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Notizie 16-31 agosto 2023


Israele trionfa nei mondiali di ginnastica ritmica e atletica leggera

La squadra di ginnastica ritmica israeliana ha scritto un nuovo capitolo di successo nell’arena internazionale, conquistando la medaglia d’oro ai Campionati mondiali di Valencia, in Spagna. Il loro trionfo è stato confermato da un’esibizione magistrale suddivisa in due parti: la sfida dei cinque cerchi e quella delle palline e dei nastri.
   Come riportano i24news  e  The Times of Israel, con un punteggio straordinario di 38.150, la squadra ha catturato non solo gli occhi degli spettatori, ma anche il primo posto nella classifica generale, accumulando 70.800 punti in entrambe le categorie. Questo risultato eccezionale ha sancito la Cina al secondo posto e la Spagna al terzo sul podio.
   Sotto la guida dell’allenatrice Ayelet Sussman, insieme agli istruttori Ella Samoflov, Natasha Stepanova, Linoi Ashram e Ida Meirin, la squadra israeliana ha dimostrato maestria e precisione nell’esibizione coreografica. Il successo è stato il risultato di mesi di dedizione, sforzi incrollabili e perfezionamento delle abilità.
   Questo trionfo rappresenta un capitolo significativo nella storia della ginnastica ritmica israeliana. L’anno scorso, la squadra aveva dimostrato la propria competitività, ma il titolo dell’oro era ancora un miraggio. Ora, con una performance superlativa, hanno raggiunto la vetta del successo e hanno fatto innalzare l’inno nazionale israeliano sull’ambito podio.

A Budapest medaglia d’argento nella maratona maschile ai Campionati mondiali di atletica leggera

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L’entusiasmo per il successo della squadra di ginnastica ritmica si unisce a un ulteriore trionfo nello scenario sportivo israeliano. È di questi giorni la notizia di Marhu Teferi, atleta israeliano 31enne di origini etiopi, che ha conquistato una prestigiosa medaglia d’argento nella maratona maschile ai Campionati mondiali di atletica leggera a Budapest. Questo risultato eccezionale non solo rappresenta il miglior piazzamento mai ottenuto dallo Stato ebraico in questo evento, ma rafforza anche le speranze per le Olimpiadi di Parigi.
   Seguendo l’argento europeo vinto lo scorso anno con la squadra israeliana, Teferi ha conquistato nuovamente il secondo posto in questa competizione mondiale, raggiungendo il traguardo in 2 ore, 9 minuti e 12 secondi. Nonostante la sfida intensa, il corridore etiope Victor Kiplangat ha ottenuto la vittoria con un tempo di 2 ore, 8 minuti e 53 secondi, dopo aver preso il comando nei quindici chilometri finali. Il bronzo è andato all’etiope Leul Gebresilase, che ha tagliato il traguardo in 2 ore, 9 minuti e 19 secondi.
   La performance di Teferi è storica per Israele, rappresentando la prima medaglia ottenuta in assoluto in questo evento prestigioso. Sebbene Israele avesse vinto l’oro nella maratona a squadre maschile ai Campionati europei di atletica leggera a Monaco nell’agosto 2022, va notato che questa competizione non comprendeva i concorrenti solitamente dominanti come quelli provenienti da Kenya, Etiopia e Uganda.
   Le condizioni meteo avverse hanno reso ancora più sfidante la corsa di Teferi, che è caduto durante gli ultimi chilometri, giungendo al traguardo con la canottiera strappata. Nonostante le difficoltà, l’atleta ha condiviso la sua gratitudine per l’argento conquistato, sottolineando quanto questa competizione fosse stata il suo obiettivo principale.
   Il presidente Isaac Herzog e il ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar hanno espresso le loro congratulazioni per questa impresa, evidenziando come Israele continui a farsi notare nella scena sportiva mondiale. Questo risultato, unito al successo di Lonah Chemtai Salpeter nella maratona femminile, rappresenta un motivo di orgoglio per tutto il Paese e ispira speranze e ambizioni ancora più grandi per il futuro.

(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2023)

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Sollevatore di pesi iraniano squalificato a vita per aver stretto la mano a un atleta israeliano

di Luca Spizzichino

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Un sollevatore di pesi iraniano è stato squalificato a vita dalle autorità della Repubblica islamica dopo aver stretto la mano a un concorrente israeliano durante un evento in Polonia, lo riportano i media statali iraniani. Mostafa Rajaei ha stretto la mano al sollevatore di pesi israeliano Maksim Svirsky dopo che entrambi erano saliti sul podio del World Masters a Wieliczka, in Polonia.
   "La federazione di sollevamento pesi vieta a vita all'atleta Mostafa Rajaei di entrare in tutti gli impianti sportivi del Paese e licenzia il capo della delegazione per la competizione, Hamid Salehinia", ha annunciato l'organismo in una nota. Secondo il rapporto dell’IRNA, l’agenzia di stampa statale iraniana, Rajaei avrebbe “oltrepassato i limiti della Repubblica islamica” durante l’evento in cui la delegazione iraniana era stata “inviata con il sostegno della federazione”.
   Il regime degli Ayatollah vieta ai suoi atleti ogni contatto con gli israeliani. Nel 2021 per esempio, il leader supremo dell'Iran, Ali Khamenei, ha esortato gli atleti a "non stringere la mano a un rappresentante del regime criminale [israeliano] per ottenere una medaglia".
   Per diverso tempo gli atleti iraniani sono riusciti a evitare di incontrare quelli israeliani nelle competizioni, venendo squalificati o fornendo certificati medici che attestavano il loro malessere. Ma a causa di questa politica l'Iran ha ricevuto un divieto di quattro anni dalle competizioni internazionali di judo. Il divieto scadrà il 17 settembre di quest’anno.
   Negli ultimi anni tuttavia non sono mancati casi in cui gli iraniani sono andati contro il regime. Come nel caso del giovane prodigio degli scacchi Alireza Firouzj, che ha lasciato l'Iran dopo che la federazione sportiva gli aveva vietato di giocare nel campionato del mondo 2019 per paura che affrontasse un giocatore israeliano, oppure quello del judoka iraniano Saeid Mollaei, che è dovuto fuggire dal paese per essersi rifiutato di boicottare una partita contro l'israeliano Sagi Muki, con cui poi è nata una grande amicizia. Mollaei è diventato un cittadino mongolo e nel 2021 ha persino visitato Israele.

(Shalom, 31 agosto 2023)

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Mediterraneo, la partita su confini e idrocarburi fra Libano e Israele

Il diplomatico americano Hochstein in visita nella regione mediorientale per sbloccare alcuni nodi irrisolti. Sul piatto la delimitazione delle frontiere marittime fra i due Paesi e i confini via terra, con il nodo legato al cosiddetto “Punto B1”. Sullo sfondo le mire di Teheran, la questione energetica e lo sfruttamento delle risorse che alimentano scontri e contrapposizioni globali.

di Fady Noun

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BEIRUT - Nella regione del Mediterraneo orientale è in atto una partita delicata, nella quale è in gioco l’approvvigionamento del gas naturale per l’Europa e la sicurezza economica del Vecchio Continente, sul quale grava la prospettiva di un prolungamento a oltranza della guerra in Ucraina. Secondo diversi osservatori è proprio questa la ragione principale della visita in Libano - e successivamente in Israele - del diplomatico statunitense Amos Hochstein, inviato speciale per gli affari internazionali dell’energia.
   In totale vi sono quattro incontri nell’ordine del giorno della visita del diplomatico Usa in Libano, iniziata ieri e che si conclude oggi: col presidente del Parlamento Nabih Berry; col primo ministro uscente Nagib Mikati; col ministro dell’Energia Walid Fayad; con il comandante dell’esercito Jospeh Aoun, quest’ultimo fra i candidati alla presidenza della Repubblica figura ormai vacante da tempo e legata alla crisi politica, istituzionale ed economica che attraversa il Paese dei cedri. In agenda vi è anche una visita al confine meridionale, prima di recarsi in Israele.
   L’arrivo di Hochstein coincide con l’inizio delle operazioni di perforazione nel blocco 9 della Zona economica esclusiva libanese, il cosiddetto campo di Cana, che confina con le acque territoriali di Israele. Si tratta di uno dei giacimenti più promettenti a livello di potenziale sfruttamento e sul quale Total Energies, leader del consorzio che comprende anche l’italiana Eni e QatarEnergy, punta per rifornire l’Europa. Secondo il vice-presidente della Camera Elias Bou Saab, Total Energies seguirà anche, in una fase successiva, il processo di assegnazione delle licenze di esplorazione e sfruttamento dei blocchi 8 e 10, più a nord di Cana, nel Mediterraneo orientale.
   Nei giorni scorsi il presidente della Camera Berry e il premier Mikati hanno assistito di persona all’inizio dei lavori di trivellazione dalla piattaforma. In privato, secondo persone a lui vicine il presidente della Camera avrebbe ringraziato Hochstein “per aver mantenuto la parola data e aver portato il processo di delimitazione dei confini tra Libano e Israele del 2022 alla sua fase esecutiva, con l’avvio del processo di perforazione”.
   L’architetto di questo accordo, Hochstein, completerà quindi il suo lavoro sui confini marittimi tra Libano e Israele delimitando anche la frontiera di terra; in quest’ultimo caso va tenuto presente che questi ultimi sono già definiti dall’accordo Paulet-Newcomb del 1923 (tra Libano e Palestina, allora sotto mandato britannico), e che devono solo essere “marcati” sul terreno. La questione centrale in questo caso riguarda l’ultimo punto di terra del Libano, sul lato del mare. Durante la delimitazione della frontiera marittima questo punto, noto come “Punto B1”, è rimasto irrisolto, così come una zona di mare dipendente da esso. “Se gli israeliani riconoscessero il diritto del Libano su questo punto, l‘Intera questione potrebbe essere risolta” assicura l’alto funzionario libanese sopra citato.
   Hochstein deve poi allentare la tensione tra Hezbollah e Israele, che coinvolge anche il ruolo della forza di pace internazionale delle Nazioni Unite nel Paese dei cedri, l’Unifil. Il partito sciita filo-iraniano sta cercando di limitare la libertà di movimento dei militari Onu e di vincolarla all’accompagnamento costante dell’esercito libanese in tutte le sue missioni di ispezione. La battaglia diplomatica si sta giocando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con il voto odierno sul rinnovo annuale del mandato della forza.
   Presente in Libano dal 1978, la forza Unifil, composta da quasi 10mila soldati, funge da cuscinetto tra Israele e Libano. Hassan Nasrallah accusa gli Stati Uniti di voler trasformare i soldati Onu in “spie” per conto di Israele. Il leader di Hezbollah sta facendo di tutto per intimidire questa forza, che Nabih Berry, invece, considera come essenziale. Da parte sua, l’Unifil è responsabile del rispetto della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. Questa specifica che solo l’esercito libanese deve essere presente a sud del fiume Litani, area di operazione dei militari delle Nazioni Unite.
   Negli ambienti politici si ritiene che Hezbollah stia “giocando” la carta Unifil per ottenere vantaggi in altri settori. In particolare, sta cercando di vedere approvata - in cambio del silenzio - la costruzione di una centrale elettrica nel sud del Libano, oltre ad altri vantaggi direttamente legati alla produzione di gas dal giacimento di Cana.
   Come si vede, la stabilità in questa regione economicamente strategica ha un prezzo politico, anzi geopolitico, che va al di là delle crisi occasionali che si presentano. Agli ambasciatori francesi riuniti all’Eliseo per l’incontro annuale il presidente Emmanuel Macron ha parlato delle “interferenze” iraniane - intendendo con questo termine i blocchi - nelle elezioni presidenziali in Libano. Una carica che resta vacante nel Paese dei cedri ormai dall’ottobre 2022, quando è scaduto il mandato di Michel Aoun. Tra l’altro, non si può ignorare la volontà dell’Iran di rendere Beirut una realtà satellite con ogni mezzo possibile. Anche in questo caso, dunque, si sta giocando una delicata partita internazionale e lo stesso Amos Hochstein è uno degli attori complementari.
   Del resto, dietro le quinte di questa crisi si nasconde la lotta - a volte silenziosa, altre manifesta - fra gli Stati Uniti e la Cina, la cui diplomazia ha ottenuto una clamorosa vittoria con l’accordo di normalizzazione delle relazioni tra Riyadh e Teheran. Pechino, infatti, si sta lentamente ma inesorabilmente facendo strada rafforzando l’influenza fra le due grandi potenze regionali.

(AsiaNews, 31 agosto 2023)

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Cisgiordania: un eurodeputato “scioccato” per gli ostacoli frapposti agli ebrei che vogliono pregare

È incredibile che le persone che vogliono andare a pregare pacificamente debbano essere scortate dall'esercito. Il mondo intero deve sapere cosa sta succedendo qui".

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Il deputato rumeno Cristian Theres era tra i fedeli che mercoledì sera si sono recati alla tomba di Giuseppe a Nablus, dove quattro soldati sono stati feriti da un ordigno esplosivo. È stata la prima volta che un eurodeputato ha visitato il sito, nonostante la situazione di sicurezza estremamente tesa nell'area.
   L'ingresso al sito è possibile solo con l'autorizzazione del Consiglio regionale della Samaria e sotto la stretta sorveglianza dell'esercito. Le migliaia di persone che mercoledì hanno affollato il sito sono state autorizzate a entrare per le preghiere che precedono le festività di Tishri, che inizieranno tra quindici giorni.
   Esprimendo le sue impressioni dopo la visita alla Tomba di Giuseppe, Cristian Theres si è detto scioccato. "Le cose che ho visto oggi sono incredibili. È inconcepibile per una persona che non è mai stata in Israele e che non ha mai vissuto un incidente terroristico immaginare ciò che abbiamo affrontato. È incredibile che queste persone che vogliono andare a pregare pacificamente debbano usare autobus protetti. Vengono scortati dall'esercito e pregano nel timore di un attacco terroristico. È inaccettabile e tutto il mondo deve sapere cosa sta realmente accadendo", ha dichiarato.
   Yossi Dagan, leader del Consiglio di Samaria, che ha visitato il sito mercoledì, ha così commentato l'attacco: "Non smetteremo mai di chiedere che il governo israeliano corregga questa follia e ripristini il pieno controllo su questo luogo sacro. Gli attacchi ai soldati, i tentativi di attentati volti a danneggiare i pacifici fedeli che vengono qui a pregare e le barbare richieste di danneggiare la tomba di Giuseppe lo dimostrano".

(i24, 31 agosto 2023- trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’acqua, risorsa preziosa del futuro. Tecnologie e procedure per valorizzarla e proteggerla

Per affrontare la crisi idrica in maniera più sostenibile, è opportuno osservare un paese che ha affrontato il problema in maniera efficace: Israele.

di Ludovico Crisanti Cucchiella

Quest’anno abbiamo sentito parlare ovunque della crisi idrica. Anche il governo ha creato una cabina di regia proprio per fronteggiare la siccità in diverse regioni. È tempo di parlare delle varie soluzioni che possono aiutarci a risolvere il problema della carenza di acqua che affligge numerosi comuni nel nostro paese.
   L’installazione dei dissalatori, che trasformano l’acqua salata in acqua utilizzabile, è una delle priorità del governo. Utilizzare i dissalatori è un modo efficace di contrastare la scarsità idrica in questa fase di emergenza che ha bisogno di soluzioni immediate. Allo stesso tempo bisogna considerare che i dissalatori hanno una impatto negativo sull’ambiente poiché producono una sostanza tossica, la salamoia la quale è difficile da smaltire. Il comunicato del governo fa ben sperare, ma c’è bisogno di innovare, di trovare soluzioni che abbiano un impatto minore sull’ambiente.
   Vi è dunque la necessità di considerare, soprattutto per il futuro, soluzioni alternative che non implichino la produzione di sostanze tossiche.
   Per affrontare la crisi idrica in maniera più sostenibile, è opportuno osservare un paese che ha affrontato il problema in maniera efficace: Israele. Metà della superficie del paese è composta dal deserto, e questo lo rende particolarmente vulnerabile dal punto di vista idrico, considerando che deve anche affrontare l’aumento della salinità del lago Kinneret. Israele ha secondo i dati dell’OECD (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) uno dei più bassi tassi di consumo pro capite di acqua, (138m3 pro capite contro la media di 691 m3 dell’OECD.)
   All’incirca il 94% dell’acqua del paese viene raccolta e gestita e l’87% viene riutilizzata. Israele ha anche costruito un sistema d’infrastrutture che trasporta l’acqua con un tasso di perdita vicino allo 0%. (Bisogna considerare che in Italia secondo i dati dell’Istat 36% dell’acqua immessa in rete viene persa.) Date le sue caratteristiche geografiche, Israele ha dovuto specializzarsi nel combattere la siccità, sviluppando le sue competenze nel settore idrico.
Proprio in questo paese nascono delle compagnie che sono molto interessanti. Come la Netafim, menzionata dall’agenzia Reuters, che in collaborazione con l’azienda La Fagiana nel Nord Est dell’Italia sta rendendo l’agricoltura molto più sostenibile grazie alle sue tecniche d’irrigazione a goccia. Il CEO, amministratore delegato, della Netafim Gaby Miodownik, ha dichiarato che l’irrigazione a goccia, nel caso delle coltivazioni di riso rilascia 0 emissioni di metano. Questo è un dato molto rilevante dato che le coltivazioni di riso contribuiscono al 10% delle nostre emissioni di metano (un gas altamente inquinante).
Le tecniche della Netafim consistono nell’irrigare a goccia le coltivazioni per limitare i consumi di acqua. La coltivazione di risotto irrigato a goccia grazie alle competenze di questa azienda, consuma meno della metà dell’acqua di cui necessita la stessa coltivazione irrigata in maniera classica. Queste capacità della Netafim ci possono aiutare a consumare meno acqua mantenendo la produzione agricola. Bisogna abituarsi all’idea che bisognerà risparmiare l’acqua in ogni modo possibile, anche per abbassare il nostro impatto ambientale. E le aziende d’irrigazione a goccia possono aiutarci in questo cambiamento radicale. Le sinergie con aziende innovative possono aiutarci a salvare aziende agricole in difficoltà e a far crescere ulteriormente aziende sane.
Un’altra compagnia che offre delle soluzioni estremamente interessanti che è stata menzionata anche dal World Economic Forum, si chiama Watergen, ed è una società israeliana che produce acqua sfruttando l’umidità.
Le sue macchine, creano acqua potabile attraverso l’umidità che vi è nell’aria può aiutarci ad abbandonare quei rifiuti difficili da smaltire come la plastica, che è spesso coinvolta nella distribuzione. I prodotti di questa compagnia producono acqua a “chilometro zero” ovvero non hanno bisogno di tubature poiché funzionano ad elettricità. L’acqua viene prodotta esattamente dove la gente ne ha bisogno. Watergen può offrire una soluzione rivoluzionaria soprattutto per quei paesi o quelle regioni che sono afflitti dalla mancanza di acqua potabile e dove non c’è una rete idrica sviluppata.
   Ora, non è il caso di ignorare l’utilità degli impianti di desalinizzazione. Infatti anche Israele fa uso dei dissalatori. Il paese ha cinque impianti di desalinizzazione che producono l’80% dell’acqua ad uso domestico nelle aree urbane, (non usata per irrigare.) Questi impianti hanno inevitabilmente un certo impatto sull’ambiente, dato che la desalinizzazione produce dei rifiuti tossici come la salamoia. Quindi anche un paese che ha sviluppato particolari competenze nel settore idrico come Israele si affida ai dissalatori ma allo stesso tempo investe nell’innovazione che può fornire soluzioni più sostenibili dal punto di vista ambientale. È opportuno trovare molteplici soluzioni, alcune a breve termine per aiutarci ad affrontare l’emergenza idrica e altre a lungo termine che abbiano l’impatto ambientale più basso possibile. Gli investimenti devono essere direzionati verso soluzioni tempestive e soluzioni innovative, che possono aiutarci ad attuare una rivoluzione idrica che ci aiuterà ad avere un minor bisogno e una maggiore disponibilità di acqua potabile, gravando sempre meno sull’ambiente.

(key4biz, 31 agosto 2023)

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Israele verso l’e-Visa: ecco come funzionerà e come richiederlo

Per visitare Israele sarà presto possibile richiedere un visto elettronico. La destinazione si appresta infatti a introdurre un’eVisa per semplificare l’arrivo nel Paese e attirare il turismo internazionale. La procedura di richiesta del documento prevede tre step, come spiega il portale visaisrael.com: il viaggiatore dovrà compilare un modulo online; effettuare il pagamento delle commissioni; e fornire una mail a cui sarà recapitato il visto.
Dal momento della finalizzazione della richiesta, il rilascio dell’e-Visa avverrà in “pochi giorni lavorativi”.

I requisiti base
  Per avanzare le richieste per un visto base sarà necessario essere in possesso di: passaporto valido per almeno 6 mesi (sono raccomandati comunque 9 mesi) rilasciato da un Paese ammissibile; carta di debito o credito per il pagamento delle commissioni relative al rilascio del visto; e un indirizzo e-mail attivo.
Nel caso di situazioni specifiche, potrà essere necessario presentare ulteriori documenti.

(TTG Italia, 31 agosto 2023)

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30 anni di Oslo e di fatto niente

In questi giorni tutti scrivono e parlano dei "30 anni di Oslo" e allora anch'io dico qualche parola sull'Accordo di Oslo di 30 anni fa.

di Aviel Schneider

La cerimonia di firma dei primi accordi di Oslo a Washington il 13 settembre 1993
All'epoca avevo 27 anni ed ero presente quando l'OLP e il suo leader Yasser Arafat invasero Gaza e Gerico come "eroe e messia palestinese". A Gaza, mi trovavo a pochi metri dal palco dove Arafat, con la moglie di Abu Jihad e gli altri, fu accolto come un salvatore da migliaia di palestinesi a Gaza City. Avevo conosciuto la Striscia di Gaza solo come soldato e la mia ultima settimana di servizio militare fu quella in cui scoppiò la prima Intifada, nel dicembre 1987. Fino ad allora avevo prestato servizio come soldato in Libano e, a causa dell'Intifada, diverse unità furono trasferite dal Libano alla Striscia di Gaza. Sei anni dopo, nel settembre 1993, furono firmati gli accordi di Oslo, con la speranza di concludere una pace definitiva in cinque anni. No, Arafat e l'OLP erano un falso messia.
   Molti ritengono che gli accordi di Oslo siano stati un errore storico nella storia dello Stato di Israele. Israele riconobbe ufficialmente l'OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, mentre l'OLP in cambio riconobbe il diritto di Israele ad esistere in pace e sicurezza. Poco dopo, il documento originale è stato trasformato in una serie di Principi fondamentali, adottati dalla Knesset con una sottile maggioranza di 61 voti e successivamente firmati sul prato della Casa Bianca. In questa occasione avvenne anche la storica stretta di mano tra il Primo Ministro Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
Una storica stretta di mano, ma la pace sperata non si concretizzò
Dalla firma degli accordi di Oslo, circa 1700 israeliani sono stati uccisi da terroristi palestinesi. Quest'anno, più di 200 palestinesi e quasi 30 israeliani sono stati uccisi in manifestazioni, scontri, operazioni militari, attentati e altri incidenti, superando già il bilancio dell'anno scorso, secondo i recenti dati delle Nazioni Unite.
Dopo i sei anni di intifada, israeliani e palestinesi speravano di raggiungere la tanto attesa calma, dopo che in quei sei anni 1.593 palestinesi erano stati uccisi da soldati israeliani e 84 israeliani (fonte B'Tselem) da terroristi palestinesi. Questi numeri di morti hanno spinto Israele verso i negoziati di Oslo con l'OLP per portare finalmente la calma. Dopo la firma, tuttavia, da entrambe le parti morirono molte più persone che durante la prima Intifada. Tutto è andato fondamentalmente storto. L'errore principale di Israele è stato quello di aver aperto la porta d'accesso al Paese al leader dell'OLP Arafat. 23 anni prima, Yasser Arafat e la sua OLP avevano cercato di prendere il potere in Giordania nel settembre 1970.
   Re Hussein II sventò il colpo di stato dell'OLP nel suo Paese, uccise diecimila palestinesi ed espulse l'intera OLP dal suo Paese. Per questo motivo questo mese è chiamato "Settembre nero". Dalla Giordania, l'OLP si spostò in Libano e trascinò il Paese in una guerra civile. L'OLP attaccò poi Israele da nord, usando razzi Katyusha. Israele decise di entrare nella guerra del Libano nel giugno 1982. Ciò che il re giordano fece da solo al confine orientale di Israele, l'esercito israeliano dovette farlo in Libano per il governo libanese: cacciare Yasser Arafat e l'OLP da Beirut. La mossa successiva dell'intero regime di terrore dell'OLP fu la Tunisia. Lì l'OLP rimase fino a quando Israele non invitò l'intero club del terrorismo in Terra Santa, il 1° luglio 1994.
Dopo Oslo, le cose peggiorarono. Il 3 marzo 1996, 19 israeliani furono uccisi e 6 feriti a Gerusalemme quando un attentatore suicida si fece esplodere su un autobus in Jaffa Street.
Già allora, Israele fu avvertito dai rappresentanti del popolo palestinese che l'OLP non era la soluzione. Ma le pressioni internazionali e i negoziati segreti con l'OLP a Oslo alla fine non lasciarono altra scelta a Israele.
Mi trovavo al ponte di Allenby, il valico di frontiera tra Giordania e Israele, quando i primi poliziotti dell'autonomia palestinese, armati di mitra, attraversarono il ponte e marciarono verso Gerico. I palestinesi in uniforme arrivarono a Gerico in un convoglio. Furono accolti come vincitori ed eroi dopo una guerra. Da parte giordana, ricevettero da Israele armi con caricatori nei fucili, ma senza munizioni. Adesso l'OLP era nel Paese e nulla è migliorato.
Israele si è ritirato da circa il 55% del cuore biblico di Giudea e Samaria e lo ha consegnato alla nuova Autorità Palestinese. La situazione non si è calmata, ma è peggiorata.
   I palestinesi nel frattempo hanno inventato una nuova bomba: i kamikaze palestinesi. I palestinesi si fanno esplodere per uccidere gli ebrei e il leader dell'OLP Arafat non fa nulla al riguardo. Nel novembre 1995, il primo ministro israeliano Itzchak Rabin viene ucciso da un fanatico religioso a Tel Aviv, Igal Amir. Mesi dopo, il popolo vota e scivola a destra. Il leader del Likud Benjamin Netanyahu vince le elezioni. Nonostante le sue feroci critiche in opposizione al governo di sinistra di Rabin e Peres, anche lui esce da Hebron e negozia con il leader dell'OLP Arafat. Nell'estate del 2000 scoppia la seconda Intifada, in cui vengono uccisi quasi 5000 palestinesi, la maggior parte dei quali terroristi. Da parte israeliana si contarono 1011 morti (fonte B'Tselem). Ricordo ancora quel periodo, quando la maggior parte dei soldati di riserva fu richiamata. Tutti gli uomini della redazione erano lì in quel momento e le stanze erano vuote. C'era solo la redazione e chi ci aiutò a preparare il giornale per la stampa fu Ariel Marzel, un grafico che collaborava con noi.
Sfratto dell'insediamento ebraico di Kfar Darom nella Striscia di Gaza il 1° agosto 2005.
Cinque anni dopo, nell'estate del 2005, Israele si ritirò unilateralmente da Gaza ed evacuò tutti gli insediamenti ebraici. Da allora, Israele è stato ripetutamente attaccato con razzi dalla Striscia di Gaza.
In breve, l'accordo di Oslo è fallito. I palestinesi hanno ottenuto la terra da Israele, ma Israele non ha ottenuto la pace. Nei media stranieri la politica di insediamento di Israele, o gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, sono stati presentati come un ostacolo alla pace e, finché esisteranno, la vera pace non arriverà. Ma nell'Accordo di Oslo non c'è nulla di tutto questo. Il Trattato di Oslo era un accordo a tappe. L'intenzione era quella di avvicinarsi l'uno all'altro passo dopo passo, di costruire la fiducia e, alla fine, di risolvere le questioni più delicate del conflitto israelo-palestinese: la questione di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la questione dei confini. Da allora non è stato risolto nulla e sembra che le due parti continueranno a non essere d'accordo su tutti i temi.
   Negli ultimi anni i governi israeliani hanno capito che un vero accordo di pace con i palestinesi non è possibile in questa epoca. Il Nuovo Medio Oriente di cui parlava l'architetto della pace di Israele, Shimon Peres, è già andato in fumo nei suoi primi anni di vita. Il capo del governo israeliano Netanyahu, invece, ha capito che la gestione del conflitto è una soluzione migliore e forse crea più pace. Oggi il conflitto israelo-palestinese è passato relativamente in secondo piano e questo fa arrabbiare la leadership palestinese di Ramallah e Gaza. Per questo motivo, manipolano le escalation per ottenere più titoli nei media stranieri. Parallelamente, i governi arabi hanno capito che vale la pena fare la pace con Israele anche senza fare la pace con i palestinesi. La formula "terra in cambio di pace" è diventata irrilevante. Se si parla con i palestinesi di oggi, una buona parte ammette che il leggendario leader dell'OLP Yasser Arafat è stato un fallimento, cioè un falso messia. Molti hanno nostalgia dei bei tempi sotto il governo israeliano, prima che scoppiasse la prima intifada. Allora dicevamo che Israele era potente sul campo di guerra, ma falliva nei negoziati. E se mi chiedete, in conclusione, se c'è una soluzione a questo conflitto, dico chiaramente e inequivocabilmente: no. Desidero una soluzione, prego per una soluzione, ma non mi illudo.

(Israel Heute, 30 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il nuovo sistema di difesa laser israeliano diventerà operativo nel 2024

di Luca Spizzichino

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L’anno prossimo Israele avrà un sistema di difesa laser parziali, lo ha affermato domenica alla radio dell'esercito Yuval Steinitz, presidente della Rafael Advanced Defense Systems.
"Israele sarà il primo paese ad avere una protezione laser parziale. Mentre entro due anni potrebbe esserci una protezione completa - contro missili, proiettili, razzi o droni. Questo ci proteggerà sia nel Sud che nel Nord", ha affermato Steinitz.
   Più di un centinaio di ingegneri della divisione Ricerca, Sviluppo e Ingegneria di Rafael stanno attualmente lavorando allo sviluppo dell'Iron Beam, che consentirà l'intercettazione di minacce come bombe di mortaio, razzi, missili anticarro, droni e vari altri oggetti, ad un costo minimo rispetto a quelli dell'Iron Dome.
   Nelle prime fasi, il nuovo sistema opererà a fianco dell’Iron Dome, che recentemente ha festeggiato 12 anni dalla sua prima intercettazione operativa. L'Iron Dome rileverà un lancio verso Israele, il computer del sistema analizzerà gli schemi di volo del razzo, calcolerà la traiettoria, gli angoli, la velocità e l'altitudine e, dopo aver raggiunto una conclusione sul luogo stimato di caduta, deciderà se intercettarlo o se invece farlo cadere in un'area aperta e disabitata.
   Qualora fosse necessaria l'intercettazione, si attiverà l’Iron Beam, che può fare a un razzo nemico quello che finora faceva il missile intercettore "Tamir", il cui costo è di circa 50.000 dollari. In determinati casi, per assicurare la distruzione del vettore nemico, l’Iron Dome e l’Iron Beam intercetteranno contemporaneamente la minaccia.
   Lo scorso febbraio, un alto funzionario del Ministero della Difesa, il Brig.-Gen. (ris.) Danny Gold ha affermato che i laser della difesa aerea israeliana, una volta schierati, saranno in grado di abbattere droni come quelli che l'Iran ha inviato alla Russia.
   “Il sistema di difesa laser è davvero un’ottima notizia. Sarà sia terrestre che aereo - ha affermato lo scorso gennaio il Capo di Stato Maggiore uscente dell’IDF, Aviv Kohavi, al Jerusalem Post - Tra altri due anni prevediamo di implementare sistemi lungo il confine della Striscia di Gaza per testare l’efficacia di questo strumento”. “Ha funzionato molto bene nei test sul campo. Se questo esperimento funzionerà ci muoveremo il più velocemente possibile per dispiegarlo in tutto il Nord” ha aggiunto.

(Shalom, 30 agosto 2023)

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Normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita: comprare i palestinesi

I palestinesi cercano di ottenere il massimo dei vantaggi dalla voglia/necessità dell'Arabia Saudita di normalizzare i rapporti con Israele.

di Sarah G. Frankl

L’Arabia Saudita avrebbe proposto di rinnovare in maniera condizionata gli aiuti all’Autorità Palestinese, in quello che gli esperti considerano un possibile segnale che Riyadh stia cercando di convincere Ramallah a sostenere il suo sforzo per normalizzare le relazioni con Israele.
   Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha fatto per la prima volta l’offerta di rinnovare gli aiuti – completamente congelati nel 2016 a causa di accuse di corruzione – quando il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha visitato il regno ad aprile di quest’anno. Lo ha riferito martedì il Wall Street Journal, citando funzionari sauditi senza nome.
   Un accordo con Gerusalemme sarebbe probabilmente impopolare per molti sauditi, dato il forte sentimento pro-palestinese nel Paese del Golfo. Pertanto, un timbro di approvazione da parte di Ramallah su un accordo di normalizzazione con Israele potrebbe contribuire a mitigare il contraccolpo pubblico in Arabia Saudita e nel mondo musulmano in generale.
   Va detto tuttavia che la legittimità dell’Autorità palestinese è ai minimi storici a causa delle accuse di corruzione e del rifiuto di Abbas di tenere elezioni presidenziali dal 2005. Di conseguenza, Riyadh potrebbe aver bisogno di qualcosa di più dell’acquiescenza di Ramallah per vendere l’accordo in patria e all’estero.
   Il principe ereditario, conosciuto colloquialmente come MBS, ha detto che i finanziamenti saranno rinnovati se Abbas riuscirà a contenere i gruppi terroristici in Cisgiordania e a ripristinare il controllo sui territori dell’Autorità palestinese al di là della Linea Verde. Il leader saudita ha anche promesso ad Abbas che qualsiasi accordo con Israele non avrebbe danneggiato gli sforzi per la creazione di uno Stato palestinese. Lo hanno dichiarato al WSJ attuali funzionari sauditi ed ex funzionari palestinesi informati sui colloqui.
   Gli osservatori hanno notato che l’Autorità palestinese ha scarso controllo su alcune parti della Cisgiordania, in particolare sulla città settentrionale di Jenin. Negli ultimi anni, numerosi attacchi contro gli israeliani sono stati compiuti da palestinesi della zona.
   Fonti saudite hanno chiarito che l’offerta di aiuti non è direttamente collegata a un potenziale accordo di normalizzazione con Israele, anche se Riyadh spera che ciò fornisca a Ramallah un maggiore incentivo a sostenere gli sforzi del Regno.
   I funzionari hanno anche detto che l’appoggio di Abbas alla normalizzazione è necessario per legittimare tale accordo e prevenire le accuse contro Riyadh di promuovere i propri interessi a spese della ricerca di uno Stato da parte dei palestinesi.
   Diversi funzionari dell’AP hanno rifiutato di commentare le indiscrezioni.
   A differenza del boicottaggio dei precedenti sforzi di normalizzazione, l’AP avrebbe deciso di partecipare al processo saudita-israeliano nel tentativo di ottenere il maggior numero di risultati da Israele.
   Una delegazione di alti funzionari palestinesi si recherà in Arabia Saudita la prossima settimana per discutere le richieste che Riyadh intende fare a Israele nell’ambito di un potenziale accordo di normalizzazione.
   Channel 13 ha dichiarato domenica che, dopo aver inizialmente creduto che un accordo con l’Arabia Saudita non avrebbe richiesto grandi gesti ai palestinesi, la leadership israeliana sta ora iniziando a capire che dovrà in effetti offrire qualcosa di significativo.
   Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu considera la normalizzazione con Riyadh un obiettivo chiave di politica estera che potrebbe consolidare la sua eredità. Ma la prospettiva che l’attuale governo israeliano approvi qualsiasi concessione materiale ai palestinesi è tutt’altro che certa a causa di vari elementi di estrema destra della coalizione.
   Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha affermato che Israele non farà concessioni ai palestinesi come parte di un accordo di normalizzazione.
   Alcuni commentatori hanno ventilato la possibilità che il premier abbandoni i suoi partner della linea dura se un accordo fosse sul tavolo, a favore di una coalizione più centrista con gli attuali partiti di opposizione. Tuttavia, anche questa ipotesi sembra altamente improbabile, data l’intensa animosità tra le parti, e i leader dell’opposizione l’hanno esclusa pubblicamente.
   Tuttavia, il ministro degli Esteri Eli Cohen ha dichiarato martedì al sito Israel National News che un accordo di normalizzazione è possibile “entro i prossimi sei mesi”.
   La richiesta di Riyadh di un via libera da parte di Washington per lo sviluppo di un programma nucleare fa parte dei più ampi colloqui tra Stati Uniti e Arabia Saudita, che potrebbero consolidare un accordo tra Gerusalemme e Riyadh. In cambio dell’instaurazione di relazioni con lo Stato ebraico, si ritiene che i sauditi vogliano accedere a tecnologie avanzate di difesa americane e a un’alleanza di difesa con gli Stati Uniti.
   Per quanto riguarda la sua parte dell’accordo, Washington cerca di invertire i legami economici e militari dei sauditi con Cina e Russia e di rafforzare la tregua che ha posto fine alla guerra civile nello Yemen.

(Rights Reporter, 30 agosto 2023)

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Michigan: vandalizzato centro ebraico

di Nathan Greppi

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L’Università del Michigan, situata nella città americana di Ann Arbor, ha denunciato mercoledì 23 agosto un atto di vandalismo che ha colpito un loro centro ebraico universitario, il Jewish Resource Center.
   Come riporta Algemeiner, il rettore dell’università, Santa J. Ono, ha dichiarato in un comunicato che sul marciapiede di fronte al centro sono stati trovati dei graffiti con messaggi antisemiti e omofobi. “Il Jewish Resource Center è una parte importante nella comunità del nostro campus”, ha affermato. “Questi incidenti sono in diretto conflitto con quei valori di rispetto e inclusione ai quali l’università tiene profondamente, e non c’è posto per essi nella nostra comunità”.
   Questo non è il primo episodio antisemita che si tiene nell’ateneo del Michigan: la scorsa primavera, sono circolati per il campus volantini antisemiti attribuiti ad un gruppo estremista che si presentava come Goyim Defense League (probabile riferimento alla Jewish Defense League, movimento politico ebraico estremista fondato dal rabbino Meir Kahane). Nello stesso periodo, la SAFE (Students for Allied Freedon and Equality), un gruppo studentesco antisionista, ha organizzato manifestazioni contro Israele.
   Sempre la SAFE, a gennaio, ha organizzato una manifestazione in cui accusavano la vicepresidente americana Kamala Harris di commettere un “genocidio” per le sue posizioni vicine a Israele.
   Secondo l’ADL (Anti-Defamation League), nel corso del 2022 sono stati registrati 219 episodi di antisemitismo nei campus universitari statunitensi, il 41% in più rispetto al 2021: di quei 219 episodi, 127 erano molestie verbali, 90 atti di vandalismo e 2 aggressioni fisiche.

(Bet Magazine Mosaico, 30 agosto 2023)

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Ministra degli esteri libica costretta a fuggire dopo l'incontro con il collega israeliano

di Deborah Fait

Najila Mangoush, Ministro degli Esteri libica è stata licenziata in tronco e, temendo per la sua vita, è stata costretta a fuggire in Turchia. La sua tremenda colpa è l’aver incontrato a Roma, dove entrambi erano in visita, il Ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen. Secondo Israele l’incontro tra i due ministri era stato deciso in precedenza e doveva avere come argomento una cooperazione sull’agricoltura e il sistema idrico, di cui Israele è il paese più innovativo al mondo. Israele assicura che i più alti livelli dello stato libico erano informati dell’eventuale incontro mediato da Antonio Tajani. Purtroppo avevano fatto i conti senza l’oste che, in questo caso, sarebbe l’odio profondo delle popolazioni arabe per Israele e gli ebrei. Appena saputa la notizia le orde si sono scatenate per le strade delle città e villaggi libici, hanno bruciato e distrutto, sputato e bruciato bandiere di Israele. Infine hanno minacciato di morte la povera Najila Mangoush che si è affrettata a dichiarare che lei non ne sapeva niente, che è stata presa alla sprovvista e non era preparata a questo incontro, che non esiste nessuna normalizzazione tra Libia e Israele e che Gerusalemme è la capitale della Palestina. Praticamente ha tentato di uscirne accusando l’Italia e Israele di averla imbrogliata. Non è servito a nulla, la sua sospensione dall’incarico è stata firmata dal Primo Ministro Abdulhamid al.Dbeibah, seguita, secondo i media, dalla fuga precipitosa della Mangoush verso la Turchia. Nei prossimi giorni seguiremo gli sviluppi di questa tragicomica vicenda. Una cosa è certa, la Libia di oggi ci fa rimpiangere la Libia del passato quando Gheddafi, in visita a Roma, era andato a visitare la comunità degli ebrei libici fuggiti da quel paese nel 1967. Sorprendentemente, lo avevano accolto con baci e abbracci, canti e balli. Il mondo è strano. Gheddafi non era un santo, era un dittatore che ha dominato la Libia per 40 anni dal 1969 quando, con un colpo di stato depose il re Idris. Gheddafi è finito impalato dal suo stesso popolo, in una guerra stupida e inutile sull’onda delle primavere arabe volute dal peggior presidente statunitense, Barak Obama, primavere che distrussero Medio Oriente e nord Africa trasformando le dittature arabe, che davano comunque una parvenza di ordine, in vero e proprio caos umanitario. Oggi la Libia è in mano a banditi divisi in tribù le une contro le altre e l’Europa, grazie a quelle maledette primavere, è invasa da milioni di disgraziati che la ridurranno simile ai paesi dai quali fuggono.

(Informazione Corretta, 29 agosto 2023)

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Intervento di Emanuel Segre Amar sulla Naqba degli ebrei di Tripoli

di Emanuel Segre Amar

Molto si è scritto in questi giorni, e ancor si scriverà, a proposito dell’incontro avvenuto la settimana scorsa tra i Ministri degli Esteri di Libia e di Israele. Ma tra le letture quotidiane mi sono imbattuto, nel sito di Informazione Corretta, in parole che mi hanno fatto sobbalzare sulla sedia: “Una cosa è certa, la Libia di oggi CI FA RIMPIANGERE (maiuscole mie) la Libia del passato quando Gheddafi, in visita a Roma, era andato a visitare la comunità degli ebrei libici fuggiti da quel paese nel 1967. Sorprendentemente, lo avevano accolto con baci e abbracci, canti e balli.”
   Urge subito ricordare che Gheddafi non avrebbe certo potuto incontrare a Roma “la comunità degli ebrei libici fuggiti da quel paese” dal momento che, nella stragrande maggioranza, la “comunità fuggita dalla Libia” viveva in Israele; inoltre Gheddafi, che nel 2009 comandava da 40 anni una Libia con la quale tutti i poteri forti occidentali volevano allacciare rapporti, non si è mai sognato di “andare a visitare” nessun ebreo, visto che stava tranquillamente alloggiato nella tenda appositamente preparata per lui a Villa Pamphili, e al massimo si spostava per una cena col Presidente Napolitano o per un discorso in Senato (onore concesso, prima di lui, soltanto a due stranieri). Ma quale era allora l’atmosfera che si respirava in quei giorni a Roma, oltre che in Occidente?
   Gheddafi voleva accreditarsi presso gli USA che gli imposero una serie di condizioni, tra le quali il riconoscimento della “Naqba” sofferta dalla antica e numerosa Comunità Ebraica tra il 1947 e il 1967 circa; questo avrebbe così permesso a tante grandi imprese dell’Occidente (in Italia ENI e UniCredit su tutte) di fare finalmente grandi affari con la ricca Libia, secondo l’antico e sempre valido principio “pecunia non olet”.
   A questo punto va osservato che in ogni “comunità di persone” c’è sempre chi può essere tentato dalla brama di godere di qualche privilegio personale tradendo la doverosa solidarietà coi propri fratelli. E così, anche in quel frangente alcuni ebrei di origine libica credettero che tutti i problemi che avevano per decenni afflitto le loro Comunità potessero essere oramai superati (e i fatti non tardarono a dimostrare la loro cecità), alcuni si precipitarono perfino in Libia, dimentichi che le vaghe promesse dei dittatori valgono come il classico due di picche.
   Parafrasando le parole pronunciate in una audizione parlamentare del 16 giugno 2009, quegli ebrei oramai italiani “credevano forse che un trattato con la Libia fosse un’operazione normale, come se si stesse trattando ad esempio con il Canada? Hanno finto di non sapere quanto stavano facendo in nome di un passato che hanno voluto assolutamente cancellare e per presentare la decisione come una formalità rituale e protocollare.
   I giorni vissuti in quei giorni a Roma, il carnevale che si è protratto per le strade della capitale, hanno fatto pensare all’umiliante perdita del senso del tempo e della storia. Anche alcuni ebrei di origine libica, come tanti politici italiani, sono stati purtroppo parte di questo squallido gioco”.

