Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 15-31 agosto 2019



Dopo aver fatto la purificazione dei peccati

Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi.

Dalla lettera agli Ebrei, cap. 1

 


Israele-Etiopia: il premier Ahmed inizia visita a Gerusalemme

Domani l'incontro con Netanyahu

GERUSALEMME - Il primo ministro etiope Abiy Ahmed effettuerà una visita ufficiale in Israele a partire da oggi, 31 agosto. A Gerusalemme, come riferito in un comunicato del ministero degli Esteri israeliano, Ahmed incontrerà l'omologo israeliano Benjamin Netanyahu nella giornata di domenica, oltre ad incontrare il presidente Reuven Rivlin e a visitare il memoriale dell'Olocausto (Yad Vashem) e la Direzione nazionale informatica. Durante la visita, recita la nota, le due parti discuteranno del rafforzamento della cooperazione bilaterale nei settori della sicurezza, dell'agricoltura e della tecnologia, con particolare attenzione alla cyber sicurezza. La visita di Ahmed farà seguito a quelle effettuate ad Addis Abeba da Netanyahu nel luglio 2016, e dal presidente Rivlin, nel maggio 2018. In quest'ultimo frangente le due parti hanno firmato una serie di accordi di cooperazione nei settori della salute, dell'istruzione e dell'energia. Etiopia e Israele intrattengono rapporti stretti e amichevoli e cooperano in molti settori, tra cui l'agricoltura, il settore idrico, la salute, l'istruzione, la scienza, la tecnologia e l'innovazione.

(Agenzia Nova, 31 agosto 2019)


Tutto pronto per l'incontro Trump-Iran? Il fattore Bibi

Donald porge la mano all'Iran, e per la prima volta da Teheran arriva disponibilità per incontrarsi. Meeting già nelle prossime settimane?

di Emanuele Rossi

L'immagine aerea "twittata" dal Presidente degli Stati Uniti
Ieri il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha twittato una dettagliatissima immagine aerea del poligono di lancio di Semnan in cui un missile iraniano è esploso prima di salire in orbita (dove avrebbe dovuto portare un satellite). La foto —apparentemente scattata da una copia fisica che secondo un funzionario del Pentagono era contenuta in un report di intelligence entrato venerdì nello Studio Ovale — riportava questo commento: "Auguro all'Iran i migliori auguri e buona fortuna nel determinare cosa è successo".
   C'è chi pensa che sia un messaggio velenoso perché crede che quello finito male due giorni fa a Semnan, così come altri con stesso esito in passato, sono lanci manomessi (forse con azioni hacker) dagli Stati Uniti. C'è chi crede nella sincerità di Trump, che ha usato addirittura un'informazione di intelligence Imint molto speciale per affrontare kindly la questione, smarcarsi dalle voci di cui sopra e anzi adoperare un atteggiamento amichevole col governo iraniano, che investe soldi nei missili con cui mettere in orbita i satelliti, e quando i lanci vanno male prende una batosta. Certo, il gesto amichevole è coronato da un'immagine raccolta con un genere di satellite, forse i nuovi KH-11, che l'Iran non riesce né a costruire né a mettere in orbita, e da questo punto di vista sembra un po' uno sfottò.
   Inciso tecnico: secondo alcuni osservatori non si tratterebbe di un'immagine satellitare, ma scattata da un drone. Questo significherebbe che gli Stati Uniti sono riuscita a penetrare i cieli iraniani. Si ricorderà che i Pasdaran avevano già abbattuto un sofisticato velivolo senza pilota americano una mesata fa perché aveva sconfinato. Anche in quell'occasione Trump tenne un profilo controllato: evitò un attacco di ritorsione, ringraziò l'Iran per non aver tirato giù anche un altro velivolo, contenente personale Usa, che viaggiava dietro al drone.
   Tutta questa apparente disponibilità dell'americano ha una perché: in questa fase è ansioso di incontrare il presidente iraniano Hassan Rouhani. Vuole una stretta di mano dal valore storico da vendere in campagna elettorale come eredità in politica estera. E sa che se a questo punto il summit si farà, potrà dire che tutto è avvenuto grazie a lui, che ha messo sotto massima pressione l'Iran e ha creato i presupposti per un nuovo negoziato.
   Di fatto i contatti sono già partiti, "piaccia o no i talks inizieranno presto", scrive in un fondo per il Washington Post Jason Rezaian, che vede come bottom line la vittoria di Teheran in questo braccio di ferro. Sebbene con ogni probabilità il risultato finale sarà un win-win senza sconfitti apparenti. Quello che il circolo dei pensatori trumpiani vorrebbe — e su cui è stato basato l'all-in sul ritiro americano dal Jcpoa — è un grande accordo che passa da tre punti da chiedere all'Iran. Fine sincera del programma nucleare militare (con magari aiuti su quello civile); stop alla diffusione delle milizie sciite per giocare influenza malevola regionale (contraccambio: condivisione di un'architettura di sicurezza nel Medio Oriente); chiusura del programma missilistico.
   In cambio, un bagno politico-diplomatico con cui ripulire completamente l'immagine è il ruolo di Teheran a livello internazionale (faccenda che significherebbe per gli iraniani la fine dell'isolamento economico). Trump potrebbe accettare anche solo di intavolare le trattative: viste le tensioni attuali potrebbe essere già un buon lavoro a livello narrativo. E d'altra parte si tratta di elementi negoziabili anche per la Repubblica islamica, ammesso che il pragmatismo del governo di Rouhani riesca a tenere a bada gli oltranzisti come parzialmente fatto finora.
   Chi ha più da perdere sono loro, i Pasdaran, che infatti cercano spazi per tenere la situazione in tensione con manovre a bassa intensità e spostamenti del dossier a livello regionale. Dall'altro lato, chi è meno d'accordo col piano di contatto di Trump è Israele, che in questi giorni sta sottolineando con insistenza come l'Iran sia il paese che dà spazio a dinamiche terroristiche contro lo stato ebraico. I raid allargati a cui stiamo assistendo questo significano: ricordare al mondo, con un occhio a Washington, che gli iraniani stanno gonfiando gli arsenali di gruppi paramilitari sciiti antisemiti e sono pronti all'attacco (per questo i caccia israeliani li colpiscono in anticipo, al momento dei passaggi di armi o prima della consegna).
   Gerusalemme è nervosa. Secondo uno scoop del sempre informatissimo Axios, il premier Benjamin Netanyahu, domenica scorsa — mentre il suo paese attaccava gli interessi iraniani in Siria, Libano e Iraq contemporaneamente — avrebbe passato diverso tempo attaccato al telefono per cercare "freneticamente" Trump e i suoi assistenti. Voleva chiedergli di non incontrare il ministro degli Esteri iraniano, una volta saputo dell'invito a sorpresa offertogli dal presidente francese Emmanuel Macron al summit del G7.
Trump non ha incontrato l'iraniano, ma ha ringraziato più volte Macron per l'impegno e per l'iniziativa, e ripetuto che non aspetta altro che le condizioni lo permettano perché vuole incontrare Rouhani. Ora dell'incontro ne parlano tutti, e per la prima volta in sincronia sia a Teheran che a Washington, ed addirittura girano rumors secondo cui possa arrivare già nelle prossime settimane.

(formiche, 31 agosto 2019)


Israele: tensione altissima al confine nord. Il capo dell'IDF visita le truppe

Tensione altissima al confine nord di Israele per un possibile attacco di Hezbollah. Il capo dell'IDF visita i reparti da combattimento. Annullate tutte le licenze ai militari fino a nuovo ordine

 
Cresce continuamente la tensione lungo il confine nord di Israele. L'esercito israeliano ha deciso di annullare tutte le licenze per il fine settimana nel timore di un attacco di Hezbollah.
Ieri il capo dell'IDF, il generale Aviv Kohavi, è arrivato al nord e ha fatto il giro completo di tutto il confine settentrionale a testimonianza che il momento è delicatissimo.
L'intelligence militare ha "informazioni credibili" in merito al fatto che Hezbollah stia preparando un attacco di ritorsione dopo che pochi giorni fa l'IDF ha sventato un attacco a Israele che Hezbollah si accingeva a compiere con droni carichi di esplosivo.
L'IDF ha chiuso molte strade consigliando ai residenti di rimanere in casa e di uscire solo per gravi motivi, una decisione che inizialmente ha provocato anche qualche protesta da parte dei residenti.
Il Generale Aviv Kohavi ha incontrato il capo del comando Nord, il generale Amir Baram e altri ufficiali per una valutazione della situazione.
Sono state analizzate le informazioni di intelligence che riportavano di preparativi da parte di Hezbollah per un attacco, giudicato imminente, a postazioni militari israeliane ma non contro i civili.
Tutte le unità da combattimento sono in allerta rossa fino a nuovo ordine.

(Rights Reporters, 31 agosto 2019)


*


Tensione in Libano, Israele spara 30 razzi illuminanti sulle alture del Golan

BEIRUT - Le forze israeliane hanno lanciato all'alba di oggi più di 30 razzi illuminanti nelle alture del Golan, sopra la linea di demarcazione con il Libano. Lo riferisce l'agenzia di stampa ufficiale libanese "Nna", precisando che il fatto è avvenuto tra le zone di Ghajar, Chebaa e Kfar Chouba. "Una decina di esplosioni sono state udite all'interno delle frazione di Chebaa", vicino al monte Hermon, punto d'incontro tra Siria, Israele e Libano. Questi sviluppi avvengono nel contesto delle crescenti tensioni tra lo Stato ebraico e il paese dei cedri. Sabato scorso, 24 agosto, un drone israeliano è caduto nei pressi del centro media di Hezbollah, mentre un secondo drone con un carico di esplosivo è volato con una traiettoria suicida contro lo stesso edificio, senza causare vittime. Mercoledì 28 agosto, sempre la "Nna" ha riferito che l'Esercito libanese ha aperto il fuoco contro un drone israeliano a Adaysit, nel sud del Libano, causandone la ritirata. La stessa agenzia riferisce che il contingente italiano che opera all'interno della missione di interposizione ad interim delle Nazioni Unite in Libano (Unifil, il cui mandato è stato appena rinnovato dal Palazzo di Vetro di New York) ha intensificato i pattugliamenti nell'area di Tiro, vicino alla linea di demarcazione con Israele. Il Libano ospita circa 1.000 peacekeeper italiani inquadrati nell'Unifil, la missione Onu ai comandi del generale Stefano Del Col.

(Agenzia Nova, 31 agosto 2019)



Israele guarda a India, Cina e monarchie del golfo

di Giuseppe Gagliano

Nonostante lo stretto legame politico-militare tra Israele e gli Stati Uniti, consolidato anche dalla presenza oltreoceano di potenti lobby sioniste radicate nel tessuto sociale e politico, negli ultimi anni Tel Aviv ha guardato oltre, verso l'India e la Cina.
   La visita nel 2017 del presidente in Israele dimostra in maniera esplicita il riconoscimento pubblico tributato ad Israele ma soprattutto dimostra come Israele sia diventato sempre più importante sia in merito all'esportazione di armi, di cui è il terzo fornitore all'India, sia in merito alla cooperazione tra le due nazioni nell'ambito della difesa missilistica e soprattutto nell'ambito dell'agrotecnologia.
   Per quanto riguarda le relazioni tra Israele e la Cina non va dimenticato che questa non solo ha investito 16 miliardi di dollari nel paese mediorientale, bensì ha promosso il fondo Sino Israel Technology Innovations con lo scopo di favorire lo sviluppo scientifico e tecnologico israeliano.
   Un secondo fronte di coinvolgimento tra la Cina e Israele è dato dalla presenza della China Harbour Engineering Company, la quale ha contribuito all'infrastruttura portuale di Ashodod e di cui Pechino probabilmente si serve per porre in essere una attività di spionaggio sia nei confronti della Marina israeliana che di quella americana.
   Il terzo fronte di collaborazione di Israele, al di fuori della sua relazione tradizionale con gli Stati Uniti, è quello con i paesi del Golfo: l'apertura di una missione diplomatica presso gli EAU, l'esercitazione congiunta tra le forze aeree israeliane e quella degli Emirati e soprattutto i notevoli investimenti che i paesi del Golfo stanno facendo nell'acquisto di tecnologia militare israeliana dimostrano una maggiore apertura rispetto alla tradizionale alleanza con gli USA, apertura questa che non modifica gli equilibri con il suo alleato storico. Quindi parlare di mutamento del paradigma geopolitico tradizionale significa fare un'affermazione priva di fondamento soprattutto in relazione alle recenti operazioni offensive poste in essere da Israele nei confronti sia dell'Iran che di Hezbollah.
   A tale proposito è stato proprio l'attuale premier israeliano Benjamin Netanyahu che, durante la conferenza per la sicurezza di Monaco del 2018, ha affermato che le scelte fatte dall'Iran abbiano di fatto avvicinato i paesi del Golfo ad Israele.

(Notizie Geopolitiche, 31 agosto 2019)


Israele rivela dettagli segreti del piano missilistico iraniano in Libano

Con una nota l'IDF diffonde i dettagli, sin qui secretati, del piano missilistico iraniano in Libano e avverte dei rischi che corre la popolazione libanese

di Maurizia De Groot Vos

Ieri l'esercito israeliano ha diffuso una nota dove si svelano alcuni dettagli sin qui secretati del piano missilistico iraniano in Libano e dove si afferma che Iran ed Hezbollah stanno intensificando gli sforzi per costruire strutture in Libano dove assemblare missili di precisione.
Nella nota si identificano quattro alti funzionari iraniani e di Hezbollah coinvolti nel progetto (già svelato un anno fa), ma soprattutto si esprime preoccupazione per i civili libanesi usati come scudi umani a protezione degli impianti.

 Il piano iraniano in Libano
  Il piano iraniano in Libano nasce dal fatto che per diversi mesi l'Iran ha tentato di contrabbandare missili in Libano attraverso la Siria, ma gli sforzi iraniani sono stati sempre sventati da interventi israeliani in Siria.
Quindi a Teheran hanno deciso di cambiare rotta. Da un lato hanno deciso di fare un "upgrade" ai missili già in possesso di Hezbollah, dall'altro hanno deciso di trasferire missili di precisione in Libano trasportandoli "a pezzi" per poi assemblarli negli impianti libanesi.

 L'organigramma del progetto iraniano
  Il programma è guidato dal generale iraniano Muhammad Hussein-Zada Hejazi, membro della Forza Quds del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (IRGC) agli ordini diretti del Generale Qasem Soleimani.
Gli altri nomi identificati sono quelli degli iraniani Majid Nuab, la mente delle tecnologie applicate ai missili, e quello di Ali Asrar Nuruzi, responsabile della logistica.
Come responsabile del progetto per conto di Hezbollah è stato invece identificato il terrorista Fuad Shukr, ricercato dagli Stati Uniti in quanto coinvolto nell'attentato di Beirut che nel 1983 fece 241 vittime americane.
Ad una domanda se la rivelazione dei nomi dei quattro responsabili del piano missilistico iraniano in Libano fosse anche un avvertimento volto a dire che i quattro sono nel mirino israeliano, il portavoce dell'IDF ha risposto che se fosse in loro non starebbe tanto tranquillo.

 Popolazione libanese in pericolo
  Secondo il tenente colonnello Jonathan Conricus, portavoce del IDF, negli ultimi tempi gli iraniani hanno intensificato notevolmente l'implementazione del progetto.
«L'Iran sta mettendo in pericolo il Libano cercando di produrre missili a guida di precisione sul suolo libanese, usando il popolo libanese come scudi umani», ha detto Conricus.
Molto duro e diretto anche il Premier Benjamin Netanyahu: «Non staremo in disparte permettendo ai nostri nemici di acquisire armi mortali da usare contro di noi» ha detto Netanyahu.
«Questa settimana ho già detto ai nostri nemici di stare attenti alle loro azioni. Ora sto dicendo loro: Dir balak» ha aggiunto Netanyahu, usando una frase araba che significa "stai attento".

 Preoccupazione israeliana per possibile incontro USA-Iran
  Ieri il Times of Israel ha rivelato un retroscena sin qui inedito in merito alla visita a sorpresa del Ministro degli esteri iraniano, Mohammed Javad Zarif, al vertice del G7 a Biarritz, in Francia.
Secondo quanto riferito il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, avrebbe tentato in tutti i modi di contattare il Presidente Trump per convincerlo a non parlare con Zarif, ma Trump si sarebbe fatto negare.
La notizia, diffusa inizialmente dal sito americano di notizie Axios.com, non è stata smentita.
Gli israeliani sono molto preoccupati per una possibile riapertura delle trattative tra USA e Iran dopo che il Presidente Trump aveva intensificato gli sforzi per mettere Teheran nell'angolo, riuscendo in parte nel suo obiettivo. Una ripresa delle trattative renderebbe tutto vano e metterebbe Israele in seria difficoltà.

 Indifferenza internazionale
  Colpisce l'indifferenza della comunità internazionale di fronte al piano iraniano in Libano, un piano che rischia seriamente di trascinare il Paese dei Cedri in un conflitto devastante con Israele.
Sono mesi che Israele mette in guardia il mondo sul più che probabile coinvolgimento del Libano in una guerra con Hezbollah. Ma sin qui gli ammonimenti israeliani sono caduti nel vuoto.

(Rights Reporters, 30 agosto 2019)


Barbareschi: Venezia non è tribunale morale, "J'accuse" per giovani

Applausi per Polanski. La moglie: Roman conosce la persecuzione

ROMA - E' stato lungamente applaudito "J'accuse", l'opera monumentale di Roman Polanski con una ricostruzione storica accurata che mostra come il seme dell'antisemitismo nasca proprio con l'affaire Dreyfus. Applausi anche in conferenza stampa per Louis Garrel, che interpreta Alfred Dreyfus, Jean Dujardin nel ruolo di Georges Piquard, Emmanuelle Seigner amante di Piquard. Oltre agli attori c'erano anche l'autore delle musiche Alexander Desplat e i produttori Alain Goldman e Luca Barbareschi, che per stemperare le polemiche nate dopo le dichiarazioni del Presidente della giuria Lucrecia Martel, ha affermato: "Non è presente Roman Polanski quindi noi rispondiamo per gli aspetti produttivi, questo non è un tribunale morale ma è un luogo in cui far vivere l'arte. - ha detto - Ringrazio Dio di avere lavorato con Polanski. Il passato è passato, pensiamo al presente. Il film deve parlare, la giuria deve giudicare e il pubblico, se vuole, può applaudire".
   Jean Dujardin, che regala una splendida interpretazione di Piquard, ha rivelato: "Ho affrontato questo ruolo con molto pudore e mi sono messo al servizio della storia. Auguro a tutti gli attori del mondo di girare con Polanski, sono fiero del ruolo di Piquard e della fiducia che mi è stata data. Non è semplice girare con lui, pretende molto, a volte può essere duro. E' come la voce di uno sciamano che ti guida".
   Emmanuelle Seigner, che oggi festeggia 30 anni di matrimonio col regista, ha affermato: "Il modo in cui Polanski affronta il sentimento della persecuzione è facile da capire, basta vedere la sua vita. - ha detto - Come regista è un uomo molto preciso con l'inquadratura ma al contempo lascia molta libertà agli attori". Louis Garrel, che interpreta magistralmente Dreyfus, ha detto: "Non sapevo che i discendenti di Dreyfus fossero stati deportati nella Seconda Guerra Mondiale, anche loro hanno vissuto l'inferno. Quando ho visto il film sono stato felice di constatare che alla fine la giustizia ha trionfato". A proposito della crescita dell'antisemitismo in Francia, Barbareschi ha aggiunto: "Questo è un film importante per le giovani generazioni e la storia va conosciuta". A fargli eco Goldman, che ha detto: "Il cinema, come strumento e mezzo per conoscere gli eventi, è una delle risposte più forti per risolvere il problema dell'ignoranza. Il caso Dreyfus è il caso che ha creato il germe che ha portato all'Olocausto".

(askanews, 30 agosto 2019)


Notizie dal conflitto silenzioso tra Israele e Iran

Le chiamate last minute e i complottismi smentiti

di Daniele Raineri

Dice uno scoop del sito Axios che domenica mentre il ministro degli Esteri dell'Iran, Mohammad Javad Zarif, era in volo per Biarritz dov'era in corso il G7 francese - su invito del presidente Emmanuel Macron - il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha tentato freneticamente di contattare al telefono il presidente americano, Donald Trump, per chiedergli di non incontrare Zarif. Trump non poteva prendere la chiamata perché era impegnato nei bilaterali, così gli israeliani hanno chiamato membri del suo staff. In teoria gli uomini di Trump lo avevano già sconsigliato di incontrare l'iraniano, ma gli israeliani temevano che il presidente americano fosse tentato dal colpo di scena. Trump non vede l'ora di stupire il mondo con negoziati faccia a faccia con i leader dell'Iran e Israele teme che questo tolga tutta la pressione accumulata contro di loro.
  Il New York Times rivela che i tecnici del Pentagono si sono infiltrati nel database che le Guardie della rivoluzione islamica usavano per sorvegliare e poi sabotare le petroliere che passano nello Stretto di Hormuz e l'hanno cancellato. A maggio e giugno sei superpetroliere erano state danneggiate da attacchi dimostrativi che le compagnie assicurative attribuiscono all'Iran, perché ha i motivi e le capacità tecniche per effettuare queste aggressioni. I complottisti sostenevano che i sabotaggi delle superpetroliere fossero una sceneggiata americana per provocare una guerra contro l'Iran, ma di fatto Trump il 21 giugno ha bloccato alcuni raid aerei punitivi contro l'Iran che erano stati decisi dopo l'abbattimento di un aereo spia americano "perché sarebbe stata una rappresaglia sproporzionata". Insomma, l'Amministrazione non vuole la guerra. Il fatto interessante è che gli iraniani non sono ancora riusciti a recuperare il database cancellato e da allora i sabotaggi misteriosi non ci sono più stati. Al Pentagono si discute se non sarebbe stato più vantaggioso continuare a spiare gli iraniani mentre usavano il database, invece che cancellarglielo e rivelare loro che erano sotto osservazione.
  Ieri era previsto il lancio di un satellite iraniano nello spazio dal sito di Semnan, nel nord del paese, ma il lancio è fallito e il fumo dell'esplosione era molto visibile nelle fotografie satellitari. L'Iran non ha commentato. E' la terza volta che succede agli iraniani quest'anno, ma vale la pena ricordare che a luglio anche il razzo di trenta metri lanciato dalla Guyana francese per portare in orbita un satellite militare degli Emirati Arabi Uniti è precipitato dopo soli due minuti nell'oceano Atlantico. E' come se mettere in orbita satelliti fosse diventato molto difficile.
  Gli israeliani non dicono nulla sui due droni carichi di esplosivo e pilotati da qualcuno che era a poca distanza lanciati contro un centro di Hezbollah a Beirut. I giornali israeliani hanno parlato di droni "iraniani", ma le foto mostrano che erano modelli commerciali facilmente acquistabili. Hezbollah ha annunciato che colpirà Israele per rispondere all'attacco. Il New YorkTimes nel raccontare la guerra a bassa intensità tra Israele e l'Iran spiega che fino all'anno scorso i jet israeliani colpivano il traffico di missili iraniani destinati a Hezbollah appena dopo il loro arrivo all'aeroporto internazionale di Damasco. Allora gli iraniani hanno scelto aeroporti nel nord della Siria, ma i jet sono arrivati anche lì. Adesso la caccia si è spostata ai camion che si muovono a terra attraverso l'Iraq.

(Il Foglio, 30 agosto 2019)


Calcio femminile - “Azzurre", buona la prima in Israele

L'Italia femminile comincia nel verso giusto il cammino delle qualificazioni all'Europeo del 2021, imponendosi 3-2 in rimonta a Tel Aviv su Israele. Una trasferta di inizio stagione di cui la ct Milena Bertolini temeva le insidie e che puntualmente si è rivelata meno facile del previsto, ma grazie al talento delle azzurre i primi, importanti, tre punti sono arrivati. L'Italia ha sofferto la maggior freschezza delle padrone di casa, andando sotto e rimontando grazie ai gol di Girelli e Bartoli e al solito acuto di Valentina Giacinti. Il risultato rispecchia una partita ricca di gol ed emozioni, con Laura Giuliani che nel recupero ha evitato un pareggio che sarebbe stato beffardo.

(Avvenire, 30 agosto 2019)


Iran - Israele e il judoka perde apposta

Ai mondiali l'atleta della Repubblica islamica costretto ad evitare la finale contro "il sionista". Teheran, dopo anni di boicottaggi, aveva annunciato la svolta. Ma poi sono intervenuti gli 007.

di Gigi Riva

Nell'antica Grecia si sospendevano le guerre durante i Giochi olimpici. Oggi succede l'opposto, le guerre continuano e si sospendono gli atleti. L'ennesima invasione di campo della politica nello sport arriva da Tokyo dove ai mondiali di judo l'israeliano Sagi Muki, 27 anni, ha vinto nella categoria 81 chili la prima storica medaglia d'oro per il suo Paese, agevolato dal fatto che il suo principale avversario, l'iraniano Saeid Mollaei, campione uscente e superfavorito, è stato costretto dalle autorità della Repubblica islamica a farsi battere in semifinale per non incontrare un rappresentante dell'«entità sionista».
   Stando a quanto riferito da fonti dello Stato ebraico, Mollaei avrebbe voluto difendere il titolo e, conscio dei pericoli di una simile decisione, avrebbe chiesto agli allenatori di garantire la sicurezza dei familiari in patria. A casa sua si sarebbero invece presentati agenti dei servizi iraniani che avrebbero intimidito i congiunti, mentre altri 007 si sarebbero introdotti nel palazzetto degli incontri in Giappone per avvertirlo di non disobbedire agli ordini.
   Nel febbraio scorso era già avvenuto qualcosa di analogo durante una gara internazionale a Parigi, protagonisti gli stessi due atleti. L'iraniano finse un infortunio per evitare il match con Muki. La Federazione del judo di Teheran a maggio aveva emesso un comunicato per esprimere la volontà di porre fine al boicottaggio degli israeliani «nel pieno rispetto dello statuto olimpico e dei suoi principi contro ogni discriminazione». Proposito evidentemente vanificato dalla tensione crescente in Medioriente tra le due potenze regionali. Nei giorni scorsi le forze di Tel Aviv avrebbero colpito con attacchi mirati obiettivi iraniani in Siria e in Iraq e si è diffusa la notizia che alcuni caccia dello Stato ebraico hanno violato lo spazio aereo iraniano sfuggendo ai radar. Un segnale chiaro: vi possiamo colpire quando e dove vogliamo. Israele considera la minaccia più grave alla sua stessa esistenza l'eventualità che gli ayatollah possano dotarsi dell'arma atomica.
   L'ultima volta che la Repubblica teocratica ha autorizzato un match contro i nemici risale al 1983 in occasione di un incontro di wrestling a Kiev. Da allora, una serie infinita di rifiuti, in diverse discipline, spesso imitati da sportivi di altri Paesi arabi o musulmani. Alle Olimpiadi di Atene del 2004 un altro iraniano candidato all'oro, Arash Miresmaeili, evitò di battersi sul tatami, venne accolto al rientro come un eroe e fu premiato con 115 mila dollari, il compenso previsto per il massimo gradino del podio. Nel nuoto, sia ai Giochi di Pechino 2008 che ai Mondiali di Roma 2009, un iraniano non volle dividere l'acqua con un israeliano. A Londra 2012 i libanesi rifiutarono di allenarsi accanto agli atleti con la stella di Davide. Nel tempio del tennis Wimbledon fu un tunisino a deporre la racchetta. Persino nei cerebrali scacchi, in Svizzera, un israeliano dovette sentirsi indesiderato. Quanto allo sport più popolare, il calcio, Israele ha peregrinato tra le Federazioni di diversi continenti (Asia, Oceania) prima di trovare ricovero nel Vecchio Continente, senza tuttavia trovare completa tranquillità se in occasione degli europei under 21 del 2013 si sprecarono le polemiche e i tentativi di boicottaggio.
   Sagi Muki è solo l'ultima vittima di una geopolitica che travolge qualsiasi spirito sportivo. Prima del caso con l'iraniano aveva dovuto conoscere l'affronto dell'egiziano Mohamed Abdelaal, da lui battuto nelle eliminatorie, che si è rifiutato di stringergli la mano. Con l'Egitto Israele ha firmato un trattato di pace. Pace fredda.

I PRECEDENTI
L'ultima volta
Nel1983 l'Iran aveva autorizzato un match contro un atleta israeliano a Kiev, in Ucraina. È stata l'ultima volta.
Il sì della federazione
A maggio la federazione iraniana di judo aveva annunciato fine del boicottaggio degli israeliani. Non è bastato.
I boicottaggi
Numerosi dall'Iran e in varie discipline, dal judo alle Olimpiadi di Atene 2004 al nuoto ai mondiali di Roma 2009

(la Repubblica, 30 agosto 2019)


Israele torna al voto

Il prossimo 17 settembre si svolgeranno in Israele le elezioni politiche per il rinnovo della Knesset, il parlamento monocamerale composto di 120 deputati.

di Bruno Cantamessa

È la seconda volta quest'anno che si ricorre in Israele ad elezioni anticipate, e non era mai accaduto, perché il quadro parlamentare uscito dalle urne il 9 aprile scorso - la Knesset, il parlamento monocamerale israeliano è composto di 120 deputati - non ha consentito al leader del partito di maggioranza relativa Likud, il settantenne Benjamin Netanyahu, di formare una coalizione per governare il Paese. Anzi, per la prima volta dopo 13 anni di premierato, Netanyahu è in evidente difficoltà. I problemi principali che stanno dietro all'impasse sono principalmente due, uno politico e uno giudiziario: l'avanzata di un nuovo soggetto politico che insidia il primato del Likud e i tre processi per corruzione che incombono su Netanyahu. Ma c'è dietro, probabilmente, anche una spinta dell'elettorato verso una visione più laica della politica, meno condizionata dalle minoranze ortodosse e ultraortodosse che hanno finora consentito a Netanyahu di guidare l'esecutivo di governo, evidentemente non senza concessioni che negli anni hanno spostato sempre più a destra l'asse politico del Paese.
   Qual è, a grandi linee, la situazione politica attuale e quali i temi più dibattuti? La nuova coalizione che ha fatto irruzione sulla scena politica all'inizio di quest'anno è guidata da Binyamin Gantz e si chiama Kahol Lavàn (Blu e bianco). È formata da tre partiti: uno di centro-destra, Télem, e due di orientamento centrista, Hosen L'Israel e Yesh Atid. Alle consultazioni del 9 aprile, Kahol Lavàn, al suo esordio, ha ottenuto oltre il 26% dei voti e 35 parlamentari, alla pari del Likud sia come percentuale che come seggi. A questi risultati va però aggiunto un accordo di condivisione dei voti in eccedenza (consentito dalla legge elettorale israeliana) che il partito di Avigdor Lieberman, Yisrael Beitenu (4% dei voti e 5 seggi) ha sottoscritto con la nuova coalizione guidata da Benny Gantz.
   Yisrael Beitenu aveva sostenuto il Likud nella precedente legislatura, tanto che Lieberman è stato ministro degli Esteri del governo Netanyahu fino al 2015 e l'anno scorso si è dimesso quando era ministro della Difesa, facendo cadere il governo.
   Oltre ad essere un convinto nazionalista, Lieberman è soprattutto un laico contrario all'alleanza del Likud con gli Haredim ultraortodossi e all'esenzione dalla leva militare che Netanyahu ha sempre concesso loro, probabilmente in cambio dell'appoggio politico. Il gruppo rappresenta meno del 10% degli ebrei israeliani, e per di più si disinteressa dello Stato, evita contatti con altri ebrei e rifiuta perfino la televisione.
   Gli Haredim ritengono importante solo lo studio della Torah, e oltre ad essere esentati dal servizio militare, sono spesso un onere per lo Stato. Ma sono molto prolifici. Diversamente dalla scarsa natalità degli altri ebrei, simile a quella europea, un recente studio ha evidenziato che la crescita demografica degli Haredim potrebbe significare che in tre decenni potrebbero forse rappresentare un terzo della popolazione ebraica di Israele. In uno Stato dove l'esercito è ritenuto fondamentale per la sopravvivenza del Paese, l'esenzione degli Haredim dal servizio di leva (3 anni per i ragazzi e 18 mesi per le ragazze) e la loro indifferenza allo Stato rappresenterà presto un grosso problema. Al quale il laico Lieberman, diversamente da Netanyahu, vuole porre rimedio rendendo il servizio militare rigorosamente obbligatorio per tutti.
   In vista delle elezioni di settembre, l'ultimo colpo di scena, di questi giorni, è stata una dichiarazione di disponibilità alla cooperazione con Kahol Lavàn del presidente della Lista Araba Unita, Ayman Odeh. Si tratta della riaggregazione delle quattro formazioni arabo-israeliane di Hadash, Ta'al, Ra'am e Balad, che contano complessivamente 10 parlamentari alla Knesset. Ma la ritrovata unità dei gruppi arabo-israeliani potrebbe forse riportare la Lista Araba Unita ai 15 deputati che avevano ottenuto nel 2015.
   I partiti arabi possono teoricamente contare sul 20% della popolazione del Paese, per quanto negli ultimi anni molti arabo-israeliani siano stati particolarmente delusi dalla politica, e se ne siano allontanati, a causa delle pesanti discriminazioni favorite dai governi della destra conservatrice guidata da Netanyahu.
   L'altro punto debole per un eventuale nuovo governo Netanyahu è in relazione ai tre processi giudiziari per corruzione che stanno per cadere addosso al premier del Likud. La prima accusa è quella di aver favorito unilateralmente, anche con regolamenti costruiti ad hoc, la compagnia di telecomunicazioni Bezeq, in cambio di una comunicazione favorevole nei siti e nei media facenti capo alla compagnia. Un altro capo di imputazione riguarda la linea editoriale favorevole al governo e al premier del quotidiano Yedioth Ahronoth, ottenuta in cambio di azioni di sabotaggio verso il giornale concorrente Israel Hayom.
   Il terzo caso riguarda direttamente la persona di Netanyahu, che avrebbe concesso favori politici a ricchi uomini d'affari ricevendone in cambio regali per 280 mila dollari. Netanyahu si difende invocando un complotto dell'opposizione, ma la differenza, questa volta, è che l'opposizione sembra determinata e credibile.

(Città Nuova, 30 agosto 2019)


Hezbollah vuole rialzare la testa

Israele ancora nel mirino per una vendetta annunciata

La recente recrudescenza di attacchi condotti dalle forze israeliane contro obiettivi sciiti legati a Hezbollah e le brigate Quds dei Pasdaran iraniani, hanno provocato un'ulteriore innalzamento della tensione nell'area mediorientale.
  Nel corso dei raid, compiuti con droni e cacciabombardieri, sono stati colpiti obiettivi militari di prim'ordine, primo dei quali una base per la fabbricazione di aerei senza pilota e missili balistici a medio raggio situata nella periferia sud di Beirut e rifornita con materiali provenienti dall'Iran.
  Ma è dal mese di luglio che, a seguito di informazioni dell'intelligence dello Stato ebraico, l'esercito e l'aviazione israeliani martellano, con cadenza quasi quotidiana, le basi delle milizie sciite legate a Teheran in territori siriano, irakeno e, in ultimo, libanese.
  La strategia è frutto di un più ampio piano di indebolimento della presenza iraniana nell'area teso ad evitare attacchi contro il territorio israeliano da parte delle milizie sciite inizialmente impegnate contro l'Isis ma ricondizionate dai vertici di Hezbollah in funzione anti-israeliana.
  E proprio a seguito dell'attacco di Beirut, il numero due di Hezbollah, Naim Qassim, ha promesso che Israele riceverà una durissima risposta agli attacchi condotti in Libano escludendo comunque il ricorso alla guerra totale. Un "colpo studiato", sempre secondo Qassim, potrebbe essere inferto allo Stato ebraico molto presto.
  Secondo analisti israeliani, dando credito alle minacce proferite da Hasan Nasrallah durante un suo intervento televisivo, i terroristi di Hezbollah starebbero pianificando un massiccio attacco contro lo stato ebraico, maggiore dei precedenti, che condurrebbe comunque ad un conflitto regionale dopo l'inevitabile reazione israeliana contro il Libano.

 Le ipotesi di un attacco
  Una situazione incandescente che conduce comunque a riflettere sulle reali possibilità dei miliziani di Hezbollah sostenuti dall'Iran, di portare realmente a termine un attacco contro Israele.
  Al netto dei piani conclamati, o scoperti dall'intelligence israeliana, di attacco con droni carichi di esplosivo o il lancio di ordigni con testate a lungo raggio, le minacce potrebbero trovare sfogo anche con le modalità classiche della "guerriglia" o del blitz.
  In primo luogo occorre considerare la capacità di Hezbollah a nord, così come di Hamas nella striscia di Gaza, di essersi dotato di un sistema di gallerie-cunicoli in fase di continua espansione in termini di accessi al territorio israeliano. Sebbene l'Israel defence forces abbia compiuto diversi sforzi per individuare ed abbattere la complessa ragnatela di cunicoli, nuovi scavi sono in atto, tra i quali molti di questi quasi sotto gli occhi di un imponente Unifil, la missione militare di pace che dovrebbe agire in funzione di cuscinetto tra Libano e Israele.
  I tunnel costituiscono il vero incubo per l'intelligence israeliana. L'indubbia preparazione militare di truppe scelte dei Pasdaran iraniani, operanti in zona, unita ad un libero accesso oltre confine condurrebbero ad una situazione di emergenza quotidiana le popolazioni dei villaggi israeliani vicini al confine, divenendo incontrollabile con una più vasta infiltrazione militare sciita.
  Un secondo punto focale è costituito dalla sinergia sviluppatasi tra le milizie di Hezbollah e quelle di Hamas e Jihad islamica in relazione alla striscia di Gaza.
  Piani di azione coordinati sono già stati stilati dalle leadership e dagli addetti militari delle tre organizzazioni terroristiche e conterrebbero indicazioni per attacchi in simultanea con l'infiltrazione di miliziani tramite i già citati tunnel ed il lancio contemporaneo di razzi dal sud e missili dal nord contro gli insediamenti ebraici e gli accasermamenti dell'esercito israeliano. Il tutto per stringere Israele in una morsa da nord a sud e disperderne le forze militari.
  Una terza ipotesi è l'uso indiscriminato di attentatori suicidi, la cui disponibilità è amplissima sia tra i giovani estremisti di Gaza così come tra i profughi dei campi palestinesi del Libano, tra i quali spicca quello di Ayn al Hilweh situato nel sud del paese dei cedri, da anni fucina di una nuova generazione di terroristi tra i quali numerosi elementi del Daesh fuggiti dalla Siria e rifugiatisi in Libano in veste di profughi.
  Ma anche acqua e fuoco, che costituiscono un'ulteriore ipotesi, sono da tenere in debita considerazione. I bacini idrici che riforniscono le colonie dal nord al sud di Israele hanno da sempre costituito un target allettante per gli estremisti di tutte le formazioni terroristiche. L'avvelenamento di anche solo uno di questi provocherebbe danni inimmaginabili oltre che seminare il panico tra la popolazione. Ed anche la tattica della "jihad incendiaria", già sperimentata nel corso degli ultimi anni anche contro terreni coltivati, produrrebbe seri problemi all'approvvigionamento alimentare del Paese e un serio danno economico al settore agricolo.
  Uno scenario inquietante, quindi, in parte suggerito dai manuali della jihad editi e distribuiti dallo Stato Islamico e "fatti propri" dalle milizie ostili ad Israele, ma per altri versi suggerito dall'esperienza di fonti locali ben informate sulla conduzione dell'eterna guerra contro Israele.

(ofcs.report, 29 agosto 2019)


Judo - L'israeliano Muki vince. Il rivale egiziano se ne va

Brutto gesto. L'egiziano Abdelaal rifiuta il saluto all'israeliano .

Un incidente diplomatico ha segnato la 4' giornata dei Mondiali di Tokyo, alla fine della semifinale 81 kg uomini, l'egiziano Abdelaal ha rifiutato di stringere la mano all'israeliano Muki (poi vincitore dell'oro) voltandogli le spalle.

(La Gazzetta dello Sport, 29 agosto 2019)


Solo un "incidente diplomatico"?


*


Judo, un israeliano campione del mondo

Per la prima volta un judoka israeliano sulla vetta del mondo.

L'incontro vittorioso di Sagi Muki nella finale
Si tratta di Sagi Muki, già vincitore ai campionati europei del 2015 e del 2018, a prendersi lo scettro della categoria 81 kg ai Mondiali in svolgimento a Tokyo. Un successo, ottenuto contro il belga Matthias Casse, che proietta il 27enne atleta di Netanya in una nuova dimensione.
"È un momento molto speciale, non solo per me ma anche per il mio Paese. Sono felicissimo di esserci riuscito" ha commentato Muki subito dopo la vittoria, forse già col pensiero a quel che lo aspetta tra un anno. Nel 2020 infatti Tokyo ospiterà i Giochi olimpici. E la speranza di un alloro a cinque cerchi, dopo la formidabile prova delle scorse ore, è davvero concreta.
L'unica nota negativa arriva dall'ennesimo comportamento antisportivo di cui è stato vittima un rappresentante di Israele. Non è infatti passata inosservata la decisione del suo sfidante in semifinale, l'egiziano Mohamed Abdelaal, di non stringergli la mano come prassi al termine dell'incontro.
Muki succede all'iraniano Saeid Mollaei, eliminato nell'altra semifinale. In caso di vittoria e di sfida con Muki, riportano i media israeliani, avrebbe verosimilmente scelto la strada del boicottaggio. Un epilogo avvilente, scongiurato per fortuna dalle circostanze agonistiche.

