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Notizie 16-31 agosto 2020


Partito primo volo commerciale Israele-Emirati, sorvolerà l'Arabia Saudita

di Giacomo Kahn

 
 
E' partito alle 11:21 ora locale (10:21 ora italiana) il primo volo commerciale diretto di una compagnia di bandiera israeliana, la El Al, tra Tel Aviv e Abu Dhabi. A bordo del volo LY971 ribattezzato 'Aereo della pace', che per la prima volta sorvolerà lo spazio aereo saudita, una delegazione di funzionari israeliani e americani, che ad Abu Dhabi incontreranno una serie di rappresentanti locali per discutere i dettagli dello storico accordo di pace tra i due Paesi. "Per la prima volta, un aereo registrato in Israele sorvolerà l'Arabia Saudita e, dopo un volo non-stop da Israele, atterrerà negli Emirati Arabi Uniti", ha detto il capitano Tal Becker. "Siamo tutti entusiasti e non vediamo l'ora di altri voli che ci porteranno in altre capitali della regione, conducendoci verso un futuro più prospero", ha aggiunto.
   Della delegazione americana fanno parte, tra gli altri, il genero e consigliere di Donald Trump, Jared Kushner, e il consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O'Brien. "Stiamo per imbarcarci su un volo storico, il primo volo commerciale della storia tra Israele e un paese arabo del Golfo", ha detto Kushner dall'aeroporto di Ben Gurion prima di salire sull'aereo. "Anche se questo è un volo storico, speriamo che inizi un viaggio ancora più storico per il Medio Oriente e oltre", ha aggiunto. Presente anche il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati Sheikh Tahanon Ben Zayed. Il Boeing 737 che trasporterà la delegazione è equipaggiato con un sistema di difesa missilistico e riporta la scritta "Hello" in ebraico, arabo e inglese sullo scafo. L'atterraggio ad Abu Dhabi è previsto attorno alle 14 e 30. Secondo l'emittente Kan, il ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash sarà all'aeroporto per accogliere il volo. Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, ad Abu Dhabi potrebbero arrivare anche emissari sauditi perche' Kushner vorrebbe convincere l'Arabia Saudita a partecipare alla cerimonia di firma alla Casa Bianca, prevista ad ottobre, dell'accordo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.

(Shalom, 31 agosto 2020)



Netanyahu: basta ai veti palestinesi

Il premier israeliano ribadisce il piano di pace di Trump con gli arabi

'L'Accordo di Abramo 'ha rimosso il veto palestinese ad una pace tra Israele e i Paesi Arabi. Alla vigilia del primo volo commerciale con gli Emirati, il premier Benyamin Netanyahu e il consigliere di Trump Jared Kushner hanno rivendicato in conferenza stampa da Gerusalemme la validità dell'Intesa raggiunta di recente con i Paesi del Golfo, prima di una serie di altri che verranno presto e che "diventeranno la norma". "Per lungo tempo i palestinesi - ha detto il premier israeliano - hanno avuto un veto sulla pace tra Israele e i Paesi arabi. Se avessimo aspettato loro avremmo aspettato per sempre". Invece, ha confermato, sul tavolo non ci sono solo gli incontri avuti negli ultimi anni con dirigenti dell'Oman, del Chad e del Sudan - "la parte minore dei passi resi pubblici" - ma "molti ancora, con altri leader islamici, finora non divulgati". Il piano di pace di Trump che ha portato all'Accordo e alla rinuncia per ora di Israele alle annessioni di parti della Cisgiordania - ha incalzato Kushner - è "uno scenario realistico e pragmatico, basato su fatti che esistono sul terreno... L'offerta fatta ai palestinesi è generosa. Quando saranno pronti a fare la pace, ora hanno l'opportunità". Trump ha "scritto il copione per un nuovo Medio Oriente", ha proseguito Kushner dicendo di "sentire un nuovo senso di ottimismo" che porterà "a nuovi accordi". Per questo Netanyahu ha ribadito che Israele è "disponibile" sulla base del Piano a colloqui con i palestinesi che si sono messi "a margine" con il loro rifiuto".
   A suggellare quell'Accordo di Abramo sarà dunque oggi alle 10.30 (ora locale) il decollo del primo volo commerciale - ma dotato di opportune difese secondo i media - per i Paesi del Golfo con a bordo la delegazione Usa (oltre Kushner, anche il responsabile della Sicurezza Nazionale Usa Robert O'Brien e l'inviato speciale per i negoziati internazionali Avi Berkowitz.). Quella israeliana sarà guidata dal capo della Sicurezza Nazionale Meir Ben-Shabbat; insieme a loro la stampa israeliana. Il volo della El Al (sigla LY971, in omaggio al prefisso telefonico internazionale degli Emirati, e con la carlinga griffata dalla scritta 'Pace' in arabo, ebraico e inglese) andrà ad Abu Dhabi e potrà vantare un'altra eccezione se sarà confermata come sembra la rotta: il primo velivolo israeliano a sorvolare lo spazio aereo dell'Arabia Saudita con cui Israele non ha relazioni diplomatiche. Al ritorno, lo stesso volo porterà la sigla di LY972, in omaggio al codice telefonico israeliano. I colloqui ad Abu Dhabi riguarderanno la cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità energia ma non la sicurezza. L'ufficio di Netanyahu ha fatto sapere che i rappresentanti della difesa e dei servizi di sicurezza andranno ad Abu Dhabi nelle prossime due settimane.

(America Oggi, 31 agosto 2020)



Palestinesi che condannano la crescita dei "sionisti arabi"

di Ryan Jones

Piaccia o no, molti arabi hanno convissuto per anni con gli ebrei e si godono persino la vita in Israele
Saeb Erekat
La risposta dei funzionari dell'Autorità Palestinese all'annunciata normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti fa capire ancora una volta che il loro obiettivo finale non è la vera pace e la convivenza.
  Mentre gran parte del resto del mondo arabo ha apertamente appoggiato l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, i funzionari di Ramallah hanno avuto soltanto scoppi di collera, e nessuno più del capo negoziatore dell'Autorità Palestinese (AP) Saeb Erekat.
  In un articolo intitolato "La nascita dei sionisti arabi", pubblicato questa settimana sul sito ufficiale dell'OLP (ricordate, l'AP è soltanto una facciata dell'OLP), Erekat si è lamentato dicendo che quelli del mondo arabo che sostengono l'accordo, "glorificano Israele, la sua libertà e il suo progresso".
  Come ogni regime dispotico, quello che teme di più la leadership palestinese è che ci siano arabi che apertamente riconoscono che la vita sotto il dominio israeliano, anche se si tratta di una "occupazione", è migliore di quella che stanno sopportando attualmente gli altri palestinesi. D'altra parte, perché arrabbiarsi perché altri arabi semplicemente riconoscono il dato di fatto della libertà e delle conquiste di Israele? Le uniche spiegazioni che vengono in mente sono:
  1. L'Autorità Palestinese è invidiosa e gelosa di Israele; oppure
  2. non vuole che il palestinese medio abbia un'idea positiva di come potrebbe essere il suo futuro in uno stato palestinese.
 La questione palestinese è caduta
  Erekat è stato almeno abbastanza onesto da riconoscere che molti nel mondo arabo sono stufi della questione palestinese.
  "Alcuni arabi hanno persino detto che "la Palestina non è affar mio" e che "Israele è un alleato leale", ha sospirato Erekat. "Insultano anche il popolo palestinese per la sua mancanza di lealtà, la sua ingratitudine e la corruzione dei leader palestinesi, tutto perché il popolo palestinese insiste per portare a termine l'iniziativa di pace araba".
  No, signor Erekat, non è per questo che così tanti nel mondo arabo stanno abbandonando la causa palestinese. Nel caso l'avesse dimenticato, vorrei ricordarle le aspre critiche del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman nel 2018:
  "Negli ultimi 40 anni, la leadership palestinese ha ripetutamente perso opportunità e rifiutato tutte le offerte loro fatte. È tempo che i palestinesi accettino le offerte e acconsentano a venire al tavolo delle trattative - o tacciano e smettano di lamentarsi".
  O quello che ha detto lo scrittore saudita Abdulhameed Al-Ghobain in un'intervista con BBC Arabic all'inizio di quest'anno:
    "Oggi il pubblico è informato. C'è un diluvio di opinioni contro i palestinesi ... [che] non hanno contribuito a nulla. Si può dire che sono persone emotive il cui comportamento è determinato dai loro sentimenti".
Signor Erekat, molti dei suoi fratelli arabi sono semplicemente stufi di questo gioco. Contrariamente ai palestinesi, molti arabi hanno da tempo accettato che Israele non scomparirà e quindi non sono più interessati a un "processo di pace" che indebolirà lo Stato ebraico. Il sogno di Arafat di negoziare ciò che non poteva essere ottenuto sul campo di battaglia, vale a dire la distruzione di Israele, è finito. Purtroppo, i palestinesi sono gli ultimi a svegliarsi.
  Il resto del mondo arabo ha altri interessi e sa che il modo migliore per raggiungerli è lavorare con Israele.
  Inoltre, signor Erekat, con il suo sostegno ai Fratelli musulmani, all'Iran e all'Iraq di Saddam Hussein, che erano o sono tuttora nemici del resto del mondo musulmano sunnita, certamente lei non si è guadagnato degli amici. E non parleremo nemmeno di come la precedente aggressione dell'OLP abbia portato morte e distruzione in Giordania e in Libano.
  A meno che non voglia nascondere la testa sotto la sabbia, lei non può davvero essere sorpreso dalla crescente ostilità araba verso la causa palestinese.

(israel heute, 31 agosto 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Ucraina e antisemitismo: scontri fra chassidim Breslov e residenti a Uman

È accaduto nel corso dell'annuale pellegrinaggio a Uman sulla tomba di Rabbi Nachman.

di Roberto Zadik

Ogni anno nel periodo di Rosh haShanà, una delle ricorrenze più solenni del calendario ebraico, migliaia di ortodossi israeliani del movimento Breslov e di ebrei da vari Paesi del mondo si recano a Uman, cittadina ucraina, famosa per la tomba di Rabbi Nachman di Breslov. Bisnipote del Baal Shem Tov, carismatico maestro e mistico, vissuto solo 38 anni e scomparso nel 1810, i suoi insegnamenti - espressi nella sua opera più famosa Likutei Moharan - mescolano gioia e rigore nel rispetto dei precetti. Ogni anno sono sempre di più, israeliani e no, specialmente giovani, coloro che diventano membri nel movimento dei suoi seguaci, i chassidim Breslov.
  Ma quest'anno il consueto e affollatissimo pellegrinaggio è stato teatro, già dalla fine di questo mese di agosto, di scontri fra i chassidim del movimento Breslov con la popolazione locale ucraina residente a Uman nelle vicinanze della tomba del Maestro chassidico. A darne notizia il sito Jewishpress.com che, con tanto di video (ved. a lato) ha documentato l'accaduto in un articolo di David Israel. Le proteste sono state ricostruite da un breve filmato, davvero sgradevole, che testimonia l'antisemitismo ancora presente in Ucraina e nella città di Uman, dove già negli anni scorsi la tomba di Rabbi Nachman era stata vandalizzata diverse volte.
  Il filmato è stato pubblicato su Twitter da Eduard Dolinsky, direttore generale del Comitato ebraico ucraino, organizzazione situata a Kiev, e testimonia lo spiacevole episodio in cui un gruppo di chassidim Breslov, dopo essersi recati a Uman per le consuete celebrazioni di Rosh haShanà sono stati subito osteggiati dall'insofferenza della popolazione locale. Originariamente il video è stato postato da Sergiy Alekseev membro del Consiglio cittadino di Uman, deputato del partito politico nazionalista e di estrema destra Svoboda, noto per le sue posizioni antisemite.
  Come la Lituania, anche l'Ucraina ha una storia ebraica particolarmente difficile e Rabbi Nachman, nella sua breve vita, soffrì anche per diversi episodi di antisemitismo, scegliendo di morire a Uman, che anni prima era stata bersaglio di uno spaventoso massacro (pogrom) da parte dei Cosacchi e di diverse persecuzioni. Purtroppo dopo due secoli non sembrano esserci stati grandi miglioramenti. A questo proposito, sempre secondo Jewishpress, Dolinsky ha sottolineato che questi disordini sono avvenuti nello stesso periodo in cui ricorre il 79esimo anniversario della strage di Kamenetz Podolsk in cui, dal 26 al 29 agosto del 1941, oltre 23mila ebrei vennero massacrati.
  Nel suo resoconto storico, ha ricordato il ruolo dei nazisti capeggiati dal generale Friedrich Jeckeln che, con la spietata cooperazione dei soldati ungheresi e della polizia ausiliaria ucraina, uccise tutta la popolazione del Ghetto ebraico di Kamenets, compresi gli ebrei ungheresi che erano stati espulsi dal Paese.
  Tornando ai disordini presenti, sempre lo stesso sito ha raccontato le tensioni dei giorni scorsi fra il Governo Ucraino e Israele in vista di questo pellegrinaggio e il divieto emesso per un mese, dal 29 agosto al giorno di Kippur 28 settembre, delle autorità locali ucraine di qualsiasi ingresso nel Paese dall'esterno, per timore di un aumento di casi di Covid. Questa però secondo Jewishpress sarebbe stata una "scusa" delle autorità per impedire l'arrivo in massa a Uman e nel Paese di migliaia di Chassidim diretti verso la tomba di Rabbi Nachman.
  La settimana scorsa il presidente ucraino Zelensky, di origine ebraica, avrebbe cercato di "smorzare" la tensione incontrando i rappresentanti delle organizzazioni ebraiche del Paese e discutendo con loro le problematiche organizzative di questo pellegrinaggio dei Breslov e l'applicazione di misure restrittive sui raduni di massa a Uman. Durante l'incontro, concordi con quanto stabilito dal presidente, diversi esponenti del mondo religioso locale come Rav Meir Stambler, Rabbino a capo del Concilio delle Federazioni delle Comunità ebraiche ucraine, che ha ricordato l'importanza della tutela della vita e della salute, secondo la Torah e Rabbi Yaakov Dov Bleich Rabbino Capo di Kiev che ha definito fondamentale la regolamentazione normativa di questa situazione. Nonostante questo ha specificato che queste restrizioni devono valere non solo per pellegrinaggi dall'esterno ma anche per quelli interni al Paese. Tutto questo fino all'arrivo dei primi gruppi Breslov nel Paese e i disordini di venerdì scorso.

(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2020)


Libano: la mossa di Hezbollah la mano a Macron

di Lorenzo Cremonesi

L'annuncio sembrerebbe capace di stravolgere la scena politica libanese. «Siamo pronti ad un nuovo patto politico, a condizione che sia discusso tra tutte le componenti libanesi», dichiara in un proclama pubblico Hassan Nasrallah. Il leader indiscusso del partitomilizia sciita Hezbollah («Il Partito di Dio») sembra così andare per la prima volta incontro alle richieste dei manifestanti di Beirut, che dopo la terrificante esplosione del 4 agosto inneggiavano alla «rifondazione dello Stato contro i partiti corrotti». E soprattutto tende la mano ad Emmanuel Macron, che, due giorni dopo il disastro, visitando le rovine attorno al porto della capitale aveva appunto parlato della necessità di rifondare radicalmente il sistema di governo libanese. Il presidente francese tornerà a Beirut nelle prossime ore. Nasrallah lo accoglierà con tutti gli onori. «Abbiamo udito l'appello di Macron durante la sua ultima visita e siamo pronti a discutere in modo costruttivo sul tema».
   Tuttavia, le prime reazioni tra le comunità cristiana, sunnita e in generale l'intellighenzia laica sono di estremo scetticismo. «Tutto cambia perché nulla cambi?», si chiedono polemici i reporter del quotidiano cristiano L'Orient-Le Jour. Pare molto difficile che Hezbollah possa accettare di minare le fondamenta confessionali della sua legittimità politica, create ai tempi degli accordi di Taif con la partecipazione siriana nel 1990, per soddisfare Parigi e le piazze, al momento tornate silenziose. Tra i temi più contestati, il diritto di Hezbollah di mantenere milizie armate e addestrate dall'Iran. I sospetti che avesse armi al porto sono diffusi. I suoi sponsor a Teheran sono isolati, in piena crisi economica, marginalizzati dal recente accordo di pieno riconoscimento tra Israele ed Emirati. Nasrallah necessita di alleati Nei prossimi giorni dovrebbe venire nominato un nuovo premier. Un accordo con Parigi e l'Europa potrebbe fargli comodo per arginare la politica Usa in Medio Oriente e guadagnare tempo, nella speranza che Trump perda le elezioni.

(Corriere della Sera, 31 agosto 2020)


XXI Giornata Europea della Cultura Ebraica

Comunicato EDIPI

Domenica 6 settembre si celebrerà la XXI Giornata Europea della Cultura Ebraica in 32 paesi dell'Europa e per l'Italia in ben 90 località diverse tra grandi e piccole.
Roma sarà la città capofila sviluppando la tematica "PERCORSI EBRAICI". Sarà comunque, nel suo complesso, una celebrazione particolare a causa dell'emergenza sanitaria, per cui molti eventi ed iniziative saranno organizzati fuori dagli schemi tradizionali.
Padova, Venezia, Ferrara, Bologna e Mantova al Nord, Firenze, Pisa in Toscana e Lecce con Palermo al Sud presenteranno programmi particolari e tradizionali; senza dimenticare piccole località ma ricche di storia ebraica come Pitigliano, Soncino e Sabbioneta.
Tutte le località, con significativa presenza di associati EDIPI, assisteranno alla gradita sorpresa di una distribuzione gratuita di alcune copie della nostra attività editoriale.

(EDIPI, 31 agosto 2020)


Israele spera di fare la firma dell’accordo con gli Emirati entro metà settembre

GERUSALEMME - Israele spera di tenere una cerimonia per la firma dell'accordo di normalizzazione delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington. Lo ha annunciato oggi il ministro della Cooperazione regionale di Israele, Ofir Akunis. La data per un tale evento dovrebbe essere decisa durante i colloqui ad Abu Dhabi tra i funzionari emiratini e la delegazione israelo-statunitense che partirà domani alla volta degli Emirati al volo del primo volo diretto tra i due Paesi. Alla visita parteciperà anche il consigliere e genero del presidente Donald Trump, Jared Kushner. Akunis ha aggiunto che il governo Netanyahu spera che la cerimonia si svolga "prima del nostro Rosh Hashanah" o capodanno ebraico, che cade il 18 settembre. Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il 13 agosto che avrebbero normalizzato le relazioni diplomatiche in un accordo mediato dagli Stati Uniti. Ieri, 29 agosto, il presidente della federazione emiratina Khalifa bin Zayed al Nahyan ha firmato un decreto che abolisce il boicottaggio economico contro Israele, consentendo accordi commerciali e finanziari tra i due Paesi.

(Agenzia Nova, 30 agosto 2020)


Israele spezza la linea saudita

I palestinesi si sentono traditi: per loro in passato Riad chiedeva un Paese, gli Emirati ora no

di Davide Frattini

Le racchette da tennis servono per la copertura, le fasce di spugna raccolgono il sudore sulla fronte. Le goccioline sono vere anche se tutto il resto attorno è falso: la tensione di interpretare per qualche ora il ruolo di agenti del Mossad strizza i nervi e i pori. L'escape room tra le colline della Galilea, verso il confine con il Libano, promette di ricostruire il percorso e restituire l'adrenalina di una missione del 2010 in un hotel di Dubai: a giudicare dai sorrisi soddisfatti pubblicati su Facebook gli 007 israeliani del fine settimana sembrano avere in media più successo della squadra di 27 tra uomini e donne che partecipò all'operazione nel gennaio di dieci anni fa.
   Com'è normale i capi dell'Istituto non hanno mai ammesso di aver organizzato e perpetrato l'assassinio del palestinese Mahmoud al-Mabhouh, considerato il collegamento tra Hamas e gli iraniani, incaricato di fornire le armi e le tecnologie per accrescere l'arsenale del organizzazione fondamentalista che spadroneggia sulla Striscia di Gaza. Sono stati i poliziotti degli Emirati Arabi — con l'aiuto dell'intelligence occidentale — a mettere insieme i pezzi e le riprese delle telecamere di sorveglianza fino a stabilire che i passaporti tedeschi, britannici, irlandesi, francesi, australiani usati dagli operativi israeliani erano contraffatti quanto i turisti che li avevano mostrati ai doganieri. Il raid nel cortile di casa luccicante di grattacieli ha offeso e irritato lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il principe ereditario che guida la monarchia del Golfo, e ha interrotto per un anno e mezzo il dialogo segreto che ha portato in queste settimane a una svolta definita «storica» dal presidente Donald Trump attraverso il suo megafono preferito, Twitter.
   Il governo di Benjamin Netanyahu e lo sceicco hanno infatti appena definito un'intesa che porterà alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Quando i primi turisti potranno arrivare dagli Emirati, è improbabile che raggiungano la Galilea per tentare la sorte nella escape room. L'accordo ribalta la formula che fino a ora i Paesi arabi hanno voluto imporre: nella proposta presentata a George W. Bush nel 2002 l'Arabia Saudita indica i passi per arrivare all'apertura di relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Il primo — e imprescindibile — era la firma di un trattato di pace con i palestinesi che portasse alla nascita di uno Stato dentro i confini del 1967, i territori catturati ai giordani da Israele nella guerra dei Sei giorni, con capitale a Gerusalemme Est. Cambiano i presidenti americani e la situazione in Medio Oriente. Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale «indivisa» di Israele e ha presentato il suo piano per arrivare all'«accordo del secolo». I Paesi sunniti sono preoccupati da quella che considerano la minaccia iraniana — l'espansionismo sciita nella regione — e molto meno dall'avanzare della causa palestinese. Così Mohammed bin Zayed Al Nahyan ha ottenuto come contropartita da Netanyahu l'impegno a fermare l'annessione di parte della Cisgiordania: non più terra in cambio di pace — secondo lo schema dei sauditi — ma pace in cambio della rinuncia a una promessa da campagna elettorale.
   In mezzo è rimasto Abu Mazen, il presidente palestinese che si è sentito «pugnalato alle spalle» dal reggente degli Emirati: due volte, perché il bersaglio sulla schiena sembra disegnato da Mohammed Dahlan, almeno ad ascoltare le teorie della cospirazione che circolano nel palazzo presidenziale a Ramallah. Ex capo della sicurezza preventiva a Gaza (si è fatto portare via la Striscia da Hamas), assistente dello stesso Abu Mazen, è diventato il suo principale rivale, in corsa per la successione fino a quando non è stato costretto a lasciare la Cisgiordania dopo avere passato ai giornali arabi le carte che accusano di corruzione i due figli del rals.
   Dahlan si è insediato negli Emirati dove è diventato amico e consigliere del principe ereditario, ha ammassato una fortuna e a quanto pare l'influenza per ispirare le scelte diplomatiche. Le trattative tra israeliani e palestinesi sono congelate (ormai ibernate) dal 2024. Abu Mazen ha interrotto i rapporti anche con gli inviati di Trump, non considera più gli Stati Uniti un mediatore imparziale, forse aspetta una possibile vittoria di Ice Biden. A 84 anni, fumatore accanito e incallito con problemi di cuore, non ha mai voluto affrontare la questione della sua successione. Il «tradimento» ha allontanato ancora di più Dahlan dall'anziano leader ma potrebbe averlo avvicinato a prenderne lo scettro.

(Corriere della Sera, 30 agosto 2020)



Stop degli Emirati arabi al boicottaggio di Israele

Dopo l'accordo mediato dagli Stati Uniti

Il presidente degli Emirati arabi uniti, lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, ha emesso un decreto con il quale il Paese mette formalmente fine al boicottaggio del Paese nei confronti di Israele. Lo riferisce l'agenzia di Stato Wam. Il provvedimento arriva dopo l'accordo, mediato dagli Stati Uniti, tra gli Emirati arabi e lo Stato ebraico volto a normalizzare le relazioni tra i due Paesi. Il decreto permette ai cittadini e alle aziende israeliane di fare affari negli Emirati arabi uniti e fa si che si possano commerciare e acquistare beni prodotti nello Stato ebraico. Secondo l'agenzia di stampa statale Wam, insieme al provvedimento viene presentata anche una sorta di road map con la quale si regolano le tappe per sviluppare le relazioni tra i due Paese attraverso la crescita economica ed il sostegno all'innovazione tecnologica. Con l'accordo realizzato attraverso la mediazione di Washington, Israele ed Emirati avevano stabilito di voler normalizzare le proprie relazioni diplomatiche.

(il Giornale, 30 agosto 2020)


Continuano le ostilità tra Hamas e Israele

L'Esercito israeliano ha affermato di aver colpito obiettivi militari appartenenti ad Hamas, ufficialmente detto il Movimento Islamico di Resistenza, lungo la Striscia di Gaza con i propri carrarmati, il 30 agosto, dopo aver constatato il perdurare di attacchi compiuti per mezzo di palloni gonfiabili incendiari lungo il confine. Fonti palestinesi hanno poi specificato che i colpi d'artiglieria sferrati da Israele sono stati indirizzati verso un centro di controllo a Est di Khan Younis e in direzione Est rispetto a Deir al-Balah, due città situate rispettivamente a Sud e al centro della Striscia di Gaza, controllata dal Movimento Islamico di Resistenza.
   Una dichiarazione dell'Esercito israeliano ha rivelato, nelle prime ore del 30 agosto, che il Sud di Israele aveva subito attacchi per mezzo di dispositivi rudimentali aerei esplosivi e incendiari, nel corso della giornata del 29 agosto, i quali, tuttavia, non avevano causato vittime. Secondo i vigili del fuoco Israeliani, tale tipo di ordigni che vengono realizzati per sorvolare il confine di recente hanno causato oltre 400 incendi nel Sud del Paese, dove avrebbero altresì distrutto ampi appezzamenti di terreni coltivati. Israele ha più volte risposto a tali attacchi in più forme, principalmente con raid aerei, e, dallo scorso 6 agosto, le operazioni dell'Esercito israeliano contro Gaza sono avvenute a cadenza pressoché giornaliera.
   Oltre alle ripercussioni armate, il governo di Tel Aviv ha anche dato una dura stretta sui blocchi imposti al territorio palestinese sin dal 2007. Lo scorso 11 agosto, Israele aveva dapprima chiuso il transito commerciale di Kerem Shalom, uno dei tre passaggi principali della Striscia di Gaza verso Israele ed Egitto, impedendo l'attraversamento di qualsiasi bene, fatta eccezione per aiuti umanitari essenziali e carburante, per poi interrompere definitivamente anche il passaggio di quest'ultimo, il 13 agosto. Tre giorni dopo, Israele aveva poi deciso di chiudere totalmente l'area di pesca nella Striscia di Gaza, con effetto immediato e fino a nuova comunicazione, nonostante in precedenza avesse già posto delle limitazioni in tal senso, adottando così un'ulteriore misura restrittiva e di punizione contro il territorio.
   In tale quadro, il 18 agosto, la compagnia di distribuzione di elettricità ha annunciato che le operazioni dell'unica centrale elettrica presente nell'enclave costiera sono state sospese, dopo che le riserve di carburante necessarie al suo funzionamento sono terminate. Tali azioni si sono rivelate particolarmente dannose per la Striscia di Gaza, la quale dipende da Israele per la maggior parte del proprio fabbisogno di gas e carburante.
   A tal proposito, sempre il 30 agosto, il capo dell'Ufficio politico di Hamas, Ismail Haniya, ha affermato che la sua organizzazione non desisterà dal richiedere la fine del blocco posto sulla Striscia di Gaza e ha aggiunto che la sua organizzazione sta seguendo con attenzione la situazione riguardante la comunicazione e la mediazione nella quale sono coinvolte più parti.
   Al momento, una delegazione egiziana sta cercando di ripristinare il dialogo tra le parti, nella speranza di porre fine al blocco imposto sul territorio in questione e di ridurre le crescenti tensioni tra le parti. Anche l'inviato del Qatar a Gaza, Mohammed al-Emadi, si è unito al gruppo di mediazione, dopo aver consegnato, il 26 agosto scorso, l'ultima tranche dei 30 milioni di aiuti devoluti, dal 2018, dal proprio Paese alla Striscia di Gaza. In tale occasione, al-Emadi si era poi recato a Tel Aviv dove aveva incontrato funzionari israeliani, i quali, secondo alcune fonti, si sarebbero detti disposti a consentire il passaggio di carburante necessario alla riattivazione dell'impianto energetico di Gaza se venissero interrotti gli attacchi con palloni incendiari.

(Sicurezza Internazionale, 30 agosto 2020)


Hezbollah: pronti a discutere un patto politico in Libano

BEIRUT - Hezbollah è pronto a discutere di un nuovo "patto politico" in Libano, proposto dalla Francia: lo ha detto Hassan Nasrallah, leader della formazione filo-iraniana. "Siamo aperti a qualsiasi discussione costruttiva sull'argomento ma a condizione che sia volontà di tutti i partiti libanesi", ha detto in un discorso il segretario generale di Hezbollah, riferendosi all'appello fatto dal presidente francese Emmanuel Macron, atteso domani a Beirut per la seconda volta dopo la devastante esplosione del 4 agosto.

(Corriere Quotidiano, 30 agosto 2020)


*


Nasrallah: la Resistenza continuerà a combattere i nemici

La resistenza islamica continuerà ad esistere malgrado tutti gli sforzi dei nemici. A dirlo è il segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hasan Nasrallah, in occasione dell'Ashura, anniversario del martirio dell'Imam Hussein (AS). "E' in corso una vera e propria guerra mediatica contro Hezbollah. I nemici spendono decine di milioni e milioni di dollari per creare e diffondere notizie contro il movimento della resistenza, utilizzano ogni mezzo per influenzare l'opinione pubblica", ha aggiunto.
Nasrallah ha così parlato di una nuova fase di guerra contro Hezbollah: "grazie ai soldi dei regimi arabi del Consiglio di cooperazione del Golfo Persico, la fabbrica delle fake news non si ferma; continua a pubblicare notizie avvelenate contro Hezbollah".

(Pars Today, 30 agosto 2020)


Kappler a Gaeta tra carbonara e pesci tropicali

E poi il violino, gli attendenti camerieri, le visite dei politici austriaci e le iscrizioni runiche disegnate sui muri. Quella del boia nazista, responsabile delle Ardeatine, fu una detenzione dorata. Con vista sul golfo. Le persone addette al suo servizio dovevano indossare scarpe da ginnastica per non fare rumore e non disturbarlo mentre scriveva a macchina.

di Clemente Pistilli

Sembra di immaginarlo, il boia, mentre passeggia in vestaglia dentro la sua stanza. Un occhio all'acquario dei pesci tropicali l'altro all'orologio, in attesa del pranzo che di lì a poco gli verrà servito dal suo attendente. Il boia è Herbert Kappler e la sua stanza è la cella nel carcere di Gaeta. Carcere si fa per dire visto che il criminale di guerra tedesco, responsabile tra l'altro dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro era riuscito, avvalendosi dello status di "prigioniero di guerra" e avendo mantenuto il grado di "tenente colonnello", a garantirsi condizioni di vita invidiabili oltre a un certo livello di libertà individuale.
   A riportare alla luce la storia della "prigionia dorata" dell'uomo che dettò a Erich Priebke la lista degli italiani da decimare in via Rasella è l'ultimo tassello di un lavoro in progress di Nicola Ancora, storico contemporaneo presso il museo dell'ex carcere militare, grazie al quale è stato possibile ricostruire la lussuosa quotidianità dell'ufficiale che continuava a ricevere la pensione dalla Germania e spediva a casa cartoline di saluto dal mare di Gaeta e che soprattutto — come si evince da alcune iscrizioni runiche che si permise di incidere, a futura memoria, nei corridoi del carcere — mai si penti del suo operato né mai rinnegò la fede nazista.
   Le più recenti scoperte dicono che Kappler, come l'altro criminale nazista detenuto nel castello angioino di Gaeta, Walter Reder, responsabile tra l'altro delle stragi di Marzabotto e Vinca, aveva a sua completa disposizione una spaziosa stanza con terrazza vista sul golfo, ambienti ristrutturati di fresco, attorno alla metà del 1940, con bagno privato, riscaldamento (una stufa elettrica), una macchina da scrivere, abbondante cancelleria, piante ornamentali. Oltre ai due acquari — di cui si era già a conoscenza — in cui allevava amorevolmente piccoli pesci tropicali, una ricca libreria e strumenti musicali. Amava suonare il violino. E andare a fare il bagno al mare, anche se, in questo caso, doveva sopportare l'incomodo di una scorta personale.
   I due avevano potuto mantenere i gradi e li facevano pesare. Disponevano di due attendenti militari, dei camerieri in divisa, dai quali si facevano assistere nelle piccole incombenze di ogni giorno, comprese il bucato e la cucina. Dagli studi di Ancora emerge che Kappler fosse goloso, in particolare, della carbonara preparata da un sottufficiale siciliano condannato per insubordinazione. Col tempo, il loro potere interno al carcere divenne tale che i due riuscirono a imporre che le persone addette al loro servizio indossassero scarpe da ginnastica al posto di quelle di cuoio, perché il rumore dei tacchi — dicevano — li disturbava mentre scrivevano. Già, scrivevano molto, i due. E potevano inviare lettere e cartoline senza nemmeno pagare la relativa tassa postale. Kappler, dopo una corrispondenza epistolare durata due anni, nel 1972 sposò all'interno del castello angioino Anneliese Wenger, infermiera ed ex moglie divorziata del capitano della Wehrmacht, Karl Walther. Un matrimonio celebrato in una stanza vicina a quella del comandante della struttura carceraria e con testimone di nozze lo stesso Reder. Anneliese si recava speso a Gaeta a trovare il marito, scendeva in una pensione lì vicino e poi si intratteneva con il marito all'interno del castello-carcere.
   Dalle ricerche di Ancora emerge che i contatti con la Germania erano continui e frequenti. I due criminali nazisti, che tra di loro mantenevano un certo distacco, dandosi del lei, ricevevano poi spesso visite di politici austriaci e pacchi di cibo, documenti e libri. Traccia di una inquietante attività intellettuale i cui segni sono a tutt'oggi visibili: sui muri della prigione, poco fuori dalla sua stanza Kappler incise delle rune. E fa impressione pensare che il responsabile delle Ardeatine e del rastrellamento del Quadraro sia stato lasciato libero di utilizzare la scrittura pagana per eccellenza, cara ai nazisti, in un carcere militare italiano dove si trovava condannato all'ergastolo e in cui erano detenuti. — in ben altre condizioni — altri militari italiani, condannati per insubordinazione o per obiezione di coscienza in quanto testimoni di Geova. Quelle scritte sono state oggi decifrate dal lavoro di Ancora. Il tenente colonnello delle SS incise una triade runica ai piedi di un arco che dà verso il comando dell'ex carcere. Si tratta delle rune Isa, Kenaz ed Othilaz, sopra le quali campeggia una svastica, inscritta in un cerchio, mentre sulla destra c'è la parola Karm (karma). Isa simboleggia la stasi, dunque l'arresto, Othilaz, l'ultima runa, la liberazione dal karma, l'eredità, la casa, i beni materiali, e la runa centrale è Kenaz, un catalizzatore, che secondo lo studio di Ancora simbolicamente rappresenta Kappler medesimo, il quale, incidendo tale talismano runico, avrebbe espresso il desiderio di andare via e tornare in Germania. Proprio quello che il tenente colonnello riuscirà a fare aiutato dalla moglie Anneliese Wenger, dopo che nel 1977, vittima di un tumore al colon, su ordine del ministro della difesa Arnaldo Forlani e dopo tante pressioni da parte delle autorità tedesche, venne trasferito al Policlinico militare Celio di Roma, da cui fuggì. Reder, rinchiuso a Gaeta nel 1951, ne uscì invece nel 1985, quando venne estradato in Austria con un volo di Stato. Entrambi restando nazisti fino alla morte.

