Notizie 1-15 agosto 2024
A chi conviene un accordo per il cessate il fuoco a Gaza?
Non riesco a capire perché si chieda la resa di Israele e non quella di Hamas
di Franco Londei
Oggi è il giorno cruciale. In Qatar (la location è segreta) si cerca un accordo per il cessate il fuoco a Gaza che convinca tutte le parti in causa.
TUTTE LE PARTI IN CAUSA. Solo questo dovrebbe far capire che non ci sono solo DUE parti in causa, cioè Israele e Hamas, ma che le parti in causa sono molteplici e non è azzardato dire che un accordo per il cessate il fuoco a Gaza convenga principalmente a tutti fuorché a Israele.
(1) Gli Stati Uniti: sono la parte in causa più importante. Pur non essendo in discussione il sostegno a Israele, gli Stati Uniti devono guardare anche alla loro politica interna che, specialmente nel campo Democratico, non è sempre a favore di Israele. Ne viene fuori un patetico teatrino da parte della Amministrazione Biden che se non fosse così pericoloso sarebbe divertente. Il Presidente Biden – e di riflesso la candidata DEM Kamala Harris – hanno tantissimo da guadagnare da un accordo per il cessate il fuoco a Gaza e lo spingono con tutte le loro forze, anche a costo di fare un accordo disastroso per Israele. Il JCPOA punto due.
(2) L’Iran: e la seconda parte in causa più importante, poco sotto agli Stati Uniti. Nonostante abbiano dato il via alla guerra tra Israele e Hamas, favorendo il massacro del 7 ottobre, e nonostante sostengano di voler attaccare Israele per l’eliminazione di Ismail Haniyeh, in realtà si sono accorti di aver fatto gli sbruffoni un po’ troppo presto. Non possono attaccare Israele perché non hanno ancora la bomba (ma sono lì) e perché sanno che la risposta di Gerusalemme sarebbe devastante, sia per il loro programma nucleare che per la loro economia (e non è detta che non spinga una rivolta interna), ma non possono nemmeno tirarsi indietro dopo tutte le sparate che hanno fatto. Un accordo per il cessate il fuoco a Gaza permetterebbe agli Ayatollah di non attaccare Israele e farebbe credere a milioni di musulmani che il merito di tutto sia iraniano. È l’unica via d’uscita che hanno.
(3) Erdogan (la Turchia): la salvezza di Hamas e la sua uscita dall’orbita iraniana è l’obiettivo principale della Fratellanza Musulmana di cui Erdogan è il capo indiscusso. Il palese passaggio dei terroristi di Gaza sotto l’ombrello iraniano ha fatto alterare non poco il rais turco. Oggi come oggi l’unico modo per salvare Hamas è un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, e in mezzo alle minacce verso Israele, Erdogan è sempre stato il principale sponsor di tale accordo. Anche oggi la Turchia è in Qatar e si è opposta fermamente alla partecipazione iraniana ai colloqui. In caso di accordo si prenderebbero tutto il merito lasciando Erdogan con un pugno di mosche.
(4) L’Egitto: incredibilmente al Cairo ritengono che il loro confine con Gaza sia più sicuro se dall’altra parte ci sono i terroristi di Hamas e non Israele. In tutta onestà non riesco a spiegare questo atteggiamento egiziano se non con un calcolo di interessi. Per anni gli egiziani hanno chiuso gli occhi mentre dal suo confine entravano a Gaza migliaia di missili e milioni di tonnellate di cemento che hanno permesso ad Hamas di creare la cosiddetta “metropolitana di Gaza”. Chi o cosa ci ha guadagnato non mi è dato sapere. Sono quasi convinto che dietro ci sia un accordo sulla sicurezza. P.S. L’Egitto considera Hamas un gruppo terrorista.
(5) Hamas (Yahya Sinwar): poi ci sono loro, i terroristi di Hamas. Yahya Sinwar è già un eroe per quasi tutto il mondo islamico, se riuscisse a sopravvivere e ad ottenere un cessate il fuoco a Gaza che farebbe sopravvivere anche Hamas, diverrebbe colui che per primo ha sconfitto Israele. Per lui, al di là delle stupidaggini sui social, il cessate il fuoco è questione di vita o di morte.
Poi ci sarebbe Israele, o meglio, ci dovrebbe essere Israele. Per Gerusalemme un cessate il fuoco a Gaza deve essere temporaneo e unicamente finalizzato alla liberazione degli ostaggi.
Perché Israele non è nella lista? Perché strategicamente per Gerusalemme un simile accordo equivarrebbe ad una sconfitta e quindi – contrariamente a tutti gli altri – non è nel suo interesse farlo se non (come detto) in forma temporanea e finalizzato al rilascio dei pochi ostaggi rimasti in vita.
Ciò detto, rimango ancora sbalordito dal fatto che nessuno, tra i tanti sostenitori della pace, abbia chiesto la resa di Hamas per porre fine a conflitto. Sembra quasi che ci sia l’interesse affinché Hamas sopravviva. In compenso, chiedendo un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, chiedono di fatto la resa di Israele. Valli a capire certi pacifisti.
(Rights Reporter, 15 agosto 2024)
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Israele: immigrazioni in calo nel 2023, ma il 2024 promette una ripresa
di Nicole Nahum
Secondo un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica, nel 2023 l’immigrazione in Israele ha subito un notevole calo, con una diminuzione del 38,4% rispetto all’anno precedente e l’arrivo di soli 46.033 nuovi immigrati.
Questa flessione è stata principalmente causata dagli attacchi terroristici del 7 ottobre e dalla successiva guerra a Gaza e nel nord di Israele. Tuttavia, i primi mesi del 2024 mostrano segni di ripresa, con un aumento degli arrivi di nuovi immigrati.
La Russia rimane la principale fonte di immigrazione, con 33.116 persone, che rappresentano il 72% del totale degli immigrati. Altri Paesi di rilievo in questo senso sono gli Stati Uniti (2.413 immigrati), l’Ucraina (2.091), la Bielorussia (1.840) e la Francia (1.006).
La maggior parte dei nuovi arrivati proviene dunque dai paesi dell’ex Unione Sovietica, costituendo l’83,6% del totale. Rispetto agli anni precedenti, l’età media degli immigrati è più bassa, con una presenza minore di bambini e anziani e una maggiore percentuale di persone in età lavorativa.
Quasi la metà dei nuovi immigrati si è stabilita nel centro di Israele, in particolare a Tel Aviv. Altre destinazioni popolari includono Haifa, i distretti meridionali e settentrionali e Gerusalemme.
Nonostante dunque il significativo calo dell’immigrazione nel 2023, quest’anno presenta già numerosi segnali di ripresa, cambiamento che potrebbe influenzare significativamente il panorama socioeconomico del Paese nei prossimi anni.
(Shalom, 15 agosto 2024)
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Il panorama partitico nel moderno Stato di Israele
Il panorama dei partiti israeliani è complesso. Il suo sviluppo è strettamente legato ai vari campi sionisti e alle loro ideologie. La categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
di Gundula Madeleine Tegtmeyer
Israele è una democrazia parlamentare. Gli organi dello Stato sono separati nei rami legislativo, esecutivo e giudiziario secondo i principi della separazione dei poteri. Le istituzioni sono la presidenza, la Knesset (parlamento unicamerale), il governo (gabinetto), la magistratura e l'ombudsman, il revisore dei conti dello Stato. Il potere giudiziario è guidato dalla Corte Suprema di Gerusalemme.
La storia del sionismo è caratterizzata da forti differenze ideologiche, che si riflettono ancora oggi nel panorama dei partiti israeliani. Una digressione storica ha lo scopo di fornire un orientamento nella complessità.
Theodor Herzl è considerato il padre del sionismo politico, ma non ha il copyright del termine. Il pubblicista austro-ebraico Nathan Birnbaum utilizzò per la prima volta i termini “sionista” e “sionismo” già nel 1890.
Due anni dopo, Birnbaum creò anche il termine “sionismo politico”. La sua opera “Die Nationale Wiedergeburt des Jüdischen Volkes in seinem Lande als Mittel zur Lösung der Judenfrage” ebbe un ruolo decisivo nel primo Congresso sionista, che ebbe inizio il 29 agosto 1897 a Basilea. I delegati ebrei decisero di creare uno “Stato ebraico” in Palestina, all'epoca parte dell'Impero Ottomano.
• GLI EBREI COME NAZIONE
Durante l'incontro, Herzl parlò della sua visione secondo cui gli ebrei dovevano ottenere uno Stato indipendente nella “famiglia delle nazioni”. Per il giornalista, la religione non era il ruolo più importante per definire i suoi sforzi. Egli considerava piuttosto gli ebrei come una nazione di unità storica ed etnica. Herzl e il suo fedele compagno Max Nordau propagarono il sionismo politico a Basilea, presumibilmente anche per ottenere l'approvazione dei poteri politici consolidati che controllavano la regione mediorientale. Non tutti condividevano l'approccio diplomatico di Herzl.
Ascher Zvi Hirsch Ginsberg, meglio conosciuto come “Achad HaAm” (“uno del popolo”), dubitava fortemente che gli sforzi diplomatici di Herzl avrebbero avuto successo. Giunse a questa conclusione dopo due viaggi in Palestina nel 1891 e nel 1893. Accusò Theodor Herzl e Max Nordau di aver trascurato i valori ebraici.
In quanto principale rappresentante del cosiddetto sionismo culturale, la dottrina del “centro spirituale-culturale ebraico” in Palestina, Achad HaAm riponeva le sue speranze nell'educazione, concentrandosi sull'etica e sui valori ebraici. Era convinto che solo questi potessero risolvere la “crisi ebraica” e allo stesso tempo fungere da baluardo contro il pericolo dell'assimilazione nella diaspora ebraica. Di conseguenza, Sion come centro spirituale e culturale aveva la priorità sullo sviluppo politico ed economico e sulla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Chaim Weizmann riuscì a riunire le due fazioni sioniste. Fu presidente dell'Organizzazione sionista mondiale e in seguito divenne il primo presidente israeliano.
• RACCOLTA DI FONDI PER IL FONDO NAZIONALE EBRAICO
Leon Mozkin, Nahum Sokolov e Weizmann erano rappresentanti del cosiddetto “sionismo sintetico”. Questo era emerso nel 1907 durante l'ottavo Congresso sionista dell'Aia da una sintesi del sionismo politico, pratico e culturale. Gli obiettivi principali erano l'intensificazione delle attività sioniste, anche nella diaspora, e la raccolta di fondi sufficienti per il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), noto in ebraico come Keren Kajemet LeIsrael (KKL).
L'approccio alla realizzazione degli ambiziosi obiettivi è stato caratterizzato da realismo politico, pragmatismo e grande flessibilità nel tentativo di raggiungere un comune denominatore con i partner riguardo all'idea sionista. A partire dal decimo Congresso ebraico, riunitosi a Basilea dal 9 al 15 agosto 1911, il “sionismo sintetico” fu dominante.
Il rabbino Shmuel Moghilever era tra i partecipanti al primo Congresso sionista. Aveva ascoltato con attenzione i discorsi di Herzl. Ma lo studioso ebreo non era convinto di ciò che propagandava. La sua conclusione: molta diplomazia e poca religione. Come alternativa spirituale, Moghilever, insieme ai rabbini Jehuda Schlomo Alkali e Zvi Jehuda Kalischer, diede vita al “sionismo religioso”.
Al quarto Congresso ebraico di Londra, nel 1900, si svolse un vivace dibattito tra le varie fazioni sulla rivendicazione della leadership culturale. I sionisti religiosi, guidati dal rabbino Yitzchak Jacob Reines, erano uniti dalla convinzione che il ritorno del popolo ebraico alla terra d'Israele avrebbe portato la tanto agognata “età redentrice e messianica”.
• ATTIVITÀ CULTURALI
Due anni dopo, nel 1902, il Quinto Congresso Sionista decise che le attività culturali facevano parte del programma sionista, e così Reines e Se'ev Javez fondarono nello stesso anno a Vilnius l'organizzazione religiosa Mizrachi. L'acronimo ebraico sta per merkaz ruhani (centro spirituale).
Il credo dell'organizzazione è che la fondazione dello Stato di Israele sia un dovere religioso derivato dalla Torah. Israele sarà redento solo dopo la comparsa del Messia. Lo slogan di Mizrachi è: “La terra di Israele per il popolo di Israele secondo la Torah di Israele”.
Il principale ideologo di questo moderno sionismo religioso in Palestina fu il rabbino ashkenazita Abraham Isaac Kook. Era convinto che i sionisti laici e non religiosi avrebbero realizzato involontariamente con il loro insediamento nella terra di D’o il grande piano di redenzione per il popolo ebraico.
I sostenitori di questa ideologia di redenzione sono considerati nello spettro politico israeliano come nazionalisti religiosi e sostenitori della “Grande Israele”, cioè la terra promessa agli ebrei da D’o nella Bibbia ebraica, la cui estensione, tuttavia, è descritta in diversi modi. Kook è considerato il padre spirituale del sionismo religioso moderno.
• ATTIVO A FAVORE DELLA DICHIARAZIONE BALFOUR
Chaim Weizmann e il rabbino Avraham Kook furono profondamente coinvolti nelle attività che portarono alla Dichiarazione Balfour del 1917. Essa prende il nome dall'allora ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour. Nella dichiarazione, la Gran Bretagna si dichiarò d'accordo con l'obiettivo del sionismo, fissato nel 1897, di stabilire un “focolare nazionale” per il popolo ebraico in Palestina.
Midrachi è il più antico partito religioso di Israele, da cui si è scisso nel 1922 il partito operaio sionista-ortodosso “HaPoel HaMisrachi” (Lavoratori di Mizrachi). È considerato un predecessore del Partito religioso nazionale. Il suo slogan è “Tora vaAvoda” (Torah e Lavoro) ed è considerato un sostenitore della creazione di kibbutzim e moshavim.
• SIONISMO PRATICO
Anche il medico e giornalista Leon Pinsker era preoccupato per il futuro del popolo ebraico. Non poteva rassegnarsi a quella che definiva la “resa umiliante con cui il suo popolo, gli ebrei, accettano l'umiliazione”.
Nella sua opera “Autoemancipazione”, Pinsker lancia un appello urgente agli ebrei per “ripristinare l'onore nazionale e far rinascere in noi il sentimento di autodignità”. Come sostenitori ideologici del cosiddetto “sionismo pratico o del lavoro”, anche Menachem Ussishkin e Moshe Leib Lilienblum erano convinti che gli ebrei dovessero colonizzare la terra per creare dei fatti.
Arthur Ruppin, fortemente coinvolto nella seconda Aliyah (ondata migratoria), aprì l’“Agenzia Palestina” a Giaffa nel 1908. I suoi acquisti di terreni plasmarono il futuro degli insediamenti sionisti e con essi il carattere dello Stato ebraico. Ruppin è uno dei padri fondatori di Tel Aviv.
Il credo del “sionismo pratico” era “la salvezza attraverso il lavoro”. I sostenitori di questa teoria divennero la corrente principale del “sionismo socialista”, il cui padre spirituale fu Moses Hess (1812-1875) con la sua opera “Roma e Gerusalemme: l'ultima questione di nazionalità”. Il pioniere del socialismo e del sionismo era un amico intimo di Karl Marx. Moses Hess è stato deposto nel cimitero di Kinneret, vicino al Kibbutz Degania.
La sua lapide recita: “Moses Hess. Autore di Roma e Gerusalemme. Uno dei padri del socialismo mondiale e foriero dello Stato di Israele”. Una caratteristica del sionismo socialista è lo sforzo di creare una società contadina in Palestina. Le radici di molti movimenti di insediamento affondano nel sionismo socialista.
• SIONISMO SOCIALISTA COME "REDENZIONE"
Prima del terzo Congresso sionista di Basilea del 1899, Nahman Syrkin dichiarò che il “sionismo socialista” rappresentava la “redenzione” ebraica, grazie alla fusione delle idee socialiste e comuniste con l'idea sionista del nazionalismo ebraico. Anche Dov Ber Borochov considerava il sionismo come una necessità storica ed economica per gli ebrei, e il ruolo di pioniere della liberazione nazionale ebraica era riservato al proletariato ebraico.
Molti immigrati della seconda (1904-1914) e terza Aliyah (1919-1923) erano sionisti socialisti. Nel 1933, Chaim Arlosoroff si recò nella Germania nazista per negoziare l'“Accordo HaAvara” (accordo di trasferimento) con il governo tedesco.
L'approccio di Arlosoroff fu accolto con incomprensione e rifiuto da molti ebrei. Fu assassinato a Tel Aviv il 16 giugno 1933, appena due giorni dopo il suo ritorno in Palestina. Non è ancora stato chiarito se si sia trattato di un atto criminale o di un omicidio politico.
Anche Berl Katznelson, cofondatore di “Maschbir”, una catena di grandi magazzini israeliani, e di “Kuppat Holim Me'uhedet”, la terza organizzazione israeliana per l'assicurazione sanitaria e i servizi medici, si professò socialista. Tra gli altri rappresentanti figurano il secondo presidente di Israele, Yitzhak Ben Zvi, e il primo primo ministro di Israele, David Ben-Gurion.
Ben-Gurion era un membro del Mapai, acronimo di “Mifleget Poalei Eretz Ysrael” (Partito del Lavoro della Terra d'Israele). Il Mapai fu fondato negli anni '30 come gruppo moderato del partito marxista-sionista russo “Poalei Zion”, i “Lavoratori di Sion”. Sotto la guida di Ben-Gurion, il Mapai divenne il principale partito del Parlamento israeliano.
• FONDAZIONE DEL PARTITO LABURISTA
Ben-Gurion lasciò il Mapai per protesta contro i rapporti del suo partito con Pinchas Lavon durante l'affare dello spionaggio di Lavon . Nel 1965 fondò un nuovo partito, il Rafi. Si tratta dell'acronimo di Reshimat Poalei Yisrael, il “Bar del Lavoro Israeliano”.
Tre anni dopo, il Mapai si fuse con Rafi e Achdut HaAvoda/Poalei Zion per formare il partito laburista Avoda. Fino al 1977, tutti i primi ministri appartenevano a Mapai o ad Avoda . Il principale avversario del Partito Laburista era il partito conservatore di destra Cherut (Libertà) di Menachem Begin.
I cosiddetti “territorialisti” svolgevano un ruolo di outsider tra i movimenti sionisti. Nahman Syrkin sosteneva la versione socialista del sionismo. Guidato da Israel Zangwill, il piccolo gruppo si separò dopo il settimo Congresso sionista del 1905 e fondò l'“Organizzazione territoriale ebraica”.
Il suo obiettivo era quello di creare un territorio ebraico sufficientemente grande e denso, non necessariamente in Terra d'Israele e non necessariamente completamente autonomo. La Dichiarazione Balfour del 1917 e la conseguente rinascita sionista rinnegarono il movimento, portandolo allo scioglimento.
• SECESSIONE DEI REVISIONISTI
La posizione e la politica moderata di Chaim Weizmann nei confronti degli inglesi fu sempre più criticata da alcuni sionisti. Ci fu un'altra scissione all'interno dei ranghi sionisti: nel 1925 si separarono i cosiddetti Revisionisti, guidati da Se'ev Jabotinsky e dal suo successivo successore Menachem Begin.
I revisionisti sottolineavano l'eredità storica del popolo ebraico nella Terra d'Israele come base costitutiva del concetto nazionale sionista. Sostenitori del liberalismo economico, erano anche strenui oppositori del cosiddetto “sionismo operaio” e dell'instaurazione di una società comunista. I revisionisti sostenevano una dura azione militare contro gli arabi che avevano attaccato le comunità ebraiche.
• ULTERIORE RADICALIZZAZIONE
Un gruppo di membri, tra cui Menachem Begin, si radicalizzò ulteriormente e fondò nel 1943 l'Irgun Zva'i Le'umi,l'“Organizzazione militare nazionale”, spesso chiamata Irgun all'estero ed Ezel in Israele. Un altro gruppo scissionista, il gruppo Lechi, fu reclutato da ambienti revisionisti. Il nome è l'acronimo di Lochamei Cherut Yisrael, i “Combattenti per la libertà di Israele”.
Dopo la fondazione dello Stato, l'organizzazione sionista revisionista si fuse con il movimento Cherut fondato da Ezel, guidato da Begin, che era anche il comandante di Etzel. Insieme formarono il partito Cherut, il “Partito della Libertà”, una componente del Likud fondato da Menachem Begin nel 1973. Il nome del partito Likud significa “unione” e corrisponde in larga misura ai valori del revisionista Jabotinsky.
Jabotinsky era un rappresentante del liberalismo del XIX secolo. Sosteneva un sionismo che metteva da parte le differenze sociali e di classe e si concentrava sulla creazione di uno Stato ebraico che tutti gli ebrei potessero chiamare casa. Esercitò una profonda influenza sulla gioventù ebraica, incoraggiandola a lasciarsi alle spalle la mentalità da ghetto e ad essere orgogliosa del proprio ricco patrimonio ebraico.
Diffuse la sua ideologia attraverso il movimento giovanile da lui fondato, Betar, noto anche come Beitar. Il nome si riferisce sia a Betar (fortezza), l'ultima fortezza ebraica caduta nella rivolta di Bar-Kochba nel 135 d.C., sia all'abbreviazione modificata del nome ebraico dell'organizzazione: “B erit Tr umpeldor” o “B rit J osef Tr umpeldor”, dal nome di Joseph Trumpeldor.
Questo attivista sionista contribuì a organizzare il Corpo dei Muli di Sion e a portare gli immigrati ebrei in Palestina. Trumpeldor morì nel 1920 in difesa dell'insediamento di Tel Hai e divenne un eroe nazionale ebraico. Nel 1977, il Likud sostituì per la prima volta al governo il socialista Avoda, dopo ben 30 anni di opposizione.
• Ben-GURION CONTRO LA SEPOLTURA DI JABOTINSKY
I revisionisti sono classificati come sostenitori del “Grande Israele”, uno Stato ebraico su entrambe le sponde del fiume Giordano. Begin è stato il settimo Primo Ministro dal 1977 al 1983. Jabotinsky fu sepolto nel Nuovo Cimitero Montefiore di Farmingdale, New York, in conformità con una clausola del suo testamento. Ben-Gurion rifiutò di permettere a Jabotinsky di essere sepolto nuovamente in Israele.
Il “sionismo rivoluzionario”, guidato da Avraham Stern, Israel Eldad e Uri Zvi Greenberg, è spesso classificato ideologicamente come revisionista. Tuttavia, si differenzia per alcuni aspetti fondamentali. A differenza dei revisionisti nazionali, prevalentemente laici, questo movimento considera il sionismo solo come un mezzo per raggiungere l'obiettivo reale: Malchut Yisrael, il “Regno di Israele” che comprende un Tempio ricostruito. Il movimento Cherut Zion è considerato un sostenitore del “Grande Israele”.
Nell'attuale panorama partitico israeliano, i seguenti blocchi sono principalmente contrapposti: Il blocco nazional-conservatore del Likud e i partiti nazionalisti minori di destra, il partito laburista socialdemocratico e il blocco di sinistra Meretz, nonché i partiti religiosi, tra i quali l'“Agudat Israel” (Unione di Israele) è stato fondato nel 1912 da ebrei tedeschi strettamente ortodossi come partito antisionista. Il Partito Nazionale Religioso costituisce tradizionalmente l'ala religiosa del movimento sionista ed è stato alleato del Mapai e del Partito Laburista fino al 1977.
Avigdor Lieberman ha fondato Israel Beiteinu (Israele è la nostra casa) nel 1999. Il partito si descrive come “un movimento nazionale con una chiara visione di seguire l'audace percorso di Se'ev Jabotinsky”, il fondatore del sionismo revisionista. Rappresenta principalmente gli immigrati dall'ex Unione Sovietica.
• NUOVI PARTITI
Achrajut Leumit è una scissione dal Likud, poi rinominata Kadima (Avanti). È stato fondato nel 2005 da Ariel Sharon e Zippi Livni. Kadima si considerava un partito liberale al centro dello spettro dei partiti israeliani e si collocava quindi politicamente tra il Likud e Avoda. Nonostante sia stato al governo per due volte, si è sciolto nel 2015 a causa di conflitti interni al partito. Il partito liberale HaTnua (Il Movimento) è una scissione di Kadima.
Yesh Atid (C'è un futuro) è un partito liberale e centrista in Israele. È stato fondato nell'aprile 2012 dall'ex giornalista televisivo Jair Lapid. Suo padre era l'ex politico Shinui e ministro della Giustizia israeliano Josef “Tommy” Lapid. Shinui in ebraico significa “cambiamento” o anche “trasformazione”. Il partito si batte per una “soluzione a due Stati”, con uno Stato palestinese smilitarizzato accanto a uno Stato ebraico di Israele. I blocchi di insediamento dovrebbero rimanere parte di Israele, non è riconosciuto il diritto al ritorno per i palestinesi e Gerusalemme dovrebbe rimanere la capitale unita di Israele.
Jamina, noto anche come Jemina (a destra), è il nome di un gruppo parlamentare della Knesset. Dal 2019 all'inizio del 2021 è stata un'alleanza tra il partito conservatore nazionale HaJamin HaChadash (la Nuova Destra) e l'Unione dei Partiti di Destra, composta dai partiti nazional-religiosi HaBait haJehudi (Jewish Home) e Ha-Ichud HaLeʾumi (Unione Nazionale).
Quando è stata fondata con la scissione dal partito nazional-religioso Mafdal, l'alleanza si chiamava Tkuma, in ebraico “rinascita”. Dal gennaio 2019, il suo presidente è il membro della Knesset Bezalel Smotritsch, che dal 2023 è presidente del partito religioso di destra Mafdal-HaTzionut HaDadit (Partito nazionale religioso - Sionismo religioso). Attualmente è Ministro delle Finanze.
L'alleanza è stata sciolta dopo le elezioni parlamentari del settembre 2019. Jamina si è riformata per le elezioni del 2020 e ha formato una fazione comune della Knesset. HaBait haJehudi ha lasciato la fazione Jamina nel maggio 2020 e anche Tkuma ha lasciato la fazione nel gennaio 2021, il che significa che dopo le elezioni parlamentari del 2021 la fazione era composta solo da deputati del partito HaJamin HaChadash . Naftali Bennett è stato presidente del partito Nuova Destra dal 2018 al 2022, avendo precedentemente guidato il partito Jewish Home dal 2012 al 2018.
• SHASS COME «KINGMAKER»
I governi in Israele dipendono sempre dai partiti religiosi come partner di coalizione. Il partito Shass, che si è separato da Agudat Israel nel 1984 ed è stato fondato dal rabbino ultraortodosso Ovadia Josef, morto nel 2013, è emerso come la forza religiosa più forte. Il nome Shass sta per “Guardiani della Torah sefardita”. Ovadia Josef era considerato un cosiddetto “kingmaker” nella politica israeliana. Uno dei suoi slogan di campagna elettorale era. “Keder che vota per Shass ottiene un posto nel Giardino dell'Eden!”.
Dal 29 dicembre 2022, l'attuale governo è il gabinetto Benjamin Netanyahu, che ha sostituito il gabinetto Bennett-Lapid in carica dal giugno 2021. L'attuale governo israeliano è politicamente più a destra di qualsiasi altro precedente.
I partner della coalizione sono il Likud, i due partiti degli Haredim, molto spesso detti “ultraortodossi” , Shass e United Torah Judaism (UTJ), nonché l'alleanza di partiti radicali Sionismo religioso, composta dal suo partito omonimo, Ozma Yehudit , e dal partito minore Noam . Tutti i partiti appartengono al campo della destra.
Ozma Jehudit (Forza ebraica) e in precedenza Ozma LeJisrael (Forza per Israele) è un partito religioso, ultranazionalista e antiarabo fondato il 13 novembre 2012 da Arie Eldad e dal kahanista Michael Ben-Ari. I due avevano lasciato l'Unione Nazionale per fondare un nuovo partito in vista delle elezioni per la 19esima Knesset. Ozma LeJisra'el è in parte il discendente ideologico del partito vietato Kach.
Dopo che due partiti hanno lasciato l'Unione Nazionale, il partito HaTikva (Speranza) di Eldad e il Chasit Jehudit Le'umi (Fronte Nazionale Ebraico) di Michael Ben-Ari si sono uniti per formare un partito comune. Il suo presidente è Itamar Ben-Gvir.
• IL KAHANISMO COME RADICE
Il kahanismo è un ramo del sionismo religioso. Si basa sul punto di vista del rabbino ortodosso e politico Meir Kahane, fondatore della Lega di Difesa Ebraica e del partito Kach, che mescola l'ultranazionalismo con il fondamentalismo religioso, il razzismo e l'ostilità verso i goyim. Goy è un termine yiddish per indicare i non ebrei e ha una connotazione dispregiativa.
Inoltre, giustifica anche la violenza. La visione del mondo di Kahane è caratterizzata dal sionismo revisionista di Jabotinsky, che era spesso ospite nella casa dei genitori di Kahane. In gioventù, Meir Kahane è stato un membro attivo della Gioventù Betar fondata da Jabotinsky, che può essere considerata il precursore dei partiti israeliani Cherut e Likud. Il partito è presieduto dal Ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir.
Noam, in ebraico “favore”, che significa “gradito a Dio”, è un partito politico di estrema destra, ebraico ortodosso e sionista religioso in Israele. È stato fondato nel 2019 da una corrente molto conservatrice del movimento sionista religioso. Il partito è presieduto dal rabbino Dror Arje. Il suo leader spirituale è il rabbino Zvi Thau, fondatore e direttore della Yeshiva di Har Hamor a Gerusalemme. Noam è stato registrato per le elezioni parlamentari del settembre 2019. La sua campagna aggressiva contro le persone LGBT è stata criticata in tutto il Paese e Noam ha tirato le somme annunciando, due giorni prima del voto, che non si sarebbe candidata.
I media israeliani hanno anche collegato l'aumento del numero di casi di odio e violenza contro la comunità LGBT alla campagna elettorale del partito Noam con il controverso slogan “Israele sceglie di essere normale”.
• RAFFORZARE L'IDENTITÀ EBRAICA
Nelle elezioni del 2011, Noam ha ottenuto un seggio alla Knesset come parte di un'associazione di liste chiamata “Sionismo religioso”. Noam è favorevole al rafforzamento dell'identità ebraico-religiosa dello Stato di Israele, all'espansione dell'istruzione ebraico-religiosa, anche nelle scuole pubbliche, a un'osservanza più rigorosa dello Shabbat e alla protezione del “matrimonio e della famiglia tradizionali”. Noam è fortemente contrario all'introduzione del matrimonio omosessuale.
In sintesi, si può dire che in Israele, la categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
(israelnetz, 15 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dopo l’Aifa, è ora di chiedere scusa
L'agenzia ha ammesso ufficialmente che i preparati a mRna non bloccavano i contagi. Chi ha insultato, minacciato e privato di libertà e lavoro gli italiani deve fare ammenda.
di Silvana De Mari
L'Aifa riconosce finalmente quello che qualsiasi persona con la capacità di leggere una scheda tecnica avrebbe dovuto capire dall'inizio, da quello sciagurato dicembre 2020, quando, osannato come un Messia, il cosiddetto vaccino anticovid è arrivato. Si trattava e si tratta di un farmaco sperimentale, sperimentato per un tempo assolutamente insufficiente, con delle sperimentazioni in doppio cieco che invece si vedevano benissimo, e che non aveva scritto in nessun punto della scheda tecnica di avere un qualche valore per evitare la trasmissione della malattia.
Il cosiddetto green pass non aveva nessun senso. La gioia isterica con cui molti sprovveduti controllavano o si facevano controllare il green pass, non aveva nessun senso. Non aveva nessun senso l'isterico e ignobile odio scatenato contro di noi abbastanza intelligenti da capire l'inutilità e la pericolosità di questo cosiddetto vaccino. Non avevano nessun senso le squallide e violente parole di David Parenzo che invitava sputare sulla nostra pizza, Selvaggia Lucarelli che ci augurava di diventare poltiglia verde e un tale Andrea Scanzi che si augurava di vederci morire. Esigo le scuse di Mario Draghi, per le sue ridicole parole: «Muori e fai morire», e soprattutto per le vessazioni indecenti a chi rifiutava un intruglio privo di capacità di immunizzare per aver costretto innumerevoli persone che adesso hanno effetti collaterali spaventosi a inocularsi questa roba per poter lavorare o salire sul mezzo pubblico. Muori e fai morire e se non muori ti faccio 100 euro di multa. Esiste un qualsiasi provvedimento di qualsiasi personaggio politico di qualsiasi epoca che raggiunga il livello di ridicolo dei 100 euro di Draghi per chi non muore? Esigo le scuse degli Ordini dei Medici e in particolare del presidente dell'Ordine dei Medici di Torino dottor Guido Giustetto, esigo le sue scuse personalmente, perché il dottor Giustetto con commovente sprezzo del ridicolo ha messo la sua firma sotto una Pec che mi ingiungeva di farmi iniettare per immunizzarmi farmaci incapaci di immunizzare, quindi neanche lui nonostante la laurea in medicina è capace di leggere la scheda tecnica di un farmaco. Esigo le sue scuse personali per essersi permesso anche un richiamo in quanto, anche da sospesa in quanto non inoculata, stavo continuando a fare telemedicina. Difficile infettare qualcuno da un'altra parte dell'Italia attraverso un computer.
Quindi a questo punto è evidente che le regole contro i medici che rifiutavano la cosiddetta immunizzazione, non erano per la salvaguardia della salute pubblica, ma per la persecuzione del dissidente costretto alla fame. Questo è quanto di più ignobile i presidenti degli ordini potessero fare. Le alternative sono due: o i presidenti degli ordini dei medici hanno deficit cognitivi per cui non sono in grado di leggere la scheda tecnica di un farmaco, oppure stavano eseguendo ordini. Entrambe le ipotesi sono inquietanti. Una persona perbene dopo una tragedia di questo genere dovrebbe porgere scuse e soprattutto dovrebbe dimettersi immediatamente. Il dottor Sandro Sanvenero è l'unico Presidente di Ordine che si è rifiutato di mandare la Pec dell'infamia. Quindi capire e battersi era possibile. Ora tutti gli altri presidenti si dimettano. Esigo le scuse del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per non aver difeso la libertà più elementare, quella del proprio corpo, libertà che molte dittature hanno osato ledere, come sarebbe stato dove suo dovere, anzi per aver dichiarato ufficialmente che a quelle libertà non bisognava appellarsi. Esigo le sue scuse al popolo italiano e anche le sue dimissioni sarebbero un gesto perbene.
(La Verità, 15 agosto 2024)
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ONU – Gilad Erdan saluta e accusa: dal Palazzo di Vetro solo silenzi
Per quattro anni l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan è stato la voce di Gerusalemme alle Nazioni Unite. Spesso è andato all’attacco, denunciando il doppio standard e i pregiudizi degli organismi internazionali contro Israele. Dopo il 7 ottobre il lavoro del diplomatico, membro del Likud e più volte ministro nei governi di Benjamin Netanyahu, si è intensificato. Ai colleghi ambasciatori ha ribadito il diritto dello stato ebraico a difendersi e ha condannato i silenzi di molti sulle violenze di Hamas. È accaduto anche in quella che, ormai a fine mandato, probabilmente sarà la sua ultima sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La riunione è stata richiesta d’urgenza dall’Algeria in merito all’attacco di Tsahal alla scuola di Al-Taba’een a Gaza. Erdan si è presentato all’incontro con le immagini dei terroristi di Hamas eliminati nella scuola. Criticando fortemente il Consiglio, ha denunciato: «Vi siete riuniti per questi terroristi che hanno usato una scuola come base del terrore, ma per i bambini di Majdal Shams, uccisi dal fuoco dei razzi di Hezbollah, non avete trovato il tempo per una sessione urgente! Vergognatevi!». Il riferimento dell’ambasciatore è all’attacco dei terroristi libanesi compiuto il 27 luglio contro un villaggio druso nel nord d’Israele. Attacco in cui sono morti dodici bambini che stavano giocando in un campetto da calcio.
Erdan ha poi criticato il Consiglio per la sua «indifferenza» nei confronti della minaccia di un attacco iraniano contro Israele. «La cosa più incredibile è la vostra inazione nel condannare e fermare il più grande pericolo per l’intera regione: l’Iran». Un tema più volte sottolineato nel corso del suo mandato. Nel suo recente discorso di commiato, Erdan ha denunciato: «Anche oggi, mentre l’Iran minaccia apertamente di ‘punire’ Israele, le Nazioni Unite tacciono. L’Iran interpreta il silenzio del mondo e dell’Onu come un via libera ad attaccare lo stato ebraico. Proprio come il vergognoso silenzio del mondo quando i nazisti decisero, alla Conferenza di Wannsee del 1942, il genocidio del popolo ebraico».
(moked, 14 agosto 2024)
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Quest’accordo s’ha da fare
di Niram Ferretti
Tutti lo vogliono l’accordo con Hamas, ovvero l’accordo di capitolazione di Israele. Lo vogliono in primis gli Stati Uniti, in modo da conferire a Joe Biden che a sua volta potrà consegnarlo alla delfina Kamala Harris, il suo primo e vistoso successo in politica estera, lo vuole il braccatissimo e ormai a corto di fiato dead man walking Yahya Sinwar, lo vogliono Teheran e Hezbollah, pegno da pagare per non attaccare Israele in attesa del prossimo round, lo vogliono le Cancellerie internazionali e lo vuole una parte consistente dell’establishment israeliano, è, ovviamente, quella che Daniel Pipes, qui su l’Informale ha definito la lobby degli ostaggi.
In questo scenario, la parte del villian, a lui assegnata già da tempo, spetta a Benjamin Netanyahu, presentato come colui che continuamente cerca di fare arenare l’accordo, ostaggio dell’impresentabile copia di ultranazionalisti, Smotrich e Ben Gvir.
Da quando, a fine maggio, Joe Biden rilanciò l’accordo intestandosene la paternità, Netanyau è stato presentato come il fastidioso addensatore di codici e codicilli, mica come Hamas, che, ne ha ostacolato e ne ostacola l’adempimento.
Ora, per ferragosto, giorno in cui si incontreranno i negoziatori, Bibi è stato messo con le spalle al muro. Quest’accordo s’ha da fare, se non lo farai, l’Iran attaccherà (ed è superlativo vedere il confermarsi dell’asse americano-iraniano, fatto di intese, rassicurazioni, reciproci interessi, ancora più estesi se diventerà presidente o presidenta il brocco trasformato in purosangue, Kamala Harris).
Netanyahu in realtà chiede rassicurazioni precise, che Hamas non possa utilizzare a suo vantaggio, come ha fatto tutti questi anni con la complicità egiziana il varco Filadelfi, per contrabbandare armi, e del quale esige il controllo, così come vuole che si instauri un meccanismo che impedisca agli sfollati di ritorno, migliaia e migliaia di nascondere al suo interno uomini armati, e poi c’è, tra le altre cose la questione del numero di prigionieri di massima sicurezza che Hamas vorrebbe venissero rilasciati in cambio degli ostaggi, tra cui lo zar del terrore, il pluriergastolano, il “Mandela” palestinese, secondo la pubblicistica della propaganda, Marawan Baraghouti. Questo e altro. D’altronde, come ha già detto Yoav Gallant, non l’ultimo della fila, e certo non il primo a dirlo, Israele deve rinunciare al suo obiettivo di vittoria, ovvero smilitarizzare completamente Gaza da Hamas, dopo dieci mesi di guerra e più di trecento soldati israeliani morti pour la patrie, si riportino a casa gli ostaggi, quel che resta, e si finisca così. Biden sarà contento, Khamenei pure, e insieme a loro tutti gli altri.
Tocca dunque a Netanyahu in questo ultimo round, decidere cosa è meglio per Israele, cedere al ricatto, perché di questo si tratta e di niente altro, mascherato da saggia decisione per evitare l’escalation, ovvero soprattutto preservare l’Iran da un massiccio contrattacco israeliano se dovesse attaccare Israele, oppure tenere duro sui requisiti fondamentali, preservare la sicurezza dello Stato, togliersi dal fianco definitivamente la spina di Hamas, e prepararsi, dopo anni all’appuntamento fatidico con il suo principale antagonista, il regime di Teheran.
(L'informale, 14 agosto 2024)
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Un Aron ha-Kodesh e la memoria ritrovata: la storia della famiglia Gentilli
di Ruben Caivano
Custodito presso il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme, un antico Aron ha-Kodesh in legno, proveniente da San Daniele del Friuli, è stato al centro di una scoperta storica significativa. Quest’Arca sacra, che ha custodito i rotoli della Torah della piccola comunità ebraica di San Daniele per quasi quattro secoli, ha portato alla luce la storia della famiglia ebraica Gentilli di Mereto di Tomba, località vicina a San Daniele. Questa scoperta è stata possibile grazie al ricercatore Denis Passalent, originario della stessa provincia, il quale, motivato dalle sue origini familiari, ha dedicato tredici mesi alla ricerca tra archivi civici e statali.
Dopo oltre ottant’anni di silenzio, Passalent è riuscito a ricostruire la storia di Norma Stella Colombo e Moisè Vittorio Gentilli. La coppia, ben integrata nella comunità locale e gestori di un negozio di alimentari, si trasferì a Venezia nel 1930 per sfuggire alla crescente propaganda fascista. Nel 1943, mentre tentavano di fuggire in Svizzera, i Gentilli furono arrestati a Olgiate Comasco e deportati ad Auschwitz nel febbraio del 1944, insieme a cinque familiari e al celebre scrittore Primo Levi. Nessuno di loro fece ritorno.
Questa storia è presto diventata oggetto di una serie di iniziative culturali e commemorative che hanno permesso alla comunità di Mereto di Tomba di riconnettersi con il proprio passato. In collaborazione con lo storico Valerio Marchi, autore di un libro sulla famiglia Gentilli, il 21 gennaio 2024 è stata organizzata una cerimonia ufficiale presso il municipio del paese, durante la quale sono state installate due pietre d’inciampo davanti all’ultima residenza nota dei Gentilli. La commemorazione ha incluso la partecipazione dell’artista Davide Merello, che ha realizzato una serie di illustrazioni raffiguranti cinque luoghi significativi per i Gentilli; queste illustrazioni sono state stampate come cartoline e distribuite insieme a un elenco di libri sulla vita ebraica italiana, offrendo così la possibilità di avere un contatto diretto con la storia.
(Shalom, 14 agosto 2024)
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Israele-Iran, siti atomici, raffinerie e porti: gli obiettivi di un conflitto. Hezbollah minaccia i civili
Piani di offensiva a confronto: nel mirino di Teheran anche i palazzi del potere e le città più popolate. Tel Aviv punta a distruggere lanciamissili e nascondigli
di Sara Miglionico
I “mappatori” degli obiettivi sono al lavoro da settimane, in Iran come in Israele. Un’opera certosina che va avanti da anni, e alla quale soprattutto gli israeliani hanno aggiunto il contributo dell’Intelligenza artificiale.
Ma l’insegnamento del 7 ottobre è che la tecnologia non basta, e allora ci sono gli Hezbollah che all’ombra di Teheran progettano incursioni oltre confine dal Libano nel Nord di Israele, e mattanze tra i civili e razzi sulle zone più abitate. A dispetto delle raccomandazioni politiche degli Ayatollah che non vorrebbero la guerra totale. Quale sarà la ritorsione iraniana all’assassinio del leader di Hamas Haniyeh a Teheran, e la risposta promessa da Israele, è un gigantesco interrogativo.
• GLI OBIETTIVI L’unico punto fermo, in realtà, sono proprio i potenziali bersagli. In Israele molti e ravvicinati come il Porto di Ashdod, coi suoi dodici moli alla foce del fiume Lachish, 40 km a sud di Tel Aviv, o la centrale elettrica di Hadera con la sua potenza di 148 megawatt a Haifa. E poi le basi militari, specie gli aeroporti. Come il Ramat David a Afula, a soli 20 km da Haifa e accanto all’omonimo kibbutz, aeroporto storico se proprio qui, nel 1942, si addestravano i piloti ebrei per farsi paracadutare dalla Raf oltre le linee tedesche. E ancora il Pengrion Airport, e la base Nevatim, 15 km a est-sudest di Beersheba, nel deserto del Negev. E poi le raffinerie che fumano lungo la costa. E il centro di osservazione satellitare di Or Yehuda, distretto di Tel Aviv. Ma non compaiono solo gli obiettivi militari nel mirino di Khamenei e dei pasdaran.
Il momento topico è stato il 1° aprile, quando i caccia F-35 con la Stella di Davide hanno scagliato 6 missili sulla sezione consolare dell’Ambasciata iraniana a Damasco, Siria, uccidendo il generalissimo Mohammad Zahedi, già capo delle forze di terra Irgc, i pasdaran impegnati fuori dall’Iran. In una spettacolare e largamente attesa Operation True Promise di risposta iraniana, oltre 300 missili e droni hanno volato verso Israele, e uno lo ha raggiunto. I target primari erano, allora, militari, a cominciare dalla base aerea del Negev e dalla Centrale dell’Intelligence sul Monte Hermon, cioè le infrastrutture direttamente coinvolte nell’attacco. Ma adesso non è escluso che vi siano altri bersagli. Politici. Istituzionali. I bunker dei vertici dello Stato ebraico. I palazzi del Potere. Gerusalemme, per via della Spianata delle Moschee, sembra invece godere di una sorta di immunità “religiosa”. I generali di Tsahal, l’esercito israeliano, e i vertici politico-militari, a loro volta, hanno avvertito Teheran che se l’attacco sarà condotto per fare danni e vittime il più possibile, «senza restrizioni e senza regole» come chiede Hezbollah, la reazione israeliana sarà micidiale.
• LE DEBOLEZZE DI TEL AVIV Il bersaglio grosso in Israele è il centro di ricerca nucleare di Dimona, 10 km dall’omonima terza città del Negev. Che però è super-protetto, e già nella guerra del Golfo 2002-2003 fu difeso dai Patriot. In Iran, ben più vulnerabili ai raid israeliani sono gli impianti nucleari di Natanz. Per gli Ayatollah, un fiore all’occhiello da proteggere a ogni costo. Il “boccone” più ghiotto è concentrato attorno a Isfahan. Le batterie di missili S-300 sono dislocate in forze attorno a Teheran, una base navale importante e un aeroporto militare si trovano a Bandar-e Bushehr, ma 100 chilometri a sud di Isfahan sorge il complesso per l’arricchimento dell’Uranio di Natanz, e 20 km a nord del Centro di tecnologia nucleare di Isfahan due siti che sono il cuore del programma atomico iraniano.
Quello sarebbe il primo obiettivo di una contro-risposta israeliana. Senza contare che gli 007 di Tel Aviv saprebbero dove colpire uno i “most wanted”, i capi e comandanti più ricercati. E c’è infine un’altra variabile, una guerra nella guerra, sottotraccia finora.
La guerra delle milizie proxy filo-iraniane che con fastidiosa costanza attaccano le basi americane disseminate in ben 13 Paesi della regione, specie in Iraq, Siria e Giordania. Basi più o meno segrete. Quelle aeree di Al-Asad e Al Harir nel Nord dell’Iraq. La caserma di Al-Tanf in Siria, il centro d’addestramento nel campo di Al-Omar a Deir ez-Zor, nella Siria orientale, adiacente agli impianti petroliferi. E, ancora, piccole basi nella provincia siriana di Hasakah, e in Giordania l’avamposto strategico “Torre 22”.
(Il Messaggero, 13 agosto 2024)
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Perché l’Iran non ha (ancora) attaccato Israele e cosa può succedere
Da giorni si vive nell'allarme di un attacco imminente dell'Iran a Israele, considerato responsabile dell'uccisione del leader di Hamas Haniyeh. Ma la strategia frena Teheran dal rispondere direttamente. Più probabile la pista Hezbollah
di Maurizio Perriello
Attacco imminente, vendetta tremenda, escalation inevitabile. Da giorni il mondo occidentale vive la psicosi della grande offensiva dell’Iran nei confronti di Israele, imperdonabile responsabile dell’uccisione dell’ex leader politico di Hamas Ismail Haniyeh mentre si trovava a Teheran.
Un film già visto, una storia ritrita, che però giustamente desta forte preoccupazione visti gli arsenali in gioco. Finora però gli attacchi diretti sono stati pura scenografia, letteralmente telefonati, con le intelligence militari in costante dialogo per avvisare tempistiche e portata del raid aereo con droni e missili. Stavolta potrebbe essere diverso, certo, per via della componente irrazionale che, in tempo di guerra, fa saltare ogni logica tattica e strategica.
• Proclami di guerra, ma nessuna escalation: cosa vogliono Iran e Israele? Già una settimana fa l’annuncio della chiusura dello spazio aereo iraniano era stata data come prova principe di un attacco imminente a Israele. E invece niente. Ad aprile il maxi attacco con 300 droni e missili doveva essere l’apocalisse in terra. E invece niente. I blitz israeliani contro obiettivi in terra iraniana sono stati visti come la miccia definitiva per far esplodere il Medio Oriente. E invece niente. Perché né Israele né l’Iran hanno finora lanciato attacchi diretti su larga scala? Cosa li frena?