(moked, 29 agosto 2019)


Hamas, il nemico ora è il "fratello" jihadista

Grosso guaio a Gaza

Striscia, stato d'emergenza
Alla fine degli anni 80 l'organizzazione palestinese più radicale eclissò Fatah; oggi potrebbe subire la stessa sorte da lsis e al Qaeda
Altro fronte caldo: il Libano
Dopo i raid su Hezbollah, gli sciiti minacciano: ''Il clima non è quello di una guerra ma Israele si aspetti sorprese"

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Nel ventre della Bestia cova la sfida, la rabbia, l'odio e la vendetta. A Gaza, dove ci sono più armi che abitanti, è in corso una guerra carsica, senza esclusione di colpi, fra i gruppi salafiti clandestini e Hamas, il movimento islamista padrone della Striscia da 12 anni, che ieri ha dichiarato lo stato d'emergenza.
  Due attacchi in meno di due ore contro altrettanti posti di controllo della polizia a Gaza City segnalano che lo scontro si è alzato di livello. I tre poliziotti di Hamas uccisi dalle esplosione "saranno vendicati", promette il portavoce del gruppo Eyad Al Bozm, e "i colpevoli presto troveranno la punizione che meritano". Intanto vanno e vengono veloci dai commissariati le macchine della polizia con targa civile, diverse decine di persone sospettate sono già finite in cella nelle ultime 24 ore.
  Nonostante la feroce repressione e l'ondata di recenti arresti contro i gruppi salafiti, le cellule filo-Stato Islamico (Isis) e filo-Al Qaeda continuano la loro attività strappando al gruppo islamico - colpevole a loro dire di negoziare con Israele una tregua che strangola gli abitanti della Striscia e lascia insoluti problemi strutturali - l'aura di formazione più "pura e islamica".
  Il mukhabarat- i servizi di intelligence - di Hamas nella Striscia non è certo l'Fbi, ma nella sua ricostruzione dei due attacchi - uno dei quali portato con una motocicletta - sembrerebbe che gli attentatori fossero due kamikaze. Una realtà nuova nello scontro fra formazioni integraliste.
  Il salafismo - ramo dell'Islam che abbraccia un'interpretazione letterale del Corano e sostiene il ritorno a un califfato globale - è una tendenza preoccupante a Gaza. Mise le sue radici negli anni '70, quando gli studenti palestinesi tornavano dall'estero dopo aver frequentato le scuole religiose dell'Arabia Saudita. Le quattro organizzazioni più attive nella Striscia sono Jund Ansar Allah (Esercito dei sostenitori di Allah), Jaysh Al-Islam (Esercito dell'Islam), Jaysh Al-Urnma (Esercito della Nazione Islamica) e al-Tawhid wal-Jihad (Monoteismo e Guerra santa). Oltre a questi gruppi più affermati con qualche migliaio di miliziani, ci sono anche un certo numero di cellule più piccole, vagamente affiliate, che adottano una varietà di nomi per rivendicare i loro attacchi. Le Brigate del Monoteismo definiscono Hamas "pervertito" e sostengono che ai suoi uomini bisogna "rompere le ossa e ripulire così la terra pura della Striscia di Gaza da questi abomini". Per sabotare il 'cessate il fuoco' i salafiti hanno sparato sporadicamente razzi verso Israele nei giorni scorsi, in una dimostrazione di insubordinazione. In risposta, Hamas ha condotto una campagna contro i ribelli, arrestandone decine di persone senza un'accusa formale. La resa dei conti a Gaza funziona così. Fra l'altro Hamas ha già perso alcuni dei suoi membri più radicali, compresi molti dalla sua ala militare, le Brigate Ezzedin al Qassam, che sostengono una posizione più dura nei confronti di Israele.
  Israele è ancora più preoccupato di Hamas per l'ascesa dei jihadisti salafiti a Gaza. Lo Stato ebraico è abituato ad essere costantemente assediato dai suoi vicini, ma il pericolo rappresentato dai jihadisti transnazionali è particolarmente grave. La presenza di una cellula affiliata all'Isis - organizzato e altamente capace- con le sue basi nella penisola egiziana del Sinai, appena oltre il confine con Gaza - è per la sicurezza israeliana un'altra seria sfida. Questi jihadisti si scontrano regolarmente con le forze di sicurezza egiziane, ma mantengono ancora il controllo di tutta la zona est della penisola del Sinai. L'attuale gioventù di Gaza è diventata maggiorenne durante le tre guerre fra Hamas e Israele (2009-2012-2014) l'ha definita "la generazione di Hamas". Ma se la situazione economica nella Striscia continuasse a peggiorare - anche per il blocco economico imposto dall'Egitto - questi giovani palestinesi potrebbero presto diventare noti come la "generazione salafita".
  Come Hamas iniziò a eclissare Fatah alla fine degli anni '80 come l'organizzazione palestinese più radicale e violenta, i salafiti di Gaza potrebbero adesso "superare"Hamas e diventare la minaccia più pericolosa per gli altri palestinesi e lo stato di Israele.
  I pericoli dalla Striscia non sono gli unici che allarmano Israele in questi giorni. L'intero Fronte Nord - che comprende i confini con Libano e Siria - è in stato di massima allerta. Lo stato ebraico si aspetta una ritorsione dopo il doppio raid aereo che ha colpito basi di Hezbollah in Libano e dei Pasdaran iraniani in Siria. Hezbollah esclude una guerra aperta ma "risponderà" a Israele, minacciando "sorprese". Il numero due del movimento sciita libanese, Naim Qassem, in dichiarazioni al canale arabo Rt: "Non ritengono che il clima sia quello di una guerra, è piuttosto quello di risposta a un attacco. Tutto verrà deciso al momento giusto".

(il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2019)


Il presidente dell'Honduras sposta l'ambasciata a Gerusalemme

di Giordano Stabile

Anche l'Honduras riconosce Gerusalemme come capitale di Israele. Il presidente Juan Orlando Hernandez sarà domani in Israele per l'inaugurazione di un "ufficio diplomatico" nella Città Santa. Anche se non sarà chiamato "ambasciata", per il leader dello Stato centramericano ha lo stesso valore. E' un passo finora compiuto soltanto dagli Stati Uniti di Donald Trump e dal Guatemala. Il Brasile di Jair Bolsonaro ha promesso lo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv, ma finora non ha dato seguito all'annuncio. Hernandez ha spiegato in modo esplicito che la decisione rappresenta «il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele». La decisione era stata anticipata, con grande soddisfazione, dal premier Benjamin Netanyahu.

 La linea inaugurata da Trump
  E' la stessa linea di Trump, che ha inaugurato la nuova ambasciata americana il 15 maggio dell'anno scorso, in occasione dei 70 anni dalla fondazione dello Stato di Israele. Tre giorni dopo ha aperto quella guatemalteca. Tra i Paesi europei soltanto la Romania ha espresso la volontà di seguire le orme di Trump. Il resto della comunità internazionale resta prudente. Gerusalemme è considerata dall'Onu territorio conteso, e il suo status definitivo dovrebbe essere stabilito in un accordo di pace fra Israele e i palestinesi, che anche la rivendicano come capitale. Per Israele è «capitale unica e indivisibile» e l'intero territorio municipale è stato annesso nel 1980. Proprio lo status di Gerusalemme è uno dei maggiori ostacoli sulla strada verso la pace.
  L'inviato della Casa Bianca Jason Greenblatt ha detto che il piano americano, «l'accordo del secolo», non sarà presentato prima delle elezioni del 17 settembre. E se neanche stavolta Netanyahu dovesse conquistare la maggioranza è probabile che slitti ancora. L'amministrazione Trump ha modificato il paradigma che reggeva da 25 anni, dagli accordi di Oslo del 1993, e cioè che debba nascere uno Stato palestinese indipendente, a fianco e in pace con quello ebraico. Netanyahu punta a concedere ai palestinesi solo un'autonomia "rafforzata", per di più in una Cisgiordania amputata degli insediamenti ebraici e senza Gerusalemme Est. Il team della Casa Bianca, composto anche da Jared Kushner e dall'ambasciatore David Friedman, deve trovare un compromesso. Ha l'appoggio dell'Arabia Saudita e dell'Egitto ma non quello della Giordania, che vuole salvare i diritti speciali sulla Spianata delle Moschee. Con la Striscia di Gaza in fiamme e il fronte con Hezbollah che siè riaperto, non sarà facile.

(La Stampa, 29 agosto 2019)


Vasilij Grossman ritorna a Stalingrado

di Riccardo Michelucci

Vasilij Grossman sul fronte di guerra in Germania nel 1945
Nato nel 1905 da una famiglia ebrea, nelle sue opere denunciò le tragiche analogie tra l'antisemitismo di Hitler e quello di Stalin, mettendone sullo stesso piano gli orrendi crimini contro l'umanità Solo la morte di Stalin, nel 1953, salvò Vasilij Grossman dall'arresto e dalla deportazione. Lo scrittore russo era stato uno dei più grandi cronisti della Seconda guerra mondiale, aveva assistito all'assedio di Stalingrado e alla controffensiva sovietica che ribaltò le sorti del conflitto. Ma alla fine degli anni '40 era ormai annoverato a tutti gli effetti tra i dissidenti. La sua fama di eroe di guerra era riuscita a salvargli la vita ma non a evitargli di cadere in disgrazia. Secondo i censori sovietici il suo capolavoro Vita e destino era un testo assai più pericoloso del Dottor Živagodi Boris Pasternak, che pure era già diventato un best seller negli Stati Uniti e in Europa.
   L'austero Michail Suslov, responsabile dei mezzi informativi del Pcus, gli disse che sarebbero dovuti passare almeno trecento anni per vedere pubblicato il suo libro. «Non importa ciò che è vero o ciò che è falso - gli spiegò - uno scrittore sovietico deve scrivere solo ciò che è necessario per la società». Il racconto dell'incontro tra Suslov e Grossman è uno dei passaggi centrali della biografia del grande scrittore russo firmata dalla giornalista Alexandra Popoff, Vasily Grossman and the Soviet Century. Era il 1960 e di lì a poco gli agenti del Kgb avrebbero fatto irruzione dell'abitazione di Grossman per confiscargli il manoscritto, gli appunti, le bozze e persino la macchina da scrivere. Il regime decise di non incarcerarlo: si limitò a condannarlo all'oblio, e a non veder mai pubblicato quello che oggi è ritenuto uno dei capolavori della letteratura del XX secolo. Grossman finì i suoi giorni nella povertà e nella solitudine, morendo di cancro nel 1964. Ma fortunatamente una copia del manoscritto di Vita e destino fu recuperata, microfilmata e fatta uscire illegalmente dai confini sovietici con l'intercessione del fisico dissidente Andrej Sacharov. L'opera venne pubblicata per la prima volta da una casa editrice svizzera nel 1980 e l'edizione inglese fece finalmente conoscere al grande pubblico quel grandioso affresco storico dell'era staliniana, che venne definito il ' Guerra e pace del XX secolo'.
   Grossman comprese prima di molti altri che quel regime totalitario nel quale un tempo lui stesso aveva riposto le sue speranze non era molto diverso al nazismo. Nelle sue opere denunciò le tragiche analogie tra l'antisemitismo di Hitler e quello di Stalin, mettendo sullo stesso piano i crimini contro l'umanità commessi dai sovietici e dai nazisti. Nato nel 1905 da una famiglia ebrea nella città di Berdyciv, nell'attuale Ucraina, il giovane Vasilij credette inizialmente nel comunismo - pur non prendendo mai la tessera del partito - e durante la Seconda guerra mondiale lavorò come corrispondente di guerra per il giornale dell'Armata rossa. Rimase quattro mesi sulla linea del fronte a Stalingrado intervistando generali, soldati e infermiere. Andò al seguito delle truppe sovietiche a Berlino e fu poi il primo reporter che descrisse i campi di concentramento nazisti. I suoi dispacci e i suoi reportage dal fronte lo resero famoso ma in seguito riuscì persino a trasformare, nei suoi libri, gli eventi drammatici di quegli anni in grande letteratura. In Italia le sue opere sono rimaste di nicchia fino a poco più di un decennio fa. Don Luigi Giussani fu uno dei primi a riconoscere la grandezza dello scrittore russo e a promuoverne la diffusione tra il grande pubblico. Negli Stati Uniti, oltre alla biografia scritta da Popoff, è appena uscito Stalingrad, un romanzo monumentale di quasi mille pagine che è il prequel di Vita e destino e finora non era mai stato tradotto in inglese. Inizialmente Grossman concepì i due libri come un'unica opera, una sorta di requiem per i milioni di sovietici uccisi in guerra, in particolare quelli caduti durante i mesi dell'invasione nazista del 1941. Lavorò al manoscritto di Stalingrad dal 1943 al 1949 e in questo caso riuscì a farlo pubblicare nel suo paese, seppur con pesanti tagli e modifiche imposte dalla censura sovietica.
   L'opera uscì anche un titolo (For a Just Cause) che parafrasava le parole pronunciate dal ministro degli Esteri Molotov all'inizio della guerra, «la nostra causa è giusta». Alle commissioni politiche del partito non piacque affatto che i protagonisti del libro fossero intellettuali di estrazione borghese e che l'autore non avesse enfatizzato abbastanza l'eroismo delle truppe russe nella città assediata. Ma ciò che dette più fastidio ai censori fu il racconto delle sofferenze degli ebrei nell'Ucraina e nella Russia occupate dai tedeschi. Per renderlo un romanzo politicamente accettabile imposero a Grossman numerose riscritture, obbligandolo a rimuovere interi capitoli della storia. In un'epoca di forte sciovinismo come quello dell'Unione Sovietica di allora era inoltre impensabile che l'eroe di un romanzo sulla battaglia di Stalingrado non fosse un russo purosangue. Gli chiesero anche di cancellare la figura del fisico ebreo Viktor Shtrum ma in questo caso Grossman riuscì a non farsi imporre l'ennesimo diktat del regime. Shtrum non era solo un personaggio di finzione centrale per la trama del romanzo. Era anche ispirato a una figura quasi omonima e realmente esistita: Lev Shtrum, uno dei padri della fisica nucleare sovietica, che cadde vittima delle purghe staliniane. Nel 1936 venne accusato di trotskismo e fucilato. I suoi studi furono interamente rimossi dalle biblioteche del paese e il suo nome fu cancellato dalla storia. Grossman scelse un 'nemico del popolo' come personaggio principale del suo romanzo perché volle a tutti i costi celebrare la memoria di quello scienziato scomparso.
   La prima edizione rivista e corretta di Stalingraduscì nel 1952, con dettagliate descrizioni delle scene di battaglia dagli evidenti echi tolstojani. Anche Grossman, come Tolstoj, descrive con crudo realismo i pensieri e i sentimenti dei soldati nelle ore che precedettero la loro morte, la consapevolezza di essere ormai spacciati di fronte a un destino ineluttabile. Molti personaggi del romanzo sono gli stessi di Vita e destino, la cui trama prende avvio proprio dalla conclusione di Stalingrad. Nonostante la pesante censura dell'opera Grossman fu comunque denigrato dalla stampa di regime e messo all'indice dal partito, fino a rischiare l'arresto. Nel 1954 e nel 1956 seguirono altre edizioni del libro, tutte molto differenti tra loro, ma neanche dopo la morte di Stalin e il presunto 'disgelo' promosso da Chrucèv l'opera fu mai pubblicata nella versione fedele al manoscritto originario. La prima edizione inglese, adesso finalmente tradotta da Robert ed Elizabeth Chandler, ha reintegrato nel testo tutte le parti censurate o modificate. Nella prefazione è lo stesso Chandler (già traduttore di Vita e destino) a spiegare che Stalingrad è stato finora oscurato dal suo sequel perché non è mai esistita una versione russa definitiva del romanzo. Ma anche a causa del diffuso pregiudizio che molti studiosi tuttora nutrono nei confronti della produzione letteraria dell'era sovietica. In uno dei passaggi più belli di Stalingrad c'è un'anziana donna che osserva un viale bombardato e si chiede: «Le sofferenze umane saranno ricordate nei secoli a venire? O le lacrime e la disperazione svaniranno come il fumo e la polvere, spazzati via dal vento della steppa?» Di sicuro l'opera di Vasilij Grossman ha contribuito a salvare quelle sofferenze dall'oblio.

(Avvenire, 29 agosto 2019)


L'Iran presenta il nuovo missile da crociera Mobeen al Maks 2019 di Mosca

TEHERAN - L'Iran ha svelato il suo più recente missile da crociera all'esposizione internazionale dell'aerospazio Maks 2019 in corso presso all'aeroporto Zhukovsky vicino a Mosca. Secondo quanto riferisce l'agenzia iraniana "Tasnim" il nuovo missile da crociera iraniano "Mobeen" ha un'autonomia di 450 chilometri, pesa 670 chilogrammi e può raggiungere un'altitudine di 45.000 piedi a 900 chilometri orari. Il missile da crociera iraniano può trasportare testate pesanti fino a 120 chilogrammi. Secondo il sito web del Maks 2019, cinque espositori iraniani hanno preso parte all'esposizione, tra cui l'ambasciata iraniana a Mosca, l'Iran Air Show, il Centro per gli affari internazionali e gli scambi tecnologici della vicepresidenza per la scienza e la tecnologia, Aeropub e Aerospina.

(Agenzia Nova, 29 agosto 2019)


La prima sfida dei tedeschi in Israele cinquant'anni fa un pallone riaprì il dialogo

L'estate del '69 il Bayern Hof fu il primo club di Germania che accettò di disputare due amichevoli contro una squadra israeliana, sul campo dell'insediamento di Nahariya, fondato dai sopravvissuti all'Olocausto

di Sergio Taccone

Era l'estate del 1969 quando la prima squadra di calcio tedesca disputò una partita in Israele. Mezzo secolo infatti è passato dall' amichevole, giocata a Nahariya, tra Bayern Hof e una selezione regionale del Nord Israele. I'insediamento di Nahariya era stato fondato dai sopravvissuti dell'Olocausto. Oltretutto, nella regione nord di Israele avevano vissuto molti emigranti tedeschi che Iì si erano rifugiati durante e dopo il secondo conflitto mondiale. La sfida servì a rompere il ghiaccio, quasi un quarto di secolo dopo la fine della guerra. Tutto ebbe inizio nell'autunno 1968 quando Franz Anders, presidente del Bayern Hof, inviò due lettere: la prima alla Federcalcio israeliana, l'altra spedita a Bonn al Ministero degli Interni tedesco. L'intento era chiaro: recarsi in Israele per una partita di pallone con una compagine locale. Bonn diede il suo consenso. Dopo la risposta positiva della federcalcio israeliana vennero risolti anche i problemi legati alla copertura delle spese per affrontare il viaggio. Nel giugno 1969 arrivò la conferma delle due «amichevoli speciali»: per la prima volta una squadra teutonica avrebbe giocato in terra d'Israele, realizzando un momento importante nei rapporti tedesco-israeliano, passo significativo sulla via della riconciliazione. Nei pressi della città di Modi'in, i diligenti del Bayern piantarono alberi come segno di ringraziamento e d'amicizia prima di affrontare una sessione congiunta di allenamento. La prima sfida di Nahariya la vide la vittoria del Bayern 2-0. Ma furono novanta minuti in cui l'unica cosa a non contare era il risultato. Un difensore israeliano, dopo un fallo ai danni di un tedesco, fu invitato dal pubblico a lasciare il campo. Arbitro di quella partita fu Abraham Klein, in seguito ottimo arbitro internazionale, designato dalla Fifa a dirigere partite entrate nella storia del football come la mitica Italia-Brasile del luglio 1982, al Sarria di Barcellona, o Austria-Germania del mondiale 1978 (la sfida del miracolo di Cordoba).
   Un uomo segnato dai tragici fatti della seconda guerra mondiale: nella sua famiglia c'erano state vittime dell'Olocausto. Un anno dopo fu una squadra israeliana a recarsi in Germania per un'altra amichevole contro il Bayern Hof mentre il Borussia Monchengladbach, dall'inizio di quel decennio, scelse ogni anno di allenarsi in un campo di addestramento d'Israele. Un ruolo di primo piano, nella prima trasferta di una squadra tedesca in terra israeliana, l'ebbe Oskar Weissmann, imprenditore ebreo che propose l'iniziativa al presidente Franz Anders. Erano stagioni in cui il Bayern Hof attraversava una fase di ascesa, forte del titolo regionale della Germania meridionale nel 1968, preludio all'arrivo in Bundesliga. I calciatori precedettero persino i diplomatici, ottenendo un risultato straordinario, destinato ad essere tramandato ai posteri. La seconda partita in programma vide la sconfitta dei tedeschi, battuti nettamente (3-0) dai campioni israeliani dell'Hapoel Petah Tikwa. Tra i ventidue in campo vi fu anche Mordechai Spiegler, il "Beckenbauer d'Israele", autore dell'unico gol israeliano in una fase finale di Coppa del Mondo, il 7 giugno 1970, contro la Svezia in terra messicana. Spiegler aprì le marcature della seconda amichevole. Nessun israeliano si rifiutò di scendere in campo contro i tedeschi ben sapendo che alcuni genitori di quei calciatori avversari avrebbero potuto operare con le Ss o la Wehrmacht tra il 1939 e il '45. Il calcio fu ancora una volta ottimo veicolo di dialogo e aggregazione. Al termine tutti si strinsero la mano: quelle due partite furono una sorta di perdono per la Shoah.

(Avvenire, 28 agosto 2019)


L'Italia a Tel Aviv: anche Israele alla scoperta del calcio femminile

 
 
Le atlete italiane arrivano a Tel Aviv
 
Atlete israeliane si riposano
C'è molta attesa in Israele per il match di giovedì sera con le Azzurre: sia per l'indubbio entusiasmo sollevato dalla Nazionale italiana negli scorsi Mondiali francesi sia, in generale, per l'effetto traino atteso per il calcio femminile. E non è un caso che la comunità di origine italiana in Israele si stia mobilitando per tifare le ragazze allenate da Milena Bertolini che hanno entusiasmato per le loro prestazioni. Arrivata ieri sera all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la squadra ha proseguito subito verso Herzlyia, pochi chilometri più a nord sul mare, dove c'è la base della delegazione. Questa sera - dopo una mattinata libera - è in programma il primo allenamento vero e proprio nel vicino, e bellissimo, Centro tecnico di Shefayim che dipende dalla Federazione calcio israeliana e che di norma ospita le nazionali straniere in Israele.
   Il programma della Nazionale - alla sua prima uscita dopo i Mondiali - prevede domani sera un altro allenamento direttamente allo Stadio di Ramat Gan (non lontano da Tel Aviv), che sarà aperto al pubblico per i primi 15 minuti, dove giovedì alle 18.30 (le 17.30 in Italia) le Azzurre incontreranno le avversarie in una partita valida per le qualificazioni agli Europei. La squadra azzurra resterà in Israele anche venerdì per poi partire per la Georgia, seconda tappa di questa trasferta europea: a Tiblisi il 3 settembre incontrerà la nazionale georgiana. Se l'Italia - come ha detto di recente Bertolini - non dà per scontato il match, anche la formazione israeliana, allenata da Gabriel Burnstein, intende provarci. «Sappiamo bene che l'Italia - ha dichiarato Shlomi Barzel, direttore della comunicazione della Federazione calcio israeliana - ha una squadra più forte della nostra, ma ce la metteremo tutta per giocare una buona partita e portare a casa quanti più punti possiamo. Del resto, l'Italia e Danimarca sono le favorite del nostro gruppo». Il calcio femminile in Israele è una realtà sempre più in via di consolidamento.
   «Fin da quando nel 2015 abbiamo ospitato il girone finale del Campionato europeo per donne under 19 - ha aggiunto Barzel - il calcio femminile ha visto un crescendo di adesioni. Ad oggi, le calciatrici registrate con l'Associazione sono circa 3mila. Abbiamo tre Federazioni femminili, comprese quella Under 15 e Under 17. Tutto sommato è in corso una notevole ripresa in questo settore». Barzel, ad esempio, ha ricordato che la settimana scorsa un'amichevole della nazionale con il Chelsea femminile ha avuto alla stadio di Petach Tikvà « 8.500 persone: un record di spettatori». In Israele ci sono tra le 10 e le 15 squadre di calcio femminile. «In serie A - ha proseguito Barzel - ci sono club dominanti come ASATel Aviv, che ha vinto il campionato della passata stagione, il F.C Kiryat Gat, il Maccabi Hadera, il Ramat Hasharon». Senza dimenticare, il Kfar Kana che «è la maggiore squadra araba di calcio femminile e gioca nel campionato cadetto»

(Il Messaggero, 27 agosto 2019)



"La Bibbia è degna di fiducia", straordinaria scoperta archeologica sul monte Sion

Un team di archeologi statunitensi ha scoperto le prove dell'assedio di Gerusalemme da parte dell'esercito di Nabucodonosor.

Ora anche gli archeologi dovranno ricredersi: la Bibbia è degna di fiducia. Sono state, infatti, scoperte le prove dell'assedio babilonese di Gerusalemme del VI secolo a.C., come descritto nel Secondo libro del Re, capitolo 25.
Gli archeologi dell'Università della Carolina del Nord di Charlotte (Usa), dopo una campagna di scavi sul monte Sion, hanno affermato di avere trovato le prove materiali dell'attacco babilonese, tra cui legno e altri materiali carbonizzati, punte di frecce, bronzo, ferro, gioielli e ceramiche rotte.
Il Dr. Shimon Gibson, condirettore del progetto archeologico universitario del Monte Sion, ha detto a CBN News che le scoperte sono state «inaspettate».
La Bibbia descrive le forze del re Nabucodonosor II che bruciano «ogni grande casa», compresa il tempio di Salomone. I soldati trafugarono anche colonne e vasi di bronzo dal Tempio e li portarono a Babilonia mentre i figli di Israele furono costretti all'esilio.
«Quello che stiamo scoprendo sono i risultati di quella distruzione», ha detto Gibson, aggiungendo che Nabucodonosor era noto come il «distruttore di Nazioni».
Gli archeologici hanno rinvenuto pure un gioiello particolarmente raro dalle origini poco chiare. A tal proposito, Gibson ha affermato: «Potrebbe essere stato un orecchino o una nappa, una sorta di ornamento. Non è ancora chiaro. È costituito da una campana d'oro da cui si estende un grappolo d'uva realizzato in argento».
L'archeologo ha spiegato che «negli ultimi decenni ci sono state molte discussioni sulla veridicità del racconto biblico. Alcuni accademici lo ritengono basato su 'miti', seppur con qualche fondamento storico, e tendono a non fidarsi ma i nostri scavi hanno dimostrato che non è così».

(Voce controcorrente, 27 agosto 2019)


Arnold Fruchtenbaum per la seconda volta in Italia

Arnold Fruchtenbaum
A circa un anno di distanza torna in Italia lo studioso della Bibbia Arnold Fruchtenbaum, per una serie di seminari e conferenze da tenere in collaborazione con Mottel Baleston.
Il programma delle visite, organizzato da Ariel Italia, si svolgerà nelle seguenti sedi:
    4-6   ottobre
    7-8   ottobre
    9-12 ottobre
    13    ottobre
    Poggio Ubertini (FI)
    Roma,
    Montemurlo (PO)
    Genova.





Per maggiori informazioni Ariel Italia.

(Notizie su Israele, agosto 2019)


1938: studenti e insegnanti ebrei cacciati da scuole e università

Per conservare memoria persistente del rapporto tra Mussolini e le leggi per "la difesa della razza", emanate nel 1938, in anteprima rispetto alla Germania nazista.

di Piero Morpurgo

Il 5 settembre del 1938 fu pubblicato in Italia il regio decreto che allontanava dalla scuola studenti e insegnanti ebrei; il provvedimento era stato preceduto da una circolare del ministro Bottai che il 12 agosto 1938 aveva vietato l'adozione di libri scolastici di "autori di razza ebraica". La Germania nazista espulse gli ebrei dalle scuole nel novembre del 1938 dopo i provvedimenti di Mussolini. Già nella primavera del 1939 l'Austria aveva istituito scuole elementari separate per gli ebrei, mentre per le superiori e l'università era stata introdotta la proporzionale etnica del 2% che comportò l'espulsione di ben 9/10 degli studenti dai ginnasi di Vienna. L'Ungheria impose una legge per cui la presenza degli ebrei nella vita culturale ed economica non poteva superare il 20% [1].
In Italia furono emanate 39 leggi, regi decreti e circolari che, con minuzia, toccavano ogni sfera della vita individuale di coloro che appartenevano alla comunità israelitica, provvedimenti abietti che videro la collaborazione di giuristi e legislatori [2]. In realtà il razzismo si era più volte annunciato: nel 1926 con l'ordine di Mussolini di non ammettere ebrei nell'Accademia d'Italia, nel 1930 con il Codice Rocco che puniva l'attentato all'integrità della stirpe, nel 1931 quando con il R.D. n. 773 del 18 giugno si prevedeva che gli stranieri, al loro ingresso in Italia, dovessero dichiarare razza e religione (art. 261), nel 1934 con la "bonifica libraria" che censurò le opere che offendevano la "dignità della razza". Questa bufera, piena di lutti e di sofferenze, ha lasciato un segno anche nella nostra Costituzione che all'art. 3 dichiara che tutti i cittadini sono eguali "senza distinzione di razza" e vani sino ad oggi sono stati gli appelli a rimuovere questa espressione.
Le persecuzioni antiebraiche portarono alla fondazione di numerose scuole private al fine di tutelare il diritto all'istruzione:

1) in Germania Leonore Goldschmidt, insegnante allontanata dal servizio perché sposata con un ebreo, fondò a Berlino una scuola che accolse nel 1937 500 bambini Ebrei e 40 insegnanti. La Goldschmidtschule fu riconosciuta dalla University of Cambridge che utilizzò l'istituzione come centro d'esami per il bilinguismo e, nel 1938, la proprietà fu ceduta a un docente inglese; in questo modo la scuola era diventata un'istituzione straniera e ciò permise ai Goldschimdt di ingannare le autorità naziste ottenendo i visti e i permessi per l'espatrio per molti bambini e quindi, nel 1939, di far scappare in Inghilterra numerosi bambini che vennero accolti in una nuova scuola a Folkestone [3].
2) in Spagna i fatti si svolsero diversamente: all'inizio della seconda repubblica (1931-1939) esponenti politici e storici come Americo Castro si schierarono perché gli ebrei tornassero a vivere nella penisola iberica in quanto doveva essere riparato l'errore dell'espulsione del 1492 [4]. Il 31 gennaio 1938 si era insediato il governo di Francisco Franco e in pochi mesi vennero cancellate gran parte dei diritti promulgati dalla Spagna repubblicana: furono annullati i matrimoni civili e aboliti anche tutti i cimiteri "non cattolici", proibiti tutti i segni di confessioni "ostili" alla religione cattolica. Non vi fu una legislazione antisemita; tuttavia venne organizzato un Archivo Judaico che censiva i beni e le persone ebree [5]. I provvedimenti franchisti colpirono particolarmente i bambini ebrei: non potevano essere registrati all'anagrafe se non si battezzavano, avevano l'obbligo di frequentare a scuola le lezioni di religione cattolica. I nuovi programmi scolastici del 1938 erano fondati sull'idea di esaltare "Dio y Patria", ogni giorno ci si sarebbe dovuti dedicare a canti patriottici e religiosi, mentre nelle scuole per bambine si sarebbe dovuto sviluppare "la feminidad mas rotunda" finalizzata alla costruzione della famiglia [6].
3) in Italia le Comunità Ebraiche istituirono scuole private a prevalente indirizzo professionale: in soli due mesi vengono aperte 23 scuole elementari 14 scuole medie e 3 corsi universitari; a Torino diressero la scuola media Giacomo Tedesco e Giuseppe Morpurgo, il primo voleva dare un'impostazione professionale alla didattica mentre il secondo difendeva la formazione umanistica, a Bologna molti studenti dovettero trasferirsi a Modena, da Pitigliano invece furono costretti a dirigersi a Livorno e a Roma, a Venezia viene fondata una scuola media con preside Augusto Levi che era stato cacciato dall'Istituto Tommaseo, il preside verrà catturato a Padova e morì ad Auschwitz [7]. A Roma Emma Castelnuovo vinse la cattedra di matematica nell'agosto del 1938, ma non sarà assunta sino al 1945; mentre il padre Guido Castelnuovo, fisicamente impedito di entrare nella biblioteca della facoltà di matematica dove aveva prestato servizio, organizzò un'università clandestina d'intesa con l'Institut Technique Supérieur de Fribourg: Il grande matematico operò con l'aiuto del suocero Federigo Enriques e di altri coraggiosi professori non-ebrei. Poi, nel 1944, scrisse al Ministro dell'Istruzione per ottenere il riconoscimento degli esami "... ritenevo opportuno che giovani dotati in gran parte di ingegno e cultura superiori alla media potessero gustare le bellezze della scienza pura /.../ e pensavo che quei giovani, ingiustamente colpiti dalle leggi razziali, avrebbero trovato conforto e sollevato il loro spirito misurando le proprie forze a contatto con i problemi della scienza moderna" [8]. Guido Castelnuovo fu il primo senatore a vita della Repubblica Italiana.

[1] M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938, Torino 1994, pp. 103-106.
[2] A. Meniconi - M. Pezzetti, Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, Roma, CSM, 2018, https://www.csm.it/documents/21768/81517/Razza+e+inGiustizia/8f8fcd74-7e72-7f98-da33-1391c21e1aa4.
[3] G. H. Thompson, Dr. Leonore Goldschmidt Schule 1935-1941, http://leonoregoldschmidt.com/
[4] D. Pérez Guillén, Mussolini, Franco y los judíos: una relación controvertida, in «Diacronie. Studi di storia contemporanea», 20 (2014) https://journals.openedition.org/diacronie/1754#tocto1n4
[5] F. A. Palmero Aranda, El discurso antisemita en España (1936-\1948), Madrid 2015 https://eprints.ucm.es/38125/1/T37390.pdf.
[6] J.R. López Bausela, Los programas escolares inéditos en la España de Franco, Madrid 2012.
[7] Ritorno a scuola https://iveser.it/index.php?option=com_content&task=view&id=596&Itemid=87 .
[8] E. Castelnuovo, L'Università clandestina a Roma, in "Bollettino dell'UMI", 8 (2001), pp. 63-77, p. 68.

(Gilda Professione Docente, 27 agosto 2019)


Un ministro palestinese ha restituito più di 70mila euro

Erano stati ottenuti nel 2017 grazie a un aumento segreto di stipendio

 
Il ministro delle Finanze palestinese, Shukri Bishara, ha restituito 73mila euro che aveva ottenuto nel 2017 grazie a un provvedimento dell'allora governo palestinese che prevedeva un aumento segreto del 67 per cento dello stipendio percepito dai ministri (da 2700 a 4500 euro). La notizia dell'esistenza di un provvedimento di questo tipo era emersa a giugno e aveva provocato moltissime proteste, sia da parte dell'ONU che da parte dell'opinione pubblica palestinese. L'aumento degli stipendi dei ministri, infatti, era stato deciso in un momento di seria crisi finanziaria dell'Autorità palestinese, che si è aggravata ulteriormente lo scorso febbraio dopo la decisione di Israele di sospendere il trasferimento del denaro all'Autorità palestinese ottenuto dalla riscossione delle tasse.
L'Autorità palestinese ha detto che altri membri del governo di cui faceva parte Bishara si sono impegnati a restituire il denaro ottenuto dall'aumento segreto degli stipendi.

(il Post, 27 agosto 2019)


"Il cammino. La presenza ebraica nel Parco Nazionale del Pollino"

Domani chiude la manifestazione con Geoff Westley

COSENZA - Una riflessione a tutto tondo sugli Ebrei tra passato e presente, ricordando le radici identitarie di un popolo che, orgoglioso della sua storia e delle sue tradizioni, ha saputo contaminare con rispetto i territori del Pollino nei quali ha abitato e si è integrato alla perfezione socialmente. Nell'ultima giornata de "Il cammino. La presenza ebraica nel Parco Nazionale del Pollino", promossa ideata e realizzata dall'associazione culturale Oikos con il sostegno economico della Regione Calabria, il patrocinio del Parco nazionale del Pollino e del Comune di Castrovillari - Assessorato alla pubblica istruzione, la memoria e l'impegno degli ebrei per il territorio sarà la chiave di lettura del convegno, in programma al Protoconvento Francescano alle ore 18.00, che partirà dal ricordo del dottor Ladislao Schwarz, indimenticato medico ungherese, internato nel campo Ferramonti che a Castrovillari visse una delle pagine più intense della sua vita professionale e le cui figlie hanno inteso tributare un saluto di ringraziamento agli organizzatori per aver deciso di ricordare la figura del loro padre. Saranno lo storico Gianluigi Trombetti e lo scrittore Luigi Troccoli - moderati da Rosanna D'Agostino, giornalista e antropologa - a tracciare una linea di memoria delle vicende degli ebrei in terra calabra.
   Poi in serata il gran finale con la presenza del "ragazzo della classica" come ama definirsi: Geoff Westley, pianista, compositore, arrangiatore, produttore, che in questa estate ha esordito con un disco in piano solo dopo una lunga e importante carriera nel mondo della musica pop italiana e internazionale. In Italia si è fatto conoscere per la sua lunga collaborazione, come arrangiatore e produttore, con artisti italiani del calibro di Lucio Battisti, Claudio Baglioni, Renato Zero, Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Lucio Dalla, Fabrizio de André, Fiorella Mannoia, Mango, Fabio Concato e molti altri. Nel 2018 e nel 2019 inoltre Geoff Westley è stato voluto da Claudio Baglioni come Direttore Musicale per la 68/a e la 69/a edizione del Festival della Canzone italiana di Sanremo. Come arrangiatore e direttore ha lavorato con le più importanti orchestre del mondo. Importante anche la sua attività alla direzione musicale dei Bee Gees, che ha accompagnato nei loro tour mondiali per 7 lunghi anni. Come pianista ed arrangiatore ha collaborato con Carpenters, Peter Gabriel, Phil Collins, Leo Sayer, Andrew Lloyd-Webber, Everly Bros, Vangelis, Gerry Goldsmith, Hans Zimmer, Marvin Hamlish e Henry Mancini. Il suo disco Piano Solo - Does what is says on the tin, è un vero e proprio viaggio nelle emozioni e sarà la degna chiusura di una tre giorni tra memoria, identità e riscoperta della diversità. La sua esibizione sarà preceduta da un reading, ideato e curato dal musicista Sasà Calabrese, che proporrà in compagnia di un quartetto d'archi composto da Pasquale Allegretti Gravina (primo violino), Mariella Veltri (secondo violino), Michele De Sanio (viola), Alessandro Ciniglia (violoncello) la lettura di alcuni brani del diario di Anna Frank, estratti di poeti ebraici, stralci di "Se questo è un uomo" e de "L'amico ritrovato".
   In serata invece una degustazione su di un piatto tipico della cucina ebraica verrà proposta da La Locanda di Alia. In mattinata è sempre possibile - in compagnia della guida del Parco Nazionale del Pollino, Gaetano Sangineti - andare alla scoperta della "guidecca" il quartiere storico abitato dagli ebrei nel centro antico della città di Castrovillari e far visita alla mostra, curata da Mena Filpo, allestita nella sala 8 del Protoconvento Francescano, che propone un contatto diretto con "simboli ed oggetti ebraici" e alle sale del Museo Archeologico di Castrovillari aperte per l'occasione grazie alla sinergia con l'associazione castrovillarese.

(Il Dispaccio, 27 agosto 2019)


Nuovi raid contro le basi di Jibril in Libano e di Hamas a Gaza

di Giordano Stabile

Israele attacca ancora in territorio libanese, questa volta un gruppo palestinese famigerato per i suoi attentati negli Anni 70, e continua l'offensiva aerea che infiamma l'estate mediorientale.
  Il tutto mentre sia Libano che Iraq parlano di «dichiarazione di guerra» da parte dello Stato ebraico.
  Era ancora notte nella valle della Bekaa quando un drone armato ha centrato con tre ordigni una palazzina nel villaggio di Qusaya. L'obiettivo era il Fronte popolare per la liberazione della Palestina - GC, formazione palestinese protagonista della guerriglia contro le forze armate israeliane in Libano, e di attentati e dirottamenti a livello internazionale. Il gruppo guidato dall'ormai ottantenne Ahmed Jibril non rappresenta in questo momento una minaccia per lo Stato ebraico, ma si è distinto per il suo appoggio a Bashar al-Assad nella guerra civile siriana, in particolare ad Aleppo. Per questo potrebbe essere finito nel mirino, nella più ampia offensiva contro il «fronte della resistenza» anti-israeliano che va dall'Iraq al Libano e che ha come nerbo le milizie sciite, ma include di fatto anche gruppi palestinesi.
  I palestinesi hanno attribuito subito l'attacco a "Israele". Israele non ha confermato, come non ha confermato l'attacco nella notte fra sabato e domenica a Beirut. In ogni caso il nuovo raid è destinato a far crescere le tensioni. Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha minacciato rappresaglie, mentre il presidente cristiano Michel Aoun ha descritto gli attacchi come «una dichiarazione di guerra» e il premier sunnita Saad Hariri ha convocato gli ambasciatore di Paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha invece chiesto alla «comunità internazionale» di «fermare l'Iran».

