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Notizie 1-15 aprile 2015


A Roma protagonista il mondo sefardita

Al via il Festival su storia, cultura e enogastronomia ebraica

ROMA - Convegni, concerti, corsi di cucina, incontri, proiezioni di film e visite guidate. Da domenica 19 a giovedì 30 aprile l'Azienda Romana Mercati (azienda della Camera di Commercio di Roma), rinnova l'appuntamento col pubblico romano e non con un nuovo festival della cultura ebraica della Capitale, incentrato sul mondo sefardita. Tra i temi proposti, gastronomia, storia e cultura.
Si parlerà poi della grande migrazione che ha portato gli ebrei spagnoli nella città eterna nel 1492, dell'arrivo nel 1967 degli ebrei provenienti dalla Libia e dell'importante apporto di entrambi alla comunità ebraica locale e più in generale alla storia della capitale. Il programma su www.italiaebraica.it.

(ANSAmed, 15 aprile 2015)


Netanyahu attacca ancora l'accordo di Losanna

"L'Iran si prefigge di sterminare sei milioni di ebrei qua in Israele. Chi potrebbe fermare l'Iran si fa da parte".

GERUSALEMME - Nella Giornata annuale di commemorazione in Israele dell'Olocausto, il premier Benyamin Netanyahu ha avvertito dal Museo Yad va-Shem di Gerusalemme che l'Iran si prefigge di sterminare "sei milioni di ebrei qua" e ha assicurato di considerare come proprio primo dovere "impedire una nuova Shoah del popolo ebraico".

In un discorso dai toni altamente pessimistici, con ripetuti riferimenti al "cattivo accordo" di principio sul nucleare iraniano messo a punto a Losanna dalle maggiori potenze mondiali, Netanyahu ha sostenuto che "le lezioni della seconda guerra mondiale non sono state apprese".
Di fronte al regime nazista, "il mondo libero tentò un politica conciliante, ignorando gli avvertimenti di quanti ritenevano invece che ciò avrebbe solo accresciuto il suo appetito". "È peraltro umano - ha ammesso Netanyahu - cercare di guadagnare la tranquillità, ad ogni prezzo. Ma quale prezzo - ha esclamato - si dovette poi pagare allora!".
Nella situazione attuale, ha argomentato ancora il premier, le potenze mondiali "compiono gli stessi errori di allora". In particolare ha menzionato le efferatezze compiute dallo Stato islamico nel tentativo di dar vita a "uno o più Califfati", e la politica dell'Iran: "un Paese che dice apertamente - secondo Netanyahu - di voler sterminare sei milioni di ebrei". Il premier ha poi sottolineato che proprio adesso in Iran viene organizzata una gara internazionale "con la partecipazione di disegnatori da 56 Paesi" sul tema della "negazione dell'Olocausto". E adesso inoltre l'Iran "balza in avanti": dall'Iraq alla Siria, dal Libano a Gaza, dallo Yemen al Golan.
"Tutto ciò avviene sotto gli occhi di tutti, alla luce del sole. Ma di fronte - ha accusato, riferendosi all'atteggiamento delle grandi potenze - c'è solo una grande cecità ". Chi potrebbe fermare l'Iran "si fa da parte". Israele, ha affermato Netanyahu, continuerà a tentare di "aprire gli occhi che si sono chiusi". Anche se dovesse restare da solo, saprà difendere la propria sicurezza nazionale. '"Non permetteremo mai - ha promesso - che Israele sia solo un episodio passeggero nella storia del nostro popolo". Da stasera, Israele è a lutto per 24 ore. Domani, alle 10 di mattina, le sirene risuoneranno in tutto il Paese per due minuti, in ricordo degli ebrei sterminati nella Shoah. Cerimonie commemorative avranno luogo nelle scuole, nel Parlamento e negli istituti di documentazione della Shoah.

(Corriere del Ticino, 15 aprile 2015)


L'Egitto responsabile della carenza di armi

di Khaled Abu Toameh (*)

La guerra al terrorismo combattuta con durezza e intransigenza dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, soprattutto lungo il confine con la Striscia di Gaza, sembra dare frutto. È una guerra iniziata lontano dai riflettori e con quasi nessuna reazione da parte della comunità internazionale.
  Questa situazione è un perfetto esempio di come la comunità internazionale e le Nazioni Unite non si preoccupino della "situazione difficile" in cui versano i palestinesi finché Israele non è coinvolto. La guerra di al-Sisi al terrorismo non è riuscita finora a suscitare lo stesso clamore, che spesso è destato dalle operazioni militari israeliane contro Hamas e i suoi tunnel del contrabbando. A seguito di questa guerra - che è iniziata nel 2013, poco dopo che al-Sisi è arrivato al potere, con la distruzione di centinaia di tunnel utilizzati per attività di contrabbando lungo il confine tra l'Egitto e la Striscia di Gaza - Hamas e gli altri gruppi armati sono ora più isolati che mai.
  Ma non è solo l'isolamento l'unica fonte di preoccupazione per Hamas, la Jihad islamica e per gli altri gruppi armati della Striscia di Gaza. Le severe misure di sicurezza adottate dall'Egitto - che includono la distruzione di oltre 1700 tunnel e la creazione di una zona di sicurezza lungo il confine con Gaza - hanno segnato una semi-battuta d'arresto del contrabbando di armi. "Il contrabbando (di armi nella Striscia di Gaza) è stato interrotto quasi del tutto - ha ammesso Abu Mohammed, un trafficante di armi palestinese di Rafah, a sud della Striscia di Gaza - Raramente qualcuno riesce a far entrare furtivamente armi leggere e munizioni".
  L'uomo ha rivelato che il contrabbando di armi dall'Egitto a Gaza è praticamente cessato dal febbraio di quest'anno e si è anche lamentato del fatto che è diventato impossibile introdurre di nascosto missili e razzi nella Striscia di Gaza. Abu Mohammed ha inoltre detto che il giro di vite sulla sicurezza dato dall'Egitto ai tunnel usati per attività di contrabbando ha causato una carenza di armi di vario tipo e di munizioni nella Striscia di Gaza. Inoltre, questa stretta ha provocato un aumento dei prezzi di molte armi, egli ha aggiunto.
  Ad esempio, il costo di una pallottola, in genere venduta a un dollaro, negli ultimi mesi è stato raddoppiato. Allo stesso modo, il prezzo di un fucile d'assalto AK-47 prodotto in Egitto è passato da 900 a 1300 dollari. Mohammed ha asserito che i tentativi di ricostruire i tunnel di contrabbando da parte di alcuni proprietari palestinesi di queste gallerie sotterranee sono stati infruttuosi proprio a causa delle misure egiziane in atto. Tra le misure adottate spiccano l'uso di esplosivi e di liquami per distruggere i tunnel, egli ha aggiunto. Incoraggiate dal successo della loro campagna contro il terrorismo, le autorità egiziane stanno ora studiando la possibilità di estendere la zona di sicurezza che hanno di recente istituito lungo il confine con la Striscia di Gaza.
  Gli egiziani dicono che la mossa è necessaria per impedire ai gruppi terroristici di espandere le loro attività nel nord del Sinai. Dall'inizio dell'anno, le autorità egiziane hanno scoperto e distrutto altri 240 tunnel lungo il confine con la Striscia di Gaza. Una di queste gallerie era lunga quasi 3 chilometri e aveva una profondità di 3 metri, secondo i funzionari di sicurezza egiziani. Si tratta del tunnel più lungo, finora scoperto dagli egiziani. Il presidente Sisi ha ora deciso di combattere i tunnel usati da Hamas per il contrabbando anche attraverso i mezzi giuridici. Questa settimana, egli ha firmato una nuova legge, secondo la quale chi scava un tunnel lungo i confini egiziani rischia una condanna all'ergastolo.
  La nuova legge è arrivata in seguito alle voci che alcuni ribelli jihadisti del Sinai avevano ricevuto cure mediche in ospedali della Striscia di Gaza. Le voci confermano i timori dei funzionari del governo egiziano che i jihadisti del Sinai lavorino con Hamas per minare la sicurezza e la stabilità dell'Egitto. La legge arriva dopo un'altra giornata di sangue in cui 5 persone sono rimaste uccise e altre 30 ferite in una serie di esplosioni avvenute all'esterno di un impianto di sicurezza, nella città di El Arish, nel Sinai. In precedenza, in un altro attacco terroristico sferrato contro le forze di sicurezza, avevano perso la vita 7 soldati nei pressi di Sheikh Zuweid, una città del nord del Sinai vicino al confine con la Striscia di Gaza. Sisi ha mostrato coraggio e determinazione nella sua guerra volta a bonificare le paludi dei terroristi.
  Le misure severe che sono state prese lungo il confine tra l'Egitto e la Striscia di Gaza hanno dimostrato di essere ancor più efficaci delle operazioni militari israeliane contro i tunnel usati per le attività di contrabbando. Che Gaza sia a corto di armi è una buona notizia non solo per Israele e l'Egitto, ma anche per i palestinesi che vivono lì. È difficile immaginare come Hamas possa gettarsi a capofitto in un altro scontro armato con Israele - in cui i palestinesi pagherebbero ancora una volta un pesante tributo - in un momento in cui l'esercito di al-Sisi lavora giorno e notte per distruggere i tunnel del contrabbando e i prezzi dei fucili e dei proiettili nella Striscia di Gaza sono saliti alle stelle.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 15 aprile 2015 - trad. Angelita La Spada)


Giornalisti israeliani visitano Oltremare e si innamorano del baby delfino Taras

 
RICCIONE - Stupore, meraviglia e tante domande hanno contraddistinto la mattinata dei giornalisti, blogger e Tour Operator che hanno visitato il parco Oltremare di Riccione nell'ambito dell'Educ-Tour organizzato da APT Emilia Romagna alla scoperta delle eccellenze del territorio, a seguito della nuova tratta aerea Tel Aviv-Bologna attiva da giugno a settembre 2015.
   Emozionati dal Volo dei Rapaci, affascinati dall'architettura ardita di Oltremare, incuriositi dal passaggio in Darwin, l'area che ricrea l'atmosfera di una foresta preistorica del Cretaceo, i partecipanti al tour, responsabili dei portali turistici e delle riviste di viaggio più popolari di Israele, non hanno saputo trattenere l'emozione alla vista di Taras - il baby delfino nato nella Laguna più grande e bella d'Europa nell'agosto 2014 - che con i suoi buffi tentativi di imitare gli adulti e con la sua vivacità ha conquistato tutti. Il gruppo, alla ricerca di spunti per un turismo di qualità e una destinazione a misura di famiglia da proporre al mercato di casa, ha apprezzato la combinazione di emozione, divertimento e istruzione che contraddistingue Oltremare, visitato in rappresentanza degli altri parchi Costa Parchi Edutainment sulla Riviera.
"E' la prima volta che vedo un parco tematico che ti permetta un contatto così coinvolgente con la natura" ha dichiarato la responsabile di Arkia-Israeli Airlines.
   Se son rose, fioriranno: al momento per lo staff di Oltremare e per APT, resta la consapevolezza di avere fatto scoprire una nuova eccellenza per arricchire di emozione l'esperienza di chi, anche da lontano, sceglierà la Riviera per le sue vacanze.

(altarimini.it, 15 aprile 2015)


Europa, cresce l'antisemitismo nel 2014. Quale futuro per gli ebrei nel Vecchio Continente?

Alla vigilia del giorno in cui Israele ricorda le sei milioni di persone trucidate dai nazisti, pubblicato il rapporto dell'Università di Tel Aviv. Crescono gli episodi violenti: +40%.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - L'antisemitismo in Europa è aumentato del 40 per cento nel 2014, con il risultato di spingere un crescente numero di ebrei a interrogarsi sul proprio futuro nel Vecchio Continente: ad affermarlo è il rapporto annuale del Kantor Center sullo studio dell'ebraismo contemporaneo all'Università di Tel Aviv.
   Le cifre sono eloquenti: nell'anno appena passato vi sono stati 766 «episodi di violenza» rispetto ai 554 del 2013 e di conseguenza «molte strade d'Europa sono divenute il teatro di una caccia all'ebreo» ha affermato Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo, illustrando i risultati di un'indagine da cui emerge che «alcuni ebrei sono oggi obbligati a non frequentare le loro istituzioni e sinagoghe per motivi di sicurezza». «Sono questi i motivi che li spingono ad abbandonare l'Europa - ha aggiunto - perché molti hanno paura perfino di camminare per strada e si ritirano dietro alte mura e fili spinati. Questa è la nuova realtà della vita ebraica in Europa». In particolare, ad essere aumentati sono gli «atti violenti, con armi o meno, come incendi e vandalismo». Vi sono stati 68 atti «violenti con armi» contro gli ebrei e loro proprietà nel 2014, inclusi gli attacchi al Museo ebraico di Bruxelles, la sinagoga di Copenhagen e il supermarket HyperCacher di Parigi, raddoppiando il dato rispetto al 2013.
   Gli episodi di «violenza senza armi» sono stati invece 101. Per effetto di questi attacchi 306 persone sono state in qualche maniera colpite, con un balzo in avanti del 66 per cento, mentre gli attacchi contro le sinagoghe sono stati 114 ovvero un aumento del 70 per cento. Gli incendi dolosi sono triplicati. «L'atmosfera in Europa è cambiata - ha spiegato Dina Porat, direttore del Kantor Center - e di conseguenza un crescente numero di ebrei europei si chiede che futuro hanno, come singoli e come Comunità, nei Paesi dove sono nati e risiedono».
   L'antisemitismo in Europa è in crescita costante dagli anni Ottanta ed ha avuto una forte accelerazione a seguito della Seconda Intifada e dei conflitti militari Israele-Hamas combattuti nel 2009 e lo scorso anno. Gran parte degli attacchi contro gli ebrei europei avvengono da parte di gruppi o singoli ostili ad Israele. Il rapporto del Kantor Center è stato pubblicato alla vigilia di Yom Ha-Shoà, il giorno in cui Israele ricorda i sei milioni di ebrei trucidati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.

(La Stampa, 15 aprile 2015)


Ponte Settimia Spizzichino, parole chiare sul fascismo

Settimia Spizzichino
ROMA - Da "nazista" a "nazifascista". L'aggettivo che fa la differenza, l'aggettivo che inquadra in modo chiaro i tormenti che furono di Settimia Spizzichino, unica donna a fare ritorno tra i deportati del 16 ottobre '43. Settimia Spizzichino, "vittima del nazifascismo", come si legge nella nuova targa apposta da Roma Capitale all'imbocco del ponte nel quartiere Ostiense intitolato alla sua memoria nel 2012.
Tanti i cittadini che si sono ritrovati oggi in quel luogo, in occasione della cerimonia di collocazione della nuova targa. "Un momento di giustizia storica", ha spiegato il sindaco Ignazio Marino in un messaggio letto dall'assessore di Roma Capitale Alessandra Cattoi. In quella parole, è stato sottolineato, si condensano infatti i lutti e le privazioni inferte alla popolazione ebraica dal regime fascista e dai suoi sodali.
Accolti dalla nipote della Spizzichino, la responsabile Politiche della Memoria di Roma Capitale Carla Di Veroli, hanno presenziato all'evento - tra gli altri - il testimone della Shoah Piero Terracina; Marika Venezia, moglie dell'indimenticato Shlomo; la presidente dell'Assemblea capitolina Valeria Baglio, l'assessore comunale Paolo Masini, il vicepresidente della Comunità ebraica Giacomo Moscati, l'assessore Cer Giordana Moscati, il presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma Leone Paserman e il responsabile del Progetto Memoria Enrico Modigliani.
"Oggi è una data simbolica, ricorrendo infatti un duplice anniversario: il compleanno di Settimia, ma anche la liberazione del campo di Bergen Belsen. Se oggi siamo qua, in questo momento così significativo, lo dobbiamo anche alla sollecitazione di Piero Terracina, che il giorno stesso dell'inaugurazione del ponte si espresse per una correzione della targa", ha sottolineato Di Veroli.
Una discendente di Settimia, Miriam Spizzichino, ha portato una sua testimonianza.

(moked, 15 aprile 2015)


Il Presidente israeliano in visita ai capi delle Chiese cristiane per la Pasqua

GERUSALEMME - Il Presidente Reuven Rivlin si è recato ieri, martedì 14 aprile, nella sede del Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme, nel quartiere cristiano della Città Vecchia, per un incontro con i capi delle Chiese cristiane in Israele in occasione della Pasqua. Lo riferiscono le fonti ufficiali israeliane con un comunicato pervenuto all'Agenzia Fides. Il presidente Rivlin è stato ricevuto cordialmente dal Patriarca greco ortodosso Teofilo III, che ha presentato il Presidente ai capi della Chiese presenti, compreso il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal. Si è trattato della prima visita di un Presidente israeliano ai capi delle Chiese cristiane dopo quella compiuta dal presidente Yitzhak Navon oltre 30 anni fa.
Nel suo indirizzo di saluto, il Patriarca Teofilo ha ringraziato il presidente israeliano per le condanne da lui espresse contro gli attentati a luoghi religiosi anche cristiani perpetrati in Israele negli ultimi mesi. "Tali crimini - ha affermato il Presidente israeliano nella sua risposta - non devono aver luogo né sul Monte Sion, né sul monte degli Ulivi, né nelle sinagoghe nelle moschee o nelle chiese".
   Il Presidente Reuven Rivlin ha già annunciato l'intenzione di presenziare alla liturgia commemorativa per i cento anni del Genocidio armeno che si terrà nella Basilica gerosolimitana del Santo Sepolcro.

(Agenzia Fides, 15 aprile 2015)


Il cinema italiano in Israele

La seconda edizione della rassegna di Tel Aviv

di Antonio Autieri

 
La mafia uccide solo d'estate
È in corso di svolgimento a Tel Aviv la seconda edizione di "Cinema Italia" (12-26 aprile), vetrina della produzione cinematografica italiana recente .Progetto prodotto dall'Associazione Culturale Adamas in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv, la rassegna è promossa dalla Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti (IIFCA) ed è sostenuta dal Ministero degli Esteri Israeliano, dalle Cineteche Israeliane e dal Comune di Tel Aviv.
   In cartellone :
   Anime nere di Francesco Munzi,
   L'arbitro
di Paolo Zucca,
   Fuoristrada di Elisa Amoruso,
   In Grazia di Dio di Edoardo Winspeare,
   L'intrepido di Gianni Amelio,
   La mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco "Pif" Diliberto
   Via Castellana Bandiera di Emma Dante.

(e-dusse, 15 aprile 2015)


In Israele la tentazione di Bibi è la grande coalizione

di Rolla Scolari

Per ora è soltanto una tentazione per Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano, eletto a un quarto mandato a metà marzo, avrebbe i numeri per formare una coalizione di governo, con i 67 seggi necessari ottenuti grazie a un'alleanza con partiti della destra nazionalista, con i religiosi ultraortodossi e con il gruppo centrista Kulanu. I negoziati però sono ancora in corso e i media israeliani non escludono la possibilità di un governo di unità nazionale con il rivale sconfitto Isaac Herzog. Lo stesso premier avrebbe detto al suo entourage di averci pensato, hanno rivelato alcuni giornali. Bibi e Bouji - i nomignoli dei due leader - messi assieme da "un cattivo accordo" sul nucleare iraniano, come lo ha ripetutamente definito Netanyahu.
   A irrobustire le speculazioni e le aspettative c'è un documento interno dell'Unione sionista, il movimento guidato dal leader laburista Herzog e dall'ex ministra della Giustizia Tzipi Livni. Nel testo compare una chiara presa di posizione contro l'intesa preliminare raggiunta dagli Stati Uniti e da altre cinque potenze internazionali con Teheran sul programma nucleare della Repubblica islamica. Esattamente come ha fatto finora Netanyahu, la sinistra israeliana critica l'accordo e chiede profondi cambiamenti nel testo dell'intesa firmata in Svizzera, da ratificare a giugno. Così, l'opposizione si avvicina alle posizioni di un premier che è stato definito in queste settimane di controversie sull'accordo nucleare una voce isolata. A tentare Netanyahu - e di questa possibilità si parla dalle ore immediatamente successive al voto del 17 marzo - è quello che il rivale Herzog potrebbe portare alla sua coalizione e al suo governo: una faccia dialogante che racconti all'indispettito alleato americano e alle rigide cancellerie europee una volontà di apertura sul conflitto israelo-palestinese, come hanno rivelato fonti interne all'ufficio del premier al quotidiano Haaretz, e la possibilità per Israele di diventare sull'intesa iraniana un interlocutore meno spigoloso e non soltanto un'inascoltata Cassandra.
   Le indiscrezioni della stampa israeliana raccontano che qualcosa si sta muovendo sotto la superficie di gelido distacco: dai giorni prima del voto sia un campo sia l'altro negano ogni possibilità di formare un esecutivo di unità nazionale. Eppure, l'emittente Channel 1 ha parlato di un presunto incontro avvenuto nei giorni scorsi tra Netanyahu e Herzog. Il leader laburista ha smentito. L'Unione sionista ha smentito. Il Likud ha smentito. Durante il weekend, i segnali sono arrivati però direttamente dal primo ministro, anche se le sue parole sono aperte a interpretazione: Netanyahu ha parlato della necessità dell'unità di Israele e il ministro dell'Interno Gilad Erdan ha poi spiegato che dietro quella breve frase si nasconderebbe "più che un segnale" della volontà di coinvolgere Herzog.
   Agli israeliani piacerebbe, secondo i numeri di un sondaggio dell'Israel Democracy Institute dell'inizio di aprile, secondo il quale il 49 per cento della popolazione sarebbe favorevole a un esecutivo formato dalla destra e dai laburisti. Tecnicamente, la questione non è semplice e sembra impossibile che l'intera Unione sionista possa accettare un simile accordo senza uno scisma o senza che Herzog riceva in cambio una posizione di grande peso (una premiership a rotazione?). Politicamente, una simile coalizione aprirebbe al perpetuo scontro tra lo zoccolo duro religioso-nazionalista e la sinistra sulle questioni legate al conflitto con i palestinesi.
   L'ultimo governo di unità nazionale in Israele risale al 1984, quando la poltrona di primo ministro ruotò tra il leader laburista Shimon Peres e il capo della destra del Likud Yitzhak Shamir. A spingere per quella condivisione del potere fu, in una coincidenza politica che oggi fa sorridere, l'allora presidente Chaim Herzog, padre dell'attuale leader laburista.

(Il Foglio, 15 aprile 2015)


Cipro e Israele rafforzano le relazioni

Su temi come la difesa, l'energia, l'economia e il turismo

Il Presidente della Repubblica di Cipro Nicos Anastasiades
NICOSIA - Cooperazione energetica, relazioni bilaterali e questioni regionali sono stati i temi al centro di un colloquio svoltosi fra il presidente della Repubblica di Cipro Nicos Anastasiades ed il ministro degli Esteri israeliano uscente Avigdor Lieberman nel corso di una breve visita privata di quest'ultimo sull'isola. Lo ha riferito, stando a quanto riporta la stampa locale, il portavoce del governo Nicos Christodoulides precisando che la discussione è stata incentrata su questioni riguardanti la difesa, l'energia, l'economia e il turismo. "Ci sono diversi temi sui quali abbiamo un approccio comune e che abbiamo in programma di migliorare ulteriormente attraverso il dialogo. Vi è una forte volontà politica da entrambe le parti di rafforzare questi legami", ha sottolineato Christodoulides. I colloqui bilaterali dovrebbero ora continuare a livello di tecnocrati ed il presidente cipriota ha anche in programma di compiere una visita ufficiale in Israele dopo che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrà formato un nuovo governo. In un'intervista alla TV cipriota Sigma, il portavoce del governo ha detto inoltre che un annuncio di cooperazione relativa a energia, sicurezza e altre questioni di interesse comune potrebbe essere fatto durante l'imminente visita di Anastasiades in Israele.

(ANSAmed, 15 aprile 2015)


Barack Obama non dispone della maggioranza in Parlamento

Il Parlamento stavolta non intende ratificare gli accordi con Teheran. I repubblicani temono che la cancellazione dell'embargo renda ancor più aggressivo l'Iran

di Alberto Pasolini Zanelli

WASHINGTON - Barack Obama potrà ricordare, almeno per qualche settimana, il suo periplo nell'America Centrale e nei Caraibi come una gioiosa vacanza, in un clima che di rado è così favorevole per un presidente americano in quella parte del mondo. Non solo e non tanto nella pur simbolica stretta di mano con un capo di Stato di cognome Castro, con cui gli Usa avevano interrotto i rapporti diplomatici da più di mezzo secolo (durante il quale la Guerra fredda toccò il suo apice: missili sovietici si impiantarono a Cuba e il mondo temette un diretto scontro nucleare), ma anche per l'atmosfera creata dagli altri partecipanti al «vertice delle Americhe». Un'atmosfera in cui, per qualche giorno almeno, è parso diventare realtà quello che finora era stato poco più di un sogno obamiano: quello di un mondo in trasformazione in cui le parole incoraggianti, la buona volontà e la capacità di «guardare lontano» possono prevalere anche sulle ostilità e sugli ostracismi più acuti.
  Però i sogni non durano e neppure le vacanze. Appena rientrato a Washington, il presidente si è ritrovato tra i piedi, sulla soglia della Casa Bianca, un ostacolo che si chiama Iran e una crisi che lo vede al centro. Ed è molto reale, tanto è vero che la conclusione, o almeno l'aggiornamento di una trattativa importante, che formalmente si è chiusa con qualche progresso, è servita poi soprattutto a rilanciare le polemiche. Probabilmente a Teheran (da cui giungono segnali ambigui, tipici dei paesi lontani dagli usi democratici), ma soprattutto e apertamente a Washington.
  Obama si trova di fronte alla vera alternativa e alla più potente opposizione. Anzi, allo scontro aperto fra due visioni e scenari: è come se il presidente democratico e l'opposizione repubblicana vedessero e parlassero di due realtà differenti e contrapposte. Obama si aggrappa più tenacemente che mai a una sua lettura del futuro. Gli accordi, sia pure imperfetti, raggiunti a Losanna potrebbero cambiare l'atmosfera, mettere a poco a poco in secondo piano il contrasto ufficiale con gli Stati Uniti che si riassume nei progetti nude-ari iraniani e far salire al primo, facilitati dalla rimozione delle sanzioni e del boicottaggio economico, gli interessi «normali» che le tensioni collegate alla Bomba hanno finora impedito.
  Nella logica di Obama, un Iran disposto realmente a rinunciare all'«arma dell'Apocalisse» dovrebbe dire addio agli altri progetti che gli vengono attribuiti, dalla sfida a Israele a un ruolo nelle diverse guerre in corso nel mondo arabo, mentre all'interno l'«ala riformista» incarnata dal presidente Rouhani prevarrebbe sugli estremisti, annidati nel clero reazionario e nelle Guardie rivoluzionarie.
  Quella dei repubblicani è una «lettura» opposta, espressa con ancora più chiarezza non solo nelle polemiche ma anche in una serie di gesti ufficiali, culminati nel messaggio firmato da 47 senatori e spedito all'ayatollah Khamenei, con pressanti inviti a rifiutarsi di ratificare accordi e documenti voluti da Obama. Un «invito» rafforzato dalla «promessa» di un veto anche da parte di Washington. L'argomento è questo: l'accordo eventuale avrebbe sull'atteggiamento iraniano effetti opposti a quelli cercati dalla Casa Bianca.
  La riduzione delle sanzioni economiche e commerciali non placherebbe gli appetiti iraniani, ma rafforzerebbe la minaccia che essi rappresentano: quelle «centinaia di miliardi di dollari» che affluirebbero nelle casse di Teheran verrebbero usate non per rilanciare l'economia, ma per finanziare ancora più «generosamente» quelle che i «falchi» di Washington definiscono «avventure militari» in Siria, in Iraq, nello Yemen e forse anche in altri paesi arabi e musulmani, comprese la Giordania e più direttamente la Palestina: missili, strumenti cibernetici e altre armi avrebbero un'efficacia più immediata anche se non direttamente collegati alle ambizioni nucleari. La situazione nel Medio Oriente peggiorerebbe, le ansie di Israele si accrescerebbero ancora, le tensioni continuerebbero ad aumentare. Un accordo che ha scopi di pace servirebbe invece a rinfocolare una delle tante guerre che tormentano il Medio Oriente. Compresa quella tra la peste e il colera.

(ItaliaOggi, 15 aprile 2015)


Netanyahu a Putin: «Delusi per i missili all'Iran»

Il premier israeliano: «A rischio la sicurezza in Medio Oriente».

Benjamin Netanyahu ha parlato con Vladimir Putin a cui ha espresso «la delusione» di Israele per lo sblocco dei missili S-300 russi all'Iran.
La mossa, ha detto il premier, secondo la ricostruzione israeliana serve solo ad accrescere l'aggressività di Teheran e può mettere a rischio la sicurezza in Medio Oriente.
«L'affare della vendita delle armi sofisticate all'Iran», ha poi detto Netanyahu ripetendo un concetto già manifestato il 13 aprile, «è una conseguenza dell'accordo pericoloso che prende forma tra Teheran e le potenze. Dopo questa vendita di armi c'è ancora forse qualcuno», si è chiesto retoricamente a margine della telefonata con il presidente russo, «che seriamente sostiene che l'accordo con l'Iran accrescerà la sicurezza in Medio Oriente?».

(Lettera43, 14 aprile 2015)

*

Putin rassicura Netanyahu: S300 a Iran? Non è una minaccia per Israele

MOSCA - Il presidente russo Vladimir Putin ha rassicurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che la revoca dell'embargo sulle forniture di sistemi di difesa aerea S-300 all'Iran non minacciano la sicurezza di Israele. Lo ha reso noto l'ufficio stampa del Cremlino, spiegando che Putin e Netanyahu hanno discusso la decisione del presidente russo in una telefonata. "Putin ha sottolineato che il sistema missilistico S-300 è puramente difensivo e non rappresenta una minaccia per Israele, o per qualsiasi altro paese del Medio Oriente" ha detto il Cremlino.

(Contatto News, 14 aprile 2015)

*

Capezzone: non ci si può fidare né di Mosca né di Teheran

"Accordi di Losanna: grande illusione"

"L'intenzione di Putin di cancellare il blocco del trasferimento di missili dalla Russia all'Iran spiega chiaramente perché l'Occidente non può fidarsi né di Mosca né di Teheran". È quanto dichiara Daniele Capezzone, presidente della Commissione Finanze della Camera. "Quanto a Mosca, è ormai evidente la volontà (dalla Crimea all'Ucraina, passando per le minacce agli Stati Baltici) di praticare una politica di stile neo-sovietico; quanto a Teheran, è evidente che i dialoghi di Losanna hanno finito per rafforzare il regime iraniano e la sua prepotenza. Oggi, con l'annuncio di questi missili russi gentilmente forniti all'Iran, giunge questo ennesimo cenno di intesa tra governi non democratici e autoritari. I dialoghi di Losanna (per chi ci ha creduto) si confermano una grande illusione".

(il Velino, 14 aprile 2015)


Emigrazione: La prima fuga dei cervelli italiani

di Gianna Pontecorboli

Alessandra Gissi dell'Università di Napoli "Orientale" ha spiegato al Calandra Institute di New York l'esperienza dell'emigrazione intellettuale italiana verso gli Stati Uniti tra le due guerre, soprattutto quella ebraica accellerata dopo le leggi razziali del 1938.

Esuli, rifugiati o emigranti? Quando si parla dell'emigrazione intellettuale italiana negli Stati Uniti alla fine degli anni '30, e soprattutto di quella ebraica, i termini si confondono spesso. A cercar di chiarire la questione da un punto di vista storico, però , e' stata nei giorni scorsi Alessandra Gissi, ricercatrice di Storia Contemporanea all'Università di Napoli ''L'Orientale". Durante un'interessante conferenza al Calandra Italian American Institute, la studiosa ha spiegato perché, a suo giudizio, i professori arrivati per motivi politici o dopo l'emanazione delle leggi razziali devono essere considerati parte di una ben piu' vasta corrente migratoria.
La Voce di New York le ha fatto alcune domande.

- Lei dice che gli intellettuali ebrei furono emigranti e non esuli. Quali sono le differenze, da un punto di vista storico, tra i due gruppi?
  Gli aspetti particolarmente drammatici della loro vicenda, soprattutto il feroce antisemitismo, sembrano aver provocato il radicarsi dell'uso di termini come esiliati o rifugiati. Due termini che dicono molto ma non tutto, e che vengono adoperati, talvolta, in maniera così casuale e interscambiabile da rendere necessaria qualche riflessione. Non è tanto che mi interessi una definizione rispetto ad un'altra, quel che mi interessa è l'analisi dei percorsi di questa mobilità. Come l'emigrazione non sia stata esclusivamente la risposta ad un'eccezionale povertà o a condizioni di sovrappopolamento e che, soprattutto, non sia stata dettata unicamente dai meccanismi di push/pull del mercato internazionale è ormai fuori di dubbio. La decisione di emigrare è stata anche una scelta personale, un progetto individuale o familiare elaborato da un'articolata gamma di protagonisti, ispirata a logiche e strategie - non solo economiche - socialmente differenziate. Ebbene, l'intellectual wave che raggiunse le coste statunitensi tra le due guerre mondiali, sospinta dalla terribile temperie europea, non rappresentò un'eccezione. Alcuni esempi dimostrano chiaramente che le persecuzioni politiche e razziali si intrecciarono spesso con motivazioni di altro tipo. E le categorie interpretative delle migrazioni risultano particolarmente utili per analizzare il fenomeno.

- Perche' ci sono state delle remore a riconoscere gli intellettuali ebrei come migranti?
  Intanto bisogna specificare che non tutti erano ebrei, c'è stata una componente di antifascisti che hanno ricevuto maggiore attenzione ma dopo i provvedimenti antiebraici del 1938 certamente la maggioranza era composta da ebrei.
  Non c'è dubbio che le cifre di questa ondata migratoria appaiano minori se paragonate a quelle della grande emigrazione che aveva drenato la popolazione di molte regioni italiane tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Per questa ragione la storiografia italiana può essere stata indotta a considerare il fenomeno, se non ininfluente, certo difficilmente leggibile con le categorie interpretative delle migrazioni. Al tempo stesso, lo stereotipo dell'emigrante - cafone senza fortune e senza progetto - così testardamente coltivato prima che venissero elaborate interpretazioni più avvertite, ha reso lungamente improponibile l'idea che si potesse parlare di emigrazione anche per gli intellettuali espatriati negli anni tra le due guerre mondiali. I «professori» apparivano inconciliabili con l'idea (sbagliata) di miseria e subordinazione legata alla Grande Emigrazione. Ne è derivata una negazione pregiudiziale delle somiglianze in virtù delle macroscopiche differenze, ha trionfato una macroanalisi che ha perso l'occasione di una micro-osservazione dei percorsi individuali.

- Tra gli ebrei che scelsero l'America ci furono grandi nomi e giovani sconosciuti. Che cosa, a suo giudizio, accomunava i due gruppi?
  Le difficoltà. Tranne rarissimi casi anche intellettuali, scienziati molto noti hanno faticato a realizzare un progetto migratorio reso molto difficile da tante situazioni contingenti.

- E che cosa li divideva?
  A volte la disponibilità economiche ma soprattutto la vastità dei network relazionali e professionali. Questi network, sono degni di interesse ma anche difficili da indagare in un'esperienza migratoria che non dà vita a comunità dense e coese socialmente. L'importanza cruciale delle relazioni personali - in quanto canali di trasmissione delle informazioni - nella ricerca di un posto di lavoro o, in questo caso, di una borsa di studio o di un contratto annuale risulta evidente. Le relazioni personali di chi ha deciso l'emigrazione ne influenzano sovente la destinazione, ma più spesso costituiscono un capitale cruciale sia per il successo del progetto anche quando ci si rivolge a organizzazioni apposite - come era ad esempio l'Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholars - sia per l'inserimento in un mercato del lavoro che, inevitabilmente, per i nuovi venuti - ma soprattutto per le donne - è all'inizio del tutto opaco come accade spesso ai migranti.

- Il fatto di aver taciuto nelle loro autobiografie i mestieri più umili che furono costretti a fare li accomuna, in qualche modo, ad altri gruppi di emigranti?
  Non tutti lo nascosero ma la maggior parte riprendono a "scrivere il loro curriculum vitae" solo quando hanno raggiunto una posizione che reputano degna di quella di partenza. Nel libro di Lewis Coser,Refugee Scholars in America: Their Impact and Their Experiences (Yale University Press, New Haven-London 1984) si cita la moglie di un professore di zoologia arrivato dall'Europa che raccontava, sconsolata: «Mio marito è stato uno stimato professore, la cui opinione è sempre stata apprezzata. Adesso è solo un immigrato, uno delle migliaia di immigrati arrivati in America in cerca di impiego e di una occasione per ricominciare una vita in terra straniera».
  Inoltre il sistema di valori europeo, lo status di cui godevano i professori universitari, ad esempio, erano diversi, e i motivi di disagio erano frequenti, spesso incomprensibili agli occhi dei colleghi statunitensi. Alvin Johnson ricorda che «fu un boccone duro da mandar giù», per alcuni accademici europei, «accettare di insegnare in una scuola di educazione per adulti» come era la New School for Social Research.

- Che cosa distingue l'esperienza degli uomini da quella delle donne?
  In generale si riconoscono all'intellectual wave alcune caratteristiche peculiari: la tendenza ad essere una migrazione familiare con una sostanziale parità negli arrivi di uomini e donne; un'età media decisamente più elevata di quella della grande emigrazione di massa e, infine, una netta propensione per l'insediamento nei centri urbani. Tuttavia, l'analisi della presenza femminile suscita alcune riflessioni.
La prima, quella che complica un modello di migrazione familiare che appariva consolidato, è che si sono mosse verso gli Stati Uniti donne sole, non sposate, né accompagnate. Le donne che prendono parte a questo flusso migratorio non sono soltanto persone che seguono. In più, il progetto di una migrazione è spesso legato all'attitudine e alla familiarità con precedenti esperienze di mobilità individuale. Dunque, una identica condizione di partenza, ovvero la persecuzione antisemita, non determina una totale sovrapponibilità dei percorsi femminili rispetto a quelli maschili. Le donne trovano una maggiore difficoltà ad approdare negli Stati Uniti ma soprattutto a penetrare le fitte maglie del mercato del lavoro intellettuale, perché sono meno specializzate, si trovano nei ranghi universitari meno strutturati, con una posizione più incerta e un'identità professionale fluida e meno definita.
  Tuttavia, spesso gioca a favore delle immigrate, anche nella fase dell'integrazione, il ricco bagaglio di conoscenze linguistiche, più consueto nell'istruzione femminile e talvolta superiore a quello dei loro colleghi maschi.

(La Voce, 14 aprile 2015)


Twizz invita le agenzie a tre serate di formazione su Israele

Il tour operator Twizz, in collaborazione con il ministero del turismo di Israele, invita gli agenti di viaggio al prossimo Twizz Training, momento di formazione dedicato alla destinazione Israele. Gli appuntamenti si terranno alle 19,30 di oggi, martedì 14 aprile a Parma (hotel Nh Parma); domani, mercoledì 15 aprile a Milano (hotel Nh Machiavelli); martedì 21 aprile a Roma (hotel Nh Giustiniano). L'evento, riservato ad una trentina di agenti di viaggio, avrà la durata di circa due ore al termine del quale seguirà un light dinner con menù tipico israeliano. Verrà consegnato materiale promozionale e tutti gli agenti di viaggio presenti parteciperanno all'estrazione di premi. Twizz fornirà inoltre un buono sconto a tutti i presenti da utilizzare su tutte le prenotazioni per Israele realizzate entro il 31 dicembre 2015 che darà diritto all'abbuono di tutte le spese di apertura pratica. L'incontro avrà un numero di posti limitato. Sarà quindi importantissimo confermare la propria presenza comunicando il nome del partecipante, il contatto mail e il telefono all'indirizzo info@twizz.it

(Travel Quotidiano, 14 aprile 2015)


Da Putin missili a Teheran

Perché Mosca ha sbloccato la vendita degli 5-300?

di Maurizio Molinari

II Cremlino sblocca la vendita dei missili S-300 all'Iran e Israele reagisce denunciando la «legittimazione del riarmo di un regime terrorista» per effetto dell'intesa di Losanna sul nucleare. Gli S-300 sono vettori terra-aria con 200 km di gittata che Mosca decise nel 2010 di fornire a Teheran congelando la decisione a seguito delle sanzioni Onu contro il programma nucleare iraniano.
   Usa e Israele esercitarono forti pressioni sul Cremlino per bloccare la consegna in quanto i missili consentono a Teheran di aumentare in maniera significativa la protezione degli impianti nucleari da possibili raid, indebolendo di conseguenza l'opzione militare. La decisione di Mosca di «sospendere» la fornitura arrivò quando Teheran aveva già versato 800 milioni di dollari e la contromossa iraniana fu di denunciare la Russia, lamentando danni per 4 miliardi di dollari.
   A porre fine al braccio di ferro legale arriva ora il cambiamento di posizione del Cremlino. È il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, a spiegare che la «sospensione volontaria unilaterale» era stata decisa per «contribuire ai negoziati con l'Iran sul nucleare» ma all'indomani dell'accordo quadro di Losanna nulla più osta alla consegna. «Forniremo gli S-300 al più presto» assicura il ministero della Difesa russo andando incontro all'immediato plauso del viceministro della Difesa di Teheran, Reza Talainik, che parla di «passo avanti bilaterale».
   La Russia è una delle sei potenze (con Usa, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che hanno partecipato ai negoziati di Losanna e punta a cementare le relazioni strategiche con l'Iran. Per Israele è un grave errore. «Sebbene l'Iran smentisca articolo per articolo l'accordo annunciato sul nucleare - afferma Yuval Steinitz, ministro dell'Intelligence - la fornitura di missili russi è un risultato della legittimazione che l'intesa garantisce a Teheran» così «anziché chiedergli di cessare il terrorismo in Medio Oriente e nel mondo, gli si consente di ottenere armi avanzate destinate ad accrescere la sua capacità di commettere aggressioni».
   
Da Washington il Segretario di Stato John Kerry ha chiamato Lavrov per esprimergli «forte preoccupazione». Il timore della Casa Bianca è duplice: la consegna dei missili russi diminuisce la deterrenza militare nei confronti dell'Iran e spinge il Congresso ad opporsi all'intesa di Losanna.

(La Stampa, 14 aprile 2015)


Sisi contro Gaza

Ergastolo per chi usa i tunnel che dall'Egitto portano di tutto dentro la Striscia. Ora Hamas è nei guai.

di Daniele Raineri

 
ROMA - Domenica l'agenzia governativa egiziana Mena ha annunciato che un decreto presidenziale ha cambiato il codice penale e ora chi scava e utilizza i tunnel che passano sotto il confine tra il Sinai e la Striscia di Gaza rischia una pena fino all'ergastolo. La nuova legge stabilisce anche che chi è a conoscenza dell'esistenza di un tunnel ma non lo denuncia alle autorità rischia la stessa pena, la prigione a vita. Inoltre gli edifici che coprono l'imboccatura dei tunnel e gli strumenti usati per scavarli diventano di diritto proprietà del governo. I tunnel di contrabbando sono il sistema linfatico della Striscia di Gaza, e attraverso di loro passa - anzi, passava - un po' di tutto, sigarette, automobili, telefonini, pecore e anche armi. Negli anni scorsi sono stati a lungo tollerati dal Cairo come parte di un'economia parallela.
   Il governo del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi nell'ultimo anno ha preso una serie di misure molto dure contro i tunnel che portano alla Striscia di Gaza, a dispetto delle proteste locali. A ottobre l'esercito ha cominciato a demolire con l'esplosivo tutti gli edifici entro cinquecento metri dal confine, per eliminare la possibilità di coperture ai lavori di scavo - di solito l'ingresso dei tunnel di contrabbando è riparato da una casa, che nasconde prima i lavori e poi traffici sottostanti. L'ultima esplosione secondo i testimoni risale a domenica pomeriggio, ma è complicato avere notizie precise perché il Sinai lungo il confine è una zona interdetta ai giornalisti. A novembre questa fascia è stata raddoppiata a mille metri, perché alcuni tunnel erano più lunghi di quanto si pensasse: il primo aprile gli egiziani ne hanno scoperto uno lungo tre chilometri. I militari hanno distrutto 240 gallerie allagandole con acqua di fogna.
   A fine febbraio una corte egiziana ha inserito Hamas - la fazione palestinese che controlla la Striscia - nella lista dei gruppi "terroristici", e Hamas ha reagito dicendo che non accetterà più il governo del Cairo come broker nei negoziati indiretti con Israele in caso di guerra, come era sempre successo finora.
   La distruzione dei tunnel e da ora le pene alte per chi li usa stanno effettivamente fermando il traffico clandestino sotto e sopra il confine. Un trafficante d'armi egiziano, "Abu Mohammed", citato ieri in un commento del Gatestone Institute, un think tank vicino a Israele che si occupa di strategia, dice che il passaggio di armi dentro Gaza si è interrotto quasi del tutto da febbraio. Il costo di un proiettile che prima era di un dollaro ora dentro la Striscia è raddoppiato. Il prezzo di un fucile d'assalto Ak-47 è salito da 900 a 1.300 dollari. Il prezzo di un pacchetto di sigarette è triplicato. Sopra la superficie del suolo c'è un valico, Rafah, ma le autorità egiziane lo usano come uno strumento di pressione politica e lo tengono chiuso la maggior parte del tempo - quest'anno è stato aperto al traffico soltanto due giorni.
   La guerra ai tunnel fa parte di una campagna del governo egiziano guidato da Sisi contro i guerriglieri islamisti nel Sinai, cominciata l'anno scorso dopo la morte di quaranta soldati in un attacco che secondo il Cairo era stato pianificato oltreconfine a Gaza. Nel novembre 2014 il gruppo estremista locale Ansar Bait al Maqdis pubblicò una dichiarazione di fedeltà allo stato islamico e cambiò il suo nome in "Provincia del Sinai dello Stato islamico". Domenica, in due diversi attacchi, lo Stato islamico ha ucciso 14 poliziotti nel Sinai. La legge sull'ergastolo sembra scaturire dalla notizia che alcuni guerriglieri sono andati a farsi curare a Gaza.
   Questa guerra locale ha però riflessi importanti nella politica del medio oriente. Senza i tunnel, Hamas e i gruppi armati della Striscia restano senza soldi per l'economia e senza armi. Le fazioni palestinesi di Gaza basano da sempre sul traffico nei tunnel la propria capacità di rigenerare l'arsenale di razzi che usano nelle guerre contro Israele. Se ora i tunnel non ci sono più - o sono comunque molto complicati da scavare e usare - questa capacità viene meno. L'Egitto di Sisi sta disarmando il nemico più vicino di Israele con misure durissime, che investono da vicino anche la popolazione - e che però non scatenano le stesse reazioni internazionali scatenate dalle misure imposte da Israele contro la Striscia più a nord.

(Il Foglio, 14 aprile 2015)


Il tamburo opportunista di Grass, il Nobel sempre dalla parte giusta

Le SS, la DDR, le cause di sinistra e l'odio per Israele

di Giulio Meotti

Günter Grass
Günter Grass (a destra) nel 1944
Ostentava sempre la rabbia moralista del nanetto Oskar. Forse per questo John Updike aveva detto di Günter Grass, scomparso ieri: "Non scrive romanzi, ma dispacci dal fronte del suo impegno". In piena Guerra fredda, il premio Nobel della Letteratura abbracciò il movimento pacifista e incitò i tedeschi a "resistere", non contro le mire sovietiche, ma contro gli Stati Uniti e gli euromissili. Poi lo scrittore scelse la militanza in favore degli immigrati: la limitazione del diritto d'asilo fu la ragione della sua uscita dal Partito socialdemocratico. Non poteva mancare il fanatismo ecologico ("l'annientamento della umanità è cominciato", disse Grass nel 1982 a Roma) e l'antiamericanismo di maniera. Nel 1983 Grass ebbe perfino a dire: "Non c'è differenza fra la Conferenza di Wannsee (in cui si pianificò l'Olocausto, ndr) e il cinismo delle nostre simulazioni di guerra". Poi si scagliò contro l'unificazione della Germania, da lui bollata come "un Anschluss", "un bottino" (al grande scrittore il capitalismo faceva schifo). E dopo l'11 settembre arrivarono gli attacchi alla "grande arroganza del mondo occidentale da cui deriva il terrorismo" e persino una comica lettera aperta che Grass spedì all'allora presidente francese, Jacques Chirac, impegnato a delegittimare gli Stati Uniti durante la preparazione della guerra contro Saddam Hussein ("Signor Presidente della Repubblica, siamo grati alla Francia per quanto ha fatto per arginare la guerra ... "). Ora che è morto, Grass verrà ricordato dai critici per il suo "nazismo", per aver indossato la divisa delle Waffen SS (e combatté con un certo entusiasmo: "Ero certo io stesso fino all'ultimo, nel '45 - ammise - che fosse una guerra giusta"), o sarà esaltato da altri in quanto coscienza dolente della Germania, nume della sinistra. Non fu nessuna delle due cose. Grass fu soprattutto un opportunista, lo scrittore che seppe sempre stare dalla parte giusta ("pomposo e ipocrita", lo definì Christopher Hitchens).
   Anche durante la DDR, Grass si atteggiò a vittima degli spioni dell'est, ma in verità difese la Repubblica Democratica definendola "una comoda dittatura". Protetto dalla fama di "socialdemocratico", Grass partecipava a incontri culturali a Berlino est ma faceva sempre ritorno nella vituperata Berlino ovest. Al sicuro. "Per Grass, la Ddr era una 'comoda dittatura', una forma benigna di dominio, una via al socialismo", ha scritto Susanne Schadlich nel suo libro "Immer wieder Dezember". Sempre dalla parte giusta. Come quando tre anni fa scrisse una poesia per accusare Israele di pianificare il genocidio del popolo iraniano, con il sinistro uso della parola "Überlebende", sopravvissuto, per descrivere l'eventuale attacco israeliano a Teheran.
   E' stato questo Grass: un grande conformista. Da ricordare il convegno degli scrittori a New York nel 1986, in cui Grass accusò gli Stati Uniti di essere "una potente nazione che difende le dittature", e gli rispose un vero dissidente, il sovietico Vasily Aksyonov, che si domandò, fissando i baffoni di Grass, "perché mai i tedeschi occidentali sono sempre così ansiosi di criticare gli Stati Uniti?".

(Il Foglio, 14 aprile 2015)


Vale la pena di riportare da "La Stampa" quello che ha detto su Grass un altro "tamburo" quanto meno conformista, se non peggio:
«Indìcarlo persona non grata fu esagerato e non andava fatto». Abraham Yehoshua conferma quanto disse nel 2012 quando Günter Grass fu bollato da Israele come indesiderato per la poesia Ciò che va detto in cui attaccò lo Stato ebraico ritenuto più pericoloso dell'Iran come potenza nucleare. Lo scrittore israeliano non esita però a definire quei versi «una stupidaggine». «Non so cosa lo abbia spinto. Lui era una persona di sinistra e criticava il mio Paese. Ma era impegnato nelle relazioni fra Germania e Israele».
«Una stupidaggine... non so che cosa lo abbia spinto». Di romanzieri che dicono stupidaggini su Israele ce ne sono parecchi in giro. Ma a molti piacciono. M.C.


Israele - 67o Yom Hazmauth. Sionismo ieri, oggi e domani

Open Day
In occasione del 67o anniversario
della fondazione dello Stato d'Israele

Domenica 26 aprile 2015
dalle 11.00 alle 18.30
Scuola Umanitaria
Via San Barnaba, 48 - Milano
Ingresso libero

CORTILE
11.00 Inizio festa, stand, musica.
11.30 Dimostrazione di Krav Maga, arte marziale Israeliana con l'istruttore Alessandro Marzola
         e i suoi allievi.
12.00 Aperitivo offerto dal Keren Hayesod.
12.15 Canzoni Israeliane con il Coro dell'Hashomer Hatzair.
12.30 Saluti delle autorità con l'Ambasciatore Israeliano Naor Gilon.
13.15 Pranzo Israeliano ristorante kasher Carmel.
14.00 Gruppo di ballo Israeliano Narkisim di Nazrat Ilit.
15.30 Balli israeliani con il pubblico.
16.00 Estrazione a premi.

SALA
11.00 Spazio dedicato al Keren Hayesod.
11.30 Spazio dedicato all'AME, Associazione Medici Ebrei di Milano.
15.30 Canzoni Israeliane con Yevgenya Kimiagar, pianoforte, voce Giovanni Iazzarelli, flauto.
16.15 Presentazione a cura dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo: Avital Kotzer Adari,
         Direttore dell'Ente racconta i volti delle donne d' Israele.
17.15 Proiezione del film israeliano "Sotto L'Elmetto".
Locandina

(Notizie su Israele, 14 aprile 2015)


La Sinagoga di Casale alla reggia con oggetti di culto e un filmato

di Lucetta Scaraffia e Franco La Cecla

La Reggia di Venaria Reale
VENARIA REALE - C'è anche un angolo di Casale Monferrato alla mostra "Pregare" che si è inaugurata l'11 aprile alla Reggia di Venaria Reale. In linea con tema dell'evento si tratta di una testimonianza documentaria di un preciso atto di fede: la cerimonia ebraica per il sabato (Shabbat), ripresa ovviamente nella storica Sinagoga di vicolo Salomone Olper. Alla presentazione stampa la Comunità casalese era rappresentata da Claudia Debendetti. La mostra espone centinaia di oggetti a testimonianza di ogni manifestazione della fede umana. Proprio il ricercare le analogie e le diversità tra paramenti, oggetti liturgici e tradizioni diventa un modo per rendersi conto di quanto sia assurdo odiarsi in nome di quel desiderio di trascendente che possiede ogni popolo.
Per illustrare la parte dedicata all'ebraismo è stato determinante anche il prezioso contribuito di oggetti di culto del Museo Ebraico Casalese con cui è stata addirittura allestita una sala dove campeggia la tenda dell'Aron realizzata da Emanuele Luzzati per la Sinagoga di Casale.
   A coronamento della mostra mentre c'è anche un video che illustra appunto le diverse cerimonie religiose di tutto il mondo. Un opera del regista Franco Lacecla che il 5 febbraio era appunto insieme alle telecamere nell'antica sala da preghiera casalese. Davanti alla cinepresa praticamente tutti gli uomini della comunità monferrina, più diversi amici e un rabbino.I rotoli della legge partiti dall'Arca avevano fatto un po' da guida all'antico complesso di vicolo Olper.
   "Abbiamo girato scene di Dervisci a Instambul, l'Epifania in Etiopia - ci aveva spiegato Lacecla durante le riprese confessando che era in procinto di partire per il Nepal per riprendere la Festa di Shiva.
La mostra allestita a Venaria nell'ambito della esposizione della Sindone sarà visitabile fino afine giugno e lancerà, è l'auspicio dell'assessore competente Daria Carmi, un messggio di richiamo per visitare Casale a iniziare da Sinagioga, Museo Ebraico e Museo dei Lumi (in trasferimento al Castello).

(Il Monferrato, 14 aprile 2015)


Sventato un attentato di Hamas a Gerusalemme est

I servizi di sicurezza israeliani affermano di aver sventato un attentato di Hamas che doveva avvenire ad Abu Dis (Gerusalemme est) alcune settimane fa in occasione del Purim, il carnevale ebraico. I servizi precisano di aver arrestato i membri di una cellula del braccio armato di Hamas che si erano addestrati nell'uso di fucili Kalashnikov, che avevano fatto ripetute ispezioni sul terreno ed avevano preparato un'automobile per realizzare l'attentato.

(L'Unione Sarda, 14 aprile 2015)


18 invenzioni israeliane che potrebbero salvare la vostra vita

Ogni giorno le innovazioni israeliane rendono la vita più semplice, dai progressi in medicina e agricoltura fino alle meraviglie della tecnologia.
Recentemente abbiamo dato uno sguardo sui recenti progressi israeliani nel campo della medicina e con l'arrivo di Yom Ha'Azmaut (Giorno dell'Indipendenza dello Stato di Israele) ripercorriamo le 18 innovazioni specificamente progettate per salvare vite umane, alcune già presenti sul mercato e altre in arrivo.
In ebraico il numero 18 corrisponde alla parola "chai" ("vita"). Siamo sicuri che condividerete il nostro orgoglio dell'ingegno israeliano a beneficio dell'umanità....

(SiliconWadi, 14 aprile 2015)


Trovato un tesoro egizio in una grotta nel Negev in Israele

 
Un'impressionante serie di reperti archeologici, per lo più risalenti a 3.000 anni fa, è stata trovata in una grotta sotterranea nella zona di Tel Halif, vicino al kibbutz Lahav, nel sud di Israele, una decina di km a nord-est di Beersheba. Ne ha dato notizia mercoledì la Israel Antiquities Authority.
   Gli ispettori dell'Unità israeliana per la prevenzione dei furti di antichità sono giunti alla grotta quando i ladri erano già riusciti a penetrarvi e avevano iniziato a saccheggiare il vasellame della tarda età del bronzo (circa 1500 a.e.v.) e dell'età del ferro (1000 a.e.v.), causando danni al sito e ai manufatti sepolti all'interno.
   Per salvare i reperti archeologici, gli ispettori hanno effettuato degli scavi di recupero durante i quali hanno scoperto oltre 300 vasi di terracotta di vario tipo, alcuni dei quali ancora intatti. Inoltre hanno trovato decine di pezzi di gioielleria in bronzo, conchiglia e maiolica, vasi unici in alabastro beige-giallastro, sigilli, timbri per sigilli e vasi per cosmetici. Gli archeologi ritengono che gli oggetti siano stati accumulati nella grotta nel corso di decenni.
   Spiega Amir Ganor, direttore dell'Unità per la prevenzione dei furti di antichità: "Tra i numerosi reperti che sono stati scoperti, per la maggior parte caratteristici della cultura giudaidica (della tribù di Giuda) nel sud del paese, abbiamo trovato decine di sigilli di pietra, alcuni dei quali sono sagomati a forma di scarabeo e portano incisi immagini e simboli tipici della cultura egizia diffusa nel paese nella tarda età del bronzo. Alcuni dei sigilli sono forgiati su pietre semi-preziose provenienti dall'Egitto e dalla penisola del Sinai".
   Secondo Daphna Ben-Tor, curatrice dell'archeologia egizia al Museo Israel di Gerusalemme, "la maggior parte dei sigilli a scarabeo trovati nello scavo risalgono ai secoli XV e XIV a.e.v., un periodo durante il quale la terra di Canaan era governata dall'Egitto. Su alcuni sigilli appaiono i nomi dei re. Tra l'altro, possiamo identificare una sfinge posta di fronte al nome del faraone Thutmose che regnò circa dal 1504 al 1450 a.e.v. Un altro sigillo a scarabeo porta il nome di Amenhotep che regnò circa dal 1386 al 1349 a.e.v. Un altro ancora raffigura Ptah, il principale dio della città di Memphis".
   Fra gli altri manufatti scoperti, anelli-sigillo in maiolica e una quantità di figurine e amuleti rappresentanti divinità sacre alla cultura egizia. "E' vero che gli israeliti abbandonarono l'Egitto - chiosa Ganor - ma evidentemente gli egizi non abbandonarono gli israeliti e i loro discendenti. Il fatto è attestato dagli scavi archeologici dove abbiamo scoperto prove risalenti a molti anni dopo l'Esodo di una profonda influenza della cultura egizia sugli abitanti giudaidici del paese".
   "Durante la tarda età del bronzo - aggiunge Amir Golani, della Israel Antiquities Authority - l'Egitto era un impero molto potente che imponeva la sua autorità in tutta la nostra regione. L'autorità egizia non si manifestava solo nel controllo politico e militare, ma anche come una forte influenza culturale che permeava la società. Insieme a un'amministrazione retta da funzionari egizi in Israele, si è evoluta nel paese una élite locale che adottava molte delle usanze egizie e la loro arte".
   I manufatti sono stati trasferiti alla Israel Antiquities Authority per un ulteriore trattamento. L'esame della grotta e i suoi risultati sono ancora nelle fasi iniziali. Dopo aver completato il trattamento delle centinaia di oggetti riportati alla luce sarà possibile aggiungere informazioni importanti circa l'influenza dell'Egitto sulla popolazione della Terra d'Israele in periodo biblico. [fonte]

(DireGiovani.it, 13 aprile 2015)


Yarmouk. Le fazioni palestinesi contro l'OLP: ha rinnegato il suo impegno contro l'ISIS

Le fazioni dell'Alleanza delle forze palestinesi hanno denunciato le dichiarazioni contraddittorie sugli ultimi sviluppi nel campo di al-Yarmouk da parte dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che ha rinnegato la sua presa di posizione proclamata in coordinamento con il governo siriano per combattere i terroristi dell'Isis, Daech in arabo, che si trovano nel quartiere palestinese di Damasco.
   In una dichiarazione, il segretario dell'Alleanza delle fazioni, Khaled Abdulmajid, si è detto stupito per le affermazioni rilasciate, a Ramallah, dall'OLP che ha espresso il rifiuto a far parte di un conflitto armato all'interno del campo.
   Abdulmajid ha fatto allusioni a dei contatti guidati dai partiti regionali per mettere sotto pressione la leadership dell'Organizzazione per rinunciare alla sua posizione, mentre il movimento di Hamas ha annunciato che non avrà alcuna relazione con le operazioni militari nel campo.
   Inoltre, ha aggiunto che la rinuncia dall'Organizzazione alla sua precedente decisione ha spinto le fazioni dell'Alleanza delle forze palestinesi a coordinarsi con il governo siriano per continuare a difendere il campo, con il supporto logistico dell'esercito arabo siriano che circonda i terroristi "Daech" nelle zone circostanti senza entrarvi.

