di questi hanno - secondo i media - un raggio tra i 30 e i 150 chilometri. "Stiamo acquistando e sviluppando sistemi di alta precisione - ha detto il ministro Avigdor Lieberman - che aumentano le capacità di offesa dell'esercito israeliano. In pochi anni potremo coprire il corto e il lungo raggio nell'area".
(ANSAmed, 27 agosto 2018)
"Un percorso fra Carte e Codici": alla scoperta del patrimonio ebraico Eventi a Cesena
di Piero Pasini
Con il convegno "Cesena Ebraica. Un percorso fra Carte e Codici", in programma domenica dalle 9 nella Sala Lignea della Biblioteca Malatestiana, si aprono ufficialmente le celebrazioni per il seicentesimo anno della nascita di Novello Malatesta. Un appuntamento sull'ebraismo con il quale Cesena aderisce per la prima volta, insieme ad altre novanta città italiane, alla Giornata Europea della Cultura Ebraica.
"Questo convegno - dice il vicedirettore del comitato scientifico della Malatestiana Marino Mengozzi - intende celebrare un patrimonio di cultura ebraica grande e piccola conservato sia nella Biblioteca, quanto nell'Archivio di Stato e nell'Archivio Storico Diocesano. Dopo le relazione degli esperti seguirà la visita ad una ricca esposizione di antichi codici presso la Sala Piana. In particolare nella Malatestiana sono presenti sette manoscritti ebraici le cui origini risalgono al quattrocento ed appartennero a famiglie ebree della citta".
"Sono inoltre presenti - continua il vicepresidente - alcuni documenti provenienti dalle carte della famiglia cesenate dei Saralvo che venne sterminata ad Auschwitz nel 1944". Nella Sala Piana della Biblioteca saranno esposti anche codici di cultura ebraica provenienti dall'archivio statale e da quello diocesano. "Potranno essere visti dei frammenti manoscritti di molti secoli fa, fino al milleduecento - spiega Mengozzi -, trovati per caso all'interno delle rilegature o collocati per fare spessore nei frontespizi di vecchi libri di tutt'altro argomento".
Di altissimo livello i relatori che si succederanno a parlare dalle ore nove in poi: Mauro Perani, Università di Bologna, "I frammenti ebraici dell'archivio diocesano e dell'archivio comunale", Saverio Campanini, Università di Bologna, "Ovadia Sforno, filosofo ed esegeta", Giuliano Tamani, Università Ca' Foscari, "La tradizione ebraica (e latina) del Canone di Medicina di Avicenna", Silvia Di Donato, Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, "Il commento di Averroè alla logica di Aristotele e le tavole astronomiche di Abraham bar Hiyyah".
La mostra dei codici rimarrà fino al 20 settembre e potrà essere visitata dal martedì al sabato in orario 9-19, domenica 10-19, lunedì 14-19.
(Cesena Today, 27 agosto 2018)
Acqua
di Daniela Fubini
L'attrice che in televisione fa la pubblicità progresso per convincere gli israeliani a non fare troppo spreco d'acqua è oggetto di caricature infinite, sia per l'intensità con cui pronuncia teatralmente "Israele si sta seccando" e frasi simili, sia per via dell'effetto zolle di terra essiccate al sole che l'ideatore dello spot ha un po' sadicamente deciso di usare sul suo bel viso. E non è che non abbia ragione, intendiamoci: il Kinneret o Lago di Tiberiade ogni anno scende di ulteriori manciate di centimetri e la pioggia invernale non basta più per riempirlo da decenni ormai. Al mio arrivo in Israele oltre dieci anni fa i locali si prodigavano in consigli su come evitare di buttare via acqua potabile non utilizzata, per esempio nell'atto quotidiano di regolare il calore della doccia: un secchio nella doccia e raccogli acqua pulita, non abbastanza calda per lavarsi ma ottima per lavare invece il pavimento o dar da bere alle piante. Ma in realtà, con i desalinizzatori e i sistemi di filtraggio per riutilizzo che abbiamo in funzione, l'acqua in Israele manca nel Kinneret e in generale a terra ma non nei tubi delle nostre case. E comunque ovviamente, secondo lo spirito vagamente anarchico insito nell'essere israeliano, la cosa in assoluto più popolare da fare lungo l'estate è andare a sguazzare in qualche ruscello o laghetto al nord: non c'è acqua? E noi ci godiamo quella che c'è, finché c'è. La cosa quest'anno è riuscita non benissimo per via di una poi scampata epidemia di leptospirosi causata a quanto pare proprio dalla carenza di acqua e quindi di corrente nei suddetti torrenti e laghetti, ma c'è da scommetterci che l'anno prossimo il popolo d'Israele si ritroverà di nuovo a bagno al nord per rinfrescare gli animi arroventati dall'estate.
(moked, 27 agosto 2018)
Joel Itman: arte ebraica applicata
«Cinque anni fa ho iniziato una ricerca sulle mie origini ebraiche europee, che mi hanno ispirato per creare arte ebraica. Anche se profondamente radicata nella tradizione, è completamente nuova». Così si racconta Joel Itman, il cui stile, colorato ed estroso, diverge dalle comuni rappresentazioni di temi artistici ebraici. «Per il mio lavoro - racconta - conduco approfondite ricerche su Ebraismo e cultura ebraica. Ciò che scopro e apprendo diventa fonte di ispirazione per creare ceramiche; tutti pezzi originali che poi fotografo e utilizzo come immagini per stampe artistiche, calendari, biglietti augurali e magneti. La descrizione che accompagna ogni lavoro invita chi guarda a condividere il mio viaggio esplorativo nella cultura ebraica».
L'arte ebraica deve evolvere ed essere accessibile e comprensibile a tutti, attirando l'interesse sia della persona laica sia di quella ortodossa. «La mia arte rispecchia un Ebraismo vivo e vibrante», dice ancora Joel.
Nato negli Stati Uniti, ha studiato arte e cinema a Minneapolis, Parigi e New York ed ha esposto negli Stati Uniti, in Italia e in Francia. Oggi vive a Milano. L'arte di Itman è popolata da personaggi, umani, animali e d'invenzione, che insieme condividono e trasmettono un messaggio universale d'umanità. I colori vibranti, le linee fluide e le forme fantastiche comunicano un senso di immediata e naturale vitalità e un certo tocco naif. L'educazione ebraica di Joel ha avuto un forte impatto sul suo lavoro: trae ispirazione da oggetti cerimoniali, mosaici, pergamene miniate e manufatti ebraici.
Itman li reinventa nel suo stile luminoso, con voce contemporanea. Il suo lavoro fa percepire l'incredibile ricchezza del patrimonio ebraico: arte e tradizione come ponte tra antiche immagini e temi attuali.
(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2018)
Il tragico obiettivo di forgiare gli italiani
In un discorso al Consiglio nazionale del Pnf Mussolini rivelò il suo piano.
di Giordano Bruno Guerri
Dopo la conquista dell'impero, nel 1936, da profeta e duce Mussolini si trasformò in una specie di divinità. Voleva l'adesione religiosa non più soltanto dei fascisti ma di tutta la nazione, esigeva non più la fedeltà ma la fede.
La fede si dimostra cambiando i propri istinti e sacrificando la ragione ai dogmi: fu questo il senso di provvedimenti irreali e insieme formalissimi, come il passaggio dal «lei» al «voi» (più consono alla vena maschia del regime e scevro dal «servilismo» del «lei»), il «passo romano», che imponeva ai soldati italiani, dalle gambe mediamente corte, un'imitazione del «passo dell'oca» dei più longilinei tedeschi. Nel quadro della «fascistizzazione integrale» si inserì anche la scelta razzista, solo in parte stimolata dall'alleanza con la Germania e dal problema di doversi distinguere, dopo la conquista dell'Etiopia, da una popolazione «inferiore» e dalla pelle scura.
Popolo tradizionalmente non razzista, gli italiani si limitavano a una sorta di (...) diffidenza pregiudiziale sugli ebrei, insufflata dalla Chiesa. Erano stati i papi a creare i ghetti, a imporre agli ebrei di portare un cappello giallo, a fare mestieri umilianti come quello degli stracciaroli, odiosi come quello degli usurai. Dall'Ottocento era la gesuitica Civiltà cattolica a infierire su di loro. Il razzista Roberto Farinacci poté dichiarare: «Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli». «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», dichiarava il Manifesto della razza, pubblicato il 14 luglio 1938 da un gruppo di modesti studiosi. Fino a quel momento il regime era stato piuttosto indifferente ai problemi della razza, a parte le remore naturali di un movimento nazionalista. Mussolini non era antisemita e come lui moltissimi gerarchi. Quasi nessuno credette davvero alla «differenza biologica»: riviste come La difesa della razza, di Telesio Interlandi, rappresentavano soltanto il fanatismo di qualche intellettuale. Nella logica del fascismo, però, il razzismo era uno strumento per «forgiare» - verbo che allora piaceva molto - i nuovi italiani: che dovevano sentirsi geneticamente superiori agli altri popoli, quindi dovevano eliminare ogni possibile «contaminazione», come quella ebraica.
Il primo settembre 1938 venne istituito presso il ministero degli Interni il Consiglio superiore per la demografia e per la razza; lo stesso giorno si stabiliva con un decreto legge che gli ebrei residenti in Italia da dopo il 31 dicembre 1918 dovevano andarsene; veniva revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l'avevano ottenuta dopo quella data. A tutti venne vietato di porre la propria residenza entro i confini del regno, agli italiani furono vietati i matrimoni con gli ebrei e ai dipendenti statali con qualsiasi straniero. Venne vietato di accogliere nelle scuole gli studenti ebrei, di conferire incarichi e supplenze a docenti di razza ebraica, di usare libri di testo di autori ebraici, di accettare lasciti o donazioni per borse di studio da parte di ebrei; per non creare un analfabetismo razziale di Stato si istituirono sezioni particolari e a volte anche intere scuole per l'istruzione degli ebrei e si consentì agli universitari di terminare gli studi. Gli odiosi provvedimenti colpirono duecento insegnanti, 4.400 studenti elementari, mille delle medie e duecento universitari.
Le uniche personalità di spicco che avversarono davvero i provvedimenti furono Italo Balbo, Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica proprio nel 1938, avendo sposato un'ebrea lasciò per protesta l'Italia. Gli altri intellettuali e gerarchi si adattarono all'antisemitismo al pari del popolo, forse soltanto perché c'era qualcuno su cui riversare la responsabilità e il malcontento per la stretta economica subita con le guerre d'Etiopia e di Spagna, con le sanzioni imposte dalla Società delle nazioni. Chi disapprovava limitò il dissenso a episodi di pietismo individuale. Non soddisfatto, il 25 ottobre 1938 Mussolini tenne al Consiglio nazionale del Pnf un discorso che non volle diffondere, però invitò i presenti a trasmetterlo «per diffusione orale»: «Alla fine dell'anno XVI ho individuato un nemico, un nemico del nostro regime. Questo nemico ha nome borghesia». (Solo nel 1941 arrivò a una definizione che egli stesso giudicò «definitiva» del borghese: «Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile») Contro questo nemico si dettero i tre «poderosi cazzotti nello stomaco», secondo le parole del duce, dell'abolizione del «lei», dell'introduzione del passo romano e - appunto - del razzismo. È dunque errato il luogo comune per cui ai ripugnanti provvedimenti si arrivò per pedissequa imitazione della Germania nazista: facevano già parte della logica evoluzione del regime, e se influenza ci fu si dovette alla necessità di mettere l'Italia fascista al passo con i totalitarismi che sembravano sul punto di contendersi il mondo, quello hitleriano ma anche quello staliniano.
Oltre ai «fascisti religiosi» anche molti giovani furono entusiasti. Cresciuti nel regime, suggestionati dalla propaganda, dagli esempi delle guide intellettuali e politiche, vennero affascinati soprattutto dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei «puri» e dei «forti» potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. Alla borghesia era piaciuto il fascismo perché condivideva i suoi stessi valori (Dio, patria, famiglia), l'aveva difesa dagli attacchi del proletariato e - almeno così si faceva credere - dagli interessi del grande capitale. Le era piaciuto essere titillata nell'orgoglio nazionalistico e nei propri meriti di buon comportamento civile: non le poteva piacere, adesso, venire indicata - senza avere cambiato il proprio modo di essere, anzi avendo fatto sempre quel che il regime voleva - come la bestia nera del fascismo, da combattere e rieducare. La guerra alla borghesia, lo staracismo e l'assurda pretesa di intervenire in ogni aspetto della vita privata furono - più del razzismo - un vero e proprio boomerang per il regime: insieme all'alleanza con la Germania e alle difficoltà economiche danneggiarono il miraggio di rifondazione del fascismo e del popolo italiano dopo la conquista dell'impero, compromettendo il consenso accumulato.
(il Giornale, 26 agosto 2018)
Tutti sapevano che erano ebrei, ma nessuno li denunciò
Gli Ascoli e i Crema erano ben conosciuti in paese. Quando vennero promulgate le leggi razziali l'intera popolazione li protesse con il più assoluto silenzio.
Questa bella storia è stata raccontata dalla storica Laura Tirelli di Taino. Appassionata ricercatrice e protagonista di tante iniziative culturali, Tirelli è una voce importante per la sua capacità e competenza di tenere viva la memoria locale. In questo scritto, pubblicato sul suo profilo Facebook, ripercorre la storia della famiglia Crema di origine ebraica che durante le leggi razziali fasciste viveva a Taino.
Nel 1938 il governo di Mussolini proclamò le leggi razziali contro gli ebrei. L'odio razziale non era però una componente della cultura e tradizione tainese, vi erano anzi due famiglie ebree che trascorrevano dei periodi di tempo a Taino ed erano ben conosciute e rispettate in paese: gli Ascoli e i Crema, questi ultimi erano imparentati con la famiglia Bielli di Cheglio.
Arrigo Crema di Ispra aveva sposato la tainese Maria Bielli, detta Minela e quando le persecuzioni razziali divennero più pressanti, dopo l'8 settembre 1943, Arrigo con i genitori, i fratelli e le rispettive famiglie fuggì in Svizzera. La moglie Maria, non essendo ebrea rimase ad Ispra, però, temendo per i figli, li nascose a Taino. La più piccola, Maria Grazia, di tre anni fu sistemata allo Stallaccio presso la nonna materna, Angela Berrini; i più grandi, Ada, Franco e Rino, furono nascosti nel granaio di Virgilio Bielli, detto Firel, cognato di Maria Crema.
Tutto il paese era a conoscenza della presenza di questi bambini, compreso il podestà e il segretario del fascio, ma nessuno denunciò nulla; l'intera popolazione anzi li protesse con il più assoluto silenzio e volutamente ignorando che portavano un cognome ebraico.
Il prossimo 14 settembre questo episodio verrà ricordato con uno spettacolo musicale che si svolgerà nella corte dei Bielli a Cheglio nell'ambito del programma del "Festival del Lago Cromatico", promosso dall'associazione Musica Libera.
(Varese News, 27 agosto 2018)
Gaza - Slittano i colloqui al Cairo su una possibile tregua
Israele riapre da oggi il valico pedonale di Eretz
Le delegazioni palestinesi hanno rinviato i colloqui al Cairo riguardo una possibile tregua di lunga durata con Israele sostenuta da Egitto e Onu e sulla riconciliazione tra le varie fazioni. Lo ha detto il responsabile di Hamas Husam Badran, citato dai media palestinesi. I colloqui - che dovevano riprendere oggi - sono stati rinviati di alcuni giorni. Badran non ha fornito ulteriori dettagli sui motivi del rinvio.
(ANSAmed, 27 agosto 2018)
Ucraina: riaperta celebre sinagoga dell'800
di Nathan Greppi
Cinque anni di lavori e un milione di dollari: questo il costo del restauro di una sinagoga, che ai primi di agosto è stata aperta al pubblico. La sinagoga, costruita nell'800 e una delle più grandi dell'Europa orientale, è famosa anche per un altro motivo: qui è dove si sposò il Primo ministro israeliano Menachem Begin.
Secondo il Jerusalem Post, l'uomo che ha finanziato il restauro è Victor Vekselberg, miliardario russo di origini ebraiche originario di Drohobyc. Vekselberg ha fatto ristrutturare anche la vecchia casa della sua famiglia, e ha fatto erigere un memoriale nella vicina foresta di Bronica. Begin sposò nella sinagoga Aliza Arnold nel 1939, poco prima che scoppiasse la guerra. Tra coloro che presenziarono vi fu Ze'ev Jabotinsky, capo del Movimento Revisionista.
La sinagoga è nota anche perché è associata a un dipinto di Mauritius Gotlib, un artista ebreo anch'egli originario della stessa città. Il dipinto, intitolato
"Preghiera ebraica in sinagoga per Yom Kippur"Mauritius Gotlib - "Preghiera ebraica in sinagoga per Yom Kippur" , oggi si trova nel Museo Nazionale di Tel Aviv.
La costruzione della sinagoga è iniziata nel 1842 e si è conclusa nel 1865. All'epoca era la sinagoga più grande d'Europa, ed è situata in un ex-quartiere ebraico chiamato "Lan"; il nome deriva dal fatto che negli anni '30 del '600 il sindaco della città, Ivan Danilovich, concesse agli ebrei una porzione di terreno di un lan reale, unità di misura che equivale a circa 16 ettari.
Secondo diverse fonti, dal 1942 al 1943 i nazisti uccisero tra gli 11mila e i 14mila ebrei a Drohobyc; centinaia di famiglie vennero fatte sparire nella foresta di Bronica. Oggi, la comunità ebraica locale è composta da 150 persone.
(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2018)
Usa, via gli aiuti ai palestinesi OIp: i ricatti non ci fanno paura
Duecento milioni di dollari che Trump ha deciso di togliere ai progetti umanitari. La mossa per aumentare le pressioni su Abbas e spingere il piano di pace
dallinviato a New York
Trump ha deciso togliere oltre 200 milioni di dollari in aiuti per i palestinesi, destinati a progetti umanitari a Gaza e in Cisgiordania. Una nuova iniziativa, dopo il taglio dei fondi per la United Nations Relief and Works Agency di gennaio, finalizzata ad aumentare la pressione sull'Autorità guidata da Abbas in vista della possibile presentazione di un piano di pace elaborato dal genero Jared Kushner. l'annuncio è stato fatto venerdì dal dipartimento di Stato, a seguito di una revisione delle pratiche di assistenza richiesta dal capo della Casa Bianca. Fonti diplomatiche hanno aggiunto che ora Foggy Bottom lavorerà con il Congresso per determinare la nuove priorità politiche a cui destinare i fondi risparmiati. Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell'Olp, ha risposto che l'amministrazione Usa sta usando «il gretto ricatto come strumento politico. Il popolo palestinese e la leadership non si lasceranno intimidire e non soccomberanno alla coercizione». L'ambasciatore a Washington Zomlot ha aggiunto che «usare gli aiuti umanitari e per lo sviluppo come armi non funziona».
I rapporti tra l'amministrazione Trump e la leadership palestinese sono precipitati dopo la decisione della Casa Bianca di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferire l'ambasciata. Questo ha di fatto paralizzato i colloqui sulla proposta di pace a cui stanno lavorando Kushner, il consigliere Greenblatt e l'ambasciatore Friedman. A gennaio gli Usa avevano ridotto di 65 milioni di dollari il loro contributo da 125 milioni all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu fondata nel 1949 per assistere i rifugiati palestinesi costretti a lasciare le loro case. Il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton ha definito questa struttura «un meccanismo fallito», mentre Kushner aveva scritto in mail pubblicate da Foreign Policy che «è importante avere un onesto e sincero sforzo per demolire l'Unrwa», perché «perpetua lo status quo, è corrotta, inefficiente, e non aiuta la pace». Ora segue il taglio agli aiuti umanitari e per lo sviluppo.
Kushner sta ancora lavorando ad un piano di pace, con l'appoggio dell'Arabia Saudita, ottenuto in cambio del mutamento di linea verso l'Iran. Era circolata anche l'ipotesi di presentarlo durante la prossima Assemblea generale dell'Onu, ma i palestinesi si oppongono. Greenblatt ha incontrato in segreto il figlio di Abbas, Tarek, che gli ha detto di non ritenere più possibile la soluzione dei «due Stati», perché gli insediamenti israeliani l'hanno resa impraticabile. Lui chiede invece un solo Stato, con diritti uguali per tutti i cittadini. Trump però avrebbe detto al re giordano Abdullah che questa ipotesi, per ragioni demografiche, «porterebbe all'elezione di un premier israeliano di nome Mohammed».
(La Stampa, 26 agosto 2018)
Il corpo non è per la fornicazione
Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da cosa alcuna. Le vivande sono per il ventre, e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà e queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo; e Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza. Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò io dunque le membra di Cristo per farne membra di una prostituta? Così non sia. Non sapete voi che chi si unisce a una prostituta è un corpo solo con lei? "Poiché - Dio dice - i due diventeranno una sola carne." Ma chi si unisce al Signore è uno spirito solo con lui.
Dalla prima lettera dellapostolo Paolo ai Corinzi, cap. 6
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La Fondazione Blair svela i dettagli della cooperazione tra Israele e le Monarchie del Golfo
Quello che sembra essere un segreto è rivelato pubblicamente dalla 'Fondazione Blair', che ha rivelato come gli scambi commerciali tra Israele e le monarchie del Golfo superano il miliardo di euro.
Grandi numeri e importanti informazioni sono state rivelate in un articolo pubblicato sul sito del 'Tony Blair Institute for International Change', nel quale si svela che la quantità di scambi commerciali tra Israele e i paesi del Golfo Persico supera il miliardo di dollari all'anno; secondo l'istituto, il valore dei prodotti israeliani esportati nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo supera le esportazioni israeliane verso i paesi alleati e altre potenze economiche.
I risultati di ciò che sembra avvenire in clandestinità, vengono rivelati pubblicamente, ovvero gli scambi tra i paesi del Golfo e Israele. Secondo quanto rivela la Fondazione 'Tony Blair Institute for Change International', il riavvicinamento tra Israele e paesi come gli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrain, anche se non si vede nulla dai documenti ufficiali, tuttavia, l'analisi del flusso di merci tra Israele e gli stati del Golfo attraverso altri paesi ha dimostrato che il suo valore supera il miliardo di dollari l'anno e, secondo la sua analisi per il 2016, il valore dei prodotti israeliani esportati nei paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo supera la quantità di esportazioni di Israele ai paesi alleati e alle potenze economiche come la Russia e il Giappone.
La presenza di prodotti israeliani importati è stata segnalata anche in diversi mercati del Golfo, tra cui il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita, che probabilmente arrivano attraverso la Giordania.
Il centro di ricerca crede, attraverso la sua analisi, che il volume delle esportazioni israeliane verso questi paesi potrebbe moltiplicarsi più volte in caso di relazioni ufficiali con Tel Aviv.
La relazione rileva che questo è quello che sta cercando l'Arabia Saudita per aprire lo spazio aereo, così come gli sforzi dei paesi del Golfo di collaborare con Israele nel campo della sicurezza contro quello che considerano il "nemico comune": l'Iran.
Israele ha anche rivelato che ci sono piani già pronti come riattivare l'oleodotto e il gasdotto tra l'Iraq e il porto di Haifa, così come i piani per costruire linee ferroviarie che si estendono da Israele attraverso la Giordania per i paesi del Golfo, nel tentativo di acquisire petrolio
Il rapporto suggerisce anche la necessità di affrontare il problema palestinese e promuovere la soluzione dei due stati per aiutare l'economia israeliana a prosperare.
(lAntidiplomatico, 25 agosto 2018)
"L'Europa non è sicura per gli ebrei": parla Rav Jonathan Sacks
di Nathan Greppi
Rav Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito dal 1991 al 2013, ha dichiarato all'emittente inglese Radio 4, dove è tra i curatori del programma interreligioso Thought for the Day, che "oggi non vi è quasi nessun paese europeo dove gli ebrei siano al sicuro". Le sue parole sono venute fuori dopo i numerosi scandali che stanno travolgendo il leader laburista Jeremy Corbyn, di cui l'ultimo riguarda quando rese omaggio ai terroristi della Strage di Monaco.
Secondo la rivista Jewish News, Rav Sacks ha spiegato agli ascoltatori che "ho fatto il mio 'thought for the Day' (pensiero del giorno) per trent'anni ma non avrei mai pensato che nel 2018 avrei ancora dovuto parlare di antisemitismo. Io faccio parte di una generazione, nata dopo l'Olocausto, che ha creduto alle nazioni del mondo quando hanno detto: mai più. Ma questa settimana, ha avuto luogo un dibattito senza precedenti sull'antisemitismo in parlamento. Diversi deputati hanno parlato in modo sentito degli abusi che hanno subito perché erano ebrei, o peggio, perché hanno affrontato l'antisemitismo."
"Secondo il Community Security Trust, gli atti di antisemitismo in Gran Bretagna sono aumentati al loro massimo livello da quando il calcolo degli incidenti è iniziato nel 1984, con una media di 4 al giorno. Questa non è la Gran Bretagna che conosco e amo."
L'ex-rabbino capo ha riflettuto sulla morte di Mireille Knoll, la superstite della Shoah di 85 anni uccisa nel suo appartamento di Parigi al grido di "Allah Akbar." Rav Sacks ha detto che "oggi non vi è quasi nessun paese europeo dove gli ebrei si sentano al sicuro." L'aumento dell'antisemitismo sarebbe dovuto "all'aumento dell'estremismo politico a destra come a sinistra," ha aggiunto, mentre "la comparsa dell'antisemitismo è sempre un primo segnale di allarme di una pericolosa disfunzione all'interno della cultura."
Rav Sacks ha concluso il suo discorso affermando: "Tutto ciò che occorre al male per prosperare è che le brave persone non facciano niente. Oggi vedo troppa brava gente che non fa niente e me ne vergogno." Parlando di Corbyn, ha spiegato che non intende sedersi a discutere con lui finché non avrà affrontato il tema dell'antisemitismo: "Vorrei vedere segni più chiari e azioni risolute da un partito e il suo capo anche solo prima di sedermi a parlare con loro."