 Tra tre settimane le elezioni
  A tre settimane dalle elezioni Netanyahu è impegnato su tutti i fronti. Dalla Striscia di Gaza sono ripresi i lanci di razzi, con una palazzina colpita a Sderot. Poco dopo è partita la rappresaglia dell'aviazione su postazioni di Hamas. Il governo israeliano ha anche deciso di dimezzare le forniture di gasolio che alimentato l'unica centrale elettrica della Striscia. Ma se lo scontro con Hamas e l'Hezbollah libanese è routine, diverso è il caso dell'Iraq. Domenica sera un drone ha colpito un convoglio della milizia Kataib Hezbollah e ucciso uno dei comandanti, Abu Ali al-Da bi, responsabile del settore missilistico. Neppure questa azione è stata rivendicata, ma per gli sciiti non ci sono dubbi. Il cartello elettorale Fatah ha parlato di «dichiarazione di guerra» e giurato vendetta.

(La Stampa, 27 agosto 2019)


Raid in Iraq, Libano e Siria: Israele riaccende la sfida all'Iran

di Paolo Mauri

Negli ultimi giorni c'è stata una recrudescenza dei raid israeliani che hanno avuto come bersaglio le posizioni delle milizie sciite filoiraniane in Iraq, Siria e Libano, ma l'ultimo attacco avvenuto a Beirut nel corso del fine settimana ha causato la dura reazione di Hezbollah che potrebbe ora passare alla controffensiva e innescare una spirale di violenza che, data la situazione nel Medio Oriente, potrebbe facilmente degenerare.
La notte di sabato un attacco preventivo delle Idf ha sventato quello che sembrava essere un tentativo della Forza Quds iraniana in Siria di attaccare con droni il nord di Israele. Poche ore dopo a Beirut, un secondo attacco attribuibile a Tel Aviv, ma non rivendicato, ha messo nel mirino la roccaforte di Hezbollah con l'utilizzo di due droni, di cui uno sarebbe stato abbattuto.

 L'incontro al vertice delle forze sciite a Beirut
  Lentamente stanno emergendo dettagli sul tentato attacco di Beirut, sebbene tutti provenienti da fonti libanesi: un primo drone da ricognizione è precipitato poco prima dell'alba del 25 agosto abbattuto, secondo quanto riferisce lo stesso leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, dal lancio di pietre di alcuni giovani residenti nella zona meridionale della città, mentre un altro è esploso sempre nella stessa zona. "Poco dopo - ha aggiunto Nasrallah - è giunto il secondo velivolo, era armato e mirava agli edifici. Era una missione suicida". Uno dei due droni sarebbe precipitato a poche decine di metri da uno dei centri media del Partito di Dio libanese.
Resta ora da capire il perché di un simile attacco portato da Israele direttamente su obiettivi di Hezbollah a Beirut, e alcune indiscrezioni provenienti da una fonte della sicurezza libanese all'emittente Orient News, legata all'opposizione siriana, potrebbero fornirci la spiegazione. Quella notte si sarebbe tenuto un "incontro segreto" in città alla presenza dei vertici di Hezbollah, del comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami, e del capo della Forza Quds, Qassem Soleimani. La stessa fonte ha spiegato, come riporta Agenzia Nova, che la delegazione iraniana ha avuto una serie di precedenti incontri in Iraq con i leader dei Mujaheddin del Popolo e a Damasco con il presidente siriano al-Assad.
L'attacco coi droni, non ancora ammesso da Israele, potrebbe quindi avere avuto come bersaglio la "testa del serpente" delle forze sciite filoiraniane presenti in Libano, Iraq e Siria riunite a Beirut nello stesso luogo e nello stesso momento: un'occasione troppo ghiotta per non tentare un "attacco suicida", come lo ha definito Nasrallah, di decapitazione.

 La fine di una "tregua"
  Quello che conta, come sempre accade, non è chi abbia realmente fatto cosa, ma quello che il proprio avversario pensa sia avvenuto: che fosse realmente un attacco suicida per cercare di eliminare il vertice delle forze sciite o meno, poco importa; è invece importante la reazione di Hezbollah che ha avuto toni molto duri per bocca dello stesso Nasrallah.
Il leader sciita ha promesso infatti che i combattenti del Partito di Dio sono pronti ad abbattere qualsiasi drone israeliano sui cieli libanesi. Rivolgendosi poi al premier israeliano Benjamin Netanyahu, Nasrallah ha dichiarato: "tu e il tuo esercito sapete che non stiamo scherzando".
Anche dopo un successivo attacco israeliano, che, nella giornata di domenica, ha colpito un convoglio sul confine tra Iraq e Siria causando 9 vittime tra le milizie sciite, Nasrallah non ha usato toni conciliatori: ha accusato Israele di violare "le regole del gioco" e ha minacciato una dura ed immediata risposta presumibilmente avente origine in Libano aggiungendo "dico ai soldati israeliani al confine di temere la nostra risposta a cominciare da stanotte".
La Difesa israeliana non ha affatto sottovalutato le minacce di Hezbollah ed ha immediatamente aumentato lo stato d'allerta del sistema Iron Dome nel nord del Paese e dei posti di frontiera con il Libano e la Siria.
Ci sono stati dei precedenti infatti: nel 2015 un missile anticarro uccise due militari israeliani ad Har Dov, lungo il confine libanese, in risposta ad un attacco di Israele che eliminò Jihad Mughniyeh, un ufficiale di Hezbollah e un generale iraniano nel Golan siriano.
Israele ha infatti oltrepassato, con questo ultimo raid effettuato coi droni, una "linea rossa" che sino ad oggi aveva garantito una certa stabilità tra Hezbollah e Israele: fintanto che Israele ha lasciato il Libano fuori dalle sue operazioni aeree il Partito di Dio non ha mai reagito agli attacchi di Tel Aviv in Siria che hanno avuto come bersaglio le milizie sciite.
Sembrerebbe quindi essersi rotta una tregua di lunga durata che aveva permesso a Netanyahu di concentrarsi sulla striscia di Gaza e sulla Siria avendo sostanzialmente messo in sicurezza il confine con il Libano.

 Washington per ora tace
  La reazione di Washington a questa ultima serie di attacchi israeliani per ora non c'è stata, ma possiamo ipotizzare che la Casa Bianca non sia affatto contenta dell'esacerbarsi ed allargarsi del conflitto che sta avendo luogo in Medio Oriente tra Iran ed Israele.
Sebbene abbia più volte dimostrato di mantenere una linea dura con Teheran, gli Stati Uniti non sembrano volere uno scontro aperto che implicherebbe necessariamente il ricorso ad un'operazione militare - Trump già una volta sembrerebbe aver fermato un attacco aereo - preferendo piuttosto mostrare i muscoli per cercare di portare l'Iran ad un nuovo tavolo di trattative.
Dal punto di vista dell'attività delle milizie sciite, pur condannando fermamente Hezbollah - che per Washington è ancora un'organizzazione terrorista - e facendo in modo di isolarla diplomaticamente in ambito internazionale, la Casa Bianca mantiene sempre un canale diretto aperto con Nasrallah che recentemente ha ammesso che l'amministrazione americana "sta cercando di aprire canali di comunicazione con Hezbollah in Libano attraverso mediatori".
La riapertura a tutto campo delle ostilità tra Israele ed Hezbollah potrebbe pertanto minare i piani degli Usa per una pax americana in Medio Oriente: già in occasione dei raid in Iraq la Casa Bianca ha duramente redarguito Tel Aviv intimandole di cessare ogni operazione militare nei cieli iracheni per evitare il rischio di vedersi estromessa dall'Iraq e di perdere un alleato prezioso - e le sue basi comunque preziose per il controllo dell'area del Golfo - nella crisi con l'Iran.
Nelle prossime ore sarà interessante guardare a cosa farà Washington: se proseguirà nel silenzio è ipotizzabile che la linea dura di Netanyahu venga premiata dall'amministrazione Trump che ha dimostrato, proprio al G7 di Biarritz, di non concedere troppo all'Iran affrettandosi a far sapere che non ci sarebbe stato nessun incontro tra il ministro degli Esteri iraniano Zaif e la delegazione americana se pur avendo aperto alla possibilità di un incontro al vertice tra il presidente Usa e Hassan Rouhani che ponga le basi per una ridefinizione dell'accordo nucleare Jcpoa, possibilità che Israele non vede di buon occhio.

(Inside Over, 27 agosto 2019)


Botta e risposta violento tra Israele e Hezbollah

Come un anticipo di guerra, con droni manovrati da qualche infiltrato

di Daniele Raineri

 
Un veicolo militare israeliano pattuglia la frontiera israelo-libanese vicino al villaggio di Ghajar sulle alture del Golan
ROMA - Nel giro di ventiquattr'ore fra sabato e domenica c'è stato un botta e risposta violento fra lo stato di Israele e alcune fazioni nemiche che sono armate e finanziate dall'Iran. Grazie alle informazioni che sono uscite e grazie al fatto che le parti in causa hanno dichiarato molte cose, e di solito non lo fanno, è possibile leggere questa sequenza di operazioni aggressive come una conversazione. Il contesto in cui avviene la conversazione è che quest'estate molti si aspettavano che sarebbe scoppiata una guerra aperta tra il gruppo libanese Hezbollah e gli israeliani - continuazione di quella dell'estate 2006 e più devastante - e in effetti potrebbe ancora scoppiare da un momento all'altro, ma per ora al suo posto ci sono questi raid frenetici e di durata limitata. I raid sono fatti per prevenire il conflitto. Tuttavia se continuano con questa intensità potrebbero diventarne l'inizio.
   Ecco cosa è successo. Sabato gli israeliani hanno detto di avere bombardato la zona di Aqraba, a metà strada tra la capitale siriana Damasco e il suo aeroporto internazionale, per colpire una cellula mista di libanesi e iraniani che voleva far volare alcuni piccoli droni armati in territorio israeliano. Ogni drone portava un carico di pochi chilogrammi di esplosivo quindi l'effetto finale contro i bersagli sarebbe stato simile a quello dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, ma l'impatto che conta sarebbe stato psicologico. Non c'è soltanto Israele a colpire a sorpresa in ogni punto del medio oriente - da fine luglio ci sono stati cinque operazioni anche in Iraq, mai confermate da Gerusalemme - ma anche i suoi nemici. "Possiamo pure noi", era il messaggio. Secondo fonti del governo israeliano l'operazione era diretta dal generale iraniano Qassem Suleimani (molto conosciuto, considerato una leggenda in patria) ed era il quarto tentativo quest'anno.
   Nel giro di poche ore a Dahiyeh, il quartiere di Beirut sotto il controllo di Hezbollah, prima un drone commerciale è caduto nei pressi del centro media di Hezbollah, poi un secondo drone con un carico di esplosivo è volato con una traiettoria suicida contro lo stesso edificio. Il dettaglio interessante è che a giudicare dalle immagini si tratta di droni commerciali che devono essere manovrati da qualcuno che si trova in un raggio di cinque chilometri. In pratica poche ore dopo il tentativo (fallito) da parte di Hezbollah di colpire Israele con droni carichi di esplosivo un centro di Hezbollah è stato colpito da un drone carico di esplosivo decollato da molto vicino. Non c'è nulla di ufficiale e confermato, ma se le cose fossero andate così allora si capisce il tono della conversazione. A quel punto il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è andato in televisione (la televisione del gruppo) per dire che non tollererà queste aggressioni e che ogni sorvolo del Libano da patte di un drone israeliano provocherà la reazione di Hezbollah e che i consigli alla prudenza degli altri partiti libanesi non saranno più ascoltati. Anche il "regista" iraniano, il generale Qassem Suleimani ha commentato: "Queste operazioni pazze sono le ultime del regime sionista".
   Poche ore dopo un convoglio delle milizie sciite è stato bombardato in Iraq, vicino al confine con la Siria. Non si sa in via ufficiale chi sia il responsabile ma Israele ha bombardato altre quattro volte obiettivi in Iraq a partire dal 19 luglio. La differenza è che questa volta ha colpito un bersaglio in movimento e quindi viene da chiedersi: di che informazioni dispongono gli israeliani per colpire un convoglio che si muove a settecento chilometri di distanza? In teoria la cellula di Aqraba voleva dissuadere gli israeliani da questo tipo di missioni. Nella notte tra domenica e lunedì alcuni droni israeliani sono entrati nello spazio aereo libanese, sordi alle minacce di Nasrallah, e hanno bombardato nella Beqaa un centro di comando del Fronte per la liberazione della Palestina, una fazione terrorista di ispirazione marxista che da decenni tira avanti tra Libano e Siria. Adesso ci si aspetta una reazione, calibrata da parte di Hezbollah. Ieri, dopo una riunione del gabinetto di sicurezza durata quattro ore, i soldati israeliani hanno ricevuto l'ordine di non passare con i veicoli vicino ai reticolati al confine nord, con Libano e Siria, per non fare da bersagli.

(Il Foglio, 27 agosto 2019)


Netanyahu su Nasrallah: gli suggerisco di calmarsi

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha suggerito al leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, a "calmarsi" dopo aver promesso di "abbattere qualsiasi drone israeliano" che entrerà nuovamente nello spazio aereo del paese dei cedri. "Ho sentito cosa ha detto Nasrallah - ha affermato -. Suggerisco a Nasrallah di calmarsi. Sa bene che Israele sa come difendersi e rispondere ai suoi nemici". Netanyahu si è rivolto anche alla leadership libanese e a Qassem Suleimani, il comandante della forza Quds dei Guardiani della rivoluzione iraniana (pasdaran). "Al Libano e a Qassem Suleimani dico: fate attenzione a ciò che dite e siate ancora più attenti alle vostre azioni", ha detto.
La nuova escalation della tensione fra il movimento libanese filo-iraniano e Israele è scoppiata lo scorso 25 agosto, quando un drone è precipitato e un altro è esploso a Dahieh, periferia meridionale di Beirut a maggioranza sciita. Il Libano e lo Stato di Israele sono ancora tecnicamente in uno stato di guerra e Beirut accusa regolarmente lo stato ebraico di violare il suo spazio aereo con il sorvolo di aerei o droni. Considerato da Israele e dagli Stati Uniti come un'organizzazione terroristica, Hezbollah è un importante attore politico in Libano, dove è rappresentato nel governo e nel parlamento. L'ultimo grande scontro tra Hezbollah e Israele risale al 2006.

(Agenzia Nova, 27 agosto 2019)


Massacro di Hebron, era il 23 agosto 1929

Il 1929 è conosciuto come l'anno della Grande Depressione. La crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale alla fine del mese di ottobre.
Quello che si conosce meno è che nell'estate dello stesso anno ci fu un pogrom contro gli ebrei per mano di alcuni arabi, che uccisero 67 persone e ne ferirono 58, più un numero imprecisato di stupri nella città di Hebron.
Città di grande rilevanza storica per il popolo ebraico e per la presenza della Grotta di Machpelà, acquistata da Abramo e dove sono sepolti i patriarchi e le matriarche del popolo ebraico (tranne Rachel).
Nel pogrom un terzo delle vittime era composto da studenti della yeshiva di Hebron che morirono per mano degli arabi, che credettero alla voce secondo cui due loro fratelli fossero stati uccisi da Gerusalemme da ebrei. La voce, che si rivelò falsa e priva di fondamento, scatenò una serie di moti che portò alla massacro di Hebron, città che reagì in maniera ambivalente.
I 34 poliziotti arabi presenti disertarono, lasciando solo il poliziotto britannico, a differenza di molte famiglie arabe che riuscirono a salvare un numero di ebrei che si aggira fra i 280 e le 300 unità.
Altri ebrei trovarono rifugio nella stazione di polizia britannica di Beit Ramon alla periferia della città o riuscendo a scappare. Molti degli ebrei sopravvissuti vennero evacuati verso Gerusalemme in un secondo momento.
La furia degli aggressori arabi si manifestò anche nella razzia del mercato della città - sia nella parte araba che ebraica - e nella quasi totale distruzione del quartiere ebraico.
Per molti decenni, il massacro di Hebron è stato un episodio scarsamente conosciuto e arrivato a noi in maniera non sempre fedele ai fatti.
Ricapitoliamo: il 23 agosto 1929, nella città di Hebron, nell'attuale West Bank, vennero uccisi e feriti decine di ebrei per mano araba. Alcuni arabi, inoltre, si resero protagonisti di stupri e saccheggi. Altri arabi salvarono decine di ebrei da morte certa.
Sintomo che la situazione in Medioriente non fu e forse non è tutt'oggi così semplice e riduttiva come diversi media e politici vogliono far credere.

(Progetto Dreyfus, 27 agosto 2019)


I nipoti delle SS: «Piangiamo insieme a voi»

Fivizzano, giovani tedeschi in pianto. L'impegno è non dimenticare i crimini dei nazisti .

Lunghi anni di buio
«Non ci avevano mai parlato di quanto avevano fatto». Soltanto ora.
Saltano i tabù
Finalmente certi silenzi vengono infranti. E' un fatto di civiltà

di Roberto Oligeri

 
Alcuni dei giovani tedeschi giunti a Fivizzano nella ricorrenza della strage
FIVIZZANO (Massa Carrara) - Si sono presentati in piazza a Fivizzano per chiedere scusa per le angherie perpetrate dai loro nonni nel nostro territorio durante il secondo conflitto mondiale. Loro, cinque ragazzi tedeschi appartenenti alla «Marcia per la Vita» e provenienti da Tubinga, avevano appreso dai media tedeschi che il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier sarebbe stato nel borgo lunigianese per rendere omaggio, insieme al Capo dello Stato Sergio Mattarella, alle vittime - oltre 400 - delle stragi naziste avvenute nella primavera e nell'estate del 1944 nel territorio comunale di Fivizzano.
   E così, confortati da quanto detto un'ora prima da Steinmeier (che ha chiesto perdono per i crimini commessi da mano tedesca in terra apuana), i giovani non hanno esitato a raccontare la loro esperienza. «Siamo giunti qui - ha detto il loro rappresentante, Gunter Kotzer - perché siamo venuti a conoscenza che i nostri nonni erano nella vostra zona, in armi, non solo nella Werhmacht, ma pure tra le Ss, al tempo dei massacri. Desideriamo sia fatta luce anche nel nostro Paese sulle sciagure, i delitti, le sopraffazioni perpetrate dalla generazione dei nostri nonni alle vostre popolazioni, in Italia, nel nome del Nazionalsocialismo di Adolf Hitler». Quello dei «nipoti delle Ss che indagano sulle malefatte dei propri nonni non è un fenomeno nuovo. In terra tedesca, gruppi come quello che domenica ha raggiunto Fivizzano tengono conferenze proprio sul tema-stragi, come quelle svoltesi in passato a Lindau e Bayreuth, con figli e nipoti di quegli uomini in armi che, nel 1944, sotto l'egida della bandiera uncinata sterminarono intere popolazioni sulle Apuane e nell'Appennino.
   Toccanti le testimonianze emerse in quelle occasioni. «Mio padre, mio nonno, non avevano mai raccontato che s'erano sfogati contro la popolazione civile, dicevano unicamente che in Italia sparavano loro addosso da tutte le parti ... Solo ora possiamo comprendere. Una montagna di morti, donne e bambini, ma come hanno potuto farlo? Come hanno potuto sposarsi, metterci al mondo ed educarci mantenendo dentro di sé segreti così terribili?». È un fenomeno in crescita, nella Germania riunificata, quello che vede tanti tedeschi infrangere i tabù creati dall'apocalisse della Seconda Guerra Mondiale: «Cosa hanno fatto i nostri padri in armi?» è il loro leit-motiv. E non si tratta solo di movimenti ispirati dai vari credi religiosi: vi è addirittura un'associazione denominata "Keine Ruhe" ("Nessuna Pace") che organizza manifestazioni con striscioni, distribuendo manifestini nei quartieri, davanti alle case dove vivono ancora, indisturbati da sempre, gli ultimi nazisti condannati al carcere a vita dai Tribunali Militari Italiani. «Sono oggi davanti a voi come Presidente Federale tedesco e provo solo vergogna per quello che dei tedeschi vi hanno fatto», ha dichiarato domenica Steinmeier. «Con dolore mi inchino dinanzi ai morti di Fivizzano. E vi chiedo perdono». Ed è su questo sentiero, della riconciliazione e della concordia, che avanzano i ragazzi di Tubinga, appartenenti alla "Marcia per la Vita", degni figli di una Germania che vuole fare i conti con il proprio passato.

(La Nazione, 27 agosto 2019)


Odio antiebraico, made in Eu: ribellarsi è giusto, lamentarsi inutile

La storia dello Stato di Israele e della resistenza insegna agli ebrei come difendersi. Sembra invece prevalere il nuovo slogan delle diaspore: "per favore non fatelo di nuovo".

di Piero Di Nepi

L'identità ebraica, perfino nello Stato di Israele, è una identità di minoranza. Un'identità ansiosa e ansiogena che deve continuamente vincere le proprie paure: infatti, la paura è perfettamente inutile, e di certo non facilita la gestione di un difficile contratto esistenziale. Le strategie ebraiche per esorcizzare il panico si sono fatte raffinatissime, ma anche autodistruttive. In Europa gli ebrei assistono adesso alle ondate del nuovo razzismo. È un razzismo contro tutto ciò che non sia continentalmente "puro" (prescinde dalla carnagione, vanno bene i norvegesi come i sardi), non sia cristiano, non sia ancorato ad una città e a un lavoro. Sappiamo però che l'odio antiebraico, adesso malamente travestito da antisionismo militante, è qualcosa di profondamente diverso. Perché è infatti possibile amare e difendere i neri, i popoli "colored" di ogni angolo del mondo come anche gli ultimi indigeni delle foreste, e invece odiare gli ebrei. Che a molti sembrano comunque i primi immigrati, e così estendono l'odio a tutti quelli che sono arrivati da qualche luogo "fuori". Inutile spiegare che gli Stati Uniti, i paesi latinoamericani, l'Australia e la Nuova Zelanda sono nati dall'immigrazione europea. E poi si è tentato il genocidio delle popolazioni originarie.
   Così anche gli ebrei temono di nuovo che prima o poi arriverà ancora una volta la catastrofe. Svastiche e scritte sui muri, minacce di boicottaggio contro negozi e professionisti, insulti allo stadio, provocano con la dovuta periodicità vibranti appelli e accorate interviste presso autorevoli organi d'informazione. La
Dai livelli istituzionalmente più alti fino ai quartieri popolari, dalle assemblee regionali alle prefetture, di fronte a taccuini e telecamere si vedono spesso, con prevedibile periodicità e grande compunzione, ebrei molto preoccupati.
condizione mentale minoritaria è appunto questa: affidarsi alla tattica più collaudata - la protesta pubblica presso le autorità - in attesa del prossimo blitz dei nemici vecchi e nuovi. Ma sì, sappiamo benissimo che i dirigenti delle comunità ebraiche vengono sempre ricevuti con tutti gli onori per ascoltare la solidarietà di autorità locali e nazionali. Dai livelli istituzionalmente più alti fino ai quartieri popolari, dalle assemblee regionali alle prefetture, di fronte a taccuini e telecamere si vedono spesso, con prevedibile periodicità e grande compunzione, ebrei molto preoccupati. Ebrei che forse non esprimono più la fierezza di quando erano ben sicuri di stare - sempre e comunque - dalla parte giusta. Ebrei un tempo sicuri di aver battuto il male assoluto nazifascista con il semplice fatto di essere sopravvissuti, e poi di aver dato vita a nuove generazioni. Il revisionismo strisciante ha prodotto, di nuovo, ebrei timorosi del proprio status di minoranza, ebrei che si sentono di nuovo esposti alle tempeste della società e della storia. Ebrei che cercano consenso, perché timorosi di non averne. Quasi che nel nostro mondo le vittime e i deboli di ieri, e anche i "nati dopo", debbano in qualche modo giustificare il proprio esistere come minoranza e come differenza. Appare sempre ben visibile lo zucchetto degli uomini (kippà in ebraico), di solito nero, che un tempo copriva il capo solo in casa: tanto che a Roma lo si chiamava papalina, ed oggi serve per rendersi riconoscibili nelle cerimonie, nelle conferenze stampa e in qualsiasi pubblica evenienza.
   Adesso appare finalmente anche una presenza femminile che un tempo non c'era. E questo è bene: le donne sono sagge, equilibrate, madri di famiglia attente al futuro, vanno subito al cuore della gente e dei problemi. Tuttavia il leader religioso, il dirigente di comunità ebraica, lo studente ebreo impegnato nell'arena della politica, di solito vogliono e dunque devono risultare mediaticamente identificabili: l'ebreo del terzo millennio sarà sempre di più un ebreo adatto ai telegiornali della sera, quando disgraziatamente occorra una presenza per stigmatizzare e condannare qualcosa e qualcuno. È un ebreo il quale comunica troppo spesso un solo messaggio: "Per favore, non fatelo di nuovo. Abbiamo paura di voi. Lasciateci il nostro lutto, lasciateci in pace a piangere, a ricordare il vuoto che hanno lasciato tutti quelli che non ci sono più.".
   In realtà, sappiamo benissimo che la maggior parte delle persone, in ogni società umana, sono "brave persone". Nei musei ebraici, nelle scuole e negli edifici delle comunità, durante le giornate della cultura ebraica, ed anche in tutte le occasioni di commemorazione della Shoah, si vedono folle di adulti e di
L'urgenza della cronaca finisce per trasformarsi in coazione a ripetere: i dirigenti delle comunità si sentono costretti dalla situazione a parlare in pubblico quasi solo ed esclusivamente di Shoah e di antisemitismo.
studenti desiderosi di comprendere e di apprendere. L'umanità e la solidarietà, la compassione e l'attenzione per gli altri, sono - appunto - caratteristiche della specie umana, e l'aiutano a sopravvivere. Ma si possono corrompere le moltitudini, e in brevissimo tempo. Non pochi, in Europa e altrove, hanno deciso di giocare al gioco d'azzardo del revisionismo strisciante. Quasi si volesse incoraggiare il dubbio che gli ebrei pensano sempre e soltanto ai casi propri. L'urgenza della cronaca finisce per trasformarsi in coazione a ripetere: i dirigenti delle comunità, ovunque nel mondo, si sentono costretti dalla situazione a parlare in pubblico quasi solo ed esclusivamente di Shoah e di antisemitismo, e non soltanto nelle occasioni pubbliche nelle quali ricordiamo il nostro lutto irrimediabile. Si esige la garanzia che davvero non accadrà mai più. Vogliamo convincere, per sentirci convinti e rassicurati. In antropologia culturale questa operazione psicologica è ben conosciuta: tutto ciò che appare minaccioso e negativo deve diventare un puro simbolo che va messo al centro di una ritualità periodica. Si confida dunque nel potere di una magica equazione: se succede a noi, prima o poi verrà anche il vostro turno.
   Tuttavia la nostra scommessa di proficuo investimento sulla memoria e sul ricordo non ha arginato neppure il razzismo dei tifosi del pallone. Volessimo consolarci nella modernità, faremmo bene a tener presente che le vigenti legislazioni europee in materia di emigrazione per motivi politici, etnici e religiosi e razziali, difficilmente permetterebbero la fuga e l'accoglienza dei duecentomila ebrei che riuscirono ad espatriare dopo aver lasciato in Germania e in Austria tutti i propri beni. Da sempre, solo i ricchi possono trasferirsi con facilità: a patto, naturalmente, che già si abbia denaro all'estero e che i governi consentano il trasferimento di valuta e la vendita del patrimonio.
   Non va affatto bene. Ribellarsi è giusto. Finché si è in tempo.

(Shalom, aprile-maggio 2019)


Hamas tenta la strage: tre missili contro concerto. Israele risponde

Ieri sera Hamas ha tentato la strage sparando tre missili contro le comunità israeliane vicine al confine con Gaza, compresa la città di Sderot dove circa 4.000 persone che stavano partecipando a un festival musicale, sono state costrette a cercare rifugio dopo il suono delle sirene di allarme.
Ed era probabilmente proprio quel festival musicale l'obiettivo dei terroristi.
Due dei missili sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, mentre un terzo è caduto in campo aperto senza provocare danni.
Immediata la risposta israeliana. Questa mattina l'IDF ha colpito due postazioni di Hamas tra le quali una di particolare rilievo visto che si tratta dell'ufficio di un alto esponente di Hamas, un comandante dell'ala militare di Hamas.
Non solo. Il COGAT ha deciso che da questa mattina i trasferimenti di carburante verso la centrale elettrica di Gaza verranno sensibilmente diminuiti.
Il portavoce di Hamas, Hazim Qasim, ha respinto le accuse di Israele sostenendo che né Hamas né altre fazioni palestinesi nella Striscia sono responsabili del lancio dei razzi.
Qasim ha aggiunto che gli israeliani stanno spostando la colpa su Hamas per giustificare gli attacchi militari a Gaza.
Difficile però pensare che Hamas che tutto vede nella Striscia di Gaza, non fosse al corrente del lancio dei tre missili contro la manifestazione musicale.
I terroristi cercavano chiaramente la strage e solo grazie al sistema di difesa Iron Dome oggi non siamo qua a raccontare una strage di giovani israeliani.

(Rights Reporters, 26 agosto 2019)


La Corte Suprema israeliana vieta la candidatura a due esponenti di una lista di estrema destra

La Corte Suprema israeliana ha vietato a due esponenti della lista di estrema destra Otzma Yehudit (Potere ebraico) di presentarsi alle elezioni del prossimo settembre, per incitamento al razzismo. Benzi Gopstein e Baruch Marzel fanno parte di Otzma Yehudit, erede del partito di estrema destra Kach (fuorilegge dal 1994) fondato dal religioso Meir Kahane. Tra le altre cose, il partito sostiene che «i nemici di Israele» debbano emigrare «per preservare il carattere ebraico dello Stato di Israele» e chiede l'annessione della Cisgiordania, dove vivono più di 2,5 milioni di palestinesi. La Corte ha respinto l'appello per escludere l'intero partito dalle elezioni che presenterà, dunque, alcuni suoi candidati.
Il prossimo 17 settembre in Israele ci saranno le elezioni.

(il Post, 26 agosto 2019)


Raid israeliani contro le milizie sciite

Colpiti Libano, Siria e lraq con droni e missili. Il premier Netanyahu: abbiamo sventato attentati terroristici

di Giordano Stabile

Cacciabombardieri e missili alle porte di Damasco, droni nel cuore di Beirut, e infine un blitz al confine fra Siria e Libano per completare una triplice offensiva aerea contro le milizie sciite alleate di Teheran. Una escalation mai vista nella guerra a bassa intensità che contrappone Israele all'Iran, ora sempre più esplicita e aperta. Le danze sono cominciate attorno alla mezzanotte fra sabato e domenica, quando a essere presa di mira è stata la base di Aqraba, pochi chilometri a Sud della capitale siriana. I jet israeliani hanno lanciato una, forse due ondate di missili. Una è stata intercettata dalle difese anti-aeree siriane, allertate dall'intelligence iraniana già nel pomeriggio. Ma la seconda salva ha distrutto i due obiettivi principali: un posto di comando, secondo gli israeliani usato dai Pasdaran, e un deposito di armi, che custodiva missili e droni d'assalto.
   Le esplosioni erano visibili fin dal centro di Damasco e fra le macerie sono rimasti cinque miliziani, compreso un consigliere militare iraniano, secondo fonti dell'opposizione siriana. A notte tarda il blitz è stato commentato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha spiegato come i raid avessero bloccato un imminente attacco «con droni armati» sul territorio israeliano. «In una operazione di larga portata- ha spiegato - abbiamo sventato un attacco contro Israele da parte delle forze iraniane di Al-Quds. Siamo riusciti a scoprire che l'Iran ha inviato un'unità speciale per uccidere israeliani sul Golan. "Se qualcuno cerca di ucciderti, uccidilo tu per primo", è il nostro motto. Continueremo ad agire con determinazione e responsabilità contro l'Iran e i suoi alleati per la sicurezza di Israele».
   Non era finita lì. Mentre Hezbollah era in piena mobilitazione per i suoi uomini colpiti in Siria, la battaglia aerea si è spostata a Dahiyeh, il grande sobborgo sciita di Beirut. Due droni, del tipo Matrice 600 e Matrice 100, sono precipitati, uno dopo essere esploso, vicino al centro media, nell'area di Moawad Madi. In un primo momento Hezbollah ne ha rivendicato l'abbattimento poi il portavoce Mohammed Afif ha precisato che erano precipitati da soli per «cause tecniche». L'incidente è stato confermato dalle forze armate libanesi. E poi condannato come «flagrante violazione della sovranità del Libano» dal premier Saad Hariri.

 L'appello di Nasrallah
  Il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah ha atteso le 18 per parlare, alla celebrazione della prima grande vittoria in Siria di cinque anni fa: «L' arrivo dei droni israeliani sopra Beirut è uno sviluppo molto pericoloso, d'ora in poi li abbatteremo tutti», ha ammonito: «Nessun posto in Israele sarà sicuro. Residenti del Nord, vi avverto, non state tranquilli». Il quel momento Netanyahu non era molto distante, in visita al confine settentrionale assieme al capo di Stato maggiore Avi Kochavi. «Ogni Paese che consenta che il suo territorio sia usato per attacchi contro Israele - ha ribattuto-, ne subirà le conseguenze». In quel momento droni armati hanno attaccato una colonna delle milizie sciite irachene al confine fra Siria e Iraq. Un comandante e sei combattenti sono rimasti uccisi. L'offensiva aerea anti-Teheran finiva lì. Almeno per ieri.

(La Stampa, 26 agosto 2019)


*


I blitz di Gerusalemme per fermare gli attacchi guidati da Teheran

Si temono rappresaglie contro il contingente Usa in Iraq. Sarebbe pronto un piano per colpire i ribelli Houthi in Yemen.

di Giordano Stabile

 
 
Una postazione militare israeliana al confine con la Siria per prevenire eventuali attacchi delle milizie sciite che hanno combattuto al fianco del regime di Assad. Israele è decisa a impedire che missili di fabbricazione lranìana in grado di colpire le sue città possano essere installati vicino ai suoi confini.
Gli abitanti del villaggio di Balad, ottanta chilometri a Nord di Baghdad, hanno visto la notte incendiarsi. Prima un'esplosione potentissima, poi una serie infinita di scoppi secondari, come in un fuoco di artificio che squarciava il cielo con fiammate rossastre. A essere incenerita era la base aerea di Balad, proprietà delle forze armate irachene ma affittata alla milizia sciita Kataib al-Imam Ali, una delle più vicine ai Pasdaran.
   Nessun civile è rimasto coinvolto ma le esplosioni hanno fatto tremare anche Baghdad. Il premier Adel Abdel Mahdi, uno sciita moderato che finora si è mantenuto equidistante fra America e Iran, rischia di essere travolto dalla rabbia dei miliziani. Quello del 20 agosto alla base di Balad è il quarto attacco in un mese. E i comandanti non hanno più dubbi. Dietro c'è «Israele».
   L'Iraq è così entrato nella linea del fuoco di una campagna aerea cominciata in Siria e che ora si è allargata a tutto il Medio Oriente, al Libano, alla Mesopotamia e presto anche allo Yemen, se è vera l'indiscrezione del quotidiano kuwaitiano Al-Jarida, che ha rapporti privilegiati con l'Intelligence israeliana e ha rivelato come l'aviazione con la stella di David abbia già pronti i piani per colpire le basi dei ribelli sciiti Houthi «sul Mar Rosso e vicino allo Stretto di Bab al-Mandab». Israele ha deciso di portare l'offensiva fino alle porte dell'Iran e indebolire tutti i suoi alleati regionali. La giornata di ieri, con attacchi su Libano, Siria e Iraq in meno di 24 ore, è il primo assaggio. L'accelerazione è arrivata per sventare un colpo dell'Iran, che intendeva proprio vendicarsi dei quattro raid in Iraq.
   Ma, come ha puntualizzato ad Haaretz l'analista Amos Harel, si lega anche ai tentennamenti di Donald Trump sul dossier iraniano. Il timore è che il leader Usa faccia una delle sue giravolte e apra a nuovi negoziati, per un accordo sul nucleare «migliore di quello ottenuto da Obama».
   In questa prospettiva «Israele non ha nessuna intenzione di aspettare l'arrivo dei missili iraniani in Siria, preferisce colpirli quando sono ancora sul territorio iracheno». Ma a differenza della Siria, quello iracheno è un territorio dove gli americani «hanno grossi interessi». Per questo il premier Benjamin Netanyahu, Washington, e in un primo momento anche Baghdad, hanno tenuto un profilo basso. Dopo la prima esplosione, il 19 luglio, il governo iracheno aveva parlato di un «incidente», una tesi sostenuta ancora dagli americani. Ma ora la tensione è alle stelle. Il vicecomandante delle milizie Hashd al-Shaabi, Abu Mahdi al-Muhandis, l'uomo degli iraniani, ha detto di avere «informazioni precise e confermate che gli americani hanno permesso a droni israeliani di condurre gli attacchi». E di ritenere gli Usa «primi responsabili». Una minaccia neppure troppo velata di rappresaglie, di possibili attacchi contro le basi statunitensi, già prese di mira da razzi e mortai nei mesi scorsi.
   Anche il premier Adel Mahdi ha reagito intimato agli americani di informarlo in anticipo sulle rotte dei jet impiegati nei pattugliamenti anti-Isis. Questo perché l'Intelligence iraniana sospetta che gli attacchi siano compiuti da F-35 israeliani che si nascondono dietro le tracce dei velivoli occidentali. La conferma è arrivata da funzionari del governo Usa, che hanno parlato in forma anonima al New York Times. Israele ha colpito per «distruggere missili ad alta precisione» che stavano per essere «spostati in Siria». Neppure a questo punto Netanyahu ha ammesso apertamente. La sua reticenza non è dovuta a timidezza. Fare del suolo iracheno un campo di battaglia vuol dire porre l'alleato americano in una posizione scomoda, anche se alti ufficiali israeliani hanno ammesso di considerare l'Iraq come il fronte «più minaccioso in questo momento». In Iraq ci sono ottomila militari statunitensi, possibili bersagli. E Washington vuole evitare di spingere ancor più Baghdad nelle braccia di Teheran nella difficile partita a scacchi con gli ayatollah.

(La Stampa, 26 agosto 2019)


L’Iran avverte Israele: le aggressioni contro Siria, Libano e Iraq avranno gravi conseguenze

Le autorità iraniane hanno avvisato le forze israeliane che gli attacchi di ieri contro Libano e Siria avranno delle conseguenze gravi.

L'annuncio arriva dopo che il Capo delle Forze Quds dell'Iran, Qassem Soleimani, aveva dichiarato sui social, riferendosi all'attacco con i droni spia in Libano e ai bombardamenti di ieri in Siria, che "queste insane operazioni saranno gli ultimi passi del regime sionista".
Le autorità iraniane sono intervenute sulle dichiarazioni di Soleimani, rimarcando il diritto alla difesa degli stati colpiti dall'aggressione dell'IDF, in seguito alla conferma di Israele dell'attacco aereo compiuto ieri contro la Siria. "Israele deve comprendere le conseguenze delle sue azioni aggressive e capire che hanno un prezzo", ha detto il portavoce del governo iraniano Ali Rabiei, durante una conferenza stampa di oggi, trasmessa dalla televisione iraniana.
Israele aveva giustificato gli attacchi aerei in territorio siriano, contro presunti "agenti della forza Quds iraniana e obiettivi della milizia sciita" in Siria, in quanto necessari a sventare un eventuale attacco multiplo di droni contro lo stato ebraico.