(SpondaSudNews, 14 aprile 2015)


Sorrisi, occhi truccati e speranze: matrimonio di massa a Gaza

Matrimonio di massa a Gaza per duecento coppie di sposi che hanno potuto realizzare il proprio sogno dopo che sono arrivati i finanziamenti dagli Emirati Arabi Uniti. La cerimonia è costata un milione di dollari. Ogni coppia ha ricevuto 4000 dollari come regalo di nozze. Gli organizzatori hanno impiegato sei mesi per selezionare gli sposi di età compresa tra 25 e 31 anni. Si tratta di ragazzi cui la guerra ha portato via i genitori o che hanno perso la casa nel conflitto della scorsa estate con Israele. Tra di loro ci sono molti disoccupati. Molte fabbriche a Gaza sono state costrette a chiudere o hanno ridotto la produzione licenziando molti lavoratori. Secondo un gruppo di ong, i lavori di ricostruzione procedono molto a rilento anche se adesso la popolazione può almeno contare sull'accresciuta erogazione della corrente elettrica, passata da tre a otto ore quotidiane.

(RaiNews24, 13 aprile 2015)


La feroce ipocrisia di Assad sui 'fratelli palestinesi'

di Lorenzo Cremonesi.

È senza limiti l'ambiguità del regime siriano che, mentre da oltre due anni perseguita e massacra ogni palestinese sospettato anche solo di lontane simpatie verso i movimenti dell'opposizione, ora approfitta della presenza dell'Isis nel campo profughi di Yarmouk per riproporsi come paladino della causa palestinese. Bashar Assad a parole offre armi alle formazioni palestinesi che intendono unirsi alle sue truppe. Ma nel frattempo le organizzazioni umanitarie e gli stessi palestinesi rimasti a Yarmouk testimoniano che le vittime sono causate soprattutto dai bombardamenti indiscriminati delle artiglierie e dell'aviazione fedele al presidente siriano.
   Solo nella giornata di mercoledì sono stati sganciati 11 barili-bomba (36 dal 4 aprile), ordigni che gli elicotteri buttano nei quartieri residenziali causando decine di morti. Del resto, tanta violenza non sorprende. C'è poco di nuovo nell'ambiguità siriana nei confronti dei palestinesi e della loro «causa». Una causa che il mondo arabo ha sempre strumentalizzato, con poco rispetto per le esigenze dei suoi «protetti». Fu evidente sin dalla guerra per la nascita di Israele nel 1948-49, quando i governi arabi, prima della sconfitta, fecero a gara per accaparrarsi il massimo delle terre che l'allora Mandato britannico stava abbandonando.
   Più tardi, il regime baathista a Damasco, infastidito dalla crescente voce indipendente dell'Olp di Arafat, creò dei movimenti fantoccio di «liberazione della Palestina» per rappresentare gli stretti interessi siriani. È risaputo che le relazioni tra Arafat e Hafez al Assad, padre di Bashar, per decenni furono improntate allo scontro aperto. Quando l'Olp era basato in Libano, prima di rifugiarsi a Tunisi nel 1982, Assad cercò persino di imprigionare ed eliminare il rivale. Il segno più recente del permanere delle frizioni fu nel gennaio 2012, quando Khaled Meshal, rappresentante di Hamas a Damasco, abbandonò il Paese in protesta contro la repressione delle forze di sicurezza contro le piazze in rivolta.

(Corriere della Sera, 13 aprile 2015)


Cinquantamila sopravvissuti all'Olocausto fanno la fame in Israele

Alla vigilia della Giornata della Memoria, Israele scopre che, su circa 189.000 sopravvissuti all'Olocausto residenti nello stato ebraico, almeno 45 mila vivono al di sotto della cosiddetta soglia della povertà. Di loro, due terzi sono donne.
E' il Jerusalem Post a denunciare una situazione imbarazzante, così come il fatto che il tasso di mortalità dei sopravvissuti è aumentato drasticamente. Ne muoiono circa 40 al giorno, una media di 14.200 ogni anno. La media della loro età è di 83,3 anni.
Circa un terzo di questa particolare popolazione superstite vive da solo. La metà è costituita da vedove e vedovi. I più bisognosi sono quelli che hanno più di 80 anni.

(Ultima Edizione.eu, 13 aprile 2015)


Quei vignettisti italiani alla fiera antisemita in Iran

di Plerlulgl Battista

 
Gentili responsabili della Repubblica Islamica dell'Iran, ora che avete ottenuto dalla comunità internazionale in festa il permesso di andare avanti (al rallentatore, beninteso) per la bomba atomica in grado di annientare Israele e gli ebrei che considerate «maiali» da sterminare, potreste essere così magnanimi da annullare il concorso che a Teheran premia la migliore vignetta negazioni sta sull'Olocausto? È vero, a nessuno gliene importa niente, figurarsi ai negoziatori e ai fabbricanti di accordi farseschi, se gli ebrei scappano dall'Europa e se c'è chi sputa sui simboli della Shoah. Però potreste evitare di sghignazzare sull'Olocausto: così, per decenza, mica perché qualcuno si preoccupa troppo dell'antisemitismo forsennato del vostro regime che insolentisce l'ebraismo, tra l'impiccagione di qualche dissidente, la lapidazione di qualche presunta adultera e lo stupro legalizzato di qualche sposa bambina, ma perché non sono belli questi energumeni barbuti che si divertono a prendere in giro il massacro di sei milioni di ebrei.
   E poi, gentilissimi custodi dell'ortodossia in Iran, potreste avere la cortesia di confermare o rettificare la notizia fornita dall'informato Giulio Meotti sul Foglio, e cioè che nel concorso appositamente istituito per sputazzare sulle vittime della Shoah, darebbero lustro all'Italia anche vignettisti nostri connazionali? È vero che parteciperà al vostro disgustoso spettacolo di vignette un certo Achille Superbi, di cui nulla si sa tranne che percepisce uno stipendio presso un centro di produzione Rai pagato con il nostro canone? Solo per sapere se dalle nostre tasse qualche centesimo finisce nelle tasche di un satiro antisemita. Ed è vero che sarà presente anche l'italo-albanese Agim Sulaj, le cui vignette antiebraiche sarebbero state già segnalate dall'ente inutile denominato Onu? Ed è vero che sarà presente alla vostra spregevole rassegna anche tal Alessandro Gatto, vignettista trevigiano, il quale, secondo quanto scrive Meotti, già «partecipò alla prima edizione iraniana con una vignetta che mostrava la giacca di un deportato ebreo, le cui strisce bianche e azzurre formano le sbarre di una prigione in cui sta rinchiuso un palestinese»?
   Certi della vostra sollecita risposta, mentre occorre rallentare la produzione di uranio arricchito per la bomba che annienterà Israele, alleghiamo in dono un libro di Primo Levi, che non era un vignettista e non faceva nemmeno ridere. Un cordiale saluto.

(Corriere della Sera, 13 aprile 2015)


Quattro passi nel pensiero ebraico al Godot Art Bistrot

a cura di Ottavio Di Grazia

AVELLINO - Mercoledì 15 aprile alle ore 18, IL GODOT ospiterà il primo dei tre incontri programmati con Luciano Tagliacozzo, ebraista, traduttore, saggista, su alcuni temi centrali della cultura ebraica. Si comincia con: "L'amore in alcuni romanzi di autori ebrei: Amos Oz e Israel Yoshua Singer".
  A partire da un serrato confronto con la tradizione biblica scritta e orale (in particolare il libro di Ruth e il Cantico dei Cantici la conferenza di Tagliacozzo verterà sul tema dell'amore nelle sue innumerevoli possibilità. Amore in tutte le sue espressioni che rinviano sempre alla gioia, alla vita. Amore come conoscenza che è sempre inscindibilmente carnale e spirituale. Tagliacozzo ci accompagnerà nella lettura di due capolavori della letteratura ebraica: Storia d'amore e di tenebra del celebre scrittore israeliano Amos Oz e Yoshe Kalb di Israel Yoshua Singer grande scrittore polacco autore in lingua yiddish e fratello del premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer e della scrittrice Esther Kreitman.
  Gli Incontri saranno curato dal Prof. Ottavio Di Grazia.
  Luciano Tagliacozzo, Dottore in Studi Ebraici presso il Collegio Rabbinico Italiano. Traduttore di midrashim e studioso di poesia ebraica, ha trattato i temi "Il libro dei Salmi: base della preghiera ebraico-cristiana" e successivamente "Verità, Giustizia e Pace". Ha pubblicato Il Cantico dei Cantici ovvero le realtà virtuali della poesia ebraica e Il Cielo è stretto per Shimon ben Tzomà: note di epica ebraica. Primo traduttore in Italia del Marhal di Praga. E' impegnato nel sociale nei centri di accoglienza per extracomunitari. Presidente AEC-NA dal 2001 al 2003. Attuale presidente in carica.
Ottavio Di Grazia ha studiato presso l'Università degli Studi Napoli e Urbino. Dottore in Filosofia. Ha trascorso periodi di ricerca presso università tedesche nelle città di Berlino, Bochum, Bielefeld.
E' stato consulente per il progetto: In andere Erfahrungsbereiche integrierte theologische Fragestellungen della Laborschule - Università di Bielefeld. Titolare di Storia dell'Oriente Cristiano, Storia delle religioni del mediterraneo Università degli Studi "Suor Orsola Benincasa" di Napoli; docente di Storia della diaspora, per l'Università degli Studi di Trieste. Docente invitato di Antropologia filosofica, Pontificia Facoltà Teologica Italia Meridionale, sez. S. Luigi, Napoli.
Docente di Culture, Identità, Religioni Università degli Studi "S. Orsola Benincasa", Napoli.
Ha tenuto lezioni all'Università di Parigi - Sorbona e ha partecipato in qualità di relatore a Colloqui Internazionali di Filosofia a Parigi e Berlino.Ha tenuto lezioni al Master di I e II livello in Scienze religiose presso l'Università "La Sapienza" di Roma negli anni accademici 2009 e 2010.
Redattore della rivista Confronti; collaboratore de: l'Unità, il Manifesto, Asprenas, Rassegna di Teologia, Il Pensiero; Humanitas, Hermeneutica, Studi storici e religiosi.
E' stato direttore della Collana "Beth" del catalogo Ellissi, di studi religiosi, per la casa Editrice Esse Libri Simone di Napoli e della Collana Mediterranea per la Casa Editrice Luciano di Napoli.
E' membro del Comitato Scientifico di "Esthétique et Spiritualité" (Collection E.M.E.), iniziativa editoriale nata dalla collaborazione tra le Università di Bruxelles, Lovanio, Lille e Parigi - Sorbona.
Ha pubblicato diversi saggi sul pensiero ebraico tra '800 e '900; ha tradotto e curato numerosi testi di filosofi e Maestri del pensiero filosofico e religioso ebraico.

(orticalab, 13 aprile 2015)


Putin vende missili S-300 a Teheran

La Russia riprende le forniture dei sistemi missilistici antiaerei s-300 all'Iran. Lo ha deciso il leader del Cremlino, Vladimir Putin, mentre l'alleggerimento delle sanzioni internazionali all'Iran resta ancora un nodo da sciogliere dopo l'intesa di massima sul nucleare. "cancella il bando al trasferimento dalla Russia al trasporto e alla consegna dei sistemi all'Iran" con effetto immediato.
   Un contratto da 800 milioni di dollari per la fornitura di diverse batterie di s-300 era stato firmato tra Teheran e Mosca nel 2007, annullato poi dal Cremlino in seguito all`introduzione delle sanzioni contro il paese mediorientale. Lo scorso 2 aprile l'Iran e il gruppo 5+1 delle potenze mondiali, Russia compresa, hanno raggiunto un accordo sul programma nucleare di Teheran.
   Successivamente da Rostec, compagnia statale russa per lo sviluppo e l`esportazione di prodotti industriali per uso civile e militare, si era affermato che le forniture di armamenti all`Iran sarebbero riprese.
   Legami economici più forti. La decisione di Putin mostra la determinazione del Cremlino di rafforzare i legami economici con Teheran. Un ufficiale del governo ha anche dichiarato che la Russia ha iniziato a fornire grano, equipaggiamenti e materiali da costruzione all'Iran in cambio di greggio, sulla base di un accordo di scambio. I due governi hanno diffuso dichiarazioni contrastanti in proposito, ma secondo quella del vice ministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov l'accordo viene già applicato. "In cambio di forniture di greggio iraniano, stiamo consegnando determinati prodotti. Questo non è vietato o limitato, secondo le attuali sanzioni", ha dichiarato.
   Telefonata Lavrov-Kerry su prossimi passi verso Teheran. Intanto c'è stata una telefonata tra il ministro degli esteri russo, Serghiei Lavrov, e il segretario di Stato Usa John Kerry, durante la quale "sono stati discussi alcuni aspetti degli ulteriori passi da parte della comunità internazionale nei rapporti con l'Iran alla luce del progresso raggiunto nei colloqui" sul nucleare iraniano, ha riferito il ministero degli esteri russo. Lavrov ha sottolineato che la fornitura di batterie anti-aeree all'Iran non pone minacce a Israele. Come ha ribadito il capo della diplomazia russa, l'accordo quadro firmato a Losanna elimina la necessità di tenere in vigore la misura restrittiva.

(Affaritaliani.it, 13 aprile 2015)


Team israeliano scopre due proteine fondamentali nella lotta al cancro

Un team di ricercatori israeliani del Technion di Haifa ha scoperto due proteine che possono sopprimere il cancro e controllare la crescita e lo sviluppo delle cellule. Lo studio è stato condotto nel laboratorio del professor Aaron Ciechanover, israeliano vincitore del premio Nobel per la chimica, e guidato dalla dottoressa Yelena Kravtsova-Ivantsiv. Alla ricerca hanno partecipato anche studenti e medici degli ospedali Hadassah, Carmel e Rambam....

(Progetto Dreyfus, 13 aprile 2015)


Il triste caso di Benjamin Murmelstein: un film lo riabilita e gli rende giustizia

di Fiona Diwan

MILANO - «Ci troviamo a bordo di una nave fantasma, tutti siamo morti e non lo sappiamo ancora… qui la morte non assale le sue vittime predestinate come un fulmine, attacca a rilento, come una fiera decrepita e sdentata; non ferisce; graffia, fa marcire… questo è un mondo alla rovescia». Quella nave fantasma è Terezin, il celebre "ghetto modello" alle porte di Praga ideato dalla propaganda di Hitler per gettare fumo negli occhi alla Croce Rossa, luogo di abominio e morte dove migliaia di artisti, musicisti, scrittori e menti eccelse persero la vita. Le parole dell'incipit sono di Benjamin Murmelstein, rabbino di Vienna e ultimo Decano dello Judenratt di Terezin, parole pronunciate nel film-intervista L'ultimo degli Ingiusti, oggi in uscita nelle sale e girato nel 1975 da Claude Lanzmann, regista di Shoah. Una vicenda dolorosa e controversa. Perché Benjamin Murmelstein non suscitò polemiche: fu il bersaglio unanime di un anatema collettivo. Messo alla gogna, tacciato di collaborazionismo, bandito, fu rinnegato dalla Comunità ebraica di Roma dove consumava il suo esilio, gli fu negata la sepoltura nel cimitero ebraico dell'Urbe e gli fu inibito l'ingresso in Erez Israel. Nessuno, dopo la guerra, spezzò una lancia per difenderlo. Nessuno, tranne uno: Claude Lanzmann, che oggi vuol rendergli giustizia. «Il film che ho realizzato e ora anche il libro, lo riabilitano completamente, riparano al male imperdonabile che gli è stato fatto e mostrano in tutta la sua lampante chiarezza la stupidità delle accuse dei suoi correligionari… Grazie a me - è il mio punto di orgoglio -, il mondo intero può cominciare a conoscere chi sia stato il vero Benjamin Murmelstein. Questo risarcimento non ha prezzo», dichiara Lanzmann nella premessa L'ultimo degli Ingiusti (editore Skira, 15 euro), praticamente la trascrizione del film.
   La questione che solleva Lanzmann è di quelle eterne: come è possibile fare il Bene se viviamo immersi nel Male assoluto, se l'orrore è pervasivo e corrompe anime e corpi, se lo stato di bisogno fa di noi delle bestie senza coscienza? Come è possibile preservare anche una sola infima porzione di Bene se viviamo immersi nell'arbitrio, nella morte e nella crudeltà? Murmelstein era considerato spregevole, molti lo disprezzavano perché giudicato obnubilato dal potere che la sua carica di Decano gli concedeva e perché la sua conoscenza personale di Adolf Eichmann, risalente agli anni di Vienna e al 1938, lo rendeva sospetto (era l'unico ebreo a cui fosse concesso sedersi davanti a Eichmann). Non gli fu mai perdonato di essere l'unico capo di un ghetto a sopravvivere alla Shoah. Eppure, grazie a Murmelstein, si salvarono migliaia di ebrei. «A mio avviso Terezin è stata il fulcro della genesi e dell'attuazione della Soluzione finale. Tra il 1941-1945 si alternarono tre decani degli ebrei: i primi due morirono con un colpo di pistola alla nuca. Solo il terzo, Murmelstein, sopravvisse. Su di lui si concentrò l'odio dei sopravvissuti. Eppure avrebbe potuto scappare; possedeva un passaporto diplomatico: preferì restare. Fu arrestato per collaborazionismo, dopo 18 mesi di prigione, un processo lo prosciolse da tutte le accuse», dice Lanzmann, regalandoci un documento unico, tra le pochissime testimonianze giunte sino a noi di un capo del Judenratt. Le parole di Murmelstein sono incredibili. Si paragona alla figura di Sancho Panza («Lui è pragmatico, calcolatore mentre gli altri combattono contro i mulini a vento… un realista con i piedi ben piantati a terra», dice. «Tutti noi decani eravamo nella posizione della marionetta, una marionetta comica…»). «Sono sopravvissuto perché avevo una favola da raccontare, sono stato come Sherazade…», prendevo tempo, costruivo e rimodernavo il ghetto, collaboravo con loro, davo a Eichmann quello che voleva. Solo così avrei procrastinato l'ora della nostra morte e forse sarei riuscito a salvarmi, dice.«Eichmann aveva un interesse particolare su Terezin. Se potevamo fare in modo che la esibisse al mondo, per noi era la salvezza, Terezin non poteva più sparire. Questo significava che dovevamo prostituirci e recitare quella farsa… ». E a proposito di Eichmann, Murmelstein polemizza con la Arendt: altro che banalità del male, Eichmann era un corrotto, era un demonio. E conclude, amaro: «Un decano degli ebrei può essere condannato, anzi deve essere condannato. Ma non può essere giudicato, perché nessuno può mettersi nei suoi panni. Può essere giustiziato, se non si avvelena da sé. Un decano degli ebrei, dopo la guerra, è come un dinosauro su un'autostrada».

(Mosaico, 12 aprile 2015)


Le foto dell'enclave nazista vicino a New York

Si chiamava Camp Siegfried e continuò a funzionare fino al 1941

di Matteo Sacchi

 
Alla fine non c'è dubbio. Se nazismo e fascismo non ci sono più il merito è dell'arsenale delle democrazie: gli Stati Uniti d'America.
   Però su quale fosse la presa dell'ideologia nazista e fascista negli States prima dello scoppio della seconda guerra mondiale è calato un silenzio difficile da rompere. Ma ogni tanto da sotto il tappeto della storia ufficiale qualcosa trapela. Perché sino al 1939 gli ammiratori di Hitler e di Mussolini erano tantissimi (per rendersene conto viene utile anche l'ultimo volume di Emilio Gentile che racconta l'Italia fascista vista dagli stranieri: In Italia ai tempi di Mussolini , Mondadori).
   Ora un sito statunitense ripreso ieri dal britannico Daily Mail ha pubblicato le foto (a lungo custodite negli archivi della polizia) di quello che fu il piccolo quartiere nazista a breve distanza da New York. Costruito nella zona est di Long Island nella contea di Suffolk oggi si chiama Yaphank ma all'epoca aveva il molto più evocativo nome di Camp Siegfried. I nomi delle strade sono stati modificati ma negli anni Trenta c'erano una Adolf Hitler Street e una Goebbels Avenue. A organizzare e a dirigere la vita nella piccola enclave ariana era il German American Bund, una organizzazione a cui avevano aderito molti americani di origine tedesca. Sotto la guida del suo fondatore Fritz Julius Kuhn nel villaggio, con le sue ordinate aiuole a forma di svastica, venivano organizzate parate, corsi sulla purezza della razza e soprattutto attività di indottrinamento per i giovani. Un vecchio rapporto dell'Fbi, che naturalmente monitorava la zona, segnalava che nelle casette di legno di Yaphank erano presenti «dai 150 ai 300 bambini che solitamente si vestono con la divisa della Gioventù Hitleriana». Ma erano molti i visitatori che si recavano dalla Grande Mela nella cittadina per assistere alle parate o partecipare alle feste in clima bavarese.
   La musica cambiò soltanto nel 1941 quando, scoppiata la guerra, il leader del German American Bund venne arrestato, non per nazismo, ma per evasione fiscale e appropriazione indebita (lo stesso stratagemma usato per incastrare Al Capone). Camp Sigfried venne smobilitato e la faccenda messa nel dimenticatoio e ricordata solo dagli studi di qualche professore universitario come Ryan Shaffer o in qualche breve nota di storia locale. Ma ora le foto pubblicate dal Daily Mail raccontano un pezzo d'America diversa. Altro che la innocente Balbo Avenue a Chicago.

(il Giornale, 12 aprile 2015)


Manda gridi di gioia, rallegrati, o figlia di Sion! poiché ecco, io vengo, e abiterò in mezzo a te, dice l'Eterno. In quel giorno molte nazioni s'uniranno all'Eterno e diventeranno mio popolo; io abiterò in mezzo a te e tu conoscerai che l'Eterno degli eserciti m'ha mandato a te. L'Eterno possederà Giuda come sua parte nella terra santa, e sceglierà ancora Gerusalemme.
dal libro del profeta Zaccaria, cap. 2
 

Biblioteca Ambrosiana: splendido codice biblico ebraico franco-tedesco degli anni 1236-1238

L'esposizione presenta 15 manoscritti, riccamente miniati, tra i più preziosi al mondo, prodotti dalle più varie tradizioni iconografiche ebraiche e greche, latine, arabe e italiane che riflettono sull'arte, la scienza e la fede.

La Biblioteca Ambrosiana di Milano
Dal 14 aprile al 12 luglio 2015, la Biblioteca Ambrosiana di Milano (piazza Pio XI, 2) ospita la mostra “PANE E NON SOLO. I cibi, i libri”, che presenta 15 manoscritti, riccamente miniati, tra i più preziosi al mondo, prodotti dalle più varie tradizioni iconografiche ebraiche e greche, latine, arabe e italiane che riflettono sull'arte, la scienza e la fede quale nutrimento di bellezza e d'amore che ogni essere umano necessita.
   L'esposizione che anticipa gli argomenti trattati da EXPO 2015, ruota attorno alla pagina dipinta verso il 1340 ad Avignone da Simone Martini per il codice di Virgilio posseduto da Francesco Petrarca; in questo caso, il sommo cantore di Roma è ritratto estatico sopra pastori e agricoltori intenti al loro duro lavoro.
La rassegna sottolinea non solo l'insostituibile valore dell'arte quale alimento dell'umanità, ma anche il contributo universale della cultura araba alle scienze, con il capolavoro dell'opera enciclopedica di zoologia di ‛Amr bin Bahr al-Ğāhiz (Bassora, 776-869). Studioso di origini probabilmente abissine, "eminenza grigia" del Califfo di Baghdad, teologo e polemista, discusse il problema dell'armonìa tra fede e ragione.
Il Libro degli animali è il suo capolavoro incompiuto, nel quale inserisce sul tema della zoologia, riflessioni di teologia, metafisica, sociologia e psicologia, anticipando aspetti della moderna teoria evoluzionista, regalandoci delicate scene femminili di harem.
   Accanto al più antico frammento greco dell'Ilias picta raffigurante gli dèi a banchetto cantati da Omero nell'Iliade, tra gli altri sontuosi manoscritti miniati spicca il codice sulle Terme di Pozzuoli (De balneis Puteolanis) illustrato verso il 1470 a Napoli da Cola Rapicano; Pietro da Eboli vi loda gli innumerevoli benefici del Bagno detto Archetto, che difende il fegato dall'infiammazione, toglie il reumatismo e il mal di stomaco, libera la testa da forte infreddatura, favorisce un torpore ristoratore. L'eleganza della miniatura di scuola francese si esprime in un'altra pagina di grande bellezza, nella quale sono rappresentati la Sobrietà; e l'Ingordigia - Il ricco banchettante e il povero alla sua porta.
   La mostra si apre e si chiude con scene di banchetti escatologici e mistici delle tradizioni ebraica e cristiana, nelle quali la poesia del vino e l'amicizia del simposio s'intrecciano con astri e animali in simbolismi arcani.
   Tra questi spicca il bifoglio su pergamena, inserito al termine di uno splendido codice biblico ebraico franco-tedesco degli anni 1236-1238. Le due pagine finali raffigurano temi inusuali nell'iconografia ebraica: a destra una visione del cosmo con al centro il sole, la luna e quindici stelle entro i sette cieli; negli angoli esterni i quattro esseri viventi descritti da Ezechiele; a sinistra i tre animali delle origini – Ziz, Leviatan, Behemòt – e sotto di loro il Banchetto escatologico dei Giusti (Se‛udàt ha-Zaddiqim), che si compirà nei tempi del Messia a Gerusalemme.

(FIRST online, 12 aprile 2015)


Netanyahu: Necessari cambiamenti in accordo su nucleare Iran

GERUSALEMME - Per il premier israeliano Benjiamin Netanyahu, l'accordo delle potenze occidentali con Teheran sul nucleare dovrebbe cambiare in due punti, che ora lo rendono un cattivo accordo. "Primo, invece di permettere all'Iran di conservare e sviluppare le sue capacità nucleari, un accordo migliore ridurrebbe queste capacità in modo significativo", ha detto il premier, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post. "Per esempio - ha proseguito - chiudendo le strutture sotterranee illegali che l'Iran ha nascosto per anni alla comunità internazionale". Il secondo punto da modificare, per Netanyahu, è legato alla tempistica con cui eliminare le sanzioni imposte a Teheran: "Invece di sollevare le sanzioni (...) a una data fissata, un accordo migliore legherebbe la loro eliminazione alla fine dell'aggressione nella regione, del terrorismo a livello mondiale e della minaccia di distruggere Israele".
Netanyahu ha anche detto che "negli ultimi giorni, l'Iran ha mostrato di nuovo perché non ci si possa fidare di lui. Insiste nel mantenere le sue enormi capacità nucleari, con cui potrebbe produrre bombe atomiche. Insiste sulla rimozione di tutte le sanzioni immediatamente. E rifiuta di permettere effettive ispezioni di tutte le sue strutture sospette. Allo stesso tempo, continua la sua sfrenata aggressione nella regione e il suo terrorismo in tutto il mondo".

(LaPresse, 12 aprile 2015)


Pizzarelle col miele

di Claudia Sermoneta

 
Pizzarelle col miele
Bianche o nere? Interminabili ed accese discussioni dalla Piazza reale a quella virtuale. Politica? No. Il motivo del contendere è la ricetta doc delle "Pizzarelle con il miele". Quei dolci fantastici, umili, non lievitati, simbolo di ogni pasqua ebraica. Pochi e semplici ingredienti: pane azzimo, uova, zucchero, uva passa e pinoli. Con il cioccolato o senza. Con scorza d'arancio o senza. Fritte e intinte nel miele caldo. Ogni famiglia, ogni donna ebrea romana ha la "sua" ricetta, guai a metterla in discussione. Un sapore buono, che evoca il calore delle nostre nonne, l'abbraccio delle nostre mamme, antiche tradizioni mantenute e tramandate da generazioni.
Oggi come allora, nell'antico ghetto di Roma.
    INGREDIENTI
  • 4 azzime
  • 4 uova
  • 8 cucchiai di zucchero
  • un pizzico di sale
  • pinoli
  • uva sultanina
  • cioccolato amaro, scorza d'arancio
  • miele
(moked, 12 aprile 2015)


Iran: I prigionieri politici brutalmente attaccati durante la Pasqua

Tre detenuti sono stati trasferiti in isolamento. Due di questi hanno iniziato uno sciopero della fame. L'installazione di apparecchi ad alto potenziale per disturbare i telefoni cellulari in prigione, provocano problemi fisici e di salute ai detenuti.

CNRI - Lunedì le guardie speciali della prigione di Gohardasht, nella città di Karaj in Iran, hanno fatto irruzione nella sezione in cui vengono rinchiusi i detenuti politici trasferendone molti in isolamento.
Le guardie hanno attaccato la sala 12 della sezione 4 della prigione di Gohardasht ed hanno trasferito il Pastore Saeed Abedini, Khaled Hardani e Mostafa Eskandari in isolamento.
Per protestare contro queste misure repressive ed il trasferimento dei detenuti politici in isolamento il Pastore Abedini e Hardani hanno iniziato uno sciopero della fame.
L'attacco è avvenuto in presenza di Geramiyan, capo della sezione 4 ed è stato comandato da Amirian, comandante delle guardie speciali.
Intanto sabato 4 Aprile, i detenuti politici di questa sezione avevano protestato per l'emissione di segnali di disturbo ad alta frequenza che hanno provocato vertigini e perdita di conoscenza a due detenuti politici.
Le autorità repressive della prigione di recente hanno installato apparecchi per le interferenze molto potenti nella sala detta Hosseiniyeh, per bloccare le comunicazioni ai detenuti.
Il regime iraniano ha intensificato le misure repressive nelle prigioni per suscitare paura, intimidire la società e i detenuti politici per impedire qualunque espressione pubblica di dissenso contro il regime, dopo che il leader supremo del regime teocratico ha fatto un passo indietro nei colloqui sul nucleare accettando un accordo di massima.
La Resistenza Iraniana chiede alle organizzazioni in difesa dei diritti umani di predisporre una missione investigativa per indagare sulla terribile situazione dei detenuti politici in Iran.

(Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 12 aprile 2015)


La comunità ebraica di Ancona attacca il Comune

Non viene rispettata la sacralità del cimitero ebraico.

 
Antico cimitero ebraico di Ancona
 
Antico cimitero ebraico di Ancona
ANCONA - "Il cimitero degli ebrei nel Parco del Cardeto potrebbe chiudere i battenti se il Comune di Ancona una volta per tutte non rispetta il contratto stipulato con la comunità ebraica". A dirlo è Manfredo Coen, presidente della comunità ebraica di Ancona che ieri mattina ha organizzato un incontro con la stampa proprio di fronte al cancello di accesso al cimitero ebraico. L'intera questione muove i primi passi nel lontano 1995 quando il terreno di proprietà della comunità ebraica di Ancona venne concesso in comodato d'uso all'amministrazione comunale.
   Accordo ratificato dalle parti con un contratto scritto che divenne operativo dopo tre anni. E proprio all' articolo 6 si stabilisce che il Comune di Ancona nel rispetto della sacralità del posto può organizzare visite guidate dall'alba al tramonto fatta eccezione nei giorni di sabato e durante i periodi delle festività ebraiche come ad esempio la Pasqua, il Capodanno ebraico e il Kippur. Ricorrenze in cui viene specificato a chiare lettere che il cimitero deve rimanere chiuso come d'altronde impone la religione ebraica. Il mancato rispetto di quanto stipulato dà possibilità alla stessa comunità ebraica di annullare il contratto in essere.
   Nell'ultimo anno la situazione sembra essere sfuggita di mano, come conferma lo stesso Manfredo Coen: "Nonostante gli accordi presi il cancello del cimitero rimane aperto tutti i giorni, sabato compreso, e questo altro non è che un affronto alla comunità ebraica. Nello scorso mese di ottobre ho scritto al sindaco Valeria Mancinelli mettendo in evidenza la situazione che si era venuta a creare. Purtroppo non ho avuto risposte. Il cimitero oltre che rimanere aperto quando non deve è diventato un posto dove far correre i cani in totale sicurezza per il semplice fatto che l'intera area è recintata. Oltre agli escrementi degli animali come se non bastasse è stato rotto il cancello scorrevole, il che significa che dentro il cimitero si può entrare direttamente con l'auto".
   La riprova di tutto ciò ieri mattina qualche minuto prima delle 11 quando lo stesso Coen ha invitato un gruppo di persone con cani al seguito ad uscire dal cimitero. Una situazione che con il trascorrere dei mesi si è fatta insopportabile. Numerose le segnalazioni fatte pervenire alla comunità ebraica anche da parte di alcuni turisti che proprio nei giorni scorsi sono capitati all'interno del parco del Cardeto. Turisti di religione ebraica che non hanno potuto fare a meno di notare i cancelli spalancati per giunta nel periodo della Pasqua Ebraica i cui festeggiamenti sono iniziati venerdì 3 aprile per concludersi nella giornata di ieri. Nel periodo della festività più importante per la religione ebraica, il Comune di Ancona proprio giovedì 2 aprile non ha trovato di meglio che iniziare i lavori di sistemazione dell'intera area verde.
   Potature e tagli dell'erba poi terminati sabato mattina nel bel mezzo della festa religiosa. Ma non tutto sembra essere perduto secondo lo stesso Coen: "Se il Comune ci dà delle garanzie ben precise in base all'accordo stipulato l'area può rimanere fruibile al pubblico. In caso contrario siamo pronti a chiudere i cancelli. E' un nostro diritto mantenere la sacralità di questo luogo".

(Corriere Adriatico, 12 aprile 2015)


L'attrazione di Walter Benjamin per la radio

di Daria Gorodisky

Basterebbe che la radio si rendesse conto di quanto sia improbabile tutto quello che le viene presentato ogni giorno, che considerasse quante sono le cose che non vanno, a iniziare da una tipologia ridicola degli oratori, per migliorare non soltanto il livello della programmazione, ma anche e soprattutto per formare un pubblico realmente preparato e competente. E non c'è nulla che sia più importante di questo». Quando Walter Benjamin scrive queste parole, le trasmissioni radiofoniche sono nate da poco e quelle televisive sono in gestazione: eppure, 85 anni dopo, sono pienamente attuali se si parla di mass media. A cavallo tra gli ultimi anni Venti e i primi Trenta, il filosofo tedesco si occupa molto di radio. Attratto dalle potenzialità del nuovo strumento, Benjamin scrive 80 testi - alcuni andati in onda, altri di teoria - elaborando tecniche e principi innovativi di comunicazione: coinvolgimento dell'ascoltatore, uso della voce, funzione dello speaker. Radio Benjamin (Castelvecchi, traduzione di Nicola Zippel, pp. 120, € 14) raccoglie cinque di questi scritti, compreso Modelli di ascolto, fin qui inedito in italiano. E' un libretto breve, ma sufficiente per capire come Walter Benjamin privilegi il ruolo socio-educativo del nuovo mezzo: il sapere può raggiungere un numero enorme di adulti e bambini. E, attraverso un grande lavoro di sperimentazione, Benjamin vuele trasmettere agli ascoltatori conoscenza su temi letterari (Che cosa leggevano i tedeschi mentre i loro autori classici scrivevano) e su problemi di vita quotidiana (Un aumento di stipendio? Ma che vi viene in mente?). TI suo obiettivo è sempre informare per migliorare. Insomma, una declinazione della pratica ebraica del tikkun 'olam: quella riparazione del mondo che, per compiersi, ha bisogno di istruzione, progresso, giustizia e responsabilità di ciascuno verso tutti. Del resto, come amava ricordare il suo amico Gershom Scholem, Benjarnin «sentiva intensamente la sua ebraicità, e per diversi anni si è trastullato con l'idea di trasferirsi in Palestina». Invece, quando Hitler prende il potere, prima fugge alle Baleari, poi a Parigi; da lì prova a cercare rifugio in Spagna. Catturato dalla polizia di frontiera, a 48 anni si toglie la vita per non essere consegnato ai nazisti.

(Corriere della Sera, 12 aprile 2015)


La memoria viva a Buchenwald

Segnano le 15.15 le lancette dell'orologio all'entrata del campo di concentramento tedesco di Buchenwald. È l'ora in cui venne liberato l'11 aprile del 1945.
Nel settantesimo anniversario dalla fine dell'incubo nazista, i sopravvissuti hanno reso omaggio alle vittime del campo di sterminio.

(euronews, 11 aprile 2015)






Eri Goshen e Gianmarco Piacenti parleranno dell'architettura israeliana in 50 tonalità di Bianco

 
PRATO - Si terrà venerdi 17 aprile alle 17,30 alla Camera di Commercio di Prato via del Romito 71 l'appuntamento con "50 Tonalità di Bianco: La genesi della nuova Borsa dei Valori di Tel Aviv" con un'introduzione su "Israele e la sua architettura: una storia millenaria". Eri Goshen, architetto e professore presso la Shenkar School of Design and Engineering di Tel Aviv, sarà in conversazione con Giammarco Piacenti, della Piacenti Restauri. L'appuntamento è organizzato dall'Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Prato, con il suo gruppo cultura, insieme all'Ordine Architetti Pistoia e all'Ordine Architetti di Lucca, e i loro gruppi cultura, con il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Prato. Nel corso dell'incontro, il prof. Eri Goshen percorrerà, affrontando la realtà articolata e complessa del suo Paese, la storia millenaria dell'architettura d'Israele, fino alla rinascita dell'insediamento ebraico e la creazione del nuovo Stato di Israele, che ha coinciso con la rivoluzione "Moderna" nell'architettura mondiale.
  Attualmente, in Israele stanno maturando, dopo quasi un secolo di edilizia intensiva, sia uno stile locale di architettura, che la pura espressione personale di alcuni architetti. In quest'ultimo filone si inserisce l'opera del prof. Eri Goshen, che presenterà uno dei suoi edifici più noti: la nuova Borsa Valori (TASE) di Tel Aviv, progetto vincitore lo scorso 26 Marzo dell'Israeli "Design-Award" per l'"Office buildings Architecture excellence category" e illustrerà nel dettaglio, dai primi schizzi preparatori fino al suo compimento, in un lasso di tempo che ha occupato circa 8 anni. Accanto ad Eri Goshen siederà Giammarco Piacenti, impegnato - proprio in questi giorni - a concludere il restauro della Basilica della Natività a Betlemme: un altro modo per costruire il futuro, intervenendo sul passato, con un restauro che tiene conto delle tecnologie più avanzate nella consapevolezza del significato storico dell'edificio. Seguirà, al termine dell'incontro, un aperitivo offerto dall'Ordine degli Architetti di Prato, di Pistoia e di Lucca. L'evento è ad ingresso libero. Per gli architetti ed ingegneri sono previsti 3 Crediti formativi professionali. Iscrizione per gli Architetti tramite piattaforma imateria. Per info: architettiprato@archiworld.it
  Eri Goshen, architetto e professore presso la Shenkar School of Design and Engineering di Tel Aviv, si è laureato in architettura ed urbanistica al Technion, Israel Institute of Technology ad Haifa nell'agosto 1970. Goshen è uno dei principali architetti di Israele. Il suo studio è responsabile di numerosi grandi progetti che coprono quasi ogni aspetto della pianificazione e del design. Tra gli edifici noti: la stazione ferroviaria Hashalon e il Borsa di Valori, entrambi a Tel Aviv. Oltre a numerose commissioni pubbliche e private, l'architetto Goshen ricopre importanti ruoli nel settore pubblico: rappresenta, infatti, gli ordini professionali degli Ingegneri e degli Architetti sia di fronte al Parlamento israeliano, la Knesset, che di fronte a vari Ministeri e molti Comuni e ha lavorato su numerose commissioni pubbliche e tenuto conferenze in molte occasioni tra cui seminari e convegni professionali. Goshen e' autore di articoli specializzati sia nelle rubriche dei principali quotidiani israeliani che in alcune riviste professionali. Negli ultimi anni è tornato ad insegnare ed è il presidente del comitato direttivo del un nuovo dipartimento per gli interni ed il design digitale presso la Shenkar School of Design and Engineering di Tel Aviv dove sta sviluppando un approccio congiunto tra i concetti di progettista ed industria attraverso l'avvio di una cooperazione concreta su progetti realizzati sia dall'industria e che dalla scuola. Infine, come designer sta collaborando con alcune società italiane nello sviluppo di prodotti di design progettati da lui.
  Giammarco Piacenti, restauratore e presidente della Piacenti spa, partecipa al Laboratorio università-imprese Landscape, Survey & Design con il Dipartimento di Architettura di Firenze. Durante la formazione come restauratore collabora con numerosi maestri, tra i quali Leonetto Tintori con il quale collabora insegnando per due anni nella Scuola di Affresco. Con la Piacenti spa opera nel settore del restauro e della conservazione di beni di interesse storico-artistico, monumentale e archeologico. Fra i suoi innumerevoli lavori si ricordano: la collaborazione al progetto europeo Asia Urbs con progetto di restauro, consulenza sulla metodologia, assistenza e direzione operativa per il recupero delle Pagode di epoca Ming del Dutang a Wenzhou in Cina, il progetto di restauro della Sinagoga di Budapest e il restauro della Basilica della Natività di Betlemme. Inoltre, al suo attivo ha numerose pubblicazioni ed interventi a convegni nazionali e internazionali.

(gonews.it, 11 aprile 2015)


David's Sling per la difesa aerea israeliana

di Eugenio Roscini Vitali

Israele ha collaudato con successo il sistema di difesa aerea/anti-missile a corto e medio raggio David's Sling (Magic Wand): l'annuncio, fatto mercoledì scorso dal Ministero della Difesa israeliano, precisa che il sistema verrà presto dichiarato pienamente operativo e che entrerà a far parte della rete di difesa a più livelli dello Stato ebraico. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano israeliano Ynet, il sistema ha dimostrato la sua totale efficacia distruggendo come previsto il bersaglio utilizzato come minaccia; il radar ha intercettato e trasmesso al comando centrale i dati relativi al target e il controllo del fuoco ha calcolato il piano di difesa dando il via al lancio del David's Sling che, dopo aver eseguito tutte le fasi di volo, ha centrato e distrutto l'obiettivo.
   Il Ministero della Difesa ha anche rilasciato un video che mostra le fasi di un test nel quale viene distrutto un Black Sparrow lanciato da un caccia F-15I; il razzo è stato utilizzato come per target per simulazione un missile balistico a corto raggio tipo Scud B. Nato dalla collaborazione tra Rafael e Raytheon, il David's Sling è stato progettato come sistema superficie aria (SAM) a basso costo, inferiore a quello dell'Arrow -2 o del Patriot. Il SAM israeliano intercetta missili balistici a corto e medio raggio, razzi d'artiglieria di grosso calibro e missili da crociera. Al progetto collaborano la Elta, controllata IAI che fornisce il radar, e la Elisra, controllata Elbit che ha realizzato il sistema di comando e controllo Golden Almond.
   Destinato a sostituire il MIM-23 Hawk e il MIM-104 Patriot, il David's Sling è un missile multi-stadio a propellente solido, con due stati utilizzati per la spinta e un terzo stadio asimmetrico che opera nella fase finale dell'attacco; la velocità con la quale ingaggia l'obiettivo è Mach 7.5, il range è di 40-300 km (24.85-186.41 mi) e la quota operativa è di 50-75 km (164-246 mila piedi).
   Il sistema di guida comprende un radar di ricerca Active Electronically Scanned Array (AESA) Millimeter 3D, un radar Advanced Asymmetric 360 Degree Multi Seeker Sensor Engagement e sensori Dual Electro-Optical Focal Plane Array (EO-FPA) e Imaging Infrared (CCD/IIR). Il missile si avvale inoltre di sistemi di comunicazione 3 Way Data Link con Advanced Real-time Automatic e Manual Re-targeting Capability; Advanced Electronic Counter-CounterMeasures (ECCM) e InfraRed Counter-CounterMeasures (IRCCM).

(Analisi Difesa, 11 aprile 2015)


Ebrei salvati dalle SS in gabbie dello zo

Mostra su coppia di eroi polacchi.

Si è aperta a Varsavia una mostra dedicata alla storia di Jan e Antonina Zabinski, il direttore dello zoo della capitale polacca e sua moglie, che durante l'occupazione nazista salvarono la vita a 300 ebrei, nascondendoli dalle Ss nelle gabbie degli animali. Per avvertirli del pericolo Antonina era solita suonare al piano una melodia tratta dall'operetta di Jacques Offenbach 'Belle Helene'. Sulla storia nel 2016 uscirà il film in cui la moglie sarà interpretata da Jessica Chastain.

(ANSA, 11 aprile 2015)


Esodo e contro esodo degli ebrei in Riviera tra il 1939 e il 1943

"L'esodo degli ebrei dal Ponente ligure e dal cuneese alla fine degli anni Trenta è segnato da vicende contraddittorie".

di Pierluigi Casalino

"L'esodo degli ebrei dal Ponente ligure e dal cuneese alla fine degli anni Trenta è segnato da vicende contraddittorie. La clandestinità veniva controllata rigorosamente dalle autorità francesi, secondo una specifica direttiva del Prefetto di Nizza del 1939, che esortava le forze dell'ordine alla massima vigilanza circa l'eventuale assenza di documenti da parte dei soggetti interessati. A Nizza gli umori antiebraici erano forti, soprattutto in considerazione del fatto che i nizzardi non vedevano di buon occhio l'insediarsi di ebrei, in particolare di lingua tedesca, in luoghi tradizionalmente frequentati dalla gente del posto. E ciò nonostante che sorgessero a Nizza e dintorni comitati promossi dagli ebrei francesi per accogliere i loro correligionari stranieri. Con l'occupazione italiana di centri della Costa Azzurra, stranamente, la situazione cambiò in meglio per gli ebrei, che prima del conflitto erano palleggiati tra la Francia, che spesso li respingeva, e le milizie fasciste sulla linea di confine che non adottavano migliori sistemi.
  Ciò nondimeno l'occupazione militare italiana e successivamente dopo l'8 settembre, molti ebrei, per sfuggire alla Gestapo in Francia, ripresero la via del ritorno verso l'Italia, nella speranza di trovare condizioni migliori. Ma non sempre, purtroppo, fu così. Sanremo e la Riviera erano state tradizionalmente una culla della civiltà ebraica nel Ponente ligure, ma anche tale felice periodo ebbe fine con la reazione germanica in genere nei territori rimasti sotto il controllo tedesco, dopo la caduta del Fascismo e la creazione della Repubblica Sociale. Delle tristi memorie degli ebrei in tutta la provincia di Imperia si è è già scritto molto e sono anche note le azioni di chi si prodigò per evitare una tragedia di proporzioni maggiori. E ciò fu merito di comuni cittadini e di religiosi cattolici. Con la fine della guerra riprese a fiorire a poco a poco la comunità ebraica, grazie all'arrivo di ebrei del Nord Europa e d'Italia, generalmente, come a Sanremo, Alassio e Bordighera, come turisti, nel ricordo di un'epoca lontana e fortunata.

(SanremoNews, 11 aprile 2015)


L'israeliano Yarin Stern in pole in gara 1 a Jerez

Il pilota della West-Tec ha preceduto di soli 35 millesimi Vitor Rodrigues Batista della RP

L'israeliano Yarin Stern ha conquistato la prima pole position della stagione 2015 dell'Euroformula Open. Sarà quindi il portacolori della West-Tec a schierare la sua Dallara davanti a tutti nella gara di oggi pomeriggio che aprirà il campionato a Jerez de la Frontera.
Con il suo 1'37"483 ha preceduto di appena 35 millesimi Vitor Rodrigues Batista, che a sua volta aveva creduto di poter regalare la pole alla RP Motorsport. Più staccati invece tutti gli altri, a partire da Yu Kanamaru, terzo a 313 millesimi.
La top five poi si completa con Konstantin Tereschenko e Tanard Sathienthirakul, mentre il migliore degli italiani è stato Damiano Fioravanti con il settimo tempo. Per quanto riguarda i rookie, il migliore è stato Igor Walico davanti Leonardo Pulcini ed Alessio Rovera.

(Omnicorse.it, 11 aprile 2015)


Marcia indietro dell'Olp: non entreremo a Yarmouk

E' saltato l'accordo con Assad. Altri scontri nel campo di Damasco. In Iraq trucidati 10 medici: non volevano curare jihadisti. Decapitazioni anche a Ramadi.

di Luca Geronico

 
Ahmad Majdalani, inviato di Abu Mazen in Siria che aveva annunciato un accordo con il regime di Damasco per giungere all'uso della forza militare per espellere i jihadisti dello Stato Islamico dal campo profughi di Yarmouk
Marcia indietro, dopo i proclami di ieri, dell'Olp in Siria. L'Organizzazione per la liberazione della Palestina «è contraria a trascinare il popolo palestinese e i suoi campi nel conflitto in corso in Siria e a prendere parte al conflitto armato nel campo di Yarmouk con la scusa di salvarlo»,
   Una nota che smentisce quando dichiarato giovedì dall'inviato del presidente palestinese Abu Mazen in Siria, Ahmad Majdalani, che aveva annunciato un accordo con il regime di Damasco per giungere all'uso della forza militare per espellere i jihadisti dello Stato Islamico dal campo profughi di Yarmouk, centro di raccolta di profughi palestinesi, dove i miliziani sono entrati lo scorso primo aprile. Una presa di distanza netta, tanto che l'Olp esprime il suo rifiuto a «farsi trascinare in un'azione armata di qualunque tipo o sotto qualsivoglia copertura». Al contrario, l'Olp si dice pronta a lavorare per «fermare ogni forma di attacco e di azione armata» in collaborazione con tutte le parti interessate e in particolare con l'Unrwa, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Tre giorni fa era stato il ministro siriano per la Riconciliazione nazionale, Ali Haidar, ad affermare per primo che a Yarmouk era possibile solo «una soluzione militare» contro «i militanti e i terroristi». Una opzione appoggiata "apertis verbis" giovedì da Ahmad Majdalani, inviato del presidente palestinese Abu Mazen.
   Anche ieri violenti scontri si sono registrati nel campo profughi di Yarmouk fra forze palestinesi da un lato e lo Stato islamico «vicino all' area di Haj ar al- Aswad», ha dichiarato Khaled Abdel Majid, leader delle fazioni palestinesi impegnate a combattere i jihadisti. Ieri, ha riferito l'Osservatorio siriano per i diritti umani, l'esercito ha lanciato colpi di artiglieria contro il campo di Yarmouk mentre un nuovo allarme è giunto dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi: l'impossibilità di accesso umanitario «espone 18mila palestinesi e siriani, uomini, donne e bambini a un grave rischio perché continuano a non poter far fronte ai loro bisogni primari di cibo, acqua e cure mediche», ha dichiarato il portavoce Chris Gunness. Una emergenza che entra anche nel dibattito politico italiano: lunedì, alla Camera, verranno discusse due mozioni sulla situazione dei minori a Yarmouk presentata da Paola Binetti (Ap) e Vanna Iori (Pd). Proseguono pure, nel centro della Siria, i rapimenti: nel villaggio di Mabuja, teatro di un massacro nei giorni scorsi, almeno 10 civili, tra cui sette donne, sono state prelevate dai jihadisti. Un orrore che prosegue anche oltre l'inesistente frontiera con l'Iraq: ad Hamam al Alil, a sud di Mosul, l'Is ha ucciso con colpi di arma da fuoco alla testa una decina di «medici che si erano rifiutati di prestare cure ai miliziani feriti». Infine i miliziani dell'Is, dopo essere entrati a Ramadi, importante centro sunnita, hanno decapitato 25 appartenenti alla tribùAbu Faraj: lo riferisce al Arabiya. E sui social media è comparsa una nuova minaccia: «Bruceremo l'America in un nuovo 11 settembre».

(Avvenire, 11 aprile 2015)

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Olp e arabi, i veri nemici dei palestinesi

Altro che Israele. Abu Mazen si rifiuta di intervenire nel campo di Yarmouk e abbandona i suoi a Isis e Assad.

di Carlo Panella

La Olp ha annunciato che non ha la minima intenzione di intervenire in armi nel campo palestinese di Yarmouk, alla periferia di Damasco, teatro di violenti combattimenti. Abu Mazen, insomma, non intende fare nulla per evitare l'ennesimo massacro di palestinesi a opera di arabi. Una tragedia che per l'ennesima volta non ha nulla a che fare con Israele e mette in luce quella ferocia palestinese e araba che i media occidentali da sempre si rifiutano di vedere. I fatti, dall'inizio: i 180.000 rifugiati palestinesi di Yarmouk sono trattati da 60 anni come paria dai siriani. Rinchiusi in un ghetto, non hanno diritto di lavorare all'esterno, di avviare un'attività economica, di comprare una casa o un terreno. Vivono dei sussidi dell'Onu e delle rimesse dei parenti. Negata rigidamente la cittadinanza siriana. Yarmouk, insomma è una delle «bombe atomiche arabe» (definizione di Nasser) scientificamente organizzate dai vari rais, che hanno tenuto per decenni i palestinesi nei campi profughi in condizioni di semi schiavitù, rifiutandosi di integrarli, per usarli come came da cannone disperata contro Israele. Yarmouk, inoltre, era ed è la "capitale" del gruppo palestinese Fplp-Cg, di Ahmed Jibril, da sempre alleato col regime para nazista di Damasco e ferocemente in armi contro la stessa Olp. Awersario di Yasser Arafat, subordinato all'alleanza con i macellai Assad padre e figlio, il Fplp-Cg partecipò persino al massacro arabo del campo palestinese di Tell al Zatar di Beirut nell'agosto del 1976, che nessuno ricorda, ma che fu peggio di quello di Sabra e Chatila che invece viene ricordato in occidente solo perché se ne attribuisce - falsamente - la responsabilità a Israele (i macellai furono invece gli arabi cristiani).
   Da sempre contrario al processo di pace, il Fplp-Cg è responsabile di molti attentati e stragi di leader arabi ed è da sempre il cane da guardia del regime di Damasco. Per questo, quando nel 2012 i ribelli laici siriani della Free Syrian Army tentarono di attestarsi a Yarmouk per meglio attaccare il regime a Damasco, in una fase in cui né l'Isis, né al Qaeda erano ancora presenti in Siria, il Fplp-Cg li ha combattuti con ferocia, difendendo il regime siriano. Spopolato e dissanguato dalla guerra civile, Yarmouk è ora sotto attacco dell'Isis. I palestinesi che vi muoiono a centinaia di fame, freddo, sete e colpi di armi da fuoco sono vittime della ferocia contrapposta di due eserciti arabi. Come sempre. Come nel 1970 nel Settembre Nero di Amman (20.000 palestinesi uccisi da arabi). Con un di più: la dissidenza palestinese "di sinistra" che comprende oltre al Fplp-Cg anche il Fdlp e altre organizzazioni, che spesso hanno ucciso alti esponenti della Olp, è asservita ai peggiori regimi arabi (ieri Saddam Hussein, oggi Beshar al Assad). Abu Mazen rifiuta quindi di mandare i suoi uomini a combattere a fianco dei palestinesi di Yarmouk e dell'esercito siriano contro l'Isis, perché è convinto, a ragione, che l'uno e l'altro si equivalgano e che comunque, se potessero, ucciderebbero lui e tutta la dirigenza palestinese moderata.
   Yarmouk, insomma, fa emergere il lato oscuro, sanguinario, demente, della vicenda palestinese, che ha sempre visto le leadership arabe usare delle sofferenze palestinesi come cinica leva per le proprie strategie politiche da macellai. Col risultato che dal 1948 a oggi i palestinesi uccisi da Israele sono la metà dei palestinesi uccisi dagli arabi o dai palestinesi. Ma nessuno lo dice. Perché è di moda, di nuovo, accusare gli ebrei di essere assetati di sangue.

(Libero, 11 aprile 2015)


Musulmani massacrano musulmani; palestinesi massacrano palestinesi; palestinesi lasciano che altri massacrino palestinesi: Ma per l'Onu la minaccia alla pace viene dalla decisione del governo israeliano di costruire appartamenti a Gerusalemme Est. M.C.


Scoperti a Tel Aviv frammenti di ceramica di oltre cinquemila anni fa

Sono stati ritrovati 17 pozzi che venivano utilizzati per conservare prodotti agricoli durante l'Età del Bronzo I

 
 
La presenza di insediamenti di una popolazione con oltre cinquemila anni di storia è venuta alla luce nel centro di Tel Aviv nell'area del Ponte Ma`ariv durante uno scavo di emergenza che la Israel Antiquities Authority sta conducendo prima che vengano costruiti in quell'area edifici da adibire a uffici.
Secondo Diego Barkan, direttore dello scavo archeologico per conto della Israel Antiquities Authority, sono stati ritrovati 17 pozzi che venivano utilizzati per conservare prodotti agricoli durante l` Età del Bronzo I (3500-3000 a.C.).
   Tra le centinaia di frammenti di ceramica che caratterizzano la cultura locale, sono stati scoperti un gran numero di frammenti di grandi recipienti di ceramica, risalenti alla tradizione egizia.
   Questi grandi recipienti venivano fabbricati con paglia modellata o altro tipo di materiale organico in modo da renderli più resistenti, con un metodo non consueto nel settore della ceramica locale. Recipienti come questi sono stati trovati nell`edificio amministrativo egizio scavato a En Besor. Sulla base degli scavi precedentemente effettuati nella regione, è risaputo che vi era un sito risalente all'Antica Età del Bronzo I, ma questo scavo è la prima testimonianza evidente di un`occupazione egizia nel centro di Tel Aviv proprio risalente a quel tempo.
   E' anche la prova di una presenza egizia nell'Antica Età del Bronzo I così a nord. Fino a oggi infatti gli archeologi erano a conoscenza di una presenza egizia nel nord del Negev e a sud della pianura costiera, laddove il punto più a nord dell`occupazione egizia si era dimostrato essere ad Azor. Un pugnale di bronzo e strumenti di selce risalenti a seimila anni fa, periodo Calcolitico, sono stati trovati nel sito.
   E` interessante notare che la birra è stata la "bevanda nazionale d`Egitto" nei tempi antichi, e che si trattava di un bene primario come il pane. La birra veniva consumata dall`intera popolazione, indipendentemente dall`età, dal genere o dallo status. Era il risultato di una mistura di orzo e acqua che veniva fatta cuocere e poi lasciata a fermentare sotto al sole.
   Diversi concentrati di frutta venivano aggiunti a questa mistura in modo tale da insaporire la birra. La mistura veniva poi filtrata in speciali recipienti ed era così pronta per l`uso. Gli scavi condotti nella regione del delta d`Egitto hanno permesso di portare alla luce birrifici, i quali ci indicano che la birra veniva prodotta già a metà del 4o millennio a.C.

(MeteoWeb.eu, 11 aprile 2015)


Svastica e martello

di Massimo Gramellini

La notizia che il Parlamento ucraino ha approvato a larghissima maggioranza una legge che equipara il comunismo al nazismo come regimi criminali costringe chi è stato svezzato nel secolo scorso a fare i conti con una questione irrisolta. Il nazismo pianificava il dominio di una razza in seguito a stermini di massa, mentre il comunismo predicava la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. A livello teorico qualsiasi accostamento tra i due sarebbe dunque una bestemmia. Ma se le utopie vanno valutate sul terreno dell'applicazione concreta, non c'è dubbio che il comunismo realizzato sia stato ovunque un sistema oppressivo, violento e liberticida. Nella storia non esiste traccia di comunismi senza carri armati e polizie segrete.
   Il giudizio storico dipende dalle esperienze di ciascun popolo, cioè dal tipo di micidiale radiazione a cui quel popolo sia stato esposto. Per un ucraino o un ungherese che hanno avuto i figli torturati e uccisi dal Kgb, il comunismo rappresenta il male assoluto, accomunabile nella condanna al regime che organizzò l'infamia eterna dell'Olocausto. Invece gli italiani il comunismo lo hanno molto predicato ma, grazie al cielo e agli americani, mai sperimentato. In compenso hanno conosciuto gli orrori dell'occupante nazista contro la comunità ebraica e non solo. Una legge come quella ucraina farebbe fatica a essere approvata. Da noi il nazismo sarà sempre considerato peggiore del comunismo. Per fortuna, aggiungerei. Perché, per poterci permettere di pensarla diversamente, avremmo dovuto sorbirci anche quello.

(La Stampa, 11 aprile 2015)


I vignettisti che andranno a irridere l'Olocausto hanno pubblicato anche sui giornali italiani

di Giulio Meotti

La foto vincitrice del concorso 2006
ROMA - La Repubblica islamica dell'Iran ha da tempo elevato le vignette a strumento di un negazionismo e antisemitismo deliranti. Nel 2006, su iniziativa del presidente Mahmoud Ahmadinejad, Teheran organizzò il primo concorso internazionale per le vignette che sbeffeggiano l'Olocausto (nella foto la vincitrice di quell'edizione). Alle pareti della sala di Tabriz dove si svolse il primo concorso giganteggiava il ritratto di Khomeini, l'imam che ha annunciato al mondo: "Il regime che occupa Gerusalemme va cancellato dalle pagine della storia". Ahmadinejad decise di raccogliere le vignette in un libro, intitolato "Olocausto", con immagini di ebrei che varcano le camere a gas e il numero "5,999,999". La seconda edizione si celebrerà a maggio ed è stata decisa dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi. In una lettera al segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, l'ambasciatore israeliano all'Onu, Ron Prosor, ha esortato la comunità internazionale a condannare l'evento che "legittima la negazione dell'Olocausto e svilisce la morte di milioni di ebrei assassinati". Il segretario del concorso, Masoud Shojaei-Tabatabaei, ha detto che il festival è progettato "per evidenziare il doppio standard mondiale nella difesa delle caricature di Maometto" e "per chiedersi perché i palestinesi sono 'oppressi in compensazione' per l'Olocausto". Una sezione del concorso stabilirà un paragone fra Israele e il nazismo, "Benjamin Hitler e Adolf Netanyahu". Il vincitore riceverà 12 mila dollari.
   L'Iran ha annunciato i nomi dei 312 artisti che hanno spedito i lavori e che saranno esposti a Teheran dal 9 maggio. Gran parte sono iraniani, ma molti vengono anche dall'Europa. Gli italiani saranno la pattuglia più nutrita.
   Fra gli altri, ci sono Achille Superbi, che lavora al centro di produzione Rai, e i vignettisti del "Fano Funny", il Festival Internazionale di Umorismo e Satira. C'è Agim Sulaj, italo-albanese definito dalla Stampa di Torino "uno dei grandi umoristi grafici contemporanei. La Stampa ha pubblicato alcune delle sue opere e proprio per una di queste è stato segnalato dalle Nazioni Unite per la sua arte, "capace di comunicare al grande pubblico temi sensibili, difficili, dirimenti nella società contemporanea". Sulaj è stato anche premiato dalla rivista Internazionale. Ci sarà anche il vignettista trevigiano Alessandro Gatto, che partecipò già alla prima edizione iraniana con una vignetta che mostrava la giacca di un deportato ebreo, le cui strisce bianche e azzurre formano le sbarre di una prigione in cui sta rinchiuso un palestinese. Gatto è stato premiato da George Wolinski, l'artista ucciso proprio a Charlie Hebdo, per il "Portocartoon world festival". Speriamo di scoprire, per questi vignettisti e per noi italiani, che con questa nuova porcheria iraniana antisemita non c'entrano niente.