Infine, è di oggi la notizia che Jeremy Corbyn, durante un incontro promosso da Hamas nel 2013, ha dichiarato che "i sionisti britannici non capiscono lo humor inglese".
(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2018)
I Falascia e l'isola di Elefantina
Per approfondire si può leggere Simon Schama (di origine ebraica ma credo non considerabile fonte ebraica non avendo pubblicato in ebraico) in "la storia degli ebrei" dove dedica molte pagine alla comunita'ebraica di Elefantina e alla sua sorte e poi anche ai Falascia.
"L'arrivo di Giuseppe e della sua famiglia in Egitto non trova attestazione nei documenti Egiziani, ma l'Archeologia ha dimostrato che una parte del Delta del Nilo fu fortemente semitizzata ai tempi degli Hyksos, anzi si suppone che la stessa dinastia dei faraoni che regnarono in Egitto ai tempi di Giuseppe appartenesse al ceppo semitico nord-occidentale, dunque quasi parenti del popolo Ebraico. Tutte le informazioni che possiamo evincere dalla lettura di questa parte di Torah possono essere confermate da dati storici. Dalla oniromanzia ai titoli di «capo coppiere» e «capo panettiere» dei due compagni di prigionia di Giuseppe. Anche il titolo di Giuseppe quale sovrintendente della casa trova riscontro nelle fonti egiziane.
Riguardo alla carestia prefigurata da Giuseppe troviamo un'iscrizione nell'isola di Sehel a sud di Elefantina, dell'epoca Tolemaica, che riguarda un periodo di sette anni di carestia verificatasi ai tempi di Geser della terza dinastia:
"Ero nella tristezza sul mio grande trono, dice Par-oh. Coloro che erano nel palazzo vivevano nell'afflizione ed il mio cuore era terribilmente abbattuto perché il Nilo non era venuto a tempo per un periodo di sette anni; i cereali erano magri, ogni uomo era privo di respiro, il bambino era nel pianto ..."
Anche il nome di Potifar viene trovato in una stele funeraria e il nuovo nome imposto a Giuseppe dal faraone, Zafnat-Paʽneach, trova riscontri nell'onomastica egiziana.
Il fatto che di un personaggio così importante come Giuseppe non si sia trovata traccia nella cronaca dell'antico Egitto ha lasciato supporre ad alcuni che in realtà Giuseppe sia passato nella memoria egiziana col nome di Imhotep, anch'egli vissuto, secondo le cronache egiziane, nel terzo secolo e che svolgeva presso il faraone le stesse incombenze di Giuseppe. La storia di Imhotep sembra ricalcare la cronaca biblica di Giuseppe. Entrambi moriranno a 110 anni, ma di Imoteph non è mai stata trovata la sepoltura.
Questa lettura della storia biblica e del suo riscontro nella cronaca egiziana fa arguire che non fu la cultura ebraica ad essere influenzata da quella egiziana ma il contrario, proprio come è scritto nel salmo 105,17-22..."
Riguardo alla tribu' dei Falascia nel 1985 I due rabbini Capi d'Israele - Shapira ed Eliahu - hanno precisato che non viene messa in dubbio l'ebraicità dei falasha sia del RiDbaZ (Rabbi David Ben Zimrà, rabbino capo d'Egitto del XIV sec.) che stabilisce che i falasha sono discendenti della Tribù di Dan.
(Israele Storia e Cultura, 25 agosto 2018)
California, una conferenza shock all'UCLA in nome della delegittimazione di Israele
di Roberto Zadik
Non molto tempo fa, molti pensavano all'America come Paese amico di Israele e filosemita. Ma da tempo, tutto sembra cambiato e lo dimostra anche la sconvolgente iniziativa indetta nel mese di novembre, dal 16 al 18 novembre, e dai toni decisamente antisemiti e antisraeliani. Il sito Algemeiner ha reso noto che il comitato studentesco filo palestinese "National Students for Justice in Palestine" (SJP) ha annunciato che anche quest'anno, come avviene già da otto edizioni, si terrà, presso il prestigioso ateneo UCLA, (Università della California) una conferenza dal titolo inquietante: "Resistenza nonostante la difficoltà". Denunciando il sionismo come forma di "pulizia etnica, espulsione di massa, apartheid e morte" nella nota esplicativa sulle "finalità" della conferenza, il movimento, coi suoi toni estremamente aggressivi ha suscitato immancabilmente le proteste di alcune fra le principali organizzazioni ebraiche americane.
Ad esempio sono intervenute il World Jewish Congress (Congresso Ebraico Mondiale) e the Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations (La conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebraiche Americane) che unificano al loro interno gli orientamenti religiosi più vari, religiosi e laici, definendo come loro punto di riferimento proprio "il sionismo fondamentale per l'ebraismo".
Proprio questo argomento viene ferocemente contestato dalla conferenza che cerca in ogni modo di sminuire il sionismo relegandolo a una "semplice ideologia umana e a un ammasso di leggi che sono state ostacolate e possono essere distrutte". Delegittimazione di Israele e del sionismo, workshop e attività per abilitare gli studenti alla lotta contro la "normalizzazione" dei rapporti con Israele e a favore di esso. Come il movimento BDS anche questo comitato sembra avere una vera "ossessione" antisemita e antisraeliana contribuendo all'espansione dell'antisemitismo e dell'odio nei campus americani. Una realtà davvero preoccupante contro la quale si sono scagliati anche i membri dell'SSI, Students Supporting Israel, organizzazione studentesca a sostegno di Israele, che ha accusato il Comitato filo palestinese di usare "metodi razzisti e odiosi".
Ma le polemiche non finiscono qui e dalle parole si è passati ai fatti. Nei giorni scorsi, il sito dell'Algemeiner ha successivamente fatto sapere che la controversa organizzazione, probabilmente sostenuta dal Partito Comunista Rivoluzionario, associazione esterna all'Università, avrebbero tolto le bandiere israeliane e armene, issate dai membri dell'SSI e inneggiato alla Palestina rifiutando apertamente la celebre soluzione dei "due stati". Si tratta di un episodio di estrema gravità che è stato ufficialmente condannato dall'ateneo californiano che ha preso le distanze da quanto accaduto. A questo proposito un procuratore distrettuale sta indagando su questi fatti incresciosi e preoccupanti. I commenti e le reazioni all'iniziativa dell'SJP non sono mancati e due importanti personalità hanno subito replicato con indignazione.
Il presidente del SSI, Hirmand Daniel Safarian ha affermato che l'iniziativa dell'SJP rappresenta " un attacco personale contro gli studenti ebrei, le loro identità e libertà e la loro sicurezza". Nel suo discorso ha aggiunto che questa conferenza è particolarmente offensiva perché "oggi, decenni dopo che gli ebrei sono tornati alle loro case e hanno fondato il loro stato democratico, devono affrontare antisemitismo e antisionismo di chi li definisce colonizzatori. Per questo è necessaria una indagine contro i membri dell'SJP prendendo gli opportuni provvedimenti a tutela degli studenti ebrei e sionisti".
Collaboratori di Hamas
Ma chi sono esattamente gli attivisti di questa organizzazione e da dove deriverebbe? Secondo Asaf Romirowsky, direttore esecutivo degli studenti per la Pace in Medio Oriente, ha asserito che l'SJP collaborerebbe con l'organizzazione Musulmani Americani per la Palestina (AMP) che, come ha ribadito sarebbe "direttamente collegata col gruppo terroristico di Hamas". Stando alle sue affermazioni, co-fondatore dell'SJP sarebbe Hatem Bazian, chairman dell'AMP che tiene lezioni e conferenze nell'Università di Berkeley. Baziem si sarebbe difeso su Reuters definendo queste accuse come "diffamatorie e offensive verso una organizzazione in ottima salute e che lavora diligentemente per la causa palestinese". Nonostante questo Romirowsky ha ribadito che questi legami con Hamas devono stimolare l'UCLA a indagare su SJP e sulle fonti dei finanziamenti per le loro conferenze e su come essi arrivino a questa organizzazione". Un portavoce universitario ha però comunicato all'Algemeiner che " secondo il Primo Emendamento della Costituzione Americana, la libertà di espressione di ognuno è ampiamente tutelata, anche se ciò che esprime è discutibile e irritante". Egli ha fatto notare che, comunque, "l'università protegge tutti gli studenti, senza distinzione etnica o religiosa e siamo orgogliosi che l'UCLA abbia fra i suoi membri così tanti intellettuali ebrei e collegamenti con istituzioni ebraiche e israeliane."
Nella sua nota egli ha entusiasticamente aggiunto che "molte facoltà, dipartimenti e istituti ogni anno hanno scambi con Israele e realizzano programmi di studio in enti importanti come la Hebrew University, la Jerusalem Academy of Music and Dance, la Ben Gurion University of the Negev e il Tehnion". Nonostante queste affermazioni incoraggianti, Romirowsky, ha messo in guardia sulla pericolosità dell'iniziativa avviata dall'SJP che resta "in ogni modo molto problematica nella sua demonizzazione di Israele e degli ebrei e anche degli israeliani ed è caratterizzata da un atteggiamento anti americano e anti occidentale". Secondo lui "SJP rivela diverse analogie con la campagna del movimento BDS che invocano il diritto al ritorno dei palestinesi sfollati dalla Guerra Arabo Israeliana del 1948 e dei loro cinque milioni di discendenti verso Israele". Successivamente, almeno per ora, non ci sono state dichiarazioni da parte degli esponenti dell'SJP così come dell'Ucla ma la situazione resta comunque molto tesa in attesa di quanto accadrà in questi mesi.
(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2018)
Trump cancella aiuti ai palestinesi di Gaza
L'amministrazione Trump cancella 200 milioni di dollari in aiuti ai palestinesi della Striscia di Gaza e Cisgiordania, destinandoli ad altre "priorità". Un funzionario del Dipartimento di Stato dice che la decisione è giunta dopo una revisione dei programmi di aiuto nei Territori palestinesi. La mossa "tiene conto delle sfide che la comunità internazionale deve affrontare per fornire assistenza a Gaza, dove Hamas mette in pericolo la vita dei cittadini e deteriora una situazione già disastrosa".
(Rai Televideo, 25 agosto 2018)
I servizi palestinesi sventano un attacco contro Israele
di Giordano Stabile
I servizi palestinesi sventano un potenziale, devastante attacco contro i militari israeliani, e bloccano il tentativo da parte di gruppi jihadisti di sabotare l'accordo fra lo Stato ebraico e Hamas, ormai molto vicino, per una tregua permanente a Gaza. L'intesa, oltre a porre fine a cinque mesi di scontri, è destinata ad alleviare le condizioni umanitarie difficilissime nella Striscia e potrebbe essere il preludio di un passo molto più importante, la presentazione del piano di pace americano promesso da Donald Trump.
Anche la leadership di Hamas, messa all'angolo dal blocco israeliano ed egiziano, sembra ormai convinta che l'unica strada è il negoziato. La tregua potrebbe anche favorire la nascita di un governo di unità nazionale con Al-Fatah del presidente Abu Mazen. È un percorso stretto e gli estremisti vogliono bloccarlo. E proprio i servizi dell'Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen hanno scoperto nei giorni scorsi una bomba molto potente sulla superstrada 443, destinata a far saltare in aria un convoglio dell'esercito israeliano. Lo sventato attacco è stato rivelato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e da quello panarabo Al-Quds al-Arabi, che hanno citato fonti dei servizi palestinesi.
Le fonti hanno sottolineato che la caratteristiche della bomba sono compatibili con il modus operandi sia della Jihad islamica palestinese che dell'Hezbollah libanese». La seconda ipotesi appare alquanto improbabile ma la Jihad islamica si è resa protagonista di attacchi anche in Cisgiordania negli ultimi tre anni. È un gruppo più radicale rispetto ad Hamas, che punta soltanto sulla lotta armata in tutti i Territori. La bomba è stata trovata tra i villaggi palestinesi di Beit Liqya e Beit Anan, nell'Area C della Cisgiordania, sotto pieno controllo israeliano. L'ordigno consisteva in due bombole di gas con materiale esplosivo e un gran numero di chiodi.
La cooperazione prosegue
L'operazione di disinnesco «è avvenuta in coordinamento con l'esercito di Israele». Nonostante le tensioni molto forti fra l'Autorità palestinese e il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, a partire dalla decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, la cooperazione tra forze di sicurezza palestinesi e israeliane è continuata. In Cisgiordania le manifestazioni sono rimaste contenute, rispetto alle "marce del ritorno" a Gaza, dove ieri ci sono stati altri 20 feriti. -
(La Stampa, 25 agosto 2018)
Rajoub: Grazie Messi
"From Palestine, thank vou Messi". Nelle ore che erano seguite all'annullamento della partita amichevole tra Argentina e Israele i numero uno del calcio palestinese Jibril Rajoub aveva scelto l'uomo più rappresentativo della squadra sudamericana per festeggiare l'accaduto, con tanto di gigantografia alle spalle durante la conferenza stampa appositamente convocata.
Parole e immagini che certo non hanno giovato alla popolarità di Leo in Israele. "Messi ha molti milioni di fan nei Paesi arabi e musulmani: se scenderà in campo contro Israele, chiediamo a tutti di bruciare le sue magliette e i suoi poster" aveva detto qualche ora prima lo stesso Rajoub.
(Pagine Ebraiche, agosto 2018)
*
Fifa, stop al n. 1 palestinese
II presidente della federcalclo della Palestina, Jibril Rajoub, che aveva invitato a bruciare le magliette di Lionel Messi se fosse andato a giocare in Israele a giugno, è stato bandito dalla Fifa per un anno dalle manifestazioni calcistiche. La sospensione implica II divieto di prendere parte a qualsiasi partita di calcio o competizione per un periodo di dodici mesi in veste ufficiale. Le sue dichiarazioni prima di Israele-Argentina del 9 giugno, poi cancellate, erano state considerate una istigazione all'odio e alla violenza.
(Corriere della Sera, 25 agosto 2018)
Molto bene
Esauriti i fondi dell'Onu per la striscia di Gaza
TEL AVIV - Le Nazioni Unite hanno terminato i finanziamenti per pagare ]' energia necessaria per ospedali, impianti idrici e altre strutture sensibili nella striscia di Gaza. Lo ha dichiarato il sottosegretario generale per gli affari politici delle Nazioni Unite, Rosemary Di Carlo, riferendo ieri al Consiglio di sicurezza. La recente escalation di violenze tra Israele e i militanti palestinesi nella Striscia «minaccia di far precipitare Gaza in una guerra».
Di Carlo si è poi detta «profondamente preoccupata per il fatto che i finanziamenti per il combustibile di emergenza delle Nazioni Unite, che sostiene circa 250 strutture sensibili a Gaza, si siano esaurite» e ha chiesto 4,5 milioni di dollari per garantire i servizi essenziali per il resto dell'anno. Inoltre è stata espressa preoccupazione per la «fornitura pericolosamente breve di farmaci essenziali» dopo che il quaranta per cento delle scorte è andato completamente esaurito. Di Carlo ha quindi rivolto un appello «a tutte le parti» perché garantiscano l'arrivo degli aiuti umanitari a Gaza e ha esortato Hamas «a fornire informazioni sui cittadini israeliani detenuti nella Striscia». Le Nazioni Unite sono pronte ad agire «insieme ai partner regionali e internazionali, per prevenire un altro devastante conflitto, rispondere ai più urgenti bisogni umanitari e sostenere la riconciliazione intra-palestinese».
Intanto, ieri l'Unione europea ha duramente criticato i nuovi insediamenti israeliani. Questi piani - si legge in un comunicato - «metterebbero ulteriormente a repentaglio la prospettiva di un futuro stato palestinese». Gli insediamenti sono «illegali secondo il diritto internazionale» afferma la nota.
(L'Osservatore Romano, 25 agosto 2018)
Alla Mostra di Venezia '1938 DIVERSI': quando la propaganda fascista creò il nemico ebreo
1938 - 2018: ottant'anni dalla promulgazione delle Leggi razziali fasciste. Quando gli italiani furono spinti dalla propaganda fascista a perseguitare una minoranza pacifica. Il documentario '1938 DIVERSI', in programma Fuori Concorso alla Mostra del cinema di Venezia, vuole raccontare cosa comportò per gli ebrei italiani l'attuazione di quelle leggi e come la popolazione ebraica e quella non ebraica vissero il razzismo e la persecuzione. Il film si concentra sui meccanismi di persuasione messi in opera dall'azione del MinCulPop, il ministero della Cultura popolare. Articoli, vignette, filmati con cui gli ebrei vennero trasformati in "diversi", poi in nemici. Nel film, i testimoni diretti e la ricostruzione di alcuni episodi realmente accaduti. Storici, sociologi, esperti in comunicazione evidenziano il ruolo decisivo dei mezzi di comunicazione in una delle più tragiche persecuzioni razziali dell'umanità. '1938 DIVERSI' nasce da un'idea di Roberto Levi e Giorgio Treves, è prodotto dalla Tangram Film in collaborazione con Sky Arte HD, Ab Thémateques Pour Toute L'histoire. Andrà in onda a settembre su Sky Arte.
(la Repubblica, 25 agosto 2018)
Germania - Libri di testo, ebrei uguali ai tempi dei nazi
La denuncia del presidente Schuster: "Stereotipi antisemiti come nella rivista Stürmer"
di Mattia Eccheli
BERLINO - Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (CdJ), tiene alta l'attenzione dopo la diffusione dei dati sui reati di matrice antisemita e critica l'impostazione di alcuni libri di testo.
Secondo Schuster il ritratto della presenza ebraica nel paese è superficiale: "Talvolta rudimentale", dice. Lamenta che si parli del suo popolo solo fra il 1933 ed il 1945:
"In Germania la vita ebraica esisteva molti secoli prima e, per fortuna, c'è di nuovo oggi".Medico, 64anni, Schuster da quattro guida l'importante organismo tedesco: ha puntato il dito soprattutto contro alcune immagini "ancora improntate sugli stereotipi antisemiti della rivista Stürmer", il settimanale non ufficiale di propaganda nazista edito a Norimberga da Julius Streicher dal 1922 fino alla fine della guerra. Ad esempio, quella del manifesto dell'esposizione Der Ewige Jude del 1937 (utilizzato anche nel film del 1940, "L'ebreo errante"), pubblicata in tre libri usati a scuola ma senza una adeguata contestualizzazione. Schuster ha riaperto un caso, dopo che due anni fa analoghe polemiche avevano accompagnato la decisione della Baviera di consentire la "lettura orientata" di Mein Kampf, il testamento politico di Adolf Hitler. Chiamati in causa, gli editori Westermann e Klett hanno respinto gli addebiti.
Il Gruppo Westermann ha precisato che per i contenuti fanno riferimento i programmi di istruzione. Per Ulrich Bongertman, responsabile dell'associazione dei docenti di storia, le accuse di Schuster sono "eccessive", anche se conviene che ci sono margini di miglioramento. Lo stesso Schuster ha già riconosciuto progressi con l'arrivo di libri nuovi. Martin Liepach, insegnante di storia e ricercatore nell'istituto Fritz Bauer di Francoforte, parla di una "dichiarazione radicale", ma conferma perplessità sul modo in cui gli ebrei vengono rappresentati. Nelle scuole tedesche olocausto e nazionalsocialismo sono temi trattati con serietà. Documentari e approfondimenti vengono trasmessi a cadenza quasi quotidiana in televisione (non solo in orari proibitivi), ma per il presidente del Consiglio centrale una visita obbligatoria ad un campo di concentramento sarebbe utile agli studenti.
I servizi segreti vigilano sulle attività dei movimenti che si ispirano al Terzo Reich. L'ondata migratoria degli ultimi anni ha riacceso la brace dell' odio razziale, che ha finito con il coinvolgere anche gli ebrei. Berlino sembra essere diventata l'epicentro di questo nuovo fenomeno. Tra il 2010 e la fine dello scorso luglio, nella capitale si sono verificati 1.649 reati di matrice antisemita. Si tratta di quasi il 14% di quelli rilevati a livello federale (circa 12.000): un'incidenza più che tripla rispetto alla media nazionale. Il problema è rilevante soprattutto nella parte orientale del paese, dove è più forte il movimento xenofobo Alternative für Deutschland.
(il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2018)
Netanyahu: "Nei Paesi Baltici nuovo equilibrio con l'Europa"
di Rolla Scolari
«Voglio riequilibrare l'attitudine non sempre amichevole che l'Unione europea ha nei confronti di Israele». Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è stato esplicito nel descrivere la sua strategia nei confronti dell'Europa, mentre ieri iniziava un viaggio a Vilnius, Lituania. Il suo governo critica da sempre le posizioni di Bruxelles e di alcuni Paesi dell'Unione nei confronti di Israele. «L'altra Europa» di Bibi sarebbe quella di cancellerie meno favorevoli ai palestinesi e meno morbide con l'Iran per quanto riguarda l'accordo sul nucleare del 2015 (soprattutto dopo il ritiro dall'intesa a maggio degli Stati Uniti), capaci di influenzare Bruxelles.
Netanyahu punta a un nuovo equilibrio «attraverso contatti con blocchi di Paesi nell'Unione, nazioni dell'Europa dell'Est, i Baltici e altri», ha spiegato lui stesso. Il premier è stato invitato a un summit dei tre Paesi baltici a Vilnius, dove incontrerà le massime cariche politiche di Estonia, Lettonia e Lituania.
La prima volta nel Paese
Quello di assistere a vertici regionali minori a livello europeo sembra essere diventato un nuovo modo di operare per il premier israeliano: nel 2017, ha partecipato a un incontro tra i Paesi del cosiddetto blocco di Visegràd - Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca - tra i maggiori alleati d'Israele in Europa. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, sarebbero in corso anche contatti nei Balcani. Per Israele anche la Lituania è una tra le nazioni più amiche nell'Unione, soprattutto dopo aver seguito Washington nel riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele.
È la prima volta che un premier israeliano visita il Paese. «Il viaggio in Lituania ci ricorda la splendida comunità ebraica che lì ha vissuto, le vette che questa ha raggiunto e la profondità della tragedia dell'Olocausto», ha spiegato Netanyahu. Circa il 90 per cento dei 240mila ebrei lituani furono uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale. Per lui si tratta di una visita che ha anche un aspetto emotivo: la sua famiglia ha infatti origini lituane.
Se per un premier israeliano è la prima volta a Vilnius, il ministro degli Esteri lituano, Linas Linkevicius, ha visitato Israele a settembre 2017, mostrando al governo israeliano le potenzialità dell'alleanza e dichiarando la necessità di «mettere tutti i pareri sul tavolo per guardarli con attenzione, altrimenti sarà difficile trovare un approccio comune».
(La Stampa, 24 agosto 2018)
Gentrificare Tel Aviv
I giovani, gli hipster, le spiagge. Chi investe, chi si trasferisce a Giaffa. Cosa succede nella "città bianca" d'Israele. Mini reportage.
di Michele Masneri
Una San Francisco israeliana, ecco la prima impressione nella Tel Aviv estiva e assolata. Una bolla molto consapevole di esserlo: divertimenti molto settoriali - si entra in un bar di sole lesbiche, dove una lesbica poi primaria pr chiede se dà fastidio se sniffa, e beve dei prosecchi israeliani senza solfiti. Sembra proprio l'imitazione della città californiana, però con delle peculiarità: anche qui grattacieli nuovi e incongrui che sorgono su baracche e casupole e ville tipo SoMa, però qui con nuance di barocchetto e liberty siciliano, da Mondello, ma cinema frananti come l'Eden (che pare però losangelino). Ovunque nei quartieri (carissimi) hipster di Florentin e Neve Tsedek bottegucce, barbieri, caffetterie, negozi di ceramiche grezze e mobili svedesi, con molte luci natalizie tutto l'anno. Gioventù di bellezza esasperata e aggressiva, i maschi tartarugati tutti, tutti con barba, si allenano in continuazione nelle numerose muscle beach con attrezzature incorporate nella sabbia (la tartaruga è il simbolo della Tel Aviv moderna, dovrebbero metterla nello stemma della città). Nell'acqua, caldissima, pesci aggressivi mordono i piedi, una ciminiera forse di centrale nucleare in lontananza. Non manca niente, il barbone che dorme sotto il portico come in un Tenderloin mediterraneo, o sguscia dal cassonetto, e dello stesso tipo di quello sanfransciscano cioè barbone da sostanza, giovane e aggressivo, non l'homeless bonario italico. In linea con un'età media che pare dai 18 ai 30, una razza tartarugata, eletta, però poco propensa all'interazione con l'altro (a differenza che in California). La loro divisa è pantaloncini, ciabatte e canotta. Corrono sotto il sole con lo sguardo guerriero. Da balconi abusivi o liberty pericolanti è tutta una bandiera arcobaleno, perché Tel Aviv vuole essere primaria capitale gay, ecco dunque localini e spiaggette (accanto a quella ortodossa con muro di prammatica), e il sito del comune che molto investe nella gayzzazione: "avrete una finestra per appendere la vostra bandiera rainbow!" (enperò, negli usi e costumi e sulle app, tutti molto "discreet" e "top" e abbracciati per strada per favore no, baci nemmeno). Nelle saune ha molto successo la serata "soldier" dove si va con la speranza di trovare appunto i soldatini del leggendario servizio militare. Tutti molto stravolti, questi soldatini o presunti soldatini, discreet fino all'ossessione, tengono addosso l'asciugamano, si lavano moltissimo prima del bagno turco, e dopo venti minuti di saponi entrano dentro con faccia terrorizzata, infagottatissimi sotto un asciugamano annodato con nodo Savoia (bisogna dargli ordini. Una volta capito questo, tutto funziona).
