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Notizie 1-15 aprile 2016


Il premier Netanyahu la prossima settimana a Mosca

GERUSALEMME - Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, incontrerà il presidente russo, Vladimir Putin, la prossima settimana a Mosca. Lo riferisce il governo israeliano in un comunicato in cui si precisa che l'incontro riguarderà i rapporti bilaterali e temi regionali, tra cui il conflitto in Siria. E' la seconda volta che i due leader si incontrano negli ultimi mesi, nell'ambito del meccanismo di cooperazione stabilito nel settembre scorso riguardo al sorvolo dello spazio aereo israeliano da parte di caccia russi impegnati nella guerra in Siria. A settembre scorso i leader di Russia e Israele hanno concordato la creazione di un "meccanismo di coordinamento militare per prevenire scontri e malintesi" nell'area di operazioni siriana. E' comunque la prima volta che i due leader si incontrano da quando Mosca ha ritirato parte del suo contingente militare dalla Siria, una mossa che ha sorpreso Israele. Subito dopo l'annuncio del ritiro fatto da Putin lo scorso 14 marzo, infatti, Israele aveva espresso molte riserve su questa decisione. Il tema era stato anche oggetto dell'incontro tra Putin e il presidente israeliano, Reuven Rivlin, il 16 marzo scorso a Mosca.

(Agenzia Nova, 15 aprile 2016)


La minaccia alla pace in Medio Oriente?

Qualche villaggio al confine fra Israele e territori palestinesi...

Si discute dell'annosa questione dei territori contesi fra israeliani e arabi, e delle rivendicazioni palestinesi.
Una degli argomenti più triti e ritriti a proposito della questione israelo-palestinese, riguarda le "colonie" israeliane nel West Bank. Per i nemici dello stato ebraico, sarebbero un macigno che impedisce la nascita di uno stato palestinese, costituendo di conseguenza una «grave minaccia alla pace in Medio Oriente». Come se il caos in Libia, la guerra civile in Siria, il disordine in Iraq, le sommosse nello Yemen e la tensione in Egitto fossero bazzecole...
Ma a quanto ammontano questi territori contesi?...

(Il Borghesino, 15 aprile 2016)


Panama Papers, il figlio di Abu Mazen tra i nomi e la dinastia palestinese alla deriva

di Claudia De Martino

I
 
Gli Abbas, padre e figlio
Panama Papers
hanno raggiunto e scosso anche la Palestina, con la rivelazione che tra i "nomi eccellenti" vi sarebbe anche Tareq Abbas, il figlio del Presidente palestinese Abu Mazen, originariamente eletto per 5 anni ma ormai in carica a vita.
   Tareq Abbas avrebbe depositato presso lo studio panamense 1 milione di dollari ricavati dalla sua partecipazione all'Apic (Arab-Palestinian Investment Company), una società di investimenti semipubblica, poiché partecipata dall'Autorità Nazionale Palestinese. L'Apic è un vero colosso dell'economia dei Territori, in quanto raggruppa investimenti in quasi tutti i settori chiave: dai trasporti alle telecomunicazioni (in particolare, Sky-Palestina), fino all'industria alimentare, le attrezzature mediche e, ancora, catene commerciali. Il "caso Abbas" non figura assolutamente tra le cifre più considerevoli, né le personalità più politicamente esposte tra quelle denunciate dai "Panama papers", ma sicuramente si tratta di una notizia che va ad incidere negativamente sull'immagine già logora dell'anziano Presidente palestinese. Nello specifico, gli Abbas si rivelano essere sempre più una vera e propria dinastia al potere, in modo analogo ai Mubarak, agli Assad, ai Saleh, ai sovrani del Marocco, e tante altre che hanno controllato in modo autoritario e familistico i travagliati Paesi di Maghreb e Medio Oriente.
   Tuttavia, una differenza sostanziale intercorre tra la Palestina e gli altri Paesi arabi: il fatto che quest'ultima non abbia vissuto la sua "Primavera araba" e che rivelazioni come queste vengano quasi affossate e dimenticate da una popolazione ormai disillusa e sfiancata da un'inutile ennesima ondata di violenza spontanea contro l'occupazione.
   Lo scandalo dei Panama Papers è, dunque, la punta di un iceberg costituito dall'endemiche pratiche di corruzione, immobilità politica e clientelismo che contraddistinguono l'operato di un'Autorità Palestinese in cui pochi Palestinesi, compresi i sostenitori di Fatah, ormai si riconoscono. A rivelarlo è un sondaggio del marzo 2016 condotto da Awrad (Arab World for Research and Development (Awrad), secondo cui su 1.200 giovani palestinesi tra i 18 e i 25 anni, il 73% si ritiene convinto di un "futuro nero", mentre il 67% dichiara che la "Palestina abbia imboccato la strada sbagliata" ed un 57% sostiene di volersi tenere lontano dalle elezioni, disilluso e disgustato dalla politica ufficiale. Un dato che non sorprende se si considera che all'ultima tornata elettorale -quella per le municipali del 2013 - circa la metà dei Palestinesi in età di voto siano rimasti lontani dalle urne o per protestare contro l'abortito piano di riconciliazione nazionale o ancora perché disillusi tout court sull'impatto delle elezioni palestinesi in presenza del mantenimento dell'occupazione.
   La dinastia Abbas e la AP continuano a mantenere una stretta sul potere senza il minimo rispetto delle regole e delle istituzioni democratiche, e nemmeno delle fazioni rivali: non è un caso che una delle poche voci che si sono levate nei confronti del crescente autoritarismo della AP e della sua strenua volontà di collaborare con Israele a tutti i costi, indipendentemente dalle posizioni decise all'interno dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), sia stata quella del rivale Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), al quale in ritorsione la AP ha subito gelato i fondi. Così come non è un caso che la AP utilizzi sempre più violenza nei confronti dei giornalisti palestinesi indipendenti, desiderosi di monitorare le periodiche manifestazioni contro il Muro ad al-Bire'h e dintorni. Infine, gli Abbas avrebbero eretto una barriera intorno ad Hamas delegittimandone completamente la leadership - bollata come "violenta" ed "islamista" e macchiatasi della colpa di aver appoggiato l'"asse sciita" (Assad-Iran) nella guerra civile siriana -, nonché cautamente isolato tutti gli oppositori di rilievo all'interno del loro stesso partito (Fatah), emarginando l'ancora popolare Marwan Barghouti - detenuto in un carcere israeliano di massima sicurezza -, e condannando per corruzione altri potenziali candidati alle presidenziali, come Mahmoud Dahlan, uomo forte di Fatah a Gaza, e Mohammed Rachid, ex braccio destro di Arafat ed ex-Ceo dell'Apic, condannato per appropriazione indebita di fondi pubblici nel giugno del 2012.
   In conclusione, la fuga di notizie su Tareq Abbas contenuta nei Panama papers può essere solo l'ultimo dei problemi di un sistema politico palestinese alla deriva. Tuttavia, la frustrazione e il nichilismo dei giovani palestinesi rivela il profondo scollamento tra leadership e società in Palestina: uno scontento che non è riuscito nemmeno a convogliarsi in grandi manifestazioni di dissenso pubblico, ma solo in un insensato desiderio senza futuro di distruggere tutto, distruggendo sé stessi.

(il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2016)


Fino ad ora, uno dopo l'altro, tutti coloro che si sono messi in modo netto contro Israele sono finiti in un vicolo cieco. Ci ha provato Hamas con la forza e adesso si ritrovano una situazione a Gaza che a chi ci vive dentro fa soltanto desiderare di uscirne fuori, senza poterlo fare. Ci ha provato Fatah con Abu Mazen, con la politica internazionale, tentando di creare in quella sede un chimerico "stato palestinese" che non ha niente di quello che costituisce il fondamento di uno stato democratico, ma avrebbe dovuto mettere Israele alle corde, senza che vi sia riuscito. Il quadro è semplice: Israele cerca di fare tutto quello che gli sembra possibile per difendere la sua esistenza, in modo ovviamente anche discutibile e qualche volta sbagliato; gli altri si dividono tra quelli che dicono chiaramente di voler distruggere Israele e quelli che dicono di no, che non lo vogliono e non si deve fare, ma giochicchiano ambiguamente con chi dice di volerlo fare. Tra quelli che giochicchiano in questo modo si trova Abu Mazen e buona parte della comunità internazionale. Se si volesse veramente cominciare a risolvere il problema, il primo punto all'ordine del giorno dovrebbe essere quello di far fuori la dirigenza di Hamas a Gaza. E' ovvio: come si può sperare di mandare avanti il "processo di pace" finché è presente una forza che dice apertamente di voler distruggere Israele e dimostra di volerlo fare con la forza? Ma davanti a quello che dicono e fanno i capi di Hamas a Gaza che cosa si fa? Non si cerca di farli smettere e nemmeno di farli tacere, ma ci si mette ad osservare attentamente quello che fa Israele come risposta. E naturalmente si trovano errori, molti errori, di tutti i tipi, attentamente studiati e alla fine inevitabilmente assunti come la "causa" del tutto. La colpa insomma è di Israele, DEVE essere di Israele, non può essere altrimenti. Bisogna soltanto cercarla, la causa, ma ci deve essere. In mancanza di meglio, se ne trova una che è sempre buona ed è periodicamente ripropomibile: la decisione del governo israeliano, soltanto la decisione, si badi, non la messa in opera, di costruire o ristrutturare nella zona contesa nuovi appartamenti, ognuno dei quali diventa automaticamente un "insediamento", e quindi, secondo una terminologia molto in voga, una "colonia". Ecco dunque la prova provata che Israele è uno stato colonialista. Veramente, continuando ad osservare le ragioni di chi parla contro Israele, si fa sempre più fatica a distinguere tra odio, antipatia e rimbecillimento. M.C.


"La sinistra non capisce l'islam"

"Abbiamo perso la speranza e non vediamo quella degli altri a cui resta solo la religione". La provocazione di Jean Birnbaum. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali.

di Fabio Gambaro

«Anche se motivato da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno nulla a che fare con l'islam». Parte da qui la riflessione di Jean Birnbaum, studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri di "Le Monde", che ha da poco mandato in libreria "Un silence religieux" (Seuil), un saggio controcorrente, il cui sottotitolo recita: "La sinistra di fronte al jihadismo". Secondo l'autore, troppi esponenti della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta. Quindi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui discorso si rifa di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l'islam. Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo l'islamismo si esercita in nome dell'islam, anche se per fortuna non tutto l'islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini sociali e culturali molto diverse, l'unico elemento che li unisce è il loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il che evidentemente non significa giustificarli».

- Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico?
  «Perché significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell'islam sanno benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di combatterla. All'interno del mondo musulmano si sta svolgendo un'aspra battaglia tra due diverse concezioni dell'islam. Dobbiamo prenderne atto e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida. Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali».

- Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa?
  «La sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo un'illusione, una chimera. Il famoso "oppio dei popoli", di cui parlava Marx e che l'emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos'altro. Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che la fede, lungi dall'essere solo un'illusione o un riflesso, può diventare una forza materiale».

- A questo proposito lei rende omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza politica dell'islam, quando si recò in Iran all'inizio della rivoluzione islamica...
  «Foucault ha saputo sottolineare la forza propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di "politica spirituale". In Iran capì che l'energia che stava dando fuoco alle polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l'altro che in occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede. Non inseguiamo più "la storia sognata", che invece in passato è stata importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad».

- Perché tali motivazioni religiose danno luogo all'iperterrorismo?
  «L'islamismo è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di modernizzare l'islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte, quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la violenza. Nell'islam oggi però c'è qualcosa di particolare, come sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L'islam si propone come un'alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta che s'intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono distruggerlo».

- Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire?
  «Non voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può pensare che questi giovani siano mossi all'inizio solo dall'odio e dal desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i fratelli del Califfato. Insomma, all'inizio sono motivati dal bisogno di giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta accadendo».

- Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell'aldilà...
  «I jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l'elogio della morte. Ma tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana — quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà, più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la gestione del presente».

(la Repubblica, 15 aprile 2016)


Gheddafi chiese aiuto a Israele prima della morte

Il defunto leader libico Muhammar Gheddafi aveva chiesto aiuto a Israele per fermare i raid aerei della Francia e degli Stati Uniti durante la rivolta del 2011 che ha portato alla caduta del regime di Tripoli e l'uccisione dello stesso colonnello. E' quanto rivela il quotidiano "Times of Israel" che cita un servizio della Radio dell'esercito israeliano trasmesso mercoledì scorso.
Secondo queste rivelazioni, Gheddafi avrebbe inviato a Israele un emissario "di un paese terzo", che non viene indicato, per chiedere a nome del colonnello "un aiuto diplomatico". Insomma, Gheddafi, secondo la Radio "voleva che il governo israeliano ricorresse alle sue relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e la Francia per fermare la campagna aerea lanciata dal patto atlantico contro le forze armate del regime libico".
L'emissario di Gheddafi avrebbe anche "avveritito" gli israeliani che "la caduta del regime avrebbe potuto esporre la Libia e l'Europa a pericoli".
Secondo quanto scrive Times of Israele "Dopo una rapida valutazione, le autorità israeliane hanno deciso di non agire".

(Corriere Quotidiano, 15 aprile 2016)


Perché i palestinesi temono le telecamere sul Monte del Tempio

Il sistema tv a circuito chiuso, installato in collaborazione con la Giordania, mette in crisi chi ha sempre diffuso menzogne sulla moschea di al-Aqsa per fomentare scontri religiosi.

Durante lo scorso fine settimana, nel complesso monumentale della moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme, è stato fatto circolare un volantino anonimo che metteva in guardia i fedeli musulmani dalle telecamere di sicurezza che vengono installate nel luogo sacro.
L'idea di installare nell'area un sistema di telecamere a circuito chiuso è il frutto di un'intesa raggiunta, con la mediazione degli Stati Uniti, fra Israele e Waqf islamico, l'ente sotto ègida giordana che controlla e gestisce il patrimonio immobiliare musulmano dentro e attorno al sito. Obiettivo del progetto: monitorare quanto avviene nel delicato complesso e in particolare, dal punto di vista di Israele, sconfessare in modo documentato le ricorrenti campagne fraudolente di soggetti come Hamas e Movimento Islamico che gridano al "complotto ebraico" allo scopo di alterare lo status quo sul Monte del Tempio e fomentare guerre di religione. Il sistema di sorveglianza visiva aiuterà a identificare finalmente chi sono i veri provocatori che periodicamente mettono a repentaglio il luogo sacro....

(israele.net, 15 aprile 2016)


Ghana: movimento pro-Israele, partnership in cambio di tecnologie

 
ACCRA - Il movimento di sostegno per la sopravvivenza di Israele, la Africa-Israele Initiative (AII), sollecita i governi africani a riconoscere lo Stato di Israele al fine di beneficiare della tecnologia e della sua industria. Secondo il movimento, Israele ha tanto potenziale al quale l'Africa potrebbe attingere se mettesse in atto una forte partnership.
"L'Africa potrebbe beneficiare tanto da Israele, una nazione di piccole dimensioni ma che controlla tanta ricchezza nel mondo e cosi' tecnologicamente avanzata che e' diventata una forza da non sottovalutare. Vogliamo imparare da loro, vogliamo sapere che cosa li rende cosi' di successo e vogliamo sapere come attingere a questa tecnologia", ha detto il direttore dell'AII, Perry Gilbert Apreala, aprendo il suo intervento. Apreala ha inoltre condannato l'atteggiamento dei governi africani, che permettono ad altri di determinare per loro con chi essere alleati sottolineando che "i nemici dei nostri amici non devono essere anche nostri nemici, cosi' come gli amici dei nostri amici non devono essere per forza nostri amici". L'AII e' un movimento globale nato per sondare l'appoggio allo Stato di Israele. E' stato lanciato in Ghana nel maggio 2014 ed e' impegnato con i giovani per attirare l'attenzione sulle ostilita' verso Israele. L'impegno e' anche nei confronti dei governi africani affinche' aiutino e sostengano Israele in sede Onu.

(AGI, 14 aprile 2016)


La Forestale e Keren Kayemeth LeIsrael insieme per la tutela delle aree protette

Il Corpo Forestale e la Keren Kayemeth LeIsreael hanno firmato un protocollo d'Intesa per intensificare la cooperazione per la tutela delle aree protette.

di Ilaria Quattrone

Si è svolta, presso l'Ispettorato Generale del Corpo forestale dello Stato, la cerimonia della firma del Protocollo d'Intesa tra il Keren Kayemeth LeIsrael (Kkl) e il Corpo forestale dello Stato, allo scopo di promuovere nuove forme di raccordo e cooperazione nel campo della gestione e valorizzazione delle aree naturali protette, delle risorse ambientali e dell'applicazione delle convenzioni internazionali. Il Protocollo dispone nuove forme di collaborazione in ambito scientifico, tecnico e di pianificazione territoriale, progetti di ricerca per la salvaguardia di biodiversità e risorse forestali, oltre a programmi di formazione, educazione e organizzazione di eventi.
   L'accordo prevede progetti pilota relativi alla salvaguardia di aree protette o che rivestono un eminente valore ambientale mediante incontri di reciproca ospitalità. Il protocollo prevede, tra l'altro, la creazione di un'area dedicata al Corpo forestale dello Stato sul Monte Carmelo in Israele, dove sarà realizzato un monumento o un'opera d'arte, simbolo del gemellaggio tra i due enti e incentrato sulle tematiche dell'ambiente e della fratellanza tra i popoli. Una sua riproduzione sarà collocata in un'area protetta italiana. La scelta del Monte Carmelo non è casuale: dichiarato dall'Unesco Riserva della Biosfera, costituisce il polmone verde d'Israele ed è da sempre sinonimo di bellezza e simbolo nella religione Ebraica, Cristiana, Drusa e Bahai. Nel dicembre 2010 un incendio doloso ha distrutto buona parte della foresta che ricopre il Monte Carmelo, causando una notevole ripercussione sull'intero ecosistema del Mediterraneo.
   All'interno di questa, vi era un'area di 80 mila mq di riserva naturale. Circa 5 milioni di alberi sono stati distrutti, piante che avevano anche quattro volte l'età dello Stato di Israele. Il primo ministro Netanyahu nominò il Kkl quale unico ente incaricato alla rigenerazione dell'ecosistema nell'area: dalla bonifica al risanamento del terreno, dal ripristino dell'area al suo rimboschimento. "L'accordo siglato - osserva Raffaele Sassun, presidente Kkl Italia Onlus - è una stretta di mano tra amici che si impegnano a sviluppare nuove soluzioni per salvaguardare il nostro Pianeta. Non ci precludiamo nulla, dalla problematica più semplice a quella quasi impossibile da risolvere, da progetti di educazione a operazioni complesse sul campo. Il mio sogno è che grazie a questo rapporto di interscambio si possa trovare una soluzione al problema della Xylella fastidiosa, non solo perché sarebbe di grande aiuto al mondo intero, ma anche perché sono molto legato alla pianta d'ulivo, simbolo di pace nella tradizione giudaico-cristiana, sorgente di luce, di fertilità e anche di forza e futuro".
   "Questo accordo - sottolinea Cesare Patrone, capo del Corpo forestale dello Stato - ripartendo dal Mediterraneo quale simbolo di civiltà, cultura e storia nonché di scambi reciproci, si prefigge l'obiettivo, attraverso la sinergia di esperienze e conoscenze delle due parti nella cura e la protezione dell'ambiente naturale, di trasmettere alle generazioni future questi importanti valori. È per me e per tutto il Corpo forestale dello Stato motivo di profondo orgoglio l'iniziativa che porterà all'individuazione in Israele, sul Monte Carmelo, di un'area dedicata al Corpo, con la realizzazione di un monumento o un'opera d'arte a testimonianza del gemellaggio tra il Corpo forestale dello Stato e la Fondazione Kkl Italia Onlus".

(MeteoWeb, 14 aprile 2016)


Gerusalemme: Fiorente Capitale high-tech di Israele

Gerusalemme: fiorente Capitale high-tech di Israele. Dimenticate le rovine antiche della città vecchia di Gerusalemme. Oggi, la capitale dello Stato di Israele sta emergendo come uno dei centri più interessanti per la tecnologia d'avanguardia in tutto il mondo.
Un panorama in evoluzione quello dell'high-tech, con migliaia di imprenditori, centinaia di startup e una comunità innovativa in crescita.
Entrepreneur Magazine ha selezionato Gerusalemme tra i primi cinque posti al di fuori della Silicon Valley per startup tecnologiche, chiamando la capitale di Israele un "fiorente centro per il settore biomedico, tecnologie pulite, Internet, startup per dispositivi mobili, acceleratori, investitori e fornitori di servizi di supporto".
Queste le parole di Roy Munin, Amministratore Delegato di Made in JLM, un'organizzazione non-profit il cui obiettivo è quello di attivare i migliaia di imprenditori e più di 500 startup innovative della città, donando la possibilità di contribuire, collegare, partecipare ad eventi, trovare lavoro, partner e mentori:

Gerusalemme ha 500 aziende che operano nel settore tecnologico. Ci sono sorprendenti spazi di co-working e numerosi investitori e aziende internazionali che vogliono fare business. Ogni giorno c'è un evento tecnologico in città. Si tratta di una comunità straordinaria.

(SiliconWadi, 14 aprile 2016)


Vertice islamico a Istanbul, è scontro tra Iran e sauditi

Rohani, Riad ha già pronta mozione contro di noi e Hezbollah

TEHERAN - E' scontro aperto tra Iran e Arabia Saudita al tredicesimo Summit dell'Oic, l'organizzazione per la cooperazione islamica, apertosi stamane a Istanbul.
Il presidente iraniano Hassan Rohani, intervenuto all'assemblea,, ha accusato i sauditi - riferisce PressTv - di avere già preparato, in un pre-vertice, una risoluzione finale accusatoria nei confronti della Repubblica degli ayatollah e degli Hezbollah libanesi.
"Nessun messaggio che possa accrescere le divisioni nell'Ummah (la comunità islamica) potrà venire fuori dalla conferenza dell'Oic", ha detto. "Sarebbe contro i principi stessi dell'organizzazione e dunque non valido", ha avvertito.

(ANSAmed, 15 aprile 2016)



Ed ecco venire uno dei capi della sinagoga...

Gesù passò di nuovo in barca all'altra riva, e una gran folla si radunò attorno a lui; ed egli stava presso il mare. Ed ecco venire uno dei capi della sinagoga, chiamato Iairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregò con insistenza, dicendo: «La mia bambina sta morendo. Vieni a posare le mani su di lei, affinché sia salva e viva». Gesù andò con lui, e molta gente lo seguiva e lo stringeva da ogni parte. [...]
Mentre egli parlava ancora, ecco arrivar gente dalla casa del capo della sinagoga, dicendo: «Tua figlia è morta; perché incomodare ancora il Maestro?» Ma Gesù, udito quel che si diceva, disse al capo della sinagoga: «Non temere, solo abbi fede!» E non permise a nessuno di accompagnarlo, tranne che a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero a casa del capo della sinagoga; ed egli vide una gran confusione e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ed essi ridevano di lui. Ma egli li mise tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui, ed entrò là dove era la bambina. E, presala per mano, le disse: «Talità cumì!» che tradotto vuol dire: «Ragazza, ti dico: àlzati!» Subito la ragazza si alzò e camminava; aveva dodici anni. E furono subito presi da grande stupore; ed egli comandò loro con insistenza che nessuno lo venisse a sapere; e disse che le fosse dato da mangiare.

dal Vangelo di Marco, cap. 5

 


Boicottate Israele, non l'Arabia

L'Università di Bologna annuncia, entusiasta, la collaborazione con l'Università di Al-Iman. L'ateneo non fiatò sul boicottaggio di Israele di nove suoi professori.

di Bonifacio Borruso

La nota dell'Università di Bologna ha accenti di fierezza. Vi si legge che «il rettore dell'Università di Bologna, Francesco Ubertini, accompagnato dal professor Ahmad Addous, delegato per i Paesi Arabi, e dal professor Nicolò Marchetti, docente di Archeologia e Storia dell'Arte del Vicino Oriente antico, ha incontrato oggi (ieri per chi legge, ndr) a Riyadh, in Arabia Saudita, il rettore Fawsan al-Fawsan dell'Università Islamica Al-Imam Muhammad Ibn Saud, con cui ha siglato un accordo quinquennale per il finanziamento di ricerche e iniziative presso l'Alma Mater nell'ambito degli studi araboislamici». Sotto le Due Torri mettono le mani avanti: «Il dialogo come punto qualificante di un confronto aperto e scientificamente ineccepibile è la prospettiva su cui si fonda la collaborazione tra i due atenei», scrivono.
   L'Arabia Saudita, nelle frequenti dietrologie sul Califfato e chi lo finanzi viene sempre indicata, assieme al Qatar, come Paese che, non direttamente ma con certe fondazioni private ma collegabili alla dinastia wahabita al potere, alimenta lo stato di Raqqa.
La questione, però, non ha fatto specie a rettore, delegato e archeologo. Giustamente, aggiungiamo noi: la scienza stia fuori da queste beghe, sia un luogo franco dall'ideologia. Però a scorrere l'elenco dell'appello di oltre 160 accademici italiani al boicottaggio delle istituzioni scientifiche di Israele, del gennaio scorso, ci si imbatte nelle firme di Francesca Biancani, Caterina Bori, Gustavo Gozzi, Pierluigi Musaro, Matteo Ogliari, Fulvio Pezzarossa, Giulio Soravia, Angelo Stefanini e Sandro Mezzadra, tutti docenti dell'ateneo più antico d'Europa, Bologna appunto.
   Scrissero, con gli altri colleghi, che il boicottaggio alle relazioni accademiche con le università israeliane nasceva «come risposta alle ormai note e ben documentate complicità delle istituzioni accademiche israeliane con la violenza di Stato israeliana e alla totale mancanza di qualsiasi seria condanna da parte loro sin dalla fondazione dello Stato di Israele». Israele, ossia l'unica democrazia del Medio Oriente, al cui confronto la dura monarchia saudita non è per così dire il faro né della democrazia, che non esiste, né dei diritti civili. Anzi, circolano filmati in rete, in cui si vede la pena capitale applicata per la pubblica via, decapitando con la sciabola.
Chissà se i nove accademici avranno voglia di lanciarsi un boicottaggio, in casa, stavolta, verso l'accordo della propria amministrazione. Oppure se il magnifico rettore, difendendo l'intesa con l'ateneo di uno degli stati più illiberali di quell'area, voglia ammettere che, liberi i suoi colleghi di firmare gli appelli che volessero, ma che quello contro le università israeliane era stupidaggine. Avrebbe dovuto farlo all'epoca, il professor Marchetti, ma ora davvero non si può esimere.

(ItaliaOggi, 14 aprile 2016)


Israele festeggia con tre concerti il suo Zubin Metha

Compie ottani' anni, dirige la Philarmonic Orchestra a Tel Aviv

di Massimo Lomonaco

 
Zubin Mehta
Ora abbiate pazienza: devo riposarmi un po', stasera c'è un concerto importante». Zubin Mehta saluta i giornalisti e lascia la conferenza stampa senza ricordare che quell'appuntamento, il terzo in pochi giorni, è in onore dei suoi 80 anni. Gli stessi dell'Israel Philharmonic Orchestra (diretta nel 1936 per il suo concerto inaugurale da Arturo Toscanini) di cui dal 1981 è Direttore musicale a vita.
«Israele - ha sottolineato poco prima con i giornalisti, indicando l'immensa sala del The Charles Bronfman Auditorium di Tel Aviv dove ha sede la Filarmonica - è la mia seconda patria, la mia casa e la mia famiglia adottiva». «Sono arrivato qui nel 1969 - rammenta - poi mi hanno richiamato e non mi sono più mosso. L'importante nella vita è essere richiamati, altrimenti i legami si spezzano». Nel mezzo, naturalmente, il podio e la direzione delle orchestre più prestigiose del mondo con l'Italia nella bacchetta e anche nel cuore.
«Non mi sarei mai sognato di essere qui quando ho cominciato», risponde con naturalezza il Maestro ad una domanda sui sogni dei musicisti. Lui, che dice di «non sentirsi gli 80 anni» e la cui prima scelta in India - dove è nato a Bombay il 29 aprile del 1936 - fu la medicina, poi abbandonata per andare a studiare musica a Vienna.
«La musica - continua - è la mia intera vita e tocca ai genitori e agli insegnanti capire il talento che è un dono divino e incoraggiarlo. Mia madre - aggiunge sorridendo - ha sempre pensato che il mio fosse frutto della reincarnazione». Ma il vero segreto di una lunga carriera di successo come la sua - ammette replicando con semplicità ad un'altra domanda - è «l'amore per quello che si fa. Ogni giorno».
Musica ma non solo: Zubin Mehta si è sempre dichiarato amico di Israele e a favore della pace: «Tocca alla gente comune farla. Nell'epoca di internet in cui la comunicazione è così facile, mi appare impossibile che questo non accada. Ai giovani israeliani e palestinesi dico: parlatevi, vedetevi, fatela voi, senza i politici. Il futuro è nelle vostre mani».
Poi ricorda che nei tre mesi della guerra con Gaza, quando quasi ogni giorno in città suonava la sirena di allarme per i razzi dalla Striscia, la gente «veniva lo stesso a teatro, ascoltava il concerto e questo è stato molto importante. È la forza della musica per le persone».
Insignito nel 2012 dall'allora presidente di Israele Shimon Peres nel 2012 con la Medaglia di Distinzione, Mehta rivela di essere stato più volte a Ramallah, in Cisgiordania, con il suo passaporto indiano e si augura che presto all'interno dell'Orchestra «ci siano musicisti arabo-israeliani. Abbiamo molti studenti che studiano nella Fondazione. Presto arriveranno anche loro». Uno dei pochi rimpianti è non aver potuto dirigere Wagner in Israele dove è proibito per il suo antisemitismo e per le sue influenze sul nazismo. «Aspetto quel giorno, spero che giunga presto».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 14 aprile 2016)


Una svastica radical chic sul Labour

La sinistra antisemita di Corbyn tra "sionisti" e odio per "ebrei nasoni".

di Giulio Meotti

ROMA - Ci sono parlamentari, come Michael Levy della Camera dei Lord, che minacciano di lasciare il Labour se Jeremy Corbyn non fermerà la marea antisemita. Ci sono storici donatori della sinistra, come Michael Foster, che non daranno più un penny a un partito ostile agli ebrei. Ci sono ex ministri degli Esteri, come David Miliband, e il candidato sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, che accusano apertamente Corbyn di avallare quest'odio. Il Labour ha un problema gigantesco. L'odio per gli ebrei. Nel 1997, il 70 per cento degli ebrei inglesi ha votato Tony Blair. Oggi Corbyn, inserito dal Centro Wiesenthal nella lista nera dei peggiori antisemiti, non otterrebbe più del 25 per cento del voto ebraico. Corbyn ha già incassato accuse di antisemitismo per aver definito "amici" Hamas e Hezbollah. Adesso Michael Foster, che ha finanziato la campagna laburista del 2015 con 570 mila sterline, scrive un articolo sul Daily Mail in cui accusa Corbyn di "disprezzo per la storia degli ebrei in Europa" e di non fare "alcun tentativo per mettere a proprio agio una comunità ebraica che per più di cento anni ha sostenuto il Labour". La scorsa settimana, Corbyn ha difeso il fratello Piers, dopo che questo aveva detto che "i sionisti non tollerano nessuno che difenda i diritti dei palestinesi". Frase pronunciata riferendosi alla parlamentare ebrea Louise Ellman.
   Nelle stesse ore, l'attivista laburista Bob Campbell diceva che l'Isis è un'organizzazione israeliana, postando immagini di Netanyahu e al Baghdadi assieme, mentre un altro attivista, Gerry Downing, si scatenava contro "i sionisti" e sulla "questione ebraica". Ormai non si contano più i casi di politici e consiglieri del Labour che danno voce al peggior sentimento antiebraico. Come il parlamentare Vicki Kirby, secondo cui Hitler era "un dio sionista" e gli ebrei "nasoni". O Aysegul Gurbuz, l'assessore di Luton che ha definito Hitler il "più grande uomo della storia" e secondo cui l'Iran dovrebbe usare l'atomica per "cancellare Israele dalla carta geografica".
   Caso simile quello di Khadim Hussain, ex sindaco di Bradford, che ha scritto: "Nelle scuole si parla solo di Anna Frank e dei sei milioni di sionisti uccisi da Hitler". E' stata poi la volta di Beinazir Lasharie, consigliere di Kensington: "Molti sanno chi c'è dietro 1'11 settembre e l'Isis. Non ho niente contro gli ebrei ... ". Queste e altre dichiarazioni hanno spinto l'ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, a dire che il disprezzo per gli ebrei persiste negli "angoli bui" dell'Inghilterra, fra i ranghi del Labour come nelle aule universitarie. Lo scorso febbraio, a Oxford, si era dimesso da capo degli studenti laburisti Alex Chalmers, che aveva denunciato che "gran parte" della "sinistra" in facoltà ha "un qualche tipo di problema con gli ebrei". Un fenomeno pervasivo ormai nella società inglese, tanto da spingere Sajid Javid, ministro inglese delle Attività produttive, a puntare il dito contro "le cene antisemite", un fenomeno tipico nei quartieri benestanti e di sinistra di Londra, dove "persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo sono molto felici di ripetere calunnie sugli ebrei".
   Come ha osservato George Orwell nel 1945: "Il pregiudizio contro gli ebrei è sempre stato diffuso in Inghilterra e Hitler ha semplicemente causato una divisione netta tra le persone di coscienza che si rendono conto che non è il momento di lanciare pietre contro gli ebrei e le persone il cui antisemitismo viene aumentato dalla tensione nervosa della guerra". Siamo ancora a quella divisione nel salotto buono e giusto di Jeremy Corbyn.

(Il Foglio, 14 aprile 2016)


Cosa c'è dietro la pace turco-israeliana

Israele si riavvicina alla Turchia. Dopo le tensioni degli ultimi anni. Obiettivo: rafforzare il blocco sunnita. Contro l'Iran. Un asse che può spostare gli equilibri.

di Carlo Panella

Israele si sta allineando formalmente alla "trincea sunnita" contrapposta al blocco sciita siro-libano-iraniano.
Un processo, naturalmente sottotraccia, che emerge in questi giorni nella trattativa che Ankara e Gerusalemme stanno portando a conclusione su un episodio apparentemente marginale: l'incidente della Mavi Marmara del 2010.
In realtà, gli emissari di Bibi Netanyahu e Tayyp Erdogan stanno affrontando un dossier immenso, ben più complesso, in cui i punti che riguardano quella scabrosa controversia sono solo minori.
Il fatto è che sia Erdogan, che l'ha detto pubblicamente nel dicembre scorso, sia Netanyahu hanno oggi chiarissimo che per difendere la propria sicurezza nazionale e i propri interessi di potenze regionali è indispensabile costruire una enorme "massa critica" politico-militare, che si erga a ostacolo e, forse, a contrasto del blocco sciita-iraniano.

 Le trame della Russia
  Un passaggio reso indispensabile dal recente e irruente ingresso della Russia a fianco dell'Iran e dei suoi alleati, con conseguente svolta mai vista prima.
Vladimir Putin, grazie agli errori di Barack Obama (imperniati sulla logica dell'accordo sul nucleare con Teheran), è infatti riuscito a contribuire in maniera determinante al coronamento di uno storico sogno di Mosca, mai sfiorato neanche negli anni di maggiore potenza sovietica: la costituzione di una immensa fascia di Medio oriente in cui la Russia esercita una influenza politico-militare diretta e decisiva.
Una fascia che inizia con la 'Crimea sul Mediterraneo' impiantata dalla flotta russa a Latakia e Tartous, che costeggia il mare, comprende il Libano, gran parte della Siria, l'Iraq e l'Iran, terminando a ridosso del confine con l'Afghanistan..
Questo mastodontico mutamento dello scenario mediorientale, che ovviamente vede una speculare diminuzione dell'influenza americana, è stato oggetto per sei anni di colloqui preoccupati e intensi con Obama da parte di Netanyhau, Erdogan, del re saudita Abdullah e ora Salman, del re di Giordania Abdullah II, del presidente dell'Egitto al Sisi, del re del Marocco Mohammed VI e di tutti i sovrani del Golfo. Invano.
Non solo Obama si è sempre rifiutato di afferrare il pericolo destabilizzante di questa novità, ma ha trattato con tale sprezzo i suoi interlocutori mediorientali (basti guardare agli insulti che ha diretto nella sua intervista a New Atlantic ai regnanti sauditi) che questi affermano ormai di «non rispondere al telefono al presidente americano» (Erdogan), o sono apertamente in rotta di collisione con la Casa Bianca (Netanyahu).

 Netanyahu cambia strategia
  Valutata con attenzione questa evoluzione, Netanyahu ha deciso di modificare - silenziosamente - la posizione assunta nei confronti della crisi siriana dal 2011 in poi. Una politica attendista, di basso profilo, che mal celava la soddisfazione per l'implosione dell'unico esercito tradizionale che avrebbe potuto attaccare Israele dai confini.
Ma l'attendismo israeliano non ha più spazio da quando Assad è stato rimesso abbastanza saldamente sul trono.
Da qui la trasparente decisione di affiancare Israele al blocco Ankara-Riad, che peraltro, a partire dal dilagare della destabilizzazione iraniana nello Yemen, ha apprestato una sorta di Nato arabo-turco-sunnita (che comprende persino i lontani Marocco e Pakistan), la quale lentamente sta dando i suoi frutti sul piano politico anche in Siria e in Libia.
La necessità di fare fronte all'avversario iraniano ha infatti portato Ankara e Riad a sorpassare le loro divergenze sull'opposizione siriana (Erdogan appoggiava i Fratelli Musulmani, che Riad vede come il fumo negli occhi) e soprattutto, come vediamo oggi, sulla Libia.

 I rapporti con l'Arabia
  Qui, Erdogan ha palesemente "mollato", tramite il fedele emissario Beladjie, la difesa a oltranza del governo dei Fratelli Musulmani di Tripoli e ha permesso, dopo due anni di oltranzismo intransigente, che si inizi una pur fragile road map che li vede assolutamente emarginati.
Israele, intanto, tende da anni una fittissima rete di rapporti carsici con l'Arabia, che in una prima fase prevedevano addirittura il via libera nei cieli sauditi ai jet israeliani nel caso fosse stato necessario bombardare le centrali atomiche iraniane e che mano mano si sono estesi a una intensa collaborazione su più livelli.
Ma a questo processo mancava, e manca tuttora, il tassello più importante: la ricostituzione di quella alleanza militare e politica tra Israele e la Turchia che è stata uno dei baricentri della stabilità mediorientale dopo il 1980 e fino al 2010.
Caduto lo scià dell'Iran, Israele ha infatti trovato nella Turchia un valido alleato.
L'integrazione delle forze armate dei due Paesi ha fatto passi da gigante, manovre militari congiunte israelo-turche si sono tenute ogni anno, Ankara ha acquistato da Gerusalemme carri armati e sofisticatissime apparecchiature per la cyber war e si è arrivati al punto che nel 2003, con Erdogan già regnante, la flotta turca si è disposta appena al di fuori delle acque territoriali di Israele per contrastare un eventuale attacco missilistico di Saddam Hussein (replica di quello del 1991), in risposta alla invasione americana dell'Iraq.
Ma nel 2010 l'incidente della Mavi Marmara ha esasperato le tensioni tra la direzione islamista di un Erdogan sempre più schierato - irresponsabilmente - a difesa di Hamas e il governo Netanyahu.

 L'incidente del 2010
  Clamorosi errori tecnico-militari dei fanti di marina di Israele nel condurre l'attacco alla Freedom Flotilla hanno suggellato la rottura tra i due Paesi.
Più volte, Netanyahu ha cercato di ricomporre i suoi rapporti con Ankara (in un caso, l'accordo già raggiunto fu boicottato da Avigdor Liebermann), ma oggi ha tutte le chance per riprovarci.
Alle sostanziose motivazioni geopolitiche e militari esposte finora se ne aggiunge infatti una decisiva: l'energia.
I due immensi giacimenti metaniferi che Israele (con la collaborazione anche dell'Eni) ha individuato e si accinge a sfruttare al largo di Cipro delineano infatti una ipotesi obbligata di integrazione tra le economie turca e israeliana di lungo periodo.