(Notizie su Israele, 29 agosto 2023)

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“Shalom, così ci hanno accolto i sauditi”. Il racconto degli israeliani a Gedda dopo l’atterraggio di emergenza

Il volo di Air Seychelles era stato costretto allo stop. La compagnia ha inviato un altro velivolo per consentire lo spostamento dall’Arabia a Tel Aviv.

di Rossella Tercatin

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GERUSALEMME – “Shalom,” il classico saluto ebraico, traducibile come “ciao” ma anche “pace”. Sono stati accolti così dal personale locale gli oltre 120 passeggeri israeliani sbarcati a Gedda in Arabia Saudita dopo che un guasto tecnico ha costretto il loro volo Air Seychelles a un atterraggio fuori programma.
   “Sono stati tutti molto gentili, siamo rimasti davvero piacevolmente sorpresi”, hanno raccontato alla testata Yediot Ahronot Racheli e Yossi Miller che si trovavano a bordo.
   “Ci hanno portato un autobus in un bellissimo hotel vicino all’aeroporto,” ha aggiunto un’altra passeggera, Sarit Meshulam Shtal. “Quando siamo sbarcati ci hanno accolto salutandoci con shalom in ebraico e facendoci sentire i benvenuti.”
   Tra Gerusalemme e Riad non ci sono relazioni diplomatiche, ma dal 2020 l’Arabia Saudita è nel radar di una possibile espansione degli Accordi di Abramo, con cui Israele e diversi paesi arabi hanno normalizzato le proprie relazioni.
   Un anno fa, le autorità saudite hanno per la prima volta dato il via libera affinché voli da e per Israele potessero sorvolare il proprio spazio aereo. L’aeroporto di Gedda è stato designato come scalo per atterraggi di emergenza. Un’eventualità che si è verificata ieri.
   Secondo i media israeliani, l’aereo, un Airbus 320 che volava dalle Seychelles verso Tel Aviv con 128 passeggeri, ha avuto problemi al sistema elettrico. I Miller hanno raccontato come all’improvviso a bordo si sia diffuso uno strano odore e una parte del velivolo sia rimasta al buio.
   Nonostante le difficoltà, i piloti non hanno dovuto dichiarare una formale emergenza e l’atterraggio non è stato tecnicamente classificato come tale.
   Il Ministero degli Affari Esteri israeliani ha spiegato che “la vicenda è gestita dal Dipartimento per gli Israeliani all'Estero in collaborazione con le autorità competenti” e che “il direttore generale del Ministero ha condotto una valutazione della situazione con tutti i funzionari competenti per gestire l'incidente”.
   Nella notte, Air Seychelles ha dichiarato che avrebbe inviato un nuovo aeroplano per prelevare i passeggeri e condurli a Tel Aviv già nella giornata di oggi. Secondo Yediot, il velivolo è partito da Dubai alla volta di Gedda e segnerà la prima volta di un volo diretto dall’Arabia Saudita a Israele.
   Negli ultimi mesi, si sono rincorse molte voci sugli sforzi portati avanti dall’amministrazione Biden per arrivare alla normalizzazione tra Gerusalemme e Riad – un risultato che secondo gli analisti cambierebbe il corso della storia in Medio Oriente.
   Al momento però, i nodi irrisolti paiono significativi, ostacoli che includono il prezzo richiesto dall’Arabia Saudita tanto agli Usa quanto a Israele – soprattutto per quanto riguarda la questione palestinese. Con l’attuale governo israeliano – considerato più a destra di sempre - che non pare facilmente incline ad acconsentire, nonostante la pace con i sauditi rappresenti uno dei sogni del primo ministro Benjamin Netanyahu.
   A dimostrare la delicatezza di questo genere di negoziati è stata nelle scorse ore il caos causato dall’incontro a Roma tra il Ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e la sua collega libica Najla Mangoush – un incontro che è stato reso pubblico da Cohen e ha causato moti nello Stato africano costringendo Mangoush alla fuga dal paese.
   Nel frattempo però, il fatto che decine di israeliani abbiano passato una notte in Arabia, pure se per un evento fortuito, rappresenta già una vicenda a suo modo storica. 

(la Repubblica, 29 agosto 2023)

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Israele è al primo posto al mondo per il costo della vita: lo dice l’Oecd

di Sofia Tranchina

Che viaggiare in Israele sia costoso, lo può constatare un qualsiasi turista sin dall’atterraggio all’aeroporto di Ben Gurion, salendo su uno dei taxi che portano in città. “Ma finché si tratta di una settimana di ferie – si dirà tra sé e sé – fa niente”.
   La questione diventa gravosa quando la quotidianità stessa dei cittadini è afflitta, tutto l’anno, da prezzi più alti di quanto il salario medio possa ragionevolmente consentire, rendendo la vita un vero salasso.
   E in questo, Israele si è conquistato un imbarazzante primato: i dati dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) del 2022 lo collocano al primo posto come “Paese sviluppato con il costo della vita più alto” – con prezzi del 38% più alti rispetto alla media degli altri membri – seguito da Svizzera, Islanda, e USA.
   L’indice comparativo analizza le differenze misurando i prezzi al consumo e il rapporto tra parità di potere d’acquisto e tassi di cambio di mercato (non tiene però conto delle oscillazioni del valore del Nuovo Shekel Israeliano).
   I prezzi di alcuni beni di prima necessità, tra cui latte, pane e formaggio, arrivano in Israele fino al 70% in più rispetto agli altri stati membri.

• Monopoli e mancanza di concorrenza
  L’esagerato costo della vita è causato in buona parte da una esagerata concentrazione dei mercati in mano a grandi monopoli, che, assicurandosi diritti esclusivi di importazione e distribuzione, determinano i prezzi dei prodotti senza temere concorrenza.
   I settori più colpiti sono quello alimentare e quello dei beni per la casa.
   Secondo i dati pubblicati dal Times of Israel, l’azienda Schestowitz, grazie ai diritti su marchi Palmolive, Colgate, Elmex, Neutrogena, Barilla, e Alpro, controlla circa il 66% del mercato dei dentifrici, il 52% del mercato delle salse per pasta, e il 32% del mercato delle bevande di soia, oltre ad essere importatrice esclusiva di marchi di moda quali Abercrombie and Fitch, Burberry, Calvin Klein e Jimmy Choo.
   L’azienda Diplomat, invece, detiene il monopolio di Oral B, Gillette, Toblerone, Oreo e Pringles, tra gli altri, e controlla circa l’81,5% del mercato degli shampoo antiforfora e l’80% del mercato dei rasoi.
   Se nasce una concorrenza, ovvero si fanno strada importatori paralleli che cercano di introdurre prezzi più competitivi, i monopoli già installati impiegano le proprie forze per osteggiarne il successo, ritardando l’arrivo delle merci e prendendo con i marchi accordi diretti che puzzano di illecito.
   Cosa comporta la mancanza di concorrenza? Ad esempio, una confezione da 16 lamette di rasoio Gillette Fusion costa 46,60$ in Israele, contro i 15,85$ negli Stati Uniti, e un tubo da 100 ml di dentifricio Colgate Optic White costa 6,70$ in Israele, rispetto ai 2,40$ negli Stati Uniti. E a sommarsi alla scarsità di concorrenza nazionale, la concorrenza dall’estero – che potrebbe far scendere i prezzi – è limitata da «formidabili barriere all’importazione».
   Il capo economista del Ministero delle Finanze, Shira Greenberg, ha parlato dell’applicazione del 17% di IVA su tutti gli articoli ordinati online da rivenditori esteri, (come Amazon e Ali Express), per raccogliere liquidità per ripagare il deficit del paese.
   La concentrazione del mercato non porta solo a prezzi elevati ma anche a una minore scelta per i consumatori israeliani, oltre ad esasperare il divario tra la ricchezza di poche famiglie e la povertà del resto della popolazione.

• Possibili soluzioni
  Per contrastare i monopoli, è nata nel 2015 l’organizzazione no-profit Lobby99, che raccoglie fondi per esercitare pressioni sul governo e sulla Knesset per conto della popolazione indignata.
   Uno strumento semplice ed efficace, spiega al TOI il dottor Karnit Flug (ex governatore della Banca d’Israele e attualmente vicepresidente dell’Israel Democracy Institute) sarebbe spingere per strategie di trasparenza dei prezzi.
   Infatti, attualmente i principali importatori, poiché sono aziende private, non sono obbligati a rendere pubblici i rendiconti finanziari.
   La trasparenza dei prezzi permetterebbe ai consumatori di comprendere le differenze di prezzo tra i prodotti in Israele e negli altri Paesi e di essere più proattivi nelle decisioni di acquisto, boicottando le aziende che impongono prezzi al di fuori del potere d’acquisto medio.
   Ron Tomer, presidente dell’Associazione Israeliana dei Produttori, davanti ai dati OECD ha chiesto «un’immediata riduzione dell’aliquota IVA sui prodotti alimentari al livello accettato in Europa», e anche un sostegno diretto per l’agricoltura israeliana. Inoltre, ha aggiunto, «se il governo vuole ridurre il costo della vita, deve ridurre i prezzi di elettricità, acqua, tasse sulla proprietà, e carburante. Il governo non può da un lato aumentare drasticamente le tariffe e dall’altro aspettarsi che i prezzi scendano».
   La maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che l’alto costo della vita sia colpa principalmente dell’inazione del governo. Solo il 27% attribuisce la responsabilità ai grandi monopoli, mentre il 3.5% attribuisce la responsabilità ai produttori locali, agli importatori o alle catene di supermercati.
   Secondo un sondaggio condotto dal Panels Politics Institute il 48% degli israeliani ritiene che la questione più importante che la Knesset e il governo debbano affrontare in via prioritaria sia l’alto costo della vita, molto più della riforma giudiziaria del governo (22%), della sicurezza personale (14%) o dell’Iran (10%).

• La Legge per la Promozione della Concorrenza e Riduzione della Concentrazione
  Guardando al quadro da lontano, si può apprezzare il generale progresso di Israele nell’ultimo decennio. Dopo le forti proteste sociali del 2011, che hanno portato centinaia di migliaia di israeliani a protestare nelle strade di tutto il Paese contro i dieci maggiori gruppi imprenditoriali, la Knesset ha approvato nel 2013 la Legge per la Promozione della Concorrenza e Riduzione della Concentrazione.
   La legge definisce “monopolio” un’impresa commerciale che controlla più del 50% del mercato, e vieta alle aziende di detenere società finanziarie (banche e assicurazioni) per un valore superiore a 11,6 miliardi di dollari, nonché società non finanziarie con entrate superiori a 1,8 miliardi di dollari.
   Inoltre, le riforme degli ultimi 15 anni nel mercato delle telecomunicazioni hanno abbassato significativamente i prezzi degli operatori di telefonia mobile, considerato ora un settore competitivo: «in alcuni settori sono stati compiuti molti progressi nel ridurre la concentrazione e nel rafforzare la concorrenza. In altri settori c’è ancora del lavoro da fare».

• Ancora tanta strada da fare
  Nochi Dankner, azionista maggioritario della Israel Discount Bank e fondatore e presidente del Gruppo Ganden, nel 2017 è stato condannato a tre anni di carcere per frode in titoli per un piano volto a gonfiare il prezzo delle azioni della sua società. Shaul Elovitch, azionista di Bezeq, è implicato per un (presunto) accordo illecito con il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si sarebbe occupato delle esigenze commerciali di Elovitch in cambio di una copertura positiva nel suo sito di notizie di Walla.
   Le banche israeliane sono state smascherate per essersi alleate con i magnati concedendo prestiti fuori misura e cancellandone centinaia di milioni di shekel di debiti, per poi riequilibrare i libri contabili facendo pagare di più ai clienti abituali per i servizi finanziari di tutti i giorni.
   Ma i critici lamentano che ancora il governo non ha dimostrato una reale volontà di opporsi ai monopoli. Le multe inflitte sono poca cosa per colossi come la Coca Cola, e le grandi aziende hanno schiere di avvocati ed economisti che minano la fiducia delle autorità nella loro capacità di sporgere denuncia.
   Su una cosa sono tutti d’accordo: servono leggi antitrust più efficaci.
   Netanyahu, accusato di essersi concentrato troppo sui piani di revisione giudiziaria, trascurando invece l’aumento dei prezzi e i reali problemi del momento, ha risposto annunciando la formazione di un comitato ministeriale per affrontare l’alto costo della vita, composto da 13 ministri per la supervisione di: finanza, economia, agricoltura, protezione ambientale, energia, sanità, welfare, servizi religiosi, alloggi, sviluppo del Negev e della Galilea, turismo, immigrazione e comunicazioni.
   Ma il discorso è ancora più ampio: il professor Dan Ben-David, direttore dello Shoresh Institute for Socio-Economic Research, spiega che «la metà dei bambini israeliani oggi riceve un’istruzione da terzo mondo (e sono tra i gruppi di popolazione in più rapida crescita)», il che significa che «non hanno gli strumenti per lavorare in un’economia globale competitiva, né la comprensione di cosa significhi vivere e mantenere una moderna democrazia liberale».

(Bet Magazine Mosaico, 29 agosto 2023)

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Il nuovo velivolo israeliano Oron di controllo ed intelligence

Il Ministero della Difesa di Israele ha comunicato che è stata completata l’integrazione dei sistemi di intelligence a bordo del velivolo “Oron”. L’aereo di intelligence più avanzato al mondo nel suo genere è in viaggio verso l’IDF.

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L’MPAAT del Ministero della Difesa e del Israel Aerospace Industries (IAI) hanno completato l’integrazione dei sistemi di intelligence nell’aereo “Oron” in preparazione della sua consegna all’Aeronautica Militare di Israele.
   Sono iniziati i voli di prova in collaborazione con le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e IAI. Il Direttore per la ricerca e lo sviluppo delle armi militari e delle infrastrutture tecnologiche (MPAAT) presso il Ministero della Difesa e della IAI ha osservato nei giorni scorsi, in una cerimonia tenutasi con la partecipazione di alti funzionari dell’establishment della Difesa e dell’IDF, il completamento del progetto integrazione dei sistemi di intelligence nell’aereo più avanzato del suo genere al mondo, l’Oron.
  Il completamento dell’integrazione dei sistemi di intelligence rappresenta una pietra miliare significativa nel programma di sviluppo e test dell’aereo, che sta passando alla fase avanzata di voli di prova congiunti per l’Aeronautica Militare e la IAI.
  L’aereo è uno sviluppo congiunto del MAEAT del Ministero della Difesa e della Divisione Elta di IAI, insieme all’Aeronautica Militare, alla Divisione Intelligence ed alla Marina. L'”Oron” è il primo e più avanzato aereo del suo genere nel mondo ed è dotato di sistemi di rilevamento e ICT all’avanguardia, che forniranno all’IDF una dimensione di intelligence senza precedenti per detenere una vasta area per il monitoraggio in tempo reale dei movimenti del terreno, in tutte le condizioni atmosferiche e di visibilità. dal 122° Squadrone “Nachshon” dell’Aeronautica Militare.
  Secondo il Tenente Colonnello Yoad, capo del ramo aerei di missione del PAAT, Oron’ è un velivolo multiruolo e multi-sensore che darà all’IDF capacità operative ‘eguali’ di fronte alle sfide che affrontiamo anche in arene molto distanti. L’unicità del velivolo si esprime nella capacità di raccogliere e trattenere un’enorme quantità di bersagli in una vasta area, in qualsiasi condizione meteorologica e di visibilità, da una lunga distanza, in tempo reale e con grande precisione. I sistemi dell’aereo incorporano conoscenze tecnologiche uniche, accumulate negli anni tra l’industria e le Forze di Difesa Israeliane, qualcosa che consentirà di affrontare le minacce future in tutti i teatri d’azione israeliani. processo di apprendimento di lezioni operative, anche in una prospettiva internazionale in espansione".
  A sua volta il comandante dello Squadrone 122 dell’Aeronautica Militare ha dichiarato che Oron è un aereo con capacità uniche che esprime la forza e la potenza della partnership di tutti i rami dell’IDF.
  L’Oron su base Gulfstream G550 si andrà ad aggiungere ai due G550 Eitam (CAEW) ed ai tre G550 Shavit (SIGINT) in dotazione all’Aeronautica Israeliana; l’Oron integrerà sulla stessa cellula avanzate capacità CAEW, SIGINT, ELINT e COMINT.

(Ares Osservatorio Difesa, 29 agosto 2023)

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Le trattative fra Israele e Libia a Roma. Un caso politico che deve far riflettere

di Ugo Volli

• Uno strano balletto diplomatico
   Fra Roma, Gerusalemme e Tripoli, capitale della Libia, si è svolto ieri uno strano balletto diplomatico. Qualche giorno prima c’era stato alla sede del Ministero degli Esteri italiano, con la mediazione del nostro ministro Antonio Tajani, uno “storico incontro” segreto ma ufficiale fra il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen e quello libico, Najla Mangoush, lungamente preparato dalle rispettive diplomazie. Poi è arrivato in Israele l’annuncio pubblico dell’incontro, a quanto dice Cohen concordato fra le due parti e ampiamente ripreso dalla stampa internazionale.
   Immediatamente di seguito sono venute manifestazioni di protesta a Tripoli, mozioni di censura dei deputati, l’ira ostentata del primo ministro libico Abdul Hamid al-Dbeibeh, che ha annunciato di avere “provvisoriamente licenziato” Mangush, che si è affrettata a precisare che sì l’incontro con Cohen era avvenuto, ma per caso, senza intenzione, e che lei comunque non aveva affatto accettato alcuna forma di normalizzazione con Israele. Ma una volta scappata in Turchia (con un aereo di stato) si è rimangiata la smentita e ha rivelato che il suo incontro con Cohen era stato preceduto da una visita del primo ministro libico in Italia. Durante questa visita, il Primo Ministro libico ha incontrato il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni, durante il quale i due hanno concordato di programmare un incontro con il Ministro israeliano. L'accordo sarebbe legato alla riapertura della rotta aerea che collega Roma a Tripoli (Libia). Secondo Mangoush, il suo incontro con il ministro israeliano aveva ricevuto l'approvazione esplicita del primo ministro libico. Inoltre ha sostenuto che era stato il primo ministro libico a ordinarle di rilasciare la dichiarazione secondo cui l'incontro era stato non pianificato e accidentale, al fine di evitare ripercussioni. Mangoush ha inoltre affermato di possedere "numerosi documenti" a sostegno delle sue affermazioni e di rifiutarsi di diventare il capro espiatorio, come richiesto dal Primo Ministro (che aveva recentemente annunciato il suo licenziamento).

• Il quadro libico
  È presto per stabilire come siano andate le cose nei dettagli, ma è chiaro che il gioco è più complicato di quel che sembra. Innanzitutto La Libia è divisa fra due governi rivali. Tripoli e il nord ovest del paese sono sotto il controllo di un Governo di unità nazionale (Gnu) guidato da al-Dbeibeh, che è riconosciuto a livello internazionale, ha rapporti soprattutto con l’Occidente ed è rappresentato alle Nazioni Unite e all’Unione africana, ma è meno unito e ha meno controllo territoriale di quanto sembri. Anche Meloni è andato a trovarlo all’inizio di giugno e probabilmente hanno parlato anche di questa trattativa in atto con Israele. La parte orientale e centrale del Paese sono invece sotto l’autorità di un governo parallelo guidato da Fathi Bashagha, che in qualche modo è alleato o dipendente dal più potente signore libico della guerra, il generale Khalifa Haftar. In teoria sia al-Dbeibeh che Bashaga (o Haftar) sono “laici”, ma in entrambi i governi sono forti gli islamisti in versione salafita. La vicenda di Mangoush, che ha anche il difetto per gli islamisti di essere donna, va vista dunque nel contesto delle lotte che dilaniano sanguinosamente il Paese fin dalla caduta e morte di Gheddafi (2011). L’avvicinamento con Israele è stata probabilmente una mossa di al-Dbeibeh che per conquistare appoggi economici e militari per il progetto di controllare finalmente tutto il Paese; lo scandalo è una contro-mossa per far fallire il suo tentativo.

• Gli ebrei libici
   Non bisogna dimenticare anche che in Libia ha vissuto per molti secoli una grande antica e produttiva comunità ebraica. Dopo le discriminazioni fasciste e le difficoltà della guerra, la maggior parte degli ebrei libici dovettero andarsene fra il 1948 e il 1950 per le persecuzioni successive alla creazione dello Stato di Israele e il resto fu costretto a fuggire fra il 1967 (guerra dei sei giorni) e il 1968 (colpo di stato di Gheddafi). La maggior parte degli ebrei libici è andata in Israele, ma molti sono venuti in Italia, in particolare a Roma, diventando una parte importante della comunità ma senza perdere la loro identità, i loro costumi e neppure del tutto i contatti con la Libia. La Libia, come il Marocco e l’Egitto, è un Paese importante per Israele non solo per motivi strategici ed economici, ma anche per ragioni storiche e di memoria.

• Il contesto arabo
   La vicenda libica va inquadrata nel grande cambiamento arabo verso Israele. Dopo i trattati di pace freddi con Egitto (1979) e Giordania (1994), ci vollero oltre venticinque anni per gli Accordi di Abramo (2020), A differenza dei primi trattati, questi hanno investito l’opinione pubblica e gli scambi economici e culturali e hanno mostrato una grande capacità di estensione. Dopo gli Emirati e il Bahrein vi è stato coinvolto il Sudan e soprattutto il Marocco, ci sono contatti intensi con l’Arabia, di recente un ministro algerino ha accusato la Tunisia (oggi retta da un primo ministro autoritario che flirta con l’integralismo islamico e spesso parla contro Israele) di avere aperto contatti per la normalizzazione con lo stato ebraico. L’altro ieri è stata la volta del Qatar, che ospita i dirigenti di Hamas e la televisione filo-integralista Al Jazeera, a dichiarare di “non essere in guerra con Israele”, e di avere solo “difficoltà con l’occupazione” - il che certamente è in qualche modo un’apertura. E anche i rapporti con la Turchia, pure con le difficoltà delle astute giravolte di Erdogan, continuano a procedere in maniera abbastanza positiva. Insomma, il grande muro costruito dal mondo arabo e musulmano intorno a Israele da settantacinque anni ormai è diroccato e lascia intravvedere un futuro di scambi economici e politici che potrebbero portare grandi vantaggi a una regione. L’eccezione a questa spinta verso la pace e il pericolo più grande viene naturalmente dall’Iran, includendo i paesi che esso domina (Libano, Siria, Iraq, Yemen). Ma più si estende l’orizzonte delle trattative, più difficile diventa l’aggressione. E più si sa che ci sono trattative con molti Paesi, più altri possono pensare di unirsi e partecipare al progetto. Per questa ragione rendere pubblici i contatti, come si è fatto nel caso della Libia, può essere utile, perché mostra come accordi una volta inconcepibili siano oggi invece possibile, e anzi che vi siano negoziati con corso. Anche se qualcuno vi si oppone clamorosamente, magari all’inizio con successo.

(Shalom, 29 agosto 2023)

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Gli israeliani imparano a sopravvivere al terrorismo nelle strade

"Cerchiamo di prevenire e combattere il terrorismo prima che accada", ha dichiarato Nitsana Darshan-Leitner, responsabile del Centro giuridico Shurat HaDin-Israel, che sponsorizza il corso per aiutare a sopravvivere agli attacchi nelle strade.

di David Isaac

GERUSALEMME - Sopravvivere al terrorismo - Le comunità israeliane in Giudea e Samaria si iscrivono a un corso di guida che insegna le tecniche di sopravvivenza in caso di attacco terroristico nelle strade.
   I corsi sono iniziati un mese fa e finora ne sono stati tenuti 10, mentre altre 24 comunità si sono iscritte al corso.
   "In ogni comunità svolgeremo il corso due o tre volte. Ogni volta insegniamo a 20-25 persone", ha dichiarato Nitsana Darshan-Leitner, responsabile del Centro giuridico Shurat HaDin-Israel, che sponsorizza il corso.
   Darshan-Leitner ammette che il corso è piuttosto insolito per il suo gruppo, specializzato nella lotta giuridica contro il terrorismo.
   "Normalmente, Shurat HaDin combatte il terrorismo dopo che è avvenuto, intentando cause contro gli autori e i loro sostenitori. Questa volta stiamo cercando di prevenire e combattere il terrorismo prima che accada", ha dichiarato a JNS.
   "Non possiamo restare inerti mentre il terrorismo aumenta e si intensifica nelle strade. Ecco perché abbiamo deciso di assumerci la responsabilità di raccogliere fondi e risorse per questi corsi".
   Durante l'addestramento, della durata di quattro ore, i partecipanti attraversano un percorso simulato con palline da tennis, pistole da paintball, palloncini d'acqua e pneumatici in fiamme.
   Anche se questo può essere molto lontano dalle rocce e dai proiettili veri che gli autisti ebrei devono affrontare in Giudea e Samaria, Darshan-Leitner afferma che il corso guidato da esperti fornisce un sufficiente realismo per aiutare i partecipanti a comprendere il problema.
   "Le palline da tennis e i palloncini d'acqua imitano i sassi. Sembrano sassi e suonano come sassi quando colpiscono l'auto. La pistola a vernice assomiglia molto a una pistola vera. Lo pneumatico in fiamme sulla strada è davvero uno pneumatico in fiamme", spiega.
   L'obiettivo principale è la fuga. I partecipanti imparano a guidare sopra uno pneumatico in fiamme e a continuare a guidare anche con uno pneumatico sgonfio. "Si è esposti a un vero attacco terroristico, quindi si ha il coraggio di andare avanti invece di fermarsi o di astenersi del tutto dalla guida", ha detto.
   Nel caso della famiglia Dee, la cui madre e le due figlie sono state uccise ad aprile, il conducente ha perso il controllo dell'auto e si è schiantato contro un albero, dopodiché il terrorista si è avvicinato e ha sparato 22 proiettili a distanza ravvicinata, ha detto Darshan-Leitner.
   In un altro caso, poco più di tre settimane prima, un uomo è riuscito a salvarsi stando nella sua auto sotto il fuoco . Quell'uomo, David Stern, un ex marine americano, è stato capace di estrarre la sua arma, sparare attraverso il parabrezza e ferire il terrorista.
   "Abbiamo pensato che se le persone fossero state addestrate a salvarsi in caso di attacco terroristico e a non perdere il controllo dell'auto, avrebbero potuto salvarsi la vita", ha detto Darshan-Leitner.
   Stern è uno degli organizzatori del corso. Viene e parlare con le persone e dà l'esempio. “Non insegniamo a sparare. Non è il nostro lavoro. Insegniamo intraprendenza", ha detto.
   Darshan-Leitner vuole che il governo aiuti a finanziare i corsi.
   "Si tratta di un corso di emergenza, quindi volevamo iniziare subito. E il governo non avrebbe mai potuto farlo. Sono troppo lenti e burocratici per avviare una cosa del genere. Ma ora che l'abbiamo fatto, dovrebbero finanziarlo perché penso che sia una loro responsabilità".
   Ha detto che il suo gruppo vuole continuare i corsi indipendentemente dall'aiuto del governo.
   Darshan-Leitner intende rivolgersi a diversi ministeri, tra cui il Ministero degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, guidato dalla deputata del Partito del Sionismo Religioso Orit Strock, il Ministero dei Trasporti, guidato dalla deputata del Likud Miri Regev e il Ministero delle Finanze, guidato dal deputato del Sionismo Religioso Bezalel Smotrich, che è anche vice ministro del Ministero della Difesa e ha ampi poteri negli affari civili in Giudea e Samaria.

(Israel Heute, 28 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Come mistificare i fatti

di Davide Cavaliere

Di recente, Sergio Della Pergola, ha rilasciato una lunga intervista sulla situazione politica in Israele, presentando una realtà parziale e fortemente alterata dai suoi pregiudizi politici. Al centro del colloquio tra il professore e la giornalista vi è Netanyahu, l’Orco della fiaba, accusato di aver spezzato l’equilibrio politico-istituzionale israeliano, mettendo il Paese sulla via del «totalitarismo». Il Primo ministro, definito «ebbro di potere», formando un governo di «destra-destra», avrebbe escluso le opposizioni e avviato una dittatoriale riforma del sistema giudiziario senza coinvolgere tutto lo spettro politico. Quella di Netanyahu, secondo Della Pergola, sarebbe una dittatura «legale», ossia rispettosa delle procedure democratiche ma «fascista» nella sostanza. Ed è proprio a «fascisti» e «nazisti» che ha paragonato l’attuale governo. 
   In realtà, se si osserva la storia recente d’Israele, ci si rende conto che, per prima, la sinistra israeliana ha trattato Netanyahu non come un avversario politico legittimo, ma come un’«anomalia» da rimuovere con ogni mezzo, compreso quello giudiziario. Non a caso, le azioni legali contro il premier si stanno rivelando inconsistenti, più simili a campagne denigratorie che a serie attività istruttorie. Netanyahu, inoltre, è accusato da Della Pergola di aver rotto, durante la presidenza Obama, con la tradizionale equidistanza dei governi d’Israele tra democratici e repubblicani americani, posizionandosi nettamente in campo repubblicano. Si tratta di una ricostruzione d’imbarazzante superficialità.
   Lo scivolamento di Netanyahu verso la destra statunitense è stato dettato, se non addirittura forzato, dalla pervicace ostilità dell’Amministrazione Obama a Israele e dalla sua sistematica sottovalutazione della minaccia nucleare iraniana, sfociata poi nel vergognoso Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), fortunatamente stracciato dal presidente Trump.  Perdipiù, si accusa Netanyahu di aver causato l’astensione statunitense al voto della risoluzione 2334 dell’Onu, che condanna la politica degli insediamenti di Israele in «Cisgiordania» e Gerusalemme est, ignorando che quella astensione fu premeditata dall’Amministrazione Obama e, de facto, annunciata dall’allora Segretario di Stato John Kerry in un discorso in cui definì i cosiddetti «insediamenti» come un «ostacolo alla pace», proprio come scritto nella risoluzione in questione. 
   Dopo aver dipinto uno scenario politico da anni Trenta, Della Pergola passa a una disamina, tendenziosa e imprecisa, del quadro giuridico dello Stato d’Israele. La Corte Suprema è presentata come un elemento di «equilibrio», un’affermazione che avrebbe sdegnato celebri giuristi israeliani come Moshe Landau e Amnon Rubinstein, che videro in essa un «governo alternativo» e un potere «iperattivo». Netanyahu e il suo Ministro della giustizia, Yariv Levin, intendono riportare la Corte nell’alveo dello Stato di Diritto, impedendole, come accaduto nel 1992, di trasformare in leggi costituzionali a tutti gli effetti delle Leggi Base approvate dalla Knesset con solamente un quarto dei suoi parlamentari. Come più volte ricordato su queste pagine, il ramo giudiziario, per quanto «supremo», non è chiamato a trasformare leggi ordinarie, quali sono le Leggi Base, in norme costituzionali per poi, in base a un pregiudizio politico, di sinistra e post-sionista, come nel caso di Barak, bocciare le leggi varate dalla Knesset. 
   Della Pergola ha manifestato un notevole disagio per il primo atto di riforma approvato dal Parlamento israeliano, ossia l’annullamento del ricorso al sindacato di ragionevolezza in determinati campi.
   Ora, quello di «ragionevolezza» è un concetto in parte indefinito, dal contenuto inafferrabile, plasmabile a piacimento sulla base di valori e convinzioni soggettive. Non a caso ha rappresentato lo strumento con cui la Corte Suprema cassava le leggi approvate dalla Knesset e le norme amministrative. 
   La riforma giudiziaria non è un’«ossessione» della destra o un tentato «colpo di stato» istituzionale, ma una necessità sentita dalla maggioranza degli israeliani, anche da quelli di tendenze centriste o liberal, che però viene utilizzata, polemicamente e irresponsabilmente, dalla sinistra per attaccare Netanyahu.
   Il giornalista David M. Weinberg ha scritto della «pericolosa istigazione incendiaria» posta in essere da Ehud Barak, che surriscalda il clima politico israeliano con affermazioni iperboliche e violente. La sinistra sta esacerbando il dibattito sulla riforma nel tentativo di abbattere l’odiato Netanyahu. 
   L’intervista si concentra anche sulla «Legge del Ritorno», che il governo vorrebbe rendere più stringente, applicando una più rigorosa definizione di «ebreo», che attualmente considera tale i convertiti, coloro che vantino almeno un nonno, oppure un parente di terza generazione, o un coniuge ebreo. La proposta del governo, ovviamente, viene presentata come una involuzione nazionalista, senza accennare minimamente alle ragioni della destra.
   Negli ultimi anni, una quota crescente di nuovi immigrati, soprattutto provenienti dai Paesi dell’ex Urss, che non sono effettivamente ebrei né si sentono tali, hanno sfruttato le maglie larghe della «Legge del Ritorno» per emigrare in Israele, considerato uno Stato sicuro, dall’economia attrattiva, che in più finanzia tutte le spese relative al trasferimento, al ricollocamento e all’alloggio dei nuovi migranti nel Paese. I partiti religiosi al governo, giustamente, lamentano che, in presenza di una quota così considerevole di non-ebrei nelle ultime ondate migratorie, la tenuta sociale del Paese può essere a rischio a causa della loro mancata integrazione nel tessuto sociale israeliano, oltreché mettere in pericolo il carattere ebraico dello Stato. 
   Il quadro tracciato nell’intervista rivela l’incapacità di una certa sinistra «illuminata» di separare i fatti dai propri pregiudizi. Si chiama «fascista» l’avversario politico che non si arrende in modo incondizionato alla visione progressista e universalista. Della Pergola manifesta anche uno scarso rispetto per il linguaggio, utilizzando termini scorretti come «Cisgiordania», oppure abusando di nozioni quali «totalitarismo» e «dittatura». 
   La riforma proposta dalla destra israeliana è molto più in linea con un normale quadro «democratico» rispetto allo stato di cose attuale. Coloro che si oppongono alla riforma non stanno difendendo la democrazia, bensì le stanno facendo guerra. 

(L'informale, 28 agosto 2023)

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Israele-Libia: i due ministri degli Esteri si vedono a Roma. Cohen: “Incontro storico”. Ma il premier libico sospende Al Mangoush

Il meeting tra i capi delle diplomazie dei due Paesi che non hanno relazioni diplomatiche è stato facilitato da Antonio Tajani. Proteste a Tripoli

di Daniele Raineri

Najla al Mangoush e Antonio Tajani
ad Adria a febbraio
Fonti israeliane rivelano che il ministro degli Esteri di Israele, Eli Cohen, ha incontrato la ministra degli Esteri del governo libico di Tripoli, Najla al Mangoush, in un giorno non meglio specificato della settimana scorsa e l’incontro è avvenuto a Roma. Per questo, il primo ministro del governo di Tripoli, Abdelamid Dbeibah, ha sospeso a titolo precauzionale la ministra degli esteri e l'ha denunciata per avviare indagini penali. 
   La notizia è stata accolta in Libia tra le proteste: in strada a Tripoli, Al-Zawiya, Tajoura, Misurata, Sabratha, Zintan e Yafran si sono visti pneumatici bruciati, bandiere d'Israele alle fiamme e manifestanti che chiedevano le dimissioni di Mangush.
   La presidenza della Camera dei Rappresentanti libica ha convocato i deputati per una sessione d'urgenza questa sera presso la sede del Parlamento di Bengasi per discutere dell'incontro.
   Tripoli e Gerusalemme in teoria non hanno relazioni diplomatiche dal 1965 e quindi si capisce la scelta di un luogo neutro e discreto per l’incontro – organizzato anche grazie a una lunga mediazione del governo italiano e con la supervisione del ministro degli Esteri Antonio Tajani. “Si sono visti mercoledì 23, ma non all’interno di una struttura della Farnesina. Ci hanno pensato loro a scegliere il posto”, dicono fonti informate a Repubblica.
   Mangoush e Cohen hanno parlato di aiuti umanitari da parte degli israeliani, di progetti per l'agricoltura e la gestione dell’acqua e di una possibile cooperazione per salvare i siti legati alla presenza ebraica in Libia. Il colloquio, che Cohen ha definito “storico” e “un primo passo”, va nella direzione di un possibile processo di normalizzazione tra l’ovest della Libia sotto il controllo del cosiddetto Governo di unità nazionale guidato dal premier Abdul Hamed Dabeiba e Israele. Si andrebbe a inserire nella sequenza di accordi diplomatici senza precedenti fra Gerusalemme e Paesi arabi cominciata nell’agosto 2020 con i cosiddetti Accordi di Abramo.
   Non è un caso che i rapporti fra il governo di Tripoli e gli Emirati Arabi Uniti di recente siano molto migliorati, perché gli Emirati sono stati i primi a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele tre anni fa e sono diventati sponsor di questo processo con gli altri Stati arabi. L’ultimo a ricucire le relazioni diplomatiche è stato il Marocco e in queste settimane si è parlato di una triangolazione intensa tra Israele, Usa e Arabia Saudita.
   Per ora la ministra libica non ha ancora detto una parola a proposito dell’incontro con l’israeliano ed è probabile che sia per prendere la misura alle reazioni perché in molti, nel mondo arabo, accusano questo riavvicinamento molto pragmatico di essere un tradimento della causa palestinese.
   L’incontro di Roma è storico perché è avvenuto con certezza e rimette di nuovo l’Italia nel suo ruolo di partner ravvicinato di Tripoli, ma in questi anni c’erano già stati altri abboccamenti tra libici e israeliani – che però sono rimasti nel campo del non confermato e del non detto. Nel 2021 il generale Saddam Haftar, figlio dell’uomo forte di Bengasi Khalifa Haftar e rivale del governo di Tripoli, volò con un piccolo jet Falcon dagli Emirati Arabi Uniti all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per parlare faccia a faccia con alcuni funzionari israeliani, prima di fare rotta di nuovo verso la Libia. Secondo alcuni rumor, il padre voleva sondare la possibilità di un appoggio di Israele in cambio di un accordo di normalizzazione.
   Esistono anche voci su un incontro tra Abdul Hamed Dabaiba e il capo del Mossad, David Barnea, sempre in quell’anno ma organizzato con discrezione durante una visita del libico in Giordania. Ma la notizia data dalla stampa araba fu subito smentita dallo staff del premier di Tripoli.
   Ai suoi tempi anche il colonnello Muammar Gheddafi, il dittatore della Libia ucciso nel 2011, spezzava la sua linea politica fatta di ostilità assoluta e di discorsi forti contro Israele con dichiarazioni improvvise sulla volontà di visitare Gerusalemme e di favorire una pace fra israeliani e palestinesi, ma faceva parte del suo carattere.

(la Repubblica, 28 agosto 2023)
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ULTIME NOTIZIE

Folla inferocita a Tripoli contro la ministra degli Esteri dopo l’incontro a Roma con il capo della diplomazia israeliana. Al Mangoush fugge in Turchia

Il premier Dbeibah aveva provato a smarcarsi dall’iniziativa, ma non è bastato. Assalto al ministero e tentato rogo della casa del capo del governo. La tv pubblica d’Israele: il faccia a faccia di due ore coordinato in anticipo.

di Daniele Raineri

Nella notte la ministra degli Esteri libica, Najla al Mangoush, è fuggita da Tripoli con un volo organizzato dai servizi di sicurezza libici e si è rifugiata a Istanbul, dopo che ieri pomeriggio era uscita la notizia di un suo incontro a Roma con il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen. La reazione a Tripoli è stata violenta: uomini armati hanno attaccato la sede del ministero degli Esteri e hanno anche tentato di appiccare il fuoco alle case del premier Abdel Hamid Dbeibah e del consigliere per la Sicurezza nazionale Ibrahim Dbeibah – in questo secondo caso, a giudicare dai video che arrivano dalla capitale libica, ci sono riusciti.
   Il premier libico in serata aveva tentato la mossa di un comunicato ufficiale che addossava alla ministra Al Mangoush la responsabilità dell’incontro con l’israeliano come se fosse avvenuto all’insaputa dei vertici di Tripoli, la dichiarava sospesa dal suo incarico e anche sotto indagine – ma è una versione che non regge. Un incontro a quel livello con un rappresentante del governo di Gerusalemme può succedere soltanto se c’è l’assenso dei massimi livelli e quindi anche del premier Dbeibah. Come se non bastasse, questa mattina Amichai Stein, giornalista delle tv pubblica israeliana, ha citato fonti del governo di Israele per confermare che l’incontro è durato più di due ore e che “era stato coordinato in anticipo con le istituzioni libiche più alte in grado”.
   Il colloquio in presenza è avvenuto il 23 agosto e in teoria doveva restare segreto. Per questo era stata scelta Roma, come campo neutro e amico che offriva garanzie di riservatezza. Ma ieri il ministro degli Esteri israeliano Cohen – che tra le altre cose potrebbe essere sostituito tra poco e quindi si sente agli sgoccioli del mandato – in una dichiarazione ufficiale ha detto che l’incontro è stato “storico” e potrebbe essere “il primo passo” verso una normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Davanti a una conferma esplicita era impossibile che non ci fossero problemi.
   Nel mondo arabo molti considerano questo processo di normalizzazione un tradimento spettacolare della causa palestinese, che è il motivo delle rottura – ormai da decenni – delle relazioni fra le capitali arabe e Israele. Ci sono Paesi, come gli Emirati Arabi Uniti oppure il Marocco, che hanno ricucito le relazioni e riescono a tenere a bada le reazioni interne. Ci sono altri Paesi, come la Libia, che non si possono permettere lo stesso livello di controllo. Una settimana fa, per un litigio tra fazioni armate a Tripoli ci sono stati due giorni di guerriglia urbana e cinquanta morti.
   A Roma Mangoush e Cohen hanno parlato di aiuti umanitari da parte degli israeliani, di progetti per l'agricoltura e la gestione dell’acqua e di una possibile cooperazione per salvare i siti legati alla presenza ebraica in Libia. Parlare di una possibile normalizzazione con Israele è molto prematuro: il Paese è ancora spaccato in due metà e prima di normalizzare i rapporti con l’esterno e persino con Israele dovrebbe riconciliarsi con se stesso.
   In questi anni c’erano già stati altri abboccamenti tra libici e israeliani – che però sono rimasti nel campo del non confermato e del non detto. Nel 2021 il generale Saddam Haftar, figlio dell’uomo forte di Bengasi Khalifa Haftar e rivale del governo di Tripoli, volò con un piccolo jet Falcon dagli Emirati Arabi Uniti all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per parlare faccia a faccia con alcuni funzionari israeliani, prima di fare rotta di nuovo verso la Libia. Secondo alcuni rumor, il padre voleva sondare la possibilità di un appoggio di Israele in cambio di un accordo di normalizzazione. Esistono anche voci su un incontro tra Abdul Hamed Dbeibah e il capo del Mossad, David Barnea, sempre in quell’anno ma organizzato con discrezione durante una visita del libico in Giordania. Ma la notizia data dalla stampa araba fu subito smentita dallo staff del premier di Tripoli.

(la Repubblica, 28 agosto 2023)

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Primarie USA: posizioni divergenti sugli aiuti a Israele

di Nathan Greppi

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Nell’ambito delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, uno dei punti più delicati è il sostegno economico e militare che Gerusalemme riceve da Washington ogni anno: secondo l’ultimo accordo, a partire dal 2019 lo Stato Ebraico dovrebbe ricevere 3,8 miliardi di dollari all’anno fino al 2028, quando scadrà l’accordo. Una cifra superiore ai 3 miliardi annuali del periodo 2009 – 2019 e ai 2,6 miliardi del periodo 1999 – 2009.  Tuttavia, nella politica americana queste decisioni trovano sia sostenitori che oppositori da entrambe le parti, a destra e a sinistra.