(la Repubblica, 30 agosto 2020)



Grazia a buon prezzo

La grazia a buon prezzo è giustificazione del peccato, non del peccatore.
    Subito dopo [Gesù] ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla.
    Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù.
    La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario.
    Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.
    I discepoli, a vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: «È un fantasma» e si misero a gridare dalla paura.
    Ma subito Gesù parlò loro e disse: «Rassicuratevi, sono io, non temete».
    Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque».
    Ed egli disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.
    Ma per la violenza del vento, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!».
    E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
    Appena saliti sulla barca, il vento cessò.
    Allora quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, dicendo: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!».
    Dal Vangelo di Matteo, cap. 14

Pietro sa di non poter uscire dalla barca di propria volontà; già il primo passo sarebbe la sua rovina, perciò grida: «Comanda che io venga da te sulle acque» e Cristo risponde: «Vieni». Dunque Cristo chiama; solo in obbedienza alla sua Parola possiamo fare il primo passo. Questa chiamata è la sua grazia, che chiama dalla morte alla nuova vita dell'obbedienza. Ora, però, che Cristo ha chiamato, Pietro deve uscire. dalla barca per venire da Gesù. Così, in realtà, il primo passo dell'obbedienza è già un atto di fede nella Parola di Cristo. Ma si fraintenderebbe completamente il vero senso della fede se si volesse, da questo fatto, dedurre che il primo passo non è più necessario, dato che c'è già la fede. Di fronte a questo pensiero si deve proprio osare di affermare che si deve compiere il passo dell'obbedienza prima di poter credere. Chi disobbedisce non può credere.
  Ti lamenti di non poter credere? Nessuno deve meravigliarsi di non essere capace di credere, finché disobbedisce o si oppone coscientemente in un qualche punto al comandamento di Gesù. Non vuoi sottomettere al comandamento di Gesù una tua qualche passione peccaminosa, un'inimicizia, una speranza, i piani che ti sei fatto per la tua vita, la tua ragione? Non meravigliarti di non ricevere lo Spirito Santo, di non saper pregare, di non veder esaudita la tua preghiera di poter aver fede. Va piuttosto a riconciliarti con il tuo fratello, abbandona il peccato che ti tiene prigioniero e sarai di nuovo capace di pregare. Se rifiuti la Parola di Dio che ti dà un ordine, non puoi neppure ricevere la Parola di grazia. Come potresti trovare la comunione con Colui al quale ti sottrai coscientemente in qualche punto? Chi disobbedisce non può credere, credere può solo chi obbedisce.
  In questo punto la benevola chiamata di Gesù Cristo a seguirlo diviene dura legge: fa questo, non fare quello. Esci dalla barca e vieni da Gesù. A chi cerca di giustificare la sua reale disobbedienza alla chiamata di Gesù con la fede o con l'incredulità Gesù dice: «Prima obbedisci, fa l'opera esteriore, abbandona ciò che ti lega, lascia ciò che ti separa dalla volontà di Dio. Non dire: non ho la fede necessaria. Non ce l'hai finché disobbedisci, finché non vuoi fare il primo passo. Non dire: ma io ho fede, non occorre più che faccia il primo passo. Tu non ce l'hai finché e perché non vuoi fare il primo passo, ma ti indurisci sotto le apparenze di umile fede. E' una cattiva
  scusa rimandare dalla propria mancata obbedienza alla mancanza di fede, e dalla fede mancante alla mancanza di obbedienza. La disobbedienza dei 'credenti' consiste appunto nel confessare la propria incredulità, quando viene chiesta obbedienza, e giocare con questa confessione (Marco 9,24). Se credi fà il primo passo. Esso conduce a Gesù Cristo. Se non credi, fallo lo stesso, così ti è comandato. Non è tuo compito preoccuparti della tua fede o della tua mancanza di fede; ti si ordina di obbedire immediatamente. Nell'atto dell'obbedienza si crea la situazione in cui la fede è resa possibile ed esiste realmente».
  Dunque non è una situazione, ma Egli crea una situazione, nella quale sei in grado di credere. Si tratta di mettersi in quella situazione perché la fede sia vera e non un autoinganno. Proprio perché si tratta di vera fede in Gesù Cristo, perché la fede è e resta unica meta («da fede a fede» Romani 1, 17), questa situazione è indispensabile. Chi protesta troppo in fretta e in maniera troppo protestante deve lasciare che gli si chieda se non sta difendendo la grazia a buon prezzo. Infatti, se le due proposizioni restano lì, l'una accanto all'altra, non possono essere causa di scandalo per la vera fede, mentre ognuna di esse, presa a sé, è necessariamente di grave scandalo. Solo il credente obbedisce - ecco quel che vien detto al credente a proposito dell'obbedienza; solo l'obbediente crede - ecco quel che vien detto all'obbediente a proposito della fede. Se la prima proposizione resta sola, colui che crede è lasciato in balìa della grazia a buon prezzo, cioè della dannazione; se la seconda frase resta sola, allora chi crede è lasciato in balìa a delle opere, cioè della dannazione.
  In base a ciò possiamo gettare uno sguardo nella cura d'anime cristiane.
  È molto importante che un pastore parli conoscendo bene ambedue le proposizioni. Egli deve sapere che il lamento di mancanza di fede proviene sempre di nuovo da cosciente o non più cosciente mancanza di obbedienza e che a questo lamento corrisponde troppo facilmente il conforto della grazia a buon prezzo. E allora la disobbedienza resta e la parola della grazia si muta in quel conforto che il disobbediente si dà da sé, in quel perdono dei peccati che egli si concede da se stesso. Però così l'annunzio si svuota di senso per lui, egli non lo sente più. E anche se si perdona da sé i peccati mille volte, non è in grado di credervi, appunto perché in realtà il perdono non gli è stato concesso. L'incredulità si alimenta della grazia a buon prezzo, perché vuole persistere nella disobbedienza. Questa è una situazione che, oggi, si incontra spesso nella cura d'anime cristiana. In seguito al perdono dei peccati concesso a se stesso l'uomo giunge necessariamente ad un indurimento nella propria disobbedienza; egli asserisce di non saper distinguere il bene ed il comandamento di Dio; questo sarebbe ambiguo e permetterebbe varie interpretazioni. La coscienza della propria disobbedienza, che in principio ci vedeva ancora chiara, si offusca sempre più e si giunge ad un indurimento del cuore. Il disobbediente si è tanto ingarbugliato e preso nel proprio laccio che non può più sentir la Parola, non è realmente più in grado di credere. Tra colui che è indurito ed il pastore nascerà pressappoco il seguente dialogo:
 - «Non posso più credere».
 - «Ascolta la Parola che ti viene annunziata».
 - «La sento, ma non mi dice più nulla, mi passa accanto».
 - «Tu non vuoi ascoltare».
 - «Eppure, sì».
A questo punto di solito la conversazione pastorale cessa, perché il pastore non sa più che pensare. Egli conosce solo la proposizione: chi crede obbedisce. Con questa affermazione non può più aiutare l'indurito di cuore, che appunto non crede e non può credere. Il pastore perciò pensa di trovarsi già a questo punto di fronte all'ultimo mistero, che cioè Dio dona la fede a uno e la nega all'altro. Con questa frase si cedono le armi. L'impenitente resta solo, e, rassegnato, continua a lamentarsi per le sue difficoltà. Ma proprio qui sta la svolta del dialogo. E la svolta è totale. Non si discute più e le domande e le difficoltà dell'altro veramente non sono più prese sul serio; tanto più sul serio si deve prendere l'uomo stesso che cerca di nascondersi dietro i suoi problemi.
  A questo punto si irrompe nella fortezza, che egli ha costruito attorno a sé, con le parole: «solo chi obbedisce crede». Si interrompe il dialogo e il pastore dice: «Tu sei disobbediente, tu rifiuti di obbedire a Cristo, vuoi mantenere il dominio su una parte di te stesso. Non puoi ascoltare Cristo, perché sei disobbediente; non puoi credere alla grazia, perché non vuoi obbedire. Tu indurisci parte del tuo cuore di fronte alla chiamata di Cristo. La difficoltà sta nel tuo peccato». E con ciò Cristo stesso è di nuovo sulla scena; egli attacca il diavolo nell'uomo che si è nascosto sinora dietro la grazia a buon prezzo. Ora tutto dipende dal fatto che il pastore abbia pronte le due proposizioni: «solo chi obbedisce crede», e, «solo chi crede obbedisce». Nel nome di Gesù egli deve incitare all'obbedienza, all'azione, al primo passo. «Abbandona ciò che ti tiene legato e segui Gesù». In questo momento tutto dipende da questo passo. La posizione occupata dall'impenitente deve essere abbattuta; in essa infatti Cristo non poteva più essere sentito. Il fuggitivo deve uscire dal nascondiglio che si è costruito. Solo dopo esserne uscito è di nuovo libero di vedere, udire, credere. Di fronte a Cristo non si è, veramente, guadagnato nulla con questa opera, che come tale resta un'opera senza vita; eppure Pietro deve uscire sul mare mosso per poter credere.
  Dunque, il fatto in breve è questo: l'uomo, affermando che solo chi crede obbedisce, si è avvelenato con la grazia a buon prezzo. Egli rimane nella sua disobbedienza e si consola con il perdono che egli stesso si aggiudica, e così si chiude di fronte alla Parola di Dio. Non si riesce a irrompere nella fortezza, finché gli si ripete sempre solo la proposizione dietro la quale egli si nasconde. Bisogna che avvenga la svolta; bisogna che lo si inciti ad obbedire: solo chi obbedisce crede.
  Ma così lo si induce a seguire la via della giustificazione per opere? No, gli si fa solo comprendere che la sua fede non è fede; egli viene liberato dall'irretimento in se stesso. Deve uscire all'aria aperta, alla libertà data dalla decisione. Così egli può sentire di nuovo l'invito di Gesù a credere e a seguirlo.
(Da “Sequela” di Dietrich Bonhoeffer)


    L’Eterno disse ad Abramo: “Vattene via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò...”
    E Abramo partì, come l’Eterno aveva detto.
Il piano di salvezza è iniziato con un ordine di Dio con cui Egli ha espresso la sua grazia,
e si è messo in moto per l’ubbidienza di un uomo con cui egli ha espresso la sua fede.

 


Decolla il primo volo Israele-Emirati

Ci saranno esponenti del governo americano e israeliano a bordo del primo volo commerciale che collegherà Tel Aviv ad Abu Dhabi, incluso il genero di Trump, Kushner. Il presidente degli Eau ha emesso un decreto sull'abolizione del boicottaggio economico di Israele a seguito della firma dell'accordo.

di Sharon Nizza

 
"Benvenuti a bordo del volo 971 diretto da Tel Aviv ad Abu Dhabi": lo storico annuncio verrà pronunciato dal pilota della compagnia israeliana El Al che opererà lunedì 31 agosto il primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (Eau).
   Il volo - non acquistabile per ora dal grande pubblico - trasporterà la delegazione israelo-americana diretta nella capitale emiratina per avviare le trattative bilaterali in vista della firma dell'accordo di pace tra i due Paesi, che, secondo fonti diplomatiche non ancora confermate, potrebbe avvenire già a metà settembre a Washington.
   Sul volo El Al vi sarà anche una delegazione americana composta dal mallevadore dell'accordo, Jared Kushner, consigliere e genero del Presidente Trump, Robert O'Brien, il Consigliere per la Sicurezza americana della Casa Bianca e Avi Berkowitz, l'inviato di Trump per il Medioriente. La delegazione israeliana sarà guidata da Meir Ben Shabbat, l'omologo di O'Brien e dai Direttori del Ministero degli Esteri e della Difesa. Vi prenderanno parte anche esperti nei settori dell'aviazione civile, energia, spazio, salute e finanza. In parallelo, Wam, l'agenzia stampa di stato, ha annunciato che lo Sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, il reggente emiratino di fatto, ha dichiarato "la fine formale del boicottaggio verso Israele", autorizzando quindi i rapporti con firme e istituzioni israeliane per "stimolare la crescita economica e promuovere l'innovazione tecnologica".
   In realtà, la cooperazione economica tra Israele e Eau andava avanti da anni sottobanco, ma con l'annuncio dell'accordo il 13 agosto, sempre più compagnie già attive sono uscite allo scoperto. Solo a pochi giorni dall'annuncio, hanno pubblicizzato nuovi contratti diverse aziende, tra cui l'Apex emiratina e TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'israeliana Bo&Bo ltd che ha annunciato il proprio ingresso nel mercato emiratino con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. Le stime indicano investimenti emiratini nello Stato ebraico per 350 milioni di dollari solo in questa prima fase di disgelo. La crescita improvvisa del volume degli scambi ha anche portato a un incremento dello studio della lingua ebraica nel Paese del Golfo, facendo ora emergere alla luce del sole il programma "Wcje Gulf Ulpan", avviato già a giugno, per l'insegnamento dell'ebraico su una piattaforma online da parte di insegnati israeliani certificati.
   Uno dei segni dell'apertura si era intravisto già il 19 maggio, quando all'Aeroporto Ben Gurion era atterrato il primo volo cargo con il logo di Etihad Airways, la compagnia di bandiera emiratina, che trasportava aiuti umanitari per i palestinesi - rifiutati in seguito dall'Autorità Nazionale Palestinese in protesta al gesto di normalizzazione verso lo Stato ebraico.
   Il volo 971 di lunedì e quello di ritorno 972, previsto per il giorno seguente, indicano i prefissi telefonici rispettivamente di Eau e Israele. La pagina Twitter in arabo del Ministero degli Esteri israeliano ha condiviso il cartellone dei voli dell'Aeroporto Ben Gurion in cui è elencato lo storico volo, suscitando interesse non solo tra gli emiratini: Jinan scrive "Inshallah un giorno anche con l'Iraq"; Ahmed chiede se potrà partire da Abu Dhabi con la cittadinanza saudita.
   Non è ancora chiaro quale sarà la rotta del volo: a metà agosto il premier Netanyahu, annunciando l'imminente apertura della nuova tratta aerea, aveva parlato di un volo della durata di tre ore, sorvolando i cieli sauditi. Al momento non è stato reso noto se sia arrivato il consenso di Riyad, che l'amministrazione USA continua a insinuare potrebbe presto aggregarsi all'apertura di Abu Dhabi verso Israele.
   L'Arabia Saudita, pur non avendo condannato l'accordo, non si è ancora esposta pubblicamente in merito, rilasciando finora un'unica dichiarazione da parte del ministro degli esteri Faisal bin Farhan, secondo cui la normalizzazione con Israele va conseguita di pari passo con una risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Va ricordato che Riyad già in passato ha concesso a voli israeliani di sorvolare il proprio spazio aereo, nella rotta Tel Aviv-Nuova Delhi. Se l'ok saudita non dovesse arrivare, fonti diplomatiche riferiscono che il volo dovrebbe sorvolare l'Iraq, e si tratterebbe in ogni caso di un precedente storico.

(la Repubblica, 29 agosto 2020)


Libano-Israele: ennesima presa in giro di UNIFIL verso Gerusalemme

di Maurizia De Groot Vos

Era il 1978 quando l'ONU creò UNIFIL per supervisionare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale. Ma fu nel 2006, dopo l'ultima guerra tra Israele ed Hezbollah, che la missione divenne (teoricamente) di fondamentale importanza.
   Infatti, teoricamente, avrebbe dovuto vigilare sul riarmo di Hezbollah e impedire che i terroristi libanesi entrassero in possesso di missili e di armi avanzate.
   Il risultato è, purtroppo, davanti agli occhi di tutti. Oltre 150.000 missili in possesso di Hezbollah, armi di ogni tipo giunte dall'Iran per via aerea, marittima e terrestre, la parte a sud della cosiddetta "linea blu" praticamente interdetta ai controlli, tanto che i terroristi libanesi hanno potuto tranquillamente scavare lunghi tunnel che sbucavano in Israele.
   Poi ieri alle Nazioni Unite, improvvisamente, si svegliano i francesi che al Consiglio di Sicurezza redigono una risoluzione dove chiedono (CHIEDONO) al governo libanese (che nel sud del Libano nemmeno conoscono) di "facilitare un accesso rapido e completo ai tunnel e ai siti sospettati di nascondere armi".
   Ma aspettate perché non è finita qui. La risoluzione "sollecita la libertà di movimento dei militari dell'ONU all'interno della linea blu".
   Cosa si deduce da questa risoluzione fortemente voluta dalla Francia? Una cosa che già sapevamo, cioè che fino ad oggi UNIFIL non ha fatto quello per cui è stata creata e che per 14 anni ha sostanzialmente collaborato con Hezbollah girandosi semplicemente dall'altra parte o evitando di ispezionare i siti sospetti.
   15.000 militari (ora ridotti a 13.000), mezzi di ogni tipo compresi aerei e navi, in Libano da 14 anni per fare nulla.
   E anche ora non cambia nulla, nemmeno con questa risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che è chiaramente indirizzata al governo libanese, il quale però da quelle parti conta meno di niente. Fumo negli occhi, l'ennesima presa in giro nei confronti di Israele.

((Rights Reporter, 29 agosto 2020)



La Shoah e il Vaticano diviso

Nuovi documenti pubblicati dallo storico Kertzer sulla persistenza del pregiudizio nella Santa Sede. Vinse la scelta del silenzio. II gesuita Tacchi Venturi propose di protestare presso i tedeschi, ma non fu ascoltato

di Antonio Carioti

La questione del silenzio di Pio XII sulla Shoah esplose negli anni Sessanta ma il problema era già ben presente allo stesso Papa e ad altri esponenti della Chiesa durante la guerra. Tanto che il gesuita padre Pietro Tacchi Venturi, addetto in precedenza al rapporti della Santa Sede con il regime fascista, propose nel dicembre 1943, due mesi dopo la razzia del 16 ottobre nel ghetto di Roma, di presentare una nota verbale di protesta alle autorità tedesche per le deportazioni in corso in Italia. E tuttavia non se ne fece nulla, anche perché un altro eminente prelato e futuro cardinale, Angelo Dell'Acqua, richiesto di un parere, criticò il testo e suggerì in un suo promemoria di lasciar perdere.
   I due documenti, rimasti finora inediti, sono emersi grazie alla decisione, assunta da papa Francesco, di aprire gli archivi vaticani per quanto riguarda il pontificato di Eugenio Pacelli, durato dal 1939 al 1958. Li presenta lo storico americano David Kertzer, al quale sono stati segnalati dal collega italiano Tommaso Dell'Era, sul sito web della rivista «The Atlantic», nell'ambito di un articolo dedicato al «caso Finaly»: l'odissea, su cui lo stesso Kertzer si propone dl tornare più ampiamente insieme allo studioso Roberto Benedetti, di due piccoli fratelli ebrei francesi, rimasti orfani e fatti battezzare dalla direttrice cattolica dell'asilo dove erano rimasti nascosti per sfuggire alla persecuzione, che solo dopo una lunga battaglia legale e complesse trattative vennero affidati alla zia residente in Israele. «Entrambe le vicende riflettono il radicamento del pregiudizio antiebraico nelle gerarchie ecclesiastiche anche durante il genocidio perpetrato dai nazisti, di cui il Vaticano era ben informato, e persino dopo la guerra» dichiara al «Corriere» Kertzer. «Nel 1953 Giovanni Battista Montini — continua — sull'affare Finaly seguì la linea del Sant'Uffizio, per cui i due bimbi dovevano essere educati nella fede cattolica. Eppure in seguito, divenuto papa Paolo VI, avrebbe segnato una svolta nei rapporti tra la Chiesa e il mondo ebraico con la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II».
   Torniamo ai documenti del 1943. Il giudizio di Kertzer è netto: «La nota proposta da Tacchi Venturi, per quanto il suo scopo fosse indurre i tedeschi a cessare le deportazioni, non era benevola verso i perseguitati. Parlava dl "gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione". E sosteneva che l'influenza ebraica in Italia era già stata limitata dalle leggi razziali del fascismo e quindi non si vedeva la necessità di misure brutali come quelle poste in atto dalle autorità di occupazione tedesche».
   Più articolata la valutazione dello storico Andrea Riccardi, autore del libro L'inverno più lungo (Laterza) su Roma e il Vaticano sotto l'occupazione nazista: «Tacchi Venturi non era certo un filosemita. Dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, aveva fatto presente al governo italiano che forse non conveniva abrogare del tutto le leggi razziali. Tuttavia si rendeva conto della drammaticità di una situazione che, dopo la razzia nel ghetto, vedeva in quel periodo una recrudescenza della persecuzione. Si era anche adoperato a favore di alcuni ebrei. In questo documento, che in parte era già noto (lo richiamo anch'io nel mio libro), si sforza di entrare nella mentalità dei tedeschi, per convincerli che non è utile neppure dal loro punto di vista proseguire in una condotta così brutale. E comunque prospetta un intervento pubblico della Chiesa per "commiserare altamente, innanzi a tutto il mondo, la sorte di uomini e donne non colpevoli di alcun delitto", cioè degli ebrei. E' un linguaggio forte, non da diplomatico».
   Però Dell'Acqua il 20 dicembre 1943 disapprovò il testo preparato da Tacchi Venturi: «E non solo — osserva Kertzer — per evitare di turbare i rapporti con la Germania usando espressioni di condanna a suo avviso troppo forti o esplicite. Dell'Acqua, pur consapevole della gravità delle persecuzioni naziste, scriveva che comunque "diffidare dell'influenza degli ebrei" poteva essere "cosa assai opportuna". Ricordava i provvedimenti presi in passato dai pontefici proprio "per limitare l'influenza degli ebrei". E suggeriva soltanto di parlare con l'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, "raccomandandogli che non si aggravi la già grave situazione degli ebrei". Un atteggiamento di carattere esclusivamente umanitario, dal quale comunque traspare la persistenza di un'antica avversione che nemmeno la Shoah riusciva ad attenuare».
   Secondo Riccardi, lo scritto di Dell'Acqua «riflette da una parte una scarsa comprensione della tragedia in corso, dall'altra un'impostazione rigidamente diplomatica. Si chiede se sia il caso di rinfacciare ai tedeschi le loro atrocità, prendendoli di petto, e consiglia un atteggiamento più morbido. Evidentemente non aveva sviluppato verso le vittime dei nazisti la pietas che troviamo in altri esponenti della Chiesa».
   Colpisce comunque la frase con cui Dell'Acqua concludeva il suo promemoria, affermando che «bisognerebbe anche far sapere ai Signori ebrei di parlare un po' meno e di agire con grande prudenza...». Si riferiva a un popolo vittima di un'azione spietata di annientamento.
   «Sono parole che suonano sprezzanti - nota Riccardi - nelle quali si può avvertire un fondo antisemita. Ma credo che rivelino soprattutto l'inadeguatezza di un funzionario vaticano di fronte a una situazione senza precedenti, della quale non coglieva le spaventose implicazioni».

(Corriere della Sera, 29 agosto 2020)


La forma di difesa della CCR (Chiesa Cattolica Romana) davanti all’evidenza di una dottrina apertamente antiebraica e di una politica viscidamente antisemita è sempre dello stesso tipo: la CCR come istituzione per principio vuole bene a tutti, perfino agli ebrei. A fare ogni tanto qualcosa di sbagliato sono sempre e soltanto i singoli, cosa che la CCR sospirando ammette, invitando però tutti a contestualizzare culturalmente e psicologicamente. Bisogna dire allora, una volta per tutte, che se la CCR è quella che pretende di essere, il papa di quel tempo, Pio XII, ha fatto bene a fare quello che ha fatto. E’ l’Istituzione Sacra che in primo luogo deve essere protetta, perché è il centro dell’azione salvifica del mondo da parte di Dio, e non potranno certo essere alcune centinaia di poveretti, tanto più se ebrei, a far mettere a rischio la solidità della sacra istituzione. Certe azioni “discutibili” dell’istituzione CCR sono in realtà forme corrette di funzionamento della stessa. E’ dunque la sacralità dell’autocoscienza istituzionale della CCR che deve essere messa in discussione, soprattutto da chi si dichiara discepolo di quel Cristo il cui nome da quell’istituzione è profanato tra gli ebrei. Quello che ha fatto ieri l’aristocratico papa Pio XII lo sta facendo oggi, in forma adatta ai tempi, il popolano papa Francesco. La CCR non attacca per principio nessuno, si limita a difendere se stessa. A tutti i costi. Badando bene che siano altri a pagarli. M.C.


Israele-Palestina, la pace è un'orchestra

Nel film "Crescendo" storia d'amore tra musicisti arabi e israeliani, è ispirato alla West-Eastern Divan Orchestra fondata nel 1999 da Daniel Barenboim ed Edward Said
    Lei si chiama Layla, è palestinese di Qalqilya, ha 24 anni e una madre inquieta perché ancora non ci sono fidanzati alle viste. Quando il vapore dei lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani le entra dalla finestra, Layla va in cucina e taglia una cipolla che le serve da antidoto. Suona il violino. Bene, ma non tanto quanto lui, che si chiama Ron, è israeliano di Tel Aviv, è sexy, arrogante e sa di esser nato per diventare una star.
   Con un po' di "X Factor" e un po' di "Compagnia del cigno", ma con una svolta drammatica che dissipa ogni possibile zuccherosità, "Crescendo" è ispirato alla West-Eastern Divan Orchestra fondata nel 1999 da Daniel Barenboim ed Edward Said, con molte fondamentali differenze. Una, soprattutto: qui a mettere insieme il gruppo non è un direttore dal doppio passaporto israeliano e palestinese, com'è Barenboim nella realtà, ma un tale Eduard Sporck (soprannominato Porsche per il prestigio e l'energia da chi vuole affidargli il figlio principiante, lo impersona l'attore austriaco Peter Simonischek, quello di "Vi presento Toni Erdmann" ) nato addirittura da due criminali nazisti, medici in un Lager: perché, spiega il regista, «il conflitto fra ebrei e tedeschi è il più grave immaginabile, e serve pensare che anche quello può essere superato».
   L'orchestra del film nasce per un concerto soltanto, da tenere a Vipiteno in occasione di certi colloqui di pace, mentre quella vera dura felicemente da più di vent'anni, ultime performance in ordine di tempo al Festival di Salisburgo e due settimane fa a Berlino. Abbastanza simili e irti di problemi devono però essere stati i primi incontri fra i ragazzi. Racconta il componente dell'orchestra Daniel Cohen nel libro "Insieme" di Elena Cheah, pubblicato in Italia da Feltrinelli, che una volta, proprio agli inizi, scappò via «tremando come una foglia», per colpa di un film proiettato al gruppo, "Route 181": «Se avessi voluto ascoltare tutta questa propaganda - pensò- non sarei venuto al Divan». Elena Cheah, violoncellista, ricorda i «gravi screzi« per il ciondolo di una collega di Ramallah, «che raffigurava la forma attuale di Israele con la scritta Palestina». In "Crescendo", analogamente, dalle invidie e incomprensioni perché i palestinesi, svantaggiati, sono meno preparati tecnicamente, si passa in un attimo all'insulto razziale: «Terroristi!Oppressori! Sporchi ebrei! » Solo un paziente lavoro di terapia di gruppo scioglie qualche nodo. Esercizi che prevedono l'uso di una fune che divide, per stare distanziati e urlarsi addosso tutta la rabbia. Obbligo di condivisione dei leggii fra arabi e israeliani. L'incitamento di Sporck: «Cercate di presumere, per questi cinque giorni, che il vostro nemico non abbia cattive intenzioni».
   Per una volta, l'utopia si è realizzata nel mondo reale e non nella fiction. È fragile e sotto scacco, eppure continua ad abitare il mondo, secondo la formula di Said e di Barenboim: «Questa nostra idea trae spunto dal principio del contrappunto musicale. Dove una voce di accompagnamento che agisce in maniera sovversiva può arricchire una melodia anziché impoverirla».

(Head Topics, 29 agosto 2020)


Arte, teatro, web. La cultura ebraica incontra l'Europa

di Jessica Chia

MILANO - Il tema, Percorsi ebraici, è un invito a conoscere gli itinerari storici, artistici, archeologici e culturali della comunità. A questo è dedicata la XXI Giornata europea della cultura ebraica che si terrà domenica 6 settembre in contemporanea in 32 Paesi europei e in oltre 90 località diffuse in 16 regioni del nostro Paese, da nord a sud. In Italia, quest'anno, sarà capofila per la prima volta Roma, dove si trova la comunità ebraica più grande della penisola e la più antica della Diaspora. «L'Ucei, Unione Comunità ebraiche italiane, insieme a tutte le realtà locali — ha detto Noemi Di Segni, presidente Ucei —, ha raccolto la sfida di raccontare al meglio gli itinerari dell'ebraismo italiano, che sono interessantissimi, talvolta sorprendenti, diffusi su tutto il territorio nazionale».
   Nella capitale si aprirà ufficialmente la Giornata, che quest'anno prevede centinaia di iniziative, molte delle quali online per le normative anti-Covid (il programma è sulla pagina Facebook @centrodiculturaebraica). Tra gli eventi in città: Passeggiando in bicicletta: la Roma ebraica dalle origini ad oggi (ore 9); l'esposizione della scultura di Antonietta Raphaèl (1895-1975) Le tre sorelle (1933-36; ore 13.15 al Museo ebraico). Tra le visite guidate anche quelle al Museo ebraico (dalle 10 alle 17.15); all'Ospedale israelitico e al Tempio dei giovani (ore 10-16.30), all'Archivio storico della Comunità ebraica «Giancarlo Spizzichino» e alla mostra Shoah. L'infanzia rubata (Fondazione Museo della Shoah; ore 10-20).
   In occasione della Giornata, Milano festeggia invece il 5 e il 6 settembre con il V Festival Jewish in the City che si terrà tutto online (su mosaico-cem.it e sulla pagina Facebook Giornata europea della cultura ebraica - Milano). Il 5 alle 21, apre il prologo semiserio L'ebreo errante? di (e con) l'attore Gioele Dix, introduce Gadi Schoenheit, assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano. La mattina di domenica 6 ci saranno tre dirette streaming (tutte alle 10) localizzate in tre luoghi significativi della città: la Sinagoga Centrale di via Guastalla, il Memoriale della Shoah (qui lo scrittore Marco Belpoliti interverrà su Immaginare la memoria) e il Giardino dei Giusti sul Monte Stella (con Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, che parlerà de I Giusti al tempo del coronavirus). Nella Sala Jarach della Sinagoga Centrale si esibirà in un concerto il Sestetto Scaligero Wanderer (in onore di Vittore Veneziani, direttore del coro del Teatro alla Scala, espulso nel 1938 a causa delle leggi razziali).
   Nel pomeriggio, dalle 15.30, seguiranno cinque gruppi di conferenze in streaming sui temi: Medicina e scienza; Storia della Comunità ebraica di Milano, Teatro e letteratura, Storia e religione, Arte culinaria ebraica. Le celebrazioni si chiudono alle 20.30 con Klez parade in diretta streaming dai Bagni Misteriosi (Teatro Franco Parenti), festa e concerto con il Trio Nefesh.

(Corriere della Sera, 29 agosto 2020)


Il primo volo commerciale tra Israele ed Emirati sarà fatto con El Al

Lunedì prossimo, ci saranno a bordo anche Kushner e O'Brien

Sarà la El Al il vettore del primo volo commerciale tra Israele e Abu Dhabi che lunedì prossimo porterà negli Emirati una delegazione governativa dopo l'Accordo sull'avvio di normali relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Lo ha deciso il governo.
A bordo - sul volo LY971 - ci sarà non solo la delegazione ufficiale israeliana ma anche il consigliere, e genero di Trump, Jared Kushner e il responsabile della Sicurezza nazionale Usa Robert O'Brien. Per Israele la delegazione sarà guidata dal Consigliere nazionale per la sicurezza Meir Ben-Shaabbat.
I colloqui ad Abu Dhabi riguarderanno la cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità energia e sicurezza.

(ANSAmed, 28 agosto 2020)


Nel villaggio diviso la frontiera nasconde i tunnel di Hezbollah

La Linea blu dell'Onu attraversa Ghajar. Il paese è conteso fra Israele, Siria e Libano. Qui nel 2005 ci fu un tentativo di infiltrazione fermato dall'esercito israeliano.

di Sharon Nizza

GHAJAR (confine Israele-Libano) - C'è una battuta in voga tra gli abitanti di Ghajar: «Siamo gli unici che viaggiano in Medio Oriente senza mettere piede fuori casa». Perché in questo villaggio di 2800 anime puoi dire di essere in Israele, Libano o Siria. Il Libano lo rivendica, imputando a Israele una permanente infrazione della Linea Blu, tracciata nel 2000 per definire il confine dopo il ritiro israeliano dal Sud del Libano.
   Il divario tra realtà sul campo e diplomazia cartografica, nota piaga mediorientale, a Ghajar è riassunto magistralmente: la Linea Blu divide in due il villaggio. A Nord Libano, a Sud Israele. Ma solo "sulla carta": di fatto gli abitanti sono israeliani e non vi è delimitazione fisica. «Nel 2000 quando l'Onu ha tracciato il confine proprio in mezzo al nostro villaggio, abbiamo sollevato una protesta internazionale» racconta Jamal Khatib, il nostro ospite. In un suo libro ha raccolto le lettere inviate allora a tutti i leader del mondo: «Aiutateci a non essere divisi» invocavano.
   La controversia risale al '67, quando Israele, dopo la Guerra dei Sei giorni, conquista dalla Siria le Alture del Golan. Gli abitanti del villaggio, allora solo 600, sventolarono bandiera bianca e passarono sotto l'amministrazione israeliana. Nel 1981 divennero cittadini, l'unico comune alawita d'Israele. Fino allo scoppio della guerra civile in Siria, racconta Jamal, molti dei loro ragazzi - con un permesso speciale - andavano a studiare all'università a Damasco, passando attraverso il valico di Quneitra.
   Nel 2005, Hezbollah si infiltrò a Ghajar da nord cercando di attaccare, senza successo, i soldati della vedetta israeliana. Il 12 luglio 2006 l'operazione andò in porto in un altro punto del confine: Hezbollah uccise otto soldati e ne rapì due, innescando la Seconda guerra del Libano, conclusasi 34 giorni dopo con l'adozione della risoluzione Onu 1701 che stabiliva il potenziamento della missione di interposizione Unifil. Dopo la guerra, Israele costruì una barriera per proteggere Ghajar da infiltrazioni a nord, e da qui l'infrazione. Ma sono gli stessi cittadini di Ghajar a contestare la rivendicazione libanese: «Noi siamo siriani, le Alture del Golan appartenevano alla Siria prima. Con il Libano non c'entriamo nulla», spiega Jamal.
   «Mettere sullo stesso piano la controversia su Ghajar, o i nostri droni che sorvolano lo spazio aereo libanese, e le violazioni di Hezbollah, non regge» dice a Repubblica Assaf Orion, ricercatore per l'INSS di Tel Aviv, fino al 2015 capo della delegazione israeliana agli incontri tripartiti tra gli eserciti dei due Paesi e Unifil.
   Ma sono anni che Israele denuncia la mancata implementazione de facto della risoluzione 1701, secondo cui le uniche forze armate nel Sud del Libano devono essere l'esercito libanese e Unifil. Le vedette di Hezbollah sono invece visibili a occhio nudo dalle cittadine di confine israeliane.
   Nel 2018, l'esercito israeliano ha scoperto (e cementato) sei tunnel che, partendo dai villaggi. nel sud del Libano, fuoriuscivano in territorio israeliano. Israele sostiene da anni di aver identificato migliaia di bunker che ospitano parte dell'arsenale missilistico di Hezbollah nei villaggi sciiti, anche in abitazioni private. Unifil non entra nelle proprietà private e per Hezbollah questo è un modo per impedire o sviare i controlli dei Caschi blu.
   «Chiediamo che il mandato venga modificato di modo che Unifil entri anche in quelle che sono considerate proprietà private, ma che in realtà sono basi operative di Hezbollah, e che conduca perquisizioni anche senza preavviso o coordinamento con l'esercito libanese - dice Orion. «E' in corso un'escalation. Se la situazione rimane così, se non si rende Unifil più efficace, una nuova guerra è solo questione di tempo».

(la Repubblica, 28 agosto 2020)


La pace tra Emirati e Israele l'ha apparecchiata Elli

Lo storico accordo tra lo stato ebraico e quello arabo è stato preceduto da grandi e piccoli segnali. Tra questi, il successo del servizio a domicilio di kosher kitchen lanciato da una sudafricana.

di Simona Verrazzo

 
Elli Kriel
C'è il lato politico dello storico accordo di pace siglato due settimane fa da Emirati Arabi Uniti e Israele (finora lo Stato ebraico era riconosciuto nel mondo arabo solo da Egitto e Giordania). E c'è quello umano e culturale: l'avvicinamento è infatti stato favorito dalla presenza della comunità ebraica che vive negli Emirati. Si tratta di una minoranza che, nel corso degli ultimi tempi, si è sempre più integrata nel tessuto sociale, e che negli ultimi mesi ha visto emergere una donna intraprendente. Durante il lockdown, infatti, si è avuto un boom della consegna a domicilio di cibo, tra cui il kosher, cioè cucinato secondo le regole della religione ebraica. L'idea era stata lanciata poco tempo prima da Elli Kriel e si è rivelata vincente durante l'emergenza coronavirus.
   Nata in Sudafrica, dal 2013 negli Emirati, Elli si è occupata di sociologia sia alle università di Johannesburg e di Dubai sia come consulente per aziende private, ma è la cucina la sua vera passione e così, dopo aver ricevuto l'approvazione delle autorità ebraiche locali, ha lanciato Elli's Kosher Kitchen, primo servizio di consegna a domicilio di cibo kosher nella regione del Golfo. Nascere in un Paese che ha conosciuto la segregazione razziale l'ha spinta a compiere studi sulle relazioni sociali. «Il mio dottorato di ricerca» racconta al Venerdì «si occupava di come la comunità ebraica abbia affrontato l'inclusione, ma anche dell'esclusione sociale nel post-apartheid», E la cucina svolge sempre un ruolo cruciale dal punto di vista culturale, in Sudafrica come negli Emirati, «il cibo è identità, occasione di incontro tra popoli diversi. E tra la cucina ebraica e quella emiratiana e araba i punti in comune sono molti».
   Se il 2019 si era concluso con la nomina del nuovo rabbino capo, Yehuda Sarna, e l'annuncio della costruzione della Casa della famiglia abramitica, dove una sinagoga, una chiesa e una moschea sorgeranno sullo stesso sito, il 2020 è l'anno del consolidamento di questo rapporto. La comunità ebraica residente conterebbe circa tremila persone, cui si aggiungono quelle in transito per lavoro o turismo. Un'integrazione che guarda all'attesissimo Expo di Dubai, posticipato al 2021, dove già da mesi è stata confermata la presenza del padiglione di Israele. «Oltre al cibo sto pensando a veri e propri kosher tour, con luoghi da visitare e dove soggiornare» rivela Elli «per tutti coloro che vogliano scoprire la varietà, anche religiosa, degli Emirati».

(la Repubblica - il Venerdì, 28 agosto 2020)


Sei razzi nella notte da Gaza contro il territorio israeliano

Sono sei i razzi che sono stati lanciati questa notte da terroristi musulmani a Gaza verso il sud di Israele. Le sirene hanno risuonato a Nachal Oz, Alumim, Sha'ar HaNegev e Sdot Negev. L'esercito israeliano (IDF) ha confermato che sei razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele e che tutti i razzi sono esplosi in aree aperte, senza causare danni o ferite. I palestinesi hanno dichiarato che nella notte ci sono stati dei colpi d'artiglieria dell'IDF e le esplosioni si sono sentite nel centro di Gaza immediatamente dopo l'attacco con i razzi. In precedenza, i caccia israeliani hanno bombardato obiettivi terroristici di Hamas a Gaza in risposta a centinaia di ordigni esplosivi e bombe incendiarie attaccati a palloncini lanciati dalle milizie delle brigate ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, verso il sud di Israele.

(LiberoReporter, 28 agosto 2020)


Nelle scuole ultra ortodosse con i divisori

Le scuole religiose ebraiche ai tempi del Covid. Anche gli ebrei ultra ortodossi si sono dovuti adeguare alla nuova realtà sanitaria, specie nelle yeshiva (scuole talmudìche), dove si usa studiare in coppia e quindi a distanza molto ravvicinata. A Bnei Brak, a est di Tel Aviv,le scuole si sono attrezzate con divisori di plastica e mascherine obbligatorie. La comunità ultraortodossa ebraica è stata fra le più colpite del Paese, con i maggiori focolai registrati proprio nei quartieri più densamente popolati dai religiosi. In Israele l'ultimo bollettino giornaliero ha registrato 1.937 nuovi casi.

(Corriere della Sera, 28 agosto 2020)


Intesa fra Erdogan ed Hamas

L'organizzazione che è ritenuta terroristica sia dagli Stati Uniti che dalla Ue

di Dorian Gray

Sabato 22 agosto, il presidente turco Erdogan ha incontrato a Istanbul una delegazione di Hamas, guidata dal capo politico Ismail Haniyeh. Tra i componenti della delegazione c'era anche Saleh al-Arouri, vice capo di Hamas, inserito dagli Stati Uniti nella lista dei terroristi e sul quale pende una taglia di 5 milioni di dollari.
   E infatti non si è fatta attendere la condanna del Dipartimento di Stato Usa. Arouri non è solo il trait d'union dell'organizzazione con Ankara, ma lo è anche con l'altro Paese islamista per eccellenza: l'Iran.
   Arouri infatti era tra i componenti della delegazione di Hamas che visitò Teheran nel luglio del 2019, quando il gruppo terrorista palestinese decise di riappacificarsi con l'Iran, dopo la frattura per il conflitto in Siria.
   Di fatto, Arouri ha defenestrato l'ex capo politico di Hamas Khaled Meshal, considerato sgradito dai mullah iraniani. Durante la visita del luglio 2019, la delegazione incontrò anche Khamenei e proprio Arouri arrivò ad affermare che Hamas sarebbe stata la prima linea di difesa dell'Iran dagli attacchi occidentali. Evidentemente fece colpo agli occhi della Guida Suprema, perché dopo quell'incontro il regime iraniano decise di quintuplicare i finanziamenti a Hamas (30 milioni di dollari al mese).
   La notizia della visita della delegazione di Hamas ad Ankara arriva dopo lo scoop del Telegraph, che ha denunciato come proprio Erdogan stia concedendo la cittadinanza ai membri di Hamas.
   Il Telegraph dice di aver visionato ben 12 carte d'identità e passaporti turchi di «senior members» di Hamas, mentre altri cinque rappresentanti dell'organizzazione terrorista palestinese sarebbero pronti a riceverne uno.
   Grazie a questi documenti, i rappresentanti di Hamas (che è organizzazione terroristica sia per gli Usa che per l'Ue) potranno girare liberamente in tutto il mondo. Grazie, incredibilmente, alla connivenza del governo di un paese Nato...
   Infine, va ricordato che Erdogan ha preso da poco una decisione che sta facendo molto discutere in Turchia: il presidente turco ha infatti deciso di creare una nuova forza di sicurezza, composta da 500 agenti, che risponderanno unicamente alla «Direzione per la Sicurezza» di Ankara. Nei fatti, molti accusano Erdogan di essersi fatto una sua milizia personale, sul modello dei Pasdaran iraniani.
   Di non molto tempo fa la previsione dell'autorevole storico Bernard Lewis, secondo cui la Turchia sarà l'Iran di domani, mentre l'Iran la Turchia di ieri.Difficile capire come gli Usa di Trump e l'Alleanza Atlantica possano arrivare ad una sintesi con Erdogan senza rimettere al suo posto il presidente turco, che rivela una postura sempre più aggressiva e militarista.

