Notizie 1-15 agosto 2023
Makkabi Berlin, la squadra ebraica che ora è tra le migliori della Germania
di Davide Rinaldi
Domenica 13 agosto, è scesa in campo il Makkabi Berlin, la squadra di calcio tedesca fondata dai sopravvissuti all’Olocausto, entrando nella storia. Il Makkabi è il primo club calcistico ebraico a competere nella Coppa di Germania, un torneo annuale della durata di una stagione con 64 delle migliori squadre del paese, dal livello amatoriale alla Bundesliga. Il massimo campionato tedesco che presenta alcuni dei migliori giocatori del mondo.
• Quando fu creato il torneo nel 1935, agli ebrei era proibito partecipare
“Ci sono stato dal primo giorno. Non avrei mai immaginato che noi, come squadra ebrea, avremmo mai giocato una partita di coppa contro una squadra della Bundesliga”, ha detto il co-fondatore del club Marian Wajselfisz all’Associated Press “per noi e per me personalmente è una grande gioia”.
Il Makkabi Berlin è stato fondato nel 1970 come successore del Bar Kochba Berlin, il primo club sportivo ebraico della Germania, creato nel 1898. Il nome della squadra è dedicato al famoso capo militare ebreo. Al massimo del suo splendore, questo contava più di 40.000 persone che praticavano sport diversi, prima che i nazisti salissero al potere.
Oggi, Makkabi Berlin, ha 550 membri che provengono da realtà differenti. La squadra di calcio comprende giocatori provenienti da 15 paesi diversi e include ebrei, cristiani e musulmani. Lo stemma della squadra, però, è ancora una stella di David.
“Questo è qualcosa di cui siamo estremamente orgogliosi”, ha detto il membro del consiglio di Makkabi Michael Koblenz. “Siamo qui per chiunque sia pronto a giocare con noi, ed sia aperto a giocare per un club con origini ebraiche e una sorta di cultura ebraica, siamo assolutamente felici di integrare diverse persone nelle nostre squadre.”
• La storia è più importante dello sport
Il club è stato recentemente promosso al quinto livello del calcio tedesco, NOFV-Oberliga Nord, dopo aver vinto il campionato di Berlino la scorsa estate. Il Makkabi si è qualificato per la Coppa di Germania vincendo la Coppa di Berlino a giugno, la prima volta per la squadra.
Il loro avversario di domenica era il Wolfsburg. La squadra avversaria gioca in Bundesliga ed è di proprietà della Volkswagen. Data l’importanza del Wolfsburg, la partita si è giocata in un grande stadio ed è stata trasmessa in televisione. Una novità per la squadra del Makkabi.
“La popolarità, la visibilità e il successo dei club sportivi ebraici simboleggiano la crescita della vita ebraica consolidata in Germania e nel mondo” ha affermato il World Jewish Congress.
Venerdì scorso, il WJC ha ospitato una tavola rotonda con rappresentanti di Makkabi e Wolfsburg “per onorare e discutere il ruolo fondamentale dei club sportivi ebraici in Europa prima dell’Olocausto e l’impatto della loro rinascita nell’era moderna” secondo un comunicato stampa. Le maglie dei due club di questa domenica riporteranno anche il logo del WJC.
“La partita di questa settimana ci mostra che i club ebraici di tutto il mondo racconteranno sempre una storia che è più grande dello sport” ha detto il giornalista e storico di Israel Hayom, Adi Rubenstein, durante l’evento.
• I risultati
La storia è importante più dello sport. Il Makkabi è stato battuto 6-0 dal Wolfsburg nella partita del primo turno. La squadra è andata rapidamente in svantaggio con gli ospiti che hanno segnato due gol in apertura con Lukas Nmecha e Jonas Wind per smorzare le speranze di un recupero a sorpresa. Ma il Makkabi non si è piegato contro la squadra della Bundesliga sostenuta dalla casa automobilistica Volkswagen e, Kanto Fitiavana Voahariniaina, si è visto annullare un goal per fuorigioco.
La vittoria del Wolfsburg era certa già all’inizio del secondo tempo e avrebbe segnato di più se non fosse stato per il portiere del Makkabi Jack Krause, che si è guadagnato il più grande applauso dei tifosi.
A parte il risultato per il Makkabi, fondato dai sopravvissuti all’Olocausto nel 1970, è già un traguardo molto importante qualificarsi per la Coppa di Germania a 64 squadre – vincendo per la prima volta la Coppa di Berlino – per diventare il primo club ebraico a parteciparvi.
(Berlino Magazine, 15 agosto 2023)
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Israele suda e batte il record di consumo di elettricità
Una forte ondata di calore causa la tragica morte di un giovane soldato durante un'esercitazione dell'IDF.
di Pesach Benson
Lunedì Israele ha continuato a sudare sotto il caldo intenso, battendo un record di consumo di elettricità.
Le alte temperature hanno causato la sospensione di alcuni voli all'aeroporto Ben Gurion, danni significativi all'agricoltura e la morte di un soldato durante un'esercitazione.
In alcune aree della Valle del Giordano e della Bassa Galilea sono state registrate temperature fino a 41 °C.
La Noga, una società statale responsabile dello sviluppo, del funzionamento e della gestione del sistema elettrico del Paese, ha dichiarato lunedì che gli israeliani hanno utilizzato 15.690 megawatt alle 14.53 di domenica, superando di oltre 300 megawatt il record stabilito il 25 luglio. Noga ha osservato che in entrambi i casi, la metà dell'elettricità utilizzata era per l'aria condizionata.
Noga - L'indipendente gestore Israel Independent System Operator Ltd. ha assunto la gestione dell'approvvigionamento elettrico del Paese dalla Israel Electricity Company il 1° novembre 2021.
Un colpo di calore e la disidratazione sono stati considerati le ragioni apparenti della morte di un soldato durante un'esercitazione lunedì mattina. Intorno alle 4, un comandante ha scoperto che il soldato, Hillel Nehemiah Ofen, giaceva immobile durante un'esercitazione e ha iniziato a curarlo. Il personale medico non è riuscito a rianimarlo.
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) stanno indagando sulle cause del decesso. L'IDF ha dichiarato che tutte le esercitazioni all'aperto sono state sospese fino alle 22 di domenica a causa del caldo. Quando le temperature sono scese durante la notte, alcune esercitazioni all'aperto sono state riprese. Ora tutte le esercitazioni sono state sospese fino alle 5 del mattino di mercoledì.
Nel frattempo, l'Autorità aeroportuale israeliana ha annunciato lunedì che alcuni voli in atterraggio all'aeroporto Ben-Gurion saranno temporaneamente sospesi "a causa delle condizioni meteorologiche e del loro impatto sui sistemi tecnici delle unità di controllo e per mantenere la sicurezza dei voli". I viaggiatori sono stati invitati a verificare con le proprie compagnie aeree lo stato attuale dei loro voli.
Il caldo ha colpito anche l'agricoltura. Secondo il Fondo assicurativo per i danni naturali, meglio conosciuto con l'acronimo ebraico KNT (Kanat), gli agricoltori subiranno danni per 20 milioni di shekel (5,34 milioni di dollari). Il KNT (Kanat)ha dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di morte di decine di migliaia di polli e di danni da calore alle colture. Le mele e i manghi, in fase di raccolta, sono stati particolarmente colpiti dal caldo. Il KNT ha anche rilevato danni particolari a cocomeri, peperoni, mais, pomodori e cotone.
Moshav Margaliot, situato al confine con il Libano, ha dichiarato a KNT che 10.000 polli sono morti in un giorno.
Il dottor Jalal Ashkar, responsabile del reparto di medicina d'urgenza del Centro medico Hillel Yaffe di Hadera, ha dichiarato che, sebbene tutti debbano prendere precauzioni, le persone con condizioni sanitarie fragili pregresse sono particolarmente vulnerabili al caldo estremo.
"Le temperature estremamente elevate possono esacerbare le malattie e/o i problemi di salute esistenti, a volte fino alla disabilità e alla morte prematura, come nel caso delle malattie respiratorie", ha detto Ashkar.
Il medico ha aggiunto: "Quando la temperatura esterna è elevata, i vasi sanguigni a livello cutaneo si dilatano, aumentando il flusso sanguigno, facendo sudare il corpo e raffreddandolo. Di conseguenza, il sangue affluisce meno agli organi interni vitali come il cuore, il fegato, i reni, il cervello e così via, il che può portare a gravi disfunzioni di questi organi interni, a un aumento significativo della temperatura corporea, alla perdita di conoscenza e persino alla morte".
Ha consigliato alle persone di evitare l'esposizione prolungata al sole, di rimanere in casa o almeno all'ombra e di bere a sufficienza per evitare la disidratazione.
(israel heute, 15 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele, 18° esercito più potente del mondo
Lo Stato ebraico è appena dietro l'Iran (17°) nella classifica delle nazioni del mondo in base alla potenza di fuoco attualmente disponibile.
È stata recentemente pubblicata la classifica PowerIndex della potenza di fuoco mondiale. I risultati tengono conto di oltre 60 fattori individuali per determinare il punteggio PowerIndex ("PwrIndx") di una determinata nazione, prendendo in considerazione categorie che vanno dal numero di unità militari e dalla situazione finanziaria alle capacità logistiche e alla geografia.
• Gli Stati Uniti al vertice
In cima al podio, senza sorprese, ci sono gli Stati Uniti, di gran lunga la prima potenza militare del mondo. Russia e Cina sono al secondo e terzo posto del podio, mentre la Francia è al nono posto. Israele è al 18° posto, tra Iran e Vietnam. Tra gli altri Paesi del Medio Oriente, la Turchia è all'11° posto, l'Arabia Saudita al 22°, l'esercito egiziano al 14° e il Qatar al 65°.
Per consentire alle nazioni più piccole e tecnologicamente avanzate di competere con le potenze più grandi e meno sviluppate, vengono applicati speciali modificatori, sotto forma di bonus e penalità, per perfezionare ulteriormente questa lista, che viene compilata ogni anno.
Per la revisione del GFP 2023, sono state prese in considerazione 145 potenze mondiali. Dal 2006, GlobalFirepower (GFP) fornisce statistiche e dati su 145 potenze militari moderne. Le classifiche del GFP si basano sulla potenziale capacità militare di ogni nazione a terra, in mare e in aria in un potenziale conflitto combattuto con mezzi convenzionali. I risultati incorporano valori relativi alla manodopera, alle attrezzature, alle risorse naturali, alle finanze e alla geografia, rappresentati da più di 60 fattori individuali utilizzati per formulare la classifica finale del GFP, che offre uno scorcio di un panorama militare globale sempre più instabile, in cui la guerra sembra tutt'altro che inevitabile.
(i24, 15 agosto 2023
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A largo della costa di Eilat è possibile nuotare con il raro squalo balena
di Michelle Zarfati
Nella baia di Eilat, in Israele, è possibile fare un raro incontro. Gli ispettori della Nature and Parks Authority hanno infatti nuotato accanto a uno squalo balena, lungo circa quattro metri, sulla costa settentrionale di Eilat. Il progetto nasce da un giro di ispezione marina. I ricercatori hanno rivelato che lo squalo si avvicina di tanto in tanto alla riva del Golfo di Eilat in cerca di cibo. Il team ha inoltre consigliato ai bagnanti di consentire allo squalo di muoversi liberamente e di non toccarlo. Lo squalo balena è stato anche definito nel Libro rosso IUCN - l'Unione internazionale per la conservazione della natura e delle risorse naturali - come una specie in via di estinzione. Il più grande squalo balena mai catturato e misurato con precisione era lungo circa 12,65 metri e pesava oltre 21,5 tonnellate. Nonostante le sue dimensioni, l'Autorità per la natura e i parchi ha condiviso che questa specie di squalo non è considerata pericolosa per l'uomo e che molti ricercatori hanno nuotato al suo fianco riuscendo persino a toccarlo. Questa specie di squalo è spesso vista nelle Filippine, sulle spiagge della Thailandia, alle Maldive, nell'Australia occidentale, nelle Isole Galapagos e persino nel Mar Rosso. Lo squalo balena viene persino cacciato durante le stagioni di pesca.
La specie di squalo balena fu identificata per la prima volta nell'aprile del 1828, dopo che una balena lunga 4,6 metri fu catturata a Table Bay, in Sudafrica. Successivamente l'animale è stato studiato e descritto da uno zoologo di nome Andrew Smith, un medico militare assegnato ai soldati britannici di stanza a Città del Capo. Il ricercatore ha continuato a pubblicare descrizioni sempre più dettagliate della stessa balena nel 1849. Il nome del pesce, "squalo balena", deriva dalla sua fisiologia: è uno squalo delle dimensioni di una balena e utilizza una tecnica alimentare simile a quella della balena: filtrare il cibo dall'acqua.
(Shalom, 15 agosto 2023)
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Israele: individuata una cellula di Hamas pronta a rapire militari e compiere attacchi
Il servizio di sicurezza interna di Israele (Shin Bet) ha scoperto una cellula terroristica del movimento palestinese Hamas che pianificava di rapire un militare delle Forze di difesa israeliane (Idf) e di compiere attacchi contro di loro nella regione di Binyamin, in Cisgiordania. Lo ha annunciato lo Shin Bet, che ha condotto l’operazione in collaborazione con le Idf e la polizia. Nel quadro delle indagini, erano stati arrestati nove palestinesi il mese scorso perché sospettati del loro coinvolgimento nella creazione della cellula terroristica per conto di Hamas, nel villaggio di Biddu, nel Consiglio regionale di Benyamin. L’indagine ha rivelato che i membri della cellula si sono armati, hanno preparato esplosivi, tracciato vie di fuga, raccolto informazioni per conoscere le abitudini dei militari israeliani nell’area di Binyamin e preparato un posto dove nascondere il militare da rapire.
I risultati dell’indagine condotta dallo Shin Bet hanno inoltre rivelato che la cellula terroristica ha studiato la produzione di esplosivi e ha persino allestito un laboratorio per preparare e testare esplosivi all’interno di una casa. Il laboratorio è stato sequestrato e chiuso. Sul posto sono state trovate materie prime per la produzione di esplosivi e fuochi d’artificio, nonché tubi utilizzati per costruire esplosivi. Secondo quanto riferito, i membri della cellula terroristica hanno operato in modo isolato, pur mantenendo la massima segretezza per evitare di rivelare le loro attività.
(Nova News, 14 agosto 2023)
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La Francia scioglie il partito di estrema destra Civitas per episodi di antisemitismo
di David Fiorentini
Il ministro degli Interni francese, Gérald Darmanin, ha dichiarato lo scioglimento di Civitas, un partito di estrema destra ultra-tradizionalista cattolico, a seguito di numerosi episodi di antisemitismo.
“Non c’è spazio per l’antisemitismo nel nostro paese, condanno fermamente questi commenti spregevoli e sto portando la questione all’attenzione del procuratore nazionale”, ha dichiarato Darmanin sulla piattaforma X, precedentemente conosciuta come Twitter.
Fondata nel 1999, Civitas è un’organizzazione estremista che tra le sue azioni passate, annovera episodi di carattere razzista, omofobo o antisemita, come l’interruzione di eventi pubblici che coinvolgono artisti non eterosessuali, oppure il sostegno a un attivista accusato di aver esposto un cartello antisemita nel 2021, fino alle recenti proteste contro centri profughi in Francia. Durante un recente incontro del partito, l’autore Pierre Hillard ha affermato che sarebbe auspicabile tornare allo status precedente alla Rivoluzione francese del 1789, in cui gli ebrei e altre minoranze religiose erano esclusi dalla cittadinanza in quanto considerati “eretici”.
Civitas, che conta su circa 165000 membri, ha acquisito lo status di partito politico nel 2016, ricevendo da allora finanziamenti pubblici. Alla presidenza del partito, invece, figura l’attivista belga Alain Escada, che dal 2016 guida anche il partito europeo Coalizione per la Vita e la Famiglia, a cui Civitas aderisce. Inoltre, durante le scorse elezioni presidenziali francesi, il partito ha espresso il suo sostegno al candidato di estrema destra Eric Zemmour, sconfitto al primo turno con il 7% dei voti.
(Bet Magazine Mosaico, 14 agosto 2023)
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Un inviato saudita per i palestinesi nella partita diplomatica di Riyadh con Israele
Il regno wahhabita nomina l’ambasciatore in Giordania quale rappresentante “non permanente” presso l’Autorità palestinese e “console” a Gerusalemme. La replica del ministro Cohen, secondo cui Israele “non autorizzerà mai” la missione. Sullo sfondo l’estensione degli “Accordi di Abramo”.
GERUSALEMME - Riyadh annuncia - in via unilaterale - una estensione dei compiti dell’ambasciatore saudita in Giordania, che sarà chiamato ad assumere il ruolo di “ambasciatore non permanente” presso l’Autorità palestinese e “console” a Gerusalemme. Immediata la replica israeliana, che non intende riconoscere l’apertura di missioni diplomatiche fra il regno e l’Anp, anche e soprattutto se queste ultime andranno a coinvolgere lo status della città santa, che il governo considera capitale indivisibile dello Stato. Un botta e risposta che, almeno per il momento, sembra allontanare l’allargamento ai sauditi dei cosiddetti “Accordi di Abramo”, raggiunti sinora con altri Stati arabi spesso “sulla pelle” del popolo palestinese.
Con una decisione inedita, il 12 agosto scorso l’Arabia Saudita ha nominato l’ambasciatore in Giordania Nayef al-Sudairi quale ambasciatore non residente per i Territori palestinesi e console generale per Gerusalemme. Un post sui social ufficiali della rappresentanza diplomatica ad Amman afferma che fra i suoi doveri vi sarà anche quello di “console generale” nella città santa (e contesa) da israeliani e palestinesi. Tuttavia, l’esecutivo israeliano ha già escluso ogni prospettiva che preveda concessioni - territoriali e non - ai palestinesi nella normalizzazione con Riyadh.
Intervistato dall’emittente radio 103Fm il ministro degli Esteri Eli Cohen pur affermando che i sauditi “non hanno bisogno del nostro permesso” per aprire rappresentanze diplomatiche e “non si sono consultati con noi”, Israele non autorizzerà la nascita di alcuna missione. Anche perché, ha proseguito, la questione palestinese non è parte preponderante dei negoziati in corso con il regno wahhabita. Per il capo della diplomazia israeliana la mossa saudita è un messaggio ai palestinesi, che “non li hanno dimenticati” ma “noi non permettiamo ai Paesi di aprire consolati. È incompatibile con le nostre posizioni”. E nell’ottica dei dialoghi in corso, il ministro Cohen conclude dicendo che “abbiamo una finestra di opportunità di nove o 12 mesi, perché dopo questo periodo gli Stati Uniti saranno immersi nella campagna elettorale”.
Diversa la posizione dell’Autorità palestinese, che plaude alla decisione saudita di nominare un rappresentante diplomatico di alto livello per i Territori e Gerusalemme. In una nota diffusa su X (ex Twitter), l’Anp sottolinea che i tempi della decisione riflettono “l’interesse” dell’Arabia Saudita “per la causa palestinese”, che è una delle “basi” sulle quali è fondata “la politica estera” di Riyadh “nel mondo arabo, islamico e internazionale”. Oltre a essere una “estensione della posizione dell’Arabia Saudita a sostegno della causa palestinese e dei diritti del nostro popolo”.
L'annuncio è arrivato nel contesto dell’intensificarsi degli sforzi degli Stati Uniti per stabilire per la prima volta relazioni formali tra Israele e Arabia Saudita. In Israele si è anche ipotizzato che Riyadh - che finora si è opposta alla creazione di legami formali fino alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese - potrebbe ora essere disposta a firmare senza che Israele fornisca ai palestinesi una maggiore autonomia. “È una sorta di casella da spuntare” ha dichiarato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un’intervista trasmessa la scorsa settimana. Diversa la prospettiva nel mondo arabo, come emerge dalle valutazioni di analisti sauditi e palestinesi secondo cui la nomina stessa dell’ambasciatore al-Sudairi è segno di un tentativo di migliorare il trattamento dei palestinesi. Abdulaziz Alghashian, esperto saudita di relazioni fra Riyadh e Israele, afferma che “questo è il modo saudita di comunicare qualcosa” che potrebbe anche non piacere a Israele.
(AsiaNews, 14 agosto 2023)
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Israele spiazzato dalla mossa palestinese di Riad
La mossa saudita di ampliare le credenziali dell’ambasciatore in Giordania sulle questioni palestinesi e sulle attività consolari a Gerusalemme Est mette in difficoltà Israele. Stress test mentre Washington negozia la normalizzazione tra Riad e Tel Aviv
di Emanuele Rossi
Il dialogo in corso da tempo per trovare una normalizzazione nei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, tramite l’aiuto statunitense, ha avuto nei giorni scorsi una complicazione. I funzionari israeliani sono stati colti alla sprovvista dall’annuncio saudita di nominare un inviato per la Palestina che avrebbe anche il ruolo di console generale a Gerusalemme.
Riad ha reso pubblico che sarà l’ambasciatore ad Amman, Nayef al Sudairi, ad andare a ricoprire il doppio ruolo per la questione palestinese e per gli affari consolari israeliani. Israele ha escluso domenica qualsiasi eventuale missione fisica a Gerusalemme per quello che diventerà il primo inviato saudita presso i palestinesi. Un post sui social media della sua ambasciata ha detto che sarà anche “console generale a Gerusalemme”.
Riad dice che la decisione sarà un modo per facilitare il dialogo sulla soluzione a due Stati (che includa anche una parte di Gerusalemme come capitale dello stato palestinese, evidentemente). La mossa è arrivata dopo che Washington ha sostenuto informalmente (tramite spifferate ai media e smentite tattiche) che c’erano stati alcuni progressi negli sforzi per mediare la distensione tra Israele e Arabia Saudita — che in precedenza aveva escluso qualsiasi avvicinamento fino a quando non saranno affrontati gli obiettivi di statualità palestinese.
All’inizio di questo mese, i diplomatici palestinesi hanno espresso preoccupazione agli omologhi sauditi sul timore che Riad procedesse in avanti nell’appeasement con gli israeliani senza dare priorità alla loro causa (come fatto in precedenza da altri Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele). La notizia delle nuove credenziali ha creato un apparente ottimismo: “Cosa significa dire anche (è) ‘console generale a Gerusalemme’? Significa una continuazione delle posizioni dell’Arabia Saudita”, ha detto l’ambasciatore palestinese a Riad, Bassam Al-Agha, a proposito del nuovo doppio incarico di al Sudairi.
• Narrazioni e interessi Intervistato alla radio Voice of Palestine, Al-Agha ha inoltre interpretato la nomina come un “rifiuto” del riconoscimento degli Stati Uniti nel 2017 di Gerusalemme come capitale di Israele. I palestinesi vogliono uno stato in territori catturati da Israele in una guerra del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. I negoziati sponsorizzati (per anni) dagli Stati Uniti con Israele sul raggiungimento di una soluzione si sono bloccati più di un decennio fa. Tra gli ostacoli ci sono stati l’insediamento israeliano in terre occupate e la faida tra le autorità palestinesi sostenute dall’Occidente e gli islamisti armati di Hamas, che usano tecniche jihadiste e razziste per minare la convivenza con gli ebrei.
Un altro punto critico è Gerusalemme, che Israele ritiene la sua capitale indivisibile — uno status non ampiamente riconosciuto dalla Comunità internazionale. “Questo (Al-Sudairi) potrebbe essere un delegato che incontrerà i rappresentanti dell’Autorità palestinese”, ha detto il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen alla stazione radio di Tel Aviv 103 FM.: “Ci sarà un funzionario seduto fisicamente a Gerusalemme? Questo non lo permetteremo”.
Il governo di destra di Israele, guidato da Benajamin Netanyahu e sostenuto da formazioni radicali, ha lavorato contro qualsiasi prospettiva che dia un terreno significativo ai palestinesi. Ma tali prospettive diventano sempre più parte del potenziale accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita. “Ciò che c’è dietro questo sviluppo è che, sullo sfondo dei progressi nei colloqui degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita e Israele, i sauditi vogliano trasmettere un messaggio ai palestinesi che non li hanno dimenticati”, ha detto Cohen. L’affermazione limita l’interlocutore della mossa alla sola Palestina, ma è possibile che Riad pensi anche all’invio di un messaggio a Tel Aviv.
• Cavilli tecnici dal significato politico L’aspetto tecnico (e politico) sta nel ruolo di “non-resident”: questo significa che la feluca saudita non dovrà di fatto lavorare da un qualche ufficio diplomatico a Gerusalemme Est – dove Israele per policy non consente l’apertura di consolati per servire i palestinesi. Al Sudairi — che ha già presentato l’aumento delle sue credenziali al governo giordano — non avrà così bisogno di accreditamento a Tel Aviv, e potrà muoversi da Amman e Ramallah.
Gli spostamenti probabilmente li farà in elicottero. Anche la scelta del mezzo è importante in queste situazioni così delicate: Yonatan Toval – un analista israeliano molto informato – fa notare che l’attraversamento del confine tramite il ponte Allenby è sotto il controllo israeliano, per tale ragione, viaggiare in auto richiederebbe, per lo meno, il coordinamento con le autorità israeliane, e forse anche l’accreditamento se l’inviato di Riad volesse essere certo della sua immunità diplomatica mentre viaggia in auto attraverso la Cisgiordania. Richiedere questo riconoscimento equivarrebbe a riconoscere la sovranità israeliana su Gerusalemme Est, spiega Toval.
Molto difficile che l’Arabia Saudita faccia mosse diplomatiche (o scivoloni) del genere adesso. Molto improbabile che il governo Netanyahu fornisca concessioni speciali. La normalizzazione israelo-saudita è percepita da tutti come volontà strategica, ma in questo momento — mentre i rumors sulle evoluzioni si susseguono — tutti stanno cercando forme di stress test per capire cosa c’è sul piatto dell’intesa.
(Formiche.net, 14 agosto 2023)
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Si legge un grave errore in questo articolo dove il giornalista scrive: ”Gerusalemme Est – dove Israele per policy non consente l’apertura di consolati per servire i palestinesi”.
Nella realtà dei fatti purtroppo molte nazioni, Italia compresa, hanno due diverse sedi consolari, una delle quali, a “Gerusalemme est” si interessa soltanto dei cittadini arabi. Emanuel Segre Amar.
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Israeliani in Germania: scappano da Netanyahu ma temono la destra
Secondo le statistiche del governo, l'anno scorso quasi 3.700 israeliani hanno ottenuto la cittadinanza tedesca. Preoccupazioni per l'ascesa della destra
di Kristina Jovanovski
Lo scrittore israeliano Tomer Dotan-Dreyfus è uno dei sempre più numerosi cittadini del suo Paese che hanno scelto di vivere in Germania. Se n'è andato nel 2011 per il suo disaccordo con la politica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ora, Tomar dice che la rielezione di Netanyahu e le riforme giudiziarie che hanno innescato proteste massicce, stanno alimentando il dissenso e le partenze.
"Molte persone mi hanno contattato: dalla mia cerchia di amici alla mia famiglia e anche persone che non conosco - dice Dotan-Dreyfus - ricevo continuamente tonnellate di messaggi in cui mi si chiedono consigli per lasciare Israele e venire in Germania".
• Israele, crescono dissenso e partenze Dopo le proteste e le ultime elezioni in Israele, si registra nel Paese un'impennata di interesse sulla possibilità di ottenere la cittadinanza tedesca.
Yoav Stern è un imprenditore alla Stern EU: aiuta gli israeliani a presentare la domanda di cittadinanza tedesca.
La Germania è considerata un Paese molto stabile in Europa, tutto il mondo sa cos'è la Germania - commenta Stern - Molti, moltissimi ebrei sono arrivati dalla Germania. Le famiglie ebree, i loro discendenti, ora chiedono questo.
Secondo le statistiche del governo, l'anno scorso quasi 3.700 israeliani hanno ottenuto la cittadinanza tedesca.
In totale, sono più di 14.000 le persone con cittadinanza israeliana che vivono in Germania.
• Germania, l'estrema destra guadagna consenso La nostra corrispondente da Berlino, Kristina Jovanovski, spiega però quali sono le criticità attuali: "Anche gli israeliani stanno affrontando alcune difficoltà in Germania. La Polizia dice che questo mese un turista israeliano è stato aggredito in strada dopo aver parlato al telefono in ebraico. La Polizia dice che sta valutando un possibile movente antisemita. La notizia giunge mentre il partito di estrema destra Alternative fur Deutschland - o AfD - registra numeri da record nei sondaggi".
In passato, un politico dell'AfD ha puntato il dito contro il memoriale all'Olocausto di Berlino, definendolo un "monumento della vergogna".
Secondo i sondaggi, il partito è il secondo più popolare del Paese. A giugno ha vinto per la prima volta le elezioni per la guida di un distretto.
• Il timore degli israeliani che vivono in Germania Secondo Lorenz Blumenthalee, analista politico, una delle maggiori possibilità di successo dell'AfD è rappresentata dalle elezioni europee: "Penso che se riusciranno a mobilitare il loro popolo, otterranno molti seggi anche lì e credo che questo sia davvero qualcosa da temere perché significa una minaccia imminente, non qualcosa a lungo termine".
Tre dei nonni di Tomer sono sopravvissuti all'Olocausto. Lo scrittore dice di temere in modo particolare l'estrema destra in Germania a causa della sua storia nel Paese.
"L'ascesa dell'estrema destra in Germania mi spaventa come ebreo e come immigrato - ammette Dotan-Dreyfus - Dovrebbe essere chiaro che è anche un problema molto grande per noi, perché siamo sulla stessa barca di altri gruppi oppressi e di altri gruppi della diaspora in Germania".
(euronews, 14 agosto 2023)
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Una delle notti più buie di Israele, ma la prova è appena iniziata
Ero a Gerusalemme la notte in cui è stata varata la riforma giudiziaria e la legge sulla ragionevolezza è stata abrogata. E non lo dimenticherò mai.
di
Oriel Moran
GERUSALEMME - Il 24 luglio 2023 è stato il giorno che secondo molti segna la fine della democrazia nello Stato di Israele.
Guardando la Knesset dal mio balcone nel centro di Gerusalemme, ho sentito la mia città in subbuglio.
Questa volta era diverso dalle violente proteste che avevano avuto luogo in tutto il Paese per oltre 30 sabati sera consecutivi.
Le principali autostrade erano bloccate da manifestanti che portavano bandiere, "De-mo-cra-tiah!" (Democrazia) al megafono, tra clacson, sirene, tamburi, fischietti e grida - nessuno poteva ignorare o soprastare il grido di migliaia e migliaia di cittadini arrabbiati che avevano sacrificato i loro fine settimana per combattere per il loro patrio ambiente [Heimat], le loro famiglie e la loro libertà.
Da lontano, i manifestanti sembravano un mare di onde bianche e spumeggianti; la bandiera israeliana sventolava nella brezza serale di Gerusalemme, tutti si dirigevano lentamente e senza sosta verso il centro della città, mentre droni ed elicotteri catturavano sopra di loro le immagini ormai familiari della capitale.
Che si sia a favore della "democrazia" o della riforma, entrambe le parti erano "qui per restare", ed erano certamente pronte a sconvolgere la vita quotidiana come la conoscevamo, affinché nessuno dimentichi. I percorsi alternativi per tornare a casa a causa delle strade chiuse o del caos generale erano diventati la norma; i video di pneumatici in fiamme e della polizia che utilizza cannoni ad acqua circolavano costantemente sui social media e nei notiziari delle 20:00.
La nazione era divisa. Vicini si sono rivoltati contro vicini, fratelli contro fratelli, famiglie contro famiglie. E adesso, finalmente, siamo arrivati al punto: la legge è passata.
Alcuni l’hanno chiamata la terza distruzione del Tempio (ironia della sorte, poco dopo Tisha B'Av), altri hanno temuto che fosse l'inizio della fine, altri ancora hanno pianificato un biglietto di sola andata per qualche luogo, affranti dal fatto che la loro nazione li ha delusi.
Quel giorno è stato lungo e inimmaginabilmente intenso, mentre la gente tratteneva il fiato in attesa del verdetto. Quando ho aperto il rubinetto della doccia, la mia mente mi ha giocato un brutto scherzo: mi è sembrato di sentire il loro grido ancora più forte dell'acqua che scorreva. Anche quando mi sono stesa per dormire, continuavo a sentire i canti, non so se trasportati dal vento o se il mio stato di allarme li faceva sembrare tali. Non riuscivo a dormire.
E non ero l'unica: centinaia di persone avevano piantato le loro tende nel Gan Sacher, molto vicino a me, con la preoccupazione dello scenario peggiore: una vita in cui una nazione tende lentamente all'autoritarismo e la libertà religiosa diventa un ricordo del passato.
• IL GIORNO DOPO Il giorno dopo la città era stranamente silenziosa, come se si fosse risvegliata da un incubo. Come il giorno dopo la morte di un familiare stretto, una domanda aleggiava sulla città: "È successo davvero? Come si andrà avanti adesso?”.
I principali quotidiani hanno pubblicato un grande quadrato nero in prima pagina (poi si è scoperto che era un annuncio pagato da qualcuno del movimento di protesta). Una giornata molto buia per Israele, dove sembrava che non ci fossero vincitori. Non ho visto attivisti con bandiere camminare per la strada mentre andavano a protestare, o manifestanti che prendevano la razione militare, un meritato boccone da mangiare dopo essere stati per ore spalla a spalla con i loro compagni.
Quelli che avevano trascorso la notte nelle tende hanno impacchettato le loro cose e sono tornati alle loro case e ai loro posti di lavoro, piangendo la perdita dell'unico Stato ebraico del mondo. Dove mai si può essere liberi se non nel proprio Paese? In quale altro posto sulla verde terra di Dio un ebreo, indipendentemente dal suo credo religioso, può esprimere la sua opinione ed essere ascoltato?
A differenza delle conversazioni che ho sentito spesso incrociando le persone per strada, in questo giorno, sorprendentemente, non si è sentito dire "Bibi, quel figlio di …” o "Dovresti andartene adesso prima che inizi la protesta, così non rimarrai bloccato nel traffico". La nazione aveva esaurito le sue energie e la rabbia era stata sostituita da una profonda tristezza.
Il mio vicino, con cui condivido il balcone, era appena tornato da un soggiorno di due mesi in India e Sri Lanka, dove lavorava nel settore high-tech e si beava su spiagge da sogno bevendo chai. In questo modo è riuscito a sfuggire non solo ai continui trapani e martelli dei lavori di costruzione nella nostra strada, ma anche alla pressione e allo stress di questa città tesa.
Alla domanda su come sarebbe potuto ritornare, la sua risposta è stata: "In che paese di merda viviamo!” Lo capisco, ma ho disapprovato il suo pensiero dicendogli: “In quale altro posto andresti?". Niente però poteva consolare l'anima amareggiata di un giovane che aveva trovato pace sulle spiagge di sabbia bianca di una terra straniera.
Mi sono chiesta quante tribolazione deve attraversare una famiglia prima che qualcuno decida di gettare la spugna. Qual è il limite oltre il quale si decide di richiedere un visto di lavoro o di cercare sangue "non ebreo" in famiglia per vedere se si può richiedere un passaporto europeo? Purtroppo, sapevo che il mio vicino era solo uno dei tanti che se ne sarebbe andato se avesse potuto.
• “LUNGA VITA AL RE” Mi chiedo spesso come sarebbe stata la storia di Israele se il popolo al tempo del profeta Samuele non avesse mai chiesto un re. Il capo di quel popolo sarebbe ancora il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? Avremmo profeti che chiedono al cielo risposte e guida?
Samuele era angosciato quando gli israeliti gli hanno detto di voler essere come tutte le altre nazioni. E’ quello che devono provare adesso i cittadini religiosi che combattono quella che credono essere la guerra di Dio contro il secolarismo e quello che si frappone tra noi e il ritorno del Messia.
Nei giorni prossimi credo che la tensione tra una nazione sotto Dio e una nazione "senza Dio”, e la realtà di questo nuovo ordine giudiziario metterà alla prova tutti noi. Da un lato, il Dio "ufficiale" di questa nazione è un Dio santo, dall'altro il libero arbitrio è una prerogativa dell'uomo, secondo il disegno di Dio. Le domande sulla fede e sulla religione affioreranno nei cuori delle persone, e i dibattiti sulla santità dello Shabbat, sulla modestia e sulle leggi del matrimonio civile saranno effettivamente sotto tiro, e le ragioni varieranno a seconda di chi li chiede.
Come credenti, viviamo nella fede in un'altra dimensione, ma se pensiamo di non esserne influenzati, è meglio ricrederci. Arriverà il giorno, forse non oggi ma forse domani, in cui dovremo lottare per i nostri diritti religiosi.
Dovremo lottare per il diritto di cittadinanza come ebrei anche se crediamo in Yeshua, per il diritto di parlare liberamente della nostra fede senza temere di essere perseguitati o imprigionati (una proposta di legge che non è passata) e per il diritto di celebrare una cerimonia di matrimonio ebraico rabbinico come ebrei messianici o come ebrei con un partner cristiano non ebreo.
Sotto la superficie sono avvenute scosse che preparano un terremoto. Tutto sarà scosso: la prova è appena iniziata.
(israel heute, 14 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Oriel - Praying at the Western Wall at the Old City in Jerusalem
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Jerusalem Foundation, ristrutturato il centro ‘Emilio Cesare Ottolenghi Youth Club’ per i ragazzi di Kyriat Menachem
di Jacqueline Sermoneta
Rispondere ai bisogni sociali, sanitari e comunitari delle persone più vulnerabili dei quartieri di Gerusalemme senza distinzione di cultura e religione. È questo lo scopo della Jerusalem Foundation, che, tra i numerosi progetti sostenuti e realizzati, ha contribuito alla ristrutturazione del centro “Emilio Cesare Ottolenghi Youth Club” per i ragazzi di Kyriat Menachem.
In questo quartiere risiedono circa 20mila persone, molti ‘olim chadashim’, nuovi immigrati, che provengono principalmente dai Paesi dell’ex Unione Sovietica e dall’Etiopia. Numerose famiglie si trovano in condizioni di svantaggio sociale. Un terzo dei 1.824 giovani tra i 12 e i 18 anni, che vive a Kyriat Menachem, necessita di intervento.
In risposta a questa esigenza, grazie alla generosità della famiglia Ottolenghi, è stato rinnovato un centro giovanile dedicato alla memoria dell’imprenditore italiano Emilio Cesare Ottolenghi z.l.
Attraverso l’impegno degli educatori, dei volontari e soprattutto delle iniziative promosse dal direttore Roi Trebelsi sono oltre 300 i ragazzi che frequentano e gestiscono il centro stesso. I giovani non solo sono coinvolti in attività utili alla collettività, ma viene data loro l’opportunità di seguire corsi affinché siano in grado di sviluppare capacità di leadership che possano proiettarli verso un futuro migliore.
«L’intenzione è di potenziare il volontariato nel quartiere – ha spiegato Trebelsi – L’anno prossimo continueremo con il secondo anno del progetto ‘Forstart’, in cui i giovani istruiranno i bambini più piccoli in campo tecnologico. Abbiamo in programma di coinvolgere i ragazzi anche nella ristrutturazione delle case delle famiglie meno abbienti che lo richiederanno, sotto la guida di esperti volontari. Vogliamo inoltre far partire un secondo gruppo di SHAKEL, ‘moschettone’, in cui integrare i ragazzi della comunità etiope. Si tratta di esperienze avventurose all’aperto e di percorsi di leadership».
Tra gli obiettivi «c’è anche quello di rafforzare la relazione genitori-adolescenti attraverso una serie di incontri in cui le coppie di partecipanti sperimenteranno dei laboratori incentrati sui rapporti interpersonali e la comunicazione – ha aggiunto Trebelsi – Per fare tutto questo sarà necessario assumere un secondo coordinatore, allo scopo di poter rispondere alle esigenze dei ragazzi e migliorare la qualità del contatto con i giovani».
(Shalom, 14 agosto 2023)
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Come si racconta la Shoah ai bambini
La storia della nonna Andra Bucci sopravvissuta ad Auschwitz al nipote.
di Lara Crinò
«La casa era piena di uomini, nazisti ma anche fascisti italiani, il nostro indirizzo era stato dato loro da uno spione che ci conosceva e ci aveva traditi». Il racconto della deportazione verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau di Andra Bucci comincia come altri racconti della Shoah: una casa affollata di parenti, perché in tempo di guerra e di persecuzioni le case sono affollate, e povere, e anguste; un colpo alla porta nella notte perché qualcuno, un delatore, spesso una persona conosciuta, ha rivelato che ci sono dei vicini ebrei; pochi minuti per raccogliere un piccolo bagaglio, poi il tragitto verso i vagoni della deportazione.
Questa frase, con cui Andra Bucci comincia a narrare la sua storia di bambina rinchiusa nel lager e sopravvissuta allo sterminio, si trova nelle prime pagine di Sarò la tua memoria, di Mario Calabresi. Una storia di trasmissione di memoria dedicata ai più giovani, che affronta col giusto passo un tema di cui molto si dibatte negli ultimi anni: come trasmettere il ricordo di ciò che è accaduto? Si possono dare molte risposte. Tuttavia, per non scadere nella fictionalizzazione del passato è necessario stare un passo indietro e saper ascoltare.