Cominciamo con un perché molto intuitivo, ma necessario: nessuno dei due Stati vuole l’escalation incontrollata. Israele perché è circondata da nemici e deve ancora vedersela col solo Hamas, sulla carta il più debole degli agenti di prossimità filo-iraniani riuniti nella cosiddetta Mezzaluna sciita (in dizione occidentale) o Asse della Resistenza: Hezbollah e Houthi. Il conflitto per Tel Aviv è già abbastanza largo, da nord (anche in Siria) a sud ma anche verso l’interno della Penisola Arabica. Lo Stato ebraico si dice pronto a impegnarsi su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq e Yemen. E il settimo è l’Iran.
Nelle ultime settimane lo Stato ebraico ha voluto mostrare i muscoli, facendo vedere al mondo e in particolare agli Stati Uniti di essere in grado di gestire contemporaneamente i tre grandi fronti di guerra: a Gaza, in Libano e in Yemen. Ma si è trattato di attacchi estemporanei, che non hanno spostato gli equilibri del conflitto più ampio. E che non hanno impensierito l’Iran, al contrario dello smacco simbolico dell’uccisione di Haniyeh a Teheran, onta che il popolo persiano non può davvero sopportare. Eppure neanche la Repubblica Islamica ha interesse nel compiere un attacco diretto allo Stato ebraico.
Nella pratica militare, l’escalation si verifica quando una o più parti di una crisi aumentano l’intensità o espandono la portata dei loro sforzi bellici, violando le regole non scritte di un conflitto. Ad aprile, ad esempio, lo Stato ebraico ha intensificato lo scontro uccidendo diversi membri di alto livello del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a Damasco. Un attacco insolito, sia per il grado dei militari uccisi sia per il fatto che aveva come obiettivo una struttura diplomatica. Dopo la risposta scenografica iraniana, Israele è riuscito a risolvere la crisi senza aggravare ulteriormente la situazione, ma per farlo ha dovuto studiare un attacco altamente calibrato che trasmettesse una minaccia senza violare le regole non scritte che hanno governato il conflitto con Teheran negli ultimi decenni.
• Le cinque possibili risposte da parte dell’Iran L’Iran ha già dimostrato in più occasioni di riuscire a stemperare l’ondata emotiva provocata dagli attacchi subiti da parte del suo nemico esistenziale. Come dopo ,Ebrahim Raisi, svolta cruciale per la Repubblica Islamica che però non cambiò di una virgola la sua politica estera. Proprio perché gli imperativi strategici di una potenza imperiale vengono prima di ogni altro dossier. Un principio che dobbiamo applicare anche agli attuali segnali di escalation imminente, pena il ritrovarci costantemente travolti dagli eventi, senza memoria e senza studio, dunque senza futuro. Stringendo, Teheran ha cinque principali opzioni di risposta:
- non fare nulla, proseguendo sul terreno della propaganda anti-israeliana e passando come l’unica parte ragionevole e desiderosa di pace che vuole evitare a tutti i costi l’escalation;
- intraprendere azioni di basso profilo come attacchi informatici;
- eseguire una o più uccisioni mirate ai danni di Israele;
- lanciare attacchi di fuoco indiretto;
- ordinare ai suoi clientes di condurre incursioni in terra israeliana.
Le prime due opzioni sono le meno probabili, almeno come operazioni singole che ne escludono altre. Il leader supremo dell’Iran ha già messo a rischio la propria reputazione e qualsiasi mossa percepita come una “non risposta” sarebbe politicamente inaccettabile. Le uccisioni mirate contro gli israeliani sarebbero l’opzione meno grave per una potenziale escalation, ma Teheran deve affrontare ostacoli sia politici sia pratici. Omicidi mirati contro una figura simile ad Haniyeh in Israele probabilmente fornirebbero una risposta sufficiente senza arrivare a un’escalation drammatica, ma una figura del genere in Israele non esiste.
Lo Stato ebraico non ha il tipo di alleati non statali che presentano bersagli molto simili a Haniyeh, quindi Teheran dovrebbe probabilmente intensificare il conflitto prendendo di mira funzionari politici o militari israeliani. Per quanto riguarda i limiti pratici per una simile mossa, non ci sono prove di infrastrutture iraniane segrete in Israele paragonabili a quelle necessarie per uccidere Haniyeh. L’Iran potrebbe attaccare figure del governo israeliano al di fuori di Israele, come Teheran e i suoi satelliti hanno ripetutamente fatto negli ultimi decenni. Tali attacchi rischiano però anche di intensificare il conflitto, diffondendolo in nuovi teatri geografici e affrontano problemi pratici propri: un’uccisione mirata o un bombardamento di un’ambasciata richiederebbero tempo per essere pianificati, indebolendo il segnale deterrente che l’Iran cercherà di inviare.
La Repubblica Islamica potrebbe allora condurre attacchi di fuoco indiretto attraverso i suoi partner non statali come Hezbollah, come accaduto finora insomma. Infine, potrebbe spingere i suoi satelliti a condurre incursioni di terra più convenzionali in Israele, come quella di Hamas del 7 ottobre 2023. Questa è l’opzione più esplosiva di tutte, che tuttavia l’Iran non deve perseguire se è seriamente intenzionato a evitare la guerra aperta e totale.
• Perché Teheran non vuole la guerra diretta Dal punto di vista tattico, l’Iran preferisce continuare nella sua proxy war a bassa intensità con frequenti e contenuti combattimenti, che tengano sotto costante pressione Tel Aviv, utilizzando i propri satelliti fondamentalisti nella Penisola Arabica. Al netto dei consueti slanci propagandistici, come l’appello del ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ai Paesi islamici affinché “sostengano il diritto della Repubblica Islamica a difendersi da qualsiasi atto di aggressione, al fine di garantire la stabilità e la sicurezza dell’intera regione”. Paesi musulmani (ben 57) che, riuniti nella voce congiunta dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica (Oic), hanno determinato senza appello che Israele ha la piena responsabilità nell’uccisione di Haniyeh.
Dal punto di vista strategico, invece, l’Iran vuole e deve distruggere i tentativi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e monarchie arabe, cioè il mondo musulmano (sunnita). Un’operazione complessa, molto difficile da portare a termine, che si concretizza nel sabotaggio degli ormai celebri Accordi di Abramo che vedono il riavvicinamento fra Stato ebraico e Arabia Saudita in particolare.
Finora Teheran ha evitato un attacco diretto a Israele, costruendo appositamente attorno al Grande Satana proprio quell’Asse della Resistenza formato da milizie sciite, e dunque filo-iraniane, che condividono l’agenda anti-ebraica dell’impero persiano. Come certificato dalle dichiarazioni del nuovo presidente Massoud Pezeshkian il quale, durante una telefonata con Emmanuel Macron, ha ricordato come uno dei principi fondamentali dell’Iran sia quello di “evitare la guerra e cercare di stabilire la pace e la sicurezza nel mondo”.
Proviamo a dare un’ulteriore pennellata, per capire meglio il momento dell’Iran. Distratto da una profonda crisi interna, con una nuova leadership che deve imporsi come guida di un popolo velleitario, il Paese potrebbe anche impegnarsi con meno forza nella lotta su più fronti contro Israele. Anche alla luce di una serie di segnali di percepita debolezza che vanno avanti da mesi, nel segno della violenza fondamentalista. A cominciare dal 3 gennaio, quando un gruppo di jihadisti ha ucciso almeno 84 persone in due esplosioni vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani, capo della Forza d’élite iraniana Quds.
Il mese precedente, il gruppo terroristico sunnita Jaish al-Adl aveva invece ucciso 11 agenti di polizia iraniani. L’Iran, nel disperato tentativo di mostrarsi forte, ha lanciato missili contro il Pakistan, dicendo che stava prendendo di mira Jaish al-Adl. Ma il Paese confinante, dotato di armi nucleari, ha risposto per le rime con missili e aerei da combattimento, compiendo il primo bombardamento su suolo iraniano dalla guerra con l’Iraq negli Anni Ottanta. Mesi prima dell’attacco telefonato di Israele, dunque.
Già allora il “grande bluff” della potenza iraniana era stato dunque scoperto, con Teheran che ha accettato di stemperare la contesa col Pakistan. La credibilità imperiale di Teheran è stata ulteriormente compromessa dal conflitto contro Israele e potrebbe dunque subire una nuova spallata dalla lotta interna per il potere. Un ruolo importante sarà giocato dai gruppi di fatto più potenti del Paese: le Guardie Rivoluzionarie e gli influenti esponenti religiosi di Qom.
• Quanto è probabile un attacco diretto dell’Iran a Israele? Secondo molti analisti, lo smacco subìto col caso Haniyeh potrebbe far scattare la rappresaglia diretta di Teheran, anche se finora lo scontro con lo Stato ebraico è stato delegato alla triade Hamas-Hezbollah-Houthi. Dal punto di vista del sentimento popolare e della gloria, elementi primari in imperi così antichi, l’Iran ha necessità di rispondere all’attacco di Israele. Necessità politiche interne, dunque. In questo caso, la risposta dovrebbe essere più incisiva dell’attacco missilistico e dei droni del 13 aprile, per soddisfare i sostenitori della linea dura ai vertici di Pasdaran e Repubblica Islamica. Ma anche per il bisogno strategico di scoraggiare ulteriori attacchi israeliani sul suo territorio. Come fare dunque a rispondere con forza evitando l’escalation e una guerra più ampia?
Se attacco sarà, lo scenario più probabile vedrebbe allora l’iniziativa proprio degli adiacenti miliziani libanesi, i quali devono ancora scatenare il loro reale potenziale bellico, almeno 10 volte superiore a quello di Hamas, che da solo sta dando filo da torcere a Tel Aviv, e molto più equipaggiato e pronto alla guerra dello stesso esercito libanese. Ne sono convinti anche i funzionari israeliani, sospettando un raid nei prossimi giorni. Come riferito dall’emittente israeliana Channel 12, citata dal Times of Israel, Tel Aviv ha trasmesso a Hezbollah e Iran che qualsiasi danno ai civili nello Stato ebraico per la loro azione di rappresaglia sarà “una linea rossa che porterà a una risposta sproporzionata”.
• La pista Hezbollah Anche Hezbollah, dal canto suo, ha una propria agenda al di là di quella iraniana. Proseguendo lo scontro a bassa intensità, i miliziani libanesi cercano di minare ulteriormente l’immagine di Israele come grande potenza securitaria del Medio Oriente. A giugno, per la prima volta, i fondamentalisti sciiti hanno celebrato in lungo e in largo di essere riusciti a respingere l’attacco di un jet israeliano sparando missili terra-aria in direzione del velivolo militare nemico, che aveva violato lo spazio aereo del Paese.
Gli Stati Uniti, sponsor di Israele del quale faticano sempre più a contenere l’intransigenza violenta, sanno benissimo che una “piccola guerra regionale” non è un’ipotesi realistica. Una delle preoccupazioni più vibranti di Washington è che il Libano potrebbe essere inondato di combattenti delle milizie filo-iraniane presenti in Siria, Iraq e persino nello Yemen che vorrebbero unirsi ai combattimenti. Un funzionario dell’esercito israeliano ha dichiarato che una guerra con Hezbollah o un’operazione limitata in Libano avrebbero “enormi implicazioni” per Tel Aviv in termini di costi di vite umane e di risorse da dirottare e impiegare.
Al di là della possibilità (molto bassa al momento) di attacco diretto iraniano, dovremmo preoccuparci molto anche della risposta dei soli Hezbollah. Sostenuto dall’Iran, il “Partito di Dio” rappresenta di fatto la più grande minaccia militare per Israele. Come ha dimostrato nel 2006, quando resistette all’assalto a tutto campo di Tel Aviv, col quale è in stato di guerra da decenni, da quando lo Stato ebraico lanciò una devastante invasione nel 1982 inviando carri armati fino alla capitale Beirut. Da allora il gruppo libanese non ha fatto altro che rafforzarsi, accumulando armi sempre più sofisticate ed esperienza e combattendo al fianco del governo siriano. E incrementando anche il suo risentimento verso lo Stato ebraico attraverso la “dottrina Dahiya” di guerra asimmetrica – dal nome di un quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che prevede di prendere di mira le infrastrutture civili.
Nonostante i proclami e le minacce odierne, Israele non avrebbe l’intenzione di invadere la parte di Libano controllata da Hezbollah. E, dall’altro lato della barricata, anche i fondamentalisti sciiti hanno tutto l’interesse a non accelerare l’escalation col nemico confinante. In altre parole a Iran e Hezbollah conviene che il conflitto resti a bassa intensità e tenga impegnato Israele a lungo, mentre dall’altra parte c’è più urgenza di inasprire il conflitto ma neanche l’opportunità e la forza necessarie.
(Milano Finanza, 13 agosto 2024)
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Cartolina dall’apartheid israeliano
Arabi, ebrei, orientali, africani, europei, laici, religiosi, tradizionalisti… un sabato pomeriggio in un parco pubblico d’Israele
di Adam Gross
Sabato scorso, Shabbat, ore 17.30. Un parco pubblico locale, lungo la costa settentrionale d’Israele. Clima soleggiato, 34 gradi, una fresca brezza di mare mentre si avvicina la sera.
L’erba, il parco giochi, le panchine, una fila di piccoli scogli piatti, gli alberi ombrosi, il cortile in cemento della scuola adiacente, la fontanella per bere, il rifugio antiaereo e i sentieri che passano in mezzo a tutto questo.
Una partita di calcio nel cortile in cemento. Adolescenti religiosi in pantaloni scuri, camicie bianche e kippah nere. Per lo più mizrachi (ebrei di origine mediorientale), altri di origine africana, altri ancora di origine europea.
Quattro donne arabe che indossano l’hijab camminano nel parco, fermandosi per bere alla fontanella prima di riposare sull’erba all’ombra degli alberi.
Bambini piccoli giocano sulle strutture per arrampicarsi sotto lo sguardo dei giovani uomini della vicina yeshiva hesder (studi religiosi combinati con servizio militare ndr). Due spingono delle carrozzine, due hanno armi a tracolla, uno entrambe le cose. Le loro mogli, il capo avvolto in grandi foulard, chiacchierano su alcune panchine lì vicino.
Accanto a loro, due nonne dall’aspetto russo bevono il tè con una terza di origine africana che fuma una sigaretta.
Una coppia di mezza età di origine europea in t-shirt, pantaloncini, sandali e occhiali da sole coordinati, porta a spasso il barboncino.
Donne di origine est-asiatica, forse anche qualche europea, siedono in cerchio sull’erba, una specie di attività di meditazione e yoga. O forse pilates. Chissà.
Tre donne etiopi di varie età, in tradizionali abiti bianchi e fluenti, stanno sulla panchina accanto al rifugio mentre il marito di una di loro gioca con il figlio tirando una palla da tennis sul muro del rifugio.
Lungo la linea di scogli accanto al parco giochi, il locale rabbino Chabad-Lubavitch (uno dei più grandi movimenti chassidici ndr), con un lungo cappotto nero e un cappello Fedora nero, recita pesukim (versetti della Torah) a bambini per lo più europei e mizrachi, laici e tradizionalisti, poi offre loro dei dolci.
Cinque adolescenti in costume da bagno passano sulla strada che sale dalla costa.
Un gruppo di ragazzini, religiosi, tradizionalisti e laici, di origine mizrachi, europea e africana, sciamano intorno alle altalene in attesa del loro turno.
Una donna araba in hijab ne spinge due con sopra le sue figlie.
Nei pressi, due bambini poco più che neonati, un maschio e una femmina, di etnia mista, nei loro bei vestitini di Shabbat, con la madre di origine africana e il padre di origine europea che li tengono d’occhio.
E accanto a loro, sulla grande altalena rotonda a forma di cesto, tre ragazzi di origine mizrachi giocano a fare la lotta, ognuno cercando di spingere giù l’altro mentre l’altalena ondeggia sempre di più.
Un jet da combattimento passa rombando a bassa quota. Nessuno ci fa caso.
(Da: Times of Israel, 11.8.24)
(israele.net, 13 agosto 2024)
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"Non si può essere terzi: Gerusalemme va difesa"
di Mario Sechi
Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia hanno lanciato l’ultimo appello all’Iran, la Difesa israeliana è in stato di massima allerta, il Pentagono ha spostato la portaerei USS Abraham Lincoln per affiancarla alla USS Theodore Roosevelt, il ministro degli Esteri Israel Katz ha ricordato che «è il momento per le democrazie di tutto il mondo di schierarsi con Israele e adottare misure decisive contro l’Iran e i suoi alleati, prima che sia troppo tardi».
Sono le mosse diplomatiche e militari che precedono un attacco, quello dell’Iran contro Israele. È un segno del destino che il massimo allarme arrivi nel giorno in cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, invoca sanzioni contro esponenti del governo di Israele, la nazione aggredita dai tagliagole di Hamas, minacciata ogni giorno dall’Ayatollah Ali Khamenei che promette che «Gerusalemme sarà nelle mani dei musulmani e il mondo musulmano celebrerà la liberazione della Palestina». Se stiamo scrivendo il nostro destino, sapere che il mondo libero è nelle mani (anche) di un personaggio come Borrell, ci fa venire i brividi.
L’Unione europea è distante dalla realtà, dopo la strage del 7 ottobre ha subito dimenticato qual è la posta in gioco, ha svolto consapevolmente il ruolo dell’utile idiota di Hamas e dell’Iran. Dietro questo carro funebre della libertà, si sono accodati i gazzettieri del sistema dell’informazione ciclostilata, che si sono bevuti i comunicati di Hamas, hanno dipinto come «volto pragmatico» un terrorista sanguinario come Yahya Sinwar, conosciuto a Gaza come «il macellaio di Khan Yunis». Per soprammercato, dopo la morte del boia dell’Iran, il presidente Ebrahim Raisi, hanno spacciato il suo successore, Massoud Pezeshkian, come un «moderato», lo stesso che in queste ore ha detto al cancelliere tedesco Olaf Scholz che l’Iran ha «il diritto di rispondere». La moderazione dell’Iran è forse quella della sua gang in Libano, Hezbollah, che ha bombardato un campo di calcio dove giocavano dei bambini? Tutti sperano nella pace, è giusto fare ogni sforzo, ma bisogna uscire dalla retorica, perché «non si può ragionare con una tigre quando la tua testa è nella sua bocca» (Winston Churchill ne L’ora più buia). Questa è la posizione oggi di Israele, una democrazia minacciata, un popolo di fronte a una sfida esistenziale.
Mentre scrivo, è in corso una gigantesca partita a scacchi: sono in campo massa di manovra, strategia e tattica, linee di comando e controllo, una battaglia psicologica fatta di pazienza e sorpresa. Nella guerra tra Israele e Hamas (leggere Iran) che è in corso da 312 giorni, l’elemento della «sorpresa» in teoria non c’è, la risposta di Khamenei dopo l’eliminazione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Hanyeh, è ampiamente «telefonata», ma le mosse a disposizione restano tante.
• PRIMA IPOTESI L’operazione via aria con uno sciame combinato di missili e droni per bucare il «barrage» di Israele con un’azione coordinata è la mossa attesa, già sperimentata (senza successo) dall’Iran nell’attacco dello scorso aprile: Hezbollah può colpire a Nord, gli Houthi dello Yemen lanciare droni via Mar Rosso e provare a penetrare la difesa aerea dal Mar Mediterraneo (è già accaduto con il drone che ha viaggiato per 2mila chilometri e ha colpito Tel Aviv), Hamas e altri gruppi possono far decollare razzi dalla Striscia di Gaza e Teheran naturalmente può usare basi di lancio nei suoi confini e in Iraq.
Lo sciame è atteso dal sistema radar di Israele e degli alleati, dalle batterie anti-aeree Iron Dome, dagli intercettori americani, inglesi e francesi.
• L’ALTRO SCENARIO Questo è uno scenario in cui la risposta israeliana è puramente difensiva. Ma esistono le varianti, le abbiamo già viste: l’Ucraina è stata un teatro di sperimentazione proprio per l’Iran che produce i droni per i russi, sempre in quel conflitto abbiamo visto Kiev cogliere di sorpresa la Russia, sfondare i confini a Kursk e penetrare nel territorio di Mosca per una trentina di chilometri; dieci mesi fa, il 7 ottobre del 2023, i terroristi di Hamas entrarono in Israele e scatenarono la caccia all’ebreo. Nessuno può escludere un’operazione condotta da piccole unità all’interno di Israele, né si può scartare l’idea che Netanyahu e i suoi generali decidano di contrattaccare per neutralizzare obiettivi militari e «tagliare» l’arsenale di Teheran.
La superiorità di Israele e degli alleati sul piano della massa d’urto a disposizione e della tecnologia è indiscussa, ma in un conflitto vince chi pensa in fretta e bene. Questa guerra nasce da un calcolo errato di Hamas e dell’Iran, dall’idea che dopo la strage il governo israeliano rispondesse come nelle altre guerre di Gaza, una risposta minore e via di nuovo con gli assassini, gli assalti, i lanci di razzi sulla popolazione inerme, come prima più di prima. Ma la ferocia, la caccia all’ebreo, ha improvvisamente messo gli israeliani di fronte alla realtà di un nuovo Olocausto, così si è decisa la «guerra lunga» a Gaza e l’eliminazione di tutti i comandanti di Hamas e di Hezbollah. La guerra l’hanno innescata loro, con il regime iraniano che dichiarava il 7 ottobre 2023 come «Giornata epica della gioventù palestinese», la celebrazione della carneficina, della violenza sulle donne, della presa degli ostaggi, della minaccia permanente su un popolo. I nemici di Israele hanno dimenticato una lezione di Sun Tzu: «Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia». La pace si prepara, si difende, si conquista. La citano tutti, la costruiscono solo i coraggiosi.
Libero, 13 agosto 2024)
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Gli ospedali israeliani fanno scorta
Parcheggi sotterranei trasformati in reparti ospedalieri mentre il centro medico mette al sicuro le scorte essenziali; anche se non sono state emanate nuove direttive, gli ospedali israeliani si sono preparati a eventi di massa; “Ogni paziente riceverà le migliori cure”.
Nelle scorse settimane, il Ministero della Salute ha dato istruzioni agli ospedali di tutto il Paese di assicurarsi di avere scorte adeguate di farmaci e di gasolio per i generatori, per mantenere le normali operazioni in caso di collasso delle infrastrutture elettriche.
Agli ospedali israeliani è stato consigliato di accumulare scorte per almeno tre mesi. Inoltre, alcuni ospedali hanno ricevuto l’ordine di assicurarsi sufficienti scorte di sangue e di prepararsi a dimettere rapidamente i pazienti per far posto a potenziali vittime di guerra.
Gli eventi della scorsa settimana, tra cui le uccisioni mirate del capo militare di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo del politburo di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, insieme alle minacce di ritorsione da parte dell’Iran e del gruppo militante libanese, non hanno richiesto nuove direttive. Tuttavia, gli ospedali si stanno assicurando di essere pronti ad affrontare eventi di massa o scenari ancora più gravi.
In un’intervista, quattro direttori di ospedali israeliani hanno parlato della loro preparazione, sottolineando che i loro piani sono orientati verso incidenti a lungo termine piuttosto che verso crisi a breve termine.
• Centro medico Emek, Afula “Abbiamo preparato le infrastrutture per altri 150 letti sotterranei, oltre ai 150 che già avevamo”, ha detto il direttore dell’Emek Medical Center, dottor Maor Maman. “In sostanza, ora abbiamo un ospedale sotterraneo pienamente operativo e aree fortificate, pronte a curare 300 pazienti in condizioni protette, oltre alle nostre attività di chirurgia e pronto soccorso”.
In previsione di un conflitto intenso e prolungato, gli ospedali si stanno preparando anche per uno scenario definito “isola isolata”, in cui le strade di accesso sono danneggiate e la fornitura di attrezzature mediche e cibo è interrotta.
“Stiamo facendo scorte di cibo, gasolio e attrezzature mediche per diversi mesi, creando un’infrastruttura di emergenza che ci permetterà di mantenere la continuità operativa e di fornire assistenza a un gran numero di pazienti”, ha proseguito il dottor Maman.
Oltre all’Emek Medical Center, altri ospedali nel nord di Israele potrebbero trovarsi in prima linea nella guerra. La potenziale carenza di personale medico, che potrebbe aggravarsi con il richiamo dei riservisti, potrebbe essere mitigata dagli studenti di medicina e dalle squadre mediche di emergenza. Ad esempio, le équipe mediche degli ospedali privati di Nazareth assisteranno gli ospedali regionali come lo Ziv di Safed, mentre il personale degli ospedali del centro di Israele sarà inviato agli ospedali del nord.
• Centro medico della Galilea, Nahariya “Siamo pronti da dieci mesi”, ha dichiarato il prof. Masad Barhoum, direttore del Galilee Medical Center di Nahariya, l’ospedale più settentrionale di Israele, che di recente ha subito un pesante lancio di razzi dal Libano, che ha provocato gravi ferite a una persona del posto.
“Tutti i pazienti e il personale sono sottoterra o in edifici fortificati, come le unità di terapia intensiva e il pronto soccorso”, ha spiegato il Prof. Barhoum. “Le nostre squadre sono già addestrate per eventi di massa ad hoc. Abbiamo distribuito telefoni satellitari alla direzione, che attiveremo solo se, per carità, ci sarà un’interruzione delle reti di comunicazione”.
“Al momento non ci sono istruzioni speciali da parte del Ministero della Salute o del Comando del Fronte Interno. Tuttavia, deve essere chiaro che nessuno ci spezzerà o ci esaurirà. Ogni ferito, sia esso soldato o civile, che entra nel centro medico riceverà le migliori cure.
“In qualsiasi momento potrebbe verificarsi un evento di massa, seguito da un altro. Da un momento all’altro potrebbe scoppiare una mini-guerra o una guerra. Dobbiamo essere pronti. Potremmo essere tagliati fuori per qualche tempo e ci siamo organizzati per essere pronti a curare i feriti e a far funzionare le sale operatorie per servire i pazienti. Questa guerra non sarà come la Seconda guerra del Libano, durante la quale sapevamo più o meno quando sarebbe scoppiato l’incendio.
“Siamo l’ospedale più vicino a qualsiasi confine e, personalmente, l’unico scenario che mi tiene sveglio la notte è la possibilità che non tutti i tunnel di attacco siano stati scoperti. Le nostre équipe mediche sono residenti della zona e vivono la realtà dei razzi che cadono non solo sull’ospedale ma anche sulle loro case. Pertanto, non possono essere esauriti. Quando la tua vita è minacciata, non puoi essere esausto”.
Nel nord di Israele, il Rambam Health Care Campus di Haifa dovrebbe servire come centro di accoglienza principale per i feriti provenienti dagli ospedali regionali, con quasi 2.000 posti letto disponibili nelle strutture sotterranee dall’inizio delle ostilità.
Ci si sta preparando a potenziali escalation di sicurezza non solo nel nord, ma in tutto Israele. In caso di guerra e di incidenti di massa, si prevede che gli ospedali del centro d’Israele diventeranno il punto di riferimento per l’evacuazione delle vittime di traumi; le strutture principali sono lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer, il Sourasky Medical Center di Tel Aviv e il Rabin Medical Center di Petah Tikva.
• Centro medico Rabin, Petah Tikva In risposta all’escalation delle tensioni regionali, la direttrice del Rabin Medical Center, dott.ssa Lena Koren-Feldman, ha sottolineato la maggiore prontezza dell’ospedale. “Negli ultimi giorni abbiamo rafforzato e aggiornato la nostra preparazione globale iniziata il 7 ottobre”, ha dichiarato la dott.ssa Koren-Feldman.
“Il nostro ospedale sotterraneo dispone di 350 posti letto e di altri 150-200 posti letto completamente fortificati nella nostra torre di degenza. Complessivamente, l’ospedale può ospitare 800 letti che forniscono protezione secondo i protocolli del Ministero della Salute”.
“Tutti i letti di emergenza sono attrezzati per trasformarsi in unità di terapia intensiva, in grado di supportare pazienti ventilati. Ci stiamo preparando ad affrontare missili a lungo raggio con un potenziale esplosivo e danni significativi. Prevediamo situazioni in cui decine di persone arrivano in ospedale contemporaneamente e siamo preparati a gestire ondate di incidenti di massa. Il nostro pronto soccorso è completamente fortificato, compresa la banca del sangue”, ha spiegato.
“In termini di forniture di gasolio e acqua, ne abbiamo a sufficienza per tre mesi. Secondo le linee guida del Ministero della Salute, possiamo operare come “isola isolata”, supportata da generatori. Tutti i servizi medici disponibili in qualsiasi momento, anche durante la guerra, rimarranno accessibili. Non ci sarà nessun servizio medico non disponibile qui, e potremo riprendere rapidamente i trattamenti oncologici. Tuttavia, gli interventi chirurgici non urgenti potrebbero essere rimandati. Ogni reparto conosce l’ordine di trasferirsi nell’area di emergenza in caso di allarme e ha organizzato le proprie liste di inventario”.
Centro medico Sheba, Tel Hashomer “Conduciamo valutazioni quotidiane della situazione e abbiamo compilato una lista di controllo delle nostre forniture, superando i requisiti stabiliti dal Ministero della Salute e dal Comando del Fronte Interno”, ha spiegato il dottor Amir Greenberg, vicedirettore delle operazioni e dei servizi di emergenza del Centro Medico Sheba, descrivendo i loro continui sforzi di preparazione. “Inoltre, siamo preparati per uno scenario cibernetico, che ci consente di continuare a operare in modo funzionale nel caso di un attacco cibernetico che interrompa i nostri sistemi”.
Secondo il dottor Greenberg, il mantenimento dei servizi medici di routine è fondamentale, anche durante un conflitto intenso. “Seguiamo le linee guida del Comando del Fronte Interno e dell’Autorità Suprema di Ospedalizzazione. Abbiamo un protocollo per ridurre i ricoveri, anche se non lo abbiamo fatto negli ultimi tempi. Riprendiamo rapidamente l’assistenza medica regolare”, ha osservato.
“Le persone hanno bisogno di vari trattamenti e noi ci sforziamo di mantenere i servizi medici di routine, compresi gli interventi chirurgici programmati. Abbiamo 18 sale operatorie fortificate approvate per gli interventi chirurgici. Dovremmo fornire personale medico a un ospedale nel sud, designato come risorsa nazionale in tempo di guerra. Il Magen David Adom invierà squadre e noi invieremo squadre mediche a questo ospedale entro 30 minuti in elicottero.
“Inoltre, il Ministero della Salute ha dato istruzioni a noi e a Rabin di assistere il Centro medico Ziv di Safed. I nostri medici e infermieri si sono già recati a Safed e noi ci uniremo a loro per fornire l’assistenza necessaria. Ci siamo anche coordinati con l’ospedale di Nahariya e vi abbiamo inviato le nostre squadre. Siamo preparati ad affrontare un evento di massa di grandi dimensioni, avendo pianificato tutti gli scenari. Dato il ruolo del nostro ospedale come riserva per l’intero Paese, saremo in un centro di comando ampliato con valutazioni della situazione e riserve di personale per qualsiasi minaccia a Israele”, ha concluso.
(Israele360, 13 agosto 2024)
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Il postino informatore dietro all’eliminazione di Deif
di Olga Flori
Un uomo, incaricato di consegnare messaggi per conto del capo della Brigata di Rafah, Mohammed Shabaneh, ha permesso all’IDF di localizzare ed eliminare il 13 luglio Mohammed Deif, comandante delle Brigate Al Qassam e leader dell’ala militare di Hamas. Secondo quanto riportato da alcuni media, le informazioni fornite dall’uomo hanno consentito all’esercito israeliano di eliminare Deif durante un incontro con Ra’fat Salama, capo della Brigata di Khan Yunis.
L’uomo, che trafficava i messaggi tra terroristi, appartiene ad una importante famiglia di Rafah. Interrogato dalle forze militari israeliane, ha fornito ad Israele preziose informazioni, come una mappa del territorio di Rafah e della rete di tunnel sotterranei utilizzati dai terroristi, oltre a dettagli sui luoghi di produzione di armi, missili ed esplosivi.
Grazie al suo ruolo, conosceva anche le posizioni di numerosi miliziani di Hamas. L’informatore avrebbe quindi avvisato Israele della presenza di Deif nell’area dove si stava nascondendo Salama, permettendo all’esercito israeliano di eliminare uno dei più ricercati terroristi di Hamas con un attacco aereo.
In precedenza, l’IDF aveva già tentato di eliminare Deif con un attacco aereo, colpendo la stanza in cui si trovava, ma lui era riuscito a salvarsi facendosi scudo con alcuni oggetti. Il 13 luglio, l’aeronautica militare israeliana ha fatto sorvolare cinque coppie di aerei e droni sopra il luogo dell’incontro tra Deif e Salama per oltre un giorno e mezzo, in attesa dell’autorizzazione a colpire i terroristi.
(Shalom, 13 agosto 2024)
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La negazione della continuità: il 7 ottobre e la Shoah
di Matthias Kuntzel
Ebrei che fingono di essere morti in mezzo a mucchi di cadaveri, madri che coprono la bocca dei loro bambini per evitare di essere scoperte, prigionieri costretti a consegnare i loro vicini agli assassini, persone stuprate, torturate e bruciate vive: gli orrori del 7 ottobre ricordano indubbiamente il nazismo. E ci sono davvero fili di continuità che collegano il terrore antiebraico delle SS Einsatzgruppen a quello di Hamas.
Uno di questi filoni ha a che fare con gli atteggiamenti verso l’Olocausto. Mentre la maggior parte dell’umanità considera l’assassinio di 6 milioni di ebrei come un crimine gigantesco, tra gli islamisti troviamo persone che descrivono apertamente gli omicidi come un brillante risultato dei nazisti che dovrebbe essere ripetuto o completato. Un esempio importante è il predicatore Yusuf al-Qaradawi, morto nel 2022. Nel corso della sua vita era diventato il leader più importante e più popolare dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, la cui propaggine palestinese è Hamas. Queste sono le parole che urlò ai milioni di spettatori del canale televisivo Al-Jazeera all’inizio del 2009:
“Nel corso della storia, Allah ha imposto al popolo [ebraico] chi lo avrebbe punito per la sua corruzione. L’ultima punizione è stata eseguita da Hitler. […] Riuscì a metterli al loro posto. Questa fu una punizione divina per loro. Se Allah vorrà, la prossima volta sarà per mano dei credenti.[1]”.
Qui, Qaradawi sosteneva che gli ebrei fossero responsabili dell’Olocausto, che era una “punizione divina” per la loro “corruzione” applicata da Hitler, il quale agiva come strumento di Allah. Ma non era stato sufficiente. Qaradawi riteneva che fosse necessario un ulteriore ciclo di punizioni, inflitto questa volta dai musulmani. Qaradawi proclamava quindi un nuovo Olocausto e la fine di Israele come una missione religiosa comandata da Allah. I terroristi di Hamas la pensano negli stessi termini.
Un altro filone di continuità ha a che fare con la specifica storia ideologica di Hamas. La sua organizzazione ombrello, la Fratellanza Musulmana, iniziò a ricevere fondi nazisti da Berlino già negli anni ’30. Agenti nazisti fornirono assistenza ai suoi leader e organizzarono serate di formazione congiunta sulla “questione ebraica”. Decenni dopo, questo seme diede i suoi frutti.
Nello Statuto di Hamas del 1988, che è ancora in vigore, “gli ebrei” sono dichiarati nemici del mondo e causa di entrambe le guerre mondiali, mentre i Protocolli degli Anziani di Sion sono citati come prova del comportamento ebraico. L’articolo 7 dichiara: “Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei (uccidendo gli ebrei)”.
Le scoperte fatte dai soldati israeliani nella Striscia di Gaza, come il libro del co-fondatore di Hamas Mahmoud al-Zahar intitolato La fine degli ebrei, che glorifica l’Olocausto e chiede che venga completato,[2] e le edizioni arabe del Mein Kampf, un libro che è stato recentemente il numero 6 nella lista dei bestseller palestinesi, si adattano a questo programma.[3] Il 7 ottobre, coloro che sono stati incitati in questo modo sono passati all’azione. Volevano la “fine degli ebrei” e avrebbero continuato a scatenarsi senza l’intervento delle forze israeliane.
Il fatto che non sia stato possibile impedire questo rinnovato omicidio di massa di ebrei è la prova di un fallimento da parte degli israeliani e del mondo occidentale e, in effetti, della comunità internazionale nel suo complesso. Dopo tutto, il programma genocida di Hamas era noto nel mondo arabo dal 1988 e nei paesi di lingua tedesca dal 2002. Tragicamente, non è stato preso sul serio. E cosa è successo dopo? Come hanno reagito l’opinione pubblica mondiale e l’Occidente al 7 ottobre alla luce dell’esperienza dell’Olocausto e di 40 anni di “educazione” sul tema?
Fino ad oggi, la maggior parte del mondo non ebraico si rifiuta di sostenere e mostrare solidarietà nei confronti degli ebrei colpiti dal terrorismo. Come nel 1938, sta ancora una volta abbandonando gli ebrei. Nel luglio 1938, 31 dei 32 stati che presero parte alla Conferenza di Evian rifiutarono di accettare i rifugiati ebrei dalla Germania nazista e dall’Austria occupata dai nazisti. Solo la Repubblica Dominicana era disposta a farlo. 85 anni dopo, c’è ancora una volta scarso segno di empatia verso gli ebrei, che si trovano ad affrontare un massiccio aumento dell’ostilità antisemita in tutto il mondo.
Non c’è un serio dibattito internazionale sulla questione di cosa abbia effettivamente generato lo scoppio del 7 ottobre e su come l’odio per le donne e gli ebrei ivi manifestato possa essere spiegato e prevenuto in futuro. I ricercatori dell’Olocausto hanno scritto molto sull’antisemitismo eliminazionista. Dopo il 7 ottobre, tuttavia, questa conoscenza non è stata applicata e lo Statuto di Hamas è stato appena menzionato nei dibattiti successivi. Di conseguenza, ciò che gli ebrei in tutto il mondo hanno percepito come una cesura esistenziale è stato trattato nelle università e dalle agenzie governative nel mondo occidentale come un episodio: le persone hanno continuato come se nulla fosse accaduto.
Allo stesso tempo, le iniziali espressioni di solidarietà nei confronti di Israele si sono rapidamente trasformate in campagne di accusa. Quasi ovunque, Israele – e quindi gli ebrei – sono stati ritenuti responsabili del terrorismo di Hamas e l-eccidio è stato interpretato come una risposta a 56 anni di “occupazione”. Sfortunatamente, anche importanti ricercatori dell’Olocausto – professori che dovrebbero saperlo – hanno articolato tali strategie discolpanti, che rafforzano l’antisemitismo in tutto il mondo. Tra loro c’è Omer Bartov, professore di studi sull’Olocausto e il genocidio alla Brown University di Providence, Rhode Island, USA.
• La colpa di Israele?
Interrogato sulle cause del massacro del 7 ottobre, Bartov, in un’intervista al quotidiano Frankfurter Rundschau, ne ha attribuito la colpa esclusivamente alle politiche di Israele e all’“oppressione di milioni di palestinesi”. Ciò ha portato a “violenza, rabbia e sete di vendetta” da parte delle persone colpite. L’attacco di Hamas deve quindi essere visto “come un tentativo di richiamare l’attenzione sulla difficile situazione dei palestinesi”. [4] A prima vista, questa interpretazione sembra plausibile, ma non coglie il punto.
In primo luogo, travisa le azioni di Hamas e quindi le sue motivazioni: il 7 ottobre non è stato un atto spontaneo di vendetta e rabbia, ma un attacco strategico che era stato meticolosamente preparato per mesi. Inoltre, i leader di Hamas ammettono apertamente che le loro azioni non sono in alcun modo intese ad alleviare la “difficile situazione dei palestinesi”. Al contrario, traggono vantaggio dalla catastrofe nella Striscia di Gaza perché possono sfruttarla per mettere alla gogna Israele in modo ancora più efficace nel perseguimento del loro vero obiettivo, lo sterminio di Israele e degli ebrei.
In secondo luogo, il massacro non è stato una risposta alle provocazioni di Israele. Nei mesi e negli anni precedenti, il paese aveva compiuto sforzi per stabilizzare la situazione nella Striscia di Gaza e aumentare il suo tenore di vita. Ecco perché i governi israeliani hanno permesso per anni che i soldi del Qatar arrivassero ad Hamas, e perché a decine di migliaia di residenti di Gaza è stato permesso di lavorare in Israele. Tuttavia, la speranza di stabilità si è rivelata un’illusione; la crudele ricompensa è arrivata il 7 ottobre.
In terzo luogo, l’odio religioso di Hamas verso gli ebrei non può essere una reazione alle politiche di Israele perché è stato originariamente formulato e sviluppato dai suoi gruppi predecessori negli anni ’30. Questo odio, promosso dal nazionalsocialismo, ha preceduto la fondazione di Israele ed è sempre stato più la causa della violenza che una reazione ad essa. Questo odio è diretto contro tutti gli ebrei, non importa quanto siano impegnati a fare la pace con i palestinesi, come è stato il caso di molti di quelli massacrati il 7 ottobre, ed è diretto contro tutto ciò che Israele fa.
In quarto luogo, i ricercatori concordano sul fatto che l’antisemitismo è un fantasma che non ha nulla a che fare con i veri ebrei o con le critiche alle loro attività. Bartov ignora questo fatto quando afferma nell’intervista sopra menzionata che Israele ha causato il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Dimentica che l’antisemitismo contraddice la nostra logica quotidiana di causa ed effetto. Proprio come non c’era una causa razionale per l’omicidio dei sei milioni, non c’era nemmeno una causa razionale per i pogrom che seguirono le accuse di omicidio rituale o per il massacro del 7 ottobre: puro odio e le più feroci delle ideologie erano e sono all’opera in questi casi.
• L’Olocausto è un argomento tabù?
Nell’intervista sopra menzionata pubblicata dal quotidiano Frankfurter Rundschau poco più di una settimana dopo l’eccidio, Omer Bartov ha criticato tutti i tentativi di collegare il terrorismo di Hamas all’Olocausto come “fuorvianti” e “motivati da ideologie”. Poco più di un mese dopo, insieme a Christopher R. Browning, Michael Rothberg e A. Dirk Moses, nonché ad altri dodici colleghi, ha pubblicato una Lettera aperta sull’uso improprio della memoria dell’Olocausto. In essa, i firmatari, tra cui Stephanie Schüler-Springorum, direttrice del Centro di ricerca sull’antisemitismo di Berlino, non solo si oppongono all’uso improprio della memoria, che esiste e dovrebbe essere criticato. Rifiutano anche qualsiasi riferimento all’Olocausto nei nostri sforzi per comprendere le cause dell’eccidio.
È vero che la loro lettera aperta menziona il fatto che il 7 ottobre ha ricordato a molti ebrei l’Olocausto e anche i pogrom precedenti. Allo stesso tempo, tuttavia, respinge con veemenza questa associazione:
“Fare appello alla memoria dell’Olocausto oscura la nostra comprensione dell’antisemitismo che gli ebrei affrontano oggi e travisa pericolosamente le cause della violenza in Israele-Palestina.[5]”. Questa affermazione fondamentale della Lettera Aperta è notevole sotto diversi aspetti. Da un lato, implica che l’antisemitismo a cui gli ebrei sono esposti “oggi” ha poco o nulla in comune con l’odio per gli ebrei che culminò nell’Olocausto. Come abbiamo già visto, questo è sbagliato. Le relazioni ideologiche, storiche e semantiche che collegano l’antisemitismo di Hamas con quello dei nazisti e la letteratura accademica che dimostra questa connessione possono essere trascurate solo da persone determinate a trascurarle.
Chi ignora questo, inoltre, non solo incolpa Israele per l’odio verso gli ebrei nel mondo arabo, ma banalizza anche questo odio, supponendo che esso abbia un movente razionale.
Un esempio di questa banalizzazione è stato fornito dal politologo americano Marc Lynch. In una recensione di un libro sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs, Lynch elogia Qaradawi come “un’icona per gli islamisti non violenti mainstream”. Tuttavia, ammette anche che Qaradawi è “certamente ostile verso Israele”. Qui, Lynch si riferiva presumibilmente anche al discorso citato sopra, in cui Qaradawi aveva descritto l’Olocausto come “punizione divina” e dichiarato: “Se Allah vuole, la prossima volta sarà per mano dei credenti”. Agli occhi di Lynch, questa minaccia non era antisemita, ma semplicemente un’espressione di critica a Israele.
Tuttavia, l’autore del libro recensito, Paul Berman, non era d’accordo con questo. Lynch “si nasconde dietro eufemismi – in questo caso la sua frase ‘ostile verso Israele’, quando ciò che intende realmente è ‘hitleriano'”, ha scritto Berman nel numero successivo di Foreign Affairs. Lynch, tuttavia, non era d’accordo sul fatto che potesse aver inteso “hitleriano”. Invece, in una risposta, ha ribadito la sua affermazione errata secondo cui Qaradawi stava semplicemente esprimendo “visioni estremamente ostili verso Israele” nelle sue dichiarazioni.[6]
Contrariamente a tutte le prove, Lynch, come molti dei suoi colleghi, difende il dogma della discontinuità, ovvero la tesi secondo cui non c’è alcun collegamento tra l’odio di Hitler per gli ebrei e l’odio islamista per Israele. Errori di valutazione di questo tipo hanno contribuito e continuano a contribuire alla minimizzazione dell’odio radicale per gli ebrei da parte della Fratellanza Musulmana e di Hamas e hanno quindi contribuito a rendere possibile la catastrofe del 7 ottobre.
La Lettera Aperta di Bartov e altri prosegue dicendo che invocare la memoria dell’Olocausto “rappresenta pericolosamente in modo errato le cause della violenza in Israele-Palestina”. Quindi c’è un “pericolo” quando metto in relazione la mia conoscenza dell’Olocausto con il 7 ottobre? E di che pericolo si tratta?
Presumibilmente, il motivo per cui ritengono che invocare la memoria dell’Olocausto non sia solo sbagliato, ma “pericolosamente sbagliato”, è perché farlo mina la dicotomia tra la perfidia sionista da una parte e l’innocenza palestinese dall’altra. Naturalmente, ci sono molte ragioni per cui si potrebbe desiderare di criticare le politiche di Benjamin Netanyahu e l’approccio all’attuale conflitto militare. Tuttavia, tale critica diventa ingiusta se ignora sistematicamente tutte le forze che vogliono la distruzione di Israele.
Ma è proprio questo che fa la Lettera Aperta. Mentre l’eccidio di Hamas viene ripetutamente banalizzato come una “crisi attuale”, i firmatari muovono l’accusa di “uccisione diffusa” esclusivamente contro Israele, la cui storia di 75 anni ritengono responsabile della “spirale di violenza”. “Non esiste una soluzione militare in Israele-Palestina”, hanno scritto poche settimane dopo il 7 ottobre, senza dire come la serie di omicidi di Hamas avrebbe potuto essere fermata in modo non militare.
L’8 dicembre 2023, Jeffrey Herf e Norman J.W. Goda hanno pubblicato una contro-dichiarazione firmata da altri 31 accademici, respingendo l’accusa di abusi dell’Olocausto. In essa, descrivono gli eventi del 7 ottobre come “il più importante omicidio di massa di ebrei dall’Olocausto ad oggi” e sottolineano che “in termini di idee, c’è un collegamento nazista con Hamas”.
Essi affrontano “la forma distintiva di odio islamista verso gli ebrei emersa negli anni ’30 con la Fratellanza Musulmana” e sottolineano che “questo mix di odio islamista ed europeo verso gli ebrei, pur non essendo condiviso dall’intero mondo arabo/musulmano, ha mantenuto un’ombra sul Medio Oriente per quanto riguarda l’esistenza di uno Stato ebraico”.
Essi criticano la spinta antisionista del documento di Bartov e concludono chiedendo uno “sguardo impassibile alle connessioni tra passato e presente nella dittatura di Hamas e nelle sue azioni”. [7] In una breve risposta, il primo gruppo ha respinto la contro-affermazione e ha ribadito la sua posizione.[8]
• Il fallimento dell’educazione sull’Olocausto
Quando Bartov e i suoi cofirmatari respingono con tanta veemenza ogni associazione con la Shoah, stanno fuggendo dalla realtà: dopo il 7 ottobre, la storia dell’Olocausto non può più essere separata dal presente.
I mesi successivi al massacro hanno rivelato il fallimento della precedente educazione occidentale sull’Olocausto, che non ha mai voluto sapere nulla delle conseguenze dell’ideologia nazista nel mondo musulmano. Nel novembre 2023, Dani Dayan, CEO di Yad Vashem, lo ha riconosciuto: “Noi di Yad Vashem siamo esperti di ideologia nazista, non dell’ideologia barbarica di Hamas. Non l’abbiamo studiata”. [9]
Questa ignoranza deve finire. Se si vuole affrontare la nuova sfida, ogni futura commemorazione della Shoah deve essere una commemorazione anti-antisemita che non tabuizzi più l’odio genocida degli ebrei che sopravvive dopo Auschwitz e in Medio Oriente.