• REPUBBLICANI
  Recentemente, il tema è stato al centro di accese discussioni nel corso di un dibattito a Milwaukee trasmesso su Fox News tra otto candidati alle primarie repubblicane, in vista delle elezioni presidenziali del 2024 (l’unico a non presentarsi è stato Donald Trump, che invece è stato ospite di un programma del conduttore Tucker Carlson su Twitter).
   L’argomento è stato tirato fuori da Nikki Haley, data solo al 3% dai sondaggi per le primarie ma favorita tra gli ebrei repubblicani, soprattutto per la vicinanza a Israele dimostrata quando era Ambasciatrice americana all’ONU. In particolare, si è scagliata contro un altro dei candidati, l’imprenditore Vivek Ramaswamy, il quale ha dichiarato di voler porre fine agli aiuti a Israele qualora venisse eletto Presidente (nella foto il dibattito televisivo).
   Ramaswamy ha reagito spiegando la sua opinione sul tema: “Le nostre relazioni con Israele non saranno mai più forti di quanto lo saranno al termine del mio primo mandato”, ha detto. “Ma sarebbe un’amicizia, non un rapporto clientelare. E cosa fanno gli amici? Si aiutano reggendosi sulle proprie gambe”. Ha aggiunto che aiuterebbe lo Stato Ebraico a normalizzare i rapporti con gli Stati arabi sulla scia degli Accordi di Abramo, e che non permetterebbe mai all’Iran di dotarsi di armi nucleari.
   Nonostante le sue rassicurazioni, la Haley non ha fatto marcia indietro: “Vuole fermare le sovvenzioni a Israele. Non è quello che fai ad un amico”, ha detto. “Non è Israele che ha bisogno dell’America. È l’America che ha bisogno d’Israele”.
   Gli altri candidati repubblicani si sono astenuti dall’unirsi alla discussione tra i due, ma hanno espresso il loro sostegno a Israele con gesti simbolici: come Asa Hutchinson, già Governatore dell’Arkansas, il quale ha indossato una spilla che raffigura le bandiere americana e israeliana incrociate.

• DEMOCRATICI
  Se tra i repubblicani la maggioranza rimane a favore degli aiuti e i contrari sono casi isolati, dall’altra parte le cose stanno diversamente: ad aprile, è stata pubblicata una lettera aperta scritta dal senatore Bernie Sanders e dal deputato Jamaal Bowman, che chiedeva al Presidente Joe Biden e al Segretario di Stato Antony Blinken di terminare il sostegno militare a Israele, accusato di violazioni dei diritti umani. Da allora, la lettera ha raccolto le firme di almeno 14 parlamentari dell’ala progressista del Partito Democratico.

Non tutti a sinistra condividono questa posizione: ai primi di agosto, durante una visita ufficiale a Gerusalemme, il deputato democratico Hakeem Jeffries ha detto che i disordini scoppiati in Israele a seguito delle proteste per la riforma giudiziaria non dovrebbero influire sul sostegno da parte degli Stati Uniti. Così si è distinto anche da Biden, che ha più volte cercato di convincere il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu a fare marcia indietro sulla riforma.
   Le ragioni della divergenza tra i due partiti si possono trovare anche nei sondaggi: secondo uno studio del Pew Research Center, dal 1978 al 2018 la percentuale di repubblicani che sul conflitto israelo-palestinese stavano con Israele è salita dal 49% al 79%; di contro, la percentuale di democratici filoisraeliani è scesa dal 44% del 1978 al 27% del 2018.

(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2023)

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Smotrich: Gli Stati Uniti non hanno il diritto di predicare ad Israele sui diritti umani

Il ministro delle Finanze ha citato le guerre in Afghanistan e in Iraq per criticare quella che ha definito una posizione ipocrita.

Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha fatto lunedì dei commenti pungenti rivolti all'amministrazione Biden per le sue critiche alle politiche del governo israeliano.
   "Nessun Paese è etico come Israele e nessun esercito è etico come l'IDF. Chiunque nel mondo ci critichi è un ipocrita", ha detto il capo del Partito del Sionismo Religioso durante un'intervista alla Radio dell'IDF.
   "Nessuna nazione combatte da decenni una guerra esistenziale contro il terrorismo in modo più pulito e attento della nazione ebraica", ha continuato il ministro.
   "Non parlo nemmeno degli americani e di come hanno agito in Afghanistan e in Iraq. Non possono farci la predica sui diritti umani, né all'IDF, né a livello governativo. Questa è ipocrisia ai massimi livelli".
   La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha combattuto in Iraq dal 2003 al 2011, mentre il conflitto armato in Afghanistan è durato dal 2001 al 2021, quando l'ultimo aereo militare americano ha lasciato il Paese il 30 agosto.
   Smotrich ha parlato in riferimento alle critiche degli Stati Uniti a una recente dichiarazione del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, secondo cui il diritto alla vita della sua famiglia prevale sulla libertà di movimento degli arabi in Giudea e Samaria.
    "Il mio diritto, quello di mia moglie e dei miei figli, di circolare sulle strade della Giudea e della Samaria è più importante del diritto di movimento degli arabi. Il diritto alla vita viene prima della libertà di movimento", ha dichiarato Ben-Gvir la scorsa settimana.
   Le osservazioni hanno suscitato un'ampia condanna, con un portavoce del Dipartimento di Stato americano che le ha definite "infiammatorie" e "razziste".
   Tuttavia, secondo una dichiarazione dell'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, il messaggio che Ben-Gvir intendeva trasmettere era che il diritto alla vita ha la precedenza sulla libertà di movimento e si collocava nel contesto di una serie di attacchi terroristici mortali perpetrati da palestinesi contro civili israeliani.
   I commenti di Smotrich di lunedì hanno attirato il rimprovero di Alon Liel, ex direttore generale del Ministero degli Esteri.
   "Queste chiacchiere sono un mezzo suicidio dal punto di vista diplomatico. Costringerà Biden a peggiorare le relazioni con il governo Netanyahu", ha dichiarato Liel alla IDF Radio.
   Liel sostiene il boicottaggio delle comunità israeliane in Giudea e Samaria e ha appoggiato il rifiuto di Alice Walker di far tradurre in ebraico il suo libro Il color porpora e altri boicottaggi culturali di Israele.
   Durante l'intervista, Smotrich ha reagito favorevolmente a un potenziale accordo di normalizzazione con l'Arabia Saudita, ma ha sottolineato che Israele non accetterà di fare alcun "gesto" verso i palestinesi come parte di un accordo.
   La settimana scorsa l'amministrazione Biden ha detto al governo israeliano che avrebbe dovuto fare notevoli concessioni ai palestinesi se un accordo con l'Arabia Saudita, mediato dagli Stati Uniti, avesse avuto successo.
   Il Segretario di Stato Antony Blinken ha detto al Ministro degli Affari Strategici Ron Dermer, in visita a Washington il 17 agosto, che il governo israeliano sta "fraintendendo la situazione" se presume di non dover fare concessioni, hanno dichiarato due funzionari statunitensi ad Axios.
   L'Arabia Saudita dovrà dimostrare ai musulmani di tutto il mondo di essere riuscita a strappare a Israele promesse sui palestinesi in cambio di un accordo di normalizzazione con Riyad, ha detto Blinken.

(Jewish News Syndacate, 28 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele. Restrizioni per le organizzazioni cristiane evangeliche

In un contesto di crescenti tensioni tra le comunità religiose, il governo israeliano sta rivalutando le sue politiche sui visti per le organizzazioni cristiane evangeliche, inclusa l’Ambasciata cristiana internazionale a Gerusalemme. La mossa fa seguito a un’ondata di visti negati agli evangelici e si inserisce in un contesto di crescenti tensioni tra le comunità religiose nel Paese.

Le autorità israeliane sono in trattative per stabilire nuove procedure di visto per il personale permanente di organizzazioni cristiane come ICEJ, Bridges for Peace e Christians United for Israel, ha riferito Al-Monitor, citando un portavoce dell’Autorità israeliana per la popolazione e l’immigrazione.
   In Israele, le organizzazioni evangeliche si concentrano principalmente su opere di beneficenza, tra cui la promozione dell’immigrazione e la fornitura di assistenza ai sopravvissuti all’Olocausto; in particolare l’ICEJ – organizzazione attiva in Israele dal 1980 con filiali in oltre 90 paesi, ha svolto un ruolo significativo nell’aiutare gli ebrei a immigrare in Israele – ha uno staff permanente di 40 persone a Gerusalemme ed è coinvolta in vari progetti di beneficenza e di rafforzamento della resilienza in Israele. Dall’epidemia di Covid-19 scoppiata nel 2020, l’organizzazione ha incontrato difficoltà nell’ottenere i visti per il personale.
   Sotto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, le autorità israeliane hanno anche smesso di rilasciare visti al clero che fa riferimento alla ICEJ, poiché il Ministero degli Interni israeliano ha recentemente dichiarato che il gruppo non soddisfa i criteri per essere considerato un’organizzazione religiosa.
   «Siamo stati lentamente estromessi dal Ministero degli Interni [israeliano]», ha detto ad Haaretz David Parsons, vicepresidente del gruppo. Parsons ha incontrato il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen quattro mesi fa, ma la situazione è rimasta invariata. Al Jerusalem Post ha riferito che le autorità israeliane hanno concesso visti per volontari con rigide limitazioni invece di visti per lavoro o per il clero.
   La questione dei visti si verifica nel contesto della crescente violenza contro i siti cristiani e il clero in Israele.
   Il presidente Isaac Herzog ha recentemente visitato il monastero Stella Maris di Haifa, meta di giovani ultraortodossi. Venerdì scorso a migliaia di cristiani ortodossi è stato negato l’accesso alla chiesa della Trasfigurazione sul monte Tabor a causa del presunto rischio di incendio, nonostante accordi precedenti.
   Il rev. Jerry Pillay, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, ha affermato in una dichiarazione rilasciata questa settimana che la negazione del culto e le restrizioni alla vita cristiana in Israele sono inaccettabili. «Il Consiglio ecumenico delle Chiese chiede al governo di Israele di consentire il libero svolgimento del culto cristiano e degli eventi comunitari e di proteggere i diritti di libertà religiosa per tutte le persone», ha dichiarato Pillay.
   Anche altre organizzazioni evangeliche hanno dovuto affrontare difficoltà in materia di visti, lasciando i sostenitori perplessi date le relazioni storicamente forti con i governi di destra di Israele.
   Secondo un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica, i cristiani costituiscono circa il 2% della popolazione israeliana, di cui il 75,8% sono arabi cristiani. I legislatori del partito israeliano United Torah Judaism avevano proposto un disegno di legge che criminalizzava l’evangelizzazione cristiana, che Netanyahu aveva detto a marzo non sarebbe stato approvato. Le leggi esistenti già limitano l’evangelizzazione ai minori e prevedono il carcere come incentivi finanziari per la conversione.
   Il patriarca latino Pierbattista Pizzaballa ha segnalato un aumento degli attentati nel quartiere cristiano, attribuendolo ad estremisti ebrei radicali. Durante la Settimana Santa di Pasqua, il numero di persone ammesse nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme è stato ridotto da 10.000 a 1.800, per motivi di sicurezza.

(Riforma.it, 28 agosto 2023)

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L’Atteggiamento silente dello Stato: dubbi e preoccupazioni crescono dopo i cicli di vaccinazione

di Matteo Lauria

Nel tempo le vaccinazioni sono state considerate l’arma principale per sconfiggere la pandemia di Covid-19. Molti di noi, me incluso, vedevano nei vaccini una speranza di ritorno alla normalità. Affidandoci alla scienza e all’informazione dei media, abbiamo accolto con fiducia le dosi che ci sono state somministrate. Io stesso ho sostenuto le vaccinazioni, cercando di respingere le voci scettiche e di confutare le argomentazioni dei “no vax”, pur ritenendo la loro posizione radicale.
   Tuttavia, il quadro sta mutando e con esso anche i nostri dubbi e le nostre preoccupazioni.  Da tempo si stanno facendo strada sempre più segnalazioni di disturbi e patologie in aumento dopo i cicli di vaccinazione. Questo fenomeno sta scuotendo la fiducia che molti di noi avevano riposto nei vaccini come soluzione definitiva.
   Ma ciò che desta maggiore preoccupazione è l’atteggiamento silente dello Stato. I nostri governanti, i rappresentanti eletti e le istituzioni sembrano fare orecchie da mercante di fronte a questo crescente numero di segnalazioni. È come se volessero ignorare ciò che sta accadendo, come se le voci di coloro che stanno vivendo queste esperienze fossero semplicemente ignorate. Ecco dove risiede la perplessità: non nell’incertezza stessa, ma nel modo in cui è affrontata.
   In un momento in cui la fiducia nella scienza e nelle istituzioni è fondamentale, ci si aspetterebbe una risposta più attiva da parte dello Stato. La mancanza di trasparenza e la tendenza a minimizzare o ignorare i segnali di allarme non contribuiscono a rafforzare la fiducia, bensì a minarla ulteriormente. Quando i cittadini vedono che le proprie preoccupazioni vengono trascurate, l’ansia e la sfiducia aumentano.
   Non sto avanzando ipotesi complottiste né negando l’importanza dei vaccini come strumento di lotta contro la pandemia. Al contrario, sto sottolineando l’importanza di affrontare le preoccupazioni legittime con apertura e responsabilità. Lo Stato ha il dovere di monitorare attentamente le segnalazioni di effetti collaterali e di comunicare in modo chiaro e onesto con la popolazione.
   Questo non significa creare panico o mettere in dubbio l’importanza dei vaccini,  piuttosto affrontare la realtà con trasparenza. Solo così possiamo affrontare le sfide emergenti in modo efficace e garantire che la fiducia nella scienza e nelle istituzioni non venga erosa ulteriormente. I cittadini hanno il diritto di conoscere la verità e di sentirsi ascoltati, soprattutto in un momento così critico per la nostra salute e il nostro futuro.

(Informazione e Comunicazione, 26 agosto 2023)

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Fiducia nella scienza e nelle istituzioni?

“Affidandoci alla scienza e all’informazione dei media, abbiamo accolto con fiducia le dosi che ci sono state somministrate.”
  Indubbiamente ammirevole l’onesto candore con cui l’autore del precedente articolo rende nota la sua scelta vaccinale e i motivi per cui l’ha fatta. D’altra parte, chi dà fiducia a qualcuno deve sapere che si assume una responsabilità, esattamente come quel qualcuno che ritiene di avere il diritto di riceverla per la semplice posizione che occupa. Chi dà fiducia affinché un bene sia ottenuto, ha poi l’obbligo di verificare se quella fiducia è stata onestamente ripagata e il bene promesso è stato effettivamente ottenuto.
   Lo scambio di fiducia si basa sulla conformità al vero delle parole usate, quindi ogni inserimento di dichiarazioni menzognere mina alla radice questa fiducia. Nel caso della politica vaccinale, istituzioni pubbliche e media hanno fatto un uso massiccio di menzogne. Dichiarate, confermate, ripetute e sfacciatamente negate con l’aggiunta di altre menzogne. Alle menzogne usate nella promessa del raggiungimento del bene, si sono aggiunte le menzogne nella verifica del bene che si sarebbe dovuto ottenere. Oppure silenzi, rinvii, sviamenti, sempre al fine di mantenere il tutto in uno stato di indistinto polverone, da cui emergessero soltanto precise norme di cui richiedere la stretta osservanza.
   “Da tempo si stanno facendo strada sempre più segnalazioni di disturbi e patologie in aumento dopo i cicli di vaccinazione” . Naturalmente ci si aspetterebbe che questo sollevasse attenzione nelle autorità che hanno mostrato tanto interesse per il bene della popolazione. E invece no:
  “È come se volessero ignorare ciò che sta accadendo, come se le voci di coloro che stanno vivendo queste esperienze fossero semplicemente ignorate”. Chissà perché? Se lo chiede l’autore? No, riferisce soltanto una stranezza. Forse perché pensa, come probabilmente molti altri, che porsi la domanda potrebbe implicare di dover cercare qualche risposta, col rischio di trovarne una un po’ imbarazzante, anche per se stesso: e allora forse è meglio lasciar correre e pensare ad altro.
   Ecco, è probabilmente su un diffuso atteggiamento rinunciatario di questo tipo che contano le autorità istituzionali e informative per ottenere di non dover rendere conto di quello che hanno fatto nel passato e intendono fare nel futuro: alla fine tutti si adegueranno e lasceranno fare senza porre tanti problemi.
   Chi pone domande sul tema dei vaccini è sempre esposto al rischio di essere dichiarato “complottista”. Qualcuno prima o poi forse spiegherà che cosa significa in concreto questo termine applicato a questo preciso argomento, a parte il suo valore di insulto discreditante.
   Non c’è bisogno di invocare nessun complotto, o fare una diffidente dietrologia. Quello che si può dire è che con quei particolari farmaci chiamati “vaccini” si è formata una catena di interessi così grande, così estesa, così ramificata nei vari centri di potere, da non potersi individuare una sola causa generante il tutto. La dimensione del fenomeno la rende anche molto difficile da arrestare per la grandezza degli interessi finanziari in gioco, la diffusione delle persone coinvolte negli interessi (multinazionali farmaceutiche, ricercatori, commercianti internazionali, autorità politiche, classi mediche, ecc.), per i vantaggi che possono riceverne in caso di collaborazione, o per i pericoli che possono correre in caso di resistenza.
   Dal punto di vista commerciale, per i venditori i vaccini sono “galline dalle uova d’oro”: hanno una resa economica che non ha paragone con altri farmaci.
   Nei casi normali, per dare un farmaco:

  1. si deve avere qualche male presente (bisogna essere malati, in senso lato);
  2. la scelta del farmaco avviene tra quelli che agiscono su quel male presente;
  3. dopo la somministrazione del farmaco si può verificare se  ha funzionato o no.

Nel caso dei vaccini queste tre regole non valgono. Per dare un vaccino:

  1. non è necessario avere alcun male presente (malati e sani possono essere tuti vaccinati);
  2. non è fatta alcuna scelta di vaccini perché potenzialmente agiscono su tutti;
  3. dopo la somministrazione del vaccino non si può mai dire se ha funzionato o no.

Quello che si vende assomiglia in sostanza a un’assicurazione sulla sanità: “Se assumi questo vaccino hai maggiori probabilità di non ammalarti”. Se poi invece ti ammali, non pensare di poter avere degli indennizzi, e nemmeno poter dire che il vaccino non ha funzionato, e meno che mai che è per il vaccino che ti sei ammalato. E’ successo. Punto. Le conseguenze sono affari tuoi.
   Concludo dicendo che oggi, dopo tutto quello che è successo nei tre anni scorsi, davanti ad altre sempre più probabili offerte di vaccini proteggi-tutto non si può più in buona coscienza “fidarsi” di quello che ti offrono o addirittura ti impongono. Per ognuno è dovere, prima ancora che diritto, richiedere chiarezza, coerenza e prove di onestà. E se ai tempi dei lockdown si invitavano le persone a farsi vaccinare per il bene comune, adesso bisogna invitare le persone a cercare il bene comune non accettando di farsi vaccinare come semplice atto di fiducia (o di sottomissione) ad autorità istituzionali o mediche che abbiano già dato prova di essere inaffidabili.
   Chi favorisce il diffondersi della menzogna ne è corresponsabile. M.C.

(Notizie su Israele, 27 agosto 2023)

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Maria, figlia d’Israele

Come reazione al mondanismo paganeggiante di papa Bergoglio, considerato da alcuni come falso papa e da altri addirittura come precursore dell'Anticristo, molti cattollici smarriti sono pronti a riscoprire forme tradizionali di religiosità popolare oggi cadute in disuso. Tra queste risalta in particolare un culto della Madonna presentato quasi come antidoto al globalismo paganeggiante dell'attuale papa. L'argomeno meriterebbe si essere trattato in profondità, ma qui si vuole soltanto avvertire che l'alternativa globalismo-marianesimo è una delle tante trappole "double face" artisticamente costruite dal Maligno in modo che chi fugge dall'una vada a cadere nell'altra. Le due facce sono entrambe diaboliche, ed entrambe sono destinate a rivelare nella storia il loro contenuto fondamentalmente antiebraico, ma gli antiglobalisti cattolici che cercano rifugio nel marianesimo saltano dalla padella del paganesimo globalista nella brace di una religione popolare cattolica che esprime da secoli un antisemitismo inconciliabile con la persona di Gesù.

di Marcello Cicchese

  1. Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra
  2. e in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore,
  3. il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine,
  4. patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto;
  5. discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte;
  6. salì al cielo, siede alla destra di Dio, Padre onnipotente:
  7. di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
  8. Credo nello Spirito Santo,
  9. la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi,
  10. la remissione dei peccati,
  11. la risurrezione della carne,
  12. la vita eterna. Amen.

Si tratta del famoso documento noto come “Credo apostolico”, anche se è chiaro che gli apostoli biblici non c’entrano per nulla. E questo per un motivo molto semplice: perché gli apostoli erano ebrei, mentre questo venerando testo può essere considerato come uno dei più antichi documenti che sono serviti come base teologica dell’antisemitismo cristiano. “Ma se gli ebrei non sono neppure nominati”, potrebbe obiettare qualcuno. “Appunto”, è la risposta. Un documento che pretende di racchiudere sinteticamente gli elementi fondamentali della fede cristiana e non sente il bisogno di nominare personaggi come Abraamo, Isacco, Giacobbe, Mosè e Davide, manifesta per questo semplice fatto la volontà di cancellare il ricordo d’Israele dall’annuncio cristiano. E se questa è la volontà, la presenza di concreti ebrei nella vita di tutti i giorni non può che costituire una fastidiosa rievocazione da tentare di rimuovere in tutti i modi possibili. E per cancellare il ricordo, la cosa migliore è cancellare le persone.
   Si sostiene giustamente che il cristianesimo è una fede storica, cioè basata su fatti avvenuti nella storia. Ebbene, l’unico personaggio storico che compare in questo documento dogmatico è – a parte il “laico” Ponzio Pilato – una certa “Maria Vergine”. Il documento non dice chi è questa donna, da dove viene, perché è stata scelta. Si direbbe che Dio entri per la prima volta nella storia attraverso questa donna. Certo, nell’insegnamento cattolico si spiega che questa donna è ebrea, che appartiene al popolo d’Israele, ma questo non ha importanza, o meglio: ha un’importanza soprattutto negativa, come vedremo fra poco.
   Nella comprensione popolare il cristianesimo comincia il giorno di Natale. A Natale infatti nasce il Cristo, e quindi lì nasce il cristianesimo. Ad accogliere il Cristo, anzi a metterlo al mondo, c’è una donna eccezionale: Maria. E di fatto è eccezionale, perché anche il Vangelo lo attesta. Ma perché? A questa domanda pretende di rispondere il culto mariano, presentando Maria come donna concepita senza peccato, come persona il cui corpo dopo la morte non ha conosciuto la corruzione perché è stata assunta direttamente in cielo, e con altre caratteristiche che la fanno diventare un essere a metà fra l’uomo e Dio. Che c’entra Israele con tutto questo? Niente, risponderebbe probabilmente un devoto cattolico cresciuto nell’insegnamento della sua chiesa, perché in effetti si fa fatica a collegare in qualche modo il culto mariano con Israele. Tuttavia il collegamento c’è: la Maria cattolica sottolinea il fatto che Israele rappresenta il passato, un passato negativo da cui bisogna ripartire voltando pagina.
   Nel giorno di Natale, la festa da molti considerata come la più importante delle feste cristiane, i fedeli si dividono: chi fa il presepio e chi fa l’albero. Alcuni dicono: l’albero è pagano. Ed è vero. Il presepio, invece, sembra più “cristiano”. Ma è così? Il quadro bucolico fatto di pastori, pecore, grotta, mangiatoia, stella e magi d’Oriente, è commovente, ma in tutta questa poesia ci si potrebbe anche dimenticare che la scena avviene in Israele. E invece il riferimento a Israele c’è: sta in quei due dolci animali che con il loro fiato riscaldano l’infreddolito Bambino: il bue e l’asinello. Sono un muto riferimento a una parola del profeta Isaia:

    “Il bue conosce il suo possessore, e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha discernimento” (Isaia 1:3).

Il messaggio subliminale è semplice: il bue e l’asino sanno riconoscere in Gesù il Messia, ma Israele no. E in questo modo il discorso con Israele è chiuso e il messaggio antisemita è partito. Da quel momento in poi la figura di Maria è rivolta verso il futuro, verso la costituzione del nuovo popolo di Dio che sostituirà Israele: la “Chiesa”. L’ebrea Maria diventa la pagana Madonna, sostituzione e sintesi di innumerevoli divinità femminili adorate in tutto il mondo. Non si potrebbe immaginare niente di più antitetico alla spiritualità biblica del culto della Madonna, eppure è proprio questa figura che è diventata inscindibile dalla dottrina cattolica. La vergine Maria è tipo della “Chiesa”. Come la Maria terrena un giorno ha fatto nascere Gesù, così oggi la Madonna celeste sostiene la “Chiesa” che porta nel suo seno il Gesù spirituale offerto agli uomini. La “Chiesa” è madre come Maria è madre. E se Gesù esprime l’umanizzazione di Dio, la “Chiesa”, di cui Maria è tipo, esprime la divinizzazione dell’uomo. La “Chiesa” si considera partecipe della divinizzazione che venera nella figura della Madonna. Questi concetti sono bene espressi da un noto autore cattolico (Gianni Baget Bozzo, Il futuro del Cattolicesimo):

    «La mariologia ha un ruolo essenziale nel Cattolicesimo, come nell'Ortodossia. Essa fa parte essenziale della visione cattolica del mondo che, nella figura storica di Maria di Nazaret, legge la figura stessa dell' umanità divinizzata in quanto distinta dal Verbo Incarnato. Proprio perché Gesù è Dio e uomo, rivelatore e redentore, occorre che un' altra figura esprima l'umanità in quanto divinizzata dall'unione della natura umana e divina nel Figlio. Maria rappresenta la figura del cristiano innanzi a Cristo.
    Nel Cattolicesimo, e ancor più nell'Ortodossia, la natura umana è divinizzata dal Cristo, che è come uomo e Dio, la forma e la causa della divinizzazione compiuta attraverso lo Spirito Santo. Conviene che anche l'umanità, in quanto divinizzata, appaia in una persona, che esprima la unità e la differenza dell'umanità divinizzata rispetto al Cristo. La realtà di una funzione universale è sempre espressa nel Cattolicesimo mediante il volto di una persona. Come Pietro rappresenta l'unità della Chiesa nel mondo come popolo di Dio, Maria esprime la realtà divino umana della Chiesa innanzi al Cristo. La Chiesa non è solo il popolo cristiano sulla terra, affidato a Pietro, è anche il popolo cristiano nella grazia e nella gloria divina. Pietro esprime l’unità della Chiesa nella storia, Maria esprime l’unità della Chiesa innanzi alla Trinità la sua realtà escatologica. Per questo essa è l’Immacolata e l’Assunta. I privilegi mariani indicano la persona che esprime in sé la realtà escatologica della Chiesa. Maria è perciò la persona della Chiesa sul piano mistico ed escatologico, manifesta la differenza tra Creatore e creatura nella divinizzazione dell’uomo.»
Al contrario della Madonna pagana, la Maria biblica è una figura rivolta verso il passato, un passato che appartiene a Israele perché contiene le promesse di Dio ad Abraamo, il cui compimento è annunciato nelle parole dell’angelo Gabriele:

    “L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre. Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine». Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?» L’angelo le rispose: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace»” (Luca 1:30-37).

In questo annuncio si parla del trono di Davide, della casa di Giacobbe, di un regno che non avrà mai fine, tutte parole che hanno significato soltanto all’interno della storia d’Israele perché si riferiscono a promesse che Dio aveva fatto a quel popolo. Maria non è la futura Madonna delle apparizioni pagane, ma la vergine di cui nel passato aveva parlato il profeta Isaia:

    “Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele.” (Isaia 7:14).

Ed era un segno dato alla casa di Davide (Isaia 7:13), come promessa e garanzia che, nonostante le disubbidienze del popolo che avrebbero portato ai disastri prodotti dagli Assiri e dai Babilonesi, Dio avrebbe mantenuto le sue promesse di consolazione fatte al popolo d’Israele. Di questo è consapevole la giovane ebrea Maria quando declama, sotto l’impulso dello Spirito Santo, quel magnifico inno che non è generica poesia, ma frutto maturo di una fede intrisa di riferimenti biblici alle promesse fatte a Israele:

    “E Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato alla bassezza della sua serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatte il Potente. Santo è il suo nome; e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su quelli che lo temono. Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servitore, ricordandosi della misericordia, di cui aveva parlato ai nostri padri, verso Abraamo e verso la sua discendenza per sempre»” (Luca 1:46-55).

Maria, con parole solenni che richiamano il biblico cantico di Anna (1 Samuele 2:1-10), volge il suo sguardo verso il passato di Israele, un passato in cui risalta la misericordia di Dio promessa ai padri, di cui adesso, dopo tanti secoli di silenzio, Egli si ricorda venendo in soccorso di Israele, suo servitore. Nel lodare il Signore per la venuta sulla terra del Servo-Messia viene dunque menzionato anche il servo-popolo. E’ vero che, come sappiamo dal resto dei racconti dei Vangeli, la generazione dei superbi nei pensieri del loro cuore che guidavano in quel tempo il servo-popolo rigetterà il Servo-Messia, ma è significativo che il termine “servo” al femminile sia usato anche per Maria:

    “Maria disse: «Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola»” (Luca 1:38).

Dopo l’annuncio dell’angelo e prima del divino concepimento, Maria si riconosce come la serva del Signore, applicando a se stessa un titolo di alto significato profetico, e si dichiara pronta ad essere ubbidiente alla parola di Dio. Il Signore mostra di gradire questa umile espressione di ubbidienza della sua serva e mette in atto la parola annunciata dall’angelo. Per questo Maria esulta in Dio, suo Salvatore, perché nell’avvenuto concepimento riconosce che Dio ha guardato alla bassezza della sua serva.
   Maria non rappresenta allora la futura “Chiesa” divinizzata e trionfante, ma l’umile residuo fedele d’Israele che confessa il suo peccato, esulta in Dio per la sua misericordia e accoglie il Messia come suo Salvatore. I superbi nei pensieri del loro cuore che Dio ha disperso sono i capi di Israele che rifiutano di accogliere il Messia; e i potenti che Egli ha detronizzato sono capi delle nazioni che rifiutano di riconoscere in Israele il servo del Signore, il popolo che Egli si è formato per dare gloria al suo nome e portare salvezza al mondo. Maria rappresenta le acque di Siloe che scorrono placide (Isaia 8:6), disprezzate dal resto del popolo e tuttavia presenti al suo interno, rappresenta i mansueti di Israele che un giorno erediteranno la terra (Salmo 37:11), secondo le promesse fatte da Dio ad Abraamo (Genesi 13:17, 15:18-21, 16:8).
   L’ultima volta che s’incontra Maria nei testi biblici è nel libro degli Atti, subito dopo l’ascensione di Gesù:

    “Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell’Uliveto, che è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato. Quando furono entrati, salirono nella sala di sopra dove di consueto si trattenevano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d’Alfeo e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo. Tutti questi perseveravano concordi nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù e con i fratelli di lui.” (Atti 1:12-14).

Dopo di che Maria sparisce dall’orizzonte biblico e non viene più nominata in tutto il resto del Nuovo Testamento. Dire questo non significa togliere onore alla madre di Gesù, ma riconoscerne la vera natura, che non sta nell’essere madre della Chiesa, ma nell’essere figlia di Israele, figlia benedetta che nella benedizione ricevuta vede compiersi la promessa fatta da Dio ad Abraamo: “… ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:2).
   Il culto della Madonna rappresenta dunque la forma più alta di autoesaltazione della chiesa cattolica, che considera “il ruolo della Vergine Madre come espressione e quindi custode perenne dell’identità ecclesiale, del Cattolicesimo della Chiesa cattolica”. E questo naturalmente avviene in contrasto mortale con Israele, perché la Madonna cattolica deve far dimenticare che la Maria biblica è figlia d’Israele, espressione umile di quel residuo fedele che secondo le promesse di Dio non mancherà mai nel popolo che Egli si è formato (cfr. p.es. 1Re 19:18, 2Re 19:31, Isaia 10:20, Ezechiele 14:22, Romani 11:5).
   La figura semidivinizzata della Madonna pagana è un’espressione eloquente di  quella superbia dei gentili contro cui mette in guardia l’apostolo Paolo nella sua epistola ai Romani (Romani11:18). Anche senza pensare alle forme popolari di culto idolatrico ben conosciute, la semplice formulazione dottrinale della mariologia contiene i germi di un antisemitismo pratico che nessuna dichiarazione di simpatia o amore per gli ebrei può mitigare. Viceversa, una comprensione attenta e profonda della figura biblica di Maria conduce a un amore per il popolo d’Israele che nessuna vera o presunta iniquità degli ebrei può spegnere.

(da “La superbia dei Gentili”)


 

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Gli agenti di sicurezza palestinesi sono diventati "facile preda” dei terroristi

Gli agenti cercano di trovare altre fonti di reddito

Gli alti responsabili politici palestinesi a Ramallah, guidati dal presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, hanno avvertito che gli agenti di sicurezza palestinesi sono diventati "facile preda” dei terroristi.
Ciò è dovuto al disagio finanziario di questi ufficiali che stanno cercando fonti di reddito alternative - una situazione sfruttata da Hamas e Hezbollah.
Poiché gli agenti ricevono un pagamento parziale dei loro stipendi, molti si dedicano ad attività illegali per integrare le loro entrate e collaborano anche con elementi criminali.
Inoltre, Hamas, Jihad islamica e Hezbollah stanno cercando di reclutare membri dell'apparato di sicurezza palestinese, con l'obiettivo di trasferire informazioni e armi.
All'inizio di questo mese, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso una serie di misure a sostegno dell'Autorità palestinese, in linea con le raccomandazioni del Ministero della Difesa e con le promesse fatte da Israele agli Stati Uniti.

(i24, 26 agosto 2023)

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Nuovo pragmatismo in Medio Oriente

Quando gli arci-rivali si stringono la mano: Il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita ha sorpreso molti. Dietro la mossa c'è un calcolo di Stato di fronte alle nuove circostanze.

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Negli ultimi mesi una sorta di spirito di ottimismo ha investito il Medio Oriente. E questo nel senso letterale del termine: alcuni Stati che finora si erano tenuti a distanza si stanno avvicinando l'uno all'altro. A marzo ha fatto scalpore l'annuncio di una normalizzazione tra gli arci-rivali Arabia Saudita e Iran, con la mediazione della Cina. Inoltre, a metà maggio l'uomo forte siriano Bashar al-Assad ha festeggiato il suo ritorno alla Lega Araba dopo oltre un decennio.
   Questi sviluppi non significano che le rivalità siano scomparse, né che nell'area si sia diffuso uno spirito di amicizia tra le nazioni. I riavvicinamenti fanno pensare a un principio della politica: gli Stati di solito agiscono nel proprio interesse. Questo interesse nazionale è determinato dall'abbondanza di potere di un Paese, ma anche dai suoi vincoli. A volte fa sì che gli arci-rivali si stringano la mano, senza che le differenze ideologiche o religiose siano diminuite.

• Posto vuoto americano
  Negli ultimi anni gli americani hanno creato nuovi vincoli: gli Stati Uniti non sono più presenti in Medio Oriente come un tempo. Secondo i suoi stessi dati, Washington ha ritirato circa l'85% delle sue truppe dalla regione rispetto al 2008; solo nel 2022, il tasso di ritiro è stato del 15%. Gli Stati Uniti seguono il loro interesse: il Paese non vuole più apparire come la forza di polizia del mondo come nei decenni precedenti. Inoltre, l'attenzione è ora rivolta alla regione del Pacifico con l'emergente Cina.
   Gli Stati Uniti assicurano di rimanere impegnati in Medio Oriente: L'obiettivo è ancora quello di impedire una bomba nucleare iraniana. Ma i Paesi che vogliono una forte presenza statunitense - in particolare l'Arabia Saudita - si sono resi conto che qualcosa sta cambiando: il ritiro americano significa che i Paesi della regione devono gestire le loro relazioni in modo più indipendente.
   Gli accordi di Abramo tra Israele e alcuni Paesi arabi alla fine del 2020 sono un'espressione di questo sviluppo. Ora è il turno della Siria, che - anche a causa del fallimento delle iniziative di pace nella guerra civile - era isolata nel mondo arabo. Ma nel novembre 2021 il ministro degli Esteri emiratino, lo sceicco Abdullah Bin Sajed, si è recato a Damasco per la prima volta dopo oltre un decennio. Il suo omologo egiziano Samih Shukri è venuto alla fine di febbraio di quest'anno per una visita di solidarietà dopo il grave terremoto. A metà maggio il sovrano siriano Al-Assad si è recato al vertice della Lega Araba a Gedda, in Arabia Saudita, con grande disappunto dei Paesi occidentali che non vogliono vedere il regime riabilitato.
   Tuttavia, l'attenzione non deve essere intesa come un'assoluzione: I Paesi arabi hanno semplicemente interesse a sottrarre la Siria alla presa dell'Iran. Come è noto, il regime è sopravvissuto alla guerra civile solo grazie all'aiuto di Iran e Russia. Ma Al-Assad vuole anche ridurre la sua dipendenza da Teheran. L'Iran, nel frattempo, non ha perso l'occasione di mostrare il suo interesse per la Siria: all'inizio di maggio, nientemeno che il presidente Mohammed Raisi si è recato a Damasco - anche questa è stata la prima visita di questo tipo dallo scoppio della guerra civile nel marzo 2011.

• Il bisogno di pace dei cinesi
  Il culmine del riavvicinamento è rappresentato dall'accordo tra Iran e Arabia Saudita. I due Paesi stanno sostanzialmente lottando per la supremazia nella regione. Ma nel gennaio 2016 c'è stata una spaccatura: l'Arabia Saudita ha giustiziato il chierico sciita Nimr al-Nimr per aver criticato il regime. Le proteste sono scoppiate in molte città del mondo. A Teheran, i manifestanti hanno lanciato un ordigno incendiario contro l'ambasciata saudita. Di conseguenza, l'Arabia Saudita ha interrotto le relazioni con l'Iran.
   La Cina ha mediato il riavvicinamento che ora ha avuto luogo. Nel frattempo, il "Regno di Mezzo" ha perseguito le proprie preoccupazioni: Nell'attuale fase della sua esistenza come Stato, il Paese punta soprattutto alla pace. La Cina vuole espandere le proprie relazioni economiche; i conflitti regionali con la minaccia di una guerra non fanno che interferire con questo obiettivo. Inoltre, Pechino era interessata al prestigio della mediazione: la Cina poteva distinguersi come peso massimo diplomatico e quindi superare in qualche misura gli Stati Uniti.
   L'Arabia Saudita ha rinunciato a una richiesta per l'accordo: prima di un riavvicinamento, l'Iran dovrebbe porre fine al suo sostegno ai ribelli huthi nello Yemen. Per il momento, Riyadh sembra avere in mente obiettivi più importanti: In primo luogo, i sauditi condividono con la Cina l'interesse alla calma. Vogliono riposizionarsi economicamente e socialmente con il progetto "Vision 2030". Pertanto, non hanno interesse a inasprire i conflitti.
   Inoltre, agiscono secondo il motto che è proprio il nemico a dover essere tenuto vicino. Ciò avviene, ad esempio, investendo in progetti infrastrutturali in Iran. Solo pochi giorni dopo l'accordo di Pechino, il ministro delle Finanze saudita Mohammed al-Jada'an ha dichiarato che tali investimenti potrebbero arrivare "molto rapidamente". I progetti possono suscitare simpatia popolare, ma possono anche servire da leva: Se l'Iran crea problemi, i progetti saranno cancellati.
   Resta da vedere se l'Iran sarà all'altezza delle speranze. Negli ultimi anni, ha sostenuto gruppi terroristici nella regione e quindi - per usare un eufemismo - ha causato disordini. Se si avvicinerà all'uranio per uso militare, le sue minacce potrebbero diventare più pesanti. D'altra parte, la dipendenza dalla Cina è aumentata drasticamente di recente: a seguito delle sanzioni ONU dal 2006 al 2015, il Paese dell'Asia orientale è diventato il principale partner commerciale. Pechino ha quindi un'influenza su Teheran. Al contrario, l'Iran vede la Cina come un partner per un nuovo ordine mondiale non più dominato dall'America.

• Opportunità per Israele 
  Alla luce di questi sviluppi, è probabile che anche Israele adotti una posizione pragmatica - che altro del resto? L'Iran e i sauditi sono ben lontani dal fare causa comune contro Israele. Al contrario: per i sauditi, l'eventuale riavvicinamento a Israele è un tiro contro l'Iran, poiché è improbabile che questo passo sia gradito ai mullah.
   Lo Stato ebraico condivide con la Cina l'interesse per la pace, nonostante tutte le altre differenze di opinione e di diritti umani. Non da ultimo, la Cina ha investito in progetti in Israele, come la costruzione della metropolitana di Tel Aviv. Questo va di pari passo con l'interesse a non mettere in pericolo questi progetti attraverso il terrorismo. Ciò non fa dei cinesi una potenza protettrice: questo ruolo è ancora svolto dagli Stati Uniti.
   Una giornata di giugno a Teheran: il ministro degli Esteri saudita Bin Farhan e il suo omologo iraniano Abdollahian mostrano la loro volontà di riavvicinamento.

(Israelnetz, 26 agosto 2023) - trad. www.ilvangelo-israele.it

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Diamante. Il sindaco Magorno ha incontrato i rabbini Moshe e Menachem Lazar

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Sentimenti di profonda amicizia e cordialità hanno caratterizzato l’incontro di giovedì 24 agosto, il Sindaco di  Diamante, Ernesto Magorno, ha avuto con il  Rabbino Moshe Lazar, esponente del movimento Chabad da Milano, nonché da sessant’anni insegnante in Calabria per portare il cedro di Diamante nel mondo, e con il Rabbino Menachem Lazar, direttore del centro ebraico Chabad nella zona di Piazza Bologna a Roma.
   Presente all’appuntamento il Presidente dell’Accademia Italiana del Peperoncino, Enzo Monaco. Nel corso dell’incontro è stato ripercorso lo storico e significativo  legame che la città di Diamante e tutto il  territorio della “Riviera dei Cedri” hanno con la comunità ebraica.
   “Legame che – ha evidenziato  il Sindaco nell’accogliere gli ospiti –  ha nel cedro un basilare elemento religioso, culturale ed economico di scambio e di sincera amicizia. La visita di ieri – per la quale il Sindaco ringrazia il Rabbino Mashe Lazar e il Rabbino Menchem Lazar – rappresenta un  nuovo e importante passaggio di un legame antico che si vuole mantenere saldo e forte  nel futuro del nostro territorio”.

(Radio Digiesse, 25 agosto 2023)

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Tre città francesi vietano lo spettacolo del comico antisemita Dieudonné

di Luca Spizzichino

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Diversi sindaci francesi, tra cui quelli di Tolosa, Lione e Grenoble, hanno vietato gli spettacoli del tour estivo di Dieudonné, considerati “provocazioni sgradite” e “potenziale incitamento all’odio verso gli ebrei”. La decisione è arrivata dopo che il direttore per le relazioni internazionali del Centro Simon Wiesenthal, Shimon Samuels, aveva più volte allertato le autorità nazionali e locali sulle minacce poste dal comico, che il Centro considera uno "pseudo-comico diventato polemista arciantisemita".
   Dieudonné M'bala M'bala, noto anche semplicemente come Dieudonné, è noto per aver inventato un saluto nazista capovolto, conosciuto come “quenelle”, per le sue posizioni antisioniste, spesso sfociate in accuse di antisemitismo, e per i suoi contatti con personaggi come lo storico negazionista della Shoah Robert Faurisson, oltre che per la sua complicità con il regime iraniano.
   Dieudonné nel 2013 ha subito due condanne con annesse ammende, per un totale di 48.000 euro, per avere espresso idee antisemite durante i suoi spettacoli. L'11 gennaio 2015, dopo la manifestazione pubblica svoltasi a Parigi per esprimere solidarietà alle vittime dell'azione terroristica contro i disegnatori della rivista Charlie Hebdo e contro il supermercato ebraico Hyper Casher, Dieudonné ha scritto su Facebook di sentirsi “Charlie Coulibaly”, mettendo insieme il nome del giornale satirico colpito dall'attentato e quello di uno dei terroristi, Amédy Coulibaly, quest'ultimo autore della strage nel supermercato ebraico. Per tale motivo il comico è stato arrestato per apologia di terrorismo il 14 gennaio successivo e rilasciato dopo poche ore dalla polizia francese in attesa di essere sottoposto al processo, dove è stato condannato a due mesi di carcere con sospensione condizionale della pena. Il 3 agosto 2020 è stato bandito dalle piattaforme Facebook ed Instagram per aver utilizzato termini dispregiativi e disumanizzanti per descrivere gli ebrei e le vittime della Shoah.
   Samuels ha ringraziato i sindaci per aver ascoltato gli avvertimenti del Centro Simon Wiesenthal, soprattutto perché in queste città gli islamisti sono stati attivi e perfino mortali, come nel caso di Tolosa, dove nel 2012 un jihadista uccise 3 bambini e un insegnante nella scuola Otzar Hatorah. La città è anche la base del Collettivo Palestina Vaincra (CPV – 'Association Palestine Will Vanquish'), che ha legami con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), un gruppo terroristico che combina il nazionalismo arabo con l’ideologia marxista-leninista.
   "Il CPV è noto per l'appropriazione indebita di cartelloni pubblicitari dei trasporti pubblici per esporre manifesti antisemiti, per la campagna per il BDS e per l'organizzazione di conferenze che glorificano i terroristi. - ha dichiarato il Centro Wiesenthal - Resta oggetto di un "decreto di scioglimento" sulla base del fatto che "incita all'odio, alla violenza e alla discriminazione... sostiene e legittima il terrorismo e una virulenta retorica antisemita e antisionista".
   "Speriamo che questa sia l'occasione per ampliare l'elenco delle città francesi che adottano la definizione di antisemitismo dell'IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance)", ha concluso Samuels.