Così fa Calabresi in questo libro, dove il testo è accompagnato con grazia dalle illustrazioni di Carla Manea: in scena mette Joshua, il nipotino cresciuto in California, e la sua nonna Andra, che nel corso degli anni imparano a conoscersi durante le vacanze estive di lui in Italia e durante i soggiorni di lei negli Stati Uniti. In quel tempo insieme, man mano che il bambino cresce, nasce il racconto di ciò che la nonna ha vissuto durante la sua infanzia. Si dipana un po’ alla volta, guidato dalla voce «tranquilla, mai agitata» di Andra che rievoca la sua discesa nell’orrore, ma vuole al tempo stesso proteggere il nipote amato. Procede a sprazzi, per flashback successivi, perché ciò che fa male non si può mai dire in una volta sola, e anche noi insieme a Joshua scopriamo o riscopriamo la storia di Andra e di sua sorella Tati, figlie di Mira, una sarta di origini ebraiche, e di Nino, un marinaio cattolico. Andra cresce a Fiume, all’epoca una città italiana: nelle foto della prima infanzia è sempre vestita come sua sorella Tatiana detta Tati, e in quella somiglianza con la sorella, che è maggiore di lei di due anni ma sembra la sua gemella, sta la ragione della sua sopravvivenza.
Quando con la madre arriveranno ad Auschwitz, due piccole di quattro e sei anni finiranno nella baracca dei bambini che il dottor Mengele sottopone ai suoi esperimenti. La mamma, prima che le loro strade si dividano, chiede alle figlie di ricordare ogni giorno il loro nome e cognome; la blokova, la delinquente comune che i nazisti hanno messo a guardia della loro baracca, consiglia loro di non dire mai di voler raggiungere la mamma e di non fare mai un passo avanti durante gli appelli; il cuginetto Sergio, invece, lo farà e verrà portato via e ucciso. Dopo la liberazione dal campo e la fine della guerra Andra e Tati non torneranno subito in Italia. Verranno portate prima in Cecoslovacchia, poi a Lingfield in Inghilterra. Scopriranno infine che la madre si è salvata, e potranno ricongiungersi a lei.
Come elabora Joshua la storia della nonna? Cercando un modo per esserle vicino, la invita a parlare nella sua scuola americana, e scopre così l’enorme potere della testimonianza diretta. Ma non solo: durante le vacanze, a 17 anni, sceglie di sperimentare almeno in piccola parte le privazioni a cui Andra è stata sottoposta, isolandosi per giorni nel garage di casa, facendo lavori manuali per i vicini, mangiando poco, tenendo un diario: al ritorno in classe, racconterà la sua esperienza e la vicenda di Andra nell’auditorium del suo liceo. Si legge, in queste pagine, il grande affetto che lega nonna e nipote, ma anche quello dell’autore nei loro confronti. Uno sguardo empatico che non significa personalizzare la Storia ma dare importanza alle singole voci. Se continueremo ad ascoltarle, e a farle ascoltare ai nostri figli, salveremo un pezzo di memoria.
(la Repubblica, 14 agosto 2023)
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Il salmista ignoto (4)
di Marcello Cicchese
"L'autore ignoto del Salmo 119 è una prefigurazione del Messia". E' questa la tesi che sta alla base di questo studio. Chi non è convinto può sempre aggiungervi un punto interrogativo, e anche in questo modo può valer la pena di prenderla in considerazione perché nella Bibbia ebraica la figura del Messia appare al lettore in forma interrogativa non solo agli ebrei, ma anche ai cristiani che pure credono al Messia rivelato nei Vangeli.
La tesi dunque può interessare sia ebrei sia cristiani, indipendentemente dal nome che in seguito individuerà la persona del Messia.
Per come è formulata, la tesi manifesta che si sta facendo una lettura teocentrica della Bibbia, perché la figura del Messia rappresenta di per sé un intervento diretto e personale di Dio nella storia degli uomini.
E' necessaria questa precisazione perché il lettore occasionale o distratto della Bibbia tende quasi inevitabilmente a fare una lettura di tipo antropocentrico, cerca cioè di comprendere il muoversi di Dio nel racconto biblico a partire da quella che è la sua comprensione degli uomini. Così può avvenire che si dica, soprattutto fra lettori "intellettuali", ebrei e non, che il Messia biblico non è una persona, ma un sistema politico in cui regnano pace e giustizia. Con questa idea in mente, sarebbe meglio abbandonare del tutto la lettura della Bibbia e dedicarsi ad altro.
Tornando al Salmo 119, in questa sede si presuppone che esso abbia un autore in carne ed ossa, e si sostiene che il suo contenuto e la forma delle sue parole siano stati controllati da Dio al fine di annunciare in forma allusiva la venuta in Israele del suo Unto.
Non si può dire che questo sia un modo strano di dare una spiegazione unitaria al testo, perché i tentativi di individuare nell'Antico Testamento allusioni al Messia, o sue prefigurazioni, non mancano di certo in ambito ebraico o cristiano.
La particolarità teocentrica di questa tesi interpretativa sta nel sottolineare che il salmista - che per semplice comodità espositiva continueremo a chiamare Ariel - parla e agisce come "servo dell'Eterno", cioè esercitando un compito affidatogli da Dio in mezzo al popolo, e non come un qualsiasi pio israelita.
Il salmo sarebbe dunque una sorta di diario personale in cui il servitore racconta per iscritto a Dio le sue esperienze nello svolgimento del suo compito; ricorda la parola che gli è stata rivolta e con cui il Signore l'ha fatto sperare (v. 49); eleva a Lui fervide preghiere di soccorso per se stesso (v. 82) o di intervento su altri (v. 78).
Né il nome del salmista, né la situazione storica in cui si muove, né il suo preciso compito sono chiaramente indicati nel testo. Ma il dire e non dire, il periodare con riferimenti allusivi a significati possibili ma non dimostrabili, il lasciare il lettore col desiderio di comprendere meglio e più a fondo lo scritto, non è forse una caratteristica dello stile biblico quando si riferisce a realtà future non immediatamente comprensibili nel presente? In altre parole, una caratteristica dello stile profetico nella Bibbia?
Diciamo allora che forse si capisce meglio la figura di Ariel se lo si vede come un particolarissimo profeta, cioè uno strumento scelto da Dio per compiere un'operazione speciale in mezzo al popolo. Non si può negare che il Dio della Bibbia agisce spesso così. Si pensi a tutte le volte in cui suscitò un liberatore a Israele (es. Giudici 3:9, 15), o allo Spirito dell'Eterno che investì qualcuno per farne uno strumento di qualche sua operazione (es. Giudici 14:6; 1 Samuele 10:10, 11:6, 16:13; 2 Cronache 20:14, 24:20). Certo, qui non è detto esplicitamente che lo Spirito di Dio investì il salmista per farne un suo strumento, ma anche questa reticenza può far parte del carattere profetico del salmo.
Cerchiamo allora di immaginare, al solo scopo di favorire una riflessione, come potrebbe essere avvenuta questa operazione. Anche se non si conosce il periodo storico in cui si muove il nostro salmista, la cosa più verosimile è che sia vissuto nel periodo postesilico. Perché è soltanto dopo la distruzione del primo Tempio che "ritornò di moda" la legge in Israele; nei secoli precedenti si era perso perfino il ricordo dell'esistenza di un "libro della legge". Fu soltanto al tempo di re Giosia (sec. 7° a.C.) che il Sommo Sacerdote (!!) ritrovò "per caso" nella Casa dell'Eterno un libro che si scoperse essere il libro della legge di Mosè (2 Re 22:8-13).
E' del tutto naturale allora che molti abbiano potuto pensare che la catastrofica distruzione del Tempio fosse avvenuta come un tremendo castigo per l'inosservanza della legge di Dio.
Ma se la caduta di Gerusalemme era stata un castigo per la disubbidienza, allora si poteva sperare che anche la sua ricostruzione e il ristabilimento del Regno a Israele potesse avvenire come risultato dell'ubbidienza.
Ma quanta ubbidienza sarebbe necessaria per ottenere il risultato? Qui le risposte possono variare, ma sono comunque collegate a qualche forma di eroica ubbidienza alla legge da parte di qualcuno. Anche oggi, in qualche ambiente circola l'idea che una condizione preliminare per la venuta del Messia sia la piena osservanza dello Shabbat, anche una sola volta, da parte di tutti gli ebrei.
Chissà se qualche saggio ha mai sostenuto un'altra condizione da soddisfare per avere lo stesso risultato: che si trovi in Israele un giusto, anche uno solo, che mostri di saper osservare pienamente la Torà in tutta la sua vita. L'ipotesi potrebbe essere plausibile, perché in fondo appartiene allo stile di Dio fare misericordia a molti in risposta alla giustizia di uno solo. Per esempio, Israele era stata infedele a Dio per secoli, ma nel tentativo di evitare l'amaro compito di consegnare Gerusalemme nelle mani degli spietati Babilonesi, il Signore fece diffondere da Geremia questo appello:
«Andate per le vie di Gerusalemme; guardate, informatevi; cercate per le sue piazze se vi trovate un uomo, se ve n’è uno solo che pratichi la giustizia, che cerchi la fedeltà; e io le perdonerò» (Geremia 5:1).
Ma non se ne trovò nessuno.
E questo è il punto. I giusti sono merce rara. Sembra proprio che non se ne trovino in circolazione. Almeno stando al metro di valutazione di Dio:
L'Eterno ha guardato dal cielo sui figli degli uomini per vedere se vi fosse qualcuno che avesse intelletto, che cercasse Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti, non c'è nessuno che faccia il bene, neppure uno (Salmi 14:2-3; 53:2-3).
Ma allora, se si pensa che il mondo sarà salvato quando sulla terra si troverà un giusto integrale che ha come prima qualità quella di adeguarsi pienamente alla volontà di Dio espressa nella sua legge, sarà proprio in quel giusto che si potrà riconoscere l'intervento di Dio che invia sulla terra il suo Messia. Potrebbe pensare qualcuno.
E anche questa è una visione antropocentrica della Bibbia, ma di tipo ebraico, perché quello che si fa dipendere dall'uomo è un intervento di Dio nella storia.
La visione antropocentrica cristiana (sbagliata) guarda invece da un'altra parte: punta l'attenzione sul desiderio che gli uomini hanno, o non hanno, di trasferirsi vantaggiosamente dalla terra (in cui si sta scomodi) al cielo (in cui si sta bene).
Nella visione teocentrica si sostiene invece che la Bibbia pone la sua centrale attenzione sulla volontà di Dio, che dopo aver creato la terra su cui poi è avvenuta la disubbidienza della prima coppia umana, ha deciso di progettare ed eseguire un piano di riconquista salvifica della terra e di tutti gli uomini che in essa vivono col desiderio di essere eternamente uniti a Lui.
In questo piano Dio ha previsto la venuta in mezzo al suo popolo Israele di un suo inviato speciale, conosciuto col nome di Messia. Poiché tutto il male è entrato nel mondo per l'originaria disubbidienza del primo uomo, è ragionevole pensare che questo Messia inviato per rimettere le cose a posto debba avere come prima caratteristica quella di essere in tutto conforme alla volontà di Dio che l'ha inviato. Trovare o generare un inviato che possa svolgere sulla terra un compito simile è un problema di Dio, non dell'uomo. Ed è un arduo problema. Perché richiede che il Messia incaricato di vivere sulla terra in perfetta conformità al volere di Dio sia anche pienamente uomo. Riuscirà Dio a portare a termine questo compito, che di sua propria volontà si è dato? La domanda è lecita, perché in questo modo non si limita l'onnipotenza di Dio, ma si tiene presente che nel gioco rientra anche lo spazio di libertà che il Creatore ha stabilito fin dall'inizio per le sue creature.
Usando allora un linguaggio ad effetto, si potrebbe dire che il Salmo 119 contiene il resoconto delle parole appassionate rivolte a Dio da un suo anonimo servitore, qui chiamato Ariel, mentre svolge il particolare compito affidatogli di rappresentare in forma analogica una delle parti che competeranno al Messia: essere sulla terra la testimonianza vivente della piena osservanza della volontà di Dio espressa nella sua legge.
Si può certamente immaginare che Dio abbia provvisto il suo servitore Ariel di tutto ciò che era necessario per portare a termine il suo compito: si può pensare per esempio che Dio abbia investito anche lui del Suo spirito, come aveva già fatto con altri suoi servitori, ma è chiaro che Ariel era e rimane un uomo, con tutto quello che significa dalla caduta di Adamo in poi.
Che dire allora sulla conclusione di questa esperienza del salmista? E' riuscito Ariel a svolgere fino in fondo il suo compito analogico?
Qui il Salmo 119 mantiene quell'ineffabile fascino che gli proviene dal suo carattere fondamentalmente enigmatico. Ariel appare perfetto in tutto: nel suo dire e nel suo fare. Se il suo compito era quello che essere del tutto ubbidiente, lui assicura il Signore di averlo svolto:
E non viene mai smentito. Ariel parla di avvilimento, sconforto, ma mai si autoaccusa, mai chiede perdono.
Eppure manca l'apoteosi del lieto fine, come accade per esempio nel libro di Giobbe. L'esaurimento delle lettere ebraiche a disposizione impedisce che il testo possa essere allungato: il salmo appare formalmente completo, non c'è nulla da aggiungere o da togliere.
Ma passando dalla forma al contenuto, il lettore può restare con un senso di incompletezza: sembra esserci un'interruzione; sembra che la storia finisca con un interrogativo, come nel libro di Giona.
L'ultima strofa, corrispondente alla lettera TAV, si apre con un grido: una richiesta di intelligenza, dunque di sapienza, per sapere come muoversi. Prosegue con una supplica per ottenere liberazione, evidentemente perché avverte di essere costretto da forze esterne. Si alternano poi richieste di aiuto e assicurazioni di fedeltà al Signore.
L'ultimo versetto dà molto da pensare:
Io vado errando come pecora smarrita; cerca il tuo servo, perché io non dimentico i tuoi comandamenti (v. 176).
Nei miei appunti di anni fa aggiungevo un breve commento a questo versetto finale:
«Non c’è un lieto fine entusiastico ed euforico. E’ un finale che ci esorta a essere sobri. I momenti di smarrimento (non sappiamo se per circostanze esterne o per debolezza interna) sono sempre in agguato.»
E' un commento antropocentrico di vecchio stampo (cioè di quando ero più giovane) che ora considero non sbagliato come applicazione, ma certamente lacunoso. Il servo Ariel conclude il suo diario avvertendo il Signore di essersi perso per strada. Dice di andare errando come pecora smarrita per non si sa dove. Quindi Lo supplica di venire a cercarlo perché lui - assicura - non è di quelli che dimenticano i suoi comandamenti, quindi si aspetta che il Signore lo venga a cercare, lo ritrovi e lo riporti nell'ovile come una pecora smarrita e ritrovata.
E qui il discorso si interrompe senza dirci se la pecora smarrita è stata ritrovata.
Questo senso di incompletezza rafforza in un certo senso l'accostamento che abbiamo fatto all'inizio tra il Salmo 119 e quel capolavoro di Johann Sebastian Bach che è L'Arte della fuga. Quest'opera è rimasta incompiuta, e dopo pochi mesi il compositore è morto. Più che incompiuta, si è bruscamente interrotta, perché nella partitura lo scritto termina con le ultime note in mezzo al rigo, senza che il pezzo abbia una chiusura. E' un fatto che tuttora crea un certo imbarazzo negli esecutori, che restano incerti su come devono finire il pezzo che stanno suonando. Uno di questi ha scelto una forma sensazionale, quasi drammatica: si è bruscamente arrestato sull'ultima nota, immobile per alcuni lunghi secondi, col dito alzato,
come fulminato
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Gli studiosi di Bach suppongono che il musicista, avendo ormai raggiunto una maturità musicale che lo rendeva autonomo sul piano lavorativo e artistico, avesse voluto iniziare in quell'opera un suo originale progetto di elaborazione del contrappunto nella musica. Quel progetto si è interrotto.
Tornando a noi, se pensiamo a Dio come all'ideatore di un progetto redentivo del mondo, e sulla base della Bibbia crediamo che in questo progetto rientri l'invio sulla terra di un Messia, allora si può pensare che il Salmo 119 costituisca un momento di passaggio nella storia di questo progetto. Il resoconto che il salmista ignoto fa nel Salmo 119 presenta un'interruzione, ma il progetto di Dio non si interrompe. Certamente prosegue. E il seguito non può che essere ricercato nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento.
(Notizie su Israele, 13 agosto 2023)
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Il ministro israeliano per gli Affari strategici è atteso a Washington per un possibile accordo con Riad
Nei giorni scorsi, il quotidiano britannico “Financial Times” ha indicato che gli Stati Uniti stanno continuando a lavorare per normalizzare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita.
GERUSALEMME - Il ministro degli Affari strategici di Israele, Ron Dermer, è atteso a Washington, la prossima settimana, per colloqui con i funzionari statunitensi su un potenziale accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita. Lo riferiscono i media israeliani. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano “Walla”, Dermer discuterà degli sforzi diplomatici di Washington per ottenere un pacchetto di accordi con il regno saudita, compreso il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Riad. Nei giorni scorsi, il quotidiano britannico “Financial Times” ha indicato che gli Stati Uniti stanno continuando a lavorare per normalizzare le relazioni tra Israele e Arabia Saudita, ma il processo resta molto tortuoso, soprattutto per le precondizioni poste dai due Paesi per giungere a un accordo. L’analisi pubblicata dal quotidiani indica che i parametri necessari per arrivare un’intesa sono complessi. L’Arabia Saudita, infatti, avvierà relazioni formali con Israele in cambio di un maggiore sostegno e assistenza nel settore della difesa da parte degli Stati Uniti sul programma nucleare civile. In cambio, Riad chiederà che Israele fornisca maggiori concessioni alle aspirazioni statali dei palestinesi. Per gli Stati Uniti, tale risultato determinerebbe un riavvicinamento con Riad dopo gli anni complessi dopo la vicenda dell’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, oltre che favorire una cooperazione in termini di sicurezza fra Arabia Saudita e Israele.
Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha affermato di essere “aperto a possibili concessioni nei confronti dei palestinesi” se un accordo con l’Arabia Saudita dovesse dipendere da questo, in occasione di un’intervista rilasciata dal premier dello Stato ebraico a “Bloomberg”, nella quale ha lasciato intendere che non avrebbe permesso ai membri della coalizione di bloccare un possibile accordo con Riad. “Penso che sia fattibile raggiungerlo. Le questioni politiche lo bloccheranno? Ne dubito”, ha detto Netanyahu, secondo il quale “se c’è volontà politica, ci sarà una strada per raggiungere la normalizzazione e una pace formale tra Israele e Arabia Saudita”. “Penso che ci sia abbastanza spazio per discutere le possibilità”, ha aggiunto il premier. “Penso che la questione palestinese sia sempre messa sul piatto giusto per far vedere che viene seguita con attenzione”, ha affermato Netanyahu, spiegando che gli incontri per discutere della causa palestinese “avvengono a porte chiuse molto meno di quanto si pensi”.
In un’intervista al quotidiano di proprietà saudita “Elaph”, il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, ha detto che la questione palestinese “non sarà un ostacolo alla normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita”. “L’attuale governo israeliano adotterà misure per migliorare l’economia palestinese”, ha affermato Cohen, commentando la possibilità che Riad possa chiedere “significative concessioni” ai palestinesi per un accordo di normalizzazione con Israele. “Una visita in Israele di un ministro degli Esteri saudita sarebbe un giorno di festa”, ha osservato Cohen, sottolineando che i governi guidati dal primo ministro israeliano hanno assicurato relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco nell’ambito degli Accordi di Abramo firmati nel 2020.
Secondo il quotidiano statunitense “New York Times”, un potenziale accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele richiederebbe “significative concessioni” ai palestinesi, che difficilmente sarebbero approvate dalla coalizione ultraconservatrice di Netanyahu, il quale potrebbe essere quindi costretto a cercare di costituire un governo di unità nazionale. Il quotidiano ha sottolineato che le richieste della parte saudita difficilmente saranno approvate dagli esponenti dell’estrema destra e della destra religiosa nel governo di Netanyahu: una spinta in tale direzione potrebbe dunque far cadere il governo. Da parte loro, i leader dell’opposizione in Israele hanno già dichiarato di non voler far parte di una coalizione con Netanyahu a causa del processo in corso a suo carico per corruzione, ma durante le discussioni con gli statunitensi è emersa la possibilità di un governo di unità nazionale, nel caso in cui ciò significasse stabilire relazioni diplomatiche con i sauditi.
(Nova News, 12 agosto 2023)
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Normalizzazione dei rapporti Israele-Arabia Saudita: Cohen ottimista
di Enrico Picciolo
Il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, si espone ufficialmente in merito alle notizie che aveva diffuso mercoledì il Wall Street Journal, circa la buona riuscita di alcune intese tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. In questo contesto, infatti, si è inserito anche Israele che sembra tendere la mano al paese islamico, dichiarando che sussiste “una convergenza di interessi” tra Stati Uniti, Arabia Saudita ed Israele. In ballo la normalizzazione dei rapporti tra questi ultimi due paesi: la pace potrebbe essere davvero una cosa fatta. Forse. A fare da apripista Jake Sullivan, Consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense, che lo scorso 27 luglio si era recato a Riad per dei colloqui che avrebbero posto le basi per questo accordo: da un lato la seducente tutela militare americana, che farebbe gola ai sauditi spaventati dalla crescente ingerenza internazionale (e nucleare) dei vicini iraniani, dall’altro la necessità per Washington di ottenere energia a buon prezzo, concludendo un affare che agevolerebbe di molto l’economia americana e il prestigio interno di Biden alla vigilia della campagna elettorale per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. “C’è, adesso, una finestra di opportunità di 9-12 mesi”, ha detto Cohen, ovvero il periodo di carica rimanente a Biden, affinché le parole si concretizzino.
Gli Stati Uniti, con queste premesse, si pongono da intermediario tra Tel Aviv e Riad, allo scopo di far aderire l’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo che hanno visto, in tre anni, Israele instaurare rapporti con Emirati Arabi, Bahrain, Marocco e Sudan. Ma Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita, del tutto in linea con il Re Salman, ha delle richieste verso Israele, che si basano innanzitutto su delle concessioni che Tel Aviv deve attuare in favore del popolo palestinese. In ogni caso l’ottimismo di Cohen non è condiviso dagli analisti. I sauditi chiedono a Washington, oltre ad un trattato di difesa militare, un aiuto per lo sviluppo del programma nucleare civile, fatto quest’ultimo che innesca i timori israeliani, convinti che il passaggio dall’uso nucleare civile a quello militare sia solo una questione di (brevissimo) tempo, specie perché l’Arabia Saudita gestirebbe – secondo quanto avrebbero richiesto – tutti i processi produttivi, a cominciare dal materiale fissile. La questione palestinese non è poi così pacifica e, nonostante le rassicurazioni di Netanyahu, le concrete decisioni dell’attuale governo (di destra, il più estremista della storia) potrebbero essere ben altre.
Diffidenza condivisa dagli stessi palestinesi che, nonostante per ora siano solo alla finestra a guardare, temono addirittura che un accordo del genere renda il governo israeliano ancora più coeso e deciso, invece, a proseguire l’espansione in loro danno. Piuttosto chiedono di prendere parte a una qualsivoglia forma di accordo: “Vogliamo che l’Arabia Saudita ci ascolti e si consulti con noi. Le relazioni saudite-palestinesi sono forti e abbiamo fiducia in loro”, aveva detto la settimana scorsa Riyad al-Malki, ministro degli Esteri palestinese. Infine, proprio in casa americana esistono dissapori da dover superare, un dissenso bilaterale che incredibilmente accomuna una grossa parte di repubblicani e democratici, che vorrebbero vedere risultati concreti, in termini economici, prima di approvare un qualsiasi testo in seno al Congresso. Lo stesso John Kirby, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, commentando le indiscrezioni trapelate dal Wall Street Journal, si era mostrato tutt’altro che ottimista, specificando che “le discussioni sono in corso” e che, prima di arrivare alla “normalizzazione” dei rapporti tra i due attori del Medio Oriente, c’è ancora molto lavoro da fare.
(International Post, 12 agosto 2023)
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Ebrei etiopi e israeliani evacuati dalla regione del conflitto
Un nuovo conflitto in Etiopia spinge il governo israeliano ad agire. Sta trasferendo 204 persone fuori dalla zona di pericolo.
ADDIS ABEBA - Israele ha salvato più di 200 israeliani e aspiranti tali dalla regione etiope dell'Amhara, teatro di conflitti. Lì, nelle ultime settimane, milizie di insorti si sono scontrate con le truppe governative. L'Amhara confina con il Tigray, che in passato è stato scosso da violenti conflitti per due anni.
Secondo l'ufficio governativo israeliano e il ministero degli Esteri, giovedì 174 persone sono state trasportate in aereo da Gondar e altre 30 dal capoluogo del distretto Bahir Dar. Non è chiaro quanti israeliani e quanti ebrei con diritto di cittadinanza facciano parte degli evacuati.
Nei giorni precedenti, agli ebrei etiopi e agli israeliani era stato chiesto di recarsi ai punti di incontro nelle due città. Lì sono stati prelevati da autobus che li hanno portati all'aeroporto. Quattro voli hanno portato le 204 persone nella capitale etiope Addis Abeba.
Secondo quanto riferito, l'esercito etiope ha riconquistato sei città dagli insorti, tra cui Bahir Dar e Gondar, . Mercoledì il governo ha dichiarato lo stato di emergenza. Aveva chiesto aiuto al governo centrale perché aveva perso il controllo dell'area. Almeno 20 civili sono morti durante i combattimenti.
(Israelnetz, 12 agosto 2023)
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Pantano ucraino. La controffensiva delude, c’è scoramento e ora Kiev accusa gli Stati Uniti
«Non abbiamo abbastanza armi, difese russe sottovalutate, servono gli F-16».
di Francesco Semprini
NEW YORK - «È molto più complicato di quanto si dica, la controffensiva non sortisce effetti sostanziali al momento». I funzionari che seguono il dossier militare ucraino per le Nazioni Unite dall’inizio dell’invasione russa mettono da subito le cose in chiaro. Assieme a loro e ad altre fonti cerchiamo di ricostruire il mosaico del conflitto le cui tessere negli ultimi tempi, appaiono scollate tra loro. Giovedì ad esempio è iniziata l’evacuazione di 37 località del distretto di Kupyansk, nella regione di Kharkiv, a causa «della difficile situazione di sicurezza e dell’aumento dei bombardamenti». Una situazione di segno opposto a quella che La Stampa ha avuto modo di raccontare nell’autunno 2022 nel corso dalla prima controffensiva ucraina. Cosa sta accadendo allora? Dallo scambio con gli interlocutori diplomatici e militari emerge un quadro dove serpeggia tra le forze di Kiev a volte scoramento talvolta frustrazione nei confronti degli alleati, in particolare gli Stati Uniti. Partiamo dall’inizio della controffensiva. «Gli attriti che hanno portato al ritardo dell’avvio derivavano dalla dialettica tra i vertici politici e i vertici militari. Questi ultimi erano consapevoli che le forze in campo non erano pronte a raggiungere gli obiettivi che i primi definivano a portata», ci spiegano le fonti chiedendo il rispetto dell’anonimato: «Appena però i minimi rifornimenti militari sono giunti dall’estero e, soprattutto, appena hanno terminato l’addestramento le tredici brigate disponibili, si è dato inizio alle operazioni», in una sorta di corsa contro il tempo. Rimaneva però un problema noto agli analisti americani sin dall’inizio, di superiorità numerica militare russa. «Prima che la controffensiva iniziasse, già a maggio, le forze di Vladimir Putin avevano schierato nelle zone occupate 400 mila uomini, 200 mila per il controllo del territorio e 200 mila per il combattimento», spiegano gli esperti: «Gli ucraini per questa controffensiva hanno potuto iniettare sul campo una quindicina di brigate», ovvero tra le 70 mila e le 90 mila unità. «A ciò si deve sommare il fatto che nella fase di attacco il confronto di perdite è di 3 a 1, ovvero tre perdite per chi attacca contro una per chi difende». Quindi già l’analisi numerica di partenza suggeriva un rapporto di forza chiaro, che impone una riflessione ovvero se si conquista una porzione di territorio occorre anche mantenerne il controllo. «A questo si aggiunge il fatto che c’è stata una sottovalutazione della forza russa, in parte come componente della campagna motivazionale ucraina. Dall’altra perché c’è stata una sottostima reale di cui sono responsabili gli stessi americani». Un esempio su tutti è la convinzione secondo la quale la Russia avrebbe esaurito gli arsenali missilistici. «Si tratta di una narrazione smentita dagli stessi vertici militari ucraini che in una riunione d’urgenza di un paio di mesi fa hanno presentato dati che dimostrerebbero come non solo la Russia non ha esaurito i missili ma ne ha raddoppiato la produzione rispetto al 2022 aggirando le sanzioni». Come è possibile questo? La componentistica presente nei missili, come ha spiegato lo stesso presidente Volodymyr Zelensky, proviene da una pletora di Paesi, compresi gli Stati Uniti (attraverso alcuni giganti del comparto hi-tech), «perché si tratta di prodotti che non rientrano nella categoria “dual use” (ovvero con scopi civili e militari) e pertanto vendibili su qualsiasi mercato». A ciò si aggiungono le intermediazioni tramite Cina e altri Paesi. C’è infine un’altra questione tecnica. I russi hanno preparato linee fortificate di difesa a tre o quattro stadi praticamente su tutti i fronti «che lasciano presagire la volontà di volersi trincerare là dietro e chiuderla lì. Ci vorrebbe pertanto una forza soverchiante che in questo momento gli ucraini non sono in grado di proiettare con le risorse a disposizione». E per di più senza copertura aerea visto che, come annunciato dal Washington Post, il primo gruppo di sei piloti ucraini completerà l’addestramento per gli F-16 non prima di giugno 2024. Lo stesso quotidiano della capitale sottolinea la frustrazione di Kiev per i ritardi: «Questo si chiama tirarla per le lunghe». Frustrazione palpabile anche sul terreno secondo le testimonianze raccolte da La Stampa alla vigilia dell’anno e mezzo di conflitto (il 22 agosto saranno 18 mesi). «C’è un po’ di scoramento tra le forze armate, per esempio sul fronte di Kherson», anche perché le tattiche mutuate in ambito Nato che prevedono l’invio di piccoli gruppi super attrezzati, come riporta il Wall Street Journal, nel tentativo di sfondare in punti precisi le linee nemiche, a volte non funzionano, specie in teatri tattici caratterizzati da spazi aperti. Di qui il fatto che sottoporre le truppe di Kiev ad addestramenti sugli standard Nato «interessa fino a un certo punto, perché questa è una guerra diversa, è una guerra sovietica». Così la rimostranza si traduce in rivendicazioni precise: «Dateci le armi che ci servono piuttosto che addestramenti iniqui». Ne segue la corsa contro il tempo del presidente Joe Biden che ha chiesto al Congresso altri 24 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina, che si aggiungono agli oltre 113 miliardi stanziati dal 24 febbraio 2022, che rendono Washington il più grande finanziatore di Kiev nella difesa contro Mosca. Al Congresso (e non solo) c’è però chi inizia a chiedersi se limitarsi a riempire di armi l’Ucraina compensi da sola il divario di forze. Mentre al Pentagono si inizia a nicchiare sull’intaccamento delle riserve strategiche in un momento in cui le tensioni con la Cina sono in ascesa, e si registra una escalation di disordini in Africa e in Medio Oriente. «Possiamo dire che a Washington è in corso una rivalutazione della strategia seppure sempre con la priorità che l’Ucraina venga messa nelle condizioni di non subire più un’aggressione», ci spiegano fonti della capitale. Una rivalutazione, non a caso, propedeutica all’inizio dell’anno elettorale, con un presidente uscente in cerca di conferma pronto a presentarsi agli elettori, già dalle primarie di febbraio, come portatore di un piano di pace nel conflitto russo-ucraino.
(La Stampa, 12 agosto 2023)
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"... c'è però chi inizia a chiedersi..." Male! Un anno fa si poteva essere arrestati se si osava chiedersi qualcosa in pubblico sull'inderogabile difesa dell'Ucraina e mettere in dubbio il sicuro e imminente crollo della perfida Russia. Adesso "a Washington è in corso una rivalutazione della strategia". Facciano pure con comodo, perché tanto, morto più morto meno, di morti americani per l'Ucraina non ce ne sono molti. Nessuno, dice qualcuno, ma potrebbe essere una "fake news". M.C.
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L'Ucraina intende escludere Israele dal "formato Ramstein"
La parte ucraina sta valutando la questione dell'esclusione di Israele dal cosiddetto "formato Ramstein". Secondo The Kyiv Post, citando una fonte del Servizio di sicurezza e difesa nazionale dell'Ucraina (NSDC), Kiev non è soddisfatta della posizione di Tel Aviv all'interno di questo formato.
Secondo la fonte, Israele, avendo aderito ai negoziati, non ha fornito all'Ucraina un'assistenza reale. Inoltre, si teme che le informazioni ottenute durante gli incontri possano essere utilizzate dalle autorità israeliane nei propri interessi. Questa conclusione è stata fatta, in particolare, dopo la riunione di giugno, durante la quale il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha ignorato il suo omologo ucraino Alexei Reznikov e ha invece tenuto consultazioni con il capo del Pentagono Lloyd Austin.
Un altro interlocutore, che ha parlato a condizione di anonimato, ha sottolineato che una tale decisione di Kiev potrebbe essere causata dalle azioni ostili di Israele nei confronti dell'Ucraina. Secondo lui, Israele dimostra una posizione filo-russa nell'arena internazionale, che provoca alcune preoccupazioni in Ucraina.
Se Kyiv decidesse di escludere Israele dal "formato Ramstein", ciò potrebbe causare nuove tensioni nei rapporti tra i due Paesi. Al momento, i funzionari israeliani non hanno commentato queste informazioni.
(AVIA.PRO, 12 agosto 2023)
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“Stupore e sdegno per il voto dell’Italia all’ONU contro Israele”. La reazione delle associazioni
di Luca Spizzichino
Diverse associazioni hanno espresso stupore e sdegno per il voto favorevole dell’Italia ad una risoluzione adottata dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) di condanna verso Israele per aver violato i diritti delle donne. L’Italia è stata tra i 37 stati a votare favorevolmente a questa risoluzione. Una decisione che allinea lo Stato italiano a Paesi come l’Afghanistan, il Qatar, lo Zimbabwe e la Libia, nei quali i diritti delle donne vengono calpestati quotidianamente, e in maniera plateale. Tra i sei voti contrari sono stati registrati quelli della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, che hanno denunciato la selettività della risoluzione.
Lo Stato ebraico, nella risoluzione patrocinata da Cuba, Siria, Corea del Nord, Venezuela e altri Paesi, è stato accusato di essere un “grande ostacolo” per le donne palestinesi “per quanto riguarda il rispetto dei loro diritti e il loro progresso, l'autosufficienza e integrazione nello sviluppo della loro società”.
“Sono stupito dal voto del nostro Paese per la risoluzione adottata dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite lo scorso 26 luglio. Ancora una volta le decisioni prese dai diplomatici italiani all’Onu sembrano essere in netta contrapposizione con quelle che sono le azioni del governo” commenta il giurista Emanuele Calò, direttore dell’Osservatorio Enzo Sereni, associazione che vede il coinvolgimento di accademici ed esperti di diritto e che ha come sua prima finalità quella di contrastare il fenomeno dell’antisemitismo.
“La votazione della Commissione dell’ONU ovviamente non scalfisce la situazione di fatto in Israele, dove la parità di diritti, di opportunità e di carriere è testimoniata, fra l’altro, dal fatto che la Presidente della Suprema Corte di Giustizia è una donna” si legge nel comunicato dell’Osservatorio Enzo Sereni, che invita il governo a fare “un cambiamento radicale degli ordini spediti alle delegazioni diplomatiche del Paese nei principali centri decisionali internazionali”.
La Federazione delle Associazioni Italia-Israele ha espresso “stupore e delusione” per il voto favorevole dell’Italia, auspicando che “in futuro simili decisioni vengano meglio ponderate ed assunte con la necessaria, limpida obiettività che argomenti tanto delicati necessitano”.
UN Watch, organizzazione non governativa con sede a Ginevra, il cui mandato è quello di monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite in base al metro della propria Carta, è stata la prima a denunciare la risoluzione adottata dalla Commissione Onu.
“La risoluzione chiude un occhio su come i diritti delle donne palestinesi siano influenzati dalle loro stesse autorità di governo. Né fa alcuna critica o alcun riferimento al modo in cui le donne e le ragazze sono discriminate all'interno della società patriarcale palestinese” afferma l’organizzazione. “La sessione dell'ECOSOC del 2023 ha completamente ignorato i peggiori violatori dei diritti delle donne al mondo, rifiutandosi di approvare un'unica risoluzione sulla situazione delle donne in Afghanistan, Iran, Pakistan, Iraq, Algeria, Ciad o Mali, che si collocano tra i 10 peggiori violatori dei diritti delle donne nel mondo, secondo il Global Gender Gap Report 2023, prodotto dal World Economic Forum”, ha affermato Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch.
“In un momento in cui lo stupro è usato come tattica di guerra in Libia, gli esperti delle Nazioni Unite hanno accusato i talebani in Afghanistan di 'apartheid di genere', la Nigeria ha 20 milioni di sopravvissute alle mutilazioni genitali femminili, le donne possono finire in prigione in Qatar per aver denunciato violenza sessuale, e le donne leader dello Zimbabwe sono soggette a violenze sessuali e bullismo motivati politicamente, è teatro dell'assurdo per questi regimi misogini individuare Israele - unico al mondo - come presunto violatore dei diritti delle donne", ha aggiunto Neuer.
Israele è l’unico Paese al mondo ad aver subito una condanna di violazione dei diritti della donna da parte dell’ONU. Infatti, su 19 punti dell'agenda 2023 del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, solo uno - l'articolo n. 16 contro lo Stato ebraico - ha preso di mira un paese specifico. Tutte le altre aree di interesse riguardano temi generali, come i soccorsi in caso di calamità e l'uso della tecnologia per lo sviluppo.
(Shalom, 11 agosto 2023)
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Un governo italiano che vergognosamente si piega alla richiesta degli Stati Uniti di inviare armi in Ucraina, manifesta poi la sua "autonomia" dagli americani votando contro Israele. Vergognoso. E malaugurante. M.C.
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Siria, Israele, Palestina. Le manovre dell’Iran in Medio Oriente
Il leader di Hezbollah si sarebbe incontrato con uno dei vertici dei pasdaran per discutere delle evoluzioni securitarie nella regione. Molteplici i temi trattati, dal confronto con gli Usa al sostegno alla Palestina. Mentre Israele minaccia di riportare il Libano “all’età della pietra”
di Lorenzo Piccioli|
Secondo quanto riportano alcuni media israeliani ed arabi, nei primi giorni di agosto il generale di brigata Esmail Ghaani, comandante della Forza Quds (la branca del Corpo della Guardia della Rivoluzione Islamica responsabile di tutte le operazioni all’estero), si sarebbe incontrato a Beirut, con il segretario di Hezbollah Hassan Nasrallah. Come capo della Quds, Ghaani è il responsabile dei collegamenti con le milizie filo-iraniane e con tutti gli altri attori che rientrano nel cosiddetto “Asse di Resistenza”, compreso ovviamente il partito libanese guidato da Nasrallah e la sua organizzazione paramilitare. Non è chiaro quali siano stati i temi discussi nell’incontro tra i due esponenti sciiti; tuttavia, alcuni analisti del Critical Threat Project hanno provato a individuare le dinamiche più di rilievo per Teheran e la sua milizia affiliata nel quadrante di operazione levantino. Come, ad esempio, le tensioni registrate nella Siria orientale tra le Syrian Democratic Forces (Sdf), milizie antigovernative sostenute da Washington, e coloro che sostengono invece il regime guidato da Bashar al-Assad, compresi Iran ed Hezbollah. Nelle ultime settimane le Sdf sono state accusate congiuntamente da Mosca, Damasco e Teheran di pianificare un’offensiva all’interno dei territori sotto il controllo del regime. Queste accuse, anche se infondate, sarebbero finalizzate a giustificare l’ulteriore dispiegamento di forze lungo la linea di contatto da parte di questi attori con lo scopo di forzare il ritiro dei contingenti statunitensi dalla Siria. Anche gli effettivi di Hezbollah sono stati coinvolti in questo dispiegamento, con il presunto compito di attaccare i soldati statunitensi presenti nel paese in caso di un’escalation militare. Ma Hezbollah non è l’unica carta di cui l’Iran dispone in Siria. Vi sono innumerevoli milizie locali che, in cambio di risorse e finanziamenti, decidono di seguire le direttive impartite loro da Teheran. Lo stesso Ghaani, nei giorni precedenti all’incontro con Nasrallah, si era recato nella provincia di Deir Ez Zor per un’ispezione. Con il rinfiammarsi delle tensioni con Washington e i suoi alleati lungo la linea di contatto siriana, le forze Quds hanno deciso di rinforzare le proprie proxies presenti nel settore. È infatti di questi giorni la notizia diffusa da alcuni media siriani secondo cui un’importante clinica della città di Hatla, gestita e finanziata proprio dai pasdaran, avrebbe interrotto il sostegno medico a chiunque non avesse legami con le milizie filo-iraniane. Come risultato, gran parte delle famiglie locali ha fatto unire i figli maschi a queste milizie, nella speranza di recuperare l’accesso alle cure ancora più vitale in un contesto difficoltoso come quello della Siria dilaniata dalla guerra civile. Le tensioni continuano ad essere alte anche lungo il confine tra Israele e Libano. Dal giugno di quest’anno, Hezbollah sta lanciando una serie di provocazioni armate contro la linea di demarcazione, episodi che incrementano sensibilmente il rischio di un escalation militare con conseguenze drammatiche. Lo sa bene il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, il quale in una dichiarazione pubblica rilasciata l’8 agosto afferma che lo scoppio di un conflitto tra Tel Aviv e sarebeb così distruttivo da “riportare il Libano all’età della pietra”. Gli scontri tra militanti palestinesi residenti nei campi profughi siti nella stessa area e le forze armate israeliane rendono la situazione ancora più delicata, pur none essendo direttamente collegata alle azioni di Hezbollah. Tuttavia, le due fazioni musulmane potrebbero essere in contatto per altre questioni. Secondo quanto rivelato dal leader della guerriglia palestinese Zayed Nakleh, il gruppo guidato da Nasrallah avrebbe stretto contatti con le milizie palestinesi per fornire equipaggiamenti e informazioni ai gruppi presenti in Cisgiordania. Dopo che i raid israeliani del luglio scorso hanno minato profondamente le capacità operative di questi gruppi, Teheran ritiene fondamentale supportare la ripresa di un alleato così importante nella sua lotta contro il suo nemico giurato. E non potrebbe esserci intermediario più adatto che il gruppo sciita libanese fedele agli Ayatollah.