(Atlanticoquotidiano.it, agosto 2020)


Ucciso perché ebreo: l'attentato a Rav Shai Ohayon per mano di un terrorista palestinese

di David Zebuloni

 
Rav Shai Ohayon
 
Famiglia e amici partecipano al funerale
L'assassinio è avvenuto mercoledì, a Petach Tikwa, una cittadina non molto lontana da Tel Aviv. Era un giorno come tutti gli altri, Rav Shai Ohayon stava tornando a casa come di routine, dopo aver terminato i suoi studi presso il Kolel a Kfar Saba. Erano da poco passate le 13:00 e Rav Ohayon era sceso alla fermata dell'autobus all'incrocio con Segulah, posizionata a poche centinaia di metri da casa sua. Ad aspettarlo Halil Duahat, cittadino palestinese di quarantasei anni con un regolare permesso di lavoro in Israele, con in mano un lungo coltello da cucina.
   Halil stava cercando una vittima che avesse sembianze inequivocabilmente "ebraiche". Trovato Rav Ohayon, vestito con gli abiti neri e bianchi tipici dell'ortodossia ebraica, si è precipitato su di lui pugnalandolo numerose volte nella parte superiore del corpo. Qualche istante dopo, il terrorista era già fuggito. "Quando ho capito che si trattava di un attentato, ho cominciato a gridare "terrorista, terrorista!", ha raccontato al giornale Israel Hayom un passante che si trovava per caso nel luogo del delitto. Una volante della polizia si è immediatamente mobilitata e nell'arco di pochi minuti il terrorista palestinese è stato trovato, con in mano ancora il coltello sanguinante.
   Rav Ohayon lascia una moglie e quattro figli. "Non sto realizzando ciò che è accaduto. Non so come lo racconterò ai miei bambini", è stata l'unica dichiarazione rilasciata dalla moglie Sivan. "Ho sentito al telegiornale di un attentato terroristico ad un giovane uomo religioso nei dintorni di Petach Tikwa e ho avuto la forte sensazione che fosse Shai. L'ho chiamato e lui non mi ha risposto", ha raccontato invece il suocero, Ofer Kerez. "Era un marito e padre eccezionale. Ha dedicato tutta la sua vita allo studio della Torah. Gli volevo bene come un figlio", ha poi aggiunto tra le lacrime.
   Anche il Premier israeliano si è espresso sull'attentato. "A nome di tutti i cittadini israeliani vorrei porgere le più sentite condoglianze alla famiglia Ohayon", ha dichiarato Netanyahu, garantendo ai famigliari della vittima la massima punizione per l'attentatore: "Provvederò affinché la casa dell'attentatore venga distrutta". Oltre all'arresto infatti, l'unica punizione prevista dalla legge israeliana in caso di attacco terroristico, è la distruzione dell'abitazione del terrorista in questione. Legge, per altro, non sempre applicata.

(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2020)


Spari sui soldati al confine: raid israeliani sul Libano

di Fiammitta Martegani

«Ancora una volta Hezbollah sta mettendo in pericolo lo Stato libanese: suggerisco loro di non mettere alla prova la forza di Israele». Così, ieri, il premier Benjamin Netanyahu dopo che, l'altra notte, sono stati esplosi colpi dal Libano contro le Forze di difesa israeliane presenti nell'area del kibbutz Menara, vicino al confine. Israele ha reagito con raid indirizzati verso le postazioni di Hezbollah nel sud del Paese dei Cedri. Una «aggressione che merita un'investigazione», ha lamentato il Consiglio supremo di difesa di Beirut, annunciando una protesta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Le tensioni al confine sono andate aumentando dopo l'esplosione nel porto di Beirut del 4 agosto, che, in base alle prime valutazioni, sarebbe stata causata dallo stoccaggio di materiale illegale e altamente infiammabile. Stoccaggio di cui, secondo le accuse formulate dentro e fuori il libano, sarebbe responsabile il movimento sciita Hezbollah perde credito in patria a causa dell'impasse economica e politica che sta mettendo in ginocchio il Paese, con una crisi finanziaria mai vissuta prima. Come non bastasse, il gruppo (sponsorizzato principalmente dall'Iran) si trova ancora più isolato da quando, lo scorso 13 agosto, Gerusalemme ha siglato, tramite la mediazione della Casa Bianca, un accordo diplomatico con Abu Dhabi che rafforza l'asse sunnita nella regione, incoraggiando il riavvicinamento di altri Paesi del Golfo, a cominciare dall'Arabia Saudita. Proprio nel Golfo si trova in questi giorni il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che ieri ha definito l'intesa tra Israele ed Emirati «il più significativo passo verso la pace in Medio Oriente in oltre 25 anni». «Ora più che mai- ha sottolineato Pompeo - abbiamo bisogno di unità, qui, per contrastare la pericolosa influenza di Teheran». Una prospettiva estremamente pericolosa per Hezbollah. Che reagisce da par suo, puntando sull'instabilità e mettendo nel mirino Israele. lo Stato ebraico, intanto, è sotto attacco anche sul confine di Gaza - da dove continuano ad arrivare ordigni incendiari lanciati da Hamas e sul suo territorio: ieri un rabbino di 39 anni, Shay Ohayon, padre di quattro figli è stato ucciso a Petah Tìkva (nel Distretto centrale) da Khalil Abd al Khaliq Dweikat, un manovale di Nablus (Cisgiordania), che è stato arrestato. Secondo i media israeliani, Dweikat soffre di problemi mentali.

(Avvenire, 27 agosto 2020)


Israele-Sudan, nessuna svolta diplomatica almeno per ora

di Luca D'Ammando

Le vie della diplomazia sono fluide, spesso contorte e lente. È convinzione di una buona parte di analisti che il recente "Accordo di Abramo" siglato da Israele ed Emirati Arabi Uniti possa creare un effetto domino nell'area, nella direzione di una progressiva normalizzazione dei rapporti dei paesi arabi con lo Stato ebraico, sotto la mediazione degli Stati Uniti. Mediazione che però, nel caso del Sudan non ha portato a passi concreti. La visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo, con lo storico volo diretto da Tel Aviv a Khartoum, sembrava l'occasione perfetta per un passo in avanti verso il riconoscimento da parte del Sudan dello stato israeliano e la ripresa delle relazioni diplomatiche. Ma il primo ministro sudanese, Abdalla Hamdok, ha chiarito che il governo di transizione che presiede non è stato incaricato di normalizzare i legami con Israele.
   Che una svolta immediata in Sudan non fosse immediata era in realtà chiaro da tempo. Lo scorso febbraio il capo del Consiglio di Transizione al potere in Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, aveva incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda. Un incontro che aveva portata a manifestazioni di protesta in Sudan e costretto il generale a mettere in dubbio una rapida normalizzazione delle relazioni. La settimana scorsa, poi, Haider Badawi Sadiq, il portavoce del ministero degli Esteri sudanese, era stato licenziato dopo aver affermato in un'intervista a un'emittente emiratina che il suo Paese avrebbe presto seguito la strada di Abu Dhabi.
   Il "tour della normalizzazione" di Pompeo, che oltre il Sudan comprende il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti, è un passaggio cruciale nel grande gioco della geopolitica araba e mediorientale, un gioco in cui l'instabilità è una variabile costante. Egitto e Giordania, che già hanno relazione diplomatiche con Israele, finora sono stati considerati un'eccezione, perché condividono il confine con lo stato ebraico e quindi avevano motivazioni particolari. Sarà interessante ora vedere se si allargherà lo spettro di paesi arabi che riconoscono Israele. E sarà ancora più interessante capire la strategia dei palestinesi, per i quali questo processo di "normalizzazione" potrebbe essere politicamente una catastrofe. D'altra parte il piano dell'amministrazione Trump è chiaro: la Casa Bianca spera di arruolare altri a seguire l'esempio degli Emirati Arabi - con Sudan appunto, Bahrain e Oman in cima alla lista - creando così un allineamento arabo-israeliano contro l'Iran, anche a spese dei palestinesi.

(Shalom, 27 agosto 2020)


L'accordo tra Israele ed Emirati potrebbe non essere così buono per Gerusalemme

Sugli F-35 agli Emirati Arabi Uniti, Netanyahu ha mentito oppure è stato raggirato?
Middle East.


di Franco Londei

Per giorni si è glorificato l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti come una svolta epocale nei rapporti tra lo Stato Ebraico e il mondo arabo. Tutto sembrava rose e fiori, fino a quando…
Qualche giorno fa, proprio a ridosso dell'annuncio dell'accordo, un trafiletto di Ynet ci informava che tra le condizioni volute dagli Emirati per firmare quello "storico" accordo non c'era solo la rinuncia da parte israeliana all'annessione di parte della Valle del Giordano e degli insediamenti in Giudea e Samaria, ma
By Ibrahim Shukralla

ABU DHABI, 26th August, 2020 (WAM) - A top American official said today that there were "incredibly positive conversations going on" between the US, Israel and UAE with regard to selling F-35 warplanes to the latter.
"We know that there are more agreements to formalise between the UAE and Israel, but you have taken the first step and I have no doubt that the other steps will come into place, and that's one of the reasons why Secretary Pompeo is here," Morgan Ortagus, Spokesperson for the US Department of State, told Emirates News Agency, WAM, in an exclusive interview in Abu Dhabi today.
"With respect to the F-35 or any military hardware or infrastructure, I keep reminding people that it is important to know that the UAE and US' military and security relationship is robust and has been there for decades. Since the Gulf War, the United States had sold military aircraft and hardware, F-16s, and others to the UAE," she added.
"This is not a new relationship; this is a sophisticated relationship that we have had for decades," she continued.
Ortagus is in Abu Dhabi accompanying the Secretary of State, Mike Pompeo, who landed in the UAE this afternoon on the fourth leg of his regional tour, after having visited Israel, Sudan and Bahrain in the past few days. His next destination is Oman.
The American official emphasised that Pompeo in his meetings, this week, with Israeli Defence Minister, Benny Gantz, and Minister of Foreign Affairs, Gabi Ashkenazi, had been "pretty firm in his commitment to both the UAE and Israel."
She added, "We certainly are letting all our allies in the region know that our commitment militarily to strengthen the UAE is incredibly important."
Ortagus said that the UAE-Israel peace accord, which was announced on 13th August, showed UAE's "strength and power on the international stage."
"Little Israeli children will grow up seeing Emirati children in their age on vacation and being able to visit Al Aqsa Mosque, and the same for the UAE [seeing Israeli children in the UAE]. It seems historic for us because of the fact that our children will grow up in a society that is different to the one we grew up in, where there were prejudices what is normal is not for people to hate each other, but to be at peace between Muslims, Christians and Jews," she added.

c'era anche la vendita da parte americana a Dubai di un numero imprecisato di F-35, i nuovi caccia stealth di produzione americana che garantiscono la supremazia in cielo.
Da subito ho pensato (abbiamo pensato) che questa volta Ynet avesse preso una cantonata. Uno degli impegni americani più importanti con Israele è quello di garantire a Gerusalemme di avere sempre la supremazia militare e di certo la vendita di F-35 agli arabi non andava in questa direzione. Per me era quindi impossibile.
Poi il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, dopo essere stato in Israele vola negli Emirati Arabi Uniti dove tra gli altri incontra il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed Al Nahyan e il consigliere per la sicurezza nazionale, Tahnoun bin Zayed Al Nahyan, con i quali parla di vendere gli F-35 agli Emirati in ottemperanza a quanto stabilito negli accordi con Israele.
Ma questa volta non è una diceria, non è una cantonata di Ynet, questa volta a confermarlo c'è la portavoce del Dipartimento di Stato americano Morgan Ortagus.
Così dice la Ortagus in una intervista all'agenzia di stampa emiratina WAM, aggiungendo che in fondo non c'è nulla di strano visto che da decenni gli USA vendono armi avanzate agli Emirati.
Quando Ynet fece uscire quella indiscrezione, poi risultata vera, il Premier israeliano Benjamin Netanyahu si affrettò a definire tale notizia una "fake news" e ad assicurare che non c'era nessun accordo in tal senso.
Netanyahu ha quindi mentito o è stato raggirato? Con questo accordo si rinuncia all'annessione dei territori e alla supremazia militare? Se così fosse non sarebbe davvero quel "buono accordo" così tanto declamato.

(Rights Reporter, 27 agosto 2020)


Mohammed bin Salman s gela Trump: i sauditi frenano sulla pace con Israele

Il principe avrebbe cancellato il viaggio a Washington e l'incontro con Netanyahu. Riyadh, infastidita dall'accordo con gli Emirati, sceglie la prudenza: se vincesse Biden?

di Michele Giorgio

Inebriato dall'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati, Donald Trump qualche giorno fa ha detto di aspettarsi che anche l'Arabia Saudita stabilisca al più presto rapporti con lo Stato ebraico. Un auspicio fondato su elementi concreti. La Casa Bianca ha lavorato per mesi a un exploit diplomatico in Medio Oriente per poterlo sfruttare nella campagna per le presidenziali. E inoltre Riyadh è stata, da quando Trump è presidente, la capitale che più di ogni altra nel Golfo ha stretto dietro le quinte i rapporti con Israele.
   Lo spregiudicato, a dir poco, principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) non ha esitato ad addossare ai palestinesi sotto occupazione militare israeliana la responsabilità del mancato accordo con Tel Aviv. Eppure, giunti al dunque, l'Arabia saudita ha applaudito senza entusiasmo alla normalizzazione tra Israele ed Emirati e ha invocato la creazione di uno Stato palestinese.
   Gli analisti ragionano sui motivi di questa frenata e della inedita fiammata panarabista che avvolge i palazzi della dinastia Saud. Qualcosa si è incrinato. Lo indica anche lo scoop che avrebbe messo a segno l'autorevole portale d'informazione Middle East Eye. Mohammed bin Salman, scriveva ieri Mee, ha annullato una visita a Washington la prossima settimana che prevedeva il suo incontro con il premier israeliano Netanyahu. Un faccia a faccia fissato per il 31 agosto finalizzato non a un annuncio di normalizzazione tra Arabia saudita e Israele bensì a una stretta di mano tra Mbs e Netanyahu davanti alle telecamere di tutto il mondo, simile a quella del 1978 tra il presidente egiziano Sadat e il primo ministro israeliano Begin a Camp David. Ne avrebbe tratto giovamento l'accordo Emirati-Israele. E l'erede al trono saudita sarebbe apparso come un «pacifìcatore» e non lo spietato mandante dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi e il brutale repressore degli oppositori e delle ambizioni di cugini e zii che non ha esitato a rinchiudere per settimane nella prigione di lusso del Ritz-Carlton Hotel.
   Quando sembrava fatto, scrive Mee, Mbs si è tirato indietro temendo che la notizia fosse trapelata e che la sua presenza nella capitale Usa si sarebbe trasformata in un «incubo». Per l'Amministrazione è stata una doccia gelata, che fa il paio con la cautela che altre monarchie del Golfo manifestano verso la normalizzazione con Israele. Si erano fatti i nomi di Bahrain, Oman e Sudan pronti ad aprire le braccia a Netanyahu, ma gli annunci ancora non arrivano.
   La brusca frenata l'ultima curva pare sia frutto della diversità di opinioni nell'establishment reale saudita nei confronti del piano Trump, del progetto di annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania palestinese e sull'opportunità di avviare in questa fase relazioni piene con Israele, solo per favorire la campagna elettorale di Trump. Anche a Riyadh leggono i sondaggi e al momento il democratico Biden ha le carte in regola per buttare il presidente in carica fuori dalla Casa Bianca. Al rampollo reale saudita è stata suggerita prudenza e di non mostrarsi troppo compiacente con Trump, forse destinato a uscire di scena tra qualche mese. Riyadh inoltre ha capito che lo stop al piano di annessione di Israele, sbandierato dagli Emirati per giustificare l'intesa, in realtà è solo sospeso e il premier israeliano coglierà l'occasione propizia per rilanciarlo.
   Conta anche l'orgoglio ferito dei sauditi che non hanno gradito di essere stati lasciati all'oscuro (o quasi) delle intenzioni degli Emirati e della mediazione Usa. Venerdì su Asharq Al-Awsat, il principe saudita Turki al-Faisal ha spiegato che Riyadh non è stata informata in anticipo dell'accordo.
   Gli emirati cl hanno sorpreso accettando un accordo con Stati uniti e Israele», ha scritto escludendo poi una normalizzazione delle relazioni con Israele prima della creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale. E i media sauditi, da anni compiacenti con Israele, ora parlano di «normalizzazione in cambio di nulla» e che l'unico vincitore è Benjamin Netanyahu.

(il manifesto, 27 agosto 2020)


Perché la Riviera dei Cedri è frequentata dai rabbini ad Agosto?

 Cedri ed ebraismo, un antico legame che non si è mai spezzato
 
Cedro di Calabria
  Lo sapevi che molti rabbini ogni estate si recano in Calabria ? Giungono da tutte le parti del mondo per andare alla ricerca del cedro perfetto. "Perì 'etz hadar" che tradotto letteralmente dall'ebraico significa "il frutto dell'albero più bello", così Dio indicò il cedro a Mosè come una delle piante da utilizzare per la tradizionale festa della capanne o Sukkoth. Secondo l'ortodossia ebraica fu proprio il cedro e non la mela a tentare Adamo ed Eva ea provocare la loro cacciata dell'Eden. La sua storia ha attraversato i secoli, fondendo elementi di sacralità a tradizioni culturali connessi con il divino. La coltura dei cedri ha una storia tanto antica, essendo presente nel nostro paese da oltre 2000 anni. I migliori cedri, attualmente, vengono coltivati in Calabria, nella Riviera dei Cedri , precisamente a Santa Maria del Cedro , paese in provincia di Cosenza che producono una delle varietà più pregiate al mondo: la liscia diamante. Qui si coltiva circa il 98% della produzione nazionale di questo straordinario frutto rappresentando una parte fondamentale dell'economia locale.
  Ecco perché gruppi consistenti di rabbini con barba e kippah si danno appuntamento sulla riviera dei cedri, nell'alto tirreno cosentino e attendono pacatamente la maturazione del "frutto sacro" per celebrare una tradizionale festa per ricordare le capanne che gli ebrei costruirono durante il viaggio verso la Terra Promessa. Verso fine agosto, dopo una meticolosa selezione, i cedri diamante provengono per girare tutto il continente, chiusi rigorosamente in casse e protetti da un soffice gommapiuma. È cosi, più o meno, dal 1200.
  Un legame, quello tra i cedri, ebraismo e Calabria che non si è mai spezzato, questo stretto rapporti vive di un dialogo intimo con i coltivatori e con il territorio, un legame fondamentale per l'economia, per il turismo, ma soprattutto per l 'identità del luogo.

 L'economia del cedro calabrese, un fiorente mercato in continua espansione
  La scelta della Calabria non è solamente legata alla perfezione e alle pregiate qualità che con l'aiuto di un clima mite regalano ai rabbini il cedro perfetto , ma questo radicato legame permane anche grazie alle tradizioni culturali che fanno dei calabresi il popolo dell'accoglienza . Come specifica Rav Moshe Lazar , a capo della comunità ebraica di Milano e da qualche anno insignito della cittadinanza onoraria di Santa Maria del Cedro, ama ricordare come la prima espressione che imparò visitando la Calabria è "favourite", il classico invito dei calabresi a unirsi alla propria tavola, "Questa è la chiave di tutto - afferma Lazar - l'accoglienza. I calabresi hanno i loro difetti, ma se c'è l'accoglienza ogni divergenza linguistica si può superare ". Proprio per preservare quest'economia e per dare un futuro alla cedricoltura nel 1999 è stato fondato il Consorzio per i cedri della Calabria, riconosciuto con Legge Regionale nel 2004 al fine di frenare la speculazione e per intervenire sulla diversificazione della produzione dando il via alla produzione di canditi, marmellate, liquori, olii e cosmetici. Così facendo si sono creare piccole aziende, i contadini hanno ripreso ad occuparsi dei cedreti e molti giovani si sono avvicinati a questa interessante attività.
  Difficile determinare quale sia la quantità di cedri destinata al mercato ebraico dal momento che si tratta di singoli frutti che i rabbini scelgono direttamente dagli alberi. Il prezzo per ogni cedro "perfetto" si aggira comunque tra i 15 ei 20 euro.

 La Riviera dei cedri, il territorio, itinerari balneari e montani
La Riviera dei Cedri si sviluppa lungo il litorale tirrenico tra Paola e Tortora. Fra i comuni della riviera spiccano per la produzione del cedro, Santa Maria del Cedro, Scalea, Orsomarso, Santa Domenica, Talao, Buonvicino e Belvedere Marittimo. Qui grazie ad un particolare microclima, che vede l'incontro tra le correnti, una calda proveniente dal mare e una fredda che arriva dalla montagna, l'ambiente ideale la coltivazione di questo meraviglioso frutto. La composizione del terreno è perfetta trattandosi di una composizione di argilla calcarea, sabbia e humus ricco di azoto e potassio. La perfezione è raggiunta, però, solo grazie alle mani esperte e attente dei cedricoltori che da generazioni si tramandano l'amore e la passione di questo prezioso agrume. Il cedro è infatti una pianta molto delicata che non sopporta i repentini sbalzi di temperatura, perciò è essenziale che ogni operazione sia eseguita con meticolosità e attenzione. La rivalutazione della cultura legata al cedro è evidente anche dalla costituzione del Museo del Cedro, fondato dallo stesso Consorzio, per tramandare la storia del frutto e del legame storico, archeologico e artistico di questo frutto. A breve, poi, dovrebbe partire la "via del cedro", un percorso agro-mistico-sensoriale che grazie alla collaborazione di chef e barman darà molti la possibilità di assaporare uno dei frutti più pregiati della Calabria.
  Il territorio della riviera dei Cedri comprende ben 22 comuni di cui 15 si estendono sulla costa e si possono visitare alcuni paesaggi davvero suggestivi come ad esempio lo splendido scenario dell'Arco Magno presso San Nicola Arcella . Ma la riviera dei Cedri non è solo mare. A pochi chilometri dalla costa ci sono i pendici dei Monti dell'Orsomarso . Diversi sono dunque i luoghi da visitare in questa riviera che oltre al cedro ha molto altro da offrire. Scopri le tante vantaggiose promozioni e le offerte di vacanze last minute e last second per poter visitare questo luogo incontaminato e naturalistico per una vacanza davvero low coast.

(GB Viaggi, 27 agosto 2020)


Milano ricordi Laras, voce di dialogo e di memoria

Lettera a "il Giornale"

di Davide Romano*

Sul vostro giornale avete giustamente sollevato il tema delle vie da dedicare a personaggi del passato. L'estate è una stagione ottima per i ricordi, talvolta anche sotto forma di rimpianti. In questo senso mi preme menzionare il rabbino Giuseppe Laras, mancato il 15 novembre del 2017 e che Milano non dovrebbe commettere l'errore di dimenticare.
   Laras fu un importante testimone del periodo storico della Shoah, da cui si salvò miracolosamente quando era un bambino di otto anni, e sotto ai suoi occhi fu deportata la madre che non vide mai più. Nel corso della sua vita non fu mai banale, neppure nel ricordare la tragedia dello sterminio, tanto è vero che negli ultimi anni della sua vita cercò di uscire da certi formalismi delle ricorrenze, per privilegiare «una Memoria che non sia esclusivamente ripiegata su sé stessa, bensì dinamica e progettuale». Gli veniva naturale prendere posizioni scomode, come dovrebbe fare ogni persona intelligente e responsabile. Fu tra i primi in Italia a ricucire il rapporto tra la Chiesa cattolica e l'ebraismo, dopo secoli. Lo fece trovando nel cardinale Martini un protagonista altrettanto, se non più coraggioso. Lui come rabbino capo di Milano, Martini come capo della diocesi meneghina, si misero in gioco nonostante le resistenze che provenivano da parte delle loro rispettive comunità, e lo fecero in nome della comune fede nel Dio di Israele. Oggi parlare di dialogo ebraico-cristiano è normale, ma quando iniziarono a farlo loro negli anni Ottanta significava infrangere un tabù millenario. Come ricordava il cardinale Martini a proposito del dialogo: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo bensì l'acquisizione della coscienza nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi». Parole, oggi più che mai, attualissime. Da religioso, era capace di parlare anche ai laici. Per anni infatti, insegnò Storia del pensiero ebraico all'Università Statale di Milano. Come la migliore tradizione rabbinica prevede, oltre che intendersi di questioni religiose si era preso anche una laurea in Giurisprudenza e una in Filosofia. E non era un caso che amasse ripetere «per ben credere occorre saper ben ragionare». Per tutto questo, e molto altro, credo che la nostra città abbia necessità di un ricordo perenne di questa persona e del suo pensiero.

* Portavoce della sinagoga Beth Shlomo

(il Giornale, 27 agosto 2020)


Se anche il Sudan riconosce Israele

Effetto domino, la normalizzazione indebolisce la posizione palestinese

Dopo l'accordo recente tra Emirati Arabi Uniti e Israele adesso anche un altro paese arabo, il Sudan, è pronto a fare il passo del riconoscimento sempre con la mediazione degli Stati Uniti (ma ancora non c'è un annuncio ufficiale). Il segretario di stato americano, Mike Pompeo, vola diretto da Israele a Khartoum, capitale del Sudan, e già questa rotta è simbolica della sua missione e di quello che sta succedendo. Se l'accordo con i sudanesi funzionerà, allora si potrà cominciare a parlare di effetto domino e di progressiva normalizzazione di tutti i paesi arabi con Israele, e non soltanto di alcune poche eccezioni. Egitto e Giordania hanno già relazioni con Israele ma condividono un confine con lo stato ebraico e quindi avevano molte ragioni pratiche per arrivare a un accordo di pace, molti anni fa. Gli Emirati prima e adesso il Sudan invece non hanno confini in comune con Israele, parlano di normalizzazione perché riconoscono che è più utile nel grande gioco delle relazioni internazionali parlare con Israele invece che fare finta che non esista. A questo punto ci sono da capire due cose. La prima è cosa faranno i palestinesi. Questa normalizzazione progressiva per loro è una cosa terribile, perché vuol dire che stanno perdendo poco a poco la solidarietà storica delle nazioni arabe. Se non possono più dire di avere alle spalle tutti i paesi arabi e se i governi arabi non considerano più la causa palestinese una questione di principio che viene prima di tutto il resto, allora si apre una fase di debolezza e incertezza. La seconda cosa da capire è se quest'effetto domino si fermerà qui - in fondo il Sudan è un territorio dove gli Emirati sono molto influenti - oppure se la catena continuerà e chi sarà il prossimo. Questi accordi sono positivi, ma c'è da tenere a mente una cosa: nascono per tentare di tenere a bada una regione che è sempre più instabile e pericolosa.

(Il Foglio, 26 agosto 2020)



Ragazzi scoprono in Israele un tesoro che risale a 1.100 anni fa

Ben 425 monete d'oro risalenti al IX secolo sono state portate alla luce in Israele grazie a un gruppo di ragazzi nell'ambito di un vasto progetto volto ad avvicinare i giovani alla storia, legato agli scavi presso Yavneh, a sud di Tel Aviv. Un articolo sul New York Times spiega che il tesoro era in un contenitore d'argilla e nascosto nella sabbia. 'Stavo scavando nel terreno - afferma Oz Cohen, uno dei giovani responsabili del ritrovamento - quando ho notato delle forme che sembravano foglie molto sottili, ma erano in realtà delle monete d'oro». Le monete, che pesano meno di un chilogrammo e sono costituite da oro puro, risalgono al IX secolo, quando il califfato abbaside governava un vasto impero che si estendeva dalla Persia al Nord Africa.

(Avvenire, 26 agosto 2020)


Suha Arafat: "Questo accordo Israele-Emirati non è contro di noi"

La vedova di Yasser Arafat, leader dell'Olp morto nel 2004, vive a Malta dal 2011: "Mi sono scusata con Dubai per l'incendio della loro bandiera. Tanti mi attaccano ma dimenticano che quel Paese ospita 300mila palestinesi".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Al telefono da Malta, dove abita dal 2011, Suha Arafat è un fiume in piena. Erano anni che la vedova di Yasser Arafat non interveniva pubblicamente. «Non sono una politica, anche se ora, dopo questa intervista, mi aspetto l'esercito elettronico contro di me».
  Già a suo tempo molti palestinesi non le perdonarono la scelta, allo scoppio della Seconda Intifada, di trasferirsi a Parigi con la figlia Zahwa avuta dal Rais nel 1995. Ora al centro della polemica un suo post pubblicato su Instagram nel weekend, in cui Mrs. Arafat, in una posizione inaspettata e decisamente controcorrente, si scusa con gli Emirati «a nome dell'onorevole popolo palestinese, per la profanazione e l'incendio della loro bandiera» durante le contestazioni avvenute nelle città palestinesi per l'accordo di pace tra Gerusalemme e Abu Dhabi, annunciato il 13 agosto.

- Per la leadership palestinese si è trattato di un tradimento. Cosa l'ha spinta a intervenire?
  «Trecentomila palestinesi vivono negli Emirati e letteralmente sfamano milioni di palestinesi nel mondo. Molti sono stati accolti dallo Sceicco Zayed bin Sultan su richiesta di mio marito, dopo essere stati cacciati dal Kuwait a causa del grande errore che fecero i leader palestinesi schierandosi con Saddam. Non sa quanti palestinesi degli Emirati mi hanno chiamato per ringraziarmi. Mi hanno detto che ho evitato una guerra civile».

- Che fine ha fatto l'account Instagram?
  «Va chiesto a Ramallah! Me l'hanno hackerato, con tutte le mie belle foto con Hillary, Mandela, a Natale, in Italia... Ho ricevuto commenti orribili, minacce di morte, mi hanno scritto che se non possono bruciare la bandiera degli Emirati, allora bruceranno me. Sono stata attaccata come donna, come cristiana mi hanno detto che mi crocifiggeranno. E poi hanno messo in mezzo quest'accusa che sono vicina a Dahlan (il rivale di Abu Mazen in esilio negli Emirati, ndr). Ma se l'ho visto l'ultima volta forse 20 anni fa! E comunque Dahlan non è gli Emirati e gli Emirati non sono Dahlan».

- Cioè?
  «Cioè gli Emirati, come tutti gli Stati, sono liberi di fare le loro politiche. La geopolitica sta cambiando, ci sono nuovi attori nell'area, l'Iran, la Turchia con i Fratelli Musulmani, Hamas che tiene in ostaggio 2 milioni di palestinesi. Non posso giudicare un Paese che sente la necessità di difendersi da minacce esterne. E poi cosa facciamo se domani l'Arabia Saudita si accoda? E se tutti i Paesi Arabi si aggregassero?».

- Pensa che Oman, Bahrein, Arabia Saudita saranno i prossimi?
  «Tutti questi Paesi hanno relazioni con Israele. Se sono per la normalizzazione, non significa che siano contro di noi, ma solo che fanno il proprio interesse».

- Cosa pensa che avrebbe fatto Arafat in questa situazione?
  «Yasser avrebbe detto: volete la normalizzazione? Va bene. Però aiutatemi, imponetegli i confini del '67».

- Cosa pensa del Piano Trump?
  «Qualsiasi soluzione che non preveda i confini del '67 non è accettabile. Ma penso che i palestinesi dovrebbero parlare con Trump, spiegargli perché si oppongono, invece di boicottarlo: è uno che ascolta, sa cambiare idea».

- Non è più tornata in Palestina?
  «No. Vede quello che succede se dico una parola da qui, si immagina se fossi lì? Io mi chiedo quanti dei finanziamenti internazionali alle nostre forze di sicurezza vengano usati per reprimere la libertà di espressione di persone che cercano di calmare le acque, a scopi pacifici...».

- Come pensa che Abu Mazen abbia raccolto l'eredità di Arafat?
  «Abu Mazen mi piace molto. È un uomo forte, ha fermato l'Intifada. Rappresenta la stabilità del Paese. Penso sia circondato da cattivi consiglieri».

- E dopo di lui chi vede?
  «Vivrà fino a 100 anni, non mi faccia questa domanda».

(la Repubblica, 26 agosto 2020)


La stella di Davide sulla bara di Arrigo Levi. Alle esequie la corona di fiori di Mattarella

II nipote Ricardo Franco: «Uno degli ultimi di una grande generazione»

 
La figlia dl Arrigo Levi, Donatella, è la prima da sinistra
Si è svolto ieri pomeriggio a Santa Maria di Mugnano, nella campagna di Modena, il funerale di Arrigo Levi, il grande giornalista morto domenica notte all'età di 94 anni. II Capo dello Stato Sergio Mattarella ha delegato i Carabinieri in alta uniforme a consegnare alla figlia Donatella e ai nipoti Riccardo, Franco e Alberto una corona di fiori. La cerimonia ha previsto la recita del Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche, e la lettura di un passo del libro del Deuteronomio. Sulla bara, la stella di Davide. È stato il nipote Ricardo Franco Levi, già portavoce di Romano Prodi, a pronunciare l'orazione funebre, ricordando i viaggi all'estero dello zio e le sue corrispondenze dalla Russia, da Londra e da Israele. Arrigo Levi, che è stato anche direttore di 'La Stampa' e consigliere di due presidenti della Repubblica, riposa ora accanto alla moglie, Lina Lenci. Alla cerimonia al cimitero erano presenti anche il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, il prefetto di Modena Pierluigi Faloni e il vicario del questore, Sabato Riccio. «Era uno degli ultimi grandi di una grande generazione che sta scomparendo. È stato un grande professionista, nel segno di una costante ricerca della libertà di pensiero. Con grande attaccamento alla sua città e alla sua famiglia, con un senso vivissimo della responsabilità personale», ha detto tra l'altro Ricardo Franco Levi.

(il Resto del Carlino, 26 agosto 2020)


Il mondo arabo si è stancato dell'ostruzionismo dei palestinesi

Quasi tutti i paesi arabi hanno espresso sostegno all'accordo Israele-Emirati, lasciando Yemen Qatar e Autorità Palestinese accodati all'asse dell'estremismo islamista capeggiato da Iran e Turchia.

Ci troviamo di fronte a due campi: il campo della pace e il campo della distruzione, il campo del fanatismo e il campo della moderazione. La più grande sorpresa, dopo l'accordo di pace fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, è che la spaccatura non passa attraverso il mondo arabo. In effetti, quasi tutti i paesi arabi hanno espresso il loro sostegno all'accordo e sono saltati sul carro della pace. Rimangono solo Yemen e Qatar che si oppongono all'accordo, accodandosi all'asse del male capeggiato da Iran e Turchia: l'asse dell'estremismo islamista, sia sunnita che sciita.
Dunque, cosa è successo realmente? E' successo che il mondo arabo si è stancato. Guarda da una parte e dall'altra e si rende conto, anche se in ritardo, che ovunque sia implicato l'estremismo islamista - sciita o sunnita - il risultato è sempre distruzione e rovina. Iran, Turchia e i loro affiliati jihadisti sono implicati in Siria, Yemen, Libano, Somalia, Iraq, Afghanistan, Gaza, Sinai settentrionale e Nigeria settentrionale. Ovunque arrivino, è il caos. Non è che gli Emirati Arabi Uniti o l'Arabia Saudita siano improvvisamente diventati delle democrazie. Ma in Medio Oriente la scelta non è tra democrazia liberale e dittatura. La scelta è tra stabilità e devastazione....

(israele.net, 26 agosto 2020)


Hezbollah spara ai soldati israeliani. IDF risponde colpendo postazioni in Libano

Altissima tensione al confine tra Libano e Israele

di Sarah G. Frankl

È la prima volta dal 2006 che Israele colpisce con bombardamenti aerei obiettivi di Hezbollah in territorio libanese e già questo è indicativo di quanto alta sia la tensione al confine tra Libano e Israele.
Ieri sera alle 22:40 i terroristi libanesi hanno sparato contro le truppe israeliane che pattugliano il confine nell'area della comunità di Manara.
L'IDF, considerando l'episodio "molto grave", ha ordinato ai residenti dell'area di non uscire di casa per nessun motivo, poi ha dato il via alla risposta contro questa grave provocazione.
Elicotteri d'attacco si sono levati in volo e hanno colpito diversi posti d'osservazione di Hezbollah distruggendoli.
Non è chiaro se ci siano state vittime tra i terroristi.
Poco prima dell'attacco aereo i militari israeliani avevano sparato dozzine di razzi bengala illuminando tutta l'area in modo da vedere se era in atto un tentativo di infiltrazione da parte dei terroristi di Hezbollah.
Secondo alcuni media libanesi una grande quantità di aerei ed elicotteri israeliani sta sorvolando il confine tra Libano e Israele mentre ai residenti delle comunità di Manara, Yiftach, Margaliot, Misgav Am e Malkia è stato ordinato di rimanere all'interno e di essere pronti ad entrare in un rifugio antiaereo o in un'altra area protetta.
Nonostante la tensione sia ormai altissima, nulla si sente da UNIFIL che dovrebbe vigilare sulle azioni di Hezbollah ma che chiaramente non controlla assolutamente il territorio.

(Rights Reporter, 26 agosto 2020)


Hockey, l'ebreo Sherbatov gioca ad Auschwitz

di Emanuele Giulianelli

Eliezer Sherbatov
Eliezer Sherbatov, 29enne capitano della nazionale israeliana di hockey su ghiaccio, ha firmato di recente un contratto per andare a giocare con la formazione del Towarzystwo Hokejowe Unia Oswiecim, militante nel massimo campionato polacco. La notizia ha fatto molto scalpore in Israele e le reazioni di media e appassionati non hanno brillato per equilibrio, con Sherbatov che è stato addirittura additato come traditore. Oswiecim, infatti, è il nome polacco della città sul cui territorio i nazisti costruirono il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
   Nato a Rehovot, 20 chilometri a sud di Tel Aviv, nel 1991, Eliezer si è trasferito all'età di due anni con i genitori in Canada, dov'è cresciuto e ha iniziato a giocare a hockey su ghiaccio: «L'ho fatto perché mio padre amava questo sport - dice ad Avvenire-. Ho il passaporto israeliano e quello canadese. Tutti nella mia famiglia sono ebrei ed è per me un onore giocare con lo stemma ebraico sul petto; rappresento la nazionale israeliana da quando, all'età di tredici anni, mi chiesero di unirmi all'Under 18». Oltre che in Canada e in Israele, Sherbatov ha giocato anche in Francia, Kazakistan e Slovacchia prima di accettare, nel giugno scorso, l'offerta dei polacchi dell'Unia Oswiecim: «Quando ho iniziato a trattare con loro - racconta -, conoscevo la storia del campo di concentramento. Per me, la storia è stata una motivazione in più: io voglio costruire una storia migliore per gli ebrei e perciò ho voluto firmare per questa squadra».
   Entrando poi nel merito delle polemiche e del dibattito che si è scatenato, soprattutto in Israele, da parte della comunità ebraica, in seguito alla sua scelta, Sherbatov spiega così le sue motivazioni: «Sono molto orgoglioso delle mie origini ebraiche e di far parte dell'Unia Oswiecim, una squadra che mi dà l'opportunità di esprimermi sul ghiaccio come giocatore ebreo e membro della nazionale d'Israele e ora di giocare ad Auschwitz, per tutti gli ebrei del mondo. Molti media israeliani erano presenti al momento della firma del contratto e della mia presentazione: so che questa mia decisione tocca tutti. Io sto solo cercando di dare speranza agli ebrei, di fare qualcosa di concreto, di ricordare l'Olocausto, ma anche di poter raccontare di un ebreo che è andato in Polonia e ha vinto».
   I genitori di Eliezer, entrambi con un passato da atleti, si sono mostrati inizialmente scettici: «Ma se decidi di andare, mi hanno detto, devi essere il migliore, devi aiutare la squadra a vincere. Altrimenti non c'è motivo per cui tu vada lì». Le reazioni a Oswiecim, città di 40 mila abitanti, alla notizia dell'arrivo del capitano della nazionale israeliana sono state molto positive: «Tutti sono stati contenti della mia firma, la squadra e i tifosi: non c'è stato alcun commento negativo, solo una grande eccitazione. Penso che sarà una grande stagione per noi». La formazione dell'Unia Oswiecim ha una storia prestigiosa nell'hockey su ghiaccio polacco, è stata una delle migliori negli anni '90. Quest'anno, con l'arrivo di Eliezer Sherbatov, l'obiettivo è dominare in patria e in Europa: «Non possiamo far altro che vincere. Io sto giocando per questa squadra, per i tifosi e per tenere viva la memoria degli ebrei morti. Ritengo che questa sia un agrande opportunità».