Di giorno, pare che nessuno lavori mai, alle tre di feriale tutti in giro, alle 4 di mattina tutti a mangiar pizze sfatti dalle discoteche numerose. Alle sei di pomeriggio tutti in spiaggia post lavoro, i turisti tatuati e i locali, anche startupper, pallidi, che leggono l'Economist e hanno sacche Google.
Tutti i trucchi delle gentrification provate e riuscite: nelle vie gli ombrellini colorati tipo Pietrasanta, la palazzina Bauhaus di culto e di riferimento ospita non il museo ma la gelateria vegana gluten free. Tutti affittano su Airbnb nel quartiere fondamentale di Florentin, che pare Berlino prima delle rivalutazioni: il trionfo del baretto, della birra artigianale, tutti i ristorantini hanno il loro bar gemello di fronte, e sopra almeno un creativo abita un abuso con tettoia di onduline (chissà che amianto). Tutti ci tengono molto a farti sapere che abitano in questo Florentin, dal nome di un mercante greco che acquistò le prime terre negli anni Venti. Più antico, il quartiere di Neve Tsedek, fine ottocento, il rione Monti israeliano: palazzine frananti oppure restauratissime e sempre questi fichi o bougainville piantate vicinissimo per far da schermo e rinfresco (e decadenza giusta); il villino accanto tirato giù per fare un minigrattacielo-boutique; il più antico chiosco di caffè d'Israele, con cabina tipo Forte dei Marmi a righe bianche e celesti e sedie Thonet sbrasate il giusto sotto il palmizio e accanto al ventilatore.
Ci si lamenta dei prezzi (ville a tre milioni, niente sotto il milione): subito si evoca il fantasma più oscuro: la gentrification. Così i più estremi e artistici e cool si trasferiscono a Giaffa, più arabi e meno tartarughe: ci si arriva in bici con le numerose bike sharing che allignano in la città, e lì davvero è Torpigna sur Mer. Gatti famelici, il cassonetto col suo liquame, loft, società civile. Già con prestigiose citazioni bibliche (a Giaffa il profeta Giona, per evitare di obbedire al comando del Signore, si imbarca, e a Giaffa vive Tabità, resuscitata da San Pietro), poi porto decisivo per i commerci, infine terra d'agrumi, Giaffa oggi è soprattutto regno della bakery e del loft . Segnale drammatico: sta diventando già troppo caro, anche qui.
(La Stampa, 24 agosto 2018)
E questo lavamposto dell'occidente in Terra Santa di cui Israele sarebbe il baluardo? E questo lavamposto del marciume occidentale da difendere contro la barbarie dei primitivi islamici? Certo, il quadro che qui si presenta è molto familiare a noi in occidente, ma è disgustoso come quelli che si trovano in occidente. Né più, né meno. Ma è un quadro che non toglie nulla alle profezie riguardanti Israele, anzi le conferma. M.C.
Guai a quelli che si alzano al mattino presto per correre dietro a bevande inebrianti e si attardano fino a sera finché il vino li infiammi! Nei loro banchetti vi è la cetra, larpa, il tamburello, il flauto e il vino, ma non prestano attenzione allopera dellEterno e non considerano quello che ha fatto con le sue mani. Perciò il mio popolo va in cattività per mancanza di conoscenza, la sua nobiltà muore di fame e la sua folla sarà arsa dalla sete. Perciò lo Sceol ha dilatato le sue fauci e ha aperto oltremisura la sua bocca, e in esso scenderanno la sua gloria, la sua folla, il suo frastuono e chi in essa festeggia. Luomo comune sarà umiliato, luomo importante sarà abbassato e gli occhi dei superbi saranno umiliati. Ma lEterno degli eserciti sarà esaltato nel giudizio, e il Dio santo si mostrerà santo nella giustizia(Isaia 5:11-16)
Così Varsavia riscopre la sua anima ebraica
Nella città dove viveva la comunità più grande d'Europa, la scena culturale ebraica vive una fase di grande fermento. Iniziative come il Festival Singer che si apre domani proiettano la tradizione nel futuro. Un antidoto all'antisemitismo e alle tensioni sulla memoria ravvivate dal governo.
di Lorenzo Berardi
«Quando siamo partiti, il festival durava appena quattro giorni e aveva sede in quattro edifici male in arnese di via Próżna»», ricorda sulle colonne di Naszemiasto Gołda Tencer, celebre attrice ebrea polacca direttrice dell'evento varsaviano e del Teatro Ebraico Ester Rachel e Ida Kaminska a Varsavia. «A quella prima edizione partecipò anche il figlio di Isaac Bashevis Singer che poi è tornato a trovarci varie volte. Oggi quel figlio non c'è più ma i nipoti dello scrittore saranno presenti all'edizione 2018 e inaugureranno una targa a lui dedicata».
Organizzato sin dall'inizio dalla Fondazione Shalom, creata nell'88 dalla Tencer, il festival è cresciuto in maniera esponenziale attirando 950mila spettatori nelle sue quattordici edizioni e ha accolto 2500 tra attori, cantori tradizionali, musicisti e scrittori. Oggi il Singer dura una settimana ed è un evento culturale di grande richiamo con partner privati e istituzionali che vanno dal ministero della Cultura al sindaco della capitale, dalla televisione di Stato Tvp al quotidiano d'opposizione Gazeta Wyborcza passando per l'ambasciata israeliana a Varsavia. Una trasversalità di sostenitori e un rilievo mediatico rari da raggiungere in Polonia che dimostrano come questo appuntamento annuale sia talmente apprezzato da riuscire a superare divergenze politiche.
Una scena culturale ebraica in grande fermento
l Festival Singer è l'evento ricorrente più conosciuto di un panorama culturale ebraico varsaviano che gode di insospettabile vitalità. A Varsavia prima della shoah viveva la comunità ebraica più numerosa d'Europa - oltre 350.000' cittadini ebrei, un terzo della città - la seconda al mondo dopo New York.
L'apertura del Polin, il museo della storia degli ebrei polacchi, avvenuta nella primavera del 2013 è stata una tappa fondamentale per la riscoperta della cultura ebraica e yiddish nella capitale. Vincitore del riconoscimento come migliore museo d'Europa nel 2016, il Polin ha attirato 520mila visitatori l'anno passato e si distingue per le sue iniziative didattiche e culturali che comprendono la collaborazione con un migliaio di scuole polacche, un proprio festival musicale, passeggiate storiche e seminari.
«Siamo un museo moderno che offre un'esperienza educativa e culturale ma è anche una piattaforma per il dialogo sociale. Una realtà museale capace di emozionare i suoi visitatori e promuovere nuovi modi di avvicinarsi alla storia», spiega Jolanta Gumula, portavoce del Polin.
Il museo è un'innovativa istituzione pubblico-privata nata su iniziativa dell'Istituto storico ebraico Emanuel Ringelblum che sorge accanto a dove si trovava la Grande Sinagoga, realizzata dall'architetto italo-polacco Leandro Marconi e distrutta da nazisti.
A poche centinaia di metri, in via Senatorska, sorge la sede provvisoria del Teatro ebraico Ester Rachel e Ida Kaminska di Varsavia, un'istituzione nata nel '50 a Łódź e trasferitasi nella capitale cinque anni dopo. Oggi il teatro, anch'esso diretto da Gołda Tencer, resta un unicum in Polonia e uno dei due palcoscenici permanenti in Europa sui quali si rappresentano spettacoli in lingua yiddish, nonostante abbia dovuto lasciare la sede originaria di piazza Grzybowski.
Sulla medesima piazza ha aperto nel 2016 Menora, spazio per laboratori di cucina che prende il nome da uno storico ristorante kosher della capitale. Qui dal 26 al 30 settembre si svolgerà la prima edizione del festival culinario Tish ('piatto' in yiddish), organizzato dal Polin.
«Non sarà soltanto un'altra cartolina sentimentale da un mondo che non esiste più», chiarisce Gumula, «ma offriremo una visione contemporanea delle tradizioni ebraico-polacche. Il cibo diverrà un punto di partenza per conoscere le affascinanti storie degli ebrei in Polonia, oggi come ieri».
Spostandosi a sud del centro storico, in un cortile interno di via Chmielna e accanto al Goethe Institut, sorge il JCC Warszawa, un dinamico centro culturale presso il quale si organizzano eventi, mostre, incontri letterari, seminari, corsi di fotografia e un popolare brunch domenicale. Appuntamenti culturali che si svolgono anche a Stacja Muranów, locale creato dalla scrittrice Beata Chomątowska nel cuore del quartiere sorto nel dopoguerra sulle rovine del Ghetto, completamente raso al suolo dagli occupanti tedeschi e i suoi 42.000 abitanti superstiti dispersi in vari campi di concentramento, dopo la rivolta dell'aprile 1943. Proprio accanto, al Kino Muranów, si è svolta nel maggio scorso la quattordicesima edizione del Jewish Motifs International Film Festival, rassegna di film e documentari a tema ebraico.
Di due anni più longevo è invece il Warsaw Jewish Film Festival, organizzato dalla Fondazione Dawid Kamer con il supporto del Polin, la cui sedicesima edizione andrà in scena fra il 12 e il 18 novembre.
«Dal 2003 cerchiamo di creare una piattaforma di dialogo per rappresentare il mondo ebraico contemporaneo attraverso opere ancora inedite in Polonia», racconta Magda Makarczuk-Strehlau direttrice della rassegna. «Vogliamo proporre una discussione sull'identità ebraica e lottare contro stereotipi e antisemitismo per incoraggiare comportamenti più tolleranti e rispettosi. Credo che il nostro festival sia un ottimo modo per costruire un dialogo fra diverse culture: ebraica, non ebraica, polacca, israeliana e araba».
Parole alle quali fa eco Adam Baruch, critico musicale polacco trasferitosi in Israele nel '67 e oggi direttore artistico del cartellone jazz del Festival Singer: «Cerchiamo di trovare punti d'incontro fra la cultura ebraico-polacca e la musica. Ad esempio, pochi sanno che numerosi brani divenuti standard jazzistici, sono stati scritti da compositori nati in Polonia e di origine ebreo-polacca trasferitisi negli Stati Uniti. Vogliamo diffondere presso il nostro pubblico la conoscenza di questi compositori affermatisi a Hollywood, ma che spesso avevano studiato musica a Varsavia».
La cultura come antidoto all'antisemitismo
Una riscoperta delle tradizioni ebraiche che accomuna fondazioni private, istituzioni e grande pubblico ma, almeno per il momento, non si accompagna a un significativo risveglio religioso. La comunità ebreo-varsaviana conta seimila persone, ma appena 700 di esse sono praticanti. Oggi nella capitale operano solo quattro sinagoghe: tre riconosciute e una, la Beit, progressista.
La comunità religiosa ebraica di Varsavia, inoltre, gestisce un bagno rituale, una società di sepoltura, una scuola religiosa heder, una mensa kosher e un centro d'assistenza per anziani. La sinagoga ortodossa di Nożyk è l'unica sopravvissuta all'occupazione nazista e il suo rabbino, Michael Shudrich, è la principale autorità religiosa ebraica nel Paese nonché un grande fautore del dialogo interreligioso e culturale fra Polonia e Israele.
Il successo riscontrato dalla cultura ebraica a Varsavia e il supporto congiunto dato al Festival Singer, infatti, non devono fare dimenticare che qualche attrito diplomatico fra i governi di Varsavia e Gerusalemme esiste. Tensioni riemerse nel marzo di quest'anno a seguito dell'approvazione della controversa legge polacca sull'Olocausto che prevede la negazione di responsabilità polacche nello sterminio degli ebrei durante l'occupazione nazista. Il 27 giugno le pene previste per chi contraddice questa rilettura univoca della storia sono state ammorbidite e Netanyahu ha apprezzato il passo indietro di Morawiecki ma qualche diffidenza reciproca resta.
«La Polonia ha un passato con delle note antisemite e questo non possiamo negarlo ma ritengo che oggi la maggior parte dei giovani polacchi sia al riparo da queste pericolose derive», sostiene Baruch, secondo cui «La cultura ebraica gode di una crescente popolarità e c'è una vera e propria rinascita della vita ebraica in corso a Varsavia dopo decenni d'oblio. Il Festival Singer riveste un ruolo importante in questo processo, ma non è l'unico grande evento dedicato a questa cultura in Polonia, basti ricordare il Jewish Culture Festival di Cracovia».
Fiduciosa sull'atteggiamento delle nuove generazioni polacche nei confronti della cultura ebraica è anche Makarczuk-Strehlau: «Anno dopo anno il numero di spettatori del Warsaw Jewish Film Festival è in crescita, con un netto aumento dei giovani. E questo è un grande successo se pensiamo ad altre rassegne di cinema ebraico nel mondo. Io collaboro al Jewish Film Festival di Los Angeles e là non è facile attrarre ragazzi e spettatori non ebrei alle proiezioni».
Di certo il modo migliore per esorcizzare gli spettri dell'antisemitismo in Polonia è non dimenticare un passato traumatico, evitando però di guardarsi soltanto indietro e perdere di vista la realtà. Ne è convinta Gołda Tencer che, a margine della presentazione del Festival Singer alla stampa del 21 agosto a Varsavia sottolinea: «Questo evento può essere descritto con una sola parola: memoria. E la cosa più importante che si propone di fare è salvare la cultura ebraico-polacca dall'oblio senza parlare soltanto del suo passato ma anche del suo presente e del suo futuro».
(Eastwest, 24 agosto 2018)
Chi si muove contro l'Iran a Torino?
Invitare gli ayatollah alla Fiera del Libro è senza precedenti in Europa
La decisione di invitare l'Iran come ospite d'onore alla Fiera del libro di Torino per il 2020 è un fatto gravissimo e senza precedenti in Europa. Qualche anno fa, quando la Fiera del libro di Francoforte accettò un padiglione iraniano venne giù il mondo. A Torino invece l'Iran sarà l'ospite d'onore. Un gran bel progresso. Per questo bisognerebbe che un po' di gente pensante, di scrittori, di intellettuali, facesse propria questa battaglia e muovesse pressione sulla direzione della Fiera perché invalidi la propria scelta disonorevole. I sostenitori della presenza iraniana dicono "un conto è il regime, un conto gli scrittori iraniani". Ma l'Iran dal 1979 è una dittatura in cui non è possibile distinguere fra società civile e governo, dove vige la più radicale e macabra censura, dove molti scrittori e giornalisti sono stati condannati al carcere e alla tortura per svariati reati intellettuali e che ha condannato a morte Salman Rushdie. Per questo l'idea di ospitare l'Iran a Torino significherebbe legittimare, sdoganare e allentare la pressione su quella dittatura che sopprime la propria popolazione, le ragazze senza velo, gli scrittori, e che finanzia il terrorismo in tutto il medio oriente, destabilizzandolo. E poi c'è Israele. Può essere "ospite d'onore" a Torino un regime che ha l'obiettivo ufficiale di distruggere lo stato ebraico, di buttare a mare gli israeliani, che ha compiuto attentati contro le comunità ebraiche in Argentina, che oggi finanzia metà del budget di una organizzazione terroristica come Hamas e che nega e sbeffeggia l'Olocausto? I simboli ebraici stanno scomparendo in Europa, in preda a una valanga antisemita. L'Italia non può consentire che un regime come l'Iran, sotto sanzioni internazionali, l'Iran delle vignette sulle camere a gas, un regime che brucia la bandiera con la stella di David nelle sue manifestazioni pubbliche e che chiama Israele "cancro" e ne conta i giorni alla scomparsa, diventi l'ospite d'onore della sua principale fiera culturale.
(Il Foglio, 24 agosto 2018)
Esiste la nazione ebraica?
Stato ebraico o stato democratico? Questo è il tema del momento quando si parla di Israele. Come sempre quando la gente parla di ebrei, tutti sanno già qual è il punto da cui partire, e di solito non si sente alcun bisogno di tornare indietro per verificare se è quello giusto e se si è arrivati correttamente al punto a cui si è arrivati. Linteresse principale sta nel combattere i sostenitori della parte opposta, contestandoli e ridicolizzandoli per quanto possibile. E i social oggi sono un campo di lotta meraviglioso: mai è accaduto prima nella storia di poter accapigliarsi a parole in modo così esteso e virulento e con così poco sforzo. Ogni tanto, magari solo per riprendere fiato, prima di rigettarsi nella mischia si potrebbe provare a fermarsi un po', documentarsi, e riflettere. Proponiamo a questo scopo, come semplice stimolo e ausilio, alcuni paragrafi iniziali del libro Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo.
di Marcello Cicchese
Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei.
L'avvento dell'Illuminismo, con il conseguente declino dell'influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l'idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all'esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati "nazioni".
Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della "cuius regio, eius religio": il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono "emancipati". Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa.
La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l'idea di avere - come i non ebrei - libertà d'azione in una terra da poter considerare - insieme ai non ebrei - come loro patria, era troppo attraente.
La cosa cominciò con Napoleone.
"Napoleone, ormai Imperatore dei Francesi (dal maggio 1804) vuole avere il dominio e il controllo su tutti. Siccome le popolazioni dell'Alsazia e Lorena presentarono all'Imperatore le loro lagnanze attribuendo agli Ebrei la causa di tutte le loro sciagure,
Napoleone volle esaminare il problema ebraico: nel 1806 esso fu discusso due volte al Consiglio di Stato; e in lui maturò l'idea di convocare il Sinedrio. Un Napoleone non poteva accontentarsi di una semplice Assemblea rappresentativa; doveva essere il Sinedrio, come nei tempi antichi, autorevole e venerando come l'antico Sinedrio, di cui doveva essere una copia precisa. Nel luglio del 1806 si riunì a Parigi l'Assemblea dei notabili ebrei composta da 112 deputati [...] Al Sinedrio fu presentata la seguente dichiarazione: "L'Ebreo considera il suo paese natale come sua patria, e ritiene suo dovere difenderla" . E tutti i delegati, in piedi, gridarono: "Fino alla morte!"
Quasi mezzo secolo dopo, non più in Francia ma in Germania, nel 1848, il rabbino di Magdeburgo scrisse sul giornale "Allgemeine Zeitung des Judentums", di cui era direttore, parole accorate in difesa della fratellanza ebraico- tedesca:
"Smetteremo di considerare il nostro un caso speciale; è tutt'uno con la causa della patria: insieme i due vinceranno; insieme falliranno. Siamo tedeschi e non desideriamo essere altro! Abbiamo una patria tedesca e non ne desideriamo altre! Non siamo più israeliti se non nella nostra fede religiosa - in ogni altro rispetto apparteniamo davvero allo stato in cui viviamo".
Quanto all'Italia, la situazione era ancora più chiara:
"In realtà, dal 1870 in poi, sino al fascismo e ancora dopo - per molti sino quasi alle persecuzioni razziali - la maggioranza degli ebrei italiani imboccò con estrema decisione e percorse a grandi passi la via dell'assimilazione, fondendosi organicamente con il resto degli italiani. Abbandonati i ghetti, abbandonate le tradizionali attività, andati a vivere tra gli «altri», entrati e rapidamente affermatisi nelle attività sino allora precluse - la burocrazia, l'insegnamento, la carriera militare, ecc. - e ovunque accolti senza resistenze e addirittura con simpatia, i più di questi ebrei si italianizzarono anche psicologicamente ed intellettualmente."
Vi erano dunque francesi di religione ebraica, tedeschi di religione ebraica, italiani di religione ebraica. L'elemento primario a cui si prometteva lealtà era la nazione, mentre la religione restava un fatto individuale che non serviva più a delineare i contorni netti di un gruppo sociale, ma anzi era spesso causa di contrasti supplementari in seno alla nazione. Si videro dunque, durante la prima guerra mondiale, ebrei francesi, tedeschi e italiani ammazzarsi in piena coscienza fra di loro in quanto appartenenti a nazioni diverse in lotta, a cui ciascuno aveva giurato fedeltà. Lealmente mantennero la promessa di essere prima francesi poi ebrei, prima tedeschi poi ebrei, prima italiani poi ebrei. Il risultato fu che si trovarono insieme come ebrei, presi a calci da tutti: francesi, tedeschi e italiani.
La motivazione di fondo addotta dai persecutori fu la scoperta che l'ebraismo non è soltanto una religione che regola il rapporto del singolo con Dio, ma è prima di tutto un'appartenenza a una realtà sociale che, non essendosi potuta chiamare per molti secoli "nazione", è stata chiamata con i nomi di "razza", "stirpe", "tribù", "genìa", "internazionale ebraica" e altri titoli dalla risonanza più o meno sinistra. Nei momenti cruciali sorge quindi nei nazionalisti il sospetto - o torna utile sollevare strumentalmente l'accusa - che l'ebreo finga di essere fedele alla nazione a cui appartiene, mentre in realtà rivolge la sua fedeltà primariamente alla comunità dei suoi fratelli ebrei. Con conseguenze altamente dannose per la nazione.
Può essere portato ad esempio proprio il caso degli ebrei italiani, che per molti anni hanno partecipato attivamente e in modo convinto prima al risorgimento e poi anche al fascismo. Quando il governo fascista decise di imboccare la strada della discriminazione razziale, cominciarono ad uscire sulla stampa articoli che non volevano presentarsi come manifestamente antisemiti, ma esponevano "perplessità" sulla fedeltà degli ebrei alla causa nazionale fascista. Il 12 settembre 1936, il giornale del gerarca Roberto Farinacci, «Il regime fascista», pubblicò un fondo dal titolo Una tremenda inquisitoria, in cui a un certo punto vengono nominati gli ebrei.
"Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono una infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nelle scuole, non hanno svolto un'opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Dobbiamo confessare che hanno sempre pagato i loro tributi, obbedito alle leggi, compiuto anche in guerra il loro dovere.
Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo, che può suscitare qualche sospetto. Perché non hanno detto mai una parola che valga a persuadere tutti gli italiani ch'essi compiono il loro dovere di cittadini per amore, non per timore o per utilità?
Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo della internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?...
Si sta generando la sensazione che fra poco tutta l'Europa sarà teatro di una guerra di religione. Non se ne accorgono essi?
Siamo già sicuri che da più parti si griderà: noi siamo ebrei fascisti. Non basta. Bisognerà dare la prova matematica di essere prima fascisti, poi ebrei."
Ecco dunque l'accusa periodicamente ricorrente: la doppia nazionalità dell'ebreo, di cui la più importante non sarebbe la nazione in cui vive, ma l'internazionale ebraica o, adesso, lo Stato d'Israele.
Quanto alla tenebrosa internazionale ebraica, ci si potrebbe chiedere come mai non si è sentito il bisogno di parlare, con altrettanto alone di mistero, di internazionale cattolica o internazionale islamica, anche in considerazione del fatto che i fedeli di ciascuna di queste due religioni superano il miliardo, mentre gli ebrei in tutto il mondo non superano i 16 milioni. Se si trovasse un libello in cui fosse scritto che il Vaticano sta coltivando il progetto di dominare il mondo attraverso la sua rete bancaria, la sua struttura gerarchica piramidale, i suoi ordini religiosi, le sue società più o meno segrete come la Compagnia di Gesù o l'Opus Dei, il suo accesso ai media internazionali con cui il Papa influenza tutti i giorni l'opinione pubblica, non sarebbe più verosimile dei "Protocolli dei savi anziani di Sion"? Sarebbe ragionevole pensarlo, ma sembra che quando si tocca il tema "ebrei" o "Israele" molti smarriscano gli usuali punti di riferimento logici e si avventurino in uno mondo fantasioso in cui non valgono più gli usuali principi di razionalità. Potrebbe essere un'anticipazione della profezia biblica in cui Dio dice, riferendosi agli ultimi tempi: «Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti» (Zaccaria 12:2). Potrebbe essere, ma non è detto. Però si direbbe proprio che per qualcuno una certa forma di stordimento sia già cominciata.
NOSTALGIA DELLA NAZIONE EBRAICA
Le considerazioni fin qui fatte possono aiutare a rendersi conto che dalla fine dell'Ottocento la cosiddetta "questione ebraica" si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L'emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell'ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
Le cose invece sono andate diversamente nell'Europa dell'est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell'impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo "Auto-emancipazione". Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell'individuazione del motivo profondo che secondo l'autore sta alla base dell'antisemitismo moderno: l'assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
Varrà la pena di fare lunghe citazioni di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
"Come nei tempi passati, l'eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo."
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare "sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l'allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l'originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
"Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo."
Pinsker parla di "riconquista di un'esistenza nazionale indipendente", dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell'esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l'assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L'autore non discute su che cosa l'abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
"Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione."
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall'inesistenza all'esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
"In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
- cittadini (il popolo);
- patria (la terra);
- sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l'elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte "spirituale". Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
"Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.
Per Pinsker dunque l'antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L'emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
"La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E' il limite massimo della nostra ambizione.
È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
"Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato, la nostra vita individuale abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente."
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
"Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?"
EMANCIPAZIONE E ASSIMILAZIONE NON RISOLVONO IL PROBLEMA
I vantaggi ottenuti dagli ebrei a partire dalla fine del Settecento con i vari editti di emancipazione che li equiparavano agli altri cittadini fece pensare a molti di loro che la risoluzione del problema ebraico consistesse nel percorrere fino in fondo la via dell'assimilazione. Abbiamo già visto come, nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, molti ebrei di differenti nazioni europee erano fieri di poter essere cittadini a pieno titolo della nazione in cui vivevano, e in certi casi sembravano addirittura voler dimostrare di essere ancora più patrioti degli altri. La partecipazione convinta degli ebrei alla prima guerra mondiale, raccomandata dai dirigenti delle diverse comunità ebraiche come segno di fedeltà alla nazione, avrebbe dovuto sancire la definitiva omologazione degli ebrei facendo vedere chiaramente che per la loro patria erano pronti anche a morire. Si può citare, a conferma, la solenne frase con cui il giornale "Il Vessillo Israelitico" presentò l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915:
"L'Italia è in guerra e noi all'Italia daremo noi stessi interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. Daremo tutto noi - ebrei - alla patria nostra: daremo i figli, le sostanze nostre, le nostre vite. Tutto l'Italia ha diritto a pretendere da noi e tutto noi le daremo".