(Sputnik Italia, 26 agosto 2019)


L'Eliseo e quell'azzardo per un'intesa sul nucleare

Si lavora per riaprire il dialogo con gli Usa. Intanto Israele colpisce le milizie sciite in Siria

Partita difficile
Ma il rischio con l'Iran è sempre dietro l'angolo. E il leader francese potrebbe scottarsi
Azione militare
L'attacco israeliano con i droni per neutralizzare le basi in cui si preparano attentati

di Fiamma Nirenstein

Non è andato benissimo a Macron il colpo di scena preparato per il G7 di Biarritz, anche se suggerisce un qualche accordo Usa-Europa sulla questione iraniana: quel gran sorriso soddisfatto del visitatore a sorpresa Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, cui il presidente francese aveva promesso una mediazione con Trump (che non ha incontrato) e il resto dei grandi per tornare a un accordo che alleggerisca le sanzioni, non era adatto alla giornata particolarmente turbata da gesta iraniane contrastate sul campo dalla determinazione israeliana. Zarif è arrivato contento a Biarritz, secondo il consueto schema iraniano per cui la diplomazia è uno spettacolo per il pubblico internazionale, la sua politica che sta sconvolgendo il mondo e ridisegnando il Medio Oriente, un'altra storia. Zarif, con la mano tesa nella speranza che, nonostante la cancellazione del trattato con Obama, l'Europa riesca a convincere anche l'America a nuovi patti, ha calcato il proscenio del G7; ma proprio nelle stesse ore i piani terroristici, che restano una strada maestra insieme alla promessa di distruggere Israele, invadevano le cronache internazionali.
   Macron aveva già parlato con Zarif prima del summit, proponendosi di nuovo nella veste di mallevadore e di interprete degli interessi europei. Durante la cena con Trump di sabato deve avergli suggerito un qualche accordo, con cui pensa di confermare la sua ambita leadership europea. Trump ha detto solo «no comment»: sta a vedere se si può disegnare una resa. È chiaro che fida sulla crescente necessità dell'Iran, ridotta allo stremo, di venire a miti consigli sul nucleare, i missili balistici, forse anche sui diritti umani. Ma il rischio con l'Iran, ( e ormai forse anche Obama, ex post, ne sa qualcosa) è sempre troppo grande per poterlo gestire. Macron si può scottare.
   Così la scena che si è aperta sulla stessa giornata di ieri in Medio Oriente, mentre Zarif sorrideva, è quella della prevenzione di un grande attentato terrorista, con un attacco sabato notte, rivendicato da Israele. A essere colpiti, in villaggi siriani vicino all'aeroporto, droni esplosivi e militari coinvolti nel loro lancio: già giovedì notte l'aeroporto di Damasco aveva, nel silenzio, visto arrivare uomini della Guardia Rivoluzionaria spediti dal generale Qasem Soleimani, e grosse parti di droni capaci di portare, secondo gli esperti, ingenti quantità di esplosivo destinati al nord di Israele. La decisione di Soleimani, capo della Guardia Rivoluzionaria: fronteggiare direttamente Israele, contestando così la decisione, ieri ribadita da Netanyahu, di impedire il suo insediamento bellico con quello degli Hezbollah su territorio siriano. Soleimani deve essere rimasto stupito e imbarazzato dalla inconsueta rivendicazione dell'Idf, e anche messo in difficoltà dalla perdita, sembra, di cinque combattenti sul terreno, due iraniani, due Hezbollah, uno sconosciuto. Infatti l'Iran ha negato il danno. Nel frattempo proprio gli Hezbollah subivano uno strano evento a Dahia, il loro quartiere a Beirut. Due piccoli droni hanno colpito il centro delle comunicazioni dell'organizzazione terrorista. Nasrallah ieri ha dato uno sei suoi lunghissimi discorsi di accusa a Israele, che però nega di aver partecipato all'evento. Altro evento misterioso, un attacco aereo pomeridiano su un convoglio delle milizie sciite sul bordo dell'Irak. In una parola, lo stendardo di pacificazione che Macron vorrebbe innalzare sulla questione iraniana, risulta molto difficile rispetto alle reali intenzioni del Paese degli Ayatollah: gli europei farebbero meglio ad ascoltare le sue promesse di dominio piuttosto che quelle di appeasement.

(il Giornale, 26 agosto 2019)


Così Israele cerca di sventare la minaccia iraniana (presente in Iraq, Siria e Libano)

L'Iran organizza un attacco contro Israele, che anticipa i tempi e bombarda i centri di coordinamento in Siria. Azioni anche in Libano che seguono quelle in Iraq: il confronto con Teheran coinvolge gran parte del Medio Oriente

Questa mattina Israele - attraverso il portavoce dell'esercito prima, con il premier Benjamin Netanyahu, poi - ha confermato di aver colpito postazioni usate dalle forze iraniane in Siria: l'obiettivo è stato prevenire un attacco contro il territorio dello stato ebraico. Il premier, parlando dal nord del paese (in pieno clima elettorale) ha detto ai giornalisti che lo accompagnavano che i servizi segreti israeliani avevano scoperto che l'unità d'élite dei Pasdaran, la Quds Force, aveva mandato in Siria quattro membri specializzati per organizzare un'azione da Arneh, sulle Alture del Golan, da dove uno "special team composto anche dalle milizie sciite [filo-iraniane]" (probabilmente la libanese Hezbollah e qualche altro gruppo iracheno) avrebbe fatto partire diversi droni esplosivi "per uccidere gli israeliani".
   Colpiti a Aqraba, sudest di Damasco, un centro di comando e di guida dei droni, un convoglio che trasportava armamenti, e un magazzino di stoccaggio.
   Dice l'account Twitter dell'IDF, "come contrasti un attacco con droni killer?", con "killer intelligence" si autorisponde - col tweet l'esercito diffonde anche un video in cui dimostra che alcuni operativi della Quds erano in Siria, scoperti mentre trasportavano uno dei droni esplosivi da lanciare su Israele. Tsahal (l'esercito israeliano IDF) ha anche detto che tutta l'operazione era supervisionata da Qassem Souleimani, il capo della Quds che è considerato l'eminenza grigia dietro alle attività di diffusione armata di influenza - e odio anti-Israele e anti-Usa, o anti-Occidente in generale - con cui i Pasdaran hanno costruito una trama di partiti/milizia in diversi paesi del Medio Oriente.
   L'intelligence killer di cui si parla è quella con cui, dal 2013, Israele cerca di evitare che arrivino a compimento i piani offensivi con cui l'Iran sfrutta il caos della guerra civile siriana per armare i propri proxy e attaccare lo stato ebraico. Centinaia di bombardamenti mirati hanno già interessato la Siria in questi sei anni, ma ora si stanno allargando anche in altri territori, in Iraq per esempio (quattro nell'ultimo mese contro altre milizie collegate all'Iran). O ancora il Libano, dove più o meno negli stessi minuti del raid a Damasco è stato fatto detonare un drone esplosivo in un'area della periferia sud di Beirut, nei pressi degli uffici media di Hezbollah, la principale delle milizie collegate all'Iran che è in guerra con Israele dal 2006. Si pensa, nonostante su questo non ci siano state conferme, che si tratti di un'altra azione israeliana.
   Su questo secondo attacco c'è un particolare da non sottovalutare: le immagini di un altro drone inesploso, recuperate e diffuse dai milizia libanesi, mostrano un comune ottacottero modificato e adattato a trasportare carichi esplosivi. Si tratta comunque di piccoli mezzi il cui raggio operativo probabilmente non è così ampio da essere guidati dal territorio israeliano fino alla capitale libanese, e dunque è del tutto possibile che siano stati lanciati da dentro il Libano. Nei giorni scorsi, un funzionario americano ha detto al New York Times che Israele ha colpito una milizia irachena collegata all'Iran dall'interno dell'Iraq. Il fronte è piuttosto diffuso e le operazioni si sovrappongono: per esempio, gli israeliani sono andati a colpire Hezbollah in Libano con lo stesso metodo con cui l'Iran e Hezbollah avrebbero voluto colpire Israele. Non sfugge un certo spin comunicativo dietro a queste azioni.
   Ci sono vari aspetti interessanti da sottolineare in quello che sta accadendo. Per primo è la fine dell'ambiguità strategica israeliana, ossia il modo con cui Gerusalemme negava certe azioni clandestine contro i nemici all'estero. In più di un'occasione Netanyahu ha fatto capire che l'esercito israeliano sta agendo in Libano contro l'Iran, e oggi ha ufficialmente ammesso l'azione in Siria. "Voglio sottolineare che questa è stata un'iniziativa dell'Iran, era sotto il comando dell'Iran ed era una missione iraniana", ha aggiunto a proposito del piano per far cadere sul territorio israeliano una serie di droni killer.
   Un quadro che diventa ancora più delicato se si pensa che Netanyahu ha aggiunto: "Qualsiasi stato che consenta l'uso del suo territorio per attacchi contro Israele avrà le conseguenze. E sottolineo: lo stato ne porterà le conseguenze". Un messaggio diretto anche a Iraq e Libano, che da Beirut oggi pomeriggio è stato controbattuto dal potente segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrall, che ha parlato pubblicamente rendendo onore a due operativi uccisi nell'attacco in Siria (ci sarebbe anche un'altra vittima di un'altra milizia sciita, un comandante della Katib Hezbollah irachena), ma anche mandando un messaggio a Israele.
   "Ogni martire è un mio figlio e sarà ripagato col sangue", ha detto ricordando l'uccisione del suo vero figlio Hadi nel 1997, in una missione killer su cui il governo israeliano era stato molto meno loquace di adesso. La guida suprema del gruppo libanese ha parlato durante un incontro politico dell'attacco a Beirut come di una violazione della tregua chiusa tredici anni fa. Parole che potrebbero aprire una nuova stagione nella regione. Le intelligence israeliane ritengono che Hezbollah, armato dagli iraniani attraverso la Siria, avrebbe riaperto il fronte già entro la fine dell'estate.
   Oggi, inaspettatamente, il ministro degli Esteri iraniano è volato a Biarritz, dove era in corso il vertice del G7. È stato accolto da Emmanuel Macron, che ha ricevuto una sorta di investitura da parte degli altri sei Grandi per trattare con Teheran in mezzo a una situazione tesissima che coinvolge il dossier nucleare, ha avuto uno sfogo con la crisi delle petroliere nel Golfo Persico, e ora vede un'escalation con le azioni israeliane che si allargano a Siria, Iraq e Libano.

(formiche, 25 agosto 2019)



Sventato grande attacco iraniano con droni esplosivi contro Israele

L'IDF ha sventato un grande attacco iraniano contro Israele che doveva partire dalla Siria e doveva avvenire per mezzo di droni carichi di esplosivo.

di Sarah G. Frankl

Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno sventato un grande attacco iraniano contro Israele che sarebbe dovuto partire dal suolo siriano.
Lo ha reso noto ieri sera il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che è anche Ministro della Difesa.
L'attacco iraniano contro Israele era stato organizzato dalla Forza Quds dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC oppure Pasdaran) e doveva avvenire per mezzo dell'uso di droni riempiti di esplosivo i quali si dovevano schiantare contro obiettivi in Israele.
Grazie al prezioso lavoro della intelligence israeliana, il comando dell'IDF è riuscito a conoscere in tempo i piani iraniani e con un attacco chirurgico su una base iraniana nei pressi di Damasco è riuscito a distruggere i droni che dovevano colpire Israele.
Secondo il portavoce delle IDF, il colonnello Jonathan Conricus, il piano iraniano ordito dalla Forza Quds era pronto per essere messo in pratica ed era imminente.
L'Intelligence monitorava da mesi le attività iraniane in Siria dopo che alcune fonti avevano riferito del piano iraniano.
Ieri sera il Premier Netanyahu ha riunito d'urgenza i vertici delle IDF presso il Ministero della Difesa a Tel Aviv per discutere delle contromisure da prendere contro questo tipo di attacchi che possono essere devastanti.
«Questo era un piano significativo e di altissimo livello» ha detto il portavoce delle IDF «organizzato nei minimi dettagli da diversi mesi e poteva essere davvero devastante».
Le forze di difesa israeliane hanno deciso di innalzare ulteriormente il livello di guardia in tutto il fronte nord.
Alcune batterie di Iron Dome nonché di missili Patriot sono state "riposizionate". Il comando IDF non esclude infatti che il rischio sia ancora reale nonostante la distruzione dei droni iraniani che dovevano attaccare Israele.

(Rights Reporters, 25 agosto 2019)


Due droni militari israeliani cadono su Beirut

Due droni militari israeliani sono caduti a Beirut senza essere colpiti dall'antiaerea. Una minaccia per la sicurezza del Paese, così ha commentato il premier libanese, Saad Hariri.
Uno è caduto e esploso poco lontano dagli uffici di comunicazione di Hezbollah, sede della tv Al Manar, causando danni alle strutture.
Il secondo invece è caduto sul quartiere di Dahyieh, roccaforte del Partito di Dio, senza causare danni.
Le forze israeliane avevano appena concluso un'altra operazione in Siria, nella zona di Damasco, per fermare quello che, sostiene l'intelligence israeliana, era un piano iraniano per colpire lo Stato ebraico sempre con droni esplosivi.
Nell'attacco sarebbero rimasti uccisi due membri di Hezbollah e un iraniano, stando ai dati dell' Osservatorio siriano per i diritti umani.

(euronews, 25 agosto 2019)


Il "cananeo" Abbas e le sue minacce di morte e distruzione: una lezione da non dimenticare

di Ugo Volli

Il 20 agosto il dittatore dell'Autorità Palestinese Mahamud Abbas ha fatto un discorso al campo profughi di Jalazone vicino a Ramallah, la "capitale provvisoria", secondo lui, dello "Stato di Palestina" (ed è un bel paradosso che ci siano campi profughi "palestinesi" nel bel centro della "Palestina", cinquantadue anni dopo la fine dell'ultima guerra in cui vi furono dei fuggitivi e ventisei dopo gli accordi di Oslo che stabilirono l'autonomia palestinese.
   E' un discorso completamente delirante, in cui Abbas sostiene fra l'altro di essere "cananita" cioè di appartenere a una popolazione le cui ultime tracce nella storia risalgono a più di tremila anni fa, ai tempi del regno di Davide, e che fra l'altro non sono arabi, che è la nazionalità continuamente rivendicata dai palestinisti e riconosciuta agli abitanti musulmani della Terra di Israele fin dall'amministrazione ottomana.
   Ma soprattutto Abbas minaccia di distruggere non solo tutti gli ebrei ma ogni casa edificata da Israele, ogni pietra usata per costruirla - il che fra l'altro è esattamente quel che è successo a Gaza, dove i villaggi ebraici furono lasciati intatti al momento dello sgombero, serre comprese, e furono subito distrutti non da Hamas, che in quel momento non aveva ancora fatto il suo colpo di stato, ma dal governo di Fatah. E' un discorso delirante e violentissimo, ma proprio per questo merita di essere letto e meditato. Chi si illude di poter fare la pace con un personaggio del genere, anche nel popolo ebraico, farebbe bene a rileggerselo ogni mattina. Anche perché la storia insegna che quando qualcuno minaccia di uccidere tutti gli ebrei, è sempre bene prenderlo sul serio e regolarsi di conseguenza.
   Ecco i brani principali:
   "Rimarremo [qui] e nessuno potrà rimuoverci dalla nostra patria. Se vogliono, loro stessi possono andarsene. Coloro che sono stranieri in questa terra non hanno diritto ad essa. Quindi diciamo loro: ogni pietra che avete [ usato] per costruire sulla nostra terra, e ogni casa che avete costruito sulla nostra terra, è destinata a essere distrutta, se Dio vuole. Non importa quante case e quanti insediamenti dichiarano che [progettano di costruire] qua e là - essi saranno tutti distrutti, se vuole Allah. Andranno tutti nel cestino della storia. [Gli ebrei] saranno costretti a capire che questa terra appartiene al suo popolo. Questa terra appartiene al popolo che la abita. Appartiene ai Cananei, che vivevano qui 5.000 anni fa. Noi siamo i Cananei! Abbiamo detto loro: No agli incontri di Varsavia! No agli incontri di Manama! No a qualsiasi cosa inaccettabile per il popolo palestinese! [No a] Gerusalemme, come la chiamano … "unita"… [gli americani] hanno spostato la loro ambasciata … ma Gerusalemme è nostra, che piaccia o no." Entreremo a Gerusalemme come combattenti a milioni. Entreremo tutti, tutto il popolo palestinese e tutte le nazioni arabe, islamiche e cristiane! Tutti entreranno a Gerusalemme!
   "Non accettiamo che considerano i terroristi i nostri martiri: i martiri della patria! E non concorderemo sul fatto che deducano anche un solo un centesimo dal loro denaro . Tutti i loro soldi torneranno da loro - perché per noi i martiri, i feriti e i prigionieri sono i più santi. E quindi da mesi rifiutiamo le loro dichiarazioni sulla detrazione di questo denaro. O sarà pagato per intero - fino all'ultimo centesimo, - o non accetteremo soldi da loro. E diciamo loro che non c'è scampo dovranno pagarci i nostri soldi che lo vogliano o no. Non consentiremo una detrazione qui e una detrazione lì; non siamo inferiori a voi. O accettate di darci il [denaro] che è nostro per diritto o lo prenderemo con tutti i mezzi [cioè, con l'uso del terrorismo]. Allah Onnipotente ha detto rivolgendosi a noi: "O tu che hai creduto, persevera, resisti e rimani di stanza e temi ad Allah che tu possa avere successo" [Corano, Sura 3: 200]. In altre parole, ci riusciremo, se Dio vuole! Mi rivolgo alla nostra gente di Gaza e dico loro: basta! Basta con questa spaccatura! Chi beneficia di questa frattura? Va solo a beneficio del nemico; e la leadership di Hamas agisce per il nemico e non per la Palestina. Devono cambiare idea; cerchiamo unità - da oggi, da ieri e da 10 anni fa".

(Progetto Dreyfus, 25 agosto 2019)


I rapporti economici bilaterali tra Italia e Israele

 
ROMA - "Da sempre lo stato di Israele ha puntato sulla tecnologia, riuscendo ad affermarsi con successo. Negli ultimi cinque anni la sua crescita media annua è stata superiore al 3% e la sua economia è solida". Come sottolinea Domenico Letizia in un articolo pubblicato dal Think Tank "Imprese del Sud", "Nel 2018 il Pil ha fatto registrare un progresso del 3,3%, in lieve flessione rispetto al 3,5% del 2017 e al 4% del 2016.
   L'ultimo dato negativo risale al 2002 ed era comunque stato di lieve entità (-0,2%), mentre dal 2004 al 2011 lo sviluppo ha toccato quasi il 5% annuo. Il tasso di disoccupazione è molto basso, essendo arrivato quasi al 4%, così come resta contenuta l'inflazione, che si mantiene sotto il punto percentuale.
   Mostrano una grande solidità anche i conti pubblici: il debito è inferiore al 60% del prodotto interno lordo, un valore che fa fatica a rispettare anche la virtuosa Germania, che negli ultimi tempi mostra segni di crisi economica e politica.
   Recentemente, in occasione dei 71 anni dall'indipendenza dello stato di Israele, l'Ambasciatore Ofer Sachs, durante un ricevimento a Roma con gli amici di Israele, ha ricordato i rapporti politici, culturali e commerciali tra Israele e l'Italia.
   L'ambasciatore ha ribadito che lo scambio commerciale tra i due paesi quest'anno è stato di 4 milioni di dollari, grazie soprattutto all'agroalimentare.
   Nel 2017 le esportazioni sono aumentate del 3,5% a 41,2 miliardi di euro e le importazioni dell'8% a 55,3 miliardi di euro. I principali settori di esportazione sono stati i servizi finanziari e quelli legati alle tecnologie dell'informazione e comunicazione.
   L'Unione Europea rimane il primo partner commerciale, nonostante negli ultimi anni il trend degli scambi commerciali tra il Vecchio Continente e Israele sia stato altalenante.
   "In Israele ci sono 310 multinazionali che hanno aperto dei centri per la ricerca e per lo sviluppo", ha sottolineato recentemente durante una conferenza Ofer Sachs, "e tra queste ci sono Intesa Sanpaolo ed Enel, ma vorremmo vedere più aziende italiane nel nostro Paese. Israele e l'Italia collaborano in vari settori dall'economia al commercio. Dagli Anni Ottanta il nostro Stato è divenuto leader nella spesa sulla ricerca e l'innovazione e, infatti, oggi è considerato un hub in questo settore. Girando spesso l'Italia ho visto grandi opportunità di collaborazione ed è chiaro che non stiamo sfruttando abbastanza le potenzialità offerte dalla new economy. Per farlo bisogna individuare quali sono i settori in cui i due stati sono complementari, dando vita così ad una più stretta cooperazione. L'Italia si deve rendere conto che può diventare per Israele un ponte verso il mercato europeo".
   La collaborazione con l'industria italiana viene sempre più considerata dagli ambienti hi-tech israeliani come un naturale complemento nel passaggio dalla fase di ricerca e brevettazione a quella di realizzazione e commercializzazione dei prodotti finiti. Occorre ricordare infatti che il tessuto industriale israeliano non è molto articolato, con l'ovvia eccezione del settore della difesa.
   L'Italia è quindi vista come un valido partner nella fase di industrializzazione dei prodotti e delle tecnologie, grazie alla diversificazione, flessibilità ed estensione del nostro sistema industriale.
   Contestualmente negli ambienti imprenditoriali italiani è cresciuta la consapevolezza del rilievo assunto dall'high-tech israeliano e delle opportunità che offre.
   In questo quadro i rapporti economici bilaterali tra Italia ed Israele hanno visto affiancarsi al volume di scambi tradizionalmente cospicuo un flusso crescente di iniziative volte a stimolare la cooperazione scientifica, tecnologica e finanziaria tra i due Paesi. Si sono inoltre concretizzate le prospettive della collaborazione nel settore dello spazio cibernetico, un ambito che vede Israele all'avanguardia e rispetto al quale è essenziale posizionarci adesso per le sue implicazioni in campo economico e di sicurezza. Le nostre imprese e start up sono molto interessate alle ricadute concrete di tale collaborazione in settori quali la sicurezza delle reti infrastrutturali, a partire da quelle energetiche. Si tratta dunque di un tangibile esempio di azione istituzionale a favore della crescita del sistema Italia. Un paese dalla storia complessa e delicata ma che merita estrema attenzione e fiducia per le immense potenzialità che lo stato è riuscito ad elaborare.
   Elemento caratterizzante dell'economia israeliana è la quota di investimenti in ricerca e sviluppo, pari al 4,3% del Pil. Questo dato permette a Israele di essere il primo Paese al mondo per numero di start-up per abitante divenendo una "start-up nation" per eccellenza".

(aise, 25 agosto 2019)



In greco la Bibbia conquistò il mondo

Nel III secolo a.C. ad Alessandria d'Egitto 72 saggi tradussero per la prima volta il testo biblico in una lingua diversa dall'ebraico: così la versione dei Settanta rese universali le Scritture. Completata la nuova traduzione italiana della "Septuaginta" pubblicata da Morcelliana. Fu progettata quindici anni fa dal filologo e storico Paolo Sacchi


di Massimo Giuliani

Vige nella tradizione ebraica l'usanza del siyum: quando si finisce di studiare un intero trattato del Talmud si fa una festa. Lo stesso quando si porta a compimento un'opera importante, che ha richiesto tempo e molte energie. Dovremmo fare ora un bel siyum perché abbiamo tra le mani l'ultimo volume della versione italiana, con greco a fronte (testo fissato da Alfred Rahlfs nel 1935), della Septuaginta, nome tecnico con cui è conosciutala prima traduzione della Bibbia dall' ebraico in greco. Fu compiuta nel III secolo avanti Cristo, da ebrei che vivano in Alessandria d'Egitto allora sotto il dominio della dinastia ellenizzata dei Tolomei, in controllo anche della terra di Israele e di Gerusalemme. L'intera opera in quattro volumi (circa cinquemila pagine) è interamente edita dalla Morcelliana di Brescia. Venne progettata quindici anni fa dal filologo e storico Paolo Sacchi, dell'università di Torino, e il primo volume ossia il Pentateuco (la Torà vera e propria) vide la luce nell' estate del 2012. Seguono nel progetto i due tomi dei Libri storici, poi il volume dei Libri poetici (più noti come Sapienziali), e in questi mesi l'ultimo, forse il più difficile da tradurre, il volume dei Profeti. In quest'impresa di enorme valore culturale e religioso si è cimentato il meglio dei nostri studiosi italiani (grecisti, semitisti e storici del Vicino Oriente antico): da Sacchi a Paolo Lucca, da Corrado Martone a Luca Mazzinghi, da Pier Giorgio Borbone a Liliana Rosso Ubigli, da Piero Capelli ad Anna Passoni Dell'Acqua, e con loro un gruppo di giovani talenti che hanno non solo tradotto ma anche controllato, annotato e commentato ogni minimo dettaglio di questa Bibbia in greco senza la quale, il giudizio è puramente storico, il cristianesimo non sarebbe mai nato.
  Nella sua introduzione generale (che ogni lettore non devozionale della Bibbia dovrebbe conoscere) Paolo Sacchi si chiede che senso abbia oggi questa "traduzione di una traduzione" e perché cimentarsi con il greco, visto che ormai da tempo, si potrebbe dire dall'epoca di Girolamo, le traduzioni dell'Antico Testamento (più propriamente detto Tanakh) tendono a essere fatte a partire dall'originale ebraico. Delle molte risposte possibili, lo studioso torinese sceglie quella forse meno intuitiva ma più profonda: la Septuaginta non è solo una "traduzione" della Bibbia ebraica, ne è già una prima «interpretazione» (così la definisce nel I secolo Filone Alessandrino, il filosofo ebreo che tentò di coniugare gli insegnamenti e le leggi di Mosè con la metafisica di Platone). Attraverso questa traduzione il tesoro della rivelazione custodito dal testo ebraico si aprì e fu reso accessibile per la prima volta in un'altra lingua, destinata a diventare universale, almeno nella sfera occidentale del mondo: la lingua colta della poesia omerica, della filosofia e della scienza. Non fu un passaggio scontato. L'ebraico era considerato lingua sacra, dunque intoccabile, e l'esigente monoteismo etico che la Torà di Israele veicolava non sembrava affatto traducibile nella lingua degli dèi olimpici e dei sofisti ateniesi. Per legittimare questa traduzione, agli occhi degli stessi ebrei della diaspora, occorreva avvolgerla in un "miracolo". E tale fu considerato l'evento straordinario, narrato dalla Lettera di Aristea (scritto anonimo del II secolo a.C.) e poi dallo stesso Filone, che spiega il nome di questa traduzione, Septuaginta appunto la Settanta, e come essa sia stata "ispirata" da Dio stesso e dunque non inferiore al testo ebraico.
  Narra la storia che il re Tolomeo di Alessandria volesse una traduzione delle leggi sacre agli ebrei per la sua grande e (poi) proverbiale biblioteca e che ne commissionasse una copia tramite il direttore Demetrio direttamente al sommo sacerdote del Tempio di Gerusalemme. Questi gliela mandò, ma insieme a ben settantadue saggi traduttori, sei per ognuna delle dodici tribù di Israele, i quali, rinchiusisi nell'isolotto di Faro, produssero la famosa traduzione in una versione fedele ossia, come credeva con certezza Filone, perfettamente corrispondente all' originale ebraico. Una variante della storia (del mito) vuole che ognuno traducesse per conto proprio e che alla fine tutte le settantadue versioni concordassero nei dettagli. Ecco come il "miracolo" sancì il valore religioso della traduzione. E poiché settanta era il mitico numero ebraico dei popoli e delle lingue della terra, il testo venne subito rinominato semplicemente la Settanta. Questo testo divenne così d'uso comune tra gli ebrei ellenizzati che poco e nulla sapevano ancora di ebraico; in questa veste greca circolava nelle sinagoghe della diaspora mediterranea, cui si rivolse all'inizio la predicazione di Paolo di Tarso; questa è la Bibbia che, uscendo dal mondo ebraico, raggiunse e conquistò i non ebrei alla causa del Dio di Israele.
  Certo, filologicamente e storicamente questi passaggi sono stati più complessi, assai meno lineari di quanto si dica, e i traduttori-commentatori della nuova versione in italiano non mancano di puntualizzarli. Le domande abbondano: esiste davvero concordanza tra ebraico e greco? Su quale sefer ovvero rotolo ebraico venne fatta quella prima trasposizione in greco? In quanti decenni (e dove) venne completata la traduzione del Tanakh? Davvero esisteva un solo "testo originale" da tradurre o invece ne circolavano diversi e niente affatto concordanti? Perché, se la Settanta era considerata una versione ispirata da Dio, alla fine del IV secolo Girolamo (e con lui papa Damaso) vollero una traduzione in latino, la Vulgata, fatta di nuovo consultando l'ebraico? Se solo in parte abbiamo risposte soddisfacenti a queste domande, resta il fatto che la storia della Bibbia comincia, almeno fuori da Israele, con l'avventura di questa affascinante traduzione. Essa spiega tra l'altro la discrepanza tra i libri del Tanakh, ossia il canone della Bibbia ebraica (chiuso nel I secolo d.C. circa) e i libri dei diversi canoni della Bibbie cristiane: copta, greco-orientale, latino-cattolica, protestante. E ciò a dispetto del fatto che tale Bibbia greca fosse usata anche dagli ebrei nella terra di Israele, ad esempio nella scuola di Jochanan ben Zakkaj, il più autorevole "fariseo" (nel senso più positivo del termine) che a Yavne aprì una scuola di Torà fondando il giudaismo rabbinico come lo conosciamo ancora oggi.
  Come ha spiegato a suo tempo Francesca Calabi, esperta di giudaismo ellenistico, «solo nel II secolo la Settanta venne abbandonata dal mondo ebraico sulla base di molti dubbi circa la fedeltà all'originale». Inoltre in greco molte espressioni erano state adattate a una diversa sensibilità culturale e snaturate rispetto all'ebraico e molti antropomorfismi erano stati interpretati o meglio rimossi (ad esempio «camminare con Dio» era divenuto un «compiacere Dio»; l'attributo divino «uomo di guerra» fu reso addirittura con «colui che distrugge le guerre»; l'ordine dei dieci comandamenti era stato modificato; quello dei profeti pure, e via elencando). Dal II secolo fu chiaro che la "setta" dei giudeocristiani usava la Settanta come unico testo di riferimento e da quel momento i maestri di Israele la rifiutarono. Si fecero allora nuove traduzioni in greco del Tanakh, più fedeli all'ebraico, ma ormai la Settanta era già divenuta fuori da Israele semplicemente "la Bibbia'', con la sua diversa ripartizione dei libri, con le aggiunte e con tutte quelle modiche (si pensi alla «giovane donna» trasformata in «vergine» in Isaia 7,14) che serviranno da legittimazione teologica al Nuovo Testamento. Ecco perché conoscere la Settanta è fondamentale per capire la storia della cultura occidentale.

(Avvenire, 25 agosto 2019)


La seconda guerra mondiale doveva scoppiare cinque giorni prima

Il primo settembre si ricordano gli 80 anni dall'invasione della Polonia. Hitler aveva pianificato l'attacco per il 26 agosto, ma all'improvviso congelò tutto alla ricerca di un accordo con Italia, Francia e Inghilterra.

La data era stata scelta per assicurarsi condizioni meteo favorevoli Il 17 colpì anche l'Armata rossa. Il 28 Varsavia fini per capitolare

di Marco Patricelli

Il primo settembre 1939, alle 4.45, la cannonata sparata a Danzica dalla vecchia corazzata tedesca Schleswig-Holstein contro le fortificazioni polacche di Westerplatte scandiva l'inizio della seconda guerra mondiale, il cui ottantesimo anniversario sarà ricordato tra qualche giorno. Il conflitto, che costerà 60 milioni di morti, crimini, tragedie e devastazioni senza precedenti, in realtà sarebbe dovuto scoppiare il 26 agosto. Era questa la data scelta da Adolf Hitler per l'attacco alla Polonia, d'intesa con i generali dell'Oberkommando der Wehrmacht, per avere il quadro meteo più favorevole alle truppe corazzate. A sciogliere definitivamente le mani al Führer era stata la stipula il 23 agosto del Patto Ribbentrop-Molotov, formalmente un trattato di non aggressione, ma nella sostanza un trattato di alleanza e di spartizione di una fetta d'Europa, da lui fortemente voluto per staccare l'Urss di Iosif Stalin da una coalizione anti tedesca ed evitare l'incubo di una guerra su due fronti. Quell'accordo tra inconciliabili aveva sparigliato le carte sui tavoli delle diplomazie europee e portato alla fase esecutiva il Fall Weiss (Caso Bianco), ovvero l'aggressione alla Polonia contro cui la propaganda nazista stava vomitando ogni sorta di accusa per giustificare le ostilità. Stalin aveva lucidamente scelto l'alleanza con il Reich invece che con Francia e Gran Bretagna, perché gli assicurava non solo di non essere coinvolto in un conflitto, ma anche un ricco bottino: metà Polonia, gli Stati Baltici (dapprima due, poi tutti e tre con il secondo Patto Ribbentrop-Molotov che ridisegnerà le sfere di influenza), la Bessarabia. Il suo discorso del 19 agosto al Politburo con cui informa di aver deciso di firmare l'accordo con Hitler è un capolavoro di cinismo, e passa disinvoltamente sopra alle ideologie contrapposte. I comunisti europei erano stati spiazzati da quel pactum sceleris, la cui portata è talmente ampia che per decenni i sovietici negheranno l'esistenza del protocollo segreto di spartizione (al processo di Norimberga sosterranno che il microfilm tedesco è un falso) e creeranno una falsa versione dei fatti abbondantemente ripresa dalla storiografia marxista e ancora oggi sostenuta da frange della sinistra che esaltano il genio politico di Stalin e accusano la Polonia di essere stata responsabile di quanto accaduto e non vittima di un disegno diabolico che le costerà 6 milioni di morti: un abitante su sei.
  La data di attacco era stata dunque fissata per l'alba del 26 agosto e il 25 mattina l'ordine alle unità ammassate lungo la frontiera era stato diramato. Hitler aveva avvisato Benito Mussolini per sollecitargli, con un giro di parole, l'entrata in guerra al suo fianco come previsto dal Patto d'acciaio firmato il 22 maggio. Il 25 ogni sforzo della diplomazia tedesca è rivolto a isolare Varsavia da Londra e Parigi. Hermann Göring, numero due del Reich, in aperta rivalità col ministro degli esteri Joachim von Ribbentrop, lavorava per cercare un punto di intesa con la Gran Bretagna attraverso i buoni uffici dell'amico svedese Birger Dahlerus, con l'incarico di sfruttare le sue aderenze per creare un canale diplomatico parallelo». Anche Hitler ha interesse a tenere fuori l'impero britannico e lo stesso 25 agosto stila una proposta per il premier Neville Chamberlain e convoca l'ambasciatore Nevile Henderson per le 13.30; prima del diplomatico il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, comandante supremo della Wehrmacht, riceve l'ordine di sospendere fino alle ore 15 ogni preparativo per l'attacco alla Polonia in programma all'alba. Henderson si vede offrire un'alleanza tra Germania e Inghilterra come contropartita all'impegno inglese a far recuperare al Reich la città di Danzica e il Corridoio. La Germania si offre poi di garantire la frontiera polacca e persino a tutelare l'impero in ogni parte del mondo se la Gran Bretagna riconoscerà le pretese coloniali tedesche. Nonostante il convincimento di Hitler, Londra risponde che l'offerta sarebbe stata accettata solo previa soluzione pacifica delle controversie con la Polonia. Alle 15 arriva la notizia che sconvolge i suoi piani: il corrispondente del Deutsche Nachtrichten Bureau informa che è stato firmato il patto di mutua assistenza anglo polacco che scatterà in caso di aggressione tedesca. Dopo due minuti il Führer chiama Keitel e gli dice di riattivare i preparativi del Fall Weiss.
  Alle 17.30 convoca l'ambasciatore Robert Coulondre cui consegna una dichiarazione da trasmettere al presidente del consiglio Édouard Daladier nella quale si fa presente di non avere nulla contro la Francia, di aver definitivamente rinunciato ad Alsazia e Lorena, ma che le «provocazioni» della Polonia avevano creato una situazione intollerabile per il Reich. Coulondre fa osservare che Parigi avrebbe rispettato gli impegni assunti con Varsavia, con cui è alleata. Alle 18 l'ambasciatore italiano Bernardo Attolico porta la risposta di Mussolini: l'Italia non sarebbe entrata in guerra perché non in grado di partecipare a un conflitto prima del 1943, come esplicitato al momento della sottoscrizione del Patto d'acciaio. Hitler commenta acido: «Gli italiani si stanno comportando come nel 1914». Convoca per la terza volta Keitel e gli ordina di sospendere immediatamente l'ordine d'attacco, tra lo sconcerto dei generali dell'Okw; alle 20.35 il trafelato feldmaresciallo conferma la cessazione anche delle operazioni eventualmente già in atto. E' solo un rinvio.
  Il 29 agosto, su proposta del governo polacco, il presidente lgnacy Moicicki decreta la mobilitazione generale: lo stesso giorno in Germania si richiamano alle armi i riservisti delle classi 1906, 1907, 1910,1911 e 1913, entro il primo settembre. E' la data limite per avere campi asciutti e fiumi placidi o in secca su cui scatenare le panzer divisionen e sperimentare la Blitzkrieg. Alle 4.45 il Reich aggredisce la Polonia senza dichiarazione di guerra. Francia e Gran Bretagna il 3 settembre inviano un ultimatum al quale Berlino non risponde neppure. I polacchi combattono disperatamente aspettando un aiuto dal fronte occidentale che non arriverà mai, nonostante i trattati, le promesse e le assicurazioni. Il 17 settembre Stalin scatena l'Armata rossa e invade a sua volta la Polonia, che tracollerà il 28, per prendersi il bottino pattuito col Patto Ribbentrop-Molotov. La tragedia europea diventa mondiale.

(La Verità, 25 agosto 2019)



    «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi»

    In quel tempo Gesù prese a dire: «Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo.
    Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero».

    Dal Vangelo di Matteo, cap. 11


CONSIDERAZIONI SPARSE
"Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo."
Questo invito arriva adesso anche a noi, anche a te. Ma in quale posizione ti trovi? Sei un esperto in Dio? Hai il tuo Dio personale fatto su misura? Non hai bisogno di rivelazione?
O forse sei veramente affaticato e ti chiedi: che cosa ha da darmi Gesù?
E invece è innanzitutto Gesù che ti chiede: che cosa pensi di me?
Sei affaticato e oppresso, è un fatto, e non è strano, perché il peccato (che è un atteggiamento) pesa, schiaccia, schiavizza.
Venite a me perché sono io che vi darò riposo. E’ il mio giogo che dovete prendere; è da me, che dovete imparare perché io sono mansueto e umile di cuore.. e il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Quanto a voi, tre sono gli ordini: Venite a me; prendete il mio giogo; imparate da me.
Una è la promessa, ripetuta due volte: Io vi darò riposo.
Vieni a me non è una proposta commerciale, è un ordine! L’ordine di un medico che conosce la malattia e sa come guarirla. Si può scegliere di non ubbidire, ma non si possono scegliere le conseguenze.
E’ un ordine d’amore perché Gesù dice: io ti darò riposo. In che modo? Mi toglierai il peso? No, te ne darò un altro, ti darò il mio giogo.
In che cosa consiste il peso che mi schiaccia e mi sfinisce? Il male intorno a me, penso. No, dice Gesù: è il peso del tuo peccato, della tua lontananza da me.
Quello che ti pesa è la tua reazione al male, la tua rabbia di non poter essere Dio.”Se fossi Dio”, tutto si muoverebbe secondo la mia volontà, e io non soffrirei.
Io ti toglierò il peso infinito che ti schiaccia e tu non hai saputo subito individuare: il tuo peccato, che in sostanza è superbia e amore di sé. Questo peso te lo toglierò e ti darò il mio giogo. Qual è?
Te lo spiego con l’esempio: guarda me, impara da me, che sono mansueto e umile di cuore. Che significa? Sono atteggiamenti in relazione a Dio.
“I mansueti erediteranno la terra”. Il contrario del mansueto è il volitivo conquistatore, l’uomo con la forte volontà che vuole dominare le cose e le circostanze, che vuole prendere, afferrare. Il mansueto, consapevole della sua debolezza, riceve e ringrazia. Gesù ha ricevuto il Regno dalle mani del Padre.
L’umile di cuore accetta di avere Qualcuno sopra di lui. Gesù ha accettato la subordinazione al Padre.
Il riposo che Gesù promette non è una temporanea tregua, un prendere il fiato in attesa di ricominciare il duro lavoro. E’ la pregustazione del riposo stabile che si ha dopo che l’opera è stata compiuta. E’ un riposo eterno.
Se non sei ancora andato a Gesù, sappi che oggi Gesù ti dice: Vieni a me.
Se sei una volta andato a Gesù e poi ti sei allontanato da Lui, anche a te oggi Gesù dice: Vieni a me.
L’accento è su a me. E’ a me che devi venire, non ad altri.
M.C.

 


Bomba di Hamas contro famiglia di ebrei: uccisa ragazza di 17 anni

di Giordano Stabile

Una bomba lanciata contro una famiglia in gita all'inizio dello shabbat. Una diciassettenne dilaniata e uccisa davanti agli occhi del padre e del fratello, feriti gravemente. E' l'ultimo attacco contro un insediamento ebraico in Cisgiordania, in una escalation che nelle ultime due settimane ha visto accoltellamenti, un recluta diciannovenne uccisa, auto lanciate alle fermate degli autobus. Ma l'attacco di ieri è ben più grave: per l'arma usata, un ordigno rudimentale realizzato in casa con lo scopo di far più vittime possibile; e per la morte di una ragazza ancora minorenne, impegnata nel sociale e conosciuta da tutta la sua comunità. Rina Schnerb viveva a Dolev, un insediamento che si trova 17 chilometri a Nord-Ovest di Gerusalemme, di 10400 abitanti. Assieme al padre Eytan, 46 anni, e al fratello ventunenne, era andata a rilassarsi in un parco attorno a una sorgente naturale, molto popolare e affollato. All'improvviso una forte esplosione ha investito tutti e tre. Rina è stata colpita in pieno, dilaniata. Il fratello è rimasto a terra, il padre, anche lui ferito, ha cercato di salvarli in tutti i modi. Ma per Rina non c'è stato nulla da fare. Quando è arrivata l'ambulanza era già morta. I testimoni parlano di una scena "terrificante". Il padre' dall'ospedale, ha detto di non cercare vendetta. Rabbino, con il figlio, era conosciuto per la sua organizzazione che aiutava i più bisognosi, anche arabi, e dove lavorava anche Rina nel tempo libero da scuola.