(Avvenire, 26 agosto 2020)


Accordo tra Israele ed Emirati; una svolta geostrategica

di Fabio Marco Fabbri

Israele e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) hanno programmato un vertice Washington nei primi giorni di settembre; in tale incontro verranno formalizzati i pre-accordi presi a metà Agosto tra i due Stati. Detti patti saranno finalizzati alla regolarizzazione (che nel linguaggio della diplomazia significa avvio ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i due paesi) dei rapporti diplomatici frutto di una lunga, raffinata e strategica operazione negoziale che metterà in "luce" la nuova alleanza tra lo Stato ebraico e le monarchie petrolifere del Golfo Persico. Abu Dhabi diventerebbe così il terzo paese arabo a relazionarsi ufficialmente con lo Stato ebraico dal 1948, data della sua creazione. Il capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, ha parlato di una "nuova era" tra Israele e paesi arabi e ha invitato gli Stati vicini politicamente agli Emirati a seguire lo stesso tracciato.
  Va ricordato che il primo progetto di bilanciamento geopolitico dell'area del vicino oriente fu elaborato da Gran Bretagna e Francia nel 1916 con il Patto segreto, Sykes-Picot, poi reso pubblico nel 1919 e formalizzato, con vari aggiustamenti, nel 1923 nell'ambito della disgregazione e spartizione (come aree di influenza) dell'Impero Ottomano; tale operazione vedeva la creazione del sistema statale saudita come "contrappeso politico" al residuo dell'Impero Ottomano, cioè la Repubblica di Turchia. Da tempo sulla bilancia degli equilibri è venuto ad aggiungersi l'Iran sciita, il quale ha come obiettivo principe l'annichilimento dello Stato di Israele.
  Detto ciò, lo storico accordo con gli Emirati avviene dopo che l'Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994, hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Israele; questa intesa per la normalizzazione dei rapporti arriva nonostante che non si veda luce su alcuna soluzione al conflitto israelo-palestinese. E' verosimile che tale normalizzazione potrebbe tracciare la strada ad accordi di pace con altri paesi arabi come il Bahrein ed anche l'Arabia Saudita, cambiando drasticamente e profondamente gli equilibri geopolitici nel
 
Miri Regev, ministro israeliano della cultura e dello sport, stringe la mano a Mohammed Bin Tha'loob al Derai, presidente della Federazione EAU Wrestling Judo & Kickboxing (27 ottobre 2018)
Medio oriente, ma soprattutto rompendo definitivamente l'isolamento di Israele nell'area vicino-orientale e fortificando la sua posizione politica nei confronti dell'Iran. Gli accordi di Oslo, firmati il 3 settembre 1993 nel cortile della Casa Bianca tra Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano e Yasser Arafat leader dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), "uniti" da Bill Clinton, oltre che sdoganare, in teoria, i rapporti israelo-palestinesi, hanno anche aperto canali relazionali con parte del mondo arabo, infatti uomini d'affari, politici, militari israeliani e degli Emirati, hanno iniziato ad incontrarsi ed a collaborare regolarmente, sia a Tel-Aviv che a Dubai. Le tecnologie militari israeliane, sia come armamenti, che software spionistici e strategici, sono tra i maggiori prodotti esportati da Israele verso gli Emirati; recentemente agli atleti israeliani è stato consentito di gareggiare negli Emirati, inoltre, accordi commerciali bilaterali, hanno permesso ad Israele di allestire, per questo autunno, uno stand all'Expo mondiale di Dubai, ma causa Covid l'evento è stato rinviato. I dettagli sugli accordi ancora non sono sati resi noti, ma i diplomatici di entrambi i paesi stanno lavorando per definirne i termini; tuttavia è certo che ci saranno i collegamenti aerei con visti turistici condivisi, infatti già sui social network molti israeliani esprimono la speranza che presto potranno programmare le loro ferie a Dubai, ad Abu Dhabi e dintorni.
  Tuttavia osservando i precedenti con Egitto e Giordania, risulta poco probabile che tali normalizzazioni possano portare ad un ufficiale avvicinamento culturale, magari suggellato da scambi formativi e linguistici, infatti ufficialmente i rapporti di Israele con Giordania ed Egitto appaiono ancora piuttosto freddi, ma si sa che una cosa sono i rapporti ufficiali ed un'altra cosa sono gli accordi non ufficiali, spesso molto più prammatici e produttivi.
  Dietro a questo, magari per molti, inaspettato accordo, il ruolo degli Stati Uniti di Donald Trump non è stato marginale, infatti il Presidente statunitense ha eccellenti rapporti sia con Israele che con gli Emirati Arabi Uniti ed è evidente che c'è un "disegno" più articolato sullo sfondo di questo storico accordo. Infatti la politica di Trump in questa parte del Mondo è stata sempre incentrata a facilitare un dialogo tra lo Stato ebraico ed i paesi arabi sunniti, anche al fine di contrastare la minaccia iraniana (sciiti). Denis Charbit, docente all'Università di Tel Aviv, ha affermato che "Chiaramente è un regalo che gli Emirati hanno appena fatto agli Stati Uniti, che in seguito trarranno utilità anche nei confronti dell'Iran, che sta guadagnando influenza nella regione, ed anche con Israele che è una potenza economica e commerciale regionale e una porta aperta per gli Stati Uniti". Un'artefice di primo piano di questa operazione è stato Jared Kushner, sposato con Ivanka Trump e consigliere del Presidente Usa; Trump ha elogiato l'accordo registrando un innegabile successo diplomatico che sicuramente utilizzerà contro l'avversario democratico alle presidenziali Usa Joe Biden; la stessa cosa per Netanyahu, certo riconfermato alla carica di Primo Ministro, ma incagliato in pericolosi procedimenti giudiziari ed impegnato a fronteggiare violente manifestazioni dell'opposizione.
  In questo quadro ritorna la litania palestinese sul tradimento subito dai vicini stati arabi; in realtà i Paesi arabi credono che l'alleanza con Israele prevale sulla questione palestinese; inoltre negli ultimi mesi sui media del Golfo, diversi intellettuali arabi hanno denunciato l'indolenza politica dei palestinesi ed il loro noto parassitismo nei confronti delle monarchie petrolifere. Nel "gioco delle parti" il principe ereditario e Ministro della Difesa di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al-Nahyane ha affermato che "È stato raggiunto un accordo per porre fine a qualsiasi ulteriore annessione (israeliana)", ma subito Netanyahu ha affermato il contrario, dicendo che Israele ha "rimandato, non annullato", il processo di annessione della Cisgiordania.
  Come è di prassi i palestinesi hanno espresso furiosamente il loro dissenso riguardo ai programmi di normalizzazione, richiamando il loro ambasciatore da Abu Dhabi; Denis Charbit ha stimato che: "Chiaramente, per il momento l'equilibrio del potere è dalla parte di Israele. Ma se le normalizzazioni continueranno paese per paese e ogni volta Israele dovrà fare delle concessioni, i palestinesi potranno sperare di guadagnare qualcosa".
  A livello internazionale questo accordo ha confermato una divisione già esistente tra nazioni pro e contro: Londra, Parigi e Berlino hanno espresso grande entusiasmo, soprattutto la Gran Bretagna che ha ottimi rapporti sia con Israele che con gli Emirati; così come l'Egitto, l'Oman ed il Bahrain plaudono alla importante intesa; moderata con attendismo è l'Arabia Saudita; i meno entusiasti e minacciosi sono il Presidente, aspirante sultano, della Turchia Recep Tayyip Erdogan che minaccia di chiudere le relazioni diplomatiche con gli Emirati, l'Iran confuso sia a livello di politica estera che interna, che definisce l'accordo come una "stupidità strategica", e ovviamente la ormai patetica diplomazia palestinese non compresa più nemmeno dal mondo arabo. Circa la diplomazia italiana a livello media internazionali risulta, come da tempo, purtroppo inesistente.

(L'Opinione, 25 agosto 2020)


La corsa di Nikki l'anti-Kamala che sogna già il 2024

Governatrice Nikki Haley, 48 anni, origini indiane, è stata governatrice della South Carolina e ambasciatrice all'Onu durante i primi anni di Trump.

«Questa elezione sarà un referendum sul socialismo. Se vince Joe Biden, addio all'ordine pubblico e al rispetto della legge, saremo sempre più simili a quei Paesi socialisti che abbiamo combattuto». Ecco l'anti-Kamala Harris, la donna che può rappresentare il futuro del partito repubblicano nel dopo-Trump. È Nikki Haley, 48 anni, un raro esempio di diversità etnica ai vertici del Grand Old Party,
   A lei è toccato il posto d'onore nella prima serata della convention repubblicana, subito prima del presidente. Un trofeo che le spettava, da ex governatrice della South Carolina. Ma anche un premio per il suo capolavoro di equilibrismo. Haley è riuscita a lasciare l'Amministrazione Trump senza litigi, senza rancori, senza libri-scandalo. Appoggia il presidente nella corsa alla rielezione, ma quando fu la sua ambasciatrice all'Onu tenne una linea più ortodossa di lui in politica estera. Amica di Israele, certo, però dura con la Corea del Nord, senza indulgenze verso Kim Jong-Un. Il suo profilo tradizionale da "Guerra fredda 2.0" è l'ideale per accreditarsi presso un establishment di destra - nel Pentagono. tra i falchi del Senato, al dipartimento di Stato - che non ha digerito le sbandate russofile del presidente e altri flirt con leader autoritari come Kim Jong-Un o il turco Recep Tayyp Erdogan.
   Haley è una polemista agguerrita su uno dei terreni di scontro cruciali in questa campagna elettorale: Law and Order. In una fase in cui la criminalità violenta torna a spaventare diverse città americane, accusa il movimento Black Lives Matter: «Perché non danno lo stesso valore alle vite dei poliziotti neri uccisi mentre facevano il loro dovere? Perché non sono solidali con i commercianti neri a cui hanno bruciato e razziato i negozi? Cosa dicono alle famiglie che vivono in quartieri pericolosi, e hanno bisogno della polizia per la loro sicurezza? Anche quelle sono vite nere che contano».
   Di Haley si era parlato come di una possibile sorpresa nel ticket repubblicano, per sostituire il vicepresidente Mike Pence. A lei conviene aspettare un turno. Soprattutto se vince Biden, sarà pronta ad essere tra le voci più aggressive e autorevoli dell'opposizione, per ricostruire il partito repubblicano e candidarsi alla Casa Bianca nel 2024.
   Anti-Kamala Harris, è capace di sfidare la senatrice californiana con armi simili. In comune, le due donne hanno le radici indiane: Nikki è figlia di due immigrati dal Puniab. Si è convertita al cristianesimo quando ha sposato un protestante metodista, ma continua a frequentare le cerimonie religiose della comunità Sikh. Non è sospetta di razzismo, non ha avuto indulgenze verso i suprematisti bianchi: da governatrice della South Carolina fece togliere la bandiera dei Confederati, simbolo delle nostalgie sudiste per l'era dello schiavismo. Osò perfino dichiararsi contraria al Muslim Ban, il decreto presidenziale che vietava l'ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di alcuni Paesi musulmani.
   Da quando si è messa "in panchina" ha lavorato per irrobustire le sue credenziali conservatrici. Ha creato un'organizzazione non-profit, stand For America, e solidi legami con think tank della destra neoliberista come la Heritage Foundation.
   Oltre a una 'linea di politica estera "occidentalista", oltre alla linea dura sull'ordine pubblico, tra i suoi bersagli prediletti c'è il Green New Deal, tutto ciò che sa di socialismo. Adora attaccare Alexandria Ocasio-Cortez dipingendola come la suggeritrice occulta della linea politica di Biden,
   Un suo asso nella manica è l'amicizia personale con lvanka Trump, la figlia prediletta del presidente. Questo è servito a farle "perdonare" gli sgarbi compiuti nella campagna elettorale per le presidenziali del 2016: appoggiò prima Marco Rubio e poi Ted Cruz per la nomination; inoltre dichiarò che Trump doveva rendere note le sue dichiarazioni dei redditi (non lo ha mai fatto).
   Quando Trump la prese di mira, rispose con fair-play e astuzia, invocando una benedizione su di lui. Nikki e Ivanka hanno capito che occorre un "femminismo-di destra", per recuperare consensi tra le donne, uno dei punti deboli per la rielezione di questo presidente. Comunque vada il 3 novembre, la destra ha già una candidata per la sua ricostruzione. Ma non è una moderata.

(la Repubblica, 25 agosto 2020)


F-35 agli Emirati, garanzie a Israele: parte il Pompeo-tour

Dopo l'accordo di pace, il segretario di Stato premia Abu Dhabi e tranquillizza Israele. Tra le altre tappe il Bahrain, dove si attende il via libera all'intesa con lo Stato ebraico.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - I media di Abu Dhabi e Dubai ieri hanno celebrato con orgoglio le foto di Giove e Saturno inviate dalla sonda emiratina Hope che ha percorso i primi 100 km del suo viaggio verso Marte. Presto in ossequio a Mohammed bin Zayed, principe ereditario e reggente, esalteranno l'acquisto da parte emiratina di caccia di produzione Usa F-35, i più avanzati al mondo.
   A confermarlo indirettamente è stato ieri il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, proprio mentre a Gerusalemme si affannava a spiegare che la vendita ad Abu Dhabi degli F-35 - in possesso solo di Israele in Medio Oriente - non è stata ancora definita e non rientra nel quadro degli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati. Ma si farà. È una delle condizioni non scritte più importanti poste da Mohammed Bin Zayed per il via libera ai rapporti alla luce del sole con lo Stato ebraico e per dimenticare i diritti dei palestinesi. Abu Dhabi, forte dell'alleanza con Israele, punta a essere la potenza regionale araba a scapito dei cugini-rivali dell'Arabia saudita. E ha bisogno degli F-35.
   Il governo israeliano si era agitato. Netanyahu si è ritrovato sotto accusa per aver dato tacita approvazione alla vendita degli aerei ai nuovi alleati nel Golfo - ma continua a negarlo - senza aver prima consultato almeno il ministro della difesa Benny Gantz. Pompeo si è precipitato a Gerusalemme. Ha detto che gli Stati uniti troveranno un modo per bilanciare l'aiuto agli Emirati senza che ci siano ripercussioni per Israele. Tel Aviv continuerà a godere, grazie alle armi di Washington - pagate in buona parte con i soldi del contribuente statunitense - di una netta superiorità militare nella regione.
   «Gli Stati Uniti hanno un impegno giuridico» nei confronti di Israele «e continueranno a rispettarlo», ha ricordato Pompeo facendo riferimento alla legge voluta dal Congresso che condiziona all'approvazione di Israele le vendite di armi ai paesi arabi (e non solo), anche quelli che sono alleati e collaborano attivamente con Tel Aviv. Allo stesso tempo il segretario di Stato ha fatto capire che ci sono anche gli Emirati con cui gli Usa «hanno rapporti in materia di sicurezza da oltre 20 anni...a cui abbiamo fornito assistenza tecnica e militare ... e continueremo ad accertarci di fornire loro ciò di cui hanno bisogno per mettere al sicuro la propria gente dalla minaccia [iraniana]». In sostanza ci sono in ballo anche i miliardi di dollari che gli Emirati sono pronti a spendere per avere gli F-35 e Tel Aviv deve mostrare un po' di flessibilità.
   Gli USA ora parlano di nuovi importanti sviluppi diplomatici. «Spero di vedere altri paesi arabi unirsi a tutto questo», ha detto Pompeo riferendosi all'accordo Israele-Emirati: «Per gli arabi è l'occasione di lavorare fianco a fianco, di riconoscere lo Stato di Israele e rafforzare la stabilità in Medio Oriente e migliorare la vita delle persone». Washington preme sull'Arabia saudita, vuole una decisione in tempi stretti. Ma da Riyadh arrivano pochi segnali. Negli ultimi due-tre anni i Saud erano apparsi i più pronti all'accordo con Israele. Invece, dopo il passo fatto da Abu Ohabi, Mohammed bin Salman, erede al trono saudita, ha preso male la love story tra Emirati e Israele e ha tirato il freno. Come d'incanto si è ricordato dei diritti dei palestinesi che proprio lui aveva totalmente messo da parte. Ha fatto sapere che, senza lo Stato palestinese, Riyadh non firmerà alcun accordo. Più semplice il caso del Bahrain, una delle tappe del tour di Pompeo, assieme a Sudan ed Emirati. Re Hamad, si dice, a Manama comunicherà a Pompeo la sua decisione definitiva sui tempi della normalizzazione con Israele. E altrettanto forse farà il Sudan dove si è recato il capo del Mossad, Yossi Cohen, il vero artefice dell'accordo Emirati-Israele.
   
(il manifesto, 25 agosto 2020)


La guerra sul budget che può portare Israele a un'altra crisi

Economia e politica. Braccio di ferro sull'approvazione della Finanziaria, in ritardo per l'ostruzionismo di Netanyahu.

di Roberto Bongiorni

Nell'anomala "guerra del Budget", che da tre mesi sta lasciando Israele col fiato sospeso, un'altra elezione politica (la quarta in meno di due anni) sarebbe stata scongiurata solo all'ultima ora. Le schermaglie tra Benjamin Netanyahu, premier e capo del partito conservatore Likud, e il ministro della Difesa, Benny Gantz, leader del partito centrista Blu e Bianco che dovrebbe subentrargli tra più di un anno come premier in un Governo a rotazione, stanno spaccando Israele.
  Per non lasciare troppo a lungo orfano di un Budget nazionale il Paese, la legge israeliana prevede infatti che; qualora la legge di bilancio non sia approvata entro 100 giorni dalla formazione del Governo (in questo caso entro la mezzanotte di ieri), il Parlamento, la Knesset, si dovrebbe automaticamente sciogliere, aprendo la strada alle elezioni. Per scongiurare questo pericoloso scenario, Netanyahu, domenica sera, ha sciolto le riserve dando il suo benestare per votare una legge ad hoc che consentisse di rinviare la data per approvare il budget al prossimo al dicembre. Ma ieri, poche ore prima del voto ,il Likud ha accusato Blu e Bianco di non accettare un accordo di compromesso e quindi di voler trascinare il Paese verso il voto. All'ultimo i due leader hanno assicurato che i loro partiti avrebbero appoggiato il rinvio del budget al fine di evitare un nuovo voto. Ma più che puntare alla stabilità, l'intesa ha più le sembianze di una pace armata. Lo scontro è solo rinviato a dicembre.
  Il tutto, proprio mentre il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo' iniziava proprio da Gerusalemme il suo tour verso altri Paesi arabi nel tentativo di convincerli a normalizzare le relazioni con Israele, sulla scia dello storico accordo di pace avvenuto con gli Emirati Arabi Uniti lo scorso 13 agosto. E mentre gli uomini di Netanyahu litigavano con quelli di Blu e Bianco, rischiando di far crollare il Governo, Bibi incontrava Pompeo e mostrava il suo apprezzamento quando il segretario di Stato Usa dichiarava: «Mentre mi accingo a proseguire questo viaggio ho fiducia che vedremo unirsi altri Paesi agli Emirati. Un fatto che contribuirà alla stabilità della regione e al miglioramento di vita degli abitanti». E aggiungeva: «Mi auguro che un giorno anche l'Iran normalizzerà i rapporti».
  Comunque vada, le divergenze tra i due schieramenti restano ampie, quasi incolmabili, anche e soprattutto sul Budget. Bibi ne vorrebbe uno valido per un anno, Gantz invece punta ad un bilancio unico anche per tutto il 2021. Il motivo è semplice: un budget più lungo impedirebbe a Netanyahu di far cadere il Governo prima che Gantz, che oggi è vice premier e ministro della Difesa, inizi il suo periodo di rotazione (18 mesi) da primo ministro. Se prevalesse il budget di un anno, Netanyahu, in base all'accordo stretto con Gantz, potrebbe votare contro l'approvazione del successivo budget e avere mano libera nell'indire nuove elezioni senza dover automaticamente passare all'alleato-sfidante la premiership ad interim.
  Una lite imbarazzante. Davanti alla quale il presidente della Repubblica, il moderato Reuven Rivlin, ha perso la pazienza. A inizio agosto era sbottato contro Bibi e Gantz: «lsraele non è la vostra bambola di pezza», aveva tuonato. «Smettete di parlare di elezioni anticipate!»
  Se nel vicino Libano la situazione è drammatica, anche in Israele la crescente instabilità politica, unita alla Pandemia di Corona virus, stanno mettendo a dura prova il sistema Paese. Non appena (circa due mesi fa) il Governo di Gerusalemme ha ammorbidito le severe restrizioni alla vita sociale ed economica per dare una boccata di ossigeno all'economia, l'epidemia di Covid-i9 ha subito rialzato la testa, accelerando a un ritmo mai visto prima. A metà agosto, in sole 24 ore, i nuovi contagi erano saliti di 1.640 unità. Non è poco per un Paese di soli nove milioni di abitanti. La situazione è da ritenere seria. I contagi accertati superano le diecimila unità, i decessi quota 840.
  La decisione, a fine maggio, di aprire le scuole prematuramente confìdando che la Pandemia fosse ormai sotto controllo, e quindi sperando di dare un impulso all'economia, si è rivelata un boomerang che gli israeliani rischiano di pagare ancora a lungo. I giovani studenti hanno dato vita a decine di focolai che ancora si fatica a controllare. Pochi giorni dopo quella decisione, in una scuola di Gerusalemme si è registrato forse il più esplosivo focolaio all'interno di un istituto scolastico da quando si è diffusa la Pandemia di Covid in tutto il mondo.
  È vero, la mortalità resta decisamente più bassa rispetto ad altri Paesi, ma gli israeliani non sembrano dare peso a questo dato. Buona parte della popolazione ha invece criticato aspramente la gestione della Pandemia da parte di quel Governo di Emergenza nazionale, in cui da maggio ha preso il timone come primo ministro proprio Bibi Netanyahu, il premier più longevo della storia di Israele, al suo quinto mandato, ma ampiamente contestato da un crescente numero di israeliani, per diverse ragioni, ma anche e soprattutto per il processo che lo vede incriminato per tre accuse di frode e corruzione.
  La rabbia contro Bibi leader del partito conservatore Likud, monta di settimana in settimana. I suoi oppositori hanno manifestato quasi dappertutto. Numerose volte a poche decine di metri dalla residenza del primo ministro, a Gerusalemme (domenica sera sono stati in 10mila, 30 le persone arrestate). Anche vicino alla sua casa sulla spiaggia, appena fuori Tel Aviv, fino a bloccare oltre 10 importanti intersezioni stradali. La gente è esasperata, e preoccupata. Due sono le grandi paure, che sembrano andare di pari passo: la crescita dei contagi e quella della disoccupazione. Gli sforzi profusi dal Governo per arginare entrambe le pericolose spirali sono stati finora poco efficaci. La bassa disoccupazione, il fiore all'occhiello di un Paese con tassi invidiabili solo un anno fa (nel 2019 era sotto il 4%) , è balzata al 27% in aprile. L'economia nel 2020 potrebbe registrare, secondo la Banca centrale di Israele, una contrazione dal 6 al 9%, a seconda degli scenari e dei risultati nella lotta contro il virus. Ma le autorità finanziarie locali sono state chiare: ci vorranno comunque cinque anni per ritornare alla normalizzazione economica, ai livelli precedenti il Covid-19,
  Certo, in Israele quasi ognuno ha i suoi guai. Ma Bibi sembra averne di più. E sullo sfondo ci sono i blitz militari contro la Striscia di Gaza, da cui, anche in questo periodo, vengono lanciati palloncini incendiari, ma anche razzi, verso il territorio di Israele. Che sarebbe anche pronta a lanciare un'ampia offensiva contro la Striscia.
  Ma un altro fronte aperto sarebbe l'ultima cosa di cui avrebbe bisogno la sola democrazia del Medio Oriente. Con i suoi riottosi politici.

(Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2020)


Il soldato di Israele che voleva vincere la pace

di Simonetta Della Seta

Arrigo Levi
«Sono un ebreo non praticante, come erano non praticanti i miei genitori. Quanto alle nostre origini... i miei Levi, prima di insediarsi a Modena, quando Modena succede a Ferrara come capitale del Ducato estense, erano ebrei romani, presenti a Roma già prima di Gesù. Non ci sono, ovviamente, prove, ma si tratta solo di antiche storie di famiglia. La sola cosa certa è che io discendo da uno dei 22mila leviti maschi, dall'età di un mese in su, censiti da Mosè e Aronne dopo l'uscita d'Egitto. Quanto alla famiglia materna, aveva per cognome Nathan, tradotto nell'italiano Donati, a partire da un Nathan Nathan trasferitosi nel ducato di Modena nel 1601. Erano benestanti, banchieri e commercianti». È cosi che Arrigo Levi esordi a Gerusalemme di fronte al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel convegno "Italia-Israele: gli ultimi centocinquanta anni". Continuò: «La mia famiglia si è salvata dalla Shoah emigrando nel 1942 in Argentina, tornando in Italia nel 1946. Nel 1948 sono partito per Israele, per partecipare alla guerra di indipendenza come volontario dall'estero ... Il primo gennaio 1949 fummo gli ultimi a rientrare in Israele dall'Egitto, alle due del mattino ci svegliarono per dirci che la guerra era finita, ma tornammo indietro per far saltare il grande ponte al 36" km della strada che porta a Suez. Rientrammo in Israele molto contenti anche perché credevamo, avendo vinto la guerra, di aver conquistato la pace».
   Arrigo fece ritorno in Italia per finire l'università a Bologna, laureandosi in filosofia con una tesi sulle radici dell'Umanesimo nella Bibbia. Incerto fra Israele, l'Italia, l'Inghilterra, un PhD in teologia o il giornalismo, scelse il giornalismo e tornò in Israele molti anni più tardi, come inviato e come membro della Trilateral Commission sul conflitto israelo-palestinese, «Ho sempre considerato più che un diritto un dovere dire quello che sinceramente penso in materia, anche quando critico questa o quella linea politica di un governo israeliano in carica. E se vanto questo diritto è perché penso sinceramente, e lo pensava anche Rabin, che per il futuro d'Israele non basti vincere le guerre, ma si debba pensare a come vincere la pace». Su Israele ha pubblicato, tra gli altri, due libri (ltzhak Rabin, 1210 giorni per la pace, 1996 e Israele in bianco e nero, 2006), oltre a due volumi di memorie (La vecchiaia può attendere, 1999 e Un Paese non basta, 2009). I suoi occhi, sempre curiosi, vivaci e instancabili dietro le lenti, si riempivano di una scintilla speciale quando parlava del padre partito volontario nella Grande Guerra, del colore dei campi di grano attorno a Modena, ma anche dei mesi trascorsi nella unità del Negev, della lettera di scuse del Papa lasciata tra le pietre del Muro del Pianto e, prima tra tutte, della sua amata Lina.

(la Repubblica, 25 agosto 2020)


Il Segretario di Stato Pompeo a Gerusalemme per il via all'accordo Israele-Emirati Arabi

GERUSALEMME - Il segretario di Stato americano, Pompeo, è giunto in Israele dove incontrerà il premier, Netanyahu. Al centro dell'incontro, a Gerusalemme, il recente accordo con gli Emirati Arabi e la possibilità di una sua estensione ad altri Stati arabi. Dopo l'incontro, Pompeo partirà alla volta del Sudan, uno dei Paesi che potrebbe aderire all'accordo. Successivamente si recherà negli Emirati. Quest'incontri hanno un significato rilevante nella normalizzazione dei rapporti perché significa l'inizio delle relazioni diplomatiche tra i due paesi: un evento di grande portata perché non era mai successo che un paese arabo del Golfo Persico riconoscesse ufficialmente Israele nonostante il risentimento della Palestina.

(PrimaPress, 24 agosto 2020)


Si può suonare lo shofar sul Monte del Tempio?

Yehuda Glick
La scorsa settimana è iniziato il mese ebraico di Elul, che precede il Capodanno ebraico Rosh Hashanah, il Giorno dell'Espiazione, lo Yom Kippur e la Festa dei Tabernacoli, Sukkot. Elul è un mese significativo ed è tradizione suonare il corno shofar in questo periodo per scuotere l'anima della persona in modo che possa risvegliarsi e utilizzare le festività per migliorare.
Ora, l'ex parlamentare della Knesset, Yehuda Glick, ha scritto una lettera al capo della polizia di Gerusalemme chiedendo che lo shofar sia suonato sul Monte del Tempio durante Elul e a Rosh Hashanah.
    "Siamo all'inizio del mese di Elul e davanti a noi ci sono i giorni terribili, Rosh Hashanah, Yom Kippur e Sukkot. Come sapete, è un ordine della Torah suonare lo shofar a Rosh Hashanah, ed è stata usanza in Israele fin dai giorni dei saggi suonarlo ogni giorno del mese di Elul ",
ha scritto Glick.
Oggi è il quarto giorno di Elul e lo shofar non si è ancora sentito sul Monte del Tempio.

(israel heute, 24 agosto 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Netanyahu accetta il rinvio del bilancio per evitare le elezioni

In Israele il temuto ritorno alle urne, le quarte elezioni in meno di un anno e mezzo, sembra essere stato evitato, almeno per il momento. Il premier Benjamin Netanyahu ha accettato all'ultimo momento di sostenere una proposta di legge per spostare di 120 giorni la scadenza per approvare il bilancio, all'origine dello scontro con l'alleato di governo Blu e Bianco. "Ho deciso di accettare il compromesso proposto dal deputato Zvi Hauser, è la giusta soluzione per Israele in questo momento", ha affermato il premier in un discorso trasmesso in tv. "E' il tempo dell'unità, non delle elezioni; lavoriamo uniti e insieme. Se agiremo in armonia, il governo finirà il suo mandato", ha aggiunto il leader del Likud che, tuttavia, non ha avvertito gli alleati centristi della sua intenzione di accettare il compromesso, lasciando che lo scoprissero alla conferenza stampa, cosa che non ha fatto loro piacere.
   "Solo le azioni determineranno il risultato", ha risposto Blu e Bianco, esortando "Netanyahu a mantenere la sua promessa di evitare elezioni e confermare l'accordo (di governo), in nome della sicurezza e del benessere del popolo israeliano". "E' tempo di essere trasparenti e di dire all'opinione pubblica cosa è stato detto al tavolo negoziale, c'è una sola verità e non può essere compromessa", ha aggiunto il partito di Benny Gantz in una nota. Alla fine di aprile, Netanyahu e Gantz hanno stretto un accordo per dare vita a un governo di coalizione in modo da far uscire il Paese dall'impasse politico che perdurava da quasi due anni, ma la convivenza al potere non è stata facile in questi mesi. Nuovo grave motivo di scontro è stata la legge di bilancio la cui approvazione entro il 25 agosto è necessaria per evitare l'automatica caduta dell'esecutivo e il ritorno alle urne. Il leader del Likud spinge per approvare un budget che riguardi solo i pochi mesi restanti del 2020, sostenendo che l'iniziativa è necessaria a causa dell'incertezza provocata dall'epidemia di coronavirus, mentre il partito centrista del ministro della Difesa e premier alternato Gantz punta a redigerlo biennale, così come previsto nell'intesa di governo. Secondo Blu e Bianco, l'approvazione di un budget limitato al 2020 permetterebbe a Netanyahu, in base al complicato accodo stretto con Gantz, di avere mano libera il prossimo anno nell'indire nuove elezioni senza dover automaticamente passare all'alleato-sfidante la premiership ad interim. Da settimane circolano voci su un possibile ritorno alle urne, prospettiva accarezzata dal leader del Likud che potrebbe voler tentare di rovesciare il banco e tornare al potere, stavolta da solo e con pieni poteri decisionali. Dopo l'approvazione stanotte, in Commissione Finanze, della bozza di legge per il rinvio a fine dicembre della scadenza per approvare il budget, ora spetta alla plenaria della Knesset votare per impedire nuove elezioni anticipate.

(AGI, 24 agosto 2020)


Sadat, se il sogno si avvera

L'accordo di pace fra Emirati ed Israele

di Reda Hammad*

Quando il presidente egiziano Anwar Sadat sorprese il mondo nel 1977 con la storica visita a Gerusalemme, abbracciando il premier israeliano Menachem Begin, molti dubitavano che si sarebbe avverato il sogno della pace tra Stato ebraico e Paesi arabi. Sadat ha pagato con la vita il prezzo della pace perché è stato assassinato dalla Jihad islamica il 6 ottobre 1981. Ma il suo sogno, già rafforzato dalla pace fra Giordania e Israele del 1994, ha fatto un cruciale passo avanti quando Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele hanno siglato l'accordo per normalizzare le relazioni. Il sogno di Sadat non era solo di vedere un giorno i discendenti della nazione araba coesistere con i discendenti dello Stato israeliano, credeva in qualcosa di molto più ambizioso: che sarebbe arrivato il giorno in cui i Paesi arabi avrebbero abbracciato Israele per costruire un comune futuro di prosperità. E questo è il vero significato dell'Accordo di Abramo.
   Gli Emirati Arabi possono ora essere fondamentali per arrivare ad un accordo di pace che servirà alla causa palestinese come per dare impulso al progresso economico e commerciale nell'intera regione. Si tratta di un passo storico e non è stata una sorpresa per chi nel mondo arabo non ha mai cessato di credere nel sogno di Anwar Sadat. Lo è stato invece per chi si oppone alla pace, predica il terrorismo, plaudì all'assassinio di Sadat e pur richiamandosi alle origini dell'Islam continua ad ignorare che Muhammad, il Messaggero di Dio per i musulmani, siglò accordi con gli ebrei di Medina dando una chiara indicazione a favore dell'idea di convivenza e del desiderio di pace del Profeta con i non musulmani. Il trattato di Medina includeva gli scambi commerciali tra musulmani ed ebrei, ed i mercati ebraici dell'epoca erano pieni di musulmani all'interno della città così come le donne musulmane erano solite andare a comprare dagli ebrei senza imbarazzo. Uthman Ibn Affan, uno dei califfi più importanti dell'Islam, comprò il pozzo di Rumah da un ebreo e quando dopo la battaglia di Khaybar gli ebrei temevano l'espulsione, Muhammad chiese loro di restare per coltivare la terra in pace con i musulmani.
   Le radici della convivenza fra arabi ed ebrei sono profonde nella storia e nella fede dell'Islam. Ma a causa del trattato di pace con Israele, Erdogan minaccia di chiudere l'ambasciata turca negli Emirati Arabi, dimostrando di ignorare proprio la storia dell'Islam e dei musulmani, pur affermando di esserne il protettore. Al contrario di Erdogan, l'Egitto sostiene gli sforzi internazionali per promuovere la pace in Medio Oriente e il presidente Abdel Fattah al-Sisi non ha esitato a definire storico l'accordo tra gli Emirati ed Israele, augurandosi che altri Paesi del Golfo seguano tale esempio perché questo è il modo migliore per sostenere la causa palestinese.

* L'autore è un giornalista egiziano


E’ buono che un giornalista egiziano approvi e incoraggi la pacifica convivenza tra arabi e ebrei, ma sulla sintetica presentazione di mosse e intenzioni di Muhammad forse qualcuno avrebbe da ridire. M.C.


La pia illusione di una pace con i palestinesi

Ormai chi parla di pace con i palestinesi lo fa solo per ipocrisia. La pace non è economicamente vantaggiosa per i ladroni di Ramallah.

di Franco Londei

L'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti per l'apertura di piene e regolari relazioni diplomatiche ha provocato diverse reazioni e ottenuto risultati, tra i quali c'è anche quello di aver messo a nudo l'ipocrisia di chi parla ancora di pace con i palestinesi.
   Le reazioni scomposte e di disappunto dei leader di Ramallah alla notizia dell'accordo, nonostante lo stesso accordo sventasse l'annessione israeliana di parte della Cisgiordania (Giudea e Samaria), sono la dimostrazione lampante della assoluta mancanza da parte palestinese di qualsiasi volontà di raggiungere con Gerusalemme un qualsiasi accordo che metta fine alla annosa questione del conflitto israelo-palestinese.
   Non è una novità. I palestinesi hanno avuto molte occasioni per creare un proprio Stato e mettere fine al conflitto con Israele. Ma, molto semplicemente, non gli conviene.
   Oggi la cosiddetta "Palestina" è una dei maggiori beneficiari di aiuti internazionali. Ogni anno a Ramallah arrivano centinaia di milioni di dollari che dovrebbero servire a costruire le infrastrutture e l'economia necessari alla creazione di uno Stato.
   Tutto questo avviene da decenni. Eppure la cosiddetta "Palestina" versa nella miseria più nera mentre nessuno chiede conto ai leader palestinesi che fine facciano gli aiuti internazionali.
   Sta tutta qui la mancanza di volontà da parte palestinese, o meglio, della leadership palestinese, di raggiungere un qualsiasi accordo con Israele. È una squallida questione di denaro. L'antisemitismo, l'alimentare continuamente odio verso gli ebrei anche ai bambini sono mezzi funzionali a mantenere questo stato di cose. E funziona visto che il palestinese medio odia gli israeliani mentre sorvola sulle ruberie dei suoi leader.
   Hanno creato generazioni di terroristi, movimenti armati, alimentato odio verso gli ebrei solo per il vil denaro.
   Quelli che nel mondo, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, credono che si possa raggiungere la pace con i palestinesi sono quindi solo degli illusi. La pace non è conveniente per i boss di Ramallah, non è conveniente economicamente. E poi pace vorrebbe dire Stato Palestinese, un impegno che nessuno dei ladroni di Ramallah vuole assumersi. Troppo complesso e, di nuovo, poco conveniente.

(Rights Reporter, agosto 2020)


I ministri rabbini contro Gamzu, lo zar anti-Covid

di Fabio Scuto

Ronni Gamzu
Israele non riesce a contenere il dilagare della pandemia del Coronavirus. Nonostante i suoi ospedali di eccellenza, il coinvolgimento di strutture altamente efficienti - anche se come lo Shin Bet o l'Home Front Command, sono nate per altre esigente legate alla sicurezza e alla minaccia militare esterna - le sue tecnologie e le sue App per il controllo della popolazione, i contagi aumentano così come le vittime. Numeri spaventosi per un piccolo Paese come Israele. Il governo e il suo "eterno" premier Benjamin Netanyahu non sembrano in grado di affrontare i pericoli della seconda ondata della pandemia, già approdata in Terra Santa. Sono i ministri espressione dei tre partiti religiosi - senza i quali Netanyahu non avrebbe la maggioranza - a guidare la fronda contro lo zar per la lotta al virus, il professor Ronni Gamzu. Le sue proposte per contenere la pandemia sono state ancora una volta bocciate dal Gabinetto. L'obiettivo del suo piano è ridurre il tasso di infezione a 400 nuovi casi al giorno in quattro settimane. Se il tasso di infezione non verrà rallentato entro il 10 settembre, nuove restrizioni potrebbero entrare in vigore durante il mese delle festività ebraiche a partire da Rosh Hashanah, il18 settembre, fino all'11 ottobre, dopo la festa di Sukkot.
   La normativa proposta prevede, nelle aree "rosse" con alti tassi di infezione, un limite massimo di 500 metri dalla propria abitazione; limitare le riunioni ai familiari stretti; chiudere il sistema educativo e anche la maggior parte del trasporto pubblico.
   In altre zone la chiusura di centri commerciali, mercati, ristoranti, eventi e spettacoli. Misure che sono viste dai rabbini come un attacco alla religione, una bestemmia insopportabile. Ecco perché i ministri ultra-ortodossi Aryeh Deri e Yaakov Litzman si oppongono nettamente al piano del professor Gamzu. Porre un limite ai festeggiamenti del "Natale ebraico" - senza le preghiere collettive nelle sinagoghe, i riti dello Yom Kippur, le cene collettive, le visite ai parenti - sarebbero un attentato allo Stato. E il premier al momento tace.

