GERUSALEMME
- Secondo rapporti dalla Siria - citati dal Jerusalem Post - il gruppo Saraya al-Jihad, che ha giurato fedeltà all'autoproclamato Stato islamico (IS), avrebbe stabilito una base a due passi dal confine con Israele sulle Alture del Golan, a tre chilometri dal kibbutz Ein Zivan.
Il sito del giornale propone anche varie foto in cui si vedono miliziani in posa in zone identificate non lontano dalla frontiera con Israele. Una fonte militare israeliana, citata da giornale, ha tuttavia definito "stabile la situazione" nella zona.
Negli ultimi tempi, tuttavia nella zona si sono verificati vari episodi. L'ultimo in ordine di tempo è relativo a colpi vaganti di armi automatiche, ricadute nella zona delle Alture controllata da Israele. La possibilità che questo possa essere opera del gruppo sunnita jihadista aderente all'IS - che tra l'altro ha conquistato il villaggio di Qahtaniya, vicino al confine - sarebbe al momento, secondo il Jerusalem Post, sotto indagine da parte di Israele.
Anche in relazione alla guerra civile in corso in Siria. Se lo stato ebraico - hanno affermato fonti miliari israeliane - non ha intenzione di "interferire" negli scontri in corso nella convinzione che nessun gruppo o l'esercito ha interesse ad azioni contro Israele, non per questo - ha continuato la fonte - sono stati evitati preparativi nel caso uno di questi gruppi decidesse di rivolgersi apertamente contro Israele.
(Corriere del Ticino, 30 aprile 2015)
L'indumento digitale israeliano che rivoluzionerà la medicina
La startup israeliana HealthWatch Technologies ha progettato un indumento in grado di rilevare la salute di chi lo indossa, compresa l'attività cardiaca, con la stessa precisione di uno strumento medico. La straordinarietà dell'invenzione risiede nel fatto che nonostante l'indumento sia irradiato da sensori digitali e tecnologici, questo capo è lavabile in lavatrice.
La tecnologia proposta da HealthWatch Technologies è creata sulla base di due elementi innovativi e complementari:
hWear (Healthwear) è un indumento che incorpora elettrodi tessili digitali in grado di monitorare continuamente i segni vitali, eseguendo l'elettrocardiogramma. Inoltre permette anche il monitoraggio di altri segnali biologici come la respirazione, l'attività e i movimenti (in caso di cadute).
Il secondo elemento innovativo è il processore di controllo e analisi MasterCaution. Attaccato alla tasca laterale del capo hWear, si occupa di ricevere tutti i segni vitali in tempo reale. Il processore MasterCaution ha la tecnologia necessaria per decifrare e analizzare i dati ricevuti e successivamente, trasmettere i risultati tramite una connessione Bluetooth o Wi-Fi.
In caso di rilevamento di problemi come aritmia, ischemia, anomalie respiratorie o assenza di movimento del paziente, MasterCaution emette un segnale di allarme.
A differenza di altri dispositivi che determinano solo la presenza della frequenza cardiaca, questo nuovo indumento è quindi un vero e proprio strumento medico per il monitoraggio dell'attività del cuore combinata ad altri segni biologici.
Il principale vantaggio di questa tecnologia è la velocità con cui si può effettuare un intervento su un paziente in caso di pericolo perché, come spiegano gli esperti, quando si verifica un attacco di cuore, occorre agire nel più breve tempo possibile per arginare i danni se non addirittura salvare la vita del pazienze.
Grazie a HealthWatch Technologies, è ora possibile godere di un sistema di monitoraggio medico di alta qualità, senza compromettere lo stile di vita degli utenti, siano essi ricoverati, oppure che ricevono cure a casa, sopravvissuti ad attacchi di cuore, anziani preoccupati per la loro salute e per tutti coloro che vogliono mantenere un contatto costante con il proprio medico.
Questa sorprendente tecnologia è stata creata nel 2010 da Uri Amir e dal Dott. Yoram Romem. Inizialmente interessava solo gli ospedali che avevano bisogno di uno strumento di monitoraggio oltre all'Holter. Recentemente ha ricevuto il certificato da parte della Comunità europea (CE) e da parte della Food and Drugs Administration (FDA).
Questa nuova tecnologia si aggiunge alle 18 invenzioni israeliane che potrebbero salvare la vostra vita.
(SiliconWadi, 30 aprile 2015)
AVIAREPS e' il nuovo GSA di Arkia Israeli Airlines per l'Italia
Arkia Israeli Airlines, compagnia aerea israeliana che collega Israele con numerose destinazioni in Europa e Asia, ha scelto AVIAREPS come nuovo General Sales Agent (GSA) per il mercato italiano. La nomina, con effetto immediato, affida ad AVIAREPS la gestione dello sviluppo vendite, delle prenotazioni e dei servizi di biglietteria, oltre ad un supporto diretto al trade italiano. Arkia da metà maggio opererà due voli settimanali per Tel Aviv da Firenze Peretola, il giovedì e la domenica. Il volo sarà operato da un aeromobile Embraer 190 da 110 posti. Arkia lancerà, inoltre, un volo settimanale ogni martedì da Bologna a Tel Aviv, a partire dal 16 giugno, con Embraer 95 da 120 posti. Da Tel Aviv e Haifa Arkia offre voli domestici per Eilat, oltre a una vasta scelta di pacchetti pensati per i turisti che desiderano visitare Israele.
Scegliendo AVIAREPS, il vettore israeliano intende migliorare il posizionamento del proprio marchio e la conoscenza del prodotto in Italia, rafforzando i rapporti con gli attuali trade partners e sviluppandone di nuovi con gli operatori specializzati nei vari segmenti di utenza, oltre che assicurare un supporto qualificato alle agenzie di viaggi.
"Siamo molto onorati ed entusiasti di essere stati scelti da un vettore ambizioso, affidabile e dinamico come Arkia per consolidare il proprio marchio sul mercato italiano e incrementare le vendite grazie a un'azione mirata, proattiva ed efficace", ha affermato Giulio Santoro, General Manager AVIAREPS Italia.
Ezer Shafir, VP Commercial di Arkia, aggiunge: "Offrendo nuovi collegamenti aerei tra alcune importanti città italiane e Tel Aviv, Arkia considera l'Italia un mercato strategico di grande importanza, che contribuirà fortemente alla crescita della compagnia nel corso degli anni a venire".
(Ufficio Stampa Aviareps, 30 aprile 2015)
Israele a Expo 2015. I contenuti del padiglione
Se la terra arida è diventata fertile Israele lo deve alle tecnologie applicate all'agricoltura. Un patrimonio di conoscenze raccolte nel padiglione dominato da un grande giardino verticale firmato Davide Knafo.
di Annalisa Zordan
Rispetto alla Terra Promessa, florida e prosperosa, il moderno stato israeliano ha dovuto fare i conti con la scarsità di risorse. Questo ha spinto il Paese ad avere un approccio innovativo e tecnologico, applicato soprattutto all'agricoltura. Expo rappresenta l'occasione per mostrare ai visitatori il "granaio di conoscenze", ovvero le competenze acquisite in ambito di ingegneria agricola nel corso degli anni.
Il concept: I campi di domani
Israele è un Paese che ha saputo, attraverso ricerca e sviluppo, rendere fertili molti dei suoi terreni in prevalenza aridi. Una dedizione che in quasi settanta anni lo ha portato a essere uno dei paesi leader nel campo della scienza e nell'innovazione. Oggi, infatti, il suo comparto agricolo è interamente basato sulla tecnologia e riesce a tenere il passo grazie alla rapidità delle innovazioni. Expo è l'occasione per mettere a disposizione dei visitatori le competenze acquisite in questi anni, raccolte in una sorta di grande "granaio di conoscenze".
Il padiglione
Disegnato dall'architetto David Knafo e realizzato da Avant Video Systems con materiali riciclabili, l'edificio si trova di fianco al Padiglione Italia all'incrocio del Cardo e del Decumano, i due assi principali di Expo. La struttura, che si sviluppa su di un'area complessiva di quasi 2.400 metri quadri, si contraddistingue per il giardino verticale, una parete verde lunga settanta metri e alta dodici, interamente ornata di piante, i cui fiori e colori cambieranno con il passare delle stagioni. La spettacolare parete non ha solo un ruolo estetico ma introduce il vertical planting, una tecnologia che permette di risparmiare e ottimizzare territorio e acqua. Un impatto visivo incredibile, dunque, che simboleggia la centralità della lotta contro la desertificazione e la posizione d'avanguardia che Israele detiene nel settore agroalimentare. L'obiettivo del Paese è evidente: vuole andare oltre l'immagine stereotipata di un territorio arido, mostrando soluzioni innovative e tecnologicamente avanzate, come l'ottimizzazione delle risorse idriche o le opere di bonifica dei terreni incolti.
Percorso espositivo
Il Padiglione è costruito per offrire al visitatore un'esperienza coinvolgente, fin dall'ingresso: nella sala iniziale, quella d'attesa, attori e performer interagiranno con il pubblico, mentre dei video verranno proiettati sulle pareti. La mostra si divide in due parti. Nella prima, viene raccontata, attraverso ricordi, immagini e filmati, la storia di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto. Nella seconda parte, i visitatori sono guidati in una grande stanza buia in cui delle luci proiettano filmati dedicati a quattro progetti all'avanguardia come la biotecnologia che si occupa della ricreazione del Super Wheat, il grano originario e non geneticamente mutato risalente a tremila anni fa. Gli altri progetti in mostra sono 3.0 agriculture (applicazione di tecnologie digitali e satellitari dedicate alla gestione dei campi), un progetto di irrigazione in Africa e le tecnologie zootecniche in un centro di mungitura industriale in Asia. Completano il Padiglione, la terrazza panoramica, l'area eventi e il ristorante di cucina tradizionale. Tra i vari eventi, ricordiamo Colorfood, mostra fotografica dell'israeliano Dan Lev, che vede la partecipazione di oltre trenta chef israeliani e italiani, tra cui Beck, Bowerman, Apreda, Taglienti, Castigliani, Dell'Oglio e Colonna. Di che si tratta? Di un progetto fotografico che racconta il percorso creativo che si nasconde dietro ciascun piatto.
(Il Messaggero, 30 aprile 2015)
Israele restituisce 15 imbarcazioni confiscate a Gaza
di Roberta Papaleo
Le autorità israeliane hanno restituito imbarcazioni da pesca confiscate nel corso degli anni nella Striscia di Gaza, secondo quanto riferito dall'esercito. "La marina ha restituito a Gaza 15 barche da pesca che erano state confiscate per aver sconfinato la zona di pesca autorizzata", ha dichiarato una fonte delle Forze di Difesa israeliane. Israele proibisce di pescare oltre sei miglia marine (11 km) dalla costa della Striscia.
Le 15 barche sono state riportate a riva da un'imbarcazione del sindacato dei pescatori di Gaza. Alcuni di loro hanno dichiarato che è la prima volta che Israele riconsegna delle imbarcazioni e hanno richiesto la restituzione di altre.
(ArabPress, 30 aprile 2015)
Il regime iraniano è inaffidabile. Ispezioni necessarie in tutti i siti nucleari
Il leader supremo del regime iraniano, Ali Khamenei, guida un regime ingannatore e fraudolento. La dittatura iraniana non ha rispettato nessuna risoluzione o accordo sul nucleare preso con i paesi del P5+1. Il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) ha ripetutamente rivelato i siti nucleari segreti e militari di questo regime durante diverse conferenze stampa.
La validità di queste rivelazioni è stata confermata dall'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) e da prestigiosi media internazionali. Per questa ragione, l'ispezione ai siti nucleari è una questione critica nel governo Rouhani.
Membri del Congresso americano di entrambi gli schieramenti hanno ripetutamente chiesto al Presidente Obama e al Congresso di affrontare questa questione.
Il Rep. Ed Royce (R-CA), Presidente del Comitato Affari Esteri della Camera, in un'intervista a Fox News TV ha sottolineato l'enorme importanza di un'ispezione ai siti nucleari e militari del regime dei mullah. Il presentatore di Fox News gli ha chiesto: "Il Presidente Obama ha detto al popolo americano 'se l'Iran ingannerà la comunità mondiale, noi lo sapremo'. E' vero?" Il presidente Royce ha detto: "Non vedo come possa essere vero, vista la nostra esperienza durante i negoziati falliti con la Corea del Nord. Sull'accordo di massima del 1994, la Corea del Nord ci aveva ingannato. Di sicuro non lo abbiamo saputo fino a che non hanno sviluppato armi nucleari. Questa volta bisogna negoziare sulla possibilità di poter mandare gli ispettori ovunque, in qualunque momento. Quindi, a meno che non potremo andare in tutti i siti, compresi i siti militari iraniani, sui quali sappiamo che in passato ci hanno ingannato, avremo una grossa sorpresa".
"Ho spedito una lettera al Presidente su questi negoziati e 367 membri della Camera l'hanno co-firmata. Ciò che abbiamo precisato è che questo accordo deve avere delle conferme, fornite dagli ispettori che devono essere in grado di andare in tutti i siti", ha aggiunto.
Il presidente Royce ha detto: "Quelli sono degli impianti (nucleari iraniani) che conosciamo. Ci possono essere degli impianti che non conosciamo. E questo è solo uno dei problemi. Perderemo la nostra influenza nello stadio iniziale di questi negoziati dando un bonus firmato agli ayatollah con la revoca delle sanzioni".
Anche il Senatore Ben Cardin (D-MD), membro anziano del Comitato per le Relazioni Estere del Senato, in un'intervista alla CNN ha ribadito che non ci si può fidare del regime iraniano.
Quando gli è stato chiesto se la legge sull'Iran del Senato fosse un atto contro il Presidente degli Stati Uniti, il Senatore Cardin ha detto: "No, assolutamente no". Ha detto che oggi gli Stati Uniti sono più forti grazie al risultato del voto del Comitato Relazioni Estere del Senato. Non si può permettere all'Iran di ottenere una bomba atomica. "Noi abbiamo cercato il modo giusto di valutare le sanzioni contro l'Iran attraverso il Congresso americano. Siamo stati noi ad imporre le sanzioni e spetta a noi rivederle".
Il presentatore della CNN ha chiesto: "Uno dei problemi dell'accordo di Losanna è che apparentemente ce ne sono due versioni. Uno è l'accordo di cui i mullah iraniani parlano nel loro paese e il secondo è l'accordo fornito dai funzionari americani. Qual'è la sua opinione?"
Il Senatore Cardin ha spiegato che "... c'è bisogno di molto tempo prima che il regime iraniano raggiunga la 'soglia nucleare' e ciò può essere conquistato attraverso le ispezioni dei siti nucleari iraniani, in modo che se ci inganneranno noi lo sapremo, perché non ci fidiamo del regime iraniano". Ha inoltre sottolineato la necessità di essere in grado di agire prima che il regime iraniano ottenga armi nucleari.
Vale la pena notare che Maryam Rajavi, leader dell'opposizione iraniana, durante un discorso alla conferenza internazionale di Parigi del 2014 ha detto: "Il regime del leader supremo Khamenei è il principale finanziatore del terrorismo e del fondamentalismo nella regione".
"La Resistenza Iraniana guidata da Massoud Rajavi ha creato un movimento ininterrotto contro il fascismo religioso al potere in Iran, ha avuto un ruolo determinante nella sconfitta ideologica del fondamentalismo islamico attraverso la difesa di un Islam democratico e innalzato la bandiera del rovesciamento del regime. La Resistenza Iraniana lotta contro la dittatura religiosa di Khamenei ed ha rivelato l'esistenza dei maggiori siti e impianti nucleari segreti del regime iraniano", ha aggiunto Maryam Rajavi.
Ed ha sottolineato: "Qualunque compiacimento dei paesi occidentali nei negoziati sul nucleare incoraggerà il regime dei mullah a continuare la sua corsa alla bomba atomica. Il regime iraniano deve essere obbligato a dare piena attuazione alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, ad interrompere l'arricchimento dell'uranio e ad accettare le ispezioni a sorpresa in tutti i siti e gli impianti nucleari sospetti".
(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 30 aprile 2015)
Online i quaderni degli ebrei
Partita la digitalizzazione dell'archivio dell'istituto scientifico di Vilnius. Costerà 5 milioni. Portale con un milione e mezzo di documenti e diecimila libri.
di Simonetta Scarane
Bruciati, strappati, ridotti a frammenti, divorati dai funghi. L'Yivo, l'Istituto scientifico ebraico di Vilnius, capitale della Lituania, «la Gerusalemme del Nord», digitalizza i propri archivi per evitarne la sparizione. Un lavoro titanico che durerà sette anni e che costerà 5 milioni di euro. Una volta completato, un milione e mezzo di documenti e diecimila libri potranno essere consultati su internet attraverso il portale che verrà appositamente realizzato e leggibile in doppia lingua: lituano e inglese. Sarà la più grande raccolta di documenti relativi alla vita degli ebrei dell'Europa dell'est, dalla Germania alla Russia, dal Baltico ai Balcani. Tra la mole enorme di documenti che compongono gli archivi dell'istituto fondato nel 1925 dal linguista yiddish Max Weinreich, anche i quaderni di scuola con tutte le prime parole che i piccoli alunni avevano segnato in yiddish. La maggioranza dei manoscritti risale all'epoca delle due guerre, ma ci sono documenti più antichi, del XVIII secolo, sopravvissuti all'attacco dei nazisti entrati in Lituania nel 1941. In parte trasferiti in Germania, furono ritrovati nel 1946 dagli americani e spediti a New York dove l'istituto si era installato alla fine della guerra. L'altra metà, nascosta nel ghetto, sarà ritrovata dai rari sopravvissuti, ma messi in pericolo comunque dalla paranoia antigiudaica di Stalin in Lituania. Un bibliotecario Antanas Ulpis, «giusto della memoria», nascose allora gli archivi nel sottosuolo della chiesa di San Giorgio, nel centro di Vilnius, da dove non sono mai più usciti per quarant'anni, fino alla dissoluzione dell'Unione sovietica.
Il portale online riunirà su internet la raccolta dei documenti americani dell'Yivo e quelli lituani, separati dalla storia. Raccontano la vita degli ebrei aschenaziti. Tra i frammenti di carta anche una pubblicità del 1930 del pane azzimo prodotto dal panificio Mtzoh a Lodz in Polonia. Un altro, annuncia in sei lingue, l'arrivo di un'orchestra sinfonica. Ci sono le lettere di Einstein insieme ai quaderni degli allievi del centro studi della Torah, i libretti dei canti per il matrimonio e estratti del Talmud. Rapporti dei servizi sociali descrivono i pogroms creati dopo il primo conflitto mondiale e la miseria dei rifugiati polacchi in fuga verso la Lituania dopo l'invasione del paese da parte dei nazisti nel 1939.
Documenti disponibili da più di 25 anni che non avevano mai suscitato attenzione fino ad oggi.
Ora, il governo lituano (in Lituania vivono all'incirca 6 mila ebrei sui 250 mila del periodo anteguerra) ha deciso di valorizzare questo patrimonio culturale e storico. Per questo finanzierà l'operazione di digitalizzazione insieme al Yivo.
Arrivati nell'Europa orientale tra il XIV e il XV secolo gli ebrei furono accolti a braccia aperte dai sovrani del granducato di Lituania che cercava di sviluppare la propria economia. Grazie a Yivo ci si potrà rendere conto dell'immenso contributo degli ebrei alla storia del Lituania e l'auspicio è che venga scritto nei libri di storia.
La Lituania ogni 23 settembre, data della disfatta del ghetto di Vilnius nel 1943, organizza una giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto. A Vilnius è in costruzione una nuova sinagoga, accanto all'unica sopravvissuta delle oltre 200 di prima del secondo conflitto mondiale. L'interesse per la storia e la cultura ebraica è in aumento tra i giovani, ha fatto sapere Sarunas Liekis, direttore dell'istituto yiddish di Vilnius che ospita da 200 a 250 studenti l'anno. E l'antisemitismo diminuisce, ma le tensioni della Russia con l'Ucraina alimentano l'ultra-destra che viene percepita come un pericolo.
(ItaliaOggi, 30 aprile 2015)
Lettere e foto dall'archivio privato di Elio Toaff
di Francesca Nunberg
LA MOSTRA
Avrebbe compiuto cent'anni oggi e la "sua" mostra che apre a distanza di pochi giorni dalla ricorrenza mancata gli sarebbe certamente piaciuta. Vale a commemorarlo, a rappresentare ancora una volta quella grande figura che il rabbino emerito Elio Toaff, scomparso lo scorso 19 aprile, ha rappresentato per Roma, per l'Italia e per l'ebraismo internazionale. L'esposizione che apre oggi al Museo Ebraico, organizzata dalla Comunità ebraica di Roma e dalla Fondazione Rav Elio Toaff, si intitola "Shalom Moreno!", che tradotto equivale a "salve maestro nostro".
CIBI KASHER
«È una piccola selezione degli oltre 20 mila documenti che compongono il suo archivio privato, donato dalla famiglia alla Fondazione - spiega Serena Di Nepi, curatrice assieme alla nipote del rabbino, Lia Toaff - C'è la lettera che scrisse alla Comunità di Roma nel '52 quando accetto l'incarico di rabbino capo che avrebbe poi mantenuto per cinquant'anni, quella in cui si lamentava per la difficoltà di trovare prodotti kasher nella Capitale, la sua richiesta al ministero della Pubblica istruzione di non fare svolgere di sabato gli esami di maturità». «Si tratta di migliaia di foto, documenti inediti, scritti privati che stiamo cominciando a studiare - aggiunge Ermanno Tedeschi, presidente della Fondazione - che documentano la vita dell'ebraismo nel dopoguerra, compresa la corrispondenza che ha preceduto la storica visita in sinagoga di Giovanni Paolo II nell'86». Di ieri la conferma che anche papa Francesco si recherà presto a salutare i "fratelli maggiori" al Tempio.
(Il Messaggero, 30 aprile 2015)
Terremoto in Nepal, Israele c'è: gli altri?
Lettera a Beppe Severgnini
Israele in soccorso del Nepal
Si erige un ospedale da campo
Ciao Beppe,
c'è gente che parla e c'è gente che le cose le fa!! E' un vecchio adagio, ma vorrei fare un parallelismo su quello che è successo sabato scorso a Milano nella manifestazione per la Liberazione e le contestazioni da parte dell'estrema sinistra e dei fan dei palestinesi alla Brigata Ebraica, che ha combattuto per la liberazione dell'Italia quando ancora Israele non esisteva, e quello che Israele sta facendo attualmente per il Nepal. Un po' di numeri: Stati Uniti d'America: 70 soccorritori, 45 tonnellate di aiuti. Israele: 260 soccorritori militari, un centinaio civili. 95 tonnellate di aiuti ed un ospedale, già funzionante, da 200 pazienti al giorno comprensivo di sale operatorie, Tac, sala parto, neonatologia con incubatrici, laboratori, sterilizzatori per l'acqua, generatori etc. Inoltre i piloti militari israeliani operano con una piccola flotta di elicotteri presi in affitto in India e Cina e stanno pianificando il lancio di cibo ed acqua dagli elicotteri nelle zone irraggiungibili. Europa: si chiacchiera di grandi imprese, ma non c'è fretta. Paesi arabi, ZERO. È il caso di ricordare: USA, 325 milioni di abitanti. Europa Unita, 743 milioni di abitanti. Paesi Arabi: si va per il miliardo di abitanti. Israele, 8 milioni di abitanti. E' vergognoso che Israele, uno dei paesi più dinamici esistenti, venga continuamente attaccato da ignoranti e negazionisti, ma l'importante è comunque che questo paese stia già operando per salvare vite, mentre qui come al solito si parla e basta.
Mario Bors
(Corriere della Sera - Blog, 30 aprile 2015)
Deif «l'immortale». Israele ammette: «è ancora vivo»
di Maurizio Molinari
I capo militare di Hamas, Mohammed Deif, è ancora vivo e ciò lo trasforma a Gaza in una sorta di eroe immortale. Il 19 agosto scorso i jet israeliani colpirono un edificio di Sheik Radwan sulla base di informazioni sicure sulla sua presenza. Nell'esplosione morirono la moglie e i due figli ma ora Israele ammette che lui è sopravvissuto «tornando a guidare l'ala militare»: ordina tunnel, chiede più armi, prepara la prossima guerra. Sono almeno cinque le volte in cui Deif è sopravvissuto ad attacchi israeliani. Nel 2002 un missile distrusse la sua vettura ma lui ne uscì con gravi ferite. Nel 2006 un'esplosione gli amputò le gambe, ma senza ucciderlo. Per Ismail Haniyeh, leader politico a Gaza, Deif vivo dimostra «il fallimento della guerra di Israele contro di noi» ma dentro Hamas c'è tensione. A Gaza l'ala militare di Deif crede nel patto con l'Iran mentre Khaled Mashaal, leader politico all'estero, si sta avvicinando ai sauditi e guarda con interesse ai «colloqui segreti» in corso con Israele in Europa.
(La Stampa, 30 aprile 2015)
Le forze israeliane scongiurarono la scorsa estate un devastante attentato terroristico
Ma è di nuovo operativo Mohammed Deif, il capo terrorista di Hamas scampato ai bombardamenti israeliani.
Durante la prima settimana dell'operazione anti-terrorismo "Margine protettivo" della scorsa estate, prima che le Forze di Difesa israeliane si concentrassero sulla distruzione dei tunnel terroristici, le Brigate Izzedine al-Qassam, ala militare di Hamas, avevano progettato un massiccio attacco contro il kibbutz Kerem Shalom, vicino al confine con la striscia di Gaza. Lo hanno confermato mercoledì fonti della difesa israeliana citate da radio Galei Tzahal, aggiungendo una serie di particolari.
Secondo il reportage, il piano di Hamas prevedeva che decine di terroristi di Hamas pesantemente armati utilizzassero un tunnel scavato fin sotto il territorio israeliano sbucando alle porte del kibbutz adiacente il confine, per dare l'assalto al centro abitato con l'obiettivo di uccidere e sequestrare il maggior numero possibile dei suoi abitanti. Gli ostaggi sarebbero stati poi utilizzati per ricattare Israele e costringerlo a scarcerare altri terroristi detenuti....
(israele.net, 30 aprile 2015)
La terza via di Sisi
Per il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, gli sforzi compiuti dall'occidente e dal mondo davanti alle minacce del terrorismo e del fondamentalismo islamico non sono sufficienti. In un'intervista pubblicata ieri dal giornale spagnolo El Mundo e tradotta in italiano dal Corriere della Sera, Sisi dice che "la mappa del terrorismo si va allargando", e lascia capire che i due approcci usati finora per combattere l'estremismo mancano di un elemento fondamentale. "Non si tratta semplicemente di iniziative militari ed economiche", dice Sisi ai due giornalisti Casimiro García Abadillo e Francisco Carrión, "ma anche di discorso religioso". Le "iniziative militari ed economiche" sono i due strumenti fondamentali con cui l'occidente, nel migliore dei casi, contrasta il terrorismo da sempre: da un lato gli aiuti allo sviluppo e dall'altro, quando la minaccia si fa pressante, l'intervento militare, come quello che la coalizione a guida americana sta compiendo contro lo Stato islamico in Iraq e Siria in questi mesi.
Entrambe sono risorse fondamentali, dice Sisi, ma l'economia e l'intervento militare sono armi spuntate se non si affronta dapprima la questione religiosa. Il presidente egiziano, leader islamico e laico, è nella posizione di dire quello che l'occidente spesso non vuole riconoscere: se non si considera la questione religiosa e quindi l'islam politico, il problema della sicurezza non sarà mai risolto. Il legame tra islam, estremismo e violenza è strutturale; non potrà essere sciolto senza una riforma religiosa, una "rivoluzione", come l'ha chiamata Sisi in un discorso ormai celebre tenuto davanti alle massime autorità dell'islam egiziano all'Università al Azhar del Cairo. Il presidente egiziano non ha ancora dissipato tutti i dubbi sulla sua rivoluzione e su come intende declinare il rapporto tra stato laico, religione e islam politico. Si sa per certo che intende annichilire la presa politica della Fratellanza musulmana, con timide aperture alle minoranze religiose cristiane nel paese. Fatto sta che su un punto dovremmo ascoltare Sisi: senza una rivoluzione religiosa nell'islam, contro il terrorismo non c'è aiuto economico o bombardamento che tenga.
(Il Foglio, 30 aprile 2015)
"Con l'islam non si può dialogare"
La storia di Joseph Fadelle, già Muhammad, convertito e torturato.
Joseph Fadelle
ROMA - "E' impossibile che un musulmano soccorra un altro uomo che s'è convertito al cristianesimo. E' obbligato a spargere il sangue di chi abbandona l'islam". A dirlo è stato Joseph Fadelle, intervenendo al Convegno per la libertà religiosa che s'è tenuto nei giorni scorsi a Madrid. La sua era la testimonianza più attesa, perché Joseph è un convertito. Nato in Iraq nel 1964 con il nome di Muhammad, nel 1987 grazie a Masud, un commilitone cristiano conosciuto a Bassora, lungo la linea del fronte della guerra contro l'Iran rimane folgorato dalla lettura del Vangelo e sceglie di abbracciare Cristo. La famiglia, sciita e benestante, lo fa incarcerare. Il padre dopo avergli trovato una copia della Bibbia e aver interrogato il nipote di quattro anni ne ordina la tortura fino a quando quella che riteneva essere una mera infatuazione non sarebbe passata. Supplizio inutile, perché Muhammad non torna indietro. Costretto agli arresti domiciliari, riesce a scappare. Sopravvive per miracolo a un tentativo di omicidio (ordito dal fratello), passa il confine con la Giordania e da lì, a tappe, giunge in Europa.
La sua storia è nota, qualche anno fa ha mandato in stampa il libro "Il prezzo da pagare" (edito in Italia da San Paolo), il racconto dell'odissea patita dal momento in cui ha scelto di essere cristiano. Sulla sua testa, oggi, pende una fatwa: "In Francia c'era un imam siriano che voleva ammazzarmi e siccome ho quattro bambini non posso stare nello stesso posto per molto tempo. La polizia mi chiede di cambiare costantemente casa". Non a caso, il titolo del suo intervento era "Il martirio dei musulmani convertiti al cristianesimo", l'altra faccia del dramma che si consuma nel vicino oriente dove ormai la presenza cristiana pare destinata a una lenta estinzione, se le milizie jihadiste del cosiddetto Califfato continueranno a prosperare nella piana di Ninive. Fadelle ne ha per tutti, a cominciare da chi rimpiange Saddam Hussein (dice di ricordarsi bene le prigioni del rais) per finire con chi esalta l'opera pia di qualche agenzia onusiana: "Un funzionario musulmano dell'Unhcr mi ha accusato, ingiustamente, di essere stato complice negli attacchi con i gas contro i curdi che hanno causato cinquemila morti". Quando gli parlano del valore straordinario che Maometto attribuisce alla vita, Joseph Fadelle risponde che "il Corano è uguale per tutti e afferma la necessità di uccidere chi abbandona l'islam". Certo, va fatta una distinzione tra islam e musulmani, ha sottolineato in un'intervista alla piattaforma Hazteoir: "L'islam è pericoloso, ma i musulmani sono nostri fratelli in Cristo e noi siamo responsabili nei loro confronti, della loro salvezza. Dobbiamo amarli, accoglierli con rispetto". E' il testo sacro a essere il problema, la sua interpretazione troppo rigida "come se si fosse ancora ai tempi del Profeta, nel Settimo secolo", aveva detto al Foglio il 18 febbraio scorso l'islamologo gesuita Samir Khalil Samir. Il Corano "è parola di Dio, e di conseguenza uccidere il non credente è un ordine di Dio. Come si può non obbedire a Dio?", ha aggiunto Fadelle. Proprio per questo, "la mia famiglia tenterà in ogni modo di togliermi di mezzo". E' un versetto coranico, un hadit, a prescriverlo. Si può fare ben poco, chiosa.
Il suo cruccio maggiore, ora, è il destino dell'occidente: "L'islam lo considera empio, gli occidentali non musulmani sono empi". A chi in conferenze e simposi raccomanda dialogo con tutti e a tutti i costi, lui mostra le cicatrici della prigionia: "Dialogare basandosi sul rispetto e la tolleranza non è possibile", se il presupposto è che chi cambia credo religioso debba essere mandato sotto terra. L'errore macroscopico dell'occidente, dice, è di aver rinunciato alle proprie radici, ai valori che l'hanno plasmato e fatto diventare grande: "L'opzione laica colloca l'occidente ancora di più nel mirino dell'islam. Un laico, per l'islam, è peggiore di un credente di qualsiasi religione", perfino dei politeisti. Joseph Fadelle non contempla distinzioni: "C'è un unico islam, come c'è un unico Corano". La differenza la fa il modo in cui quel libro viene interpretato, se alla lettera o no.
(Il Foglio, 30 aprile 2015)
Lettera al Ministro degli Esteri
"Signor Ministro,
abbiamo appreso della lettera, da Lei sottoscritta insieme ai Ministri degli Esteri di altri 16 Paesi europei, con la quale si sollecita l'Alto Rappresentante della Politica Estera, Federica Mogherini, ad attivarsi allo scopo di dar corso al più presto all'etichettatura dei prodotti importati da Israele, evidenziando se provengono dai territori (cosiddetti) occupati. Tale provvedimento sarebbe una risposta "contro la continua espansione di insediamenti israeliani illegali nei Territori occupati palestinesi e negli altri territori occupati da Israele nel 1967 che minacciano la prospettiva di un accordo giusto e definitivo".
Al riguardo non possiamo non esprimere la nostra più viva preoccupazione per il significato politico del provvedimento...."
Pubblichiamo volentieri la lettera che la Federazione Associazioni Italia-Israele ha inviato, tramite il suo Presidente Carlo Benigni, al Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e che ci è stata inviata per conoscenza e diffusione.
Israele vuole 21 startup per il suo bootcamp a Tel Aviv
C'è tempo fino al 21 giugno per cercare di partecipare all'iniziativa, in programma a settembre negli stessi giorni del Dld Festival.
di Simone Cosimi
Tutto pronto per la quarta edizione del bootcamp organizzato dal ministero degli Affari esteri israeliano, la città di Tel Aviv e Google Israel: ci sarà tempo dal 21 maggio al 21 giugno per partecipare al bando che punta a selezionare le 21 migliori startup internazionali per spedirle all'evento in programma a settembre in Israele a margine del Digital Life Design Festival previsto dal 6 al 10 del mese.
A promuovere l'iniziativa l'Ambasciata d'Israele in Italia e Luiss EnLabs. Per tentare di volare a Tel Aviv è necessario avere un'età compresa fra i 25 e i 35 anni, una startup attiva nei settori web, mobile o sicurezza, disporre di un prototipo del prodotto/servizio e aver già incassato un finanziamento in seed stage.
Sul piatto c'è appunto la trasferta in Israele, ecosistema fra i più ricchi e stimolanti del mondo per il settore, forte l'anno scorso di quasi 7 miliardi di dollari provenienti da 99 exit. I fondatori delle 21 giovani società che passeranno il filtro, provenienti da tutto il mondo, potranno partecipare a un ricco programma di conferenze, workshop e incontri con imprenditori, investitori e professionisti israeliani.
La scadenza è fissata alle 24 del 21 giugno. La domanda va inviata via e-mail all'indirizzo startelaviv@roma.mfa.gov.il con un link a un video pitch di massimo cinque minuti, un executive summary di 500 parole, un cv del fondatore o Ceo e un link (opzionale) alla demo del prodotto o alla versione beta del servizio. Ovviamente tutto in inglese.
(Wired, 29 aprile 2015)
Emergenza Nepal, Israele in prima fila
di Francesca Matalon
Militari israeliani erigono un ospedale da campo insieme all'esercito nepalese
"Siamo pronti a tutto. Procediamo pieni di motivazione e con orgoglio". Il colonnello e medico delle Forze di difesa israeliane Tarif Bader, comandante dell'ospedale da campo in Nepal, rivolge parole decise alla sua squadra in partenza per portare aiuti al paese devastato dal terremoto degli scorsi giorni. Una missione di soccorso dell'esercito israeliano era partita già lunedì mattina, dopo il primo sopralluogo effettuato domenica da una squadra per un'analisi preventiva della situazione.
Cinque grandi aerei inviati in una missione congiunta dal ministero degli Esteri israeliano e dall'IDF hanno quindi raggiunto Kathmandu, portando ognuno 260 persone, oltre che 95 tonnellate di equipaggiamento tra cui un ospedale da campo, comprendente anche un reparto per accogliere bambini prematuri. "Al momento il solo ospedale a funzionare in modo indipendente è il nostro", ha spiegato Bader. "Dovremo affrontare problemi, dilemmi e sfide, e improvvisare soluzioni".
Il ministero degli Esteri ha stimato che domenica, al momento del terremoto, ci fossero circa 650 cittadini israeliani in Nepal. Martedì mattina erano già 338 i sopravvissuti tornati in patria su un aereo dell'El Al, tra cui un gruppo di 25 neonati di genitori israeliani nati da madri surrogato nepalesi. Circa duecento sono stati localizzati attualmente nel paese, ancora 50 quelli di cui si sono perse le tracce, anche se continuano a venire individuati piccoli gruppetti di persone. Più o meno 250 israeliani si trovano invece nella capitale Kathmandu, dove hanno trovato riparo nei cortili della Chabad House e dell'ambasciata israeliana, trasformati in campi di accoglienza. Alcuni medici sono arrivati anche lì per prestare soccorso ai feriti: "Ci siamo divisi tra l'ambasciata e la Chabad House e contiamo di stare qui almeno per una settimana", ha dichiarato il dottor Rafi Strugo, direttore dell'unità medica del Magen David Adom quando è arrivato sul campo. La delegazione del MDA è composta da dottori, paramedici ed esperti di situazioni di emergenza con esperienza già accumulata nelle recenti catastrofi in Giappone, ad Haiti e nelle Filippine. Il Magen David Adom, ha spiegato Strugo, provvederà a fornire primo soccorso ai feriti, dovunque essi si trovino, oltre che alla creazione di una stazione dove potrà offrire trattamento per le prime 48 ore, con antidolorifici, antibiotici o bendaggi, e preparare i feriti gravi per il trasporto in ospedale. Inoltre, nel frattempo aprirà un secondo ospedale da campo per soccorrere la seconda ondata di vittime, ossia quelle che arriveranno in questi giorni successivi alle prime scosse.
Nel frattempo, le famiglie dei dispersi cercano di mettersi in contatto con i loro cari. A Gerusalemme il direttore generale del ministero degli Esteri Nissim Ben-Shitrit ha incontrato alcuni membri di famiglie di escursionisti israeliani in Nepal e li ha rassicurati sul fatto che il governo non lascerà nessuna parte del paese inesplorata per recuperarli. "Stiamo lavorando giorno e notte e mettendo tutte le nostre risorse in questo sforzo, per cui abbiamo speso milioni di shekel", ha affermato.
Gli israeliani presenti in Nepal sono soprattutto escursionisti, che al momento delle prime scosse si trovavano in gita sulle montagne nepalesi. Vari sistemi sono stati messi a disposizione sia delle famiglie sia dei dispersi. Sono nate molte pagine Facebook per pubblicare foto dei propri cari, in caso qualcuno li avesse individuati. Inoltre il social network, che ha aggiunto sulla home page degli utenti un bottone per fare delle donazioni per l'emergenza, ha creato anche un'applicazione ad hoc, chiamata Safety Check, attraverso la quale è possibile far sapere di essere salvi, fare controlli sulle persone che si trovano nelle aree colpite, e segnalare i propri amici come fuori pericolo. "È in momenti come questo che avere la possibilità di essere in contatto importa davvero" ha dichiarato Mark Zuckerberg. Anche Google ha messo a disposizione una rete per verificare le condizioni delle persone, e ha stilato una lista di circa un centinaio di israeliani. Ma ogni mezzo è valido, e reti per entrare in contatto con amici e familiari in Nepal sorgono su ogni canale di comunicazione. È il caso della storia di Shani, un'escursionista che reso la sua situazione un po' meno drammatica grazie al fatto di essere in possesso, unica in un grande gruppo di 100 viaggiatori internazionali, di un telefono satellitare, con cui ha potuto mettersi in contatto con sua madre Elsie. La quale, mentre sua figlia attendeva ancora soccorsi, è diventata un contatto prezioso per gli israeliani alla ricerca di dispersi in Nepal, aggiornando le famiglie degli altri escursionisti. Ha anche contattato molte famiglie in tutto il resto del mondo, soprattutto in Spagna, e anche il villaggio nepalese più vicino al luogo in cui si trovava Shani, e il suo numero di telefono è circolato su Facebook e anche alla radio.
"Questo è il vero volto di Israele", ha osservato il premier Benjamin Netanyahu. "Un paese che offre aiuto in questi momenti a qualunque distanza".
(moked, 29 aprile 2015)
Così Israele ha fatto fiorire il deserto (pure all'Expo)
E' ispirato a un verso dei Salmi il padiglione di Israele all'Expo. Sarà un omaggio allo stato ebraico come "start up nation" agricola ed ecologica, come dice il commissario Elazar Cohen. E' la trasformazione di un territorio arido e inospitale in campi coltivati e la miracolosa riforestazione del territorio di Israele, l'unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa.
Un padiglione tutto dedicato alle tradizioni della "terra del latte e del miele", ma anche alle più avanzate tecnologie sostenibili in agricoltura e alimentazione. All'Expo ci sarà non Israele società militarista in stato di assedio che il mondo boicotta, ma il deserto che vive e che tutti dovrebbero ammirare, come i vini della Galilea con l'etichetta "terra dove si vive felici". I "miracoli", che all'Expo sono simbolizzati dal padiglione verde verticale che sfida ogni legge fisica, cominciarono già nel 1948.
Il terreno era distrutto, le infrastrutture inesistenti, le ricchezze naturali non ce n'erano. Allora gli israeliani fecero l'unica cosa giusta: assegnarono all'agricoltura la massima priorità. Così per esempio iniziarono a utilizzare gli alberi di eucalipto per asciugare le paludi, perché questi alberi avevano un grande consumo idrico. Israele lanciò l'idea di ottenere il più alto prodotto possibile per ogni singola goccia d'acqua.
Molte delle tecnologie esposte all'Expo vengono dal Negev, che con i suoi dodicimila chilometri quadrati occupa più di metà del territorio israeliano. E' come se il Piemonte fosse sterile e vuoto a sud del Po. Il vero paradosso d'Israele, in mostra all'Expo, è quindi quello di aver scoperto le ricchezze più vitali nella più totale desolazione. Il Mar Morto, un sinistro lago nella depressione più profonda della Terra, è usato ad esempio per tutte le materie prime per produrre fertilizzanti.
Conquistare il deserto è per gli israeliani l'affermazione del proprio diritto al paese. Per questo il loro sarà un Expo diverso dagli altri.
(Il Foglio, 29 aprile 2015)
Al Sisi: «Se crolla L'Egitto per l'Europa danni terribili»
Il leader del Cairo: «Con il potere in mano ai Fratelli musulmani Libia, Siria, Mali e la penisola arabica... tutto andrebbe alla deriva».
di Casimiro Garcia Abadillo - Francisco Carrión
L'Islam deve progredire I terroristi ricevono aiuti facendo credere che si tratti di uno Stato. Ma il mondo è cambiato...
- Tunisia, Egitto, Libia, Siria... quattro anni dopo la Primavera Araba ha deragliato. Ma gli arabi sono pronti per la democrazia? «La democrazia è la volontà della popolazione, la libertà di eleggere i propri rappresentanti. In effetti c'è libertà in Egitto e la gente è pronta alla democrazia. Immagino che nessuno al mondo sia disposto a rinunciare alla libertà di partecipare alle elezioni, e noi arabi non facciamo eccezione».
- A breve scade un anno dalla sua ascesa al potere. L'Egitto oggi è più democratico?
«Sì, perché esiste la volontà politica di rispettare la volontà della gente. Per il mio popolo nutro amore e rispetto. Quella volontà esiste ed è molto più forte. Gli egiziani hanno fatto una scelta democratica con l'elezione di Morsi. il 25 gennaio del 2011 (data d'inizio della rivolta contro Mubarak) hanno insistito per esercitare le proprie scelte e Morsi è stato eletto, però quando si sono accorti dell'esistenza di un pericolo, hanno saputo rompere con lui. Gli egiziani possono anche mandare a casa Al Sisi se così vogliono. Se non fossi intervenuto, sarebbe scoppiata una guerra civile».
- Lei ha vinto con il 96,91% dei voti. Crede che il dato rifletta la volontà popolare e che i Fratelli Musulmani rappresentino una minoranza?
«I Fratelli Musulmani sono una minoranza. Gli egiziani temono per il futuro dei propri figli e oggi si sono uniti per salvare la patria. Questo è il momento di restare fermi e coesi. La prova è quello che sta accadendo in Siria, Libia, Iraq e Yemen. Quando soccombono alla violenza, i Paesi non possono salvarsi».
- Chi si nasconde dietro l'Isis?
«Esiste una percezione errata dello Stato Islamico da parte della società. l gruppi terroristi ricevono aiuti facendo credere che si tratti di un vero stato organizzato. Dimenticano che il mondo è cambiato... L'Islam deve progredire. Coloro che appoggiano l'Isis non capiscono quale pericolo esso rappresenti. L'Isis usa la religione come uno strumento per raggiungere obiettivi politici e ha messo in piedi una forza incontrollabile. Occorre affrontare questa realtà, e affrontarla insieme, perché verranno coinvolti ll Mediterraneo, l'Europa e il mondo intero. La mappa del terrorismo si va allargando e lo sforzo che stiamo facendo non basta. Non si tratta semplicemente di iniziative militari ed economiche, ma anche di discorso religioso. Voi siete disposti a collaborare?».
- L'Egitto non fa parte della coalizione che colpisce l'Isis in Siria e Iraq perché siete impegnati contro l'Isis nel Sinai. Quanti sono?
«Non condivido l'affermazione che vi siano miliziani dello Stato islamico nel nostro territorio. Esiste il terrorismo, ma resta concentrato di una zona confinante con la striscia di Gaza, al nord del Sinai».
- L'Egitto saprà ritrovare la stabilità senza integrare quella parte della popolazione che sostiene l'islam politico e che oggi è emarginata?
«Il tempo farà capire ai simpatizzanti dei Fratelli Musulmani che la convivenza è possibile. Non vogliamo fare la guerra alla gente per le sue idee, ma devono sapere che noi non le condividiamo. Se vogliono votare per difendere la loro ideo logia possono farlo, ma senza imporla alla maggioranza e accettando le regole del processo politico, il trasferimento del potere e la libertà di voto. Finora non l'hanno fatto».
- Eppure lei non è riuscito a convincere né gli Usa né l'Unione Europea. Di fatto, i Fratelli Musulmani continuano ad agire legalmente dalla loro sede londinese...
«La vostra principale preoccupazione è la sicurezza e capisco le vostre posizioni nei loro confronti. Tuttavia, se l'Egitto dovesse crollare, l'Europa patirà danni terribili e l'intera zona mediterranea resterà esposta al disastro. L'Egitto non è né la Libia, né l'Iraq, Siria o Yemen, Paesi che contano 25 milioni di abitanti ciascuno. Noi siamo go milioni».
- Con i Fratelli Musulmani al potere, crescerebbe la minaccia jihadista per l'Europa?
«II pericolo sarà molto più grave di quanto si possa immaginare. Libia, Siria, Mali, Chad, Etiopia e la penisola arabica... tutto andrebbe alla deriva. Voi sapete combattere contro eserciti regolari, non contro gruppi armati, come facciamo noi».
(Corriere della Sera, 29 aprile 2015 - trad Rita Baldassarre)
«Shalom» maestro Elio Toaff, mostra omaggio al Museo Ebraico
Documenti e immagini che raccontano la sua vita pubblica e privata.
di Lauretta Colonnelli
«Shalom Moreno!»: è un saluto e un omaggio il titolo della mostra dedicata a Elio Toaff, ex rabbino della comunità ebraica di Roma, scomparso il 19 aprile scorso. Per chi si chiedesse che cosa significa questo titolo ecco la spiegazione: Moreno, in lingua giudaico-romanesca, significa Maestro nostro (Morè-no). Lo spiega Serena Di Nepi, che ha curato la mostra a fianco di Lia Toaff. «Salve Maestro nostro!» è dunque l'esposizione che si inaugura il 30 aprile nel Museo Ebraico di via Catalana, accanto alla Sinagoga, proprio nel giorno in cui il rabbino emerito avrebbe compiuto cento anni.
Fino al 30 settembre, negli orari consueti del Museo, verrà presentata al pubblico una raccolta di documenti e immagini fotografiche che raccontano la vita pubblica e privata di Toaff. Soprattutto il suo impegno quotidiano nel dopoguerra, quando fu designato guida spirituale degli ebrei romani duramente provati dalle persecuzioni e impegnati a ricostruire la propria identità.
Ed è proprio sui primi anni a Roma che si incentra il fulcro della rassegna. Si potranno vedere documenti inediti, come la relazione dattiloscritta con correzioni a penna, con la quale nel 1952, a un anno dall'accettazione dell'incarico, Toaff si propose di risollevare la comunità. O la lettera che scrisse per richiamare in modo durissimo le istituzioni ebraiche locali all'osservanza della kasherut, la normativa sui cibi puri o impuri. Si comprenderà il difficile lavoro svolto per ricucire i rapporti con le istituzioni statali, con la Chiesa e con la politica.
Si potrà leggere il sollecito inoltrato nel 1956 al ministero dell'Istruzione per chiedere lo spostamento della data degli esami di maturità, fissata di shabbat; la lettera di protesta per la fuga incredibile di Kappier; il discorso pronunciato nel 1983 nel primo anniversario della morte del piccolo Stefano Gay Tachè, due anni, ucciso nell'attentato alla Sinagoga e che proponiamo in questa pagina.
Si scoprirà come Toaff riuscì a coordinare le scuole ebraiche perché tra il 1968 e il 1969 potessero accogliere i piccoli profughi provenienti dalla Libia. Si tratta solo di una piccola parte dell'immenso archivio di Elio Toaff: più di ventimila documenti, raccolti nei cinquant'anni del suo mandato e conservati fino ad oggi in parte nella sua abitazione e in parte nell'Ufficio rabbinico. Ora saranno trasferiti nel Museo e catalogati.
Tra i più importanti, anche il manoscritto originale dell'autobiografia di Elio Toaff, con il racconto della vita familiare, !'infanzia a Livorno, l'impegno universitario, l'esperienza da partigiano.
(Corriere della Sera - Roma, 29 aprile 2015)
Helmut Schmidt: "Shoah, la colpa fu dei nazisti non dei tedeschi"
L'ex cancelliere ricorda la fine della guerra mondiale di cui ricorre il 70o anniversario.
di Matthias Nass
Helmut Schmidt
"I tedeschi nel loro complesso non furono complici". Ricordando la fine del conflitto di cui in questi giorni ricorre il settantesimo anniversario, l'ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, 96 anni, respinge il concetto di colpa collettiva dei tedeschi nella seconda Guerra mondiale. "I colpevoli furono i nazisti. C'era semmai la responsabilità collettiva che una cosa del genere non si ripetesse mai più".
- Il 3 maggio 1945 Amburgo si arrese senza combattere ai britannici. Lei dov'era quel giorno?
"Ero prigioniero degli inglesi in territorio belga, in un campo vicino a Bruxelles".
- Quando ha avuto la notizia dell'occupazione di Amburgo?
"Non il giorno stesso né quello successivo. Amburgo all'epoca non aveva tanta importanza per me. Importante era la fine della guerra ".
- Quando è finita per lei la guerra? Quando fu preso prigioniero?
"Dentro di me sapevo già da molto tempo come sarebbe finita. Quando Hitler iniziò la campagna di Russia nel giugno 1941 capii che avremmo perso la guerra. A questo proposito litigai con Hermann Ötjen, che chiamavo zio. Era un collega di mio padre, come lui insegnante in un istituto tecnico. Era nazista, capitano della riserva, io un semplice tenente. Gli dissi che avremmo perso e che saremmo finiti a vivere in baracche se ci fosse andata bene. Qualcosa di storia sapevo e avevo davanti agli occhi il destino di Napoleone nel 1912 alle porte di Mosca".
- All'epoca erano molti i tedeschi che consideravano l'attacco alla Russia un errore strategico?
"Probabilmente erano pochi. Io però, va detto, ero un tedesco storicamente consapevole, di padre per metà ebreo. Senza dubbio avevo un atteggiamento più critico rispetto alla massa. Sulla mia vita pesava l'etnia di mio padre, non dovevo farne parola con nessuno, neppure con lui. Secondo le leggi razziali ero per un quarto ebreo. Non sapevo che i nazisti avrebbero ucciso gli ebrei, ma sapevo che li consideravano avversari. Per questo non avrei mai potuto essere nazista".
- Nella primavera-estate del 1945 fu prigioniero dei britannici. Quando e come venne catturato?
"Forse a marzo o a aprile. Dove lo ricordo benissimo: in un paese circa 8 chilometri a nord di Soltau, in bassa Sassonia. Ci ero arrivato a piedi, spostandomi sempre di notte. Al fronte ero stato l'ultima volta durante la ritirata seguita all'offensiva delle Ardenne, nel gennaio- febbraio 1945".
- Come la trattarono i britannici?
"Decentemente. Ma non avevano da darci da mangiare".
- Quando nella tarda estate tornò a Amburgo che spettacolo le offrì?
"Il quadro lo conoscevo già, perché nel 1943 ero stato a Amburgo dopo il catastrofico bombardamento ".
Quando ha provato per la prima volta un senso di liberazione di fronte alla sconfitta della Germania?
"In maniera inconscia lo provai relativamente presto. La piena consapevolezza l'ho avuta forse grazie al discorso che Richard von Weizsäckers tenne in occasione del quarantennale della fine della guerra nel 1985".
- Molto vicino al paese in cui venne preso prigioniero si trovava il lager di Bergen-Belsen, appena liberato dai britannici. Ne sapeva qualcosa?
"No! Ma durante l'interrogatorio mi chiesero di Bergen-Belsen. Io non ne sapevo nulla".
- Non sapeva nulla dell'annientamento sistematico degli ebrei nei campi di sterminio?
"No".
- Lo ha appreso per la prima volta durante la prigionia?
"Qualcosa, ma in massima parte negli anni seguenti".
- All'epoca ha pensato che i tedeschi avrebbero dovuto pagare un prezzo terribile per le loro colpe?
"All'epoca non pensavo in termini politici. Non reputavo i tedeschi colpevoli globalmente. La colpa era dei nazisti. I tedeschi nel complesso non erano complici, ma tutti i tedeschi erano responsabili delle azioni compiute da altri tedeschi ".
- Nessuna colpa collettiva, bensì una responsabilità collettiva?
"La responsabilità collettiva che una cosa del genere non si ripeta mai più".
- Anche suo fratello era nella Wehrmacht?
"Certo. Anche mio cognato. Eravamo tutti arruolati".
- Che ne è stato dei nazisti che conosceva, i suoi insegnanti o i vicini di casa?
"Conoscevo pochissimi nazisti, a parte Ötjen. Ne conoscevo due morti entrambi. Erano miei cari amici quando andavamo a scuola, Kurt e Ursel. Ursel era diventato un nazista convinto! Pianse quando seppe della morte di Hitler".
- Che speranze di rinascita politica nutriva nel 1945?
"In concreto nessuna".
- Il suo ingresso nell'Spd fu dovuto a Schumacher?
"No, lo devo a un tenente colonnello conosciuto in prigionia, Hans Bohnenkamp. Sotto il suo influsso già nel 1945 andai a Neugraben dai socialisti e all'inizio del 1946 mi iscrissi al partito. Nel 1946 abbiamo fatto i cartelli per le prime elezioni amministrative".
- Guardando alla fine della guerra settanta anni dopo vede cicatrici ancora da sanare?
"Se guardo dalla finestra del mio studio vedo un prato verde. Accanto alla sede di Zeit un tempo c'era il ginnasio Johanneum, poi utilizzato come biblioteca finché non fu bombardato. Le rovine c'erano ancora quando entrai in questo giornale, al suo posto volevano costruire un cubo di acciaio e vetro. All'epoca mi opposi".
- Queste sono le cicatrici esterne.
"La mia generazione si porterà le cicatrici nella tomba".
(la Repubblica, 29 aprile 2015)
Crisi Fatah-Hamas sulla ricostruzione di Gaza e sulla questione degli impiegati
di Michele Monni
RAMALLAH - Hamas e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) sono ai ferri corti, malgrado il governo di unità nazionale palestinese. Motivo della rottura, che si sta consumando da alcuni giorni, la questione degli impiegati pubblici e il contagocce con il quale i Paesi donatori mandano il denaro per la ricostruzione della Striscia di Gaza - che è controllata da Hamas - dopo la guerra della scorsa estate.
Ci sono circa 24 mila dipendenti del governo di Hamas e 28 mila impiegati dell'Anp per i quali - ha detto all'ANSA Ihab Basseso, portavoce del governo di unità nazionale presieduto da Rami Hamadallah - deve essere cercata una soluzione. E' necessario - ha proseguito - che le due amministrazioni trovino un punto di accordo su un sistema fiscale condiviso, sulla gestione dei confini e sulla gestione della sicurezza". Per il portavoce inoltre "la mancanza di risorse economiche a disposizione del governo in questo momento non è sufficiente per completare la transizione" anche perché "solo il 10% del denaro promesso dai paesi donatori per aiutare Gaza è arrivato nelle casse del governo". Basseso ha poi rivelato che Hamas ha chiesto al governo il completo assorbimento dei suoi dipendenti e la gestione dei fondi per la ricostruzione come "condizione vincolante" per attuare il resto del programma di governo.