Allo stesso tempo, la lotta contro l’antisemitismo dovrebbe sempre essere condotta con l’obiettivo di risvegliare una consapevolezza dell’Olocausto che tenga conto non solo dell’unicità del crimine, ma anche dell’unicità dell’odio che lo ha reso possibile.
I veri protagonisti di questo odio sono oggi a Teheran. Per loro, l’eccidio del 7 ottobre è stato solo un assaggio di ciò che hanno in mente.
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1. MEMRI, #2005, 28 gennaio 2009 Qaradawi non è un caso isolato, come dimostra vividamente lo studio di Meir Litvak ed Esther Webman, From Empathy to Denial. Arab Responses to the Holocaust, Londra 2009.
2. Il presidente Isaac Herzog alla conferenza sulla sicurezza di Monaco presenta testi antisemiti trovati a Gaza, 17 febbraio 2024.
3 “Non c’è bisogno di scusarsi: Hamas è davvero il “nuovo nazismo””, Jewish News Syndicate, 06.03.2024
4. Ulrich Seidler, ricercatore sul genocidio sull’attacco di Hamas: “Netanyahu ha seminato il vento”, Frankfurter Rundschau, 16 ottobre 2023.
5. Lettera aperta sull’abuso della memoria dell’Olocausto, The New York Review of Books, 20 novembre 2023. Enfasi: MK. Oltre ai cinque sopra citati, la lettera è stata firmata anche da Karyn Ball, Jane Caplan, Alon Confino, Debórah Dwork, David Feldman, Amos Goldberg, Atina Grossmann, John-Paul Himka, Marianne Hirsch, Raz Segal e Barry Trachtenberg.
6. Marc Lynch, ‘Verità velate: l’ascesa dell’Islam politico e dell’Occidente’, Foreign Affairs, luglio/agosto 2010 e Paul Berman, ‘Islamismo svelato e Marc Lynch’, ‘Le risposte di Lynch’, Foreign Affairs, settembre/ottobre 2010.
7. Jeffrey Herf, Norman J.W.Goda e altri 31 studiosi, “Una lettera aperta su Hamas, l’antisemitismo e la memoria dell’Olocausto”, The New York Review of Books, 8 dicembre 2023. I 31 sono Joseph Bendersky, Russell A. Berman, Paul Berman, Richard Breitman, Magnus Bretchken, Martin Cüppers, Havi Dreifuss, Ingo Elbe, Tuva Friling, Sander Gilman, Stephan Grigat, Susannah Heschel, David Hirsh, Günther Jikeli, Martin Kramer, Matthias Küntzel, Meir Litvak, Dan Michman, Joanna B. Michlic, Benny Morris, Cary Nelson, Bill Niven, Alvin Rosenfeld, Gavriel Rosenfeld, Roni Stauber, Norman A. Stillman, Karin Stögner, Izabella Tabarovsky, James Wald, Thomas Weber ed Elhanan Yakira.
8. Ibid.
9. Detlef David Kauschke, ‘Never again is now’, Jüdische Allgemeine, November 9, 2023.
(L'informale, 13 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)
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Tisha Be Av – Il lutto e la speranza
Brano tratto dal programma “Feste e celebrazioni ebraiche” di Rai Radio 1 – 12 agosto 20
di Rav Giuseppe Momigliano
Nel calendario ebraico la data del 9 di Av – Tisha Be Av si distingue quale giornata di digiuno, di preghiere e di lutto nel ricordo della distruzione del primo e del secondo santuario di Gerusalemme. Il primo quello costruito dal re Salomone e distrutto nel 586 a.e.v. dalle truppe babilonesi agli ordini del sovrano Nabucodonosor. Il secondo edificato dagli ebrei tornati dall’esilio di Babilonia e distrutto nel 70 e.v. dai soldati romani agli ordini di Tito. Nella stessa data e in giorni a essa vicini sono altresì ricordati altri tragici eventi della storia ebraica, tra cui la cacciata degli ebrei dalla Spagna, nel 1492 e alcuni tra i più terribili episodi della Shoah. Questa giornata, che già riassume molteplici tristi ricordi e significati, si svolge quest’anno in un clima di particolare angoscia e sgomento per i drammatici eventi in corso iniziati con l’orrendo massacro del 7 ottobre. Nel libro biblico delle Lamentazioni – Ekhà – che viene letto la sera e la mattina del nove di Av viene espresso il ricordo della prima distruzione di Gerusalemme, sono descritte le sofferenze le umiliazioni subite, il senso di smarrimento per una catastrofe che si credeva impossibile a realizzarsi, malgrado i numerosi avvertimenti dei profeti, troviamo il senso di solitudine per essere stati abbandonati e traditi da paesi che si ritenevano amici fidati, incontriamo la sollecitazione a riflettere sulle colpe che avevano determinato la caduta del Tempio, percepita come una punizione divina; vengono anche lette elegie che associano l’antica catastrofe con altre avvenute nel corso della lunga storia del popolo ebraico, durante queste letture i fedeli sono seduti a terra come è consuetudine delle persone in lutto si leggono i testi alla fioca luce di candele, dopo aver rimosso i paramenti e gli ornamenti sacri delle sinagoghe.
Per comprendere le ragioni per cui la distruzione del Santuario sia così fortemente sentita ed evocata e si mantenga nel ricordo dopo quasi duemila anni, dobbiamo ricordare il valore e l’importanza che il pensiero ebraico attribuisce al Santuario e in una più ampia visione anche alla città di Gerusalemme. Il Santuario non era solo un edificio consacrato ove si compivano i riti e le offerte sacre prescritte nella Torà: era molto di più. Già il luogo ove era stato edificato aveva, secondo la tradizione, un significato speciale essendo il posto nel quale il Signore aveva messo alla prova il patriarca Abramo fino al punto che questi aveva legato sull’altare il figlio Isacco per l’estremo sacrificio, un gesto di fede profonda che D-o giura al patriarca di ricordare come particolare merito di benedizione per il popolo che da lui sarebbe disceso; anche per questa particolarità del luogo ove era posto, il Bet Hamikdash rappresentava l’espressione concreta dell’intenso legame mistico e spirituale tra l’Eterno e il popolo ebraico, un legame basato sui comandamenti di santità al quale Israele si era impegnato e attraverso i quali la Shekhinà , la Presenza divina si irradiava dal Santuario a tutto il popolo, come scritto nel Libro dell’Esodo “Mi faranno un Santuario ed IO dimorerò in mezzo a loro”; non solo, il Santuario era idealmente considerato come il cuore pulsante dell’universo attraverso il quale si manifestava più intensamente la provvidenza divina, era percepito come sorgente di vita, di benedizione e di prosperità materiale e spirituale per il mondo intero. Questo luogo sacro rappresentava anche un segno ideale e concreto di unità per tutto il popolo ebraico, infatti tre volte all’anno, nelle feste di Pesah, di Shavuot e di Sukkot, ovvero Pasqua, Pentecoste e Capanne, gli ebrei provenienti da ogni luogo, dentro e fuori la terra d’Israele, salivano al Tempio di Gerusalemme a rendere omaggio al Signore e a rinsaldare i legami di fraternità e condivisione. Il Santuario avrebbe dovuto essere il luogo in cui la manifestazione del servizio di fede all’Eterno si coniugasse con la ricerca della giustizia e della misericordia, per questo la corte suprema, il Sinedrio, aveva la sede principale presso il Santuario. Purtroppo questa sintesi di fede, giustizia e misericordia fu spesso gravemente disattesa e prevaricata causando la profanazione della stessa santità di Yerushalaim (Gerusalemme) e risultando quindi, come più volte ribadito dai profeti, causa della distruzione del Santuario stesso.
Il ricordo di Gerusalemme e del Santuario distrutto accompagna l’ebreo ogni giorno, nelle tre preghiere quotidiane, nelle celebrazioni dei giorni di festa, in tanti gesti e particolari della ritualità e della vita, fino a caratterizzare persino il momento più lieto della vita, la cerimonia del matrimonio che si conclude con la rottura di un bicchiere al termine delle benedizioni nuziali e la pronuncia delle tre formule di impegno solenne a mantenere il ricordo di Gerusalemme, come sono espresse nel salmo 137: “Se ti dimenticherò, o Yerushalaim, che la mia destra dimentichi (come muoversi), possa la mia lingua rimanere attaccata al palato se non conserverò il tuo ricordo, se non eleverò Yerushalaim al di sopra della mia più grande gioia”. Per riflesso, anche le parole di conforto nel momento di grande dolore per la perdita delle persone più care esprimono il ricordo della distruzione del santuario “Il Signore vi conforti insieme a tutti color che si dolgono per Yerushalaim e Zion.”
La memoria della distruzione del Santuario – come già accennato – è anche occasione per riflettere sulle cause che lo hanno determinato, nella tragica fine del primo Santuario furono il diffondersi in Israele dell’idolatria mediata dai popoli circostanti, nonché l’incapacità di realizzare quel modello di giustizia e di attenzione solidale per i più deboli che è un motivo dominante nella legislazione biblica; nella distruzione del secondo Tempio furono soprattutto determinanti le lacerazioni interne, le infinite rivalità, lo smarrimento di parole e dialoghi di pace all’interno stesso del popolo ebraico. Meditazioni anche nel presente di assoluta attualità.
Il libro di Ekhà della Lamentazioni che si apre con le espressioni di sgomento e dolore accorato si chiude invece con le parole di speranza, con l’invocazione all’Eterno affinché il dialogo si riapra e il legame con il Signore, da cui dipende la vita dell’uomo, possa rinsaldarsi: “Facci tornare o Signore a Te e ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico”. Questa ritorno sincero a D-o è una sollecitazione che possiamo intendere come un appello a tutti gli uomini, come condizione affinché giungano a compimento le promesse di pace dei Profeti, quando il Santuario ricostruito e la città di Gerusalemme non saranno più obiettivi di conquiste belliche, realizzate o progettate, ma diverranno meta di percorsi di pace e di ispirazione, quando i popoli- come preannuncia il Profeta Isaia si inviteranno l’un l’altro a salire sul Monte del Signore a Gerusalemme, per riceverne insegnamento, nel tempo in cui “Nessun popolo alzerà la spada contro l’altro e non impareranno più la guerra” (Isaia 2, 1-4).
(moked, 13 agosto 2024)
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Iran: difesa o attacco, qual è la strategia migliore?
Il precario equilibrio: un nuovo approccio alla minaccia iraniana
In un contesto geopolitico in continua evoluzione, la strategia degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran solleva interrogativi. Mentre Washington predilige una postura difensiva e de-escalation, alcuni esperti mettono in discussione questo approccio, sostenendo che potrebbe rivelarsi controproducente a lungo termine.
Nonostante la sua retorica bellicosa, il regime iraniano presenta notevoli vulnerabilità. I suoi sistemi di difesa aerea sono considerati relativamente obsoleti e la sua capacità di effettuare attacchi aerei a lungo raggio rimane limitata. Queste debolezze spiegano in parte la strategia di "guerra per procura" adottata da Teheran, che si affida a gruppi alleati come Hezbollah e Hamas per compiere azioni ostili contro Israele.
Di fronte a questa situazione, sta emergendo un nuovo approccio strategico. Invece di concentrarsi esclusivamente sulla difesa e sulla de-escalation, alcuni sostengono una postura più offensiva. L'idea sarebbe quella di presentare una minaccia credibile agli interessi strategici dell'Iran, colpendo potenzialmente le sue installazioni militari, nucleari e petrolifere e le infrastrutture critiche.
Questa strategia si basa sul presupposto che il regime iraniano, consapevole delle sue debolezze, potrebbe essere dissuaso dall'intraprendere azioni su larga scala se percepisse un rischio reale per la sua stabilità. Gli attuali sforzi dell'Iran per acquisire sistemi avanzati di difesa aerea dalla Russia testimoniano questa consapevolezza.
Tuttavia, questo approccio non è privo di rischi. Un'escalation potrebbe portare a un conflitto regionale più ampio. Tuttavia, i sostenitori di questa strategia sostengono che sarebbe preferibile affrontare questa eventualità ora, prima che l'Iran rafforzi significativamente le sue capacità difensive e potenzialmente sviluppi armi nucleari.
Il programma nucleare iraniano rimane una preoccupazione fondamentale. Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio arricchito per sviluppare un'arma nucleare nel prossimo futuro. Questa prospettiva altererebbe radicalmente l'equilibrio di potere nella regione.
Una simile strategia di deterrenza offensiva invierebbe anche un forte messaggio agli alleati regionali degli Stati Uniti, come l'Arabia Saudita e la Giordania, che percepiscono l'Iran come una grave minaccia. Potrebbe anche influenzare i calcoli strategici di potenze come la Russia e la Cina, che negli ultimi anni hanno rafforzato i loro legami con Teheran.
Tuttavia, questo approccio solleva questioni etiche e pratiche. Come si può calibrare una tale minaccia senza che l'escalation sia fuori controllo? Come garantire che questa strategia non alimenti ulteriormente le già alte tensioni regionali?
In definitiva, trovare un equilibrio tra una deterrenza credibile e la prevenzione di un conflitto aperto rimane una sfida importante. Con l'evolversi della situazione, è fondamentale che tutte le parti interessate mantengano canali di comunicazione aperti ed esplorino
vie diplomatiche insieme alle loro strategie di sicurezza.
(JForum.fr, 12 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Intelligence Israele: l’Iran potrebbe attaccare nel brevissimo periodo
Diverse notizie circolate domenica sera indicavano che Israele si aspettava il lancio di un grande attacco iraniano entro pochi giorni, anche se i militari hanno cercato di minimizzare sottolineando che le istruzioni ai civili erano invariate.
Le notizie hanno segnato un’inversione di tendenza rispetto alla precedente ipotesi prevalente, secondo la quale la Repubblica islamica – sottoposta a forti pressioni internazionali – avrebbe rinunciato all’intenzione iniziale di lanciare un imminente attacco su larga scala in risposta all’assassinio del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio, che Israele non ha confermato né smentito.
Ci si aspettava invece che l’Iran lasciasse la risposta al gruppo terroristico libanese Hezbollah, il cui massimo comandante militare Fuad Shukr è stato ucciso da Israele in un attacco aereo a Beirut alcune ore prima dell’assassinio di Haniyeh. Israele ha incolpato Shukr di essere dietro a molti attacchi contro i civili, tra cui un razzo che il mese scorso ha ucciso 12 bambini in un campo di calcio a Majdal Shams, sulle alture del Golan.
Ma il sito di notizie Axios, citando due fonti anonime, ha riferito domenica che l’attuale valutazione di Israele è che l’Iran lancerà un attacco diretto al Paese entro pochi giorni, possibilmente prima che giovedì si tengano i nuovi colloqui per il cessate il fuoco e l’accordo sugli ostaggi.
Il rapporto affermava che la questione era divisiva all’interno dell’Iran. Il Presidente Masoud Pezeshkian vuole evitare una risposta dura, mentre il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche vuole lanciare un attacco più ampio di quello del 13-14 aprile, quando centinaia di droni e missili sono stati lanciati nel primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Quasi tutti i proiettili e gli UAV sono stati intercettati durante l’attacco.
Una delle fonti citate nel rapporto ha affermato che la situazione è “ancora fluida” a causa dei disaccordi.
Il rapporto affermava che il Ministro della Difesa Yoav Gallant aveva parlato domenica con il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin e gli aveva detto che i preparativi militari dell’Iran suggerivano che l’Iran si stava preparando per un attacco su larga scala contro Israele.
Il Pentagono ha poi confermato l’esistenza della telefonata, aggiungendo che Austin ha ordinato il dispiegamento del sottomarino missilistico guidato USS Georgia in Medio Oriente in seguito all’escalation delle tensioni. L’annuncio dei movimenti di un sottomarino è raro per gli Stati Uniti.
In un comunicato, il Pentagono ha aggiunto che Austin ha anche ordinato al gruppo d’assalto Abraham Lincoln di accelerare il suo dispiegamento nella regione.
Il Magg. Gen. Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono, ha dichiarato che Austin ha parlato con Gallant e ha ribadito l’impegno dell’America “a compiere ogni passo possibile per difendere Israele e ha sottolineato il rafforzamento della posizione e delle capacità militari degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente alla luce dell’escalation delle tensioni regionali”.
La Lincoln, che si trova nell’Asia Pacifica, aveva già ricevuto l’ordine di recarsi nella regione per sostituire il gruppo d’assalto della portaerei USS Theodore Roosevelt, che dovrebbe iniziare a rientrare negli Stati Uniti. La settimana scorsa, Austin aveva detto che la Lincoln sarebbe arrivata nell’area del Comando Centrale entro la fine del mese.
Domenica non era chiaro cosa significasse il suo ultimo ordine, o quanto più rapidamente la Lincoln si dirigerà verso il Medio Oriente. La portaerei ha a bordo i caccia F-35, oltre agli F/A-18 che si trovano anch’essi sulle portaerei.
Ryder non ha nemmeno detto quanto velocemente il sottomarino missilistico guidato USS Georgia raggiungerà la regione.
Nel frattempo, domenica sera l’emittente pubblica Kan e il notiziario Channel 13 hanno riferito che la valutazione aggiornata di Israele è che Teheran intende lanciare un grande attacco questa settimana.
Channel 13 ha riferito, senza citare fonti, che potrebbe esserci un attacco combinato da parte dell’Iran e di Hezbollah, sia simultaneamente che successivamente. Il network ha detto che un fattore che ha ritardato l’attacco promesso è stata la pressione francese sull’Iran e su Hezbollah affinché non lanciassero un grande attacco durante le Olimpiadi di Parigi, che si sono concluse domenica.
Nonostante le crescenti voci di un attacco di grandi dimensioni, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato domenica sera che non ci sono stati cambiamenti nelle linee guida di emergenza per i civili.
“A seguito delle ultime notizie riguardanti i piani dell’Iran, chiariamo che, in questa fase, non ci sono cambiamenti alle linee guida del Comando del Fronte Interno”, ha detto Hagari su X.
“L’IDF e l’establishment della difesa monitorano i nostri nemici e gli sviluppi in Medio Oriente, con particolare attenzione all’Iran e agli Hezbollah, e valutano costantemente la situazione”, ha detto, aggiungendo che le truppe sono “schierate e preparate con un alto livello di prontezza”.
“Se sarà necessario cambiare le istruzioni, le aggiorneremo con un messaggio ordinato sui canali ufficiali”, ha aggiunto Hagari.
Le tensioni alle stelle hanno visto molte grandi compagnie aeree cancellare o ritardare i loro voli verso Israele e verso altri Paesi della regione.
Domenica scorsa, Gallant ha detto alle reclute militari che Israele opererà come non ha mai fatto prima se dovesse essere attaccato in un modo senza precedenti dall’Iran e da Hezbollah.
“Abbiamo capacità significative. Spero che ne tengano conto e che non scatenino una guerra su altri fronti”, ha detto alle reclute nella base militare di Tel Hashomer.
Ha aggiunto che Israele sta combattendo per la sua esistenza in un “ambiente ostile”.
Ha sottolineato alle reclute che si stavano arruolando in un momento “impegnativo” e “significativo” della storia.
(Rights Reporter, 12 agosto 2024)
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L’italiana che guida il museo di Tel Aviv: “È un errore boicottare l’arte di Israele”
Parla Tania Coen-Uzzielli che guida l’istituzione: “Critichiamo Netanyahu, dialoghiamo con i palestinesi, salviamo le opere nei bunker. Ma questo non basta, l’antisemitismo è tornato”
di Daniele Castellani Perelli
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Tania Coen-Uzzielli, direttrice italiana del museo d'arte moderna di Tel Aviv
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TEL AVIV - La paura degli attacchi nemici. Il dolore delle famiglie degli ostaggi. Le proteste contro il governo Netanyahu e la delusione per il boicottaggio internazionale contro Israele «che cela il ritorno dell’antisemitismo». C’è un luogo di Tel Aviv che sintetizza tutto ciò che oggi scorre nelle vene del Paese, ed è il suo Museo d’arte moderna. Fondato nel 1932, 16 anni prima della nascita di Israele, dal 7 ottobre è anzitutto diventato un simbolo di attivismo perché qui davanti c’è la cosiddetta “Piazza degli ostaggi”, lì dove si incontra per manifestazioni ed eventi “Bring Them Home Now”, l’associazione dei familiari degli ostaggi di Hamas.
C’è la lunga tavolata con una sedia per ognuno di loro, pronta per il giorno in cui tornerà. C’è la riproduzione di un tunnel di Hamas. Ci sono i gazebo con il merchandising dell’associazione, che così finanzia la propria lotta perché tutta Israele, e anzitutto il suo governo, non dimentichi mai la necessità di arrivare a uno scambio di prigionieri.
Dal 7 ottobre, però, il museo è in prima linea anche sul tema degli attacchi nemici, dai missili di Hamas a quelli di Hezbollah fino alla tanto attesa e temuta rappresaglia iraniana in seguito all’uccisione a Teheran del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Da quel giorno, infatti, il bunker del museo è doppiamente protagonista: ospita i cittadini durante gli allarmi e protegge le storiche opere d’arte, che qui sono state trasferite.
La regista di tutte queste operazioni è una donna italiana. Si chiama Tania Coen-Uzzielli e dal 2019 è la direttrice del museo. Romana cresciuta alla Garbatella, dopo il liceo Socrate si è trasferita a Gerusalemme, dove si è laureata. Trascorso un periodo in California ha lavorato per vent’anni al Museo d’Israele di Gerusalemme prima appunto di trasferirsi a Tel Aviv. «Siamo l’esempio di come nell’ultimo decennio i musei di arte si siano trasformati radicalmente e siano diventati luoghi di dialogo e teatro di espressione politica, e in qualche modo seppur nel senso più deleterio ciò è dimostrato anche dalle proteste per il clima – ci racconta – Noi siamo una risorsa pubblica fisica e mentale, siamo aperti fisicamente nelle emergenze, siamo un rifugio durante gli allarmi, un riparo dal caldo e dalla pioggia, ma siamo anche luogo di conforto e sostegno per le famiglie degli ostaggi e per le loro battaglie. Abbiamo sentito il bisogno di reinventarci come istituzione culturale rilevante, ed essere così più attenti a ciò che succede nella comunità, sentendone il battito del cuore. Ma abbiamo anche preso posizione contro le politiche del governo Netanyahu, e in particolare durante la protesta contro la riforma giudiziaria che mette in pericolo le fondamenta stesse della democrazia in Israele. Abbiamo proiettato live, su un maxischermo, uno dei dibattiti più critici intorno al tentativo del governo di limitare i poteri della Corte Suprema dando accesso gratuito ai visitatori. Una chiara presa di posizione per esprimere la nostra preoccupazione».
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Un'opera d'arte del museo d'arte di Tel Aviv viene portata nel bunker sotterraneo
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«Siamo un’avanguardia storica del Paese – ricorda Tania Coen-Uzzielli – il primo sindaco della città Meir Dizengoff fondò il Museo (all’inizio proprio a casa sua) per affermare l’importanza delle istituzioni culturali in una società che si stava formando. E non dimentichiamo che proprio nelle stanze del museo, in una delle sue collocazioni precedenti, David Ben Gurion proclamò la Dichiarazione d’indipendenza di Israele. Siamo un Paese nato in un museo d’arte e a volte purtroppo ce ne dimentichiamo».
Nonostante tutto ciò, il Museo d’arte di Tel Aviv vive una fase drammatica nei suoi rapporti internazionali: «Siamo un museo da un milione di visitatori e da venti mostre l’anno, tra i primi cento al mondo, e siamo da sempre attivi nella scena artistica internazionale. Ma ad oggi tutte le nostre collaborazioni con istituzioni internazionali sono state cancellate, per ragioni politiche. Artisti e istituzioni ci voltano le spalle a causa delle politiche del nostro governo. A marzo 2025 avevamo previsto una mostra di Marina Abramovic in collaborazione con la Royal Academy di Londra, ma è saltata». Stessa cosa per un progetto con il Centre Pompidou, racconta Coen-Uzzielli con amarezza: «Un paradosso. Nella città più aperta e cosmopolita, dedita alla libertà e all’uguaglianza, con il nostro attivismo abbiamo tenuto alto il nome di Israele, abbiamo dato voce ai tormenti della nostra comunità, abbiamo mandato il messaggio che siamo ancora una democrazia dove è possibile il dissenso, abbiamo dimostrato che l’arte è il luogo della complessità, senza considerare il dialogo con la comunità e gli artisti palestinesi e le iniziative per attirare un pubblico arabo a partire dai licei. Eppure veniamo penalizzati e visti all’estero come espressione del nostro governo».
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La tavola apparecchiata davanti al museo di Tel Aviv con i posti riservati agli ostaggi nelle mani di Hamas, per quando torneranno
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Ci vede anche dell’antisemitismo o è solo ostilità verso le politiche di Netanyahu? «Guardi, io ero l’ultima dei mohicani su questo, ma comincio a ricredermi, perché io sono la prima a criticare Netanyahu e l’uccisione di troppe vittime innocenti a Gaza, ma è imperativo anche condannare il terrorismo e l’attacco atroce di Hamas il 7 ottobre. Si applicano due pesi e due misure, e la sensazione è che ci sia un chiaro rigurgito di antisemitismo».
Oggi il Museo d’arte, come tutta Tel Aviv, scruta il cielo e aspetta i missili iraniani in rappresaglia a un’azione del governo. La direttrice si prepara: «Le opere del piano terra, più sicuro, le abbiamo lasciate lì per il pubblico che ancora e nonostante tutto arriva, mentre quelle del piano superiore, più a rischio, le abbiamo trasferite nel bunker. Ci sono tele di Picasso, Matisse, Rothko, Pollock, Munch, Chagall. È il nostro tesoro. Lo abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni passate, e il nostro compito è di custodirlo per quelle future».
(la Repubblica, 12 agosto 2024)
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Israele va avanti con gli attacchi mirati: ucciso altro capo di Hamas
Sinwar apre alla tregua
di Amedeo Ardenza
Domenica il rabbinato delle Israel Defense Forces (Idf) ha dato disposizione ai militari operativi al fronte di non digiunare per Tisha Be Av. Il digiuno del 9 del mese ebraico di Av inizia questa sera e termina martedì sera. Al pari del più conosciuto digiuno del Kippur prevede l’astensione dal bere e dal mangiare per 25 ore consecutive, ma «digiunare durante un turno operativo è proibito: sarebbe un rischio per la vita», hanno spiegato i rabbini.
Le Idf vogliono al contrario che i propri effettivi al fronte siano in forze e all’erta tanto più il 9 di Av, il giorno più luttuoso del calendario ebraico in cui viene ricordata la distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme da parte del sovrano babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C e poi del Secondo Tempio da parte di Tito nel 70 d.C.
Una data ghiotta, al contrario, per il regime iraniano che da oltre una settimana ha promesso fuoco e fiamme contro Israele salvo però “dimenticarsi” di attaccare. «L’attacco arriverà quando arriverà» è la linea dietro alla quale si trincera oggi la Repubblica islamica.
L’Iran è diviso fra la voglia di dare una lezione all’entità sionista che ha ardito uccidere il capo di Hamas Ismail Haniyeh mentre visitava Teheran e il timore di subire una forte reazione che mini l’economia del Paese. Il regime degli ayatollah è grandemente impopolare fra gli iraniani e non è questo il momento di rischiare uno scossone.
Gerusalemme, da parte sua, continua a lavorare su due assi. Il primo, preparando la difesa in caso di un massiccio attacco dell’Iran (o di uno dei suoi alleati. E intanto gli Usa comunicano che il sottomarino USS Georgia, capacità di 154 missili da crociera Tomahawk, ha appena partecipato nel Mediterraneo ad esercitazioni congiunte, anche con la Marina italiana): Israele organizza il fronte esterno con gli Usa e i paesi arabi moderati mentre prepara la popolazione su quello interno. Il secondo, continuando a martellare Hamas nella Striscia Gaza. Ieri il portavoce in lingua araba delle Idf, Avichay Adraee, ha ordinato ai civili in diverse zone dell’area di Khan Younis di evacuare nella zona umanitaria designata da Israele nelle prime ore di domenica mattina, dopo che sabato erano stati lanciati quattro razzi sulla comunità di confine israeliana di Kissufim. In seguito le Idf hanno attaccato sia il sito di lancio di Khan Younis sia un edificio utilizzato dall’unità missilistica di Hamas. Il giorno prima un membro anziano delle forze di sicurezza di Hamas, Walid Alsousi, era stato ucciso in un attacco aereo nella Striscia di Gaza. Il governo di Benjamin Netanyahu esercitando una pressione costante sul gruppo del terrore allo scopo di metterlo spalle al muro.
Di fatto ieri i mediatori egiziani e del Qatar avrebbero riferito ai funzionari israeliani che il nuovo leader di Hamas Yahya Sinwar, la mente dietro al pogrom del 7 ottobre del 2023 in cui quasi 1.200 israeliani sono stati uccisi da Hamas, sarebbe disponibile a un accordo per il cessate il fuoco a Gaza.
L’intesa passerebbe dalla liberazione degli ostaggi ancora in vita - sono 115 quelli ancora trattenuti a Gaza. Dalla Germania ieri anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto a Netanyahu durante un colloquio telefonico di trovare un’intesa con Hamas.
Nuovi problemi per il governo israeliano arrivano intanto dalla Cisgiordania. Domenica un civile israeliano di 20 anni è stato ucciso mentre un 33enne è stato ferito. I due uomini viaggiavano in due diverse auto lungo la Strada 90, l’asse nord-sud che attraversa la regione. Contro le loro auto ignoti hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco. Le forze di sicurezza hanno dato il via a una caccia all’uomo nell’area.
Sempre ieri il presidente israeliano Isaac Herzog ha telefonato a un padre arabo-israeliano la cui figlia assieme ad altri tre donne e una bambina è stata aggredita da alcuni coloni in Cisgiordania quando la loro auto è entrata per errore nell’insediamento illegale di Givat Ronen. La bambina è stata minacciata con un’arma da fuoco. Herzog si detto «inorridito» nell’apprendere dell’attacco. «Siamo tutti fratelli e sorelle, cittadini dello Stato di Israele e tutti meritiamo un trattamento uguale e adeguato, senza paura e senza violenza», ha affermato il capo dello stato.
Libero, 12 agosto 2024)
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In Ucraina si è dissolta un’intera generazione
A oggi i soldati morti sarebbero 150.000, poco meno i feriti. Il presidente ha sempre mostrato una certa opacità nel diffondere i dati sui caduti, irritando Washington. Se a questi si sommano i giovani fuggiti, il Paese rischia di perdere le classi nate intorno al 2000.
di Simone Di Meo
La prima vittima di una guerra è la verità. Tutto è avvolto dalla nebbia lattiginosa dei segreti militari e dalle detonazioni della propaganda. Il marketing bellico uccide più del tritolo.
E così succede che oggi, anno del Signore 2024, sappiamo con precisione quanti furono i morti (40.000) della battaglia di Canne del 2 agosto 216 a.e., tra gli eserciti di Roma e di Cartagine, ma non quelli dell'esercito di Kiev, impegnato da oltre due anni e mezzo in uno scontro sanguinosissimo con la Russia. Nell'era della comunicazione globale e dei social che accendono e spengono le rivoluzioni bisogna affidarsi a stime tagliate con l'accetta per tentare di capire. Gli stessi Stati Uniti pare si siano lamentati con l'alleato per la scarsità di informazioni sull'andamento del conflitto. Volodymyr Zelensky non vuole offrire nessuna informazione al nemico. Del quale, però, gli analisti occidentali son riusciti a ricostruire tutto o quasi, nonostante gli eredi del Kgb non brillino certo per trasparenza. Perché sui numeri di Kiev c'è questo imbarazzo a indagare?
Quel poco che sappiamo è frutto di ricerche e analisi di enti indipendenti e solo a fatica riesce ad arrivare sui media occidentali. Qualche mese fa, il presidente ucraino ha annunciato che sono stati trucidati 31.000 connazionali durante i combattimenti. Da Washington han fatto filtrare un'altra stima, invece: i soldati ucraini ammazzati sarebbero almeno 70.000. Secondo alcuni studi geopolitici americani la cifra sarebbe, invece, più del doppio: 150.000. I feriti ucraini sarebbero circa 120.000.
Il dato rilevante, però, è in filigrana: se pure le vittime di Kiev fossero solo quelle rìferite da Zelensky, ci troveremmo di fronte a una catastrofe assoluta in termini militari considerato che, in appena 30 mesi, l'Ucraina avrebbe totalizzato all'incirca la metà delle vittime patite dagli Usa nei vent'anni di guerra in Vietnam (58.000) e in Afghanistan (69.000). Di questo, tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi sul fronte orientale. Tranne i diretti interessati, chiaramente. Che, non a caso, si stanno organizzando per evitare la naja a tutti i costi. Chi può scappa (ma su questo torneremo più avanti), tanti altri si nascondono: in cantina, sulle montagne, semplicemente chiudendosi in casa.
Da quattro mesi sono aumentati i reclutamenti forzati. Il Parlamento ha approvato una legge che restringe le maglie delle esenzioni mediche e di altro tipo mentre un'altra norma, assai contestata in patria, ha abbassato l'età della leva da 27 a 25 anni. Qualche deputato aveva addirittura proposto di farla precipitare a 22 anni ma e stato prontamente sconfessato da Zelensky che non può permettersi una rivolta civile.
Si calcola che i maschi ucraini della fascia di età 25- 26 anni potranno arrivare a rinforzare le truppe con 470.000 nuove unità per portare il potenziale complessivo dell'esercito a circa 1 milione di soldati (rispetto al 1.400.000 dei russi che ingaggiano alla velocità stellare di 30.000 militari al mese). Eppure, ancora troppo poco per i rapporti di forza in campo: in alcune aree, Mosca soverchia i rivali di 7 uomini a 1. Una proporzione che non deve stupire considerando che la fascia d'età 15-64 anni in Russia (l'unica rilevabile dall'ultimo censimento disponibile) è il triplo di quella rivale.
Dunque, non sappiamo quanti ucraini hanno perso la vita ma di sicuro sono troppi. Altrimenti Bohdan Krotevych, il capo di Stato maggiore della brigata Azov, non avrebbe accusato il generale Yu.rii Sodol, comandante supremo delle Forze armate, di «uccidere più soldati ucraini di qualsiasi generale russo», mandati al massacro contro i cannoni ex sovietici, favorendone così la destituzione ad opera di uno Zelensky inferocito per la cattiva pubblicità arrecatagli.
L'unica certezza è che una intera generazione (quella nata a ridosso del nuovo millennio) rischia di scomparire in Ucraina e, con essa, le speranze di ripopolare un Paese che ha già sofferto, dopo la disgregazione dell'Unione sovietica, un esodo almeno pari a quello registrato in questi mesi di combattimenti. Dal 2022 sono scappati circa 6 milioni di persone (per lo più bambini, donne e anziani: la coscrizione obbligatoria arriva fino a sessant'anni, infatti) per rifugiarsi in Europa. Altri 3,7 milioni si sono spostati verso le zone occidentali della nazione per raggiungere più velocemente la Polonia nel caso di un'escalation che coinvolgesse pure la Bielorussia di Alexander Lukashenko. Le difficoltà di reclutamento di Kiev emergono, inoltre, dalla scelta, assai sofferta, di concedere la libertà condizionale a circa 20.000 detenuti in cambio del loro impiego sul campo di battaglia.
E poi ci sono gli arruolamenti coatti: nelle strade, nei cinema, nelle palestre, alle uscite di metropolitane e stazioni ferroviarie si aggirano gli ufficiali dell'esercito che consegnano gli avvisi di leva a quanti, fino a quel momento, sono riusciti con qualche stratagemma a evitare di vestire la mimetica. Nessuno ha voglia di andare a morire con un fucile in mano in Ucraina. Su Telegram sono stati aperti canali specifici per monitorare gli spostamenti delle pattuglie dei militari come Uzhhorod Radar o Kyiv Weather. Quest'ultimo (200.000 iscritti) usa i colori dei semafori per passare notizie riservate contrabbandate da informazioni meteo: rosso se c'è pioggia (i rastrellamenti sono attivi), giallo se è nuvoloso (bisogna fare attenzione a muoversi) oppure verde se il cielo è sereno (via libera). Chi non riesce a vincere la paura semplicemente non esce più di casa. O si muove soltanto alle prime luci dell'alba.
Tanti renitenti si allontanano provando ad attraversare a nuoto il Tysa, il corso d'acqua che separa l'Ucraina dalla Romania. Secondo le autorità, sarebbero almeno 6.000 gli uomini in fuga (ma la stima più verosimile è che siano almeno tre volte tanto) lungo quella dorsale. Diverse centinaia di corpi sono state ritrovate sulle rive di quello che è stato ribattezzato il «fiume della morte» e da qualche mese sono comparsi corpi di guardia per evitare defezioni di massa. Altri renitenti acquistano per cifre che vanno dai 2.000 ai 10.000 dollari a testa dei visti fasulli (fabbricati dai russi, peraltro) che gli consentano di oltrepassare il confine. A occuparsi del business sono 56 bande di ex contrabbandieri di sigarette.
E Mosca? I russi morti in guerra oscillano in una forbice tra le 350.000 e le 500.000 vittime (secondo il segretario alla Difesa Usa, Lloyd J. Austin III) fino a un picco di 728.000 (stima del giornale Economist). Secondo il settimanale inglese, circa il 2% della popolazione russa maschile, tra i 20 e i 50 anni, potrebbe essere finita sotto terra o rimasta gravemente ferita.
Nessuno, però, conferma né smentisce dal Cremlino. Pure la matematica in guerra è un'arma non convenzionale.
(La Verità, 11 agosto 2024)
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Il Generale Naaman
II RE, cap. 5
- Naaman, capo dell'esercito del re di Siria, era un uomo tenuto in grande stima e onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui l'Eterno aveva reso vittoriosa la Siria; ma quest'uomo forte e valoroso era lebbroso.
- Alcune bande di Siri, in una delle loro incursioni, avevano portato prigioniera dal paese d'Israele una piccola fanciulla, che era passata al servizio della moglie di Naaman.
- Lei disse alla sua padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria! Lui lo libererebbe dalla sua lebbra!”.
- Naaman andò dal suo signore, e gli riferì la cosa, dicendo: “Quella fanciulla del paese d'Israele ha detto così e così”.
- Il re di Siria gli disse: “Ebbene, va'; io manderò una lettera al re d'Israele”. Egli dunque partì, prese con sé dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro e dieci cambi di vestiti.
- E portò al re d'Israele la lettera, che diceva: “Quando questa lettera ti sarà giunta, saprai che ti mando Naaman mio servo, perché tu lo guarisca dalla sua lebbra”.
- Quando il re d'Israele lesse la lettera, si stracciò le vesti, e disse: “Sono io forse Dio, con il potere di fare morire e vivere, che costui manda da me un uomo perché io lo guarisca dalla sua lebbra? È cosa certa ed evidente che egli cerca pretesti contro di me”.
- Quando Eliseo, l'uomo di Dio, ebbe udito che il re si era stracciato le vesti, gli mandò a dire: “Perché ti sei stracciato le vesti? Costui venga pure da me e vedrà che c'è un profeta in Israele”.
- Naaman dunque arrivò con i suoi cavalli e i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo.
- Eliseo gli inviò un messaggero a dirgli: “Va', làvati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana, e tu sarai puro”.
- Ma Naaman si adirò e se ne andò, dicendo: “Ecco, io pensavo: Egli uscirà senza dubbio incontro a me, si fermerà là, invocherà il nome dell'Eterno, del suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata, e guarirà il lebbroso.
- I fiumi di Damasco, l'Abana e il Parpar, non sono forse migliori di tutte le acque d'Israele? Non posso lavarmi in quelli ed essere purificato?”. E, voltandosi, se ne andava infuriato.
- Ma i suoi servi gli si avvicinarono per parlargli, e gli dissero: “Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che ti ha detto: 'Làvati, e sarai purificato'?”.
- Allora egli scese e si tuffò sette volte nel Giordano, secondo la parola dell'uomo di Dio; e la sua carne tornò come la carne di un bambino piccolo, e rimase puro.
- Poi tornò con tutto il suo seguito dall'uomo di Dio, andò a presentarsi davanti a lui, e disse: “Ecco, io adesso riconosco che non c'è alcun Dio in tutta la terra, tranne che in Israele. E ora, ti prego, accetta un regalo dal tuo servo”.
- Ma Eliseo rispose: “Com'è vero che vive l'Eterno di cui sono servo, io non accetterò nulla”. Naaman insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
- Allora Naaman disse: “Poiché non vuoi, permetti almeno che sia data al tuo servo tanta terra quanta ne portano due muli; perché il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma soltanto all'Eterno.
- Tuttavia, voglia l'Eterno perdonare questa cosa al tuo servo: quando il mio signore entra nella casa di Rimmon per adorare, e si appoggia al mio braccio, anch'io mi prostro nel tempio di Rimmon, voglia l'Eterno perdonare me, tuo servo, quando io mi prostrerò così nel tempio di Rimmon!”.
- Eliseo gli disse: “Va' in pace!”
(Notizie su Israele, 11 agosto 2024)
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«Ha ucciso mio figlio. Ho fatto nascere il nipote di Haniyeh»
TEL AVIV - Galit ha perso il figlio nel massacro del 7 ottobre. Il suo lavoro da ostetrica all'ospedale Soroka di Beer Sheva l'aiuta a non pensare mentre fa venire al mondo nuove vite. Ma il destino perverso, pochi mesi dopo l'assassinio di Itay, l'ha messa davanti a una prova feroce: tra le partorienti che stava assistendo c'era una giovane beduina, con il cognome del boia, Haniyeh. Il capo politico di Hamas, dei terroristi che quel sabato nero hanno fatto fuoco contro il suo ragazzo valoroso.
"Un giorno di marzo, su un letto del reparto tra le donne pronte a entrare in sala parto c'era lei, una donna con il nome di Ismail Haniyeh, era la nipote, l'ho riconosciuta", ha raccontato Galit parlando per la prima volta alla tv pubblica israeliana Kan. Tentando di descrivere la tempesta di sentimenti che in un attimo si sono abbattuti sul suo animo in lutto: rifiuto, conflitto interiore, incapacità di reagire, il respiro che manca, la razionalità che vuole cedere alle emozioni, la ragione che preme, l'imperativo di fuggire. "La mia prima reazione è stata quella di scappare fuori, riprendere fiato. Mi sono chiesta come avrei potuto aiutare la nipote di chi ha ucciso mio figlio. È stato uno schiaffo del destino e della realtà con cui devo fare i conti ogni giorno", ha ricordato Galit. Un momento agghiacciante da affrontare, come se non fosse bastato quello che già aveva vissuto a ottobre. "Dentro di me, dopo i primi momenti di shock, ho sentito il bisogno di dimostrare a me stessa che potevo continuare a fare il mio lavoro, continuare nella mia missione. Proprio al Soroka di Beer Sheva, un ospedale che è un modello di convivenza tra arabi e israeliani". Nonostante il dolore, Galit ha deciso di assistere la donna a partorire: "Suo zio ha ucciso mio figlio, non ero costretta a far nascere il suo bambino, poteva aiutarla un'altra ostetrica al posto mio. Ma ho deciso di andare avanti, di procedere con professionalità e distacco, l'ho assistita a dare alla luce suo figlio", ha detto, certa di aver fatto la cosa giusta, "ora spero tanto che questa donna ricordi il trattamento che ha ricevuto e lo trasmetta ai suoi figli".
Galit poi ha voluto ricordare quella mattina del 7 ottobre.
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Soroka Medical Center - Beersheva
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Era di turno in ospedale quando la prima sirena ha incominciato a suonare. "Stavo accudendo un neonato palestinese. Nel reparto erano ricoverate solo due pazienti, entrambe palestinesi, una di Betlemme e l'altra di Nablus", ha detto richiamando alla mente i ricordi, "avevamo instaurato un bel rapporto. Dentro di me pensavo, speravo, che insieme tra donne avremmo potuto salvare il mondo". Alle sette del mattino è arrivata la telefonata dal marito che la esortava a non uscire da Beer Sheva, "fuori c'era il caos. Sparano ovunque per strada". In quel momento il figlio più giovane, Itay, si era unito alla squadra di emergenza del Moshav Niftachim, nella zona di Eshkol, nel nord ovest del Negev, per aiutare i residenti del villaggio vicino assediato dai terroristi. Poco dopo le sette un'altra telefonata del marito Oded: "'Itay è stato ucciso'. Ho fatto una corsa in macchina per vederlo per l'ultima volta", ha proseguito Galit.
"Ancora oggi, ogni mattina e sera vedo quell'immagine, non potrò mai dimenticare". Oded è rimasto per cinque ore abbracciato al suo corpo per paura che i terroristi lo rapissero da morto. Dopo un'attesa infinita i soccorritori sono arrivati, hanno salvato il cadavere di Itay dai tunnel di Gaza.
Dopo alcuni mesi, Galit è tornata al lavoro. Per settimane aveva rifiutato l'idea di "portare il lutto nella sala parto, dove invece ci deve essere gioia e vita". Oggi non si sente più ottimista come prima del 7 ottobre, e riconosce che ci vorrà tempo per affrontare le ferite. Soprattutto dovrà finire la guerra. L'ospedale Soroka, dove vanno a partorire le donne palestinesi sarà il posto giusto per ricominciare a credere in un futuro migliore.
(ANSAmed, 9 agosto 2024)
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L’allestimento in corso
Dopo l’uccisione di Fuad Shukur a Beirut e Ismail Hanyieh a Teheran, Israele sembrava avere acquisito un vantaggio considerevole.
Dopo mesi di incertezza e confusione sulle sorti della guerra a Gaza, e a seguito del discorso al Congresso di Netanyahu tenuto il 24 luglio e sostanzialmente centrato sul pericolo dell’Iran, nemico comune di Israele e degli Stati Uniti, la situazione appariva entrata in una nuova fase, quella caratterizzata da una maggiore determinazione israeliana ad affrontare spavaldamente i propri nemici, giungendo a dare, particolarmente all’Iran, un segnale molto chiaro sul grado della propria capacità di colpire all’interno del paese obiettivi di alto profilo, esibendo al mondo le falle del suo sistema di sicurezza e il suo livello di penetrazione.
I due colpi assestati da Israele hanno generato l’immediata reazione minacciosa di Hezbollah e di Teheran, in sintesi dell’Iran, con minacce congiunte di attacchi su Israele e la prevedibile risposta che nell’eventualità di questi attacchi Israele avrebbe risposto con forza.
Questo scenario sembra, (nuovamente è necessario ricorrere al condizionale), appartenere già al passato, perché subito, la Casa Bianca è intervenuta per scongiurare l’eventualità di una escalation, consigliando all’Iran di soprassedere nel proprio interesse e in quello americano, ovvero a scapito di quello di Israele. Si è quindi provveduto a dare una accelerata ai moribondi accordi con Hamas che l’Amministrazione Biden vuole concludere da maggio imponendoli a Israele; accordi che prevedono che gli ostaggi rimanenti vengano liberati e che Hamas resti nella Striscia, perché è punto fermo di questa Amministrazione che Hamas non possa essere sconfitto. Per poterlo fare, Israele dovrebbe restare altri lunghi mesi a Gaza, probabilmente, volendola bonificare, anni e questa è una eventualità che né a Washington né a Teheran considerano accettabile.
Ecco dunque riapparire la figura del pluriomicida Marwan Barghouti, star del terrorismo palestinese, che Hamas chiede venga liberato, un Sinwar all’ennesima potenza, anche lui liberato dopo ventidue anni di carcere nel 2011, per riavere indietro il soldato Gilad Shalit.
L’ex leader di Fatah sarebbe la figura scelta dall’Amministrazione Biden come plenipotenziario dell’Autorità Palestinese all’interno della Striscia. Non è certo un mistero che essa voglia che Gaza sia amministrata da quest’ultima, magari in concorso con Hamas e nonostante l’esplicita indisponibilità di Netanyahu.
Questo è l’allestimento in corso.
(L'informale, 10 agosto 2024)
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L'approccio timido dell'Italia nei confronti di Hamas e dei Fratelli Musulmani alimenta la violenza antisemita
L'aumento dell'antisemitismo in Italia è stato più evidente dopo il 7 ottobre, con una pletora di predicatori pro-Hamas che hanno fatto sentire la loro voce e solo una parte è stata punita per la loro odiosa narrazione.
di Giovanni Giacalone
Stiamo assistendo a una normalizzazione della narrativa d'odio contro gli ebrei in tutta Italia, spesso mascherata da "antisemitismo". I predicatori d'odio pro-Hamas attaccano frequentemente gli ebrei e Israele sui social media italiani e nei comizi pubblici. Non è una novità. Tuttavia, nel maggio 2021, durante un discorso di strada nella piazza principale di Bologna, chiamata Piazza Maggiore, il predicatore pakistano Zulfiqar Khan ha affermato che:"... gli ebrei sono crudeli e usano l'intelligenza per danneggiare gli altri".