(il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2020)


La pace tra Emirati e Israele e la tela del capo degli 007

Dietro il recente accordo un lungo lavoro del Mossad

di Guido Olimpio

È il 19 gennaio 2010. Mahmoud al Mabhou, alto dirigente del movimento palestinese Hamas, è ucciso nella sua camera d'albergo a Dubai. Chi lo ha eliminato ha cercato di far passare la sua fine per una morte naturale, ma la polizia locale non ha avuto troppi dubbi. E, grazie al grande sistema di telecamere di sicurezza, più ad un grande lavoro di analisi, ha individuato i responsabili dell'attacco. Un team di uomini e donne del Mossad israeliano. I video di sorveglianza, diffusi in seguito, li mostreranno mentre seguono il target vestiti da giocatori di tennis, quando cambiano d'aspetto con una sosta in un bagno, con sorrisi di sfida nei corridoi dell'hotel. Volevano togliere di mezzo al Mabhou in quanto sospettato di alimentare la filiera delle armi in arrivo da Teheran.
   L'agguato ha ripercussioni. Gli Emirati, che per anni hanno mantenuto un canale di comunicazione riservato con Gerusalemme, congelano tutto. Il filo verrà riannodato - spiegano - se lo Stato ebraico promette di non condurre più azioni coperte nel piccolo regno e si impegnerà a fornire tecnologia usata per la sorveglianza. Così sarà.
   Da allora sono cambiate molte cose. Israele e gli sceicchi sunniti si sono riavvicinati in nome della lotta all'Iran sciita e alla sua influenza nella regione. Un processo agevolato dagli Stati Uniti di Donald Trump, ma anche dall'azione svolta non dalla diplomazia ma dal direttore del Mossad, Yossi Cohen. È lui uno dei protagonisti della trattativa. In carica dal gennaio 2016, ex parà, il maestro delle spie ha portato avanti su incarico della dirigenza politica una doppia strategia: cercare di instaurare relazioni con qualsiasi Paese arabo pronto a farlo, contrastare con ogni mezzo gli ayatollah e il loro programma militare.
   E Cohen si è messo in viaggio. A bordo di piccoli jet ha raggiunto posti sicuri per dialogare, offrire e ascoltare condizioni. Spettacolare l'operazione che nell'Ottobre 2018 ha permesso la visita del premier Netanyahu a Muscat. Collocato nella parte settentrionale dell'Oceano Indiano, vicino a Hormuz, la porta del Golfo, l'Oman ha da sempre la funzione di mediatore. Favorisce il dialogo, cerca di sfuggire alla logica settaria e della contrapposizione. Oggi dicono che potrebbe essere il prossimo governo a stabilire relazioni piene con Israele, seguendo l'esempio degli Emirati. Altri ipotizzano che possa essere il Bahrein, avversario di Teheran, o il Marocco, attore importante che ha avuto contatti con esponenti israeliani in momenti difficili. Nel fine settimana sono rimbalzate voci su un incontro tra Cohen e funzionari sudanesi.
   Ci si chiede se l'idea di affidarsi ad uno 007 invece che a fior di diplomatici non sia stata una scelta inusuale. Ma probabilmente il premier Netanyahu ha deciso così perché voleva sottolineare la svolta come un successo personale ma anche garantire gli interlocutori attraverso un messaggero speciale. Il numero uno del Mossad.
   In quest'epoca di crisi e instabilità il pragmatismo batte tutto e tutti. Gerusalemme, attraverso società private dove non sono pochi gli ex della sicurezza, ha già messo a disposizione dei nuovi amici mezzi sofisticati. In parallelo sono nati affari. E altro seguirà. Facile comprendere perché l'Iran consideri quanto avvenuto uno sviluppo inquietante: ci saranno conseguenze se i nostri interessi saranno minacciati, è stato l'avviso dei vertici militari.

(il caffè, 23 agosto 2020)


Il presidente della Comunità ebraica di Graz aggredito davanti alla sinagoga

 
Immagini del ricercato
Il presidente della comunità ebraica di Graz, Elie Rosen, è stato aggredito sabato sera davanti all'edificio della comunità ebraica da uno sconosciuto con un bastone di legno.
  Secondo la portavoce della comunità ebraica, Brigitte Wimmer, Rosen voleva entrare nel parco della comunità ebraica con la sua auto quando è stato aggredito. Durante il tentativo di entrare nella zona della sinagoga, il presidente e una scorta si sono accorti di un uomo con un berretto da baseball e una bicicletta che stava trasportando una pietra.
  Quando Rosen ha lasciato la sua macchina, è stato aggredito dallo sconosciuto con un bastone di legno, a quanto pare una mazza da baseball. Il presidente è riuscito a risalire in macchina all'ultimo momento; poi l'attaccante ha colpito il veicolo con la mazza da baseball prima di fuggire, ha detto Wimmer.

 La sinagoga attaccata due volte
  Secondo la polizia, lo sconosciuto era molto simile per statura e aspetto alla persona che è stata vista dalle telecamere di sorveglianza mercoledì e venerdì di questa settimana nel corso degli atti vandalici alla sinagoga di Graz.
  Venerdì scorso, intorno alle 23:25, lo sconosciuto aveva gettato dei pezzi di cemento verso la sinagoga: quattro vetri delle finestre sono stati leggermente danneggiati, uno rotto. Secondo le dichiarazioni dei testimoni, è probabile che l'autore del reato sia un uomo che indossava un berretto bianco e dopo il crimine è fuggito verso Griesplatz su una bicicletta rossa.

 Schützenhöfer: "Attacchi profondamente riprovevoli"
  "Gli attacchi alla casa di preghiera ebraica a Graz sono disumani e profondamente riprovevoli", ha detto il governatore Hermann Schützenhöfer (ÖVP) in risposta all'atto vandalico. Era "molto preoccupato per queste crescenti invettive odiose", e ha sottolineato: "Non ci può essere assolutamente nessuna comprensione per questi atti distruttivi di vandalismo!"

 Nagl: "Non c'è posto per l'odio verso gli ebrei"
  "Questo attacco codardo e subdolo ci consente di avvicinarci ancora di più ai nostri concittadini ebrei", ha detto sabato il sindaco di Graz, Siegfried Nagl (ÖVP).
  La sinagoga ebraica di Graz fu ridotta in macerie durante la notte dei pogrom dal 9 al 10 novembre 1938. Nel novembre 2000, la casa di preghiera ebraica è stata riaperta sui muri rimasti.
  Chi attacca deliberatamente una comunità religiosa e quindi anche la libertà religiosa attacca anche la città: "L'odio per gli ebrei e l'antisemitismo non devono avere posto nella nostra società. Più che mai, questi atti devono ricordarci di continuare ad agire contro di loro apertamente e con decisione in futuro. Speriamo in un rapido chiarimento e che l'autore o gli autori del reato siano assicurati alla giustizia ".
  Soltanto mercoledì sera il muro esterno della sinagoga è stato imbrattato di slogan filo-palestinesi e altri slogan.

(Steiermark Orf.at, 23 agosto 2020- trad. www.ilvangelo-israele.it)


Accordo Israele Emirati Arabi Uniti: potrebbe essere non l'unico

L'accordo firmato e presentato a sorpresa, sembra portare alla luce collaborazione tra i due paesi già esistenti da qualche anno. In un'intervista al quotidiano israeliano Haaretz, Hend Al-Otaiba, il direttore della comunicazione strategica del Ministero degli Affari Esteri degli Emirati, ha detto che i due paesi sono desiderosi di fare progressi nella normalizzazione dei rapporti e relazioni e che negli ultimi tempi, queste sono cresciute ed era ormai solo questione di tempo che ciò accadesse.
Il quotidiano, ha poi sottolineato che vi sono già uffici segreti che rappresentano gli interessi israeliani in vari paesi del Golfo.
Che fosse in progetto questo accordo, si può vedere dalla velocità con cui sono iniziate le collaborazioni tra i due paesi in vari settori, come le telecomunicazioni, la sanità e l'agricoltura, oltre alla sicurezza.
Altri stati arabi hanno accolto con favore quest'accordo, Egitto e Bahrein in particolare, e potrebbero esserci altri stati che sono pronti a regolarizzare i propri rapporti con Israele, nonostante che le popolazioni di questi paesi, si sono espresse con manifestazioni in senso contrario.
Il presidente degli Stati Uniti, artefice a suo dire di tutto ciò, ha detto che nelle prossime settimane ci saranno i leader di due altri paesi arabi che seguiranno l'esempio degli Emirati.
Secondo gli accordi, Israele dovrebbe fermare l'annessione dei territori occupati in West Bank, ma già il suo primo ministro ha riferito che Israele non sta abbandonando i suoi piani per l'annessione della valle del Giordano e gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata.
L'Autorità Palestinese e Hamas definiscono l'accordo Israele-Emirati Arabi Uniti: "Una pugnalata alle spalle".

(DaillyMuslim.it, 23 agosto 2020)


Israele e la strategia dei cerchi concentrici

di Ugo Volli

Quando Israele nel 1948 proclamò la sua indipendenza, fu assalito dagli eserciti degli stati arabi circostanti. Miracolosamente li sconfisse, ma i vicini arabi non desistettero dal proposito di distruggere lo stato degli ebrei, con altre guerre, campagne terroristiche, boicottaggi economici e infine con l'invenzione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la delega ad essa del lavoro sporco della violenza contro gli ebrei e di quello meno sanguinoso ma altrettanto pericoloso della propaganda.
   Per contrastare quest'odio dei vicini, Israele seguì quella che Ben Gurion definì la strategia dei centri concentrici. Tutt'intorno ai confini dello stato ebraico c'era un cerchio di sanguinosi nemici; ma al di là di essi c'era un secondo cerchio di possibili alleati, come l'Iran allora governato dallo Scià, la Turchia, l'Etiopia e più lontano gli Stati Uniti, in parte l'Europa. Con il ricatto del petrolio e del terrorismo e con la seduzione dell'ideologia terzomondista gli arabi riuscirono ad assicurarsi molti alleati esterni e anche il "secondo cerchio" fu spezzato dalle affermazioni islamiste prima in Iran e poi in Turchia e anche dagli atteggiamenti di presidenti americani come Carter e Obama e dalla viltà degli stati europei. Poi però le cose sono cambiate ancora, per reazione ai revanscismi iraniano e turco anche il primo cerchio dei nemici si è lentamente sgretolato, a partire dalla pace con l'Egitto, fino al recente patto con gli Emirati.
   Certo, restano gli "ultimi giapponesi", come il Qatar e il Kuwait, a ripetere i vecchi slogan, restano i mercenari dell'Iran e resta il terrorismo palestinista che qualche apprendista stregone ha inventato sessant'anni fa e che oggi è difficile bloccare. Oggi si sta consolidando quel che qualcuno ha chiamato una Nato del Medio Oriente, che comprende Israele e buona parte degli stati sunniti. Ma dato che l'Europa ha rinunciato a resistere agli imperialismi, quelli islamici come quello cinese o russo e che l' America, se perde Trump, rischia di tornare alla politica masochista di Obama, più che di una Nato si tratta di un patto regionale di autodifesa. Che ha però tutti gli ingredienti (la creatività e la scienza israeliana, i soldi e il petrolio del Golfo, l'imprenditoria degli Emirati, la collocazione strategica) per diventare anche una zona di straordinario sviluppo.

(Shalom, 23 agosto 2020)


Suha Arafat si scusa con gli Emirati Arabi Uniti dopo le proteste palestinesi

Suha Arafat e consorte
Suha Arafat, moglie del defunto presidente palestinese Yasser Arafat, con un post su Instagram si è scusata con gli Emirati Arabi Uniti per le proteste di alcuni manifestanti palestinesi scoppiate in seguito alla firma dell'accordo che normalizza le relazioni con Israele.
   Il 13 agosto, gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno annunciato uno storico accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.
   "Voglio scusarmi in nome dell'onorevole popolo della Palestina nei confronti del popolo degli Emirati e della sua leadership per la profanazione e l'incendio della bandiera degli Emirati Arabi Uniti a Gerusalemme e in Palestina e per gli insulti ai simboli dell'amato Paese degli Emirati Arabi Uniti. La differenza di opinioni non rovina la giustezza della causa", scrive Arafat allegando una foto in cui appaiono insieme il presidente palestinese Yasser Arafat e il sovrano degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, entrambi defunti.
   L'accordo di normalizzazione della relazioni diplomatiche è un evento enorme perché non era mai successo che un paese arabo del Golfo Persico riconoscesse ufficialmente Israele. L'annuncio di Trump fatto al solito tramite Twitter, è stato accolto con favore da molti politici e osservatori, anche perché tra le varie cose prevede la temporanea sospensione delle rivendicazioni di sovranità di Israele su alcune zone della Cisgiordania, un tema particolarmente caro ai paesi arabi, oltre che ai palestinesi: l'occupazione dei territori palestinesi è infatti il motivo per cui ad oggi solo tre paesi arabi - Egitto, Giordania e ora Emirati - riconoscono Israele in oltre 70 anni. Altri stati, tra cui Qatar e Oman, hanno legami ma nessuna relazione formalizzata.
   Suha Arafat chiede anche alle persone di "studiare e rileggere la storia" per saperne di più su come gli Emirati Arabi Uniti abbiano precedentemente e continuano a sostenere il popolo palestinese e la loro causa. "Dico alle nostre generazioni di leggere bene la storia per sapere come gli Emirati Arabi Uniti, nel passato e nel presente, hanno sostenuto il popolo palestinese e la causa", continua.
   "Mi scuso con il popolo e la leadership degli Emirati per qualsiasi danno arrecato da qualsiasi palestinese a queste persone generose e gentili che ci hanno sempre accolto. Chiedo scusa alla madre degli Emirati, Sua Altezza Sheikha Fatima bint Mubarak, per questo comportamento irresponsabile".

(la Repubblica, 23 agosto 2020)


Israele conferma la perdita di un drone in territorio libanese

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno confermato la perdita di un drone in Libano. "Durante l'attività operativa delle Idf lungo la Blue line, un drone è caduto in territorio libanese", spiegano le forze israeliane in una nota, assicurando che non ci sono preoccupazioni per quanto riguarda la possibile diffusione di informazioni sensibili dal velivolo perduto. Il gruppo sciita libanese Hezbollah aveva rivendicato in precedenza l'abbattimento di un drone israeliano che ha violato lo spazio aereo del sud del Libano. "Un drone israeliano penetrato nello spazio aereo libanese vicino alla città di Ayta el Chaeb è stato abbattuto dai combattenti della Resistenza islamica e ora è sotto il loro controllo", si legge in una breve nota pubblicata sul sito web di Hezbollah. Ayta el Chaeb è un centro abitato e comune del Libano situato nel distretto di Bent Jbail, nel governatorato di Nabatiye, situato ad appena un chilometro di distanza dalla "Blue line", la linea di demarcazione tra il sud del Libano e il nord di Israele.

(Agenzia Nova, 23 agosto 2020)



«... e così saremo sempre col Signore»

Fratelli, non vogliamo che siate nell'ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.
Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati.
Poiché questo vi diciamo mediante la parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati;
perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d'arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo;
poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell'aria; e così saremo sempre col Signore.
Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole.

Dalla prima lettera dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi, cap. 4

 

 


Un eroe di Israele

di Michele Silenzi

 
Yonathan Netanyahu
Qualche anno fa, lessi un articolo che ricordava il blitz di Entebbe del 1976 in cui un'unità scelta dell'esercito israeliano atterrò in piena notte nell'aeroporto della città ugandese per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A comandare quell'impresa epocale era un giovane tenente-colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell'esercito israeliano. Il suo nome era Yonathan Netanyahu.
  Durante il mio soggiorno in Israele per fare ricerca su questo libro, ho avuto modo di conoscere e parlare con entrambi i suoi fratelli: Iddo, medico e autore teatrale, e Benjamin, il primo ministro, che ha avuto la cortesia di ricevermi nella sua residenza di Gerusalemme.
  Yonathan (Yoni) fu l'unico caduto israeliano di tutta l'operazione. In quell'articolo erano riportati anche dei brani dalle lettere che dai diciassette ai trent'anni, ovvero fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari. Ne restai colpito per l'intensità, la durezza, la dolcezza e la profondità dell'analisi storico-politica. Ordinai il libro su Amazon (in quel momento ero a Londra e sembrava che nessuna libreria ne possedesse una copia né che fosse in grado di ordinarla).
  Dalle lettere emergeva una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio Paese l'avrebbe a sua volta plasmato con l'eccezionalità della sua impresa e del suo carattere. Il cammino di un individuo, del tutto consapevole di sé e delle proprie capacità, come si può notare fin dalle prime lettere, ma che vive con profondità e drammaticità prima l'essere lontano da Israele e poi il suo ruolo all'interno dell'esercito. C'è tutta la trasformazione di un giovane intellettuale in un grande combattente, che altro non voleva fare se non difendere l'esistenza del suo Stato e della sua gente. Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato. Visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del Monte Herzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche le une alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe.
  L'eroe, appunto. Terminato di leggere il libro fu quella la prima cosa a colpirmi. L'inequivocabilità di ciò che la sua figura rappresentava. Un eroe autentico, classico, epico. Un eroe di quelli che l'Occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di rimuovere attraverso l'oscenità brechtiana "beato il Paese che non ha bisogno di eroi" e sostituendo a questa epica dell'individuo eccezionale quella dell'"eroe normale", che poi non si capisce bene cosa significhi. Infatti c'è solo un eroe possibile, quello dietro cui un intero popolo si raccoglie, quello da cui un intero popolo trae spirito di emulazione e senso di coappartenenza, l'eroe al cui funerale ogni singola mano di un'intera nazione idealmente accompagna il corpo, quello attorno a cui si crea un rito collettivo e individuale di emulazione. Per Israele, Paese ancora umiliato dall'attacco arabo dello Yom Kippur e dalla quasi sconfitta che avrebbe significato annientamento, quell'impresa fu il momento decisivo da cui iniziare a rialzarsi.
  La sconfitta, per Israele, non ha mai avuto lo stesso significato che poteva avere per qualsiasi altro Paese per cui una disfatta militare significa ridimensionamento dei confini o perdita di influenza. Per Israele, la sconfitta ha sempre coinciso con l'annientamento, per questo è sempre stato costretto a vincere, anche quando tutto sembrava perduto Israele ha sempre trovato il coraggio disperato ma lucido per sopravvivere e andare avanti.
Benzion Netanyahu
L'eroe dunque, e la sua formazione. Nelle lettere c'è il dipanarsi di questo racconto epico. Iniziano dal 1963 quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti dove il padre Benzion, grande storico, direttore dell'Encyclopedia Judaica e, in precedenza, assistente per anni di Jabotinski, uno dei padri della rinnovata idea dello Stato d'Israele, si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Filadelfia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. Da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, a cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l'esistenza. E questo accadrà l'anno successivo. Nell'estate del 1964 ritorna in Israele, da solo perché la famiglia era rimasta negli Stati Uniti, per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto.
  Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua. Fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell'elite dell'esercito israeliano, di fare ritorno alla vita civile. Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d'invito da Yale e Princeton. Finito il servizio militare obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne avrebbe potuto fare ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l'impulso a tornare nel suo Paese per difendere l'esistenza stessa di Israele superava ogni altra aspirazione. C'è un passaggio, in una lettera indirizzata alla sua compagna Bruria durante il periodo di Pasqua del 1975, in cui si capisce chiaramente quanto profondo sia l'attaccamento di Yoni a Israele e il suo legame con tutta l'eredità ebraica: "Ho sempre pensato che fosse la più bella tra le nostre feste. È un'antica celebrazione di libertà, migliaia di anni di libertà. Quando navigo indietro nei mari della nostra storia, percorro lunghi anni di sofferenza, di oppressione, di massacri, di ghetti, di espulsioni, di umiliazione; molti anni che, in una prospettiva storica, sembrano vuoti di ogni raggio di luce, eppure non è così. Perché il fatto che l'idea della libertà sia rimasta, che la speranza persisteva, che la fiamma della libertà continuava a bruciare attraverso l'osservanza di questa antica festa, è per me testimonianza dell'eternità della tensione verso la libertà e dell'idea di libertà in Israele. […] Il mio anelito verso il passato si mescola con il mio desiderio per te e, a causa tua, scendo nel mio passato e trovo il tempo e la voglia di ricordare per condividere la mia vita con te. E con "passato" non intendo soltanto il mio proprio passato, ma il modo in cui vedo me stesso: come una parte inseparabile, un anello della catena della nostra esistenza e dell'indipendenza di Israele." E lui, che si sente appunto un anello della catena dell'esistenza di Israele e del popolo ebraico, ritiene che il suo dovere morale, la sua chiamata sia quella per la difesa dello Stato ebraico. Scrive Yoni: "[il nostro esercito] è l'unica cosa che si interpone tra noi e il massacro della nostra gente, come successo in passato. Il nostro Stato esiste e continuerà ad esistere finché riusciremo a difenderci. Sento che devo dare una mano".
  Un giovane che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell'esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.
  Quando, con Liberilibri, decidemmo di tradurre le lettere di Yoni in italiano, non ci stupì affatto che nessuno ci avesse pensato prima. L'atteggiamento dei Paesi occidentali verso Israele è quello che si ha, quando va bene, verso un compagno di classe troppo agitato, uno che sembra non faccia altro che creare problemi. Altrimenti è un atteggiamento di disprezzo tout court, si guarda a Israele come a una forza di occupazione che piega sotto il suo giogo i palestinesi, o addirittura come il cancro originario che ha generato il radicalismo musulmano e la destabilizzazione del Medio Oriente di cui siamo testimoni ogni giorno.
  Del resto, mi sembra chiaro che il disprezzo in cui la maggior parte degli europei tiene Israele sia in parte dovuto a una buona dose di odio verso noi stessi e verso i nostri valori fondativi che sembriamo aver rimosso e che invece rappresentano la spina dorsale su cui si regge lo stato ebraico. Parlo dell'orgoglio di esistere e dell'orgoglio per la nostra storia e la nostra identità, la volontà di vivere e di progredire, la capacità di resistere, con tutti i mezzi necessari, agli attacchi di chi vuole privarci della nostra libertà e della nostra cultura. Israele, oltre ad avere tutti i canoni di un grande Paese occidentale in termini di libertà e diritti, poggia solidamente su questi valori che l'Europa ha rimosso o tende a rimuovere perché troppo impegnativi, soffocandoli dentro la rete del politicamente corretto e del solito senso di colpa verso tutto ciò che non è Occidente.
  La figura di Yoni e le sue scelte esemplificano perfettamente questi valori. Una terra come l'Europa, in cui non solo i governi ma gli individui sembrano aver perso completamente di vista questi valori, appare sempre di più come un luogo privo di identità e di rispetto di sé. Appare come una terra perfetta per essere conquistata perché svuotata di qualsiasi tipo di identità propria.
  La rinuncia alle scelte difficili, di cui è la politica a farsi carico, non può però certo essere imputata alla politica stessa. Viviamo in un sistema rappresentativo, tutto ciò che viene fatto è lo specchio inevitabile delle scelte, o, per meglio dire, delle nonscelte dei singoli. Libertà e tolleranza, i valori essenziali e strutturali da cui derivano tutti gli altri, non vivono di vita propria. Sono strutture fragili e, come tali, vanno difese. Non può esistere la libertà a meno che non venga difesa e quindi, la domanda da porsi diventa molto semplice e radicalmente individuale: cosa sono disposto a fare per difendermi? Quando la risposta è generica o evasiva equivale a dire non sono disposto a fare niente. E vedere altri, in questo caso Israele, che invece scelgono con drammatica determinazione ci mette con le spalle al muro, misura tutta la distanza che c'è tra ciò che dovremmo fare e ciò che non vorremmo dover fare.
  L'Europa contemporanea, i giovani più di tutti gli altri, dovrebbero guardare a Yoni come a una figura esemplare perché l'Europa appare sempre più simile a Israele.
 
Iddo Netanyahu
  A Gerusalemme, Iddo, il terzo dei fratelli Netanyahu, ha avuto la gentilezza di farmi da guida. In uno di questi pomeriggi, mentre stavamo finendo il pranzo, gli è arrivata una telefonata dall'ufficio del primo ministro: avevano trovato una mezz'ora per inserire un incontro con lui. Terminati i lunghi controlli all'ingresso della residenza ufficiale, siamo entrati nel patio della villa e abbiamo atteso il suo arrivo su uno dei divani sotto i portici. Dopo poco, da una delle porte-finestre che affacciano sul patio, è comparso Benjamin Netanyahu. La cosa che più di ogni altra mi ha colpito è stata la drammaticità della sua figura, il peso che sembra portare addosso. È un uomo che, in ogni momento, è chiamato a difendere dall'annientamento un'intera nazione e un intero popolo. Un uomo che con le sue scelte può scatenare una guerra di ricaduta mondiale. Un uomo interamente cosciente di questo suo ruolo e che ne porta sulle spalle il peso. Lo si vede nella sua figura, nei suoi passi pesanti, nella voce profondissima, baritonale, nelle parole che escono con calma, precisione ma con la pesantezza di pietre. Qui si coglie la politica nel suo senso più grande e tragico. Chi gestisce il potere e decide di farsi carico fino in fondo delle conseguenze delle proprie scelte, ne porta i segni anche sul corpo. Chi fa politica nel suo significato più profondo è un demiurgo della storia e, nel momento in cui questa è in atto, non è possibile giudicarla. La condanna di ogni grande politico è che sarà giudicato solo dal futuro, probabilmente quando non ci sarà più e dopo che in vita sarà stato per lo più vilipeso spesso quanto più ha compiuto. Questa è la politica e Netanyahu ne sembra un'incarnazione perfetta.
  Parliamo di Yoni, con lui e con Iddo. Mi raccontano della loro vita da ragazzi, delle esperienze fatte insieme e di come il fratello maggiore sia stata una figura fondamentale nella loro formazione. Yoni rappresentava un esempio per i suoi fratelli a cui lui era legato da un profondissimo affetto. Nel 1967, nel periodo in cui Yoni era brevemente ritornato a studiare ad Harvard, scrive a Benjamin che, in quel momento, diciottenne, si trovava in Israele per il servizio militare: "Molto spesso, soprattutto qui in America, mi manchi terribilmente. Anche quando ero in Israele non sentivo la mancanza di nessuno di casa quanto sentivo la tua. Penso che la ragione sia che tu sei il solo vero amico che io abbia mai avuto e che con te ho raggiunto un perfetto livello di reciproca comprensione in tutto."
  Sulla via del ritorno in Italia, il tassista che mi ha portato da Tel Aviv all'aeroporto era di origine georgiana, aveva circa settant'anni ed era arrivato in Israele nel 1970. Aveva combattuto nella guerra del Kippur e aveva continuato a servire nell'esercito come riservista fino a cinquantacinque anni. Gli ho chiesto come vedesse la politica israeliana e dalle sue risposte sembrava uno di quei tassisti grillini che chiamano La Zanzara: i politici sono tutti ladri, a me non piace nessun partito, a me piacevano solo i leader del passato come Begin o Rabin. A quel punto gli ho chiesto cosa ne pensasse in generale dello Stato d'Israele. Ha assunto un'aria di grande calma e mi ha risposto semplicemente che Israele era la cosa più importante della sua vita perché, ha detto, "non mi fa sentire più soltanto ebreo, mi fa sentire israeliano". Ho pensato a lungo a questa risposta, cercando di capirne bene il significato che però, in realtà, era tutto lì davanti. Israele significa la costruzione di uno Stato, basato su una identità condivisa e su una storia, in cui tutti gli ebrei del mondo, più o meno credenti, possono trovare un'identità data dalla nuova identità statuale e territoriale che prima si disperdeva all'interno delle varie comunità locali in cui gli ebrei si mescolavano. Attraverso i confini, attraverso la costruzione di una nazione si è generata o, per meglio dire, si è definita un'identità da coltivare e da difendere.
  L'Europa, chiaramente, non può più essere questo. Gli Stati nazionali in Occidente stanno perdendo il loro senso. Non perché sia stato deciso da qualcuno ma perché le istituzioni sono come organismi, tendono a evolvere, a modificarsi, ad adattarsi all'ambiente circostante. La mutazione nelle tecnologie e nella percezione del mondo da parte degli individui ha naturalmente portato all'abbattimento delle frontiere tra gli Stati più avanzati e mutualmente pacifici generando, in modo spontaneo, la tensione verso un nuovo ordine. Un ordine che, però, non è ancora qui. Ed è proprio nel momento della mutazione, in quel momento di indefinitezza di identità, che si è più vulnerabili agli attacchi.
  L'unione europea è un oggetto indefinito e senza forma. Viene percepita, inevitabilmente, data la sua natura, come un corpaccione burocratico che aggiunge leggi, cavilli e imposizioni a quelle già fin troppo stringenti dei singoli Stati. Tornare indietro, nella comfort zone della difesa delle frontiere nazionali, è semplicemente impossibile. Non si possono resuscitare cadaveri, per quanto pensarlo ci possa far stare bene. Ciò che bisogna fare è creare una nuova identità che prima era data dai confini locali ormai irrimediabilmente disintegrati e non disintegrati soltanto a livello politico ma a livello di percezione individuale. Su cosa allora ricominciare a costruire un'identità comune? Cosa ci sarebbe da difendere, cioè attorno a cosa ci si può stringere per trovare una nuova identità e quindi una vera unione? La risposta mi sembra che possano essere i valori condivisi e la loro difesa con tutti i mezzi, la certezza di essere ancora quella parte del mondo che, come scrive Cormac McCarthy in The Road, porta il fuoco anche nella notte più buia. Per questo bisogna guardare a Israele e a figure come quelle di Yoni, che sono il massimo che la parola Occidente possa esprimere in questo momento, come a un faro da seguire. Sta scritto nella Torah "E sceglierai la vita!" ma per farlo, per compiere la scelta e per sostenere la vita è necessario accettare la possibilità del suo perenne contraltare, la morte. In una lettera del 1963 Yoni scrive: "La morte, quella è l'unica cosa che mi disturba. Non mi spaventa, accende la mia curiosità. È un puzzle che io, come molti altri, ho cercato di risolvere senza successo. Non la temo perché attribuisco poco valore a una vita senza scopo. E se dovessi sacrificare la mia vita per raggiungere il suo scopo, lo farei volentieri."
  "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo" scriveva Benedetto XVI in Caritas in Veritate.
  Non avendo più un'identità definita, non avendo più un'identità fondante, non avendo più una verità su noi stessi su cui poggiare, si resta senza punti di riferimento. Allora si cerca una nuova base sociale nei buoni sentimenti.
  Ci si guarda e ci si contempla dicendo: quanto siamo buoni. E quello diventa il nuovo punto di riferimento. Il nuovo sostrato su cui basare ogni nostro giudizio a cui fare sempre riferimento. La razionalità e il realismo diventano oggetti estranei e mostruosi, categorie che dovrebbero essere quelle del politico scompaiono innanzitutto dalla politica, cioè dal centro delle decisioni, che viene sommersa e dominata dalle ondate popolari di emotività e umanitarismo un tanto al chilo venduto da tutti i più importanti mezzi d'informazione. Meriterebbe un intero articolo, se non un saggio, la foto di Aylan, morto annegato mentre cercava di raggiungere la salvezza dalla guerra, che viene paragonato al bimbo del ghetto di Varsavia con le mani alzate. Perché io non riesco a capire una cosa: chi sarebbero, in questo caso, i nazisti che puntano il fucile? La risposta, implicita in ogni articolo che cita questo esempio, è però chiarissima. Siamo noi! L'osceno Occidente ricco e benestante che uccide con la propria indifferenza. Quanta tronfia solennità in queste affermazioni. Quanta cialtroneria parolaia.
  Pochi giorni prima di leggere queste frasi del tutto prive di senso storico, ero stato allo Yad Vashem. Se volete fare un'esperienza, per quanto rarefatta, dell'orrore che gli atti di uomini contro uomini possano generare, consiglio a tutti una visita. Mettendo piede nel museo, o nel memoriale per il milione e mezzo di bambini assassinati durante l'Olocausto, sarà possibile misurare la distanza tra la realtà e la manipolatoria falsità storica propagandata da chi ha paragonato la tremenda fine di Aylan a quella del bambino con le mani alzate del ghetto di Varsavia. Ogni immagine non rappresenta solo se stessa ma tutta una storia. E la storia che sta dietro al nazismo e l'Olocausto e quella che sta dietro all'ondata di profughi che lascia i Paesi mediorientali dove l'Occidente è stato incapace di usare la violenza necessaria a fermare i tagliagole dell'Isis, sono radicalmente diverse.
  E questo è il punto finale. La necessità della violenza e l'incapacità di riconoscere il male. Per questo una figura come quella di Yoni Netanyahu rappresenta tutto quello che si dovrebbe essere. Un giovane pienamente cosciente del suo ruolo, della sua drammaticità ma anche della sua assoluta necessità. L'idea che il male non si batte provando a rieducarlo, non si batte con il buon esempio, non si batte sentendo e propagandando un insensato senso di colpa, non si batte mostrandosi buoni. Il male si batte soltanto con un cosciente, per quanto drammatico, atto di violenza. Questo significa guardare in faccia la propria epoca con realismo e razionalità. Significa assumersi la responsabilità di agire su di essa e di plasmarla secondo quei valori che noi riteniamo giusti e da difendere. Per questo nulla è possibile, nulla si può fare, per questo niente cambierà finché non decideremo di smetterla di giocare con i buoni sentimenti e di tornare, con sguardo lucido e mente fredda, a pensare chi vogliamo essere. Altrimenti, come è giusto che sia, come capita a tutto ciò che smette di combattere per vivere, saremo sommersi e sostituiti.





Discorso di Shimon Peres in onore del tenente colonnello Yonathan Netanyahu

6 luglio 1976

 
L'operazione Entebbe è unica nella storia militare. Ha dimostrato che Israele è in grado di mantenere non solo frontiere difendibili ma anche una retta statura morale. Contro un picco di terrore, a cui hanno dato supporto il presidente e l'esercito dell'Uganda, a una distanza di oltre quattromila kilometri da casa, la condizione di tutto il popolo ebraico, di fatto la condizione degli uomini liberi e responsabili di tutto il mondo, venne raddrizzata.
  Per questa operazione era necessario assumersi un enorme rischio ma che sembrava più giustificabile dell'altro possibile rischio, quello di arrendersi a terroristi e ricattatori, il rischio che ogni sottomissione e capitolazione comportano.
  Il momento più difficile di questa notte di eroismo fu quando arrivò l'amara notizia che una pallottola aveva strappato il giovane cuore di uno dei migliori figli di Israele, uno dei combattenti più coraggiosi di Israele, uno dei più promettenti comandanti delle nostre forze armate, il magnifico Yonathan Netanyahu.
  L'ho visto alcune notti prima, quando si trovava a capo dei suoi uomini da qualche parte nel Paese, tutto il suo essere teso alla preparazione di un'altra possibile battaglia. Stava in piedi lì, con la sua caratteristica calma, un naturale comandante sul campo.
  Quando questo grande uomo assunse il comando della sua unità, lo consideravamo già un comandante particolarmente dotato, crescendo e innalzandosi ai più alti ranghi di un'unità che lavorava instancabilmente e incessantemente per portare salvezza al suo popolo.
  Quali pesi non mettemmo sulle spalle di Yonathan e dei suoi commilitoni? I compiti più difficili delle forze armate israeliane, le operazioni più audaci. Missioni lontano da casa e vicino al nemico, l'oscurità della notte e la solitudine del guerriero, l'essere alle prese con ciò che è sconosciuto, gli azzardi che ricorrono in pace come in guerra.
  Ci sono momenti in cui il destino di un intero popolo riposa su una manciata di combattenti e di volontari. Essi devono salvaguardare la rettitudine del nostro mondo in un breve spazio di tempo. In questi momenti, non hanno nessuno a cui chiedere, nessuno a cui rivolgersi. I comandanti sul luogo determinano la sorte della battaglia.
  Lo scopo essenziale dell'Operazione Entebbe era di portare in salvo grazie alla forza di Israele, grazie a un'unità militare israeliana, i passeggeri che gli arabi e i tedeschi avevano ridotto a ostaggi ideali per il semplice fatto di essere israeliani.
  Yoni fu il comandante della forza a cui venne affidato il compito di salvarli.
  Non fu scelto a caso per questa missione. Era già stato ben conosciuto come audace e implacabile liberatore. Nel documento che accompagnava la sua Medal of Herosim che gli fu conferita (dopo la guerra dello Yom Kippur), si affermava: "Quando un ufficiale anziano fu ferito a Tel Shams, il maggiore Yonathan Netanyahu, dopo che un primo tentativo era fallito, si offrì volontario per comandare la squadra di salvataggio, e lui riuscì in questa impresa. Per la sua audacia, la rapidità delle sue azioni e la tenacia nel portare a compimento la missione, è stato un modello di ispirazione per i suoi uomini."
  Yonathan era un comandante esemplare. Con l'audacia del suo spirito riuscì ad avere la meglio sui nemici, con la sua saggezza conquistò i cuori dei suoi commilitoni. Il pericolo non lo scoraggiava e i trionfi non gonfiavano il suo cuore. Da se stesso pretendeva molto mentre all'esercito diede l'acume del suo intelletto, la sua competenza in azione e la sua abilità nel combattimento.
  All'università studiò filosofia. Nell'esercito insegnò abnegazione. Ai suoi soldati diede il suo calore umano e in battaglia instillò loro fredda capacità di giudizio.
  Questo giovane uomo fu tra quelli che comandarono un'operazione impeccabile. Ma con nostro grande dolore, questa operazione comportò un sacrificio di incomparabile pena, il primo della squadra d'assalto, il primo a cadere. E per la virtù dei pochi, molti vennero salvati, e per il valore di colui che cadde, una statura piegata sotto il peso di un grande fardello, si innalzò ancora in tutta la sua altezza.
  E di lui, di loro, potremmo dire con le parole di David:
    "Erano più veloci delle aquile, più forti dei leoni…
    O Yonathan, tu fosti ucciso sulle tue colline.
    Sono sconvolto per te, fratello Yonathan…
    Molto generoso sei stato con me, il tuo amore per me fu splendido…"
La distanza nello spazio tra Entebbe e Gerusalemme, all'improvviso, ha accorciato la distanza nel tempo tra Yonathan figlio di Saul e Yonathan figlio di Benzion. Lo stesso eroismo nell'uomo. Lo stesso lamento nel cuore del popolo.

(La Confederazione italiana, 22 agosto 2020)


"I giovani ebrei europei devono sentirsi cittadini di un contesto più ampio"

Intervista ad Amedeo Spagnoletto, direttore del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, ex rabbino capo di Firenze.

- Quanto conta secondo lei che il Meis sia diretto da un rabbino?
  È importante che chi dirige il Meis faccia un ottimo lavoro con tutte le energie che possiede. Non è quindi indispensabile che sia un ebreo o un rabbino. Certamente la conoscenza, il rapporto sentimentale e la passione contano molto in qualsiasi mestiere, a maggior ragione per la direzione di un museo. Come rabbino ho interpretato il mio ruolo andando al di là dei compiti tradizionali. È positivo il superamento del ruolo del rabbino relegato tra le mura della Sinagoga come puro officiante a favore di un'idea di rabbino che diventa essenziale nel ruolo della formazione e della trasmissione. Il mio obiettivo al Meis è far conoscere a tutti gli italiani e soprattutto ai ragazzi delle scuole la bimillenaria storia e cultura ebraica in Italia. Ovviamente con un focus speciale sulla Shoah.

- A proposito della Shoah…
  Noi dedichiamo una mostra ad hoc che era in precedenza al Quirinale: L'umanità negata. È una mostra che fa grande uso di elementi multimediali. È stata pensata con un attenzione particolare alla didattica scolastica. Venne allestita in prossimità della pandemia, adesso stiamo per riproporla con tutte le precauzioni necessarie al fine di metterla a disposizione delle scuole a partire da settembre.

- In prospettiva come valuta il futuro della Comunità ebraica italiana?
  In sintesi: Roma e Milano danno segni di grande vitalità, poi ci sono le piccole e medie comunità che invece ci dicono quanto sia complicato pensare ad un futuro ebraico già nel prossimo ventennio. Per me il futuro dell'ebraismo diasporico in Italia e in Europa sta nella possibilità che le nuove generazioni si sentano cittadine di un contesto più ampio rispetto al luogo in cui vivono. Il punto alla fine è uno solo: quante famiglie ebraiche riesce a costruire una generazione rispetto alla generazione precedente. Su questo si gioca tutto.

- Lo scorso giugno sono stati restituiti alla comunità ebraica romana alcuni volumi trafugati dai nazisti a Roma. Quanti ne mancano ancora all'appello?
  Bisogna chiarire: nel 1943 vennero saccheggiate due biblioteche: la Biblioteca della comunità ebraica romana e la Biblioteca del collegio Rabbinico. Le sorti di queste due collezioni nel dopoguerra furono diverse: mentre la Biblioteca del collegio rabbinico è stata recuperata più o meno intatta in Germania e riportata in Italia, dell'altra, che conteneva volumi importantissimi, non si sa nulla. I volumi che sono stati restituiti alla comunità di Roma lo scorso giugno non fanno parte di questa biblioteca. Li ho visti con i miei occhi e sono libri di argomento ebraico, ma non in ebraico. Ovviamente, la restituzione è un gesto simbolico importantissimo, perché contribuisce a tenere alta l'attenzione. La Biblioteca della comunità ebraica trafugata nel 1943 non può essere svanita nel nulla, da qualche parte quei volumi devono essere, bisogna solo continuare a cercarli.