Tra le cause del flop della visita la scorsa settimana nella Striscia di alcuni membri del governo di unità (confinati nei loro alberghi e che hanno lasciato Gaza in 24 ore per "non deteriorare la situazione"), Basseso ha segnalato la mancata registrazione dei dipendenti dell'Anp e "il rifiuto di Hamas" a partecipare a commissioni miste, composte da tutte le fazioni, per accelerare la ricostruzione. "Tutti i dossier in discussione - ha ammonito il portavoce - sono stati accettati da Hamas durante l'accordo del Cairo del settembre 2014". A fronte dell'impegno del premier Hamdallah di una soluzione entro 3 mesi della questione dei dipendenti, Hamas - ha spiegato Basseso - "ha detto di no prima ancora di vedere i risultati dell'iniziativa del primo ministro". Il "fronte del no", secondo Basseso, può contare sull'ex vice primo ministro e ministro delle finanze Ziad Al-Zaza, di Hamas, restio a concedere un'opportunità alla "road map offerta da Hamdallah". Il portavoce ha però confermato che il primo ministro ha intenzione di recarsi a Gaza "il prima possibile" per rompere l'impasse.
Ad aumentare il contrasto tra le due fazioni palestinesi - secondo alcuni analisti - le notizie stampa sui contatti in corso tra Hamas e Israele, non graditi di Fatah e dal governo di unità nazionale, per una tregua di lunga durata (5 o 10 anni) in cambio - come rivelato da un leader di Hamas Ahmed Yousef - della "fine del blocco di Gaza e la creazione di un porto commerciale" nella Striscia.
(ANSAmed, 28 aprile 2015)
Il viceministro Olivero consegna al ministro israeliano Shamir copia della "Carta di Milano"
ROMA - Il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali rende noto che il vice ministro Andrea Olivero, in visita istituzionale in Israele, questa mattina ha preso parte alla cerimonia di inaugurazione di Agritech 2015, la fiera internazionale sull'innovazione in agricoltura. Il vice ministro Olivero, prendendo la parola nel convegno di apertura, ha consegnato simbolicamente al ministro dell'Agricoltura e dello Sviluppo Rurale, Yair Shamir, una copia della Carta di Milano in ebraico. "Sono onorato di aver portato in Israele la Carta di Milano in contemporanea con la presentazione ufficiale che si tiene oggi in Italia, è il primo Paese a cui tale prezioso documento viene consegnato ed è un segno tangibile delle ottime relazioni che intercorrono" - ha dichiarato il vice ministro Olivero - "Sono certo che il binomio tra innovazione e agricoltura è imprescindibile per far sì che gli investimenti siano realizzati in un'ottica di sostenibilità; Agritech ne è la dimostrazione, inoltre grazie alla fattiva presenza di Israele in un contesto globale come Expo, tale consapevolezza potrà essere radicata tra i cittadini e diventare parte dell'eredità culturale di questo evento". Nel corso della visita, si è tenuto l'incontro bilaterale con il ministro dell'Agricoltura israeliano e i suoi delegati, alla presenza dell'Ambasciatore italiano Francesco Maria Talò; sono state discusse azioni tese a rafforzare le iniziative di sviluppo rurale e di carattere commerciale, anche attraverso lo scambio di buone prassi e metodi di lavoro ed è stato avviato un confronto finalizzato a rafforzare gli impegni nella cooperazione scientifica e nello sviluppo di innovazioni.
(il Velino, 28 aprile 2015)
Si chiude con successo la 'Festa del Libro Ebraico in Italia'
Pronta a passare il testimone al Meis
Un'edizione 'spartiacque' e di indubbio successo, anche al netto delle condizioni meteorologiche, certo non favorevoli.
È decisamente positivo il bilancio della sesta Festa del Libro Ebraico in Italia che, organizzata dalla Fondazione MEIS (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah) con il supporto di Ferrara Fiere, dal 25 al 28 Aprile ha eletto il capoluogo emiliano a capitale dell'ebraismo italiano.
"L'affluenza registrata Sabato e Domenica - commenta Riccardo Calimani, Presidente della Fondazione MEIS - è stata notevole, superiore a quella delle precedenti edizioni. E, nonostante una leggera flessione dovuta al maltempo, molto buone anche la partecipazione agli appuntamenti degli ultimi due giorni e le vendite alla libreria del Chiostro di San Paolo".
Senza contare che, con circa mille ingressi, gli arredi sacri e gli oggetti rituali della mostra "Torah fonte di vita" (visitabile fino al 31 Dicembre presso il MEIS) hanno tenuto degnamente testa ai ben più attraenti dipinti di Giovanni Boldini e agli olii su tela di Pablo Picasso, esposti rispettivamente al Castello Estense e a Palazzo dei Diamanti.
"Oltre all'interesse del pubblico - prosegue nella sua analisi Calimani -, i contenuti proposti hanno suscitato anche un'ottima copertura da parte della stampa, locale e nazionale. Il che significa che siamo riusciti a innovare la Festa, a trovare spunti originali e stimolanti, mantenendo elevato il livello del dibattito".
Fin qui, il resoconto dell'edizione 2015, che deve però cedere il passo a considerazioni sul futuro della manifestazione: "La Festa del Libro Ebraico in Italia - ricorda il Vicesindaco del Comune di Ferrara, Massimo Maisto - nasce come laboratorio di idee propedeutico al MEIS che, sia pure molto lentamente, sta andando avanti. Anzi, considero cruciale l'edizione appena terminata, perché cittadini ferraresi e turisti hanno finalmente potuto visitare il cantiere e toccare con mano l'avanzamento dei lavori. Tanto che ora che il primo lotto è terminato - aggiunge Maisto -, entro Maggio verrà consegnato il corpo C, cioè quello che ospiterà spazi espositivi permanenti, il centro di documentazione, la biblioteca, le aree per la didattica".
E a proposito di concretezza, un po' di numeri della FLE 2015: intanto, gli oltre cinquemila volumi (alcuni dei quali andati presto esauriti) di autori ebrei o di argomento ebraico con i quali centocinquantasette case editrici hanno popolato la libreria del Chiostro di San Paolo, cuore pulsante della Festa. Circa cinquanta gli scrittori, gli studiosi e i giornalisti (comprese figure di spicco come Enrico Mentana e Pierluigi Battista) coinvolti in quindici conversazioni e incontri con gli autori, molti dei quali incentrati sul cibo kasher. L'alimentazione ebraica è stato il comune denominatore anche di disfide teatrali e laboratori didattici rivolti agli studenti della scuola primaria e secondaria, per approfondire come la cucina kasher sia sinonimo di cibi poveri, ma ricchi di profumi e suggestioni che rispecchiano le diverse provenienze degli ebrei del mondo, dalle spezie del Mediterraneo ai rigidi inverni dell'Est Europa, fino alle deliziose ricette della tradizione italiana.
Caleidoscopica anche la rappresentazione che della cultura ebraica la Festa ha affidato alle note: cinque concerti, uno dei quali introdotto da un approfondimento sul dialogo ebraico-cristiano, con artisti di fama come Raiz, il leader degli Almamegretta, e spaziando dalla musica classica al modern jazz, dal gipsy al klezmer.
Se al convegno internazionale sui "Paradigmi della mobilità e delle relazioni degli ebrei in Italia" hanno partecipato esponenti degli atenei di mezzo mondo (da Roma a Londra, da Firenze a Gerusalemme, da Bologna a Haifa), una delle punte più alte e toccanti di questa edizione è coincisa con il Premio PARDES, per la valorizzazione e diffusione della conoscenza della cultura e tradizione ebraica in Italia e in Europa. Accanto alla storica Anna Foa e al Nobel per la letteratura, Patrick Modiano, il riconoscimento è andato a Samuel Modiano, uno degli ultimi sopravvissuti all'inferno di Birkenau, che da dieci anni ha superato la paralisi che gli impediva di raccontare quella tragedia e da allora porta la sua testimonianza in giro per il mondo, senza risparmiarsi. La standing ovation che il pubblico della Festa, tra sconcerto e commozione, ha tributato a Modiano resta senz'altro una delle immagini più rappresentative della manifestazione.
Tornando ai numeri, il ricco e complesso rapporto tra la comunità ebraica e Ferrara, dove gli ebrei sono attivamente presenti da undici secoli, è stato scandagliato attraverso circa quindici appuntamenti, tra le conversazioni con gli scrittori, la proiezione di un film sui luoghi della Ferrara ebraica e gli itinerari guidati, dal Ghetto al MEIS.
Non meno significativi i dati 'virtuali' riguardanti la Festa: oltre diecimila accessi totali (anche dall'estero, specie Stati Uniti e Francia) li ha, infatti, ottenuti il sito web del MEIS e della Festa del Libro Ebraico (www.meisweb.it) che, configurato come un portale, ha raccolto tutto ciò che poteva servire per la fruizione online della manifestazione: informazioni sul programma e sugli ospiti, variazioni, news, la rassegna stampa completa, notizie su Ferrara e sugli appuntamenti paralleli, fotografie e video degli interventi.
(Cronaca Comune, 28 aprile 2015)
Germania - Bandiera d'Israele in curva. La polizia la fa rimuovere
Il fatto segnalato da un calciatore israeliano dell'Ingolstadt (Serie B): «La polizia ha fatto rimuovere la "bandiera degli ebrei" perché simbolo politico».
di Francesco Battistini
GERUSALEMME - I cori, i petardi, i fumogeni. La curva dell'Fc Ingolstadt, squadra bavarese della serie B tedesca, domenica scorsa non era diversa da tutte le torcide del mondo. Solo che in mezzo garriva pure una bandierona israeliana. I tifosi l'hanno esposta per qualche minuto, poi l'hanno riavvolta e messa via. Nessuno se n'è accorto, tranne lui: Almog Cohen, 26 anni, capello stile Ibrahimovic, centrocampista dell'Ingolstadt e nazionale israeliano al quale lo stendardo era dedicato. Cohen dalla panchina ha fotografato la scena e l'ha twittata. Quindi è andato a chiedere spiegazioni ai tifosi: «Mi hanno detto che gliel'aveva ordinato la polizia». Partita o non partita, delicata o no che fosse la sfida con l'Union Berlino, il calciatore ha voluto vederci chiaro ed è entrato in scivolata sul responsabile per la sicurezza: perché avete fatto togliere i colori del mio Paese? La risposta l'ha scioccato: «Non è consentito esporre simboli politici». Prego? «Ragioni di sicurezza: vogliamo evitare provocazioni». Il calciatore non ha mollato la marcatura: e allora sono simboli politici anche le bandiere croate o americane che, ogni domenica, sventolano in onore dei miei compagni di squadra? «No», ha risposto tranquillo il poliziotto tedesco: «Lo è solo la bandiera degli ebrei».
Stella cadente
Se l'ordine di tirar giù la stella di David viene dato in Germania, il caso politico è sicuro. E così è stato: il tweet in ebraico di Cohen è finito subito in rete. Ripreso da tv e giornali israeliani. Commentato dalla stampa tedesca. La stupidità da curva, per una volta ascrivibile alle forze dell'ordine e non ai tifosi, ha curiosamente cucito le bocche del club di Cohen («non c'immischiamo nelle decisioni delle autorità ») e costretto invece il governo tedesco a rattoppare. «Mi scuso con chi si è risentito», ha detto il capo della polizia Klaus Kandt: i suoi uomini erano preoccupati di non scatenare incidenti - in un Paese in cui vivono più di 30mila palestinesi con passaporto tedesco e milioni di musulmani, soprattutto turchi, che hanno posizioni molto critiche su Israele -, «ma prima dell'attenzione alla sicurezza viene sempre l'obbligo di proteggere la libertà d'opinione». «Una decisone sbagliata, anche se presa con finalità giuste», ha ammesso il ministro dell'Interno, Frank Henkel, frequente visitatore d'Israele, senza spiegare se ci saranno provvedimenti. «Non è la prima volta che con la scusa della sicurezza rimuovono la bandiera israeliana», commenta Sacha Stanski, direttore d'un sito tedesco d'informazione ebraica: nel 2009 lo fecero a Duisburg dalla finestra d'una casa privata, durante una manifestazione pro-Palestina, «ma a nessuno mai dovrebbe venire in mente di proibire un simbolo soltanto perché una parte della popolazione potrebbe reagire in modo violento».
(Corriere della Sera, 28 aprile 2015)
Per il memoriale della Shoah di Bologna arrivati 284 progetti da tutto il mondo
di Gianluca Stanzani
Sono 284 i progetti arrivati da tutto il mondo per il concorso internazionale bandito per la realizzazione di un Memoriale della Shoah a Bologna, nella nuova piazza ricavata tra via Matteotti e via Carracci. Il termine per la presentazione dei progetti è scaduto il 17 aprile e ora, ricorda il Comune in una nota, si apre la seconda fase del concorso: la commissione giudicatrice, presieduta da Peter Eisenman (autore del Memoriale dell'Olocausto a Berlino), sceglierà i tre elaborati che potranno essere sviluppati in vista della selezione conclusiva.
Il progetto è stato promosso lo scorso gennaio dalla Comunità ebraica di Bologna, con il supporto del Comune e dell'Ordine degli architetti "per costruire un luogo- si legge nella nota- che possa mantenere viva la memoria della Shoah". I lavori della commissione si chiuderanno entro il 30 giugno. Premiati e menzionati saranno invitati a partecipare ad un evento di premiazione e presentazione dei progetti, a settembre in Salaborsa, in occasione della Giornata europea della cultura ebraica. I costi per lo svolgimento del concorso, ricorda Palazzo D'Accursio, sono sostenuti dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.
(Cartabiancanews, 29 aprile 2015)
Tunisia - Preparativi per il pellegrinaggio degli ebrei a Ghriba
In migliaia attesi come ogni anno in antica sinagoga Djerba
L'antica sinagoga di Ghriba nell'isola di Djerba
TUNISI - Ultimi preparativi per il tradizionale pellegrinaggio degli ebrei nell'antica sinagoga di Ghriba nell'isola di Djerba che si svolgerà il 6 e 7 maggio prossimo. dei lavori di ristrutturazione hanno infatti interessato la sinagoga, che e' pronta ora ad accogliere i fedeli e i visitatori di tutto il mondo. Organizzato ogni anno il 33.o giorno dalla Pasqua ebraica, questo rituale rappresenta il cuore delle tradizioni della comunità ebraica tunisina la quale, anche se molto ridotta in termini numerici, resta ben integrata all'interno della società. Una delle leggende fa risalire l'origine della sinagoga di Ghriba alla distruzione del tempio di Salomone a Gerusalemme, quando alcuni ebrei, fuggendo dalla Palestina, si rifugiarono proprio a a Djerba nel 586 A.C.
Ogni anno Djerba accoglie migliaia di ebrei, provenienti in gran parte da Israele ed Europa, per quello che si traduce in un sostanzioso contributo alle entrate del turismo religioso. Il pellegrinaggio fu sospeso nel 2011 per l'instabilità della fase post-rivoluzionaria, e ripristinato l'anno seguente in un clima di alta sorveglianza da parte delle forze dell'ordine. Un dispositivo di sicurezza importante verrà messo in atto anche quest'anno dalle autorità tunisine per controllare l'accesso alla sinagoga e prevenire qualsiasi incidente.
(ANSAmed, 27 aprile 2015)
Ebrei in fuga dall'Italia
L'Italia non è più un Paese accogliente per gli ebrei. Anche qui per loro l'atmosfera è peggiorata. Basti pensare al vergognoso attacco alla Brigata ebraica al corteo di Milano per la festa della liberazione e le scritte antisemite dopo la morte dell'ex rabbino Elio Toaff a Roma solo per citare gli ultimi gravi episodi.
E infatti sono sempre di più quelli che decidono, loro malgrado, di lasciare il Paese dove sono cresciuti e dove la loro famiglia vive da generazioni e generazioni e andare in Israele. Un fenomeno che in lingua ebraica si dice Alyot. «Negli ultimi anni stiamo registrando un movimento sempre più crescente di famiglie che decidono di lasciare l'Italia - conferma il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni - Anche se i numeri assoluti non sono alti né comparabili con le partenze dalla Francia».
In Francia, dove gli ebrei sono circa 480.000 e la presenza islamica massiccia, nel 2014 hanno abbandonato il Paese in 5.000 ovvero l'un per cento. In Italia gli ebrei sono circa 28.000 (la metà vive a Roma) e lo scorso anno sono partiti per l'Israele in 323 che è più dell'un per cento. «Quello regitrato nel 2014 - spiega il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola - è il secondo numero più alto degli ultimi quarant'anni». Un dato che diventa allarmante se si considera la progressione ininterrotta: le partenze nel 2003 sono state appena 23, nel 2010 erano 97.
«L'insicurezza c'è sempre stata e siamo abituati a conviverci. Magari ora che ammazzano i giornalisti o comuni cittadini se ne sta rendendo conto anche l'opinione pubblica - spiega il Rabbino di Roma - La verità è che non c'è una bella atmosfera. Basti pensare ai manifesti davanti ai negozi ebraici di qualche mese fa o una professoressa dell'Università che ha scritto sul negazionismo costretta a vivere sotto scorta. E' un sentore quotidiano che va dal timore per i dei bambini che entrano a scuola sotto scorta, alle attività commerciali, ai luoghi di culto. La motivazione alla partenza è comunque complessa e l'insicurezza ne è una componente».
Quella della Capitale è una comunità molto radicata, dai tempi dell'Antica Roma. Eppure in tanti hanno deciso di abbandonare l'Italia e molti altri ci stanno pensando. «Non è certo un problema di forze dell'ordine che sono molto attive (nelle ultime settimane la comunità romana ha incontrato sia il capo della polizia Pansa sia il comandante generale dei Carabinieri Del Sette ndr) - dice ancora Di Segni - Ma è anche cambiata la tipologia del rischio. Non dobbiamo temere solo le grandi organizzazioni terroristiche ma anche i terroristi "fai-da-te", i lupi solitari e i gruppi neonazisti. E' la "piccola" strage oggi che preoccupa di più».
I dati del 2015 sono ancor più preoccupanti. «A gennaio e febbraio del 2014, che è stato quasi un anno record, sono andati in Israele in 40 - dice Della Pergola - Nei primi due mesi del 2015 hanno già lasciato l'Italia in 80, il doppio». Se la tendenza dovesse essere confermata nel 2015 si potrebbero registrare oltre 500 partenze dall'Italia. E quindi, se invece dei numeri assoluti considerati dal rabbino di Roma, si valutano le percentuali il dato è quanto mai preoccupante: il doppio della Francia dove l'allarme antisemitismo è altissimo.
I motivi? Secondo Della Pergola sono principalmente due: il primo è il disagio degli ebrei italiani e la pressione dell'opinione pubblica nei loro confronti; il secondo riguarda la crisi economica che ha colpito le fasce più modeste e le giovani famiglie».
D'altronde gli episodi contro la comunità romana sono sempre più frequenti: dagli striscioni e i cori allo stadio alle scritte sui negozi di ottobre 2014, dalle teste di maiale spedite al presidente della Comunità alle accuse dell'estrema sinistra e dell'estrema destra dopo il conflitto in medioriente della scorsa estate.
(Giornale.it, 28 aprile 2015)
Mentre gli ebrei venivano uccisi il Gran Muftì (zio di Arafat) era a Berlino coccolato dalle SS
di Ishmael
Il Gran Muftì Amin al Husseini in compagnia del gerarca nazista Heinrich Himmler
Telegramma inviato da Himmler al Gran Muftì in occasione dell'anniversario della Dichiarazione Balfour
Un gruppo di palestinesi autoproclamati, come s'è letto sui giornali e s'è sentito in televisione, ha contestato la presenza della Brigata ebraica alla manifestazione milanese del 25 aprile. Che ci fa e come ci azzecca un gruppo di militanti filopalestinesi a Milano il 25 aprile? Chi li ha invitati? Già c'entrano poco, anzi niente, con la lotta di liberazione nazionale (come la chiamano i testi scolastici) i centri sociali meneghini, quando fanno danni di persona senza mettersi in testa una kefiah, ma ancor meno ci azzeccano quando si travestano da palestinesi.
Come qualcuno ricorderà, durante la seconda guerra mondiale i leader politici e religiosi palestinesi erano alleati con i nazifascisti. Da noi le scarpe erano rotte eppur bisognava andar e intanto i palestinesi facevano il saluto nazista ai generaloni crucchi. Durante la guerra (quando gli antifascisti di tutta l'Europa si battevano per la liberazione dai nazifascisti, mentre gli ebrei rastrellati dal Reich finivano nelle camere a gas, e in Palestina si battevano a fianco degli alleati) il Gran Muftì di Gerusalemme (zio di Yasser Arafat) se ne stava a Berlino, coccolato dalle SS.
Anche allora, come oggi, i capi palestinesi chiedevano la testa degli ebrei, solo che allora la chiedevano a Hitler, che gliela concedeva volentieri, mentre oggi, voltata gabbana, le chiedono all'Anpi, l'Associazione nazionale partitigiani d'Italia, che non fa troppa resistenza (scusate il bisticcio). Insomma, l'Italia, ragazzi... Solo da noi è normale che «i palestinesi» (veri o presunti, reali o immaginari) entrino baldanzosi in un corteo del 25 aprile (col quale non hanno niente a che fare, se non come compagni d'armi del Führer e del Dux) e contestino ai resistenti ebrei il diritto di partecipare al corteo.
Un presidente americano, molti anni fa, fu accolto a Roma da una manifestazione «antimperialista» di filosovietici, filobrigatisti, filopalestinesi; rivolto a un suo collaboratore, dettò il nostro epitaffio: «Questo è un paese da dimenticare». Oggi c'è un presidente americano che rifiuta di prestarci i droni per combattere l'Isis (teme l'uso dilettantesco che le nostre autorità politiche potrebbero farne) e dimentica d'informarci quando un drone uccide un ostaggio italiano nelle mani d'al Qaeda (non si fida a condividere con noi le informazioni riservate). Dimenticati.
(ItaliaOggi, 28 aprile 2015)
Siria - Nuovo raid di Israele contro una base dell'esercito e di Hezbollah
I jet dell'aeronautica israeliana hanno bombardato presunti depositi di armi di Hezbollah e dell'esercito di Damasco in territorio siriano. Lo riporta la tv satellitare al-Jazeera, secondo la quale il nuovo raid si è svolto poco prima dell'alba nella regione del Qalamoun, sul confine con il Libano. Secondo l'emittente del Qatar, il raid ha fatto morti e feriti in numero per ora imprecisato.
Anche la tv al-Arabiya parla del raid, affermando che l'obiettivo era una postazione militare della 155esima Brigata delle Forze armate siriane, che secondo Israele avrebbe avuto un ruolo chiave in passato per la consegna di missili Scud a Hezbollah da parte del regime di Bashar al-Assad.
Il nuovo raid arriva dopo quello di ieri, quando i jet israeliani hanno ucciso quattro persone che erano entrate in Israele dalla Siria e avevano piazzato ordigni esplosivi vicino a una postazione abbandonata dell'esercito nel nord delle Alture del Golan. Sabato, al-Jazeera ha riferito di un altro raid israeliano contro una base militare in Siria, sul confine con il Libano, nella quale erano nascosti missili a lungo raggio.
(Libero Reporter, 28 aprile 2015)
Israele - La Banca Centrale lascia i tassi al minimo storico
Nulla di fatto in materia di politica monetaria in Israele.
Come ampiamente atteso dagli analisti, la Banca Centrale del Paese ha infatti deciso di lasciare i tassi di interesse al minimo storico dello 0,1% fissato due mesi fa. Nel meeting di febbraio, la Bank of Israel, con una mossa a sorpresa, aveva tagliato il costo del denaro per far fronte all'eccessivo calo dei prezzi e al contestuale rafforzamento della moneta israeliana, lo shekel. Il nulla di fatto di oggi riflette le aspettative di ripresa dell'inflazione, ma anche l'indebolimento dello shekel negli ultimi due mesi. Dal 2011 la Banca Centrale di Israele ha tagliato i tassi 13 volte allo scopo di deprezzare la moneta domestica e rivitalizzare l'export, che pesa per circa un terzo sull'economia del Paese. Lo scorso anno l'economia israeliana si è espansa "solo" del 2,8%, il ritmo più lento degli ultimi cinque anni. Quest'anno il PIL è atteso in crescita del 3,2%.
(Il Messaggero, 28 aprile 2015)
BlackBerry entra nel mercato israeliano con l'acquisto di WatchDox
Un acquisto pari a 10 milioni di dollari. Questa è la cifra, secondo le indiscrezioni, che ha pagato BlackBerry per l'acquisto di WatchDox azienda specializzata nello sviluppo di soluzioni per la sincronizzazione e la condivisione di file, che utilizza una tecnologia che mette al sicuro i dati degli utenti.
John Chen, CEO di BlackBerry ha spiegato che l'acquisizione rientra nella strategia di creare una piattaforma sicura di trasferimento dati:
Questa acquisizione rappresenta un altro passo in avanti nell'evoluzione di BlackBerry come piattaforma scelta da molti software e applicazioni. Con l'acquisizione di WatchDox ora abbiamo la capacità di fornire comunicazioni sicure (vocale, testo, messaggi).
Fondata nel 2008, con il nome di Confidela, la startup oggi ha la sua sede si Ricerca e Sviluppo a Petah Tikva (Israele) ed è specializzata in soluzioni di sicurezza e gestione di file che sfrutta la protezione DRM per proteggere i dati dei clienti. Confidela ha sviluppato la soluzione WatchDox nel 2009, prima di rinominare l'azienda con quel nome.
Gli utenti possono proteggere, condividere e lavorare sui propri file da qualsiasi dispositivo fisso o mobile. La nuova tecnologia consente di rimuore o revocare l'accesso ad un file remoto. BlackBerry vuole integrare questa tecnologia con i BlackBerry
(SiliconWadi, 28 aprile 2015)
Livorno - Storia di un bambino ebreo scampato alla Shoah
Racconta la storia emblematica di un ebreo livornese scampato, da bambino, alla Shoah, il volume "Il racconto di una salvezza, il mio incontro con Dino Molho", scritto da Rosa Distaso. Volume che verrà presentato oggi alle 17.30, nella sala Badaloni di Villa Fabbricotti (viale della Libertà 30), alla presenza dell'autrice e dello stesso protagonista, Dino Molho.
L'iniziativa è promossa dal Comune insieme alla Comunità Ebraica nell'ambito del ciclo di appuntamenti "Le Genti di Livorno". Interverranno un rappresentante dell'Amministrazione Comunale e Vittorio Mosseri, presidente della Comunità Ebraica livornese.
Come racconta l'autrice Rosa Distaso, "il mio incontro con Dino Molho è stato un incontro fortunato perché lui e sua moglie Lydia risiedono non a Livorno ma a Magenta. Ci siamo conosciuti ad un pranzo in Comunità Ebraica a Livorno ed ho scoperto le loro origini livornesi, ho subito pensato che la storia di Dino Molho, superstite della Shoah, appartenesse anche a questa città ed era giusto che tutti la conoscessero. Le persone di Magenta che hanno aiutato Dino Molho e la sua famiglia a salvarsi, sono un po' il simbolo di un atto di umanità e di eroismo che proprio in questi giorni dobbiamo ricordare, non solo perché ricorre il 70o anniversario della Liberazione, ma per tutto quello che oggi ci accade intorno. Oggi, nell'era moderna, dove tutto è tecnologico, robotico, dove la trasformazione e l'evoluzione sono al centro della ricerca, dove tutto deve diventare "sostenibile", ancora esseri umani fuggono dalla guerra e dalla morte e affidano la loro "salvezza" all'incertezza, percorrendo tratte di morte.
Ancora oggi, come allora, il discrimine religioso, etnico, politico e di pensiero, ancora oggi, come allora, l'essere umano perde la dignità e gli vengono negati tutti i diritti, quelli dei bambini, quelli dei giovani quelli delle donne, quelli degli anziani, ma soprattutto si nega loro il sogno: il sogno della vita. Mai come oggi questa storia, che dedico ai miei figli e ai miei nipoti che sono il domani, è così attuale e così vera. È importante ricordare l'orrore per poter vedere e riconoscere l'orrore, per poter guardare negli occhi un bambino, un giovane, una donna e un anziano e poter vedere una luce, quella della dignità della vita che è un diritto di tutti e oggi nulla di tutto ciò è retorica".
(La Prima Pagina, 28 aprile 2015)
Mentana: "Solo il museo può aiutare la cultura ebraica"
Il popolare giornalista a fine dibattito ha spiegato che l'effettiva funzionalità della struttura è fondamentale per incentivare le manifestazioni.
«Museo Ferrara è un nuovo progetto che si interseca con il Meis. È on line, e lo scopo è far capire che il Meis, poteva essere solo qui e non altrove. Vogliamo realizzare un grande progetto culturale, in modo che il turista che visita il museo ebraico, si rechi anche in centro, e si renda conto del forte legame tra la città e la comunità ebraica». È stato chiaro il vicesindaco Massimo Maisto, nel corso del dibattito "Perché Ferrara?" all'interno della Festa del libro ebraico. Hanno dialogato con l'assessore, Daniele Jalla, Anna Quarzi e Stefano Benedetto.
A seguire, "Ebrei e fascismo: nuovi punti di vista", moderato da Riccardo Calimani e Gian Arturo Ferrari. Hanno dialogato Pierluigi Battista, Enrico Mentana, Simon Levis Sullam, Michele Sarfatti e Marie-Anne Matard Bonucci. La studiosa francese illustra come «motivi congiunturali e strutturali abbiano favorito l'insorgere dell'antisemitismo dopo il 1938. Prima di quella data non c'era». Per Enrico Mentana «il problema nasce dal fatto che le leggi antisemite sono state inserite come un corpo estraneo in un Paese che non ne aveva bisogno, dato l'esiguo numero di ebrei in Italia. Inoltre il fascismo è diverso dal nazismo; quindi o noi abbiamo importato il totalitarismo o quello era un totalitarismo sui generis. Due anni fa abbiamo celebrato 150 anni dall'unificazione. In realtà erano 130, perché non siamo mai riusciti ad incastrare quei 20 anni di storia italiana. Tutta questa rimozione abnorme ha bisogno di studiosi per essere ricostruita. I collaboratori del fascismo non hanno parlato, per cui l'Italia non è stata posta di fronte alle proprie responsabilità. Non c'è stato un fascista redento che abbia visto e narrato la storia dal punto di vista dei carnefici. Nessuno di loro in questi 70 anni ha ancora parlato».
Poi, a parte il noto giornalista ha detto: "La festa del libro ebraico è un'iniziativa meritoria, ma una goccia nel deserto. Solo l'effettiva funzionalità del Museo può portare maggiore conoscenza della cultura ebraica".
(la Nuova Ferrara, 28 aprile 2015)
Libia - "Debkafile": l'Egitto prepara un'offensiva di terra in Cirenaica
IL CAIRO - L'Egitto sta ammassando forze aeree e di terra nella zona del Deserto occidentale, lungo il confine con la Libia, per lanciare una vasta offensiva per il controllo della Cirenaica e per l'eliminazione delle cellule dell'Isis nella regione. Lo riferisce il sito web israeliano "Debkafile" citando fonti militari e d'intelligence. Il Cairo starebbe spostando buona parte delle sue unita' navali nei porti sul Mediterraneo, a indicare che l'eventuale offensiva verrebbe condotta con lo sbarco di militari egiziani sulla costa libica, in particolare attorno alla citta' di Derna, dove la presenza di miliziani dell'Isis e' nota da diversi mesi. L'operazione sarebbe appoggiata dal lanco di paracadutisti sulle retrovie.
"Per il presidente Abdel Fatah al Sisi, la presenza dell'Isis nell'est della Libia, cosi' come nel Sinai, costituisce un pericolo inaccettabile per il proprio Paese", sostiene "Debkafile", "numerosi rapporti d'intelligence lo hanno avvertito della possibilita' che alcuni terroristi si siano gia' infiltrati in alcune citta' egiziane e persino in alcuni reparti dell'esercito del Cairo". Secondo il sito israeliano, per contrastare l'eventuale offensiva egiziana lo Stato islamico avrebbe gia' ricevuto rinforzi dalla Siria e dall'Iraq. I miliziani sarebbero arrivati nell'est della Libia attraversando il Mediterraneo e, in certi casi, facendo tappa nella penisola del Sinai. La scorsa settimana, il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi aveva diffuso sul web un nuovo video-messaggio nel quale annunciava l'arrivo di nuovi combattenti a Bengasi, dove lo Stato islamico ha condotto per la prima volta un attentato suicida all'inizio del mese. Secondo le fonti di "Debkafile", l'ipotesi di un attacco egiziano in Libia sarebbe stata al centro della visita a sorpresa effettuata al Cairo dal direttore della Cia, John Brennan. Nella circostanza, al Sisi avrebbe offerto al capo dell'agenzia d'intelligence statunitense la propria assicurazione che in Libia non rimarranno truppe di occupazione egiziane. Gli obiettivi della missione, avrebbe affermato il presidente egiziano, sarebbero quelli di sconfiggere e disarmare gli jihadisti e di consegnare il potere al governo libico guidato da Abdullah al Thani.
(AGI, 27 aprile 2015)
Expo, il racconto multimediale dei contadini d'Israele che coltivano il deserto
Lo spazio è un laboratorio aperto. Campi virtuali e video in una stanza buia mostrano la rinascita del grano della Bibbia. A fine percorso il ristorante propone hummus, falafel e insalate in formula pic-nic.
di Alessia Gallione
Expo 2015
Eilot: in capanne di fango seccato costruite con l'aggiunta di sacchetti di plastica e fibre che proteggono dal calore e che potrebbero sorgere in un paesaggio africano, grazie al sole si è immaginato come cucinare con poche risorse o produrre biogas dai rifiuti della cucina. Esperienze da condividere. In Israele, in una scuola dove ogni anno arrivano a imparare ragazzi dall'Indonesia, dall'Etiopia o dal Sudan. E lungo il decumano, tra i padiglioni di Expo.
Vuole presentarsi come un laboratorio aperto, lo spazio israeliano. Dove mostrare le conoscenze acquisite. I visitatori che varcheranno le porte dell'edificio incontreranno subito attori e performer, ma soprattutto saranno immersi in una prima stanza con le pareti ricoperte di schermi. La multimedialità è la chiave. Sarà la prima mostra che racconterà l'esperienza, appunto, di tre generazioni di contadini riusciti a coltivare il deserto.
Una sezione dell'esposizione è dedicata alla foresta che il Keren Kayemeth Lelsrael - il fondo nazionale per lo sviluppo che si occupa di ambiente e riforestazione - ha creato piantando in 70 anni 240 milioni di alberi. Qualche passo ancora e si entrerà in un'altra stanza, immergendosi nel buio. Sul soffitto apparirà un campo virtuale e filmati per raccontare quattro diversi progetti ad alto contenuto tecnologico: il grano della Bibbia - il Super wheat, lo chiamano - fatto tornare dal passato senza utilizzare Ogm, le tecniche di agricoltura 3.0, un sistema di irrigazione in Africa e un centro di mungitura sperimentale creato in Asia.
Alla fine del tour, si uscirà all'aperto dove si troverà il ristorante del padiglione, che servirà menù con i più classici hummus, falafel e insalate. La formula, messa a punto dagli chef dei ristoranti di Gerusalemme e Tel Aviv, è quella del pic-nic. I turisti potranno prendere il cestino e mangiare seduti ai tavoli, o spostarsi nel giardino vicino tra alberi e panchine. Al primo piano: una terrazza affacciata su Palazzo Italia e sull'Albero della vita, lo spazio dove durante i sei mesi saranno organizzati incontri, mostre, conferenze e 'feste'. Ancora una volta, un mix di storia e futuro.
Come il messaggio racchiuso nel logo del padiglione sviluppato dal ministero degli Affari Esteri e dalla web company israeliana IsayWeb. Ruota attorno a una reinterpretazione della parola 'Verità', eimet in ebraico. Il segno 'aleph' ha le tonalità del blu e rimanda all'acqua, il primo ingrediente dell'agricoltura. 'Mem', lettera centrale dell'alfabeto, è rappresentata in verde come 'un cespuglio rigoglioso' che ricorda la riforestazione di Israele. 'Tav' - l'ultimo carattere - è in giallo, il colore del sole e del deserto. L'ispirazione è arrivata dal Commissario generale del padiglione Elazar Cohen e da un verso della preghiera per la pace e la Giustizia nei canti di Re David nella Bibbia (Salmi 85-12): "La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo".
(la Repubblica, 27 aprile 2015)
Ex soldato nazista Oskar Groening bacia la sopravvissuta ad Auschwitz durante il processo
Da bambina è stata soggetta a terribili sperimentazioni mediche ad Auschwitz, la settimana scorsa ha accettato l'abbraccio e il bacio di una ex guardia nazista a processo in Germania per lo sterminio degli ebrei.
"So che molte persone mi criticheranno per questo, ma lascio perdere. Sono due esseri umani che si sono incontrati 70 anni dopo il fatto", ha scritto Eva Kor, 81 anni, per commentare quell'incontro inaspettato con Oskar Groening, 93 anni, proprio nell'aula del tribunale che dovrà giudicare l'uomo che ha prestato servizio ad Auschwitz. "Non capirò mai perché la rabbia è preferibile a un gesto di benevolenza. Niente di buono può venire dalla rabbia".
Groening era un sergente delle SS mandato nel campo di concentramento per sorvegliare le migliaia di ebrei mandati quotidianamente a morire nelle camere a gas. L'anziano ex nazista ha ammesso le proprie responsabilità e durante le udienze ha raccontato particolari raccapriccianti. È accusato di concorso nell'omicidio di 330mila persone.
Eva Kor partecipa al processo in qualità di testimone, ma ha dimostrato di non odiare Groening. In un commento che ha scritto per The Times of London ha espresso il desiderio di "ringraziarlo per avere l'umana decenza di accettare la responsabilità per quello che ha fatto". L'anziana signora ha poi ammesso di essere rimasta sorpresa dal gesto di affetto da parte dell'ex SS: "Gli sono piaciuta, e allora? Tornerò negli Stati Uniti con un bacio sulla guancia stampato da un ex nazista".
Su Facebook la sopravvissuta ha scritto un lungo post per spiegare le emozioni di quell'udienza: "Gli ho semplicemente stretto la mano e gli ho detto: 'Apprezzo che lei abbia voluto venire qui e guardarci in faccia. Ma vorrei che lei rivolgesse un appello agli ex nazisti ancora vivi, affinché escano dall'ombra e si confrontassero con il problema dei gruppi neo-nazisti in Germania oggi. Voi potete dire di essere stati ad Auschwitz, che eravate nel partito nazista e che è stato terribile'".
"Mentre gli parlavo", ha raccontato Eva Kor, "mi ha stretta e mi ha dato un bacio sulla guancia". "Sono convinta che abbia fatto tutto ciò di cui è accusato. Gli ho detto che perdonarlo non mi impedisce di accusarlo, né dovrebbe significare una sua minore responsabilità".
"Oskar Groening mi fa pena per una ragione: ha vissuto una vita infelice", ha scritto ancora l'anziana sopravvissuta: "Se fossi il giudice gli farei una sola domanda: ha vissuto una vita felice? Quando guarda al proprio passato, non può essere orgoglioso di nulla e vedrà che stava dalla parte sbagliata".
Nonostante Groening non abbia deciso né contribuito attivamente alla morte degli ebrei rinchiusi ad Auschwitz, è stato incriminato per una nuova interpretazione della legge tedesca secondo la quale chiunque abbia prestato aiuto al funzionamento del lager deve essere accusato di concorso in strage.
Nel primo giorno del processo Groening ha ammesso di sentire "la colpa morale" per i morti. Si tratta di uno dei pochissimi ex nazisti che ha sentito la necessità di parlare pubblicamente del proprio ruolo nell'Olocausto, affermando di averlo fatto con la speranza di zittire i negazionisti. Se sarà condannato, dovrà scontare dai 3 ai 15 anni in carcere.
(Isinsardegna, 27 aprile 2015)
Il Papa e Mattarella per Ilan Halimi, prima vittima del nuovo antisemitismo
di Giulio Meotti
Ilan Halimi
Nove anni fa, nella ville lumière, un ragazzo ebreo di nome Ilan Halimi venne rapito perché ebreo, torturato perché ebreo, infine ucciso perché ebreo. E' stata la prima vittima di una spaventosa ondata di antisemitismo che ha scosso l'Europa. Un regista francese, Alexandre Arcady, ha dedicato un film straordinario all'affaire Halimi, "24 giorni", che riprende il titolo del libro di memorie scritto dalla madre di Ilan, Ruth Halimi, questa moderna Rachele che piange il figlio assassinato.
Il prossimo 6 maggio, presso l'Auditorium della Conciliazione a Roma, si terrà la serata "Je suis Ilan", in collaborazione con la Rai, l'Associazione Progetto Dreyfus e con l'aiuto organizzativo di Barbara Pontecorvo, Johanna Arbib, l'Associazione Golda e il produttore Marco Scaffardi. Saranno presenti molti esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo, come Bernard-Henri Lévy e Barbara Streisand. Durante la serata verrà proiettata in prima nazionale la pellicola di Arcady e dovrebbero partecipare all'evento Papa Francesco e il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan Halimi soltanto dopo il suo assassinio. Poi sarebbero venuti i bambini della scuola ebraica di Tolosa, gli astanti del museo ebraico di Bruxelles, i clienti del supermercato ebraico di Parigi, i fedeli della sinagoga ebraica di Copenaghen. Storie che non avrebbero dovuto trovare posto nell'Europa post-Auschwitz ma che adesso devono tormentarne la coscienza infelice.
(Il Foglio, 27 aprile 2015)
"Brigata ebraica assassina". Pro Palestina coerenti: all'epoca erano con Hitler
ROMA - La storia, quella vera, tristemente si burla, amaramente prende per i fondelli chi la ignora totalmente. Lo fa quando l'ignoranza della storia va a nozze con la presunzione di essere niente meno che dalla parte "giusta" della storia. Allora la storia vera si incarica di mettere in ridicolo i militanti della storia a fumetti.
E' accaduto in occasione del 25 aprile italiano: in molte città e soprattutto in corteo a Milano militanti e organizzazioni che si auto definiscono pro palestinesi hanno prima posto il veto alla partecipazione alle celebrazioni della Brigata ebraica, poi posto la condizione che gli ebrei sfilassero pure ma senza le loro bandiere e infine, alla prova della piazza, hanno alternato e infilato il seguente rosario di slogan gridato con grande convinzione e passione: "Via i sionisti dal corteo" "Palestina libera, Palestina rossa " "Assassini, assassini ".
Molti hanno provato a ricordare che la Brigata ebraica combatté in Europa contro i nazisti e quindi essendo il 25 aprile la festa della liberazione dell'Italia dal nazismo e dal fascismo quelli della Brigata ebraica nelle manifestazioni del 25 aprile ci stanno di diritto. Niente, non ha funzionato.
Qualcuno, molti di meno, si sono chiesti in sommesso silenzio perché mai oggi si inneggi alla "Palestina rossa" a partire da Gaza quando a Gaza soprattutto ma un po' in tutto il movimento palestinese la bandiera dominante è quella verde dell'islamismo con a fianco non poche bandiere nere della jihad. Niente, è da Khomeini in poi che certo progressismo europeo confonde teocrazia con democrazia. Allora, era la prima volta, c'era qualche giustificazione per l'abbaglio. Oggi che c'è perfino l'Isis ancora lo stesso errore? La prima volta è umano, la seconda è Comunque tutti immemori, anche della prosaica e originaria circostanza per cui negli anni cinquanta, sessanta e settanta e sinistra si stava con gli arabi perché con gli arabi stava l'Urss e non perché gli arabi fossero "rossi" e neanche rosa pallido.
Molti comunque si sono stupiti, interrogati, preoccupati. Perché mai Centri sociali, antagonisti, pezzi e spezzoni di militanza politica e sociale che si vuole pro palestinesi arriva a gridare "Assassini" alla Brigata ebraica che settanta anni fa sparava ai nazisti? In fondo una coerenza, una stretta coerenza c'è, anche se con tutta probabilità i pro Palestina di oggi non lo sanno. Allora, settanta e passa anni fa, durante la seconda guerra mondiale i palestinesi, o almeno i loro rappresentanti religiosi e istituzionali, stavano con Hitler. Brigate con la svastica e con il simbolo delle SS combatterono al fianco dei nazisti dopo essere state reclutate con discreta facilità tra i musulmani dei Balcani e del Medio Oriente e in funzione anti ebrei e anti britannica giunse la benedizione ad Hitler dall'allora autorità religiosa e civile di Palestina.
Colpe antiche che non intaccano neanche di una frazione di millimetro il buon diritto odierno e futuro dei palestinesi ad avere un loro Stato. La storia non pratica vendette postume e sproporzionate, però sa prendersi ferocemente gioco di chi la ignora nel suo corso e prova a truccarla nel suo scorrere: se arrivi a gridare "Assassini" alla Brigata ebraica che combatté Hitler, allora ti meriti che la storia ti sbatta in faccia che allora i palestinesi stavano dalla parte di Hitler.
(il Punto, 27 aprile 2015)
Corteo di Milano: quegli insulti razzisti
di Dario Venegoni, vicepresidente Aned
25 aprile a Milano - Insulti di filopalestinesi al passaggio di ex deportati
A margine dell'immenso, festoso, pacifico corteo del 25 aprile a Milano, resta una questione aperta. In piazza San Babila alcune decine di sedicenti sostenitori della causa palestinese hanno dato il peggio di sé, prendendosela prima con gli ex deportati nei campi nazisti e poi con i sostenitori della Brigata ebraica. L'attacco all'Associazione degli ex deportati (Aned) chiarisce definitivamente la radice razzista di quel gruppo. Nella loro beata ignoranza hanno pensato che in quanto superstiti dei lager nazisti si dovesse trattare di ebrei: di qui i fischi, e addirittura l'accusa di essere «assassini» gridati al figlio di un deportato politico ucciso a Steyr e a un superstite di Mauthausen. Non c'è altra spiegazione per spiegare questo assalto verbale, se non quella dell'odio razzista. E così cade definitivamente ogni ipotetico velo giustificazionista anche per gli attacchi alla Brigata ebraica. Quel gruppo di invasati danneggia la causa palestinese. Anche per questo sarebbe stata doverosa una dissociazione pubblica dei rappresentanti dell'Autorità palestinese. Una dissociazione che purtroppo agli ex deportati non è ancora giunta.
(Corriere della Sera, 27 aprile 2015)
«Israele non c'entra. Contro la Brigata solo antisemitismo»
di Alberto Giannoni
C'è l'antisemitismo dietro l'assalto alla Brigata Ebraica. L'allarme viene dall'interno della comunità, dal mondo della sinistra. «Chi ha insultato la Brigata Ebraica è semplicemente antisemita. La politica di Israele non c'entra nulla» ha detto ieri Daniele Nahum, responsabile cultura del Pd. E il portavoce della Brigata, Davide Romano, parla apertamente di «negazionisti». Purtroppo i precedenti sono tali per cui certe contestazioni erano attese. Per questo, il Pd aveva deciso di mettere in campo un servizio d'ordine ferreo, cui hanno partecipato direttamente il segretario Pietro Bussolati e gli assessori comunali, preoccupatissimi. Va anche rimarcato che la stragrande maggioranza dei partecipanti al corteo ha salutato con applausi e strette di mano il passaggio delle insegne dei partigiani ebrei, mentre l'assalto è stato inscenato da poche decine di autonomi ed estremisti. Non erano individui isolati, però. C'erano bandiere e slogan. E chi era per strada ha avuto l'impressione che solo l'intervento delle forze dell'ordine abbia impedito che l'aggressione verbale diventasse fisica. Grazie agli agenti non ci sono stati incidenti. Da tempo però le frange più esaltate della sinistra usano il corteo come ribalta per le loro deliranti iniziative. E quegli insulti, gli sputi e le grida contro le Stelle di David peseranno a lungo come un macigno sul 25 aprile milanese.
(il Giornale, 27 aprile 2015)
"Gli antagonisti sono i nuovi fascisti"
La rabbia della Brigata ebraica dopo le aggressioni a Milano, Roma e Cagliari. II portavoce: «Nei cortei del 25 aprile ignoranza e un diffuso antisemitismo».
di Pietro Di Leo
«Vergognose». Così Alberto Tancredi, portavoce della Brigata Ebraica, definisce le contestazioni dell'altro ieri a Milano contro la presenza del vessillo con la Stella di David che ricorda l'impegno, a favore della Liberazione, della formazione militare composta da ebrei che combatté al fianco degli alleati. «Tra l'altro - spiega - anche aCagliari è accaduta una cosa molto sgradevole. Anche lì i componenti di alcune associazioni, come ogni anno, portavano la bandiera della BrigataEbraica alle celebrazioni del 25 Aprile. Ma un gruppo di filo palestinesi ha cercato di strappargliele di mano».
- E a Roma, com'è andata?
«A Roma abbiamo evitato, d'accordo con l'Aned, 1'associazione degli ex deportati, di presenziare alla celebrazione organizzata dall'Anpi di Porta San Paolo. Ci era stato chiaramente detto, non da parte dell'Anpi, ma di altre associazioni, che la bandiera della Brigata Ebraica non sarebbe stata tollerata, perciò non siamo andati. Abbiamo però partecipato all'evento in Campidoglio, che devo dire era stato organizzato molto bene dal Comune. È stato molto sentito e coinvolgente».
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Perché, secondo lei, questo oscurantismo?
«C'è un'ampia dose di ignoranza. La Brigata Ebraica è stata pienamente partecipe alla Liberazione. Ora, per fare un esempio, sto tornando dal cimitero di guerra di Piangipane, provincia di Ravenna, dove siamo andati a commemorare i 33 caduti della Jewish Brigade sepolti là. Combatté solo nell'ultima parte della guerra, con 5.500 ragazzi, ma solo perché il premier inglese, l'attuale territorio di Israele all'epoca era un protettorato britannico, aveva rimandato 1'autorizzazione a formarla. Gli ebrei volevano combattere già da tempo, consapevoli di quello che stava accadendo ai loro amici e parenti in Europa. Oggi, però, si confondono le acque».
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In che senso?
«Dovremmo parlare solo del 25 Aprile e del contributo della Brigata Ebraica alla Liberazione, invece si va sempre a parlare di Israele, uno Stato da condannare sempre e comunque. Ignoranza, lo ripeto. Ma anche una vena di antisemitismo».
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Oltretutto bisognerebbe ricordare da che parte stavano, allora, gli antenati dei Palestinesi di oggi.
«Il Gran Muftì di Gerusalemme non era certo amico degliAlleati, ma di Hitler e Mussolini. E si adoperò per mettere insieme un battaglione di Ss bosniache musulmane che si dimostrarono ferocissime nella persecuzione degli ebrei dell'Est Europa. La vicinanza del mondo arabo per il nazismo, inoltre, non finiva lì. Basti pensare alle "camicie Verdi", che nacquero in Egitto sulla scia della "camicie brune" »,
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Si può dire che gli antagonisti sono i nuovi fascisti?
«Sì, è un paragone molto calzante. Due estremismi che si ricompattano quando viene tirato in ballo Israele».
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Se le celebrazioni diventano «a due scomparti», con i privilegiati e gli esclusi, ha ancora senso festeggiare il 25 Aprile?
«Celebrare il 25 Aprile è sempre una cosa molto importante. Però non trovo giusto farlo in questo modo, con richiami ad altre questioni che non c'entrano niente. Dobbiamo riportare le cose sul giusto binario. Bisogna ricordare il contributo di tutti, ascoltare tutte le testimonianze, per capire come sono andate veramente le cose. La Liberazione è davvero un patrimonio di tutti gli italiani. Ma se si continua sulla strada delle strumentalizzazioni, sempre più persone si allontaneranno dal valore di tutto questo».
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Quale potrebbe essere il punto di partenza?
«È un percorso graduale. Ma credo che utile alla causa potrebbero essere le scuse ufficiali dello Stato italiano per le leggi razziali del '38, a causa delle quali i cittadini italiani ebrei furono prima esclusi da tutto e poi perseguitati».
(Il Tempo, 27 aprile 2015)
Israele ricorda la Liberazione con l'omaggio a Enzo Sereni
di Maurizio Molinari
Enzo Sereni
Israele rende omaggio al 70o anniversario della liberazione dell'Italia con una cerimonia in ricordo di Enzo Sereni, il partigiano antinazista della «Brigata Ebraica» che venne fucilato a Dachau. Nella cornice della «Sala dell'Indipendenza» di Tel Aviv, dove David Ben Gurion proclamò nel 1948 la nascita di Israele, si sono alternati rappresentanti dei due Paesi nell'indicare in Sereni «il punto di contatto fra lotta per la liberazione dell'Italia e per la nascita di Israele» come ha affermato Tsachi Hanegbi, viceministro degli Esteri israeliano, indicando nell'«Italia di Matteo Renzi un erede di quelle battaglie per la libertà perché oggi è un Paese leader in Europa contro il razzismo e la xenofobia».
Per il nostro governo era presente Lapo Pistelli, viceministro degli Esteri, secondo cui la parabola dell'antifascista Enzo Sereni che lasciò l'Italia nel 1927 per partecipare al sionismo e poi essere ucciso dai nazisti, riassume una vita tesa a «liberare l'Italia sognando Israele» incarnando una «lotta a tutti i totalitarismi» che lo portò a entrare nella Brigata Ebraica. «A Milano un gruppuscolo di 70 persone ha contestato la Brigata Ebraica - ha aggiunto Pistelli - e sono stati i militanti del partito democratico a difenderli e fare da scudo» dimostrando il «rigetto di un inaccettabile atto di intolleranza». Nell'evento, organizzato dall'ambasciata italiana a Tel Aviv, politica e storia si sono più volte sovrapposte.
Per l'ambasciatore Francesco Talò «Sereni evidenzia che Italia e Israele appartengono alla stessa famiglia di nazioni, democratiche e libere». Hilik Bar, segretario generale del partito laburista di Isaac Herzog, ha ricordato come «Enzo Sereni mise assieme un gruppo di parà determinati ad andare a salvare gli ebrei nell'Europa occupata, venne paracadutato in Toscana, catturato, torturato e deportato a Dachau» dimostrando di volersi battere «per l'Italia come per il popolo ebraico». Eithan Broshi, lo storico più noto del movimento dei kibbutzim, ha ricordato come «a Dachau Sereni dava coraggio agli altri deportati e vi fu chi rinunciò a suicidarsi quando seppe che un parà della Brigata ebraica era finito in lager pur di tentare di soccorrerli.
Paolo Mieli, presidente di RcsLibri, ha letto alcuni passaggi delle lettere che Enzo Sereni si scambiava con il fratello Emilio - rimasto in Italia e convinto militante comunista - descrivendo un rapporto famigliare di forti contrasti ideologici ma anche di valori comuni. I nipoti di Sereni, Alon Confino e Ada Sereni, hanno identificato nell'esempio di «zio Enzo» anche un messaggio per gli israeliani di oggi «in quando credeva profondamente nella pace con gli arabi e se fosse sopravvissuto alla guerra si sarebbe battuto per renderla possibile». A chiudere la cerimonia è stata la testimonianza di Asher Dishon, veterano della Brigata Ebraica, seguita dagli inni nazionali - Fratelli d'Italia e l'Hatikva - intonati in un'«Independence Hall» adornata con immagini originali del 25 aprile 1945 e della nascita dello Stato ebraico.
(La Stampa, 27 aprile 2015)
Oltremare - Enzo Sereni
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Con la sua costa verde smeraldo, "Il gioco dei Regni" di Clara Sereni (ed. Bur Rizzoli) spicca nella mia libreria molto piena di Sellerio, tutti piccoli e blu scuri. Non sono ancora molti i libri accumulati in questi anni, o anche se già in doppia fila mi paiono comunque pochi, io abituata a librerie fino al soffitto, in tutte le case di famiglia. Lui verdeggia, un po' sgualcito come è giusto che sia, e lo conservo come un piccolo trofeo o una madeleine della parola scritta.
I Sereni non erano di famiglia. Beh, si fa presto a dire, con certi alberi genealogici intrecciati gli uni con gli altri fino a raggiungere tutt'Italia in un rampicare di generazioni con mille diversi cognomi. Diciamo che non mi risultano parenti Sereni, eppure Enzo Sereni era un nome che si pronunciava in casa con quel tipico affetto e rammarico insieme riservato a chi è morto troppo giovane - non l'unico, purtroppo.
E poi è il protagonista di una delle storielle che mio zio ama raccontare dei suoi anni israeliani, per spiegare il pragmatismo della nuova terra: erano in viaggio da Tel Aviv a Givat Brenner e ad un cambio di autobus il guidatore non si decideva a partire.
Enzo Sereni andò a chiedere la ragione e apparentemente non era arrivato il bigliettaio. Per tutta risposta lui si improvvisò bigliettaio, facendo pagare tutti i viaggiatori e sbloccando così l'autobus.
Ah, l'Israele dei fondatori, un luogo meraviglioso di iniziativa individuale, logica inattaccabile e orizzonte florido.
Certo poi c'erano anche l'idealismo, il dibattito continuato via lettere con il fratello Emilio che non fece l'aliyah e si arroccò nel comunismo puro e fedele alla dottrina di partito, e soprattutto l'esser pronti al sacrificio estremo. Di questo si è parlato molto, domenica sera alla Independence Hall, nella serata di celebrazione del 25 aprile dedicata a Enzo Sereni. Anche della Brigata Ebraica si è parlato molto. Fra i presenti c'era chi ha vissuto la Liberazione per mano proprio della Brigata Ebraica. Un distillato di storia viva, questo paese.
l gigante cinese Alibaba e Baidu investono in Israele
La notizia è passata quasi inosservata anche se la redazione di siliconwadi.it lo aveva già accennato tramite un post sulla Pagina Facebook: lunedì 20 aprile Israele ha firmato un accordo di cooperazione, senza precedenti in materia di Ricerca e Sviluppo, con Taiwan.