(Formiche.net, 11 agosto 2023)
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La nuova linea ferroviaria di Israele e le relazioni con l'Arabia Saudita
Che c'entra la costruzione di una nuova linea ferroviaria in Israele con la normalizzazione delle relazioni tra l'Arabia Saudita e lo Stato ebraico?
di Yochanan Visser
GERUSALEMME - Domenica 30 luglio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha presentato un grandioso piano infrastrutturale che prevede una linea ferroviaria ad alta velocità dalla città settentrionale di Kiryat Shemona a Eilat, nell'estremo sud di Israele. Netanyahu ha definito il piano "Un solo Israele", attirando la derisione dei critici, dal momento che Israele è attualmente profondamente diviso e, secondo alcuni, addirittura sull'orlo di una guerra civile. Il Primo Ministro israeliano ha anche parlato di una futura estensione della linea ferroviaria ad alta velocità all'Arabia Saudita dopo il completamento del collegamento tra Kiryat Shemona ed Eilat. Di per sé non si tratta di un'idea nuova, poiché Israel Katz, nella sua precedente veste di ministro dei Trasporti, aveva già presentato questo piano in occasione di una conferenza regionale in Oman nel 2018. Il costo dell'intero progetto infrastrutturale è stimato in 104 miliardi di shekel (circa 30 miliardi di euro) e un comitato governativo è stato costituito per organizzare il finanziamento del piano indipendentemente dal bilancio biennale dello Stato di Israele. I critici hanno affermato che il piano rimane una chimera a causa del suo costo enorme, ma Netanyahu ha già dimostrato in passato di essere in grado di raccogliere i fondi per progetti di tale portata. Ne sono un esempio la linea ferroviaria ad alta velocità da Gerusalemme a Tel Aviv e il successo dello sviluppo dei vari giacimenti di gas naturale offshore. Prima di analizzare la nota del Primo Ministro sul prolungamento della linea ferroviaria fino all'Arabia Saudita, dovremmo esaminare i dettagli del piano infrastrutturale complessivo.
• IL PIANO A GRANDI LINEE Il piano è considerato urgente, poiché Israele soffre da anni di una grave congestione del traffico e la popolazione dello Stato ebraico è in rapida crescita. Il piano approvato dal gabinetto prevede un quinto e un sesto binario lungo l'autostrada Ayalon, che attraversa Tel Aviv. La linea ferroviaria sulla costa dovrà essere raddoppiata, la linea per Haifa elettrificata e bisognerà scavare un tunnel sotto la città. Ci sarà anche un collegamento ferroviario tra Gerusalemme e Beer Sheva, che collegherà la capitale con la più grande città del sud di Israele. Altre linee ferroviarie esistenti saranno meglio collegate in modo che le persone possano viaggiare più velocemente, poiché tutti i treni saranno elettrificati. Secondo Netanyahu, le persone potranno viaggiare da Kiryat Shemona a Eilat in due ore a bordo di un TGV, che sarà in grado di viaggiare fino a 250 chilometri all'ora. Attualmente, un viaggio in auto dall'estremo nord di Israele a Eilat richiede in media sei o sette ore.
• ATTIVISTI AMBIENTALI Gli attivisti ambientali riuniti nella Società per la protezione della natura in Israele (SPNI) si oppongono fermamente al progetto. La SPNI sostiene che uno studio condotto dagli esperti del Centro Shasha per gli studi strategici dell'Università Ebraica di Gerusalemme ha ritenuto il progetto irrealizzabile. La società sostiene inoltre che tutti gli obiettivi geostrategici, logistici, ambientali ed economici della ferrovia (di Eilat) non possono essere raggiunti e che la costruzione della ferrovia causerà danni ambientali significativi. Questi danni, se ci saranno, saranno probabilmente limitati al percorso lungo il Mar Morto, che è un patrimonio dell'UNESCO, o alle Montagne della Giudea, se il percorso del TGV passerà attraverso il deserto. Il resto del percorso attraverserebbe la Valle del Giordano e l'Arava, il polveroso fondovalle che va dai piedi del Mar Morto a Eilat. Un'autostrada attraversa già queste zone, che sono geograficamente ideali per costruire una linea ferroviaria, senza incidere significativamente sull'ambiente.
• NUOVA LINEA FERROVIARIA E NORMALIZZAZIONE DELLE RELAZIONI CON L'ARABIA SAUDITA Durante la riunione settimanale di gabinetto del 30 luglio, Netanyahu ha dichiarato, tra l'altro, che: "In futuro, saremo in grado di trasportare le merci da Eilat ai nostri porti del Mediterraneo su rotaia. Saremo anche in grado di collegare Israele con l'Arabia Saudita e la penisola arabica su rotaia. Stiamo lavorando anche su questo". I giornalisti hanno interpretato questa dichiarazione come un'indicazione che una normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele potrebbe essere ormai imminente. Questa speculazione è stata rafforzata dai media americani che hanno riportato la notizia di una recente visita di due diplomatici americani di alto livello nella capitale saudita Riyadh. Fonti della Casa Bianca hanno dichiarato che Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e Bret McGurk, inviato di Biden per il Medio Oriente, hanno discusso, tra le altre cose, della normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. È possibile che tale normalizzazione sia imminente. Speculazioni in tal senso circolano da tempo. Tuttavia, le aspettative sono state smorzate dall'atteggiamento della leadership saudita. Essa ha ufficialmente ritenuto che la normalizzazione delle relazioni con Israele dovrà essere legata alle aspirazioni nazionali dei palestinesi. Dato che non esiste alcuna prospettiva di un processo di pace con il movimento nazionale palestinese e che i vari movimenti politici palestinesi sono profondamente divisi al loro interno, questa sembra una condizione irrealistica per un tale accordo. Tuttavia, si ritiene che il Presidente Biden abbia bisogno di un successo in politica estera per sostenere la sua rielezione il prossimo anno. Se questo successo sarà effettivamente un accordo con l'Arabia Saudita sulla normalizzazione delle relazioni con Israele, come i cosiddetti Accordi di Abramo, è molto discutibile. Questi accordi tra Israele e quattro Paesi arabi sono stati conclusi durante la presidenza di Donald Trump. Hanno creato una pace completa tra Israele e questi Stati arabi in tre casi (con l'eccezione del Sudan), ma nel caso dell'Arabia Saudita potrebbe esserci inizialmente una sorta di "pace economica".
• PACE ECONOMICA Come ha sottolineato Netanyahu, il suo governo sta lavorando dietro le quinte per approfondire le relazioni (economiche) con il Regno e di recente ha inviato il direttore del Mossad David Barnea a Washington per dei colloqui. Mentre la costruzione di una linea ferroviaria è attualmente solo un progetto, i contatti economici esistono già. Secondo quanto riferito, le start-up israeliane sono attive da tempo in Arabia Saudita. Alcune sono anche coinvolte nella costruzione dell'enorme città futuristica NEOM sulla costa araba del Mar Rosso. Sia Netanyahu che il suo consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi hanno affermato che la decisione di normalizzare le relazioni con l'Arabia Saudita spetta alla leadership di Riad. Dal momento che il re Salman ha ufficialmente bloccato finora la normalizzazione e suo figlio Mohammed, il principe ereditario, è a favore di una qualche forma di normalizzazione, potrebbe esserci una pace economica e quindi la costruzione di una linea ferroviaria tra Israele e la penisola arabica.
(israel heute, 11 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Abu Mazen caccia 12 governatori su 16
"Lotta di potere intestina con Hamas"
di Gaia Cesare
Abu Mazen caccia 12 governatori su 16. "Lotta di potere intestina con Hamas"
Repulisti in casa palestinese. Con un decreto presidenziale a sorpresa e senza dare spiegazioni, Mahmud Abbas, alias Abu Mazen, presidente dell'Autorità nazionale palestinese, ha rimosso 12 su 16 governatori locali. Tra loro ne figurano 4 che amministravano formalmente parte della Striscia di Gaza: dalla città di Gaza a Gaza-Nord, da Khan Yunes a Rafah e altri 8 all'opera in Cisgiordania, a Jenin, Nablus, Qalqilya, Tulkarem, Betlemme, Hebron, Tubas e Gerico. Quasi un azzeramento dei vertici locali, anche se i governatori nella Striscia di Gaza si erano già ridotti a ruoli simbolici, praticamente privi di autorità, dopo che l'Anp, guidata dal «partito» Al Fatah, è stata cacciata nel 2007 da Hamas, che da allora la governa.
Con l'annuncio delle teste saltate, Abu Mazen, al potere da oltre trent'anni prima nell'Olp e poi nell'Anp, ha anche avviato la nuova fase, ordinando la costituzione di un «Comitato presidenziale» incaricato di esaminare i nuovi candidati. L'Autorità nazionale palestinese è sull'orlo del collasso finanziario e sta perdendo il controllo della sicurezza in alcune aree, dove cresce il malcontento per la sua gestione. Serve dunque un ricambio ai vertici. Che si inserisce proprio nello scontro con il gruppo rivale Hamas. Lo spiega bene al Giornale il generale israeliano Yossi Kuperwasser, ex capo della divisione ricerca dell'intelligence militare dell'Idf, la Forza di difesa israeliana. «Abu Mazen si è accorto che non controllava più i suoi incaricati - spiega il generale, ex Direttore del Ministero degli affari strategici israeliano - È una mossa con cui l'anziano leader vuole riaffermare il suo potere». Di Abu Mazen Kuperwasser è convinto che «non si dà per vinto». «La lotta intestina con Hamas - aggiunge il generale - sta scappando di mano al leader dell'Autorità nazionale palestinese. Non che Abu Mazen sia contrario al terrorismo diffuso nelle province palestinesi, ma in questi nidi di vipere, lui vuole essere il serpente capo».
A luglio, i leader palestinesi rivali, Abu Mazen da una parte e Ismail Haniyeh di Hamas dall'altra, hanno tentato in Egitto una riconciliazione per mettere fine a 17 anni di fratture, ma senza risultati sostanziali.
La manovra palestinese, una lotta di potere interna al mondo palestinese, si inserisce in un contesto più ampio e arriva dopo che indiscrezioni del Wall Street Journal hanno preannunciato importanti progressi verso un accordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita perché Riad riconosca Israele in cambio di concessioni ai palestinesi. Una possibile intesa che secondo il ministro degli Esteri israeliano Ely Cohen è solo «una questione di tempo», ma che avvicina la pace tra i due Paesi, ormai «a portata di mano». Il portavoce per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha spiegato che ci sono «discussioni in corso» ma c'è «ancora molto da fare prima di arrivare a un quadro completo per la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele».
L'intesa, secondo il Wsj, dovrebbe chiudersi entro il prossimo anno e sarebbe «il più importante accordo di pace in Medio Oriente in una generazione». Nonostante le continue tensioni, il ministro Cohen ne è convinto: La «questione palestinese» «non sarà un ostacolo» alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. L'adesione di Riad agli Accordi di Abramo - già sottoscritti da diversi Paesi musulmani per la normalizzazione dei rapporti con Israele - farà la storia»
(il Giornale, 11 agosto 2023)
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Israele, un centro studi avverte: "Tensioni al confine col Libano, Hezbollah vuole un conflitto"
Il ministro della Difesa israeliano: "Se fossimo attaccati, non esiteremmo a usare tutta la nostra forza all'ennesima potenza, fino a riportare il Libano all'età della pietra". Intanto, in Cisgiordania, ucciso nella notte un 23enne palestinese
Mentre crescono le tensioni al confine con il Libano, un centro studi israeliano (Alma Center) avverte oggi che gli Hezbollah sembrano intenzionati ad aprire un confronto armato con Israele. “Gli Hezbollah vogliono e hanno bisogno di questo confronto” scrive senza mezzi termini il centro studi. Ancora pochi giorni fa, durante un sopralluogo al confine con il Libano, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato che, se Israele fosse attaccato, non esisterebbe a far ricorso a tutta la propria potenza “fino a riportare il Libano all'età della pietra”. Il Centro Alma afferma di aver documentato un'accresciuta attività militare degli Hezbollah lungo il confine, ma tale mobilitazione – a suo parere - non ha un legame immediato con la crisi politica in Israele, che è accompagnata da proteste fra i riservisti. Quelle attività, secondo Alma, sono iniziate un anno e mezzo fa, quando in Israele c'era ancora un governo centrista. Già oggi il potere degli Hezbollah in Libano “è enorme”, secondo Alma. Fomentando nuove tensioni militari con Israele, afferma il centro studi, gli Hezbollah ritengono che in quel modo “il loro potere in Libano crescerà ulteriormente”. Intanto in Cisgiordania un palestinese, identificato come Mahmoud Jihad Jarad, di 23 anni, è stato ucciso dal fuoco delle forze israeliane nella notte, durante un raid dell'esercito nel campo rifugiati di Tulkarm. Lo riferisce l'agenzia di stampa palestinese Wafa, citando fonti mediche, che aggiungono che altre quattro persone sono rimaste ferite e una di loro è in condizioni critiche.
(RaiNews, 11 agosto 2023)
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Perché Israele è molto cauto nell’affrontare le provocazioni di Hezbollah
Un rapporto dei servizi di sicurezza
di Ugo Volli
• Innovazioni positive
La complessa situazione internazionale di Israele non è mai immobile: vi sono cambiamenti positivi e negativi che la modificano continuamente. L’innovazione positiva degli ultimi anni è stata costituita dai cosiddetti “Accordi di Abramo”, promossi da Trump e sviluppati da Netanyahu. La loro capacità propulsiva non è affatto terminata, tanto che si continua a discutere di una loro prossima estensione all’Arabia Saudita, che sarebbe un’innovazione fondamentale nel panorama del Medio Oriente. Ma anche le relazioni con Marocco, Emirati, Bahrein continuano a progredire, assicurando a Israele una rete di interlocutori vicini che fino a qualche anno fa non era immaginabile.
• Il pericolo permanente dell’Iran
Fra gli elementi negativi costanti vi è la guerra non dichiarata ma praticata dall’Iran e dai suoi alleati contro lo stato ebraico, che Israele contrasta cercando di impedire accumuli di truppe e materiali ai propri confini, soprattutto con azioni aeree in Siria. Senza questa interdizione israeliana la capacità di attacco dei suoi nemici sul fronte settentrionale sarebbe già oltre la soglia della guerra aperta. Ma la capacità dell’esercito israeliano di bloccare i rifornimenti di armi avanzate ai satelliti dell’Iran è inevitabilmente limitata. Fra Iran, Iraq, Siria e Libano e in parte Gaza gli itinerari terrestri, marittimi, aerei sono numerosissimi, il nemico è disposto a subire perdite notevolissime pur di proseguire nella sua azione di accumulo di armamenti e quel che si può fare realisticamente è rallentare, ma non fermare, questo flusso.
• Le provocazioni di Hezbollah
Il principale beneficiario di questi rifornimenti è il movimento terrorista di Hezbollah, che probabilmente dispone di 150.000 missili, fra cui alcune migliaia ad alta precisione. Questo movimento terrorista di recente ha sviluppato fortemente le proprie provocazioni nei confronti di Israele. Si sono viste suoi reparti armati pattugliare apertamente i confini con Israele sotto gli occhi delle forze dell’Onu che avrebbero proprio il compito di evitare ogni presenza armata in quelle zone che non sia l’esercito libanese ufficiale (peraltro a sua volta sotto il controllo di Hezbollah, rispetto a cui è molto più debole). Vi sono state ispezioni di dirigenti e manifestazioni, e soprattutto la costruzione di due tende militari su un luogo che sta nella “terra di nessuno” fra le due linee fortificate di confine, ma che giuridicamente appartiene a Israele: dunque un’occupazione di territorio di Israele, che ancora è in corso. Tutte queste provocazioni non costituiscono una minaccia militare attuale vera e propria, sono soprattutto propaganda, ma anche uno schiaffo alla deterrenza israeliana, una sfida aperta a osare una reazione che Israele ha ritenuto di non intraprendere, almeno per il momento. Perché Tsahal, l’esercito israeliano (e la dirigenza politica cui risponde), non ha messo a posto il movimento terrorista libanese, come continua a fare con la Siria? Lo spiega un documento reso noto proprio da fonti militari israeliane.
• Lo scenario di una guerra con Hezbollah
Secondo lo scenario dei servizi di sicurezza, in caso di guerra con Hezbollah Israele dovrà fare i conti con un numero senza precedenti di razzi lanciati nel suo territorio – si ritiene 6.000 missili al giorno nel primo periodo di guerra e tra 1.500 e 2.000 in seguito. Sono numeri senza paragoni, per esempio, rispetto ai 294 razzi lanciati su Israele in media ogni giorno durante l’operazione di Gaza della primavera scorsa. Si valuta che questi lanci non potranno essere bloccati tutti da Iron Dome e potrebbero portare alla morte di circa 500 civili e al ferimento di altre migliaia (escluse le vittime militari dei combattimenti). Oltre ai diffusi danni alle case e alle migliaia di vittime, c'è molta preoccupazione per la capacità di funzionamento dei servizi pubblici, in particolare in termini di elettricità, comunicazioni, energia, catena di approvvigionamento alimentare e per il blocco della produzione industriale. Ciò che più preoccupa i responsabili della sicurezza è la capacità di lanci di precisione che l’Iran sta assicurando a Hezbollah. Una delle lezioni dalla guerra in corso in Ucraina più preoccupanti per Israele è l'efficacia dei droni iraniani. Oggi appare probabile che Hezbollah, usando armi iraniane, possa colpire pesantemente le infrastrutture vitali israeliane, come le centrali elettriche, i trasporti, i porti e l’aeroporto civile internazionale e le principali autostrade bloccando la circolazione di persone, mezzi, merci, armi di difesa. Inoltre, bisogna considerare la possibilità di migliaia di focolai di incendio, decine di attacchi ai depositi di materiali industriali pericolosi e naturalmente di attacchi informatici.
• Lo scontro militare
Tutto ciò riguarda solo la vita civile, senza parlare dei piani di Hezbollah per "conquistare la Galilea" e, in pratica, tentare di invadere e occupare alcuni dei territori settentrionali di Israele - una minaccia propagandistica che non sembra molto probabile. È chiaro che Tsahal è molto più forte delle milizie terroriste. Ma quelle di Hezbollah sono mescolate alla popolazione civile e dar la caccia ai missili e alle bande terroriste richiederebbe, come ha minacciato di recente il ministro della difesa Gallant, di “far tornare il Libano all’età della pietra”. Il che naturalmente presenta molti altri problemi sia sul piano etico, che per l’esercito israeliano è importantissimo, sia su quello politico, perché immediatamente si salderebbe contro Israele uno schieramento che comprenderebbe almeno parte del partito democratico americano e dell’Unione Europea, ma certamente si baserebbe sul mondo arabo, rischiando di distruggere la normalizzazione in corso. Inoltre il territorio libanese è difficilissimo, come si è visto nelle guerre del passato, e la probabile avanzata di Tsahal non sarebbe certo una passeggiata.
• La deterrenza di Hezbollah
Questa è la ragione per cui le provocazioni di Hezbollah sono affrontate da Israele con grande cautela. Ma bisogna anche dire che questa cautela (o contro-deterrenza di Hezbollah) è un rischio per la percezione della forza di Israele e della sua capacità di difendersi e di conseguenza rafforza l’aggressività iraniana e intimidisce gli amici di Israele. Anche questa situazione dice che in definitiva la testa del serpente sta a Teheran e non a Beirut e lo scontro decisivo, se ce ne fosse necessità, sarà con l’Iran e non con i suoi satelliti.
(Shalom, 11 agosto 2023)
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Settore tecnologico israeliano: calo di finanziamenti e di nuove startup nella prima metà dell’anno 23
di Francesco Paolo La Bionda
L’effetto domino dell’instabilità politica in Israele legata alla controversa riforma giudiziaria voluta dal governo si sta facendo sentire anche sul settore tecnologico, una delle industrie di punta del paese. È quanto emerge da un recente report di Start-Up Nation Central, un’organizzazione no-profit che promuove l’ecosistema dell’innovazione israeliano in tutto il mondo, relativo alla prima metà del 2023 e basato sull’analisi dei dati della piattaforma proprietaria Finder. Secondo la ricerca, i finanziamenti privati al settore hanno toccato i minimi da cinque anni: nei primi sei mesi del 2023 hanno infatti ammontato a 3,9 miliardi di dollari, il 29% in meno rispetto al semestre precedente. Un calo, peraltro, in accelerazione: solo tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno la contrazione è stata infatti ben del 10%. Questo trend è in contrasto con l’andamento dei finanziamenti al settore tech invece negli Stati Uniti, dove si son mantenuti livelli tendenzialmente stabili. Anche la partecipazione degli investitori ai round di finanziamento è crollata, toccando i livelli minimi degli ultimi nove anni e dimezzandosi rispetto alla seconda metà dello scorso anno. Si rileva però una maggior attività degli investitori stranieri, che, per la prima volta in un decennio, rispetto alle loro controparti israeliane hanno effettuato il 70% in più di operazioni di finanziamento e hanno avviato il 17% in più di nuovi investimenti, fungendo da forza stabilizzatrice. Anche il comparto delle offerte pubbliche iniziali (IPO) è sceso ai minimi dal 2018 e anche le operazioni di fusione e acquisizione (M&A) sono a uno dei tassi più bassi dell’ultimo decennio. Yariv Lotan, VP of Digital Products, Development, Data and BI di Start-Up National Central, ha dichiarato: “L’incertezza e gli avvenimenti interni in Israele, insieme ai cambiamenti economici globali, influenzano in modo evidente l’attività dell’ecosistema tecnologico israeliano e si riflettono in un significativo rallentamento e in una contrazione delle attività”. Guardando ai diversi settori, i più colpiti risultano essere il fintech, l’IT, l’health tech e il settore agroalimentare, mentre cybersercurity e green hanno conservato livelli tendenzialmente stabili.
(Bet Magazine Mosaico, 10 agosto 2023)
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«Questione di tempo» per l'accordo di pace tra Arabia Saudita e Israele
È quanto sostiene il ministro degli esteri dello Stato ebraico Ely Cohen
TEL AVIV - «Non c'è fumo senza arrosto. Siamo a un punto in cui la pace fra Israele e Arabia Saudita è a portata di mano. Un accordo è solo questione di tempo»: lo ha affermato oggi in un'intervista al sito di notizie israeliano Ynet il ministro degli esteri dello Stato ebraico Ely Cohen riferendosi alle informazioni diffuse ieri dal quotidiano newyorchese The Wall Street Journal circa progressi registrati in un pacchetto di intese Washington e Riad.
Cohen ha spiegato che in questa fase si delinea una «convergenza di interessi» fra Usa, Arabia Saudita e Israele, cosa che fa ben sperare per la riuscita dei contatti. «C'è adesso una finestra di opportunità di nove-dodici mesi», ha precisato.
Nell'analisi di Cohen, gli interessi del presidente statunitense Joe Biden sono legati fra l'altro a un sostegno all'economia degli Usa che potrebbe giungere da un accordo con l'Arabia Saudita, anche con un abbassamento dei prezzi dell'energia. «Quell'accordo - ha aggiunto - rappresenterebbe inoltre un successo politico» utile a Biden in vista delle elezioni presidenziali del 2024.
«L'Arabia Saudita - ha proseguito - cerca uno scudo protettivo per difendersi dalla minaccia iraniana». Secondo Cohen sarebbe utile che all'Arabia Saudita e ai paesi arabi moderati della regione fosse garantita da Washington una protezione analoga a quella assicurata alla Corea del Sud.
I sauditi, ha rilevato, «guardano poi con interesse alla nostra cooperazione, anche in campo economico, con gli Emirati arabi uniti e vorrebbero fare altrettanto». «Ecco così - ha concluso - che gli interessi di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele vanno verso una convergenza».
(tio.ch, 10 agosto 2023)
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Rinvenuto in Israele enigmatico
‘Specchio Magico’ dell’epoca bizantina
Il prezioso reperto è risalente a 1.500 anni fa.
Durante un programma di formazione promosso dal Ministero della pubblica istruzione di Israele, che ha visto coinvolti 500 studenti e realizzato in collaborazione con l’IAA – Autorità Israeliana per le Antichità, è emersa un’incredibile scoperta. Aviv Weizman, una diciassettenne residente a Kiryat Motskin, si trovava nei pressi di Haifa partecipando a uno scavo archeologico presso il sito storico di Usha. Aviv è stata protagonista di una sorpresa straordinaria! Ha infatti rinvenuto un eccezionale manufatto risalente all’epoca bizantina, uno ‘specchio magico’ risalente a 1.500 anni fa.
All’interno di questo corso, i giovani partecipano attivamente agli scavi archeologici condotti dall’IAA, l’Autorità Israeliana per le Antichità, in varie località dell’intero Paese. Questi siti sono destinati ad essere aperti al pubblico in futuro, contribuendo così alla condivisione della ricchezza storica. Uno dei luoghi oggetto di ricerca è il sito di Usha, nelle vicinanze di Kiryat Ata, dove l’archeologa Hanaa Abu Uqsa Abud, in servizio presso l’Autorità per le Antichità d’Israele, sta dirigendo lo scavo. In un recente comunicato diffuso dall’IAA, si è rivelato un ritrovamento di un frammento insolito di ceramica che è emerso dal terreno tra le pareti di un edificio. La giovane Aviv ha individuato e raccolto questo frammento, che ha poi presentato al dottor Einat Ambar-Armon, direttore del Northern Education Center dell’Autorità Israeliana per le Antichità. Con competenza, il dottor Ambar-Armon ha identificato il frammento come parte di uno ‘specchio magico’ risalente a 1.500 anni fa. Secondo le valutazioni di Navit Popovitch, esperto presso l’Autorità Israeliana per le Antichità:
Il frammento costituisce una porzione di uno ‘specchio magico’ risalente al periodo bizantino, tra il IV e il VI secolo d.C.. Al centro di questa tavoletta si trova un vetro specchiante, inserito come un amuleto inteso a sfuggire al malocchio: si credeva, infatti, che un’entità maligna, come ad esempio un demone, vedendo il proprio riflesso avrebbe deviato l’energia negativa, offrendo protezione al possessore dello specchio. Placche simili sono state precedentemente rinvenute all’interno di set funerari, collocate nelle tombe per custodire i defunti nel loro percorso verso l’Aldilà.
Eli Shayish, Direttore del Ministero dell’Istruzione Shelah e degli studi sulla terra d’Israele , ha commentato:
La partecipazione degli alunni agli scavi archeologici è la prova tangente dei loro sentimenti rivolti al paese e al suo patrimonio culturale.
Eli Escusido, il Direttore dell’Autorità Israeliana per le Antichità, sottolinea con entusiasmo:
Nel corso della settimana, i giovani hanno avuto l’opportunità di fare altre eccezionali scoperte, tra cui vasi di ceramica, monete, frammenti di pietra decorata e persino la scoperta di un acquedotto. La storia, solitamente appresa all’interno delle aule scolastiche, prende vita direttamente dalla terra. Un allievo che contribuisce a identificare un reperto durante uno scavo sperimenta un momento indelebile. Non esiste modo migliore per instillare nei giovani un profondo legame con il loro Paese e l’inestimabile patrimonio culturale che lo caratterizza.
Secondo Saar Ganor, coordinatore del progetto per conto dell’IAA:
Questa scoperta impreziosisce la cooperazione in corso tra l’Autorità israeliana per le Antichità e il Progetto Shelah del Ministero dell’Istruzione: allo stesso tempo, aiuta a scoprire il passato del Paese e a fornire ai giovani un’esperienza di crescita personale, collegandoli alle loro radici.
(ExpArtibus, 10 agosto 2023)
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Fondato il primo kibbutz dopo 26 anni
Nei pressi della città desertica di Arad sorgerà un kibbutz. È la prima volta dal 1997 che viene fondato un kibbutz, ma il nome non è ancora stato deciso.
ARAD - Le basi del piano per la creazione di un kibbutz alla periferia di Arad risalgono al 2011, quando il governo ha approvato la decisione 3782, che prevedeva la creazione di nuovi insediamenti nell'area di Arad, tra il raccordo di Shokat e Tel Arad. Tre anni dopo, le parti coinvolte hanno concordato la creazione di un blocco di insediamenti di 25.000 dunam. Lo ha riferito il quotidiano online "Yediot Aharonot" all'inizio di agosto.
Il progetto è iniziato nel 2022 sotto il governo Bennett-Lapid. L'allora ministro degli Interni Ajelet Shaked (Jamina) decise che il primo insediamento sarebbe stato un kibbutz.
Il kibbutz sarà costruito in collaborazione con il movimento giovanile socialista "HaShomer HaZair". Le famiglie possono già fare domanda per diventare membri del kibbutz.
Il responsabile del progetto del movimento kibbutz, Neri Schoten, ha spiegato che l'insediamento sarà pianificato per gruppi di diversa estrazione "che lavoreranno insieme per la sua costruzione e prosperità". I membri non saranno coinvolti solo nell'agricoltura, ma anche nell'istruzione e nella città di Arad. L'obiettivo è quello di lasciare un segno forte su Arad e sull'area circostante. "È dal 1997 che non c'è stata una nuova fondazione di kibbutz. Ora siamo pronti per questa sfida".
• Disaccordo sul nome
All'inizio di agosto, i media hanno annunciato il nome del nuovo kibbutz: "Ma'ale Aharon", in onore dell'ex ministro dell'Istruzione Aharon Jadlin. Quest'ultimo è morto lo scorso agosto all'età di 96 anni. Jadlin si era già trasferito nel kibbutz Chatzerim, non lontano dalla città desertica di Be'er Sheva, negli anni Cinquanta. È stato membro del Parlamento per il Partito Laburista (Avoda) tra il 1964 e il 1979, di cui tre anni come Ministro dell'Istruzione.
Il segretario generale del Movimento dei Kibbutz, Nir Meir, ha definito Jadlin "un uomo del deserto del Negev, un uomo di visione e di fede". E ha aggiunto: "Con il suo nome vogliamo onorare la sua eredità e immortalarlo come stella polare nella costruzione del nuovo kibbutz".
Tuttavia, proprio questo nome è stato rifiutato mercoledì. A capo della commissione per l'assegnazione del nome dell'Ufficio del Primo Ministro c'è Moshe Sharon. Egli ha dichiarato che il professore rispetta la memoria del defunto ministro. Tuttavia, ha detto, la commissione per l'assegnazione dei nomi cerca di evitare di intitolare i luoghi a personaggi pubblici. Sarebbe meglio intitolare a loro strade o istituzioni. "I nomi dei luoghi dovrebbero innanzitutto preservare i nomi storici del Paese".
Il movimento dei kibbutz è rimasto sorpreso da questa risposta. Aharon Jadlin era stato vincitore del Premio Israele ed era "sinonimo di sionismo e di amore per la Terra d'Israele". Inoltre, anche un insediamento nel Golan aveva preso il nome dell'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Come ha riportato giovedì il quotidiano "Yediot Aharonot", "persone che hanno familiarità con la questione" hanno espresso il sospetto che il rifiuto del nome possa essere di natura politica: uno dei tre figli del ministro deceduto è l'ex capo dell'intelligence militare, il maggiore generale Amos Jadlin. Quest'ultimo in passato si era espresso pubblicamente contro la prevista riforma giudiziaria.
(Israelnetz, 10 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La Fiera Internazionale del Libro Ebraico renderà omaggio ad Angelina Muñiz-Huberman
Del 1-10 settembre si terrà il quarto Fiera Internazionale del Libro Ebraico (FILJU), organizzato dal Centro Ebraico di Documentazione e Ricerca del Messico (CDIJUM), Córdoba 238, Col. Roma. L’incontro ha programmato un centinaio di attività che affrontano la letteratura, il giornalismo, il cinema, il teatro, la filosofia, l’ambientalismo e la sostenibilità, la sessualità e la cultura pop, tra gli altri. In questa edizione sarà presente come ospite internazionale lo scrittore Giosuè Cohen (New Jersey, 1980), vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa 2022 e riconosciuto nella lista dei più brillanti giovani autori americani dalla rivista concesso. Ed è stato segnalato da Harold Bloom in cima agli scrittori ebrei americani insieme a Henry Roth, Philip Roth e Nathanael West. con il suo romanzo I Netanyahu. Ha inoltre ricevuto il National Jewish Book Award, prestigioso riconoscimento per scrittori di origine ebraica. Inoltre, il Premio FILJU rende omaggio alla carriera del Dr. Angelina Muniz-Hubermann, saggista, traduttore, narratore e poeta. “La sua narrazione riflette un interesse interdisciplinare orientato, sia alla letteratura e alla gestione del linguaggio, sia alla storia degli eventi e dei temi ebraici. In questo senso, i suoi contributi accademici e culturali sono una ricerca intorno agli studi sefarditi, al dialogo interculturale, alle identità ebraiche, al cripto-giudaismo e alle diaspore del popolo di Israele”, sostiene l’incontro in un comunicato.
(IT ES Euro, 10 agosto 2023)
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Donna arrestata per aver insultato studenti e insegnanti della scuola ebraica di Monaco
di Luca Spizzichino
Una donna di 57 anni è stata arrestata a Monaco di Baviera dopo aver insultato bambini e insegnanti della scuola elementare ebraica della città.
La polizia locale afferma che l'incidente è avvenuto venerdì scorso, poco dopo le 8:00. Poco dopo l'incidente, gli insegnanti della scuola hanno chiamato le forze dell’ordine, che hanno subito arrestato la donna. Durante l'interrogatorio, la signora ha dichiarato che dopo aver sentito il gruppo parlare in ebraico ha deciso di imprecare contro di loro. Secondo la polizia la donna aveva commesso reati simili in passato.
Questo è solo l’ultimo di alcuni episodi di antisemitismo che sta colpendo la comunità ebraica tedesca. Per esempio, lo scorso settembre un uomo è stato brutalmente aggredito nella metropolitana di Berlino dopo aver ricevuto insulti antisemiti. Giorni prima invece, un rabbino di Potsdam è stato aggredito nella capitale tedesca di fronte a suo figlio.
Mentre la settimana scorsa la polizia nella capitale tedesca ha iniziato a indagare su un possibile attacco antisemita dopo che un turista israeliano di 19 anni ha riferito di essere stato aggredito da tre uomini. L'unità della polizia di Berlino incaricata di indagare sui crimini di matrice politica sta indagando sul caso dopo che sabato notte il turista ha riportato ferite a un braccio e al volto. Il turista israeliano ha detto alla polizia che stava camminando per una strada nel quartiere di Kreuzberg insieme a una ragazza di 18 anni mentre parlava al telefono in ebraico.
A giugno, l’Associazione federale dei centri di ricerca e informazione sull'antisemitismo (RIAS), un'organizzazione di sorveglianza con sede a Berlino ha pubblicato un rapporto che ha rilevato come l'antisemitismo violento sia in aumento in Germania. Secondo lo studio del RIAS, "Antisemitic Incidentis in Germany 2022", il numero complessivo di incidenti è leggermente diminuito rispetto all'anno precedente, tuttavia sono aumentati quelli classificati come "estremamente violenti". È stato il totale più alto mai registrato dal 2017. Il numero totale di incidenti antisemiti registrati da RIAS è stato di quasi l'11% inferiore rispetto al 2021, che aveva un totale di 2.773, ma superiore del 26% rispetto al 2020, quando il totale era di 1.957.
(Shalom, 10 agosto 2023)
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Il treno di Tel Aviv non funzionerà di sabato
Il progetto del treno leggero di Tel Aviv, atteso e a lungo rimandato, sta finalmente per vedere la luce. Tuttavia, un recente annuncio ha scatenato un vivace dibattito nella comunità: il treno non funzionerà durante lo Shabbat e i giorni festivi. Questa decisione è stata un duro colpo per alcuni residenti che avevano sperato che il sistema di trasporto fosse operativo durante i giorni di riposo.
Il progetto del treno di Tel Aviv, che consiste in una linea in parte aerea e in parte sotterranea, è iniziato nel 2011, con successive promesse di messa in funzione ripetutamente rinviate. I ritardi, dovuti principalmente a problemi tecnici come un malfunzionamento del sistema frenante, hanno frustrato i residenti locali, che per mesi hanno visto passare treni vuoti.
Tuttavia, un nuovo raggio di speranza sta emergendo con l'imminente apertura della linea rossa, prevista per il 18 agosto. Questa linea collegherà Bat Yam a Petah Tikva, passando per quartieri chiave come Jaffa e Rothschild, con un totale di 34 stazioni. Gli urbanisti sperano che questo nuovo mezzo di trasporto possa contribuire a decongestionare il traffico e a rendere più comoda la vita degli abitanti di Tel Aviv.
Uno dei motivi principali per cui si è deciso di non circolare il sabato è stato il fatto che il treno passa per Bnei Brak, una comunità Harédi densamente popolata che tradizionalmente osserva il sabato. La presenza di questa comunità ha influenzato la decisione, data la composizione del governo e la sensibilità religiosa in Israele.
Il dibattito intorno a questa decisione ha polarizzato la società. I critici sottolineano la coercizione religiosa, l'interruzione degli spostamenti e i problemi finanziari che potrebbe causare ad alcuni residenti. Poiché Tel Aviv è una città prevalentemente laica, molti ritengono che la chiusura del treno durante il sabato non sia in linea con l'identità della città.
D'altro canto, i sostenitori della decisione sottolineano l'importanza di mantenere il carattere ebraico dello Stato e sollevano questioni socio-economiche, in particolare il fatto che i più svantaggiati potrebbero essere costretti a lavorare nel giorno di riposo. È stata presentata una petizione all'Alta Corte di Giustizia per contestare la decisione, ma il governo ha affermato che la misura è in linea con la sua politica sui trasporti pubblici nei giorni di riposo.
(JForum.fr, 9 agosto 2023)
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Il velista israeliano Illy Wureit: il suo legame con l’Italia e con… il caffè
Ha da poco conquistato una storica medaglia d’argento nel Campionato del mondo junior nella categoria 49FX, svolto a Travemunde in Germania, il diciannovenne velista israeliano Illy Wureit, la cui storia personale si intreccia con l’Italia e il caffè.
Il giovane atleta si chiama Illy, nome dato dai genitori amanti del caffè, che hanno tratto l’ispirazione dal noto marchio triestino della bevanda. Lo riporta il quotidiano la ‘Repubblica’. A suggellare la scelta il regalo di Ernesto Illy, figlio del fondatore dell’azienda, che, venuto a conoscenza nel 2004 dell’episodio dal giornalista israeliano Menachem Gantz, fece recapitare ai genitori: un cucchiaino d’argento con il logo e il nome del neonato.
La storia del giovane Wureit si lega all’Italia, anche perché il bisnonno, Vittorio Bellelli, partì proprio da Trieste nel 1934 per l'allora Palestina mandataria, dove fondò l’azienda di famiglia, specializzata nell’importazione del marmo, soprattutto dall’Italia.
Ha coltivato la passione per la vela fin da piccolo, passione che, alla fine del mese scorso, l’ha portato a diventare insieme al suo compagno di vela Yuval Barnoon vicecampione del mondo under-21 nella classe olimpica 49FX - le imbarcazioni con derive plananti ad alte prestazioni. Una medaglia significativa per Israele perché è la prima vinta in questa categoria. Ora l’atleta dovrà affrontare i campionati europei in Portogallo e altre competizioni per arrivare alle Olimpiadi di Los Angeles 2028.
(Shalom, 9 agosto 2023)
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Ora sono davvero ebreo”
Un ateo diventa un convinto credente. Grazie a un’impolverata Bibbia
di Charles Gardner
Come può un ateo ebreo cresciuto in un kibbutz israeliano diventare un missionario del suo stesso popolo?
Asaf Pelled, 43 anni, ammette che essere ateo ed ebreo è un po' insolito, considerando che si tratta del popolo eletto da Dio. Ma certamente non era solo.
All'inizio si lasciava convincere dall'idea di discendere dalle scimmie e che bisognava adattarsi a questo, fino a quando, da adolescente, ha iniziato a porsi le grandi domande della vita.
Anche se si considera molto razionale, è arrivato a capire che esiste davvero un Dio. "Non ero religioso, ma all'improvviso non ho più potuto negare l'esistenza di un Dio. Ho visto la sua mano nella natura e negli eventi del nostro Paese. Così mi sono messo alla ricerca di questo Dio".
Dopo aver studiato la Bibbia con un rabbino ortodosso, "una voce piccola e ferma" gli ha detto che c'era dell'altro. Così ha continuato la sua ricerca della verità. Poi gli capitò tra le mani un Nuovo Testamento ebraico, che raccoglieva polvere sulla libreria dei suoi genitori. Cominciò a leggerlo.
Era un regalo di volontari cristiani alla sua mamma olandese. All'interno del libro c'era la dedica: "Spero che attraverso questo libro tu e tuo marito possiate vedere la luce".
Asaf ricorda: "Leggendo questo libro ho incontrato Gesù per la prima volta. La lettura dei Vangeli e l'autorità con cui Gesù parlava mi hanno commosso. Ho capito che la mia ricerca di Dio ruotava intorno a questa persona: Gesù".
Qualche anno dopo, nei Paesi Bassi, iniziò a frequentare regolarmente la chiesa. Lì gli spiegarono la Bibbia e imparò come gli eventi del mondo fossero collegati a Gesù.