Quanto al sionismo, ben pochi in Italia lo vivevano come un desiderio di raggiungere la propria vera patria. A riprova di questo si può portare il fatto che tra il 1926 e il 1938 solamente 151 ebrei italiani sono emigrati in Palestina. Quelli che appoggiavano il sionismo dicevano di farlo per scopi filantropici, cioè per solidarietà verso gli ebrei che fuggivano dall'est o dalla Germania nazista a causa della persecuzione. Gli ebrei che invece avevano la possibilità di essere cittadini a pieno titolo di una nazione, come gli italiani, non desideravano un'altra patria, ma agivano spinti dall'obbligo morale di aiutare i loro correligionari meno fortunati ancora privi di una patria. Altri vi aggiungevano che il sionismo, come aspirazione a ritornare in Sion, poteva anche servire a risvegliare certi valori tradizionali dell'ebraismo che molti assimilati tendevano a dimenticare e trascurare, ma questo tuttavia non doveva né voleva sminuire l'attaccamento alla patria degli ebrei italiani. Questa forma di sionismo all'italiana è ben espressa da un intervento del sionista C.A. Viterbo in una riunione del consiglio dell'Unione delle Comunità Israelitiche del 9 gennaio 1935:
"... il nostro sionismo è un'appendice della nostra ebraicità... noi cerchiamo di essere onesti, chiari, fuori dell'equivoco, ma non possiamo combattere coloro che hanno la stessa nostra tradizione di fede tramandata dai nostri maestri... è errato, fuori del mondo, negare l'italianità dei sionisti, italianità della quale da millenni essi sono permeati, italianità che essi non possono strappare a loro stessi perché il loro attaccamento alla Patria non è fedeltà, ma amore... Molti sionisti hanno combattuto nella grande guerra e molti sono camicie nere. Ma noi sionisti amiamo anche Israele. Il sionismo lo intendiamo non soltanto filantropico, ma anche fatto per noi stessi, perché dalla rinascita d'Israele rifluisce una vivificazione della lingua, della cultura, delle nostre più nobili tradizioni."
Tre anni dopo, quella patria a cui gli ebrei italiani si sentivano attaccati non per sola fedeltà ma per amore, emetteva le leggi razziali precedute da un "Manifesto degli scienziati razzisti". Al punto 9) di questo documento si legge:
"Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani."
Più di cinquant'anni prima Pinsker aveva previsto una situazione del genere:
"Siamo scesi così in basso che esultiamo di giubilo quando in Occidente una piccola parte del nostro popolo viene posta allo stesso grado dei non ebrei. Però se qualcuno ha bisogno che altri lo tenga in piedi, vuol dire che la sua posizione è poco solida. Se non si bada alla nostra origine e ci si tratta al pari degli altri abitanti nati nel paese, siamo riconoscenti al punto da rinnegare completamente il nostro essere. Per vivere meglio, per godere in pace un piatto di carne, cerchiamo di far credere a noi e agli altri che non siamo più ebrei, ma figli legittimi ed autentici della patria. Vana illusione! Voi potete dimostrare di essere veri patrioti finché volete; vi ricorderanno ad ogni occasione la vostra origine semitica. Questo fatale memento mori non vi impedirà tuttavia di godere una larga ospitalità, finché un bel giorno non sarete cacciati dal paese e finché la plebe scettica della vostra legittimità non vi ricorderà che voi non siete, dopo tutto, altro che nomadi e parassiti, non protetti da nessuna legge. [...]
Non vogliamo neppure ricominciare una nuova vita quale nazione a sé, onde vivere come gli altri popoli, perché i patrioti fanatici che sono fra noi credono necessario sacrificare ogni diritto all'esistenza nazionale indipendente, allo scopo di dimostrare una cosa che non ha bisogno di prove, cioè che sono leali cittadini delle terre in cui abitano. Questi patrioti fanatici negano il loro originale carattere etnico per mostrarsi figli di un'altra nazione qualunque essa sia, umile o alta. Ma essi non ingannano nessuno. Non si accorgono quanto impegno mettono gli altri per liberarsi da questa compagnia ebraica."
IL CONCETTO BIBLICO DI NAZIONE EBRAICA
E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché dalla risposta a questa domanda può dipendere l'ottenimento della cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui.
Qualcuno dirà che la sottolineatura del concetto di nazione può condurre a fenomeni di fascismo. come in Italia e in Germania. E' vero: può avvenire, anzi è già avvenuto. Ma questo non significa che l'impostazione nazionale sia sbagliata. Si dice solitamente che il sionismo è un movimento che emerge e si sviluppa nella scia del generale risveglio dei sentimenti nazionali di vari popoli. Sul piano della mera osservazione dei fatti, questo è vero, ma sul piano dell'interpretazione della storia fornita dalla Bibbia, è il sionismo che ha prodotto, come necessità anticipatoria, il risveglio dei vari nazionalismi; ed è l'avvicinarsi dell'inevitabile ricostituzione politica e territoriale della nazione ebraica che ha provocato la diabolica contraffazione costituita dal Terzo Reich. Tra tutti gli studi fatti sul nazismo, sarebbe interessante trovarne qualcuno che esamini a fondo quella sorta di teologia della sostituzione presente nella falsificazione messianica dell'ideologia nazista. Le motivazioni di certe forme di antisemitismo risulterebbero più chiare se si capisse che si tratta dell'odio che l'imitazione sofisticata ha per il prodotto originale. Come beffa aggiuntiva, dopo il definitivo crollo di quella immonda falsificazione del regno di Dio messianico costituita dal Terzo Reich, la forza diabolica dell'equiparazione è ricomparsa nella nuova forma di ripetute accuse alla politica israeliana, a cui si rinfaccia di usare forme e metodi del nazismo!
Non si vuole qui sostenere che l'attuale Stato d'Israele rappresenta il regno di Dio sulla terra, ma che la sua presenza oggi sulla scena politica mondiale è espressione di una precisa volontà di Dio all'interno del suo sovrano progetto storico. Di conseguenza, l'odio contro questo Stato, il tentativo o anche il solo desiderio di distruggerlo, sia che venga da ebrei laici o superortodossi, sia che venga da gentili cristiani, musulmani o di qualsiasi altra religione, è di natura diabolica. Ciascuno è libero di usare i criteri che ritiene più validi per interpretare la storia dei popoli, ma quando si tratta di Israele, i criteri più validi, quelli che anche a posteriori si confermano essere i più idonei a spiegare i fatti avvenuti e quindi in una certa misura anche a prevedere quelli futuri, sono i criteri biblici. Voler tentare di capire la storia del popolo d'Israele prescindendo dal Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura, è impresa vana, destinata fin dall'inizio al fallimento.
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(Notizie su Israele, 23 agosto 2018)
Trump: i palestinesi otterranno "qualcosa di molto buono"
Il presidente sul piano di pace: «Israele pagherà un prezzo alto per lo spostamento dell'ambasciata».
di Giordano Stabile
Il presidente Donald Trump è tornato sul piano di pace per il Medio Oriente, "l'accordo del secolo" che aveva promesso all'inizio del suo mandato. Nella tarda serata di ieri ha precisato che i palestinesi otterranno «qualcosa di molto buono» e che «Israele pagherà un prezzo molto alto» in cambio dello spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, cioè dovrà fare più concessioni alla controparte.
Nessun dettaglio
Ora «è il turno dei palestinesi», ha spiegato. Non ha però fornito dettagli. Al piano di pace lavorano l'inviato per il Medio Oriente Jason Greenblatt e il consigliere speciale della Casa Bianca Jared Kushner, assieme al principe saudita Mohammed bin Salman e all'Egitto. Il piano dovrebbe essere un'evoluzione della proposta saudita del 2002, con la nascita di uno Stato palestinese in parte dei Territori: Cisgiordania e Gaza.
Bolton in Israele
Del piano hanno discusso anche il governo israeliano e il consigliere alla Sicurezza della Casa Bianca John Bolton, arrivato ieri in Israele. Bolton ha soltanto detto che ci sono «molti progressi nella regione» e non ha fornito una data per l'annuncio del piano di pace. La visita coincide anche con il 25esimo anniversario degli Accordi di Oslo, firmati nell'agosto del 1993, che sembravano aver spianato la strada verso un'intesa ma poi si sono arenati.
Il leader di Hamas
Un no alle proposte americane è arrivato però subito dal leader di Hamas Ismail Haniyeh, che in un discorso per la festa del sacrificio, l'Aid al-Adha, ha detto che "l'accordo del secolo è clinicamente morto". Il leader islamista ha però confermato «il blocco di Gaza sta per finire» e quindi l'intesa per una tregua fra Hamas e Israele, raggiunta con la mediazione dell'Egitto ma senza la partecipazione dell'altra fazione palestinese, Al-Fatah, il partito del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, con sede a Ramallah in Cisgiordania, Abu Mazen.
(La Stampa, 22 agosto 2018)
Il Grana Padano kosher seduce i palati di Israele
Il Grana Padano Dop conquista Israele. E lo fa grazie alla lavorazione kosher della latteria San Pietro di Goito (Mn). La cooperativa, 27 soci allevatori, 53 mila forme di Grana Padano prodotte in un anno, ha iniziato la produzione speciale nel 2015, poi nel 2017 l'espansione, e quest'anno ne ha già prodotte circa oltre 2 mila e altre sono programmate. «Quando produciamo grana padano kosher, lo facciamo per una intera settimana e ci dedichiamo esclusivamente a questo tipo di lavorazione. Tutta la filiera è dedicata a questa produzione e in una settimana realizziamo 700-800 forme. Quest'anno abbiamo già lavorato tre settimane e altre due sono programmate e dovremmo arrivare a 4 mila forme, il 7% della nostra produzione», spiega a ltalia Oggi il presidente della cooperativa, Stefano Pezzini.
Nata in via sperimentale, la produzione kosher «è adesso una attività consolidata e abbiamo anche progetti di promozione anche negli Stati Uniti. Il Grana Padano Kosher va a colonizzare mercati che oggi non esistono. Il nostro export vale circa il 9% del fatturato e nel 2015 era zero». Quella che segue i dettami delle religione ebraica, «è una lavorazione molto complessa. Prevede la presenza di rabbini certificatori all'interno del caseificio e delle aziende agricole. Tutto il processo, dalla alimentazione, alla mungitura, alla stagionatura viene controllato. C'è un rabbino che mette lui stesso il caglio, a sua volta fatto alla presenza di un rabbino, che verifica e che alla fine firma in ebraico tutte le forme».
Il termine kosher significa «adatto» o «corretto». Se applicato al cibo, il termine indica che un elemento è adatto per il consumo secondo la legge ebraica. «C'è una attenzione maniacale di tutte le fasi, non ci devono essere contaminazioni, tutto deve essere purificato. Anche la salamoia è nuova, appena fatta. Ci tengono a far capire che il grado di qualità cui sottendono è molto elevato, una qualità assoluta per una faccia di clienti particolare».
Oltre al formaggio per la religione ebraica, latteria San Pietro ha anche produzioni particolari come il Grana bio, quello da fieno e uno povero di sale, ovvero con una concentrazione più bassa.
(ItaliaOggi, 22 agosto 2018)
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Un'azienda agricola di Medesano (PR) lancia il Parmigiano kosher
Specializzata nella produzione del Re dei Formaggi, l'azienda agricola Bertinelli di Medesano sarà la prima a ottenere la certificazione dei due enti più autorevoli al mondo in materia di cibo Kosher. A partire dallo scorso ottobre, infatti, l'azienda che opera sulle colline parmensi ha avviato la produzione di Parmigiano Reggiano dop Kosher: le prime forme saranno disponibili per il mercato a fine 2015. Formaggio prodotto nel segno della kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah.
"Nella religione ebraica, le regole alimentari e i cibi sono rigorosamente codificati dai Libri Sacri - spiega Nicola Bertinelli, che insieme con il padre guida oggi l'azienda agricola -. La sfida di conciliare il disciplinare di un prodotto unico al mondo come il Parmigiano Reggiano dop con la kasherut si è rivelata estremamente complessa: le fasi interessate sono tutte, dall'allevamento delle bovine, che deve seguire determinate regole, alla mungitura, eseguita sotto la supervisione di un rabbino che verifica la natura Chalav Yisrael del latte, che può provenire solo da animali kosher".
(ParmaQuotidiano.info, 2 marzo 2015)
"Uccidere Rushdie è ancora valido".
Così parla il ministro dell'Iran ospite d'onore della Fiera del libro di Torino. Tutto ok, Lagioia e Bray?
di Glulio Meotti
ROMA - A maggio Massimo Bray, già ministro della Cultura del governo Letta e da due anni presidente del Salone del libro di Torino, era volato a Teheran per incontrare il ministro iraniano della Cultura e guida islamica, Abbas Salehi, nell'ambito della Fiera del libro della Repubblica islamica. La scorsa settimana la Stampa ha annunciato che la Fiera del Libro, diretta dallo scrittore Nicola Lagioia, ha scelto l'Iran come ospite d'onore dell'edizione del 2020. Il curriculum di Salehi dovrebbe indurre Bray e Lagioia a rivedere la propria decisione.
Nel 2016, gli ayatollah iraniani stanziarono altri 600 mila dollari per la fatwa con cui l'ayatollah Khomeini nel 1989 condannò a morte lo scrittore Salman Rushdie, l'autore dei "Versetti satanici", portando così la taglia a 3,4 milioni di dollari. Parlando con l'agenzia di stampa del regime Fars, l'allora viceministro della Cultura Salehi disse che "la fatwa dell'imam Khomeini è un decreto religioso, non perderà mai il suo potere né si abrogherà mai". Da Salehi arrivò la conferma della condanna a morte dello scrittore che vive ancora sotto protezione. Un decreto che avrebbe influenzato anche i fratelli Kouachi nella loro decisione di massacrare la redazione parigina di Charlie Hebdo (la fatwa iraniana fu trovata nel laptop dei due islamisti francesi). In quel terribile San Valentino del 1989, la condanna di Rushdie non costituiva soltanto l'ordine di distruggere un libro, ma anche il diritto alla vita del suo autore. Non c'era esilio in cui Rushdie potesse rifugiarsi.
Nel 2015 toccò sempre a Salehi annunciare la decisione del regime iraniano di boicottare la Fiera del libro di Francoforte, "rea" di aver ospitato proprio Rushdie. "Questo è stato organizzato dalla Fiera del libro di Francoforte e varca una delle linee rosse del nostro sistema politico" disse Salehi. "Rushdie ha insultato la nostra fede. La fatwa dell'imam Khomeini riflette la nostra religione e non svanirà mai". Abbastanza chiaro. Se non bastasse, Salehi è stato il direttore della Fiera internazionale del libro di Teheran, dove numerosi libri sono stati confiscati dal regime nelle passate edizioni. Non solo, ma nel 2013 Salehi, allora in qualità di direttore della Fiera del libro, accompagnò il presidente Hassan Rohani all'inaugurazione. Negli stand del regime si esponevano i grandi classici dell'antisemitismo, come i "Protocolli degli anziani savi di Sion". Salehi avrebbe anche portato i "Protocolli" nello stand iraniano della Fiera del libro di Francoforte.
Il mondo editoriale non spiccò certo per il proprio coraggio fin dall'inizio della fatwa Rushdie. La casa editrice francese Christian Bourgois rifiutò di pubblicarlo, come l'editore tedesco Kiepenheuer. L'editore greco rinviò la pubblicazione "a data da definirsi". In Olanda, Veen annunciò che si sarebbe consultato con il governo e le organizzazioni musulmane. Negli Stati Uniti molte librerie, come Walden Books, tennero per settimane il libro sotto il bancone, quasi fosse maledetto. La Oxford University Press decise di partecipare alla Fiera del libro di Teheran assieme a due case editrici americane, McGraw-Hill e John Wiley, nonostante la richiesta di Viking Penguin, editore di Rushdie, di boicottare gli iraniani.
"Se non riusciamo a essere fermi su questo tema, è perché la nostra benedetta libertà di parola non vale uno spillo" disse all'epoca il romanziere John Updike. Vista Da Torino, che nel 2020 stenderà tappeti rossi agli esecutori della fatwa contro Rushdie, quella benedetta libertà di parola oggi sembra valere davvero molto poco.
(Il Foglio, 22 agosto 2018)
Una via a Roma per la famiglia che non tornò mai più a casa
La moglie e i figli di Settimio Calò furono deportati e uccisi a Auschwitz nel 1943. Che cosa aspetta la sindaca Raggi a dare un segnale?
di Gian Antonio Stella
«Settimio Calò uscì da questa casa dove abitava con la moglie Clelia Frascati e i nove figli. Quando vi tornò la trovò vuota per sempre. I suoi cari erano stati rastrellati il 16 ottobre 1943 e deportati ad Auschwitz insieme ad oltre mille ebrei in nome della politica razzista del Nazifascimo. Nessuno dei suoi familiari fece ritorno. Essi rappresentano tutte le famiglie distrutte dall'odio antisemita +S.P.Q.R. 2010»
Forse Virginia Raggi, che ha giurato di depennare dalla toponomastica romana i sostenitori delle Leggi Razziali, non è mai passata in via Portico d'Ottavia 49, vicino al Campidoglio. Ma la targa messa otto anni fa da Gianni Alemanno dovrebbe mandarla a memoria. Perché, per quel sindaco di destra, fu una vittoria e insieme una sconfitta. Aveva promesso, per marcare la sua rottura con le canaglie razziste del neofascismo, di dedicare una via a quella famiglia che ricorda come forse nessuna altra la deportazione e la mattanza degli ebrei rastrellati nella capitale quel giorno di ottobre: non solo aveva poi ripiegato sulla targa, ma il giorno dell'annuncio, 27 gennaio 2010, «Giorno della memoria», Roma aveva muri tappezzati di scritte infami: «Alemanno verme sionista». Ecco, dopo la sparata del ministro giallo-verde Lorenzo Fontana per «abrogare la legge Mancino» (tweet di Salvini: «Sono d'accordo»); dopo la decisione del consiglio comunale grillino, stoppata in extremis, di dedicare una via a Giorgio Almirante, redattore capo de «La difesa della razza» dove scriveva che «il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti»; dopo l'appello di Liliana Segre a «salvare dall'oblio» tutti quelli che «a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento»; ecco, dopo tutto questo la sindaca di Roma ha un dovere. Dare un segnale. E dedicare finalmente una strada, a 80 anni dalle Leggi Razziali del '38, alla moglie e ai figli di Settimio Calò uccisi ad Auschwitz dopo cinque giorni da incubo su un treno piombato partito dalla Tiburtina.
Quel giorno, in lacrime sui binari, c'era anche Letizia Calò, la sorella di Settimio e mamma di un bambino di dodici anni, lui pure Settimio, che si era fermato a dormire dallo zio a Portico d'Ottavia. Racconterà il capofamiglia, unico sopravvissuto, al nostro Silvio Bertoldi: «il bambino si affacciò al finestrino del treno, scorse sua madre e gridò freddo: "A sìgno', e vada a casa, no? Vada a casa, che ci ha l'altri bambini da cresce". Era la sua mamma, capisce, e lui je disse così, e lei se lo ricorda sempre adesso, da quel finestrino del treno, co' quelle parole, co' quelle parole ... E io, nemmeno quelle, io».
(Corriere della Sera, 22 agosto 2018)
Espulso in Germania l'ex guardiano nazista
Si è conclusa la vicenda del 95enne Jakiw Palij, ex guardia nel campo nazista di Trawniki, in Polonia, nel quale più di seimila ebrei sono stati sterminati. L'ex nazista è stato espulso dagli Stati Uniti e accolto in Germania. Nato in Polonia, l'uomo era scappato negli Usa nel 1949 ottenendo il passaporto otto anni dopo. Nel 2003 un giudice federale gli ha ritirato la cittadinanza, dimostrando che Palij aveva mentito sul suo passato nazista.
(Corriere della Sera, 22 agosto 2018)
I neonazisti tornano a sfilare per le strade di Berlino
Il Jfda, il forum ebraico per la democrazia e contro l'antisemitismo, ha pubblicato su YouTube un riassunto della manifestazione che si è svolta sabato 18 agosto a Berlino. Qui, circa 700 neonazisti, hanno sfilato con regolare permesso da parte delle autorità cittadine competenti, per le vie della città. Si tratta di una marcia annuale in commemorazione di Rudolf Hess. Durante la manifestazione i partecipanti hanno scandito slogan antisemiti, provocando i giornalisti e cercando di attaccare i contromanifestanti lungo il percorso.
(Lettera43, 21 agosto 2018)
Liberman: a Gaza agiamo esclusivamente in base alla realtà sul terreno
GERUSALEMME - Nella gestione del confronto tra Israele e i palestinesi presso la linea di demarcazione della Striscia di Gaza, lo Stato ebraico sta agendo "esclusivamente in base alla realtà sul terreno ed è ciò che continuerà a fare". Lo ha dichiarato oggi il ministro della Difesa di Israele, Avigdor Liberman. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", con le sue affermazioni Liberman ha inteso smentire le notizie circolate negli ultimi giorni su un possibile accordo per il raggiungimento di una soluzione definitiva del conflitto che Israele e il movimento palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2006. "Ho ascoltato innumerevoli storie e voci su un accordo tra Israele e Hamas e, lo ripeto, stiamo parlando con Egitto, Onu e comunità internazionale", ha detto Liberman. Il ministro della Difesa israeliano ha aggiunto: "Per quanto mi riguarda, vi è un solo accordo in vigore, ed è la realtà effettiva sul terreno". Pertanto, secondo Liberman, a Gaza Israele sta agendo "esclusivamente in base alla realtà sul terreno ed è ciò che continuerà a fare". Sebbene vi sia "un notevole calo degli attacchi terroristici" presso la linea di demarcazione tra Israele e Striscia di Gaza, rimane "impossibile prevenire completamente" tali eventi, ha concluso Liberman.
(Agenzia Nova, 21 agosto 2018)
70 anni di Israele: gli Italkim e il loro contributo alla costruzione del paese
GERUSALEMME - Martedì prossimo, 28 agosto, il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme ospiterà una importante iniziativa, che si colloca nell'ambito delle celebrazioni del 70esimo anniversario di Israele.
Lo stesso museo ha infatti organizzato con la collaborazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv la mostra "70 anni di Israele: Gli Italkim e il loro contributo alla costruzione del Paese", con cui si vuole mettere in risalto l'apporto culturale, accademico e scientifico degli Italkim alla costruzione dello Stato sionista.
Le eccezionali biografie di 23 italiani che fecero aliyà negli anni '20 e '30, tra cui sei vincitori del Premio Israel, fanno da filo conduttore nella narrazione della nascita di Israele.
La mostra, che gode del patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele, si inserisce nell'ambito del Festival "Piazza, Pasta, Vespa", una tre giorni di "Dolce Vita" italiana nella piazza antistante il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme.
(aise, 21 agosto 2018)
Hamas: "La tregua è vicina"
"Siamo sulla buona strada per rimuovere l'ingiusto assedio della Striscia di Gaza. Questo è il risultato della nostra lotta e della nostra risolutezza".
Così Ismail Haniyeh, leader del gruppo terroristico Hamas, in un intervento pubblico a Gaza in cui, alla vigilia della festività islamica dell'Eid al-Adha, ha anche commentato gli sviluppi della mediazione egiziana per un cessate il fuoco con lo Stato di Israele. "Qualsiasi aiuto umanitario a Gaza - ha sottolineato il leader di Hamas, rivolgendosi ad alcune migliaia di fedeli all'esterno di una moschea - non sarà fatto a un prezzo diplomatico". Stando a fonti interne al gruppo terroristico, citate in queste ore dalla stampa israeliana, i progressi negoziali sarebbero rilevanti e la prospettiva è che un accordo tra le parti, con l'intermediazione del Cairo, possa essere firmato all'inizio della prossima settimana.
Ha tra gli altri affermato Mahmoud Zahar, un alto ufficiale di Hamas: "Avremo dei benefici dalla tregua: le armi di cui disponiamo rimarranno nelle nostre mani. La tregua non richiede un prezzo politico da parte nostra".
Negli scorsi giorni, dopo aver condannato l'ennesima provocazione di Hamas, il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato: "I residenti di Gaza hanno tutto da guadagnare quando i cittadini di Israele godono di pace e sicurezza e molto da perdere quando invece la quiete è interrotta". Così invece il Premier Benjamin Netanyahu: "Siamo in mezzo a una campagna contro il terrore a Gaza. Non finirà in un colpo solo. La nostra richiesta è chiara: un cessate-il-fuoco totale. Non saremo soddisfatti con niente di meno".
(moked, 21 agosto 2018)
Estremisti palestinesi contro Lana Del Rey: «Non cantare aTel Aviv»
«Ritengo che la musica sia universale e dovrebbe essere usata per avvicinarci»: così Lana Del Rey ha risposto alle critiche e agli appelli a boicottare Israele, dove si è esibita ieri sera. Per la cantante Usa, «esibirsi a Tel Aviv non è una presa di posizione politica, come cantare in California non significa che il mio punto di vista è allineato con le opinioni del mio attuale governo o a volte azioni inumane». «Cerco di fare del mio meglio per navigare nelle acque delle continue turbolenze nei Paesi devastati dalla guerra in tutto il mondo dove viaggio ogni mese», ha aggiunto su Twitter. La Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele non lo tollera: «Ti esortiamo a ripensarci», le hanno scritto. Il loro argomento nel tentativo di farla desistere, è un assurdo paragone con il «Sudafrica dell'apartheid», e le ricordano che «altri artisti si rifiutano di esibirsi in Israele dell'apartheid». Accettare inviti in Israele resta un tabù per artisti politicizzati come Peter Gabriel e Roger Waters. Ma altri, come i Radiohead che nel luglio 2017 hanno tenuto un concerto a Tel Aviv, sottolineano che «suonare in un Paese non significa dare un endorsement al suo governo, non sosteniamo Netanyahu più di quanto sosteniamo Donald Trump e continuiamo a esibirci in America».