- Una sua valutazione sull'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.
  Ogni accordo che favorisca la pace e la convivenza in quel fazzoletto di terra deve essere salutato con grande soddisfazione da parte di tutto il popolo ebraico. Da coloro che vivono in Israele, ma anche da tutti gli ebrei che vivono in altre aree del mondo. Avere relazioni diplomatiche con Israele è un vantaggio per tutti gli stati di quell'area. Lo è stato per l'Egitto, per la Giordania e lo sarà anche per gli Emirati Arabi.

- Qual è la sua posizione rispetto alle donne rabbino?
  Esistono delle limitazioni determinate molto più dall'interpretazione e dal modus con cui alcune leggi sono state vissute nel corso dei secoli. Anche con un'influenza importante derivata dal contesto in cui le comunità ebraiche hanno vissuto queste leggi scritte. Non è casuale che alcune forme rituali ebraiche abbiano una diversa modalità di espressione nelle comunità askhenazite, sefardite, in Italia, in Africa o in Medio Oriente. In Italia, ad esempio, abbiamo testimonianze chiare di come l'istruzione per le ragazze fosse qualcosa di contemplato e ammesso da tempo immemorabile, dal Cinquecento in poi… Sul campo è facile vedere come oggi in Israele anche le donne insegnano materie ebraiche e letteratura rabbiniche. In accademia come in scuole di alta formazione. Più dei proclami conta la prassi e nella prassi la presenza femminile nella formazione religiosa è importantissima da tempo.
Esempio classico di uno che "svicola" davanti a una domanda scomoda



(JoiMag, 22 agosto 2020)


Abu Dhabi: 'presto l'ambasciata degli Emirati a Tel Aviv'

ABU DHABI - Il ministro di Stato agli Affari esteri di Abu Dhabi ha annunciato che in seguito alla normalizzazione dei rapporti con il regime sionista presto si aprirà l'ambasciata degli Emirati a Tel Aviv.
Giovedì sera Anwar Gargash, citato dall'agenzia iraniana Fars News parlando in un colloquio virtuale con il think tank statunitense Atlantic Council ha detto:" dopo la firma definitiva dell'accordo di pace, Abu Dhabi aprirà la propria ambasciata a Tel Aviv. "
Gargash ha poi ribadito che qualunque ambasciata degli Emirati "avrà sede a Tel Aviv" e non a Gerusalemme, dove gli Stati Uniti hanno spostato nel 2018 il loro ambasciatore riconoscendo la città palestinese come capitale di Israele.

(Pars Today, 21 agosto 2020)


Emirati a sostegno della Grecia (dopo la Francia). E mandano gli F16

Quattro F-16 degli Emirati Arabi Uniti sono in arrivo alla base cretese di Souda Bay per partecipare ad una serie di esercitazioni con le forze armate greche.
Gli Emirati seguono così le mosse della Francia, che ha convintamente sostenuto sin dall'inizio la Grecia, a differenza di altri paesi dell'Unione Europea che si sono limitate a generiche dichiarazioni di intento per il dialogo con la Turchia.
La notizia arriva a 48 ore dagli accordi militari firmati da Turchia e Qatar con l'amministrazione di Tripoli. Inoltre Emirati Arabi Uniti e Israele hanno raggiunto uno storico accordo di pace finalizzato alla piena normalizzazione delle loro relazioni diplomatiche. La mossa emiratina in Grecia, dunque, appare come un messaggio preciso inviato ad Ankara.
Inoltre questa mattina il ministro greco degli Affari esteri, Nikos Dendias, ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed. Al centro della discussione la cooperazione bilaterale e le questioni regionali con un'enfasi sugli sviluppi nel Mediterraneo orientale, così come twittato dallo stesso ministero degli Esteri.

(Mondo Greco, 21 agosto 2020)


Rivlin: 'Non resteremo a guardare, i razzi non diventeranno normalita''

"Non resteremo a guardare Hamas fuori controllo". Parola di Reuven Rivlin dopo gli ultimi lanci di razzi e palloni incendiari dalla Striscia di Gaza contro Israele che ha risposto attaccando ancora una volta obiettivi di Hamas nell'enclave palestinese. "Le Idf (le forze israeliane) risponderanno con forza e determinazione - ha detto il presidente israeliano in dichiarazioni riportate dal Jerusalem Post - e continueranno anche se saranno necessari tempo e pazienza" fino al "ritorno della calma". "Incendi, razzi e palloncini esplosivi - ha incalzato - non diventeranno la normalità".

(Adnkronos, 21 agosto 2020)


Orrore per la minorenne stuprata dal branco, Israele scende in piazza

Sarebbero 30 i ragazzi responsabili dell'aggressione avvenuta il 14 agosto in un hotel sul Mar Rosso, ma finora solo uno è stato arrestato. Netanyahu: "Crimine contro l'umanità".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Israele è sotto shock per un'agghiacciante aggressione avvenuta nei giorni scorsi a Eilat, la località di villeggiatura israeliana sulle rive del Mar Rosso. Il 14 agosto, una sedicenne ha denunciato una violenza sessuale di gruppo, avvenuta due giorni prima nella stanza di un hotel della città all'estremo sud d'Israele. Secondo indiscrezioni dalle indagini in corso, si tratterebbe di 30 uomini. La notizia è stata diffusa solo mercoledì sera con l'arresto di un primo sospettato. Ma il nome della ragazza è uscito sui social media e i servizi sociali hanno chiesto di trasferire la giovane in un posto sicuro "per evitare che possa essere minacciata dagli aggressori o loro famigliari".
   Ieri sera, un migliaio di manifestanti si è radunato in sedici presidi sparsi per tutto il Paese. A Gerusalemme qualche centinaio di partecipanti hanno presenziato al raduno spontaneo, donne e uomini che hanno gridato il loro dolore e la loro solidarietà con le vittime della violenza sessuale.
   "Siamo con te, non sei sola"; "Nuda o vestita, il corpo è mio e non tuo"; "Governo svegliati! Vogliamo fatti non parole" sono alcuni degli slogan intonati dai manifestanti. "Siamo qui anche per condannare quella cultura di connivenza verso gli aggressori che consente ancora di pronunciare frasi raccapriccianti come 'era ubriaca', 'aveva la gonna cortissima', 'se l'è cercata': è un fenomeno sociale che dobbiamo sradicare", ci dice Diklà, che ha letto del raduno su Facebook e ha voluto esprimere la propria vicinanza. "L'85% delle denunce presentate alla polizia viene chiuso dalla procura e solo il 3% si risolve in una condanna", dice Revital, attivista di lunga data per i diritti delle vittime di abusi sessuali. "Poi ci si chiede perché le donne non denuncino. Non c'è fiducia nel sistema! È fondamentale aumentare i fondi per questa
 
battaglia, garantire che in ogni ospedale ci sia almeno un'unità competente per gestire le vittime di violenze sessuali, investire nella loro riabilitazione, sociale e psicologica".
   Stando alla ricostruzione dei fatti finora, la giovane si trovava al Red Sea Hotel, ospite di alcuni amici. Si è recata in una delle camere per usufruire del bagno e lì sarebbe avvenuto il brutale stupro da parte del branco. Un primo sospettato di 27 anni - con cui la giovane si era scambiata degli sms, nei quali l'uomo accennava all'esistenza di video dell'atto criminale - è stato arrestato mercoledì. E' lui che avrebbe fornito la versione dei 30 uomini e, secondo fonti vicine all'inchiesta, esiste il sospetto che il numero sia gonfiato per fare apparentemente ricadere la colpa su altri soggetti, sviando le indagini. E' comunque comprovato che si trattasse di un gruppo nutrito, come risulta dalle videocamere di sicurezza dell'hotel sequestrate dalla polizia, che testimoniano un accalcamento di più persone all'entrata di una delle camere. Tuttavia, la proprietaria dell'hotel nega che l'aggressione sia avvenuta lì e attende "i risultati delle indagini". L'albergo è noto per ospitare molti minorenni che fanno uso di alcolici in modo illecito e incontrollato.
   Condanne e dichiarazioni di solidarietà sono arrivate da tutto l'arco politico. Il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di "crimine contro l'umanità". Il presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, ha formulato una "lettera aperta" ai giovani del Paese sulla sua pagina Facebook: "In questi giorni pazzi, senza una routine", recita il messaggio, "è fondamentale che capiate l'importanza dei limiti che la nostra società ci impone. La violenza, lo sfruttamento sessuale, lo stupro, sono macchie indelebili, sono crimini in cui la mancanza di limiti distrugge la nostra società".
   La terribile violenza ha rievocato un caso che ha occupato le cronache quotidiane giusto un anno fa: l'estate scorsa, un gruppo di 12 ragazzi israeliani tra i 16 e i 18 anni fu accusato di essere coinvolto nello stupro di una diciannovenne inglese in una camera d'albergo ad Agia Napa, ribattezzata in seguito la "Sodoma e Gomorra cipriota". Dopo una settimana la vittima si era trasformata in colpevole, firmando una dichiarazione in cui sosteneva di aver inventato l'accusa di stupro per vendicarsi del fatto che il gruppo aveva filmato e diffuso l'atto sessuale "avvenuto consensualmente". Dopo qualche giorno, quando gli israeliani, rilasciati, erano già rientrati in Israele, la ragazza ha ritrattato, sostenendo che la confessione le era stata estorta in un momento in cui "pensava sarebbe morta".
   Nonostante ciò, la giovane fu costretta a rimanere altri sei mesi a Cipro, di cui uno trascorso in carcere, condannata a gennaio per falsa testimonianza a quattro mesi con la condizionale (ha presentato subito ricorso alla Corte Suprema). Indipendentemente dall'accertamento della verità processuale, a scandalizzare il Paese all'epoca fu la mancata condanna del comportamento dei giovani, alcuni minorenni, colpevoli di aver ripreso l'atto sessuale senza consenso, accolti invece dalle loro famiglie con canti e bottiglie di champagne al loro rientro in aeroporto.
   "Non ci sono parole per descrivere l'orrore di fronte a queste vicende", ci dice Hagar, che per una volta ha saltato il consueto appuntamento alle manifestazioni sotto casa di Netanyahu. "Ma siamo qui proprio per gridare che tutto ciò non deve passare in silenzio, per dare coraggio a chi deve affrontare, purtroppo, una strada ancora in salita".

(la Repubblica, 21 agosto 2020)


Tour de France 2020, anche Tom van Asbroeck e Hugo Hofstetter al via per la Israel

di Davide Filippi

Ogni giorno, la Israel Start-Up Nation svela un pezzetto della rosa che parteciperà al Tour de France 2020. Dopo gli annunci di Guy Niv, primo israeliano al via alla Grande Boucle, e del belga Ben Hermans, questa volta è il momento di due corridori veloci, adatti alle volate di gruppo ristretto. Si tratta del belga Tom van Asbroeck, 30enne alla prima partecipazione alla corsa francese, e Hugo Hofstetter, corridore transalpino di 26 anni che in questa stagione si è messo in luce vincendo Le Samyn. Anche per lui si tratterà dell'esordio al Tour de France, anzi addirittura per Hofstetter si tratterà dell'esordio assoluto in un Grande Giro.

(SpazioCiclismo, 21 agosto 2020)


Giornata europea della cultura ebraica: Stele funeraria rivede la luce a Crotone dopo 70 anni

di Rolando Belvedere

 
Dopo quasi 70 anni vede la luce. Tolta dall'oblio del deposito di reperti del museo archeologico di Crotone, la stele funeraria ebraica risalente al xv secolo e trovata nel 1954 a Strongoli, paese limitrofo alla città pitagorica. Il manufatto in buono stato di conservazione, misura circa 50x40 cm.
   Successivamente al ritrovamento venne catalogata e lasciata per decenni nel deposito, con altri reperti senza essere mai esposta al pubblico: " Decisiva per la sua riesumazione è stata Antonella Cucciniello direttrice regionale dei musei calabresi , del segretario regionale del MBCT Salvatore Patania e la collaborazione di Gregorio Aversa direttore del museo archeologico di Crotone" , precisa Roque Pugliese - chirurgo d'urgenza, ma anche impegnato a coltivare la memoria con la raccolta di documenti e l'individuazione di siti ebraici - delegato della Calabria per la GECE 2020 e referente per la Calabria della comunità ebraica di Napoli. L'appuntamento con chi scrive è in un torrido pomeriggio estivo al museo archeologico.
   Pugliese arriva con la sua troupe, per filmare l'evento che circolerà sul web in occasione della GECE che si aprirà il prossimo 6 settembre. Non nascondiamo l'emozione di fronte allo straordinario reperto che si spera venga esposto presto al pubblico e dietro al quale si cela la memoria di una comunità secolare vissuta operosamente a Crotone. Nel reperto si legge: "questa stele è del maestro medico Giuda figlio compassionevole e sia l'eden il suo riposo, morto nell'anno 5201" del calendario ebraico (1440 - 41).
   A Strongoli, così come negli altri paesi del Marchesato crotonese, Cutro, Belcastro, Ciro', Santa Severina, Mesoraca, Cariati, Petilia Policastro, Isola Capo Rizzuto, vi erano gruppi di famiglie ebraiche spesso imparentate con quelle della numerosa e ricca comunità di Crotone. La più importante della Calabria e la più tassata rispetto alle altre comunità di Cosenza, Gerace e Rossano, Reggio Calabria e Castrovillari.
   L'archivio storico di Crotone documenta come l'insediamento ebraico a Crotone è di lunga data: nel periodo angioino, aragonese e spagnolo. E abbraccia almeno 4 secoli prima della cacciata nel xv secolo da parte di Isabella la Cattolica. La Giudecca con la sinagoga ora scomparsa era il quartiere o la strada dove gli ebrei abitavano: si trovava fuori le mura vicino alla cattedrale in un'area oggi compresa tra via Suriano e via della pescheria, in prossimità della chiesa di Santa Maria dei Prothospartariis.Gli ebrei crotonesi esercitavano solo le attività commerciali loro autorizzate, oltre alle attività artigianali praticate durante la costruzione del castello Carlo V e nell'esercizio dell'arte medica per cui erano famosi. Dopo l'espulsione dal regno di Napoli nel xv secolo, quelli che non potevano trasferirsi altrove erano costretti a convertirsi e non mancavano quelli che lo fecero solo in apparenza. Certo, alcune famiglie nonostante tutto rimasero a vivere in città e i documenti dell'Archivio storico comunale attestano la presenza ebraica almeno sino al 1730.

(Wesud, 21 agosto 2020)


Caso Dreyfus, c'è un secondo ''J'Accuse!''

All'asta a Parigi un manoscritto inedito di Émile Zola: "Pour la lurnière". Non fu pubblicato perché giudicato troppo violento. Cinque pagine scritte a Londra dove il romanziere andò in esilio per evitare il carcere.

di Giovanni Serafini

PARIGI - La mattina dei 19 luglio 1898 Émile Zola, partito precipitosamente la sera prima da Parigi, arriva alla stazione Victoria di Londra. È un uomo solo, prostrato ma ancora combattivo. A 58 anni ha dovuto affrontare l'esilio per evitare il carcere. Il 13 gennaio di quello stesso anno la pubblicazione del suo J'Accuse! sulle colonne del quotidiano L'Aurore aveva scatenato una tempesta politica senza precedenti. Tre processi in sei mesi. L'ultimo, davanti alla Corte d'Assise di Versailles, si era concluso il 18 luglio con la condanna definitiva a un anno di prigione: lo scrittore che aveva difeso Alfred Dreyfus e accusato di antisemitismo il presidente della Repubblica Félix Faure e l'intero governo, era stato ritenuto colpevole di diffamazione.
   A Londra è andato controvoglia, spinto dai suo avvocato Fernand La Bori e da Georges Clémenceau, caporedattore dell'Aurore, lasciandosi alle spalle la moglie Alexandrine e i due figli che gli ha dato Jeanne Rozerot. la sua amante. Non parla una parola d'inglese. Uscito dalla stazione Victoria si fa portare da un vetturino all'hotel Grosvenor, indicatogli da Clemenceau. Sul registro dell'albergo si iscrive con il falso nome di "Monsieur Pascal". Gli danno una cameretta all'ultimo piano, con una finestra sbarrata da un cornicione. Ha l'impressione - annota nei diario - di essere in galera. Rimane chiuso lì per tutta la giornata e scrive: cinque pagine a penna con inchiostro nero, con molte correzioni e aggiunte, nelle quali ribatte le accuse e afferma la sua verità sull'affare Dreyfus. Si tratta di un articolo intitolato Pour la lumière. che nelle sue intenzioni dovrebbe essere pubblicato sull'Aurore, ma che Clémenceau chiuderà prudentemente in un cassetto. Il manoscritto inedito, per anni parte della collezione del direttore d'orchestra svizzero Alfred Cortot, viene reso pubblico dalla libreria antiquaria parigina "Le Manuscrit Français", che lo metterà all'asta il 18 settembre al Salon du Livre Rare et de l'Autographe. Prezzo base 40 mila euro. Il testo è vibrante, tagliente: «Resteremo i soldati impassibili della verità, incapaci di indietreggiare, capaci di tutti i sacrifici e di tutte le aspettative», scrive l'autore del J'Accuse! E aggiunge: «La verità lampante è che i nostri avversari, fin dal primo giorno e con i metodi più mostruosi, hanno cercato e cercano tuttora di chiudermi la bocca. Della mia lettera al presidente della Repubblica hanno estrapolato qualche riga per impedire che sia fatta luce sull'affare Dreyfus. Il loro piano è imbavagliarmi, spegnere la luce, seppellire per sempre questa storia: è il loro unico desiderio. Ma noi faremo in modo che la verità e la giustizia trionfino».
   Fu Bernard Lazare, spedito a Londra da Clémenceau, a recuperare le 5 pagine di Pour la lumière: Clémenceau le trovò troppo violente, controproducenti per una futura revisione del processo, e al loro posto pubblicò un articolo più temperato, scritto da lui stesso e intitolato Per la prova, firmato Émile Zola (che aveva dato il suo consenso). Rientrato in Francia nel dicembre 1899 grazie a un'amnistia, l'autore di Nanà e Germinal raccontò in un testo per L'Aurore quanto il silenzio gli fosse pesato: «Mi sono imposto l'esilio più totale, ho vissuto come un morto in attesa della verità e della giustizia». Gli rimanevano pochi mesi da vivere, il 29 settembre 1902 venne trovato morto, a terra nella camera da letto, intossicato dalle esalazioni del caminetto. Aveva 62 anni. L'inchiesta rivelò che il caminetto era ostruito: il sospetto che i suoi nemici lo abbiano manomesso non è mai stato archiviato.

(Nazione-Carlino-Giorno, 21 agosto 2020)


Intelligenza Artificiale a caccia di droni, i piloti non autorizzati sono avvisati

Un gruppo di ricercatori israeliani sta sviluppando una tecnologia che consentirà di individuare i piloti non autorizzati.

di Eduardo Bleve

 
Una delle tecnologie che maggiormente ha subito un'ondata di crescita negli ultimi anni è stata sicuramente quella legata ai droni, dei velivoli elettronici di piccole/medie dimensioni in grado di solcare i cieli e controllabili comodamente dal proprio smartphone.
  Questi oggetti hanno trovato un'ampia platea di impieghi, da quello legato al semplice svago, alla fotografia ma anche usi più seri come la ricerca di persone ferite in luoghi angusti difficili da raggiungere a piedi.
  Ultimamente però stiamo assistendo anche alla crescita del mercato di sistemi anti-droni, mosso principalmente dalla preoccupazione di svariati governi riguardo ad un possibile uso negativo degli stessi, il quale minerebbe la sicurezza di strutture come aeroporti, centri commerciali, carceri e basi militari.

 Cosa o chi ?
  Benché il mercato si stia concentrando molto nella ricerca e progettazione di sistemi in grado di allontanare, respingere o anche abbattere i droni, c'è da tenere conto che questi oggetti sono ovviamente privi di volontà propria, essi infatti sono pilotati da soggetti che spesso, nel migliore dei casi, sono non curanti o all'oscuro delle leggi, ma che alle volte possono rivelarsi veri e propri criminali.
  Ovviamente tutto ciò pone al centro delle attenzioni non tanto il drone, ma il suo pilota ergo la sua posizione, ecco perché dunque dei ricercatori stanno lavorando ad una tecnologia che mira, attraverso l'intelligenza artificiale, a individuare immediatamente la posizione del pilota del drone, al momento l'algoritmo sviluppato è in grado di fare una misurazione con una precisione superiore all'80%, con obbiettivo posto ovviamente al 100% con anche la possibilità di calcolare l'esperienza del pilota.
  In particolare la rete neurale sviluppata altro non fa che confrontare le informazioni note, come ad esempio la posizione del drone fornita da un radar, con tutto ciò che essa ha in archivio: dati sul vento, geografici, ora della giornata, la planimetria territoriale, tutti raccolti da altre migliaia di simulazioni, in modo da estrapolare la possibile posizione e fornirne una probabile.

(tecnoandroid, 21 agosto 2020)


Cibo e preghiere quei ponti segreti lanciati dagli ebrei negli Emirati

La svolta diplomatica fra Israele e Eau preceduta dal lavoro delle comunità locali

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — L'antico detto ebraico "due ebrei, tre opinioni" trova una sua emblematica affermazione persino in un luogo dove nell'immaginario collettivo non c'è nemmeno un ebreo, ovvero gli Emirati Arabi Uniti: anche nel Paese del Golfo che ha appena annunciato la normalizzazione dei rapporti con Israele, esistono non una, ma due comunità ebraiche. Ed entrambe hanno un curioso legame con l'Italia.
   Giacomo Arazi rappresenta la quintessenza di quell'ebraismo itinerante e cosmopolita che ha saputo reinventarsi tra una tappa e l'altra della vita. Nato a Beirut, cresciuto a Napoli, emigrato a Londra, nel 2008 si stabilisce per lavoro a Dubai. «All'inizio la mia famiglia era scioccata. La loro generazione vive ancora il grande trauma della fuga dai Paesi arabi a seguito della nascita d'Israele», ci racconta al telefono da Londra, dove è tomato a vivere dopo otto anni negli Emirati. A Duix , incontra qualche collega ebreo e altri li scova cercando su Linkedin i cognomi che paiono famigliari. Inizia a ospitare nella sua villa la preghiera dello Shabbat per un gruppetto di famiglie di espatriati, europei e americani, che con gli anni arriva a includere un centinaio di persone. «Con l'eccezione del Bahrain, siamo la prima comunità ebraica formatasi in un Paese arabo o musulmano dopo svariati secoli», ci spiega Alex Peterfreund, belga, a Dubai dal 2014, portavoce del Consiglio ebraico degli Emirati (JCE) - così si chiama la comunità formalizzata nel 2013, che continua a riunirsi nella ex villa di Giacomo.
   Un paio di anni fa è nata un'altra comunità, il Jewish Community Center, tra i cui pilastri c'è Ilan Uzan, italo-israeliano di origine libica, a Dubai dal 2004. Anche loro hanno la loro sinagoga e qualche anno fa Ilan ha coordinato un'operazione semi-clandestina per portare a Dubai un rotolo della Torà da Roma.
   L'apertura graduale verso la comunità ebraica locale è stata una sorta di banco di prova per ciò che il Paese si appresta ad affrontare con l'avvio delle relazioni con Israele. «Abbiamo rapporti con le istituzioni, in particolare con il ministero della Cultura e della Tolleranza, ma non ci occupiamo di politica. Le voci di un accordo con Israele circolavano da tempo, ma l'annuncio improvviso ci ha colti di sorpresa, pensavano che sarebbe successo tra qualche mese. E' l'inizio di una nuova coesistenza», ci dice Ilan.
   Non è sempre stato tutto rose e fiori. «Quando mia figlia è nata qui nel 2009, l'ho registrata come cristiana. Per anni non abbiamo rivelato quasi a nessuno la nostra religione. Quando c'è stato il caso Mabhouh (l'uccisione a Dubai di un capo di Hamas da parte del Mossad nel 2010, nrd) il clima era pessimo, abbiamo davvero temuto», ricorda Giacomo. Oggi negli Emirati si contano un migliaio di ebrei, quasi tutti a Dubai, dove c'è anche una piccola scuola di studi ebraici per i bambini della comunità e persino un catering kasher, "Kosherati", che spopola anche tra i musulmani. Ad Abu Dhabi è in costruzione una sinagoga, parte di un progetto iniziato nell'Anno della Tolleranza, dichiarato nel 2019 in vista della visita di Papa Francesco.
   La comunità degli expat di Dubai rievoca una storia che ha caratterizzato quest'area nel passato: di peregrinazioni di mercanti ebrei nel Golfo Persico, crocevia di commerci sulla via della seta, si ha testimonianza ancora dall'Alto Medioevo. Beniamino di Tudela, esploratore ebreo spagnolo dell'XI secolo, descrive nelle sue cronache le comunità locali. La piccola comunità del Bahrain di oggi, una trentina di persone, discende da famiglie di commercianti iracheni e iraniani stabilitesi a Manama verso la fine dell'800. I reggenti emiratini conoscono i vantaggi di un'apertura verso il mondo ebraico e probabilmente è anche in questa chiave che vanno letti i rapporti instaurati sottobanco con Israele già dagli anni '90, con l'inizio del processo di Oslo. Non a caso il nome scelto per la nuova alleanza è "Accordo di Abramo", padre di Isacco e Ismaele, come a simboleggiare il rinnovo dell'antica fratellanza.

(la Repubblica, 20 agosto 2020)


La Rai e la rettifica sulla capitale d'Israele

Il caso al quiz show "L eredità"

Può un tribunale italiano decidere le sorti di una controversia internazionale, delegando a un quiz tv la pronuncia della "sentenza definitiva" su una questione chiave del conflitto arabo-israeliano? Secondo la Rai no. Ed è per questo che oggi impugnerà l'ordinanza con cui il 6 agosto la giudice Cecilia Pratesi ha disposto di integrare la rettifica già trasmessa dall'Eredità a proposito della disputa su quale sia la capitale d'Israele: Gerusalemme o Tel Aviv?
   Per la magistrata, la precisazione offerta due mesi fa dal conduttore - che parlò di «tema delicato sul quale esistono posizioni diverse » - non è sufficiente. Occorre che la Tv pubblica, manco fosse la Farnesina, dichiari: «Il diritto Internazionale non riconosce Gerusalemme quale capitale dello Stato di Israele». E dovrà farlo alla prima puntata utile: il 28 settembre. Così. Testuale. Senza ulteriori spiegazioni.
   Impossibile, secondo l'ufficio legale Rai. Che, senza entrare nella contesa geo-politica, fa un ragionamento squisitamente giuridico: poiché nel suo complesso l'informazione resa è veritiera, essa non rientra nel perimetro del diritto di rettifica. Diritto che scatta quando viene detta o scritta una notizia falsa. Cosa che in questo caso non è. Come peraltro riconosciuto dalla stessa giudice allorché afferma che «la questione è obiettivamente controversa». In linea con quanto ammesso dall'Eredità il 6 giugno.
   Non solo. Se passasse il principio dell'integrazione, per la Rai sarebbe un precedente grave: rischierebbe una valanga di ricorsi non per aver dato una notizia infondata, bensì per averla data corretta, ancorché poco dettagliata. Un paradosso che va ben oltre la disputa su quale sia la capitale d'Israele.
   
(la Repubblica, 20 agosto 2020)


Sempre di più, sempre di più. Sempre di più si ricorre al magistrato per invocare la punizione su qualcuno per quello che ha osato dire. Sono le parole ad essere prese di mira. Attento a come parli! Segno dei tempi? M.C.


Alla fine ha vinto la «realpolitik»

di Giorgio Ferrari

Non ci sono prove del coinvolgimento di Hezbollah né della Siria nel brutale assassinio di Rafiq Hariri e della sua scorta. Non c'è un mandante e non ci sono colpevoli punibili, visto che tre dei quattro imputati cui il Tribunale speciale per il Libano attribuiva la responsabilità materiale dell'attentato del giorno di San Valentino del 2005 sono stati assolti per insufficienza di prove e il quarto, Salim Ayyash, l'unico ritenuto responsabile di tutte le accuse, è rimasto come gli altri al sicuro nell'impenetrabile hezbollahland che si estende dalla periferia meridionale di Beirut fino al confine con la Galilea. La sentenza, resa nota ieri pomeriggio e per la quale si sono spesi 15 anni di indagini e quasi ottocento milioni di dollari, ha quanto di più filisteo e farisaico si potesse immaginare. Ma proprio per quel suo vacuo possibilismo («La Siria e Hezbollah potrebbero aver avuto motivi per uccidere il premier») ha il pregio politico di criogenizzare la vicenda amputandola di quel capro espiatorio - il Partito di Dio guidato dallo sceicco Nasrallah - che avrebbe finito per incendiare il Paese, già in ginocchio per la terribile esplosione di quindici giorni fa (casualmente, alla vigilia della sentenza...) e per il default politico ed economico.
   Preso alla lettera, il dispositivo del Tribunale (2.500 pagine) vorrebbe convincerci che un unico cittadino di credo sciita e di militanza hezbollah avrebbe organizzato da solo e senza alcuna copertura da parte dei meglio attrezzati servizi di intelligence siriani e iraniani un sofisticatissimo attentato alla vita del premier libanese, laddove due dei tre coimputati si sarebbero limitati a sviare le indagini. Nessuno ci crede e tutti fanno finta di crederci, anche se rimpianti, rancori e polemiche non mancheranno. Eppure dietro il sudario della sentenza di ieri s'intravede la progressiva smobilitazione dell'influenza iraniana nella regione. Gli hezbollah, lo sappiamo bene, sono emanazione diretta di Teheran e hanno agito da sempre sia come braccio armato degli ayatollah sia come domestico cane da guardia in Libano, allestendo una sorta di antiStato all'interno del Paese dei Cedri. Anche la Siria faceva parte di quella mezzaluna sciita che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deirez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all'Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente, un cuneo che (grazie anche al fattivo apporto russo e alla protezione assicurata da Putin al regime di Bashar al Assad) penetrava nel mondo sunnita annodando i propri rapporti anche con Hamos a Gaza fino a spingersi nello Yemen. Questo mosaico ora è in crisi, e lo era anche prima dell'arrivo del Covid, del default libanese e della fatale esplosione del porto di Beirut.
   La crisi sciita ha due forme, quella interna e quella regionale. È in crisi il mondo hezbollah in Libano e la popolarità di Nasrallah è in vistoso calo, suffragata anche dal sospetto che il materiale esplosivo stivato per anni nei magazzini portuali fosse parte integrante dell'arsenale del Partito di Dio. Ma in particolar modo è in crisi la Mezzaluna iraniana, colpita al cuore del recentissimo accordo fra Israele e gli Emirati del Golfo, che con il sodalizio già in atto con l'Arabia Saudita serra il cerchio intorno alle mire di Teheran, ridimensionandone l'influenza regionale e costringendo i vertici politici e religiosi iraniani a un totale ripensamento della propria strategia. La mancata accusa diretta a Nasrallah e agli ayatollah non cambia assolutamente nulla. Il Libano, così come la questione palestinese (fatalmente passata in secondo piano dopo le intese fra Netanyahu, gli emiri e Riad) appaiono due entità bisognose di urgente rifondazione. Il ridisegno stesso del risiko regionale lo impone. La sentenza dell'Aja, pur nella sua elusiva ambiguità, non fa che confermarlo. Inutile indignarsi dunque per questo verdetto. Era già pronto da mesi (e in questo Nasrallah e gli hezbollah avevano ragione) e chi contava su un lancinante atto d'accusa nei confronti della Siria e dei suoi manovratori iraniani peccava di troppo ottimismo, per non dire che era un'illusa. Alla fine la Realpolitik ha avuto la meglio sulla giustizia. Ma questo in fondo accade quasi sempre.

(Avvenire, 19 agosto 2020)


Libano - Die Welt rivela: "Hezbolah comprò nitrato di ammonio"

Un'inchiesta del giornale tedesco rivela l'acquisto, ma non è certo che il materiale sia quello esploso il 4 agosto nel porto di Beirut.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - "Hezbollah ha acquistato ingenti quantità di nitrato d'ammonio nel 2013, ovvero nel periodo in cui il materiale chimico è stato immagazzinato nell'hangar 12 del porto di Beirut". E' quanto riporta oggi il quotidiano tedesco Die Welt, citando "esclusive informazioni fornite da fonti di intelligence occidentali".
   Il Partito di Dio avrebbe acquistato circa 670 tonnellate di nitrato d'ammonio per centinaia di migliaia di euro, in quattro spedizioni avvenute dal luglio 2013 all'aprile 2014, documentate in diverse ricevute di cui il Die Wielt cita date e importi. Non è provato che le spedizioni in questione siano legate al materiale che si trovava nell'hangar 12 del porto, le ormai note 2750 tonnellate del componente chimico che, secondo le indagini libanesi ancora in corso, sono tra le cause dell'enorme esplosione che ha devastato il centro di Beirut il 4 agosto, facendo 180 vittime e migliaia di feriti.
   I rifornimenti di nitrato di ammonio destinati a Hezbollah arrivano dall'Iran, in operazioni coordinate dalla Forza Quds, l'unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, guidata dal generale Qasem Soleimani che è stato ucciso a gennaio a Baghdad in un raid americano. La Forza Quds avrebbe recapitato il materiale via mare, via aerea e via terra. Una delle compagnie aeree coinvolte nelle spedizioni è l'iraniana Mahar Air, cui è impedito atterrare sul suolo tedesco dall'anno scorso. Nel reportage di Die Wielt viene citato anche Mohammed Qasir come responsabile dell'approvvigionamento del nitrato di ammonio.
   Qasir, noto anche come Hajj Fadi, guida da Damasco l'Unità 108 di Hezbollah, incaricata del contrabbando di armi dall'Iran al Libano, attraverso la Siria. Nonostante sia noto, come denunciato anche da reporter locali, che Hezbollah sia l'entità che di fatto gestisce il porto di Beirut, Hassan Nasrallah, il leader del Partito di Dio, ha negato categoricamente qualsiasi coinvolgimento o responsabilità rispetto all'esplosione del 4 agosto.
   L'anno scorso sono state rivelate diverse operazioni che hanno collegato Hezbollah all'utilizzo del nitrato di ammonio. Nel giugno 2019 i servizi segreti inglesi hanno reso noto che, nel 2015, avevano sequestrato tonnellate del materiale chimico in quattro proprietà a Londra gestite da cellule locali della milizia sciita. Nello stesso anno, la polizia di Cipro ha arrestato Hussein Bassam Abdallah, doppia cittadinanza libanese e canadese, trovato in possesso di oltre 8 tonnellate di nitrato d'ammonio. Abdallah ha ammesso l'affiliazione a Hezbollah e patteggiato una pena di 6 anni.
   Lo scorso aprile, la polizia tedesca ha sventato una cellula terroristica di Hezbollah e nelle indagini è emerso lo stesso modus operandi di Londra: ingenti quantità di nitrato di ammonio conservate in finti pacchi di ghiaccio istantaneo. In concomitanza con l'operazione che ha portato all'arresto di diversi operativi per complotto a fini terroristici, la Germania ha inserito Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche.

(la Repubblica, 20 agosto 2020)


Non si fermano le violenze tra Gaza e Israele

Ancora tensione tra la striscia di Gaza e Israele. Un razzo sparato da Gaza è esploso stasera [ieri] in un’area aperta nel territorio israeliano, senza provocare vittime né danni. Lo ha riferito un portavoce militare.
In precedenza nella zona di Ashkelon erano risuonate sirene di allarme e migliaia di abitanti erano corsi verso aree protette. Due persone sono rimaste ferite mentre correvano verso un rifugio.
Questo attacco giunge al termine di una giornata in cui palloni incendiari lanciati da Gaza hanno provocato una trentina di incendi in aree agricole israeliane. «Per noi ogni incendio equivale al lancio di un razzo» ha affermato il premier Benjamin Netanyahu. «Da dieci giorni colpiamo infrastrutture militari di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche. In questo modo sconvolgiamo le loro attività. Noi siamo pronti anche ad una nuova tornata, o a più tornate, anche se spero che ciò non si renda necessario». Da parte sua, Hamas ha diffuso ieri sera sul web un filmato di avvertimento che mostra il lancio di numerosi razzi verso Israele.

(L'Osservatore Romano, 20 agosto 2020)


Addio a Ben Cross. Fu l'atleta ebreo nel film Oscar «Momenti di gloria»

Aveva 72 anni

Non molti, forse, ricordano il suo nome. Ma quasi tutti hanno in mente la sua espressione mentre taglia il traguardo nel film premio Oscar «Momenti di gloria». Ieri, a 72 anni. è morto l'attore inglese Ben Cross. «Ben è deceduto improvvisamente, dopo una breve malattia". Era a Vienna», ha fatto sapere il suo agente da Los Angeles, salutando un interprete entrato di diritto nella storia del cinema grazie a un ruolo fissato nella memoria di milioni di persone: quello dell'atleta olimpico britannico Harold Abrahams - ebreo tormentato dall'antisemitismo nella sua ricerca dell'oro olimpico, nel 1924 - in «Momenti di gloria», appunto, film del 1981 premiato con l'Oscar. Per prepararsi a vestire i panni dello sportivo, aveva poi raccontato, si era allenato ogni giorno per due mesi e mezzo. Un ruolo arrivato tardi, quando aveva già compiuto 34 anni, lui che era nato a Londra, il 16 dicembre del 1947. Ma un ruolo che gli diede di colpo fama
internazionale, quattro anni dopo il suo debutto nello spettacolo, nel film di guerra «Quell'ultimo ponte» al fianco di Sean Connery e Michael Caine.
   Ma a farlo approdare fino al vincitore di quattro Oscar (tra cui quello per II Miglior film), era stato un musical «Chicago». Attore versatile, non aveva mai smesso di recitare, diventando un caratterista, soprattutto in titoli più commerciali come «I dinamitardi» o «Il primo cavaliere», film diretto da Jerry Zucker e ispirato alla saga di Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda in cui aveva interpretato il ruolo del malvagio Malagant. Nel 2009 era tornato a recitare in un blockbuster «Star Trek», reboot del celebre telefilm di fantascienza filmato da J. J. Abrams, che gli aveva affidato il ruolo di Sarek, vulcaniano e padre di Spock, mentre la sua ultima. interpretazione sul grande schermo risale a due anni fa: «Hurricane - Allerta uragano» di Rob Cohen.
   