• Impennata di incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre Poi, più recentemente, nel novembre 2023, durante la trasmissione televisiva mainstream italiana "Dritto e Rovescio", Khan, lo stesso predicatore pakistano Khan, ha dichiarato: "Gli israeliti sono i terroristi e gli ingannatori secondo la Bibbia", ha postato sulla pagina Facebook del Centro islamico due video simili a fatwa in cui ha attaccato verbalmente l'italo-egiziano Allam, accusandolo di aver diffamato l'Islam, di apostasia e di aver parlato a una conferenza pro-Israele.
• Ministri italiani reticenti a condannare Vale la pena notare che il 9 luglio 2024, in occasione di una risposta a un'interrogazione parlamentare sull'attività di Khan, il ministro dell'Interno italiano, Matteo Piantedosi, ha definito le posizioni del predicatore "intransigenti". Ma il Ministro Piantedosi deve capire che le posizioni di Khan non sono "intransigenti", bensì odiose ed estremamente pericolose.
• Mancanza di azione sui finanziamenti al terrorismo Il 10 ottobre, a soli tre giorni dall'inizio della guerra, un attivista palestinese, Mohammed Hannoun, ha dichiarato che l'attacco a Israele perpetrato da Hamas era "autodifesa". Il 19 luglio, durante un sermone tenuto come imam di una moschea di Genova, in Italia, ha accusato Israele di distruggere ospedali, scuole e moschee a Gaza. Nel luglio 2023, il Ministero della Difesa israeliano ha chiesto alla polizia italiana di sequestrare il denaro di Hannoun. Nonostante il congelamento dei conti, nel giugno 2024 Hannoun ha aperto una nuova associazione benefica denominata "Cupola d'oro" e ha ricominciato a raccogliere fondi.
• Sostegno politico italiano di noti attivisti Hannoun ha ricevuto anche il sostegno di figure politiche italiane di sinistra come Laura Boldrini, Nicola Fratoianni, Michele Piras, Alessandro Di Battista e Stefania Ascari, come indicato in diverse occasioni dalla stampa italiana, ma tutta questa situazione non sembra essere esclusivamente politica. Hannoun ha un sostegno alternativo in Italia sotto forma di attivisti religiosi. Il 27 gennaio 2024, Giorno della Memoria, una manifestazione non autorizzata a favore dei palestinesi, guidata da Hannoun e da altri noti attivisti palestinesi, si è tenuta in via Padova a Milano, una strada piena di musulmani.
• Numerose organizzazioni terroristiche sono attive in Italia Presi singolarmente, questi casi potrebbero non sembrare troppo significativi, ma una volta collegati, sorgono molte domande. L'impressione è che le cose vengano trattate in modo diverso rispetto ai casi riguardanti l'ISIS o Al-Qaeda perché è in gioco la causa palestinese. È importante ricordare che l'Italia è stata anche molto aperta e tollerante nei confronti dei Fratelli Musulmani (MB), presenti e attivi sul territorio italiano.
• Mancano interventi Purtroppo, finora, a differenza di quanto accaduto negli anni con l'ISIS, si sono visti pochissimi interventi contro i sostenitori di Hamas. L'unico caso noto è l'espulsione del cittadino algerino Amor Branes, 56 anni, avvenuta nell'aprile del 2024, per aver condiviso sui social media contenuti pro-Hamas e jihadisti. Va inoltre notato che il membro delle Brigate al-Aqsa (leader della "Rapid Response-Tulkarem Unit"), Yaesh Anan, e due complici, sono stati arrestati in Italia centrale nel gennaio 2024 solo dopo una richiesta di estradizione inoltrata da Israele. Sarebbe quindi opportuno assistere a un maggior numero di arresti ed espulsioni di sostenitori di Hamas, perché la sua ideologia e attività operativa non è meno pericolosa di quella portata avanti dall'ISIS o da al-Qaeda.
• La narrativa antiebraica si è diffusa in Europa Il problema della diffusione della narrativa e dell'attività antiebraica e antiisraeliana da parte di predicatori e attivisti islamisti coinvolge l'intero continente europeo, e non solo l'Italia. Le autorità europee hanno stretto la rete sui gruppi estremisti islamici, con raid di alto profilo, deportazioni, restrizioni finanziarie e un giro di vite sulle loro attività online. Francia e Germania sembrano essere i due Paesi che finora hanno adottato una posizione più dura nei confronti di questo tipo di attività.
• In Francia Ad esempio, nel febbraio 2024, Mahjoub Mahjoubi, un imam della piccola città francese di Bagnols-sur-Ceze, è stato deportato in Tunisia, meno di 12 ore dopo il suo arresto. Nei suoi sermoni, il predicatore incoraggiava la discriminazione delle donne, la radicalizzazione e si riferiva agli ebrei come "il nemico".
• In Germania Le autorità hanno adottato misure severe contro i sostenitori di Hamas e Hezbollah, limitando i cortei pro-palestinesi, mentre alle scuole è stata concessa la facoltà di vietare le bandiere palestinesi e le sciarpe kefiah. In tutto il Paese, l'uso dello slogan filopalestinese "Dal fiume al mare" è un reato penale. Inoltre, recentemente sono state arrestate anche cellule di Hezbollah, mentre il centro islamico sciita di Amburgo è stato chiuso.
(ynet, 10 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La ginnasta israeliana Daria Atamanov accede alla finale delle Olimpiadi di Parigi
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Daria Atamanov si esibisce durante la finale del cerchio della Coppa del Mondo di Sofia 2024
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La ginnasta israeliana si è assicurata un posto in finale piazzandosi settima nella classifica generale con un punteggio complessivo di 130.450 punti. Si è distinta soprattutto con la sua routine su nastro, eseguita sulla canzone Shir Lamaalot di Gad Elbaz.
Nel corso della sua carriera, Atamanov ha vinto medaglie oro e argento ai Mondiali di ginnastica 2022, e dopo un infortunio che l'ha tenuta fuori dalle competizioni per dieci mesi, nel 2023 ha vinto nuovamente la medaglia di bronzo nella competizione generale.
Dopo la competizione generale, Atamanov ha espresso in dialogo con i media locali che era “davvero commossa, le mie emozioni sono state ovunque tutto il giorno” e ha aggiunto che “ha cercato di dare il massimo in ogni routine. Ora sono concentrata sul domani e spero di fare molto meglio di oggi”.
Finora, Israele ha raggiunto il record assoluto ai Giochi Olimpici di Parigi 2024, con sei medaglie vinte.
(Aurora, 10 agosto 2024)
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«Il disgelo verso Assad lo tiene lontano dalla guerra»
Intervista all'analista Lorenzo Trombetta: «Vari paesi arabi ed europei stanno rivedendo le loro posizioni sulla Siria. È un aspetto positivo per Damasco che così si rafforza anche se il paese continua essere diviso».
di Michele Giorgio
Nello scontro che può sfociare in una guerra aperta tra Israele, sostenuto da Usa e Occidente, e l’Asse della resistenza guidato dall’Iran, si è notata l’assenza in un ruolo da protagonista della Siria stretta alleata di Teheran e del movimento sciita libanese Hezbollah. Damasco ha condannato l’offensiva israeliana contro Gaza e i massacri di palestinesi e nei giorni scorsi anche le uccisioni del leader di Hamas Ismail Haniyeh e del capo militare di Hezbollah, Fuad Shukr. Ma l’atteggiamento del presidente siriano Bashar Assad è prudente, volto a restare nelle retrovie e non sulla linea del fronte. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Trombetta, analista e specialista di Siria e Libano ed autore di libri e studi sul Medio Oriente.
- Come spiega la linea di basso profilo che Damasco ha adottato in una fase così critica dello scontro con Israele?
Per dare una spiegazione dobbiamo tenere presente che ci sono due piani, uno dietro le quinte o comunque sottotraccia, e un altro più in superficie. Quello sottotraccia mi sembra più rilevante: Bashar Assad è impegnato ad accreditarsi non soltanto con i paesi arabi, ma anche con alcuni paesi europei, in particolare il club di Cipro di cui l’Italia è parte. Proprio l’Italia è stata di recente il primo paese del G8 ad aver nominato per la prima volta dal 2011 un ambasciatore a Damasco. Anche se è un incaricato d’affari perché non può presentare le credenziali ad Assad, il mandato è stato elevato rispetto al passato, a partire dal fatto che è residente a Damasco e non a Beirut. Questo denota la tendenza di certi paesi europei a rivedere le relazioni con il governo siriano. Assad cerca di raccogliere i frutti dell’avere atteso tanti anni che i cadaveri dei suoi nemici passassero sul fiume. Questa politica di attesa e di mantenimento di una posizione gli ha consentito, e anche alla Russia (sua alleata, ndr), di osservare dinamiche che si posizionavano nell’idea dello status quo. Certo, non nella situazione precedente al 2011 (quando sono cominciate proteste popolari contro Damasco, ndr) ma comunque all’interno di equilibri che non sono stati scalfiti in maniera determinante. Assad sta riuscendo a rimanere ai vertici del potere anche cercando le sponde esterne, prima con alcuni paesi arabi come l’Arabia saudita o gli Emirati, poi con paesi europei.
Francia, Gran Bretagna e Stati uniti, insieme alla Germania, che pesano nel G8, ancora si oppongono formalmente a ogni tipo di normalizzazione dei rapporti con Damasco. Gli altri grosso modo stanno rivedendo le loro posizioni nei confronti di Damasco. Questo è un aspetto positivo dal punto di vista di Assad, che rafforza la sua posizione, al di là del fatto che la Siria continui a essere divisa, che ci siano zone fuori dal controllo governativo e che le stesse aree sotto controllo sono un mosaico dove imperversano signori della guerra di varia natura. Comunque, Assad sta là. E come lo era per suo padre Hafez, il tempo è dalla sua parte. Più tempo passa e più il pareggio diventa una vittoria.
- Quanto tutto questo si ricollega alla superficie, alla linea cauta scelta dalla Siria nella crisi regionale?
Ciò che avviene sottotraccia spiega l’assenza o quasi della retorica bellicistica che ci si aspettava a sostegno di Hezbollah o dell’Iran. Assad ha bisogno di conservare le proprie risorse ed energie e di non inimicarsi nessuno perché, in questo contesto, alcuni dei suoi interlocutori sono proprio quelli che sostengono Israele o sono contro Hamas e Hezbollah. L’Italia, ad esempio, è esplicitamente filoisraeliana. L’Arabia saudita e gli Emirati sono degli attori che fanno il gioco degli Stati Uniti e in definitiva di Israele. Pertanto Damasco, in questo momento, ritiene che sia meglio non puntare troppo i piedi sulla resistenza se vuole portare a casa i risultati di cui parlavamo prima. Assad preferisce non esporsi con dichiarazioni che non servirebbero a molto. Hezbollah comunque dispone di una certa libertà di movimento nel territorio siriano, a ridosso del Golan. Senza dimenticare che la Russia, che pure sostiene Assad, mantiene un collegamento tattico, militare con Israele e potrebbe aver detto a Damasco di mantenere una linea più accorta.
- Se la stabilità è la parola d’ordine, quanto pesa e quanto è rischiosa per Damasco la mancanza di controllo su tutto il territorio siriano?
Alcune delle aree non controllate dal governo costituiscono un problema perché, prima di tutto, non consentono l’estrazione delle risorse energetiche che garantiscono l’accumulo di capitale a favore del potere centrale. Ma questa assenza di controllo non mette a rischio la stabilità, anche perché attraverso intermediari e poteri locali, le zone sganciate comunque mantengono interazioni economiche, finanziarie e commerciali con Damasco. È una situazione che si è sedimentata. Quanto durerà? Anni, forse dieci, venti o trenta anni, nessuno può dirlo e dire come evolverà.
(il manifesto, 10 agosto 2024)
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Israele si prepara ai possibili attacchi di Hezbollah e del regime iraniano
di Luca Spizzichino
Le minacce di ritorsione da parte del regime iraniano e di Hezbollah continuano a intensificarsi in seguito all’uccisione di Ismail Haniyeh e Fuad Shukr. In particolare, Hezbollah ha dichiarato l’intenzione di attaccare Israele, anche nel caso in cui l’Iran decidesse di accogliere le richieste degli Stati Uniti. Secondo il Wall Street Journal, Washington avrebbe inviato un messaggio diretto al presidente iraniano Masoud Pezeshkian, entrato in carica il 28 luglio, avvertendolo che il suo governo e l’economia iraniana potrebbero subire conseguenze devastanti se Teheran optasse per un attacco su vasta scala contro Israele.
Le opzioni sul tavolo per colpire il regime degli ayatollah spaziano da azioni mirate contro le forze proxy nella regione, fino a bombardamenti diretti contro gli impianti nucleari di Teheran. Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana, ha dichiarato in un’intervista al The Jewish Chronicle che la risposta di Israele sarebbe proporzionale all’entità dell’attacco iraniano. “Un attacco significativo da parte dell’Iran verrebbe probabilmente contrastato da una risposta di pari intensità”, ha spiegato Melamed. “Se l’attacco iraniano venisse sventato o intercettato da Israele e dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, la risposta israeliana potrebbe essere limitata. Tuttavia, se l’attacco iraniano fosse ampio e riuscito, la reazione israeliana porterebbe a una distruzione simile in Iran e nelle aree controllate dai suoi proxy nella regione”.
Anche l’ex direttore generale della CIA, David Petraeus, ha sottolineato che la risposta di Israele dipenderà dalla gravità dell’attacco iraniano. Dopo il primo, e finora unico, attacco diretto dell’Iran contro Israele, l’IDF ha condotto raid aerei contro la città iraniana di Isfahan. Sebbene l’operazione fosse di portata limitata, ha dimostrato la capacità e la determinazione di Israele nel colpire strutture chiave del programma nucleare iraniano. In alternativa, Israele potrebbe prendere di mira un obiettivo militare strategico, come un silo missilistico o una base navale.
Secondo due funzionari statunitensi citati dal Wall Street Journal, Teheran non dispone delle risorse necessarie per condurre una campagna militare significativamente più ampia rispetto all’attacco di aprile contro Israele, durante il quale furono lanciati circa 300 missili e droni, la maggior parte dei quali venne abbattuta dalle difese israeliane e dai loro alleati regionali. Un articolo pubblicato giovedì sul The Guardian suggerisce che Teheran potrebbe optare per azioni mirate contro i responsabili dell’esecuzione di Haniyeh, anziché lanciare un attacco su larga scala contro Israele.
Mentre il Paese continua a prepararsi per un possibile attacco da parte di Hezbollah, il gabinetto di sicurezza israeliano si è riunito giovedì sera. L’incontro si è svolto in una sala di comando sotterranea, dove sono state simulate diverse situazioni di emergenza. Secondo il canale israeliano Channel 12, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, potrebbe ordinare un attacco nei prossimi giorni.
Secondo Channel 13, Hezbollah starebbe pianificando di colpire un alto funzionario israeliano come rappresaglia per l’uccisione del comandante Fuad Shukr, avvenuta il 30 luglio scorso.
Il quotidiano israeliano Israel Hayom ha sottolineato che un imminente attacco di Hezbollah potrebbe provocare gravi danni, considerata la vicinanza del gruppo terroristico al territorio israeliano. Israele ha già avvertito che qualsiasi danno arrecato a civili, soldati o basi dell’IDF non sarà tollerato e verrà risposto con fermezza. Sia l’Iran che Hezbollah stanno quindi valutando attentamente le loro prossime mosse.
(Shalom, 9 agosto 2024)
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Una festa della vita - ospiti di Avishay!
Le esperienze di un sopravvissuto di Kfar Azza che - dopo il massacro di Hamas e durante la guerra che da allora continua - sta lavorando per ricostruire la sua vita. Una storia di coraggio, resilienza e speranza.
di Brigitte B. Nussbächer
GERUSALEMME - È stata una celebrazione della vita quella che si è tenuta a Reutlingen il 27 luglio 2024. Più precisamente, una celebrazione della sopravvivenza.
Perché l'ingegnoso chef, il maestro dei sapori, delle spezie e degli ingredienti, che ci ha viziato con le sue prelibatezze, era uno dei sopravvissuti del Kibbutz Kfar Azza. Uno che si è salvato durante lo Shabbat nero (7.10.23) dopo il brutale attacco di Hamas a Israele.
E che non si è arreso!
Conosciamo Avishay dall'aprile 2024, quando siamo andati a trovarlo nel suo kibbutz distrutto al confine con Gaza e ci ha mostrato le case bruciate e le rovine di Kfar Aza. Compresa la sua casa danneggiata
Nove mesi sono passati da allora. Gli abitanti del villaggio non sono potuti tornare e il kibbutz non può essere ricostruito perché la guerra con Hamas continua e i razzi qui cadono ancora regolarmente.
Avishay vive ora con la sua famiglia a Herzliya. Il talentuoso chef, che ha già servito tre presidenti israeliani (Perez, Rivlin e Herzog), è molto richiesto. Non solo in Israele.
Quest'estate sta visitando degli amici in Germania e sta lavorando al suo sogno di aprire un ristorante tutto suo. Si chiamerà "Two-Three-Two" ("2-3-2"), come la strada che in Israele corre da Ashkelon lungo la Striscia di Gaza fino a Kerem Shalom e al valico di frontiera con l'Egitto. Egli tornava a casa sempre attraverso questa strada. Il 7 ottobre, la strada illuminata dal sole si è trasformata in un viale della morte, con centinaia di persone che giacevano uccise in auto parzialmente bruciate. Ma Avishay vuole riportare in vita il termine "2-3-2" con nuove e diverse connotazioni.
• VIVERE ISRAELE - IN GERMANIA Con l'aiuto di amici israeliani impegnati, si sta organizzando una serata all'insegna del motto "Vivi Israele con tutti i tuoi sensi".
Hannelore e Kerstin di Reutlingen non hanno risparmiato sforzi per creare un ambiente meraviglioso per le arti culinarie di questo chef gourmet - e gli ospiti si godono tutti i dettagli amorevoli e, naturalmente, i piatti meravigliosamente deliziosi, che hanno un sapore così diverso dalla cucina tedesca. Avishay diventa così un rappresentante del suo Paese e ogni piatto trasmette un messaggio di freschezza, varietà e unicità.
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VIVERE A KFAR AZZA Ma ha anche un altro messaggio: racconta le sue esperienze nel kibbutz prima e durante il massacro di Hamas. Delly (della CSI), che è un forte sostenitore di Israele, in particolare delle vittime del terrore, conosce Avishay da oltre 12 anni, lo ha invitato in Germania e ha preparato un’accurata traduzione in modo che nemmeno una virgola del suo messaggio vada persa.
Inizia con la storia dei suoi antenati. La sua famiglia materna ha vissuto in Israele per 12 generazioni, molto prima della fondazione dello Stato nel 1948; quella di suo padre per 3 generazioni. Tutti hanno contribuito alla costruzione di Israele. Lui stesso ha sempre vissuto a Kfar Azza fin dalla nascita, si è sposato e ha vissuto con sua moglie Shani e i suoi due figli piccoli in una bella casa alla periferia del villaggio.
Parla degli anni precedenti al 2005, prima che Israele si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza nella speranza di portare la pace nella regione. Parla dei villaggi israeliani nella Striscia di Gaza che erano conosciuti come Gush Katif e di come lui e la sua famiglia si recavano sulle bellissime spiagge di Gaza per nuotare e mangiare.
Avishay descrive la coesistenza con gli arabi, come gli abitanti del kibbutz aiutavano i palestinesi senza rendersi conto che a volte sostenevano indirettamente Hamas. E del 2005, quando Israele ha evacuato con la forza i propri connazionali dalla Striscia di Gaza. Questo avvenne senza che i palestinesi dessero nulla in cambio, come sacrificio di Israele per la pace nella regione.
Ma le cose sono andate molto diversamente da quanto sperato! Hamas è diventato il potere dominante e la coesistenza è cambiata. Gli attacchi dalla Striscia di Gaza aumentarono. Sempre di più, sempre più razzi. La casa dei suoi genitori e quella di sua sorella furono colpite, anche prima del 2024.
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IL 7 OTTOBRE Poi la mattina del 7 ottobre. Le sirene hanno suonato per ore come mai prima. Quando finalmente si calmò e osò uscire dal rifugio, sentì gli spari dei terroristi e capì che stava accadendo qualcosa di terribile. Non avendo armi, ha preso il coltello più grande dalla cucina e ha barricato se stesso e la sua famiglia come meglio poteva nel rifugio.
Poi sono cominciati ad arrivare i messaggi via WhatsApp, uno dopo l'altro. Messaggi disperati, richieste di aiuto, senza sosta, per ore e ore. Famiglie le cui case erano state invase dai terroristi o incendiate. Persone che hanno dovuto assistere all'uccisione dei loro cari davanti ai loro occhi e al rapimento di altri. Persone inermi e indifese di fronte a questa orgia di violenza e brutalità.
Ha cercato di contattare i suoi genitori, che vivevano nello stesso villaggio, ma gli hanno scritto che non potevano parlare perché altrimenti i terroristi che erano in casa li avrebbero sentiti. Cercò di chiamare sua sorella a Beeri, ma non riuscì a raggiungerla. Passarono ore interminabili e terribili: sempre più messaggi e poi, a volte, un improvviso e terribile silenzio. Voleva aiutare i suoi amici, ma sua moglie lo pregava di restare con lei e i bambini. Entrambi si rendevano conto che se i terroristi fossero venuti a casa loro, non avrebbero avuto alcuna possibilità. Decisero che in questo caso lui avrebbe lottato con il coltello per darle la possibilità di togliersi la vita e quella dei bambini. Dopo tutto, da quello che avevano sentito dagli altri, preferivano morire piuttosto che essere rapiti. Il figlio piccolo aveva solo 3 mesi all'epoca.
Quella notte furono finalmente salvati dall'IDF: da soldati che arrivarono dopo 23 ore di inferno e che si aspettavano di trovare solo cadaveri. Invece hanno evacuato una donna con un bambino di tre mesi in braccio e un bambino di otto anni che stringeva il suo orsacchiotto. Era buio, quindi non si riusciva a vedere bene tutto quello che c'era sulla strada verso il veicolo che li ha portati via. Negev, il figlio maggiore di Avishay, era stupito che così tante persone si fossero "sdraiate a dormire" durante il tragitto... Avishay è ancora oggi contento che suo figlio non abbia capito che si trattava di cadaveri. Furono la prima famiglia a essere salvata da Kfar Azza. La battaglia per liberare il kibbutz dai terroristi durò in tutto 78 ore.
Da quel giorno, Avishay ha lavorato per ricostruire la sua vita: pezzo per pezzo. Questo lavoro costruttivo lo aiuta a far passare in secondo piano i terribili ricordi.
Ha avuto molto tempo per pensare. E oggi dice: si poteva prevedere. Ma la gente in Israele era troppo sicura di sé e troppo credulona. Ora è tutto finito. Combatteranno finché non riporteranno a casa tutti gli ostaggi", dice, indicando la maglietta che indossa e che molti in Israele indossano: "Riportateli a casa". E continueranno a combattere finché Hamas non sarà sconfitto. Perché Hamas rappresenta il male per eccellenza.
Hanno creduto nella pace per tutti questi anni. E non odiano tutti i musulmani. Ma il male deve essere messo al suo posto, altrimenti continuerà a diffondersi. Questa è la missione attuale di Israele.
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PENSATE IN MODO AUTONOMO! Poi si rivolge a noi, ospiti della tranquilla Reutlingen, e dice: "Voi tedeschi siete un popolo meraviglioso. Qui tutto funziona perché ognuno fa quello che gli viene detto". Ma avverte anche: "Imparate a pensare con la vostra testa, a giudicare le cose da soli, a non lasciarvi trascinare dal mainstream. Iniziate a riflettere in modo critico e chiedetevi perché gli ebrei in Germania oggi hanno di nuovo paura di dichiarare il loro essere ebrei per strada. La storia si ripete - e voi avete giurato: mai più!
Avete accolto milioni di musulmani. Non dico che non sia una buona cosa, ma assicuratevi che non vi superino. Fate capire loro che sono i benvenuti, ma che ci si aspetta che si adattino. Difendete i vostri valori e la vostra identità. Perché in un futuro non troppo lontano saranno molti di più e, se non state attenti, imporranno i loro valori e la loro cultura al vostro Paese. Nel bel mezzo di una democrazia e grazie alle maggioranze democratiche, avranno una voce molto forte".
Sono parole che risuonano e fanno riflettere...
Poi arriva alla fine: sarà un finale con brio, proprio come il suo dessert, che prepara davanti al suo pubblico stupito. Una combinazione di originalità e ingegno, presentata con un sorriso all'angolo della bocca e gli occhi lucidi. Veloce, semplice e delizioso.
• FINALE CON BRIO! [in italiano nel testo, ndt] Questo è il suo messaggio finale: "Il fatto di essere qui davanti a voi oggi, di poter raccontare la mia storia, è la mia vittoria!".
Il 7 ottobre si celebrava Simchat Torah, l'ultima festa ebraica di Sukkot (Tabernacoli) ed era il suo compleanno ebraico. Il fatto che sia sopravvissuto al massacro in questo giorno è come una rinascita per lui. Un nuovo inizio. Se e quando potrà tornare a Kfar Aza è attualmente del tutto incerto. Nella migliore delle ipotesi, tra diversi anni. Ma lui vuole sfruttare al massimo questo tempo e vivere i suoi sogni. Come questa sera! Festeggiare la vita. Festeggiare Israele! La sua sopravvivenza!
Che meraviglioso messaggio di resilienza e speranza.
Saremo lieti di accoglierti presto in Germania, Avishay!
Shalom chaver shelanu - Le hitraot! Addio, amico nostro! A presto!
(Israel Heute, 9 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Tregua Israele-Hamas prima dell'escalation iraniana: cosa può succedere a Gaza
Il nuovo leader Sinwar avrebbe chiesto agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave scontro tra Tel Aviv e Teheran. Vertice decisivo il 15 agosto. Tutti gli scenari e l'ipotesi della pace in tre tempi dopo 308 giorni di guerra e almeno 40mila morti.
Una tregua con Israele, prima dell'escalation iraniana: è stato il nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, a chiedere agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave possibile scontro tra Israele e Iran. E' quel che riferisce la tv israeliana Channel 12. Sinwar, così si sostiene, starebbe subendo forti pressioni da parte dei suoi comandanti militari a Gaza. Avrebbe inoltre informato i leader del gruppo in Qatar che nessuno di loro potrà partecipare ai colloqui sul rilascio degli ostaggi, a parte il suo vice Khalil al-Hayya e l’alto funzionario Ghazi Hamad.
• IL VERTICE DECISIVO A FERRAGOSTO Qatar, Egitto e Stati Uniti affermano che stanno invitando Hamas e Israele a riprendere i colloqui per il cessate il fuoco a Gaza. Certo è che giovedì prossimo, a Ferragosto, una delegazione israeliana si incontrerà con i mediatori di Usa, Qatar ed Egitto per provare a concordare i dettagli. Lo ha confermato nelle scorse ore l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Seguendo la proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele manderà la delegazione negoziatrice il 15 agosto in un luogo da definire per riassumere i dettagli dell'attuazione dell'accordo quadro", si legge in una nota ufficiale.
La nota israeliana è arrivata poco dopo che Stati Uniti, Egitto e Qatar, in qualità di mediatori, avevano chiesto a Israele e Hamas di "riprendere le discussioni giovedì 15 agosto a Doha o al Cairo per colmare tutte le lacune rimanenti e iniziare l'attuazione dell'accordo senza ulteriori ritardi". Nella nota, firmata dal presidente americano Joe Biden, dal suo omologo egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e dall'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia che "è tempo di fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
Mancano "solo" i dettagli, che quando c'è di mezzo la questione palestinese non sono evidentemente mai solo dettagli.
• 308 GIORNI DI GUERRA E 40MILA MORTI La guerra a Gaza è scoppiata il 7 ottobre dello scorso anno, 308 giorni fa, dopo un attacco di Hamas contro Israele che ha provocato circa 1.200 morti e 251 rapiti. Dopo più di 10 mesi di escalation, l'offensiva israeliana ha lasciato almeno 40.000 morti nella Striscia di Gaza - la maggior parte dei quali bambini e donne - e più di 90.000 feriti, 10.000 dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti in una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente.
Le trattative per una tregua sono arenate da tempo. I paesi mediatori cercano da mesi di raggiungere un cessate il fuoco che consenta l'ingresso massiccio di aiuti umanitari nell'enclave palestinese e il rilascio dei 111 ostaggi che Hamas continua ad avere tra le mani (molti non sarebbero più in vita, impossibile avere numeri certi). L'accordo di cessate il fuoco proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden il 31 maggio 2024 e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In sintesi, il documento prevedeva una prima fase che sarebbe consistita in sei settimane durante le quali ci sarebbe stato un cessate il fuoco completo, le truppe israeliane si sarebbero ritirate da tutte le aree popolate della Striscia e diversi ostaggi sarebbero stati scambiati con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane. In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziare i dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprenderebbe un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
• UN SOLO CESSATE IL FUOCO IN 10 MESI Dallo scoppio della guerra è stato raggiunto solo un cessate il fuoco a novembre di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi. I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas che il cessate il fuoco fosse definitivo e dall'insistenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di riprendere i combattimenti finché il gruppo islamico non sarebbe stato annientato.
Ora la rinnovata speranza affinché le armi tacciano, nel bel mezzo della crisi innescata dall'assassinio dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh in un attacco del 31 luglio a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Tra l'ipotesi di un cessate il fuoco in tempi brevi e una possibile guerra regionale, Gaza attende: sono giorni decisivi.
(Today, 9 agosto 2024)
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Usa, Qatar ed Egitto chiedono a Israele e Hamas di riprendere i negoziati il 15 agosto
Stati Uniti, Egitto e Qatar hanno invitato Israele e Hamas a riprendere il 15 agosto il negoziato per un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della scarcerazione di prigionieri politici palestinesi.
Il presidente Usa Joe Biden, quello egiziano Abdel Fattah El Sisi e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, in una dichiarazione congiunta diffusa ieri in tarda serata, hanno affermato che i colloqui si svolgeranno a Doha o al Cairo.
“Un accordo quadro è ora sul tavolo e mancano solo i dettagli della sua attuazione”, hanno detto. “Non c’è altro tempo da perdere né scuse da nessuna delle parti per ulteriori ritardi. È tempo di rilasciare gli ostaggi, iniziare il cessate il fuoco e implementare questo accordo”. I tre sono anche offerti di presentare “una proposta di collegamento finale” per risolvere i problemi rimanenti.
Il primo ministro Netanyahu ha detto che i negoziatori israeliani saranno presenti. Ma proprio Netanyahu nelle scorse settimane ha presentato nuove richieste per il cessate il fuoco a Gaza che, sostengono anche fonti israeliane, ostacolano un accordo con Hamas. Netanyahu e diversi dei suoi ministri, continuano a parlare di cessate il fuoco temporaneo e non definitivo come vorrebbero i palestinesi dopo 10 mesi di offensiva militare israeliana che ha ucciso almeno 40mila persone, tra cui migliaia di minori, e distrutto gran parte della Striscia.
Un funzionario statunitense ha precisato al giornale Haaretz che per la tregua “il grosso del lavoro è fatto” ma ha avvertito che il 15 agosto non ci sarà la firma dell’accordo e che restano da risolvere alcune questioni rilevanti.
Non c’è stato ancora alcun commento immediato da parte di Hamas che da qualche giorno ha nominato Yahya Sinwar – già suo capo a Gaza e che dall’attacco nel sud di Israele del 7 ottobre scorso vivrebbe nascosto in tunnel sotterranei per sfuggire alla cattura – alla guida di tutta l’organizzazione in sostituzione di Ismail Haniyeh assassinato a Teheran da un missile o una bomba di Israele. È tuttavia opinione diffusa che Hamas accetterà di partecipare ai colloqui, malgrado l’uccisione di Haniyeh.
La situazione umanitaria a Gaza infatti è sempre più critica e Israele continua i suoi attacchi. Ieri i raid aerei, facendo almeno 40 morti e decine di feriti tra i civili, hanno colpito altre due scuole. Secondo l’esercito israeliano in esse si nascondevano combattenti di Hamas. Il movimento islamico smentisce categoricamente l’uso delle scuole per nascondere i suoi combattenti.
I mediatori è che l’annuncio della ripresa dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza, serva anche ad allentare la tensione in Medio oriente. L’Iran e Hezbollah al momento non rinunciano alla risposta contro Israele per vendicare le uccisioni di Ismail Haniyeh e di Fuad Shukr, il capo militare del movimento sciita libanese colpito da Israele a Beirut, poche ore prima dell’assassinio del capo politico di Hamas.
(Pagine Esteri, 9 agosto 2024)
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Israele accetta la proposta dei mediatori: “Colloqui per cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto”
Ricominceranno il 15 agosto i colloqui per la tregua a Gaza. Israele ha accettato la proposta di Usa, Qatar ed Egitto che in una nota congiunta chiedevano di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l’accordo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi.
di Eleonora Panseri
I colloqui per il cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto. Israele ha accettato la proposta dei mediatori statunitensi, qatarioti ed egiziani che chiedevano in una nota congiunta di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l'accordo sulla tregua e sulla liberazione degli ostaggi.
"A seguito della proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele invierà il 15 agosto una delegazione di negoziatori nel luogo concordato per concludere i dettagli dell'attuazione di un accordo", ha affermato l'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu in un comunicato.
Nella nota congiunta, firmata dal presidente americano Joe Biden, il suo omologo egiziano Abdel Fattah al Sisi e l'emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia la necessità di "fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
• Cosa prevede l'accordo per il cessate il fuoco
I paesi mediatori stanno cercando da mesi di raggiungere una tregua che permetta l'ingresso a Gaza degli aiuti umanitari, così come il rilascio dei 111 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. L'accordo proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Il documento prevede una prima fase della durata di sei settimane durante le quali ci sarebbe un cessate il fuoco completo, il ritiro delle truppe israeliane da tutte le aree popolate della Striscia e lo scambio di ostaggi con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane.
In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziare i dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprende un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
Dopo più di 10 mesi di conflitto, l'offensiva israeliana ha lasciato quasi 40mila morti nella Striscia di Gaza – la maggior parte dei quali bambini e donne -, più di 90mila feriti, 10mila dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti.
• Ripresa dei colloqui arriva in un momento di crisi per il Medio Oriente
L'annuncio della ripresa dei colloqui per un cessate il fuoco arriva nel mezzo di un momento di crisi in Medio Oriente, scatenata il 31 luglio dalla morte dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso in un raid israeliano a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Hamas ha di recente nominato Yahya Sinwar, leader militare di Hamas a Gaza, come successore di Haniyeh.
Dall'inizio della guerra, cominciata a fine novembre, è stato raggiunto solo un cessate il fuoco di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi.
I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas di rendere il cessate il fuoco definitivo e dalla volontà del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di proseguire i combattimenti finché il gruppo palestinese non fosse stato "estinto".
• Il capo del Pentagono chiama il ministro della Difesa Gallant: "Difenderemo Israele"
Il capo del Pentagono LLoyd Austin ha ribadito al ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant in una telefonata che gli Stati Uniti continueranno i loro sforzi per scoraggiare l'aggressione di Iran e Libano, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi in Medio Oriente.
"Ho chiamato oggi il ministro della Difesa israeliano Gallant per informarlo sulla presenza delle forze statunitensi e rafforzare il mio ferreo sostegno alla difesa di Israele. Gli F-22 Raptor statunitensi arrivati oggi nella regione rappresentano uno dei tanti sforzi per scoraggiare l'aggressione, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi nella regione. Ho anche sottolineato l'importanza di concludere un accordo di cessate il fuoco a Gaza che rilasci gli ostaggi" ha scritto su X.
(fanpage.it, 9 agosto 2024)
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“Come si vive l’attesa nei rifugi d’Israele”
di Alex Zarfati
“La ritorsione iraniana è vicina”, “Israele pagherà per i suoi crimini”, “Nuove armi pronte contro Israele”. L’uccisione dei Ismail Haniyeh della scorsa settimana scuote i vertici iraniani e quelli dei volenterosi carnefici loro affiliati. Che, una volta ripresisi dal clamore dell’attacco seguito alla strage di Majdal Shams, hanno cominciato subito a spargere minacce sul devastante attacco che starebbero per scatenare su Israele. Il mondo, letto attraverso i titoli dei media, sembra davvero stare con il fiato sospeso, in trepidante attesa dell’attacco alle città israeliane.
Gli indugi apparentemente soddisfano gli iraniani, pronti a farne un altro capitolo per i manualetti sulla guerra psicologica che i loro proxies conoscono bene. Sembra però non soddisfare una certa classe di giornalisti a caccia di indiscrezioni su come gli israeliani vivano i momenti che li separano dall’attacco. Richieste di foto e video sulla preparazione dei mamad, le “safe room” di cui Israele è disseminata, piovono in queste ore sugli italo-israeliani. Si tratta di un capitolo nuovo della spettacolarizzazione dell’informazione deprecabile come la pornografia del dolore, che mostra volti, dolori, intimità e li usa come scorciatoie per ottenere clamore in luogo di altre forme di giornalismo. La corsa alla difesa d’Israele oggi diventa prepotentemente d’interesse per reporter che vogliono descrivere l’atmosfera generale di inquietudine nelle città dello stato ebraico.
La verità è che non c’è nulla di interessante nei rifugi d’Israele. Né nel vivere questa crisi gli israeliani sono diversi da chi ovunque si trovasse a vivere situazioni analoghe. I rifugi pubblici sono scatole di cemento, spesso situate nei sottoscala. In aree aperte sono casette anonime, come quelle rese tristemente famose per aver ospitato il sette ottobre gli scannatoi artigianali dove sono morti tanti giovani.
Quelli casalinghi sono arredati come una stanza normale della casa. Nella mia dormiva mia figlia Emma di 2 anni, in compagnia di un contenitore pieno di cose utili in caso di emergenza, lasciato accanto al fasciatoio e al cestino per i pannolini. Non c’è nulla di eccitante nelle storie di vita che raccontano delle corse ai luoghi sicuri alle quali gli israeliani sono abituati, impiegando la stessa inquietudine proporzionalmente adottata nelle faccende quotidiane.
Perché, anche lì, c’è chi viene colto da attacchi d’ansia persino per un colloquio di lavoro, non dissimilmente da ciò che accade nel resto del mondo. Non occorre quindi intervistare un residente di Sderot o Haifa per rendersi conto che non sia una gran vita, quella di vivere sotto il tiro di ordigni che possono abbattersi su abitazioni, scuole, uffici e reparti maternità. O, similmente disturbare una mamma chiedendogli come si sentirà quando proteggendo gli affetti dovrà farsi strada con in braccio i figli dalle espressioni terrorizzate.
Tutti in Israele sanno che razzi, droni e missili balistici provocano distruzione, dividono famiglie, uccidono, costringono gli anziani a ripararsi sotto tettoie dei bus, cartelloni pubblicitari, gabinetti pubblici, scivoli dei giardini d’infanzia. Che quindi certi sentimenti sono inevitabili.
L’estate non è mai stato un momento dell’anno in cui l’informazione ha proposto pagine di giornalismo memorabili. Ma dobbiamo sconfessare una nuova forma voyeuristica acchiappa-click che scava tra le rughe d’espressione dei cittadini d’Israele per scoprire l’acqua calda: che sì, anche gli israeliani possono essere vittime di confusione e ansia. Che sebbene abbiano sviluppato una certa resilienza che ce li mostra indifferenti giocare a racchettoni in spiaggia noncuranti dello scintillio delle testate iraniane, anche tra loro di tanto in tanto c’è chi cede al panico.
Piuttosto, sarebbe più opportuno che nelle redazioni si lavori per far luce sul perché Israele riceva minacce da Paesi come Iraq, Yemen, Pakistan, che non possono nemmeno inventarsi fantasiose rivendicazioni territoriali come foglia di fico dei loro intenti distruttivi. Che sarebbe più idoneo soffermarsi sulla strage già dimenticata dei bambini drusi che ha innescato questo crescendo militare. O magari sul perché sia “normale” che ad uno stato che siede tra pari alle Nazioni Unite sia concesso di predicare apertamente la distruzione di un altro.
Lo scavare per trovare l’affanno degli israeliani – sostenuto da quell’intimo desiderio di osservare i dolori degli altri – invece alimenta il potere della suggestione che i leader di Hezbollah e di Hamas hanno usato a piene mani in questa guerra, con l’obiettivo di minare il morale della popolazione israeliana. Siamo certi che qualcuno sia disposto ad accogliere con soddisfazione le incertezze d’Israele, magari pregustando il momento in cui i morti di Gaza potranno in qualche modo essere bilanciati da qualche lutto israeliano.
Ma la denuncia di quei media che prestano la loro voce alle organizzazioni terroristiche e ai regimi illiberali è d’obbligo. Ancora è in circolo l’immagine caricaturale degli israeliani muscolari e spietati con i palestinesi, tanto da sembrare alieni nella loro freddezza di carnefici. Oggi, aspettandosi la complicità dei media occidentali, gli ayatollah vorrebbero proporci un’altra versione di loro, altrettanto convincente benché opposta: quella degli israeliani in confusione mentre aspettano la loro ritorsione, perché pavidi, effemminati e fiacchi.
Quando vedrai un nuovo articolo su “Come si vive l’attesa nei rifugi d’Israele” sappi dunque che si allontanerà ancora un po’ il momento in cui ebrei e israeliani verranno trattati per quello che sono, non più per la proiezione della propaganda, del senso di colpa e del pregiudizio altrui. Sarà sorprendente scoprirli né più alti, né più bassi, né più intelligenti, né più stupidi. Soprattutto né più eroici, né più codardi, di fronte ad una minaccia concreta, di quanto non lo sia la metà del mondo che ancora ragiona.
(Progetto Dreyfus, 8 agosto 2024)
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L’Iran userà Hezbollah e darà una risposta limitata per evitare la vendetta israeliana
A Gerusalemme sono anni che cercano la scusa giusta per attaccare le centrali nucleari iraniane. Figuriamoci se i Pasdaran vanno a rischiare di perdere tutto a pochi metri dalla meta
di Maurizia De Groot Vos
Al di là delle parole, l’Iran non ha nessuna intenzione di “vendicare” l’affronto subito con l’eliminazione di Ismail Haniyeh con una azione che provochi una pesante reazione israeliana.
A Teheran i Guardiani della Rivoluzione (IRGC) sanno benissimo che a Gerusalemme sono anni che aspettano la scusa buona per attaccare le centrali nucleari iraniane e, a differenza degli Ayatollah, non sono molto propensi a innescare uno scontro diretto con Israele perché sanno che gli israeliani hanno la tecnologia per arrivare a colpire duramente le centrali.
Magari non le distruggeranno come avverrebbe con le bombe anti-bunker americane, che Washington non fornisce a Israele, ma sono in grado di fermare il programma nucleare iraniano per anni.
La risposta iraniana sarà quindi -a mio avviso – molto blanda, non perché gli americani hanno convinto gli iraniani, ma perché proprio gli iraniani sono convinti che non è nel loro interesse farlo. Poi, per un sunnita come Ismail Haniyeh meno che meno.
Toccherà quindi a Hezbollah vendicare l’onore degli Ayatollah, come sempre del resto, perché nonostante Teheran abbia le mani su ogni conflitto in Medio Oriente, da quello in Siria a quello in Yemen passando per Gaza, non si è mai esposta direttamente.
Secondo la CNN che cita fonti di intelligence, Hezbollah sarebbe pronto a colpire Israele prima e in maniera più massiccia dell’Iran. Evidentemente a Nasrallah non interessa minimamente il fatto che così facendo farà entrare in guerra il Libano che con queste vicende non c’entra niente. Un Libano che ha un suo esercito armato e addestrato dagli Stati Uniti ma evidentemente non in grado di difendere il proprio paese da Hezbollah.
Sicuramente entreranno in azione anche le milizie sciite basate in Iraq e in Siria così come gli Houthi dello Yemen, ma Teheran dovrebbe tenersi fuori dai giochi che contano.
Sarà sufficiente ad evitare agli Ayatollah una seria risposta israeliana? A Teheran pensano di si, probabilmente perché rassicurati dagli americani. Ma Netanyahu ha dimostrato più volte di non stare tanto a sentire i “consigli” americani. Vedremo, le prossime ore saranno decisive.
(Rights Reporter, 8 agosto 2024)
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Yahya Sinwar, il massimo responsabile del 7 ottobre, è il nuovo capo politico di Hamas
di Ugo Volli
• La nomina
Hamas ha annunciato ieri di avere nominato Yahya Sinwar come nuovo presidente del suo politburo, cioè capo politico, in sostituzione di Ismail Haniyeh, eliminato la settimana scorsa a Teheran. Non sappiamo chi e come e con che modalità abbia fatto questa scelta, anche perché si tratta di una decisione piuttosto controversa dentro l’organizzazione terroristica. Nei giorni scorsi infatti il candidato più forte per questo ruolo era sembrato il vice di Haniyeh, cioè Khaled Mashal, fortemente appoggiato dalla Turchia di Erdogan; poi quando era emerso che la vicinanza di costui con la Turchia era sgradita a Hezbollah e dunque anche all’Iran, si era fatto il nome di Mohamed Ismail, un personaggio sconosciuto al grande pubblico, considerato una delle figure finanziarie più potenti dell’organizzazione terroristica, che lavora nell’ombra.
• Il senso politico
In generale si pensava che Hamas avrebbe conservato la sua scelta organizzativa degli ultimi anni di tenere all’estero la direzione politica del movimento terrorista, lasciando a Gaza quella militare oltre che “l’organizzazione governativa” del territorio controllato. E invece la scelta è stata di concentrare tutti i ruoli di vertice sulla figura di Sinwar, che era il capo di Gaza e ora, dopo l’eliminazione di Mohammed Deif, comandante militare del gruppo terrorista, ha assunto anche questa posizione. Il senso politico della scelta è chiarissimo, come ha anche dichiarato un portavoce del movimento terrorista: la scelta è “un forte messaggio all’occupante (Israele) che Hamas continua il suo percorso di resistenza”.
• Un cambiamento soprattutto organizzativo
Ciò non vuol dire affatto, come hanno dichiarato alcuni politici e media europei che Haniyeh fosse un “leader relativamente moderato” o addirittura “l’uomo delle trattative” e che Hamas, in seguito alla sua eliminazione, “corra il rischio di radicalizzarsi”. Dentro l’organizzazione terroristica vi sono naturalmente ruoli e fazioni personali che competono per il potere. Ma Haniyeh non era meno favorevole alla violenza e al terrorismo né odiava meno Israele di Sinwar e dei suoi compari; ha sempre approvato e propagandato tutte le operazioni condotte dai terroristi ed è celebre l’immagine in cui avendo saputo del 7 ottobre si prosternava per ringraziare Allah del successo. Stava all’estero come misura di sicurezza per garantire continuità al movimento in caso di combattimenti a Gaza, anche se la protezione fornitagli da Qatar e Iran è stata alla fine penetrata da Israele. Semplicemente Hamas ha deciso di rinunciare a questa divisione di compiti e la facilità di comunicazione che essa consentiva per ostentare la propria identificazione con la lotta armata dei terroristi a Gaza.
• Sinwar
Chi sia Sinwar è ben noto. Nato nel 1962 a Khan Yunis nella striscia di Gaza allora governata dall’Egitto, presto arruolato nel movimento terrorista islamico, Sinwar si fece un nome nel 1989 per aver rapito ucciso con le proprie mani due soldati israeliani e quattro arabi che considerava collaboratori. Arrestato e condannato a quattro ergastoli, ha trascorso 22 anni nelle carceri israeliane, conquistandosi con la violenza un ruolo di leader fra i terroristi detenuti. Fu poi nel 2011 uno dei 1026 terroristi scambiati per la vita di Gilad Shalit – il che fa pensare al rischio che le liberazioni di terroristi richiesta anche in questo momento da Hamas per liberare i rapiti porti a nuovi crimini e nuovi rapimenti. Sinwar divenne subito uno dei più crudeli e influenti capi di Hamas a Gaza, ottenendo nel 2015 la qualifica ufficiale di terrorista del governo americano e poi il ruolo di leader di Hamas nella Striscia. È il principale organizzatore e responsabile delle stragi del 7 ottobre. Personaggio furtivo e prudente in maniera paranoica, dall’inizio dell’operazione israeliana non si è più visto, anche se è emersa qualche sua foto. Si ritiene che sia nascosto in uno dei tunnel dei terroristi, a Rafah o forse a Khan Yunis, sempre circondato per sicurezza da un gruppo di ostaggi. Sembra che solo un paio di persone fidatissime sappiano esattamente come raggiungerlo. È oggi il principale obiettivo della caccia al terrorista dell’esercito israeliano, ma purtroppo ancora non è stato trovato.
• I commenti israeliani
Il ministro degli Esteri Israel Katz ha così commentato martedì l’annuncio di Hamas: “La nomina dell’arciterrorista Yahya Sinwar come nuovo leader di Hamas, in sostituzione di Ismail Haniyeh, è un’altra valida ragione per eliminarlo rapidamente e cancellare questa vile organizzazione dalla faccia della terra”. E il portavoce delle forze armate di Israele Daniel Hagari: “C’è un solo posto per Yahya Sinwar, ed è accanto a Mohammed Deif e al resto dei terroristi del 7 ottobre. Quello è l’unico posto che stiamo preparando e che intendiamo ospitare per lui”.