”Ho visto come i cristiani affrontano i problemi della loro vita; ho visto Gesù in azione. E questo mi ha fatto venire voglia di diventare cristiano anch'io. Ma come potevo, in quanto ebreo, diventare credente in Cristo, nel nome del quale il mio popolo ha sofferto per migliaia di anni?
”Ho scoperto che il messaggio di Gesù non è mai stato di guerra e di odio, ma di amore e di sacrificio. Ora vedo e credo che non ci sia alcuna dissonanza tra il mio essere ebreo e la mia fede in Gesù. Anzi, seguire Cristo mi ha reso veramente ebreo".
Decenni dopo, tornato nei Paesi Bassi per condividere il suo cammino di fede alla Missione Internazionale per il Popolo Ebraico, Asaf è stato avvicinato dalla stessa coppia che anni prima aveva regalato la Bibbia ai suoi genitori.
(israel heute, 9 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Le mani di Teheran sulla industria bellica siriana
Teheran sta ricostruendo l'industria bellica siriana per decentralizzare (e rendere più sicura) la produzione di missili da crociera, droni e razzi
di Sarah G. Frankl
L’Iran sta entrando sempre di più nell’industria bellica siriana nel tentativo di armare in modo più efficiente i proxy della Repubblica islamica nel Levante. Lo ha rivelato il Centro di ricerca e istruzione Alma in uno studio. Lo studio ha anche rilevato che Hezbollah potrebbe arrivare ad ottenere armi chimiche siriane. «Nel rapporto abbiamo dimostrato il coinvolgimento iraniano in un centro dell’agenzia governativa siriana che si occupa dello sviluppo di armi», ha dichiarato Sarit Zehavi, presidente del Centro di ricerca e istruzione Alma ed ex ufficiale della Direzione dell’intelligence dell’IDF. Il nuovo studio pubblicato la scorsa settimana ha rivelato il legame dell’Iran con il Centro siriano di studi e ricerche scientifiche, noto con l’abbreviazione francese CERS. Il CERS è stato istituito nel 1971 per promuovere lo sviluppo scientifico in Siria e ora funge da ala di ricerca e sviluppo dell’esercito siriano. L’agenzia è distribuita in diversi istituti, tra cui l’Istituto 4000 nel nord-ovest della Siria, responsabile della produzione di missili, razzi e bombe, e un istituto separato dedicato allo sviluppo e alla produzione di armi chimiche. Zehavi ha dichiarato che la ricerca non ha evidenziato alcun coinvolgimento iraniano nella produzione di armi chimiche. L’obiettivo principale dell’Iran, secondo lo studio, «è sviluppare e produrre missili e razzi di precisione, missili da crociera e veicoli aerei senza pilota sul territorio siriano, utilizzando le infrastrutture dell’Istituto CERS 4000». Alcune strutture del CERS sono state distrutte da attacchi aerei in Siria. Israele non ha rivendicato la responsabilità degli attacchi, ma i rapporti siriani incolpano Gerusalemme. Zehavi ha descritto gli attacchi aerei come una probabile parte della campagna israeliana di «guerra tra le guerre», che consiste nel distruggere segretamente le minacce emergenti nei Paesi nemici. Zehavi ha spiegato che la politica iraniana di distribuzione di armi ai suoi proxy nella regione ha due scopi principali. «Uno è quello di creare piattaforme di influenza in questi Paesi – Siria, Libano, Iraq, ecc. – e il secondo è quello di creare una situazione multi-fronte contro Israele». Per raggiungere questi obiettivi, l’Iran deve affrontare la sfida logistica del contrabbando di armi in vari Paesi. A volte le armi vengono contrabbandate per via aerea attraverso voli civili diretti ad Aleppo, Damasco e Beirut. Nella maggior parte dei casi vengono contrabbandate con camion che percorrono più di 1.000 miglia dall’Iran alla Siria, secondo quanto detto da Zehavi. «Trasferire la produzione e lo sviluppo di armi in Siria significa accorciare questo corridoio, il che significa che Teheran non dovrà portare tutto dall’Iran, ma la produzione sarà in Siria per essere distribuita ai suoi proxy in Siria e in Libano», ha spiegato. Silvia Boltuc, amministratore delegato di SpecialEurasia, un’agenzia di intelligence geopolitica e di valutazione dei rischi, ha dichiarato che la produzione di armi in Siria permette all’Iran di salvaguardare l’accesso di Hezbollah alle armi. «In caso di attacco all’Iran, queste infrastrutture continueranno a funzionare in modo indipendente e la catena di fornitura di armi a Hezbollah non sarà intaccata», ha dichiarato Boltuc. Ha aggiunto che le infrastrutture iraniane sono state distrutte negli ultimi anni nonostante i migliori accorgimenti per tenerle segrete, il che potrebbe motivare l’Iran a diffondere le sue attività in più Paesi. Questa politica potrebbe anche essere una risposta alla crescente influenza israeliana nella regione. «Mentre Israele ha aumentato la sua presenza nei Paesi vicini, come l’Azerbaigian, per avere accesso diretto all’Iran, Teheran ha aumentato la sua influenza in Siria e in Libano», ha detto Boltuc. Israele ha aperto un’ambasciata in Azerbaigian nel marzo 2023 e un’ambasciata in Turkmenistan, a soli 15 miglia dal confine con l’Iran, nell’aprile 2023. Zehavi ha affermato che le armi chimiche di produzione siriana potrebbero finire nelle mani di Hezbollah. Contesta i rapporti delle Nazioni Unite che affermano che il governo siriano non possiede armi chimiche dal 2013, osservando che il governo siriano «ha usato armi chimiche contro i propri cittadini nel 2018». Non ci sono prove del coinvolgimento iraniano nell’industria delle armi chimiche siriane, ma Zehavi ha detto che gli stretti legami tra Siria ed Hezbollah suggeriscono che il gruppo terroristico potrebbe ottenere le armi chimiche siriane. «Hezbollah ha avuto un ruolo chiave nel salvare il governo siriano dalla guerra civile, insieme ai russi e agli iraniani, e quindi la collaborazione è ad un livello molto alto», ha aggiunto Zehavi. Zehavi ha affermato che Hezbollah potrebbe usare armi chimiche contro Israele solo in situazioni estreme e sul campo di battaglia. L’uso di armi convenzionali da parte di Hezbollah contro Israele, invece, non è più in discussione. «Siamo già lì, cioè sappiamo che Hezbollah le userà in guerre future, che gli iraniani le useranno e che altre milizie le useranno», ha detto. «Questo è un rischio per lo Stato di Israele. Si tratta di armi precise, il che significa che se Iron Dome dovesse mancare anche un solo razzo i danni sarebbero ingenti», ha detto Zehavi.
(Rights Reporter, 9 agosto 2023)
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USA e Israele: Il ‘sacro legame’ si sta finalmente spezzando?
Cercare di capire come stanno realmente le cose ascoltando anche quello che dicono i veri nemici è meglio che lasciarsi sballottare a destra e a sinistra da quello che ripetono i cosiddetti amici per interessi propri o stolide ideologie e non per amicizia. L’autore dell’articolo è un vero nemico di Israele. Ha dalla sua parte questo aspetto della verità. M.C.
di Ramzy Baroud
Sebbene gran parte dell’autoproclamata “indipendenza” di Israele sia il risultato del sostegno incondizionato degli Stati Uniti, gli israeliani difficilmente lo riconoscono. Il Presidente israeliano Isaac Herzog non ha aggiunto nulla di grande valore nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti il 19 luglio. Il suo era il linguaggio tipico. Ha parlato di un “legame sacro”, ha promosso l’esperienza condivisa tra le due nazioni come “unica per portata e qualità” e ha celebrato i grandi “valori comuni che attraversano le generazioni”. Ma questo linguaggio teatrale aveva lo scopo di nascondere una verità scomoda: il rapporto tra Israele e Stati Uniti sta cambiando a un livello sostanziale. Due giorni prima del discorso di Herzog, il capo dell’opposizione israeliana ed ex Primo Ministro, Yair Lapid, ha dichiarato che “gli Stati Uniti non sono più il più stretto alleato di Israele”. Le parole di Lapid erano un insieme di fatti e opportunismo politico. Lapid e altri nel suo campo sono ansiosi di incolpare il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per il declino delle relazioni tra i due Paesi; o per usare un linguaggio più pertinente, per indebolire il “sacro”, “legame indissolubile”, che da molti anni unisce i due Paesi. La valutazione di Lapid, tuttavia, è imprecisa. Se è vero che Netanyahu ha avuto un ruolo nell’ampliare il distacco tra Tel Aviv e Washington, è altrettanto vero che quel distacco era alimentato anche da altre dinamiche: da una combinazione di cambiamenti e tendenze politiche, geopolitiche e demografiche. Ma quale valutazione è più vicina alla verità? L’affermazione di Herzog di un “vincolo sacro” o l’affermazione più drammatica di Lapid che la considera un’alleanza ormai vacillante? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo guardare oltre le dichiarazioni pubbliche, spesso esagerate, fatte dai politici di entrambi i Paesi e in particolare dai leader dei due potenti partiti statunitensi, i Repubblicani e i Democratici. In termini di linguaggio, i leader di entrambe le parti insistono sul fatto che la devozione di Washington per Israele va oltre la politica e che la sicurezza di Israele è al di sopra della polarizzazione politica americana. In un discorso alla Knesset (Parlamento) israeliana il 1° maggio, il presidente della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy ha seguito il tipico copione americano su Israele. Anche lui ha parlato di “legame indissolubile” e “sostegno bipartisan degli Stati Uniti” e, prevedibilmente, è stato accolto con clamorosi applausi. Anche Biden è un convinto sostenitore di Israele. La sua frase spesso ripetuta: “Non serve essere ebrei per essere sionisti”, è ora un mantra tra gli alleati americani di Israele. Tuttavia, mentre il legame dei Repubblicani con Israele rimane forte, quello dei Democratici non lo è; così debole, infatti, che nel giugno 2022, un sondaggio del Centro di Ricerca Pew ha rilevato che “la maggioranza dei Democratici e coloro che sono inclini a dare il voto ai Democratici esprimono un’opinione più favorevole nei confronti dei palestinesi che degli israeliani”. Quindi, l’idea che Israele sia una causa comune tra i principali partiti politici americani è semplicemente falsa. Non c’è da stupirsi che Biden abbia ritardato di sette mesi l’invito di Netanyahu alla Casa Bianca dopo la formazione dell’ultima coalizione di governo israeliana. Affollata di politici di estrema destra, la coalizione di Netanyahu è semplicemente una responsabilità per qualsiasi sistema democratico in qualsiasi parte del mondo. Molti israeliani sono d’accordo, credendo in tutto o in parte che il loro governo non sia più democratico, a causa del crescente controllo di Netanyahu sulle istituzioni un tempo indipendenti del Paese. In tutto questo, Biden sta lottando per trovare l’equilibrio. “Sono molto preoccupato”, ha detto Biden ai giornalisti lo scorso maggio. “Israele non può continuare su questa strada, e l’ho chiarito”. Questo è lo stesso Biden che ha descritto come “assurda” la proposta dell’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Bernie Sanders, di trattenere i fondi destinati a Israele a causa del suo maltrattamento dei palestinesi. Washington dà a Israele almeno 3,8 miliardi di dollari (3,5 miliardi di euro) all’anno in aiuti militari. Se la tendenza anti-israeliana tra i Democratici continua, le richieste di trattenere i fondi potrebbero, nel prossimo anno, non apparire più così “assurde”. Sotto l’intensa pressione della lobby filo-israeliana, il 17 luglio Biden ha finalmente invitato Netanyahu alla Casa Bianca. La visita, tuttavia, considerando l’intensificarsi delle proteste anti-Netanyahu, difficilmente riallaccerà i rapporti tra Washington e Tel Aviv. Infatti, anche se le proteste si placassero, le relazioni tra Stati Uniti e Israele non saranno le stesse. Per oltre un decennio, gli Stati Uniti si sono lentamente, ma inequivocabilmente, allontanati dal Medio Oriente, in parte a causa degli esiti disastrosi dell’invasione dell’Iraq, e in parte a causa del crescente potere della Cina nella regione dell’Asia-Pacifico. Il ritiro degli Stati Uniti ha fatto suonare un campanello d’allarme in Israele, con i politici israeliani e gli intellettuali tradizionali che sollecitano l’autosufficienza. Ciò ha portato a un’inesorabile ricerca israeliana di nuovi alleati, soprattutto nel Sud del Mondo. Il successo, dal punto di vista di Netanyahu, di questa campagna ha aiutato Israele a liberarsi in qualche modo da qualsiasi impegno nei confronti dell’agenda statunitense in Medio Oriente, compreso l’impegno nel “processo di pace” guidato dagli Stati Uniti con la dirigenza palestinese. Nonostante l’insistenza di Biden, durante il suo viaggio in Medio Oriente nel luglio 2022, sulla necessità di un processo di pace “rinvigorito”, Tel Aviv non ha sostenuto né sembrava nemmeno accorgersi della nuova ricerca di Washington. A quel tempo, Netanyahu non era nemmeno Primo Ministro, poiché Israele era governato da una coalizione di governo guidata dallo stesso Lapid. Mentre Netanyahu viene opportunamente incolpato per l’indebolimento delle relazioni, il disimpegno da Washington è stato, in realtà, principalmente una decisione collettiva e un processo prolungato. Quando, il 10 luglio, il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che “il Presidente Biden deve interiorizzare che Israele non è più un’altra stella nella bandiera americana”, stava semplicemente ribadendo una linea popolare usata da altri prima di lui. Anche Netanyahu ha fatto ricorso a un linguaggio simile quando, a marzo, ha dichiarato all’amministrazione statunitense che Israele è “una democrazia forte, orgogliosa e indipendente”. Sebbene gran parte dell’autoproclamata “indipendenza” di Israele sia il risultato del sostegno incondizionato degli Stati Uniti, gli israeliani difficilmente riconoscono questo fatto. Il Direttorato del Ministero della Cooperazione Internazionale della Difesa Israeliano (SIBAT) riferisce costantemente sulla crescita delle esportazioni militari di Tel Aviv verso il resto del mondo. Queste esportazioni hanno raggiunto i 12,5 miliardi di dollari (11,3 miliardi di euro) l’anno scorso. La maggior parte di questa tecnologia è stata sviluppata dagli Stati Uniti o in collaborazione con gli Stati Uniti e gran parte della ricerca è stata finanziata dai contribuenti americani. Tuttavia, questo senso di “indipendenza” ha dato a Netanyahu la fiducia necessaria per abbandonare il Partito Democratico a favore dei più accomodanti Repubblicani. Da parte loro, la nuova generazione di politici Democratici vede Israele, o almeno la destra israeliana, come un’estensione del Partito Repubblicano, da qui la crescente ostilità verso Israele. In ultima analisi, sia Herzog che Lapid hanno in parte torto: il “vincolo sacro” è meno sacro che mai e, che gli Stati Uniti siano o meno l’alleato più stretto di Israele, fa poca differenza, dal momento che è improbabile che Israele trovi un’alternativa al supporto cieco di Washington subito o in tempi brevi.
(Palestine Chronicle Italia, 5 agosto 2023)
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Al via l’operazione ‘Wings of Fire': Israele aiuta Cipro a contrastare gli incendi
di Luca Spizzichino
Ieri Israele ha inviato una missione di soccorso a Cipro per spegnere gli incendi che stanno colpendo l’isola. La decisione è arrivata dopo che il presidente cipriota Nikos Christodoulides ha inviato al Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu una richiesta personale di assistenza immediata.
Su istruzione del premier Netanyahu con l’approvazione del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e del ministro degli Esteri Eli Cohen, l'operazione dell'IDF denominata “Wings of Fire” aiuterà a domare gli enormi incendi nella città di Limassol.
Gli equipaggi e gli aerei antincendio, guidati dal ministero della Sicurezza Nazionale, saranno sotto il comando della Divisione aerea della polizia israeliana in collaborazione con l'Autorità antincendio e di soccorso israeliana e l'IDF.
”Gli equipaggi e le attrezzature saranno trasportati dall'aereo Shimshon dell'IDF, che aiuterà a spegnere gli enormi incendi che stanno imperversando nella Repubblica di Cipro a causa delle condizioni meteorologiche estreme e dei forti venti", si legge in una nota pubblicata dall’Ufficio del Primo ministro.
L’operazione include due velivoli antincendio Air-Tractor, un equipaggio di quattro piloti, un equipaggio di terra, esperti di incendi boschivi e attrezzature, tra cui circa sei tonnellate di ritardanti di fiamma del Servizio antincendio e di soccorso israeliano.
”Wings of Fire" arriva circa due settimane dopo che una missione israeliana è tornata dalla Grecia dopo averla aiutata a domare le fiamme in diverse regioni. Anche nel 2021 Israele ha inviato due aerei a Cipro per spegnere gli incendi che infuriavano sull'isola.
(Shalom, 8 agosto 2023)
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Una visita al Muro del Pianto
Giovedì scorso ero a Gerusalemme per alcune commissioni. Poi mi sono recato al Muro del Pianto con la mia famiglia. E voi potete unirvi a me.
di Dov Elion
Ancora una volta, la settimana è passata molto velocemente. È di nuovo martedì. Siamo nel bel mezzo delle vacanze estive, il che significa che la nostra vita quotidiana è un po' più tranquilla del solito. L'anno scorso è stato particolarmente segnato dagli studi di nostra figlia. Studia design tessile allo Shenkar College e sta per iniziare il suo quarto e ultimo anno. Che dire, viviamo ogni momento dei suoi studi praticamente sul nostro corpo. Soprattutto quando cammino a piedi nudi per casa e poi calpesto uno dei numerosi aghi da cucire sparsi sul pavimento. Oppure trascino per tutto l'appartamento un filo da cucito che a un certo punto si attorciglia intorno alla mia gamba. Di notte poi mi capita spesso di inciampare in una o l'altra borsa con i numerosi utensili di cui nostra figlia ha bisogno per i suoi studi. Ma adesso abbiamo la nostra pace e tranquillità. Il nuovo anno non inizia prima della fine di ottobre, cioè "dopo le vacanze".
Ma come sicuramente saprete, purtroppo le cose nel nostro Paese non sono proprio tranquille. Per 31 settimane ci sono state manifestazioni regolari contro la riforma giudiziaria del governo di Benjamin Netanyahu. Tuttavia, la situazione è diventata un po' più tranquilla, almeno qui nel nostro Paese, da quando è stata approvata la legge con la clausola di ragionevolezza. Gli oppositori del governo sembrano aver esaurito le forze. Tuttavia, hanno confermato che continueranno le loro proteste. L'ultima manifestazione di sabato a Tel Aviv è stata molto più breve e più piccola di quelle a cui eravamo abituati. Anche l'autostrada Ayalon non era più bloccata. Sono curioso di vedere cosa succederà dopo le vacanze estive. Per ora mi godo la pace e la tranquillità della nostra strada. Speriamo che rimanga così.
Poiché siamo già stati all'estero in inverno, quest'estate resteremo a casa e ci accontenteremo di qualche gita di un giorno. Così giovedì abbiamo combinato alcune commissioni importanti a Gerusalemme con una passeggiata in città e una visita al Muro del Pianto. Lì non c'era alcun segno della spiacevole situazione in cui si trova il nostro Paese. Al contrario, l'atmosfera era allegra e ottimista, semplicemente meravigliosa. Era molto affollato; oltre ai numerosi turisti, c'erano anche alcuni gruppi israeliani sulla strada.
Al Muro del Pianto, come ogni giovedì (e anche il martedì), si tenevano diversi Bar Mitzvah, che mi hanno ricordato il Bar Mitzvah dei nostri figli. Anche noi siamo andati al Muro del Pianto a leggere la Torah in uno di questi giorni
C’era una grande atmosfera al Muro del Pianto. Ma credo che le immagini siano meglio delle parole. Quindi ora vi invito a unirvi a me nella mia visita al Muro del Pianto. Siete pronti? Allora cominciamo:
Questa è stata la nostra visita al Muro del Pianto. Spero che questo abbia stuzzicato anche a voi la voglia di andarci. Per quanto riguarda me e la mia famiglia, abbiamo capito che possiamo goderci l'estate in modo meraviglioso nel nostro Paese. Lo dimostra anche il fatto che nei primi sette mesi dell'anno il numero di turisti è raddoppiato rispetto all'anno scorso. Nel nostro prossimo viaggio, forse potrete unirvi a noi per una passeggiata a Tel Aviv.
Vi auguro un buon martedì. State bene!
(israel heute, 8 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Argentina, antisemitismo perfino nei fast-food
Proteste dalla Comunità ebraica per l’hamburger “Anna Frank” e le patatine “Adolf”
di Roberto Zadik
L’antisemitismo odierno non si ferma nemmeno a tavola e recentemente il fast food argentino Honky Donky avrebbe utilizzato due nomi decisamente “indigesti” come Adolf per le sue patatine fritte e Anne Frank per il suo nuovo hamburger. Stando a quanto racconta il sito JTA, Jewish Telegraphic Agency nell’articolo di Jackie Hajdeberg uscito lo scorso 3 agosto, la Comunità ebraica di Rafaela, cittadina nelle vicinanze di Buenos Aires ha prontamente denunciato “l’estro” di questo fast-food annunciando su Facebook un’imminente azione legale ed esprimendo nel messaggio “repulsione e indignazione”. Secondo vari media argentini, come riporta il JTA, quanto compiuto dal locale costituisce una violazione della rigida legislazione nazionale contro ogni discriminazione etnica, religiosa e fra Paesi che prevede pene molto severe, dalla multa alla reclusione. Successivamente, in risposta alle minacce legali, il fast food ha tolto dal menu le patatine Adolf e cambiato il nome dell’hamburger da Anne Frank ad Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII, controverso sovrano inglese che accusandola di averlo tradito la fece decapitare. Il ristorante si è scusato su Instagram “per l’irresponsabilità nella scelta di questi nomi che aprono ferite nell’umanità intera”. “Questa situazione” ha proseguito la replica “ci induce a riflettere sull’inaccettabile banalizzazione del dolore delle milioni di vittime degli stermini e dei totalitarismi”. Come ha evidenziato il testo dell’articolo, Adolf non sarebbe l’unico dittatore menzionato dal menu del fast-food. Qualche esempio? Fra le pietanze ci sarebbero anche le patatine Benito, alludendo a Mussolini e gli hamburger Gengis, diminutivo di Gengis Khan e Mao in riferimento al tiranno cinese Mao Zedong. Infuriata da quanto accaduto, la Comunità ebraica locale ha fatto sapere al sito JTA di essere informata dal marzo scorso sul menu del ristorante interrogandosi, come ha confermato Ariel Rosenthal uno dei suoi membri di spicco, sulle ragioni del ritardo di questa modifica. Nella sua nota la Comunità ha evidenziato la propria costernazione riguardo all’episodio, visti gli ottimi rapporti con la società circostante e “l’eccellente integrazione interreligiosa”. Rivolgendosi al locale, Rosenthal ha evidenziato la propria indignazione invitando il personale a riflettere sull’episodio “nella speranza che non accada mai più” come ha affermato. Accanto alla Comunità, hanno protestato varie organizzazioni ebraiche, come l’Associazione Culturale e sportiva israelitica I.L.Peretz che ha espresso il proprio sdegno. “Immaginiamo – ha affermato in un comunicato – che per questioni di marketing si arrivi ad utilizzare nomi sconvolgenti per semplici prodotti alimentari”. Nel suo messaggio, l’associazione ha invitato il ristorante Honky Donky a scegliere per i propri snack nomi di figure positive, da Gandhi, a Madre Teresa a Martin Luther King Jr al Dalai Lama.
(Bet Magazine Mosaico, 8 agosto 2023)
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Breve storia degli ebrei egiziani in Francia
Accoglienza e integrazione di una comunità
di Filippo Petrucci
Ancora oggi esiste uno spesso velo che copre le storie degli ebrei nordafricani. Misconosciuti dai più e perlopiù ignorati dalla storiografia che si occupa di Africa e Vicino Oriente, degli ebrei nordafricani si è cominciato a parlare in Italia negli ultimi 20 anni, grazie soprattutto al lavoro fatto dalle stesse comunità emigrate. Fortunatamente, le storie di queste persone che formavano una parte del tessuto sociale nordafricano, sono sempre più note; meno conosciuto è il loro destino dopo il processo di decolonizzazione e la loro espulsione dai vari paesi dove vivevano da secoli. A partire dagli anni 40, con la nascita dello Stato di Israele, l’accesso all’indipendenza di diversi paesi nordafricani e l’instaurazione di nuovi regimi, dei profondi cambiamenti avvennero sia all’interno dei vari paesi nordafricani che all’interno delle stesse comunità ebraiche.
In Egitto, in seguito alla creazione dello stato di Israele, la comunità cosmopolita e molto diversificata degli ebrei egiziani, subì violenze e pressioni tali che dovette lasciare il paese. In due anni, tra il 1948 e il 1950, 20.000 ebrei, sugli 80.000 registrati dopo la seconda guerra mondiale, abbandonarono il Paese. Negli anni successivi, centinaia di ebrei furono arrestati e deportati, centinaia di aziende sequestrate, i conti bancari vennero bloccati. Il 23 luglio 1952, il generale Naguib prese il potere al posto del re Farouk. In un primo momento la situazione per gli ebrei migliorò e sembrò tornare la calma, nonostante alcune tensioni ancora presenti ma la situazione cambiò di nuovo con l’avvento al potere di Gamal Abd el-Nasser nell’aprile 1954. Da quel momento in poi, gli ebrei non ebbero più posto in Egitto. Le continue violazioni delle libertà e, successivamente, le tensioni legate alla crisi del Canale di Suez (29 ottobre – 7 novembre 1956) spinsero 50.000 ebrei ad andarsene prima dell’inizio del 1958; a questi se ne aggiungono altri 10.000 tra il 1958 e il 1961. All’inizio degli anni ‘70 gli ebrei presenti in Egitto erano meno di 1.000. I paesi in cui questi si recarono furono principalmente Israele, Francia, Stati Uniti, Italia, Svizzera e diversi paesi sudamericani. Circa 11.000 membri della comunità ebraica, tra il 1956 e il 1966, si diressero verso la Francia, per rimanervi o come ponte verso altre destinazioni. Di questi, 7.000 erano francesi e 4.000 stranieri o apolidi. La scelta della Francia derivava sia dal fatto che molti avevano già una nazionalità francese sia per ragioni culturali o linguistiche o a causa di legami economici familiari su quel territorio. I rifugiati egiziani partivano senza nulla: 20 chili di bagaglio e tra le cinque e le venti sterline egiziane perché era vietato andarsene con più soldi. I più lungimiranti (o quelli che erano stati in grado) avevano acquistato merci o inviato denaro in Europa in anticipo; ma, il più delle volte, la maggior parte di loro si era ritrovata, dopo una vita soddisfacente, a esser povera e senza casa improvvisamente. Arrivati dunque in Francia, questi rifugiati vennero presi in carico dal Cojasor (Comité juif d’action sociale et de reconstruction), un’ istituzione, fondata nel 1945 e ancora attiva, che ha come obiettivo l’aiuto sociale e, per ciò che ha riguardato i profughi dai paesi dell’Africa del Nord, il tentativo di contribuire al loro reinserimento nella nuova realtà che erano destinati ad abitare. A partire dal 1956, su proposta del Cojasor e con l’ausilio del Service social d’aide aux émigrants (SSAE) e della Croce Rossa francese, lo stato francese istituì un “Fondo Comune per l’Insediamento dei Profughi d’Egitto” (grazie ai finanziamenti nazionali nonché ai fondi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dell’American Jewish Joint Distribution Committee). Il Cojasor operò in diversi modi: a livello materiale, con prestiti o aiuti finanziari per installarsi in un nuovo paese e per piccoli acquisti essenziali (un letto, una scrivania, delle sedie) e aiutandoli a trovare un lavoro. Inoltre, si attivò anche in sede giudiziaria, sostenendo le loro richieste nei confronti dell’Egitto. Infine fu un riferimento, anche se non sempre ottimale, per avere un supporto psicologico. Negli archivi del Cojasor, preziosa e pressocché inutilizzata fonte, troviamo innumerevoli storie riguardo alle 4300 famiglie che, dal 1956 al 1967, arrivarono a Marsiglia dall’Egitto: ebrei di nazionalità francese, italiana, greca, turca, tunisina, portoghese e ancora tanti apolidi. Il problema principale era fornire un tetto per tutti e per questo tante famiglie finirono in alberghi di ogni tipo. Col tempo, una percentuale relativamente ampia di profughi dall’Egitto riuscì a vivere in nuove località stabilite nei grandi sobborghi di Parigi che allora stavano nascendo: Villiers-le-Bel, Épinay, Sarcelles, Orly, Créteil, Gennevilliers. È interessante notare, come risulta dagli archivi del Cojasor, che i prestiti che vennero erogati ebbero un alto tasso di restituzione: fu un processo lento ma gli ebrei egiziani resero, in generale, le cifre che gli erano state accordate per ricominciare la propria vita. Circa il 14% di tutti gli ebrei in Egitto si è infine stabilito in Francia; nel complesso si può parlare di un insediamento positivo per questa comunità cosmopolita che seppe superare situazioni spesso difficili. Resta una amarezza di fondo dato che questa comunità si vide sradicata in pochi anni dal proprio paese mediterraneo. Vi è inoltre una ulteriore riflessione da fare in merito a questa comunità: gli ebrei egiziani hanno sempre avuto poco spazio nell’immaginario del mondo ebraico nordafricano. Alcuni autori come Krämer e Laskier in passato, Beinin, De Aranjo e Miccoli, più recentemente, hanno aperto importanti strade di ricerca su questo mondo ebraico ormai scomparso.
(JoiMag, 8 agosto 2023)
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Attentato a Tel Aviv
Un militante della Jihad ha sparato contro una guardia municipale, uccidendola. L’attacco dopo la morte di un palestinese in Cisgiordania
di Alessia Malcaus
Gli spari di un militante della Jihad islamica hanno scosso il centro di Tel Aviv. L’attacco è avvenuto lo scorso sabato 5 agosto in una via pedonale. L’attentatore ha sparato su una guardia municipale – l’uomo ferito alla testa è poi deceduto in ospedale – prima di essere neutralizzato da una seconda guardia. L’attentatore, Kamal Abu Baker, sarebbe giunto da Jenin dove militava in una fazione armata locale. Secondo la ricostruzione avrebbe girato per le vie di Tel Aviv in attesa di una manifestazione di massa contro la riforma della giustizia intrapresa dal governo Netanyahu quando ha attirato l’attenzione della guardia. L’attentato è seguito alla morte di un 19enne palestinese, Qosai Mitan, ucciso la sera prima in Cisgiordania durante uno scontro tra un gruppo di coloni e gli abitanti palestinesi del villaggio di Burqa. Per la morte del giovane sono stati arrestati dalla polizia israeliana due estremisti di destra ebrei. Uno di questi, un israeliano 19enne sospettato di aver sparato contro la vittima, si trova ora ricoverato dopo essere stato colpito con una grossa pietra e quindi incapace di fornire la sua versione dei fatti. Il secondo avrebbe in passato lavorato per Potere ebraico, il partito del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir: il ministro palestinese Hussein a-Sheikh chiede ora che il partito venga incluso nelle liste internazionali dei gruppi terroristici.
(Il Mondo, 7 agosto 2023)
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Terrorista: “Io continuo a vivere con Allah in cielo!”
Una lettera del terrorista di Tel Aviv dimostra che i terroristi palestinesi vedono la vita in modo diverso da quanto spesso possiamo capire.
di Aviel Schneider*
GERUSALEMME - Nei media stranieri i terroristi palestinesi sono per lo più glorificati come eroi e come vittime dell'occupazione israeliana della Palestina. Il dottor Mordechai Kedar, esperto di religioni in Medio Oriente, con il quale Israel Heute ha avuto diverse conversazioni nel corso degli anni, ha tradotto le due pagine del biglietto d'addio del terrorista dell'attentato di sabato a Tel Aviv e le ha interpretate nel contesto del Corano. Lo scopo della traduzione è quello di spiegare le motivazioni del terrorista rispetto a quanto viene detto dai media. I terroristi palestinesi vedono la vita in modo diverso da quello che spesso possiamo capire. Il terrorista crede che la vera vita si trovi nella morte e per questo motivo non ha paura di compiere questi terribili attacchi in Israele. Perché presume che gli spareranno degli israeliani armati. L'israeliano spara per autodifesa e il terrorista spara agli israeliani per andare in paradiso. Ciò che guida gli attacchi palestinesi nel Paese è l'impulso spirituale a raggiungere Allah in cielo. Questo desiderio di Allah neutralizza ogni paura, anzi, l'israeliano gli fa un favore quando spara al terrorista, si legge nella lettera. I palestinesi lo chiamano amore per Allah, mentre per gli israeliani è terrore e follia. Dietro a tutto questo c'è l'educazione, perché il giovane non ha inventato tutto questo da solo. La predicazione nelle moschee fa il lavaggio del cervello ai giovani palestinesi. La data è interessante. Il terrorista ha scritto il testamento il 25 febbraio 2023. Ciò significa che aveva pianificato questo attacco mesi fa.
* Direttore di Israel Heute
La lettera e la traduzione
Pagina 1:
Nel nome di Allah, il Misericordioso, il Compassionevole, la preghiera e la pace siano sul Messaggero (che fu inviato) con la spada di Maometto per aiutare gli oppressi e gli umiliati.
Attesto che non c'è altro Dio all'infuori di Allah, attesto che Mohammad è il Messaggero di Allah.
Kamal Mahmoud Abu Bakr (Abu Dajana) vi dico le mie ultime parole e non parlo di testamento, perché c'è un testamento per l'erede (in cielo) ed è il seguente senza introduzione.
- Appartengo all'Islam e non accetto in alcun modo di essere considerato sotto qualsiasi altra bandiera che non sia "Non c'è altro Dio all'infuori di Allah, Mohammad è il Messaggero di Allah". La mia etichetta è solo l'Islam. Non includetemi in nessuna fazione, organizzazione o partito perché sono un musulmano e questo mi basta.
- Ovunque troviate il mio corpo, seppellitemi e non mettete il mio corpo nel frigorifero. Non costruitemi una tomba e non mettetemi una pietra tombale.
- Chiunque pubblichi una mia immagine, un proclama o una canzone su di me, in qualsiasi forma, io sarò il suo avversario nel Giorno del Giudizio.
- Non erigete tende di lutto su di me, perché questo non ha origine nella nostra religione.
- Non fate discorsi di lutto su di me, perché il lutto è per i morti e non per i martiri (sulla base del versetto del Corano che dice: "Non crediate che coloro che sono uccisi per amore di Allah siano veramente morti. Sono vivi e dalla mano di Allah ricevono il loro sostentamento e chiediamo ad Allah di accettarci").
- Non pregate per me, perché i martiri non pregano (perché non sono morti).
Pagina 2:
Perciò vi consiglio, fratelli e sorelle, di rivolgere le vostre intenzioni solo verso Allah, perché Allah accetta solo le azioni fatte a Lui solo e in fedeltà. Così che nessun orgoglio, in nessun modo e per nessun motivo, entri nella nostra anima e la nostra memoria sia cancellata in questo mondo.
Giuro su Allah e ripeto il giuramento quattro volte che desidero vedere Allah più di ogni altra persona in questo mondo. Giuro su Allah che ciò che mi rende triste è la mia permanenza in questo mondo, perché preferisco l'altro mondo e ho venduto la mia anima ad Allah che me l'ha data. (sulla base del Corano).
Chiedo ad Allah di perdonarmi, mi pento e torno indietro e chiedo ad Allah di rimanere fedele alla mia intenzione e di accettare la mia azione ("attentato terroristico").
Infine, attesto che non c'è altro Dio all'infuori di Allah e attesto che Mohammad è il Messaggero di Allah.
Kamal Abu Bakr, Abu Dajana. 25.02.2023
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(israel heute, 7 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gaza: sette condannati a morte per ‘collaborazione’ con Israele
GAZA CITY - Un tribunale militare della Striscia di Gaza il 6 agosto 2023 ha condannato all'impiccagione sette persone per "collaborazione" con Israele, ha comunicato il ministero degli interni dell'enclave costiera controllata da Hamas.
Il tribunale ha anche condannato altre sette persone all'"ergastolo con lavori forzati", che a Gaza corrisponde a 25 anni, ha affermato il ministero in una nota.
Per quanto riguarda i condannati a morte, il tribunale ha affermato che hanno fornito informazioni a Israele sui gruppi armati a Gaza - inclusi nomi, numeri di telefono, indirizzi e depositi di armi - in cambio di denaro, ha riferito l'agenzia Maan News.
A uno degli imputati sarebbe stato concesso un permesso per lavorare in Israele in cambio di informazioni.
Il gruppo terroristico Hamas controlla Gaza, dove il tribunale militare emette regolarmente condanne a morte per persone ritenute colpevoli di “collaborazione” con Israele.
Secondo la legge palestinese, una condanna a morte richiede, per essere applicata, l'approvazione del presidente dell'Autorità palestinese, il cui quartier generale si trova in Cisgiordania.
Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007, ha ripetutamente ignorato questo obbligo e lo scorso settembre ha giustiziato due palestinesi per "collaborazione" con Israele e altri tre per omicidio.
Ad aprile, due persone sono state condannate a morte e altre quattro all'ergastolo con le stesse accuse di collaborazione.
Almeno 17 condanne a morte sono state emesse nel 2022 nella Striscia di Gaza.
(Nessuno Tocchi Caino, 7 agosto 2023)
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La rinascita dell'yiddish: pronto un corso all'Università di Tel Aviv
di Michelle Zarfati
In risposta alla crescente domanda e all'interesse per gli studi della lingua e della cultura yiddish, la Facoltà di Lettere dell'Università di Tel Aviv introdurrà un nuovo programma di studi e ricerca nel teatro e nelle arti yiddish. Il programma comprenderà aspetti teorici e pratici dell'arte e della performance.
Gli studenti si impegneranno nella ricerca storica e archivistica, nonché in esperienze teatrali pratiche, che rispondono alla ricchezza creativa del teatro yiddish e delle arti correlate. Durante i loro studi, gli studenti affronteranno la questione di ciò che costituisce l'eredità del teatro yiddish per i giovani creatori e la cultura contemporanea.
Negli ultimi anni, lo yiddish ha vissuto un significativo risveglio accademico, attirando numerosi studenti sia da Israele che da tutto il mondo, che cercano sempre di più di sperimentare la ricchezza spirituale e linguistica della lingua e della cultura. Ogni anno, più di un centinaio di studenti si iscrivono a vari corsi di lingua e cultura yiddish, compreso un master. Inoltre, ogni anno si tengono programmi estivi internazionali per gli studi yiddish, con l'attuale programma che ospita 75 studenti provenienti da 14 paesi diversi, tra cui Stati Uniti, Portogallo, Argentina e Francia.
Il dottor Yair Lipshitz del Dipartimento delle arti teatrali e capo dello Zimbalista Jewish Heritage Center ha condiviso che in Israele lo yiddish è per lo più percepito come tradizionale, nostalgico o, peggio ancora, grottesco e obsoleto. Tuttavia, nonostante queste idee, la cultura yiddish include voci diverse che un tempo erano considerate moderniste, radicali, sensuali e all'avanguardia.
"Aspiriamo a riportare queste voci nella Tel Aviv contemporanea e consentire ai nostri studenti di sperimentare ed esplorare la sorprendente rilevanza della cultura yiddish nelle loro vite di oggi", ha detto il dott. Lipshitz. Nell'ambito degli sforzi per promuovere lo studio e la ricerca della lingua yiddish, in collaborazione con il dott. Mark Zilberkweit, presidente della Fondazione per la conservazione della cultura yiddish, è stata anche realizzata una statua di Sholem Aleichem, scrittore ebreo yiddish, recentemente collocata nel campus.