 La mediazione del sultano
  Erdogan, che inizialmente aveva mandato la flotta, ha preso rapidamente atto di non potere ottenere nulla in modo aggressivo e ha aperto un complesso tavolo a più piani di trattative. Addirittura ha favorito e sta favorendo la pacificazione tra le due Cipro.
In questo contesto complesso e articolato si colloca, in posizione di baricentro, l'accordo in fieri che chiuda l'affaire Mavi Marmara.
Un great game Mediterraneo di immenso rilievo.

(Lettera43, 14 aprile 2016)


La Bibbia, quando fu scritta? Una nuova scoperta

 
  Frammenti di ceramica ritrovati nel deserto
TEL AVIV - La Bibbia, o parte di essa, potrebbe essere stata scritta molto prima di quanto sinora ritenuto. La scoperta si deve ad antichi frammenti di ceramica ritrovati nel deserto e analizzati da un team di archeologi e matematici dell'Università di Tel Aviv. Il dibattito è antico: quando fu scritta la Bibbia? Prima o dopo l'assedio di Babilonia e la distruzione di Gerusalemme nel 586 a.C? La maggior parte degli studiosi ritiene che le sacre scritture risalgano al VI secolo a. C. durante l'esilio babilonese e dopo la distruzione del Primo Tempio. Ma secondo i ricercatori di Tel Aviv la maggior parte dei testi sarebbe addirittura antecedente. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
  Gli studiosi israeliani si sono avvalsi di sofisticati software di analisi della scrittura, simili a quelli impiegati dai servizi segreti e dalle banche per verificare la validità delle firme. Nello specifico sotto la lente dei ricercatori sono finiti antichi frammenti di una ceramica, detta ostraca, ritrovati nel deserto del Negev. Su di essi sono incise diverse lettere in ebraico antico che parlano di ordini militari e liste di scorte. Per gli studiosi non è rilevante il contenuto di quei testi, che non sono tratti dalle Sacre Scritture, bensì il fatto che siano state iscritte da almeno sei autori diversi appartenenti ad ogni ordine e grado sociale. Circostanza che, a detta dei ricercatori, proverebbe che l'alfabetizzazione fosse già ampiamente diffusa durante il Regno di Giuda (937-587 a.C.) Il fatto che l'intero apparato militare, dal soldato semplice all'ufficiale, fosse in grado di leggere e scrivere dimostra secondo gli scienziati che deve esserci stato un alto grado di scolarizzazione già al tempo del Primo Tempio. E cioè prima del 586 a.C.
  Grazie alle moderne e sofisticate tecniche di interpretazione della scrittura, i ricercatori dell'Università di Tel Aviv potrebbero aver scoperto che la datazione della Bibbia è antecedente di qualche decennio rispetto a quanto si è ritenuto fino ad ora. La maggior parte degli studiosi ritiene che i testi biblici siano stati scritti nel corso del VI secolo a.C., durante l'esilio babilonese, dopo la distruzione del Primo Tempio. Ma le tecniche all'avanguardia stanno gettando una nuova luce su delle scoperte avvenute negli anni '60. Nello specifico si tratta di un'antica ceramica, detta anche ostraca, ritrovata nel deserto del Negev, su cui erano iscritte diverse lettere in ebraico antico che raccontavano di ordini militari e liste di scorte. Quello che c'è scritto sui frammenti è poco importante, ciò che conta è il fatto che queste iscrizioni, paragonate ad altre, sembrano eseguite da almeno sei diversi autori provenienti da altrettanti distinti ceti sociali, a riprova che l'alfabetizzazione era già ampiamente diffusa durante il regno di Giuda (ca 933-587 a.C).

(blitz quotidiano, 13 aprile 2016)


Un musulmano nominato vice capo della polizia di Israele

GERUSALEMME - La polizia israeliana avra' il suo primo vice capo arabo-musulmano. Il generale di divisione Jamal Hakrush, proveniente dalla citta' araba di Kfar Kanna nella Galilea, e' stato nominato per promuovere gli sforzi dell'unita' volta a contrastare il crimine nella comunita' araba d'Israele. Hakrush si e' arruolato nel 1978 e da allora ha salito i gradini della scala gerarchica fino a raggiungere la seconda carica piu' alta in grado nella polizia. Gli arabo-israeliani, pari al 17,5% della popolazione totale dello Stato ebraico, puntano il dito contro le discriminazioni di cui sono vittime, in particolare riguardo all'occupazione e agli alloggi.

(la Repubblica, 13 aprile 2016)


Molte diverse Israele

di Enzo Campitelli

 
 
 
 
 
 
Pochi giorni fa il Pew Research Center ha reso pubblici i risultati di una ampia indagine condotta in Israele sul tema dei valori politici e del ruolo della religione nella vita pubblica e civile. La ricerca mostra l'esistenza di divergenze profonde, a 'volte vere fratture, non solo fra ebrei e arabi, ma fra i gruppi corrispondenti alle diverse modalità di identificazione ebraica. Si tratta di una rilevazione che ha utilizzato 5.601 interviste face-to-face con cittadini israeliani di età superiore ai 18 anni, condotte fra l'ottobre del 2014 ed il maggio del 2015. Il campione, multi-stadio stratificato, include 3.789 Ebrei, 871 Musulmani, 468 Cristiani, 439 Drusi e 34 persone di altra religione o senza appartenenza religiosa. Rispetto alla quota strettamente proporzionale, cinque gruppi (Ebrei della West Bank, Haredim, Arabi Cristiani, Arabi di Gerusalemme Est e Drusi) sono stati alquanto sovrarappresentati per consentire inferenze statistiche valide. Il margine di errore, variabile in relazione ai sottogruppi, è pari al 2.9% per gli ebrei intervistati.
  Gli ebrei intervistati si identificano, praticamente senza eccezione, in una delle quattro aree rappresentate nei grafici. I haredim (convenzionalmente tradotto come "ultra-ortodossi'') costituiscono il 9% degli ebrei e 1'8% degli israeliani adulti; i Datim (''religiosi'') il 13% degli ebrei ed il 10% degli israeliani adulti; i Masortim (da masoret, tradizione), rispettivamente il 29% ed il 23%, mentre gli Hilonim (''laici'') il 49% degli ebrei ed il 40% degli Israeliani adulti. Il rapporto quantitativo fra questi gruppi è peraltro andato mutando nel tempo. Il confronto con i dati del 2002 mostra infatti un incremento percentuale di Haredim e Datim, una sensibile flessione dei Masortim ed una sostanziale stabilità del fronte "laico" L'autoriconoscimento in una di queste aree è associata a differenze di atteggiamento e di opinione spesso molto marcate, tanto rispetto a questioni generali del rapporto fra halakha e principi democratici, quanto ai terni connessi al conflitto palestinese che, infine, a problemi molto concreti della vita civile, come le norme relative al rnatrimonio e al divorzio, al servizio militare e alla conversione, o alla circolazione dei mezzi pubblici di Shabbat. Se altre variabili di carattere sociodemografico e culturale giocano un certo ruolo nel differenziare atteggiamenti e opinioni, la loro influenza sembra assai spesso soverchiata da questa pregiudiziale scelta di campo, che restituisce l'immagine - non nuova ma in questa circostanza particolarmente evidente - di un Paese per molti e profondi aspetti diviso in blocchi separati e dalla scarsa comunicazione reciproca, per il quale la ricerca ed il consolidamento di una posizione il più possibile allargata e comprensiva si pone con grave urgenza. Non è evidentemente possibile analizzare in modo dettagliato la grande quantità di informazioni che la ricerca comprende, ma qualche esempio può risultare significativo. Così, per quanto riguarda la relazione fra vita democratica e Halakha, davanti all'ipotesi di una divergenza fra le due fonti normative, l'89% di chi si riconosce nell'area Hiloni sostiene la prevalenza della prima rispetto alla norma religiosa, laddove l'esatto contrario si registra per i Haredim. La quota proporzionalmente consistente di mancate risposte, che varia anch'essa sensibilmente nei diversi gruppi, mostra inoltre il differenziale di difficoltà che il tema pone all'interno di ciascun gruppo.
  Con riferimento invece al conflitto palestinese, l'indagine mostra una sensibile divaricazione in ordine a molti temi collegati al problema e al giudizio su possibilità e modalità del raggiungimento di una pace stabile. L'indagine chiedeva agli intervistati di indicare il proprio grado di accordo/ disaccordo rispetto ali' affermazione "Gli arabi dovrebbero essere espulsi o trasferiti da Israele" (l'opinione poteva essere espressa mediante una gradazione in 4 punti: del tutto d'accordo, d'accordo, in disaccordo, de tutto in disaccordo).
  Nel complesso gli intervistati si dividono in due gruppi di consistenza quasi uguale, in cui l'accordo raggiunge il 48% e il disaccordo il 46% (il restante 6% non sa, o non risponde). Se in questo caso l'autocollocazione politica mostra una capacita discriminante maggiore che non quella religiosa, gli schieramenti risultano in entrambi i casi molto divaricati.
  Va osservato che il massimo grado di accordo si riscontra questa volta nel gruppo dei Datim (71%), che supera nettamente i Haredim (59%), indice forse di un atteggiamento complessivo nei confronti dello Stato. Con riferimento invece alle divergenze sui temi della sfera civile, il grafico qui a destra mostra gli andamenti rilevati rispetto a due temi specifici, oggetto di dibattito acceso, ma gli esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati. Quanto alla scarsa comunicazione reciproca è forse sufficiente ricordare che ben pochi, in particolare fra Haredim e Hilonim, dichiarano di avere amicizie significative al di fuori delle rispettive cerchie di riferimento, mentre la possibilità di matrimoni incrociati è certamente assai scarsa: il 95% degli Hilonim ed il 93% degli Haredim, rispettivamente, affermano che non vedrebbero favorevolmente il matrimonio di un proprio figlio/ a con un partner della parte "avversa". In questo frammentato contesto è certamente prevedibile il fatto che, per quanto molti elementi concorrano naturalmente alla definizione della propria identità ebraica, i profili che emergono a questo riguardo siano altrettanto nettamente differenziati. Poiché si tratta di un tema che Pagine Ebraiche ha trattato più volte, è interessante soffermarvisi in modo specifico.
  Agli intervistati è stato chiesto di specificare se il loro essere ebrei fosse prevalentemente una questione di religione (matter of religion) di ascendenza familiare e di cultura (ancestry/culture), o complessivamente di questi tre elementi (religion, and ancestry/culture). Risulta che una identificazione in termini prettamente religiosi riguarda complessivamente il 22% degli intervistati ( con oscillazioni che vanno dal 70% per i Haredim al 4% degli Hilonim), mentre l'identificazione soprattutto familiare-culturale è citata dalla maggioranza (55%) degli intervistati (e dall'83% degli Hilonim). La congiunzione dei tre codici è infine citata da circa un quarto degli intervistati (23%).
  Si tratta di un risultato sostanzialmente convergente con quanto emerso in altre indagini (Italia, 2012; Stati Uniti nel 2013, Regno Unito, 2014). Negli Stati Uniti, in particolare, l'indagine condotta dal Pew Research Center nel 2013 con il medesimo modello di rilevazione, aveva indicato per l'identificazione religiosa un'incidenza pari al 15% intervistati, una più ampia quota di identificazione familiare-culturale (62%) e una identica rilevanza (23%) della terza soluzione. In Israele l'identificazione strettamente religiosa è dunque non sorprendentemente più ricorrente di quanto non si riscontri negli altri Paesi, ma anche in questo caso sembra comunque prevalere una auto-rappresentazione identitaria di tipo tendenzialmente antropologico, e a ciò si aggiunge una certa flessione rispetto all'osservanza religiosa. Differenze significative emergono anche per quanto riguarda altre forme di identificazione.
  Nel complesso il 46% degli intervistati rappresentano se stessi innanzitutto come ebrei" ed il 35% "innanzitutto come Israeliani", mentre un quinto del campione rivendica altre immagini di sé o comunque non risponde alla domanda: l'80% degli Hilonim, in ogni caso, preferisce l'identificazione "nazionale", mentre il 91% degli Haredim quella religiosa.
  Il rapporto fra religione e sfera civile, i problemi politici, il conflitto palestinese con le connesse questioni internazionali - e in particolare la politica degli Stati Uniti - sono argomenti trattati con molta attenzione dall'indagine, che registra una preoccupazione palpabile da parte degli intervistati, sia pure con una ricorrente diversità di accenti. Evidente è anche la denuncia di un incremento generalizzato dell'antisemitismo, segnalato dal 76% degli intervistati, questa volta senza apprezzabili differenze fra i diversi orientamenti identitari. Una sostanziale unanimità si riscontra infine su un tema cruciale e di importanza non solo simbolica. Nonostante ogni difficoltà, Israele continua ad essere la casa comune: il 98-99% di tutti gli ebrei intervistati - religiosi e no, immigrati o nati nel Paese, giovani e vecchi - ribadisce il diritto di ogni ebreo all'accoglienza e alla cittadinanza in Israele.

(Pagine Ebraiche, 13 aprile 2016)


"Non toccatemi Israele"

Questo, in estrema sintesi, l'atteggiamento degli adolescenti israeliani intervistati in un recente sondaggio.

Secondo un recente sondaggio condotto da New Wave Research per conto del supplemento politico settimanale di Israel HaYom, gli adolescenti israeliani hanno opinioni politiche molto nette e tendenzialmente molto patriottiche.
Il sondaggio, condotto fra il 27 e il 30 marzo scorsi su un campione rappresentativo di studenti ebrei degli ultimi anni delle scuole superiori, ha posto agli intervistati una varietà di domande, comprese alcune di stretta attualità.
Circa l'85% degli intervistati ha detto di amare Israele, e l'89% ha detto di vedere il proprio futuro all'interno del paese.
La popolarità della Forze di Difesa israeliane emerge confermata, con l'88% dei giovani che dice di volersi arruolare, mentre più del 50% si dice convinto che quello israeliano è l'esercito più morale. Circa il 65% approva la celebre frase oraziana "è bello morire per il proprio paese", pronunciata in punto di morte dall'eroe sionista Joseph Trumpeldor, ucciso nel 1920 mentre difendeva da un attacco arabo una fattoria ebraica a Tel Hai, nel nord della Galilea....

(israele.net, 13 aprile 2016)


La modella fa il militare

Nibar Madar è una giovane indossatrice che vive in Israele dove svolge il servizio di leva obbligatorio. Bionda, occhi verdi e viso da bambina, sembra essere, per molti, la naturale erede di Bar Refaeli.

Nibar Madar
Bionda, occhi verdi, pelle leggermente ambrata, viso da bambolina e fisico invidiabile. Si chiama Nibar Madar ed è la giovane israeliana che sembra essere, per molti, la naturale erede di Bar Refaeli, sua conterranea, 'costretta' dalla gravidanza (è al quinto mese) a farsi da parte per un po'.

 Una bellezza fresca e sana
Nibar, non è il genere di ragazza 'da passerella' (troppo formosa per gli standard 'cari' al mondo della moda), ma una bellezza fresca e sana, come piace a molti. Una silhouette scolpita e sensuale che mantiene grazie a un quotidiano esercizio fisico.

 Nell'esercito per parlare ai giovani
Ha appena 20 anni, e come tutte le giovani del suo Paese ha l'obbligo di fare due anni di servizio militare: «In questo momento ho la responsabilità di parlare ai giovani dell'esercito. Ogni giorno vado in giro per le città e per le scuole per rispondere a tutte le domande», ha detto a Le Figaro. E quando il suo agente ha ottenuto un servizio fotografico per il quotidiano francese, la ragazza ha dovuto, per spostarsi, chiedere un permesso 'eccezionale'.

(Elle, 13 aprile 2016)


Investire in Iran, più azzardo che opportunità

di Alberto Battaglia

ROMA - "Molte aziende italiane giocheranno un ruolo cruciale nel rilancio dell'economia iraniana", annuncia il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, durante la sua visita al partner geopolitico nell'area Mediorientale. Per molto tempo si è parlato delle opportunità che potrebbero aprirsi per le imprese italiane con la rimozione di alcune sanzioni su Teheran. Ma, allo stesso tempo andrebbero considerati i forti rischi che permangono nel porre in essere investimenti in Paese che si è spesso rivelato imprevedibile.
Lo scorso gennaio sono stati firmati a Roma i memorandum d'intesa tra le aziende italiane e quelle locali: si tratta di accordi da 17 miliardi di euro di valore complessivo che potrebbero trasformarsi in veri e propri contratti. Ma, fra i progetti concordati in tale occasione, come il gasdotto di Saipem (del valore di 4,5 miliardi di euro) le infrastrutture del Gruppo Gavio (4 miliardi) o gli impianti siderurgici Danieli, nessuno è ancora stato avviato. Come già evidenziato da La Repubblica, i fattori di rischio legati agli affari in Iran restano ancora altissimi.
A fornire un monito molto forte a Matteo Renzi sulle implicazioni negative del ritorno agli affari con Teheran è un comunicato dell'associazione United Against Nuclear Iran, che, in merito, parla apertamente di "una grossa scommessa" che "potrebbe trasformarsi in un azzardo disastroso, dati gli enormi rischi finanziari, legali e reputazionali" che potrebbero derivare dal ritorno in Iran. L'associazione presieduta dal senatore americano Joe Lieberman scrive:
“Data la contrarietà dell'Iran nel cambiare il suo comportamento scorretto, il premier Matteo Renzi dovrebbe concentrare i suoi sforzi nel premere su Teheran affinché interrompa le sue attività di destabilizzazione, piuttosto che premiare prematuramente il regime con profittevoli opportunità di business".

(Wall Street Italia, 13 aprile 2016)


Israele e India: Cooperazione per la gestione idrica

 
Come dichiarato dall'Ambasciatore israeliano in India Daniel Carmon, dopo l'agricoltura e la difesa, Israele è pronto a collaborare con l'India nel settore della gestione delle acque.
In India esistono già storie di successo ma il potenziale è così grande, così come l'interesse da parte di entrambi i paesi, che vogliono fare di più.
Già nel mese di ottobre scorso, durante la visita in Israele del Presidente Pranab Mukherjee, il premier Benjamin Netanyahu si era offerto di condividere le competenze del suo paese nei settori della gestione delle acque, il riciclaggio delle acque reflue, la desalinizzazione e l'irrigazione.
Israele è diventato leader mondiale nella gestione delle acque proprio a causa dell'ormai famosa siccità e ad oggi rappresenta un meraviglioso esempio di come una terra arida possa essere trasformata in un'oasi.
L'Ambasciatore Carmon ha anche sottolineato come nel corso degli anni Israele abbia sviluppato laboratori di ricerca e sviluppo in cui hanno dato vita a tecnologie straordinarie:

L'acqua è sicuramente un settore in cui abbiamo sviluppato tante nuove tecnologie

Israele vorrebbe condividere la sua esperienza con l'India e vorrebbe incoraggiare le aziende israeliane a lavorare in India proprio nei settori idrici.
Per esempio, in India ci sono otto impianti di tecnologia israeliana per la desalinizzazione delle acque, ma come sottolineato da Carmon, otto impianti non sono sufficienti. Grazie a questa collaborazione ne potrebbero avere addirittura ottocento.

(SiliconWadi, 13 aprile 2016)


Sondaggio in Israele: giovani sempre più di destra

GERUSALEMME - I giovani israeliani sono sempre più di destra. Lo rivela un sondaggio condotto dall'Istituto new wave commissionato da Israel Hayom per capire le tendenze politiche in atto nel paese. Dalla rilevazione statistica emerge che i giovani israeliani sono sempre più vicini alle idee politiche della destra, sioniste e nazionaliste. Il 59 per cento dei giovani intervistati si definisce di destra, il 23 per cento di centro e solo il 13 per cento di sinistra; il restante 5 per cento ha detto di non avere alcuna posizione politica. Secondo l'82 per cento degli intervistati non c'è alcuna possibilità di raggiungere un accordo di qualsivoglia tipo con i palestinesi: un dato, questo, che sottolinea la disillusione da parte dei giovani israeliani nei confronti del processo di pace. In merito a una domanda sulla necessità che gli arabi siano rappresentati nella Knesset, il parlamento israeliano, il 48 per cento degli intervisti ha detto di non vederne la necessità, a fronte del 52 per cento che invece ritiene necessaria una loro rappresentanza parlamentare.

(Agenzia Nova, 13 aprile 2016)


Il Labour inglese ha un problema con gli ebrei

di Giulio Meotti

L'ex arcivescovo di Canterbury Lord Carey ha avvertito Jeremy Corbyn che non potrà governare se non sradica l'antisemitismo dal suo partito laburista
Ci è voluto un ex Arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, per ricordare a Jeremy Corbyn che non potrà mai governare la Gran Bretagna se non eliminerà prima l'antisemitismo nel suo Partito Laburista. La scoperta dei commenti di Aysegul Gürbüz è l'ultimo di una serie di scandali antisemiti che hanno colpito il Labour. La politica laburista accusata di aver definito Adolf Hitler il "più grande uomo della storia" e di sperare che l'Iran avrebbe usato un'arma nucleare per "cancellare Israele dalla carta geografica". La Gurbuz, musulmana, è l'assessore più giovane di Luton, quando l'anno scorso è stata eletta nell'High Town.
Caso simile quello dell'assessore Khadim Hussain, ex sindaco di Bradford, che su Facebook ha scritto: "Nelle scuole si parla solo di Anne Frank e dei sei milioni di sionisti uccisi da Hitler". L'ex arcivescovo Carey ha detto che il disprezzo per gli ebrei persiste negli "angoli bui" dell'Inghilterra, fra i ranghi Laburisti e nelle aule delle più prestigiose università. Sajid Javid, ministro inglese delle Attività produttive, ha puntato il dito contro "le cene antisemite", un fenomeno tipico dei "dinner parties" nei quartieri benestanti di Londra, animate da "persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo sono molto felici di ripetere calunnie sugli ebrei". Persone che in gran parte votano Labour.

(Il Foglio, 13 aprile 2016)


Israele e banche: misure più semplici per i cittadini

Il Governo Israeliano ha tra i suoi obiettivi di politica economica una semplificazione della burocrazia e dei controlli per permettere ai cittadini di ottenere beni e servizi di qualita' migliore e a prezzi piu' vantaggiosi. Il settore delle banche e' uno di quelli che, piu' di altri, e' testimone di scarsa competizione e oliogopolio di fatto.
E' questa la premessa alla base dell'azione riformatrice dell'Ufficio del Banks Supervisor presso la Banca Centrale di Israele. Tra le prime misure da implementare vi sono la seprazione fra banche e societa' di carte di credito, cosi' come procedure piu' spedite per ricevere una prima autorizzazione ad operare da parte della Banca Centrale d'Israele - in tre mesi al massimo - per poi ottenere una licenza piena a conclusione di tutte le operazioni di controllo. Si auspica, inoltre, una cooperazione tra banche per tutto quelli che sono i costi di gestione legati all'attivita' informatica che rappresentano un'opportunita' di investimenti, risparmi e al tempo stesso ostacoli all'entrata sul mercato di nuove societa'.

(Tribuna Economica, 13 aprile 2016)


Un quid ebraico fece la differenza nello sviluppo dell'Europa preindustriale

Studio degli economisti della George Mason University

di Marco Valerio Lo Prete

ROMA - Sostenne il filosofo Karl Popper, nel suo libro "La società aperta e i suoi nemici" del 1945, che "forse la causa più potente di dissoluzione della società chiusa fu lo sviluppo delle comunicazioni marittime e del commercio. L'intimo contatto con altre tribù è destinato a minare il senso di necessità col quale vengono considerate le istituzioni tribali; e il commercio, l'iniziativa commerciale, risulta essere una delle poche forme in cui può affermarsi l'iniziativa e l'indipendenza individuale, anche in una società nella quale prevale il tribalismo". Questo dunque a proposito del passaggio da una "società chiusa" a una "aperta". Dopodiché, prendendo in considerazione le sole società aperte europee, il loro grado di apertura nel corso della storia è aumentato più rapidamente proprio li dove c'è stato maggiore sviluppo "delle comunicazioni marittime e del commercio", associato spesso con una maggiore presenza di cittadini di fede ebraica. E' una delle principali conclusioni di uno studio appena pubblicato da due economisti della George Mason University, Noel D. Johnson e Mark Koyama, intitolato "Jewish Communities and City Growth in Preindustrial Europe".
   I due accademici dell'ateneo della Virginia - in cui insegnò a lungo James Buchanan e che ha appena dedicato la propria facoltà di Giurisprudenza al giurista conservatore Antonin Scalia - hanno attinto alla Encyclopedia Judaica e agli studi di Paul Bairoch per costruire "un database delle città europee con abitanti di fede ebraica, e del loro tasso di crescita economica nel periodo che va dal 1100 al 1850".
   Prima conclusione: "La presenza di una comunità ebraica in una città dell'Europa pre Rivoluzione industriale è associata a una crescita più rapida del 5-10 per cento rispetto a una città simile ma priva di comunità ebraiche". Inoltre Johnson e Koyama, attingendo a studi variegati core quelli di Max Weber, Werner Sombart e altri, esaminano tre ipotesi per spiegare l'effetto positivo delle comunità ebraiche sulla crescita. La prima ipotesi è quella del "meccanismo del capitale umano". con la sua enfasi sull'alto tasso di alfabetizzazione connaturato al giudaismo rabbinico.
   Una seconda ipotesi esplicativa è quella del "meccanismo della trasmissione culturale", secondo cui la fede ebraica sarebbe in qualche modo consona con l'ethos commerciale. Tuttavia l'ipotesi che gli economisti della George Mason University reputano più congeniale ai dati raccolti e alla fase storica della cosiddetta "economia smithiana" - antecedente all'economia schumpeteriana" delle macchine e degli imprenditori - è quella del "meccanismo di integrazione del mercato". Si legge nello studio: "Le comunità ebraiche in Europa costituivano solo una piccola percentuale della popolazione del continente, ma erano coinvolte in maniera sproporzionatamente maggiore delle altre comunità nel commercio e negli scambi; ciò era dovuto, in gran parte, ai propri legami culturali, linguistici e religiosi che attraversavano il continente. (...) Perciò ci sono robuste ragioni per ipotizzare che un canale attraverso cui la presenza degli ebrei ha recato beneficio economico alle città sia stato quello che passava per i network commerciali". Ad Amsterdam la comunita ebraica oscillò tra il 2,5 per cento della popolazione nel 1674 e il 10 per cento (22.000 persone) nel 1795, divenendo protagonista - in virtù di origini e legami transnazionali - del commercio atlantico di zucchero, tabacco, diamanti e non solo.
   Celebri a questo proposito gli studi di Francesca Trivellato, storica italiana oggi all'Università di Yale, che qualche anno fa esaminò le circa 14.000 lettere spedite e ricevute da due soli commercianti ebrei sefarditi di Livorno, con destinatari sparsi tra Amsterdam, Londra, Aleppo, Marsiglia, Lisbona, Venezia, Genova e Firenze. L'effetto propulsivo delle comunità ebraiche sulla crescita delle città - concludono Johnson e Koyama - è statisticamente osservabile solo a partire dal 1600, cioè da quando la repressione politico-religiosa verso le minoranze iniziò a scemare. Sembra un monito per l'Europa di oggi, nella quale torna a rafforzarsi l'antisemitismo e dalla quale fuggono cittadini di fede ebraica.

(Il Foglio, 13 aprile 2016)


Hamas e Fatah, risiko palestinese

Intervista a Ely Karmon: "Non si sono messi d'accordo neanche per un miliardo di dollari"

 
Muhammad Dahlan e Mahmud Abbas
In Medio Oriente le cose non sono mai come sembrano. Le alleanze, anche quelle più salde, durano quanto serve, in genere il meno possibile. Gli accordi tra Stati e organizzazioni si fanno per lo più sotto banco, lontani dai riflettori. Quasi sempre sono frutto di trattative tenute segrete fino all'ultimo istante. E così se Hamas e Fatah dialogano nel tentativo di costruire l'ennesimo Governo di unità nazionale, qualcosa d'altro sta sicuramente avvenendo sotto la superficie.
  Tra scontri interni e lotte di potere, Mahmud Abbas, leader di Fatah, nonché Presidente dell'Anp (Autorità Nazionale Palestinese), ha altri problemi oltre a quelli con Hamas. Uno di questi è Muhammad Dahlan. Ex leader di Fatah a Gaza, oggi Dahlan, dal suo esilio dorato, negli Emirati Arabi Uniti, ha creato una corrente alternativa all'interno del partito di Abbas, una corrente che si definisce democratica riformista e minaccia direttamente la leadership del Presidente ottuagenario all'interno dell'Anp. Con un aggravante: Dahlan adesso sembra andare d'accordo con Hamas a Gaza. In caso di elezioni, avrebbe facilità a ottenere un ottimo risultato tanto a Gaza quanto in Cisgiordania.
  Anche Hamas ha i suoi problemi: da quando nel 2011 è scoppiata la guerra civile siriana i suoi leader politici, che prima erano protetti da Damasco, hanno dovuto prendere altre strade. Alcuni si sono rifugiati a Doha, in Qatar, altri sono finiti in Turchia. E qui è sorto un problema: la Turchia è in trattativa per riallacciare i rapporti con Israele, che tra le condizioni per il dialogo, ha chiesto al Presidente Erdo?an di espellere gli uomini di Hamas. L'Egitto segue una linea vicina a quella di Israele: all'inizio di marzo il Presidente Al Sissi ha puntato il dito contro i leader di Hamas in Turchia e ha dichiarato che le operazioni per l'assassinio del procuratore capo Hisham Barakat, ucciso al Cairo lo scorso giugno, portano proprio agli uomini di Hamas protetti dal Paese di Erdo?an.
  In Israele non si parla un granché delle trattative tra Hamas e Fatah, che dovrebbero culminare questo mese con un incontro al vertice a Doha tra Abbas e Khaled Mishal, leader politico del movimento islamico. Ely Karmon, analista e docente all'International Institute for Counter-Terrorism di Herzilya, in Israele, è convinto che gli accordi tra Hamas e Fatah siano destinati a fallire.
  "Se nel 2007 è saltato anche l'accordo tra Hamas e Fatah alla Mecca, in cambio del quale l'Arabia Saudita aveva promesso un miliardo di dollari, è difficile che tra le due fazioni palestinesi si possa giungere a qualcosa di concreto oggi. Nel giugno 2007 Hamas ha messo in atto un colpo di Stato militare contro l'Anp e ha ucciso circa 200 uomini della sicurezza di Fatah, prendendo il controllo di Gaza".
  Karmon ricorda quello che accadde anche nel 2014, poco dopo la firma per il Governo di unità nazionale tra le due organizzazioni.
  "Qualche mese dopo la firma dell'accordo tra Hamas e Fatah, in Cisgiordania furono rapiti i tre ragazzi israeliani. L'operazione, che fu organizzata dai leader di Hamas in Turchia, portò all'operazione israeliana Margine di protezione a Gaza. Hamas ha tentato più volte di preparare un colpo di Stato contro Abbas cercando di militarizzare la situazione".

- Nel corso delle trattative di questi giorni pare che Hamas e Fatah abbiano raggiunto un accordo per indire elezioni palestinesi entro sei mesi. Le risulta?
  "L'accordo per le elezioni sarà difficile. Abbas non le vuole perché sa che le perderebbe non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Hamas non le vuole perché dopo le elezioni dovrebbe cedere all'Anp il controllo di Gaza".

- Quali sono gli ostacoli che dividono Fatah e Hamas?
  "Hamas non vuole cedere il controllo di Gaza all'Anp. E Fatah non vuole prendersi carico della ricostruzione di Gaza e del pagamento degli stipendi dei funzionari nominati da Hamas nella Striscia e mai riconosciuti dall'Anp. In più, c'è la questione della gestione dei valichi di confine a Gaza: nessuna delle due fazioni vuole cedere, perché controllarli significa avere la sovranità sul territorio."

- Nel mese di marzo gli attacchi 'individuali' di palestinesi in Cisgiordania sono diminuiti. C'è una correlazione con il fatto che Hamas ha aperto trattative con l'Egitto di Al Sissi?
  Sì."Al Sissi ha chiesto ad Hamas di cessare il supporto agli jihadisti in Sinai, di smettere di finanziare il terrorismo al Cairo e di dissociarsi dalla Fratellanza Musulmana in Egitto. Ha anche chiesto ad Hamas di lasciare il controllo del valico di Rafah nelle mani di Fatah. Hamas ha risposto positivamente alle richieste egiziane, prendendo le distanze dalla Fratellanza Musulmana. È stato uno dei portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, a rispondere direttamente alla richiesta di Al Sissi. Il 22 marzo nel corso di un'intervista con Al-Arabya ha dichiarato che Hamas è affiliata alla Fratellanza Musulmana solo ideologicamente, non dal punto di vista politico e operativo. Tutto il contrario di quanto Hamas affermava qualche anno fa. Abu Zuhri ha sottolineato che il movimento islamico ha come primo obiettivo la lotta contro Israele e non ha nessun interesse a interferire negli affari interni dell'Egitto."

- È possibile che Dahlan, che è molto vicino al presidente Al Sissi, possa aver avuto un ruolo in queste trattative tra Egitto e Hamas?
  "Non lo so. Dahlan è molto attivo ed è nemico di Abbas. Riceve grande supporto dagli Emirati Arabi Uniti, è vicino all'Egitto ed è molto forte a Gaza. È ben visto anche dall'Arabia Saudita perché è da sempre un nemico giurato della Fratellanza Musulmana. Dahlan sta acquisendo un grande potere nella regione."
  Il Presidente Abbas in questo momento forse teme più Dahlan che i leader di Hamas. Quando nel 2011 Abbas lo ha cacciato da Fatah, molti leader dell'organizzazione hanno seguito volontariamente Dahlan. La sua corrente, fuori e dentro Fatah, è sempre più forte e conta appoggi regionali ormai vastissimi.

(L'Indro, aprile 2016)


La lettera aperta di Alon Ben-Meir alla leadership palestinese

Il professore della New York University non risparmia al leader di Hamas e al primo ministro aspre critiche, e incoraggia il presidente Abbas a non arrendersi.

Cari presidente Abbas, signor Meshal e primo ministro Haniyeh,
vi scrivo questa lettera aperta perché credo sia ora che guardiate alla penosa realtà che la vostra gente vive da quasi settant'anni, e in particolare dal 1967. È ora che riconsideriate le vostre posizioni, che troviate il coraggio di cambiare rotta, e che ridiate ai palestinesi, giovani e vecchi, la speranza di un futuro migliore e più promettente.
Dato che il presidente Abbas, rinunciando alla violenza e riconoscendo Israele, ha scelto la convivenza pacifica da ormai dieci anni, voglio rivolgermi prima di tutto al signor Meshal e al signor Haniyeh.
Quasi tutti i palestinesi desiderano vivere in pace con Israele perché sanno nel profondo che non hanno
Voi parlate a nome della vostra gente, ma ascoltate davvero le loro grida disperate? Sentite il loro dolore? Sperimentate mai le loro condizioni di vita? Avete idea della loro disperazione?
altra scelta. Troppo spesso hanno sperimentato le terribili conseguenze degli scontri violenti con Israele, di ogni nuovo scoppio di ostilità.
Voi parlate a nome della vostra gente, ma ascoltate davvero le loro grida disperate? Sentite il loro dolore? Sperimentate mai le loro condizioni di vita? Avete idea della loro disperazione? Se così fosse, non avreste permesso che anche un solo palestinese soffrisse impotente un giorno di più.
Sfortunatamente, avete scelto di conservare lo status quo perché, forse, esso legittima il vostro potere benché sulla pelle dei palestinesi, il cui sogno è semplicemente di vivere nella pace e nella dignità. Pace e dignità che voi negate loro per le vostre illusioni e la perpetuazione della sfida nei confronti di Israele.
Avete cinicamente portato avanti senza risolverlo il problema dei rifugiati palestinesi usandoli come pedine, spingendoli a credere che il giorno della salvazione fosse vicino e che avrebbero fatto ritorno alle loro case, pur sapendo che quel giorno non sarebbe mai arrivato.
Avete lasciato che languissero nei campi rifugiati dicendo di proteggere il loro diritto di tornare mentre voi godete del lusso e del comfort per i quali sono i palestinesi a pagare.
State derubando una quarta generazione di uomini e donne di un futuro promettente e di una vita produttiva. Al contrario, li state preparando a morire per una causa che non sarà mai vinta - la sconfitta di Israele - quando è solo la morte ad attenderli tra le ombre dei loro sogni pieni di turbamento.
È ora che abbandoniate questi sogni impossibili sulla distruzione di Israele e pensiate seriamente alle condizioni di molte migliaia di bambini palestinesi che vanno a letto affamati e malati per svegliarsi al mattino chiedendosi perché debbano sopportare un altro giorno di fame e povertà.
Non sentite mai i loro pianti; hanno bisogno di tetti che non gocciolino, di scuole in cui venga insegnato e non predicato, di strutture mediche che guariscano le ferite, di cibo sano che nutra i loro fragili corpi, di
I vostri stessi elettori vi criticano per non aver ricostruito Gaza a quasi due anni dalla guerra con Israele del luglio 2014; le scuole e i tribunali sono spesso chiusi, le fogne scorrono per le strade e ci sono pile di spazzatura ovunque.
acqua pulita per estinguere la loro sete e di un nuovo orizzonte per salvare le speranze che sembrano affievolirsi.
I vostri stessi elettori vi criticano per non aver ricostruito Gaza a quasi due anni dalla guerra con Israele del luglio 2014; le scuole e i tribunali sono spesso chiusi, le strutture mediche hanno le imposte serrate, le fogne scorrono per le strade e ci sono pile di spazzatura ovunque, gli impiegati pubblici restano a casa e le faide politiche sfociano spesso nell'omicidio.
Il recente sciopero degli impiegati pubblici non era contro Israele, e nessuna bandiera israeliana è stata data alle fiamme. Cinquantamila lavoratori di Gaza hanno scioperato perché non riescono ad arrivare alla fine del mese dato che non gli viene pagato lo stipendio dal 2014, ma voi date la colpa a Israele e all'Autorità Palestinese (Ap) per coprire il fatto che siete voi a dilapidare quel denaro.
In tempi di relativa calma, voi indottrinate, addestrate e preparate i giovani a combattere l'ennesima insensata guerra contro Israele, e in tempi di guerra usate donne e bambini come scudi umani, vantandovi del vostro eroismo mentre vivete nascosti per salvarvi la pelle.
Sembrate provare piacere nel governare una massa di gente abbattuta e spogliata di ogni bene. Staranno meglio quando ve ne sarete andati, lasciando indietro il retaggio di leader deliranti che hanno tradito il proprio popolo e sono finiti in disgrazia.