(Il Foglio, 11 aprile 2015)


Come finire ko a Tel Aviv e risorgere con i fumetti

Tra bollette da pagare, una moglie dolce e furiosa e la paura che arrivi in testa un missile nucleare. Il Graphic Novel dell'israeliano Asaf Hanuka.

 
 
 
Si chiama Asaf Hanuka. Come la festa ebraica. Abita a Tel aviv con moglie e figli. Ed è uno dei disegnatori più geniali d'Israele. Oltre a illustrare Rolling Stone, New York Times, Newsweek ... racconta in un blog a colpi di vignette e scarne didascalie la vita quotidiana nello stato ebraico. Ovvero, bollette da pagare, carta di credito bloccata, sfratti, la moglie offesa, il figlio che disintegra con capricci e pistole laser, la tv che rimbambisce e inquieta. Le strisce sono diventate un bellissimo graphic-diary e fin dal titolo, KO a Tel Aviv, spiegano che quando il logorio della vita moderna ti mette fuori gioco, l'unico modo per risollevarsi è sorridere con l'aiuto delle matite colorate.
   E Hanuka ride molto. Di se stesso. Dei suoi ruoli. Del mondo che lo circonda. Con spirito satirico. Ma anche dolcezza, malinconia, affettuosità. Protagonista delle strisce è lui medesimo. Come autore (che sogna la gloria del New Yorker). Come padre (giocherellone, e tanto goloso da rubare le caramelle al figliolo). Come marito (talvolta così distratto da far fuggire la compagna infuriata; anche se in realtà sua moglie, l'illustratrice Hilit, come dichiara nell'esergo è il un grande, stabile, fertile amore e gli «permette di non cadere»). Come essere umano alle prese con il mondo, tanto assurdo, quanto meraviglioso. E last but non least come cittadino d'Israele, paese che flirta con l'iphone e il navigatore (che porta immancabile sulla strada sbagliata) ma si svuota per lo Shabbat e Yom Kippur. E manda i suoi figli riluttanti a montare la guardia in qualche desertico avamposto sotto la pallida, bellissima luna. E vive nella subdola inquietudine degli attentati che non sempre l'ironia cancella. Perché quando fai i progetti più positivi, pensi finalmente di comprare casa, t'accordi con le banche, può sempre apparire in video il volto di Ahmadinejad a ricordare che basta un missile per terminare ogni sogno in un fungo atomico. Chissà se la paura, dopo gli accordi con l'Iran, si colora di speranza? [B. V.]

(La Stampa, 11 aprile 2015)


Come Giacobbe

Ben Gurion, lo statista addetto a pulire l'ovile che mandò gli ebrei a combattere dopo duemila anni. Un libro sul fondatore di Israele.

di Giulio Meotti

David Ben Gurion
David Ben Gurion con Albert Einstein
Aveva l'aspetto di un contadino affabile, i capelli bianchi piantati sulle tempie, gli occhi turchesi, il volto segnato dal sole, la faccia scavata dalle rughe fitte. Ma chi lo conosceva parlava di David Ben Gurion come di un pensatore raffinato, l'intellettuale che aveva studiato lo spagnolo per non perdere neanche una sfumatura di Cervantes e l'italiano per il suo adorato Machiavelli. Non gli piaceva il titolo di "padre di Israele", ma più quello di "hakazen", grande vecchio. "Padri di Israele", diceva, "sono quegli uomini duri che hanno lasciato le loro terre e le loro case per venire nel deserto a fare i contadini".
   Adesso una biografia pubblicata dalla Yale University Press e scritta da Anita Shapira, che nel 1966 da studentessa di storia incontrò Ben Gurion nel deserto del Negev, illumina il carattere e le decisioni prese dall'uomo che ha dato agli ebrei una patria dopo duemila anni di esilio e massacri, scandendone le decisioni più drammatiche e importanti. Un patriarca. Un nuovo Giacobbe.
   Ne1 1948 gli Alleati, compresi gli americani, nutrivano ancora molte simpatie per il mondo arabo, e la nascita di Israele poteva complicare la situazione. Ben Gurion si sentiva un leone, mandò al diavolo chi gli consigliava attendismo e prudenza e il 15 maggio proclamò la repubblica. "Il suo riconoscimento che la creazione dello stato ebraico avrebbe richiesto una sanguinosa guerra e la sua disponibilità a sostenere il peso della responsabilità sono state, al tempo, intuizioni meravigliose che hanno portato ad azioni decisive, senza precedenti nella storia ebraica", scrive Shapira. "L'invio di giovani in battaglia, sapendo che sarebbero potuti non tornare, è stata una decisione che gli ebrei non avevano più preso dai tempi della rivolta di Bar Kokhba nel Secondo secolo".
   Shapira paragona Ben Gurion al leader dell'ultimo sussulto insurrezionale ebraico, la rivolta di Bar Kokhba (132-135 dopo Cristo) contro l'occupazione romana, finita in un massacro. Di quella epopea si sono rinvenuti soltanto anfore, tessuti e monete con la scritta "Simone Bar Kokhba principe d'Israele". Ben Gurion inizialmente fece lo stesso: raccolse intorno a sé 800 mila ebrei, ma a differenza di Bar Kokhba li condusse alla vittoria, contro quaranta milioni di arabi, in un conflitto che avrebbe cambiato per sempre il destino ebraico.
   Venuto al mondo come David Green nel 1886 a Plonsk, un piccolo centro industriale polacco nel territorio della Russia zarista, Ben Gurion ha guidato due volte a vittorie impossibili il suo minuscolo stato, prima nella guerra di liberazione e poi nella campagna del Sinai, edificando l'entità statale ebraica e imponendola con alto prestigio alla Società delle nazioni. In Ben Gurion, la passione politica si confondeva con un profondo affiato religioso, l'eredità biblica con la cultura illuminista dell'occidente.
   Ben Gurion fu capace di assumere decisioni di un pragmatismo estremo. Il suo ritiro dal Sinai nel 1957 venne progettato per porre fine all'isolamento di Israele, che egli vedeva come un pericolo per la sua stessa esistenza. Aspirava a entrare nella sfera d'influenza americana, ma questo non gli impedì di costruire il reattore nucleare di Dimona nonostante l'opposizione di Washington, Per quanto volesse un alleato, Ben Gurion era altrettanto geloso dell'indipendenza del suo piccolo e fragile paese, e quando Israele si trovava di fronte a una minaccia alla sua esistenza, nessuno era più risoluto di lui nella protezione degli interessi nazionali. Fu una fiducia quasi messianica, utopistica nell'energia nucleare quella che lo spinse a impartire l'ordine di cercare l'uranio e di costruire la bomba atomica, custodita nel deserto del Negev Ben Gurion vedeva l'energia nucleare con una fede laica e modernista nella tecnologia, legandola al sogno del totale rovesciamento di ruolo dell'ebreo, da perseguitato a padrone del proprio destino, anche tramite l'azione della scienza e l'imposizione al mondo delle scelte tecnologiche. Ben Gurion avrebbe presieduto alla nascita di una banca ebraica, a una compagnia di costruzioni ebraica, a una associazione sportiva ebraica, a una cooperativa agricola ebraica, a un teatro ebraico, a un quotidiano ebraico, a una casa editrice ebraica, a un movimento giovanile ebraico e a una scuola ebraica. Ma non riuscì mai a trasmettere alle masse la sua visione e la sua foga politica messianica, la passione morale e pionieristica. Contribuì però a forgiare un esercito popolare e democratico, usato come scuola di integrazione del paese. Nel 1953, gli Stati Uniti iniziarono a garantire prestiti a Israele e la Germania promise i tanto attesi risarcimenti. Lo stato di emergenza, che durava dal 1939, era finito. E con esso, anche l'epopea di Ben Gurion. La rivoluzione era compiuta, e dopo i sette giorni della creazione era arrivato il momento del riposo del fondatore dalla noiosa lotta politica. Come Winston Churchill, Ben Gurion era nato per dominare un certo momento della storia, e una volta passato si sentiva svuotato, sprecato, forse persino inadatto a impegnarsi con monotonia negli affari di tutti i giorni. A Tel Aviv viveva in modo spartano, in una modesta villa del centro, la maggior parte della quale era occupata dalla biblioteca. Ma appena poteva, fuggiva nel deserto. Fu lì che decise di rifugiarsi. La moglie, una donna volitiva e semplice, ardentemente socialista, non ne condivideva l'entusiasmo. Soltanto la presenza di un soldato di guardia e di un telefono da campo distingueva la casa del primo ministro dalle altre. Come Mao Tse-tung, che aveva nuotato attraverso il Fiume Azzurro per dimostrare che era ancora in possesso di tutti i suoi poteri, Ben Gurion sperava che il suo ritiro a Sde Boker, nel Negev, avrebbe scatenato un nuovo zelo rivoluzionario. La prima a essere insoddisfatta fu la moglie Paula, che aveva molti amici a Gerusalemme e Tel Aviv, che faceva fatica ad accettare la lontananza ascetica nelle distese aride del deserto, che considerava la cucina del kibbutz non abbastanza pulita e il cibo non sufficientemente saporito.
   Ben Gurion, invece, accettò l'ascetismo con affetto. Quattro ore al giorno le dedicava al lavoro nel kibbutz e il resto del tempo alla lettura e alla scrittura. Gli piaceva molto allevare gli agnelli, e iniziò a fare camminate di quattro chilometri al giorno nel deserto. Ma gli israeliani considerarono l'esilio del fondatore difficile da accettare. E lo inondarono di migliaia di lettere pregandolo di non abbandonarli. Tra le missive che gli chiedevano perché avesse deciso di ritirarsi, c'era anche quella di un tredicenne impudente: si chiamava Amos Oz.
   Con gli anni, Ben Gurion venne dimenticato nella sua diaspora di pietre. Per celebrare il venticinquesimo anniversario dello stato di Israele, pochi mesi prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur, nel 1973, la radio militare lo chiamò per un dibattito. Il patriarca invitò gli israeliani a continuare a perseguire i tre principi per i quali l'indipendenza ebraica era stata rinnovata: il ritorno degli esiliati, far fiorire il deserto e la costante aspirazione a diventare "il popolo eletto" e "una luce per le nazioni".
   Fu un discorso grandioso ma anche un po' patetico, considerando che di lì a poco Israele avrebbe rischiato di essere nuovamente schiacciato dagli arabi. Quando scoppiò la guerra del Kippur, Ben Gurion era solo e dimenticato. Morì nel dicembre di quel 1973, poco dopo il cessate il fuoco, quando Israele era ancora sotto choc e in lutto per le numerose vittime del conflitto. Nessuno prestò attenzione alla sua morte. Nella lapide venne iscritta semplicemente la data di nascita, di morte e dell'immigrazione in Palestina.
   Quel piccolo ebreo polacco in giacca e cravatta, misticamente abbronzato, prese le decisioni più tragiche e necessarie per la sopravvivenza di Israele. Il libro di Shapira le racconta tutte. Ben Gurion non esitò a far sparare all'Altalena, la nave che, appena proclamata l'indipendenza, conduceva alle coste di Israele, oltre ad alcuni passeggeri, armi destinate alle milizie di destra. Ben Gurion ordinò di catturare o affondare la nave: preferì perdere armi preziose, rischiare la guerra civile, accettare lo scontro fra soldati e partigiani piuttosto che lasciar imporre al nuovo stato il marchio della debolezza e dell'illegalità. Non poteva tollerare l'esistenza di un doppio potere e aveva finito per decidere che alcuni ebrei dovevano ucciderne altri, atto fondatore della nascita di un vero e proprio stato. Quando un pio studente nazionalista di nome Yigal Amir nel 1995 assassinerà il premier israeliano Yitzhak Rabin, spiegherà ai giudici di averlo fatto, oltre che per fermare la cessione di terra ai palestinesi, per vendicare i fatti dell'Altalena (Rabin prese parte al cannoneggiamento della nave).
   L'equivoco principale del sionismo risiede nel tentativo di unire due elementi fra loro divergenti: giudaismo e illuminismo. Ben Gurion, conscio di questa difficoltà, anche qui prese la decisione di lasciare al tempo il compito di definire il carattere dello stato, accettando la richiesta dei religiosi di non dargli una costituzione. E ancora oggi Israele non ha una costituzione.
   Nel 1948 i comandanti dell'esercito ebraico, Yigal Allon e Yitzhak Rabin, chiesero a Ben Gurion se dovessero procedere a "una evacuazione su larga scala" degli arabi di molti villaggi. "Cacciateli", fu la risposta di Ben Gurion che accompagnò l'ordine con un gesto della mano. Spiega Shapira che "questo a quanto sappiamo è l'unico caso in cui vi sia evidenza di un ordine di Ben Gurion di evacuare gli arabi. In altri casi, come a Nazareth, proibì l'espulsione. Ma non c'è dubbio che, come la maggior parte dei suoi ministri, Ben Gurion vide l'esodo degli arabi come un grande miracolo, uno dei più importanti in quell'anno dei miracoli, poiché la presenza di una popolazione ostile del quaranta per cento della popolazione totale nel nuovo stato non era di buon auspicio per il futuro".
   "David Ben Gurion divenne il leader della sua nazione in un periodo di traumi senza pari", scrive Anita Shapira. "La sua leadership paternalistica ha dato un senso di sicurezza e di direzione a una nazione che si trovano nella più grave crisi della sua storia, dopo la distruzione dell'ebraismo europeo. Israele non sarebbe stato creato se non fosse stato per Ben Gurion".
   E' la grandezza di quel piccolo polacco che amava circondarsi di libri, ma che si è sempre considerato soprattutto come un qualsiasi "haver" (compagno) del kibbutz. Lo statista addetto alla stalla degli agnelli.

(Il Foglio, 11 aprile 2015)


Ricercatori israeliani fanno ricrescere le cellule del cuore

Un team composto da ricercatori israeliani e australiani ha compiuto un rivoluzionario passo in avanti verso la riparazione e la rigenerazione del tessuto cardiaco.
I test, guidati da Gabriele D'Uva del Weizmann Institute in collaborazione con la Victor Cardiac Reasearch Institute di Sidney, sono riusciti a stimolare la crescita delle cellule del muscolo cardiaco nei topi.
La guarigione delle cellule cardiache negli esseri umani è generalmente molto complessa e spesso complica il recupero dei pazienti colpiti da attacco di cuore o da altre patologie cardiache.
   Il sogno è che saremo in grado di rigenerare il tessuto cardiaco danneggiato. Il sistema è molto simile al
   processo di ricrescita dell'arto che attua la salamandra, se attaccata da un predatore.
A differenza di capelli, sangue o pelle, le cellule cardiache smettono di crescere una settimana dopo la nascita; questo impedisce la naturale riparazione dei tessuti danneggiati.
I ricercatori hanno scoperto che manipolando un ormone chiamato neuregulina, è possibile permettere alle cellule cardiache di dividersi, portando alla rigenerazione delle stesse.
   Questo significativo risultato potrà essere sfruttato nei laboratori di ricerca di tutto il mondo e ci sarà
   molta più attenzione su come poter massimizzare la manipolazione della neuregulina.
Questo metodo ha ottenuto ottimi risultati sia nei cuori di topi adulti sia in quelli di topi adolescenti, rendendo il loro muscolo cardiaco quasi come nuovo.
Per poter sapere se questo metodo sia adattabile anche sui cuori umani, occorrerà attendere almeno altri cinque anni di ulteriori studi.

(SiliconWadi, 10 aprile 2015)


Diario dall'Olocausto: Yad Vashem cerca gli ebrei reclusi in un campo in Cecoslovacchia

 
Lo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, chiede un aiuto tutto particolare a tutto il mondo per riuscire a rintracciare alcune persone citate in un diario tenuto da Regina Honigman in condizioni drammaticamente particolari.
Parliamo di un'ebrea costretta al lavoro forzato in una fabbrica del campo di concentramento di Gabersdorf, in Cecoslovacchia. Uno dei tanti luoghi di sofferenza e di sterminio che costituivano l'efferata rete di sfruttamento fino alla morte dei veri e propri schiavi reclusi nel sistema concentrazionario del tetro Terzo Reich.
Qui, per quasi cinque anni, Regina Honigman fu costretta a produrre filo di lino lavorando duramente dalla mattina alla sera.
Nel suo diario, probabilmente diventato l'unica fonte di conforto, oltre al resoconto delle proprie giornate, la donna ha trascritto tanti nomi dei compagni di prigionia. Un triste elenco intercalato da autografi e da poesie.
Regina era originaria di Zawierce, in Polonia. Si ritrovò nel campo cecoslovacco in seguito ad un decreto dei nazisti occupanti in base al quale ogni famiglia ebrea della sua città doveva inviare un proprio componente al lavoro forzato.
Forse è stato solo grazie a questo se lei è sopravvissuta assieme ad un fratello. A differenza dei genitori e delle sorelle scomparsi ad Auschwitz.
Regina ha continuato a riempire il suo diario anche dopo la liberazione quando è finita, prima, in un campo di sfollati e poi in Australia dove si trasferì con il marito conosciuto durante la prigionia.
Deceduta nel 1992, il suo diario fu donato dalle figlie allo Yad Vashem nel 2005 che adesso si è messo alla ricerca di informazioni sulle altre persone che hanno vissuto con Regina i tragici tempi dell'Olocausto. Con la speranza, forse, che alcuni di loro possano essere ancora vivi o con dei parenti in grado di farsi vivi e commemorare la memoria delle vittime della cieca violenza nazista.
Di seguito l'elenco dei nomi citati nel diario di Regina e le località polacche da cui provenivano, se presenti:
Hanka Apelbaum (Sosnowitz)
Rusia Ajnveder (Bendsburg)
Rozia Berliner (Sosnowitz)
Adela Birenstok
Helga Blumenfeld
Marie Blusztajn
Jacka Butnik (Jaworzno)
Hela Cymbler
Gusta Feiler (Oswiecim)
Lotti Finger (Jaworzno)
Ruth Frichler (Skoczow)
Cyla Friedman
Karola Garnicowna
Hanny Goldfaden
Mania Goldszmidt
Hela Golenzer (Sosnowiec)
Pola Golenzer (Sosnowiec)
Sala Grossman
Henia Haliciewicz
Behirah Hocherman (Sosnowiec)
Estera Holand

Zosia Joachimowicz (Jaworzna)
R. Kleinfeldowna (Warthenau)
Bela Kuchman
Genia Lewkowicz (Bendsburg)
Maryla Lollman
Regina Manesbaum (Sosnowicz)
Ruzia Merik (Sosnowitz)
Fela Niciarz (Zawiercie)
Regina Perlgricht
Mania Pariser
Rozia Reich (Jaworzno)
Lola Schon
Guta S 'Mici Spilman (Bendsburg)
Pola Szapiro
Jadzia Sztainfeld
Rozia Sztirlberg
Hania Tombak(owna)
Gienia Wajnglik
Edzia Wislicka
Jochke Wasserberger (Auschwitz)
Irka Wolnerm
Bronislawa Zagorska (Jaworzno)


(Ultima Edizione.eu, 10 aprile 2015)


Un ponte ecologico per l'Ariel Sharon Park di Tel-Aviv

 
I container, negli ultimi anni hanno assunto grande popolarità per quanto riguarda la bioarchitettura e il riciclo. Dopo essere stati utilizzati come case ad impatto zero o comode case mobili, in Israele sarà costruito un eco-ponte composto appunto da container riciclati.
Il progetto, ideato dagli architetti dello Yoav Messer Architects, ha vinto il primo premio nell'ambito di una gara di progettazione, l'Ariel Sharon Park Competition. L'opera, proprio per l'innovativa idea di riciclare le attrezzature per i trasporti, in modo da formare un ponte sostenibile e coperto, costituirà l'ingresso principale dell 'Ariel Sharon National Park a Tel-Aviv.
Per un totale di 160 metri, il ponte sarà il collegamento fra la Lod Road, che parte dalla zona orientale di Tel Aviv al villaggio Bnei Atarot, con l'Hiriya Mountain Park. Questo parco, opera dell'architetto tedesco Peter Latz, ha trasformato una discarica dismessa nel 1998 in uno spazio verde energeticamente autonomo, che grazie all'energia dei rifiuti sepolti riesce a produrre l'elettricità necessaria all'illuminazione e agli impianti. Il ponte di container sarà la passerella di ingresso al parco ecologico e si snoderà attraverso un percorso leggermente in salita attraversando due piccoli corsi d'acqua; lo potranno attraversare i pedoni, i ciclisti e degli speciali veicoli che faranno da navetta per il trasporto pubblico.
Saranno utilizzati 29 container dismessi dal commercio marino a gruppi di 4 o da 6, intervallati da moduli orientati in senso opposto che vanno a formare le terrazze. Inoltre vi sarà un sistema di schermi adibito ad informare i visitatori delle caratteristiche del parco, dei progetti e degli eventi previsti.
I container poggeranno su quattro sostegni formati da quattro pilastri d'acciaio. Inoltre, questo eco ponte sarà costruito in cantiere così da ridurre al minimo l'impatto ambientale e la modularità degli elementi permetterà la sostituzione di eventuali parti danneggiate avvenga in tempi brevissimi. Anche la pavimentazione del ponte sarà ecosostenibile, sarà infatti in legno, così da integrarsi perfettamente in un contesto totalmente sostenibile.

(serramenti pavanello, 9 aprile 2015)


L'ISIS nel campo di Yarmouk e le divisioni tra i palestinesi in Siria

Ban Ki-moon: Il campo profughi di Yarmouk è il cerchio più profondo dell'inferno.

I combattenti dell'ISIS sono a poche miglia di distanza dal palazzo presidenziale di Bashar al-Assad in Siria dopo aver preso il controllo, in coordinamento con il Fronte al-Nusra, ramo di al-Qaeda in Sira, di una parte del campo profughi di Yarmouk a Damasco, dove circa 18.000 persone sono intrappolate in quella che l'ONU definisce una situazione "più che disumana". Una situazione assolutamente orribile per i civili che sono intrappolati nella zona di guerra, incastrati tra ISIS, al-Qaeda, Hamas, e Assad che sono tutti, in un modo o nell'altro, in lotta tra di loro. Forse il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon aveva ragione quando ha definito il campo "il cerchio più profondo dell'inferno."
   Come spiega Alessandro Aramu su Spondasud.it, "dentro il campo, da sempre, c'è Al- Nusra, braccio siriano di Al-Qaeda. E ci sono altre sigle vicine o promanazione di alcune fazioni palestinesi anti Assad. Quei gruppi, in combutta con l'Esercito Siriano Libero, hano tenuto sotto scacco il campo di Al-Yarmouk in tutti questi anni, impedendo l'ingresso degli aiuti umanitari, spesso spartendoseli o vendendoli al mercato nero, taglieggiando la popolazione e riducendola in una sorta di schiavitù a cielo aperto.
   Quelle fazioni hanno lavorato con i gruppi ribelli, in primis l'Esercito Siriano Libero, in quei quartieri, limitrofi al campo, dai quali sono entrati proprio i mercenari di Daesh. Tra questi mercenari-terroristi ci sono anche molti palestinesi cresciuti nel campo che hanno deciso di cambiare casacca (che importa dopo tutto essere di Al - Nusra, di Daesh o di una fazione in armi) solo per qualche centinaio di dollari. I documenti dei terroristi rimasti sul campo non mentono: i palestinesi dentro il campo non sono tutti uguali, non sono tutte vittime. ... Palestinesi contro palestinesi. La storia del campo profughi è tutta qui".
   "Prima della guerra", prosegue Aramu, "circa 500.000 palestinesi vivevano in Siria, per lo più discendenti di coloro che sono rifugiati dopo la creazione di Israele nel 1948. La Siria baathista di Assad è sempre stata sostenitrice della causa palestinese e ha sempre finanziato diverse fazioni. La rivolta ha messo in luce, come dimostra la vicenda di Al-Yarmouk, le divisioni tra i palestinesi in Siria. Molti si sono uniti al campo anti-Assad, come gli islamisti palestinesi di Hamas che dal 2012 hanno deciso di chiudere la loro sede a Damasco".
   Ora, come spiega Aramu, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che guida la controffensiva contro i jihadisti insieme ai comitati palestinese di resistenza popolare, ha invitato il movimento Hamas a prendere una "posizione non ambigua" riguardo a quanto accade nel campo profughi.
   Per allontanare i jihadisti dello Stato Islamico dal campo profughi, "quattordici fazioni palestinesi si sono dette infatti favorevoli a un'operazione militare congiunta con il governo di Damasco".
   "Malgrado le notizie di stampa", conclude Aramu, "che prendono come unica fonte il fantomatico Osservatorio Siriano per i diritti, finta ONG con sede a Londra, al soldo di Turchia, Arabia Saudita e Qatar, la notizia dei barili bombe lanciate dall'aviazione siriana sul campo è del tutto falsa. L'Esercito di Assad non sta effettuando alcuna operazione militare aerea e tanto meno utilizza armi di fabbricazione artigianale come dei barili pieni di schegge e chiodi".

(L'AntiDiplomatico, 10 aprile 2015)


L'angelo dell'Eterno le disse ancora: "Ecco, tu sei incinta, e partorirai un figlio, al quale porrai nome Ismaele, perché l'Eterno t'ha ascoltata nella tua afflizione; esso sarà tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui; e abiterà in faccia a tutti i suoi fratelli". (Genesi 16:11-12)


Startup, l'Italia guarda a Israele

L'ambasciatore Gilon al vertice dei Giovani Imprenditori di Confindustria. Si punta a rinsaldare la collaborazione fra gli industriali italiani e la più grande Startup Nation. A giugno una delegazione di imprese toscane in visita in Israele.

di M.F.

Naor Gilon                                                            Marco Gay
Puntare sull'innovazione per cavalcare le opportunità di crescita. Accende i riflettori sull'innovazione l'Ambasciatore israeliano Naor Gilon, in occasione del vertice dei Giovani Imprenditori di Confindustria a Firenze. "Israele e i Paesi vicini sono geografie importanti per le imprese, ma ancora poco conosciute", ha detto il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Marco Gay riferendosi in particolare alle imprese toscane.
   Israele, ha ricordato l'ambasciatore, nel 2014 si è confermato come il Paese con il più alto numero di nuove imprese. Un "modello" dunque da seguire soprattutto per i neo-imprenditori. La presenza dell'ambasciatore all'evento di Firenze punta a rinsaldare la collaborazione tra gli industriali italiani e la più grande "Start up Nation". I Giovani Imprenditori stanno portando avanti diversi progetti per incentivare in Italia la nascita di nuova imprenditorialità, "opportunità di occupazione e di crescita per tutti, e di sviluppo innovativo anche per le imprese tradizionali", ha detto Gay. Prossimo tassello della collaborazione, ha annunciato il presidente dei giovani industriali, la visita imprenditoriale in Israele che, con il sostegno di Sace, in programma per il mese di giugno. "Il nostro obiettivo è conoscere noi l'ecosistema delle startup israeliane per replicarne i modelli di successo e far conoscere alle controparti israeliane l'eccellenza innovativa delle nostre imprese".
   Da parte sua l'ambasciatore di Israele in un'intervista a Corcom ha sottolineato la fitta collaborazione con l'Italia in materia di innovazione: "Stiamo portando avanti una serie di progetti, fra i quali anche alcune iniziative legate al sostegno alle startup innovative. Le similitudini fra Italia e Israele sono molte di più di quanto non si pensi e di sicuro sono maggiori di quelle fra Israele e Stati Uniti: il pil pro-capite ad esempio è simile ed i capitali da investire non sono di certo ingenti come quelli americani. La differenza è che Israele crede molto nei giovani, li sostiene anche con finanziamenti e fondi appositi e che il sistema della formazione deve di fatto autosostentarsi poiché solo il 50% delle risorse proviene dallo Stato, per il resto è necessario reperire fondi all'esterno e per farlo non si può che puntare su iniziative innovative. Ad esempio sono molte le aziende nate come spin off universitari che hanno ideato progetti che oggi valgono miliardi di dollari".

(Corriere delle Comunicazioni, 10 aprile 2015)


I palestinesi filo SS cacciano gli ebrei dal 25 Aprile

Non vogliono in piazza i partigiani della Brigata ebraica, ma scordano che nel 1933 il gran muftì al-Husseini tifava Hitler.

di Giuseppe Pollicelli

Dal 1946, quando la ricorrenza fu istituita dal principe Umberto II su proposta dell'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, si assiste a una disdicevole gara per accaparrarsi l'esclusiva della Festa della Liberazione. Si tratta ormai di un punto fermo della vita sociale italiana che ogni anno, in prossimità del 25 aprile, si ripresenta inesorabile, riducendo a livoroso teatrino da bassa politica un evento che, invece, dovrebbe dignitosamente celebrare uno dei momenti cruciali della storia del nostro Paese: la definitiva sconfitta - di cui nel 2015 cade il settantesimo anniversario - delle truppe nazifasciste. A rivendicare il monopolio del 25 aprile (una rivendicazione che riflette la pretesa - peraltro a lungo soddisfatta - di egemonizzare la memoria della Resistenza) è, da sempre, la sinistra. Soprattutto, ovviamente, quella più estrema. La quale, da qualche tempo in qua, conta nelle sue file alcuni tra i più strenui nemici di Israele e, in generale, del mondo ebraico, in primo luogo i sostenitori «senza se e senza ma» della causa palestinese.

 Ripicche anticipate
  Se dunque, in occasione dei festeggiamenti dello scorso anno, si registrarono forti tensioni tra gruppi filopalestinesi supportati da esponenti dei centri sociali ed elementi della comunità ebraica romana (non degenerate in scontri solo grazie al costante monitoraggio delle forze dell' ordine), stavolta ripicche e incomprensioni hanno preceduto di diversi giorni lo svolgimento della manifestazione. Nel momento in cui scriviamo, sia la Brigata ebraica sia l'Aned (Associazione Nazionale degli ex Deportati) non hanno fatto marcia indietro rispetto al proposito di non prendere parte alle celebrazioni del prossimo 25 aprile, limitandosi a dichiarare la propria disponibilità esclusivamente nel caso in cui in piazza non vengano portate bandiere palestinesi. Potrebbe apparire un'uscita immotivata e arrogante, ma in realtà è soltanto una reazione innescata da richieste, esse sì proterve, avanzate in precedenza da alcune organizzazioni pro Palestina. Queste ultime, come ha chiarito il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, «pretenderebbero che il 25 aprile non vi sia il simbolo della Brigata ebraica, che liberò l'Italia dal nazifascismo insieme alle truppe alleate e ai partigiani».
  Pacifici era stato preceduto da un comunicato dell'Aned in cui si denuncia che durante una riunione svoltasi il 30 marzo «le minacce e gli insulti hanno prevalso e hanno evidenziato gli stessi inaccettabili presupposti che, nelle passate edizioni, hanno dato luogo a veri e propri episodi di intolleranza».

(Libero, 10 aprile 2015)


Sette giornalisti israeliani in Emilia Romagna alla scoperta dei suoi "mille" tesori turistici

Dal 12 al 16 aprile sette reporter provenienti da Israele parteciperanno ad un educational tour promosso da Apt Servizi assieme al tour operator Arkia - L'iniziativa promozionale è a sostegno della destinazione Emilia Romagna e del nuovo volo settimanale Tel Aviv-Bologna attivo, ogni martedì, dal 16 giugno al 6 ottobre - Bologna, Ferrara, Rimini e Modenese tra le tappe dell'eductour.

 
BOLOGNA - Sette giornalisti provenienti da Israele parteciperanno, dal 12 al 16 aprile, a un educational tour promosso da Apt Servizi assieme al tour operator israeliano Arkia. L'iniziativa promozionale, a sostegno della destinazione Emilia Romagna, presenterà anche il nuovo collegamento settimanale Tel Aviv-Bologna - primo volo turistico diretto da Israele all'Emilia Romagna - che sarà attivo, ogni martedì, dal 16 giugno al 6 ottobre.
   Arkia, nato nel 1950 come compagnia aerea interna per collegare Eilat al nord di Israele, ha ampliato nel tempo le attività agendo da tour operator sia sul mercato domestico che all'estero.
   I sette giornalisti protagonisti dell'eductour scrivono per i tre più popolari portali di notizie online in Israele (Ynet, Mako, Walla); il più importante portale di notizie di viaggi e turismo (Lametayel); il diffuso free-press (Israel Hayom, 275mila copie di tiratura giornaliera e 400mila nel week end); il popolare settimanale femminile e per la famiglia (Laisha, 200mila copie di tiratura). Nel gruppo è presente anche una reporter che scrive per il quotidiano economico Globes e gestisce due siti web di viaggi, fashion, enogastronomia, stili di vita (www.hagitevron.com e www.saloona.co.il) seguiti da un milione di persone.
   La collaborazione con il tour operator Arkia fa parte della campagna promozionale "Emilia Romagna" nel mercato israeliano e prevede, fino a luglio, diverse azioni: da banner sull'offerta turistica regionale sul sito Internet Arkia a newsletter ai suoi clienti; dalla realizzazione di un mini-sito Internet dedicato alla regione e attivo per sei settimane alla proiezione del video "Emilia Romagna terra con l'anima e il sorriso" a bordo degli aerei Arkia, a seminari e presentazioni "Emilia Romagna" ad agenti di viaggio, a pubblicità sulla stampa israeliana.
   Il nuovo volo settimanale Tel Aviv-Bologna ha spinto altri tour operator ad interessarsi all'Emilia Romagna come dimostrano le proposte di Tamuz, operatore specializzato in viaggi in Italia, che ha inserito la regione tra le nuove destinazioni 2015.
   I pacchetti-vacanza messi a punto dai tour operator israeliani si rivolgono a famiglie con bambini (con soggiorni di un settimana sulla costa con l'accesso ai parchi divertimento e l'opportunità di escursioni) oppure a coppie con offerte settimanali (o per week end) a tema enogastronomia, Motor Valley, città d'arte.
   La visita dei reporter israeliani, che arriveranno a Bologna domenica sera 12 aprile, inizierà lunedì 13 aprile con un tour guidato del centro storico di Bologna seguita da una lezione di cucina e il pranzo presso "Il Salotto di Penelope". Nel pomeriggio il gruppo raggiungerà prima Maranello, per la visita al Museo Ferrari, poi Modena per la sosta alla collezione d'auto d'epoca "Umberto Panini" (dove sono esposti diversi modelli di auto e moto d'epoca tra cui la prestigiosa collezione Maserati) che si trova all'interno dell'azienda agricola "Hombre" dove si produce Parmigiano-Reggiano Dop. La giornata terminerà con la sosta, a Sorbara, in un'Acetaia di produzione di Aceto Balsamico Tradizionale Dop. La mattinata di martedì 14 aprile sarà tutta dedicata alla visita di Ferrara con le sue bellezze Unesco prima del trasferimento a Rimini dove, nel pomeriggio, è previsto un tour del centro storico. L'offerta dei parchi tematici regionali sarà al centro, mercoledì 15 aprile, del programma della visita dei reporter israeliani con tappe a Oltremare di Riccione e Mirabilandia a Ravenna e la giornata terminerà con la sosta al Fidenza Village (uno dei punti di eccellenza dello shopping in Emilia Romagna) prima di raggiungere, nel piacentino, Castell'Arquato per la cena e il pernottamento. Il giorno dopo, giovedì 16 aprile, i giornalisti faranno ritorno in Israele con un volo in partenza da Milano Malpensa.
   L'offerta turistica dell'Emilia Romagna è stata già al centro dell'interesse dei media israeliani anche pochi giorni fa. Dal 28 al 30 marzo il noto chef Yisrael Aharoni è stato in regione con una troupe del suo programma tv "Street Food" per realizzare un reportage sulla gastronomia tipica e il cibo di strada emiliano romagnolo. Il servizio andrà in onda all'inizio del 2016 sul Canale 10, uno dei due più importanti e seguiti in Israele.
Ufficio Stampa Apt Servizi - Tel. 0541-430.190 - www.aptservizi.com

(informazione.it, 10 aprile 2015)



Comunisti e nazisti uguali? Significa dimenticare la Shoah

Una legge ucraina mette al bando entrambi i totalitarismi. E in teoria ha senso. Ma gli ebrei hanno ragione a contestare la specificità del genocidio hitleriano.

di Fiamma Nirenstein.

Si aggiunge alla biblioteca di brucianti discussioni, alle ferite ancora aperte lasciate dalla storia del secolo passato un'urticante legge ucraina votata ieri e la risposta molto irritata del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. Il suo direttore Efraim Zuroff ha ricevuto con sdegno un provvedimento di legge approvato a larga maggioranza (254 parlamentari della Rada sui 307 presenti) dal parlamento ucraino e che compara per legge comunismo e nazismo, mettendo la memoria di ambedue fuorilegge allo stesso modo. Efraim Zuroff ha definito la decisione «oltraggiosa... una grande bugia che trasforma i carnefici in vittime». Zuroff dice che «la decisione del Parlamento cerca di deviare l'attenzione dei crimini dell'Ucraina durante la Shoah ed equipara falsamente nazismo e comunismo» e aggiunge che l'Ucraina è solo l'ultima delle ex repubbliche sovietiche post comuniste che ha fatto passare una simile legislatura. Zuroff ha ragione o torto? Ambedue le cose, si potrebbe dire. Ha ragione quando vuole mettere in evidenza l'interesse immediato dell'Ucraina a mettere sotto accusa il regime comunista sovietico, è chiaro che vi è un'eco della situazione attuale quando si ricorda che l'orso russo ha dominato l'Ucraina dal 1917 al 1991 e che «quel regime è riconosciuto come criminale e accusato di aver promosso una politica del terrore statale», così dice la legge. È giusto ricordare che c'è un'atroce specificità nel fatto che il nazismo ha perpetrato l'Olocausto: rispetto a sei milioni di persone sterminate per motivi biologici dai carnefici alla ricerca di una razza pura, non ci può essere niente di più orrido. È anche vero, anzi verissimo, che gli ucraini furono volenterosi carnefici di Hitler pur soffrendone l'invasione, a Babi Yar, una delle più spaventose stragi naziste, la polizia ausiliaria ucraina fece la sua parte. Gli ebrei uccisi in Ucraina sfiorano il milione. L'antisemitismo ucraino è leggendario, ed è tuttora vivo.
  Tuttavia, dal punto di vista generale la comparazione fra i due regimi totalitari e assassini più importanti del Ventesimo secolo non è illeggitima. La sofferenza che ambedue hanno inferto al mondo è immensa, il numero dei morti fatti anche dai russi è pazzesco: Stephane Courteois, autore del Libro Nero del Comunismo valuta che i comunismi nel mondo abbiano fatto 100 milioni di morti. Difficile valutare se i numeri siano attendibili, certo il terreno coperto dal comunismo è immenso, basta pensare all'estensione e la ferocia della Cina. Ora, l'orrore ideologico del nazismo, pieno di idee di dominio razziale, di miti ariani, non è comparabile al pensiero originario del comunismo che cercava, però proponendo di fatto il dominio di un gruppo criminale, l'uguaglianza sociale. Un tratto specifico del mondo sovietico fu quello del completo sterminio di tutta la sua classe dirigente. Chiunque non fosse d'accordo veniva deportato o fatto fuori. È probabile che con la legge votata ieri il parlamento ucraino abbia anche voluto vendicare in parte la strage comunista negli anni 30 di contadini, 5 milioni, solo perchè possedevano qualche mucca o un paio d'ettari in più. Donne e bambini rinchiusi in zone ormai deprivate di qualsiasi cibo o bevanda, una delle più spietate stragi di innocenti, oltretutto perdurante nel tempo, le rare immaginini recano, sì, i campi di sterminio. Insomma stalinismo e nazismo si sono somigliati, annusati, persino alleati. Lo storico Nolte ha sostenuto che il nazismo è nato come conseguenza e sul modello sovietico. Quello che più influenza il pensiero moderno, tuttavia, è il concetto di «totalitarismo» che, elaborato da Hanna Arendt, porta fino alla dichiarazione di Praga di Vaclav Havel e al giorno della memoria delle vittime del nazismo e del comunismo che l'Ue celebra insieme. Giusto? Sbagliato? Ne parleremo fino al secolo prossimo.

(il Giornale, 10 aprile 2015)


Ecco il Trofeo Sparafucile. Ci sarà anche Israele

Canoa: otto nazioni sabato e domenica si sfideranno sul lago Inferiore Florio cerca il pass per gli Europei. Lega e Mincio in acqua con 5 atleti a testa.

di
Nicola Artoni

MANTOVA - Otto nazioni, oltre mille atleti e un campo gara che ancora una volta si conferma di assoluta eccellenza. Tutto pronto per il 16o "Trofeo Sparafucile" di sabato e domenica a Mantova sulle sponde del lago Inferiore. La manifestazione ormai non è più una novità e si conosce fin nei minimi dettagli la perfetta organizzazione che la Lega Navale, in partnership con Fick, Comune di Mantova e con il main sponsor Ies (rappresentata dal dottor Fausto Ponti), è in grado di mettere in campo.
«Ci attendono due giorni di grande sport - ha detto l'assessore Enzo Tonghini alla presentazione in Comune - , con il trofeo che come sempre porta con sé numeri importanti. Già da domenica scorsa la nazionale italiana è presente a Mantova per allenarsi, in vista anche delle prossime manifestazioni internazionali». Saranno presenti più di mille atleti (Senior e Junior per il trofeo, Ragazzi per una gara indicativa), dei quali circa 150 saranno stranieri. Otto come detto le nazioni rappresentate con l'Italia che se la vedrà con Croazia, Slovenia, Polonia, Finlandia, Austria, Romania e la new entry Israele, che per la prima volta porta alcuni suoi atleti a Mantova. «Si tratta di una gara di primissimo livello internazionale - spiega con orgoglio Luciano Battù, presidente della Lega Navale di Mantova - che fungerà da selezione in vista degli Europei in Repubblica Ceca, dei Mondiali di Milano e anche delle Olimpiadi di Rio. Un grazie va a tutti i collaboratori e i volontari, senza i quali non saremmo riusciti a fare nulla. Nonostante le difficoltà, in termini di materiale umano e di risorse finanziarie, il Trofeo non si ferma. Il Campo canoa si conferma centro federale di enorme levatura, un vero fiore all'occhiello per la città nel quale sempre più spesso si allenano anche squadre straniere». A conferma di tutto ciò le parole di Piero Congiu, rappresentante Fick e allenatore della Lega Navale: «La nazionale dell'Uzbekistan ha fatto richiesta ufficiale per preparare a Mantova i Mondiali di agosto. Naturalmente anche l'Italia si allenerà qui. Dopo il Trofeo, i selezionati per gli Europei si fermeranno in città per preparare la rassegna continentale e gli azzurri torneranno poi in estate in vista di quella mondiale».
E si spera ci possa essere anche il nostro Matteo Florio tra i selezionati. Di certo il mantovano farà di tutto per meritarsi una convocazione e l'unica strada è quella della vittoria allo "Sparafucile". Mantova schiererà due squadre, vale a dire Canottieri Mincio e Lega Navale, che manderanno in acqua cinque atleti a testa comprendendo anche Junior e Ragazzi.
Il via alle gare sabato alle 8.30. Dalle 15 batterie e semifinali. Domenica le finali. Gli uomini gareggeranno su 200 e 1000 metri nel K1, K2, C1 e C2 mentre le donne si daranno battaglia su 200 e 500 metri nel K1, K2 e C1.

(Gazzetta di Mantova, 9 aprile 2015)


Quattro miti da sfatare sull'accordo sul nucleare iraniano

L'unico impegno preso dalle parti è la promessa di cercare di firmare qualcosa entro il 30 giugno.

di Crimson Alter

I negoziati sul programma nucleare iraniano tenutisi la scorsa settimana a Losanna e il conseguente piano d'azione congiunto, hanno avuto una tale copertura mediatica che abbiamo voluto capire cosa sia esattamente accaduto in quella tranquilla località turistica svizzera?

 1.mo equivoco: la comunità internazionale e l'Iran hanno raggiunto un accordo.
  Realtà: Non vi è alcun trattato. Sì, c'è una "comprensione", ma vaga (il che significa che non c'è nemmeno un memorandum d'intesa). Il testo del preambolo è affascinante: ("importanti dettagli sull'implementazione sono ancora oggetto di trattative, e non c'è trattato senza accordo su tutto"). Non c'è alcuna reale necessità di leggere altri paragrafi, dato che potrebbero tutti cambiare non essendoci accordi finché su tutto non c'è "accordo", e alcuno di questi punti è vincolante, in ogni caso. L'unico impegno preso dalle parti è la promessa di traccheggiare e cercare di combinare qualcosa di serio che possa essere firmato entro il 30 giugno. Di qui la domanda, quel è lo scopo di tale inutile cartaccia? Beh, dare a Obama e ai diplomatici iraniani la possibilità di annunciare una storica vittoria ed evitare la vergogna di ammettere che i negoziati, su cui sono state riposte grandi speranze, erano effettivamente finiti nel nulla. Finché si esce con tale documento, possono sempre accusarsi a vicenda per la rottura di qualsiasi accordo. È una pratica comune.

 2.ndo equivoco: Obama firmerebbe un accordo a lungo termine con Teheran che porrà fine alla crisi con
  l'Iran.
  Realtà: Il massimo che Obama può fare è firmare un accordo che sarà valido fino alla sua permanenza in carica. La maggior parte dei repubblicani al Senato (e il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà quasi certamente un repubblicano) ha recentemente inviato una lettera ufficiale al governo di Teheran offrendo ai leader iraniani un quadro chiaro dell'opinione dei senatori su qualsiasi possibile trattato con il Paese. Nella migliore delle ipotesi, un futuro accordo con l'Iran fornirà una parvenza di stabilità per non più di 18 mesi. Va inoltre tenuto presente che il Senato farà tutto il possibile per silurarlo e i senatori democratici sovversivi contrariati da qualsiasi accordo, gli daranno una mano. L'American Israel Public Affairs Committee è contro il trattato, e l'AIPAC è la più potente organizzazione di lobbying negli Stati Uniti, dalla grande influenza su Camera e Senato così come sull'amministrazione del presidente degli Stati Uniti. E mentre Obama non ha essenzialmente nulla da perdere, molti membri del suo partito sono piuttosto restii ad arruffare le penne con l'AIPAC e quindi dire addio alla carriera politica. Per inciso, negli USA si crede che il partito favorito dall'AIPAC arrivi alla Casa Bianca. Così, anche i democratici hanno un forte motivo nell'affondare qualsiasi accordo con l'Iran, evitando che un repubblicano arrivi allo Studio Ovale. Lo speaker repubblicano della Camera John Boehner ha promesso di "chiedere conto" ad Obama, affermando: "Nelle prossime settimane, repubblicani e democratici al Congresso continueranno a porre all'amministrazione dettagli sui parametri e domande difficili rimaste inevase".

 3.zo equivoco: l'accordo tra Stati Uniti e Iran porterà la pace nella regione.
  Realtà: la reazione iniziale del primo ministro israeliano Netanyahu sull'esito dei colloqui a Losanna è stata una telefonata di tre ore con Obama, durante cui il presidente statunitense ha cercato di tranquillizzare il premier furioso per l'"errore storico". Almeno così la stampa israeliana descrive la situazione. Quindi, Netanyahu decideva di convocare una riunione d'emergenza del Consiglio di sicurezza nazionale sottolineando che l'accordo con l'Iran è una "minaccia esistenziale" al suo Paese. Cerchiamo di riflettere su ciò che i leader militari e politici d'Israele avrebbero discusso nella riunione del Consiglio di Sicurezza. Possibili risposte:
  1. Un piano di reinsediamento degli ebrei in Argentina, Crimea o Polo Sud. Non importa, solo un posto lontano dall'Iran e dalla sua bomba.
  2. Un piano per l'attacco preventivo all'Iran, ammesso che non riescano a far fallire i negoziati successivi.
Probabilmente l'opzione B è stata discussa, con particolare attenzione sul possibile coinvolgimento dell'Arabia Saudita, che s'è creata un perfetto casus belli, vale a dire il sostegno dell'Iran ai ribelli sciiti nello Yemen, minacciando le province sciite dell'Arabia Saudita. C'erano grandi speranze sui colloqui di Losanna, ma la pace nella regione sembra molto lontana. Le contraddizioni radicali nel triangolo Tel Aviv - Riyadh - Tehran alla fine esploderanno.

 4.to equivoco: la fine delle sanzioni all'Iran ridurrà il prezzo del petrolio
  Realtà: Per nulla. Il governo iraniano e alcuni analisti occidentali ritengono che la fine delle sanzioni immetterà un milione di barili di petrolio sul mercato al giorno, ma è una valutazione eccessivamente ottimistica. In un'intervista alla CNBC, l'amministratore delegato di JBC Energy, Johannes Benigni, ha affermato che, un anno dopo l'ipotetica firma del trattato di pace e la revoca delle sanzioni all'Iran, realisticamente ci sarebbe "ulteriore petrolio iraniano nel mercato, alla fine, per soli 300000 barili al giorno". Questo sarà importante per il tesoro iraniano, ma non avrà un impatto cruciale sul mercato globale. L'Iran non uscirà dalle sanzioni, ma venderà il petrolio eludendo l'ingiunzione, come vendere petrolio sui mercati asiatici come "prodotti trasformati". La revoca delle sanzioni, ancora lontana e del tutto teorica, si limita a facilitare l'Iran nel commercio e ed aumentare leggermente le vendite di petrolio all'Europa. La reazione iniziale del mercato petrolifero alla notizia del risultato dei negoziati offre l'ipotetica conferma di tale conclusione. Il Brent venduto per giugno è negoziato a circa 56,09 dollari al barile a Londra, e il panico non s'è visto nelle vendite. Inoltre, il mercato viene definito "contango", cioè il prezzo dei futures è attualmente superiore al prezzo atteso. Ad esempio, il Brent venduto a dicembre veniva scambiato a 60,74 dollari, molto difficile da conciliare con i resoconti dei media in preda al panico per il "crollo" imminente del mercato. In sintesi: non vediamo alcun forte calo del prezzo del petrolio, e anche la risoluzione più ideale del problema iraniano non farà crollare il mercato petrolifero. L'euforia può inaugurare il temporaneo calo dei prezzi, ma semplicemente a lungo termine i prezzi non si ridurranno solo per un trattato con l'Iran.

(L'Antidiplomatico, 9 aprile 2015)


Firenze - Consegnato all'ambasciatore di Israele l'invito per il forum 'Unity in diversity'

Anche il sindaco di Gerusalemme è stato invitato al Forum "Unity in Diversity", il convegno che dal 5 all'8 novembre riunirà a Firenze i primi cittadini di un centinaio di città. L'invito formale è stato consegnato questa mattina dall'assessore alla cooperazione e relazioni internazionali Nicoletta Mantovani direttamente all'ambasciatore di Israele a Roma Naro Gilon. Il diplomatico, fino al 2012 direttore generali degli Affari Europei per Israele, era a Firenze nell'ambito di un convegno sull'innovazione tecnologica in programma all'aeroporto Vespucci.
Il forum, voluto dal sindaco Dario Nardella, si inserisce nel solco avviato cinquanta anni fa dal sindaco La Pira che vedeva nel protagonismo delle città uno strumento prezioso per la costruzione della pace. Il titolo stesso del forum riprende infatti il titolo dell'assemblea sulla pace che il sindaco La Pira aveva pensato ma che non riuscì ad organizzare.
Da parte sua l'ambasciatore ha consegnato all'assessore Mantovani l'invito per il sindaco Nardella a partecipare alla 30esima "conferenza dei sindaci" in programma in Israele dal 18 al 22 ottobre. L'evento, patrocinato dal ministero degli esteri di Israele, quest'anno avrà come tema le "Smart Cities" e si svolgerà nelle principali città del paese.
"È stato un incontro molto positivo - ha commentato l'assessore Mantovani - e l'ambasciatore ha dato la sua disponibilità a collaborare con il Comune per possibili iniziative future". Tra i temi del colloquio l'Expo (in cui Israele ha un grande padiglione accanto a quello italiano) e la partecipazione di una delegazione israeliana al convegno "World Wild Web" in programma il 19 maggio a Firenze.

(gonews.it, 9 aprile 2015)


Enti inutili. L'Aia non vuole processare i criminali di guerra dell'Isis

«Sono siriani e iracheni, non abbiamo giurisdizione», ma dimenticano Jihadi John. Gli stessi giudici hanno aperto un'inchiesta contro Israele .

di Carlo Panella

Ennesima figuraccia del Tribunale Penale Internazionale (Tpi) che ieri ha comunicato di non avere neanche iniziato un'inchiesta sui crimini commessi dal califfato Nero perché «incompetente». Una penosa scusa poggiata su un cavillo giuridico: né Siria, né Iraq hanno sottoscritto lo Statuto del Tribunale Internazionale che quindi ritiene di non avere competenza a giudicare. Però, il Procuratore capo del Tpi Fatou Bensouda ha avuto la bontà di dichiarare che «sta valutando la prospettiva di esercitare giurisdizione personale» sui combattenti stranieri provenienti da Tunisia, Giordania, Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Australia. Lo Statuto del Tpi infatti prevede che possa iniziare un'azione penale non solo contro gli Stati membri, ma anche contro cittadini degli Stati membri che abbìano commesso crimini contro l'umanità. Ma il Procuratore Bensouda ha poi subito relatìvizzato questa prospettiva aggiungendo «il gruppo terroristico Isis è guidato principalmente da cittadini dell'Iraq e della Siria, quindi, in questa fase, la prospettiva del mio ufficio di indagare e perseguire le persone più responsabili appare limitata». Insomma, è lampante che i giudici del Tpi hanno una paura matta, che non hanno nessuna intenzione di esporsi alle ritorsioni degli jihadisti e che accampano tutte le scuse per non fare nulla. Basta pensare al caso lampante dell'autore materiale degli sgozzamenti degli ostaggi, Jihadi John, che in realtà si chiama Mohammed Emwazi, che è cittadino inglese e che quindi è assolutamente incriminabile e giudicabile dal Tpi.
   I suoi crimini efferati sono da mesi sotto gli occhi terrorizzati di tutto il mondo, lui stesso li ha rivendicati. La sua identità è certa, perché è stato identificato tramite le «impronte vocali» e altri sistemi d'indagine dal Servizio Segreto inglese. ll Tpi avrebbe quindi dovuto da mesi chiedere il suo incartamento alle autorità inglesi e procedere rapidamente al giudizio. Così è per un centinaio di jihadisti di nazionalità giordana, tunìsìna e bosniaca (Paesi che hanno firmato lo Statuto del Tpi), i cui crimini sono stati filmati e messi in rete dallo stesso Califfato Nero. Così è anche per le copiose testimonianze di ragazze e ragazzi yazidi e cristiani che sono riusciti a sfuggire ai loro aguzzini colpevoli di stupri, tratta di schiavi, massacri, che hanno filmato e messo in rete queste imprese, di cui, in non pochi casi si conosce il nome e la nazionalità. Ma il Tpi non fa nulla, «valuta», cogita, vedrà. Non fa nulla neanche contro i Boko Haram che seminano massacri in Nigeria, che hanno giurato fedeltà al Califfato Nero, che sono cittadini di uno Stato aderente al Tpi, che hanno commesso crimini orripilanti e documentati, di cui si conoscono capi e leader contro i quali sarebbe facilissimo aprire un procedimento giudiziario. Processi che avrebbero senso anche in assenza di imputati perché potrebbero agire da deterrente nei confronti degli adolescenti europei che, ammaliati da cotante imprese, si recano nei territori controllati dal Califfato nero per seminare morte e terrore. Nulla, il Tpi fa finta che neanche i crimini dei Boko Haram siano di sua competenza e non fa nulla.
   Si può però stare certi che non appena i palestinesi inizieranno a denunciare presso il Tpi militari e politici israeliani che verranno accusati di «crimini contro l'umanità», per avere in realtà difeso Israele dal criminale lancio di missili da Gaza o dagli attentati terroristi e che hanno la doppia nazionalità di uno dei Paesi firmatari del Tpi, le istruttorie e i processi inizieranno alla garibaldina e si avranno scandalose condanne. Indagini preliminari sono già avviate.
   Quest'ultimo episodio conferma dunque non solo l'inutilità, ma addirittura il danno che ha comportato l'assurda fondazione di questo tribunale che illude e mistifica che esista la possibilità di una giustizia internazionale e che invece è solo un costosissimo, inutile baraccone burocratico che arriva ora sino al punto di non espletare il suo compito per palese, ignobile, paura di ritorsioni.

(Libero, 9 aprile 2015)


Poliziotti palestinesi armati contro la criminalità in tre città della Cisgiordania


A seguito di un accordo con Israele, 90 poliziotti palestinesi armati opereranno in alcuni centri della Cisgiordania fino ad oggi di competenza della polizia israeliana, come da un precedente accordo del 1993.
Lo ha reso noto il portavoce della polizia palestinese Louy Izriqat, il quale ha comunicato che "Per la prima volta dei membri della polizia palestinese, in uniforme e armati, sono stati posizionati ad Abu Dis, Al-Ram e Bido", "Questo dispiegamento - ha continuato Izriqat - serve per combattere i criminali ed è il risultato di un coordinamento" con le autorità israeliane.
Un collega della polizia israeliana ha comunicato che "L'obiettivo di questa scelta è quello di affrontare le attività criminali oltre che di mantenere l'ordine nella zona B attorno a Gerusalemme".
Solo un mese fa i palestinesi avevano minacciato le autorità israeliane di rompere il coordinamento fra le rispettive forze di sicurezza, elemento che avrebbe contribuito a rendere ulteriormente fragili gli equilibri in materia delle trattative auspicate dalla comunità internazionale.

(Notizie Geopolitiche, 9 aprile 2015)


Obama getta Israele in pasto al lupo Iran

Lettera al Giornale

Se qualcuno aveva ancora dubbi sulle capacità del santo della sinistra mondiale Barak Obama come presidente Usa, il suo appronamento all'Iran sulla vicenda del nucleare li ha spazzati tutti. Solo un ingenuo può credere che il regime degli ayatollah userà l'atomo solo per usi civili e non per armarsi, ma soprattutto così facendo butta Israele, tradizionale alleato e soprattutto avamposto dell'Occidente in Medio Oriente, in pasto ai lupi. Davvero singolare quest'uomo, capace di sconfessare decenni di politica americana, come ha fatto anche con Cuba, e di fare la voce grossa conPutin, ma poi debole ed inerme con l'islam che attualmente è il vero pericolo per la nostra civiltà. Del resto è un vizio di tutti i Democratici Usa, che prima fanno i danni (il famigerato Vietnam è stata un'idea dell'altra divinità John F.Kennedy e del suo successore Johnson), e poi costringono gli altri a rimettere insieme i cocci prendendo schiaffi dall'opinione pubblica.
Germano Di Bari

(il Giornale, 9 aprile 2015)


Rohani: "Subito via le sanzioni o non firmo". Khamenei: "Intesa di Losanna non vincolante"

Il presidente iraniano ha detto in un discorso televisivo che le misure contro Teheran devono essere tolte il primo giorno di applicazione dell'intesa di Losanna. Ma per gli Stati Uniti la revoca sarà solo graduale. Duro intervento della guida suprema: "Non è garantito accordo finale".

 
La guida suprema iraniana, ayatollah Alì Khamenei
TEHERAN - Apparente battuta d'arresto sulla strada per l'intesa finale, da firmare entro il 30 giugno, sul programma nucleare iraniano. Il presidente Hassan Rohani ha affermato che non sottoscriverà alcun accordo fino a quando tutte le sanzioni internazionali non saranno revocate. Le potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno invece previsto nell'intesa di Losanna di revocare le misure restrittive introdotte nel corso degli anni solo dopo la verifica da parte dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica del rispetto degli impegni assunti dalla Repubblica Islamica. "Non firmeremo alcun accordo se tutte le sanzioni non saranno tolte lo stesso giorno. Vogliamo un accordo che rappresenti una vittoria per tutte le parti coinvolte nei colloqui", ha detto Rohani durante una cerimonia per la giornata nazionale della tecnologia nucleare.
   Subito dopo è intervenuto anche la guida suprema iraniana, l'ayatollah Khamenei: "L'intesa raggiunta a Losanna con le Potenze mondiali sul nucleare iraniano non garantisce il raggiungimento di un accordo definitivo".In un discorso trasmesso in diretta tv, Khamenei ha avvertito che l'intesa raggiunta la settimana scorsa a Losanna "non è vincolante" e saranno importanti i dettagli con cui "le potenze mondiali potrebbero tentare di limitare" Teheran. Khamenei ha avvertito che la Repubblica islamica ha sempre sostenuto che "è meglio non avere un accordo che averne uno cattivo" e si è detto favorevole a negoziati che rispettino "la dignità e l'onore" dell'Iran. Ha specificato comunque che non respinge, ma neppure accetta, l'accordo. Dopo le scene di giubilo in Iran seguite all'intesa di Losanna, la Guida suprema ha invitato i suoi connazionali alla "moderazione" nel reagire a un successo o un fallimento nei negoziati nucleari.
   L'Iran ha sostenuto la tesi dell'immediata revoca delle sanzioni, per voce del ministro degli esteri Javad Zarif e della sua squadra di negoziatori, in vista della firma dell'accordo finale prevista entro il 30 giugno. Nella scheda diffusa dagli Usa dopo l'intesa di Losanna la scorsa settimana si parla invece di "sospensione" delle sanzioni europee e statunitensi solo dopo la verifica dell'Aiea e di possibile ripristino nel caso di inadempienza. Sulla stesse linea si sono espressi sia il presidente Usa Barack Obama, che ha parlato di rimozione graduale e condizionata, che il presidente francese Francois Holland.
La settimana scorsa Teheran e il gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gb e Germania) hanno raggiunto a Losanna un'intesa di massima che dovrebbe impedire all'Iran di sviluppare armi nucleari. In cambio la Repubblica islamica dovrebbe avere accesso ai conti bancari, ai mercati petroliferi e ai fondi bloccati dalle sanzioni internazionali.
   "Il presidente Usa, Barack Obama, ha riconosciuto che il popolo iraniano non si arrenderà a sopraffazioni, sanzioni e minacce" e questo fatto è una "conquista" ottenuta dalla Repubblica islamica in sede di negoziati sul nucleare con le potenze mondiali, ha aggiunto il presidente iraniano nel suo intervento.
   "Il fatto che la prima potenza militare al mondo ammetta questo fatto è un trionfo del nostro paese", ha rimarcato Rohani in un intervento in occasione della Giornata nazionale della tecnologia nucleare, stando a quanto riporta il sito dell'emittente Press Tv. "La nazione iraniana - ha concluso - è stata e sarà la vincitrice dei negoziati".