(Libero, 21 agosto 2018)
Corbyn l' antisemita
Il leader del Labour che dialoga con i terroristi palestinesi responsabili della morte di cento israeliani.
di Giulio Meotti
ROMA - Molti ebrei inglesi, ha rivelato la Cnn la scorsa settimana, stanno pensando di andarsene, specie in caso si realizzasse il worst-case scenario: una eventuale vittoria di Jeremy Corbyn, il leader del Labour. Finora si era temuto che Corbyn fosse soltanto un vecchio arnese marxista incapace di scandire il diritto di Israele a esistere, reticente di fronte alla slavina giudeofoba presente nella sua nuova costituency di origine immigrata, infine un maestro di distinguo fra l'antisemitismo e l'antisionismo. Nell'ultima settimana, grazie a una serie di sensazionali inchieste giornalistiche, sembra che Corbyn abbia gettato la maschera. "Corbyn è un antisemita e deve scomparire dalla scena politica", ha detto Shaul Ladany, il sopravvissuto alla Shoah che scampò al massacro alle Olimpiadi di Monaco '72, quando undici atleti israeliani furono torturati e massacrati dai fedayn palestinesi. Era appena emerso che a Tunisi nel 2012 Corbyn aveva preso parte a una cerimonia sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi di Monaco, Atef Bseiso. In quell'occasione (esclusiva del Times) Corbyn è stato anche fotografato con Maher al Taher, leader in esilio del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Un mese dopo l'incontro con Corbyn, Taher rivendicò la strage alla sinagoga di Har Nof a Gerusalemme, in cui quattro rabbini furono trucidati durante le preghiere del mattino. Tra le vittime c'era anche Avraham Shmuel Goldberg, un rabbino inglese, un concittadino del leader laburista.
Ieri il Daily Telegraph ha messo un altro carico da novanta sul leader laburista inglese. Jeremy Corbyn ha partecipato a una conferenza con alcuni leader militari di Hamas condannati per aver orchestrato una serie di spaventosi attacchi terroristici durante la Seconda Intifada. Si tratta di una conferenza alla quale ha partecipato un certo numero di alti funzionari di Hamas, tra cui Khaled Meshaal, l'ex leader numero uno di Hamas, che è in una lista nera di terroristi del Regno Unito, e Husam Badran e Abdul Aziz Umar, condannati all'ergastolo in Israele per aver contribuito alla preparazione di numerosi attentati poi scambiati con il caporale Gilad Shalit. "La nakba (giorno della catastrofe, come gli arabi chiamano la nascita di Israele, ndr) che ci ha reso rifugiati è avvenuta tramite la forza e il ritorno sarà realizzabile soltanto attraverso la resistenza militare e armata e nient'altro", dice Badran alla conferenza in Qatar cui prese parte anche Corbyn. Tre giorni dopo la conferenza, Jeremy Corbyn ne scrive sulla sua rubrica che tiene per il Morning Star, dove spiega di aver ascoltato i discorsi tenuti dai palestinesi rilasciati "in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit", aggiungendo che "il loro contributo era affascinante ed elettrizzante".
Quando rifiutò di andare a Yad Vashem
Badran è responsabile per gli attentati alla discoteca Dolphinarium di Tel Aviv, a due ristoranti a Gerusalemme e Haifa, a una stazione ferroviaria, a due autobus e al Park Hotel a Netanya (il peggior attentato terroristico nella storia israeliana). Attacchi che in totale hanno provocato la morte di oltre cento civili israeliani. Se il leader del potenziale primo partito del Regno Unito non trova nulla di strano nell'omaggiare la tomba degli assassini di Monaco, nel farsi fotografare con chi ha ordinato la strage dei rabbini in una sinagoga di Gerusalemme e nel tenere conferenze con chi ha diretto micidiali attentati suicidi durante l'Intifada e assemblato cinture esplosive, significa che qualcosa non va soltanto in Corbyn, ma nell'Inghilterra che lo ha incoronato a capo del Labour. Nel settembre del 2016, Jeremy Corbyn rigettò una richiesta del Labour israeliano di Yitzhak Herzog di andare a Gerusalemme a deporre una corona di fiori al memoriale della Shoah,lo Yad Vashem. Corbyn li aveva usati tutti sulle tombe dei terroristi di Monaco.
(Il Foglio, 21 agosto 2018)
Eurovision 2019, un mecenate si offre di aiutare economicamente Israele
di Emanuele Lombardini
Corsi e ricorsi che tornano, anche all'Eurovision. La notizia è che un milionario canadese di origini israeliane si sarebbe offerto di contribuire alle spese per l'organizzazione dell'evento in Israele. Sylvan Adams, questo il nome del mecenate, avrebbe espresso la volontà di "fare tutto quanto è in mio potere per aiutare la tv KAN nel trasformare in un successo l'Eurovision in Israele"
Adams non è nuovo a queste azioni di mecenatismo: c'era (anche) lui dietro l'organizzazione della partenza del Giro d'Italia in Israele lo scorso maggio ed ora sarebbe pronto a mettere di nuovo mano al portafogli, insieme al collega Daniel Ben Naim, attraverso una cosiddetta venture capital.
In sostanza, si tratta di una immissione di capitali ad alto rischio, contando sul fatto che se l'operazione funziona, questa possa apportare notevoli vantaggi economici, oltreché in questo caso, anche aumentare l'immagine di Israele nel mondo.
L'operazione ricorda quella del 1993, quando un altro mecenate, Noel Duggan, riuscì a convincere RTE, la tv irlandese organizzatrice dell'evento, a portarlo a casa sua, ovvero a Millstreet, un paese di 1500 abitanti a 40 chilometri, all'interno della Green Glens Arena, l'ippodromo di sua proprietà.
Nonostante le critiche per la location lontana dalle aree metropolitane, in quel caso l'evento fu un successo. Riuscirà Adams a convincere KAN e organizzare di fatto in solido la manifestazione? Non resta che attendere.
(Eurofestival News, 21 agosto 2018)
Israele, firmato documento che rende più facile avere accesso alle armi
Secondo il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan questa misura dovrebbe portare ad un aumento del livello di sicurezza nella società israeliana.
Il ministro della Pubblica sicurezza israeliano Gilad Erdan ha firmato un documento che modifica le istruzioni per il rilascio di una licenza per armi, alleggerendo le regole e permettendo ai militari in pensione di non restituire le armi anche dopo il rilascio dal servizio attivo.
"Secondo la nuova politica, i veterani delle unità di combattimento con la qualifica pertinente ... avranno il diritto di richiedere una patente di armi. Inoltre, il ministro Erdan ha deciso che gli ufficiali e i comandanti non sarebbero stati obbligati a restituire le loro armi e le loro licenze dopo essere stati liberati dal servizio attivo", ha detto il ministero.
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Questa misura dovrebbe portare ad un aumento del livello di sicurezza nella società israeliana, ha aggiunto.
Secondo il ministero, circa 145.000 israeliani tra coloro che non sono in servizio attivo hanno armi al momento. Le nuove regole aumenteranno il numero di civili con il diritto di portare armi da "centinaia di migliaia", dato che esiste un servizio militare obbligatorio in Israele, ha osservato il ministero.
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Oltre a questo, i volontari della polizia, i funzionari dei servizi di emergenza e i conducenti dei trasporti pubblici potranno richiedere un permesso per portare armi.
(Sputnik Italia, 21 agosto 2018)
Svolta salutista della Pepsi che compra l'israeliana Sodastream per tre miliardi
La società vende gli apparecchi per far diventare gasata l'acqua del rubinetto delle abitazioni.
ROMA - PepsiCo continua nella sua svolta salutista diversificando il portafoglio prodotti nel tentativo di conquistare i millennial. Il colosso americano acquista per 3,2 miliardi di dollari (circa 2,8 miliardi di euro) l'israeliana SodaStream, produttrice delle apparecchiature che permettono di "gasare" l'acqua del rubinetto di casa.
L'acquisizione arriva a poche settimane dall'annuncio dell'addio dello storico amministratore delegato di Pepsi Indra Nooyi. E indica come anche sotto la guida del nuovo numero uno Ramon Laguarta la società intenda continuare sulla strada salutista, rispondendo così ai nuovi gusti dei consumatori.
«Sodastream è complementare alle nostre attività, e ci consente di offrire soluzioni personalizzate nelle case dei nostri consumatori in tutto il mondo», afferma Laguarta. Per SodaStream, Pepsi mette sul piatto 144 dollari per azione in contanti, con un premio del 32% rispetto al prezzo medio degli ultimi 30 giorni. La chiave del successo di SodaStream è stato lo spostamento della sua fabbrica dall'insediamento in Cisgiordania di Màale Adumim, divenuto uno dei target della campagna 'Boycott, Divestment and Sanction' per cercare di convincere i consumatori a non acquistare beni prodotti negli insediamenti israeliani all'est della linea del cessate il fuoco del 1967. Volto pubblicitario della compagnia è stata l'attrice americana Scarlett Johanson, che a suo tempo decise di continuare nel suo impegno nonostante la campagna di boicottaggio del Bds dell'azienda. Sodastream spostò allora la sede nel Negev con la perdita di lavoro da parte di numerose famiglie palestinesi.
SodaStream è la risposta di Pepsi all'acquisizione da parte di Coca-Cola di una quota di minoranza in BodyArmor, il produttore di bevande sportive sostenuto dalla star del basket americano Kobe Bryant. Coca-Cola da anni fatica a tenere il passo sulle bevande sportive con Pepsi, che può contare sul successo di Gatorade. Ma SodaStream è anche l'ultima in ordine temporale delle acquisizioni nel settore alimentare e delle bevande, con tutti i colossi che cercano di riposizionarsi di fronte alla rinnovata attenzione dei consumatori per cibi e bevande più salutari, ma anche per l'ambiente. Producendo la propria acqua gasata in casa i consumatori infatti usano meno plastica e inquinano quindi meno. Un concetto questo cavalcato da SodaStream nelle sue campagne pubblicitarie con critiche a Cica-Cola e in passato anche a Pepsi per l'uso di plastica: secondo i calcoli di SodaStream le sue macchine aiutano i consumatori a risparmiare fino a 1.000 bottiglie e lattine l'anno.
«SodaStream è un'azienda straordinaria che offre ai consumatori la possibilità di produrre bevande dal gusto eccezionale riducendo al tempo stesso la quantità di rifiuti generati, in linea con la nostra filosofia di un pianeta più sano e più sostenibile», ha dichiarato Indra Nooyi, che lascerà a Laquarta la guida della multinazionale il prossimo 3 ottobre dopo 12 anni.
(Il Messaggero, 21 agosto 2018)
Tamimi e i bambini martiri palestinesi
La voce di un israeliano che ha perso la figlia in un attentato.
Scrive il Jerusalem Post (13/8)
La mia dolcissima figlia Malki, piena di empatia e generosità verso gli altri, sempre con un sorriso sulle labbra, aveva 15 anni quando fu assassinata nella strage della pizzeria Sbarro, in questi stessi giorni di 17 anni fa", scrive Arnold Roth. "L'esperienza di perderla, di cercare di riequilibrare la mia vita e quella della mia famiglia, e di cercare di dare un senso alle reazioni degli altri, ha forgiato in gran parte ciò che penso riguardo al terrorismo.
Sappiamo chi ha progettato lo spietato massacro alla pizzeria Sbarro. Non è stata Ahed Tamimi (che nasceva proprio in quell'anno). Ma quando il suo clan, i Tamimi del villaggio di Nabi Saleh, si riunisce per celebrare il massacro, come sappiamo che fa regolarmente, lei partecipa entusiasta ai festeggiamenti. In un villaggio dove quasi tutti sono imparentati fra loro e si sposano fra loro, Ahed è parente stretta, in vario modo, di Ahlam Tamimi, uno dei diretti responsabili della carneficina in cui è stata trucidata mia figlia. Ahlam ora vive libera in Giordania. Sui social network, nei suoi interventi pubblici e (per cinque anni) nel suo programma televisivo, ha continuato a esortare gli altri a seguire il suo esempio.
Quando Ahlam sposò Nizar Tamimi, un altro assassino originario dello stesso villaggio, pochi mesi dopo che entrambi erano stati scarcerati nel quadro del ricatto di Hamas per la liberazione dell'ostaggio israeliano Gilad Shalit, l'undicenne Ahed era lì a ballare e a rimirare in adorazione la sposa. I genitori di Ahed hanno fatto della propaganda violenta contro Israele una professione. Hanno plasmato e addestrato la piccola Ahed, sfruttando il suo aspetto accattivante, e l'hanno spinta in tutta una serie di messinscene conflittuali con i soldati israeliani sin da quando aveva 10 anni, deliberatamente mettendola quasi ogni settimana, per anni, in situazioni di concreto pericolo.
Sebbene tutto quello che avevano per le mani erano le immagini in gran parte sceneggiate della piccola, patetica Ahed che levava i pugni contro soldati israeliani (che la sopportavano, guardandosi bene dal reagire), troppi giornalisti e capiredattori hanno proposto e continuano a proporre assurdi paragoni con Giovanna d'Arco e Malala Yousafzai. Il giorno in cui Ahed prese a schiaffi, calci e sputi due soldati, sua madre le puntò addosso una delle sue telecamere dicendole di parlare al mondo. E lei eseguì, con un messaggio rabbioso in cui esortava alla violenza contro Israele e a nuovi attentati suicidi (come quello che ha ucciso mia figlia).
L'agghiacciante realtà che quel messaggio riflette era, e continua a essere, disconosciuta. L'uso dei bambini arabi palestinesi come armi per mano della loro stessa società, persino delle loro stesse famiglie, è così incomprensibile per gli estranei che molti preferiscono chiudere gli occhi e negare questa realtà, anche solo per questo motivo. E negare ciò che Ahed simboleggia: la totale immedesimazione con gli spietati assassini del suo clan famigliare, con l'odio deflagrante, con un orrendo fanatismo che induce le persone a spingere in prima linea i loro bambini innocenti".
(Il Foglio, 20 agosto 2018)
Ariel Cohen. "Io, ebreo ferrarese, combatto per Israele"
Dopo il diploma al 'Copernico-Carpeggiani', Ariel Cohen, 22enne ebreo ferrarese, decide di arruolarsi nell'IDF.
di Federico Di Bisceglie
FERRARA - Ariel Cohen, classe '96. Ebreo ferrarese, iscritto alla comunità della città estense. Dopo il percorso di studi al 'Copernico' , la svolta: arruolarsi nell'Israel defence Forces (IDF) per difendere i confini dello stato ebraico attanagliato dalla minaccia del terrorismo islamico.
- Quando hai maturato questa scelta?
«La scelta l'ho maturata poco dopo l'anno 2016, sentivo il bisogno di servire il paese dei miei genitori».
- Che cosa comporta essere arruolato nell'IDF?
«Essere un soldato dell'IDF significa tanto per un ebreo. Sai sempre di essere in pericolo ma vivi con la consapevolezza di dare tutto quello che hai per lo stato d'Israele».
- Cosa pensano i coetanei e la tua famiglia di questa scelta?
«Qualche amico era titubante quando ha saputo della mia decisione. Non capivano. Per la mia famiglia nessun problema: tutti i parenti hanno servito nell'IDF».
- Israele è un fronte aperto ovunque. Dalle strade ai bar, alle piazze alle sinagoghe. Come si vive anche al di la della divisa?
«Quando torno a casa dall'esercito esco sempre con amici, andiamo nei bar, nei locali: la stessa vita dei giovani europei».
- Senti di essere in costante pericolo?
«No, non mi sento di essere in costante pericolo. La prima volta che ho preso in mano un M16 (il fucile mitragliatore), ho sentito addosso una sensazione strana. Ma poi, col tempo, ci si fa l'abitudine».
- Come giudichi il comportamento del nostro Paese, nei confronti delle posizioni di politica estera che ha assunto sulla complessa questione mediorientale? E del comportamento di alcuni media?
«All' Italia sarò sempre grato per aver accettato i miei genitori quando sono immigrati oramai 40 anni fa quando, dopo il servizio militare, mio padre decise di venire a studiare medicina a Roma. Penso purtroppo però che ci sia dell'informazione sbagliata in Europa che, molto spesso, porta l'opinione pubblica ad una visione sbagliata di noi ebrei. Storture e false rappresentazioni della realtà. E' vero anche che, la 'Questione Mediorientale', è molto complessa da capire e da raccontare».
- Pensi che questa esperienza ti stia rafforzando come persona e come appartenente al popolo ebraico?
«Ovviamente essendo un soldato ti senti più attaccato alla terra d'Israele. In questo senso dunque mi sento rafforzato, come uomo e come ebreo».
- Come si vive la dimensione spirituale sotto le armi?
«La dimensione spirituale sotto le armi si vive in modo forse un po' diverso dal normale. E' anche vero che, in Israele, la religione ha una forte pregnanza nella vita in generale e, francamente, credo sia giusto così».
- Cosa desidereresti per Israele?
«Io desidererei per la mia terra, la pace. Come tutti gli Israeliani del resto. Purtroppo però, il Mondo pensa che noi ebrei vogliamo la guerra e che ci piaccia perdere soldati di 18, 19 e 20 anni. Ma non è così».
- Cosa ne pensi di una parte dell'ebraismo italiano fortemente critica nei confronti della politica e delle decisioni dello stato d'Israele?
«Il grande errore dell'ebraismo italiano è che si da credito a molti dei soloni che sparano giudizi, senza mai essere stati in questi posti. Ovviamente, non sanno esattamente come va qui la vita e come funzionano certi meccanismi».
- Arriviamo a Ferrara. Sei mai stato al Meis? Cosa ne pensi dell' attività del museo?
Sono stato varie volte al Meis. Penso che sia giusto avere un luogo del genere a Ferrara. Ritengo sia opportuno ampliarlo: serve a rafforzare il legame tra la città e la comunità ebraica».
- Qual è il tuo messaggio per i giovani e, in particolare, per i giovani ebrei italiani?
«Il mio messaggio è che tutti i giovani ebrei dovrebbero seguire il mio esempio e servire nell'IDF. In generale, gli ebrei italiani dovrebbero venire più spesso in Israele per capire tante cose. Un dato molto importante è che, ogni anno, cresce sempre di più il numero di ebrei che vengono a servire nell'IDF e sono ebrei che provengono da tutto il Mondo».
(il Resto del Carlino - Ferrara, 19 agosto 2018)
"L'altra mia estate del 1938. L'orrore delle leggi razziali"
''Non potrai tornare a scuola, sei stata espulsa", Così a otto anni Liliana Segre scoprì di essere ebrea e che la sua vita, da lì a pochi mesi sarebbe stata sconvolta dalle proibizioni imposte dal regime fascista.
di Gianni Barbacetto
Era un giorno di fine estate del 1938. Io ero a tavola con il mio papà e i miei nonni paterni, che poi finirono tutti ad Auschwitz", racconta Liliana Segre. "Ricordo le loro facce. Serie. Tirate. Preoccupate. Mai visti così, 'Liliana, ti dobbiamo dire una cosa', mi disse papà. Eravamo a Premeno, alto Lago Maggiore, sopra Verbania. lo avevo 8 anni. Avevo avuto un'estate normale. Mio papà, molto attento alla nostra salute, ci portava ogni anno al mare, a Celle Ligure; poi in montagna, e ogni anno gli piaceva cambiare posto: Macugnaga, San Martino di Castrozza, Bormio ... A fine estate, concludevamo le vacanze al lago, a Premeno, luogo per me noiosissimo, in attesa che iniziasse la scuola, che allora apriva il 12 ottobre, giorno della scoperta dell' America da parte - ci insegnava la maestra - dell'italiano Cristoforo Colombo. Era stata per me - bambina che non veniva informata di quello che succedeva nella politica, degli annunci e delle tensioni che agitavano da mesi l'Italia - un'estate normale di una normale famiglia italiana, borghese e agiata. Ma quel giorno le facce di mio padre e dei miei nonni non erano normali, erano diverse dal solito. 'Ti dobbiamo dire una cosa', ripetè papà. 'Non potrai tornare a scuola, a ottobre. Sei stata espulsa"'.
"Non andrai più a scuola Sei stata espulsa"
Il racconto, oggi, esattamente 80 anni dopo, ancora increspa la voce di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio e a gennaio 2018 nominata senatrice a vita dal presidente Sergio Mattarella. "lo non capivo. Sapevo che 'espulsa' era una parola pesante. Per essere 'espulsi' bisognava aver fatto qualcosa di grave. Di molto grave. Chiesi a mio padre che cosa avevo fatto, che cosa era successo. Mi rispose che c'erano delle nuove leggi, che le cose erano cambiate, che noi eravamo ebrei e che dunque non sarei potuta tornare alla mia scuola, la Ruffini di Milano, dove avrei dovuto iniziare la terza elementare. Non sarei più stata in classe con le mie compagne e con la mia maestra Bertani".
Il racconto continua. "Quel giorno scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia laica, anzi di più, assolutamente non religiosa, direi proprio atea. Non avevo mai pensato di essere diversa dalle mie compagne di classe, dalle mie amiche di giochi. Invece quel giorno scoprii di essere 'diversa', che tutta la mia famiglia era 'diversa' e che questa 'diversità', non un mio comportamento, aveva provocato la mia espulsione da scuola. Il mio ricordo è legato alle facce di papà e dei nonni: volti segnati dalla preoccupazione come non li avevo mai visti prima".
"Dopo quel giorno, a casa non si parlò più di questa faccenda. L'estate finì e ricominciò la scuola. Non rividi più né la mia classe né la mia maestra e le mie compagne non fecero a gara a mantenere rapporti con me. lo iniziai la terza elementare in una scuola privata. Mio padre, per difendermi, non volle mandarmi alla scuola ebraica di Milano, che sorse per permettere ai bambini ebrei di continuare gli studi e che era animata da insegnanti di grande valore. Di quell'estate del 1938 il ricordo più vivo che mi è restato è quello dei volti preoccupati di papà e dei nonni".
Lo scoprì più tardi, l'orrore che nel '38 era stato scolpito dal fascismo fin dentro la legge. "Cinque anni dopo, nel 1943, mio padre decise - troppo tardi, purtroppo - di fuggire dall'Italia. Ci presentammo al confine svizzero: io, papà e due cugini. Fummo respinti: siamo stati richiedenti asilo respinti dalla Svizzera. Poco dopo fummo arrestati. Avevo 13 anni quando fummo rinchiusi nel carcere di Varese, poi di Como, infine di San Vittore a Milano".
L'indifferenza, l'odio. Fino ad oggi
Una mattina del 1944 Liliana fu caricata su un treno, viaggio di sola andata, verso il campo di Auschwitz. Partenza dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: sotto i binari che conosciamo, ce n'erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. "Da lì - dove ora è stato realizzato il Memoriale della Shoah - partimmo in centinaia, mentre attorno la città era silente, assente, indifferente".
Per un anno ad Auschwitz fece lavoro da schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Aveva 14 anni. "Sono stata liberata nel maggio del 1945, unica sopravvissuta della mia famiglia. Ho compiuto 15 anni pochi giorni dopo il mio ritorno a Milano. Poi ho taciuto per molti anni: nessuno aveva voglia di ascoltarci, tutti avevano vissuto storie dolorose, chi mai aveva voglia di sentirne di ancor più dolorose? Ho ripreso la parola a 60 anni, quando sono diventata nonna. È stata la mia vittoria, senza odio, sulla morte, su Hitler e su Mussolini che avevano voluto le leggi razziali e lo sterminio: io ero viva, ero diventata mamma e perfino nonna. Aveva vinto la vita. Per questo ho deciso, dopo 45 anni di silenzio, di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto affinché resti memoria".
A settembre compirà 88 anni, Liliana Segre. È entrata in Senato- dice - "in punta di piedi" ed è uno dei cinque senatori a vita della Repubblica. "Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli delle leggi razziali del 1938. Non solo quelli più noti, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano di andare a scuola, di far parte dell'esercito, di lavorare nell'amministrazione pubblica ... Ci sono imposizioni minori, ma non per questo meno gravi. Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l'effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso". È l'essenza di ogni razzismo, di ieri e di oggi, che non è mai una "goliardata".
(il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2018)
"Signor Segretario Generale, ha mai sentito parlare dell'allarme rosso?"
A 25 anni dalla firma di Oslo, Gaza è l'epitome del fallimento di quella generosa scommessa
Uriah Hatzroni, 15enne israeliano che abita nel moshav Yated, vicino al confine con la striscia di Gaza, ha scritto una lettera personale al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nella quale descrive la sua vita sotto la continua minaccia dei razzi palestinesi. "Ora siamo nel periodo delle vacanze estive - scrive Uriah - quando i ragazzini come me dovrebbero potersi divertire e stare con gli amici, e invece siamo costretti in casa o nei rifugi, con la paura di uscire nel caso vi siano lanci contro di noi di razzi o aquiloni incendiari. Signor Segretario Generale, i ragazzini dovrebbero avere il diritto di stare fuori a giocare, e non nei rifugi antiaerei. Negli ultimi mesi, io e la mia famiglia non abbiamo avuto un solo giorno tranquillo, una sola notte tranquilla. Sempre e solo allarme rosso. Signor Segretario Generale - continua Uriah - ha mai sentito parlare dell'allarme rosso? E' la sirena che ci avverte quando ci sparano addosso razzi e colpi di mortaio. Lo sapeva che abbiamo, quando suona l'allarme, 15 secondi di tempo (!!), a volte anche meno, per metterci al riparo: quindici secondi che separano la vita dalla morte"....
(israele.net, 20 agosto 2018)
Israele negli scatti di Rubinger
Scomparso nel 2017, David Rubinger è stato "il fotografo di Israele". Nato a Vienna nel 1924, emigrato nell'allora Palestina mandataria nel '39, scoprì la fotografia mentre, nel corso del secondo conflitto mondiale, prestava servizio nella Brigata ebraica dell'esercito britannico. Da allora non l'ha più abbandonata. Prima come fotoreporter per HaOlam HaZeh, quindi per Yedioth Aharonoth e Jerusalem Post. E quindi, per oltre mezzo secolo, per Life e Time. Unico fotografo ad avere l'autorizzazione per scattare nella mensa della Knesset, il Parlamento, nel '97 è stato insignito della più alta onorificenza nazionale: il Premio Israele.