(Shalom, 25 agosto 2023)

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La teocrazia saudita prova a riformare la sharia, ma rifiuta del tutto la democrazia

Mohammed bin Salman vuole importare tutto dall’Occidente, ma non ha alcuna intenzione di riformare il suo paese in senso liberale, anche se è disposto a emendare la legge coranica di alcune prescrizioni particolarmente odiose tra cui la flagellazione, la lapidazione degli adulteri, l’amputazione delle mani dei ladri

di Carlo Panella

Mohammed bin Salman
Importare di tutto dall’Occidente, tranne la democrazia: questa è strategia di Mohammed bin Salman, detto Mbs, e della sua “Vision 2030”, il progetto di modernizzazione accelerata dell’Arabia Saudita nel quale il principe ha intenzione di investire svariate migliaia di miliardi. Una concezione specularmente opposta all’ideologia della globalizzazione che voleva che la interconnessione tra le economie e l’incremento massimo dello sviluppo economico avrebbero portato di per sé la democratizzazione di tutte le aree del pianeta.
   Dunque, Mohammed bin Salman, che sviluppa una politica estera vincente in Medio Oriente, è fermamente convinto dell’opposto, la teocrazia illiberale non verrà mai intaccata. In Arabia Saudita, Stato teocratico, la Legge Fondamentale stabilisce nel suo primo articolo che «Il Libro di Dio (il Corano) e la Sunna del suo Profeta sono la Costituzione» e Mbs ha più volte dichiarato che si guarda bene dall’introdurre libere elezioni o pur timide riforme democratiche. L’esperienza disastrosa delle “Primavere Arabe” insegna.
   Al massimo, in una fondamentale intervista ad Al Arabiya, ha annunciato che intende abrogare il rispetto degli Hadith, pronunciamenti del Profeta non contenuti nel Corano non supportati dal massimo dei testimoni e non riscontrabili in alcuna Sura del Corano, circa il novanta per cento: «Negli affari sociali e personali siamo obbligati a mettere in atto solo le stipulazioni chiaramente enunciate nel Corano. Così non posso applicare una punizione della Sharia senza una enunciazione coranica chiara ed esplicita della Sunna».
   Affermazione importante, segno di una volontà di riformismo coranico volto a emendare la Sharia di molte prescrizioni particolarmente odiose che dovrebbe portare ad abolire alcune leggi islamiche come la flagellazione, la lapidazione degli adulteri, l’amputazione delle mani dei ladri, così come leggi del diritto penale islamico quali la messa a morte degli apostati e degli omosessuali. Dunque una riforma tutta interna a una nuova interpretazione della tradizione islamica, sia pure coraggiosa, senza la minima concessione alla concezione occidentale dei diritti della persona e men che meno dei principi universali della democrazia politica. Per quanto riguarda la condizione della donna quindi, la fine di divieti shariatici abnormi, con la possibilità di guidare l’auto da sole o di andare da sole all’estero, in un contesto di timida emancipazione funzionale solo alla nuova vocazione turistica e produttiva del paese.
   Forte di questo cambiamento tutto interno alla continuità coranica, saldamente intenzionato a non indebolire neanche pro forma con concessioni democratiche l’enorme potere assoluto della Corona, dopo avere eliminato la fronda dei principi a lui avversa nella Corte con il carcere, con l’esilio o col sequestro di immensi patrimoni, Mohammed bin Salman è certo di succedere presto come re e sovrano assoluto a suo padre, il malatissimo Salman bin Abdulaziz al Saud (la stessa denominazione ufficiale del paese, caso unico al mondo, è indissolubilmente subordinata alla dinastia regnante). E di sicuro non toccherà mai l’essenza violenta di uno Stato totalitario e illiberale, che uccide e fa a pezzi un oppositore come Jamal Khassogi e che mitraglia e uccide a centinaia gli immigrati clandestini alla frontiera con lo Yemen.
   In questo contesto, l’ultimo episodio che ha fatto clamore in Italia, la notizia di una proposta a Roberto Mancini di venticinque milioni l’anno per diventare Ct della nazionale, il secondo più pagato al mondo, per farne una squadra competitiva tra le più quotate del pianeta, è solo una piccolissima parte dei programmi faraonici che Mohammed bin Salman sta attuando. Nel solo settore dello sport nel complesso l’Arabia Saudita negli ultimi tre anni ha infatti investito ben cento miliardi di dollari, riuscendo persino ad accaparrarsi, in uno dei paesi più caldi al mondo, i Giochi invernali asiatici del 2029.
   Il cuore della riforma di Mbs resta l’Aramco: estrae il dieci per cento del petrolio del pianeta, produce il quaranta per cento del Prodotto interno lordo saudita, ed è stata ormai trasformata in una conglomerata globale dal valore di duemila miliardi di dollari e che si accinge a mettere sul mercato borsistico internazionale per drenare capitali per finanziare la nuova strategia di sviluppo non più petrolio-dipendente.
   Forte della disastrosa è fallimentare esperienza algerina di superare la monocultura petrolifera con mega progetti di industrializzazione di base ispirati da economisti para sovietici della Rive gauche, Mohammed bin Salman intende diversificare l’economia saudita trasformando il paese in un hub energetico regionale basato anche sul nucleare (da qui le trattative con la Cina o con gli Stati Uniti per la fornitura delle tecnologie) e sull’idrogeno, sull’Hi Tech (da qui il suo interesse per un accordo storico con Israele), sull’immobiliare fantascientifico con l’edificio-città Neom lungo centoventisette chilometri per una superficie di ventiseimila e cinquecento chilometri quadrati (progetto tutto d’immagine, che stenta a decollare) e col turismo. Abbattuti i pregiudizi medioevali wahabiti e messi con le cattive al loro posto gli ulema conservatori, il paese si appresta infatti a mettere a disposizione del turismo internazionale stupendi siti archeologici (alcuni di età romana) e naturalistici.
   Riforme di tutti i tipi, dunque. Ma mai, assolutamente mai, riforme democratiche.

(LINKIESTA, 24 agosto 2023)

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"Attenzione, dittatura messianica!"

"Combattete contro le 225 leggi della dittatura messianica!”, si legge negli annunci che hanno inondato i media digitali del Paese nelle ultime settimane.

di Aviel Schneider

"Combattete contro le 225 leggi della dittatura messianica!”
GERUSALEMME - Questi avvertimenti di una rivoluzione messianica sono impressi su enormi manifesti a Tel Aviv e Gerusalemme. Tutti esagerano. Ma è una sciocchezza. So cosa intendono gli oppositori della riforma, ma a mio avviso non si adatta alla situazione in Israele. Che significa dittatura messianica? Nella società israeliana oggi termine "messianico" è inteso in modo diverso da come molti lo intendono. Non ha nulla a che vedere con gli ebrei messianici o con gli ebrei credenti in Gesù. Messianico qui significa l'era messianica, quando i coloni ebrei stabiliranno di nuovo una sorta di governo biblico nella terra. Questo è ciò che in parte temono gli oppositori della riforma. Dal mio punto di vista, giocare con questo termine è un errore tattico, perché in definitiva ogni ebreo è parte dell'idea e dell'essenza messianica e biblica.
   Gli oppositori della riforma, o più precisamente un certo gruppo tra loro, hanno un atteggiamento ossessivamente antigovernativo. Temono che il governo nazionalista di destra, con ministri come i coloni ebrei religiosi Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, stia spingendo l'intera coalizione in un "angolo messianico". Dal loro punto di vista, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu questa volta non sembra essere abbastanza duro perché sa che la sua coalizione crollerà immediatamente se non accontenta tutti.
Attivisti protestano a Tel Aviv contro la riforma giudiziaria
Ho un problema fondamentale con l'espressione "dittatura messianica". Agli occhi dei palestinesi e dei nemici arabi, siamo comunque una dittatura sionista fin dalla fondazione dello Stato di Israele. Qual è la differenza tra un'idea sionista e un'idea messianica? L'intera esistenza di Israele nella terra è un adempimento biblico e quindi un'idea messianica. L'ebraismo e il ritorno degli ebrei sono l'essenza di questa rivendicazione. L'intera lotta politica per la terra e per la città santa di Gerusalemme si basa sulla promessa biblica. I soldati di Israele difendono la terra per motivi biblici e la difendono in virtù di un mandato biblico.
   Anche i fondatori dello Stato scrissero nella Dichiarazione di indipendenza del 1948: "Lo Stato di Israele sarà fondato sulla libertà, la giustizia e la pace, in accordo con le visioni dei profeti di Israele". La politica di Israele si basa sulle promesse bibliche e fa parte della redenzione messianica. Ma nella Dichiarazione di Indipendenza mancano altri due concetti: Dio e la democrazia. Ma questo è un argomento a sé stante.
   In questo caso i responsabili dell'annuncio non hanno colto il punto. Qualsiasi governo israeliano nel Paese è, per i nemici di Israele, un governo ebraico, un governo sionista e quindi un governo messianico. Questa campagna antigovernativa all'interno del popolo ebraico non fa che rafforzare i nostri nemici e, a mio avviso, non aiuta minimamente gli oppositori della riforma. Forse alcuni tra gli oppositori della riforma hanno perso la visione ebraica e biblica di Israele, che fa parte della nostra esistenza e della nostra essenza come popolo e terra. Ma in un momento in cui tutto è caotico, entrambe le parti commettono errori tattici, sia gli oppositori della riforma sia i suoi sostenitori.

(Israel Heute, 25 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Contestatissimo governo: se oggi si votasse in Israele, Netanyahu non avrebbe la maggioranza

Secondo l'ultimo sondaggio di "Maariv", la coalizione che appoggia il premier non otterrebbe il numero di seggi sufficienti per essere sostenuto in Parlamento. Pesa nel gradimento dell'elettorato la controversa riforma della giustizia

di Antonio Bonanata

Se si andasse alle elezioni oggi in Israele, il Likud di Benyamin Netanyahu non sarebbe più il primo partito alla Knesset e la destra non avrebbe più la maggioranza in Parlamento. La conferma dell'andamento politico in un Paese politicamente lacerato viene da un nuovo sondaggio condotto dal quotidiano Maariv. Pesa, sul gradimento dell’elettorato, la contestatissima riforma della giustizia proposta dall’esecutivo del falco israeliano, appoggiato da esponenti di estrema destra e divenuto obiettivo di oceaniche manifestazioni di massa, che hanno puntellato gli ultimi mesi.
   A questo proposito, sempre secondo un altro sondaggio del giornale, la maggioranza del campione ha indicato la necessità che il governo fermi la riforma giudiziaria e chieda – attraverso elezioni o possibilmente un referendum - il consenso o meno alla revisione proposta. In base alla ricerca, la formazione del centrista Benny Gantz, Partito di Unità nazionale, avrebbe la maggioranza con 30 seggi, seguito dal Likud di Netanyahu con 27. In terza posizione, C'è futuro dell'altro centrista Yair Lapid con 16 seggi. Nell'ambito delle coalizioni, quella di centrosinistra sarebbe a 56 seggi contro i 54 dell'attuale maggioranza di destra-centro. Dieci seggi andrebbero al blocco dei partiti arabi.
   Sulla riforma giudiziaria, che da oltre sei mesi ha inasprito il clima politico con un muro contro muro tra maggioranza e opposizione, il sondaggio di Maariv ha rivelato che la maggioranza del campione non è soddisfatta della proposta e di come è stata portata avanti finora da Netanyahu.
   Già nel mese di maggio, il partito centrista di Benny Gantz aveva superato per la prima volta il Likud di Netanyahu, secondo un sondaggio pubblicato sempre da Maariv. A conferma del progressivo indebolimento nell’opinione pubblica dell’attuale coalizione di governo.
   In quell’occasione, in particolare, risultavano nettamente ridimensionati i movimenti Sionismo religioso di Bezalel Smotrich e Potere ebraico di Itamar Ben Gvir, entrambi importanti sostenitori del governo Netanyahu; se si fosse votato a maggio, queste due formazioni si sarebbero posizionate quasi al di sotto della soglia di ingresso alla Knesset. Il sondaggio di quattro mesi fa mostrava inoltre come la coalizione di destra, presentata in Parlamento all’inizio dell’anno e forte di 64 seggi, allora ne avrebbe ricevuti solo 52, secondo i dati raccolti da Maariv.
   Un forte calo di popolarità del premier israeliano era stato certificato anche in aprile: un sondaggio diffuso da Channel 13 mostrava infatti come il suo partito Likud, in caso di elezioni, si sarebbe attestato in terza posizione dopo Unità nazionale di Gantz e Yesh Atid di Lapid. E ciò che più colpiva, in quel frangente, era il malcontento diffuso nell’elettorato per l'operato di un governo entrato in carica da appena tre mesi e mezzo.
   Allora, il 71% degli intervistati riteneva che Netanyahu non stesse facendo un buon lavoro (il 20% lo appoggiava) e solo il 25% voleva che l'attuale maggioranza restasse al potere, mentre il 33% si diceva a favore di nuove elezioni e un altro 33% a un governo di unità tra Netanyahu e Gantz.
   Già con i numeri indicati nel sondaggio di aprile, l'attuale coalizione (formata dall'unione di Likud, partiti ultraortodossi ed estrema destra) avrebbe perso la maggioranza, scendendo a soli 46 seggi, mentre l'opposizione anti-Netanyahu ne avrebbe totalizzati 64, più che sufficienti per governare senza aver bisogno dei partiti arabo-israeliani Hadash-Ta'al e Balad.

(RaiNews, 25 agosto 2023)

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Una nuova iniziativa dell’IDF sostiene le donne religiose nell’esercito

di Michelle Zarfati

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Sempre più donne ebree ortodosse scelgono di servire l’esercito israeliano. Sono circa 3.200 le giovani donne religiose che dovrebbero arruolarsi nel corso del prossimo anno. Il gruppo al femminile è supportato dalla “Maaminot BeMadim” (Believers in Uniform), un’associazione che fornisce risposte spirituali, consigli e indicazioni alle giovani donne-soldato.
   Tra le istituzioni a supporto delle donne religiose c'è anche il Midreshet Lindenbaum Women's Seminary of Ohr Torah Stone, che ha lavorato negli ultimi 25 anni per consentire alle donne ortodosse di arruolarsi nell'IDF e servire senza compromettere i loro valori religiosi. Con "Maaminot BeMadim" ci si prefigge di fornire una guida e una consulenza alle ragazze che si uniscono alle fila dell’IDF.
   Circa 406 giovani religiose trascorreranno il prossimo anno in uno dei seminari pre-IDF di Ohr Torah Stone a partire da questa settimana, mentre 350 neo-laureate della Midreshet Lindenbaum stanno svolgendo il servizio militare in questo momento. "Dopo 25 anni di preparazione e sostegno dei nostri studenti attraverso il loro servizio IDF, Midreshet Lindenbaum ha maturato una grande quantità di conoscenze, e molta esperienza nel campo", ha detto la Rabbanit Hila Naor, direttore del nuovo centro.
   "Giovani donne - laureate del nostro seminario e molte altre dei settori religiosi sionisti e ultra-ortodossi che si sono arruolate, si rivolgono a noi ogni giorno per consigli halakhici e assistenza pratica con corsi o sfide spirituali. Abbiamo istituito questo centro con l'obiettivo di utilizzare le conoscenze che abbiamo acquisito negli anni al fine di fornire una risposta reale ed efficace a tutte loro".
   Maaminot BeMadim lavora in stretta collaborazione con la divisione di sicurezza sociale dell'IDF e le autorità religiose e gestisce inoltre una hotline WhatsApp 24/6 attraverso la quale le autorità religiose forniscono risposte, consigli e supporto continuo.
   Oltre a fungere da risorsa per i singoli soldati, il centro intraprenderà un programma di ricerca dedicato allo studio di questioni rilevanti relative al servizio religioso femminile e ospiterà conferenze, workshop e seminari dedicati all'interfaccia tra donne, Torah ed esercito.
   Anche il Rabbinato militare supervisiona il funzionamento religioso quotidiano dell'IDF e aiuta le soldatesse religiose attraverso il Dipartimento per il trattamento e il sostegno alle donne soldato religiose (noto con il suo acronimo ebraico TIPUACH).

(Shalom, 25 agosto 2023)

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Gas naturale. Giacimento di Tamar: Israele incrementa le estrazioni ed esporta in Egitto

Il ministro dell’Energia dello Stato ebraico, Israel Katz, ha autorizzato l’incremento delle estrazioni di gas naturale dal bacino offshore di Tamar e l’esportazione di buona parte di esso all’Egitto. Si tratta di un giacimento situato a novanta chilometri a ovest di Haifa. Un provvedimento, quello varato dal Governo israeliano, che si pone in linea con le raccomandazioni precedentemente espresse dal commissario al petrolio Chen Bar Yosef e sulla base delle assicurazioni relative alle forniture destinate al soddisfacimento del fabbisogno energetico interno.
   Alla luce di tale autorizzazione nell’arco dei prossimi undici anni verranno consentite ulteriori esportazioni per un totale di 3,5 miliardi di metri cubi all’anno. Dal 2026 la produzione di gas da Tamar verrà dunque complessivamente incrementata del 60%, per un volume pari a 6 miliardi di metri cubi all’anno. Del giacimento di Tamar la statunitense Chevron detiene una partecipazione del 25%, altri partner sono Isramco (28,75%), Mubadala Energy Abu Dhabi (22%), Tamar Petroleum (16,75%), Dor Gas (4%) ed Everest (3,5%).
   Israele ed Egitto si vanno affermando quali paesi esportatori di gas, questo a seguito delle notevoli scoperte offshore degli ultimi quindici anni, a fronte di un’Europa che intende svincolarsi dalla dipendenza energetica dalle importazioni dalla Russia. Il giacimento Leviathan, il maggiore di Israele, è in sfruttamento dal dicembre 2019, mentre il vicino Tamar è il secondo più grande, con riserve pari a 10 trilioni di piedi cubi (tcf), la metà di quelle del Leviathan. Israele esporta gas in Giordania dal gennaio 2017 e in Egitto dal 2020.
   Nel giugno 2022 Israele, Egitto e Unione europea hanno firmato un memorandum d’intesa per l’esportazione del gas israeliano in Europa attraverso gli impianti di gas naturale liquefatto (GNL) egiziani. Per quanto concerne il provvedimento varato ieri a Gerusalemme, ad avviso del ministro dell’energia Katz «l’iniziativa aumenterà le entrate statali di Israele e rafforzerà le relazioni diplomatiche con l’Egitto».

(insidertrend, 23 agosto 2023)

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Parashat Ki Tetzé. Amore e rispetto delle leggi, i due ingredienti immancabili per una società equa

a cura di Lidia Calò

In una parashà come quella di questa settimana, carica di leggi, una in particolare è piena di fascino: Se un uomo ha due mogli, una amata, l’altra non amata [senuah, letteralmente “odiata”], e sia la donna amata che quella non amata gli danno dei figli, ma il primogenito è il figlio della moglie non amata, allora quando il padre cederà la sua proprietà ai suoi figli, non deve dare il diritto di primogenito al figlio della moglie amata anziché al suo primogenito vero e proprio, figlio della moglie non amata. Deve riconoscere [i diritti legali del] primogenito della moglie non amata in modo da dargli una parte doppia di tutto ciò che possiede, perché è lui la prima forza di suo padre. Il diritto di primogenitura è legalmente suo. (Deuteronomio 21:15-17)
  Questa legge ha assolutamente senso. Nella biblica Israele il primogenito aveva diritto a una doppia quota dell’eredità paterna. Ciò che sta dicendo è che questo non è a discrezione del padre. Non può scegliere di trasferire il privilegio da un figlio all’altro, in particolare non può farlo privilegiando chiunque o il figlio della moglie che più amava (se il primogenito proveniva da un’altra consorte).
  Le prime tre leggi – una donna prigioniera presa durante la guerra, la legge di cui sopra sui diritti del primogenito e il “figlio testardo e ribelle” – riguardano tutte le disfunzioni all’interno della famiglia. I Saggi dissero che furono date loro in questo ordine, per suggerire che se qualcuno avesse preso una donna prigioniera avrebbe sofferto di conflitti in casa, e il risultato sarebbe stato un figlio delinquente. Nel giudaismo il matrimonio è visto come il fondamento della società. Il disordine lì porta al disordine altrove. Fin qui tutto chiaro.
  Ciò che è straordinario è che questo sembra essere in contraddizione con una delle principali narrazioni della Torà, vale a dire quella di Giacobbe e le sue due mogli, Leah e Rachel. In effetti la Torà, attraverso il suo uso del linguaggio, crea collegamenti verbali inequivocabili tra i due passaggi. Uno è la coppia di opposti, ahuvah/senuah, “amato” e “non amato/odiato”. Questo è esattamente il modo in cui la Torà descrive Rachel e Leah.
  Richiama però anche questo contesto. Fuggendo da casa presso lo zio Labano, Giacobbe si innamorò a prima vista di Rachel e lavorò per lei per sette anni. La notte delle nozze, però, suo suocero sostituì la figlia maggiore Leah. Quando Giacobbe si lamentò: “Perché mi hai ingannato?” Lavan rispose, con voluta ironia: “Da noi non è consuetudine dare la minore prima della maggiore”. Giacobbe accettò quindi di lavorare altri sette anni per Rachel. Il secondo matrimonio ebbe luogo appena una settimana dopo il primo. Leggiamo allora: E [Giacobbe] entrò anche da Rachel, e l’amò più di Leah… Dio vide che Leah non era amata [senuah] e le aprì il grembo, ma Rachel rimase sterile. (Genesi 29:30-31)
  Leah chiamò il suo primogenito Ruben, ma il dolore di essere meno amata rimase. È scritto nel verso che descrive la nascita del suo secondogenito: Rimase di nuovo incinta ed ebbe un figlio. “Dio ha sentito che non ero amata [senuah]”, disse, “e mi ha dato anche questo figlio”. Chiamò il bambino Simeon. (Genesi 29:33)
  La parola senuah appare solo sei volte nella Torà, due volte nel passaggio sopra su Leah, quattro volte nella nostra parashà a proposito della legge dei diritti del primogenito.
  C’è tuttavia un collegamento ancora più forte. L’insolita frase “il primo della forza [di suo padre]” appare solo due volte nella Torà: qui (“perché egli è il primo della forza di suo padre”) e in relazione a Ruben, il primogenito di Leah: “Ruben, tu sei il mio primogenito, la mia forza e il primo della mia forza, il primo per grado e il primo per potenza.” (Genesi 49:3)
  A causa di questi paralleli sostanziali e linguistici, il lettore attento non può fare a meno di ascoltare nel precetto della nostra parashà un commento retrospettivo sulla condotta di Giacobbe nei confronti dei suoi stessi figli. Eppure tale condotta sembra essere stata esattamente l’opposto di quanto qui legiferato. Giacobbe trasferì effettivamente il diritto di primogenito da Ruben, suo vero primogenito, figlio della meno amata Leah, a Giuseppe, primogenito della sua amata Rachel. Questo è ciò che disse a Giuseppe: “Ora, i due figli che ti sono nati in Egitto prima che io venissi qui saranno considerati miei. Efraim e Manashè saranno per me proprio come Ruben e Simeon”. (Genesi 48:5)
  Ruben avrebbe dovuto ricevere una porzione doppia, ma invece questa andò a Giuseppe. Giacobbe riconobbe ciascuno dei due figli di Giuseppe come titolare di una parte completa dell’eredità. Così Efraim e Menascè divennero ciascuno una tribù a sé stante. In altre parole, sembra che ci sia stata una chiara contraddizione tra ciò che accadde nel libro del Deuteronomio e quello della Genesi.
  Come possiamo risolvere questo problema? Può darsi che, nonostante il principio rabbinico secondo cui i patriarchi osservassero tutta la Torà prima che fosse data, questa sia solo un’approssimazione. Non tutte le leggi erano esattamente le stesse prima e dopo il patto del Sinai. Ad esempio Ramban nota che la storia di Giuda e Tamar sembra descrivere una forma leggermente diversa del matrimonio levirato, da quella esposta nel Deuteronomio.
  In ogni caso, questa non è l’unica contraddizione apparente tra la Genesi e la legge successiva. Ce ne sono altre, non ultimo il fatto stesso che Giacobbe sposò due sorelle, qualcosa di categoricamente proibito nel Levitico 18:18. La soluzione di Ramban – elegante, derivante dalla sua visione radicale sulla connessione tra la legge ebraica e la terra di Israele – è che i patriarchi osservavano la Torà solo mentre vivevano nella terra di Israele. Giacobbe sposò Leah e Rachel fuori Israele, nella casa di Lavan ad Haran (situata nell’odierna Turchia).
  Abarbanel dà una spiegazione abbastanza diversa. Il motivo per cui Giacobbe trasferì la doppia porzione da Ruben a Giuseppe fu che Dio gli aveva detto di farlo. La legge nel caso del libro di Devarim è quindi esplicitata per chiarire che il caso di Joseph era un’eccezione, non un precedente.
  Ovadia Sforno suggerisce che il divieto del libro del Deuteronomio si applica solo quando il trasferimento dei diritti del primogenito, avviene perché il padre favorisce una moglie rispetto a un’altra. Non si applica quando il primogenito si è reso colpevole di un peccato che giustificherebbe la perdita del suo privilegio legale. Questo intendeva Giacobbe quando, sul letto di morte, disse a Ruben: “Instabile come l’acqua, non sarai più il primo, perché sei salito sul letto di tuo padre, sul mio giaciglio, e l’hai contaminato”. (Genesi 49:4). Ciò è affermato esplicitamente nel libro delle Cronache che dice che “Ruben… era il primogenito, ma quando contaminò il letto matrimoniale di suo padre, i suoi diritti di primogenito furono dati ai figli di Giuseppe, figlio di Israele”. (Cronache I 5:1).
  Non è impossibile, però, che ci sia un tipo di spiegazione completamente diversa. Ciò che rende unica la Torà è che si tratta di un libro sia sotto l’aspetto della legge (il significato principale di “Torà”) sia in quello di storia. Altrove si tratta di generi abbastanza diversi. Esiste una legge, una risposta alla domanda: “Cosa possiamo o non possiamo fare?” E c’è nella storia, una risposta alla domanda: “Cosa è successo?” Non esiste alcuna relazione ovvia tra questi due aspetti.
  Non è così nel giudaismo. In molti casi, soprattutto nel mishpat, il diritto civile, c’è una connessione tra diritto e storia, tra ciò che è accaduto e ciò che dovremmo o non dovremmo fare. Gran parte della legge biblica, ad esempio, emerge direttamente dall’esperienza della schiavitù in Egitto degli Israeliti, come a dire: questo è ciò che hanno sofferto i nostri antenati in Egitto, quindi non fate altrettanto. Non opprimere i tuoi lavoratori. Non trasformare un israelita in uno schiavo per tutta la vita. Non lasciare i tuoi servitori o dipendenti senza un giorno di riposo settimanale. E così via.
  Non tutta la legge biblica è così, ma in alcuni casi sì. Rappresenta la verità appresa attraverso l’esperienza, la giustizia che prende forma attraverso le lezioni della storia. La Torà prende il passato come guida per il futuro: spesso positivo ma talvolta anche negativo. La Genesi ci dice, tra le altre cose, che il favoritismo di Giacobbe verso Rachel rispetto a Leah e verso Giuseppe, primogenito di Rachel, rispetto al primogenito di Leah, Ruben, era causa di persistenti conflitti all’interno della famiglia. Ciò portò quasi i fratelli a uccidere Giuseppe, e li portò a venderlo come schiavo. Secondo Ibn Ezra, il risentimento provato dai discendenti di Ruben durò per diverse generazioni, e fu la ragione per cui Datan e Aviram, entrambi rubeniti, divennero figure chiave nella ribellione di Korach.
  Jacov ha fatto quello che ha fatto come espressione d’amore. Il suo sentimento per Rachel era travolgente, come lo era per Joseph, il suo figlio maggiore. L’amore è centrale per l’ebraismo: non solo l’amore tra marito e moglie, tra genitore e figlio, ma anche l’amore per Dio, per il prossimo e per lo straniero. Ma l’amore non basta. Ci deve essere anche giustizia e applicazione imparziale della legge. Le persone devono sentire che la legge è dalla parte dell’equità. Non è possibile costruire una società solo sull’amore. L’amore unisce, ma divide anche. Lascia la persona meno amata sentendosi abbandonata, trascurata, “odiata”. Può lasciare dietro di sé conflitti, invidie e un vortice di violenza e vendetta.
  Questo è ciò che ci dice la Torà quando usa l’associazione verbale per collegare la legge nella nostra parashà con la storia di Giacobbe e dei suoi figli nella Genesi. Ci sta insegnando che la legge non è arbitraria. È radicata nell’esperienza della storia. La legge stessa è un tikkun, un modo per rimediare a ciò che è andato storto in passato. Dobbiamo imparare ad amare; ma dobbiamo anche conoscere i limiti dell’amore e l’importanza della giustizia come equità nelle famiglie, come nella società.
di rav Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 25 agosto 2023)
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Parashà della settimana: Ki Tetzei (Quando uscirai)

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Un sincero amico di Israele eletto presidente in Guatemala

Il Guatemala, un Paese che ha sofferto per molti anni di povertà e corruzione, ha un nuovo presidente. L'intellettuale di sinistra Bernardo Arévalo, che lotta contro la corruzione, è intimo amico di Israele e parla ebraico.

di Jörn Schumacher

Bernardo Arévalo
Domenica, il liberale di sinistra Bernardo Arévalo ha vinto il ballottaggio per la presidenza del Guatemala con un'ampia maggioranza. La vittoria è associata a una grande speranza di porre fine alla rabbia e alla frustrazione per la classe politica.
   Negli anni 2010, sotto diversi presidenti di destra, il Paese si è spostato da una democrazia già malconcia sempre più verso la dittatura. Soprattutto da quando Alejandro Giammattei ha preso il potere come presidente nel 2020, i problemi sono aumentati, tra cui la corruzione e la repressione dei media.
   Quasi il 60% degli abitanti del più popoloso Paese centroamericano deve tirare avanti con 5 dollari al giorno. Allo stesso tempo, il presidente uscente Giammatei riceveva quasi 20.000 dollari al mese, come lui stesso ha dichiarato in un'intervista al quotidiano spagnolo El País. Secondo l'organizzazione "Transparency International", la corruzione è drammaticamente alta in Guatemala, il Paese si colloca al 150° posto su 180. Secondo l'UNICEF, il Guatemala ha il quarto più alto tasso di bambini malnutriti al mondo.
   Arévalo, 64 anni, del partito "Semilla" (Seme), ha ricevuto il 58% dei voti dopo lo spoglio di quasi tutti i voti. La moglie dell'ex presidente, Sandra Torres, che molti guatemaltechi considerano la candidata dell'élite al potere e corrotta, ha ricevuto solo il 37%.

• Arévalo ha studiato in Israele
  Arévalo è figlio di Juan José Arévalo, che fu il primo presidente democraticamente eletto del Guatemala dal 1945 al 1951. Nel 1948 aveva fatto in modo che il Guatemala fosse uno dei primi Paesi al mondo a riconoscere lo Stato di Israele e ad aprirvi un'ambasciata. Dal 1997, un monumento nel centro di Città del Guatemala, il Monumento a Israele e Guatemala, commemora questo evento.
   Dopo aver lasciato l'incarico, Arévalo senior è stato ambasciatore in Israele. La popolazione ebraica del Guatemala è stimata oggi in circa 900 persone, secondo un rapporto della Jewish Telegraphic Agency.
   Suo figlio Bernardo è nato nel 1958 in Uruguay, dove suo padre era fuggito nel 1954. All'età di 15 anni si è trasferito a Città del Guatemala, dove ha frequentato una scuola privata cattolica.
   Arévalo ha studiato all'Università Ebraica di Gerusalemme e si è laureato in sociologia. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca in filosofia e antropologia sociale presso l'Università di Utrecht, nei Paesi Bassi. Dieci anni fa, Arévalo ha aderito al movimento "Semilla", fondato da accademici e intellettuali. Dal 2020 è deputato al Congresso guatemalteco.
   All'Università Ebraica, Arévalo ha anche studiato la storia del cristianesimo in America Latina. Di recente ha spiegato di avere ancora amici dai tempi in cui era studente in Israele. Come suo padre, Arévalo ha lavorato presso l'ambasciata guatemalteca in Israele. Dal 1984 al 1986 è stato primo segretario e console. Successivamente, dal 1987 al 1988, è stato Ministro Consigliere. Parlando ai media locali del periodo trascorso nel Paese, ha dichiarato: "Israele è un Paese per il quale nutro un grande affetto. Ho trascorso dieci anni della mia vita in Israele. Sono stati anni molto importanti".

• Critiche al trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme
  Bernardo Arévalo parla inglese, francese, portoghese ed ebraico oltre al suo spagnolo. Un video su TikTok che lo ritrae mentre parla in ebraico con un uomo sconosciuto è diventato virale all'inizio del mese, ricevendo più di un quarto di milione di visualizzazioni e oltre 32.000 like.
   Arévalo, nel frattempo, ha criticato la decisione del 2018 dell'ex presidente Jimmy Morales di spostare l'ambasciata del Guatemala da Tel Aviv a Gerusalemme. Il trasferimento viola il diritto internazionale e non aiuterà a risolvere il conflitto, ha affermato. Al momento non è chiaro se il presidente eletto intenda riportare l'ambasciata del suo Paese a Tel Aviv o mantenere lo status quo.

(Israelnetz, 24 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Scoperto antico mikve nel seminterrato di un ex locale in Polonia

di Michelle Zarfati

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Nella piccola città di Chmielnik, in Polonia, è stato recentemente scoperto un mikve (bagno rituale), in un luogo davvero improbabile. Prima della Shoah la popolazione della città di Chmielnik era composta per circa l'80% da popolazione ebraica. Gli ebrei sefarditi, essendo stati espulsi dalla Spagna durante l'Inquisizione, si erano stabiliti a Chmielnik dove avevano dato vita ad una comunità e avevano costruito una sinagoga nel 1638. Dopo la guerra, rimasero solo quattro ebrei. Oggi, l'edificio della sinagoga ospita un museo della vita e della storia ebraica della città.
   Qualche anno fa, Marian Zwolski, un uomo d'affari di Chmielnik, acquistò un ex nightclub che era rimasto chiuso per 15 anni. Quando recentemente l’uomo ha riaperto la porta del seminterrato della sua nuova proprietà, ha scoperto qualcosa dì davvero inaspettato: un mikve. Una testimonianza unica di quell’antica comunità ebraica polacca.
   Le piastrelle del pavimento blu e bianche del bagno rituale sono ancora lì, così come le stelle di David disegnate sul muro. Adiacente al bagno rituale si trova un mikve più piccolo, probabilmente usato dalle donne. “È sorprendente", ha detto Meir Bulka, responsabile della conservazione del patrimonio ebraico in Polonia, in un’intervista ad Haaretz. “Basta scendere nel seminterrato e ci si ritrova in un altro mondo. È come una macchina del tempo”.
   Appena su per le scale dal mikve, ci si trova davanti ai resti dell'ex club Sphinx: un cartello Heineken che indica il bar, e decorazioni in stile egizio sulle pareti. Zwolski, il proprietario del locale, ha aggiunto che spera di trasformare la scoperta in un'attrazione turistica o in un museo, che possa essere un monito per ricordare la fervente vita ebraica che c’era una volta in Polonia.

(Shalom, 24 agosto 2023)

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Ben Gvir: “I miei diritti superiori a quelli degli arabi”

“Il mio diritto, quello di mia moglie e dei miei figli, di muoverci sulle strade in Giudea e Samaria, è più importante del diritto di movimento degli arabi". Si è espresso con queste parole il ministro israeliano della Sicurezza ed esponente di punta dell’estrema destra Itamar Ben Gvir, durante una intervista alla tv Canale 12 sull’aumento della tensione e delle uccisioni in Cisgiordania. Ben Gvir è un noto suprematista che non riconosce diritti fondamentali ai palestinesi.
   “Mi dispiace, Mohammad”, ha proseguito il ministro rivolgendosi al giornalista di Channel 12, Mohammad Magadli, “ma questa è la realtà. Questa è la verità. Il mio diritto alla vita ha la precedenza sul loro diritto di movimento”.
   Secondo l’analista israeliana Mairav Zonszein del Crisis Group, Ben Gvir ha espresso ad alta voce la visione di quella che ha definito come la “parte silenziosa”, ossia i cittadini israeliani di estrema destra che, ha spiegato, manifestano disprezzo per la vita dei palestinesi.
   Ahmad Tibi, deputato e cittadino palestinese di Israele, ha definito i commenti di Ben Gvir la prova che Israele non dà valore alla vita dei palestinesi. “Per la prima volta, un ministro israeliano ammette in diretta che Israele applica un regime di apartheid, basato sulla supremazia ebraica”, ha scritto Tibi su X, la piattaforma precedentemente nota come Twitter.

(Pagine Esteri, 24 agosto 2023)

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Israele e la Halacha

Il dibattito sul ruolo della legge ebraica in uno Stato ebraico.

di Uri Pilichowski

GERUSALEMME - Il ruolo della Halacha (legge religiosa ebraica) nello Stato di Israele è stato un punto di contesa già prima della sua fondazione. Nel suo libro fondamentale Lo Stato ebraico, Theodor Herzl, il fondatore del sionismo moderno, scrisse: "Dovremmo finire con una teocrazia? No, in effetti. La fede ci unisce, la conoscenza ci dà la libertà. Impediremo quindi che da parte del nostro sacerdozio emergano tendenze teocratiche".
   "Terremo i nostri sacerdoti entro i confini dei loro templi, così come terremo il nostro esercito professionale entro i confini delle loro caserme", ha continuato. "L'esercito e il sacerdozio saranno onorati quanto meritano le loro preziose funzioni. Ma non devono interferire con l'amministrazione dello Stato che li contraddistingue, altrimenti creeranno problemi all'esterno e all'interno".
   "Ogni uomo sarà libero e indisturbato nella sua fede o non fede, come nella sua nazionalità", prometteva Herzl, "e se dovesse accadere che persone di altre credenze e altre nazionalità vivano tra noi, dovremmo dare loro una protezione onorevole e l'uguaglianza davanti alla legge".
   Al contrario, il defunto rabbino Haim Drukman, una figura di spicco del movimento sionista religioso, sosteneva che "non c'è alcun problema con uno Stato halakhico. Non stiamo parlando di diritti individuali. In che modo questo influirà sui diritti delle persone? Non capisco quale sia il problema. Stiamo parlando di uno Stato ebraico. Sto parlando di uno Stato halachico e del modo in cui questo Stato viene amministrato. Quello che fate all'interno delle vostre quattro mura sono affari vostri, ma fuori è uno Stato ebraico".
   La comunità sionista è quindi divisa su questo tema. La divisione consiste in tre campi:

  1. Quelli che sostengono che Israele debba essere una teocrazia;
  2. Quelli che credono che Israele debba separare "sinagoga e Stato";
  3. Quelli che cercano un equilibrio tra Halacha e Stato.

Certamente, uno Stato guidato dalla Halacha, o addirittura fortemente influenzato dalla Halacha, limiterebbe fortemente le libertà personali di cui godono oggi gli israeliani; e come democrazia, uno dei valori più importanti di Israele, che è la libertà individuale. Di solito si ritiene che il governo non debba interferire nella vita personale dei suoi cittadini finché la sopravvivenza dello Stato non è minacciata. Inoltre, molti israeliani rifiutano l'idea che l'osservanza della Halacha sia lo standard con cui si misura l'ebraismo. Per loro, la cultura e i costumi sono altrettanto importanti, se non di più.
   Non tutti gli ebrei che osservano la Torah vogliono un ruolo maggiore per la Halacha nella società israeliana. Quelli che lo fanno, tuttavia, spesso affermano che la sopravvivenza e il successo di Israele dipendono da Dio. Per ottenere il favore di Dio, il popolo ebraico deve osservare la Torah e le mitzvot (precetti).
   Essi fanno riferimento alla preghiera "Ascolta Israele":

    "Se osserverete diligentemente i miei comandamenti che oggi vi ordino, di amare il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il cuore e con tutta l'anima, io darò al vostro paese la pioggia a tempo debito, la prima e la seconda pioggia, e voi produrrete il vostro grano, il vostro vino e il vostro olio. Farò crescere l'erba nei tuoi campi per il tuo bestiame, e tu mangerai e sarai saziato". (Deuteronmio 11:13-15)

Inoltre, molti ebrei definiscono l'ebraismo come l'osservanza della Halacha. Pertanto, ritengono che la Halacha debba svolgere un ruolo importante in uno Stato ebraico.

Giovani ebrei chiedono perdono a Dio per i peccati di Israele nel periodo che precede Rosh Hashanah.
L'ex ministro della Giustizia israeliano Gideon Sa'ar una volta ha sostenuto che uno Stato ebraico non è solo uno Stato fondato per gli ebrei o abitato da ebrei. Deve essere uno Stato gestito secondo le tradizioni, i valori e le leggi ebraiche. Sa'ar è laico e non sostiene uno Stato halakhico, ma ritiene che uno Stato ebraico debba riconoscere e incorporare in qualche misura la Halacha, ad esempio in questioni come la kashrut, lo Shabbat e l'istruzione. In qualità di Ministro dell'Istruzione, Sa'ar ha sostenuto questo principio includendo testi ebraici più tradizionali nel curriculum generale.
   Anche se il ruolo della legge ebraica nello Stato di Israele sarà sempre un punto di contesa, ci sono dei punti focali. Ad esempio, a Tel Aviv è stata appena inaugurata la metropolitana leggera ed è sorto un dibattito sull'opportunità di farla circolare di Shabbat. La politica attuale prevede che la metropolitana leggera di Tel Aviv non funzioni di Shabbat, così come la metropolitana leggera di Gerusalemme non funziona di Shabbat. Questo ha fatto arrabbiare molti israeliani, soprattutto in una città laica come Tel Aviv.
   Senza una costituzione o un codice dettagliato che definisca il ruolo della Halacha nella legge israeliana, non ci sarà una soluzione duratura al problema. Ad ogni nuovo punto di contesa, il dibattito si riaccenderà. Nel frattempo, tutti gli israeliani dovrebbero fare in modo che il dibattito sia condotto con rispetto e civiltà. Tutti possono concordare sul fatto che questa è una via ebraica.

(Israel Heute, 24 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Uganda: in costruzione il primo centro ebraico del paese

di Nathan Greppi

Studenti alla scuola ebraica di Putti
Quando, lo scorso dicembre, ha celebrato il suo Bar Mitzvah a Cesarea, il giovane Elchanan Kuchar ha deciso di usare parte dei soldi regalatigli per una nobile causa: contribuire alla raccolta fondi per ultimare la costruzione della Jonathan Netanyahu Memorial School, che dal 2013 è il nucleo della piccola comunità ebraica del villaggio di Putti, in Uganda .
   Questa storia, riportata da Ynetnews, parte da lontano: nella famiglia Kuchar, che ha fatto l’aliyah in Israele dall’Australia nel 2016, lo zio di Elchanan è da anni coinvolto in attività di sostegno alle piccole comunità ebraiche in Africa. Tramite lui, il giovane ha deciso di donare i soldi del Bar Mitzvah per contribuire a far costruire nuovi locali nella piccola scuola elementare che accoglie i bambini della comunità Abayudaya, ugandesi convertitisi all’ebraismo che da tempo lottano per essere pienamente riconosciuti.
   Ad oggi, le condizioni degli Abayudaya sono talmente precarie che spesso nel loro centro mancano l’elettricità e l’acqua pulita. Per questo, è tuttora in corso una campagna di crownfunding per sostenerli racimolando i soldi necessari per la costruzione del centro (chi fosse interessato a donare, può cliccare qui). La campagna durerà fino al 30 settembre, e su un obiettivo di 42.000 shekel (circa 10.000 euro), nel momento in cui scriviamo ne sono stati donati 2.860 shekel (circa 694 euro).