(Shalom, 8 agosto 2024)
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La nomina di Sinwar, la Casa Bianca e Netanyahu
di Niram Ferretti
La decisione di Hamas di proclamare Yahya Sinwar alla propria direzione sostituendo Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran pochi giorni fa, rappresenta la risposta alla determinazione di Israele di eliminare progressivamente i maggiorenti di Hamas e di continuare l’operazione militare a Gaza fino ad obiettivo raggiunto, la disarticolazione della capacità operativa di Hamas all’interno della Striscia.
Questo obiettivo è in palese contrasto con quello americano, il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, per il quale, nelle ultime ore, Antony Blinken si è rivolto direttamente a Sinwar, sottolineando ciò che peraltro ha ripetuto costantemente in questo ultimo periodo, che la decisione finale spetta a lui.
Il problema di questa affermazione è che la decisione finale non spetta all’organizzatore dell’eccidio del 7 ottobre, ma a Israele, e, nello specifico a Benjamin Netanyahu. Sta al premier israeliano e non a un jihadista fanatico per il quale le vite umane valgono come quelle dei moscerini, stabilire se un eventuale accordo con chi ha massacrato 1200 dei suoi concittadini rapendone 254, garantisca a Israele e non agli assassini il massimo vantaggio.
Ma non è questa la postura della Casa Bianca, da mesi in rotta di collisione con l’esecutivo Netanyahu. Le prospettive sono infatti divergenti e si basano su opposte convinzioni; per gli americani Hamas non può essere sconfitto militarmente da Israele, ma solo depotenziato, dunque occorre da parte di Israele prendere coscienza di questa realtà dopo dieci mesi di guerra, e trovare un accordo politico. Per Israele, al contrario, Hamas può essere sconfitto militarmente. I dieci mesi di guerra in corso hanno già fatto sì che l’organizzazione sia di fatto prossima al collasso, ma per arrivare alla vittoria, sarà necessario e inevitabile che esso occupi Gaza per il periodo necessario a bonificarlo e dedicarsi quindi a operazioni di controinsorgenza terroristica, ciò che l’Amministrazione Biden non desidera che accada.
La Casa Bianca ha la necessità di chiudere l’accordo con Hamas, in particolar modo adesso, dopo l’uccisione di Haniyeh e il rischio di un escalation regionale. Un accordo con Hamas, un cessate il fuoco, comporterebbe quella momentanea distensione necessaria a forzare poi Israele ad ammorbidirsi e a cedere terreno ai suoi nemici.
Il paradosso è che, in questa prospettiva, sia gli Stati Uniti che i loro alleati all’opposizione in Israele, e per opposizione non si intendono solo i partiti politici avversi a quelli al governo, ma una fetta dell’esercito e dei Servizi nonché attori terzi che fomentano le manifestazioni di piazza per la liberazione degli ostaggi, costi quel che costi, presentano Netanyahu come l’intransigente, colui che non vuole venire a patti, il cinico e spregiudicato calcolatore, non Sinwar.
Di tutto questo Netanyahu è perfettamente conscio e sa che può contare sull’intransigenza di Sinwar, per il quale il prerequisito fondamentale ad ogni accordo è che Israele lasci Gaza, consegnando la vittoria a Hamas.
La nomina di Sinwar a capo politico di Hamas, indurisce ulteriormente lo scontro e rafforza la posizione di Netanyahu, il quale ora, davanti a sé, al posto del “moderato” Haniyeh ha colui che è in assoluto meno disposto a scendere a patti.
(L'informale, 7 agosto 2024)
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Il kibbutz Be'eri risorge lentamente dalle ceneri del 7 ottobre
"Voglio che Be'eri diventi migliore, che i residenti siano più felici. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma in fondo Be'eri è la nostra casa", ha detto Sharon Shevo, sopravvissuto al 7 ottobre.
di Amelie Botbol
Quando ci siamo avvicinati ai villaggi distrutti nel sud di Israele, tra cui il Kibbutz Be'eri, il sistema di navigazione GPS ci ha detto: "Continua dritto sulla strada 232". Questa strada è comunemente chiamata "strada della morte" dai sopravvissuti al massacro di Hamas del 7 ottobre.
La comunità, un tempo molto ospitale, non può più essere visitata senza invito. Mentre aspettavamo l'arrivo del nostro ospite lunedì, abbiamo notato decine di auto parcheggiate all'ingresso del kibbutz, eppure non si sentiva un solo suono, a parte le esplosioni lontane della Striscia di Gaza.
Sharon Shevo, residente a Be'eri, che ha quasi perso un braccio e tutta la sua famiglia nell'invasione, ci avrebbe fatto da guida durante la nostra visita. Shevo lavora nell'edilizia ed è attualmente impegnato nella riqualificazione del kibbutz.
Ha accettato di guidarci attraverso i quartieri distrutti e di mostrarci dove tra qualche anno saranno costruite le nuove unità abitative che accoglieranno i residenti.
"Attualmente siamo nella complessa fase di pianificazione della ricostruzione", dice Shevo.
"La situazione della sicurezza non è ancora tale da poter immaginare un ritorno definitivo; la guerra non è ancora finita. Nel frattempo, stiamo pianificando come sarà la futura Be'eri", ha spiegato.
Al momento, nel kibbutz non ci sono né illuminazione stradale, né negozi di alimentari, né scuole. Tuttavia, la mensa è ancora in funzione e serve il pranzo e la cena a una manciata di residenti.
È solo la quinta volta dal 7 ottobre che Shevo ha accettato di guidare i visitatori per le strade di Be'eri e di rivivere il giorno più terribile della sua vita.
"C'è il concetto di casa in contrapposizione a quello di abitazione. Le nostre case sono state distrutte e non abbiamo più una casa", ha detto.
Il 7 ottobre, 101 residenti del Kibbutz Be'eri sono stati uccisi da Hamas. Trenta sono stati presi in ostaggio e 11 sono ancora prigionieri.
Nella famigerata clinica dentistica di Be'eri, dove cinque membri del kibbutz, tra cui tre membri della Protezione Civile - Gil Buyum, Shachar Zemach e Eitan Hadad - e due membri dello staff, Amit Man e il dottor Daniel Levi Ludmir, sono stati uccisi a sangue freddo da Hamas, abbiamo incontrato una delegazione di rettori di università indiane.
Mentre Hassi Yehezkel, residente a Be'eri, attraversava il kibbutz con la figlia su un golf cart, si è fermata e ci ha salutato. Ha espresso la sua gioia per il ritorno a casa, ma ha anche detto che è troppo presto per la sua famiglia per tornare in modo permanente.
"Alcuni residenti pensano che non dovremmo permettere ai visitatori di entrare nel kibbutz, mentre altri, tra cui io e la mia famiglia, pensano che sia importante mostrare agli altri quello che è successo qui", ha spiegato Ella Gelbard, sopravvissuta all'attacco.
"Questo disastro potrebbe essere subito cancellato dalla memoria pubblica se non lavoriamo per condividere le nostre storie con i media e il pubblico", ha detto.
Gelbards è cresciuto nel kibbutz. I suoi genitori erano fondatori e i suoi quattro fratelli vivevano tutti a Be'eri fino al 7 ottobre.
"Non so se posso dire che stiamo bene mentalmente. Non ne sono sicuro. Ma fisicamente stiamo bene. Alcune delle nostre case sono in attesa di essere demolite dopo essere state bruciate da Hamas o utilizzate come base temporanea dai terroristi. Ogni casa racconta una storia diversa", ha detto.
Quando ci siamo fermati in una piazza vuota in mezzo a una fila di case, alcune delle quali quasi intatte, Shevo ci ha spiegato che quella piazza vuota era la casa di Yossi Sharabi, dalla quale lui e il fidanzato di sua figlia, Ofir Engel, sono stati rapiti da Hamas.
Il 16 gennaio è stata confermata la morte in contumacia di Sharabi, ucciso da Hamas durante la prigionia. Engel è stato rilasciato nell'ambito di un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas alla fine di novembre, in cui sono stati rilasciati 105 prigionieri, per lo più donne e bambini.
Quando gli è stato chiesto se temeva che la cancellazione dei quartieri devastati avrebbe portato alla negazione, Shevo ha spiegato che lui e tutti i residenti sapevano che cosa era successo, e questo gli bastava. Ora è il momento di ricominciare, ha detto.
"Voglio che Be'eri sia migliore. Voglio che i residenti siano più felici. Non possiamo vivere con il ricordo della perdita, dobbiamo andare avanti con le nostre vite. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma alla fine della giornata Be'eri è la nostra casa", ha spiegato.
"Una casa non è solo mura, ma anche comunità e valori che vengono trasmessi ai figli. Abbiamo famiglie e generazioni che vivono nel kibbutz dal 1947. Dobbiamo ricostruire, e poiché il 7 ottobre ha divorato le nostre vite, ricominceremo da zero", ha aggiunto.
"Distruggeremo i quartieri danneggiati e ricostruiremo nel kibbutz, ma lontano dai quartieri dove i nostri cari sono stati uccisi, almeno all'inizio. Questo aiuterà le nostre anime a guarire", continua Shevo.
Il kibbutz Be'eri riceverà quasi 100 milioni di dollari per la ricostruzione. Si tratta della somma più consistente mai stanziata per una delle comunità al confine con la Striscia di Gaza, attaccata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso.
I fondi statali fanno parte della Direzione Tkuma (rivitalizzazione in ebraico), istituita per supervisionare la ricostruzione delle comunità colpite dall'attacco nel sud di Israele. Tra due mesi dovrà inviare a Gerusalemme i piani di costruzione definitivi.
In molti casi, il 7 ottobre, i bunker e i rifugi non fornivano una protezione ermetica contro l'invasione. Shevo ha spiegato che nessun meccanismo di sicurezza è impeccabile.
"È impossibile prevedere il prossimo scenario. Non possiamo prendere una casa e sigillarla. Non possiamo vivere in una prigione", ha detto.
"C'è sempre il rischio che qualcuno si introduca o dia fuoco", ha aggiunto.
Shevo non ha ancora ricevuto informazioni sui sistemi di sicurezza che saranno installati nel nuovo edificio. Presume che i rifugi saranno probabilmente dotati di una serratura interna.
Quasi 350 terroristi di Hamas, tra cui 100 membri dell'unità Nukhba del gruppo terroristico, sono riusciti a infiltrarsi nel Kibbutz Be'eri, nel sud di Israele, il 7 ottobre, a causa di un fallimento catastrofico delle forze di sicurezza israeliane, secondo la prima parte della indagine interna dell'IDF sugli attacchi.
Dopo aver ripreso il controllo del kibbutz, l'IDF ha evacuato 190 corpi di terroristi.
"Questa indagine non mi restituirà la mia vita. Questo enorme fallimento non cambierà molto ora che è sulla carta. C'è stato un fallimento che è impossibile da interpretare", ha detto Shevo.
"Nessuno riporterà indietro i morti. La mia vita è completamente fuori controllo. Non so quando avrò di nuovo una casa o che tipo di vita mi aspetta. Tutto ciò di cui mi occupo tutto il giorno è il dolore e la riabilitazione. Niente di tutto ciò assomiglia alla vita che conducevo prima", ha aggiunto.
Nel quartiere di Shevo, 36 case su 42 sono state colpite dal massacro di Hamas.
"Questo quartiere era un paradiso. Un sacco di spazio, una bella vista. In questa strada vivevano otto famiglie e in ogni casa veniva ucciso qualcuno", ha spiegato.
Siamo entrati nella casa di Avida Bachar. Bachar, ciclista dilettante, ha perso la moglie Dana, il figlio quindicenne Carmel e la gamba destra nell'attacco.
"Facciamo tutto insieme. I nostri figli hanno la stessa età". Nonostante sia stato colpito da proiettili e granate, è sopravvissuto", racconta Shevo.
"Per 12 ore, sua figlia Hadar ha cercato di aiutarlo mentre guardava la madre e il fratello morire e il padre perdere conoscenza", ha aggiunto.
Di fronte alla casa di Bachar viveva l'ostaggio di Hamas Eli Sharabi, che ha perso la moglie e le due figlie nell'invasione e il cui fratello Yossi è stato ucciso durante la prigionia. Si presume che Eli sia ancora vivo.
Quando siamo entrati nella casa di Shevo, ci ha spiegato come ha progettato ogni elemento della sua abitazione, dalla dispensa alla scala architettonica che ha disegnato.
Il 7 ottobre Shevo ha lasciato il kibbutz la mattina presto per andare a fare un giro in bicicletta a pochi chilometri di distanza. Il ciclista amatoriale si stava allenando per la gara Epic Israel quando è caduto in un'imboscata dei terroristi di Hamas.
Alla fine è stato salvato dall'IDF vicino al festival musicale Supernova. Suo figlio Shaked, ufficiale dell'IDF, ha combattuto per ore contro i terroristi per proteggere il resto della famiglia, che era assediata nella propria casa, nonostante i terroristi avessero usato la casa come base militare e alla fine avessero dato fuoco alla proprietà mentre la famiglia di Shevo era ancora dentro. Fortunatamente sono tutti sopravvissuti.
"Mia figlia si chiama Rimon (melograno in ebraico) e, come potete vedere, ogni candeliere è un melograno", ha detto. "Tutto questo scomparirà non appena la casa sarà distrutta".
"È impossibile dimenticare ciò che ci è successo, ma potete confidare che tutto ciò che possiamo lasciare, lo lasceremo", ha continuato.
Durante una pausa pranzo nella caffetteria di Be'eri, quasi deserta, ci siamo chiesti quanto fosse frenetica e vivace prima del 7 ottobre.
La visita si è conclusa con una visita all'azienda lattiero-casearia del Kibbutz Be'eri, dove Dror Or, ucciso il 7 ottobre e il cui corpo e trattenuto da Hamas a Gaza, ha lavorato per 15 anni.
Nella fattoria abbiamo incontrato Tom Carbone, che produce anche vino a Be'eri. Ha perso la madre nell'invasione del 7 ottobre ed era vicino a Or.
"Dror era uno chef e organizzava eventi culinari. L'ho incontrato per caso mentre preparava una salsa. L'ho assaggiata e gli ho detto esattamente cosa c'era nella salsa, ed è così che siamo diventati amici", ha detto Carbone a JNS.
"Dror credeva nel grande potenziale dell'azienda lattiero-casearia e vi ha investito molto. Per lui era un progetto che ha sempre voluto rendere più grande e di maggior successo", ha proseguito.
"Dror diceva sempre, quando ne aveva l'opportunità, che mi avrebbe tenuto con sé. Sapeva che un giorno avrei lavorato in fabbrica e credo che ne sarebbe stato molto orgoglioso", ha aggiunto Carbone.
Tutti i materiali utilizzati per la produzione dei prodotti caseari provengono da Be'eri. Quando Carbone fa la spola tra Be'eri e un hotel sul Mar Morto, dove attualmente vive la maggior parte dei residenti di Be'eri, porta con sé il formaggio e apre un mini-market per rifornire i residenti di prelibatezze locali.
Carbone è ottimista sulla ricostruzione del kibbutz.
"Sono molto contento che le cose stiano progredendo, dobbiamo continuare ad andare avanti", ha spiegato. "Non possiamo rimanere indietro. Voglio tornare, e se non iniziano a ricostruire, non potrò farlo", ha aggiunto. (JNS)
(Israel Heute, 8 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Da Gaza all'esilio dorato, la vita da nababbo dell'ex capo di Hamas
di David Zebuloni
E se in Israele si votasse oggi? Vincerebbe ancora Netanyahu. Con buona pace di chi lo ritiene un leader del passato, condannato dalla storia, l'opinione pubblica israeliana lo sostiene, nella lotta per liberare gli ostaggi e per le uccisioni dei capi terroristi Ismail Haniyeh, Mohammad Deif e Fouad Shukr.
Dieci mesi sono trascorsi da quel maledetto 7 ottobre che ha stravolto gli equilibri in Medio Oriente e trascinato lo Stato d'Israele in una guerra forzata e non voluta contro i più agguerriti gruppi terroristici della regione. Dieci mesi di precarietà.
Quel senso di precarietà che solo la guerra può infondere in chi la vive. Poche, pochissime certezze hanno tenuto gli israeliani con la testa fuori dall'acqua in questo periodo di apnea: Israele e Hamas non possono più coesistere uno di fianco all'altro, la guerra non può terminare finché l'ultimo degli ostaggi non sarà tornato e casa e, una volta finita la guerra, anche Netanyahu deve andarsene a casa.
Colui che per anni aveva assicurato agli israeliani di essere l’unico a poter garantire loro dei sonni tranquilli e sereni, era responsabile della più grande strage del popolo ebraico dalla Shoah ad oggi. Il rigetto degli israeliani nei confronti del loro leader, dunque, non era più una questione politica. Di destra o di sinistra. Tutti, o quasi tutti, erano convinti che l’ormai ex King Bibi non fosse più idoneo a governare. Così, il premier dalle nove vite politiche è crollato nei sondaggi. Un crollo rapido e apparentemente definitivo. Netanyahu era politicamente finito, pronto ormai alla pensione forzata. Nulla, appartenente, poteva risollevarne le sorti.
Gli serviva un miracolo, e il miracolo è arrivato: in un breve periodo, tutti gli astri si sono allineati a suo favore. Noa Argamani, ragazza ostaggio simbolo delle atrocità di Hamas, è stata liberata in un'audace e rischiosa operazione militare a Gaza. Beny Gantz, che fino ad allora guardava tutti i suoi rivali politici dall’alto dei sondaggi, ha avuto uno screzio con lo stesso premier e ha deciso di uscire dal gabinetto di guerra in momento particolarmente delicato del conflitto, rinunciando di conseguenza al consenso degli elettori che vedevano in lui una figura solida e rassicurante.
Ismail Haniyeh, Mohammad Deif e Fouad Shukr, i massimi vertici di Hamas e di Hezbollah a Gaza, in Libano e in Iran, sono stati eliminati uno dopo l'altro nel giro di due settimane. Dulcis in fundo: la visita negli Usa, gli abbracci con Biden e con Trump, il discorso tenuto al congresso americano accompagnato da quattordici minuti di standing ovation.
Così Netanyahu è riuscito a ricostruire la propria immagine, riaffermandosi come leader forte e costante, che gode di un certo prestigio internazionale, capace di eliminare i suoi nemici terroristi ovunque essi siano. Oggi nei sondaggi prevale di nuovo su Gantz, su Lapid, su Lieberman e su Saar, ma come ben sappiamo, non è tutto oro ciò che luccica.
Nonostante il momentum favorevole, Netanyahu senza la sua coalizione non può governare e, per quanto egli si sia rialzato dopo il crollo clamoroso, i suoi alleati politici ancora non godono della stessa fiducia. E arrancano. Se Israele dovesse andare alle urne prima del previsto, probabilmente non vincerebbe nessuno.
E bisognerebbe tornare da Bibi.
Libero, 8 agosto 2024)
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Israele aspetta 7000 ebrei francesi in fuga
di Giulio Meotti
Ci sono settemila ebrei francesi che fanno richiesta di emigrare in Israele, nonostante la guerra. Un numero più alto ancora rispetto al 2015, l'anno degli attentati dell'Isis a Parigi.
Considerando i crescenti livelli di antisemitismo, “gli ebrei non avranno più di un decennio in Francia prima di dover andarsene”, ha detto il rabbino Yaacov Bitton di Sarcelles, ma lui e la sua famiglia rimarranno per servire la comunità, “fino alla fine”. Bitton, che dirige la Beth Loubavitch de Sarcelles, ha detto che mentre sperava che la comunità ebraica continuasse per molti anni in Francia, la sua sensazione personale oggi è che gli ebrei “non abbiano più di dieci anni in Francia”. Nelle stesse ore, trecento giorni dopo il pogrom del 7 ottobre, il ministro dell’Integrazione e dell’aliyah d’Israele, Ofir Sofer, era al terminal uno dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv ad accogliere 160 nuovi immigrati dalla Francia.
Tra i nuovi arrivati, Alexia Abitbol, madre di sei figli della comunità di Pavillons-sous-bois, nella Seine-Saint-Denis. Carole e suo marito, Itzik Iaïch, che vivevano nel 16esimo arrondissement di Parigi, hanno parlato con il Times of Israel: “Nel nostro quartiere, dopo il 7 ottobre, ci sono stati atti di antisemitismo. Non vediamo più un futuro per i nostri figli in Francia. C’erano persone che hanno subito violenze vicino a rue Victor Hugo, dove abbiamo avuto l'impressione di vivere in una bolla. Alla fine, sapevamo che vivevamo in una bolla e nonostante ciò, voglio dire, anche a casa, nel nostro piccolo quartiere ebraico, nel nostro angolino tranquillo, gli antisemiti hanno potuto parlare apertamente. Poi, a livello politico, si vede chiaramente che qualcosa è andato storto, dover votare per il Fronte Nazionale per bloccare l'estrema sinistra, è una cosa che non avrei mai immaginato”. Itzik non vuole rivivere quello che hanno vissuto il padre e i suoi nonni nel 1962, quando lasciarono l'Algeria. “Ha lasciato una cicatrice in famiglia e non volevo davvero ritrovarmi nella stessa situazione dei miei nonni e di mio papà. Non credo che accadrà come nel 1962 per gli ebrei francesi, ma siamo un po’ spinti ad andarcene. Non ci viene detto di ‘uscire’, ma ci viene fatto capire chiaramente”.
“Oggi è chiaro che non c’è futuro per gli ebrei in Francia”, aveva appena detto anche il rabbino capo della Grande Sinagoga di Parigi Moshe Sebbag. “Dico a tutti i giovani di andare in Israele o in un paese più sicuro”.
Un’inchiesta di Bfmtv rivela che settemila ebrei francesi hanno fatto richiesta di emigrazione in Israele dopo il 7 ottobre. Mai così tanti. Se confermati, i numeri supererebbero quelli del 2015, dopo gli attentati di Parigi. Il Ministero israeliano dell’immigrazione ha registrato un impressionante aumento delle richieste di immigrazione dalla Francia dall’inizio della guerra. 6.440 persone hanno aperto pratiche di immigrazione dalla Francia, rispetto alle 1.057 dello stesso periodo dell’anno precedente. Un aumento vertiginoso dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre: più 510 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, secondo cifre ufficiali. Il ministro dell’Immigrazione, Ophir Sofer, ha accolto con entusiasmo la decisione di questi immigrati di venire in Israele “nonostante il contesto difficile”, sottolineando “la forza del loro impegno sionista”. In totale, quest’anno in Israele sono attesi tremila “Olim Hadashim” francesi (nuovi immigrati), tre volte di più rispetto allo scorso anno.
Secondo un sondaggio del Fondo sociale ebraico unito (FSJU) condotto dopo il 7 ottobre e pubblicato a luglio, il 46 per cento di tutti i giovani ebrei francesi (su una comunità di quattrocentomila persone) sarebbe pronto a fare l’aliya in Israele. Per Caroline Yadan, deputata dell’ottava circoscrizione elettorale dei francesi stabiliti fuori della Francia, “gli ebrei non si chiedono se se ne andranno, ma quando se ne andranno”.
Il Foglio, 8 agosto 2024)
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Il prof. Benji Hain sulle tracce del passaggio del prozio a Giulianova, Tossicia e Civitella del Tronto
Il pronipote dell’ebreo tedesco Ignaz Hain, il prof. Benji Hain, sarà in Abruzzo dall’8 all’11 agosto per conoscere i luoghi di detenzione del familiare durante l’internamento fascista in Italia
GIULIANOVA - Walter De Berardinis, autore della scoperta della storia tra l’ebreo tedesco Ignaz Hain e la cattolica tedesca Margarete Wagner, guiderà la famiglia Hain alla riscoperta dei luoghi dove fu internato il prozio Ignaz Hain dal settembre 1940 - mese di cattura a Milano da parte della polizia italiana - al maggio 1943 quando fu catturato dai tedeschi a Civitella del Tronto e deportato prima a Fossoli (Carpi), ad Auschwitz ed infine a Mauthausen dove morirà l’8 marzo 1945. Pochi giorni prima del 9 marzo 2020, quando in Italia fu adottata la misura di emergenza per contrastare la diffusione del virus Covid-19, il direttore del “Museo Nina” di Civitella del Tronto Guido Scesi e lo storico Giuseppe Graziani, ritrovarono la borsa della Wagner consegnandola a De Berardinis per approfondire la storia di quel carteggio. La famiglia Hain, nei giorni di permanenza in provincia di Teramo, incontrerà anche gli amministratori dei tre comuni teramani.
Il prof. Benji Hain, avvocato di New York, ha fatto ritorno in Israele nella città di Ra'anana a nord di Tel Aviv nel 2000, dove è stato prima consulente per “Israel Aerospace Industries LTD” e poi direttore dello sviluppo per “Kfar Tikva”. Nel 2014, Benji e la sua famiglia sono tornati negli Stati Uniti, dove è diventato direttore della “SAR-Salanter Akiba Riverdale Academy di New York” fino al 2016, quando si è trasferito a Boston (Massachusetts) per diventare prima direttore e poi preside della scuola media e superiore alla Maimonides School di Brookline, dove ha anche insegnato storia ebraica. Come preside presso la “AMHSI- Alexander Muss High School in Israele, Benji collabora con gli studenti, insegnanti, genitori, scuole diurne, infermieri e consulenti di orientamento per garantire il benessere accademico, sociale ed emotivo degli studenti all’estero.
• La Storia della Coppia
Margarete Wagner, cattolica, era nata a Francoforte sul Meno il 30 luglio 1907 da Heinrich Karl Wagner e Crescentia Petzenhauser, era la 4° figlia di 6 (2 maschi e 4 femmine). Durante l’ascesa di Hitler al potere si era fidanzata con un giovane procuratore legale, Ignaz Hain, ebreo, nato a Ulmach il 29 giugno 1902, da Moses Hain e Pauline Schuster (anche lui figlio di 6), tutti residenti a Fulda. Con le leggi razziali, la giovane coppia, si trasferisce in Italia a Milano il 17 marzo 1937, in Via Felice Casati, 13, quartiere Lazzaretto (zona giardini pubblici Montanelli); l’8 maggio in Via Padova, 33 a Milano e subito dopo a Corso Buenos Aires, 18, per l’arrivo della compagna Margarete e fino all’arresto di lui nell’agosto del 1940. A settembre, Hain, verrà trasferito nel campo d’internamento di Tossicia (Teramo) e successivamente a Civitella del Tronto (Teramo), dove verrà raggiunto, in stato di libertà, dalla giovane compagna Margarete. Nel maggio 1944, Ignaz insieme ad un centinaio di ebrei, verrà prelevato dai tedeschi e condotto nel campo di smistamento di Fossoli (Carpi) – Modena. Il 16 agosto 1944 verrà deportato ad Auschwitz e poi il 25 gennaio 1945 a Mauthausen, dove muore l’8 marzo 1945. La moglie, rimasta bloccata a Civitella del Tronto, per i noti eventi bellici in Italia e Germania, morirà per malattia nell’ospedale di Giulianova il 14 gennaio 1945. Dal 2020, anno della scoperta della borsa e della storia della coppia, De Berardinis sta continuando a cercare ulteriori documenti in archivi nazionali ed esteri come Israele, USA e Germania.
(Il Giornale di Montesilvano, 7 agosto 2024)
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Le ultime ore di Ismail Haniyeh: come il Mossad ha pianificato il suo assassinio
di Luca Spizzichino
Sebbene il governo israeliano non abbia confermato la sua responsabilità nell’uccisione di Ismail Haniyeh, le modalità di questo assassinio mirato lasciano intendere che ci sia proprio il Mossad dietro. Lo ha rivelato il The Jewish Chronicle, che in un lungo articolo ha ricostruito le ultime ore del leader di Hamas. Secondo il quotidiano britannico, l’ordigno esplosivo è stato piazzato sotto il letto di Haniyeh da due iraniani reclutati dal Mossad nell’unità di sicurezza Ansar al-Mahdi del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, le stesse persone incaricate di garantire la sicurezza dell’edificio e dei suoi ospiti.
I pasdaran si sono resi conto di ciò dopo l’assassinio, quando le guardie sono state viste dalle telecamere di sicurezza il giorno dell’attentato mentre si muovevano furtivamente nel corridoio verso la stanza di Haniyeh, aprivano la porta con una chiave ed entravano. Tre minuti dopo, i due iraniani, che avevano ricevuto una somma a sei cifre ciascuno oltre a un immediato trasferimento in un paese del nord Europa, sono stati ripresi mentre lasciavano tranquillamente la stanza, scendevano le scale verso l’ingresso principale dell’edificio, uscivano e poi salivano su una macchina nera. La guardia al checkpoint del parcheggio li ha riconosciuti e ha aperto il cancello senza fare domande. Un’ora dopo, sono stati fatti uscire clandestinamente dal Paese grazie al Mossad.
Diversi quotidiani avevano suggerito che l’ordigno fosse stato piazzato nella stanza di Haniyeh settimane o mesi prima dell’esplosione. Tuttavia, le telecamere mostrano che è stato piazzato il giorno dell’esplosione, alle 16:23, circa nove ore prima che venisse attivato quando Haniyeh è entrato nella sua stanza. L’esplosione, innescata a distanza da un robot, è avvenuta dopo la mezzanotte, esattamente alle 01:37 ora locale. Per evitare possibili rilevamenti, il Mossad ha utilizzato un esplosivo piatto a forma di mattone, fissato sul fondo del letto. Per minimizzare i danni ai civili innocenti, hanno utilizzato una bomba nota per la sua precisione, che ha colpito solo la stanza di Haniyeh. Di conseguenza, solo una specifica area dell’edificio è stata danneggiata.
Il Mossad ha inviato i propri agenti a visitare regolarmente l’area per fornire la logistica operativa, mappare ogni strada e vicolo, identificare potenziali vie di fuga e controllare le misure di sicurezza dell’edificio. Tuttavia, gli agenti hanno incontrato difficoltà quando sono arrivati nell’area. Il palazzo era situato su una collina e circondato da una foresta, che rendeva molto difficile osservare chiaramente la struttura. Cinque agenti si sono vestiti di verde e sono saliti sugli alberi, mimetizzandosi con il colore delle foglie. Il loro compito era riferire non appena Haniyeh fosse arrivato all’edificio. In assenza di una fonte all’interno dell’albergo che potesse informarli di quando Haniyeh fosse entrato nella sua stanza, un’altra squadra del Mossad, anch’essa vestita di verde, si è arrampicata sui rami degli alberi e ha osservato l’edificio da un altro angolo. Il loro compito era avvisare l’operatore della bomba non appena la luce si fosse spenta nella stanza del leader di Hamas.
Haniyeh è morto sul colpo, mentre la sua guardia del corpo, Wasim Abu Shaaban, anch’egli ricercato dal Mossad, è rimasta gravemente ferita ed è successivamente morto per una grave emorragia.
Dopo l’assassinio, le autorità iraniane hanno fatto irruzione nel complesso, arrestando 28 alti ufficiali militari e membri del personale presenti. Tutti i loro dispositivi elettronici sono stati sequestrati per controllare le loro comunicazioni. Gli agenti iraniani hanno ispezionato l’intera struttura centimetro per centimetro e analizzato le riprese delle telecamere di sicurezza fotogramma per fotogramma. Quando hanno scoperto che alcuni membri delle Guardie Rivoluzionarie erano coinvolti, hanno immediatamente accusato Israele, minacciando di infliggere serie punizioni.
(Shalom, 7 agosto 2024)
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Tutto ciò che non torna nell'omicidio del leader di Hamas a Teheran
L'assassinio di Haniyeh rivela falle nell'intelligence e ingerenze straniere. Il regime di Khamenei deve fare i conti con la paranoia delle infiltrazioni, provando a capire chi lo ha tradito
• Falle nell'intelligence, resoconti divergenti, ingerenze straniere.
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Membri di Hamas tengono un poster del capo politico Ismail Haniyeh ucciso a Teheran, durante una protesta per condannare il suo omicidio nel campo profughi palestinese di al-Bass in Libano. Le parole in arabo sul poster recitano: "Il leader martire".
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L'omicidio del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è un racconto ricco di incongruenze. Per molti versi misterioso. A Teheran il politico palestinese avrebbe dovuto trovarsi nel luogo più sicuro al mondo, invece è stato ucciso nel luogo in cui tutto il mondo islamico celebrava l'insediamento del nuovo presidente iraniano. Le circostanze non ancora chiarite sull'assassinio dovrebbero destare ancor più preoccupazioni tra i governi di tutto il mondo, tenuto conto che questo evento ha condotto ad una ulteriore escalation del conflitto a Gaza, amplificando la sua portata su scala globale.
L'Iran finora aveva goduto della fama di rifugio sicuro per leader stranieri, anche quelli legati al terrorismo internazionale. Il regime esce quindi da questa storia più fragile, paranoico e permeabile ad infiltrazioni. Oltre all'ipotesi scontata di Israele, non è chiaro chi altri abbia voluto la morte di Haniyeh, reputato da molti un moderato all'interno del movimento islamista, in un momento in cui le due parti, Tel Aviv e Hamas, sembravano prossime ad un avvicinamento per una tregua. L'uccisione del leader palestinese in un appartamento al quarto piano di un luogo reputato "sicuro", in una città iper-controllata come la capitale iraniana, è un rebus ancora tutto da decifrare.
• Dove si trovava Haniyeh quando è stato ucciso Il notiziario arabo Al-Arabya ha notato come i vertici di Hamas e l'Iran abbiano fornito resoconti divergenti sulle modalità di uccisione di Ismail Haniyeh. Il capo politico di Hamas si trovava in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian. Haniyeh al termine dell'evento era tornato nella sua residenza nel nord di Teheran, un edificio a Zafaraniyeh, ha riferito ad Al-Arabya Khaled Qaddoumi, rappresentante di Hamas a Teheran. Il portavoce di Hamas presso i media iraniani ed internazionali ha precisato che l'alloggio "non era segreto", ma anzi "era noto a molte persone", trattandosi inoltre di un luogo "riservato agli ospiti di alto rango". La testimonianza di Qaddoumi prosegue: "All'1:37 esatta, l'edificio ha subito uno shock. Ho lasciato il posto in cui mi trovavo e ho visto un fumo denso. Più tardi, abbiamo saputo che Haj Abu al-Abd [come veniva chiamato Haniyeh, ndr] era stato martirizzato".
• Cosa ha detto Hamas dell'omicidio Il rappresentante di Hamas in Iran ha detto credeva si trattasse di un tuono o di un terremoto, ma salito al quarto piano della residenza "dove si trovava il martire, abbiamo scoperto che il muro e il soffitto della stanza erano crollati ed erano stati distrutti". Qaddoumi ha precisato: "L'aspetto del luogo dopo l'attacco e le condizioni del corpo del leader martirizzato Ismail Haniyeh indicano chiaramente che l'attacco è stato effettuato tramite un proiettile aereo, un missile o una granata", senza fornire ulteriori dettagli. Le dichiarazioni di Qaddoumi risultano coerenti con quanto dichiarato da Khalil al-Hayya, capo di Hamas a Gaza, in una conferenza stampa tenutasi diverse ore dopo l'assassinio di Haniyeh, parlando di un missile che "ha colpito direttamente la stanza in cui alloggiava Haniyeh, e attendiamo le indagini ufficiali".
• Dall'attacco aereo all'ordigno esplosivo L'agenzia di stampa iraniana Fars, gestita direttamente dalla Guardia Rivoluzionaria Islamica che avrebbe dovuto garantire l'incolumità del leader di Hamas, in origine ha riferito vagamente che "qualcosa" aveva preso di mira la residenza, senza specificarne la natura. Mentre sulla stampa internazionale si diffondeva la versione dell'attacco aereo, il New York Times ha indagato sostenendo che la morte sia stata provocata da un ordigno esplosivo, introdotto nella guesthouse in cui era ospitato il leader di Hamas. Una versione che lascia intendere infiltrazioni esterne, che hanno consentito agli assassini di accedere preventivamente all'edificio per installare l'ordigno.
Solo dopo la pubblicazione dell'articolo del New York Times, l'agenzia iraniana Fars ha pubblicato un rapporto che conferma l'utilizzo di una bomba, precisando che "l'entità sionista ha pianificato ed eseguito questo atto terroristico", ma senza fornire ulteriori dettagli. Il rapporto di Al-Arabya ha concluso che "In assenza di una narrazione ufficiale completa, l'esecuzione dell'assassinio di Ismail Haniyeh rimane misteriosa, nonostante l'identità nota dei colpevoli".
Per gli analisti è certo che questo omicidio rappresenta una falla gigantesca nei servizi di sicurezza del regime iraniano. Non solo si è dimostrato vulnerabile, ma anche permeabile alla penetrazione dell'intelligence straniera all'interno della Repubblica islamica. In breve, qualcuno dall'interno ha tradito il regime.
• Le responsabilità del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche Il messaggio inviato a Khamenei e ai suoi alleati è che nemmeno a Teheran si può vivere tranquilli e fuori dalla portata dei nemici, chiunque essi siano. La prima testa saltata è quella del ministro dell'intelligence iraniana uscente, Esmail Khatib, che solo a fine luglio si era vantato di un grande risultato per il suo triennio: "Smantellare la rete di infiltrazione del Mossad" in Iran.
Appena sei giorni dopo, l'omicidio di Haniyeh ha dimostrato l'esatto contrario. Insieme al ministro le responsabilità ricadono innanzitutto sul Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc), responsabili anche della sicurezza del leader palestinese. "All'interno delle strutture interne dell'Irgc, l'asse sicurezza-intelligence è incorporato nell'onnipotente Organizzazione di intelligence dell'Irgc", hanno scritto su Foreign policy Kasra Aarabi, ricercatrice presso il Middle East Institute specializzata sul Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, e Jason M. Brodsky direttore politico presso l'istituto United Against Nuclear Iran.
“La capacità di Israele di uccidere Haniyeh in un complesso protetto dall'Irgc, in un momento in cui l'Irgc Intelligence Organization sarebbe stata in stato di massima allerta, altererà la dinamica percepita dell'Iran come rifugio sicuro. L'assassinio farà sì che i leader terroristi ci pensino due volte prima di cercare rifugio lì e probabilmente complicherà la relazione tra il regime iraniano e i suoi delegati”, hanno sottolineato i due ricercatori. “Si tratta di una battuta d'arresto significativa per il regime”, concludono.
Oltre alla risposta contro Israele, per gli analisti il regime iraniano dovrà affrontare la paranoia delle infiltrazioni straniere, che non è riuscito a sradicare nonostante il dominio politico indiscusso che permane dagli anni della rivoluzione iraniana. Un bel grattacapo per il leader supremo Ali Khamenei. L'Ayatollah oggi 85enne avrebbe preferito prepararsi ad una successione ordinata. Prima la morte inaspettata del presidente Ebrahim Raisi, e ora l'omicidio del capo politico di Hamas, potrebbero destabilizzare le gerarchie del regime e i suoi rapporti con i gruppi alleati, come Hamas, Hezbollah ed Al-Quaeda, che si erano fidati finora della protezione di Teheran.
(Yoday mondo, 7 agosto 2024)
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Ospedali israeliani in modalità guerra
Con le tensioni regionali in aumento, il ministro della Sanità israeliano Uriel Buso ha condotto una serie di valutazioni di emergenza con i direttori degli ospedali e i funzionari sanitari.
Gli ospedali israeliani in tutto il Paese sono in stato di massima allerta per la minaccia di attacchi da parte dell'Iran e dei suoi proxy regionali.
La scorsa settimana il ministro della Sanità israeliano Uriel Buso ha condotto una serie di valutazioni sulla preparazione medica di emergenza con i direttori degli ospedali e i funzionari sanitari. Gli argomenti discussi hanno riguardato la preparazione alle emergenze, la difesa informatica, l'assistenza alla salute mentale e i modi per aumentare rapidamente la preparazione.
Ha sottolineato che il sistema sanitario israeliano opera in modalità di emergenza da quando Hamas ha invaso il sud di Israele il 7 ottobre, uccidendo 1.200 persone, soprattutto civili. La guerra che ne è derivata sta entrando nel suo undicesimo mese e minaccia di aggravarsi.
(Israel Heute, 7 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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El Al garantisce la sicurezza dei passeggeri con una tecnologia antimissile avanzata
La compagnia aerea nazionale israeliana resta in aria in mezzo a minacce sempre più gravi.
Con l'acuirsi delle tensioni in Medio Oriente e la minaccia di un attacco iraniano a Israele, molte compagnie aeree internazionali hanno interrotto i voli verso la regione. Tuttavia, la compagnia di bandiera israeliana, El Al, rimane impegnata nelle sue operazioni, non scoraggiata dai crescenti rischi di attacchi con missili, razzi e droni da parte dell'Iran e dei suoi proxy, tra cui Hezbollah.
La fiducia di El Al nel continuare a volare in sicurezza risiede nella sua tecnologia di difesa missilistica all'avanguardia, che equipaggia tutti gli aerei commerciali della sua flotta. El Al è stata la prima compagnia aerea al mondo a implementare tale tecnologia su tutta la sua flotta, iniziando nel 2004 con un sistema chiamato Flight Guard, originariamente sviluppato dall'aeronautica militare israeliana.
Anche se i dettagli specifici sulla tecnologia non sono stati resi pubblici, El Al ha dichiarato che il sistema rileva i missili sparati nelle vicinanze dell'aereo. Quando viene identificata una minaccia, l'aereo rilascia automaticamente dei razzi per deviare i missili in arrivo dai bersagli previsti.
In risposta ai problemi di sicurezza legati al potenziale rischio di incendio di Flight Guard, nel 2014 El Al è passata a un sistema più avanzato, noto come C-MUSIC. Sviluppato da Elbit Systems, il C-MUSIC è descritto come un sistema DIRCM (Directed Infra-Red Counter Measure), che offre una potente protezione contro i MANPADS (Man-Portable Air Defense Systems), missili terra-aria specificamente progettati per colpire gli aerei.
A differenza del suo predecessore, C-MUSIC non si basa sui razzi. Utilizza invece un raggio laser per disturbare i sensori dei missili in arrivo. Il calore generato dal laser fa sì che il missile modifichi la sua traiettoria, salvaguardando di fatto l'aereo. Questo sistema innovativo è certificato dall'Autorità per l'aviazione civile ed è stato installato su un'ampia gamma di aerei commerciali, nonché su aerei che trasportano capi di Stato e altri VIP.
Una delle caratteristiche più notevoli del sistema C-MUSIC è la sua natura completamente automatizzata, con un tempo di risposta inferiore ai due secondi. Ciò garantisce che il sistema non richieda alcun intervento da parte del pilota, consentendo una difesa immediata e senza soluzione di continuità contro le minacce missilistiche.
L'impegno di El Al per la sicurezza dei passeggeri attraverso l'innovazione tecnologica esemplifica la dedizione di Israele alla protezione della popolazione e al mantenimento di una solida sicurezza nazionale. Essendo l'unica compagnia aerea al mondo a dotare l'intera flotta di una tecnologia antimissile così avanzata, El Al stabilisce uno standard elevato per la sicurezza aerea.
Continuando a operare in mezzo alle minacce regionali, El Al non solo dimostra l'efficacia dei suoi sistemi di difesa, ma rafforza anche la resilienza di Israele di fronte alle avversità. La capacità della compagnia aerea di mantenere le operazioni in tempi di crisi evidenzia la forza e l'ingegno dello spirito israeliano.
Rimanete informati sugli sviluppi della sicurezza aerea e della sicurezza regionale iscrivendovi alla nostra newsletter e condividete questo articolo per far conoscere le tecnologie di difesa all'avanguardia di Israele.
(Israfan, 7 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Erdan: il silenzio ONU sulle minacce iraniane a Israele come il silenzio sui nazisti
Il durissimo discorso di commiato all'ONU dell'ambasciatore Gilad Erdan
Nel suo discorso di commiato a New York, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha affermato che il silenzio delle Nazioni Unite sulle minacce iraniane di attaccare Israele assomiglia al silenzio globale quando i nazisti completarono i loro piani per l’Olocausto.
“L’Iran e i suoi proxy minacciano di attaccarci da ogni direzione. Coloro che cercano di farci del male devono sapere che non ci lasceremo scoraggiare. Devono sapere che pagheranno un prezzo pesante e che il nostro lungo braccio li raggiungerà ovunque”, ha affermato.
Anche oggi, mentre l’Iran minaccia apertamente di “punire Israele”, le Nazioni Unite sono di nuovo in silenzio. L’Iran ha inteso questo silenzio come un via libera per portare avanti i suoi preparativi per attaccare milioni di israeliani. Milioni che stanno aspettando proprio ora”, afferma Erdan.
“L’attuale silenzio delle Nazioni Unite sull’Iran ricorda il silenzio globale dopo la Conferenza di Wannasee del 1942, quando la leadership nazista decise la soluzione finale. Hanno inteso questo silenzio come un via libera per l’assassinio di milioni di ebrei”, ha dichiarato.
Erdan saluta il suo lavoro presso l’organizzazione “ipocrita”, in particolare durante la guerra tra Israele e Hamas.
“Ho avuto l’immenso, immenso privilegio di rappresentare Israele alle Nazioni Unite. Mi sono svegliato ogni mattina con la chiara missione di dimostrare che Israele è uno Stato morale, un Paese che ha a cuore la vita e la pace, un Paese che vuole proteggere i suoi cittadini come qualsiasi altro Paese, e uno Stato con l’esercito migliore e più etico del mondo – l’IDF”, ha dichiarato.
“Ho fatto tutto il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli orrori del 7 ottobre, sui nostri ostaggi… e sulle violenze sessuali che abbiamo subito dalle donne israeliane. L’ho fatto in tutti i modi possibili e con tutti i mezzi a mia disposizione, sì. Era un modo per sensibilizzare, scioccare, gridare per coloro che non possono farlo”, aggiunge.
Un ringraziamento da parte di Rights Reporter all’ambasciatore Gilad Erdan per il lavoro davvero encomiabile e certosino che ha fatto per Israele e soprattutto alla sua sempre gradita disponibilità.
(Rights Reporter, 7 agosto 2024)
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Olimpiadi – Il trionfo di Amit Elor, lottatrice da record
Imbattuta da cinque anni, campionessa del mondo in carica, numero uno del ranking internazionale.
La wrestler statunitense Amit Elor arrivava alle Olimpiadi di Parigi da grande favorita. Come da pronostico, si è consacrata campionessa olimpica nella lotta libera al limite dei 68 chili, sconfiggendo in finale la kirghisa Meerim Zhumanazarova medaglia di bronzo in carica.
Vent’anni compiuti a gennaio, ne aveva appena quattro quando iniziò a combattere, Elor è la più giovane lottatrice nella storia dello sport Usa ad aggiudicarsi l’oro olimpico. In tasca ha due passaporti, quello americano e quello israeliano. «Sono orgogliosa di rappresentare gli Stati Uniti, ma nel mio cuore rappresento anche Israele», ha raccontato in una intervista con Ynet alla vigilia dei Giochi. In Israele emigrarono i suoi nonni sopravvissuti alla Shoah. Da Israele si trasferirono negli Usa i suoi genitori, negli anni Ottanta. Amit è nata in California. Prima dell’età scolare parlava solo ebraico.
Nell’intervista con Ynet, Elor si era detta «scioccata» per la barbarie raggiunta da Hamas il 7 ottobre e «profondamente rattristata e preoccupata per tutto ciò che è seguito: dolore, sofferenza e perdita sono insopportabili». Pertanto, aveva aggiunto l’atleta, «se la mia partecipazione alle Olimpiadi potrà portare anche solo un po’ di gioia in Israele, tutto il duro lavoro e tutti i sacrifici compiuti saranno stati ripagati».
Nell’albo d’oro olimpico, rileva la stampa israeliana, Elor va a fare compagnia ad altri illustri lottatori ebrei del passato. Tra gli altri l’ungherese Károly Kárpáti, che vinse a Berlino nel 1936 e fu poi deportato in campo di sterminio, riuscendo a sopravvivere. E l’americano Henry Wittenberg, vincitore a Londra nel 1948, alla cui memoria è stato dedicato un torneo annuale di wrestling alla Yeshiva University. Wittenberg ottenne poi un argento ai successivi Giochi di Helsinki. A Los Angeles 2028, nella sua California, c’è da scommettere che Elor punterà al bis.