 Discordia politica interna
  Siete politici ipocriti, come un cieco che guida un altro cieco; entrambi avete i vostri schemi personali, e vi circondate di 'Yes men' moralmente corrotti e imbevuti della vostra ideologia distorta che per decenni ha fuorviato ogni palestinese.
Siete affetti da una discordia politica che si abbatte con calunnie lanciate l'un l'altro tra voi e i vostri bracci armati, e vi rifiutate di riconciliarvi con l'Ap, il cui presidente (Abbas) rimane il solo legittimo capo del movimento nazionale palestinese e, de facto, il solo legittimo capo di stato.
Nel caos che attanaglia la vostra leadership, vi spostate da una crisi all'altra, e siete governati dal capriccio mentre cercate di essere l'uno più scaltro dell'altro.
Abbas riconosce il bisogno urgente di riappacificarsi con Israele per dare alla gente nuovi orizzonti e la
Voi dirottate il potente desiderio di pace dell'opinione pubblica per servire la vostra fallimentare agenda politica, sabotando ogni giorno il processo di pace. Oramai dovete prendere atto del fatto che Israele è una realtà.
prospettiva di giorni migliori, ma voi dirottate il potente desiderio di pace dell'opinione pubblica per servire la vostra fallimentare agenda politica, sabotando il processo di pace ogni giorno che passa.
Oramai dovreste sapere che il tempo non vi è amico, dovete prendere atto del fatto che Israele è una realtà e accettare l'importanza di una concliazione con Israele che si basi sulla soluzione dei due stati.
Dovreste abbracciare l'Iniziativa di pace araba (Api), come ha fatto l'Ap. Un'iniziativa che vi consentirebbe di negoziare per la pace senza perdere la faccia. L'Api chiede che venga creato uno stato palestinese entro i confini del 1967 (con alcuni scambi territoriali), che lei, Meshal, ha appoggiato in numerose occasioni.
In base ai negoziati precedenti, ci sono alcuni denominatori comuni importanti nell'Api che sia i palestinesi che gli israeliani condividono, inclusa una soluzione realistica al problema dei rifugiati e allo status che verrà assegnato a Gerusalemme, tale che l'intero mondo arabo-musulmano la sostiene.
Il solo prerequisito che le si richiede è rinunciare all'uso della forza, mettersi d'accordo con l'Ap per tenere libere ed eque elezioni, e lasciare che la gente scelga liberamente chi meglio rappresenta le loro aspirazioni e chi potrà guidarli sul sentiero della pace. Dovrebbe ricordare le parole di Gandhi: "La non-violenza è l'arma dei forti".
Solo questo passo, fatto con convinzione e onestà, convincerà gli israeliani a rivalutare la loro posizione e gli permetterà di capire se lei è davvero pronto a negoziare la pace in buona fede, e di sicuro incoraggerà le potenze occidentale a rimuovere il nome di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

 La vostra politica verso Israele
  Quando Israele è stato creato, si sarebbe potuto creare anche uno stato palestinese. Da allora, Israele è diventato una potenza mondiale formidabile e un leader nel settore della tecnologia, della medicina, delle energie rinnovabili, dello sviluppo agricolo e dell'industria militare, mentre moltissimi palestinesi vivono ancora nei campi rifugiati.
Se non giudichiamo i leader da quello che hanno ottenuto per la loro gente, come spieghereste perché dopo settant'anni così tanti palestinesi vivono ancora nell'indigenza e nella disperazione?
Se gli venissero date opportunità e istruzione, i palestinesi potrebbero raggiungere gli stessi risultati degli israeliani; lavorano duro, sono creativi e pieni di risorse ma, sfortunatamente, sono trascinati alla deriva da leader mediocri e scorretti.
Leader come voi hanno soffocato i loro talenti e gli hanno insegnato a odiare e uccidere anziché insegnarli come costruire un futuro promettente e guidarli verso la vita produttiva che ogni palestinese merita.
Per voi Israele è sempre stato un capro espiatorio comodo - incolpate Israele per le classi spoglie, per la carenza di cliniche mediche, per le strade non asfaltate, per le fogne a cielo aperto, per l'esistenza dei campi profughi, per la mancanza di abitazioni - per tutti i vostri mali.
Che Israele sia responsabile o meno per la sofferenza dei palestinesi, specialmente dei rifugiati, esso dovrà essere coinvolto nella ricerca di una soluzione accettabile per tutti.
Dovrete comunque confrontarvi con l'inevitabile necessità di riconciliarvi con l'esistenza stessa di Israele e cominciare a cambiare le percezioni dei palestinesi offrendo narrative nuove sull'ineludibilità di una coesistenza pacifica, non importa quanto tempo ci vorrà.
Non avete mai compreso la mentalità israeliana rispetto alla sicurezza nazionale, che è radicata in un'esperienza storica terrificante e incomprensibile. È profondamente radicato nei cuori e nelle menti di ogni israeliano che nessun nemico che possa rappresentare un pericolo imminente per l'esistenza di
Nessun potere può forzare la mano di Israele fin quando il paese continuerò ad avere legittime preoccupazioni circa le vostre intenzioni, che cercate stupida- mente di rafforzare con discorsi acrimoniosi infarciti di odio e di minacce esistenziali costanti.
Israele vedrà mai il giorno della sua distruzione.
Nessun potere può forzare la mano di Israele fin quando il paese continuerò ad avere legittime preoccupazioni riguardo la propria sicurezza nazionale - non tanto rispetto alla salvaguardia dei propri confini, ma circa le vostre intenzioni, che cercate stupidamente di rafforzare attraverso i vostri discorsi acrimoniosi infarciti di odio e di minacce esistenziali costanti.
Potete costruire centinaia di tunnel e procurarvi migliaia di razzi. Potete infliggere a Israele danni strutturali e forse numerose vittime e inneggiare alle vostre solite vuote vittorie, ma ormai dovreste sapere a quale prezzo.
Che ciò sia giustificato o meno, nessun paese o coalizione di paesi può costringere Israele a togliere il blocco su Gaza fintanto che negate il suo diritto di esistere, che fortifica solo gli israeliani più estremisti.
Invece, vi rifiutate di rinunciare alla comodità delle vostre illusioni, cosa che mi ricorda quel detto molto saggio che ammonisce: "a volte si piange su un'illusione con altrettanto dolore che sulla morte".
Per prima cosa, dovete riconoscere Israele e accettare gli accordi tra Israele e l'Ap, come vi chiede il Quartetto, ma dovete rinunciare alla violenza come mezzo per ottenere di realizzare l'aspirazione palestinese alla soluzione dei due stati.
Invero, come Martin Luther King Jr ha detto: "La non-violenza è potere, ma è uso buono e giusto del potere". E potrei aggiungere, la non-violenza è l'unica opzione se i palestinesi vogliono vedere realizzato il proprio stato accanto a quello di Israele.
Dovreste sapere che il vostro estremismo sta indebolendo quegli israeliani moderati che cercano la pace, e rafforzando la destra che è contraria alla creazione di uno stato palestinese indipendente.
I sondaggi hanno mostrato che la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi è favorevole alla soluzione dei due stati, ma voi negate loro anche il sogno di vivere in pace, perché la pace renderebbe la vostra ideologia irrilevante.
Nell'atmosfera attuale di dubbio e odio intenso, parole e promesse da sole non saranno sufficienti a meno che non mostriate un cambiamento netto rispetto alla resistenza violenta del passato e cominciate a gettare le fondamenta di uno stato palestinese.
Date dimostrazione di ciò con azioni concrete nei territori sotto il vostro controllo e costruite i pilastri di uno stato indipendente e democratico in modo che tutti li possano vedere. Ogni giorno che vivete ignorando le aspirazioni dei palestinesi è un altro giorno di infamia perché è la gente comune - donne e bambini, vecchi e malati - a pagarne il prezzo.
Anziché costruire tunnel, costruite alloggi per i bisognosi; anziché comprare razzi, procurate mezzi agricoli per i contadini; anziché acquistare armi, investite nelle infrastrutture e nell'occupazione; anziché costruire altre moschee, costruite scuole e istituti d'istruzione superiore; anziché sprecare risorse in una burocrazia ipertrofica, costruite strutture mediche e ospedali; al posto dei sussidi, concentratevi su progetti di sviluppo economico sostenibile; e anziché rendere i palestinesi schiavi, metteteli in grado di godere dei loro diritti e instillate in loro il senso della dignità.
Dovete scegliere se guidarli nella realizzazione del loro destino, o rassegnarvi a essere additati per aver tradito la loro fiducia e aver perso l'ennesima generazione innocente.

 Al signor Abbas
  Diversamente da Haniyeh e Meshal, lei ha mostrato moderazione e pazienza, e un'intenzione genuina di raggiungere la pace con Israele sulla base della soluzione dei due stati, e le pesano addosso le legittime preoccupazioni che derivano da un'occupazione debilitante e che sembra non avere mai fine.
In una recente intervista, lei ha saggiamente condannato la cosiddetta "intifada dei coltelli", comprendendo che l'accoltellamento e l'uccisione di israeliani innocenti mina seriamente la vostra causa e induce tutti gli israeliani a sostenere la decisione del governo di adottare il pugno di ferro, qualunque siano le ragioni che hanno fatto precipitare la situazione.
So bene che la frustrazione e la disperazione palestinesi sfociano in questo tipo di violenza, e so bene che essa è dovuta a un'occupazione senza fine. Tuttavia, l'omicidio a sangue freddo di israeliani non fa che peggiorare la situazione e eclissa le giuste ragioni dietro la rivolta contro l'occupazione.
Anche se i palestinesi godono del rinnovato sostegno politico ed economico della comunità internazionale, essa offre solo un riconoscimento simbolico della Palestina, che è ancora lontana dall'essere uno stato funzionale e indipendente e dall'essere un membro attivo della comunità delle nazioni. Eviterei di adottare
Richiedere il riconoscimento alle Nazioni Unite potrebbe andare a buon fine, ma non sorgerà nessuno stato sostenibile se non dall'accor- do con Israele su una soluzione pacifica e permanente.
le misure che, in un'occasione o nell'altra, avete contemplato.
Richiedere il riconoscimento alle Nazioni Unite potrebbe andare a buon fine, ma non sorgerà nessuno stato sostenibile se non dall'accordo con Israele su una soluzione pacifica e permanente.
Minacciare di interrompere la collaborazione in materia di sicurezza con Israele non fa che sovvertire anni di collaborazione, e la collaborazione è essenziale durante un processo di pace e ancora di più una volta che la pace è stata instaurata, perché offre i mezzi migliori per conservarla e impedire ai radicali di sabotarla.
Dimettersi e smantellare l'Ap non è una soluzione. Anche se toccherà a Israele assumersi gran parte della responsabilità di gestire un altro paese, facendo ciò rischiate di rafforzare quella parte degli israeliani che vorranno annettersi gran parte della Cisgiordania e prevenire la creazione di uno stato palestinese indipendente.
Inoltre, non avete prestato abbastanza attenzione alla disobbedienza civile, che è probabilmente la maniera più efficace di cambiare le dinamiche del conflitto israelo-palestinese. Non c'è momento migliore di ora per abbracciare la non-violenza per sostenere la vostra causa.
La disobbedienza civile - che richiede grande coraggio, pazienza, disciplina e forza interiore - dimostrerà di essere molto più potente di qualsiasi atto violento, se i palestinesi riusciranno a evitare di predicare o ricorrere alla violenza nonostante le intimidazioni, anche se subiscono essi stessi la violenza delle autorità israeliane.
La disobbedienza civile deve assumere la forma di una non-collaborazione collettiva pacifica e allo stesso tempo concentrarsi sullo stato degli affari palestinesi, che non potrà che aggiungere una forte componente morale alla causa.
Come King ha detto: "Un individuo che infrange una legge perché la sua coscienza gli suggerisce che è ingiusta, e che accetta la pena detentiva per sensibilizzare le coscienze della comunità rispetto a questa ingiustizia, sta in realtà esprimendo il più grande rispetto per la legge".
La disobbedienza civile include tattiche come: proteste silenziose di fronte ai checkpoint e lungo le barriere di separazione; manifestazioni pacifiche (specialmente da parte delle donne palestinesi) e marce di solidarietà; occupare luoghi pubblici di interesse strategico.
Altre tattiche includono incatenarsi a oggetti o l'un l'altro, sfidare il coprifuoco, riempire le prigioni israeliane arrendendosi pacificamente alle forze di sicurezza israeliane, e disobbedire alla norma che vieta di sventolare la bandiera palestinese e di bruciare le bandiere israeliane.
Per quanto possa sembrare assurdo, dico che i palestinesi dovrebbero sventolare la bandiera israeliana accanto a quella palestinese per dimostrare a ogni israeliano che i palestinesi accettano l'idea di una coesistenza pacifica in qualsiasi circostanza.
Sono incline a spingermi a suggerire, per quanto possa sembrare assurdo, che i palestinesi dovrebbero sventolare la bandiera israeliana accanto a quella palestinese per dimostrare a ogni israeliano che i palestinesi accettano l'idea di una coesistenza pacifica in qualsiasi circostanza.
Il vostro miglior alleato e sostenitore per mettere fine all'occupazione è infatti l'opinione pubblica israeliana - dovete convincere gli israeliani delle vostre buone intenzioni e reiterare quello che lei ha detto di recente, che vuole "vedere la pace che si realizza mentre sono ancora in vita" e che è pronto a incontrare il primo ministro Netanyahu "in qualsiasi momento".
Signor Abbas, lei hai perseverato a lungo, e se fossi al suo posto continuerei nella mia lotta pacifica e mi concentrerei sulla riconciliazione, prima di tutto chiedendo ai suoi subordinati di moderare le proprie narrative acrimoniose contro Israele. In secondo luogo, insistendo verso un processo di riconciliazione attraverso progetti che mettano in relazione le persone e partire da lì per costruire una soluzione a lungo termine.
Dopo settant'anni, tutti i palestinesi, giovani e vecchi, hanno il diritto a vivere in pace: liberi dalle catene che hanno arrestato la loro crescita; liberi dall'occupazione che gli ha sottratto la libertà; liberi da leader inadeguati che li hanno usati come oggetti; liberi da politici egoisti e sinistri; liberi di vivere una vita produttiva e dignitosa; e liberi di vivere con Israele nella pace e nell'amicizia.
Anche se Israele è diventato un paese leader in molte sfere della vita, ha fallito nell'affrontare il conflitto con i palestinesi, e senza la pace tutti i suoi risultati non godranno di un solo giorno di pace e non avranno futuro.
La leadership palestinese ha scelto di combattere Israele su ogni fronte, privando la propria gente della prospettiva di una vita pacifica e negando l'ineludibile realtà che Israele non scomparirà dalle carte. Sia gli israeliani che i palestinesi devono accettare che i loro destini sono e rimarranno intrecciati e ci vogliono leader coraggiosi, e dotati una visione a lungo termine e di determinazione per condurli verso il loro destino condiviso.
Rispettosamente,
Alon Ben-Meir

(The Post Internazionale, 12 aprile 2016 - trad. Paola Lepori)


Gaza, divampano le proteste per le politiche di Abu Mazen

Tensione nella striscia di Gaza, dopo la decisione di Abu Mazen di tagliare i fondi dell'Olp al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. La formazione comunista, guida le proteste contro il presidente della Palestina. Durante le manifestazioni è stata bruciata la sua immagine. Nelle scorse settimane il gruppo aveva più volte criticato l'operato di Abu Mazen, in particolare per quanto riguarda il coordinamento nella gestione della sicurezza in Cisgiordania.

(LaPresse, 12 aprile 2016)


Dopo Iron Dome, Israele e Usa lavorano insieme a due nuovi sistemi anti-missile

Sono l'Arrow e e il David's Sling (la Fionda di Davide). Nei giorni scorsi una delegazione della Camera Usa, guidata dal presidente Paul Ryan, si è recata in visita nello Stato Ebraico per confermare supporto ai programmi.

ROMA - Israele e gli Stati Uniti stanno lavorando insieme per proteggere lo Stato Ebraico dalle minacce terroristiche, provenienti via terra e dall'aria (il lancio di razzi e missili contro la nazione va avanti ormai da anni). A questo proposito, i due paesi hanno sviluppato il sistema di difesa anti-missile Iron Dome, che sta dando ottimi risultati. Inoltre, sono allo sviluppo due nuovi sistemi di questo tipo: L'Arrow 3 il David's Sling (la Fionda di Davide). Dello stato dell'arte dei due progetti ne ha parlato con i militari israeliani il presidente della Camera dei Rappresentanti Usa, Paul Ryan, in visita nel paese mediorientale insieme a una delegazione composta da Mac Thornberry, presidente della commissione Forze armate; Devin Nunes, presidente di quella sull'Intelligence; Mike Turner, a capo del sub comitato sulle forze tattiche terrestri e aeree; Greg Meeks, membro del sub comitato su Europe, Eurasia e minacce emergenti; Ron Kind e Kristi, membri della commissione "Ways and Means", e, infine, Will Hurd, componente del comitato sulla Sicurezza nazionale. Durante la visita, Ryan ha ribadito che Israele è uno degli alleati più importanti per gli Stati Uniti e ha sottolineato che "uno dei più grandi successi" nella collaborazione bilaterale sul versante della sicurezza "è Iron Dome". A questo proposito, ha ricordato che il sistema è presente nella nazione mediorientale dal 2005 e che è stato in grado finora di intercettare circa diecimila tra razzi e missili, salvando la vita a migliaia di persone.

(il Velino, 12 aprile 2016)


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Rafael Drone Dome, così Israele si prepara ad abbattere i Phantom di Hamas

di Luca Masali

Rafael Drone Dome, così Israele si prepara ad abbattere i Phantom di Hamas
L'uso di droni commerciali da parte delle milizie irregolari e dei terroristi è una minaccia molto ma molto seria, specialmente in medio oriente. Da tempo Israele è con le orecchie tese, non molto tempo fa è stato intercettato un carico di droni amatoriali e giocattolo di contrabbando destinati ad Hamas.
Un contractor della Difesa israeliana, Rafael, ha messo a punto a tempo di record un sistema elettronico per contrastare la minaccia dei droni gradi e piccoli. Si chiama Drone Dome ed è stato presentato al LAAD, la fiera brasiliana di sistemi di difesa pubblica e corporate. Il sistema è ottimizzato per i droni piccoli e piccolissimi, i nano droni giocattolo dal costo irrisorio a che ormai possono volare tranquillamente in FPV e diventare una minaccia concreta nelle mani di terroristi che li possono usare sia per pattugliare il territorio sia per condurre veri e propri attacchi con agenti chimici e batteriologici.
Il sistema ha un radar RPS-42, radar tattico specializzato nella sorveglianza aerea con 30 km di raggio e in grado di identificare qualunque oggetto volante a quote comprese tra 10 e 10 mila metri, sistemi optoelettronici di osservazione MEOS e può confondere le radio dei micro droni attraverso un jammer C-Guard RD ad ampio spettro progettato in modo da non interferire con le frequenze utilizzate dal traffico aereo "full size". Secondo Rafael il sistema è progettato per funzionare in ogni condizione meteo 24 ore al giorno, garantendo una copertura a 360o sull'area da proteggere. La missione tipica del Drone Dome si articola su tre fasi: nella prima il radar e i sensori optoelettronici scoprono e identificano l'intruso: se entra nella no-fly zone vengono allertati gli operatori del sistema, che mettono in funzione il jammer che confonde i segnali GPS e del radio link del drone intruso.

(DronEzine, 12 aprile 2016)


Alla scoperta della sinagoga di Lecce: il tempio ebraico nel cuore del centro storico

Il sito Salento a colory propone un viaggio in quello che fu il quartiere ebraico di Lecce: la sinagoga e i resti di una storia travagliata e poco conosciuta.

 
Proprio qui, dove oggi sorgono i locali della movida leccese, si trovano i resti del cuore della comunità ebraica cittadina, che i proprietari degli immobili hanno coscienziosamente conservato, nelle forme rimaste di ciò che fu un tempo la sinagoga.
"Fino alla fine del Medioevo, Lecce, e non solo, aveva la sua sinagoga. La comunità ebraica era ben inserita nel Salento, tanto che parecchi comuni vantano ancora oggi, almeno solo col toponimo, la propria 'Giudecca', il quartiere in cui si insediavano e si integravano coi locali gli ebrei di Terra d'Otranto".
   Comincia così il viaggio di Alessandro Romano sulle tracce di un pezzo ancora poco conosciuto della storia locale, quella della Lecce ebraica. Dalle pagine del sito Salento a colory, l'autore riesce a recuperare i frammenti di una storia del Salento sepolta sotto anni di persecuzioni e polvere. Anche il capoluogo barocco fu difatti teatro di violente persecuzioni, come racconta ancora il piccolo reportage:
   "Purtroppo, con l'imperatore Carlo VIII le cose cominciano a cambiare. Si riaprì un doloroso periodo di persecuzioni contro gli ebrei, che portò alla definitiva cacciata di questa comunità dal Salento. A Lecce, la Giudecca è presa d'assalto già nel 1463, ma gli episodi più violenti si verificano nel 1495, quando anche la sinagoga fu data alle fiamme e quella gente cacciata e spogliata di ogni bene. Quell'Abramo Balmes il cui nome oggi si può trovare ad intitolazione di una via del centro storico, valente medico e filosofo, fu anche lui perseguitato".
   Per ritrovare testimonianze tra i tortuosi vicoli di Lecce, Alessandro Romano è stato aiutato da Giuseppe Pagliara recandosi in quella strada che, come lo stesso nome indica, fornisce un indizio di dove fosse la vecchia sinagoga. La 'via della Sinagoga' sbuca proprio davanti alla chiesa di Santa Croce e, come scoprirà lo stesso Romano, portava al tempio, che con ogni probabilità si trovava accanto al celebre monumento barocco della città.
   "Proprio qui, dove oggi sorgono i locali della movida leccese, si trovano i resti del cuore della comunità ebraica cittadina, che i proprietari degli immobili hanno coscienziosamente conservato, nelle forme rimaste di ciò che fu un tempo la sinagoga. Qui" continua Romano, "Giuseppe mi mostra le vasche, dove si svolgevano le abluzioni, i particolari architettonici che si possono notare ancora oggi della costruzione originale. Ovviamente, il piano di calpestio della odierna città è più alto di 500 anni fa, perciò molto resta al di sotto dei nostri piedi, tuttavia si può ancora percepire qualcosa. All'interno di Palazzo Adorno, poi, Giuseppe mi fa notare un'altra cosa da lui scoperta, che ci riporta al clima di intolleranza che si respirava secoli fa: in questa struttura siamo davanti a quello che era lo scarico della casa, la fogna, praticamente dell'abitazione. Ebbene, se ci si abbassa e si osservano i conci dal basso, si nota una iscrizione ebraica che recita 'Questa è la casa di Dio'. Si tratta di un blocco unico, riutilizzato, proveniente probabilmente dalla sinagoga distrutta, e posizionato per "sfregio" all'imbocco di uno scarico fognario" ipotizza Alessandro Romano "questo la dice lunga sulle devastazioni che si verificarono a Lecce, ed il clima di odio, fomentato ad arte ciclicamente contro le comunità ebraiche, nei secoli".
Il viaggio

(LecceSette, 12 aprile 2016)



E tu, quando preghi...

E tu, quando preghi, non essere come gli ipocriti che amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, e chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.
E nel pregare non usate troppe parole come fanno i gentili, i quali pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole. Non siate dunque come loro, poiché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate.

dal Vangelo di Matteo, cap. 6

 


Renzi in Iran non si dimentichi di Israele

Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi oggi è a Teheran, per una visita ufficiale nel paese a cui partecipa una delegazione di 120 tra imprenditori e rappresentanti delle principali società dell'economia italiana. Ma non deve dimenticare che l'Iran è il paese che vuole eliminare Israele, unico baluardo di democrazia in medio oriente. Appunti per il viaggio.
   Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi oggi è a Teheran, insieme al viceministro dello Sviluppo economico, Ivan Scalfarotto, per una visita ufficiale nel paese a cui partecipa una delegazione di 120 tra imprenditori e rappresentanti delle principali società dell'economia italiana. Il premier italiano sarà il primo capo di governo occidentale a visitare il paese dopo la cancellazione delle sanzioni economiche da parte della comunità internazionale. La scorsa settimana, in un editoriale, il Foglio aveva chiesto al premier di approvare la legge che c'è al Senato contro il boicottaggio di Israele.
   Prima di partire, Renzi potrebbe fare un altro regalo non agli iraniani, ma all'Europa come insieme di valori condivisi, e a Israele, il piatto prediletto dalle mire violente dei pasdaran della Rivoluzione e nostro solo autentico alleato nella regione. Ovvero potrebbe prendere in mano un disegno di legge bipartisan che c'è al Senato sul boicottaggio di Israele e renderlo realtà. […] Una simile norma esiste ormai in vari paesi. […]Perché non farla anche in Italia? Il Bds, il movimento per il boicottaggio e le sanzioni di Israele, si nutre della delegittimazione del popolo e dello stato ebraico di cui l'Iran è da anni burattinaio indisturbato. Un movimento che si è negli anni insinuato nei nostri sindacati, nelle nostre università, nella nostra società civile.
   Ieri l'Unità, quotidiano ufficiale del Partito democratico, ha pubblicato una lettera aperta a Matteo Renzi sull'Iran. Tra i firmatari Roberto Saviano, Susanna Tamaro, Raffaele La Capria, Sandro Veronesi e molti altri. L'appello parla di reticenza del governo sulla questione dei diritti umani "nel regime del Mullah che, per indicare una parte per il tutto, è da decenni in cima alla triste classifica dei primi 'Paese-boia' del mondo". Tra i temi che Matteo Renzi dovrebbe denunciare secondo i firmatari dell'appello, oltre alla denuncia per "l'allarmante uso della pena di morte", la "persecuzione delle minoranze sessuali", la "discriminazione legale nei confronti della donna" e "gli arresti di attivisti per i diritti umani e oppositori politici", anche "l'invocazione alla distruzione dello Stato d'Israele e il negazionismo della Shoah".

(Il Foglio, 12 aprile 2016)


Italia porto dei mullà?

di Esmail Mohades

 
Un scarno comunicato - forse per prudenza? - di Palazzo Chigi annuncia la visita, oggi e domani, del presidente del Consiglio Matteo Renzi in Iran. È la prima visita di uno statista occidentale di questo livello in Iran dopo l'accordo nucleare dei 5+1 con il regime teocratico. La Deutsche Bank ha caldamente sconsigliato la Merkel di precipitarsi a Teheran. La visita di Rouhani a Vienna, prevista per il 30 marzo, è stata annullata da Teheran per paura della manifestazione dell'opposizione iraniana, i Mojahedin del popolo, che le autorità austriache, nonostante le pressioni del regime, non hanno voluto cancellare.
  La visita di Renzi avviene nel bel mezzo di una nuova mobilitazione dei pasdaran in Siria, dei test missilistici in violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu e del sequestro di tre navi iraniane in acque internazionali che portavano armi agli houthi nello Yemen, in barba alle risoluzioni dell'Onu. Per non citare le esecuzioni capitali che, secondo il relatore speciale dell'Onu, nel 2015 sono state le più alte degli ultimi 25 anni. Durante la presidenza del "moderato" Rouhani, dall'agosto 2013, in Iran sono state impiccate almeno 2500 persone. Il presidente del Consiglio dei ministri del Paese pioniere contro la pena morte può allegramente ignorare tali e gravi violazioni dei diritti umani e internazionali? Un governo democratico può ignorare il fatto che il regime iraniano rimane lo sponsor principale del terrorismo internazionale? I politici italiani sapranno dire qualche no?
  In questi giorni abbiamo ricevuto lettere scritte dai prigionieri politici in Iran che non esprimono neanche più delusione o sorpresa per la nefasta politica di appeasement nei confronti degli assassini del popolo iraniano; manifestano la loro rabbia perché i governanti occidentali, in balia delle lobby, stanno calpestando i loro stessi valori e princìpi a danno della popolazione iraniana. Una persona mediamente informata, a parte i buontemponi sensibili alla voce del padrone, non può non sapere che il regime integralista iraniano è la fonte principale della crisi del Medio Oriente e che il regime iraniano fa parte del problema e non della soluzione. Basta guardare alle centrali delle crisi in Siria, Iraq e Yemen, dove appunto è massiccia la presenza del regime iraniano. Non a caso, mentre Barack Obama rassicura i Paesi arabi dell'addomesticamento del regime di Teheran, quelli quasi unanimi ripetono che il regime iraniano è il principale pericolo nella Regione. Come dargli torto. Il regime iraniano è in una guerra perpetua, innanzitutto contro il popolo iraniano e poi contro chi capita e se lo possa permettere. Ogni vacua promessa di cambiamento è per riprendere il fiato e ricominciare. Il regime teocratico iraniano non vuole né può cambiare. Non a caso i pionieri del sedicente riformismo sono Rafsanjani e Rouhani, personaggi da sempre in prima linea nella politica aggressiva e sanguinaria del regime islamico. La guerra intestina tra Khamenei e Rafsanjani-Rouhani è reale, ma il popolo non ne avrà alcun vantaggio.
  È chiaro che la visita di Renzi è anche il prodotto della spinta delle lobby che sponsorizzano il regime dittatoriale di Teheran e hanno lo scopo di racimolare commesse commerciali in quel martoriato Paese. Queste scimmie che non sentono e non vedono sanno benissimo che ora in Iran non ci sono le possibilità di allacciare un rapporto serio e strategico, ma forse proprio per questo spingono tanto a combinare affari mordi e fuggi. A questa gente senza scrupoli gli otto milioni di disoccupati iraniani e l'80 per cento di fabbriche chiuse appaiono solo un'occasione di saccheggio. Far affari col Paese campione della violazione dei diritti umani non fa onore a nessuno, è bene però che lo statista italiano sappia che l'intera economia dell'Iran è in balìa della corruzione endemica dei pasdaran che rispondono a Khamenei e non lascia molto spazio ad un interscambio sano e durevole, oltre ad acuire la povertà diffusa del popolo iraniano.
  Con un'inflazione e una corruzione che galoppano permanentemente a due cifre, l'economia iraniana, con il tasso di crescita negativo o vicino allo zero, lascia spazio solo agli affari estemporanei. Chissà se non sia proprio questo ad attirare gli imprenditori italiani verso il mercato iraniano.
  L'onere dell'abbattimento della dittatura iraniana compete agli iraniani, ma forse è opportuno offrire un paio di suggerimenti al presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi per quanto concerne i rapporti tra l'Italia e l'Iran: moderi l'entusiasmo negli incontri con gli uomini del regime liberticida iraniano detestato dalla popolazione; il vento sta cambiando. Non si può più far finta di non vedere o sottovalutare che l'infestazione dell'integralismo islamico, il cui epicentro è a Teheran, si sta espandendo in tutta la Regione e minaccia seriamente l'Occidente. Chiudere gli occhi sulla drammatica situazione dei diritti umani in Iran rende più debole la posizione dell'Italia, non la fortifica. Cedere alla pressione ricattatoria del regime iraniano è disonorevole e complica la situazione già aggrovigliata del Medio Oriente. La domanda che rimane in attesa di una risposta è questa: escludendo l'imprenditoria e la finanza, per i politici occidentali quanto valgono i diritti umani?

(L'Opinione, 12 aprile 2016)


Il divano oscillante, la borraccia-Ipad: l'israeliano che crea gli oggetti scultura

di Silvia Nani.

 
Ron Arad
-> Galleria
 

Divani e poltrone effetto cartoon. Ron Arad si arrampica, si sdraia, abbassa l'immancabile cappello a cloche come se volesse dormire. Poi si solleva, abbozza un sorriso: oggi si celebrano i suoi 25 anni da designer con Moroso, con l'installazione «Spring to mind». «Tutto è nato da Patrizia Moroso: durante la Design Week 1989 fu colpita vedendo la versione morbida della mia poltrona Big Easy, in metallo. L'avevo creata per scherzo, come fosse una brutta copia fatta dai cinesi ma lei invece mi propose di produrla. Nacque così la mia prima collezione Spring: in onore della primavera e delle molle, su cui stavo lavorando per un mio pezzo unico».
Da allora Ron Arad, oltre alle opere d'arte che realizza nel suo studio londinese, di oggetti ne ha disegnati molti («Con Patrizia soprattutto: lei e la sua famiglia sono meravigliosi»), eppure oggi qualcosa è cambiato: «La Design Week è una kermesse commerciale e , fosse solo per i prodotti che presento, non ci sarebbe nemmeno bisogno di venire. Un oggetto nuovo ha senso se non è mai esistito prima. Se c'è una sorpresa, un'invenzione», spiega, mentre si siede sul divano Glider, volume abbondante e giocoso. «Qui per esempio c'è un meccanismo nascosto: ti siedi e oscilli. Bellissimo». Accanto, una carrellata di suoi oggetti simbolo. Indica una curiosa bicicletta con ruote che sembrano corolle in metallo: «Sono molle di acciaio. Ho sperimentato cosa succede se tolgo le sospensioni, e ho scoperto che la bici diventa più morbida di quella standard». È la curiosità a farmi sorgere le idee: vediamo un po' che succede se...» .
Arte, design? Guai a chiedergli se il suo approccio cambia: «È come quando un giorno fai un'omelette e il giorno dopo una torta da pasticciere: ma sei sempre tu. Ora sto lavorando solo su progetti di architettura», dice mentre fa scorrere le foto sul suo iPhone. «Questa per esempio è un'installazione che sto ultimando per la Royal Academy: un braccio con in cima una telecamera nascosta. È una scultura che si muove: noi stiamo a guardarla ma in realtà è lei a guardare noi». Passano le foto di edifici in realizzazione in tutto il mondo: «Ma sa tra i miei progetti che cosa che mi sta più a cuore? Un ospedale per curare i malati di cancro che sta sorgendo in Israele: bellissimo poter dare un contributo a chi ne ha bisogno. Sculture e oggetti diventano un valore solo quando stiamo bene». Sorride, mentre mostra le foto di grandi lettere in cristallo (per Swarovski): «Mi sono divertito a inventare un font: sono dei fermacarte ma puoi tenerli in piedi e comporre una parola, mandare un messaggio». Indica tra gli scatti un parallelepipedo che sembra liquido: «È una borraccia: l'ho pensata piccola come un mini Ipad, e piatta. Sì , sembra una scultura. Ma chi l'ha detto che non possa diventarlo anche una bottiglia?».

(Corriere della Sera, 12 aprile 2016)


L'economia israeliana quasi senza disoccupati

Pil su del 2,5%, disoccupazione al 5,3%

Gli indicatori economici di Israele farebbero la felicità dei paesi occidentali. L'ultimo rapporto macroeconomico della Banca centrale israeliana attesta che, malgrado il rallentamento globale, il pil del paese è cresciuto del 2,5% nel 2015, e indica che dovrebbe mantenersi più o meno su questo livello anche quest'anno. II ministero delle finanze prevede un 2,8% per il 2016, in ribasso rispetto alla stima iniziale di un più robusto 3%. Nonostante l'export abbia sofferto la concorrenza internazionale, l'economia ha beneficiato della forte caduta del costo dell'energia globale e del prezzo delle materie prime.
   Uno degli indicatori più positivi è il tasso di disoccupazione che l'anno scorso era a quota 5,3% contro il 5,9% del 2014. Un record dalla metà degli anni Ottanta. Tra il 1995 e il 2010 la media era del 10,4%. Soddisfatto il premier Benyamin Nétanyahou che ha difeso la necessità di diversificare gli scambi per aumentare ulteriormente la crescita. Le esportazioni sono enormemente cresciute grazie al primo accordo di libero scambio con la Cina. Parallelamente sono state avviate trattative più favorevoli con il Giappone. Inoltre, l'estrazione di gas dai giacimenti marini porterà miliardi nelle casse dello stato a tutto vantaggio dell'economia del paese che dovrà registrare un aumento dei consumi.
   Dietro questi propositi e questo ottimismo la realtà è un po' più complessa. II ministero delle finanze ha rivisto al ribasso le stime di crescita per il 2016, a 2,8% invece del 3%, in conseguenza soprattutto del calo dell'export, sceso del 3,6% a febbraio 2016 e dell'1,3% complessivamente sul 2015. II deficit di competitività è una preoccupazione. La banca centrale che possedeva un'ammontare record di riserve in valuta (91 mld di dollari, circa 80 mld di euro) è obbligata a intervenire in conseguenza della forza dello shekel, la moneta israeliana che a marzo si è apprezzata come non mai dal 2011. Un'altra questione riguarda l'annullamento, da parte della Suprema Corte, dell'accordo storico fra il consorzio americano Noble Energy e l'israeliana Delek Drilling, per lo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore, Tamar e Leviathan, scoperti nel 2009 al largo di Israele. I giudici hanno dato un anno di tempo per rivederlo. La posta in gioco è l'indipendenza energetica del paese. Pesano anche l'elevato costo delle case e il governo dovrà moltiplicare gli sforzi per aumentare l'offerta a prezzi ridotti e per diminuire la povertà: un problema che riguarda 2,6 milioni di persone (31,9% della popolazione), tra i quali 998 mila bambini.

(ItaliaOggi, 12 aprile 2016)


"Separando teologico e politico, l'Europa è cieca all'islam", Parla Birnbaum

Jean Birnhaum, grande intellettuale della gauche, svela le ipocrisie sull'islam di quella sinistra che confonde chador e perizoma.

di Giulio Meotti

Jean Birnbaum
ROMA - Studente modello iscritto a una scuola cattolica di Bruxelles, adolescenza serena e pasciuta con un fratello eroe nazionale dello sport belga. Era questo Najim Laachraoui, il terrorista che ha assemblato le bombe degli attentati e che si è fatto saltare in aria all'aeroporto di Zaventem. Una delle tante storie che inficiano la doxa di tanta sinistra, secondo cui il terrorismo è figlio dell'emarginazione del lumpenproletariat musulmano. Dovevano bastare i profili dei diciannove kamikaze dell'11 settembre, che provenivano tutti da rinomate famiglie mediorientali (Mohammed Atta non ha conosciuto un giorno di miseria in vita sua). Chi, proprio a sinistra, non ci ha mai creduto è Jean Birnbaum, intellettuale della gauche, direttore del Monde des Livres, la sezione letteraria del primo quotidiano francese, e autore del libro "Un silence religieux" (Seuil). "E' una cecità ostinata che segna il rapporto tra la sinistra e la questione religiosa", dice Birnbaum al Foglio.
   "La sinistra ha costruito uno sradicamento della fantasia religiosa. L'emancipazione sociale era inevitabilmente l'emancipazione in materia di credo religioso. La religione è vista come una mera illusione, destinata a essere dissipata dal progresso. La sinistra è sempre stata l"avanguardia' nella negazione. A Parigi nel 2015 degli uomini hanno seminato il terrore nel nome di Allah e la prima reazione del presidente Hollande, ma anche di molti intellettuali, è stata quella di annunciare: non ha nulla a che fare con l'islam! Questo discorso mira a prevenire la confusione tra islam e jihadismo. Ma per me, riflette qualcosa di più profondo: il fallimento nel nominare la religione. Dopo secoli di secolarizzazione, abbiamo dimenticato quello che il filosofo Michel Foucault ha descritto nella sua corrispondenza in Iran nel 1978 per il Corriere della Sera: l'enorme potere della 'spiritualità politica"'.
   Siamo dunque fermi a Karl Marx e all'''oppio dei popoli"? "Se la sinistra rileggesse Marx vedrebbe che prendeva molto sul serio la religione, lui. Questa domanda è all'origine stessa del suo viaggio politico e filosofico. Quindi un paradosso: lo spettro che non smette di tormentare la sinistra, Marx, era egli stesso infestato dai fantasmi della religione. Molte persone di sinistra sembrano aver imparato da Marx formule spesso fraintese: la religione come il 'sospiro della creatura oppressa'. Pertanto, nella fantasia di sinistra, il pensiero tende a essere equiparato a una creatura oppressa. Questo pregiudizio ha conseguenze dirette su come affrontare il jihadismo: alle origini del destino terrorista, ci sarebbero necessariamente frustrazione sociale e povertà intellettuale. Ma questa immagine è stata più volte smentita dai fatti. I giovani che si uniscono alla lotta jihadista non sono poveri e ignoranti. Tra questi, ci sono figli dei ricchi e molto istruiti. Ciò che unisce i jihadisti a Parigi, Aleppo, Bruxelles e Nairobi, non è una origine sociale, è un potere religioso, la stessa aspettativa messianica, una comunità di gesti e testi".
Cos'è il "silenzio religioso" del titolo del suo libro? "Sono rimasto colpito dal silenzio delle manifestazioni che seguirono gli attacchi jihadisti in Francia - dice Birnbaum - Questo silenzio è stato due volte religioso. In primo luogo, perché ha preso in prestito il fervore. Poi perché ha segnalato una massiccia negazione della religione. Nessuno ha trovato ancora le parole per nominare la minaccia".
   Di ieri la notizia che la "voce dell'lsis", un francese convertito all'islam di nome Fabien Clain, che ha rivendicato gli attentati, è ripassato per la Francia dopo il massacro di Charlie Hebdo. Cosa ci dicono le storie di questi convertiti, i figli perduti dell'occidente? "Il fenomeno dei convertiti è fondamentale perché è dinamite su tutti i vecchi schemi di riferimento che alcuni stanno cercando di applicare al jihadismo", continua al Foglio Jean Birnbaum, che cura la sezione letteraria del Monde. "Su questo, ci sono due illusioni complementari. La sinistra vede i jihadisti come poveri, come abbiamo già detto. La destra li confonde con gli immigrati. Ma l'essenza della religione è quella di essere senza paese o confini. Il jihadismo è una causa la cui influenza è così potente che può inghiottire un giovane cresciuto nella campagna francese o uno studente brillante che proviene da una famiglia cristiana. E' il potere della magnetizzazione globale del jihadismo. Quando i politici e gli intellettuali martellano senza sosta sul fatto che gli attacchi non hanno 'nulla a che fare' con l'islam, il loro discorso è a doppio taglio: pugnalano alle spalle tutti i musulmani che combattono all'interno della loro tradizione per cercare di sottrarsi ai fanatici. Nel libro cito un passo di Jacques Derrida che dice in sostanza questo: l'Europa è riuscita a separare il teologico e il politico, così che deve reinventarsi un nuovo modo di articolare. Se vi è un modo per restringere il terreno su cui il jihadismo prospera è indubbiamente una riarticolazione tra movimento sociale, slancio politico e un po' di memoria teologica dell'occidente". Da ultima, a sinistra, è esplosa la polemica sul velo fra ministri, stilisti e filosofi. "Il problema, ancora una volta, sta nella difficoltà a prendere sul serio la religione", conclude Birnbaum. "Sono due scogli simmetrici: si riduce il velo a un puro segno di sottomissione o lo si rende un segno che non significa nulla. Qui è in discussione il nostro rapporto con il simbolico che abbiamo perso. Non c'è niente di più reale, e a volte più violento, del simbolico. La gente dice: ma perché siamo disturbati dal velo, quando non siamo scioccati dal perizoma? Come se non ci fosse differenza tra una mutandina seducente e un simbolo religioso che impegna ogni rapporto con il mondo, il corpo, la vita".