• Gli ebrei in Uganda
  La nascita dell’ebraismo ugandese viene fatta risalire agli anni ’10 del ‘900, quando Semei Kakungulu , in origine un governatore locale quando l’Uganda era una colonia inglese, si mise a studiare la Bibbia; colpito dalle tradizioni ebraiche, abbandonò il cristianesimo a cui era stato convertito dai missionari protestanti per abbracciare l’ebraismo. Dopo aver raccolto intorno a sé i primi seguaci, nel 1926 Kakungulu incontrò a Kampala (oggi capitale dell’Uganda) un mercanto ebreo di nome Yosef , convincendolo a visitare il nucleo della nascente comunità. Dopo essere rimasto per oltre tre mesi ad insegnare loro i precetti della Halakhah, prima di congedarsi Yosef donò loro diversi volumi della Torah, libri di preghiere, calendari ebraici e altri strumenti utili per preservare la vita ebraica.
   Oggi la loro popolazione ammonta a circa 4.000 persone, suddivise in otto villaggi dell’Uganda orientale, tra cui Putti, dove vivono 250 ebrei. Nel corso del ‘900 arrivarono a 7.000, ma negli anni ’70, sotto la dittatura di Idi Amin , furono oggetto di persecuzioni e a volte costretti a convertirsi. Questo perché praticare la religione ebraica era vietato per legge, costringendoli a praticarla in segreto come i marrani ai tempi dell’Inquisizione spagnola, e a coloro che venivano scoperti venivano confiscate le proprietà. Solo a partire dagli anni ’80, dopo la caduta del regime, la vita ebraica nel paese poté rifiorire.
   Nel 2013 fondarono una scuola ebraica, la Jonathan Netanyahu Memorial School, dedicata al comandante israeliano (e fratello del premier israeliano) che cadde durante l’Operazione Entebbe del 1976 per salvare gli ostaggi dei terroristi del FPLP. Nonostante negli anni abbiano ricevuto un certo sostegno soprattutto da parte di donatori stranieri, spesso si trovano a corto di rifornimenti per la scuola, acqua ed elettricità, che ricavano soprattutto dall’energia solare. Necessitano dell’acqua sia per consumo personale che per i campi, essendo perlopiù agricoltori.
   In tutto il paese, gli Abayudaya si suddividono in due gruppi: da un lato il gruppo maggioritario, convertitosi in massa all’ebraismo conservative americano circa 25 anni fa; dall’altro lato un secondo gruppo, di cui fanno parte anche gli ebrei di Putti, che si chiama Sheerit Yisrael (“I resti d’Israele”), che vorrebbe abbracciare l’ebraismo ortodosso ed è ancora in attesa dell’approvazione del Rabbinato d’Israele. Quest’ultimo, tuttavia, non li ha mai riconosciuti come ebrei, e anche la burocrazia israeliana ha spesso respinto le richieste di quelli che volevano fare l’aliyah.

(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2023)

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La demografia truccata dei palestinesi

di Emanuel Segre Amar

Soltanto gli autentici profeti possono prevedere il futuro. Sembrerebbe un’affermazione del tutto logica, ma ciononostante molte persone rispettate per la loro autorevolezza, guadagnata grazie a numerose pubblicazioni scientifiche, preferiscono non rendersene conto. Già, perché coi numeri non si scherza; i numeri parlano chiaro e permettono di decifrare le leggi universali, ma non quelle “leggi”, come quelle demografiche, che dipendono dalle infinite variabili causate dalla mente e dall'azione umana.
   Fatta questa, per me necessaria, premessa, desidero qui riportare alcune cifre relative alla popolazione palestinese (e non solo questa), che Yoram Ettinger ha recentemente pubblicato e diffuso in interessanti conferenze, tenutesi anche qui in Italia. Si tratta di cifre che guardano al passato, e non al futuro, non avendo Ettinger l’aspirazione a passare per un “profeta”.
   Se guardiamo al 2022 (mancando ancora i dati relativi al 2023), Israele è l’unica nazione occidentale con un tasso di natalità relativamente elevato. Tale fatto fornisce garanzie per il futuro della sua difesa. Soltanto lo Yemen, l’Iraq e l’Egitto hanno un tasso superiore in Medio Oriente. Un fenomeno che si deve soprattutto all’incremento delle nascite tra gli ebrei laici; un aumento consolidato che persiste da 25 anni dal momento che, tra i cosiddetti "ultra-ortodossi", il tasso è in lieve calo.
   Se nel 1969 il tasso di fertilità tra le famiglie arabe era 6 volte quello delle famiglie ebraiche, nel 2015 si era raggiunto un pareggio e, nel 2020, il tasso di fertilità con almeno padre o madre ebrei era salito ancora, fino a raggiungere il 3.27%; mentre l’analogo tasso tra le famiglie musulmane scendeva al 2.99%.
   A questo punto sembra opportuno osservare che l’aspettativa di vita nelle comunità arabe in Israele (78 anni per gli uomini, e 82 per le donne) è la più elevata rispetto a quella che si registra in tutte le nazioni musulmane (un bello schiaffo all’apartheid, a mio modesto parere). Inoltre, rispetto al 1995, i dati relativi al 2021 ci mostrano una popolazione ebraica mediamente sempre più giovane, a differenza di quella musulmana (passata dai 18 anni medi del 2005 ai 22 del 2021); questo lo si ricava considerando anche i nati e i morti in un anno nelle singole popolazioni.
   Ed ora pare opportuno parlare delle classiche menzogne propalate dai palestinesi:
  • Tra i palestinesi il numero di “cittadini” residenti all’estero da decenni cresce giorno dopo giorno, in contrasto con le regole internazionalmente riconosciute che non li riconoscono tali.
  • I residenti a Gerusalemme Est con carta d’identità israeliana sono conteggiati due volte, nel censimento israeliano e in quello dell’ANP, così come tutti coloro che hanno contratto un matrimonio con arabi israeliani.
  • E che dire dei tanti arabi che ogni anno emigrano, fin dal periodo dell’occupazione giordana? Ultimamente una media di circa 20.000 arabi sono emigrati, ogni anno, transitando attraverso le frontiere israeliane.
  • E, sempre per restare tra le falsità che portano vantaggi concreti, nel 2006 i palestinesi hanno dichiarato un aumento delle nascite del 32%, un dato smentito dalla Banca Mondiale, secondo cui la popolazione sarebbe diminuita dell’8% (il che comporta una differenza del 40%…); già, mentre nel 1960 una donna palestinese metteva al mondo 9 bambini, nel 2021 il numero era sceso a 3.02.
Infine, se si considera che vengono occultate anche tante morti, perfino quelle di cittadini nati nel 1845 (ma non quelle dei martiri, ovviamente), si può legittimamente ritenere che i 3 milioni di palestinesi residenti in Giudea e Samaria siano in realtà 1.5 milioni.
   Insomma, anche le leggi dei numeri vanno osservate, e non interpretate.
   Quanto al futuro, chi vivrà, vedrà, ma non azzardiamo previsioni troppo spesso smentite.

(L'informale, 23 agosto 2023)

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L'Iran invia un messaggio in ebraico agli israeliani: "Preparate i rifugi"

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L'Iran ha presentato oggi (martedì) un nuovo drone di sua fabbricazione che può viaggiare fino a 2.000 chilometri e raggiungere Israele. Il nuovo dispositivo, battezzato Mohajer 10, è stato presentato in un filmato con un sottotitolo in ebraico sotto forma di minaccia: "Preparate i rifugi".
Pochi istanti dopo, una nuova minaccia è stata rivolta a Israele su un canale Telegram non ufficiale identificato con le Guardie rivoluzionarie: un fotomontaggio mostra il drone sopra Dimona con la didascalia in ebraico approssimativo: "Preparatevi a tornare all'età della pietra".
Secondo l'Iran, questo nuovo drone ha un'autonomia di 24 ore e può trasportare un carico fino a 300 chili. Contiene anche una tecnologia di tracciamento elettronico e una telecamera.
Alla cerimonia di presentazione del Mohajer 10, il Presidente iraniano Ibrahim Raissi ha dichiarato: "Possiamo presentare l'Iran al mondo come una potenza tecnologica avanzata". Ha dichiarato che il suo Paese è interessato a relazioni pacifiche con tutte le nazioni del mondo, ad eccezione di Israele, e ha aggiunto che l'Iran "taglierà qualsiasi mano che sia coinvolta in un'azione offensiva nei suoi confronti".
La "prodezza" iraniana rappresentata da questo drone altamente avanzato è stata accolta con scetticismo in tutto il mondo. È difficile verificare le capacità attribuite al dispositivo, dato che in passato l'Iran ha pubblicato dichiarazioni poco affidabili. Un anno fa, ad esempio, i funzionari iraniani hanno affermato di aver sviluppato un missile supersonico, che si è rivelato falso.
Nel campo dei droni, tuttavia, l'Iran ha una maggiore esperienza. Sebbene sia stato ufficialmente negato, l'Iran fornisce alla Russia i droni kamikaze Shahed 136 e i droni Mahojer 6.

(LPH INFO, 23 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La viola di Mario Patrucco torna a risuonare in Sinagoga

L'evento ricorda il musicista e critico casalese a cinque anni dalla scomparsa

Mario Patrucco
CASALE MONFERRATO - Domenica 3 settembre riprendono gli appuntamenti culturali nel Complesso Ebraico di Casale Monferrato dopo la pausa estiva. Il concerto programmato per la rassegna Musica in Sinagoga alle 17 assume, però, due importanti valenze simboliche che vanno oltre l’alta qualità degli esecutori e l’interesse dei brani proposti.
   La prima è che l’esibizione avviene in concomitanza con l’inaugurazione continentale della XXIV Giornata Europea Della Cultura Ebraica alla Grande Sinagoga d’Europa di Bruxelles. Idealmente aprirà quindi le celebrazioni di questo momento di aggregazione culturale che avrà il suo culmine domenica 10 settembre quando la Giornata si festeggerà anche in Italia.
   La seconda è che il concerto in vicolo Salomone Olper dal titolo “Uno sguardo sulla musica ebraica dal Settecento ad oggi”, viene dedicato alla memoria di Mario Patrucco, violista, critico musicale e presenza fissa nei concerti in sinagoga e scomparso cinque anni fa. Un ricordo che viene affidato alla figlia Erika Patrucco: violoncellista casalese, fondatrice dell’opera ragazzi e del Coro Gescher e protagonista di questa serata insieme al violista torinese Giacomo Indemini, classe 1997, ma già attivo in campo internazionale. Indemini, suonerà proprio la viola che era appartenuta a Mario Patrucco, realizzata del liutaio monferrino Arnaldo Morano.  
   Come è tradizione della rassegna il programma vede brani legati alla tradizione ebraica, o per  contenuti, o per un legame con la biografia del loro autore. In questo caso il vasto cartellone spazia dal barocco al novecento e vede la Sonata in sol minore di Henry Eccles (1671- 1742), il Preludio dalla Suite n.3 in do Maggiore di Johann Sebastian Bach (1685-1750) la Sonata per viola sola op25 n.1 (1922) di Paul Hindemith (1895-1963) la Suite op131d in sol minore, per viola sola (1916) di Max Reger (1873-1916), la Sonata in mi minore n. 5 di Antonio Vivaldi  (1678-1741).  Spiccano nel programma due opere di Giulio Castagnoli, compositore e direttore artistico della rassegna: Nel lago del cor da In alto per viola sola (2021) e Canti ebraici per viola e violoncello (1995)
   Domenica 3 sarà anche l’ultimo giorno utile per visitare la mostra “La Bibbia illustrata di Paolo Novelli” in Sala Carmi.

(Il Monferrato, 23 agosto 2023)

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Antisemitismo in crescita su “X”, l’ex Twitter di Elon Musk: la denuncia del Memoriale di Auschwitz

di Michael Soncin

Da quando Elon Musk ha acquistato la piattaforma di Twitter per poi rinominare il nome in X, l’antisemitismo su quello che è uno dei social più conosciuti del pianeta sembra essere aumentato. La crescita sarebbe dovuta in nome della “libertà” di parola di cui Musk è un forte sostenitore. Una libertà che sembra però essersi trasformata nel manifestare il diritto ad odiare, senza freni.
   In molti hanno descritto il suo approccio come irresponsabile, poiché un filtraggio dei contenuti a sfondo razzista sarebbe necessario. A farsi sentire, come riportato in una nota del Jerusalem Post, è stato il Memoriale di Auschwitz che proprio in un post su X ha dichiarato di avere segnalato un contenuto a sfondo antisemita ricevendo una risposta dall’oramai ex Twitter, che il messaggio non violava il regolamento interno.
   L’antisemitismo in aumento su X è stato rilevato da un gruppo di ricercatori. A tal proposito, sono diversi i governi che si sono pronunciati negativamente sulla piattaforma, criticando la compagnia di non fare abbastanza in termini di monitoraggio.
   “Lasciare questi contenuti senza controllo, perpetua il ciclo dell’odio e rafforza l’idea che un linguaggio dell’odio sia accettabile su questa piattaforma”. Sono le parole pronunciate dal Memoriale di Auschwitz, il campo di concentramento dove oltre 1,1 milioni di persone persero la vita a causa delle atrocità messe in atto dalle politiche nazifasciste.

(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2023)
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Senza voler nulla togliere alla giusta accusa del Memoriale di Auschwitz, va sottolineato che purtroppo questo genere di risposte si ricevono regolarmente anche dagli altri “social”, FB in primis. Emanuel Segre Amar

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Uomo di pace, compagno di strada: addio a Bruno Segre

di Adriano Arati

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Oggi abbiamo appreso dalla famiglia la scomparsa del nostro caro amico Bruno Segre. Della sua carriera come insegnante, filosofo e saggista parleranno sicuramente tanti altri.
Per noi di Istoreco è stato un compagno di strada: dalle manifestazioni dei Social Forum alle lezioni di cultura ebraica nella sinagoga di Reggio Emilia.
Prima di ogni viaggio di studio in Israele era proprio Bruno a darci un aiuto per capire la complessità di quella terra. Coesistevano in lui due sentimenti perfettamente conviventi: un profondo essere laico e una completa essenza ebraica.
Il mondo avrebbe bisogno di incontrare uomini di Pace come è stato per tutta la sua vita Bruno.

(ISTORECO, 22 agosto 2023)

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Questa chiesa ora è una moschea e l'Islam rimpiazzerà il Cristianesimo"

Il video choc da Londra, i minareti di Erdogan nel monastero dell'apostolo, la resistenza di 64 cattolici, il nostro silenzio sui cristiani torturati, i "mondi impazziti che arrancano verso Occidente”.

di Giulio Meotti

“Cosa faremo delle chiese in disuso? Chi sarà l’ultimo, l’ultimissimo, a cercare questo posto per ciò che era? Una casa seria su una terra seria…”.
   Così scriveva nel 1955 il grande Philip Larkin in “Church Going”. E alla poesia di Larkin (e magari al video girato a Londra in questi giorni) devono aver pensato i 64 abitanti di un piccolo villaggio normanno che stanno spendendo una fortuna per salvare la loro chiesa, mentre in Occidente è in corso un’opera di autodemolizione che neanche Stalin e i giacobini.
   In venticinque anni, la città di Comblot (Orne) ha speso 420.000 euro - l'equivalente di dieci budget annuali del comune - per salvare la chiesa di Saint-Hilaire, che risale alla fine del XII secolo.
   O forse i 64 hanno letto il Dostoevskij che nel 1880 scriveva dopo un viaggio in Europa: “I fondamentali tesori morali dell’anima, nella sua fondamentale sostanza, non dipendono dalla forza economica… in Europa, dove sono accumulate tante ricchezze, la base morale di tutte le nazioni europee è tutta minata, e forse crollerà domani stesso, senza lasciar traccia per tutta l’eternità, e al suo posto sopraggiungerà qualcosa di inauditamente nuovo , che non somiglierà in niente al passato. E tutte le ricchezze, accumulate dall’Europa, non la salveranno dalla rovina, perché in un attimo scomparirà anche la ricchezza”.
   I 64 potevano seguire la corrente e fare come i fedeli di Vierzon, dove la chiesa di Saint-Eloi è diventata una moschea, o metterla in vendita come a Compiègne, dove una chiesa si può portare a casa per 575.000 euro. E in fondo Michel Dubost, a capo del dipartimento per gli affari interreligiosi della conferenza episcopale francese, non ha forse dichiarato che è “meglio che le chiese siano trasformate in moschee piuttosto che in ristoranti”?
   Il panorama europeo è segnato ovunque da macerie cristiane: in Inghilterra 4.000 chiese chiuse in dieci anni e altre 350 nei prossimi tre; in Olanda 1.000 chiese cattoliche scompariranno in due anni e un quinto di tutte le chiese sono già state convertite (nella diocesi di Amsterdam di 164 chiese solo 28 sopravviveranno); in Francia le diocesi cederanno da un quarto alla metà delle chiese entro 20 anni.
   In Inghilterra hanno appena dato una nuova vita alle chiese, anziché distruggerle: in affitto per “eventi”. Sempre meglio di una di quelle chiese di Londra usate per inneggiare alla rivoluzione islamica iraniana o trasformate in moschee.
   Basta saper ascoltare l’Islam, come il video illuminante uscito questa settimana a Londra e che pubblico all’inizio: “Sembra una chiesa, ma è una moschea. L’Islam è qui per restare, date a noi le vostre chiese vuote”.
   In tutta la Francia in questo momento si stanno costruendo decine di mega-moschee: a Strasburgo, che ha già una grande moschea da 1.500 posti e un nuovo luogo di culto deve accogliere 2.500 fedeli entro il 2025; a Metz, una moschea da 4.000 fedeli è in costruzione; a Tours, vedrà la luce una moschea da 3.000 posti; a Vitry-sur-Seine e Ivry-sur-Seine inizieranno i lavori per due moschee con 3.000 persone ciascuna, mentre a Stains, a nord di Parigi, è in costruzione un’altra mega-moschea.

• Va bene, Meotti, sono solo numeri. Ma cosa c’è dietro ai numeri?
   Danièle Hervieu-Léger - docente all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi - ci vede l’“implosione della Cristianità europea”. E la nota sociologa delle religioni ha pubblicato un libro che suona come un verdetto: Catholicisme, la fin d'un monde. Usa una parola - "exculturation" - che evoca una battaglia che non è mai stata iniziata ma che è già finita, in cui marciamo spediti verso l’estromissione e un vuoto riempito da ideologie occidentali folli e dall’Islam.
   Cosa ha spinto allora i 64 insignificanti fedeli della Normandia a investire tutto quel denaro in una piccola chiesa non battuta dai turisti, ignorata dai vescovi al sicuro a Parigi e che i media, gli intellocrati e i politici vorrebbero vedere abbattuta, come si fa con un supermercato in una zona poco redditizia, e come ha chiesto di fare l’ex ministro della Cultura di Macron Roselyne Bachelot?
   Intanto in Italia (dove assistiamo allo stesso crollo della Cristianità che vediamo in altri paesi europei) si vende il famoso monastero dei Celestini a Bergamo del XIII secolo, il monastero di Santa Caterina a Foligno, il convento a Vigevano di mille anni, la chiesa di San Carlo a Cremona (XI secolo), una chiesa del XII secolo a Piacenza, una chiesa del IX secolo a Ferrara e un’altra romanica del X secolo. L’arcidiocesi di Firenze ha in vendita 170 chiese. Nel centro storico di Lucca dismesse 42 chiese su 69 (su Internet si vendono anche chiese lucchesi perfettamente ristrutturate del IX secolo).
   Scriveva sempre Larkin in versi straordinari: “Come mondi impazziti, navi dai ponti illuminati, arrancano verso Occidente”.
   Uno di questi sta affondando la Svezia, che annuncia una nuova legge per il “rispetto del Corano”, mentre 87 case di cristiani e numerose chiese venivano date alle fiamme in Pakistan, dopo che i musulmani hanno accusato i cristiani di “blasfemia” (offesa all’Islam) e si arrestava una coppia di fratelli cristiani: rischiano la forca o di finire come Junaid Hafeez, studioso di letteratura gettato in prigione con l’accusa di “blasfemia” e assassinato. O il giudice che aveva assolto due cristiani accusati di blasfemia, anche lui ucciso. Sono 1.130 le vittime dell’accusa di “blasfemia” in esecuzioni extragiudiziali. Mashal Khan era uno studente di giornalismo all’università. Un gruppo di studenti lo aveva accusato di pubblicare contenuti “blasfemi”. Gli hanno sparato alla testa. Il pastore Zafar Bhatti, presidente della Jesus World Mission in Pakistan e in prigione da due anni con l’accusa di blasfemia, è stato ucciso da un poliziotto in carcere.
   Nelle scorse ore, in Pakistan, avanzava una nuova legge per chi “offende l’Islam”: un minimo di dieci anni di carcere. Ho provato a cercare una dichiarazione della diplomazia tedesca, così preoccupata per il Corano in Europa, sul pogrom anti-cristiano in Pakistan, dove un vescovo racconta di “Bibbie profanate e cristiani torturati”. Ma non le ho trovate. Idem per l’euroburocrazia di Bruxelles. O per l’Onu, questo teatro dell'assurdo. Un Corano svedese vale più della vita e delle Bibbie di milioni di perseguitati?

• Ma sono sicuri gli europei islamofili che gli piacerebbe vivere in un paese dove l’Islam non può essere criticato e vige la sharia, de iure o de facto?
   Qualche anno fa il cardinale Karl Lehmann (un esponente della corrente liberal cattolica) disse di voler “celebrare messa a Riad”, in Arabia Saudita, sollevando il tema fondamentale della reciprocità e fu attaccato da ogni parte. L’idea era: se volete costruire qui le vostre moschee dovete permettere ai cristiani di praticare in sicurezza il culto. Come è finita? Che convertono in moschee le nostre chiese, che bruciano le chiese nei propri paesi senza che nessuno fiati, che nessuno a Roma parli più di reciprocità e che ora anche sulla libertà di espressione proibiamo ogni “offesa all’Islam”.

• Capolavori della reciprocità!
  E se la fanno franca su questo, chi potrà mai fermarli nella loro opera di demolizione delle tracce cristiane?
   Di costruire una grande moschea nel monastero Apostolos Andreas nella Cipro occupata dai turchi si iniziò a parlare tre anni fa. Il presidente della Società di studi bizantini Andrea Foulias, evoca “una vera e propria invasione e stupro dello spazio e della storia. Pianificano un'enorme moschea con sei minareti”. L’annuncio ora della moschea nel monastero del XII secolo associato a Sant'Andrea e chiamato la "Lourdes di Cipro", il principale sito religioso per la comunità ortodossa dell'isola divisa da mezzo secolo in seguito all'invasione della Turchia, che ha portato alla costituzione dello stato fantoccio della Repubblica di Cipro del Nord, riconosciuto solo da Ankara, nonché agli scambi di popolazione tra le due zone.
   I funzionari turchi hanno già spostato i tappetini per la preghiera islamica nel monastero senza consultare i monaci e si stanno preparando per la costruzione di una moschea. La questione del monastero è stata sollevata al Parlamento europeo dagli eurodeputati socialisti Giorgos Georgiou e Niyazi Kizilyürek, che hanno collegato la mossa al sostegno finanziario diretto della Turchia e hanno chiesto alla Commissione UE quali misure avrebbe preso per proteggere l'eredità cristiana di Cipro.
   Misure? E l’Unesco cosa dice? La Turchia ha dato 5 milioni di euro all’Unesco, che è rimasto molto silenzioso quando Erdogan ha riconvertito in moschea la basilica di Santa Sofia a Istanbul.

• Moschea al posto di una chiesa a Famagosta
   Siamo nell’isola dove approdò nel 45 San Paolo, accompagnato da Barnaba, nel suo primo viaggio apostolico, uno dei luoghi al mondo più carichi di storia. Cancellata. Secondo il rapporto "La perdita di una civiltà: distruzione del patrimonio culturale nella Cipro occupata”, “le chiese sono state oggetto della più violenta e sistematica distruzione. Più di 500 chiese e monasteri sono stati distrutti: più di 15.000 icone di santi, vasi liturgici sacri, vangeli e altri oggetti di grande valore sono letteralmente svaniti. Alcune chiese hanno avuto un destino diverso e sono state trasformate in moschee, musei, luoghi di intrattenimento o hotel, come la chiesa di Ayia Anastasia a Lapithos. Almeno tre monasteri sono stati trasformati in caserme per l'esercito turco. Meravigliosi dipinti murali bizantini e mosaici di raro valore artistico e storico sono stati rimossi dalle pareti delle chiese”. Antigoni Papadopoulou, membro del Parlamento europeo, ha presentato un'interrogazione alla Commissione europea sulla distruzione del patrimonio cristiano: "Le ossa dei cimiteri sono state gettate nella spazzatura".
   Qualche settimana fa ho scritto: “Nel tempo della prostituzione di civiltà un resistente armeno ha più onore di un relativista europeo”. Il video di Londra, il progetto degli Erdogan, i ministri, i numeri, i vescovi simoniaci, il verdetto di Hervieu-Léger e i 64 “folli” di Comblot…Chi avrà la meglio? E le ossa della nostra viltà, dove le metteranno? Nel compost.

(Newsletter di Giulio Meotti, 22 agosto 2023)

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Russia: rinvenuta sinagoga di 2000 anni fa

di Nathan Greppi

Il sito archeologico di Fanagoria
Martedì 15 agosto, è stato reso noto che degli archeologi hanno rinvenuto in Russia i resti di un’antica sinagoga risalente al periodo del Secondo Tempio. Nello specifico, le rovine sono state rinvenute tra i resti dell’antica colonia greca di Fanagoria situata nella Penisola di Taman’, nel sudovest della Russia.
   Stando al Jerusalem Post, il ritrovamento ha riportato alla luce quella che è di fatto una delle più antiche sinagoghe al mondo, costruita intorno al I secolo a.e.v. e rimasta attiva per più di 500 anni. Venne costruita con una forma rettangolare, lunga circa 21 metri e larga 6 metri. Sono state rinvenute anche decorazioni, menoroth e frammenti di steli.
   Secondo i ricercatori, sono poche le sinagoghe costruite in quel periodo, in quanto era l’epoca in cui il Regno d’Israele era sotto la dominazione romana che in seguito provocò la diaspora del popolo ebraico. Nella maggior parte dei casi, sinagoghe più antiche di questa di cui esistono ancora dei resti sono state costruite non meno di 200 anni prima. Si presume che il Tempio di Fanagoria sia stato distrutto intorno al VI secolo e.v., quando la zona venne invasa da tribù di barbari.
   La notizia del ritrovamento è stata recepita positivamente in particolare nella comunità ebraica più vicina, quella della città di Krasnodar. Il rabbino capo locale, Rav Menachem Mendel Lazar, ha accettato l’invito degli archeologi a visitare il sito a capo di una delegazione.
   Gli scavi archeologici che hanno portato al rinvenimento della sinagoga sono stati finanziati dalla Volnoe Delo Foundation, ente filantropico fondato dal miliardario russo Oleg Deripaska.

(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2023)

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Ritornano gli omicidi contro civili ebrei israeliani disarmati

di Ugo Volli

• Gli omicidi
  Hanno ricominciato. I terroristi hanno ucciso di nuovo a tradimento civili innocenti in Israele. Sabato hanno assassinato insieme un padre sessantenne e suo figlio ventenne a Huwara (Silas (Shai) e Aviad Nigerker). Erano andati in quel paese arabo già teatro di atti di terrorismo a fare la spesa risparmiando sul costo dei negozi israeliani, come facevano spesso. Gli assassini si sono avvicinati alla loro macchina con targa israeliana, hanno accertato che a bordo ci fossero ebrei e non arabi israeliani e poi li hanno uccisi a sangue freddo. Che i Nigerker fossero buoni clienti dei negozi locali e dicessero di avere amici lì, di sentirsi al sicuro perché li conoscevano tutti, non è servito a nulla.
   Lunedì invece, vicino a Hebron, sulla strada 60 che percorre tutto il crinale della Giudea e della Samaria, una madre e maestra d’asilo Batsheva Nigri, quarant’anni è stata ammazzata in un agguato davanti a sua figlia bambina di sei anni, rimasta miracolosamente illesa, mentre è stato ferito gravemente il conducente della macchina che aveva dato loro un passaggio, Aryeh Gotlieb. Nell’abitacolo della macchina sono state trovate 25 pallottole.
   Pochi giorni fa c’è stato un attentato a Tel Aviv, ancora lunedì un israeliano che aveva sbagliato strada e si era trovato a passare per un villaggio arabo in Samaria è stato salvato a stento dall’esercito, con la macchina distrutta e lui stesso ferito. Insomma, il terrorismo è ripartito ancora una volta.
   Hanno ricominciato anche i giovani arabi a offrire dolcetti per le strade per festeggiare gli assassini, i media e i politici dell’Autorità Palestinese a celebrarli come eroi, e l’Autorità Palestinese a promettere loro stipendi e alle famiglie benefici economici importanti se fossero imprigionati o liquidati durante la cattura.

• Responsabilità
  Il capo del comando centrale responsabile della sicurezza di Giudea e Samaria, generale Fuchs, ha commentato: “Siamo davanti a un’ondata di terrorismo senza precedenti”. Netanyahu ha commentato: “Siamo in mezzo a un’ondata terrorista promossa dall’Iran”. Ma si stenta a chiamare questi assassini terrorismo, perché il terrorismo è una strategia politica, implica una razionalità, sia pure malvagia e terribile. Questi crimini invece non rispondono a nessun progetto razionale, neppure di guerra asimmetrica contro Israele, sono atti di puro odio omicida. Il che non significa che non vi sia una responsabilità politica per questi crimini: l’assassinio di Huwara è stato rivendicato da Hamas, quello vicino a Hebron dal braccio armato di Fatah, che è il movimento politico presieduto da Mohamed Abbas, il dittatore dell’Autorità Palestinese. Sarà l’Autorità Palestinese, con i fondi che gli vengono generosamente forniti dall’America di Biden e dall’Unione Europea a pagare gli stipendi degli assassini, se saranno catturati, o la pensione delle loro famiglie. Ed è l’UNRWA, agenzia della Nazioni Unite finanziata ancora da Usa ed Europa, a gestire le scuole in cui fin da bambini gli arabi di Giudea, Samaria e Gaza sono educati al terrorismo. I dolcetti sono pubblicamente offerti ai passanti per festeggiare l’assassinio di una donna disarmata e di due uomini che si fidavano dell’ospitalità del paese dove andavano spesso, sia a Gaza che nelle zone controllate dall’Autorità Palestinese. E fra i partiti arabi israeliani almeno uno, Balad, si è sempre rifiutato di condannare questi assassini.

• Perché ora?
  Ci si può chiedere la ragione di questo ritorno del terrorismo e magari metterlo in relazione con l’indebolimento della deterrenza israeliana provocata dalle proteste contro la riforma giudiziaria, incluso il rifiuto di prestare servizio di un certo numero di riservisti dell’Esercito. Ma probabilmente la ragione non è questa o non è solo questa, come non lo è la lotta di potere sempre più dura che si è scatenata ormai apertamente per la successione ad Abbas, vecchio, malato e corrotto. Il punto centrale è probabilmente un altro: la progressiva irrilevanza della “questione palestinese” anche per i paesi arabi, non solo quelli che hanno aderito ai “patti di Abramo”, ma ormai forse anche l’Arabia saudita e la Tunisia governata da un semi-dittatore integralista. Vi sono generazioni intere di arabi abitanti in Giudea, Samaria e a Gaza e molti anche in esilio, che sono stati educati fin da bambini e continuamente indottrinati a credere che la soluzione dei loro problemi non fosse nelle costruzione di un’economia funzionante, nell’integrazione con i vicini, nel lavoro, nell’edificazione di uno stato efficiente, ma solo nella “lotta armata”, nella futura “cacciata a mare” del “nemico sionista” se non nella strage di tutti gli ebrei. Ora sono più o meno abbandonati da tutti (salvo dall’Iran, che è il solo stato importante della regione in questo momento a progettare la distruzione di Israele ed esalta continuamente il terrorismo, inneggiando cinicamente all’omicidio) e puntano ad eliminare i loro vicini ebrei, tanto più innocui, tanto meglio, perché l’assassinio è più facile. E naturalmente per i terroristi l’assassinio è effettivamente una promozione sul piano personale, perché gli onori, le esaltazioni e soprattutto gli stipendi pagati dall’Autorità Palestinese possono risolvono i problemi economici e di status loro e delle loro famiglie. Vi sono località come Huwara, Jenin, in parte Nablus e Hebron, dove il potere è direttamente nelle mani di gruppi che non hanno alcuna altra prospettiva politica o esistenziale se non l’assassinio degli ebrei. A Israele spetta ora anche il compito lungo e difficile di neutralizzare questi gruppi.

(Shalom, 22 agosto 2023)

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Deputato ebreo si scusa dopo aver definito "bigotto" il tweet di un cristiano

Il deputato Mac Miller aveva detto a un’attivista pro-vita che il suo messaggio negava la libertà religiosa di altre fedi.
   Il gruppo Ohio Right to Life, con sede a Columbus, ha licenziato la direttrice della comunicazione Elizabeth Marbach, dopo che questa aveva scritto sui social media che non c'è "speranza per nessuno di noi" al di fuori della fede in Gesù.
   Il rappresentante Max Miller (R-Ohio) - che all'inizio dell'anno ha dichiarato a JNS: "Non ho paura di essere ebreo" - ha criticato il tweet della Marbach. (Sua moglie, Emily Moreno Miller, fa parte del consiglio dell'Ohio Right to Life).
   “Questo è uno dei tweet più bigotti che abbia mai visto. Cancellalo, Lizzie - ha scritto il deputato -, la libertà religiosa negli Stati Uniti si applica a ogni religione. Hai esagerato".
   Qualche ora dopo si è scusato. "Prima ho postato qualcosa che trasmetteva un messaggio che non intendevo. Non cercherò di nascondere il mio errore o di fuggire da esso. Mi scuso sinceramente con Lizzie e con tutti coloro che hanno letto il mio post", ha scritto.
   Marbach è rimasta licenziata, ma ha scritto di essere contenta che tanti abbiano visto il suo post sul Nuovo Testamento.

(Jewish News Syndacate, 22 agosto 2023)

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Attacchi contro cristiani a Gerusalemme

«Dobbiamo fare tutto il possibile per garantire che Israele rimanga un Paese in cui tutte le religioni non solo siano tollerate, ma vengano trattate con il rispetto che meritano».

di Carole Nuriel
Direttore di ADL Israele

A volte si vede il rovescio della medaglia. Questa è stata la nostra esperienza all’ADL Israele – l’ufficio israeliano della principale organizzazione anti-odio e anti-discriminazione del mondo – quando i miei colleghi e io abbiamo recentemente contattato i leader cristiani di Gerusalemme, per informarci sull’aumento degli attacchi anticristiani da parte di un piccolo gruppo di ebrei marginali. Mentre l’impegno ebraico-cristiano è comune negli Stati Uniti e altrove, è meno comune nella società israeliana.
   Tutti i leader che abbiamo incontrato ci hanno riferito di un aumento degli attacchi contro il clero cristiano, i membri della comunità e i luoghi sacri, tra cui sputi, graffiti, vandalismo e profanazione di tombe.
   Tra gli esempi recenti vi sono la rottura di una finestra del Cenacolo, l’interruzione di un raduno cristiano evangelico vicino al Muro Occidentale, la profanazione di oltre 30 tombe nel cimitero protestante di Gerusalemme e il vandalismo di una statua presso la Chiesa della Flagellazione in Via Dolorosa. Tutto ciò si aggiunge alle molestie e agli sputi quotidiani, non sufficientemente denunciati, nei confronti del clero e delle chiese cristiane.
   Abbiamo incontrato i leader della Chiesa per conoscere la situazione sul campo e offrire il nostro aiuto. Abbiamo discusso di come le diverse forme di odio siano interconnesse e di come sia necessario un approccio globale alla società per affrontare queste tendenze preoccupanti.
   I nostri interlocutori non hanno avuto bisogno che dicessimo loro che gli stereotipi e l’ignoranza sui cristiani hanno giocato un ruolo cruciale nella violenza contro di loro. Hanno implorato gli ebrei israeliani di istruirsi sulle altre religioni, spiegando che molti degli autori degli attacchi non avevano mai incontrato un cristiano. Probabilmente sono influenzati da tropi anticristiani, in particolare da quelli che descrivono il cristianesimo come l’epitome del paganesimo.
   Inoltre, hanno collegato questo fenomeno a tendenze più ampie della società israeliana, tra cui il recente aumento della violenza anti-palestinese di estrema destra, dell’estremismo religioso e del settarismo politico.
   Infine, abbiamo ricordato ciò che gli ebrei hanno imparato nel corso della storia: le minoranze sono spesso le prime a pagare il prezzo di queste tendenze allarmanti. Quando i cristiani vengono attaccati, ci è stato detto, non solo sentono il dolore dell’aggressione verbale o fisica, ma la vivono anche – in quanto gruppo minoritario – come una forma di persecuzione. E mentre le manifestazioni di massa in Israele contro la revisione giudiziaria dell’attuale governo sono in pieno svolgimento, dovremmo ricordare che ogni regresso nella democrazia significa anche un regresso nei diritti dei gruppi minoritari, siano essi cristiani, musulmani, ebrei non ortodossi o qualsiasi altra comunità emarginata.
   È stato sconvolgente per noi raggiungere e impegnarci con la comunità cristiana. Provenendo da una società che ha limitato l’impegno interreligioso, è stato un campanello d’allarme che ci ha fatto capire che il nostro lavoro per combattere tutte le forme di odio è tutt’altro che finito, soprattutto nel nostro Paese dove gli ebrei sono la maggioranza. Così come ci facciamo portavoce delle comunità ebraiche nel mondo, dobbiamo difendere i diritti delle minoranze religiose e di altro tipo all’interno dello Stato ebraico.
   Per farlo, è necessaria una maggiore educazione per ridurre gli stereotipi e i pregiudizi, nonché uno sforzo coordinato del governo e della società civile per mobilitare l’opinione pubblica verso un approccio più tollerante nei confronti dei cristiani e delle altre minoranze religiose. Sarebbe ingenuo pensare che queste tendenze possano scomparire da un giorno all’altro, ma sarebbe altrettanto pericoloso ignorarle e lasciare che si aggravino.
   Dobbiamo fare tutto il possibile per garantire che Israele rimanga un Paese in cui tutte le religioni non solo siano tollerate, ma vengano trattate con il rispetto che meritano.

(Rights Reporter, 22 agosto 2023)

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L'Ungheria produrrà droni da combattimento in collaborazione con Israele e Germania

L'Ungheria ha firmato un accordo per la produzione di droni da combattimento in collaborazione con aziende israeliane e tedesche, nell'ambito di uno sforzo di crescita e modernizzazione dell'industria militare e della difesa, ha dichiarato venerdì il Primo Ministro Viktor Orban.
   Parlando alla cerimonia di apertura di una nuova fabbrica di veicoli da combattimento a Zalaegerszeg, nel sud-ovest dell'Ungheria, Orban ha detto che i droni saranno prodotti in collaborazione con l'azienda israeliana di tecnologia della difesa UVision e con un partner tedesco non specificato.
   "Se sentissi parlare di un Paese che produce e sviluppa tecnologia militare in collaborazione con tedeschi e israeliani, ci penserei due volte prima di urtarmi con loro, e questa è una buona notizia per tutti gli ungheresi", ha dichiarato Orban.
   La fabbrica di veicoli da combattimento inaugurata venerdì a Zalaegerszeg, di cui il governo ungherese detiene una partecipazione del 49%, è controllata in maggioranza dalla società tedesca di tecnologia militare Rheinmetall. L'investimento fa parte di un crescente sforzo del governo di Orban per espandere le proprie forze di combattimento e aumentare la produzione di attrezzature militari.
   Venerdì Orban ha dichiarato che presto inizieranno le operazioni di un altro investimento di Rheinmetall nell'Ungheria centrale, che secondo lui sarà "una delle fabbriche di munizioni più moderne d'Europa".
   Ha anche menzionato l'apertura di uno stabilimento Airbus in Ungheria lo scorso anno, che produce componenti per moderni elicotteri da combattimento, e l'acquisizione da parte di una società ungherese nel 2021 del produttore ceco di aerei Aero Vodochody, che produce aerei militari e da addestramento.
   La crescita dell'industria militare ungherese arriva in un momento in cui l'Ungheria ha sempre chiesto un cessate il fuoco immediato e colloqui di pace tra Russia e Ucraina. Il governo ungherese si è rifiutato di fornire armi a Kiev o di autorizzarne il trasferimento attraverso il confine condiviso dai due Paesi.
   Orban si è presentato come "dalla parte della pace" nella guerra, ma venerdì ha affermato che "per la pace è necessaria la forza".
   "Non abbiamo rinunciato a costruire un'industria della difesa ungherese indipendente, né a porre l'innovazione e la tecnologia ungherese all'avanguardia nel mondo", ha dichiarato, aggiungendo che la guerra in Ucraina ha solo "rafforzato la nostra determinazione".
   L'Ungheria, che è membro della NATO, raggiungerà quest'anno gli obiettivi dell'alleanza, ovvero che i Paesi membri destinino almeno il 2% del loro PIL alla difesa, ha dichiarato Orban.

(JForum.fr, 22 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it )

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Israele. Iron Dome attivato al confine con Gaza

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È accaduto già ieri, domenica. Il sistema di difesa missilistica Iron Dome è entrato in azione lunedì mattina a Sdot Negev vicino al confine con la Striscia di Gaza, sparando due intercettori, probabilmente verso minacce in arrivo dall'enclave palestinese.
   Una forte esplosione ha scosso l'area, è stato comunque comunicato ai residenti che nessun lancio di razzi era diretto contro il territorio israeliano, che non erano state attivate sirene antiaeree e che non c'erano istruzioni speciali da parte dell'IDF. Quando si è sentita l’esplosione, a quanto si apprende dai media israeliani, un gruppo di bambini stava giocando all’aperto, fuori nel kibbutz Nahal Oz. I bambini sono stati immediatamente portati al rifugio.
   "Abbiamo immediatamente calmato i bambini e spiegato loro che non c’era la sirena e non c'era bisogno di farsi prendere dal panico. Sono già abituati a situazioni del genere. Per ora siamo tornati alla normalità", ha detto uno dei residenti del kibbutz.
   Già ieri, domenica mattina, l'Iron Dome era stato attivato, abbattendo un drone nel consiglio regionale di Eshkol, vicino al confine con Gaza. Non ci sono state vittime, non sono suonate le sirene dei razzi e non sono stati causati danni.
   L'unità di controllo aereo dell'Air Force nel sud di Israele ha rilevato il drone subito dopo il suo lancio e ha deciso di abbatterlo. Il drone è stato intercettato nove chilometri a ovest del confine israeliano ed è caduto all'interno del territorio della Striscia di Gaza.
   "L'aereo non è entrato nel nostro territorio e dal momento in cui è decollato, i sistemi dell'aeronautica ne hanno seguito la rotta. – ha dichiarato l’IDF - I caccia della difesa aerea hanno intercettato con successo l'aereo senza pilota utilizzando il sistema Iron Dome”.

(Shalom, 21 agosto 2023)

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Il fallimento degli Accordi di Oslo spiegato bene

Esattamente 30 anni fa, il 20 agosto 1993, Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), e il Ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres firmarono un documento noto come Accordi di Oslo.

di Sever Plocker

Questi accordi furono il risultato di colloqui segreti tenutisi nella capitale norvegese e miravano a stabilire un periodo di transizione di cinque anni per la gestione delle relazioni tra Israele e la popolazione palestinese nei “territori occupati”.
   Israele riconobbe ufficialmente l’OLP come rappresentante legittimo ed esclusivo del popolo palestinese, mentre l’OLP, a sua volta, riconobbe il diritto di Israele ad esistere in pace e sicurezza.
   Poco dopo, il documento iniziale si è trasformato in una serie di principi fondamentali che hanno ottenuto l’approvazione della Knesset con uno stretto margine di 61 voti e sono stati successivamente firmati sul prato della Casa Bianca.
   L’evento ha visto anche una storica stretta di mano tra il Primo Ministro Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
   Gli addendum all’accordo interinale delineavano numerosi ambiti di collaborazione economica per lo sviluppo “dell’unione doganale”. Dopo un anno di negoziati, sfide e soluzioni innovative, il Protocollo di Parigi è stato finalizzato nell’aprile 1994. Questo documento non solo stabilì i legami economici tra Israele e la neonata Autorità Palestinese (AP), ma definì anche le linee guida per le loro relazioni future.
   Il protocollo stabiliva un quadro doganale e fiscale che abbracciava tutta la Grande Israele, facilitando la libera circolazione di beni, persone, idee e attività finanziarie tra Israele e i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sotto il governo palestinese.
   L’accordo prevedeva che Israele continuasse ad amministrare le tasse e le dogane ai confini esterni di questo quadro, mantenendo il diritto esclusivo di emettere la propria moneta, lo shekel, che sarebbe stata considerata a corso legale in questi territori. Inoltre, la gestione dell’economia interna palestinese veniva affidata alle autorità palestinesi. Tutto questo, in linea teorica.
   Il Protocollo di Parigi, al momento della sua firma, rappresentava un risultato significativo ed è rimasto inalterato fino ad oggi, nonostante le sue lacune e le successive modifiche. È un vantaggio o un danno? Quando si esaminano i rapporti pubblicati dagli organismi internazionali, concepiti per garantire risorse e sostegno all’Autorità palestinese, le prospettive economiche appaiono costantemente negative. Che si legga un solo rapporto o più di uno, la situazione economica è sempre negativa.
   «La prevista stretta integrazione commerciale e finanziaria tra Israele e i territori palestinesi avrebbe dovuto portare a una graduale convergenza dei redditi, implicando una crescita dei redditi pro-capite palestinesi superiore a quella registrata. Ma le condizioni per tale crescita non si sono realizzate e la convergenza dei redditi non si è verificata», ha dichiarato il Fondo Monetario Internazionale in un rapporto dello scorso aprile.
   Ciò è in gran parte attribuibile alle politiche rigide e costrittive di Israele. Un economista della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) ha previsto una perdita economica di 50 miliardi di dollari per l’Autorità palestinese a causa delle restrizioni imposte da Israele negli ultimi due decenni. Al contrario, i profitti ottenuti dall’economia israeliana grazie agli insediamenti in Cisgiordania, secondo lo stesso rapporto, ammontano a ben 630 miliardi di dollari, più del doppio della produzione interna annuale di Israele.