(la Repubblica, 9 aprile 2015)


Lo zar della nuova Roma

Putin ha usato religione e cultura per costruire il ventennio. La Russia come alternativa cristiana alla decadenza occidentale. Storia di un progetto ideologico.

di Giulio Meotti

Al culmine della Guerra fredda, i conservatori americani erano soliti etichettare l'Unione Sovietica come "l'impero ateo" che sarebbe crollato perché aveva eliminato la religione. Due decenni dopo, è il Cremlino occupato da un ex ufficiale del Kgb e battezzato in segreto a lanciare la stessa accusa di ateismo agli Stati Uniti. "Molti paesi euro-atlantici hanno abbandonato le loro radici, compresi i valori cristiani", ha detto il presidente Vladimir Putin. Ha fatto eco a Putin il patriarca della chiesa ortodossa, Kirill, che oltre ad aver definito Putin "un miracolo divino", ha accusato l'occidente di essere impegnato in un "disarmo spirituale" del popolo russo, criticando le leggi europee che impediscono di portare simboli religiosi in pubblico.
  "La direzione generale delle élite politiche occidentali è anti-cristiana e anti-religiosa", ha continuato il patriarca ortodosso. "Abbiamo vissuto un'epoca di ateismo e sappiamo cosa vuol dire vivere senza Dio". Altre figure all'interno della chiesa moscovita sono andate persino oltre nel criticare l'occidente. L'arciprete Vsevolod Chaplin, addetto culturale della chiesa ortodossa, ha suggerito un paragone fra il moderno occidente e l'Unione Sovietica che giustiziò 200 mila fra sacerdoti e credenti fra il 1917 e il 1937. Migliaia di chiese vennero distrutte e quelle che riuscirono a sopravvivere vennero trasformate in magazzini, garage o musei.
  I primi dieci anni del potere di Putin sono stati pressoché privi di orpelli religiosi. Al Cremlino non si parlava mai di "valori" né si impartivano lezioni di morale all'occidente. I secondi dieci anni, forti di un nuovo cesaropapismo bizantino ed estraneo alla tradizione occidentale, sono stati invece all'insegna di una vera e propria "rivoluzione conservatrice" che si basa sulla rinascita della cultura ortodossa isolata per secoli dalla civiltà europea e che ha sentito meno il soffio della cattolicità - polemico e vivificatore - del Rinascimento e dell'Illuminismo.
  E' dunque in nome della religione e di un rilancio in grande stile della "cultura" che Putin è riuscito a costruire il suo ventennio al potere. In nome della Russia come "guardiana della cristianità". Si tratta di un progetto culturale che non lesina il ricorso alla censura di sovietica memoria, come quella che la chiesa ortodossa vorrebbe imporre ai romanzi di Gabriel García Màrquez, accusato dal patriarcato di "pedofilia". Il poeta Osip Mandel'stam, assassinato in un gulag nel 1938, diceva che solo in Russia la cultura è presa davvero sul serio (a condannarlo a morte era stato proprio un epigramma contro Stalin).
  La censura ha appena colpito Boris Mezdrich, che ha perso il posto di direttore del teatro statale di Novosibirsk, in Siberia, in seguito alla messa in scena di una produzione del Tannhäuser di Wagner molto contestata dalla chiesa ortodossa. La decisione è stata presa dal ministro della Cultura, Vladimir Medinsky, mentre migliaia di persone scandivano di fronte al teatro slogan come "la cristianità ortodossa è il fondamento della grande cultura russa". "I teatri statali devono astenersi da rappresentazioni divisive per la società russa", ha detto il vice capo di gabinetto del Cremlino, Magomedsalam Magomedov. Mezdrich, il cui caso è al centro di un recente articolo del New Yorker, ha lasciato il posto a Vladimir Kekhman, direttore del teatro Mikhailovsky di San Pietroburgo (dopo l'esibizione delle Pussy Riot nella Chiesa di Cristo Salvatore di Mosca era stato introdotto il reato di "offesa ai credenti").
  Numerosi film, ad esempio il candidato agli Oscar "Leviathan", sono stati bollati come "antipatriottici", perché uno dei protagonisti è un vescovo un po' venale. Banditi "Jesus Christ Superstar", i concerti "satanici" di Marylin Manson e Halloween.
  Il ministro Medinsky, uno degli architetti di questa campagna di moralizzazione del paese, gode di una grande popolarità in virtù di una serie di libri nota come "Miti sulla Russia", che critica gli stereotipi
Il ministro Medinsky, uno degli architetti della campagna di mora- lizzazione del paese, gode di una grande popolarità e ha anche scritto un manifesto che "rigetta i princìpi del multiculturalismo" ed enfatizza i valori tradizionali russi.
negativi occidentali quali la ferocia di Ivan il Terribile, l'alcolismo dei russi o il loro antisemitismo, che secondo Medinsky sarebbe una esagerazione. Il ministro ha anche scritto un manifesto che "rigetta i princìpi del multiculturalismo" ed enfatizza i "valori tradizionali" russi. Medinsky ha fatto rinominare alcune strade alla memoria della duchessa Elizaveta Feodorovna, uccisa dai bolscevichi e canonizzata come martire della chiesa ortodossa. Il ministro ha anche proposto di cambiare il nome della metropolitana di Mosca, oggi intitolata a Pyotr Voikov, che partecipò all'uccisione dello zar Nicola II. Sempre Medinsky ha detto che il grande compositore Pètr Cajkovskij non era gay. Per lui, "la Russia è l'ultimo bastione della cultura europea, dei valori cristiani e della vera civilizzazione europea".
  "I valori occidentali, dal liberalismo al riconoscimento dei diritti delle minoranze sessuali, dal protestantesimo alle prigioni confortevoli per gli assassini, suscitano in noi il sospetto, lo stupore e l'alienazione", ha scritto Evgenij Bazhanov, rettore dell'Accademia diplomatica del ministero degli Esteri russo e intellettuale putiniano. Secondo Maria Lipman, analista russa del Carnegie, con questa ideologia "il governo russo aizza la maggioranza conservatrice contro la minoranza liberale".
  Eppure, Putin ha saputo conquistare il sostegno dei più rinomati musicisti russi, come il direttore d'orchestra Valery Gergiev, sovrintendente del teatro pietroburghese Marjinskij ed "eroe del lavoro" premiato al Cremlino, e Vladimir Spivakov, il violinista che un anno fa appose la propria firma una lettera di sostegno al presidente russo in merito all'Ucraina.
  Due anni fa, Putin chiamò a lavorare con sé anche il trisnipote di Tolstoj, Vladimir Tolstoj, che dopo aver diretto la casa-museo di Jasnaja Poljana è diventato il consigliere culturale del presidente. Per giustificare la politica espansionista del Cremlino in Crimea e Ucraina, Tolstoj ha evocato l'esempio del bisnonno, "un ufficiale dell'esercito russo che difese la Russia a Sebastopoli". Putin ha sempre subìto il fascino dell'autore di "Anna Karenina" e quando era agente del servizio segreto intraprese un lungo pellegrinaggio a Jasnaja Poljana. Vladimir Tolstoj è uno degli autori del documento che un anno fa Putin ha diffuso per il rilancio della "cultura". Secondo Tolstoj, "la Russia non è Europa", ma "una distinta civiltà che non appartiene né all'occidente né all'oriente". Che cosa intenda Putin per "cultura" lo ha spiegato Elena Yampolskaya, direttrice del giornale Kultura, un tempo progressista e oggi filoconservatrice: "Il governo era solito finanziare un linguaggio sciocco, la pornografia e la stregoneria sotto forma di innovazione, fomentando l'immagine della Russia come un paese senza futuro".
  Decisivo nel corso culturale putiniano sono personaggi come Maxim Obukhov, fondatore e direttore del centro antiabortista "Zhizn" (vita in russo) ed elogiato da Putin come "il primo a organizzare il grande network di aiuto alle madri in gravidanza". Gran parte dei fondi per le iniziative pro famiglia di Putin proviene da due oligarchi dalla marcata fede cristiana: Vladimir Yakunin, a capo delle ferrovie (ha portato in Ucraina i frammenti della croce sulla quale è morto Sant'Andrea) e Konstantin Malofeev, molto impegnato nelle cause cristiane con la St. Basil Great Charity Foundation e che vorrebbe lanciare in Russia una sorta di "Fox News Cristiana". Il loro principale braccio politico è Elena Mizulina, che ha varato alcune leggi putiniane contro l'adozione di bimbi russi a coppie omosessuali occidentali e la "propaganda gay" in pubblico. Mizulina ha vietato le pubblicità delle cliniche dell'aborto in luoghi pubblici ("praticare un aborto oggi in Russia è semplice tanto quanto acquistare una bottiglia di vodka - ha detto la politica russa - ma che l'alcol faccia male alla salute lo sanno tutti, mentre le conseguenze micidiali dell'aborto vengono taciute").
  Proprio Putin ha scommesso molto sulla riduzione dell'aborto, una peste che in Urss fece almeno 250 milioni di vittime. Dal 1955, ogni anno per trentacinque anni, il regime comunista ha svuotato sette milioni di culle. Putin ha portato l'aborto alla dodicesima settimana di gravidanza, con alcune eccezioni in caso di complicazioni mediche o violenza sessuale. Così, negli ultimi cinque anni, il numero di interruzioni volontarie di gravidanza è diminuito del 24 per cento.
  Anche in politica estera, Putin giustifica spesso le sue decisioni con riferimenti alla religione. Il New York Times ha scritto che una delle ragioni principali - oltre agli interessi strategici ed economici - in grado di spiegare l'appoggio di Mosca al regime siriano di Assad è la posizione intransigente della chiesa ortodossa. Quando ha dovuto giustificare il sostegno a Damasco e spiegare che fine farebbero i cristiani se al posto dell'alawita Assad prendesse il potere lo Stato islamico, il Patriarca russo Kirill ha evocato la rivoluzione bolscevica del 1917, con le sue sterminate "carcasse di chiese".
  E prima ancora c'era stato il ruolo storico della Russia a difesa dei cristiani armeni contro i turchi musulmani filoamericani e dei cristiani serbi contro i bosniaci musulmani sostenuti dall'occidente. A giustificazione dell'invasione della Crimea, Putin ha detto che è "il nostro Monte del Tempio", come la casa di Dio che sorge a Gerusalemme, cara a ebrei e islamici. I documenti ufficiali del Cremlino sono pieni di simili riferimenti alla religione. Quando il corrispondente del Monde, Laurent Zecchini, chiese a Putin perché in Cecenia venivano usate le bombe a frammentazione contro la popolazione civile, il presidente russo, molto irritato, rispose: "Loro parlano di voler uccidere i non musulmani e se lei è cristiano è in pericolo".
  Putin negli anni ha presieduto al grande revival del cristianesimo ortodosso. Alla vigilia della Rivoluzione bolscevica, la chiesa russa aveva 50 mila parrocchie e sessanta scuole. Nel 1941, Stalin riuscì a eliminare la chiesa come istituzione pubblica. Ogni monastero e seminario venne chiuso. Con la caduta del
Molti osservatori ritengono che la Russia di Putin stia tornando al vecchio concetto bizantino di "symphonia", un approccio in cui chiesa e stato collaborano. I critici sostengono che la chiesa sta go- dendo di una importanza immensa in cambio del sostegno a Putin.
comunismo nel 1991, la chiesa ha iniziato a ricostruire la sua vita istituzionale devastata. Il numero delle parrocchie è cresciuto dalle settemila di vent'anni fa alle trentamila di oggi. Molti osservatori ritengono che la Russia di Putin stia tornando al vecchio concetto bizantino di "symphonia", un approccio in cui chiesa e stato collaborano. I critici sostengono che la chiesa sta godendo di una importanza immensa in cambio del sostegno a Putin. Non solo Putin e il primo ministro Medvedev, ma anche funzionari politici regionali e locali professano apertamente la loro fede ortodossa e compaiono accanto ai funzionari della chiesa nelle manifestazioni civili e religiose.
  La chiesa aspira a realizzare la "ri-cristianizzazione della nazione russa". Anche se ben il settanta per cento dei russi si definisce "ortodosso" ed è battezzato, solo il quattro per cento partecipa alla liturgia. Ma molte indagini sociologiche hanno stabilito che la Russia è uno dei pochi paesi del mondo civilizzato in cui la religione sta diventando sempre più importante. E' un libro dell'archimandrita Tikhon, capo del Monastero Sretensky e consigliere spirituale del presidente, che descrive il suo viaggio dal marxismo al monachesimo ortodosso in seicento pagine, a essere il più venduto della Russia con due milioni di copie (è uno dei dieci titoli più venduti dalla fine del comunismo). E' stato commercializzato non solo nelle librerie, ma anche nei supermercati.
  A segnare la presidenza Putin sono i tour spirituali al monastero di Tikhvin, dove il presidente rende spesso omaggio a una delle icone mariane più venerate della Russia, sottratta alla furia iconoclasta dei bolscevichi e alle razzie dei nazisti, ma anche alla chiesa dell'Assunzione a Novgorod e al monastero femminile di San Varlaam, a Khoutyn, sulla riva destra del fiume Volkhov. La partecipazione di Putin alla messa di Pasqua a Mosca è una presenza costante nel calendario televisivo.
Ci sono poi i pellegrinaggi alle Solovki, l'isola nel Mar Bianco che ospitava uno dei monasteri più grandi della Russia, famoso per i suoi detenuti cristiani, come "il Leonardo russo", il martire Pavel Florenskij. E proprio alle Solovki, in occasione dell'anniversario del crollo dell'Unione Sovietica, Putin ha fissato in qualche modo il suo credo, auspicando il ritorno della Russia "alla sorgente del cristianesimo" e alle "basi morali della vita". Oggi migliaia di pellegrini ogni anno visitano il monastero-lager e venerano i luoghi della sofferenza. C'è poi il pellegrinaggio a Ekaterinburg, dove vennero giustiziati i Romanov, lo zar Nicola II, la zarina Alessandra, le granduchesse Olga, Tatiana, Anastasia, Maria e il dottor Botkin, la cameriera Anna Demidova, il cuoco Karitonov, il cameriere Trupp.
  Questo nuovo corso putiniano passa dalla figura di un altro Vladimiro, il santo di Novgorod, omaggiato oggi nei libri, in televisione e nel festival e che segnò il primo e fondamentale documento del passaggio della Russia dal barbarico all'Europa civilizzata e che ebbe come centro il suo passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Già sua nonna Olga, dopo la morte del marito Igor principe di Kiev, da lei vendicato con la sepoltura da vivi dei suoi uccisori, era giunta a Costantinopoli in missione di pace; e vi aveva ricevuto, nel 957, il battesimo insieme al suo seguito. I primi a essere ricevuti da Vladimiro furono i messi islamici. Ma quando si giunse alla proibizione della carne suina e del vino, Vladimiro se ne ritrasse commentando che "bere è la gioia dei russi, non possiamo farne a meno". I maomettani, diranno i suoi inviati al ritorno, "non fanno altro nelle loro moschee che inchinarsi profondamente e sedersi per terra con le vesti slacciate, in mezzo a una tristezza e a un puzzo indescrivibili"; i cattolici hanno chiese e cerimonie modeste, "ingloriose"; nelle chiese dei Greci, invece, fra le loro cerimonie sublimi e i canti angelici sotto le volte coperte d'oro, "non si capisce nemmeno più se si è in cielo o in terra".
  Fu la penna di un monaco, Filoteo Pskov, a descrivere quanto stava avvenendo: "La chiesa dell'antica Roma cadde per la sua eresia: le porte della seconda Roma, Costantinopoli, furono abbattute dalle asce degli Infedeli; ma la chiesa di Mosca splende più luminosa del Sole nell'intero universo. Tu sei la sovrana universale di tutto il popolo cristiano e devi tenerne le redini nel timore di Dio. Due Rome sono cadute, ma la terza si regge saldamente". Fu allora che nacque il mito di Mosca nuova Roma e "fedele Gerusalemme", come dice in "Guerra e pace" il diacono nella cappella dei Razumovski.
  E' su questo miscuglio di demagogia e di verità, sulla croce scolpita nei pettorali del presidente, che si innesta il ventennio di Putin e che attrasse anche l'autore di "Arcipelago Gulag", Alexander Solzenicyn. Persino nel nome, la parola russa "poot", Putin indica una via molto russa che diverge da quella dell'occidente.

(Il Foglio, 9 aprile 2015)


Vladimir Putin, in questa inaspettata figura di Defensor Fidei, deve essere attentamente osservato. Gli Stati Uniti, che in un Barack Obama ammirato da sinistri e omofili hanno trovato una guida adatta a un Occidente in decadenza, stanno procedendo sulla via di una inarrestabile discesa politica sul piano internazionale. Crescono invece Iran e Russia, con la Cina in posizione di osservante attesa. Stati ex atei e stati ex canaglia si stanno proponendo sulla scena politica internazionale come elementi di equilibrio e pacificazione. L’islamismo autentico, cioè quello massacratore, non riesce più a mimetizzarsi in modo convincente, e invece di arrivare a dominare il mondo come si è continuato a sbandierare fino a poco fa, convincerà il mondo a cercare il modo di limitare almeno in parte i massacri fatti in nome di Allah. Si cercherà allora la pace, la cercheranno un po’ tutti, e tutti ammireranno chi sembrerà in grado di offrirla al mondo. A proposito, un mio caro amico ebreo, nato e cresciuto in Russia, allevato nella fede ateistica e arrivato alla fede in Gesù Messia, conoscendo abbastanza bene l’ambiente in cui è cresciuto, una volta mi ha detto, così en passant, mentre non so per quale ragione stavamo parlando di Putin, che non si sorprenderebbe se un giorno un tipo come lui arrivasse a dire che è Dio...” Non sono profezie. Semplici spunti di riflessione. M.C.


Yemen, venti di guerra tra Iran e Arabia Saudita

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Prova di forza fra Iran e Arabia Saudita nelle acque dello Yemen travolto dalla guerra civile. Teheran ha inviato almeno due unità da guerra nel Golfo di Aden, dove già si trovano le navi di Arabia Saudita ed Egitto. Sono stati i media iraniani a far sapere che il cacciatorpediniere "Alborz" e la nave appoggio "Bushehr" hanno lasciato il porto di Bandar Abbas con la missione di "proteggere i commerci iraniani dalla pirateria" nelle acque dello Yemen.
A dare la notizia è stato l'ammiraglio iraniano Habibollah Sayyari, in un evidente gesto di sfida nei confronti dell'Arabia Saudita che - assieme a dieci alleati arabi - ha imposto il blocco navale ed aereo sullo Yemen dall'inizio dell'intervento, due settimane fa, teso a reinsediare il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi rovesciato in febbraio dalle milizie houti.
«Le nostre navi pattuglieranno il Golfo di Aden, il Sud dello Yemen e il Mar Rosso» ha precisato l'ammiraglio di Teheran confermando che opereranno nelle stesse aree delle Marine saudita ed egiziana. Poche ore prima dell'annuncio di Teheran, il generale saudita Ahmed Asiri, portavoce dell'operazione panaraba "Decisive Storm", aveva affermato da Riad di «disporre di prove sull'impegno di Iran ed Hezbollah per addestrare gli houthi ad uccidere yemeniti».
In particolare Teheran avrebbe fornito agli houthi sostegno aereo: «Per una milizia tribale non c'è modo di avere dei jet, ma gli houthi ce l'hanno» ha detto il generale di Riad. Nel conflitto in Yemen, i sauditi sostengono le fazioni sunnite favorevoli a Mansour Hadi mentre l'Iran fa altrettanto con gli houthi, di origine sciita.
Intanto dal Pentagono arrivano più armi e informazioni di intelligence per sostenere lo sforzo militare dell'Arabia Saudita. Una mossa con cui Washington tenta di placare l'irritazione di Riad per l'accordo-quadro con l'Iran sul programma nucleare. Fermento diplomatico anche a Teheran, dove il presidente Hassan Rohani accoglie il collega turco Recep Tayyp Erdogan per promuove una «soluzione politica alla crisi» tentando di ostacolare in qualsiasi modo l'offensiva militare saudita.

(Il Secolo XIX, 8 aprile 2015)


Offensiva Isis a Yarmouk. Hamas risponde con arresti nella striscia di Gaza

Il movimento islamico palestinese arresta sostenitori dell'autoproclamato stato islamico dopo l'assalto al campo profughi a sud di Damasco. Leader dell'Olp nella capitale siriana.

GAZA - Una vasta campagna di arresti nella Striscia di Gaza contro sostenitori dell'autoproclamato Stato Islamico. È la risposta del movimento islamico palestinese Hamas all'offensiva delle milizie del califfato nero contro Yarmouk, il campo profughi palestinese a sud della capitale siriana Damasco. A riferirlo è il quotidiano panarabo Al Quds al Arabi, che cita una fonte della sicurezza palestinese.

 Arrestati anche degli imam
  "Gli arresti riguardano numerosi esponenti e sostenitori della corrente salafita jihadista che avevano firmato comunicati a sostegno dell'lsis e approvato quanto sta avvenendo a Yarmouk, con i massacri di palestinesi nel campo", ha detto la stessa fonte. Tra gli arrestati anche un numero non precisato di imam di moschea palestinesi della Striscia di Gaza che hanno assunto posizioni pubbliche a favore dell'lsis.

 La situazione di Yarmouk
  Intanto il regime siriano si è detto pronto a rifornire di armi le organizzazioni palestinesi che combattono contro le milizie jihadiste dello Stato islamico nel campo, dove la situazione umanitaria sta pericolosamente peggiorando a causa dell'offensiva lanciata dagli uomini del califfato nero. Il deteriorarsi della situazione ha anche indotto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a chiedere l'accesso delle agenzie umanitarie per soccorrere le migliaia di palestinesi che sono bloccati da quando è iniziato l'assalto lo scorso primo aprile.

 Leader Olp a Damasco
  Ieri sera il viceministro degli Esteri siriano Faisal Moqdad ha ricevuto a Damasco una delegazione palestinese guidata da Ahmed Majdalani, leader dell'Olp, per discutere i modi per proteggere gli abitanti del campo. "Con l'eccezione di un intervento diretto dell'esercito, le autorità siriane sono disposte a sostenere con tutti i mezzi, compresi quelli militari, i combattenti palestinesi", ha detto dopo l'incontro il rappresentante dell'Olp Anwar Abdel Hadi.

 Moqdad: Siria e Olp determinati a combattere il terrorismo
  Citato dall'agenzia di stampa ufficiale "Sana", il viceministro Moqdad, ha sottolineato "la determinazione della Siria e dell'Olp a combattere il terrorismo, che si è diffuso nei campi profughi palestinesi, tra cui Yarmouk", aggiungendo che "il governo siriano ha fornito aiuti umanitari e medici ai fratelli palestinesi".

(RaiNews24, 8 aprile 2015)


Musulmani massacrano altri musulmani. E’ una constatazione semplice, ovvia, ma non si dice. Si dice che i massacratori non sono veri musulmani. Che cosa sono allora? “Terroristi”, si risponde. Ecco, adesso il termine terrorista torna utile, adesso è il caso di usarlo. Si può essere certi però che i massacratori non si considerano affatto terroristi: loro sono “miliziani”, anzi veri e propri soldati dell’esercito del Califfo, autentici jihadisti. Che cosa ci può essere di più islamico di un Califfo? E se non sono islamici, che cos’è che li spinge a massacrare? Sono belve in forma umana? Sono migliori o peggiori degli ebrei? Lo stato islamico è migliore o peggiore dello stato israeliano? Ma forse questi non sono veri stati, forse qui siamo davanti a due entità: l’entità sionista e l’entità islamista. Qual è quella che fa soffrire di più i palestinesi? Che cosa ne dicono i saggi di questo mondo? I consueti parametri valutativi occidentali sono saltati tutti. Chi ne capisce di più sono proprio gli israeliani. Non tutti naturalmente, ma la maggior parte, come si è visto anche nelle ultime elezioni. Di certi governanti e opinionisti occidentali invece si può dire quello che tra colleghi ci dicevamo di qualche studente universitario manifestamente inadatto a certi studi: non ha capito che cosa significa capire. M.C.


Teheran calling

Basta un "accordo preliminare" a risvegliare le imprese italiane dormienti in Iran. Una mappa.

di Alberto Brambilla

 
I Ministri degli Esteri di Italia e Iran, Paolo Gentiloni e Mohammad Javad Zarif
ROMA - E' bastato che i paesi occidentali abbozzassero la cornice di un accordo per garantire la natura pacifica del programma nucleare iraniano ed eliminare gradualmente le sanzioni economiche a Teheran per risvegliare le imprese italiane le cui attività nel paese islamico sono state finora frustrate. L'Italia è il secondo fornitore europeo dell'Iran dopo la Germania e potrà ambire a ricostruire la posizione ante sanzioni. "Abbiamo da recuperare un export da 8 miliardi di euro l'anno che oggi si è praticamente azzerato", ha detto Licia Mattioli, dirigente di Confindustria. Le esportazioni sono calate del 44 per cento dopo due round di sanzioni (2006 e 2012) pari a 15 miliardi di euro persi, secondo i calcoli di Sace, banca di credito all'export della Cdp. Le tempistiche dell'attenuazione delle sanzioni fino all'eventuale revoca sono incerte (a cavallo tra questo e il prossimo anno).
Tuttavia gli investitori di Borsa prevedono un impatto positivo sul settore dell'estrazione degli idrocarburi (l'Iran detiene il 10 per cento delle riserve mondiali di greggio e il 15 di gas naturale). Eni, storica presenza amica dell'Iran, potrebbe spuntare nuove commesse, anche per Saipem, mentre Saras, le raffinerie sarde dei Moratti, si adatterebbe bene alla lavorazione del solforoso greggio iraniano, una volta libero dall'embargo, dice Mediobanca. Piazza Affari ha avuto un sobbalzo anche osservando la Landi Renzo, azienda emiliana fondata nel 1954 forte nell'impiantistica per motori a Gpl e metano, quotata a Piazza Affari, che ha subìto una contrazione del fatturato in Iran (ora il 2 per cento del totale) e da poco ha riattivato le forniture. La collaborazione bilaterale ha radici storiche nel settore metallurgico.
  L'industria pubblica italiana ha trasferito tecnologia durante la metà del secolo scorso sviluppando la siderurgia sotto l'ultimo Scià Reza Pahlavi. La Italimpianti, costola dell'Iri, ha costruito lo stabilimento siderurgico di Mobarakeh. La lombarda Techint, multinazionale dell'acciaio, l'ha presa in eredità e ha contribuito a modernizzarlo. Danieli di Brescia, costruttrice di impianti di laminazione, ha rapporti cordiali con Teheran istituiti dalla matriarca Cecilia negli anni 80-90. Oggi la società opera in Iran grazie alla sua filiale cinese. L'Italia ha avuto un atteggiamento bipolare nei confronti del regime ieratico, seguendo l'adagio romano "pecunia non olet" con alcune figure chiave nello sviluppo delle relazioni bilaterali, tenute vive attraverso manifestazioni pubbliche di reciproco interesse. Tre anni dopo l'accordo di cooperazione sull'asse Roma-Teheran sancito dal governo Prodi - il primo rappresentante europeo a recarsi in missione dopo la rivoluzione islamica del 1979 - nel 1999 viene creata la Camera di commercio italo-iraniana, una delle più corpose, oggi presieduta dall'ambasciatore Jahanbakhsh Mozaffari, un falco antisraeliano, che include nel consiglio di amministrazione, oltre a politici e diplomatici, manager di imprese partecipate dallo stato (come Massimo d'Aiuto, presidente di Simest e Ignazio Moncada, ad di Fata, impianti industriali di Finmeccanica, senza progetti o trattative in corso in Iran ufficialmente dal giugno 2014) e manager bancari (Mario Erba, Popolare di Sondrio, Francesco Ripandelli, Mediobanca) nonostante l'attività creditizia sia oramai quasi azzerata.

(Il Foglio, 8 aprile 2015)


Libri - “La pecora nera” di I.J. Singer

Recensione di Antonella Stoppini
    "Da ben quarantotto anni, cioè dal giorno in cui ne ho compiuti due, ho davanti agli occhi un'immagine nitida, la prima che mi sia rimasta impressa nella memoria: un locale vasto e dall'alto soffitto, rischiarato da molte luci e gremito di gente".
Il grande edificio illuminato era la sinagoga di Bilgoraj, "cittadina del distretto di Lublino, dove sono nato" nel 1893. Il nonno materno, "intelligente, dignitoso e taciturno" di Yehoshua era rabbino di questo villaggio immerso nella tradizione ebraica. L'altro ricordo della prima infanzia di Yehoshua era legato al giorno in cui il padre, a soli ventisette anni, era stato nominato rabbino di Leoncin, nel distretto di Varsavia. La famiglia si era trasferita in questo minuscolo villaggio che si trovava poco lontano dalla Vistola, dove le strade non erano lastricate e le case erano anguste con tetti coperti da tegole di legno su cui spesso "si posavano gli uccelli". Il padre di Yehoshua, Pinchas Mendl Zinger, rabbino chassidico e autore di commentari rabbinici, era un "visionario" ma fervido credente che rifuggiva ogni responsabilità. Per questo e altri motivi il suocero, uomo pratico e con un forte senso del dovere non andava d'accordo con il genero. La madre Basheva Zylberman, personalità intellettuale "la Bibbia la conosceva letteralmente a memoria", aveva imparato da sola l'ebraico. Basheva, a causa dei suoi interessi culturali, non aveva argomenti in comune con le altre donne del paese, di conseguenza soffriva la solitudine e la mancanza di relazioni. Per lei l'unica consolazione era immergersi nei suoi amati libri. I due coniugi, lui uomo "di cuore" e sognatore, lei "persona celebrale", a causa dei loro differenti caratteri, non erano per niente in sintonia. Il bambino, per sfuggire dall'atmosfera cupa che regnava in casa, trascorreva il suo tempo libero giocando con i figli della gente semplice del popolo.
    "Anelavo al gioco, alla libertà dei campi".
Inoltre Yehoshua aveva subito preso in antipatia la scuola "non mi piacque mai", ma questo non gli impediva di apprendere le lezioni e specialmente la Torah. In una vita regolata strettamente dai precetti in cui tutto sembrava essere fonte di peccato, il futuro grande scrittore percepiva la bellezza e l'armonia nella natura che lo circondava "Il mondo non era affatto vanità, ma bello e pieno di gioia". Era d'estate che il vivace e sensibile monello "quando facevo qualcosa di poco consono per un bambino ebreo, la mamma mi chiamava come la pecora nera di Bilgoraj", si scatenava quando andava con la madre e la sorella a trovare i nonni.
    "Dalla prima occhiata, concepii per mio nonno un grande amore".
Dopo le ristrettezze di Leoncin finalmente l'abbondanza e l'opulenza. I. J. Singer, fratello maggiore di undici anni del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer (1904-1991) che lo definiva "il mio maestro", morto a New York nel 1944 non seppe dell'immane tragedia subita dal suo popolo. Grazie all'autore polacco, impagabile cantore dello scomparso mondo yiddish, niente e nessuno potranno mai cancellare le pagine melodiose in cui, come in un palcoscenico, si muovono strani e curiosi personaggi.
La penna descrittiva dell'autore coglie ogni particolare di una cultura millenaria e di un universo variopinto ma sempre con occhio ironico. "La pecora nera", uscito postumo nel 1946, doveva essere il primo volume della sua autobiografia, rimasta incompiuta.
    "Reb Yair leggeva la Torah con una melodia così dolce e struggente che nelle sue parole si sentiva il gusto soave del latte e miele di cui era ricca la terra di Canaan donata da Dio a Israele".
(SoloLibri.net, 8 aprile 2015)


25 aprile, Brigata ebraica: "Senza bandiere palestinesi saremo al corteo"

L'Aned pronta a rivedere la sua posizione alle stesse condizioni. Ad aver rilanciato l'ipotesi di una manifestazione unitaria al Campidoglio era stata l'Anpi ma il presidente romano annuncia le sue dimissioni
   E' ancora polemica sul corteo del prossimo 25 aprile nella Capitale tra gli annunci del Campidoglio, le condizioni poste dalla Brigata ebraica e dall'Aned per partecipare alle celebrazioni e alla spaccatura all'interno dell'Anpi.
   "Vogliamo sfilare con la nostra bandiera e chiediamo che non ci siano bandiere della Palestina. A queste condizioni parteciperemo a una manifestazione unitaria per la Liberazione in Campidoglio". A dirlo è il portavoce della Brigata Ebraica Alberto Tancredi commentando la proposta di una iniziativa per il giorno della Liberazione nella piazza del Campidoglio a Roma, rilanciata dall'Associazione nazionale partigiani (Anpi). La Brigata Ebraica e l'Associazione ex deportati nei campi nazisti (Aned) hanno annunciato la settimana scorsa di non voler partecipare al corteo tradizionale per la Liberazione dopo i tafferugli dello scorso anno con militanti filo-palestinesi.
   "Diciamo no ad argomenti che non hanno a che fare con la Liberazione - dice Tancredi - Bisogna ristabilire la verità storica. Ci sono altri 364 giorni in un anno per manifestare per i palestinesi, ma durante la Seconda Guerra Mondiale stavano con Hitler e Mussolini, mentre la Brigata Ebraica combatteva per la libertà. Vogliamo sfilare con la bandiera della Brigata, che solo dopo la guerra divenne la bandiera di Israele. La storia non si può mistificare".
   Stesse condizioni pone anche l'Aned, pronta a rivedere la decisione di non partecipare "a condizione che sia il Comune a organizzazione l'evento - dice il vice presidente Aned Roma Eugenio Iafrate -, come ha proposto oggi l'Anpi e a condizione che non ci siano bandiere palestinesi e che ci venga garantito il diritto di parola dal palco".
   Ma lo strappo ora si consuma anche dentro l'Anpi. Ernesto Nassi, presidente dell'associazione nazionale partigiani di Roma, in polemica con l'Anpi nazionale che ha chiesto al Campidoglio di gestire le manifestazioni del 25 aprile, annuncia che "sabato presenterà le dimissioni al Comitato provinciale, che era già stato convocato da dieci giorni". "Non siamo d'accordo - dice - con l'idea dell'Anpi nazionale di delegare al Campidoglio l'organizzazione delle celebrazioni per il 25 Aprile a Roma. Non siamo stati neppure consultati al riguardo. Siamo basiti". "Avevo già preso accordi con il Comune per un evento in piazza del Campidoglio, un concerto con 50 giovani musicisti. Ma prima volevamo tenere il corteo tradizionale la mattina, con la manifestazione a Porta San Paolo" aggiunge. "Adesso dovremo chiarirci con l'Anpi nazionale - conclude Nassi -. Non possono delegare il Comune alle celebrazioni senza neppure consultarci".
   Intanto il Campidoglio ha annunciato in una nota che "i 70 anni della Liberazione verranno celebrati con una grande iniziativa in piazza del Campidoglio, come già previsto in sinergia con il programma di celebrazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dal pomeriggio si svolgeranno le celebrazioni ufficiali e una grande festa di piazza con letture, spettacoli e concerti fino a sera. Il 25 aprile di Roma sarà dedicato a Massimo Rendina, testimone insostituibile della Resistenza, scomparso a febbraio".
   I movimenti sociali invece fanno sapere che non ci saranno in ogni caso e che sfileranno, come da alcuni anni a questa parte, nella periferia est della capitale, toccando anche quartieri teatro di recenti tensioni come Tor Sapienza.

(la Repubblica - Roma, 8 aprile 2015)


CheckPoint, il gigante israeliano della cyber sicurezza acquisisce Lacoon Mobile

 
CheckPoint Software Technologies, specialista nella sicurezza su internet ha annunciato l'acquisizione dell'azienda israeliana Lacoon Mobile Security per 80 milioni di dollari, secondo il giornale israeliano Calcalist.
Il dominio di competenza di Lacoon Security è la sicurezza sui dispositivi mobili e la società israeliana adotta un approccio preventivo che mira a contrastare i crescenti tentativi di furto dei dati su smartphone e tablet, ultimamente sempre più numerosi da parte di hacker informatici.
Lacoon produce sistemi che proteggono i dispositivi degli utenti, utilizzando una soluzione chiamata "cloud computing", ovvero un meccanismo di elaborazione, archiviazione e recupero dati "on demand" attraverso internet. Questo sistema messo a punto da Lacoon è capace di intercettare i dati che non fanno parte del dispositivo, eliminandoli.
Questo software viene utilizzato da aziende come Samsung, Intel e Dell.
    Le aziende non proteggono i dati dei dispositivi mobili. Noi crediamo che Lacoon abbia la migliore
    soluzione, perché è la più avanzata, per prevenire le minacce.
Questo sistema che impedisce i cyber-attacchi sui telefoni cellulari è destinato alle aziende.
Il CEO di CheckPoint, Gil Shwed, afferma anche che Lacoon, creata nel 2011 e che impiega 40 persone, potrebbe assicurare circa 300.000 dati contenuti all'interno dei dispositivi mobili.
CheckPoint, con sede in Israele, è fornitore mondiale di soluzioni per la sicurezza del sistema informatico e pioniere nella creazione di firewall, termine con il quale si intende la protezione delle reti di computer, grazie alla sua tecnologia brevettata chiamata "Stateful Inspection". CheckPoint sviluppa, commercializza, e supporta una vasta gamma di software che coprono tutti gli aspetti della sicurezza informatica, tra cui:
    sicurezza della rete;
    sicurezza degli endpoint;
    sicurezza dati;
    gestione della sicurezza.
Fondata nel 1993 a Ramat Gan, in Israele, CheckPoint ha acquisito a Febbraio la startup israeliana di cyber sicurezza Hyperwise.

(SiliconWadi, 8 aprile 2015)


Twizz invita gli agenti di viaggio a due eventi di formazione su Israele

Il tour operator Twizz, in collaborazione con il ministero del Turismo di Israele, invita gli agenti di viaggio al prossimo Twizz Training, momento di formazione dedicato alla destinazione Israele. Gli appuntamenti si terranno entrambi alle 19.30, martedì 14 aprile a Parma (hotel NH Parma) e mercoledì 15 aprile a Milano (hotel NH Machiavelli). L'evento, riservato ad una trentina di agenti di viaggio, avrà la durata di circa due ore al termine del quale seguirà un light dinner con menù tipico israeliano. Verrà consegnato materiale promozionale e tutti gli agenti di viaggio presenti parteciperanno all'estrazione di premi. Twizz fornirà inoltre un buono sconto a tutti i presenti da utilizzare su tutte le prenotazioni per Israele realizzate entro il 31 dicembre 2015 che darà diritto all'abbuono di tutte le spese di apertura pratica. L'incontro avrà un numero di posti limitato. Sarà quindi importantissimo confermare la propria presenza comunicando il nome del partecipante, il contatto mail e il telefono all'indirizzo info@twizz.it

(Travel Quotidiano, 8 aprile 2015)


Iran, vignette satiriche sull'Olocausto. Teheran sfida l'Occidente con un concorso

A maggio si terrà la seconda edizione dell'International Holocaust Cartoon Contest, promosso dal quotidiano iraniano Hamshahri. Nella presentazione: "Ipocrisia occidentale sulla libertà di parola: impossibile scherzare sopra o addirittura discutere alcuni temi".

La vignetta vincitrice nel concorso del 2006
Un concorso sulle vignette satiriche che prenderà di mira anche l'Olocausto. E' quello che andrà in scena a Teheran a maggio durante la seconda edizione dell'International Holocaust Cartoon Contest, competizione sulla satira promossa dal quotidiano iraniano Hamshahri per denunciare - secondo quanto si legge nella presentazione - "l'ipocrisia occidentale sulla libertà di parola". "È impossibile in Occidente - hanno spiegato i promotori - scherzare sopra o addirittura discutere alcuni temi legati al giudaismo come l'Olocausto".
   L'evento è stato organizzato in risposta alle caricature di Maometto pubblicate nel 2005 dal danese Jyllands-Posten. L'Iranian House of Cartoon ha deciso di sponsorizzare l'evento, in risposta alla massiccia pubblicazione di vignette sul profeta apparse sui giornali di tutto il mondo dopo la strage di Charlie Hebdo.
   Le vignette satiriche sono oltre 893, realizzate da disegnatori provenienti da più di 50 nazioni. Il tema è una domanda provocatoria: "Se l'Occidente afferma che la libertà di parola non ha confini, perché non ha lasciato che gli storici e gli esperti potessero condurre ricerche corrette sull'Olocausto?". L'obiettivo, dunque, sarebbe provocare la sensibilità occidentale sugli orrori nazisti, mentre secondo alcuni iraniani si tratta unicamente di propaganda.
   Nella prima edizione della competizione, tenutasi nel 2006, protagoniste erano la negazione dell'Olocausto e le condizioni di vita dei palestinesi sotto l'occupazione di Israele. La vignetta che vinse, disegnata dal marocchino Derkaoui Abdellah, rappresentava Israele mentre realizzava una barriera di separazione intorno alla cupola della moschea della Roccia a Gerusalemme. Quella barriera, in bianco e nero, riportava le immagini di un campo di concentramento nazista (ved. foto).
   L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Ron Prosor, condanna l'evento: "Ridicolizza uno degli eventi più bui della storia umana e svilisce la morte di milioni di ebrei che sono stati assassinati. Gli orrori dell'Olocausto sono ancora freschi nella memoria collettiva". F. Q.

(il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2015)


L'Iran e la bomba

di Francesco Lucrezi

La conclusione dell'accordo sul nucleare iraniano non può non generare un senso di profonda inquietudine, ansia e preoccupazione per il futuro, che si presenta decisamente gravido di pesanti, forse mortali pericoli.
   Francamente, non ho mai nutrito alcuna seria speranza riguardo all'effettiva possibilità di fermare, tramite un accordo diplomatico, la corsa iraniana al nucleare, per il semplice motivo che il progresso tecnologico è inarrestabile, e i risultati della scienza non possono essere tenuti segreti a nessuno. Non capisco nulla di tecnologia atomica, ma so che al giorno d'oggi qualsiasi prodotto della tecnica è alla portata di chiunque disponga delle risorse necessarie per ottenerlo, acquistando i materiali, costruendo gli impianti, pagando gli scienziati e i tecnici ecc. Quello che conta è esclusivamente il potere economico a disposizione, utile a procurarsi quanto necessario. L'America, quando fu aggredita dal Giappone, era inferiore militarmente, ma aveva una forza economica molto superiore, che le permise in poco tempo di ribaltare la situazione, e la Germania, in ginocchio e disarmata dopo la Grande Guerra, divenne in pochi anni la prima potenza militare del mondo. Anche ammesso - cosa molto dubbia - che i controlli tengano lontano l'Iran da una tecnologia nucleare a scopi militari, è un dato di fatto incontrovertibile che la fine delle sanzioni renderà la già potente Repubblica islamica molto più forte, ricca e influente a livello mondiale. Quanto ci metterà, domani, questa grande potenza, stracciati tutti gli accordi, a dotarsi di
Mohammad Reza Naqdi, comandante della milizia religiosa volontaria Basij, ha ribadito che "la cancellazione di Israele dalla carta geografica non è negoziabile", e che "i sionisti dovrebbero sapere che la prossima guerra non sarà limitata ai confini attuali e che i Mujaheddin li respin- geranno in mare".
bombe atomiche? Chi mai oserà impedirglielo? Ciò che è sembrato difficile oggi, sarà impossibile domani. E se avrà - anzi: quando avrà - la bomba, perché non dovrebbe usarla? Mohammad Reza Naqdi, comandante della milizia religiosa volontaria Basij, inquadrata nelle Guardie Rivoluzionarie iraniane, ha appena ribadito, se qualcuno si ostinasse a non volere capire, che "la cancellazione di Israele dalla carta geografica non è negoziabile", e che "i sionisti dovrebbero sapere che la prossima guerra non sarà limitata ai confini attuali e che i Mujaheddin li respingeranno in mare". E quella di Naqdi non è certo una voce isolata, è questa la posizione ufficiale di Teheran. E se si vuole davvero distruggere un Paese, perché non usare il metodo più rapido, facile ed economico? Qualcuno taglierebbe mai un albero con un temperino, avendo a disposizione una sega elettrica? Perché mai l'Iran, un domani, dovrebbe perseguire i suoi obiettivi attraverso una guerra convenzionale, potendolo fare in modi tanto più diretti ed efficaci? I vincoli, si legge, dureranno vent'anni. Molti, pochi? Mi metto nei panni di una giovane coppia israeliana, che abbia appena avuto un figlio. Cosa proveranno nel pensare che per vent'anni dovrebbe essere, in teoria, relativamente al sicuro e, dopo, chi sa?
   L'idea, ripetuta da diversi commentatori, secondo cui il ritorno dell'Iran nella comunità delle nazioni dovrebbe favorirne un'evoluzione moderata, e il maggior sviluppo economico dovrebbe invogliare la popolazione e i governanti a volgere la loro attenzione verso attività pacifiche, benessere e ricchezza, appare una pia illusione, un ingenuo "wishful thinking". Nulla, ma proprio nulla, va finora in questa direzione, tutto, ma proprio tutto, va in senso contrario.
   La richiesta, avanzata da Israele, che nell'accordo fosse almeno inserito l'impegno dell'Iran a rinunciare a disegni distruttivi verso altre nazioni, è stata ovviamente disattesa, con la motivazione che altrimenti nessun accordo sarebbe stato possibile. Già, perché rovinarsi la festa? Intendiamoci, è ovvio che un impegno del genere, imposto dall'esterno, non avrebbe avuto più valore della carta su cui fosse stato scritto, e che gli ayatollah se ne sarebbero fatto un baffo. Ma almeno, per quel che conta, nei libri di storia, un domani, si sarebbe letto che "il resto del mondo" non condivideva l'idea di un nuovo Olocausto. Invece, comunque vada, in quei libri non si leggerà proprio nulla.
   Nota a margine: al problema del nucleare iraniano dovrebbero essere interessati, indirettamente, anche gli innumerevoli comitati pro-Palestina, perché una bomba atomica su Tel Aviv o Gerusalemme non sarebbe salutare neanche per gli abitanti di Nablus o Ramallah. Eppure, mi sembra che il tema non li appassioni. Strano.

(moked, 8 aprile 2015)


Liberare l'Italia sognando Israele. E Churchill lanciò la Brigata ebraica

Verso il 25 aprile settant'anni dopo. I reduci diserteranno il corteo per la presenza di sigle filopalestinesi.

di Paolo Rastelii

 
«Combatteremo il Libro Bianco come se non ci fosse Hitler e combatteremo Hitler c0- me se non ci fosse il Libro Bianco». In queste parole di David Ben Gurion, leader sionista e futuro primo premier dello Stato di Israele, è contenuto iI germe della Brigata ebraica, l'unità militare composta quasi unicamente di ebrei che avrebbe combattuto con valore nelle ultime fasi della Campagna d'Italia, tra il novembre 1944 e l'aprile 1945.
   Un'unità militare i cui reduci hanno però annunciato che non prenderanno parte a Roma alle celebrazioni del settantesimo anniversario del 25 aprile, in polemica con la presenza nel corteo dei centri sociali e delle associazioni filopalestinesi ostili a Israele. In queste ore si sta tentando una riconciliazione ma gli ex della Brigata ebraica restano decisi sulle loro posizioni, con la stessa determinazione con cui combatterono nella Seconda guerra.
   Nel 1939 il governo britannico aveva pubblicato un Libro bianco che ridefiniva in termini assai restrittivi la propria politica in termini di immigrazione ebraica in Palestina (controllata fin dalla fine della Grande guerra dalla Gran Bretagna su mandato della Società delle Nazioni).
   Allo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939, quindi, i rapporti tra Agenzia ebraica (l'organizzazione politica dei sionisti in Palestina) e governo di Londra non avrebbero potuto essere più tesi. Ma Ben Gurion capì subito che promettere aiuto militare agli inglesi attraverso la costituzione di unità ebraiche avrebbe rafforzato la coscienza nazionale dei suoi connazionali ancora in attesa di una patria e fornito alle unità dell'esercito clandestino ebreo-palestinese (che si era venuto formando negli anni 20 e 30 come organizzazione di autodifesa contro le aggressioni arabe e la polizia inglese) un indispensabile addestramento militare da professionisti. Inoltre avrebbe rappresentato una moneta politicamente spendibile nella lotta perché la comunità internazionale accettasse la costituzione di uno stato ebraico. Senza contare che, pur se l'Olocausto era ancora di là da venire, la politica antisemita dei nazisti, con le ripetute violenze e vessazioni contro gli ebrei tedeschi, era già ben nota e aveva contribuito, tra l'altro, a favorire l'avvicinamento tra i capi arabi e le gerarchie naziste in funzione anti britannica.
   Ma anche il governo di Londra sapeva fare i suoi conti e la proposta di Ben Gurion e di Chaim Weizmann (il fondatore e leader dell'Agenzia ebraica) di costituire unità militari composte di soli ebrei venne rifiutata. Tuttavia i giovani ebrei si arruolarono ugualmente: furono circa 33 mila quelli che accorsero sotto le bandiere britanniche, combattendo in Grecia e Nord Africa. Poi, a metà del 1942, l'armata italo-tedesca guidata da Erwin Rommel arrivò a minacciare l'Egitto. D bisogno di uomini si fece acuto e l'esercito di Sua Maestà accettò di costituire battaglioni di ebrei palestinesi (in tutto 15, fonte Wikipedia) per irrobustire le formazioni britanniche e del Commonwealth. Non era quello che i capi sionisti desideravano, ma era qualcosa in attesa di tempi migliori.
   Nel luglio 1943, con lo sbarco anglo-americano in Sicilia. era iniziata la campagna d'Italia e nel 1944 c'erano stati lo sbarco in Normandia e. quello nella Francia meridionale. Gli alleati avevano bisogno di uomini, soprattutto sul fronte italiano dove la Linea Gotica, imperniata sugli Appennini tosco-emiliani, era un osso durissimo da rodere. Così le ultime resistenze nei confronti della costituzione di una grande unità ebraica vennero superate, anche perché erano filtrate robuste indiscrezioni sui campi di sterminio e, come scrisse il premier britannico Winston Churchill al presidente americano Franklin Delano Roosevelt, «gli ebrei hanno il diritto di colpire Hitler facendo parte di una formazione riconoscibile».
   Così, nel luglio 1944, fu autorizzata la costituzione della Brigata ebraica su tre battaglioni di fanteria e unità di supporto per un totale di circa 5mila uomini. La bandiera di combattimento era la Stella di Davide azzurra in campo bianco (i colori del tallit, lo scialle di preghiera rituale), rimasta ancora oggi come bandiera dello Stato di Israele.
   La Brigata si schierò sul fronte adriatico nel novembre 1944 e partecipò nella primavera dell'anno dopo alla battaglia del Senio in Emilia-Romagna, da cui prese il via l'offensiva generale alleata che portò alla liberazione dell'Italia dai nazifascisti. La fine della guerra vide la Brigata schierata nella zona di Treviso, in Veneto, da dove iniziò l'ultima parte della sua storia, forse però la più straordinaria. Provenivano infatti anche dalle sue fila i giustizieri che uccisero, spesso strangolandoli o impiccandoli, un certo numero di gerarchi nazisti (secondo alcune fonti addirittura 1.500) come vendetta per l'Olocausto. E sempre dalla Brigata vennero gli elementi di spicco delle organizzazioni che, grazie alle entrature nell'esercito britannico, aiutarono prima l'immigrazione clandestina in Palestina dei superstiti dei campi e poi il contrabbando di armi ed equipaggiamento destinato all'Haganah, la forza armata israeliana che combatté nel 1948 la prima guerra del piccolo Stato. La Brigata fu sciolta nel luglio 1946. Trentacinque dei suoi membri divennero generali di Tsahal, le forze armate di Israele.

(Corriere della Sera, 8 aprile 2015)


Accordo sul nucleare - Gli italiani applaudono ma i rischi sono enormi

Lettera al Giornale

Non si era ancora spenta l'eco dell'accordo sul nucleare fra Obama e l'Iran che alcuni cervelli in libera uscita del nostro governo si sono pronunciati applaudendo all'avvenimento. Non riesco a capire cosa frulli per il capo di certa gente: da decenni l'Iran è considerato la bestia nera del mondo, avendo rifiutato sistematicamente tutti i tentativi di arrivare a una soluzione ragionevole del problema sul riarmo nucleare. Ora, come per miracolo, l'Iran è diventato ragionevole. È più che logico che Israele non ci veda chiaro e diffidi della buona fede degli ayatollah. Noi, al solito, ci cacciamo a capofitto nell'ennesima brutta (e pericolosa) figura pensando di essercela cavata a buon mercato. Possiamo star certi che le illusioni finiranno molto presto e qualcuno dei nostri governanti dovrà mordersi la lingua.
Sebastiano Liotta


(il Giornale, 8 aprile 2015)


Bonhoeffer 9 aprile 1945-2015. Il cristiano che sfidò Hitler

di Marco Roncalli

Dietrich Bonhoeffer
«Ditegli che questa è la fine per me, ma anche l'inizio. Insieme a lui credo nel principio della nostra fratellanza universale cristiana che si eleva al di sopra di ogni interesse nazionale e credo che la nostra vittoria è certa...». Così Dietrich Bonhoeffer, l'8 aprile 1945, - giorno prima della sua impiccagione - nel messaggio affidato a un compagno di prigionia e destinato all'amico George Bell, vescovo anglicano di Chichester, conosciuto nel 1933. Era un saluto sprigionatosi di domenica, dal cuore di un uomo libero, calato nel mondo e nella signoria di Gesù Cristo, un cristiano consapevole di un destino di eternità.
  Era una domenica quando le pronunciò e Bonhoeffer era in viaggio verso il lager di Flossenbürg. L'indomani dopo l'alba fu subito giustiziato: nato a Breslavia, nel 1906, non aveva neanche quarant'anni. Ci fu anche un testimone oculare che raccontò quelle ultime sequenze di vita, settant'anni fa. Era il medico del campo. Uno che di lui non sapeva niente. E che ha lasciato scritto altre parole capaci di commuoverci: «Attraverso la porta semiaperta in una stanza delle baracche vidi il Pastore Bonhoeffer, prima di levarsi la sua divisa carceraria, inginocchiarsi sul pavimento per pregare Dio con fervore. Fui profondamente toccato dal modo in cui questo uomo amabile pregava, così devoto e sicuro che Dio udisse la sua preghiera». E ancora: «Sul posto dell'esecuzione, disse un'altra breve preghiera e quindi salì gli scalini verso il patibolo, coraggioso e composto. La sua morte seguì dopo pochi secondi. Nei quasi cinquant'anni di professione medica, non ho mai visto un uomo morire così totalmente sottomesso alla volontà di Dio».
  Bonhoeffer, «teologo, cristiano, contemporaneo», per usare la sintesi del suo biografo Eberhard Berthge, certamente è stato uno dei rari uomini di Chiesa che - senza dimenticare una fugace simpatia nel 1920 per il nazionalismo che fu presto in grado di spazzare via-, ben presto scese direttamente nell'agone politico e nella resistenza al Male hitleriano. Bonhoeffer, però, è stato l'uomo che, soprattutto, ha motivato con il suo essere cristiano quelle sue scelte. Come aveva scritto nel 1934 a Valdemar Ammundsen, il vescovo danese direttore del Weltbund für internationale Freundschaftsarbeit der Kirchen (la Federazione mondiale per la promozione dell'amicizia internazionale fra le Chiese): «Qui, anche proprio nella nostra posizione verso lo Stato, si deve parlare in modo del tutto franco, per amore di Gesù Cristo e della causa ecumenica. Dev'essere chiaro - per quanto terribile sia - che di fronte a noi sta questa decisione: o nazionalsocialisti oppure cristiani».
  Da quella data alla morte sarebbero passati per Dietrich altri dodici anni costellati di scritti densi (molti quali resi pubblici solo recentemente), che rendono conto del suo impegno nel Kirchenkampf, nella lotta fra la Chiesa confessante antinazista e la Chiesa dei Deutsche Christen (i cristiano-tedeschi sostenitori del nazionalsocialismo), ma che pure offrono uno spaccato storico- politico e le direttrici di un dibattito teologico- culturale ben oltre la sua figura . Un periodo fitto di lettere, specie dall'inizio degli anni Quaranta, a testimoniare una vasta rete di interlocutori e di conoscenze, ma anche un'ampia irradiazione di pensiero sulla premessa di una profonda riflessione esistenziale.
  Ben documentata, ad esempio, nella silloge arrivata in libreria a cura di Alberto (Scritti scelti 1933-1945, Queriniana, pagine 920, euro 93) dedicata proprio all'"ultimo Bonhoeffer", lavoro che conclude la serie dei dieci volumi delle Opere meritoriamente edita da Queriniana. Dove trovano spazio tanti elementi del suo impegno. La questione ecumenica, che assorbì Bonhoeffer sia sul piano del dialogo fra le Chiese sia su quello dell'elaborazione teologica. L'approfondimento biblico, centrale, dal periodo nel seminario clandestino di Finkenwalde a quello - diciotto mesi sino all'ottobre '44 - nel carcere berlinese di Tegel, prima di essere internato a Buchenwald. E, ancora, la riflessione sull'etica sempre più urgente (con la scelta personale della cospirazione) e la questione della sequela di Cristo in una condizione storica intrisa di violenza. Oppure la riflessione sul significato di una fede personale declinata nel mondo divenuto adulto che ha eliminato l'ipotesi del «Dio tappabuchi».
  Pagine e pagine innervate da una fede spesa a dare concretezza alla Parola dentro la storia, a servire la verità che «rimane pur sempre il servizio più grande che si possa tributare all'amore nella comunità di Cristo». Quanto basta per spiegare il pastore teologo del confronto con la modernità, della fedeltà alla terra, dell'obbedienza al Vangelo, della caritas ancorata alla trascendenza, che si fa cospiratore, convinto che la Rivelazione comporta più una fede che una religione, e comunque esige una responsabilità personale nel farsi carico dei destini di ogni persona. Se necessario assumendo la Croce. Per gli altri. Per amore.

(Avvenire, 7 aprile 2015)


ET Solar realizza un impianto fotovoltaico da 50 MWp in Israele

 
MONACO DI BAVIERA - ET Solar, un fornitore all'avanguardia di soluzioni energetiche intelligenti, ha annunciato che la sua consociata interamente controllata, ET Solutions AG, è stata scelta per la fornitura di servizi EPC chiavi in mano, insieme ai partner locali G-Systems ed El-Mor Group, per un impianto fotovoltaico da 50 MWp in Israele.
Il progetto, ubicato 20 km a nord-ovest dell'antica città portuale di Ashkelon, sarà costruito su 60 ettari di semideserto. Si prevede che il nuovo impianto fotovoltaico sarà collegato alla rete entro la fine di quest'anno e che tutti gli anni genererà oltre 85.000 megawatt di energia pulita: sufficienti a controbilanciare circa 50.000 tonnellate annuali di anidride carbonica atmosferica.
ET Solar fornirà servizi end-to-end tra cui la gestione del progetto, la progettazione elettrica, lo schema dell'impianto, gli acquisti, il controllo della qualità, la direzione dei lavori e la messa in servizio. Dopo la messa in servizio, e insieme ai suoi partner, ET Solar fornirà inoltre i servizi di gestione e manutenzione.
Mr. Dennis She, Presidente e CEO di ET Solar, ha dichiarato: "Ad oggi, questa è la più grande centrale fotovoltaica che abbiamo mai costruito in Medio Oriente. Dimostra la nostra capacità di progettazione e implementazione di ogni fase dei progetti fotovoltaici di ampia portata, da EPC a O&M. Siamo orgogliosi di offrire energia solare pulita, economica e affidabile al mercato israeliano che oggi è fortemente dipendente dagli idrocarburi".
"Il progetto fotovoltaico arriva sulla scia dei successi dello scorso anno che includono il completamento di un impianto solare da 7,8 MWp e un contratto per un progetto da 40 MWp; siamo lieti di costatare che siamo diventati, insieme ai nostri partner locali, la più grande azienda appaltatrice di contratti EPC in Israele per progetti importanti".

 Informazioni su ET Solar
  ET Solar è un'azienda leader nella fornitura di soluzioni di energia intelligente. Grazie a tecnologie solari innovative e soluzioni finanziarie su misura, ET Solar offre soluzioni professionali one-stop lungo l'intero ciclo di vita della centrale fotovoltaica, inclusi sviluppo, finanza, engineering, approvvigionamenti, costruzione, operatività e manutenzione. Per maggiori informazioni visitare i siti: www.etsolar.com e www.etsolutions.de.