In occasione dei 70 anni dello Stato ebraico una mostra al Museo di Roma in Trastevere, organizzata da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Comunità ebraica di Roma e ambasciata israeliana lo celebra a partire dal prossimo 7 settembre.
In mostra fino al 4 novembre oltre settanta fotografie in bianco e nero e a colori di dimensioni diverse. Ad essere raccontata, attraverso una speciale sensibilità artistica e umana che fu tratto costante del suo impegno artistico, i grandi eventi della storia contemporanea, fatti di persone e di luoghi significativi per la memoria dello Stato. Alcuni di questi scatti, si ricorda nella mostra, possono definirsi iconici. A partire dalla fotografia con tre paracadutisti in primo piano ripresi davanti al Muro Occidentale, il 7 giugno 1967. Un'immagine che, viene sottolineato, "ha contribuito a definire la coscienza nazionale dello Stato d'Israele". O ancora uomini, donne e bambini comuni, ma anche personaggi che hanno saputo cambiare il corso degli eventi. Come Golda Meir, quarto Premier d'Israele e prima donna al vertice del paese, qui ritratta insieme al pittore Marc Chagall.
In occasione della sua scomparsa il Presidente israeliano Reuven Rivlin aveva commentato: "Ci sono quelli che scrivono le pagine della storia, e ci sono quelli che le illustrano tramite l'obiettivo della loro macchina fotografica. Attraverso la sua fotografia, David ha immortalato la storia come sarà per sempre impressa nella nostra memoria".
(moked, 20 agosto 2018)
Il corbynismo, nuova malattia inglese
L 'antisemitismo scuote il Labour britannico
Scrive Politico Europe (7/8)
Dopo quasi tre anni della leadership di Corbyn, la crisi di antisemitismo nel partito [laburista britannico, ndt] continua a peggiorare", scrive James Kirchick su Politico Europe, in una lunga analisi intitolata "Il più pericoloso degli export britannici: il corbynismo". "Appena due settimane fa è emerso che Corbyn una volta ha comparato le azioni di Israele a Gaza a quelle della Germania nazista a Stalingrado, si è riferito ai terroristi di Hamas come suoi 'fratelli', ha ridicolizzato un collega deputato ebreo chiamandolo 'l'onorevole rappresentante per Tel Aviv' e instillato il dubbio - su una tv di stato iraniana, niente meno - che Israele possa aver avuto un ruolo nell'attacco terroristico contro l'Egitto.
Corbyn è un sinistroide dogmatico che concepisce il razzismo esclusivamente attraverso il prisma del potere che, nella sua semplicistica e volgare visione del mondo marxista, è in mano agli ebrei. Nel gìorno della memoria dell'Olocausto, nel 2011, Corbyn si è unito al suo futuro cancelliere ombra, John McDonnell, nel sostenere una risoluzione parlamentare per cambiare il nome della commemorazione in 'Giorno della memoria dei genocidi'.
Più di recente, Corbyn e i suoi alleati hanno tentato di modificare la definizione di antisemitismo dell'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto, così da escludere gli esempi pertinenti a Israele. Invalidare questo tipo di retorica antisemita (come comparare Israele alla Germania nazista o imputare lealtà duplici agli ebrei) è un tentativo estremamente cinico, da parte di Corbyn e dei suoi alleati, di difendersi retro attivamente dall'accusa di antisemitismo, dopo decenni di attiva fomentazione.
L'inevitabile conclusione è che Corbyn è un antisemita. Non nel modo crudo di gente come il Grande stregone del Kkk David Duke, la stella del British National Party Nick Griffin o il blogger neonazista Daily Stormer (che, guarda caso, sostengono il leader laburista). L'antisemitismo di Corbyn è più sottile e più sfumato, ed è una funzione del suo fervente antisionismo.
E' difficile immaginare un politico col bagaglio antisemita di Corbyn fare carriera nel Partito socialista francese, figurarsi fra i socialdemocratici tedeschi. L'impegno di Corbyn dimostrato per rinominare la Giornata della memoria dell'Olocausto sarebbe stato sufficiente a farlo fuori, nella sinistra tedesca, che ha ammirevolmente posto l'Olocausto al centro della storia europea del Ventesimo secolo, un lavoro durato generazioni e intrapreso nell'indifferenza generale della società circostante. La volgarizzazione dell'Olocausto da parte di Corbyn, nella sua comparazione di crimini ben minori allo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei, o la più palese tattica antisemita di paragonare gli ebrei ai nazisti, è giustamente considerata un tabù da chiunque sia dotato di un'istruzione elementare, oltre che di una coscienza morale". (Tommaso Alberini)
(Il Foglio, 20 agosto 2018)
Chomsky: "Israele non potrà sempre contare sull'appoggio statunitense"
Noam Chomsky è uno dei non pochi intellettuali ebrei antisionisti che fa coprire dalla fama ottenuta in un altro campo della cultura la sua sostanziale ignoranza della recente storia dello stato dIsraele. Perché merita il nome di ignorante (se si esclude la precisa, menzognera volontà di colpire) chiunque parli con leggerezza di occupazione e apartheid in relazione allo Stato dIsraele. Tuttavia le notizie e le riflessioni che lautore fornisce sulla situazione che sta intorno, in questo caso gli Stati Uniti, possono essere prese in considerazione. NsI
Il noto politologo Noam Chomsky prevede che il regime israeliano non sarà sempre in grado di beneficiare del sostegno degli Stati Uniti nella sua politica di continua usurpazione della terra palestinese.
"Israele non sarà in grado di contare per sempre sul sostegno degli Stati Uniti", ha dichiarato Chomsky in un'intervista al sito web chiamato "themfadhel.com", citata, ieri, da diversi media palestinesi.
Secondo l'intellettuale statunitense dal momento che Israele con le sue azioni negli ultimi anni si è messo in una posizione contraria all'opinione pubblica, tra cui i settori più liberali e la gioventù in generale, compresi gli ebrei americani, non è difficile immaginare che in un futuro, non troppo lontano, le autorità israeliane perderanno il sostegno incondizionato della Casa Bianca per quanto riguarda la politica di apartheid applicata alla popolazione dei territori palestinesi occupati.
Ha spiegato che "il sostegno a Israele" negli Stati Uniti si trova sempre più nelle chiese evangeliche e in prevalenza tra i nazionalisti e razzisti, e contro di lei, ci sono le principali istituzioni, specialmente la Chiesa presbiteriana, dove di promuovono programmi di boicottaggio e disinvestimento , simile alla campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele (BDS).
A questo proposito, ha spiegato che queste organizzazioni stanno adottando un approccio più critico nei confronti di quelle aziende statunitensi coinvolte nell'occupazione israeliana.
In un'altra parte della sua intervista, Chomsky ha sottolineato che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante tutto e ciascuno della sua propaganda sul cosiddetto "accordo del secolo", non ha alcuna soluzione per risolvere il conflitto israelo-palestinese.
Dal suo punto di vista, se i palestinesi continuano a spingere come fanno a livello internazionale nella difesa della loro causa, saranno in grado di creare opportunità significative per ottenere importanti cambiamenti nelle politiche statunitensi per quanto riguarda la Palestina.
(lAntidiplomatico, 18 agosto 2018)
L'Onu è ormai il covo dei terroristi di Hamas
La politica filo-islamica del Palazzo di Vetro. Il piano di pace per la Palestina è un tentativo di disarmare Israele finanziando le organizzazioni antiebraiche.
di Giovanni Sallusti
A breve l'Onu ingloberà nella propria Carta costitutiva la proposizione chiave dello Statuto di Hamas, «Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla», e sarà il passo definitivo.
Esageriamo? Prendete il contenuto dell'ultimo documento per «rafforzare la protezione dei palestinesi» nella Striscia di Gaza e nella West Bank presentato dal segretario generale Antonio Guterres, non dall'ultimo funzionario del Palazzo di Vetro, e fatene una laica valutazione.
Già che il piano abbia l'intento esclusivo di proteggere i palestinesi, e non anche i cittadini israeliani oggetto quotidiano dell'amichevole pratica del lancio di razzi (solo pochi giorni fa sono stati sparati oltre 150 missili in una notte contro obiettivi civili) la dice lunga sull'approccio di Guterres e dei suoi burocrati alla questione, che è più o meno quello del dottor Goebbels: la vita di un ebreo vale sempre meno, nella scala morale. I quattro punti proposti, poi, sembrano dettati direttamente da Ismail Haniyeh, il capo di Hamas. Punto numero uno: la presenza di «esperti di Diritti Umani» delle Nazioni Unite, ovviamente per valutare i possibili crimini dei soldati israeliani, mica quelli del gruppo jihadista che usa donne e bambini come scudi umani ad uso e consumo delle bruttissime anime belle occidentali.
Peccato che il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu sia ormai una dépendance di regimi islamisti o comunque di dittature che amerebbero assistere alla scomparsa dello Stato ebraico dalla carta geografica, come dimostra il grottesco bilancio del grottesco organismo: più di 70 risoluzioni approvate contro Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente, 7 contro la teocrazia omicida degli ayatollah iraniani, una contro i gentiluomini tagliateste dello Stato islamico. Pensate il livello d'imparzialità che avrebbero, questi inviati dell'ipocrisia.
Soldi per i missili
Seconda ideona di Guterres: aumentare ulteriormente i fondi destinati allo «sviluppo dei Territori palestinesi», Tradotto: più soldi ad Hamas per comprare più armi e scavare più tunnel dentro le viscere d'Israele, ancora meno sicurezza per i civili israeliani, identiche fame e miseria per i civili palestinesi. Come è sempre stato quando sono piovuti finanziamenti internazionali per gli islamisti che hanno monopolizzato la causa palestinese, e come sempre sarà finché durerà tale monopolio.
Terzo punto: una missione di osservatori da schierare nei punti caldi, quindi «nei pressi dei checkpoint e degli insediamenti israeliani», per scovare eventuali abusi.
Favori ai violenti
Eccola, l'unidirezionalità ormai esplicita, il fiancheggiamento ormai privo di inibizioni nei confronti dei bombaroli di Hamas: gli unici luoghi dove possono darsi abusi sono quelli dove i militari di uno Stato sovrano e liberale difendono la loro popolazione dall'aggressione di una banda terrorista che, come da Statuto, vuole «porla nel nulla».
Infine il quarto punto, con cui si arriva dove finora nemmeno quest'Onu biforcuta e filointegralista era mai arrivata, la dichiarazione diretta di bellicosità nei confronti di Israele. Guterres ipotizza infatti lo «schieramento di una forza armata internazionale e di una forza di polizia» sotto l'egida della Nazioni Unite con il compito di fornire «protezione fisica» ai palestinesi. Cioè, l'Onu prevede di mettersi in posizione di guerra contro le truppe israeliane? Da un lato fa ridere, a maggior ragione se si pensa all'ombrello protettivo americano che scatterebbe immediatamente, tanto più sotto la presidenza di Donald Trump, e già questo scenario è un buon motivo per rimuovere il segretario generale ed interdirlo, causa incapacità di intendere e di volere. Dall'altro, la boutade diventa inquietante nel momento storico in cui l'autocrate turco Erdogan resuscita il vecchio sogno panislamico della costruzione di un esercito unico maomettano che si precipiti a difendere la Palestina e soprattutto ad «estrarre il pugnale piantato nel cuore dell'lslam», cioè Israele. Parole recenti, terribili, ma passate come l'acqua fresca nella sede distaccata di Hamas, 760 United Nations Plaza, New York, Palazzo di Vetro.
(Libero, 19 agosto 2018)
Ferrara - Documenti, sigilli, statue, Ebrei: una storia italiana
di Chiara Pagani
Nel dicembre dello scorso anno a Ferrara è stato inaugurato il Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah (meisweb.it), che fino al 16 settembre ospita la mostra Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni che, con oltre duecento oggetti tra cui manoscritti, documenti, anelli, sigilli, statue, ripercorre il primo millennio di ebraismo italiano, dall'età romana al Medioevo. Numerosi manufatti provengono dall'archivio della Genizah del Cairo ma sono notevoli anche i prestiti di musei italiani e di altre istituzioni straniere. Le cinque sezioni della mostra descrivono la provenienza e le rotte della diaspora dopo la distruzione del Tempio di Salomone, in un percorso segnato da integrazione o da intolleranza nei rapporti con la cultura pagana e nell'affermarsi del cristianesimo. L'esposizione documenta la storia di una comunità che forse non superò mai le 50 mila persone ma che ha profondamente influenzato la cultura italiana.
(Corriere della Sera, 19 agosto 2018)
Il genero «farfallone» di Nasser fu l'agente più prezioso d'Israele
In un saggio di Ahron Bregman (Einaudi) la storia dell'egiziano Ashraf Marwan, divenuto spia. Amico dell'autore, l'informatore è morto in modo misterioso nel 2007.
di Paolo Salom
Il 5 ottobre 1973 cinque palestinesi vengono arrestati dalla polizia in un appartamento di Ostia. Da un armadio saltano fuori due missili Sa-7 di fabbricazione sovietica, avvolti nei tappeti che erano serviti per trasportarli in treno da Roma: i terroristi intendevano usarli per abbattere un aereo della El Al in decollo da Fiumicino, nell'imminenza dello scoppio della guerra del Kippur. Come avevano fatto gli agenti italiani a sapere dell'attentato in preparazione e a sventare una strage? Risposta facile: furono informati dal Mossad.
Quel che però è rimasto nell'ombra per decenni è l'origine della «soffiata»: una spia al servizio degli israeliani capace di rivelare i segreti del regime egiziano, allora il nemico più temibile dello Stato ebraico. Ashraf Marwan questo il suo nome non è stato un informatore qualsiasi. Il Mossad con il governo di Gerusalemme lo ha considerato «l'agente più prezioso della storia», l'uomo cui si deve (probabilmente) la sopravvivenza di Israele. A raccontare la sua incredibile vicenda è, in un agile saggio pubblicato da Einaudi, lo storico Ahron Bregman, docente al King's College di Londra (La spia che cadde sulla terra, pp. 102, e 14,50), diventato casualmente suo amico tanto da entrare lui stesso negli eventi che portarono alla sua morte nel 2007.
Nato nel 1944 in una famiglia della media borghesia cairota, Ashraf Marwan salì rapidamente ma non senza inciampi i gradini del potere sposando Mona, la figlia più bella e prediletta di Gamal Abdel Nasser che, peraltro, non ebbe mai simpatia per quel genero «farfallone e inaffidabile». Ma dopo la morte del raìs, e l'ascesa del suo vice, Anwar Sadat, le cose cambiano rapidamente. Chiamato al fianco del nuovo presidente in «quota» della famiglia Nasser, Marwan nel 1970 contatta l'ambasciata israeliana a Londra, offrendo i suoi servigi. Se nei film le spie sono uomini (e donne) freddi, spietati, calcolatori, nella realtà almeno quella raccontata da Bregman emergono caratteri ben diversi. Intanto, da principio l'agente del Mossad che risponde per primo al telefono non riconosce il suo interlocutore e se lo lascia scappare. Marwan deve chiamare più volte prima di essere preso sul serio per la casuale presenza a Londra di due importanti funzionari del Mossad che ben sapevano chi fosse il «genero di Nasser». Cominciò così, nella diffidenza reciproca, il rapporto tra l'alto esponente del governo del Cairo e la struttura spionistica considerata la più efficiente al mondo. La spia che cadde sulla terra, per quasi trent'anni, rivelò piani e segreti capaci di spiegare e prevenire le mosse egiziane. Come l'attentato di Roma: voluto da Gheddafi in rappresaglia per l'abbattimento di un jet libico finito per errore sullo spazio aereo israeliano, fu prima organizzato dallo stesso Ashraf Marwan (fu lui a consegnare i missili ai palestinesi) e poi sventato grazie alle sue tempestive soffiate. Ma la spia fu in grado di avvertire il governo di Golda Meir dell'imminenza dell'attacco congiunto di Egitto e Siria (6 ottobre 1973) e, soprattutto, riuscì a fornire i piani di battaglia dell'esercito del Cairo così da consentire il contrattacco del generale Sharon e la sconfitta finale degli eserciti arabi.
Resta da capire perché lo fece e come gli accadde di cadere dalla finestra del suo appartamento nel centro di Londra, il 27 giugno 2007, quando era ormai soltanto un ricco uomo d'affari che trafficava con immobili e armi. Alla prima domanda prova a rispondere Bregman, riportando la sua versione («dopo la Guerra dei sei giorni, del 1967, voleva essere dalla parte dei più forti») e immaginando che le ragioni fossero più semplici: bisogno di denaro, semplicioneria, desiderio di rivalsa. Alla seconda è ancora oggi difficile dare un senso: un'inchiesta ufficiale britannica si concluse senza una chiara versione dei fatti, omicidio e suicidio erano entrambi opzioni possibili. Certo, la «caccia» di cui era stato oggetto da parte dello storico israeliano non lo aveva aiutato: con il suo nome reso pubblico, era diventato inevitabilmente un «morto che cammina».
(Corriere della Sera, 19 agosto 2018)
Israele e l'apartheid
Lettera a LEspresso
Nell'articolo su Israele (L'Espresso n. 33) Davide Lerner ci presenta Israele come uno Stato razzista e discriminatorio. In realtà nessuna delle disposizioni specifiche previste nella nuova legge è antidemocratica. Basta leggerla. Non c'è nessun articolo che priva gli arabi di tutti i diritti individuali all'interno di Israele. né impedisce la possibilità che gli arabi palestinesi esercitino l'autodeterminazione in Cisgiordania e Gaza, che non fanno parte dello Stato d'Israele. L'unica cosa che proibisce è uno stato arabo all'interno dei confini, di Israele.
Alessandro Parravlclnl
(lEspresso, 19 agosto 2018)
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I discepoli sulla via di Emmaus
Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. È vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buonora al sepolcro, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto».
Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano.
Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, egli fece come se volesse proseguire. Essi lo trattennero, dicendo: «Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire». Ed egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista. Ed essi dissero luno allaltro: «Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentregli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?»
E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone». Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane.
Dal Vangelo di Luca, cap. 24
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Abbas esorta i palestinesi alla resistenza popolare contro Israele
RAMALLAH - I palestinesi "continuino a infiammare la terra con la resistenza popolare" contro Israele. È questo l'appello lanciato dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas al termine della riunione del Comitato centrale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), conclusa oggi a Ramallah in Cisgiordania. I palestinesi "continuino a infiammare la terra con la resistenza popolare" di cui "non devono sottovalutare l'importanza" ha affermato Abbas, secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post".
Abbas è poi intervenuto sul contrasto che oppone il partito da lui presieduto, Fatah, e l'Anp ad Hamas, il movimento che controlla la Striscia di Gaza dal 2006. A tal riguardo, Abbas è tornato a chiedere ad Hamas di cedere il pieno controllo sulla Striscia di Gaza all'Anp. In caso contrario, ha evidenziato Abbas, Hamas "dovrà assumersi la piena responsabilità" dell'enclave costiera palestinese. A Gaza, secondo Abbas, "un solo Stato, una sola legge, un solo sistema e una sola forza di sicurezza". Inoltre, per Abbas i finanziamenti diretti alla Striscia di Gaza "devono essere amministrati dall'Anp".
Durante il Comitato centrale dell'Olp è stata poi ribadita l'ostilità dei palestinesi al piano per la pace in Medio Oriente da tempo annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e non ancora presentato. Abbas ha ripetuto la sua richiesta che Hamas abbia il pieno controllo della Striscia di Gaza al governo dell'Autorità Palestinese con sede a Ramallah. Altrimenti, ha detto, Hamas dovrebbe assumersi la piena responsabilità dell'enclave costiera. Nel comunicato pubblicato al termine della riunione, il Comitato centrale dell'Olp afferma che "l'amministrazione degli Stati Uniti è alleata con il governo di occupazione israeliano" e pertanto "è parte del problema, non della soluzione".
(Agenzia Nova, 18 agosto 2018)
«Militari a difesa dei palestinesi». Arriva il no di Israele
Il segretario generale dell'Onu ha avanzato quattro proposte per proteggere i civili: «Ma ci vuole una cooperazione fra le parti».
NEW YORK - Una forza armata militare o di polizia, oppure una missione di osservatori civili in zone sensibili, come i checkpoint, e la recinzione di Gaza e delle aree vicino agli insediamenti: sono due delle quattro proposte di Antonio Guterres per proteggere i civili palestinesi nei Territori sotto occupazione israeliana.
Il segretario generale dell'Onu ha sottolineato che, per ognuna di queste raccomandazioni, sarebbe necessaria una cooperazione fra israeliani e palestinesi ma l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Damon, ha bocciato subito il piano: «L'unica protezione di cui necessita il popolo palestinese è dalla sua leadership. L'Autorità palestinese incita la gente a demonizzare e ad attaccare gli ebrei e Hamas, organizzazione terrorista, sfrutta quelli sotto il suo controllo mettendoli intenzionalmente in pericolo».
Lo stesso Guterres ha sottolineato d'altra parte che una nuova missione militare o di polizia stabilita dall'Onu o operante sotto mandato Onu richiederebbe l'approvazione del Consiglio di sicurezza. E qui il veto degli Usa, stretti alleati di Israele, sarebbe scontato.
Nel suo rapporto il segretario generale delle Nazioni Unite suggerisce anche una più robusta presenza dell'Onu sul terreno, con ulteriori esperti politici e di diritti umani che potrebbero rafforzare le capacità di prevenzione delle Nazioni Unite, aumentarne la visibilità dell'organizzazione e «dimostrare l'attenzione e l'impegno della comunità internazionale» per proteggere i civili palestinesi.
Guterres ha sollecitato anche di rafforzare i programmi e l'assistenza umanitaria dell'Onu ma ha denunciato che l'appello delle Nazioni Unite per circa 540 milioni di dollari destinati ai servizi di base e a sostenere 1,9 milioni di palestinesi vulnerabili ha raccolto finora solo un quarto dei fondi.
Senza contare i forti tagli all'Unrwa, l'agenzia per i rifugiati palestinesi, che ha un deficit di 217 milioni di dollari dopo che gli Usa hanno congelato 300 milioni di finanziamenti per il "no" ai negoziati di pace da parte dell'autorità palestinese.
Il rapporto di 14 pagine costituisce la risposta di Guterres alla richiesta contenuta in una risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu, sostenuta dai palestinesi e adottata a giugno, in cui si accusava Israele per le violenze a Gaza, dove il bilancio da fine marzo è di 171 palestinesi uccisi. La risoluzione chiedeva appunto al segretario generale di avanzare proposte per proteggere i civili palestinesi e raccomandazioni per un «meccanismo di protezione internazionale».
Guterres ha sottolineato che 50 anni di occupazione militare israeliana, «le costanti minacce alla sicurezza, le deboli istituzioni politiche e un processo di pace in stallo, rappresentano per la protezione una sfida altamente complessa politicamente, legalmente e dal punto di vista pratico».
Il segretario generale ha quindi invitato i 193 Stati membri dell'Assemblea generale a esplorare «tutte le misure pratiche e realizzabili che possano significativamente migliorare la protezione della popolazione palestinese» e anche «la sicurezza dei civili israeliani».
(tio.ch, 18 agosto 2018)
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Scandalosa proposta delle Nazioni Unite a favore di Hamas
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite torna alla carica con la proposta di una forza di interposizione a Gaza e in Cisgiordania sventolando l'ennesima risoluzione che condanna Israele ma che non nomina mai Hamas.
GERUSALEMME - Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha presentato ieri un documento contenente quattro opzioni volte a rafforzare la protezione dei palestinesi nella West Bank e nella Striscia di Gaza.
Con riferimento alla risoluzione dell'Assemblea della Nazioni Unite che lo scorso giugno condannava Israele per «uso eccessivo della forza» e che dava incarico al Segretario Generale di proporre una soluzione volta a garantire sicurezza per i cittadini palestinesi (non quelli israeliani), ieri Antonio Guterres ha avanzato l'ennesima proposta volta a proteggere i terroristi islamici più che la popolazione di Gaza che, a dire il vero, andrebbe protetta da Hamas piuttosto che da Israele....
(Rights Reporters, 18 agosto 2018)
Gli israeliani che lasciano il Paese sono più di quelli che ritornano
di Yossy Raav
Secondo il rapporto del Central Bureau of Statistics (CBS), il numero di israeliani che hanno lasciato Israele per più di un anno è stato inferiore a quello del decennio precedente. E questa è una buona notizia. Ma il numero di israeliani che sono tornati dopo aver risieduto all'estero per più di un anno è diminuito rispetto al periodo precedente. La differenza è di 6300 unità.
Secondo le cifre, il numero di israeliani all'estero alla fine del 2016 è stato stimato tra 560.000 - 596.000 residenti, esclusi i bambini nati all'estero da israeliani. Il rapporto rivela inoltre che la durata del soggiorno all'estero della maggior parte dei rimpatriati è relativamente breve. Circa il 65% è tornato in Israele dopo al massimo tre anni all'estero.
Circa 15.200 residenti israeliani, lo 0,18% della popolazione totale, hanno lasciato il paese nel 2016 e vi sono rimasti per più di un anno. Undicimilacento di loro erano ebrei, mentre 4.200 erano di altre etnie. L'età media di coloro che lasciano il paese è 28,5, il 53% dei quali sono uomini. Tra gli uomini sopra i 15 anni, la metà erano single.
(Italia Israele Today, 18 agosto 2018)
Le illusioni europee sull'Iran - Al Arabiya
di Giuseppe Sandro Mela
I problemi culturali, politici, economici e militari legati all'Iran sono complessi e sfaccettati. Difficile cercare di comprenderli senza aver anche valutato attentamente come le svariate componenti in gioco vedano la questione.