(moked, 7 agosto 2024)
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Il ricordo di Millar e il futuro dei drusi del Golan
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Millar Maadad al-Shaar sorride timido davanti alla telecamera
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Millar Maadad al-Shaar sorride timido davanti alla telecamera. È un bambino di dieci anni, ama il calcio e indossa la maglia dei suoi idoli del Real Madrid. Con innocenza legge un breve testo in ebraico che si è preparato. «Io e te cambieremo il mondo. Faremo tutto con amore e speranza. Siamo tutti amici, tutti fratelli. Vogliamo vivere in pace e tranquillità. Vogliamo la pace per tutto il mondo». Un messaggio semplice, registrato nel corso della lunga guerra innescata contro Israele dai terroristi di Hamas a Gaza con la collaborazione a nord di Hezbollah. Una guerra che si è portata via il piccolo Millar. Il 27 luglio era insieme ad amici e parenti a giocare nel campetto da calcio del suo villaggio, Majdal Shams, sulle alture del Golan. Un razzo di Hezbollah, sparato dal vicino Libano, ha centrato il campetto, uccidendo Millar e altri undici ragazzi tra i 10 e 16 anni. «Nel nostro villaggio siamo tutti una grande famiglia e ognuno di quei ragazzi era nostro figlio», ha spiegato a ynet Nael Ebrahim, padre del tredicenne Julian, ferito nell’attacco. «C’è grande rabbia. Sono stati colpiti bambini che giocavano a calcio e volevano solo divertirsi. Il loro sogno era quel campo da calcio. Non doveva essere un luogo di razzi, di politica, di disastri, ma di sogni».
Il padre di Millar, racconta il giornalista dell’emittente Kan Rubi Hammerschlag, ha chiesto di far circolare il video del figlio per lanciare un messaggio di pace in un momento molto difficile per la comunità drusa d’Israele. Circa 150mila persone parte di una tradizione che si è staccata dall’Islam nell’XI secolo e da allora professa una religione propria. In tutto si stima che i drusi siano quasi due milioni nel mondo, concentrati soprattutto in Medio Oriente, tra Siria, Libano, Israele e Giordania.
• I drusi del Golan
L’attacco di Hezbollah è una ferita che avrà ripercussioni importanti su questa minoranza, prevede sul sito The Conversation Rami Zeedan, professore di Israeli Studies all’Università del Kansas. Zeedan ricorda come Majdal Shams e i tre villaggi gemelli delle alture del Golan – Mas’ade, Buq’ata e Ein Qiniyye – rappresentino un’eccezione nello stato ebraico. Da quando Israele nel 1967 ha conquistato l’area, i drusi qui hanno sempre rivendicato le loro radici siriane. I pochissimi hanno riconosciuto nel 1981 la decisione di Gerusalemme di estendere sulle alture del Golan la propria sovranità. A differenza del resto della comunità sparsa per Israele e pienamente integrata – tanto da far parte dell’esercito –, i drusi del Golan «si considerano siriani», spiega Zeedan. «La maggior parte ha rifiutato la cittadinanza israeliana, anche se la legge di annessione del 1981 consente loro di ottenerla». Nell’ultimo decennio però qualcosa è cambiato. «Tra il 20 e il 25% della comunità del Golan è diventata israeliana».
Durante i funerali dei dodici bambini uccisi da Hezbollah, i rappresentanti del governo israeliano sono stati contestati. L’accusa è di aver abbandonato i villaggi del nord al proprio destino. Ma la rabbia è soprattutto diretta verso i terroristi libanesi: «Satana (Hezbollah) sarà distrutto», scandivano gli abitanti di Majdal Shams in una manifestazione all’indomani dei funerali. «L’attacco avrà un impatto significativo sulle comunità druse. Potrebbe allontanare ulteriormente i drusi del Golan dalla loro identità siriana, creando un destino più condiviso con Israele», scrive Zeedan, a sua volta parte della comunità drusa. La tragedia potrebbe essere l’occasione «per espandere l’integrazione dei drusi del Golan nella società israeliana, analogamente agli altri drusi del paese».
(moked, 6 agosto 2024)
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Angelica Calò Livnè: Perché Unifil non tiene Hezbollah a distanza?
«Qui da noi funziona così: prima senti il botto e poi la sirena. Come a Majdal Shams».
È un rumore purtroppo familiare per gli abitanti del kibbutz Sasa in Alta Galilea, da sempre e ancora di più dopo il 7 ottobre. Migliaia i missili passati sopra le loro teste in questi mesi, lanciati da Hezbollah appena oltre il confine con il Libano. Quel confine che i pochi residenti rimasti a presidiare il kibbutz scrutano in queste ore con particolare angoscia. «I missili ci passano appena sopra, a volte di fianco. Puntano ad alcune basi militari vicine, ma hanno colpito Sasa più volte», racconta l’educatrice di origine romana Angelica Edna Calò Livne, una delle colonne del kibbutz.
L’auditorium in particolare è stato danneggiato da un missile di fabbricazione russa con la gittata di cinque chilometri, ma è capitato che alcuni ordigni esplodessero anche nel frutteto durante la raccolta delle mele. «Rispetto ai primi mesi di guerra, dei pochi che eravamo oggi siamo ancora meno. Dormiamo tutti nella stanza blindata, a parte la squadra di difesa incaricata di vigilare sulla sicurezza di Sasa. Anche per loro, comunque, alcune aree sono off-limits», spiega Angelica. Tra i sentimenti prevalenti di queste ore «più che la paura sento molta rabbia, anche nei confronti del contingente Unifil che dovrebbe in teoria vigilare affinché i terroristi rimangano alla debita distanza da Israele; e invece sono qui, vicini, appena oltre confine. Sono pronti per entrare in Israele a piedi, in qualunque momento, addestrati con foglietti in tasca con le istruzioni su come uccidere, violentare, rapire. Hanno capito, d’altronde, che gli ostaggi possono rappresentare una montagna d’oro». Per un’attivista per il dialogo come Angelica «fa rabbia anche non poter pensare a nulla di positivo». Con qualche eccezione per fortuna. «La donna araba che lavora con noi in cucina, una mia grande amica, mi ha fatto vedere la foto di alcuni regali acquistati per i suoi nipotini. Mi ha poi raccontato di averli comprati a Jenin. Anche il nostro elettricista, pure lui arabo, mi ha detto che per i suoi acquisti si reca lì. Ho pensato allora che non tutto è perduto, che alcuni canali sono ancora aperti, che esiste ancora una speranza per un futuro di pace per israeliani e palestinesi».
(moked, 6 agosto 2024)
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Etica e spirito d’iniziativa, un secolo di storia dell’autodifesa israeliana
di Ugo Volli
Il terrorismo arabo contro la popolazione ebraica di Israele non è nato naturalmente il 7 ottobre 2023 e neppure con le due “intifade”, con la liberazione di Giudea e Samaria del 1967 o con l’indipendenza del 1948. L’inizio della violenza sistematica risale agli anni Venti del Novecento, quando bande arabe cercavano di depredare e distruggere i primi insediamenti ebraici. A quel momento risale il primo embrione dell’autodifesa di Israele: un movimento che si chiamava HaShomer (il guardiano) e addestrava all'uso di armi personali qualche membro per ognuno dei kibbutz e degli altri insediamenti. Lo guidava il primo eroe di guerra di Israele, ancora oggi ricordato con partecipazione: Iosif Trumpeldor ufficiale formato in Russia, immigrato nel 1912, caduto nel 1920 nella difesa dell’insediamento di Tel Hal, in Galilea settentrionale.
Quando gli assalti arabi si intensificarono, fra gli anni Venti e Trenta, la direzione sionista fondò la Haganà (difesa), un’organizzazione paramilitare che arrivò nel ’36 a un organico di 10mila uomini e 40mila riservisti. Si trattava soprattutto di difendersi dagli attacchi arabi, ma i rapporti con i britannici che governavano il Mandato non furono mai facili, perché essi preferivano non alienarsi il mondo musulmano, limitando molto fortemente l’autogoverno e l’immigrazione ebraica anche dopo l’inizio delle persecuzioni naziste in Europa. La Haganà fu coinvolta in scontri con gli inglesi fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, quando la direzione sionista incoraggiò gli ebrei ad arruolarsi con loro e dopo molti sforzi riuscì a vincere la diffidenza britannica: fu costituita la Brigata ebraica. In questo periodo, per dissensi politici, si separarono dalla Haganà due gruppi di destra, l’Irgun Tzvai Leumi (“organizzazione militare nazionale”) e il Lehi (sigla per Loḥamei Ḥerut Israel, “Combattenti per la libertà d’Israele”). Come forza speciale della Haganà fu costituito il Palmach (sigla per Plugot Maḥaṣ “compagnie d’attacco”). Alla fine della guerra essi ripresero gli scontri da due parti, con gli arabi e gli inglesi, fino alla loro rinuncia al mandato. La proclamazione dello Stato di Israele fu accolta dai Paesi arabi circostanti con una guerra di sterminio e in questa occasione Ben Gurion riorganizzò tutte le forze precedenti nella Tsvá haHaganá leYisraél, in sigla Tsáhal, “l’armata di difesa d’Israele”, che spesso si indica con la sigla inglese IDF (Israel Defence Force).
Con forze molto minori e armamenti inadeguati, raccolti in giro per il mondo o rappezzati in Israele, l’IDF riuscì in quasi due anni di combattimenti a bloccare l’avanzata degli eserciti arabi, a rompere il terribile assedio di Gerusalemme pur perdendo la città vecchia, ad assicurare al nuovo Stato un territorio connesso dalla Galilea fino a Eilat. È sulla base dei quadri, dello spirito e dell’etica sviluppati nella guerra di indipendenza che l’esercito israeliano riuscì ad affrontare vittoriosamente le tre guerre successive contro gli eserciti arabi (1956, 1967, 1973), le campagne del Libano e le varie ondate terroristiche.
Nel corso dei decenni, Israele ha arricchito le proprie forze armate con una marina tecnologicamente avanzata, inclusi sommergibili e navi lanciamissili; con forze corazzate di ottimo livello, equipaggiate con veicoli prodotti in Israele, i famosi carri “Merkavà”; con un’aviazione fra le più forti del mondo equipaggiata con aerei americani (fra cui gli F35 “Adir”) dopo il fallimento del progetto di costruire un vettore nazionale e di una complessa difesa antimissile composta da tre strati (“Iron dome”, “David’s sling”, “Arrow”) cui si stanno aggiungendo armi laser. In genere, l’integrazione con la ricerca scientifica e tecnologica è il punto di forza dell’IDF, con forti ricadute anche sull’industria civile. Ma al cuore del progetto ci sono gli uomini e le donne di Israele, la loro dedizione, l’eroismo che si è visto anche durante il conflitto in corso.
(Shalom, 6 agosto 2024)
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Israele e Taiwan, una storia comune di sopravvivenza
di Nathan Greppi
Sin da prima del 7 ottobre, le relazioni sino-israeliane sono sempre state assai ambigue: se sul piano economico la Cina è il principale partner commerciale d’Israele in Asia, sul piano politico il governo di Pechino ha fortemente attaccato l’intervento israeliano a Gaza, oltre ad aver ospitato dei negoziati tra Hamas e Fatah in vista di una loro possibile riconciliazione. Per contro, lo Stato Ebraico ha inviato una delegazione parlamentare a Taiwan, oltre a firmare una dichiarazione congiunta all’ONU per condannare la Cina per violazioni dei diritti umani contro gli uiguri.
Proprio Taiwan sembra essersi avvicinata ulteriormente ad Israele: dopo il 7 ottobre, tra i primi leader mondiali ad aver condannato l’attacco di Hamas vi furono sia l’allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen che l’attuale presidente, Lai Ching-te. Mentre Abby Lee, rappresentante di Taiwan a Tel Aviv, è persino andato a lavorare come volontario nei campi agricoli e ha incontrato i familiari degli ostaggi.
Una delle principali ragioni di questa vicinanza tra Taipei e Gerusalemme (sebbene non manchino manifestazioni propal neanche a Taiwan) risiede nel fatto che così come gli israeliani devono da decenni difendersi da vicini ostili, così i taiwanesi vivono con il costante timore di essere invasi dalla Cina, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza dell’isola e spera prima o poi di riuscire a riconquistarla.
Per capire come si sono evolute le relazioni tra i due paesi e cosa potrebbe accadere qualora le minacce cinesi dovessero concretizzarsi, Mosaico ne ha parlato con Chris King: nato e cresciuto in Cina (il nome è uno pseudonimo), dove nel 1989 ha preso parte alle proteste studentesche contro il regime stroncate dal massacro di Piazza Tienanmen, oggi vive negli Stati Uniti. Dal 2020 è ricercatore senior presso il MEMRI (Middle East Media Research Institute), dove è tra i curatori del Chinese Media Studies Project.
- Quali erano i rapporti tra Taiwan e Israele prima del 7 ottobre? Per rispondere a questa domanda, penso che sia necessario chiarire il contesto storico dello sviluppo nelle relazioni tripartite tra Israele, la Repubblica di Cina (come si autodefinisce Taiwan, ndr) e la Repubblica Popolare Cinese.
Prima del massacro del 7 ottobre, il governo di Taiwan si teneva ad una certa distanza da Israele. Sebbene le relazioni tra i due paesi fossero generalmente buone, queste mancavano di un forte legame ed erano largamente influenzate e limitate da fattori legati al PCC (Partito Comunista Cinese).
Già all’inizio del marzo 1949, poco dopo la nascita d‘Israele, il governo della Repubblica di Cina riconobbe ufficialmente Israele. Il 9 gennaio 1950, sulla base del principio della diplomazia pragmatica, il governo israeliano riconobbe ufficialmente la neonata Repubblica Popolare Cinese, diventando il primo paese del Medio Oriente a riconoscere il regime comunista.
A quel tempo, il regime del PCC, fortemente influenzato dall’URSS, presentava una forte convergenza con la politica estera sovietica. Siccome Israele all’inizio della sua fondazione era stato sostenuto dall’Unione Sovietica, il PCC riconobbe e accolse con favore la creazione di Israele. Dopo la guerra d‘indipendenza nel 1949, i rapporti tra l‘URSS e Israele si deteriorarono, finché le relazioni diplomatiche non furono interrotte. Di conseguenza, anche la Repubblica Popolare Cinese smise di riconoscere Israele e appoggiò gli Stati arabi.
Da allora, sebbene Israele abbia cercato di stabilire relazioni diplomatiche formali con il governo cinese, Pechino lo ha a lungo ignorato. Ad esempio, nel 1955 il governo israeliano inviò una nota al Ministero degli Affari Esteri cinese dicendo che era “pronto a stabilire relazioni diplomatiche con la Cina”, ma i cinesi rifiutarono.
Allo stesso tempo, anche se le relazioni tra Israele e Pechino erano state difficili per molto tempo, Israele aveva evitato contatti aperti con il regime del Kuomintang a Taiwan per ragioni strategiche, e non aveva stabilito relazioni diplomatiche. Israele e la Repubblica di Cina di Taiwan non hanno instaurato relazioni diplomatiche per rispettive considerazioni: oltre al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte d‘Israele, Taiwan adottò anche una posizione vicina agli arabi e distante da Israele, basata sulla necessità di ottenere il sostegno diplomatico degli Stati arabi e di competere con Pechino sul piano delle relazioni.
Dagli anni ’70 in poi, Israele e Taiwan hanno stretto forti relazioni in vari campi come la tecnologia missilistica, quella nucleare, il settore aerospaziale, l’agricoltura, gli investimenti e il commercio. Ma questa relazione è rimasta fredda e distante.
- Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre, e nel corso della guerra attuale? Come dice un proverbio cinese, “Chi è amico nel bisogno è davvero un amico”. Il governo di Taiwan è stato tra i primi a condannare Hamas dopo il massacro del 7 ottobre. Ciò dimostra a Israele chi sono i suoi veri amici. La vicinanza tra i due paesi, basata su valori condivisi nel campo democratico occidentale e sulla simile esperienza di minaccia da parte dei regimi dittatoriali che li circondano, è cresciuta rapidamente. C’è chi ha sostenuto che Israele e Taiwan condividano un profondo legame: entrambi difendono fermamente la democrazia e la libertà, nonostante siano circondati da vicini autoritari.
- Cosa può dirci invece dei rapporti tra Israele e la Cina? A mio parere, l’atteggiamento amichevole di Israele nei confronti di Pechino in passato si basava inizialmente sul principio diplomatico del realismo, ma era anche dettato dalla gratitudine nei confronti del governo cinese per aver teso una mano agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Il problema è che coloro che hanno aiutato gli ebrei durante la guerra erano nel governo del Kuomintang al potere in Cina all’epoca, e questo governo si è rifugiato a Taiwan dopo il 1949.
L’aiuto agli ebrei da parte della Cina non ha nulla a che fare con il Partito Comunista Cinese. Ad esempio, il governo di Taiwan ha rilasciato dei “visti a vita” ad un gran numero di ebrei europei in fuga dalla Germania nazista. Inoltre, nel 1939 il governo nazionalista della Repubblica di Cina pianificò la creazione di un insediamento ebraico a Tengchong, nella provincia dello Yunnan. Al contrario, Pechino finora si è astenuta dal condannare Hamas dopo il massacro del 7 ottobre.
Penso che l’orientamento politico di Pechino sia radicato nella sua storia, e miri principalmente agli Stati Uniti. Ai tempi di Mao Zedong, per opporsi al cosiddetto colonialismo, questi mise in atto una serie di politiche in Medio Oriente, sostenendo i movimenti nazionalisti nel mondo arabo e in particolare favorendo l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), che è stata fondata solo nel 1964, nonostante il fatto che non esistesse il concetto di uno Stato palestinese al momento della nascita d‘Israele.
Nel 1965, i rappresentanti dell’OLP visitarono Pechino. Durante l’incontro, Mao paragonò Israele a Taiwan, dicendo che i due paesi erano stati creati dall'”imperialismo” per contenere gli arabi e i cinesi. Da queste parole si poteva già vedere che Pechino, per esigenze strategiche e di politica internazionale, considera Israele un paese ostile come gli Stati Uniti.
Sebbene da allora la Cina abbia migliorato i rapporti con gli Stati Uniti e l’Occidente, stabilendo relazioni diplomatiche con Israele nel 1992, l’inerzia della sua politica in Medio Oriente, le vaste differenze ideologiche e la necessità di sopprimere le forze islamiche radicali in patria hanno reso impossibile per Pechino schierarsi con Israele nei momenti critici. È chiaro che questo atteggiamento è fondamentalmente guidato dalla necessità della Cina di indebolire il dominio degli Stati Uniti in Medio Oriente.
- Proprio come Israele, Taiwan affronta da decenni lo stigma di paesi che negano il suo diritto di esistere. In che modo questo ha influenzato la loro relazione? L’isolamento di Taiwan e l’indifferenza della comunità internazionale in realtà sono molto più grandi di quelli verso Israele. Fondata su un destino simile e su valori condivisi, la società taiwanese è piena di ammirazione per Israele, e sperare di diventare l’Israele dell’Oriente, di superare la propria difficile situazione, scongiurare la minaccia dei regimi autoritari, difendere il proprio destino e proteggere la libertà e la democrazia duramente conquistate. Israele ha anche ricevuto un forte sostegno da parte di Taiwan sulla scia del massacro del 7 ottobre: l’ambasciatrice de facto di Israele a Taiwan, Maya Yaron, ha detto ai giornalisti a Taipei che “Taiwan è un vero amico di Israele, e apprezziamo davvero tutto ciò che Taiwan ci ha dato”. Questi legami comuni hanno portato ad un significativo miglioramento delle relazioni tra i due paesi.
- Sebbene la Cina sia vicina all’Iran e ai palestinesi in politica estera, gli scambi commerciali con Israele sono stati molto redditizi per anni. Come spiega questa contraddizione? Come ho detto poc’anzi, il sostegno della Cina alla Palestina e le sue strette relazioni con l’Iran sono motivati principalmente dalla necessità di giocare un ruolo geopolitico in contrapposizione agli Stati Uniti. Sin dall’epoca di Mao, il governo cinese ha cercato di tenere testa agli americani e di intervenire gradualmente negli affari mediorientali per rafforzare la propria voce in Medio Oriente.
Riferendomi alla Dichiarazione di Pechino per porre fine alla divisione della Palestina e rafforzare l’unità nazionale palestinese, firmata alla fine di luglio, credo che Pechino voglia far riappacificare le due principali fazioni palestinesi. Tuttavia, questa dichiarazione è più propensa a rafforzare la posizione di Fatah e a indebolire la posizione di Hamas. Pechino ha mantenuto a lungo stretti legami con Fatah, accettandolo tacitamente come legittimo rappresentante della Palestina. Sebbene il PCC non abbia definito Hamas un’organizzazione terroristica, il suo atteggiamento nei loro confronti è stato relativamente freddo e diffidente. A causa delle esigenze di Pechino di contrastare il terrorismo e il radicalismo islamico interno, questa politica serve alla Cina per mantenere buoni rapporti con il mondo arabo e islamico.
Xi Jinping, l’attuale leader del PCC, emula Mao in molti modi, ma i due sono fondamentalmente diversi. Xi è un realista, mentre Mao era un idealista e un pensatore fanatico. Credo che Xi abbia una chiara comprensione della forza politica, tecnologica e militare di Israele. Anche se il suo regime denuncia sempre Israele verbalmente, sta essenzialmente mettendo in scena uno spettacolo di fronte al mondo, per placare i paesi arabi. Ma dietro le quinte non osa essere troppo duro con Israele, a maggior ragione in un momento in cui Pechino è ansiosa di migliorare le sue relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente, anche perché al momento l’economia cinese è in difficoltà.
- In una sua recente analisi pubblicata sul sito del MEMRI, ha detto che Taiwan non può difendersi militarmente dalla Cina senza il sostegno americano. Quale lezione dovrebbero imparare i taiwanesi dal modello israeliano? Taiwan vorrebbe essere un alleato fondamentale degli Stati Uniti come lo è Israele, ma non è riuscita a raggiungere questo obiettivo. Penso la ragione di ciò sia in parte dovuta al fatto che Taiwan si trova difronte ad una Cina enorme, e le due parti presentano un ampio divario, nella forza militare come in altri ambiti.
Taiwan dovrebbe certamente seguire il modello israeliano e assicurarsi che tutto il popolo sia pronto a combattere unito da una solidarietà comune. Ma quello che abbiamo visto finora è che i taiwanesi hanno speranze irrealistiche di essere protetti dagli Stati Uniti e dai loro alleati. L’attuale sistema di servizio militare taiwanese difficilmente può garantire che Taiwan abbia abbastanza soldati in caso di guerra.
Il modello israeliano è difficile da replicare a Taiwan, dove la maggior parte dei taiwanesi oggi si accontenta di una vita di poca ricchezza e manca dello spirito militare degli israeliani. L’esercito taiwanese crede fondamentalmente che finché le proprie truppe possono ritardare l‘avanzata dell’esercito cinese, si può considerare un successo, e il successivo confronto militare potrebbe contare solo sull’intervento statunitense. In altre parole, non sono ottimista sul fatto che i taiwanesi possano imparare ad applicare il modello israeliano.
- Che peso potrebbero avere sul sostegno americano a Taiwan le elezioni di novembre? Alcuni analisti ritengono che Pechino stia osservando da vicino le elezioni statunitensi. Se Trump verrà rieletto, il PCC potrebbe avere in programma di fare un accordo con lui, perché Trump non è interessato a Taiwan; di recente, ha detto in un’intervista che Taiwan dovrebbe pagare per la protezione americana. Durante il primo mandato di Trump come presidente degli Stati Uniti, ero preoccupato che potesse fare accordi economici con Pechino e abbandonare Taiwan. Fortunatamente, in seguito tra gli Stati Uniti e la Cina è scoppiata una guerra commerciale, facendo sì che questo scenario non si verificasse.
Qualora il Partito Democratico dovesse vincere le elezioni, Xi si è già preparato in anticipo. Alla fine di ottobre dello scorso anno, il governatore della California Gavin Newsom ha visitato la Cina ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte di Xi. È chiaro che Pechino sta cercando di mandare un segnale amichevole all’astro nascente del Partito Democratico.
- Quanto è probabile che la Cina tenti di invadere Taiwan nel breve termine? E cosa dovrebbe fare l’Occidente se ciò accadesse? Non è mai facile fare previsioni del genere, perché ci sono molte variabili. Dipende anche se la Russia deciderà o meno di appoggiare militarmente la Cina. Ma c’è una costante: Xi Jinping cercherà sicuramente di riprendersi Taiwan mentre è in carica. Penso che se le autorità di Taiwan non cercheranno di smantellare lo status quo, è improbabile che la guerra scoppi in un anno o due. Alla base di questo giudizio vi è il fatto che Xi ha commesso errori di valutazione, a partire dal malgoverno in patria durante la pandemia di Covid che ha causato gravi danni all’economia cinese e rimandato i suoi piani per l‘annessione di Taiwan. Ha bisogno di tempo perché la Cina recuperi le proprie forze e raggiunga un relativo vantaggio militare sugli Stati Uniti e i loro alleati a livello locale, e un vantaggio militare schiacciante su Taiwan. Solo quando queste condizioni saranno soddisfatte, Xi potrà decidere di conquistare Taiwan con la forza.
Credo che l’opzione migliore per l’Occidente sia quella di prevenire la guerra, che si tratti di integrare coalizioni militari o di sanzioni economiche contro la Cina. Tra questi, il mezzo più efficace per controllare e frenare l’ambizione di Xi di impadronirsi di Taiwan è quello economico: in altre parole, rendersi indipendenti con fermezza e gradualità dall’economia cinese. Se questa dovesse andare male, la presa del PCC sul potere in Cina potrebbe essere scossa. Solo così Xi potrebbe rinunciare all’idea di impadronirsi di Taiwan.
(Bet Magazine Mosaico, 6 agosto 2024)
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Israele e Stati Uniti. Gioco sporco
Ieri il Corriere della Sera ha riportato una notizia lanciata dal giornale kuwaitiano, Al–Jarida, poi ripresa dal sito Pakistan Defence, e quindi dal sito Global Justice, Syria News, secondo il quale una delegazione americana partita dalla Turchia, si sarebbe incontrata in Oman con la controparte iraniana, a cui avrebbe sostanzialmente espresso rincrescimento per l’uccisione a Teheran di Ismail Hanyieh, una delle figure di maggiore spicco di Hamas, sottolineando che gli americani non sapevano niente. Di seguito avrebbero invitato l’Iran a una rappresaglia moderata nei confronti di Israele per evitare di rafforzare Netanyahu, oltre a specificare che è nell’interesse di Stati Uniti e dell’Iran rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano da cui Trump è uscito nel 2018. A marzo di quest’anno, il Financial Times riferiva di incontri segreti tra americani e iraniani sempre in Oman, finalizzati a convincere quest’ultimi ad esercitare la loro influenza sugli Houti per terminare i loro attacchi contro le navi nel Mar Rosso.
Che l’incontro abbia avuto realmente luogo è difficile stabilirlo, e il fatto che nel pezzo di Al-Jarida sia specificato che agli iraniani sarebbe stato anche fornito l’elenco dei dieci agenti del Mossad che hanno partecipato all’uccisione di Haniyeh, appare scarsamente verosimile, tuttavia il resto no.
L’Amministrazione Biden prosegue fin dal suo insediamento nel 2021 la medesima politica di appeasment nei confronti del regime di Teheran che è stato uno dei pezzi forti dell’Amministrazione Obama, culminata nel 2015 con l’accordo sul nucleare iraniano conosciuto come JCPOA, che Israele cercò di sventare senza successo, e da cui Donald Trump è uscito nel 2018.
In una memorabile audizione al Senato di due mese fa, il senatore Ted Cruz, ha messo il segretario di Stato Antony Blinken con le spalle al muro, fornendo una serie di dati sull’aumento delle vendite del petrolio da parte dell’Iran dal 2021 ad oggi, sull’incremento della sua flotta di navi pirata e sull’ingente flusso di denaro che l’Amministrazione in carica ha provveduto a fare arrivare con continuità al regime di Teheran, “Avete iniziato a inondare di soldi l’Iran dal primo giorno in cui vi siete insediati…l’Iran esportava trecentomila barili di greggio al giorno quando siete arrivati alla Casa Bianca, ora ne esporta due milioni. Il novanta per cento dei fondi che arrivano a Hamas provengono dall’Iran”.
Dopo l’uccisione di Ismail Hanyieh, Blinken si è preoccupato immediatamente di rassicurare pubblicamente Teheran che gli Stati Uniti non erano coinvolti in alcun modo. L’Iran doveva sapere che l’unico responsabile è Israele. Non c’è da meravigliarsi, la maggioranza dei funzionari di spicco dell’Amministrazione Biden, e soprattutto quelli dedicati al dossier mediorientale e iraniano provengono dalla più filoiraniana delle amministrazioni americane, quella Obama, di cui qui su l’Informale, ha scritto David Elber, tra cui spiccava Robert Malley, il principale artefice dell’accordo sul nucleare iraniano, e di cui, il senatore Tom Cotton fece presente, quando venne ricofermato la sua “lunga storia di simpatia per il regime iraniano e animosità verso Israele”. A luglio dello scorso anno Malley è stato costretto alle dimissioni sotto accusa di avere condiviso materiale classificato con una fonte non identificata, e attualmente risulta sotto indagine da parte dell’FBI .
A tutto ciò si aggiunge l’esplicita avversione dell’amministrazione in carica nei confronti di Netanyahu e del governo da lui presieduto, che non è mai venuta meno, e i cui risultati si sono visti e si stanno vedendo in merito alla guerra in corso a Gaza, che gli Stati Uniti vogliono chiudere ad ogni costo, partendo dalla premessa che Hamas non possa essere sconfitto militarmente e che ci voglia una soluzione politica, come ha esplicitato una recente indagine della CNN, intesa a presentare i risultati ottenuti dall’esercito israeliano a Gaza come modesti, e assai al di sotto delle aspettative, indagine contestata rapidamente dall’esercito israeliano il quale ha rivendicato i successi conseguiti e il progressivo smantellamento della struttura operativa di Hamas.
Non è dunque essenziale appurare se l’incontro in Oman, smentito da autorità iraniane abbia avuto realmente luogo, poiché in ciò che sarebbe stato detto dagli americani agli iraniani si manifesta in modo del tutto veritiero l’atteggiamento adottato dall’Amministrazione Biden verso l’Iran e nei confronti di Netanyahu.
(L'informale, 6 agosto 2024)
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Gli Stati Uniti dunque vogliono chiudere ad ogni costo la guerra di Gaza perché credono che Hamas non può essere sconfitto militarmente da Israele e quindi chiedono una soluzione politica. Al contrario, sono convinti che la Russia può essere sconfitta militarmente dall’Ucraina e quindi rifiutano ogni soluzione politica. Non è evidente la stupidità dell’accostamento? Ci vuole molto per capire che il gioco è sporco in entrambi i casi? Sì, ci vuole molto per chi è convinto che salvare Israele significa salvare l’Occidente e che il salvatore unico dell’Occidente, e dunque del mondo intero, non può essere che l’America, quella “canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora”. Chi vuole illudersi, può farlo. M.C.
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Lo scalpo di Haniyeh agevola Netanyahu, ma ora il conflitto di terra è più vicino
Il premier israeliano ha messo in conto uno scontro regionale senza ascoltare i dubbi americani. Teheran pensa di usare Hezbollah per sfondare le difese aeree dello Stato ebraico: Libano in bilico.
di Ettore Sequi
Le analisi sulla crisi in Medio Oriente si concentrano in queste ore sulla imminente risposta iraniana all’uccisione, a Teheran, del leader politico di Hamas, Haniyeh.
L’Iran ha diverse opzioni per colpire Israele: la prima, una replica dell’attacco di aprile, con missili e droni. La seconda, più pericolosa e forse più realistica, un attacco diretto dal territorio iraniano, coordinato con un massiccio attacco missilistico di Hezbollah. In tal caso il Partito di Dio utilizzerebbe assetti missilistici ma non effettuerebbe incursioni di terra, per mancanza dell’effetto sorpresa e a causa del rafforzamento della presenza militare israeliana al confine con il Libano. A seconda del grado di coinvolgimento di Hezbollah, Israele potrebbe decidere di avviare una operazione in territorio libanese, per ridurne la minaccia in caso di scontro diretto con l’Iran.
Si tratta di attendere pochi giorni, forse ore, per scoprirlo.
Intanto, gli Stati Uniti hanno rafforzato la propria presenza nell’area con due obiettivi: deterrenza verso un attacco iraniano di vasta portata e difesa attiva per abbattere missili e droni prima che raggiungano i bersagli.
Gli interessi dei soggetti coinvolti in questa crisi sono molteplici, contrastanti o coincidenti, e si intersecano a volte sovrapponendosi tra loro, come in un gioco di specchi deformanti.
La continuazione della guerra è, per Netanyahu, l’assicurazione della continuazione della sua vita politica. L’uccisione di Haniyeh ha la conseguenza, probabilmente cercata, di bloccare i negoziati per un cessate il fuoco e quella, certamente dolorosa ma calcolata, di impedire la liberazione degli ostaggi in tempi brevi. Netanyahu può aggiungere ora alla lista dei nemici eliminati dall’inizio delle operazioni il pregiatissimo scalpo di uno dei capi di Hamas.
La crisi attuale ha certamente un impatto severo sull’immagine degli Stati Uniti. Biden, fin dall’inizio, ha sperato che la guerra a Gaza potesse restare circoscritta. I fatti hanno mostrato il contrario, ampliando progressivamente il numero e la rilevanza degli attori direttamente coinvolti: Hezbollah, Houthi e ora Iran. Tuttavia, né Washington né Teheran hanno interesse a un confronto diretto.
L’Amministrazione americana, alle prese con le turbolenze della campagna elettorale, ha sistematicamente incontrato serie difficoltà a far accettare a Netanyahu i propri consigli di moderazione e il proprio piano di pace. La stessa uccisione di Haniyeh, avvenuta solo pochi giorni dopo l’incontro tra Biden e Netanyahu a Washington, ha confermato la grande indipendenza del primo ministro israeliano. Tutto ciò ha finito per indebolire l’immagine degli Stati Uniti e creare la percezione di un vuoto di potere nella regione. Un danno reputazionale per Washington, suscettibile di conseguenze anche in altri scenari. Cina e Russia lo hanno notato.
L’attentato ad Haniyeh, per le circostanze in cui ha avuto luogo, è stato un colpo durissimo per il regime iraniano. Una vera e propria umiliazione e il messaggio di Israele di poter colpire ovunque i propri nemici. Teheran non può fare a meno di rispondere con durezza per non offrire una pericolosa immagine di debolezza, rischiando di compromettere i propri interessi strategici: scacciare gli Stati Uniti dal Medio Oriente; indebolire Israele; conseguire una leadership regionale a danno degli Stati sunniti dell’area; alimentare l’Asse della Resistenza, ovvero Hezbollah, Houthi, Hamas e milizie shi’ite come proprio presidio e braccio operativo. Ma il regime deve salvare la faccia anche all’interno del Paese, affetto da crescenti tensioni sociali e difficoltà economiche. È poi assai probabile che questa crisi dia l’impulso definitivo all’Iran per dotarsi dell’arma nucleare.
I Paesi arabi sunniti condividono con Israele la minaccia esistenziale di una egemonia regionale iraniana e l’interesse a evitarla. Essi quindi si sono astenuti dal prendere posizioni estreme verso Israele, pur dovendo tener conto della indignazione delle proprie opinioni pubbliche per la catastrofica situazione umanitaria a Gaza e il pesantissimo bilancio di vittime civili nella Striscia. Gli Stati arabi sunniti continueranno dunque a lavorare discretamente con gli Stati Uniti temendo gli effetti indiretti, politici, economici e in termini di stabilità regionale, dell’imminente attacco iraniano. In tempi di pace questi Paesi cercano una distensione con Teheran, mentre in tempi di crisi continuano a percepire le attività iraniane come destabilizzanti e contrarie ai loro interessi.
Hamas, infine. L’attentato ad Haniyeh rischia di causare la radicalizzazione di Hamas, rafforzando l’ala militare, la più dura e riluttante a concessioni, rendendo così più difficili i negoziati per una tregua e il rilascio degli ostaggi.
Saranno le modalità delle azioni iraniane e della prevedibile risposta israeliana a definire i futuri sviluppi di queste complesse interazioni.
(La Stampa, 5 agosto 2024)
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Tra Israele e Hezbollah è guerra di spie: partita la caccia all'uomo
Le operazioni letali di Israele a Beirut e a Teheran sollevano il sospetto che Tel Aviv abbia potuto contare su agenti doppiogiochisti tra gli uomini di Hezbollah e del regime iraniano.
di Valerio Chiapparino
Non è solo l’ora della vendetta quella scattata dopo la neutralizzazione del numero due di Hezbollah Fuad Shukr e del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. Infatti, in parallelo all’organizzazione da parte della Repubblica islamica e del Partito di Dio della rappresaglia agli attacchi lanciati da Israele a seguito della strage di bambini al campo da calcio nel Golan, attribuita ai miliziani libanesi, sia a Beirut che a Teheran si sta consumando una febbrile caccia alla talpa.
Come è possibile, si chiedono gli alleati del regime degli ayatollah, che lo Stato ebraico sia riuscito a localizzare e ad eliminare esponenti così in vista dell’Asse della resistenza iraniana? Negli scorsi giorni il New York Times citando fonti anonime ha svelato che il 31 luglio ad uccidere Haniyeh sarebbe stata una bomba piazzata mesi fa nel suo rifugio nella capitale dell'Iran. Un’impresa impossibile da eseguire se non con il supporto di agenti infiltrati dagli 007 di Tel Aviv.
Un copione simile sarebbe andato in scena a Dahieh, il sobborgo meridionale di Beirut controllato da Hezbollah, dove qualche giorno prima Shukr è stato eliminato da un missile israeliano. Ad affermarlo sono i giornalisti di Al-Janoubia, vicina ai guerriglieri libanesi, che hanno ricordato l’avversione alla tecnologia del loro comandante il quale ha sempre evitato registrazioni video e vocali rendendo così i suoi spostamenti impossibili da rintracciare. O quasi.
“La leadership di Hezbollah è certa che i suoi ranghi siano stati infiltrati ad alti livelli da una rete di agenti israelianinormal”, ha riportato Al-Janoubia, subito ripresa dal Jerusalem Post. Il timore tra i membri del Partito di Dio è che Tel Aviv sia in possesso di un archivio completo dei loro dati, inclusi “nomi, foto, numeri di telefono, indirizzi e tracce audio”. D’altra parte, confermando il blitz in Libano, il generale Herzi Halevi, capo di Stato maggiore dell’Idf, ha affermato che Israele sa come operare a Beirut e ha precisato di sapere anche come “colpire nel sottosuolo e come muoversi con forza”.
Solo poche persone erano a conoscenza degli spostamenti del numero due di Hezbollah e proprio tra chi era al corrente dei suoi trasferimenti sarebbero stati già eseguiti i primi arresti. In particolare sarebbe sotto torchio un esponente di alto grado delle forze di sicurezza del movimento sciita. Dell’agente sospettato di doppio gioco si sa che non fosse in buoni rapporti con alcuni elementi del gruppo ritenuto uno Stato nello Stato libanese e che fosse incaricato di dare il via libera ad un imminente incontro tra Shukr e il capo del partito di Dio Hassan Nasrallah.
(il Giornale, 5 agosto 2024)
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Il bunker di Netanyahu, costruito per difendersi dalla minaccia iraniana
Allestito dallo Shin Bet, si trova sotto le colline di Gerusalemme
di Nello Gatto
GERUSALEMME. Lo Shin Bet, i servizi interni israeliani, hanno preparato l’allestimento di un bunker sotterraneo sulle colline di Gerusalemme, per ospitare, anche per un periodo non breve, i membri del gabinetto israeliano in caso di guerra. Lo riferiscono fonti di stampa. Secondo il sito di notizie Walla, il bunker, realizzato almeno venti anni fa, può sostenere colpi da qualsiasi tipo di arma conosciuta. All’interno ci sarebbero tutti gli strumenti per permettere la continuità della catena di comando ed è connesso al quartier generale della difesa a Tel Aviv. Dal massacro del sette ottobre e dall’inizio del conflitto a Gaza, è la prima volta che viene allestito.
Era stato già preparato in altre occasioni, e si unisce alla “Fossa”, il bunker realizzato sotto il quartier generale dell’esercito a Tel Aviv, Kirya, nel 1966 e soppiantato in parte dalla “Fortezza di Sion”, il doppio di grandezza rispetto al precedente e creato nel 2018. Tutti sono connessi con gli altri centri di comando e bunker nel paese.
Il “National management center”, il nome con il quale è conosciuto questo bunker sulle colline di Gerusalemme (non è chiaro se solo una estensione di quello di Tel Aviv o uno diverso ma collegato), era stato riaperto durante il Covid, permettendo a Netanyahu di gestire l’emergenza da un luogo sicuro. In quella occasione ci furono critiche, perché il bunker sotterraneo poteva proteggere dalle bombe ma non dai microbi.
La sua realizzazione si fa risalire proprio alle preoccupazioni derivanti dal programma nucleare iraniano e dagli attacchi di Hezbollah o di Hamas. I massimi comandanti militari israeliani hanno già condotto la guerra da bunker sotterranei. La campagna aerea delle Forze di difesa israeliane a Gaza nel 2021 è stata orchestrata dalla “Fortezza di Sion”.
(La Stampa, 5 agosto 2024)
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In attesa della “vendetta” iraniana, Israele ha ripreso l’iniziativa strategica
di Ugo Volli
• La “vendetta” annunciata
Un momento di sospensione, di attesa, di incertezza. Sono passati quattro giorni dall’eliminazione a Teheran di Ismail Haniyeh, leader di Hamas e a Beirut del capo di stato maggiore di Hezbollah Fuad Shukr, oltre che della conferma dell’uccisione, avvenuta venti giorni fa, di Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, e ormai quasi due settimane dal bombardamento del porto di Hodeidah, il principale centro di rifornimento dei ribelli yemeniti Houti: tutte azioni israeliane per cui i gruppi terroristici e il loro grande protettore, l’Iran, hanno proclamato di voler far vendetta. Ancora, al momento in cui scrivo questo articolo, alla fine del sabato, questa vendetta non si è vista. Ma è chiaro che essa ci sarà, o meglio che ci sarà il tentativo di compierla; in caso contrario i vari movimenti terroristi e l’Iran che li controlla perderebbero la faccia, il che in Medio Oriente è una sconfitta molto grave. L’attacco probabilmente sarà coordinato dall’Iran con la partecipazione di tutti questi gruppi, potrà avvenire anche fra un certo tempo, com’è accaduto per l’assalto missilistico e di droni compiuto dall’Iran ad aprile come vendetta per l’uccisione a Damasco del suo generale responsabile del coordinamento dell’attività dei gruppi terroristici contro Israele, Mohammad Reza Zahedi. Il colpo dell’Iran venne due settimane dopo l’esecuzione del generale e fu un clamoroso fallimento: con oltre duecento fra razzi balistici, droni, missili da crociera lanciati da Iran e Yemen, il solo risultato fu il ferimento di una innocente bambina di una famiglia beduina nel Negev.
• Come potrebbe essere l’attacco
Possiamo dunque dare per scontato che un tentativo di assalto a Israele ci sarà, che sarà multilaterale e probabilmente più pesante di quello certo non leggero di tre mesi fa, che avverrà entro un paio di settimane (ma forse già stanotte, ma fonti americane parlano del 9 di Av, data in cui la tradizione ebraica porta il lutto per la distruzione di entrambi i Templi e per una serie di altre sciagure), che quest’anno inizia la sera del 12 agosto. Sappiamo che esso sarà contrastato, oltre che dai tre strati della difesa antimissile di Israele, la migliore del mondo; anche dalla collaborazione inglese, americana e di alcuni stati arabi, probabilmente Giordania, Arabia Saudita, ed Emirati. Sappiamo anche che l’attacco più temibile, perché avverrà da vicino e dunque con poco preavviso, potrà essere massiccio e portato con armi di precisione, potrebbe venire da Hezbollah. L’Iran potrebbe invece tirare missili potenti balistici di precisione, compreso un nuovo proiettile ipersonico (cioè capace di muoversi ad altissima velocità manovrando e abbassandosi per eludere le difese antimissile).
• I dubbi strategici
Qui iniziano i dubbi, non solo per noi che siamo testimoni, ma anche per chi dirige i terroristi, cioè in sostanza l’Iran. Conviene all’Iran usare l’arsenale di Hezbollah, certamente notevole, per perforare la difesa aerea israeliana e colpire la popolazione civile israeliana, al costo quasi certo, perché pubblicamente annunciato da Netanyahu, di una guerra totale per la distruzione del gruppo terrorista che ridurrebbe parti notevoli del Libano allo stato di Gaza? E vale la pena, sempre dal punto di vista degli ayatollah, di un intervento massiccio dell’Iran che gli costerebbe probabilmente parti notevoli del suo apparato nucleare, raggiungibile dall’aviazione israeliana come ha mostrato il bombardamento di Hodeidah, a 2000 km dal territorio israeliano? In sostanza, il problema è se l’Iran ha interesse ad aprire una guerra regionale in cui, al di là della cattiva volontà dell’amministrazione Biden, gli Usa sarebbero sicuramente coinvolti. Se provassero a danneggiare pesantemente Israele e non ci riuscissero, gli ayatollah mostrerebbero la loro incapacità di sostenere le loro ambizioni imperialiste; se ci riuscissero, ma Israele fosse in grado di replicare con forza, si aprirebbe un’avventura imprevedibile, con conseguenze politiche serie non solo per il Libano, ma anche per l’Iran, che ha un’economia in dissesto e una popolazione sempre sull’orlo della rivolta. Se non ci provassero e facessero solo un attacco di facciata, conserverebbero le loro armi per il momento, ma vedrebbero intaccato il loro prestigio nella regione. Sarebbe così fallito tutto il tentativo di ferire a morte Israele iniziato il 7 ottobre scorso, il che probabilmente porterebbe ad effetti importanti e positivi sulla questione degli ostaggi.
• Israele ha conquistato l’iniziativa strategica
Certo, ci sono molte cose che possono andare male e i danni a Israele possono essere gravi. Ma la ripresa di iniziativa militare (anche, ma non solo, con le eliminazioni mirate), il rifiuto di condurre le trattative per gli ostaggi fino alla resa desiderata dall’amministrazione Biden (e purtroppo anche da alcune forze dentro Israele), insomma la linea della “vittoria” che Netanyahu ha mantenuto in questi mesi e che ha esposto di recente al Congresso americano, hanno portato Israele per la prima volta in una posizione strategica attiva dopo un lungo periodo di (necessaria) autolimitazione e autodifesa. Che un’Israele che vince non piaccia a molti in America e nel mondo, non solo ai nemici espliciti ma anche a quelli che predicano di “non esagerare” e di “badare innanzitutto ai diritti umani dei palestinesi”, è chiaro. Ma oggi è ancora più chiaro che quel che si combatte non è la guerra di Israele contro Gaza (che molti qualificano come crudele ed ingiusta e addirittura più di qualcuno ha il coraggio di descrivere come un “genocidio”), ma l’assalto coordinato di un grande stato come l’Iran e di una mezza dozzina di potenti movimenti terroristici contro Israele, con scopi, questi sì, genocidi. E quel che finalmente si vede è che Israele, grazie a una coraggiosa direzione politica, all’eroismo dei suoi soldati, alla sua superiorità tecnologica, può avviarsi a vincere davvero, eliminando non solo i dirigenti e i terroristi di Hamas, ma esponendo la debolezza intrinseca di chi li sostiene, innanzitutto l’Iran.
(Shalom, 4 agosto 2024)
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La determinazione di Israele e le protesi dell’Iran
di Niram Ferretti
A dieci mesi dall’inizio dell’operazione militare a Gaza, Israele sembra trovarsi a un punto di svolta. L’uccisione di Ismail Hanyieh, preceduta da quella, seppure smentita da Hamas, dell’imprendibile Mohammed Deif, più quella di altri esponenti di rilievo dell’organizzazione jihadista che dal 2007 governa la Striscia, segnala una accelerazione risoluta e la dimostrazione, soprattutto dopo l’uccisione di Haniyeh, l’interlocutore principale di Hamas con l’Iran, di non temere ripercussioni, mostrando una determinazione chiara.
Dopo mesi di incertezza, dovuti soprattutto alla forte pressione americana nel cercare di costringere Netanyahu a chiudere la guerra, ora appare evidente che il premier israeliano, abile e spregiudicato slalomista, sta mettendo l’Amministrazione Biden davanti al fatto che i negoziati per il rilascio degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza sono diventati un fattore secondario rispetto a quello che è sempre stato l’obiettivo primario della guerra, terminare a Gaza il dominio militare di Hamas, consentendo a Israele di gestire per il periodo necessario il controllo temporaneo della Striscia e trovando, nel frattempo, il modo di impiantare un governo arabo che con l’organizzazione terrorista non abbia alcun rapporto.
Mettere fine al dominio politico-militare di Hamas a Gaza significa privare l’Iran, principale agente destabilizzatore della regione, di una delle sue protesi, la maggiore essendo Hezbollah in Libano, tuttavia, prima di concentrarsi sul fronte libanese obbligando il gruppo sciita alle dipendenze di Teheran ad arretrare oltre il confine del fiume Litani e quindi ripristinando a nord le condizioni di sicurezza necessarie per il ritorno degli ottantamila sfollati israeliani che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni, è necessario che l’operazione militare a Gaza si appresti alla sua conclusione.