(Il Foglio, 12 aprile 2016)


Cina-Israele - Zhang Dejiang ha incontrato Yuli Edelstein

 
Yuli Edelstein e Zhang Dejiang
L'11 aprile, presso il Palazzo dell'APN, Il presidente del Comitato Permanente dell'APN, Zhang Dejiang, ha avuto un colloquio con il presidente del parlamento israeliano, Yuli Edelstein.
Zhang Dejiang ha affermato che a partire dall'allacciamento delle relazioni diplomatiche tra Cina e Israele, le relazioni bilaterali sono in continuo sviluppo, ottenendo i risultati ricchi in vari settori cooperativi. Soprattutto negli ultimi anni, il presidente cinese Xi Jinping ha avuto alcuni colloqui con i leader israeliani, in cui hanno raggiunto tanti importanti consensi sulle relazioni bilaterali. la Cina e Israele non hanno le questioni storiche e le attuali divergenze degli interessi, e possiedono un alto consenso sul rafforzamento della cooperazione amichevole. I due paesi devono, sulla base delle strategiche indicate dai propri leader, svolgere completamente il ruolo dell'attuale mecanismo cooperativo, rafforzare le collaborazioni nei settori chiave come l'agricolo, la tutela ambientale e l'innovazione scientifica e tecnologica, e promuovere le relazioni bilaterali in un nuovo capitolo.
Edelstein ha rilevato che Israele ha prestato alta attenzione alle relazioni con la Cina. il parlamento del Paese intende a rafforzare la comunicazione amichevole con l'APN cinese, e a promuovere positivamente le cooperazioni in diversi settori tra Cina e Israele.

(CRI online, 11 aprile 2016)


Museo della Shoah, nulla di fatto dopo diciannove anni

E' dal 1997 che si parla di realizzare a Roma un Memoriale per le vittime delle persecuzioni. Poi la decisione di collocarlo a Villa Torlonia. Accanto alla residenza privata di Mussolini. Il sindaco Veltroni ne annunciò la realizzazione nel 2005 in 18 mesi appena. La giunta Alemanno aveva invece promesso di terminarlo entro il 2013. Mentre Marino si era impegnato a porre la prima pietra nel 2015. In concomitanza con il settantesimo anniversario della liberazione degli ebrei dai campi di sterminio. Invece tutto è ancora fermo. A causa di un appalto contestato.

di Ilaria Proietti

Tre sindaci (e un commissario straordinario) non sono bastati per dare a Roma il museo della Shoah. La parola fine sulla vicenda la scriverà il Consiglio di Stato, forse, il prossimo mese. Quando deciderà se confermare l'affidamento dei lavori al raggruppamento di imprese che si è aggiudicato l'appalto della costruzione dell'opera a Villa Torlonia. Ma potrebbe anche accadere che il ricorso di Cmb, (la società cooperativa muratori e braccianti di Carpi), respinto nei mesi scorsi dal tar, venga invece accolto. Prospettiva questa che allungherebbe, ulteriormente, i tempi di realizzazione del memoriale che il Comune allora guidato da Walter Veltroni aveva deciso all'unanimità di realizzare nel 2005 in 18 mesi appena. Che la giunta Alemanno aveva promesso di realizzare entro il 2013. E di cui Ignazio Marino, alla fine di un'improvvisa accelerazione del dossier rimasta invece senza esito, si era impegnato a porre la prima pietra entro il 2015 in corrispondenza del settantesimo anniversario della liberazione degli ebrei dai campi di sterminio.
  Si è ripiegato nel frattempo su una sede provvisoria dopo le polemiche per i ritardi e le proteste degli ultimi sopravvissuti e delle loro famiglie. E cioè la Casina dei Vallati al Ghetto nella piazza dove furono raccolti il 16 ottobre del 1943 gli ebrei romani prima di essere deportati. Allo stato è l'unica cosa certa, oltre al tempo inutilmente trascorso. E al fatto che di questa storia imbarazzante nessuno parla più mentre si avvicina la scadenza elettorale che incoronerà il prossimo sindaco di Roma a giugno. Ma se i politici tacciono o non ricordano, la battaglia ora si sta combattendo esclusivamente a suon di carte bollate. Dagli atti oggi all'attenzione del Consiglio di Stato è possibile ripercorrere le tappe salienti della vertenza che però è solo la coda di una vicenda molto più complessa. E di cui sfuggono persino i contorni precisi ma inequivocabilmente surreali se non grotteschi.
  E' rimasta senza risposta un'interrogazione che il consigliere comunale del Movimento 5 Stelle, Daniele Frongia aveva presentato nel 2014 al sindaco 'marziano' per fare chiarezza anche sulle spese legate al progetto. E in cui si chiedeva conto dei ritardi relativi all'opera ideata già nel 1997 e poi approvata nel 2006 e per cui il comune ha deliberato l'acquisto dell'area, a Villa Torlonia accanto alla residenza privata di Benito Mussolini, per una spesa di 15 milioni. "Realizzarlo in tempi brevi significherebbe garantire ai sopravvissuti la possibilità di vederlo realizzato", aveva chiesto nell'interrogazione il consigliere pentastellato mentre si faceva largo l'ipotesi che il progetto venisse all'improvviso delocalizzato all'Eur. Archiviando completamente l'idea di realizzare l'avveniristico cubo nero progettato dagli architetti Zevi e Tamburini per Villa Torlonia. E allestendo invece il Memoriale al Palazzo Mostra dell'Arte Moderna all'obelisco di Piazza Marconi. Entro il 27 gennaio 2015, il settantesimo della liberazione di Auschwitz.
  Non se ne fece nulla, probabilmente a causa della partita dei costi di cui non si sa praticamente nulla e che ruota attorno alle espropriazioni, le varianti e le permute immobiliari necessari per avere gli spazi per realizzare il progetto di via Alessandro Torlonia, ora largo Simon Wiesenthal. Dove il prossimo sindaco poserà, forse, la prima pietra. A questo scopo anche l'ultima Finanziaria ha scomputato dal patto di stabilità le somme necessarie al comune per realizzare l'opera. O meglio, almeno una parte. Ma c'è di mezzo un ulteriore ostacolo: il ricorso per l'annullamento dell'aggiudicazione definitiva dell'appalto assegnato nel 2015 dopo un anno di lavoro e 23 sedute che sono state necessarie per valutare le offerte. Classificata al primo posto quella da 13,2 milioni (e un ribasso di oltre il 26%) della Società appalti costruzioni e Alfredo Cecchini srl che ha prevalso su quella da 14,6 milioni (e un ribasso del 18,8%) di Cmb. Che, come detto, si è rivolta al tar ipotizzando una serie di irregolarità che hanno chiamato in causa anche l'Anac, l'autorità anticorruzione. A dicembre il tribunale amministrativo regionale ha respinto il ricorso. Ora l'attenzione è sulla decisione dei giudici di Palazzo Spada attesa per il 19 maggio. Che scriveranno, o forse no, la parola fine sulla sorte del Museo della Shoah.

(il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2016)


Raw Edges: Herringbones

Colore e pattern, quasi un'ossessione. La mostra del duo israeliano al Garage Sanremo si trasforma in un laboratorio dove il pubblico può sperimentare con legno e inchiostro insieme ai designer.

di Luca Trombetta

 
Il duo israeliano Raw Edges, Yael Mer e Shay Alkalay
Al Garage Sanremo, epicentro del circuito Fuorisalone delle 5 VIE, va in scena la mostra Herringbones curata da Federica Sala - PS design consultants. Protagonisti i Raw Edges, pluripremiato duo israeliano di stanza a Londra, che negli anni hanno affascinato il pubblico per la loro estetica fortemente segnata dall'uso del colore. Due anni fa ci avevano incantato con le divertenti soluzioni cucina "Islands" ideate per Caesarstone, presentate nell'elegante cornice di Palazzo Clerici in Brera. Oggi Yael Mer e Shay Alkalay tornano a Milano con una performance live per mostrare in anteprima un nuovo progetto che dà seguito alla loro ricerca in campo materico e cromatico.
   Colore, pattern e movimento, infatti, fanno parte del DNA dei Raw Edges e il progetto Herringbones non è da meno. Nato come evoluzione del parquet per Established & Sons e del progetto Endgrain del 2015 - con cui i designer tingevano listelle di legno cuocendole negli inchiostri per poi assemblarle e scolpirle - Herringbones segna un ulteriore step nel linguaggio progettuale del duo israeliano grazie a una nuova sperimentazione materica con il legno e gli inchiostri che prevede un'inedita tecnica d'immersione a 45 gradi che conferisce ai pezzi una trama tridimensionale.
   «Noi non disegniamo i pattern ma gli strumenti che portano alla loro creazione, come esito naturale. Non è un processo scientifico, procediamo per tentativi», commenta Shay. Il risultato? Arredi e complementi dalla forme basic - come listelli per pavimenti, panche, tavoli e paraventi - decorati con disegni a spina di pesce (herringbones) in una gamma di colori caldi e freddi che si fanno via via sempre più intensi grazie al gioco di stratificazione dovuto alle successive immersioni negli inchiostri.
   Lo Spazio Sanremo si trasforma così in un grande laboratorio aperto al pubblico, che può partecipare attivamente nella realizzazione dei pezzi.«Si può dire che pattern e colore siano la nostra 'magnifica ossessione'», confessano i designer. «L'obiettivo di questa mostra è dare un'idea di un processo progettuale e vogliamo che i visitatori possano provare una nuova esperienza, sperimentando assieme a noi». Armatevi di colore e creatività. Siete tutti invitati.

(Living, 12 aprile 2016)


L'ammissione di Israele: "Colpiamo i convogli di Hezbollah in Siria dal 2013"

I raid avvenuti dallo scorso ottobre ad oggi hanno ricevuto il visto del Cremlino. Stratfor rivela base Hezbollah a nord del confine tra Siria e Libano e possibile nuovo target dei caccia israeliani.

di Franco Iacch


Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ammesso per la prima volta che Israele ha effettuato raid mirati in Siria contro decine di convogli che trasportavano armi avanzate destinate a Hezbollah.
   È il primo riconoscimento pubblico dell'impegno militare di Israele in Siria. I due paesi sono ufficialmente ancora in guerra: Damasco non ha mai firmato un trattato di pace con la capitale de facto Gerusalemme. Lo scorso dicembre Netanyahu affermò chiaramente che Israele non avrebbe mai permesso il transito di forniture militari dalla Siria al Libano. Israele, sarebbe ufficialmente neutrale nella guerra civile siriana, ma dal 2013 ha effettuato una dozzina di attacchi aerei in tutta il paese colpendo anche strutture governative.
   Fino ad oggi, Israele si è sempre rifiutata di confermare il coinvolgimento in specifici attacchi mirati. I caccia israeliani hanno quindi distrutto decine di convogli destinati alle truppe Hezbollah, presenti in Siria a sostegno delle forze lealiste del presidente Bashar al-Assad.
   Dobbiamo agire quando la situazione lo richiede - ha detto Netanyahu poche ore fa durante una visita alle truppe sulle alture del Golan - continueremo a colpirli ovunque, l'organizzazione sciita non dovrà mai acquisire sistemi avanzati, siamo orgogliosi delle nostre capacità a difesa di Israele. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha minacciato più volte nei mesi scorsi di colpire i siti nucleari di Israele.
Sabato scorso, secondo le fonti del quotidiano tedesco Bild, Hezbollah avrebbe acquisito una batteria di missili SA-17 appartenente al regime di Assad. Israele teme proprio la capacità di tali sistemi terra-aria a medio raggio, in grado ci colpire un bersaglio a 50 chilometri di distanza ad un altitudine massima di 25.
   Confermato il raid avvenuto nel 2013 quando caccia (israeliani) distrussero un presunto carico di missili SA-17 in viaggio verso il Libano. Mercoledì scorso, Stratfor ha rivelato che a nord del confine tra Siria e Libano, le forze Hezbollah hanno consolidato le posizioni precedentemente conquistate dai ribelli siriani nel giugno del 2013. Le immagini satellitari hanno rivelato una base fortificata che potrebbe, in teoria, ospitare missili balistici per colpire Israele. Secondo Stratfor, la base ospiterebbe missili a lungo raggio di fabbricazione iraniana Shabab-1, Shabab-2 e Fateh-110. E' ovviamente impossibile stabilire tali dati, ma se fossero davvero stati schierati, le opzioni di lancio sarebbero comprese tra i 200 ed i mille chilometri. Israele, quindi, sarebbe alla portata dei vettori balistici.
   Appare evidente che i raid israeliani avvenuti dallo scorso ottobre ad oggi, hanno ricevuto il visto del Cremlino. Lo scorso ottobre, infatti, poche ore dopo il dispiegamento russo in Siria, i due paesi crearono un canale di coordinamento per "evitare spiacevoli malintesi". Più volte, così come confermato dal Ministro della Difesa Moshe Ya'alon, i velivoli russi hanno violato lo spazio aereo di Israele.
   Noi non li ostacoliamo - disse Moshe Ya'alon il 29 novembre scorso - quando si avvicinano nel nostro territorio, ma anche loro non intervengono quando i nostri caccia agiscono a protezione degli interessi della nazione.
   Mosca, dallo scorso ottobre, ha istituto una no-fly zone che comprende la maggior parte della Siria e parte di Israele (Golan compreso). Lo schermo difensivo copre anche la zona meridionale della Turchia e le basi utilizzate dagli USA per i raid in Siria. Il consenso russo per ogni tipo di volo nelle zone controllate è implicito.

(il Giornale, 11 aprile 2016)


Feste, seminari e conversioni. Il risveglio degli ebrei al Sud

Aumentano le persone che riscoprono la propria identità ebraica.


Nel meridione cinquemila persone donano l'8 per mille all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Prima del 1493 a Palermo c'erano ventimila ebrei: un abitante su tre. Oggi ce ne sono quaranta.


di Ariela Piattelli

Sulle mura di Palazzo Steri, a Palermo, i graffiti dei prigionieri gridano ancora. Era il carcere dell'Inquisizione, dove sono stati reclusi i cripto-ebrei perseguitati dal Tribunale. Tre anni fa in quel palazzo si accendevano per la prima volta i lumi della festività ebraica di Channukkà. Era un segno tangibile del risveglio degli ebrei nel Sud Italia, sommersi, come identità, per lunghi secoli nel territorio. L'idea di accendere i lumi è di Pierpaolo Pinhas Punturello, un giovane rabbino che da quelle terre proviene e che è emissario di Shavei Israel, un'organizzazione che si occupa in Israele del ritorno all'ebraismo nel mondo, per i «Bnei Anusim» («figli dei costretti», discendenti dei marrani).

 Il passato
  Settecento anni fa nel Sud Italia c'erano quarantamila ebrei. Dopo la cacciata dalla Spagna (1492), nel giro di pochi anni gli ebrei sono costretti ad abbandonare anche il Sud Italia. Si sposteranno in Turchia, in Grecia, nelle isole dell'Egeo. Resteranno soltanto quelli che si convertiranno (almeno in apparenza) al cristianesimo. L'ebraismo restò nel Sud Italia nei luoghi che ricordano la sua presenza, nelle persone che portano cognomi di provenienza ebraica, e in alcuni usi che si sono perpetuati durante i secoli, mescolandosi alle tradizioni locali. «Con i lumi a Palazzo Steri volevo riportare la luce in un luogo storicamente buio - spiega Punturello - Da qualche anno nel Sud Italia assistiamo al grande fenomeno di persone che rivendicano la propria identità ebraica, che adesso diventa pubblica. L'ebraismo fa parte da sempre di quei territori. A Palermo, prima del 1493, c'erano 20 mila ebrei. Un abitante su tre era ebreo. Oggi le strade del quartiere ebraico della Giudecca, per volere del Sindaco Orlando, portano i nomi anche in ebraico e in arabo». A Palermo adesso ci sono quaranta ebrei, in tutto il Sud Italia sono circa duecento. Il risveglio dell'ebraismo è un puzzle che si sta ricomponendo lentamente, un work in progress «in cui si lavora sul legame tra storia, religione e geografia - continua Punturello -. Noi operiamo su un doppio binario: c'è il rapporto con le istituzioni e quello con le persone singole. Ci occupiamo delle conversioni, organizziamo lezioni e seminari, a cui partecipano oltre mille persone». La riprova dell'interesse verso l'ebraismo nel Sud Italia sono le cinquemila persone che scelgono di donare l'8 per mille all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che lavora a stretto contatto con Shavei Israel per il Progetto Meridione.
  «Il Sud è un territorio immenso, fino a cinque anni fa del tutto scoperto da un punto di vista ebraico - spiega Gadi Piperno, responsabile del Progetto per l'Unione - Ma c'è un sommerso di persone che sanno di avere origini ebraiche. Così è nata la necessità di coltivare le forze in campo». La missione è formare delle comunità vere e proprie. Per ora l'Unione ha dato mandato a Napoli, unica vera comunità, di gestire i responsabili dei gruppi sul territorio. «Il passaggio da singoli a comunità è un cammino molto difficile - sottolinea il rabbino capo di Napoli Umberto Piperno -. Noi cerchiamo di garantire servizi dove ci sono ebrei e chi si sta convertendo: l'ultima festa ebraica, Purim, è stata celebrata a San Nicandro, Trani e Palermo».
  E sono gli antichi luoghi dell'ebraismo a tornare vivi grazie all'esistenza ebraica che rinasce. A Bova Marina, in Calabria, dove ci sono discendenti di famiglie ebraiche, c'è una sinagoga del periodo romano. Sulla riviera sono attivi gli Chabad, e il Rabbino Moshe Lazar raccoglie i cedri per celebrare la festa delle capanne, Sukkot. A Serrastretta gli ebrei riformati seguono la "rabbina" italo americana Barbara Aiello. In Puglia, a Taranto, vivono alcune famiglie, mentre a Trani, città colma di memoria ebraica, nel 2005 è stata recuperata la Sinagoga Scolanova dove si svolgono le funzioni religiose e dove si tiene ogni anno il "Lech Lechà", la settimana di arte, cultura e letteratura ebraica, ideato da Francesco Lotoro. A Siracusa dove c'era una comunità di cinquemila ebrei, è stato scoperto un Mikvè (bagno rituale) antichissimo.

 L'esempio
  L'esempio virtuoso è San Nicandro Garganico, dove i seguaci di Donato Manduzio, che diventò ebreo nel 1920, intraprendono la conversione, riportando alla luce gli usi e le tradizioni che hanno perpetuato per tutta la vita, come accendere le candele per lo Shabbat. «San Nicandro è il centro dell'ebraismo del Sud. Sono persone animate da grande fede, è una nuova realtà - spiega il Rabbino Scialom Bahbout, che fu pioniere della riscoperta dell'ebraismo nel Sud Italia -. Nel '58 ospitammo a casa Samuele Tritto di San Nìcandro, lui mi mostrò il diario manoscritto di Manduzio, così partì il mio rapporto con gli ebrei del Sud. Mi accorsi che era necessario analizzare il fenomeno dell'ebraismo nascosto e fare un'analisi scientifica delle tradizioni locali che provenivano da quelle ebraiche. Lanciai così un sassolino nello stagno». Bahbout fece un tour sulla costa pugliese assieme a Lotoro, organizzando conferenze, e arrivarono in molti. Poi nel 2010 diventò rabbino capo di Napoli. «E Mosè si è fermato a Napoli. Intorno non c'era nulla - conclude -. Oggi la scommessa di recuperare l'ebraismo nel Sud Italia è difficile, bisogna lavorare per costituire le comunità, che storicamente reggono soltanto sull'ebraismo ortodosso. Più si abbandona la terra più avanza il deserto. Bisogna sempre operare su una frontiera lontana».

(La Stampa, 11 aprile 2016)


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Il fascino dell’ebraicità

di Marcello Cicchese

Nei molti anni di interesse attivo per Israele e l’ebraismo in generale, non mi è mai capitato di incontrare un ebreo italiano, nato e cresciuto in una famiglia e in una comunità ebraiche, che da adulto sia arrivato alla fede in Gesù Cristo, lo abbia confessato pubblicamente, si sia fatto battezzare e si sia inserito in una comunità cristiana evangelica. Non è un rammarico, perché non è qualcosa che abbia personalmente ricercato, ma è soltanto un fatto. La cosa potrebbe dipendere da scarsa esperienza personale, ma in ogni caso si può sicuramente dire che in Italia, diversamente da altri paesi, di ebrei così, se ce ne sono devono essere davvero pochi.
   Comincia invece ad aumentare il numero dei cristiani evangelici che rientrano nei dati forniti dall’articolo precedente, cioè evangelici che scoprono, o suppongono di aver scoperto, o sperano di scoprire che provengono più o meno alla lontana da una famiglia ebraica. E qui spesso cominciano i guai.
   Se nella Germania nazista qualcuno scopriva, o supponeva di aver scoperto, o temeva di scoprire che nelle sue vene scorreva qualche goccia di sangue ebraico, cadeva in preda al terrore. Oggi, nella nostra democratica Italia, può avvenire il contrario: dopo la “scoperta” di essere (forse, ma sembra proprio sia così) di provenienza ebraica, qualcuno cade in uno stato di eccitazione che spesso produce nel soggetto, soprattutto se non molto stabile, effetti imprevedibili. Effetti però opposti a quelli del periodo nazista: non di timore ma di speranza, non di angoscia ma di esaltazione. Che nel caso di cristiani evangelici può provocare anche una vertigine di euforica ebbrezza: “Dunque appartengo anch’io al popolo eletto! E adesso? Che fare? Devo cercare una comunità ebraica? Lo dico alla chiesa?” Ma la domanda che si pone, sia all’interessato, sia a chi gli sta intorno è: che cosa pensare? Ci si accorge allora che al problema non si era mai pensato. Sì, certo, in un ambiente cristiano evangelico si parla anche di Israele e di ebrei, perché avendo in mano la Bibbia non si può fare a meno di parlarne, ma se ne parla come di un fatto del passato, o in alcuni casi del futuro, ma per quanto riguarda il presente la cosa non è oggetto di interesse. In chiesa si parla di Gesù, non di Israele, si pensa come cosa ovvia.
   Ed ecco allora che, in modo inaspettato, Israele entra di prepotenza in chiesa nella concreta forma di credenti che chiedono di tener conto della loro (supposta) ebraicità. E qui accade che molti non sanno più che cosa fare. Perché non sanno che cosa dire. Perché non sanno che cosa pensare. Perché non ci hanno mai pensato. E poiché cominciano a pensarci solo adesso, i rischi sono grossi, sia per le persone, sia per le comunità.
   In uno studio che ho tenuto di recente in una chiesa, durante il quale con naturalezza ho fatto diversi riferimenti a Israele, alla fine, mentre stavamo fraternamente a tavola un credente mi ha candidamente chiesto: ma perché Dio ha voluto scegliere un popolo particolare per compiere la sua opera? Che cosa rispondere? Da che parte cominciare a spiegare la Bibbia? Se le domande sono queste, come si può essere in grado di rispondere alle domande di chi presenta il “problema Israele” nella forma concreta di una persona in carne e ossa?
   Dopo aver accantonato per anni il tema Israele come un non-problema teologico, forse adesso il Signore ce lo ripresenta nella forma di problemi umani. Sapremo approfittare dell’occasione per recuperare un po’ del tempo perduto?

(Notizie su Israele, 11 aprile 2016)


Oltremare - Bogie

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Moshe "Bogie" Ya'alon non è un politico facondo e neanche particolarmente simpatico. Ha sì, una vena ironica in fondo agli occhi, ma sorge il dubbio che sia solo una latente miopia. Si potrebbe dubitare che sia in effetti un politico, essendo una di quelle personalità che hanno fatto la carriera militare tutta fino in fondo, e poi solo ad un certo punto, relativamente tardi negli anni, hanno virato sulla politica attiva, per arrivare al Ministero della Difesa per direttissima. Non è l'unico: in Israele il passaggio osmotico fra esercito e politica fa parte della quotidianità delle liste dei partiti ad ogni elezione. Si scaldano negli spogliatoi attualmente altri due ex militari con più guerre che anni sulle spalle: Gabi Ashkenazi e Benny Gantz. Non è certo per quali partiti raduneranno voti. Ma come Bogie, sono tutti e due ex Capi di Stato Maggiore, a corollario di carriere militari impeccabili.
Moshe Ya'alon, intanto, è sotto attacco da diversi fornti e probabilmente prova una qualche nostalgia per la divisa e per le armi non retoricamente intese, oggettivamente più convincenti delle parole anche se molto meno consigliabili al momento visto dove si trova. Come Ministro della Difesa, ha appena avuto l'onore di entrare nel novero dei pochi ma rispettabilissimi politici israeliani colpiti da fotomontaggi resi virali: nel suo caso, un bel mirino rosso sovrapposto alla sua faccia ovale con l'espressione un po' così di quello che vorrebbe veramente essere altrove. Un'altra tacca sul fucile, per Bogie, che segue a ruota il famoso fotomontaggio di Rabin con la divisa da SS, ai tempi di Oslo e poco prima dell'assassinio. Anche l'attuale Presidente Rivlin ha avuto l'onore e l'onere di essere fotomontato come gerarca nazista di recente, ed è come Ya'alon un Likud storico e convinto. Si dimostra quindi che l'idiozia degli agitatori di acque già poco calme colpisce in modo trasversale. E che le divise da SS sono fuori moda. Quanto al mirino, che arriva da destra, ha avuto come unico risultato di costringere perfino il destrissimo Naftali Bennett a difendere Bogie: un autogol politico non male.


(moked, 11 aprile 2016)


Venezia: il sindaco firma l'autorizzazione per considerare la città come un unico ambiente

Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha ricevuto questa mattina il rabbino capo della Comunità ebraica di Venezia, Scialom Bahbout, accompagnato dal vice rabbino, Rav. Avraham Dayan, dal cerimoniere del tempio spagnolo, Bruno Foà, e dal consigliere della Comunità, Paolo Navarro Dina.
Singolare lo scopo dell'incontro, richiesto dalla Comunità ebraica, per ratificare la firma di un'autorizzazione che permetta di considerare strade, piazze, campi e ogni altro spazio pubblico di Venezia come un unico ambiente e un'unica proprietà della cittadinanza.
"In base alla legge mosaica infatti - ha spiegato il rabbino - di sabato gli ebrei non possono spostare oggetti di nessun tipo da un luogo pubblico a uno privato e viceversa. A Venezia però - caso unico in tutta Italia - se il sindaco, che è la massima autorità cittadina, attesta che l'intera città si può considerare come un'unica grande "casa", la prescrizione può essere osservata consentendo nello stesso tempo agli ebrei osservanti di spostarsi liberamente nell'area interessata dall'autorizzazione (in ebraico 'eruv'). Un atto importante dunque, soprattutto per una città come Venezia che ogni anno è frequentata da milioni di turisti, molti dei quali di religione ebraica, ancora più numerosi quest'anno in occasione delle manifestazioni per i 500 anni del Ghetto".

(Focus.it, 11 aprile 2016)


Parmigiano kosher, mortadella di pollo e tortellini gluten-free: le aziende sperimentano


Comellini
Produciamo una piccola parte di squacquerone con caglio vegetale, senza lattosio
Celiaci
Sono 172.00 in Italia e 14.000 in regione Il giro d'affari vale 320 milioni di euro
Prosciutto di Parma
Il Consorzio ha convinto
i suoi centocinquanta produttori a usare la farina di riso


di Beppe Facchini

 
Tortellini gluten-free, mortadella di pollo e squacquerone senza lattosio. E poi ancora Parmigiano Reggiano con certificazione Kosher, cappellacci bio e piadina senza strutto. Cambiano le abitudini alimentari, o vanno accontentate quelle di altri Paesi per conquistare fette di export, così anche i prodotti tipici dell'Emilia- Romagna, quelli tutelati da marchi Dop e Igp, si adeguano con vere e proprie varianti dei rispettivi disciplinari. E spesso con notevole successo. Basti citare la mortadella di pollo lanciata nel 2010 da Casa Modena, marchio di Grandi Salumifici Italiani, all'interno della gamma di affettati Liberamente. «È fatta al 100% di pollo, col 60% in meno di grassi rispetto a quella tradizionale, e secondo i dati Nilsen, da aprile 2015 è la mortadella più venduta - spiega il direttore marketing di GSI Marco Luciani - Sta rendendo in modo incredibile, con tassi di crescita fra il 30 e il 40%». Il costo è di circa il 30% superiore rispetto alla tradizionale mortadella bolognese e ad acquistarla, prosegue Luciani, sono principalmente «persone istruite e con reddito medio alto che cercano anche nei salumi un'esperienza psicologica e naturale di benessere alimentare».
  Questione di gusti, insomma. Ben diversa è la situazione di chi soffre di intolleranze e pertanto deve stare più attento a quel che mangia, come i 172.000 italiani celiaci, 14.000 in regione. Lo conferma l'Associazione Italiana Celiachia, rivelando che il mercato del gluten-free ha un giro d'affari di circa 320 milioni di euro, dei quali solo 215 «sono riconducibili all'erogazione per pazienti celiaci». Questo, spiegano dall'Aic, lascia intendere che «un terzo del mercato è costituito da consumatori non diagnosticati celiaci». Il gluten-free, quindi, attira anche i palati che possono permettersi di tutto. Forse anche perché «più digeribile» come ammette Antonio Montanini, presidente di Taste Italy startup nata nel 2014 e proprietaria del brand Gustamente, che a Budrio (Bologna) produce e commercializza da gennaio «il primo tortellino industriale al mondo senza glutine e ambient, ovvero con 150 giorni di vita a temperatura ambiente». Il 70% del prodotto è venduto in farmacie e negozi specializzati e il target di riferimento comprende «intolleranti al glutine, al lattosio e vegetariani».
  La Sarchio di Carpi, 50 dipendenti e 13 milioni di fatturato, è da 35 anni nel mercato dei prodotti biologici, gluten free e vegan. Sandra Mori, responsabile marketing racconta che «negli ultimi anni sono aumentate le diagnosi di celiachia ma si è anche ampliato il fenomeno della gluten sensitivity, persone che eliminando dalla dieta alimentare il glutine si sentono meglio. Indubbiamente il consumo odierno di grano è eccessivo. Noi consigliamo a tutti di diversificare anche con miglio, quinoa e grano saraceno, materie prime sulle quali puntiamo molto». E a Vinitaly debuttano Lambrusco e Pignoletto certificati Biovegan. Li presenta TerraQuilia di Guiglia (Modena), dove il patron Romano Mattioli adotta il metodo di produzione «ancestrale». Perfino il Consorzio del Prosciutto di Parma ha convinto i suoi 150 produttori a sostituire la farina tradizionale con quella di riso per la patina esterna delle cosce, mentre tra quelli del Consorzio della Piadina Romagnola c'è chi lancia varianti senza strutto o con farina di kamut o di grano saraceno. La richiesta di piadine «integrali, biologiche e light» è in aumento, conferma Giorgio Dal Prato, ad della ravennate Deco, mentre Luca Comellini, presidente dell'associazione Squacquerone di Romagna Dop e alla guida di un caseificio a Castel San Pietro, racconta che da circa un anno produce «una piccola parte di squacquerone con caglio vegetale e senza lattosio perché quello con clienti più attenti è un mercato in espansione. C'è una piccola differenza nei costi di produzione, perché bisogna delattizzare il prodotto che sul mercato vale 40 o 50 centesimi al chilo in più rispetto a quello Dop, ma sono due cose diverse: il mercato non ne risente, non c'è concorrenza».
  Un capitolo a parte merita invece l'esperienza del Caseificio Bertinelli di Parma, «unica realtà al mondo con certificazione Dop e Kosher, ovvero seguendo le regole della Torah. La prima forma di Parmigiano Reggiano Kosher - racconta il ceo Nicola Bertinelli - è stata tagliata a Expo lo scorso ottobre, dopo un anno di stagionatura e due di studio seguiti dalla comunità ebraica italiana». Il mercato di riferimento di questo formaggio, certificato dal rabbino di Brooklyn ( dove ha sede l'ente «OK Kosher Certification») e con due suoi addetti (Mashgiach) che ogni giorno ne controllano la produzione secondo i canoni biblici, è quasi tutto all'estero. «Solo il 5% resta in Italia - continua Bertinelli - in città come Roma, Trieste, Milano e Livorno dove ci sono grandi comunità ebraiche. Ci crediamo molto: prevediamo 5.000 forme all'anno, con l'obiettivo di salire da 20 a 35 al giorno». L'investimento per arrivare al Kosher è stato di circa 2,5 milioni di euro, i costi di produzione e quelli di vendita più alti del 20-25% rispetto al Parmigiano classico.
  All'estero guarda anche Daniele Beccati del comitato promotore per la certificazione Igp del Cappellaccio di Ferrara, che ora si può trovare nella variante proposta da Sapori&Dintorni di Conad come «Tortelloni di zucca ferrarese», che non è fatto a mano come l'Igp. «Su richiesta - precisa - produciamo cappellacci biologici per il mercato estero, soprattutto francese».
  Ma c'è il rischio che questo fiorire di varianti inquini e danneggi le tipicità emiliane? Mauro Tonello di Coldiretti non lo pensa perché «i sapori sono diversi e i nostri prodotti tradizionali restano eccellenze intoccate». Anche l'assessore regionale Simona Caselli è convinta che «siano tipologie di clienti diversi». E teme piuttosto le le imitazioni, il cosiddetto italian sounding che si accanisce contro le eccellenze della nostra regione, leader europeo con 43 specialità tutelate e un valore alla produzione di oltre 2,5 miliardi di euro, pari al 40% del dato nazionale e al 15% di quello europeo.

(Corriere Imprese - Bologna, 11 aprile 2016)


Più sicurezza negli aeroporti italiani: si va verso il "modello Tel Aviv"?

di Andrea Lovelock

 
Aeroporti blindati? Filtri-sicurezza esterni alle aerostazioni? Tutti ne parlano ma nessuno lo conferma: in questi giorni è in atto un confronto tecnico tra l'autorità aeroportuale di Fiumicino, il ministero degli interni e l'Enac per valutare la fattibilità di un sistema di sicurezza che adotti il cosiddetto "modello Tel Aviv", ovvero il controllo di biglietti e bagagli nelle aree antistanti l'ingresso delle aerostazioni.
Dall'Enac giunge solo la conferma di colloqui avviati, così come da Fiumicino ci si limita ad ammettere che le autorità preposte ne stanno valutando l'operatività, ma si tratta di una decisione che spetta esclusivamente al ministero degli interni. E sulla fattibilità di questo modello israeliano che mira a monitorare prima dell'ingresso nelle aree aeroportuali, si interrogano anche gli operatori del settore turistico. Una simile procedura imporrebbe, infatti, ben altre tempistiche e uno smistamento logistico dei flussi di passeggeri. A Roma, con un movimento giornaliero di quasi 100mila passeggeri, è davvero fattibile un controllo ad personam fuori dalle aerostazioni?
E per Milano-Malpensa e Venezia, altri scali internazionali molto sensibili alla sicurezza per il transito di milioni di stranieri? Per molti osservatori ciò sarebbe possibile solo chiedendo ai passeggeri - come del resto avviene da anni a Tel Aviv - il sacrificio, per loro stessa tutela, di presentarsi in aeroporto almeno 3 se non addirittura 4 ore, prima della partenza del volo. Allo scalo israeliano di Ben Gurion sono operativi ben 5 livelli di controllo-sicurezza: i primi due avvengono all'esterno dello scalo con personale addestrato e metal detector, mentre gli altri tre vengono effettuati all'interno dell'aerostazione, con una minuziosa ispezione a campione di bagagli e passeggeri. Dalle nostre parti i filtri sono decisamente meno invasivi e i tempi pre-imbarco meno estenuanti, anche se, ad esempio, per i voli verso gli States, a Fiumicino, tutte le compagnie aeree suggeriscono di presentarsi in aeroporto almeno tre ore prima. Ma estendere le procedure di controllo a tutti i voli imporrebbe ben altro approccio al problema dei controlli.
Uno scaglionamento orario dei flussi sarebbe l'unica modalità percorribile per non paralizzare l'operatività di uno scalo internazionale come Fiumicino. Rumors vicini al ministero degli Interni, danno per possibile una soluzione alternativa: adottare all'esterno dell'aerostazione dei controlli a campione per passeggeri e bagagli. Una misura dissuasiva ma non del tutto efficace.

(Agenzia di Viaggi, 11 aprile 2016)


Il Ministero delle Finanze israeliano pubblica un bando per le nuove auto blindate

GERUSALEMME - Il ministero delle Finanze israeliano ha pubblicato oggi il bando di gara per l'acquisto delle nuove auto blindate per ministri e funzionari. Lo riferisce il sito internet dell'emittente israeliana "Arutz sheva". Da quanto si apprende il bando prevede l'acquisto di 40 veicoli blindati che dovranno avere un costo massimo di 250 mila shekel ciascuno, circa 58 mila euro. La decisione è nata dalla necessità di ammodernare il parco delle auto blindate con le nuove tecnologie disponibili. Ogni veicolo sarà personalizzato in base alle esigenze del suo destinatario, soprattutto in base alle minacce che potrebbe essere chiamato ad affrontare. Il bando prevede contratti di locazione per due anni con la possibilità di rinnovo.