(Adnkronos, 7 aprile 2015)


La Pasqua ebraica

In questi giorni centinaia di migliaia di ebrei festeggiano la Pesach, la cosiddetta Pasqua ebraica, che ricorda la notte in cui Dio uccise tutti i primogeniti egiziani durante la schiavitù degli ebrei in Egitto, che poterono così fuggire e riacquistare la libertà. Secondo la Bibbia gli ebrei dipinsero le porte delle proprie case col sangue d'agnello per segnalare a Dio che in quella casa non c'erano primogeniti egiziani da uccidere: per questo si celebra il "passare oltre" di Dio nei confronti delle case degli ebrei.
I festeggiamenti per Pesach durano sette giorni, il più importante dei quali è la cena di seder: si tiene il 15esimo giorno di Nisan ed è fatta di riti e preghiere piuttosto rigidi e complicati. Anche le preparazioni per la festa sono molte e laboriose: giorni prima gli ebrei più osservanti raccolgono l'acqua da una sorgente per preparare il metztoth, il pane azzimo, e bruciano tutti i cibi lievitati presenti in casa. Nei giorni successivi continuano le preghiere, tra cui quella che del Dukhanen: circa 50 mila fedeli pregano davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme e ricevono la benedizione dei kohanim, i sacerdoti del Tempio che si crede discendano da Aronne, il fratello di Mosé. Le foto di questi giorni mostrano anche momenti più rilassati e gioiosi: bambini alle giostre, una colona che fa giocare il suo bambino con un asino e ragazzine che si fanno un selfie, tra quel che resta delle basi militari.

Ebrei ultra-ortodossi pregano durante la Pesach a Gerusalemme
La cottura delle matzoth, il pane non lievitato, per la Pesach nella città ultra-ortodossa di Bnei Brak
Un'ebrea israeliana con la figlia e un asino in una piantagione di ulivi a Talmon, in Giudea-Samaria, durante i festeggiamenti per la Pesach
Ebrei ultra-ortodossi raccolgono acqua da un ruscello di montagna vicino a Gerusalemme, che sarà utilizzata per preparare le matzoth, il pane non lievitato per la Pasqua Ebrei pregano davanti al Muro del Pianto per la Pesach, Gerusalemme
Un ebreo ultra-ortodosso brucia cibo lievitato, uno dei riti in vista della Pesach, a Gerusalemme
La preghiera davanti al Muro del Pianto per la Pesach, Gerusalemme
Due ragazze israeliane si fanno un selfie nell'insediamento di Talmon, in Giudea-Samaria, durante un festeggiamento della Pesach
Due soldati controllano la sicurezza al Muro del Pianto a Gerusalemme, durante la preghiera e la benedizione per la Pesach
Un ebreo ultra-ortodosso a Gerusalemme durante la Pesach
Ebrei partecipano alle preghiere e ricevono la benedizione per la Pesach davanti al Muro del Pianto, Gerusalemme
Ebrei ultra-ortodossi preparano le matzoth per la Pesach in un panificio di Bnei Brak
Un ebreo ultra-ortodosso fa una foto durante la preghiera e la benedizione davanti al Muro del Pianto, a Gerusalemme, per la Pesach Ebrei ultra-ortodossi raccolgono acqua da un ruscello di montagna vicino a Gerusalemme, che sarà utilizzata per preparare le matzoth, il pane non lievitato per la Pasqua
Ebrei ultra-ortodossi preparano le matzoth, il pane non lievitato, in un panificio nella città di Bnei Brak, Un ebreo ultra-ortodosso brucia cibo lievitato, uno dei riti della Pesach, nella città di Bnei Brak
Circa cinquantamila ebrei partecipano alla preghiera davanti al Muro del Pianto per la Pesach, Gerusalemme
Un ebreo tiene in mano la Torah durante la preghiera davanti al Muro del Pianto per la Pesach, Gerusalemme
Ebrei ultra-ortodossi pregano durante la Pesach a Gerusalemme
Un ebreo ultra-ortodosso inciampa nelle legna usate per bruciare i cibi lievitati, in vista della Pesach a Bnei Brak
Ebrei ultra-ortodossi pregano a Gerusalemme durante la Pesach
Un ebreo ultra-ortodosso prega davanti al Muro del Pianto durante la Pesach, Gerusalemme Bambini ebrei giocano durante la festa di Pesach nella città di Hebron
Due ebrei ultra-ortodossi dopo aver raccolto l'acqua a una sorgente di montagna per preparare le matzoth, il pane non lievitato per la Pesach, a Walaje, in Giudea-Samaria mootools lightbox gallery


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(Fonte: il Post, 6 aprile 2015)


I terroristi sono degli esempi di perfetta integrazione

di Giulio Meotti

Roma. "C'è uno stereotipo secondo cui i giovani europei che partono per la Siria siano vittime di una società che non li accetta e che non ha offerto loro opportunità. Questo non è supportato da prove empiriche". L'integrazione non come antidoto, ma come fermento che facilita il terrorismo. E' la tesi di un gruppo di accademici olandesi che fanno capo a Marion van San e affiliati all'Università Erasmo di Rotterdam. "Un altro stereotipo è che la radicalizzazione derivi dall'integrazione fallita. La ricerca suggerisce invece il cosiddetto paradosso dell'integrazione come terreno fertile per la radicalizzazione". Si abbattono così molti dei miti che dominano oggi il dibattito su terrorismo e democrazia. "Oserei dire che più i giovani sono integrati, maggiore è la probabilità è che si radicalizzino", prosegue la studiosa olandese. "Spesso i giovani radicalizzati erano molto occidentali prima della loro conversione; bevevano alcol e usavano droghe leggere. In molti casi hanno finito gli studi, avevano un lavoro e amici provenienti da contesti etnici misti". Dunque erano perfetti modelli di integrazione. Come Mohammed Bouyeri, l'assassino nel 2004 di Theo van Gogh. Un secchione. Beveva birra, andava in discoteca e fumava spinelli come tanti altri giovani. Nelle ore libere, "Mo" lavorava come volontario nel centro sociale del quartiere.
La ricerca olandese non è l'unica del genere. Uno studio della Queen Mary University dimostra che i soggetti a maggior rischio radicalizzazione sono i giovani delle famiglie abbienti che parlano inglese anche a casa. Dounia Bouzar, direttrice di un centro francese che si occupa di radicalismo religioso, ha studiato i casi di 160 famiglie i cui figli sono partiti per il jihad. Due terzi facevano parte della middle class francese. Il 23 per cento del totale dei combattenti francesi sono addirittura convertiti all'islam. E' il mistero che spinge i giovani di Lunel, una pittoresca cittadina francese che ha la più alta percentuale procapite di jihadisti in Europa, ad abbracciare un credo di morte come quello dello Stato islamico. Un fenomeno che vale per i giovani di Fredrikstad, l'ordinata e pulita cittadina norvegese dalle case basse e di legno da cui sono partiti molti volontari della guerra santa, quanto per Abdirahim Abdullahi, la mente della strage di 148 studenti cristiani all'università di Garissa in Kenya. Laureato, Abdullahi lavorava in una banca, indossava abiti costosi e amava leggere (il suo libro preferito era "Il mercante di Venezia"). Un figlio dell'alta borghesia kenyota.
Il 2 settembre 1977, il poeta Jean Genet distinse sul Monde fra la "brutalità" della Repubblica Federale tedesca e la "violenza positiva" della Rote Armee Fraktion, tessenso l'elogio di quella piccola borghesia europea che voleva, come disse il bardo francese, piantare una lancia "nella carne troppo grassa della Germania". Olivier Roy ha paragonato l'islamismo e il terrorismo di estrema sinistra, ma con un'avvertenza: "Il radicalismo islamico dispone di una base sociale che mancava ai marxisti: la popolazione musulmana sradicata". La nostra famosa zona grigia è molto più estesa. E' l'immenso Londonistan.

(Il Foglio, 7 aprile 2015)


La tesi degli accademici olandesi è convincente. Giovani islamici perfettamente integrati possono a un certo punto avvertire il vuoto raggiunto ottenendo il "meglio" di quello che la nostra società occidentale sa dare. Invece di spararsi subito, come alcuni tra i più deboli sono indotti a fare, altri, più coraggiosi e forti, possono essere attratti dalla morte in un altro modo: si ricordano delle loro origini orientali sottostimate in Occidente e si sentono attratti da una fascinosa ideologia che fa rinascere in loro un senso dell'onore fino a quel momento perduto e propone un'attraente possibilità di uscita dal vuoto in cui affondano: dare la morte agli altri, i colpevoli, i cattivi, gli increduli, gli infedeli, i traditori, gli iconoclasti, i bestemmiatori, gli ebrei. Insomma, qualcuno che si possa additare come causa di male o portatore di male. Se poi nel far questo si muore, comunque si muore in compagnia. E se si è fortemente convinti di quello in cui si crede, si aspettano le beatifiche conseguenze eterne del martirio. Attraente, no? M.C.
   Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame
   e chi crede in me non avrà mai più sete.»
(Giovanni 6:35)


Israele: street dance sotto l'acqua di un idrante

di Marisa Labanca

Quando il ritmo scorre nel sangue è sempre l'occasione giusta per ballare, anche in situazioni disastrose. Nel video, ripreso per le strade di Tel Aviv e pubblicato su Facebook dall'utente Ilyan Marshak, un ragazzo danza su un marciapiede allagato da un idrante esploso a causa di un incidente stradale. Il ballerino, che secondo il sito Briff.com sarebbe Yankalle Filtser, ha improvvisato una suggestiva performance di danza contemporanea sotto il forte gettito dell'acqua, incurante dell'auto incidentata e dell'ufficiale di polizia accanto a lui. E come non essere d'accordo con Ilyan Marshak che accanto al video scrive: "Gli incidenti stradali a Tel Aviv possono trasformarsi in qualcosa di totalmente inaspettato".

(Alessandrianews, 7 aprile 2015)


Il 25 aprile ha bisogno della Brigata Ebraica

Lettera al direttore di VareseNews

Egregio direttore,
   sento il bisogno di condividere alcune riflessioni in merito alla dolorosa situazione che sta, ancora una volta, ponendo le premesse alla manifestazione per il 25 Aprile.
   Ogni anno, noi che abbiamo sfilato sotto le insegne della Brigata Ebraica, siamo stati bersaglio di insulti ed aggressioni da parte di manifestanti propalestinesi (la cui partecipazione è incomprensibile visto che il Gran Muftì di Gerusalemme era alleato di Hitler!), disseminati all'interno di varie associazioni presenti all'interno del corteo.
   Risulta quindi necessario porsi una domanda di premessa: possiamo chiamare "Festa della Liberazione" una ricorrenza che vede al proprio interno il manifestarsi dell'antisemitismo e con questo ci mostra l'evidente presenza nazifascista all'interno particolarmente della sinistra extraparlamentare ma anche del mondo delle associazioni che si definiscono "pacifiste"?!?
   Quando lessi alcuni giorni fa l'articolo di Gianluca Pontecorvo nel quale questi affermava la sua indisponibilità a partecipare alla manifestazione del 25 aprile, ne rimasi colpita e subito difesi la necessità di esserci, di non lasciare che l'ignoranza e l'aggressività l'avessero vinta.
   Purtroppo quello che è accaduto in seguito, nel corso della riunione che doveva essere preparatoria e che invece si è trasformata, come testimoniano le cronache, in pesanti minacce nei confronti della Brigata Ebraica, tale da fare sì che perfino l'ANED di Roma decidesse di togliere la propria partecipazione e che anche la Comunità Ebraica, attraverso una comunicazione ufficiale del Presidente Pacifici, comunicasse la propria scelta di non esserci, mi hanno costretta ad aprire una riflessione un poco più articolata.
   Credo sia necessario porre alcune basi molto chiare: la legittimità e l'importanza della partecipazione della Brigata Ebraica alle manifestazioni del 25 aprile, in relazione all'importanza simbolica che questa ebbe nella liberazione dal nazifascismo, è fuor di dubbio. Chiunque provi a delegittimare questa presenza è di fatto un negazionista e come tale deve essere considerato e forse (ma non è ancora chiaro dato che siamo in italia!) punito secondo le norme relative.
   Ugualmente è necessario dire che la Brigata Ebraica fu un'espressione del nascente Stato d'Israele, a
Se qualcuno si rende disponibile, dietro le minacce naziste dei neo antisemiti negazionisti propale- stinesi, a cedere anche solo di un millimetro rispetto all'assoluto ed incontestabile diritto ad esistere d'Israele entro confini stabili, sicuri e difendibili allora è meglio che la ricorrenza del 25 aprile venga cancellata!
prescindere dalla data di costituzione; la forza della sua presenza e della vocazione democratica ed antifascista di questa formazione, sono le basi e l'anima del rinato Stato d'Israele. Se qualcuno si rende disponibile, dietro le minacce naziste dei neo antisemiti negazionisti propalestinesi, a negare questo assunto fondamentale ed a cedere anche solo di un millimetro rispetto all'assoluto ed incontestabile diritto ad esistere d'Israele entro confini stabili, sicuri e difendibili allora è meglio che la ricorrenza del 25 aprile venga cancellata! Se qualcuno pensa di poter sfilare dietro lo striscione della Brigata Ebraica senza rivendicare la legittimità che le bandiere d'Israele sventolino serene ed orgogliose, con tutte le bandiere degli Stati e delle formazioni che parteciparono alla cacciata dell'occupante nazista, allora è meglio che la ricorrenza del 25 aprile venga cancellata!
   Se qualcuno pensa di sfilare senza farsi carico di dire che questo 25 aprile sarà Shabbat e quindi molti di noi, che osservano le mitzvot, non ci saranno ma saranno felici che gli amici sinceri del popolo ebraico, quelli che sono sempre al fianco d'Israele ancora una volta sfileranno coraggiosamente per noi, proprio per garantirci il diritto a vedere riconosciuto il nostro essere ebrei, rispettosi della nostra tradizione e cultura allora è meglio che la ricorrenza 25 aprile venga cancellato!
   Ebbene se qualcuno desidera sfilare dietro lo striscione della Brigata Ebraica senza che questi messaggi siano chiari e forti, evidenti per tutti e rispettati da tutti i partecipanti alla sfilata allora che la ricorrenza del 25 aprile venga cancellata!
   Perché se a Milano (o in qualsiasi altra città) si sfilerà, senza che siano messe in chiaro queste precondizioni, senza che chiunque voglia sia libero e felice di portare la nostra bandiera, la bandiera di uno Stato che, nonostante sia attaccato da settanta anni è rimasto miracolosamente ed ostinatamente democratico; se qualcuno cadrà nella mostruosa tentazione di fare differenze tra lo spirito ed il valore della Brigata Ebraica e lo spirito ed il valore del rinato Stato d'Israele, non solo avrà perso l'opportunità di riscattare la violenza subita dai nostri amici e fratelli a Roma ma avrà tradito profondamente il senso stesso del 25 aprile e la lotta al nazifascismo che questo giorno dovrebbe poter testimoniare!
   Purtroppo il ritardo con cui la storiografia ufficiale ha aperto riflessioni essenziali sul significativo ruolo che ebbero gli ebrei nella resistenza, sull'importanza simbolica che ebbe la Brigata Ebraica nella liberazione dal nazifascismo, hanno fatto si che si costruisse una narrazione della storia che nulla ha a che fare con ciò che fu realmente. Permettendo di fatto l'instaurarsi di alcuni finti miti che ora offrono le basi ai negazionisti antisemiti per sostenere le loro tesi.
   Per la sua debolezza intrinseca l'italia ha sempre teso a cercare nell'occultamento e nel travisamento la costituzione dei propri miti fondativi. Questo ha portato ora ad una diffusa volontà di non conoscere la
Quello che viene fatto nei confronti della Brigata Ebraica, la falsità dei miti con cui viene legittimato l'anti- semitismo dei propalestinesi potrebbero trasformare il corteo del 25 aprile nel trionfo del social- fascismo.
storia. Le conseguenze stanno portando da anni la manifestazione per il 25 aprile ad essere l'antitesi della "Festa per la Liberazione". Ciò che viene fatto nei confronti della Brigata Ebraica, la falsità dei miti con i quali viene legittimato l'antisemitismo dei propalestinesi potrebbero trasformare nel trionfo del socialfascismo il corteo del 25 aprile.
Perché quel che di democratico e di realmente antifascista ed antinazista rimasto nella penisola italiana possa sopravvivere, è essenziale che la Brigata Ebraica e l'ANED, in tutte le città siano al centro del corteo e che i neonazisti propalestinesi e tutte le associazioni che nulla hanno a che fare con la lotta contro il nazifascismo, non trovino più posto all'interno del corteo. E' necessario che il rispetto per il popolo ebraico, per la sua storia, la sua tradizione, i suoi lutti e per lo Stato d'Israele non siano mai più messi in discussioni, siano elementi costituenti dell'anima antinazista ed antifascista che ancora fatica a determinarsi!
   Non parteciperò alla sfilata del 25 aprile a Milano perché è Shabbat. Sono certa che le amiche e gli amici che hanno sfilato in passato con me sapranno rispettare e comprendere questa mia scelta. So che sapranno scegliere di esserci solo ed esclusivamente se verrà garantito loro che non sfileranno per un partito italiano che non si è mai particolarmente distinto per il sostegno ad Israele o perché gli ebrei fossero liberi di indossare la kippà, ma sfileranno perché sono, come sempre, con Israele senza se e senza ma!
   Sono certa che i rappresentanti della "Brigata Ebraica" gestiranno al meglio la situazione e sapranno evitare qualsiasi ambiguità da parte di chicchessia.
   Invito tutti quelli che ancora combattono contro il nazifascismo di destra, sinistra o islamista a partecipare alla festa, organizzata dall'associazione Amici d'Israele, che ci sarà il 26 aprile all'Umanitaria a Milano per celebrare Yom HaAtzmauth (giorno dell'Indipendenza d'Israele). Laici, religiosi e amici insieme a celebrare la riconquistata libertà dopo oltre 2000 anni, con la fondazione dello Stato d'Israele!
    «Andammo dal popolo ebraico come l'angelo della vita. Si pensa che un soldato uccida o venga ucciso … ciò che noi facemmo come soldati, fu di trovare delle persone morte e di aiutarle a tornare alla vita.»
    Hanoch Bartow - Brigata Ebraica
Questa è la Brigata Ebraica, e chi la insulta, la dileggia, e la minaccia è per la morte e per l'eliminazione degli ebrei, l'annichilimento della libertà e dell'intera umanità.
Ariel Shimona Edith Besozzi


(VareseNews, 7 aprile 2015)


Israele, goccia a goccia ecco i campi di domani

Disegnato dall'architetto David Knafo e realizzatocon materiali al 100% riciclabili, il Padiglione Israele a Expo sorge al fianco di Padiglione Italia all'incrocio del Cardo e del Decumano. Tecnogie agricole all'avanguardia, mostre, chef e un logo che richiama la "Preghiera per la Pace e la Giustizia" nei canti di Re David nella Bibbia.

di Alessandro Bertoldi

 
Alessandro Bertoldi e Menachem Gantz   
Siamo tornati a visitare, virtualmente per ora, il Padiglione Israele a Expo Milano 2015. Con l'aiuto del suo portavoce Menachem Gantz abbiamo scoperto nuove curiosità sulla presenza all'Esposizione mondiale israeliana. Un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo intraprendente, ricco di tecnologie all'avanguardia e aziende innovative che hanno fatto fiorire il deserto.
  A Expo, Israele presenta Fields of Tomorrow: un padiglione dedicato alle tradizioni della terra del latte e del miele ma anche alle più avanzate tecnologie sostenibili in agricoltura e alimentazione. Protagonista l'impegno del Paese nel condividere il know-how e i risultati della ricerca per un futuro migliore.
  E' stato lo stesso Commissario generale del Padiglione, Elazar Cohen a definire Israele una Start-Up Nation e in effetti come dargli torto considerando che la Silicon Wadi sta superando la Silicon Vally californiana e gli investimenti sia pubblici che privati in start up e nuove imprese, in particolare tecnologiche, sono tra i più alti pro-capite al mondo. Sempre Elazar Cohen ha ispirato il logo a un verso della Preghiera per la Pace e la Giustizia nei canti di Re David nella Bibbia (Salmi 85 - 12). Il design del logo è basato sul progetto grafico sviluppato dal Ministero degli Affari Esteri di Israele con la collaborazione della web-company italo-israeliana IsayWeb.
   Grafiche multicolori reinterpretano i significati e i concetti alla base del padiglione formando la parola אמת -emet, verità (da destra alef- א, mem- מ e tav- ת, rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella centrale e l’ultima). Alef, א, fluttua fluida mescolando tonalità di blu e rimanda all’acqua, ingrediente alfa dell’agricoltura. Mem, מ, la lettera centrale dell’alfabeto ebraico, è rappresentata in verde come un cespuglio rigoglioso e rimanda alla straordinaria opera di trasformazione e riforestazione del territorio di Israele. Tav, ת, ultimo carattere dell’alfabeto è disposto in un pattern grafico di colore giallo che rimanda al sole, fonte di vita da cui trarre energia ma anche al deserto in cui gli israeliani sono riusciti a far crescere campi di grano, vigne, frutta e verdura. Israele è un paese giovane con una tradizione di 3.000 anni e un approccio futuristico a tutti i settori, in particolare nell’ambito di agricoltura e tecnologie. In meno di settant’anni di duro lavoro, ricerca e sviluppo gli israeliani sono riusciti a trasformare una paesaggio prevalentemente arido in un territorio fertile.
  Disegnato dall'architetto David Knafo e realizzato da Avant Video Systems con materiali al 100% riciclabili, Padiglione Israele sorge al fianco di Padiglione Italia all'incrocio del Cardo e del Decumano, i due assi principali di Expo Milano 2015. Un campo verticale coltivato principalmente a grano, mais e riso accoglie i visitatori in un'esperienza dal forte impatto visivo. Ispirato a coltivazioni reali, la spettacolare parete verde non ha un ruolo meramente estetico ma introduce il Vertical Planting, una tecnologia rivoluzionaria che permette di risparmiare e ottimizzare territorio e acqua.
  Il padiglione si porrà l'obiettivo di rappresentare il passato di un popolo agricolo, il presente e il futuro rappresentati da un popolo avanguardista ed eccezionalmente tecnologico.
  Un aspetto assai interessante è legato al modo con cui Israele vede i suoi progressi economici, senza distinzioni tra mercato interno ed esterno, ma anzi, con l'obiettivo sempre più riuscito di condividere i successi con il mondo. Proprio al fine umanitario uno delle sfide che il Paese si pone e vuole illustrare a Expo è la sua modalità di contrasto del surriscaldamento globale. Il padiglione è promosso dal ministero degli Affari esteri israeliano e sponsorizzato da KKL-JNF, Keren Kayemeth LeIsrael - Jewish National Fund (ndr, Fondo nazionale ebraico), principale promotore del rimboscamento d'Israele, unico Paese al mondo dove rispetto a 60 anni fa alberi e vegetazione sono di più.
  Entrando nella struttura all'ingresso attori e performer interagiranno con il pubblico, mentre dei video verranno proiettati sulle pareti. La prima parte della mostra racconterà la storia e le vite di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto. Attraverso ricordi, immagini e filmati i visitatori scopriranno l'ostinazione pro-attiva degli israeliani, ma anche la loro attitudine combattiva di fronte alle avversità. Infatti, pare proprio che per il popolo ebraico le difficoltà non siano problemi ma sfide da superare. Un ottimismo che rende da sempre caratterialmente simili italiani ed israeliani.
Il fotografo israeliano Dan Lev
Sempre della serie eventi, uno dei primi sarà la mostra del fotografo israeliano Dan Lev, co-curata da Ilit Engel, che verrà inaugurata il 14 maggio e si concluderà il 31, avrà il titolo di Colorfood e vedrà la partecipazione di otre 30 chef israeliani e italiani tra i più creativi. Gli Chef hanno scelto come ispirazione un colore e una immagine: un paesaggio, un'opera d'arte, un ricordo di famiglia, una scena di vita quotidiana, un autoritratto; con gli ingredienti più significativi della loro cucina hanno dato vita ad un'opera astratta, fuori dal piatto, in stretto legame con il colore e l'immagine scelta. Colorfood nasce da un amore profondo per il cibo e per l'arte e dal desiderio di metterle in connessione.
  Un altro tema espositivo sarà la vita notturna di Tel Aviv e il lifestyle israeliano più giovanile, recentemente a questo proposito è nato anche il sito in lingua italiana Cool Israel. Una mostra verrà invece dedicata alla Foresta del Fondo nazionale ebraico, che ha un attivo di 240 milioni di alberi piantati negli ultimi 70 anni, un record assoluto. Il KKL offre nuove chance a ecosistemi a rischio creando una banca di semi, sviluppando nursery botaniche e piantando alberi ovunque. Grazie alle donazioni provenienti da Israele e da tutto il mondo, il Fondo sviluppa inoltre progetti sociali e ambientali su tutto il territorio. I visitatori saranno quindi guidati in una grande stanza buia in cui luci proiettano nel cielo un campo virtuale e filmati dedicati a quattro progetti all'avanguardia come la biotecnologia che si occupa della ricreazione del Super Wheat, il grano originario e non geneticamente mutato risalente ai tempi biblici, tremila anni fa. Gli altri progetti in mostra sono 3.0 agriculture, ovvero l'applicazione di tecnologie digitali e satellitari alla gestione dei campi, un innovativo progetto di irrigazione in Africa e le più avanzate tecnologie zootecniche in un centro di mungitura industriale in Asia.
  Infine gli ospiti saranno accolti in un'area relax all'aperto. Un ristorante gourmet proporrà pit-stop freschi e genuini da gustare sul posto o da asporto. Il menu includerà hummus, falafel, insalate e ricette tradizionali che rappresentano la migliore cucina israeliana. Al primo piano dell'edificio una terrazza panoramica offre una visione dall'alto di Expo, mentre un'area eventi ospita conferenze, mostre e party. Un'area verde con alberi, panchine e un sentiero acciottolato ricondurrà gli ospiti all'ingresso correndo lungo il campo verticale.
  L'architetto David Knafo spiega il concetto su cui è basata la particolare struttura espositiva: "Nel progettare Padiglione Israele abbiamo voluto evidenziare il ruolo dell'architettura nel promuovere i temi della sostenibilità, della salvaguardia delle risorse naturali e della dedizione al benessere sociale per le generazioni future. La principale struttura del padiglione è un campo verticale composto da unità modulari coltivabili. Ogni modulo contiene un sistema computerizzato di irrigazione a goccia che ottimizza le condizioni di crescita delle piante. Grano, riso e mais, ovvero le principali risorse alimentari di origine vegetale, cresceranno sul campo verticale creando un mosaico di texture, profumi e colori. Il padiglione è stato progettato con le tecnologie sostenibili più avanzate che permettono risparmio di energia e acqua, così che l'intera struttura sarà riciclata al termine dell'esposizione". Basato in Tel Aviv e Haifa, Knafo Klimor Architects è stato fondato da David Knafo e Tagit Klimor nel 1980. Lo studio lavora in diversi ambiti con uno staff di architetti, urbanisti e designer. La loro filosofia sostiene che l'architettura abbia delle importanti responsabilità sociali.
  Saranno ancora molte le sorprese per le quali varrà la pena visitare il padiglione d'Israele.

(il Giornale, 7 aprile 2015)


Un'ipocrita Liberazione

La brigata ebraica che non può sfilare e il doppiopesismo dei partigiani.

Alle prossime celebrazioni della festa della Liberazione, se non cambiano le cose, parteciperanno delegazioni di movimenti palestinesi (che non hanno peraltro mai rinnegato gli appelli lanciati dal gran mufti di Gerusalemme che invitava a combattere insieme alle armate hitleriane), mentre saranno esclusi i reduci della brigata ebraica che si è distinta per l'eroismo con cui ha combattuto il Terzo Reich. Com'è che si è arrivati a una situazione che non è solo paradossale ma francamente intollerabile? Da anni nelle sfilate della Resistenza i rappresentanti ormai anziani della brigata ebraica sono fatti segno di dileggio e di provocazioni da parte di gruppi di arabi di varia estrazione, senza che le organizzazioni partigiane che convocano queste manifestazioni abbiano sentito il dovere di reagire.
Ora l'associazione dei deportati ha chiesto che sia garantita la presenza degli ebrei deportati e di quelli che hanno combattuto il nazismo, il che risulta impossibile se restano gli inviti alle sedicenti rappresentanze della resistenza palestinese (che comunque la si consideri non è la Resistenza al nazismo che si ricorda il 25 aprile). Non avendo avuto risposte, l'associazione dei deportati ha dovuto rinunciare a partecipare a una manifestazione che dovrebbe essere la sua, perché mediocri ragioni di opportunismo politico hanno indotto le organizzazioni partigiane a non chiarire i rapporti con chi partecipa ai cortei solo per esprimere l'odio nei confronti degli ebrei, che nel momento del ricordo della lotta contro il nazismo dovrebbe essere bandito. Se sarà così, se le autorità resistenziali e i partiti che le appoggiano non ci ripenseranno, sarà davvero una festa della Liberazione falsa e triste.

(Il Foglio, 7 aprile 2015)


«Così mia mamma diede soldi ai fascisti e mi salvò dal lager dove venne uccisa»

Gli ottant'anni del Rabbino Giuseppe Laras.

di Gian Guido Vecchi

Rav Giuseppe Laras
Il 2 ottobre ci fu la cattura. Era il primo giorno di scuola, un lunedì. Una volta le scuole ricominciavano in ottobre. Dalle persiane chiuse vedevo alcuni bambini con le cartelle». Rav Giuseppe Laras ha compiuto ieri ottant'anni, è un'autorità tra i rabbini europei, da allora ha dedicato buona parte della sua vita allo studio. La filosofia medievale e rinascimentale, il pensiero di Maimonide, i venticinque anni da rabbino capo di Milano e la cattedra alla Statale, fino a quella summa plurimillenaria del pensiero ebraico, dalla Bibbia a Hannah Arendt, appena completata con il secondo volume di «Ricordati dei giorni del mondo» (EDB). Ricordati.
   Laras aveva nove anni quel giorno del 1944 in cui non poteva andare a scuola per le leggi razziali e i fascisti bussarono alla porta .della nonna, a Torino, dove si era rifugiato con la madre. «Papà era partigiano in montagna e si salvò. Noi eravamo fuggiti a luglio dai rastrellamenti della Val Grande, mia sorella coi nonni paterni vicino a Chivasso, la mamma e io dalla nonna. La nonna diceva che non aveva nessuna paura a rimanere a Torino perché non aveva mai fatto male a nessuno. Non aveva capito, come tanti, che era un tempo di lupi, di malvagi. Era stata la portinaia a fare la spia, pagavano cinquemila lire a ebreo». La voce si arrochisce, di rado il rabbino Laras parla di quel giorno, «quando ci ripenso rivivo quell'atmosfera, è come se fossi sempre stato li. Mi si chiude la gola, mi viene da piangere».
   Eppure da lì bisogna partire. Gli amici che da tempo fanno finta di non conoscerti, la delazione, la madre che con ventimila lire e trenta pacchetti di sigarette convince i due fascisti a lasciare andare il bambino, il percorso lungo via Madama Cristina verso l'hotel Nazionale dove ha sede la Gestapo, l'incrocio con Corso Vittorio Emanuele, l'aguzzino che sembra non volergli lasciare la mano; «guardai mia mamma, mi liberai con uno strattone, e corsi via: fu l'ultima volta che le vidi, lei e la nonna».
   Bisogna partire da quello che Laras ha scritto ne «ll comandamento della memoria» (a cura di Francesca Nodari, Massetti Rodella editori), la necessità di «ricordare per ricostruire»: «L'obiettivo fondamentale non dovrà essere unicamente quello di consegnare ai posteri questa memoria, bensì di trasmettere un atteggiamento di netto rifiuto della violenza e dell'intolleranza talché esso possa diventare parte integrante del patrimonio etico-culturale delle donne e degli uomini di domani».
   Gli anni da rabbino capo e l'amicizia con un altro torinese adottato da Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, hanno segnato forse il punto più avanzato del dialogo tra ebrei e cristiani. Due uomini di fede e di studio, un po' timidi, accomunati dall'ironia delle persone molto colte. Rav Laras sorride nel ricordare uno dei suoi maestri, Leon Ashkenazi: «Ci faceva giocare grandi partite di calcio e poi si studiava. L'ultima volta andai a trovarlo a Gerusalemme, era molto malato, mi richiamò quand'ero ormai sulla porta: "Ti devo dire una cosa, ma non offenderti", mormorò. "Sei diventato un grande sapiente, però come centravanti sei sempre stato una schiappa"».
   Con Martini, invece, si salutarono il 3 maggio 2012, all'Aloisianum di Gallarate, entrambi sapevano che era un addio. «Muoveva appena le labbra e c'era quel sacerdote meraviglioso, don Damiano Modena, che capiva e ripeteva. Parlammo un po' di filosofia. Quando ho visto che era stanco, mi sono alzato. Ci siamo abbracciati e mi è venuto d'istinto di posargli la mano sulla testa e benedirlo secondo la formula tradizionale. A sua volta lui mi ha messo la mano sul capo e ha mormorato una benedizione». Pochi mesi più tardi, quando Martini morì, Laras fece venire da Israele un sacchetto di terra e lo mise nella tomba del cardinale, «Avrebbe voluto essere sepolto a Gerusalemme, la malattia lo aveva impedito, così mi è venuto spontaneo di fare come si usa tra gli ebrei della diaspora. Nella vita le cose più belle vengono così, senza troppa riflessione».
   Laras sa quanto sia «accidentato e difficile» il dialogo. «Dopo duemila anni di persecuzioni e contrapposizioni non è stato facile riprendere come niente fosse». Esiste anche un dialogo con l'Islam «ma è ancora più difficile ed episodico: quando si chiede ai musulmani che vivono tra noi di prender le distanze dalle violenze, c'è difficoltà, imbarazzo, sempre più silenzio che parola». Anche l'età di Maimonide, nella Spagna del XII secolo, «viene indicata come un'epoca di grande apertura e dialogo, una stagione che ci aiuta a sperare nel domani, ma non è durata granché». Bisogna andare avanti, nonostante tutto. Il dialogo non è materia da illusi, richiede il coraggio di guardare in faccia la realtà. «Qualche anno fa sono andato a vedere il lager dove uccisero la nonna e la mamma. Per tanto tempo non mi era riuscito. Mia figlia mi ha detto: papà, ti accompagno io. Lì ho scoperto che la mamma è morta il 29 dicembre del '44. Di Ravensbrück non è rimasto quasi niente. Lo hanno smantellato. Accanto c'era questo laghetto, carino, con le barche. Un contrasto che faceva male. Ma sono contento di esserci andato».

(Corriere della Sera, 7 aprile 2015)



Netanyahu-Obama, la sfida continua

Al premier israeliano non bastano le rassicurazioni dell'inquilino della Casa Bianca sul nucleare iraniano.

di Umberto De Giovannangeli

 
La polemica non si placa. Le rassicurazioni dell'inquilino della Casa Bianca non placano l'ira d'Israele. L'accordo di Losanna sul nucleare iraniano è anche una partita personale fra Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Una partita che non ammette pareggi ma contempla solo vinti e vincitori. L'accordo con l'Iran sul nucleare porta miliardi di dollari nelle casse di Teheran per «gonfiare la sua macchina del terrore globale», ha spiegato alla Nbc, mentre alla Cnn è sceso in maggiori dettagli chiedendo agli Stati Uniti di migliorare l'accordo per non «spianare a Teheran la strada verso la bomba» atomica.
  Netanyahu ha spiegato di avere parlato con numerosi membri del Congresso, sia Democratici che Repubblicani: «Non è una questione di parte. Non riguarda esclusivamente Israele. È una questione mondiale perché saranno tutti minacciati dallo stato più terrorista del mondo, che avrà le infrastrutture per costruire non una ma molte, molte bombe nucleari in serie». Concetto, quello dell'uso dei soldi, su cui il premier israeliano torna parlando alla "Abc": "Gli iraniani non useranno quei soldi per le scuole, le strade o gli ospedali. Se ne serviranno per finanziare il terrore in tutto il mondo, e per il loro apparato militare». Inoltre, a suo avviso, questo «scatenerà una corsa agli armamenti per gli Stati Sunniti», riferendosi alle monarchie del Golfo Persico, a cominciare dall'Arabia Saudita.
  A poco sembrano valse le rassicurazioni di Obama: ribadendo l'impegno nei confronti di Israele, a Thomas Friedman, firma di punta del New York Times, il presidente Usa spiega in una intervista tv dallo Studio Ovale di essere rammaricato «personalmente» del fatto che la sua amministrazione venga accusata di non aver fatto abbastanza a tutela degli interessi di Israele. La "via diplomatica e l'accordo" con l'Iran sono la ribadisce Obama, precisando come l'intesa sia un'occasione che «capita una volta nella vita» per tentare di togliere dal tavolo la bollente questione nucleare. Israele "ha ogni diritto di essere preoccupato dell'Iran, un regime che ha espresso ai più alti livelli il desiderio di distruggere Israele, che nega l'Olocausto", riconosce. Per questo l'intesa se applicata correttamente può aiutare: "Sappiamo - spiega l'inquilino della Casa Bianca - che un attacco militare o una serie di attacchi possono fermare il programma nucleare iraniano per un certo periodo, ma questo quasi sicuramente spingerebbe l'Iran verso la bomba diventando una scusa per dire `questo è quello che succede se non si ha l'arma nucleare, l'America attacca'". Ma la versione "pro-Israele" dell'accordo di Losanna declinata da Obama, non incrina il Muro di diffidenza eretto da Gerusalemme.
  Un Muro che trova importanti sostenitori in terra americana. La linea della fermezza proclamata da Netanyahu trova il consenso, negli Usa, dei Repubblicani. L'ex ambasciatore Usa all'Onu, il repubblicano John R. Bolton, ad esempio, in un articolo sul "New York Times" ha teorizzato il bombardamento dei siti nucleari iraniani come unico antidoto a una Repubblica Islamica dotata di armi atomiche e alla seguente corsa agli armamenti dell'intera regione. Secondo Bolton, nei recenti incontri tra Sauditi, Pakistan, Egitto e Turchia «la questione nucleare era sicuramente nell'agenda. Il Pakistan potrebbe velocemente fornire armi o tecnologia nucleare anche a Egitto, Turchia e altri. Oppure, per il giusto prezzo, la Nord Corea potrebbe
"Obama deve capire che noi non possiamo permetterci un altro dei suoi errori in Medio Oriente. Possiamo lasciar correre il crollo dell'Iraq e la caduta dello Yemen in mani iraniane. Possiamo anche lasciar correre quella che sarebbe stata la presa del potere islamista in Egitto e possiamo lasciar correre il potere ceduto all'Iran in Siria a fianco del regime di Assad. Ma un Iran nucleare è veramente troppo, signor Presidente".
vendere a questi Stati l'atomica alle spalle dell'alleato iraniano". A Bolton fa eco, da Gerusalemme, Boaz Bismuth, foreign news editor di Israel HaYom, giornale che orienta la destra nazionalista israeliana: "Obama deve capire che noi non possiamo permetterci un altro dei suoi errori in Medio Oriente. Possiamo lasciar correre il crollo dell'Iraq e la caduta dello Yemen in mani iraniane. Possiamo anche lasciar correre quella che sarebbe stata la presa del potere islamista in Egitto (se non fosse per il presidente Abdel-Fattah el-Sissi), e per il momento possiamo anche lasciare lasciar correre il potere ceduto all'Iran in Siria a fianco del regime di Assad. Ma un Iran nucleare è veramente troppo, signor Presidente. Persino Parigi, che certo non lesina critiche a Israele e che certamente vuole la nascita di uno stato palestinese, non vede di buon occhio l'accordo sul nucleare che si va profilando con l'Iran… Le elezioni in Israele non hanno affatto dimostrato che gli israeliani non vogliono la pace. Hanno semplicemente dimostrato che gli israeliani non sono ingenui. Obama vuole forse punire Netanyahu, e con lui tutti gli israeliani, per il peccato di non aver fatto come voleva lui, in particolare sul pessimo accordo per il nucleare iraniano?" E se il concetto non risultasse abbastanza chiaro, Bismuth rincara la dose: "Preferisce (Obama) abbracciare gli ayatollah? E' un suo problema. Ma deve spiegarlo al popolo americano e ai pubblici rappresentanti che il popolo americano ha recentemente eletto alla Camera e al Senato.
  A quanto ci risulta, anche negli Stati Uniti vige la democrazia". Altro che fare marcia indietro sull'opportunità, contestata decisamente da Obama, utilizzata parlando al Congresso degli Stati Uniti: Netanyahu torna a rivendicare non solo quell'atto politico ma ribadisce, nella sostanza, che i suoi interlocutori in America vanno ben oltre il presidente e i suoi ministri, estendendosi non solo trasversalmente ai due partiti - Repubblicano e Democratico - ma abbracciando la "Israel lobby" Usa. Qualcosa di assai più articolato della semplice, e spesso citata a sproposito, "lobby ebraica". Vale dunque la pena soffermarsi sui caratteri della "Israel lobby", facendoci guidare in questo "viaggio" analitico da due analisti che a questo argomento hanno dedicato un libro che in America e non solo ha scatenato dibattiti e polemiche. Gli analisti in questione sono John J.Mearsheimer, docente di Scienza della politica all'Università di Chicago, dove dirige il programma di politica della sicurezza nazionale, e Stephen M.Walt, che insegna relazioni internazionali alla John F. Kennedy Schoool of Government presso l'Università di Harvard. Il libro scritto a quattro mani, ed edito in Italia nel 2007 da "Mondadori", s'intitola "La Israel Lobby e la politica estera americano". Otto anni dopo, la loro documentata riflessione resta di strettissima attualità. La lobby, spiegano i due studiosi, "non è un'organizzazione centralizzata e gerarchica, con rigide regole di affiliazione: niente tessere di appartenenza e niente riti di iniziazione. Il suo nucleo centrale si compone di una serie di organizzazioni - dichiaratamente votate a esercitare pressioni sul governo statunitense e sul popolo americano affinché forniscano aiuti materiali a Israele e sostengano le politiche del governo israeliano - e di una serie di personaggi a tali obiettivi la massima priorità". La lobby è questo e anche altro. E di più. "La lobby - spiegano Mearsheimer e Walt - trae alimento anche da un sottobosco di gruppi e individui legati a Israele e favorevoli al protrarsi dell'appoggio americano, anche se privi, nella loro azione, dell'energia e della coesione che caratterizzano i gruppi e gli individui del nucleo centrale.
  Un Lobbista dell'AIPAC (una delle maggiori organizzazione ebraiche statunitensi, ndr), i responsabili di organismi come l'Anti-Defamation League i i Christians United for Israel (CUFI) fanno dunque parte del nocciolo duro della lobby, mentre chi scrive occasionalmente al proprio giornale locale una lettera a favore di Israele, o manda un assegno a un comitato di attivisti filoisraeliani, va collocato in una sfera di sostenitori più ampia ed esterna".
  La lobby include anche un importante gruppo di non ebrei: i sionisti cristiani, una setta
L'uso spregiativo del termine "setta" denota l'ignoranza e/o la faziosità di chi scrive
interna al più ampio e politicamente orientato gruppo della destra cristiana. "Le origini dei sionisti cristiani - annotano gli autori di Israel lobby - risiedono nella teologia del dispensazionalismo, un modo di accostarsi all'esegesi biblica emerso nel XIXmo secolo in Inghilterra…Il dispensazionalismo è una forma di premillenarismo secondo cui il mondo attraverserà un periodo di tribolazioni sempre più drammatiche, finché Cristo non ritornerà. Come molti altri cristiani, i dispensazionalisti credono che il ritorno di Cristo sia preannunciato dalle profezie del Vecchio e del Nuovo Testamento e interpretano il ritorno degli ebrei in Palestina come un evento chiave del processo preordinato che condurrà alla Seconda Venuta…". In questa ottica, i dispensazionalisti videro nella conquista israeliana dell'intera citta di Gerusalemme e della Cisgiordania (che, come fa il Likud, chiamano Giudea e Samaria), portato della vittoriosa Guerra dei Sei Giorni (1967), un compimento delle profezie vetero e neotestamentarie, e questi "segni" li incoraggiarono, insieme con altri cristiani evangelici, a mettersi all'opera per fare in modo che, all'avverarsi del piano escatologico contenuto nella Bibbia, gli Stati Uniti si trovassero "dalla parte giusta": quella israeliana. Ebbe a sostenere Daniel Pipes: "Oltre alle Forze di difesa israeliane, i sionisti cristiani possono essere ritenuti l'estrema risorsa strategica dello Stato ebraico". Se non dello Stato, di certo delle espressioni più oltranziste del panorama politico israeliano: "Fornendo supporto al movimento dei coloni
- rimarcano in proposito Mearsheimer e Walt - e scagliandosi pubblicamente contro ogni concessione territoriale, i sionisti cristiani hanno consolidato le derive intransigenti di Israele e in campo americano - e hanno reso più difficile ai leader Usa esercitare pressioni sullo Stato ebraico.
  Senza il sostegno del sionismo cristiano, il numero dei coloni
israeliani sarebbe più modesto e i governi di Israele e degli Stati Uniti sarebbero meno condizionati dalla loro presenza nei Territori occupati
e dalla loro attività politica. Oltre a questo, c'è il fatto che il turismo cristiano (una parte cospicua del quale è di matrice evangelica) è diventato una ragguardevole fonte di introiti per Israele, generando un volume di entrate che si aggirerebbe attorno al miliardo di dollari all'anno". Sul ruolo dei sionisti cristiani, si pronunciò così, nel 2006, Michael Freund, ex direttore dell'Ufficio comunicazioni di Benjamin Netanyahu: "Ringraziamo Dio per i sionisti cristiani! Piaccia o no, è assai probabile che il futuro delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti sia assai meno nelle mani degli ebrei americani che in quelle dei cristiani d'America". "La Israel lobby - è la conclusione a cui giungono - gli autori - è l'antitesi di un complotto o di una cospirazione. Essa opera infatti alla luce del sole e va ostentando con orgoglio il proprio potere di influenza. Nelle sue attività fondamentali non differisce in alcun modo da gruppi di interesse come le lobby dei lavoratori del settore agricolo, siderurgico, tessile, o le numerosissime lobby etniche, anche se i gruppi e gli individui che compongono la Israel lobby si trovano in una posizione particolarmente favorevole per condizionare la politica estera americana. Ciò che la rende un caso a sé è appunto la sua straordinaria influenza". Una influenza in continua crescita.

(L'Huffington Post, 6 aprile 2015)


“Fratelli americani, io vi accuso”

di Miky Steindler

Chi scrive queste poche righe è un ebreo israeliano che fino a pochi anni fa è vissuto in golà. Sono nato e cresciuto in Italia, dove mi sono formato come uomo e come ebreo.
  Anche in Italia votiamo per eleggere i nostri rappresentanti e da sempre al momento di votare gli ebrei della golà hanno espresso la loro preferenza rispondendo a una semplice domanda : what is good for the jews?
  Questa domanda viene dal senso di fratellanza che da sempre dovrebbe accumunare tutti noi, viene dalle sofferenze comuni vissute negli shtetl/harot/ghetti e dalla consapevolezza che abbiamo l'obbligo di aiutare l'uno l'altro.
  Non è facile rispondere alla domanda: what is good for the jews? Perché non abbiamo un'unica opinione di cosa sia buono per noi, in Israele si sono da poco svolte le elezioni per il rinnovo della Knesset e vi sono presenti più di dieci partiti, secondo il vecchio detto: due ebrei, tre opinioni
  È però possibile rispondere a un'altra domanda: cosa è cattivo per gli ebrei! Un politico che va apertamente contro gli ebrei o lo Stato d'Israele è sicuramente una scelta cattiva per il nostro popolo, sia esso di destra o sinistra, democratico o conservatore.
  Due anni fa molti di voi hanno fatto questa scelta, avete votato un presidente che è apertamente contro lo Stato d'Israele, che non riceve il suo primo ministro e soprattutto dà forza a suoi nemici che vorrebbero la sua distruzione.
  Due ebrei tre opinioni ho detto prima, però l'opinione che l'accordo con l'Iran sia pericoloso per il nostro Stato è univoca: in tutto il paese abbiamo solo un'opinione, prova ne è che mentre a Teheran e Maschad si festeggia a Yerushalaim e Tel Aviv siamo preoccupati e increduli che il paese che pensavamo nostro amico ci abbia tradito.
  Fratelli ebrei americani io vi accuso, ci avete tradito, non so se il vostro Achashverosh faccia bene all'economia del vostro paese ma di certo ci ha venduto a Hamman! Nimkarnu ani veami, sono parole che dovreste conoscere e che avete sentito sin da bambini. Eppure siete rimasti indifferenti alle nostre grida.
  Fratelli ebrei americani io vi accuso, non potete dire che non sapevate, il vostro presidente è al secondo mandato, avete visto i disastri che aveva fatto nel primo con le "primavere arabe" eppure l'avete rieletto, per voi Israele è lontano. Può essere ma i nostri nonni nati negli shtetl/harot/ghetti sentivano il destino di ogni ebreo come se fosse il loro ovunque egli fosse.
  Fratelli ebrei americani, quando verrete da turisti in Eretz Israel camminate a testa bassa perché non avete la dignità di guardarci negli occhi.
  Fratelli ebrei americani, spero che capiate presto che "la carne delle pentole d'Egitto" è buona e gustosa ma di quell'ottanta per cento di ebrei che non vollero uscire dalla schiavitù oggi non rimane nulla.
  Fratelli ebrei americani, con molti di voi abbiamo in comune il più grande cimitero ebraico del mondo, in un luogo chiamato Auschwitz, pensate a quel luogo quando continuerete a tradire il vostro popolo.
  Fratelli ebrei americani, vi ho scritto queste parole non per paura ma per delusione e rabbia, abbiamo passato il Faraone, Haman, e Hitler, passeremo anche il vostro presidente.

(moked, 6 aprile 2015)


L'ayatollah dice bugie

di Cesare De Carlo

Losanna come Monaco? Il Senato americano, chiamato a un'improbabile ratifica, azzarda il paragone. E non perché sia dominato dai repubblicani. Anche molti democratici scorgono l'ombra dell'appeasement nell'accordo, anzi nella cornice di un accordo definito storico dal loro presidente. E in effetti le analogie non mancano. Pensiamo al 1938 e all'accordo fra Hitler e il resto dell'Europa. Anche allora Chamberlain e Daladier lo chiamarono storico. La sola alternativa - dissero - sarebbe stata la guerra. Un anno dopo con l'invasione della Polonia la guerra scoppiava comunque. L'appeasement non placò affatto l'espansionismo del nazionalsocialismo. Né di recente ha spinto alla ragione la Corea del Nord. Lo stop and go dei negoziati le ha permesso di costruirsi dozzine di ordigni nucleari e di missili. Servirà ora a contenere l'aggressività dell'Iran? La risposta ce la dà l'ayatollah Ali Khamenei, massima autorità spirituale. La missione «divina» è guidare il mondo islamico nella guerra santa contro Israele e l'intero Occidente.
  Appare dunque inverosimile per ragioni teologiche oltre che strategiche che l'Iran rinunci alla bomba. La insegue da quasi trent'anni. A questo scopo ha costruito nel ventre delle montagne laboratori spacciati per pacifici. Né d'altra parte una tale rinuncia figura nell'intesa di Losanna approvata con qualche riluttanza dagli alleati americani. Riassumiamo. Nessuna centrale nucleare iraniana verrà chiusa. Nessuna delle 19 mila centrifughe sarà smantellata. La quantità di uranio arricchito verrà «ridotta», non esportata. Le ispezioni saranno condotte dall'Onu, la cui affidabilità è nota. Scrive il Washington Post: l'infrastruttura nucleare rimarrà intatta, anche se in parte «messa in naftalina». Fra dieci anni (o anche prima) l'Iran sarà a tutti gli effetti una potenza nucleare. Ma già ora - rivela il Wall Street Journal - altri Stati della regione stanno approntando programmi nucleari. L'Arabia Saudita e l'Egitto in primo luogo. Dunque fra le conseguenze negative ci sarebbe anche quella proliferazione nucleare che lo stesso Obama, nel suo primo discorso all'Onu, aveva assicurato di voler scongiurare. A meno che... a meno che di qui alla fine di gugno la cornice non rimanga vuota.

(Quotidiano.Net, 6 aprile 2015)


Oltremare - Filtri

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Il vantaggio di abbandonare temporaneamente Israele subito dopo le elezioni e mentre si finisce di discutere il piano internazionale per arginare il nucleare iraniano, è che da un giorno all'altro si entra in una bolla di notizie rarefatte e filtrate. Dal commento diretto, dal battibecco sempiterno ad ogni livello da parte di quelli che il nuovo governo di Bibi e l'atomica iraniana li hanno a pendere sul capo come una spada di Damocle ben poco metaforica (noi tutti), a commentatori televisivi che dispongono di un comprensibile distacco pragmatico e scambi di battute fra ebrei diasporici, che con l'andar del tempo comprendo invece sempre meno.
Forse eravamo andati tutti un po' in overdose di notizie elettorali, e avremmo risentito comunque di questa improvvisa apnea anche restando in Israele per la festa. Ma mi capita ogni volta che ritorno per un tempo limitato nel lato del mare che per me ha dato inizio a tutto: le notizie su Israele in diaspora sono come guardare dentro un caleidoscopio che contiene esattamente gli stessi pezzetti di vetri colorati, ma che è stato appena scosso a formare una composizione del tutto irriconoscibile rispetto a quella guardata appena prima di imbarcarsi al Ben Gurion.
E se fosse solo una questione di linguaggio o di diversa sensibilità, non sarebbe grave. Ma il filtro che governa la rilevanza delle notizie dal Medio Oriente è qualcosa di misterico e quasi affascinante. Emergono a tratti dichiarazioni tonanti di Netanyahu, e questo è normale essendo il capo del governo. Mi pare che invece il nuovo presidente Rivlin non abbia ancora conquistato l'audience fuori da Israele ed è un peccato perché l'uomo pensa bene e parla meglio. E poi trovano spazio fatti di cronaca di rilevanza discutibile, insieme a ogni singolo incidente o lancio di pietra o scontro che sui giornali israeliani fanno al massimo un trafiletto.
Due pesi e due misure, lo sappiamo. Eppure anche un'abitudine pragmatica dei media a sovraesporre ogni notizia che contenga violenza e arrivi dal nostro piccolo paese. Anche adesso che l'Isis spadroneggia fino ai nostri confini. Quindi due pesi, due misure, e nessun senso del relativo.


(moked, 6 aprile 2015)


25 aprile: se l'Anpi si fa complice dei deliri anti-ebraici

di Roberto Della Seta

Furono circa 1000 gli ebrei italiani nella Resistenza: un numero molto alto, sia in rapporto alle dimensioni delle nostre comunità ebraiche sia per il rischio speciale che essi correvano in caso di cattura da parte dei nazifascisti. Molti hanno nomi noti: Eugenio Curiel, Vittorio Foa, Primo Levi, Enzo ed Emilio Sereni, Elio Toaff, Umberto Terracini, Leo Valiani. La loro scelta non fu un caso isolato in Europa: basti pensare alla Brigata Ebraica al comando del generale ebreo canadese Benjamin che operò anche in Italia, composta di 5 mila volontari ebrei provenienti da ogni parte del mondo e inquadrata nell'esercito britannico.
   Per questo, oltre che naturalmente per il significato simbolico della festa del 25 aprile - ricordare e celebrare la liberazione dell'Italia da nazisti e fascisti, cioè da coloro eseguirono (i primi) e attivamente sostennero (i secondi) lo sterminio pianificato di 6 milioni di ebrei -, sarebbe una ferita grave l'assenza della stella di Davide dalle manifestazioni per il 70o anniversario della Liberazione.
   Oggi questa assenza è probabile. Qualche giorno fa alla Casa della Memoria a Roma era in programma, promossa dall'Anpi, una riunione per preparare la manifestazione del 70o nella capitale. Come ha raccontato Eugenio Iafrate, vicepresidente dell'Aned - l'Assocazione degli ex-deportati -, a quel tavolo si sono presentate alcune associazioni filo-palestinesi sostenendo con toni minacciosi che i simboli ebraici e in particolare le bandiere della Brigata Ebraica devono restare fuori dalle celebrazioni del 25 aprile. L'Anpi sul punto non ha preso una posizione chiara, da qui la scelta dell'Aned di non partecipare, seguita a ruota da dichiarazioni ancora più polemiche del presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici: "E' Shabbat - ha detto Pacifici - e non saremo presenti, ma non ci saremo anche perché le organizzazioni pro-Palestina pretendono che non ci sia quel giorno il simbolo della brigata ebraica che liberò l'Italia con alleati e partigiani. I palestinesi, che durante la guerra erano alleati dei nazisti, sulla rete scrivono che se ci saremo ci picchieranno".
   Pacifici, in un passato recente sostenitore convinto dell'allora sindaco Alemanno, non è la persona più indicata per dare lezioni di rispetto della storia, ma la reazione così dura delle organizzazioni ebraiche ai tentativi - peraltro non nuovi - di estrometterle dalla Festa della Liberazione è più che giustificata. Finora l'Anpi ha taciuto o ha pronunciato parole ambigue, che rischiano di confonderla con chi per ignoranza o per malafede usa la Festa della Liberazione per dare sfogo ai delìri antiebraici che stanno tornando ad avvelenare l'Europa.
   Di questo si tratta, di un antisemitismo strisciante che come un fiume carsico periodicamente riemerge e oggi veste i panni dell'islamismo radicale e della solidarietà filo-palestinese. Non c'entrano nulla i giudizi negativi sulle attuali politiche dello Stato di Israele, né tanto meno l'idea che i palestinesi abbiano diritto a un loro Stato. Personalmente condivido l'uno come l'altra, e capisco pure che la Festa italiana della Liberazione sia l'occasione per esprimere una domanda generale di libertà e di diritti, che dall'evento celebrato risalgono fino ai drammi e ai problemi del presente. Ma il 25 aprile ricorda la liberazione dell'Italia dai nazisti e dai fascisti, e l'Anpi ha il dovere morale di onorare, quel giorno, anche la memoria di migliaia di ebrei - partigiani, volontari della Brigata Ebraica - che furono tra i liberatori.
   Il presidente dell'Anpi Carlo Smuraglia dica pubblicamente che le insegne della Brigata Ebraica hanno pieno e indiscutibile titolo per partecipare al 25 aprile, che la loro presenza è preziosa e insostituibile. Lo dica in fretta - mancano pochi giorni al 70o - oppure l'associazione che rappresenta diventerà complice di chi sostiene la bestemmia di una Festa della Liberazione contro gli ebrei.

(L'Huffington Post, 6 aprile 2015)


Brigata Ebraica, memoria di tutti

 
Daniele Nahum, responsabile culturale del Pd a Milano
La defezione dell'Associazione Nazionale Ex Deportati dalla manifestazione romana per il 25 aprile, defezione dovuta al sentimento di intolleranza manifestatosi oggi come in passato nei confronti delle insegne della Brigata Ebraica, continua a tenere banco sui giornali.
   "Noi che rappresentiamo gli ex deportati, sommersi e salvati, nei campi nazisti, sia politici che razziali, non possiamo accettare che lo spirito e i significati del 25 aprile, della Resistenza e della Liberazione vengano così totalmente snaturati e addirittura fatti divenire atto di accusa contro le vittime stesse del nazifascismo" aveva denunciato in una nota l'Aned giovedì scorso evidenziando inoltre la presenza alla riunione preparatoria del corteo Anpi sigle che niente hanno a che fare con il 25 aprile come Fronte Palestina, Rete Romana Palestina e Rappresentanza Palestina in Italia.
   Molte sono le voci a levarsi in queste ore. Intervistato da Repubblica, il presidente dell'associazione romana Amici di Israele Alberto Tancredi ha spiegato: "Portiamo lo striscione della Brigata ebraica nel corteo del 25 aprile dal 2003: l'ultima volta che ci è stato consentito di parlare dal palco fu cinque anni fa e anche in quell'occasione non mancarono le contestazioni". Per poi aggiungere: "Era il quarto appuntamento alla Casa della Memoria per preparare il corteo. Ci aveva invitato come sempre l'Anpi: le altre volte eravamo 30 persone al massimo, qui ci siamo ritrovati in 70. Ho avuto l'impressione di una contestazione organizzata: erano tutti contro Israele e la Brigata ebraica".
   Molte reazioni anche sul fronte politico. Tommaso Michele Giuntella, presidente del Pd romano, dice: "Se l'Aned non c'è, non ci sarò neppure io. Dopo i continui problemi mossi nei confronti della Brigata ebraica, doppo il comunicato dell'Aned, che denuncia la presenza e gli insulti di sigle che nulla hanno a che fare con la Resistenza, non posso sfilare a un corteo del 25 Aprile ostaggio di gente che è fascista allo stesso modo di quelli da cui ci liberammo". Sulla stessa lunghezza d'onda Paolo Masini, assessore alla Scuola con delega alla Memoria di Roma Capitale. "Festeggiare il 70esimo anniversario della Liberazione senza una rappresentanza delle formazioni ebraiche significa cancellare un pezzo della nostra storia".
   Il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, ricordando come la Comunità non possa comunque partecipare a iniziative in programma di Shabbat, ha sottolineato che la nota dell'Aned "non è sfuggita" e di considerare lo snaturamento del 25 aprile "un pericolo per il Paese".
   A Milano invece le insegne della Brigata saranno scortate da quelle del Partito Democratico. "Il corteo del 25 aprile non deve essere schiavo di sigle che si proclamano antifasciste ma nei comportamenti riproducono modelli fascisti e antisemiti" spiega il responsabile culturale del Pd a Milano e Provincia Daniele Nahum.

(moked, 6 aprile 2015)


Dal Kenya all'Iran: che fine hanno fatto i pacifisti?