(Shalom, 7 agosto 2023)
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Il Tar obbliga il Ministero a rilasciare i dati sui decessi entro 14 giorni dal vaccino
I magistrati accolgono il ricorso che vuole far luce sugli eventi avversi e verificare le stime di Aifa. Un giudice di pace intanto smonta le multe comminate ai no vax
di Patrizia Floder Reitter
Due sentenze fanno ben sperare che i. giudici finalmente smettano di ignorare soprusi commessi durante la pandemia, mantenuti anche a emergenza conclusa grazie all'atteggiamento di molte istituzioni. Il Tar del Lazio ha ritenuto legittima l'istanza con la quale l'avvocato Lorenzo Melacarne aveva chiesto al ministero della Salute di poter conoscere il numero dei soggetti deceduti nei 14 giorni successivi alla somministrazione della prima dose di vaccino Covid. «Il ricorso è fondato», si legge nella sentenza pubblicata il 17 luglio e che «ordina» espressamente al ministero di fornire la documentazione richiesta entro 30 giorni, quindi prima della fine di questo mese. Non appena avrà ricevuto i dati, l'avvocato li farà esaminare dagli esperti dell'università di Pisa e di Firenze che assieme a lui, nel luglio dello scorso anno, avevano redatto il paper «Considerazioni critiche sul confronto tra decessi osservati e attesi dopo la vaccinazione nel 10° Rapporto Aifa sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19». Documento di grande interesse e importanza, come segnalò La Verità, eppure rifiutato da diverse riviste scientifiche perché era giunto alla conclusione che i risultati forniti dall' Aìfa non erano attendibili. «Il numero dei decessi attesi è sovrastimato, mentre quello dei decessi osservati è sottostimato, il rapporto standardizzato di mortalità risulta di conseguenza sottostimato», affermavano Bruno Cheti e Rachele Foschi (professori di economia e management), Alessio Iodice e Michela Baccini (statistica e informatica) Barbara Pinto (dipartimento ricerca traslazionale delle nuove tecnologie in medicina», assieme all'avvocato Melacarne del Foro di Milano e al pediatra Eugenio Serravalle. Ritenevano «grave che un'agenzia pubblica come Aifa, a cui è affidato un importante e delicato compito di informazione, pubblichi un'analisi viziata da errori grossolani come quella in oggetto», ovvero comparando il numero di morti atteso con le sole morti «segnalate» per sospetta correlazione con il vaccino. E sottolineavano che «la mancanza dei dati necessari ci impedisce di conoscere il numero di tutti i decessi avvenuti nei 14 giorni successivi all'inoculazione del vaccino». Per meglio valutare gli eventi avversi che possono scaturire dalla vaccinazione, una volta incrociati con altri dati statistici, l'avvocato Melacarne aveva così chiesto ad Aifa, ministero della Salute, Iss e lstat di poter accedere ai dati. «Non pensavo di incontrare così tante difficoltà e di dover fare ricorso al Tar», spiega il legale. «Mi sono poi concentrato nelle richieste al solo ministero, che mi veniva indicato come unico organo competente, ma furono respinte tre volte». Nell'istanza di accesso, il 16 giugno 2022, precisava di voler avere «il numero di soggetti, nonché la relativa età media, ai quali sia stata somministrata la prima dose di vaccino», tra il 27 dicembre 2020 e il 26 dicembre 2021, «e che siano deceduti entro 14 giorni dalla somministrazione della dose per qualunque motivo, non necessariamente riconducibile alla somministrazione del vaccino». Il 23 gennaio di quest'anno, la direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute rispondeva di non essere in possesso di tali dati. Il Tar, invece, ha ricordato che «i dati contenuti nell'Anagrafe nazionale vaccini (Anv) sono utilizzati dal ministero della Salute», che il decreto legge del 14 gennaio 2021 «prevede espressamente l'inserimento nel database dell'Anv dei dati relativi alle somministrazioni di massa dei vaccini anti Covid-19, aggiornati con frequenza giornaliera» ed «è dunque evidente che il ministero è in possesso dei dati, che dunque dovranno essere ostesi, previo oscuramento delle generalità dei singoli individui». Tra poche settimane, sarà così possibile avere una fonte di informazioni di grande utilità per coloro che sanno fare analisi accurate. «Consegnerò i dati ai professori di economia e statistica con i quali avevamo redatto il paper», fa sapere l'avvocato Melacarne. «Se Aìfa non è in grado di fare questa operazione di linkage, sarebbe opportuno che lo dichiarasse e ne spiegasse i motivi», scrivevano nel luglio di un anno fa. In 12 mesi, nulla è cambiato ma adesso è un tribunale amministrativo che dà torto al ministero della Salute e permetterà di fare studi statistici di estremo interesse sui morti per vaccino. L'altra sentenza che fa ben sperare è quella pronunciata dal giudice di pace di Fano, Pericle Tajariol e pubblicata il 28 luglio. Ha accolto l'opposizione di un over 50 a pagare i 100 euro di multa e condanna l'agenzia delle Entrate - riscossione al pagamento delle spese processuali. «I vaccini Covid non sono idonei a impedire ai soggetti di essere contagiati e nemmeno di contagiare a propria volta, quindi non appaiono strumenti di prevenzione, rivelandosi percentualmente idonei in misura di fatto, prossima allo zero», scrive il giudice. Il ricorrente sollevava una serie di eccezioni, quali l'omessa indicazione dei termini per proporre opposizione, e quindi la violazione del diritto di difesa; così pure la discriminazione tra vaccinati e non vaccinati, «ma l'aspetto su cui ci si deve necessariamente soffermare riguarda la legittimità di tale sanzione», scrive Tajariol che dice di «discostarsi dalle recenti pronunce sugli obblighi vaccinali della Corte costituzionale in quanto esse non hanno effetto vincolante a livello interpretativo per i giudici di merito [ ... ] l'osservanza dell'interpretazione della legge spetta esclusivamente alla Corte di cassazione e non già alla Corte costituzionale».
(La Verità, 7 agosto 2023)
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Israele: portato alla luce anfiteatro romano con pareti dipinte in rosso sangue
di Chiara Lombardi
Le campagne di scavo condotte presso Tell Megiddo, in Israele, hanno recentemente portato alla luce un anfiteatro in quello che è, dal II sec. d.C., l’insediamento legionario orientale più grande dell’impero romano. Il sito di Megiddo, celebre città-stato, e patrimonio UNESCO, sta restituendo diversi momenti della sua storia, contesa da egiziani, cananei, ebrei ed assiri per la sua posizione strategica di controllo sul mare. Gli scavi sono co-diretti da Yotam Tepper e Matthew Adams per conto della Jezreel Valley Regional Project: Biblical Archaeology e l’Albright Institut di Gerusalemme, con il supporto dell’Autorità delle Antichità Israeliane e dell’American Archaeology Abroad.
Particolare il rinvenimento dell’anfiteatro poiché esso presenta una caratteristica: le pareti sono dipinte di rosso. A Tell Megiddo erano di stanza la Legio II Traiana Fortis e la Legio VI Ferrata. Stando a quanto affermato dal professor Tepper, l’anfiteatro è da ricondursi ad un’arena militare scavata nella roccia e circondata da pietre dipinte in rosso, il cui colore doveva appunto ricordare quello del sangue. Un ludus, dunque, dove i legionari facevano pratica nell’arte militare.
(Mediterraneo Antico, 7 agosto 2023)
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Azerbaijan: a novembre grande congresso dei rabbini europei
di Nathan Greppi
Dal 12 al 15 novembre Baku, la capitale dell’Azerbaijan, ospiterà il raduno biennale della Conferenza dei Rabbini Europei (CER in inglese), che a ogni edizione raduna oltre 500 rabbini provenienti da tutto il continente per discutere le questioni più importanti che riguardano gli ebrei in Europa. Stando alla European Jewish Press, si tratta della prima volta nella storia che questo evento si tiene in un paese musulmano. Questo perché l’Azerbaijan, sin da quando si è reso indipendente dall’Unione Sovietica, ha stretto nel corso dei decenni ottimi rapporti con Israele, del quale è diventato un alleato strategico sul piano economico e militare. L’evento infatti si terrà a Baku su invito del Presidente azero Ilham Aliyev, che sarà presente come ospite onorario. Fondata nel 1956, la CER è la più importante organizzazione rabbinica ortodossa in Europa, e vi sono affiliati in totale circa 700 rabbini europei. La sua prima convention si tenne ad Amsterdam nel 1957, e si è sempre battuta per difendere i diritti della minoranza ebraica e la libertà di culto in Europa. Dal 2011 il presidente è Rav Pinchas Goldschmidt, ex-rabbino capo di Mosca costretto a lasciare la Russia nel 2022 per essersi opposto all’invasione dell’Ucraina. Proprio Rav Goldschmidt ha definito “simbolica” la decisione di tenere l’evento in Azerbaijan: si pensa che i primi ebrei giunsero nel territorio dopo la distruzione del Primo Tempio, intorno al 586 a.e.v., e attualmente nel paese vivono tra i 25.000 e i 30.000 ebrei, in un contesto dove l’antisemitismo è poco diffuso. Storicamente, le comunità ebraiche azere sono di tre tipi: ebrei europei giunti tra la fine dell’800 e la seconda metà del ‘900; ebrei georgiani, insediatisi principalmente a Baku ai primi del ‘900; e gli “ebrei delle montagne”, così chiamati perché costituiscono un gruppo a sé stante, né ashkenaziti né sefarditi, che hanno vissuto sulle montagne del Caucaso sin dall’antichità. Infatti, la convention prevede anche una visita presso l’antica città di Quba, per secoli nucleo degli ebrei delle montagne.
(Bet Magazine Mosaico, 6 agosto 2023)
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Il piacere di lasciarsi stupire: gli itinerari nascosti di Israele
L’aviturismo nel parco di Agamon Hula
di Fabiana Magrì
Sono un po’ remote, forse un po’ di nicchia e fuori dai sentieri battuti. Ma proprio per questo sono sorprendenti le tre destinazioni che Shalom ha selezionato per chi ama la natura, la storia e le diversità culturali di Israele. Per chi già conosce le mete più famose ma non per questo ha perso la curiosità. Agamon Hula, Revivim e Kfar Kama sono luoghi che custodiscono storie affascinanti da scoprire.
In volo con uno stormo di gru sopra i campi coltivati, sulle acque del lago di Agamon e tra i papiri che ondeggiano al vento. Con il set per la realtà virtuale al posto del binocolo, il «birdwatching» diventa un’esperienza immersiva. Questa e altre tecnologie all’avanguardia, custodite in un edificio «eco-friendly» dall’atrio al tetto, fanno dello «Stephen J. Harper KKL-JNF Hula Valley Visitor and Education Center», in Israele, il gioiello della corona di uno dei luoghi più belli al mondo per gli amanti dell’ornitologia e della natura. All’interno dell’edificio, trasparente su tutti i lati, un muro digitale di 18 metri quadrati trasmette in tempo reale le immagini degli uccelli all’interno del parco. Un modello digitale in 3D della Hula Valley si aggiorna in modo dinamico grazie ai dati rilevati costantemente sul campo. Un quiz interattivo in tre lingue (inglese, ebraico e arabo), con domande e curiosità sulle varie specie di uccelli, anima il «Bird Wall» a riconoscimento gestuale.
Sei postazioni attrezzate con set per la realtà virtuale consentono di volare in formazione con le gru, fra tramonti e temporali. L’edificio, ricoperto da un lungo prato, sembra emergere dal parco. Il tetto è una terrazza panoramica a 360° che affaccia sul bacino di Hula e sulle alture del Golan. L’esperienza al Visitor Center è propedeutica all’esplorazione della riserva a piedi, in bicicletta, in tandem o in golf car, alla ricerca di un punto panoramico per guardare e fotografare fenicotteri rosa, pellicani, aquile bianche e grigie, anatre e cormorani ma anche lontre, bufali d’acqua, daini e specie endemiche come la rana di Hula. Con il crescente interesse per il turismo responsabile, quello che un tempo era considerato un bizzarro hobby di nicchia, l’aviturismo oggi attrae sempre più persone disposte a viaggiare per il mondo sulle rotte migratorie degli uccelli.
L’area che comprende il parco ornitologico del lago di Agamon e la Valle di Hula, una superficie di 3 chilometri quadrati, si trova proprio al centro della spaccatura afro-siriana, uno dei più significativi corridoi del cielo. Oltre 500 milioni di uccelli, di 550 specie diverse, sorvolano Israele due volte l’anno, in autunno e in primavera. Per afferrare l’enorme densità e varietà di esemplari, basta pensare che in Nord America, un’area 2 mila volte più estesa di quella israeliana, si registra appena il doppio delle specie. È la combinazione unica di lago e palude a fare del parco di Agamon Hula uno degli habitat umidi più importanti in tutto il Medio Oriente e nel mondo.
(Shalom, 6 agosto 2023)
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Pakistan, intelligence e polizia utilizzano spyware israeliano
Nonostante l’assenza di legami diplomatici con Israele, le agenzie pakistane utilizzano software di sorveglianza prodotti dalla società israeliana Cellebrite.
Le agenzie di intelligence e di polizia pakistane stanno utilizzando spyware israeliano, nonostante i due paesi non abbiano relazioni diplomatiche. Questa rivelazione, emersa da un rapporto pubblicato su Haaretz, ha sollevato domande sulla vendita di software di sorveglianza a regimi oppressivi.
• Dettagli sull’uso del software da parte del Pakistan
L’Agenzia Federale d’Indagine del Pakistan (FIA) e diverse unità di polizia pakistane utilizzano prodotti realizzati dalla società di cybertecnologia israeliana Cellebrite dal 2012. Il software di Cellebrite permette alle forze dell’ordine di effettuare lavori forensi digitali, violando telefoni cellulari protetti da password e copiando tutte le informazioni in essi contenute.
• La vendita attraverso intermediari
Sebbene il Pakistan non abbia legami diplomatici con Israele e sostenga il boicottaggio dello stato di occupazione, l’acquisto del software è stato effettuato attraverso Singapore. La filiale asiatica di Cellebrite ha venduto prodotti direttamente alle autorità pakistane fino al 2019, come rivelato dai registri delle spedizioni internazionali.
• Preoccupazioni sulla privacy e sui diritti umani
La notizia ha sollevato nuovamente la questione se gli spyware dovrebbero essere venduti a regimi oppressivi, in paesi dove anche le organizzazioni per i diritti umani sono soffocate. Cellebrite ha venduto i suoi prodotti a diversi paesi accusati di abusi contro attivisti per i diritti umani e gruppi minoritari, tra cui Bielorussia, Cina, Uganda, Venezuela, Indonesia, Russia, Filippine, Etiopia e Bangladesh.
• La risposta di Cellebrite
In una dichiarazione, Cellebrite ha affermato: “L’azienda non vende al Pakistan, direttamente o indirettamente. Cellebrite è impegnata nel suo obiettivo di creare un mondo più sicuro fornendo soluzioni alle forze dell’ordine che permettono loro di risolvere i crimini più rapidamente”.
(#Matrice Digitale, 6 agosto 2023)
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Giuseppe, da comandante di yacht alla sedia a rotelle dopo il vaccino
Giuseppe Sanacore ha 56 anni, è di origini siciliane e vive con la sua famiglia nelle Marche. Ha passato una vita sulle onde, tra le rotte della navigazione, su imbarcazioni di alto prestigio. Poi la vaccinazione, a cui si è affidato senza titubare, ha cambiato la sua storia.
di Giulia Bertotto
Nel silenzio delle istituzioni, nell’omertà dei grandi giornali, all’ombra di una strage che sta distruggendo le famiglie e ha già logorato il tessuto sociale italiano, QuotidianoWeb raccoglie la sua testimonianza. L’ennesimo cittadino italiano ricattato, vaccinato e abbandonato.
- Lei è molto fiero del suo lavoro, di quello che fino a due anni fa era il suo lavoro. Sì, sono un comandante di yacht di lusso, ho sempre avuto una vita molto dinamica, viaggiavo per mestiere, e quando non ero imbarcato, ero un responsabile di produzione navale. Passavo anche 12 ore nei cantieri, con 250 operai, 2800 metri quadri di magazzino da gestire, una grande impresa sotto di me, anche se non era la mia. Nel 2021 il capo dell’azienda mi disse che dovevo dare l’esempio ai colleghi e dipendenti e vaccinarmi per ottenere il Green Pass. Viaggiando, ero abituato alle vaccinazioni, ce ne sono tantissime obbligatorie e raccomandate quando si attraversano mari e continenti. Non avevo mai avuto problemi e così sono andato a vaccinarmi.
- Poi la sua vita ha preso un’altra rotta. Ho ricevuto la prima dose del composto Pfizer il 20 agosto 2021, e la seconda dose Pfizer il 16 settembre 2021. Non posso dire nulla a riguardo della prima dose, c’è una causa legale in corso. Ma posso dirle che non ho accusato alcun malessere. Dopo venti minuti dalla seconda dose sono entrato in coma. L’ambulanza mi ha portato all’Ospedale di Fano dove sono rimasto per un mese. In questo mese, senza alcuna diagnosi precisa, mi sono state somministrate tachipirina, cannabis e morfina. E questo lo ho scoperto solo dopo. Dall’ospedale ci sono uscito con la sedia a rotelle. Era settembre 2021 e il primario della struttura mi diceva che con una settimana di fisioterapia mi sarei rimesso in piedi. Due anni dopo sono ancora sulla sedia a rotelle. Solo quando sono stato dimesso è stato scritto sulla mia cartella che la mia sintomatologia è legata alla somministrazione.
- E’ il caso di ricapitolare quanto le è accaduto. Lei ha eseguito la seconda dose del vaccino Pfizer, è entrato immediatamente in coma e dopo un mese in ospedale è uscito invalido. Sì, e oggi dopo un anno e mezzo di terapie di ogni tipo, fisioterapie, sedute di psicoterapia, sono peggiorato. Ho assunto così tanti farmaci che il mio stomaco è devastato. Ad aprile 2022 ho avuto un’altra crisi con convulsioni e svenimenti e sono stato di nuovo ricoverato. Anche durante questo secondo ricovero mi hanno imbottito di tachipirina e cannabis. Tutto questo è documentato e dimostrabile. Da uno degli esami svolti dai dottori è emersa una colicistite acuta, fegato ingrossato e anche il pancreas era in tilt a causa dell’abuso di medicinali. Dopo quattro mesi di lista di attesa per l’intervento alla colecisti ho conosciuto il dottor Giovanni Frajese e il dottor Giuseppe Barbaro di Roma, che mi seguono ancora oggi, i quali mi hanno spiegato che è la proteina Spyke immessa con il vaccino, a causare ictus e così diversi e gravi disturbi a carico di differenti organi. Nell’attesa dell’intervento mi è stata data una cura per stare “calmo” a casa, perché non potevo mangiare, stare fermo o dormire. Tra i miei sintomi c’erano acufene (che neppure sapevo cosa fosse), netto abbassamento della vista, convulsioni e spasmi, attacchi epilettici, perdita di sensibilità agli arti inferiori, incapacità di presa con le mani, tremori, brividi di freddo. Non mi riconosco. Questo vaccino ha rovinato la mia vita e quella della famiglia, e anche l’azienda, perché i danni economici sono causati anche da tutti i lavoratori che hanno subito danni da vaccino. E per un virus che si curava con farmaci che tutti abbiamo in casa. C’è da impazzire.
- E secondo lei perché se il Covid era così facile da curare, sono morte così tante persone e alla cittadinanza è stato detto che l’unica salvezza era il vaccino? Che spiegazione si è dato? Lo chiamano vaccino, ma sono convinto che sia un prodotto militare; persone disumane e molto potenti potrebbero aver deciso che siamo troppi su questo pianeta e i nostri governi abbiano obbedito a questo ordine, in modo cosciente o incosciente.
- Attualmente che diagnosi le è stata firmata? Attualmente io sono sulla sedia a rotelle, incapace perfino di andare in bagno e lavarmi da solo. Mi aiutano mio figlio e mia moglie. E non ho neppure una diagnosi, se non quella di crisi epilettiche, non c’è nemmeno un nome a quello che mi è successo. Non posso lavorare, naturalmente, e quindi sono preoccupatissimo per la mia famiglia, siamo in affitto e lavora solo mia moglie in maniera occasionale. L’INPS paga o il sussidio di disoccupazione o l’invalidità e io beneficio della disoccupazione. La Naspi prevede un contributo di 780 euro, ma noi paghiamo 650 euro di mutuo al mese. Attendo un aiuto da parte dello Stato per poter riprovare con la fisioterapia correttiva a rimettermi in piedi. E così tornare a lavorare.
- Ha scritto ai giornali, ai canali Tv, alle istituzioni? Eccome, ho scritto ai sindaci di Fano e di Pesaro ma non ho ricevuto alcuna risposta. Quando con “Danni collaterali” abbiamo fatto la manifestazione contro il biolaboratorio lui non si è presentato, anche se aveva assicurato ufficialmente la sua presenza. Sempre con questa associazione abbiamo raccolto le firme per il riconoscimento dei danneggiati da vaccino e abbiamo scritto alla Premier Meloni. Due settimane fa la Camera ha accettato di risarcire le persone danneggiate da vaccino, ora dobbiamo attendere il pronunciamento del Senato. Sono invece grato alla azienda per cui lavoravo, la Sylent Yacht, la quale ha fatto di tutto per sostenermi e mi è stato ribadito che le porte restano aperte per me.
- Che cosa si augura per il futuro? Quali speranze in questo stato di cose? Complici di personaggi al di sopra dei nostri capi di stato hanno, probabilmente, deciso di rovinarci la vita per interessi personali o di ristretti gruppi di potere. Gli sms tra la presidente della commissione UE e il CEO di Pfizer e gli incarichi del marito medico della stessa Presidente Von der Leyen non possono non far sorgere dubbi e convincere che siano solo delle coincidenze. Ma costoro sono intoccabili. Quindi non credo che nessuno finirà dietro le sbarre per quello che ci è stato fatto; ma in realtà non mi interessa neppure, quello che io pretendo e che mi curino e che curino chi si trova nella mia stessa situazione. Le persone danneggiate sono quasi quattro milioni in Italia, siamo in contatto e sono sempre di più quelle che hanno deciso di non stare zitte. Per le mie condizioni di salute non ho buone aspettative, dopo due anni di inferno come quelli che ho passato. A tenermi ancora qui è la responsabilità verso la mia famiglia. A volte penso di non farcela ma poi penso che lascerei in balia delle onde.
(QuotidianoWeb, 5 agosto 2023)
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Ecco cosa accadde a Gerusalemme dal ’48 al ’67: fu un Isis ante litteram
Gerusalemme è’ stata divisa solo per diciannove anni. Ecco che cosa accadde dal 1948 al ’67. Per la prima volta in un millennio di storia non rimase un solo ebreo nella Città vecchia. Fu un Isis ante litteram.
di Giulio Meotti
Nel gennaio 1964, quando Papa Paolo VI vi arrivò per la prima, storica visita di un pontefice nella moderna Gerusalemme, la città era divisa dal filo spinato. Si chiamava “kav ironi”, la linea arbitraria di divisione della città. I cecchini giordani erano piazzati sui tetti, mentre i campi minati erano ovunque nella “no man’s land”, in ebraico “shetah hahefker”, lunga sette chilometri. L’unico passaggio fra le due parti della città, quella israeliana e quella giordana, era attraverso la celebre Porta di Mandelbaum, dal nome dei coniugi Esther e Simcha Mandelbaum, proprietari della casa dove passava il confine. C’erano quartieri, come Abu Tor, con case che avevano un ingresso nella sezione giordana e uno in quella israeliana. I muri dividevano la città anche dentro le abitazioni. Ma mentre Paolo VI e il suo entourage furono in grado di attraversare liberamente Gerusalemme per pregare nei luoghi religiosi cristiani, israeliani ed ebrei potevano solo guardare dall’altra parte del filo spinato le mura della Città vecchia e, là sotto, sognare il Muro del pianto, il luogo più sacro al mondo per l’ebraismo.
Allora, quando la Città vecchia era Judenrein, nessun Papa o Palazzo di vetro ha mai chiesto “l’internazionalizzazione di Gerusalemme”. Quando altri tre pontefici (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) sono tornati a far visita a Gerusalemme, hanno trovato una città aperta a tutte le tre religioni, senza barriere, né fili spinati, né cecchini, né campi minati o discriminazioni su base religiosa. Una città dove chiunque può venire a pregare e omaggiare il proprio Dio. E’ facile imbattersi oggi in musulmani salafiti arrivati dall’Arabia Saudita per visitare la Spianata delle moschee.
Ora che gli Stati Uniti si sono decisi a riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, da più parti si riscopre un’ansia di ridividere quella città. La città santa è stata conquistata da Gebusiti, Ebrei, Babilonesi, Assiri, Persiani, Romani, Bizantini, Arabi, Crociati, Mamelucchi, Ottomani, Inglesi, Giordani… Ma in migliaia di anni, Gerusalemme è stata divisa soltanto per diciannove anni, dal 1948 al 1967.
E fu davvero un incubo. Fu un regime asimmetrico di divisione: mentre per Israele Gerusalemme ovest divenne la capitale, Gerusalemme est fu sempre una città di confine, un fortilizio. Gerusalemme occidentale era moderna, fiorente di attività politica e culturale, ricca e in costante crescita, mentre Gerusalemme est era un villaggio sonnolento, sottosviluppato e trascurato. Un anno fa, tre lettere spedite nel febbraio 1948 dalla Città Vecchia di Gerusalemme, in quel periodo assediata dalle forze arabe, furono rivelate dalla casa d’asta Kedem Auction House. Sono scritte dai residenti del quartiere ebraico durante l’assedio di Gerusalemme da parte delle forze arabe nella prima fase della guerra di indipendenza israeliana. Le lettere vennero scritte tre mesi prima che le forze inglesi lasciassero la città, allo scadere del Mandato britannico, e la Città Vecchia venisse conquistata dalle truppe giordane. Una delle lettere è una richiesta di aiuto firmata da Yitzchak Avigdor Orenstein, primo rabbino del Muro occidentale (“del pianto”), destinato a rimanere ucciso tre mesi dopo quando la Città vecchia verrà bombardata. “Abbiate pietà di uomini, donne e bambini e prendete misure drastiche, ove necessario, affinché noi non moriamo“, si legge nella lettera del rabbino Orenstein. “La vita degli abitanti della Città vecchia è in grave pericolo, le truppe britanniche hanno bombardato il quartiere ebraico nelle notti scorse danneggiando la santità della sinagoga“, scriveva Orenstein.
La Gerusalemme ebraica fu il principale bersaglio dell’attacco giordano durante la guerra che accompagnò la fondazione di Israele. Il comandante della Legione, Abdallah el Tal, ricordò che “solo quattro giorni dopo il nostro ingresso a Gerusalemme, il quartiere ebraico era diventato un cimitero. Il ritorno degli ebrei è impossibile“.
Il 27 maggio del 1948, 108 dei 150 difensori del Quartiere ebraico della Città vecchia cadevano in difesa della popolazione di 1.700 persone, piegate dalla fame e dalla sete. Se l’assedio fosse continuato, gli arabi avrebbero costretto gli ebrei alla resa o alla fame. Tutta la città rischiava di essere conquistata dagli arabi. Dopo la fine delle ostilità e con la divisione della città, a tutti gli israeliani – ebrei, musulmani e cristiani – fu impedito l’accesso alla Città vecchia, in flagrante violazione dell’armistizio fra Israele e la Giordania, firmato nel marzo 1949. Ai turisti stranieri in visita a Gerusalemme fu richiesto di presentare un certificato di battesimo. Anche se i cristiani, a differenza degli ebrei, avevano accesso ai loro luoghi santi, anch’essi furono soggetti a restrizioni secondo la legge giordana. C’erano dei limiti sul numero di pellegrini cristiani ammessi nella Città vecchia e a Betlemme durante Natale e Pasqua. Le organizzazioni di beneficenza e le istituzioni religiose cristiane non potevano acquistare proprietà immobiliari a Gerusalemme o possedere proprietà vicino ai luoghi santi. E le scuole cristiane erano soggette a severi controlli. Dovevano insegnare in arabo, chiudere di venerdì, il giorno santo musulmano, e insegnare a tutti gli studenti il Corano. Allo stesso tempo, non fu permesso di insegnare materiale religioso ai non cristiani. Nel corso degli anni sotto il dominio giordano, ogni vestigia della presenza ebraica nella città fu sistematicamente cancellata. Durante quei diciannove anni di occupazione illegale e non riconosciuta dal resto del mondo, agli ebrei non venne mai permesso di visitare i loro luoghi santi nella parte occupata della città, in spregio del diritto internazionale e in violazione degli accordi armistiziali.
Il plurisecolare cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi venne sistematicamente profanato; le antiche sinagoghe, come la celebre Hurva, e la maggior parte degli edifici dell’antico quartiere ebraico della Città vecchia, vennero scientificamente distrutti dagli occupanti illegali. Centinaia di pergamene della Torah e migliaia di libri sacri furono saccheggiati e ridotti in cenere. Per la prima volta in mille anni non rimase un solo ebreo o una sinagoga nella Città vecchia. Fu una sorta di Isis ante litteram. La popolazione cristiana della città scese da trentamila a prima del 1948 a undicimila nel 1967.
In ogni storia di Gerusalemme questi sono gli anni perduti della città, in cui pare non sia successo nulla. Un periodo morto e in cui i bunker giordani dominavano la città. Come a Mutzav Hapa’amon, una delle 36 postazioni giordane, che dominava tutto, da Gilo all’Herodion. Nel 1955, un gruppo di archeologi prese parte a una conferenza al kibbutz Ramat Rachel. I cecchini giordani fecero strage di archeologi. Quattro i morti. Dopo la conquista da parte giordana, gli ebrei furono costretti a lasciare le loro case. Sinagoghe, biblioteche e centri di studi religiosi furono distrutti, saccheggiati, utilizzati per alloggiamenti o come stalle per gli animali. Agli ebrei venne proibito anche di suonare lo shofar, il piccolo corno di montone.
Furono fatti appelli alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale per dichiarare la parte antica come una “città aperta” e fermare questa distruzione, ma non ci fu risposta. Migliaia di pietre tombali provenienti dal cimitero sul Monte degli Ulivi furono utilizzate come pietre da pavimentazione per le strade e come materiale da costruzione nei campi militari giordani. Parti del cimitero furono trasformate in parcheggi, fu allestita una pompa di benzina e fu costruita una strada asfaltata. L’Intercontinental Hotel venne edificato nella parte superiore del cimitero. Il più antico cimitero ebraico del mondo si ritrovò così devastato. Delle 150 mila tombe, alcune risalenti ai tempi biblici di Assalonne e Zaccaria, ne furono distrutte 70 mila.
L’Onu, che oggi si dice allarmato per il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale, non approvò mai alcuna risoluzione contro questa distruzione della zona ebraica. Non appena la Città vecchia cadde nelle mani degli arabi musulmani, la libertà religiosa a Gerusalemme venne cancellata. Gerusalemme antica divenne di fatto, sia pure conservando la presenza cristiana, una città islamica. Gli ebrei furono cacciati e l’ebraismo cancellato. Mishkenot Sha’ananim, oggi uno dei luoghi più belli e trendy di Gerusalemme, luogo di ritrovo degli scrittori e degli intellettuali, divenne un insieme di baracche dove si viveva in costante paura dei colpi dei giordani. Mamilla, oggi fitta di ristoranti e boutique, era la linea di attacco, la “Sderot del 1948”, dal nome della piccola cittadina israeliana affacciata su Gaza e per anni bersagliata dal lancio dei missili di Hamas. Gli ebrei nella Gerusalemme divisa vivevano in case protette da sacchi di sabbia e strisciavano contro i muri. A memoria, ci sono le fotografie dei bambini e delle donne che sfollano dagli incendi delle loro case nella Città vecchia, il Muro del pianto che versa in rovina, spoglio, abbandonato, convertito all’islam come al Buraq Wall, e la città più bella del mondo trasformata in un grande Checkpoint Charlie mediorientale. Nei cinquant’anni successivi alla liberazione del 1967, Gerusalemme sarebbe riesplosa a livello urbanistico, religioso, demografico, economico. E’ successo sotto Israele, mai prima. Israele è l’unico custode di Gerusalemme che si sia dimostrato affidabile e responsabile.
Dopo la liberazione, il governo israeliano varò la Legge per la Protezione dei Luoghi Santi, che garantiva libertà di accesso e di culto a tutte le religioni e autonomia ai vari gruppi religiosi nella gestione delle loro rispettive proprietà e dei loro luoghi santi. La Knesset estese la legislazione israeliana a Gerusalemme est, unificando così la città sotto il governo israeliano e mettendo fine alle leggi islamiche discriminatorie. Gli israeliani ripristinarono subito il diritto dei musulmani di pregare sul Monte del Tempio, malgrado il fatto che fosse anche il luogo più sacro all’ebraismo. Oggi il Wakf musulmano (consiglio religioso), a cui è affidata l’amministrazione del Monte del Tempio, impedisce agli ebrei di pregare su questo luogo. La storia dimostra non soltanto che una grande città divisa non funziona (Nicosia, Berlino, Belfast per citarne alcune). Ma soprattutto che il migliore destino di una città mista come Gerusalemme è quello di essere garantito soltanto dagli ebrei, per due motivi.
Il primo è che il pluralismo funziona soltanto in una democrazia e Israele è l’unico paese democratico in una mezzaluna che va dal Nord Africa fino all’Asia minore. Il secondo è che il rispetto delle minoranze non esiste nel mondo arabo-islamico. Adesso si vorrebbero riportare le lancette della storia a quel terribile periodo, i diciannove anni perduti di una Gerusalemme atterrita e buia. E che divisa non deve tornare a esserlo più.
(Ticinolive, 4 agosto 2023)
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Il salmista ignoto (3)
di Marcello Cicchese
Il tentativo di dare un'interpretazione a un libro o a un capitolo problematico della Bibbia si aggira spesso intorno a un'unica domanda.
Nel caso del libro di Giobbe: perché quell'uomo giusto deve subire una così atroce sofferenza da parte di Dio?
Nel caso del salmo 109: perché il Re Davide, conosciuto come "il dolce cantore d'Israele", chiede a Dio di colpire il suo nemico con maledizioni di una così feroce violenza?
Nel caso del salmo 119: chi è l'ignoto salmista che osa rivolgersi a Dio con parole di autoelogio così audaci?
In tutti e tre i casi citati è in gioco la problematicità di un rapporto Dio-uomo. Nel modo in cui sono poste le domande, l'interrogativo parte sempre dall'uomo per arrivare a Dio.
Giobbe subisce sofferenze da parte di Dio. Perché?
Davide chiede a Dio maledizioni sul suo nemico. Perché?
Il salmista ignoto osa rivolgersi a Dio con incredibile audacia. Perché?
Nel cercare risposte plausibili di solito facciamo così: osserviamo come si muovono i personaggi umani della scena (che pensiamo di conoscere perché sono uomini come noi) e ci sforziamo di capire come mai hanno avuto un rapporto così difficile con Dio (che invece facciamo fatica a capire). In sostanza, è a partire dalla nostra conoscenza dell'uomo che cerchiamo di arrivare a capire chi è Dio. O per meglio dire: cerchiamo di immaginare una figura di Dio che si armonizzi con la comprensione che come uomini abbiamo di noi stessi. Con poche parole abbiamo descritto come si costruisce un idolo.
Bisogna dire che purtroppo si corre il rischio di costruire idoli anche usando modi sbagliati di leggere la Bibbia. I cristiani evangelici degni di questo nome credono in modo unanime che la Bibbia sia interamente Parola di Dio; questa corretta dizione però dovrebbe essere precisata dichiarando che la Bibbia è storia sacra, cioè rivelazione delle gesta di Dio nella storia degli uomini, a partire dalla creazione di cieli e terra in Genesi per arrivare alla creazione di nuovi cieli e nuova terra in Apocalisse. Qualunque altro modo di leggere la Bibbia risulta essere inevitabilmente una lettura antropocentrica, e quindi, nei casi peggiori, idolatrica. Una lettura corretta della Bibbia deve essere, nei suoi modi e nei suoi riferimenti, una lettura teocentrica, cioè rivolta alla comprensione del muoversi di Dio in tutte le forme in cui la Scrittura lo rivela.
Questo fa risaltare non soltanto l'inevitabilità del ricorso alla Bibbia per cercare di comprendere il pensiero, le parole e le azioni di Dio, ma anche la sua sufficienza, perché il ricorso ad altre fonti può essere utile, ma non è mai indispensabile.
Nei tre casi sopra accennati, ciò che nella storia mette in evidenza il posto di Dio è che i personaggi umani entrano in scena come suoi servi. La cosa risulta evidente nel caso di Davide, più volte indicato da Dio stesso come "mio servo Davide" (2 Samuele 7:8).
La cosa dovrebbe essere evidente anche nel caso di Giobbe, che per ben sei volte Dio nomina come "mio servo Giobbe" (vv. 1:8, 2:3, 42:7, 42:8), ma questo di solito è trascurato dai commentatori.
Nel caso dell'ignoto autore del salmo 119 non si vede che Dio lo nomini come mio servo, ma è il salmista stesso che per ben tredici volte si rivolge a Dio presentandosi come il "tuo servo". La presente scelta interpretativa consiste appunto nel sostenere che il salmista ignoto, a cui abbiamo dato il nome fittizio di Ariel, è un servo dell'Eterno nel senso pieno della parola, cioè che ha ricevuto da Dio uno speciale incarico in cui rientra tra l'altro il mantenimento dell'anonimato per i posteri.
Sottolineare che Ariel è un servo mette in primo piano non lui, ma il suo padrone. Nelle antiche civiltà il servo era proprietà del padrone, espressione della sua personalità; e se verso l'interno il servo doveva ubbidienza al suo padrone, verso l'esterno egli esprimeva la gloria di colui da cui dipendeva. Colpire un servo significava automaticamente colpire il suo padrone.
Per questo Ariel alza la sua voce al cielo quando sulla terra è colpito dai suoi nemici:
"Perché permetti che il tuo servo sia trattato in questo modo? Fino a quando questo durerà?" avrebbe potuto pensare Ariel. E più avanti grida:
Io sono tuo, salvami,
perché ho cercato i tuoi precetti (v. 94).
In che senso sono tuo? La frase può essere completata correttamente in un solo modo: "io sono tuo servo".
Si può capire meglio il senso di questa frase paragonandola con una particolare implorazione di Davide a Dio:
O Eterno, vivificami, per amore del tuo nome; nella tua giustizia, ritrai l'anima mia dalla tribolazione! Nella tua bontà distruggi i miei nemici, e fa' perire tutti quelli che affliggono l'anima mia; perché io sono tuo servo (Salmo 143:11-12).
Davide chiede a Dio di far perire i suoi nemici portando due motivi, fra loro collegati: "per amore del tuo nome" e "perché io sono tuo servo". "Dunque - dice in sostanza Davide al Signore - se possono continuare a colpire me che sono tuo servo, è il Tuo nome che ne patisce. Che diranno le nazioni?". E' un argomento molto efficace per convincere il Signore. Il primo ad usarlo è stato Mosè, che dopo il fattaccio del vitello d'oro riuscì a dissuadere Dio dal distruggere il popolo con queste parole:
Allora Mosè supplicò l'Eterno, il suo Dio, e disse: “Perché, o Eterno, la tua ira si infiammerebbe contro il tuo popolo che hai fatto uscire dal paese d'Egitto con grande potenza e con mano forte? Perché direbbero gli Egiziani: 'Egli li ha fatti uscire per far loro del male, per ucciderli tra le montagne e per eliminarli dalla faccia della terra'? Calma l'ardore della tua ira e pèntiti del male di cui minacci il tuo popolo (Esodo 32:11-12).
E l'Eterno si pentì (Esodo 32:14).
Dello stesso tipo è l'implorazione di Ariel, che nel suo testo fa uso ripetuto della dizione "tuo servo" perché è in quella qualità che egli si rivolge a Dio.
Per dare peso a questa conclusione, prendiamo in considerazione il seguente versetto:
L'espressione "mi hanno fatto e formato" fa venire subito in mente l'immagine genetica del Creatore che con le sue mani plasma l'argilla che costituirà l'uomo. In questo caso però l'immagine può arricchirsi di un altro significato. Consideriamo allora un altro versetto:
È questa la ricompensa che date all'Eterno, o popolo insensato e privo di saggezza? Non è il padre tuo che ti ha acquistato? non è egli colui che ti ha fatto e stabilito? (Deuteronomio 32:6).
L'espressione qui usata "fatto e stabilito" è nell'originale la stessa di quella tradotta nel salmo 119 con "fatto e formato". E' vero che il popolo d'Israele è stato generato da Dio come un padre genera un figlio, ma qui il popolo non viene rimproverato per come è venuto al mondo, ma per essere stato infedele al compito per il quale era stato stabilito.
Si può dunque passare da una lettura genetica del versetto 73 a una "istituzionale": Ariel ricorda al Signore che è stato Lui che lo ha fatto e stabilito in quell'incarico: gli chiede dunque di dargli la necessaria intelligenza per imparare ad eseguire fedelmente i Suoi comandamenti (che evidentemente già conosceva).
Ariel svolge il suo compito già col suo semplice essere presente in mezzo al popolo, perché con la testimonianza della sua fedeltà alla parola di Dio consola e fortifica quelli che temono il Signore:
Quelli che ti temono mi vedranno e si rallegreranno, perché ho sperato nella tua parola (v. 74).
E a questi timorati di Dio che si rallegrano alla sua presenza Ariel rivolge un invito che sarebbe pretenzioso se egli non avesse alcuna autorità morale, se fosse uno come tutti gli altri:
"E che dovrebbero fare da te, quelli che temono il Signore? Tu chi sei?" Potrebbero chiedergli i suoi nemici. Che risponderebbe Ariel?
La spiritualità di Ariel non è soltanto di natura intima e morale, e questo si vede dai suoi movimenti in pubblico, che fanno di lui una presenza politica in mezzo al popolo. I potenti del momento lo conoscono, lo scrutano, lo giudicano:
Anche quando i principi si siedono e parlano contro di me, il tuo servo medita i tuoi statuti (v. 23).
I principi mi hanno perseguitato senza ragione, ma il mio cuore ha timore delle tue parole (v. 161).
Ma se i principi (שרים, sarim) lo perseguitano e pensano di intimidirlo, lui reagisce dichiarando che porterà le testimonianze di Dio davanti ai re (מלכים, melakim), ed è certo che non potranno svergognarlo:
Ma chi sono questi re a cui Ariel si presenterà? E chi è Ariel che osa fare queste audaci dichiarazioni?
E' il desiderio di dare risposta a una domanda come questa che ha portato a formulare la tesi che è alla base di questo studio: il salmista ignoto è una prefigurazione del Messia. Bisognerà riparlarne.