Nel mese di gennaio, Alibaba aveva già investito 5 milioni di dollari nella società Visualead, specializzata nella creazione di QR code. Alla fine di marzo, il gruppo ha formato una partnership strategica con il fondo di investimento Jerusalem Ventires Partners (JVP) per un importo stimato di decine di milioni di dollari.
Inoltre Alibaba ha inviato una numerosa delegazione per esplorare la Silicon Wadi. Un altro grande nome del panorama tecnologico cinese è il motore di ricerca Baidu. La scorsa settimana il gigante del web ha annunciato un investimento azionario in Tonara, una piattaforma per l'educazione musicale, per un totale di circa 5 milioni di dollari.
Anche l'India guarda verso Israele
Di fatto, questo tipo di investimenti non deve stupire perché il potenziale di cooperazione con la tecnologia israeliana è noto agli esperti di settore. L'ultimo esempio è l'annuncio di qualche giorno fa di una partnership tra la società indiana Tech Mahindra e la società israeliana Comverse.
(SiliconWadi, 27 aprile 2015)
Gli insulti agli ebrei, uno strappo a sinistra
La sfilata del 25 Aprile. L' aggressione antisemita di Milano nasconde un meccanismo perverso: si nazifica Israele e si de-umanizza il popolo ebraico, Su questo punto politica e cultura devono aprire un dibattito.
di DonateIIa Di Cesare
A stento la Brigata ebraica ha ottenuto diritto di cittadinanza nel corteo del 25 Aprile a Milano. In altre città, per esempio a Roma. ha rinunciato a sfilare. Perché era sabato; ma non solo. Eppure, nel giorno della Liberazione, le bandiere con lo scudo di David dovrebbero essere accolte con gioia, sollievo, soddisfazione - e più di un rammarico, guardando al passato. Dovrebbero essere il cuore del corteo, non una componente al margine che occorre addirittura difendere contro offese e insulti.
In questi giorni c'è chi, per legittimame la presenza, ha ripercorso la storia della Brigata ebraica, impegnata in operazioni civili più che militari, e di quei profughi che, dopo esser stati scacciati, tornarono in Europa per liberarla. Come non pensare a Enzo Sereni, ricordato dal presidente della Repubblica? E che dire del filosofo Hans Jonas che, dopo aver messo da parte i libri, combattendo attraversò l'Italia, per entrare infine in Germania? Certo la Resistenza è stata italiana; ma il suo valore fu internazionale, il suo afflato internazionalista.
Non si tratta, dunque, di una guerra di bandiere. E la questione è ben più complessa. Forse è venuto il momento di dire che quel che è accaduto al corteo del 25 Aprile, e che si era purtroppo già ripetuto negli ultimi anni, costituisce uno strappo nella sinistra, e più in generale nel mondo della politica e della cultura. Proprio perciò non si può consegnare l'episodio alla cronaca ed è invece necessaria una discussione, anche aspra.
Le bandiere con lo scudo di David non sono solo il simbolo della Brigata ebraica. Rappresentano anche il riscatto di un popolo contro cui la Germania nazista e l'Italia fascista hanno sferrato una guerra non dichiarata, una guerra che ha avuto il suo esito finale nelle camere a gas dei campi di sterminio. Ma agli occhi di molti quelle bandiere sono anche l'emblema dello Stato di Israele.
Ecco allora il perverso meccanismo che si instaura: la vittima ingombrante del passato diventa il comodo carnefice dell'oggi. Si nazifica Israele, per giudaizzare i palestinesi. Chi ritiene illegittimo Israele, e intende pregiudicarne l'esistenza, ritiene illegittime anche le bandiere della Brigata ebraica. Più grave degli insulti, che non di rado sconfinano in minacce violente, è l'accusa di immoralità. Gli ebrei sono tacciati di essere immorali, anzi disumani. Si pretende di espellerli non solo dal corteo, ma dal consorzio umano. Subumani prima, nell'Europa di Auschwitz, diventano ora disumani - in entrambi i casi vengono de-umanizzati.
Mentre viene avallata una banalizzazione manichea del conflitto mediorientale, dove il bene sta solo da una parte, il male solo dall'altra, l'indignazione prevale, i toni si accendono. Le invettive contro Israele si riversano su ebrei italiani, cittadini europei, che diventano bersaglio di un conflitto anzitutto mediatico il cui scopo è distruggere il prestigio morale degli ebrei, lederne l'immagine. Non sembra infatti che questa nuova, antica inimicizia, questo rinnovato odio abbia altro risultato. Perché è dubbio che i «filo-palestinesi» amino davvero il popolo palestinese e contribuiscano alla ricerca della pace.
Si è parlato di «tensioni» tra gruppi opposti durante il corteo. Ma sarebbe opportuno dire che si è trattato di una aggressione antisemita a nome di un non meglio precisato concetto di democrazia e di vaghi ideali universali, quegli stessi che nel passato recente hanno fatto apparire l'ebraismo un particolare da superare.
Alle manifestazioni antifasciste del Dopoguerra dove, con un'intatta fede nel progresso, si celebrava la Liberazione, gli ebrei sopravvissuti sfilavano accanto agli ex combattenti, cercando di sentirsi di nuovo cittadini, malgrado la ferita delle leggi razziste, le discriminazioni, lo sterminio. In fondo quel posto lo cercano ancora. E forse non potranno trovarlo finché resterà immutata la vecchia impalcatura di un progressismo astratto, di un integralismo ugualitario, che rischia ogni volta di essere chiuso, dogmatico.
Che sia questo il compito del popolo ebraico, di portare la differenza, di impedire la chiusura totalizzante? Che il caso della Brigata ebraica non possa aprire a sinistra - ma non solo - un dibattito su un rinnovamento effettivo?
(Corriere della Sera, 27 aprile 2015)
Chiude 'Tamar', il caffè cult di Tel Aviv
Luogo storico della sinistra israeliana. Battaglia per salvarlo.
Ai suoi tavolini - per lo più di formica - si è seduta gran parte della politica e dell'intelligentzia israeliana di sinistra: un luogo cult a poca distanza da quella che era la sede del 'Davar', il mitico giornale dei 'Lavoratori di Eretz Israel'. Tra poco più di un mese però 'Tamar' - caffè all'angolo tra via 'Shenkin' e via 'Ahad Ha'am' nel cuore della città, ad un passo dallo storico 'Boulevard Rotschild' - chiuderà i battenti. Al suo posto - si dice - potrebbe essere costruito un palazzo. Se così sarà, scomparirà uno dei posti che hanno fatto la storia di Israele. E non tanto per quello che era servito quanto per chi intorno a quei tavolini si è seduto. A cominciare da Yitzhak Rabin, l'uomo della pace ucciso da un estremista ebreo nel novembre del 1995, il cui viso, riprodotto su quadri, foto, volantini, riempie ancora oggi le pareti interne del locale e le vetrine.
Ma Rabin non è stato l'unico a frequentare il caffè. Dalla sua nascita nel 1941 - in piena guerra e in pieno mandato britannico, con Rommel alle porte intenzionato a ghermire la Palestina se avesse sconfitto gli inglesi ad El Alamein - schiere di politici, intellettuali, artisti, giornalisti, poeti, romanzieri, giornalisti, attori, hanno litigato, fatto la pace e poi di nuovo litigato, sulle sedie di questa sorta di Cafè de Flore parigino trapiantato a Tel Aviv. Dietro il bancone, alle prese con sandwich e dolci, la fondatrice e imperatrice del posto: Sara Stern. Dall'esistenza più 'grande di una vita' - come è stata definita - Sara, oggi novantenne, è un'istituzione della città: per i suoi 85 anni il sindaco Ron Huldai (centrosinistra), un fan del posto, le organizzò una festa in Comune. Ancora oggi, da dietro la cassa o ai tavolini, governa l'andirivieni con fermezza e organizzazione da kibbutz: spesso la si vede prendere un caffè seduta nel dehors del locale mentre intorno a lei capannelli di avventori discutono. "Da 'Tamar' - racconta oggi una signora israeliana di mezza età con casa in Toscana - si parla di tutto: di politica, di arte, di cinema, di vita di ogni giorno e anche, perchè no, di qualche pettegolezzo. Senza 'Tamar' - ammette sconsolata - non sarà più la stessa cosa. Per questo speriamo che alla fine si trovi una soluzione. Non ci rassegniamo".
Ma, a sentire la proprietà del caffè, la sorte appare segnata. ''Ci lascia uno degli ultimi posti dove la gente - ha scritto oggi su Haaretz, Gideon Levi - ancora parla l'un con l'altra, invece di scrivere sul cellulare''. Suona quindi un po' paradossale - ha aggiunto - che per gli addicted di 'Tamar', in attesa di trovare un altro posto, sia stata creata una nuova chat su Whatsapp intitolata 'I profughi di Tamar'. Il loro grido di battaglia, nel tentativo di scongiurare la chiusura del posto, rivendica il 'diritto di stare seduti': perchè da 'Tamar' - ricorda la signora israeliana - ''nessuno è mai stato cacciato via per essere rimasto l'intera giornata a leggere un libro o a parlare con il suo vicino di tavolo. Non è come altrove''.
Nella Shenkin piena di negozi alla moda, regno dello shopping telavivino, 'Tamar' è un salto all'indietro nel tempo. A cominciare dall'insegna (una palma e la data del 1941) per passare ai tavoli, alle sedie, al bancone (tutti spartani), alle decine di quadri appesi alle pareti, all'atmosfera informale come solo Tel Aviv può. Ma da 'Tamar' - insistono in molti - è passata la vita della città e di Israele.
(ANSA, 26 aprile 2015)
Tunisia: nei licei gli studenti inneggiano al nazismo e all'Isis
Striscioni giganti inneggianti a Hitler e drappi neri dell'Isis esposti nei licei tunisini durante le affollatissime feste per la Dekhla, tappa di avvicinamento alla maturità.
Come scrive il Messaggero, l'ondata di islamonazismo tra i giovani, su molti dei quali sembra far presa anche l'Isis, riporta Le Figaro, preoccupa le autorità tunisine che stanno faticosamente cercando di tenersi lontano dall'inferno dell'Nord Africa e del Medio Oriente con un assetto democratico e forti relazioni con l'Occidente. Questo nonostante l'attentato al museo del Bardo che ha drammaticamente riportato la Tunisia al centro della cronaca.
Testimonianze di questa riesumazione del Terzo Reich arrivano da un liceo di Jendoubam a nord est del paese, dove è stata esposta una bandiera tedesca e una gigantografia di Adolf Hitler. E sui social dilagano massime del dittatore, mentre nel liceo femminile de Kairouan è stata appesa la bandiera nera dell'Isis.
Allo stesso governatorato, Jendouba, ma in un'altra scuola, gli studenti hanno messo sul muro della struttura la bandiera nera della Sharia con le iscrizioni "Esercito di Dio" e "Gerusalemme eccoci qui". L'estremismo religioso non è l'unico che può ipnotizzare le fragili teste islamiche. Altre forme di estremismo avanzano.
Sul sito d'informazione Businessnews, ponte d'unione non solo con le economie occidentali, viene espressa grande preoccupazione per questa ondata di fanatismo tra le giovani generazioni.
Alcuni comunisti italiani, Boldrini in testa, fingono di essere impegnati nella lotta contro la scritta DUX.
Contemporaneamente, per reazione all'invasione di immigrati, in Germania nascono
villaggi neo-nazisti.
(ImolaOggi, 26 aprile 2015)
La Comunità ebraica di Roma e gli ebrei caduti a Piangipane
Il cimitero in provincia di Ravenna e la commemorazione della Brigata ebraica. Presenti delegazioni da tutta Italia.
di Paolo Brogi
Riccardo Pacifici nel cimitero di Piangipane
Folta delegazione della Comunità ebraica di Roma al cimitero di Piangipane in provincia di Ravenna, dove giacciono i caduti della Brigata Ebraica. «È stata una cerimonia molto bella - spiega il vicepresidente della Comunità Ebraica Giacomo Moscati che col presidente Riccardo Pacifici guidava la delegazione -. Da Roma siamo partiti in duecento, abbiamo incontrato rappresentanti di altre comunità accorsi come noi da Milano, Firenze, Bologna e Ferrara. Ad accoglierci il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci».
Dopo le contestazioni milanesi
Una risposta di slancio, dunque, dopo le brutte immagini registrate a Milano con gli insulti contro i rappresentanti della Brigata Ebraica da parte di un'esigua minoranza decisa a cancellare il tributo dato dai combattenti ebrei per la liberazione del nostro paese. A Piangipane sono accorsi anche anziani abitanti della zona che hanno raccontato poi del loro incontro, allora, con quei soldati inglesi che parlavano una strana lingua. «La bandiera originale della Brigata ebraica è esattamente la stessa adottata in seguito dallo Stato di Israele. Una bandiera tanto contestata che settanta anni fa simboleggiò per la Romagna la liberazione e la speranza», con queste parole, riferite dal portale degli ebrei italiani "Moked", Romano Rossi, presidente dell'Associazione Nazionale Reduci della Friuli ha aperto a mezzogiorno la giornata dedicata al ricordo dei caduti della Brigata ebraica nel cimitero di Piangipane.
«Si combatte anche per chi non è dalla nostra»
Il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci ha poi aggiunto: «Sono desolato per le contestazioni alla Brigata nei cortei di ieri a Milano e Cagliari. Voglio ricordare uno degli eroi della Resistenza ravennate Arrigo Boldrini che disse: noi abbiamo combattuto per chi c'era, per chi non c'era e anche per chi non era dalla nostra parte». Conclusioni da parte del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: «La Brigata ebraica - riferisce Moked - è la risposta a chi accusa il popolo ebraico di essere vittimista. E non dobbiamo dimenticare che anche gli ebrei italiani fecero la Resistenza: uno su tutti Marco Moscati, ucciso nell'eccidio delle Fosse Ardeatine». Presenti anche il vice presidente della comunità ebraica romana Giacomo Moscati, la vice presidente della Comunità ebraica di Bologna Deborah Romano Menasci e il consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Davide Menasci.
(Corriere della Sera - Roma, 26 aprile 2015)
«La storia degli ebrei italiani è una sfida ai pregiudizi»
Intervista a Riccardo Calimani.
di Cristiano Bendin
Riccardo Calimani
Quella degli ebrei italiani è una storia lunga 22 secoli, complessa e ancora poco conosciuta. Ed è anche la storia di una minoranza che, nonostante persecuzioni e discriminazioni, ha saputo conservare le proprie tradizioni e radicarsi nella cultura dell'Italia. A questa vera e propria epopea, Riccardo Calimani, ingegnere e filosofo, storico e scrittore, dal 2008 presidente della Fondazione Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) di Ferrara, ha dedicato tre corposi volumi, l'ultimo dei quali - Storia degli ebrei italiani nel XIX e XX secolo (Mondadori, 852 pagine, 35 euro) - è uscito in questi giorni, alla vigilia della sesta edizione della Festa del Libro ebraico che si svolge a nella città estense fino a martedì.
- Più di 800 pagine per raccontare due secoli soltanto...
«Ho dedicato molto spazio a questo periodo perché più vicino a noi. Ho avuto la fortuna di poter fare una sintesi di numerossimi studi precedenti. Io nano sulla testa di un gigante: ho avuto a disposizione molto materiale di più autori, ho potuto confrontare diverse tesi, e alla fine il disegno è venuto più complesso e completo grazie ai contributi di tutti».
- Colpisce la quantità e la qualità di italiani ebrei che hanno contribuito alla nascita dello stato unitario, alla cultura e all'economia ma anche all'affermazione del fascismo. Perché?
«Purtroppo gli ebrei italiani si sono rivelati in molti casi più italiani degli italiani, nelle virtù ma anche nei vizi. E uno dei vizi italiani ed ebraici, nei decenni passati, è stato l'opportunismo».
- Ieri lei ha inaugurato a Ferrara la Festa del Libro ebraico in Italia. Ebraismo, Libro, letteratura: un rapporto inscindibile.
«L'ebraismo è frutto della cultura del Libro, cioè delle Bibbia, e quindi per il mondo ebraico narrare, conoscere e studiare sono verbi adoperati sempre con attenzione, efficacia e grande continuità nei secoli. Del resto, la cultura del Libro è nata prima dell'arte della stampa».
- Qual è il significato di questa festa nel contesto attuale?
«La minoranza ebraica in Italia è esigua ma come tutte le minoranze è sovraesposta. Ecco, i libri sono strumenti essenziali per riflettere, capire, conoscere e creare i fondamenti di un'umanità più matura e capace di aiutare gli altri in difficoltà. Auspico che dalla Festa esca un messaggio a favore di tutti i popoli indistintamente, sperando che si possano superare difficoltà e conflitti creati talvolta artifisiciosamente dai governi».
- Si riferisce anche ad Israele?
«In Medio Oriente ci sono guerre a prescindere da Israele, spesso usato come comodo capro espiatorio. E' necessario distinguere tra Stato di Israele, governo di Israele e popolo di Israele. Personalmente sono a favore dello Stato di Israele e di uno stato palestinese pacifico e vicino, non certo guidato da Hamas. Un governo può essere giudicato male o bene; quanto ai popoli, tutti sono innocenti e vogliono la pace: ogni padre vuole proteggere i propri figli».
- La preoccupa questo ritorno di antisemitismo in Europa?
«Certo. Ma l'antisemitismo non è una pianta metafisica, è nato in Europa alla fine del 1800 ma prima c'erano forme diverse e cangianti di anti-giudaismo. L'odio contro gli ebrei va inquadrato nell'ambito dell'odio verso il diverso e di vicende politico-culturali molto complesse».
- E in Italia?
«Oggi internet fa conoscere di più i sentimenti peggiori delle persone e quindi è molto difficile giudicare da una minoranza rancorosa quello che pensa la maggiorana silente. Credo che il nome Italia, che in ebraico vuol dire 'isola della rugiada divina', sia di buon asupicio. Naturalmente non dimentico i veleni che nel corso dei secoli sia una sconsiderata politica della Chiesa sia una recente, tragica e grottesca discriminazione cosiddetta razziale sono stati versati sul terreno».
- Tra i protagonisti della Festa di Ferrara c'e il rabbino Giuseppe Laras, uomo del dialogo...
«Certo e non è un caso. Il dialogo è essenziale per capire e superare i pregiudizi. Il Meis nasce, e spero possa svilupparsi, proprio per rendere forte il dialogo con tutte le aree culturali del Paese».
(La Nazione, 26 aprile 2015)
Alla "Capuana" di Avola l'Olocausto raccontato agli alunni
La testimonianza di Venanzio Gibellini.
di Anna Di Carlo
Venanzio Gibellini
Come parlare dell'Olocausto alle nuove generazioni, a chi è troppo giovane per aver vissuto l'orrore? E, soprattutto, come raccontarlo a dei bambini? Come far comprendere loro un universo in cui l'ordine è la follia e la realtà il regno dell'assurdo? Il III istituto comprensivo Luigi Capuana di Avola ha dato una risposta agli interrogativi sollevati attraverso un'iniziativa educativa promossa dalla professoressa Luciana Tiralongo, che ha coinvolto gli alunni delle ultime classi: la testimonianza di un sopravvissuto, Venanzio Gibellini (nella foto), e la proiezione del docu-film La libertà è come un fiore. "La Tradizione ebraica è caratterizzata dall'imperativo categorico zachor, ricorda. Ma per assicurare alla memoria storica un ruolo vitale, impedendo che essa si cristallizzi nella prospettiva storica, bisogna far sì che si innesti nel presente entrando a far parte della coscienza individuale, a partire da quella dei più piccoli- spiega la dirigente scolastica Domenica Nucifora, illustrando la finalità della proposta didattica. La testimonianza di Gibellini ha incantato l'uditorio. Arruolato nel '43 nella 23o fanteria Vercelli, disertore alla leva dopo l'8 settembre, viene arrestato il 4 luglio del '44 e trasferito nel lager di Dachau. Il suo sforzo umano nel ricordare, sofferto ma pacato, diviene espressione di quella coscienza che aiuta la collettività a comprendere e a porsi gli interrogativi giusti. Nel docu-film il regista Angelo D'Auria, rinunciando all'enfasi retorica e ai facili sentimentalismi, dà voce ai ricordi del Gibellini e a quelli altrettanto pregnanti di altri due deportati, Angelo Signorelli ed Angelo Ratti.
Ma quando i sopravvissuti non ci saranno più, chi potrà testimoniare il male assoluto e contrastare il tentativo dei negazionisti di sviare l'opinione comune dalla realtà degli eventi? Rivolgendosi ai giovani ascoltatori Gibellini li ha inviati a sottoscrivere il Patto della memoria, una sorta di contratto morale tra il deportato sopravvissuto e chi desidera impegnarsi a mantenere accesa tutti i giorni la luce della memoria della Shoah e di ogni sterminio: "Possa questa esperienza essere per voi come un passaggio di testimonio, un invito a mantenere viva, con il vostro impegno e il vostro senso di responsabilità, la memoria di ciò che avete ascoltato, a trasmetter fedelmente ai vostri figli, ai vostri nipoti, ai vostri amici questa terribile eredità di ricordi, per salvaguardare i valori di libertà, tolleranza e democrazia che non possono mai darsi per scontati". Una scelta coraggiosa quella dell'istituto Luigi Capuana, che non si limita a una commemorazione delle vittime della Shoah nel "Giorno della Memoria", istituito in Italia nel 2000 con l'approvazione all'unanimità della legge 211/2000 " Dobbiamo contrastare il tentativo di mistificazione della Shoah- afferma la dottoressa Nucifora- e creare le condizioni per un coinvolgimento intellettuale ed emotivo: gli studenti posti di fronte alla storia devono pensare "mi riguarda", devono essere raggiunti da quell'effetto di disorientamento e curiosità che Gramsci chiama colpo di spillo e che costituisce la premessa del pensiero critico. In questo modo sarà possibile ricostruire le condizioni dell'esperienza ed elaborare una memoria storica e un'identità condivise, premesse della libertà individuale e della cittadinanza attiva".
(Nuovo Sud, 26 aprile 2015)
Milano, ancora insultata la Brigata Ebraica
Centri sociali contro Israele. A Roma gli ebrei disertano il corteo. La solidarietà del premier Renzi: festa di tutti.
di Luca Liverani
Si ascolti che cosa dicono i filopalestinesi
in questo
video
ROMA - Una nota di amarezza nelle celebrazioni del 25 aprile. A rovinare la festa, a Milano, le contestazioni e gli insulti di esponenti filopalestinesi di estrema sinistra contro i rappresentanti della Brigata Ebraica. Che a Roma ha deciso direttamente di non partecipare, assieme all' Associazione degli ex deportati, proprio per evitare le stesse vergognose contestazioni dell'anno scorso. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi esprime la sua solidarietà: «Il 25 aprile è festa di tutti, festa di liberazione nel ricordo di chi ha combattuto per la nostra libertà e la democrazia, festa di unità e non di divisione e polemica».
E dire che a Milano i rappresentanti della Brigata ebraica avevano rinunciato alle bandiere israeliane: «Abbiamo deciso di toglierle dal corteo aveva spiegato il presidente dell' associazione Amici di Israele Eyal Mizrahi - per evitare di prestare il fianco a inutili pretesti e tensioni, anche se storicamente la Brigata Ebraica ha sempre sfilato anche con la bandiere di Israele. Quest' anno abbiamo stampato dei nuovi vessilli con il logo della Brigata Ebraica»: la bandiera a strisce verticali azzurra e bianca con la stella di David in giallo, simbolo originale della Brigata, formazione militare inquadrata nell' esercito britannico, istituita nel 1944 che operò in Emilia Romagna arruolando anche italiani.
Anche senza bandiere israeliane, esponenti dei centri sociali e alcuni palestinesi - una cinquantina - hanno urlato «assassini» e «fuori i sionisti dal corteo» in piazza San Babila al passaggio della Brigata ebraica, preceduta dai militanti del Pd guidati dal segretario cittadino Pietro Bussolati. Un cordone di polizia ha tenuto separate le parti. Molti manifestanti hanno replicato urlando «fascisti». «Con testare la presenza degli ebrei o della Brigata Ebraica è davvero senza senso, è una mancanza di cultura storica», commenta amareggiato il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), Renzo Gattegna. «Bisognerebbe ricordare il ruolo degli ebrei durante la Liberazione. Questi scontri rovinano quell'atmosfera di festa che unisce tutte le forze democratiche ed antifasciste». A Roma dunque il rischio di contestazioni, verificate si l'anno scorso, ha privato la manifestazione di Roma della partecipazione degli ebrei, le quali avevano chiesto - inascoltate - che non fossero ammesse in piazzale bandiere palestinesi. «Purtroppo la Brigata ebraica e l'Aned si sono autoescluse, noi li avevano invitati», ha detto il presidente dell'Anpi di Roma Ernesto Nassi. «Assenza triste», commenta Lucio Malan di Fi, che ricorda come «il Gran Muftì di Gerusalemme, zio di Arafat, reclutò una legione islarnica di SS e altri si arruolarono nella Wehrmacht sulla base di una sua dichiarazione che auspicava per gli ebrei di Palestina una "soluzione finale"». La celebrazione di Roma è stata dedicata a Massimo Rendina, il "comandante Max", partigiano cattolico, e all' ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, anch'egli partigiano, entrambi scomparsi di recente.
(Avvenire, 26 aprile 2015)
Gemelli dalla parte giusta
di Daria Gorodisky
Domanda numero 1: ci sono stati «palestinesi» che nella Seconda guerra mondiale hanno combattuto dal 1940 con gli Alleati e che hanno contribuito alla Liberazione? Sì: gli oltre 30 mila ebrei (il 10% donne) volontari nel Palestine Regiment dell'Armata britannica. E, dal settembre del 1944, anche i circa 5 mila della Brigata Ebraica attivamente impegnati a sconfiggere i nazisti soprattutto sul territorio italiano. Entrambi i gruppi avevano emblemi e mostrine con stella di David fra due strisce azzurre, i simboli che poi hanno composto la bandiera di Israele.
Domanda numero 2: ci sono stati «palestinesi» che nello stesso periodo hanno preso le armi a fianco di Hitler? Sì: quelli che, su impulso del gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, hanno fatto parte della tedesca Legion Freies Arabien . Dunque: che sconsiderati e antistorici i dubbi, gli insulti, i divieti, per la presenza dei simboli ebraici alle celebrazioni del 25 aprile.
In attesa di una festa più consapevole il prossimo anno, si possono consultare diversi bei libri sul ruolo degli ebrei della Palestina mandataria durante conflitto e Liberazione, dal classico La Brigata, di Howard Blum (il Saggiatore). Ma è appena uscito Due della Brigata, di Miriam Rebhun (Salomone Belforte editore). L'autrice, napoletana, racconta la storia di suo padre e suo zio, i gemelli tedeschi Heinz, «serio, riflessivo», e Gughy, «temerario, dongiovanni». Uguali e diversi, ma «comunque indivisibili, complementari», uniti anche nella scelta di partire in guerra. Lei non li ha potuti conoscere: ha due anni quando il papà è ucciso dalla pallottola di un arabo sull'autobus Haifa-Tel Aviv; e quattro mesi dopo lo zio è colpito a morte dagli arabi nella celebre battaglia di Latrun.
Così la scrittrice ricostruisce fatti e persone attraverso i ricordi di sua madre Luciana, le cento lettere che papà Heinz scriveva a quella giovane moglie, e le 120 fotografie rimaste. Dice Miriam Rebhun: «Ho voluto descrivere come questi due fratelli, fra i tanti, hanno vissuto fra il '36 e il '48, dal Terzo Reich alla nascita di Israele. Il loro destino doppio e parallelo. E ho voluto ridare dignità a chi si è buttato di propria iniziativa in una guerra contro i nazisti e per il bene di tutti». Da tenere a mente.
(Corriere della Sera, 26 aprile 2015)
25 aprile - Associazione pro Israele: "A Cagliari aggressioni e insulti dai filopalestinesi"
CAGLIARI - "La manifestazione del 25 aprile a Cagliari è stata turbata da ripetuti insulti da parte di manifestanti filopalestinesi nei riguardi di chi manifestava mostrando la bandiera della Brigata ebraica che partecipò alla Liberazione con un rilevante contributo di caduti e dispersi". Lo afferma Mario Carboni, presidente dell'Associazione Sardos Pro Israele - Chenàbura (Sardi con Israele- Venerdì).
"Davanti al palco - racconta Carboni all'Adnkronos - c'è stata un'aggressione fisica col tentativo di strappare dalle mani di un manifestante la bandiera della Brigata ebraica. Solo la calma è il civismo di chi legittimamente intendeva ricordare la Brigata ebraica ha evitato fatti più gravi. Da registrare che mentre è stato impedita la presenza sul palco della Bandiera della brigata ebraica era presente quella della Palestina in mano a una bambina che esponeva un cartello di propaganda filo palestinese".
L'Associazione Chenàbura "intende protestare contro questi abusi, violenze verbali e fisiche e contro una vera profanazione della giornata del 25 aprile che mette in luce un risorgente antisemitismo", conclude Carboni.
(Adnkronos, 25 aprile 2015)
25 aprile - Gattegna: chi contesta non conosce la storia
«Contestare la presenza degli ebrei o della Brigata Ebraica è davvero senza senso, è una mancanza di cultura storica». È amareggiato il presidente dell'Ucei (l'Unione delle Comunità ebraiche italiane), Renzo Gattegna, nel commentare quanto accaduto oggi pomeriggio a Milano, dove attivisti filo-palestinesi hanno insultato la Brigata Ebraica durante il corteo per il 70/mo anniversario del 25 aprile. «Purtroppo sono episodi che accadono ormai ogni anno - dice Gattegna -, bisognerebbe prevenirli piuttosto che evitarli. Mi auguro arrivi la condanna da parte di tutte le persone democratiche, abituate a discutere con gli avversari anche in maniera molto partecipata senza, però, arrivare a mancare di rispetto a chi partecipa a pieno titolo a manifestazioni come queste». Il presidente Ucei ribadisce il ruolo avuto dagli ebrei durante la Liberazione. «Nonostante la persecuzione e le deportazioni, hanno sempre combattuto contro il nazifascismo - sottolinea -, esponendosi anche a rischi maggiori di altri. Il loro è stato un contributo significativo, sia come civili - durante l'impegno da partigiani - che come militari. Oggi per gli ebrei si celebra una doppia Liberazione, quella dal nazifascismo e quella dalla Shoah. Chi contesta questo, contesta la storia. Proprio su questo ci sarebbe bisogno di maggiore informazione, bisognerebbe ricordare a tutti qualcosa in più sul ruolo degli ebrei durante la Liberazione». «Gli scontri, come quelli di oggi - conclude il presidente Ucei -, rovinano quell'atmosfera di festa che dovrebbe contraddistinguere questa giornata. Una festa che unisce tutte le forze democratiche ed antifasciste. Un ricorrenza di tutti e di tutte».
(Online News, 25 aprile 2015)
I colpevoli sono i terroristi, non i droni
Occhio. Il nemico dei cooperanti uccisi non erano i droni di Obama, ma l'islamismo che li usava come scudi umani. E' la logica di Beslan e della guerra asimmetrica a Israele. Moralismo arcobaleno no grazie.
di Giulio Meotti
E' colpa di Obama, titolano tutti i giornali, mentre il presidente, che è commander in chief, chiede giustamente scusa alle famiglie di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Il giorno dopo l'annuncio della Casa Bianca sull'uccisione dei cooperanti in Pakistan si è già persa la responsabilità ultima per la perdita di quelle due vite. La responsabilità dei terroristi.
Lo Porto e Weinstein non sono stati uccisi dall'occidente e dai suoi aerei senza pilota. Sono morti perché i jihadisti li usavano come scudi umani. E' come nelle cicliche guerre fra Israele e i terroristi palestinesi, che si snodano fra la compassione per il dolore della popolazione investita dal fuoco e la concreta questione della sicurezza esistenziale della sola democrazia in medioriente sotto attacco. Anche lì si perde sempre di vista il disprezzo della vita da parte di Hamas, anche del proprio popolo, anche dei bambini usati come human shield in una oscena strumentalizzazione delle loro vite. E' la logica di Beslan. E' la differenza fra civiltà occidentale e islam, che consiste proprio nel valore attribuito alla vita umana, che nella nostra cultura è alla base di tutto (o quasi) e in quella islamica militante rappresenta un bene di servizio per la grandezza del Supremo. E questa differenza mancava ieri nel titolo cubitale di Avvenire, il giornale della Cei: "Il mondo dei giusti non è il mondo dei droni".
Baldoni, Quattrocchi, Frammartino, Arrigoni e gli altri cooperanti italiani uccisi erano finiti nelle mani del nemico. E il nemico non sono i droni, i marine, i carabinieri di Nassiriya, i cingolati israeliani. E' l'islam politico in armi. Invece il moralismo arcobaleno, con la sua ferocia inumana, ha saputo persino distinguere tra "il mercenario" che doveva portare la mesata a casa, Fabrizio Quattrocchi, e l"'uomo di pace", il giornalista Enzo Baldoni. Distinzioni che sfuggono ai predoni islamici. E' la sindrome Yvonne Ridley, la giornalista britannica prigioniera dei talebani in Afghanistan, paese da cui uscì per trasformarsi in accusatrice dell'occidente. Quando Angelo Frammartino, un ragazzo di Roma vicino a Rifondazione comunista e all'Arei che cantava "le fionde dei ragazzi palestinesi della prima intifada", venne accoltellato a morte a Gerusalemme, i giornali all'epoca non ebbero neppure il coraggio di dire perché era morto. Nessuno scrisse che il suo assassino pensava che Angelo fosse "un ebreo". Ed era sembrato che Salvatore Santoro, un contadino di Pomigliano che era andato in Iraq con la ong Charity for England and Wales, fosse rimasto vittima della "guerra", non che fosse stato ucciso dai terroristi a Ramadi. Lo stesso vale per Vittorio Arrigoni, che sognava di "fare da scudo umano per i pescatori palestinesi" e invece è finito scudo dell'islamismo che ha fatto di Gaza un carcere della sharia. La "resistenza irachena" per cui Giuliana Sgrena aveva parteggiato la costrinse in video, vessandola, a farsi megafono del ricatto terroristico. Accadde anche nell'assedio al teatro Dubrovka e la morale della storia non fu la presa di Mosca nel nome di Allah, ma la "strage di stato" (titolava l'Unità) e sembrò che cento e passa morti li fecero le teste di cuoio di Putin col gas e non i terroristi ceceni che li avevano presi in ostaggio.
Lo ha scritto ieri anche il Wall Street Journal: "Gli uomini responsabili della morte di Weinstein e Lo Porto sono i jihadisti che li hanno rapiti in Pakistan. Il modo per evitare simili tragedie è quello di uccidere i jihadisti prima che li rapiscano". Lo ha detto anche la moglie di Weinstein, Elaine: "La responsabilità ultima è di quelli che hanno tenuto prigioniero Warren più di tre anni. Sarebbe ancora vivo se gli avessero permesso di tornare a casa". Una frase che la stampa ha oscurato per privilegiare quella su Obama. Ma la tragedia e la virtù non ci interessano, la colpa e il peccato occupano tutto il nostro campo visivo. E la colpa è più facile addossarla a Tsahal o ai droni.
(Il Foglio, 25 aprile 2015)
Nuova base per i droni di Hezbollah
di Eugenio Roscini Vitali
Il movimento sciita libanese Hezbollah ha costruito una pista di atterraggio nel nord della Valle del Bekaa; dall'analisi delle immagini satellitari rilevabili da Google Maps si tratterebbe di una striscia in terreno battuto adatta al decollo e all'atterraggio di velivoli senza pilota (UAV). La pista, costruita tra il 27 febbraio 2013 e il 19 giugno 2014 su una superficie preparata preesitente, più corta e risalente al 2010, si trova a circa 18 km dal confine con la Siria, in una zona disabitata situata 10 km a sud di Hermel.
Dall'immagine, postata su internet da numerose testate internazionali, si desume che la striscia è lunga 670 m e larga 20 m e che il materia utilizzato per livellare la parte più a nord sarebbe stato ricavato da un cava distante non più di 400 metri.
Gli analisti hanno, inoltre, identificato un'antenna situata su una collina 430 m più a sud e sei piccole costruzioni, nessuna delle quali abbastanza grande per ospitare un UAV di dimensioni simili a quelle dell'Ababil-3 (nella foto sotto), drone iraniano in dotazione da diversi anni al movimento sciita. Ci sono, infine, due edifici più grandi costruiti 2.5 km più ad ovest, recintati ed accessibili attraverso un cancello custodito.
Come ipotizza la rivista specializzata IHS Jane's, la breve lunghezza della pista suggerisce che l'impianto non è destinato al contrabbando di armi con la Siria e con l'Iran, in quanto troppo corta per tutti i velivoli
da trasporto utilizzati da questi Paesi, incluso l'Antonov An-74T-200 in dotazione al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) che secondo il costruttore ha comunque bisogno di una pista di almeno 1.200 m.
E' quindi plausibile pensare che la pista sia stata adibita all'utilizzo dell'Ababil-3, drone impiegato da
Hezbollah nella regione del Qalamoun siriano, e al più recente Shahed-129, utilizzato dai miliziani sciiti contro l'ISIS nel settembre scorso.
Hezbollah opera con velivoli a controllo remoto dal 7 novembre 2004, giorno in cui eseguì una breve missione di ricognizione sulla Galilea occidentale e sulla città israeliana di Nahariya. Il tentativo venne poi ripetuto almeno tre volte durante la guerra del luglio-agosto 2006 e il 6 ottobre 2012, con un volo che ha sorvolato il deserto del Negev prima di essere abbattuto. Stessa sorte è toccata all'UAV usato dalle forze paramilitari del movimento sciita libanese il 25 aprile 2013, intercettato e distrutto nello spazio aereo nazionale dagli F-16 israeliani mentre volava in direzione sud a 7-8 km dalla costa a circa 6.000 piedi di quota.
(Analisi Difesa, 25 aprile 2015)
Nel segno del libro ebraico
Al via la sesta edizione del festival con la Notte Bianca e le «porte aperte» nel ghetto.
di Piero Di Domenico
FERRARA, 25 apr - Tra un premio che verrà consegnato al Nobel per la Letteratura Patrick Modiano e un omaggio all'indimenticato Gino Bartali, anche quest'anno sarà la «Notte Bianca Ebraica d'Italia» a inaugurare oggi a Ferrara la sesta edizione della Festa del Libro Ebraico organizzata dal Meis, il Museo nazionale dell'Ebraismo italiano e della Shoah.
La partenza è prevista alle 21 dal Chiostro di San Paolo e poi, sviluppando il tema «Omaggio alla libertà», si potranno visitare i luoghi del ghetto con approdo finale alla Fondazione Meis, dove si potrà visitare la mostra «Torah fonte di vita. La collezione del Museo della Comunità Ebraica di Ferrara», aperta eccezionalmente di sera. La cultura ebraica italiana nel centro storico di Ferrara sarà protagonista di un programma, su www.meisweb.it, denso di dibattiti, convegni, concerti, laboratori didattici, proiezioni, degustazioni, visite guidate e mostre. Anche se restano i volumi il cuore della Festa, ospitati nella grande libreria aperta al pubblico dalle 9.30 a mezzanotte tutti i giorni, con più di cinquemila testi di autori ebrei o su temi della tradizione ebraica, editi da oltre 150 case editrici, con la presenza di diversi libri davvero difficili da trovare altrove. La quarta edizione del «Premio di Cultura Ebraica Pardes», istituito per diffondere la conoscenza della cultura e della tradizione ebraiche in Italia e in Europa, domani sarà assegnato al settantenne scrittore francese Patrick Modiano, di origini italiane ed ebraiche, vincitore l'anno scorso del Nobel e autore di molti romanzi ambientati nella Parigi occupata dai nazisti.
Oltre a lui saranno premiati il quasi omonimo Samuel Modiano, uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz ancora in vita, autore del libro di memorie «Per questo ho vissuto», e la storica Anna Foa, figlia di Vittorio Foa.
Anche Gino Bartali verrà ricordato, sempre domani, alla presenza del figlio Andrea, per metterne in luce non tanto i successi da campionissimo del ciclismo, quanto l'impegno con cui, tra il 1943 e il 1944, «Ginettaccio» riuscì ad aiutare oltre 800 persone, trasportando documenti falsi nel tubo della propria bicicletta che sarebbero serviti a mettere in salvo ebrei perseguitati. Gli incontri nel cortile del Chiostro di San Paolo vedranno invece alternarsi autorevoli ebraisti e nomi della cultura e del giornalismo come Enrico Mentana e Pierluigi Battista, che approfondiranno il tema «Ebrei e fascismo: nuovi punti di vista».
Tutti i giorni alle 12,30 sarà anche possibile assaggiare un aperitivo a base di sapori ebraici, con il tema della dieta kasher che sarà affrontato criticamente da esperti come Laura Ravaioli, chef di Gambero Rosso Channel.
La Festa, segnala il vice sindaco di Ferrara, Massimo Maisto, «è anche una sorta di incubatore e trampolino di lancio del futuro Meis, il museo attualmente in costruzione che rappresenta al tempo stesso un onore e un'enorme responsabilità, in un momento storico in cui altre strutture museali nazionali altrove chiudono». Sullo stato dei lavori fa il punto Carla Di Francesco, Dirigente Generale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo: «Stiamo chiudendo il primo stralcio dei lavori propedeutici al Meis, con la demolizione delle vecchie carceri, ed entro maggio consegneremo il cantierone, ovvero il cantiere di recupero del corpo C, che ospiterà spazi espositivi permanenti, il centro di documentazione, la biblioteca e le aree per la didattica. Questo lotto è finanziato in tutte le sue parti, mentre i successivi ancora non lo sono, ma ci arriveremo».
Nel frattempo, durante la Festa, per tutta la giornata di domani sarà possibile visitare gratuitamente il cantiere, in un percorso guidato e arricchito da rendering, immagini e prospettive. In questi giorni, infine, le anime della cultura ebraica troveranno anche modo di risuonare attraverso l'esecuzione di standard jazz e il live di Enrico Fink con Raiz, leader degli Almamegretta.
Per arrivare sino al concerto dell'orchestra e del coro giovanile «Turolla» di Ariano nel Polesine, composta da 140 elementi, che farà dialogare Mozart e Bach con alcuni brani della tradizione ebraica.
(Corriere di Bologna, 25 aprile 2015)
25 aprile - Gattegna (Ucei): "Partecipazione profonda degli ebrei italiani"
"È significativo rilevare come gli ebrei abbiano partecipato alla Liberazione in due vesti, quella di partigiani e quella di militari in divisa nelle file della Brigata ebraica. Chi nega questo fatto offende la memoria di chi cadde, la verità storica e la coscienza dell'Italia. E anche se vi sarà l'impossibilità di essere fisicamente in piazza, in quanto Shabbat, da parte degli ebrei italiani vi sarà partecipazione profonda e sentita alla ricorrenza". È quanto afferma il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna per le celebrazioni del 25 aprile . "Quando poterono - prosegue il presidente Ucei - gli ebrei si difesero e combatterono anche quando sapevano di andare verso una morte certa, in quanto come civili inermi si trovarono a lottare contro l'esercito più potente d'Europa. In Italia varie centinaia di civili ebrei si congiunsero con i gruppi di partigiani che avevano fissato le loro basi nelle zone montagnose e più inaccessibili delle Alpi e degli Appennini". Gattegna ricorda, inoltre, che "i partigiani ebrei furono oltre 500, un numero in proporzione non irrilevante, e di essi sette furono decorati con la medaglia d'oro per l'eroismo dimostrato". Da non dimenticare, per il presidente dell'Unione, anche i circa 5mila uomini della Brigata Ebraica, che si distinsero per le azioni compiute sul fronte emiliano-romagnolo nella primavera del 1945".
(SIR, 25 aprile 2015)
Raid d'Israele contro basi dell'esercito siriano
Distrutti alcuni depositi di missili che sarebbero stati destinati ad Hezbollah.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Con più raid aerei nella notte appena trascorsa l'aviazione israeliana ha attaccato almeno due basi dell'esercito siriano dove si trovavano depositi di missili destinati ad Hezbollah. Gli obiettivi sono stati le basi delle brigate strategiche siriane 65 e 155 nell'area di Qalamun al confini con il Libano e, secondo la tv Al Jazeera, sono stati distrutti "depositi di missili".
A ridosso del confine siriano, nei pressi di Hermes nella Valle della Bekaa, Hezbollah ha costruito fra il 2013 e 2014 - secondo quanto riporta "Haarez" - una pista per stoni che può essere adoperata anche per ricevere forniture balistiche. Solo pochi giorni fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva avvertito il presidente russo Vladimir Putin che le forze armate non avrebbero esitato a colpire "armi anche russe" se il regime di Assad o l'Iran avessero tentato di farle arrivare agli Hezbollah.
(La Stampa, 25 aprile 2015)
Di Segni ricordato a Tel Aviv nella Giornata israeliana di commemorazione dell'Olocausto
di Daniele Pallotta
L'edizione ebraica del libro "Mosè Di Segni, medico partigiano"
In occasione della Giornata israeliana di commemorazione dell'Olocausto e dell'eroismo, così è definita la giornata che viene tradizionalmente celebrata una settimana prima della festa dell'indipendenza, l'Ordine dei Medici di Israele ha organizzato, a Tel Aviv, un convegno in ricordo e in onore dei medici impegnati nell'assistenza delle vittime dell'Olocausto e dei combattenti.
Per rappresentare l'immagine del medico impegnato al fronte è stata scelta la figura di Mosè Di Segni, medico e partigiano che, in fuga da Roma, trovò rifugio, dopo la caduta del regime fascista del 1943, a Serripola di San Severino Marche. Arruolatosi nel "Battaglione Mario", il dottor Di Segni salvò molte vite umane non solo di settempedani impegnati nella Resistenza ma anche di civili. Nel 2011 il Comune ha concesso ai figli - il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il medico israeliano Elio, e la scrittrice Frida - la cittadinanza onoraria.
Durante la serata di Tel Aviv, accanto al ricordo dell'opera del dottor Di Segni, è stato messo in evidenza il contributo della città di San Severino Marche alla guerra di Liberazione e si è sottolineato che la formazione partigiana del "Battaglione Mario" fu una delle prime e delle più significative formazioni partigiane in Italia. Per una felice coincidenza quest'anno le date della commemorazione israeliana dell'Olocausto, della lotta contro il nazifascismo e la festa dell'Indipendenza, sono molto vicine al 25 Aprile.
In Israele è stata pubblicata un'edizione ebraica del libro "Mosé Di Segni, medico partigiano", pubblicazione realizzata, nella versione originale, dall'Anpi e dal Comune di San Severino Marche ed edita dalla Riserva Naturale Regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito, con il contributo della Comunità Montana. All'edizione ebraica, che segue fedelmente il testo italiano, è stata aggiunta una introduzione destinata a far conoscere e spiegare il significato della lotta partigiana nel Maceratese e il contributo della popolazione settempedana a questa lotta. Il libro rafforza la documentazione conservata nel Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto, dove si parla del ruolo di San Severino Marche nella lotta di Liberazione e nella protezione degli ebrei e di altri perseguitati.
(Vivere Camerino, 24 aprile 2015)
Gli ebrei marchigiani dicono no alle celebrazioni del 25 aprile
di Michele Pinto
Quando alle 10:30 del 25 aprile verrà deposta una corona di fiori al monumento di Anna Frank per la prima volta in 70 anni non ci sarà nessun rappresentante della Comunità Ebraica a presenziare.
È la conseguenza di una polemica montata un'anno fa con la protesta di alcuni filopalestinesi che a Roma durante le manifestazioni del 25 aprile 2014 hanno contestato e aggredito alcuni reduci della Brigata Ebraica. La Brigata Ebraica, arrualata nell'esercito britannico, contribuì a liberare l'Italia dai nazifascisti.
"Purtroppo a causa dei soliti idioti - dice Ettore Coen - quella che doveva essere una manifestazione che unisce si è trasformata in un momento di divisione. Sembra proprio che questa ricorrenza sia diventata patrimonio esclusivo di una certa parte politica che pretende di stabilire chi può o non può partecipare. Non ci stiamo ad essere insultati da chi durante la Seconda Guerra Mondiale era dalla parte dei nazisti, come Amin al-Husseini (zio di Yasser Arafat)"
"Siamo Indignati per quello che è successo - gli fa eco Manfredo Coen presidente della Comunità ebraica di Ancona e delle Marche - il 25 aprile è sabato, e noi ebrei italiani non parteciperemo. Ma domenica 26 aprile da tutta Italia ci receremo al cimitero militare alleato di Piangipane in provincia di Ravenna per rendere omaggio ai militari della Brigata Ebraica caduti per liberare l'Italia dall'occupazione nazifascista".
(Vivere Senigallia, 24 aprile 2015)
La storia dell'eroismo ebraico
Il diritto di liberare i propri fratelli e di combattere l'islamofascismo
Mario Avagliano
La storia poco conosciuta della Brigata Ebraica, raccontata da Mario Avagliano: un "manipolo di eroi" che, sfidando l'antisemitismo, la propaganda e l'odio si sono uniti per combattere il nazifascismo. La "bricha", l'aiuto concretO agli esuli e ai sopravvissuti alla Shoa e la fuga dei nazisti nei paesi arabi, dove erano e sono di casa. Tutto questo nell'intervista con il giornalista e storico.
- Come e perché nasce l'idea di costituire una Brigata Ebraica?
Già dopo l'invasione tedesca della Polonia, nel settembre del 1939 l'Agenzia Ebraica offrì l'appoggio della comunità ebraica di Erez Israel allo sforzo bellico degli Alleati e propose di dare vita, come già avvenuto durante la Grande Guerra, a una forza armata ebraica che partecipasse al conflitto contro l'odiato Hitler, che perseguitava da anni gli ebrei in Europa. Londra respinse a lungo la proposta, temendo da un lato la reazione degli arabi e dall'altro che questo significasse un lasciapassare al processo di costituzione di uno Stato ebraico. Ai volontari arabi ed ebrei fu consentito solo di entrare nelle varie unità dell'esercito inglese. Ma alla fine, dopo sei anni di negoziazione, la campagna ebraica per un esercito nazionale, alimentata da personaggi come Vladimir Jabotinsky, uno dei fondatori della Legione ebraica dell'esercito britannico durante la Grande Guerra, Chaim Weizmann, leader del Movimento Sionista, e Benzion Netanyahu, padre dell'attuale premier di Israele, e appoggiata anche oltreoceano, ad esempio da molte stelle di Hollywood e di Broadway, ebbe finalmente successo. Fu Winston Churchill, subentrato a Neville Chamberlain alla guida del governo, a dare il via libera nel settembre del 1944, d'accordo col Presidente americano Roosevelt, alla creazione della Brigata Ebraica, esprimendo il suo favore all'idea che gli ebrei potessero combattere "contro gli assassini dei loro connazionali in Europa".
- Quando la Brigata viene fatta arrivare a Taranto, per cominciare la risalita, gli italiani come hanno reagito a una presenza militare così ben identificabile? In fondo, non si sostiene la tesi che gli italiani fossero antisemiti? In realtà già a partire dall'agosto del 1943 piccole unità o compagnie di soldati ebrei parteciparono alla campagna d'Italia. Ad esempio ci fu una compagnia che sbarcò a Salerno e poi aiutò la popolazione napoletana e gli ebrei della città. E un'altra compagnia, arrivata a Taranto nel novembre del '43, realizzò finte strutture militari per ingannare i comandi tedeschi. Quanto alla Brigata Ebraica, era costituita da tre battaglioni, per un totale di circa 5.500 volontari ebrei provenienti dalla Palestina, allora sotto Mandato britannico, guidati dal generale Ernest Benjamin, ebreo di cittadinanza canadese. La Brigata si addestrò in Egitto, venne inquadrata nell'Ottava Armata e a novembre del 1944 fu destinata al fronte italiano, con un'insegna di battaglia particolare: una stella di David color oro su sfondo a strisce bianche e azzurre. La stessa bandiera che poi venne adottata dallo Stato di Israele. La notizia della costituzione di una unità combattente ebraica suscitò una reazione abbastanza stizzita da parte della propaganda tedesca e di quella della Repubblica di Salò. Le radio tedesche criticavano Churchill per aver permesso "ai giudei di avventarsi come cani idrofobi contro il popolo germanico", parlando addirittura di "sanguinaria brigata giudaica". Nel nostro Paese, però, dopo la caduta del fascismo gli italiani avevano aperto gli occhi. E in pianura padana i nostri soldati combatterono fianco a fianco con quelli della Brigata Ebraica contro nazisti e fascisti di Salò.
- La Brigata si è distinta in importanti azioni militari, come lo sfondamento della Linea Gotica nella Vallata del Senio, come mai la sua memoria si è così affievolita fino a scomparire? Il battesimo del fuoco della Brigata Ebraica avvenne in Romagna, con la partecipazione alle operazioni militari alleate per forzare il fronte del Senio, che le procurarono più di 40 vittime fra morti e dispersi, 150 feriti e 21 decorati al valore sul campo. Ai primi di marzo del 1945 la Brigata ebbe il compito di controllare il fronte a nord di Ravenna e poi il 27 marzo fu trasferita nel settore di Riolo dei Bagni, dove assieme al Gruppo di Combattimento Friuli del ricostituito esercito italiano liberò la cittadina termale. Non fu la sola città liberata dai soldati ebrei, che intervennero anche a Cuffiano, Riolo Terme, Ossano, Monte Ghebbio, La Serra, Imola.
- Ci sono anche lati oscuri della loro attività in Italia. Come la decisione di avviare un vero e proprio ufficio di aiuto per l'emigrazione ebraica a Milano, in via Cantù 5. Le forze italiane sapevano di questo esodo organizzato? Non parlerei di lati oscuri. L'attività delle compagnie militari ebraiche e poi della Brigata Ebraica di aiuto agli ebrei che intendevano recarsi in Israele era nota ed era svolta alla luce del sole. Proprio allo scopo di coordinare l'opera di soccorso ai profughi ebrei che stavano affluendo nell'Italia meridionale, venne costituito a Bari un "Centro profughi", poi trasferito a giugno del 1944 a Roma, a seguito della liberazione della capitale. Man mano che gli alleati risalivano la penisola, altri centri profughi furono istituiti in varie altre città, come Ancona, Ravenna, Firenze, Arezzo, Siena e nella primavera-estate del 1945 in varie città dell'Italia settentrionale, come Milano. L'obiettivo era quello di recuperare i sopravvissuti alla Shoah e addestrare in appositi centri di preparazione professionale chi era interessato a "salire" in Israele. Fu importante anche l'attività dei militari ebrei nell'opera di ricostruzione morale e materiale delle comunità ebraiche delle città liberate. Dopo la persecuzione fascista e la caccia all'uomo da parte dei nazisti e della polizia di Salò, per gli ebrei italiani l'incontro con soldati con il simbolo ebraico della stella di David, fu davvero emozionante. Nell'estate del 1945, infine, le unità della Brigata Ebraica presidiarono il confine con l'Austria, proprio per facilitare il transito dei sopravvissuti dell'Olocausto verso la Palestina. In seguito molti veterani della Brigata diventarono membri attivi nel "Bricha", il movimento clandestino che permise l'immigrazione di migliaia di profughi ebrei in Israele, e poi parteciparono alla guerra del 1948 che portò alla fondazione del nuovo Stato.
- Adesso, a Roma è esplosa la polemica per il rifiuto da parte dell'Aned e della Brigata Ebraica di partecipare alla manifestazione in Campidoglio accanto alle bandiere palestinesi. A loro avviso, erano alleati dei nazisti. Credo che il problema sia più generale. La manifestazione del 25 aprile riguarda un evento cruciale della nostra storia: la liberazione del nostro Paese dal nazismo e dal fascismo e il ritorno della libertà e della democrazia. L'unica bandiera che dovrebbe sventolare in piazza e nei cortei è quindi quella italiana, tutt'al più assieme a quella delle formazioni partigiane e di chi contribuì alla guerra di liberazione. Fatta questa premessa, a "rigor" di storia non c'è dubbio che, come per primo capì il compianto presidente dell'Anpi Massimo Rendina, la Brigata Ebraica è pienamente legittimata a partecipare alla celebrazione con i suoi vessilli, le bandiere palestinesi invece non c'entrano niente. Ci sono altre occasioni per manifestare la vicinanza o meno alla causa palestinese.
- Vogliamo dire qualche parola sulla "amicizia" palestinese durante la II Guerra Mondiale, da che parte stavano loro? Chi era il Gran Muftì di Gerusalemme e che relazione aveva con Adolf Hitler? Muhammad Amin al-Husaynì, che all'epoca era Gran Muftì di Gerusalemme, è stato uno dei principali leader nazionalisti arabi e forse il più feroce e determinato oppositore del progetto di nascita di uno Stato ebraico in Palestina, sostenendo al contrario la creazione di uno Stato islamico. Fu questo il motivo che lo spinse ad allearsi a doppio filo con la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini, collaborando con le forze dell'Asse durante la seconda guerra mondiale, con attività di propaganda e di sabotaggio e l'arruolamento di una divisione di militanti islamici bosniaci nelle formazioni delle SS, in funzione antiebraica. Amin al-Husaynì condivideva il progetto di Hitler dello sterminio finale degli ebrei e dal 1941 si trasferì a Berlino, dove rimase fino alla fine della guerra. Ormai la storiografia ha accertato, sulla base di una grande quantità di documenti e di carteggi, che il movimento di Amin al-Husaynì e i vertici del nazismo erano collegati e lavorarono di comune accordo contro la comunità israelitica internazionale e le democrazie occidentali.