(Corriere della Sera, 20 agosto 2020)


"L'accordo tra Israele e gli Emirati sarà un'opportunità anche per i palestinesi"

Parla Abdulaziz Alkhamis, giornalista saudita di Sky News, che vive tra Londra e Abu Dhabi. "E' una situazione davvero unica nel mondo arabo. La gente qui ha fiducia nelle scelte del governo e quindi crede che sia una decisione che porterà vantaggi per la nazione, la sicurezza, la cooperazione economica e la stabilità regionale".

di Sharon Nizza

Abdulaziz Alkhamis
GERUSALEMME - L'annuncio di giovedì scorso sulla normalizzazione delle relazioni tra Emirati Arabi Uniti e Israele ha innescato una reazione a catena che sta ribaltando l'assetto mediorientale come lo conoscevamo finora. In quattro giorni: i rispettivi ministri degli Esteri hanno inaugurato, con una prima telefonata ufficiale, la linea di telecomunicazione diretta; Abu Dhabi ha incassato il sostegno pubblico di Bahrein, Oman, Egitto, Giordania, Mauritania; Muscat si è spinta oltre e ieri si è tenuta una telefonata tra i capi della diplomazia auspicando il "rafforzamento delle relazioni tra Israele e Oman"; il capo del Mossad è atterrato ieri ad Abu Dhabi per avviare le trattative sulla formalizzazione delle relazioni diplomatiche, mentre il premier Benjamin Netanyahu, in un'intervista a una Tv locale, dichiarava che "la priorità di Israele è la pace con i Paesi arabi e non l'annessione"; sono stati annunciati imminenti voli diretti - una tratta di 3 ore che sorvolerà lo spazio aereo saudita - e una quantità di partnership, economiche e scientifiche, tra cui la sigla degli accordi tra l'APEX emiratina e TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, tra la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'ingresso nel mercato emiratino dell'israeliana Bo&Bo Ltd con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. Infine, il cantante più popolare d'Israele, Omer Adam, è stato invitato ad esibirsi nel Paese da un esponente della casa reale e l'account Facebook in arabo del ministero degli Esteri israeliano ha aggiunto migliaia di like agli oltre 2 milioni già esistenti.
  E' chiaro che non si tratta di opportunità nate nel corso di una notte, ma dell'emersione dalla penombra di una lunga serie di relazioni che andavano avanti in un modo o nell'altro dall'avvio del processo di Oslo negli anni '90. Come fa notare l'editorialista di Haaretz Anshel Pfeffer: "Tutto ciò è molto diverso da quanto accaduto dopo la firma degli accordi di pace con l'Egitto e la Giordania, che non sono stati seguiti da questo festival dell'amore alla luce del sole".
  Abdulaziz Alkhamis, giornalista saudita di Sky News in arabo, che vive tra Londra e gli Emirati, in una videochat da Abu Dhabi ci racconta il sentimento della popolazione locale: "E' una situazione davvero unica nel mondo arabo. La gente qui ha fiducia nelle scelte del governo e quindi crede che sia una decisione che porterà vantaggi per la nazione, la sicurezza, la cooperazione economica e la stabilità regionale. La motivazione di questo accordo non è solo politica, ma in buona parte dettata da interessi economici e scientifici. La nuova leadership con lo sceicco Mohammed bin Zayed (Mbz), che punta moltissimo sull'innovazione e guarda all'era post-greggio, ha capito che era necessario un cambiamento. Ha puntato sull'educazione: la Sorbona, la NYU hanno una sede qui. Qui guardano al futuro, puntano a essere una delle economie più avanzate del mondo.
  E Israele è vista come un modello in questo senso".

- Com'è vissuta la reazione palestinese che ha parlato di "tradimento"?
  "Se vai sul mio account Twitter (270 mila follower, ndr), la maggior parte dei commenti sono positivi. Sempre più persone realizzano che sono state per decenni avverse a Israele senza una vera ragione. O meglio, la ragione erano i palestinesi, ma la gente ha cominciato a chiedersi perché loro avessero potuto avviare una cooperazione con Israele dopo il processo di Oslo e invece gli altri Stati arabi dovessero rimanere ostaggio del rifiuto. I Paesi del Golfo hanno sempre aiutato i palestinesi e sempre sosterranno il popolo palestinese. Quando eravamo bambini una volta a settimana in classe facevamo la colletta per il popolo palestinese, 1 riyal a settimana a bambino. Ma ormai c'è una enorme delusione verso la leadership corrotta. Chiedi a chiunque nel mondo arabo un giudizio su Abu Mazen e su Hamas, la pensano tutti così. Per non parlare del fatto che per via del legame con il Qatar, i media palestinesi e Al Jazeera, dove un 40% dei giornalisti sono palestinesi, da anni usano le loro piattaforme per attaccare i Paesi del Golfo, l'Arabia Saudita. Anche il loro atteggiamento ha spinto gli EAU verso questo accordo".

- Come ha reagito la comunità palestinese negli Emirati?
  "I palestinesi qui sono circa 200 mila, hanno un buon stile di vita, ottime posizioni lavorative, benessere. La maggior parte delle persone che conosco non vogliono di certo perdere i propri vantaggi, sacrificarsi per una leadership corrotta. Un collega palestinese mi ha detto: "è interessante vedere a cosa porterà tutto ciò". Io penso che questa sia un'opportunità anche per i palestinesi stessi, nell'immediato anche solo per le opportunità di business e per il turismo".

- Il Mufti di Gerusalemme ha già detto che agli emiratini sarà vietato pregare nella Moschea di Al Aqsa, anche se le decisioni su quanto avviene sulla Spianata spettano al Waqf giordano...
  "Qui la gente a breve viaggerà per Gerusalemme, Nablus, Hebron. Sai quanto lavoro porteranno? Negozi, ristoranti, trasporti, guide turistiche... Poi in un momento di crisi economica come questo. Staremo a vedere."

- Com'è l'approccio verso gli ebrei e Israele nei Paesi del Golfo?
  "Se sei religioso o panarabista, probabilmente di base sarai anti-israeliano. C'è anche chi, come me, riesce a farsi una sua posizione senza indottrinamento. Io sono andato a studiare a Londra e all'università c'erano molti ebrei. E, certo, la differenza la fa l'interazione. Il problema finora è stato anche che la maggior parte degli arabi non ha avuto sufficiente contatto con ebrei o israeliani. I social media sono stati una svolta in questo senso, hanno aperto un mondo che un tempo era del tutto precluso. Oggi la maggior parte della gente sta cambiando le proprie posizioni. E di certo anche l'alleanza contro la minaccia iraniana ha giocato il suo ruolo in questo avvicinamento".

- La Turchia ha condannato duramente l'accordo e minacciato di ritirare l'ambasciatore da Abu Dhabi. Gli Emirati temono ripercussioni diplomatiche?
  "Che grandi ipocriti! Loro che intrattengono relazioni diplomatiche e rapporti commerciali e turistici con Israele da decenni! La verità è che hanno paura che faremo concorrenza a Istanbul, che oggi rappresenta l'hub più importante per gli israeliani in transito verso l'Asia. Anche gli iraniani hanno minacciato, ma non avranno il coraggio di fare nulla".

- Jared Kushner ha detto che è "inevitabile" che anche l'Arabia Saudita normalizzi le relazioni con Gerusalemme. Ma Riad non si è ancora espressa e c'è chi dice potrebbe essere disturbata dal fatto che gli Emirati stanno sfidando il suo ruolo di potenza regionale.
  "Chi conosce quest'area sa che l'Arabia Saudita e EAU hanno un rapporto molto stretto e quotidiano. Tutti sanno che Abu Dhabi si è mossa nella consapevolezza di Riad. Nel passato, se i sauditi volevano qualcosa da Israele, passavano per la mediazione americana. Ma il futuro della presenza americana nel Medioriente è incerto: qui c'è anche una volontà congiunta di creare un nuovo canale di comunicazione diretto, locale. Va tenuto in considerazione poi che l'Arabia Saudita è il centro del mondo musulmano sunnita per la presenza di Mecca e Medina, quindi c'è maggiore sensibilità. Mi aspetto che i sauditi si esprimano prossimamente, per ora stanno osservando e studiando la nuova situazione."

(la Repubblica, 18 agosto 2020)


Medio Oriente: l'accordo Israele-Emirati e il ruolo dell'Europa

di Giampiero Massolo

 
Un successo diplomatico come l'accordo tra Israele e Emirati non nasce all'improvviso. Necessita di un obiettivo strategico e di un lungo lavoro di preparazione. Va dato atto all'Amministrazione Trump di aver perseguito entrambi fin dal primo viaggio all'estero del Presidente, nel maggio 2017, guarda caso in Arabia Saudita.
  Quella missione segnò plasticamente il ritorno di Washington alle tradizionali alleanze con Israele e gli Stati sunniti, decretò la fine del tentativo di Barack Obama di recuperare Teheran attraverso l'accordo sul nucleare che tanta contrarietà in quei tradizionali alleati aveva suscitato, spostò la priorità strategica nella regione mediorientale dalla soluzione del conflitto israelo-palestinese al respingimento delle ambizioni espansionistiche iraniane. Queste le premesse dell'intenso lavorìo diplomatico che seguì e che portò nel maggio 2018 all'uscita americana dall'intesa nucleare e alla formulazione nel gennaio scorso di un piano di pace che sostanzialmente va incontro alle richieste israeliane in cambio di sostanziosi aiuti economici ai palestinesi. E oggi all'annuncio della normalizzazione dei rapporti israelo-emiratini.
  Il cambio di paradigma innestato dagli Stati Uniti è stato di certo determinante. Ha peraltro fatto da cornice a dinamiche in atto già da qualche tempo. Intanto, una oggettiva 'fatigue' nel mondo arabo e più in generale nella comunità internazionale per una causa palestinese apparentemente senza soluzione e, più concretamente, per un governo palestinese percepito come inefficiente e corrotto (e ora l'impegno israeliano di sospendere le annessioni in Cisgiordania va poco oltre il minimo sindacale). Poi, il relativo indebolimento iraniano - dopo una fase molto assertiva - per effetto dei bassi prezzi del petrolio e dei regimi sanzionatori, che ha rallentato i finanziamenti ai proxies di Teheran e reso meno probabili reazioni significative (come si è visto anche dopo l'uccisione senza ritorsioni del generale Soleimani nel gennaio scorso). Infine, la cointeressenza strategica a contrastare, oltre l'Iran, anche le ambizioni espansive, energetiche e geopolitiche, della Turchia, che si innestano a loro volta sui conflitti tra paesi sunniti (con l'Egitto, gli Emirati, l'Arabia Saudita e, sul versante opposto, il Qatar), fino a intersecare i conflitti regionali (Libia, Siria, Libano, Balcani orientali) e a coinvolgere il grande gioco tra Washington e Mosca (quest'ultima pronta a sfruttare a proprio vantaggio ogni disattenzione americana). Un segnale statunitense prima o poi non poteva mancare.
  La possibilità di importanti e lucrose partnerships economiche, finanziarie e soprattutto tecnologiche (non solo nel campo delle cybersicurezza) ha fatto il resto nel caso di Israele e Emirati. I loro contatti, a livello riservato, erano del resto in corso da tempo.
  Siamo dunque di fronte ad un cambio di prospettiva. Lecito chiedersi, tuttavia, se si tratti di un mutamento strutturale e se altri paesi arabi seguiranno le orme emiratine. Quest'ultimo aspetto, in particolare, pare abbastanza plausibile. Il Presidente Trump ne ha fatto già cenno. La logica che ha portato agli sviluppi odierni pare avvalorarlo. Forse non da subito, ma dinamiche analoghe potrebbero riguardare intanto l'Oman e il Bahrain. Con maggiore difficoltà, l'Arabia Saudita, per i difficili equilibri interni tra il principe ereditario Mohammed bin Salman e i circoli più conservatori e ortodossi del Regno, il cui sovrano è pur sempre ancora il custode delle sacre moschee, cuore dell'Islam.
  La possibilità di un riassetto strutturale esiste e sarebbe difficile negare a Donald Trump di averne creato i presupposti. Lo ha ben compreso anche Joe Biden, sollecito nell'approvare pubblicamente quanto accaduto e probabilmente in difficoltà a reinvertire radicalmente il corso con l'Iran o a sposare senza riserve la politica neo-ottomana di Erdogan. La cautela comunque si impone: sia per l'imprevedibilità delle iniziative iraniane e turche a più lungo termine, sia perché in prospettiva un accomodamento del conflitto israelo-palestinese andrà pur trovato e quanto sta succedendo non avvicina certamente la prospettiva dei due Stati, sia infine perché anche in Medio Oriente alla fine la 'piazza' conta ed è sempre meno il tempo di decisioni verticistiche senza qualche forma di consenso popolare.
  E l'Europa? Assente, al di là di sporadiche e spettacolari missioni diplomatiche. Non può fare molto, prigioniera com'è di una perdurante crisi di identità in politica estera e di sicurezza. Se però non vogliamo abbandonare il Mediterraneo, faremmo bene come Unione ad assumerci qualche responsabilità. Possiamo farlo dialogando con le parti in causa nei conflitti per evitare che le situazioni di tensione degenerino; ricorrendo alla moral suasion, alle politiche di cooperazione come alla forza delle nostre aziende, facendo leva sui nostri contingenti militari di interposizione (come Unifil in Libano). Riacquisendo un ruolo potremmo poi cercare di provocare un impegno più coordinato anche di Washington.
  E anche gli assetti regionali, forse, sarebbero meno sbilanciati.

(ISPI, 18 agosto 2020)


Dopo gli Emirati Arabi, il Marocco normalizzerà i rapporti con Israele?

Il Marocco sarà probabilmente uno dei prossimi stati arabi a normalizzare i rapporti diplomatici con Israele a seguito dell'accordo mediato dagli Stati Uniti tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele per stabilire relazioni, secondo un rapporto israeliano di venerdì. Lo riporta The Times of Israel.
  Citando funzionari statunitensi anonimi, l'emittente pubblica Kan ha affermato che il Marocco è stato visto come un probabile candidato poiché ha già legami turistici e commerciali con Israele. Il rapporto cita anche la protezione del paese nordafricano della sua piccola comunità ebraica.
  Stabilire legami diplomatici formali con Israele potrebbe anche migliorare le relazioni del Marocco con gli Stati Uniti. Il rapporto afferma che in cambio di ciò, Rabat sta cercando il riconoscimento americano della sua sovranità sul territorio conteso del Sahara occidentale. Il Marocco ha occupato ampie fasce del Sahara occidentale nel 1975 quando la Spagna si è ritirata dall'area e in seguito ha annesso i territori con una mossa non riconosciuta a livello internazionale.
  Secondo un rapporto di febbraio di Channel 13, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha cercato di organizzare un tale accordo a tre vie e ha fatto aperture a Washington per promuovere l'accordo, ma l'amministrazione Trump non l'ha ancora autorizzato.
  Il Marocco è considerato un alleato degli Stati Uniti e ha a lungo mantenuto legami informali ma stretti di intelligence con Israele.
  Sebbene i paesi non abbiano relazioni formali, il Marocco ha ospitato leader israeliani e gli israeliani vi possono recare in visita. Circa 3.000 ebrei vivono in Marocco, una frazione del numero di prima della creazione di Israele nel 1948, ma è ancora la più grande comunità del mondo arabo.

 Non solo il Marocco
  Oltre al Marocco, anche il Bahrain e l'Oman sono state nominate come nazioni che potrebbero seguire gli Emirati Arabi Uniti nello stabilire relazioni con Israele. Entrambi i paesi hanno elogiato l'annuncio che Gerusalemme e Abu Dhabi avrebbero normalizzato i legami.
  Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il loro accordo giovedì pomeriggio. Hanno "accettato la piena normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti", hanno detto in una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti rilasciata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
  L'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele segna il terzo accordo di questo tipo che lo stato ebraico ha concluso con un paese arabo dopo l'Egitto (1979) e la Giordania (1994).
  Le delegazioni israeliana e degli Emirati Arabi Uniti si incontreranno nelle prossime settimane per firmare accordi bilaterali in materia di investimenti, turismo, voli diretti, sicurezza e istituzione di ambasciate reciproche, afferma la loro dichiarazione.
  Netanyahu ha detto giovedì sera che Israele è entrata in una "nuova era delle relazioni israeliane con il mondo arabo" e che sarebbero seguiti altri accordi con i paesi arabi. Jared Kushner, genero e consigliere senior di Trump, ha detto che più paesi arabi potrebbero presto annunciare legami normalizzati con Israele e venerdì ha detto che le relazioni tra lo Stato ebraico e l'Arabia Saudita erano inevitabili.

(Shalom, 18 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: i palestinesi boicottano Dubai 2020

In protesta contro la decisione di normalizzazione

I Palestinesi hanno deciso di boicottare l'Expo 2020 di Dubai, che per l'epidemia Covid si terrà ad ottobre 2021, a causa dell'Accordo tra Israele e gli Emirati Arabi. Lo ha annunciato il premier dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mohammad Shtayyeh. "Per protesta contro la decisione di normalizzare le relazioni con Israele, potenza occupante, il governo - ha scritto su twitter Shtayyeh - ha deciso di cancellare la partecipazione palestinese a Dubai 2020 programmata ad ottobre 2021".

(ANSAmed, 18 agosto 2020)


Intesa tra Israele e Italia per combattere il Covid-19

di Bruno Russo

 
Marco Carrai, Console Onorario di Israele
Prende il via la collaborazione per lo sviluppo di una cura al Covid-19 tra Italia e Israele. Il direttore generale dell'Israel Institute for Biological Research (Iibr), professore Shmuel Shapira, il direttore generale dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze, dottor Rocco Damone, e il presidente della Fondazione Toscana Life Science (Tls), ingegnere Fabrizio Landi, hanno sottoscritto oggi un importante protocollo finalizzato alla ricerca di una cura per il virus. Sulla base dell'intesa, il policlinico di Careggi e la Fondazione Tls implementeranno insieme all'Istituto Israeliano di Ricerca Biologica (Iibr), uno dei centri di eccellenza mondiali nel campo della ricerca biologica e fautore di un rivoluzionario sviluppo scientifico per la cura al Covid-19, studi sierologici su campioni di plasma di persone colpite e guarite dal virus, al fine di mettere a punto una terapia efficace basata sulla individuazione e clonazione di anticorpi monoclonali, come trasmesso dal Magazine 'Shalom'.
   L'accordo tra gli istituti di così elevato rilievo nel panorama mondiale, si propone di fornire un contributo potenzialmente decisivo alle possibilità di guarigione dei malati da Covid-19. "L'Ambasciata di Israele in Italia - dichiara l'ambasciatore Dror Eydar - ha avviato questa cooperazione scientifica nello spirito di collaborazione ed amicizia con la nostra amata Italia, al fine di superare la crisi del coronavirus che tanta sofferenza ha arrecato. Con nostra grande gioia, la cooperazione sta ora acquisendo concretezza, e potrà contribuire a salvare vite umane e ad essere di giovamento ai due paesi e a tutta l'umanità, nel far fronte a questa epidemia e ad eventuali futuri focolai. Ringrazio il presidente del Consiglio Conte, che ha risposto alla richiesta del primo ministro Netanyahu, e ha contribuito a realizzare questo momento".
   L'Ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, ha sottolineato che "l'accordo odierno tra istituti di primissimo livello dei due Paesi è frutto di una collaborazione avviata durante un colloquio telefonico tra il presidente del Consiglio Conte e il primo ministro Netanyahu e costituisce la punta di diamante di una vasta rete di contatti tra le due comunità scientifiche che sin dai primi giorni della pandemia abbiamo attivato. Questo dinamismo tra le nostre eccellenze scientifiche rappresenta il risultato di una politica di cooperazione ultra-decennale che ha consentito, grazie a un rilevante accordo bilaterale, di creare e rafforzare tra Italia e Israele un tessuto di rapporti scientifici, accademici e tecnologici di grandissimo livello.
   La collaborazione nel settore scientifico si conferma quindi al centro delle relazioni bilaterali fra Italia e Israele anche in tempo di coronavirus". Il Console Onorario di Israele Marco Carrai, tra i primi ad aver promosso l'accordo e ad aver lavorato affinché questo traguardo potesse essere raggiunto, esprime in merito la propria soddisfazione: "Sono estremamente onorato di aver contribuito al raggiungimento di un accordo tra due prestigiose realtà mondiali del calibro dell'Iibr e dell'Aou Careggi. Sono altresì convinto che, grazie alla competenza e alla professionalità maturata nel settore, il lavoro coordinato dei due Istituti possa rappresentare un passaggio fondamentale e decisivo nella lotta alla diffusione del Covid.

(il denaro, 17 agosto 2020)


Pompeo conferma l'urgenza della de-escalation nel Mediterraneo orientale

Gli Stati Uniti continuano il forcing diplomatico su Grecia e Turchia per evitare che la crisi nell'East Med diventi un punto di debolezza che agevola le penetrazioni degli attori rivali, come Russia e Cina.

di Ferruccio Michelin

Qualora ce ne fosse reale bisogno, gli Stati Uniti confermano l'alto livello di coinvolgimento nella ricerca di stabilità nel Mediterraneo orientale - quadrante caldissimo in cui si dipanano dinamiche geopolitiche tra vari paesi, su tutti Grecia (e Cipro) e Turchia, ma ne sono coinvolti l'Egitto come la Francia, così tanto quanto Israele e gli attori del Golfo. Una condizione delicata che si è innescata tra alleati Nato, Grecia e Turchia arrivati a un centimetro dalla collisione militare, che potenze rivali come Cina e Russia vedono come debolezza. Il rischio che possa essere sfruttata da Mosca e Pechino rende la stabilizzazione e il dialogo un'urgenza per gli Stati Uniti.
  Nei giorni scorsi, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha incontrato il ministro degli Esteri turco, Mevlüt ÇavuÅŸoÄŸlu, per parlare di come disinnescare la bomba mediterranea, con la "riduzione delle tensioni" che dal readout dell'incontro offerto dal dipartimento di Stato viene definita "urgent". L'incontro è avvenuto a Santo Domingo, dove i due si sono riservati uno spazio per la discussione straordinaria durante la cerimonia di inaugurazione del presidente eletto Luis Abinader. Washington muove la propria diplomazia su entrambe le sponde. Nei giorni scorsi sempre Pompeo aveva visto il ministro degli Esteri greco, Nikos Dendias, incontrato a Vienna nell'ambito di un viaggio in Europa centrale dove le penetrazioni russo-cinesi sono state in cima all'agenda del capo della diplomazia americana.
  Meeting piuttosto simbolici che spiegano come gli Usa non scelgano un lato della contesa e quanto abbiano interesse nell'evitare che il bacino mediterraneo diventi una debolezza interno all'alleanza. Anche perché la grand strategy statunitense, che si muove a cavallo della macro-regione Middle East and North Africa, non può permettersi falle in un momento in cui le azioni di attori competitivi di susseguono. Secondo fonti informate, Turchia e Grecia starebbero per avviare (già in questi giorni) contatti diplomatici attraverso funzionari secondari, secondo una necessità di de-escalation che è arrivata da Washington tanto quanto da Bruxelles - sia lato Nato che Unione europea (con distinguo: la Francia ha cercato un'azione unilaterale, mentre gli altri europei con la Germania e l'Italia in testa hanno cercato di lavorare compatti, allineati con gli Usa e col quadro dell'Alleanza Atlantica).

(Formiche.net, 17 agosto 2020)


Israele mette in dubbio l'efficacia della missione Unifil

Israele ha denunciato di fronte all'Onu un'infiltrazione di miliziani di Hezbollah nel proprio territorio e ha affermato che la prosecuzione della missione Unifil delle Nazioni Unite andrebbe discussa, se non è in grado di prevenire episodi simili. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu sta discutendo proprio in questi giorni la proroga della missione, che scade il prossimo 31 agosto.
"Il ruolo dell'Unifil è impedire questo tipo di operazioni e impedire che Hezbollah trasformi il Sud del Libano nel suo quartier generale terrorista", si legge in una nota di Gilad Erdan, ambasciatore israeliano all'Onu, "se l'Unifil non è in grado di compiere questa missione, allora la sua esistenza dovrebbe essere messa in dubbio".
La delegazione israeliana ha inviato al Consiglio di sicurezza fotografie che mostrerebbero i miliziani sciiti attraversare la cosiddetta "linea azzurra" tra i due Paesi monitorata dai caschi blu. Israele afferma che i miliziani sono poi stati respinti dalle loro forze.
La missione Unifil, istituita nel 1978 in seguito all'occupazione Israeliana di parte del Libano è stata rinnovata più volte, l'ultima delle quali nel 2006, in seguito alla guerra tra lo Stato ebraico ed Hezbollah. La forza di interposizione conta su circa 12 mila caschi blu.

(AGI, 17 agosto 2020)


La coalizione di Gantz all'oscuro dell'accordo tra Israele ed Emirati

GERUSALEMME - Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha tenuto all'oscuro i vertici della coalizione Blu e Bianco dai negoziati sull'accordo con gli Emirati Arabi Uniti per il timore di possibili fughe di notizie. "Ci lavoro da anni e (loro) sono qui solo da un paio di mesi", ha detto Netanyahu in un'intervista al quotidiano "Israel Hayom". "Le regole erano che avremmo mantenuto il riserbo per impedire all'Iran e altri di compromettere (l'intesa)", ha aggiunto il capo del governo. Sia il ministro della Difesa Benny Gantz che il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi - entrambi provenienti dalla fila di Blue Bianco - sono ex capi di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), abituati a trattare informazioni secretate. Il capo del governo ha tuttavia dichiarato di non potersi fidare dei nessuno dei due. "Avrebbero potuto parlarne con noncuranza alle persone vicine a loro e le informazioni avrebbero potuto uscire", ha detto il premier. Rispondendo a una domanda sulla collaborazione con Gantz, con cui è in vigore un accordo di governo per tre anni, Netanyahu ha detto che la coalizione reggerà se i partner si comporteranno correttamente. "Se non agiscono come un governo all'interno di un governo o come un'opposizione interna, la risposta è sì (il governo durerà)", ha detto Netanyahu. "Altrimenti, la coalizione si spezzerà da sola. Spero che non si spezzi ora. Abbiamo formato un governo per la lotta contro il coronavirus".

(Agenzia Nova, 17 agosto 2020)


Emirati Arabi: "inaccettabile" la reazione dell’Iran all'accordo con Israele

Il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha consegnato all'incaricato d'affari iraniano "una forte nota di protesta contro le minacce" contenute nel discorso del presidente iraniano Hassan Rohani sull'accordo tra Israele e gli Emirati Arabi. Rohani aveva definito l'intesa una "mossa pericolosa" e "un grave errore". Parole ritenute da Abu Dhabi "inaccettabili e provocatorie" con "gravi implicazioni per la stabilità nella regione del Golfo".

(TGCOM24, 17 agosto 2020)


Ecco come l'Onu può fermare Hezbollah e Iran

Russia e Cina potrebbero opporsi a un mandato Unifil più ampio come si sono già opposte al rinnovo dell'embargo sulle armi all'Iran. L'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, già ministro degli Esteri, spiega quali altre strade si possono (e devono) percorrere.

di Giulio Terzi di Sant'Agata

Il quadro generale delle offensive iraniane, sia dirette sia tramite proxy (in particolare Hezbollah) è diventato così ampio, evidente e preoccupante che nessuno stato membro delle Nazioni Unite — tranne lo stesso Iran e suoi sostenitori come Russia, Cina, Siria, Venezuela e Cuba — potrebbe opporsi a un mandato della missione Unifil più rigoroso e all'estensione dell'embargo sulle armi. A New York e tra l'amministrazione statunitense e i governi europei e mediorientali si è assistito a una intesa attività diplomatica. Ma Mosca e Pechino hanno continuato a opporsi ponendo il loro veto sull'embargo. Ma ci sarebbero altre strade che si possono seguire: passare per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite e/o iniziative regionali di natura politica, economica, di intelligence.
  Nonostante le ripercussioni politiche e militari delle due esplosioni di Beirut — che hanno messo in luce le responsabilità anche dell'Iran e di Hezbollah, che gestisce il porto della capitale libanese — i tentativi di Hezbollah di riaccendere le tensioni al confine con Israele sono tutt'altro che finiti. Pere esempio, l'esercito israeliano ha recentemente arrestato tre infiltrati dal Libano — apparentemente lavoratori sudanesi migranti — che attraversavano il confine tra Metulla e Misgav Am. Si tratta dell'ottavo caso di questo tipo dall'inizio di quest'anno. Il timore di Gerusalemme è che Hezbollah possa mettere alla prova la prontezza di Israele consentendo ai migranti sudanesi di attraversare il confine e raccogliere informazioni sui movimenti delle truppe israeliane grazie ad agenti travestiti da pastori.
  Il diritto di Israele e dei suoi cittadini di vivere in condizioni pacifiche e sicure deve essere considerato insieme alla strategia di terrore, destabilizzazione e aggressione che da tempo l'Iran sta portando avanti nel Medio Oriente, in particolare in Siria, Iraq, Libano, Yemen, in tutto il Golfo e oltre.
  Anche per questo non ci può essere alcun dubbio sul fatto che Hezbollah debba essere dichiarata nella sua interezza un'entità terroristica dalla comunità internazionale seguendo quanto fatto già da più di due dozzine di Stati e organizzazioni internazionali. Hezbollah, infatti, non è una forza militare indipendente: è uno strumento fondamentale per le ambizioni strategiche dell'Iran nel suo piano d'azione contro Israele a suon di missili e tunnel per aumentare la forza di deterrenza.
  Come il think tank internazionale United Against a Nuclear Iran ha osservato, "l'11 agosto ha segnato il quattordicesimo anniversario dell'adozione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite" che ha imposto la "cessazione immediata da parte di Hezbollah di tutti gli attacchi e la cessazione immediata da parte di Israele di tutte le operazioni militari offensive". Ma a oggi Hezbollah rimane armato e attivo nel Sud del Libano, dimostrando l'incapacità dello Stato libanese di frenare il "Partito di Dio".
  Infatti, in un nuovo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario generale Antonio Guterres sottolinea il fallimento di Beirut. Scrive: "Il mantenimento di armi non autorizzate al di fuori del controllo statale da parte di Hezbollah e di altri gruppi armati non statali rappresenta una persistente violazione della risoluzione 1701 (2006) ed è motivo di grave preoccupazione". Lamenta inoltre Unifil "deve ancora ottenere l'accesso a tutte le località a Nord della Linea Blu in relazione alla scoperta di tunnel che attraversano la Linea Blu in violazione della risoluzione 1701".
  La mancanza di conformità è un altro promemoria di come Hezbollah abbia paralizzato e dominato il Libano e la sua politica. Con le esplosioni al porto di Beirut la scorsa settimana e le dimissioni del governo in mezzo a una serie di crisi economiche e politiche in conflitto, il Partito di Dio continua a rimanere intoccabile.

(Formiche.net, 17 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: al via contatti telefonici diretti

Israele ha annunciato di avere stabilito chiamate dirette con gli Emirati Arabi Uniti in vista dei preparativi per la firma dell'intesa. Il presidente Rivlin invita a Gerusalemme il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed.

I giornalisti dell'Associated Press a Gerusalemme e Dubai sono stati in grado di chiamarsi da telefoni fissi e cellulari registrati con il prefisso israeliano +972 a partire dalle 13,15 circa. Israele ha annunciato che contatti telefonici diretti sono stati stabiliti oggi con gli Emirati Arabi Uniti, nel contesto dei preparativi per la firma di accordi di normalizzazione delle relazioni. In un comunicato stampa il ministro degli Esteri, Gaby Ashkenazi, ha reso noto di aver conversato al telefono con il suo omologo emiratino, lo sceicco Abdullah bin Zayed, e di aver concordato che presto si incontreranno.
   Un altro segnale della normalizzazione dei rapporti è l'invito rivolto dal presidente israeliano Reuven Rivlin al principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed (noto come Mbz) a recarsi in visita nel Paese. Come riporta il Times of Israel, Rivlin auspica che l'accordo "contribuisca a costruire e rafforzare la fiducia tra noi e i Paesi della regione" portando "prosperità" e "stabilità" in Medio Oriente.
   Congratulandosi con gli Emirati Arabi Uniti per la "rimozione dei blocchi", domenica il ministro delle comunicazioni israeliano Yoaz Handel ha dichiarato: "Molte opportunità economiche si apriranno ora, e questi passaggi di costruzione della fiducia sono un passo importante verso il progresso degli interessi degli Stati". Alcuni in Israele usavano telefoni cellulari palestinesi con numeri +970, per chiamare negli Emirati. Il collegamento del servizio telefonico rappresenta il primo segno concreto dell'accordo tra gli Emirati e gli israeliani.
   Lo storico accordo renderà gli Emirati Arabi Uniti il terzo Paese arabo, dopo l'Egitto e la Giordania, ad avere rapporti diplomatici pieni e attivi con Israele. Gli Emirati e Israele lo hanno annunciato in una dichiarazione congiunta, affermando che nelle prossime settimane sono previsti accordi tra i due Paesi in aree come il turismo, i voli diretti e le ambasciate. E insieme studieranno anche un vaccino per il Covid 19.
   Anche domenica, è stato possibile accedere ai siti web di notizie israeliani che erano stati precedentemente bloccati dalle autorità degli Emirati Arabi Uniti, come il Times of Israel, il Jerusalem Post e YNet. La mossa ha scatenato la rabbia tra alcuni che la vedono come un tradimento degli sforzi di lunga data per stabilire uno stato indipendente dei palestinesi. In Pakistan, domenica, centinaia di islamisti si sono radunati per denunciare l'accordo Emirati-Israele. Il partito Jamaat-e-Islami ha cantato slogan contro gli Stati Uniti e ha bruciato le effigi di Trump. Hanno anche dato fuoco alle bandiere americane e israeliane.
   L'accordo non è piaciuto a Iran e Turchia, rivali regionali degli Emirati Arabi Uniti. E neanche ai palestinesi che sono scesi in piazza bruciando bandiere americane e israeliane. Domenica, il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane ha definito la decisione degli Emirati Arabi Uniti un "disastro". Mohammad Hossein Bagheri ha esortato Abu Dhabi a "rivedere" la sua posizione. "Se un incidente accade nel Golfo Persico e viola la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell'Iran, anche un po', non lo tollereremo", ha detto Bagheri.

(la Repubblica, 17 agosto 2020)


Libano pronto a far la pace con Israele

Una svolta clamorosa. Dopo l'accordo Trump il presidente Aoun apre. Ma a certe condizioni.

di Chiara Clausi

Una dichiarazione bomba da parte del presidente libanese Michel Aoun rilasciata alla tv francese Bfm: il Libano è pronto alla pace con Israele. Però a precise condizioni: «Abbiamo ancora problemi e dobbiamo prima risolverli». Questa affermazione arriva dopo che Abu Dhabi e Tel Aviv hanno concordato di normalizzare le relazioni. La dichiarazione è ancora più scioccante perché il presidente per la sua ascesa ha beneficiato di un'alleanza di oltre dieci anni con Hezbollah, la forza militare più potente del Paese. Israele ha combattuto due guerre in Libano negli ultimi decenni e Hezbollah, il gruppo sciita finanziato dall'Iran, è profondamente radicato nel governo libanese. Lo stesso premier dimissionario Hassan Diab gli era molto vicino.
   Aoun invece alla domanda su cosa pensasse del trattato degli Emirati Arabi Uniti con Israele di giovedì scorso, ha risposto che gli Emirati «sono un Paese indipendente». Una posizione in contrasto con l'indignazione dei palestinesi per l'accordo e una presa di distanza dall'iniziativa di pace della Lega araba del 2002, che lega la normalizzazione con Israele a un ritiro completo dalla Cisgiordania e da Gaza.
   Questo accade in momento difficile per il Paese dei cedri. Molti hanno accusato Israele dell'attacco al porto di Beirut e Hezbollah per aver presumibilmente immagazzinato le sue armi lì. Anche il sottosegretario di Stato americano David Hale dal porto di Beirut ha dichiarato: «Qualunque cosa sia accaduta, non potremo mai tornare indietro a un'epoca in cui tutto va bene nei porti e ai confini del Libano». Ma sia Hezbollah che Israele hanno negato le voci di coinvolgimento israeliano. Hezbollah voce di Teheran nel Paese è la principale voce anti-israeliana nella regione oltre alla Turchia. Insieme, questi due paesi vogliono espandere la loro influenza nel Libano.
   Hezbollah sulla tragedia del 4 agosto ha avvertito che Israele «pagherebbe un prezzo uguale» se le indagini sull'esplosione del porto di Beirut rivelassero che Tel Aviv ha orchestrato un atto di sabotaggio. Ma ieri il patriarca maronita, Bechara Raì, in questo clima infiammato solcato da manifestazioni contro la classe politica, ha affermato che il popolo vuole un governo «per salvare il Libano» non «il potere». «Siamo noi la vera rivoluzione», ha invece insistito Gibran Bassil genero di Aoun, odiatissimo dal popolo e leader della Corrente patriottica libera, partito fondato dal presidente.

(il Giornale, 17 agosto 2020)


L'immobilismo nuoce ai palestinesi

Lettera al direttore di Repubblica

di Piero Fassino*

Caro direttore, all'annuncio dell'Accordo di Abramo - l'intesa tra Israele e Emirati Arabi Uniti - la leadership palestinese, dopo alcune ore di imbarazzato silenzio, ha scelto il rifiuto, denunciando il «tradimento» e invocando la reazione del mondo islamico. Una posizione nell'immediato scontata, ma che rischia di essere sterile: l'accordo c'è - e forse sarà seguito da altri analoghi - e l'appello al mondo islamico è già vanificato dal sostegno che all'accordo hanno dato l'Egitto e buona parte del mondo sunnita.
   Soprattutto anche i palestinesi non possono ignorare il radicale mutamento di scenario che ribalta di 180 gradi gli approcci fin qui perseguiti, a partire dal paradigma intorno a cui, dagli accordi Oslo ad oggi, si è cercata una soluzione al contenzioso israelo-palestinese. La risoluzione della questione palestinese non è più la condizione prioritaria per il riconoscimento di Israele da parte del mondo islamico, ma il suo contrario: il riconoscimento dello Stato ebraico da parte delle Nazioni islamiche - che lo hanno sempre negato - diventa condizione perché Gerusalemme accetti di negoziare una soluzione che soddisfi l'aspirazione palestinese ad avere un proprio Stato indipendente e sovrano. Uno degli ostacoli alla soluzione Due popoli/Due Stati, infatti, è sempre stato il timore israeliano che un accordo fondato solo sul rapporto bilaterale tra israeliani e palestinesi non desse certezza che il mondo islamico riconoscesse come irreversibile l'esistenza dello Stato di Israele. L'accordo di oggi - come i precedenti con Egitto e Giordania - va nella direzione di dare quella garanzia. Ne è la riprova che al riconoscimento di Israele da parte degli Emirati corrisponda la sospensione dell'annessione israeliana di parti della Cisgiordania.
   L'intesa rappresenta un successo per i suoi autori: Trump raccoglie il primo vero successo in politica estera; Netanyahu può vantare di aver rotto l'isolamento di Israele nella regione; l'emiro Mohammed bin Zayed conquista una posizione di leadership nel mondo sunnita. Viceversa l'intesa Israele-Emirati suscita in altri attori della regione allarmata reazione: Teheran vede crescere una strategia di suo accerchiamento; Ankara capisce che il suo disegno di egemonia neo-ottomana nel Mediterraneo incontrerà crescenti difficoltà; il mondo sciita percepisce il rafforzamento dello schieramento sunnita avverso; il radicalismo islamico annuncia reazioni bellicose. E per ora Mosca tace. Non tutto dunque è scritto di quel che potrà succedere, a partire dall'incidenza dei nuovi avvenimenti sulle tante crisi che, dallo Stretto di Hormuz a Gibilterra, scuotono la grande regione mediterranea-mediorientale. Ma è indubbio che gli scenari sono in movimento e ogni attore è chiamato a ridefinire le sue scelte. E questo vale in primo luogo per i palestinesi chiamati a scegliere: arroccarsi nel rifiuto dell'intesa, invocando una "protezione" del mondo Islamico, che troppe volte si è dimostrata formale o strumentale; oppure mettersi in gioco, strada non priva di rischi, ma l'unica per non essere marginalizzati e riproporre invece la ineludibilità di una soluzione della questione palestinese.
   Certo una scelta coraggiosa richiede una leadership in grado di uscire dagli schemi fin qui perseguiti, spezzando l'assenza di iniziativa che ha caratterizzato la dirigenza palestinese. Sarà in grado di farlo Abu Mazen, a cui non mancano saggezza e moderazione, ma che appare prigioniero dell'immobilismo in cui è impigliata l'Autorità Nazionale Palestinese? Può il nuovo scenario determinare qualche mutamento nella strategia di Hamas? O forse è solo una leadership nuova, non prigioniera del passato, che potrà riconquistare uno spazio alla causa palestinese? Gli eventi dei prossimi mesi si incaricheranno di rispondere a questi interrogativi. In ogni caso adesso tocca ai palestinesi muovere. Incoraggiarli e accompagnarli in scelte difficili, ma ineludibili, è il ruolo che oggi possono e devono giocare l'Unione Europea e i suoi Paesi, a partire dall'Italia.

* Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati

(la Repubblica, 17 agosto 2020)


"... Abu Mazen, a cui non mancano saggezza e moderazione...". Moderato Abu Mazen? Saggio Abu Mazen? Ma è saggio chi ritiene che Abu Mazen sia moderato e saggio?