• Vecchio Medio Oriente
  Tuttavia, prima ancora di approfondire gli aspetti numerici, che indubbiamente hanno un significato sostanziale, è davvero affascinante approfondire la traiettoria che ha preso l’ambizioso concetto degli Accordi di Oslo e del Protocollo di Parigi, spesso indicato come “Nuovo Medio Oriente”. La nascita di questo termine deve molto al defunto presidente israeliano Shimon Peres, che lo coniò per la prima volta durante il vertice economico dell’ottobre 1994 a Casablanca, in Marocco, incentrato sul Medio Oriente e sul Nord Africa.
   Questo particolare evento ha lasciato un segno indelebile nella memoria di tutti i partecipanti, caratterizzato dalle alte promesse e aspirazioni che hanno animato le discussioni e le interazioni. Una massiccia assemblea di oltre 1.500 eminenti politici, capi di Stato, rappresentanti di organizzazioni, aziende e media si è riunita nella pittoresca cittadina costiera che deve la sua fama principalmente all’iconico film Casablanca del 1942, con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.
   Quattro aerei pieni sono partiti da Israele per la conferenza. La delegazione ufficiale ha portato con sé un pesante libro di 400 pagine, ricco di mappe meticolosamente realizzate, diagrammi, fotografie suggestive e grafici informativi. Il titolo del libro, Opzioni regionali per lo sviluppo e la cooperazione, rispecchiava perfettamente il suo contenuto. Questo documento completo illustrava l’ambiziosa visione di Shimon Peres per la costruzione di un Medio Oriente rinvigorito.
   Il documento tracciava iniziative pragmatiche in vari settori: agricoltura, energia, trasporti, gestione delle acque e turismo. In particolare, queste iniziative erano destinate a promuovere la collaborazione tra Israele, Siria, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Stati del Nord Africa. È interessante notare che l’elenco dei progetti (e le dichiarazioni di Peres all’epoca) omettevano in modo evidente qualsiasi riferimento ai palestinesi come organo di governo con un interesse a plasmare il loro destino. In sostanza, i palestinesi sono stati assenti dalla narrazione delle discussioni e delle aspirazioni del vertice.
   Il vertice di Casablanca è stato caratterizzato durante la cena da calorosi abbracci tra il presidente americano Bill Clinton e l’omologo russo Boris Eltsin, da lunghi discorsi che hanno dipinto vivide visioni di un futuro promettente per tutti i partecipanti, eppure, sorprendentemente, ha portato a zero – sì, avete letto bene, zero! – accordi concreti. Quando le delegazioni sono partite, le loro mani erano rimaste vistosamente vuote.
   Il documento che la delegazione israeliana portava con sé ha avuto tante versioni quanti sono stati i vertici economici mediorientali che si sono succeduti. Tra questi, Rabat (pochi giorni prima del tragico assassinio di Rabin), Il Cairo (dopo il primo trionfo elettorale di Netanyahu) e uno tenutosi sulla sponda giordana del Mar Morto.
   È sorprendente che questi incontri non abbiano prodotto nulla di sostanziale in termini di risultati concreti. La grande visione di creare reti elettriche transfrontaliere è rimasta irrealizzata, gli sforzi congiunti per sviluppare siti turistici comuni sono rimasti inafferrabili, gli ambiziosi piani per strade e ferrovie transfrontaliere hanno continuato a persistere come aspirazioni irrealizzate e persino gli sforzi di collaborazione per affrontare la crescente crisi idrica hanno incontrato una fine prematura.
   L’idea di un canale d’acqua interconnesso che collegasse il Mar Rosso e il Mar Morto, un tempo propagandata come una svolta epocale, ora langue nell’oscurità. L’integrazione di Israele nel più ampio quadro economico mediorientale è rimasta un sogno rimandato, un’aspirazione che ha preso piede solo in tempi recenti, soprattutto nell’ambito specifico dell’esplorazione e dello sfruttamento del gas naturale.
   Tra le poche storie di successo c’è l’azienda tessile Delta, guidata dal defunto sostenitore della pace Dov Lautman, che ha aperto fabbriche di cucito sia in Giordania che in Egitto, sfruttando le agevolazioni doganali statunitensi. È opportuno sottolineare che i bilanci destinati alla difesa nella regione sono rimasti in gran parte inalterati, sfidando le riduzioni proposte da Rabin e Peres durante il vertice di Casablanca.
   I dati dell’economia palestinese sono compilati e analizzati dall’Ufficio centrale di statistica palestinese. Tre decenni fa, in seguito agli accordi di Oslo, questa responsabilità è passata dall’Ufficio centrale di statistica israeliano. Sebbene non intenda certo sminuire la competenza degli statistici palestinesi, ritengo sia essenziale esercitare cautela nell’attribuire un significato eccessivo ai numeri che presentano.
   Nel corso del tempo, i principali indicatori economici palestinesi vengono periodicamente rivisti, portando a una completa trasformazione delle prospettive generali, spesso in una luce notevolmente più favorevole. Inoltre, una parte significativa delle transazioni economiche nei territori è condotta in modo non ufficiale e non viene dichiarata. C’è una notevole mancanza di informazioni disponibili sulle dinamiche economiche di Gaza, controllata da Hamas, e sulla portata del suo afflusso finanziario.
   Inoltre, l’ufficio palestinese, spinto da esplicite motivazioni politiche, sta attualmente rilasciando i dati sull’attività economica dei territori in dollari statunitensi, una scelta che distorce significativamente la situazione reale. Il dollaro americano non ha corso legale in queste zone e non ha alcun ruolo nelle transazioni commerciali.
   È importante fare una chiara distinzione tra il prodotto interno lordo (PIL) nei territori sotto il governo dell’Autorità palestinese, che misura tutti i beni e servizi finali prodotti annualmente, e il reddito nazionale lordo (RNL) del popolo palestinese.
   Il RNL comprende varie fonti, come i guadagni derivanti dal lavoro in Israele e negli insediamenti israeliani in Cisgiordania (pari a circa 3 miliardi di dollari l’anno scorso), le rimesse dei lavoratori palestinesi impiegati nei Paesi del Golfo, gli aiuti forniti dalle nazioni sostenitrici (che variano da 800 milioni di dollari a un miliardo di dollari l’anno), nonché gli aiuti di varie agenzie delle Nazioni Unite. Di conseguenza, il PIL dell’Autorità palestinese rappresenta circa il 22-25% dell’RNL locale.
   Infine, la questione dei prezzi: Il costo della vita nei territori palestinesi è molto basso in generale. Pertanto, in termini di potere d’acquisto reale, il reddito pro capite di un palestinese è più alto di quanto possa far pensare il calcolo in dollari. Il database della Banca Mondiale fornisce stime del reddito pro capite aggiustato per la parità di potere d’acquisto (PPP) in Palestina (secondo il prestatore globale): 8.200 dollari l’anno scorso.
   A titolo di confronto, il PIL pro capite è stato di soli 3.700 dollari l’anno scorso. Il reddito pro capite corretto per le PPA nella sola Cisgiordania è stato stimato in 12.300 dollari. Il PIL pro capite, invece, era di soli 5.500 dollari. Questa cifra non riflette accuratamente il tenore di vita nei territori governati dall’Autorità palestinese in Cisgiordania.
   Tuttavia, le istituzioni economiche internazionali si basano sul PIL locale per descrivere la crisi economica palestinese. Questo approccio è problematico e demoralizzante, e non serve nemmeno ai loro stessi obiettivi.

• Tra Cisgiordania e Gaza
  Quando furono stipulati gli accordi di Oslo, non c’era un divario economico significativo tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel 1994, il reddito nazionale medio pro capite in Cisgiordania (esclusi gli insediamenti israeliani e Gerusalemme Est) era di 1.370 dollari, mentre nella Striscia di Gaza era di 1.260 dollari. Il divario era solo del 9%.
   All’apice della Seconda Intifada, nel 2002, il reddito pro capite di un residente palestinese in Cisgiordania era già superiore del 30% rispetto a quello della controparte di Gaza. Da allora, il reddito pro capite a Gaza è cresciuto del 45%, mentre in Cisgiordania è aumentato del 380%. In realtà, si tratta ora di due economie distinte con pochissimi legami tra loro, fatta eccezione per gli stipendi dei lavoratori del settore pubblico-civile nella Striscia, che sono ancora pagati dalle casse dell’AP a Ramallah.
   La situazione economica di Gaza è disastrosa. Quasi il 40% della forza lavoro è senza lavoro e il salario medio locale è di 1.200 NIS al mese (312 dollari). Gli aiuti dei Paesi donatori vengono inghiottiti nel labirinto finanziario della burocrazia di Hamas. Le esportazioni attraverso i porti israeliani incontrano ostacoli burocratici e di sicurezza. Gli investimenti in infrastrutture cruciali sono ben al di sotto del necessario.
   L’approvvigionamento energetico è intermittente, l’acqua è inquinata, la densità abitativa nei campi profughi aumenta di anno in anno e l’accesso ai servizi sanitari e scolastici fondamentali è tutt’altro che adeguato. La morsa della povertà si rifiuta di allentarsi.
   Un lato positivo: Da quando la leadership di Hamas a Gaza è stata sostituita, le questioni socio-economiche sono state messe in cima alle priorità di Yahya Sinwar. C’è stata una notevole ripresa dell’attività imprenditoriale, alcuni progetti nei settori dell’energia e dell’acqua sono finalmente in fase di completamento e Israele sta concedendo permessi di ingresso a migliaia di lavoratori.
   Rispetto a Gaza, i territori governati dall’AP in Cisgiordania sono un mondo completamente diverso. Il periodo post-Oslo può essere diviso in quattro fasi: La prima è quella della rapida crescita e della prosperità fino al 2001. Ricordate le gite di massa al casinò di Gerico e gli acquisti degli israeliani nei mercati delle città palestinesi vicine alla Linea Verde? Poi, due anni di Intifada hanno brutalmente cancellato tutti questi risultati. Tuttavia, da allora e fino ad oggi, i palestinesi sono riusciti a mantenere un sorprendente miracolo economico.
   Per i palestinesi della Cisgiordania, gli ultimi 20 anni sono stati caratterizzati da crescita, miglioramento del tenore di vita, notevoli progressi nella governance economica, esitante ma continuo afflusso di investimenti stranieri e una costante lotta civile contro le restrizioni e i blocchi israeliani.
   Il reddito pro capite è aumentato dell’8,5% all’anno, superando di gran lunga ogni realistica previsione. Il risultato statistico: una significativa riduzione del divario di reddito pro capite rispetto a Israele (4,5 volte inferiore se aggiustato per il potere d’acquisto).
   Secondo i dati, il totale degli aiuti all’Autorità palestinese negli ultimi 20 anni ammonta a 40 miliardi di dollari. Ogni famiglia palestinese in Cisgiordania ha un telefono cellulare (anche se solo 3G, non 4G o 5G), un frigorifero e un’antenna parabolica sul tetto. Il 70% ha un computer desktop o portatile, il 90% ha Internet a casa e circa un terzo possiede un’auto privata. Un quarto di milione di giovani palestinesi sta seguendo una formazione universitaria e altri 15.000 sono iscritti ai community college.
   D’altra parte, solo il 77% degli uomini e il 16% delle donne partecipano alla forza lavoro. La disoccupazione, nonostante le opportunità di lavoro in Israele, rimane a due cifre, al 12%. Le esportazioni verso Israele e la Giordania sono marginali, il deficit commerciale è molto alto e le sfide di bilancio si intensificano man mano che Israele, per ragioni politiche e di sicurezza, ritarda il trasferimento dei fondi che deve ai palestinesi in base al Protocollo di Parigi.
   Ho avuto numerose conversazioni con economisti palestinesi veterani. Continuano a sognare di avere il pieno controllo sul loro destino economico e sperano che si realizzi. «Avete preso il controllo della nostra economia», mi hanno detto con amarezza.
   “Perché non dovremmo beneficiare anche noi delle ricchezze minerarie del Mar Morto, dalla sua parte palestinese?”, chiedono. “Perché non sviluppare insieme a voi l’agricoltura nella Valle del Giordano, dove la maggior parte delle sue terre non sono sfruttate? E che fine ha fatto il principio fondamentale della libera circolazione di persone, capitali e iniziative, come promesso nel Protocollo di Parigi?”. Non è così che si immaginava l’economia palestinese in tre decenni.
   Anche noi israeliani non immaginavamo che dopo tre decenni saremmo stati ancora così lontani dal realizzare i principi delineati nei lontani accordi di Oslo.

• Un’economia 3:3:3
  Secondo un nuovo sondaggio sociale dell’Ufficio centrale di statistica, la metà degli israeliani dai 20 anni in su ritiene che i media ritraggano la realtà israeliana come “peggiore di quanto sia in realtà”. Questa metà comprende ora anche un economista di spicco, il Prof. Eytan Sheshinski (che sarà presto insignito del Premio Israele per i risultati ottenuti nella sua vita).
   In un’intervista rilasciata alla radio KAN BET la scorsa settimana, ha dichiarato: «La stampa economica dipinge un quadro più fosco della realtà. L’economia non è nella crisi che i pessimisti avevano previsto. Sono sorpreso di me stesso per aver detto questo».
   Sheshinski ha condiviso la sua valutazione prima della pubblicazione dei dati che indicano un tasso di inflazione annuale del 3,3% a luglio, un tasso di crescita reale del 3% nel secondo trimestre dell’anno e un tasso di disoccupazione del 3,4%. Sembra che l’economia stia convergendo verso il magico numero 3. Se confrontato a livello globale, questo dato appare ancora più impressionante.
   Allora perché lo shekel si è indebolito? Dopo tutto, la differenza tra importazioni ed esportazioni, o deficit commerciale, si è ridotta del 20% in soli sei mesi, il bilancio internazionale mostra un surplus di circa 20 miliardi di dollari quest’anno e le riserve di valuta estera hanno raggiunto nuovi massimi.
   Come mai, allora, il dollaro si sta apprezzando in un Paese con tali riserve valutarie? Secondo il defunto economista ebreo-americano e premio Nobel Paul Samuelson, ci sono tre cose che fanno impazzire le persone: la ricerca del rispetto, l’avidità e il tentativo di capire i mercati finanziari. In altre parole, non provateci nemmeno.
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Da Yedioth Ahronoth, 20/08/23

(Rights Reporter, 21 agosto 2023)

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"Il popolo ebraico torna al suo Padre in cielo”

Tra immagini mediatiche di disordini e rivolte, un importante rabbino vede un numero record di israeliani che studiano la Bibbia.

di Ryan Jones

GERUSALEMME - Israele è in subbuglio. Proteste di massa settimanali, disordini,  diffuse divisioni sociali, caos nelle file dell'esercito (IDF): è questo il modo in cui i media tradizionali ritraggono la situazione in Israele.
   Un importante rabbino israeliano ha una visione molto diversa, basata su statistiche ignorate dai media tradizionali.
   Secondo il rabbino Hagai Lundin, questo è l'anno migliore dalla rinascita di Israele nel 1948 per quel che riguarda gli israeliani che si rivolgono a Dio.
   In un articolo pubblicato dalla National Religious Press, Lundin ha osservato che nel prossimo anno ebraico (che inizia con Rosh Hashanah a metà settembre), oltre 180.000 ebrei in Israele studieranno formalmente la Torah in istituzioni riconosciute in tutto il Paese, con un aumento del 6-10% dalla pandemia del coronavirus.
   E non è tutto.
   "Le yeshiva sono stracolme, le case di studio biblico femminili stanno spuntando come funghi e per ogni posto vacante nelle brigate di fanteria dell'IDF ci sono otto diplomati dei corsi di preparazione religiosa", ha scritto il rabbino.
   Inoltre, ha sottolineato che, a differenza degli obiettori di coscienza della frangia sinistra della società, sempre più giovani ebrei religiosi si offrono volontari per il servizio militare e sempre più ebrei ultraortodossi entrano nella forza lavoro.
   "Secondo i profeti di sventura, i giovani sono al collasso, inondati da smartphone, disobbediscono ai genitori e alle istituzioni in cui sono cresciuti e oscillano tra la depressione clinica e l'abbandono del Paese. Ma si scopre che la realtà, come sempre, è diversa da come viene rappresentata dai media". Lundin prosegue. È vero, i problemi ci sono, e sono tanti; ma c'è qualcosa di più forte: il desiderio di un significato, o quello che noi chiamiamo "vicinanza a Dio"".
   In effetti, negli ultimi decenni Israele si è sempre più orientato verso il conservatorismo religioso. Il rabbino Lundin afferma che oggi circa l'80% degli ebrei israeliani può essere considerato almeno leggermente religioso e stima che dei sette milioni di ebrei in Israele, ben tre milioni pregheranno al Muro del Pianto di Gerusalemme nelle prossime festività.
   “Consiglio a tutti di smettere di avere paura", ha concluso il rabbino. "Il popolo ebraico sta tornando al suo Padre in cielo e non c'è nulla che possa fermarlo", ha aggiunto.
   Il rabbino Lundin è attualmente a capo della yeshiva Hesder nella città centrale israeliana di Holon. Il programma Hesder consente ai giovani ebrei religiosi israeliani di combinare lo studio della Torah con il servizio militare.

(Israel Heute, 21 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele: lo shekel tocca il livello più basso dal 2017 contro il dollaro e l'euro

Lunedì il dollaro era scambiato a 3,8039 shekel, mentre l'euro a 4,12 shekel.

La valuta israeliana, lo shekel, continua a perdere terreno nei confronti del dollaro statunitense, raggiungendo lunedì il livello più basso dal 2017: a 3,8039 shekel per il dollaro. Dall'inizio della settimana precedente, lo shekel si è svalutato del 2% rispetto al dollaro e ha perso il 5% del suo valore dall'inizio di agosto.
   Lo shekel si è indebolito anche nei confronti dell'euro, perdendo circa il 3% dall'inizio del mese. Alla fine della scorsa settimana, il tasso di cambio era di 4,13 shekel per euro. Di fronte a questo deprezzamento della valuta, gli analisti delle banche e delle società di investimento si aspettano che la Banca d'Israele aumenti il tasso di interesse dello 0,25% il 4 settembre, portandolo al 5%. Di conseguenza, il tasso di interesse primario dovrebbe salire al 6,5%, dall'1,6% del 2022. Alcuni analisti ritengono che il dollaro potrebbe presto raggiungere la soglia dei quattro shekel, alimentando i timori di un ulteriore aumento dei tassi di interesse.
   L'ex ministro delle Finanze israeliano, Avigdor Liberman, ha criticato duramente il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo successore al ministero delle Finanze, Bezalel Smotrich, per questa caduta della valuta nazionale. Su Twitter, il leader del partito di opposizione Yisrael Beytenu ha dichiarato che "i discorsi e le chiacchiere del primo ministro Netanyahu e del ministro delle Finanze Smotrich non possono nascondere il fatto che il dollaro sta toccando un massimo di cinque anni a 3,8 shekel".
   Gli analisti attribuiscono la debolezza dello shekel alle preoccupazioni per l'attuale situazione politica in Israele.

(i24, 21 agosto 2023)

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Questo governo sta alienando gli israeliani dall’identità ebraica del paese

Nei sondaggi, non solo gli israeliani laici ma anche gran parte di quelli tradizionalisti e osservanti si dichiarano contrari alla coercizione religiosa e si riconoscono sempre meno nelle politiche promosse dal trio Smotrich/Ben-Gvir/Maoz.

di Daniel Goldman

Se dovessimo chiedere agli israeliani “qual è la questione più controversa e divisiva dell’attuale governo?” sono sicuro che la maggior parte risponderebbe: le riforme giudiziarie e il movimento di protesta da esse innescato. Ma c’è una seconda arena che non si può trascurare ed è il tessuto ebraico della società israeliana: invece di essere fonte di solidarietà, è diventata un motivo di divisione. L’aspetto tragico è che il governo che affermava di voler mettere l’identità ebraica del paese al centro della sua agenda sta attuando politiche che invece allontanano le persone dal loro ebraismo, persino all’interno della comunità religiosa.
   Circa sei mesi fa, in Israele è entrato in carica un nuovo governo. Questo governo issava due bandiere: quella di una coalizione totalmente di destra e quella che poneva al centro l’identità ebraica. In un mondo di politiche identitarie, c’è persino un nome per indicare questo schieramento: “il blocco dei fedeli” (o “degli osservanti”) che comprende il Likud, il partito Sionista Religioso con i suoi due partiti satelliti, e i due partiti haredi (ultra-ortodossi). L’importanza di questo brand politico, e della sintesi delle sue due anime (destra+religione), sta nel fatto che determina un’implicita realtà politica secondo la quale coloro che sono all’interno della coalizione sono di destra e favorevoli al rafforzamento dell’identità ebraica del paese, mentre coloro che sono al di fuori della coalizione sarebbero tutto l’opposto.
   Al centro di questa aggregazione politica c’è il partito Sionista Religioso, formato da una mini-coalizione di tre partiti che alle elezioni generali si sono presentati in una lista congiunta (per superare il quorum ndr): il partito Sionista Religioso vero e proprio del ministro delle finanze Bezalel Smotrich, il partito Otzma Yehudit del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il partito Noam che ha un solo parlamentare, il vice ministro Avi Maoz. Sebbene sostengano di rappresentare l’intera comunità dei sionisti religiosi, e a volte persino di tutti gli israeliani masorti (ebrei tradizionalisti anche se non strettamente osservanti), la realtà è ben più complessa.
   Contrariamente alle priorità indicate dal primo ministro Benjamin Netanyahu nei primi giorni del nuovo governo, le cose di fatto si sono sviluppate in modo assai diverso. L’Iran e altre questioni di sicurezza sembrano passate in secondo piano, la governance e la lotta alla criminalità comune appaiono in caduta libera. Viceversa, abbiamo assistito a una gestione molto aggressiva del sistema giuridico. E lo stesso approccio aggressivo viene impiegato per affrontare la questione dell’ebraismo e dei rapporti tra stato e religione. Può anche darsi che la coalizione aspiri a mettere l’ebraismo al centro della scena, ma di fatto gran parte della popolazione percepisce la coalizione come egemonizzata da una minoranza religiosa che impone a tutti la sua interpretazione dei valori ebraici.
   Qualcuno potrebbe supporre che ciò eserciti un effetto negativo solo sugli israeliani laici, quelli che ovviamente si sentono più alienati dalle politiche coercitive su stato e religione. Tuttavia, la ricerca che abbiamo svolto come Institute for Jewish and Zionist Research ci restituisce un quadro diverso. In un recente sondaggio condotto fra gli israeliani sionisti religiosi e tradizionalisti, la maggioranza conviene che il governo sta effettivamente alienando la popolazione dalla sua identità ebraica. Anche se non è possibile indicare facilmente una specifica decisione politica o proposta legislativa che abbia innescato questa reazione, sappiamo da sondaggi precedenti che gran parte della popolazione religiosa, e certamente di quella tradizionalista, si dichiara contraria alla coercizione religiosa. Con l’influenza esercitata da Avi Maoz sul sistema educativo, l’aumento dei poteri dei tribunali rabbinici e la drammatica legislazione che rafforza il potere del monopolio dello stato sulle nomine e sulla politica rabbinica a livello nazionale, non sorprende che il governo sia visto meno come il governo dell’identità ebraica e più come il governo della coercizione e dell’alienazione religiosa.
   Tenendo presente questo, si possono considerare altri due risultati del sondaggio. Nella sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot dello scorso 30 giugno, l’autorevole commentatore politico Amit Segal ha osservato che il partito Sionista Religioso di Smotrich rappresenta una parte molto piccola dell’intera comunità sionista religiosa. Nel suo articolo (che abbiamo citato in una domanda del nostro sondaggio), afferma che il partito di Smotrich non solo non rappresenta affatto l’intera comunità, ma potrebbe anche rappresentare niente più che un sotto-segmento del movimento dei coloni: “da Hebron e Yitzhar, ma non Gush Etzion o Beit El, e a malapena Givat Shmuel” (comunità ebraiche in Cisgiordania caratterizzate da diversa composizione demografica e politica ndr). Nel nostro sondaggio, abbiamo chiesto agli israeliani religiosi e tradizionalisti se condividono questa valutazione, e su tutto l’arco politico (dai più liberal ai più conservatori) una netta maggioranza si è detta d’accordo. Si tratta di un dato notevolissimo, soprattutto considerando che, a quanto sappiamo, quasi la metà dei sionisti religiosi israeliani ha votato per Smotrich/Ben-Gvir/Maoz.
   Il che ci porta alla seconda interessante scoperta del sondaggio. Ad oggi, oltre un quinto di coloro che hanno votato lo scorso novembre per Smotrich/Ben-Gvir/Maoz, se si andasse alle urne oggi non li voterebbe di nuovo. Sappiamo che questo dato non è di per sé sufficiente per creare una nuova mappa politica. Tuttavia la dissociazione potrebbe aumentare, specie se vi fosse una seria proposta settoriale alternativa per la quale i sionisti religiosi potessero votare.
   Metà dei membri dell’attuale governo sono religiosi o haredi (ultra-ortodossi), il che rende ancora più notevole il fatto che sta riuscendo nella prodezza di causare tanto danno e indebolire il senso di connessione e affiliazione degli israeliani con il suo carattere ebraico. Ciò che rende tragica questa prodezza è che ciò non avviene nonostante le loro politiche, ma a causa di esse.
   Il governo viene accusato da molti di minare le basi della democrazia israeliana, ma sta anche causando gravi danni al modo in cui gli israeliani si sentono riguardo all’ebraismo e all’identità ebraica del paese, nel senso più profondo della parola.
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Da Jerusalem Post, 20/8/23

(israele.net, 21 agosto 2023)

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Israele investe nell'aliyah di medici ebrei

Israele è alla ricerda di medici ebrei per rimediare alla carenza di personale medico

Israele, alle prese con una carenza di personale medico che sta avendo un grave impatto sul suo sistema sanitario, ha preso un'iniziativa coraggiosa per attirare e sostenere i medici ebrei di tutto il mondo a fare l'aliyah e contribuire ad arricchire il settore medico del Paese. Con l'approvazione del governo prevista per domenica, Israele investirà 1,65 milioni di shekel per facilitare l'aliyah di 195 medici ebrei idonei ai sensi della Legge del Ritorno.
  La carenza di medici e di personale sanitario è una delle principali preoccupazioni di Israele, in particolare nelle aree remote dove gli ospedali e le strutture sanitarie sono gravemente carenti di personale. Per porre rimedio a questa situazione critica, il Paese ha adottato una strategia innovativa, incoraggiando i medici ebrei di tutto il mondo a stabilirsi in Israele e a contribuire al suo sistema sanitario. Durante l'anno accademico 2023, più di 200 medici provenienti dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) hanno risposto a questo appello e sono arrivati in Israele. Nel luglio 2023 hanno superato con successo gli esami di abilitazione alla professione medica, con l'obiettivo di raggiungere un totale di almeno 270 medici entro la fine dell'anno solare.
  Il budget approvato per questo programma essenziale comprende 1 milione di NIS (260.000 dollari) dal Ministero della Salute e 650.000 NIS (170.000 dollari) dal bilancio del Ministero del Negev, della Galilea e della Resilienza nazionale. L'obiettivo è chiaro: colmare il divario nella forza lavoro medica e rafforzare la capacità del sistema sanitario israeliano, in particolare nelle regioni periferiche del Paese.
  Il successo del programma fino ad oggi è innegabile. Più di 1.200 medici hanno già completato il programma di aliyah e scelto di stabilirsi in Israele. Circa il 95% dei laureati del programma è immigrato in Israele e si è unito al sistema sanitario del Paese. Si registra anche una tendenza positiva nella loro distribuzione geografica: la maggior parte dei medici sceglie di rimanere nelle città in cui ha vissuto durante il programma o nelle regioni circostanti. Questa tendenza contribuisce notevolmente a rafforzare la forza lavoro medica nelle regioni meno densamente popolate di Israele.
  Il programma di aliyah è rivolto a giovani medici della diaspora di età compresa tra i 22 e i 40 anni. Della durata di otto mesi, offre un equilibrio tra studi teorici e formazione pratica. L'efficacia di questo programma si riflette in un tasso di superamento degli esami di abilitazione israeliani dell'85%. I luoghi di formazione includono le città di Be'er Sheva e Haifa, creando un'esperienza coinvolgente e formativa per i medici in erba.
  Questa iniziativa segna un significativo passo avanti nel tentativo di Israele di rafforzare il proprio settore medico e garantire un'ottima qualità delle cure alla popolazione. Accogliendo questi medici di talento provenienti da tutto il mondo, Israele afferma il suo impegno per la salute e il benessere dei suoi cittadini, arricchendo al contempo il suo tessuto medico e consolidando il suo ruolo di destinazione attraente per i professionisti della sanità su scala globale.

(JForum.fr, 20 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it )

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Il piacere di lasciarsi stupire: gli itinerari nascosti di Israele / Mitzpe Revivim

di Fabiana Magrì

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Sono un po’ remote, forse un po’ di nicchia e fuori dai sentieri battuti. Ma proprio per questo sono sorprendenti le tre destinazioni che Shalom ha selezionato per chi ama la natura, la storia e le diversità culturali di Israele. Per chi già conosce le mete più famose ma non per questo ha perso la curiosità. Agamon Hula, Revivim e Kfar Kama sono luoghi che custodiscono storie affascinanti da scoprire.
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Per dare il nome di Revivim (in ebraico, acquazzoni) al “mitzpe” (avamposto) più a sud di qualsiasi altro insediamento ebraico, nel cuore del deserto e circondato dal nulla a perdita d’occhio, ci voleva la speranza e l’ottimismo di un gruppo di tenaci pionieri. Fondato nel 1943 sotto il Mandato britannico, cinque anni prima della fondazione dello Stato d’Israele e in piena Shoah in Europa, la prima sfida fu consolidare la proprietà della terra acquistata dai beduini attraverso la costruzione di impianti per l’irrigazione e campi coltivati in una landa deserta e desolata, sfuggendo al divieto del “White Paper” inglese che vietava l'istituzione di insediamenti ebraici. Era invece consentita l’installazione di stazioni agricole sperimentali. La stazione meteorologica fornì per la prima volta informazioni accurate sui livelli di precipitazioni, sul tasso di evaporazione, sulla forza dei venti nelle giornate umide e in quelle secche e sulle temperature diurne e notturne. Così a Revivim si testavano i raccolti che potevano resistere nel Negev e si studiava la capacità di adattamento dell’uomo nel clima estremo del deserto.
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Ma in realtà si iniziava a popolare la regione del Negev. Il primo gruppo di tre giovani pionieri arrivò nell’estate del 1943. Poco dopo, altri nove li raggiunsero. Erano tutti ventenni, alcuni dei quali sposati. Lasciarono mogli e figli nelle loro case di Rishon LeZion e il loro primo rifugio fu una grotta di epoca bizantina. Un anno dopo, li raggiunsero le prime donne. Solitudine, isolamento e agguati erano all’ordine del giorno. Come in tutti i “mitzpim”, anche a Revivim fu costruita una piccola fortezza di due piani con una torre di avvistamento all'interno di un cortile circondato da un muro.
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Nel maggio 1947, quando i membri della Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite andarono a Revivim per valutare la capacità di resa economica del Negev, in mezzo al deserto trovarono campi di cipressi, erba medica e ulivi. Dopo quella visita, la raccomandazione di includere il Negev nel futuro Stato ebraico non avrebbe potuto essere più favorevole.
Alla fine del 1947, dopo il ritiro dell'esercito britannico dalle sue basi, gli insediamenti del Negev iniziarono a fortificarsi e a prepararsi alla possibilità di un'invasione da parte dell'esercito egiziano, nascondendo arsenali di armi negli “slikim”, barili di ferro conservati nelle grotte. Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 Revivim rimase dietro le linee egiziane per diversi mesi. I trenta membri del kibbutz vivevano in rifugi sotterranei e ricevevano rifornimenti di cibo da convogli che percorrevano le linee di battaglia e per via aerea. Un aereo bimotore Dakota DC3 è ancora parcheggiato nel retro della fortezza e si può visitare, salendo a bordo fino alla cabina di pilotaggio. Dieci dei trenta uomini morirono nella Guerra d’Indipendenza. Ma oggi Revivim, con circa 800 residenti, è uno dei kibbutzim più fiorenti del Negev.

(Shalom, 20 agosto 2023)

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Ginevra ebraica

La città svizzera è oggi sede di una delle comunità ebraiche più importanti del Paese con circa 1.200 famiglie ashkenazite e sefardite sostenute da una ricca rete di servizi

di Camilla Marini

Se è vero che uno dei modi migliori per conoscere la storia di una comunità è visitarne i luoghi di preghiera e di sepoltura, per studiare quella di Ginevra saremo costretti a uscire dai confini. Sia del territorio comunale sia di quello nazionale. La città svizzera è oggi sede di una delle comunità ebraiche più importanti del Paese, la Communauté Israélite de Genève , con circa 1.200 famiglie ashkenazite e sefardite sostenute da una ricca rete di servizi che comprende due sinagoghe, un centro comunitario, un asilo, due scuole primarie e secondarie, una scuola ebraica per adulti, un Talmud Torah, un centro giovanile e uno per anziani, un centro culturale, una biblioteca e diversi negozi e ristoranti kosher. Se però cerchiamo i cimiteri, dovremo allontanarci dal centro cittadino e raggiungere i paesi vicini di Carouge e Veyrier.
  Entrambi parte del cantone di Ginevra, questi due indirizzi sono un buon modo per avvicinarci alla storia degli ebrei ginevrini. Citata come Quadrivium già nell’Alto Medio Evo, la Carouge che conosciamo è stata costruita tra il 1760 e il 1770 sotto Vittorio Amedeo III di Savoia. Pare che i primi ebrei, quasi tutti provenienti dall’Alsazia, fossero giunti qui nel 1779, approfittando delle politiche di accoglienza e tolleranza del re di Sardegna. Con il Trattato di Torino del 1754, il territorio era infatti passato dalla Repubblica di Ginevra al Regno di Sardegna. Nel 1788, il conte di Veyrier, Pierre-Claude de la Fléchère, aveva ceduto gratuitamente parte della sua ricca dimora a Carouge perché la manciata di famiglie che ai tempi viveva in paese vi potesse istituire una sinagoga e una scuola. La comunità, che in quel periodo aveva potuto darsi un proprio statuto, avrebbe goduto di totale libertà di insediamento nei vari rioni della città sia durante il periodo sardo sia in quello successivo francese. Alcuni si stabilirono nelle zone ricche del centro città, sul lato di rue Saint-Victor, altri nei quartieri popolari sul lato di rue d’Arve. Oggi il viaggiatore a caccia di testimonianze ebraiche troverà a Carouge una targa commemorativa sulla facciata della casa del conte de la Fléchère che ne ricorda la generosità, ma soprattutto potrà visitare il cimitero ebraico di rue de la Fontenette.
  Attivo fino al 1970, anche se teoricamente alcuni lotti sarebbe ancora utilizzabili dai discendenti di quanti vi sono sepolti, questo luogo è stato restaurato nel 1996 e accoglie circa 920 tombe su un ettaro di estensione. Studiandone le lapidi si potrà fare un ripasso dei flussi migratori che hanno interessato il territorio. La parte più antica, riconoscibile dal terreno erboso e dalle stele verticali tipiche dell’architettura funeraria ashkenazita, racconta dei primi ebrei provenienti dall’Alsazia. I monumenti sono in roccia sabbiosa dell’Arve, ardesia o pietra grezza, con le iscrizioni perlopiù incise in ebraico. Una sezione più recente risale all’epoca in cui la comunità ebraica di Carouge era diventata tutt’uno con quella di Ginevra. Si parla del 1852, quando gli israeliti acquistarono un nuovo lotto e lo impiegarono per sepolture influenzate dall’architettura del Secondo Impero francese. La semplicità delle stele antiche lasciano qui il posto a sarcofagi, obelischi e altri colonnati neoegiziani, compare il marmo bianco e le iscrizioni a caratteri ebraici lasciano sempre più spazio ai caratteri latini. Il settore occupato a partire dal 1874  è non solo molto più grande rispetto ai precedenti, ma segna l’affermazione del marmo e di un certo gusto per il monumentale, con drappeggi, ghirlande e altri motivi a rilievo. Non mancano stele di forme diverse e imponenti tombe dal tetto a quattro falde.
  L’altro cimitero ebraico di Ginevra si trova invece tra Veyrier ed Etrembières, letteralmente a cavallo tra il confine svizzero e quello francese. Ancora in funzione, è stato fondato nel 1920 e accoglie più di 3.000 sepolture, comprese quelle di diverse personalità importanti, tra cui il banchiere e filantropo Edmond Safra, il segretario generale del World Jewish Congress Gerhart Riegner, il “re dei sigari” Zino Davidoff e lo scrittore Albert Cohen. Con due ingressi, uno in Svizzera e l’altro in Francia, il cimitero risente di una legge del 1876, successiva al placarsi dei conflitti religiosi tra protestanti e cattolici. Come racconta Rosine Nussenblatt sulla rivista di genealogia ebraica Avotaynu, da quel momento in poi i cimiteri erano diventati di proprietà dei Comuni e i morti dovevano essere seppelliti senza distinzione di religione. Un bel guaio per gli ebrei, che restando nel territorio loro destinato avrebbero incontrato difficoltà nel venire sepolti nel rispetto della Legge, ossia rivolti a Est, verso Gerusalemme. Per risolvere il problema si era così deciso di sconfinare, mantenendo l’ingresso in Svizzera ma collocando le tombe in Francia. Nel 1930 la Comunità ebraica di Ginevra aveva incaricato l’architetto ginevrino Julien Flegenheimer (lo stesso del Palazzo delle Nazioni Unite) di costruire un oratorio e un centro funerario da collocare nella parte svizzera. Questo dal 1981 ospita una monumentale vetrata creata dell’artista Régine Heïm che rappresenta la Genesi. Tornando alla sua posizione eccezionale, questa ha reso il cimitero un punto di passaggio privilegiato per quanti durante la seconda guerra mondiale fuggivano dal nazismo cercando rifugio in Svizzera, così come, nei mesi che precedettero la nascita dello Stato di Israele, per quanti volevano raggiungere clandestinamente la Palestina.
  Dopo averne visitato i cimiteri possiamo ora permetterci di entrare finalmente a Ginevra e, battendone le vie, ripercorrerne anche le vicende ebraiche passate. Se i primi insediamenti ebraici dell’età moderna nell’attuale territorio cantonale risalgono a fine Settecento è perché oltre tre secoli prima gli ebrei erano stati espulsi dalla città. Fino al 1490 esisteva invece una comunità andata formandosi a partire dal 1392 e composta perlopiù dagli ebrei espulsi due anni prima dal Regno di Francia e qui benevolmente accolti dal conte di Savoia. Il quartiere in cui si erano insediati era quello di Saint-Germain, nelle strade intorno alla chiesa omonima, abitate anche da cristiani in un clima apparentemente pacifico. Come racconta Jean Plançon, storico dell’ebraismo ginevrino, a rompere gli equilibri ci aveva pensato Pierre Magnier, parroco e rettore della parrocchia di Saint-Germain, preoccupato per la presenza dei figli di Israele accano ai suoi fedeli. Dal 1408, con una prima petizione inviata al conte Amedeo VIII perché gli ebrei occupassero un settore specifico, all’istituzione di un quartiere ebraico chiuso sarebbero passati vent’anni, ma il 28 novembre 1428 Ginevra era diventata la sede di quello che può essere indicato come il primo ghetto della storia, precedente di 88 anni quello di Venezia.
  Chiamato Le Cancel proprio per la presenza di porte che ne chiudevano obbligatoriamente gli accessi, il quartiere accoglieva una trentina di famiglie, costrette a vivere in case che non potevano acquistare. I cancelli erano collocati tra rue de l’Écorcherie (parte dell’attuale rue des Granges) e vicino all’attuale fontana in Place du Grand Mézel. E se gli ebrei potevano continuare a commerciare in città durante il giorno, dovevano rientrare nel ghetto la sera. A questa misura coercitiva si accompagnava l’obbligo di indossare un segno distintivo a forma di dischetto giallo e un crescendo di discriminazioni e persecuzioni. Queste sarebbero sfociate in un pogrom il giorno dopo Pasqua del 1461 e all’espulsione definitiva, decisa dal Consiglio il 28 dicembre 1490. Fatta eccezione per qualche fugace passaggio e la libertà del periodo francese tra il 1798 e il 1813, gli ebrei non avrebbero più messo piede a Ginevra fino al 1816, dopo l’annessione del territorio di Carouge alla Repubblica e al cantone di Ginevra. Riacquisita la libertà di risiedere nel territorio solo nel 1841 e la cittadinanza ginevrina nel 1857, a partire da questo stesso anno gli ebrei poterono finalmente permettersi di iniziare a costruire anche il proprio tempio.
  La Sinagoga Beth-Yaacov, indicata anche come Grande Sinagoga di Ginevra è stata costruita tra il 1857 e il 1859 su progetto dall’architetto zurighese protestante Johann Heinrich Bachofen. Prima sinagoga eretta in città, è anche la prima in Svizzera a presentare un particolarissimo stile che associa lo stile orientale a caratteristiche est europee, con decorazioni neomoresche abbinate ad altre in stile fiorentino. Imponente ed elegante, spicca sull’omonima piazza con una facciata a strisce grigie e rosa, quattro torrette merlate coronate da cupole e una cupola centrale sormontata dalle Tavole della Legge. Classificata come monumento storico dal 1989, sorge in quello che all’epoca era un nuovo quartiere, ai piedi della piccola collina del centro storico, dove un tempo sorgevano le antiche fortificazioni. Aperta al pubblico tutte le prime domeniche del mese dalle 10 del mattino alla mezzanotte, può essere visitata con guida anche prendendo accordo con la Comunità Ebraica di Ginevra come indicato sul ricchissimo sito della Association Patrimoine Juif Genevois.
  Accanto alla Beth-Yaacov, di rito ashkenazita, va segnalata la Synagogue Dumas, sempre della CIG ma di rito sefardita, e la Hekhal Haness. Costruita tra il 1970 e il 1972 per volontà di Nessim Gaon, uomo d’affari ginevrino, e di sua moglie Renée, quest’ultima occupa un vasto spazio in Rte de Malagnou, è alta 25 metri e può ospitare fino a 400 fedeli, che possono arrivare a 1.000 annettendo al bisogno il salone delle feste dalla parete amovibile. Definita la più grande sinagoga sefardita contemporanea in Europa, si distingue per la sua particolarità architettonica, con tanto di giardino sul tetto, e l’impiego di materiali pregiati come il marmo veneziano, la presenza di mobili confortevoli e di maestosi lampadari. Al pianterreno vi si trova un circolo giovanile e sportivo con club di bridge mentre nel seminterrato accoglie un mikvah per i bagni rituali.

(JoiMag, 20 agosto 2023)

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Necessarie nuove indagini per ridurre l’incidenza di miocardite fatale indotta da vaccino COVID-19

Questa la conclusione di uno studio pre-print, che analizza casi di morte dopo il vaccino.

Il lavoro, che trovate qui, riporta una revisione sistematica di tutti i rapporti di autopsia pubblicati riguardanti la miocardite correlata alla vaccinazione COVID-19 fino al 3 luglio 2023. Tutti gli studi autoptici che includono la miocardite indotta dal vaccino COVID-19 come possibile causa di morte sono stati inclusi, senza imporre ulteriori restrizioni. La causalità in ciascun caso è stata determinata da tre revisori indipendenti con esperienza e competenza in patologia cardiaca.