(3. continua)
(Notizie su Israele, 6 agosto 2023)
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Regno Unito, a York torna un rabbino residente 800 anni dopo il pogrom degli ebrei: “Una sfida e un onore”
Nel marzo 1190 nella celebre città inglese si scatenò una furiosa e sanguinaria caccia antisemita. Ora, quasi un millennio dopo quella tragedia e l’espulsione degli ebrei dall'Inghilterra, una rabbina americana (e liberal) vuole far rinascere la comunità locale.
di Antonello Guerrera
LONDRA - È una storia di brutale, sanguinario e cieco antisemitismo. Ma anche di rinascita e di speranza. Perché la città inglese di York ha finalmente un rabbino residente, anzi una rabbina donna, oltre otto secoli dopo il drammatico pogrom contro gli ebrei dell’epoca e la loro susseguente cacciata dal Paese. Si chiama Elisheva Salamo, californiana, ed è arrivata nel nord-est dell'Inghilterra questa settimana per assumere le sue nuove funzioni: “Sono molto emozionata. Provare a rigenerare una delle comunità ebraiche un tempo più vibranti è per me una grande sfida, e soprattutto un onore” La nomina di Salamo non è ordinaria. Perché York, bellissima città del nord inglese della celebre cattedrale e circondata da straordinarie mura romane, è anche stata il luogo di una delle atrocità più gravi contro gli ebrei, all’inizio del secondo millennio. Come ricorda il Guardian, nel marzo 1190 circa 150 ebrei si barricarono proprio dietro le mura di York per cercare rifugio nel castello, oggi Clifford's Tower. Fuori, infatti, si erano scatenate ronde e attacchi antisemiti, che si moltiplicarono e aggravarono con la salita al potere di Riccardo I nel 1189. Il quale, per finanziare le crociate, indicò come capri espiatori gli ebrei, arrivati in Inghilterra dopo la conquista normanna nel 1066 di Guglielmo il Conquistatore e che "prestavano denaro”, a differenza dei cristiani cui era vietato. Nel marzo 1190 a York si scatenò così una furiosa e tragica caccia all’ebreo. Ai 150 fedeli assediati venne intimato di battezzarsi e rinunciare alla propria fede, per salvarsi. La stragrande maggioranza degli ebrei, invece, preferì il suicidio o uccidersi a vicenda. Come in un altro tragico e famigerato assedio, quello di Masada nel 73 da parte dei romani a conclusione della “Prima guerra giudaica", che vide un suicidio di massa degli ebrei. Ma a York pure i pochissimi che scelsero di convertirsi vennero comunque linciati dalla folla, che poi chiese a gran voce di "cancellare tutti i debiti" che avevano nei confronti delle vittime. Nessuno sopravvisse alla persecuzione, in quello che fu uno degli attacchi antisemiti più gravi dell'epoca, tanto da essere ricordato da ogni ebreo durante il giorno di lutto e digiuno Tisha b’Av (“nove del mese di Av”). Di lì a poco, nel 1290, Edoardo I espulse tutti gli ebrei dall’Inghilterra. Un editto che venne revocato soltanto da Oliver Cromwell, nel 1657. Tuttavia, da una decina di anni, e dopo quasi un millennio, la comunità ebraica di York si è pian piano rigenerata. Formatasi nel 2014, oggi conta qualche decina di fedeli ed è una delle più inclusive, aperte e liberali, che accoglie anche coloro semplicemente “interessati all’ebraismo”. L’americana e prima rabbina Salamo, i cui primi appuntamenti per lei e la comunità saranno le celebrazioni di Rosh Hashana (anno nuovo) e Yom Kippur, ne sembra essere la leader ideale, avendo già predicato in Svizzera, Sudafrica e appunto Stati Uniti. “Quella tragedia avvenuta a York non verrà mai dimenticata. Ma dobbiamo imparare le lezioni del passato per costruire il futuro”, ha detto al Guardian.
(la Repubblica, 5 agosto 2023)
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Normalizzazione israelo-saudita. Riyadh chiede passi avanti significativi
Israele teme che le recenti critiche di Washington possano danneggiare la sua immagine nel mondo arabo
L'Arabia Saudita ha informato gli Stati Uniti e Israele della sua volontà di procedere con franchezza verso la normalizzazione delle relazioni con Gerusalemme, compiendo passi significativi e non solo piccoli, ha riferito venerdì Kan 11. Riyadh si riferisce in particolare agli impegni presi dagli Stati Uniti nei confronti dei sauditi in materia di armi.
Israele è anche preoccupato per le recenti critiche dell'amministrazione statunitense alla situazione del Paese e teme che possano danneggiare la percezione dello Stato ebraico nel mondo arabo. All'inizio della settimana, la radio Reshet Bet ha riferito che Israele dovrà compiere passi concreti a favore dell'Autorità Palestinese per ottenere la normalizzazione con l'Arabia Saudita.
Diverse fonti vicine ai colloqui hanno affermato che l'approccio di Israele all'Autorità Palestinese è stato guidato non solo dalle richieste saudite, ma anche dalla necessità di placare l'opposizione del Partito Democratico a un possibile accordo sulle armi e all'alleanza di difesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita.
La settimana precedente, l'editorialista del New York Times Thomas Friedman aveva riferito che il presidente Joe Biden aveva dato ai suoi consiglieri il via libera per promuovere un accordo con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salmane che avrebbe incluso la normalizzazione con Israele. Joe Biden ha confermato che era in corso un potenziale accordo con l'Arabia Saudita, ma non ha fornito ulteriori dettagli.
Per anni sono circolate voci su possibili relazioni dietro le quinte tra Israele e Arabia Saudita, ma i sauditi hanno fermamente negato queste accuse.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso chiaramente il suo obiettivo di raggiungere un accordo di pace con l'Arabia Saudita che, a suo avviso, "porrebbe fine in modo efficace al conflitto arabo-israeliano".
(i24, 5 agosto 2023
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Le linee guida etiche di un generale
Il generale Bentzi Gruber spiega le linee guida etiche dell'esercito israeliano. È influenzato anche dalla storia di sua madre, sopravvissuta all'Olocausto.
ZE'ELIM - In un auditorium del campo di addestramento di Ze'elim, in una calda giornata di metà luglio, c'è il generale di brigata Bentzi Gruber. Nella sala si fa sentire l'aria condizionata e Gruber sta proiettando una presentazione contro il muro. In essa spiega le linee guida etiche dell'esercito israeliano.
Seduti davanti al generale non ci sono soldati, ma più di 50 giornalisti provenienti da tutto il mondo. Sono stati invitati dall'ufficio stampa del governo israeliano (GPO) insieme all'esercito israeliano. Parte della grande base militare nel sud di Israele è il villaggio simulato-arabo dove i soldati imparano ad affrontare le sfide della guerra urbana.
In qualità di vice comandante della 252a "Divisione Sinai", Gruber era responsabile di 20.000 soldati. Ha partecipato a cinque guerre di Israele. Con il suo programma "Etica in azione", è ora un oratore ricercato in patria e all'estero. Vuole dissipare i malintesi e presentare fatti che spesso vengono trascurati quando si discute sull'antiterrorismo israeliano.
• OTTO SECONDI PER DECIDERE
Gruber spiega: "Se è fortunato, un soldato in una situazione difficile ha otto secondi per prendere una decisione. A volte trasporta fino a 60 chilogrammi sulla schiena ed è stanco. Poi deve decidere: sparare o non sparare?". I soldati portano le armi per un unico scopo, ha detto, "evitare una minaccia".
Ci sono quattro punti nel codice etico che Gruber ha inculcato ai suoi soldati. In primo luogo, ha detto, il soldato deve chiedersi: "La forza viene usata al solo scopo di compiere la missione?" Il soldato deve poi decidere quanta forza è necessaria per portare a termine la missione. Una difficoltà è l'identificazione del nemico. In passato, tutti i combattenti indossavano un'uniforme. Nelle aree urbane, i combattenti spesso indossano jeans e magliette.
• IN CASO DI DUBBIO, NON SPARARE!
La seconda domanda è: "La violenza deve essere usata soltanto contro il nemico?". Gruber sottolinea più volte: "Se si dubita che si tratti del bersaglio previsto, non sparare!".
La terza domanda che il soldato deve porsi è se il danno collaterale è proporzionale alla minaccia immediata. Ad esempio, se un pilota avvistasse dei bambini vicino a una cellula terroristica, interromperebbe la missione. L'uso dei droni garantisce che le missioni siano condotte con sempre maggiore precisione.
La quarta richiesta è quella di ridurre al minimo i danni. A volte i terroristi usano ambulanze o scudi umani per i loro attacchi. Per quanto i soldati siano attenti, Gruber non lascia dubbi: "Gli eventi ti accompagnano, anche quando torni a casa. Siamo sempre uomini.
Durante l'operazione militare a Jenin all'inizio di giugno - dice - nessun civile è stato ucciso, nonostante l'alta densità di popolazione. "Solo i militanti armati sono stati presi di mira come bersaglio e uccisi".
La vita dei civili è una priorità assoluta per l'esercito israeliano. Per questo le persone vengono avvertite e invitate a lasciare l'edificio in cui si trovano prima di un'incursione. "Lo chiamiamo 'bussare sul tetto', un piccolo colpo che avverte le persone, ma pubblichiamo anche post sui social media e chiamiamo i cellulari dei civili".
• ADDESTRAMENTO ALL'UMANITÀ
I giovani soldati vengono regolarmente addestrati. Per essere preparati a situazioni critiche, devono esercitarsi più volte su possibili scenari, in modo da memorizzare le procedure. "È ovvio che gli errori capitano", Grubdr ne è consapevole. Ma anche se non c'è tempo per pensare, i soldati di 18 e 19 anni devono agire in modo umani pur reagendo con rapidità. Questa, dice, è la grande sfida per l'esercito israeliano, che devono affrontare continuamente.
Gruber ha allestito un programma in cui invita regolarmente i riservisti con figli malati cronici e disabili a partecipare a eventi. In questo modo, migliaia di soldati vengono educati ai valori della società. Gruber spera che attraverso questi incontri i soldati conservino la loro umanità e si assumano la responsabilità sociale.
Da dove trae le sue convinzioni Gruber, e perché, nonostante tutto quello che ha visto in guerra, ha elevati standard morali per sé e per i suoi soldati? Forse è lui stesso a fornire la spiegazione migliore. Nella sala conferenze del campo di addestramento di Ze'elim, il generale Gruber conclude la sua presentazione sullo schermo con una foto della famiglia di sua madre. La foto è stata scattata intorno al 1937 in Ungheria. Solo pochi anni dopo, l'intera famiglia fu uccisa nell'Olocausto.
Le uniche sopravvissute della famiglia furono la madre e la sorella gemella di Gruber, sulle quali il "medico del campo di concentramento" Josef Mengele aveva condotto esperimenti. "In modo eroico" sopravvissero anche alla successiva marcia della morte.
Gruber dice di sua madre: "Mi diceva spesso: "Benzi, hai combattuto in Libano e a Gaza e hai comandato 20.000 soldati. Sei un grande eroe". Ma mi ha sempre detto chiaramente: "Servendo nell'esercito, non stai facendo un favore a Israele; piuttosto è Israele che sta facendo un favore a noi". (mh)
(Israelnetz, 5 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il “miracolo di Farlesben”: riemergono le immagini inedite dei 2500 ebrei liberati dal treno della morte
di Pietro Baragiola
Il 29 luglio, il ricercatore americano Matthew Rozell ha pubblicato sul suo canale Youtube un raro filmato del momento in cui i soldati statunitensi liberarono migliaia di ebrei dal treno della morte nazista fermato nel villaggio tedesco di Farlesben. Nonostante esistessero già diverse fotografie di quello che è passato alla storia come “il miracolo di Farlesben”, questa è la prima volta che vengono scoperti i video dei prigionieri che, con felicità improvvisa e quasi incredula, scendono dal treno tra le braccia dei loro soccorritori. Questo filmato è stato rinvenuto da Rozell tra gli Archivi Nazionali degli Stati Uniti e, a distanza di 78 anni dalla sua registrazione, ha dato modo ai sopravvissuti e ai loro famigliari di rivivere la gioia provata quel lontano giorno del 1945, quando il coraggio degli alleati ridonò loro la vita.
• IL TRENO DI FARLESBEN Era il 7 aprile 1945 quando i 2500 prigionieri ebrei del lager di Bergen Belsen, considerato perduto dai tedeschi, vennero fatti salire sul treno diretto per il campo di Theresienstadt per essere lì sterminati dai loro carcerieri. I passeggeri, prevalentemente donne e bambini, erano in viaggio da sei giorni quando, il 13 aprile, il convoglio nazista si fermò nel villaggio di Farlesben a causa di uno scontro tra gli alleati e le truppe tedesche. Come racconta il giornalista Paolo Salom al Corriere della Sera, le SS responsabili della locomotiva in quel momento ricevettero l’ordine di condurla fino al ponte sul fiume Elba dove avrebbero dovuto farla esplodere o farla precipitare in acqua insieme ai suoi vagoni per annegare tutti i passeggeri ed evitare così che l’esercito alleato avesse prove delle atrocità commesse nei campi di concentramento. Ciononostante, gli ingegneri del treno esitarono ad eseguire l’ordine, sapendo che avrebbe significato la morte anche per loro. Fu questo momento di esitazione che diversi prigionieri sfruttarono per fuggire e allertare i soldati alleati nelle vicinanze che, attaccando il treno di sorpresa con un carro armato e una jeep, spinsero alla fuga i soldati del Reich e liberarono i restanti passeggeri dai vagoni merci. Vedendo i prigionieri che, pur traumatizzati, denutriti e torturati, ora sorridevano dalla gioia per la ritrovata libertà, un soldato americano della Nona Armata tirò fuori la sua fotocamera per immortalare quel lieto giorno con una serie di immagini e riprese, rimaste inedite fino ad oggi.
• LA NUOVA VITA DEI SOPRAVVISSUTI Frank Towers era uno dei soldati statunitensi che durante la marcia verso la città di Magdeburgo attraversarono il villaggio di Farlesben, scoprendone il treno e liberandone i prigionieri. Primo tenente ed ufficiale della 30° Divisione di fanteria, Towers, ora 96enne, ricorda come i passeggeri del convoglio erano inizialmente increduli e restii dal farsi aiutare perché convinti dalle guardie naziste che “se fossero diventati prigionieri degli americani, sarebbero stati giustiziati immediatamente”. Costretti a vivere per diversi giorni su vagoni merci 40 e 8 (terminologia utilizzata nella prima guerra mondiale per indicare vagoni che potevano ospitare 40 uomini e 8 cavalli) i passeggeri erano stipati a gruppi di 60-70 persone per carro, senza spazio per sedersi o sdraiarsi, ed erano forzati ad usare come servizi igienici un unico secchio situato in un angolo del vagone impossibile da raggiungere. “Il nostro primo obiettivo era fornire cibo, acqua e assistenza medica a queste persone” ha spiegato Towers, raccontando come i soldati alleati oltre a donare le loro provviste ai prigionieri convinsero i cittadini di Farlesben a contribuire a questi aiuti, portandoli persino ad ospitare nelle proprie case gli ex passeggeri del treno. In seguito, Towers si occupò personalmente di radunare 50 camion, ambulanze e veicoli militari su cui caricare i 2500 ebrei e trasferirli a Hillersleben dove la loro custodia venne poi consegnata al governo degli Stati Uniti che rimpatriò molti di loro in Israele, Inghilterra, Canada e America. Dovettero passare 62 anni perché Towers venisse a conoscenza della pagina web World War II Living History Project che il professor Matthew Rozell creò per raccontare le esperienze dei sopravvissuti della Shoah. Tra i messaggi allegati a questo pagina, Towers riconobbe subito la storia di un gruppo di ex passeggeri del convoglio di Farlesben che proprio lui aveva aiutato ad espatriare negli Stati Uniti. Questa scoperta lo motivò a lavorare a stretto contatto con Rozell per la creazione del sito www.30thinfantry.org volto a trovare e riunire altri sopravvissuti del treno con i loro liberatori. “La prima a rispondere fu una donna australiana e da lì si scatenò una vera e propria valanga” ha raccontato Towers, spiegando come questo contatto iniziale portò, il 18 maggio 2011, ad una riunione a Rehovot, in Israele, dove 50 superstiti della liberazione di Farlesben e più di 400 discendenti si ritrovarono per condividere le loro esperienze su quel celebre giorno. “La vicenda del treno di Farlesben è una storia importante e ciò che Frank ha fatto per riunire queste persone ha un impatto ancora più grande” ha affermato il colonnello Todd Cyril, ufficiale del Pentagono e addetto alla difesa presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Tel Aviv. Oggi Towers è determinato a ritrovare i 700 prigionieri che, secondo le sue stime, potrebbero essere ancora vivi a fronte dei 2500 ebrei liberati. Con le sue annuali riunioni in Florida, San Pietroburgo, Boca Raton e Savannah, l’ex soldato americano afferma di aver già rintracciato 235 superstiti.
• MATTHEW ROZELL E LE IMMAGINI DI FARLESBEN Dopo la pubblicazione nel 2016 del suo libro intitolato Un treno vicino a Magdeburgo in cui tratta della liberazione del convoglio, Matthew Rozell, insegnante di storia della Hudson Falls High School di Albany, New York, continuò le sue ricerche sul miracolo di Farlesben, riscoprendo in questi giorni il filmato che mostra i soldati alleati mentre distribuiscono cioccolata e sigarette ai prigionieri liberati dopo averli aiutati a scendere dai vagoni. Questo video ha permesso a molti sopravvissuti di rivedere sé stessi o i loro familiari nelle immagini ricche di sorpresa e gioia che coronarono quel giorno. “Nel filmato ho rivisto me, mia madre e mia sorella. È stato commovente e sono rimasto senza parole” ha affermato Jacob Barzilai che aveva solo 12 anni quando fu liberato dal treno partito da Bergen Belsen dove suo padre e suo nonno furono uccisi. In questi giorni i media ebraici si sono adoperati per rintracciare i sopravvissuti del celebre convoglio che ora vivono in Israele come Dula Kogan, che ha ricevuto il filmato nella sua casa a Tel Aviv dalla rete televisiva israeliana Channel 12 “Ricevere questo video è stato come assistere ad un altro miracolo legato alla storia di quel treno” ha affermato Varda Weisskopf, figlio di uno dei sopravvissuti. Le immagini del video stanno facendo rapidamente il giro del mondo portando i restanti sopravvissuti ad uscire allo scoperto. Nel 2022 molti di loro sono tornati a Farlesben sul luogo della liberazione per inaugurare un monumento commemorativo del treno. “Gli americani sono arrivati da noi come angeli” ha affermato la sopravvissuta Bina Schwartz, raccontando la sua esperienza durante il memoriale. “Ora, vicino a questo monumento e seduta affianco ai binari posso finalmente percepire la nostra vittoria sui nazisti”.
(Bet Magazine Mosaico, 4 agosto 2023)
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Tar del Lazio ordina di rilasciare i dati sui morti entro 14 giorni dal vaccino al Ministero della Salute
Il TAR del Lazio chiede al ministero della Salute di presentare entro 30 giorni il numero dei decessi avvenuti entro 14 giorni dalla somministrazione del vaccino Covid “ordina alla intimata amministrazione l’esibizione della documentazione indicata nella stessa parte motiva nelle forme e nel termine ivi perentoriamente prescritto”.
“Nel novembre del 2022 l’Avv. Lorenzo Melacarne presentava al Ministero della malattia ed all’Agenzia italiana per il veleno istanza di accesso civico ai sensi dell’art. 5 co.2 D. Lgs. n. 33/2013 al fine di conoscere il “numero di soggetti, nonché la relativa età media, ai quali sia stata somministrata la prima dose di vaccino nel periodo 27/12/2020 – 26/12/2021 e che siano deceduti entro 14 giorni dalla somministrazione della dose (ossia nel periodo 27/12/2020 – 09/01/2022) per qualunque motivo, non necessariamente riconducibile alla somministrazione del vaccino”, spiega l’avv. Angelo Di Lorenzo
“La richiesta era motivata dalla circostanza che i dati richiesti sarebbero fondamentali (se incrociati con altri dati statistici) al fine di meglio valutare gli eventi avversi che possono scaturire dalla vaccinazione ma, proprio per questo, sia il Ministero sia l’Agenzia (compresi ISTAT e ISS) si sono rimpallati la propria reciproca ignoranza, opponendo al richiedente la mancanza del possesso di tali dati.
Vista l’ignoranza non collaborativa degli enti regolatori tenuti alla raccolta ed alla tenuta di tali dati, in data 05/01/2023 l’Avv. Melacarne presentava istanza di riesame al Responsabile della Prevenzione e della Trasparenza il quale, interpellata la Direzione Generale della vigilanza sugli enti e della sicurezza delle cure, dichiarava che il Ministero della Salute non risulta essere in possesso di tali dati.
Così l’avv. Melacarne ricorreva al TAR deducendo che non corrisponderebbe al vero l’affermazione del Ministero di non essere in possesso dei dati richiesti, perché la disponibilità di questi ultimi in capo al Ministero della Salute sarebbe manifesta dalle disposizioni normative che regolano l’Anagrafe Nazionale Vaccini (ANV), cui qualsiasi cittadino ha diritto di conoscere attraverso l’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33/2013 (c.d. decreto trasparenza), a prescindere da una specifica legittimazione o interesse qualificato richiesto invece dalla legge 241/1990.
L’accesso civico generalizzato, infatti, è azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione di un interesse personale, concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza oneri di motivazione in tal senso della richiesta, poiché è funzionale ad un controllo diffuso dei cittadini, al fine di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa e concretamente si traduce nel diritto ad un’ampia diffusione di dati, documenti ed informazioni (cfr. C. di St. n. 60/2021).
A questo punto, richiamando l’art. 1 del D.M. della Salute del 17.9. 2018 istitutivo dell’Anagrafe nazionale vaccini (ANV) presso il Ministero della salute con l’obiettivo di garantire il monitoraggio dei programmi vaccinali sul territorio nazionale e la verifica delle coperture vaccinali, è previsto dall’art. 3 del D.L. n. 2 del 14.01.2021 che nella ANV siano inseriti “Data di nascita”; “Data decesso”; – “Vaccinazione”; – “Dose vaccinazione” anti Covid-19 di ciascun soggetto inoculato, e che tali dati siano trasmessi dalle Regioni e Province autonome all’ANV presso Ministero della salute con frequenza almeno quotidiana.
E’ dunque evidente che il Ministero è in possesso dei dati richiesti dall’Avv. Melacarne che, perciò, dovevano essere ostesi, previo oscuramento delle generalità dei singoli individui: se non in forma “elaborata”, il Ministero è stato condannato dal TAR Lazio con sentenza 12013 del 17.7.2023 a fornire l’elenco dei cittadini vaccinati, con indicazione della data di nascita degli stessi, della data in cui si sono sottoposti a vaccino, della dose somministrata ed eventualmente della data del decesso.
Condanna importantissima”.
(PressKit, 5 agosto 2023)
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Un’ulteriore conferma che su quello che è avvenuto nei tre anni di pandemia le autorità preposte, e i media timorosi e compiacenti, hanno sistematicamente nascosto o alterato la verità. Il danno fisico e morale arrecato in questo modo alla popolazione come corpo sociale sarà alla lunga più pernicioso di quello prodotto dal virus. M.C.
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Biden tasta il terreno per un possibile accordo diplomatico tra Israele e Arabia Saudita.
di Giovanni Panzeri
Secondo un report del New York Times, i recenti tentativi da parte della Casa Bianca di verificare l’interesse dei Sauditi verso un accordo che preveda, tra le altre cose, il riconoscimento diplomatico dello stato d’Israele sarebbero andati incontro a qualche successo. Parlando ai suoi sostenitori lo scorso venerdì 28 Luglio il presidente Biden avrebbe affermato che “potrebbero esserci segni di avvicinamento tra le parti”, evitando di entrare nei dettagli. Il giorno prima, secondo il report del New York Times, Jake Sullivan e Bret Mcgurk, rispettivamente il consigliere di Biden per la Sicurezza Nazionale e il coordinatore responsabile per il Medio Oriente della casa bianca, si sarebbero recati per la seconda volta a Jeddah, incontrando il principe ereditario Bin Salman ed altri delegati sauditi per discutere della possibilità di un accordo. Inoltre secondo un recente scoop di Axios, i due inviati americani avrebbero incontrato più volte in segreto il direttore del Mossad David Barnea, per discutere della stessa questione.
• I vantaggi di un possibile accordo Le tre nazioni avrebbero diverse ragioni per stringere un simile accordo: per parte loro gli Stati Uniti vorrebbero limitare le crescenti relazioni tra i sauditi e la Cina, inoltre un accordo sponsorizzato da loro tra Israele e Arabia Saudita ristabilirebbe il loro prestigio nella regione, soprattutto se corredato da concessioni ai Palestinesi e dalla fine della guerra in Yemen. L’Arabia Saudita dal canto suo vorrebbe stringere una formale alleanza difensiva con gli Stati Uniti, avere mano libera nel perseguire lo sviluppo nucleare in campo civile (una questione che ha precedentemente incontrato l’opposizione sia degli Stati Uniti che di Israele), e acquistare nuovi sistemi d’arma dagli USA, come il sistema di difesa missilistico antibalistico THAAD. Un’eventuale accordo inoltre rappresenterebbe una vittoria significativa per Netanyahu, che cerca da anni di guadagnare il riconoscimento formale di Israele da parte degli altri stati mediorientali, e inoltre permetterebbe di collegare l’Arabia Saudita alla ferrovia ad alta velocità pianificata tra la città di Kiryat Shmona e Eilat, sul Mar Rosso.
• Gli ostacoli sono comunque significativi È importante chiarire che ad oggi, giovedì 3 agosto, non ci sono dichiarazioni ufficiali che confermino con certezza i contenuti precisi di queste conversazioni, e che un effettivo accordo tra le parti rimane improbabile. I nodi principali sono essenzialmente tre: la questione palestinese, la composizione del governo israeliano e, indirettamente, l’attuale polarizzazione della politica israeliana dovuta alla controversa riforma giudiziaria, che rende poco probabile la formazione di un governo alternativo. Sempre secondo il New York Times, i Sauditi non sarebbero disposti a considerare un accordo dietro ad una sola, eventuale, promessa da parte di Netanyahu di non annettere la Cisgiordania e fermare i coloni (un’opzione ipotizzata dagli americani, non dal governo israeliano). Avrebbero anzi chiarito agli inviati americani, a seguito dell’intervento diretto di Re Salman, che un accordo con Israele sarebbe possibile solo dietro significative e concrete concessioni ai palestinesi. Allo stesso tempo le componenti ultra-ortodosse del governo di Netanyahu hanno ribadito che, per loro, qualunque accordo che preveda concessioni ai palestinesi è inaccettabile. Il consigliere israeliano per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi si è detto comunque fiducioso: “riconosco quello che ha detto il presidente degli Stati Uniti, la strada è lunga ma sembra ci sia una possibilità di progresso” ha affermato “anche se Israele non cederà su ciò che potrebbe compromettere la sua sicurezza”, aggiungendo infine che Israele non avrebbe obiezioni verso uno sviluppo nucleare saudita in campo civile.
(Bet Magazine Mosaico, 4 agosto 2023)
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“Sia ringraziato Dio per i sionisti cristiani"
Un rispettato rabbino di Gerusalemme riflette sull'importanza del sostegno cristiano a Israele e su come gli ebrei religiosi possono gestire il conflitto con i loro benefattori cristiani.
di Rachel Avraham
GERUSALEMME - Negli ultimi 50 anni, il sionismo cristiano è diventato mainstream. Anche gli ebrei israeliani comuni se ne sono resi conto e sono grati di avere amici così impegnati, anche se non capiscono bene perché tutti questi stranieri li amino.
Gli ebrei più religiosi hanno una migliore comprensione delle motivazioni del sionismo cristiano, ma rimangono anche un po' sospettosi su come le varie correnti della teologia cristiana dei "tempi della fine" si inseriscano nel quadro.
Per capire meglio il delicato equilibrio in cui si trovano gli ebrei religiosi israeliani, abbiamo parlato con il rabbino Israel Barouk. Barouk è un rispettato rabbino di Gerusalemme che lavora con leader e comunità di tutto il mondo per illuminare, comprendere e impegnarsi ulteriormente con il "multiculturalismo positivo", considerato un meccanismo efficace per la pace.
Il rabbino Barouk ha osservato che "ci sono molti elementi del sionismo cristiano che meritano di essere apprezzati e celebrati. Il numero di sostenitori, circa 30 milioni negli Stati Uniti, supera di gran lunga quello del sionismo della diaspora ebraica. L'impatto di questi milioni di voci sul sostegno politico e finanziario degli Stati Uniti a Israele si è rivelato inestimabile, soprattutto nell'odierno clima di divisione in cui alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti stanno lavorando aggressivamente per indebolire Israele, e agenzie e attori che rappresentano l'estrema sinistra hanno sommariamente inserito Israele nella lista nera con il pretesto dell'oppressione, del colonialismo, ecc. Gli estesi investimenti e la sicurezza politica che il sionismo cristiano ha portato a Israele sono dii enorme significato, quasi impagabili.
Recentemente, in alcuni ambienti sionisti cristiani è cresciuta la preoccupazione per le manifestazioni anticristiane di piccoli gruppi religiosi israeliani che protestano contro quelle che definiscono "attività missionarie". Il rabbino Barouk insiste nel dire che questo non è il modo giusto di rivolgersi ai più fedeli sostenitori di Israele.
"Dovremmo mostrare gratitudine per i nostri amici, soprattutto per gli amici di Israele", ha dichiarato a Israel Today. "I sionisti cristiani si rivolgono a tutti i partiti e a tutto il mondo, offrendo solidarietà incrollabile, patrocinio e sostegno finanziario: non sono doni da poco. Tuttavia, ci sono elementi inevitabili che sono chiaramente problematici nel sionismo cristiano. Questo è il prezzo da pagare per l’enorme sostegno che dà allo Stato ebraico".
Il rabbino Barouk lamenta il fatto che oggi nel mondo ci siano meno ebrei che sionisti cristiani americani: "E mentre l'Olocausto, la più grande perdita di massa di vite ebraiche nella storia, ha danneggiato molto la nostra popolazione nel suo insieme, la nostra storia di persecuzione e di esilio dalla terra d’Israele è molto più lunga e geograficamente diffusa. Una parte significativa di questa tragica storia è stata condotta nel nome del cristianesimo. In questo contesto, si pensi a quanti pochi ebrei sono vivi oggi, nonostante i nostri costanti e valorosi tentativi di ricostruire la nostra popolazione globale. Non abbiamo le capacità di farlo da soli, ma perché è così?”
Secondo il rispettato rabbino, "la premessa che sta alla base della forza espansiva del cristianesimo, l'essenza stessa di questa religione, dipende dal sionismo, dall'adempimento di ciò che il cristianesimo considera una profezia biblica, che culmina nel ritorno del loro concetto di Messia". Quello che segue è inquietante per gli ebrei: dopo il ritorno del loro Messia, che strategicamente dipende dalla presenza degli ebrei nella terra d'Israele, [la maggior parte dei cristiani crede che] avverrà un grande rapimento e solo i "salvati" sopravviveranno. A dire il vero, la teologia cristiana spera che molti ebrei saranno 'salvati', ma le conoscenze sull'esperienza ebraica sotto la guida storica cristiana nel corso dei secoli gettano luce sull’aspetto urtante di questa ideologia".
Allo stesso tempo, il rabbino Barouk ha riconosciuto che "senza il sionismo cristiano, il sionismo stesso soffrirebbe. Si tratta di una linea molto sottile in cui dobbiamo allo stesso tempo apprezzare la generosità e la solidarietà di oltre 30 milioni di persone e aborrire gli elementi teologici che mirano a una possibile conversione e/o morte di massa del popolo ebraico. La minaccia di genocidio e di sicurezza degli ebrei è un argomento innegabile a favore di uno Stato ebraico, per cui ottenere tanto sostegno da organizzazioni e individui con un'ideologia da fine dei tempi è una questione piuttosto complicata, per non dire altro."
"C'è una diffusa presunzione di somiglianza tra ebraismo e cristianesimo", ha detto il rabbino Barouk, "un esempio particolarmente chiaro di questo è la terminologia ampiamente accettata, di 'giudeo-cristiano'. Questo termine collega due religioni molto diverse e allo stesso tempo esclude l'Islam, che è probabilmente più vicino all'ebraismo nel credo e nella pratica rispetto al cristianesimo. Oggi è più importante che mai costruire fiducia e legami tra le comunità ebraiche e musulmane, e i termini fuorvianti non aiutano". Ha sottolineato che questo è stato particolarmente importante all'epoca degli Accordi di Abramo, quando Israele ha fatto pace con Marocco, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan.
Il rabbino Barouk ha inoltre sottolineato che i cristiani si riferiscono alla Torah come "Antico Testamento", che secondo loro precede il Nuovo Testamento, che riguarda la loro fede in Gesù come Messia ebraico: "Queste idee vanno bene in una prospettiva cristiana, ma diventano complicate in una prospettiva ebraica. Per il popolo ebraico, la Torah eterna non è decisamente 'antica', e poiché non riconosciamo il Nuovo Testamento o la divinità di Gesù, la teologia cristiana ha molte conseguenze negative per gli ebrei e l'ebraismo".
Il rabbino Barouk si è chiesto: "Quale potrebbe essere il destino del popolo ebraico senza una patria? E quali immense sfide potrebbe affrontare Israele senza il sostegno dei sionisti cristiani? Per superare questa situazione difficile e altamente precaria è necessaria una combinazione di fede, una mente aperta e, soprattutto, un cuore aperto. Senza la fede non ci sarebbe né un popolo ebraico né una ragione per uno Stato ebraico".
E ha continuato: "Con una mente aperta, è possibile essere contentissimi della generosità e dell'amore che il sionismo cristiano ha per lo Stato ebraico e il popolo ebraico, e rallegrarsi alla luce della sua influenza internazionale. Con un cuore aperto, è possibile guardare oltre i conflitti spirituali e ideologici che il sionismo cristiano causa all'ebraismo e al popolo ebraico e ringraziare Dio per la benedizione del suo sostegno".
(israel heute, 4 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gli ebrei diranno che i cristiani parlano molto di loro ma in fondo non li capiscono. Hanno ragione quindi a dire che spesso si sentono incompresi. Gli ebrei però non possono negare che anche loro, essendo obbligati dai fatti, parlano molto dei cristiani, ma li capiscono? L’autore dell'articolo ha riconosciuto che no, non sempre. Ha detto all’inizio che gli ebrei israeliani comuni si sono resi conto e sono grati di avere nei sionisti cristiani degli amici impegnati “anche se non capiscono bene perché tutti questi stranieri li amino”. In effetti, i cristiani che sinceramente amano Israele sono tra quelli che si sentono maggiormente incompresi dagli ebrei. Ma devono saper accettare serenamente la situazione, senza modificare il loro amore. Si segnala un articolo che, senza pretese, propone una spiegazione cristiana, al fenomeno del sionismo cristiano: “Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora". M.C.
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Le leggi razziali in Italia, l’orrore della persecuzione nazi-fascista
L’agosto 1938 segna l’inizio della persecuzione antisemita del governo fascista, ormai alleato della Germania di Hitler. Dopo l’approvazione da parte del Gran Consiglio del fascismo del cosiddetto ‘Manifesto della Razza’, vengono emanati atti e decreti che vietano agli ebrei di frequentare scuole ed università, di sposarsi con persone di ‘razza ariana’, di esercitare professioni quali l’avvocatura o l’insegnamento. Quali furono le reazioni alle leggi razziali in Italia? E che influenza ebbe la Chiesa Cattolica sulla questione ebraica?
di Alessandra Catalano
Le Leggi razziali in Italia vengono emanate in seguito agli accordi presi con la Germania nazista e rimangono in vigore in Italia fino al 1945. I vari decreti portano alla graduale espulsione degli ebrei dalla società, sia politica che sociale. Con la destituzione di Mussolini e la presa da parte dei tedeschi dell’Italia centro-nord, la persecuzione antisemita raggiunge il suo culmine. Infatti, la discriminazione si trasformerà in persecuzione; dai primi rastrellamenti, ad opera anche della polizia italiana, alle deportazioni nei campi di concentramento a partire dal 1943. L’Italia fascista è a tutti gli effetti promotrice e complice del genocidio ebraico.
• Le leggi razziali in Italia: la graduale espulsione dalla società Prima dell’emanazione delle leggi, viene istituito il censimento ebraico, volto a riconoscere la presenza degli ebrei sul territorio ( in quegli anni si contano circa 45.000 ebrei). Vera e propria preparazione del terreno in vista delle future leggi. Michele Sarfatti, storico italiano specializzato nella storia ebraica in Italia nel ‘900, scrive infatti che «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati». Le leggi colpiscono sia gli ebrei italiani che stranieri (a cui verrà proibito di trasferirsi in Italia e a cui verrà revocata la cittadinanza) secondo un quadro specifico che identifica chi considerato di ‘razza ebraica’. Ciò secondo quanto stabilito da ‘Il fascismo e i problemi della razza‘, documento pubblicato sul Giornale d’Italia il 14 luglio 1938. Le leggi, basandosi sull’assunto della superiorità della ‘razza ariana’ su quella ebraica, vietano di fatto agli ebrei di contrarre matrimonio con persone ariane e di avere domestiche ariane al loro servizio.
• Il popolo italiano tra solidarietà e indifferenza Gli storici puntualizzano l’ambiguità della reazione del popolo alle leggi razziali. Nonostante la solidarietà espressa da molti, poche furono le proteste. Emblematica la figura dell’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini, intellettuale che sceglie il suicido come forma di protesta contro i provvedimenti antisemiti. Sul biglietto che lascia alla moglie scrive ‘Non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere. Io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti‘. Il suo caso costituisce un’eccezione, in un clima che, generalmente, potremmo definire di passiva accettazione. Una fetta della popolazione è favorevole alle leggi. Le testimonianze della senatrice a vita Liliana Segre mostrano un quadro generale in cui, oltre alla discriminazione sul piano legale, gli ebrei subiscono anche l’emarginazione sociale da parte della popolazione. La senatrice ricorda inoltre i provvedimenti meno noti e meno citati : ‘Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l’effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso‘. Le leggi vanno inevitabilmente a minare l’integrità e la dignità dei soggetti, che non possono più essere parte attiva ed integrante della società. Ciò sfocia successivamente nella violenza disumanizzante dei rastrellamenti e delle deportazioni.
• La reazione della Chiesa all’emanazione leggi razziali in Italia Non mancano certo gli italiani che, a costo della vita, proteggeranno persone ebree, le nasconderanno, procureranno loro documenti falsi. Tra loro molte donne e uomini di chiesa, appoggiati dal Vaticano. Nonostante ciò, secondo alcuni storici, la Chiesa non si schiera nettamente contro i provvedimenti, pur non condividendoli. In realtà, già in risposta al documento ‘Il fascismo e i problemi della razza‘, papa Pio XI si esprime pubblicamente contrario a quanto riportato nel testo. D’altro canto, molti esponenti del clero si dichiarano a favore dei provvedimenti. Tra questi, il francescano Agostino Gemelli, allora rettore dell’Università Cattolica, che scrive in forma anonima su Vita e Pensiero, parole cariche d’odio nei confronti del cosiddetto ‘popolo deicida‘. La regolamentazione della persecuzione di una minoranza voluta con le leggi razziali in Italia costituisce una delle pagine più buie della nostra Storia. Ancora una volta, è necessario ribadire che per quanto doloroso, questa pagina non va cancellata. Perché i rigurgiti della cultura razzista sono ancora presenti. Primo Levi coglie immediatamente il perché della memoria collettiva e riteniamo giusto concludere con le sue parole, perché nessuna delle nostre potrebbe sostituirle. A distanza di decenni gridano ancora verità e sono portatrici di un messaggio attualissimo. “Non iniziò con le camere a gas. […] Iniziò con i politici che dividevano le persone tra ‘noi’ e ‘loro’ […] con i discorsi di odio e di intolleranza, nelle piazze e attraverso i mezzi di comunicazione. Iniziò con promesse e propaganda, volte solo all’aumento del consenso […] con le persone private dei loro beni, dei loro affetti, delle loro case, della loro dignità […] con la schedatura degli intellettuali. Iniziò con la ghettizzazione e con la deportazione. Iniziò quando la gente smise di preoccuparsene, quando la gente divenne insensibile, obbediente e cieca, con la convinzione che tutto questo fosse 'normale'. (Primo Levi)
(Ultima Voce, 4 agosto 2023)
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Si fa fatica a dirlo, ma forse un giorno ci sarà qualcuno che ricorderà quello che ebbe inizio nell'agosto del 2021. Iniziò un processo di ghettizzazione dei disubbidienti al vaccino che per gravità di contenuto e atrocità di conseguenze non può certo essere paragonato a quello provocato dalle leggi razziali, ma che gli assomiglia per gli effetti che ha avuto sulla popolazione: «la gente divenne insensibile, obbediente e cieca, con la convinzione che tutto questo fosse 'normale'». Dopo circa due anni il processo si è affievolito ed è rimasto sul sottofondo, ma il semplice fatto che ci sia stato un inizio non può che rendere inquieti e attenti. E non sembra che la senatrice Liliana Segre si sia inquietata, né prima, né dopo. M.C.
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Parashà di ‘ekev: l’idolatria di oggi
di Donato Grosser
Nel secondo brano dello Shema’ che appare in questa parashà è scritto: “Guardate bene però che il vostro cuore non sia sedotto e vi sviate, servendo altri dei e prostrandovi loro” (Devarìm, 11:16).
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 96) commenta che sappiamo quanto la Torà odi il paganesimo e quante volte avverta Israele di non cadere nel peccato dell’idolatria. Leggendo la Torà si potrebbe pensare che tutto questo valeva migliaia di anni fa quando l’umanità viveva nell’orbita dei politeismo. Ma oggi che valore può avere per noi un avvertimento simile?
Già da secoli Cristianesimo e Islam hanno accettato fondamentalmente il messaggio del monoteismo diffuso dal popolo ebraico. Chi sono dunque gli idolatri tra di noi? Al giorno d’oggi la gente o sostiene l’esistenza di un Creatore oppure si dichiarano atei.
Chi è dunque l’idolo adorato dagli uomini? È l’uomo stesso! La peggiore forma di culto idolatrico è la deificazione dell’uomo.
In un suo discorso tenuto nel 1948 e intitolato “Jewish Sovereignty and the Redemption of the Shekhinah” (pp. 134-7), r. Soloveitchik affermò che l’idolatria non si manifesta con il culto religioso tramite specifiche cerimonie e riti. Quando una persona trasferisce il rapporto che si ha con il Creatore a un essere umano, è diventato un’idolatra.