A seguito saranno riportate alcune considerazioni fatte dagli arabi.
Al Arabiya evidenzia alcune problematiche, diplomatiche e giuridiche, di non poco conto.
- In primo luogo, l'Iranian deal non esiste, né può esistere, da un punto di vista diplomatico e giuridico, non essendo le parti contraenti legalmente abilitate a firmare trattati internazionali. Non è lecito invocare the rule of laws per poi disattenderle.
- In secondo luogo, l'Unione Europea non compariva tra gli attori dell'Iranian deal, di conseguenza Mrs Mogherini non ha diritto di intervenire in materia, cercando di assumere il ruolo di parte contraente. Una cosa è esprimere pareri politici, ed un'altra invece il farlo con autorità giuridicamente legale.
- In terzo luogo, Mr Trump non ha violato nessun termine degli accordi: il provvedimento EO13846 stabilisce soltanto che le imprese che commercializzano o producono in Iran non saranno ammesse al mercato statunitense ed i loro beni confiscati. In altri termini, questo provvedimento inerisce le imprese europee, non i relativi governi né, tanto meno, l'Unione Europea.
- In quarto luogo, sta di fatto come l'Unione Europea si sia fatta cogliere del tutto impreparata dalle mosse del presidente Trump. I dirigenti europei dovrebbero prendere atto di come si possa ragionare ed agire anche in modo differente da come loro pensavano fosse l'unico modo possibile.
- In quinto luogo, quattro quinti del commercio europeo con l'Iran è sostenuto da imprese tedesche, francesi, inglesi ed italiane, sicuramente europee ma non per questo rappresentative dell'Unione Europea.
Sono tutte considerazioni che sembrerebbero esser degne di nota.
(Senza Nubi, 18 agosto 2018)
Hamas e Israele verso la tregua. "Valichi aperti per un anno"
di Giordano Stabile
Un anno di tregua, valichi aperti, acque accessibili ai pescatori e una linea di collegamento marittima con Cipro che consenta di far uscire la Striscia di Gaza dall'isolamento. Sono i termini dell'accordo fra Hamas e Israele, che sarebbe stato raggiunto con la mediazione dell'Egitto e anticipato da media israeliani e arabi. Una svolta che si spera possa interrompere cinque mesi di violenze, cominciate con le «marce del ritorno» i130 marzo scorso e segnati dalla dura reazione israeliana, oltre 160 palestinesi uccisi, due ancora ieri, e dai lanci di razzi dei militanti, con decine di feriti israeliani.
La volontà di arrivare a una tregua, ed evitare un'altra operazione di terra come quella del 2014, era però condivisa sia da Hamas che dal governo di Benjamin Netanyahu. E dal Cairo, che vuole «disinnescare» la bomba umanitaria nella Striscia per stringere i rapporti di sicurezza con lo Stato ebraico e venire a capo dell'insorgenza islamista nel confinante Sinai. L'accordo, secondo l'Egitto, sarà annunciato la prossima settimana.
Valichi aperti e acque accessibili
Prevede un tregua di un anno, l'apertura di tutti i valichi di frontiera, l'estensione fino a 17 chilometri della zona di pesca davanti a Gaza e un collegamento marittimo fra il porto di Gaza e Cipro. La linea, un'idea del ministro delle Difesa israeliano Avigdor Lieberman, permetterà lo scambio di merci e l'arrivo di aiuti umanitari senza la strozzatura dei valichi, per favorire la ricostruzione.
L'accordo è arrivato però senza il consenso dell'Autorità nazionale palestinese e di Al-Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. Azzam Al-Ahmad, dirigente di Al-Fatah, ha parlato ieri di «tradimento»l colloqui del Cairo, ha aggiunto, «non sono un negoziato ma un festival di annunci». A Ramallah è arrivato due giorni fa il capo dell'Intelligence egiziana Abbas Kamel, ma non ha convinto i vertici di Al-Fatah. Egitto e Israele hanno così deciso di andare avanti da soli. Il ritorno dell'Autorità nella Striscia e il disarmo dell'ala militare di Hamas sono stati per ora accantonati.
L'Egitto garantirà che Hamas e i gruppi satelliti non compiano alcun attacco e questo basta a Netanyahu, che l'anno prossimo si gioca la rielezione. La polizia ha interrogato ieri per l'undicesima volta il premier, sospettato in tre casi di corruzione. Ma è la pace, non una nuova guerra, la carta vincente per allontanare l'ombra degli scandali: i cittadini non vogliono più dover correre verso i rifugi «entro 15 secondi», quando piovono i razzi sulle città del Sud. Ma non vogliono neanche contare i soldati caduti, come durante l'ultima operazione Protective Edge: 73 morti israeliani, 2125 palestinesi.
(La Stampa, 18 agosto 2018)
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Verso la tregua fra Israele e Hamas
Piano di Onu ed Egitto per scambiare i prigionieri con le salme dei soldati ebraici.
di Maurizio Stefanini
Niente da fare. Altri morti e feriti hanno interrotto il cessate il fuoco al confine della Striscia di Gaza, proprio mentre i media della regione davano per ormai partito un processo per arrivare a una tregua duratura tra Hamas e Israele. Una tregua di un anno; la riapertura del valico merci di Kerem Shalom e il ripristino a 9 miglia della zona di pesca; assistenza medica e umanitaria; uno scambio di prigionieri che porti alla restituzione delle salme di soldati israeliani uccisi nel conflitto del 2014 e dei civili trattenuti nella Striscia da Hamas; la ricostruzione delle infrastrutture di Gaza con fondi stranieri; l'introduzione di un corridoio navale per un traffico di cargo tra Cipro e la Striscia di Gaza sotto controllo israeliano: sarebbero questi i sei punti principali di quella possibile intesa a lunga scadenza tra Hamas e Israele sulla quale starebbero lavorando Onu ed Egitto, ma per la quale ci sarebbero state anche trattative dirette tra Israele e Qatar. Uno dei due protagonisti della trattativa sarebbe il capo dell'intelligence egiziana generale Abbas Kamel: mercoledì sarebbe andato a Tel Aviv e giovedì in Cisgiordania, a vedere Abu Mazen. Un altro sarebbe il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, di cui sulla stampa israeliana è apparsa ieri la notizia che due mesi fa si sarebbe incontrato segretamente a Cipro con un inviato del Qatar, appunto per discutere a sua volta su Gaza.
Il conflitto non cessa
Il cessate il fuoco, in realtà, era entrato in vigore il 9 agosto. E anche il punto sulla riapertura del valico e sulla pesca è scattato dal 15 agosto. In effetti c'era stato un altro cessate il fuoco il 21 1uglio, che però era stato interrotto per 24 ore, con un fitto lancio da Gaza di 180 razzi che avevano fatto 11 feriti. Israele aveva risposto con raid in cui erano stati colpiti 150 obiettivi e per i quali erano morti 3 palestinesi. Di nuovo, però, scontri tra manifestanti palestinesi e forze israeliane lungo la barriera al confine tra la Striscia di Gaza e Israele hanno provocato ieri vittime: almeno due palestinesi morti, un 30enne e un 26enne, e 241 feriti, compresi gli intossicati dai gas lacrimogeni. Nel frattempo c'è stato pure un uomo che è stato ucciso dalla polizia israeliana dopo aver cercato di accoltellare un agente alla porta dei Leoni, nella Città Vecchia di Gerusalemme: si tratta di un arabo israeliano di 30 anni, proveniente dalla città di Umm al-Fahm. Negli ultimi due anni c'è stata un'ondata di attacchi con coltelli contro civili e membri delle forze di sicurezza israeliane, ma negli ultimi mesi erano considerevolmente diminuiti.
Scontri al confine
Gli scontri al confine sono avvenuti nell'ambito di una Marcia del Ritorno organizzata da Hamas. Hamas d'altronde ufficialmente nega ogni trattativa, affermando che gli incontri al Cairo di una sua delegazione riguardavano solo questioni interne palestinesi, e non una trattativa con Israele come affermato da tutti. L'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha preso posizione al riguardo, mentre il ministro della Difesa Lieberman ha negato ogni tipo d'accordo. Ma l'iniziativa di dialogo è stata approvata dal gabinetto israeliano, e il quotidiano Haaretz conferma, spiegando appunto dei sei punti da mettere in pratica gradualmente nell' ottica di un ripristino della situazione ante guerra del 2012 e di quella del 2014.
Un problema base è che Hamas non vuole una pace che comporterebbe un riconoscimento di principio di Israele - sul modello di quelle che lo Stato ebraico ha stipulato con l'Egitto, la Giordania e l'Anp. Invece parla di hudna: un tipo di tregua fuoco simile a quelle stipulati dal profeta Maometto con i suoi nemici, e che non comporta il loro riconoscimento. In effetti, dal momento che l'islam ritiene avere come propria missione la conquista del mondo in passato le potenze islamiche non firmavano mai con i non musulmani trattati che potessero comportare una rinuncia anche solo implicita a questo obiettivo. Le cose sono ovviamente cambiate con l'occidentalizzazione - e prima ancora con le sconfitte militari a catena che l'Impero Ottomano iniziò a inanellare a partire dalla fine del secolo XVlI, e che gli resero impossibile continuare a fare lo schizzinoso. Ma l'integralismo islamico pretende appunto di tornare a quella impostazione, e anche Hamas si attiene appunto a questa dottrina.
(Libero, 18 agosto 2018)
Gli omicidi mirati del Mossad: un'arma segreta per Israele
di Lorenzo Vita
L'omicidio di Aziz Asbar, lo scienziato siriano ucciso con l'esplosione della sua macchina a Masyaf, ha da subito attratto l'attenzione dei media. E in molti, immediatamente, hanno puntato il dito contro Israele. Troppi gli indizi a favore della tesi per cui dietro l'uccisione di Asbar vi fosse il Mossad.
L'importanza dello scienziato siriano, così come l'importanza del centro di ricerca che dirigeva, già bombardato da Israele, sono stati individuati subito come motivi per credere che i servizi israeliani avessero agito nell'ombra per eliminare un avversario scomodo. Perché questo era Asbar, soprattutto per i suoi legami con il programma missilistico iraniano.
Israele, come sempre, non ha smentito le accuse rivolte nei suoi confronti. È una politica che lo Stato ebraico segue da tempo. Lo fa per evitare di dare certezze ai nemici, ma anche per dare all'esterno un'immagine di potenza. Gli altri Paesi e le altre agenzie di intelligence devono credere che il Mossad possa arrivare ovunque vogliono, per colpire qualunque nemico.
Perché la morte di Asbar è solo l'ultimo di una serie di episodi controversi di cui sono stati incolpati i servizi segreti di Israele. E, come ricorda Al Monitor, questa uccisione ha ricordato due omicidi di cui era stato accusato il Mossad: l'assassinio del capo di stato maggiore di Hezbollah Imad Mugniyah, avvenuto a Damasco nel febbraio 2008; e l'omicidio del generale siriano Mohammed Suleiman nella sua villa a Tartous, nell'agosto dello stesso anno.
L'uccisione di Mugniyah
L'uccisione di Mugniyah è considerata ancora oggi uno degli attacchi più audaci del Mossad. Noto come "l'uomo senza volto", il leader di Hezbollah, considerato uno dei fondatori del movimento libanese, ha vissuto per decenni senza che il mondo ne conoscesse l'identità. Di lui si aveva soltanto una foto del 1985, dopodiché pochissimi hanno avuto modo di conoscere il suo volto.
Mugnyah dormiva ogni notte in un posto diverso, proprio perché sapeva che Israele e Stati Uniti lo avessero messo nel mirino. Una caccia senza interruzione terminata nel 2008, quando la sua automobile è esplosa nel centro di Damasco. Un assassinio complesso. Aver trovato il luogo in cui dormiva, individuato l'automobile e inserito un congegno esplosivo al suo interno (o secondo un'altra ipotesi un'autobomba vicino alla macchina del leader libanese), non furono azioni di un servizio qualsiasi. E proprio per questo tutti accusarono il Mossad.
I servizi israeliani negarono il coinvolgimento, ma il Dipartimento di Stato americano rilasciò una dichiarazione molto sibillina: "senza di lui, il mondo è un posto migliore", questo fu il commento di Sean McCormack, allora portavoce del Dipartimento Usa.
L'omicidio di Suleiman
L'assassinio di Muhammad Suleiman, invece, ha colpito direttamente il governo di Damasco. Secondo i media, il generale siriano, uno dei più stretti collaboratori di Bashar al-Assad, è stato freddato da un cecchino con un colpo alla testa e uno al collo mentre cenava nella sua villa al mare, a Tartous.
Anche in questo caso, l'importanza dell'uomo ucciso, unita alla precisione dell'operazione, fecero immediatamente pensare al Mossad. Alcune fonti parlano di Suleiman come il principale consigliere per la sicurezza del presidente. Altre fonti ritengono fosse il collegamento delle forze armate siriane con Hezbollah. Poi, nel 2010, Wikileaks ha pubblicato un cablogramma della National security agency che definiva Suleiman il "consigliere presidenziale per l'approvvigionamento di armi e per le armi strategiche".
Infine, un'indagine pubblicata da The Intercept, grazie alle confessioni di Edward Snowden, ha riferito che l'agenzia d'intelligence americana aveva intercettato le comunicazioni israeliane che confermavano che l'omicidio fosse opera dei servizi dello Stato ebraico. Lo si può leggere nei documenti pubblicati dallo stesso sito americano.Il motivo della morte era da ricercare nel fatto che Suleiman fosse uno dei personaggi di spicco del programma nucleare siriano.
E non a caso, un anno prima, Israele bombardò con un'operazione clandestina il reattore di Deir Ezzor. Proprio per questo motivo, in molti vedono la morte di Asbar come una perfetta ripetizione di quella morte, avvenuta 10 anni fa a Tartous.
L'omicidio di Mahmoud al-Mabhouh
Come scrivemmo su questa testata, di particolare importanza in questi ultimi anni è stato l'omicidio del Mahmoud al-Mabhouh, un alto funzionario di Hamas ucciso a Dubai. la sua morte, orchestrata direttamente da Parigi dai servizi segreti israeliani, è stata una delle operazioni più clamorose e forse anche meno riuscite da parte del Mossad.
La morte del dirigente palestinese, avvenuta per mano di sicari arrivati direttamente con un volo Air France dalla capitale francese a Dubai, è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza del luogo dell'omicidio. In questo caso, la falla nel sistema è stata evidente. La polizia degli Emirati ha reso pubbliche le immagini dell'assassinio, di fatto facendo vedere a tutto il mondo un'operazione dei servizi israeliani.
La recente escalation di omicidi
A più di due anni dall'insediamento di Yossi Cohen come direttore del Mossad. E in questi due anni e mezzo, l'agenzia israeliana ha avuto un'impennata di questo tipo di operazioni. Dalla nomina di Choen per mano di Benjamin Netanyahu, il Mossad ha aumentato il numero degli omicidi mirati e sembra assolutamente intenzionata a non arretrare.
Una delle prime operazioni che si presume essere stata compiuta da Israele, è stata l'omicidio dell'ingegnere Mohamed Zoari. Fuggito dalla Tunisia, l'ingegnere, esperto di droni, si unì alle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas. L'uomo venne freddato a Sfax da due assalitori che non lasciarono alcuna traccia, se non due passaporti bosniaci. Hamas incolpò subito il Mossad dell'omicidio. Israele, come sempre, non confermò né smentì, ma il ministro della Difesa Avigdor Lieberman commentò la smorte dell'esperto di droni di Hamas dicendo che "non avrebbe certo vinto il Nobel per la pace".
A gennaio di quest'anno, un altro attentato sospetto. Questa volta, ad essere coinvolto nell'esplosione un altro nemico dello Stato di Israele: l'attivista di Hamas, Mohammed Hamdan. Come scrivemmo su questa testata, in quel caso l'attentato avvenne attraverso l'esplosione di una bomba al passaggio dell'automobile del dirigente palestinese nel centro di Sidone. L'uomo è sopravvissuto all'attentato. In molti pensarono che in realtà l'obiettivo non fosse lui, ma il fratello, Osama, uno dei più importanti funzionari di Hamas. Ma potrebbe essere anche stato un avvertimento per entrambi.
Ad aprile, un nuovo omicidio. A morire, questa volta, un ricercatore palestinese legato ad Hamas, Fadi Mohammad al-Batsh, ucciso a Kuala Lumpur, in Malesia, da due sicari in motocicletta. Secondo Al Monitor, il ricercatore stava lavorando al "Precision Project", un presunto piano di creazione di un sistema balistico ideato da Hezbollah, Iran, Siria e Hamas.
L'Iran al centro delle attenzioni di Israele
Israele ha da molti anni un obiettivo: fare in modo che l'Iran non abbia più la capacità di possedere un'arma nucleare. Il programma nucleare iraniano è al centro dei pensieri di Netanyahu. E, come ha scritto la rivista americana Politico, il Mossad si era preso carico anche di un programma di eliminazione fisica di molti scienziati legati al programma atomico degli Ayatollah.
Adesso, significa semplicemente unire i puntini come un grande gioco di enigmistica. Tutti questi omicidi hanno effettivamente un denominatore comune. Tutti i morti erano persone che avrebbero sicuramente accresciuto le capacità militari degli avversari di Israele, nessuno escluso. Leader militari, ricercatori, ingegneri, chiunque era in grado di offrire un miglioramento sensibile alla potenza degli avversari dello Stato ebraico. E sono morti, tutti, in circostanze per cui si può credere che il Mossad abbia operato.
Chiaramente, come ogni operazione dei servizi che si rispetti, esse devono rimanere "anonime". La firma non c'è su nessuna di queste uccisioni. Ma è interessante che questa escalation di omicidi sia in atto proprio quando Israele ha avuto l'ok degli Stati Uniti ad applicare il massimo livello di pressione sull'Iran così come il placet a una serie di azioni nei confronti di Hamas. Netanyahu e Cohen si sentono evidentemente molto più sicuri.
(Gli occhi della guerra, 17 agosto 2018)
Atalanta - Hapoel Haifa 2-0
Parole sincere del tecnico israeliano, che riconosce la forza della squadra di Gasperini, definita "di almeno venti volte superiore tecnicamente".
Il tecnico israeliano, Nir Klinger, rende onore al merito dei nerazzurri: "Abbiamo commesso meno errori dell'andata, il primo tempo è stato ottimo, ma il divario tecnico è decisivo. Preferisco unirmi al cordoglio terribile per i morti sull'autostrada a Genova dell'altro ieri. Ci ha colpiti tutti".
"A casa nostra l'Atalanta era davvero di un altro livello rispetto a noi, ma noi le abbiamo facilitato la chiusura della pratica. Stavolta invece a livello tattico siamo andati bene e nel primo tempo i nerazzurri hanno chiuso sullo zero a zero, e potevamo anche segnare. Nella ripresa si sono rivisti sbagli sul piano difensivo e gli avversari hanno potuto far entrare giocatori freschi"
"Erano vent'anni che il mio club non giocava in Europa e queste due partite mi hanno regalato ottime sensazioni per i miei ragazzi e per il nostro futuro. Abbiamo fatto già tanto contro una squadra dal potenziale di almeno venti volte superiore al nostro".
"Questa esperienza ci è servita per crescere. Faccio i miei auguri al team di Gasperini, ottimo e competitivo".
(Calcio Atalanta, 17 agosto 2018)
Israele, ecco il nuovo "forziere" del gas mediterraneo
Il ruolo di Energean, i riverberi sulla geopolitica del mare nostrum e la possibilità di immaginare nuovi vettori, che esportino gas a Cipro o in Egitto
di Francesco De Palo
212 miliardi di metri cubi di gas e 101 barili di idrocarburi liquidi: sono il potenziale delle nuove risorse presenti nei giacimenti offshore israeliani. Significa che, al netto dei nuovi gasdotti e delle interferenze dei players contrari, è Israele che ha in mano il pallino delle nuove dinamiche legate agli idrocarburi. Fatti, analisi e scenari.
Nuovo forziere
Secondo il Ceo della compagnia greca Energean, Mathios Rigas, è stato identificato un potenziale elevatissimo di gas naturale nel territorio israeliano con una probabilità molto alta di successo. È la ragione per cui Energean ha già avviato tutte le fasi preliminari per condurre perforazioni esplorative, anche perché tutti i rilievi tecnici convergono nell'associare i nuovi giacimenti ai bacini di Karish e Tanin.
Lo scorso dicembre Energean si è aggiudicata alcune licenze esplorative per i blocchi 12, 21, 22, 23, 31 vicini ai "serbatoi" di Karish e Tanin secondo la procedura avviata dal ministero dell'Energia di Tel Aviv. Solo per Karish, le cui attività inizieranno nel marzo 2019, il costo è stimato tra i 15 e i 25 milioni di dollari.
Energean dispone al momento di 13 licenze di esplorazione, cinque delle quali fuori da Israele in Grecia e Montenegro. La compagnia greca, che ha acquisito Karish e Tanin in Israele, è appoggiata dal gruppo Delek di Yitzhak Tshuva e Noble Energy.
Rotta sul gas
Lo scorso marzo il Cda di Energean aveva approvato un investimento da 1,6 miliardi di dollari nello sviluppo dei giacimenti di gas naturale Karish e Tanin. La fornitura di gas dai siti israeliani offshore è prevista per l'inizio del 2021. Lo sviluppo del Karish includerà la collocazione di un gasdotto che parte dal bacino attraverso il sistema di trasporto del gas naturale israeliano.
Lo sviluppo di Tanin, che è previsto solo in un secondo momento, includerà la perforazione di sei pozzi che saranno collegati a una piattaforma di stoccaggio e scarico di produzione fluttuante (la cosiddetta FPSO).
Quattro le banche coinvolte nel finanziamento di 1,275 miliardi di dollari per Energean, con un consorzio formato da Bank Hapoalim, Morgan Stanley, Societe Generale e Natixis. Il senior partner del consorzio, Bank Hapoalim, investirà 375 milioni di dollari e le tre banche straniere investiranno 300 milioni ciascuna.
Scenari
In Israele il gruppo Energean detiene il 70% dei nuovi blocchi e per questo ha già firmato contratti di vendita per un ammontare di 4,2 miliardi di metri cubi all'anno di gas (dai giacimenti già scoperti). Pertanto, attraverso le nuove scoperte, vi sarà una prospettiva di canalizzazione per 3,8 miliardi di altri metri cubi di gas.
Tamar, che ha iniziato la produzione nel 2013, è al momento la principale fonte di approvvigionamento di gas naturale per Israele, anche in riferimento alle esportazioni verso la Giordania. Secondo l'amministratore delegato di Delek Drilling, Yossi Abu, i dati aggiornati sulle riserve indicano che il potenziale geologico del bacino non è stato ancora sfruttato pienamente.
Ma cosa porta in grembo questo report? In primis un allargamento del contesto nella macro regione che dal Mediterraneo orientale dialoga con il nord Africa e con le nuove tratte europee legate al gas. In secondo luogo la possibilità di immaginare nuovi vettori, che esportino gas a Cipro o in Egitto, legandosi con i giacimenti già esistenti Zohr e Leviathan.
Per definire al meglio potenzialità e perimetro di azione sarà però necessario attendere il prossimo marzo, quando si svolgerà la perforazione esplorativa di Karish Nord, dove secondo le prime stime vi sarebbero risorse potenziali per 38 miliardi di metri cubi, con il 69% di probabilità di scoperta.
Energean
La compagnia ellenica Energean ha iniziato le sue operazioni acquisendo le licenze Prinos, nel nord-est della Grecia orientale nel 2007. In due lustri ha creato un portafoglio bilanciato di attività di produzione e sviluppo. Israele è uno dei mercati di gas naturale a crescita più rapida al mondo, poiché la domanda di gas è aumentata in media del 15,5% dal 2006 al 2016. Il consumo è aumentato ulteriormente fino a 10,3 BCM nel 2017, mentre secondo il rapporto del comitato Adiri (datato luglio 2018), il consumo raggiungerà 14,1 BCM nel 2025 e 25,7 nel 2042.
Energean produce anche dai giacimenti di petrolio Prinos e North Prinos e dal giacimento di gas naturale South Kavala, offshore nel nord est della Grecia. Secondo Netherland Sewell & Associates, Energean ha 39,5 milioni di barili di petrolio e 6 BCF di gas naturale con riserve che ammontano a 22,9 milioni di barili di petrolio e 5,3 miliardi di metri cubi di gas.
La compagnia dispone anche di un potenziale esplorativo significativo grazie alle licenze detenute in Israele, nell'Adriatico e nella Grecia occidentale.
(formiche.net, 17 agosto 2018)
Ambasciatore USA in Israele: non c'è motivo per evacuare gli insediamenti in Giudea e Samaria
Secondo quanto si legge nei media israeliani, l'Ambasciatore Usa a Gerusalemme, parlando durante un incontro con Yehudah Glick, membro della Knesset, portavoce principale della comunità israelita in Giudea e Samaria, avrebbe detto che nel piano di pace che ha prodotto il Presidente USA Donald Trump, non si evince alcun motivo per evacuare gli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria.
All'incontro, voluto da Glick per informare il diplomatico su alcuni progetti economici israelo-palestinesi, hanno partecipato il presidente del Consiglio regionale Har Hebron, Yochai Damari e Muhammad Nasser, uomo d'affari palestinese.
Glick e Damari hanno illustrato a Friedman un progetto per la realizzazione di un centro sanitario ad uso di entrambe le comunità, israeliana e palestinesi, che, nelle intenzione dei due dovrebbe servire a creare migliaia di posti di lavoro per i palestinesi.
Per Glick pensare al futuro insieme è l'unico modo per poter vivere in pace.
A margine, la nota del Dipartimento di Stato USA con cui l'amministrazione Trump precisa che le dichiarazioni di Friedman, sostenitore delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria, e che in qualità di presidente della American Friends of Bet El Institutions sostiene la comunità di Bet El, non riflettono necessariamente la politica estera USA.