Nessuna bandiera arcobaleno è stata sventolata per il massacro dei cristiani o contro lo sviluppo dell'energia nucleare a Teheran: evviva la coerenza.

di Giuseppe Lombardo

Se fosse prevalsa l'oggettività, gli eventi che si sono susseguiti nelle ultime settimane avrebbero fatto gridare allo scandalo i pacifisti e sarebbero stati forieri di manifestazioni ed adunate di piazza.
   In Kenya la sigla Al Shabaab - un gruppo islamista formatosi nel 2006 dall'Unione delle Corti Islamiche - ha sterminato 147 cristiani. Molti giornalisti hanno scritto che nel corso dell'attentato sono morte 147 "persone", altri hanno preferito la dizione "studenti". Non è così: sono stati falcidiati i cristiani, selezionati per la propria fede nel corso di una forsennata campagna di conversione che punisce con lo sterminio chi ad essa non si piega. E' la guerra santa, il bagno di sangue come tributo al Profeta.
   Non è la prima volta che questo movimento semina il panico nello Stato africano, eppure soltanto dopo l'escalation di violenza gli Stati Uniti hanno garantito la propria solidarietà ed il proprio supporto strategico, nonostante al Qaeda avesse riconosciuto tale realtà quale propria cellula affiliata sin dal gennaio 2012.
   Più peloso ancora, però, è il silenzio dei pacifisti: quelli che, con la bandiera arcobaleno, hanno riempito le vie e le piazze delle nostre città alla vigilia delle operazioni condotte dalle truppe occidentali nel contesto mediorientale. Da parte loro nemmeno un sussulto, un fremito, un sibilo di protesta.
   I paladini del "no-war" hanno assunto un analogo atteggiamento nei confronti dell'intesa sul nucleare raggiunta fra Washington e Teheran. Ma come? L'Italia non può ricorrere pacificamente all'energia atomica per questioni di sicurezza collettiva e l'Iran, uno Stato teocratico che minaccia la sopravvivenza d'Israele, sì? Dove sono finiti i movimenti-cocomero, gli ambientalisti verdi fuori e rossi dentro? Come mai non si è levata neppure una protesta contro le dichiarazioni di Mohammed Naqdi, allorquando ha ribadito che "l'obiettivo di cancellare Israele dalla mappa non è negoziabile"? Nessuno si è allarmato? E, ancora, che fine hanno fatto le belle bandiere di quanti sostenevano che "un'altra difesa è possibile"?
   Sono domande prive di retorica, se si considera la vulgata prevalente quando si trattano temi complessi come gli affari internazionali. Tutti inneggiano alla mano tesa di Obama, pochi ascoltano le preoccupazioni di Netanyahu. E pazienza se Israele è l'unica democrazia della regione…

(strettoweb.com, 6 aprile 2015)


L'aviazione del Kenya bombarda le basi di al-Shabaab. Israele offre la sua assistenza

L'aviazione keniana ha bombardato le basi dei militanti di al-Shabaab dopo la strage nel campus universitario di Garissa in Kenya che ha provocato la morte di quasi 150 persone. Lo riferisce la Bbc online.

 Bombardati due campi
  Le forze keniane hanno colpito in particolare due campi degli al-Shabaab, ha detto un portavoce delle forze militari, secondo quanto riferisce il Guardian. I jet hanno bombardato i campi di Gondodowe e Ismail, entrambi nella regione a confine con il Kenya. Nuvole di fumo provocate dalle bombe rendono difficile stabilire i danni dopo l'attacco o fare una stima del numero di morti. "Abbiamo colpito due zone in quanto secondo le informazioni in nostro possesso, è da lì che provengono i miliziani che attaccano il Kenya", ha aggiunto.

 Netanyahu parla con Kenyatta e offre assistenza
  Il premier Benyamin Netanyahu ha parlato con il presidente keniota Uhuru Kenyatta al quale ha porto le condoglianze di Israele per le vittime degli attacchi terroristici delle ultime ore ed ha offerto, se richiesta, ogni assistenza necessaria. ''Israele e il Kenya - ha detto Netanyahu secondo un comunicato - sono entrambi in guerra contro il terrorismo''.

 Intervento di forze speciali al campus dopo sette ore
  Il quotidiano del Kenya Daily Nation riferisce che giovedì scorso la polizia attese sette ore prima di inviare un'unità delle forze speciali al college di Garissa attaccato dagli estremisti islamici somali al Shabaab. Il quotidiano scrive che le forze speciali impiegarono solo trenta minuti per uccidere i fondamentalisti e porre fine all'assalto.

(Tiscali, 6 aprile 2015)


Accordo sul nucleare - Deputato iraniano: "Non approveremo la norma chiave dell'intesa"

Secondo il presidente della commissione parlamentare per la Sicurezza nazionale, Alaedin Boruyerdì, una maggioranza dei parlamentari "si oppone fortemente" all'applicazione del Protocollo aggiuntivo del Trattato di non proliferazione nucleare.

Alaedin Boruyerdì
Il Parlamento iraniano non approverà l'applicazione del Protocollo aggiuntivo del Trattato di non proliferazione nucleare, previsione chiave dell'accordo sul nucleare raggiunto tra l'Iran e il gruppo 5+1 (Usa, Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Germania) a Losanna. Lo ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare per la Sicurezza nazionale, Alaedin Boruyerdì all'agenzia iraniana Fars. Secondo il deputato, una maggioranza dei parlamentari "si oppone fortemente" a questa previsione ed è perciò "abbastanza improbabile" che venga approvata. "Ci sono posizioni contrastanti in Parlamento sull'accettazione e attuazione di questo Protocollo aggiuntivo, e la via per la sua approvazione non è spianata", ha affermato Boruyerdì.
   L'applicazione del Protocollo aggiuntivo, espressamente richiamato dalla dichiarazione finale del 2 aprile scorso a Losanna, garantirebbe all'Agenzia internazionale per l'energia atomica un pieno accesso al programma nucleare iraniano, con possibilità di ispezione in tutti gli impianti e in ogni installazione che si sospetti sia connessa con attività atomiche.
   "Se si vuole applicare questo Protocollo in Iran, sarà necessaria l'approvazione del Parlamento. Noi ricordiamo che dieci anni fa il governo aveva applicato volontariamente questo Protocollo e noi dicemmo che se la questione nucleare iraniana posse stata sottoposta all'Onu saremmo stati obbligati a sospenderne l'attuazione. E questo è ciò che è accaduto", ha aggiunto il presidente della commissione, e ha sottolineato che il Parlamento segue da vicino l'evoluzione dell'accordo sul nucleare e che potrebbe votare una legge per imporre al governo di rivedere il riavvicinamento all'Occidente se i patti fossero violati.
   Da quando è stato annunciato l'accordo di Losanna, le uniche voci critiche in Iran sono giunte dal Parlamento, dominato da conservatori ostili al governo del presidente Hassan Rohani e al ministro degli Esteri, Mohamad Yavad Zarif. Una situazione per certi versi non dissimile da quella che il presidente Barack Obama deve affrontare negli Usa.

(RaiNews24, 6 aprile 2015)


Sull'accordo sul nucleare iraniano Obama prova a rassicurare Israele

In un'intervista al New York Times la risposta ai timori dell'alleato. "Un rischio calcolato. Non esiste una formula migliore".

di Lucio Di Marzo

Il problema non è il fatto che un'intesa ci sia, ma il fatto che la quadra trovata non è affatto positiva.
Banjamin Netanyahu la pensa così da sempre sul nucleare iraniano. Lo ha detto al Congresso statunitense, invitato a parlare prima che l'intesa con Teheran fosse siglata, lo ha ribadito ieri.
Se molti hanno visto nell'accordo un passo avanti, Israele non ha fatto nulla per nascondere il suo timore per una stretta di mano che il suo premier definisce un "sogno" per Teheran, ma soprattutto "un incubo per il resto del mondo", convinto che consentirà a Teheran di sviluppare un ordigno nucleare, ma pure una corsa generalizzata agli armamenti negli Stati mediorientali.
Israele teme per la sua sicurezza e non fa nulla per nasconderlo, anche se da Washington continuano ad arrivare segnali opposti. L'accordo con l'Iran - Obama lo ha detto in un'intervista concessa al New Yortk Times - non cambierà nulla per il potenziale difensivo degli israeliani, ma soprattutto "non esiste una formula più efficace dell'iniziativa diplomatica" per impedire a Teheran di ottenere un'arma nucleare.
Nell'accordo Obama vede la chance migliore per il Paese e l'opportunità di assumersi "qualche rischio calcolato per cogliere importanti nuove opportunità", consapevole della "potenza schiacciante" del Paese che guida.

(il Giornale, 6 aprile 2015)


Altri titoli ricavati da note di agenzia:
   Obama, l'accordo è la nostra chance migliore, non minaccia Israele
   Nucleare, Obama: l'accordo non minaccia la sicurezza di Israele. Usa con voi
   Barack Obama rassicura Israele: "In caso di attacco siamo pronti a difendervi"
   Obama al fianco del popolo israeliano: "L'intesa con l'Iran non è una minaccia per voi"
   Obama agli israeliani: "L'ntesa con l'Iran non vi minaccia, noi sempre al vostro fianco"
Probabilmente Netanyahu pensa, senza poterlo dire, che la cosa peggiore che gli possa capitare è avere al suo fianco una persona come Obama: le sue promesse valgono più o meno quanto quelle di Arafat. M.C.


La colpa degli ebrei della diaspora

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Si sono chiusi i riflettori a Losanna tra i 5+1 e L'Iran sul programma nucleare degli ayatollah di Persia, gli stessi che nonostante la facciata e la sfacciata degli sforzi non porteranno a nulla in quanto tali accordi non smantellano il programma nucleare iraniano, forse lo stanno rallentando, questo grande disegno costruito e voluto da Barack Obama e chiaramente orientato all'odio che nutre questo statista nei confronti del popolo Ebraico, tale accordo se ratificato a fine giugno (e mi auguro di no) porterà ancora più instabilità in questo medio oriente dilaniato da guerre intestine tra gli stessi Arabi Mussulmani, ecco cosa sarà l'eredità di Obama, un medio oriente nuclearizzato e in mano a Stati più o meno cosiddetti Arabi Moderati, l'Arabia Saudita l'Egitto e la Turchia e altri paesi del medio oriente vorranno la bomba atomica per paura dall'Iran, e ne hanno ben ragione.... ora mi chiedo però, dove sono gli ebrei della diaspora? gli ebrei la lobby ebraica americana in questo momento che potrebbe segnare la stessa esistenza dello stato di Israele, lo stato millenario del popolo ebraico, che nessuna persecuzione guerra o deportazione aveva mai messo in pericolo, c'è riuscito Obama insieme al suo burattinaio Kerry, ma mi chiedo ancora e ne sono affranto, dove stanno gli ebrei della diaspora, forse seduti nei loro salotti perbene, nei loro campi da golf o nella city della borsa di New York, se un giorno non ci dovesse essere più un focolare ebraico cosa rimarrebbe a loro solo il vile denaro? E la loro identità dove andrebbe a finire? Sotto la cenere nucleare che un pazzo visionario assetato di odio antiebraico ha costruito con il silenzio dei grandi capitalisti ebrei di sinistra.
Angelo Micheletti
Pescara

(Notizie su Israele, 6 aprile 2015)


Milano - 300 sopravvissuti ai lager nazisti per l'apertura della Casa della memoria

Inaugurazione il 24 per il nuovo edificio destinato a ricordare le vittime del nazifascismo, ma anche quelle del terrorismo. Poi il raduno dell'Aned. Non ci sarà il presidente Mattarella.

di Laura Asnaghi

 
Milano - La Casa della memoria
La Casa della memoria è pronta per l'inaugurazione, in calendario il 24 aprile. All'apertura, che cade in contemporanea con le celebrazioni del settantesimo anniversario della Liberazione, ci sarà il sindaco Giuliano Pisapia, con il suo vice, l'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris e Filippo del Corno, il responsabile della Cultura. Era previsto anche il presidente della Repubblica ma Sergio Mattarella potrà essere a Milano solo il 25 Aprile, dove terrà un discorso al Piccolo Teatro.
  La Casa della memoria è stata concepita come una 'grande scatola' dentro la quale mantenere vivo il ricordo dei partigiani, dei deportati di guerra e delle vittime del terrorismo. In questa palazzina, all'ombra dei nuovi grattacieli del Bosco verticale, con affaccio sui giardini di via Confalonieri, al quartiere Isola, troveranno casa l'Anpi che rappresenta i partigiani, l'Aned, l'associazione dei deportati nei campi di concentramento nazisti e l'Insmli, l'Istituto nazionale della storia del movimento di Liberazione italiano, guidato da Valerio Onida. Insieme a loro troveranno ospitalità anche le due associazioni che rappresentano le vittime di piazza Fontana e quelle del terrorismo.
  Sempre nella Casa della memoria è previsto anche il Museo nazionale per la Resistenza, come annunciato dal ministro Dario Franceschini. Ma a questo proposito, le perplessità non mancano. «Per fare una cosa seria — spiega Roberto Cenati, il presidente dell'Anpi — occorre nominare un comitato scientifico composto, tra l'altro, da storici e architetti e mettere le basi per un museo multimediale. Ma questo non si fa dall'oggi al domani». E, intanto, come ricorda Cenati «vogliano che la Casa della memoria sia una casa aperta alle scuole e ai giovani e che produca cultura, con confronti e dibattiti, stimoli e riflessioni».
  Il presidente dell'Anpi chiederà presto al Comune di poter fare un sopralluogo per verificare il risultato finale dell'opera, finanziata con un contributo straordinario di 3,6 milioni del gruppo immobiliare Hines. La Casa della memoria è rivestita da mattoncini di terracotta usati come tessere di mosaico che compongono volti di partigiani, di donne che hanno lottato per l'emancipazione, di giudici uccisi dai terroristi, più le scene di deportati nei lager nazisti e della strage di piazza Fontana. Fuori la struttura è imponente e, al suo interno, una scala gialla a forma di elica unisce tutti i piani.
  Tra venti giorni la Casa della memoria apre i battenti e, per farla diventare da subito un punto di riferimento, il 3 maggio l'Aned, presieduto da Dario Venegoni, organizzerà il raduno dei sopravvissuti ai campi di concentramento. «Sono 300 anziani, che arriveranno da tutta Italia — dice Venegoni — e lo scopo di questo incontro è fare in modo che siano i giovani a raccogliere il testimone e continuare la battaglia di chi ha vissuto la barbarie dei lager». Anche l'Anpi ha in calendario un evento culturale, la mostra 'Dal pane nero al pane bianco', che si terrà al Museo del Risorgimento a partire dal 21 aprile.

(la Repubblica, 6 aprile 2015)


Nozze in Israele, la multicultura è un happening

Da tutto il mondo ritornano milioni di ebrei da comunità lontane e nel paese si respirano tolleranza e fiducia: è un'illusione?

di Claudio Giua

Quanto accade ogni giorno in Afghanistan, Siria, Iraq, Yemen, Cisgiordania e Gaza, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria fa sì che tutti noi guardiamo alle sponde sud del Mediterraneo e al Levante con sgomento e paura, come a luoghi dove l'estremismo fondamentalista sta diventando endemico e non esiste più il rispetto minimo della vita. Non è sempre stato così. I popoli di quelle aree sono stati storicamente più tolleranti
degli europei. Al netto dei terroristi, forse lo sono tuttora. Amin Maalouf, scrittore di madrelingua araba, educato in una scuola francese, padre libanese della comunità melchita greco-cattolica e madre turca cattolica, ha raccontato nei suoi libri - tra cui "Il periplo di Baldassare", "Origini", "Un mondo senza regole" - di come musulmani, cattolici, ebrei, ortodossi abbiano a lungo serenamente prosperato fianco a fianco sulle sponde del Mediterraneo. Israele, che ha indirettamente contribuito con la sua stessa esistenza a creare le condizioni di frustrazione da cui gli estremisti islamici suggono linfa velenosa, è il paese dove ancora si percepisce tutta intera l'antica propensione mediorientale alla convivenza delle fedi, delle opinioni, dei costumi. L'ho verificato spesso.
  I matrimoni sono sempre una festa ma in Israele diventano happening multiculturali. Un cattivo sociologo direbbe che il fenomeno è dovuto alle "dinamiche centripete della controdiaspora". Traduco: qui sono tornati, per restarci, milioni di ebrei che per molte generazioni hanno vissuto in comunità distanti migliaia di chilometri, dalla Polonia allo Yemen, sviluppando lingue, culture, tradizioni molto diverse. Come nell'America delle immigrazioni di massa, dal melting pot, dal crogiuolo etnico israeliano sono andati via via formandosi un popolo e uno Stato.
  Tia è la figlia di un mio amico nato in Romania da genitori ebrei tedeschi e cresciuto a Tel Aviv, poi università in Italia, carriera in Canada nella sede locale in un'azienda americana, oggi direttore della filiale europea della stessa multinazionale. Sua moglie, la mamma di Tia, è un'ebrea di famiglia ungherese, anche lei transitata per l'Italia prima di trasferirsi oltreoceano con il marito e rientrata in Israele per stare vicina alle due figlie canadesi decise fin da piccole a costruirsi un futuro nelle terre degli antenati.
  Tia ha sposato una settimana fa un giovanotto ebreo d'origini irachena per parte di madre e austriaca per parte di padre. La sorella di Tia, più grande di un paio d'anni, ha maritato nel 2012 un informatico ebreo londinese sbarcato a Tel Aviv dopo la laurea. Alla cena della vigilia del matrimonio c'erano dunque amici e parenti degli sposi nati o cresciuti in Israele, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Italia, Francia, Germania, Ungheria, Romania, Russia, Egitto, Sri Lanka, Marocco, Iraq, Siria e chissà dove altro. Alla cerimonia del giorno dopo il rabbino ha parlato in ebraico e inglese. Nel salone delle feste i piatti e la musica erano prevalentemente mediorientali ma a fine serata tutti si sono scatenati in pista con "Don't let me be misunderstood" e "Ymca". Tra una portata e l'altra ho discusso con un canadese della legge che, nel suo paese, non consente di mandare in pensione un settantenne se manca il suo consenso; con un'americana ho concordato sul fatto che ai bambini vanno insegnate due o, meglio, tre lingue; un ebreo iracheno mi ha spiegato perché negli ultimi decenni la canzone popolare israeliana è stata influenzata dalle sonorità arabe; una ragazza araba mi ha spiegato la sua scelta di venire a vivere a Tel Aviv.
  Tornati a tarda notte nell'appartamento affittato a Jaffa di proprietà di Catherine, ebrea francese laureata a New York, siamo stati svegliati prima dell'alba dal muezzin e, appena riaddormentati, dalle campane della vicina chiesa cattolica.
  Anche stavolta Israele m'è apparso - come a ogni mia visita in trent'anni - multietnico, aperto, vitale. Visto da Tel Aviv o da Haifa lo si direbbe un paese in pace: non fosse per i giovanissimi soldati che girano per i mercati e prendono l'aperitivo con il fucile sempre a tracolla, potresti pensare di passeggiare sul lungomare di San Diego o in un boulevard parigino. Non si riconoscono i segni della rabbia sociale ed etnica che punteggiano le metropoli europee né leggi la rassegnazione alla crisi aeconomica sui visi di chi affolla gli autobus. Secondo molti, è un'illusione: mi assicurano che la tensione che precede la guerra è palpabile negli insediamenti dei coloni e nelle periferie di Gerusalemme, che ai confini con il Libano e la Siria t'immagini che i tagliagole dell'Isis stiano preparando l'attacco dietro le colline. Eppure, come sostiene Maalouf, non sarà la violenza a colmare il vuoto di valori, bensì una rinascita globale della cultura, del senso di responsabilità e della consapevolezza che la comunità umana è una sola. E poiché tutto quel che è accaduto può accadere di nuovo, per la pace e la tolleranza c'è sempre una speranza.

(Il Piccolo, 6 aprile 2015)


"Festa di li schietti", una ricerca

di Lidia Vitale

Incontriamo Faro Lo Piccolo, memoria storica e ricercatore delle tradizioni territoriali siciliane e cerchiamo di capire con lui l'origine di una delle feste pasquali più suggestive: la "Festa di li schietti".

 
CINISI (PA) - La Festa ha luogo il sabato e la domenica di Pasqua, anche se, ai giorni nostri, si festeggia la domenica mattina. Che connessione vi è tra una prova di destrezza celebrativa della virilità e la morte e risurrezione di Cristo? Ho letto nel tuo testo "All'Ombra dell'Albero più bello" (Simposium, 2012) che ha origini, secondo la tua tesi, dal popolo ebraico che si era insediato qui in Sicilia.
  "Quando nel 1492 Ferdinando II "Il cattolico", re di Spagna, emanò un editto di espulsione di tutti gli ebrei residenti, anche di quelli dell'isola, si presume fossero in 40 mila sefarditi provenienti dalla Spagna e insediatisi in Sicilia a dover lasciare l'isola. Questi ebrei erano vissuti in Sicilia fin dai tempi biblici, partiti dalla Palestina all'inizio della diaspora del 70 d.C., avevano abitato la Sicilia fino al 1492 ed erano in numero superiore alla popolazione residente.
  Le azioni che essi poterono compiere in risposta all'editto furono l'abiura o l'espatrio. I poveri andarono via, i ricchi ebrei sefarditi che possedevano terre, abiurarono e si fecero battezzare ma mantennero però due cose fondamentali della loro religione: la circoncisione e la Pasqua, la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana.
  Il feudo "Giudeo" esisteva pertanto nella zona di Balestrate dal 1500, e da almeno due secoli si era insediato un significativo gruppo ebraico. Per lunghi periodi dell'anno questo feudo era praticato da molte famiglie terrasinesi fondatrici del Comune di Balestrate per lavoro o possedimenti, i quali erano entrati in contatto organico anche con le tradizioni ebraiche".
  Tradizionalmente la Pasqua ebraica, festa del passaggio dalla schiavitù dagli egiziani, alla liberazione tramite il patto di Dio con Mosè, veniva celebrata ricordando la sera della fuga, la cena frugale e semplice consumata, il sacrificio dell'agnello senza difetto, in ricordo del sangue versato sugli stipiti delle porte a segnare la presenza di primogeniti ebrei da risparmiare.
  "Veniva celebrato pertanto sia con le primizie dei coltivatori che coi primi nati del gregge e questo periodo coincideva con la Pasqua cristiana. Ancora oggi e da più di duemila anni, i samaritani di una piccola tribù ebraica, praticano a 100 chilometri da Gerusalemme, nel monte Garizim, l'attualizzazione dell'episodio biblico del sacrificio dell'agnello offerto come atto propiziatorio. Il rito inizia prima che sorga il sole, come ripete la Festa dell'Albero, ad opera di 12 giovani schietti tanti quante le tribù d'Israele.
  Il montone maschio senza difetti doveva essere arrostito tutto intero e l'odore arrivare a Dio. Quindi iniziava la "cena conviviale" durante la quale assumevano un ruolo centrale gli anziani che trasmettevano oralmente ai giovani la storia delle peregrinazioni ebraiche. Qualcosa di analogo accade nella Festa terrasinese; non troppo tempo fa oltre ai 12 schietti altri invitati maritati vi prendevan parte. Questi ultimi sovrintendevano al sacrificio dell'agnello, al taglio dell'albero, al suo "vestimento" ed, infine, a "sorvegliarlo" nella peregrinazione per il paese badando che i rami non toccassero il suolo impuro.
  La liturgia cristiana affonda le radici in quel rito ebraico, come compimento dell'Antico Testamento: Gesù viene immolato come "Agnello sacrificato per i peccati del mondo", durante la Pasqua dei Giudei".

- Cosa c'entra la Pasqua ebraica con l'albero terrasinese?
  Durante la Festa delle Capanne, gli Ebrei tenevano una serie di elementi riuniti e presenti, che facevano un uomo completo che può rivolgersi a Dio: nella mano destra un fascio di vegetali (salice di fonte, mirto, palma) mentre con la sinistra impugnavano un cedro. Il fascio veniva elevato a Dio. Questi vegetali li troviamo come elementi simbolico-ornamentali nell'Albero così come testimoniano alcuni contadini molto anziani.
  Si può ipotizzare che presso il casale siciliano, gli ebrei si limitassero ad adornare l'albero e che solo su iniziativa dei terrasinesi fosse introdotto il taglio e l'elevazione, suggerito magari nel periodo degli innesti, e l'addobbo ornamentale fatto di mirto, canna di fiume (simile al salice) foglie di palme intrecciate".

- Quando aveva inizio la festa?
  "Prima dell'apparizione della enciclica Mediator Dei di Pio XII, la Festa dell'Albero avviava i primi passi nella notte tra il Venerdì e il Sabato Santo col taglio dell'albero e il sacrificio dell'agnello. A mezzogiorno di sabato, dismesso il lutto, gli schietti iniziavano ad addobbare l'albero. Nel pomeriggio vi erano giochi popolari e la sera del sabato intrattenimenti vari. La domenica di Pasqua avveniva la benedizione dell'albero e l'"alzata" per le vie del paese e la festa si concludeva a pranzo. Ma dal 1947 in poi con le nuove disposizioni vaticane venne vietato qualsiasi festeggiamento se non la "manciata", di fatto marginalizzando la festa.
  Alla fine degli anni '50 con un nuovo arciprete e una Proloco, la festa viene rilanciata, ripristinando la manciata nella giornata di sabato, nonostante il divieto del 1947".

- Ritornando all'albero, perché lo si "alzava"?
  "L'albero non si alzava per provare la virilità. Lo poteva fare chiunque come segno di rispetto verso una persona importante, perché l'albero rappresentava Dio e lo si benediceva".

(Cinisi online, 5 aprile 2015)


L'ira dei sauditi: «Obama traditore»

E' questo «il grido di dolore» lanciato su Twitter dagli internauti filo-sauditi all'indomani dello storico accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Losanna. Di contro, il social network è invaso da tweet dei filo-iraniani che esultano per «l'eroe americano»; ovvero il tenace ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif.

WASHINGTON - «Obama traditore». E' questo «il grido di dolore» lanciato su Twitter dagli internauti filo-sauditi all'indomani dello storico accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Losanna. Di contro, il social network è invaso da tweet dei filo-iraniani che esultano per «l'eroe americano»; ovvero il tenace ministro degli Esteri iraniano Mohammed Javad Zarif che, tra l'altro, ha avuto un bagno di folla al suo arrivo all'aeroporto di Teheran. Askanews ha raccolto solo alcune delle migliaia di tweet postati sull'edizione araba del social network subito dopo l'annuncio. Eccone alcuni:
  «Obama traditore, Ban (Ki-Moon) traditore. Siete tutti traditori e vi odio tutti». E' questo il commento disperato di @wedadmansoor, una donna saudita che sintetizza con efficacia la grande delusione del suo Paese che rimane pur sempre il principale alleato degli Usa nella regione. «Un grido di dolore per la morte della coscienza», è invece il triste cinguettio di Nada al Nabulsi seguito da un altro grido allarmato come quello di @aburkan1999 che twitta: «E' un accordo con un solo paragrafo: ai persiani la terra. Ai romani (intesi come occidentali) il sottosuolo (il petrolio). La nazione araba è persa».
  Delusione e tristezza che si mescolano a frustrazione e rabbia come emerge da tanti tweet: «Mohammed al Sahil» sul suo account @Maflash, scrive: «E' dovere degli Stati del Golfo non fidarsi dell'America che non ci proteggerà e sono loro che hanno aiutato l'espansionismo iraniano. Un punto interrogativo grande come tutta la penisola araba».
  «L'America e l'Europa sono giunte alla convinzione che la convivenza con l'Iran è meglio che fare la guerra a Teheran. La distanza geografica e religiosa non ha impedito di firmare l'accordo nucleare»
, argomenta invece @Nader Abdel Imam.
  Mazen al Sarhan è arrabbiato e sotto l'hashtag #accordonucleare, twitta: «La politica guarda unicamente agli interessi, anche a spese della moralità e della coscienza». Per «Annahar», il quotidiano filo-saudita libanese: «Da oggi non c'è alcuna differenza tra l'asse del male e il grande satana».
  
Non manca chi, come @dianamoukalled, ricorda la natura autoritaria del regime degli ayatollah di Teheran: «Le immagini dei festeggiamenti di Teheran -scrive - sembrano ancora più belle dello stesso accordo, è importante però che la gente uscita nelle strade possano festeggiare le loro libertà usprate».
  Sul versante opposto, la gioia, quella di molti filo-iraniani sicuramente felici, se non altro, per la prospettata fine dell'embargo. Su tutti, @aminq2, una ragazza che pubblica la foto dei festeggiamenti a Teheran che twitta all'artefice dell'accordo da parte iraniana: «Zarif sei accolto da eroe, ti meriti tutto».
  Molti gli sfottò ai rivali «arabi» come fa per esempio Najah Mohammed Ali, che sul suo account @NajahNajahmali, scrive: «Gli arabi inviperiti per l'accordo nucleare parlano di concessioni dell'Iran, e noi diciamo a loro morite nella vostra ira: non otterrete niente da Teheran se non attraverso il dialogo».
«Proprio perché Israele è triste, noi siamo felici». Parole postate da Hashim al Safawani sul suo account @hashim2220.

(askanews, 5 aprile 2015)


Le tante facce dell'antisemitismo in Europa

Renzo Fracalossi presenta il libro «La scuola dell'odio»

di Valentina Leone

BOLZANO - Un profondo sguardo alla storia, per non dimenticare. Si terrà mercoledì alle 18, nella Sala Fronza del Teatro Cristallo, la presentazione del volume di Renzo Fracalossi «La scuola dell'odio», che analizza la storia dell'antisemitismo in Europa. Oltre all'intervento dell'autore, è prevista un'introduzione di Orfeo Donatini, presidente dell'Anpi di Bolzano, organizzatrice dell'evento in collaborazione con la Comunità ebraica di Merano e la circoscrizione Europa - Novacella. Una storia sempre attuale, nonostante il «mai più» adottato come una sorta di mantra da tutto il mondo al termine della seconda guerra mondiale.
   Il viaggio di Fracalossi, regista, autore teatrale e capo di Gabinetto della presidenza del Consiglio, parte dal Medioevo; passa per l'epoca dei Lumi, la Belle Epoque e la grande vergogna della Shoah, per approdare infine ai giorni nostri, ancora pregni di una cultura negazionista e agitati da recrudescenze neo nazionaliste. In 315 pagine, pubblicate da Ancora Editore e disponibili anche in formato ebook, Fracalossi mostra come la persecuzione antiebraica non sia un fenomeno proprio solo del XX secolo o di una certa ideologia. In Europa, infatti, i pregiudizi e i falsi miti relativi agli ebrei sono stati molteplici e le accuse di speculazioni economiche, di corporativismo e di elitarismo religioso, originatesi dall'invidia, si rintracciano nel passato di molti paesi. Dalla Germania alla Francia, dall'Inghilterra alla Russia, passando per Italia e Polonia nessuno è stato immune dalle ondate di odio razziale verso gli ebrei.
   Per ricostruire il destino storico degli ebrei in Italia, l'autore passa al vaglio le comunità di Roma e Venezia; per la Germania, invece, Fracalossi chiede aiuto alla semantica. il fanatismo antiebraico, infatti, emerge fin dal termine Jude, Giudeo, sinonimo di «usura». Utilizzato in maniera ancor più dispregiativa con l'accostamento christenjuden, «cristiani-giudei», con cui i tedeschi indicavano i grandi magnati e, più in generale, tutti coloro che avevano a che fare con il denaro.
   Ma è al «delirio nazista sulla purezza della razza ariana» che l'autore dedica massima attenzione: dalle espulsioni del '33, con 500.000 ebrei tedeschi messi al bando dall'amministrazione statale e dalle aule universitarie alla «protezione del sangue tedesco» del '35, quando per decreto si impedì l'unione in matrimonio tra ariani e non ariani. «Un vortice che - sottolinea Fracalossi - seppure spietato, perde raramente di lucidità». Ma come si combattono i rigurgiti di antisemitismo che tutt'ora agitano l'Europa? «È necessario ricordare, raccontare e capire affinché la scuola dell'odio non abbia più discepoli».

(Corriere dell'Alto Adige, 5 aprile 2015)


Hanno scherzato sul nucleare iraniano?

Arrivano le prime discrepanze tra Usa e Teheran sulle versioni dell'accordo

Viene proprio da chiedersi se a Losanna hanno scherzato quando, come ha fatto Barack Obama, hanno definito storico l'accordo raggiunto sul nucleare iraniano. Le delegazioni dei cosiddetti 5+1 ( Usa, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) ed il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif non hanno quasi fatto a tempo a tornarsene a casa che le dichiarazioni rilasciate fanno intravedere importanti divergenze sulla valutazione in merito a punti sostanziali dell'accordo trovato.
   Le versioni dell'intesa sarebbero due. Possibile? In effetti, sono stati solo Zarif e Federica Mogherini, il capo della politica estera dell'Unione europea, a rendere noto una scaletta articolata in sette punti che deve essere ratificata in un documento conclusivo per la fine del prossimo mese di Giugno.
   Appena, però, le luci su Losanna si sono spente sono cominciati i distinguo. Sembrano riguardare soprattutto l'embargo che da decenni è stato adottato internazionalmente contro l'Iran come risposta al suo impegno in campo nucleare. Secondo gli Usa si tratterebbe di una "sospensione". Per Teheran, invece, l'accordo raggiunto prevede la dine completa di ogni forma di boicottaggio per le sue attività commerciali.
   La polemica così si sta rinfocolando. Il ministro Zafir ha minacciato che Teheran possa riprendere le attività nucleari se l'Occidente si ritirasse dal patto sottoscritto in Svizzera. "Tutte le parti coinvolte dall'accordo - ha precisato - tornano libere in caso di violazione dell'accordo da parte l'altra parte".
   Il ministro iraniano che, ovviamente, non può trascurare il forte peso che all'interno del gruppo dirigente iraniano hanno i molti che si oppongono all'accordo quadro raggiunto e che, a differenza di molta parte della popolazione preferirebbero tenersi il loro programma di sviluppo nucleare al posto della liberalizzazione dei conti bancari, dell'esportazione di petrolio e quanto altro oggi è impedito dalle norme internazionali.
   Sull'altra sponda, è l'intera amministrazione Obama a dover fare i conti con una serie altrettanto temibile di contrari ad ogni forma di accordo con Teheran:l'Israele di Benjamin Netanjahu, l'Arabia Saudita e i repubblicani nel Congresso di Washingthon. Un Congresso, ricorda senza tanti peli sulla lingua il New York Times , su cui le organizzazioni pro Israele si sono prodigate a far giungere consistenti finanziamenti i quali, stando ai conti fatti dal giornale di New York, sono stati indirizzati, più che negli scorsi anni, a favore dei parlamentari repubblicani rispetto a quelli per i democratici.
   Per quanto riguarda i rapporti con i sauditi, è notoria la freddezza calata recentemente tra le due capitali, anche se Obama ha appena deciso di riprendere l'invio delle armi agli alleati sunniti nel Medio oriente a partire dall'Egitto che si é molto avvicinato alla monarchia di Riyadh.

(UltimaEdizione.eu, 5 aprile 2015)


La paura (ragionevole) di Israele e degli ebrei

L'Iran e il nucleare L'accordo che è stato raggiunto con Teheran non porterà allo smantellamento dell'atomica, ne allungherè i tempi, Perché allora meravigliarsi se Gerusalemme non partecipa alla festa con i potenti della Terra?

di Pierluigi Battista

Stareste tranquilli se chi ha giurato di annichilire la vostra Nazione con la bomba atomica riuscisse a ottenere il permesso di costruirne i presupposti, sia pur al rallentatore? E se vi dicessero che siete degli ottusi oltranzisti, solo perché fa festa chi ha promesso di cancellarvi prima o poi dalle carte geografiche? Ecco, lo Stato di Israele si sente così: i potenti della Terra fanno festa, mentre la prospettiva della catastrofe si avvicina. E dicono anche che siete esagerati e paranoici. Lo dicono quelli che a veder sventolare una bandierina dell'Isis a qualche centinaio di chilometri di distanza già sono travolti dal terrore.
  L'Iran khomeinista, l'Iran degli ayatollah e dei mullah al potere vuole l'arma finale per annientare Israele e cacciare gli ebrei che sporcano e deturpano la terra santa dell'Islam. Non è un progetto nascosto, non è il frutto della paranoia israeliana, dei guerrafondai che si inventano nemici immaginari per perseguire i loro loschi interessi: è un programma aperto, esibito, reiterato, argomentato, supportato da una lettura fondamentalista e intransigente dei testi sacri. L'antiebraismo è un tratto costitutivo dell'integralismo che ha preso il potere a Teheran, non una sua super-fetazione propagandistica, una fanfaronata da bulli. Quel microscopico lembo di terreno che si chiama Stato di Israele è l'ossessione di Stati giganteschi che circondano Israele con un mare di ostilità. La questione palestinese non c'entra niente. Nessun Paese arabo ha aiutato i palestinesi a costruire uno Stato autonomo e indipendente dal '48 al '67 secondo i confini tracciati dall'Onu con una risoluzione che Israele accettò e i Paesi arabi rifiutarono. E l'Iran della rivoluzione khomeinista, che non è un Paese arabo, ma che ha contribuito fortemente alla islamizzazione di un conflitto che ha perduto oramai ogni traccia di nazionalismo laico finalizzato all'indipendenza e all'emancipazione dei territori occupati nel '67 da Israele, ha da sempre l'obiettivo della costruzione dell'arma finale per cancellare lo «scandalo sionista» dalla faccia della terra. La comunità internazionale lo ha sempre avuto chiaro. Le sanzioni sono state decise per questo. Tutti sapevano che l'uranio arricchito dell'Iran in mano agli antisemiti non aveva uno scopo pacifico. Tutti sapevano che le centrifughe per ottenerlo venivano nascoste per impedire ai blitz israeliani di intervenire e al resto del mondo di controllare cosa si stava accumulando nel cuore di montagne inespugnabili, invisibili, capaci di sfuggire a qualunque ispezione. Oggi si sta decidendo, con un accordo che dovrà essere perfezionato da qui a giugno ma che oramai è ben disegnato nei suoi contorni essenziali, che l'uranio arricchito dell'Iran non viene fermato, ma soltanto frenato. Un po' di impianti da smantellare. Una consistente diluzione dei tempi. Ma non la fine del programma atomico a scopi bellici. Hanno detto a Israele: a quelli che vogliono distruggerti con l'arma finale abbiamo imposto di mettere le cose al rallentatore. La distruzione non è scongiurata, è solo posticipata. Nel frattempo la rimozione delle sanzioni sarà di giovamento agli scambi economici internazionali. Israele si rassegni, e veda di non ostacolare questo spettacolare «accordo di pace».
  E invece, ostinati, testardi, incontentabili, rompiscatole, gli israeliani che terrorizzati hanno votato ancora per Netanyahu (ma come mai? saranno mica impazziti?), si permettono addirittura di avere paura. Ma come, dicono i seguaci dell'equilibrio perfetto, ma se ce l'ha già Israele perché all'Iran si dovrebbe negare la bomba atomica? Solo che l'arma atomica nell'era della Guerra fredda è stato un messaggio dissuasivo, non aggressivo: guarda che se t'azzardi a usarla, l'uso che ne faremo noi per rappresaglia vi annienterà all'istante. Mentre quella dell'Iran è solo ed esclusivamente un messaggio aggressivo: abbiamo forse dimostrato di avere paura della morte, noi che abbiamo spedito sciami di bambini a farsi uccidere nella guerra degli ayatollah contro Saddam Hussein? Inoltre la bomba di Israele è palesemente, nemmeno i più acrimoniosi dei nemici potrebbero negarlo, uno scudo difensivo, difficile pensare in tutta onestà che a Gerusalemme qualcuno stia progettando di fare di Teheran la nuova Hiroshima. La pretesa iraniana della bomba atomica invece fa tutt'uno con il progetto di annientare Israele. È colpa di Netanyahu se in Israele hanno paura? Il governo israeliano doveva partecipare a negoziati con uno Stato che non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele? Sono tutti oltranzisti a Gerusalemme? Pretendono addirittura che venga loro riconosciuto il diritto di esistere, questi estremisti.

(Corriere della Sera, 5 aprile 2015)


Accordo con l'Iran o contro Israele?

Lettera a La Stampa

In Medio Oriente convivono gli Stati islamici e Israele. Molti degli Stati islamici hanno come obiettivo la cancellazione dello Stato di Israele dalle carte geografiche, lo sterminio della sua popolazione, il genocidio degli ebrei. Obama e l'Europa sono orgogliosi di un accordo raggiunto con uno degli stati islamici che vogliono questo. Gli abitanti di questo Stato esultano. Come può una persona in buona fede non dubitare che questo accordo sia stato raggiunto a spese (o forse sulla pelle) degli israeliani?
Roberto Bellia (Vermezzo)


(La Stampa, 5 aprile 2015)


Roma - Il Ghetto e le Sinagoghe perdute

La Pasqua dei cattolici e quella ebraica: diversi rituali, le terminologie e i curiosi dlaletti.

di Fabio Isman

- LA STORIA
 
  Oggi i cattolici celebrano la Pasqua; venerdì, gli ebrei lo hanno fatto con la loro; domenica prossima, toccherà agli ortodossi: comunque, auguri a tutti, dalla città in cui Pesach, la massima ricorrenza ebraica, è stata festeggiata assai prima di quella cattolica. Già nel lI secolo avanti Cristo, degli ebrei erano infatti insediati nell'Urbe; e Giulio Cesare (100 - 44 a.C) ne rispettava i dettami: nell'anno sabbatico, esonerati dal pagare il tributo allo Stato. E da un'orazione di Cicerone, si sa che mandavano a Gerusalemme i contributi per il Tempio. Poi, nei rapporti tra Urbe ed ebrei qualcosa si rompe; e numerosi storici dicono che Tiberio, nel 19, ne spedisce un discreto numero (per qualcuno, perfino quattromila) in Sardegna, a lavorare in miniera e combattere il brigantaggio: si usava già. Nel 70, arrivano gli schiavi di Tito, che distrugge il tempio e conquista Gerusalemme: la comunità s'ingrossa. I cattolici festeggiano la resurrezione di Cristo; gli ebrei, la loro dalla schiavitù in Egitto, con il determinante apporto dell'altissimo, che gli spalanca le acque del Mar Rosso. Solo in Italia, pare, gli ebrei celebrano le prime due serate della settimana pasquale: secondo alcuni, perché, essendo complicato il calendario lunare, fino a tutto il Novecento temevano di sbagliare la data. Se non è vera, è comunque ben trovata. La sinagoga più antica nel mondo occidentale è quella di Ostia, del l secolo; nell'antica Urbe ne sono documentate 13 o 14, durante l'intera età imperiale; insomma, i «giudei», erano una realtà concreta.
   Gli ebrei hanno sempre avuto tradizioni e rituali diversi, a seconda della loro derivazione. Ci sono anche abbondanti storielle e barzellette sull'argomento, Roma, poi, è sempre stata un «melting pot» di provenienze, per tutti: anche per gli ebrei. Perfino alcuni dolci pasquali romani sono stati importati da ebrei catalani e castigliani dopo il 1492, la data dell'editto con cui sono stati cacciati dalla Spagna.

- IL TEMPIO
  Così, la città era famosa anche per le sue cinque «Scole»: altrettante sinagoghe, con riti diversi. La Nova era, ad onta del nome, la più antica: del 1518; quella del Tempio; la Siciliana, di rito italiano; la Castigliana, di rito spagnolo; e la più importante, la Catalana, edificata da Girolamo Rainaldi nel 1628. Resta una piazza che ancora le ricorda: alla fine, erano tutte in un medesimo stabile; demolite tra il 1908 e il 1910, quando il Ghetto viene «risanato». L'ultima ad andarsene, dopo che nel 1839 un incendio ne aveva distrutte o lesionate gravemente due, possedeva un'edicola neoclassica, attribuita a Giuseppe Valadier (1835), quello che sistema Piazza del Popolo. AI museo ci sono l'Aron (l'armadio che contiene i Rotoli della Legge) e i due seggi della Scola Nova e della Catalana, con una sua fonte del 1624, come conferma un'iscrizione.

- IL DIALETTO
  Gli ebrei romani hanno sempre parlato un curioso dialetto. In età romana giuravano su Giove, tanto erano commisti alla città. I cristiani partecipavano alle loro feste: nel 1728, un editto gli proibiva di intervenire a quella delle Capanne. La vulgata era una singolare «koiné» di ebraico e romanesco, almeno fino a dopo metà del Cinquecento: ce lo raccontano perfino i verbali di alcuni processi. Parole normalmente capitoline; ma, per gli affari o la religione, s'inseriva una terminologia ebraica. Poi, la nascita del Ghetto, secondo al mondo dopo Venezia (1555), rende diversa la situazione: e tra quelle mura, si è parlato sempre più ebraico, magari anche per non farsi capire dai «birri». Il più famoso poeta giudaìco-romanesco è stato Crescenzo Del Monte, nato nel 1868: due anni prima che cadessero le mura del Ghetto.
   Fino al 1847, il primo giorno di carnevale i delegati della comunità dovevano portare il tributo in Campidoglio vestiti in modo grottesco, tra i lazzì popolari. Pio IX cancella l'usanza. Nel 1848, prima notte della Pasqua ebraica, fa abbattere le mura del recinto. Ma dopo la Repubblica romana vuole che, pur ormai senza confìnì, gli ebrei vi rientrino. La vera liberazione arriva soltanto con l'Unità d'Italia.

(Il Messaggero, 5 aprile 2015)


Cinema Italia Israele 2 - Dal 12 al 26 aprile

Sette opere recenti, che rappresentano al meglio la produzione cinematografica italiana, e quattro "classici" in rassegna a Tel Aviv.

di Simone Pinchiorri

Cinema Italia, un progetto dell'Associazione Culturale ADAMAS (Italia-Israele) in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv e promosso dalla Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti (IIFCA), sostenuto dal Ministero degli Esteri Israeliano, dalle Cineteche Israeliane e dal Comune di Tel Aviv, porta per la seconda volta il cinema italiano contemporanea in Israele, con la selezione di sette opere che rappresentano al meglio la produzione cinematografica italiana.
Queste le opere che saranno proiettate:
   "Anime Nere" di Francesco Munzi,
   "L' Arbitro" di Paolo Zucca,
   "Fuoristrada" di Elisa Amoruso,
   "In grazia di Dio" di Edoardo Winspeare,
   "L' Intrepido" di Gianni Amelio,
   "La Mafia uccide solo d'estate" di Pif
   "Via Castellana Bandiera" di Emma Dante.
Registi, attori e sceneggiatori incontreranno il pubblico in sala.
Inoltre saranno proiettati i "classici" "La Doce Vita" di Federico Fellini, e tre opere di Vittorio De Sica "Umberto D.", "Ieri, oggi e domani" e "Ladri di biciclette".

(Cinemaitaliano.info, 4 aprile 2015)


La borsa di Israele batte i propri vicini

Nonostante i trambusti geopolitici nel resto del Medio Oriente, la Borsa di Israele continua a registrare performance straordinarie. Infatti, i principali indici azionari del paese stanno salendo, mentre quelli dei vicini sono in declino.
Il Tel Aviv 100 e il Tel Aviv 25 hanno registrato aumenti a due cifre per quest'anno, mentre molti altri nella regione hanno mostrato cifre molto basse che negli ultimi giorni sono sensibilmente peggiorate.
L'ultima occasione per i mercati di Israele, e sfida per la concorrenza regionale, è arrivata dopo la vittoria elettorale del Primo Ministro Benjamin Netanyahu il mese scorso, in un momento di ripresa generale per i titoli azionari israeliani. I titoli avevano subìto un calo nel 2014 a causa dei tumulti economici europei (vista l'alta dipendenza di Israele dalle proprie esportazioni), e del prolungato conflitto a Gaza.
"Con l'Europa che sembra essersi stabilizzata e la crescita degli altri mercati di esportazione, Israele ha iniziato a risalire dopo aver toccato il fondo", ha dichiarato Brian Friedman, presidente della Israel Investment Advisors, che possiede un fondo privato che investe nel paese.
Nonostante il mercato sia sceso nei giorni che hanno seguito le elezioni, il TA 25 è salito del 3% durante la scorsa settimana. Ha guadagnato il 6,9% il mese scorso, è salito del 12,1% dall'inizio dell'anno e del 16,1% nel corso degli ultimi 12 mesi.
Gli economisti hanno anche modificato al rialzo le stime di profitto per il Prodotto Interno Lordo israeliano, attualmente al 3,5%.
"Non dimenticate che nonostante Israele si trovi in Medio Oriente, è molto più simile ad un'economia occidentale", ha detto Friedman. "(In Israele) Esiste lo stato di diritto, e non si può dire lo stesso per nessun altro paese della regione".

(Daily Forex, 3 aprile 2015)


"Felice nel box", successo in Usa per il film girato a Sabbioneta

Il mediometraggio è stato presentato al Jewish Film Festival di Atlanta

 
SABBIONETA (MN) - Il film "Felice nel box", girato in buona parte a Sabbioneta, è stato proiettato, in prima mondiale, al Jewish Film Festival di Atlanta, negli Stati Uniti, il più grande festival cinematografico ebraico al mondo dopo quello di San Francisco. Quest'anno al festival sono stati presentati oltre 65 film provenienti da oltre 26 paesi diversi; il film della regista italo-americana Ghila Valabrega è stato proiettato in due sale differenti di cui una munita di schermo gigante IMAX.
La storia raccontata nel mediometraggio è basata sulla incredibile vicenda della lapide della tomba dell'ebreo sabbionetano Felice Leon Foà, vissuto nel XIX secolo, che venne portata a Milano dove restò per oltre trent'anni prima di essere riconsegnata nel cimitero di Borgofreddo.
Ad Atlanta, prima della proiezione, la regista ha avuto occasione di parlare come 'guest speakers' ad un pubblico attento, curioso e giocoso, formato da più di 500 persone; ha così raccontato di Sabbioneta e della bellissima Sinagoga danneggiata dal terremoto del 2012.
Il film è infatti nato anche per promozionare a livello internazionale una raccolta di fondi a favore del restauro della Sinagoga e del Cimitero Ebraico di Sabbioneta. Il lavoro della Valabrega, per le sue finalità, ha avuto il patrocinio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, della Fondazione per i Beni Culturali ebraici in Italia, delle Comunità Ebraiche di Milano e di Mantova, della Pro Loco e del Comune di Sabbioneta e dell'Associazione di Cultura ebraica Man Tovà.
Il mediometraggio, che ad Atlanta ha divertito il folto pubblico, parteciperà nei prossimi mesi ad altre rassegne cinematografiche a tema ebraico negli Stati Uniti diventando quindi anche un'occasione unica di promozione nel mondo del sito UNESCO di Sabbioneta.

(La Provincia di Cremona, 4 aprile 2015)


Gli Ebrei nella Liguria Occidentale. Il racconto di una Pasqua ebraica nel XV secolo

Gli ebrei del Ponente ligure fino all'estremo occidente, comprensivo dell'odierno 'imperiese', dipendevano nominalmente dalla loro Comunità genovese, formata da elementi di origine marocchina e andalusa già prima dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492.

di Pierluigi Casalino

"Una comunità ebraica consistente esisteva in Savona intorno alla metà del XV secolo, in gran parte costituita da israeliti espulsi da Genova, che trovarono in Savona, data la nota rivalità con la Superba, miglior trattamento ed ospitalità. Anche da Savona, tuttavia, la nascita di un locale Monte di Pietà, comportò una nuova espulsione di ebrei, se pur alcuni restarono in città: non è un caso che che il ricordo di tale persistente presenza viene associata storicamente ad un Vico dei Giudei oggi Vico Crema, come si evince da carte topografiche del XVIII secolo. Anche a Noli e dintorni si registrò in quell'epoca una discreta frequentazione giudica, come viene testimoniato dalle accuse lanciate nei loro confronti di 'omicidi rituali', accuse su cui indagò anche il Vescovo di Ventimiglia in sede e fuori sede (in occasione di un processo intentato per l'analoga accusa ad ebrei del Trentino) con esito negativo.
  Gli ebrei del Ponente ligure fino all'estremo occidente, comprensivo dell'odierno 'imperiese', di Sanremo e di Ventimiglia e città limitrofe, dipendevano nominalmente dalla loro Comunità genovese, formata da elementi di origine marocchina e andalusa già prima dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Ebrei tedeschi e di altre regioni italiane, a dire il vero, avevano trovato residenza in Sanremo durante tutto il XV secolo e oltre. Si ha traccia in una tradizione orale narbonese di una celebrazione della pasqua ebraica in Sanremo intorno al 1470, con intervento di elementi originari della Provenza. Si deve arrivare, però, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso per vedere la creazione di una succursale sanremese ufficiale degli ebrei genovesi. Nella Città dei Fiori, infatti, si era andata consolidando una comunità di ebrei provenienti dal Nord Italia e dal Nord Europa, soprattutto per ragioni climatiche, ancor prima che cominciasse a suonare la sinistra propaganda razziale del nazi-fascismo. La persecuzione nazista colpì ferocemente quegli ebrei che erano rimasti in zona e non solo a Sanremo, ma anche a Vallecrosia e Imperia.

(Sanremo News, 4 aprile 2015)


Le foto delle due bambine simbolo dell'atrocità della guerra e la loro incredibile somiglianza

di D. Des.

Bambina turca presentata come palestinese
Vi ricordate la bellissima fotografia della bambina che copriva agli occhi alla sua bambola per non farle vedere gli orrori del mondo? Capelli a caschetto, mani paffutelle. Una foto emozionante che però venne vergognosamente strumentalizzata.
Qualcuno quest'estate, durante il conflitto tra Israele e i terroristi di Hamas, iniziò a farla circolare sui social network dicendo che quella era una bambina palestinese, che quell'immagine era stata scattata a Gaza e che la piccola copriva gli occhi alla sua bambola "perché non veda la mostruosità di una guerra di sterminio".
Una frase subdola che, condannava Israele, e che si insinuava nella testa e nel cuore dell'ignaro lettore del web. Una fotografia e un testo divenuti virali al punto che ancora oggi c'è chi la condivide sulla sua pagina Facebook. Ebbene quella bellissima immagine non è mai stata scattata a Gaza e quella bambina dagli occhi tristi non era palestinese.
La fotografia, infatti, ritrae una bambina turca. Risale al 2009, ben sei anni fa e con Gaza e il conflitto con Israele non c'entra davvero nulla. La protagonista è una bimba di Bursa, città situata a sud del mare di Marmara, in Turchia. E sul sito www.trekearth.com ci sono le altre immagini e i commenti che risalgono appunto all'ottobre del 2009.

Altra bambina presentata come siriana
Le due bambine si somigliano molto. È la stessa bambina?

Perché scriviamo tutto ciò? Perché in questi ultimi giorni un'altra fotografia sta facendo il giro del mondo: quella della bambina siriana che terrorizzata dalla guerra e dalla violenza alza le mani, in segno di resa, davanti all'obiettivo di una macchina fotografica che scambia per un'arma: alza i pugnetti uniti sulla testa, stringe le labbra in un accenno di pianto senza lacrime, per farsi catturare dal nemico come se aspettasse quel momento da quando è nata.
La foto, come scrive il Mailonline, sarebbe stata scattata da un fotografo turco ma è diventata virale dopo che a postarla su Twitter è stata una fotoreporter palestinese, Nadia Abu Shaban. La giornalista ha deciso di pubblicare la foto della bambina triste che si consegna arresa sul suo account Twitter. In breve il primo piano della piccola e' stato condiviso sulle reti social migliaia di volte ed è diventata una delle immagini più virali", ricorrenti e martellanti, dell'informazione indipendente online.
Guardando le due fotografie vicine si nota una incredibile somiglianza. Sembra proprio la stessa bambina anche se sicuramente non lo è. Molto probabilmente è solo una grande coincidenza. Ma, come diceva Giulio Andreotti, "A pensar male si fa peccato, ma molto spesso ci si azzecca". Soprattutto sul Web.

(Il Gazzettino, 4 aprile 2015)


Iran, la distruzione non è negoziabile

di Nicola Seu

Durante giorni di grandi e importanti negoziati sul nucleare iraniano, una nota che non dovrebbe sorprendere sono le parole del generale iraniano Mohammd Reza Naqdi che con grande candore e sincerità esclude dal tavolo dei negoziati la distruzione dello stato ebraico.
   Il significato di una simile affermazione trova fondamento non solo nella politica dello stato islamico, evidentemente non sfavorevole al negoziato riguardo al proprio arsenale bellico, ma nella necessità di dare una voce realmente islamica e universale a tutti coloro, e non sono certo pochi, che non dimenticano il vero obiettivo per cui l'Islam dovrebbe combattere: governare il mondo secondo la propria legge. Israele è, all'interno di questa visione, una presenza intollerabile, e la sua cancellazione appunto non-negoziabile. Nel corso della storia recente mediorientale si può trovare un parallelo, risalente alla vigilia della guerra dei sei giorni, quando il presidente egiziano intervistato sul ripreso controllo sullo stretto di Tiran e considerato un atto di guerra da parte di Israele, rispose diretto con grande lealtà: La vera questione non è l'accessibilità o meno delle navi israeliane allo stretto di Tiran o la possibilità in generale della navigazione israeliana nelle acque della zona, il punto chiave è l'esistenza d'Israele, che non può essere tollerata. Queste parole, pronunciate prima dell'occupazione dei territori palestinesi portano nella loro più intima essenza, le stesse considerazioni di quelle del generale Naqdi.
   Israele non deve esistere, prescindendo da qualsiasi sua azione, o comportamento, da qualsiasi governo o strategia politica. Israele è e sempre resterà un'entità illegale e criminale per il solo, mero fatto di esistere. Israele delenda est, punto e basta. Se prima questo progetto aveva un sapore prevalentemente pan-arabo e di riconquista di una terra araba sottratta "illegalmente" da una forza straniera, adesso il valore religioso, e della missione ultima della religione islamica nel mondo, ha aggiunto una elemento universalistico, in cui le terre che in qualsiasi tempo della storia dell'uomo sono state governate dal diritto islamico ad esso devono tornare. Proprio questo elemento, difficilmente digeribile dall'occidente e dalle sue pretese laicizzanti, rende le parole di Mahammad Reza Naqdi più pericolose di quelle del presidente 'Abd al-Nasir.
   La non-negoziabilità della distruzione d'Israele non differisce dalla non-negoziabilità dell'applicazione della legge di Dio, secondo cui l'universalità del messaggio coranico è ineluttabile. Nella chiara e profonda distinzione delle terre, dei popoli e degli stati secondo la religione islamica, Israele e la sua esistenza è solo un punto di partenza, la presenza forse più irritante e meno tollerabile per coloro che desiderano l'applicazione della Shari'a, ma che non dovrebbe comportare differenze sostanziali dalle altre terre precedentemente musulmane, e su un ampio raggio temporale, da tutto il pianeta. Questa verità evidente non trova spazio di dibattito, e le mostruose contraddizioni che essa implica sono, volutamente o meno, ignorate.
   I negoziati che si sono conclusi ieri con un accordo preliminare sul programma nucleare iraniano, hanno visto un Iran molto lucido nei confronti dei propri interlocutori e nemici, sui quali, malauguratamente, non si possono fare affermazioni analoghe. La mancanza d'insistenza su queste tematiche da parte dei 5+1 porterà a una vittoria della Repubblica Islamica, la quale non solo si doterà di armi potenti, ma non esiterà a farne uso a seconda dei suoi interessi e progetti.

(L'Opinione, 4 aprile 2015)


"Obama è un ignorante che non crede in niente e che ha costruito due presidenze sull'engagement con il mondo islamico", dice il professor Raphael Israeli in un'intervista al Foglio riportata in un articolo qui sotto. Quanto all'ignoranza, purtroppo si deve dire la stessa cosa per la maggior parte dei commentatori delle vicende mediorientali. La sottovalutazione della componente religiosa, che in tutta l'area ha nello Stato d'Israele il suo nodo cruciale, è una costante giornalistica che permette ai supponenti commentatori laici di accumulare documenti su documenti in cui esaminano tutto, analizzano tutto, giudicano tutto e non capiscono niente. Niente di ciò che è veramente essenziale. Innumerevoli volte la realtà ha smentito valutazioni e previsioni dei fini analisti di professione, ma non si sente mai qualcuno che "si converte", cioè che ammette di non aver saputo riconoscere gli elementi essenziali dei fatti che ha descritto e dichiara di volerne cercare altri più adeguati alla realtà. La "primavera araba", lo "stato islamico" sono esempi di avvenimenti di importanza mondiale di cui si è cominciato a parlare soltanto dopo che sono diventati di grandezza macroscopica, e quando lo si è fatto, è stato in una forma talmente miserevole che avrebbe dovuto essere squalificante sul piano professionale. Ma questo naturalmente non è avvenuto. Per quanto riguarda l'Isis, oltre al fatto che si è presentato all'attenzione mondiale quasi improvvisamente, come un fungo spuntato dall'oggi al domani, è significativo che adesso si trovano molte descrizioni di fatti, ma poche valutazioni di fondo. Mancano soprattutto le "intelligenti" e "morali" analisi e valutazioni di sinistra: dove sono le dietrologiche spiegazioni che parlano di petrolio, capitali, interessi, colonialismo, oppressi, oppressori e cose simili? Chi c'è dietro lo stato islamico? La cosa sembra invece possibile con l'Iran. Ecco allora sui media fini spiegazioni che valutano l'intesa in termini di interessi iraniani, interessi americani, interessi europei e, naturalmente, di chiusura e testardaggine israeliana. E' stato così anche per il nazismo: fino all'ultimo e anche dopo, fino ad ora, non se ne è capita la natura religiosa che aveva proprio negli ebrei il vero, fondamentale nemico. Adesso è il turno dell'Iran. Come Hitler aveva annunciato di voler sterminare gli ebrei, così oggi le autorità religiose iraniane continuano a dichiarare di voler distruggere lo Stato d'Israele. Obama, Ban Ki-moon, Merkel, Hollande, Mogherini, Renzi e tanti altri hanno sentito tutto questo, lo sanno. Ma no - si pensa e anche si dice -, non sono cose da prendersi sul serio; si sa, certi personaggi parlano così, dicono così, ma non bisogna farci caso, dobbiamo portarli sul nostro piano, costringerli a giocare sul nostro tavolo. Così pensano i laici uomini di governo, supportati da illuminati intellettuali più o meno di sinistra. Ma la realtà politica sembra muoversi su linee diverse, linee di cui i nostri occidentali governanti sembra che continuino a non capire niente. Quanto ai commentatori, bisogna dire che non tutti sono come quelli descritti sopra: tra di loro si trovano anche persone che indipendentemente dalla loro fede sanno valutare certi aspetti religiosi della realtà e tenerne seriamente conto nelle loro analisi e valutazioni, senza liberarsene con una scrollata di spalle. Per pochi che siano, a loro bisogna essere grati per il loro servizio. M.C.


L'effetto dell'accordo? Pure i sauditi con la bomba
Articolo OTTIMO!