- Perché l'islamismo si è legato a doppio filo con il nazismo? E come mai buona parte dei gerarchi scampati alle vendette sono scappati in paesi arabi a trazione Baathista. C'è un collegamento di fondo tra baathismo e nazismo? Sarebbe sbagliato generalizzare. L'Islam non è un monolite indistinto e ci sono anche componenti del mondo islamico moderate e democratiche. Inoltre molti gerarchi nazisti, oltre che nei paesi arabi, fuggirono anche in Usa (vedi il caso degli scienziati) e nell'America del Sud. Fatto sta, però, che il Mein Kampf di Adolf Hitler tra molti islamici è tuttora un best seller. Ed è anche vero che il baathismo siro-iracheno, fondato nel 1943 a Damasco, si ispirò al nazionalsocialismo.
- Solamente nel 1998 l'OLP ha tolto dalla sua carta fondativa gli articoli sulla distruzione dello Stato di Israele, ma non Hamas. C'è un fondo di verità storica nella decisione della Brigata ebraica di non voler sfilare accanto ai palestinesi? Questo è un discorso diverso. Lo ribadisco: la Brigata Ebraica partecipò alla guerra di liberazione ed è giusto che sia in piazza con i suoi vessilli il 25 aprile. Molti palestinesi e arabi, invece, in quegli anni oscuri, si schierarono dalla parte dei nazisti. Punto. Al di là del giudizio che si può avere su Hamas, e il mio è certamente negativo, riproporre la questione del Medio Oriente in funzione o in riferimento alla festa della liberazione, sarebbe un grave errore.
(Il Giornale dell'Umbria, 24 aprile 2015)
Che avranno in Israele da essere così felici?
È stato appena pubblicato il terzo World Happiness Report: la prima edizione risale al 2012, e da allora misura - per conto delle Nazioni Unite - la felicità e il benessere degli stati che aderiscono al progetto. Il sondaggio si avvale della collaborazione tecnica di Gallup e riguarda 156 nazioni di tutto il mondo. Per ciascuno di essi sono ponderate otto variabili...
(Il Borghesino, 25 aprile 2015)
Da "Il libro nero del califfato" di Carlo Panella
Ka'bah - La Mecca
Non rendersi conto che qualcuno ti fa la guerra per imporre la sua «civiltà» è un errore. Errore ancora più grande è non capire perché ti vuole annientare. L'Europa ha commesso questi errori nel 1939 e oggi li ripete. Allora, fino all'ultimo, fino al 1945, quando aprì i cancelli sull'orrore di Auschwitz, si rifiutò di prendere atto che l'essenza del nazismo non era solo la conquista dello «spazio vitale», ma la Shoah, l'annientamento nei lager degli Untermenschen, dei «sotto uomini» ebrei. Eliminata quella «zavorra» dell'umanità, la razza ariana avrebbe, finalmente, potuto edificare il mondo perfetto. L'Utopia hitleriana.
Oggi, l'Occidente commette lo stesso errore di fronte al «Califfo», al suo fedele John lo sgozzatore e ai fratelli Kouachi, loro alleati nel sangue. Non vuole prendere atto che John lo sgozzatore, con il suo inquietante e perfetto accento inglese, non è solo il boia degli ostaggi americani, inglesi e giapponesi. John lo sgozzatore è anche salito su un autobus, nel 2002, e ha maciullato con la dinamite 19 bambini ebrei che andavano a scuola nel quartiere Gilo di Gerusalemme. Sempre John lo sgozzatore, col machete, ha ucciso barbaramente, in Nigeria l'8 gennaio 2015, i 2000 abitanti di Baga, anche i musulmani. Ancora, John lo sgozzatore, il 30 gennaio scorso, è entrato nella moschea sciita di Shikarpur in Pakistan, si è messo in mezzo ai fedeli e quando tutti si sono inchinati a pregare si è fatto esplodere, massacrandone una cinquantina. L'Occidente rifiuta di comprendere che queste migliaia di «John» sono uomini di fede che applicano i precetti di un Islam scismatico. E non vuole farlo perché prenderne coscienza comporterebbe implicazioni terribili, che obbligherebbero a entrare nei misteri della fede - roba superata - e soprattutto a ripensare, qui e oggi, a Caino, alla pulsione di morte, alla religione della morte. Brutte, scomode scorie dell'animo umano. Per nulla politicamente corrette. Ma reali. Universali.
L'Occidente non capisce la minaccia jihadista e islamista, come non seppe comprendere quella hitleriana, perché non sa - non vuole - comprendere quanto sia carica di ideali, intrisa di fede. Ideali e
L'Occidente non capisce la minaccia jihadista e islamista, come non seppe comprendere quella hitleriana, perché non sa - non vuole - comprendere quanto sia carica di ideali. Ideali di fede orridi, sanguinari, atroci, ma tesi alla realizzazione dell'Utopia in terra.
fede orridi, sanguinari, atroci, ma tesi alla realizzazione dell'Utopia in terra. Alla costruzione della «città di Dio». Perché l'Apocalisse è alle porte, domani. Perché bisogna presentarsi al Giudizio Finale, subito. Un abisso separa la nostra totale dimenticanza, la stupita ironia, il nostro scherno nei confronti dell'Apocalisse, dalla loro certezza che è immanente e imminente. Questo baratro spiega perché non li capiamo, perché non afferriamo quello che per loro è ovvio: «Schiaccio il detonatore, mi uccido e uccido gli infedeli perché domani, proprio domani, tutti insieme, siamo chiamati al Giudizio Ultimo». John lo sgozzatore, alto, elegante e slanciato nella sua tuta nera che «stacca» perfettamente sullo schermo dalla tuta arancione della vittima sacrificale, decapita i suoi ostaggi, come Eichmann riempiva i suoi convogli verso Auschwitz. Perché è convinto che così fa un passo verso la conquista dell'Uomo Nuovo e - naturalmente - perché gli ordini, siano del Califfo o del Führer, non si discutono. L'Occidente pensa di potere uccidere John con i droni e di risolvere in tal modo la vicenda.
Ma sbaglia, perché John lo sgozzatore è il simbolo di un male dell'anima che penetra in profondità persino nelle nostre metropoli. John lo sgozzatore ci viene a trovare nelle nostre case da un nuovo lager costruito dentro la Rete, ci parla, ci minaccia ogni sera, ci mostra come l'uomo sgozza l'uomo, nero su arancione, guidato da una regia perfetta. Ci fa ripiombare in un rito antico, ancestrale, che fu nostro, dell'uomo, mille e mille anni fa: il sacrificio umano. John cala il suo coltello dentro la liturgia, i precetti, le citazioni dell'Islam, unica grande religione che ancora oggi sgozza centinaia di migliaia di montoni nella sua «Festa del sacrificio». Un Islam blasfemo, ci dicono gli ulema, ma ormai decine di migliaia di musulmani lo praticano. Centinaia di migliaia, forse milioni, lo ammirano. La forza di John, davanti alla umma, sta tutta nella convinzione utopica che vada ripercorso, qui, oggi, ogni gesto di un Profeta, che, unico, non fu solo destinatario della Rivelazione, ma fu anche condottiero e politico. Fondatore degli archetipi musulmani anche della guerra e della politica. E archetipo affascinante per i jihadisti è la strage di ebrei della Medina, ordinata da Maometto nel 627, dopo che aveva vinto la «battaglia del Fossato», contro gli «idolatri» della Mecca. Gli ebrei della tribù medinense dei banu Quraizah, infatti, non avevano partecipato al conflitto, ma Maometto li accusò comunque di aver congiurato con gli avversari. Si recò in armi nel loro quartiere, perché Gabriele gli disse: «Dio ti ordina di non deporre le armi prima di avere ragione dei banu Quraizah». Gli ebrei chiusero le porte delle loro fortezze. «Scimmie e maiali» li aggredì il Profeta «avete forse osservato la volontà di Dio?» Gli ebrei non si difesero, si arresero e si consegnarono alla misericordia del Profeta, chiedendo di essere esiliati, come già era stato per due altre tribù ebree. Non fu così: Maometto ordinò di sgozzare tutti i 600 maschi ebrei prigionieri.
Oggi John, che sogna il ritorno alle leggi della Medina del 627, utopistica «società perfetta», ripete quel rito dello sgozzamento dell'infedele. Ovviamente, invece, chi vive l'Islam come rivelazione e fede, «legge»
John lo sgozzatore spazza via con i suoi gesti duemila anni di cristianesimo, di umanesimo, di illuminismo. Frantuma l'età della ragione. E lo fa nel nome di Allah. Ci crede. E convince. E fa proseliti. Persino tante ragazze corrono dall'Europa per darsi a lui.
quell'episodio per quello che è: un fatto storico e crudele di guerra in tempi crudeli, ovunque, in Arabia come in Europa. Non certo un modello da imitare e riproporre. John lo sgozzatore spazza via con i suoi gesti duemila anni di cristianesimo, di umanesimo, di illuminismo. Frantuma l'età della ragione. E lo fa nel nome di Allah. Ci crede. E convince. E fa proseliti. Persino tante ragazze corrono dall'Europa per darsi a lui sessualmente e sgozzare l'infedele, il «sotto uomo», il prigioniero. Per provare quel rito di ebbrezza dionisiaca e di morte. Nel nome dell'Islam. Del loro Islam. Come Eichmann, come tutti i nazisti, John lo sgozzatore è un piccolo uomo. È banale. Era un rapper inglese. Forse un dentista. Ancora una volta si impone la forza straordinaria della banalità del male, gorgo opaco di vite meschine e assassine, che coinvolge tutto un popolo. E fino a quando non afferreremo il mistero della sua fede, il suo secolare spessore, la liturgia dei suoi gesti, fino a quando non capiremo come questo scisma sia nato dentro il corpo dell'Islam, semplicemente, perderemo.
(Libero, 23 aprile 2015)
Perché gli arabi detestano Hezbollah
di Khaled Abu Toameh (*)
Hassan Nasrallah
Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il pupillo dell'Iran e suo partner in Medio Oriente, sembra spingere il Libano verso un'altra catastrofe. Nel 2006, Nasrallah iniziò una guerra con Israele che causò gravi danni ai libanesi, dopo un agguato teso da Hezbollah in territorio israeliano in cui morirono tre soldati israeliani e altri due furono rapiti.
Ora, il popolo libanese sta per pagare un altro pesante tributo - questa volta a causa del coinvolgimento di Nasrallah nella guerra civile siriana e della sua ferma condanna dell'Arabia Saudita e degli altri paesi arabi coinvolti nel conflitto in Yemen. Durante un discorso pronunciato a Beirut lo scorso venerdì, Nasrallah ha condannato "l'aggressione" contro lo Yemen capeggiata dai sauditi. "È nostro dovere umano, jihadista e religioso assumere questa posizione e tutti i figli di questa nazione devono rivedere le loro responsabilità e prendere una posizione appropriata - ha detto - L'intimidazione o le minacce non ci impediranno di continuare a condannare l'aggressione contro lo Yemen. Il vero obiettivo della guerra è quello di ripristinare l'egemonia saudita-americana sullo Yemen".
Il reale motivo per cui Nasrallah si dichiara contrario agli attacchi aerei della coalizione guidata dall'Arabia Saudita nello Yemen è che egli è preoccupato per la sorte degli Houthi appoggiati dall'Iran, che cercano di assumere il controllo del paese arabo. In realtà, il leader sciita ha buone ragioni per essere preoccupato. Una sconfitta degli Houthi verrebbe vista come una sconfitta di Hezbollah e dell'Iran. Come principale fantoccio dell'Iran in Medio Oriente (insieme al siriano Bashar Assad), Nasrallah vuole che Teheran assuma il controllo della maggior parte dei paesi arabi. Il leader di Hezbollah sembra determinato a conseguire quest'obiettivo a tutti i costi. Non gli importa se il popolo libanese pagherà lo scotto della sua alleanza con l'Iran. I suoi attacchi contro l'Arabia Saudita e i suoi alleati hanno innescato forti timori che i cittadini libanesi che vivono nel Golfo Persico saranno i primi a pagare il pesante tributo. Questo è esattamente ciò che è accaduto ai palestinesi quando hanno appoggiato l'invasione del Kuwait del 1990 da parte di Saddam Hussein. Dopo la liberazione del Kuwait, l'emirato e gli altri Paesi del Golfo espulsero migliaia di palestinesi che risiedevano e lavoravano lì. Ora, grazie alle politiche e alle dichiarazioni pubbliche di Nasrallah, i libanesi che vivono nel Golfo Persico potrebbero subire la stessa sorte.
"Nasrallah dove desidera portare il Libano e i libanesi, con i suoi discorsi contro l'Arabia Saudita?", si è chiesto il leader druso libanese Walid Jumblatt. "Ha preso in considerazione le conseguenze delle sue parole sulla vita di circa 50mila libanesi che vivono in Arabia Saudita? I toni sciocchi di Nasrallah non giovano affatto". Jumblatt non è stato l'unico politico libanese ad esprimere preoccupazione per il discorso infuocato contro l'Arabia Saudita e i suoi alleati. Il ministro della Giustizia libanese, Ashraf Rifi, ha detto che Nasrallah dovrebbe "vergognarsi" degli attacchi lanciati contro Riad, "che sostiene le istituzioni statali del Libano e non versa denaro a nessuna parte o setta e non crea milizie". Rifi ha descritto Hezbollah come "un mero strumento" dell'Iran che "sacrifica se stesso e il suo popolo per il bene di un fallimentare progetto (iraniano). (...) Hezbollah sta trasformando il Libano in una sala operativa per diffondere l'egemonia iraniana". Il ministro degli Esteri libanese, Gebran Bassil, ha messo in guardia sul fatto che il suo Paese potrebbe precipitare nel caos se le forze politiche libanesi puntassero sulle potenze straniere rivali e coinvolgessero il Paese nei conflitti regionali. "Non abbiamo il diritto di puntare sulle potenze straniere e attirare conflitti che sono più grandi del Libano e che il Paese non riuscirebbe a gestire", ha detto Bassil. Riferendosi a Hezbollah, egli ha aggiunto: "Se un gruppo, un partito o una setta vuole ancora farlo dopo il fallimento di tutte le esperienze passate, noi sottoporremo il nostro popolo e il nostro Paese a una minaccia esistenziale". Quando il ministro degli Esteri libanese parla di "fallimento delle esperienze passate", egli si riferisce ovviamente alle guerre con Israele in cui Hezbollah ha trascinato il Libano. L'ex premier libanese Saad Hariri ha detto che il discorso di Nasrallah contro la coalizione guidata dai sauditi è stato "lamentoso e sconcertante". A suo dire, il leader sciita segue le orme del leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, mettendo "creatività nella falsificazione, nelle interpretazioni errate, nell'inganno, nella dimostrazione di forza e nella mobilitazione settaria". Nasrallah ha dichiarato di essere "pronto a salvare il regime [siriano] di Bashar al-Assad e il ruolo iraniano infiltrandosi nello Yemen e interferendo negli affari arabi". La presentatrice televisiva libanese, Hanadi Zaidan, ha accusato Nasrallah di operare a vantaggio dell'Iran e contro il Libano, suo Paese di origine. "Hezbollah e il suo segretario generale sono gli unici ad andare contro la corrente araba e libanese dichiarando la loro cieca lealtà agli uccelli iraniani delle tenebre", ha detto la Zaidan. "Il suo compito è quello di attuare il programma iraniano contro lo Stato libanese". Ella ha aggiunto che Nasrallah e i suoi "padroni iraniani" sono stati colti alla sprovvista dalla coalizione dei Paesi arabi nello Yemen.
A giudicare dalle reazioni dei sauditi e di altre voci del Golfo Persico, è evidente che Nasrallah è già riuscito a causare danni enormi e irreversibili alle relazioni del Libano con il mondo arabo musulmano a maggioranza sunnita. Questi commentatori le cui opinioni riflettono il pensiero dei governi, hanno usato parole molto dure per denunciare il leader sciita, definendolo "folle" e "ingrato". Il luogotenente generale Dahi Khalfan Tamim, vicepresidente della polizia e della sicurezza generale a Dubai, ha detto che Nasrallah è uno sciocco. "Un amico mi informa che Nasrallat [il soprannome che Tamim dà a Nasrallah] afferma che l'ingerenza iraniana nello Yemen è una fondazione di beneficienza... Che stupido!", ha chiosato Tamim. Tariq al-Hamid, editorialista di spicco e analista politico saudita, ha asserito che l'Iran e Hezbollah "sono andati in tilt" a causa degli attacchi aerei sferrati dalla coalizione guidata dai sauditi contro le milizie houthi appoggiate da Teheran, in Yemen. Al-Hamid ha sottolineato che l'Iran e Hezbollah si sentono ora frustrati a causa dei gravi colpi inferti ai loro alleati in Yemen. "Essi speravano che il controllo degli Houthi del paese avrebbe risollevato il morale dei loro sostenitori, già delusi a causa di ciò che sta accadendo in Siria", egli ha detto. "Tutti i folli della regione stanno ora prendendo di mira l'Arabia Saudita. Qual è la differenza tra Hezbollah e al-Qaeda? E qual è la differenza la differenza tra l'Iran e lo Stato islamico? La risposta è semplice, tutti cercano di insediarsi al confine con l'Arabia Saudita".
Rivolgendosi al leader di Hezbollah, un blogger saudita ha scritto: "Devi pagare il prezzo per i crimini che hai commesso contro il Libano nel 2006, quando hai distrutto il Libano con le tue azioni leggere. Tutto quello che volevi allora era radunare il maggior numero di arabi e musulmani dietro le tue mascalzonate". Un altro blogger ha scritto: "È giunto il momento che i Paesi arabi arrestino il terrorista Nasrallah e lo processino per la sua ingerenza negli affari dello Yemen e i crimini commessi contro la Siria, e per aver tradito il suo paese, il Libano". Nasrallah e il suo gruppo terroristico Hezbollah sono ora più isolati che mai nel mondo arabo. Fino a pochi anni fa, il segretario generale del movimento sciita era considerato "un eroe" del mondo arabo a causa della sua lotta contro Israele.
Adesso, però, molti arabi sembrano rendersi conto che Nasrallah non è nient'altro che un fantoccio iraniano il cui unico obiettivo è servire i suoi padroni di Teheran. Questa, naturalmente, è una buona notizia per gli arabi e i musulmani moderati della regione. Resta comunque da vedere se anche l'amministrazione americana e le altre potenze occidentali capiranno che l'Iran e i suoi emissari rappresentano una reale minaccia non solo per Israele, ma anche per molti arabi e musulmani.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 23 aprile 2015 - trad. Angelita La Spada)
A Ferrara, la VI edizione della Festa del Libro Ebraico
Appuntamento ormai tradizionale di primavera, a Ferrara torna, a partire da sabato 25 la Festa del Libro Ebraico.
Una manifestazione, che cade a pochi giorni dalla Giornata internazionale dedicata dall'Unesco al "libro" e al diritto d'autore e che sarà inaugurata sabato sera alle 21, all'interno del Chiostro di San Paolo. La Festa è organizzata dalla Fondazione MEIS (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah), con il supporto di Ferrara Fiere Congressi e il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell'Università degli Studi di Ferrara, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara,
Una libreria tematica di oltre 5000 volumni nel Chiostro di San Paolo, dove la sera del 25 aprile alle 21 si svolgerà l'inaugurazione con la V Notte Bianca Ebraica in Italia , che quest'anno vuole ricordare la libertà riconquistata 70 anni fa , e una mostra, come sempre all'interno del Meis, dal titolo Torah fonte di vita, dedicata al libro sacro degli Ebrei. Il Libro per antonomasia di una cultura che affida alla parola scritta il ruolo : Sono questi i due appuntamenti canonici dlla Festa del Libro ebraico, che accanto ad essi annovera anche quest'anno momenti di dibattito, convegni internazionali, concerti, laboratori didattici (anche per bambini), proiezioni cinematografiche, degustazioni e visite guidate sia alla città ebraica, dall'antico ghetto al cimitero ebraico, al Meis, Museo dell'Ebraismo italiano e della Shoa, alla cui realizzazione, la Festa, da quando è stata concepita sei anni fa, vuole essere il momento propedeutico, un'occasione per approfondire i contenuti di una cultura, certamente minoritaria, che, tuttavia, ha segnato e continua a segnare con la propria vitalità il panorama culturale italiano e internazionale.
Accanto alla Mostra e alla Libreria, la Notte bianca ebraica, una passeggiata nella Ferrara ebraica, con approdo finale alla Fondazione MEIS, dove sarà possibile visitare gratuitamente la mostra, che proseguirà fino al 31 Dicembre 2015, "Torah fonte di vita e la collezione del Museo della Comunità Ebraica di Ferrara", per un'eccezionale apertura notturna. Quest'anno fra i convegni più importanti quello dedicato a "Conversos, marrani e nuove comunità ebraiche nella prima età moderna", alla cui presentazione interverranno il Rabbino Capo di Venezia e l'ex Ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray.
Tra gli eventi clou della Festa, Domenica 26, il confronto su "Bartali il Giusto" e la quarta edizione del "Premio di Cultura Ebraica PARDES": assegnato, quest'anno, al Premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano, allo scrittore Samuel Modiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, e alla storica Anna Foa. Il programma della Festa è disponibile sul sito www.meisweb.it.
(Telestense.it, 24 aprile 2015)
Inglesi sempre più antisemiti, ma Amnesty non vuol sentirne parlare
Il Centro Wiesenthal attacca: "Ha perso la bussola morale".
di Giulio Meotti
ROMA. Il numero di incidenti antisemiti nel Regno Unito ha raggiunto il livello più alto mai registrato, con casi di violenza, danni a proprietà, abusi e minacce contro i membri della popolazione ebraica in Gran Bretagna più del doppio rispetto allo scorso anno. Questo ha rivelato un rapporto governativo, che Theresa May, il ministro degli Interni, ha descritto come "un monito per tutti a fare di più per fermare l'antisemitismo in Gran Bretagna", mentre Yvette Cooper, il ministro degli Interni ombra, ha detto che si tratta di uno scenario "spaventoso". Eric Pickles, il segretario della comunità ebraica, ha detto che "questi attacchi non sono solo contro gli ebrei britannici, ma contro tutti noi e i nostri valori condivisi". Ma per il mainstream umanitarista, l'antisemitismo non è una cause célebre. E' quanto emerge dal voto scandaloso con cui Amnesty International ha deciso di affossare un'indagine sull'antisemitismo nel Regno Unito.
Lo ha fatto con un voto palese, 468 a 461, durante una conferenza a Londra. La mozione era stata presentata da un dirigente di Amnesty, Andrew Thorpe-Apps, che ha commentato: "E' stata l'unica risoluzione sconfitta durante tutta la conferenza". L'addetto stampa di Amnesty, Neil Durkin, ha replicato: "Dopo un dibattito molto interessante dove tutti hanno condannato la discriminazione contro tutti i gruppi etnici e religiosi, i nostri membri non hanno deciso di passare questa risoluzione che chiede una campagna su un singolo soggetto. Amnesty International si batte contro la discriminazione in tutte le sue forme, e continuerà a farlo". "1984" di Orwell non avrebbe saputo dirlo meglio.
Ma non è la stessa Amnesty International che ha approvato una indagine sulla "islamofobia" di 123 pagine e dal titolo "Choice and Prejudice" (sottotitolo: "La discriminazione contro i musulmani in Europa")?. Durissimo il Centro Simon Wiesenthal sulla decisione dell'organizzazione di non indagare l'antisemitismo. "Questa farsa è un'ulteriore prova che Amnesty International, l'organizzazione per i diritti umani più importante del mondo, ha perso la sua bussola morale", accusa Abraham Cooper del Centro Wiesenthal. "Ci sono circa 150 milioni di europei che hanno opinioni anti-israeliane e antisemite. Crimini di odio anti-ebraico e intimidazioni avvengono in tutta Europa e gli ebrei europei sono sempre più nel mirino dei terroristi islamici. Attraverso la sua decisione di rifiutare di mostrare solidarietà con i suoi concittadini ebrei, Amnesty si rivela essere parte del problema, non parte della soluzione".
Amnesty International ha fallito in un altro momento cruciale, quando di fronte alla famigerata Conferenza del 2001 contro il razzismo delle Nazioni Unite a Durban, in Sud Africa, dove tremila ong hanno votato per diffamare Israele. Senza considerare che a Londra ha ospitato eventi come "Complicity in oppression: do the media aid Israel?". Organizzato dalla Palestine Solidarity Campaign, l'evento ha visto come ospite Abdel Bari Atwan, che ha giustificato l'attentato alla yeshiva Mercaz HaRav di Gerusalemme nel quale erano rimasti uccisi otto studenti israeliani. Nel 2006, durante la guerra di Libano, Amnesty produsse più documenti contro Israele che sul genocidio del Darfur allora in corso. E nel linguaggio di legno di Amnesty, proteggere gli israeliani dai kamikaze con la barriera difensiva è diventato "apartheid". Ci mancava soltanto il voto per chiudere gli occhi sull'antisemitismo, proprio nel momento in cui, da Parigi a Copenaghen, si è aperta nuovamente la stagione di caccia all'ebreo.
(Il Foglio, 24 aprile 2015)
Secondo le previsioni di MHOX nel 2027 un occhio tech sostituirà quello biologico
Sulla rivista Nanotechnology la ricercatrice israeliana Yael Hanein, che lavora presso l'Università di Tel Aviv, ha pubblicato uno studio che potrebbe rappresentare la base per la creazione in futuro di occhi sintetici.
Lo studio di design generativo MHOX ha pubblicato un progetto che ambisce a sostituire i nostri bulbi oculari con una loro versione sintetica, realizzata con le stampanti 3d. Il progetto è stato chiamato Eye (Enhance Your Eye) ed è stato pensato per ovviare alla degenerazione della vista dovuta all'avanzare dell'età oppure a difetti congeniti, ma anche per offrire sul mercato globale un prodotto con prestazioni superiori al normale o addirittura fuori dalla funzionalità di un bulbo oculare, come ad esempio la registrazione di immagini.
EYE potrebbe essere disponibile in 3 versioni: Eye Heal, modello base, con funzionalità standard a beneficio di chi ha perduto la vista, in parte o del tutto, a causa di una malattia o di un trauma; poi ci sarà Eye Enhance, la versione intermedia che potenzierà la vista fino a 15/10 e con possibilità di applicare dei filtri, attraverso l'ingerimento di un'apposita pillola, per avere una visione alternativa a quella reale, come ad esempio, in bianco e nero. La terza versione, quella più avanzata, si chiamerà Eye Advance, la quale, oltre alle dotazioni degli altri due modelli, consentirà di registrare la propria esperienza visiva e di condividerla attraverso un collegamento wi-fi. Anche in questo caso potrebbe essere una pillola ad attivare queste due funzioni.
Per usufruire di EYE occorrerà effettuare un'operazione chirurgica per rimuovere il proprio bulbo oculare ed installare al suo posto un'interfaccia tecnologica che connetta al cervello i muscoli del cranio e il nervo ottico. Il modello Eye scelto potrà essere sostituito o alternato con un modello all'altro senza la necessità di ulteriori interventi chirurgici.
Lo sviluppo tecnologico legato all'utilizzo delle stampanti 3d per creare organi umani, ossia, le "3d bioprinting" ha creato un forte interesse e invogliato i ricercatori ad effettuare studi e esperimenti in campo medico; infatti la Washington State University ha realizzato un materiale simile alle ossa umane, mentre la University of Pennsylvania ha realizzato dei vasi sanguigni e la Cornell University è riuscita a creare delle orecchie.
L'azienda MHOX prevede l'utilizzo di uno speciale ago che depone i diversi tipi di cellule contenute in una sostanza chiamata bio-ink e che, una volta deposte, si aggregano autonomamente, dando vita a prodotti organici che sono necessari allo sviluppo dei tessuti dell'Eye.
I risultati in campo biotecnologico sono effettivamente interessanti e motivanti, ma l'occhio umano è un organo davvero complesso e la sua creazione in 3d bioprinting potrebbe essere molto difficoltosa. Nonostante questo, se tutto andrà secondo i piani di MHOX, a gennaio 2027 EYE potrebbe essere disponibile, anche se MHOX non ha spiegato nel dettaglio come intende procedere, né quali ostacoli dovrà superare e quale potrebbe essere il prezzo di un occhio sintetico.
Secondo Giovanni D'Agata, presidente dello Sportello dei Diritti questo progetto è "una nuova speranza in campo medico". Effettivamente, sembra una scoperta fantascientifica, ma sulla rivista Nanotechnology la ricercatrice israeliana, Yael Hanein, che lavora presso l'Università di Tel Aviv, ha pubblicato uno studio che potrebbe rappresentare la base per la creazione in futuro di occhi sintetici.
La ricercatrice è riuscita a fondere i nervi della retina con un gruppo di minuscoli elettrodi che stimolano la crescita delle cellule. Utilizzando delle cavie, la scienziata ha integrato una serie di nanotubi di carbonio con i neuroni tramite corrente elettrica, stimolando così la crescita dei neuroni all'interno della struttura sintetica. La tecnica della ricercatrice israeliana potrebbe essere utilizzata anche per tentare un'applicazione nei confronti di alcune malattie degenerative della retina.
Inoltre un team di ricercatori dell'Università della California è riuscita a realizzare una serie di strati di due tipologie di cellule retiniche provenienti dai topi grazie a una normale stampante a getto di inchiostro. Questo procedimento sembra che non abbia messo a rischio la salute delle cellule e la loro capacità di crescere e sopravvivere in coltura.
Keith Martin, il docente di oftalmologia dell'Università di Cambridge che ha partecipato alla ricerca, spiega che "questa tecnica potrebbe essere utilizzata in futuro per creare nuovi tessuti da impiantare nei pazienti affetti da danni alla retina, o per inserire cellule direttamente nelle retine danneggiate durante un'operazione chirurgica all'occhio".
L'occhio bionico non è quindi una realtà attuale, ma ci sono i presupposti perché le dichiarazioni di MHOX possano concretizzarsi secondo i suoi piani e tempi.
(Cellulari.it, 23 aprile 2015)
Buon compleanno, Israele!
di Deborah Fait
23.328! Questo è il numero che rappresenta il dolore di Israele. 23.328 caduti in guerra e per terrorismo ai quali, da martedì a mercoledì sera, tutta Israele ha reso onore e lacrime. Martedì sera nel grande piazzale davanti al Kotel (Muro Occidentale detto anche Muro del Pianto), una giovane piccola donna con un bambino per mano si è avvicinata al grande braciere e, insieme al presidente Rivlin, ha acceso la fiamma in onore dei caduti. Era Moriah Ashkenazi, vedova di Yair Ashkenazi, caduto a 36 anni durante l'ultima guerra a Gaza nel 2014. Yair, che faceva l'avvocato a Rehovot, ha lasciato tre figli, l'ultimo è nato 4 mesi dopo la sua morte, il più grande, 5 anni, accanto alla mamma, la guardava continuamente col visetto alzato verso di lei quasi a voler dare e ricevere coraggio e rassicurazione.
23.328 lacrime per padri, madri, fratelli, sorelle caduti in guerra, bambini e nonni ammazzati dal terrorismo palestinese. La più piccola tra le vittime del 2014 aveva tre mesi, si chiamava Chaia, un palestinese, a Gerusalemme, ha lanciato la sua macchina addosso a lei e ai suoi genitori, uccidendola. Chaia aveva la stessa età di Hadas Fogel sgozzata nel 2011 insieme alla sua famiglia a Itamar, giustiziati perché ebrei. La vittima più piccola della guerra di Gaza nel luglio 2014 aveva 4 anni, si chiamava Daniel Tregerman, fu colpito in pieno da un missile sparato da Gaza mentre, insieme ai genitori che avevano in braccio gli altri due figli, correva verso il rifugio. Solo 15 secondi per mettersi in salvo, Daniel non ce l'ha fatta, era piccolo, non riusciva a correre troppo veloce. 15 secondi per poter vivere o morire.
Da martedì sera alle 8 fino a mercoledì sera il canale 33 della TV israeliana ha fatto scorrere su nastro i nomi di tutti i 23.328 caduti, quando sono arrivati al 2001 ho letto due nomi che non potrò mai dimenticare per l'orrore che il loro assassinio aveva provocato in tutta Israele: Kobi Mandell e Yosef Ishran. Avevano 13 e 14 anni, furono ammazzati a pietrate e poi fatti a pezzi. I loro corpi erano così mutilati che hanno dovuto fare l'esame dei denti per riconoscerli. Oggi esiste una fondazione a nome di Kobi che si occupa degli orfani del terrorismo affinché sorridano ancora alla vita.
Martedì sera a Gerusalemme, tra le famiglie presenti alla commemorazione dei caduti, c'erano tanti giovani, tanti bambini, tante lacrime e una commozione arrivata al culmine nel momento in cui è stato recitato il canto dei defunti
"El Malè Rahamim"
(Il Signore colmo di pietà) e, immediatamente dopo, l'inno nazionale di Israele, Hatikvà. Molti tra i presenti singhiozzavano, i soldati immobili sull'attenti avevano le lacrime che scendevano sul volto.
Mercoledì sera, alle 20, le lacrime di tutto il Paese si sono materializzate sul Monte Herzl all'apertura dei festeggiamenti per Yom HaAzmaut. L'Inizio è stato di dolore straziante con una meravigliosa coreografia: un lungo corteo di donne vestite di nero, ognuna con un lumino in mano camminava con lo sguardo fisso nel vuoto, lentamente, immagine di dolore. Verso quelle immagini di dolore ecco arrivare un soldato, un giovane ragazzo con in spalla il sacco tipico di chi va ad arruolarsi e poi va incontro alla guerra. Le mamme in lutto e il giovane si sono incrociati senza guardarsi, senza vedersi, lui, giovane pieno di vita e di speranza, verso il suo destino, le donne verso un immenso e inconsolabile dolore... un canto "Tu sei andato lontano ma io ti aspetto".
All'improvviso, talmente all'improvviso da far sobbalzare i presenti, ecco il lutto trasformarsi, come per incanto, in felicità ed entusiasmo, bandiere, balli e canti su quel Monte definito "del sogno e della realtà". Le parole di Theodor Herzl "se lo vorrete non sarà un sogno" sono diventate realtà, Israele esiste! Chi non conosce Israele fatica a comprendere come si possa festeggiare la felicità dell'Indipendenza quasi insieme alla commemorazione del lutto di un'intera Nazione ma la spiegazione è semplice quanto logica ed espressamente voluta: senza l'eroismo dei nostri caduti, senza la vittoria sulle guerre e sul terrorismo, Israele non esisterebbe. L'avrebbero già distrutta. E allora piangiamo i nostri ragazzi caduti, i nostri bambini ammazzati dai barbari e poi, nel loro nome, nel loro ricordo, in loro onore festeggiamo Israele cantando "Essere liberi nel nostro Paese, Terra di Sion e Gerusalemme".
Sì, è vero quello che qualcuno ha scritto: "In 67 anni, ho sopportato 7 guerre, 2 Intifade, 5 conflitti armati, più di 20.000 lanci di razzi e mortai, 3.971 morti nelle esplosioni terroristiche, migliaia e migliaia di attacchi terroristici bloccati. Eppure, non mi hanno ancora spezzato, non mi hanno scoraggiato, e sono lontano dal perdere la speranza. Sono ancora qui. Io sono Israele..."
Musica, bandiere, festa e commozione: La prima delle 12 persone invitate ad accendere altrettanti bracieri in memoria delle 12 tribù di Israele, è stata una giovane giornalista arabo/israeliana, Lucy Aharish, conduttrice e presentatrice della televisione i24news. Dopo aver letto brevemente la sua biografia, sia in ebraico che in arabo, Lucy ha acceso il fuoco del suo braciere e ha pronunciato con evidente commozione, la voce tremante, quelle parole "Le tif'eret Medinat Israel - Per lo splendore dello Stato d'Israele" accolte da un uragano di applausi del pubblico. "Questo accade solo in Israele - ho pensato ad alta voce - se facessero la stessa cosa anche i palestinesi non ci sarebbero più guerre. Loro invece ci aspettano per ammazzarci".
Questa è la differenza tra noi e loro. Noi in guerra abbiamo mantenuto umanità, amore e democrazia. Loro solo odio e barbarie. Tra gli altri 12 che dovevano accendere i bracieri erano presenti Rafi Mehudar, ideatore del sistema di irrigazione goccia a goccia, adottato nelle coltivazioni di tutto il mondo. Ehud Shvatai, inventore del più perfetto e famoso GPS del mondo, Wize, diffuso in 120 nazioni. Un momento di grande commozione è stato quando l'ultimo dei 12, un soldato autistico, Dan Korkowsky, ha acceso la fiamma del suo braciere quasi gridando "Le tif'eret Medinat Israel". Continuava a toccarsi il berretto allacciato sulla spallina della divisa, orgoglioso, quasi a voler ricordare a tutti "io sono un soldato di Israele". I suoi genitori, inquadrati tra il pubblico, ridevano piangendo. Infine, a chiusura della festa televisiva (quella privata continua tutta la notte e tutta la giornata odierna), i soldati di tutti i corpi di Tzahal hanno sfilato con le bandiere davanti alle autorità, belli, sorridenti, orgogliosi. I ragazzi e le ragazze di Israele un po' viziati, un po' timidi, anche un po' scatenati nella loro gioia di vivere in un paese perennemente in guerra ma pronti a indossare la divisa e a morire per difendere casa, Israele e il suo splendore.
"Non c'e' futuro per il popolo ebraico senza lo Stato d'Israele, ha detto Benyamin Netanyahu, tanto più i nemici minacciano di distruggere il nostro Paese, tanto più cresce in noi la determinazione di difendere la nostra casa". Chi la difende è il nostro esercito, è Tzahal, il nostro orgoglio, sono quei ragazzi che, anche con la divisa addosso, cantano e ballano, ma pronti a farsi scannare pur di salvare la vita a un compagno o evitare una strage tra i civili, sono loro che controllano i confini, che si fanno maltrattare con pazienza dai palestinesi, che si fanno prendere a sputi, a pugni e a calci da ragazzini pieni di odio, senza reagire, sono loro che rischiano la vita ogni giorno e lo fanno per noi, per Israele.
Intanto nel mondo l'odio contro ebrei e Israele cresce a dismisura. L'islamismo commette stragi quotidiane ma l'Occidente odia Israele. Spesso mi capita di pensare "Ma perché ci odiano tanto?" In 2000 anni di esilio gli ebrei non hanno mai alzato un dito contro qualcuno, non hanno mai dato fastidio, hanno donato invece cultura, genialità e cose buone. Perché ci odiano tanto?
Ho letto sulla pagina Facebook di Matteo Renzi alcuni commenti dopo la morte di Rav Elio Toaff z.l. e mi è venuta la pelle d'oca: "Uno di meno... avrei i lampadari da rinnovare...." Questo il tono. Perché tanto odio? Non ditemi che sono quattro gatti idioti. No, sono tanti, sono troppi. Vanno a braccetto con quelli che rifiutano la Brigata ebraica il 25 aprile. Sono un'indecente rappresentanza dell'odio antiebraico che invade pericolosamente l'Europa neonazi-comunista, fascista e fondamentalista. Israele risponde a tutto questo odio mantenendosi un'oasi di civiltà e cultura anche se circondata da paesi barbari, anche se colpita dal boicottaggio nato dall'infamia europea.
Ecco la risposta di Israele:
Israele: il PIL cresce del 7% nel 2014
L'Ufficio centrale di statistica di Israele, a Gerusalemme, il 16 aprile ha rilasciato una stima della crescita economica israeliana per l'anno 2014.
Le prime stime rilasciate a febbraio avevano già rivelato quanto l'economia israeliana fosse cresciuta nel quarto trimestre del 2014, determinando la più forte crescita in quasi otto anni.
Dopo una lenta crescita nel terzo trimestre, a causa del conflitto del luglio 2014, il PIL è nuovamente salito fino a raggiungere un tasso di crescita del 7% nel quarto trimestre del 2014. Il paese aveva visto un'impennata simile dopo la seconda guerra del Libano, a partire dalla seconda metà del 2006 e all'inizio del 2007.
Secondo un sondaggio di Reuters, i risultati per il quarto e ultimo trimestre del 2014 era stimati al 3,3%. Dopo un breve rallentamento, la crescita economica israeliana ha raggiunto una crescita ben oltre le aspettative, raggiungendo un +7%.
Conferma Daphna Aviram-Nitzam, direttore della ricerca economica presso la Manufacturers Association of Israel (l'Associazione Costruttori Israele), l'organo di rappresentanza di tutti i settori in Israele che aveva stimato il danno del conflitto dell'estate scorsa a circa 820 milioni di shekel:
È impressionante che un paese riesca a mantenere un livello stabile di crescita come tutti gli
altri nonostante la corsa quotidiana ai rifugi, durata più di un mese. Quest'anno, il tasso di di tutti i settori e dell'esportazione sarà molto più alto rispetto all'anno precedente.
L'esportazione, che rappresenta circa il 40% dell'economia in Israele, nell'ultimo trimestre del 2014 è aumentata di quasi 9 punti.
(SiliconWadi, 21 aprile 2015)
Si, amici, la risposta di Israele a tanto odio è gioia di vivere, ottimismo, benessere, l'aliyà è sempre in aumento, 17.000 nuovi immigrati in un anno. Scappano da dovunque per tornare in Israele. E' questa la nostra risposta all'odio, al boicottaggio, alle minacce di distruzione ed è questo che li fa impazzire di rabbia: Le Tif'eret Medinat Israel - Per lo splendore dello Stato d'Israele.
(Inviato dall'autrice, 24 aprile 2015)
Indicare con evidenza i prodotti israeliani
Lettera a "il Giornale"
I ministri degli Esteri di 16 Paesi europei, tra cui, mi vergogno a dirlo, l'Italia, hanno chiesto di identificare in modo evidente (un stella gialla andrebbe bene?) i prodotti importati da territori israeliani. Mogherini sostiene che si tratta di un provvedimento necessario per informare i consumatori europei. Consumatori ai quali, stando a Mogherini e ai suoi accoliti, non interessa sapere se i prodotti vengono da Paesi che destinano gli utili al terrorismo, che tengono i lavoratori in condizioni simili alla schiavitù (vedi il Qatar), che sottomettono le donne negando loro ogni diritto, che armano i bambini per farne soldati, che usano ibambini come scudi umani, che negano il diritto allo studio alle bambine e altre simili nefandezze. No, ai consumatori europei interessa solo sapere se dalla produzione di quello che comprano traggono vantaggio gli ebrei, pardon, gli israeliani. Rinnego di essere europeo, di essere parte della cultura di un territorio che nonostante l'olocausto non ha imparato quella lezione di storia che si chiama antisemitismo. Comunque che la Ue metta pure le etichette, se non altro mi servirannoa identificare più facilmente i prodotti da acquistare.
Roberto Bellia (Vermezzo)
(il Giornale, 24 aprile 2015)
Camicie cinesi con simboli antisemiti: sequestri della finanza a Milano e a Roma
La difesa della commerciante cinese: "Non conosce l'inglese". La comunità ebraica: "Questo sequestro è un ottimo segnale". La Procura, con il pm Piero Basilone, indaga per istigazione all'odio razziale.
di Franco Vanni
Una delle camicie sequestrate
Ha esposto in negozio sei camicie con stampata la stella di Davide e la parola 'kill', 'uccidere' in inglese. Per questo, una commerciante cinese è al centro di un'inchiesta (a carico di ignoti) avviata dalla Procura di Milano, che procede per il reato di istigazione all'odio razziale.
La vicenda giudiziaria comincia lo scorso febbraio, quando al comando provinciale della guardia di finanza arriva la segnalazione di 'indumenti antisemiti' in un negozio di via Rubens. Sei ore dopo i militari guidati dal colonnello Ugo Poggi sequestrano le camicie, con il disegno stilizzato di una croce cristiana con la scritta 'love (amore) e la stella di Davide con scritto 'kill'. Il sostituto procuratore Piero Basilone il 7 febbraio convalida il sequestro e apre un fascicolo.
La titolare del negozio - nata nel 1965 nella Cina rurale, in Italia da pochi anni - si rivolge all'avvocato Davide Pozzi, che il 20 febbraio presenta in tribunale una istanza di riesame, chiedendo la revoca del sequestro. "Così come io non ho idea di come si dica 'uccidere' in cinese, così la mia assistita non conosce il vocabolo inglese - spiega il legale - nè sapeva che la stella di Davide sia associata alla religione ebraica".
Lo scorso 9 marzo, i giudici della XXII sezione penale rigettano l'istanza. Citando "la Convenzione internazionale di New York del 7 marzo 1966, relativa all'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale", l'ordinanza afferma che la camicia sarebbe "veicolo di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale". Più nel dettaglio, "nella semplicistica simbologia proposta, la stella a sei punte viene contrapposta a una croce, per cui la successione è 'amare la religione cattolica', 'uccidere gli ebrei'".
In attesa della chiusura delle indagini, la guardia di finanza ha sequestrato camicie uguali a Roma. Per Walker Meghnagi, imprenditore influente nella comunità ebraica milanese, "la pronta risposta di magistratura e forze dell'ordine è un ottimo segnale. L'antisemitismo è anche nelle piccole cose e va contrastato con durezza".
(la Repubblica, 24 aprile 2015)
Roma - Un patto per far nascere il Museo della Shoah
Accordo fra Comune e comunità ebraica. Paserman ritira le dimissioni dalla Fondazione.
di Alessandro Capponi
Un «patto» tra il Campidoglio e la comunità ebraica per, spiega il presidente della Fondazione, Leone Paserman, «ottenere dal governo la deroga al patto di stabilità per il finanziamento del museo, visto che il mutuo e quindi i soldi già ci sono e che però, purtroppo, è scaduta la deroga ottenuta dopo una mia lettera all'allora presidente Mario Monti». Il pressing è già scattato: il presidente della comunità, Riccardo Pacifici, ha annunciato ad alcuni soci la disponibilità a spedire un messaggio al presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E lo stesso Leone Paserman si dice disponibile a scrivere una lettera al governo. Certo, sia chiaro: «La comunità ebraica - dice Pacifici - sa bene che prima del museo vengono i problemi del Paese, quindi è chiaro che la deroga al patto di Stabilità può slittare di un anno, per il bene del Paese». Non è l'unica notizia che non trapela dalle note ufficiali: messe tutte assieme la sensazione è che per il via ai lavori del museo della Shoah di Villa Torlonia questa, per dirla con Renzi, sembra essere «la volta buona». Sorride Leone Paserman: «Una volta concessa la deroga ci sarà la firma del contratto con l'impresa, poi il progetto definitivo sarà all'esame dell'assemblea capitolina. Spero che si possa aprire il cantiere entro fine anno».
Leone Paserman, dunque, dopo il cda di ieri in Campidoglio, rimane presidente della Fondazione perché, spiega lui stesso dopo la riunione, «il collegio le ha respinte all'unanimità e ha confermato la volontà di andare avanti. Ora, per arrivare ad avere il museo di Villa Torlonia, credo che la strada sia in discesa: mi hanno colpito la ritrovata unità politica, questa rinnovata volontà ad andare avanti. Se Marino vuole posso essere io stesso a scrivere a Renzi». Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, all'uscita del cda sorride: «Andiamo avanti, non c'è stallo». Marino, che incassa le scuse di Paserman per la «letteraccia» di dimissioni - «scritta in un momento di rabbia», ha spiegato Paserman - annuncia che «Paserman ha confermato a me e al presidente della Regione Nicola Zingaretti piena fiducia nell'impegno di Roma e della Regione per la realizzazione dell'opera». Quella del museo di VillaTorlonia è una «battaglia» che va avanti da molti anni: fu pensato da Walter Veltroni. Adesso, forse, toccherà a Ignazio Marino dare il via ai lavori: «Questo chiarimento - dice il sindaco - ci fa guardare al futuro con ottimismo. Da parte mia ho ringraziato il cda e i soci oltre che il presidente Paserman per il loro impegno: insieme realizzeremo il Museo». La volta buona? Non rimane che aspettare la risposta di Matteo Renzi.
(Corriere della Sera - Roma, 24 aprile 2015)
Gerusalemme accoglie settemila ciclisti per il circuito del 1o maggio
GERUSALEMME - Il prossimo 1o maggio Gerusalemme accoglierà oltre 7 mila ciclisti per l'evento "Sovev Gerusalemme", uno dei più grandi eventi organizzati in Israele dedicati al ciclismo. Saranno 20 mila gli spettatori che riempiranno le strade, mentre i partecipanti si cimenteranno su uno dei quattro percorsi ciclabili che attraversano le principali attrazioni della città e i parchi naturali circostanti. L'evento avrà inizio e fine nella piazza David Remez Piazza di Gerusalemme, German Colony, dove l'antica stazione ferroviaria è stata recentemente ristrutturata e trasformata in un centro con ristoranti, caffetterie, mercato per alimenti biologici ed attività per i più piccoli. Dal 29 aprile al 1o maggio la prima stazione ospiterà un inedito "expo" dedicato al mondo della bicicletta, con le attrezzatture più all'avanguardia ed i gadget più inediti.
(Travel Quotidiano, 23 aprile 2015)
Aerei militari su Israele per festeggiare l'Independence Day
Pattuglie aeree ed elicotteri militari hanno solcato il cielo sopra le città israeliane, ma, almeno per una volta, senza intenti offensivi. Si è celebrato l'Independence Day,il giorno dell'Indipendenza della nazione israeliana. Oltre alle manifestazioni ufficiali, con la partecipazione delle più alte cariche dello Stato, la giornata è l'occasione per efettuare barbecue all'aperto e pic-nic nei parchi cittadini.
(RaiNews24, 23 aprile 2015)
Günter Grass e quel che non andava detto
La brava gente che odia gli ebrei", un graffiante pamphlet di Giulio Meotti sul pericoloso antisemitismo di ritorno.
ROMA - È appena scomparso il grande scrittore tedesco Günter Grass. La sua ultima polemica pubblica risale a due anni fa, quando una poesia di Grass fece il giro del mondo e accusava Israele di essere un pericolo per la pace mondiale e di voler annichilire il popolo iraniano. I versi di questo importante scrittore, in cui il popolo ebraico assumeva il ruolo di carnefice, erano il sintomo di un più vasto antisemitismo europeo post-Auschwitz che domina il mondo dell'alta cultura, dell'arte e del giornalismo.
Il libro di Giulio Meotti "Muoia Israele. La brava gente che odia gli ebrei" ripercorre per la prima volta trent'anni di questo nuovo antisemitismo e "terrorismo culturale". I più accaniti denigratori del popolo ebraico oggi sono gli intellettuali e le classi abbienti dello show buz europeo, sono i tanti Premi Nobel come Grass che vantano specchiate credenziali socialdemocratiche, compresi molti "cattivi maestri" in Italia. Il loro obiettivo non è cambiare la politica di Israele e non esprimono semplicemente una critica legittima a quello stato. No, vogliono inchiodare il popolo ebraico a un destino oscuro e tragico. Sono coloro che, con un colpo di matita o di penna, cancellano Israele dalla mappa geografica.
Il libro
C'era un tempo in cui in difesa dello Stato di Israele e degli ebrei si schieravano i migliori intellettuali europei come Pablo Picasso e Eugene Ionesco, e in Italia personaggi come Norberto Bobbio ed Eugenio Montale. La piccola repubblica israeliana era considerata un pegno della nostra libertà, che il mondo arabo-islamico voleva ghermire per la gola e annegare nel Mediterraneo. Oggi Israele è ancora sotto assedio ma è rimasto solo, delegittimato e condannato a morte dalle classi dirigenti intellettuali, dai giornalisti, dagli scrittori, dai registi, dai Premi Nobel, dai musicisti, elevato a sentina del male. Contro il popolo di Israele riecheggiano oggi, sinistre, le frasi della propaganda nazista di settant'anni fa. Il libro di Giulio Meotti ripercorre l'odio per Israele degli ultimi trent'anni. È il racconto di una grande abiura, un nuovo caso Dreyfus con il tradimento dei chierici e l'abbandono degli ebrei da parte dell'opinione pubblica europea. Uno scandalo che le falangi dei "progressisti" accolgono in silenzio. I peggiori antisemiti oggi li trovi fra la brava gente.
I buoni.
I rispettabili. I vanitosi dello star system. Le firme dei giornali. Gli intellettuali che inculcano le idee nell'opinione pubblica. Gli artisti. I filantropi. Il loro annullamento spirituale e culturale di Israele giustifica in anticipo la sua soppressione fisica. E se Israele scomparisse oggi, il popolo ebraico non potrebbe sopravvivere. Che fare allora? Solidarietà. È l'unica arma che abbiamo. Perché Israele è la frontiera che tutti gli uomini civili sono impegnati a sostenere e a difendere. Israele è ognuno di noi.
Giulio Meotti è un giornalista de "Il Foglio". È autore fra gli altri di "Non smetteremo mai di danzare. Le storie mai raccontate dai martiri di Israele".
(Stato quotidiano, 23 aprile 2015)
Lucy, la giornalista araba che sfida l'integralismo islamico e l'estrema destra
Ha partecipato alla festa per l'indipendenza di Israele
Lucy Aharish
Lucy ha parlato ai presenti in ebraico e poi si è rivolta in arabo ai membri della comunità araba musulmana. E si è commossa al culmine del suo discorso mentre accendeva la fiamma che da il via alle celebrazioni dopo il giorno di lutto in ricordo dei caduti per la difesa d'Israele. "Per tutti coloro che sono stati e non sono più, che sono caduti per un odio senza senso da parte di chi ha dimenticato che siamo tutti nati a immagine di un Dio unico. Per i sefarditi e per gli askenaziti, religiosi e laici, arabi e ebrei, figli di questa madre patria che ci ricorda che non abbiamo un altro luogo dove andare. Per noi Israele, per l'onore dell'umanità, e per la gloria dello Stato d'Israele".
La Aharish, in una recente intervista al Times of Israel, alla domada su quale sia la sua identità come araba musulmana in Israele aveva ribadito: "Sono israeliana. Non mi vergogno di esserlo. Poi sono una donna e dopo ancora un'araba musulmana". Lucy non ha mai nascosto la sua opinione a favore di Israele come stato ebraico. Ma le sue posizioni hanno scatenato molte critiche sia da parte della sua famiglia e sia dai leader religiosi islamici da cui è stata minacciata più volte. Ma lei sembra non preoccuparsene, e con la stessa fierezza risponde ai dimostranti dell'estrema destra israeliana che ritengono che l'unico merito della giornalista (per essere stata selezionata tra i 14 cittadini chiamati ad accendere la fiamam) è l'essere donna e musulmana. Secondo il gruppo di estrema destra Lahav, Lucy Aharish, non è abbastanza sionista per ricevere questo onore.
La risposta del ministro della difesa israeliano, Moshe Ya'alon, non si è fatta attendere e subito ha annunciato che è necessario che il movimento Lahav venga dichiarato illegale e per questo non avrà il permesso di manifestare in alcune occasioni. "Non possiamo permettere che fenomeni razzisti mettano in pericolo la fibra della vita del paese - ha detto il responsabile delal Difesa - Bisogna combattere in ogni modo chi tenta di discriminare persone in base all'etnia, il colore della pelle, e all'orientamento sessuale. Coloro che spargono odio verso gli arabi o le altre minoranze sono un perciolo per la società israeliana che è composta da molte sfumature. Questi individui non rappresentano i valori dello Stato di Israele e sono i valori che devono guidarci".
(Il Messaggero, 23 aprile 2015)
La satira a Teheran sull'Olocausto però senza disegnatori italiani
TORINO - Nessun disegnatore italiano parteciperà a maggio, a Teheran, all'International Holocaust Contest, il concorso sulla satira che prende di mira l'Olocausto. Lo precisano Achille Superbi, noto per le caricature di calciatori e attori, e Agim Sulaj, illustratore italo-albanese premiato dall'Onu. I disegnatori sostengono di essere stati oggetto di «attacchi gravissimi su alcuni quotidiani sulla base di una non notizia». «Sarebbe stato sufficiente controllare il sito del concorso per vedere che l'Italia non partecipa», affermano.
«È una vicenda incredibile, nessuno ha cercato di verificare l'informazione - dice Superbi che lavora al Centro Produzione Rai di Torino - e c'è stato un susseguirsi di interventi che si sono caricati di falsità e insulti. Ho passato una settimana a scrivere smentite ai giornali e ai siti, ho anche avuto una corrispondenza con una dirigente dell'Associazione Italia-Israele. Ho cercato di chiarire ma gli insulti sui blog restano, qualcuno continuerà a pensare che sia vero. Non mi sarei mai aspettato di trovarmi coinvolto in una vicenda del genere, anche perché io faccio caricature e non vignette...».
(Il Piccolo, 23 aprile 2015)
Nel compleanno dello Stato d'Israele dico a chi ci minaccia: siamo qui per restare
di Amit Zarouk (*)
Domani lo Stato d'Israele celebrerà il 67esimo anniversario della sua esistenza. In Israele all'età di 67 anni dovresti essere già in pensione, ma questo, di certo, non si può dire per lo Stato di Israele che continua a esser giovane, creativo e innovativo come mai in passato. Israele è quindi uno stato giovane per un popolo antichissimo.
Purtroppo, è vero anche che, a 67 anni dalla Dichiarazione di Indipendenza pronunciata da David Ben Gurion, la reale esistenza dello Stato d'Israele è tuttora sotto la minaccia di regimi fanatici o di quelli che al mondo ancora si interrogano sul diritto all'esistenza dell'unico Stato ebraico. A questi vorrei solamente dire che siamo qui per rimanerci.
Siamo qui per restare in nome della storia, in nome dei diritti, del coraggio, della speranza. La nostra presenza durerà nel tempo grazie all'abilità di trasformare un piccolo pezzo di terra, nel cuore di una regione non stabile accerchiata da così tante intenzioni e gesta crudeli, in una terra di libertà, di diritti eguali, in cui le religioni sono percepite e tutelate allo stesso modo. Una terra in cui, a differenza di quanto si può apprendere tristemente da altre regioni, c'è la più grande e prosperosa comunità cristiana totalmente integrata nel tessuto sociale israeliano.