(Osservatorio Sicilia, 17 agosto 2018)
Iran: Dichiarazioni di Khamenei dopo settimane di silenzio
Le dichiarazioni di Khamenei dopo diverse settimane di silenzio, dimostrano che il regime non ha alcuna via d'uscita dal mortale impasse che sta affrontando
di Mahmoud Hakamian*
Le dichiarazioni del 13 Agosto 2018, rese dal leader supremo Ali Khamenei dopo settimane di silenzio riguardo alla crescente ondata di proteste popolari e alla caduta libera della valuta iraniana, il rial, dimostrano che egli non ha nessuna soluzione o strategia di fuga dall'impasse mortale che sta attanagliando tutto il regime.
Nel tentativo di impedire il diffondersi del disfattismo all'interno delle fila del regime, Khamenei ha detto: "Alcuni malignamente asseriscono che il paese è all'impasse e che non c'è altra via d'uscita se non unirsi a qualche Satana o al Grande Satana. Chiunque dica che siamo arrivati all'impasse o è un ignorante o le sue affermazioni sono sovversive".
Nel tentativo disperato e patetico di nascondere la corruzione dilagante all'interno del regime, ha aggiunto: "Alcuni sono andati troppo oltre con le loro dichiarazioni, chiamando tutti corrotti e utilizzando espressioni come 'corruzione sistematica'
Alcuni sono imprudenti quando parlano e quando scrivono. Non si può estendere la corruzione presente in alcune agenzie o tra alcune persone a tutto il paese nel suo complesso".
Fingendo di ignorare i furti delle ricchezze del popolo iraniano perpetrati dai funzionari del regime, il loro spreco per finanziare gli anti-patriottici programmi nucleare e missilistico e le attività belliche all'estero, Khamenei ha dato la colpa della catastrofica situazione economica dell'Iran al suo presidente, Hassan Rouhani. Criticando la mancanza di prontezza del governo nell'affrontare le sanzioni ha detto: "La maggior parte dei recenti problemi economici sono dovuti alle misure prese all'interno del paese. Se fossero state intraprese azioni più efficacemente, più prudentemente, più velocemente e più decisamente, le sanzioni non avrebbero potuto avere tanto effetto".
Khamenei ha anche tacitamente incolpato il governo del furto di "18 miliardi di dollari della valuta esistente nel paese" ed ha avvertito che la magistratura punirà "coloro che hanno causato la caduta della valuta nazionale".
Sebbene abbia supervisionato i negoziati sul nucleare con i P5+1, Khamenei ha detto: "Sulla questione dei negoziati ho fatto un errore e a causa dell'insistenza dei politici (Rouhani e Javad Zarif) ho permesso di provare. Ma limiti specifici sono stati superati".
Ma terrorizzato che qualunque cambiamento dello status quo aggraverebbe la situazione esplosiva in cui si trova la società, Khamenei ha detto: "Quelli che dicono che il governo deve dimettersi fanno parte dei piani del nemico. Il governo deve restare al suo posto e fare il suo dovere per risolvere le difficoltà con forza".
Khamenei è stato anche costretto a rompere il suo silenzio sulla nuova ondata di proteste scoppiata nel paese, che ha definito "incidenti di Agosto che, nonostante gli enormi investimenti finanziari e politici del nemico, si sono rivelati essere molto limitati". Le proteste anti-governative durate tutta la settimana in molte città iraniane come Teheran, Karaj, Isfahan e Mashhad, a grido di "A morte Khamenei!", "A morte il dittatore", hanno dimostrato ancora una volta la determinazione del popolo iraniano nel voler rovesciare il regime al potere.
Ammettendo che il suo regime si trova in uno stato estremamente vulnerabile e fragile, Khamenei ha detto: "Noi non negozieremo con l'America". Aggiungendo "Noi potremo entrare in pericolose manovre di negoziazione con l'America solo quando avremo raggiunto la capacità economica, politica e culturale che immaginiamo
Ma negoziare ora andrebbe certamente a nostro discapito ed è proibito
Anche se volessimo negoziare con gli americani, questo sarebbe un presupposto impossibile di per sé. Di sicuro non negozieremo mai con l'attuale governo (U.S.A.)".
Pertanto Khamenei ha chiarito ancora una volta che qualunque cambiamento nell'atteggiamento di questo regime, porterebbe ad un cambio di regime.
Respingendo totalmente qualunque possibilità di una guerra, Khamenei ha guastato la festa a quelli che hanno cercato di far passare una politica decisa nei confronti di questo regime terrorista come una dichiarazione di guerra. Khamenei ha detto: "Loro sventolano lo spettro di una guerra, ma non ci sarà nessuna guerra. Assolutamente non ci sarà nessuna guerra".
La paura della guerra diffusa da alcuni è il disperato tentativo di salvare il regime dei mullah dalla sua caduta per mano del popolo iraniano che anela ad avere democrazia e sovranità popolare invece che questa teocrazia al potere.
In un momento in cui durante le sue proteste il popolo dell'Iran grida "Lasciate stare la Siria, pensate a noi!" Khamenei ha detto: "Noi abbiamo aiutato due paesi amici, Siria e Iraq ad affrontare le minacce dell'America e dei sauditi", sottolineando la continua e criminale ingerenza del regime nella regione del Medio Oriente.
* Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana
(politicamentecorretto.com, 17 agosto 2018)
La tregua tra Hamas e Israele spacca i partiti palestinesi
Il presidente dell'Anp Abu Mazen spara a zero sugli islamisti che dovrebbero firmare il cessate il fuoco con Tel Aviv oggi al Cairo. L'accordo di un anno dovrebbe prevedere infrastrutture a Gaza, negoziati per uno scambio di prigionieri e un corridoio navale tra la Striscia e Cipro.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Il Per i media israeliani l'accordo di tregua tra il governo Netanyahu e Hamas, di un anno e non di cinque come si diceva qualche settimana fa, è cosa fatta e sarà messo nero su bianco oggi al Cairo. Il quotidiano Haaretz ieri scriveva che la prima della sei fasi dell'intesa -la calma lungo le linee tra Gaza e Israele e la riapertura del valico commerciale di Kerem Shalom - sarebbe già in atto da mercoledì. Da parte sua Hamas fa trapelare solo che l'intesa potrebbe essere raggiunta tra sabato e domenica.
Le altre fazioni palestinesi, costrette ad accettare quello che hanno deciso gli islamisti, sbuffano e criticano Hamas che, affermano, in cambio di aiuti umanitari e un allentamento del blocco israeliano di Gaza ha concesso troppo, a cominciare dalla fine delle manifestazioni popolari della Grande Marcia del Ritorno. Nell'incertezza che regna intorno alla possibile tregua, l'unica cosa sicura è la rabbia del presidente dell'Anp Abu Mazen, furioso per un accordo che tende a relegarlo ai margini della diplomazia. Non ha avuto mezze parole per i suoi avversari Abu Mazen quando è intervenuto ai lavori del Consiglio centrale dell'Olp due giorni fa a Ramallah. Ha rivolto accuse pesanti all'amministrazione Usa e ha attaccato il «piano di pace», noto come Accordo del secolo, che Trump sostiene di poter realizzare tra israeliani e arabi (a scapito dei diritti dei palestinesi). Ha sparato a zero sul governo Netanyahu e affermato la volontà di lottare, assieme ai palestinesi con cittadinanza israeliana, contro la legge approvata dalla Knesset che definisce Israele Stato nazionale degli ebrei. E Abu Mazen non ha mancato di rivolgere attacchi al vetriolo anche ad Hamas che, a suo dire, ha silurato la riconciliazione con il suo partito, Fatah, e ora va a un'intesa separata con Israele senza aver ottenuto un granché per Gaza.
Hamas replica che proprio «l'ostinazione» del presidente dell'Anp a voler raggiungere la riconciliazione interna solo alle sue condizioni finisce per dividere i palestinesi. U movimento islamico ricorda che le misure adottate dalla presidenza dell'Anp nell'ultimo anno hanno aggravato la condizione umanitaria di Gaza. Abu Mazen nel suo discorso al Consiglio Centrale ha evitato di attaccare frontalmente l'Egitto- il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel è stato mercoledì a Tel Aviv e ieri a Ramallah - che pure dietro le quinte favorirebbe i disegni di Trump e, incurante delle perplessità della presidenza dell'Anp, ha deciso di mediare, assieme all'inviato dell'Onu Mladenov, un accordo separato tra Israele e Hamas. «Le preoccupazioni di Abu Mazen sono solo in parte comprensibili - spiega al manifesto l'analista di Gaza Saud Abu Ramadan - perché l'Egitto mentre lavora all'accordo di tregua allo stesso tempo ha invitato al Cairo le delegazioni di Fatah e delle altre formazioni palestinesi per arrivare alla riconciliazione». Tuttavia un pericolo per Abu Mazen è concreto, aggiunge Abu Ramadan: «È chiaro che se ci sarà un accordo tra Fatah e Hamas non sarà alle condizioni dettate dal presidente».
A quel punto, prosegue l'analista, «Abu Mazen potrebbe essere costretto ad accettarlo perché rifiutando lo darebbe indirettamente luce verde a una separazione netta tra la Cisgiordania sotto la sua autorità e Gaza controllata da un Hamas più forte dopo l'intesa con Israele».
I prossimi giorni o forse le prossime ore diranno se Gaza avrà a una "cessazione delle ostilità" di lungo periodo. Per ora si dice e si scrive un po' di tutto.
La tregua sarebbe di un anno e prevederebbe la costruzione di infrastrutture civili a Gaza, negoziati per uno scambio di prigionieri che porti alla restituzione delle salme di due soldati morti in combattimento nel 2014 e di due civili israeliani trattenuti da Hamas in cambio della liberazione di prigionieri politici palestinesi. L'intesa potrebbe prevedere l'introduzione di un corridoio navale, sotto controllo israeliano, tra la Striscia di Gaza e Cipro con traffico di cargo.
(il manifesto, 17 agosto 2018)
Teheran non ci sta
Un rapporto della Agenzia Bloomberg rivela che durante il recente faccia a faccia tra Trump e Putin i due leader avrebbero concordato l'uscita delle forze iraniane dalla Siria, ma Teheran si oppone e Putin non insiste.
Sulla presenza iraniana in Siria gli Stati Uniti e la Russia avrebbero raggiunto un accordo di massima che prevede l'uscita delle forze iraniane dal territorio siriano. Lo rivela un rapporto dell'Agenzia Bloomberg (1) secondo il quale durante l'ultimo faccia a faccia tra Trunp e Putin i due presidenti avrebbero affrontato il problema che affligge Israele e che potrebbe portare a uno scontro diretto tra israeliani e iraniani.
Secondo Bloomberg, che cita come fonte un anonimo funzionario dell'amministrazione americana, il recente vertice di Helsinki tra il Presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin sarebbe stato dominato dalla discussione sulla attuale situazione in Siria e in particolare sulla presenza iraniana in territorio siriano.
I due leader mondiali avrebbero concordato sulla necessità che l'Iran e tutte le forze collegate a Teheran (Hezbollah e milizie sciite varie) debbano lasciare la Siria. Tuttavia il Presidente russo, Vladimir Putin, pur concordando con tale necessità si sarebbe detto "scettico" sul fatto che gli iraniani avrebbero accettato di buon grado il loro ritiro dalla Siria....
(Rights Reporters, 17 agosto 2018)
Eurovision: accordo governo-KAN sul deposito, sarà Israele 2019
di Federico Rossini
Alla fine, tutto è bene quel che finisce bene. Con un accordo tra il governo israeliano e la KAN, la tv di Stato, si è sbloccata la situazione legata ai 12 milioni di euro del deposito di garanzia da dare all'EBU affinché l'Eurovision Song Contest 2019 si svolga in Israele. Sono soldi che, lo ricordiamo, saranno restituiti a fine manifestazione.
La KAN ha rilasciato un comunicato col quale ha assicurato che pagherà la somma necessaria affinché il concorso possa tenersi in Israele. In ogni caso, dovesse succedere qualcosa per la quale il Paese non fosse in grado di ospitare, facendo perdere così i soldi alla KAN, il Ministero delle Finanze interverrebbe per coprire la perdita. Secondo i media israeliani i 12 milioni sarebbero stati trovati tramite un prestito bancario.
Nel frattempo, è ancora la stampa locale a gettarsi sulla questione che, a questo punto, preme più di tutte: in quale città si terrà il concorso? Gli indizi sembrano propendere sempre di più verso Tel Aviv, quasi a voler avverare la "profezia" che Nadav Guedj cantò nel 2015 in Golden Boy (un verso della canzone recita "and before I leave let me show you Tel Aviv"). Le altre città ufficialmente in corsa sono Gerusalemme, Eilat e Haifa. Dal momento che la Yad Eliyahu Arena (oggi Menora Mivtachim Arena) sarà perennemente occupata dal Maccabi Tel Aviv di basket, una soluzione alternativa ci sarebbe: il padiglione 2 del Centro Congressi di Tel Aviv, meglio noto come Fairgrounds. Questo padiglione, inaugurato nel 2015, ha recentemente ospitato gli Europei di judo.
Israele ospiterà l'Eurovision 2019 a seguito della vittoria di Netta con Toy quest'anno, ottenuta a Lisbona con 529 punti. L'Italia è giunta quinta (e terza al televoto) con Non mi avete fatto niente di Ermal Meta e Fabrizio Moro.
(Eurofestival News, 16 agosto 2018)
Il «reality tv» dei calciatori israeliani
La famiglia di sportivi «Buzaglo» tra Duomo e Navigli
di Laura Vincenti
Sono un po' i Kardashian d'Israele: il docu-reality sulla loro vita, è uno dei più seguiti nel paese mediorientale. Solo che «I Buzaglo» sono una famiglia non di celebrità della tv bensì di calciatori, spesso in giro per il mondo. In questi giorni sono sbarcati anche qui in Italia in occasione della partita Atalanta-Hapoel Haifa in scena a Reggio Emilia e valida per il terzo turno di qualificazione di Europa League, Proprio nella squadra israeliana, infatti, gioca Almog, 26 anni, il più giovane del clan Buzaglo, che è composto anche da Yaakov, il capofamiglia, classe 1957, ex calciatore della nazionale israeliana negli anni '80, dalla mamma Hani e dai fratelli Maor e Asi, anch'essi calciatori, e da Oh ad, che, invece, è allenatore.
Durante questa breve vacanza italiana, non poteva mancare una tappa a Milano, dove la sportivissima famiglia ha visitato i luoghi storici della città, dal Duomo alla Galleria Vittorio Emanuele, con tanto di partitella di calcio all'ombra della Madonnina e poi aperitivo e cena al nuovo ristorante di uno chef tv in Galleria. E poi tour sui Navigli, dove i Buzaglo, accompagnati dalla produttrice Ifat Shmueleviz e dalla regista Sigal Shavit, banno potuto gustare le specialità di uno dei ristoranti più rinomati della zona, vicino al Pont de Ferr. E non poteva mancare un giro di shopping nel Quadrilatero della moda e anche al nuovissimo store di abbigliamento sportivo vicino alla Galleria, dove la famiglia ha fatto incetta di maglie ufficiali, soprattutto di Milan e Inter. E chi vuole restare sempre aggiornato e vedere in diretta le avventure e gli spostamenti dei Buzaglo, può visitare le pagina Instagram dei protagonisti: in particolare Maor, che vanta 155 mila follower, è molto attivo nel postare fotografie, come quella davanti al Duomo di Milano, ma soprattutto nel realizzare stories, testimoniando così la sua vita e quella di tutta la sua grande fanti glia in tempo reale. E i tifosi dell'Inter probabilmente si ricordano di Maor, considerato uno dei migliori calciatori israeliani degli ultimi anni, perché nel 2016, quando indossava la maglietta dell'Hapoel Be'er Sheva, ha segnato un gol contro la squadra nerazzurra in Europa League.
(Corriere della Sera - Milano, 17 agosto 2018)
Egitto - Il capo dellintelligence Abbas Kamel in Israele per colloqui su tregua
di Elena Panarella
Il cessate il fuoco sul campo tra Israele e Hamas, mediato da Egitto e Onu, si sta rafforzando sempre più. Il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel, avrebbe incontrato ieri a Tel Aviv funzionari israeliani nel tentativo di definire i dettagli di un accordo per una tregua tra Israele e Hamas che potrebbe essere annunciato già domani: lo scrive il quotidiano Al-Hayat che cita fonti palestinesi. Secondo l'articolo di Al-Hayat, rilanciato dai media israeliani, Kamel dovrebbe recarsi oggi a Ramallah per colloqui con il leader dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, che ieri ha aperto i lavori del Consiglio centrale palestinese.
Il piano egiziano, sottolinea il giornale, riguarda anche progetti umanitari nella Striscia di Gaza e futuri negoziati indiretti tra Israele e Hamas per uno scambio di prigionieri, oltre alla riconciliazione palestinese. Una fonte palestinese ha sostenuto che già «domani un accordo potrebbe essere annunciato al Cairo con la presenza di tutte le fazioni» palestinesi. Nelle scorse settimane delegazioni di Hamas e della Jihad Islamica si sono recate al Cairo per discutere i dettagli dell'accordo. Il 9 agosto Hamas ha annunciato di aver raggiunto con Israele un accordo per una tregua grazie alla mediazione egiziana e dell'Onu, ma lo Stato ebraico ha negato l'esistenza di un'intesa.
(Il Messaggero, 16 agosto 2018)
La metà degli adolescenti palestinesi non frequenta la scuola
«Non andare a scuola vuol dire farsi sfruttare da quell'odio che in quella terra provoca e genera conflitti senza fine»
di Geremia Acri
«I ragazzi qui studiano e pensano, ma anche io studio e penso con loro. [
] normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie. Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco» (Don L. Milani, Lettera ad un amico, Natale 1965).
In Palestina quasi tutti i bambini fra i 6 e i 9 anni frequentano la scuola, ma a 15 anni circa il 25% dei ragazzi e il 7% delle ragazze abbandona gli studi, divenendo, così facile preda di abusi, sfruttamento, schiavitù e reclutamento coatto in un territorio perennemente dilaniato dal conflitto armato.
A svelare, questa triste realtà è il rapporto "State of Palestine: Country Report on Out-of-School Children" -Palestina: Rapporto sui bambini che non vanno a scuola-, realizzato dall'UNICEF Palestina e dall'Istituto di Statistica dell'UNESCO, in collaborazione con il Ministero per l'Istruzione.
I dati preoccupano l'agenzia dell'Onu per l'infanzia che evidenzia anche l'alto tasso di disoccupazione giovanile, pari al 60%, come conseguenza principale dell'abbandono scolastico, fenomeno che riguarda il 18,3% dei giovani in Cisgiordania e il 14,7% nella Striscia di Gaza.
I motivi dell'abbandono
Il motivo per cui gli adolescenti abbandonano anticipatamente la scuola dell'obbligo - sottolinea Andrea Jacomini, portavoce di Unicef-Italia - «
include un'istruzione di scarsa qualità, che spesso è vista come un fattore non rilevante nelle loro vite, violenza fisica ed emotiva a scuola, sia da parte degli insegnanti che dei coetanei, e inevitabilmente il conflitto armato. Andare a scuola può anche rappresentare una sfida per gli adolescenti maschi, in Palestina, spesso costretti ad attraversare diversi checkpoint, blocchi stradali e ad aggirare gli insediamenti israeliani solo per raggiungere l'aula. È inaccettabile! Pensiamo se nostro figlio, mentre cammina, venisse fermato, interrogato, violentato psicologica in maniera non indifferente. E come se non bastasse, durante le lezioni ci sono incursioni dei militari nelle classi».
Un altro dato che emerge dal rapporto è il sovraffollamento nelle classi. «Nella Striscia di Gaza - prosegue il portavoce di Unicef-Italia - le aule sono sovraffollate, con in media 37 alunni per classe. Fra coloro che sono iscritti dal primo al decimo anno scolastico, circa il 90% frequenta scuole organizzate su due turni. Ciò riduce le ore per l'apprendimento e la capacità degli insegnanti di supportare adeguatamente i bambini, soprattutto quelli che hanno difficoltà di apprendimento o comportamentali».
Abusi, sfruttamento, violenze
«I bambini rimasti indietro a scuola hanno maggiori probabilità di abbandono scolastico e quindi incorrono in un rischio maggiore di abusi e sfruttamento fuori dalla scuola - sottolinea - Genevieve Boutin, Rappresentante Speciale dell'Unicef in Palestina -. Essere a scuola non aiuta solo i bambini palestinesi a imparare e svilupparsi, ma fornisce inoltre una stabilità e delle abilità utili per la vita che sono di particolare importanza in questi ambienti». Il rapporto evidenzia, inoltre, che le violenze colpiscono l'istruzione in diversi modi. Oltre due terzi dei bambini che frequentano dal primo al decimo anno scolastico sono esposti a violenze emotive e fisiche nelle loro scuole e, a causa dei conflitti, per oltre 29.000 bambini nel 2017 il loro percorso scolastico è stato interrotto a causa di 170 attacchi e minacce di attacchi su scuole, studenti o insegnanti, che colpiscono ulteriormente la frequenza scolastica».
L'Unicef lancia delle proposte
Per realizzare il diritto all'istruzione di ogni bambino in Palestina, l'Unicef chiede di migliorare la qualità dell'istruzione nelle scuole che hanno basso rendimento; aumentare l'accesso a servizi per l'istruzione su misura, fuori e dentro la scuola, migliorare la formazione e il supporto tecnico agli insegnanti per un'istruzione che sia inclusiva; migliorare e ampliare i programmi di prevenzione alla violenza, ma soprattutto proteggere le scuole dalla violenza legata al conflitto. «Non andare a scuola - conclude Jacomini - vuol dire farsi sfruttare da quell'odio che in quella terra provoca e genera conflitti senza fine».
(andrialive.it, 16 agosto 2018)
L'odio contro Israele
di Francesco Lucrezi
Ho già avuto modo di commentare la perfida e serpentina astuzia con cui l'antisemitismo mondiale, a partire dal 1967, ha trasformato il piccolo e coraggioso Israele, Davide aggredito da nemici cento volte più forti e numerosi, nel grosso e violento Golia, contrapposto al nuovo, minuscolo Davide-Palestina, fragile e indifeso (anche se non propriamente inoffensivo). I vecchi nemici di sempre, giocando abilmente a nascondino, si sono nascosti dietro il pargolo, e fanno finta di essersi dileguati nel nulla, e il nuovo Davide, qualsiasi cosa faccia, non può non essere, sempre e comunque, innocente. Più che normale, perciò, che il nuovo simbolo degli odiatori di tutto il mondo sia il volto grazioso di una ragazza diciassettenne dagli occhi di ghiaccio, che, picchiando soldati nemici armati fino ai denti, riscatta l'onore del suo popolo oppresso.
Un soldato ebreo, che difende uno Stato ebraico, è un ossimoro, e chi lo colpisce ripristina l'ordine naturale. E se a farlo è una ragazzina - degna figlia di una madre orgogliosa, che si rammarica del numero troppo esiguo dei corpi dilaniati da una bomba in un ristorante - è il massimo. Il suo successo mediatico è fin troppo scontato. Qualche mese di prigione, poi, non poteva non farne una star internazionale, ovvio che tutti i giornali del mondo facciano la fila per intervistarla. Lei non si nega, e dice di volere rendere giustizia a tutti i bambini palestinesi, vittime di ingiustizia come lei. Lei è piccola, inerme, ma rappresenta soggetti ancora più piccoli e fragili di lei, così come il soldataccio israeliano da lei giustamente picchiato rappresenta un esercito potentissimo, zeppo di cingolati, caccia bombardieri, bombe atomiche. La sproporzione di forze tra Davide e Golia viene esaltata alla millesima, milionesima potenza, mai visto, nella storia, qualcosa di simile.
Che dire? Nulla, solo due domande, a proposito dell'unico, vero protagonista di tutto ciò, che è l'odio.
La prima domanda riguarda la possibilità di analizzare l'odio secondo le categorie della medicina. È contagioso, come una malattia infettiva. Può avere lunghe incubazioni, prima di manifestarsi. Ha i "portatori sani". Cresce e divora come un cancro. È un morbo autoimmune. E, soprattutto, pare spesso una malattia genetica, ereditaria, per la quale la parentela assume un'importanza essenziale (madre e figlia
). Mi rendo conto che quest'idea può apparire razzista, ma allora anche la natura lo è. Sono i medici a chiederci quanti casi di infarto o di neoplasia contiamo in famiglia, per poi dirci quanto siamo soggetti a rischio. Solo che noi - a differenza della giovanissima giustiziera - non ci rallegriamo delle malattie dei nostri genitori. Sì, l'odio somiglia, decisamente, a una malattia. Ma è una malattia particolare, dalla quale, molto spesso, i pazienti non hanno la minima intenzione di curarsi. E perché dovrebbero, poi? Non solo di odio non si muore, ma esso può dare un senso alla vita, può elargire fama, gloria, successo.
La seconda domanda - che mi è capitato di pormi molte volte in vita mia - è cosa sia il contrario dell'odio, cosa si possa utilmente contrapporre ad esso. Certamente non l'amore, che all'odio, tante volte, appare alquanto vicino, o simile. Forse (omeopaticamente) altro odio, odio dell'odio? Per carità, ce n'è già fin troppo. E neanche la parola 'bontà' mi pare adatta, così retorica e melensa. Forse l'indifferenza? Non direi, non è il contrario di niente. La razionalità? Questa, forse, sì, perché l'odio è certamente irrazionale. Ma oggi mi verrebbe da dire, soprattutto, tristezza. Di fronte al bel viso della giovane 'Davida', e al suo immenso oceano di odio, non ho da contrapporre nulla, all'infuori di una minuscola goccia di tristezza. Che, ovviamente, non è una medicina, e non cura nulla.
(moked, 16 agosto 2018)
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