Di fatto, la capacità operativa e politica di Hamas è stata quasi completamente disarticolata, e lo si è visto plasticamente dopo la morte di Hanyieh. Da Gaza su Israele sono arrivati solo una decina di razzi, tutti intercettati. La capacità reattiva di Hamas contro Israele è ormai ridotta all’inesistenza. A suggello del suo tracollo sarebbe sufficiente l’uccisione del morto che cammina, Yahya Sinwar.
Una guerra aperta con Hezbollah, con un eventuale intervento diretto in Libano, pone per Israele questioni ingenti di sicurezza e di logistica, ma risulta inevitabile alla luce della necessità israeliana di ricostruire la deterrenza al nord e di assestare all’Iran il colpo maggiore.
Nel suo discorso al Congresso del 24 luglio, Netanyahu ha insistito su un fatto fondamentale, il nemico principale di Israele e, al contempo, uno dei principali nemici degli Stati Uniti, è il regime di Teheran. La guerra in corso non ha nulla a che vedere con il “popolo palestinese”, non ha nulla a che vedere con un “genocidio” (accusa al limite del grottesco) nei suoi confronti, ma è una guerra atta a ridurre il raggio dell’influenza iraniana nella regione, per questo, è impensabile che, a un certo punto, dopo Hamas non sia il turno di Hezbollah.
Hamas e Hezbollah rappresentano due grandi errori politico-strategici di Israele, entrambi fatti crescere nell’ultimo ventennio, e rappresentano anche il fallimento di una intera concezione militare, quella fondata sul rifiuto dello scontro diretto e del dispiego massiccio di forze di terra, e interamente basata sul contenimento, rafforzato, in modo particolare, nel caso di Hamas da operazioni militari con obiettivi limitati.
Con Hezbollah, l’Iran ha pazientemente saputo costruire la più temibile forza integralista regionale e il fronte più pericoloso e potenzialmente distruttivo per lo Stato ebraico, appoggiato in scala minore da Hamas e oggi coadiuvato dagli Houti yemeniti. L’Iran, che si sta progressivamente avvicinando agli ordigni atomici. Su queste sue due protesi principali Israele, dopo il 7 ottobre, non può più permettersi di fare errori.
(L'informale, 4 agosto 2024)
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«Ordiscono trame contro il tuo popolo»
Salmo 83 - 7 ottobre e l’inimicizia contro Israele.
di Johannes Pflaum
SALMO 83
- Canto. Salmo di Asaf.
O Dio, non tacere;
non restare in silenzio e inerte, o Dio!
- Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano rumorosamente,
e quelli che ti odiano alzano la testa.
- Complottano contro il tuo popolo
e ordiscono trame contro quelli che tu proteggi.
- Dicono: “Venite, distruggiamoli come nazione,
e il nome d'Israele non sia più ricordato”.
- Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento,
fanno un patto contro di te:
- le tende di Edom e gli Ismaeliti;
Moab e gli Agareni;
- Ghebal, Ammon e Amalec;
la Filistia con gli abitanti di Tiro;
- anche l'Assiria si è aggiunta a loro;
prestano il loro braccio ai figli di Lot. [Pausa]
- Fa' a loro come facesti a Madian,
a Sisera, a Iabin presso al torrente di Chison,
- i quali furono distrutti a En-Dor,
e servirono di concime alla terra.
- Rendi i loro capi simili a Oreb e Zeeb,
e tutti i loro prìncipi simili a Zeba e Salmunna;
- poiché dicono: “Impossessiamoci
delle dimore di Dio”.
- Dio mio, rendili simili al turbine,
simili a stoppia dispersa dal vento.
- Come il fuoco brucia la foresta,
e come la fiamma incendia i monti,
- così inseguili con la tua tempesta
e spaventali con il tuo uragano.
- Copri la loro faccia di vergogna,
perché cerchino il tuo nome, o Eterno!
- Siano delusi e confusi per sempre,
siano svergognati e periscano!
- E conoscano che tu, il cui nome è l'Eterno,
tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra.
Quando leggiamo il Salmo 83, vediamo trasparire la dolorosa storia di Israele, fino ai crudeli eventi del 7 ottobre 2023. Nel suo commento, Benedikt Peters ha così intitolato il salmo: "Dio altissimo, salvatore del suo popolo". Questo salmo parla dell'inimicizia delle nazioni contro Israele e di tutti i relativi tentativi di distruzione. Per dirla in termini contemporanei, parla di come il diritto all'esistenza di Israele e la memoria del popolo di Israele debbano essere cancellati. Ma alla fine del salmo, Dio si rivela come l'unico Dio, come l'Altissimo su tutta la terra e - se consideriamo il contenuto del salmo - come il Dio di Israele!
Non sappiamo esattamente quando questo salmo è stato composto da Asaf. Alcuni commentatori biblici lo collocano al tempo di Giosafat, quando Gerusalemme fu salvata da una coalizione nemica. Lo leggiamo in 2 Cronache 20, in cui Benedikt Peters vede eventi che fanno pensare a precedenti minacce per Israele. Non possiamo dirlo con certezza. In ogni caso, si tratta anche di un salmo salvifico-storico-profetico, dietro il quale si intravedono i tentativi di distruzione contro Israele e gli ebrei, e che alla fine si conclude con Dio che giudica i nemici e solo Lui viene esaltato. In altre parole, questo salmo si conclude con la salvezza di Israele e l'instaurazione del regno messianico su questa terra.
Sappiamo dai profeti che Dio ha sempre usato le potenze nemiche per giudicare la disubbidienza del suo popolo. Tuttavia, questo non ha mai giustificato le loro azioni e il male che hanno fatto. Che si tratti di Assiria, Babilonia o Roma, le stesse potenze nemiche sono cadute prima o poi sotto il giudizio di Dio. E anche se il popolo d'Israele si trova sotto il giudizio di Dio, il Dio vivente si definisce ancora il Dio d'Israele. Leggendo il profeta Geremia, ad esempio, vale la pena di prestare attenzione a questo nome di Dio, anche nei capitoli che trattano del giudizio sui nemici del popolo di Dio.
Nei versetti 7 e 8 si parla di tutte le nazioni che erano in inimicizia con Israele, a partire dalle peregrinazioni nel deserto. Pensiamo ad Amalek, alle nazioni intorno a Israele, fino alla grande potenza dell'Assiria, che in seguito, sotto Ezechia, disperse il regno del Nord e minacciò anche Giuda e Gerusalemme.
È importante notare l'obiettivo e la motivazione di queste potenze nemiche nei versetti 3-6. Consapevolmente o inconsapevolmente, il versetto 3 chiarisce che questa inimicizia e questo odio sono in ultima analisi diretti contro il Dio vivente. Nel versetto 6 leggiamo che hanno stretto un'alleanza contro Dio. Per questo motivo, nel versetto 4 progettano astuti attacchi contro il popolo di Dio e nel versetto 5 vogliono cancellare il nome di Israele. Dobbiamo sempre tenere presente che Dio ha legato indissolubilmente il suo onore su questa terra alla terra e al popolo d'Israele, e che alla fine della storia si rivelerà come Dio d'Israele (cfr. Isaia 37,20; 61,9; Ezechiele 36,23; 38,23).
Possiamo tenere presente una verità fondamentale della Bibbia.: Dio ama una umanità che gli è ostile e ha persino dato suo Figlio per la nostra salvezza, ma ci sono anche oggetti speciali dell'amore di Dio. Tra questi ci sono la terra e il popolo di Israele. Anche all'interno di Israele vediamo un altro oggetto speciale dell'amore di Dio. Nel Salmo 87:2 leggiamo: "Il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe".
Anche la sua chiesa, acquistata con il sangue, è uno degli oggetti speciali dell'amore di Dio. Lo leggiamo, ad esempio, in Efesini 5. Questo include ogni figlio di Dio salvato: Efesini 1:3-14. Ed è una verità fondamentale che tutti gli oggetti speciali dell'amore di Dio attirano l'odio e l'inimicizia di un'umanità ribelle e ostile a Dio. È da qui che nasce nel corso della storia l'inimicizia contro Israele, contro la chiesa confessante di Gesù e contro i seguaci di Gesù.
• PERCHÉ QUESTO ODIO E QUESTA INIMICIZIA CONTRO ISRAELE?
Come già detto, nei profeti il Dio vivente si riferisce ripetutamente a Se stesso come al Dio di Israele. Lo fa in modo del tutto indipendente dallo stato interiore e spirituale del suo popolo. Anche quando chiama il suo popolo al pentimento o lascia che arrivi il giudizio, si definisce il Dio di Israele per rendere evidente la sua santità. E ha legato indissolubilmente il suo onore su questa terra alla terra e al popolo di Israele. Questo si estende dall'elezione di Abramo fino al regno messianico millenario di Apocalisse 20.
C'è un'altra ragione per questo. Tutte le promesse sulla prima venuta di Gesù e sul suo ritorno in potenza e gloria sono inestricabilmente legate alla terra e al popolo di Israele. Si può riconoscerlo con particolare chiarezza nel profeta Zaccaria. In lui troviamo promesse che si sono letteralmente realizzate alla prima venuta di Gesù. La più nota è Zaccaria 9,9, che parla di Gesù che entra in Gerusalemme a dorso di un asino. In Zaccaria 12-14, la sua venuta in potenza e gloria è di nuovo inestricabilmente legata alla terra e al popolo d'Israele e alla questione di Gerusalemme. Se Satana riuscisse a distruggere il popolo d'Israele e a strappargli definitivamente la terra, Dio apparirebbe come un bugiardo incapace di mantenere le sue ultime promesse. Che le nazioni ne siano consapevoli o no, questi sono i motivi fondamentale del conflitto con Israele, e solo il Signore nel suo ritorno potrà porre fine a questo conflitto, come dice l'ultimo versetto del Salmo 83, affinché le nazioni riconoscano che solo Lui è il Signore.
Anche Apocalisse 12 va vista in questo contesto: la donna che lì compare è Israele che partorisce il bambino, il Messia, che viene inseguito dal drago e dal serpente. Satana fa di tutto per impedire l'adempimento delle promesse divine. E’ questo il vero sfondo di tutto l'antiebraismo nel corso della storia. Parlo appositamente di antiebraismo affinché sia chiaro di cosa si tratta. Il termine antisemitismo viene sempre di più utilizzato da ideologi di tutti i tipi. Tutti gli altri tentativi di spiegazione, siano essi sociologici, filosofici, storici o di altro tipo, alla fine sono destinati a fallire.
I tentativi di annientamento sono iniziati con il Faraone, con l'oppressione degli ebrei e l'ordine di uccidere i neonati in Esodo 1. Senza uomini e padri, un popolo cessa di esistere. Continuarono con l'attacco di Amalek a Israele all'inizio della peregrinazione nel deserto. Nel Libro di Ester troviamo un tentativo di distruzione totale da parte dell'agagita Haman. È interessante notare che era un discendente di Amalek.
Pensiamo al re Erode. Poiché Satana non riuscì a interrompere la linea della promessa che attraverso l'albero genealogico davidico porta a Gesù, fece di tutto per uccidere lo stesso Salvatore promesso attraverso l'infanticidio di Betlemme.
L'inimicizia contro gli ebrei e Israele continua nel corso della storia. Nel 135 l'imperatore romano Adriano rinominò la terra di Palestina e a Gerusalemme diede il nome di Aelia Capitolina. Non aveva preso la decisione di sterminare gli ebrei, come descritto nel Salmo 83:5, ma avrebbe voluto - consapevolmente o no - cancellare il ricordo del nome Israele.
Facciamo un grande salto avanti nella storia e arriviamo alla Shoah, quando i sinistri piani di sterminio di Hitler costarono la vita a oltre sei milioni di ebrei e lasciarono segni, danni e cicatrici profonde nei sopravvissuti. Possiamo capire davvero quello che Israele ha vissuto dalla fondazione dello Stato fino ai giorni nostri solo alla luce di questo sfondo biblico.
Con il raduno di Israele, lo spuntare delle foglie del fico - per riprendere l’immagine di Matteo 24:32 - è diventato inequivocabilmente chiaro che Dio sta realizzando le sue promesse e il suo piano di salvezza, e che le condizioni per il ritorno di Gesù e la salvezza di Israele sono presenti. Ecco perché il serpente e il drago (Apocalisse 12) fanno di tutto per distruggere il popolo d'Israele e strappargli la terra una volta per tutte.
L'odio e l'inimicizia nei confronti di Israele è sempre inimicizia nei confronti di Dio. Che gli individui ne siano consapevoli o no, è di secondaria importanza: è l'ostilità di un'umanità ostile a Dio. È interessante notare che ci sono molti contemporanei che non hanno mai avuto a che fare con Israele o con gli ebrei, ma se si nomina quel paese o quel popolo, spesso manifestano rabbia o rifiuto. E naturalmente questo atteggiamento è rafforzato anche dalla corrispondente copertura mediatica.
• L'ANNIENTAMENTO DELLA NAZIONE, LA CANCELLAZIONE DEL NOME DI ISRAELE E IL 7 OTTOBRE 2023
Quasi cinquant'anni dopo l'inizio della Guerra dello Yom Kippur, ha avuto luogo questo terribile attacco dell'organizzazione terroristica Hamas al sud di Israele.
Mentre la guerra dello Yom Kippur è iniziata nella massima festività ebraica, il 6 ottobre 1973, l'attacco terroristico del 7 ottobre ha avuto luogo nell'ultima festività della festa dei Tabernacoli, Shmini Azeret. Hamas non ha scelto la data a caso. Da un lato, un giorno festivo ha sempre un impatto sulle forze armate e sulla loro capacità di risposta in Israele; dall'altro, la data è stata deliberatamente scelta anche per commemorare l'attacco di 50 anni fa.
• UN DISASTRO CHE NON SI PENSAVA POSSIBILE
Nessuno pensava che quanto è accaduto il 7 ottobre con questo grave attacco terroristico dalla Striscia di Gaza fosse possibile. Dopo tutto, la Striscia di Gaza era sotto costante osservazione da parte di Israele e anche il confine era sottoposto a una pesante sorveglianza elettronica.
Questo fatto ha portato a numerose speculazioni, tra cui pensieri sulla falsariga di una pura teoria della cospirazione, del tipo: "Israele ha lasciato di proposito che tutto ciò accadesse per poter poi spianare Gaza". Queste speculazioni sono prive di qualsiasi base fattuale e dietro di esse è ancora una volta presente il vecchio schema antiebraico degli "ebrei cattivi" o della "cospirazione mondiale sionista".
L'idea che l'uomo possa o debba avere tutto sotto controllo non è, in linea di principio, un approccio biblico. Dobbiamo riconoscere due presupposti fondamentali. In primo luogo, il potere delle tenebre non può essere tenuto sotto controllo dalla sorveglianza elettronica o dalla raccolta di informazioni. In secondo luogo, c'è un Dio sovrano al di sopra di tutto che può dare saggezza e illuminazione, ma anche errore e cecità. Anche se è importante saper affrontare fatti e retroscena, come cristiani fedeli alla Bibbia dobbiamo stare attenti a non cadere preda di una visione del mondo in cui tutto può essere spiegato razionalmente e solo l'uomo controlla il proprio destino.
Nelle settimane successive al massacro, si è saputo che Israele aveva da tempo diverse indicazioni e riscontri di una possibile azione del genere. Ma ci sono diverse cose da tenere a mente.
La chiave delle scoperte dell'intelligence è sempre stata la valutazione e il giudizio delle informazioni. Già nel 1973, quando Israele si trovò sull'orlo della propria esistenza a causa dell'attacco subito, le informazioni e gli indizi disponibili furono valutati in modo errato. L'allora Presidente Chaim Herzog, che durante la sua permanenza nell'esercito israeliano ricoprì il grado di General Maggiore, scrisse nel 1975 un libro sulla guerra dello Yom Kippur, Decision in the Desert: The Lessons of the Yom Kippur War. In questo resoconto e analisi retrospettiva, dedicò un capitolo alle interpretazioni e alle analisi errate dei servizi segreti israeliani, con il titolo: "Hanno occhi ma non vedono" [Geremia 5:21, ndt]. Tragicamente, la stessa cosa si è ripetuta quasi esattamente 50 anni dopo.
Citazione da Israelnetz Magazin 1/2024:
«Il giornale -Yediot Aharonot parla di un “colossale fallimento a tutti i livelli” . Israel Hayom scrive che l'ottenimento del piano di invasione al più tardi nell'estate del 2022 avrebbe dovuto portare a un ripensamento. Conclude: "Per la maggior parte, questa è la storia di una catastrofe prevedibile, nata dal peccato di arroganza". »
Hamas è riuscito a ingannare Israele nonostante tutte le prove a disposizione. Hamas non ha affatto nascosto i suoi piani di terrore, ha svolto le sue esercitazioni in pubblico e ne ha persino diffuso le immagini. Per questo motivo Israele ha pensato che fosse soltanto polvere negli occhi, e non un vero e proprio piano d'attacco.
Israele non ha nemmeno scoperto quando il leader di Hamas Yahya Sinwar ha dato l'ordine di attaccare. Nonostante la sorveglianza, la comunicazione è avvenuta probabilmente attraverso canali segreti. Ci sono anche indicazioni che il monitoraggio in anticipo di Hamas sia stato trascurato, perché la situazione era stata completamente sottovalutata.
Un'ultima osservazione sul leader di Hamas, Yahaya Sinwar. Egli è stato imprigionato come terrorista in una prigione israeliana e nel 2011 è stato scambiato con il soldato israeliano Gilad Shalit insieme ad oltre 1026 altri prigionieri. Durante il periodo di detenzione in Israele, è stato sottoposto a un intervento chirurgico per rimuovere un tumore al cervello potenzialmente letale e ha ricevuto la riabilitazione come prigioniero. Dopo il massacro del 7 ottobre, i media hanno pubblicato una notizia sul medico israeliano che lo aveva operato con successo all'epoca e che ora deve fare i conti con questa situazione. In questo contesto, si pensa con orrore ai prigionieri criminali e terroristi che a quel tempo sono stati scambiati con ostaggi israeliani.
Il 7 ottobre Israele ha probabilmente ceduto anche all'errata valutazione che la crescente minaccia terroristica fosse localizzata in Cisgiordania - biblicamente parlando, in Giudea e Samaria. Anche un eventuale attacco dal Libano è stato considerato molto più probabile. A tal fine, alcune truppe israeliane sono state ritirate dal confine con Gaza e riassegnate alla Cisgiordania.
Inoltre, Israele potrebbe aver sopravvalutato la sorveglianza elettronica delle fortificazioni di confine di Gaza. Hamas ha prima preso d'assalto e distrutto il centro di sorveglianza sul confine e ha sparato sui relativi dispositivi elettronici, il che ha all’inizio ha lasciato Israele "cieco" in intere aree per quanto riguarda le violazioni del confine. Inoltre, le capacità terroristiche di Hamas sono state sottovalutate. Quando la guerra di Gaza sarà finita, in Israele si farà un'attenta valutazione di questo fallimento totale.
• IL SABBA NERO
Il massacro del 7 ottobre è una cesura nella storia del giovane Stato di Israele e dell'ebraismo mondiale. Dalla fine della Shoah non sono mai stati uccisi e massacrati in un giorno così tanti ebrei. E non in un luogo qualsiasi della terra, ma in Erez Israel, la patria e il rifugio ebraico. In questo contesto, va sottolineato che Hamas ha come obiettivo la distruzione e l’occupazione dell’intero Israele e anche l’uccisione di tutti gli ebrei.
Hamas definisce il suo attacco terroristico come "Operazione al-Aqsa Flood". Questo è un riferimento al cuore di Israele, il Monte del Tempio, che involontariamente richiama la coppa di stordimento di Gerusalemme in Zaccaria 12:2. Nelle prime ore del 7 ottobre, Israele è stato colpito da una pioggia di razzi provenienti dalla Striscia di Gaza. Sotto la copertura e la distrazione di questa pioggia di razzi, circa 3000 terroristi sono entrati in Israele nelle ore successive. L'infiltrazione è avvenuta via terra, via mare e dall'aria, anche con parapendii motorizzati.
La barriera di confine di Gaza, intesa da Israele come difesa contro il terrore, è stata violata in quasi 30 punti, permettendo un'infiltrazione del tutto incontrollata in Israele. Al seguito dei terroristi, anche numerosi civili di Gaza hanno attraversato il confine, saccheggiando i kibbutz e i villaggi, devastando e massacrando. Una ufficiale israeliana ci ha confermato questi eventi e ha raccontato che tracce del saccheggio erano chiaramente visibili sulla strada per Gaza, ad esempio sotto forma di frigoriferi rimasti lì. Ha anche detto che nell'equipaggiamento da combattimento dei terroristi uccisi gli israeliani hanno trovato piani e appunti su cui si trovavano dettagli precisi sugli abitanti dei kibbutz colpiti, inclusa la presenza di animali domestici. Queste informazioni probabilmente sono state fornite dai dipendenti dei kibbutz che provenivano dalla Striscia di Gaza.
È scioccante constatare che il sostegno ad Hamas tra la popolazione palestinese è cresciuto in seguito alle atrocità del 7 ottobre. In un articolo pubblicato il 15 dicembre 2023, la NZZ ha pubblicato un sondaggio in cui si mostra che il sostegno ad Hamas tra la popolazione è salito al 43% nella Striscia di Gaza e al 44% in Cisgiordania. Che l’attacco a Israele fosse giusto è stato affermato dal 57% della popolazione palestinese a Gaza e dall'82% in Cisgiordania. Secondo un altro sondaggio, a Gaza non era il 57% ma il 75% ad essere favorevole all'attacco terroristico.
Le unità terroristiche hanno raggiunto le città di Sderot e Ofaqim. In totale, si sono infiltrate in oltre venti città, kibbutz e basi militari. I kibbutz di Kfar Aza, Nachal Oz e Be'eri hanno subito veri e propri massacri. In alcuni altri luoghi, la difesa di emergenza è riuscita a formarsi in tempo e a prevenire il peggio, anche se in alcuni casi ciò non è avvenuto senza vittime.
Un altro massacro è avvenuto vicino a Re'im, dove si stava svolgendo il festival Psytrande Supernova Sukkot Gathering. Molte persone e soldati sono stati massacrati lungo la strada. Per quanto riguarda le atrocità commesse da Hamas, alcune delle quali includono mutilazioni e crimini sessuali mentre erano ancora in vita, citiamo come esempio il seguente rapporto di ideaSpektrum 48-2023 sulla quarantenne Mira Zoe Geller:
«La quarantenne lavora come cuoca in un hotel, in un sobborgo di Gerusalemme. Quel giorno voleva partire per il Supernova Festival vicino a Re'im, a circa cinque chilometri dalla Striscia di Gaza. I suoi amici stavano già festeggiando lì. Verso le sette del mattino riceve una videochiamata da un'amica. L'amica grida al telefono: "Ci stanno sparando! Ci stanno uccidendo!” Poi l'amica lascia cadere il telefono a terra e la trasmissione video è continuata. “Avrei voluto spegnere, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo”. Geller ha visto e sentito i suoi amici mutilati e uccisi dai terroristi di Hamas. “Hanno tagliato tutto ciò che poteva essere tagliato”.
«364 persone sono state uccise al festival musicale. Le urla dei suoi otto amici perseguitano Geller ancora oggi. Come elabora questo orrore? La Geller si è buttata nel lavoro, ha iniziato una terapia contro il trauma e prende sonniferi per trovare in qualche modo la pace. “Nessuno dorme bene se ha vissuto questa esperienza”, dice. »
La suddetta ufficiale ci ha anche parlato dei corpi recuperati a Be'eri, che sono stati minati con bombe a mano e ordigni esplosivi. Alcuni dei corpi erano talmente bruciati che le unità di recupero non sono riuscite a trovarne i resti. Solo gli archeologi chiamati in seguito sono stati in grado di identificare diverse persone da alcuni piccoli pezzi di resti umani. Ci è stato anche detto che giorni dopo che un kibbutz era stato dichiarato sicuro, un terrorista vivo è uscito dal suo nascondiglio e fortunatamente si è arreso immediatamente.
Le atrocità che hanno avuto luogo il 7 ottobre possono essere spiegate solo come demonia e tenebre assolute. Hamas ha seppellito i corpi degli assassinati nei campi intorno al luogo del festival, per tenerli nascosti ai loro parenti e per aumentare il terrore psicologico nei loro confronti. Altri corpi sono stati addirittura portati nella Striscia di Gaza. Tra le vittime e i rapiti vivi c'erano e ci sono tuttora dei sopravvissuti all'Olocausto, il che fa rabbrividire.
Lo sfondo e l'odio demoniaco di queste atrocità possono essere spiegati soltanto con il Salmo 83:5: "Venite, distruggiamoli come nazione, e il nome d'Israele non sia più ricordato".
Quello che è successo in Israele il 7 ottobre ha traumatizzato Israele. Non c'è praticamente nessuno che non abbia perso conoscenti o parenti quel giorno o che non sia stato colpito in qualche modo. Ricordiamo anche i molti soldati israeliani che da allora sono stati uccisi nell'operazione antiterroristica "Iron Sword" a Gaza. Al momento della stampa, dal 7 ottobre sono stati uccisi circa 1500 israeliani, tra cui 574 soldati e ufficiali. Circa 130 ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas.
Mia moglie ed io ci siamo particolarmente commossi per la morte di Uriia Bayer, ucciso come membro di un'unità speciale a Gaza. Conoscevamo personalmente lui e la sua famiglia e siamo stati amici dei suoi genitori Gideon e Nelli per molti anni. Come tutti i suoi fratelli, era nato in Israele e per loro era chiaro che, in quanto cittadini tedeschi in Israele, avrebbero prestato servizio militare per la sicurezza del Paese. La sua morte ha commosso tutto Israele, tanto che c'è stato persino un programma speciale sulla televisione israeliana. Come mai un cristiano tedesco dà la vita per Israele? L’associata testimonianza di Gesù Messia ha interessato tutta la stampa israeliana, dalla sinistra all'estrema destra.
Qui vorrei anche ricordare il confine settentrionale, dove migliaia di israeliani sono stati evacuati a causa degli attacchi terroristici e di un possibile grande attacco dal Libano. Anche i sopravvissuti all'Olocausto della casa di cura Zedakah di Maalot vivono nel bunker da molti mesi. A dire il vero il bunker è costruito meglio delle nude pareti di cemento come qui in Svizzera, ma un bunker è pur sempre un bunker. Che cosa significhi questo per i sopravvissuti all'Olocausto in età avanzata non si può capire. È anche un ulteriore onere per il personale.
Dal 7 ottobre, Israele ha subito 860 attacchi sul fronte settentrionale. Circa 2000 razzi sono stati lanciati contro Israele dal Libano e 30 dalla Siria. Dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati circa 9.000 razzi e colpi di mortaio.
• IL DUBBIO RUOLO DELL'UNRWA (AGENZIA DELLE NAZIONI UNITE PER I RIFUGIATI PALESTINESI IN MEDIO ORIENTE)
I notiziari danno spesso l'impressione che le varie organizzazioni delle Nazioni Unite - in particolare l'UNRWA - siano agenzie di aiuto neutrali e che si occupano solo del benessere della popolazione civile palestinese. La realtà è che esiste un’unica organizzazione ONU di assistenza ai rifugiati per tutti i rifugiati del mondo. Si tratta dell'UNHCR. C'è poi un'altra organizzazione di assistenza che è solo per gli arabi palestinesi, l'UNRWA. Non esiste nessun'altra organizzazione di aiuto per nessun altro gruppo di popolazione o per nessun altro popolo al mondo. - Basti pensare alle tante guerre sanguinose in Africa, Afghanistan e altri luoghi negli ultimi decenni. Una cosa del genere non può che stupire.
Gli arabi palestinesi sono l'unico gruppo etnico delle Nazioni Unite il cui status di rifugiato è ereditario. Non lo vediamo da nessun'altra parte. Ecco perché ci sono già rifugiati palestinesi di quinta generazione. Inoltre, i contributi pro capite delle Nazioni Unite per i rifugiati sono di gran lunga i più alti al mondo.
Non sto cercando di minimizzare le sofferenze di Gaza o semplicemente di trascurare la popolazione - vogliamo pregare per la gente di Gaza. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che non è Israele il principale responsabile delle sofferenze dei palestinesi, ma Hamas con i suoi attacchi terroristici, la sua rete terroristica e la sua propaganda antiebraica. Dobbiamo essere capaci di affermare chiaramente i fatti.
Non è una novità che le ambulanze della Mezzaluna Rossa siano talvolta utilizzate impropriamente per trasportare armi e terroristi. Anche Hamas e altre organizzazioni terroristiche palestinesi operano deliberatamente vicino alle strutture delle Nazioni Unite e ne fanno un uso improprio. L'uso improprio delle ambulanze è noto da oltre 20 anni e, al più tardi dall'operazione "Piombo Fuso" del 2006, tutti dovrebbero essere a conoscenza dell'uso improprio delle strutture delle Nazioni Unite.
Nel loro libro Nazioni Unite contro Israele, Alex Feuerherdt e Florian Markt hanno anche evidenziato il ruolo disastroso dell'UNRWA. L'organizzazione umanitaria di Gaza impiega circa 30.000 persone e i suoi legami personali con Hamas erano noti da molto prima del 7 ottobre. Inoltre, all'interno dell'organizzazione umanitaria vi sono già numerosi sostenitori e simpatizzanti di Hamas. Già durante la guerra di Gaza del 2014 sono stati trovati razzi nelle scuole dell'UNRWA.
Feuerherdt e Markt ricordano anche come nelle scuole dell'UNRWA si tengano cerimonie commemorative per i leader di Hamas uccisi o come gli insegnanti che vi lavorano si dedichino alla costruzione di razzi dopo il lavoro. Il materiale didattico cofinanziato dall'Europa è sempre intriso di antiebraismo. Si arriva persino al punto che le lezioni non rinunciano a ritratti e citazioni di Hitler o alla glorificazione del terrorismo contro Israele.
A Gaza City, l'esercito israeliano ha anche scoperto dei tunnel del terrore sotto la sede dell'UNRWA, che ovviamente nega con indignazione qualsiasi collegamento, anche se non c'è nulla di sorprendente in questo. Dopo tutto, questo tunnel riceveva l'energia dalla sede centrale. La direzione ha anche reagito al coinvolgimento di almeno dodici dipendenti UNRWA identificati nel massacro del 7 ottobre parlando di presunta ignoranza.
Il 19 febbraio, Israele ha diffuso un video di una telecamera di sorveglianza del Kibbutz Be'eri che mostra Faisal Ali Mussalem Al Naami, un assistente sociale dell'UNRWA, mentre carica un israeliano ferito o morto su un veicolo per trasportarlo a Gaza. Come sempre, l'UNRWA ha cercato di offuscare o negare tutto.
Anche l'abuso deliberato e tollerato degli ospedali di Gaza deve essere visto in questo contesto. A novembre, l'esercito israeliano ha trovato un sistema di tunnel terroristici sotto il grande ospedale AlSchifa di Gaza, oltre ad armi e altro materiale terroristico nell'ospedale stesso.
Nel numero di febbraio 2024, la rivista militare specializzata Schweizer Soldat ha pubblicato alcuni estratti di un interrogatorio del direttore dell'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia/Gaza, che è stato arrestato da Israele ed è anche un generale di Hamas:
Israeliano: Come ti chiami?
AI-Kahlout: Ahmad Hassan Al-Kahlout
Israeliano: Il tuo codice?
AI-Kahlout: Abu Hassan Israeliano: Quale posizione? AI-Kahlout: Direttore dell'ospedale, dell'ospedale Kamal Adnan.
Israeliano: Quando ti sei unito ad Hamas?
AI-Kahlout: Dal 2010
Israeliano: Qual è il suo grado militare?
AI-Kahlout: Generale
Israeliano: Chi è venuto in ospedale militarmente?
AI-Kahlout: Due generali, Mahdi Abu Asha e Mushir al-Masri. Entrambi avevano stanze con telefoni propri. Sono rimasti per 10 giorni, poi se ne sono andati.
Israeliano: Perché erano in ospedale?
AI-Kahlout: Non possono essere attaccati in ospedale.
Israeliano: L'ospedale era un posto di comando?
AI-Kahlout: Sì, l'ospedale è stato sotto il comando di Hamas per 10 giorni. Anche il governatore della polizia aveva delle stanze, così come gli ufficiali addetti agli interrogatori e la polizia speciale.
Israeliano: Nell'ospedale c'erano altri appartenenti alle brigate di Hamas?
AI-Kahlout: 16 quadri, medici, infermieri. A un certo punto c'erano 100 combattenti di Hamas. Hanno portato via gli ostaggi morti in ambulanza".
Naturalmente, la parte palestinese ha di nuovo negato tutto e ha cercato di insabbiare la vicenda.
Il 19 febbraio, il Meir Amit Intelligence And Terrorism Information Center di Gelilot ha riferito che i terroristi nascosti nell'ospedale Nasser di Khan Yunis sono stati arrestati, compresi quelli che avevano preso parte al massacro del 7 ottobre. Un veicolo rubato dal Kibbutz Nir Oz durante l'attacco terroristico è stato ritrovato sul terreno dell'ospedale. Inoltre, sono state trovate scatole sigillate ed etichettate di medicinali destinati agli ostaggi che non sono mai arrivati.
Questi sono solo alcuni esempi dell'abuso degli ospedali nella Striscia di Gaza. In questo contesto, è anche importante notare che le cifre riportate sulle vittime di presunti civili sono fornite dalle autorità sanitarie della Striscia di Gaza, anch'esse sotto il controllo di Hamas. Va notato che molti terroristi combattono in abiti civili e che Hamas ha già falsificato le cifre in passato. Tuttavia, tra le vittime degli attacchi di Hamas ci sono anche molti civili. Ma la manipolazione dei rapporti non deve essere trascurata.
• LA CONSERVAZIONE DI ISRAELE IL 7 OTTOBRE 2023
Non bisogna assolutamente banalizzare questo terribile massacro e le sue conseguenze. Ci sono tuttavia molti episodi in cui Israele è stato preservato nel bel mezzo di questo massacro. Tra questi, i tentativi falliti di Hamas di infiltrarsi in alcuni kibbutz e l’impedimento dell’avanzata dei terroristi verso l'interno del Paese.
I beduini del sud di Israele hanno soccorso persone e feriti durante questo massacro. La suddetta ufficiale ci ha detto che, nonostante le atrocità, molte bombe a mano lanciate non sono esplose.
La salvezza più grande, tuttavia, è stata probabilmente quella di evitare un attacco ancora più grande contro Israele. A febbraio, abbiamo ricevuto da Israele la notizia che Hamas aveva pianificato di assaltare la prigione di Shikma, vicino ad Ashkelon, con i terroristi di Nukhba e di liberare centinaia di prigionieri. Tutto era stato accuratamente pianificato e doveva essere supportato da un ulteriore lancio di razzi. Ma un errore di navigazione ha portato il gruppo di terroristi a Sderot e al kibbutz Netiv Ha'Asara, dove sono state uccise molte persone. A Sderot hanno occupato una stazione di polizia e ucciso 35 agenti e oltre 80 civili. Tuttavia, il previsto assalto alla prigione è fallito.
Ci sono indicazioni che era stato pianificato un attacco molto più grande che avrebbe cancellato l'esistenza di Israele: Mentre Hamas attaccava da sud, decine di migliaia di combattenti di Hezbollah avrebbero invaso Israele da nord. Allo stesso tempo, i centri sarebbero stati colpiti da missili balistici provenienti dall'Iran. Israele non sarebbe più stato in grado di mobilitare altre truppe. A causa del suo approccio ostinato e scoordinato e della sua impazienza, Hamas stesso potrebbe aver impedito questo piano molto più ampio.
Nonostante tutti i loro tentativi e piani, i nemici di Israele non riusciranno a spazzare via il suo popolo e la sua terra.
Il 7 ottobre è stato anche un punto di svolta. Ha reso evidente che Israele, nonostante tutta la sua presunta forza, era sull'orlo di una catastrofe ancora più grande. Questa catastrofe arriverà poi nel tempo della Grande Tribolazione, fino al momento in cui il Signore stesso interverrà, salverà il suo popolo e giudicherà i suoi nemici. Proprio come è scritto alla fine del Salmo 83.
Ciò di cui Israele ha bisogno oggi non è la saccenteria e i consigli dei sapienti, ma il sostegno della chiesa confessante di Gesù. Ha bisogno della consolazione che presenta il suo futuro, che è sempre legata alla testimonianza del Messia. Perché è Gesù stesso la consolazione di Israele, come si legge in Luca 2,25.
Come detto all'inizio, tutti gli oggetti speciali dell'amore di Dio sperimentano il rifiuto e l'odio di una umanità ostile a Dio. Israele non è ancora salvato e nemmeno ne è consapevole. Ma Dio arriverà comunque alla sua meta e realizzerà il suo piano.
"Allora conosceranno che tu solo sei l'Eterno e che sei l'Altissimo su tutta la terra" (Salmo 83,19).
(Nachrichten aus Israel, agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Attacco aereo contro auto". Israele uccide un altro leader di Hamas
Israele ha annunciato di aver colpito un veicolo che trasportava una cellula terroristica vicino alla città nel nord della Cisgiordania e di aver eliminato un leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam, Haythem Balidi
di Federico Giuliani
Un altro raid di Israele e un'altra uccisione degna di nota. Nelle ultime ore le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato di aver colpito un veicolo che trasportava una cellula terroristica nel corso di un'operazione a Tulkarem, in Cisgiordania. Secondo quanto riferito da Hamas, il blitz avrebbe neutralizzato quattro persone, tra cui Haythem Balidi, un leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato del gruppo filo palestinese. Ricordiamo che nei giorni scorsi a Tel Aviv sono stati attribuiti due blitz con i quali sono stati eliminati il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e Fouad Shukr, detto anche Hajj Mohsin, vice di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah. Il primo è saltato in aria mentre si trovava in una residenza a Teheran, in Iran, il secondo è stato invece colpito a Beirut, in Libano. Israele non ha ufficialmente rivendicato queste ultime uccisioni anche se i due movimenti, Hamas ed Hezbollah, non ha dubbi su chi sia l'autore dei due attacchi mortali contro i loro uomini.
• Un altro blitz di Israele Le Idf hanno riferito che dall'inizio della guerra, iniziata a ottobre, sono stati arrestati 4.400 sospettati in Cisgiordania, compresi 1.850 affiliati ad Hamas. Secondo quanto riportato dall'agenzia Sata, l'ultima operazione di Israele è avvenuta sulla strada tra Atil e Zeita, a nord di Tulkarem. Pare che l'auto centrata in pieno trasportasse Balidi e altri "combattenti della resistenza".
Amin Khader, direttore dell'ospedale governativo Thabet di Tulkarem, ha dichiarato che a seguito dell'attacco ci sono state cinque vittime complessive, tra cui il venticinquenne leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam. Citando la Mezzaluna Rossa palestinese, il quotidiano Al-Manar, di proprietà di Hezbollah, ha invece fatto sapere che quattro persone sono state uccise nell'attacco al veicolo.
Altri media arabi hanno scritto che le truppe di terra israeliane stanno operando nella zona e in altre località della Cisgiordania. Al-Manar ha riferito che personale israeliano stava operando a Jenin, mentre Safa ha riferito che a Qaffin, a nord di Tulkarem, si sono verificati scontri armati tra le forze israeliane e i terroristi. Dal canto suo, l'esercito israeliano ha affermato di aver effettuato un attacco aereo contro una cellula militante attorno alla città di Tulkarm, mentre i media di Hamas hanno informato che un veicolo che trasportava combattenti era stato colpito e che uno dei comandanti delle sue brigate del posto era rimasto ucciso.
• Raid chirurgici Le tensioni in tutta la regione sono aumentate vertiginosamente questa settimana dopo l'assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta a Teheran il giorno dopo che un attacco a Beirut aveva ucciso il comandante militare di alto rango di Hezbollah Fuad Shukr. La morte di Haniyeh fa parte di una crescente serie di omicidi di personaggi di spicco del gruppo filo palestinese.
Nel frattempo Israele sta ultimando gli accordi con gli alleati per formare una nuova coalizione che, come accaduto lo scorso aprile, possa intercettare gli attacchi che l'Iran e Hezbollah hanno annunciato per vendicare le uccisioni dei citati Haniyeh e Shukr.
Secondo l'emittente israeliana Canale 12, indicando che gli Stati Uniti, il Regno Unito, gli Stati del Golfo, l'Egitto e la Giordania sono pronti ad aiutare a intercettare missili e droni qualora venissero lanciati dalla Repubblica islamica e dal Libano.
(il Giornale, 3 agosto 2024)
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L’attesa della vendetta iraniana mostra la retorica inaffidabile e subdola di chi nega l’evidenza quando si parla dei regimi guidati da boia fanatici
di Giuliano Ferrara
Il senso della realtà in occidente tende a nascondersi dietro al senso comune umanitario e giurisdizionale e ne approfitta per scomparire. Formule come rappresaglia, omicidio mirato, invasione dello spazio sovrano, diritto di autodifesa per il regime iraniano ai sensi dell’articolo 51 della carta dell’Onu (Guterrez) accompagnano l’attesa di un ennesimo atto di guerra dei mullah e dei loro alleati di molti fronti contro un paese democratico che lotta per sopravvivere. I razzi di Hamas o di Hezbollah non colpiscono uno stato sovrano, un popolo costretto a lasciare le sue città, non sono trattati altro che come atti di resistenza arabo-palestinese, e la prospettiva di una reazione coordinata e multipla dell’Iran ai colpi del Mossad, sostenuta da un asse russocinese, è considerata un problema geopolitico. Tutto è inquadrato da esperti e autorità sotto la lente della dialettica tra escalation e de-escalation, si fa la conta delle scaramucce e delle impertinenze belliche in modo infantile e primitivo, come nel gioco della battaglia navale. E l’uomo nero non è mai l’Ayatollah Khamenei, con la sua vasta banda di sicari, è sempre Netanyahu, il premier israeliano che vuole prolungare la guerra e se ne infischia della sorte degli ostaggi, fino al punto che ormai sembrano suoi ostaggi e non persone sequestrate da Hamas, per restare al potere (bum!).
Non può essere una questione di valori. Lo scambio tra i dissidenti e gli scrittori occidentali e i killer del Cremlino ha offerto a tutti una tavolozza di colori molto vivida per giudicare della differenza che ritorna tra mondo libero e mondo autocratico. Le immagini di Israele diviso politicamente e democraticamente ma unito per l’essenziale nella ricerca di una soluzione strategica di convivenza attraverso la diplomazia di pace e cooperazione araba e la necessaria opera di sradicamento di organizzazioni violente e regimi nichilisti che perseguono l’annientamento dell’entità sionista sono chiarissime, impossibile non vederle, specie a contrasto con lo spirito di vendetta e di oltranzismo antiebraico coltivato cerimonialmente con grande pompa da bande e regimi nemici. E allora, di che cosa si tratta? Perché dopo la strage degli atleti israeliani a Monaco la caccia per ogni dove e in ogni modalità di ritorsione e guerra agli assassini ha goduto di un favore epico in occidente, fino ai fasti di Spielberg e di Hollywood, e oggi invece pesa sulle eliminazioni del nemico peggiore e più nero il sospetto del fanatismo e della violazione del diritto sugli stessi che fecero giustizia allora e vogliono giustizia oggi? Perché cadendo a Entebbe il fratello di Netanyahu fu eroe e i suoi emuli di oggi sono trattati come pericolosi fautori dell’escalation?
• Israele, l’Iran, il senso della realtà smarrito
Il senso della realtà, si diceva, è finito chissà dove. Era più facile riconoscere la verità della guerra quando si trattava di carri armati tra le dune, di territori contesi sulle alture strategiche, di generali e politici che tenevano alta la memoria di un popolo martoriato nella Shoah e deciso al suo “mai più”, magari con la benda su un occhio.
Israele era il popolo di Exodus, si sentivano fraterni i dialetti e le inflessioni linguistiche degli immigrati e costruttori di una nazione rifugio, di uno stato-guarnigione pionieristico, con parlamento e alta corte e sviluppo a marce forzate e libertarismi sociali nella trama dei diritti, e il rifiuto arabo era quello che era, era il rigetto della pace, della sistemazione duratura dell’area mediorientale, della legittimità di una nazione per gli ebrei e degli ebrei. Ora la tecnologia e la disparità di potere di fuoco, e di mira, di Tsahal sono percepite come il simbolo di un’ingiustizia ai danni dei poveri, dei vulnerabili, degli innocenti, che hanno diritto a una riparazione dei tribunali e dell’opinione benpensante. Ora la realtà della guerra, mai così evidente, mai così dispiegata, altro che guerra a pezzi, altro che escalation e deescalation, è seppellita sotto una retorica inaffidabile subdola, che nega l’evidenza. Per questo aspettiamo come un evento geopolitico inevitabile la vendetta dei cattivi, pronti molti a tifare per loro, e, se non fosse per la presenza di un certo numero di portaerei americane nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, saremmo, almeno noi europei, pronti ad assistere allo sfacelo di Israele e al tragico macello delle sue speranze e resistenze per mano di regimi guidati da boia fanatici.
Il Foglio, 3 agosto 2024)
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Dietro la narrazione dei "coloni"
Spesso i telegiornali parlano di "coloni violenti" in Cisgiordania, etichettandoli come radicali ed estremisti che avrebbero commesso atti di violenza contro i palestinesi. Ma è accurata questa rappresentazione?
Per approfondire la realtà dei fatti e capire meglio chi vive nell'area di Giudea e Samaria, abbiamo parlato con Yossi Dagan, capo del Consiglio regionale della Samaria. Ecco il suo punto di vista sulla questione (in inglese)
(Christians for Israel International, 2 agosto 2024)
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Uccelli, tartarughe e ricci: Hezbollah sta distruggendo la fauna nel nord d’Israele
Michelle Zarfati
“La guerra nel nord d’Israele ha causato enormi perdite all’habitat animale”: questo l’allarme che ha lanciato Rona Nadler Valancy, capo del Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund Agamon Wildlife Rehabilitation Center. Il Wildlife Rehabilitation Center si occupa di curare la fauna selvatica ferita della Galilea e del Golan, la riabilita e la rilascia di nuovo in natura. La ricercatrice ha spiegato che gli incendi e le distruzioni causate dai missili di Hezbollah e dagli attacchi dei droni si sono protratti fino alla stagione riproduttiva di molti animali, che è quasi finita.
“Stiamo avendo ingenti perdite nei siti di nidificazione – spiega Nadler Valancy. – Quindi, mentre, ad esempio, gli uccelli adulti possono sfuggire agli incendi volando via, ci sono nidiacei piccoli e persino pulcini che non hanno la capacità di sfuggire dagli incendi. Purtroppo muoiono tutti”. Per quanto riguarda invece la popolazione dei rettili nel nord il bilancio è disastroso. La popolazione è stata completamente devastata, perché i rettili si muovono troppo lentamente per sfuggire agli incendi. Anche i piccoli mammiferi come i ricci sono suscettibili agli attacchi. “Molti animali che riescono a fuggire dagli attacchi, una volta tornati nel loro habitat lo trovano completamente distrutto” ha aggiunto la ricercatrice.
Nadler Valancy ha spiegato poi come le perdite dovute agli incendi rappresentino un problema importante per Israele. La ricercatrice ha citato alla stampa israeliana il caso di una tartaruga il cui guscio è stato gravemente ustionato dal fuoco di Hezbollah. Fortunatamente il guscio è sopravvissuto ed è stato spedito ad un centro di riabilitazione nel centro di Israele. Tuttavia, a causa della guerra, la popolazione israeliana nel nord Israele è nettamente diminuita per questo gli animali feriti vengono portati sempre meno al Centro di riabilitazione della fauna selvatica per le cure. “Anche i veicoli dell’esercito sono un problema – ha aggiunto la ricercatrice – Muovendosi parecchio di notte, possono causare incidenti alla fauna selvatica”.
Yaron Charka, capo ornitologo del KKL-JNF ha confermato che la guerra nel nord ha influenzato negativamente la fauna in Israele. “Non sempre conosciamo le cause definitive, ma posso dire che nel Parco Naturale e Ornitologico di Agamon Hula-JNF ci sono purtroppo molti meno uccelli rispetto agli anni precedenti”. Charka ha spiegato che in un recente esperimento, condotto in Ucraina su aquile anatraie maggiori, i ricercatori hanno collegato dispositivi GPS agli uccelli. Attraverso il GPS è risultato chiaro come le loro traiettorie di volo cambiassero per evitare le aree di battaglia. Una cosa analoga sta succedendo nell’ultimo periodo nel nord dello Stato ebraico. “Molti degli uccelli stanno perdendo un’intera generazione di pulcini”.