Un paese di innovazioni, una start up nation con più di 4000 nuove imprese che aprono in un solo anno, una paese in cui le migliori università scalano le classifiche mondiali e dove l'investimento pubblico pro capite in ricerca e sviluppo è il più alto del mondo. Oggi la tecnologia israeliana è istallata nella maggior parte dei computer in giro per il mondo, la stessa tecnologia che permette di irrigare i campi e a cui si fa ricorso per assistere nel trattamento di bacini idrici in molti paesi in Africa, Asia e nel Sud Europa. Israele è oggi in prima linea, insieme ad altri paesi, nello sviluppo di energie rinnovabili ed eco sostenibili a beneficio dell'umanità intera.
Ovviamente c'è ancora molto da fare. In 67 anni abbiamo raggiunto la realizzazione di due processi di pace con i nostri vicini in Egitto e Giordania. Abbiamo anche raggiunto un progresso con i palestinesi.
Progresso, creatività e innovazione. Questo è il nostro motto. Abbiamo raggiunto alcuni eccezionali risultati, per cui non abbiamo intenzioni di fermarci e ancor meno di ritirarci.
(*) Portavoce e consigliere politico, Ambasciata d'Israele
(L'Huffington Post, 23 aprile 2015)
Una passeggiata prima di cena alla scoperta di Ferrara ebraica
Francesco Scafuri illustrerà le interazioni tra l'ebraismo ferrarese e la storia della capitale Estense.
Visto il successo delle precedenti edizioni della "Passeggiata prima di cena alla scoperta della Ferrara Ebraica e del centro storico", anche quest'anno sarà Francesco Scafuri (responsabile ufficio ricerche storiche del Comune di Ferrara) ad accompagnare il pubblico durante il percorso guidato nel cuore della città (a piedi o con bicicletta a mano) previsto nell'ambito della Festa del Libro Ebraico. L'appuntamento è per lunedì 27 aprile alle 18 con partenza da piazzetta Schiatti. L'esperto di storia del patrimonio monumentale ferrarese illustrerà le interazioni tra l'ebraismo ferrarese e la storia della "capitale estense", ma non mancherà qualche sorpresa durante l'itinerario, che si concluderà in piazza Municipale. Tra le soste previste, anche quella in piazzetta Carbone, dove sorge l'ex chiesa di San Giacomo, uno degli edifici più misteriosi della città, le cui vicende si collegano, sia pure per un breve periodo, con quelle del vicino ghetto ebraico.
Scafuri, inoltre, parlerà degli episodi più significativi che hanno caratterizzato i diversi siti compresi nella passeggiata, dai suggestivi vicoli del "quartiere ebraico" alle bellezze della zona medievale. La storia della piazza principale della città (a lato del Duomo) costituirà il filo conduttore dell'iniziativa, anche alla luce delle recenti scoperte, ma la narrazione comprenderà pure i complessi architettonici di maggiore pregio che vi si affacciano.
Sarà un itinerario nel centro cittadino, nei luoghi che richiamano alla memoria famosi architetti del passato quali Leon Battista Alberti e personalità del mondo ebraico come Giorgio Bassani, ma anche figure mitiche come i Cavalieri Templari, i cui legami con Ferrara rendono la città ancora più affascinante e stupefacente.
(estense.com, 24 aprile 2015)
L'occidente confortevole è paralizzato di fronte alla pulizia etnica islamista. Solo Israele resiste
Parla Georges Bensoussan
di Giulio Meotti
Georges Bensoussan
ROMA - "Da parte delle élite dirigenti e dell'opinione pubblica, l'assuefazione all'orrore per il massacro di cristiani sta prendendo il sopravvento". Il sorboniano Georges Bensoussan è fra i massimi intellettuali francesi viventi, orientalista di fama e direttore del Mémorial de la Shoah di Parigi. "Ciò che stupisce in queste tragedie che continuano a ripetersi è che ci si stupisce del silenzio dei potenti", spiega Bensoussan al Foglio. "Non sorprende l'opinione pubblica, che è sempre commossa, ma coloro che possono agire, le potenze politiche, economiche e militari. Non c'è nulla di nuovo dalla tragedia degli herero del 1904 fino al Ruanda del 1994, passando per gli armeni del 1915, gli ebrei del 1942 e i cambogiani del 1975. L'unico passo avanti compiuto in un secolo, ed è importante, è stata la creazione di un tribunale penale internazionale". E proprio questa Corte, alcuni giorni fa, ha liquidato come irrealistica la costruzione di un caso legale contro lo Stato islamico. Secondo Bensoussan, l'esodo di massa dei cristiani ricorda quello dei loro fratelli ebrei dai paesi arabo-islamici dopo il 1948, anno della creazione di Israele. "E' un identico processo di 'purificazione etnica' fatto allora in nome dell'arabismo e oggi in nome dell'islam. Un processo che inizia molto prima con il genocidio degli armeni e coi massacri pre-genocidiari del 1897". E' impressionante vedere come, salvo la condanna del Papa e di poche voci isolate, lo sterminio dei cristiani, la loro offerta in olocausto all'islam politico, non smuova le élite. "Si finisce con l'abituarsi ai peggiori spettacoli di orrore, nessuna illusione a questo proposito. La compassione non dura che un momento, e non sostituisce l'analisi politica che è la sola a farci capire che quando la campana suona a morto per lo straniero, in realtà suona per noi, come scriveva il poeta inglese John Donne nel XVII secolo". Anche perché l'occidente, soprattutto l'Europa, "fatica a considerare il pericolo islamista che ha di fronte. E ne ha tanto più paura - si vedano le contorsioni semantiche al solo nominarlo - dal momento che il pericolo è dentro le sue stesse mura. Ma anche perché, in un mondo confortevole ed edonista come è questo ricco occidente, si fa sempre più fatica a concepire una guerra. Una guerra che è oramai arrivata, che la si accetti o che la si rifiuti, ma che non dipende più da noi".
Il medio oriente viene giù, da Tripoli a Damasco, ma resiste Israele oasi per tutte le minoranze massacrate dagli islamisti: i bahai fuggiti agli ayatollah iraniani, i drusi, gli yazidi e i cristiani. "Ciò che la tragedia che sta avvenendo potrebbe insegnare è che Israele è una democrazia, uno stato rifugio anche, e non solo, per gli ebrei", conclude Bensoussan. "In questa regione abbandonata a una ferocia demente, lo stato maledetto e vilipeso dalla doxa si rivela essere il solo stato di diritto, cioè umanitario, che accoglie e cura. Non certo tutte le miserie del mondo, ché nessuno potrebbe. Ma una parte sì. Come i bambini palestinesi di Gaza, malati di cuore, operati nell'ospedale ebraico Hadassa di Gerusalemme. Ciò che Israele mostra in questa tormenta è lo sfasamento tra la maledizione universale della quale è oggetto e la realtà".
(Il Foglio, 23 aprile 2015)
"Noi ebrei abituati a difenderci"
Massimo Ottolenghi, 99 anni. I ricordi di "Giustizia e Libertà".
La ragione per la quale i partigiani ebrei finirono quasi tutti in Giustizia e Libertà? Me la sono chiesta spesso. E la mia spiegazione è che c'era in noi già una formazione che ci portava a riconoscere proprio in queste due parole, giustizia e libertà, quello che c'è anche nelle Sacre Scritture». Massimo Ottolenghi, "il gagno ("bambino" in piemontese) alle soglie dei cent'anni, ricorda così le sue esperienze di partigiano giellino tra Ala di Stura e Martassina, «una piccolissima frazione dove gli abitanti saranno stati al massimo 50 e gli ebrei nascosti almeno 60» .
«Grazie a Emanuele Artom, mio compagno al D'Azeglio - racconta Ottolenghi - compresi che cosa significava essere ebrei. Figlio di un matrimonio misto che rispettava ma non praticava alcuna religione, non ne avevo idea, ma fu lui a farmi leggere il dizionarietto di parole ebraiche che compilava col fratello. Quando a Martassina seppi da Ada Luzzato che era stato ucciso e quale sceneggiata i tedeschi avevano fatto contro di lui, torturandolo e poi trascinandolo a dorso di mulo come un trofeo di guerra nel paese di Luserna ne fui doppiamente sconvolto: perché era un amico e un maestro, ma anche perché era la persona fisicamente più fragile e moralmente più coraggiosa che conoscessi».
Anche mio cugino Walter Rossi, altro partigiano ebreo, fu ucciso nell'aprile del '44, nel momento dei più feroci rastrellamenti nazisti. Ora è difficile spiegare come non avessimo paura in quei giorni, e come si potesse fare la spola di continuo da un paese all'altro senza temere di venire scoperti. Ma il terreno di noi ebrei era fertile. Prima della Resistenza, avevamo già subito le leggi razziali, l'espulsione dalle scuole, il lavoro forzato. Anche per questo uomini come Artom non hanno smesso fino all'ultimo di visitare, da commissari, formazione dopo formazione, fino a farsi catturare.V.S.
(la Repubblica, 23 aprile 2015)
Lea, la caporale italiana che ha conquistato Israele
Arrivata in vacanza, si è arruolata e ha ottenuto la cittadinanza.
di Maurizio Molinari
Lea Calderoni
C'è un'italiana di 21 anni fra i soldati israeliani che vengono premiati oggi dal presidente Reuven Rivlin in una delle cerimonie più popolari dell'anniversario dell'Indipendenza.
Arrivato a 67 anni dalla nascita, lo Stato ebraico si riconosce nei «militari eccellenti» scelti personalmente dal Capo dello Stato perché capaci di rappresentare «la voce di Israele» e Lea Calderoni ha saputo di essere stata prescelta solo pochi giorni fa. «Non me lo aspettavo e sono molto felice» ammette, raccontando la sua storia: nata a Roma, padre italiano e madre belga, studi al liceo scientifico e al termine una vacanza in Israele con il gruppo di volontari «Taglit». «Sono bastate poche settimane per innamorarmi di questo Paese, al termine della vacanza ho scelto di rimanere e fare l'aliya» ovvero diventare un'immigrata.
Era il 2013 e «da nuova israeliana, come avviene per tutti, è arrivato quasi subito il momento di arruolarmi». I primi sei mesi di addestramento «sono stati difficili e al tempo stesso divertenti perché ero con ragazze tutte non israeliane e nessuno capiva bene i comandi degli ufficiali in ebraico».
Integrazione
Ma poi l'integrazione nei ranghi ha funzionato e «mi hanno designato "madricha" della Sar'el» ovvero istruttore della particolare unità dell'esercito che raccoglie i volontari giunti da ogni Paese del mondo. «Vengono per poche settimane o alcuni mesi, vogliono aiutare l'esercito e sono impiegati in mansioni logistiche o amministrative» spiega Lea, facendo come esempi «mettere in ordine i depositi o catalogare le scorte». «È un aiuto importante per Tzahal - aggiunge, parlando delle forze armate - perché consente di richiamare meno riservisti, facendoli rimanere nella vita civile, in famiglia e al lavoro».
Non ebrei
Ciò che ha subito colpito Lea è che «oltre il 20 per cento dei volontari stranieri non sono ebrei», vengono «da Stati Uniti, Canada, Sudamerica, Europa, India, Singapore» e «si sentono legati ad Israele per le ragioni più diverse, vogliono aiutare». Proprio con i non ebrei Lea ha debuttato come istruttore. «Era un gruppo di finlandesi ed olandesi, tutti cristiani, dai quali ho imparato molto in altruismo». Poi sono arrivati gli americani: «Un veterano dell'Afghanistan, 35 anni e senza gambe, che raccontava con il sorriso il trauma subito in guerra dando coraggio ai soldati nei momenti più delicati» e «un 70enne guru con il quale facevo yoga la mattina mentre mi spiegava le regole della vita».
Le motivazioni
La capacità di entrare in sintonia con tali e tante identità diverse dall'ebraismo laico romano da cui proviene hanno valso a Lea i gradi di caporale con tanto di lodi da parte degli ufficiali che, risalendo la catena di comando di Tzahal fino ai gradi più alti, sono arrivate sul tavolo di Rivlin per la designazione finale. Fra le qualità che più gli vengono riconosciute c'è «la capacità di sorridere e interagire con tutti» anche nelle situazioni più difficili, impreviste. Quasi un riconoscimento alle origini italiane. Non a caso nel giorno della premiazione tiene a dire, con una punta di orgoglio, «sono israeliana e mi sento al tempo stesso italiana per l'educazione che ho ricevuto, per ciò che ho potuto apprendere, per ciò che sono».
(La Stampa, 23 aprile 2015)
Peres: «Oggi le grandi corporation hanno più potere dei governi»
Ma devono «contribuire alla lotta al terrorismo»
di Fabio Sottocornola
A 92 anni, Shimon Peres rivela una grande passione per la tecnologia e l'innovazione. Uno dei padri fondatori di Israele, che è stato un falco negli anni Sessanta, in seguito colomba, tanto da vincere il Nobel per la Pace nel 1994 (con Yitzhak Rabin e Yasser Aralat), è una figura carismatica guardata con rispetto in tutto il Medio Oriente. Dalla Peres peace house, sede della sua Fondazione, che si affaccia sul mare di Jaffa, poco a sud di Tel Aviv, in questa intervista esclusiva a Corriere Innovazione parla di scienza e democrazia, di Mark Zuckerberg e papa Francesco. E contro il terrorismo islamista lancia un monito che coinvolge le grandi corporation: «Se anche voi non partecipate alla guerra contro il terrorismo, ne diventerete vittime».
- In Occidente c'è grande preoccupazione per le minacce e gli attentati dell'Isis. Che cosa bisogna fare? «Dobbiamo alzare la voce, i leader religiosi devono dire ai giovani: non c'è Dio nella guerra e neanche vicino a chi taglia le teste. Siamo fortunati ad avere papa Francesco, che ho incontrato e con il quale noi collaboriamo. La sua voce è molto rispettata. Poi, dobbiamo aggredire le ragioni su cui fa leva il terrore, che sono la povertà e l'ignoranza. Nel Medio Oriente vivono 400 milioni di persone: non credo che le vecchie generazioni cambieranno la situazione. Ma i giovani che oggi studiano, visitano altri Paesi e hanno a disposizione gli strumenti della tecnologia, dagli smartphone ai social network, stanno entrando gradualmente in scena. Sono loro la mia speranza»,
-
Lei è un appassionato di scienza e tecnologie, suo figlio Chemi è un venture capitalist del settore. Che cosa la affascina di questo mondo?
Chemi Peres
«La scienza non ha confini, non si può conquistare con la guerra e non tollera differenze, ma i suoi effetti sono uguali per tutti. NeI mondo globale se discrimini puoi essere discriminato da altre persone. Questo ha conseguenze sulla democrazia, che sta subendo molti cambiamenti. Per esempio, la diversità diventa legittima: oggi democrazia non è solo il diritto di essere uguali ma è l'uguale diritto di essere differenti. Cambiano le forme di partecipazione: attraverso computer, sms o cellulari i giovani chiedono l'opportunità di esprimere inclinazioni o speranze, come individui».
- Lei ha detto una volta che, dopo quelle francese e russa, oggi viviamo la rivoluzione Facebook. Dove ci porterà?
«La Rivoluzione francese ha introdotto la ghigliottina e molte teste furono tagliate. Quella russa fu terribile, con milioni di persone innocenti uccise. Invece, il giovane Mark Zuckerberg non ha ucciso nessuno, non ha partiti né ideologie, forse non ha neanche letto Karl Marx ma sta facendo una rivoluzione enorme. Centinaia di milioni di persone lo seguono con Facebook. In questo mondo globalizzato, dà le risposte a ciò che la gente chiede. Al termine di ogni rivoluzione non devono esserci trionfi militari. La conquista vera è la pace, solo lei può portarci nel futuro».
- Eppure l'impressione è che in Israele il processo di pace e il dialogo con i palestinesi, di cui lei è stato in passato uno dei protagonisti, sia finito.
«Non sono d'accordo. Le idee non muoiono, nessuno le può uccidere. Ma i politici devono sapere che c'è da pagare un prezzo per fare la pace o anche solo trovare un accordo con chi sta dall'altra parte».
- Forse è perché non ci sono leader politici all'altezza di questo compito?
«Ciò però vale non solo in Israele ma in tutto il mondo. Oggi i politici vogliono più apparire, magari in televisione, che non servire il proprio popolo. Pero, se hai successo in tv puoi essere un buon attore ma non un leader. Inoltre, i politici hanno due problemi, molto complicati. Anzitutto, sono costretti a promettere alla gente più di quanto possano realizzare. Questo ne inficia la credibilità. n secondo aspetto è che sono finiti i soldi, e ciò è tragico. Fanno i bilanci ma hanno già speso tutto in eserciti, polizia, burocrazia, simboli. Anche per questo motivo la gestione del potere è passata di mano, completamente».
- Dove è finita?
«Il governo delle economie nazionali è ormai soggetto all'economia globale. Ci sono le grandi corporatìon, che hanno accumulato miliardi di dollari nelle loro riserve e contano più dei governi. Non sono scelte alle votazioni in base alle promesse fatte, ma sono elette ogni giorno, dai propri clienti. Vengono sfidate su due aspetti: innovazione di buoni prodotti e reputazione. Se perdono la fiducia della gente, sono fuori dal business. Non sono attaccate dalla stampa, come i politici. Devono mantenere il buon nome a tutti i livelli, dall'individuo alla nazione, fino al mondo globale. Ma anche le multinazionali dovranno contribuire a sconfiggere il terrorismo, creando lavoro e benessere».
- Lei come vede il futuro?
«Siamo in un periodo di transizione totale, da un vecchio a un nuovo mondo. E nuovi modi di pensare. Dobbiamo affrontare un exodus, come quello di Mosè che ha attraversato il deserto fisico. Invece, il nostro sarà un passaggio mentale e intellettuale».
- Sta per iniziare Expo, occasione di incontro per Paesi di tutto il mondo. Il padiglione di Israele «Fields of tomorrow» si annuncia molto innovativo. «L'ltalia è una terra piena di talenti, avete la musica, insomma siete un singing country. Israele, considerata la startup nation che ha fatto fiorire il deserto, porterà un contributo con gli esempi di come usiamo la scienza e le tecnologie per il progresso del genere umano».
(Corriere della Sera Innovazione, 23 aprile 2015)
«24 giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi»
E' questo il titolo del libro di Ruth Halimi e Émilie Frèche da cui è stato tratto il film "Je suis Ilan", che sarà rappresentato a Roma il 6 maggio prossimo. Il libro contiene le prefazioni di Bernard-Henri Lévy, Pierluigi Battista, Giulio Meotti ed è stato tradotto in italiano da Barbara Mella, Elena Lattes, Marcello Hassan.
Dalla quarta di copertina:
È entrata in un negozio di telefonia nel centro di Parigi. Ha fatto finta di interessarsi ai nuovi cellulari, ha ottenuto il numero del venditore e se n'è andata. Il giorno dopo lo ha richiamato, gli ha detto che voleva rivederlo. Ilan non si è insospettito. Aveva ventitré anni, la vita davanti a sé... Come poteva immaginare che l'incontro con questa bella ragazza in un caffè sarebbe stato un appuntamento con la morte?
Venerdì 20 gennaio 2006, Ilan Halimi, scelto dalla banda dei Barbari perché ebreo, viene rapito e condotto in un appartamento in periferia. Vi rimarrà sequestrato e torturato per tre settimane prima di essere buttato in un bosco dai suoi carnefici. Ritrovato nudo lungo un binario della ferrovia appena fuori Parigi, non sopravvivrà al suo calvario.
In questo straziante resoconto, Ruth Halimi, la madre di Ilan, ritorna su quei 24 giorni di incubo. 24 giorni nel corso dei quali ha ricevuto più di seicento chiamate, richieste di riscatto il cui ammontare cambierà in continuazione, insulti, minacce, foto di suo figlio torturato... 24 giorni che dovrà trascorrere in ufficio, senza dire niente a nessuno, comportandosi come se tutto andasse bene per lasciar lavorare la Polizia Criminale. Ma la polizia non sa con che razza di individui ha a che fare. Non considera l'odio antisemita che domina i rapitori e non immagina che Ilan potrebbe perdere la vita...
Ruth Halimi e Émilie Frèche, 24 giorni. La verità sulla morte di Ilan Halimi ed. Salomone Belforte & C.,
p. 144, € 14,00, Livorno 2010.
RUTH HALIMI è la mamma di Ilan. Vive a Parigi, circondata dall'affetto delle due figlie.
ÉMILIE FRÈCH è scrittrice. Dopo Une femme normale (Points, 2006), Le Sourire de l'ange (Ramsay, 2004), Le Film de Jacky Cukier (Anne Carrière, 2006), ha pubblicato La Mort d'un pote (Panama, 2006), un saggio sull'assassinio di Ilan Halimi.
(Notizie su Israele, 23 aprile 2015)
Gli abitanti di Israele
Alla vigilia del 67esimo anniversario dell'indipendenza, Israele conta 8.345.000 abitanti, circa 10,4 volte di più degli 806.000 che vi risiedevano al momento della sua fondazione. Lo ha comunicato mercoledì l'Ufficio Centrale di Statistica, specificando che i cittadini ebrei sono 6.251.000 (74,9% del totale), quelli arabi (musulmani e cristiani) sono 1.730.000 (20,7% ), mentre ammontano a 364.000 (4,4%) i cittadini cristiani non-arabi, i membri di altre religioni minori o immigrati non appartenenti ad alcun gruppo religioso. Negli ultimi dodici mesi la popolazione d'Israele è cresciuta del 2% (+162.000 persone). Le nuove nascite sono state 176.000, i decessi 44.000. Nel corso dell'ultimo anno si sono stabilite in Israele 32.000 persone. Dalla fondazione dello stato, hanno fatto la aliyà (cioè si sono stabiliti in Israele) 3.500.000 ebrei. Oggi circa il 75% dei residenti ebrei sono nati in Israele. Gerusalemme è la città più popolosa con 815.300 abitanti.
(israele.net, 23 aprile 2015)
Il nuovo "Esodo" degli ebrei romani
Pontecorvo: "Italia come la Francia, ma con qualche differenza"
di Marta Moriconi
Gianluca Pontecorvo, co-fondatore del Progetto Dreyfus e giovane membro della Comunità Ebraica di Roma, commenta l'inchiesta del Corriere della Sera che parla di un nuovo "esodo" ma degli ebrei italiani che vanno in Israele. IntelligoNews chiede a lui delle spiegazioni, le ragioni e le paure che attanagliano la loro comunità e analogie e differenze con la fuga dalla Francia.
- Cosa succede. Un'inchieste del Corriere vi vuole in partenza verso Israele. L'Italia fa paura come la Francia?
"La comunità ebraica in Francia è molto più grande che nel nostro Paese, però sono più forti i fenomeni di antisemitismo che si possono vivere qui a livello quotidiano, e io parlo della realtà romana soprattutto.
In Italia viviamo in una situazione molto particolare. Tutti i cittadini saranno pure uguali, ma i bambini ebrei romani sono costretti ad andare a scuola scortati dalle Forze dell'Ordine".
- Ma questo solo ora o da sempre?
"No, sono anni che viviamo costantemente con le Forze dell'Ordine che ringraziamo per gli sforzi. Da quando morì Stefano Gaj Taché siamo molto più protetti da allora. E' scontata per noi questa cosa, ma non dovrebbe essere la normalità per i bambini andare a scuola così. Non auguro a nessuno di andare in classe scortato".
- Ma forse emigrate anche per le problematiche che incontrate a livello occupazionale? Israele offre di più?
"Israele, e lo dico non da ebreo ma da imprenditore, è un Paese che offre moltissime opportunità. Poi per un ebreo che decide di fare ritorno nella Terra di Israele, ci sono delle garanzie perché c'è una comunità che ti accoglie: dalle tasse, ai corsi di formazione, all'insegnamento della lingua, ci sono diverse opportunità. E questo aiuta molto".
- Ha persone vicino che hanno già fatto la scelta di l'Italia?
"Sì, certo. Negli ultimi anni sono tantissime le famiglie intere che hanno fatto la scelta di tornare in Israele. Dalle persone adulte, che con la crisi economica hanno deciso di reinventarsi, fino agli studenti che sono andati lì nelle Università israeliane, famose per l'alto livello di formazione didattica. E' un contesto dove i giovani vengono valorizzati. Non c'è quel continuo discorso di dover essere attenti all'anti-semitismo. Sì, c'è un conflitto in atto con i palestinesi, ma dal 67".
- Ma l'Italia è oggi come la Francia o no? E' di oggi l'arresto di un presunto terrorista islamista
"Per rispondere al meglio uso un esempio. E' simbolico quanto successe anni fa nei confronti di Ilan Halimi, noi di Progetto Dreyfus terremo un grandissimo evento il 6 maggio per ricordarlo. E' il più grande simbolo per quanto riguarda l'antisemitismo moderno, in quel caso in Francia. Questo ragazzo venne rapito e torturato perché i suoi persecutori partivano dall'idea che gli ebrei fossero ricchi e che si aiutavano tra loro quindi era lecito rapire e uccidere una persona. Questo ancora in Italia non è successo, e non ci sono ancora le condizioni per cui possa accadere, ma è dovere nostro e dei media non permettere che succeda mai e poi mai".
- In Italia non vivete più bene insomma
"Noi viviamo ancora bene nonostante l'antisemitismo e nonostante la crisi. Non vorrei essere costretto a lasciare Roma, che amo come nessun'altra città al mondo, ma ci sono dei problemi che potrebbero mettere a rischio non solo me, ma i miei familiari, i miei amici. Questo stiamo evidendiando ".
- Un commento sulla scritta vicino al Colosseo "Toaff balleremo sulla tua tomba" firmato Militia. "Le scritte erano 5 e sono state prontamente cancellate dal Comune e dalle forze dell'Ordine. Io sono stato il giorno del funerale al Tempio della Sinagoga maggiore e poi ho accompagnato il feretro a Livorno. Per me Toaff è stata una figura probabilmente irripetibile per quanto ha fatto. Un maestro che ci ha lasciato un grandissimo testimone. Questa gente non si commenta. Toaff era troppo grande anche solo per essere sfiorato dal pensiero di queste persone indegne. Ci penserà la giustizia".
(IntelligoNews, 23 aprile 2015)
L'Ambasciatore di Israele: UE ipocrita sulle etichette ai prodotti dagli insediamenti
Naor Gilon al forum ANSA: ottimi i rapporti con l'Italia
di Patrizio Nissirio
L'Ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon
ROMA - Le etichette sui prodotti delle colonie, proposte da alcuni paesi europei? "Così l'Europa discrimina ed è ipocrita, visto che non ha fatto lo stesso in altri conflitti, tipo Cipro o i Balcani, e danneggia la pace. E' il tentativo di coloro che sono dietro a questa iniziativa di arrivare alle sanzioni contro Israele": lo ha detto l'ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon, durante un Forum oggi all'ANSA, in cui il diplomatico ha toccato argomenti di scottante attualità: dal negoziato in stallo con i palestinesi, all'Iran, all'antisemitismo, fino ai rapporti con l'Italia, che giudica "eccellenti".
"L'Europa ha fatto molti danni al processo di pace negli ultimi anni - ha detto Gilon al forum ANSA, coordinato dal direttore Luigi Contu - C'è il preconcetto che solo Israele sia da biasimare, e così i palestinesi hanno il sostegno garantito di molti paesi europei, e anche dell'Italia, come nella vicenda dello status di osservatori all'Onu. La pressione è sempre su Israele, mentre il governo di Abu Mazen sa solo incitare le nuove generazioni, dicendo loro che Israele è il male, e non costruisce uno stato che sia alternativo ad Hamas. Ma l'Europa non aiuta la pace, se non mette pari pressione su di loro". Per Gilon gli insediamenti ebraici nei territori palestinesi non sono l'ostacolo che blocca i negoziati di pace, ma un pretesto, "e Israele ha dimostrato di saperli smantellare quando c'è la necessità, come abbiamo fatto quando ci siamo ritirati da Gaza o dall'Egitto". "Anche quando gli insediamenti sono stati congelati, quattro anni fa, il negoziato non ha fatto progressi - ha notato - I progressi ci sono solo quando i palestinesi parlano con Israele. Noi vogliamo uno stato palestinese, non una nuova entità del terrore. Se non ci fosse l'esercito israeliano in Giudea e Samaria Hamas avrebbe già preso il sopravvento. L'Anp non sta creando uno stato, e se quello che nasce è instabile e pericoloso, noi non possiamo accettarlo".
Poi il capitolo sui rapporti tra Italia ed Israele, che "sono eccellenti, dal punto di vista pratico, commerciale, militare, culturale, ma anche da quello politico".
Gilon, spiegando l'importanza che Israele dà alla propria presenza all'Expo, ha quindi fornito qualche cifra: 4 miliardi di interscambio, per due terzi in favore dell'Italia, e il numero di turisti "350-400.000 turisti israeliani hanno visitato l'Italia negli ultimi due anni, è il 5% della popolazione israeliana, un numero incredibile". "Sul piano politico - ha proseguito l'ambasciatore Non siamo d'accordo su tutto, ma lo siamo sui punti fondamentali. Comprendiamo la preoccupazione dell'Italia sulla crescita dell'estremismo in Medio Oriente, che è anche la nostra. E conosciamo la preoccupazione dell'Italia per la situazione in Libia". Sull'antisemitismo, l'Italia - ha proseguito, ricordando tra l'altro la visita fatta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle Fosse Ardeatine, dal forte valore simbolico, e le posizioni di forte condanna dell'ex presidente Giorgio Napolitano - è uno dei paesi dove "le autorità hanno la massima attenzione ai fenomeni di antisemitismo e fanno di più per prevenirli...certo ci sono elementi negativi, ai margini della società - ha spiegato - vecchi tipi antisemiti che cercano di colpire gli ebrei perché sono contro Israele. Il terrore può arrivare, anche in Italia. Può nascere in Italia. Ma tutti ne sono consapevoli".
Ma nella discussione non poteva mancare uno dei temi centrali per Israele, quello del nucleare iraniano: Israele, ha sottolineato l'ambasciatore, è contrario all'accordo di Losanna perché non diminuisce la capacità nucleare dell'Iran, visto che "nessun impianto verrà smantellato". "L'Iran - ha spiegato - è attualmente un Paese nucleare, lo sanno tutti, ma ancora senza l'arma nucleare. Con questo accordo ci si avvicina. Teheran cerca di dominare la regione. Il Medio Oriente è già una regione armata fino ai denti, con milioni e milioni in armi che vengono comprate e vendute. Una volta che l'Iran sarà nucleare, noi vedremo un peggioramento anche in questo senso, una corsa in questa direzione. Il problema si allargherà anche a paesi come la Libia, non solo nel Medio Oriente. In ultima analisi, questo accordo non aumenta la sicurezza della regione e dell'Occidente, ma anzi aumenta il pericolo".
(ANSA, 22 aprile 2015)
Presentazione del libro: "Gli ebrei a Fondi e nel territorio"
Il sindaco De Meo: "La città è sempre stata attenta all'immigrazione"
FONDI - Avrà luogo domani, giovedì 23 Aprile, alle ore 11.00 presso l'Auditorium San Domenico la presentazione del libro "Gli Ebrei a Fondi e nel suo territorio" (2014) a cura del prof. Giancarlo Lacerenza, docente presso il Centro di Studi Ebraici dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Ai saluti del Sindaco di Fondi Salvatore De Meo e dell'Assessore alla Cultura Lucio Biasillo seguiranno gli interventi dello stesso prof. Lacerenza e degli studiosi dell'ebraismo in terra pontina proff.ri Gaetano Carnevale, Giovanni Pesiri e Pier Luigi De Rossi. Il volume, edito dal Comune di Fondi e dall'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" - Centro di Studi Ebraici, raccoglie gli atti dell'omonimo Convegno tenutosi a Fondi il 10 Maggio 2012.
Costituisce la più completa pubblicazione sulla secolare presenza ebraica non solo nel territorio di Fondi ma anche, dal XIII al XVI secolo, negli altri feudi dei Caetani nel Regno di Napoli e, tra il XV e XVI secolo, in un'area molto più vasta, ovvero il Lazio e la Campania. Nella prima parte del libro sono ospitati gli indirizzi di saluto del Sindaco Salvatore De Meo e dell'Assessore Lucio Biasillo, del Presidente del Creia Mauro Antonelli, del Presidente della Comunità Ebraica di Napoli Pier Luigi Campagnano, del Responsabile Ucei - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Dipartimento Educazione e Cultura Gadi Piperno, dell'Assessore alla Cultura e ala Memoria della Comunità Ebraica di Roma Livia Ottolenghi.Seguono gli studi di Eliodoro Savino ("Ebrei nel territorio di Fondi nella Tarda Antichità"), Heikki Solin ("Iscrizioni giudaiche antiche a Fondi"), Maria Teresa Caciorgna ("La contea di Fondi nel XIV secolo"), Giovanni Pesiri ("Insediamenti ebraici a Fondi e negli altri feudi dei Caetani nel Regno di Napoli - secc. XIII-XVI"), Anna Esposito ("La presenza ebraica fra Lazio e Campania tra XV e XVI secolo"), Nella Vano ("Dal Regno alla Campagna: insediamento e mobilità ebraica a Veroli nel primo Cinquecento"), Pier Luigi De Rossi ("Gli ebrei a Terracina"), Giancarlo Lacerenza ("La distruzione di Fondi nella cronaca ebraica di Yosef ha-Kohen"), Gaetano Carnevale ("Riscoprire Fondi ebraica").
"Gli esiti delle nuove indagini storiche - scrivono nella prefazione il Sindaco De Meo e l'Assessore Biasillo - hanno confermato come la città di Fondi sia stata sempre tesa all'integrazione; una prerogativa ancora oggi attuale. Si evince infatti a più riprese che la minoranza ebraica non subì penalizzazioni o discriminazioni dalla popolazione e dalle istituzioni locali. Ciò conferma storicamente la grande tradizione di accoglienza della comunità fondana, sempre improntata a rapporti di pacifica e feconda convivenza".
"Il rigoroso lavoro di approfondimento delle radici ebraiche nel nostro territorio che ha avuto esito dal Convegno - proseguono assessore e sindaco - e che ci si propone di divulgare con la presente pubblicazione, si affianca da tempo ad altre attività culturali promosse dall'Amministrazione comunale di Fondi. Tra queste figura in primis la "Giornata Europea della Cultura Ebraica", che rappresenta una preziosa opportunità di conoscenza e condivisione delle numerose peculiarità dell'ebraismo diffuse sul territorio e costituisce al tempo stesso un giorno di festa che affonda le sue radici in una tradizione tanto antica quanto immersa nella modernità".
(Il Faro, 22 aprile 2015)
Il Parmigiano Reggiano diventa kosher. La comunità ebraica: "Una novità di portata storica"
"La sfida di conciliare il disciplinare di un prodotto unico al mondo come il Parmigiano Reggiano DOP con la kasherut si è rivelata estremamente complessa. Il controllo interessa tutte le fasi della produzione: dall'allevamento delle bovine alla mungitura, eseguita sotto la supervisione di un rabbino che verifica la natura Chalav Yisrael del latte proveniente solo da animali kosher", ha detto il produttore a FQ Magazine.
di Barbara Giglioli
A Parma ci sono 4000 allevatori e 353 caseifici. Solo tre hanno l'intera filiera e solo uno fa un ragionamento diverso dagli altri: il latte non è tutto uguale. L'Azienda agricola in questione è Bertinelli, che cura la produzione del Parmigiano Reggiano in ogni sua parte. Il controllo inizia dagli animali, fino ad arrivare alla tavola del consumatore. L'azienda parmense produce vari tipi di Parmigiano Reggiano: si parte dal "Senza", privo di lattosio e con caglio vegetale, per passare poi al millesimato, ottenuto con il latte delle bovine neo mamme, che abbiano partorito da non più di cento giorni. Il nuovo arrivato in casa Bertinelli e il Kosher. L'azienda si rinnova infatti nel segno della kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah. A partire dallo scorso ottobre, Bertinelli ha avviato la produzione di Parmigiano Reggiano DOP Kosher. Le prime forme saranno disponibili per il mercato a fine 2015. Jack Dwek, importante esponente della comunità ebraica in Italia, si è detto soddisfatto: "Il Parmigiano Reggiano Kosher rappresenta una novità di portata storica. Da tempo, la nostra comunità chiedeva di poter avere una versione Kosher del Re dei Formaggi: una missione impossibile all'apparenza. L'azienda agricola Bertinelli ha da subito prestato grande attenzione alle nostre richieste: la collaborazione è partita 12 mesi fa. Un anno segnato da ostacoli, dettati dalla complessità della kasherut: ma Nicola, con pazienza e dedizione, ha saputo ovviare a tutte le difficoltà. E ora il traguardo è veramente vicino".
- Nicola Bertinelli, che connessione c'è tra religione ebraica e cibo?
Nella religione ebraica le regole alimentari e i prodotti gastronomici sono rigorosamente codificati dai Libri Sacri.
- Una bella sfida quella di produrre Parmigiano Reggiano Kosher.
Sì. La sfida di conciliare il disciplinare di un prodotto unico al mondo come il Parmigiano Reggiano DOP con la kasherut si è rivelata estremamente complessa. Il controllo interessa tutte le fasi della produzione: dall'allevamento delle bovine alla mungitura, eseguita sotto la supervisione di un rabbino che verifica la natura Chalav Yisrael del latte proveniente solo da animali kosher. Anche il caglio animale con cui produciamo il Parmigiano Reggiano DOP deve essere certificato Kosher.
- In caseificio i controlli sono continui?
Sì, il processo produttivo è costantemente monitorato dalla figura del Mashgiach Temid. Inoltre, per quanto riguarda gli impianti e le strutture, tutto il percorso è stato sanificato per adeguarlo alla normativa ebraica.
- L'azienda è la prima ad aver avuto la certificazione kosher, giusto?
Esatto, è la prima realtà al mondo ad aver ottenuto la certificazione per la produzione di formaggio Parmigiano Reggiano DOP sia da parte di OU - The Orthodox Union, sia da parte di OK Kosher Certification.
- Di cosa si tratta?
OU e OK hanno sede a New York e sono considerati i più autorevoli enti di certificazione Kosher al mondo dagli statunitensi e dagli israeliani. Un aspetto importante perché negli Usa e in Israele vive oltre l'80% delle persone di fede ebraica.
- Questo è quindi uno dei motivi per cui ha ricevuto il premio "Man of the Year" dal sindaco di New York?
Già. Il 4 ottobre 2014 ho ottenuto questo riconoscimento. Pensi che nell'area metropolitana di New York ci sono 10 mila persone che mangiano kosher.
- Le certificazioni OU e OK cosa rappresentano per lei, Nicola?
Rappresentano, idealmente, un premio per la nostra concezione di azienda agricola e di filiera agro-alimentare del latte. La Bertinelli, infatti, gestisce in proprio tutti i comparti produttivi. Mi piace ricordare che i prodotti dei nostri campi sono utilizzati per il fabbisogno nutritivo del bestiame presente nelle nostre stalle. Questo è importantissimo perché il formaggio si fa "in stalla" e non in caseificio.
- Qual è il punto di partenza per produrre un buon formaggio?
Bisogna partire dalla corretta alimentazione delle bovine: solo chi ha il controllo su tutta la filiera può essere certo che il bestiame sia alimentato nel migliore dei modi. Quando dico questo intendo un'alimentazione basata su foraggi freschi, ricchi di "batteri buoni" che danno aroma e profumo al Parmigiano Reggiano.
- In Italia quali riconoscimenti ha avuto il Parmigiano Reggiano DOP targato Bertinelli?
Ha ottenuto il riconoscimento del rabbino di Milano.
- Quanto Parmigiano Reggiano Kosher prevede di produrre all'anno?
Circa 5.000 forme. Buona parte della produzione avviata nell'ottobre 2014 è già stata venduta.
- Avete intenzione di produrre anche formaggio Kosher senza lattosio?
Sì, produrremo anche un formaggio fresco lattosio-free, sempre Kosher. Le prime forme di questo prodotto saranno disponibili a partire dall'estate 2015.
- Nicola perché avete deciso di produrre Parmigiano Reggiano Kosher?
I motivi sono fondamentalmente due. Il principale è di natura culturale: da sempre la nostra si configura come una realtà di eccellenza nella produzione di Parmigiano Reggiano DOP, sensibile alle esigenze di consumatori sempre più esigenti e attenti alla qualità di ciò che servono sulla propria tavola. Se la certificazione Kosher è nata per orientare i comportamenti di acquisto dei fedeli ebraici, oggi è garanzia della qualità e della salubrità di un prodotto. Cito il caso degli Usa, dove i prodotti kosher, che sono oltre 90mila, rappresentano il 28% dei prodotti alimentari venduti nei supermercati. Il 56% dei consumatori è composto da non ebrei, bensì da persone che hanno sposato la filosofia alimentare vegetariana o con particolari intolleranze o allergie alimentari.
- La seconda motivazione qual è?
In un momento in cui anche Confagricoltura certifica le difficoltà del sistema Parmigiano Reggiano, è importante aprirsi nuovi orizzonti di mercato. Nel mondo vivono circa 13,5 milioni di persone di fede ebraica, di cui poco meno di 40.000 in Italia. Il fatturato mondiale del mercato alimentare kosher è stimato in 150 miliardi di dollari: un fenomeno che non è possibile ignorare.
(il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2015)
"Vi chiedo perdono", alla sbarra con il contabile di Auschwitz
A processo in Germania l'uomo che requisiva il denaro degli internati del lager. Il mea culpa davanti ai sopravvissuti. "Qualcuno di voi mi riconosce, lo so. Vidi uccidere un neonato. E capii. Avevo 21 anni, vedevo in Hitler il salvatore della Patria, nelle Ss mi sentivo parte della casta scelta per la vittoria. Ci dissero: compirete azioni non eroiche né gloriose, ma i nemici del popolo tedesco vanno annientati".
di Andrea Tarquini
«Allora avevo ventun anni, vedevo in Hitler il salvatore della Patria, nelle SS mi sentivo parte della casta scelta della vittoria. Poi non ebbi mai pace. Ora capisco la mia piena colpevolezza morale. A voi sopravvissuti e parenti delle vittime qui in aula chiedo solo perdono; se devo essere punito, giudichi Lei, Vostro Onore». Voce debole ma ferma, quasi infreddolito nel gilet beige sulla camicia biancastra a righe, Oskar Gröning pronuncia il suo mea culpa. È cominciato così, ieri mattina alle 9 nella Ritterakademie, l'antica accademia dei cavalieri di Lüneburg, il processo al 93enne ex contabile di Auschwitz, il cassiere dell'Olocausto.
È forse l'ultimo grande processo a un criminale nazista, e appare diverso da tutti gli altri: l'ex timido Unterscharfuehrer delle Waffen-SS per primo non nega, anzi riconosce tutto. Guarda negli occhi i "suoi" sopravvissuti alla Shoah e i parenti delle "sue" vittime, ammette, narra una vita di vergogna. La banalità del Male che Hannah Arendt raccontò col suo reporting del processo all'architetto del genocidio Adolf Eichmann qui acquista un altro volto, tardiva resa dei conti. È entrato lento e curvo sorreggendosi al deambulatore, si è seduto alla sbarra inforcando gli occhiali, l'ex Unterscharführer pronto a finire decenni di vita postbellica tranquilla con una condanna da tre a 15 anni.
«Vostro Onore, signore e signori ex internati, e Lei avvocato Walther loro legale, scusate le frasi lente, è l'età, ma lasciatemi dire». Ha parlato per tre quarti d'ora, poi per un'ora ha risposto alle pazienti domande del giovane giudice Franz Kompisch, quasi in un j'accuse contro se stesso. Complicità in almeno 300 mila omicidi, tanti furono gli ebrei ungheresi consegnati al Reich e mandati in corsa alle "docce" e poi ai forni. Non sparò mai, non alzò mai la mano contro una vittime, l'ex Unterscharfuehrer. Ma da buon ex funzionario di una Sparkasse, teneva i conti di tutto: «marchi, zloty, lire, fiorini, migliaia di dollari, centinaia di sterline toccava a me registrare ogni contante sequestrato a chi veniva scaricato dai treni, calcolare il tasso di cambio, e versare tutto a Berlino». Dunque complicità, dicono i capi d'accusa, nel furto di massa che aiutò il finanziamento della Shoah.
Ivan Demjanjuk negò tutto fino alla condanna a Monaco e dopo, Sàndòr Képiro massacratore di civili in Jugoslavia si disse ligio al dovere, e nella Budapest di Orbàn fu assolto ed ebbe funerali da eroe. Herr Gröning no, conferma tutto. «Sì, Signor presidente della Corte risponde al giudice Kompisch entrai volontario nelle SS. Papà era nazionalista convinto, membro degli Stahlhelm; io decisi di lasciare la carriera in banca, volli entrare nelle truppe scelte della riscossa tedesca. Sapete, Hitler ci esaltò: via di colpo i 5 milioni di disoccupati, ordine e lavoro, poi i polacchi sgominati in 18 giorni, i francesi in ancor meno». Coscienza odierna del Male e fierezze del passato coesistono nel suo animo di reo confesso, mentre quei sessanta sopravvissuti e familiari di vittime, una Schindler List senza salvatori, lo ascoltano e guardano sgomenti. «Forse gli stiamo chiedendo troppo sussurra Eva Kòr, una di loro Certo, è colpevole, lo sa e lo dice, ma si vede che ne soffre, adesso è lui l'anima dilaniata».
Fuori dalla Ritterakademie, arriva all'improvviso un gruppetto di neonazisti e grida «Vergogna, giustizia serva di angloamericani ed ebrei, no alla vendetta dei vincitori, l'Olocausto è un'invenzione». La polizia li respinge in corsa, giovani manifestanti democratici festeggiano gli agenti sventolando una bandiera israeliana.
E quando capì a cosa avrebbe partecipato?, incalza calmo in aula il giudice Kompisch. «Vede, Vostro Onore, ci fecero firmare una dichiarazione segreta di fedeltà assoluta. Ci dissero "compirete azioni non eroiche né gloriose, ma i nemici del popolo tedesco vanno annientati" ci annunciarono all'ultimo la partenza per Auschwitz, sapevo dov'era ma non cosa fosse. Divenni il contabile, dal primo giorno». Innocenza apparente, subito perduta nel Luogo del Male assoluto. «"Qui togliamo di mezzo i nemici", dissero gli anziani a noi nuove leve la prima sera, dopo molta vodka. Chiesi loro che vuol dire, "che vuoi che voglia dire?", mi risposero. Un mondo cominciò a crollarmi dentro, ma non reagii». Senso del dovere cieco, «fino al giorno in cui vidi una mesta fila di gente in marcia, mi sembrarono tutti ebrei. "Mettiti la maschera antigas", mi disse il mio superiore; furono spinti in un locale con scritto "docce", l'ufficiale sprangò la porta, udii urla sempre più forti, poi il silenzio». Silenzio dell'imputato, un sospiro, poi un'altra confessione: «Alcuni dei presenti, lo so, mi riconoscono: mi videro alla rampa. Là un giorno, davanti ai miei occhi, un soldato delle SS strappò dalle braccia materne un neonato che piangeva, e lo sbatté a morte contro le pareti d'un vagone. Lo uccise così, capite, nemmeno con un colpo di fucile!».
«Capii allora di aver scelto la parte sbagliata nell'inferno, chiesi di essere trasferito al fronte, ma invano», continua Gröning. Richiesta respinta, allora restò docile contabile. «Valute d'ogni parte d'Europa, persino dollari Usa probabilmente falsi, sterline inviavo tutto a Berlino». Alla Direzione economica delle SS a Steglitz, quartier generale del management dell'Olocausto. E non si domandò mai, chiede il giudice, a chi appartenevano tutti quei soldi? «Al Reich, perché ormai agli ebrei non servivano più. Così pensavo allora, ecco la mia colpa».
(la Repubblica, 22 aprile 2015)
Mai più clemenza con i carnefici
Nei tribunali l'aria è cambiata: la vecchia generazione dei giudici nostalgici non è più al lavoro.
«Quello contro Oskar Gröning è il primo processo, almeno da decenni, contro un criminale nazista che non abbia mai impugnato un'arma per eseguire la Shoah bensì vi abbia partecipato in altro modo. Per questo è importantissimo, pensando ai principi del Diritto». Ecco il giudizio di Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal per la caccia ai responsabili dell'Olocausto e ai criminali del Reich ancora superstiti, erede del leggendario cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal.
- Cosa pensa del processo iniziato in Germania? «È un processo unico e importantissimo. Perché l'inchiesta e i capi d'accusa estendono in modo significativo il concetto di complicità con l'Olocausto. Gröning non ha mai ucciso né torturato, eppure come egli stesso ora ammette è moralmente colpevole. Perché è stato una parte, sebbene una piccola ruota, nella macchina del genocidio».
- Alcuni, come Serge Klarsfeld, esprimono dubbi su questo ampliamento del concetto di complicità. Che ne dice?
«No, secondo me è giusto. Non solo perché a suo modo lo dice l'imputato stesso, e il suo stesso atteggiamento pubblico e interiore di reo confesso è una novità. Bensì anche e soprattutto perché Groening, amministrando e trasmettendo a Berlino ogni banconota confiscata alle vittime della Shoah, è stato una parte piccola ma al tempo stesso importante del finanziamento dell'industria nazista del genocidio del popolo ebraico. Non dimentichiamo che l'Olocausto ebbe anche una sua dimensione economica, spaventosamente efficiente e spietata: appunto i soldi confiscati agli ebrei, i loro denti d'oro, la confisca di ogni bene. Tutto finanziò la guerra di Hitler e la Shoah».
- Cosa si aspetta dal tribunale di Lüneburg?
«Sono ottimista, vedo buone possibilità che Gröning sia condannato. Del resto non ha chiesto clemenza. Non è questione di castigo bensì di scelta-simbolo in nome della Memoria».
- Ma per decenni la Germania non ha toccato Gröning, non è una colpa?
«I decenni postbellici di clemenza e di occhi chiusi coi criminali in casa sono uno scandalo: poche decine di processi per i 6000 carnefici di Auschwitz sopravvissuti. Ma negli ultimi anni la Germania è cambiata: ha una nuova, forte coscienza e volontà collettiva giovanile di Memoria, e la vecchia generazione di giudici presunti nostalgici non è più al lavoro».
(la Repubblica, 22 aprile 2015)
Non è questione di castigo bensì di scelta-simbolo in nome della Memoria. Fare di una persona concreta, in carne e ossa, con pensieri e sentimenti, con affetti e propositi, un mero simbolo da colpire in nome di una qualche superiore astrazione è comunque un fatto grave. Chi lo compie deve riflettere attentamente. Né la Patria né la Memoria devono diventare idoli davanti ai quali si sacrificano vittime umane. M.C.
L'esodo italiano, gli ebrei «tornano» in Israele
Terrorismo e mancanza di occasioni di lavoro spingono i giovani a cercare una nuova sistemazione nella «Terra promessa».
di Jacopo Storni
Soltanto in Israele si sentono a casa. Soltanto in Israele si sentono sicuri. Sono nati in Italia, ma scelgono di trasferirsi in Israele perché soltanto lì possono vivere una vita normale, una vita ebraica allo stato puro, una vita senza la paura degli attentati. In Italia si sentono minoranza, qualcuno di loro teme che sia cominciata una nuova caccia antisemita. La strage di Parigi ha risvegliato antiche paure. Nella capitale francese i terroristi hanno preso di mira un supermercato ebraico kosher. Poi c'è stato l'attentato alla sinagoga di Copenaghen, infine l'invito pubblico del premier Benjamin Netanyahu: «Faccio appello agli ebrei perché ci sia un'immigrazione di massa dall'Europa. In Europa gli ebrei vengono uccisi soltanto perché ebrei. Venite in Israele, è casa vostra». C'è chi lo prende alla lettera e prepara le valigie.
Quasi 20mila gli ebrei che ogni anno emigrano in Israele da tutto il mondo, andando ad ingrossare i nuovi insediamenti ebraici del Paese, con inevitabili ripercussioni sulla questione israelo-palestinese. Cinquemila ebrei dall'Ucraina soltanto nel 2014, quasi 4mila dalla Francia, il doppio rispetto al 2013. Quasi un esodo. Il fenomeno si chiama aliyah, è il trasferimento degli ebrei in Israele. Loro preferiscono chiamarlo «ritorno», perché «Israele è sempre stata la nostra Terra». Il fenomeno è in crescita ovunque, anche in Italia: nel 2010 emigrarono in Israele soltanto 40 ebrei italiani, nel 2011 sono saliti a 200, nel 2012 sono arrivati a 250, nel 2013 sono cresciuti a 350 e nel 2014 sono stati 418. Nel 2015 potrebbero sfiorare i mille. Chi emigra può usufruire di massicce agevolazioni economiche: sussidi per l'affitto, corsi gratuiti di inglese ed ebraico, aiuti nella ricerca del lavoro, sconti sull'Università. Data la crisi italiana, agli ebrei emigrare conviene e il fattore economico gioca certamente un ruolo importante. «Se tanti italiani scelgono di andare a Londra o negli Stati Uniti per cercare un futuro professionale, parallelamente è naturale che un ebreo decida di andare in Israele» spiega Carmel Luzzatti, direttore dell'Agenzia ebraica in Italia, l'ente che assiste gli ebrei italiani che vogliono andare a vivere in Israele.
Accanto al fattore economico, l'antisemitismo e la paura del terrorismo restano le ragioni principali per cui gli ebrei italiani diventano olim (emigranti in Israele). «Quando cammino per strada con la kippah, può succedere che la gente mi guardi male» dice Devid Moscati, 32 anni romano. Lui ha un negozio kosher a Trastevere e a giugno lascerà l'attività per trasferirsi a 20 chilometri da Tel Aviv. «Il mio minimarket è uguale a quello preso di mira dai terroristi di Parigi. E' naturale aver paura di un attentato». Tanti ebrei tornano in Israele, e tante attività commerciali italiane da loro gestite chiudono: negozi, aziende, società. Gli ebrei d'Italia si sentono bersagli facili: «Gli attentati di Parigi e di Copenaghen contro gli ebrei si ripeteranno in tutta Europa e potrebbero colpire anche l'Italia. Non ci sarà mai una tregua» dice Denise Flori, milanese in procinto di partire per Israele. Le fa eco Giorgia Di Porto, romana di 29 anni, che lascerà l'Italia col marito e i due figli: «Il terrorismo è ovunque e noi abbiamo paura. In Israele il terrorismo ce l'abbiamo dentro casa ma il Governo lo combatte con fermezza e ci fa meno paura. In Italia siamo troppo vulnerabili». E poi c'è il fattore religioso. «Soltanto in Israele - dice Devid - posso vivere a pieno i precetti alimentari dell'ebraismo. In Itala è difficile seguire alla lettere questi divieti visto che esistono pochissimi ristoranti ebraici e pochi negozi kosher». Parole simili da Denise: «In Italia devo nascondere le mie abitudini, in Israele sarò libera di esprimere la mia cultura, non farò parte di una minoranza».
(Corriere della Sera, 22 aprile 2015)
«Caro Führer non ammazzare gli ebrei»
Il poeta tedesco Armin T. Wegner, dopo lunghi viaggi in Nordafrica e in Medio Oriente e gli studi di giurisprudenza, allo scoppio della Grande Guerra si arruolò nei corpi sanitari e fu insignito della Croce di ferro per il coraggio mostrato nell'assistere i feriti. Distaccato nell'impero ottomano, fu testimone del genocidio perpetrato dai turchi contro gli armeni: eludendo i divieti dei comandi tedeschi raccolse documenti, appunti e fotografie che testimoniarono i massacri. Rientrato in Germania si batté per la pace, fìno a scrivere una lettera a Hitler nel 1933 per chiedere la fine delle persecuzioni contro gli ebrei tedeschi (tra i quali sua moglie, la scrittrice Lola Landau). Arrestato dalla Gestapo e intemato a Orianenburg, sopravvisse al nazismo e dopo la guerra fu iscritto tra i Giusti tra le nazioni dello Yad Vashem di Gerusalemme (1967). Morì a Roma nel 1978; le sue ceneri furono portate in Armenia per essere onorate al Memoriale del genocidio. La sua vicenda è raccontata in forma narrativa da Gabriele Nissim nel volume La lettera e Hitler, in uscita oggi per Mondadori (pagine 304, euro 19,00); in questa pagina ne anticipiamo un passo.
di Gabriele Nissim
Armin T. Wegner
Ritornati nella loro abitazione nella capitale, Armin riprese la sua vita. Qualche cosa era però cambiato nella sua testa dopo la minestra lanciata dalla figlia in mezzo alla tavola e le esortazioni inascoltate di Lola. Armin si chiuse per un giorno e una notte nella sua camera e ne uscì esausto, dopo avere immaginato tutto ciò che poteva accadere nel futuro della Germania e nella sua vita privata. Per cercare di porre un freno alla deriva morale in cui il paese stava precipitando, Armin decise di scrivere una lettera all'attenzione del Signor Cancelliere AdolfHitler per denunciare l'intolleranza e la persecuzione degli ebrei. Era il lunedì di Pasqua del 1933. «Vieni Lola che te la leggo». «Una lettera al Führer? Santo Cielo ». «Sì, gliela spedisco alla Cancelleria». Armin le accarezzò il viso per calmarla, di fronte alla paura della moglie per quanto gli sarebbe potuto accadere. Non c'era in tutta la Germania uno scrittore tedesco noto e famoso che stesse osando un passo del genere. Ora non rischiava solo lei come ebrea, ma tutti e due andavano incontro a un destino incerto. Armin si era preso carico della sua sofferenza e difendeva davanti al Führer i diritti di tutti i suoi figli [...].