(Agenzia Nova, 11 aprile 2016)


Quadraro, l'altra deportazione

Roma, ottobre 1943: nel mirino i carabinieri considerati pericolosi dai nazisti. Il racconto degli scampati.

di Paolo Brogi

ROMA - Il 17 aprile del 1944 i tedeschi rastrellarono il Quadraro e deportarono in Germania parecchie centinaia di romani, il numero esatto è ancora oggetto di ricerche, intorno ai 900 comunque i romani destinati a trasformarsi in «schiavi di Hitler. La deportazione sarà ricordata il 15 aprile in Campidoglio. Ma proprio al Quadraro mesi prima, il 7 ottobre del 1943, i tedeschi avevano portato a termine una delle azioni di cattura e di successiva deportazione ai danni dei carabinieri: nell'operazione che coinvolse in tutta la città oltre duemila carabinieri, ritenuti dai tedeschi pericolosi perché fedeli al Re, e che precedette di una decina di giorni la deportazione degli ebrei dal Ghetto, ecco che cosa successe al Quadraro. Lo ha raccontato, in una ricerca condotta sul Quadraro da Pierluigi Amen dell'Anrp, un carabiniere oggi giunto all'età di 94 anni, che rivela per la prima volta come l'azione dei tedeschi non fosse completamente inattesa dai carabinieri. Almeno non da Raffaele Vidoni che allora riuscì a mettersi in salvo e che ha rivelato ora quei momenti drammatici a Roma.
   «Nel luglio del '43 ero divenuto portaordini segreto dipendente dal Comando della Compagnia Autonoma del Comando Supremo dello Stato Maggiore dei Carabinieri, con sede in Via Nazionale - ha raccontato Raffaele Vidoni -. Quando Roma divenne città aperta, alcuni comandi vennero trasferiti altrove». Lui finì a Orvieto ma dopo l'8 settembre un fonogramma lo convocò a Cinecittà: «In realtà mi presentai al Quadraro, la stazione di Cinecittà era stata bombardata. Poi arrivò ottobre e un bel giorno a Piazza Mazzini, ai primi del mese, un amico arruolato nei battaglioni Mmi mise in guardia: "Nel mio ambiente circola la voce che questa notte i tedeschi verranno a prendervi tutti, voi Carabinieri che siete del re e vi porteranno in Germania"».
   «Io gli credetti e corsi alla Legione allievi dove c'erano due carabinieri di Torre Alfina, il mio paese di origine, che però non vollero darmi retta. Tornai al Quadraro dove allertai altri due carabinieri e il vice-brigadiere. Decidemmo quindi di passare la notte in un fienile lì vicino. Il mattino dopo tornammo a fare capolino in caserma dove ci accolse, furibondo, il maresciallo: «Dove diavolo eravate finiti? È arrivato un ordine perentorio che vieta di muoversi dalla caserma perché sta per passare un'ispezione della massima importanza!». Noi replicammo spiegandogli che sapevamo bene di che «ispezione» si trattasse. Prendemmo le nostre cose e facemmo per uscire quando il maresciallo ci si piazzò davanti per impedircelo. Il Vice-brigadiere allora mise mano alla pistola e disse: « Marescià, non vorrai mica lasciarci la pelle subito?» Il maresciallo se ne fece una ragione e così riuscimmo ad andarcene. Poi il vice-brigadiere telefonò alla legione allievi dove aveva un amico telefonista al centralino: «Che succede lì da voi?» «Ci sono i tedeschi nel cortile che stanno caricando tutti sui camion!»,
   Vidoni si salvò in questo modo. Pochi mesi dopo, nell'aprile, i tedeschi sarebbero tornati ad infierire su quel Quadraro che consideravano un nido di vipere.

(Corriere della Sera - Roma, 11 aprile 2016)


Pax Christi al fianco di ebrei e musulmani: «Non dimentichiamo la Palestina»

di Marianna Lotito

 
Micaela Ferrara, Marco Ramazzotti Stockel e Taysir Hasan
CORATO (BA) - Venerdì pomeriggio all'ingresso della biblioteca comunale c'erano due mezzi della polizia di Stato, diversi agenti, ed anche l'unità cinofila. Nella sala conferenze stava per cominciare un incontro diverso dal solito.
   Uno dei due relatori aveva appena iniziato a parlare. Ad un tratto ha alzato la testa, si è interrotto. Ha spalancato gli occhi, e solo quando i poliziotti lo hanno tranquillizzato ha ripreso a parlare. «Loro sono qui per me» ha detto Marco Ramazzotti Stockel, un ebreo iscritto a "Ebrei contro l'occupazione" e a "European Jews for a Just Peace". Da oltre 35 anni lavora nella cooperazione per lo sviluppo come socio-economista e antropologo. Capo progetto e rappresentante di Ong italiane e straniere e di imprese di progettazione italiane e straniere, ha lavorato anche per le Agenzie delle Nazioni Unite quali Fao e Unicef. Esprime un impegno instancabile per la pace e la giustizia: in tanti preferirebbero che smettesse di svolgere le sue attività.
   Al suo fianco Taysir Hasan, storico fondatore della Comunità palestinese in Puglia, e del Centro Interculturale Abusuan. Lui è nato in Cisgiordania, in quella parte della Palestina che fu occupata nel 1967.
   Il Punto Pace Pax Christi li ha invitati a Corato perché sono l'esempio del fatto che palestinesi ed ebrei possono «costruire ponti e non muri».
   «I sionisti - ha detto Ramazzotti Stockel - parlano dei musulmani come "atavici nemici": è una bugia. Gli ebrei cacciati dalla regina di Spagna si sono rifugiati proprio nel mondo arabo. Io ho vissuto in 13 paesi musulmani, ad Algeri ho potuto ammirare le opere esposte all'Accademia delle belle arti: posso assicurare che non si notano differenze di indumenti tra ebrei e arabi. Quello che oggi vediamo in Palestina è la conseguenza della creazione dello Stato di Israele: è la strategia usata dal mondo occidentale per provare a pulirsi la coscienza dopo le persecuizioni naziste».
   Eppure oggi «i palestinesi sono sotto occupazione» ha aggiunto Taysir Hasan. «Questo accade perchè Israele vuole colpire il futuro della Palestina. Sta aumentando anche il grado di infertilità grazie agli elementi chimici diffusi con le armi. Quello di Israele è uno Stato razzista, colonialista: se io fossi altrove rischierei il carcere o la lapidazione per questa mia affermazione» ha ammesso.
   Della stessa teoria anche Ramazzotti Stockel, senza mezzi termini parla di «pulizia etnica». Pensando agli uomini e alle donne della sua religione, ha detto: «posso capire le ragioni di chi è andato in Israele ma non posso farle mie. Io sono un italiano ebreo, ho giurato fedeltà alla bandiera italiana e sono profondamente contrario al sionismo. E' una minaccia sempre più grande per la pace nel Mediterraneo».
   Dopo aver visto insieme a Micaela Ferrara, moderatrice della serata, alcune immagini dei bombardamenti contro i palestinesi, il messaggio è diventato uno solo: «questa è la strategia dell'orrore che si vive dall'altra parte del nostro mare. Vi chiediamo solo una cosa: non dimenticatelo. Siamo coinvolti tutti, fino al collo».

(CoratoLive.it, 10 aprile 2016)


Riportiamo questo articolo per sottolineare ancora una volta che l'obiettivo "Stato d'Israele" sembra ormai accomunare tutti i tipi di persone: laici, religiosi, islamici, cristiani, ebrei, ecc. Tutti hanno una ragione per colpirlo e sempre si tratta di una ragione di superiore ordine morale. La vastità degli argomenti usati fa pensare effettivamente a una ragione di ordine superiore, ma di tipo inverso: di ordine diabolico. M.C.


Perché i Fratelli Musulmani sono da bandire

di Magdi Cristiano Allam

Angelino Alfano è stato coerente. Ha vietato l'ingresso in Italia di Tareq Suwaidan, un apologeta dello sterminio degli ebrei, dell'annientamento di Israele, dell'odio nei confronti dei cristiani, della legittimazione del terrorismo islamico suicida.
   Ora il ministro dell'Interno sia coerente fino in fondo con quanto lui stesso ha evidenziato nel legame tra i «contenuti radicali antioccidentali e antisemiti» di Suwaidan, con «la sua nota vicinanza ai Fratelli Musulmani». Al-fano promuova la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani, vietati in Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita in quanto organizzazione terroristica, così come la sua filiale nei Territori palestinesi, Hamas, è messa al bando in Israele, Usa, Ue. Nel logo dei Fratelli Musulmani, ed è lo stesso logo di Hamas, si vede il Corano circondato da due spade affilate che si intersecano con in mezzo l'appello di Allah: «E preparate». Che introduce il versetto coranico (8,60): «E preparate contro di loro forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Allah e vostro». In parallelo Alfano sanzioni i sostenitori di Suwaidan. Aboulkheir Breigheche, portavoce dell'Associazione Islamica Italiana degli Imam e delle Guide Religiose, che ha ufficialmente invitato Suwaidan in Italia, e che lui ha definito «persona illuminata, aperta, moderata». Breigheche è presidente della Comunità Islamica del Trentino-Alto Adige, è tra fondatori dell'Ucoii, è stato presidente dell'Alleanza Islamica in Italia, che rappresenta ufficialmente i Fratelli Musulmani essendo membro della Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa (Floe). Davide Piccardo, presidente del Coordinamento delle Associazione Islamiche di Milano e Monza-Brianza, per cui Suwaidan «subisce questo ostracismo a causa delle sue posizione antisioniste».
   Alfano dovrebbe allontanare Nibras Bregheiche, che fa parte del direttivo dell'Associazione Islamica Italiana degli Imam e delle Guide Religiose, dal Tavolo di confronto con le Comunità e le Associazioni islamiche da lui costituito nel 2015. Così come dovrebbe prendere le distanze da questa associazione e dalle altre realtà dell'islam militante che hanno condiviso la visita in Italia di Suwaidan: l'Alleanza Islamica in Italia e il Consiglio Islamico di Verona. Ugualmente Alfano prenda atto che il presidente dell'Ucoii, Izzedin Elzir, fa parte sia del Consiglio dei Garanti dell'Alleanza Islamica in Italia sia nel Direttivo della Fioe. Se Alfano non lo farà, vuol dire che si limita a colpire la punta dell'iceberg ma non ha il potere o il coraggio di scardinare l'iceberg. Che è più interessato a un'operazione mediatica che non a liberare l'Italia da chi vuole sottometterci all'islam con le buone o con le cattive.

(il Giornale, 10 aprile 2016)


Bernie, il mio compagno di stanza. «Ragazze, birre e soldi. La notte discuteva di diritti civili»

Era il campione dei diritti afroamericani in una università segregata. Chissà se lo sanno i neri che votano per Hillary.

di Massimo Gaggi

 
NEW YORK «Nessuno di noi era benestante a Flatbush a quei tempi, parliamo di 55 anni fa. Ma Bernie era quello messo peggio. I genitori litigavano sull'uso dei pochi dollari guadagnati dal padre. E lui, nel gruppo degli amici, aveva la casa più piccola di tutti. Spesso non aveva i soldi per pagare da bere alle ragazze con cui voleva uscire la sera. Quando prendemmo casa insieme, vicino al Brooklyn College dove studiavamo, per lui fu anche una fuga da quel clima di cupa povertà. Che, però, l'ha segnato per tutta la vita».
   Steve Slavin, il «roommate» di Bernie Sanders, mi accompagna in giro per Brooklyn, il quartiere nel quale il candidato democratico è nato e cresciuto e dove ha studiato prima di trasferirsi a Chicago e poi in Vermont. Bernie ha appena finito il comizio del «ritorno a casa», in mezzo alla 26esima strada all'angolo di Avenue P. Introdotto dall'attore Mark Ruffalo, è salito sul palco nella strada zeppa di gente, uscendo dal palazzo nel quale è cresciuto con la sua famiglia. E ha indicato, commosso, una finestra: «Eravamo là, al secondo piano, appartamento 2D. Laggiù quel grosso edificio è il mio liceo, il James Madison».
Il circo delle primarie si sposta a New York dove si vota fra 9 giorni. Aria di casa per Hillary Clinton, ex senatrice dello Stato e newyorchese d'adozione, ma anche per Sanders (oltre, ovviamente, a Trump, tra i repubblicani) che parla ancora con l'accento di Brooklyn, anche se in Senato rappresenta da decenni il Vermont.
   Ci voleva il ritorno alle radici per farlo parlare della sua storia, dico a Steve mentre entriamo nel liceo Madison. «E' vero», risponde l'amico degli anni giovanili, 75 anni, un docente di economia in pensione. «Ed è interessante: Bernie ha fatto una scelta opposta rispetxxx - to a Obama che nella campagna del 2008 puntò molto sullo storytelling. La narrativa del ragazzo nero che ce l'ha fatta, la madre eroica, il padre perduto. Tutto questo per Bernie non conta: contano solo i temi, il messaggio politico, i problemi da affrontare. E' come se avesse capovolto l'insegnamento di Marshall McLuhan: il mezzo è il messaggio. Per Sanders, invece c'è solo il messaggio e lui diventa il mezzo, quasi impersonale, per trasmetterlo».
Condivide? Ed era così anche da giovane? «Ammiro la sua determinazione nell'aggredire i problemi, ma non condivido la rinuncia a raccontare la sua storia: se vuoi diventare presidente, la gente vuole sapere anche chi sei come persona. Ma è sempre stato così, anche allora: le ragazze, la musica nei vecchi mangiadischi, ma poi passavamo notti intere a discutere di discriminazioni e diritti civili».
   Saliamo nelle classi in cui Bernie ha fatto l'high school, po Steve mi mostra con orgoglio il «wall of distinction», la grande targa con l'elenco e la foto degli studenti che hanno fatto strada: quattro premi Nobel come Robert Solow; due giudici della Corte Suprema (uno è Ruth Bader Ginsburg tuttora in carica), l'ambientalista Barry Commoner, tre senatori (oltre a Sander c'è Chuck Schumer, probabile futuro capo dei democratici al Congresso) e poi scienziati, chirurghi, campioni di baseball, produttori cinematografici. Dicono che abbia studiato qui per un anno anche Woody Allen, ma dalla bacheca non risulta.
Niente male per un liceo di Flatbush. Tutti bianchi, però. «Questa era una zona ebraica, soprattutto ebrei russi, e d'immigrazione, irlandesi, italiani. A quei tempi c'era una segregazione di fatto. Nessuno affittava o vendeva casa a un nero oltre Foster Avenue. Ora è cambiato, ma allora era così. Bernie se ne rese conto poco a poco e si infiammava».
   Faceva politica già da giovane? Gli piaceva studiare? «Più che studiare gli piaceva leggere», racconta Slavin mentre andiamo al Brooldyn College e poi alla casa, ora dipinta di rosa, nella quale ha vissuto con Sanders. «Nella biblioteca del college potevi prendere fino a quattro libri, otto se preparavi un esame. Lui ne prendeva sempre otto. Ma non prepari nulla, obiettavo. E lui: ma ci sono tante cose interessanti da leggere. E' stato sempre così: anche quando, morta la madre, andò alla Chicago University. Divorava libri ma non gli interessava preparare gli esami, fare bella figura con i professori. Anzi, lì si mise a fare il campione dei diritti dei neri in un'università ancora segregata. Chissà se lo sanno i neri che votano in massa per Hillary Clinton».
Il quartier generale della campagna di Sanders a Gowanus, un ex distretto industriale, ora il luogo più cool di Brooklyn, è pieno di ragazzi di colore, e Bernie sta andando ad Harlem per parlare all'Apollo Theatre, tempio della New York nera. Ma per spezzare il legame degli afroamericani coi Clinton non bastano le contestazioni di «Black Lives Matter» (le vite dei neri contano) contro Bill.

(Corriere della Sera, 10 aprile 2016)



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Nelle presidenziali americane tra i temi anche la domanda: che vuol dire essere ebrei?

La debole identità ebraica di Bernie Sanders, incentrata solo sul ricordo della Shoà.

di Ugo Volli

 
Bernie Sanders oggi
Come parecchi altri lettori di notizie della politica internazionale, sono stato colpito da una dichiarazione di Bernie Sanders, il candidato di estrema sinistra che contende la candidatura democratica a Hilary Clinton nelle primarie americane. E' possibile che, quando leggerete questo articolo, l'ex segretario di stato americano e moglie dell'ex presidente Clinton, appoggiata dal vertice del partito e da tutte le relazioni costruite in trent'anni di permanenza nell'élite della politica internazionale, sia riuscita a sconfiggere il solo senatore Usa che si definisca socialista. Oppure proprio il suo evidente potere potrebbe danneggiarla presso un elettorato che negli Usa come da noi ha un orientamento complessivamente antipolitico. E ci sono altre ragioni (lo scandalo delle email, il caso non chiarito dell'uccisione dell'ambasciatore americano in Libia, ecc) che potrebbero quantomeno rallentare la sua corsa. Ma per il mio ragionamento questo non conta, quel che mi interessa è il contenuto del discorso di Sanders, solo enfatizzato dal suo imprevisto successo elettorale - giacché esso è largamente condiviso. Sanders, come è noto, è il primo ebreo ad avere una qualche possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti. E' un ebreo però che non rispetta neanche vagamente i costumi religiosi ebraici, che non nasconde di appartenere allo schieramento politico americano contrario a Israele, che non parla volentieri del suo ebraismo. Un candidato alla presidenza deve però rendere conto di tutti gli aspetti della sua vita e durante un dibattito elettorale gli è stato chiesto se e come si senta ebreo. La risposta è stata piuttosto sorprendentemente positiva e la spiegazione è stata che nel suo ebraismo è determinante il ricordo della Shoà: "I nazisti hanno eliminato buona parte della mia famiglia - ha detto in sostanza - e questo non posso dimenticarlo, ha segnato tutta la mia vita politica."
  Si pongono qui due problemi, che riguardano non solo il candidato americano, ma in maniera diversa moltissimi ebrei americani ed anche europei. Il primo è il tema dibattutissimo di che cosa significhi essere ebrei, o ancor meglio di quali ne siano i tratti decisivi, le motivazioni esplicite. Il secondo riguarda il senso della memoria della Shoà, le conclusioni che se ne devono trarre. Sul primo punto è evidente che si incontrano di fatto modi molto diversi di identificazione con l'ebraismo, dal rispetto delle regole tradizionali e in genere dall'osservanza religiosa, al senso di responsabilità derivante dall'appartenenza a un popolo, dall'attaccamento alla produzione culturale ebraica classica o più spesso contemporanea al sostegno dello Stato di Israele, per finire col ricordo della Shoà.
L'ebraismo si è mantenuto nella storia per millenni come osservanza della legge religiosa, o ancor meglio della forma di vita autonoma e piena di senso ma
non facile che ne deriva.
Naturalmente queste ragioni sono tutte compatibili e spesso di fatto si ritrovano insieme. Non è possibile analizzarle qui, ma è chiaro che alcune sono storicamente più durature di altre. L'ebraismo si è mantenuto nella storia per millenni come osservanza della legge religiosa, o ancor meglio della forma di vita autonoma e piena di senso ma non facile che ne deriva. Al contrario tante catastrofi si sono purtroppo abbattute sul nostro popolo nel tempo, alcune percepite con acutezza analoga alla Shoà, come le crociate, la cacciata di Spagna, i pogrom del XVII secolo in Ucraina, per non parlare dei tentati genocidi persiani o egizi e delle stragi romane. Il popolo ebraico ne conserva la memoria, ma essi non sono più certamente occasioni di identificazione. Questo è un rischio che si incomincia a percepire anche per la Shoà, nonostante la sua terribile unicità e tutto quel che si fa per mantenerne il ricordo. Sanders appartiene alla prima generazione dopo il genocidio, presto arriveremo alla quarta. E' difficile pensare che qualcuno, che non condivide le altre ragioni di appartenenza all'ebraismo, si senta ebreo perché i suoi bisnonni sono sopravvissuti a un genocidio svoltosi quasi un secolo prima di lui. Il tempo può non cancellare il ricordo, ma l'appartenenza sì; se non ci sono altre ragioni, gli antenati da "noi" diventano "loro". Questo limite è ben iscritto nella nostra tradizione, che ha sempre messo al centro della memoria le liberazioni di cui rallegrarsi più che le stragi e i pericoli che ci hanno colpito. Dunque un'identificazione ebraica limitata alla Shoà è parziale, insufficientemente definita. Essere ebrei non può significare semplicemente ricordare di appartenere a una famiglia che ha subito un tentativo di genocidio. Bisogna almeno chiedersene il perché.
  Arriviamo così velocemente alla seconda questione: che cosa significa per un ebreo ricordare la Shoà? La lezione che ne hanno tratto quelli come Sanders è probabilmente questa: il genocidio è la conseguenza estrema del carattere oppressivo e divisivo del fascismo, del privilegio di una nazione che logicamente ha
C'è stato molto antisemitismo in tutti i socialismi, a partire dai modelli ottocenteschi. E del resto il socialismo difficilmente è davvero egualitario, al contrario spesso assume aspetti autoritari che lo rendono simile al nazismo.
finito con l'assumere un'ideologia razzista. Bisogna opporvisi e lottare per l'uguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani. Si può certamente essere d'accordo con questa catena di idee, anche se non con il passo ulteriore che essi ne traggono: ricordare la Shoà e lottare contro di essa richiederebbe di aderire al socialismo. Il fatto è che c'è stato molto antisemitismo in tutti i socialismi, a partire dai modelli ottocenteschi, fino almeno alla pratica sovietica. E del resto il socialismo difficilmente è davvero egualitario, al contrario spesso assume aspetti autoritari che lo rendono simile al nazismo, il quale del resto si definiva "nazional-socialismo". Inoltre l'antisemitismo precede il razzismo ottocentesco, ne è concettualmente e passionalmente autonomo, come mostra la storia.
  Il ricordo della Shoà e la decisione a impedire che si ripetesse hanno indicato al mondo sionista un ragionamento diverso, anche se non certo incompatibile, quello che si può associare all'intuizione anticipata di Herzl: la Shoà è stata la terribile prosecuzione industriale delle persecuzioni antisemite che si sono ripetute in Europa da diciassette secoli (e nel mondo musulmano da tredici). Il solo modo di farla finita con la sequenza delle stragi è vivere per conto proprio, costruire una sovranità e difendersi dalle aggressioni, come gli ebrei non avevano potuto fare nella diaspora e uno stato invece può fare. Insomma, dalla debole identificazione di Sanders come discendente delle vittime può e deve discendere quella più ricca e impegnativa di membro di un popolo che lotta per non ritrovarsi più in posizione di inferiorità e nel farlo ritrova le proprie radici anche territoriali, amplia la propria cultura, l'economia e la tecnica, conserva in maniera attiva la sua forma di vita tradizionale, insomma è l'Israele reale di oggi, con tutta la complessità e la dialettica ma anche la ricchezza che lo caratterizza, in cui hanno avuto spazio l'utopismo sociale come la tradizione religiosa. Sennonché Sanders e quelli come lui questo salto non lo vogliono fare, perché implica una responsabilità e un'identificazione attiva verso il popolo ebraico, e si limitano a pensare vagamente che l'ebraismo si giustifichi come possibile fondamento del socialismo e dell'universalismo. Al contrario non amano la specificità ebraica, l'idea di una nazione che ritrova se stessa e la contrastano attivamente. Per questo sono ebrei, ma inutili e perfino pericolosi per il loro popolo.

(Shalom, aprile 2016)


I serbi e il ghetto di Venezia

Un libro apparso in Serbia racconta con tono fiabesco l'antico rapporto degli ebrei fuggiti dall'Europa dell'Est con il ghetto di Venezia ed i personaggi che lo popolarono.

di Valerio Di Donato

Tra i pochi Stati ad essersi ricordati del Cinquecentenario del "Ghetto di Venezia", c'è la piccola Serbia, potenza decaduta dei Balcani, legata da un inesausto filo di empatia culturale con l'Italia. Come riconferma l'interesse di pubblico con cui è stato accolto il 29 marzo scorso al centro culturale Parobrad di Belgrado, "La sirena che sorride - Cinque fiabe sul Ghetto di Venezia", della scrittrice, traduttrice e giornalista serba [Mirjana Ognjanovic, impreziosite dalle illustrazioni di Aleksandar Palavestra, affermato archeologo e pittore serbo. Presenti l'editore Ivan Bevc, lo scrittore di origine ebraica Filip David e il pittore Slavko Krunic, Ognjanovic ha richiamato la lezione di Italo Calvino: "Le fiabe sono di natura migratoria, viaggiano nel tempo e nello spazio, attraverso secoli e continenti, ma anche attraverso gli strati sociali".
La "sirena" che accompagna e ammalia il lettore lungo le calli e dentro gli sbilenchi palazzi della domiciliazione coatta, che ospitavano qualche migliaio di ashkenaziti, sefarditi, ebrei italiani e israeliti fuggiti a Venezia dalle persecuzioni in Europa centro- orientale, si immerge e affiora nelle vite di personaggi di epoche differenti, e in fondo senza tempo. C'è il professore di Belgrado che trova il Golem nel pozzo del Ghetto.
C'è il fumettista Hugo Pratt, che considerava Venezia centro del mondo e la girava senza sosta.
C'è la poetessa rinascimentale Sara Copio Sullam, animatrice del fermento culturale nella Serenissima della prima metà del Seicento.
C'è Leon Modena, rabbino geniale e controcorrente, rovinato dal gioco d'azzardo.
C'è Thomas Coryat, viaggiatore inglese amico di Shakespeare, più fortunato come autore di un documentatissimo diario che come poeta, che alla fine si innamora di un'ebrea arrivata al Ghetto dalla Grecia.
Chiude l'erudita escursione fiabesca di Mirjana Ognjanovic, la storia di un editore contemporaneo, con molti dubbi sul valore del proprio lavoro in un'epoca di diffusa superficialità verso i bei libri, come un tempo si pubblicavano a Venezia. Fino a quando non riceve una lettera dal Ghetto lagunare e ritrova finalmente la passione professionale perduta.

(globalist, 9 aprile 2016)


Il gelataio italiano che salvò ebrei a Budapest

Francesco Tirelli Giusto tra le Nazioni. Sopravvissuti cercano discendenti.

di Massimo Lomonaco

TEL AVIV - L'insegna di una gelateria italiana nella Budapest dell'autunno del 1944, sconvolta dalla furia antisemita delle 'Croci Frecciate' e dei loro padroni nazisti, rappresentò una speranza di vita per gli ebrei in fuga dalla Shoah. Nel suo retrobottega furono molti quelli che si nascosero e si salvarono grazie alla determinazione e al coraggio del proprietario, un italiano di Campagnola Emilia che nel 2008 è stato nominato da Yad Vashem Giusto tra le Nazioni: il suo nome era Francesco Tirelli. Come Giorgio Perlasca, il gelataio di Budapest ha riscattato dal fango l'onore nazionale. Ancora oggi, i sopravvissuti a quell'orrore, tra questi Chaim Meyer di Gerusalemme, ne stanno cercando i discendenti per poterli ringraziare. Allo stesso modo di Yad Vashem, che vuole rendere un omaggio pubblico ad un uomo straordinario la cui travagliata storia, nel dopo Shoah, ricorda un po' quella di Oskar Schindler. Proprio Meyer, a questo scopo, si è rivolto all'avvocato Beniamino Lazar, del Comites Italia di Israele, per chiedere all'ambasciata italiana di Tel Aviv di rintracciare i discendenti di Francesco Tirelli e di permettere così un atto che da tempo invocano. Quello che l'ANSA ha appurato è che almeno uno dei suoi tre figli, Elio Tirelli, vive in Italia e risiede tuttora nella provincia di Piacenza. Ma i tentativi di contattarlo, tramite il sindaco del paese, sono andati a vuoto: l'uomo - come già accaduto anni fa - ha declinato ogni commento sulla vicenda del padre.
   La storia di Francesco Tirelli è stata raccontata tra i primi da Angiolino Catellani, un insegnante di Campagnola Emilia. In un saggio apparso sul numero 118 dell'ottobre del 2014 della rivista Ricerche Storiche (Istoreco), Catellani ha ricostruito quello che accadde nel 1944 e che è stato testimoniato dai sopravvissuti con lo Yad Vashem. Tirelli (1898-1954), lasciando la famiglia in Italia, emigrò a Budapest durante gli anni della guerra, dove aprì una piccola gelateria. Fu lì che - nel momento della massima pressione antisemita, con l'avvio delle deportazioni degli ebrei ungheresi verso Auschwitz a partire dal maggio del 1944 - la gelateria diventò dapprima il rifugio di pochi, poi di molti. Nella descrizione fatta da Yad Vashem - e ripresa da Catellani - si rivela che Tirelli organizzò "un certo numero di 'case di salvataggio' per gli ebrei. Alcuni di loro, da 15 a 20 persone, erano nascosti nel retrobottega del suo negozio e dormivano sugli scaffali del magazzino. Altri avevano trovato dei nascondigli altrove". Il 'gelataio' ogni giorno "visitava i suoi protetti nei nascondigli, portando loro cibo e occupandosi delle loro necessità sanitarie".
   Sia Mayer sia Chana Hedwig Heilbrun - che all'epoca dei fatti aveva 6 anni e che nel dopoguerra fu tra le prime a muoversi in favore di Tirelli - hanno testimoniato con Yad Vashem che l'uomo acquistò anche una serie di falsi passaporti per i rifugiati delle case di salvataggio. Heilbrun - che chiamava Tirelli 'papà' - ha raccontato che il 'gelataio', insieme al suo vero padre, fu fermato in quei giorni dalle Croci Frecciate correndo così un rischio mortale non solo per loro ma per tutti i rifugiati. Solo il grande coraggio e la sfacciataggine di Tirelli, che fece passare il padre di Chana per italiano, permise di risolvere la situazione. I contatti tra l'uomo e i 'suoi ebrei' si interruppero dopo la fine della guerra: tornato in Italia, Tirelli emigrò poi in Svizzera, dove gli affari andarono male e finì anche in carcere.
    Morì a Ginevra nel 1954. Ora Meyer - dopo un primo tentativo infruttuoso intrapreso nel 2001 da Chana Hedwig Heilbrun tramite il ministero degli Esteri italiano per rintracciare i discendenti di suo 'padre' - è tornato alla carica scrivendo all'ambasciata di Tel Aviv. E' deciso a dire grazie ai figli del 'gelataio' italiano che a Budapest, negli anni più bui, gli ha salvato la vita.

(ANSA, 9 aprile 2016)


Turchia: allerta terrorismo. Usa e Israele invitano a partire

Gli Stati Uniti e Israele hanno invitato i loro cittadini presenti in Turchia a lasciare il paese per la imminente possibilità di attacchi degli islamisti islamici dell'Isis o di terroristi curdi del Pkk.
L'ambasciata degli Stati Uniti ha emesso quello che è definito un "messaggio di emergenza" parlando di "minacce credibili" alle zone turistiche di Istanbul e di Antalya. Anche quella di Israele ha parlato di "rischi immediati"..
La stampa riferisce di un'imponente presenza di uomini della polizia nel centro di Istanbul dove sono anche presidiate le ambasciate di alcuni paesi tra cui quella italiana.

(ultimaedizione.eu, 9 aprile 2016)


Visite guidate al cimitero israelitico di Vercelli

Domenica prima apertura del 2016. Ingressi ogni 30 minuti per scoprire la storia e i monumenti di un luogo di grande fascino.

Domenica 10 aprile primo appuntamento 2016 con le visite guidate al cimitero israelitico di corso Randaccio: dalle 15 alle 18, con ritrovo all'ingresso dell'area monumentale, sono previste visite guidate ogni 30 minuti.
Oggetto di importanti interventi di restauro, è uno dei più affascinanti cimiteri ebraici piemontesi e, insieme alla Sinagoga di via Foà, rappresenta l'importanza dell'ebraismo a Vercelli; narra il corso della storia e il sensibile cambiamento della tradizione ebraica e dell'osservanza religiosa ottocentesca, più o meno rigorosa, attraverso le sue lapidi: dalle più semplici e spoglie, riportanti le diciture solamente in ebraico, alle più ricche di simbologie tradizionali, alle rappresentazioni fortemente connotate e autocelebrative. Il cimitero, tuttora funzionante, oltre ad essere un essenziale punto di riferimento per gli ebrei e i loro discendenti, è anche un patrimonio culturale che tutti possono ammirare, meritevole ora più che mai di essere salvaguardato, tutelato e rispettato.
Mercoledì 13 aprile, alle ore 18,15, Elia Enrico Richetti, rabbino di riferimento della Comunità Ebraica di Vercelli presenterà il libro del padre, Giorgio Richetti "Tornare a casa. Il percorso di un uomo attraverso i suoi racconti". Il testo è stato presentato lo scorso anno al Salone del Libro di Torino e Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità, ha fortemente voluto organizzare un evento in città, per regalare ai vercellesi la preziosa opportunità di avvicinarsi alla letteratura ebraica. L'appuntamento è alla Libreria dell'Arca di via Galileo Ferraris 77.
Rav Richetti sarà inoltre a Vercelli, in Sinagoga, nel pomeriggio di domenica 17 aprile per l'annuale Dialogo interreligioso con l'arcivescovo don Marco Arnolfo. Il Dialogo è un evento fisso ormai da molti anni e testimonia il confronto che intercorre tra gli ebrei e i cristiani di Vercelli.

(Vercelli24, 9 aprile 2016)


Tareq Mohammed Al-Suwaidan e il razzismo antiebraico

Lettera a Beppe Severgnini

Caro Beppe,
 
il leader islamico Tareq Mohammed Al-Suwaidan dovrebbe prossimamente venire in Italia, fra l'altro per una lezione (a Verona) alla scuola per aspiranti imam. Lo ha dichiarato il portavoce dell'Associazione Islamica Italiana degli imam e delle guide religiose Aboulkheir Breigheche. Ritengo che l'opinione pubblica democratica e di sinistra non dovrebbe lasciare nelle mani di movimenti estremisti o xenofobi la polemica contro questo invito. Tareq Mohammed Al-Suwaidan, infatti, è un personaggio assolutamente impresentabile, le cui passate prese di posizione costituirebbero, in Italia, una grave reato di propaganda razzista. Così infatti - ed è solo uno dei tanti esempi - lo studioso islamico dichiarava in una conferenza a Gaza (ved. video a lato): «Tutte le madri della nazione islamica dovrebbero instillare nei propri bambini l'odio verso gli ebrei». L'affermazione è inserita in un contesto di assoluto odio verso gli ebrei in quanto tali. Chiaramente, un discorso razzista, simile a molti altri di questo leader. Tareq Mohammed Al-Suwaidan si presenta spesso sui media come un difensore dei diritti dei palestinesi. Invece, solo emarginando personaggi antisemiti ed estremisti come lui, i palestinesi potranno ottenere l'appoggio globale necessario per realizzare il proprio diritto ad uno Stato indipendente e per contrastare efficacemente l'occupazione e l'ingiusta politica degli insediamenti realizzate da Israele. Possiamo sperare in una chiara presa di posizione delle comunità islamiche italiane, che finora purtroppo non è giunta, contro l'antisemitismo e l'estremismo di questo leader e perciò contro questo invito?
Luciano Butti


(Corriere della Sera, 9 aprile 2016)


Il lettore vorrebbe scindere il suo appoggio al “diritto” dei palestinesi a uno “Stato indipendente” e la sua critica all’ingiusta politica di Israele” dalle bordate antisemite dell’islamico Al-Suwaidan. Non è possibile. Con patetica ingenuità il lettore spera che le comunità islamiche italiane prendano le distanze dall’istigatore islamico. L'articolo seguente mostra qual è la posizione delle comunità islamiche. M.C.


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Il caso moschee. Piccardo difende l'imam radicale. Una nuova bufera sul leader islamico

di Alberto Giannoni

Davide Piccardo, "musulmano moderato"
Nuova grana per i centri islamici. E nuova polemica per Davide Piccardo, che coordina una parte delle moschee milanesi e - in passato - anche candidato alle elezioni nella lista di Sel. Il caso nasce dopo la decisione del ministero dell'Interno, che ha impedito l'ingresso in Italia di Tareq Suwaidan, imam radicale che le comunità ebraiche italiane hanno definito «un predicatore d'odio della peggior specie», noto per posizioni «antisemite e anti-israeliane». Piccardo ha difeso l'imam. E ha escluso che Suwaidan abbia mai sostenuto posizioni «estremiste o violente». «E uno strenuo oppositore delle oscurantiste» - ha spiegato - «subisce questo ostracismo solo a causa delle sue posizione anti-sioniste a sostegno del popolo palestinese».
Queste parole hanno preoccupato non poco gli ebrei milanesi: «Sono e sarò sempre favorevole ai luoghi di culto, anche e soprattutto per i musulmani - ha premesso Davide Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo ma anche assessore della Comunità ebraica - ma le moschee devono essere gestite da chi ha dato prova di moderazione e di rispetto per tutte le religioni, non da chi difende imam che incitano all'odio verso gli ebrei». «Con queste dichiarazioni di Piccardo - ha aggiunto Romano - il sogno di una moschea dove i musulmani possano pregare in pace si trasforma in un incubo. Per tutti». D'accordo anche Matteo Forte, consigliere comunale centrista. «Le posizioni di Piccardo - ha detto - smascherano definitivamente il Caim e quella parte di islam a cui la sinistra vuole concedere aree pubbliche e moschee». Forte ha chiesto al candidato Pd Beppe Sala di fermare il bando moschee della giunta.

(il Giornale, 9 aprile 2016)


Il terrorismo islamista e la resa dell'Occidente

di Antonio Donno

 
La strage di Charlie Hebdo è solo la provvisoria conclusion e di un processo di annullamento violento della libertà di espressione che è stata un caposaldo della democrazia occidentale. Questo è, in breve, il succo del libro di Giulio Meotti Hanno ucciso Charlie Hebdo. Il terrorismo e la resa dell'Occidente. La libertà di espressione è finita (Lindau). Infatti, Meotti non si limita a stigmatizzare la violenza islamista contro le libertà occidentali, ma risale alla medesima violenza attuata dalle Brigate Rosse e dai regimi comunisti. C'è una continuità di violenza che, pur riferendosi alla religione o all'ideologia politica o ad ambedue, porta alle stesse conclusioni: il terrorismo come strumento di lotta politica per annichilire l'avversario sul piano della sua libertà di esprimere le proprie opinioni e, quindi, di vivere in una società libera. Lenin docet. Giustamente, Meotti inizia il suo libro ricordando come nel covo delle Brigate Rosse che uccisero Carlo Casalegno furono rinvenuti numerosi ritagli di giornale con i suoi articoli. Ecco:
  Casalegno non doveva scrivere quegli articoli, perciò doveva morire. Allo stesso modo la libertà di espressione fu ferocemente perseguitata nei regimi comunisti. La lista è sterminata. Boris Pasternak, Varlam Salamov, Michail Bulgakov, Vasilij Grossman, Anna Achmatova, Osip Mandel'stam furono perseguitati, torturati, deportati. Ma si tratta solo di alcuni nomi tra i tanti. E la condanna a morte di Salman Rushdie, per opera dell'Iran khomeinista, in che cosa si distingue dalle condanne a morte per mano comunista? Gli stessi strumenti e lo stesso fine: abbattere la libertà di espressione. E questo il giusto punto di partenza dell'analisi di Meotti. A rinforzare l'odio islamista verso la liberà di espressione contribui, scrive Meotti, il fatto che ''i giornalisti di Charlie Hebdo furono abbandonati a una minaccia crescente, progressiva, prevedibile, che il coraggio da solo non era sufficiente ad abbattere" (p. 21). Cast l'ipocrisia, il conformismo, la vigliaccheria dell'Occidente sta favorendo l'assalto islamista alle nostre libertà, come lo spaventoso caso di Charlie Hebdo ha dimostrato con terribile evidenza.
  Ma, la cosa più vergognosa è stata la successiva presa di distanza di molti intellettuali e organi di stampa occidentali nei confronti della condanna senza appello della strage di Parigi. In sostanza, se il terrorismo islamista fa parte a tutti gli effetti di una ideologia sterminatrice nei confronti dell'Occidente, ingiustificabile moralmente è la giustificazione esplicita o a mezza bocca operata da parte di alcuni intellettuali e maitre à penser del nostro mondo, molti dei quali, orfani inconsolabili del comunismo salvatore, sposano o giustificano tutto ciò che possa sostituirlo nell'abbattimento del liberalismo e del capitalismo. Il massimo dell'ipocrisia è nella dichiarazione di Mary-Kay Wilmere, direttrice della London Review of Books: "Credo nel diritto a non essere uccisa per qualcosa che ho detto, ma io non credo di avere il diritto di insultare chi mi pare e piace". E un ragionamento sciocco che si morde la coda: la signora Mary-Kay Wilmers ha mai visto gruppi di cristiani o di ebrei fanatizzati fare irruzione nella redazione di Charlie Hebdo e tentare di massacrarne i redattori, considerato che il cristianesimo e l'ebraismo erano egualmente oggetto della satira dissacrante della testata? Qui è la differenza, signora Mary-Kay Wilmers.
  Per non dire delle vignette antisemite comparse in Iran riguardo al Giorno della Memoria. Avremmo dovuto, per rappresaglia, fare strage dei redattori di quei giornali iraniani? Meotti si sofferma a considerare la '' doppia morte" di Salman Rushdie e poi l'esecuzione di Theo van Gogh, due casi esemplari della violenza islamista, ma soprattutto della "doppia morale" dell 'Occidente. Scrittori, registi sono dovuti scendere nel silenzio, nella morte civile, per non incappare in conseguenze spiacevoli: "Eppure c'è chi chiede di essere più prudenti, di non provocare, di abbandonare l'arte blasfema" (p. 101), scrive Meotti. E gli ebrei non dovrebbero andare in giro con i segni di riconoscimento ebraici, come ultimamente alcuni rabbini francesi hanno raccomandato. E' la resa. "Benvenuto all'inferno, gentile lettore" scrive Renaud Camus nella prefazione del libro. E proprio così.