    Sfondo - il rapido sviluppo e la diffusione diffusa di COVID-19 vaccini, combinati con un numero elevato di segnalazioni di eventi avversi, hanno portato a preoccupazioni sui possibili meccanismi di lesione, comprese le nanoparticelle lipidiche sistemiche (LNP) e distribuzione dell’mRNA, danno tissutale associato alla proteina spike, trombogenicità, disfunzione del sistema immunitario e cancerogenicità.
    Scopo - Lo scopo di questo revisione sistematica è quello di indagare sui possibili collegamenti causali tra COVID-19 somministrazione del vaccino e morte mediante autopsie e analisi post mortem.
    Metodi - Abbiamo cercato tutti i rapporti di autopsia e necropsia pubblicati relativi a Vaccinazione COVID-19 fino al 18 maggio 2023. Inizialmente abbiamo identificato 678 studi e, dopo aver selezionato i nostri criteri di inclusione, abbiamo incluso 44 documenti che contenevano 325 casi di autopsia e un caso di necroscopia. Tre medici indipendentemente hanno esaminato tutti i decessi e determinato se la vaccinazione COVID-19 fosse quella diretta causare o aver contribuito in modo significativo alla morte.
    Risultati - Il sistema di organi più implicato nel vaccino COVID-19 associato la morte è stata del sistema cardiovascolare (53%), seguito dal sistema ematologico (17%), il sistema respiratorio (8%) e sistemi di più organi (7%). Tre o più sistemi di organi sono stati colpiti in 21 casi. Il tempo medio dalla vaccinazione alla morte è stata di 14,3 giorni. La maggior parte dei decessi si è verificata entro una settimana dall’ultimo vaccino amministrazione.
    Un totale di 240 decessi (73,9%) sono stati giudicati in modo indipendente come direttamente dovuto o significativamente contribuito alla vaccinazione COVID-19.
    Interpretazione - La coerenza osservata tra i casi in questa revisione con noti eventi avversi del vaccino COVID-19, loro meccanismi e morte in eccesso correlata, accoppiato con la conferma dell’autopsia e il giudizio di morte guidato dal medico, suggerisce:

C’è un’alta probabilità di un nesso causale tra i vaccini COVID-19 e la morte nella maggior parte dei casi.

(Presskit, 20 agosto 2023)

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Una bella forma d'uomo

Questo articolo è stato scritto pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino (1989), un avvenimento che certamente molti non si aspettavano, almeno in quella forma così repentina. Quel crollo fu anche il segno del compimento di un processo che invece da qualche tempo si poteva prevedere: la fine del marxismo.

di Marcello Cicchese

Dunque, il marxismo è definitivamente affondato.
     Il naufragio è stato lungo e travagliato; molti sono stati i tentativi di aggiustare la rotta e di alleggerire la stiva della merce inutile e pesante. Alla fine il maestoso transatlantico si è inabissato per sempre, in acque profonde da cui non risalirà mai più.
     Eppure era bello a vedersi, attraente, soprattutto a guardarlo di lontano. Era un meraviglioso progetto di salvezza dell'umanità che coinvolgeva tutti gli aspetti migliori della persona: stimolava l'uomo intellettuale a produrre analisi rigorosamente scientifiche della realtà; spingeva l'uomo politico ad operare concretamente per trasformare questa realtà, senza limitarsi ad interpretarla; parlava alla coscienza dell'uomo comune, esortandolo ad avere una sensibile "coscienza di classe" e a inserire la sua ricerca di felicità personale nel grandioso progetto di liberazione dell'uomo che nel nome del marxismo si stava perseguendo.
     Sarebbe grossolano e fuorviante fermarsi adesso a considerare le nefandezze dei protagonisti delle varie incarnazioni storiche di quello "spirito" che per circa un secolo ha percorso la storia mondiale con il nome di comunismo. Le sopraffazioni, le ingiustizie, le crudeltà non sono certo una caratteristica esclusiva dei paesi "a socialismo reale", ma appartengono, in misura più o meno accentuata, a tutte le forme di governo umano, e in particolare a molti di quei governi che precedettero l'avvento del comunismo. Non è questo dunque il metro adatto per valutare una poderosa manifestazione dello spirito umano come il marxismo.
     Interessante e istruttivo è proprio considerare la dottrina marxista nel suo aspetto più attraente: quello teorico.
     Innumerevoli sono stati i pensatori che si sono richiamati al marxismo, che lo hanno chiosato, modificato, adattato. Lo hanno fatto anche molti cristiani, non solo cattolici (il che non sarebbe strano: ci deve essere un interfaccia cattolico per ogni immaginabile ideologia umana), ma anche protestanti. "Ci confessiamo cristiani e ci diciamo marxisti", proclamavano con compiaciuta sicurezza qualche anno fa i protestanti "storici" italiani di una certa corrente. E la cosa si può capire, perché la dottrina marxista era grandiosa, avvincente, bella. Sì, era bella, perché si poneva al servizio dell'uomo e gli offriva una percorribile via di liberazione. Appariva intelligente nelle analisi, realistica nelle valutazioni, concreta nelle proposte: come avrebbero potuto, dei cristiani preparati, attenti e impegnati, non prenderla in seria considerazione? Il falegname marxista aveva costruito un'ammirabile "figura umana", una "bella forma d'uomo", di cui poteva andare fiero.
     Era bella, ma era un idolo. Era un dio che "non aveva fatto i cieli e la terra", quindi era inesorabilmente destinato "a scomparire di sulla terra e di sotto i cieli" (Geremia 10:11). E il falegname marxista, nella sua follia, si è prostrato davanti all'opera delle sue mani, l'ha adorata, l'ha pregata, e le ha detto: "Salvami, poiché tu sei il mio dio".

    "Il fabbro lima il ferro, lo mette nel fuoco, forma l'idolo a colpi di martello e lo lavora con braccio vigoroso; soffre perfino la fame, e la forza gli viene meno; non beve acqua e si affatica. Il falegname stende la sua corda, disegna l'idolo con la matita, lo lavora con lo scalpello, lo misura con il compasso, e ne fa una figura umana, una bella forma di uomo, perché abiti una casa. Si tagliano dei cedri, si prendono dei cipressi, delle querce, si fa la scelta fra gli alberi della foresta, si piantano dei pini che la pioggia fa crescere. Poi tutto questo serve all'uomo per fare un fuoco, ed egli ne prende per riscaldarsi, ne accende anche il forno per cuocere il pane; e ne fa pure un dio e lo adora, ne scolpisce un'immagine, davanti alla quale si prostra. Ne brucia la metà nel fuoco, con l'altra metà prepara la carne, cuoce l'arrosto, e si sazia. Si scalda anche e dice: “Ah! mi riscaldo, godo a vedere questa fiamma!”. Con il resto si fa un dio, il suo idolo, gli si prostra davanti, lo adora, lo prega e gli dice: “Salvami, poiché tu sei il mio dio!” (Isaia 44:12-17).

Molti saranno i tentativi di reinterpretazione del marxismo, e probabilmente molti e acutissimi saranno gli articoli e i libri che si scriveranno per analizzare le condizioni e le cause che hanno favorito la nascita, la crescita, il deperimento e la scomparsa del colosso marxista. C'è da scommettere che verranno privilegiate le spiegazioni storicistiche, con cui si tenterà di giustificare il corso degli eventi attraverso l'analisi, inevitabilmente "storica", delle condizioni sociali, economiche e culturali del tempo, astenendosi rigorosamente da giudizi "semplicistici" che facciano ricorso a categorie universali di bene e di male, di vero e di falso. Scritti di questo tipo suscitano di solito in chi li legge un senso di ammirazione per l'acume, la sottigliezza, l'abilità con cui si analizzano, si padroneggiano, si concatenano fra loro elementi complessi e disparati, e si arriva a dare una spiegazione lucida di quello che è avvenuto e una previsione verosimile di quello che accadrà. Ma dopo un po' ci si accorge che queste brillanti analisi prospettiche assomigliano molto a certi ingegnosi e attraenti congegni che funzionano benissimo, girano perfettamente, ma non macinano niente. La realtà sta da tutt'altra parte.
     Noi cristiani dobbiamo tentare invece una valutazione spirituale di quello che è accaduto, non per sentirci i primi della classe, ma per rimanere in guardia e non rischiare di cadere sotto il fascino di una nuova "bella forma d'uomo" che qualche artista dell'ultim'ora potrà venire a proporci. E' possibile infatti che il clima culturale che ha favorito la nascita del marxismo possa preparare, pur nelle diverse condizioni storiche, un terreno fertile per un nuovo progetto di redenzione dell'umanità.
     La parola biblica che esprime bene l'essenza del marxismo sembra allora essere questa: menzogna . E gli uomini che hanno adottato questa visione della realtà e hanno creduto in essa meritano un solo nome: empi.
     La dottrina marxista è menzogna perché ha creduto, ritenendosi "scientifica", di sapersi adeguare alla realtà in modo ben più profondo e concreto di ogni altra teoria. Ha visto trappole e inganni da tutte le parti: nel capitalismo, nella democrazia, nella religione, nella morale comune; tutti sembravano contribuire a nascondere e mistificare una realtà che invece solo la teoria marxista era in grado di riconoscere e spiegare agli uomini. Ed è successo, invece, che proprio la realtà si è ribellata alla teoria. Per questo il crollo del marxismo è totale e irreversibile: una "filosofia della prassi" che sia svergognata dalla prassi non serve più a niente: va bene solo per essere relegata negli scaffali degli accademici. "Da quarant'anni in qua ho sbagliato tutto", ha detto tra il serio e il faceto un comunista 'storico' padano buttando il giornale sul tavolo alla notizia che il suo partito voleva cambiare nome. E aveva ragione: questa è l'amara realtà che tante persone semplici devono ingoiare in questi giorni. Proprio quelli che più candidamente hanno "sperato" nei frutti del marxismo, sono oggi i più "confusi", perché hanno la fondata sensazione di avere inseguito un miraggio.
     I marxisti convinti sono uomini empi, perché non hanno timor di Dio, dal momento che hanno pensato di poter parlare di liberazione, di redenzione dell'uomo prescindendo da Dio, quando non esplicitamente contro Dio. Si è voluto vedere nell'ateismo marxista un'esagerazione ottocentesca che poteva essere tranquillamente recisa senza che il corpo "scientifico" della teoria ne venisse danneggiato. Ma non si è capito che l'ateismo di fondo del marxismo sta proprio in quel supporto di scientificità che ha preteso di dare alla sua costruzione. La rivolta atea della cultura ottocentesca, che nella sua più vistosa forma filosofica si è esaurita abbastanza rapidamente, è proseguita in modo sotterraneo all'ombra di una cosiddetta "scientificità" attribuita alle più diverse costruzioni mentali dell'uomo. Messi alle strette, molti non saprebbero nemmeno da che parte cominciare, se dovessero dire che cosa significa esattamente quel cartellino "scientifico" che così volentieri applicano ai loro prodotti intellettuali; e tuttavia non sembrano disposti a rinunciarvi, perché è un marchio di garanzia molto ricercato in certi ambienti. Scientifico ha voluto essere il marxismo, scientifico il freudianesimo, scientifico il metodo storico-critico di lettura della Bibbia. E in tutti i casi si è voluto far credere che quello che la teoria produce è la migliore approssimazione possibile della realtà, e che lo scienziato è in grado di dominare meglio di chiunque altro questa realtà.
     Nel caso del marxismo, la cosiddetta scienza si è rivelata una menzogna , e lo scienziato un empio . Negli altri due casi citati (freudianesimo, metodo storico-critico) la rivelazione completa non si è ancora avuta, ma potrebbe anche non tardare molto.
     Riconoscere nel marxismo una "bella forma d'uomo" che per molto tempo ha costituito un idolo menzognero significa, come già detto, dare di questo fenomeno una valutazione spirituale,  non politica. Questo vuol dire che da un giudizio così radicalmente negativo del marxismo non può seguire in nessun caso una valutazione positiva del suo contrario politico. Gli uomini, su imbeccata dell'Avversario, sono capaci di costruirsi molte e diverse forme di idoli a seconda dei tempi e dei gusti; e proprio perché l'imponente idolo marxista è così fragorosamente rovinato a terra, c'è da pensare che nuovi idoli saranno costruiti in breve tempo e altri già esistenti saranno rinforzati. L'invito che se ne deve trarre allora è uno solo: vigilare.
     E questo può essere fatto solo nell'ascolto perseverante e ubbidiente della Parola di Dio. Non abbiamo bisogno né di raffinati intellettuali né di dinamici imprenditori dell'evangelo: abbiamo bisogno di santi che hanno dimestichezza con la Parola di Dio perché la ascoltano. la osservano e "conoscono per esperienza qual sia la buona e accettevole volontà di Dio" (Romani 12:2); abbiamo bisogno di saggi che hanno appreso la sapienza alla scuola del timor di Dio e hanno "i sensi esercitati a discernere il bene e il male" (Ebrei 5:13-14).
     La caduta del marxismo non deve illuderci: il combattimento spirituale degli ultimi tempi continuerà e si intensificherà. E prima di assumere la forma della lotta aperta contro coloro che confessano il nome di Gesù Cristo, assumerà le forme dell'attraente inganno: qualche altra "bella forma d'uomo" verrà esposta agli sguardi ammirati degli uomini, e molti ne resteranno ammaliati.
     Nessuno si illuda di poter resistere alla seduzione con lo spessore della sua cultura (anche della buona cultura evangelica) o con la brillantezza del suo acume: ad armi spirituali si possono contrapporre solo armi spirituali.
     Restiamo dunque vigilanti, e dopo aver rivestito la "completa armatura di Dio" (Efesini 6:13) ricordiamoci delle parole di Gesù: "Guardate che nessuno vi seduca" (Matteo 24:4).

(da "Credere e Comprendere", gennaio 1990)


 

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USA: il candidato repubblicano Vivek Ramaswamy dice di voler ridurre gli aiuti a Israele

Il candidato ritiene che una volta integrato meglio con i suoi vicini, Israele dovrebbe essere in grado di "stare in piedi da solo" dal punto di vista finanziario.

Vivek Ramaswamy
Il candidato alla nomination presidenziale repubblicana Vivek Ramaswamy, 38 anni, ha suggerito che gli Stati Uniti dovrebbero tagliare gli aiuti a Israele durante un'apparizione in un programma condotto dal comico e podcaster Russell Brand sulla piattaforma Rumble, popolare tra gli spettatori di estrema destra.
   Ramaswamy ha affermato che il sostegno finanziario degli Stati Uniti a Israele dovrebbe essere ridotto dopo il 2028, quando terminerà l'attuale programma di aiuti statunitensi a Israele, pari a 38 miliardi di dollari. Ha inoltre espresso l'intenzione di estendere gli Accordi di Abramo, accordi di normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi. Ramaswamy sostiene che una volta che Israele sarà meglio integrato con i suoi vicini, dovrebbe essere in grado di "stare in piedi da solo" dal punto di vista finanziario.
   "Entro il 2028, questi aiuti aggiuntivi non saranno più necessari per mantenere il tipo di stabilità che avremmo in Medio Oriente se Israele fosse meglio integrato con i suoi partner", ha detto in risposta alla domanda di uno spettatore.
   Secondo Ramaswamy, sebbene le relazioni con Israele abbiano favorito gli interessi statunitensi, Israele non dovrebbe ricevere un trattamento preferenziale dagli Stati Uniti. "Non c'è alcun impegno nei confronti di un Paese in particolare che non siano gli Stati Uniti d'America", ha sottolineato.
   Ramaswamy ha menzionato l'Arabia Saudita, il Qatar, l'Oman e l'Indonesia tra i Paesi che potrebbero essere presi di mira come partner negli accordi di Abraham. Questa posizione lo distingue dai principali candidati repubblicani come Donald Trump e Ron DeSantis. Tuttavia, lo allinea a un numero crescente di voci che ritengono che gli Stati Uniti dovrebbero ridurre gli aiuti a Israele.
   Gli appelli a tagliare gli aiuti a Israele sono arrivati soprattutto dalla sinistra della mappa politica, con legislatori come il senatore Bernie Sanders e la rappresentante Alexandria Ocasio-Cortez che hanno chiesto di condizionare almeno una parte degli aiuti a Israele. Più recentemente, anche i centristi e gli esponenti della destra hanno preso in considerazione la possibilità di tagliare gli aiuti a Israele.
   La popolarità di Ramaswamy è in crescita e ora è vicino a DeSantis nei sondaggi. Secondo un sondaggio di Fox News pubblicato mercoledì, l'11% degli intervistati lo sostiene, contro il 16% di DeSantis. Tuttavia, entrambi sono molto lontani da Trump, che nel sondaggio ha ricevuto il 53% dei consensi.

(i24, 19 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Nuovi immigrati scatenano danze all'aeroporto

215 nuovi immigrati dagli Stati Uniti e dal Canada sono arrivati in Israele mercoledì. Più di 29.000 immigrati nella prima metà dell'anno.

di Pesach Benson

215 nuovi immigrati provenienti da Stati Uniti e Canada sono atterrati mercoledì all'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv, scatenando vere e proprie danze di gioia in uno dei terminal a causa di emozionanti ricongiungimenti familiari.
"Non credo di essere mai stato così felice come oggi in tutta la mia vita. Era un grande sogno che avevo da molti anni", ha detto a Tazpit Carol Ginzburg, 77 anni. "Ho figli, nipoti e pronipoti che vivono in Israele. Per questo voglio essere qui".
"Francamente, sono stufa dei folli conflitti in America. Sono pronta a vivere in Israele", ha aggiunto.
Nefesh B'Nefesh, un'organizzazione no-profit che sostiene l'immigrazione di ebrei dal Nord America verso Israele e che ha noleggiato l'aereo, ha detto che la Ginzburg è stata l'immigrata più anziana arrivata col volo.
La sala arrivi dell'aeroporto si è riempita di commoventi riunioni familiari e in alcuni casi le persone hanno ballato gioiosamente in cerchio mentre i nuovi arrivati abbracciavano strettamente i loro parenti israeliani.
Ma non tutti gli immigrati sono stati accolti dai loro parenti. Secondo Nefesh B'Nefesh, circa un quarto degli immigrati di mercoledì sarà arruolato nelle Forze di Difesa Israeliane come "soldati solitari", cioè soldati che non hanno una famiglia in Israele che li sostenga. Questi soldati solitari sono invece sostenuti da Garin Tzabar, un programma che li aiuta prima e durante il servizio militare.
Un soldato solitario, Ariel Hassan del New Jersey, ha detto che non vedeva l'ora di entrare nell'esercito e che sperava in particolare di servire nell'unità d'élite Egoz dell'IDF.
"È un'unità molto famosa", ha detto Hassan. "Ma vedremo. Sarà l'esercito a decidere, e ovunque mi manderanno farò del mio meglio".
Il volo era composto da 22 famiglie con 75 bambini, 15 uomini e donne single e 17 pensionati. Tra le 215 persone a bordo c'erano sette medici e 15 operatori sanitari che si integreranno nel sistema sanitario israeliano.
"È stato un grande piacere per me dare il benvenuto a questi nuovi [immigrati] al loro arrivo in Israele. È particolarmente emozionante vedere famiglie con bambini e giovani adulti che realizzano il sogno sionista dell'aliyah", ha dichiarato il Ministro dell'Immigrazione e dell'Integrazione Ofir Sofer.
Tra le altre autorità che hanno dato il benvenuto ai nuovi cittadini israeliani c'erano il Ministro degli Interni e della Salute, Moshe Arbel, e il co-fondatore e direttore esecutivo di Nefesh B'Nefesh, Rabbi Yehoshua Fass.
"Ogni singolo [immigrato] porta con sé una storia unica, ma ciò che li unisce è l'amore per la nostra patria, obiettivi comuni e azioni comuni", ha detto Fass. "Ci insegna che la diversità esiste nell'unità, che i valori e l'impegno condivisi possono legare individui e gruppi diversi".
Secondo l'Agenzia Ebraica per Israele, un'organizzazione quasi governativa che facilita l'immigrazione da tutto il mondo, nella prima metà del 2023 sono arrivati in Israele 29.293 immigrati. L'Agenzia ebraica ha dichiarato che l'80% dei nuovi arrivi proveniva dalla Russia.

(Israel Heute, 18 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gli 007 americani gelano l’Ucraina: «Controffensiva destinata a fallire»

Secondo i servizi, Kiev non riuscirà a riconquistare la Crimea, tagliando il ponte terrestre sfruttato dai russi. E ora, nonostante l'ok all'invio degli F-16, anche l'entourage di Zelensky annuncia di essere pronto a trattare.

di Alessandro Rico 

La controffensiva ucraina non raggiungerà il suo principale obiettivo. Niente riconquista della città strategica di Melitopol, situata nella parte sudorientale del Paese. E, quindi, nessuna possibilità di soffiare ai russi il collegamento terrestre con la Crimea, che il leader della nazione invasa, Volodymyr Zelensky, ancora a fine luglio prometteva sarebbe stata reintegrata rapidamente». 
   La pietra tombale sulle velleità di Kiev le mettono fonti dell'intelligence Usa, citate ieri dal Washington Post. Non è il primo segnale di sfiducia nelle chance della resistenza. L'ultimo è arrivato a Ferragosto da uno stretto collaboratore del segretario generale Nato, che ha suggerito, come punto di caduta delle trattative con Mosca, peraltro non ancora ufficialmente avviate, la cessione di alcuni territori agli invasori in cambio dell'adesione dell'Ucraina - ovvero di ciò che ne rimarrebbe - all'Alleanza atlantica. Un'ipotesi che gli aggrediti hanno immediatamente bocciato e che lo stesso Jens Stoltenberg si è affrettato a smentire. Il sospetto è che gli occidentali stiano attivando il meccanismo della finestra di Overton: si buttano lì idee inconcepibili, in attesa che, semina oggi e semina domani, diventino accettabili, popolari e, infine, si trasformino in decisioni politiche. È significativo, ad esempio, che il New York Times, anziché insistere come al solito sull'ecatombe di reclute russe allo sbaraglio, abbia scritto che vittime e feriti hanno raggiunto quota mezzo milione, ucraini inclusi. 
   Per il momento, prevale la linea del colpo al cerchio seguito da quello alla botte. Alle randellate degli 007 statunitensi, i quali respingono anche l'accusa che l'invio di missili a lungo raggio avrebbe mutato le sorti del conflitto, tiene dietro l'assenso dato dall'inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, a Danimarca e Olanda, affinché consegnino gli F-16 agli ucraini. Giusto 24 ore dopo che la stessa Kiev ha dovuto comunicare che non riuscirà a utilizzarli entro l'inverno. 
   Che anche l'entourage di Zelensky abbia fiutato la mala parata, poi, lo dimostra la missiva di Andriy Yennak a Repubblica. Il capo dell'ufficio del presidente parla di «resilienza», «sovranità», dei 270.000 chilometri quadrati riacciuffati, però si rassegna a un dato di fatto: «Siamo consapevoli che la vittoria e la pace non saranno raggiunte sul campo di battaglia da soli». 
   La proposta ucraina parte dai risultati del vertice di Gedda  prevede tre fasi: incontri con gli ambasciatori dei «Paesi partecipanti»; incontri con i consulenti per la sicurezza nazionale, nei quali preparare «le raccomandazioni per i leader degli Stati .. ; e, infine, l'attuazione di un piano condiviso con i capi di Stato di governo. 
   Il problema è che il programma prescinde dal dialogo con lo zar e che quest'ultimo, consolidate le fortificazioni difensive delle sue truppe nel Donbass, non è apparso disposto a trattare. Anzi, pare aver indurito le sue posizioni, anche sull'export del grano, al punto che il ministro turco degli Esteri, Hakan Fidan, ieri ha confermalo che intende discutere la questione con i suoi omologhi russo, Sergej Lavrov, e ucraino, Dmytro K.uleba. Un segnale positivo è la notizia che la nave Joseph Schulte è arrivata in sicurezza nel Bosforo, navigando nel corridoio aperto dalle forze di Kiev nel Mar Nero: è la prima imbarcazione ucraina a lasciare un porto nazionale dallo scorso 16 luglio. 
   Certo, come nota il quotidiano di largo Fochetti, se il Cremlino si arroccasse e, al contrario, i suoi interlocutori privilegiati, in primis la Cina, accogliessero la soluzione tripartita promossa da Kiev, Vladimir Putin si ritroverebbe isolato. E, forse, sarebbe costretto a cedere. Al momento, è dura immaginare come finirà questa guerra "imprevedibile». Così l'ha definita Jake Sullivan, consigliere alla sicurezza nazionale di Biden, interpellato sul report dei servizi segreti: «Non posso parlarne», ha tagliato corto. «Noi stiamo facendo il possibile per sostenere l'Ucraina». Le cui speranze, tuttavia, sono appese al «coraggio dei soldati». Un po' poco. Anche perché, sul campo, rimane lo stallo. La cronaca dei combattimenti è ogni giorno uguale a sé stessa: esplosioni a Mosca, con temporanea chiusura dello spazio aereo; incendio a un terminal petrolifero di Novorossiysk; attacchi nel Donetsk; scontri a Zaporizhzhia; due caccia giapponesi decollati dopo l'avvistamento di velivoli russi sullo stretto di Tsushima, che separa l'isola nipponica dalla Corea del Sud. Mentre l'autocrate bielorusso, Alexander Lukashenko, minaccia di nuovo il ricorso al nucleare, «se Polonia, Lituania, Lettonia» aggredissero Minsk. 
   La sensazione è che la guerra d'attrito sia entrata nella sua fase di congelamento. Sullo sfondo, c'è la politica interna della superpotenza che alimenta lo sforzo bellico ucraino. Negli Usa si avvicinano le elezioni 2.024 e idem non hanno intenzione di regalare un assist ai repubblicani. Non si potrebbe vendere all'opinione pubblica un secondo tracollo stile Afghanistan, ma neppure pretendere un appoggio a oltranza agli astronomici esborsi per le armi spedite alla resistenza. Senza contare che, con la Germania locomotiva d'Europa che annaspa, il Vecchio continente è minacciato da una recessione che a Washington non conviene aggravare. Come sempre, a orientare le scelte sono gli interessi, più che il senso di giustizia, il rispetto dell'indipendenza o l'ammirazione per la resilienza degli svantaggiati. 
   Attenderemo al varco i raffinati analisti animati da nobili ideali, i quali, dopo averci catechizzati su pace e condizionatori, sull'obbligo morale di sostenere gli ucraini in lotta «per i nostri valori», con la stessa sicumera, al momento opportuno, ci spiegheranno: occorre realismo, nell'interesse di una tregua si dovranno accettare dei compromessi. Gli stessi che, magari, potevano essere raggiunti tanti mesi e, soprattutto, tanti morti fa. 

(La Verità, 19 agosto 2023)
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«Noi stiamo facendo il possibile per sostenere l'Ucraina. Le cui speranze, tuttavia, sono appese al ‘coraggio dei soldati’». Questo dicono gli USA agli ucraini che spingono a lasciarsi massacrare dai russi: se le cose andranno male, la colpa è vostra. Scandaloso. M.C.


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Una guerra infame sostenuta da un'informazione vergognosa


Una presentazione lucida del vero significato di questa guerra: l'allargamento della Nato (Svezia e Finlandia) ottenuto a spese di un'Ucraina esposta al massacro sotto promessa di poter entrare un giorno, forse, nella Nato. Si vergognino tutti coloro, soprattutto fra i giornalisti dei fogli più "intellettuali", che hanno stolidamente appoggiato questa infame guerra con gli argomenti più contorti. M.C.

(Notizie su Israele, 19 agosto 2023)

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“Haddar – Il frutto di Dio”, il film sul cedro calabrese tutto da vedere

Racconta la semplicità con la quale avviene l'incontro di due culture, due religioni, due lingue e due mondi. Ebrei e Cristiani.

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“Haddar – Il frutto di Dio”, il film di Luca Brignone realizzato con il sostegno della Fondazione Calabria Film Commission e prodotto da Pepito Produzioni – Ministero della Cultura direzione generale Cinema audiovisivo, è stato presentato a Scalea.
   “Questo racconto – ha detto il regista nel corso della conferenza stampa – per me ha dell’incanto per la semplicità con la quale avviene l’incontro di due culture, due religioni, due lingue e due mondi. Ebrei e Cristiani entrambi chini sotto alla stessa pianta di cedro, in ginocchio in una preghiera che dura una vita intera”.
   Oltre al regista, erano presenti: Anton Giulio Grande, commissario straordinario Fondazione Calabria Film Commission; Agostino Saccà, Pepito Produzioni srl; Luca Miniero, sceneggiatore e supervisore artistico del film e Lillino Cava, coltivatore di Cedri.
   “Ho cominciato a coltivare il sogno di poter realizzare questo progetto ben dodici anni fa”, ha dichiarato Agostino Saccà, che ha proseguito: “Ero venuto a Santa Maria del Cedro per incontrare un falconiere con la curiosità di raccogliere le giuste suggestioni per raccontare al meglio la storia di Federico II, uno dei progetti di Pepito di prossima realizzazione. Qui ho però incontrato un’altra storia straordinaria: l’incontro tra i cedricoltori e i rabbini ortodossi provenienti da tutto il mondo, grazie a una delle eccellenze della Calabria: il cedro.
   Ora questo progetto sta finalmente prendendo forma. Ma la vera notizia per me oggi è quella di poter testimoniare di avere una troupe di personale calabrese nei ruoli di vertice (direttore della fotografia, capo macchinista, capo elettricista, data manager). Questo significa che, grazie al lavoro della Fondazione Calabria Film Commissione e della Regione Calabria, stanno emergendo nuove professionalità e nuove occasioni di lavoro”.
   “Questo è un progetto molto importante – ha commentato Anton Giulio Grande -, che esprime tematiche di un certo rilievo. E’ un film tutto da vedere, siamo grati ad Agostino Saccà che è un grandissimo protagonista del cinema nazionale, sempre tanto vicino alla Calabria e alla Calabria Film Commission”.
   Luca Miniero ha parlato dell’amore scoccato nei riguardi di “Haddir – Il frutto di Dio”: “Quando Agostino Saccà mi ha raccontato l’incredibile incontro che ogni anno a Santa Maria del Cedro avviene tra due particolari comunità, quella dei cedricoltori calabresi e quella dei rabbini provenienti da tutto il mondo, ho subito pensato che ci fossero tutti gli ingredienti per una straordinaria narrazione”. E di “bellissima esperienza” ha parlato Lillino Cava (cedricoltore).
   “Da un giorno all’altro – ha detto – mi sono trovato a essere seguito da venti persone”. “Siamo ben felici – ha commentato Giancarlo Formica (Presidente ECOtur – Consorzio Operatori Turistici della Riviera dei Cedri) – di poter ospitare e fornire supporto logistico alle produzioni audiovisive”. In Calabria le riprese si sono svolte a Santa Maria Del Cedro.

(Calabria Diretta News, 13 agosto 2023)

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Oltre il 60% degli immigrati etiopi sono cristiani

L'immigrazione etiope in Israele sta prendendo una nuova piega, con una maggioranza di immigrati recenti che si identificano come cristiani. Questi sviluppi hanno portato a una crescente preoccupazione all'interno della comunità e a reazioni da parte del governo israeliano.
   Secondo i dati ufficiali dell'Autorità per la popolazione e l'immigrazione, tra il 2020 e il 2022, quasi due terzi degli immigrati etiopi in Israele si sono identificati come cristiani. Queste cifre sono state rese pubbliche dall'Israel Immigration Policy Centre (IIPC) e sono state divulgate dal Jerusalem Post. Più di 5.000 immigrati etiopi sono arrivati in Israele nell'ambito dell'Operazione Tzur Israel, di cui 3.301 si sono identificati come cristiani. In confronto, solo circa 1.773 si sono identificati come discendenti di ebrei, anche se questo non è stato provato dalle autorità israeliane.
   L'alta percentuale di immigrati che si dichiarano cristiani si spiega con la natura umanitaria della loro aliyah, che si concentra sul ricongiungimento familiare. Questo contesto solleva interrogativi sulla reale composizione delle "comunità ebraiche" in Etiopia, facendo pensare che alcuni membri potrebbero non essere ebrei e praticare un'altra religione.
   Di fronte a questa situazione, il governo israeliano ha annunciato la nomina di un inviato speciale per esaminare e raccomandare soluzioni alla crisi dell'aliyah dall'Etiopia. Mentre migliaia di cittadini etiopi rivendicano il diritto all'aliyah, il governo israeliano ritiene che l'aliyah dall'Etiopia sia ormai chiusa.
   Il dottor Yona Cherki, direttore dell'IIPC, ha commentato questi eventi affermando che lo Stato di Israele dovrebbe permettere a tutti gli ebrei che vogliono stabilirsi in Israele di farlo. Tuttavia, ha anche osservato che i dati indicano che molti di coloro che hanno diritto a tornare in quanto discendenti di ebrei non hanno intrapreso il viaggio, mentre altri che non ne hanno diritto sono immigrati. Cherki sottolinea quindi la necessità di definire criteri coerenti per l'immigrazione in Israele, in linea con la Legge del Ritorno.
   In risposta a questa complessa situazione, il Ministro per l'Aliyah e l'Assorbimento, Ofir Sofer, ha nominato il Generale di Brigata Harel Knafo a capo di un team incaricato di valutare l'attuale politica di immigrazione di Israele nei confronti dell'Etiopia. Mentre i cittadini israeliani di origine etiope e i sostenitori dell'immigrazione ebraica etiope esprimono le loro preoccupazioni, il governo israeliano sta cercando di trovare soluzioni per gestire questa delicata situazione.

(JForum.fr, 18 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele e India partner in una start-up idrica

di Michelle Zarfati

L'ambasciata israeliana in India ha recentemente annunciato di aver raggiunto un accordo con le organizzazioni indiane per fornire competenze e risorse alle start-up e alle aziende del settore idrico. L'obiettivo prevede una partnership per creare un programma completo di accelerazione della tecnologia idrica. L'ambasciatore israeliano Naor Gilon ha firmato un memorandum d'intesa (MOU) lo scorso 3 agosto con Karanpal Singh - il fondatore della società di venture capital con sede in India, Hunch Ventures, e l'acceleratore di startup aziendali, The Circle - su un'iniziativa per aiutare le start-up indiane a plasmare il futuro dell'industria idrica, fornendo approfondimenti tecnologici e accesso alla raccolta fondi e alla commercializzazione sul mercato.
   L'obiettivo, noto come "The Water Challenge", vedrà i partecipanti prendere parte ad un programma di accelerazione completo che includerà tutoraggio e opportunità di networking da parte di specialisti indiani e israeliani nella tecnologia dell'acqua. "Questo programma di accelerazione, della durata di 3 mesi, è un'opportunità promettente per le start-up nel campo idrico per innovare, collaborare e creare soluzioni sostenibili", ha condiviso l'Ambasciatore Gilon in una nota. Il notevole successo d'Israele nella desalinizzazione e in altri aspetti della tecnologia idrica ha aiutato il paese a combattere i problemi di insicurezza idrica che terrorizzavano gli ecologisti diversi anni fa, e ha posto il paese all'avanguardia globale dell'innovazione idrica.
   Come Israele, l'India deve affrontare notevoli problemi di approvvigionamento idrico derivanti da una combinazione di fattori naturali. Mentre Israele ha dovuto affrontare problemi di sicurezza idrica a causa della mancanza di fonti idriche nella sua posizione geografica, l'India deve affrontare problemi di sicurezza idrica dovuti invece alla crescita della popolazione, all'urbanizzazione, all'industrializzazione, ai cambiamenti climatici e a pratiche di gestione idrica inadeguate, tra le altre difficoltà affrontate dal paese più popoloso del mondo.
   "Israele è il leader globale nelle tecnologie idriche e, data la numerosità della popolazione indiana, siamo entusiasti di lavorare insieme per la sostenibilità e la sicurezza idrica. Attraverso questa collaborazione porteremo in India tecnologie all'avanguardia per lavorare con le aziende indiane", ha aggiunto Singh.
   Questa non è la prima collaborazione in materia di tecnologia idrica tra Israele e India, settore in rapido sviluppo: la start-up israeliana Watergen ha firmato una partnership con il conglomerato indiano SMV Jaipuria Group nel 2022 per sviluppare macchine che trasformano le molecole di umidità in acqua potabile. Lo stato indiano di Haryana e la compagnia idrica nazionale israeliana hanno raggiunto un accordo lo stesso anno per migliorare le infrastrutture idriche nello stato dell'India settentrionale.
   “Questo programma includerà esperti provenienti da Israele e India e sfrutterà il potere dell'innovazione di entrambe le nazioni per affrontare le sfide idriche cruciali del nostro tempo. Credo che questo porterà un cambiamento positivo, promuovendo soluzioni sostenibili e dando forma ad un futuro più luminoso e sicuro a livello idrico" ha spiegato Gilon.

(Shalom, 18 agosto 2023)

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Il tram di Tel Aviv entra in funzione

Le 34 stazioni della linea rossa vanno da Bat Yam a Jaffa, Tel Aviv, Bnei Brak, Ramat Gan e Petach Tikva. Finalmente! Dopo anni di ritardi, il tram di Tel Aviv è entrato in funzione venerdì mattina, offrendo ai pendolari un viaggio senza traffico all'interno e all'esterno della congestionata area urbana.

La "linea rossa", lunga 24 chilometri, che attraversa Tel Aviv e collega Bat Yam, nel sud della città, con Petach Tikva, a est, ha ricevuto il via libera per il funzionamento all'inizio del mese, dopo che sono stati concessi tutti i permessi di sicurezza.
   Il progetto di trasporto, costato quasi 19 miliardi di NIS (4,5 miliardi di euro), avrebbe dovuto entrare in funzione quasi due anni fa, ma è stato ripetutamente ritardato da malfunzionamenti, soprattutto nella segnaletica e nei freni di emergenza.
   La linea ha 34 stazioni, tra cui 10 fermate della metropolitana, e va da Bat Yam a Petach Tikvah passando per Jaffa, Tel Aviv, Bnei Brak e Ramat Gan. Metà del percorso passa attraverso un tunnel sotterraneo.
   "Questo è un giorno di festa per lo Stato di Israele", ha dichiarato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu all'inaugurazione della linea ferroviaria a Petach Tikva, giovedì. "Oggi stiamo realizzando la visione di Israele in materia di trasporti: abbiamo promesso di creare collegamenti tra le città, all'interno delle città e tra i Paesi, e li stiamo realizzando tutti e tre".
   Nel luogo dell'inaugurazione della metropolitana leggera, giovedì, la situazione è diventata politica per il secondo giorno consecutivo, con centinaia di manifestanti che hanno protestato contro il governo urlando fischi e gridando "vergogna" per il programma di riforma della giustizia del governo. "Coloro che ci sostengono e coloro che sono contro di noi useranno tutti questo treno", ha detto Netanyahu.

• NIENTE SERVIZIO DI SABATO
Petach Tikva - Manifestanti protestano contro la riforma giudiziaria prima della cerimonia di apertura del tram
Il tram di Tel Aviv funzionerà dalle 5.40 all'1 di notte dalla domenica al giovedì e fino a un'ora e mezza prima dello Shabbat il venerdì, con un treno ogni 3,5 minuti nelle ore di punta e ogni sei minuti al di fuori delle ore di punta.
Il treno non circola il sabato e nelle festività ebraiche, il che ha suscitato critiche e proteste nella città prevalentemente laica e ha riacceso il dibattito sul trasporto pubblico durante lo Shabbat a Tel Aviv. Tuttavia, l'orario è in linea con lo status quo di lunga data per quanto riguarda il trasporto pubblico durante lo Shabbat in Israele, soprattutto perché la linea attraversa la città ultraortodossa di Bnei Brak, a est di Tel Aviv.
   La tariffa singola per i tragitti più brevi, che può essere acquistata tramite una app o con la tessera del trasporto pubblico RavKav, costa 5,50 shekel (1,35 euro), mentre il viaggio completo costa 12 shekel (2,90 euro). Entrambe le tariffe sono uguali al prezzo del biglietto dell'autobus urbano. Il giorno dell'inaugurazione le corse del tram sono gratuite.
   Il Ministero dei Trasporti stima 250.000 passeggeri che utilizzeranno la linea ogni giorno e 70 milioni all'anno. Il treno è stato sottoposto a mesi di prove senza passeggeri, con festività nazionali e musulmane in primavera che hanno contribuito ai ritardi, con grande disappunto dei residenti della città.
   La prima gara d'appalto per la linea ferroviaria è stata indetta quasi due decenni fa, mentre l'idea di una linea metropolitana per Tel Aviv è stata avanzata per la prima volta dall'allora primo ministro Golda Meir mezzo secolo fa.
   Il tram di Gerusalemme è stato lanciato nel 2011 dopo ritardi simili. Da allora, è diventato un elemento distintivo della città mista, utilizzato quotidianamente da residenti ebrei, musulmani e cristiani, nonché da turisti di passaggio nella capitale. Altre linee sono in fase di progettazione per entrambe le città.

(Israel Heute, 18 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele: il sistema sanitario è in crisi

Israele, i membri del Consiglio esortano il Direttore Generale di informare i responsabili che, mentre i medici prendono in considerazione l’idea di andarsene a causa della riforma giudiziaria, quelli che si specializzano all’estero e gli studenti di medicina esitano a tornare nonostante i posti di lavoro che li aspettano.

Il Consiglio nazionale dei medici ha informato che Israele sta affrontando un pericolo reale a causa della carenza di medici che si prevede se gli studenti di medicina e i medici specializzati all’estero decidono di non tornare, a causa della riforma giudiziaria del governo. In una lettera indirizzata a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del Ministero della Salute, il Consiglio ha chiesto che le informazioni siano rese chiare ai responsabili del governo.
   Bar Siman Tov è stato recentemente accusato di non aver riflettuto sulla gravità della crisi in corso. Oggi è previsto un incontro con gli studenti di medicina israeliani. I medici sono preoccupati per il fatto che, oltre ai medici che stanno pensando di partire per lavorare in centri medici all’estero, c’è ora il pericolo che i laureati delle scuole di medicina in Europa, che sono centinaia, non tornino anche se hanno un lavoro che li aspetta in Israele.
   L’Associazione dei medici si è recentemente unita ai firmatari di una petizione che chiede la cancellazione del primo disegno di legge della revisione giudiziaria del governo, la clausola di ragionevolezza, approvata il mese scorso. In un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista “The Lancet“, Hagai Levin, capo dell’associazione, ha scritto che Israele si sta dirigendo verso un sistema sanitario da terzo mondo.
   In un’intervista, Levin ha dichiarato di temere un calo dell’aspettativa di vita. “Questo è il punto in cui questo governo ci sta portando”, ha detto. Nella loro lettera, i membri del Consiglio hanno affermato che il pericolo per il sistema sanitario israeliano è tangibile. “È nostro dovere, in qualità di membri del Consiglio nominato dal Ministero della Salute, informarvi dei processi che consideriamo pericolosi per un sistema che tutti apprezziamo”, hanno scritto. “Israele ha uno dei migliori sistemi medici del mondo, che si basa su fondamenta stabilite 100 anni fa, ma che ora sono sotto attacco”, hanno affermato.
   Hanno inoltre sottolineato quello che hanno descritto come un completo disinteresse per le raccomandazioni professionali e le esigenze di salute pubblica a favore di opzioni sanitarie private, citando la decisione del governo di annullare la legislazione che imponeva una tassa sulle bevande gassate zuccherate in modo da ridurre i casi di diabete, il rifiuto dei ministri di aumentare il prezzo delle sigarette elettroniche e la decisione di cancellare un programma nazionale per garantire un’alimentazione adeguata ai bambini impoveriti. Mettono in guardia contro i danni alla professione della proposta di legge che consentirebbe al personale medico che non ha ricevuto una formazione adeguata e sufficiente di ottenere una licenza del Ministero della Salute e di fornire assistenza medica.
   Hanno inoltre messo in guardia dall’intenzione dei ministri di sciogliere il consiglio che supervisiona la formazione avanzata dei medici e dalle sanzioni imposte al consiglio dai legislatori della coalizione che hanno dichiarato di voler eliminare anche l’associazione medica. Nella lettera, i membri del Consiglio denunciano gli attacchi pubblici contro i medici a causa del loro sostegno nelle proteste di massa contro la legislazione giudiziaria, da parte di membri della coalizione e dei loro sostenitori nei media dopo che i medici erano stati acclamati per il loro lavoro e impegno durante la pandemia di coronavirus, e hanno notato che anche i medici che fanno parte della comunità LGBTQ sono stati attaccati da loro.
   Hanno detto che la cooperazione internazionale era già stata colpita e temevano che gli studi clinici sarebbero stati ritardati o cancellati e che le sovvenzioni sarebbero state rifiutate. Hanno detto che gli esperti hanno già esitato ad arrivare in Israele per dispensare le loro conoscenze, anche se spesso il vero motivo viene oscurato nella corrispondenza ufficiale e rivelato solo nelle conversazioni. “Il danno accademico non è meno importante di tutti gli altri”, hanno detto.
   “I medici che sentono che il loro Paese li considera un nemico se ne andranno, causando un grande danno al sistema sanitario”, hanno scritto. È importante vedere il quadro completo e anche se il numero di medici che se ne andranno, o che sceglieranno di non tornare in Israele, non è ancora chiaro, quando sarà noto, sarà troppo tardi”.