Armin voleva convincere Hitler di due cose fondamentali: gli ebrei sono parte integrante della cultura e della nazione tedesca e quindi discriminarli significa amputare la stessa Germania, che così perde la sua parte migliore; fare del male agli ebrei significa imprimere una macchia di vergogna indelebile sul futuro della Germania. Egli in cuor suo pensava che la ragione e il buon senso potessero alla fine prevalere, anche di fronte all'ondata antisemita che interessava il paese. «Avevo sperato che quella mia lettera avesse qualche impatto, perché non solo avevo espresso la mia indignazione e lo avevo pregato di fare un passo indietro, ma anche perché gli avevo spiegato che la Spagna era andata in crisi quando aveva cacciato gli ebrei, e avevo previsto la rovina della Germania se Hitler e i suoi seguaci li avessero perseguitati. Il tempo mi ha dato ragione. Non c'era bisogno di essere molto saggi per dirlo. Bastava un minimo di consapevolezza storica, oppure conoscere gli ebrei e voler loro bene come ho fatto io fin da giovane».
Armin, come tanti suoi conoscenti ebrei, era anche un po' ingenuo. Era convinto che lo stesso Hitler non fosse a conoscenza di tutti gli «eccessi» che si stavano verificando nel paese dopo il suo arrivo alla Cancelleria. «Nel marzo del 1933, quando mi consigliai con amici ebrei su che cosa avrei potuto dire al cancelliere del Terzo Reich Adolf Hitler, non era per nulla chiaro se fosse al corrente di tutti gli avvenimenti della capitale tedesca». In realtà il capo del Reich nei mesi prima della presa del potere si era mosso in modo accorto per evitare di spaccare troppo il paese. Lanciava proclami e poi arretrava, era capace di far coesistere la sua furia cieca con un freddo calcolo politico. Quando nell'agosto 1932 stava trattando con il vecchio cancelliere Kurt von Schleicher le condizioni della sua nomina, trattenne i suoi che, dopo la condanna a morte di cinque Sa, le Camicie brune colpevoli di avere ucciso un militante comunista, erano pronti a scendere nelle piazze per gridare vendetta. Voleva evitare il ricorso alla forza per raggiungere il suo scopo. Ogni illusione sulle reali intenzioni di Hitler venne meno per Armin quando, il 10 maggio 1933, oltre ventimila libri furono bruciati a Berlino in un enorme falò [...]. Al termine del comizio, a cui partecipò lo stesso Goebbels, la folla scandì slogan e invettive contro gli autori dei libri messi al bando. Tra i testi proibiti dal nazismo, assieme a quelli di Karl Marx, Ferdinand Lassalle, Sigrnund Freud, Maximilian Harden, Stefan Zweig, c'erano anche quelli di Armin T. Wegner. «I grandi riflettori puntati sulla piazza - scrisse il giornale ebraico "Jüdische Rundschau" - spargevano la loro luce anche sull'abisso in cui sprofondavano la nostra esistenza e il nostro destino. Non sono stati accusati solo ebrei, ma anche uomini di puro sangue tedesco. Questi ultimi vengono giudicati esclusivamente per le loro azioni. Per gli ebrei, invece, non c'è bisogno di nessun motivo specifico; come recita l'antico detto: "L'ebreo finirà bruciato"».
(Avvenire, 22 aprile 2015)
Netanyahu diserta la festa di Putin: "Non venda quei missili a Teheran"
Il premier israeliano non sarà a Mosca per il 70o della vittoria sui nazisti.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - E' duello sull'Iran fra Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin. Al centro della contesa c'è la decisione del Cremlino di sbloccare la consegna a Teheran degli missili anti-aerei S-300, sospesa nel 2009, perché Mosca li ritiene «difensivi» mentre per Gerusalemme «premiano le aggressioni dell'Iran ai suoi vicini e sono il frutto negativo dell'errato accordo-quadro sul nucleare siglato a Losanna».
Il fronte libanese
Nel tentativo di convincere Putin a tornare sui propri passi, Netanyahu lo ha chiamato sulla «linea rossa» che i due leader hanno creato nel 2012 per suggellare convergenze strategiche ed economiche in Medio Oriente. Ma questa volta la conversazione è stata tesa, al punto che alcuni dei contenuti sono stati rivelati nelle ore seguenti dai diretti interessati. Putin ha infatti ammonito, pubblicamente, Israele a «non vendere per ritorsione armi al governo di Kiev perché ciò aggraverebbe la crisi nelle regioni russofone dell'Est ucraino».
E Netanyahu, nella giornata di ieri, ha fatto sapere di aver avvertito Mosca: «Se le vostre armi vendute all'Iran verranno trasferite in Libano diventeranno nostri legittimi obiettivi militari». Ovvero: lo Stato Ebraico teme che alcuni esemplari di S-300, con una gittata di 200 chilometri, saranno trasferiti da Teheran agli alleati di Hezbollah per alterare l'equilibrio militare lungo il confine israelo-libanese. È questo il «pericolo maggiore che viene dagli S-300 in mano a Teheran» spiegano fonti militari israeliane, perché il ruolo di difesa anti-aerea degli impianti nucleari iraniani «preoccupa ma non troppo» in quanto «esistono delle contromisure».
L'asse sciita
Ciò significa che il rapporto privilegiato fra Putin e Netanyahu, cementato dal 2012 sulle opposte frizioni con l'amministrazione Obama, rischia di indebolirsi non solo per il sostegno russo all'abolizione delle sanzioni all'Iran quanto per le forniture militari del Cremlino all'«Asse sciita Teheran- Baghdad- DamascoBeirut» come lo definisce il ministro della Difesa Moshe Yaalon, considerandolo «la più seria minacce alla sicurezza nazionale».
Si spiega così anche la decisione di Netanyahu di annullare il previsto viaggio a Mosca per le celebrazioni del 70o anniversario della sconfitta del nazifascismo, modificando la precedente scelta israeliana di «essere presente a un livello più alto di Stati Uniti ed Europa». Sulle tribune della Piazza Rossa vi sarà dunque solo l'ambasciatore israeliano a Mosca.
In questo caso il segnale inviato al Cremlino concerne i valori che accomunano i due Paesi: Israele è l'unica nazione fuori dai confini dell'ex Urss dove esiste - a Natania - un monumento ai caduti dell'Armata Rossa nella «Grande Guerra Patriottica» ma la memoria dell'alleanza antinazista passa in secondo piano davanti al pericolo iraniano.
(La Stampa, 22 aprile 2015)
Dal Ghetto all'«età dell'oro». Storie di ebrei italiani
Esce il terzo volume della monumentale opera di Riccardo Calimani
di Lorenzo Tomasin
Sebbene i secoli raccontati nelle 700 pagine del volume appena uscito siano solo due - l'Otto e il Novecento -, con la terza parte della Storia degli ebrei italiani appena pubblicata (Mondadori) Riccardo Calimani completa un percorso che di secoli ne conta ben ventidue, e due volumi precedenti. 10 scrittore è anche storico, e come un narratore consumato - ma insieme come un rigoroso cronista - descrive luci e ombre di un'epoca in cui gli ebrei passano dal riscatto primo-ottocentesco al baratro dello sterminio, fino alla tiepida primavera dell'ultimo mezzo secolo.
Innumerevoli personaggi balzano vivi da queste pagine: rabbini e capitani d'industria, uomini politici o popolani, bottegai o scrittori. Italiani e insieme ebrei, come gli ebrei d'Italia sono prima ancora del Risorgimento. Italiani e insieme veneti, come gli ebrei padovani dell'epoca d'oro che Calimani descrive per quella città nella stagione dei Luzzatti, dei Romanin Jacur, del Giacomo Levi-Civita che di Padova fu sindaco. Ebrei e italiani, come quelli che nel 1938 vengono colpiti dalle leggi razziali: Calimani ripercorre nome per nome la lista, mostruosamente lunga, degli universitari costretti alla dimissioni perché ebrei, e riesamina con minuzia implacabile quella più breve ma altrettanto impressionante dei firmatari di manifesti e leggi sulla razza. Non c'è animosità, qui, ma lucida consapevolezza di ciò che l'Italia è stata e forse rischia ancora di essere ogni volta che la volontà di pacificazione fomenta l'indecente capacità di sorvolare sulle responsabilità individuali. E magari di costruire disinvolte carriere, come capitò per tanti magistrati, giuristi e (pseudo)scienziati coinvolti nel disegno della legislazione razziale. Ci sono tutti, qui: nomi, cognomi, curricula. E fatti, come quelli da cui Calimani parla anche forse perché ne è particolarmente toccato. Ecco il rastrellamento nel Ghetto del dicembre 1943, per la cui descrizione prende in prestito le parole dello storico Simon Levis Sulla m, che ha ricostruito quelle ore in una «pagina memorabile».
Non è l'unica occasione in cui Calimani (classe 1946: il volume è dedicato alla memoria dei suoi genitori, due ebrei veneziani nati prima della Shoah e ad essa scampati) mette a frutto con generosa riconoscenza il lavoro di storici di una generazione più giovane, che negli ultimi anni ha dato un contributo decisivo alla storia degli ebrei italiani (oltre a Levis Sullam, Guri Schwarz e Ilaria Pavan).
Due frasi dal libro, come viatico alla sua lettura. Quella sui matrimoni misti, in cui càpita di scorgere una definizione fulminante dell'ebraismo: «A molti - osserva Calimani - è forse sfuggito che Mosè, il grande legislatore, e Davide, re di Israele, si unirono a donne non ebree e che l'ebraismo non si nutre di genetica, ma di idee: vuole essere una visione del mondo che si batte in permanenza contro gli idoli e che all'autorità preferisce l'autorevolezza». E quella che Niccolò Tommaseo inserì alla voce ebreo del suo dizionario della lingua italiana («Non è un buon cristiano chi non è stato un buon ebreo»), incredibilmente simile a quella pronunciata, secoli prima, da una donna del popolo a Venezia davanti a un tribunale dell'Inquisizione: «Chi non è bon iudeo non è bon cristian».
(Corriere del Veneto, 21 aprile 2015)
"Senza Israele per ebrei non c'è futuro"
Dice Netanyahu per il Giorno dei Caduti: determinati a difendere Paese
"Non c'e' futuro per il popolo ebraico senza lo Stato d'Israele": lo ha affermato il premier Benyamin Netanyahu in occasione della Giornata dei caduti con cui Israele commemora quanti, militari e civili, hanno perso la vita nel conflitto con i vicini arabi nell'ultimo secolo. "Tanto più i nemici minacciano di distruggere il nostro Paese, tanto più cresce in noi la determinazione di difendere la nostra casa".
(ANSA, 21 aprile 2015)
Tutte le stranezze dell'accordo nucleare con l'Iran
Un accordo ingenuo, malfatto, pensato da dei pericolosi dilettanti di politica estera e strategia globale.
di Giancarlo Elia Valori
In politica estera, come nella fisica aristotelica, non esiste il vuoto. Dopo la "comprehension" tra il P5+1 e la Repubblica Islamica dell'Iran, la Russia concede a Teheran, a partire dal 13 aprile ultimo scorso, il suo sistema di difesa missilistica automatico S-300, che si può disporre in terra, mare e cielo e colpisce in volo i missili avversari almeno 150 chilometri prima del loro arrivare sull'obiettivo.
Il missile russo (codice Nato SA-10 "Grumble") è un missile terra-aria; sia fisso che mobile e può intercettare i lanci balistici intercontinentali Nato e degli altri Paesi che circondano la Federazione post-sovietica.
Detto tra parentesi, la nuova "guerra fredda" che si delinea all'orizzonte è, dal punto di vista occidentale, un evidente errore geopolitico: priva il Mediterraneo di una collaborazione russa che è essenziale per la sicurezza militare contro l'Islam jihadista in espansione, svuota l'Africa e una parte del Grande Medio Oriente di una pressione geopolitica che sarebbe utile per stabilizzare la zona, getta infine Mosca nelle braccia di Pechino, con la conseguente chiusura dello spazio dello Hearthland mondiale alla Nato e più in generale ai Paesi della penisola eurasiatica: noi.
La trattativa, che vale 800 milioni di dollari, era in atto, tra Russia e Iran, fin dal 2007 ma ora, guarda caso, l'operazione è andata a buon fine. Come distruggere, in un attimo, l'accordo di Losanna tra il P5+1 e l'Iran.
D'altra parte, l'Iran già produce un missile a lunga gittata con tecnologie autonome, il Soumar, che comunque si basa sulle tradizionali tecnologie russe del Kh-55, e che possiede un raggio di azione di almeno 2mila chilometri.
Già oggi la Repubblica sciita iraniana ha la maggiore quantità di missili balistici disponibili in tutto il Grande Medio Oriente, con una serie di basi (Tabriz 1 e 2, Teheran, Sharud, Mashad, le due basi del sito Imam Alì, Kermanshah, Qom, Semnan e Sharud) che ospitato missili a corto raggio (dai 100 a 500 chilometri) e quelli a medio-lungo raggio, come il Sejil (Ashura) (raggio di 1200 miglia) tali che possono raggiungere sia Israele che tutte le basi militari Nato nel Mediterraneo orientale e centrale.
E' addirittura ovvio immaginare che nessuno dei Paesi confinanti con l'Iran, a parte Israele, ha difese antimissile capaci di "coprire" i lanci della Repubblica sciita.
I missili balistici iraniani e le strutture per "l'avventura nello spazio" della Repubblica sciita sono anch'essi a Tabriz 1 e 2, ai confini settentrionali dell'Iran, verso l'Azerbaigian, mentre Bakhtaran e le basi Imam Alì sono collocate strategicamente a ridosso del Golfo Persico e alle spalle della penisola arabica.
Le Guardie rivoluzionarie, i Pasdaran, hanno recentemente svolto una esercitazione negli stretti di Hormuz con il loro missile "Grande Profeta 9? simulando l'attacco ad una corvetta Usa. Giova poi ricordare che le 1200 miglia dei missili a media gittata iraniani copre abbondantemente la distanza tra Teheran e Gerusalemme, che è di 970 miglia.
Tanto per fare un po' di conti, lo Shahab 1 e 2, che sono i vecchi Scud B e C rielaborati, sono in numero di 300 missili per 50 basi di lancio, mobili o fisse, il Tondar 69, sempre a corto raggio, è negli arsenali iraniani perun numero di 200 missili per 20 lanciatori, il Fateh A-110 e siamo sempre in area a corto raggio, non si sa quanti ce ne siano in servizio, mentre i Mbrm della Repubblica sciita, tra Ghadr e Sajil, sono, per quel che se ne può dedurre dalle fonti di intelligence disponibili, almeno 50 in tutto.
La distribuzione della minaccia missilistica iraniana tra corto e lungo raggio ha un significato strategico così evidente che non vale nemmeno la pena di sottolinearlo: controllo e elevato potenziale di distruzione per i Paesi dell'area, minaccia non elevata ma credibile e dissuasiva per i loro eventuali alleati nel Mediterraneo.
Se poi andiamo a vedere, sulla carta geografica, la distribuzione delle principali strutture iraniane nucleari, osserviamo che esse sono in parallelo, e comunque molto vicine, alle basi missilistiche e ai centri di ricerca spaziale della Repubblica sciita. Un caso? Non lo crediamo.
Peraltro, proprio da quest'anno, l'Iran ha la possibilità tecnica di testare in volo un missile balistico intercontinentale.
Quindi, oltre che il vicinissimo Israele, l'Iran potrebbe elaborare una linea di missili balistici a lungo raggio capaci, come rivela un recente report del Dipartimento di Stato Usa, di colpire gli stessi Stati Uniti, data però una "assistenza intermedia". E qui viene da pensare al Grande Medio Oriente in fiamme dopo la sconsideratissima "Primavera Araba", dove qualche area, tra il Maghreb e l'Africa subsahariana, che sono ormai in gran parte terre di nessuno, potrebbe essere utile per la gestione di un lancio sufficientemente preciso, a Nord, verso l'Ue o ad Ovest, verso gli Usa, di un Icbm (Intercontinental ballistic missile) iraniano. Per bloccare evidentemente le braccia degli alleati storici di Israele, ormai peraltro molto meno affidabili, per Gerusalemme, di quanto non accadesse anche pochi anni fa.
Anche in questo caso, Mosca riempie il vuoto di potere lasciato dagli Usa e dalla Nato nel Grande Medio Oriente, e utilizza tutte le pedine a sua disposizione: il sostegno militare, nucleare e petrolifero a Teheran, il supporto politico-militare per Bashar el Assad in Siria, la collaborazione con la Cina in Asia centrale, a ridosso del Medio Oriente e l'Arabia Saudita, che ha comprato da Mosca armi per 1,5 miliardi di dollari.
E non dimentichiamo il buon rapporto, silenzioso ma fattivo, che Mosca ha oggi con Gerusalemme. Potrebbe essere, la Federazione russa, un nuovo power broker nella distribuzione dei potenziali strategici mediorientali, mentre gli Usa se ne vanno dall'area e l'Europa fa il suo solito ruggito del coniglio.
Per Vladimir Putin si tratta in primo luogo di arrivare alle "acque calde", il vecchio sogno dello Zar Pietro II, ed evitare che la Nato prema sul meridione russo, che è essenziale per la sua economia degli idrocarburi.
Se l'Alleanza atlantica preme sul vecchio confine europeo a Nord, con la nuova rete di radar ad alta risoluzione, Mosca vuole mani libere a sud, per aggirare l'Europa e arrivare al Mediterraneo, il mare regionale che sarà il prossimo hub globale dei commerci e dei nuovi potenziali strategici e militari.
L'Iran quindi vuole la bomba, e l'avrà, dato che la trattativa di Losanna è priva di osservazioni sul sistema missilistico iraniano che può funzionare, è bene ricordarlo, già con il materiale che è stato lasciato in dotazione a Teheran.
Secondo il Jpa, Joint plan of action definito a Losanna, Natanz rimane un sito di arricchimento dell'uranio, mentre Fordow sarà convertito in un centro di ricerca per la fisica nucleare, che sarebbe inutile se l'Iran non proseguisse le ricerche nel settore, come talvolta si deduce dal Jpa.
Ad Arak il reattore ad acqua pesante sarà gestito, come ricordavo altrove, da una joint venture internazionale che il Jpa lascia pericolosamente nel vago, e non produrrà plutonio per armi. Come? Chi lo controlla? E perché non dovrebbe farlo, dato che è stato costruito per questo?
Il materiale del reattore ormai inattivo sarà esportato, ma non si dice dove. Altra carenza grave, per un accordo internazionale di questa importanza.
In cambio, si tolgono precipitosamente le sanzioni, senza fare differenze, che invece si dovrebbero porre, tra sanzioni finanziarie e bancarie (che sono potenzialmente ancora pericolose) e quelle per i pistacchi e i pomodori, francamente irrilevanti.
Quindi, lo ripetiamo per chiarezza, l'Iran dovrebbe ridurre da 19mila centrifughe a 5060 il proprio potenziale di raffinamento dell'uranio, in ben dieci anni. Troppi.
E dove vanno a finire le centrifughe inutilizzate? Non è nemmeno chiaro se la Iaea, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, possa verificare i siti di stoccaggio delle centrifughe "vecchie".
L'uranio arricchito sarà solo quello, se prodotto in Iran, a grado di purezza del 3,67%.
E chi controlla che vada proprio così? Quando? Come? In quindici anni, sempre troppi, l'Iran promette di ridurre lo stoccaggio di uranio arricchito da 10mila chili a soli 300, sempre a caratura 3,76%.
E dove vanno i chili rimanenti? Chi li gestisce? Spariscono nel nulla? Quindici anni, poi, sono davvero troppi.
Tra Fordow e Natanz le centrifughe rimanenti dopo la riduzione (di ben 13mila) dovrebbero essere messe da parte come "pezzi di ricambio".
Difficile crederci, e certamente una missione Iaea avrebbe vita dura, con i Servizi della Guardia rivoluzionaria che spostano centrifughe come se fossero pezzi su una scacchiera.
Non sono peraltro previste, nel Jpa, controlli internazionali sulle miniere di uranio iraniane a Sagand, al centro del Paese, ad Ardakan, sito di produzione del "yellowcake" che contiene, dopo la purificazione del minerale, il 70% di uranio, quello di Gchine, vicino a Bandar Abbas. Un accordo ingenuo, malfatto, pensato da dei pericolosi dilettanti di politica estera e strategia globale.
(formiche.net, 21 aprile 2015)
Israele: il PIL cresce del 7% nel 2014
L'Ufficio centrale di statistica di Israele, a Gerusalemme, il 16 aprile ha rilasciato una stima della crescita economica israeliana per l'anno 2014.
Le prime stime rilasciate a febbraio avevano già rivelato quanto l'economia israeliana fosse cresciuta nel quarto trimestre del 2014, determinando la più forte crescita in quasi otto anni.
Dopo una lenta crescita nel terzo trimestre, a causa del conflitto del luglio 2014, il PIL è nuovamente salito fino a raggiungere un tasso di crescita del 7% nel quarto trimestre del 2014. Il paese aveva visto un'impennata simile dopo la seconda guerra del Libano, a partire dalla seconda metà del 2006 e all'inizio del 2007.
Secondo un sondaggio di Reuters, i risultati per il quarto e ultimo trimestre del 2014 era stimati al 3,3%. Dopo un breve rallentamento, la crescita economica israeliana ha raggiunto una crescita ben oltre le aspettative, raggiungendo un +7%.
Conferma Daphna Aviram-Nitzam, direttore della ricerca economica presso la Manufacturers Association of Israel (l'Associazione Costruttori Israele), l'organo di rappresentanza di tutti i settori in Israele che aveva stimato il danno del conflitto dell'estate scorsa a circa 820 milioni di shekel:
È impressionante che un paese riesca a mantenere un livello stabile di crescita come tutti gli altri nonostante la corsa quotidiana ai rifugi, durata più di un mese. Quest'anno, il tasso di crescita di tutti i settori e dell'esportazione sarà molto più alto rispetto all'anno precedente.
L'esportazione, che rappresenta circa il 40% dell'economia in Israele, nell'ultimo trimestre del 2014 è aumentata di quasi 9 punti.
(SiliconWadi, 21 aprile 2015)
Perché io il 25 aprile non ci sarò
Io non sfilo sotto la protezione del PD né accanto ai neonazisti che strillano "Palestina"
Milano 21 Aprile
Cari amici,
come forse avete letto c'è molta turbolenza intorno alla prossima celebrazione del 25 aprile, che è il settantesimo anniversario della Liberazione. Dieci giorni fa c'è stata una tumultuosa riunione all'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI) di Roma, che organizza le manifestazioni del 25 aprile,
in cui è stata tollerata e anzi incoraggiata un'aggressione dell'estrema sinistra e dei gruppi palestinisti (non si capisce a che titolo presenti) contro i rappresentanti della Brigata ebraica. La presidenza nazionale dell'ANPI, dopo le energiche proteste della comunità ebraica e dell'Asseociazione Nazionale Ex Deportati, ha sconfessato quella romana, ottenendo le dimissioni del suo presidente, ma né l'Aned né la comunità ebraica intendono partecipare al corteo, che è stato di conseguenza annullato.
Ci sono state minacce dappertutto contro chi portasse alle manifestazioni la bandiera della Brigata ebraica, che somiglia molto a quella di Israele - per la semplice ragione che questa deriva in parte da
quella. A Milano, dove tradizionalmente il 25 aprile avviene la manifestazione più importante d'Italia, dato che la data corrisponde alla liberazione di questa città, gli organizzatori della presenza ebraica si sono accordati col PD per essere "scortati", sperando in questa maniera di evitare se non gli insulti degli estremisti, almeno i gesti di violenza che sono stati minacciati dai filopalestinesi. Sono proprio le minacce di violenza, insieme al rifiuto di sfilare agli eredi dei nazisti (questo, piaccia o meno sono di fatto i palestinisti) e alla difficoltà dovuta al fatto che la manifestazione è programmata di sabato, quando gli ebrei osservanti non possono svolgere attività del genere, che ha convinto la Comunità ebraica di Roma a rinunciare al corteo.
E' importante sapere alcune cose. In primo luogo la Brigata Ebraica è una formazione militare regolare dell'esercito inglese, composta da volontari ebrei residenti nell'attuale Israele (che allora era sotto mandato britannico) i quali accorsero per opporsi al nazismo. Dopo una lunga insistenza dell'organizzazione sionistica internazionale, il governo britannico, che non voleva legittimare un esercito ebraico che avrebbe reso evidente il carattere coloniale del loro governo della terra che la stessa Gran Bretagna e poi la Società delle Nazioni avevano promesso agli ebrei, concesse la formazione del reparto, che combatté onorevolmente sul fronte italiano, contribuendo alla Liberazione.
Per chi fosse interessato, c'è un libro di Bruno Archi, "Storia generale della Brigata ebraica" che racconta bene questa ottusa resistenza britannica contro i volontari sionisti. Più in generale, bisogna dire che contro la retorica della Resistenza l'Italia non è stata liberata dai partigiani da soli, ma sostanzialmente dagli eserciti americano, britannico (inclusa la Brigata ebraica) e anche dei reparti regolari italiani fedeli alla monarchia che hanno sconfitto i tedeschi risalendo tutto il territorio italiano, dalla Sicilia al Nord. Quel che si ricorda il 25 aprile, l'insurrezione di Milano è l'atto finale di una battaglia in cui l'elemento fondamentale è stato l'intervento alleato. Dentro il movimento partigiano non c'erano del resto solo i comunisti, ma anche gli azionisti, i cattolici, i monarchici, che sono stati ingiustamente emarginati nella memoria della Resistenza. Un ricordo storicamente corretto ed equanime del 25 aprile dovrebbe portare in testa le bandiere degli Alleati e poi le insegne di tutti i diversi movimenti che hanno partecipato alla Liberazione.
Di fatto questo non avviene. Da decenni il 25 aprile è stato sequestrato prima dal PCI (che è riuscito a farne, con tipica mossa gramsciana di egemonia, un evento nazionale ma comunista), poi da vari gruppi estremisti. Bisogna aggiungere che ormai purtroppo i partigiani ancora vivi sono molto pochi, sicché l'organizzazione delle manifestazioni è rimasta a un'associazione, per l'appunto l'ANPI, in cui non ci sono più partigiani, ma loro autonominati eredi, ed è stata a sua volta presa in mano da gruppi di estrema sinistra, che hanno spesso turbato lo spirito della manifestazione da rievocazione di un momento centrale e condiviso della storia nazionale a una sfilata di parte, spesso a una farsa pseudo-rivoluzionaria, priva di ogni senso storico. In questo contesto si è progressivamente affermata la componente filo-palestinista, che ha cercato di trasformare la manifestazione dal ricordo della vittoria contro i nazifascisti alla propaganda violenta contro Israele.
Negli ultimi anni per gli ebrei la partecipazione alla manifestazione è stata difficilissima, ci sono state aggressioni fisiche, insulti, minacce. Il che è assolutamente paradossale. Non solo perché la Brigata Ebraica è stata parte dell'esercito che ha liberato l'Italia e perché gli ebrei sono stati molto numerosi (assai più della loro consistenza demografica) nel movimento partigiano, ma anche perché gli ebrei sono stati le principali vittime del nazismo, da esso hanno subito il genocidio, resistendo come e dove hanno potuto; e lo Stato di Israele è l'erede storico di questa resistenza. Mentre gli arabi erano sostanzialmente schierati con i nazifascisti. E' noto il caso del Muftì di Gerusalemme, Al Amin Husseini, che fu amico di Mussolini e Hitler, propagandista alla radio del nazismo, fondatore di una divisione musulmana delle SS, consulente di Eichmann per l'organizzazione dello sterminio ebraico... e fondatore dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Ma anche dopo di lui, è noto che Nasser si circondò di ex nazisti fuggiti in Egitto, e che la svastica, il "Mein Kampf", i "Protocolli" sono massicciamente diffusi nei movimenti antiebraici e prima di tutto fra i palestinisti. Insomma il paradosso è che per ragioni di parte, gli estremisti che si sono impadroniti delle manifestazioni del 25 aprile cercano di espellerne gli ebrei antinazisti per istallarvi le bandiere degli amici di Hitler e degli attuali antisemiti e neonazisti. E' una situazione intollerabile.
Io personalmente non parteciperò alla manifestazione di quest'anno. Sia perché, al di là del livello di osservanza religiosa di chiunque, trovo sbagliata la partecipazione pubblica e ufficiale di movimenti ebraici in una circostanza che viola le regole dello Shabbat. Sia perché mi rifiuto di essere "protetto" da un movimento politico (che fra l'altro ha molte ambiguità sul tema di Israele) a una manifestazione che storicamente appartiene anche al mio popolo. Molto meglio, come negli anni scorsi, una scorta di polizia. In fondo è la polizia e la guardia di finanza, sono i carabinieri e gli alpini che difendono scuole ebraiche e sinagoghe dai terroristi antisemiti che hanno rialzato la testa in Europa. E' giusto che anche alla manifestazione del 25 aprile siano le forze dell'ordine a difendere i cittadini italiani appartenenti all'ebraismo dai teppisti neonazisti (che magari dicono di essere comunisti, ma nazisti sono) che li minacciano e cercano di espellerli ripetendo sotto la bandiera rossa il gesto delle leggi razziste di Mussolini.
Io non ci sarò, mi spiace. Piuttosto che essere protetti da un partito, rispetto a cui gli amici dei terroristi appaiono nella migliore delle ipotesi come "compagni che sbagliano", meglio essere altrove. E magari partecipare a un'altra manifestazione, dopo il tramonto del sole, che non violi le regole dell'ebraismo. Fra gli ebrei che andranno alla manifestazione, rispetto quelli che ci sono sempre andati, anche rischiando di persona. Molto meno quelli che accorrono ora, sotto le bandiere del PD, per cercare un'impossibile sintesi fra sinistra e Israele. Non ci verrò non perché non mi importi la Resistenza, ma esattamente per la ragione contraria, perché ci tengo troppo per accettare che essa vada in mano ai neonazisti antisemiti che strillano per la Palestina.
Bisogna avere il coraggio, quando si crede in qualche cosa, di difenderne l'identità, di rovinare la festa, di chiedere che gli intrusi fascisti, come si diceva una volta, tornino nelle fogne.
(Milano Post, 21 aprile 2015)
Toaff rabbino ironico, combattivo e pacificatore che deluse i benpensanti
di Giulio Meotti
Rav Elio Toaff
ROMA - Il "rabbino più amato" e il "rabbino buono". E la sua bella faccia, grave e gioiosa, in prima pagina. Ma questo tipo di facile bontà e di unanime accondiscendenza che adesso domina le eulogie, era del tutto estranea a Elio Toaff. Per molte ragioni, il rabbino di Roma deluse i benpensanti. Ironico e combattivo, partigiano uscito vivo da una fossa comune nazista, livornese figlio di ebrei spagnoli cacciati dall'Inquisizione, Toaff era solito dire che due avvenimenti avevano segnato la sua vita: "Le leggi razziali e la creazione d'Israele".
Dalla parte di Israele Toaff lo fu fin da quando, dopo la Liberazione, a Venezia organizzò l'invio di armi all'Haganà, l'esercito ebraico. E anche quando, durante la guerra del Libano del 2006, in Italia si pubblicavano manifesti sui giornali che equiparavano Tsahal a Marzabotto, Toaff si smarcò dai soliti imboscati e attaccò duro, nonostante i novant'anni: "Una iniziativa antisemita che falsa la storia".
Non diede mai il fianco a falsi irenismi religiosi, e a domanda su cosa fosse per lui l'ebraismo, Toaff rispondeva: "Noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l'uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, vogliamo che Dio torni a regnare in terra". Non proprio una organizzazione non governativa di stampo caritatevole. Aveva una vocazione da pacificatore, che è una cosa diversa dal dialogo. Toafffu sempre il più misurato nel giudizio su Pio XII, mentre da ogni parte, dagli storici laici come da molti ebrei e da tanti cattolici, si faceva terra bruciata attorno al pontefice. E tenne una posizione di pragrnatismo anche durante il processo a Eric Priebke (condanna sì, carcere no). Contro le molte richieste di boicottaggio che arrivarono dagli indignati, Toaff'partecipò alla prolusione dell'anno accademico alla Sapienza affidata nel 1992 a Renzo de Felice, la nemesi della storiografia revisionista, a cui pure Toaff non risparmiò critiche sulle Leggi razziali.
Fu durissimo con la galassia sindacale che faceva capo alla Cgil di Luciano Lama, che aveva chiesto agli ebrei romani di "dissociarsi" da Israele. Toaff lo attaccò dopo lo sciagurato gesto di alcun esponenti della sinistra di lasciare una bara di cartone davanti alla Sinagoga di Roma, in coda a un corteo della Triplice. Un momento orribile, perché avvenne a breve distanza dall'assassinio del bambino ebreo Stefano Taché per lo scoppio di una bomba palestinese il 9 ottobre 1982 nei pressi del Tempio sul Lungotevere, in occasione del giorno di Simchà Torah che conclude il ciclo annuale della lettura del Pentateuco e lo ricomincia. Non è vero che fu opera di una sparuta minoranza e Toaff attaccò i sindacalisti "ben istruiti", parlò di un "'indegna esplosione di antisemitismo" che per lui rievocava il "lontano e infausto periodo che va dal 1939 al 1944".
Toaff fu l'artefice della grande conciliazione con la chiesa cattolica, il rabbino che aprì la porta della sinagoga a Giovanni Paolo II in nome delle comuni verità bibliche. Ma questo non gli impedì di assumersi una certa responsabilità nell'attaccare la stampa cattolica che spargeva menzogne e odio su Israele. Così, nel 1988, Toaff accusò il Vaticano di condurre "una politica antisemita attraverso i mass media cattolici che demonizzano Israele e il sionismo". Toaff prese di mira giornali cattolici come Chiesa viva, Segno, il settimanale ufficiale dell'Azione cattolica ("Quello che Israele sta perpetrando nei confronti del popolo palestinese ha un solo nome: genocidio", si scriveva allora), Famiglia Cristiana e Jesus, il mensile delle Edizioni Paoline, tutti accusati da Toaff di "antisemitismo di antica matrice religiosa, razzista, fascista che demonizza Israele, il sionismo, l'ebraismo e banalizza la più grande tragedia di questo secolo paragonandola a pur gravi manifestazioni di violenza israeliane. Peggio, si cerca di dimostrare che le vittime dell'Olocausto non erano poi così innocenti".
O come quando attaccò il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, per aver ricevuto Yasser Arafat nella sua prima visita in Italia, mentre il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini si era rifiutato di incontrare il leader dell'Olp e i segretari dei tre principali partiti (Dc, Pci e Psi) lo avevano accolto con gli onori di un capo di governo. Bisogna ricordare che all'epoca il leader palestinese e i suoi seguaci avevano versato il sangue di molti ebrei, in Europa come in medio oriente. Le sue azioni avevano inorridito il mondo e Arafat arrivò in Italia in cerca di legittimazione in un momento in cui l'Olp perseguiva la distruzione di tutta Israele. Nel1982 Arafat non era né un premio Nobel per la Pace né un "presidente". Era semplicemente un terrorista e Toaff lo sapeva. "Il carisma di Toaff fu poi evidente al funerale di Taché", ci racconta Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma. "Pertini voleva partecipare ai funerali, Toaff era contrario e gli disse che non poteva garantire la sua incolumità tante erano l'emozione e la rabbia. Pertini venne al funerale e Toaff disse alla comunità che non ci dovevano essere contestazioni al presidente e che se ci fossero state si sarebbe dimesso. Parteciparono migliaia di persone ma nessuno fiatò. Fu impressionante".
Questo Matusalemme ha riportato in vita la comunità ebraica italiana nel Dopoguerra, quando il suo morale era a pezzi. Ha fatto la pace con le istituzioni politiche italiane e avviato il dialogo ebraicocristiano. Ma quando c'è stato da fendere colpi ai nemici del popolo ebraico, non si è mai tirato indietro. Un gigante ebreo dal sorriso molto romano.
(Il Foglio, 21 aprile 2015)
Toaff portò in Israele il carro armato «veneto»
L'episodio degli anni veneziani del rabbino scomparso. Dopo la guerra fu contattato da un contadino che gli offrì un tank tedesco.
di Piergabriele Mancuso
Elio Toaff con la moglie e il figlio Ariel
Si è spento l'altro giorno nella sua casa romana, il rabbino Elio Toaff. Per più di mezzo secolo rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la più grande d'Italia e tra le più antiche della Diaspora, Toaff aveva già ricoperto la carica di rabbino della comunità di Ancona, un breve ma intenso biennio, dal 1941 al 1943, anno in cui egli si univa alla Resistenza p arte ci - pando attivamente allo lotta di Liberazione e divenendo, tra l'altro, uno dei primi testimoni della strage di Sant'Anna di Stazzema, uno dei più efferati crimini nazisti.
Nel 1946 Elio Toaff otteneva la cattedra della comunità ebraica di Venezia, una delle più importanti del mosaico ebraico italiano, una cattedra tradizionalmente considerata il trampolino di lancio verso Roma, il cui ruolo di rabbino capo venne offerto al giovane Toaff nel 1951. Cinque anni cruciali, quelli veneziani, per la maturità pastorale e spirituale del giovane rabbino a cui spettava il compito di risollevare le sorti e lo spirito di una comunità che aveva visto molti dei suoi fratelli - tra tutti il rabbino Adolfo Ottolenghi - lasciare la laguna alla volta dei campi di sterminio. Poco più che trentenne, già forte di una tradizione rabbinica familiare (il padre era stato rabbino capo a Livorno, sua città natale) ma soprattutto cosciente dell'assoluta necessità di riattivare i gangli del corpo ebraico lagunare, Toaff dava inizio ad una nuova stagione della vita ebraica veneziana, riaprendo la sinagoga e operando, nel contempo, nel mondo del dialogo ebraicocristiano, un percorso che nel 1986 lo avrebbe portato ad accogliere Giovanni Paolo II, primo Papa a varcare la soglia di una sinagoga.
I primi anni del rabbinato veneziano di Elio Toaff coincidevano con la nascita dello Stato di Israele, evento chiave nella storia ebraica moderna, fattore geo-politico avversato dalla quasi totalità delle nazioni circostanti che non esitarono ad attaccare il neonato stato ebraico.
In questo frangente storico animato da grandi entusiasmi e paure, Toaff veniva contattato da un contadino veneto il quale offriva un tank tedesco, un'arma perfettamente funzionante che i casi della guerra avevano voluto si fermasse proprio nella sua proprietà. Ispezionato il mezzo, verificatone il funzionamento, fattolo smontare infine pezzo per pezzo, Toaff inviava il carro armato a Tzahal, l'esercito di difesa israeliano, che all'inizio del 1949 aveva già respinto gli attacchi della coalizione araba. Fu quello il primo carro armato a combattere in terra di Israele? Difficile dirlo con sicurezza, rimarcava Toaff, ma in questi termini egli volle sempre pensare.
Un destino non dissimile sarebbe stato quella della sinagoga di Conegliano, le cui suppellettili avrebbero lasciato la cittadina veneta per diventare il cuore dell'ebraismo italiano a Gerusalemme. Nonostante il tempo, la distanza e l'impegno quale guida della comunità romana, Toaff non dimenticò mai, come ebbe a rimarcare alcuni decenni or sono durante una visita alla Scola Spagnola, i volti, le voci e le atmosfere di quella Venezia, fragile e insieme forte di idealità e speranze, del primo dopoguerra.
(Corriere del Veneto, 21 aprile 2015)
Un boicottaggio ipocrita, ingiusto, riprovevole, controproducente
L'iniziativa di ministri europei contro le merci prodotte da aziende ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme est solleva una serie di questioni inquietanti.
La scorsa settimana i ministri degli esteri di sedici paesi europei hanno inviato una lettera al responsabile della politica estera dell'Unione Europea Federica Mogherini chiedendole di promuovere l'etichettatura differenziata delle merci prodotte dalle aziende di proprietà ebraica situate al di là della ex-linea armistiziale in vigore dal 1949 al 1967 fra Israele e Giordania. L'etichettatura differenziata dovrebbe rendere più facile per gli europei il boicottaggio di questi prodotti.
I boicottaggi che prendono di mira in modo particolare Israele e soltanto Israele sollevano una serie di questioni. A maggior ragione quando questi boicottaggi vengono promossi da paesi che si battono contro dilaganti manifestazioni di antisemitismo che minacciano la persistenza stessa delle antiche comunità ebraiche europee....
(israele.net, 21 aprile 2015)
L'antisemitismo degli heideggeriani
di Fabio Della Pergola
Sono stati pubblicati i Quaderni neri di Martin Heidegger che dimostrano, nero su bianco, quanto molti avevano già detto e ripetuto a più riprese: Heidegger era un nazista antisemita della più trasparente schiera dei nazisti antisemiti.
Da lì si è aperto un dibattito nel quale i tradizionali sostenitori dell'heideggerismo hanno dovuto abbassare i toni della loro sperticata difesa del filosofo tedesco. Restano alcuni brontosauri della difesa ad oltranza e alcuni ambigui personaggi che pur affermando che Heidegger era, ebbene sì, nazista e antisemita, ne sostengono comunque, in qualche modo, la validità di pensiero. Ci torneremo in altra occasione.
Per il momento soffermiamoci a meditare e a soppesare uno dei tanti commenti apparsi sul sito Corriere.it a seguito della pubblicazione di un articolo di Richard Wolin, Addio Heidegger!
Lo inserisco qui sotto:
Il lettore n. 9125179 si è dato la numerazione da solo non firmandosi nemmeno con uno pseudonimo o forse volontariamente, per mettersi al posto degli ebrei che nei campi di concentramento venivano tatuati sul braccio, ribaltando così la storia in cui i persecutori si atteggiavano a vittime.
Proprio come faceva Heidegger quando accusava gli Alleati di aver impedito il raggiungimento completo di quella ambita méta di eliminare dalla faccia della terra il popolo ebraico. E di aver creato, loro, il più grande campo di concentramento in cui la Germania - poveretta! - si trovò rinchiusa dopo la guerra.
Ora, dice il lettore, piange di rabbia, scoprendo che il vate filosofico del nazismo è stato, per così dire, messo a nudo (in realtà si volle mettere a nudo da se stesso, pianificando la pubblicazione dei suoi libelli "neri" a un tot di anni dopo la sua morte).
Come se chiarire il pensiero di Heidegger non fosse opera degli studiosi di filosofia, che lavorano sugli scritti stessi del filosofo, ma avesse una funzione politica attinente ad una presunta "lobby ebraica" che dominerebbe il mondo: a Hollywood, nei mercati, nel sistema finanziario, nella politica, ora anche nella Filosofia. Dopo avere fatto - dice lui con sicumera - quel che volevano della Storia.
Forse per aver detto che i nazisti sterminavano gli ebrei? O per aver negato che, come diceva Heidegger con una capriola dialettica assolutamente impareggiabile, si erano auto-annientati nelle camere a gas?
Fantasmagorico.
(AgoraVox Italia, 21 aprile 2015)
Gaza: missione ministri Anp interrotta da contrasti
Si è conclusa anzitempo ed in maniera drammatica la missione di undici ministri inviati ieri a Gaza dal premier palestinese Rami Hamdallah per riorganizzare il lavoro dei loro ministeri nella Striscia.
In serata, al termine di una giornata di contrasti con Hamas, sono rientrati a Ramallah. In precedenza si erano visti costretti a restare per ore in albergo per volere di agenti di Hamas, che secondo la stampa avrebbero anche impedito loro l'uso di internet.
In base ai programmi originali i ministri del governo di riconciliazione nazionale palestinese (tutti tecnocrati) avrebbero dovuto restare nella Striscia per una settimana. Ma il loro soggiorno è durato meno di 48 ore.
In una telefonata dall'Indonesia, dove si trova in visita, il premier Hamdallah si è detto fiducioso che i dissensi con Hamas possano essere risolti e ha esortato i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania a non perdere la fiducia.
All'origine dei contrasti vi è la richiesta di Hamas di integrare nei servizi pubblici palestinesi (finanziati dall'autorità nazionale palestinese) decine di migliaia di funzionari assunti nella Striscia dopo il 2007, quando Hamas ha preso il potere a Gaza. Dal giugno 2014, ossia dalla costituzione del governo Hamdallah, essi non hanno più percepito i loro stipendi e adesso esigono soluzioni concrete e rapide.
(swissinfo.ch, 20 aprile 2015)
Leggono la Torà davanti al Muro Occidentale, il blitz delle ebree riformiste
Il gruppo, "Women of the Wall", creato 25 anni fa e composto in gran parte da nordamericane, ha infranto le norme religiose ortodosse del luogo più sacro dell'ebraismo.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Un gruppo di donne ebree riformiste dell'associazione "Women of the Wall" ha letto la Torà (il Pentateuco) da un rotolo di pergamena davanti al Muro Occidentale, infrangendo le norme religiose ortodosse del luogo più sacro dell'ebraismo. "Women of the Wall", creato 25 anni fa e composto in gran parte da nordamericane, tentò cinque anni fa un simile blitz, andando incontro al fallimento ma questa volta l'intervento della polizia - richiesto dal rabbino del Muro Occidentale, Shmuel Rabinowitz - non è stato sufficientemente rapido.
Si è trattato di un vero e proprio blitz, fin quando un gruppo di uomini, sostenitori di "Women of the Wall", hanno preso una Torà ed hanno creato un'apertura fra la sezione maschile e femminile del "Kotel" (il Muro Occidentale dell'antico Tempio di Gerusalemme) passandola alle donne, che hanno subito iniziato a leggerla ad alta voce, nello scalpore generale.
Mentre le riformiste raggiungevano l'intento perseguito un gruppo di ebrei ortodossi ha tentato di riappropriarsi dei rotoli di pergamena della Torà entrando nella sezione femminile, ma la polizia è intervenuta respingendoli. Terminata la lettura pubblica della Torà, le donne riformiste hanno iniziato a ballare attorno ai rotoli di pergamena, in segno di gioia.
(La Stampa, 20 aprile 2015)
'Tripoli a Roma', gli ebrei libici si raccontano
In mostra a Festival 'Sefarad' tradizioni diaspora 1967
di Cristiana Missori
ROMA, 20 apr - La sposa vestita di rosso, ha le mani e i piedi decorati con l'henné e va incontro allo sposo. Le amiche della giovane, entrano nella sala della festa con ceste colme di 'bsisa', tradizionale mistura di farina di grano tostato e spezie (in genere coriandolo e cumino), diffusa in tutto il Nord Africa. Istanti di gioia durante una 'Hanna', la cerimonia nuziale tipica degli ebrei di Libia, a Roma. Un pezzo di cultura mediterranea nella capitale, raccontato grazie agli scatti della fotografa napoletana Ada Masella. 'Tripoli a Roma, il ritorno di Sefarad', è il titolo della mostra inaugurata ieri alla Reale Accademia di Spagna, nell'ambito della terza edizione del Festival della storia e della cultura gastronomica ebraica della capitale, organizzato dall'Azienda Romana Mercati (azienda della Camera di Commercio di Roma), che fino al 30 aprile prossimo proporrà al pubblico la storia degli ebrei spagnoli, portoghesi e nordafricani rifugiatisi nella città eterna in periodi diversi. Gli ebrei sefarditi di Libia - giunti nella capitale nel 1967 (dopo l'espulsione ordinata da Gheddafi), hanno dato un grande contributo alla vitalità dell'antica comunità ebraica romana, come ha voluto ricordare aprendo la manifestazione, lo stesso presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici.
Una storia di integrazione, certo, senza però mai perdere la propria specifica identità e mantenendo vivo il proprio patrimonio di cerimonie religiose, canti, musica, letteratura e cucina tipici. Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, gli ebrei di origine libica rappresentano un terzo della comunità ebraica romana, formata in tutto da circa 13 mila persone. Oltre una ventina le fotografie, da oggi esposte alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (fino al 24 aprile), che consentono di guardare alla zona che da viale Libia si estende a piazzale delle Province con un altro sguardo. Fra quelle strade, si creò una sorta di nuovo quartiere ebraico della capitale, dove la comunità di Tripoli e quella assai più piccola di Bengasi, iniziarono una nuova storia, trasformando anche il quartiere. Quella che oggi è la più grande sinagoga della comunità libica di Roma, Beth El, come testimonia la mostra, circa 30 anni fa ospitava il vecchio cinema Ausonia.
(ANSAmed, 20 aprile 2015)
"Morte a Israele" sui missili iraniani. Netanyahu: pericolosa aggressività
Gelo diplomatico tra il premier di Tel Aviv
e Mosca
ROMA - In attesa che da Mosca giungano i nuovi missili da difesa S-300, la cui vendita è stata sbloccata una settimana fa dal Cremlino, sabato a a Teheran, in occasione della Giornata nazionale dell'Esercito, hanno sfilato quelli a lunga gittata Bavar-373. Si tratta di una versione simile agli S-300 che gli esperti militari iraniani hanno prodotto dopo che la Russia aveva deciso unilateralmente di non consegnare i suoi.
Le lamentele
Nonostante si tratti di sistemi di difesa, la loro sfilata ha fatto infuriare comunque Israele per due motivi: primo perché l'Iran, secondo il ministero della Difesa di Tel Aviv,
non dovrebbe ricevere nuovi armamenti. Secondo perché su alcuni di quei missili campeggiava la scritta "Morte a Israele". A denunciare la "politicamente scorretta" parata militare nella capitale iraniana è stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ieri, durante la riunione di governo. Contro questa «minaccia», ha sottolineato il premier, «Israele farà tutto quanto è necessario per difendere la sicurezza dello stato e dei suoi cittadini». «Israele - ha ribadito ieri Netanyahu - considera con la massima gravità la fornitura di missili S-300 all'Iran da parte della Russia, specialmente in un momento in cui l'Iran sta intensificando la sua aggressione nella regione e attorno ai confini dello Stato di Israele». Anche se ieri non ne ha fatto menzione, a complicare la situazione per Israele c'è l'atteggiamento assunto sulla vicenda degli S-300 da Barack Obama. Mentre Israele la giudica appunto un elemento destabilizzante, il presidentedegli Stati Uniti non vi ha trovato alcunché da eccepire. E le sue parole, pronunciate sabato scorso, sono state accolte con sbalordimento dal governo israeliano.
Forniture d'armi
Non c'è dubbio che in questi tempi nei confronti di Israele spirino venti gelidi, sia da Washington sia da Mosca. I missili S-300 - ha puntualizzato Putin - hanno un carattere difensivo, dall'Iran non possono minacciare Israele. Il presidente russo ha quindi messo in guardia Israele dal tentare alcuna ripicca in Ucraina, vendendo armi al governo di Kiev. «Non farebbero che provocare nuovi spargimenti di sangue, ma non cambierebbero la situazione», ha osservato. Secondo la stampa israeliana, Israele starebbe pensando di essere assente a maggio alle celebrazioni di Mosca per l'anniversario della vittoria sulla Germania nazista.
(Il Messaggero, 20 aprile 2015)
Ucciso perché ebreo, in tv «Je suis Ilan»
La storia di Halimi, rapito e torturato a Parigi per 24 giorni da fondamentalisti islarnici. "Scuoterò le coscienze con la rievocazione di questo crimine antisemita del 2006".
di Emilia Costantini
ROMA, 20 gennaio 2006 - Un giovane ebreo, llan Halimi, viene rapito nella cittadina di Sceaux e ritrovato agonizzante il 13 febbraio lungo i binari della ferrovia a Sainte-Genevièvedes-Bois, periferia parigina. Ventiquattro giorni di torture, umiliazioni di ogni genere, ad opera di un gruppo di integralisti islamici, la cosiddetta «banda dei barbari». Il giovane ebreo muore, il commando verrà arrestato: resta la disperazione dei genitori che non hanno potuto salvarlo.
Je suis Ilan si intitola il film che racconta quei terribili 24 giorni e che è tratto dal libro omonimo realizzato dalla scrittrice Emilie Frèche, in base alla testimonianza della madre della vittima, Ruth Halimi. Un duro film-denuncia con la regia di Alexandre Arcady che, non nascondendo le difficoltà incontrate per produrlo, afferma: «Il movente ormai riconosciuto del sequestro e dell'uccisione è l'antisemitismo. llan è il primo giovane ebreo ucciso in Francia dopo la Shoah. Questo crimine antisemita non è stato un semplice fatto di cronaca, ma l'indice di un grave fenomeno sociale. E lo scopo di questo film è di scuotere le coscienze».
Una serata speciale il 6 maggio all'Auditorium della Conciliazione per presentare il film, che andrà in onda il giorno dopo su Rai2 in prima serata: è prevista la presenza del presidente di Israele Reuven RivIin, del presidente Mattarella, i familiari di llan, ma anche il musulmano che il 9 gennaio scorso ha salvato gli ostaggi del supermercato ebraico all'indomani dell'attentato a Charlie Hebdo.
«Mi chiamo Ruth Halimi, ho tre figli. È incredibile quello che mi è accaduto a Parigi nel 2006, ma purtroppo è accaduto, è tutto vero», sono le prime parole sussurrate dalla madre di Ilan che danno il via al racconto.
La frase, invece, con cui lo stesso personaggio chiude il film dice: «Vorrei che la morte di Ilan servisse a dare l'allarme». Sì, perché la polizia, che pure si è impegnata oltre ogni limite, ha fallito. «C'erano 400 persone a occuparsi del caso, 24 ore su 24 - riprende Arcady - ma pensavano si trattasse di una banda di criminali comuni che mirava solo al riscatto. La polizia francese ha commesso un grave errore di valutazione. L'antisemitismo è radicato profondamente. Per i rapitori, llan era come un animale anche se aveva la loro età, la stessa nazionalità: siamo tornati ai vecchi schemi che credevamo scomparsi con il nazismo e la soluzione finale. Un ebreo che viene imprigionato, torturato, rapato a zero, abbandonato in un bosco e bruciato vivo».
Un rigurgito di antisemitismo che non sì vuole ammettere ed è proprio il personaggio della madre ad intuire subito la verità: avverte gli inquirenti, senza essere ascoltata. E quando ormai la tragedia si è consumata e il procuratore, nelle sue dichiarazioni, si ostina a escludere il movente razzista, la donna sottolinea: «Mio figlio è stato ucciso una seconda volta. Mio figlio è stato scelto dai criminali perché era ebreo. Se non fosse stato ebreo non l'avrebbero assassinato».
Ma nonostante il dolore, Ruth non cerca vendetta: nelle ultime sequenze del film, mentre fa trasportare la salma del figlio a Gerusalemme, «affinché i suoi carnefici, una volta usciti di galera, non vadano a sputare sulla sua tomba», la donna racconta delle tante lettere di solidarietà ricevute da musulmani.
(Corriere della Sera, 20 aprile 2015)
Emergenze, il piano «Salva Expo». Ospedali pronti in 20 minuti
Il modello è stato importato dalle zone di guerra di Israele. Una rete di sette strutture collegate all'unità di crisi per l'assistenza simultanea a centinaia di feriti. Medici sempre reperibili. Giovedì il test.
di Simona Ravizza
Il piano di emergenza sanitaria previsto per il massiccio afflusso di feriti in arrivo dai padiglioni dell'Expo prende spunto dalle zone di guerra di Israele. In meno di 20 minuti, sette ospedali dovranno essere pronti tra spostamento di pazienti e medici richiamati al lavoro. I feriti stanno arrivando dal sito di Expo: e, in meno di venti minuti, tutto dev'essere pronto in almeno sette ospedali (Niguarda, Policlinico, Sacco, San Carlo, Pini, Garbagnate e Rho). L'unità di crisi avvia immediatamente la fase di evacuazione del Pronto soccorso (svuotato dai pazienti trasferibili in altre aree ospedaliere) e dei reparti (rapidamente liberati dai malati che possono essere dimessi senza metterne a repentaglio la salute). I medici reperibili - e anche quelli fuori servizio - vengono richiamati al lavoro: e ciascuno indosserà un giubbotto di identificazione con colori diversi (rosso, giallo, verde, blu, viola) in base ai compiti che gli sono stati assegnati. Dai magazzini salgono i carrelli con le attrezzature mediche già divise a seconda della gravità dell'intervento (materiali per chi è in fin di vita, per chi è grave ma non ha i parametri vitali compromessi, per chi ha bisogno di cure più leggere). Il modello è stato importato dalle zone di guerra di Israele.
È il piano di emergenza sanitaria previsto per il massiccio afflusso di feriti in arrivo dai padiglioni dell'Esposizione universale (in gergo lo chiamano Pemaf) che scatterà - per le prove generali - giovedì. Sarà una simulazione in piena regola, a una settimana dall'inizio dell'evento. L'esercitazione si svolgerà sotto il coordinamento dell'Agenzia per l'emergenza-urgenza (Areu).
Ciascuno dei sette ospedali si attiverà soprattutto in base alle proprie aree di competenza: il Niguarda come Centro trauma di alta specializzazione, il Policlinico per i bambini e le donne in gravidanza, il Sacco per gli attacchi bioterroristici, il San Carlo per i politraumi con necessità di interventi neurochirurgici, il Pini per l'ortopedia, Garbagnate e Rho come ospedali generalisti a due passi dal sito di Expo. «L'organizzazione ospedaliera dei soccorsi in fase di maxi-emergenza è demandata ai Pemaf, che delineano preventivamente le soluzioni organizzative e logistiche più idonee per fronteggiare un eventuale massiccio ed imprevisto afflusso di pazienti, identificando la tipologia delle misure da adottare, le modalità, i tempi di attuazione, i responsabili e gli esecutori materiali dei diversi interventi - scrive l'assessorato alla Sanità in un documento del 14 novembre proprio dedicato ai Pemaf studiati per i sei mesi Expo -. È prevista anche la gestione di pazienti con problemi derivanti da attacchi nucleari, biologici, chimici e radiologici». I sette ospedali sono organizzati per ricevere contemporaneamente 44 feriti in codice rosso, 88 in codice giallo e 282 in codice verde. Anima dell'organizzazione è Giancarlo Fontana, primario del San Carlo e tra gli esperti del Pirellone nella programmazione sanitaria legata alle emergenze, che ha studiato a lungo il modello adottato nelle zone più calde di Israele.