(Pagine Ebraiche, aprile 2016)


«Petrolio tra Libano e Israele, serve la mediazione dell'Onu»

L'esperto di energia Baroudi si rivolge a Ban Ki Moon: «Risorse che possono aprire nuova era di pace nell'area».

di Matteo Basile

Tra le pieghe di un conflitto sanguinoso che si trascina in maniera più o meno cruenta da decenni, ci sono tante questioni irrisolte che aggiungono problemi a problemi. E il caso della questione energetica, corollario non certo marginale delle tensioni tutt'ora esistenti tra Libano e Israele.
   Roudi Baroudi, cittadino libanese con oltre 37 anni di esperienza nel settore energetico sia pubblico che privato, con esperienze ed incarichi di prestigio tra Europa, Medioriente, Stati Uniti e Africa, ha scritto una lettera aperta al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon perché intervenga direttamente sulla questione. In primis per cercare di sanare definitivamente un conflitto che, al di là delle operazioni belliche, è di fatto ancora in essere; poi per affrontare la spinosa questione energetica alla luce delle sue informazioni che, a suo dire, potrebbero risolvere il problema energia in tutta l'area e portare a un futuro migliore per gli abitanti della zona.
   Il problema è la sovrapposizione tra i confini marittimi del Libano e di Israele per una superficie di circa 840 chilometri quadrati. Lì esiste una potenziale risorsa di gas e petrolio assai significativa ma di fatto inutilizzabile. «La soluzione è quella di risolvere la questione in modo tempestivo, riducendo così la minaccia di una guerra, incoraggiando investimenti e andando avanti con l'attività di sviluppo di una risorsa che promette enormi benefici socio-economici per tutti i popoli coinvolti», spiega Baroudi nella sua lettera aperta.
   Una soluzione alle porte ma un problema ancora molto difficile. Perché Libano e Israele non riescono autonomamente a trovare un accordo su come gestire quella porzione di territorio potenzialmente ricchissima né tantomeno su come suddividere eventuali ricavi. Baroudi quindi si appella a Ban Ki Moon perché dia vita ad un'opera di mediazione. «I due Paesi sono rimasti tecnicamente in guerra dal 1949, non hanno relazioni diplomatiche ufficiali di alcun tipo e i loro rapporti sono mediati da diffidenza incline alla paranoia - racconta - La popolazione della nostra regione merita di vivere in pace. Gli idrocarburi sotto i fondali del Mediterraneo orientale offrono una speranza a tutti noi per il raggiungimento di una nuova era di prosperità, un'era che rompa i cicli di povertà e violenza che non portano a nulla di buono. Le Nazioni Unite hanno un ruolo indispensabile da svolgere nel far si che le risorse in questione siano un combustibile per lo sviluppo sociale ed economico e non la causa di altre guerre».
   Un accordo non semplice ma sicuramente possibile che potrebbe aprire una nuova fase di sviluppo in un'area per troppo tempo nota alle cronache soltanto per guerre e distruzione.

(il Giornale, 9 aprile 2016)


Quattrocento ebrei a Fiuggi per la Pasqua Ebraica, città blindata

FIUGGI - Saranno circa 400 le persone di fede ebraica che si ritroveranno a Fiuggi tra il 21 aprile e il primo maggio, periodo in cui ricade quest'anno la Pasqua ebraica, per un soggiorno nella rinomato Hotel della Fonte prenotato interamente per accogliere il loro gruppo. Si tratta di personaggi importanti, leader di preghiera, accompagnati dalle loro famiglie. Alcuni arriveranno anche da Israele, altri dagli Usa, dall'Inghilterra e da centro Europa. Per 12 giorni alterneranno momenti di preghiera a gite ed escursioni nella Capitale. Un periodo di tempo durante il quale le forze dell'ordine faranno della zona un'area altamente presidiata se non addirittura blindata. Inutile ribadire quanto sia sensibile un obiettivo che vede raccolti così tante autorità dell'Ebraismo internazionale.

(Il punto a mezzogiorno, 8 aprile 2016)


Pesach, a tavola con K.it

Un cartone di K.it
Un successo travolgente. Pacchi esauriti in poche ore, tanti messaggi e telefonate di congratulazioni. E’ un generoso benefattore che, a Milano, ha acquistato tutti i cartoni a disposizione per destinarli ai più bisognosi.
L'iniziativa dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la festività di Pesach ha lasciato il segno: 500 cartoni low cost con all'interno numerosi prodotti, dal vino al pane azzimo, dagli affettati ai biscotti, in vendita al prezzo calmierato di 20 euro. Grandi, medie e piccole comunità. Un servizio reso a tutte e 21 le realtà territoriali su impulso di K.it, il marchio di certificazione nazionale promosso dall'Unione.
"L'apprezzamento che ha suscitato e continua a suscitare questa iniziativa è davvero notevole. Sia nei leader comunitari che nei rabbini che nei singoli iscritti. Una ulteriore dimostrazione che la strada che stiamo percorrendo è quella giusta" afferma Jacqueline Fellus, assessore UCEI e referente del progetto K.it sin dagli inizi.
Numerosi i motivi di soddisfazione, sottolinea l'assessore. Tra cui quello di aver coinvolto una vasta rete di aziende alimentari che realizzano prodotti casher.
"Non è stato possibile inserirli tutti, per motivi di budget. Ma che facciano parte di questa iniziativa o meno, desidero ringraziare di cuore ciascuna azienda fornitrice per il sostegno e anche tutti i dipendenti e i collaboratori dell'Unione che hanno prestato la loro opera per la migliore riuscita. La sfida, per il prossimo anno, sarà quella di realizzare pacchi ancora più grandi, mantenendo il prezzo bloccato" dice Fellus. Il tutto con profondo rispetto per chi opera da tempo nel settore e quindi senza l'intenzione di "sovrapporsi" o "fare concorrenza".
I primi cartoni saranno inviati nelle comunità a partire dall'inizio della prossima settimana. Una volta recapitati in sede, ciascuna comunità gestirà in modo diretto il rapporto con i singoli acquirenti.

(moked, 8 aprile 2016)


Roma, il 25 aprile dei propal: "In piazza contro i sionisti"

di Adam Smulevich

Non certo il pubblico delle grandi occasioni, ma comunque il consueto campionario di follie e deliri. "Il sionismo? Il peggior crimine contro l'umanità". "Israele oggi è come il nazifascismo ieri". "Diciamo no al mostro imperialista".
Questo il clima che si respirava ieri nelle aule di Fisica dell'Università La Sapienza di Roma, dove il Forum Palestina ha convocato un'assemblea per discutere, assieme ad altri sigle e movimenti, gran parte dei quali appartenenti alla galassia propal, il comportamento da tenere in occasione delle prossime celebrazioni del 25 aprile.
L'idea, già annunciata in un farneticante testo circolato sul web, è quella di assicurare una presenza "militante antifascista, internazionalista, antisionista e antimperialista". Un impegno da condurre "sulla scia dei risultati conseguiti lo scorso anno". Come è noto, tra i risultati ci fu quello di tenere lontano le insegne della Brigata Ebraica e di tanti altri che, schifati dalla distorsione valoriale proposta da questi movimenti e da chi all'interno dell'Anpi Roma poco ha fatto per scongiurare tensioni e parole di odio, non hanno partecipato al tradizionale corteo che dal Colosseo arriva ogni anno a Porta San Paolo.
Lo scenario per quest'anno appare non molto diverso, ma resta ancora da capire quali passi muoverà l'Anpi romana in occasione di una riunione organizzativa che si svolgerà nel fine settimana. Ieri il commissario straordinario Claudio Maderloni ha preso molti appunti e, intervenendo in apertura di riunione, ha assicurato la massima disponibilità all'ascolto e all'inclusione. Ma al tempo stesso ha voluto chiarire alcuni punti.
"Il 25 aprile - ci ha detto Maderloni - deve essere la festa di tutti, quindi preventivamente non si può dire di no a nessuno. Certamente però su certi punti non può esserci convergenza, in particolare quando si portano avanti impossibili equiparazioni tra sionismo e nazifascismo. Ogni decisione organizzativa e operativa sul corteo sarà comunque vagliata nelle prossime ore, tanto di più non posso dire".
Sarà interessante capire se verranno recepite le indicazioni del presidente nazionale dell'Anpi Carlo Smuraglia, così intervenuto negli scorsi giorni: "Da anni c'è chi prova a inquinare lo spirito più autentico del 25 aprile con iniziative che intendo rigettare chiaramente. Siamo al lavoro per instaurare anticorpi solidi, che tengano il più possibile al riparo da brutte sorprese".

(moked, 8 aprile 2016)


Arci e Cgil organizzano un evento antisemita - Marcello Orrù: "Indecente"

SASSARI - Il consigliere regionale Marcello Orrù ha diffuso una nota a proposito di una iniziativa della Cgil e dell'Arci. Ne riportiamo di seguito il testo integrale. "Rimango indignato nell'apprendere che il prossimi 12 aprile a Sassari, la mia città, si tenga un evento che definire di dubbio gusto significherebbe essere troppo buoni.
L'evento, organizzato dalla Cgil e l'Arci, è la presentazione del libro del giornalista inglese Alan Hart intitolato "Sionismo, il vero nemico degli ebrei" e prevede la presenza oltrechè dell'autore anche dell'italiano Diego Siracusa. I due signori sono molto conosciuti negli ambienti nostrani della sinistra radicale in quanto il primo è uno dei campioni di complottismo anti-Israele avendo persino affermato che la strage dell'11 settembre fu causata probabilmente dagli agenti del Mossad che avrebbero -udite udite - deviato la rotta degli aerei, il secondo è conosciuto come un simbolo del moderno antisemitismo di casa nostra.
E' veramente incredibile che il sindacato più importante del nostro Paese, nella nostra città, si renda fautore di una presenza simile. A Roma qualche mese fa l'Anpi, associazione partigiani, ha ritirato la propria presenza allo stesso evento perchè chiaramente antisemita. Ecco che ora qualche "benpensante" nostro concittadino pretende di insultare Israele, la sua storia e il suo popolo nella nostra città.
Non è accettabile, la sinistra abbia rispetto per Israele e per la sua dolorosa storia. Chiedo con urgenza al sindaco Sanna che intervenga sugli organizzatori, in qualità di massimo responsabile dell'ordine e della sicurezza in città, al fine di ottenere l'annullamento di questa indecente manifestazione. Sassari - conclude Marcello Orrù - non merita di essere lo scenario di un evento antisemita".

(Buongiorno Alghero, 8 aprile 2016)


Turchia-Israele: progressi verso un accordo definitivo di riconciliazione

 
Il Ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu

ANKARA - Il ministero degli Esteri di Ankara ha reso noto che l'incontro di ieri tra le delegazioni israeliana e turca avvenuto a Londra ha segnato progressi verso la messa a punto di un accordo definitivo di riconciliazione. "Un'intesa potrebbe essere finalizzata già durante il prossimo incontro che avverrà presto", si legge in un comunicato della diplomazia turca. All'incontro di Londra hanno preso parte il sottosegretario agli Esteri turco, Feridun Sinirlioglu, l'inviato speciale del primo ministro israeliano, Joseph Ciechanover e il presidente ad interim del Consiglio nazionale di sicurezza israeliano, Jacob Nagel.
  Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato, la settimana scorsa a Washington, di essere fiducioso nel buon esito dell'iniziativa diplomatica. La Turchia era uno degli interlocutori regionali più vicini a Israele, ma i legami sono stati interrotti nel 2010 dopo che un commando israeliano ha assaltato la nave Mavi Marmara che stava cercando di violare il blocco imposto da Israele su Gaza e ucciso dieci cittadini turchi. La stampa israeliana, riportando la notizia del prossimo incontro, ha citato un negoziatore israeliano che ha mostrato un forte ottimismo per la conclusione dei negoziati spiegando: "Da entrambe le parti c'è la volontà di chiudere la vicenda. In questi sei anni la Turchia non aveva mai avuto un atteggiamento così positivo". Lo scorso 2 marzo sempre la stampa israeliana aveva scritto che Ankara aveva chiesto forniture militari in cambio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche.
  Nelle scorse settimane da parte israeliana ci sono state varie aperture ad una normalizzazione anche se legate ad alcuni vincoli. Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha sottolineato infatti che qualsiasi richiesta di riconciliazione con la Turchia dovrà includere la restituzione dei corpi dei militari israeliani uccisi da Hamas nella Striscia di Gaza e attualmente nelle mani del gruppo islamista. Le prime avvisaglie di una futura normalizzazione delle relazioni fra Turchia e Israele erano emerse durante un'intervista rilasciata lo scorso 13 dicembre dal presidente Erdogan, nella quale aveva sottolineato che "il riavvicinamento turco-israeliano è cruciale per la regione" e che la normalizzazione delle relazioni andrebbe "a beneficio dell'intera regione".
  Tempo fa il presidente Erdogan aveva ribadito le tre condizioni per la riconciliazione: le scuse da parte di Israele per l'uccisione dei turchi nel raid israeliano alla Mavi Marmara; il risarcimento alle famiglie delle vittime; e la rimozione del blocco navale sulla Striscia di Gaza. Il quotidiano israeliano "Haaretz", il 17 dicembre sottolineava in un editoriale come Israele e Turchia avessero raggiunto un'intesa sulla bozza di un accordo di riconciliazione. Il quotidiano citava i punti salienti dell'accordo di riferimento: il pagamento da parte israeliana di 20 milioni di dollari per risarcire le famiglie delle vittime della Mavi Marmara; la normalizzazione dei rapporti diplomatici e la nomina dei rispettivi ambasciatori; l'approvazione di una legge da parte del parlamento turco per annullare qualsiasi denuncia contro membri dell'esercito israeliano relativa al raid sulla Mavi Marmara; la limitazione dell'attività di Hamas sul territorio turco e l'espulsione di Salah Aruri, uno dei principali membri del braccio armato del movimento palestinese.

(Agenzia Nova, 8 aprile 2016)


Etiopia-Israele andata e ritorno

di Simone Porrovecchio

II musicista israeliano Idan Raichel, ebreo etiope d'origine, è diventato uno degli ambasciatori musicali più influenti del suo Paese. Una stella in Israele, un'icona della world music, ma di nicchia per tutti gli altri. Finora. Il nuovo lavoro di questo Peter Gabriel mediorientale, "At The Edge of The Beginning", è un disco che va oltre il perimetro di una world music per puristi. Per la prima volta ldan mette al centro della sua musica il pianoforte, e lo fa con spartiti complessi ed emozionali che trasformano gli undici brani dell'album in altrettanti sogni ad occhi aperti. Soprattutto le ottime e misteriose "Ga'agua" (Longing), "Mabitim baYareach" (Guardando la luna), "Ei Boded " (Lonely Island) e "Lifney She'Yigamer" (Before it Ends) hanno la forza e la bellezza della musica sacra. Raichel nel 2003 conquistò Israele con "Bo'ee", una canzone cantata in etiope. L'album di debutto "The Idan Raichel Project" e il secondo "Mi'ma'amakim" sono diventati Dischi di platino. I successivi sei progetti Raichel li ha realizzati con musicisti dal Marocco, Etiopia, Yemen, Ucraina, Russia: uno spaccato musicale dell'immigrazione. Raichel ha suonato, tra gli altri, con Alicia Keys, Dave Matthews, Andreas Scholl, ha messo in musica k poesie di Shimon Peres e cantato per gli Obama. In "AtThe Edge of The Beginning" il musicista trentasettenne approfondisce le proprie radici. Ci sono momenti di Kletzmer e di musica barocca est europea, di jazz e di world music con forti tracce africane. Un album ponte tra culture, musiche, religioni. Idan lo presenterà in un tour estivo tra Europa, Italia inclusa, e Asia (le date usciranno su: idanraichelproject.com).

(L'Espresso, 8 aprile 2016)


La ribellione degli etiopi

di Davide Frattini.

Quando a Kalkidan hanno chiesto di cambiare il nome perché suonasse «più israeliano», ha risposto con i versi di un rap: «II tuo nome significa guerriero non inferiore. Vuoi diventare parte del melting pot? Fratello, non resta molta aria per respirare». I giovani etiopi si sentono (e sono) emarginati. Cresciuti nei palazzoni costruiti per accogliere gli immigrati, hanno subito il razzismo di chi era arrivato poco prima e che prima di loro l'aveva subito: gli ebrei fuggiti dai Paesi arabi sembravano i re del Paese solo perché dominano in maggioranza nei quartieri delle città periferiche.
   II loro pop mizrahi — ritmo e amori sdolcinati — è tra i più ascoltati, conquista le feste di matrimonio e la programmazione delle radio. Così la ribellione di Kalkidan e degli altri cantanti etiopi all'assimilazione è stata quella di scegliere un'altra musica e altri modelli. Come scrive David Ratner nel nuovo saggio Listening to Blak: Black Music and Identity Among Young Ethiopian Immigrants in Israel: «Per proteggere le loro tradizioni e la loro identità hanno importato la cultura hip hop da un'altra nazione, convinti che gli afroamericani avessero già vissuto le stesse discriminazioni e trovato le risposte».
   Ratner spiega che nelle stanzette dei ragazzi etiopi, i poster sono ancora quelli di Tupak Shakur, il rapper ucciso a Las Vegas vent'anni fa. Le parole di Tupak, le lotte che ha condotto negli Stati Uniti, hanno ispirato le manifestazioni degli etiopi nel 2015, le proteste contro gli abusi della polizia, gli arresti e i fermi per il colore della pelle. Amos Harel, analista militare del quotidiano Haaretz, fa notare che gli ebrei etiopi stanno cambiando l'esercito israeliano: scelgono le unità combattenti, si sacrificano per la difesa dello Stato, in cambio chiedono il riconoscimento. «La musica», continua Ratner, «non è un modo per estraniarsi dal resto della popolazione, li aiuta a capire come essere un nero in una società di bianchi».

(Corriere della Sera - Sette, 8 aprile 2016)


Hamas scopre una croce e asfalta la basilica bizantina

Durante gli scavi per un centro commerciale a Gaza spunta una chiesa del VI secolo d.C. Ma i lavori non si fermano e i reperti spariscono.

di Michael Sfaradi

Resti della chiesa bizantina
TEL AVIV - Sabato scorso durante i lavori per la realizzazione di un centro commerciale a Gaza sono state trovate le antiche rovine di una chiesa, o di una cattedrale, bizantina. I resti risalgono a circa 1.500 anni fa. Diversi reperti, tra cui segmenti di colonne in marmo con capitelli corinzi decorati e una pietra con su incisa una croce greca, e altri reperti di varie grandezze, sono venuti alla luce e poi prontamente spostati dal sito dello scavo. Nel totale i pezzi recuperati sono quindici e alcuni di essi hanno destato l'attenzione degli esperti per la loro bellezza e per il loro stato di conservazione.
   Questo ritrovamento non è strano né nuovo in ambito archeologico, Gaza per secoli è stata una base commerciale e un crocevia di commerci per gli Egizi, i Filistei, i Romani e anche per i Crociati. Sia prima dell'invasione romana, e anche dopo la caduta dell'impero, la città, anche e soprattutto grazie al suo porto, ha sempre prosperato ed è stata abitata da una popolazione diversificata formata da greci, romani' ebrei, egiziani e anche persiani.
   Purtroppo però, nonostante la presenza di Iamal Abu Rida, direttore generale del ministero palestinese delle antichità e turismo, subito accorso per capire l'importanza dei ritrovamenti, i lavori non si sono fermati. Quello che rimaneva di un tesoro archeologico di notevole importanza storica, i reperti sono stati trovati in un'area di circa duemila metri quadrati, è stato in poche ore distrutto dalle ruspe che non solo non hanno fermato il lavoro in attesa degli esperti, ma hanno, a testimonianza di questo scempio ciò ci sono diversi filmati, addirittura accelerato la demolizione di ogni cosa. Si sono salvati soltanto dei capitelli, alcune colonne e delle pietre intagliate, tutto il resto è andato perso e il sito, presumibilmente ancora ricco di testimonianze che arrivano dal passato, verrà presto sepolto sotto le colate di cemento armato senza che nessuna autorità faccia o dica nulla per evitare tutto ciò.
   Se è vero che nella Striscia di Gaza i templi pagani furono distrutti fra la fine del quarto secolo e l'inizio del quinto D.C., e che nel 637 D.C. quando il generale musulmano Amr ibn al-As conquistò Gaza la maggior parte della popolazione abbracciò l'Islam abbandonando i luoghi sacri cristiani, oggi è difficile accettare che si possa continuare a distruggere le testimonianze del passato cancellando di fatto la storia.
   Quello che lascia stupiti è il silenzio quasi totale che ha avvolto questa notizia e c'è da chiedersi come mai i media occidentali, sempre molto attenti a quello che accade nella regione mediorìentale, non abbiano fatto alcun accenno a quanto accaduto. Certo la perdita di una chiesa bizantina non può in nessun modo essere paragonato alle distruzioni di Palmira, sulla quale sono stati giustamente consumati fiumi di inchiostro, ma non è la prima volta, e purtroppo non sarà l'ultima, che testimonianze del passato non ricollegabili con la storia dell'Islam quando vengono ritrovate in certe zone o cadono in certe mani sono automaticamente distrutte.
   Ciò che in piccolo è accaduto a Gaza fa comunque parte dello stesso inaccettabile principio che ha portato alla perdita di grandi opere come la già citata Palmira o dei due "Buddha della via della seta" distrutti dai Talebani in Afghanistan nel 2001, anche perché è difficile credere che le ruspe avrebbero continuato il loro lavoro se le rovine scoperte a Gaza anziché essere di una chiesa fossero state di una moschea.

(Libero, 8 aprile 2016)


Sette motivi per cui le multinazionali americane investono in Israele

 
Con la più alta concentrazione di startup in tutto il mondo dopo la Silicon Valley, Israele è diventata nota a livello mondiale come la Startup Nation. Startup come Waze e Mobileye hanno aiutato il Paese a guadagnarsi la reputazione di hub internazionale per l'imprenditorialità e per l'ingegno tecnologico.
Ma quello che forse è altrettanto notevole è che più di 270 multinazionali americane hanno stabilito più di 320 strutture di ricerca e sviluppo proprio in Israele, rendendo il Paese un vero e proprio Laboratorio di Ricerca e Sviluppo per le imprese tecnologiche più importanti del mondo.
Tra i più famosi nomi annoveriamo Google, Apple, Facebook, Microsoft, Intel, Yahoo!, Motorola, HP, Siemens, GE, GM, IBM, Cisco e molti altri.
Oltre 200 di queste multinazionali sono americane. Parte di questo può essere attribuito al fatto che Israele e gli Stati Uniti condividano reciprocamente robuste economie creative guidate da affinità per l'imprenditorialità e l'impresa.
L'Huffington Post illustra i 7 motivi per cui le multinazionali americane scelgono Israele:
  1. Innovazione: Israele è diventata una potenza globale grazie alle sue tecnologie innovative e pionieristiche in settori come Internet, sicurezza informatica, scienze della salute e della vita, big data, computer vision, e Fintech, solo per citarne alcuni.
  2. Successo: Molte multinazionali sono state in grado di sviluppare alcune delle loro soluzioni più innovative presso i loro centri di Ricerca e Sviluppo in Israele e nulla, come dice un vecchio proverbio, genera successo come il successo. Le multinazionali degli Stati Uniti hanno capito che se vogliono rimanere in prima linea devono affidarsi all'ingegno israeliano.
  3. Capitale Umano: Nota per la creatività, l'innovazione e la tradizionale "chutzpah" (la tipica sfrontatezza israeliana) Israele ha la più alta concentrazione di ingegneri e di dottorati di ricerca pro capite nel mondo.
  4. Startup: Molte multinazionali di primo piano hanno stabilito la loro presenza in Israele con l'acquisizione di startup israeliane all'avanguardia, trasformandole in centri di innovazione e di eccellenza, mentre altre startup si fondono con centri di ricerca e sviluppo esistenti. IBM, per esempio, ha acquisito più di una dozzina di aziende israeliane per stabilire la sua presenza israeliana più di quattro decenni fa.
  5. Produzione avanzata: Israele ha alcune delle strutture di produzione più avanzate al mondo, tra cui varie unità operative istituite dalle multinazionali. Prendiamo, per esempio, la Intel, che ha aperto i suoi uffici Israele più di 40 anni fa ed è attualmente il più grande datore di lavoro tecnologico nel Paese, con oltre 10.000 lavoratori in 6 sedi in tutto il paese.
  6. Forte Economia: Durante questo periodo di instabilità economica globale, Israele ha visto crescere il PIL ben al di sopra rispetto ai paesi dell'OCSE e degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione del 5% è tra i più bassi del mondo.
  7. Apertura al Business: Il Paese promuove gli investimenti stranieri in Israele, con programmi e servizi progettati per affrontare ogni fase del processo di investimento. Gli incentivi governativi rendono Israele uno dei luoghi più attraenti del mondo per gli investitori stranieri, con una serie di incentivi tra cui sgravi fiscali per contributi di sostegno destinati a compensare il costo di Ricerca e Sviluppo, per approfittare di tutto ciò che Israele ha da offrire.
(SiliconWadi, 8 aprile 2016)


Basket - Maccabi Tel Aviv scatenato: tentativo anche per Bartzokas e Delaney?

La stagione deludente del Maccabi Tel Aviv impone una rivoluzione alla squadra israeliana: occhi puntati sulla Lokomotiv Kuban, da cui si punta il doppio colpo Bartzokas+Delaney.

di Massimo Mattacheo

La grande stagione della Lokomotiv Kuban, capace di qualificarsi per la prima volta nella propria storia tra le migliori 8 di Eurolega, con il vantaggio del fattore campo nel turno di Playoff che avrà inizio la prossima settimana, ha come protagonisti principali l'allenatore Georgios Bartzokas e il play americano Malcolm Delaney, autore di una stagione straordinaria ed in corsa per il titolo di MVP.
Il Maccabi Tel Aviv, autore di una stagione disastrosa in quasi tutte le competizioni cui ha preso parte, avrebbe individuato nell'allenatore greco l'uomo giusto per rifondare e cominciare un nuovo ciclo vincente: secondo quanto riportato da eurobasket.com, fonti vicine a Bartzokas confermerebbero un accordo iniziale con la società israeliana. Il contratto firmato con la Lokomotiv lo scorso anno è un 1+1 e l'allenatore avrebbe già informato i vertici della società della sua intenzione di provare un'esperienza nuova e diversa alla guida di un top club come il Maccabi. Kuban ha un'opzione a proprio favore e vorrebbe continuare con Bartzokas, ma se ciò non fosse possibile, dovrebbe cercare un nuovo allenatore.
Non solo Bartzokas, però, perché gli israeliani sarebbero interessati a mettere sotto contratto anche Malcolm Delaney: in questo caso la trattativa non è ancora iniziata ed è lontana dalla conclusione. Bisognerà vedere se il play americano sarà disposto a rimettersi in gioco in un top club europeo: certo è che, se davvero fosse Bartzokas il nuovo allenatore del Maccabi, le possibilità di riunire la coppia che sta facendo le fortune di Kuban potrebbero aumentare in maniera notevole.

(La Gazzetta dello Sport, 8 aprile 2016)


La Polonia e i suoi ebrei. Un legame antico che si rinsalda

A 70 anni dalla II guerra mondiale, i polacchi provano a fare i conti con la loro Storia. «Mille anni di convivenza — dice il rabbino capo Michael Schudrich — sono stati cancellati in un lustro. Una civiltà che aveva il suo cuore qui è stata annichilita. Ora proviamo a ripartire, con l'aiuto delle autorità». E con la beatificazione di Józef e Wiktoria Ulma, uccisi con i loro 6 bambini dai nazisti per aver nascosto otto ebrei. Perché se molti polacchi tradirono gli ebrei, molti li aiutarono.

di Paolo Salom

MARKOWA (Polonia) — Era l'alba, a Markowa, il 24 marzo 1944. Le colline che annunciano le cime più aspre dei Carpazi erano bianche di brina gelata e avanzi di neve invernale, macchiata, questa, da intrusioni di fango e detriti. Il fiato dei soldati nazisti che stavano circondando la casa di Józef e Wiktoria Ulma si condensava sopra gli elmetti per poi dissolversi, presagio delle 17 vite che di lì a poco si sarebbero spente, una dopo l'altra, per soddisfare l'ossessione tedesca per le «regole». Le grida, in tedesco, i colpi con il calcio del fucile sulla porta di casa e sulle finestre, avevano svegliato in un attimo l'intera famiglia, padre, madre e i sei figli: Stanislawa, 8 anni, Barbara, 7, Wladyslaw, 6, Franciszek, 4, Antoni, 3 e Maria, 2. Anche gli ospiti degli Ulma si erano svegliati di soprassalto per capire istantaneamente che la ragione del baccano erano proprio loro, otto ebrei polacchi che avevano trovato rifugio nella mansarda di quella villa, ai margini del paese, quando era cominciata la mattanza nazista, due anni prima.

 Denunciati dal collaborazionista
 
  Denunciati da un agente collaborazionista dei nazisti, Wlodzimierz Les, gli otto ebrei furono i primi a essere uccisi dalle belve, con un colpo alla nuca: la famiglia Szall (padre, madre e quattro figli) e Golda e Layka Goldman, fino a quel momento uniche sopravvissute della loro. Poi toccò a Józef e Wiktoria, quest'ultima in avanzato stato di gravidanza, colpevoli di aver nascosto degli ebrei alle autorità: un reato punito con la morte immediata nella Polonia occupata dai tedeschi. La mattanza non si fermò lì: i militari decisero di uccidere anche i figli degli Ulma (nella foto qui sotto, la famiglia con cinque dei sei figli e la madre in attesa del sesto), in lacrime di fronte ai corpi dei genitori: «Per evitare problemi un domani», spiegò il comandante del drappello, il tenente Eilert Dieken, ai polacchi del villaggio chiamati a osservare l'eccidio, perché non ci fossero dubbi sulla sorte riservata a chi osava infrangere le «leggi» tedesche.

 Per la prima volta omaggio al sacrificio dei due Giusti
 
  Settant'anni dopo, mentre i coniugi Ulma sono in lista per la canonizzazione — già proclamati «Giusti tra le nazioni», nel 1995, in una toccante cerimonia allo Yad vaShem, il Museo dell'Olocausto di Gerusalemme —, la Polonia comincia — per la prima volta — a guardarsi indietro. Nei giorni scorsi è stato inaugurato un museo dedicato alla Famiglia Ulma, alla presenza del presidente Andrzej Duda, del rabbino capo di Polonia Michael Schudrich e di vari esponenti della Chiesa. Un riconoscimento al coraggio e al sacrificio di Józef e Wiktoria, certo. Ma anche uno sguardo più ampio a sottolineare che molti polacchi, in quegli anni terribili, sfidarono la morte per salvare le vite di ebrei.

 Alla «Rimembranza», 90 chilometri di documenti
  «I polacchi che aiutarono i loro concittadini ebrei — ci dice Sebastian Rejak, responsabile del ministero degli Esteri per la Diaspora ebraica — sono molti di più di quelli che li denunciarono. È vero che la maggioranza rimase silenziosa. Ma penso sia giusto sospendere il giudizio, considerando le condizioni spaventose dell'occupazione». Quale Polonia dunque dobbiamo considerare oggi? Quanto accaduto durante l'Olocausto è ormai Storia, analizzata sotto ogni aspetto (a Varsavia esiste oggi l'Istituto della Rimembranza, archivio nazionale dove sono conservati 90 chilometri di scaffali colmi di documenti sulla Seconda guerra mondiale in Polonia). Meno, il rapporto controverso del Paese con i «suoi» ebrei.

 I pogrom post bellici e la fede celata delle vittime
 
  Tralasciando i pogrom post-bellici (con i tedeschi ormai fuggiti) che portano ancora morte tra gli ebrei a opera di polacchi cristiani (per esempio a Kielce nel 1946; nella foto ebrei sopravvissuti proprio al pogrom di Kielce), ricordiamo che il regime comunista imposto dai sovietici nel 1945 impedì ogni distinzione tra le vittime del nazismo: i milioni morti nei campi di sterminio erano tutti e solo «polacchi». Nel 1968, poi, il regime comunista lanciò una violenta campagna antisemita e antisionista per spezzare al suo nascere una possibile rivolta libertaria. Toni e durezze che non si ricordavano da decenni, nel Paese, che portarono 15 mila cittadini di fede ebraica a lasciare per sempre la Polonia.

 I conti con la storia a 38 anni dalla diaspora del '68
  A settant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e a quarant'anni dal 1968, i polacchi (oggi governati dalla destra) provano dunque a fare i conti con la loro Storia. Tra i primi capitoli aperti c'è quello ebraico. «Mille anni di convivenza —- dice al Corriere Michael Schudrich, rabbino capo di Polonia — sono stati cancellati nello spazio di un lustro. Una civiltà che aveva il suo cuore in terra di Polonia è stata annichilita. Ora proviamo a ripartire, con l'aiuto delle autorità».

 Nei lager morì il 90% dei 3 milioni di ebrei polacchi
  
 
Qualche numero. Alla vigilia dell'Olocausto, in Polonia vivevano oltre tre milioni di ebrei. Il 90% di loro ha perso la vita nei campi di sterminio nazisti (nella foto Ansa, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, vicino a Cracovia). Dei 300-350 mila sopravvissuti, gran parte sono emigrati al termine del conflitto. Quanti ebrei vivono oggi in Polonia? «Nessuno lo sa con certezza — risponde rav Schudrich — ma stime realistiche vanno da 40 a 50 mila. È vero anche che molti polacchi sono ebrei senza saperlo: perché migliaia di famiglie affidarono i figli piccoli ai vicini cristiani pur di salvarli. E non tutti hanno recuperato il loro passato». Un passato che emerge dettagliato al «Polin» di Varsavia, il Museo di storia ebraica che sorge dove un tempo erano i cancelli per il Ghetto, forse lo spazio umano più simile all'Inferno dantesco mai realizzato, sulla Terra, in epoca moderna.

 Mille anni di convivenza
  Mille anni hanno vissuto insieme ebrei e polacchi. Si può dire che la Polonia è nata proprio grazie a questa simbiosi, che certo ha prodotto momenti difficili, di frizione, di pogrom, talvolta. Ma che sarebbe rimasta inalterata se Hitler non avesse deciso di invadere la Polonia e di obliterare l'universo yiddish. Per capire quanto accade oggi, citiamo due aspetti. Il primo: il rabbino capo di Polonia è nato a New York, parla polacco, certo, ma con un inconfondibile accento americano. «Questa è la mia casa, ora», dice convinto. Resta il fatto che ha dovuto attraversare l'oceano (in direzione contraria rispetto a cento anni fa) per far ritrovare una guida religiosa all'altezza. Il secondo, la scuola ebraica diretta dal rabbino Maciej Pawlak, un 38enne sorridente e entusiasta, nato a Stettino, sopravvive grazie agli aiuti esterni. E non solo: «Abbiamo 240 alunni, dall'asilo alle scuole medie, e 50 insegnanti — spiega Pawlak — la retta è sostenuta in parte dalla Fondazione Lauder, in parte dalla città di Varsavia e in parte dalle famiglie».

 «Oggi non c'è antisemitismo qui»
  Il rabbino-preside racconta che non tutti i ragazzi sono ebrei: il 30% è di confessione cattolica ma ha qualche «antica» relazione con l'ebraismo. «Oggi — aggiunge rav Pawlak — non c'è antisemitismo in Polonia. Almeno, non è un problema come lo è stato in passato». Eppure, questa «macchia sull'onore polacco», questo stigma che ancora brucia sul corpo vivo di una nazione dall'esistenza mai facile, compressa tra imperi e soggetta a invasioni cicliche, è lì, sottotraccia, a ricordare quello che è stato e che non può più tornare. Ogni luogo parla del popolo che viveva qui un tempo. Dei villaggi interamente ebraici o a maggioranza ebraica che oggi hanno nomi polacchi e restano soltanto nella memoria collettiva. Oltre che in qualche sinagoga restaurata e lapidi qua e là che spiegano come il quartiere un tempo risuonasse del suono degli shofar e delle nenie antiche in un ebraico mai dimenticato.

 Una nazione trasformata in un grande cimitero
  
 
Possiamo dire che la Polonia sia un grande cimitero ebraico. «Ma noi non possiamo cambiare il passato. E soprattutto non siamo responsabili di quanto fatto dai nazisti. Alcuni polacchi erano antisemiti? Certo, verissimo. Ma molti altri non lo erano e hanno aiutato gli ebrei come hanno potuto», ci dice imbarazzato Dariusz Mazurek, guida turistica che conosce la storia di ogni singola pietra (ebraica) nella regione dei Precarpazi, al confine con la Bielorussia. La sera dell'inaugurazione del Museo di Markowa dedicato alla famiglia Ulma, tutte le considerazioni che hanno spinto il governo a riaprire quelle pagine dolorose, e collocarle nella giusta prospettiva prendono corpo in una commovente cerimonia pubblica (nella foto l'ingresso truppe naziste nella città di Jedwabne, in Polonia, dove nel 1941 gli abitanti rinchiusero 1600 ebrei in un fienile e li bruciarono vivi).

 «L'antisemitismo è un male assoluto»
  È il presidente in persona a dare il tono di questo momento storico: «L'antisemitismo è un male assoluto — dice scandendo le parole —. Noi ci inchiniamo di fronte al coraggio di Józef e Wiktoria Ulma. Hanno fatto la cosa giusta». È d'accordo con lui il vescovo Carlos Azevedo, rappresentante del Consiglio pontificio della Cultura, inviato a Markowa dal cardinale Ravasi: «Penso che sia venuto il momento di riconoscere la verità storica dopo le manipolazioni e le ideologie che hanno sporcato la retta considerazione degli avvenimenti. È fondamentale per tutta l'Europa far prevalere il dialogo. E comunque, qui siamo nel solco di papa Giovanni Paolo II, la cui capacità di capire e precorrere i tempi ha modificato la Storia dopo di lui». Il vescovo Azevedo parla di fede. Ma, forse inconsapevolmente, tocca un tasto delicato, che ha portato in più occasioni Varsavia al centro di dispute all'interno dell'Ue per ragioni più prettamente politiche (il caso della controversa riforma della Corte Costituzionale). E, per quello che riguarda la nostra storia, le accuse di voler imbavagliare le critiche sull'«antisemitismo polacco» e le responsabilità dei polacchi (cristiani) nell'Olocausto.

 Niente guardie armate davanti alla scuola
  «Noi — dice convinto Sebastian Rejak, il responsabile del ministero degli Esteri per i rapporti con la Diaspora ebraica — ci infuriamo soltanto quando, in taluni Paesi, si parla di "campi di concentramento polacchi", quando è noto che i Lager sono un'invenzione e una realizzazione dei nazisti invasori: ci batteremo con tutte le nostre forze perché la storia non venga travisata in questo senso». Difficile dargli torto. Anche se certo la Shoah non è un racconto che si possa fare in bianco e nero, tralasciando i molti toni di grigio. Però è un fatto che, a Varsavia, la rinata scuola ebraica non è protetta da guardie armate. E questo fa ben sperare.

(Corriere della Sera - Digital Edition, 8 aprile 2016)


Tel Aviv - Facciata topologica e fattorie verticali nella torre di Tajchman

Gran Mediterraneo è un high-rise building sospeso tra innovazione e rispetto dell'architettura tradizionale di Tel Aviv. La facciata topologica richiama la tutela Unesco della "Città bianca" e ospita kibbutz verticali e stazioni di ricarica per auto elettriche.