(Israele 360°, 17 agosto 2023)

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Parashat Shofetim. L’umiltà è una virtù dei veri leader

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

di rav Jonathan Sacks

A una cena per celebrare il lavoro di un leader comunale, un oratore ospite rese omaggio alle sue numerose qualità: la sua dedizione, il duro lavoro e la lungimiranza. Mentre si sedeva, il leader si chinò e disse: “Hai dimenticato di menzionare una cosa”. “Cosa?” chiese l’oratore. Il leader rispose: “La mia umiltà“.
   Proprio così. I grandi leader hanno molte qualità, ma l’umiltà di solito non è una di queste. Con rare eccezioni tendono ad essere ambiziosi, con un alto grado di autostima. Si aspettano di essere obbediti, onorati, rispettati, persino temuti. Possono indossare la loro superiorità senza sforzo – Eleanor Roosevelt lo definì “indossare una corona invisibile” – ma c’è una differenza tra ciò e l’umiltà.
   Questo aspetto rende una disposizione della parashà di questa settimana inaspettato e potente. La Torà parla di un re. Sapendo, come disse Lord Acton (storico politico britannico 1834-1902) che “il potere tende a corrompere e il potere assoluto, corrompe assolutamente”, specifica tre tentazioni a cui era esposto un re nei tempi antichi. Un re, dice, non dovrebbe accumulare molti cavalli, mogli o ricchezze: le tre trappole in cui, secoli dopo, alla fine cadde re Salomone. Poi aggiunge: Quando [il re] si sarà insediato sul suo trono regale, dovrà scrivere per sé stesso su un rotolo una copia di questa Torà… Deve rimanere con lui, ed egli deve leggerla tutti i giorni della sua vita in modo che possa imparare ad avere soggezione del Signore suo Dio e seguire attentamente tutte le parole di questa legge e di questi decreti e non sentirsi superiore ai suoi fratelli o deviare dalla legge a destra o a sinistra. Allora lui e la sua discendenza regneranno a lungo in mezzo a Israele. (Deuteronomio 17:18-20)
   Se a un re, che tutti sono tenuti ad onorare, è comandato di essere umile – “non sentirsi superiore ai suoi fratelli” – tanto più lo è per noi. Mosè, il più grande leader che il popolo ebraico abbia mai avuto, era “molto umile, più di chiunque altro sulla faccia della terra” (Numeri 12:3). Era grande perché era umile o umile perché era grande? Ad ogni modo, come disse Rabbi Johanan di Dio stesso: “Ovunque trovi la Sua grandezza, là trovi la Sua umiltà”.
   Questa è una delle vere rivoluzioni che l’ebraismo ha portato nella storia della spiritualità. L’idea che un re nel mondo antico dovesse essere umile sarebbe sembrata farsesca. Possiamo ancora oggi vedere, nelle rovine e nelle reliquie della Mesopotamia e dell’Egitto, una serie quasi infinita di progetti di vanità creati dai governanti in onore di se stessi. Ramses II fece collocare quattro statue di sé e due della regina Nefertiti sulla facciata del tempio di Abu Simbel, a trentatré piedi di altezza, sono quasi il doppio dell’altezza della statua di Lincoln a Washington.
   Aristotele non avrebbe compreso l’idea che l’umiltà è una virtù. Per lui il megalopsychos, l’uomo dalla grande anima, era un aristocratico consapevole della sua superiorità rispetto alla massa dell’umanità. L’umiltà, insieme all’obbedienza, alla servitù e all’autoumiliazione, erano per gli ordini inferiori, coloro che erano nati non per governare ma per essere governati. L’idea che un re avrebbe dovuto essere umile era un’idea radicalmente nuova introdotta dal giudaismo e successivamente adottata dal cristianesimo.
   Questo è un chiaro esempio di come la spiritualità faccia la differenza nel modo in cui agiamo, sentiamo e pensiamo. Credere che esista un Dio alla cui presenza ci troviamo significa che non siamo il centro del nostro mondo. Dio è. “Io sono polvere e cenere”, disse Abramo, il padre della fede. “Chi sono?” disse Mosè, il più grande dei profeti. Questo non li rendeva servili o adulatori. Fu proprio nel momento in cui Abramo si definì polvere e cenere, che sfidò Dio sulla giustizia della Sua proposta punizione di Sodoma e delle città della pianura. Fu Mosè, il più umile degli uomini, che esortò Dio a perdonare il popolo, e in caso contrario: “Cancellami dal libro che hai scritto”. Questi erano tra gli spiriti più audaci che l’umanità abbia mai prodotto.
   C’è una differenza fondamentale tra due parole in ebraico: anava, “umiltà”, e shiflut, “autoumiliazione”. Sono così diversi che Maimonide definì l’umiltà come la via di mezzo tra lo shiflut e l’orgoglio. L’umiltà non è bassa autostima. Questo è shiflut. Umiltà significa che sei abbastanza sicuro da non aver bisogno di essere rassicurato dagli altri. Significa che non devi metterti alla prova dimostrando di essere più intelligente, più acuto, più dotato o di maggior successo degli altri. Sei sicuro perché vivi nell’amore di Dio. Ha fiducia in te anche se tu non c’è l’hai in te stesso. Non hai bisogno di confrontarti con gli altri. Tu hai il tuo ruolo, loro hanno il proprio, e questo ti incoraggia a cooperare non a competere.
   Ciò significa che puoi vedere altre persone e apprezzarle per quello che sono. Non sono solo una serie di specchi in cui guardi solo per vedere il tuo riflesso. Sicuro di te stesso puoi valorizzare gli altri. Fiducioso nella tua identità puoi valorizzare le persone che non ti piacciono. L’umiltà è l’Io rivolto verso l’esterno. È la comprensione che “Non si tratta di te”.
   Già nel 1979, il compianto Christopher Lasch (storico e sociologo statunitense 1932-1994) pubblicò un libro intitolato “La cultura del narcisismo”, sottotitolato, “La vita americana in un’epoca di aspettative ridotte”. È stata un’opera profetica. In esso sosteneva che il crollo della famiglia, della comunità e della fede ci aveva lasciato fondamentalmente insicuri, privati dei tradizionali supporti di identità e valore. Non è vissuto abbastanza per vedere l’età del selfie, del profilo Facebook, delle griffe indossate e delle tante altre forme di “pubblicità per me stesso”, ma non se ne sarebbe stupito. Il narcisismo, sosteneva, è una forma di insicurezza, che necessita di costanti rassicurazioni e regolari iniezioni di autostima. Non è, molto semplicemente, il modo migliore di vivere.
   A volte penso che il narcisismo e la perdita della fede religiosa vadano di pari passo. Quando perdiamo la fede in Dio, ciò che rimane al centro della coscienza è il sé. Non è un caso che il più grande degli atei moderni, Nietzsche, sia stato l’uomo che vedeva nell’umiltà un vizio, non una virtù. Lo ha descritto come la vendetta dei deboli contro i forti. Né è casuale che una delle sue ultime opere fosse intitolata “Perché sono così intelligente”.
   Non devi essere religioso per capire l’importanza dell’umiltà. Nel 2014 l’Harvard Business Review ha pubblicato i risultati di un sondaggio che mostrava che “I migliori leader sono leader umili”. Imparano dalle critiche. Sono abbastanza fiduciosi da dare potere agli altri e lodare i loro contributi. Prendono rischi personali per il bene superiore. Ispirano lealtà e un forte spirito di squadra. E ciò che vale per i leader vale per ognuno di noi come coniugi, genitori, colleghi di lavoro, membri di comunità e amici.
   Una delle persone più umili che abbia mai incontrato è stato il defunto Rebbe Lubavitch, Menachem Mendel Schneerson. Non c’era niente di umiliante in lui. Si comportava con tranquilla dignità. Era sicuro di sé e aveva un portamento quasi regale. Ma quando eri solo con lui, ti faceva sentire la persona più importante nella stanza. È stato un regalo straordinario. Era “regalità senza corona”. Era “la grandezza in borghese”. Mi ha insegnato che l’umiltà non è pensare di essere piccoli. È pensare che le altre persone abbiano la grandezza dentro di loro.
   Ezra Taft Benson (agricoltore americano, funzionario governativo e leader religioso 1899-1994) disse che “l’orgoglio si preoccupa di chi ha ragione; l’umiltà si occupa di ciò che è giusto”. Servire Dio nell’amore, diceva Maimonide, è fare ciò che è veramente giusto perché è veramente così e per nessun altro motivo. L’amore è altruista. Il perdono è disinteressato. Così è l’altruismo.
   Quando mettiamo il sé al centro del nostro universo, alla fine trasformiamo tutti e tutto in un mezzo per i nostri fini. Questo sminuisce, svaluta noi stessi. Umiltà significa vivere alla luce di ciò che è più grande di me. Quando Dio è al centro della nostra vita, ci apriamo alla gloria del creato e alla bellezza delle altre persone. Più piccolo è il sé, più ampio è il raggio del nostro mondo.

(Bet Magazine Mosaico, 18 agosto 2023)
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Parashà della settimana: Shoftim (Giudici)

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Israele fornirà il sistema missilistico Arrow 3 alla Germania

È il più grande contratto di vendita di armi della storia dello Stato Ebraico

di Sarah G. Frankl

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Washington ha approvato la vendita del sistema di difesa missilistica israeliano Arrow 3 alla Germania, lo ha annunciato giovedì mattina il Ministero della Difesa israeliano.
   I rappresentanti dei ministeri della Difesa israeliano e tedesco e delle Industrie Aerospaziali Israeliane si riuniranno per firmare il più grande accordo riguardo la vendita di armamenti nella storia di Israele, un accordo del valore di 3,5 miliardi di dollari.
   L’annuncio del Dipartimento di Stato americano sulla decisione dell’amministrazione di approvare l’enorme accordo è stato ricevuto mercoledì sera dal Ministro della Difesa Yoav Gallant, dal Direttore Generale del Ministero della Difesa, il Maggior Generale (Res.) Eyal Zamir e dal Capo della Direzione Ricerca e Sviluppo della Difesa, il Generale di Brigata (Res.) Danny Gold.
   Il sistema Arrow 3, sviluppato e prodotto congiuntamente dalla Direzione per la Ricerca e lo Sviluppo della Difesa di Israele e dall’Agenzia per la Difesa Missilistica (MDA) degli Stati Uniti, e guidato dalle Industrie Aerospaziali Israeliane, è il sistema missilistico anti-balistico più avanzato al mondo, progettato per intercettare i missili balistici fuori dall’atmosfera.
   Arrow 3 è un intercettore eso-atmosferico e ha la capacità di intercettare missili a lungo raggio ad alta quota sopra l’atmosfera, caratteristica che lo rende il migliore al mondo nel suo genere. Il suo principio di funzionamento si basa su un colpo fisico diretto sul bersaglio (hit-to-kill).
   Dopo l’approvazione di Washington, alti funzionari dei ministeri della Difesa tedesco e israeliano si riuniranno per ratificare l’accordo. Berlino verserà un anticipo di 600 milioni di dollari per consentire l’immediato inizio dei lavori del progetto.
   Tutti i dettagli del contratto sono stati concordati tra i ministeri della Difesa tedesco e israeliano e sono sottoposti all’approvazione finale del governo tedesco e del legislatore. La firma del contratto completo è prevista per novembre.

(Rights Reporter, 17 agosto 2023)

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Gli Accordi di Abramo non sono falliti, nonostante il conflitto mediorientale

Non hanno portato la pace in Medio Oriente, non si sono estesi ad altri Paesi arabi, non hanno isolato l'Iran. Ma allora gli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 a seguito della mediazione di Trump, sono falliti? No, perché hanno innescato dinamiche che possono cambiare tutta la regione.

di Stefano Magni

Gli Accordi di Abramo hanno compiuto tre anni in questo ferragosto del 2023. Sembra già un’altra era quella in cui l’allora presidente degli Usa, Donald Trump, fece dialogare lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nayan degli Emirati Arabi Uniti, con Benjamin Netanyahu, premier israeliano. Dopo la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele ed Emirati, seguì anche quella di Israele e Bahrein. Poi un accordo analogo con il Marocco e infine venne coinvolto persino il Sudan, ex Paese cardine della Lega Araba, la cui dichiarazione di Khartoum prometteva guerra senza compromessi con lo Stato Ebraico. Tre anni dopo, cosa hanno lasciato quegli accordi?
   Ad una prima analisi, si direbbero falliti, sotto molti punti di vista. Il Sudan è ormai solo formalmente parte dell’accordo, considerando che ora è lacerato al suo interno dalla guerra civile. Contrariamente alle previsioni, agli accordi non si sono più aggiunti altri Paesi arabi della regione. Infine, ma non da ultimo, la pace nel Medio Oriente non è arrivata. Anzi, da un anno e mezzo si nota una recrudescenza della violenza terroristica contro Israele e quindi anche un aumento delle operazioni militari israeliane nei Territori. La pace fra Israele e i Paesi più ricchi della regione, dunque, non ha influenzato l’eterno “processo di pace”, come si sperava nel 2020.
   Sono varie le cause che hanno fatto sì che gli Accordi di Abramo non producessero i risultati sperati tre anni fa. In primo luogo, Trump aveva giocato un ruolo da protagonista. Era il suo disegno geopolitico quello di trovare un’intesa fra Israele e i più ricchi e stabili Paesi del Golfo, su basi pragmatiche, invece che concentrarsi sull’infinita questione dei Territori, su cui comunque la controparte palestinese non è disposta a scendere a compromessi. La nuova amministrazione Biden non ha le stesse idee. È tornata a concentrarsi sul Medio Oriente, nel tentativo di riprendere il dialogo con l’Autorità Palestinese, è stata subito durissima con l’Arabia Saudita, per motivi umanitari (la guerra nello Yemen e l’omicidio del giornalista Khashoggi) e soprattutto ha sdoganato il regime dell’Iran, rilanciando il negoziato sul suo programma nucleare.
   Le mosse mediorientali dell’amministrazione Biden hanno scoraggiato l’Arabia Saudita, sponsor degli Accordi anche se non firmataria, spingendola addirittura a cercare più contatti con la Cina. Al tempo stesso hanno rafforzato l’Iran, che è tornato ad essere il principale catalizzatore della causa anti-israeliana. Tuttavia, il raffreddamento fra l’amministrazione Biden e il regime iraniano potrebbe portare ad una nuova inversione di rotta. Fra le proteste stroncate con la forza al suo interno e il legame ormai solido fra Teheran e Mosca (con il primo che fornisce alla seconda i droni “suicidi” da lanciare contro bersagli ucraini) hanno creato le basi per una nuova tensione fra Usa e Iran. Ed è questo il motore principale che spinge i Paesi arabi del Golfo ad aggregarsi e a cercare addirittura alleanze con Israele.
   Nel frattempo, gli effetti prodotti da tre anni di Accordi non sono da sottovalutare. Simbolica e importante è stata l’apertura del centro multi-religioso di Abu Dhabi, annunciato già in occasione della visita di Papa Francesco. Ospita nello stesso edificio una moschea, una sinagoga e una chiesa cattolica. E questo in un Paese dove la legge coranica è tuttora molto rigida. Sono aumentate anche le opportunità di visita dei Paesi del Golfo da parte degli israeliani e viceversa. I testi scolastici iniziano ad essere riformati, eliminando contenuti che possano alimentare antisemitismo e radicalismo islamico. Quello a cui stiamo assistendo è l’inizio di un lento processo di integrazione, non possiamo assistere a cambiamenti eclatanti nell’immediato.
   Secondo il professor Ed Husain, della Georgetown University, sono tre le maggiori motivazioni degli Accordi di Abramo. La prima riguarda la sicurezza “dovrebbe essere implementato un sistema di sicurezza collettiva fra Paesi arabi, Israele e Usa, per proteggere i comuni cittadini dall’estremismo islamico”. E questo soprattutto attraverso “la promozione della coesistenza religiosa e con l’integrazione degli ebrei nella regione”.  La seconda spinta è economica: “un’ondata di prosperità può scaturire dalla cooperazione economica regionale. Israele è la patria di una fiorente Silicon Valley (…) una nuova generazione di arabi vuole gustare i frutti della prosperità israeliana”. Il terzo è un cambiamento degli equilibri di potere nella regione: “Per gran parte del secolo scorso, il Cairo, Baghdad e Damasco erano le capitali della rivoluzione nazionalista e socialista. Ognuna di esse ha seguito politiche economiche di stampo sovietico ed è fallita, lasciando un vuoto riempito dall’estremismo religioso. Le monarchie di Abu Dhabi e Riad stabiliscono ora l'attuale ordine regionale e gli conferiscono un carattere competitivo basato sul mercato”.

(La Nuova Bussola Quotidiana, 17 agosto 2023)

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Scoperta la porta più antica di Israele costruita più di 5.000 anni fa

“Queste strutture riflettono l’inizio dell’urbanizzazione nella Terra di Israele e nel Levante meridionale“, secondo l’Autorità per le Antichità del Paese ebraico.

di Angelo Petrone

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L’Autorità israeliana per le antichità ha riferito martedì della scoperta della più antica porta conosciuta del Paese , che dava accesso alla storica città di Tel Erani e che oggi ospita un importante sito archeologico, situato nel distretto sud. La porta di 5.500 anni, conservata ad un’altezza di 1,5 metri, è costituita da un passaggio realizzato con grosse pietre che conduce all’interno della città antica . “Due grandi torri di pietra fiancheggiano la porta. Questa porta è attaccata alle mura della città che sono state scoperte in precedenti scavi“, si legge in una dichiarazione dell’agenzia pubblicata su Facebook. Parte di un sistema di fortificazioni di circa 3.300 anni fa è stata ritrovata anche durante i lavori eseguiti dall’Autorità per le Antichità il mese scorso dalla compagnia idrica nazionale Mekorot . “Queste strutture riflettono l’inizio dell’urbanizzazione nella Terra d’Israele e nel Levante meridionale“, ha affermato l’agenzia. La porta più antica finora conosciuta era quella di Tel Arad, datata circa 300 anni dopo questa.
   “È la prima volta che viene scoperta una porta così grande della prima età del bronzo. Per costruire la porta e le mura di fortificazione , le pietre dovevano essere portate da lontano, fabbricare adobe e alzare le mura di fortificazione“, spiega il direttore dello scavo, Emily Bischoff. “Questo non è stato raggiunto da uno o pochi individui. Il sistema di fortificazione è la prova dell’organizzazione sociale che rappresenta l’inizio dell’urbanizzazione“, aggiunge. Allo stesso modo, il ricercatore Martin-David Pasternak sostiene che “la porta non solo difendeva la città, ma trasmetteva anche il messaggio che si stava entrando in un insediamento importante e forte , ben organizzato politicamente, socialmente ed economicamente“. Da parte sua, l’archeologo Dr. Yitzhak Paz assicura che la scoperta ha permesso agli scienziati di collocare l’inizio dell’urbanizzazione nel territorio che ora appartiene a Israele prima di quanto si credesse in precedenza. “La porta recentemente scoperta è un ritrovamento importante che influisce sulla datazione dell’ inizio del processo di urbanizzazione nel Paese “, afferma l’esperto. “I vasti scavi dell’Autorità israeliana per le antichità negli ultimi anni hanno portato a datare l’inizio dell’urbanizzazione alla fine del IV millennio a.C., ma gli scavi condotti a Tell Erani hanno ora dimostrato che questo processo è iniziato anche prima, nell’ultimo terzo del IV millennio . aC “, spiega.

(Scienze Notizie, 17 agosto 2023)

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Tecnologia israeliana e Policlinico Gemelli insieme per la salute mentale

di Daniele Toscano

Ricerca scientifica italiana e tecnologia israeliana si incontrano in un nuovo progetto di collaborazione volto a favorire i trattamenti delle patologie psichiatriche. Protagonisti sono il Policlinico Agostino Gemelli di Roma e l’azienda israeliana Brainsway Inc., che ha sviluppato la ricerca sulla stimolazione magnetica transcranica profonda, meglio conosciuta come Deep TMS, tramite l’utilizzo dell’H-Coil, un casco brevettato. Questo sistema è stato autorizzato in Stati Uniti, Canada, Unione Europea come trattamento per depressione, dipendenze e disturbo ossessivo compulsivo. Una serie di risultati positivi confermati dalla letteratura scientifica e non passati inosservati al Gemelli, impegnato in progetti di ricerca e nella collaborazione con altre realtà per erogare le migliori prestazioni possibili. Interpreti di questa proficua collaborazione sono il Prof. Gabriele Sani, Direttore UOC Psichiatria clinica e d’urgenza del Gemelli, ed Elio Tesciuba, amministratore e, insieme a Ruggero Raccah, fondatore di “Atid”, realtà impegnata a supportare le aziende israeliane del biomedicale a sviluppare i loro progetti e a fare ricerca clinica in Italia attraverso un’attività di mediazione e coordinamento nei rapporti scientifici, tecnologici e commerciali.
   «Dopo la pandemia è emerso in maniera virulenta un problema di salute mentale, con un incremento di quasi il 20-30% – spiega a Shalom il Prof. Sani – In Italia, i pazienti censiti con problemi di disturbi psichiatrici sono circa 800mila, ma patologie come la depressione riguardano fino al 10% della popolazione generale, con numeri dunque ben più alti. Un altro tema di stringente attualità è quello delle dipendenze, che stanno crescendo in maniera preoccupante, dal fumo all’alcol fino agli stupefacenti».
   Questo quadro ha fatto emergere una questione di salute pubblica non procrastinabile. «Nel nostro ospedale e nella mia unità in particolare ci occupiamo abitualmente di questi temi – aggiunge il Prof. Sani – La domanda crescente in ambito psichiatrico e il nostro impegno nella ricerca ci hanno stimolato a strutturare diverse collaborazioni. Grazie alla collaborazione con Fondazione Lottomatica, abbiamo di recente inaugurato il CePID, Centro psichiatrico integrato di ricerca, cura e prevenzione delle Dipendenze, nell’ambito del quale abbiamo acquisito la macchina per la Deep TMS della Brainsway, che aumenta del 40% circa la risposta al trattamento nei soggetti affetti da dipendenze comportamentali, con grandi benefici anche nel caso di patologie gravi che sono spesso in comorbidità, come la depressione e il disturbo ossessivo compulsivo. In ambito psichiatrico non si dispone di dispositivi medici in grado di risolvere definitivamente queste patologie, ma si devono ottimizzare le prestazioni puntando a terapie su misura. La Deep TMS, insieme alla terapia farmacologica, la psicoterapia individuale e di gruppo e alle diverse tecniche di riabilitazione, ci aiuta a incrementare l’efficacia e la personalizzazione del trattamento».
   «La collaborazione con il Gemelli si è concretizzata grazie all’interazione con un team giovane, dinamico e consapevole della situazione – evidenzia Tesciuba - Le tecnologie si stanno evolvendo rapidamente. In Italia siamo brillanti nella ricerca, ma manca ancora un salto di qualità, che si può realizzare proprio con azioni come queste, che si inseriscono in un ambito sensibile, considerando i numeri impressionanti del disagio psichiatrico in età giovanile».
   «Collaborazioni sane e trasparenti rappresentano una possibile risposta alle difficoltà che talvolta incontra la Sanità – conclude il Prof. Sani – L’auspicio è che il nostro SSN, ancora oggi un esempio per molti Paesi nel mondo, possa comprendere l’importanza di questo tipo di iniziative e supportarle laddove opportune».

(Shalom, 17 agosto 2023)

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La prova finale del tram di Tel Aviv interrotta dalle proteste contro Miri Regev

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Venerdì 18 agosto entrerà in funzione la linea "rossa" del tram di Tel Aviv. La linea attraverserà diverse comunità del Gush Dan. Collegherà Petah Tikva a Bat Yam passando per Bné Brak, Ramat Gan e Tel Aviv-Yaffo.
La linea è lunga 24 chilometri, metà dei quali sotterranei, e servirà 234.000 passeggeri al giorno, con un tram ogni 3,5 minuti nelle ore di punta e ogni 6 minuti nel resto del tempo. Le stazioni sono 34, di cui 10 sotterranee.
Oggi (mercoledì) è stato effettuato il collaudo finale della linea, alla presenza di giornalisti e del Ministro dei Trasporti Miri Regev.
Alcune decine di manifestanti hanno disturbato l'evento. Hanno impedito a Miri Regev di parlare, gridando "Sei una vergogna per lo Stato".
I manifestanti, gli stessi che si oppongono alla riforma giudiziaria, erano venuti a protestare contro il fatto che il tram non funzionerà il sabato.
Miri Regev ha dichiarato al microfono di Israel Hayom: "C'è uno status quo. Siamo un Paese democratico. Questo è il giorno di riposo settimanale. Durante la settimana c'è più congestione. Siamo uno Stato ebraico e lo preserveremo per quanto riguarda il tram".
Il tram funzionerà dalla domenica al giovedì dalle 5 all'1 di notte e il venerdì dalle 5 fino a poche ore prima dello Shabbat. Il sabato sera riprenderà a circolare mezz'ora dopo la fine dello Shabbat fino all'una di notte.
I manifestanti hanno annunciato la loro intenzione di non fermarsi qui. Hanno indetto una manifestazione questo sabato, durante lo Shabbat, davanti alla casa del ministro Regev a Rosh Haayin.
Potrebbero anche espandere il loro movimento durante la settimana e minacciano di bloccare i binari del tram e di manifestare intorno alle stazioni.
Ron Houldaï, sindaco di Tel Aviv, ha annunciato che boicotterà la cerimonia di inaugurazione di domani (giovedì) a Petah Tikva: "È il mio modo di protestare", ha dichiarato. Ha aggiunto che aspettava l'apertura di questa linea da 23 anni e che sarebbe stato presente venerdì mattina con i primi passeggeri. Ha sottolineato che il tram dovrebbe funzionare anche il sabato: "come avviene in ogni democrazia liberale".

(LPH, 16 agosto 2023)

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Coscrizione obbligatoria o riforma giudiziaria?

Chissà, forse saranno i partiti ortodossi a ostacolare la controversa riforma giudiziaria promossa dalla loro stessa coalizione.


di Ariel Schneider

Un ebreo ortodosso davanti all'ufficio di reclutamento dell'esercito a Gerusalemme
GERUSALEMME - I leader dell'alleanza di partiti United Torah Judaism (VTJ) hanno chiesto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di sospendere immediatamente tutte le leggi di riforma giudiziaria fino a quando non sarà approvata la legge sulla coscrizione degli studenti ortodossi delle yeshiva nelle Forze di Difesa di Israele. I leader dell'ortodossia ebraica hanno riconosciuto negli ultimi mesi che la riforma giudiziaria non è necessariamente nell'interesse degli ebrei ortodossi del Paese, poiché ha portato a una crescente opposizione all'ortodossia nella società israeliana, in particolare in relazione alla coscrizione. Il sito ortodosso Kikar HaShabat ha recentemente dichiarato che la riforma giudiziaria deve essere fermata fino a quando non ci sarà un ampio accordo con l'opposizione.
  Capisco molto bene il problema delle due parti, perché nella famiglia allargata degli Schneider c'è un ramo ortodosso. Nessuno dei nove figli della famiglia di mia sorella si è arruolato nell'esercito, ma si è sposato rapidamente. Gli uomini si limitano a studiare la Torah e tutti gli altri libri di questo tipo, mentre le donne vanno a lavorare. Due mondi diversi, ma nelle riunioni di famiglia siamo ancora una sola famiglia. È già capitato che i miei ragazzi siano andati ai matrimoni dei loro cugini in uniforme e con le armi. Con mia sorella non ne discuto. Ognuno serve il popolo a modo suo. "I tuoi figli al fronte e i miei figli che imparano la Torah e pregano". Questa è la sua posizione e quella dell'ortodossia ebraica. Tutto il resto me lo risparmio, ma tra la gente la questione è controversa. La leadership ortodossa non vuole perdere l'occasione, perché la coalizione di destra ha una maggioranza di 64 seggi. Non bisogna giocarsela, ma a loro sembra che il ministro della Giustizia Yariv Levin se la stia giocando a causa del suo ego e della sua forma giuridica.
   La leadership ortodossa del Paese si è resa conto che la riforma ha diviso troppo la società israeliana e ora non vuole più sostenere la riforma giudiziaria nel Parlamento israeliano. Anche se questo dovesse comportare le dimissioni del ministro della Giustizia Yariv Levin. I rabbini ortodossi e i loro deputati alla Knesset hanno un ottimo senso politico e forse si rendono conto che perderanno sia la riforma giudiziaria, sia la regolamentazione del servizio militare obbligatorio per gli studenti ortodossi della Torah. Hanno dunque scelto la legge sulla coscrizione. Se il governo cadrà a causa della riforma giudiziaria, i partiti ortodossi non avranno ottenuto nulla, quindi hanno deciso di giocare d'anticipo e di far legiferare sulla coscrizione per la loro giovane generazione. Benjamin Netanyahu ha promesso loro questo per iscritto quando ha formato la coalizione.
  Gli ortodossi ashkenaziti intendono votare contro ciascuna delle leggi unilaterali sulla riforma giudiziaria promosse da Levin. In questo modo, sperano di fare pressione su Netanyahu per raggiungere un consenso più ampio. Il partito sefardita Shass, all'interno della coalizione, si è invece espresso a favore della riforma giudiziaria. Il leader del partito Shass, Arie Deri, ha affermato di essere partner di Netanyahu e di voler portare avanti le riforme.
  I partiti ortodossi insistono per una nuova legge che esenti gli studenti delle yeshiva dal servizio militare e includa una clausola che esenti la legge dalla revisione giudiziaria da parte della Corte Suprema. Questo in risposta al fatto che la Corte Suprema ha annullato l'ultima versione di un progetto di legge ortodosso sul servizio militare in quanto violava la parità di genere. La legge è stata rinviata più di una dozzina di volte. La prossima scadenza per una nuova legge è stata fissata per la fine di marzo 2024. Se entro tale data non verrà approvata una nuova legge, l'esercito potrà arruolare tutti gli studenti ortodossi di yeshiva di 18 anni, come tutti gli altri israeliani.
  La nuova proposta prevede di abbassare l'età per l'esenzione permanente da 26 a 22 anni, in cambio dell'integrazione degli ebrei ortodossi in quegli anni nel servizio nazionale e nel mercato del lavoro all'interno della loro società. Ma anche questo progetto di legge viene criticato. Fondamentalmente, bisogna capire che agli occhi dei rabbini il servizio militare è uno dei due maggiori pericoli per i giovani studenti di Torah. Il servizio militare e lo smartphone sono i due "diavoli" che allontanano gli ebrei ortodossi dalla fede o dalla retta via. I rabbini temono di perdere il controllo sulle giovani generazioni, e hanno ragione. La questione è così importante nel Paese che persino il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha sollevato il problema della coscrizione ortodossa: "L'esercito di Israele subirà un duro colpo se la Knesset approverà la nuova legge sulla coscrizione".
  Si teme inoltre che il disegno di legge, nella sua forma attuale, possa scatenare una nuova serie di proteste in tutto il Paese, anche tra gli elettori del Likud di destra della coalizione. Allo stesso tempo, i leader ortodossi sostengono che l'apprendimento della Torah sia un servizio essenziale per il Paese e vogliono addirittura inserirlo nella Legge fondamentale. Ciò li esenterebbe dal servizio militare. Tuttavia, questo vale solo per l'ortodossia ebraica e non per i coloni ebrei religiosi. Questi ultimi considerano il servizio militare obbligatorio come un comandamento. Su richiesta dei rabbini ortodossi e degli studiosi della Torah, i partiti ortodossi hanno messo alle strette il capo del governo israeliano, Netanyahu. Egli deve ora scegliere tra il servizio militare obbligatorio per gli studenti delle yeshiva ortodosse o la riforma giudiziaria. In entrambi i casi, il suo governo potrebbe cadere, sia perché non vuole regolamentare il servizio di leva per i rabbini, sia perché blocca la riforma giudiziaria. Netanyahu ha promesso di farle passare entrambe, ma ora deve scegliere. Ma come sempre nella politica israeliana, tutto è possibile e alla fine, in qualche modo, si troverà una via di mezzo. Dopotutto, non bisogna giocarsi i 64 seggi del parlamento israeliano.

(Israel Heute, 16 agosto 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ariel Schneider, è uno dei nove figli di Ludwig Schneider, a cui è succeduto nella direzione del giornale Israel Heute. Ho conosciuto Ludwig in alcuni dei suoi numerosi convegni pro-Israele che anni fa aveva organizzato in Germania e a cui io e mia moglie abbiamo partecipato. Abbiamo udito la sua testimonianza di ebreo laico che dopo essere arrivato alla fede in Cristo si è trasferito in Israele e ha dedicato molte delle sue energie a diffondere la conoscenza di Israele e l'amore per questo paese soprattutto fra i cristiani evangelici di Germania. Notizie su Israele riportava articoli di Schneider senior già vent'anni fa: "Ancora Gerusalemme". M.C.

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Israele vara il nuovo sottomarino lanciamissili Drakon e l’armamento è un mistero

di Jean Valjean

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La marina israeliana è nota per la segretezza che circonda la sua forza sottomarina. Si ritiene che 5 sottomarini di classe Dolphin-I/II trasportino missili con armi nucleari. Ora la nuova nave, INS Drakon, è stata tranquillamente varata a Kiel, in Germania e mostra un armamento missilistico rinnovato e ingrandito. 
   Si tratta di una variante della fortunata classe Dolphin-II, le sue linee uniche mostrano anche il pensiero navale fieramente indipendente di Israele.
   L’INS Drakon è più grande di qualsiasi precedente sottomarino israeliano, essendo molto più lungo delle prime due navi Dolphin-II. Ancora più evidente è la gigantesca sovrastruttura. Questo probabilmente contiene la sua caratteristica distintiva: nuovi missili avanzati.

• La necessità di un mezzo di maggior dislocamento
  Il Dolphin-II aveva già uno scafo allungato rispetto all’originale Dolphin-I per adattarsi all’AIP (alimentazione indipendente dall’aria). Il nuovo inserto dello scafo rende il sottomarino ancora più lungo. Sulla base delle informazioni disponibili, la successiva classe Dakar avrà all’incirca la stessa lunghezza del Drakon e presenterà una vela allungata in modo simile. Quindi INS Drakon può essere pensato come il ponte tra la classe Dolphin e la futura classe Dakar.
   I sottomarini sono stati già dotati di silos missilistici nella sovrastruttura. I primi sottomarini missilistici balistici appositamente costruiti dall’Unione Sovietica, le classi Hotel e Golf, seguivano questa tendenza. Più recentemente la Corea del Nord ha sfruttato questo trucco per inserire missili più grandi in sottomarini più piccoli. Eppure il sottomarino di progettazione tedesca è il primo moderno a mostrare questa caratteristica
   Stime approssimative suggeriscono che lo scafo e la vela più lunghi aggiungano uno spazio di circa 2 metri di larghezza per 4 metri di lunghezza e fino a 11 metri di profondità. Questo potrebbe ospitare due grandi silos missilistici o, più probabilmente, 4-8 più piccoli. È anche ragionevole presumere che possano essere dotate di armi nucleari.
   Dovrebbero essere prese in considerazione anche altre spiegazioni per questa configurazione curiosa. Forse si riferiva all’equipaggiamento delle forze speciali. O forse un hangar per veicoli sottomarini autonomi (AUV), veicoli aerei senza equipaggio (UAV), munizioni circuitanti o persino un sommergibile di salvataggio. Ma nessuno di questi è convincente quanto l’ipotesi del missile.

• Nuovi missili
  L’esatta natura dei nuovi missili può solo essere indovinata. Implicitamente sono missili balistici, possibilmente con uno stadio finale guidato. Qualunque cosa siano, Israele custodisce il segreto con attenzione.
   Il posizionamento dei tubi missilistici nello scafo sotto la sovrastruttura consente missili molto più lunghi che se dovessero essere sistemati sotto l’involucro del ponte. La vela aggiunge diversi metri alla loro lunghezza possibile, anche se il peso e la stabilità devono ancora essere considerati.
   È interessante notare che, nonostante i nuovi missili posizionati al centro, il sottomarino ha ancora quattro tubi lanciasiluri extra a prua. Questi sembrano essere invariati rispetto alle precedenti barche di classe Dophin-I e II. I tubi extra sono più grandi dei normali tubi lanciasiluri da 533 mm (21 pollici). Si ritiene che siano dedicati ai missili da crociera sviluppati da Israele, per cui questo sottomarino o ha due tipi di missili diversi o è in grado di lanciare gli stessi missili orizzontalmente e verticalmente.
   Forse i missili verticali e quelli orizzontali hanno funzioni diverse, ad esempio alcuni potrebbero avere testate nucleari altri no.
   Una risposta più prosaica è che i tubi di lancio verticali sono stati aggiunti tardi nel progetto, forse anche dopo l’inizio della costruzione. Potrebbe essere stato più economico e più facile mantenere i tubi lanciasiluri aggiuntivi. Ciò avverrebbe nonostante la tentazione del risparmio di peso e della semplificazione se venissero rimossi.
   Potrebbe volerci del tempo, forse anni, per decifrare le capacità del sottomarino. In effetti, la Marina israeliana mantiene segreti alcuni aspetti dei suoi sottomarini esistenti, quindi potremmo non saperlo mai tutto.

(Scenari economici, 16 agosto 2023)

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Berlino, sul tragico binario 17 un misterioso uomo ha bruciato libri sul nazismo

Un uomo non ancora identificato ha bruciato una scatola di libri sul nazismo, che facevano parte del memoriale Gleis 17.

di Martina Biz

Sabato mattina, un uomo non ancora identificato dalla polizia si è recato alla famosa stazione di Grunewald, dove si trova il memoriale per gli ebrei deportati nei campi di concentramento, il Gleis 17 (il Binario 17) ed ha incendiato una scatola di libri sul nazismo che faceva parte proprio del memoriale. Il caso è stato affidato all’Ufficio federale di polizia criminale che si occuperà di trovare il responsabile.

• Due testimoni hanno assistito all’incendio.
  Alle  cinque di sabato mattina si è verificato un tremendo atto vandalico nella stazione di Grunewald, proprio in quello che da tempo è un luogo di rispetto e commemorazione per tutte le vittime dell’Olocausto. Due testimoni hanno avvistato un uomo, ancora non identificato, che si avvicinava al memoriale del Gleis 17 ed incendiava una scatola di libri informativi ed educativi sull’ascesa del fascismo. I due testimoni hanno riportato quanto visto al dipendente di un panificio, poco distante dal memoriale. E’ stato proprio il dipendente del negozio a denunciare l’accaduto alla polizia.
   L’incendio ha coinvolto il fascicolo di libri insieme ad una ex cabina telefonica dismessa, che facevano parte del memoriale. La scatola di libri in particolare conteneva letteratura sul fascismo e sull’ascesa della dittatura. I vigili del fuoco hanno prontamente spento l’incendio, ma come dichiarato dalla polizia su Twitter, i libri sono stati completamente distrutti. 
   Il caso è stato affidato all’Ufficio della polizia criminale tedesca.

• L’importanza storica del Gleis 17
  Il Memoriale “Gleis 17” si trova nella stazione di Grunewald, nella zona immersa nel verde nel distretto di Charlottenburg-Wilhlemsdorf. La stazione è diventata ufficialmente sito commemorativo dell’Olocausto nel 1998: da questa stazione, infatti, venivano deportati decine di migliaia di ebrei a Riga, Varsavia, Auschwitz-Birkenau e Theresienstadt.
   Nel 1998 la Deutsche Bahn aveva indotto un concorso per istituire un memoriale proprio in quella stazione, in particolar modo nel famoso binario in questione, il Binario 17. Gli architetti Nicolaus Hirsch, Wolfgang Lorch e Andrea Wandel, vincitori del concorso, proposero un memoriale costituito da 186 lastre d’acciaio fuso incorporate nella ferrovia. Le targhe, in ordine cronologico, riportano le date di tutti i treni di deportazione del tempo che partivano da Berlino, ciascuna con il numero di ebrei deportati
   Il memoriale, inaugurato il 27 gennaio 1998, è diventato una tappa obbligata per gli appassionati di storia della seconda guerra mondiale. La Deutsche Bahn stessa si augurava, con l’istituzione del sito, che la comunità ricordasse e rispettasse i crimini e gli orrori commessi durante il regime nazionalsocialista.

• Il consiglio della Conferenza rabbinica ortodossa ha descritto l’atto come “disgustoso”
  Come dichiarato dalla Conferenza rabbinica ortodossa, l’atto è irrispettoso per tutte le vittime dell’Olocausto, ma anche per tutti i discendenti. E’ un’azione “disgustosa” che va contro al senso di responsabilità storica della società, ma “gli incendiari non saranno in grado di negare o minimizzare l’Olocausto”, afferma la Conferenza rabbinica.
   Allo stesso tempo, la Conferenza rabbinica si allarma per quella che sembra una crescente e allarmante continuazione di questa tendenza. Ci sono sempre più atti preoccupanti negli ultimi anni diretti proprio ai memoriali dell’Olocausto: c’è un’inclinazione a sminuire la Shoah, a equipararla ad altri conflitti che con la seconda guerra mondiale hanno ben poco a che fare.

(Berlino Magazine, 16 agosto 2023)

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Gorizia ebraica, una storia di confine da recuperare con la cultura

di Daniele Toscano

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La scelta dell’Unione Europea di assegnare a Gorizia e Nova Gorica il ruolo di Capitale Europea della Cultura per il 2025 ha un profondo valore politico, dopo le divisioni della Guerra fredda tra la città italiana e quella attualmente in Slovenia. Questa designazione ha un significato anche per il mondo ebraico, che potrebbe riscoprire una sua pagina di storia e valorizzare il relativo patrimonio. Oggi a Gorizia non ci sono più ebrei e dal 1969 è una sezione della Comunità di Trieste. Ma il periodo tra il XVI secolo e l’inizio del ’900 racconta una pagina importante per l’ebraismo europeo, in una città piccola ma strategicamente rilevante, crocevia tra Oriente e Occidente, ponte tra Impero asburgico e Repubblica di Venezia, punto nevralgico per gli scambi commerciali.
Porta del Ghetto di Gorizia
«A Gorizia si può ancora identificare l’antico ghetto, istituito nel 1696 – racconta a Shalom Livio Vasieri, Assessore alla Cultura della Comunità Ebraica di Trieste – La comunità goriziana, anche quando fu rinchiusa, mantenne sempre un livello sociale benestante, risentendo del benessere economico della città e delle attività commerciali in cui gli ebrei erano coinvolti, dalla produzione di cera alla filatura di seta, fino al prestito di denaro alla corte d’Austria, che permise a molte famiglie di avere dei privilegi, come la possibilità di spostamenti o non girare con segni distintivi. La dedizione agli studi e la prosperità della comunità portarono Gorizia a guadagnarsi l’appellativo di “piccola Gerusalemme sull’Isonzo”».
   Tra fine ’700 e inizio ’800 la comunità goriziana, in una città di 7mila abitanti, arrivò a contare circa 300 persone; fu sede di alcune famiglie facoltose come Pincherle e Morpurgo e di figure illustri, come la giornalista Carolina Luzzatto Coen, il filosofo Carlo Michelstaedter, il filologo e glottologo Graziadio Isaia Ascoli. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la comunità si è spopolata, ma ne restano visibili alcune tracce: la sinagoga del 1699, più volte restaurata; il portone in ferro battuto in via Ascoli che segnava l’ingresso del ghetto; la lapide in ricordo di Graziadio Isaia Ascoli; l’antichissimo cimitero di Valdirose, che si trova in territorio sloveno, con una lapide addirittura del 1371.
Ghetto di Gorizia
«L’investitura a Capitale della Cultura nel 2025 è un progetto che interessa tutta la regione, anche se visti i tempi ancora non si riscontrano particolari iniziative delle istituzioni locali – afferma Vasieri – In compenso, vi è un grande impegno della Fondazione Beni Culturali Ebraici Italiani che ha preso a cuore questo percorso. Speriamo che il ruolo di Capitale della Cultura possa essere lo stimolo per una nuova valorizzazione del patrimonio culturale ebraico, che a Gorizia testimonia una presenza significativa che ha lasciato in eredità strutture di un certo pregio di cui turisti, studiosi e cittadini potrebbero fruire. Il cimitero, parzialmente mutilato 40 anni fa per far posto a un’autostrada, dovrebbe essere restaurato, mentre si dovrebbe facilitare l’accesso alla sinagoga e al relativo museo». Proprio in questa estate 2023 la sinagoga di Gorizia si appresta a riaprire, grazie a uno stanziamento di 250mila euro deliberato dal Consiglio regionale per garantire la manutenzione straordinaria dei suoi locali e adeguare la struttura alle normative vigenti. Un primo passo importante verso il 2025.

(Shalom, 16 agosto 2023)

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