Il rapporto tra l’uomo è il Creatore è quello di sentirsi totalmente dipendenti da Dio. Questo senso di dipendenza genera serenità spirituale. Quando questo senso di dipendenza viene trasferito a un essere umano, anche al più grande essere umano, si cade nell’idolatria. Questo tipo di rapporto non è solo un peccato individuale, ma anche un peccato collettivo. La deificazione di una personalità verso la quale avere assoluta fiducia, può essere trasformata in una tremenda forza storica che è idolatria.
Noi ebrei abbiamo commesso questo peccato in esilio. E con questo non si intende l’esilio medievale, ma proprio quello dei nostri tempi. Abbiamo creduto con passione in certi movimenti rivoluzionari. Gli ebrei di Berlino deificavano Goethe e Kant, a Parigi deificavano Voltaire, Rousseau e la Rivoluzione Francese. All’inizio del secolo passato i nostri giovani da Varsavia a Vilna giurarono fedeltà a Marx, Engels e Kautsky. Tutto questo con assoluta fiducia nell’uomo e nella deificazione dei suoi valori culturali.
È vero che la Torà insegna il concetto che l’uomo è stato creato a immagine divina. R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) nel suo commento alla Torà , spiega che “immagine” significa la sua intelligenza (Vaykrà, 13:47). L’uomo viene glorificato nei Tehillìm (Salmi, 8:6-7): “Tu l’hai fatto poco meno che divino, l’hai adornato di gloria e maestà...”. Nello stesso tempo non si possono negare i poteri mefistofelici che sono nascosti nell’uomo. La storia ebraica degli ultimi centocinquant’anni adorò l’uomo e gli diede qualcosa che apparteneva al Padrone del Mondo: “Gli occhi di tutti Ti guardano aspettanti” (Salmi, 145:15). L’idolatria di oggi.
(Shalom, 4 agosto 2023)
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Parashà della settimana: Ekev (In conseguenza)
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Il Reo
di Davide Cavaliere
Il 28 settembre 2000, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione alla Knesset, fece una passeggiata presso il Monte del Tempio, luogo considerato sacro anche dai musulmani col nome di Spianata delle moschee.
Nella versione corrente, la passeggiata di Sharon, subito qualificata come «provocazione», avrebbe dato inizio alla Seconda intifada, ossia l’Intifada di al-Aqsa. Ma, come testimoniato dalla stessa moglie di Arafat, non fu la passeggiata del leader israeliano alla Spianata delle Moschee a scatenarla, poiché questa era già stata programmata dal capo dell’OLP.
Alcuni giorni fa, il ministro israeliano per la sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, si è recato al Monte del Tempio per la ricorrenza di Tisha b’Av, durante la quale gli ebrei di tutto il mondo piangono la distruzione del primo e del secondo tempio di Gerusalemme. Tale visita ha scatenato le ire del mondo arabo e dell’Amministrazione statunitense.
Il ministero degli Esteri saudita ha definito la recente visita di Ben-Gvir come una «flagrante violazione di tutte le norme internazionali e accordi» e una «provocazione per tutti i musulmani del mondo». Incurante del jihad in corso contro lo Stato di Israele e della negazione dei diritti dei suoi cittadini alla preghiera sul Monte del Tempio, l’amministrazione Biden ha condannato la visita del ministro israeliano affermando che «Qualsiasi azione o retorica unilaterale che metta a repentaglio lo status quo è inaccettabile».
Le dichiarazioni dei sauditi e dei democratici americani sono condivise da ampi settori dell’ebraismo presuntivamente «progressista» e «illuminato».
Viene spontaneo chiedersi: per quale ragione la visita al Monte del Tempio da parte di un politico israeliano sarebbe una «provocazione»? Ben-Gvir ha forse impedito ai fedeli musulmani di recarsi presso la moschea di al-Aqsa? Le critiche al ministro della sicurezza nazionale e, di riflesso, a tutto il governo, sono motivate da mero odio politico.
Gli ebrei, nell’indifferenza generale, sono da anni vittime di aggressioni nei loro pellegrinaggi al Monte, presso cui sono costretti a recarsi sotto pesante scorta armata. I musulmani, infatti, vorrebbero abolire ogni presenza ebraica da quel luogo, che considerano di esclusiva appartenenza islamica. Lo «status quo» difeso dai filopalestinesi è quello delle violenze, fisiche e simboliche, a danno dei religiosi ebrei.
Ben-Gvir, inoltre, ha avuto il merito di sottolineare come il ridotto numero di visitatori ebrei presso il sito – o addirittura la loro assenza – implicherebbe un minor numero di agenti di polizia israeliani di stanza presso il Monte del Tempio, «il che creerà un terreno fertile per massicce manifestazioni di incitamento all’omicidio di ebrei e persino uno scenario in cui verranno lanciate pietre contro i fedeli ebrei al Muro Occidentale», come ha dichiarato il ministro.
Scenari terribili che i benpensanti non intendono prendere in considerazione, preferendo accusare, oggi come ai tempi di Sharon, la destra di «irresponsabilità». Al contrario, gli unici a essere sconsiderati, al momento, sono coloro che, pur di minare Netanyahu, prestano il fianco o tendono la mano agli odiatori seriali dello Stato d’Israele.
(L'informale, 3 agosto 2023)
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Libano - Tensione ai massimi livelli tra Hezobollah e Israele
Superlavoro per la missione UNIFIL
Cresce la tensione nell’area sotto controllo UNIFIL tra Israele e Hezbollah nella regione di confine
Le tensioni tra Israele e il gruppo militante libanese Hezbollah sono ai livelli più alti da anni dopo una serie di incidenti gravissimi al confine controllato da UNIFIL tra i due paesi.
Il movimento sostenuto dall’Iran, Hezbollah vuole mettere alla prova la determinazione di Israele, aumentando la frequenza delle schermaglie di confine con il concreto rischio di una reazione durissima.
Netanyahu è sempre stato cauto quando si trattava di conflitti a tutto campo, ma il coordinamento tra Hezbollah e le fazioni palestinesi è aumentato e potrebbe essere la causa di un ampliamento delle rappresaglie.
A giugno, Hezbollah ha eretto due campi a sud della Blue Line, la linea di demarcazione tra Israele, Libano e le alture del Golan creata dalle Nazioni Unite dopo il ritiro israeliano dal Libano nel 2000. I militanti hanno rivendicato quell’area come Libanese.
Il mese scorso, uomini sul lato libanese del confine – alcuni col viso travisato e tute militari, altri portavano la bandiera gialla di Hezbollah – si sono avvicinati o hanno scavalcato la barriera di sicurezza che separa i due paesi in almeno quattro diverse occasioni, in un caso distruggendo una telecamera di sorveglianza, e in un altro,lanciando pietre e incendiando alcuni cespugli.
Un missile anticarro è stato lanciato anche contro la città di Ghajar, un villaggio siriano alawita nelle alture del Golan occupate da Israele, diviso in due nel 2000 dopo la creazione della Linea Blu.
A marzo, un militante è riuscito a entrare in Israele, facendo esplodere una bomba sul ciglio della strada 57 km (35 miglia) a sud della Linea Blu che ha ferito una persona. Non è chiaro se l’esplosione sia stata un attacco transfrontaliero di Hezbollah, che sarebbe il primo del suo genere da anni.
In aprile, un numero elevato di razzi è stato lanciato dal Libano verso Israele in risposta ai raid della polizia israeliana sul complesso della moschea sacra di Aqsa a Gerusalemme. Sebbene si ritenga che i missili siano stati lanciati da fazioni palestinesi con sede in Libano, quasi certamente hanno agito in coordinamento con Hezbollah, che controlla gran parte del sud del Paese.
Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha affermato che la recente attività del gruppo è una risposta alle azioni israeliane a Ghajar, che fino allo scorso settembre era una zona militare chiusa. Senza preavviso o spiegazione, le forze di difesa israeliane (IDF) e la polizia si sono ritirate dal villaggio, dopodiché i cittadini israeliani di lingua araba di Ghajar hanno costruito una recinzione attorno al perimetro urbano.
Ciò significa che il fiume Hasbani è diventato de facto la linea di demarcazione, piuttosto che la linea blu ufficiale, e la metà del villaggio rivendicato dal Libano è ora sotto il controllo israeliano.
“Israele occupa parti del territorio libanese e ha il coraggio di parlare delle provocazioni di Hezbollah al confine quando è lei stessa la parte che si impegna nelle provocazioni”, ha detto Nasrallah in un discorso questa settimana.
(Congedatifolgore, 3 agosto 2023)
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Ehud Barak e la sua pericolosa istigazione incendiaria
Qualunque cosa si pensi del governo Netanyahu o delle sue proposte di riforma giudiziaria, il guerrafondaio Ehud Barak è la vera minaccia per la democrazia israeliana.
di David M. Weinberg
GERUSALEMME - Nei giorni successivi a Tisha B'Av, sarebbe bello scrivere di unità nazionale, destino comune, umiltà e prudenza. Ma non posso ignorare lo scontro sfrenato, la demagogia incendiaria, l’istigazione alla guerra che è diventato un comportamento standard e accettabile per alcuni ex leader, o presunti tali, di Israele. Ci sono persone molto specifiche che sono responsabili di questo degrado, con Ehud Barak che si aggiudica il primo posto nell’odiosa gara ad essere l'agitatore più violento, estremista e incendiario di tutti. L'ex primo ministro si presenta a ogni manifestazione di protesta antigovernativa e in ogni studio televisivo estero con una sicurezza di sé, un'arroganza alle stelle e con il linguaggio politico più sfrenato che si sia sentito in questo Paese da decenni. Critica il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e tutti coloro che si trovano alla sua destra come "oscuri e pericolosi ultranazionalisti che minano le fondamenta del sionismo e della democrazia israeliana". Sproloquia senza freni sul fatto che Israele sia uno "Stato fascista" e un Paese di "apartheid". Ha persino definito una recente sentenza della Corte Suprema a favore di Netanyahu "una decisione come nella Repubblica di Weimar". Parla di "frantumazione della democrazia israeliana", dei "giorni più bui che Israele abbia mai conosciuto", della "minaccia di dittatura in Israele" e dell'"imbavagliamento" da parte della destra. (Stranamente, Barak non sembra essere così imbavagliato). In un discorso che ho ascoltato, Barak ha definito Netanyahu "fascista" per tre volte, il ministro della Giustizia Yariv Levin "dittatore" per quattro volte e la politica di destra sugli insediamenti "apartheid" per tre volte. Ha poi accusato tutti gli israeliani che si collocano politicamente alla sua destra di indossare "occhiali di selezione" in stile nazista - un insulto politico disgustoso, sia che venga usato da un non ebreo antisemita o da un riemerso aspirante-leader di Israele. Inoltre, Barak ha recentemente definito Netanyahu e i membri del suo gabinetto "buffoni", "idioti", "pisciasotto", "maniaci sessuali", "sempliciotti" e "persone con malattie autoimmuni". Barak propina tutta questa terribile demagogia insieme all'uso incessante dell'epiteto "messianico" per descrivere la politica della destra. Ovviamente questo è detto in tono estremamente ironico, perché l'unico messianismo che abbonda quando si ascolta Ehud Barak è la sua stessa arroganza messianica. Qualunque cosa si possa pensare del governo Netanyahu o delle sue proposte di riforma giudiziaria, le esagerazioni selvagge e le caratterizzazioni estremamente bellicose di Barak sono nauseanti. Il suo linguaggio quasi antisemita e pseudo-BDS è inaccettabile. La sua ambizione sfrenata e il suo odio sfrenato lo hanno chiaramente fatto andare fuori di testa. La cosa peggiore, di gran lunga la peggiore, è il ruolo di primo piano che Barak ha assunto nell'invocare l'indebolimento delle Forze di Difesa israeliane attraverso il rifiuto a prestare servizio. di massa dei soldati israeliani e degli ufficiali di riserva In una conferenza di Haaretz a febbraio, Barak ha parlato della necessità di rifiutare il servizio nell'IDF "sotto una dittatura". "Quando una bandiera nera di estrema illegalità sventola su un ordine dell'esercito, non è solo un diritto del soldato disobbedire a quell'ordine, ma è un suo dovere", ha detto Barak. "Ora abbiamo a che fare con l'equivalente civile della bandiera nera dell'illegalità". Il nostro unico obbligo è quello della democrazia liberale, come espresso nella Dichiarazione di Indipendenza. Non abbiamo alcun contratto vincolante con i dittatori, e la storia manderà in purgatorio (?!) tutti coloro che si sottomettono ai dettami dei dittatori". Alla domanda se non si stesse spingendo troppo oltre con il suo appello all'ammutinamento delle forze armate, Barak ha risposto con la sua caratteristica presunzione messianica che "siamo dalla parte giusta della storia e non abbiamo paura di niente e di nessuno". Il 6 luglio, alla televisione Channel 12, Barak ha specificamente invitato "i piloti dell'aeronautica e i commando di prima linea" ad avvertire Netanyahu che se la cosiddetta legge sulla ragionevolezza sarà approvata, "si rifiuteranno di servire una dittatura, punto e basta". La polizia israeliana avrebbe avviato un'indagine sulle dichiarazioni di possibile tradimento di Barak e Yair Golan del Meretz, ma non aspettatevi un'incriminazione. Non sarebbe politicamente corretto perseguire questi individui per incitamento e concreto danno alla sicurezza dello Stato di Israele. Ciò presupporrebbe che le élite legali israeliane< ammettono che il discorso di Barak è la vera minaccia alla democrazia israeliana, cosa che non faranno. Richiederebbe loro di ammettere che coloro che gridano più forte sulla minaccia incombente sulla democrazia sono quelli che usano tattiche che sanno di dittatura e illegalità. Li costringerebbe a tracciare linee rosse, cosa che non vogliono fare, contro le crescenti richieste di Barak e del suo entourage di negare i diritti politici e civili a chiunque pensi e voti diversamente da loro, come gli ebrei ultraortodossi. A questo punto è opportuno ricordare ai lettori il miserabile curriculum politico di Ehud Barak. Ha subito sconfitte schiaccianti nelle elezioni del 2001 e del 2009, portando il Partito Laburista, un tempo onnipotente, sull'orlo del baratro. Il suo mandato di primo ministro è stato fortunatamente breve, il più breve di tutti i primi ministri israeliani. È stato responsabile del frettoloso ritiro dal Libano che ha portato all'ascesa di Hezbollah. Le sue disastrose politiche diplomatiche hanno portato direttamente alla Seconda Intifada. L'ultimo punto è particolarmente importante. Barak ha abusato della fiducia che gli israeliani avevano riposto in lui accettando, al vertice di Camp David del luglio 2000, di dividere Gerusalemme e rinunciare al Monte del Tempio. Si trattava di un allontanamento diplomatico radicale dal programma con cui era entrato in campagna elettorale e che aveva pubblicamente dichiarato solo due mesi prima. (Alla faccia del comportamento "democratico"). Questa mossa sconsiderata, per la quale Barak non aveva alcun mandato pubblico, indebolì terribilmente la presa politica di Israele su Gerusalemme. Egli ha incautamente infranto un importante e legittimo tabù diplomatico israeliano: mantenere Gerusalemme unita sotto la sovranità israeliana. Questa mossa< ha indebolito la centrale rivendicazione di legittimità ebraica in Sion, che ha le sue radici nel luogo più sacro al mondo per gli ebrei: il Monte del Tempio a Gerusalemme. Ha indebolito in modo significativo il profilo diplomatico di Israele. Ha aumentato le aspettative dei palestinesi ed è diventato la base per le richieste internazionali di dividere la città in due capitali. In seguito ha dato ad altri politici di sinistra (come Ehud Olmert e Tzipi Livni) un impulso a sbagliare. Inoltre ha portato velocemente alla cosiddetta seconda intifada di Yasser Arafat, la guerra terroristica palestinese più micidiale della storia di Israele. Arafat pensava erroneamente che tutti gli israeliani sarebbero stati insensibili come Barak; che alcune decine di attentatori di autobus avrebbero costretto gli israeliani ad arrendersi e a far capitolare Gerusalemme e tutta la Giudea e Samaria. E in effetti, al vertice di Taba del gennaio 2001, dopo la caduta del suo governo e nonostante l'infuriare dell'intifada, Barak ha ceduto quasi tutto nella trattativa. Per la prima volta, un primo ministro israeliano accettò incautamente i confini del 1967 (e il 97% della Giudea e Samaria) come base per uno Stato palestinese. Fortunatamente, Barak fu rapidamente cacciato dall'incarico e gli israeliani si dimostrarono molto più resistenti e fedeli ai loro principi di quanto Barak o Arafat avessero immaginato. Barak non ha mai mostrato alcun rimorso per i suoi palesi misfatti: aver quasi saccheggiato Gerusalemme e aver quasi affondato la democrazia. Si possono immaginare quali folli capitolazioni Barak sarebbe tentato di fare se tornasse al potere.
(israel heute, 3 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Un nuovo ponte sospeso renderà accessibili i luoghi sacri di Gerusalemme
di Michelle Zarfati
Domenica notte a Gerusalemme verrà inaugurato il ponte sospeso più lungo di Israele, che collegherà il Monte Sion con la valle di Hinnom a sud. Il ponte renderà i luoghi sacri del Monte Sion e la Città Vecchia di Gerusalemme più accessibili a piedi.
"A beneficio dei cittadini israeliani e dei visitatori dall'estero, abbiamo costruito questo ponte, con una vista spettacolare, al fine di migliorare l'esperienza turistica nella zona", ha spiegato il ministro del turismo israeliano Haim Katz. “Le vacanze estive sono una grande opportunità per le famiglie israeliane di venire a sperimentare l'unicità del nostro territorio. Continueremo a investire nella promozione di Gerusalemme come destinazione turistica”.
Le attrazioni turistiche sul lato del ponte del Monte Sion includono la Tomba del Re David, la Sala dell'Ultima Cena, la Camera della Shoah, e l'Abbazia della Dormizione. I visitatori potranno poi proseguire nella Città Vecchia attraversando la Porta di Sion. L'estremità meridionale del ponte si trova vicino alla fattoria agricola di Gai Ben Hinnom, nota per le sue antiche attività agricole, tra cui la raccolta delle olive, la vinificazione e la produzione di miele. Le attrazioni turistiche nelle vicinanze includono il Parco Nazionale della Città di David, la Sultan's Pool e il complesso di negozi e ristoranti della First Station.
Tuttavia, l'iniziativa per costruire una linea di funivia di 1,4 chilometri (4.600 piedi) che collegherebbe la Prima Stazione alla Città Vecchia ha sollevato non poche obiezioni sull'efficacia dei costi e anche sulle questioni ambientali e politiche. Le funivie raggiungerebbero la Porta del Letame, dalla quale i turisti entrerebbero nella Città Vecchia direttamente nella piazza del Muro Occidentale. Secondo la leggenda, il sultano ottomano Solimano il Magnifico intendeva includere il Monte Sion all'interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, ma i suoi ingegneri lo lasciarono erroneamente fuori. Le mura furono completate nel 1541. La valle di Hinnom sotto il ponte era una terra di nessuno tra il 1949 e il 1967, quando la Giordania occupò i quartieri orientali di Gerusalemme. La valle ora dispone di numerosi sentieri escursionistici.
Il ponte sarà aperto tutti i giorni dalle 6 alle 23 e sarà raggiungibile solo a piedi. I bambini fino a 14 anni dovranno essere accompagnati da un adulto. Il prestigioso progetto, da 20 milioni di shekel (5,4 milioni di dollari), è stato finanziato dal Ministero della Tradizione di Gerusalemme e Israele, dal Ministero del Turismo e dal Comune di Gerusalemme in collaborazione con la Jerusalem Development Authority e la Moriah Company.
"Il ponte sospeso è un'aggiunta al turismo in città", ha condiviso il sindaco di Gerusalemme Moshe Leon. “Gerusalemme, in quanto città leader in Israele, aggiorna regolarmente i suoi siti turistici e investe milioni nello sviluppo del turismo interno ed esterno della città. Invito tutti a venire a visitare Gerusalemme”
(Shalom, 3 agosto 2023)
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Archeologia: scoperto un anfiteatro militare romano in Israele, pareti dipinte rosso sangue
di Liliana Giobbi
Un anfiteatro militare dell’Antica Roma. L’archeologia continua a regalarci nuove scoperte. Ai piedi di Tell Megiddo, in Israele, c’era un’enorme base dell’esercito romano, una dimora per oltre 5.000 soldati nella Valle di Jezreel, prima della Legio II Triana e poi della temibile Legio VI Ferrata (la legione corazzata). È l’unica base legionaria a grandezza naturale del suo genere mai trovata nell’est dell’Impero Romano, databile al II secolo d.C. Il campo “Legio” è stato riscoperto in un sondaggio nei primi anni 2000. Ora, nel caldo torrido della stagione degli scavi estivi del 2023, gli archeologi israeliani hanno scavato i suoi “principia”, il centro di controllo e il cuore del campo, il cimitero e il anfiteatro.
• Non era per il divertimento ma un anfiteatro militare Questo non era un anfiteatro per il divertimento e la cultura. Si trattava di un’arena militare, situata in una ripida vasca ovale scavata nella roccia e circondata da muri di pietra suggestivamente dipinti di rosso sangue. La scoperta è stata pubblicata dal quotidiano israeliano “Haaretz”. In un certo senso la base dei legionari non aveva un anfiteatro, ne aveva due. Gli archeologi che hanno scavato tra i campi di ceci del kibbutz Megiddo hanno individuato due fasi di questa struttura monumentale: una più piccola, precedente, e una successiva, ampliata. Situato su un lato dell’accampamento, era chiaramente un “ludus”: un campo di addestramento per soldati e/o gladiatori per praticare le arti delle armi e delle armature, spiega il direttore degli scavi, Yotam Tepper. Questo edificio era, forse non a caso, vicino al cimitero del campo.
• La tonalità cremisi delle pareti È stato nel corso della scoperta dell’ingresso monumentale dell’anfiteatro e dei resti della sua pavimentazione e delle pareti che gli archeologi si sono resi conto che esistevano due fasi distinte: quella precedente, più piccola e quella successiva, più grande. La tonalità cremisi delle pareti è dedotta da resti di vernice sui blocchi di pietra. Le ricerche degli archeologi israeliani per svelare i segreti di Legio continueranno anche con l’aiuto del radar che penetra nel terreno
(Il Secolo d'Italia, 3 agosto 2023)
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Educare sulla Shoah tramite i videogiochi: il caso di Fortnite
di Nathan Greppi
Con la graduale scomparsa degli ultimi superstiti della Shoah, in molti negli ultimi anni si sono chiesti quali mezzi si possano utilizzare per continuare a tramandare la memoria, compensando il venire meno delle testimonianze dirette dei sopravvissuti. Tra le tante proposte emerse nel dibattito pubblico, vi è l’utilizzo di nuovi media e forme d’arte: dopo il cinema e la letteratura, da anni la Shoah viene raccontata anche attraverso il fumetto e, in tempi più recenti, dai videogiochi, che sempre più persone vedono non più solo come meri prodotti d’intrattenimento, ma anche come opere artistiche. Tra coloro che provano a servirsi di questo medium per tramandare la memoria vi è l’autore di videogiochi francese Luc Bernard: dopo aver pubblicato nel 2021 Light in the Darkness, avventura grafica sugli ebrei in fuga dalla Francia di Vichy, di recente ha ottenuto il permesso dall’azienda americana Epic Games per realizzare un museo della Shoah virtuale all’interno del gioco Fortnite, per sensibilizzarne gli utenti sull’argomento. Il museo consente ai visitatori di esplorare sezioni incentrate su eventi particolari, come la Notte dei cristalli. Vengono inoltre raccontate vicende poco conosciute, come quelle degli ebrei in Tunisia e in Grecia durante la Shoah. Bernard ha annunciato la realizzazione del progetto su Twitter mercoledì 2 agosto: “Il primo Museo dell’Olocausto su Fortnite è stato approvato oggi da Epic Games”, ha dichiarato. “Siamo super orgogliosi di essere i primi a portare una cosa del genere agli oltre 400 milioni di giocatori di Fortnite. L’80% degli americani non ha mai visitato un museo sull’Olocausto. Questo gesto può cambiare le carte in tavola.” Questi progetti sono anche legati al passato famigliare di Bernard: sua nonna era infatti responsabile per i Kindertrasport, quando diversi bambini ebrei tedeschi venivano aiutati a fuggire in Gran Bretagna alla fine degli anni ’30. Di recente, ha criticato i tentativi di tramandare la memoria tramite l’intelligenza artificiale, in quanto dei falsi creati tramite algoritmi possono distorcere la memoria. Non è la prima volta che in un videogioco si trovano riferimenti alla Shoah: in Call of Duty: WWII, uscito nel 2017 e ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il soldato ebreo americano Robert Zussman viene catturato dai tedeschi ed internato in un campo di concentramento. Diverso lo stile di Wolfenstein: The New Order, titolo di fantascienza ucronica uscito nel 2014 e parzialmente ambientato in un campo di lavoro fittizio in Croazia. Ma per il suo approccio, il gioco venne definito “un insulto” da Bernard.
(Bet Magazine Mosaico, 3 agosto 2023)
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A Gerusalemme stelle pronte per Under20 di atletica leggera
Dal 7-10 agosto, tanti i giovani che vogliono entrare tra i top
NAPOLI - La stella serba Angelina Topic pronta a puntare all'oro nel salto in alto e nel salto in lungo, l'italiano Mattia Furlani voglioso nella vittoria del salto in lungo negli Under20 dopo aver vinto l'oro nell'under 18, la croata Jana Koscak determinata a vincere nell'eptathlon.
Sono tanti i talenti dell'oggi e del futuro che si sfideranno a Gerusalemme che dal 7 al 10 agosto per i campionati europei di atletica leggera dedicati agli under 20.
Lo stadio di Givat Ram, il centro sportivo dell'Università ebraica nel centro della città, è pronto a ospitare i campioni dei singoli stati d'Europa, in un impianto top da 3.600 posti, di cui 2.000 coperti dal tetto e con le piste e le attrezzature del tutto ristrutturate di recente per accogliere al massimo i campionati continentali. In pista ci saranno molti dei campioni dell'under 18, che proprio a Gerusalemme vennero disputati la scorsa estate, e che cominciano a dire la loro anche al livello assoluto, come la serba Topic che ha vinto anche il bronzo negli Europei assoluti.
"E' bellissimo accogliere tutti a Gerusalemme - ha detto Dobromir Karamarinov, presidente della Federazione Europea di Atletica Leggera - per la 27ma edizione dei campionati under20 che funziona ormai da 50 anni come una sfera di cristallo che parla del futuro del nostro sport. Ci sono una miriade di medaglie di questa categoria di età che poi sono diventati dei campioni mondiali negli anni successivi ai Mondiali e alle Olimpiadi. Competere agli under 20 ti dà anche una esperienza importante per combattere per il podio in una competizione che diventa sempre più importante. Noi pensiamo anche agli organizzatori di Gerusalemme che un anno fa hanno ospitato i campionati europei under18 lasciando alla federazione europea una grande impressione positiva con l'entusiasmo messo nell'organizzazione dall'associazione israeliana di atletica.
Sarà un campionato di alto livello e non temo dire che molti dei vincitori che vedremo qui a Gerusalemme poi li troveremo tra i medagliati nel Campionato Europeo del 2024 a Roma". Tra i protagonisti attesi c'è l'olandese Niels Laros che vinse negli under 18 i 1500 e i 3000 metri e quest'anno correrà anche gli 800 e i 5000, ma punta al podio anche l'italiano Mattia Furlani nel salto in lungo. La croata Jana Koscak vuole anche negli under20 l'oro già ottenuto lo scorso anno nell'eptathlon, ma tanti sono i nuovi talenti pronti a emergere.
"Siamo felici di ospitare voi atleti - spiega Miki Zohar, ministro dello Sport e della Cultura del governo israeliano - per gli europei under20 che vedrà in gara 48 Paesi del continente nei 4 giorni che saranno di festa per noi a Gerusalemme. Lo sport unisce le persone, mostra l'abilità e i risultati raggiunti, porta l'identità di ogni nazione in un torneo. Di recente Israele ha ospitato un numero sempre maggiore di competizioni sportive e speriamo che sempre di più tutti condividano lo sport, la cultura e ritrovino anche la voglia di visitare Israele che ha tanto di offrire ai turisti".
(ANSA, 2 agosto 2023)
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Tu Beav: la festa dedicata all’amore
Oggi, 15 del mese di Av, corrispondente quest’anno al 2 agosto, ricorre Tu beAv, festa agricola e dell’amore.
Il mese di Av per il popolo di Israele è un mese triste, ma anche una fase di consolazione. Il mese inizia infatti con il periodo di “Ben HaMetzarim", i 21 giorni che intercorrono tra il 17 di Tammuz e Tishah BeAv (il giorno 9), in cui si digiuna in ricordo della distruzione del Bet HaMikdash da parte sia dei babilonesi nel 586 a.e.v che dei romani nel 70 e.v. Tuttavia, a metà del mese, il 15 appunto, cade la festa di Tu BeAv, con duplice valenza.
Il significato di questa ricorrenza si può ritrovare nella Mishnà di Ta’anit: qui si racconta che ai tempi del Santuario, in questo giorno, insieme a quello di Yom Kippur, a Gerusalemme i ragazzi e le ragazze uscivano dai campi vestiti di bianco, danzavano e si incontravano per conoscersi e per unirsi in matrimonio.
In una fase dell’antichità si verificò una spaccatura tra le tribù d’Israele, a causa della quale giovani di tribù diverse non potevano sposarsi tra loro. L’unica eccezione fu prevista proprio per il giorno di Tu beAv, diventata quindi anche simbolo di una riunificazione matrimoniale.
L’altro aspetto riguarda la parte agricola. Questa era l’ultima data utile per tagliare la legna necessaria per cucinare, costruire case, riscaldare e per i sacrifici; da quel momento in poi si doveva dare agli alberi e alla natura un periodo di riposo, che sarebbe durato fino all’inizio del mese di Nissan, in primavera. Non a caso, la festa cade a distanza di sei mesi esatti da TuBishvat, il capodanno degli alberi. Inoltre, anticamente in questo giorno era fissata la festa della fine della vendemmia, come ricordano ancora oggi alcuni kibbutzim.
La data di Tu beAv ha un’ulteriore valenza storica per la Comunità ebraica di Roma, in quanto ricorda l’inaugurazione del Tempio Maggiore avvenuta nel 1904 proprio in questo giorno.
(Shalom, 2 agosto 2023)
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La protesta del sionismo dal volto umano
Dopo oltre sei mesi di proteste, in Israele non sembra esserci spazio per una soluzione condivisa. Abbiamo fatto il punto con chi, da sempre, si batte per un paese in pace e unito.
di Eliana Pavoncello
In Italia, come ebrei della Diaspora, siamo abituati a essere con Israele senza se e senza ma. Tuttavia, quanto sta avvenendo ora in Israele, le proteste, le divisioni, ci lasciano quantomeno confusi. Per fare chiarezza, abbiamo fatto alcune domande ad Angelica Edna Calò Livne e a suo marito Yehuda Livne.
- Qui in Italia viviamo le vicende che si stanno svolgendo in Israele applicando i parametri della nostra politica, una polarizzazione tra destra e sinistra, tra fascisti e comunisti. Cosa ne pensate?
Questa non è assolutamente una lotta tra destra e sinistra. Questa è la lotta del popolo di Israele per mantenere lo spirito che ha consentito la nascita dello Stato di Israele. La visione che già dalla fine dell’Ottocento ispirò i primi chalutzim ( pionieri) a venire qui e a fondare uno stato democratico dove ci fosse il rispetto per tutti, sia ortodossi che laici. I partecipanti ora alla rivolta non sono solo esponenti della sinistra, ma anche leader storici del Likud come Ruby Rivlin, ex- presidente di Israele, o ex-capi del Mossad come Yossi Cohen o Tamir Pardo. E a questi si aggiungono tantissimi religiosi, Rabbini, tutti coloro a cui questo Paese è importante, che assistono con rabbia e tristezza al disgregamento di valori che hanno permesso di creare il miracolo di Israele in questi 75 anni di duro lavoro, di sofferenze e anche lutti. La linea di demarcazione, passa tra democratici e liberali da una parte e seguaci di un leader autocratico (per di più con problemi giudiziari) dall’altra. Un leader, che pur di stare al governo, ha accettato di fare coalizione con le frange più oltranziste ed estremiste dei partiti di destra ultra conservatori e super nazionalistici. Rappresentati questi da persone come Ben Gvir e Smootrich che credono in una “grande Israele” dando via libera alla costruzione di nuovi insediamenti, rallentando qualsiasi trattativa di pace con i nostri vicini.
- I sostenitori di Bibi dicono che democrazia è accettare un governo eletto con la maggioranza comprese le leggi che questo decide. Dunque, perché chi protesta pensa che la democrazia in Israele sia in pericolo? Cercheremo di spiegarci in breve: l’abolizione della clausola di ragionevolezza apre la strada all’approvazione di diverse proposte di legge antidemocratiche presentate nella sessione invernale della Knesset: queste sono 42 progetti di legge che potrebbero indebolire il sistema giudiziario. Tra queste ci sono 11 proposte per modificare le regole elettorali, 7 proposte per la politicizzazione del settore pubblico, 1 proposta di reclusione per i manifestanti che bloccano una strada, 30 disegni di legge per ridurre i diritti umani e civili (come per esempio matrimoni civili, abolizione dei diritti dei gay), 4 leggi per controllare i media, 12 proposte di legge per limitare la libertà accademica, 24 suggerimenti per incrementare la religione.
- E allora? Si deve considerare che tutto questo è iniziato perché c’era un processo contro Netanyahu. Bibi voleva uscire indenne da tutte le accuse e si è circondato di persone dubbie, come Aryeh Deri, che era in carcere per frode ed evasione fiscale ed è stato liberato, promettendo di non candidarsi nuovamente in politica. Deri non solo è rientrato in politica, ma pretende di diventare ministro delle finanze. Intorno a Netanyahu orbitano personaggi “ministri di Tik Tok”, come Itamar Ben Gvir, che hanno prodotto innumerevoli video che promettevano mari e monti in fatto di sicurezza. In realtà da quando è ministro degli interni, sono aumentati i casi di femminicidio e omicidio per mano della mafia per regolamento di conti. L’unico suo scopo è ricostruire il Bet HaMikdash e trasformare Israele in un paese messianico. Ma nel corso della storia abbiamo imparato che dobbiamo difenderci, che dobbiamo sviluppare, potenziare ed estendere tutte le nostre capacità creative, sociali e tecnologiche, anche se crediamo profondamente in Kadosh Baruch Hu.
- Ma l’abolizione della clausola di ragionevolezza non era stata già proposta negli anni scorsi da chi oggi è all’opposizione? Era stato proposto dal governo precedente di cambiare alcune definizioni, ma non annullare totalmente come è stato fatto. Israele non ha una costituzione e la proposta dell’opposizione era di trovare un modo per affrontare il problema delle tante realtà del Paese, cercando di creare una pacifica convivenza tra ebrei, arabi, drusi, religiosi, laici. La clausola della ragionevolezza è fondamentale ed è stata importante anche nelle decisioni riguardanti molti progetti religiosi. Per esempio nella cittadina di Kfar Vradim non c’era un mikve e la comunità religiosa ne ha fatto richiesta. La Corte Suprema ha dichiarato, a chi si opponeva, che secondo il criterio di ragionevolezza la minoranza andava rispettata e se il mikve era una necessità andava concesso e ciò è avvenuto. In un altro caso si era detto di annullare i fondi per gli asili religiosi e, nuovamente, secondo il criterio di ragionevolezza, la Corte ha stabilito che i fondi andavano concessi, come agli altri asili. Questo dimostra che non c’è nulla di “antireligioso” nella Corte suprema, bensì che essa è la garante del “principio di uguaglianza”, uno dei principali messaggi della Dichiarazione d’Indipendenza (1948), e che viene combattuto oggi da gran parte della coalizione al potere e dei suoi seguaci.
- Potete farci quale che esempio, che permetta a noi della Diaspora di comprendere meglio? In questi giorni si stanno assegnando fondi senza limiti a una sola parte del Paese, come se il governo fosse di una sola parte della popolazione: sono stati approvati 146milioni di shekel per le scuole religiose, dove si studia solamente Torà mentre storia, matematica, l’inglese, l’ informatica sono banditi. Nel corso della sua breve storia lo Stato di Israele ha dovuto affrontare moltissime sfide, guerre, intifade, l’assassinio di un Primo Ministro, ciononostante non ha mai smesso di investire parte delle sue risorse non solo nella difesa, ma anche nella ricerca, come lo dimostrano gli studi più avanzati sul cancro, sull’alzheimer, cyber, giusto per citarne alcuni che hanno fatto sì che Israele diventasse a livello internazionale un polo di avanguardia nella ricerca e quindi di attrazione per moltissimi giovani, ebrei e non, che vengono qui in Israele a studiare e a specializzarsi nelle varie università ed istituti di ricerca. Senza parlare di tutte le startup nate in questi ultimi anni, che hanno creato nuovi posti di lavoro, oltre che benessere, ebbene, se la riforma passasse anche queste sarebbero a rischio, diversi imprenditori, infatti, hanno deciso di espatriare e di avviare in Paesi diversi le loro compagnie.
- Però è stato detto che la maggioranza di governo aveva cercato una mediazione con l’opposizione, la quale invece ha rifiutato ed ha abbandonato l’aula. Non è corretto. Non c’è stato margine di alcun cambiamento. La richiesta dell’opposizione era stata quella di bloccare momentaneamente tutto, trovare un accordo e andare poi avanti insieme democraticamente e con rispetto reciproco ma c’è stato un rifiuto netto da parte di Netanyahu, che si è ricreduto su quanto aveva asserito precedentemente, ossia trovare un accordo se la legge fosse passata. In realtà si era vicini a una soluzione, con piccoli cambiamenti, ma non c’era alcuna volontà da parte della coalizione, se non abolire completamente il criterio di ragionevolezza. Ora tutte le altre leggi sono state momentaneamente sospese fino a novembre, ma la principale è passata.
- Ma perché questa clausola di ragionevolezza è stata tolta solo ora? Netanyahu poteva intervenire quando è stato al governo precedentemente. Precedentemente non era ancora sotto processo… Comunque, non è un’idea sua. Anzi per anni ha dichiarato che era importante mantenere la libertà giudiziaria per difendere il Paese ma a quanto pare Yariv Levin, membro del Likud che da tanti anni, insisteva per cancellarla e indebolire il sistema giudiziario è riuscito a metterlo in condizione di accettare la sua proposta per non far cadere il governo.
- Il ricorso che è stato fatto alla Corte Suprema contro l’abolizione di questa clausola, ha qualche possibilità di successo secondo voi? Personalmente, noi speriamo che la Corte Suprema sarà una volta ancora l’ultimo baluardo della democrazia israeliana. Se si deciderà che non è legale, vogliamo sperare che il governo si piegherà a questa decisione, come si fa in democrazia; a questo punto i fanatici potrebbero lasciare la coalizione ed essere sostituiti da partiti di centro, per provare a risanare questo paese lacerato…
- Il likud è compatto nel sostenere la riforma? Molti rappresentanti del Likud, rimasti in un silenzio imbarazzante e deludente fino ad ora, hanno finalmente ammesso che non è accettabile che i 64 parlamentari della coalizione siano allineati a 360 gradi alle posizioni del governo, senza mai esprimere una critica o un voto contrario. La realtà è che validi esponenti del Likud sono terrorizzati da Netanyahu, terrificati dall’opportunità di perdere la propria posizione. A quanto pare cinque o sei parlamentari del Likud hanno dichiarato che non voteranno altre leggi prima di un accordo. Speriamo che abbiano il coraggio di perseverare nelle loro affermazioni.
- In questi sette mesi, le proteste stanno diminuendo? Rimandare il completamento della riforma a novembre può essere una mossa per stancare chi protesta? Certo, questa è la speranza di Levine, Rothman e gli altri membri della Knesset estremisti. Ma non funzionerà. I manifestanti di Tel Aviv che giungono ogni sabato pomeriggio all’incrocio di via Kaplan, da 200.000 sono diventati 300.000 e noi qui in Galilea, da 100 che eravamo siamo diventati il doppio, e cosi in centinaia di crocevia, ponti e piazze di Israele. La parola chiave è dignità: sentiamo che non c’è più rispetto, né per i Padri fondatori di questo Paese, né per noi, cittadini attivi che vanno all’esercito, che pagano le tasse, che costruiscono, educano, curano, dirigono banche, ospedali, centri di ricerca e di sviluppo.
- Ho letto che nei concorsi pubblici l’esperienza nella Tzavà, l’esercito, e quella nello studio della Torà verranno equiparati. Cosa ne pensate? Ogni soldato riceve al mese un piccolo “stipendio” che ora, secondo un nuovo disegno di legge, si vuole estendere anche ai religiosi che studiano nelle Yeshivot, che non lavorano e non si arruolano nell’esercito. Non tutti loro, tra l’altro, sono in grado di studiare tutto il giorno e non potendo lavorare perché non hanno le basi scolastiche minime, divengono un peso perché mantenuti dai fondi pubblici. Abbiamo decine di migliaia di alunni nel sistema educativo ortodosso che non imparano nulla che possa aiutarli ad inserirsi nel mondo moderno, ad entrare nel mercato del lavoro, a contribuire alla creazione delle risorse nazionali necessarie al futuro di Israele, ed a quello loro personale. Secondo gli studi del Prof. Dan Ben-David dell’università di Tel Aviv, il futuro del Paese è minacciato da questa situazione molto più che non da qualsiasi minaccia esterna e questo nuovo governo nel frattempo non si occupa di questo problema, come non cura nessun altro dei gravi problemi sociali di questo paese.