Nella simulazione di giovedì i sette ospedali adotteranno tutti i protocolli previsti: infermieri, rianimatori, chirurghi, internisti, cardiologi, neurochirurghi, radiologi e psicologi (al lavoro, reperibili o fuori servizio) si muoveranno come in caso di un reale massiccio afflusso di pazienti e ciascuna struttura sarà trasformata in un campo di battaglia. Con la previsione dei settori da evacuare, la creazione di corsie d'accesso preferenziali per i feriti, la velocizzazione delle procedure di accettazione (triage), la predisposizione dei carrelli con le attrezzature, la modulistica semplificata per l'identificazione dei pazienti. Tutto dev'essere pronto.
(Corriere della Sera, 20 aprile 2015)
Oltremare - Memoria
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Hanno già cominciato. Uno accende la televisione per vedere il telegiornale e si trova servizi infiniti e documentari su una guerra fra le tante. Pesach non è ancora uscito completamente dal nostro orizzonte, già abbiamo dovuto deglutire (o evitare accuratamente) tutti i film sulla Shoah la settimana scorsa, e adesso arriva a tradimento anche Yom HaZikaron. Basta avere un calendario sotto gli occhi per vedere che la concentrazione di memoria fra Purim e Shavuot tocca il suo massimo in questi giorni. Non un attimo di sosta: tutto il tempo a ricordare qualcosa. Comincio a capire gli israeliani sabre, quelli nati e cresciuti qui, quando dicono che bisogna, ogni tanto, andare dall'altra parte del mare a prendere un bel respiro e poi ritornare qui, in questo fazzoletto di terra e sassi che oscilla fra storia millenaria, hi-tech ubiqua e storia contemporanea per nulla facile da sfuggire nel quotidiano. Fughe di breve durata, e non esodi come quelli durante Pesach, ma anche grazie al ponte che allunga il fine settimana, molti israeliani partono per qualche giorno, e saltano a piè pari sia il deprimente giorno della memoria per tutti i caduti, che la festa grande e i barbecue della festa dell'Indipendenza. Sulla apparente crudeltà che incolla senza soluzione di continuità il giorno luttuoso della memoria a quello festivo dell'Indipendenza, si potrebbero scrivere libri - e probabilmente ne sono stati scritti. L'ambivalenza di ogni guerra anche vittoriosa, la liberazione che arriva solo attraverso il sacrificio dei nostri giovani, il passaggio ripetuto ogni anno da lutto nazionale a celebrazione. Insomma in qualche modo un altro Pesach, dove i morti però non sono i primogeniti egiziani stranieri e aguzzini, ma giovani di ogni generazione israeliana. E quando partono i fuochi d'artificio, meglio ricordarsi che non siamo ancora arrivati all'asciutto, nel luogo di pace dove i giovani smettranno di morire in guerra.
Solo il gas naturale migliorerà i rapporti fra Europa e Israele
Se l'Europa dà addosso a Israele non è per i diritti umani, ma per il valore geopolitico del mondo arabo e il peso elettorale dei musulmani europei.
Francesi e britannici hanno bombardato Gheddafi e risparmiato Assad perché la Libia è uno stato petrolifero, mentre la Siria non lo è. Ma naturalmente Nicolas Sarkozy e David Cameron nel 2011 hanno sostenuto che l'intervento Nato in Libia era motivato da ragioni umanitarie.
Leader e diplomatici europei vorrebbero farci credere che la loro politica estera è fondata su principi come i diritti umani e l'autodeterminazione, ma non osano criticare occupanti e violatori dei diritti umani con cui hanno bisogno di fare affari. L'Arabia Saudita può torturare i blogger perché il suo petrolio è indispensabile. La Cina può occupare il Tibet perché è una potenza mondiale. La Russia può occupare la Georgia perché nessuno intende rischiare una guerra nucleare per l'indipendenza di quella ex repubblica sovietica. La Turchia può occupare Cipro e negare l'indipendenza ai curdi perché la Turchia è un prezioso partner commerciale con leader caratteriali...
(israele.net, 20 aprile 2015)
Addio a Elio Toaff, il rabbino più amato
E' morto nella sua casa romana, il 30 aprile avrebbe compiuto 100 anni. Per mezzo secolo alla guida della Comunità romana. Il saluto del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: "Addio a un uomo straordinario". Renzi: "Un grandissimo italiano". Marino: "Persona di enorme valore".
di Gabriele Isman
E' morto nel pomeriggio Elio Toaff, rabbino capo della Capitale dal 1951 al 2001, quando aveva lasciato l'incarico. Avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 30 aprile, ed è stata senza dubbio la figura più importante dell'ebraismo italiano del Dopoguerra, oltre che una delle pochissime persone citate nel testamento di Giovanni Paolo II. "Un pensiero carico di gratitudine e affetto per il rabbino Elio Toaff, grandissimo italiano e uomo simbolo della comunità ebraica", scrive su Twitter il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Per il secolo di Toaff, che da tempo conduceva una vita ritirata, si stavano già preparando i festeggiamenti: l'idea della comunità era una festa sotto la sua abitazione. "Se ne è andato l'uomo della ricostruzione, un gigante del Paese, che ha combattuto anche nella Resistenza. Il Rabbino che ha costruito il risorgimento ebraico romano dopo la Shoah, restituendo una dignità e il fasto che pensavamo di aver perduto per sempre", così ne parla Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica della Capitale. La sua ultima apparizione pubblica risale allo scorso 30 aprile, quando per un momento si era affacciato dalla finestra del suo studio per salutare i bambini della comunità che lo stavano festeggiando.
Per quello che sarebbe stato il suo prossimo compleanno era anche prevista una mostra nel museo della comunità con alcuni suoi scritti ufficiali. Immediato il cordoglio di Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane: "Piangiamo in queste ore la scomparsa di un uomo straordinario. Un punto di riferimento, un leader, una guida spirituale in grado di segnare il suo tempo e il tempo delle generazioni che ancora verranno. I gesti e gli insegnamenti che hanno caratterizzato il magistero e la lunga vita del rav Toaff rappresentano infatti uno dei momenti più alti nella storia, non solo dell'ebraismo italiano ma dell'umanità intera. Grazie rav per tutto".
(la Repubblica - Roma, 19 aprile 2015)
Piazza e monumento per ricordare i cinque finanzieri "Giusti fra le Nazioni"
Il tenente Giorgio Cevoli, il finanziere scelto Salvatore Corrias, il finanziere Giulio Massarelli, il tenente Giuseppe Pollo e il maggiore Raffaello Tani si distinsero durante l'occupazione nazista per aver salvato, a volte a prezzo della vita, ebrei e perseguitati politici. Il loro ricordo a Leverano.
LEVERANO (LE) - Una nuova piazza, a Leverano, ricorda da ieri gli atti d'eroismo e umanità di militari della Guardia di finanza che mettendo a rischio la propria vita e quella della famiglia, in qualche caso perdendola, hanno salvato tante vite umane durante l'occupazione nazista in Italia.
Sono storie di cinque uomini non conosciute da tutti, e che meritano di essere raccontate più e più volte, perché non si cancelli memoria dei giorni bui che attraversarono l'Italia. E soprattutto perché, con il loro esempio, possano tracciare un solco per le generazioni future.
Ci sono le vicende del tenente Giorgio Cevoli, ad esempio. Prima riuscì a far liberare un uomo, garantendo personalmente al comandante tedesco di Chiavenna, in provincia di Sondrio, che non si trattava di un ebreo. Poi, tra il 1944 e il 1945, mentre era al comando della Tenenza di Gironico, in provincia di Como, fornì documenti falsi a una famiglia ebrea e la ospitò, facendone figurare i componenti come suoi parenti profughi da Roma.
Ancora, il finanziere scelto Salvatore Corrias, in servizio presso la Brigata di frontiera di Bugone, in provincia di Como, che ha pagato con la vita per il suo coraggio. Dopo aver messo in salvo in Svizzera, nazione neutrale, centinaia di famiglie di ebrei in fuga dallo sterminio, ma anche tanti politici e perseguitati del regime fascista e dai tedeschi, fu catturato da una banda ausiliaria delle truppe regolari repubblichine e fucilato sommariamente nel recinto della stessa caserma dove prestava servizio.
E poi, il finanziere Giulio Massarelli, in servizio presso il Nucleo di polizia tributaria di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Durante l'occupazione tedesca del Nord Italia si distinse nel salvataggio di numerosi ebrei e personalità antifasciste. E il tenente Giuseppe Pollo, che, al comando della Stazione Naviglio di Venezia, durante l'occupazione nazi-fascista, si prodigò in favore di ebrei e perseguitati politici acquisendo informazioni su eventuali arresti o deportazioni presso gli uffici della Questura e offrendo un rifugio sicuro, per molti mesi, a numerose persone di origine ebrea.
Infine, ma non ultimo, il maggiore Raffaello Tani, comandante del II Battaglione della Legione allievi. Durante l'occupazione tedesca di Roma, si adoperò per il salvataggio di alcuni ebrei, uno dei quali fu ospitato nella sua abitazione, nonostante gli alti rischi che l'eventuale rappresaglia colpisse pure la moglie Iolanda e i figli. Ebbene, tutti, sono stati riconosciuti "Giusti tra le Nazioni" dallo Stato di Israele e ricordati nel Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme.
Ieri, dunque, anche una sobria cerimonia per intitolare la piazza alle "Fiamme gialle" ed esibire un monumento dedicato proprio ai cinque finanzieri. Tutto scaturito da una proposta formulata un anno addietro dalla sezione locale dell'Anfi (Associazione nazionale finanzieri d'Italia), accolta e condivisa dall'amministrazione comunale della "Città dei fiori" che ha inteso così esprimere apprezzamento per l'impegno dei finanzieri a tutela della legalità economico-finanziaria.
Hanno partecipato alla giornata anche altre sezioni dell'Anfi della provincia di Lecce, associazioni combattentistiche e d'Arma, due classi delle scuole elementari e numerose autorità, fra cui il comandante regionale della Guardia di finanza, generale di divisione Giuseppe Vicanolo, e il sindaco di Leverano, Giovanni Zecca.
E' stata scoperta la targa con l'indicazione toponomastica "Piazza Fiamme Gialle". Poi, la signora Grazia Baroni Pollo, vedova del tenente Giuseppe Pollo, ha inaugurato il monumento sul quale il generale Vicanolo ha deposto una corona d'alloro. La cerimonia è terminata con gli interventi del primo cittadino, del comandante regionale del generale di Corpo d'armata, Giovanni Verdicchio, presidente nazionale dell'Anfi.
(LeccePrima, 19 aprile 2015)
"Armenia, Israele parli chiaro"
di Francesca Matalon
"È tempo per le autorità più rappresentative d'Israele, il suo presidente, il suo capo del governo, la Knesset, di riconoscere il genocidio di cui sono stati vittime gli Armeni dell'Impero Ottomano". I due avvocati Serge e Arno Klarsfeld, padre e figlio, si sono rivolti attraverso un articolo comparso sabato sul quotidiano francese Le Monde al governo israeliano, in merito all'assenza di Israele nel novero dei paesi che hanno ufficialmente riconosciuto il genocidio degli armeni, di cui ricorre quest'anno il centenario. Il motivo di tale scelta risiederebbe, secondo i firmatari dell'appello, nella volontà di evitare dissidi con la Turchia, paese con cui Gerusalemme da tempo ha rapporti molto tesi.
Sottolineando il riconoscimento da parte di numerosi governi, tra cui quello francese il cui presidente Francois Hollande si è impegnato affinché una legge sanzioni la negazione del genocidio armeno "così come la legge Gayssot sanziona da un quarto di secolo a questa parte la negazione del genocidio ebraico", e anche del papa, padre e figlio esortano Israele a fare lo stesso ponendo una domanda: "Fra meno di venticinque anni, sarà il turno del centenario del genocidio degli ebrei a essere celebrato nel mondo intero, compreso - lo speriamo - il mondo musulmano. Come coltivare questa speranza di unanimità se lo Stato degli ebrei rifiuta ancora questo riconoscimento formale per non indisporre il suo potente vicino turco?".
Con la Turchia Israele vive da diversi anni un rapporto di alta tensione, dovuto tra le altre cose anche all'ascesa al governo turco di partiti islamici. Noto per il suo strenuo attivismo nel campo dei diritti umani, della lotta contro l'antisemitismo e per il sostegno allo Stato d'Israele, Serge Klarsfeld, avvocato, storico e scrittore ebreo francese nato in Romania, scampato alla deportazione a differenza del padre ucciso ad Auschwitz, è conosciuto ed è stato insignito delle più alte onorificenze della Repubblica francese per aver dedicato la sua vita a cercare insieme alla moglie Beate i nazisti scampati ai processi loro intentati nel dopoguerra, riuscendo a portare in tribunale molti ufficiali nazisti e collaborazionisti tra cui il 'boia di Lione' Klaus Barbie e il francese Maurice Papon. Il figlio Arno, di nazionalità franco-israeliana, ha seguito la stessa carriera e affiancato i genitori nelle loro battaglie.
Questo appello congiunto, spiegano, non nasce per costituire un attacco alla Turchia moderna, ma un invito affinché essa segua l'esempio della Germania che ha riconosciuto fin da subito il genocidio commesso dalla Germania hitleriana e "assumendone le conseguenze a ogni livello, ha liberato il popolo tedesco da una parte del suo fardello morale". Finché i dirigenti della Turchia "negheranno la verità storica", continuano, "finché cercheranno di sottrarsi alle loro responsabilità e continueranno a sostenere che gli Armeni li hanno traditi durante la Prima Guerra Mondiale e di aver soltanto risposto ai colpi, saranno tenuti in disparte dalla comunità internazionale, e dall'Unione Europea per prima. Finché Israele non riconoscerà il genocidio armeno, la Turchia si rifiuterà di farlo".
"Lo Stato Ebraico sa che i nazisti hanno potuto arrischiarsi a commettere nel corso del ventesimo secolo un secondo genocidio perché gli autori del primo non erano stati puniti", aggiungono. "Nessun argomento valido - concludono - può essere opposto al riconoscimento che noi chiediamo a Israele in questi giorni in cui commemoriamo Yom HaShoah".
(moked, 19 aprile 2015)
Expo2015, padiglione Israele, tante novità per l'agricoltura mondiale
di Matteo Carriero
All'Expo2015 di Milano Israele si presenta con un padiglione dal tema "Fields of Tomorrow", I campi del domani, struttura caratterizzata da uno spettacolare campo verticale con mais, riso e grano.
Il padiglione di Israele all'Expo2015 di Milano si focalizzerà sull'innovazione, con le novità riguardanti l'agricoltura che rivestiranno un ruolo di primo piano, in linea con il tema generale dell'esposizione universale: Nutrire il pianeta - Energia per la vita. Dal Super Wheat alle tecnologie per la coltivazione in lande desertiche passando per l'ecosostenibilità e la piantumazione sistematica di nuovi alberi, l'ambasciatore Gilon ha di recente raccontato parte di quanto troveranno i visitatori nel padiglione israeliano all'Expo che si aprirà il prossimo primo maggio.
A Expo Milano 2015 Israele presenta Fields of Tomorrow, un padiglione dedicato alle tradizioni della "terra del latte e del miele" ma anche alle più avanzate tecnologie sostenibili in agricoltura e alimentazione". In mostra un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo industrioso, di tecnologie all'avanguardia e aziende innovative ma anche l'impegno del paese nel condividere il know-how e i risultati della ricerca per un futuro rinnovato.
Uno dei più notevoli successi di Israele sul fronte dell'agricoltura riguarda la coltivazione su terreni desertici: la trasformazione del suolo sterile in suolo fertile attraverso soluzioni tecnologicamente avanzate rappresenta un esempio di indubbia utilità per i vari stati che si trovano a fronteggiare le difficoltà derivanti dalla produzione alimentare in territori non fertili. Le soluzioni israeliane saranno presentate nel padiglione che all'Expo2015 si trova all'incrocio tra Cardo e Decumano, di fianco al padiglione del nostro paese (padiglione isrealiano che è stato disegnato dall'architetto David Knafo e costruito con materiali interamente riciclabili). Sempre in tema di novità e innovazioni per l'agricoltura, il padiglione di Israele espone subito allo sguardo una delle tecnologie potenzialmente più rilevanti per il futuro, quella del Vertical Planting che fa mostra di sé, in grande scala, nella struttura stessa del padiglione. La soluzione del Vertical Planting permette, come è facile immaginare, un'importante ottimizzazione per quanto concerne lo spazio da utilizzare per le colture e l'acqua necessaria alla crescita delle stesse.
La necessità di uno sviluppo sostenibile ed ecologicamente responsabile è un altro dei temi centrali affrontati dai padiglioni di molti paesi presenti all'Expo2015, e il padiglione di Israele non fa eccezione. In particolare avremo una sezione della mostra interna dedicata alla foresta denominata KKL-JNF, in cui sono stati piantati 240 milioni di alberi nel corso degli ultimi sette decenni, aiutando la riforestazione del territorio israeliano. La foresta è inoltre correlata a una banca dei semi e a una nursery botanica e contribuisce a far sì che Israele sia l'unico stato, a oggi, ad avere più alberi nel suo territorio rispetto a un secolo fa. I visitatori dell'Expo2015 potranno inoltre trovare, nel padiglione dello stato di Israele, numerose altre novità per l'agricoltura, tra cui diversi progetti di 3.0 agricolture, come le tecnologie digitali e satellitari per la gestione dei campi coltivati e le nuove ipotesi per l'irrigazione in Africa.
(Ecologiae.com, 19 aprile 2015)
Noi della "Brigata ebraica", in battaglia per l'Italia
«La 'Brigata ebraica' si è battuta per la libertà di un parte di Italia. Combattendo i tedeschi, abbiamo dato agli italiani la possibilità di essere liberi. E siamo contenti di questo».
Asher Dishon, classe 1923, a 92 anni suonati ha una memoria intatta: ricorda Fiuggi (dove stava per essere ucciso), Roma, il fiume Senio in Emilia dove morirono «tanti compagni». «Ebrei come me - racconta all'ANSA nella sua casa di Beersheva nel sud di Israele dove comincia il deserto del Negev - tutti arruolatisi prima nell'esercito inglese e poi, dopo la decisione di Churchill e Roosevelt, nella 'Brigata»'. Quando apprende che le bandiere con la Stella di Davide della sua Brigata non sono bene accette nelle manifestazioni per il 25 Aprile perché, a giudizio di una parte della sinistra e dei gruppi palestinesi, rappresentano Israele, scuote la testa incredulo. «Lì - aggiunge - non c'erano palestinesi». «Quando arrivammo a Roma, la situazione era terribile. La gente - spiega in un inglese ancora buono - moriva di fame. Ci chiedeva se potevamo darle qualcosa da mangiare. E noi lo abbiamo fatto, distribuendo le nostre razioni: tutto quello che avevamo. Per noi non faceva differenza se fossero ebrei o no: era gente affamata. Qualcuno di loro mi disse che non vedeva cibo come quello da tanto tempo. È bello aiutare qualcuno che ha bisogno. I tedeschi non la pensavano così: tenevano tutto per loro».
Asher è nato a Vienna, il suo nome (cambiato poi in Israele), e' Leo Goldsmidt: nel 1938 una parte della sua famiglia lasciò l'Austria quando comprese che per gli ebrei non c'era più scampo. Lui arrivò in Palestina ed ebbe dagli Inglesi - allora potenza mandataria - la cittadinanza palestinese. Quando Rommel tra il 1941 e il 1942 sembrava potesse sfondare le linee britanniche ad El Alamein e conquistare prima o poi l'Egitto in Palestina fu chiaro che se i tedeschi fossero arrivati agli ebrei sarebbe toccata la stessa sorte di quelli europei. A Dishon si pose il primo bivio: «qualcuno in alto ci disse che la situazione volgeva al peggio e ci chiese di scegliere. O l'esercito inglese o il Palmach, l'unita' di elite della difesa ebraica. Io scelsi il primo. Per quasi due anni restai con gli inglesi, poi nel 1944 accettarono che combattessimo sotto la nostra bandiera ed entrai nella Brigata ebraica comandata dal generale canadese Ernest Frank Benyamin. Volevamo sconfiggere i tedeschi e aiutare gli ebrei.
Con la Brigata ho risalito l'Italia fino a Tarvisio dove siamo rimasti per un periodo subito dopo la guerra». Sono stati circa 5 mila i soldati con la Stella di Davide cucita sul braccio che hanno combattuto nella Penisola: la 'Brigata ebraica', insieme agli italiani del 'Gruppo di combattimento Friuli', è stata la testa d'ariete dello sfondamento della Linea Gotica nella vallata del Senio. Le sue forze hanno contribuito alla liberazione della Romagna e dell'Emilia, da Cuffiano, a Riolo Terme, Ossano, Monte Ghebbio, La Serra, Imola e Ravenna, fino a Bologna. Asher Dishon negli ultimi anni è tornato spesso in Italia soprattutto a Piangipane nei pressi di Ravenna dove sono tumulati i caduti della Brigata. «In quei frangenti la situazione era difficile, bastava alzare la testa dalla tua postazione perché i tedeschi ti uccidessero. Del mio battaglione, il Terzo, ero uno dei più giovani e per questo - dice dopo aver indossato la divisa d'onore per mostrarla - credo di essere rimasto soltanto io. Ma molti sono morti lì, in Italia. Ogni volta che vado a Piangipane ci ringraziano, noi soldati della Brigata Ebraica, per averli liberati dai tedeschi e dai nazisti».
Dopo la guerra Dishon è tornato in Palestina: a Vienna, in Austria della sua famiglia non era rimasto più nessuno. «Appena arrivammo Ben Gurion ci disse: voi avete combattuto, siete addestrati e sapete come si fa. Ora si tratta di combattere per noi, per lo Stato di Israele». Lui entro' nell'Haganah, embrione del futuro esercito israeliano. «Subito dopo siamo stati attaccati da Egitto, Libano, Siria, Giordania e Iraq. Un'altra guerra».
(Online News, 19 aprile 2015)
L'Eurabia coccola l'islam e marchia i prodotti ebraici
Lettera di alcuni ministri Ue (anche Gentiloni) alla Mogherini: ci vuole un simbolo sulle merci provenienti dai territori occupati da Israele. La replica: «Mettete la stella gialla».
di Marco Gorra
Paolo Gentiloni, Ministro degli Esteri Italiano nominato dal Presidente del Consiglio Italiano Matteo Renzi, firmatario della lettera per il boicottaggio di Israele all'Alto rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, proposta a questa carica dal Presidente del Consiglio Italiano Matteo Renzi.
Rafforzare Triton e trovare il modo di arginare la marea umana di disperati frammisti a tagliagole dell'Isis? Neanche a parlarne: costa soldi e gli Stati del blocco del Nord non hanno nessuna convenienza. Aiutare i Paesi più esposti a controllare le frontiere per evitare di trasformare il Mediterraneo in una gigantesca porta girevole per chiunque abbia in animo di portare la guerra santa nel Vecchio continente? Anche no, ché di obblighi non ne sussistono ed alla Mitteleuropa va benone che ciascheduno si arrangi coi confini che gli sono toccati in sorte. Soprattutto, per l'Unione europea prima di prendere in considerazione l'ipotesi di lavorare per arginare l'immigrazione clandestina ed il terrorismo a domicilio ci sono cose molto più serie ed urgenti a cui pensare: tipo applicare un po' di sano nazismo di ritorno a quei cattivoni di israeliani. Quella sì che è una priorità, altro che l'Isis. Nello specifico, l'idea è quella di apporre un marchio speciale su tutti i prodotti provenienti dai territori palestinesi occupati. La richiesta è contenuta in una lettera firmata dai ministri degli Esteri di sedici Stati membri (in testa l'Italia con Paolo Gentiloni. Seguono Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Svezia, Malta, Austria, Irlanda, Portogallo, Slovenia, Ungheria, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo. La sola Germania tra i grandi Paesi Ue risulta astenuta) ed indirizzata all'Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini. La missiva è un tripudio del più classico antisemitismo mascherato alla bell'e meglio da questione geopolitica: «La continua espansione degli insediamenti illegali di Israele nei territori palestinesi occupati», c'è scritto, «minaccia la prospettiva di un accordo di pace». Pertanto, si rende necessaria la marchiatura: «I consumatori europei», concludono i sedici, «devono avere fiducia nel sapere le origini dei prodotti che stanno acquistando». Il progresso compiuto rispetto ai gloriosi tempi di un'ottantina di anni fa è d'altronde vistoso: in luogo dell'ormai vieto ed abusato cartello "negozio ebreo" da inchiodare sulla porta della bottega a motivarne la repentina chiusura per ordini superiori, oggi si passa ad una più pratica etichetta ad hoc che - in epoca di tracciabilità diffusa - risulta assai più al passo coi tempi e rispondente alle esigenze della modernità. Il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, che bolla l'iniziativa dei sedici ministri europei come «ipocrita e cinica», suggerisce agli euro-burocrati di fare il passo in più e di apporre sui boicottandi prodotti israeliani direttamente «la stella gialla, come facevano i nazisti». Che l'Unione europea abbia individuato il nemico nello Stato ebraico, d'altronde, non è esattamente una novità. Fatto muro con poco sforzo e molto successo di fronte alla proposta dei Radicali e dell'Economist di far entrare Israele nell'Unione (mica è la Turchia, dopo tutto), i politici di Bruxelles cercano semmai di allontanare quanto possibile Tel Aviv dall'Unione. Nel gennaio scorso, una cordata trasversale di parlamentari (per l'Italia c'era il terzetto della lista Tsipras Spinelli-MalteseForenza) ha chiesto alla Mogherini di sospendere l'accordo di associazione con Israele tirando in ballo il solito campionario di accuse da centro sociale a base di «violazione dei diritti umani e dei principi democratici». Poche settimane prima, l'emiciclo brussellese si era tolto la soddisfazione di infilare il proverbiale dito nell'occhio ad Israele mediante approvazione di documento in cui si riconosceva lo Stato palestinese (per non farsi mancare nulla, nelle stesse ore la Corte di giustizia europea reclamava a gran voce la cancellazione di Hamas dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche). E adesso, la richiesta dell'etichetta Che per diventare realtà ha soltanto bisogno di essere adeguatamente sponsorizzata dalla Mogherini in sede di Commissione. Difficile prevedere come si comporterà Lady Pesc. Un precedente che fa ben sperare c'è ed è quello del 2013, quando analoga pratica era finita sul tavolo dell'allora Alto rappresentante Catherine Ashton. La signora britannica - pare anche per effetto dei consigli del segretario di Stato americano John Kerry - decise di cestinare il tutto. Ora va solo capito se l'ex ministro degli Esteri italiano potrà o vorrà esercitare la stessa fermezza dimostrata da colei che l'ha preceduta.
(Libero, 19 aprile 2015)
Scritte antisemite. La vergogna che cresce
ROMA - Non solo negli stadi, in molti luoghi i muri sono sempre più imbrattati da scritte antisemite. Nel mio quartiere aumentano soprattutto vicino alla festa del 25 aprile. Oggi ne ho vista una feroce che troneggia a caratteri cubitali in via Orti della Farnesina, nei pressi di Ponte Milvio, XV municipio: «Migliaia di bambini aspettano vendetta, terra d'Israele terra maledetta» la firma è «Roma nord». Nella zona, soprattutto sulla via Cassia dalla Tomba di Nerone fino alla Giustiniana, proclami inneggianti al nazifascismo appaiono sempre più spesso. Peccato che la cancellazione sia sempre più lenta: io ho chiamato lo 060606 e mi hanno detto che interverranno. Speriamo che si faccia presto a farla sparire e magari a denunciare gli autori.
Tina Lepri
Arredi della Sinagoga di Casale in mostra alla Reggia di Venaria
CASALE MONFERRATO C'è anche un angolo di Casale Monferrato alla mostra "Pregare" che si è inaugurata l'11 aprile alla Reggia di Venaria Reale. Alla presentazione stampa la Comunità casalese era rappresentata da Claudia De Benedetti. La mostra espone centinaia di oggetti a testimonianza di ogni manifestazione della fede umana. Proprio il ricercare le analogie e le diversità tra paramenti, oggetti liturgici e tradizioni diventa un modo per rendersi conto di quanto sia assurdo odiarsi in nome di quel desiderio di trascendente che possiede ogni popolo.
Per illustrare la parte dedicata all'ebraismo è stato determinante anche il prezioso contribuito di oggetti di culto del Museo Ebraico Casalese con cui è stata addirittura allestita una sala dove campeggia la tenda dell'Aron realizzata da Emanuele Luzzati per la Sinagoga di vicolo Olper.
A coronamento della mostra c'è anche un video che illustra le diverse cerimonie religiose di tutto il mondo. Un opera del regista Franco Lacecla che il 5 febbraio era insieme alle telecamere nell'antica sala da preghiera casalese per la cerimonia ebraica per il sabato (Shabbat). Davanti alla cinepresa praticamente tutti gli uomini della comunità monferrina, più diversi amici e un rabbino. I rotoli della legge partiti dall'Arca avevano fatto un po' da guida all'antico complesso di vicolo Olper. Una testimonianza documentaria di un preciso atto di fede che inserisce Casale in un circuito mondiale.
"Abbiamo girato scene di Dervisci a Instambul, l'Epifania in Etiopia - ci aveva spiegato Lacecla durante le riprese confessando che era in procinto di partire per il Nepal per riprendere la Festa di Shiva".
La mostra allestita a Venaria nell'ambito della esposizione della Sindone sarà visitabile fino a fine giugno e lancerà, è l'auspicio dell'assessore competente Daria Carmi, un messaggio di richiamo per visitare Casale a iniziare da Sinagoga, Museo Ebraico e Museo dei Lumi (lumi - chanukkah - in trasferimento al Castello per una grande mostra che li comprende, per la prima volta, tutti).
(Il Monferrato, 18 aprile 2015)
Hamas-Israele, l'ultima trincea è sul mare
A otto mesi dal termine del conflitto a Gaza il braccio di ferro si sposta: crescono gli incidenti tra pescherecci palestinesi e Marina israeliana.
di Maurizio Molinari
Peschereccio nel porto di Gaza
GERUSALEMME - A otto mesi dal termine dell'ultimo conflitto di Gaza, il braccio di ferro fra Israele e Hamas si è spostato sul mare. Per accorgersene bisogna guardare i dati relativi agli incidenti fra pescherecci palestinesi e Marina israeliana avvenuti da settembre scorso nelle acque davanti alla Striscia. A monitorarli è il centro "Al-Mezan" di Gaza, secondo il quale vi sono stati 29 attacchi israeliani a pescherecci che hanno portato all'arresto di 49 pescatori, al ferimento di altri 17 ed alla confisca di almeno 12 barche.
Vi sono state anche tre vittime, ultima delle quali lo scorso 7 marzo è stato Tawfiq Said Abu Rayala, 32 anni, ucciso dai proiettili mentre si trovava ai limiti dell'area di pesca di 6 miglia marine dalla costa concordata da Hamas e Israele al momento del cessate il fuoco. Le ragioni del braccio di ferro sul mare sono illustrate dalle opposte interpretazioni di quanto sta avvenendo.
I portavoce di Hamas accusano Israele di «non rispettare gli accordi sul cessate il fuoco del Cairo» e tende a impedire ai pescatori di operare anche all'interno delle 6 miglia nautiche concordate nell'ambito «delle misure repressive del blocco alla Striscia di Gaza».
Fonti militari israeliane affermano invece che i pescherecci sono lo strumento a cui Hamas si affida sempre più spesso, per far entrare illegalmente a Gaza armi, esplosivi e materiale per costruire tunnel sotterranei. Il motivo è che la stretta collaborazione sulla sicurezza fra Israele ed Egitto limita oramai di molto la possibilità di usare i tunnel sotterranei Sinai-Gaza per i traffici illeciti. In particolare è la creazione di una fascia di sicurezza egiziana ampia 2 km ad aver neutralizzato la maggioranza dei tunnel finora adoperati da Hamas.
Da qui, spiegando fonti militari israeliane, il crescente uso dei pescherecci con il conseguente impiego di motovedette per fermare ed ispezionare le imbarcazioni "sospette" a causa del peso eccessivo o dei movimenti in mare. È interessante notare che anche nel fronteggiare i pescherecci di Gaza la cooperazione fra Egitto e Israele è particolarmente intensa: avviene spesso che sono le unità militari del Cairo ad avvertire quelle israeliane su movimenti sospetti nelle acque a ridosso di Gaza.
A confermare l'aumento di tensione ci sono le testimonianze palestinesi sul recente impiego di jet israeliani F-16 a bassa quota per sorvegliare imbarcazioni sospette. Per Nizar Ayyash, capo del sindacato dei pescatori palestinesi «la Marina israeliana attacca le nostre barche almeno tre volte al giorno».
(La Stampa, 18 aprile 2015)
Presentato il libro "Il Piceno e la Shoah"
Una sezione del volume è dedicata specificatamente al Comune di Maltignano, in quanto l'Archivio di Stato conserva i fascicoli personali di due ebrei stranieri internati proprio a Maltignano.
DI Cristiano Pietropaolo
ASCOLI PICENO - In uscita un interessantisimo libro: Il Piceno e la Shoah, sui temi della persecuzione e internamento degli ebrei nei documenti d'archivio, facente parte di un progetto per il recupero della memoria storica sulle conseguenze, nell'ambito del territorio piceno, dell'emanazione dei provvedimenti contro gli ebrei italiani e stranieri, ed interessa un arco di tempo che va dal 1938 al 1944.
Il volume in oggetto che sarà presentato il 23 Aprile alla ora 10.00 presso la SALA DOCENS, Piazza Roma (a cui parteciperanno le scuole cittadine) ed il 24 Aprile ore 17.00 presso la Biblioteca Ugo Toria e rappresenta il momento conclusivo di un importantissimo lavoro di ricerca che per la prima volta metterà a disposizione del pubblico gli atti in parte inediti, le foto, le testimonianze dell'effetto che l'emanazione delle leggi razziali contro gli Ebrei ebbero nel nostro territorio.
Questo è reso possibile dalla ricerca d'archivio fatta a suo tempo dagli autori e grazie alla collaborazione con la Fondazione Museo della Shoah di Roma, con l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano (che per la prima volta ha acconsentito alla visione, utilizzo e pubblicazione di tali documenti), con l'Istituto Storico di Liberazione di Ascoli.
Il BIM Tronto, ha fin da subito appoggiato il progetto, visto la validità e lo spessore culturale dello stesso, al fine di restituire al territorio un importante momento storico.
L'Archivio di Stato di Ascoli Piceno conserva, nel cosiddetto Fondo Questura, una vasta documentazione riguardante questo doloroso aspetto della storia del nostro Paese, svariati fascicoli inerenti il campo d'internamento di Servigliano e quattro buste con fascicoli personali di ebrei a vario titolo internati nel territorio piceno. L'esposizione, la divulgazione e pubblicazione dei documenti è resa possibile dal superamento, sancito dalla riforma legislativa del 1999, dei precedenti, rigidi limiti di riservatezza.
Il volume in tale senso è unico nel suo genere, in quanto contiene articoli, provvedimenti, testimonianze e foto, in parte ad oggi inedite e secretate, e ripercorre nella sua struttura il percorso espositivo ed esperienziale che i curatori avevano pensato per la mostra, allestita presso l'Archivio di Stato nel 2011, in cui era stato studiato un percorso espositivo che, partendo da pannelli realizzati con le scansioni ad alta risoluzione di documenti nazionali provenienti da altre istituzioni e riguardanti i primi atti promulgati contro gli ebrei, mettesse in risalto il legame con la documentazione originale dell'archivio ascolano esposta nelle bacheche corrispondenti, testimoniando cosa accadeva nello stesso periodo agli ebrei presenti sul territorio piceno.
Non mancano le testimonianze di alcuni sopravvissuti, che costituisce un'essenziale integrazione della documentazione archivistica.
Una sezione del volume è dedicata specificatamente al Comune di Maltignano, in quanto l'Archivio di Stato conserva i fascicoli personali di due ebrei stranieri internati proprio a Maltignano e protagonisti di una vicenda umana di tale spessore da divenire oggetto della seconda mostra dal titolo "Storie d'internati e di Giusti", svoltasi appunto a Maltignano nel 2011.
(Piceno Oggi, 18 aprile 2015)
La felicità a Tel Aviv
Nella sua nuova raccolta di racconti, Etgar Keret si conferma maestro di scrittura e di ironia. Restituendo la leggerezza della vita.
di Franco Marcoaldi
Etgar Keret
Da molto tempo impazza, in Italia e all'estero, il minimalismo letterario. In apparenza è una strada facile, tant'è che numerosi scrittori la imboccano, pimpanti, come una comoda scorciatoia. Ma le cose non stanno affatto così: la scrittura, procedendo per sottrazione, deve essere ancora più sorvegliata. E i cortocircuiti narrativi, fondati su eventi a loro volta minimi, devono risultare ancora più brucianti.
Lo scrittore israeliano Etgar Keret conosce bene questi rischi e li supera brillantemente nella sua nuova raccolta Sette anni di felicità. Tutto può essere oggetto di un racconto: un videogioco, l'ennesimo allarme aereo, lo scontro verbale con un tassista indisponente, i dialoghi surreali e meta fisici con il figlioletto. L'alto e il basso, il comico e il tragico, qui convivono tra loro. E anche se gli esiti sono disuguali, due punti fermi rendono il libro riuscito: qualità e cura della scrittura, accompagnata a un'ironia perfettamente introiettata, che fa da barriera alle situazioni più drammatiche grazie all'esercizio del paradosso.
È per questo che, malgrado tutto, i sette anni di cui Keret racconta sono "felici". Malgrado ci siano di mezzo guerre, attentati, lutti, memorie dolorose. Oltre alle infinite rogne che la quotidianità regala a piene mani appesantendo inutilmente le nostre giornate. Sono "felici" proprio in virtù dell 'altro sguardo messo in movimento dalla forza rigenerante della scrittura, dalla sua capacità di toglierei dagli occhi il velo di opacità che troppo spesso accompagna le nostre esistenze. Se saremo più vigili, ironici e compassionevoli, troveremo mille motivi di sorpresa su cui vale la pena ragionare: li troveremo nel folle dialogo con la ragazza di un cali center, nell'osservazione minuziosa dei comportamenti di un neonato, nell'atteggiamento fermo e commovente di un padre prossimo alla morte.
Se poi avessimo la ventura, come accade a Keret, di campare in un paese a dir poco complicato quale Israele, andremmo continuamente incontro all'assurdo, all'iperbolico. Basta leggere il racconto A qualche bomba di distanza, in cui lo scrittore discute con la moglie su come rapportarsi all'incombente minaccia del presidente iraniano Ahmadinedjad. Se da un momento all'altro può caderci in testa una bomba nucleare, che senso ha chiamare l'idraulico per controllare la macchia d'umidità sul soffitto? Piantare i fiori in giardino? Lavare i piatti sporchi? Tanto vale lasciar perdere. Una certa notte, però, lo scrittore fa uno strano sogno: Ahmadinejad gli parla in yiddish e lo abbraccia come un fratello. Al risveglio, uno stralunato Keret dice alla moglie: «Siamo già scampati, insieme, a molte cose: malattie, guerre, attacchi terroristici e, se è la pace che ci riserva il destino, sopravvivremo anche a quella». Insomma: è arrivato il momento di chiamare l'idraulico.
Etgar Keret, Sette anni di felicità, traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, 14 euro.
(la Repubblica, 18 aprile 2015)
Israele e Autorità Palestinese raggiungono un accordo sulle tasse congelate
Israele e l'Autorità Palestinese (AP) hanno concluso un accordo per il versamento dei proventi delle tasse che lo stato ebraico incassa per conto dell'AP e che erano stati congelati per ritorsione all'adesione palestinese alla Corte penale internazionale.
Israele si è impegnato a consegnare ai palestinesi i versamenti che si riferiscono al periodo dal dicembre del 2014 al marzo del 2015, pari a circa 380 milioni di dollari. Secondo le autorità palestinesi, i soldi serviranno principalmente per pagare funzionari e dipendenti pubblici, che da mesi ricevono solo stipendi parziali.
Resta sospesa la questione del debito rivendicato dal governo israeliano nei confronti dell'Autorità Palestinese: più di 500 milioni di dollari per la fornitura di acqua e di energia elettrica e per le cure mediche ricevute da palestinesi in Israele. L'AP non accetta che questi debiti siano saldati con i proventi delle tasse raccolte da Israele per suo conto.
(Fonte: Internazionale, 18 aprile 2015)
Festa del Libro Ebraico, "trampolino di lancio per il Meis"
In programma una giornata di visite guidate al cantiere per scoprire il punto dei lavori
FERRARA - Dibattiti, convegni internazionali, incontri con gli autori, concerti, laboratori didattici, proiezioni cinematografiche, degustazioni, visite guidate, una mostra, un premio: la sesta edizione della Festa del Libro Ebraico in Italia sarà un evento a 360 gradi che ruoterà intorno ai libri e al testo fondante della religione ebraica, con la mostra "Torah fonte di vita" esposta al museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah. Il cuore pulsante dell'iniziativa, organizzata dalla Fondazione Meis con il supporto di Ferrara Fiere, sarà appunto la fornita libreria tematica che dal 25 al 28 aprile al chiostro di San Paolo, proporrà oltre 5mila testi di autori ebrei o su temi della tradizione ebraica, editi da 157 case editrici. Una quattro giorni che non ruoterà solo attorno ai libri ma a tanti altri eventi collaterali per scoprire la cultura ebraica italiana attraverso il racconto della storia di una minoranza che, da sempre, è legata da una relazione feconda e indissolubile con l'Italia sul piano culturale, civile, sociale ed economico. Basti pensare che gli ebrei sono arrivati a Roma prima del Papa.
"La sesta Festa del Libro Ebraico in Italia sarà un'edizione ancora più importante - annuncia il vicesindaco Massimo Maisto - perché rappresenta un trampolino di lancio verso il rafforzamento del grande cantiere del Meis". In effetti manca poco alla chiusura del primo lotto dei lavori: "Entro maggio - fa sapere Carla Di Francesco, dirigente generale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - consegneremo il cosiddetto 'cantierone', il cantiere di recupero del corpo C, che ci darà spazi espositivi permanenti e un museo in funzione". Ma all'appello mancano ancora 24 milioni. "Il primo lotto è finanziato in tutte le sue parti - rendiconta Di Francesco - ma per completare il grande progetto servono altri stralci che devono ancora esseri finanziati e si aggirano intorno ai 24 milioni". Per vedere con i propri occhi a che punto sono i lavori, e per immaginarsi come sarà in futuro grazie all'installazione di prospettive ed immagini, domenica 26 aprile dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 17 si susseguiranno delle visite guidate al cantiere del Meis.
"Le visite guidate permetteranno di raccontare e mostrare il ruolo del Meis come luogo di testimonianza di ciò che è stato e incubatore di nuove idee di quello che sarà - dichiara Maisto -. Per Ferrara è un grande onore ma anche una grande responsabilità accogliere un museo nazionale per recuperare la millenaria storia dell'ebraismo italiano e per lavorare sulla Shoah, stimolando lo Stato a presentare scuse ufficiali, finora mai arrivate". Obiettivi che verranno portati avanti con un ricco e vario programma di eventi che racconteranno gli aspetti culturali della vita ebraica italiana, "di cui ancora oggi ci sono dei nodi irrisolti". A parlare è il presidente della Fondazione Meis Riccardo Calimani, che ha recente firmato insieme al rabbino di Milano, un appello per chiedere la rimozione del busto di Gaetano Azzariti dalla sede della corte costituzionale. "Lo sviluppo culturale del paese - commenta Calimani - non può prescindere dall'attenzione verso le minoranze, come gli ebrei, che sono arrivati a Roma prima del Papa".
La Festa sarà inaugurata alla "Notte bianca ebraica d'Italia" (partenza sabato 25 aprile alle 21 presso il chiostro di San Paolo), quest'anno declinata come "Omaggio alla libertà": quella che, dopo anni di persecuzioni, deportazioni, prigionia, morte, fu riconquistata esattamente 70 anni fa. Proprio nei luoghi ferraresi della costrizione, rappresentati per antonomasia dal ghetto, si svilupperà una passeggiata nella Ferrara ebraica, con approdo finale in via Piangipane 81, dove sarà possibile visitare gratuitamente la mostra "Torah fonte di vita", per un'eccezionale apertura notturna. Tra gli altri eventi clou: presentazione degli atti del convegno internazionale di studi "Conversos, marrani e nuove comunità ebraiche nella prima età moderna" (lunedì 27 alle 11); confronto su un inedito "Bartali il Giusto" (domenica 26 alle 10); confronto tra Enrico Mentana e Pierluigi Battista sul tema "Ebrei e fascismo: nuovi punti di vista" (domenica 26 alle 15.17); convegno internazionale di lunedì 27 e martedì 28 su "I paradigmi della mobilità e delle relazioni. Gli ebrei in Italia" in memoria di Michele Luzzati.
Grande attesa per la quarta edizione del "Premio di Cultura Ebraica Pardes" assegnato domenica 26 alle 11.30 al Premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano, allo scrittore Samuel Modiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz, e alla storica Anna Foa. Ma non mancheranno i concerti (Raiz degli Almamegretta e l'orchestra e del coro giovanile "J. Turolla" di Ariano nel Polesine), visite guidate nei suggestivi luoghi della Comunità Ebraica locale e degustazioni della cucina ebraica.
"La cosa che colpisce di più di questa manifestazione - afferma Sabina Magrini, segretario Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per l'Emilia-Romagna - è che è impostata come una festa e, come tale, è sia un'occasione festosa che un momento di riflessione. Un momento magico in cui si inserisce il progetto 'Museo Ferrara' per la creazione di un museo online diffuso, che rinsaldi il legame tra la città e il museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah. Questa iniziativa - conclude Magrini - permetterà di legare il Meis con l'Emilia Romagna e l'Italia intera grazie alle moderne tecnologie che hanno già permesso la digitalizzazione integrale dei 1700 libri ebraici contenuti alla biblioteca Palatina di Parma".
(estense.com, 17 aprile 2015)
Antisemitismo a Parigi: giornalista israeliana aggredita dagli islamici
La giornalista israeliana Miri Michaeli insultata ed aggredita in pieno centro: "Erano palestinesi, mi hanno circondata: ho dovuto rifugiarmi in stazione, dove c'era l'esercito".
di Ivan Francese
Miri Michaeli Schwartz
È l'ennesimo, inquietante, episodio di antisemitismo che macchia le cronache parigine. La giornalista israeliana Miri Michaeli Schwartz, mentre realizzava un servizio per la tv nelle strade parigine, è stata aggredita da cinque persone che l'hanno insultata con ingiurie a sfondo antisemita.
La reporter stava realizzando un servizio sulla tragedia dell'Airbus A320 per l'emittente israeliana "Channel 10", quando un gruppo di uomini ha notato la scritta in ebraico sul microfono, l'ha circondata e aggredita verbalmente. La Michaeli tenta di sottrarsi all'aggressione, spiega in inglese che lei sta solo cercando di fare il proprio lavoro, forse all'inizio pensa di trovarsi in presenza di comuni teppisti di strada. Chiede agli uomini cosa vogliano da lei e per tutta risposta si sente attaccare sulla questione della Palestina, da dove i suoi aggressori sostengono di provenire.
(il Giornale, 17 aprile 2015)
25 aprile nel caos, gli ebrei celebrano il 26
Niente corteo con i filopalestinesi. Prevista una preghiera al cimitero di Piangipane. «Non vogliamo stare vicino a chi ci condanna».
di Alberto Di Majo
Prima è scoppiato il caso della Coop, che ha deciso di tenere aperti i negozi, per la prima volta, il 25 aprile. Apriti cielo, in poche ore c'è stata la rivolta, soprattutto a Livorno. Adesso cade un'altra tegola sulle cerimonie che ricorderanno la liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo. La Comunità ebraica non ci sarà. Ha organizzato una manifestazione alternativa per il 26 aprile. Una decisione presa per due motivi. Innanzitutto perché quest'anno il 25 aprile sarà «shabbat», la festività ebraica del riposo celebrata ogni sabato. In secondo luogo, per evitare che si ripetano le tensioni e gli incidenti con i filopalestinesi presenti, con tanto di bandiere, al corteo dell'anno scorso. Anche stavolta il clima è incadescente.
«A 70 anni dalla liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo tutti noi ebrei italiani, per nostra scelta e non per costrizione da parte di alcuno, andremo a onorare, recitando tutti insieme un kaddish domenica 26 aprile al cimitero militare alleato di Piangipane, i nostri fratelli venuti da Eretz Israel i quali hanno dato la loro giovane vita per la salvezza dei nostri genitori, per la nostra libertà e per l'onore del popolo di Israele» spiegano le associazioni Gruppo Ebraico Volontari, KKL Italia Onlus, Keren Hayesod e la Comunità ebraica di Roma. Confermano anche: «Non parteciperemo alle manifestazioni ufficiali sabato 25 aprile innanzitutto perché sarà shabbat. Secondo, perché non vogliamo avere vicino chi piange gli ebrei morti ed è sempre pronto e disponibile a condannare l'ebreo vivo». L'appuntamento è alle 6,30 di domenica 26 davanti alla Sinagoga della Capitale. E se l'associazione nazionale dei partigiani si divide, alcuni senatori del Pd hanno scritto al presidente dell'Anpi Carlo Smuraglia e al numero uno dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna. «La Festa della liberazione del 25 aprile non sarebbe tale senza la partecipazione dei rappresentanti della Brigata ebraica e degli ex deportati nei campi di sterminio nazisti» affermano i senatori Dem Sonego, Borioli, Broglia, Caleo, Capacchione, Cardinali, Chiti, Cociancich, Corsini, Fabbri, Fattorini, Favero, Fedeli, Filippin, Fornaro, Gatti, Giorgi, Gotor, Guerra, Guerrieri, Idem, Lai, Logiudice, Muchetti, Padua, Pagliari, Pegorer, Pezzopane, Santini, Silvestro, Spilabotte, Tronti, Vaccari e Zanoni. «Facciamo appello all'Anpi e all'Unione delle Comunità Ebraiche ma anche a tutti i democratici e antifascisti affinché proprio i rappresentanti della Brigata ebraica e degli ex deportati siano in prima fila nelle celebrazioni del 25 aprile». Un appello caduto nel vuoto. Anzi il tradizionale corteo è stato trasformato in un sit-in.
(Il Tempo, 18 aprile 2015)
Expo2015, il padiglione Israele e l'innovazione per la cannabis terapeutica
di Matteo Carriero
Il padiglione di Israele all'Expo2015 si focalizzerà, tra l'altro, sulle innovazioni presentate al mondo dallo stato israeliano, tra cui l'inalatore Syqe per l'assunzione di cannabis terapeutica da parte di privati e nelle strutture ospedaliere, uno dei più avanzati sistemi in termini di efficienza, stabilità, sicurezza e facilità d'uso.
Il padiglione d'Israele all'Expo2015 di Milano, che aprirà i battenti fra poco più di un mese, il primo maggio 2015, avrà l'innovazione come uno dei temi centrali. Per quanto riguarda l'innovazione in campo medico Israele presenta anche l'inalatore Syqe, uno strumento che il Journal of Pain & Palliative Care Pharmacotherapy ha giudicato in termini estremamente positivi per la sua efficacia, facilità e sicurezza, provvisto tra l'altro di controlli termici e di flusso in tempo reale e connettività wireless. L'innovazione israeliana dedicata alla cannabis terapeutica, che continua a diffondersi nel mondo e anche in Italia, garantisce una grande precisione nella somministrazione delle sostanze in modo da permettere un efficace sollievo dai sintomi delle gravi malattie per le quali questa terapia viene prescritta, con significativi benefici per la qualità della vita dei pazienti.
L'importanza del progresso tecnologico, assieme alla preservazione del valore della tradizione e allo sviluppo sostenibile, sarà uno dei temi che i visitatori del padiglione di Israele all'Expo2015 potranno approfondire, e l'inalatore Syqe ne è un ottimo esempio. Lo strumento nella variante Exo è studiato per l'uso negli ospedali, con il dosatore modificato per l'uso professionale nelle strutture sanitarie, nelle cliniche contro il dolore, nei centri di cura contro il cancro, nelle unità di terapia intensiva e altro ancora. Se da un lato nel padiglione saranno quindi esplorate le innovazioni per l'agricoltura sviluppate dallo stato di Israele, dall'altro non mancherà uno sguardo a innovazioni di altro genere, non dissociate, tuttavia, dal tema generale dell'Expo2015: al centro di tutto troviamo sempre la qualità della vita.
(Ecologiae.com, 18 aprile 2015)
Marchio su prodotti. Israele contro l'Unione Europea
"Potrebbero metterci sopra la stella gialla"
Israele insorge contro l'Unione europea che vuole marchiare le merci israeliane prodotte negli insediamenti ebraici in Giudea-Samaria. «Potrebbero metterci sopra la stella gialla», ha sibilato ieri il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, azzardando un parallelo fra le vittime della Shoah e gli ebrei degli insediamenti, dopo che, giovedì scorso, i ministri degli Esteri europei hanno chiesto un'accelerazione per introdurre un provvedimento al riguardo.
(Fonte: Il Messaggero, 18 aprile 2015)
Anche lItalia ha firmato la richiesta. Mogherini e Gentiloni sono stati indicati da Renzi, che in questi giorni ha ricevuto i complimenti da Obama.
Nubifragio con grandine e allagamenti a Gerusalemme, piogge fin sul Mar Morto
Forti contrasti in Medio Oriente, dalla neve dell'Iran al gran caldo dell'est Arabia Vortice freddo sul Medio Oriente: crollo termico da Israele all'Iraq.
Grandine a Gerusalemme
Forti piogge, localmente accompagnate da grandine, a Gerusalemme e nella regione circostante la mattina di giovedì 16 aprile.
In poche ore, tra le 4 e le 9 del mattino, sono caduti 38 mm di pioggia a Gerusalemme centro, 41 a Givat Ram (periferia nord-ovest) e 50 a Rosh Zurim, a sud della città.
La quantità di pioggia caduta in poche ore è circa il doppio di quella attesa normalmente in tutto il mese di aprile. Così tanta pioggia concentrata in poco tempo ha causato allagamenti di strade e piani bassi degli edifici. Alcune zone della città sono anche state colpite da una forte grandinata.
La temperatura massima della giornata a Gerusalemme è stata di soli 16,4oC, rispetto ad una media del mese di 21,5oC.
Precipitazioni anche nell'arida zona del Mar Morto, 16 mm sono caduti Metsoke Dragot, causando allagamenti della strada statale 90.
Anche il 12 aprile vi erano state piogge con allagamenti nella stessa regione, costringendo anche in quel caso alla chiusura della strada poco più a sud nella zona di Nahal David.
Le precipitazioni in Israele sono frequenti e diffuse durante l'inverno, mentre già in aprile divengono occasionali e sparse a carattere temporalesco, e tra maggio e settembre sono pressoché assenti su quasi tutta la nazione.
(Meteo Giornale, 18 aprile 2015)
L'università inglese che si domanda "se Israele ha diritto di esistere"
Il convegno internazionale a Southampton salta "per ragioni di sicurezza". Casi analoghi in Italia.
di Giulio Meotti
ROMA. L'ex ministro inglese del Tesoro, Mark Hoban, aveva parlato di "un incontro che mette in discussione e delegittima l'esistenza di uno stato democratico". L'evento in questione avrebbe dovuto svolgersi alla Southampton University, una delle più prestigiose università pubbliche del Regno Unito, in cima alla lista delle migliori cento del mondo. Lo stato democratico era, ovviamente, Israele.
Alla Southampton si sarebbe dovuto tenere in questi giorni un grande convegno internazionale in cui a essere in discussione non era la politica di Israele, ma la sua "natura", il suo "diritto all'esistenza". Un delirio anti israeliano in cui "la colpa" di Israele è una "colpa originaria", legata alla nascita stessa dello stato ebraico. Contro la conferenza di tre giorni, dal titolo "International Law and the State of Israel: Legitimacy, Responsibility and Exceptionalism", erano state raccolte seimila firme che ne chiedevano la cancellazione. La presidenza della facoltà, adducendo "ragioni di sicurezza", alla fine ha sospeso la conferenza. Il caso è arrivato alla High Court di Londra, che ha dato ragione ai critici dell'evento accademico. C'erano dunque tutti gli ingredienti per un grande scandalo che da giorni domina i quotidiani britannici. La conferenza non aveva mai fatto mistero dell'obiettivo, contestare la natura stessa di Israele, come si legge: "Si tratta della legittimità nella legge internazionale dello stato ebraico di Israele. Anziché concentrarsi sulle azioni di Israele nei Territori occupati, la conferenza esplorerà la legittimità, la responsabilità e l'eccezionalismo che sono posti dalla natura stessa di Israele". Gli accademici anti israeliani ricorreranno in appello e adesso accusano la "Israel lobby" di aver usato la questione della sicurezza come scusa per mettere a tacere i critici di Gerusalemme, come il docente di Princeton Richard Falk. Per Fiona Sharpe, a capo dei Sussex Friends of Israel, non si trattava di una assise universitaria, ma di "una aggregazione di odiatori dello stato ebraico e di attivisti del boicottaggio". Di "adunata di bigotti" parla Douglas Murray, direttore della Henry Jackson Society. E in segno di protesta con la facoltà, uno dei più noti laureati della Southampton, il pediatra Andrew Sawczenko, aveva già rispedito il suo bachelor in medicina al vicerettore Don Nutbeam. Allo stesso tempo però 900 accademici di tutto il mondo hanno scritto all'università chiedendole di andare avanti con la conferenza.