 
L'architetto francese David Tajchman ha da poco reso pubblico il progetto concettuale di "Gran Mediterraneo", un high-rise building pensato per la città israeliana di Tel Aviv. La torre riunisce e combina una gran varietà di funzioni, una facciata curvilinea basata sulla geometria topologica, stazioni di ricarica per veicoli driverless, giardini per preservare la biodiversità della flora mediterranea e le specie endemiche dell'area del mar Morto e fattorie verticali.
Con Gran Mediterraneo Tajchman intende rinnovare lo skyline di Tel Aviv, senza però derogare alle peculiarità della città. L'ampio uso di cemento bianco nella facciata e l'andamento curvilineo si richiamano infatti alla tradizionale architettura di Tel Aviv, che racchiude circa 4.000 edifici risalenti agli anni '30 in stile Bauhaus con caratteristiche simili, realizzati nell'allora Mandato britannico sulla Palestina da ebrei tedeschi in fuga dalla Germania nazista. Dal 2003 l'Unesco riconosce e tutela questa "Città bianca".
La facciata è basata sulla geometria topologica. In pratica Tajchman è partito da una semplice forma a disco perfettamente circolare, su cui vengono applicate 3 deformazioni, quindi la forma risultante viene duplicata, elevata e ruotata rispetto alla prima. Lo stesso procedimento vale per i livelli successivi. I vantaggi di questa progettazione sono diversi: le linee curve incanalano le correnti d'aria facendo respirare l'edificio, mentre la differenza di curvatura tra cemento e vetrate massimizza l'ombra in funzione di raffrescamento passivo.
All'interno, Gran Mediterraneo prevede spazi prevalentemente a uso residenziale e commerciale. Ad ogni piano dell'edificio sono presenti giardini pubblici per preservare le piante tipiche della regione. Inoltre, la torre è anche una fattoria verticale, dal momento che il progetto prevede diversi "vertical kibbutz". Completa il quadro, integrata nel silos dei parcheggi, un'ampia stazione di ricarica a induzione per veicoli elettrici e driverless.

(Rinnovabili.it, 7 aprile 2016))


Il caso di Hebron "Ho scritto il Codice etico di Tzahal. Ecco cosa penso di quanto successo"

di Asa Kasher

Il dibattito pubblico israeliano in questi giorni è concentrato su un incidente apparentemente semplice: a Hebron, due terroristi palestinesi hanno attaccato una squadra di soldati delle Forze di difesa israeliane, riuscendo ad accoltellarne uno prima di essere a loro volta colpiti. Un terrorista è stato ucciso e un altro ferito. Quest'ultimo si trovava steso a terra quando è arrivato un soldato, ha osservato la scena e, senza che gli venisse ordinato, ha sparato in testa al terrorista. L'autopsia, svolta da medici forensi israeliani alla presenza di un medico forense palestinese, ha rivelato che è stato quell'ultimo colpo a uccidere il terrorista.
Da più di vent'anni, mi occupo dello studio dell'etica militare dell'IDF e di scrivere documenti a essa correlati, come il Codice etico dell'IDF del 1994. Vorrei fare alcune osservazioni sull'incidente da questa prospettiva....

(moked, 7 aprile 2016)


Niente visti all'imam antisemita

Alfano: Suwaedan non può entrare in Italia. Bufera su Breigheche che l'ha invitato. L'islamista Valentina Colombo «Non possiamo più permettere a simili personaggi di venire a diffondere odio».

di Marco Angelucci

L'islamologa Valentina Colombo
BOLZANO - Tegola in arrivo per l'imam di Trento Aboulkheir Breigheche, presidente dell'associazione degli imam. Il Viminale infatti ha negato l'ingresso in Italia al predicatore kuwaitiano invitato dall'associazione di Breigheche. Il movitivo sono le posizioni antisemite di Tareq al Suwaedan che hanno spinto l'associazione Italia Israele a richiedere l'intervento del Viminale. E come se non bastasse si sono levate diverse voci per chiedere che il ministro Alfano rimuova la figlia di Breigheche, Nibras dal consiglio dell'islam italiano.
   La questione va avanti ormai da giorni. Da quando l'islamologa Valentina Colombo ha scovato l'invito per il seminario con il predicatore kuwaitiano Tareq al Suwaedan legato alla fratellanza musulmana. Un invito che, attraverso l'associazione degli imam italiani, è arrivato a quasi tutte le moschee del Paese. Suwaedan era stato invitato a tenere un seminario a Como a cui avrebbero dovuto prendere parte imam da tutta Italia. La professoressa Colombo però ha avuto l'accortezza di tradurre alcuni passaggi delle opere di Suwaedan (l'Enciclopedia illustrata degli ebrei ndr) facendo drizzare i capelli anche a chi ha posizioni piuttosto critiche nei confronti di Israele. «Gli ebrei sono legati solo alla corruzione» scrive Suwaedan che sminuisce anche la portata dell'Olocausto e definisce gli ebrei «i più grandi nemici della comunità islamica».
   Appena sono state diffuse le traduzioni delle opere di Suwaedan al Viminale è suonato un campanello d'allarme. E il ministro Angelino Alfano, pressato dalle associazioni vicine a Israele, ha annunciato che al predicatore kuwaitiano sarebbe stato negato il visto per entrare in Italia. «Suwaedan - ha detto il ministro Alfano durante il question time alla Camera - è figura ben nota alle nostre forze di polizia e a quelle degli altri Paesi dell'area Schengen in relazione alle sue attività precedenti di predicazione, connotate per contenuti radicali, antioccidentali e antisemiti e per la sua nota vicinanza ai Fratelli musulmani. L'imam è stato inserito dal Belgio nel sistema informativo Schengen dal novembre 2014 e dunque gli è stata inibita la possibilità di accedere in uno qualsiasi dei Paesi di quell'area, Italia compresa».
   L'intervento di Alfano ha impedito l'arrivo del discusso predicatore ma non ha placato le polemiche. Nel mirino infatti è finito l'imam di Trento che l'ha invitato in Italia. E anche sua figlia Nibras che siede nel consiglio dell'islam italiano.
   «Non possiamo permettere a simili personaggi di venire a spargere odio in un momento come questo. Non è possibile che la formazione degli imam italiani sia affidata a persone come Suwaedan ed è grave che l'associazione l'abbia invitato» avverte la docente universitaria Valentina Colombo che è stata tra coloro che hanno sollevato il caso. Breigheche dal canto casca dalle nuvole. «Suwaedan doveva fare un corso di comunicazione, il ministro avrà avuto le sue ragioni ma non capisco come mai lui possa andare in giro in tutto il mondo e non Italia. É un intellettuale moderato e illuminato replica» Breigheche che difende la scelta di invitarlo per fare lezione in Italia.

(Corriere dell'Alto Adige, 7 aprile 2016)


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Non potrà più entrare in Italia l'imam che voleva bruciare Roma

L'annuncio di Alfano

di Tommaso Montesano

«L'imam Tareq Suwaidan non potrà entrare e non entrerà in Italia». Angelino Alfano chiude il caso: il predicatore kuwaitiano vicino ai Fratelli musulmani, bandito da Regno Unito e Belgio a causa dei suoi messaggi «radicali, antioccidentali e antisemiti», dovrà rinunciare alla tournée italiana, che dal 7 al 17 maggio avrebbe dovuto portarlo, tra le altre tappe, a Como e Reggio Emilia su invito dell'Associazione islamica italiana degli imam.
   La figura di Suwaidan, spiega il ministro dell'Interno nell'Aula di Montecitorio rispondendo a un'interrogazione del leghista Nicola Molteni, «è ben nota alle nostre Forze di polizia». Il predicatore, infatti, «è stato inserito, da parte del Belgio, nel Sistema informativo Schengen fin dal mese di novembre 2014». Di conseguenza, a Suwaidan «è stata praticamente preclusa la possibilità di accedere in uno qualsiasi dei Paesi di quell'area, Italia compresa». Se l'imam chiedesse il rilascio del visto di ingresso in Italia, la sua domanda «verrebbe automaticamente rigettata». Allo stesso tempo, nel caso in cui Suwaidan «tentasse di varcare comunque i nostri confini, verrebbe immediatamente fermato e respinto in considerazione dell'allertamento che è stato già dato alle nostre questure e ai nostri posti di frontiera».
   Come denunciato da Libero lo scorso 1 aprile, l'imam kuwaitiano vanta un curriculum all'insegna del radicalismo islamico. In un sermone pronunciato a Le Bourget, vicino Parigi, l'll aprile 2009, Suwaidan aveva profetizzato la conquista di Roma così come anticipato dal «profeta Maometto, un modello per l'umanità». Un invito a restaurare il Califfato in sin toni a con i proclami dello Stato islamico.
Poi ci sono le invettive antisemite - «prego e mi affido all'Inviato di Allah che ha affrontato la malvagità e la perfidia degli ebrei» - con tanto di appello alle «madri della comunità islamica ad allattare i propri figli con l'odio verso i figli di Sion».
   Nel corso del question time, Alfano ha rassicurato sulla vigilanza italiana: «È nota la nostra intransigenza nei confronti dei predicatori islamici che si distinguano per particolare virulenza e odio». Il titolare del Viminale ha ricordato che dal 2015 ad oggi sono stati sei gli imam «espulsi dal territorio nazionale» e 1.205 le strutture islamiche censite (quattro le moschee). Ma Molteni, pur apprezzando la risposta di Alfano, ha ricordato che l'associazione islamica che ha organizzato il tour di Suwaidan è partner dell'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche italiane che detiene la maggioranza della Consulta islamica del ministero dell'Interno. «È grave e preoccupante che un'associazione riconosciuta anche dal ministero possa anche lontanamente pensare e immaginare di poter invitare un predicatore d'odio. Vogliamo un governo e un ministro che non bacino le babbucce agli islamici».

(Libero, 7 aprile 2016)


La donna nel mirino dell'Isis

Intervista a Zineb el Rhazoui, firma di Charlie sotto scorta. "Le uccisioni nel mondo islamico e le accuse d''islamofobia' in democrazia sono due facce della stessa medaglia".

di Giulio Meotti

ROMA - "Molti amici mi chiedono: 'Ma perché non cambi vita, nome, città, lavoro?'. Io rispondo loro che se smetto di essere quello che sono sarebbe come se il 7 gennaio 2015 avessero ucciso anche me". Così parla al Foglio Zineb El Rhazoui, che i giornali francesi definiscono "la donna più protetta di Francia". Zineb ha più guardie del corpo di molti ministri del governo di Manuel Valls. Ha cambiato spesso casa a Parigi in questi mesi, per motivi di sicurezza. "Nel cuore dell'Europa, devo vivere sotto protezione per aver esercitato un diritto, quello alla libertà di espressione", continua Zineb. "E intanto dei cittadini francesi vanno e vengono dalla Siria senza che nessuno li fermi. Bene, non mi fermerò neppure io". Camminare per strada a Parigi o prendere la metropolitana è diventato impensabile per questa giornalista nata a Casablanca e che da cinque anni lavora al settimanale francese. In mancanza di una pallottola o di esplosivo, gli islamisti suggeriscono in rete di schiacciarle la testa con dei sassi, di sgozzarla, di darle fuoco e se proprio non c'è altro modo, di bruciarle almeno la casa. In un video un uomo a volto coperto dichiara che "i leoni non chiuderanno occhio finché non separeranno la tua testa dal corpo". "Il faut tuer Zineb El Rhazoui pour venger le Prophète". Bisogna uccidere Zineb El Rhazoui per vendicare il Profeta, recita una fatwa dopo il 7 gennaio. I fratelli Kouachi cercavano anche lei quel giorno.
  Foto di Zineb in tuta arancione, prigioniera da giustiziare, sono apparse sui siti islamisti, assieme alla guida di localizzazione della sua casa e dei suoi spostamenti, con annessi suggerimenti su come uccidere "l'apostata". Decine di siti islamici hanno postato la fatwa contro Zineb.
 
La giornalista di Charlie Hebdo, Zineb El Rhazoui
Zineb El Rhazoui

  Dottorato in Sociologia delle religioni alla Scuola di scienze sociali dove sono passati Claude Lévi-Strauss e Michel Foucault, Zineb ha insegnato all'Università del Cairo, prima di tornare in Marocco. Lì scrive una tesi di laurea sui musulmani che si convertono al cristianesimo. Poi inizia a firmare sul Journal Hebdomadaire, giornale francofono indipendente. Con le "primavere arabe", la repressione si fa più dura e Zineb decide di lasciare Casablanca per la Slovenia, dove riceve asilo dall'International Cities of Refugee Network, che dà rifugio a scrittori e giornalisti perseguitati. Si trasferisce a Parigi, dove diventa la portavoce del movimento "Ni putes ni soumises". Incontra il direttore del settimanale Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier. "E se raccontassimo Maometto?", le propone un giorno. Lei scrive i testi, lui li anima con la matita. Quei disegni di "Charb" e quelle parole di Zineb portano all'escalation di proteste. Poi alla strage e all'ingresso in clandestinità della giornalista. Adesso Zineb El Rhazoui, incinta del primo figlio, un figlio che dice lei "nascerà in clausura" e guardato a vista dalla polizia, pubblica un libro intitolato "13", per le nuove e spregiudicate edizioni Ring di Parigi. "Molte persone dopo la strage di Charlie hanno giustificato l'attentato", ci spiega Zineb. "Dicevano 'né Charlie né terrorismo'. I miei colleghi si meritavano tutto questo? Va bene. Ma Frédéric Boisseau, il ragazzo delle pulizie nel palazzo di Charlie, forse meritava anche lui di morire?". I terroristi uccisero Boisseau dopo avergli ordinato di indicargli dove si trovassero i vignettisti blasfemi.
  "Dopo l'attacco a Charlie, non potevo concentrarmi su quanto stava accadendo", racconta Zineb El Rhazoui in questa intervista al Foglio. "Ero così triste. E mesi dopo, quando ho visto che il terrorismo era ancora qui e che le vittime erano aumentate, a centinaia, ho pensato che dovevo fare qualcosa come giornalista. Molte vittime sopravvissute e le loro famiglie hanno parlato ai media, ma i media lavorano in emergenza, mentre io volevo ascoltare le persone. La sera del 13 novembre ero a Parigi, stavo prendendo un caffè con Thomas Misrachi, il direttore delle edizioni Ring. Ci siamo salutati, ognuno è andato a casa e abbiamo sentito dell'attentato. Alcuni giorni dopo abbiamo deciso di scrivere il libro, non soltanto sulle vittime ma anche su medici, poliziotti, la famiglia di Omar Mostefai, il kamikaze al Bataclan di cui ho incontrato il fratello".
  Ha scritto che, forse, peggio dei terroristi sono coloro che hanno razionalizzato l'attacco. "Dopo l'attentato del 13 novembre è stato difficile per queste persone biasimare ancora Charlie Hebdo. La violenza e l'odio islamisti sono ciechi, non discriminano fra chi pensa o scrive o semplicemente si trova in un posto. Uccidono per quello che sei e rappresenti. Non possiamo negoziare con il terrorismo. Dopo Charlie Hebdo ho detto che non possiamo smettere di raffigurare il Profeta, è qui il confine fra civilizzazione e barbarie. Se accettiamo di smettere di parlare di islam, loro non smetteranno di attaccare l'occidente. Poi diranno che mangiamo durante il Ramadan e ci uccideranno per questo. Non possiamo negoziare ogni dettaglio della nostra libertà. A Charlie Hebdo eravamo abituati agli attacchi, ma dopo la strage la cosa che mi ha reso senza speranza e amareggiata sono stati quei media, come il New York Times, che non ripubblicarono la copertina del numero dei sopravvissuti di Charlie. Tutte quelle persone erano state massacrate per una vignetta e questi giornalisti si rifiutano di pubblicare un'altra vignetta? E pretendono di essere giornalisti 'liberi' in un 'mondo libero'? Forse i terroristi avevano ragione a fare quello che hanno fatto. Mancarono di coraggio. Dopo il 2006 a Charlie Hebdo ci siamo chiesti: 'Cosa faranno gli altri giornalisti?'. Fummo lasciati soli nove anni dopo. Io oggi ho molte minacce di morte, ma non sono più in pericolo di tutti voi. E' questo che ha dimostrato la strage del 13 novembre e quella di Bruxelles. Dobbiamo comprendere che si deve parlare di libertà più che mai. E che quando stiamo in silenzio, mettiamo tutti in pericolo. E questo è esattamente quello che è successo a Charlie Hebdo".
  La Francia sembra vivere nella rimozione della minaccia: "Totalmente. Il presidente della Repubblica Hollande ha detto che non sono musulmani, ma criminali. Abbiamo questa ideologia che rifiuta di nominare l'islam. La gauche, la sinistra, si sente obbligata a essere carina con l'islam. Viviamo in una repubblica laica e democratica che non dovrebbe riconoscere il comunitarismo, ma solo i cittadini. C'è un universalismo dei diritti per tutti. E di doveri. Usano invece questa accusa incredibile di 'islamofobia', che è una impostura intellettuale inventata dai mullah iraniani per chiudere la bocca a coloro che criticano l'islam. Sono cresciuta nell'islam, ho dovuto imparare il Corano a memoria. E quando critichi l'islam nei paesi musulmani ti imprigionano, ti attaccano fisicamente, ti processano, ti uccidono. In democrazia se critichi l'islam ti accusano di 'islamofobia'. Sono due facce della stessa medaglia. E' come addossare la fatwa sulle spalle di queste persone e la sinistra cade sempre in questa trappola. E' questo il razzismo, negare ai musulmani la lotta contro l'estremismo nel loro seno".
  Che ricordo ha di "Charb", il suo direttore al settimanale? "Era un combattente. Diceva che se non lottiamo per la libertà, un giorno avremo una società dove ci sentiremo come in prigione. Charb era un comunista, ma anche un radicale devoto alla libertà. Ma sapeva che se non ci sono problemi a criticare la chiesa, quando tocchi l'islam non funziona allo stesso modo. Charb non cadde mai in questa trappola. E ha pagato con la sua vita. Nonostante fosse sotto protezione della polizia. E c'era gente che diceva che la sua sicurezza costava soldi al contribuente. Vergogna a loro. La prima persona che cercarono in redazione quel giorno fu lui, gli spararono alla testa. Era un amico della vera sinistra che ha valori universali, non questa sinistra ideologica che tratta i musulmani come il nuovo proletariato".
  L'editoriale di Charlie Hebdo del 30 marzo si intitola "How did we end up here?" (Come siamo arrivati a questo punto?). Si conclude spiegando che il terrorismo è solo la parte conclusiva di un processo già iniziato, che impone di non parlare, di non contraddire e di evitare il dibattito, che recita "tenete a freno le vostre lingue, vivi o morti. Rinunciate a discutere o a contestare". "Gli attacchi sono la punta di un grande iceberg. Sono la fase finale di un processo di intimidazione e silenzio cominciato molto tempo fa" che ci ha reso incapaci di parlare e di criticare apertamente l'islam.
  Zineb El Rhazoui non rinuncia a dire la sua, nonostante il prezzo che sta pagando. "Ho una delle più alte protezioni in Francia", conclude. "La vita è cambiata, devi pensare a ogni cosa che fai, come prendere un caffè con gli amici e organizzarti prima con il team della sicurezza. Cerco di continuare la mia vita normale. Vivo in una prigione ambulante, ma mi sento più sicura di chi mi minaccia. Loro hanno la prigione in testa! Ci saranno altri attentati terroristici sul suolo europeo. Dopo il 13 novembre mi sono sentita svuotata nel vedere tutti quei politici in televisione ripetere che 'bombarderemo Raqqa'. Non possiamo pretendere di fare la guerra a Raqqa e non alla ideologia islamista che abbiamo fra di noi. Il problema non è in Siria, ma dentro il nostro paese, gli assassini sono qui, fra le nostre case. L'ideologia islamista esiste da prima dello Stato islamico ed esisterà dopo la distruzione dello Stato islamico. Non conosce confini. Lo Stato islamico è il nome di qualcosa che esisteva prima. Se scompare, riapparirà altrove con un altro nome. Ci sono imam in Francia che dicono che chi ascolta la musica è una scimmia, ripetono alla gente che la loro identità islamica viene prima di quella francese e di quella di essere umano. E' da qui che il terrorismo viene, nasce da questa ideologia. E finché continueremo a mentire a noi stessi subiremo altri attacchi terroristici".

(Il Foglio, 7 aprile 2016)


Israele e Russia, quale rapporto?

Una relazione dai contorni indefiniti difficile da cogliere

di Paola Lepori

 
Nel complesso quadro dei rapporti che si intrecciano in Medio Oriente, ce n'è uno particolarmente difficile da interpretare: quello tra Israele e la Russia. Nel 1944, Iosif Stalin si schierò a favore del movimento sionista, convinto che esso avrebbe instaurato in Medio Oriente uno Stato socialista e che questo Stato avrebbe in qualche modo contrastato l'influenza britannica nella regione. Quando nel 1948 lo Stato di Israele vide la luce, l'Urss fu la prima a riconoscerlo legalmente. Ma durante la Guerra Fredda i rapporti tra Mosca e Tel Aviv deteriorarono, con l'Unione sovietica schierata inequivocabilmente a sostegno dei Paesi Arabi e della Palestina. Fu solo nel 1991 che vennero ristabilite le relazioni diplomatiche e, al crollo dell'Urss molti ebrei russi emigrarono in Israele.
   Oggi, il Russo è la terza lingua più diffusa nello Stato di Israele, dopo l'Ebraico e l'Arabo, e la popolazione di origine russa del Paese è di più di un milione di persone, su un totale di otto milioni di abitanti, molti dei quali sostenitori di Vladimir Putin. Durante gli anni Novanta e gli anni Duemila i rapporti tra i due Paesi non sono apparsi molto solidi, ma poi qualcosa è cominciato a cambiare. Nel 2014, Tel Aviv e Mosca si sostengono a vicenda: Israele si guarda bene dal condannare l'intervento russo in Ucraina e l'annessione della Crimea, Putin sostiene a chiare lettere la controversa operazione militare israeliana su Gaza "Protective Edge" che durante l'estate uccide oltre duemila civili Palestinesi. «Sostengo Israele nella sua lotta per tentare di proteggere i suoi cittadini», aveva detto Putin.
   Nell'estate del 2015, il Presidente siriano Bashar al-Assad, in una situazione sempre più precaria, si risolse a chidere l'intervento militare dell'alleato russo. Qualche giorno prima che la campagna russa partisse (30 settembre 2015), il premier israeliano Benjamin Netanyahu si recò in visita a Mosca accompagnato dai vertici militari israeliani (21 settembre 2015). Lo scopo dell'incontro con Putin era quello «prevenire incomprensioni tra le forze israeliane e quelle russe», dichiarò Netanyahu ai giornalisti. In buona sostanza, Netanyahu chiarì a Putin gli obiettivi israeliani in Siria - impedire il trasferimento d'armi dalle forze regolari siriane alle milizie sciite libanesi di Hezbollah - e i due si accordarono su come evitare che le rispettive forze si intralciassero l'un l'altra. «Noi non interferiamo con loro e loro non interferiscono con noi», dichiarò il Ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon a ottobre.
   Ma il sospetto di una cooperazione militare più organica ha trovato eco nelle dichiarazioni dei vertici russi. Reticente a confermalo, Israele ha preferito glissare, da un lato per non rischiare di infastidire l'alleato americano - che, malgrado il graduale disimpegno dalla regione voluto da Obama, rimane il pilastro della politica estera e della difesa israeliana - e dall'altro per le possibili ripercussioni sugli equilibri regionali.
   La settimana scorsa (16-17 marzo), invece, è stato il Presidente israeliano Reuven Rivlin a recarsi in visita a Mosca. Evento che non ha mancato di sollevare speculazioni. Era da dieci anni che un Presidente israeliano non passava per il Cremlino, ma la rilevanza di questo incontro è forse da cogliere nel fatto che Israele, pur di non perdere un'occasione evidentemente molto importante, ha cancellato un impegno preso precedentemente con Canberra, mossa che nella diplomazia internazionale è più che scortese. Ma, appunto, sembra che l'urgenza israeliana di confrontarsi con i russi abbia spinto Netanyahu a fare pressioni su Rivlin perché cogliesse al volo l'opportunità di una tre giorni a Mosca.
   Il nodo centrale è stata la sicurezza, Tel Aviv cercava delle rassicurazioni rispetto al disimpegno delle forze armate russe dalla guerra civile in Siria. Le preoccupazioni israeliane ruotano attorno alle posizioni degli altri alleati di Assad, l'Iran e Hezbollah. La posizione comune rispetto a Damasco rende la Russia, la Repubblica Islamica e la milizia sciita libanese alleati de facto, e la cosa non può non preoccupare Israele.

(L’Indro, 6 aprile 2016)


“... la controversa operazione militare israeliana su Gaza "Protective Edge" che durante l'estate uccide oltre duemila civili Palestinesi.” Così si sintetizzano i fatti storici. Con lo stesso stile, la seconda guerra mondiale potrebbe essere sintetizzata così: “la controversa operazione militare degli alleati contro la Germania che nella prima metà degli anni ‘40 uccise oltre sette milioni di tedeschi”. M.C.


Minimal Klezmer Trio, musica ebraica per l'aperitivo allo Splendid

Appuntamento speciale giovedì 7 aprile allo Splendid Venice Hotel di Venezia per la rassegna Live Music Aperitif firmata da Veneto Jazz. In scena, con inizio alle 19.00, il Minimal Klezmer Trio, dedicato alla musica ebraica, con Francesco Socal al clarinetto, Roberto Durante al piano, melodica e objects, Martin Teshome al violoncello.
Minimal Klezmer Trio nasce nelle strade di Londra nel 2011 dall'incontro di tre musicisti accomunati dalla musica classica contemporanea, una consistente inclinazione verso l'improvvisazione ed una fatale passione per il klezmer. Lo spettacolo si basa su due componenti: il richiamo all'aspetto più sacro e meditativo della musica ebraica è contrapposto e completato da una vis ironica, improvvisativa e a tratti cabarettistica. La strumentazione minimale del trio, costituita da strumenti per lo più "portatili" ed acustici, si ispira direttamente alle piccole formazioni klezmer di cui abbiamo ampie testimonianze risalenti già all'inizio del XX secolo, grazie alle registrazioni di Giacob Gegna, Josef Solinski, Mihal Viteazul ed altri.
Il repertorio è arricchito da classici tipici delle storiche klezmer big-band come quelle di Abe Schwartz, Naftule Brandwein, Israel j.Hochman, ri-arrangiate sfruttando le possibilità espressive ed improvvisative del trio. Nonostante la recente formazione, i Minimal Klezmer hanno all'attivo numerosi concerti in Italia, Regno Unito, Ungheria, Germania.

(Venezia Today, 6 aprile 2016)


"L'antisionismo? È il nuovo antisemitismo"

Il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, universalmente noto come Bds? È paragonabile a chi, durante il Medioevo, usava la Pasqua per scagliare terribili attacchi contro gli ebrei. A sostenerlo è rav Jonathan Sacks, ex rabbino capo d'Inghilterra e del Commonwealth, tra le voci ebraiche più influenti al mondo, in una riflessione pubblicata da Newsweek.
"Nel Medioevo gli ebrei erano odiati per la loro religione. Nel 19esimo e nel 20esimo secolo per la loro 'razza'. Oggi lo sono per via del loro Stato nazione, Israele. Bisogna dirlo: l'antisionismo è il nuovo antisemitismo" scrive rav Sacks nel suo intervento.
"Oggi le cose vanno così. Dopo la Shoah, ciascun essere umano pensante è inevitabilmente anti-nazista. Così c'è chi dice che i palestinesi siano i nuovi ebrei, gli israeliani i nuovi nazisti. Israele un crimine perpetrato contro l'umanità" denuncia il rav, ricordando come in tanti siano oggi vittime di questa folle costruzione mentale.
Folle e "totalmente sbagliata", come ricorda, perché sono stati "ebrei e non israeliani" ad essere uccisi negli attacchi terroristici compiuti negli scorsi anni a Tolosa, Parigi, Bruxelles e Copenaghen.
Che cosa è dunque l'antisemitismo? Una mancanza cognitiva, afferma il rav, che tenta di semplificare problemi complessi dividendo il mondo in bianco e nero. "Il tema è sempre lo stesso: noi siamo innocenti, loro colpevoli. Ne consegue che noi, cristiani, membri della razza ariana o islamici, siamo liberi. Loro, gli ebrei, lo Stato di Israele, devono essere distrutti. Ecco come iniziano tutti i grandi crimini".
Alla radice dell'odio, scrive il rav, vi è in prima istanza l'insofferenza alla diversità. Gli ebrei erano la più cospicua minoranza non cristiana in Europa prima della Shoah, si legge, "mentre oggi sono la più cospicua presenza non islamica in Medio Oriente". L'antisemitismo sarebbe quindi il riflesso più evidente dell'incapacità, in alcuni gruppi e comunità, "di lasciare spazio a identità altre".
Ma, avverte rav Sacks, l'odio che inizia contro gli ebrei non finisce mai con gli ebrei. In un mondo funestato da contrapposizione religiose, diventa quindi fondamentale che tutti gli uomini (di fede e non) si ritrovino compatti "non solo nella lotta all'antisemitismo ma anche per assicurare che i diritti delle minoranze siano assicurati ovunque".

(moked, 6 aprile 2016)


Esportazioni israeliane in armamenti nel 2015 pari a 5,7 miliardi di dollari

GERUSALEMME - Le industrie israeliane che operano nel settore della Difesa lo scorso anno hanno esportato prodotti per 5,7 miliardi di dollari. Lo ha annunciato oggi il ministero della Difesa israeliano definendo il dato stabile rispetto agli anni passati. Michael Ben-Baruch, dirigente dell'Organizzazione per le esportazioni presso il ministero della Difesa (Sibat), commentando il dato ha detto: "Siamo orgogliosi dei successi riscontrati dal settore della difesa israeliano nel mercato globale delle esportazioni. Dopo un anno difficile, attraverso un grande lavoro, siamo riusciti a mantenere la nostra quota di mercato. Il dato dello scorso anno è in leggerissimo aumento rispetto al 2014 quando Israele esportò prodotti per 5,6 miliardi di dollari. Ben-Baruch ha ricordato che lo scorso anno le aziende israeliane che operano nel comparto della difesa ed il ministero "hanno firmato decine di contratti significativi che hanno stabilizzato le esportazioni".

(Agenzia Nova, 6 aprile 2016)


Terroristi in carcere: stipendio palestinese con soldi da…

LONDRA - Due terroristi palestinesi che hanno ucciso a pugnalate una donna americana e gravemente ferito, credendo che fosse morta, la sua amica inglese perché credevano fossero ebree, ricevono ogni anno più di 11 mila euro come sostegno mentre sono in carcere dalla Autorità Palestinese, che a sua volta riceve quel denaro dai Paesi europei come aiuto per gli abitanti di quelle terre infelici e martoriate dalla occupazione israeliana.
  Dopo averlo scoperto, la donna sopravvissuta ha denunciato lo tragica beffa ai giornali e il Daily Mail ha lanciato una petizione. La vicenda risale al 2010 sulle colline vicino a Gerusalemme. Kay Wilson era stata creduta morta dagli assalitori, mentre la sua amica Kristine Luken, americana, è stata uccisa. Gli aggressori sono stati poi catturati e, dopo aver ammesso i loro crimini, sono stati mandati in prigione.
  La Wilson è inorridita quando ha letto in un articolo che gli assalitori ricevono ciascuno uno stipendio mensile pari a quasi 1.000 euro da parte dell'Autorità palestinese. La scorsa settimana The Mail on Sunday ha scoperto come i pagamenti "ricompensa" stanno andando dalla PA a migliaia di terroristi e di centinaia di altri prigionieri nelle carceri israeliane.
  La Wilson, 51 anni, e la sua amica stavano facendo escursioni nelle Judean Hills nel 2010, quando i due uomini si avventarono su di loro, credendo che entrambe le donne fossero ebree, anche se la Luken era cristiana. Dopo aver legato le donne, i terroristi hanno sferrato un attacco selvaggio.
 
Kay Wilson con Muhammad Zoabi, un arabo musulmano orgoglioso di essere israeliano
  La Luken è morta per le ferite da arma da taglio. La Wilson ha una cicatrice di sette pollici sul suo stomaco e, a distanza di cinque anni, la respirazione le provoca ancora dolore.
  La Wilson ha dichiarato:"Siamo stati trattenute per 30 minuti da un coltello appuntito, poi imbavagliate e legate prima di essere macellate a colpi di machete.
  "Ho visto la mia amica a pezzi davanti ai miei occhi, e sono sopravvissuta solo perché ho finto di essere morta, nonostante essere stata accoltellata 13 volte e avere più di 30 ossa rotte dalla sola forza dei colpi". "Ogni volta che affondava il machete sul mio corpo ho potuto sentire lo scricchiolìo delle mie ossa e la mia carne lacerata dalla lama seghettata". "Hanno smesso, ma hanno ripreso pochi istanti dopo e l'ho visto affondare il coltello nel petto".
  Dopo l'assalto è riuscita sorprendentemente a mettersi in piedi e iniziare a camminare. Ha detto: "Sentivo i miei polmoni pieni di sangue ed ero consapevole che ogni passo poteva essere l'ultimo". Con grande difficoltà, è riuscita comunque ad arrivare al parcheggio dove aveva lasciato la sua auto e ha lanciato l'allarme. La sua vita è stata salvata da un chirurgo musulmano arabo-israeliano.
  Gli aggressori - Aiad Fatfata e Kifah Ghanimat - sono stati successivamente arrestati, processati e condannati al carcere a vita nel 2011 e sono tuttora detenuti. Ma mesi dopo le condanne la Wilson ha scoperto che le famiglie degli uomini venivano pagate. Ha detto: "Li chiamo i loro stipendi per l'esecuzione. In tribunale, ho sentito dire dalle loro bocche, che Kristine, una cristiana, è stata uccisa perché ritenevano fosse ebrea".
  "Questo è scandaloso. Ma quando, quale cittadina inglese orgogliosa, scopro che la mia patria sta pagando alle loro famiglie un reddito mensile, l'ingiustizia assoluta di tutto questo è semplicemente devastante". "Ringrazio Dio per tutte le persone che hanno firmato la petizione del Mail on Sunday al Parlamento, perché questo dimostra che gli inglesi sono ancora solidali e hanno un grande senso d'equità".
  "Come possono due uomini stringere un machete e fare a pezzi due donne innocenti, senza battere ciglio? In tribunale sbadigliavano e sogghignavano: non c'è da stupirsi se sapevano che c'era un incentivo in denaro da parte del governo inglese". "Sono per la pace. Ho parlato molte volte da quando è accaduto l'episodio. Ebrei, cristiani o musulmani, dobbiamo tutti imparare a vivere insieme". "Ma se vogliamo una pace fattibile dobbiamo interrompere questi pagamenti.'
  La Wilson, che è nata a Londra ma si è trasferita in Israele 30 anni fa, lavora per una organizzazione non governativa, StandWithUs, che mira a promuovere la tolleranza religiosa e la comprensione. Ha contattato The Mail on Sunday dopo che il giornale aveva affermato riportato come, in Cisgiordania e Gaza, nonostante le promesse da parte della PA di porre fine alla pratica di pagare con denaro i terroristi condannati, hanno semplicemente ingannato l' Occidente, consentendo all'OLP di dispensare il denaro. Gran Bretagna dà 72 milioni di sterline o euro l'anno per la Palestina, più di un terzo delle quali va direttamente alla PA.
  Si ammette apertamente il supporto ai terroristi, che vengono visti come eroi per combattere l'occupazione illegale, premiati con pagamenti a vita a seconda del tempo trascorso in carcere e la gravità dei crimini. Somme supplementari sono aggiunte per familiari a carico, secondo l'ONG israeliana, Palestinian Media Watch.
  L'avvocato della Wilson, Gavi Mairone, ha detto: "Questi due uomini facevano parte di una cellula terroristica e sono allineati con Fatah, il braccio armato dell'OLP. In carcere sono con il gruppo Fatah e, come gli altri, sono pagati dall'Autorità Palestinese".
  Il Governo nega che il denaro britannico arrivi ai terroristi e dice che i pagamenti a PA sono "delimitati" a progetti specifici. Gli oppositori sottolineano che il denaro dal Regno Unito e da altri paesi occidentali libera altri fondi da trasmettere ai terroristi. L'indagine de The Mail on Sunday ha scoperto che la Gran Bretagna ha finanziato l'OLP fino allo scorso anno. Ex detenuti e le famiglie dei terroristi con cui hanno parlato, hanno confermato la ricezione di denaro sia da PA che dall'OLP.

(blitz quotidiano, 5 aprile 2016)


Ministro inglese: boicottare Israele è peggio dell'apartheid

di Giulio Meotti

Michael Gove
Il ministro della Giustizia inglese, Michael Gove, si è scagliato contro il movimento BDS che boicotta in tutto il mondo Israele, definendolo la nuova manifestazione di un vecchio odio che "avremmo pensato sarebbe scomparso da questa terra per sempre dopo il crimine unico della Shoah". Durante una serata di gala a New York, il ministro Gove ha denunciato l'aumento dell'antisemitismo in Europa, riferendosi a esso come a un "virus che muta". "In epoca medievale, l'antisemitismo era religioso e ha trovato la sua manifestazione nella ghettizzazione e nella conversione forzata", ha detto Gove, politico conservatore ed ex giornalista.
"Poi l'antisemitismo, con il pretesto perverso del razzismo scientifico, ha portato alla politica eliminazionista in Austria e in Germania, il più grande crimine che l'umanità abbia mai visto". Ma, ha affermato, l'antisemitismo è di nuovo cambiato. "E ora trova espressione nell'opposizione all'identità collettiva del popolo ebraico e all'esistenza dello stato di Israele". Poi Gove ha dato il colpo di grazie a quei felloni "progressisti" che in Europa e in America incitano a discriminare Israele: "Il boicottaggio commette un crimine peggiore dell'apartheid". Quando si dice la moral clarity anglosassone!