II campione israeliano firma con l'Auschwitz

Rabbini e stampa si scagliano contro la scelta di Eliezer Sherbatov: «Traditore». Ma lui si smarca: «Per un ebreo essere qui è una vittoria»

di Alberto Pieri

Eliezer Sherbatov, 28 anni, israeliano cresciuto a Montreal
ROMA - E' scivoloso come il ghiaccio sul quale corre veloce il disco dell'hockey il passaggio, da una squadra all'altra, di Eliezer Sherbatov. II capitano della nazionale d'Israele di hockey su ghiaccio (n. 34 del ranking internazionale), Eliezer Sherbatov, 28 anni, israeliano nato a Rehovot, ha infatti firmato un contratto con la squadra della città polacca di Oswiecim. Apparentemente nulla di strano, anzi saremmo di fronte a una notizia destinata, forse tranne che in Israele e in Polonia, a finire nelle brevi delle pagine sportive. Eppure, Sherbatov ora viene additato come «traditore». II capitano della nazionale israeliana, infatti, dal prossimo campionato giocherà per l'Auschwitz, accostamento a dir poco infelice con Israele. In tedesco, ai tempi della seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista, Oswiecim si chiamava Auschwitz, luogo tristemente famoso dove i tedeschi avevano allestito il campo di concentramento in cui morirono un milione e centomila ebrei. Cosi ora Sherbatov in patria viene duramente criticato e definito «un traditore».
   «Lo so - replica lui -, ci sono tanti ebrei che mi considerano così perché ho firmato per l'Auschwitz, ma io rispondo che ciò che accadde quasi 80 anni fa non verrà mai dimenticato. Ed ecco perché io, adesso, voglio far vedere ai giovani del mio Paese che devono essere fieri delle loro origini e che ora tutto è possibile, anche che un ebreo giochi per la squadra di qui».
   Nel 2020 ricorre il 75° anniversario della liberazione dei prigionieri di Auschwitz da parte degli alleati, e per Sherbatov il modo migliore di sottolinearlo sarebbe «essere un giocatore chiave del team di Oswiecim e vincere il campionato, perché riuscirci giocando per questa squadra vorrebbe dire giocare non solo per me stesso ma anche per onorare la memoria di tutte le vittime di Auschwitz. È come dire «un ebreo è tornato qui, e ha vinto per voi». Nato vicino Tel Aviv, da una famiglia di ebrei russi, Sherbatov è cresciuto in Canada, a Montreal, dove gli è venuta la passione per l'hockey. Ora l'avventura in Polonia, decisione aspramente criticata dalla stampa d'Israele da alcuni rabbini. In sua difesa è invece intervenuto un posto sull'account Twitter dell'Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum in cui si dice che «la storia di Auschwitz mostra il pericolo degli stereotipi percepiti dagli altri...per fortuna Sherbatovl capisce meglio tutto ciò».

(Nazione-Carlino-Giorno, 17 agosto 2020)


Israele leva quarantena per chi arriva dall'Italia

Gli israeliani e gli stranieri con un permesso di ingresso provenienti dall'Italia e da alcuni altri Paesi, per lo più europei, da oggi non dovranno più fare la quarantena di 2 settimane al loro arrivo in Israele. Lo ha deciso il Comitato di governo per il Covid, su input del ministero della sanità, che ha elencato una serie di 'Paesi verdi' dai quali è possibile rientrare senza sottoporsi all'isolamento obbligatorio e nei quali - ha confermato l'Ambasciata italiana in Israele - è inserita l'Italia. Il provvedimento include anche Gran Bretagna, Slovenia, Nuova Zelanda, Georgia, Danimarca, Austria, Canada, Estonia, Ruanda, Finlandia, Lettonia, Hong Kong, Germania, Ungheria, Cipro, Grecia, Croazia e Bulgaria.

(ANSA, 17 agosto 2020)


Per la prima volta i caccia israeliani si addestreranno con la Luftwaffe in Germania

 
Gulfstream G550 IAF
L'aeronautica militare israeliana (Israeli Air Force) e quella tedesca (Luftwaffe) condurranno un'esercitazione bilaterale di addestramento in Germania a partire da oggi. Questa è la prima esercitazione congiunta tra l'IAF e l'aviazione tedesca ad aver luogo in Germania. Questa esercitazione è anche l'unico evento addestrativo internazionale all'estero che l'IAF sta conducendo quest'anno a causa della diffusione del COVID-19. L'esercitazione "Blue Wings 2020" segna un'altra pietra miliare nella cooperazione militare sempre più stretta tra i due paesi.
   L'aeronautica militare tedesca ha già partecipato due volte all'esercitazione multinazionale israeliana "Blue Wings", l'ultima volta nel novembre 2019, ma sempre in Israele. Inoltre, le due forze aeree lavorano a stretto contatto da anni come parte dell'addestramento del drone Heron.
   Secondo una dichiarazione dell'IAF, l'esercitazione si terrà per continuare a migliorare le capacità dell'IAF, per mantenere la sua disponibilità ad affrontare diversi scenari operativi e per continuare a rafforzare i suoi legami e la cooperazione con le forze aeree alleate.
   "La IAF parteciperà all'esercitazione per la prima volta come ospiti della Germania", ha detto il tenente colonnello A, comandante del 105th Squadron ("Scorpion"), che opera con aerei F-16 "Barak" (F-16C/D) e capo del team di spiegamento dell'IAF. "Questa è un'opportunità per mostrare le nostre capacità e conoscere la tecnica di volo e di addestramento della NATO".
   Come parte dell'esercitazione, sei caccia F-16C/D Fighting Falcon "Barak", due Boeing 707 "Re'em" aerei da rifornimento e da trasporto e due Gulfstream G550 "Nachshon-Eitam" arriveranno, a partire da oggi lunedì 17 agosto, in Germania presso la base aerea di Nörvenich (Fliegerhorst Nörvenich) sede del Taktische Luftwaffengeschwader 31 "Boelcke" (Tactical Air Force Wing 31). Gli equipaggi si addestreranno per due settimane ed eserciteranno vari scenari aerei insieme ai paesi della NATO come parte del "MAG (Multinational Air Group) Days" - un evento internazionale che si svolge quattro volte all'anno.
   Durante l'esercitazione, le forze aeree israeliane saranno impegnate in combattimenti aerei, combattimenti terra-aria, gestendo minacce missilistiche terra-aria (SAM) e altri scenari di combattimento in territorio nemico. L'esercitazione è un'opportunità per addestrarsi ad affrontare un'ampia varietà di minacce utilizzando tecnologie avanzate e per eseguire un addestramento aereo di qualità in un'arena di combattimento sconosciuta.
   "Questo addestramento è molto efficace ed unico, poiché ci alleniamo in un ambiente e un territorio sconosciuti", ha descritto il tenente colonnello A. "Voleremo in un ambiente diverso da quello a cui siamo abituati in Israele, con piattaforme di volo e regole di volo diverse, i voli saranno effettuati utilizzando la dottrina di combattimento della NATO in contrasto con la nostra, che crea una sfida per il pilota e l'operatore dei sistemi d'arma nella cabina di pilotaggio", continua il tenente colonnello A.
   Martedì 18 agosto si svolgerà un sorvolo "Memory for the Future", un flyby congiunto, guidato da un Gulfstream G550 IAF con caccia F-16 e due jet Eurofighter tedeschi, che volerà vicino al campo di concentramento di Dachau, in memoria delle vittime dell'Olocausto e sopra l'aeroporto di Fürstenfeldbruck vicino a Monaco, in memoria degli 11 membri della delegazione olimpica israeliana uccisi nell'attacco terroristico delle Olimpiadi del 1972. Il comandante dell'Israeli Air Force, il maggiore generale Amikam Norkin guiderà il flyby nel Gulfstream G550 insieme al comandante dell'aeronautica militare tedesca, il tenente generale Ingo Gerhartz, e il primo comandante di squadriglia donna dell'IAF, comandante del 122nd Squadron ("Nachson "), tenente colonnello G.
   Dopo il sorvolo, si terrà una cerimonia commemorativa ufficiale nel campo di concentramento di Dachau. Alla cerimonia parteciperanno il ministro della Difesa federale tedesco Annegret Kramp Karrenbauer, l'ambasciatore israeliano in Germania Jeremy Issacharoff, i comandanti di entrambe le forze aeree e altri dignitari. Il vice comandante del 109th Squadron, il maggiore Y, nipote di un sopravvissuto all'Olocausto del campo di concentramento di Dachau, parlerà alla cerimonia. Inoltre, una lettura "Yizkor" sarà ascoltata dal rabbino Mendel Moraity. La cerimonia sarà trasmessa in diretta sulle piattaforme digitali IAF e IDF.
   Lo spiegamento è strategicamente significativo e influenza notevolmente le forze aeree israeliane, la difesa israeliana e l'intero stato di Israele. La cooperazione israelo-tedesca e l'arrivo di aerei israeliani sul suolo tedesco è un evento storico. L'IAF conduce e continuerà a condurre esercitazioni congiunte con altre forze aeree per mantenere la propria capacità e prontezza operativa, nonché per far progredire le relazioni e incoraggiare e rafforzare la cooperazione tra le forze. "A livello tattico, abbiamo l'incredibile opportunità di imparare da altre forze aeree e di addestrarci in un territorio sconosciuto e in condizioni difficili", ha concluso il tenente colonnello A. "Da un punto di vista strategico, stiamo rafforzando la nostra capacità di cooperare con altre nazioni e le forze aeree".

(Aviation Report, 17 agosto 2020)


Accordo Israele-Emirati: Beirut non esclude la possibilità di pace. Due razzi lanciati da Gaza

L'accordo di normalizzazione sta rimescolando tutte le carte nello scenario mediorientale. È già al vaglio la nomina del primo ambasciatore israeliano in uno Stato del Golfo: una delegazione si recherà nei prossimi giorni ad Abu Dhabi per avviare i colloqui sulla formalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Stati. Colpita Hamas. Ripresi scontri al confine

di Sharon Nizza

 
GERUSALEMME - L'annuncio giovedì dell'avvio di uno storico processo di normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele sta avendo un effetto domino: il canale 12 israeliano ha riportato ieri indiscrezioni secondo cui è questione di giorni perché anche il Bahrain si accodi agli Emirati nell'apertura verso lo Stato ebraico, come emerge da una serie di colloqui telefonici tra il capo del Mossad Yossi Cohen e il primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa.
  Venerdì Jared Kushner, genero e consigliere di Trump e uno degli artefici dell'avvicinamento dei Paesi del Golfo con Israele, in un'intervista alla Cnbc ha detto che crede sia "inevitabile" che anche l'Arabia Saudita normalizzi le relazioni con Gerusalemme. Ma il titolo più sorprendente l'ha fornito il Presidente libanese Michel Aoun, alleato di Hezbollah dal 2006. A una domanda della Tv BFM francese sull'eventualità che il Libano consideri la pace con Israele, ha risposto "dipende. Abbiamo problemi con Israele e dobbiamo risolverli prima". E sull'accordo di normalizzazione che sta rimescolando tutte le carte nello scenario mediorientale, si è limitato a dire che "gli Emirati Arabi Uniti sono uno Stato indipendente".
  Venerdì il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah si era unito a Turchia, Iran e Autorità palestinese nel condannare l'accordo che "tradisce l'Islam e il mondo arabo".

 Verso l'avvio dei colloqui
  Le dichiarazioni di giovedì si stanno trasformando in azioni in tempi record: mentre è già al vaglio la nomina del primo ambasciatore israeliano in uno Stato del Golfo, una delegazione guidata dal numero uno del Mossad Yossi Cohen e dal capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale Meir Ben Shabbat, si recherà nei prossimi giorni ad Abu Dhabi per avviare i colloqui sulla formalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Stati.
  Nei due giorni che sono trascorsi dall'annuncio epocale, è stato un susseguirsi di interviste con cittadini emiratini sulla stampa israeliana. Il corrispondente per il mondo arabo della Tv pubblica Kan11, Roi Kais, in meno di 48 ore era già a Dubai, il primo giornalista israeliano a trasmettere in ebraico di fronte all'iconico Burj Khalifa. Il canale 12 chiude un cerchio con l'intervista in prime time di Ohad Hemo a Dhahi Khalfan Tamim, il capo della polizia di Dubai che nel 2010 aveva ricostruito e svelato al mondo che c'era il Mossad dietro l'omicidio del leader di Hamas Mahmoud Al-Mabhouh, avvenuto in una stanza dell'Hotel Al Bustan della sua città. Persino lui non esita a dire che "è giunto il momento della pace".
  E poi le voci di blogger, direttori di hotel, mercanti dello souk pakistani e afghani - tra quei lavoratori stranieri che costituiscono l'80% della popolazione locale - che si dicono pronti ad accogliere i turisti israeliani.

 La frustrazione palestinese
  Il nuovo connubio israelo-emiratino va di pari passo con la crescente rabbia mista a frustrazione della leadership palestinese. Da 13 anni lacerata dalla divisione tra Cisgiordania governata da Fatah e Striscia di Gaza sotto Hamas, ha trovato una convergenza nella ferma condanna dell'accordo: il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) hanno avuto un raro colloquio telefonico per proclamare l'unità di intenti nel contrastare l'"Accordo di Abramo", definito "un tradimento di Gerusalemme, della Moschea di Al Aqsa e della causa palestinese".
  Nell'account Twitter ufficiale di Fatah, sotto l'hashtag "la normalizzazione è tradimento", è un susseguirsi di caricature che rappresentano "la pugnalata alle spalle degli Emirati", e di immagini dei presidi nelle città palestinesi con i ritratti dati alle fiamme del reggente emiratino, del presidente Usa e del premier israeliano. Abu Mazen ha chiesto la convocazione della Lega Araba per condannare gli Emirati, ma l'aperto sostegno all'accordo da parte di Paesi chiave come Egitto, Giordania, Bahrain, Oman, lascia presumere che, se anche si dovesse riunire, non verranno pronunciate dichiarazioni risolutive.

 La stampa saudita
  Sull'altro versante mediorientale, i quotidiani emiratini rilanciano la posizione ufficiale dei reggenti di Abu Dhabi. "È un patto per garantire la stabilità regionale" titola Al-Ittihad: abbiamo fermato la minaccia di annessione da parte israeliana e continuiamo a impegnarci per il raggiungimento della soluzione a due Stati. Anche la stampa saudita invia messaggi, rassicuranti quanto incalzanti, ai palestinesi. In un articolo sul quotidiano online Al-Khaleeg, l'analista Abd al-Aziz bin Razen scrive che sono "i grandi vincitori" di questo accordo che ha l'obiettivo di "proteggere i diritti del popolo palestinese, che Hamas ha spinto tra le braccia dell'Iran".
  Sullo stesso quotidiano saudita il ricercatore emiratino Salem al-Ketbi aggiunge: "gli Emirati stanno agendo negli interessi dei palestinesi e di tutta la regione, usando il proprio ruolo per neutralizzare l'escalation di violenza che sarebbe potuta scaturire da un'annessione israeliana di terre palestinesi". L'accordo con Israele invece "rimette in campo la possibilità di una soluzione politica e crea nuove opportunità per il processo di pace".
  I palestinesi non ci stanno. Hanno richiamato l'ambasciatore e invocano una ribellione popolare nel mondo arabo per scongiurare altre iniziative che violino il principio per cui "non può esserci normalizzazione con Israele senza il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67". Va aggiunto che i rapporti tra Anp ed Emirati erano in crisi già da tempo, anche per la presenza ad Abu Dhabi di Mahmoud Dahlan, ex capo di Fatah a Gaza e acerrimo rivale di Abu Mazen. Jibril Rajoub, Segretario Generale di Fatah e tra i papabili per la futura guida dell'Anp, sabato ha espulso Dahlan dal partito accusandolo di essere tra gli estensori della nuova alleanza con Israele.

 Razzi da Gaza
  Sul fronte di Gaza, continua l'escalation innescatasi già prima della notizia dell'accordo con gli Emirati. Per la quarta notte consecutiva, l'esercito israeliano ha bombardato postazioni militari di Hamas nella Striscia in risposta al continuo lancio di palloni incendiari ed esplosivi verso le cittadine di confine. La sirena si è fatta sentire nuovamente: un razzo da Gaza ha centrato una casa a Sderot facendo un ferito. In risposta il ministro della Difesa ha ordinato la chiusura dell'intera zona di pesca palestinese. Ieri sera, per la prima volta da mesi, centinaia di palestinesi si sono ammassati al confine con Israele lanciando cariche esplosive verso i soldati, che hanno aperto il fuoco e ferito tre persone.
  Una delegazione egiziana dovrebbe arrivare nella Striscia nei prossimi giorni per mediare una nuova tregua con Israele e il rinnovo dell'aiuto del Qatar - 30 milioni di dollari in contanti al mese per assistere la popolazione palestinese - che sta per scadere a settembre.

(la Repubblica, 16 agosto 2020)


Primi effetti dell'accordo di pace: un artista israeliano si esibirà a Dubai

Cantico delle salite, Salmo 121
Ulteriori segnali di normalizzazione nei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti in vista dell'accordo che i due Paesi si apprestano a mettere nero su bianco nelle prossime settimane.
  Per la prima volta in assoluto, un artista israeliano si esibirà a Dubai. Si tratta, come riportano i media, del 26enne cantante Omer Adam. L'invito è arrivato direttamente da Hamad Bin Khalifa Al Nahyan, un membro della famiglia reale. Il concerto potrebbe tenersi a ridosso della firma ufficiale del trattato. Adam è un artista molto noto, che nella sua musica fa incontrare melodie orientali e pop occidentale. Lo scorso giugno si era già rivolto alla leadership degli Emirati, in un video in cui esprimeva il proprio apprezzamento per la tutela dei diritti religiosi concessa alla piccola comunità ebraica residente nel Paese.
  Altro annuncio di oggi: fino a poche ore fa non erano possibili chiamate dirette tra i due Paesi. Da quest'oggi la situazione sembra essersi sbloccata. Anche alcuni siti israeliani da tempo censurati, riporta la Reuters, risulterebbero regolarmente accessibili. I due ministri degli Esteri, Gabi Ashkenazi e Abdullah bin Zayed Al Nahyan, hanno affermato di aver aperto "un canale diretto di comunicazione" e si sono trovati d'accordo sull'idea "di incontrarsi al più presto".
  Sorprendente l'apertura del presidente libanese, Michel Aoun, che in una intervista con la televisione francese non ha escluso l'ipotesi di un futuro negoziato con Israele: "È da vedere. Con Israele abbiamo dei problemi. Prima dobbiamo risolverli".
  Continua invece ad alzare la voce il regime di Teheran. E in particolare il presidente Hassan Rohani, che ha accusato gli Emirati di aver "tradito il proprio Paese, i musulmani e il mondo arabo solo perché un signore possa essere eletto a Washington". Rohani ha definito gli Emirati "un Paese musulmano che ha un popolo molto religioso e buono". A differenza dei suoi governanti, che a detta del leader iraniano sarebbero andati "nella direzione sbagliata". Minacciosi anche i Guardiani della Rivoluzione, i pasdaran al servizio dell'ayatollah, che in un comunicato hanno annunciato possibili conseguenze per il Paese del Golfo.
  Israele, in queste ore, fronteggia intanto una nuova insidia da Gaza. Razzi e palloni incendiari sono stati infatti lanciati dalla Striscia verso alcune località israeliane a ridosso del confine, costringendo migliaia di persone a rifugiarsi nei rifugi. L'aviazione, in risposta, ha colpito alcuni obiettivi strategici. La tensione resta alta.
  Tema predominante, sugli organi di informazione, è però l'accordo con Abu Dhabi. L'opinione pubblica si domanda in particolare quali possano essere i prossimi Paesi arabi a fare un passo simile. Dall'Arabia Saudita, che come Israele ha nell'Iran il proprio nemico numero uno, al Marocco, dove una comunità ebraica è da tempo sotto tutela governativa.
  Tra i possibili indiziati anche Bahrein, Oman e Qatar.

(moked, 16 agosto 2020)


Emirati e aziende israeliane firmano un "accordo commerciale" per la ricerca sul coronavirus

La compagnia degli Emirati, APEX National Investment, ha annunciato sabato la firma di un accordo commerciale strategico con TeraGroup con sede in Israele, dedicato allo sviluppo della ricerca sulla pandemia di coronavirus (COVID-19), secondo l'Agenzia di stampa ufficiale degli Emirati (WAM).
L'accordo è stato firmato durante una conferenza stampa tenuta da Khalifa Yousef Khouri, presidente di APEX National Investment, e Oren Sadiv, presidente e CEO di TeraGroup, presso la sede di Al Qudra Holding ad Abu Dhabi.
Alla firma hanno partecipato anche Ido Berniker, un rappresentante di First Capital Group, oltre a numerose figure di alto livello e funzionari delle due società, e rappresentanti dei media israeliani ed emiratini.
"Siamo lieti di questa collaborazione con TeraGroup, che è considerata la prima azienda a inaugurare il commercio, l'economia e partnership efficaci tra i settori imprenditoriali degli Emirati e d'Israele, a beneficio di servire l'umanità rafforzando la ricerca e gli studi sul Nuovo Coronavirus (COVID- 19)", ha detto Khouri.
Oren Sadiv di TeraGroup ha affermato che la sua società era "entusiasta" dell'accordo, sperando che raggiungerà gli obiettivi delineati "che a loro volta andranno a vantaggio di tutti economicamente, in particolare in queste circostanze eccezionali con la diffusione del Coronavirus (COVID-19) in giro il mondo".
Ido Berniker, un rappresentante della società finanziaria First Capital Group, ha ringraziato i due leader del settore e si è detto soddisfatto della firma dell'accordo.
"Presso la First Capital Group, siamo molto desiderosi di riunire società specializzate in ricerca e invenzioni per stabilire partnership commerciali e d'investimento con società degli Emirati, come APEX National Investment", ha affermato.
L'accordo mira a condurre e migliorare la ricerca sul nuovo coronavirus, nonché a sviluppare un dispositivo per il test del coronavirus che aiuterà ad accelerare il processo e fornirà test accurati ed efficaci in linea con gli standard internazionali.
L'accordo segue un annuncio fatto la scorsa settimana per concludere un accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele per stabilire legami diplomatici tra i due paesi.

(Sputnik Italia, 16 agosto 2020)


Emirati-Israele contro il nemico comune: l'Iran

L'accordo tra i due Paesi mette a posto la bilancia regionale contro Teheran. Col beneplacito americano, il ridimensionamento di Russia e Turchia, la "merce di scambio" palestinese. Analisi di una nuova partita a scacchi nel Vicino Oriente.

di Raffaele Crocco

E' una enorme partita a scacchi, questa. Con tanti giocatori attorno alla scacchiera, giocatori che però sono anche pedine. L'accordo di pace fra Israele ed Emirati Arabi Uniti arriva davvero esattamente quando doveva arrivare. La cosa più sorprendente, in fondo, è proprio questa. Quell'accordo serviva a molti e che sia reale o di facciata poco importa: oggi è lo strumento indispensabile per tentare di mettere all'angolo l'Iran nel Vicino Oriente, per abbassare le pretese neo-imperiali della Turchia e per ridare un minimo di fiato alla stanca superpotenza Usa. E che arrivi pochi giorni dopo il disastro in Libano, con il porto di Beirut distrutto, non è casuale. Vediamo:
  1. Israele e Emirati Arabi hanno almeno un interesse comune: neutralizzare l'Iran. Per Israele, Teheran è l'unico avversario militarmente e culturalmente pericoloso dell'area. In più, esercita un'influenza forte e autorevole sulle politiche libanesi, finanziando Hezbollah, partito-esercito al governo a Beirut. L'alleanza con l'islam sunnita degli Emirati è quindi funzionale: per gli emiri, gli sciiti iraniani devono essere ricacciati ed eliminati ovunque si trovino. Quindi, il nemico è comune. Non dimentichiamo che Tel Aviv aveva provato ad avvicinarsi all'Arabia Saudita con le stesse motivazioni nei recenti anni di lotta al Califfato.
  2. L'alleanza è, per le stesse ragioni, funzionale agli Stati Uniti. L'Iran è da sempre il nemico, anche perché alleato della Russia, che con l'islam sciita lavora da sempre. La presenza di Mosca - presenza militare - nel Vicino Oriente per le vicende siriane allarma Washington, che invece nell'area non ha più grande appeal. Un'alleanza israeliano-sunnita in chiave anti Iran a Trump piace molto. Ed è divertente che venga usata la formula "accordo di pace" per ristabilire in realtà un'egemonia di tipo militare.
  3. Un accordo di questo genere, mette gli Stati Uniti abbastanza al sicuro nelle relazioni con il mondo islamico sunnita. Questo, taglia fuori la Turchia, per decenni garante pressoché unica - in qualità di alleato Nato - dei rapporti con l'islam soprattutto sunnita. La scelta dei tempi non è casuale: Ankara, con il presidente Erdogan, sta rispolverando i fasti imperiali, portando i militari in Siria e Libia, contendendo gli idrocarburi alla Grecia al largo di Cipro e investendo denari in finanziamenti ai Paesi islamici del Balcani e dell'Asia Centrale. Per farlo, flirta con la Russia di Putin, sapendo che non potrà durare per conflitto d'interessi. Una media potenza di questo genere nel Mediterraneo non piace e non serve a Washington, non piace e non serve all'Unione Europea. Rinsaldare i rapporti con il mondo arabo tramite Israele è funzionale.
  4. E' stupefacente quello che accade ai palestinesi, che non a caso sono furiosi. Una volta in più, sono stati usati come "moneta di scambio" per fare accordi altrove. Gli Emirati giurano che hanno inserito nell'intesa con Tel Aviv il fatto della rinuncia di quest'ultima alla sovranità nella West Bank. La realtà è che il governo israeliano non sarebbe mai riuscito a far passare, sulla piazza internazionale, l'annientamento o lo sgombero della Palestina dai palestinesi per farne terra israeliana. Quindi, molto più pratico fare un accordo che non costa nulla, ma suona tanto bene. Di fatto, gli Emirati si fanno garanti della situazione esistente, lontanissima da ogni possibilità di Stato palestinese entro questa generazione. Evidenti le ragioni della rabbia palestinese.
  5. E' affascinante che, misteriosamente, gli Emirati Arabi abbiano giusto all'inizio di agosto attivato la Barakah, letteralmente "benedizione divina", una centrale nucleare formata da 4 reattori da 1.400 MW di potenza l'uno. La centrale dovrebbe contribuire a soddisfare le enormi esigenze energetiche delle città emiratine, come Dubai o Abu Dhabi. Gli scopi, dicono gli sceicchi, sono solo commerciali, ma la riconversione militare dell'impianto, sottolineano gli esperti, sarebbe rapidissima. Bene: nessuno ha protestato. Nessuno ha gridato "al pericolo" per la possibile nascita di una nuova potenza nucleare. Gli impianti iraniani, giusto per citare un caso, sono stati radiografati mille volte, sono stati e sono oggetto di trattative, colloqui, accordi e disaccordi internazionali. La centrale degli Emirati no. Giusto mentre l'accordo con Israele - potenza atomica, ricordiamolo - veniva siglato.
  6. Visto tutto questo, l'esplosione di Beirut, al netto della tragedia per i troppi morti e feriti, è stata quanto mai opportuna. Il Paese è in ginocchio, senza governo e senza futuro. L'economia praticamente non esiste e gli attori - tutti - sono in crisi. Lo è anche Hezbollah, la lunga mano iraniana nella Regione. Ora la gara sarà a chi potrà aiutare il Paese a risollevarsi, guadagnandosi la gratitudine e la riconoscenza dei libanesi. Certo è, che il quadro di potere e forze in campo preesistente è morto. E Israele ha iniziato subito a giocare le proprie carte, offrendo aiuti consistenti.
Questo il quadro, questi gli attori in campo e in azione. Cambierà qualcosa nel Vicino Oriente? Sì, certo, è sicuro. Meno certo è che il cambio sia in meglio. Meno probabile è che davvero venga avviato un meccanismo di pace. Meno sicuro è che i Palestinesi migliorino la loro condizione. Insomma, è tutto da scoprire. Esattamente come in una lunga partita a scacchi.

(Atlante Guerre, 16 agosto 2020)


Federico II e gli ebrei

Breve storia dell'imperatore che discuteva il Talmud

di Giorgio Berruto

 
Jesi - Monumento a Federico II
Di pochi personaggi del passato si può dire che abbiano diviso e contrapposto gli animi, costringendo le persone a schierarsi, come di Federico II, imperatore tedesco e re di Sicilia nella prima metà del secolo XIII, di cui nel 2020 cadono gli 800 anni dall'ascesa al trono imperiale. Tra i protagonisti indiscussi, di volta in volta amato o odiato, del medioevo, definito "stupor mundi", meraviglia del mondo, dai sostenitori, descritto come anticristo dalla propaganda papale, Federico anche molti secoli dopo la morte non ha smesso di dividere gli storici. Primo uomo moderno su un trono secondo Jacob Burckhardt, innanzitutto imperatore tedesco per Ernst Kantorowicz, uomo del suo tempo e del Mediterraneo per David Abulafia. Ma quali sono gli atteggiamenti di Federico nei confronti degli ebrei, all'epoca numerosi nel suo regno? Quale la politica dell'imperatore verso le comunità ebraiche?
  Facciamo un passo indietro. Federico eredita il regno di Sicilia dalla madre Costanza, figlia del più grande dei re Normanni, Ruggero II, e la corona imperiale dal padre Enrico VI, figlio di Federico I, detto Barbarossa, protagonista della lotta con i comuni del Nord Italia nel secolo precedente. La condizione degli ebrei nell'Italia meridionale e in Germania all'alba del regno di Federico II è però molto diversa. In Sicilia una presenza ebraica è attestata dal tempo di Cicerone, nel I secolo a.e.v., ed è probabile che sia cresciuta con la conquista araba nel IX secolo. Secondo alcuni storici in Puglia e Sicilia gli ebrei arrivano al 5% della popolazione complessiva e godono di sostanziale libertà di culto. La situazione sembra non essere mutata con l'arrivo dei normanni, la cui amministrazione si pone nel solco di quella araba evitando grandi fratture. Il famoso viaggiatore spagnolo Beniamino da Tudela, pochi anni prima della nascita di Federico, si ferma a Palermo, segnalando la prosperità di una comunità ebraica composta da 1500 famiglie. A fronte di comunità ebraiche di poche decine di famiglie al massimo nel Nord Italia, Beniamino annota la presenza di 600 famiglie a Salerno, 500 a Napoli e Otranto e centinaia in numerose altre località. In Germania invece i primi pogrom in occasione delle crociate - nel 1096 e nel 1148 - hanno lasciato profonde cicatrici, segnando nella valle del Reno la fine di antiche comunità.
  Nel 1215 il concilio lateranense IV voluto dal papa Innocenzo III impone un segno di riconoscimento agli ebrei. Il papa era stato tutore di Federico, che aveva ereditato la corona di Sicilia a soli 4 anni, ed è verosimile che eserciti influenza sul giovane re. Sappiamo che a Messina nel 1221 gli ebrei sono obbligati a portare la barba e un camiciotto "tinctum colore celesti", come riporta il cronista Riccardo da San Germano. La barba e il segno azzurro sono ritenuti indispensabili perché altrimenti "i doveri e gli usi dei cristiani sarebbero stati confusi". Nel documento di Messina, i cui provvedimenti in ogni caso non siamo certi siano stati effettivamente applicati, agli ebrei sono accostati altri due gruppi: le prostitute, di cui si dice che non potranno abitare in città, e gli attori e giullari, che andranno attentamente controllati perché inclini alla bestemmia. E' notevole l'accostamento di ebrei, prostitute e attori nella distinzione, cioè nella separazione, dagli altri cittadini. Secondo Abulafia nel suo libro Federico II. Un imperatore medievale (Einaudi )- si evidenzia qui la connessione tra gruppi marginalizzati allo scopo di evitare la contaminazione.
  La raccolta di leggi nota con il nome di Costituzioni di Melfi, il più chiaro programma di governo che Federico abbia enunciato, non cita il segno imposto agli ebrei di Messina dieci anni prima. Siamo nel 1231 e si è ormai consumata la rottura dell'imperatore con il papato. Nelle Costituzioni si chiarisce che gli ebrei devono essere protetti dalla violenza popolare perché dipendono direttamente dall'imperatore, sono cioè soggetti al fisco imperiale, dunque utili. Gli ebrei sono infatti "servi camere nostre", servitori della Camera regia in Germania prima e poi anche nel Meridione e in Sicilia. Il possesso degli ebrei da parte dell'imperatore significa che gli ebrei sono sottoposti alla diretta giurisdizione dello stato, e non a quella dei poteri locali che Federico cerca con ogni mezzo di limitare. Tutta la politica di Federico è d'altronde finalizzata a favorire il potere centrale contro i poteri feudali; in una parola, a accentrare. Come ha chiarito Yosef H. Yerushalmi in un testo che non si occupa di Federico II - Servitori di re, non servitori di servitori, Giuntina - la secolare dipendenza diretta dai sovrani è per gli ebrei, che d'altronde avevano scelta limitata, una scommessa pericolosa. Gli ebrei dipendono in questo modo dai volubili desideri del regnante del momento, ma poiché sono possesso del re, vengono anche tutelati dal potere centrale perché chi li danneggia, danneggia il re.
  Nel 1235 a Fulda, in Germania, vengono bruciati 35 ebrei per omicidio rituale, un'accusa che proprio in questi anni prende forma. Federico esige un processo per stabilire se gli ebrei siano collettivamente colpevoli e l'uso del sangue cristiano previsto nelle pratiche ebraiche. Per procedere a un giudizio corretto Federico consulta alcuni ebrei convertiti, che di solito non nutrivano alcuna simpatia per coloro da cui si erano allontanati con il battesimo, che chiariscono fonti alla mano come l'uso del sangue sia bandito dalla normativa ebraica. Le accuse di omicidio rituale sono perciò riconosciute false e condannate. Federico, che era stato nel frattempo scomunicato dal nuovo papa Gregorio IX, dopo le Costituzioni di Melfi e i fatti di Fulda viene descritto come filoebreo dalla propaganda papale. E' un miscredente che preferisce gli ebrei ai cristiani nel ritratto di Richerio di Sénones, addirittura "anticristo" nella cronaca del frate francescano Salimbene di Adam. Inutile aggiungere che queste descrizioni dicono poco di Federico, molto invece della lotta senza quartiere tra papato e impero, con i pontefici che cercano di screditare in ogni modo l'imperatore.
  Nel 1239, dopo la repressione dell'ennesima insorgenza dei musulmani ormai confinati nell'interno della Sicilia, Federico decide di trasferire con la forza i ribelli a Lucera, in Puglia. Questo provvedimento, insieme all'emigrazione in corso da decenni di arabi dalla Sicilia verso il Maghreb, spinge Federico non solo a ripopolare le zone disabitate con contadini lombardi, ma anche a invitare gli ebrei del Nordafrica a stabilirsi a Palermo e nelle altre città. E' del 1247, invece, la notizia di una nuova sinagoga aperta a Trani, che secondo Attilio Milano - Storia degli ebrei in Italia, Einaudi - indicherebbe la fioritura delle comunità ebraiche durante il regno di Federico e la politica tollerante dell'imperatore. Si tratta di un giudizio che oggi la storiografia ritiene esagerato e fuorviante, ma su questo torneremo a breve. Attività agricole, mediche e legate all'usura sono attestate presso gli ebrei dell'Italia meridionale negli anni di Federico. Le attività più importanti, per le quali la popolazione ebraica gode di sostanziale monopolio, sono però la poco salubre industria della tintoria e la produzione e il commercio della seta.
  La Sicilia araba e normanna era stata terra di confine e di incontro tra culture e tradizioni diverse. Ancora ai tempi di Federico, seppure in un contesto mutato e meno favorevole, la corte di Palermo rappresenta il terreno dell'incontro tra oriente e occidente, Europa germanica e mediterranea, un incontro che la stessa origine dell'imperatore, tedesca e siciliana insieme, ribadisce. Non sono pochi gli intellettuali ebrei alla corte di Federico, da Yaakov ben Abba Mari, collaboratore di Michele Scoto, a Mosè ibn Tibbon a Yehudà ben Shelomò haCohen. Si tratta di dotti per lo più di origine spagnola e provenzale che conoscono l'arabo e si dedicano a interessi filosofici e astronomici, oltre a partecipare al grande programma di traduzioni che nell'arco di pochi decenni mette nelle mani dei dotti dell'Europa cristiana molti testi medievali e antichi - basti pensare agli scritti di Aristotele - prima sconosciuti in Occidente.
  A fronte di tutto questo, ha senso parlare di tolleranza per Federico? Come abbiamo visto, il giudizio entusiastico di Milano oggi viene considerato insufficiente perché trasferisce un concetto moderno che si è sviluppato a partire dal Seicento in un contesto medievale. Come chiarisce Kantorowicz in un'opera ancora oggi cardinale - Federico II imperatore, Garzanti - ai tempi di Federico, rispetto ai periodi precedenti arabo e normanno, crescono le restrizioni alle libertà delle minoranze musulmane, ebraiche e greche ortodosse. Il principio che informa tutta la politica di Federico, suggerisce ancora Kantorowicz, è l'utilità per lo stato. Questo spiega la violenta repressione di ogni tendenza centrifuga rispetto all'accentramento del potere, come quella definitiva nei confronti dei musulmani della Sicilia interna, da decenni in uno stato di malcontento e agitazione che di tanto in tanto aveva già trovato sfogo in aperte ribellioni. Di fronte all'insorgenza dei musulmani Federico non esita favorendone l'emigrazione o la conversione e addirittura deportandoli. Per questo stesso motivo l'imperatore reprime con violenza le eresie: gli eretici, infatti, sono non solo nemici della fede, ma anche dell'ordine politico e vanno perciò eliminati. Il controllo centrale da parte dello stato, e non un concetto anacronistico come quello di tolleranza, spiega la concessione del monopolio sulla tintoria e la seta a chi, come gli ebrei, dipende direttamente dal fisco imperiale. Ma l'esigenza di controllo, da parte dell'imperatore, non si ferma qui. Kantorowicz suggerisce che "gli ebrei potevano, anzi dovevano vivere secondo i loro costumi, purché non venissero a detrimento dello stato". In questo modo non solo le attività commerciali e le imposte, ma anche i costumi vengono in qualche modo controllati dal potere politico, che stabilisce i confini entro cui i sudditi possono muoversi. Uno stato forte e un potere accentrato sono cifre del governo di Federico e motivi della sua lotta contro il papato e i privilegi di città e feudi. Questo approccio strumentale è manifesto anche nella politica verso gli ebrei. Abulafia, che ha aperto una nuova stagione di studi su Federico in polemica con Kantorowicz, sottolinea come i provvedimenti dell'imperatore che riguardano gli ebrei si muovano in direzioni divergenti. Ma questo, come chiarisce lo stesso Abulafia, è dovuto all'adattamento di volta in volta all'obiettivo costante di controllo. E' eloquente il paragone tra la politica pragmatica e strumentale di Federico a quella visionaria e fanatica del contemporaneo re di Francia, Luigi IX il Santo: alla corte del primo il Talmud viene discusso (e, come abbiamo visto, utilizzato per smascherare l'accusa di omicidio rituale), a quella del secondo bruciato pubblicamente.
  Come è stato descritto, infine, Federico II dalla tradizione ebraica? L'imperatore viene ritratto come filoebreo dal poeta e storico Samuel Usque, ebreo portoghese rifugiato in Italia nella prima metà del secolo XVI. Ma sono gli stessi ebrei contemporanei di Federico i primi a disegnare questa immagine storicamente inattendibile ma molto indicativa. Uno degli intellettuali di spicco alla corte dell'imperatore, Yaakov ben Abba Mari, dedica a Federico le traduzioni compiute su Aristotele, Tolomeo e l'astronomo arabo Al-Fargani. La dedica si chiude con l'augurio che il messia possa comparire proprio al tempo di Federico, "amico della sapienza". Un augurio che non ha nulla di retorico, poiché il 1240 corrisponde, nella cronologia ebraica, all'anno 5000, preconizzato all'epoca per la venuta del messia.

(JoiMag, 16 agosto 2020)


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