Da Losanna esce un Medioriente ancor più destabilizzato. Teheran lo ha detto: annienteremo lo Stato ebraico. Ma i più infuriati con Obama sono gli arabi. Che hanno il nucleare...

di Carlo Panella

 
Il volto soddisfatto del Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif
L'entusiasmo degli iraniani
Netanyahu
L'incosciente follia dell'accordo sul nucleare siglato a Ginevra per caparbia volontà di Barack Obama, è palese per una ragione tanto drammatica, quanto evidente. Manca del settimo punto, che in realtà è il primo: la rinuncia iraniana a distruggere Israele. Solo l'ignavia di Obama e di un'Europa complice, può considerare questa questione scollegabile da un accordo con gli ayatollah. Solo un Occidente più attento ai propri affari con l'Iran (potenzialmente ricchissimi, e non solo sul petrolio) e alla propria falsa coscienza, può pensare che non sia infame tenere separato un - cattivo - accordo sul nucleare dalla strategica volontà degli stessi interlocutori iraniani che sottoscrivono l'accordo di Ginevra di distruggere Israele. Pure, il 5 ottobre scorso, la Guida Suprema della Rivoluzione, l'ayatollah Khamenei ha postato su Twitter 9 domande chiave sulla questione: «Perché dovremmo e come possiamo distruggere Israele». Giorni fa, Reza Naghdi, comandante generale della milizia dei Bassiji, ha dichiarato: «L'eliminazione di Israele non è negoziabile». Il «riformista» Rohani, da parte sua, appena eletto presidente nel 2013, presidiò una parata in cui il reparto di missili intercontinentali era preceduto dallo striscione: «Israele deve cessare di esistere!». E non si tratta solo di frasi: Obama e l'Europa sanno bene che i nuovi micidiali missili sparati da Gaza su Israele mesi fa erano stati non solo forniti, ma anche guidati da Pasdaran iraniani. Esattamente come sanno che l'Iran è in questo momento l'unico Paese al mondo che ha reparti del proprio esercito che - in spregio alla legalità internazionale - combattono all'esterno dei propri confini. Pasdaran iraniani sono in Siria (per difendere il macellaio Assad), in Iraq e anche nello Yemen. Dunque, Obama e l'Europa, sono perfettamente coscienti di avere di fronte non un interlocutore affidabile e normale, ma un Paese che, come proclamano i suoi massimi dirigenti, si fa una vanto dei suoi successi nell'esportare la rivoluzione iraniana. Ma fanno finta che questo non sia vero. Fanno finta di credere che sia un successo avere firmato una intesa che perdi più non ha per nulla definito in modo stringente ed esplicito le modalità con cui gli ispettori dell'Aiea, potranno svolgere in futuro ispezioni effettive, non ostacolate, per verificare ovunque in Iran che non vi siano processi clandestini di arricchimento dell'uranio per costruire la bomba atomica. Di questo si discuterà in seguito. Ma, di fatto, tutte le sanzioni, sono state tolte già da ieri, perché anche se l'accordo prevedesse una gradualità nella loro abolizione, è chiaro che tutti i Paesi e soprattutto i gruppi imprenditoriali dell'Occidente, da oggi si sentono liberi di commerciare alla grande con Teheran, senza timore di essere puniti grazie al demenziale clima di appeasement instaurato da un'intesa incredibilmente generica.
   Dunque, quest'accordo è un successo solo per l'Iran che vede premiata da Obama la propria politica di aggressione ai Paesi vicini. Un elemento che sconvolge i Paesi arabi fedeli alleati degli Usa, in primis l'Arabia Saudita, che criticano l'accordo di Ginevra con le stesse parole di Israele. Paesi arabi che addirittura si stanno alleando con Israele - sotto traccia - per contrastare l'espansionismo militare iraniano, a iniziare dallo Yemen.
   Il premier israeliano Netanyahu ieri ha fatto una proposta semplice e irrinunciabile: che l'accordo di Ginevra non veda la firma definitiva degli Usa e dell'Europa se l'Iran non accetta di aggiungere un punto decisivo: la rinuncia definitiva alla volontà di distruggere Israele. Ma si può star certi che non verrà accolta da Obama. In fondo si tratta solo dello Stato degli ebrei... che si arrangino; questo è il messaggio implicito della Casa Bianca. Una nuova incredibile, odiosa, manifestazione di cinico antisemitismo.

(Libero, 4 aprile 2015)


"In fondo si tratta solo dello Stato degli ebrei... che si arrangino; questo è il messaggio implicito della Casa Bianca. Una nuova incredibile, odiosa, manifestazione di cinico antisemitismo.” Ed è questo il sentimento implicito, forse nascosto o forse dichiarato, di tutti coloro che esprimeranno soddisfazione per questo trattato. La morale dei fatti è sempre la stessa: qualcuno si muove dicendo “morte agli ebrei!”
si dice "Israele", ma è la stessa cosa
, altri tacciono e aspettano di vedere come va a finire. M.C.


L'Iran e la miccia che l'Occidente non vuole vedere

"L'Iran è un regime messianico e antisemita, il contenimento non funziona". Parla Raphael Israeli.

di Giulio Meotti

Raphael Israeli
ROMA. Il giorno prima della firma dell'accordo nucleare fra Iran e potenze occidentali, il comandante delle Guardie della rivoluzione dell'Iran, generale Mohammed Naqdi, ha detto che "l'obiettivo di cancellare Israele dalla mappa non è negoziabile". Secondo il professor Raphael Israeli, docente di Storia dell'islam all'Università Ebraica di Gerusalemme e considerato uno dei massimi orientalisti nello stato ebraico, quest'antisemitismo postulatore di un panislamismo mistico, ripetuto ossessivamente e con fosco trasporto, è il cuore dell'ideologia iraniana fmalistica e messianica.
  "Dall'Egitto al Marocco, nel mondo islamico gli ebrei sono considerati il male, i gli di maiali e scimmie', dei subumani che vanno eliminati", ci dice Israeli, originario di Fes, in Marocco, autore di quaranta libri fra cui una biografia del presidente egiziano Sadat e del padre dell'Iran contemporaneo Khomeini, e considerato assieme a Bernard Lewis di Princeton lo studioso di islam che ha avuto una forte influenza su come il primo ministro Benjamin Netanyahu guarda oggi alla questione iraniana. "Quest'antisemitismo risale alla storia del Profeta Maometto che venne tradito dagli ebrei di Medina. L'ayatollah Khomeini ha aggiunto l'idea che gli ebrei siano nemici di Allah'. Soltanto con l'antisemitismo puoi spiegare perché l'Iran sia diventato il peggior nemico di Israele, pur non avendo confini contesi con lo stato ebraico". Basta scorrere tre libri scritti da Khomeini ("Towzihol Masael", La spiegazione dei problemi, "Velayat-e-Faghih", Il regno del dotto, e "Kashf-i Asrar", La chiave dei misteri), per comprendere l'ossessione antiebraica del regime. Per Khomeini è impuro anche il denaro guadagnato da un musulmano che lavora in un'industria appartenente ad ebrei. Gli ebrei ("che Dio li sprofondi") sono per Khomeini "i nemici più pericolosi", perché aspirano a "distruggere l'islam e a instaurare un governo universale ebraico", sono abbastanza "furbi e attivi" per poter giungere ai loro fini.
  Ieri da Gerusalemme si sono alzate molte voci contro il deal atomico. "Il sistema della deterrenza internazionale sul nucleare, che ha impedito che la Guerra fredda deteriorasse in un conflitto atomico, non funziona con un regime pazzo e fanatico come l'Iran", ci dice il professor Israeli, per il quale per spiegare Teheran è decisiva la visione del dodicesimo imam, che ha abolito tutte le verità rivelate dagli altri profeti, che vive nascostamente tra gli uomini e che riapparirà sulla terra per instaurare l'ora della giustizia e della fede universale. Il regime iraniano ha assunto quella missione sacra quale "nayeb" (intermediario). "Questa visione islamica apocalittica pretende che il mondo attraversi una tribolazione che prepara l'avvento dell'imam. Rohani, Khamenei e Khomeini credono tutti in questa ideologia che spinse Ahmadinejad, quando era sindaco di Teheran, a costruire una autostrada per favorire il ritorno dell'imam. Per questi fanatici, l'apocalisse è un programma politico. Il regime iraniano è razionale, ma lo è nel lucido perseguimento di questo disegno messianico". Eppure la Casa Bianca non sembra prendere molto seriamente minacce come quella del generale Naqdi. "Obama è un ignorante che non crede in niente e che ha costruito due presidenze sull'engagement con il mondo islamico", taglia corto il docente israeliano. "L'Iran è l'unica rivoluzione in grado di mobilitare intere masse di persone che per strada gridano morte all'America' e morte a Israele'.

(Il Foglio, 4 aprile 2015)


L'accordo miope con l'Iran rimanda di poco la minaccia

Ma alimenta l'immagine trionfante di Obama

di Mattia Ferraresi

NEW YORK - L'accordo nucleare salutato da Barack Obama con il più abusato degli aggettivi presidenziali, "storico", si muove nell'orizzonte del rimandare e del contenere, non in quello dello smantellare e dell'impedire. Da giovedì pomeriggio si ripete che bisognerà vedere i dettagli da stendere da qui a fine giugno, ma il framework parla di centrifughe "ridotte" (non smantellate, né portate fuori dal paese: e li chiamano dettagli) per 10 anni, arricchimento di materiale nucleare a bassa intensità per 15 anni, lo stesso tempo nel quale l'Iran promette di astenersi dal costruire nuove centrali e convertire l'impianto di Fordo in un "centro di ricerca", qualunque cosa voglia dire. Ogni concessione iraniana è mitigata da una data di scadenza, si parla di congelare senza smantellare, il tempo di breakout - quello necessario per costruire la bomba - s'allunga giusto di qualche mese, ma nulla lascia presagire la fine delle ambizioni atomiche dell'Iran.
  Hassan Rohani non mente quando annuncia trionfante che con l'accordo il paese "ha conservato i suoi diritti nucleari", e non è per un'allucinazione collettiva del popolo iraniano che il ministro degli Esteri, Javad Zarif, è stato accolto come una rockstar al suo ritorno da Losanna. "Quando gli accordi scadono, la Repubblica islamica tornerà a essere istantaneamente uno stato sul confine della capacità atomica", sintetizza il Washington Post. In cambio, il paese viene liberato dal giogo delle sanzioni, e quando Washington ha suggerito che questo avverrà in modo graduale, Zarif ha iniziato a fare il troll su Twitter.
  Il fatto, al di là dei giudizi politici, è che la bozza di accordo non soddisfa nemmeno i requisiti che lo stesso Obama aveva fissato. Nel 2012 diceva che l'unico compromesso accettabile era quello in cui l'Iran "terminava il suo programma nucleare", oggi l'Amministrazione si accontenta di rimandare la minaccia, suggerendo capziosamente che l'unica alternativa a questo "good deal" è la guerra, tertium non datur. Normale che, dovendo scegliere fra una pezza temporanea e un'apocalisse mediorientale senza fine, l'opinione pubblica sia orientata ad accogliere di buon grado l'intesa. Quello che rende storica la circostanza è il cambio di postura nei confronti dell'Iran e - per estensione - degli stati canaglia, che Obama è convinto di poter portare nell'alveo della ragione parlando la lingua felpata del negoziato, assicurando che il compromesso rispetta il criterio reaganiano del "trust, but verify".
  Dopo le dichiarazioni di Losanna, il giornalista Paul Brandus, fondatore del sito West Wing Reports, ha scritto che prima della fine del mandato Obama vorrebbe visitare l'Iran, per coronare simbolicamente un patto che qualche anno fa non avrebbe superato gli standard della stessa Casa Bianca. E' un rumor inverificabile ma non inverosimile, che corrisponde perfettamente all'avvento del mondo de-canaglizzato che Obama ambisce a lasciare dietro di sé. Passare alla storia come il presidente normalizzatore che ha riaperto i canali di dialogo con l'Iran e Cuba, dopo decenni di odi, sospetti e silenzi, è il massimo per la sua concezione presidenziale, anche se questa costosa normalità ha una data di scadenza.

(Il Foglio, 4 aprile 2015)


Ecco come Israele rinsalda i rapporti con la Cina

di Patrizia Licata

Anche lo storico alleato americano entra come membro fondatore nell'Aiib, la banca di sviluppo della Cina. Netanyahu annuncia opportunità per le aziende israeliane. Ecco perché Israele pensa che l'economia mondiale si stia "spostando a est".

Un altro alleato americano di peso, Israele, entra nella banca di sviluppo sponsorizzata dalla Cina, l'Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), rivale della Banca mondiale e degli istituti finanziari controllati dall'Occidente. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in veste di ministro delle Finanze, ha firmato la lettera con cui ha chiesto l'ingresso nell'Aiib come membro fondatore. Non è la fine della lunga amicizia tra Israele e Stati Uniti ma un nuovo colpo ai rapporti tra i due Paesi già inaspritisi su alcune questioni-chiave come quella iraniana.

- OPPORTUNITA' PER LE IMPRESE ISRAELIANE
  

 

L'iter per l'ingresso nell'Aiib è stato guidato dal ministero degli Affari Esteri israeliano che riconosce "l'importanza di un'alleanza con le maggiori organizzazioni asiatiche", si legge nella nota ufficiale. Essere membro dell'Aiib significa per Israele dare alle sue aziende nuove opportunità di essere integrate in diversi progetti infrastrutturali in Asia, che la banca di sviluppo avviata dalla Cina finanzierà.
  "La nuova Asian Infrastructure Investment Bank è stata creata per iniziativa per presidente cinese Xi Jinping a ottobre 2014. La nuova banca complementerà la Banca mondiale e l'Asian Development Bank. La banca intende investire un totale di 100 miliardi di dollari in progetti per le infrastrutture nei paesi asiatici e metà di tale cifra è stata già messa in bilancio dalla Cina", si legge nella nota nel ministero degli Esteri.
  "Va notato che la creazione della banca è un successo diplomatico della Cina", continua il comunicato ufficiale. "La Cina inizialmente pensava che avrebbero aderito 35 paesi e già siamo pronti ad arrivare a 50. L'istituzione dell'Aiib è una delle più importanti iniziative di politica estera da parte della Cina e in particolare del presidente Xi Jinping. Nei prossimi mesi il ministro delle Finanze israeliano parteciperà ai negoziati per lo statuto di fondazione della banca", conclude la nota.

- LA RISPOSTA DEGLI USA
  Washington ha inizialmente cercato in tutti i modi di convincere i suoi alleati a non entrare nell'Aiib, concorrente della Banca mondiale e dell'Asian Development Bank (Adb) su cui gli Stati Uniti esercitano la loro influenza, e ha puntato il dito contro la banca di sviluppo di Pechino di cui ancora non è noto lo statuto e che potrebbe non seguire le best practice internazionali in fatto di sostenibilità dei prestiti e rispetto dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente nei progetti finanziati.
  Ma, nonostante le pressioni americane, tutti i grandi alleati Usa, tranne il Giappone, sono già nell'Aiib: Corea del Sud, Australia, Uk, Germania, Francia, Italia, e ora anche Israele. Washington ha dovuto presto ammorbidire la sua posizione. Secondo il Wall Street Journal l'amministrazione Obama avrebbe proposto che l'Aiib lavori in alleanza con gli istituti sponsorizzati da Washington, come la Banca mondiale. Obama vorrebbe usare le esistenti banche di sviluppo per co-finanziarie con l'Aiib i progetti infrastrutturali. Questo sostegno indiretto garantirebbe la sostenibilità dei progetti e la trasparenza della governance e darebbe l'opportunità alle aziende americane di entrare nelle opere infrastrutturali finanziate dall'Aiib. Il segretario al Tesoro Jack Lew ha ribadito che gli Stati Uniti salutano con favore l'istituzione e l'entrata in attività dell'Aiib purché sia complementare con i gli istituti esistenti e adotti i più alti standard.
  Il Fondo monetario internazionale, l'Adb e altri istituti finanziari internazionali si sono già detti aperti a cooperare con la nuova banca promossa dalla Cina.

- ET TU BRUTE?
  Le aziende israeliano guardano con crescente interesse all'Asia per esportare i loro prodotti e per fare affari. Nel continente asiatico, con tante economie emergenti, è in forte espansione la domanda di tecnologie israeliane. Ma, secondo il sito Sputniknews, che titola significativamente il suo articolo sull'ingresso di Israele nell'Aiib "Et tu Brute?", il boom dell'economia asiatica non è l'unico ragione che porta Israele verso la Cina: il governo di Netanyahu sta spingendo le aziende nazionali a diversificare i loro mercati di esportazione in risposta a "crescenti tendenze anti-semite in Europa e a possibili future sanzioni commerciali".
  Ma sicuramente il fattore economico ha un peso rilevante e non solo da oggi: Israele e Cina hanno rafforzato la loro cooperazione economica negli ultimi anni e la scorsa settimana hanno presentato a Tel Aviv una task force congiunta sino-israeliana il cui obiettivo è aumentare ulteriormente la collaborazione tra i due paesi.

- LA TASK FORCE TRA ISRAELE E CINA
  Il commercio israeliano con la Cina (importazioni ed esportazioni) ha raggiunto nel 2014 un valore di circa 8,52 miliardi di dollari, con un aumento del 4% rispetto al 2013, secondo i dati dell'Israel Export Institute (che non includono i diamanti). L'export vale circa 2,57 miliardi di dollari, come nel 2013, mentre le importazioni sono cresciute del 5%. Israele vuole però far crescere la sua esportazione verso la Cina, quarto maggior mercato mondiale per l'export israeliano, e il principale in Asia, e uno degli obiettivi della task force è raddoppiare le esportazioni di Israele verso la Cina nei prossimi cinque anni, fino a un valore di circa 5 miliardi di dollari annui.
  "Per la prima volta ci sarà un dialogo sulla Cina che unisce il settore economico con quello accademico e governativo per discutere sfide e risultati nell'espansione delle relazioni commerciali bilaterali", si legge sul sito del ministero Affari Esteri israeliano.
Eugene Kandel, presidente della task force, ha dichiarato che "L'espansione delle relazioni economiche bilaterali avrà ampi effetti macro-economici per Israele. L'enorme aumento degli investimenti cinesi in Israele nel 2014 ha portato - e continuerà a portare nel 2015 - alla creazione di nuove aziende in Israele, alla nascita di nuove industrie e settori nell'economia locale, allo sviluppo di prodotti per il mercato cinese e alla definitiva affermazione di Israele come forza innovativa sui mercati asiatici. Lo sviluppo delle relazioni commerciali e gli investimenti bilaterali contribuiranno alla crescita economica in entrambi i paesi. I legami tra le aziende di Israele e Cina, incoraggiati e sostenuti dai rispettivi governi, sono importanti per Israele ora che l'economia globale nel suo complesso si sposta verso est".
  "Il mercato cinese è strategico per gli esportatori israeliani. Il bisogno della Cina di aggiornare la sua infrastruttura tecnologica rappresenta un'opportunità", ha ribadito il direttore generale dell'Israel Export Institute, Ramzi Gabbay.
I rapporti tra Cina e Israele hanno ricevuto nuovo slancio da quando il primo ministro Netanyahu ha visitato la Cina a maggio 2013. A maggio 2014, il Ministerial committee on China affairs, presieduto dallo stesso Netanyahu, ha approvato un articolato piano d'azione per espandere le relazioni economiche bilaterali di cui la nuova task force e l'ingresso dell'Aiib appaiono come il naturale completamento.

(formiche.net, 4 aprile 2015)


Il Consiglio di difesa di Israele respinge l'intesa Iran-Usa sul nucleare

La telefonata alla Casa Bianca del premier: «Gli accordi includano il nostro diritto a esistere». Rohani: «Tutti onorino le promesse o valuteremo altre opzioni».

Il Consiglio di difesa del governo di Israele ha respinto «in maniera compatta» l'intesa raggiunta tra il 5+1 e l'Iran sul nucleare. È quanto si legge in un comunicato pubblicato al termine della riunione di tre ore convocata dal premier Benyamin Netanyahu. Lo stesso premier, che fa sapere di «opporsi con veemenza» all'intesa, dovrebbe rilasciare a breve una dichiarazione. In sintesi, «l'accordo non ferma un singolo impianto nucleare in Iran, non distrugge una sola centrifuga e non fermerà lo sviluppo e la ricerca sulle centrifughe avanzate. Invece, legittima l'illegale programma nucleare».

 «L'unico obiettivo» dell'Iran è ottenere la bomba atomica
  Netanyahu ha ribadito che «l'unico obiettivo» dell'Iran è ottenere la bomba atomica. Per lo Stato ebraico è un passo in una direzione «estremamente pericolosa» perché si limita a concedere altro tempo alla Repubblica islamica. Già nella notte, dopo una telefonata con Barack Obama, Netanyahu aveva definito l'accordo tra la comunità internazionale e Teheran sul nucleare «una minaccia alla sopravvivenza di Israele».

(Corriere della Sera, 3 aprile 2015)


L’Iran ha dichiarato più volte di voler distruggere Israele; Netanyahu l’ha ricordato ancora una volta. Ma per molti questo non è un problema. Anzi. Netanyahu è stato nominato “Mister sicurezza” perché evidentemente per molti le dichiarazioni dell’Iran, i missili e i tunnel di Hamas sono soltanto fisime o strumentalizzazioni elettorali di quell’antipatico Primo Ministro. Colpire Netanyahu in questo contesto ha un solo significato: colpire Israele nella sua volontà di difendersi. M.C.


Palestinesi in testa al corteo: gli ebrei disertano il 25 aprile

Ebrei ed ex deportati non saranno presenti al corteo di Roma: "Durante la guerra i palestinesi erano alleati dei nazisti",

di Sergio Rame

Un'assenza che sarà ricordata negli annali dal 25 aprile. Per la prima volta ebrei ed ex deportati non saranno presenti al corteo che tradizionalmente sfila a Porta San Paolo.
Il motivo, accennato ieri dall'Aned, è oggi spiegato apertis verbis dal presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici: "Dato che sarà Shabbat non saremo presenti, ma non ci saremo anche perché i palestinesi, che chiedono di essere al corteo, durante la guerra erano alleati dei nazisti".
   Pacifici ricorda le tensioni dello scorso anno tra la Brigata ebraica e gli esponenti dei centri sociali e delle associazioni a sostegno della Palestina. "È stato l'epilogo di una sommatoria di incidenti, insulti e tensioni che ogni anno si ripetono - spiega il presidente della Comunità ebraica di Roma - mi hanno anche chiamato fascista. Eppure il 25 aprile dovrebbe essere una giornata di festa. Le organizzazioni pro Palestina - aggiunge - pretendono che non ci sia quel giorno il simbolo della brigata ebraica che liberò l'Italia dal nazifascismo insieme alle truppe alleate e ai partigiani. E sulla rete si stanno organizzando scrivendo che se ci saranno ci picchieranno. Tutto questo è assurdo". Già ieri l'Aned aveva parlato di decisione sofferta arrivata al termine di un'assemblea tenutasi presso la Casa della Memoria durante la quale, "ci sono state discussioni in cui le minacce e gli insulti hanno prevalso, e hanno evidenziato gli stessi inaccettabili presupposti che, nelle passate edizioni, hanno dato luogo a veri e propri episodi di intolleranza". E avevano ribadito: "Noi che rappresentiamo gli ex deportati, sommersi e salvati, nei campi nazisti, sia politici che razziali non possiamo accettare che lo spirito e i significati del 25 aprile, della Resistenza e della Liberazione vengano così totalmente snaturati e addirittura fatti divenire atto di accusa contro le vittime stesse del nazifascismo. Non possiamo accettare che rappresentati della lotta partigiana, della Liberazione, siano messi al bando solo ed esclusivamente per intolleranza".
   Non sono solo i pro Palestina che, secondo la Comunità ebraica e l'Aned, non dovrebbero essere presenti al corteo. Non sono graditi nemmeno centri sociali e Patria socialista, una sigla che alcuni definiscono "i fascisti rossi". "Bisogna lasciare fuori i protagonismi e le strumentalizzazioni - commenta il presidente dell'Anpi romano, Ernesto Nassi - parleranno dal palco solo coloro che hanno combattuto nella guerra di Liberazione. Questo 70esimo deve essere svolto come ricordo di una delle pagine più bella della storia italiana, e non permetteremo a nessuno di rovinarlo. Siamo stanchi di subire quello che accade ogni 25 aprile, che è la festa dei democratici e degli antifascisti. Per tutti quelli che si riconoscono in questi valori, non ci sono preclusioni - conclude - fermo restando che la cosa più importante è tenere nel cuore chi ha partecipato alla Guerra di Liberazione. Alzare la tensione non è certamente utile alla buona riuscita di questa festa". E si chiede: "Non è che si tratta di un tentativo di delegittimare l'Anpi e la sua storia?".

(il Giornale, 3 aprile 2015)


Il gas israeliano cerca partner

Una recente sentenza dell'Antitrust riapre la partita nello sviluppo del maxigiacimento Leviathan. Opportunità per le aziende italiane nelle infrastrutture e nei trasporti.

di Giovanna Mancini

 
 
Le recenti elezioni in Israele, che hanno confermato Netanyahu alla guida del governo, potrebbero avere un impatto importante anche su un nuovo comparto economico a cui il Paese guarda con grandi aspettative, quello dell'energia.
  Dal nuovo esecutivo si attendono infatti alcune decisioni fondamentali per regolamentare le attività di estrazione e sfruttamento di gas naturale nei due principali giacimenti off shore scoperti di recente, Tamar (2009) e Leviathan (2010) dopo che -lo scorso dicembre una sentenza dell'Antitrust israeliano ha imposto alle due società incaricate (l'israeliana Delek e l'americana Noble Energy) di vendere parte delle loro quote per evitare un cartello con possibili conseguenze negative sui prezzi dell'energia elettrica. L'immediata opposizione della Noble Energy alla decisione dell'Antitrust lascia presagire sviluppi giudiziari che potrebbero rallentare lo sviluppo del giacimento e scoraggiare eventuali partner interessati a investire nel progetto.
  Un progetto dai contorni grandiosi visto che Israele conta di produrre, entro il 2020, il 50- 60% dell'energia elettrica dal gas naturale e che, allo scopo, sta cercando all'estero le competenze e il know-how che mancano sul suo territorio. Perle aziende italiane la partita è ghiotta. E non tanto nella fase upstream (ricerca ed estrazione) della filiera, quanto in quella mid e downstream (lavorazione, stoccaggio e distribuzione). La prima ha valori e volumi più significativi, ma riguarda soltanto una manciata di player internazionali con capitali e competenze adeguate, tra cui l'Eni (che al momento non pare però interessata). Maggiori potenzialità offre invece la parte della filiera che si rivolge alle aziende attive nel campo delle infrastrutture e dei servizi: dai sistemi per lo stoccaggio e la fornitura della materia prima, alla sua trasformazione e distribuzione per l'industria e i trasporti, fino alla formazione dei professionisti e alla certificazione di impianti e strutture.
  In attesa che il governo israeliano intervenga a sbloccare l'attuale stallo nello sviluppo di Leviathan, la filiera nazionale del gas ha iniziato a organizzarsi e comporsi per arrivare preparata al giorno in cui anche il gas di questo giacimento giungerà sulle coste di Israele (a Dor, a sud di Haifa, dove un'azienda italiana, la Micoperi, ha realizzato il terminale off shore destinato a stoccare il gas liquido naturale di emergenza) per essere poi distribuito.
  Difficile dare una tempistica: si parla del 2018-2019, ma molto dipenderà dagli sviluppi della disputa sulle quote proprietarie e dalla possibilità di trovare partner stranieri, dato che la sola domanda interna di gas naturale non sarebbe sufficiente a ripagare gli ingenti finanziamenti necessari (circa 6,5 miliardi di dollari solo per portare il gas a terra). Di qui,la necessità per il governo israeliano di aprire all'esportazione il 40% del gas naturale di Tamar e Leviathan, coinvolgendo altri Paesi, interessati a investire nello sviluppo del giacimento in cambio di forniture.
  Per ora, spiega Constantine Blyuz, responsabile affari economici e strategici per l'Autorità israeliana del Gas naturale, i Paesi interessati sono Egitto e Giordania ma, in una seconda fase dello sviluppo di Leviathan, Israele dovrà cercare ul xxteriori partner, probabilmente in Europa e quindi in Italia. Blyuz non nasconde tuttavia alcune perplessità sul futuro del progetto, rallentato da interessi contrastanti all'interno dello stesso governo israeliano, con l'Autorità per l'energia che spinge per il suo sfruttamento in tempi rapidi, e il ministero delle Finanze che invita alla cautela, cercando di assicurare il ritorno economico, per il Paese, di tutta l'operazione.
  Più ottimista è Nati Birenboim, cofondatore e ceo di Tamuz Group, società di consulenza per società nazionali e internazionali nei settori energia, acqua e infrastrutture. «Da qui al 2020 ci aspetta un grande cambiamento - spiega -. Il mercato dell'energia si sta spostando vero il gas naturale e, soprattutto verso un mercato privato. Un mercato del tutto nuovo per Israele e per questo vedo grandi potenzialità per le aziende estere». In particolare per quelle italiane, precisa Birenboim, «per tre ragioni: la mentalità, perché fare business non è soltanto una questione di aziende, ma anche e soprattutto di persone. Le competenze, che l'Italia ha consolidato nel tempo in questo settore. E la vicinanza geografica, un fattore che sembra banale, ma non è affatto trascurabile». Israele ha «bisogno di tutto - conferma Constantine Blyuz-: lo sviluppo più interessante è quello del gas naturale compresso per i trasporti. Se i ministeri per i Trasporti e per l'Ambiente renderanno conveniente, attraverso incentivi, l'utilizzo di veicoli a gas, si apre una partita enorme».
  Dello stesso avviso è Yair Rubinstein, ceo di Tmng, società ingegneristica specializzata nella pianificazione e controllo della distribuzione del gas naturale in Israele. «Lavoriamo da tempo con aziende italiane, come Sicim e Micoperi e siamo aperti a nuove sinergie». Gli esperti di Tmng prevedono un boom, nei prossimi anni, dei trasporti a gas, ma investimenti ingenti sono attesi anche nelle infrastrutture per il trasporto del gas stesso e nella conversione degli impianti delle piccole industrie all'utilizzo di energia elettrica dal gas naturale. Tutti settori in cui, afferma Rubinstein, «Le aziende italiane offrono competenze e prezzi competitivi rispetto a quelle del Nord Europa».

(Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2015)


Israele - Simula un falso rapimento per amore: arrestato con il complice

L'obiettivo era riconquistare la fidanzata

GERUSALEMME - Due israeliani sono stati arrestati per aver simulato un falso rapimento di uno di loro in Cisgiordania, che ha fatto scattare delle imponenti ricerche. Secondo gli inquirenti, il "rapito" voleva solo impressionare l'ex fidanzata per riconquistarla.
Poliziotti, soldati e membri dello Shin Beth hanno setacciato ieri per ore dei villaggi palestinesi nei dintorni di Hebron, zona dove l'uomo era presumibilmente scomparso. E' in quest'area che nel giugno 2014, tre giovani israeliani erano stati rapiti e assassinati innescando una serie di violenze che avevano portato ad una offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza.
Secondo la magistratura, Niv Asraf ha simulato la sua scomparsa per tentare di riconquistare la fidanzata. Il piano era di ricomparire nel giro di qualche giorno, affermando di essere riuscito a sfuggire ai rapitori. La prima fase era andata a segno: un amico di Asraf, Eran Nagauker, era andato alla polizia a denunciarne la scomparsa, nei pressi di Beit Hanoun, dicendo che il ragazzo, ansdato a cercare aiuto per una gomma a terra, non era più ritornato. Rapidamente, decine di uomini hanno setacciato la zona, perquisendo case e campi. In totale la caccia all'uomo è costata 240.000 euro.
Ma, verso mezzanotte, Niv Asraf è stato pizzicato nei pressi della colonia di Kiryat Arba, non lontano da Hebron, mentre dormiva serenamente in un sacco a pelo e con tanto di viveri.

(askanews, 3 aprile 2015)


Obama si gloria di un'intesa che premia le mire dell'Iran

La maratona negoziale di Losanna si conclude con un accordo. Casa Bianca e Bruxelles entusiasti: «Così si ferma la bomba atomica». Ma a Gerusalemme resta la preoccupazione.

di Fiamma Nirenstein

 
Un risultato storico, si è vantato ieri sera Obama del conseguito accordo con l'Iran che ieri sera è stato annunciato, e assicura che qui si è fermata la corsa iraniana verso il nucleare.
   È stato un discorso preparato con molta cura, molti particolari, già una risposta al Congresso che probabilmente impugnerà la decisione. Ha cercato di convincere della forza pratica e morale dell'accordo, ha garantito che l'Iran non sarà più in grado di usare un numero sufficiente di centrifughe, ha garantito che non si parlerà più di plutonio perchè ad Arak non sarà più possibile arricchirlo, ha difeso con entusiasmo la scelta diplomatica la cui alternativa, ha detto, è solo la guerra.
   Ha attaccato gli «uomini scettici» che non hanno creduto nel suo programma, ha lodato il conseguimento di «un buon accordo» in polemica con Netanyahu che ha sempre paventato «un cattivo accordo».
   E di fatto non sembra a prima vista un buon accordo il risultato della grande fatica di cui Obama è tanto fiero, non appare che siano state stabilite regole che consentano un pieno controllo su un Paese molto abile nel nascondere i suoi segreti, o inventate norme che impediranno, una volta lasciate nella mani degli ayatollah 6000 centrifughe (un terzo di adesso), l'arricchimento che porti alla bomba atomica. Obama si è vantato in maniera autoreferenziale e vanitosa di un accordo problematico con un interlocutore inaffidabile e oltremodo pericoloso. La conferenza stampa di presentazione è stata modesta, soltanto con Federica Mogherini, ministro degli Esteri europeo, e Mohammad Jawad Zarif, il ministro iraniano, mentre Kerry ha preferito presentarsi da solo alla stampa. Lui ha ringraziato Obama, Obama lui. Dopo più di dieci anni di trattative con l'Iran perché cessi la sua corsa alla bomba atomica, di fatto l'Iran porta a casa molto di ciò che voleva, anche se saranno imposti limiti per un decennio all'arricchimento dell'uranio, che per almeno 15 anni non potrà superare la soglia del 3,67%.
   L'incontro di Losanna appena conclusosi fra i P5+1 e la delegazione della Repubblica Islamica dopo 18 mesi di discussioni, non dà certo il risultato pacificante che Obama loda, il fallimento scansato in parte spingendo sul gas delle concessioni all'ultimo minuto per paura del disdoro che sarebbe derivato all'Amministrazione. Obama da quello che si capisce in queste ore ha rinunciato a molte delle sue decisioni iniziali. Si è lavorato negli ultimi giorni fino a orari proibitivi in colloqui densi di pressioni americane, di scetticismo europeo, di furbizie dei russi, amici dell'Iran nella difesa di Bashar Assad in Siria e in altre disinvolte scelte internazionali. L'accordo di ieri sembra soddisfare soprattutto le richieste iraniane, a partire dalla determinazione degli ayatollah a non firmare, come voleva Obama, un accordo cornice e alla promessa di sollevare l'Iran da tutte le sanzioni quando l'incontro entrerà in funzione. L'accordo dura solo dieci anni, un battito di ciglia rispetto alle ambizioni nucleari dell'Iran. E già sappiamo che se a giugno si conclude, l'Iran può proseguire l'arricchimento, che mantiene 6000 centrifughe, che le centrali di Fordo e di Arak restano in piedi e funzionanti. L'uranio già arricchito sarà mantenuto solo in parte in Iran. Netanyahu, voce che chiama nel deserto, ricorda al mondo che nelle stesse ore in cui si sigla l'accordo, l'Iran compie feroci azioni imperialiste in Siria, in Iraq, in Yemen, in Libano. È difficile se non in una logica di disperazione strategica capire perchè Obama, seguito con la consueta irresolutezza (solo per un attimo la Francia ha dissentito) dall'Europa abbia puntato il suo stesso retaggio su un Paese il cui record di diritti umani è fra i più disgustosi che si possano immaginare, e che ancora l'altro ieri per bocca del capo della sua prima milizia, i basiji, dichiarava che «la distruzione dello stato d'Israele non è negoziabile». Il prezzo nella memoria futura può essere tragico quanto il panorama di una terra bruciata con i suoi abitanti in un secondo Olocausto; oppure nella nuclearizzazione di tutto il Medio Oriente, minacciata dai sauditi e dagli egiziani, stupefatti dalla scelta di alleanze che non punta sui musulmani sunniti moderati, ma sugli sciiti estremisti della Repubblica Islamica degli Ayatollah.

(il Giornale, 3 aprile 2015)


"Vittoria per il regime. Ora il Medio Oriente diventerà più instabile"

di Alberto Simoni

MILANO - «Teheran ha vinto. E non mi riferisco solo al negoziato sul nucleare, il Medio Oriente sta cambiando volto e la mano iraniana si vede ovunque». Dal Libano di Hezbollah, allo Yemen, sino al Bahrein e alla Siria di Assad. Per Uzi Rabi, direttore del Moshe Dayan Center di Tel Aviv, è come se ci fosse un prima e un dopo negli equilibri del Medio Oriente, anche se lo spartiacque è difficile da individuare: la guerra all'Iraq di Saddam di George W. Bush o le Primavere arabe del 2011. Quest'ultime oggi sfidate (dove non vinte) da forze uguali e contrapposte come la restaurazione di Al Sisi in Egitto, il caos libico, la guerra a Damasco, o lo Yemen, capace di scacciare sull'onda della rivoluzione l'ex presidente Saleh e oggi lacerata da una guerra sunniti-houti.
   «L'Occidente - spiega Rabi - non ha colto i mutamenti della regione, non ne ha visto la debolezza e l'instabilità e oggi ancora di più Teheran diventa un "game changer", un attore che cambia la dinamica della partita». In appena due mesi i giordani hanno bombardato l'Isis (per rappresaglia dopo l'uccisione del suo pilota), l'Egitto ha bersagliato la Libia e i sauditi hanno colpito lo Yemen. «Episodi - dice Rabi - che dimostrano come in questo momento storico tutti in Medio Oriente si comportino badando ai propri interessi, liberi da alleanze e accordi». Ed è in questo scenario che l'Iran si muove alimentando «i conflitti regionali in una sorta di guerre per procura». Non è un caso che il premier israeliano Netanyahu commentando l'accordo abbia postato su Twitter una mappa del Medio Oriente con la scritta «Le aggressioni dell'Iran durante i negoziati nucleari». Quasi un avvertimento a futura memoria dell'instabilità in cui la regione è precipitata. «L'agenda dell'Iran per diffondere la sua influenza nella regione va ben oltre il dossier nucleare», sostiene quindi Rabi che non vede come Israele avrebbe potuto fermare Teheran («Troppo tardi»). «Negoziare per l'Iran è stato il miglior modo di garantirsi la possibilità di continuare il suo programma nucleare». Secondo gli Usa infatti con l'accordo il break out time passa da 3 mesi a 12 mesi. Bene per i negoziatori, male per Israele. Ecco perché, dice Radi, «ha vinto l'ayatollah Teheran». Anticipando di qualche ora il commento del governo israeliano: «I 5+1 hanno ceduto a dettami di Teheran».

(La Stampa, 3 aprile 2015)


"Teheran ha vinto la partita. E il peggio deve ancora venire"

Per lo studioso di Medio Oriente Uzi Rabi è tardi per un attacco israeliano

di Roberto Fabbri

 
Peace for our time
Non si esce in preda all'ottimismo dopo un incontro con Uzi Rabi, direttore del Centro studi mediorientali e africani «Moshe Dayan» e ricercatore presso il Centro studi iraniani all'Università di Tel Aviv. La situazione in Medio Oriente è pericolosamente avviata verso una moltiplicazione di conflitti in grado di sconfinare dall'ambito regionale, dice il professore a un gruppo di giornalisti che ha incontrato a Milano, e in mancanza di una gestione adeguata e competente da parte delle potenze occidentali che a suo avviso non c'è e non ci sarà, «il peggio dovrà ancora venire».
   Nelle ore in cui si sta definendo un accordo sul nucleare iraniano di importanza storica, è inevitabile che Teheran sia al centro della conversazione. «L'Iran ha già vinto - scandisce convinto Rabi -, loro si sono dimostrati i più abili giocatori di questa complessa partita. L'accordo arriverà e siccome il regime islamico continuerà ad arricchire uranio presso suoi impianti che sfuggono ai controlli, dovremo prima o poi convivere con un Iran potenza nucleare. Questo accrescerà il suo ruolo nella regione e avrà come conseguenza le inevitabili reazioni dei Paesi sunniti a lui contrapposti, Arabia Saudita in testa».
   Rabi, da profondo conoscitore del Medio Oriente, diffida di quanti cercano soluzioni «tradizionali» ai suoi incancreniti problemi. «Questa ragione non funziona politicamente su basi razionali - sostiene -. Per esempio, io non penso che l'Iran oserebbe attaccare Israele, ma noi dobbiamo sempre essere pronti al peggio. Temo peraltro che sia troppo tardi per una nostra azione militare tesa a fermare l'Iran atomico: tra l'altro, la fretta che Teheran sta dimostrando di chiudere un accordo a Losanna non si spiega soltanto col fatto che hanno capito che possono più facilmente raggiungere i loro obiettivi con un'intesa piuttosto che senza, ma con la volontà di spingere Israele in un angolo. A quel punto, infatti, il suo sarebbe un attacco contro il mondo intero».
   Il professor Rabi passa quindi a descrivere un Medio Oriente sempre più complesso e non descrivibile né gestibile «secondo le categorie ormai superate del XX secolo». Una realtà da cui tra l'altro gli Stati Uniti si dimostrano crescentemente distaccati, fino al punto di deludere in modo urticante i loro alleati di sempre, dall'Egitto all'Arabia Saudita. E in cui Stati come la Siria e l'Iraq (ma anche la Libia, più a ovest) si disgregano ed emergono nuovi aggressivi attori pseudostatali come l'Isis. Viene a questo punto da chiedere cosa dovrebbe fare Israele in questo nuovo e preoccupante contesto, e Rabi non si tira indietro: «Il mondo, e meno che mai il Medio Oriente, non tornerà quello di prima. Nemmeno un cambio di guida politica alla Casa Bianca ci garantirebbe un'attenzione più benevola di quella che ci concede Obama: perché i cambiamenti sono di misura tale che superano quella degli Stati Uniti. Israele dovrà dunque essere molto pragmatico e trovare intese, non parlo di alleanze, contro nemici comuni (l'Iran e Isis, nda) con Paesi come l'Egitto e l'Arabia Saudita. Considerato che in questo XXI secolo le mappe sono ormai irreversibilmente stravolte, penso che un interessante interlocutore per Israele potrà essere anche un Kurdistan indipendente o autonomo all'interno di una federazione irachena».
   Due considerazioni finali sullo Stato islamico. Secondo Rabi è un pericolo da disinnescare «prima che si accaparri la prossima generazione». Serve «un piano preciso del mondo libero, un lavoro d'intelligence coordinato e mirato. Senza dimenticare che in Libia è reale il rischio che Isis si procuri armi non convenzionali pericolosissime: sono abbastanza fanatici da usarle ovunque».

(il Giornale, 3 aprile 2015)


Pasqua ebraica: cinquedento ebrei ortodossi festeggiano a Stresa e Baveno

Regina Palace Hotel di Stresa
Hotel Simplon di Baveno
STRESA - Anche quest'anno cinquecento ebrei ortodossi. provenienti da tutto il mondo, festeggeranno la Pasqua ebraica sulle rive del lago Maggiore, intensa l'opera di sorveglianza da parte delle forze dell'ordine.
Tra ieri e oggi l'arrivo al Regina Palace Hotel di Stresa e al Simplon di Baveno, cinquecento persone in tutto, Inizialmente era il solo Regina Palace ad ospitare gli ebrei ortodossi, da alcuni anni s'è aggiunto anche il Simplon nella vicina Baveno stante l'aumento di richieste da parte dei correligionari che desideravano festeggiare la loro Pasqua, Pesach in ebraico, sul lago Maggiore. Una presenza, quella degli ebrei ortodossi, segnalata dalla presenza di auto della polizia e dei carabinieri all'esterno degli hotel ospitanti par ragioni di sicurezza anche se, va detto, nei venti anni precedenti non c'è stato alcun bisogno d'intervento diretto da parte dei tutori dell'ordine. Mobilitato anche il personale di cucina: la preparazione dei cibi viene infatti controllala da supervisori per evitare "contaminazioni" con alimenti non consentiti.

(VerbanoNews, 3 aprile 2015)


E' dura essere cristiani in Israele, ma non per colpa del governo o degli ebrei

"Noi vediamo e apprezziamo l'opportunità di vivere una vita pienamente libera e cristiana nello stato ebraico".

Il mio nome è Gabriel Nadaf e ho il privilegio di essere un sacerdote greco-ortodosso originario di Nazareth, in Galilea. La mia gente è stata erroneamente definita "arabi cristiani", ma la realtà è che siamo aramei, discendenti di persone che hanno vissuto qui in Israele sin dai tempi biblici. Recentemente, a seguito di una lunga campagna pubblica, il Ministero dell'interno israeliano ci ha riconosciuti come "nazione aramea". Partner in questo sforzo sono state diverse organizzazioni sioniste israeliane.
Negli ultimi tre anni sono diventato una figura controversa, in Israele, per il semplice motivo che io abbraccio il sionismo, la sovranità ebraica in Israele e la tolleranza, il rispetto e le opportunità che sono scaturite per tutti da quella sovranità. Ritengo che i nostri giovani - i giovani cristiani - debbano integrarsi pienamente nella società israeliana. Parte integrante di tale integrazione è il servizio di leva nelle Forze di Difesa Israeliane o altre forme di servizio civile nazionale normalmente previste dalla legge israeliana per i diciottenni....

(israele.net, 3 aprile 2015)


Agricoltura hi-tech. Ecco come è fiorita una start up Nation

Shimon Peres: «Una terra che aveva zanzare a nord e pietre a sud. Per sopravvivere l'abbiamo trasformata con le tecnologie».

I numeri sono di quelli che fanno invidia. Soprattutto a una nazione come l'Italia che sembra incollata alle ultime posizioni nelle classifiche internazionali su innovazione e ricerca.
   Israele è un caso da manuale (uno per tutti: Start-up Nation,di Dan Senor e Saul Singer, del 2009): con un territorio grande poco più della Puglia e 8 milioni di abitanti, è primo al mondo per investimenti in R&S in rapporto al Pil, il 79% dei quali nel settore hi-tech;terzo(dietroUsa e Canada) per numero di aziende quotate al Nasdaq; terzo per numero pro capite di imprese hi-tech; e ha una concentrazione di startup seconda soltanto a quella della Silicon Valley, con 5mila giovani aziende attualmente attive e una media di 700 nuove realtà l'anno. Multinazionali come Intel, Motorola, Microsoft, Ibm, Cis co, Haier, Lg (solo per citare alcuni tra i maggiori gruppi globali) hanno inoltre qui la sede dei loro centri ricerca.
   Ma è nell'agricoltura che in 60 anni di vita Israele ha progettato, sviluppato e applicato le sue più grandi innovazioni, che oggi esporta nel mondo e che dal 1o maggio al 3l ottobre saranno protagoniste all'interno del Padiglione di Israele all'Expo di Milano, non a caso intitolato «Field of Tomorrow», «campo del domani». Promosso dal ministero israeliano per gli Affari esteri e sponsorizzato dal fondo nazionale KKL (Keren Kayemeth LeIsrael, che dal 1901 ha per missione la raccolta e l'investimento di risorse per lo sviluppo di Israele),il padiglione è stato disegnato dall'architetto David Knafo e realizzato da Avant Video System, con materiali al 100% riciclabili. Tecnologia e sostenibilità sono gli elementi cardine del padiglione, che si caratterizza per la facciata ricoperta da un campo verde verticale, rappresentativa della tecnologia «Vertical Planting» studiata per risparmiare e ottimizzare territorio e acqua.
   Obiettivo del padiglione, ha spiegato il suo commissario generale Elazar Cohen, è proprio raccontare la ricerca e la tecnologia che in meno di 70 anni hanno fatto «fiorire il deserto», trasformando un luogo arido in un territorio fertile e facendo di Israele «uno dei Paesi oggi più avanzati nel campo dell'innovazione scientifica e tecnologica».
   Forse, per spiegare un simile "miracolo economico" (continuato anche negli anni della crisi, con un PiI pro capite passato da circa 20mila a oltre 36mila dollari negli ultimi dieci anni), più di tanta sociologia possono le parole del premio Nobel per la pace Shimon Peres, ex presidente del Paese, più volte premier e ministro. «Non avevamo altra scelta - ci ha raccontato durante una visita al Centro per la Pace di Tel Aviv-Jaffa, progettato da Massimiliano Fuksas, che porta il suo nome -: ci hanno dato una terra che aveva zanzare al nord e pietre al sud. Se volevamo sopravvivere dovevamo cambiare il nostro mondo, trasformarlo con le tecnologie».

(Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2015)


Così Israele fa fiorire il deserto

Nel Negev centri di ricerca avanzata e geopolitica del cibo. Reportage sulle eccellenze del paese di David in vista di Expo. La rinascita dei kibbutz. Nel Negev sono specializzati nell'anticipo delle primizie. Non si coltivano ogm, i consumatori non li gradiscono. Alle attività formative accedono studenti israeliani, arabi (anche palestinesi) e molti stranieri.

di Luigi Chiarello

 
dal NEGEV - Percorrendo l'antica via dell'incenso, che attraversa il deserto del Negev e unisce la penisola arabica ai sentieri dei popoli Nabatei, fino all'antico porto mediterraneo di Gaza, si incrocia un wadi, un fiume del deserto di cui resiste solo l'ampio letto asciutto. Siamo a Sud del mar Morto, in piena terra israeliana, ma a un tiro di schioppo dal confine giordano (600 metri). Arava è il nome con cui il wadi è conosciuto, un termine che segna da sempre la regione. Una strada solca la vallata abbrustolita dal sole: parte dall'ultimo lembo a Mezzogiorno del bacino del Giordano e, come una ruga sul viso, segna la via per la città di Eilat, unico baluardo del paese di David sul mar Rosso. Il paesaggio è lunare: sulle rocce del Negev non poggiano le zampe per una sosta neppure gli uccelli in migrazione. Eppure, di presenze israelite in queste lande ostili narra anche la Bibbia, citando nel Deuteronomio (1.1) la comunità di Parano Sarà anche per questo che proprio qui, nel cuneo meridionale del moderno stato israeliano, il suo padre fondatore, Ben Gurion, volle lanciare la sfida sionista. Lo fece con un'immagine iconica: far fiorire il deserto. Tradotto: strappare la vita alla polvere, per far fiorire il paese. La visione di Gurion era rivoluzionaria: le coltivazioni agricole possono essere uno strumento alternativo all'esercito, nella difesa del confine con la Giordania. Così nacquero i primi insediamenti ebraici: il primo in Arava risale agli inizi degli anni 50: è il kibbutz di Ein Yahav. E lo stesso Gurion trascorse gli ultimi anni della sua vita in un kibbutz del Negev, a Sde' Boker.
  Le prime opere furono di fertilizzazione. L'inadatto terreno roccioso e altamente alcalino viene «aiutato» a produrre grazie all'importazione di suolo fertile. Si caccia l'acqua con la tenacia dei rabdomanti e la si scova in profondità, anche fino a cinque km. Delle super pompe la portano in superficie. In queste terre estreme la ricerca teorica integra sempre quella pratica. E questa, a sua volta, diventa subito strumento per l'attività aziendale. Oggi, in Arava si produce il 60% dell'export israeliano di vegetali. Nella regione vivono appena 4.500 persone. Novecento famiglie lavorano in 600 imprese agricole. Il 90% della popolazione è occupato in agricoltura e il suo territorio rappresenta il 7% di quello israeliano. L'intero Negev, invece, occupa il 60% della superficie del Paese, ma ospita solo il 10% della popolazione.

 L'ORGANIZZAZIONE AGRICOLA DEL DISTRETTO DI ARAVA
  Gli strumenti finanziari che Israele usa in questa azione - ormai più che cinquantennale - di coltivazione del deserto sono di tipo pubblico e privato. Il principale è il Keren Kayemeth LeIsrael, un'associazione non profit fondata nel 1901 che si occupa di sviluppo, bonifica e rimboschimento delle terre. Finanziato da donazioni private, il Kkl è capace di raccogliere ogni anno fino a un mld di Shekel (circa 234 mln di euro in valuta israeliana), contando anche su elargizioni di tipo immobiliare. Un secondo strumento sono i contributi che eroga il ministero dell'agricoltura. Infine, una piccola parte di risorse giunge dall'agenzia governativa di cooperazione internazionale, Mashav, dipendente dal ministero degli esteri israeliano. Le attività agricole di ricerca avanzata e formazione nella regione di Arava possono contare su diverse strutture. In totale ci sono cinque centri di eccellenza: un polo per le energie rinnovabili e la conservazione di energia; un centro transfrontaliero per la gestione delle acque, uno per l'agricoltura sostenibile, un polo di socio-ecologia nelle zone iper-aride e, infine, un centro per lo sviluppo sostenibile capace di elaborare e testare piccoli impianti bioenergetici per gli abitanti dei pvs. Non solo: Arava vanta anche un Istituto di formazione, un centro di ricerca agronomica, chiamato Vidor center e una grande stazione di ricerca agricola ad Hatzeva. I professionisti che ogni anno frequentano i poli agricoli di Arava sono circa 2 mila. Gli studenti che si muovono negli otto centri di ricerca presenti nel Paese sono 3.200; di questi, 1.100 frequentano Arava. Tutti godono di vitto, alloggio e borsa di studio (durata di dieci mesi).
  Nel centro di ricerca agronomica, l'irrigazione a goccia è la tecnologia utilizzata per idratare le piante. Attraverso di essa i fertilizzanti raggiungono le coltivazioni senza necessità di trattamenti «a mano». L'impiego di fitofarmaci, invece, è quasi nullo, poiché l'areale circostante a bassissima intensità vegetativa, presenta rischi di contagio praticamente inesistenti. L'acqua necessaria all'irrigazione arriva dai massicci impianti di desalinizzazione del Mar Morto e, come detto, dalle profondità della terra. Israele e Giordania hanno, in merito, una serie di accordi per l'utilizzo delle falde. E il Kkl gestisce cinque riserve idriche.
  L'utilizzo massiccio di serre consente di avere in Arava un microclima che tutela le coltivazioni dalle violente escursioni termiche tipiche dei deserti. I consumi energetici sono al lumicino: quando è necessario alzare la temperatura interna alla serra si usano teloni in plastica a copertura della stessa, efficaci grazie alle alte temperature del deserto. Per evitare, invece, i danni da escursione notturna a vegetali sensibili al freddo, come le melanzane, si usano mini serre simili a tunnel. Qui, la coltivazione di pomodori, grazie alla ricchezza di sale presente in acque e terreni, beneficia di una maggiore dolcezza del prodotto. Mentre, la produzione di un melone acido, che ha avuto un certo successo in Asia, consente di estrarre dalla pianta la memordica, sostanza utilizzata come pesticida naturale.
  Grazie alle particolari caratteristiche climatiche, nella regione di Arava sono specializzati nelle produzioni fuori stagione e nell'anticipo delle primizie: in estate si semina, in inverno si raccolgono prodotti tipicamente estivi. Modificando la dieta delle piante, si stimola la fioritura. E le coltivazioni gm? Maayan Kitrom, coordinatrice orticultura del centro di Areva, ne smentisce la pratica: «Non le facciamo, neppure in laboratorio! I mercati europei di sbocco non li accettano. Ma utilizziamo incroci intraspecie». Nel resto del Paese la ricerca sugli ogm pubblica e privata esiste, ma solo in laboratorio. Anche il consumatore israeliano è contrario al cibo transgenico, fatta salva la soia ormai comunemente accettata.
  Il paradosso di questa fetta di deserto è che qui, in pieno N egev, si è sviluppata persino l'acquacoltura: 1'80% del pesce consumato in Israele è prodotto in Arava. I pionieri del settore hanno iniziato dai pesci d'acqua salata. Il loro più grande successo è stato il pesce pagliaccio, che ha avuto nel film d'animazione, Nemo, il suo volàno. Dopo il cartoon della Pixar, la domanda mondiale è esplosa e il prezzo di questi pesci da acquario, ovviamente, è salito. Ma le sorprese di Arava non sono finite: più a Sud, nel kibbutz di Yotvata, si produce latte bovino. Da qui, l'azienda lattiero casearia distribuisce a marchio in tutto il Paese. A pochi km, nei pressi del kibbutz Ketura è l'energia rinnovabile a farla da padrone: un campo fotovoltaico produce 150 megawatt e soddisfa il 44% del fabbisogno energetico del consiglio regionale. Da queste parti, vita e storia religiosa si intrecciano di continuo. Il locale polo di ricerca bioenergetica ha preso il nome da un personaggio biblico, Methuselah (Matusalemme, ndr), perché così è chiamata una palma da dattero fatta qui germogliare da un seme ritrovato durante gli scavi di Masada, a metà del 1960. I proprietari del campo solare, invece, hanno dedicato il maxi impianto a un altro personaggio biblico, Ruth. E dichiarano di voler coprire il 100% della domanda energetica regionale entro il 2020.
  Ma questo non è un unicum. Spingendosi sempre a Sud si incrocia nel consiglio regionale di Elot un kibbutz ecologico. Si chiama Lotan e qui vive Judi Gat, sindaco del consiglio regionale. Gat è figlio di un'ebrea italiana, cognome Mascarelli, fuggita da Roma nel '45. Nel suo kibbutz, racconta, «vivono 200 persone, internet arriva via cavo, c'è una scuola e si producono alghe e datteri». Poi chiosa: «Nel nostro territorio si produce con energia solare il 60% del fabbisogno energetico della città di Eilat e dell'intera regione. L'obiettivo è fare di questa zona la Sylicon valley israeliana delle rinnovabili», Ovviamente, in Elot si fa anche agricoltura: gli ettari coltivati sono 140 mila e la produzione agricola vale il 40% dell'economia di Arava.

 LA GEOPOLITICA AGRICOLA DI ISRAELE
  Un'antica legge ebraica, contenuta nel Levitico (19:9, 23:22) comanda di lasciare ai poveri il raccolto ai margini del campo. In solidarietà con questa norma, il campo solare di Ketura dona l'equivalente in shekel di energia prodotta ai suoi quattro angoli a quattro ong. La cooperazione è un asset del distretto di Arava. E ha forti ricadute di natura geopolitica. In particolare, la formazione professionale sostenuta dall'agenzia governativa Mashav e finanziata anche da committenti stranieri, si rivolge per un terzo a studenti israeliani, per un terzo ad arabi, anche palestinesi, e per un terzo a studenti stranieri. Esemplificativo è il progetto Furrows in the Desert di cui è responsabile Moti Harari, finanziato dalla comunità missionaria di San Paolo Apostolo per il nord del Kenya (contea di Turkana), condotto dall'Arava Institute e dalla ong Brit Olam. Obiettivo: far training a studenti selezionati, affinché insegnino ai familiari, per lo più nomadi, moderne tecniche di coltivazione nel deserto. Il costo a persona del training per sei mesi è di 1.500 shekel. Da questo progetto sono state generate 132 fattorie in mano a nuclei familiari allargati. Alcune di esse vendono prodotti alle compagnie petrolifere che hanno iniziato a scavare pozzi in Kenya. La previsione è che si raggiungano le 350 fattorie entro il 2016.
  Attività come questa aiutano Israele a tessere relazioni internazionali e a formare classi dirigenti. Esiste una logica nella selezione degli studenti esteri compiuta dai training center. ItaliaOggi ha potuto verificare come, nel centro formativo di Arava, siano presenti giovani del Sud Sudan (con cui Israele ha siglato 12 accordi di collaborazione nell'ambito del World Food Program), una nutrita classe di studenti giunti dal Myanmar e un'elevata presenza di studenti cattolici, arrivati in parte da Timor Est e, in gran parte, dall'Indonesia. Paese, quest'ultimo, in cui 1'80% della popolazione è di fede musulmana e con cui Israele non intrattiene relazioni diplomatiche ufficiali. Appare, dunque, evidente come l'azione del centro Arava si rivolga anche a comunità minacciate dallo spettro dell'integralismo islamico. Con una mesta nota a margine: nessuno di questi studenti ha mai sentito parlare di Expo Milano 2015.

(ItaliaOggi, 3 aprile 2015)


Sopravvissuto all'Olocausto incontra il soldato che lo ha liberato 70 anni fa

 
Joshua Kaufman e Daniel Gillespie negli anni '40
 
Joshua Kaufman e Daniel Gillespie oggi, a 87 anni
Daniel Gillespie era un soldato degli Stati Uniti durante la II Guerra Mondiale e ha aiutato a riscattare oltre 35.000 prigionieri dal campo di concentramento di Dachau
Gillespie, che oggi ha 87 anni, come Kaufman, serviva come soldato dell'esercito statunitense durante la II Guerra Mondiale e ha partecipato all'operazione che ha riscattato più di 35.000 prigionieri dal campo di concentramento di Dachau, in Germania, il 29 aprile 1945. Tra questi c'era Kaufman.
L'emozionante incontro è stato organizzato dal regista Emanuel Rotstein e farà parte del documentario Liberators of Dachau, che verrà trasmesso su History Channel a maggio. Kaufman è stato detenuto nel campo di concentramento come lavoratore schiavo in una fabbrica di munizioni.
Sotto il regime nazista ha perso la madre e tre sorelle nel campo di concentramento di Auschwitz. L'azione degli statunitensi lo ha salvato dalla tortura e soprattutto dalla morte.
"Ho visto la bandiera bianca sventolare sulla torretta di osservazione e ho capito che la tortura era finita. Quando i nordamericani hanno spalancato i cancelli, il mio cuore ha sussultato. Sono uscito dall'inferno verso la luce. Per questo, e per lui, sarò eternamente grato", ha detto il sopravvissuto a History Channel.
Per Gillespie, liberare i prigionieri di Dachau è stata un'esperienza intensa. "È stato lo choc più profondo della mia vita", ha detto l'ex soldato. Per un californiano che aveva sempre avuto tutto in abbondanza, vedere come i nazisti facessero soffrire la fame ai propri prigionieri e li esponessero alla morte non è stato facile. "Queste cose mi sono restate sempre in testa. E allo stesso tempo mi veniva una rabbia terribile", ha confessato.
Dopo la guerra, Kaufman è andato ad abitare negli Stati Uniti, dove si è sposato, ha avuto quattro figlie e ancora oggi lavora come idraulico. Gillespie ha lasciato l'esercito ed è diventato un commerciante di successo, si è sposato e ha avuto otto figli. Anche se vivono a un'ora di distanza l'uno dall'altro, i due non avrebbero mai pensato di potersi incontrare di nuovo dopo tanto tempo.