 Caccia all'uomo
  Gli investigatori sono concentrati sulla bomba che, anche se artigianale, era molto potente. Non è chiaro se è stata lanciata da un'auto in corsa o fatta esplodere a distanza. In ogni caso agenti ed elicotteri ricercano un giovane. E' stato visto allontanarsi su una vettura bianca. Potrebbe colpire ancora e per questo ieri i militari hanno ordinato agli abitanti dell'insediamento di rimanere nelle case.
I servizi sono però convinti che non sia l'unico responsabile. Dietro l'attacco c'è una cellula di Hamas, che comprende anche un artificiere.
È il primo attentato di questo tipo da quando nell'ottobre del 2015 è cominciata la cosiddetta "Intifada dei coltelli". Questo segna un salto di qualità. Il leader Yahya Sinwar ha elogiato l'atto «eroico», che dimostrerebbe come Gerusalemme stia «per esplodere». Mentre parlava tremila palestinesi manifestavano al confine della Striscia di Gaza e cercavano di forzare la barriera, nove venivano feriti dal fuoco israeliano.

(La Stampa, 24 agosto 2019)


*


I palestinesi ammazzano una ragazza ebrea

Stava facendo trekking con papà e fratello, feriti

di Angelo Zinetti

Il leader di Hamas, Ismail Haniya, ha salutato con favore l'attentato con un ordigno esplosivo, che ieri in Cisgiordania ha ucciso una 17enne israeliana e ferito il padre e il fratello, ma non ha rivendicato la responsabilità. Lo riporta France 24. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito l'accaduto «un grave attacco» e ha inviato le condoglianze alla famiglia, promettendo di continuare con gli insediamenti.
   Secondo il quotidiano Haaretz, la ragazza, Rina Shinrav, stava facendo trekking con il papà di 46 anni e il fratello di 21 a Ein Bubin, nota meta di escursioni in Cisgiordania, quando c'è stata un' esplosione; i due uomini sono rimasti feriti ma non sono in pericolo di vita. Secondo il comunicato diffuso dall' esercito, non è chiaro se la carica esplosiva fosse nascosta nel luogo dell' attentato o se sia stata gettata contro la famiglia. I militari hanno escluso che l'esplosivo sia stato lanciata da un veicolo in movimento e ha confermato che l'ordigno è stato fabbricato in casa.
   Cresce ancora la tensione anche lungo la Striscia di Gaza dopo che un palestinese, ha lanciato granate contro i soldati israeliani mentre tentava di attraversare il confine dell'enclave. Le forze di sicurezza israeliana ha risposto al fuoco, causando il ferimento dell'uomo, ricoverato in ospedale. Lo confermano sia una nota dell'esercito israeliano che il ministero della Salute di Gaza. Si tratta dell'ultimo di una serie di incidenti violenti lungo il confine di Gaza in vista delle elezioni generali israeliane del 17 settembre. L'esercito ha affermato che i palestinesi hanno tentato di attraversare le barriere di confine nella Striscia di Gaza settentrionale e hanno diffuso un video in cui si vede l'uomo lanciare granate contro i soldati. «Le truppe hanno affrontato il terrorista, colpendolo dopo aver attraversato la barriera di sicurezza», ha affermato una dichiarazione dell'esercito, senza fornire ulteriori dettagli. Da parte sua il ministero della Salute di Gaza riferisce che i soldati gli hanno sparato. A detta degli analisti, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta cercando di evitare un' escalation a Gaza in vista delle elezioni.
   Di contro, i miliziani di Gaza spererebbero di spingerlo a ulteriori concessioni all'insegna di accordo di tregua. La scorsa settimana da Gaza sono stati lanciati sei missili contro Israele, l'ultimo dei quali mercoledì. Per rappresaglia, l'esercito ha colpito «una serie di obiettivi militari in una struttura di Hamas nella Striscia di Gaza settentrionale».

(Libero, 24 agosto 2019)


Israele sblocca i fondi in Cisgiordania

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) pagherà ai suoi 160.000 dipendenti il 60 per cento del loro stipendio di agosto, più il 50 per cento degli arretrati defalcati dai compensi a partire dallo scorso febbraio. Lo ha annunciato il primo ministro dell'Anp, Mohammad Shtayyeh, citato dall'agenzia di stampa palestinese Wafa. La decisione è arrivata dopo che il Governo israeliano ha sbloccato un trasferimento di due miliardi di shekel (circa 512 milioni di euro) all'Anp, nel tentativo di contribuire a mitigare la crisi finanziaria che affligge l'amministrazione in Cisgiordania.
   Dall'inizio del 2019, la pubblica amministrazione di Ramallah sta affrontando una grave crisi finanziaria, causata dal taglio di milioni di dollari da parte di Israele dai fondi fiscali dell'Anp. Lo Stato ebraico, infatti, ha iniziato a detrarre milioni di dollari dalle entrate fiscali che incassa per conto dell'Anp, spingendo quest'ultima a rifiutare anche le entrate rimanenti in segno di protesta. «Abbiamo raggiunto un'intesa con Israele a proposito della tassa sul carburante - ha aggiunto Shtayyeh - e ciò significa che inizieremo a importare carburante senza questa imposizione fiscale».
   E in vista delle elezioni legislative del prossimo 17 settembre in Israele, il presidente della Lista Araba Unita, Ayman Odeh, si è detto disponibile - «a certe condizioni» - a fare parte di una coalizione di Governo di centro sinistra guidata da Benny Gantz, di Blu-Bianco. Secondo gli analisti politici, l'apertura di Odeh rappresenta una svolta nella politica storica dei partiti arabi israeliani, da sempre contrari a coalizioni con altre rappresentanze politiche.

(L'Osservatore Romano, 24 agosto 2019)


Ora Israele rinuncia al principio dell'ambiguità strategica e bombarda l'Iraq "da dentro l'Iraq"

In Iraq le milizie filo Iran accusano gli americani: ''Israele usa le vostre basi per bombardare le nostre"

di Daniele Raineri

ROMA - Due fonti del governo americano confermano al New York Times che Israele bombarda basi delle milizie sciite dentro l'Iraq. A dispetto del fatto che tutti davano già per scontato che fosse proprio Israele il misterioso esecutore dei bombardamenti cominciati il 19 luglio, questa conferma è molto interessante per almeno due motivi. Il primo è che nel testo della conferma si legge che l'attacco di esordio - poi ne sono seguiti altri tre, uno persino nella capitale Baghdad - è stato compiuto "a partire da dentro 1'Iraq". Ora, le milizie sciite hanno accusato gli americani di avere fatto entrare in Iraq quattro droni israeliani che erano stati prima spostati in Azerbaijan (l'Azerbaijan ha rapporti militari e commerciali con Israele). Sono stati quei droni, dicono, a bombardare le nostre le basi. Poi le milizie hanno accusato gli israeliani di avere usato per i bombardamenti alcuni loro aerei decollati dalla base di Ayn al Asad, l'enorme aeroporto militare controllato dagli americani nella zona di Anbar, nell'ovest dell'Iraq. E' la stessa base che il presidente americano, Donald Trump visitò a Natale 2018 e undici anni prima era stata lo sfondo per un incontro tra l'allora presidente George W. Bush e le milizie irachene (quelle erano sunnite però) che in quel periodo combattevano contro lo Stato islamico in Iraq. E' un luogo chiave della presenza americana in Iraq e prestarlo agli israeliani suonerebbe come una provocazione.
   E infatti si tratta di accuse poco credibili che arrivano dalle stesse milizie che hanno tutto l'interesse a provocare un incidente diplomatico con gli americani e a farli uscire dal paese. Se questa è la situazione, cosa vuoi dire allora quel passaggio: "Dall'interno del paese"? Gli israeliani sono forse decollati da qualche pista nel Kurdistan iracheno, dove il controllo del governo centrale è minore? E perché lo hanno fatto soltanto per il primo dei quattro attacchi? C'è da tenere presente che gli israeliani hanno i bombardieri F -35, che sono invisibili ai radar iracheni e quindi non ci sarebbe bisogno di questa complicazione. Intanto il governo iracheno ha vietato qualsiasi volo della Coalizione internazionale se prima non c'è una sua autorizzazione, nella speranza di riuscire così a isolare eventuali movimenti sospetti dentro lo spazio aereo.
   La seconda cosa interessante è che Israele sta rinunciando al concetto dell'ambiguità strategica. Da sempre Israele compie operazioni militari all'estero se le considera necessarie alla sicurezza nazionale ma quasi sempre non le rivendica per non sovraeccitare la situazione politica nel quadrante mediorientale, già molto difficile. E' l'ambiguità strategica: si sa che sono stati gli israeliani ma loro non confermano e quindi i governi colpiti possono ignorare i fatti. Giovedì però il premier israeliano Benjamin Netanyahu durante un'intervista alla tv Channel 9 ha risposto che "l'Iran non gode di immunità in nessun luogo del mondo" e che "faremo, anzi stiamo già facendo, tutto quanto è in nostro potere" per smontare il piano di aggressione da parte dell'Iran. La domanda era sui bombardamenti non rivendicati in Iraq. Netanyahu in pratica ha risposto: siamo stati noi.
   Gli attacchi israeliani hanno colpito alcuni depositi militari nella fascia centrale dell'Iraq che le milizie sciite usano per trasferire missili iraniani dall'Iran alla Siria, in grossi container che si muovono via terra da est a ovest. Quando saranno in Siria i missili potranno essere usati per colpire il territorio israeliano e se il loro numero sarà sufficiente potrebbero saturare e bucare le difese missilistiche israeliane, che proteggono il paese da nord a sud come un ombrello gigantesco ma non sono in grado di intercettare un numero infinito di lanci. I missili trasferiti via terra attraverso l'Iraq hanno una gittata di circa duecento chilometri e questo vuoi dire che se fossero lanciati dalla zona del Golan potrebbero raggiungere Tel Aviv.

(Il Foglio, 24 agosto 2019)


Tutte le (nuove) vulnerabilità di WhatsApp

Uno studio condotto dalla israeliana Check Point Software Technologies ha dipinto scenari allarmanti circa la possibilità che il software di messaggistica più popolare si trasformi in potenziale veicolo di vere e proprie fake news e vere e proprie truffe online.


di Carlo Terzano

Non è la prima volta che WhatsApp finisce al centro della scena per falle di sistema più o meno gravi. Uno studio condotto dalla israeliana Check Point Software Technologies Ltd, azienda produttrice di dispositivi di rete e software, specializzata in prodotti relativi alla sicurezza quali firewall e VPN, ha dipinto scenari allarmanti circa la possibilità che il software di messaggistica più popolare si trasformi in potenziale veicolo di vere e proprie fake news e vere e proprie truffe online. Aggirarne le barriere di sicurezza, infatti, sarebbe relativamente semplice, di contro la limitata architettura del software non consentirebbe altrettanto semplicemente di blindare gli accessi agli hacker. Ma andiamo con ordine.

 Cosa dice lo studio su WhatsApp
  Sono almeno tre le vulnerabilità di WhatsApp individuate dagli esperti del noto antivirus Zone Alarm e notificate al colosso di Mark Zuckerberg. Una, da quanto si apprende, sarebbe stata risolta. La più preoccupante è invece più recente, introdotta attraverso la nota funzionalità "citazione". Questa feature che, normalmente, in una conversazione di gruppo permette di fare chiarezza e aiutare i destinatari a comprendere a quale messaggio si stia rispondendo, consentirebbe ai più esperti di cambiare l'identità del mittente e di modificare il testo del proprio interlocutore con frasi mai scritte.

 Perche' è una falla pericolosa
  Un video permette di comprendere meglio come sia possibile intervenire su di una citazione distorcendola a proprio favore. E se l'esempio riportato non sembra essere in grado di fare scorgere la pericolosità di una simile falla, lascia comunque la porta aperta a eventuali truffe online e anche alla propagazione di vere e proprie fake news veicolate con intelligenza. Inoltre, assesta un colpo alla attendibilità di WhatsApp come eventuale fonte di prova nei giudizi. Pensiamo per esempio a casi di ingiuria dove la prova della stessa è costituita proprio da un messaggino insultante. O, ancora, a cause di separazioni e divorzi giudiziali costruiti sulla presunta infedeltà del coniuge che viene testimoniata da messaggi via cellulare.

 La replica di Facebook
  Da parte sua, però, Mr. Facebook non ci sta a rubricare questo bug come una falla di sistema. E pone sul piatto della bilancia un altro tema assai sentito: quello della privacy. In una nota, infatti, la società ha risposto: "Abbiamo rivisto il problema lo scorso anno ed è falso affermare che ci sia una vulnerabilità sulla sicurezza di WhatsApp. Lo scenario descritto è l'equivalente mobile dell'alterazione di un thread di email, per far sembrare che una persona abbia detto cose che nella realtà non ha però mai scritto. Dobbiamo ricordare che risolvere il problema esposto dai ricercatori significherebbe rendere WhatsApp meno privato, obbligandoci a salvare informazioni sull'origine dei messaggi".

 WhatsApp è sicuro?
  La sola certezza è che WhatsApp, come viene riportato dallo studio israeliano, conta al momento oltre 1,5 miliardi di utenti in oltre 180 Paesi. Si prevede che il numero di utenti di WhatsApp negli USA salirà a 25,6 milioni entro il 2021. L'utente medio controlla il software più di 23 volte al giorno. Via WhatsApp sorgono e tramontano migliaia di storie d'amore, progetti lavorativi, veri e propri contratti. Data l'essenzialità dello strumento, è doveroso auspicare che non si trasformi in veicolo di potenziali raggiri.

(StartMag, 24 agosto 2019)


Israele colpisce obiettivi dell'Iran in Iraq

Israele ha condotto ''diversi raid aerei negli ultimi giorni'' in Iraq

Israele ha condotto ''diversi raid aerei negli ultimi giorni'' in Iraq. Lo scrive il New York Times citando fonti americane autorevoli dopo che ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva accennato a un possibile coinvolgimento delle forze armate dello Stato ebraico negli attacchi contro obiettivi legati all'Iran in Iraq. Anche un alto funzionario dell'intelligence di un Paese del Medioriente, citato sempre dal New York Times, ha affermato che Israele era responsabile di un attacco condotto il 19 luglio a nord di Baghdad contro una base usata dai Guardiani della Rivoluzione iraniana (i Pasdaran) "per trasferire armi in Siria".
Il raid aereo, secondo lo stesso funzionario, ha distrutto missili con un raggio di 200 chilometri. Un alto funzionario americano citato dal New York Times ha sostenuto che Israele si "sta spingendo oltre i limiti" con i presunti attacchi in Iraq, rischiando di "far sì che i militari degli Stati Uniti lascino l'Iraq". Ieri anche il Washington Post aveva scritto di crescenti sospetti circa una responsabilità israeliana delle misteriose esplosioni nelle basi delle milizie sciite in Iraq.

(Affaritaliani.it, 23 agosto 2019)


Il problema non è capire se Israele attacca in Iraq ma se Baghdad copre l'Iran

Tutti sono concentrati sul problema sbagliato, cioè se Israele abbia o meno colpito obiettivi iraniani in Iraq invece che concentrarsi sul ruolo di Baghdad e capire se gli iracheni sono vittime o complici degli iraniani.

di Maurizia De Groot Vos

Negli ultimi giorni sulla stampa internazionale sono fiorite diverse ipotesi sui fantomatici "attacchi israeliani in Iraq", spesso mere speculazioni giornalistiche e "scoop" piuttosto fantasiosi.
   In realtà la stampa internazionale, come sempre succede quando si parla di Israele, tende a invertire i fattori o quanto meno a non vedere oltre la punta del naso e invece di chiedersi se Israele avesse o meno compiuto attacchi in Iraq avrebbe dovuto chiedersi se a Baghdad coprono, consapevolmente o meno, le trame iraniane.
   Perché il vero punto è proprio questo: a Baghdad sono consapevoli o meno che l'Iran, così come fa con la Siria e il Libano, sta usando il territorio iracheno per i propri progetti espansionistici e per la sua guerra contro Israele?
   Se non ne sono consapevoli è grave perché significa che il governo iracheno non ha nessun controllo su quello che accada nel suo territorio. Se invece ne sono consapevoli allora la questione assume una dimensione diversa e sotto certi aspetti più complessa perché significa che il Governo iracheno si rende complice delle torbide manovre iraniane.
   Ieri sera il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, rispondendo ad alcune domande sulla TV israeliana Channel 9, non ha esplicitamente confermato che Israele ha attaccato obiettivi iraniani in Iraq, ma ha ribadito che «Israele non concede l'immunità all'Iran da nessuna parte del mondo».
   «L'Iran è uno stato, un potere, che ha giurato di annientare Israele. Sta cercando di stabilire basi contro di noi ovunque. Nello stesso Iran, in Libano, in Siria, in Iraq, nello Yemen»
ha detto Netanyahu alla TV israeliana.
   E quando l'intervistatore ha chiesto al Premier se in altre parole Israele agisse anche in Iraq, Netanyahu ha risposto che «stiamo agendo in moltissimi teatri contro uno stato che cerca di annientarci. Ovviamente ho dato alle forze di sicurezza l'ordine e la libertà operativa di fare ciò che è necessario per interrompere queste trame da parte dell'Iran ovunque sia necessario».
   Non è una conferma palese che Israele sta agendo anche in Iraq ma sicuramente non è nemmeno una smentita.
   Netanyahu introduce però una questione non propriamente secondaria, quella dell'uso da parte dell'Iran di altre nazioni per le proprie trame. Ma soprattutto spinge a domandarsi se queste nazioni siano consapevoli o meno di quello che fanno e del rischio che corrono (e che fanno correre ai propri cittadini) lasciando che gli iraniani operino tranquillamente sui loro territori.
   È questa la vera domanda che ancora nessuno nella stampa internazionale si è fatto.
   Lasciamo stare per un attimo le fantasiose ricostruzioni circolate su diversi siti di informazione sui fantomatici attacchi israeliani in Iraq e concentriamoci su questo punto.
   Il Libano e la Siria sono perfettamente consapevoli di quello che stanno facendo gli Ayatollah sul loro territorio e quindi sanno che loro stessi diventano obiettivi legittimi. Ma a Baghdad lo sanno o no? Ne sono consapevoli e lasciano stare o in qualche modo subiscono loro stessi la prepotenza iraniana?
   Non è una differenza da niente perché nel primo caso l'Iraq diverrebbe per Israele un obiettivo legittimo, mentre nel secondo caso sarebbe vittima due volte.
   Insomma, tutti sono concentrati sul problema sbagliato, cioè se Israele abbia o meno colpito obiettivi iraniani in Iraq invece che concentrarsi sul ruolo di Baghdad e capire se gli iracheni sono vittime o complici degli iraniani.

(Rights Reporters, 23 agosto 2019)


Svolta in Israele, gli arabi pronti a entrare nel governo

L'alleanza
 
                           Ayman Odeh                                                       Benny Gantz
  Per la prima volta un esponente politico di spicco arabo israeliano si è detto disponibile, seppure a «certe condizioni», a far parte di una coalizione di governo di centrosinistra guidata da Benny Gantz. E questo ha creato una tempesta politica in Israele, anche nella parte araba, in vista del voto del 17 settembre. A lanciare il sasso, con una mossa che gli osservatori considerano storica, è stato Ayman Odeh, presidente della "Lista Araba Unita", in un'intervista a Nahum Barnea di Yedioth Ahronot. Seppur annunciata, a detta dello stesso Odeh, senza averne parlato prima con i partner della Lista, l'apertura non è per questo meno importante, visto che i partiti arabi sono da sempre contrari a coalizioni con altre rappresentanze politiche. E anche l'establishment israeliano non ha mai considerato, per molti e vari motivi della storia di Israele, una coalizione di governo con i partiti arabi, che pure rappresentano una minoranza di oltre un milione e mezzo di persone, poco propensa tuttavia alle urne.

Le condizioni
  «Se vedremo che ci sono direzioni comuni, allora potremmo considerare seriamente di unirci a loro». ha detto nell'intervista Odeh riferendosi alla coalizione di centrosinistra. Ora si tratta di vedere se le «condizioni» o le «direzioni comuni» si concretizzeranno. Tanto più che non si tratta di temi marginali. Secondo i media, Odeh, ha fatto richieste su programmazione urbana e welfare.

(Il Messaggero, 23 agosto 2019)


*


I partiti arabi aprono al governo con Benny Gantz. Ma è polemica

di Giordano Stabile

l leader di un partito arabo si dice pronto a entrare in governo guidato da Benny Gantz e scompagina le carte della politica israeliana. E' la prima apertura di questo tipo in settant'anni di vita dello Stato ebraico, ma soprattutto offre al leader del movimento centrista Kahol Lavan, Blu e Bianco, la possibilità, per quanto remota, di formare un governo senza Benjamin Netanyahu. Il tutto mentre il Paese corre verso le seconde elezioni anticipate in un anno, previste per il 17 settembre, dopo quelle tenute il 9 aprile.

 Elettori arabi divisi
  All'ultima tornata la partecipazione araba è stata bassissima, al 49 per cento. Gli arabi si sono presentati dopo molti anni divisi, con due partiti in competizione. E' stato il leader di Hadash, Ayman Odeh, a lanciare la bomba in un'intervista con il quotidiano Yedioth Ahronot, dove ha chiesto un governo a guida Gantz e a tutti i partiti arabi di unirsi in una maggioranza di centrosinistra. Una svolta clamorosa, tanto più che l'ex generale che sfida Netanyahu non è certo morbido nella questione palestinese. Ha guidato l'ultima operazione di terra a Gaza e critica il premier perché "debole" con Hamas.
  Odeh ha però posto le sue condizioni, soprattutto sociali perché il suo partito è di ispirazione socialista e marxista. Un grande piano per risolvere il problema della casa fra i cittadini arabi, più ospedali pubblici e diritti, e poi il rilancio dei negoziati per arrivare a uno Stato palestinese e il rigetto della legge "Stato-Nazione" voluta dal centrodestra.
  Le reazioni sono però state quasi tutte negative. I leader degli altri partiti arabi, a cominciare dal più nazionalista Balad, si sono dissociati. Il leader di Taal, Ahmad Tibi, ha parlato di «utopia che non esiste». E la provocazione rischia anche di far saltare la lista unica araba alle prossime elezioni. Ha respinto l'idea, a meno che Odeh non rompa con i «partiti odiatori di Israele», cioè Balad, il centrista Yair Lapid del partito Blu e Bianco. Possibilista invece il leader dei laburisti Amir Peretz.
  Il pallino è ora nella mani di Gantz. Il generale è premuto dal presidente Reuven Rivlin, che vorrebbe evitare a tutti i costi il voto anticipato. L'ipotesi di una grande coalizione è tramontata per l'incompatibilità tra due personalità come Gantz e Netanyahu. La grande coalizione di centrosinistra con dentro anche gli arabi dovrebbe coinvolgere anche centristi ora alleati del premier e forse partiti religiosi. Al momento sembra davvero un'utopia.

(La Stampa, 23 agosto 2019)


Archeologia - In Galilea trovata una chiesa bizantina

Il ritrovamento è avvenuto sulle rive del Lago di Tiberiade.

 
Pavimentazione a mosaico della chiesa di epoca bizantina di El-Araj
GERUSALEMME - Un recente scavo condotto in Galilea ha portato alla scoperta di una chiesa bizantina, che secondo alcune ipotesi, sorgerebbe sopra la casa degli apostoli Pietro e Andrea.
Mordechai Aviam, professore del Kinneret Academic College e direttore della missione archeologica, spiega che gli scavi confermano l'ipotesi che la cittadina di El-Araj corrisponderebbe al sito di Betsaida, il villaggio di pescatori dove nacquero Pietro e suo fratello Andrea secondo il Vangelo di Giovanni.
"La chiesa bizantina - aggiunge Aviam - è stata trovata vicino ai resti di un insediamento di epoca romana corrispondente alla posizione di Betsaida per come è descritta dallo storico ebreo-romano del I secolo e.v. Giuseppe Flavio".
"Finora - ha detto l'archeologo alla AFP - abbiamo scavato un po' meno di un terzo dell'edificio, ma è una chiesa e questo è certo La pianta è quella di una chiesa, le date sono bizantine, i pavimenti a mosaico sono tipici, così come il perimetro del coro. Tra Cafarnao e Kursi c'è un solo posto dove è stata descritta una chiesa dal visitatore nell'VIII secolo, ed è questa: l'abbiamo scoperta".
El-Araj, noto in ebraico come Beit Habeck, non è l'unico sito candidato come il luogo dove sorgeva l'enigmatica Betsaida, lo è anche E-Tell, in cui si scava dal 1987 e dove sono state rinvenute importanti fortificazioni del IX secolo, case di epoca romana con attrezzature da pesca e i resti di quello che potrebbe essere un tempio romano.
Aviam è comunque convinto che lui e il suo team internazionale stiano scavando nel posto giusto. Si tratta di un villaggio romano - afferma Aviam - "sono state ritrovate ceramiche, monete, anche vasi di pietra che sono tipici della vita ebraica del primo secolo". Secondo Aviam El-Araj è quindi un candidato molto migliore come Bethsaida di E-Tell e gli ultimi ritrovamenti ne sarebbero la prova.

(artemagazine, 23 agosto 2019)


Lo zampino saudita sull'11 settembre: i terroristi detenuti rompono il silenzio

Khalid Mohamed, mente dell'attentato, pronto a rivelare il ruolo di Riad se gli sarà risparmiata la vita. Un tribunale di New York dice sì al processo chiesto da sopravvissuti e parenti delle vittime.

Fausto Biloslavo

La «mente» dell'11 settembre, Khalid Sheik Mohammed, che ha pianificato l'attacco a New York, dopo averlo proposto a Osama bin Laden, potrebbe collaborare alla causa dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime per svelare il coinvolgimento dell'Arabia Saudita.
   In cambio della sua testimonianza il super terrorista pachistano di Al Qaeda vuole stringere un accordo per evitare la pena di morte.
   Diciotto anni dopo l'attentato, la causa collettiva contro i sauditi comincia a muovere i primi passi concreti, ma per le 2976 vittime dell'11 settembre non è ancora stata fatta giustizia. Dopo l'eliminazione di Bin Laden nel 2011, con un'operazione dei Navy Seals in Pakistan, i cinque responsabili dell'attacco detenuti a Guantanamo, compreso Mohammed, sono sotto processo di una corte militare, che entrerà nel vivo, forse, il prossimo anno.
   La mossa dello stratega dell'11 settembre per salvarsi la pelle è emersa a fine luglio nell'ambito di una mega causa avviata in un tribunale di Manhattan, a New York, contro l'Arabia Saudita. Nel 2017 ben 1500 feriti sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle e 850 parenti delle vittime hanno intentato la causa collettiva contro il regno saudita. Nel marzo dello scorso anno il giudice distrettuale, George Daniels, ha respinto il ricorso di Riad per archiviare il caso. Secondo il magistrato ci sono «basi ragionevoli» per portare avanti il processo chiedendo miliardi di dollari di risarcimento ai sauditi. Sopravvissuti e parenti delle vittime sono convinti che «l'Arabia Saudita ha fornito supporto materiale ad Al Qaeda per più di un decennio, fino all'11 settembre 2001». Non solo: il regno «era informato» che la rete del terrore di Bin Laden «intendeva utilizzare il suo appoggio per compiere attentati terroristici negli Stati Uniti». E ancora: «Al Qaeda non sarebbe stata in grado, senza l'aiuto saudita, di concepire, pianificare ed eseguire gli attacchi dell'11 settembre». Il «supporto materiale» sarebbe arrivato attraverso i sostanziosi contributi all'organizzazione terroristica di enti caritatevoli islamici controllati dallo stato. 15 dei 19 dirottatori kamikaze dell'11 settembre erano cittadini sauditi, come Bin Laden.
   Mohammed, la «mente» dell'attacco, aveva dichiarato nel 2007: «Sono responsabile dell'operazione 11 settembre dalla A alla Z». E aggiunto che era pronto ad affrontare la pena capitale «come un martire». Oltre dieci anni dopo trascorsi a Guantanamo sembra avere cambiato idea. Il suo avvocato ha spiegato che «il motore principale» del ripensamento è «la natura capitale dell'accusa», che prevede il patibolo. «In assenza di una potenziale condanna a morte sarebbe possibile una cooperazione molto più ampia», soprattutto sul coinvolgimento saudita nel complotto sempre negato dalla monarchia del Golfo.
   Nel 2016 il presidente Barack Obama aveva reso pubbliche, a parte alcuni omissis, 28 pagine secretate del voluminoso rapporto del Congresso sull'attacco all'America, che riguardavano l'Arabia Saudita. Non sono «state trovate prove che collegano il governo saudita o funzionari di alto livello a finanziamenti» diretti ai terroristi dell'11 settembre. Però la Commissione ha pure sottolineato «la probabilità» che Al Qaeda e l'attacco siano stati finanziati da enti caritatevoli sponsorizzati dal Riad.
   La corte di Manhattan ha autorizzato i legali della causa collettiva di esplorare i legami dei terroristi dell'11 settembre con due personaggi chiave legati al regno. Il caso più imbarazzante riguarda Fahad al-Thumairy, un diplomatico del consolato saudita di Los Angeles nel 2001 e allo stesso tempo «imam» della moschea Re Fahad di Culver City in California. Un luogo di culto noto per la linea estremista e frequentato dal personale del consolato saudita. Fra i fedeli, un anno prima dell'attacco agli Usa, c'erano anche Nawaq Alhamzi e Khalid al-Midhar, due dei futuri kamikaze, che sono precipitati con il volo American Airlines 77 sul Pentagono. L'Fbi ha scoperto che Al Thumairy aveva «immediatamente assegnato qualcuno per occuparsi» dei terroristi. Appena arrivati negli Usa non conoscevano l'inglese e dovevano fare pratica di volo. I due sono stati ospitati in un appartamento affittato dalla moschea dell'imam sospetto.
   Alhamzi e al-Midhar sono stati aiutati anche da Omar al-Bayoumi, sul libro paga di Ercan, una società legata al ministero della Difesa di Riad, probabilmente per tenere d'occhio i dissidenti della monarchia in California. La stessa società aveva collegamenti con Bin Laden. Al-Bayoumi li ha ospitati a casa sua a San Diego e poi affittato l'appartamento dove sono andati a vivere pagando la caparra. Secondo l'Fbi «può essere un funzionario dell'intelligence saudita».
   Un altro probabile operativo di Riad che ha aiutato i terroristi è Osama Bassnan. Un personaggio che parlava di Bin Laden «come se fosse Dio». Bassnan «e sua moglie hanno ricevuto appoggio finanziario dall'ambasciatore dell'Arabia Saudita a Washington (nel 2001 nda) e dalla sua consorte», si legge nelle 28 pagine desecretate sull'11 settembre. Ben 74mila dollari versati in un anno di bonifici mensili alla signora Bassnan per un servizio di baby sitter mai svolto realmente. Il diplomatico che staccava gli assegni era nientemeno che il principe Bandar bin Sultan, allora il saudita più potente negli Usa. Adesso l'Fbi dovrà declassificare tre gruppi di documenti, compresi degli interrogatori, conosciuti con il nome in codice «302», che potrebbero confermare le collusioni saudite.
   I legali della causa collettiva contro il regno puntano anche a fare deporre gli altri quattro terroristi detenuti a Guantanamo coinvolti nell'organizzazione dell'11 settembre. Tutti catturati in Pakistan, assieme a Mohammed, fra il 2002 e 2003. Il saudita Walid bin Attash comandava il campo paramilitare afghano dove sono stati addestrati due dei kamikaze dell'11 settembre. Ramzi bin al-Shibh, yemenita, ha organizzato la parte logistica dell'attacco. Ammar al-Baluchi, nipote di Mohammed, ha avuto un ruolo cruciale inviando 120mila dollari ai dirottatori e organizzando il loro corso di volo negli Stati Uniti. Un altro saudita, Mustafa Ahmad al-Hawsawi, si è occupato delle carte di credito, i contatti e gli abiti dei terroristi.
   I legali della causa collettiva hanno già raccolto le dichiarazioni di Zacarias Moussaoui che accusano agenti sauditi di avere «consapevolmente e direttamente» aiutato i dirottatori. Il ventesimo dirottatore, che non sarebbe riuscito a salire a bordo degli aerei, sta scontando una condanna all'ergastolo negli Usa. I sauditi lo bollano come «un criminale squilibrato» e non attendibile.
   Il paradosso è che 18 anni dopo siamo ancora lontani da una sentenza per i responsabili dell'11 settembre. Mohammed e gli altri quattro terroristi di Al Qaeda coinvolti sono alla sbarra a Guantanamo nel cosiddetto «Camp justice». Una corte prefabbricata creata vicino al centro di detenzione. Il tribunale militare presieduto dal colonnello W. Shane Cohen aveva aperto i battenti nel 2012, ma non è ancora entrato nel vivo del processo. La lentezza deriva dai caveat imposti dai militari e dai cavilli degli avvocati difensori. Per non parlare del braccio di ferro legale sugli anni passati dagli imputati nelle prigioni segrete della Cia in giro per il mondo subendo sistemi di interrogatori vicini alla tortura. Il processo dovrebbe entrare nella fase finale il prossimo anno e si auspica una sentenza nel 2021, vent'anni dopo l'attacco all'America.

(il Giornale, 23 agosto 2019)


Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele uscente

Nelle migliori foto di Umberto Pizzi

Con un messaggio su Twitter l'ambasciatore uscente d'Israele in Italia ha salutato collaboratori e cittadini che lo hanno accompagnato nel corso del suo mandato. "Cari amici, il mio mandato da #Ambasciatore di Israele volge al termine. Ringrazio tutti voi per l'affetto che mi avete dimostrato in questi anni. Faccio i miei migliori auguri al mio successore Dror Eydar. Vi invito a seguire il mio profilo privato. Ci vediamo in #Israele!", ha scritto.
"Ringrazio il presidente Mattarella - ha detto Dror Eydar, nuovo ambasciatore israeliano in Italia - e il governo italiano per aver confermato la mia nomina e spero di giustificare la fiducia che è stata riposta in me. E, naturalmente, ringrazio il primo ministro Benjamin Netanyahu, per aver creduto in me". Il suo incarico inizierà a settembre.
Ofer Sachs visto da Umberto Pizzi


(formiche, 22 agosto 2019)


Razzi sparati da Gaza contro Israele che risponde colpendo una base navale di Hamas

L'esercito israeliano ha bombardato alcuni siti di Hamas nella Striscia di Gaza in rappresaglia per alcuni razzi lanciati dall'enclave palestinese. Hamas aveva sparato due missili contro Israele nella notte, portando a sei il numero degli attacchi in meno di una settimana, secondo quanto riferisce la Difesa israeliana. In risposta, l'esercito dello Stato ebraico "ha colpito un certo numero di obiettivi militari di Hamas in installazioni navali nella Striscia di Gaza settentrionale", hanno dichiarato i militari senza elencare in dettaglio l'elenco di questi siti. Secondo una fonte di sicurezza palestinese, l'esercito israeliano"ha colpito un sito navale palestinese a ovest di Gaza, tre siti al centro della Striscia e uno a Khan Younis (a sud)".

(Shalom, 22 agosto 2019)


Astuzia e tenacia: così Daniel Bomberg stampò il Talmud, aggirando la censura

Il Papa gli impose di allegare all'opera un libello antigiudaico: che però non si vide mai

di Elena Loewenthal

 
Il Talmud babilonese di Daniel Bomberg, 43 volumi stampati a Venezia in tre edizioni tra 1519 e 1548
Quella del Talmud di Daniel Bomberg è una storia assai avvincente, piena di enigmi e colpi di scena: quasi una sofisticata pellicola in bianco e nero, tutta ambientata nella penombra di una antica tipografia. Daniel Bomberg nasce ad Anversa intorno al 1483, figlio di un ricco banchiere cristiano. Diventa mercante, uomo d'affari e antiquario, coltiva gli studi, impara l'ebraico: è naturale per lui approdare a Venezia, che all'inizio del XVI secolo è il centro mondiale tanto dei commerci quanto della neonata editoria. L'invenzione dei caratteri mobili, alla fine del Quattrocento, è stata una rivoluzione strabiliante: la riproduzione dei testi senza bisogno di una mano e di una penna ha cambiato non solo la cultura, ma il mondo intero.
   Prima di seguire il filo di questa storia vale la pena di gettare uno sguardo dentro la tipografia di Daniel Bomberg, per trovarsi di fronte una scena davvero unica: dotti ebrei ed ebraisti cristiani lavorano insieme al testo, dialogano, si confrontano a dispetto dell'aria che tira fuori. Proprio a Venezia nel 1516 viene infatti inaugurato il primo ghetto della storia.
   Fra il 1519 e il 1548 Bomberg produce con i suoi caratteri a piombo ben tre edizioni integrali dei 43 volumi del Talmud babilonese, la summa del pensiero d'Israele, l'immenso e disordinato commento alle parole del testo biblico che è il fondamento dell'ebraismo. Ma a quel tempo per stampare qualunque libro ci vuole
   una censura papale preventiva, come decretato dal papa Leone X nella sua bolla Inter sollicitudines, nel1515: a maggior ragione per quelli in ebraico, decisamente più in odore di sospetto, eresia, blasfemia. Eppure Daniel Bomberg riesce a produrre senza alcuna censura le sue tre edizioni complete del Talmud, in rapida successione.
   Come abbia fatto è rimasto un enigma sino a oggi quando, grazie alla recente scoperta in un archivio e a una puntuale ricostruzione filologica che molto deve anche al lavoro del compianto professor Shlomo Simonsohn, lo studioso Angelo Piattelli ha trovato il bandolo della matassa e seguito passo a passo il cammino di Daniel Bomberg e del suo Talmud.
   Al cuore della storia si trovano l'amicizia e il lungo sodalizio tra il tipografo e Felice da Prato, un ebreo convertito diventato frate agostiniano, coltissimo, di cui si sa poco o nulla. E soprattutto si trova un testo fantasma, di cui nulla si sa se non che Bomberg ottiene il cosiddetto «privilegio» papale per poter stampare il suo Talmud - a cui tiene moltissimo perché ne vede le potenzialità sul mercato - a patto di includervi anche un libello antigiudaico che avrebbe dovuto redigere Felice da Prato stesso.
   In che cosa dovesse consistere questo testo mai scritto non si sa: doveva essere un'invettiva da allegare in appendice ai volumi del Talmud? O una serie di glosse e note che additassero i contenuti «scabrosi», cioè blasfemi, del testo ebraico? Fatto sta che, presumibilmente per ragioni commerciali, i suoi potenziali clienti ebrei avrebbero avuto non poche esitazioni ad acquistare un corpus Talmudico, e a caro prezzo, con tali interpolazioni), Daniel Bomberg riesce con tanta diplomazia e un poco di inganno ad aggirare puntualmente i vincoli di censura, trovando sempre delle buone scuse per far uscire il «suo» Talmud senza quella appendice cui a rigore era condizionato il «privilegio» per poterlo stampare: prima Felice da Prato che tardava nella consegna del testo, poi il sacco di Roma con i suoi inconvenienti.
   Angelo Piattelli ha ricostruito questa storia partendo da una raccolta di documenti venuti alla luce in un archivio privato di Zurigo e prodotti dalla Curia romana nel 1553 per valutare l'opportunità di condannare il Talmud al rogo. Ai fini della discussione, il segretario della commissione andò a fondo della faccenda e copiò dagli archivi vaticani anche i sei privilegi ottenuti da Bomberg fra il1518 e il 1537, insieme a vari documenti e lettere che raccontano questa vicenda fatta di compromessi e di tenacia, di piccole e grandi manovre, ma anche e soprattutto di una strabiliante lungimiranza tanto commerciale quanto culturale.
   Il 9 settembre 1553 in Campo de' Fiori a Roma il Talmud andava a fuoco, proprio là dove mezzo secolo più tardi lo stesso destino toccherà a Giordano Bruno. Il Talmud di Daniel Bomberg, in compenso, con la sua storia straordinaria e a tratti rocambolesca, è ancora sugli scaffali di sinagoghe e librerie, ai quattro angoli del mondo.

(La Stampa, 22 agosto 2019)


Arrestati due arabo-israeliani accusati di legami con Stato islamico

GERUSALEMME - Due arabo-israeliani sono stati arrestati a Tamra, nel nord di Israele, con l'accusa di sostenere e assistere lo Stato islamico. Lo ha reso noto oggi lo Shin Bet, il servizio di intelligence interno. Si tratta di Amin Yassin, studente di medicina di 22 anni, e Ali al Aroush, 28 anni, già arrestati lo scorso luglio per reati connessi al terrorismo. I due sono accusati di contatti con agenti stranieri, addestramento finalizzato ad azioni terroristiche e cospirazione per possibili omicidi. Le indagini hanno rivelato che i due, oltre a sostenere l'Is, "si considerano inviati per creare uno Stato islamico in Israele" e "diffondono l'ideologia dell'Is per promuoverne gli obiettivi", fa sapere lo Shin Bet. Nel corso dell'indagine è emerso che i due avevano scaricato file da internet sui loro computer contenenti informazioni sull'addestramento, sui metodi per preparare armi e compiere attacchi terroristici.