Il servizio antincendio del JNF – che comprende 26 vetture dei pompieri e 300 dipendenti che lavorano ogni giorno per la salvaguardia degli animali – ha partecipato attivamente allo spegnimento degli incendi boschivi in tutto il nord di Israele causati da razzi e droni di Hezbollah. Il sistema antincendio del KKL – JNF opera in piena collaborazione con le forze di sicurezza, la polizia, l’IDF, le autorità locali, le squadre di emergenza, i vigili del fuoco e i servizi di soccorso e l’Autorità per la Natura e i Parchi. Inoltre, i forestali del KKL-JNF sono impegnati ormai da mesi nella manutenzione delle strade e dei punti di accesso in tutto il nord, tagliando alberi e cespugli per consentire ai vigili del fuoco di raggiungere rapidamente le aree incendiate da razzi e droni. “Rinnovare e curare le foreste danneggiate – dice Charka – può aiutare a migliorare le aree in cui ci sono uccelli, anche se ci vorranno molti anni affinché tutto torni come prima. Quando parti della foresta vengono bruciate, ci vogliono decenni prima che gli alberi tornino alle loro dimensioni originali” ha concluso Charka.
(Bet Magazine Mosaico, 2 agosto 2024)
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Libertà religiosa sotto attacco: rabbino arrestato in Irlanda per circoncisione. Un ritorno agli spettri del passato nazista?
Un rabbino britannico è stato arrestato martedì scorso in Irlanda per aver eseguito una circoncisione su un bambino. L’episodio è avvenuto in una residenza nella periferia di Dublino. L’European Jewish Association (EJA) ha immediatamente denunciato l’arresto come un atto inaccettabile contro la libertà religiosa, evocando dolorosi ricordi del periodo nazista e di epoche buie in cui la libertà del popolo ebraico era brutalmente negata.
Il Rabbino Menachem Margolin, presidente dell’EJA, ha lanciato un appello urgente al Presidente d’Irlanda, Michael D. Higgins, al Primo Ministro Simon Harris e al Presidente del Parlamento irlandese per il rilascio immediato di Rabbi Yonathan Avraham, Mohel certificato, nonché esperto riconosciuto con decenni di esperienza, arrestato durante una cerimonia religiosa a Dublino. La polizia irlandese ha fatto irruzione nella casa dove si svolgeva il rito, senza offrire alcuna possibilità di cauzione.
Margolin ha dichiarato che l’arresto invia un chiaro messaggio: gli ebrei non sono più i benvenuti in Irlanda chiedendo che il Mohel venga rilasciato prima ancora che inizi lo Shabbat di venerdì sera.
Rabbi Avraham, padre di dieci figli, opera legalmente in Inghilterra e ha praticato la circoncisione in tutta Europa. La sua detenzione senza cauzione ha suscitato un forte sdegno, soprattutto nelle comunità ebraiche, in un periodo storico come l’attuale in cui l’antisemitismo è in costante crescita. «La circoncisione non è un crimine, ma un comandamento che la fede ebraica segue da oltre 3000 anni – ha dichiarato Rabbi Margolin –. L’ultima volta che qualcuno è stato arrestato per questo motivo è stato sotto i nazisti, le cui leggi iniziali erano mosse da un odio cieco e irrazionale verso il popolo ebraico. È sconvolgente che oggi, in Irlanda, si ripeta una simile ingiustizia».
Non solo: va sottolineato che la pratica della circoncisione è riconosciuta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e adottata da molte altre religioni. Circa il trenta percento di uomini nel mondo, e non solo gli ebrei, sono circoncisi, un fatto che testimonia la sua accettazione globale e i benefici per la salute riconosciuti. Non ultimo, la circoncisione potrebbe salvare milioni di persone dalla morte per malattie e infezioni.
• Una brutta storia
La corte distrettuale di Dublino ha formalmente accusato Rabbi Avraham di aver eseguito una circoncisione senza la dovuta registrazione medica. La detective Garda Megan Furey ha riferito che, durante l’arresto, il rabbino era vestito con una tunica bianca, guanti blu e teneva in mano un bisturi. Ha trovato un neonato sul fasciatoio e ha constatato che un altro bambino era già stato circonciso. Nonostante l’esperienza e la formazione di Rabbi Avraham, la polizia ha insistito per la sua detenzione, citando la gravità del reato e il rischio di fuga.
Questo arresto ha scatenato una serie di reazioni indignate. Rabbi Margolin ha sottolineato come l’arresto violi il diritto fondamentale alla libertà di religione e umili i genitori coinvolti, suggerendo che non si preoccupano dei loro figli. «Tutti quei genitori che hanno circonciso i loro figli, hanno subito la stessa procedura loro stessi e ovviamente non l’avrebbero fatta se comportasse danni fisici o mentali ai neonati, soprattutto un Mohel come Rabbi Yonathan che passa molti anni di studio e formazione prima di essere autorizzato a praticare. Non siamo barbari».
Nel corso dell’udienza, l’avvocato difensore Tertius Van Eeden ha cercato di evidenziare la legittimità delle azioni di Rabbi Avraham, sottolineando la sua appartenenza alla Initiation Society e la sua vasta esperienza. Tuttavia, il giudice ha negato la cauzione, rimandando il caso alla Corte distrettuale di Clover Hill il 6 agosto.
Il rabbino Margolin ha inoltre rivolto un appello al Presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, il cui nonno è stato rabbino capo d’Irlanda, chiedendogli di collaborare questa mattina con i capi del governo irlandese per l’immediata liberazione del Mohel.
L’arresto di Rabbi Avraham non è solo un episodio scioccante, ma un chiaro sopruso contro la libertà religiosa. Questo caso mette in luce una preoccupante interferenza delle istituzioni nelle pratiche religiose, evocando i peggiori momenti della storia. La società moderna non può tollerare che diritti millenari vengano calpestati in nome di leggi mal interpretate. È tempo di chiedersi: fino a che punto le istituzioni sono disposte a spingersi nella repressione della diversità culturale e religiosa? Questo arresto non solo danneggia un individuo e una comunità, ma mette a rischio i valori fondamentali di una società libera e giusta.
(Bet Magazine Mosaico, 2 agosto 2024)
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Khamenei glorifica il leader di Hamas
L'ayatollah prega sulla bara di Haniyeh e prepara la vendetta: le compagnie aeree si cautelano e cancellano i voli su Tel Aviv. Intanto lo Stato ebraico conferma l'uccisione del capo militare degli jihadisti: «C'è il dna»
di Stefano Piazza
Ieri si sono svolti in Iran i cortei funebri per reclamare vendetta in seguito alla morte del leader di Hamas Ismail Haniyeh, avvenuta lo scorso 31 luglio a Teheran in un raid. Il capo jihadista era arrivato il 30 luglio nella capitale per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian, che aveva incontrato insieme alla guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei. Attraverso qualificate fonti di intelligence si è appreso che Haniyeh dopo aver avuto numerosi incontri con i leader iraniani intorno alle 2 di notte ora locale (mezzanotte e mezza in Italia), insieme alla sua scorta e alla sua guardia del corpo si era diretto in una residenza riservata a veterani di guerra e ufficiali dei pasdaran, nel Nord di Teheran, come ha riferito l'agenzia di stampa statale Irna. Non appena è entrato nella stanza, «un proiettile guidato aviotrasportato» ha colpito la sua stanza uccidendo lui e la sua guardia del corpo.
Inevitabili come sempre altre ricostruzioni (inverosimili) come quella New York Times che ha scritto che il leader jihadista è morto a causa «di una bomba nascosta due mesi fa», quando c'è il video nel quale si vede il missile che centra la camera con all'interno Haniyeh. In ogni caso sorprende come il capo politico di Hamas abbia deciso di lasciare il Qatar dove era al sicuro per andare in Iran dove la sicurezza fa acqua da tutte le parti, come visto nei ripetuti attacchi dell'Isis e le frequenti operazioni mirate degli israeliani; una su tutte quella del novembre 2020 quando fu assassinato Mohsen Fakhrizadeh, uno dei principali scienziati nucleari iraniani, ritenuto da Israele e Stati Uniti la mente dietro ai progetti dell'Iran per sviluppare un'arma nucleare.
Per tornare ai funerali solenni di ieri, Khamenei, che ha più volte scrutato il cielo con sguardo preoccupato, ha condotto le preghiere per Haniyeh prima della sua sepoltura in Qatar, dopo aver minacciato precedentemente una «dura punizione». Al temine della funzione il capo di Stato maggiore dell'esercito iraniano, Mohammad Bagheri, ha affermato a Mehr: «Devono essere adottate varie azioni e i sionisti si pentiranno di sicuro. Stiamo studiando il modo di vendicarci, questo succederà sicuramente. Israele la pagherà cara». Intervenuto da remoto al funerale del comandante in capo degli Hezbollah Fuad Shukr, ucciso in attacco missilistico israeliano martedì scorso a Beirut, il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah ha evocato la vendetta, definita «inevitabile»: «Diversi Paesi hanno chiesto a Hezbollah di non rispondere all'attacco israeliano. L'Asse della Resistenza combatte con rabbia, saggezza e coraggio e in questo senso stiamo cercando una risposta reale e molto calcolata. Siamo di fronte a una battaglia importante e siamo entrati in una nuova fase, che supera la questione dei fronti di supporto». Nasrallah ha persino negato che siano stati gli Hezbollah a lanciare il missile caduto sul campo da calcio Majdal Shams (Nord di Israele) dove sabato scorso sono morti 12 tra bambini e adolescenti drusi.
Israele attende la risposta dell'Iran (così come le più importati compagnie aeree che stanno cancellando i voli su Ho Stato ebraico}, e dei suoi alleati che quasi certamente agiranno insieme in un attacco coordinato. Tuttavia, i rischi sono molteplici per Teheran perché è certo che se la risposta sarà sproposita, interverranno gli Stati Uniti, come dichiarato il 30 luglio dalla portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa Adrienne Watson: «Il nostro impegno per la sicurezza di Israele è ferreo e incrollabile contro tutte le minacce sostenute dall'Iran, tra cui Hezbollah libanese».
Benyamin Netanyahu si è incontrato nel pomeriggio nella base Kirya a Tel Aviv con il leader dell'opposizione Yair Lapid per fornire un aggiornamento sulla situazione della sicurezza. Successivamente ai media ha affermato: «Israele è a un altissimo livello di preparazione per qualsiasi scenario, sia in difesa che in attacco. Esigeremo un prezzo molto alto per qualsiasi atto di aggressione contro di noi da qualsiasi arena». In serata invece ha parlato telefonicamente con Joe Biden con il quale ha discusso dei recenti eventi.
Nel giorno dei funerali di Ismail Haniyeh e Fuad Shukr e l'annuncio della morte del comandante iraniano delle forze aerospaziali dell'Irgc, Amir Ali Hajizadeh, assassinato in Siria, le autorità israeliane hanno confermato che Muhammad Deif, vice del capo militare di Hamas Yaya Sinwar, è stato ucciso il 13 luglio scorso in un attacco aereo israeliano nel Sud della Striscia di Gaza come confermato dall'Idf. Deif, 58 anni, comandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam per oltre due decenni, è stato a lungo una delle figure terroristiche più ricercate da Israele. È stato uno degli ideatori dell'attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, il più mortale nella storia del Paese. Hamas ha però smentito la notizia attraverso Mahmoud al-Mardawi, uno dei leader del gruppo, che ha affermato ai media libanesi vicini a Hezbollah che Deif «sta bene e sta seguendo le informazioni israeliane sulla sua uccisione». Peccato che gli israeliani abbiano il suo dna.
(La Verità, 2 agosto 2024)
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Decine di caccia israeliani pronti sulle piste, pioggia di razzi sulla Galilea
'Idf e aviazione preparati sia alla difesa che all'attacco'. Gli Houthi minacciano una risposta militare
L'esercito e l'aviazione israeliani sono pronti alla difesa ma anche all'attacco": lo ha riferito la tv israeliana Canale 12. Intanto gli Houthi dello Yemen promettono una "risposta militare" alla "pericolosa escalation" provocata da Israele. Il canale televisivo saudita "Al-Hadth" ha riferito del lancio di "una raffica di razzi dal Libano verso gli insediamenti della Galilea" in Israele. In precedenza erano stati attivati allarmi aerei in numerosi insediamenti nella zona. Anche al Jazeera ha riferito che le sirene hanno suonato in 9 città della Galilea occidentale, al confine con il Libano, dopo due giorni di calma sul fronte settentrionale in seguito all'assassinio del leader di Hezbollah Fouad Shukr nel sobborgo meridionale di Beirut. Il corrispondente della tv ha confermato il lancio di missili dal Libano verso posizioni israeliane nella Galilea occidentale.
Il movimento libanese Hezbollah ha annunciato di avere lanciato 'decine' di missili sul nord di Israele. Da parte israeliana, il portavoce dell'Idf, le forze armate dello Stato ebraico, ha reso noto che cinque missili sono stati lanciati dal Libano sulla Galilea e che due di questi sono stati intercettati. Lo riporta Ynet
Funerali di Haniyeh a Teheran, l'Iran prepara l'attacco - Lo shock, la frustrazione, la sete di vendetta. Teheran, in un'atmosfera cupa, si è tinta di nero come le tuniche degli ayatollah per celebrare solennemente i funerali di Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas ucciso dagli israeliani in un blitz condotto nella capitale iraniana, forse addirittura con una bomba nascosta due mesi fa nella casa in cui era ospite. Il colpo è stato talmente plateale da costringere la Repubblica islamica ad annunciare una risposta adeguata, ed i preparativi per un attacco sono effettivamente scattati: il regime ha chiuso lo spazio aereo ed ha riunito le milizie alleate della regione per stabilire le modalità di rappresaglia contro lo Stato ebraico. Che nel frattempo si prepara ad ogni scenario, anche il peggiore, blindandosi. Le esequie di Haniyeh hanno richiamato migliaia di persone a Teheran. Nella sede dell'Università, la Guida suprema Ali Khamenei ha recitato la preghiera per i defunti davanti alle bare del leader ucciso e della sua guardia del corpo, ricoperte dalla bandiera palestinese. Alla presenza di tutto l'establishment iraniano, dal presidente Massoud Pezeshkian al capo dei Pasdaran, Hossein Salami. Poi è partita la processione con i due feretri trasportati per le strade della città su un camion per il saluto della popolazione, ed al termine della cerimonia la salma di Haniyeh è stata trasferita in Qatar, da dove dirigeva l'ufficio politico di Hamas. Il lutto ha rappresentato solo una parte della convulsa giornata in Iran.
"Stiamo studiando il modo di vendicarci, succederà sicuramente", ha avvertito il capo dello Stato maggiore dell'esercito Mohammad Bagheri, all'indomani dell'ordine di Khamenei di colpire direttamente Israele, secondo quanto ha riportato il New York Times. Il primo passo è stato un confronto con gli alleati già attivi nel destabilizzare Israele sullo sfondo della guerra a Gaza. Un funzionario ha parlato di una riunione per fare una "valutazione approfondita sul modo migliore e più efficace per vendicarsi del regime sionista". Alla riunione hanno partecipato le milizie yemenite degli Houthi, quelle irachene, i palestinesi di Hamas e della Jihad. E naturalmente Hezbollah, appena scottato dall'assassinio a Beirut del comandante Fuad Shukr, ritenuto il braccio destro di Hassan Nasrallah. Proprio il leader del Partito di Dio, in un discorso trasmesso ai funerali del suo luogotenente, ha detto che la "risposta" a Israele sarà "inevitabile". Con il doppio attacco che ha violato le capitali di Libano e Iran, lo Stato ebraico "ha oltrepassato la linea rossa", ha accusato la guida libanese sciita, affermando che si è entrati "in una nuova fase" della sfida al nemico di sempre. Il cosiddetto asse della resistenza, secondo diversi analisti e fonti interne, sta valutando due scenari: una risposta simultanea da parte dell'Iran e dei suoi alleati o azioni singole condotte da ogni fazione. Ma l'obiettivo sarebbe semplicemente quello di indurre Israele a non spingersi oltre, e non di scatenare una guerra totale. In questa chiave i precedenti ricordano che lo scorso 13 aprile, in risposta ad un raid sul proprio consolato a Damasco, Teheran aveva lanciato un attacco senza precedenti in territorio israeliano, rivelatosi tuttavia simbolico. Avvertendo prima gli alleati regionali, inclusa la Turchia (e quindi gli Usa, alleati Nato) e annunciando il raid diverse ore prima dell'arrivo dei missili sugli obiettivi: non a caso intercettati quasi tutti, grazie anche all'aiuto degli americani e di altri Paesi. Israele comunque prende sul serio le minacce. Nel nord, al confine con il Libano, sono scattate misure straordinarie di sicurezza. E decine di caccia, come ha riferito la tv Canale 12, sono già sulle piste di decollo "pronte alla difesa ma anche all'attacco". "Siamo ad un livello molto alto di preparazione per qualsiasi scenario, sia difensivo che offensivo", ha confermato il premier Benyamin Netanyahu prima di parlare al telefono con Joe Biden per fare il punto. I timori di una guerra su vasta scala agitano anche l'Europa. Sempre più Paesi hanno sospeso i voli per Beirut e raccomandato ai connazionali di evitare in Libano. Oggi la compagnia tedesca Lufthansa ha annunciato di aver congelato i collegamenti con Tel Aviv fino all'8 agosto.
(ANSA, 2 agosto 2024)
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Le persistenti ambiguità italiane su Turchia, Siria e Iran
di Giovanni Giacalone
Martedì 30 luglio, il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha invitato Israele a non cadere nella “trappola” della ritorsione, dicendosi “molto, molto preoccupata” per la situazione in Libano e per il rischio di un’escalation regionale.
Come riportato dal JPost, parlando durante una visita ufficiale in Cina, Meloni ha affermato che la comunità internazionale dovrebbe continuare a inviare messaggi di moderazione e che la Cina potrebbe aiutare in questi sforzi, avendo “solidi legami” con l’Iran e l’Arabia Saudita.
Per comprendere le affermazioni di Meloni dobbiamo esaminare una serie di casi accaduti di recente.
Innanzitutto, guardare la tempistica: il 26 luglio l’agenzia di stampa Reuters ha rivelato che l’Italia ha deciso di nominare un ambasciatore in Siria, diventando la prima nazione del G7 a rilanciare la sua missione diplomatica a Damasco. Questa è davvero una questione preoccupante.
Va tenuto presente che la Siria fa parte del cosiddetto “Asse della resistenza” ed è un importante snodo per le attività iraniane e di Hezbollah contro lo Stato ebraico; pertanto, il territorio siriano è spesso preso di mira dall’aeronautica israeliana.
In secondo luogo, lo scorso aprile, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha rilasciato alcune dichiarazioni molto preoccupanti subito dopo l’aggressione dell’Iran contro Israele con oltre 300 missili e droni:
“Gli iraniani ci hanno assicurato che i nostri soldati italiani nella zona saranno rispettati”. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani a Stasera Italia su Rete4.
“Il contingente italiano in Libano è sotto l’egida dell’Onu, è in condizioni di essere protetto, non credo ci siano pericoli né per i soldati italiani né per i cittadini italiani in Israele e Iran” ha spiegato Tajani, che ha riferito che l’unità di crisi della Farnesina non ha ricevuto segnalazioni di italiani a Gerusalemme, Amman e Teheran. Quanto agli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, il ministro ha spiegato come gli sia stato assicurato che “saranno attaccate solo le navi che portano armi in Israele”.
Considerando che la missione europea anti-Houthi “Aspides” nel Mar Rosso è guidata da Italia e Grecia, tali affermazioni sono chiaramente problematiche. Inoltre, le truppe italiane hanno davvero bisogno delle rassicurazioni dell’Iran per operare in Libano? Questo ovviamente non fornisce un’immagine positiva per le forze armate italiane.
Il governo italiano è preoccupato per i suoi 1200 soldati presenti sul suolo libanese come parte della missione Unifil; tuttavia, questa preoccupazione non può andare a discapito della sicurezza di Israele. Se siamo arrivati al punto in cui l’Italia deve preoccuparsi della sicurezza dei suoi soldati in Libano, allora la missione Unifil non funziona e il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, ha ragione quando dice che l’ONU dovrebbe riflettere sui risultati da essa conseguiti e sulla necessità di ridefinire una strategia.
Un terzo punto che merita di essere esaminato è la dichiarazione rilasciata dal ministro degli Esteri italiano Tajani dopo la strage del 7 ottobre, in merito alla cessazione delle spedizioni di armi a Israele in quanto “preoccupato che possano essere utilizzate per crimini di guerra”, come già riportato dal Times of Israel: “Abbiamo deciso di non inviare più armi a Israele, quindi non c’è bisogno di discutere questo punto”.
• Crimini di guerra? O legittima difesa?
La fornitura di armi dell’Italia a Israele è in effetti limitata a una piccola percentuale, il che rende l’intero blocco di consegne irrilevante per la sicurezza di Israele, circa il 5%. Tuttavia, il messaggio trasmesso è piuttosto problematico. Soprattutto perché il governo italiano non sembrava preoccupato di tagliare gli accordi di difesa con la Turchia sotto Erdogan, come esposto da Al Arabiyya nel gennaio 2024.
Secondo l’agenzia di stampa araba, Italia e Turchia mirano ad aumentare il valore degli scambi commerciali tra i loro paesi a 32,7 miliardi di dollari (30 miliardi di euro) entro il 2030 rispetto agli attuali circa 25 miliardi di euro, secondo un funzionario informato sui colloqui. Inoltre, gli accordi di difesa tra i due paesi potrebbero includere la Leonardo SpA italiana, che lavora nel settore aerospaziale e della sicurezza a livello globale.
Non ci sono dubbi: un’escalation, con la conseguente ulteriore destabilizzazione della regione, rappresenterebbe un problema importante per tutti, e in primo luogo per Israele.
Tuttavia, è essenziale tenere a mente che la principale forza destabilizzante nell’area è l’Iran. L’eccidio del 7 ottobre 2023, l’attacco con i droni a Tel Aviv di venerdì 19 luglio 2024 e il massacro del campo di calcio di sabato scorso a Majdal Shams sono stati eseguiti da Hamas, dagli Houthi e da Hezbollah, tutti proxy iraniani.
Quanto alla Turchia, è schierata inequivocabilmente dalla parte del terrorismo islamista ed Erdogan sostiene Hamas sia a livello operativo che finanziario. Ciò rende la Turchia uno Stato che sostiene il terrorismo, proprio come l’Iran.
Non è possibile sostenere una posizione ferma contro il terrorismo islamista e allo stesso tempo relazionarsi con chi lo sostiene; correre con la lepre e cacciare con i segugi. Non è possibile. L’eccidio del 7 ottobre 2023 ha determinato uno spartiacque che ci impone di ridefinire posizioni e alleanze in modo molto netto.
(L'informale, 2 agosto 2024)
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Olimpiadi – Italia e Israele insieme sul podio
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L’abbraccio a fine gara tra Bellandi e Lanir
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La bandiera italiana e israeliana insieme, sul podio olimpico di Parigi. È una delle fotografie del sesto giorno di gare, conclusosi in gloria per l’Italia con l’oro della judoka Alice Bellandi nella categoria -78kg. L’atleta azzurra, numero uno del ranking mondiale, si è imposta sull’israeliana Inbar Lanir.
Due ori ieri per l’Italia, che avanza nel medagliere a un totale di cinque medaglie del metallo più pregiato. Ma è stata una giornata positiva anche per Israele, che nel medagliere ci è entrato con l’argento di Lanir e con il bronzo conquistato da un altro judoka, Peter Paltchik, terzo nei -100 kg.
Labir ha combattuto con una spilla gialla tra i capelli, in segno di solidarietà agli ostaggi. «Dall’inizio della guerra ho lo stomaco chiuso», ha dichiarato a fine gara. «Sapevo che l’unica cosa che potevo fare era continuare ad allenarmi e fare ciò in cui riesco meglio, perché ho il privilegio di rappresentare questo paese e la sua bandiera nel mondo. E questo mi ha dato un’enorme motivazione». Paltchik ha dedicato il bronzo all’allenatore Oren Smadga, il cui figlio Omer è rimasto ucciso nel corso dei combattimenti a Gaza.
(moked, 2 agosto 2024)
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Parashat Mattot-Masè: il valore delle città-rifugio
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il libro di Bamidbar si conclude con il resoconto delle città di rifugio, le sei città – tre per ogni lato del Giordano – che erano state create come luoghi in cui le persone ritenute innocenti per l’omicidio, ma colpevoli di omicidio colposo, venivano temporaneamente esiliate.
Nelle prime società, soprattutto in quelle non urbane che non disponevano di un’ampia forza di polizia, si temeva che la gente si facesse giustizia da sola, in particolare quando veniva ucciso un membro della famiglia o della tribù. In questo modo iniziava un ciclo di vendette e ritorsioni che non aveva una fine naturale, un omicidio per vendetta che portava a un altro e a un altro ancora, finché la comunità non veniva decimata. È un fenomeno che ci è familiare nella letteratura, dai Montecchi e Capuleti di Romeo e Giulietta, agli Squali e ai Jet di West Side Story, ai Corleone e ai Tattaglia nel Il Padrino.
L’unica soluzione possibile è uno Stato di diritto efficace e imparziale. C’è però un pericolo persistente. Facciamo un esempio, se Reuben ha ucciso Shimon e il tribunale lo ritiene innocente – si è trattato di un incidente, non c’è stata premeditazione, la vittima e il colpevole non erano nemici – però ci sarà il pericolo che la famiglia della vittima possa sentire che non è stata fatta giustizia. Il loro caro parente è morto e nessuno è stato punito.
Fu per prevenire tali situazioni di “vendetta di sangue” che vennero istituite le città rifugio. Coloro che avevano commesso un omicidio colposo venivano mandati lì e, finché si trovavano entro i confini della città, erano protetti dalla legge. Lì dovevano rimanere fino – secondo la nostra parashà – “alla morte del Sommo Sacerdote” (Numeri 35:25).
La domanda ovvia è: cosa c’entra la morte del Sommo Sacerdote? Non sembra esserci alcun legame tra l’omicidio colposo, la vendetta di sangue e il Sommo Sacerdote, tanto meno la sua morte.
Esaminiamo due interpretazioni abbastanza diverse. Sono interessanti di per sé, ma più in generale ci mostrano la gamma di pensieri esistenti all’interno del giudaismo. La prima è data dal Talmud babilonese: Un vecchio e venerabile studioso disse: “In una delle lezioni di Rava ho sentito spiegare che il Sommo Sacerdote avrebbe dovuto pregare Dio per ottenere misericordia per la sua generazione, cosa che non fece”. (Makkot 11a)
In base a ciò, il Sommo Sacerdote ha una parte di colpa, per quanto piccola, per il fatto che qualcuno è morto, anche se per caso. L’omicidio non è qualcosa che si sarebbe potuto evitare con la preghiera del Sommo Sacerdote. L’assassino è colpevole del crimine, avendo scelto di fare ciò che ha fatto, e nessun altro può essere incolpato. Ma l’omicidio colposo, proprio perché avviene senza che nessuno lo voglia, è il tipo di evento che avrebbe potuto essere evitato dalle preghiere del Sommo Sacerdote. Perciò non è pienamente espiato finché egli non muore. Solo allora l’omicida potrà essere libero.
Maimonide offre una spiegazione completamente diversa nella “Guida dei perplessi”: Una persona che ha ucciso un’altra persona inconsapevolmente deve andare in esilio affinché la rabbia del “vendicatore del sangue” si raffreddi, quando la causa del misfatto è lontana dalla sua vista. La possibilità di tornare dall’esilio dipende dalla morte del Sommo Sacerdote, il più onorato degli uomini e l’amico di tutto Israele. Con la sua morte il parente della persona uccisa si riconcilia (ibid. ver. 25); infatti è un fenomeno naturale che troviamo consolazione nella nostra disgrazia quando la stessa disgrazia o una più grande è capitata a un’altra persona. Tra di noi nessuna morte è più dolorosa di quella del Sommo Sacerdote. (Guida per i perplessi III, 40)
Secondo Maimonide, la morte del Sommo Sacerdote non ha nulla a che fare con la colpa o l’espiazione, ma semplicemente con il fatto che provoca un dolore collettivo così grande da far dimenticare le proprie disgrazie di fronte a una più grande perdita nazionale. È allora che le persone abbandonano il loro senso individuale di ingiustizia e il desiderio di vendetta. A quel punto la persona riconosciuta colpevole di omicidio colposo può tornare a casa.
Cosa c’è in gioco tra queste due interpretazioni della legge profondamente diverse? La prima riguarda la questione se l’esilio in una città rifugio sia o meno una sorta di punizione. Secondo il Talmud babilonese sembra di sì. Potrebbe non esserci stata alcuna intenzione. Nessuno era legalmente colpevole. Ma è accaduta una tragedia per mano di X, il colpevole dell’omicidio colposo, e anche il Sommo Sacerdote ha partecipato, anche se solo negativamente e passivamente, alla colpa. Solo quando entrambi hanno subito delle sofferenze, l’uno con l’esilio, l’altro con la morte (naturale, non giudiziaria), l’equilibrio morale viene ristabilito. La famiglia della vittima sente che è stata fatta una sorta di giustizia.
Maimonide, tuttavia, non concepisce la legge delle città rifugio in termini di colpa o punizione. L’unica considerazione rilevante è la sicurezza. Il colpevole di omicidio colposo va in esilio, non perché sia una forma di espiazione, ma semplicemente perché è più sicuro per lui essere lontano da coloro che potrebbero cercare vendetta. Rimane lì fino alla morte del Sommo Sacerdote, perché solo dopo una tragedia nazionale si può pensare che la gente abbia rinunciato a vendicarsi del proprio familiare morto. Questa è una differenza fondamentale nel modo in cui concepiamo le città rifugio.
Tuttavia, c’è un’altra differenza fondamentale tra le due. Il Talmud babilonese presuppone un certo livello di realtà soprannaturale. Si dà per scontato che se il Sommo Sacerdote avesse pregato con impegno e devozione, non ci sarebbero state morti accidentali. La spiegazione del Maimonide non è soprannaturale. Appartiene in generale a quella che chiamiamo psicologia sociale. Le persone sono più capaci di fare i conti con il passato quando non se lo ricordano quotidianamente vedendo la persona che, forse, guidava l’auto che ha ucciso il loro figlio mentre attraversava la strada in una notte buia, sotto una forte pioggia, in una curva a gomito.
Ci sono morti – come quelle della Principessa Diana e della Regina Madre in Gran Bretagna – che evocano un diffuso e profondo dolore nazionale. Ci sono momenti – dopo l’11 settembre, per esempio, o lo tsunami nell’Oceano Indiano del 26 dicembre 2004 – in cui le nostre rimostranze personali sembrano semplicemente troppo piccole per preoccuparsene. Questo, come dice Maimonide, è “un fenomeno naturale”.
Questa differenza fondamentale tra una comprensione naturale e soprannaturale dell’ebraismo, attraversa molte epoche della storia ebraica: I saggi contro i sacerdoti, i filosofi contro i mistici, Rabbi Ishmael contro Rabbi Akiva, Maimonide in contrasto con Judah Halevi, e così via fino ad oggi.
È importante rendersi conto che non tutti gli approcci alla fede religiosa nell’ebraismo presuppongono eventi soprannaturali – eventi, cioè, che non possono essere spiegati entro i parametri della scienza, intesa in senso lato. Dio è al di là dell’universo, ma le sue azioni all’interno dell’universo possono comunque essere in accordo con la legge naturale e la causalità.
Secondo questa visione, la preghiera cambia il mondo perché cambia noi. La Torà ha il potere di trasformare la società, non per mezzo di miracoli, ma con effetti pienamente spiegabili in termini di teoria politica e scienza sociale. Questo non è l’unico approccio all’ebraismo, ma è quello di Maimonide e rimane uno dei due grandi modi di intendere la nostra fede.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 2 agosto 2024)
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Parashà della settimana: Massè (Viaggi)
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Confermata l'uccisione a Gaza del "fantasma" Deif, stratega di Hamas
L'annuncio di Israele: è morto in un raid sul sud della Striscia lo scorso 13 luglio. Era sopravvissuto a diversi tentativi di ucciderlo. Era considerato lo stratega dei tunnel e del lancio di razzi
Mohammed Deif, il "fantasma" di Gaza che per anni era riuscito a sfuggire ai tentativi di eliminarlo da parte di Israele, è stato ucciso. Lo hanno confermato le forze israeliane (Idf) spiegando che quello che per anni è stato considerato tra i nemici più acerrimi dello Stato ebraico, è stato colpito in un raid sul sud della Striscia lo scorso 13 luglio insieme al capo della Brigata Khan Yunis di Hamas, Rafa'a Salameh.
La conferma della morte di Deif arriva a 300 giorni esatti dal massacro del 7 ottobre e dalla presa degli ostaggi nell'assalto di Hamas a Israele e all'indomani dell'uccisione in un raid a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh.
Capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam dal luglio 2002, Deif si era unito a Hamas nel 1990 e negli ultimi 20 anni era sopravvissuto a diversi tentativi israeliani di assassinarlo. In un raid nel 2014 aveva perso la moglie e il figlio di sette mesi, mentre il più recente tentativo conosciuto di eliminarlo risaliva all'operazione 'Guardiano delle Mura' nel 2021.
Deif, con il quale pochissimi quando era in vita avrebbero avuto contatti diretti, era considerato la mente della strategia del lancio di razzi contro Israele e della costruzione dei tunnel per infiltrare uomini e armi. Nei mesi scorsi era stato indicato come il più inflessibile oppositore al cessate il fuoco con Israele.
Nato a Khan Yunis una sessantina di anni fa, Deif è stato un "fantasma" sia per gli israeliani sia per i palestinesi: per anni non ci sono state sue foto se non una scattata nel 2001, quando fu rilasciato da un carcere dell'Anp. In passato c'è stato chi ha sostenuto fosse nato con il nome di Mohammed al-Masri e che avesse assunto il nome di battaglia con cui è noto da un personaggio che aveva interpretato a teatro ai tempi dell'università. Perché a Deif, da studente di Scienze all'Università islamica di Gaza, piaceva molto fare l'attore e aveva fondato un gruppo, chiamato "Coloro che tornano", in riferimento al desiderio dei palestinesi di tornare nella terra in cui vivevano prima della nascita dello Stato di Israele. Una passione, quella della recitazione, che Deif aveva mantenuto anche dopo essere diventato un militante di Hamas - dopo l''iniziazione' con la Fratellanza musulmana, di cui il movimento di resistenza islamico è una costola - prestando il proprio volto nei video di propaganda del gruppo.
Nel 1990 venne arrestato per la prima volta dagli israeliani, che però lo rilasciarono poco dopo. Fu allora che iniziò a partecipare attivamente alla creazione delle Brigate al-Qassam, dimostrando un'abilità particolare con le armi, a cominciare da razzi e bombe.
Nel 1996, dopo la morte dell''ingegnere' di Hamas, Yahya Ayash, Deif - il cui nome in arabo significa 'ospite' - assunse un ruolo sempre più centrale nelle Brigate e nell'ideazione degli attacchi contro Israele. Parallelamente sparì dalla circolazione, mentre nel 2002 riapparve come leader del braccio armato di Hamas, diventando, secondo l'intelligence israeliana, la mente di tutti i più sanguinosi attentati suicidi contro autobus e ristoranti israeliani degli anni Duemila.
È in quel periodo che sopravvive a numerosi tentativi di ucciderlo, tentativi in cui avrebbe perso la vista a un occhio e che lo avrebbero lasciato su una sedia a rotelle. E che hanno contribuito ad accrescere la leggenda intorno al suo 'personaggio', che i palestinesi consideravano un eroe anche per il suo stile di vita frugale. Nella sua strategia, oltre allo sviluppo di razzi sempre più sofisticati, rientrava anche la costituzione di una forza di combattenti addestrati per infiltrarsi attraverso i tunnel e colpire Israele.
«L'uccisione dell'assassino Muhammad Deif, il 'Bin Laden di Gaza', il 13 luglio 2024, è un grande passo verso lo sradicamento di Hamas come organizzazione militare e governativa e verso il raggiungimento degli obiettivi della guerra che ci siamo prefissati», ha scritto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant su X, postando una foto in cui cancella Deif con un pennarello da un grafico con la struttura del gruppo terroristico. «L'operazione di alta qualità e precisione che è stata condotta è stata resa possibile dalla migliore cooperazione tra l'Idf e lo Shin Bet, e coloro che li guidano», ha scritto. «I risultati dell'operazione chiariscono che Hamas è un'organizzazione in disintegrazione, e che i terroristi devono scegliere tra la resa e la morte». E ha concluso: il sistema di sicurezza perseguiterà i terroristi di Hamas - dai pianificatori del massacro del 7 ottobre agli esecutori - e non si fermerà finché la missione non sarà completata».
(Avvenire, 1 agosto 2024)
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L’eliminazione dei capi terroristi: un grande successo per Israele
di Ugo Volli
• Una straordinaria impresa Nel giro di poche ore, Israele ha eliminato due dei capi terroristi più temibili: prima nel bel centro della roccaforte degli Hezbollah a Beirut Fuad Shukr, numero due di Hezbollah, organizzatore della strage dei marines a Beirut del 1983 e da ultimo dell’assassinio di dodici ragazzi drusi quattro giorni fa in Israele; e subito dopo in un palazzo di Teheran Ismail Haniyeh, leader di Hamas in quanto capo del suo ufficio politico. È un risultato impressionante di intelligence e precisione tecnica, che mostra come nessuno, letteralmente nessun nemico di Israele possa pensare di essere immune dal “braccio lungo” dello Stato ebraico, se i suoi crimini diventano insopportabili. Un successo dunque importante che Israele aspettava da tempo. Per capirne appieno il significato è opportuno porsi alcune domande.
• Israele aveva diritti di farlo? Assolutamente sì, sulla base della morale e del diritto. I due giustiziati erano capi di organizzazioni terroristiche, responsabili di innumerevoli delitti. Anche prima del 7 ottobre Hamas ha ucciso, rapito, violentato cittadini israeliani e stranieri e Haniyeh come capo dell’organizzazione criminale ne porta la responsabilità ultima. Da nove mesi a questa parte è stato, se non direttamente l’organizzatore, certamente il dirigente politico che ha avvallato, giustificato, ordinato tutto il sangue sparso dai terroristi di Gaza. Anche in termini puramente militari, è il capo della principale fra le bande che stanno facendo la guerra allo stato ebraico e dunque un suo bersaglio legittimo. Shukr, che ha un’immagine molto meno conosciuta, era il vero capo militare di Hezbollah e ha a sua volta le mani sporche del sangue di centinaia di vittime. Anche lui, come comandante di una banda militare che fa la guerra a Israele, è un obiettivo assolutamente legittimo.
• Perché solo ora? Netanyahu l’ha spiegato subito dopo la strage dei bambini drusi: si sono superate tutte le linee rosse, Israele non poteva sopportare ulteriormente senza una reazione pesante. Era possibile, è ancora possibile, che si rendesse necessaria un’operazione di terra, che voleva dire una guerra vera e propria in Libano. Israele ha scelto di cercare di evitarla dando un segnale altrettanto forte. Non è detto che funzioni, ma il tentativo di fronte al mondo è di mostrare che Israele vuole la distruzione dei terroristi e non la guerra con gli stati vicini. Bisogna anche aggiungere che probabilmente, quando subito dopo il 7 ottobre Netanyahu aveva promesso che avrebbe dato la caccia ai responsabili della strage fino a eliminarli tutti come era accaduto per i colpevoli dell’eccidio delle Olimpiadi di Monaco, si era dovuto impegnare con gli americani a non colpire Hamas sul territorio del Qatar; ora però Haniyeh aveva pensato bene di andare a Teheran per incontrare il nuovo presidente dopo la morte (su cui forse ora varrebbe la pena di fare qualche pensiero retrospettivo) del suo predecessore Ebrahim Raisi.
• Come si è potuto fare? Tradizionalmente ai servizi segreti israeliani si sono attribuite grandissime capacità. Questa fama è stata messa in dubbio dal fallimento del 7 ottobre, che però ha coinvolto soprattutto il servizio informazioni militari (“Haman”) e quello interno (lo “Shin Bet”), i quali non hanno compreso fino all’ultimo la minaccia in corso. Il Mossad non è competente su Gaza, si occupa di spionaggio e operazioni internazionali a largo raggio; ancora una volta ha dimostrato la sua straordinaria efficacia. Sapere esattamente in che stanza di un edificio di Teheran dormisse Hanyeh o dove si svolgesse la riunione con gli iraniani di Shukr, come per altre operazioni analoghe precedenti, implica una capacità di penetrazione straordinaria negli apparati di sicurezza dei terroristi, o apparati tecnologici di localizzazione al di là dell’immaginabile; poi c’è stata l’esecuzione, con aerei o droni che hanno violato in profondità il territorio nemico, anche un luogo sorvegliatissimo come Teheran, sparando missili a corto raggio esattamente sul bersaglio e sono tornati indietro senza lasciare tracce.
• Questa strategia di eliminazioni può portare alla vittoria? Purtroppo è improbabile. I capi terroristi non escono da accademie e studi sofisticati, si formano sul campo e sono selezionati per il loro fanatismo. Probabilmente non mentono quando dicono di non aver paura della morte, anzi di amarla come gli israeliani amano la vita. Se sono eliminati l’organizzazione perde esperienza, rete di rapporti, autorità, pianificazioni segrete in corso; ma trovare chi li sostituisce purtroppo non è difficile. Chi dice che Israele doveva subito eliminare i capi nemici e non entrare a Gaza non capisce che allora e anche ora la vittoria sul campo, l’eliminazione del potenziale militare dei terroristi è essenziale.
• Che succede ora? Difficile dirlo. Ci potrebbe essere una guerra col Libano, forse anche una guerra regionale se l’Iran cercherà di vendicare lo sgarro subito con l’eliminazione di Haniyeh nella sua capitale. È improbabile però, se si considera quel che è accaduto per esempio ad aprile, quando Israele giustiziò a Damasco il suo generale responsabile per la guerra a Israele, Mohammad Reza Zahedi: il tentativo iraniano di massiccia rappresaglia missilistica fallì miseramente, coprendo gli ayatollah di vergogna. E poi misteriosamente morì anche Raisi. Un’altra possibilità simmetrica è che Hamas e Hezbollah capiscano che a continuare la guerra con Israele hanno solo da perdere e che si mettano seriamente sul tavolo delle trattative, per esempio negoziando la garanzia della vita dei loro capi e il loro esilio (o per Hezbollah, il ritiro sulle linee della delibera dell’Onu del 2006) in cambio della liberazione dei rapiti e della consegna delle armi. Anche questa è una soluzione improbabile, purtroppo. Quel che più probabilmente accadrà nell’immediato futuro è che ci sarà una fiammata di lanci missilistici e di tentativi di rappresaglia, non così gravi da portare alla guerra aperta, e che Israele andrà avanti nella ripulitura di Gaza e nel compito assai più difficile di liberare il Nord dalla minaccia di Hezbollah.
(Shalom, 1 agosto 2024)
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Nessun dorma
di Niram Ferretti
Nel 2020, Mohsen Fakhrizadeh, uno dei principali artefici del programma nucleare iraniano venne ucciso in Iran da agenti del Mossad. Sempre nel 2020 due sicari in moto uccisero a Teheran il numero due di Al Qaeda Ahmed Abdullah Abdullah.
Due anni prima il Mossad fu in grado di trafugare l’intero archivio segreto iraniano relativo ai documenti sulla ricerca nucleare, che si trovava custodito in un magazzino. Ieri, un razzo ha centrato in pieno Ismail Hanyiah, uno dei più noti maggiorenti di Hamas mentre si trovava nella sua stanza in un edificio di Teheran dove era giunto in visita per rendere omaggio al neo presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Solo poche ore prima di essere ucciso, Hanyiah era stato ricevuto con tutti gli onori da Ali Khamenei, suo interlocutore abituale.
Sono tutti episodi che mostrano con evidenza quanto sia presente l’intelligence israeliana in Iran e vasta la sua capacità di raccogliere informazioni precise per poi poterle utilizzarle al momento più opportuno. Sono episodi che rivelano altresì la vulnerabilità dell’Iran, la sua permeabilità.
L’uccisione di Hanyiah , avvenuta in un momento di celebrazione pubblica, mentre era ospite nel paese, rappresenta per l’Iran un’ulteriore umiliazione e la conferma che in Iran nessuno può dirsi realmente al sicuro, nemmeno Khamenei. L’Iran minaccia prevedibili ritorsioni ma sa che, se ci saranno, la risposta non si farà attendere. Il nemico “sionista” non si trova solo all’esterno ma dentro nel paese, dove può godere di appoggi informativi che nessuno è in grado di sapere quanto siano estesi e fino a quali livelli.
Dormiva forse Hanyiah mentre il razzo lo ha centrato. Per i terroristi non è più tempo di dormire.
(L'informale, 1 agosto 2024)
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Israele – «300 giorni bastano»: i familiari degli ostaggi in piazza
Trecento giorni di guerra «sono abbastanza». O arriverà un «accordo» o si avrà la percezione di un «abbandono».
“A Deal or Abandonment”, recita lo slogan con cui le famiglie degli ostaggi israeliani sequestrati da Hamas hanno convocato per stasera un nuovo sit in a Tel Aviv, in quella che dopo il 7 ottobre è conosciuta come «la piazza degli ostaggi». L’iniziativa inizierà con una simbolica marcia, nel segno del colore giallo simbolo della loro battaglia, per proseguire con gli interventi di alcuni artisti. «Serve un accordo», chiedono gli organizzatori.
Alcuni manifestanti hanno bloccato stamane il traffico sull’autostrada, all’ingresso di Tel Aviv. Alla protesta, riporta la stampa israeliana, era presente Einav Zangauker, la madre di un ostaggio. «Mio figlio Matan e altri 114 ostaggi sono abbandonati nei tunnel di Hamas», ha dichiarato la donna ai giornalisti, puntando il dito contro l’azione del governo israeliano. «I cittadini dello Stato di Israele sono a corto di ossigeno; più Netanyahu trascina la guerra e ostacola gli accordi, più la situazione nel Nord si surriscalda. Siamo a un passo da un conflitto su più fronti, ma ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo che riporti indietro i nostri cari e gli sfollati nelle loro case».
Alla protesta ha partecipato anche Natalie Zangauker, la sorella di Matan. Con uno spray ha scritto 300 su uno dei ponti che sovrastano l’autostrada.
(moked, 1 agosto 2024)
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"Mio figlio Matan ... abbandonati nei tunnel [abbandonati da chi? da Netanyahu, si capisce, non segregati da Hamas] ... serve un accordo [con chi? con Hamas naturalmente].. Netanyahu trascina la guerra e ostacola gli accordi ... [al contrario di Hamas che invece vuole la pace ed è pronto a fare accordi] ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo che riporti indietro i nostri cari [non è Hamas che deve liberare gli ostaggi, è Netanyahu che deve "riportarli indietro", come se fosse stato lui a portarli nei tunnel]". Un irresponsabile, egoistico atteggiamento infantile. E' l'Occidente del voglio tutto e subito che protesta. Un Occidente penetrato come un malefico virus nel corpo di Israele. Yahya Sinwar l'ha capito e sta giocando bene le sue carte. M.C.
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I volontari hanno salvato 50 milioni di dollari di prodotti israeliani durante la guerra
Centinaia di migliaia di volontari israeliani e di tutto il mondo hanno contribuito a salvare più di 35.000 tonnellate di frutta e verdura, secondo l'associazione benefica israeliana Leket.
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Riservisti israeliani aiutano i contadini a raccogliere le arance a Moshav Beit Hillel, non lontano dal confine israeliano con il Libano, 10 nov 2023
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Secondo uno studio pubblicato questa settimana, i volontari israeliani hanno salvato 50 milioni di dollari di prodotti agricoli dall'inizio della guerra contro Hamas a Gaza, nonostante i danni significativi al settore agricolo del Paese.
Oltre ai volontari israeliani, centinaia di migliaia di volontari di tutto il mondo hanno contribuito a salvare più di 35.000 tonnellate di cibo, secondo Leket Israel, la Banca Nazionale del Cibo, un ente di beneficenza israeliano registrato.
Secondo precedenti indagini, quasi un israeliano su due si è offerto volontario nei primi mesi della guerra, e volontari ebrei e cristiani da tutto il mondo sono venuti in Israele per aiutare i contadini colpiti con il raccolto.
Secondo il rapporto, i prezzi dei prodotti freschi in Israele sono aumentati fino al 18% nei primi sei mesi di guerra, mentre i prezzi della frutta sono aumentati fino al 12%.
Quasi un terzo dei terreni agricoli israeliani si trova nelle zone del fronte, di cui circa il 22% nella zona di confine con la Striscia di Gaza e il 10% al confine settentrionale con il Libano.
Lo studio ha rilevato che l'aumento degli sprechi alimentari a seguito della guerra è costato all'economia circa 275 milioni di dollari, di cui 185 milioni di dollari di cibo sprecato.
Secondo lo studio, oltre il 20% dei prodotti è stato sprecato a causa della guerra, rispetto a meno del 10% prima dello scoppio del conflitto.
"La guerra ha causato gravi danni all'agricoltura israeliana e le sue conseguenze si faranno sentire per molti anni a venire", ha dichiarato Gidi Kroch, CEO di Leket Israel. "Rafforzare l'agricoltura locale non è solo un'esigenza economica essenziale, ma anche una condizione necessaria per garantire la sicurezza alimentare e rafforzare la resilienza nazionale dei cittadini israeliani".
(Israel Heute, 1 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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