(aleteia, 2 aprile 2015 - Trad. dal portoghese di Roberta Sciamplicotti)


Uno sguardo sui recenti progressi israeliani nel campo della medicina

Padre della medicina è considerato Ippocrate, medico greco del V sec. A.C. Nel corso dei secoli sono numerosi i passi avanti effettuati al fine di prevenire e curare le malattie. Lo Stato di Israele è la patria di numerosi scienziati e ricercatori che cercano continuamente di fornire un contributo alla scienza medica in continuo progresso.
I ricercatori israeliani si sono occupati di ricerca sul cancro, trattamento dei tumori cerebrali, Alzheimer e molti altri studi sono ancora in via di sviluppo e sperimentazione.
Scopriamo quali sono i recenti progressi israeliani nel campo della medicina....

(SiliconWadi, 2 aprile 2015)


Cinque consigli medici per affrontare la festività di Pesach

La festività di Pesach (Pasqua ebraica) ricorda l'esodo e la liberazione del popolo ebraico dall'Egitto, dura otto giorni (sette in Israele) e l'uso del pane azzimo è il simbolo della festa che ricorda che gli ebrei in fuga non ebbero il tempo di far lievitare il pane e mangiarono pane azzimo.
Spesso il cibo che viene mangiato durante questa festività crea disturbi gastrointestinali perché da un giorno all'altro la dieta viene stravolta per 8 giorni, togliendo i lieviti. Come ogni festività che si rispetti però, vi sono anche pranzi e cene preparati con elevate quantità di sale, grassi e calorie, che non sempre fanno bene alla salute.
Il Prof. Jesse Lachter, del Rambam Hospital di Haifa, ha esortato gli ebrei di tutto il mondo a monitorare attentamente le abitudini alimentari durante la festività, fornendo cinque preziosi consigli:
  1. Sembra assurdo, ma il pane azzimo (matzà) è colmo di grassi e deve essere considerato come avente il doppio delle calorie rispetto al pane. Non lasciarsi ingannare dal fatto che sembri leggero ed insapore;
  2. Il pane azzimo può portare a costipazione. Aumentando il consumo di acqua durante la festività si potrà evitare questo effetto collaterale indesiderato;
  3. Il Seder (cena pasquale), può essere un pasto straordinariamente pesante. Tuttavia, è possibile evitare fastidiosi problemi gastrointestinali optando per il consumo, a scelta tra cotte e crude, di una serie di verdure;
  4. Di fronte alla quantità di cibo delizioso è purtroppo molto difficile fermarsi e quindi si continua a mangiare senza sosta. Il grande studioso del XII secolo Maimonide, da cui prende il nome il Ramban Hospital, raccomanda quanto segue: mangiare lentamente e finché non si è giunti ai 2/3 di sazietà. Il senso di sazietà si avvertirà entro circa 2 ore dall'assunzione di cibo. Per tale ragione non vi è motivo di esagerare nelle quantità.
  5. Abbinare le grandi abbuffate festive con un po' di esercizio fisico. Ma questo è un consiglio che vale per tutto l'anno.
(SiliconWadi, 2 aprile 2015)


Famiglia Taché da Mattarella: "Verità sull'attacco alla sinagoga"

Un grazie al presidente Sergio Mattarella per aver ricordato Stefano Gaj Taché come »un figlio« di tutta l'Italia nel suo discorso di insediamento. Ma anche un appello affinchè sia rimosso ogni possibile »segreto di Stato« sull'attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, compiuto da terroristi palestinesi, nel quale il bambino di 2 anni rimase ucciso. Sono i sentimenti espressi da Gadiel Gaj Tachè, fratello di Stefano, ricevuto oggi al Quirinale dal capo dello Stato assieme ai suoi familiari e ai vertici della comunità ebraica romana. Nel discorso tenuto di fronte al presidente della Repubblica - e pubblicato dal sito Romaebraica.it - Gadiel Gaj Tachè ha sottolineato »il terribile dubbio« coltivato fin da quei giorni dagli ebrei romani »che qualcuno avesse deciso di sacrificarci in nome di altri interessi«. »Perchè quel tragico giorno - si è domandato il giovane, che aveva 4 anni quando fu ucciso il fratello - non era presente la sorveglianza delle forze dell'ordine davanti al Tempio Maggiore di Roma?«. Quella mattina di 33 anni fa rimasero ferite 37 persone, tra le quali la madre di Stefano, Daniela. Stamani al Quirinale c'erano anche lei, il padre di Stefano, Joseph, e la nonna Tina, accompagnati dal presidente degli ebrei romani Riccardo Pacifici e dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni. Dopo aver ricordato come la comunità ebraica si sia sentita sola in passato, Gadiel Gaj Tachè ha manifestato gratitudine a Mattarella per aver parlato di Stefano come di un »figlio nostro«, di tutta l'Italia, nel suo discorso alle Camere. Un riferimento che »è giunto inaspettato e mi ha profondamente colpito e commosso«, ha detto il fratello. »Con le sue parole - ha proseguito rivolgendosi direttamente al presidente della Repubblica - Lei ha esaudito un desiderio che custodivo dentro di me da più di 30 anni«. Poi l'appello: »Mi auguro che la sua grande sensibilità sull'argomento porti una volta per tutte all'eliminazione di qualsiasi Segreto di Stato su questa terribile vicenda - ha detto Gadiel Gay Tachè - che non ha coinvolto soltanto la Comunità Ebraica ma tutto il nostro Paese«.

(Il Nuovo Corriere di Roma e del Lazio, 2 aprile 2015)


La nostra croce in Medioriente

Parla Bat Ye'or: poche speranze per i cristiani in terra islamica, l'Europa non difende nemmeno se stessa.

di Giulio Meotti

 
Bat Ye'or
"Disastri naturali come lo tsunami o i terremoti provocano sempre straordinari movimenti di solidarietà in tutto l'occidente, mentre la scomparsa di intere popolazioni cristiane, della loro civiltà antica duemila anni, non commuove mai nessuno". A colloquio con il Foglio, Bat Ye'or (pseudonimo di Gisele Littman) è a dir poco disincantata su questo che a suo avviso è uno dei massimi rivolgimenti demografici e religiosi della storia dell'umanità: la fine della presenza cristiana nel mondo arabo-islamico. Un cataclisma dalle proporzioni che verranno comprese soltanto a ciclo compiuto.
  Lei è la storica inglese-svizzera, nata in Egitto, che per prima ha narrato la storia della "dhimmitudine", ovvero l'assoggettamento, la mutilazione, l'inferiorità e la debolezza dei non musulmani (ebrei e cristiani) all'interno dell'islam sovrano, che li ha condannati in quanto semenzaio di menzogne ed eresie.
  La prima volta che Bat Ye'or ne scrisse fu sulla rivista parigina Commentaire, fondata da un gruppo di discepoli liberali di Raymond Aron. Da allora, Bat Ye'or ha scritto saggi come "Les Juifs en Egypte", "Le Dhimmi: profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du nord depuis la conquète arabe" e di "Les chrétientés d'Orient" con la prefazione del teologo protestante Jacques Ellul, per citarne soltanto alcuni.
  "La situazione della cristianità orientale è una tragedia di proporzioni immense", dice la storica al Foglio. "Anche coloro, come il presidente egiziano al Sisi che vorrebbero aiutare, sembrano impotenti in queste circostanze drammatiche. Per quanto riguarda l'occidente, le scelte strategiche e ideologiche che ha compiuto nel secolo scorso lo rendono incapace di comprendere la tragedia. Forse è un altro segno della decadenza dell'occidente, di una politica deliberata di cancellazione dell'identità cristiana attraverso la globalizzazione e l'islamizzazione, e con esse il rifiuto dei valori giudeo-cristiani che emergono nell'attuale cultura occidentale che esecra Israele. Abbiamo tutti visto decine di migliaia di persone sfilare nelle strade delle capitali d'Europa a favore dei palestinesi mentre stavano sommergendo i civili israeliani di missili e gridavano 'morte a Israele e agli ebrei', ma l'agonia cristiana nelle terre islamiche porterebbe appena cinquecento persone nelle strade di Parigi. Dagli anni Settanta, tutti i partiti politici europei hanno sostenuto i palestinesi e gli interessi arabo-islamici. I cristiani d'oriente divennero l'avanguardia della politica europea antisionista e persone come Edward Said i detrattori della civiltà occidentale che magnificavano la superiorità di quella musulmana'' .
  La lista è impressionante. George Habash (1926-2008), "il padrino del terrorismo mediorientale", era un cristiano greco-ortodosso che cantava in chiesa come chierichetto. E' la stessa storia di Wadie Haddad (1927-1978), cristiano e spietato organizzatore di azioni terroristiche. Il Baath, partito al potere in Iraq e in Siria, è stato fondato dal cristiano Michel Aflaq (1910-1989). L'invenzione della parola "nakba", per indicare la "catastrofe" della nascita di Israele, si deve al cristiano Constantin Zureiq (1909-2000). In
Oggi l'ls applica le leggi jihadiste che hanno portato alla conquista del medio oriente cristiano. I massacri, le schiavitù, le espulsioni, il ricatto, la distruzione di monumenti, libri e retaggi di antiche civiltà, sono descrit- ti in migliaia di libri nei secoli. Ma a partire dal secolo scorso, a causa della storia d'amore dell'Europa con i palestinesi, questa storia è stata proibita e sostituita con la visione islamica della tolleranza musulmana
e della natura maligna di Israele.
Libano, i movimenti dei cristiani Michel Aoun e Suleiman Frangieh sono alleati di Hezbollah. "Ovviamente fu il disperato tentativo di comunità cristiane vulnerabili sotto una spada di Damocle, una popolazione che avrebbe potuto sopravvivere nell'oceano islamico soltanto sostenendo il potere che li avrebbe poi distrutti", ci dice Bat Ye'or.
La storica non si abbandona a falsi distinguo sullo Stato islamico (Is). "Oggi l'ls applica le leggi jihadiste che hanno portato alla conquista del medio oriente cristiano. I massacri, le schiavitù, le espulsioni, il ricatto, la distruzione di monumenti, libri e retaggi di antiche civiltà, sono descritti in migliaia di libri nei secoli. Ma a partire dal secolo scorso, a causa della storia d'amore dell'Europa con i palestinesi, questa storia è stata proibita e sostituita con la visione islamica della tolleranza musulmana e della natura maligna di Israele. Oggi le sofferenze umane dei cristiani, che richiederebbero aiuto internazionale, sono aggravate dalla perdita della memoria storica, di secoli di tesori e di tradizioni di passate generazioni immortalate in vecchi libri. E' la storia della dhimmitudine, che è stata negata dal consenso politico".
  Non vede alcun futuro per i cristiani in medio oriente. "E' difficile prevedere l'evoluzione di questo caos provocato da una Europa cieca e dal presidente americano Barack Obama, entrambi sedotti dai loro consiglieri preferiti: i musulmani radicali e i Fratelli musulmani. E' chiaro che qualunque cosa succederà, i cristiani emigreranno. Forse una esigua comunità copta resterà in Egitto, ma la presenza cristiana si affievolirà in altre regioni. Già oggi il carattere cristiano del Libano è scomparso come conseguenza della Guerra civile del 1970-80 e del sostegno dato dall'Europa e dalla Francia ai palestinesi contro i cristiani. L'Europa ha smesso di difendere se stessa, come potrebbe difendere qualcun altro? Da presidente della Commissione europea, Romano Prodi biasimò il diritto di Israele all'autodifesa dandoci un esempio dell'Europa compiacente che incoraggiava l'immigrazione. I cristiani emigreranno, ma non come fecero gli ebrei. Gran parte degli ebrei sono tornati alla loro terra natia dove hanno restaurato una antica civiltà. Gli ebrei avevano una visione che li univa nonostante le divisioni e le differenze. La proclamazione della libertà e della dignità dell'essere umano, la liberazione dalla schiavitù hanno costituito il certificato di nascita di Israele che ha preservato la sua identità e anima nei millenni".
  Israele è odiato proprio perché ha vinto la dhimmitudine, la sottomissione all'islam. "I cristiani invece sono stati le vittime della rivalità politica europea. Divisi, traumatizzati dai genocidi ottomani, i cristiani d'oriente non hanno potuto farcela senza aiuto esterno. E' stata una tragedia cristiana".
  E' una tragedia in cui l'occidente ha una responsabilità impressionante. "Sì, e in molti modi. Inghilterra e Francia hanno diviso l'identità cristiana persuadendo i cristiani che erano arabi e che dovevano militare con i musulmani per formare una nuova ideologia: il nazionalismo arabo che avrebbe sconfitto il sionismo. C'erano arabi cristiani, è vero, ma gran parte dei cristiani erano cristiani arabizzati dalla conquista araba delle loro terre. Inoltre, molti cristiani non erano antisraeliani e si vedevano come gli abitanti indigeni del medio oriente. Su pressione delle due potenze coloniali, i cristiani divennero più arabi degli arabi, i mercenari cristiani delle cause islamiche, in particolare dei palestinesi. La militanza dhimmi a favore dell'islam e del suo dominio in espansione ha alterato la coscienza storica cristiana. Minoranze vulnerabili vennero usate per diffondere in occidente odio antiebraico. Dovevano seppellire la loro storia dhimmi per abbracciare la tolleranza islamica. A livello politico, Francia, Inghilterra e America hanno rifiutato di concedere ad assiri e armeni regioni autonome dopo la Prima guerra mondiale, temendo le popolazioni islamiche delle loro colonie. Rifiutarono anche la protezione dei cristiani dopo la fine dei mandati, suggerendo loro di integrarsi con gli arabi. Il risultato fu un genocidio di Assiri negli anni 30. Avvenne lo stesso con la richiesta curda di autonomia. Soltanto la falsa identità palestinese basata sul jihad e creata dalla Francia nel 1969 ha creato consenso nella guerra dell'Unione europea contro Israele".
  Bat Ye'or conclude con una triste premonizione: "Avendo negato la storia della sottomissione, l'Europa oggi vive senza conoscerla, insicura sotto la minaccia jihadista. L'estinzione della cristianità orientale potrebbe prefigurare il futuro stesso dell'Europa". Sarà questa la punizione per la nostra cupidigia da dhimmitudine?

(Il Foglio, 2 aprile 2015)


Iran, intesa in bilico: Casa Bianca furiosa. E intanto l'armata Isis arriva a Damasco

di Fiamma Nirenstein

Obama sembra anche molto irritato. il suo portavoce Josh Earnest ha laconicamente affermato che «Finora l'Iran non offre impegni tangibili» e poi ha minacciato: «In caso di mancato accordo l'Iran potrebbe ritrovarsi a subire ulteriori sanzioni più pesanti». E ancora: «Siamo pronti ad andarcene senza accordo». É un tentativo duro, che riflette l'esasperazione di chi ha puntato tutto il recupero di una politica estera fallimentare su un interlocutore che, come abbiamo scritto ieri, ha sempre fatto lo stesso prevedibile gioco da più di un decennio: avvicinarsi all'interlocure in giacca e cravatta, tirarla in lungo fingendo di essere pronti a concessionio significative, e poi tirarsi indietro avendo guadagnato altro tempo per seguitare l'arricchimento dell'uranio. Si chiama «taqiyya» ed è il diritto che concede la religione musulmano di nascondere la verità per un fine utile all'Islam.
   Le delegazioni si sono concesse altre 24 ore di tempo e chissà quali pressioni Obama sta facendo all'Iran, sapendo che il suo bisogno di denaro non è legato solo alle durezze subite a causa delle sanzioni, ma anche perché il disegno imperiale degli ayatollah richiede missili per gli Hezbollah, truppe per gli iracheni, armi e uomini per lo Yemen e molto sostegno a Assad. La sfida di Obama è rischiosa. Per dirne una, si è saputo che i rapporti fra USA e Iran hanno rischiato il disastro: un aereo iraniano per due volte ha sfiorato, volando a 45 metri di distanza, un elicottero americano nel Golfo Persico. Gli analisti dicono che l'incidente deriva da una scelta militare locale. L'odio c'è. Due settimane indietro durante i colloqui, ecco il leader supremo Khamenei che guida una manifestazione di piazza che grida «morte all'America». La confusione creatasi intorno alle scelte di Obama è troppo grande per portare a un accordo ordinato.
   Mentre l'Iran si qualifica sotterraneamente come alleato nel battere l'Isis, l'Isis può vincere lo stesso; oppure, l'Iran è alleato utile, ma non presentabile; e inoltre, l'Iran come alleato genera nemici, caos e guerra. Esempi: ieri, mentre la lotta all'Isis dovrebbe dare qualche medaglia all'Iran, gli islamisti hanno occupato il campo profughi palestinese di Yarmouk, attaccato al sud di Damasco, mettendo a serio rischio il dittatore Assad. Il rais alawita, che ha sterminato duecentomila siriani, pure non era amato dai palestinesi di Yarmuk. Questo non è importato all'Isis, pure sono sunniti come i palestinesi. Il rifiuto a suo tempo di Obama di mettersi dalla parte di un'opposizione siriana decente, oggi mette l'Isis all'avanguardia contro la roccaforte di Damasco in un caos ormai incontrollabile.
   A Tikrit, in Iraq, invece, è in parte merito degli americani se si è quasi conclusa vittoriosamente la battaglia per riconquistare la città natale di Saddam Hussein. Il ministro dell'interno Mohammed al Ghabban ha annunciato la vittoria anche se permangono sacche di resistenza. Ma se è logico che sia l'esercito iracheno a vantarsi della lunga battaglia vittoriosa, esso è stato condotto per mano a Tikrit dalle forze iraniane, e che esse si sono scansate al momento cruciale su richiesta americana. L'alleanza Usa-Iran è una frattura per i sunniti moderati: per frenare un dominio aggressivo che ormai controlla quattro capitali rispondono con l'assalto allo Yemen e la minaccia di nuclearizzarsi. E qui, giravolta, Obama ha tentato di allearsi con l'Arabia saudita contro gli Houti sciiti. Troppa confusione mentre si aspetta la risposta iraniana.

(il Giornale, 2 aprile 2015)


Mattarella incontra i familiari di Stefano Tachè, ucciso nell'attentato alla sinagoga di Roma

"Mi trovavo in sinagoga per festeggiare insieme ai miei genitori, parenti e amici una festività religiosa. Ad un tratto l'inferno, bombe a mano, raffiche di mitra, urla disperate. Il bilancio fu terribile, la morte del piccolo Stefano e il ferimento di 40 persone". Sono le parole che Gadiel Tachè pronuncia al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, messe nero su bianco in una lettera scritta il giorno dopo l'insediamento del Capo dello Stato.
Gadiel è infatti il fratello di Stefano, ucciso nel'attentato alla sinagoga di Roma il 9 ottobre 1982 e citato nel discorso di fronte ai Grandi elettori. Uno di quei riferimenti a persone e luoghi non casuali da parte di Mattarella, che vuole così richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica di fronte ai pericoli che la minacciano e indicare la strada da seguire per respingerli.
"Il terrorismo internazionale -disse il Presidente della Repubblica il 3 febbraio- ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti. Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi. Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano".
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Parole non fini a se stesse, dunque, alle quali il Capo dello Stato ha voluto dare un seguito ricevendo oggi al Quirinale i familiari di Stefano Gaj Tachè: la madre Daniela Gaj, il Padre Joseph Tachè, il fratello Gadiel e la nonna Tina Di Nepi, accompagnati da una delegazione della Comunità ebraica di Roma guidata dal rabbino capo Riccardo Di Segni e dal presidente Riccardo Pacifici.
"Immagino -ha sottolineato Mattarella- che il passare degli anni non cambi affatto nè il dolore nè il ricordo". "La nostra famiglia-ha ricordato ancora Gadiel- fu per sempre distrutta, non solo fisicamente ma soprattutto nel cuore e nella mente. Ero un bambino di 4 anni, vedevo ancora il mondo a colori, ero incapace di capire che cosa fosse la guerra, il dolore, la morte".

(Adnkronos, 1 aprile 2015)


Aerei e difesa: Israele completa con successo un test di intercettazione missilistica

Oggi, mercoledì 1o aprile 2015, l'Organizzazione per la difesa missilistica di Israele ("Imdo") ha dichiarato di aver completato con successo la terza serie di test di intercettazione, utilizzando i missili "Stunner".
"Negli ultimi giorni, abbiamo condotto una serie di esperimenti. Dopo aver valutato tutti i dati, ne abbiamo decretato il pieno successo": sono le parole pronunciate in questa occasione da Yair Ramati, direttore di "Imdo".
Sempre nel corso della stessa intervista, Ramati ha affermato che i test sono stati effettuati contro razzi a lunga e corta gittata, ed ha ribadito che il "David Sling" (dall'omonimo personaggio biblico. NdR) è stato realizzato esclusivamente per scopi difensivi.
Sviluppato congiuntamente dalle aziende Rafael e Raytheon, l'intercettore è stato finanziato anche dagli Stati Uniti, e fa parte del sistema di difesa di Israele denominato "David Sling".
Israele progetta di implementare il "David Sling" nel suo più recenti sistemi difensivi "Iron Dome" (contro razzi Katyusha e tipo Grad ) ed "Arrow 2" (progettato per intercettare Scud e missili di tipo balistico).
"Arrow 3" invece costituirà il più avanzato sistema di difesa attiva, in grado di intercettare anche missili dotati di testate nucleari e di colpirli al di fuori dell'atmosfera terrestre.
"Imdo" e l'Agenzia per la difesa missilistica del Pentagono stanno pianificando una quarta serie di test sempre durante il 2015; se anche questa prova avrà successo l'Air Force di Israele dovrebbe dichiarare la piena operatività.

(Avionews, 1 aprile 2015)


Milano - Memoriale della Shoah: durante l'Expo sarà aperto al pubblico

Dal 29 aprile al 30 settembre 2015

Il Memoriale della Shoah sarà aperto al pubblico durante Expo Milano 2015. Sarà possibile visitare il luogo di deportazioni rimasto intatto, dal 29 aprile al 30 settembre, tranne agosto, dalla domenica al giovedì dalle 10 alle 19.
E dal 29 aprile al 29 maggio il Memoriale ospiterà la mostra "Aldo Carpi. Arte, vita, Resistenza", curata da Maurizio Guerri, in collaborazione con l'Accademia di Brera. Carpi, docente e direttore di Brera dal 1945, venne arrestato nel 1944 perché ebreo e militante nella Resistenza. Fu poi deportato a Mauthausen e Gusen.

(MilanoToday, 1 aprile 2015)


Anna Foa racconta il Portico d'Ottavia

 
Bologna Children's Book Fair
Molte sono state le domande che gli allievi di quarta della scuola elementare Padre Marella hanno fatto alla storica Anna Foa, protagonista di un laboratorio su "Portico d'Ottavia" in occasione della Bologna Children's Book Fair, al Museo Ebraico. Il libro, pubblicato da Laterza, racconta ai giovani lettori la storia di un vecchio palazzo del ghetto di Roma, e il laboratorio ha offerto ai bambini la possibilità di interrogare direttamente l'autrice e l'illustratore del volume, Matteo Berton. Guidati dalle idee e dalla bravura della responsabile dell'aula didattica del museo, Patrizia Panigali, hanno disegnato, con l'aiuto dell'illustratore, una serie di personaggi che sono andati man mano a popolare la grande mappa del ghetto di Roma che, srotolata ai piedi di Anna Foa, ha permesso di far rivivere le vicende dell'ottobre 1943. Promosso dalla redazione di DafDaf in collaborazione sia con il Museo che con la casa editrice Laterza, il laboratorio è parte di una serie di appuntamenti che il giornale ebraico dei bambini ha organizzato nell'ambito del programma della Bologna Children's Book Fair, la più grande fiera internazionale dedicata ai libri per bambini e ragazzi, che ha portato ieri al Caffè degli Autori un incontro proprio sulla difficoltà e insieme sulla necessità di raccontare ai bambini argomenti difficili e importanti.

(moked, 1 aprile 2015)


Israele e Arabia Saudita uniti contro il comune nemico: l'Iran sciita.

Da Riad "luce verde" per utilizzo dello spazio aereo

di Umberto De Giovannangeli

I caccia con la stella di Davide si alzano nella notte. I piani di attacco erano stati predisposti da tempo e affinati in esercitazioni mirate. La rotta era tracciata. E passava per lo spazio aereo dell'Arabia Saudita. L'ok definitivo arriva da una consultazione ai massimi livelli fra Gerusalemme e Riad. L'operazione poteva iniziare. Non è la trama di un film d'azione, ma ciò che potrebbe accadere nel momento in cui Israele si sentisse "tradito" dall'alleato americano e lasciato solo nel contrastare la minaccia nucleare iraniana.
   Proprio solo, no. Perché a suo fianco, Benjamin Netanyahu può contare sul Paese arabo che più teme l'espansionismo sciita nella regione: l'Arabia Saudita. "Il nemico del mio nemico è mio amico", un assunto che spiega l'alleanza israelo-saudita. Perché la nascita di un nuovo "impero persiano" è considerata da Israele e Arabia Saudita una minaccia molto più stringente di quella rappresentata dallo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
   Si tratta ad oltranza a Losanna sul nucleare iraniano, ma a Gerusalemme la sentenza è stata già emessa: condanna senza appello. A pronunciarla è lo stesso Netanyahu: "L'intesa che stanno scrivendo a Losanna lascerà all'Iran gli impianti sotterranei, il reattore nucleare di Arak e le centrifughe più avanzate" e ciò significa che "secondo le nostre stime il tempo necessario all'Iran per creare una bomba atomica sarà ridotto a meno di un anno, o forse a molto meno di questo", afferma il primo ministro in una sede e occasione solenni: la Knesset (il Parlamento israeliano) nella seduta inaugurale della nuova legislatura.
   Netanyahu ha parole durissime verso le potenze che trattano a Losanna. "Sembra che le potenze occidentali abbiano ceduto sul loro impegno d'impedire che l'Iran ottenga armi nucleari", tuona Netanyahu. "Hanno accettato il fatto - insiste il premier israeliano, rivolgendosi a Usa e Ue con toni polemici - che l'Iran svilupperà nei prossimi anni le capacità per produrre molte bombe. Forse loro possono convivere con questo, ma io non posso accettare un pericolo così grande per Israele".
   Nelle considerazioni dei vertici israeliani rientra anche la "polveriera yemenita". "L'asse Iran-Losanna-Yemen - sostiene Netanyahu - è pericoloso per l'umanità e va fermato". Mentre in Svizzera si discute, spiega, "gli emissari dell'Iran nello Yemen cercano di conquistare parti estese del Paese nel tentativo di assumere il controllo degli Stretti di Bab el Mandab. Cosa che - avverte - cambierà gli equilibri nella navigazione e nelle forniture di petrolio". Lo stesso ministro della Difesa Moshe Yaalon ha definito "pessimo l'accodo", aggiungendo che l'Iran sta avendo "successo nel farsi beffe del mondo". Un Iran sulla soglia del nucleare, ha ammonito, potrebbe essere "una tragedia non solo per i regimi moderati del Medio Oriente ma anche per l'intero occidente". E ha aggiunto che le forze armate di Israele e i suoi servizi segreti hanno già avuto ordine di organizzarsi per far fronte alla nuova situazione "e per poter neutralizzare quella minaccia in qualsiasi momento".
   Concetti che Netanyahu ribadirà, in implicita ma sostanziale polemica con la linea "aperturista" della Casa Bianca verso Teheran, nel suo intervento al Congresso degli Stati Uniti. Dell'Iran "non ci si può fidare", sentenzia Netanyahu nel suo intervento. Per il premier israeliano Teheran e lo Stato islamico sono "in competizione per la guida dell'Islam militante, entrambi vogliono imporre un impero militante, prima nella regione, poi nel mondo intero". In questo mortale "Game of Thrones" non vi è posto per l'America o Israele. Non vi è posto per i cristiani, gli ebrei o i musulmani" che non sono d'accordo, sostiene Netanyahu. Che mette in guardia: "quando si parla di Iran o di Is, il nemico del tuo nemico è tuo nemico". Il pericolo "è il matrimonio fra l'Islam militante e l'arma nucleare". E per questo, sottolinea ancora Netanyahu, "sconfiggere l'Is e lasciare che l'Iran ottenga un'arma nucleare significherebbe vincere una battaglia ma perdere la guerra".
   La linea della fermezza proclamata da Netanyahu trova il consenso, negli Usa, dei Repubblicani. L'ex ambasciatore Usa all'Onu, il repubblicano John R. Bolton, in un articolo sul New York Times ha teorizzato il bombardamento dei siti nucleari iraniani come unico antidoto a una Repubblica Islamica dotata di armi atomiche e alla seguente corsa agli armamenti dell'intera regione. Secondo Bolton, nei recenti colloqui tra Sauditi, Pakistan, Egitto e Turchia "la questione nucleare era sicuramente nell'agenda". Il Pakistan potrebbe velocemente fornire armi o tecnologia nucleare anche a Egitto, Turchia e altri. Oppure, per il giusto prezzo, la Nord Corea potrebbe vendere a questi Stati l'atomica alle spalle dell'alleato iraniano.
   Stando al rapporto dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano) sugli scenari del 2015, non è solo il programma nucleare a preoccupare ma anche la situazione interna che potrebbe portare nel giro di poco tempo i Guardiani della Rivoluzione al potere. Infatti, nonostante il forte allentamento delle sanzioni a seguito di accordi con gli Stati Uniti e con la UE, la situazione sociale in Iran rimane drammatica. Di questo ne potrebbero approfittare proprio i Pasdaran per destituire Hassan Rohuani.
   Da mesi ci sono segnali importanti che vanno in questa direzione. A risentirne sarebbe tutta l'area compreso il Libano dove gli Hezbollah sono legati a doppio filo proprio ai Pasdaran i quali sono tra i più ferventi sostenitori di un attacco massiccio a Israele.
   Secondo un rapporto dei media israeliani, il programma nucleare iraniano ha portato l'Arabia Saudita e Israele ad avvicinarsi. Una fonte europea di alto livello ha confermato che Riad si è offerta di lasciare che i caccia israeliani usino il suo spazio aereo per attaccare l'Iran, se necessario. In cambio Israele dovrebbe riprendere, con sostanziali progressi, i colloqui di pace con i palestinesi. "Le autorità saudite sono completamente coordinate con Israele su tutte le questioni relative all'Iran," rimarca la fonte diplomatica a Bruxelles.
   L'utilizzo dello spazio aereo saudita significa che le Forze di Difesa israeliane potrebbero colpire Teheran da una distanza minore, senza dover volare in tutto il Golfo Persico. I piani di attacco sono pronti da anni e continuamente aggiornati. All'ora prescelta si leveranno in cielo cento apparecchi, fra aerei da combattimento, da intercettazione, da rifornimento, da guerra elettronica. Gli aerei F16i e F15i sono del resto in grado di raggiungere l'Iran senza rifornimenti in volo anche con un carico di ordigni.
   Tre sono le possibili rotte d'attacco: una lungo il confino turco-siriano; un'altra sulla Giordania; una terza su Arabia Saudita. Ed è proprio quest'ultima ad essere stata scelta, grazie alla diponibilità saudita. "Se costretto ad agire da solo, osserva Efraim Kamm, del Centro di studi strategici dell'Università di Tel Aviv Israele è in grado di portare a termine una sola ondata di attacchi" sull'Iran. Dunque la selezione degli obiettivi che i vertici iraniani hanno disperso sull'intero territorio e protetto sotto terra risulta determinante. Secondo uno degli scenari apparsi su internet, Israele non cercherà quindi di distruggere l'intera rete degli stabilimenti nucleari iraniani, ma solo quelli ritenuti d'importanza critica: le località che vengono spesso menzionate sono Natanz, Isfahan, Kom, Arak. Quanto alla centrale di Bushehr, c'è chi ritiene che vada risparmiata, per non provocare una fuga di materiale radioattivo. In questa fase potrebbero entrare in azione i missili Jericho II e Jericho III, contro i quali l'Iran risulta impotente. Per intaccare gli obiettivi principali, dovrebbero esserne impiegati diverse decine. La distanza da Israele di questi bersagli è oltre 1000 chilometri, un tragitto che può essere coperto dagli F15 e F16, sostenuti da elicotteri e mezzi di rifornimento. Israele si è dotato anche di tre apparecchi Awac (Airborne Warning and Control).
   Il Nemico mortale è a Teheran, non a Mosul. "Se lo Stato islamico avesse concentrato i suoi sforzi su Israele invece che sull'Iraq - sostiene Amos Yadlin, ex direttore dell'intelligence militare israeliana - sarebbe diventato una preda facile per l'intelligence israeliana, per l'aviazione e per le armi di precisione a disposizione delle nostre forze di terra". Yadlin, sminuisce il pericolo-Isis per Israele: "In fondo sono solo poche migliaia di terroristi a bordo di pick-up e armati solo di kalashnikov. "Niente a che vedere con le forze armate di cui dispone Hezbollah in Libano o persino Hamas nella Striscia di Gaza. Al contrario, sostiene ancora Yadlin, dobbiamo continuare a ricordare alla comunità internazionale che non si devono fare concessioni all'Iran in materia nucleare in cambio della sua partecipazione alla coalizione anti-Califfato".
   L'Iran, insiste l'ex direttore dell'intelligence militare di Tel Aviv, "è Paese risoluto a distruggere Israele. D'altra parte, non è da oggi che abbondano rivelazioni sui piani d'attacco messi a punto da Israele contro l'Iran. Nell'agosto 2012, un blogger americano, Richard Silverstein sul suo blog (Tikum Olam "Riparare il mondo" in ebraico) scrisse che un eventuale attacco di Gerusalemme contro i siti nucleari iraniani avrebbe inizio con un'aggressione informatica "senza precedenti", per paralizzare il regime iraniano che non riuscirebbe così "a sapere cosa avviene al suo interno". A riportarlo fu "Ynet", il sito di "Yedioth Ahronot", il più diffuso quotidiano israeliano. Silverstein sostenne di aver ottenuto un documento ufficiale che delinea i piani di guerra dello Stato ebraico contro l'Iran da una fonte israeliana di alto livello. Un attacco in tre fasi: nella prima si ricorrerebbe alla tecnologia più sofisticata per mettere fuori uso Internet, i telefoni, la radio, la tv, le comunicazioni satellitari, le connessioni in fibra ottica degli edifici strategici del Paese, comprese le basi missilistiche sotterranee di Khorramabad e Isfahan. Nella seconda fase ci sarebbe il lancio di decine di missili balistici, in grado di coprire una distanza di 300 chilometri, contro la Repubblica islamica dai sottomarini israeliani posizionati vicino al Golfo Persico. Missili "con punte rinforzate, progettate per penetrare in profondità". Secondo il dossier l'obiettivo sarebbero alcuni siti sotterranei, come quello di Fordo, che preoccupa Israele perché scavato in una montagna vicino a Qom.
   Infine la terza fase, con il lancio di altri missili - questa volta da crociera - per mettere ko i sistemi di comando e controllo, di ricerca e sviluppo e le residenze del personale coinvolto nel piano di arricchimento dell'uranio. Dopo la prima ondata di attacchi un satellite passerà sopra l'Iran per valutare i danni agli obiettivi. Le informazioni saranno quindi trasferite agli aerei di guerra dotati di tecnologia sconosciuta al grande pubblico e anche all'alleato americano, invisibili ai radar e inviati in Iran per finire il lavoro, colpendo un elenco ristretto di obiettivi. Le smentite furono di circostanza, anche perché, prima di lanciare la notizia, la direzione di "Yedioth Ahronot" fece le necessarie verifiche, ricevendo, sia pur con la garanzia dell'anonimato, conferme da fonti ritenute "altamente affidabili". Come "affidabile" è la luce verde di Riad per gli attacchi aerei israeliani contro il comune nemico: l'Iran sciita.

(L'Huffington Post, 1 aprile 2015)


Il Re d'Olanda restituisce un dipinto sottratto a un collezionista ebreo, durante il nazismo

di Giulia Testa

"The forest Hague overlooking the palace Huis ten Bosch " di Joris van der Haagen
Arriva dal nord Europa, con precisione dai Paesi Bassi, una notizia che lascia ben sperare. Il Re d'Olanda Guglielmo Alessandro ha dichiarato che restituirà ai discendenti di un collezionista ebreo un quadro sottratto durante l'occupazione nazista nel 1942. Si tratta di un paesaggio, intitolato The forest Hague overlooking the palace Huis ten Bosch (nella foto), dipinto nel XVII secolo dal pittore olandese Joris van der Haagen, da anni parte della collezione della Casa d'Orange.
Come successe a tutti i beni di valore e alle somme di denaro delle famiglie ebree durante la Seconda Guerra Mondiale, il dipinto fu confiscato per essere custodito in una banca di Amsterdam, la Lippmann, Rosenthal & Co. In teoria l'istituto bancario avrebbe dovuto proteggere e salvaguardare i beni in questione, ma nella pratica non fu esattamente così. Nel 1960 Giuliana d'Olanda, la nonna del re attuale, acquistò il dipinto da un rivenditore locale, ignorando completamente l'origine dell'opera.
Lo scorso anno lo stesso Re Guglielmo Alessandro ha provveduto affinché l'intera collezione d'arte della famiglia venisse analizzata dagli esperti, per determinare proprio la provenienza delle opere possedute. Al termine di queste indagini una commissione olandese ha stabilito che il quadro in questione è lo stesso appartenente al collezionista ebreo che venne requisito dai nazisti. Re Guglielmo Alessandro una volta appresa la notizia ha deciso di voler restituire l'opera alla famiglia di appartenenza, dando una lezione di stile e correttezza da cui tanti dovrebbero imparare.

(exibart.com, 1 aprile 2015)


Belgio - Assicurazione negata a un asilo ebreo: "Troppi rischi"

Una compagnia di assicurazioni belga s'è rifiutata di assicurare una scuola materna ebrea, perché troppo rischioso alla luce dei recenti attacchi terroristici che hanno insanguinato istituzioni ebraiche in tutta Europa.
Una decisione che ha provocato un commento molto amaro da parte del Direttore generale dell'Associazione Ebraica Europea, il rabbino Menachem Margolin: "È un vero peccato che le compagnie di assicurazione abbiano capito quello che molti governi europei ancora non vedono. E cioè - prosegue Margolin - che le istituzioni ebraiche sono l'obbiettivo di attacchi terroristici. E che dobbiamo garantire che siano protetti dalle forze di sicurezza".
Margolin sottolinea che i Paesi Ue sono chiamati a fornire ogni dispositivo di sicurezza adeguato "che soddisfi le richieste delle compagnie assicurative" e proporre "un piano alternativo su misura per le istituzioni che sono minacciate dall'antisemitismo".

(L'Huffington Post, 1 aprile 2015)


Una lettera a Michael Douglas dopo l'esperienza antisemitica del figlio

di Michael Laitman*

Caro Michael,
 
            Michael Douglas                                                                                                       Michael Laitman
anch'io mi chiamo Michael e sono un ebreo che vive in Israele. Ho letto la sua storia riguardo l'esperienza che suo figlio ha avuto nel Sud dell'Europa e sento l'obbligo di esprimerle la mia ammirazione per il coraggio che ha avuto di uscire allo scoperto e parlare di ciò che molti temono. La sua fama dà la giusta rilevanza ad un argomento che molti trovano difficile esporre ma io credo che dobbiamo farlo. Per questa ragione, sono grato del fatto che piuttosto che scappare da un argomento così controverso, lei abbia preso una posizione e si sia fatto avanti. Questo le fa onore.
  Come russo di origine ebraica, ho avuto la mia parte di esperienze antisemite. Queste, così come è successo a lei, non mi hanno indebolito, ma hanno contribuito a formare la mia identità ebraica, portandomi infine ad emigrare in Israele. In qualche modo, gli anti-semiti hanno forgiato il mio Sionismo.
  Nel corso degli anni, ho approfondito molti ambiti e settori del sapere. I miei studi in Scienza, Filosofia, Kabbalah e Ontologia, hanno tutti contribuito alla formazione di una visione del mondo che si basa sulle radici ebraiche e che è radicata nella scienza moderna.
  Nei miei studi ho indagato sulla ragione per cui esiste l'antisemitismo e sul motivo per cui questo odio trova sempre nuove vesti e nuove parvenze, ma non svanisce mai del tutto. Nell'autunno dell'anno scorso ho pubblicato sul New York Times due articoli, (allora piuttosto provocatori), uno intitolato "Chi sei popolo di Israele?" e l'altro "Quello che gli ebrei devono al mondo". In questi articoli spiego brevemente ciò che ora vorrei condividere con lei.
  Nonostante tutte le sue diverse vesti, l'antisemitismo ha un'unica radice. Il fenomeno scomparirà se la sradicheremo. Questa radice non è conosciuta né dalle vittime dell'antisemitismo, gli ebrei, né dagli antisemiti. Ma così come le altre pulsioni inconsce ci spingono a fare cose che non hanno un senso logico, anche l'antisemitismo non ha bisogno di nessuna logica per riemergere. Al primo segnale di difficoltà finanziarie o sociali avanza lentamente fino in superficie ed il "gioco dello scaricabarile" contro gli ebrei ha inizio.
  L'antisemitismo non appare a causa delle difficoltà stesse, o a causa della politica di questo o quel governo, come affermano alcuni. Non è neanche il risultato del controllo ebraico sui media o sul sistema bancario, come sostengono alcuni antisemiti. L'antisemitismo è sempre presente, è un virus che per esplodere con tutta la sua forza, attende l'indebolimento dell'organismo della società umana. E quando lo fa, è spesso letale.
  L'unico modo per curare l'antisemitismo è sradicarlo dall'intero organismo, cancellandolo dalla società umana e, sorprendentemente, le vittime detengono anche la cura.
  Ogni uomo, donna e bambino, tutti noi nasciamo con il desiderio di una vita tranquilla, sicura e felice. Nel profondo del subconscio umano è sepolta l'idea che una vita del genere sia possibile solo quando c'è empatia tra le persone e quando queste si prendono cura reciprocamente. Così come in una famiglia tutti i suoi membri si prendono cura gli uni degli altri in maniera naturale, l'umanità potrà prosperare solo se ci prenderemo cura degli altri come fossero dei parenti, anziché dei nemici.
  Molti secoli fa, prima della distruzione del Tempio e dell'esilio dalla terra di Israele, noi, il popolo ebraico, coltivavamo già una società di questo tipo. Dentro noi, quindi, esiste una qualità latente che una volta risvegliata, ci permetterà di ripristinare tale parentela.
  Ci siamo dimenticati della sua esistenza e i non ebrei non hanno alcun indizio che possa esistere. Eppure entrambi, sia gli ebrei che i non ebrei, hanno un istinto e una sensazione inesprimibile che gli ebrei siano in possesso di qualcosa che non condividono, ma che è di vitale importanza per la nostra sopravvivenza. È per questo che soprattutto nei momenti difficili, le persone puntano istintivamente il dito contro gli ebrei. E dato che sono arrabbiate e frustrate, sono spesso violente.
  Quel "qualcosa" che sentono che stiamo trattenendo è quel legame indissolubile che condividiamo tra noi, la nostra capacità di mantenere una società basata sulla solidarietà, sull'empatia, e sulla preoccupazione per gli altri. In due parole si chiama: "Garanzia reciproca". La società ebraica antica è stata fondata sulla base del principio: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Questo principio è indispensabile nella nostra società iper-egoistica post moderna, ma non abbiamo idea di come diffonderlo.
  Il risultato è che molti non ebrei ci odiano, gli ebrei si sentono minacciati e perseguitati e nessuno riesce a trovare una spiegazione a quest'odio, né tantomeno ad attenuarlo. Ma la cosa peggiore è che sta diventando evidente che se non lo freneremo adesso, quando è ancora relativamente benigno, crescerà come gli alberi di Baobab nel minuscolo pianeta del Piccolo Principe e diventerà maligno.
  In fin dei conti, quindi, dato che dentro di noi deteniamo involontariamente la qualità della garanzia reciproca, è comunque nostro dovere risvegliarla e condividerla con il mondo, affinché tutto l'odio si plachi. In effetti, quando fonderemo una società empatica nella quale ognuno si prenderà cura dell'altro, non solo l'antisemitismo si placherà, ma ogni pensiero cattivo contro il nostro popolo si trasformerà nel suo opposto.
  Poiché la maggior parte degli ebrei sono attualmente ignari della loro qualità latente, sono riluttanti ad accettare l'idea della sua esistenza. Tuttavia, lei esiterebbe se qualcuno le dicesse che lei ha un tesoro in tasca e che questo potrebbe essere suo soltanto raggiungendo la sua tasca e tirandolo fuori? Proprio così, noi possediamo un tesoro che sta dormendo nei nostri cuori e che potrebbe cambiare la nostra vita, ma dato che non riusciamo a vederlo, ci rifiutiamo di raggiungerlo e toccarlo. Ma se noi aprissimo soltanto un pochino i nostri cuori, lo troveremmo dentro.
  Non appena instaureremo tra di noi questa garanzia reciproca, la condivideremo anche con il mondo, in quanto è questa la sua destinazione. Questa qualità è stata depositata in noi per il bene dell'umanità, non solo per il nostro beneficio. Dobbiamo prima riaccenderla tra di noi e poi offrirla a tutti.
  Caro Michael, le chiedo di aiutarci a diffondere il messaggio secondo cui gli ebrei hanno qualcosa di veramente prezioso da offrire, una vita fatta di assistenza e condivisione, quel legame speciale che tutti desiderano. So che questo realizzerà il futuro di tutti gli ebrei e di tutta l'umanità, un futuro sicuro e felice, per i suoi figli e i suoi nipoti, per i miei e quelli di tutti.


* Michael Laitman, Professore di Ontologia e Teoria della Conoscenza, specializzato in Filosofia e Kabbalah e con un Master in Bio-Cibernetica Medica. E' stato il discepolo preferito del Kabbalista Rav Raruch Ashlah (il RABASH). Il Prof. Laitman ha pubblicato oltre quaranta libri, tradotti in decine di lingue; è fondatore e presidente dell' ARI Institute ed è molto ricercato come oratore.

(L'Huffington Post, 30 marzo 2015)


Un altro tentativo di spiegare la singolarità del popolo ebraico e dell'odio contro gli ebrei. La proposta è in stile New Age: la soluzione è dentro di noi (ebrei), è un tesoro nascosto che dobbiamo scoprire, risvegliare e condividere. E’ bene sapere che in circolazione si trova anche questo. M.C.


Nucleare, gli Usa vedono l'intesa. Ma Israele: fermeremo l'Iran

di Maurizio Molinari

A Losanna i negoziati sul nucleare iraniano vengono prolungati di 24 ore per redigere una «dichiarazione comune» che testimonia i progressi compiuti, dando tempo fino a giugno per trasformarli in accordo, ma Israele ritiene che si tratti di una «luce verde» a Teheran che aumenta le minacce per la propria sicurezza nazionale.
È il premier Benjamin Netanyahu a dirlo parlando alla Knesset in occasione dell'inaugurazione della nuova legislatura: «L'intesa che stanno scrivendo a Losanna lascerà all'Iran gli impianti sotterranei, il reattore nucleare di Arak e le centrifughe più avanzate» e ciò significa che «secondo le nostre stime il tempo necessario all'Iran per creare una bomba atomica sarà ridotto a meno di un anno, o forse a molto meno di questo».
Al Beau Rivage Palace Hotel di Losanna si consuma la maratona negoziale fra l'Iran e il Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania) in un clima di cauto ottimismo che si riflette nelle parole del ministro degli Esteri russi Sergei Lavrov: «È possibile un buon accordo». Ma Netanyahu esprime la convinzione che «si sta materializzando la più grande minaccia alla nostra sicurezza ed al nostro futuro» ovvero «il tentativo dell'Iran di armarsi con ordigni nucleari». Da qui l'impegno, esplicito e solenne, a «fare di tutto per proteggere la sicurezza e il futuro di Israele».

 Clausola del tramonto
  A breve distanza dalla Knesset, nel quartiere di Montefiore è l'ex stretto collaboratore di Netanyahu, Dore Gold, a incontrare i reporter per spiegare quanto sta maturando a Gerusalemme. «Israele non può accettare due aspetti dell'intesa di Losanna» afferma, indicando il primo nella «clausola del tramonto» ovvero «la decisione di siglare un accordo a tempo, che verrà meno dopo 10 o 15 anni, come mai è avvenuto nei precedenti negoziati sul disarmo internazionale». E il secondo «nel fatto che saranno lasciate a Teheran le centrifughe che sono macchine per accelerare l'arricchimento dell'uranio e denotano la volontà di violare le intese prima ancora di firmarle». Uno scenario «che obbligherà Israele ad adottare delle contromisure» d'intesa con i Paesi sunniti, accomunati dal timore di «un'egemonia regionale iraniana». Alla domanda su quali saranno le contromosse israeliane, Gold risponde così: «Il pericolo maggiore viene dagli aspetti militari del programma iraniano, rivelati dall'Agenzia atomica Onu nel 2011».

 Flotta di sottomarini
  Di più Gold non dice ma sui quotidiani israeliani campeggiano foto e resoconti sul sottomarino «Tanin» - il più sofisticato, acquistato dalla Germania - spiegando che «altri due saranno consegnati nei prossimi mesi» portando a sei la flotta di sommergibili con cui, come scrive «Yedioth Aharonot», Israele «potrebbe rispondere in caso di aggressione iraniana». A confermare il clima di corsa agli armamenti in Medio Oriente c'è quanto afferma Gold: «L'Arabia Saudita ha fatto sapere che in risposta all'Iran nucleare si doterà delle stesse potenzialità.

(La Stampa, 1 aprile 2015)


Iran: ascoltare il giusto monito di Netanyahu

di Daniele Capezzone*

"Mi auguro che il mondo ascolti con più attenzione le parole e il monito ripetuti ancora pochi minuti fa dal Primo ministro israeliano Netanyahu, che, a mio avviso molto giustamente, mette in guardia rispetto all'ipotesi di accordo con l'Iran. Un leader politico coraggioso e capace di sfidare il conformismo sta indicando al mondo quello che troppi, in troppe parti del pianeta, si ostinano a non vedere: il ruolo del regime iraniano, in tutti questi anni, nel sostegno al terrorismo internazionale, e la pervicace intenzione dei capi di Teheran di distruggere Israele e minacciare l'Occidente. Dinanzi a ciò, l'accordo in corso rischia di assomigliare a quello di Monaco 1938. E tutti farebbero bene a ricordare cosa disse a quel proposito Churchill, criticando l'intesa europea con i nazisti: 'Avevate la possibilità di scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore, e avrete la guerra'".


* Presidente della Commissione Finanze della Camera

(il Velino, 1 aprile 2015)


"Ebrei e cristiani si alleino, hanno nemici comuni". La tesi di Gelernter

"Il cristianesimo è il più importante dono degli ebrei all'umanità". La doppia minaccia islamica e secolarlsta.

di Giulio Meotti

David Gelernter
ROMA - Il 24 giugno del 1993 il professor David Gelernter aprì un pacco senza mittente nel suo ufficio al quinto piano della Arthur Watson Hall dell'Università di Yale. Genio dei computer che ha inventato il "cloud", Gelernter è la vittima più illustre di Unabomber, alias Theodore Kaczynski, il matematico docente a Berkeley che andò a vivere in una capanna di tronchi nel Montana per lanciare una guerra luddista all'America. Gelernter sopravvisse all'attentato con l'occhio destro accecato, la mano destra monca e gravi lesioni agli organi.
   Oggi Gelernter, che ha vinto contro la Apple una delle cause informatiche più importanti della storia americana, continua a occuparsi di informatica a Yale, ma scrive anche libri sul giudaismo, sulla religione in America e sull'influenza delle élite che reputa distruttiva. Gelernter ha appena firmato un saggio straordinario per la rivista cattolica First Things, dal titolo "Perché un ebreo dovrebbe interessarsi se la cristianità muore". E' un poderoso appello all'alleanza tra fratelli naturali in un mondo insidiato da comuni nemici.
   "Papa Francesco dovrebbe vedere la riconversione dell'Europa come il suo compito più importante", scrive l'accademico di Yale. "Sicuramente il Papa è d'accordo che il cristianesimo europeo è nei guai. Sicuramente non crede che il cristianesimo non abbia più importanza in Europa. Come può ignorare una catastrofe alla sua porta di casa?". Molti studiosi e intellettuali ebrei risponderebbero a Gelernter: perché a un ebreo dovrebbe interessare se il cristianesimo decade in Europa? Gelernter sostiene che le tirannie totalitarie del Novecento, la Germania nazista, il Giappone imperiale e la Russia stalinista avevano qualcosa di fondamentale in comune. "Tutti e tre erano regimi ufficialmente pagani. Il culto del Führer, il culto dell'imperatore e il culto della personalità di Stalin dipendevano dalla soppressione delle religioni". L'odio verso il cristianesimo ha alimentato l'odio per gli ebrei.
   Gelernter sostiene poi che oggi sia il ramo progressi sta del cristianesimo sia il ramo liberai dell'ebraismo stanno morendo, in Europa come negli Stati Uniti e che entrambi odiano Israele. "Le chiese liberali tradizionali stanno morendo. Lo stesso vale per i rami liberali del giudaismo. Negli ultimi decenni, il liberalismo è diventato una religione a se stante". Gelernter non chiede agli ebrei di azzerare il passato burrascoso dei rapporti fra il loro popolo e la cristianità. "Non è tempo di dimenticare (mai) o perdonare (non abbiamo il diritto), ma è il momento di andare avanti". E di riconoscere che ebrei e cristiani oggi affrontano lo stesso nemico.
   Da un lato, l'islam politico in medio oriente, con la cacciata epocale delle minoranze cristiane da tutto il Levante e la minaccia perenne che grava sulla testa di Israele. Dall'altro lato lo sciatto e aggressivo secolarismo delle democrazie occidentali e con esso il multi culturalismo di stato, sotto i quali germinano la cristianofobia e l'antisemitismo. La tesi di Gelernter sta raccogliendo consensi fra importanti leader e dirigenti ebraici. L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Ron Prosor, ha paragonato la cacciata di masse di cristiani dai paesi arabi a quella di 800 mila ebrei dai paesi arabi nel 1948. Allora si verificò la fine dell'ebraismo in terra islamica. Oggi è la distruzione del cristianesimo delle origini. E' anche la tesi di Haim Korsia, gran rabbino di Francia, che ha invocato una reazione fraterna di fronte al dilagare dell'assassinio di cristiani: "Dove sono le comunità ebraiche un tempo così vive di Aleppo, di Beirut, di Alessandria, del Cairo o di Tripoli? Dove sono le scuole di Nehardea e di Pumbedita in Iraq? E dov'è il florido ebraismo di Esfahan e di Teheran? Nella nostra memoria. Scacciati, uccisi, decimati, perseguitati ed esiliati, i cristiani d'oriente vivono in prima persona la stessa condizione degli ebrei con cui hanno così a lungo convissuto e che hanno visto partire da quei luoghi". Come i "nazareni" di Mosul. E' l'opinione anche di Ron Lauder, presidente del Congresso ebraico mondiale: "La 'N' dei cristiani è come la stella di David gialla che i nazisti obbligavano gli ebrei a portare".
   Secondo Gelernter si tratta di questo:
    Il cristianesimo è il dono degli ebrei all'umanità; il più importante che l'umanità abbia mai ricevuto. Il fatto che così tanti esponenti della sinistra moderna dicano a se stessi, 'una ragione in più per odiare gli ebrei', non fa che rimarcare il punto. Il nemico naturale dell'ebreo è il nemico naturale del cristiano. Perché un ebreo dovrebbe preoccuparsi se il cristianesimo vive o muore? Perché lui deve preoccuparsi se il messaggio del giudaismo vive muore".
Non a caso Israele è l'unico paese, in un arco di migliaia di chilometri che va fra Marrakech a Teheran, dove la comunità cristiana non soltanto non soffre, ma addirittura cresce. Dall'Ufficio di statistica israeliano leggiamo come nel 1949 i cristiani ammontassero a 34 mila, oggi sono 165 mila e di 187 mila è la previsione nel 2020. E' questo che dice di rivoluzionario Gelernter: Israele e con esso il popolo ebraico sono ancora nella fase di stabilire le condizioni per la propria esistenza e questa lotta per la sopravvivenza fornisce al cristianesimo la possibilità non soltanto di riscattare gli errori del passato, ma di ipotecare anche il proprio futuro.

(Il Foglio, 1 aprile 2015)


Articolo interessante come descrizione di un male, non convincente come proposta terapeutica. Il cristianesimo istituzionale storico-politico rappresentatato dal Papa è parte del problema, non della soluzione. Distinzioni dovrebbero essere fatte tra Cristo, cristiani e cristianesimo. Il Primo è dono di Dio agli ebrei perché arrivi e porti salvezza a tutti gli uomini: i secondi sono per vocazione testimoni del Primo, ma questo avviene e non avviene a seconda della loro fedeltà; il terzo è la degenerazione storica della fede cristiana, e in quanto tale non ci si può aspettare che porti rimedio a mali che ha contribuito a provocare. M.C.


Iran, intesa vicina: più nucleare per tutti

La trappola degli ayatollah. Dietro le trattative i soliti stratagemmi del regime. Per Israele l'accordo regalerà a Teheran l'atomica entro un anno. E ora anche Egitto e Arabia vogliono la bomba.

di Fiamma Nirenstein

 
Fiamma Nirenstein
A meno che non vadano in porto gli sforzi drammatici dell'ultimora che hanno allungato ancora, fino ad oggi, la discussione, è in stallo l'accordo con l'Iran per ottenere il blocco della sua attività nucleare. Non è ancora chiaro dunque se si realizzeranno i desideri di Obama che dovevano giungere a compimento ieri sera, scadenza per l'annuncio di un accordo destinato a creare un'illusione in più, fonte di pericolo e confusione, e un Iran nucleare consolidato per strada. Addirittura, Benjamin Netanyahu, se l'intesa sarà raggiunta, ha previsto che gli ayatollah avranno l'atomica in appena un anno. Ma la fragilità dell'alleanza dei P5+1, la debolezza del protagonista americano entusiasta ma strategicamente troppo perdente in Medio Oriente per fornire garanzie d'acciaio, hanno rallentato i lavori, e così l' opposizione della Francia dopo la scoperta che l'America trattava sottobanco con gli ayatollah, e la proverbiale prudenza della Germania. Alla fine un accordo ieri non è stato stretto, e se stanotte non si percorrerà la distanza fra le parti, solo a giugno riprenderà la discussione.
   L'Iran in una parola sta cercando di portare a casa il suo solito successo, quello cui ci ha abituato: la delegazione mostra un volto urbano, stavolta quello del ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, poi, alla fine, avvizzisce, non è più d'accordo, rompe, riceve ordini da Teheran, e dunque guadagna tempo per proseguire nel suo progetto nucleare. Come fa? Semplice, proprio come questa volta: dimostra buona volontà mentre sposta la discussione dalle centrifughe agli altri impianti, alle ispezioni, al trasferimento dell'uranio già arricchito fuori dei suoi confini. Tutto è discutibile. Su ognuno di questi temi dice quasi sì, e poi crea all'ultimo minuto un insuperabile problema. Stavolta, la questione è il trasferimento delle riserve arricchite in Russia: sembrava un risultato raggiunto, e poi la delegazione si è freddata. Le trattative sono una palestra per (islamicamente) perseguire il proprio fine anche usando l'inganno: Sayed Hossein Mousavar, lo spokesman di Rouhani, nel 2003 il capo della delegazione iraniana, spiegò uno degli aspetti della tecnica e il fine: «Abbiamo sfruttato le differenza fra Usa e Ue per raggiungere i nostri obiettivi ... ». Come oggi. Quando Mohammed Khatami, il «moderato» era presidente, il programma nucleare avanzò alquanto mentre l'Iran simulava una pausa, e Khatami se n'è vantato; fu costruita anche la centrale di Natanz, una delle più pericolose.
   Di certo Obama lavorerà per appianare i dissensi, ma intanto a Sharm el Sheikh uno schieramento di dieci paesi arabi capitanati dall'Arabia Saudita e dall'Egitto hanno annunciato, oltre alla guerra in Yemen contro gli Houti sostenuti dall'Iran, anche una solida, duratura, persino atomica opposizione all' accordo con l'Iran. I sauditi lasciano intendere di avere intrapreso un piano nucleare per contrapporsi a quello che ritengono uno sviluppo certo nel caso di un accordo: nucleare e mano libera del nemico sciita per espandere la propria egemonia in Medio Oriente. Il suo imperialismo ha incamerato parte di Siria, Iraq, Libano, Yemen.
   Obama e Kerry suggeriscono che l'Iran possa essere un alleato ma chi è un alleato dell'Iran non può essere alleato anche dell'Egitto e dell'Arabia saudita, e neppure della Giordania, o dei Paesi del Golfo. Esiste una parte del mondo sunnita che si batte contro l'Isis, ma anche contro l'imperalismo iraniano. È strano che Obama, invece di gestire il rapporto con l'Iran con inutile energia, non abbia speso i suoi sforzi per alleati più plausibili, come l'Egitto. Adesso l'Iran secondo l'accordo manterrebbe 6000 centrifughe, comprese quelle ultraveloci, non spianerebbe Natanz e Fordo, le due centrali fatali, e chissà che cosa cuoce sull'uranio arricchito. Nel marzo del 2005 aveva 200 centrifughe, oggi ne ha 19mila. Durante le trattative precedenti, doveva trattenere 1500 centrifughe, ora 6000. A giugno, di più.

(il Giornale, 1 aprile 2015)


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