(Agenzia Nova, 22 agosto 2019)


Tessuti hi-tech, l'israeliana Shalag acquista Texus

Con l'operazione in Italia il gruppo accelera l'espansione in Europa

di Silvia Pieraccini

«Siamo troppo piccoli per competere con i grandi gruppi internazionali». Claudio Giacometti, titolare della pistoiese Texsus, storico produttore di tessuto-non-tessuto per il mercato igienico-sanitario, spiega così l'operazione che si chiuderà tra poche settimane (per adesso è stato firmato l'accordo preliminare): la cessione del 100% dell'azienda più di 60 milioni di ricavi previsti quest'anno (+15%) con un margine operativo lordo del 12-13% e 170 addetti - al gruppo israeliano Shalag Nonwoven, sede a Kibbutz Shamir e fabbriche, oltre che in Medio Oriente, a Oxford in North Carolina. Il valore dell'operazione non è stato reso noto.
   Con l'acquisizione gli stabilimenti del gruppo Shalag - quotato alla Borsa di Tel Aviv - diventeranno tre in tre continenti, con quello pistoiese, situato nel comune di Chiesina Uzzanese, a fare da "trampolino" per l'espansione in Europa dove l'azienda israeliana (ben posizionata in Medio Oriente, Nord e Sud America e Est Europa) oggi è debole.
   «E invece noi abbiamo il 35% del mercato europeo del tessuto non-tessuto prodotto con la tecnologia air through bonded» sottolinea Giacometti che, appena conclusa la vendita, lascerà Texsus per dedicarsi alle altre sue attività imprenditoriali (produzione di carta e alberghiero).
   La tecnologia su cui Texsus ha investito negli anni, e che ha attirato l'attenzione degli israeliani fino a oggi concorrenti dell'azienda pistoiese, è quella che "blocca" le fibre tessili attraverso l'aria ad alta temperatura (una sorta di termofissaggio), utilizzata in particolare nei pannolini per bambini e per incontinenti e negli assorbenti da donna prodotti dalle multinazionali. Proprio il fatto di avere come clienti questi colossi del settore igienico-sanitario richiede, secondo Giacometti, dimensioni e forza non raggiungibili con un'azienda familiare.
   Texsus negli ultimi tre anni è cresciuta a doppia cifra, passando dai 46,1 milioni di ricavi 2017 (con 1,7 milioni di utile netto) a più di 52 milioni l'anno scorso (con 3 milioni di utile netto), a oltre 60 milioni attesi quest'anno.
   Il gruppo Shalag nel 2018 ha fatturato circa 105 milioni di euro, con un utile di quasi 13 milioni di euro. Con questa acquisizione diventerà il primo produttore al mondo di tessuto-nontessuto con la tecnologia airthrough bonded, raggiungendo una capacità produttiva di 60mila tonnellate all'anno. «Apprezziamo la reputazione che ha Texsus sul mercato - ha affermato Ilan Pickman, amministratore delegato di Shalag - e siamo convinti che le forti sinergie tra le due aziende consentiranno di fornire ai nostri clienti nel mondo i servizi migliori, aumentando l'innovazione e le capacità tecnologiche del gruppo».
   Texsus diventerà una filiale del gruppo Shalag e continuerà a essere guidata dal direttore Federico Michelotti e dal responsabile marketing Barbara Bulleri. Shalag ha annunciato l'intenzione di garantire la continuità aziendale mantenendo gli attuali livelli occupazionali.
   
(Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2019)


Trump agli ebrei americani: chi non vota per me è sleale

La dura risposta della comunità ebraica alla provocazione del presidente

La risposta alla ennesima provocazione del presidente americano è stata immediata e chiara, come racconta Huffington Post nell'articolo di Umberto De Giovannangeli.
La tesi sostenuta da Trump è questa: gli ebrei che non votano per lui e il suo partito dimostrano "ignoranza" e " slealtà". Diretta e senza equivoci la replica dell'American Jewish Committee: "Basta signor presidente. Gli ebrei americani - come tutti gli americani - hanno opinioni politiche. La tua valutazione della loro lealtà, basata sulle preferenze di partito, è divisiva, irrispettosa e non gradita. Per favore, fermati".
Altrettanto esplicita la posizione dell'Israel Policy Forum. "Sostenere che gli ebrei sono sleali per l'esercizio del diritto di voto è irresponsabile e pericoloso".
Queste le esatte parole del presidente degli Stati Uniti riportate dal New York Times: "If you want to vote Democrat, you are being very disloyal to Jewish people and very disloyal to Israel".

(JoiMag, 22 agosto 2019)


Milano - Una rete del cibo contro gli sprechi

Gli alimenti in eccesso raccolti da decine di gruppi di volontari in accordo con i negozi. L'alleanza di negozi e volontari per salvare il cibo dalla spazzatura.

La nuova mappa antispreco "lo non butto": in rete decine di gruppi che dirottano ai poveri le eccedenze alimentari Fra le prime sigle Beteavon, il ramo educativo del movimento ebraico Chabad Lubavitch

di Zita Dazzi

«Ghe n'è mingha de ruera». Il titolo del progetto è già un programma. Non si butta via niente, nella Milano che ha dichiarato guerra allo spreco alimentare anche creando un network di microreti tra aziende, negozi, botteghe e organizzazioni non profit che raccolgono e distribuiscono le eccedenze di giornata destinandole a chi ne ha bisogno.
   Il Ciessevi - Centro per il servizi al volontariato città metropolitana - ha avviato una mappatura (ancora in corso d'opera) di tutte le piccole realtà che si impegnano a recuperare le eccedenze e a regalarle ai poveri o a chi li aiuta. Non quindi chi, come il Banco Alimentare, ha grandi depositi per lo stoccaggio, ma le piccole associazioni e i singoli negozi, che si stanno mobilitando per contribuire all'obiettivo che anche il Comune di Milano ha fatto proprio con la Food Policy. «Cerchiamo di raccogliere esperienze e storie di cittadinanza attiva, virtuosa e solidale in un network di scambio di prassi e di apprendimenti reciproci nel solco dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell'Agenda Onu 2030», dice Ivan Nissoli, presidente Ciessevi Milano che coordina il progetto, realizzato con il Milan Center for food law and policy, Centro di documentazione e studio sulle norme e sulle politiche pubbliche in materia di nutrizione.
   Centinaia di volontari sono già in campo nella lotta allo spreco alimentare col progetto che è stato chiamato "lo non butto" ed è inserito fra le attività programmate da Palazzo Marino. Chi aderisce, si impegna a ritirare le eccedenze di giornata inutilizzate e a distribuirle al volo perché non finiscano nella spazzatura. Proprio per mettere in collegamento tutte queste piccole realtà Ciessevi ha deciso di avviare la mappatura delle microreti già attive nella Città metropolitana di Milano. Obiettivo, promuovere e sviluppare la creazione di nuove reti, favorire l'incontro virtuoso "a km zero" fra enti non profit e piccola e media distribuzione, per esempio fra singoli esercenti e circoli di quartiere, parrocchie che fanno la distribuzione dei pacchi viveri.
   Fra le prime decine di sigle che si sono registrate scuole, come la primaria "Aldo Moro" di Canegrate che in collaborazione con Caritas recupera gli avanzi della mensa e li regala alle famiglie povere della zona. Oppure la Cucina sociale Beteavon che attraverso l'associazione Merkos l'Inyonei Chinuch - il ramo educativo del movimento ebraico Chabad Lubavitch - recupera cibo dai negozi della Zona 7 e lo mette a disposizione dell'unica mensa kosher in Italia - fondata nel 2013 - che si trova all'interno della scuola ebraica del Merkos l'Inyonei Chinuch a Milano, che aiuta 1.500 persone al mese. C'è il Tavolo delle povertà, istituito nel 2013 dal Comune di Cinisello, che grazie alla generosità della grande distribuzione sul territorio ha raccolto in due anni 120 tonnellate di cibo distribuito a circa 2.000 persone seguite dalle parrocchie del decanato. E ancora, c'è la Comunità di Quintosole, casa alloggio per malati di Aids, che viene sostenuta da una panetteria di zona Ripamonti e dall'Esselunga. Si potrebbe continuare a lungo, ma sul sito dedicato alla rete di "lo non butto" ci sono tutte le esperienze. E anche due "vademecum", uno per le associazioni e i volontari, uno per i commercianti, che vogliono entrare nella rete.

(la Repubblica - Milano, 22 agosto 2019)



Immenso tornado di fuoco in Israele

di Stefano Rossi

Gli incendi che stanno bruciando molti territori in varie parti del mondo, non hanno risparmiato lo Stato di Israele.
Durante uno di questi, il vento ha generato un altissimo e immenso tornado di fuoco che ha seminato il panico tra la gente che opportunamente si è tenuta lontana dall'evento.

(Il Meteo, 22 agosto 2019)


Nuovo devastante attacco a una base iraniana in Iraq. Sospetti su Israele

Nuovo misterioso attacco aereo contro una base delle milizie iraniane in Iraq. Sospetti su Israele ma non ci sono conferme. Morti e feriti.

di Sadira Efseryan

Un'altra base della milizia sciita legata all'Iran è stata attaccata ieri nei pressi di Baghdad, appena una settimana dopo che misteriosi aerei avevano bombardato un deposito di armi che le stesse milizie sciite avevano istituito vicino alla "green zone" della capitale irachena.
Testimoni oculari parlano di "grandi esplosioni" mentre i media arabi pubblicavano immagini di enormi nuvole di fumo che si alzavano dalla zona colpita.
Funzionari iracheni confermavano subito dopo che si trattava di un attacco aereo ma non erano in grado di stabilire chi avesse bombardato la base iraniana in Iraq.
Solo pochi giorni prima il Governo di Baghdad aveva imposto il divieto di sorvolo dell'Iraq ad ogni aereo sprovvisto degli appositi permessi, ma nessun radar iracheno ha segnalato intrusioni nello spazio aereo dell'Iraq.
Un funzionario iracheno parlando a condizione di anonimato fa sapere che sicuramente non si è trattato di un attacco americano visto che da giovedì scorso ogni decollo e atterraggio di aerei americani nei cieli iracheni viene autorizzato volta per volta dalle autorità di Baghdad.
«Abbiamo forti sospetti che si sia trattato di un attacco israeliano effettuato usando aerei con tecnologia stealth» ci dice il funzionario iracheno pur ammettendo di non avere alcuna prova a riscontro di questa teoria.
Fonti vicine al Primo Ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, riportano di un premier "furioso". L'ordine di bloccare tutti i voli non autorizzati sull'Iraq, compresi elicotteri e droni, era partito direttamente dal suo ufficio e questa nuova "misteriosa intrusione" lo avrebbe mandato su tutte le furie. Ma non ci sono prove per muovere accuse verso qualcuno.
La base delle milizie sciite legate all'Iran colpita ieri è molto prossima alla base irachena di Balad che ospita anche aerei F-16 forniti agli iracheni dagli Stati Uniti, nonché un certo numero di truppe americane. Ma il bombardamento è stato chirurgico e nemmeno una scheggia ha colpito altri obiettivi.
La Reuters, citando fonti irachene, ha detto che nell'attacco ci sarebbero state diverse vittime e decine di feriti.
Da diverso tempo Israele accusa l'Iran di fornire missili balistici alle milizie sciite in Iraq. A ricevere i missili è il gruppo Hashd al-Shaabi (Forza di mobilitazione popolare irachena), alle dirette dipendenze della Forza Quds iraniana, cioè delle forze d'elite dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC).
L'Iraq viene considerato dagli israeliani il "quarto fronte" della guerra non dichiarata con l'Iran.

(Rights Reporters, 21 agosto 2019)


“Raid israeliani in Siria e Iraq effettuati con il consenso di Usa e Russia”

BAGHDAD - I raid aerei israeliani in Siria e Iraq sono stati effettuati con il consenso degli Stati Uniti e della Russia. E' quanto sostiene una fonte diplomatica sentita da "Asharq al Awsat", quotidiano panarabo di proprietà saudita con sede a Londra. Mosca e Washington hanno fornito il loro assenso allo Stato ebraico perché quest'ultimo conducesse attacchi aerei contro obiettivi iraniani, con l'obiettivo, spiega la fonte, di "garantire la sicurezza di Israele". Nelle ultime settimane si sono registrate numerose esplosioni in installazioni militari irachene legate alle milizie sciite filo-iraniane, l'ultima delle quali è avvenuta martedì, 20 agosto, in un deposito di armi a nord di Baghdad. Israele, sottolinea "Asharq al Awsat", non ammetterà pubblicamente la propria responsabilità negli attacchi. Tuttavia il premier israeliano Benjamin Netanyahu, rispondendo a domanda diretta dei giornalisti a proposito dell'ultimo raid in Iraq, lo scorso 19 agosto ha affermato che "Israele agisce e agirà contro l'Iran ovunque sia necessario".

(Agenzia Nova, 21 agosto 2019)


La strana mossa di Netanyahu: Israele media tra Russia e Ucraina

di Roberto Vivaldelli

 
Netanyahu e il Presidente ucraino Zelensky si rivolgono alla stampa nella residenza presidenziale di Kiev
Non ci sono solamente motivazioni elettorali e di opportunità politica alla base della visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu in Ucraina, la prima in 20 anni. Netanyahu, infatti, avrebbe discusso del possibile ruolo di Israele come mediatore nella crisi fra Russia e Ucraina con il presidente Volodymyr Zelensky, a Kiev, dopo aver siglato tre accordi bilaterali fra i due Paesi. Lo rendono noto fonti interne, riprese dal quotidiano The Times of Israel. Israele, che gode di buone relazioni sia con Mosca che con Kiev, potrebbe svolgere un ruolo di mediazione in futuro, sebbene al momento non vi siano le condizioni per negoziati estesi sulla crisi nel Donbass, come ha spiegato il funzionario al The Times of Israel.
"Affinché chiunque diventi mediatore, sono necessarie tre parti: Russia, Ucraina e un mediatore", ha affermato il primo ministro Netanyahu in risposta a una domanda posta dal quotidiano. Il premier si è tuttavia rifiutato di commentare l'ipotesi che Zelensky stesso o l'amministrazione statunitense gli abbiano chiesto di assumere un ruolo di mediazione in futuro.
I legami storici, culturali e le buone relazioni diplomatiche di Israele con la Federazione Russa e l'Ucraina potrebbero effettivamente porre Tel Aviv nelle condizioni ideali di mediare fra Mosca e Kiev: dipenderà molto, tuttavia, dall'approccio che assumeranno gli Stati Uniti in futuro nei confronti del Cremlino, poiché è difficile immaginare un'azione totalmente indipendente di Tel Aviv e non concordata e coordinata con Washington. Se Mosca avrà la garanzia che Kiev non aderirà mai all'Alleanza Atlantica (Nato) potrebbe anche sedersi attorno a un tavolo e discutere. Una conditio sine qua imprescindibile per la Federazione Russa, che con l'allargamento a est della Nato ha visto minacciati i propri interessi strategici vitali.

 La Russia nega di aver chiesto a Netanyahu di non recarsi a Kiev
  Durante la visita ufficiale del premier israeliano a Kiev, Zelensky ha invitato Tel Aviv a riconoscere l'Holodomor. "Nel commemorare l'eterna memoria delle vittime dell'Olocausto, che ha ucciso oltre due milioni di ebrei ucraini, l'Ucraina invita Israele a riconoscere l'Holodomor come un atto di genocidio contro il popolo ucraino" ha osservato Zelensky, in riferimento alla carestia che si abbatté sul territorio dell'Ucraina dal 1932 al 1933. Nel marzo 2008 il parlamento dell'Ucraina e altre diciannove nazioni hanno riconosciuto le azioni del governo sovietico nell'Ucraina dei primi anni trenta come atti di genocidio: un elemento di tensione con la Federazione Russa, che ha una posizione diversa. Secondo Mosca, infatti, non si trattò di un "genocidio" sottolineando il fatto che milioni di cittadini sovietici non ucraini morirono proprio a causa di quella carestia. Se la definizione di "genocidio" sia storicamente accurata o meno, questo è attualmente oggetto di dibattito accademico; alcuni storici sostengono che l'obiettivo della carestia non fu quello di annientare il popolo ucraino.
Il quotidiano Maariv, citando una fonte anonima nell'ambasciata russa a Tel Aviv, ha riferito che Mosca avrebbe cercato di convincere Netanyahu a non partecipare alla cerimonia durante la sua visita di stato. La fonte ha affermato che sebbene Netanyahu non abbia condiviso questa richiesta, ha accettato di non parlare alla cerimonia. Il Cremlino nega ogni interferenza: "La Russia non interferisce nei legami bilaterali tra Israele e Ucraina", ha confermato al Times of Israel l'ambasciata russa di Tel Aviv.

 I veri motivi dietro la visita di Netanyahu a Kiev
  Sebbene Benjamin Netanyahu neghi questa lettura, secondo alcuni analisti israeliani il viaggio in Ucraina del premier fa parte degli sforzi del premier per raccogliere il sostegno tra gli elettori israeliani di lingua russa, molti dei quali tendono a sostenere Avigdor Lieberman, l'ex ministro nato in Moldavia, fondatore e leader del partito nazionalista Israel Beytenu. La strategia di Netanyahu è quella raccogliere il consenso dei cittadini ucraini emigrati in Israele a seguito del crollo dell'Unione Sovietica, quando oltre un milione di ucraini si trasferirono nello stato ebraico.
Le elezioni parlamentari in Israele si terranno il prossimo 17 settembre e i voti degli cittadini israeliani di lingua russa - molti dei quali ucraini - potrebbero rivelarsi fondamentali nella conta finale. Durante l'evento organizzato dalla comunità ebraica a Kiev, Benjamin Netanyahu ha rimarcato l'importanza della fede per la sua nazione: "Israele è una potenza emergente nel mondo. Eravamo un popolo che è stato quasi spazzato via - ci hanno massacrato senza pietà - ed è diventato una nazione orgogliosa e potente", ha detto il Primo ministro. "Il motivo principale della straordinaria trasformazione del popolo ebraico è stata la fede", ha sottolineato durante il suo discorso.

(Inside Over, 21 agosto 2019)


Inviato del Qatar in visita a Gaza per progetti di sviluppo finanziati da Doha

GERUSALEMME - L'inviato del Qatar per la questione palestinese Mohammed al Emadi arriverà oggi a Gaza per supervisionare i progetti finanziati nella Striscia dall'emirato del Golfo. Lo riporta il quotidiano "The Times of Israel", precisando che la visita di Al Emadi a Gaza arriva in un momento di forti tensioni al confine tra Gaza e Israele. Negli ultimi giorni, infatti, si sono registrati numerosi scontri tra soldati israeliani e palestinesi armati a ridosso del confine. Durante la sua visita, che durerà alcuni giorni, il diplomatico del Golfo "monitorerà i progetti del Comitato qatariota per la ricostruzione nella Striscia di Gaza, nonché l'impiego delle sovvenzioni del Qatar alle famiglie povere" nell'enclave costiera. Questo è quanto riferisce il sito di notizie "Sawa", di base a Gaza.

(Agenzia Nova, 21 agosto 2019)


Shoah, Janusz Korczak: il medico che non abbandonò 200 orfani

di David Spagnoletto

Janusz Korczak
Non sempre il coraggio può essere messo in parole. Difficile raccontare chi sacrificò la sua vita per non abbandonare 200 orfani che sarebbero morti comunque nel campo di sterminio di Treblinka.
Janusz Korczak non sacrificò la sua vita per la salvezza di centinaia di bambini, lo fece per non lasciarli soli nell'ultimo e tremendo viaggio voluto e pianificato dalla spietata macchina di morte nazista.
Fu un pedagogo, scrittore e medico polacco di religione ebraica che poteva salvarsi grazie alla sua fama, che gli sarebbe potuta valere la documentazione per non finire in un lager nazista.
La sua vita poteva proseguire ancora per decenni, magari continuando a viaggiare come fece nel 1934, anno in cui visitò un kibbutz nella futura Israele per studiare il sistema educativo e ritrovare suoi ex bambini.
Perché Janusz Korczak dedicò gran parte della sua vita ai più piccoli, riuscendo a realizzare il progetto la "Casa degli Orfani", un orfanotrofio che dirigeva grazie alle attività degli stessi bambini.
Quando l'orfanotrofio venne "spostato" dai nazisti nel ghetto di Varsavia, Janusz non si diede per vinto e continuò a occuparsi dei bambini, procurando loro cibo al mercato nero.
Si rifiutò fino all'ultimo di indossare la fascia con la stella azzurra, imposta dai nazisti agli ebrei di Varsavia: la considerava una profanazione di un simbolo, oltre che un segno di umiliazione.
Scrisse un diario che si salvò per miracolo dalle continue retate naziste nel ghetto e venne pubblicato per la prima volta in Polonia nel 1958, a cura dello scrittore Igor Newerly, e costituisce una delle testimonianze della vita nel Ghetto di Varsavia.
A Janusz Korczak venne dedicata una piazza e un monumento, opera dello scultore Boris Saktsier per volere dello Yad Vashem.
Non si conosce il giorno esatto della sua morte. Sicuramente nella prima settimana di agosto del 1942, perché si sa che il 5 salì su un treno che doveva portarlo a Treblinka. Sapere se arrivò nel lager o morì durante il trasporto forse cambia poco.
Ciò che conta è sapere che non abbandonò i suoi bambini e fece di tutto per farli vivere, se pur brevemente, nel migliore dei modi.

(Progetto Dreyfus, 20 agosto 2019)



Elie Wiesel, il ragazzo di Auschwitz che non distolse gli occhi dal Male

Un ritratto del filosofo e scrittore di origine ebraica superstite dell'Olocausto. Polemizzò con Obama: "Gerusalemme è sempre appartenuta al popolo ebraico".

di Antonio Monda,

Nel 1928, il paese in cui nacque era ancora un regno, e Ferdinando di Romania concesse proprio allora la cittadinanza agli ebrei. Eliezer Wiesel, che tutti chiamavano Elie, visse l'infanzia in un'atmosfera piena di speranza e fiducia nel futuro. A casa i genitori Schlomo e Sarah elogiavano anche le altre iniziative di quel sovrano saggio e illuminato: un'importante riforma agraria e una costituzione di stampo liberale. Ma purtroppo il sogno si spezzò presto con la morte improvvisa del re: il piccolo Elie fu testimone della svolta autoritaria del successore Carol II, del patto Molotov-Ribbentrop che assegnò la Bessarabia all'Unione Sovietica e quindi del massacro di Fântâna Albă da parte delle milizie comuniste. Non aveva ancora compiuto dieci anni quando l'imprescindibile presenza del male entrò prepotentemente nella sua vita con tutta la sua assurdità, ma nulla cambiò il suo sguardo sul mondo come il vivere in prima persona l'orrore delle persecuzioni razziali.
   Negli anni in cui ho avuto il privilegio di frequentarlo, il professor Wiesel - non ho mai osato rivolgermi in maniera meno formale - mi ha parlato molto di quei primi anni e in particolare dei genitori: «Mio padre ha rappresentato per me la ragione, mia madre la fede, e questa è stata una benedizione». Termini come benedizione e gratitudine erano frequenti nel suo linguaggio, come anche fede e speranza, e vedevi negli occhi quanto fosse sincero, a dispetto del dolore, dell'angoscia, del sopruso che gli offriva ogni giorno la vita. Quando gli chiesi come avesse fatto a non perdere la fede, mi rispose in pura tradizione chassidica «non esiste fede più solida di quella che è stata ferita». Poi mi spiegò che «Dio in realtà non è mai silenzioso» e che anche la più buia delle notti termina con l'alba. Non è un caso che notte sia il termine utilizzato per uno dei suoi libri più belli, dove il momento più struggente è quello in cui racconta la vergogna provata quando seppe che il padre era morto di stenti ad Auschwitz.
   Aveva soltanto quindici anni ed era stato internato insieme con lui: aveva visto morire davanti ai suoi occhi la mamma e la sorella, e giurato a se stesso che lui sarebbe sopravvissuto per non far morire di crepacuore il padre. Era stato invece proprio il razionale Schlomo a soccombere, lasciandolo solo nel campo di concentramento, prima di un nuovo trasferimento a Buchenwald. Pronunciava il nome di quei luoghi senza emozione, nel modo in cui un medico parla di un male incurabile, eppure lui era riuscito a vincere su quell'infamia, ed esiste una foto in cui è ritratto, adolescente, nel giorno della liberazione. Forse la notte finiva in quel momento, ma il ricordo indelebile di quell'orrore lo portava tatuato sull'avambraccio sinistro, con il numero A-7713. «Non esiste nulla nella storia paragonabile all'Olocausto del mio popolo, ma nessuno può illudersi che il male scompaia con la sconfitta del nazismo», spiegava, e parlava volentieri di chi lo aveva aiutato a rinascere e aver fiducia nella vita.
   Era commovente sentirlo parlare dei suoi anni in Francia, quando venne accolto in un centro di assistenza prima ad Ecouy e poi a Taverny. Poche persone hanno forgiato la sua crescita come Judith Hemmendinger e poi, negli studi alla Sorbona, Martin Buber e Jean Paul Sartre. Ma nessuno ha avuto un ruolo determinante come FrançoisMauriac, che lo definì come «Lazzaro resuscitato dai morti». Wiesel diceva di lui: «io, ebreo, devo a lui, che si definiva innamorato di Cristo, se sono diventato uno scrittore». Una volta Mauriac gli regalò un suo libro con la dedica «a Elie Wiesel, bambino ebreo che fu crocefisso»: lui all'inizio la prese male, ma poi comprese «che era il suo modo di farmi sentire il suo amore, oltre al fatto che crediamo nello stesso Dio». Parlava volentieri anche della fede, spiegando che «l'esistenza di Dio è l'unico problema autentico nel quale tutti gli altri sono riassunti. A volte penso che parliamo sempre di Dio senza rendercene conto». Un giorno gli chiesi come immaginasse Dio: «Pascal ha parlato dell'esistenza di un Dio nascosto. La stessa Bibbia parla di Dio che si copre il volto. E io interpreto che Dio si copre il volto perché non riesce a sopportare quello che vede, quello che facciamo noi uomini».
   L'aver visto e vissuto l'inferno gli consentiva di parlare con assoluto distacco di personalità quali Orson Welles, che voleva adattare La notte per il cinema, o Saul Bellow, con cui parlava soltanto di letteratura. Ma questo non frenava mai la passione del suo impegno civile e politico: parlava senza remore del genocidio degli Armeni, arrivando a sostenere che negarlo significa commettere il crimine due volte. Non esiste abuso o discriminazione contro un popolo o una minoranza che non lo abbia visto schierarsi in prima fila, e combatteva fortemente ogni tipo di fanatismo e fondamentalismo, che non riteneva una degenerazione, ma un tradimento della religione. Per lui era determinante il concetto di scelta, spiegando che «se non fosse così si limiterebbe l'idea stessa di fede». Parlava poco del fatto di essere stato insignito del Nobel per la pace, e ho sempre sospettato che non avesse apprezzato altre scelte operate dai responsabili del premio. Ma quando ritirò l'onorificenza spiegò che «il silenzio incoraggia il tormentatore, non il tormentato. Ci sono momenti in cui dobbiamo interferire. Quando le vite umane sono a rischio, quando la dignità umana è in pericolo, le sensibilità e i confini umani diventano irrilevanti».
   Parlava ancora meno del fatto di essere stato una delle tante vittime di Bernie Madoff, sia per quanto riguarda la sua fondazione, che per i risparmi privati. Era giunto al tramonto di una esistenza che non lo aveva mai visto soccombere, e provava imbarazzo per essersi fidato di un criminale che prometteva interessi mirabolanti.
   In quello stesso periodo aveva iniziato a dialogare anche con personalità dello spettacolo come Oprah Winfrey e George Clooney, capendo che il mondo stava cambiando velocemente, e che il suo approccio colto e austero doveva dialogare anche con la cultura popolare. Ha testimoniato le proprie idee sino alla fine, però, anche quando erano scomode e controcorrente: entrò in polemica con Obama, che pure stimava, rispetto a Israele, sostenendo «Gerusalemme è al di sopra della politica. È citata più di seicento volte nelle scritture, e nemmeno una volta nel Corano. Appartiene al popolo ebraico ed è molto più che una città». Faceva impressione il senso di appartenenza con cui pronunciava i luoghi della terra promessa: il tono era malinconico e orgoglioso. Gli ultimi tempi aveva diradato ogni impegno, preferendo dialogare a lungo con l'adorata moglie Marion. «Sempre di vita, però, perché parlare di morte è negare la fede».

(La Stampa, 18 agosto 2019)



Dopo l'incursione israeliana, l'Iraq pensa agli S-400

di Paolo Mauri

 
L'ambasciatore russo Maksim Maksimov (a sin.) ricevuto a Baghdad dal presidente iracheno Barham Salih
Il presidente iracheno Barham Salih ha ricevuto nella giornata di lunedì 19 agosto l'ambasciatore russo a Baghdad, Maksim Maksimov, per colloqui inerenti a "questioni politiche e di sicurezza" riguardanti la regione del Medio Oriente, ma oltre a discutere dei rapporti bilaterali tra i due Paesi e "la necessità di rafforzare le relazioni amichevoli e cooperative tra l'Iraq e la Russia in modo da servire gli interessi comuni" c'è stato spazio anche per una questione che potrebbe ribaltare le alleanze strategiche dell'area: il possibile acquisto dei sistemi missilistici da difesa aerea S-400.
  Secondo quanto riportato da Agenzia Nova l'Iraq ritiene necessario schierare il sistema di difesa antimissili russo S-400, e a dirlo è proprio il generale Yahya Rasool, portavoce del comando iracheno delle operazioni congiunte.

 I raid israeliani
  Il generale Rasool ha affermato che "le forze di sicurezza prenderanno di mira tutti gli aerei che volano senza l'approvazione del comandante in capo e primo ministro Adel Abdul Mahdi". Il riferimento, nemmeno troppo velato, è ai recenti raid di Israele in territorio iracheno che hanno avuto come obiettivo depositi di milizie sciite vicine all'Iran effettuati, a quanto sembra, coi nuovi cacciabombardieri stealth F-35I Adir.
  Sempre Baghdad fa sapere che qualsiasi velivolo intercettato dai radar verrà trattato "come aviazione ostile" qualora non disponga di una precisa autorizzazione e che la decisione da parte di Abdul Mahdi di limitare la possibilità di volo agli aerei cui ha fornito esplicita approvazione "è entrata in vigore a partire dalla data di emissione" che corrisponde allo scorso 15 agosto.
  Gli attacchi, i primi di Israele in territorio iracheno dal 1981, hanno dimostrato la volontà di Tel Aviv di alzare l'asticella del contrasto alla penetrazione iraniana in Medio Oriente violando lo spazio aereo di un Paese sulla carta non ostile.
  Gli attacchi non sono mai stati ufficialmente condannati ed il silenzio iracheno è apparso un tacito consenso all'azione israeliana. La posizione di Baghdad infatti è apparsa subito più che ambigua: se da un lato il primo ministro Abdul-Mahdi ha garantito che l'Iraq non sarà usato come piattaforma per attaccare l'Iran, dall'altro l'ambasciatore iracheno a Washington, Fareed Yasseen, ha sostenuto, in modo alquanto sibillino, che "ci sono ragioni oggettive che richiedono una normalizzazione delle relazioni con Israele".
  Il provvedimento del governo del 15 agosto sembra, invece, essere un passo importante verso la riaffermazione della propria sovranità a costo di alienarsi l'amicizia di Israele e Stati Uniti - questi ultimi detengono infatti il controllo di un'importante porzione dello spazio aereo iracheno - ed i colloqui per il possibile acquisto dei sistemi S-400 sono un ulteriore passo in questo senso. Un passo che però potrebbe essere eterodiretto.

 L'ombra dell'Iran
  Secondo quanto riportano fonti del Baghdad Post le milizie sciite filorianiane stanziate in Iraq starebbero facendo pressione sul capo dello staff del primo ministro, Muhammad Ridha Al Hashimi (detto "Abu Jihad") affinché il governo proceda nell'acquisto degli S-400.
  Quest'eventuale decisione di Baghdad servirebbe a "disturbare" le relazioni tra Iraq e Stati Uniti specialmente nella "lotta al terrorismo" ma soprattutto, aggiungiamo noi, aprirebbe una frattura - forse insanabile - nel fronte del contrasto all'Iran portando un Paese, fino ad oggi alquanto neutrale o comunque non palesemente schierato, dalla parte di Teheran una volta che Washington si vedrebbe costretta ad elevare le sanzioni previste dal provvedimento Caatsa (Countering America's Adversaries Through Sanctions Act) che impone sanzioni a chiunque sia in affari con la Russia (ma anche con Iran e Corea del Nord) con particolare attenzione alla vendita di armi di ogni tipo.
  D'altro canto queste indiscrezioni giunte al quotidiano iracheno potrebbero anche essere una mossa prettamente di politica interna. Data la breve e travagliata storia democratica di quel Paese non stupirebbe che il tutto possa risolversi come una mossa dell'opposizione guidata dall'ex primo ministro Haider Al-Abadi, capo della coalizione Nasr e da Ammar Al-Hakim, capo della coalizione Al-Hikma fortemente filo iraniana, per cercare di mettere all'angolo Abdul-Mahdi sfruttando un momento in cui le tensioni nell'area del Golfo sono altissime.
  Del resto non è da escludere che la decisione del 15 agosto di colpire qualsiasi velivolo non autorizzato sia stata presa proprio per calmare l'opposizione interna ed in particolare le frange più filo-iraniane ma che, di fatto, resti solo sulla carta anche in considerazione del fatto che il dispositivo antiaereo iracheno è praticamente inesistente fatto salvo per la porzione "amministrata" dagli Stati Uniti.
  L'esito della trattativa per l'acquisto degli S-400 sarà la cartina tornasole dei rapporti di forza all'interno del governo iracheno e, in caso di esito positivo, fornirà l'indicazione che gli equilibri nell'area del Golfo sono cambiati nonostante la massiccia presenza delle forze armate statunitensi: se Baghdad perseguirà in questa strada significa che l'Iran rappresenta per l'Iraq più di un mero "vicino di casa" con cui si condividono solo risorse energetiche, commercio e religione, bensì un partner d'importanza "regionale" che è in grado di influire sugli assetti strategici di un'area che va oltre il Golfo Persico.

(Inside Over, 20 agosto 2019)


Intelligence palestinese lancia allarme per possibili rivolte in Cisgiordania

Mentre a Gaza i palestinesi si libererebbero volentieri di Hamas, in Giudea e Samaria i giovani arabi sono sempre più tentati dalle sirene della lotta armata

di Sarah G. Frankl

È un allarme serio e circostanziato quello lanciato dalla intelligente palestinese che denuncia la possibilità di violente rivolte in Cisgiordania alimentate da Hamas.
Mentre a Gaza i palestinesi si libererebbero più che volentieri del gruppo terrorista che li tiene in ostaggio e in povertà ormai da 12 anni, in Giudea e Samaria (Cisgiordania) Hamas guadagna consenso tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 30 anni.
   Il rapporto della intelligence palestinese mette in evidenza come i giovani arabi residenti in Giudea e Samaria non vedano alcuno sbocco politico alla loro situazione né vedano una possibilità per il loro futuro.
   Stando al rapporto ad essere messa in discussione è la partnership tra l'Autorità Palestinese (AP) e Israele, una collaborazione che non avrebbe prodotto i risultati attesi.
   Questa percezione, largamente diffusa tra i giovani palestinesi, li spinge letteralmente tra le braccia di Hamas che soffia abilmente sul fuoco.
   Il rapporto della intelligence palestinese, basato su una serie di interviste ai giovani arabi residenti in Giudea e Samaria, evidenzia come sempre più ragazzi palestinesi si dicano tentati dal seguire le indicazioni di Hamas che chiede una ondata di violenza non solo contro Israele e i cittadini israeliani, ma anche contro la stessa Autorità Palestinese, rea di "collaborare con il nemico" senza tuttavia che vi siano vantaggi per i palestinesi.
   Stando al rapporto i palestinesi vorrebbero organizzare in Giudea e Samaria quello che Hamas organizza settimanalmente a Gaza, cioè violente proteste lungo i confini con Israele.
   Non solo, l'intelligence palestinese mette in guardia su una possibile esplosione di attentati condotti da "lupi solitari" contro cittadini israeliani. In particolare prevedono attacchi veicolari, accoltellamenti e persino attacchi con cinture esplosive.
   Il rapporto della intelligence palestinese non viene sottovalutato dalla sua controparte israeliana. Lo Shin Bet negli ultimi giorni ha sensibilmente innalzato il livello di attenzione e ha potenziato le "antenne di ascolto".
   Negli ultimi giorni vi sono stati diversi attentati contro civili israeliani che fanno pensare che effettivamente l'allarme lanciato dalla intelligence palestinese sia reale e concreto.

(Rights Reporters, 20 agosto 2019)


Il doppio inganno tra Hitler e Stalin

Grazie a questo impegno alla desistenza i tedeschi poterono, alcuni giorni più tardi, invadere la Polonia, mentre i sovietici aggredirono Estonia, Lettonia e Lituania il 23 agosto 1939 la firma del Patto tra Ribbentrop e Molotov. Per Gino Longo, figlio del dirigente Pci Luigi, «fu la più grande batosta che il comunismo internazionale si sia dato da sé. Fu un compromesso per dare modo a ciascuno dei due contraenti di poter tradire l'altro. Stalin pensava attaccare di Hitler nel 1942, solo che fu spiazzato dalla troppo facile vittoria tedesca in Francia».

di Roberto Festorazzi

Il 23 agosto 1939, ottant'anni fa, a Mosca il ministro degli Esteri della Germania nazista, Joachim von Ribbentrop, firmò, insieme al suo collega sovietico, Vjaceslav Molotov, il Patto che impegnava le due potenze a non aggredirsi. Fu un accordo di realpolitik spinto fino agli estremi del machiavellismo. Grazie a questo impegno alla desistenza reciproca, Adolf Hitler poté, alcuni giorni più tardi, invadere la Polonia, avendo le spalle coperte, a Est della Vistola. Il Patto di non aggressione germano-sovietico venne siglato dopo alcuni mesi di negoziati e a seguito della rimozione, da parte di Stalin, del predecessore di Molotov: il commissario agli Esteri, Maksim Maksimovic Litvinov, di origine ebraica, e fautore di intese con le potenze democratiche, in funzione antinazista. Non c'è dubbio che il Patto abbia rappresentato la risposta ritorsiva del Cremlino alle politiche, soprattutto condotte dal premier conservatore britannico, Neville Chamberlain, che miravano a dirigere il militarismo hitleriano a Oriente, per determinare lo scontro tra la Germania e l'Orso sovietico. L'intesa bilaterale stabiliva l'astensione da ogni violenza reciproca, la benevola neutralità nel caso di impegno bellico di uno dei contraenti, l'impegno di entrambe le parti a non partecipare a raggruppamenti ostili all'altra. Stalin, con astuzia criminale, concordò con il Führer la liquidazione della Polonia, con ciò sanzionando una provvisoria divisione dell'Europa in zone di reciproca influenza. La spartizione delle spoglie polacche fu oggetto di un successivo accordo, firmato a Mosca il 28-29 settembre '39, il quale regolava l' amicizia tedesco-sovietica, ora che le due potenze avevano un confine comune. Il Patto russo-germanico spiazzò totalmente, oltre alle cancellerie di mezza Europa, anche i partiti comunisti dei Paesi occidentali, che dovettero abbandonare le prospettive dei Fronti popolari e delle politiche antifasciste, inaugurate alla seconda metà degli anni Trenta. Analizzeremo questo sconcertante testacoda di Mosca alla luce della testimonianza di Gino Longo: suo padre, Luigi, divenne segretario del Partito comunista italiano dopo la morte di Palmiro Togliatti, nel 1964, mentre sua madre, Teresa Noce, oltre ad essere stata una dirigente di spicco del Pci, fu una leader sindacale e una delle poche parlamentari donne elette nel 1946 all'Assemblea Costituente.
  Gino Longo, che oggi ha 96 anni, conserva una prodigiosa memoria storica diretta che copre praticamente la gran parte degli avvenimenti del Novecento. Si trovava a Parigi, nella tarda estate del 1939, quando assistette alla reazione del governo guidato da Édouard Daladier di fronte al Patto germano-sovietico. Nelle ore in cui la Francia e la Gran Bretagna entravano in guerra contro il Terzo Reich, le istituzioni dell'ormai comatosa Terza Repubblica di Parigi mettevano fuori legge il Partito comunista francese (Pcf) , che era stato alleato dei socialisti nel Fronte popolare, vietando la diffusione dei suoi organi di stampa. Daladier usò il pugno di ferro contro il Pcf, imprigionandone molti militanti, e avviò ai campi di concentramento quasi tutti i comunisti stranieri presenti sul territorio nazionale. Ne fecero le spese anche Palmiro Togliatti e Luigi Longo, che vennero tratti in arresto: il 1o settembre, il Migliore, e due giorni più tardi, il secondo, immediatamente internato.
  Riflette Gino Longo: «Il Patto Ribbentrop-Molotov fu la più grande batosta che il comunismo internazionale si sia dato da sé. Fu un compromesso temporaneo ricercato per dare modo a ciascuno dei due contraenti di poter ingannare l'altro. Stalin pensava di passare all' attacco di Hitler nel 1942. Solo che fu spiazzato dalla troppo facile vittoria tedesca in Francia, nel maggio-giugno del '40. Il crollo della Francia, eccessivamente rapido, rese Hitler troppo sicuro di sé e gli permise di attaccare l'Urss con un anno di vantaggio sul nemico sovietico, nel giugno del 1941. Ciò mise in grande difficoltà Stalin», Longo fu osservatore diretto delle convulsioni tremende che attraversarono il comunismo internazionale, dopo la sigla del Patto russo-tedesco. Camilla Ravera e Umberto Terracini vennero espulsi dal Pci, per aver condannato il diabolico accordo Ribbentrop-Molotov, mentre Leo Valiani, traumatizzato, abbandonò di propria iniziativa il partito. Ancora peggiore il dramma che scosse il Pcf, il cui leader, Maurice Thorez, dovette ingoiare il rospo, ossia il Patto. Rievoca Longo, ripescando dai suoi ricordi personali: «Thorez, io lo vidi a Mosca, nel febbraio del 1941, profondamente umiliato dalla situazione. Chiese a me informazioni su quello che succedeva in Francia: non capiva niente. Lui, figlio del popolo, era stato costretto a passare in Unione Sovietica, disertando, mentre il suo Paese combatteva contro Hitler. Tutto il disonore ricadeva sul povero Thorez. La sua diserzione mise il Pcf in crisi. Il suo partito si spezzò in cinque tronconi. La cosa più ridicola è che uno [di questi tronconi] era convinto che bisognasse andare a collaborare con Hitler. Tale raggruppamento era persuaso che gli occupanti nazisti avrebbero consegnato il governo della Francia a ex comunisti».
  Quanto osservato da Longo permette di introdurre un altro interrogativo, dibattuto dagli storici. Il Patto di non aggressione del 1939, fu semplicemente l'espressione della ragion di Stato, oppure era il risultato di una profonda affinità ideologica tra i due totalitarismi, quello nazista, e quello comunista? Non v'è dubbio che entrambe le rivoluzioni, quella bolscevica, in Russia, e quella delle camicie brune, in Germania, avevano in comune il disprezzo totale per le istituzioni liberali e borghesi, a cominciare dal radicale rifiuto della democrazia elettivo-rappresentativa. Il fascismo italiano, che nella sua espressione statuale fu tra i primi a riconoscere ufficialmente la nuova Russia sovietica, tendeva a vedere l'Urss stalinista come modello totalitario ancora imperfetto, ma in via di maturazione. Mussolini stesso teorizzò che il bolscevismo nel 1939 era diventato «una forma slava del fascismo». Analogamente, in Germania, vi erano ampi settori del cosiddetto "nazionalsocialismo di sinistra" che si spingevano a sottolineare i tratti identitari comuni tra le due rivoluzioni, in nome del rifiuto del capitalismo e della valorizzazione dei lavoratori quale autentica linfa vitale posta a fondamento della vita dello Stato e della comunità. Quando poi Hitler decise di invadere l'Urss, con l'Operazione Barbarossa del 22 giugno 1941, il nodo gordiano venne spezzato.