- Come reagisce il mondo arabo che circonda Israele? Hamas e Hezbollah stanno rinnovando i legami con i paesi nemici limitrofi. Secondo le statistiche, tra 25, 30 anni i cittadini religiosi saranno pari se non superiori in numero agli altri, per cui avremo un esercito più esiguo in proporzione alla popolazione. Questo renderà la situazione economica ancora più grave perché il problema del carovita, della sicurezza, delle case per le giovani coppie che erano la base delle promesse di questo nuovo governo nel frattempo sono state messe da parte: hanno dedicato il tempo solo e solamente a redigere leggi per il proprio tornaconto. Il popolo d’Israele si è svegliato, ha dato dimostrazione di un grado altissimo di umanità, di spirito morale e sociale e si è organizzato in questa protesta pacifica senza precedenti. Il destino di Israele e dell’Ebraismo in tutto il mondo sono la nostra preoccupazione più grande.
- Ecco, parliamo del video in cui tutti si baciano e si abbracciano perché si sentono fratelli. Chi ha prodotto questo video? In Israele siamo abituati alle differenze, a mentalità, culture differenti ma abbiamo imparato a rispettarci per amore del Paese. Purtroppo in questi ultimi vent’anni c’è stata una campagna massiva per accentuare le differenze, per dividere, per dipingere “l’altro” come un nemico. E questo altro è un ebreo come noi e anche se non ci sentiamo fratelli di chi semina razzismo contro gli omosessuali, o contro gli arabi o limita la libertà delle donne, sentiamo che dobbiamo essere uniti perché l’unione è il nostro punto di forza più considerevole. E’ stato commovente fino alle lacrime vedere tante bandiere israeliane alla manifestazione all’aeroporto, un senso di appartenenza allo stesso popolo, mentre aiutavamo a portare le valige di coloro che partivano o arrivavano, ma, subito dopo gli occhi si sono riempiti di lacrime davanti all’assalto della polizia a cavallo intervenuta per disperdere i manifestanti. Ben Gvir, ex dissidente, non arruolato all’esercito israeliano per motivi di condotta e ora ministro della sicurezza interna (non vi sembra il colmo dell’assurdo?) ha dato ordini ben precisi, ai quali ha accennato il comandante della polizia di Tel Aviv recentemente dimesso da Ben Gvir, Ami Eshed, nel suo discorso di addio, facendo capire che il suo rinvio era dovuto al fatto che “non aveva riempito il pronto soccorso dell’ospedale Ichilov di manifestanti”. Dichiarazioni da brivido, come nelle storie dei miei nonni ai tempi delle leggi razziali.
- Come reagiscono alle proteste le forze di polizia? Gli unici che sono arrivati in ospedale non sono stati i poliziotti, ma i manifestanti. Davanti a me, con un cannone d’acqua maleodorante hanno cavato un occhio a un manifestante e sparato su donne con bambini in braccio. Perché a queste manifestazioni ci andiamo con i bambini. Sicuri e convinti di portare un messaggio di pace. Netanyahu ha aizzato all’omicidio di Rabin, non dimentichiamolo. Omicidio che è stato compiuto da Igal Amir per il quale in questi giorni, nell’entusiasmo generale delle nuove leggi, è stata proposta la scarcerazione.
- Questa situazione di grandissima divisione (è di ieri la notizia della nomina del nuovo ambasciatore in Italia, che proviene dai Territori), secondo voi può avvicinare o allontanare la pace? Secondo alcuni mantenere una posizione forte e intransigente può ammorbidire il fronte palestinese e portare a un accordo… Assolutamente no. La mano forte non è mai servita a niente. In caso di guerra devi parlare con i nemici per arrivare alla pace. Le guerre finiscono solo attraverso il dialogo: attraverso la violenza non si acquisirà mai nulla, né in una famiglia, né in una comunità, né tra stati. Bisogna dialogare, come spesso non si fa anche in tante comunità. C’è qualcuno che questa pace non la vuole da tutte e due le parti, sono gli estremisti ma il mondo non è fatto solo di estremisti, è fatto anche di madri, di padri, di figli che vogliono studiare e vivere la propria vita. L’estremismo allontana il dialogo e la speranza.
- Riflessi tornerà a occuparsi di Israele dopo l’estate. Come possiamo lasciarci, per ora? Per concludere vogliamo dire che siamo orgogliosi di questo popolo che a ritmo di tamburi, mantiene uno spirito indomito. Vorremmo che tutti capissero che stiamo lottando per il futuro di Israele e dobbiamo ricordarci che proveniamo da tante parti del mondo e ciò che ci lega è l’ebraismo. Ma non dimentichiamo che tra il 62 e il 70 dopo E. V. si crearono gruppi di Ebrei di diverse fazioni a Gerusalemme e in Galilea, i meno abbienti sfruttati dai sacerdoti corrotti del grande santuario con tasse astronomiche e i gruppi che combattevano contro l’invasione romana e fu facilissimo per l’imperatore Tito lasciarli indebolire nelle loro lotte interne per poi saccheggiare e distruggere Gerusalemme…..Si dice che l’odio gratuito tra ebrei fu la causa della distruzione e l’inizio della diaspora, non sia mai! Vogliamo imparare qualcosa dalla storia?
(Riflessi Menorah, 2 agosto 2023)
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Commento di Emanuel Segre Amar:
«Angelica Edna Calò in questa intervista non fa mancare l’obiettivo che la guida da sempre, ma purtroppo senza risultati tangibili: che dialogando si possa arrivare ad una pace (che magari tanti arabi vorrebbero, ma che nessun governante palestinese è mai stato pronto a firmare; al massimo si sono dimostrati pronti a firmare una tregua).
Dispiace che Calò parli di “coloro ai quali questo paese è importante”; non vedo con quale diritto possa fare un’affermazione simile; forse se si ha un’idea differente non si ha a cuore Israele? Calò prevede, immagina il futuro con affermazioni tipo “apre la strada”, ma dimentica che esiste tuttora un Parlamento nel quale, come lei stessa afferma, non tutti sono “estremisti”. E sbaglia quando afferma che “tutto è iniziato per il processo a Netanyahu: ci sono documenti molto espliciti che dimostrano la volontà, niente affatto democratica, di Ehud Barak di sostituirsi a lui come premier fin dal 2017 e ancora dal 2020.
Non credo inoltre che Calò abbia partecipato a nessuno dei numerosi incontri tra maggioranza e minoranza nell’ufficio del Presidente, e quindi i suoi commenti in merito sono solo di parte.
Ci sarebbero molte altre questioni da affrontare dopo la lettura di questa intervista, ma non essendo strettamente legate alle manifestazioni in corso le lascio per un’altra occasione.»
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Berlino, ambasciatore israeliano cacciato da café di un ebreo che non ama la politica attuale di Israele
di Davide Rinaldi
Avi Berg, proprietario del Cafè Dodo, ha cacciato l’ambasciatore israeliano Ron Prosor dal suo locale. L’evento è testimoniato proprio da un post su Facebook di Berg: “non era il benvenuto nel mio caffè“ perché “rappresenta Israele, e poiché attua una politica invalida e manipolatrice, che afferma che qualsiasi critica a Israele è antisemita.” Secondo lui, aggiunge, “Quella politica afferma che io e i miei colleghi siamo antisemiti.” Il ristoratore si è rivolto all’ambasciatore in maniera non sgarbata ma molto decisa. L’invito ad andarsene è stato subito accolto e Prosor con le guardie del corpo hanno abbandonato il Cafè. Jewish Telegraphic Agency ha intervistato tramite Facebook Messenger Avi. “Vorrei sottolineare che ho fatto quello che ho fatto specificamente perché l’ambasciatore non è un individuo ma un rappresentante ufficiale dello stato di Israele”, “e dal momento che lui e l’ambasciata sono profondamente coinvolti nel fare pressioni sul Bundestag e sui media e sulle istituzioni tedesche per bloccare qualsiasi critica a Israele e per etichettare qualsiasi critica del genere come antisemitismo. Questa diplomazia è attuata in tutto il mondo, ma è particolarmente efficace in Germania… Questa politica è anche molto dannosa nella lotta contro il vero antisemitismo!”
• Avi Berg non è un eccezione Stime approssimative dicono che circa 10.000 israeliani vivono a Berlino. Molti sono politicamente di sinistra e critici nei confronti delle politiche di Israele. In questo caso Avi si è fatto portavoce di una critica all’International Holocaust Remembrance Alliance. Il bersaglio è la definizione fornita dall’ente di antisemitismo. Il dibattito si è acceso per il fatto che all’interno di questa definizione rientrano anche le critiche allo stato di Israele. Israele è attualmente impantanato in una crisi politica per la spinta del governo di destra a indebolire il sistema giudiziario del Paese. Un movimento di protesta di centinaia di migliaia di persone contro la legislazione ha raggiunto l’apice all’inizio di questa settimana. I manifestanti hanno bloccato le principali autostrade e sono stati affrontati con cannoni ad acqua.
• Il ristoratore sottolinea che le sue azioni riguardano esclusivamente la politica del governo e non sono antisemite Avi Berg è un membro dell’associazione “Jewish Voice for Just Peace in the Middle East”. Secondo l’esperto Levi Salomon, amministratore delegato dell’associazione “Jewish Forum for Democracy and Against Antisemitism”, ci sono “molti esempi di ‘Jewish Voice’ a sostegno di posizioni antisemite.“ Il proprietario del caffè israeliano ha accusato l’ambasciata in Germania di condurre una “caccia alle streghe contro chiunque non sostenga il governo israeliano” ed è ben noto per le sue opinioni sull’approccio della Germania all’antisemitismo. Berg, sempre su Facebook, ha annunciato che la definizione di sionismo significa che “qualsiasi critica a Israele è antisemita e questo ha conseguenze molto dure per la libertà di opinione in Germania”.
(Berlino Magazine, 2 agosto 2023)
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Così la rivolta di Treblinka riscrisse la storia
Il 2 agosto di ottant’anni fa gli ebrei rinchiusi nel campo di sterminio insorsero contro gli aguzzini nazisti. Un atto disperato che accese la luce sulla resistenza di un popolo.
di Marcello Pezzetti
La Germania nazista pensava che gli ebrei, per la sola ragione di essere nati tali, avrebbero dovuto “sparire” dall’Europa, fino al 1941 attraverso le espulsioni all’Est, poi con l’annientamento fisico. Ora, come reagirono gli ebrei a questo tentativo di sterminio, definito “Soluzione finale del problema ebraico”? Ci fu una concreta “resistenza” alla politica omicida del Reich? La tesi più diffusa rimane quella della “passività ebraica”, sostenuta da personalità tra le più rilevanti – anche da parte ebraica – della cultura e della storiografia del dopoguerra. Hannah Arendt definì la resistenza ebraica come «pietosamente limitata, incredibilmente debole e del tutto innocua» e Raul Hilberg scrisse che gli ebrei avrebbero opposto «parole ai fucili, dialettica alla forza». Questo atteggiamento, secondo il grande storico, si sarebbe basato sull’esperienza di duemila anni, consistente nel tentativo di evitare la distruzione venendo a patti col nemico, strategia che aveva funzionato per due secoli. Ciò, però, avrebbe reso gli ebrei «incapaci di operare un mutamento». Ora, non c’è dubbio che la reazione ebraica alla politica nazista si caratterizzò per un’iniziale incomprensione della seconda fase di questa politica, quella dell’annientamento fisico. Si ritenne fosse sufficiente utilizzare i meccanismi usati da secoli come degli “anticorpi” di fronte all’attacco di una normale malattia, senza rendersi conto che quella malattia era strutturalmente diversa da tutte le altre, perché non attaccava solamente una parte dell’organismo, bensì le sue difese immunitarie. Fino alla metà del 1942 gli ebrei misero dunque in atto un tipo particolare di resistenza: quella “civile”, che alcuni hanno definito “spirituale”, ma che per troppi anni è stata purtroppo chiamata “passiva”. Soprattutto nell’Europa orientale i responsabili delle istituzioni ebraiche considerarono “armi di sopravvivenza” la creazione di istituzioni di soccorso sociale, in particolare per l’infanzia; il tentativo di mantenere in vita istituzioni culturali rigorosamente proibite; l’educazione dei giovani, anche religiosa, e la preparazione di un’improbabile emigrazione dei bambini in Palestina. A volte si fece ricorso al contrabbando per nutrire gli elementi più deboli, in alcuni casi all’organizzazione di fughe. Le cose cambiarono radicalmente dopo alcuni mesi, quando fu chiaro che l’obiettivo del regime nazista fosse lo sterminio di massa del popolo ebraico. Soprattutto i giovani ebrei dell’Europa orientale passarono direttamente dall’oppressione alla rivolta, alla resistenza armata, e furono i primi in Europa a metterla in atto: nell’aprile del 1942 si assistette all’insurrezione di un intero ghetto, quello di Lachwa, in Bielorussia. La rivolta più conosciuta avvenne nel ghetto di Varsavia, che provocò l’uccisione di almeno 300 militi tedeschi, ma ve ne furono altre, almeno quattordici, tutte avvenute in poco più di un anno e terminate con la morte eroica della maggior parte dei rivoltosi. Ma cosa si poteva pretendere dalla “resistenza ebraica”, composta prevalentemente da giovani disperati che, senza alcuna preparazione militare, si stavano opponendo all’esercito più potente del mondo con armi totalmente inadeguate, privi di un ruolo nell’ambito della resistenza “classica”, abbandonati dal cosiddetto mondo civile, indifferente, quando non ostile? Ebbene, queste persone destinate a sparire riuscirono, nel 1943, a compiere un’impresa ritenuta impossibile: scatenare una rivolta nei due campi di sterminio nazisti più micidiali: Treblinka e Sobibor. Questi luoghi facevano parte, con un terzo, Belzec, di uno spaventoso progetto denominato “Aktion Reinhardt”, attivato nel territorio della Polonia occupata per eliminare tutta la popolazione ebraica lasciando momentaneamente in vita solo pochissimi lavoratori indispensabili. I persecutori, tedeschi appartenenti agli strati sociali più bassi, ma esperti nello sterminio col gas, perché provenienti dalla “Aktion T4”, ovvero l’uccisione dei cosiddetti “disabili”, erano coadiuvati da centinaia di guardie (ex prigionieri di guerra sovietici, circa 100-120 per campo), appositamente addestrati, chiamati “Trawniki-Männer”. La struttura di questi campi era simile: erano dotati di una cosiddetta Rampa per lo “scarico” delle vittime (i binari entravano all’interno del campo); di uno spazio per la raccolta degli oggetti e per gli spogliatoi; di una zona in cui si trovavano le camere a gas, collegate a una sala dotata di un motore di camion o carro armato, e di un ampio spazio in cui via via venivano scavate le fosse di seppellimento, utilizzate in un periodo successivo per la cremazione dei corpi a cielo aperto. A questa zona si accedeva attraverso un percorso obbligato verso la morte, chiamato Schlauch, “tubo”, attorniato da filo spinato camuffato con della vegetazione. I cadaveri inizialmente erano stati sepolti, ma nel 1943 vennero disseppelliti e bruciati. Anche se questi campi erano luoghi in cui avveniva esclusivamente l’eliminazione di chi vi era deportato, gruppi di vittime venivano tenuti momentaneamente in vita per espletare il lavoro più “sporco” della macchina di sterminio: raccogliere e sistemare le valigie e gli oggetti che arrivavano con ogni trasporto, aiutare la gente a svestirsi, tagliare i capelli alle donne, estrarre i cadaveri dalle camere a gas, pulire questi locali in cui si dava la morte, estrarre i denti d’oro dai cadaveri, portare i corpi verso le fosse con delle barelle, stratificare i cadaveri sul fondo delle stesse fosse e coprirli con un po’ di sabbia e calce di cloro per disinfettarli; procedere, nel 1943, alla cremazione a cielo aperto di quei cadaveri, setacciare il tutto e triturare a cenere le piccole ossa rimaste. Inizialmente gli ebrei, per evitare rappresaglie, pensarono di reagire solo con azioni individuali quali le fughe; poi, nel 1943, grazie alle notizie sulle rivolte in corso che giungevano dai ghetti, questi “lavoratori temporanei” si organizzarono e in primavera iniziarono a progettare insurrezioni. All’interno dei campi della morte, però, i prigionieri delle zone in cui si trovavano le installazioni di sterminio erano ben isolati rispetto agli altri; a Treblinka una sola persona era in grado di tenere i contatti con le due parti del lager: era Jankiel Wiernik, un carpentiere. La rivolta avrebbe dovuto essere messa in atto subito in primavera, tuttavia fu posticipata a causa dello scatenarsi di un’epidemia di tifo. Si formarono piccoli comitati per paura di traditori, ma la maggior parte dei prigionieri non sapeva quello che stava succedendo. Alcuni avevano accesso a strumenti che intendevano utilizzare, come coltelli o machete, e un fabbro duplicò la chiave del magazzino delle armi. I giovani che si occupavano delle pulizie nelle aree delle guardie riuscirono a rubare altri piccoli attrezzi, come anche qualche bomba a mano e un prigioniero mise su tutti i tetti una sostanza infiammabile. Fu fissata la data, il 2 agosto, e si decise il piano: la fuga di massa durante l’appello generale e, contemporaneamente, l’incursione negli uffici amministrativi e nelle baracche dei collaborazionisti per uccidere le guardie. La rivolta, tuttavia, iniziò prima del previsto, perché un tedesco (Küttner) sorprese un prigioniero con dei preziosi e decise di fucilarlo. Questo fatto generò grande confusione, quindi si decise di dare immediatamente inizio alla rivolta con un colpo di pistola come segnale. Circa 100 prigionieri, per debolezza, per terrore, o perché non informati, rimasero nel campo, mentre gli altri cercarono di fuggire. Molti, però, vennero colpiti con fucili dalle torrette di guardia. Solo circa 100 di essi, tra uomini e donne, riuscirono a superare il raggio di azione dei fucili. Contrariamente a ciò che avevano progettato, non riuscirono ad uccidere nemmeno una guardia tedesca, ma solo due “Trawniki” e alcuni prigionieri ritenuti delatori. Misero a fuoco, invece, molti edifici di legno (officine, stazione di benzina), ma rimasero intatte le camere a gas, costruite in muratura. È per questa ragione che poco dopo sarebbe arrivato ancor qualche altro trasporto, da Białystok. Dopo l’estate del 1943 anche a Sobibor i prigionieri si organizzano in un Comitato di resistenza. Qui, differentemente che a Treblinka, erano però impossibili i contatti con il settore dotato di installazioni di messa a morte. Un evento imprevisto cambiò in modo determinante la situazione: i nazisti commisero l’errore di inserire nel campo un gruppo di prigionieri di guerra ebrei da un trasporto da Minsk. Tra questi si trovava Aleksander Pecherski, un ufficiale dell’Armata Rossa, dotato della necessaria esperienza militare che si univa alla conoscenza delle strutture locali da parte degli altri prigionieri che erano nel campo da molti mesi. In poche settimane venne elaborato un piano concreto – studiato alla perfezione, diversamente da Treblinka – che prevedeva l’uccisione di un alto numero di sorveglianti tedeschi e guardie “Trawniki” e la fuga del maggior numero possibile di prigionieri. La rivolta ebbe inizio il 14 ottobre 1943, quando alcune autorità naziste erano in vacanza. I combattenti ebrei chiamarono i sorveglianti nazisti, notoriamente avidi e puntuali, uno dopo l’altro, con pretesti vari (provare nuove scarpe, nuovi cappotti, controllare i mobili, etc.) e, senza farsi accorgere, riuscirono a ucciderne almeno nove, fra cui il vice-comandante Niemann, oltre ad alcune guardie sovietiche. Poi un nazista, Bauer, trovò uno dei cadaveri e lanciò l’allarme. Così la rivolta, anche qui, scoppiò in anticipo. Gran parte dei 550 ebrei che, secondo il sopravvissuto Thomas Blatt, erano presenti a Sobibor cercò la via di fuga, ma 150 rimasero in campo, sotto tiro come a Treblinka; 80 furono uccisi durante la rivolta, colpiti da fucilate o per lo scoppio delle mine; moltissimi eliminati nel corso di successive perquisizioni. Per quelli che riuscirono a uscire dai due campi, il seguito della fuga fu altrettanto tragico: ovunque vennero affissi manifesti che informavano la popolazione della fuga dei “banditi” ebrei, e da subito iniziò la perquisizione dell’area alla caccia di questi poveretti. Il personale del campo ricevette rinforzi da altre unità per la ricerca: la Polizia di sicurezza (Sipo), la Gendarmeria, la Polizia doganale, la Polizia polacca, addirittura i ferrovieri. I prigionieri rimasti in campo, così come quelli via via riportati, furono nella quasi totalità uccisi, ma molti altri – almeno 100 solo quelli di Sobibor – vennero eliminati barbaramente, da tedeschi, ma anche da polacchi, durante il periodo in cui si nascosero nei boschi o nei centri abitati. Solo circa 50 resistenti di Treblinka e 50 di Sobibor sopravvissero alla guerra. Tra loro, alcune donne e anche i due responsabili della rivolta di Sobibor, Pechersky e Feldhändler. Il secondo, purtroppo, venne ucciso il 2 aprile 1945 a Lublino da antisemiti polacchi dell’Armia Krajowa (Esercito Nazionale Polacco). La resistenza ebraica al nazismo, e in particolare le eroiche rivolte dei campi della morte di Treblinka e Sobibor, così come quella del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, non modificarono l’atteggiamento delle autorità naziste verso gli ebrei, non provocarono un arresto della loro politica genocida, né un suo ridimensionamento, tuttavia ebbe un impatto considerevole: provocò, infatti, un cambiamento epocale – anche se fu tardivo – della percezione che la società europea aveva degli ebrei e, insieme, che gli stessi ebrei avevano di se stessi. Senza queste disperate rivolte, senza testimoni, anche se pochissimi, non avrebbero potuto aver luogo i processi e, conseguentemente, oggi noi non avremmo la conoscenza che possediamo, fin nei particolari, di quella che è stata la più grande tragedia del ’900. Dovrebbe essere chiaro, infine, che, come scrisse lo storico Israel Gutman, resistente nel ghetto di Varsavia, ad alimentare la “Endlösung” furono l’ideologia ed i piani estremisti dei nazisti, non la passività degli ebrei.
(la Repubblica, 2 agosto 2023)
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Israele è ancora la Startup Nation?
Lavoratori del settore tecnologico protestano contro la revisione del sistema giudiziario prevista dal governo, a Tel Aviv, il 9 marzo 2023 (Tomer Neuberg/Flash90)
Gli investimenti nelle startup tecnologiche israeliane sono crollati nella prima metà del 2023, come afferma oggi un osservatorio dell’industria tecnologica israeliana, citando il divisivo piano di revisione del sistema giudiziario del governo come uno dei principali fattori della flessione.
Start-Up Nation Central, un’organizzazione senza scopo di lucro che segue e si occupa dell’industria tecnologica israeliana, afferma di aver registrato una diminuzione del 29% dei finanziamenti privati nel settore tecnologico israeliano nella prima metà del 2023 rispetto alla seconda metà del 2022, e un forte calo della partecipazione degli investitori. Anche le offerte pubbliche iniziali e le fusioni e acquisizioni hanno toccato il minimo da cinque anni a questa parte.
L’organizzazione afferma che l’incertezza in Israele a causa della revisione del sistema giudiziario «si sta già facendo sentire con indicatori quali la diminuzione della raccolta di fondi e il calo delle startup israeliane emergenti».
Yaniv Lotan, vicepresidente di Start-Up Nation Central, afferma che la correlazione tra la revisione giudiziaria e l’esitazione degli investitori è evidente. Secondo Lotan, mentre nell’ultimo anno gli investimenti tecnologici si sono stabilizzati negli Stati Uniti e nel resto del mondo, nello stesso periodo «nel mercato israeliano dell’high-tech stiamo assistendo a una continua tendenza al ribasso».
• i mercati non amano l’incertezza
Il settore high-tech israeliano è uno dei principali motori dell’economia del Paese e rappresenta la metà delle esportazioni del Paese. Impiega decine di migliaia di persone e le sue start-up hanno attirato miliardi di dollari di investimenti negli ultimi decenni.
«Alla fine, i mercati non amano l’incertezza», afferma Lotan.
Il rapporto viene pubblicato una settimana dopo che la coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha approvato una legge che indebolisce la supervisione della Corte Suprema sulle decisioni del governo, una parte fondamentale della revisione giudiziaria proposta dal governo.
Da quando il piano è stato annunciato, a gennaio, Israele è stato attanagliato da proteste di massa settimanali, anche da parte della stessa industria tecnologica, che ha avvertito che la revisione avrebbe avuto ripercussioni sul suo lavoro. Il piano ha suscitato anche la costernazione della Casa Bianca e delle organizzazioni ebraiche americane.
(Rights Reporter, 1 agosto 2023)
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Netanyahu assicura che la riforma giudiziaria è "necessaria" ed esclude la guerra civile
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato lunedì, in un'intervista al canale americano NBC che Israele è lontano da una guerra civile. "Non ci sarà nessuna guerra civile, ve lo garantisco", ha detto. "Quando la polvere si poserà, la gente vedrà che era necessario", ha aggiunto, Netanyahu ha spiegato che la riforma avrebbe ristabilito l'equilibrio dei poteri, sostenendo di volerli affidare a rappresentanti eletti e scelti dal popolo piuttosto che a giudici non eletti. Questo argomento ha profondamente diviso Israele, provocando manifestazioni di massa. A marzo, il presidente Isaac Herzog ha avvertito del rischio di una "vera e propria guerra civile". Un sondaggio pubblicato la scorsa settimana da Channel 13 ha rivelato che il 56% degli israeliani teme che la crisi politica del Paese possa degenerare in una guerra civile.
Ha ammesso che ci sono divisioni nella società israeliana, ma che la misura di ragionevolezza recentemente adottata "ne vale la pena". "Penso che i timori della gente si placheranno e vedranno che Israele è democratico come prima, se non di più", ha detto.
Il Primo Ministro ha anche cercato di fugare i timori che le modifiche al sistema giudiziario israeliano stiano danneggiando le relazioni israelo-americane. "Penso che le relazioni siano sane", ha dichiarato. "Penso che la polvere si depositerà e si scoprirà, con il cambiare dei governi e delle amministrazioni, che Israele è il miglior alleato degli Stati Uniti e che gli Stati Uniti sono l'alleato insostituibile di Israele".
Durante l'intervista, Benjamin Netanyahu ha anche difeso la sua coalizione di governo di destra e ha affermato che un eventuale accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita, sotto l'egida degli Stati Uniti, costituirebbe "un perno della storia".
(i24, 1 agosto 2023)
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Israele e Marocco, la pace passa anche dagli archivi
Siglata un’intesa per arricchire le rispettive collezioni documentarie. È un’emanazione del protocollo di cooperazione tra i due Paesi firmato nel 2021 come risultato degli Accordi di Abramo.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME – Duemila anni di storia da preservare. Tanto è lunga la presenza degli ebrei in Marocco – e ora una nuova iniziativa punta a salvaguardarne patrimonio e tradizione, da Parigi a Rabat passando per Gerusalemme. Negli scorsi giorni infatti, gli archivi del Marocco e gli archivi di Israele hanno siglato un’intesa per arricchire le loro collezioni documentarie, promuovere la condivisione delle buone pratiche ed utilizzare efficacemente le collezioni archivistiche storiche e culturali di entrambi gli istituti. Il documento rappresenta un’emanazione del protocollo di cooperazione tra i due Paesi firmato nel 2021 come risultato degli Accordi di Abramo. "La firma del memorandum a Rabat è stata molto commovente,” ha commentato Ruti Avramovitz, direttrice degli Archivi nazionali israeliani. “Sottolinea la forza della pace tra i due Paesi e tra i due popoli.” Uno degli obiettivi è quello di riunire gli archivi relativi all'ebraismo marocchino, attualmente dispersi in varie istituzioni, con fondi conservati in particolare dal centro archivi diplomatici del ministero degli Affari Esteri francese, dal Memoriale della Shoah di Parigi e dall'Alliance Israélite Universelle. Fonti storiche documentano la presenza degli ebrei in Marocco sin dal II secolo a.C. Nel corso dei secoli la comunità crebbe di numero, anche in seguito all’espulsione degli ebrei dai domini spagnoli nel 1492. Nel 1948 vivevano nel paese oltre 270mila ebrei ma nei due decenni successivi la stragrande maggioranza lasciò il Marocco per fuggire dalle tensioni geopolitiche e dalla povertà. Oggi si pensa che nella nazione vivano tra i 2,500 e i 3,000 ebrei, mentre in Israele si contano 700mila cittadini di origine marocchina. Negli ultimi anni, e in particolare dall’ascesa al trono dell’attuale sovrano Mohammed VI la situazione per la comunità è progressivamente migliorata, fino ad arrivare alla svolta degli Accordi di Abramo. Secondo il direttore dell’Archivio Nazionale marocchino Jamaa Baida, le risorse documentarie recuperate che fanno luce su vari aspetti della vita quotidiana degli ebrei marocchini nel XVIII e XIX secolo, nonché sui legami cordiali che intrattennero con i loro compatrioti musulmani, rappresentano un mezzo per “riconciliare i marocchini con la loro storia e la loro identità plurale, il cui contributo ebraico è sancito dalla Costituzione.” Intervenendo alla firma del protocollo d’intesa, Baida ha sottolineato – come riferito dal North Africa Post – che la cooperazione tra Marocco e Israele consentirà di colmare alcune “lacune rilevate negli archivi relativi all'ebraismo marocchino oggi sparsi nel mondo”, aggiungendo che il suo archivio ha compiuto un grande sforzo per la riappropriazione di questa parte della storia del Paese che è stata cancellata, in un dato momento storico, “sotto l'effetto di tensioni geopolitiche o, a volte, per semplice negligenza”.
(la Repubblica, 1 agosto 2023)
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Accordo con l'Arabia Saudita: treno ad alta velocità verso la pace o trappola?
Sta prendendo forma un accordo di normalizzazione tra lo Stato ebraico e la culla dell'Islam.
di Stan Goodenough
GERUSALEMME - È sembrata quasi un’aggiunta, la dichiarazione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di domenica, alla fine di un annuncio ufficiale sui piani di un progetto di treno ad alta velocità che attraverserà tutto Israele. La linea, che dovrebbe costare 100 miliardi di shekel, collegherebbe la città settentrionale di Kiryat Sh'mona con il porto di Eilat, sul Mar Rosso, 400 km più a sud. Netanyahu ha aggiunto che "in futuro potrà collegare Israele con l'Arabia Saudita e la Penisola Arabica". "Stiamo lavorando anche su questo", ha detto al suo governo. In una successiva conferenza stampa, per spiegare il piano il primo ministro si è limitato al progetto in Israele e non ha alluso a un'estensione all'Arabia. Tuttavia, la sua "aggiunta" ha aumentato le speculazioni sulla possibilità di una svolta negli sforzi per far entrare l'Arabia Saudita nell'Accordo di Abraham. Questo fa seguito a una settimana di notizie provenienti da Washington - insieme a una raffica di attività diplomatiche - che fanno intravedere un’amministrazione sempre più ansiosa (alcuni dicono disperata) di ottenere un accordo di normalizzazione tra Gerusalemme e Riyad prima di novembre. Secondo la Reuters, venerdì il presidente Joe Biden ha detto ai sostenitori che potrebbe esserci una "convergenza" di interessi tra i due Paesi. Gli sforzi in questa direzione vanno avanti da mesi. A maggio, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha incontrato a Gedda il principe ereditario saudita e de facto uomo forte Mohammed Bin Salman (MBS). Gli analisti hanno dichiarato che "la Casa Bianca vuole spingere diplomaticamente per un accordo di pace tra Arabia Saudita e Israele nei prossimi sei o sette mesi prima della campagna presidenziale". Giovedì scorso, il giorno prima del messaggio di "convergenza" di Biden, Sullivan era di nuovo in Arabia Saudita per avere ulteriori colloqui con MBS. È chiaro che gli sforzi si stanno intensificando, ma quale forma potrebbero assumere e quali pericoli comportano per Israele? Netanyahu ha dichiarato che la normalizzazione delle relazioni con l'Arabia Saudita è uno dei principali obiettivi del suo governo, ma dai membri considerati estremisti del suo gabinetto il raggiungimento di questo obiettivo è considerato improbabile . C'è chi dice che farebbe quasi di tutto pur di costruire un baluardo contro l'Iran che si sta muovendo verso la realizzazione di armi nucleari. Persone a lui vicine dicono che il primo ministro "va a dormire pensando all'Iran e si sveglia pensando all'Iran". Questa è una cosa che effettivamente lo preoccupa, ma Netanyahu è anche consapevole della minaccia esistenziale per Israele rappresentata dai tentativi di creare uno Stato palestinese sugli altipiani di Samaria e Giudea. Ha cercato, con iniziale successo, di separare il cosiddetto veto palestinese dagli sforzi di pace con gli Emirati Arabi Uniti e altri firmatari degli Accordi di Abramo, tra cui Bahrein e Marocco. Ma la storia è diversa con l'Arabia Saudita - culla dell'Islam, epicentro della dottrina sunnita e meta del Hajj per i pellegrini sunniti e sciiti. Sabato il New York Times, citando un "funzionario israeliano senza nome", ha riferito che Riyadh sarebbe disposta a parlare di un accordo solo se Israele facesse "concessioni significative" e intraprendesse "azioni sul campo" verso la creazione di uno Stato palestinese. Come riportato dal Times of Israel, "l'Arabia Saudita non si accontenterebbe della promessa di Netanyahu di non annettere la Cisgiordania". Secondo il Times of Israel, tali richieste a Netanyahu, se venissero rispettate, farebbero probabilmente cadere il suo governo, e molti ritengono che sia proprio questo l'obiettivo della Casa Bianca. Tra gli ultimi sviluppi che fanno pensare sia a un disgelo in Oriente sia a una spinta da parte dell'Occidente, c’è il consenso dell'Arabia Saudita a far entrare per la prima volta rappresentanti del governo israeliano nel regno in occasione della riunione del Comitato per il Patrimonio Mondiale del prossimo settembre. Il 20 luglio, la Commissione per le Relazioni Estere del Senato ha introdotto la legge sull'integrazione e la normalizzazione regionale, che mira a rafforzare gli accordi di Abraham. Questo disegno di legge mira ad attuare le "priorità politiche" dell'Israel Policy Forum di estrema sinistra dell'ex ambasciatore statunitense in Israele, Martin Indyk, per "espandere l'integrazione regionale di Israele". L'Israele che vogliono vedere integrato è uno Stato liberale progressista, non uno Stato ebraico. Secondo quanto riportato, lunedì i democratici di Capitol Hill avrebbero presentato una proposta di legge con la quale gli Stati Uniti darebbero ufficialmente sostegno al movimento estremista antidemocratico in Israele nel tentativo di rovesciare il governo di Netanyahu. Con un governo di sinistra a Gerusalemme e un secondo mandato per Biden, nel caso ottenesse la rielezione, è chiaro che l'agenda liberal-progressista degli Stati Uniti per il Medio Oriente sembrerebbe più realizzabile con l’obiettivo di uno Stato palestinese in primo piano. Altri esperti sono di parere diverso: per il sovrano saudita de facto, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), ricevere massicci aiuti militari dagli Stati Uniti in cambio di un accordo con Israele è una priorità assoluta, ed è pronto a "gettare i palestinesi sotto il bus". Questa direzione porta più verso un'alleanza anti-Iran. Come si evolverà la situazione? In base ai dati storici, potremmo scoprire il risultato prima di quanto pensiamo. Nel ripercorrere la storia della restaurazione di Israele nell'ultimo secolo, noi credenti della Bibbia dobbiamo renderci conto che le cose non sono sempre come appaiono, che non vanno come ci aspettiamo o desideriamo. Le Sue vie non sono le nostre vie. Tuttavia, preghiamo per il governo di Gerusalemme, affinché rimanga vigile e proceda con cautela; affinché non si lasci sedurre, né da un senso di forza politica né da speranze e promesse di pace. "La testa del serpente sta in Arabia".
(israel heute, 1 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ecco Act News, il canale made in Israel dove le notizie saranno prodotte dall’IA
di Luca Spizzichino
È stato creato in Israele il primo canale di notizie completamente alimentato dall'intelligenza artificiale. Si chiama ACT News ed è presente sui principali social networks, in particolare Tik Tok e Instagram.
Questo nuovo progetto editoriale, lanciato ad inizio aprile, è condotto dalla giornalista israeliana Miri Michaeli. Nei giorni scorsi inoltre si è aggiunto anche Amit Segal, noto giornalista e analista politico di Channel 12, il cui avatar generato dall'intelligenza artificiale fornirà informazioni in più lingue.
In questa prima fase le voci di Segal e Michaeli generate dall'intelligenza artificiale suonano nettamente diverse da quelle delle loro controparti nella vita reale, ma lo spettatore occasionale può facilmente scambiare i video per registrazioni reali. L'iniziativa - che attualmente ha circa 20.000 follower e ha raggiunto "circa 40 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo" - è stata ideata da Michaeli e dal consulente politico Moshe Klughaft.
Il tema dell’uso dell'intelligenza artificiale nelle redazioni è stato dibattuto molto negli ultimi mesi, con diversi giornalisti che hanno espresso preoccupazione per l'accuratezza, la trasparenza e l'etica alla base della presentazione di tali contenuti come prodotti dall'uomo.
Tuttavia, in ACT News i testi generati dall'intelligenza artificiale passeranno al vaglio di Segal e Michaeli prima di farli pronunciare ai loro avatar, così da "garantire accuratezza e credibilità". Questo passaggio rende il modello non dissimile da quello in cui un reporter o un editore junior scrive sceneggiature per un conduttore senior da leggere in onda.
Fino ad ora, hanno affermato i creatori, i video pubblicati sui social erano stati prodotti in modo tradizionale, ma andando avanti tutte le clip avranno sia i testi che verranno pronunciati che gli avatar completamente generati dall'intelligenza artificiale.
"Come ogni startup, il nostro progetto è nato da un'esigenza personale", ha affermato Michaeli in una nota. “Il mio sogno è sempre stato quello di poter fare reportage da due postazioni contemporaneamente, fornire un'analisi approfondita e filmare un reportage contemporaneamente. Oggi offriamo questa possibilità ai giornalisti di tutto il mondo”.
Ad aprile, Michaeli ha scritto su Instagram che lei e Klughaft erano motivati a lanciare l'iniziativa a causa della "frustrazione per il modo in cui siamo presentati nel mondo, nonché per un enorme amore per questo paese". La nuova versione della rete, lanciata ufficialmente domenica, si concentrerà invece "su notizie positive, mostrando eventi edificanti da tutto il mondo". La società offrirà clip di notizie in otto lingue. Un account TikTok in ebraico è stato lanciato il mese scorso.
"Non sono sicuro che il mondo possa gestire due Amit Segal, forse anche uno è troppo", ha twittato il giornalista domenica insieme a una clip della sua apparizione inaugurale. "In ogni caso, sono felice di lanciare il mio avatar su ACT News questa mattina con alcune nuove analisi." Per chiarire, ha aggiunto: “Non l'ho filmato o registrato, e vorrei che il mio inglese suonasse così. Ho appena inserito il testo nel sistema ACT News e il resto è successo da solo”.
In un comunicato stampa, ACT News ha affermato di aver già completato un round di investimenti per un valore di 7,5 milioni di dollari e che dovrebbe lanciare presto un secondo round. La rete ha affermato di essere in trattative per aggiungere versioni AI di conduttori di notizie statunitensi e britannici, nonché per aggiungere ulteriori personalità israeliane.
(Shalom, 1 agosto 2023)
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Israele sempre all'avanguardia sul piano tecnologico. Ma in molti casi (come questo) la cosa non è affatto consolante. M.C.
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Il Museo d’Israele è la migliore istituzione culturale del Paese
Un importante riconoscimento per il Museo d’Israele di Gerusalemme: il Globes Brand Index, pubblicato da Globes, il quotidiano finanziario in lingua ebraica ha, per la prima volta, classificato il Museo d’Israele tra i suoi 100 migliori marchi in Israele. Questo elenco include tutte le aziende, le imprese, le start-up e le istituzioni in Israele, che sono classificate secondo un elenco empirico di criteri. “Ancora più entusiasmante, – dice Isaac Molho, Presidente del Consiglio di amministrazione – una nuova categoria nell’Index, Istituzioni Culturali, che include musei, teatri, compagnie di danza e orchestre, ha classificato il Museo d’Israele come la migliore istituzione culturale del paese. Globes ha notato che il Museo di Israele ha ricevuto il punteggio più alto, superando i suoi concorrenti di Tel Aviv”. Globes ha inoltre notato che il Museo di Gerusalemme è accreditato di un doppio risultato: essere l’unico tra tutte le istituzioni culturali in Israele a far parte di entrambi gli elenchi, oltre ad essere incluso nell’elenco dei Globes del secolo. Globes ha sottolineato che, nonostante le sfide degli ultimi anni, come la pandemia di COVID-19, il Museo di Israele mantiene ancora il suo posto come museo principale e più grande di Israele, con collezioni straordinariamente ricche, dalla judaica e dall’archeologia all’arte israeliana e internazionale, oltre a possedere un fascino internazionale grazie alla sua posizione e alle mostre innovative. “Anche se questa notizia – conclude Isaac Molho – potrebbe non sorprendere la nostra devota ‘famiglia’ locale e internazionale del Museo di Israele, che ha sempre saputo che il nostro amato Museo è la principale istituzione culturale in Israele, ci dà grande orgoglio essere così riconosciuti da un tale rispettabile ente”. R.E.
(Bet Magazine Mosaico, 1 agosto 2023)
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