Adesso il dibattito si dimena fra accuse di antisemitismo all'alta cultura inglese e violazioni del free speech. La stessa motivazione addotta dal giudice Alice Robinson, che ha cancellato la conferenza, espone il paradosso del dibattito su Israele e il mondo ebraico in Inghilterra: i dimostranti filo israeliani che avrebbero manifestato di fronte all'università avrebbero potuto costituire "un bersaglio per i terroristi". Resta il fatto che, dopo la Facoltà di Studi orientali dell'Università di Londra, che in un referendum di studenti e professori ha rescisso ogni legame con i colleghi israeliani, un'altra nobile istituzione culturale del Regno Unito aveva in programma di bruciare in effigie lo stato ebraico. Per questo Shimon Samuels, direttore del Centro Wiesenthal in Europa, ha paragonato la conferenza della Southampton alla risoluzione dell'Onu del 1975 che accostò sionismo e razzismo e alla conferenza dell'Onu a Durban del 2001, in cui Israele fu accusato di apartheid.
Il boicottaggio inglese getta ponti anche nelle nostre università. Tre settimane fa, invitato a parlare all'Università di Torino, Mustafa Barghouti, che guida le campagne di boicottaggio contro Israele, ha detto, di fronte a un parterre di accademici e studenti: "Il regime israeliano non ha diritto di esistere". Il trucco è nel chiamarlo "regime". D'altronde non si disse anche di Ahmadinejad che non voleva proprio dire di spazzare via Israele dalla mappa geografica ma dargli giusto una spallata per buttarlo a mare?
(Il Foglio, 18 aprile 2015)
Non fu Hitler a costringere Mussolini a varare le leggi razziali contro gli ebrei
Fu personalmente il Duce a volerle.
di Diego Gabutti
Storico francese di cose italiane, biografo di Garibaldi e di Mussolini, autore d'una storia d'Italia dalla preistoria ai giorni nostri, tutti titoli che trovate nelle librerie on line, Pierre Milza racconta nel suo nuovo libro il rapporto tra Führer e Dux, dal quale prese il via l'ultima guerra europea, in un libro che si legge (secondo la lezione di Montanelli, talvolta un po' abusata) senza apparati di note o altri ingombri: Hitler e Mussolini. Tutti i segreti di una tragica amicizia (Longanesi 2015, pp. 293, 22,00 euro, ebook 11,99 euro). Un segreto su tutti: creature generate dalle trincee del conflitto mondiale, traumi e anzi psicosi di guerra incarnate, Hitler e Mussolini erano fatti per intendersi.
Basandosi sulle testimonianze di ministri, diplomatici, interpreti e attingendo ai documenti conservati negli archivi diplomatici d'Italia e Germania, Milza passa in rassegna tutti gl'incontri tra i due dittatori, che non furono moltissimi, ma che in compenso ebbero conseguenze enormi, catastrofiche. Hitler e Mascellone, che in trincea erano stati entrambi caporali, si specchiavano l'uno nell'altro, quali che fossero le loro differenze ideologiche (Mussolini, come i bolscevichi russi, era un socialista che aveva ripudiato la democrazia, mentre l'iniziazione politica di Hitler era nata nei dormitori pubblici viennesi e nelle strade dell'ex capitale imperiale, leggendo e discutendo giornaletti pubblicati da occultisti, illuminati e antisemiti).
Erano entrambi leader carismatici, capi di partiti di massa, quali mai s'erano visti al mondo, e venivano entrambi dal popolo. Come tutti i demagoghi del XX secolo, erano orgogliosi delle loro origini plebee.
Hitler, tra i due, era quello che più sinceramente ammirava l'altro. Mussolini era il modello a cui, fin dal putsch di Monaco, nel 1923, Hitler aveva ispirato tutta la sua carriera: lo squadrismo, la Marcia su Roma e la presa del potere, la politica estera dei pugni sui fianchi e dei colpi di mano, le fantasie imperialiste, le statue di marmo, la romanità monumentale di cartagesso.
Mussolini, invece, detestava il Führer e le sue «ridicole» megalomanie wagneriane, almeno all'inizio. Col tempo - un incontro dopo l'altro, a Venezia e a Berlino, a Roma e a Monaco, poi dopo il 25 luglio nella Germania infallibilmente avviata al disastro - l'avrebbe dapprima apprezzato, poi invidiato, quindi di nuovo detestato. Hitler, da parte sua, avrebbe disprezzato gl'italiani, per i loro voltafaccia e il loro costitutivo pacifismo, ma non il loro Duce calvo, al quale conservò la sua amicizia e persino il suo rispetto, senza tuttavia risparmiargli minacce e ricatti. Però non furono le minacce di Hitler, nel 1938, a imporre le leggi razziali al paese, e fino all'ultimo l'Italia avrebbe potuto sottrarsi all'alleanza con Hitler. Fu Mussolini a impiccare l'intera nazione alla sua invidia e alla sua sopravvalutazione militare del Führer. Fece tutto da solo. Hitler gli diede solo una spintarella o due.
«Bruschi voltafaccia, dubbi, tradimenti e segreti» alimentarono «il sodalizio» tra i due dittatori. Ma gli orrori ... be', quelli li perpetrarono insieme. «Ignoriamo», scrive Milza, «se abbiano mai parlato di «soluzione finale», tranne forse una volta, quando il Führer elencò i motivi che lo portavano a odiare gli ebrei e a prendere in considerazione l'idea di deportarli in massa nel Madagascar. In quel momento, Mussolini era consapevole di ciò che accadeva in Russia e in Polonia, e di ciò che ben presto sarebbe accaduto nel resto dell'Europa. Scelse in maniera deliberata di affiancare il leader nazista «fino in fondo» nell'impresa demoniaca che avrebbe raggiunto il proprio apice ad Auschwitz».
(ItaliaOggi, 18 aprile 2015)
Lo stato ebraico viene calunniato come veniva calunniata la cosiddetta "razza ebraica"
La cosa sconfortante è che siamo accusati di essere nazisti dai reggicoda del nazismo.
Coloro che all'epoca erano bambini, nascosti da qualche parte per salvarsi dalla macchina di sterminio nazista che braccava meticolosamente ogni singolo ebreo, sono degli anziani, oggi, a settant'anni dalla sconfitta del Terzo Reich. Presto nessuno che allora era vivo sarà più qui per aiutarci a contrastare le menzogne dei negazionisti della Shoà, o la sua deliberata banalizzazione, o la dozzinale universalizzazione dell'insegnamento che la Shoà comporta per la nazione dei sopravvissuti. Persino in Israele l'inesorabile trascorrere del tempo sta lasciando il segno sull'attitudine di alcuni, ad esempio verso la Giornata della Memoria: quando tutto il paese si ferma in raccoglimento per i sei milioni di uccisi, ma alcuni iniziano a dire che si tratta delle colpe di un regime eccezionale risalente a tanto tempo fa, oggi non particolarmente rilevante....
(israele.net, 17 aprile 2015)
Israele protagonista a Cartoons on the Bay
L'animazione a braccetto con l'innovazione
"Abbiamo dovuto inventare tutto, perché non avevamo nulla". Così il "Grande Maestro" dell'animazione Hanan Kaminski ha raccontato la realtà israeliana nell'incontro dedicato al paese ospite di Cartoons on the Bay, festival internazionale dell'animazione e del cross mediale che raccoglie in Laguna il meglio dell'animazione internazionale. Dopo le parole di introduzione di Roberto Genovesi, direttore artistico del festival, Costanza Esclapon, presidente di Rai.com, ha accolto la delegazione israeliana raccontando come il paese noto per le sue start up abbia saputo innovare profondamente il mercato dell'animazione.
Presentati e introdotti da Eldad Golan, addetto culturale dell'ambasciata israeliana in Italia e da Ariela Piattelli, consulente del festival, gli interventi dei migliori rappresentanti dell'animazione israeliana hanno composto un quadro completo della realtà attuale del paese. E stato così compito di Dudu Shalita, fondatore e direttore dell'Animix Festival di Tel Aviv, presentare uno dopo l'altro i singoli interventi. Yoni Cohen, fondatore e General Manager degli Snowball Studios, rappresenta l'anima commerciale e di ricerca, concentrando il suo lavoro su modernità e tecnologia con risultati apprezzatissimi in tutto il mondo. Hanan Kaminski, che ha scherzosamente sottolineato di voler parlare poco perché se no non avrebbe avuto altro da dire per l'intervento successivo, è colui che ha formato la nuova generazione di animatori, parte di quella generazione, con Dudu Shalita, che ha iniziato a fare animazione con nulla, dal nulla, e ha ora la soddisfazione di vedere i successi dei giovani da lui formati.
Diversa la storia di Ron Isaak, co-fondatore e direttore della programmazione della Talit Communications, che quando ha fondato il canale televisivo tematico per cui è ora noto in tutto il mondo ha avuto grossi problemi a far comprendere come sia possibile produrre contenuti di qualità per bambini fino ai quattro anni. Prodotti che ora vengono apprezzati da famiglie di tutto il mondo, che vedono nelle oltre ottanta serie della sua baby tv prodotti di cui avere fiducia. La poesia e la bellezza, insieme alla fatica di lavorare da indipendenti sono stati i temi dell'intervento di Yuval Nathan, il giovane direttore del Merav & Yuval Nathan Studio, fondato con sua moglie. Le sue creazioni, di una delicatezza e bellezza tali da raccogliere un lunghissimo applauso, sono basate sul valore duale della tecnica che ha scelto dopo un'esperienza da animatore in 3D: "Quando lavoravo con il 3D avevo sempre la sensazione di non completezza. Si passa tutto il tempo a cercare di imitare la realtà, a riprodurre altro, ma per me manca qualcosa. Quando ho iniziato a lavorare con la tecnica dello stop-motion ho scoperto il valore della dualità: scelgo materiali che siano sempre portatori di un significato profondo, che vada al di là della storia". Così fiori e uccelli fatti di foglie sono protagonisti di un film sulla morte, proprio perché la loro vita è breve e le stesse luci che servivano per la produzione bastavano a farli morire più in fretta.
Liran Kapel, autrice del cortometraggio mostrato in apertura di festival, quel Nyosha che ha saputo commuovere tutti raccontando la storia di una sopravvissuta, ha vissuto l'esperienza di tutti gli studenti di animazione israeliani, che alla fine dell'accademia si trovano a dover inventare una carriera in un paese comunque piccolo, con una storia breve: "All'inizio pensavo di poter lavorare da indipendente, facendo tutto da sola nel tempo libero, ma ho dovuto presto riconoscere che non era possibile. Allora ho iniziato a girare per festival, e ho avuto la fortuna di incontrare un produttore norvegese che mi ha permesso di concludere il mio secondo film". E proprio i festival sono protagonisti della notizia data oggi da Dudu Shalita e Roberto Genovesi: la nascita di un'alleanza fra Animix, il festival dell'animazione israeliano e Cartoons on the Bay porterà una delegazione italiana in Israele, la prossima estate, ad approfondire la conoscenza reciproca in vista di una collaborazione sempre più stretta fra Italia e Israele.
(moked, 17 aprile 2015)
Ma anche in questa occasione non hanno mancato di farsi vivi i buoni che amano i palestinesi. Per loro il miglior modo per manifestarlo è colpire Israele. Raccomandazione alla Rai.
Il Museo di Israele a Gerusalemme festeggia 50 anni
Un calendario ricco per un'attività che da oltre mezzo secolo si realizza all'interno di una delle istituzioni culturali più importanti di Israele, l'Israel Museum
Inaugurazione del Museo di Israele a Gerusalemme, 1965
Teddy Kollek , sindaco di Gerusalemme, in visita al Museo con Ben Gurion, Primo Ministro di Israele, 1965
Il Museo di Israele a Gerusalemme oggi, 2015
Cifra tonda per il Museo di Israele di Gerusalemme, che festeggia quest'anno il suo 50esimo anniversario con una serie di mostre ed eventi.
Un calendario ricco per un'attività che da oltre mezzo secolo si realizza all'interno di una delle istituzioni culturali più importanti di Israele, l'Israel Museum.
Le mostre in programma racconteranno tanto i capolavori del museo, quanto la dimensione universale e locale di esso grazie anche all'esposizione di una serie di prestiti che verranno forniti al museo proprio per questa importante ricorrenza. Si parte dalla esposizione 6 Artists 6 Projects dove verranno esposte mostre personali di artisti israeliani contemporanei che lavorano oggi, offrendo istantanee di creatività visiva della Israele moderna, con lavori finalizzati a raccontare espressione di arte israeliana al tempo della fondazione del Museo di Israele. 6 Artists 6 Projects aprirà il prossimo 29 Agosto 2015; tra gli artisti partecipanti si possono ricordare: Uri Gershuni, Roi Kupper, Dana Levy, Tamir Lichtenberg, Ido Michaeli, e Gilad Ratman ognuno dei quali presenta progetti nella sua propria galleria dedicata a mostre personali all'interno Museo. Prorogata la mostra 1965 Today, inaugurata lo scorso 31 marzo e allestita fino al prossimo 29 agosto concentrandosi sulla produzione degli artisti di Israele a partire dalla metà degli anni 60. Si fa riferimento ad esempi iconografici di arte contemporanea provenienti da Europa e Stati Uniti e ai movimenti internazionali dominanti che hanno influenzato l'arte israeliana, tra i quali War II Abstraction post-mondiale e i movimenti emergenti della Pop Art, Op Art e Minimalismo. Si espongono opere provenienti dal museo, ma nanche prestiti prestigiosi provenienti da tutto il mondo. A maggio verrà aperta la mostra A Brief History of Humankind: si tratta di dodici oggetti cardine di tutta le collezioni del Museo che illustrano la storia della civiltà umana dalla preistoria fino ai giorni nostri. Una breve storia del genere umano (1 maggio - 26 Dicembre 2015) Le collezioni ricche e diversificata del Museo di Israele abbracciano una linea temporale di centinaia di migliaia di anni, dagli albori della civiltà umana alla vita contemporanea. Twilight Over Berlin (27 settembre 2015 - 30 gennaio 2016) presenta 50 capolavori che raccontano la libertà d'avanguardia che fiorì in Germania nella prima metà del XX secolo. Tra gli altri espressionisti come Ernst Ludwig Kirchner ed Emil Nolde e innovatori dell'epoca di Weimar come Max Beckmann e Otto Dix sono rappresentati con opere date in prestito dalla Neue Nationalgalerie di Berlino attraverso un partenariato istituzionale che segna la celebrazione simultanea di 50 anni di relazioni diplomatiche tra Israele e Germania. Infine, Happy Birthday (11 mag 2015 - 10 maggio 2016) è una festa di compleanno che sarà celebrata nella Ruth Youth Wing for Art Education. L'ala inaugura la sua mostra annuale celebrando il compleanno del Museo con impianti dedicati a rappresentazioni artistiche di feste di compleanno. La mostra presenta opere d'arte contemporanea, sia dalle collezioni del Museo sia in prestito.
(Artsblog, 17 aprile 2015)
Cellulite via da gambe, pancia e addome. Il segreto delle vip viene da Israele
In occasione dell'evento Expo 2015 Milano diventerà una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie. E' proprio nel settore della medicina estetica che Israele ha dato il meglio di sé regalandoci un nuovo trattamento in grado di eliminare gli inestetismi della cellulite.
Che cos'è Legend? E' un nuovo sistema medico avanzato in grado di distruggere la cellulite tramite l'unione di tre sistemi:
- 1 radiofrequenza a microaghi
- 2 radiofrequenza multipolare
- 3 sistema D.M.A. (Dynamic Muscle Activation)
Questa geniale combinazione permette di aumentare la produzione di neo collagene sia in superficie che in profondità e eliminare la cellulite da zone come gambe, braccia e addome.
Che cosa succede sul tessuto?
- Le cellule adipose si svuotano a causa del calore veicolato in profondità
- I muscoli si contraggono grazie alla speciale tecnologia di attivazione dinamica
- Il drenaggio linfatico facilita l'eliminazione fisiologica del grasso
- Grazie allo calore prodotto dagli aghi in superficie, si ottiene un magnifico effetto skin tightening
(tensione dei tessuti)
Questa combinazione viene abbinata al calore emanato dal manipolo col fine di drenare al meglio i liquidi e le scorie in eccesso, permettendo così il miglioramento della circolazione e la conseguente riduzione della cellulite.
In cosa consiste il trattamento?
Nessuna crema anestetica, il paziente viene solamente deterso e disinfettato. Il primo step consiste nell'utilizzare il manipolo munito di una Tip monouso sulla zona dove vi è presente cellulite. I micro - aghi arrivano ad una profondità di 0,5 mm e grazie all'effetto ibrido combinato non danno alcun problema o sensazione di dolore.
A questo punto si può procedere al secondo step del trattamento .Viene steso sulla zona selezionata un gel che veicola il calore e a questo punto entra in azione il particolare manipolo che, guidato dalle mani esperte della terapista, avrà tutte le sembianze di un massaggio rilassante.
Durata del trattamento Il trattamento ha la durata di 60 minuti circa.
Quanti trattamenti sono necessari?
Si consiglia di effettuare il trattamento almeno 8-10 volte, una a settimana nel periodo iniziale, e di proseguire con il mantenimento 1 volta al mese.
Mantenimento Una volta al mese.
Risultati I risultati sono visibili già dopo il primo trattamento:
- Riduzione della cellulite
- Riduzione degli accumuli adiposi localizzati
- Riduzione delle circonferenze
- Aumento del tono muscolare
- Aumento del tono dei tessuti
- Rigenerazione dei tessuti
(Affaritaliani.it, 17 aprile 2015)
Netanya, la terra promessa degli ebrei di Francia
Israele. "Qui ci sentiamo al sicuro e possiamo ricominciare". La città balneare è la loro meta preferita. Dopo gli attentati a "Charlie" in tanti hanno deciso di tornare in patria. "A Parigi subivamo troppe aggressioni". Ma spesso l'integrazione economica e culturale risulta più difficile del previsto.
di Giampaolo Cadalanu
Netanya
Netanya
NETANYA - Fuggire dalla Francia per finire in un casermone, sia pure sulla spiaggia di Bamboo Village? Non sia mai. Le torri di 25 piani appena terminate all'ingresso di Netanya sono ancora vuote, nonostante il mare sia a pochi metri. Gli annunci immobiliari sono in ebraico, in inglese, in russo. I francesi sono raffinati: preferiscono i due piani e il prato ben rasato delle case del centro, costruite una quarantina d'anni fa. I primi cartelli " À louer", affittasi, compaiono verso Ussishkin street. Ma il sogno di chi non sopporta più Parigi resta la zona di Kikar Ha'atzmaut, piazza Indipendenza.
Vicino all'insegna "Pain au Chocolat", sotto gli ombrelloni candidi, i tavolini sono pieni di coppie con bambini e pensionati che chiacchierano in francese. ll Mediterraneo è poco più in là, e la brezza leggera basta appena per tenere in volo i kite-surfer. Sembra la Costa Azzurra, ma è Netanya, "dono di Dio" in ebraico. È il sogno di ricominciare daccapo e sentirsi al sicuro: qui Charlie Hebdo è un ricordo sfumato e pazienza se, come dice un residente, i croissant sono comme ci comme ça, non un gran che.
Accanto a una Megane bianca con il cartello "À vendre", Silvia cerca di tenere tranquilli i bambini. «A Parigi non sono più a mio agio. Studio Scienza delle finanze e lavoro in banca, ma non accettano nemmeno di farmi rispettare lo shabbat. Per questo vorrei trasferirmi qui». Ethan, camicia a quadretti e kippah, aggiunge che in Israele i suoi studi di Informatica serviranno a qualcosa. «Qui ci sentiamo protetti», aggiunge sua moglie Jana, terapista del linguaggio: «In Francia abbiamo amici che sono stati aggrediti solo perché portavano il copricapo tradizionale».
Sicurezza e lavoro: il sogno è qui, sulla Riviera d'Israele. Se non bastassero gli annunci immobiliari sul Jerusalem Post, edizione francese, o sul francofono Israel Magazine, a indicare Netanya come destinazione prediletta di chi intraprende l'aliya, l'ascesa, il ritomo, cioè il viaggio verso la terra promessa, possono servire le cifre dell' agenzia ebraica per Israele: negli ultimi 10 anni i nuovi arrivi hanno superato quota 5mila, solo l'anno scorso gli immigrati dalla Francia erano 2mila, su poco meno di 7mila in tutta Israele.
Un punto dolente è l'integrazione, che appare facile a chi arriva per una vacanza, ma si rivela poi molto complicata. L'agenzia raccomanda un trasferimento graduale, sottolinea la necessità di corsi di lingua ebraica e offre rimborsi sulla formazione, aiuto nella ricerca di lavoro e una riduzione dell'81 per cento delle tasse sulla casa per il primo anno. Ma non basta. Molti immigrati si sono sfogati con il Nouvel Observateur, raccontando i disagi culturali e le difficoltà economiche. C'è Remy, ristoratore, che ha lasciato Parigi per «un colpo di testa», ma poi ha cominciato a soffrire i modi rudi degli israeliani «che non dicono mai grazie e non rispettano le file» e, alla fine, consumati i risparmi, ha deciso di tornare in Francia. II pendolarismo è così diffuso da essere ribattezzato l'«aliya-Boeing». Per gli adolescenti, secondo l'associazione Elem, il panorama è di inquietudine e insoddisfazione: «I ragazzi si sentono esclusi, gli mancano i codici dell'età, persino la lingua», spiega Omer, uno dei responsabili. La prospettiva è passeggiare attorno alla piazza Kikar, in un limbo di incertezze che la stampa israeliana chiama «a due passi dalla delinquenza».
C'è chi, come David, è tornato in Francia dopo dieci anni per motivi politici: «È un Paese in guerra, ci sono tensioni estreme e ineguaglianze sociali profonde. Credevo di arrivare in una terra di cultura europea, con il welfare. Invece sono arrivato in Medio Oriente, in un sistema liberista». Sulla mancanza di percezione politica dei nuovi arrivati ironizza senza pietà anche il moderato Yedioth Ahronoth: «Vogliono la pace, ma votano l'ultranazionalista Lieberman. Vogliono lo Stato sociale, ma votano Netanyahu». Sofia, israeliana di Parigi, sposata a un italiano, ha scelto il compromesso: metà dell'anno in Francia e l'altra metà in patria. «In Europa la tensione con i musulmani è alta. Ma se devo essere sincera, non credo proprio che Israele sia un Paese sicuro».
(la Repubblica, 17 aprile 2015)
Il vuoto e la voglia di far sapere le lettere degli scampati ai Lager
Il museo dell'Olocausto di Gerusalemme rende pubbliche le prime missive scritte subito dopo il 1945. "Sono sopravvissuto, il resto è perduto".
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - "Mio figlio di 11 anni è stato gasato, mi chiedo perché sono sopravvissuta, era meglio morire»: la lettera di Olga alla zia Jenny è una delle centinaia scritte dai sopravvissuti all'Olocausto subito dopo la liberazione dei campi. Il centro di ricerche dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, le ha raccolte sin dagli Anni Sessanta e in occasione del 70o Giorno dell'Olocausto, che Israele ha celebrato ieri, ha deciso di renderle pubbliche anticipando l'uscita del libro Sono sopravvissuto, il resto è perduto. «Le lettere sono la prima testimonianza che abbiamo da parte dei sopravvissuti - spiega Iael Nidam-Orvieto, direttore dell'Istituto internazionale di ricerca sull'Olocausto che ha curato il progetto assieme a Robert Rozett, direttore delle Biblioteche dello Yad Vashem - e ci consentono di comprendere cosa provarono, pensarono e fecero nei giorni immediatamente seguenti l'apertura dei cancelli dei lager».
Lo spunto per la ricerca nasce dalla missiva che Primo Levi, appena liberato, scrisse alla famiglia. Godfried Bolle, nell'agosto 1945, riassume così al fratello Leo, ad Amsterdam, il senso della «prima lettera»: «Finalmente riesco a farlo». E poi aggiunge: «Ne seguiranno altre con i dettagli su quanto di terribile è avvenuto alla nostra famiglia, così che possiate farlo sapere agli altri». Negli ultimi tre anni lo Yad Vashem è entrato in possesso di centinaia di «prime lettere» di sopravvissuti grazie all'iniziativa «Raccogliamo i frammenti» che ha portato migliaia di famiglie a consegnare ogni tipo di oggetti risalenti al periodo della persecuzione e dello sterminio di sei milioni di ebrei europei da parte dei nazisti e dei loro alleati.
I contenuti dei testi aiutano ad entrare nelle menti di chi era appena scampato alla morte. «Scrivono anzitutto per ricordare chi non c'è più, per far sapere ai famigliari cosa è avvenuto - spiega NidamOrvieto - ma anche per esprimere una forte voglia di ricominciare a essere vivi, fare progetti, immaginare attività, iniziative, vite possibili».
Colpisce, in ogni testo, l'assenza totale di euforia per l'avvenuta liberazione da parte degli alleati. Prevale, pagina dopo pagina, una netta sensazione di vuoto che si tenta di colmare ricostruendo quanto avvenuto e guardando all'avvenire possibile, spesso nella Palestina meta dell'emigrazione ebraica o anche negli Stati Uniti «terra dove si lavora duro ma si respira liberamente» come scrive una giovane all'ex insegnante Zvi.
La descrizione dell'inferno appena attraversato è minuziosa, sempre accompagnata alla scelta di frenarsi nel racconto. «Ho avuto il tifo ed ho particolarmente sofferto la fame, era terribile lavorare dalle 3 del mattino fino a notte avendo fame, ci sono state volte che la fame era tale da accecarmi - scrive Olga, sopravvissuta ad Auschwitz e Bergen Belsen - a sorvegliarci erano i cani delle SS, sono ancora piena dei segni dei loro morsi, ma non voglio più scrivere di queste cose, è incredibile che degli esseri umani abbiamo fatto ciò ad altri esseri umani».
Poi c'è il «come» queste lettere furono scritte: in una moltitudine di lingue europee, in yiddish ed anche nell'ebraico allora poco adoperato, indirizzando le a qualsiasi persona o ente conosciuto. Come se il bisogno di scrivere, comunicare, prevalesse sull'identità del destinatario. «C'è chi spedisce la lettera ad un'organizzazione ebraica o sionista, chi scrive alla famiglia, chi a lontani conoscenti e chi a singole persone conosciute limitando a indicare come località la città dove immagina che possano trovarsi».
Esprimendo il desiderio di ricominciare ad esistere. Come fa la giovane scampata che, ricevuta la prima lettera di risposta, ammette di «averci giocato» assaporando il ritorno alla vita.
(La Stampa, 17 aprile 2015)
Comunità ebraica di Milano con due presidenti
Vittoria alla pari, la poltrona si sdoppia.
di Paola DAmico
Raffaele Besso Milo Hasbani
Una poltrona per due. La Comunità ebraica ha risolto così il dilemma di come formare la nuova giunta, avendo le due coalizioni in lizza totalizzato lo stesso numero di seggi (otto) alle elezioni. Antonella Musatti, candidata indipendente, capolista di se stessa, eletta con il maggior numero dei voti tra tutti, poteva ma non ha voluto essere l'ago della bilancia. Invece, ha messo gli altri eletti dinanzi alle proprie responsabilità: trovate una soluzione, mettetevi d'accordo.
E così, martedì sera, dopo aver chiesto una deroga all'Ucei, l'Unione delle comunità ebraiche italiane, Milo Hasbani e Raffaele Besso sono diventati copresidenti. Gli assessorati sono stati divisi equamente, tre a testa, con altrettanti vice assessori della coalizione opposta. Più governissimo di così non si può. E lei, l'indipendente Musatti, a fare da vicepresidente nonché assessore al Welfare e alla casa di riposo. Aveva declinato, infatti, anche l'ipotesi di fare la presidente. Ruolo, questo, che inevitabilmente si legava al fatto di diventare ago della bilancia. Hasbani e Besso sono soddisfatti. «Lavoreremo insieme», dicono. Non è chiaro come si divideranno i compiti di rappresentanza. «Andremo a turno», dice Milo. «Potremmo anche incaricare nostri consiglieri di fiducia», fa eco Raffaele. Insieme sono arrivati alla soluzione salomonica.
Il riferimento biblico del tutto inadeguato: per Salomone non sarebbe certo stato un bene arrivare alla spartizione delloggetto conteso.
La missione ora è portare in pareggio il bilancio.
(Corriere della Sera, 17 aprile 2015)
Il sentiero delle armi dei convertiti europei, figli dell'opulenza culturale
Il secolarismo francese e il jihad contro il "nuovo paganesimo".
di Giulio Meotti
ROMA - La guerra del Vietnam vide Jane Fonda ad Hanoi calarsi in testa l'elmetto e farsi fotografare dietro la contraerea. "Hanoi Jane" non sapeva sparare contro i B-52 americani, mentre i giovani francesi oggi sanno anche tagliare teste. Il premier francese Manuel Valls ha rivelato che sette francesi si sono fatti esplodere in Iraq e Siria. Sei di questi erano convertiti all'islam. Per loro non c'era modello integrativo in discussione. Sono i figli dell'occidente in guerra con l'occidente, il figlio della cultura della ragione, "il nemico ateo e bugiardo", come lo definiscono negli audio video dello Stato islamico. Questa guerra santa contro il "nuovo paganesimo" non è condotta da uomini formatisi nelle madrasse, ma in università fondate sul "pensiero pagano" di cui intendono servirsi per castigarlo. Vogliono sconfiggere l'Europa così mostruosamente seducente contando sulla saggezza di un solo Libro. Nel villaggio di Bosc-Roger-enRoumois, i vicini di casa di Maxime Hauchard lo ricordano non come un decapitatore, ma come un "bravo ragazzo, coraggioso, utile". Lo zio diceva che "non era capace di far male a una mosca". Un giovane cresciuto in una famiglia cattolica. Come Michael Dos Santos, che faceva persino il catechista.
Come spiegare una tale follia? Lo studioso Olivier Roy dice che "nel 1970 questi giovani si sarebbero rivolti al maoismo. Oggi soltanto l'islam è visto come una possibile utopia. Non sono manipolati, sanno quello che stanno facendo". Come il francese Pierre Robert, "l'emiro dagli occhi blu", che viveva nella Loira con la moglie e un figlio, in una grande casa, bel giardino e bella vista. Brave persone. Come Thomas Barnouin, figlio di insegnanti, e David Courtailler, che produceva formaggi nell'Alta Savoia, ma un giorno vide "le luci di una moschea che mi accecarono". Come Jean-Marc Granvisir, che prima di dedicarsi al jihad aveva lavorato per i servizi sociali: si prendeva cura della gioventù sbandata delle banlieue. Tutti giovani incoraggiati dai genitori a trovare il proprio percorso in una società che avrebbero giudicato "empia". Una società che aveva loro insegnato che non esistono torto e ragione, ma solo il giudizio (odioso) e la tolleranza (ammirevole). Hassen Chalghoumi, l'imam di Drancy accusato di "apostasia" dai fanatici, sostiene che la loro conversione è una reazione al secolarismo. Tutti figli della buona borghesia europea che nel versetto 110 della III Sura del Corano sentono il richiamo di una forza primordiale e incontrollabile: "Voi invero praticate il bene, impedite il male". I dubbi e le scelte della società francese hanno trovato una soluzione nella certezza omicida dell'islamismo. Sono i figli della nostra opulenza culturale. Il New York Magazine dedica un'inchiesta ai "jihadisti di Sua Maestà". Fra i motivi addotti per la conversione, molti citano "la mancanza di moralità" e "il permissivismo sessuale" inglesi. Giovani europei feriti dalla modernità e felici di barattare la loro vita con l'ebbrezza di una giusta causa e di una rivoluzione feroce e sacralizzata dall'ortodossia, un grande sentiero delle armi.
(Il Foglio, 17 aprile 2015)
Expo 2015 - Un campo verticale sul padiglione di Israele
LAmbasciatore israeliano Gilon: "Vogliamo condividere il nostro know how"
Dalla creazione del "Super Wheat", il grano originale dei tempi biblici, alle più moderne tecnologie che hanno permesso di far fiorire il deserto. E' questo il padiglione israeliano dell'Expo che accoglie i vistatori con uno spettacolare 'campo verticale' coltivato a grano, mais e riso. "A Expo Milano 2015 Israele presenta Fields of Tomorrow, un padiglione dedicato alle tradizioni della "terra del latte e del miele" ma anche alle più avanzate tecnologie sostenibili in agricoltura e alimentazione", ha spiegato all'Adnkronos l'ambasciatore israeliano Naor Gilon.
"In mostra un campo verde verticale, installazioni multimediali e le storie di un popolo industrioso, di tecnologie all'avanguardia e aziende innovative ma anche - ha dichiarato Gilon - l'impegno del paese nel condividere il know-how e i risultati della ricerca per un futuro rinnovato".
Al tempo stesso paese giovane, ma anche legato ad una tradizione di 3mila anni, Israele è riuscito in meno di settant'anni a trasformare un paesaggio prevalentemente arido in un territorio fertile e a diventare uno dei paesi più avanzati nel campo dell'innovazione scientifica e tecnologica. Il padiglione israeliano vuole raccontare tutto questo. Disegnato dall'architetto David Knafo e realizzato da Avant Video Systems con materiali al 100% riciclabili, sorge al fianco di Padiglione Italia all'incrocio del Cardo e del Decumano, i due assi principali di Expo Milano 2015.
Un campo verticale coltivato principalmente a grano, mais e riso accoglie i visitatori. Ispirata a coltivazioni reali, la parete verde non ha un ruolo meramente estetico ma introduce il Vertical Planting una tecnologia rivoluzionaria che permette di risparmiare e ottimizzare territorio e acqua. Il percorso di visita svela tecnologie d'avanguardia, mette in mostra progetti sostenibili e narra la vita del popolo israeliano.
Nella stanza di ingresso attori e performer interagiscono con il pubblico mentre video sono proiettati alle pareti. La prima parte della mostra racconta la storia e le vite di tre generazioni di contadini che sono riusciti a far fiorire il deserto.
Una sezione della mostra è dedicata alla Foresta KKL-JNF. Con all'attivo 240 milioni di alberi piantati negli ultimi 70 anni, Keren Kayemeth LeIsrael - Jewish National Fund sta riforestando il paesaggio di Israele. KKL-JNF offre nuove chance a ecosistemi a rischio creando una banca di semi, sviluppando nursery botaniche e piantando alberi. Grazie alle donazioni da Israele e da tutto il mondo, KKL-JNF sviluppa inoltre progetti sociali e ambientali su tutto il territorio. I sraele è l'unico paese al mondo che ha oggi più alberi di 100 anni fa.
I visitatori sono quindi guidati in una grande stanza buia in cui luci proiettano nel cielo un campo virtuale e filmati dedicati a quattro progetti all'avanguardia. Biotecnologia: la ricreazione del Super Wheat, il grano originario e non geneticamente mutato dei tempi biblici che cresceva tremila anni fa.
Gli altri progetti in mostra sono 3.0 agriculture ovvero l'applicazione di tecnologie digitali e satellitari alla gestione dei campi, un innovativo progetto di irrigazione in Africa e le più avanzate tecnologie zootecniche in un centro di mungitura industriale in Asia.
Il padiglione comprende un'area relax all'aperto, con un ristorante che propone hummus, falafel, insalate e altre ricette della cucina israeliana. Al primo piano dell'edificio una terrazza panoramica offre una visione dall'alto di Expo mentre un'area eventi ospita conferenze, mostre e party. Un'area verde con alberi, panchine e un sentiero acciottolato riconduce all'ingresso correndo lungo il campo verticale.
(Adnkronos, 17 aprile 2015)
"Tregua" diplomatica fra i Paesi dentro Expo
Usa di fronte all'Iran, Israele di fianco Vaticano, presenti le due Coree. Sono più o meno vicini i padiglioni di Paesi che hanno rapporti diplomatici tesi.
I visitatori che arriveranno all' Expo di Milano dalla Corea del Sud potranno, senza alcuna limitazione, visitare anche lo spazio della Corea del Nord. Non si può parlare di disgelo ma più che altro di tregua nel sito dell'esposizione universale di Milano dove si trovano, più o meno vicini Paesi che hanno rapporti diplomatici a dir poco tesi.
Un esempio? La decisione (presa prima del disgelo degli ultimi giorni) di mettere il padiglione degli Stati Uniti di fronte a quello dell'Iran, e anche il padiglione di Israele a fianco di quello della Santa Sede, dove troneggia la scritta 'Non di solo pane' in diverse lingue sulle facciate. Non si sa se per coincidenza diplomatica, ma dal lato che confina con Israele c'è fra le altre la scritta in ebraico, mentre quella in arabo è dall'altro lato.
Gli spazi delle due Coree sono, invece, agli antipodi del sito: la Corea del Sud ha il suo padiglione vicino all'ingresso Ovest, mentre la Corea del Nord è nel cluster delle spezie ad Est. Non lontano, a dire il vero, dal food truck americano.
Certo mettere insieme oltre 140 Paesi rende inevitabile che fra alcuni di loro non corra buon sangue. Ad Expo non c'è solo Israele ma anche Palestina che si trova nel cluster (cioè il padiglione collettivo) dedicato alle zone aride con Paesi come Somalia, ed Eritrea. Lo Yemen, Stato in cui sono in corso raid aerei di una coalizione guidata dall'Arabia Saudita, ha invece scelto il cluster del caffè. L'Afghanistan, martoriato dalla guerra, è nel cluster delle Spezie dove ha confermato la sua presenza anche il piccolo stato oceanico di Vanuatu, nonostante il ciclone che lo ha devastato lo scorso mese.
E c'è chi, come Haiti (nel cluster dei Cereali) vuole mostrare i progressi fatti dopo un evento devastante come il terremoto del 2010. Altri invece, considerate le condizioni politiche, hanno rinunciato alla loro presenza. All' Expo avrà un suo padiglione la Russia, ma non sarà invece presente l'Ucraina, e nemmeno la Nigeria, che ha dovuto affrontare ebola e i terroristi di Boko Haram, e, dopo un'adesione iniziale, ha rinunciato.
Una 'tregua' c'è anche dal punto di vista alimentare: non tutti i cibi e le bevande che saranno ad Expo sono adatti a tutte le religioni, ma qui la bottega di birra Moretti sarà pacificamente vicino a nazioni di religione islamica come Qatar, Marocco e Oman.
«Expo deve essere immaginato come un evento di pace, questa è la filosofia e anche i Paesi che collaborano con noi hanno accettato questo tipo di gioco - ha spiegato il commissario Giuseppe Sala -. Per questo abbiamo messo volutamente l'Iran di fronte agli Stati Uniti; ci sarà la Corea del Nord e il suo padiglione potrà essere visitato dai sudcoreani, che nella realtà non possono andare in quel territorio; abbiamo Israele in mezzo a Vaticano e Italia. Vogliamo trasmettere l'idea di un sistema controllato in cui, però, la visita sarà rilassata, adatta alle famiglie e, soprattutto, ai bambini».
(Alto Adige, 17 aprile 2015)
Apple compra una società israeliana che sviluppa mini-fotocamere per tablet e smartphone
L'acquisizione approfondisce la posizione di Apple in Israele.
di Simone Ziggiotto,
Apple ha acquisito LinX Computational Imaging Ltd, società israeliana specializzata in fotocamere per dispositivi mobili.
Apple ha confermato l'acquisizione con la sua dichiarazione standard di quando è solita comprare una società: "Apple compra aziende tecnologiche più piccole di volta in volta e generalmente non discute lo scopo o i piani", ha detto un portavoce di Apple.
Le società ha pagato un prezzo di acquisto di circa 20 milioni di dollari, secondo persone vicine alla vicenda citate dal Wall Street Journal. LinX, al momento, non ha rilasciato commenti o dichiarazioni.
LinX sviluppa e commercializza telecamere in miniatura per tablet e smartphone. Utilizzando algoritmi proprietari e una serie di sensori che catturano più immagini contemporaneamente, LinX dice che le sue telecamere possono misurano la profondità di campo e creano immagini tridimensionali.
L'anno scorso, la società ha detto che i suoi piccoli moduli fotocamera permettono di scattare foto di qualità migliore rispetto alla media in condizioni di scarsa luminosità ed elaboraziono i dati più velocemente in condizioni standard. LinX ha detto che la sua tecnologia offre la qualità d'immagine single-lens-reflex (SLR), senza la necessità di dover utilizzare un dispositivo ingombrante. La sua tecnologia, secondo i comunicati stampa della società, è in grado di aprire la strada a funzioni come la rimozione automatica di sfondi, modellazione di oggetti 3-D e riconoscimento dei volti.
Secondo l'Israeli registrar office, l'ufficio israeliano dove vengono registrate le società, LinX è stata fondata nel 2011. I co-fondatori e i principali azionisti Ziv Attar e Andrey Tovchigrechko sono veterani del settore. Prima di avviare LinX, Mr. Attar è stato uno specialista senior di ottica presso l'azienda israeliana Rafael Advanced Defense Systems, mentre Mr. Tovchigrechko ha guidato un team di sviluppatori di algoritmi pressp la Samsung Electronics.
L'acquisizione approfondisce la posizione di Apple in Israele. Nel mese di febbraio, durante una visita al paese, l'amministratore delegato di Apple Tim Cook ha detto che Israele è il più grande polo di ricerca e sviluppo di Apple al di fuori degli Stati Uniti, con oltre 700 dipendenti in sede, alcuni dei quali assunti a seguito di altre diverse acquisizioni di piccole startup locali.
Apple ha acquisito la Anobit Technologies Ltd. nel 2011, società con sede in Israele e specializzata nelle memorie flash. Due anni più tardi, Apple ha comprato PrimeSense Ltd. che ha sviluppato il chip che si può trovare nella prima versione della periferica di gioco Kinect di Microsoft che serve per le funzionalità 3D di rilevamento per la console di gioco Xbox. Apple ha inoltre assunto la maggior parte dei dipendenti israeliani di una divisione che Texas Instruments Inc. ha chiuso nel 2013 in Ra'anana.
(PianetaCellulare, 16 aprile 2015)
Il sogno di Nyosha contro l'Olocausto. "Cartoons on the Bay" si commuove
Il cortometraggio di Liran Kapel e Yael Dekel apre il Festival. Israele ospite d'onore
di Roberto Davide Papini
VENEZIA, 16 aprile 2015 - Oggi per gli ebrei è il giorno di "Yom ha Shoah", quello in cui si ricorda l'Olocausto, quello in cui prevalgono silenzio e riflessione e in Israele tutto si ferma. Ed ecco che Cartoons on the Bay (il festival internazionale dell'animazione organizzato da Rai Com a Venezia fino a sabato 18 aprile) non poteva aprirsi in maniera migliore: con il poetico "Nyosha", cortometraggio della 28enne israeliana Liran Kapel e Yael Dekel.
Proprio in apertura di questo festival (che ha Israele come Paese ospite d'onore) la storia della piccola polacca Nyosha ha commosso il pubblico di Cartoons on the Bay che ha tributato un lungo applauso a Liran Kapel. Si tratta di un film con pupazzi animati, realizzato in stop motion, che parte dai racconti sulla Shoah fatti dalla nonna di Liran alla nipote che ha scelto di mettere in animazione una parte di questi racconti. Nel cortometraggio, la bambina sogna di potersi comprare un paio di scarpe nuove e lavora duramente per questo obiettivo. All'inizio ne ha solo una e dopo varie vicissitudini, nell'orrore e nella distruzione della guerra riesce a recuperare l'altra.
Il sogno della bimba si realizza e mentre tutto intorno la morte e la follia nazista vanno avanti, la piccola cura con amore le scarpe convinta che nella loro magia stia la sua salvezza: e così sarà, perché proprio guardando quelle scarpe lucide si piedi del letto (forse perché distratto o forse perché a sua volta padre di una bambina, questo resta in sospeso nella narrazione) il soldato nazista non porterà via la piccola Nyosha ingenuamente nascosta sotto il lenzuolo.
"Mia nonna mi diceva sempre che le sue scarpe l'avevano salvata dall'Olocausto e ogni anno nel giorno di "Yom ha Shoah" andava in giro per il mondo a raccontare questa storia _spiega Liran Kapel_ Allora, quando è morta ho voluto raccontarla io con un cartoon in modo che non andasse perduta".
Ora, Liran Kapel sta lavorando a un altro cortometraggio ("Una storia che parla di sentimenti e di relazioni, sempre fatta in stop-motion, ma con sale e ghiaccio") e si prepara a realizzare un lungometraggio su Nyosha "per raccontare tutta la storia dell'Olocausto contenuta nei diari di mia nonna".
Un'apertura commovente, dunque, per Cartoons on the Bay che ospiterà diversi incontri dedicati all'animazione realizzata in Israele e premierà con un "Pulcinella alla carriera" Albert Hanan Kaminski, uno degli autori più rappresentativi del cartoon israeliano.
(Quotidiano.net, 17 aprile 2015)
25 aprile, è ufficiale: l'Anpi cancella il corteo. Niente manifestazione nel 70esimo anniversario
Ora è ufficiale. Il tradizionale corteo del 25 aprile per le strade del centro di Roma quest'anno non ci sarà. A deciderlo - proprio nel giorno in cui per la prima volta i partigiani sono entrati in un'Aula del Parlamento in occasione della cerimonia ufficiale con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quello del Senato Pietro Grasso e quello della Camera Laura Boldrini - è stata l'Anpi romana che ha preferito organizzare soltanto un sit-in a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza romana, dopo le annunciate defezioni della Brigata Ebraica e dell'Associazione Nazionale degli ex deportati per evitare le tensioni registrate lo scorso anno con gli attivisti filo-palestinesi, a partire dai centri sociali.
«La nostra posizione resta invariata - spiega il portavoce della Brigata Ebraica - e a Porta San Paolo non ci saremo». Il presidente dell'Anpi di Roma, Ernesto Nassi, si dice «dispiaciuto» ed invita i rappresentanti della Brigata «a partecipare». «Li ho chiamati dicendo loro che li voglio in piazza - afferma -, potranno finalmente parlare. Ho garantito loro che non ci saranno tensioni o contestazioni. Se dovesse partecipare la frangia più estrema dei movimenti filo-palestinesi siamo pronti a isolarla».
Un appello, quello di Nassi, che si scontra però con quello del presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici: «Chiedo a tutti, ebrei e laici, di non partecipare alla manifestazione dell'Anpi per evitare scontri come ci sono stati lo scorso anno». Insomma, quando mancano nove giorni al 70/mo anniversario della Liberazione, il clima a Roma non appare affatto sereno. Nei prossimi giorni sono in programma riunioni e incontri per cercare di riportare la calma e richiamare a Porta San Paolo non solo la comunità ebraica ma anche gli ex deportati.
Sicuramente, però, ci saranno i movimenti per la Palestina. «Non mancheremo assolutamente - promette Nino Lisi della Rete romana di solidarietà al popolo palestinese -, nei prossimi giorni ci vedremo per decidere anche se organizzare manifestazioni alternative». Al momento l'unica certezza è la cerimonia prevista in piazza del Campidoglio, organizzata dal Comune di Roma dopo la richiesta dell'Anpi nazionale di assumere la «regia» delle celebrazioni per il 25 aprile. Una decisione che di fatto scavalcò la segreteria romana, portando il presidente Nassi a presentare le dimissioni, poi respinte dai delegati.
(Il Nuovo Corriere, 16 aprile 2015)
Manifestare solidarietà al popolo palestinese significa imporre ai palestinesi di continuare ad essere la vittima sacrificale che brucia sullaltare della religione filopalestinista, che non è altro che una sublimazione dellodio antiebraico. M.C.
Da Israele un test al respiro per scoprire il cancro allo stomaco
Potrebbe essere un modo non invasivo per individuare il cancro allo stomaco ed è basato su un test del respiro. Test messo a punto in Israele, ad Haifa, da alcuni ricercatori del Russell Berrie Nanotechnology Institute.
Ma come funziona? Il test consiste nel rilevare i segnali chimici nel respiro del soggetto, più precisamente nell'aria che viene espirata. Si tratta di una procedura non invasiva che potrebbe sosituire le più tradizionali indagini endoscopiche, ma anche economicamente vantaggiosa. In pratica l'esame del respiro, consente di rilevare la presenza di una proteina che svolgerebbe un ruolo prioritario nello sviluppo della neoplasia.
Una traccia che può essere individuata proprio analizzando i composti chimici contenuti nell'aria espirata. I ricercatori israeliani hanno esaminato i campioni di aria espirata di 484 pazienti, 99 dei quali avevano già avuto una diagnosi di tumore.
Non solo: secondo gli studi dei ricercatori, i risultati del test hanno evidenziato una notevole precisione anche nella capacità di distinguere tra tumori dello stomaco allo stadio "embrionale" e quelli allo stadio più avanzato.
(intelligonews.it, 17 aprile 2015)
Putin a ruota libera su Ucraina, economia e Iran. Rasmussen: 'Russia più pericolosa di Urss'
di Enrico Oliari
Noi non abbiamo "nessun nemico", bensì sono gli Usa che "non hanno bisogni di alleati ma di vassalli": con queste parole in presidente Russo Vladimir Putin è intervenuto oggi sulla crisi ucraina in occasione di una lunga intervista televisiva in cui ha attaccato le sanzioni dell'Occidente, che rimangono nonostante "Noi stiamo applicando gli accordi di Minsk mentre Kiev non si affretta a farlo".
Per Putin, che ha sostenuto il terrorismo e la criminalità internazionale essere i veri nemici, Kiev ha "tagliato fuori con le proprie mani le regioni orientali e russofone". Si tratta di "una vera tragedia", che dimostra quanto "L'attuale leadership di Kiev non sia desiderosa di ricostruire la sfera sociale nel Donbass".
Rispondendo ad una telefonata in diretta di una donna che chiamava dal Donbass, il presidente russo ha garantito ancora una volta che "non ci sono truppe russe nelle regioni orientali ucraine" e che "una guerra tra Russia e Ucraina è impossibile".
Putin ha garantito che, nonostante il quadro critico, il rublo regge e l'inflazione (oggi al 15%) è sotto controllo, per cui la Russia resta economicamente forte, con il picco dei problemi al passato, e la crescita è prevista entro i due anni.
Ha quindi parlato della questione dei missili S-300 che verranno consegnati presto all'Iran come da accordi precedenti alle sanzioni verso la Repubblica Islamica, affermando che sono un "deterrente" per i conflitti regionali: "Oggi - ha aggiunto - i partner iraniani mostrano una grande flessibilità e una chiara volontà di raggiungere un compromesso", per cui noi "non vediamo più alcuna ragione" per mantenere il bando.
Sull'omicidio di Boris Nemtsov ha spiegato che si è trattato di "un evento tragico e vergognoso", ma che gli inquirenti già un giorno e mezzo dopo il fatto avevano arrestato cinque persone, tutte cecene. Ha tuttavia detto, riferendosi al mandante, che "Non so, diventerà chiaro nel corso dell'indagine".
Oggi di Russia ha parlato anche l'ex Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, il quale ha spiegato in un'intervista a Newsweek che "La Russia di oggi è più pericolosa dell'Unione Sovietica. L'URSS era più prevedibile rispetto all'attuale leadership". "L'Occidente - ha continuato - non deve ovviamente essere ingenuo. È necessario rafforzare le misure contro le minacce ibride. Abbiamo bisogno di maggiori investimenti in sicurezza informatica, di un'intelligence meglio finanziata e di condividere ancora di più le informazioni tra gli alleati".
(Notizie Geopolitiche, 16 aprile 2015)
Il giorno della Memoria a Gerusalemme
Il giorno della Memoria, Yom Hashoah in ebraico, è il giorno nel quale ci assicuriamo che i disastrosi eventi, che hanno portato al tentativo di eliminare il popolo Ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale, non siano mai dimenticati.
Oggi circa 193.000 Sopravvissuti vivono in Israele. Essere un Sopravvissuto vuol dire vivere con un peso che nessun altro può comprendere. Anche se continuamente si raccontano nuovi fatti sull'immensità degli orrori dell'Olocausto e sulle terribili vicende individuali, siamo comunque ancora inermi ed incapaci di comprenderne a fondo tutte le ragioni storiche.
Come capitale dello Stato di Israele, Gerusalemme si trova al centro delle commemorazioni del Giorno nazionale della Memoria, che si svolge durante il giorno 27 del mese ebraico di Nissan. Oltre alla cerimonia principale, che avrà luogo allo Yad Vashem, il Memoriale dell'Olocausto che ricorda le vittime ebraiche dell'Olocausto, in ogni scuola ed istituzione del paese verranno dedicati momenti per cerimonie di ricordo.
Quest'anno il giorno della Memoria comincia la sera del 15 aprile e finisce la sera del 16 aprile, 2015.
I turisti vedranno la città in un'atmosfera di grande frenesia e percepiranno nelle persone un umore solenne. Tutti i luoghi pubblici sono chiusi.
Alle 10.00 della mattina di giovedì 16 aprile, la sirena suonerà per 2 minuti in tutto il paese. Durante i 120 secondi del suono della sirena, tutte le persone si fermano rimanendo in silenzio in qualsiasi posto si trovino. Anche le strade si bloccano: i guidatori con i passeggeri escono dai loro veicoli e restano in piedi in silenzio.
Tutti i programmi televisivi e radiofonici sono incentrati sulla storia della Shoah: documentari, musica, film vengono trasmessi durante tutto il giorno.
Yad Vashem è uno dei Musei più visitati di tutto il paese. Rinnovato nel 2005, è uno schioccante e impressionante memoriale delle vittime ebraiche dell'Olocausto. Visitare Yad Vashem durante questo giorno dà un valore aggiunto alla commemorazione.
L'entrata a Yad Vashem è sempre libera
(iTravel Jerusalem, aprile 2015)
Diventerà un film la storia di Yonatan, il soldato israeliano che aveva il nonno nazista
di Maurizio Molinari
Yonatan Handelsman
Il nonno di Yonatan in uniforme
Nell'esercito israeliano c'è un soldato con un nonno nazista. Il soldato in questione è Yonatan Handelsman, che ha scoperto di avere un nonno ufficiale nazista realizzando l'albero genealogico di famiglia. La famiglia del padre di Handelsman durante la Seconda Guerra Mondiale fu sterminata dai nazisti ma il padre, arrivato in Israele dopo il conflitto, scelse di sposarsi con una ragazza tedesca non ebrea il cui padre era stato un ufficiale del Terzo Reich. Ma la donna ha sempre tenuto il segreto in proposito, non dicendo nulla ai famigliari. Solo quando il figlio Yonatan, oramai in divisa, le si è rivolto per completare l'albero degli avi di famiglia, la madre ha parlato, svelando un segreto tenuto per 70 anni. La storia fa scalpore in Israele, dove oggi si osserva la ricorrenza di Yom Ha-Shoà - il Giorno dell'Olocausto - ma Yonatan non si scompone più di tanto. E la vicenda è ora destinata a diventare un film.
(La Stampa, 16 aprile 2015)
Falò di libri islamisti: il pugno di ferro di Al Sisi nelle scuole egiziane
di Maurizio Molinari
Falò di libri jihadisti nelle scuole egiziane. Sono 147 le scuole già controllate dai Fratelli Musulmani che dal 2014, su disposizione del governo del Cairo, sono state messe sotto la responsabilità del ministero dell'Educazione e in alcune di queste sono stati bruciati pubblicamente libri considerati jihadisti, ovvero sostenitori dell'«estremismo violento che alimenta il terrorismo» che il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi vuole «estirpare dall'Islam».
A darne notizia, con grande evidenza, è stata la stampa egiziana collegando tali falò proprio al pugno di ferro deciso da Al Sisi contro i gruppi estremisti islamici, a cominciare dai Fratelli Musulmani che espressero il predecessore Mohammed Morsi, rovesciato nel 2013. Ma in una di queste scuole, la Fadl del distretto di Haram nel governatorato di Giza, fra i 73 libri dati alle fiamme sono stati inclusi una copia traduzione in arabo di «Bonaparte in Egitto» di Christopher Herold nonché altri volumi classici egiziani come per esempio il «Discorso sulla riforma dell'Islam» dell'ex grande imam di Al Azhar Abdel Halim Mahmoud.
Ne è scaturita una vivace polemica pubblica su chi e come decide di dare alle fiamme quali libri con la conseguente decisione del ministro dell'Educazione, Mohab El Rafai, di aprire un'inchiesta sul comportamento delle autorità scolastiche.
Sconcerto fra intellettuali
La reazione del preside della scuola Fadl è stata di difendere con energia il provvedimento adottato, spiegando che le «autorità di sicurezza» avevano «approvato» tanto il metodo di distruzione che la lista dei libri da dare alle fiamme. «I volumi avevano tutti impresso sulla copertina il segno delle «Quattro Dita» di riconoscimento dei Fratelli Musulmani - ha spiegato la scuola - adottato per denunciare i violenti disordini avvenuti sulla piazza Rabaa El-Adawiya per sostenere il deposto presidente Morsi».
Sulla vicenda è intervenuto, con un messaggio su Twitter, lo scrittore egiziano Abdel Magid criticando i falò di libri: «Il libro "Bonaparte in Egitto" è il migliore libro europeo sulla spedizione francese nel nostro Paese ma chi è in grado di comprenderlo nel ministero dell'Educazione?».
(La Stampa, 16 aprile 2015)
Progetto Memoria 2015 del musicista israeliano Eyal Lerner
Eyal Lerner
Sabato sera a Roma, nel teatro dell'Istituto San Giuseppe di via del Casaletto, nell'ambito delle iniziative per la giornata della Memoria 2015, il maestro Eyal Lerner (musicista israeliano da vent'anni in Italia) presenterà lo spettacolo "Che non abbiano fine mai... la memoria ebraica fra musica e racconti". Lo spettacolo, adattato ogni volta per meglio integrare i racconti riguardo a quanto accaduto nelle loro zone durante la guerra, in questa occasione vedrà otto ragazzi dell'istituto esibirsi in una breve messa in scena basata sul racconto di uno dei bambini ebrei che, durante il nazi-fascismo, furono salvati dalle suore nascondendoli nell'Istituto. Lerner dal 2011 dirige il nuovo coro Shlomot (specializzato nell'esecuzione della musica ebraica), patrocinato dalla comunità ebraica di Genova. Dal 2013 è docente di flauto dolce e musica etnica al conservatorio di Valbonne.