(Avvenire, 20 agosto 2019)


Mistero Kammmler, il nazista «atomico» che sparì negli Usa

Ci sono sei versioni sulla morte della SS che studiava la bomba. Senz'altro non si suicidò.

Sulla lista dei prigionieri
Appare sicuro che il generale fu nelle mani degli Alleati e interrogato dagli americani
Niente processo
Non finì a Norimberga insieme con gli altri gerarchi. Forse aveva informazioni preziose

di Vittorio Macioce

L'unica cosa certa è che non è morto nel bunker di Praga nel maggio del 1945. Non si è suicidato come il Führer con un colpo di pistola alla tempia e neppure con il cianuro. La storia del «generale del diavolo» è ancora aperta, non finisce con un atto di giustizia, non ci sono tribunali, ma racconta la vittoria della ragione di Stato su qualsiasi scrupolo morale. Sono gli ultimi giorni del nazismo, Berlino sta per cadere e c'è un uomo che sta disperatamente cercando un modo furbo per salvare la pelle. Si chiama Hans Kammler e non sta cercando il perdono dei vincitori. Non lo cerca perché sa che nessuno potrebbe mai darglielo. È lui che ha progettato e diretto i lavori per la costruzione di tutti i campi di concentramento, forni crematori e camere a gas. È l'architetto dell' olocausto, quello che scandisce il tempo della soluzione finale per gli ebrei. È un generale delle SS. È un ingegnere. È il padre dei missili V2 e sta lavorando nell'immenso sistema di gallerie sotterranee sotto i campi di Ebensee, Mauthausen e Gusen per realizzare la bomba atomica. È una corsa contro il tempo. È una sfida per arrivare prima degli scienziati di Los Alamos, quelli del Progetto Manhattan, prima insomma di Little Boy e Fat Man, prima delle apocalissi americane. Hans Kammler è l'ultima speranza di Hitler. Quando tutto è perso il suo obiettivo è stipulare un contratto con i suoi nemici. È fare un affare che accontenti tutti.
  Per anni ci si è interrogati su come fosse morto in quella notte del 9 maggio 1945, ci sono almeno sei versioni diverse e la sentenza di un tribunale. Poi qualche anno fa arrivano i primi dubbi: siamo sicuri che Kammler sia morto? C'è un'altra storia. Il generale il 15 luglio appare a Gmunden, in Austria, e si presenta agli ufficiali del Counter Intelligence Corps, il servizio di spionaggio di guerra statunitense. È li per proporre il suo affare. Cosa volete in cambio della mia vita? Risposta: tutto quello che puoi dare.
  L'incontro è registrato in un documento declassificato nel 1978. Non c'è solo questo. C'è il racconto del figlio di Donald Richardson, uno dei più importanti agenti dell' Oss, quella che poi diventerà Cia. C'è una foto di Donald impettito dietro Roosevelt, di lato c'è Churchill, di fronte Stalin. Sono a Yalta, nel 1943. «È stato mio padre a interrogarlo in Austria. Me lo ha raccontato prima di morire. Ha dato a Kammler un nome americano, un indirizzo, un numero di telefono e un lavoro».
  Kammler ci è riuscito. Si è comprato la sopravvivenza, l'America ha venduto la sua anima e lui ha pagato con quello che aveva di prezioso: informazioni. Tutti i suoi progetti sull'atomica. Finora era poco più di un sospetto, adesso però ci sono nuovi documenti che lo provano. L'agenzia di stampa Agi racconta di inediti raccolti dal regista austriaco Andreas Sulzer, che da anni lavora al mistero Kammler e dall'ingegnere polacco Marek Michalski, responsabile dei musei dei lager di Treblinka e Stutthof. Cosa sono? I verbali di un interrogatorio e un paio di lettere.
  È il 30 maggio 1945. Kammler è al quartier generale dell'Us Air Force e davanti a lui c'è il colonnello Loyd Pepple. Il «generale del diavolo» parla, spiega, spiffera. Pepple raccoglie e spedisce a Washington tre elenchi. Il bottino di guerra: aerei, caccia, elicotteri, missili, strumenti radar. Quanto sono e dove si trovano. Le menti: scienziati, ingegneri e tecnici che lavorano nell'industria missilistica del Reich. Infine 34 nomi di personalità chiave in questo momento in stato di fermo e sotto interrogatorio. Il primo nome è Hermann Goering, poi il Feldmaresciallo Erhard Milch e Albert Speer. Al diciottesimo posto, ecco Hans Kammler, che doveva essere già morto da quasi due mesi. Gli altri trentatrè sono finiti a Norimberga, Kammler è dato per defunto.
  Il motivo è in una lettera che il 2 novembre 1945 il generale di brigata George McDonald invia al maggiore Ernst Englander. Qui c'è scritto che ha ricevuto l'ordine da Washington di fornire dettagliate informazioni sui laboratori sotterranei delle SS, in particolare quello di Gusen. Per farlo bisogna interrogare Speer e Kammler. McDonald sa benissimo e lo fa capire che sotto i lager si lavora per realizzare la bomba atomica. Queste lettere confermano le parole del figlio di Richardson: «Mio padre portò con sé quasi settanta chili di uranio. Uranio che probabilmente proveniva dalle gallerie sotterranee del lager di Gusen», Gusen non era solo l'inferno dell'inferno. Sopra si moriva come bestie, sotto si lavorare per la bomba della morte bianca. Gusen era la Los Alamos nazista, sotterranea, segreta, bagnata dalle anime di chi stava sopra. Sette chilometri di tunnel larghi da 6 a 8 metri e alti da 10 a 15, un infinito reticolato di gallerie scavate dagli stessi deportati, con un livello di radioattività 26 volte superiore alla norma. Stanislaw Zalewski, un sopravvissuto, racconta del suo trasferimento da Auschwitz a Gusen: con sua grande sorpresa, sul treno scopre che tutti i suoi compagni di viaggio e di martirio sono chimici, elettrotecnici, scienziati. È l'esercito di schiavi che lavora giorno e notte per l'arma finale, l'unica che può sovvertire ormai le sorti della guerra. Al centro di questa speranza c'è Kammler.
  Adesso sappiamo che quest'uomo non è morto dove doveva morire. È scomparso e ha cambiato nome, ma restano tante domande su quello che ha fatto dopo. Ha lavorato per gli americani? Le sue conoscenze e la sua intelligenza luciferina sono diventate lo strumento per la guerra fredda? Cosa ha fatto per anni il dottor Kammler? Quale era il suo nome americano? È stato un buon patriota? Cosa pensava mentre leggeva le cronache del processo di Norimberga? Ha avuto mogli, figli, nipoti? In quali università ha insegnato? Cosa raccontava del suo passato ai colleghi? Cosa leggeva negli occhi dei pochi che conoscevano la sua vera identità e il suo segreto? Come ha vissuto Hans Kammler, nato a Stettino il 26 agosto 1901?
  Hans Kammler è il simbolo di un'America che non vorrebbe mai guardarsi in faccia, uno dei tanti segreti di un Novecento ancora tutto da raccontare, perché in fondo è ancora troppo presto e ci vuole tempo per fare i conti con i propri fantasmi. Ci sono poi delle porte del tempo che sono davvero scorrevoli e imprevedibili. Kammler era lo stratega di un' enorme fabbrica della morte. Non è riuscito ad essere abbastanza veloce, ma non era lontano dall'obiettivo. Bastava poco per cambiare tutto. Qualcuno dice, ma è una storia ancora tutta da raccontare, che gli scienziati tedeschi abbiano scelto di perdere. Abbastanza lenti da arrivare secondi.

(il Giornale, 20 agosto 2019)


Dall'università di Tel Aviv parte un nuovo nano-vaccino per il melanoma

di Daniele Toscano

 
Arriva dalla Tel Aviv University - TAU una scoperta con delle potenzialità rivoluzionarie nell'ambito della prevenzione e del contrasto ai tumori della pelle. Per ora l'evidenza è solo su modelli murini (topi), ma filtra ottimismo per un'efficace implementazione a livello clinico in tempi non troppo lunghi.
I ricercatori dell'ateneo israeliano hanno sviluppato un nuovo nano-vaccino per il melanoma, che rappresenta la forma più aggressiva di cancro alla pelle. Il loro approccio innovativo ha dimostrato effetti positivi nella prevenzione e nel trattamento dei tumori primari e delle metastasi risultanti dal melanoma. Il focus della ricerca è stato una nanoparticella che costituisce la base del nuovo vaccino.
Il team internazionale che ha realizzato questo studio è formato da scienziati israeliani e portoghesi che hanno lavorato presso la Tel Aviv University. Coordinatore è stato il Prof. Ronit Satchi-Fainaro, Presidente del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia e Capo del Laboratorio per la ricerca sul cancro e la nanomedicina presso la Facoltà di Medicina di Sackler della TAU, coadiuvato dalla Professoressa Helena Florindo dell'Università di Lisbona; hanno condotto lo studio la Dott.ssa Anna Scomparin e il Dott. João Conniot. I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati all'inizio di agosto sulla rivista scientifica "Nature Nanotechnology".
Il melanoma si sviluppa nelle cellule della pelle che producono melanina o pigmento della pelle.
"La guerra contro il cancro in generale, e il melanoma in particolare, è progredita nel corso degli anni attraverso molteplici modalità di trattamento, come chirurgia, chemioterapia, radioterapia, immunoterapia; un approccio basato sul vaccino, già efficace contro varie malattie virali, non è ancora individuato come soluzione contro il cancro - spiega il Prof. Satchi-Fainaro. - Nel nostro studio abbiamo dimostrato che è possibile produrre un nano-vaccino efficace contro il melanoma e sensibilizzare il sistema immunitario alle immunoterapie".
I ricercatori hanno sfruttato minuscole particelle, di circa 170 nanometri di diametro, realizzate con un polimero biodegradabile. All'interno di ciascuna particella, hanno inserito due peptidi: brevi catene di aminoacidi, che sono espresse nelle cellule di melanoma. Hanno quindi iniettato le nanoparticelle (o "nano-vaccini") in un modello murino con melanoma.
"Le nanoparticelle hanno agito proprio come i vaccini noti per le malattie virali - ha dichiarato il Prof. Satchi-Fainaro. - Hanno stimolato il sistema immunitario dei topi e le cellule immunitarie hanno imparato a identificare e ad attaccare le cellule contenenti i due peptidi, ossia cioè le cellule con melanoma. Ciò significa che, il sistema immunitario dei topi immunizzati attaccherà eventuali cellule colpite da melanoma".
I ricercatori hanno quindi esaminato l'efficacia del vaccino in tre diverse condizioni.
Innanzitutto, il vaccino ha dimostrato di avere effetti profilattici: dopo essere stato iniettato in topi sani a cui successivamente sono state iniettate cellule tumorali di melanoma, ha prevenuto la malattia. I topi infatti non si sono ammalati.
Nel secondo esperimento, la nanoparticella è stata utilizzata per il trattamento di un tumore primario: questo vaccino innovativo, combinato con trattamenti di immunoterapia, ha ritardato significativamente la progressione della malattia e ha prolungato notevolmente la vita di tutti i topi trattati.
Infine, i ricercatori hanno convalidato il loro approccio sui tessuti prelevati da pazienti con metastasi cerebrali da melanoma: ciò ha suggerito che il nano-vaccino può essere utilizzato anche per il trattamento delle metastasi cerebrali.
"La nostra ricerca apre le porte a un approccio completamente nuovo, l'approccio vaccinale, per un trattamento efficace del melanoma, anche nelle fasi più avanzate della malattia" - ha concluso il prof. Satchi-Fainaro -. "Riteniamo che la nostra piattaforma possa essere adatta anche ad altri tipi di cancro e che il nostro lavoro sia una solida base per lo sviluppo di altri nano-vaccini contro i tumori".
(Shalom, 20 agosto 2019)


Abu Mazen taglia tutti i suoi consulenti

Il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di tagliare tutti i suoi consulenti "indipendentemente dal loro nome o titolo". Lo riporta l'agenzia ufficiale Wafa, secondo cui il leader dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha deciso "di interrompere i servizi".
Abu Mazen ha anche stabilito di "abolire le decisioni e i contratti ad essi correlati e di interrompere i diritti e i privilegi derivanti dal loro status di consulenti". La Wafa non ha precisato né il numero dei collaboratori licenziati né la somma complessiva.
La mossa di Abu Mazen sembra tuttavia da ricollegarsi alla necessità di risparmiare vista l'attuale crisi dell'economia palestinese, legata sia ai provvedimenti israeliani di dedurre dalle tasse raccolte per l'Anp le somme che questa destina ai detenuti palestinesi nelle carceri dello Stato ebraico e alle loro famiglie (circa 138 milioni di dollari) sia al taglio dei fondi da parte degli Usa.

(swissinfo.ch, 19 agosto 2019)



Ucraina-Israele: al via incontro presidente Zelensky e premier Netanyahu

Ha avuto inizio l'incontro a Kiev fra il presidente Volodymyr Zelensky e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il capo del governo israeliano ha lasciato dei fiori presso il memoriale del Milite ignoto, prima di recarsi al palazzo presidenziale. Si tratta della prima visita in Ucraina di Netanyahu in 20 anni, ed è prevista la firma di diversi documenti nel corso delle riunioni a Kiev. Zelensky e Netanyahu si recheranno inoltre ad una cerimonia di commemorazione per le vittime del massacro di Babij Yar.

(Agenzia Nova, 19 agosto 2019)


Israele in fiamme: anche Hezbollah usa la tecnica degli incendi come Hamas

Un video diffuso da Channel 12 mostra terroristi di Hezbollah innescare un incendio poi propagatosi in Israele.

Non ci sono dubbi. Il grande incendio che venerdì scorso ha interessato il confine tra Libano e Israele è stato volutamente innescato dai terroristi di Hezbollah che così facendo replicano la tattica usata da Hamas lungo il confine tra Israele e la Striscia di gaza.
Un video diffuso da Channel 12 mostra i terroristi di Hezbollah distribuire inneschi incendiari mentre gli uomini di UNIFIL rimangono praticamente a guardare.
Nel video si notano i terroristi che posizionano gli inneschi che daranno origine a un incendio che a causa del vento si dirigerà poi verso le comunità israeliane di confine e che nel suo percorso farà esplodere anche diverse mine messe a protezione del confine.
Ad essere sfiorate dal grande incendio sono state una base dell'IDF e la comunità di Margaliot che solo grazie al massiccio intervento dei pompieri e di un gran numero di volontari sono state salvate.
Il filmato diffuso da Channel 12 mostra con chiarezza anche i peacekeeper dell'ONU (UNIFIL) camminare tranquillamente vicino ai punti di innesco senza fare nulla per impedire che i terroristi diano alle fiamme l'area.
Il comando dell'IDF ritiene che gli incendi siano stati una sorta di prova generale e che nei prossimi giorni potrebbero ripetersi al fine di distrarre i militari israeliani.

(Rights Reporters, 19 agosto 2019)


Hamas, razzi e commando per colpire Israele. Netanyahu: "Stop o guerra"

Lancio di missili da Gaza, entra in azione lo scudo di difesa nel Sud Tre palestinesi intercettati e uccisi al confine con la Striscia. Se Hamas non
si calma, siamo pronti a scatenare un nuovo conflitto. Potrà accadere anche durante le elezioni.

di Giordano Stabile

      Razzo palestinese intercettato
      da Iron Dome
Razzi contro le città del Sud di Israele per la seconda notte di fila, raid aerei sempre più pesanti, e un altro commando palestinese intercettato al confine con la Striscia di Gaza, con tre palestinesi uccisi dal fuoco israeliano. Le tensioni tornano a salire come non si vedeva dal marzo scorso, quando a ridosso del voto anticipato i Territori sembravano sul punto di esplodere. Questa volta coinvolgono anche la Cisgiordania e Gerusalemme, mentre un Benjamin Netanyahu indebolito non è più tanto convinto che evitare una guerra aperta servirà a fargli vincere le nuove elezioni previste per il 17 settembre.
   La notte fra sabato e domenica è stata scandita dal bollettino militare. L'esercito ha individuato un commando che stava per oltrepassare la recinzione e l'ha eliminato con il fuoco da un elicottero e un carro armato. L'azione palestinese era forse un tentativo di rappresaglia dopo i raid su «due centri logistici sotterranei» e un posto di osservazione di Hamas, a loro volta colpiti in seguito al lancio di razzi verso il territorio israeliano. Tre razzi, due intercettati dal sistema Iron Dome. Un altro ordigno era stato lanciato venerdì.
   Le forze armate hanno ordinato alla popolazione del Sud di proteggersi nei rifugi. Ma la violenza si allarga al di là della Striscia. Sabato un 19enne è stato accoltellato in modo serio vicino alla località di Kiryat Ata, in Cisgiordania. Venerdì, alla famigerata intersezione di Gush Etzion, due fratelli adolescenti sono rimasti feriti, uno gravemente. Giovedì un agente è stato accoltellato nella Città Vecchia di Gerusalemme. E due settimane fa un altro commando palestinese era stato intercettato alla frontiera, con un arsenale di fucili automatici e lanciagranate.
   Per Benjamin Netanyahu non sono buone notizie. Ha tenuto a freno i falchi per un anno, in modo di arrivare alle elezioni del 9 aprile senza una guerra in corso. Ma non è bastato a vincere, soltanto a pareggiare. La sua maggioranza si è ridotta a 60 seggi sui 120 della Knesset, proprio per la defezione del falco Avigdor Lieberman. L'ex ministro della Difesa ieri è tornato ad attaccare il premier, «debole» nei confronti di Hamas: «Se ne va in viaggio - ha rincarato - in Ucraina, per un film di propaganda elettorale, mentre i residenti del Sud sono tenuti in ostaggio». Anche il leader del partito di centro Blu e Bianco, il generale Benny Gantz, che a Gaza ha condotto l'ultima operazione di terra nel 2014, ha accusato il primo ministro di aver «cancellato la forza di deterrenza di Israele».
   Netanyahu ha replicato con la minaccia di scatenare una nuova guerra, se Hamas non si calma, «anche durante le elezioni». Un cambio di rotta che ha messo in allarme il movimento islamista, padrone della Striscia dal 2007 . Il portavoce Fazi Barhoum ha replicato che i raid aerei «sono un segnale di escalation e di aggressione contro la Striscia di Gaza». Un tentativo, a suo dire, «di distrarre l'attenzione dagli eroici atti dei Palestinesi in Cisgiordania: le forze della Resistenza non lasceranno che Gaza sia trasformata in un'arena per regolare i conti interni ai politici israeliani». Rispetto ad aprile il clima è cambiato. L'intransigenza dei gruppi militanti e le tensioni interne a Israele rischiano davvero di trasformare la Striscia nella loro prima vittima.
   
(La Stampa, 19 agosto 2019)


Ecco il tour in Israele che le deputate Dem antisraeliane avrebbero potuto fare

Consigli per un diverso viaggio in Israele alle politiche Rashida Tlaib e Ilhan Omar. l tunnel di Hamas a Gaza, le fabbriche dove ebrei e arabi lavorano assieme, Haifa, Gerusalemme e quelle zone interdette agli ebrei.

Scrive Israel Hayom (30/7)

Le deputate degli Stati Uniti Rashida Tlaib e Ilhan Ornar hanno annunciato che si recheranno in Israele e in 'Palestina' per 'venire a conoscenza' della realtà della regione", scrivono Lori Lowenthal Marcus e Jerome M. Marcus. "L'ambasciatore israeliano negli Usa, Ron Dermer, ha detto che Israele non impedirà alle due congressiste di entrare nel paese nonostante siano entrambe dichiarate sostenitrici del movimento Bds" (Boycott, Divestment, Sanctions - in base a una legge approvata nel 2017, le autorità israeliane possono proibire l'ingresso a cittadini stranieri che "di proposito esortano pubblicamente a boicottare lo Stato d'Israele". Il ministero degli Esteri, tuttavia, può raccomandare una deroga per motivi diplomatici. Di fatto, il 15 agosto, dopo che questo articolo era stato pubblicato, il governo Netanyahu ha negato il visto alle due deputate democratiche. Salvo autorizzare il giorno dopo la visita "per ragioni umanitarie" alla sola Tlaib, che però a quel punto ha rinunciato, ndr). "Ma solo perché Israele le farà entrare non significa che i leader israeliani debbano assistere passivamente mentre Tlaib e Omar useranno il paese come sfondo per i loro spot pubblicitari a favore dell'ideologia di Hamas e Hezbollah, per le loro accuse a Israele di apartheid, genocidio e ogni altra possibile nefandezza, per il loro proposito di sopprimere l'autodeterminazione ebraica. Come sa ogni persona di buon senso, nessuna delle cose che queste signore affermano di credere su Israele è fondata nella realtà. Quindi Israele dovrebbe invitare le due ospiti americane nei luoghi dove il loro programma di viaggio non le porterebbe mai. Ecco una proposta di itinerario. La fabbrica SodaStream. Quella che, a causa delle violente proteste del movimento Bds, ha dovuto chiudere un impianto in Cisgiordania dove lavoravano più di 100 arabi a fianco di colleghi ebrei, con salari molto superiori a quelli che gli arabi percepiscono in Giordania, Gaza, Egitto o in qualsiasi città araba negli stessi territori dell'Autorità palestinese. Gli sforzi dei boicottatori di Israele sono riusciti a far perdere un ottimo impiego a decine di arabi che non sono in condizione di raggiungere il nuovo impianto all'interno della Linea Verde.

 I tunnel di Hamas
  Israele aiuti Tlaib e Ornar a venire a conoscenza della realtà sul terreno vedendo in prima persona ciò che Hamas ha fatto con i milioni di dollari sottratti agli aiuti internazionali destinati ai palestinesi di Gaza, e spesi invece per costruire tunnel progettati per essere utilizzati dai 'combattenti' di Hamas: uomini addestrati a penetrare nelle città israeliane all'interno della Linea Verde per uccidere civili a sangue freddo. Già che sono in zona, Tlaib e Ornar potrebbero visitare le migliaia di acri di terreni agricoli israeliani bruciati dalle 'proteste pacifiche' settimanali lungo il confine fra Gaza e Israele.

 La città di Haifa
  Tlaib e Ornar dovrebbero essere portate a Haifa, dove i cittadini israeliani sono arabi per oltre il 50 per cento. Che si facciano una chiacchierata con gli arabi nel Consiglio comunale di Haifa e che incontrino gli arabi nell'Università di Haifa: chiedano a queste persone quante di loro vorrebbero vivere, invece, nello stato Judenrein che l'Autorità Palestinese vuole creare.

 Ir David (la Città di David)
  Ornar e Tlaib dovrebbero unirsi ad altri turisti che percorrono la strada usata duemila anni fa dagli ebrei nel loro cammino verso il Secondo Tempio. Poi dovrebbero spiegare come possano sostenere le rivendicazioni dell'Autorità palestinese su Gerusalemme basate sull'assurda pretesa, abbracciata anche dai soloni delle Nazioni Unite, secondo cui Gerusalemme non avrebbe nessun legame storico con il popolo ebraico. Ir David si trova in un quartiere che gli arabi chiamano Silwan, un nome che hanno dato a quel luogo dopo averne cacciato gli abitanti originali: ebrei yemeniti che in quel luogo, che quegli ebrei chiamavano Shiloach, avevano costruito alcune delle prime case fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme. Mentre sono a Gerusalemme possono incontrare George Karra, giudice arabo nella Corte Suprema.

 Rawabi
  A nessun ebreo è permesso entrare in questa agiatissima enclave araba appena a nord di Ramallah. Ma il bellissimo centro commerciale, i graziosi appartamenti, le strade pulite e le forniture ininterrotte di elettricità, gas e acqua mostrano quanto sia amara la sopraffazione esercitata sugli arabi dai loro vicini ebrei. Naturalmente la residenza a Rawabi è disponibile solo per le persone approvate, una per una, dall'Autorità palestinese, esattamente come i negozi ben forniti a L'Avana sono accessibili solo ai membri del partito al potere. Le magre condizioni degli arabi nelle città che non hanno i vantaggi disponibili a Rawabi? Certo. Per colpa degli ebrei? Mica tanto (o meglio, per niente). Una volta completato questo breve itinerario, Tlaib e Ornar potranno recarsi in uno dei villaggi afflitti da oppressione, disoccupazione e miseria messi in scena dai loro ospiti arabi. Certamente Tlaib e Ornar lo useranno come scenografia per la sceneggiatura, che senza alcun dubbio hanno già scritto, a sostegno delle loro note posizioni anti israeliane e antisemite. Sicuramente, ci saranno parecchi "Benjamin" (il termine usato da Ilhan Ornar per denunciare i dollari usati dagli ebrei per corrompere i congressisti americani ndr) che passeranno di mano da ricchi sostenitori ansiosi di garantire un disastro mediatico per Israele. Ma perlomeno Israele avrà filmato le due congressiste messe di fronte a dati di realtà. Un giorno, per qualcuno, questo potrebbe fare la differenza. Se invece, come sembra probabile, Tlaib e Ornar rifiuteranno di confrontarsi coi fatti sul terreno che sbugiardano le loro accuse, sarebbe comunque avvincente filmare due sedie vuote che percorrono l'itinerario che le abbiamo invitate a intraprendere, ma che loro hanno avuto troppa paura per accettare. Quella fuga della realtà è di per sé un fatto molto significativo".

(Il Foglio, 19 agosto 2019)


Israele: ad Ashkelon la sabbia diventa arte in un festival internazionale

 
La Sirenetta, La bella e la bestia, Aladdin e molti altri personaggi Disney stanno attualmente occupando la spiaggia di Bar Kochba ad Ashkelon, per celebrare il primo festival internazionale di sculture di sabbia di Ashkelon, in corso fino al 23 agosto.
Il sindaco di Ashkelon Tomer Glam ha dichiarato: "Come si addice a una città con un mare di possibilità, sono lieto di invitare tutti i residenti di Israele a venire ad Ashkelon e godere con noi di un festival unico che combina arte di strada, cultura, creazione unica e il mare che caratterizza la nostra città. Siamo i primi a produrre questo tipo di festival internazionale, ma sono sicuro che questo è l'inizio di una tradizione che manterrà per molti altri anni ".
Jackie Bachar, produttore e direttore artistico del festival, ha scritto sul sito web del comune di Ashkelon: "Siamo lieti di portare in Israele i migliori artisti di sculture di sabbia del mondo in una settimana, in cui il pubblico può essere colpito dalle affascinanti opere che hanno creato soprattutto per il festival e abbiamo lavorato per giorni. Nessun costo e una varietà di attività che si svolgeranno lungo il lungomare di Ashkelon ".
Il festival è in corso dal 18 al 23 agosto tra le 10:00 e le 22.

(Bet Magazine Mosaico, 19 agosto 2019)


La sopravvissuta alla Shoà che ritrova la forza dopo l'assassinio del nipote

Scampata al genocidio nazista che ha sterminato la sua famiglia, Esther Schlesinger dice che la perdita del nipote, il 18enne Dvir Sorek pugnalato a morte da terroristi palestinesi, è stata una delle esperienze più dure della sua vita

Quando la sera di mercoledì 7 agosto è squillato il telefono in casa di Esther Schlesinger, 81 anni, sopravvissuta alla Shoà, era suo figlio Yoav Sorek che le chiedeva se il nipote Dvir fosse con lei. "Improvvisamente tutto è diventato nero", ricorda Esther.
Il corpo del diciottenne Dvir Sorek, con ferite multiple da pugnale, è stato trovato nelle prime ore del giorno dopo sul ciglio di una strada vicino alla sua yeshiva, il seminario dove studiava nel quadro di un programma che combina gli studi della Torà con il servizio militare. Non era né armato né in uniforme. I due palestinesi accusati dell'assassinio di Sorek sono stati arrestati la notte successiva, dopo una lunga caccia all'uomo in tutta la zona....

(israele.net, 19 agosto 2019)


Scritte ingiuriose contro Lega e istriani: "Nelle foibe a far concime". E la sindaca si indigna

di Davide Petrizzelli

Parte delle scritte contro gli esuli istriani e la Lega in corso Racconigi, a Torino
TORINO - "Leghisti e istriani stessa m... stessa fine. Nelle foibe a far concime". Firmato: Potere Ebraico (con una stella a sei punte). È il testo di una scritta tracciata con vernice blu su un palazzo di corso Racconigi e che, a metà agosto 2019, ha fatto indignare numerose persone.
Tra queste anche la sindaca Chiara Appendino, che condanna fermamente il testo e il gesto. "Le foibe e l'esodo degli istriani sono fatti che è bene non dimenticare mai - sottolinea la prima cittadina - e che rappresentano una delle tragedie più grandi della storia italiana, che ha lasciato ferite profonde, ancor oggi non ancora rimarginate. Quelle scritte sono un insulto non solo per chi di quella tragedia è stato vittima, ma lo sono per tutti gli italiani".
Le scritte verranno rimosse già nella giornata di domani, lunedì 19.

(Torino Today, 18 agosto 2019)


*


Foibe: Ricca, scritte vigliacche

"Sappiano gli autori di questi gesti, che si firmano con la sigla 'Potere ebraico' insultando anche gli ebrei e il popolo israeliano, che le loro azioni vigliacche non spaventano nessuno". Così il segretario torinese della Lega, Fabrizio Ricca, in merito alle scritte tracciate ieri su uno stabile del quartiere San Paolo con insulti contro il Carroccio e gli istriani vittime delle foibe. "La Lega - afferma Ricca - è abituata a ricevere minacce di ogni tipo da teppisti di varia natura. Le loro parole non ci spaventano. Questa volta però oltre a noi sono state lanciate ingiurie anche contro il ricordo delle vittime dei comunisti di Tito che vennero infoibati". "La Lega di Torino - conclude Ricca - è il partito che più di ogni altro ha dimostrato la sua amicizia nei confronti del popolo israeliano. È evidente che si è voluto attaccare anche questa amicizia duratura e sincera".

(Lo Spiffero, 19 agosto 2019)


Israele apre un nuovo fronte contro L'Iran

Secondo analisti israeliani, Teheran ritiene che la partecipazione di Israele alla forza multinazionale per la difesa delle vie commerciali nel Golfo, sia l'apertura di un quinto fronte di scontro contro Teheran e che ciò sia la risposta di Gerusalemme per la presenza di una flotta sottomarina nelle acque libanesi.
L'Iran si sta rendendo conto che la sua politica provocatoria ha creato un vero e proprio fronte di opposizione a Teheran perché mette a rischio gli interessi commerciali, economici e geopolitici dell'occidente, e vede un aumento esponenziale delle forze USA nell'area. In Siria, in Iraq e negli Emirati Arabi, sono operative e si sta completando lo schieramento in Arabia Saudita.
L'Iran minaccia "Questa presenza illegittima da parte di I sionisti nelle acque del Golfo Persico potrebbero scatenare una guerra".
Insomma, Teheran sente il fiato sul collo e il nervosismo deve essere ai massimi livelli perché mentre tentava di accerchiare Israele armando, finanziando ed addestrando Hezbollah e Hamas, non si è reso conto di essere già sotto il tiro dei missili dei sottomarini israeliani della classe Dolphin, in grado di lanciare testate nucleari, e che da tempo stazionano nel Golfo, pronti alla risposta sull'Iran in caso di attacco a Israele che da parte sua non esita ad eliminare chirurgicamente i vari avamposti iraniani in funzione anti Israele. E' notizia di queste settimane che le forze aeree israeliano hanno attaccato e distrutto in Iraq un deposito di missili iraniano.
L'Iran può scatenare certamente la guerra, ma sarà la fine del regime teocratico degli ayatollah.

(Osservatorio Sicilia, 18 agosto 2019)


Ciò che Israele fa e ciò che potrebbe fare

Succede molto spesso di sentire criticare Israele da molte parti per quel che non fa. A sinistra c'è sempre chi protesta perché lo stato ebraico "non ha il coraggio" di prendersi i rischi della pace. A destra molti hanno rimproverato Netanyahu per non aver avuto abbastanza determinazione per entrare a Gaza e sistemare una volta per tutte il terrorismo di Hamas. E poi ci sono quelli che rimproverano Israele per non aver ancora bombardato l'Iran, fatto guerra a Hezbollah, accolto i migranti, deposto Mahommed Abbas, abbandonato l'Onu, rotto le relazioni diplomatiche con la Turchia. Oppure, sul versante del fare, c'è chi si chiede perché Israele perde tempo a coltivare buoni rapporti, nei limiti del possibile con governi antisemiti e ferocemente antisionisti come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, o con la Russia, lasci passare i finanziamenti a Hamas e all'Autorità Palestinese o perda tempo con l'Unione Europea e cerchi compromessi anche su un luogo simbolicamente centrale come il Monte del Tempio, faccia entrare o meno le deputate americane sostenitrici del BDS. Alcune di queste critiche sono giustificate in linea di principio, altre per nulla. Ma tutte hanno in comune una sopravvalutazione del potere dello stato ebraico. Israele sfiora i 9 milioni di abitanti (come la Svizzera) e controlla una superficie di 25 mila kmq (come la Sicilia) e ha in linea di principio contro 450 milioni di arabi e altri 1,2 miliardi di musulmani, che controllano un quarto delle terre emerse. Buona parte del mondo cristiano e dei paesi comunisti o ex sono pure contrari a Israele. I rapporti anche precari, anche con paesi poco raccomandabili sono preziosi per il solo paese al mondo minacciato quotidianamente di distruzione non solo dai terroristi, ma da potenti stati. La prudenza e la ponderazione sono necessari per ogni gesto, per ogni decisione, anche minima: che si tratti di rispondere a provocazioni palestiniste o di entrare in guerra, bisogna pensarci molte volte. Perché Israele ha anche una debolezza che è un valore immenso: è l'unico stato ebraico al mondo, rinato dopo due millenni di esilio. Amministrarlo è una responsabilità pesantissima.

(Shalom, 18 agosto 2019)


Israele: missili e tentativi di infiltrazione da Gaza: uccisi tre terroristi

Missili su Israele per la seconda notte consecutiva mentre per la quinta volta un commando armato di Hamas cerca di infiltrarsi in Israele.

Tre missili sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele la scorsa notte. Due sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, un terzo è caduto in una zona non popolata.
Le schegge di uno dei missili sono cadute su un edificio di Sderot provocando danni.
Sono due notti consecutive che Hamas lancia missili su Israele.
Poche ore dopo un commando armato formato da cinque terroristi ha tentato di introdursi in Israele. Individuato dall'esercito israeliano è stato attaccato da un elicottero e da un carro armato.
Secondo fonti palestinesi, tre terroristi sarebbero rimasti uccisi. Questo è il quinto tentativo di infiltrazione in pochi giorni.

 Tentativi di infiltrazione
  A preoccupare i militari israeliani sono i continui tentativi di infiltrazione di uomini armati, per lo più membri di Hamas.
In pochi giorni i terroristi hanno tentato ben cinque volte di introdurre in Israele un comando armato.
Il sospetto è che questi gruppi abbiano come obiettivo quello di rapire militari e civili israeliani più che compiere attentati.
Le IDF hanno potuto constatare che nella maggioranza dei casi si tratta di membri di Hamas o ex membri passati con la Jihad Islamica.
Hamas sta ricevendo cospicui finanziamenti dall'Iran per aprire un fronte sud con Israele e per compiere attentati terroristici in suolo israeliano.
Qualche settimana fa una delegazione di Hamas si era recata a Teheran per concludere con l'Iran una alleanza strategica volta proprio a compiere attentati contro obiettivi israeliani e ad alzare la tensione nel sud di Israele.

(Rights Reporters, 18 agosto 2019)


I Moncalvo, saga d'ebrei emancipati

Romanzo storico. Il delizioso testo di Enrico Castelnuovo (1908) salvato dall'oblio e ripubblicato da Interlinea. Una famiglia della borghesia ebraica italiana, 50 anni prima dei «Finzi Contini» di Bassani

di Tommaso Munari

L'articolo 1 dello Statuto albertino (4 marzo 1848) sanciva: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». E, a scanso di equivoci, la Legge Sineo (19 giugno 1848) precisava: «La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici, ed all'ammissibilità alle cariche civili e militari». Così, prima ancora che si compisse l'Unità d'Italia, l'emancipazione degli ebrei veniva formalmente riconosciuta dalla legge. Non è un caso, del resto, che la partecipazione ebraica alle campagne risorgimentali del 1859, 1866 e 1870 sia stata tanto ampia e attiva. Ma una cosa è l'emancipazione (il riconoscimento di diritti civili e politici), un'altra l'assimilazione (l'assorbimento di modelli culturali e sociali). E il nesso tra le due, come ci racconta Enrico Castelnuovo nel romanzo I Moncalvo (1908), è più ambiguo e complesso di quanto possa apparire a prima vista.
  Clara, Giacomo e Gabrio Moncalvo sono nati in una famiglia ferrarese di fede ebraica e vivono a Roma al principio del Novecento. L'emancipazione li ha resi laici, borghesi, italiani. Ma assai diversi l'uno dall'altro. La primogenita Clara ha dedicato la sua vita ai fratelli e alle loro famiglie, vivendo alternativamente con l'una e con l'altra. Giacomo, il secondogenito, si è votato allo studio della matematica, divenendo, a costo di alcune rinunce, un rispettato cattedratico. Gabrio, poco incline allo studio ma molto agli affari, si è consacrato alla finanza, scalando i vertici della Banca internazionale. Ugualmente diversi sono i cugini Giorgio e Mariannina, figli rispettivamente di Giacomo e Gabrio: l'uno dedito, come il padre, alla scienza positivista, l'altra proiettata, grazie al padre, nella mondanità più sfrenata. E proprio Mariannina, di conturbante e magnetica bellezza, è il motore delle passioni che animano questo delizioso romanzo umbertino, strappato all'oblio dalla curatrice Gabriella Romani (anche coautrice della traduzione inglese) e dalla casa editrice Interlinea.
  Più ancora che per la sua dignità letteraria (certificata niente meno che da Benedetto Croce), I Moncalvo va oggi letto, o riletto, per il suo valore storico. Cinquantacinque anni prima che Giorgio Bassani pubblicasse Il giardino dei Finzi-Contini (1963) e ottantacinque prima che Clara Sereni desse alle stampe Il gioco dei regni (1993), Enrico Castelnuovo (1839-1915) calava i suoi lettori nel contesto sociale, del tutto inconsueto per la letteratura del tempo, della borghesia ebraica italiana. Ossia il milieu nel quale visse egli stesso, fiorentino di nascita e veneziano d'adozione, prima impiegato nell'impresa commerciale di un parente, poi giornalista di cronaca politica e culturale e infine professore alla Scuola superiore di commercio di Venezia (che diresse per un decennio fino al pensionamento). In quest'ultima veste scrisse un fortunato manualetto di istituzioni commerciali per la «Biblioteca Vallardi» (1893), a cui però non arrise il successo delle sue opere narrative, specialmente quelle pubblicate dall'amico editore Emilio Treves. Come, appunto, I Moncalvo.
  I Malavoglia israeliti? Non proprio. I Buddenbrook italiani? Nemmeno. Anche se tutti e tre i romanzi descrivono la trasformazione molecolare di una famiglia sullo sfondo dell'unificazione di una nazione. Quella dei Moncalvo, intimamente e convintamente italiana, si trova a dover affrontare un particolarissimo conflitto di lealtà, quando Mariannina decide di convertirsi al cattolicesimo per sposare il principe Cesarino Oroboni, ultimo ed esangue esponente della più pura aristocrazia nera. In casa Moncalvo s'accende il dibattito: a un estremo la posizione di Gabrio (e della moglie Rachele, malata di ambizione e vanità), secondo cui gli ebrei sono un «anacronismo», adatti solo a «rinsanguare le sfibrate aristocrazie occidentali che hanno poi più ragioni di vivere perché hanno radici profonde nella terra, nella storia europea ... mentre noi siamo nomadi»; all'altro quella di Giacomo (e del figlio Giorgio, esacerbato dall'amore per la cugina), secondo cui le «conversioni utilitarie sono uno degli spettacoli più tristi e più vili del nostro tempo», un tradimento non tanto della fede avita quanto della stessa morale religiosa.
  L'adesione di Enrico Castelnuovo alla posizione di quest'ultimo è fuori discussione: Romani ne trova peraltro conferma in un veemente passo delle sue memorie inedite, così come rintraccia una testimonianza del suo agnosticismo in una lettera del 1899 al cognato e futuro primo ministro Luigi Luzzatti. Il narratore esterno, al contrario, presenta i personaggi con onnisciente obiettività e ... imparziale ironia. Le sole figure che sembra non amare sono quelle di monsignor de Luchi, «inframmettente» prelato che agisce da sensale nel matrimonio contratto fra i Moncalvo e gli Oroboni, e del dottor Lòwe, cupo apostolo del sionismo che auspica non solo uno Stato degli ebrei (o, nella peggiore delle ipotesi, «una colonia»), ma «il trionfo finale della razza». Il personaggio per cui Castelnuovo ha invece più simpatia è l'enigmatica, esuberante Mariannina, metà sfinge e metà sirena. La curatrice scorge in lei un'antesignana dell'opalescente Micol Finzi-Contini (per la quale Bassani inventò la splendida metafora dei «lattìmi») e a ragion veduta: di entrambe sappiamo cosa dicono e fanno, ma non cosa provano e desiderano.
  Mariannina, si diceva, è il motore del romanzo; ma anche il suo traguardo. Nell'ultima, aspra discussione col fratello Giacomo, che gli rinfaccia il suo stile di vita, Gabrio afferma: «Voglio per me, voglio per mia moglie, per la mia figliuola una posizione sociale che sia al di sopra delle fluttuazioni della ricchezza ... Ecco il motivo pel quale approvo il matrimonio e la conversione della Mariannina, ecco perché, presto o tardi, la Rachele ed io abbracceremo la religione della maggioranza». Per Gabrio, l'emancipazione non basta e l'assimilazione può compiersi solo attraverso la conversione, anche a costo di compromettere i suoi rapporti col banchiere Rothschild. In questa affermazione risiede l'essenza del romanzo, ma anche un implicito dilemma: sono più ebrei o più borghesi questi Moncalvo.

(Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019)


Hamas: il raid israeliano "messaggio di aggressione ed escalation"

GERUSALEMME - Il bombardamento israeliano contro postazioni del movimento palestinese Hamas nella Striscia di Gaza "è un messaggio di escalation e aggressività, volto a distogliere l'attenzione dalle coraggiose azioni in atto in Cisgiordania, che hanno confuso il nemico e approfondito la crisi interna in cui si trova". Lo ha dichiarato oggi il portavoce di Hamas, Fawzi Barhum, riferendosi all'episodio di "car ramming" avvenuto ieri, 16 agosto, in Cisgiordania.
Nella notte le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno colpito obiettivi del movimento palestinese Hamas nella Striscia di Gaza in risposta a un razzo che è stato lanciato da gruppi armati dell'enclave in precedenza. Lo riferisce l'esercito israeliano. "Gli aerei da guerra hanno attaccato due strutture terroristiche sotterranee del gruppo terroristico di Hamas a nord e al centro della Striscia di Gaza", fanno sapere le Idf. "L'attacco è stato effettuato in risposta al razzo lanciato da Gaza stanotte.
Le Idf continueranno ad agire contro i tentativi di danneggiare i civili israeliani e considera il gruppo terroristico di Hamas come responsabile di tutto ciò che avviene nella Striscia di Gaza", si legge nella dichiarazione. Il razzo lanciato dall'enclave è stato intercettato dal sistema di difesa Iron Dome e non ha causato danni o vittime. Le sirene si sono attivate nella città di Sderot e nelle comunità di Or Haner, Nir Am, Erez e Gevim.

(Agenzia Nova, 17 agosto 2019)


Mar Morto, l'allarme degli ambientalisti: a rischio scomparsa entro 40 anni

Per gli esperti è un "fenomeno geologico unico" che rischia di sparire. Necessario intervenire per rallentare l'abbassamento delle acque e la perdita progressiva della costa. Fra i principali imputati le aziende estrattive, in particolare sul versante israeliano. La richiesta di una conferenza internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite.

AMMAN - Entro i prossimi 30 anni, massimo 40, il mar Morto rischia di scomparire se non si interviene in modo efficace per rallentare l'abbassamento delle acque e la perdita progressiva della costa. A lanciare il nuovo allarme è un gruppo di esperti in un editoriale pubblicato dal Jordan Times, secondo cui a dispetto dei ripetuti appelli degli ultimi anni le parti interessate - governi dell'area e organismi internazionali - non sembrano preoccuparsi della drammatica crisi alle porte.
   Sakher Nsour, presidente della Jordan Geologists Association, sottolinea che il mar Morto è "un fenomeno geologico unico", che corre il pericolo di "scomparire nei prossimi decenni". Dagli ultimi rapporti ambientali emerge che il livello delle acque sta diminuendo a un ritmo di un metro e mezzo all'anno e che, negli ultimi 40 anni, il volume complessivo del bacino si è ridotto del 35%.
   Il calo progressivo delle acque ha già causato alcuni effetti sull'ecosistema del bacino: in primis, il progressivo allontanamento dalla riva di hotel, stabilimenti e ristoranti che un tempo affacciavano sul mare ed erano meta ambita per i turisti. Molte delle spiagge sabbiose, un tempo erano ricoperte per intero dalle acque. Inoltre, negli ultimi anni emergono con sempre maggiore frequenza enormi crateri all'interno del bacino idrico.
   Il mar Morto è, in realtà, un lago situato fra Israele, Giordania e Palestina, nel deserto della Giudea. Esso sorge nella depressione più profonda della terra ed è il risultato dell'evaporazione millenaria delle sue acque, non compensate dal contributo degli immissari. Oggi il livello del bacino superiore, a nord, è di 415 metri sotto il livello del mare e il divario continua ad aumentare. La caratteristica peculiare è l'estrema salinità delle acque, che non consente forme di vita al suo interno ad eccezione di alcune tipologie di batteri.
   Secondo gli esperti, dietro il declino vi sono fattori naturali e responsabilità umane, fra cui l'uso estensivo da parte di Israele delle acque del fiume Giordano nel deserto del Negev nel sud. A questo si aggiungono gli impianti di estrazione di sale e potassio sulle rive del mare, in particolar modo sul versante israeliano, che hanno contribuito all'enorme pompaggio di acqua. Infine, vi è da tenere contro dell'estrema fluttuazione delle precipitazioni che hanno ridotto, e non di poco, il contribuito di acqua ai fiumi che alimentano il bacino.
   Fra le ragioni primarie della crisi, resta la mano dell'uomo e delle attività di sfruttamento promosse in questi ultimi anni, contro i quali inizia a muoversi anche la magistratura. Nei giorni scorsi il tribunale di Haifa, raccogliendo una petizione del gruppo ambientalista Adam Teva V'Din, ha imposto alla Dead Sea Works un limite al prelievo di acque dal bacino per scopi industriali. Sul banco degli imputati il più importante impianto [israeliano] di estrazione del potassio a Sdom, responsabile secondo gli ecologisti di inquinare e contribuire allo svuotamento del mar Morto.
   In risposta all'emergenza, attivisti e ong ambientaliste auspicano "il prima possibile" una conferenza internazionale per "salvare il mar Morto", da tenersi sotto l'egida delle Nazioni Unite. L'idea è quella di un incontro globale, perché è "compito e interesse di tutti" salvare il bacino e scongiurarne la scomparsa definitiva.

(AsiaNews, 17 agosto 2019)


Il premier Hariri a Washington punta a un cessate il fuoco con Israele

di Giordano Stabile

Il premier libanese Saad Hariri punta a un cessate-il-fuoco con Israele, sotto l'egida dell'Onu, primo passo per la pace con Israele. Un'apertura, anche se ancora prudente, che arriva da Washington, dove ieri era in visita e ha incontrato il segretario di Stato Mike Pompeo. Gli Stati Uniti sono in pressing sul primo ministro sunnita da mesi, con un duplice obiettivo: disinnescare il fronte Nord per lo Stato ebraico, e quindi rafforzare la sua sicurezza; e mettere fine alla disputa sui confini marittimi per lanciare lo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas offshore, sia sul lato israeliano che libanese. Metano che potrà a essere venduto all'Europa e ridurre la dipendenza da quello russo.
   Il Libano, un Paese grande come le Marche e con 5 milioni di abitanti, diventa così un tassello importante nella strategia mediorientale di Washington. Le trattative sono state condotte dal navigato ex ambasciatore a Beirut David Satterfield, ora ad Ankara. E nonostante la presenza di Hezbollah al governo, Pompeo è stato generoso con le forze armate libanesi. Gli Usa hanno prima fornito piccoli cacciabombardieri a elica, in funzione anti jihadisti, e ora, sono stati annunciati ieri, altri 150 blindati Humvee, di cui l'esercito dei Paese dei cedri ha disperato bisogno. Nonostante le polemiche, e il timore che parte degli armamenti finiscano al Partito di Dio sostenuto dall'Iran, il riarmo va avanti e Washington spera che si sblocchino anche le trattative con Israele. Ancora in guerra Libano e Israele sono ufficialmente ancora in guerra anche se non ci sono stati più incidenti di rilievo dal 2006. Hariri, arrivato al potere in virtù dell'accordo fra gli sciiti e il presidente cristiano Aoun, è stato prudente, ma ha puntualizzato che sta «lavorando seriamente per arrivare al cessate-il-fuoco: vogliamo la fine delle ostilità ma tutti devono fare la loro parte». Ha poi spiegato che il cessate-il-fuoco dovrebbe essere implementato nell'ambito della risoluzione Onu 1701, sotto la sorveglianza della forza Onu Unifil, guidata dal generale italiano Stefano del Col.
    Hariri si è anche riferito alle violazioni dello spazio aereo libanese da parte dei jet israeliani che colpiscono le milizie sciite in Siria ma ha ammesso di aver discusso con gli interlocutori americani la questione delle «fabbriche di missili» che i Pasdaran stanno cercando di impiantare sul territorio libanese, un'accusa che Hezbollah ha sempre respinto. Ma il punto più importante resta quella dei "confini marittimi". ìl fiume di gas che deriverebbe da un'intesa risolverebbe gran parte dei problemi del Libano, a corto di energia e risorse finanziare. E sarebbe un successo personale di Pompeo.
   
(La Stampa, 17 agosto 2019)


L'americana velata si fa beffe pure di Israele

La deputata statunitense di origine palestinese Rashida Tlaib ha rifiutato la possibilità datale da Israele di entrare nel suo territorio per fare visita alla nonna in Cisgiordania, motivando la decisione con le «condizioni oppressive» stabilite per la sua visita e definite umilianti. «Ho deciso che visitare mia nonna sotto queste condizioni oppressive va contro tutto ciò che credo - combattere il razzismo, l'oppressione e l'ingiustizia», ha scritto Tlaib su Twitter. Parlando della volontà, in qualità di rappresentante eletta, di «dire la verità sulle inumane condizioni» imposte da Israele ai palestinesi, ha proseguito, «non posso permettere che lo Stato d'Israele porti via quella luce umiliandomi e usando il mio amore per mia nonna per piegarmi alle loro politiche oppressive e razziste».
Infine, in un terzo tweet, ha concluso: «Silenziarmi e trattarmi come una criminale non è ciò che lei (la nonna, ndr) vuole per me. Ucciderebbe un pezzo di me». In un primo momento le autorità di Gerusalemme avevano rifiutato l'ingresso della deputata nota per le posizioni anti-israeliane (sostiene il movimento Bds, che promuove il boicottaggio internazionale dello Stato ebraico) e per gli scontri con Donald Trump.
Poi, il ministro dell'Interno Aryeh Deri ha rivisto la decisione, consentendo il passaggio alla politica velata una mossa che ha evidentemente spiazzato Rashida Tlaib tanto da spingerla a rifiutare quello che lei stessa aveva chiesto.

(Libero, 17 agosto 2019)



Operatori turistici e clienti ebrei, ecco come evitare incomprensioni

La Federazione svizzera delle comunità israelite ha lanciato un progetto di mediazione per permettere agli operatori turistici e ai loro clienti ebrei di evitare incomprensioni reciproche.

Aveva fatto molto discutere, due anni fa, l'avviso affisso in un hotel di Arosa che invitava i clienti ebrei a farsi la doccia prima di tuffarsi nella piscina. Un caso estremo ma che dimostra come spesso le incomprensioni culturali possano provocare non pochi disagi nel mondo del turismo.
Su iniziativa della Federazione svizzera delle comunità israelite è nato Likrat Public, un progetto che ha l'obiettivo di facilitare il dialogo tra responsabili strutture turistiche che hanno a che fare con clienti ebrei.
Servite una colazione kosher? Posso evitare di usare una chiave della stanza elettronica il sabato? Il mediatori di Likrat Public sono incaricati di spiegare come rispondere e comportarsi in determinate situazioni.
Diversi eventi, si legge sul sito del progetto, si sono già svolti con successo proprio ad Arosa, a Davos, nella Valle di Saas, in alcuni alberghi di Zurigo, in un centro di fisioterapia e nel parco acquatico Alpamare, ma si intende ampliare il raggio d'azione ad altri luoghi turistici della Svizzera.

(tvsvizzera, 16 agosto 2019)


Auto travolge israeliani: due feriti. Ucciso l'assalitore

Dei due feriti, un 17enne è in gravi condizioni

Due israeliani sono stati feriti in quello che l'esercito del loro Paese ha definito un investimento automobilistico di tipo "terroristico", vicino all'insediamento ebraico di Elazar a sud di Betlemme. "Un terrorista ha investito due civili", hanno affermato le forze armate in una nota, aggiungendo che i due "sono rimasti feriti e sono stati trasportati all'ospedale per le cure mediche", mentre "il terrorista è stato neutralizzato". Dei due israeliani, un 17enne è in gravi condizioni, una donna è rimasta ferita a una gamba in modo meno grave. Un poliziotto fuori servizio si trovava sul posto, ha visto che l'assalitore palestinese tentava di uscire dal veicolo e gli ha sparato, uccidendolo. Nella stessa zona un soldato israeliano fuori servizio è stato accoltellato a morte la settimana scorsa; due sospettati palestinesi sono poi stati arrestati.

(RaiNews, 16 agosto 2019)


L'Iran presenta Bavar 373 una versione aggiornata del sistema di difesa aereo russo S-300

 
Bavar 373, una versione di produzione nazionale più aggiornata del potente sistema S-300 della Russia, sarà presentata il prossimo 22 agosto, durante la Giornata nazionale dell'industria difensiva, ha annunciato il ministro della Difesa della Repubblica islamica, Generale di brigata Amir Hatami.
"Aumenteremo il livello della potenza militare iraniana su larga scala presentando e incorporando il sistema antiaereo Bavar 373 nella Giornata nazionale dell'industria difensiva", ha dichiarato Hatami, a margine di un evento governativo tenutosi mercoledì a Teheran.
La presentazione del nuovo sistema iraniano, secondo il ministro, "sarà un'ottima notizia" per il settore della difesa aerea del paese e cattiva per le potenze nemiche.
All'evento, che si terrà la prossima settimana, l'Iran presenterà anche una serie di risultati militari e difensivi, tra cui un veicolo militare con nuove opzioni per le forze armate, ha aggiunto Hatami.
Bavar, che ha superato i test preliminari "con successo" a gennaio 2018, supera del 50% la portata del sistema russo S-300. La capacità di copertura dell'S-300 è di circa 200 chilometri e la sua capacità di localizzazione target è di 300 chilometri, da cui si può dedurre che la capacità di localizzazione del nuovo sistema iraniano è di circa 450 chilometri.
Il sistema missilistico antiaereo a lungo raggio è uno dei successi dell'industria militare del paese persiano, che può garantire la sicurezza nazionale in caso di attacchi nemici, che hanno recentemente intensificato le provocazioni contro Teheran, creando incidenti e situazioni. per creare le giustificazioni ad un'aggressione militare.
Di fronte a questa situazione, il generale di brigata Hosein Dehqan, consigliere del leader della rivoluzione islamica dell'Iran, l'Ayatollah Seyed Ali Khamenei, in materia di difesa, ha avvertito che, in caso di conflitto armato, gli Stati Uniti dovrà affrontare non solo l'Iran ma tutti i suoi alleati regionali. Inoltre, tutte le basi statunitensi nella regione diventeranno bersaglio di attacchi.

(l'AntiDiplomatico, 16 agosto 2019)


Israele: capo divisione Galilea richiamato per visita non autorizzata in tunnel Hezbollah

GERUSALEMME - Il comandante della divisione Galilea delle Forze di difesa israeliane (Idf), generale Rafi Milo, è stato richiamato e non riceverà promozioni per i prossimi tre anni per aver consentito visite non autorizzate dei suoi sottoposti nei tunnel scavati dal movimento sciita libanese Hezbollah a ridosso della "blue line", lungo la linea di demarcazione tra Libano e Israele. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "The Times of Israel". I vertici delle Idf riferiscono che Milo ha inutilmente messo in pericolo la vita dei suoi subordinati e ha rischiato di provocare un incidente internazionale lungo il confine settentrionale, dove permane un clima di tensione. All'inizio di questa settimana, il quotidiano "Yedioth Ahronoth" ha riferito che Milo aveva portato un gruppo di militari per una visita notturna lo scorso gennaio all'interno del più grande tunnel scoperto da Israele durante l'operazione "Northern Shield", avviata a dicembre 2018. Secondo le indiscrezioni, Milo e i suoi soldati avrebbero percorso il tunnel fino alla sua origine, ovvero diversi chilometri all'interno del territorio libanese. Inoltre, Milo non avrebbe avuto il permesso dei suoi superiori per visitare il tunnel e non avrebbe detto a nessuno nell'esercito dove stessero andando. Secondo "Yedioth Ahronoth", Milo si sarebbe assunto la piena responsabilità dell'incidente, ma avrebbe difeso la sua decisione di ispezionare il tunnel.

(Agenzia Nova, 16 agosto 2019)


Souad Sbai su Rachida Tlaib: "Al mondo arabo non servono provocatori ma dialogatori"

Souad Sbai
"Al mondo arabo non servono provocatori: già ce ne sono molti, troppi… Serve invece imparare a dialogare e ad evitare comportamenti assolutamente inutili, se non dannosi". Così Souad Sbai, già parlamentare e giornalista di lungo corso, commenta la vicenda il nuovo colpo di scena nella travagliata vicenda della visita programmata in Israele da due deputate del congresso americano. La deputata del Partito democratico, di origini musulmane, Rashida Tlaib, ha rifiutato di recarsi in Israele a causa delle "condizioni oppressive" poste dallo Stato ebraico. Ieri il governo israeliano aveva deciso di vietare l'ingresso a Tlaib e alla sua collega Ilhan Omar perché accusate di sostenere il boicottaggio di Israele, oggi poi ha fornito un'autorizzazione per motivi umanitari a Tlaib, che ha la famiglia in Cisgiordania. Per questo motivo Souad Sbai, esperta conoscitrice del mondo arabo, giudica il comportamento della deputata americana "dannoso inutile, provocatorio: la deputata Usa sta sbagliando periodo storico, ora è il momento di abbassare i toni e cercare punti di dialogo per giungere a soluzioni concrete da entrambe le parti. Questi gesti creano solamente confusione: non serve a nessuno. La confusione non salva vite tanto quanto le sterili polemiche propagandistiche", infatti Israele aveva consentito l'ingresso alla deputata democratica Tlaib, per fare visita alla nonna 90enne in Cisgiordania: un gesto di apertura voluto soprattutto dal presidente Trump che ha contattato personalmente il premier israeliano Netanyahu.
La Tlaib aveva anche inviato una richiesta presentata al ministro dell'Interno Derin dove aveva scritto e firmato che si sarebbe recata solamente in visita della nonna 90enne e "non promuovere la causa del boicottaggio contro Israele durante il suo soggiorno". Quello che sta facendo l'incontentabile capricciosa Tlaib. Ma prese di posizione e auto-propaganda non serviranno a nessuno. Soprattutto ai palestinesi ai quali queste spettacolari e isteriche chiusure non serviranno a nulla. Solo ad essere usati come palla in un gioco nel quale i calciatori sono altri. E non segneranno mai un gol.

(Almaghrebiya.it, 16 agosto 2019)


Trump: "L'Iran vuole un nuovo accordo sul nucleare"

L'Iran chiede un nuovo accordo sul nucleare, perché "le sanzioni stanno pesando sull'economia del Paese"

di Francesca Bernasconi

"L'Iran vuole un nuovo accordo sul nucleare, ma l'America non si piegherà mai a un'altra nazione". Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato la volontà dell'Iran di siglare un nuovo accordo sul nucleare.
Lo scorso 7 luglio, l'Iran aveva annunciato che avrebbe aumentato il livello di arricchimento dell'uranio, per aggirare gli obblighi previsti dall'accordo sul nucleare del 2015, che prevedeva, tra l'altro, un limite al livello di arricchimento. L'annuncio era arrivato al termine dell'ultimatum dato all'Unione Europea, partner dell'accordo, perché aiutasse il Paese ad allentare la stretta provocata dalle sanzioni statunitensi. Ma, il 9 luglio, l'Europa aveva chiesto all'Iran di bloccare l'arricchimento dell'uranio, che stava superando i limiti del 3,67%, stabiliti dall'accordo.
Così, le minacce dell'Iran non erano cessate e Trump aveva reagito. La tensione tra i due Paesi era sfociata in alcuni attacchi alle petroliere e, successivamente, gli Stati Uniti avevano dato avvio a una serie di cyber attacchi.
Ora, l'Iran vorrebbe firmare un nuovo accordo sul nucleare perché, a detta del presidente Usa, "le sanzioni stanno pesando sull'economia del Paese". Ma, la risposta di Trump è chiara: "Finché sarò presidente, l'America non si piegherà mai ad un'altra nazione, come abbiamo fatto per molti anni".

(il Giornale, 16 agosto 2019)


Perché Rashida Tlaib e Ilhan Omar non possono entrare in Israele

Dure critiche da parte dei democratici americani per la scelta di Gerusalemme di impedire l'ingresso in Israele di Rashida Tlaib e Ilhan Omar, le due deputate Dem che odiano lo Stato Ebraico. Ma la legge è uguale per tutti

di Sarah G. Frankl

I Democratici americani non hanno preso tanto bene la decisione di Israele di interdire l'ingresso a Rashida Tlaib e Ilhan Omar, le sue deputate Dem sostenitrici del Movimento BDS che volevano entrare nello Stato Ebraico e andare sul Monte del Tempio.
Secondo molti democratici americani (ma anche qualche repubblicano) la decisione presa da Israele, sembra su pressioni del Presidente Trump, potrebbe incidere sul sostegno bipartisan allo Stato Ebraico.

 Applicazione della legge anti-BDS per tutti
  In realtà consentire l'ingresso in Israele a Rashida Tlaib e Ilhan Omar avrebbe comportato la violazione di una legge israeliana che vieta ai sostenitori del Movimento BDS di entrare in Israele.
In particolare proprio le due deputate Dem americane si sono spese in una vera e propria campagna d'odio verso Israele non solo appoggiando il Movimento BDS e quindi la delegittimazione dello Stato Ebraico (il boicottaggio è solo una parte delle attività di questo movimento), ma proponendo un vero e proprio cambio della politica americana verso Israele a partire dallo stop agli aiuti militari che Washington fornisce a Gerusalemme.
«Penso che sarebbe una cosa terribile per Israele far entrare queste due persone che parlano così male dello Stato Ebraico» ha detto Netanyahu ai giornalisti che gli chiedevano le motivazione del rifiuto israeliano. «Hanno detto alcune delle cose peggiori che io abbia mai sentito dire su Israele» ha poi continuato il Premier. «Quindi, come può Israele dire loro benvenute?».

 Le proteste dei democratici americani
  Immediate le critiche da parte dei democratici americani e non solo da parte dei soliti noti come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Anche Steny Hoyer, noto per le sue battaglie a favore di Israele che solo pochi giorni fa, rispondendo alle accuse di antisemitismo mosse dal Presidente Trump al Partito Democratico, aveva detto che «i democratici americani amano Israele». Hoyner si è detto «stupito» della decisione israeliana e ha chiesto a Netanyahu di rivedere la sua decisione.
Qualche isolata critica anche da parte repubblicana. Il senatore della Florida Marco Rubio, da sempre fervente sostenitore di Israele, ha detto che «la decisione israeliana è stata un errore».
Tuttavia il Premier israeliano non è intenzionato a fare marcia indietro. Troppo gravi gli attacchi di Rashida Tlaib e Ilhan Omar (soprattutto da parte di quest'ultima) a Israele mentre pesa il silenzio sulle violenze e sulle porcherie palestinesi, come sulla decisione da parte della ANP di aumentarsi lo stipendio del 67% quando la maggioranza dei palestinesi vive in povertà non certo per colpa di Israele.

(Rights Reporters, 16 agosto 2019)


*


Israele farà entrare la deputata Usa Rashida Tlaib «per motivi umanitari»

La visita ridotta a carattere famigliare: «Potrà visitare la nonna, ma non promuovere il boicottaggio». Non ci sarà la collega Ilhan Omar, che avrebbe dovuto accompagnarla nel tour bloccato dal governo di Netanyahu dopo le pressioni di Trump.

«Mia nonna è novantenne e questa potrebbe essere l'ultima possibilità di vederla». Così il viaggio di Rashida Tlaib da politico-diplomatico ¬- come dovrebbe essere consentito a una deputata americana - diventa una «questione umanitaria». L'appello è accompagnato dalla promessa scritta «di rispettare le restrizioni e di non promuovere il boicottaggio di Israele», la visita si riduce a una questione famigliare, di quelle che il ministero degli Interni valuta a migliaia per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
   Il permesso è stato concesso, Tlaib atterra domenica all'aeroporto Ben Gurion. Senza Ilhan Omar, eletta con lei per i democratici, che avrebbe dovuto accompagnarla nel tour bloccato dal governo di Benjamin Netanyahu dopo le pressioni - dietro le quinte e pubbliche via Twitter - esercitate da Donald Trump.
   Il presidente vuole presentarsi come l'unico amico dello Stato ebraico (a differenza secondo lui dei democratici). Gli israeliani hanno deciso di applicare la legge che impedisce l'ingresso a chi sostiene il movimento per il boicottaggio del Paese e delle colonie costruite nei territori arabi. Una campagna globale che Tlaib e Omar hanno proclamato di appoggiare: tutte e due criticano spesso il governo di Netanyahu e il trattamento riservato ai palestinesi. Ron Dermer, ambasciatore israeliano a Washington, aveva promesso ai leader democratici che le deputate sarebbero state accolte «per rispetto verso il Congresso e la grande alleanza con gli Stati Uniti».
   E' stato sconfessato dall'uomo che l'ha nominato e adesso i politici americani - anche qualche repubblicano come Marco Rubio - attaccano Netanyahu e le interferenze di Trump. Durante i cinque giorni in Medio Oriente, Tlaib e Omar sarebbero dovute andare a Betlemme, Hebron, Ramallah e Gerusalemme, dove Hanan Ashrawi, storica attivista e parlamentare palestinese, aveva organizzato per loro incontro con i gruppi per la difesa dei diritti umani.

(Corriere della Sera, 16 agosto 2019)


TuBeav, una festa che parla d'amore

Il 15 di Av, che quest'anno cade il 16 agosto, nella tradizione ebraica è una festa ancora poco nota al di fuori d'Israele: "Tu Beav", e' considerata la festa dell'amore, dei fidanzamenti e della gioventù. Le sue radici sono bibliche e veniva celebrato ai tempi del Santuario per poi rimanere a lungo dimenticato.
La festa è citata esplicitamente nella Mishnah: "Per Israele non esistevano giorni più lieti del 15 di Av e del giorno di Kippur, in cui le fanciulle di Gerusalemme uscivano con abiti bianchi presi in prestito per non far arrossire le più povere. Tutti i vestiti andavano sottoposti al bagno di purificazione. Le fanciulle di Gerusalemme uscivano a danzare nelle vigne. E che cosa dicevano? 'Giovane, alza i tuoi occhi e guarda bene quello che scegli. Non posare gli occhi sulla bellezza, ma bada alla famiglia. Cosa falsa è la grazia; vanità è la bellezza. Solo la donna temente di Dio è degna di lode' (Prov. 31,20 - Ta'anit IV, 7)".
   Tu Beav cade tra Tisha Beav, un momento di lutto e riflessione per ricordare la distruzione del Tempio, e l'inizio delle principali festività ebraiche: è quindi un giorno che simbolicamente fa da ponte tra la distruzione e rinnovamento. "È una festa gioiosa, - sottolinea la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni - poco celebrata nella Diaspora ma che in Israele ha trovato nuova vita, con eventi organizzati in tutto il paese, nelle case degli israeliani come in piazza". Secondo alcune fonti, la festa corrisponde alla celebrazione annuale del giorno in cui venne rimosso il divieto di sposarsi fra appartenenti a tribù diverse o del giorno in cui cessò il divieto di sposare le figlie della tribù di Beniamino. Da qui, il legame con il tema dell'amore.
   Come spiega rav Yisrael Meir Lau, rabbino capo di Tel Aviv e già rabbino capo ashkenazita d'Israele, ci sono diversi eventi positivi collegati a Tu Beav. Il 15 di Av corrisponde, ad esempio, all'espiazione del peccato degli "esploratori". La storia è nota: dieci dei dodici esploratori mandati da Mosé in avanscoperta in Eretz Israel, tornarono dalla missione dicendo che era una terra impossibile da conquistare e scatenarono il panico tra il popolo. A seguito di questo incidente, il Signore decretò che la nazione ebraica sarebbe rimasta nel deserto per 40 anni, e che a nessuna persona di 20 o più di 20 anni uscita dall'Egitto sarebbe stato permesso di entrare in Israele. "Ogni Tisha BeAv in quei 40 anni - ricorda rav Lau - chi aveva raggiunto l'età di 60 anni morì: 15.000 ogni Tisha BeAv". Quando si avvicinò l'ultimo dei quaranta 9 di Av passati nel deserto, gli ultimi 15mila si prepararono alla morte. Arrivata la data però non accadde nulla, così pensarono di aver sbagliato il conteggio. Aspettarono un altro giorno, e un altro ancora fino a quando apparve la luna piena in cielo: allora si resero conto che era il 15 del mese di Av, Tisha B'Av era passato e il Signore non li aveva puniti con la morte. Anzi aveva perdonato dal peccato degli esploratori il suo popolo, che istituì il 15 di av come giorno di festa.
   Rispetto al ruolo delle donne, su Pagine Ebraiche rav Luciano Caro proponeva invece un'interpretazione significativa di Tu Beav. "Si è visto che il 15 di Av le fanciulle uscivano a ballare, presumibilmente in cerchio, vestite di bianco. Il termine 'Av' designa un mese dell'anno ebraico, ma è composto dalle prime due lettere dell'alfabeto: Alef Bet. Da notare che nell'alfabeto ebraico la quindicesima lettera è la Samekh, che ha la forma di un cerchio ed evoca pertanto la danza in circolo, nella quale tutti i danzatori si possono guardare l'un l'altro e si trovano tutti in situazione di uguaglianza". Un bel modo per rivendicare una volta di più l'uguaglianza delle donne con l'aiuto della tradizione e in un giorno di gioia dedicato agli innamorati. In Israele, in Italia, come in tutto il mondo.
   E può essere anche un modo per riscoprire le proprie radici, ricorda la presidente UCEI. Per chiedere ai propri genitori o nonni come si sono incontrati, come le loro storie si siano intrecciate. Alcune emittenti israeliane hanno scelto questa strada facendo parlare figli e nipoti che riportano alla luce teneri spaccati famigliari: c'è chi racconta della nonna che si innamorò del nonno ascoltandolo alla radio raccontare di Torah; chi, attraverso delle lettere di 30 anni prima alla madre e i social network oggi, è riuscita a rintracciare il padre costretto a rimanere in un villaggio in Etiopia e di cui si erano perse le tracce dopo la prematura scomparsa di lei; chi riscopre la figura del nonno, mai conosciuto, tramite le missive - in italiano - scritte alla moglie e in cui, a pochi giorni dalla Guerra dei sei giorni, chiede delle sue scarpe militari. Piccole finestre sul passato dei singoli che raccontano i tanti volti d'Israele: lingue diverse che si intrecciano in un unico paese, parlando d'amore e d'affetto. E come scrive la cantante Naomi Shemer nella sua Tilbeshi Lavan - Vesti in bianco - citando il testo del midrash su Tu Beav: "Quest'estate vesti in bianco/ Immagina pensieri luminosi / Potresti ricevere una lettera d'amore / Forse faremo delle scelte / Io sceglierò te e tu sceglierai me".

(moked, 16 agosto 2019)


Trame e ordito, il segno dei secoli delle donne ebree italiane

La mostra a Gerusalemme

 
 
Particolari della Mostra
"Siamo partiti da una domanda: le donne ebree italiane si limitavano alla cura, seppur importante, della casa e dei figli o avevano altri compiti? La risposta è che c'è di più: come la trama di un tessuto, il ruolo della donna nell'ebraismo italiano si muove in diverse direzioni". Da questo spunto è nata l'esposizione inaugurata al Museo U. Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme, intitolata "Trama e Ordito", curata da Anastazja Buttitta. E' lei a spiegarci il significato della mostra, ideata volutamente come un "omaggio all'esposizione in corso agli Uffizi di Firenze (Tutti i colori dell'Italia ebraica) e alla mia mentore Dora Liscia Bemporad".
   Attraverso preziosi tessuti della collezione del Museo Nahon, datati tra il XVI e XX secolo, viene raccontato il ruolo complesso della donna all'interno della società ebraica italiana. "La collezione del Museo può vantare 220 tessuti, rituali e non, che vanno dal 1500 al dopoguerra. Molti non erano datati e con l'aiuto di Dora Liscia Bemporad e Doretta Davanzo Poli stiamo completando questo lavoro. Da qui siamo partiti per costruire la mostra - spiega la curatrice - che fa riferimento a due filoni fondamentali dell'arte ebraica: il Hiddur Mitzvot (glorificare Dio e i comandamenti della Bibbia attraverso bellissimi oggetti rituali) e il la'alot bakodesh, l'elevazione a santità di elementi di tessuti mondani". In questo caso sono esposti - nella sezione "Il tessuto 'riciclato', da oggetto mondano a oggetto sacro usato nella cerimonia"- meilim (tessuti con i quali si rivestono i Sifrei Torah) e parokhot (le tende poste davanti all'Aron Ha Kodesh) firmati da donne ebree italiane, che riutilizzavano ed elevavano appunto tessuti mondani a usi sacri. "In periodi di esclusione e inaccessibilità a libere professioni, agli ebrei italiani restarono poche possibilità di commercio. - scrive nella presentazione della mostra Jack Arbib, presidente del Museo Nahon - Una attività principale e diffusa fu quella dei cenciaioli, umili raccoglitori e venditori di pezze di panni.
   Questa manipolazione di stracci (shmates) si evolse in una raffinata maestria. Attraverso la trasformazione veniva donata a queste pezze una nuova e preziosa nobiltà". E in questo restituire nuova vita ai tessuti le donne ebbero un ruolo decisivo. "Una peculiare della realtà ebraica italiana - spiega Buttitta - Le donne a Venezia, Mantova, Firenze, come in altre parti della penisola, lavoravano in casa dando un apporto fondamentale all'economia famigliare. Non solo, questo tipo di occupazione permetteva che le donne avessero a disposizione volumi con modelli di merletto provenienti da tutta Europa e dimostra come sapessero leggere, fare di conto e avessero quindi un'educazione significativa per l'epoca". La loro abilità, ricorda Arbib, fu raccontata anche dallo storico tedesco Ferdinand Gregorovious, che nella sua opera "Passeggiate per l'Italia" così descriveva il lavorio delle donne del Ghetto di Roma nel 1853: "Le figlie di Sion seggono ora sopra tutti que' cenci; cuciono, rammendano tutto quanto si può ancora rammendare. Sono somme nell'arte del cucire,del ricamare, del rappezzare, del rammendare; non c'è alcuno strappo, in una drapperia, in una stoffa, per quanto grande esso sia, che queste Aracni non riescano a fare scomparire, senza che più ne rimanga traccia."
   Tornando alla mostra, cinque le sezioni in cui si articola: "Ruolo della donna nell'ebraismo italiano': "Tessuti rituali", "Tessuti della sposa, moglie e madre': "La donna in carriera: pizzo e ricamo", "Il tessuto 'riciclato', da oggetto mondano a oggetto sacro usato nella cerimonia". Alcuni dei tessuti non sono mai stati esposti prima mentre alcuni pezzi importanti sono stati appena restaurati. Tra questi il famoso Parokhet Tedeschi, datato al 1572, proveniente da Venezia e considerato dagli studiosi uno tra i più antichi e interessanti tessili trasformati in oggetti cerimoniali ebraici. Ma ci sono anche ketubboth (contratti matrimoniali), una Meghillat Esther così come tessuti da sposa tramandati di generazione in generazione dalle famiglie ebraiche, accompagnati in alcuni casi da fotografie di matrimoni.
   L'idea dell'esposizione (aperta fino all'autunno), spiega Buttitta, è raccontare attraverso i tessuti il ruolo della donna, il suo essere protagonista nella storia ebraica, "certo senza nascondere il fatto che dovesse confrontarsi con una società patriarcale". La speranza inoltre, si legge nello scritto di Jack Arbib, è che "questa mostra possa anche essere fonte di ispirazione. In tempi nei quali in tutto il mondo le nostre società sono lacerate da divisioni, dalla incapacità di vedere la dignità degli altri, io spero che noi tutti potremo sapere rammendare gli strappi nel nostro tessuto sociale, riannodando trama e ordito, divenendo una nazione di tessuto".





Museo di arte ebraica Nahon, il gioiello della comunità degli ltalkim

L'edificio in Gerusalemme in cui sorge il museo Nahon
Il Museo di Arte Ebraica Italiana U. Nahon fu fondato a Gerusalemme nel 1983 al fine di raccogliere, preservare ed esibire al pubblico oggetti pertinenti la vita ebraica in Italia a partire dal periodo rinascimentale fino ai giorni nostri. Nel nome l'omaggio a Umberto Nahon, protagonista del salvataggio di arredi sinagogali dell'Italia ebraica oramai in disuso, trasferiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso in Israele.
   Visitare il Museo offre l'opportunità di avere un quadro significativo della vitalità ebraica durante diverse fasi storiche. Perché, come viene ricordato, "una storia di molteplicità culturale lega l'ebraismo italiano all'Italia, un paese caratterizzato per secoli dalla frammentazione territoriale". L'eredità culturale dell'ebraismo italiano, la sua vitalità, la creatività e il rispetto per le diverse forme culturali è quindi "riflesso nei suoi oggetti d'arte".
   Elemento di maggior spicco del Museo è la sinagoga, oggi utilizzata dai membri della comunità italiana di Gerusalemme; gli arredi interni originali provengono dalla sinagoga di Conegliano Veneto, dove alcune famiglie ebraiche vivevano già nel sedicesimo secolo. In un pannello scolpito nella sezione inferiore dell'arca vi è una iscrizione dedicata al rabbino Nathan Ottolengo (d.1615), che fu a capo della locale scuola talmudica. L'arca e gli altri oggetti d'arredamento furono trasportati in una nuova sinagoga eretta dalla comunità nel 1701. Essa rimase in uso sporadicamente fino alla Prima Guerra Mondiale. L'ultima celebrazione fu tenuta il giorno di Yom Kippur del 1918 dai soldati ebrei in leva nell'esercito austro-ungarico e dal loro cappellano rav Harry Deutch. Nel 1952 l'interno venne ricostituito a Gerusalemme e fu aperto all'uso della comunità italiana, diventando più tardi parte integrante del Museo.

(Italia Ebraica, agosto 2019)


Libano - Hariri: possibile decisione sul confine marittimo con Israele a settembre

BEIRUT - Il primo ministro libanese, Saad Hariri, ha auspicato di raggiungere una decisione finale, forse a settembre, sulla disputa per definire il confine marittimo con Israele. Parlando dopo i colloqui a Washington con il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, Hariri ha detto : "Riteniamo che il processo sia fattibile e continueremo a sostenere i prossimi passi costituzionali che porteranno a una decisione finale nei prossimi mesi". Nei mesi scorsi, Washington - attraverso il diplomatico David Satterfield - ha condotto una mediazione tra le parti per definire i confini marittimi tra i due paesi che non hanno relazioni diplomatiche per consentire un sereno sfruttamento delle risorse energetiche.

(Agenzia Nova, 16 agosto 2019)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.