(Il Foglio, 6 aprile 2016)


L'eroismo di Yoni Netanyahu è una lezione per noi europei

Pubblicate in Italia le lettere del militare che ideò l'Operazione Entebbe La sua determinazione senza odio contro i terroristi può insegnarci molto.

di Fiamma Nirenstein

No, Yonathan Netanyahu non era "troppo perfetto", troppo bello e bravo per essere vero: era un eroe di Israele, era un ragazzo di Israele, insomma era Israele. E per esserlo a pieno, occorre essere un eroe. Incarnava cioè la quintessenza di ciò che questo Paese è costretto a essere, come più volte Yoni annota, per seguitare semplicemente a vivere. Lui era anche bellissimo, generoso, colto, pensoso e maturo oltre la misura di quello che consente di sopportare la morte di un giovane come lui, e questo rende la lettura un romanzo appassionante, e molto doloroso. Ma anche esaltante e lieto. Ciò che rende difficile accettare la morte di Yonathan non è solo lo spreco della perdita di un giovane meraviglioso: è l'intreccio fra la passione per la vita, per il pensieri e l'amore e la ineluttabile morte di Yoni, testimoniati dalle lettere. Perché il lettore sente che quella guerra, tuttora in atto, merita un lieto fine, e invece Israele seguita a essere assediato da tutti i possibili pericoli e anche da odiosi fraintendimenti. Lo dimostra nel piccolo volume uscito da poco l' encomiabile lavoro di Michele Silenzi che ha raccolto per Liberilibri le Lettere di
La tragedia di Yonathan non è una tragedia storica ma con- temporanea, non la tragedia di Israele ma di tutto il mondo.
Yonathan Netanyahu, scritte dal 1963 al 1976, quando è caduto ad appena 30 anni il 4 luglio a Entebbe. Silenzi scrive poche righe ad ogni nuovo capitolo, ed è il lettore ideale del testo delle lettere, perché capisce che la tragedia di Yonathan non è una tragedia storica ma contemporanea, non la tragedia di Israele ma di tutto il mondo, quello che lo capisce e ancor di più quello che non ce la fa a rendersene conto. Yoni cadde per una pallottola al cuore alla testa del commando della Sayeret Matkal, l'unità speciale che liberò tutti gli ostaggi israeliani che i terroristi palestinesi e tedeschi (connubio che non esito a sottolineare) avevano sequestrato in volo e selezionati dagli altri passeggeri isolandoli in un capannone dell'aeroporto di Entebbe, con la connivenza del dittatore Idi Amin Dada. Tutti meno tre furono salvati, e tutti i soldati tornarono a casa. Yonathan corse per primo avanti, temendo che ogni istante di ritardo sarebbe costato la vita ai prigionieri, e fu colpito.
  È un episodio fra i più esemplari e famosi della storia di Israele: un gesto impossibile che solo la volontà, il coraggio e anche la disperazione hanno consentito. Yonathan che non riposa da giorni per preparare col capo di Stato maggiore Motta Gur e il generale Janush (scomparso in questi giorni) il salvataggio, e studia l' operazione nei minimi particolari, cade in un placido sonno solo quando è già in volo verso Entebbe su un Ercules insieme ai suoi compagni. Come un Ettore che sta per andare allo scontro con Achille, conosce il suo valore, è ormai quieto dopo aver preparato tutto e tutti, ha sfidato la sorte già in mille operazioni che definire spericolate è dir poco, e si dedica solo a sostenere e a rincuorare uno a uno i suoi ragazzi, lui stesso ragazzo, mentre vanno ad affrontare faccia a faccia il destino.
  La storia di Yoni è insopportabile perché è troppo vera, perché vive sempre nei ragazzi israeliani che affrontano tre anni di servizio militare: consapevolmente o inconsapevolmente, Yoni ha segnato la strada. Da studente in America sogna solo di tornare a casa perché, come dice, «brama Israele» come si può amare senza nessuna retorica la propria patria indispensabile per l'identità ebraica contemporanea; una volta in Israele esprime negli anni e in ogni lettera il suo grande amore per la famiglia, per il padre famoso storico Ben Tzion, la madre e i due fratelli adorati Benjamin, ora primo ministro, e Iddo. Da ragazzo innamorato scrive a Tutti, la fidanzata che poi sposerà e da cui poi divorzierà per approdare al pensoso rapporto con Bruria. La narrazione tocca senza mai una parola di esaltazione o tantomeno di
Uomini come il comandante Roi Klein che, gridando la pre- ghiera dello "Shema Israel" si fece saltare su una bomba a mano per salvare i suoi soldati.
preoccupazione per sé un crescendo di operazioni belliche. La cronista conosce l'amore senza fronzoli per cui si è pronti a sacrificare la propria vita, si è imbattuta nel corso degli anni, come nella guerra del Libano nel 2006, in uomini come il comandante Roi Klein che, gridando la preghiera dello "Shema Israel" si fece saltare su una bomba a mano per salvare i suoi soldati, o Tomer Bouhadana, che fu fotografato mentre faceva la V con la mano e un medico gli teneva chiusa la vena del collo per evitare che morisse dissanguato, o i tanti che a Gaza ho visto chiedere di tornare subito alla loro unità anche dopo ferite gravi. Eppure sono sempre ragazzi che vivono con allegria, con entusiasmo. Israele è costretta, come scrive Yonathan, a disegnare una figura di eroe perfetto come lui che non vuole la guerra, che ne sente l'immensa tristezza, ma che, come scrive, sempre strappato dal desiderio di studiare, di amare, di vivere, di passare il suo tempo a godere della bellezza sua Terra, deve non solo seguitare a combattere, ma farlo pensando, fìlosofando, e anche cercando di essere felice.
  Mi sono chiesta durante la lettura del testo molte volte se Yonathan fosse davvero felice, perché tanto rischio e tanta fatica si pagano, e infatti Yonathan ha subito ferite nel corpo, in guerra, e nell'anima, col divorzio e la lontananza dai suoi e con l'angoscia della perdita dei suoi amici in battaglia. Ma la risposta la dà lui stesso, quando almeno due volte dice ai suoi di essere felice, ebbene sì, a volte i mezzo a parole sconsolate soprattutto sulla incapacità degli ebrei stessi di capire come stanno le cose veramente e affrontare per quello che è il rifiuto arabo, che ritiene con amara preveggenza definitivo.
  Yoni già a trent'anni ha il bellissimo volto segnato di una persona molto più matura, la sua espressione è scolpita, e le ultime lettere ripetono una cosa che ho sentito dire tante volte ai soldati israeliani: «sono tanto stanco». Israele è come Yoni: non può mai dormire, tirare il fiato, e non soltanto a causa dei nemici, e cerca di riprendersi fra uno sparo e l'altro, fra una goccia e l'altra delle pioggia di malevolenza che lo investe.
  Ma davvero è molto difficile, che la vita di Israele possa essere compresa con i normali parametri che si usano nel giornalismo e in generale nella narrazione contemporanea delle guerre. Il tenero amore di Yonathan per Bibi per esempio, è certo molto difficile da capire per i giornalisti che amano odiare il Primo Ministro di Israele, che pure nelle parole di Yonathan e nella storia di eroismo in guerra gli è stato gemello e compagno di battaglie, come anche Iddo. La parola eroe è bandita, la parola patria è vilipesa, ed è molto lontano da me volerne fare un simulacro. Ma proprio leggendo le lettere di Yonathan si capisce una cosa drammatica e che in definitiva ti afferra alla gola proprio come la morte di Netanyahu: se il mondo contemporaneo non riuscirà a capire Israele è perduto per sempre, e forse è proprio perché è ormai afferrato da un cupio dissolvi probabilmente dettato dal senso di colpa per la Seconda guerra mondiale che cerca di trascinare con sé il comprimario e la vittima del suo tormento, lo Stato degli ebrei.

(La Stampa, 6 aprile 2016)


Dalle armi alla cattedra la scommessa di Ahmed: "Insegno ebraico a Gaza"

Ha imparato la "lingua del nemico" in carcere dove ha trascorso vent'anni per aver ucciso un israeliano. Ora ha aperto una scuola nella Striscia.

di Fabio Scuto

Ahmed Alfaleet
«Tov», bene, dice l'insegnante alla sua classe di studenti di varia età dopo aver spiegato alla lavagna il significato della parola "meayin" (da dove). Una classe di lingua ebraica come un'altra, ma questo non è un posto come un altro. È Gaza, il fazzoletto di terra che ha visto quattro guerre con Israele negli ultimi dieci anni. Da qui partono quasi ogni notte, uno, due razzi verso il sud d'Israele. Tanto per ricordare che la partita, gli islamisti, non la considerano chiusa, ma solo temporaneamente sospesa. Siamo al sesto piano di un palazzone sulla Talafimi Street, a quattro passi dall'Università Al Quds, che ospita il Nafha Center per lo studio della lingua ebraica. A guidarlo c'è Ahmed Alfaleet, un uomo alto per la statura media dei palestinesi, con gli occhi chiari e mani grandi. Alfaleet è un ex guerrigliero della Jihad islamica che ha passato vent'anni nelle carceri israeliane di massima sicurezza, venne liberato nel 2011 nell'ambito dello scambio di 1000 prigionieri con il soldati israeliano Gilad Shalit e dopo essere stato scarcerato ha lasciato la lotta armata e raccolto la sfida di diffondere la lingua ebraica a Gaza. È così importante, vista la prossimità territoriale, e pochi arabi la conoscono. Anche a Gaza l'ebraico non è più la lingua del nemico.
   Alfaleet, che oggi ha 42 anni e ha messo su famiglia, venne condannato all'ergastolo per l'uccisione di un israeliano nelle vicinanze dell'insediamento di Kfar Darom — che un tempo era al centro della Striscia — e in ventuno anni passati in cella ha conseguito tre lauree — compresa una in Relazioni Internazionali — alla Open University di Israele e un master alla Hebrew University. Racconta del lungo sciopero della fame in cella per ottenere il permesso dall'Israel Prison Service di studiare a distanza all'università israeliana e non presso gli istituti arabi. Ma soprattutto della sua scelta di vita. «Dopo che sono stato rilasciato ho lavorato un po' come insegnante privato di lingua ebraica, poi con qualche soldo e molti aiuti di parenti ho deciso di aprire questa scuola». Perché? «Come occupante, nemico o semplice vicino, Israele esiste accanto a Gaza. Non possiamo cambiare la Storia».
   «In cella», racconta Alfaleet, «c'era molto tempo e ho letto qualunque cosa, libri, giornali, riviste. Poi ho pensato che potevo mettere a frutto questo interesse e immaginare forse anche un altro futuro».
«Guardando la tv in cella mi sono reso conto che in Israele sapevano tutto di noi e noi nulla di loro, ho cambiato opinione su molte questioni, dopo aver letto Amos Oz, Avraham Yehoshua, David Grossman e altri poeti e scrittori classici in lingua ebraica: da allora le cose non sono state più le stesse». Lo spiega bene Alfaleet come, lentamente man mano che mentre studiava e leggeva, anche la visione di Israele cambiava. «Oggi mi invitano spesso come esperto di Israele in tv e alla radio qui a Gaza, ma devo stare attento a quello che dico e a come lo dico per non essere bollato come un "cattivo ragazzo" ma per me tutto è cambiato».
   I suoi studenti, e finora ne ha avuti oltre 1200, sono giornalisti, medici, farmacisti, avvocati e uomini d'affari che devono comunicare con gli israeliani. Ed è molto soddisfatto dei risultati ottenuti, la maggior parte dei suoi allievi adesso parla un ebraico fluente e chiaro. «Se conosci la lingua non ci sono incomprensioni», dice sorridendo e pensando agli avvocati palestinesi che devono difendere i loro clienti davanti alle Corti israeliane dove tutto è redatto in ebraico o ai farmaci che le Ong mandano nella Striscia e che hanno il bugiardino stampato in ebraico e in russo. Infatti, spiega, «ci sono 4 canali specifici di specializzazione per i professionisti che hanno necessità e vocabolari linguistici diversi».
   In passato la gente di Gaza era piuttosto aperta nei confronti degli israeliani, nonostante le guerre. I canali tv israeliani — specie Channel 1 e Channel 10 — erano la stazioni più viste nella Striscia ed era quasi una tradizione ascoltare alle 6 del pomeriggio il bollettino quotidiano in arabo di Radio Israele. Migliaia di lavoratori avevano il permesso di uscire dalla Striscia ed erano una sorta di ponte fra le due comunità. Tutto è cambiato negli anni 2000 con la seconda intifada e poi l'inesorabile discesa dopo la presa del potere di Hamas e le 4 guerre (2006-2009-2012-2014) che hanno ridotto la Striscia ad una terra maledetta da dove, tutti, vogliono soltanto fuggire. Eyad, è un ragazzo di 22 anni che studia giornalismo alla Al Quds University, dice che sta venendo a lezione per imparare l'ebraico per avere più chance per la sua carriera: «Non si può fare il giornalista a Gaza senza capire e leggere i media israeliani». Ecco, alla scuola di Alfaleet questa chance non costa nemmeno cara. Imparare la lingua del "vicino" costa 250 shekel (50 euro) per 40 ore di lezione e 1200 per 140 ore.
   E allora "Be-hatzlachah" (Buona fortuna), professor Alfaleet.

(la Repubblica, 6 aprile 2016)


«Guardando la tv in cella mi sono reso conto che in Israele sapevano tutto di noi e noi nulla di loro, ho cambiato opinione su molte questioni”. Ammissione significativa: finché la popolazione palestinese sarà mantenuta in un odio sostenuto dall’ignoranza, non c’è da aspettarsi cambiamenti di rilievo”. M.C.


Le nuove barbarie dell'occidente

Intervista al grande medievista Rémi Brague. "L'Isis raderebbe al suolo la cattedrale di Chartres, ma anche l'Europa rinuncia al cristianesimo. L'islam? Fa breccia nelle società decadenti, dove le famiglie preferiscono i cani ai figli"

di Giulio Meotti

 
Rémi Brague
ROMA - Erudito e poliglotta che ha tradotto i trattati ebraici di Maimonide e quelli islamici di Razi, medievista di fama con cattedra alla Sorbona e a Monaco di Baviera (quella di Romano Guardini), Rémi Brague venne invitato da Papa Ratzinger a far parte del "cortile dei gentili". La sua carriera accademica è un vortice di diplomi, riconoscimenti, libri. Come "Modérément moderne", l'ultimo uscito in Francia per la casa editrice Flammarion. Oggi Brague è presente nelle librerie italiane con due titoli: "Il perdono dell'occidente" (Cantagalli), mentre Bompiani ha ripubblicato il suo "Futuro dell'occidente". Un testo in cui Brague già vent'anni fa intuiva i grandi scossoni della contemporaneità, come la crisi identitaria dell'Europa alle prese con l'islam.

- Come spiegare l'odio islamista per la civiltà occidentale?
  "Un odio che si riferisce a tutto ciò che non è islam", dice Brague al Foglio. "Tutto ciò che lo ha preceduto si chiama 'ignoranza', 'gahiliyya'. Lo Stato islamico ha così distrutto le statue del Museo di Mosul perché testimoniano uno stato precedente all'islam o diverso dall'islam. Gli islamisti, arrivati in Italia, distruggerebbero San Pietro; in Francia raderebbero al suolo la cattedrale di Chartres. Come spiegare quest'odio? Si inizia con la consapevolezza di una schizofrenia in cui vivono i musulmani. La loro religione è intesa, secondo il Corano, come completamento delle precedenti religioni che andrà a sostituire. La loro comunità è 'la migliore comunità'. Durante i primi secoli dell'islam questo era ancora plausibile. La conquista araba aveva dominato le regioni più avanzate per quanto riguarda la civiltà materiale come la cultura del mondo occidentale. La pretesa superiorità religiosa e il fatto di un progresso culturale si confermavano l'un l'altro.
  Ma a partire dall'XI secolo, l'islam a poco a poco si irrigidisce mentre l'occidente 'decolla' in economia, demografia, cultura. Oggi, i paesi musulmani sono marginali, e i paesi arabi rappresentano la lanterna rossa del mondo. Come possiamo continuare a credere che l'islam è la religione più avanzata, mentre i paesi che lo professano sono in ritardo? Da qui la sofferenza e i sentimenti ambivalenti verso l'occidente, che è sia invidiato sia disprezzato. Una reazione possibile è quella di credere che il progresso dell'occidente sia in realtà una regressione rispetto ai costumi presunti rimasti intatti al di fuori di esso. Era già così nel XIX secolo in Russia con la risposta degli slavofili, che erano ovviamente non musulmani. E' una reazione radicale che porta a voler distruggere ciò che è l'oggetto di invidia".

- L'Europa invita al disastro negando la propria identità?
  "L'Europa ha sviluppato negli ultimi decenni un talento straordinario nel favorire atteggiamenti suicidi. Si inizia a livello intellettuale, il pesce marcisce sempre dalla testa, perché una buona parte della produzione storica per il pubblico in generale, che i media influenzano, invita all'autocritica e al pentimento per tutto il passato.
  Un'altra parte esalta invece il glorioso passato di altre civiltà e giustifica tutti i loro aspetti negativi, tra sacrifici umani e cannibalismo. Il modo in cui i governi europei stanno facendo di tutto per separare le giovani generazioni dal loro patrimonio culturale è abbastanza sorprendente. Imparare le lingue antiche è stata la spina dorsale della formazione delle élite. Queste lingue sono state studiate a St. Andrews come a Lecce, a Coimbra come a Praga, passando per Parigi, Salamanca, Tubinga, Uppsala, Cracovia. Ma il loro studio è ormai emarginato. Così come quello delle fonti religiose, che sono essenzialmente bibliche, sta scomparendo. E' come se la diffusione dell'ignoranza venisse desiderata. La questione dell'identità non riguarda solo le persone che già si stabilirono molto tempo fa sul suolo europeo. Si tratta anche, e forse ancor più, dei nuovi arrivati. La domanda scottante è: cosa possiamo offrire a queste persone? I 'valori della Repubblica'? E perché? La 'laicità'? E quale senso di questa parola così ambigua?"

- Perché è la Francia l'obiettivo prelibato di questo terrorismo?
  "Ci sono molte ragioni. Gli immigrati hanno gli stessi problemi in tutti i paesi e in tutti i tempi. Tuttavia, ci sono alcune caratteristiche francesi che rendono la Francia un obiettivo primario. Gli immigrati provenienti dal nord Africa sono stati caratterizzati da un passato coloniale e la decolonizzazione è andata male, soprattutto in Algeria. Quindi ci sono un sacco di brutti ricordi reciproci. Inoltre, al momento dell'indipendenza, il paese ha avuto molti vantaggi: risorse naturali, minerarie e agricoltura, una gioventù istruita, un bilinguismo che ha aperto al mondo. Eppure, in più di quarant'anni, la classe dirigente algerina è riuscita a rovinare il paese. Così si incolpa per tutti i suoi fallimenti il potere coloniale. Di conseguenza, molti algerini si sentono in Francia come in un paese nemico.
  Come contro-esempio, si può pensare ai turchi in Germania. Hanno gli stessi problemi di tutti gli immigrati. Ma si sentono in un paese che è stato loro alleato nella Grande Guerra e che non lo ha mai colonizzato. Detto questo, anche i paesi senza passato coloniale hanno problemi con i loro immigrati. Pensiamo alla Svezia, con le rivolte a Malmö e altrove. Un'altra ragione è ciò che simboleggia la Francia, nel bene e nel male. La galanteria nel buon senso della parola, come il rispetto per le donne. Ma è in Francia che ha avuto inizio, un secolo prima che in altri paesi, il declino demografico dell'Europa. Molti musulmani non sentono altro che disgusto per il malthusianesimo francese, le famiglie che rinunciano ad avere figli e prendono i cani. E la legge 'sociale' che nel 2013 ha consentito il matrimonio gay alla fine li ha convinti che la Francia è un paese decadente che non ha futuro".

- Secondo lei invece il cristianesimo ha un futuro in Europa?
  "Tutto dipenderà dai cristiani stessi. Essi sono compiaciuti troppo facilmente del loro status di minoranza; accettano troppo facilmente di essere discreti. Naturalmente in questo sono aiutati dai media, che preferiscono opporsi al cristianesimo o ridicolizzarlo. Annegano il pesce parlando, sempre al plurale, di 'religioni' che sono intrinsecamente violente. Dovremmo allora chiederci non solo se il cristianesimo abbia un futuro in Europa, ma se l'Europa possa avere un futuro senza il cristianesimo. Senza di esso, ovviamente, la geografia non cambierà, ci sarebbe ancora sulla mappa geografica una regione del mondo da chiamare 'Europa'. Ma sarà anche europea?".

- In un suo libro lei ha parlato di "umanesimo in via di estinzione". La civiltà occidentale continuerà a nutrire e ispirare l'umanità?
   "Io temo il collasso", conclude Rémi Brague. "Questo non avverrà necessariamente in modo drammatico, come nei 'disaster movie' che erano in voga qualche anno fa e che riemergono di tanto in tanto. Si potrebbe invece prendere in considerazione la lenta fiacchezza di una struttura minata dall'interno, o il suicidio, in cui la vittima si abbandona al flusso di sangue in un bagno caldo. Non molte persone se ne accorgerebbero. E il relitto potrebbe essere accolto con gioia dai passeggeri stessi. Il frutto confuta il fiore, diceva Hegel. Ma in questo caso, la vedrei come una regressione alla 'stupidità dalla testa di toro' di Baudelaire, una barbarie accompagnata da uno sviluppo tecnologico".

(Il Foglio, 6 aprile 2016)


La collaborazione medica tra Israele e Gran Bretagna

 
La collaborazione medica tra Israele e Gran Bretagna. Oltre 300 scienziati britannici e israeliani si incontreranno a Oxford l'11 e il 12 aprile per ampliare la già ampia collaborazione medica tra i paesi. Una straordinaria conferenza il cui tema è il trattamento di malattie cardiache, Parkinson, diabete e sclerosi multipla.
Immaginiamo uno scenario:
Un individuo ha un attacco di cuore, sopravvive ma il cuore risulta irrimediabilmente indebolito e non riesce a pompare il sangue come si deve. Occorrerebbe un trapianto, ma l'organo è davvero raro da trovare. L'unica cosa da fare è un intervento, una correzione alternativa. Oggi, questo tipo di correzione potrebbe venire dalla collaborazione anglo-israeliana.
In un laboratorio, un esperto di Oxford ed uno di Rehovot stanno cercando di dimostrare che il lavoro di riparazione delle cellule, sperimentato sui topi, possa funzionare anche negli esseri umani.
Il Prof. Paul Riley sa come stimolare il tessuto cardiaco per una auto-riparazione, mentre il Prof. Eldad Tzahor del Weizmann Institute sa come far crescere un gran numero di esse.
In un altro laboratorio, questa volta a Edimburgo, il Prof. Bruno Péault e il Prof. Joseph Itskovitz-Eldor del Technion di Haifa stanno riflettendo sul fatto che le cellule si comportano come ragni che avvolgono i vasi sanguigni e che questa potrebbe essere la chiave perché le cellule "dialogherebbero" tra di esse favorendo la rigenerazione del tessuto.
L'utilizzo di cellule staminali per riparare il cuore è una strategia attuale, dicono gli esperti, ma a volte possono portare a problemi di ritmo cardiaco. Il Prof. Chris Denning da Nottingham e il Prof. Lior Gepstein, hanno iniziato a collaborare su un pacemaker che controlli il ritmo cardiaco utilizzando un impulso elettrico.
Questi sono solo alcuni degli otto progetti bilaterali annunciati lo scorso anno nell'ambito del programma di scambio di ricerca e accademico Bretagna- Israele (BIRAX), una iniziativa da 10 milioni di sterline dell'ambasciata britannica e del British Council.
Il programma investe in un lavoro pionieristico svolto congiuntamente da scienziati della Gran Bretagna e Israele, 300 dei quali si riuniranno a Oxford per discutere il lavoro dei prossimi tre anni.

(SiliconWadi, 6 aprile 2016)


I giovani incontrano la Shoah

CASALE MONFERRATO — Domenica 10 aprile alle 17 alla Sinagoga di Casale Monferrato, si parla di cinema, anche se con un taglio molto particolare. Vengono infatti presentati due cortometraggi che hanno partecipato al concorso Nazionale indetto dal Ministero dell'Istruzione "I giovani incontrano la Shoah". Concorso che grazie anche alla vicinanza con la Comunità Ebraica locale ormai coinvolge ogni anno tantissime scuole Monferrine.
Giusto quindi dare spazio a tutti i concorrenti, visto anche l'originalità delle idee presentate. Con introduzione di Maurizio Belluati vedremo pertanto "Il Giardino delle parole", ideato e prodotto dai ragazzi della 3aA - scuola media Dante Alighieri di Casale Monferrato, che ha per attori tutti gli alunni della classe e vede la regia della professoressa Valeria Mongiano e la lezione di storia del professor Domenico D'Arienzo, e "Parole Bruciate - Quando il sonno della ragione genera mostri", ideato e prodotto dai ragazzi delle terza A della scuola media Don Milani di Ticineto per la regia del professor Domenico Calò, con la consulenze del professori Gerardo D'Amato, Alessia Tonet, riprese di Giorgio Chiarolanza e montaggio di Andrea Girino.
Della Comunità Ebraica casalese si ne parlerà anche a Torino il 13 aprile all'archivio di Stato (piazzetta Mollino) in un incontro dal titolo percorso negli archivi ebraici del Piemonte con un intervento di Claudia de Benedetti sulla copiosa collezione di documenti di vicolo Salomone Olper.

(Il Monferrato, 6 aprile 2016)


L'ex presidente israeliano Katzav sconterà tutta la pena per stupro

Condannato a sette anni di carcere per stupro, l'ex capo di Stato israeliano Moshe Katzav (2000-2007) ha appreso oggi da una Commissione del servizio carcerario che non potrà beneficiare della riduzione di un terzo "per buona condotta", da lui richiesta, ma che dovrà scontare la pena fino in fondo.
I suoi legali hanno affermato che la decisione odierna della Commissione lo ha addolorato e che pensa di ricorrere in appello.
Dopo che un suo appello alla Corte Suprema era stato respinto, Katzav (71 anni) ha iniziato a scontare la pena nel dicembre 2011, nel settore degli ebrei osservanti del carcere di Maassiahu di Ramle (Tel Aviv). Successivamente Katzav si è nuovamente rivolto alla Corte Suprema israeliana chiedendo che nei suoi confronti si svolgesse un nuovo processo: ma anche quella richiesta è stata respinta.
A denunciare lo stupro era stata una funzionaria che aveva lavorato alle sue dipendenze quando fungeva da ministro del turismo. Katzav non hai mai ammesso di aver compiuto alcun reato.
Adesso che la sua richiesta di riduzione della pena è stata respinta Katzav, secondo il suo legale Yehoshua Resnik, si appresta a ricorrere in appello.

(Corriere del Ticino, 6 aprile 2016)


Scoperta a Gaza una Chiesa bizantina di 1500 anni fa

Resto della chiesa bizantina ritrovata a Gaza
"Abbiamo rinvenuto le antiche rovine di quella che sembrerebbe essere una cattedrale o una chiesa bizantina risalente a 1500 anni fa". A renderlo noto è Jamal Abu Rida, a capo del ministero delle antichità palestinese spiegando che il ritrovamento è avvenuto a Gaza e include alcuni segmenti di colonne di marmo ornate con capitelli corinzi (uno dei quali lungo quasi tre metri) e una pietra miliare con l'incisione di un simbolo greco che indica la figura di Cristo.
   A rinvenire i preziosi reperti è stato un gruppo di operai impegnati nella costruzione delle fondamenta di un nuovo complesso di negozi in Midan Falasteen (piazza nota anche come Palestine Square), in un quartiere commerciale. "Si tratta di una scoperta dalla grande rilevanza storica" afferma Abu Rida che racconta come, momentaneamente, si sia ipotizzato che la costruzione dell'edificio religioso sia avvenuta tra il 395 e il 600 d.C.. Il ministro riporta inoltre come, in epoca romana, quello di Gaza fosse un porto prospero che ospitava una popolazione molto varia per origini e provenienza: greci, romani, ebrei, persiani e i popoli dell'Egitto.
   Tra il IV e il V secolo d.C. molti tempi pagani furono distrutti e si iniziarono ad innalzare numerose chiese cristiane. Questa tendenza venne interrotta solo nel 673 d.C., quando Gaza venne conquistata dal generale musulmano Amr ibn al-As: da allora la maggior parte della popolazione adottò la religione islamica mentre i luoghi di culto cristiani vennero abbandonati. "La nostra missione è quello di preservare la storia palestinese prima e dopo l'avvento dell'Islam", afferma Jamal Abu Rida, che spiega però tutte le difficoltà incontrate nel portare avanti degnamente questo compito a fronte della mancanza di fondi del suo ministero. "Il sito della scoperta si estende per oltre 2mila metri quadrati, e ha una profondità di circa 10 metri. Per i lavori sarebbero necessari un centinaio di persone ma noi ne abbiamo a disposizione solo 40".

(FarodiRoma, 5 aprile 2016)


Novecento moschee contro due biblioteche, e nessuna miseria da terzo mondo

Il professor Joel S. Migdal, della Jackson School of International Studies presso l'Università di Washington (Seattle), ha visitato la città di Gaza per sei ore, poche settimane fa, e in un pezzo pubblicato sul sito del suo istituto, ha espresso un certo stupore nel constatare come la realtà che ha visto con i suoi occhi non corrisponda a quanto aveva appreso da letture e conferenze. Ecco alcuni brani significativi del suo resoconto di viaggio.

Sono stato assalito da varie impressioni, mentre giravamo in auto per la vecchia città di Gaza. La prima è stata che, inaspettatamente, non sembrava in nulla simile all'India. Data la grande povertà, persino la crisi umanitaria, che Gaza nel suo complesso sta vivendo, mi aspettavo di vedere l'evidente e straziante povertà che ho visto in alcune città indiane, come del resto in molti altri paesi del Terzo Mondo: infrastrutture al collasso, stamberghe cadenti, una gran quantità di mendicanti, bambini vestiti di stracci, adulti che dormono sui marciapiedi. Non ho visto niente di tutto questo, perlomeno in quella e nelle altre parti della città che ho visitato nel corso della giornata. Ho visto, invece, frotte di ragazzini che andavano a scuola, studenti universitari che entravano e uscivano dalle due università: questi e quelli dignitosamente vestiti. Ho visto acquirenti mattutini comprare frutta e verdura alle bancarelle, negozianti aprire i loro negozi, e tante persone dirette ad attendere le loro varie faccende per l'inizio della giornata. C'erano un po' ovunque gru e operai edili al lavoro su un sacco di edifici in costruzione. Un camion della spazzatura, con il simbolo delle Nazioni Unite, faceva il suo giro....

(israele.net, 5 aprile 2016)


Talmud. Dal rogo allo scaffale

Il testo fondamentale dell'esegesi rabbinica, scritto tra III e V secolo, viene per la prima volta tradotto in italiano. Nel mondo cristiano ha avuto storia travagliata, tra interesse e accuse di blasfemia, e divenne bersaglio dell'antisemitismo.

di Anna Foa

Il Talmud è il testo normativo ed esegetico base dell'ebraismo, la cosiddetta Legge orale, dapprima tramandata oralmente poi fissata per iscritto fra il III e il V secolo d.C. Esso è composto dalla Mishnà, scritta in ebraico, che risale al 220 d.C. e comprende gli insegnamenti rabbinici di commento alla Torà (il Pentateuco) fino a tutto il II secolo, e dalla Ghemarà (complemento), composta in ebraico e in aramaico, che raccoglie le opinioni dei maestri successivi fino al V secolo Oltre al Talmud babilonese, redatto nelle Accademie babilonesi di Pumpedita e di Sura e terminato nel V secolo, esiste anche un Talmud palestinese, meno esteso, redatto nel IV secolo. Il Talmud babilonese penetrò in Occidente attraverso l'Italia meridionale' sede di importanti insediamenti ebraici già nel primo millennio, sostituendovi la precedente influenza della cultura talmudica palestinese.
   La pagina del Talmud è complessa: al centro, il testo talmudico vero e proprio, composto dalla Mishnà e dalla Gemarà, e tutto intorno i commenti dei Maestri medievali, dai Rashi ai Tosafisti. La prima edizione a stampa del Talmud fu pubblicata a Venezia nel 1523 dallo stampatore cristiano Daniel Bomberg, grazie all' opera di studiosi ebrei e convertiti.
   Il Talmud ha avuto nel mondo cristiano una storia molto travagliata ed è stato oggetto di accuse, censure, sequestri, roghi, che arrivano quasi fino all' oggi. L' attenzione della Chiesa si appuntò sui testi talmudici nel XIII secolo, cioè nel periodo della nascita degli ordini mendicanti e dell'Inquisizione medioevale. È in quel momento, mentre cresce anche la spinta a convertire gli ebrei, che esso comincia a suscitare accuse e persecuzioni. Viene visto come una Legge Nuova rispetto alla Legge scritta, la Torah, condivisa da ebrei e cristiani, e soprattutto viene accusato di bestemmia, cioè di attacchi anticristiani. E ancora, le accuse di bestemmia riguardano le parti narrative, haggadiche del Talmud, come quelle in cui Dio viene descritto mentre, ad esempio, per riposarsi della Creazione, gioca a palla con il Leviatano.
   Togliere agli ebrei il loro principale strumento esegetico appare inoltre come un mezzo efficace per spingerli al fonte battesimale. Nel 1240, dopo un processo davanti al re e all'Università di Parigi, esso viene arso pubblicamente in Piace de Gréves, il luogo delle esecuzioni capitali. Materialmente, più di diecimila volumi finirono in cenere. Sono anni in cui la Chiesa e i frati, tuttavia, ritengono possibile emendare il Talmud dalle sue "bestemmie" e vedono in alcune sue parti l'adombramento dei principali dogmi cristiani. Per questo, a parte il papa avignonese Giovanni XXII, nessun pontefice portò avanti in maniera radicale l'attacco al Talmud fino alla metà del Cinquecento, quando Giulio III lo bruciò pubblicamente nel 1553, in un rogo vastissimo in Campo de' Fiori. Esso sarà messo all'Indice sotto Paolo IV; nel 1559, di nuovo riammesso per essere emendato da Sisto V; poi definitivamente condannato. Da allora in poi, il mondo ebraico italiano' non solo lo Stato della Chiesa quindi main genere l'area italiana in cui l'influsso di Roma era più forte, vivrà senza poter leggere, studiare, possedere, interpretare il più importante dei suoi strumenti esegetici. Un testo invece che è alla base degli studi ebraici altrove, in Germania, in Polonia, in Russia. Il Talmud venne ancora dato alle fiamme a Venezia e in molte altre città italiane. Nel 1601, un nuovo grande rogo del Talmud e di testi cabbalistici si realizzò a Roma. Sul Talmud si concentrano gli strali oltre che dell'antigiudaismo cattolico anche di quello protestante: gli insulti di Lutero contro il Talmud e i libri ebraico sono infatti violentissimi.
   Anche l'antisemitismo otto-novecentesco fece dell'attacco al Talmud uno dei suoi cavalli di battaglia. Il Talmud era accusato di incitare all'odio contro i non ebrei, di sostenere l'omicidio rituale dei bambini cristiani, la profanazione dell'ostia e altri antichi topoi antiebraici ripresi e vivificati nel clima del tardo Ottocento. È l'epoca di testi come L'ebreo talmudista di August Rohling (1871) o del romanzo antisemita Biarritz di Hermann Goedsche (1868), che ritroviamo tra i protagonisti del romanzo di Umberto Eco Il cimitero di Praga. Il Talmud è ormai divenuto il bersaglio del moderno antisemitismo.
   Che il testo del Talmud appaia ora in traduzione italiana (vedi box), disponibile alla lettura di tutti, o almeno di chi è in grado di comprenderlo, reperibile negli scaffali delle librerie, non è quindi solo un risultato importantissimo dal punto di vista culturale, ma è anche la vittoria definitiva sulle accuse che lo hanno colpito dal Medioevo fino a ieri. Un segnale forte del clima che dal Concilio in poi si è creato nei rapporti tra ebrei e cristiani, ma anche una risposta all'antisemitismo che va crescendo intorno a noi. Il Talmud, uno dei testi fondativi della nostra cultura, non è più solo riservato agli ebrei ma entra a far parte della cultura di tutti.

(Avvenire, 5 aprile 2016)


Nell'innaturale gap tra Gesù e Israele
che cristiani ed ebrei hanno creato
si è infilato il diavolo
che continua a compiere sfracelli
di tutti i tipi e da tutte le parti



Il Talmud e il gap

di Marcello Cicchese

Spero che sarà concessa la possibilità, anche dagli ebrei, di non partecipare al generale giubilo per il progetto di traduzione in italiano del Talmud. Più precisamente, posso prendere atto con soddisfazione che avrò la possibilità di leggere nella mia lingua un testo che altrimenti in lingua originale mi sarebbe stato precluso. E sono anche contento che certi illegittimi vincoli del passato alla sua diffusione siano caduti, ma la domanda che mi pongo come credente nel Dio che si rivela attraverso i libri della Bibbia è semplice: giova la diffusione di quello scritto alla causa di Dio, e torna a suo onore e gloria? La mia semplice risposta è "no". Il motivo è già contenuto nell'aforisma riportato sopra. Il Talmud è l'espressione più chiara di quell'innaturale gap che si è formato nella storia fra Gesù e il popolo ebraico. Un gap creato dagli uomini, com'è stato scritto, e non è di importanza fondamentale decidere chi ha maggior colpa, se gli ebrei o i cristiani. Resta il fatto che quell'opera esprime da una parte il rigetto deciso della figura di Gesù, e dall'altra il rigetto deciso di quel popolo che continua ad essere il popolo a cui Gesù appartiene. La contrapposizione è stata netta nella storia, è inutile nasconderselo. Nella emersione anche in lingua italiana di quel testo che cosa si vede? E' finita quella contrapposizione? No, certamente no. Quella che si è attenuata è la tragica contrapposizione tra il popolo ebraico e una società pagana cristianizzata. Oggi invece queste due società si ritrovano insieme e possono piacevolmente dialogare, ma qual è il prezzo che si paga? Il prezzo è una colta rielaborazione del posto attribuito a Dio, a cui si chiede di non voler infastidire gli uomini con le sue pretese in fatto di verità e le sue imposizioni in fatto di ubbidienza. Lasci pure a noi uomini il compito, dopo esserci messi educatamente d'accordo e avere preso l'impegno di non picchiarci più, di decidere come dobbiamo comportarci fra di noi. Gesù? Israele? Non insistiamo troppo su questi termini, perché altrimenti riprendiamo a litigare e questo non va bene. Il Talmud potrebbe approfondire il gap? La domanda non si pone. Viva il Talmud e viva il Papa che ne approva la traduzione.

(Notizie su Israele, 5 aprile 2016)


L'importanza delle testimonianza per la memoria

 
La sinagoga di Merano
Secondo appuntamento per il progetto "Memory Sharing", uno dei dodici percorsi selezionati dalla Piattaforma delle Resistenze Contemporanee 2016. Dopo il successo della serata nella sinagoga di Merano, giovedì 7 aprile a Bolzano porterà la propria testimonianza, tra gli altri, il professor Finzi.
   Giovedì 7 aprile alle 18.30 presso l'Academy Cassa di Risparmio, in via Cassa di Risparmio 16 a Bolzano, la Comunità ebraica di Merano e l'associazione Deina Trentino-Alto Adige organizzano l'incontro pubblico: "Memoria in Alto Adige: testimonianze ed esperienze", organizzato nell'ambito della Piattaforma delle Resistenze Contemporanee 2016. All'incontro - moderato dalla giornalista della Rai di Bolzano Floriana Gavazzi - interverranno il rabbino Giuseppe Laras (presidente Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia), Joachim Innerhofer(direttore Museo Ebraico di Merano), Laura Sedda (Comunità Ebraica di Merano) e Alessandro Huber (presidente dell'associazione Deina).
   Tema della serata è l'importanza della testimonianza e il suo ruolo nel processo di memoria anche e specialmente nel nostro territorio. Fondamentale sarà l'apporto del professor Cesare Mosè Finzi, che parlerà della sua vita sotto le leggi razziali e della deportazione della famiglia Carpi da Bolzano.
   La serata è la seconda di una serie di tre previste dal percorso "Memory Sharing", uno dei 12 selezionati dalla Piattaforma delle Resistenze Contemporanee 2016. Il progetto intende sensibilizzare la popolazione altoatesina sul concetto di memoria del mondo ebraico, secondo il quale una persona vive finché c'è qualcuno a ricordarla e il ricordo stesso è azione a beneficio di chi vive ancora. Ogni partecipante al progetto sarà sollecitato a compiere un'azione di ricordo individuale, aiutando una persona bisognosa in nome di una persona deportata e uccisa, che se oggi fosse qui con noi avrebbe potuto compiere questa azione. Mettendosi al servizio del ricordo, per un momento i nostri deportati mai tornati rivivono in mezzo a noi e con noi.
   L'Associazione Deina-Trentino Alto Adige e la Comunità Ebraica di Merano collaborano da diverso tempo insieme e nell'ottica del tema "Sharing Economy" del festival delle Resistenze di quest'anno hanno trovato una comunità di scopi e metodi su un tema tra i più delicati per lo sviluppo sano della nostra società.

GIOVEDÌ 7 APRILE ORE 18.30
Memoria in Alto Adige: testimonianze & esperienze
Relatori: Rabbino Giuseppe Laras, Joachim Innerhofer, Laura Sedda, Alessandro Huber.
Testimonianza: Cesare Mosè Finzi (cugino della famiglia Carpi, deportata da Bolzano)
Moderazione: Floriana Gavazzi (Rai Bolzano)
Luogo: Academy Cassa di Risparmio, Sala 1, via Cassa di Risparmio 16 - Bolzano.

(l’Adige, 5 aprile 2016)


Yad va-Shem premia il poster di un'italiana

Il poster premiato

Giulia De Benedetti, di Torino, vince un concorso israeliano

Una grafica italiana di 24 anni, Giulia De Benedetti, residente a Torino si è aggiudicata il primo premio del Museo della Shoah Yad va-Shem di Gerusalemme per aver elaborato il poster delle sue celebrazioni di quest'anno, che avranno luogo il 5 maggio. De Benedetti, riferisce il Museo, è di origini ebraiche, ha studiato arti grafiche in Italia e ha visitato Israele ripetutamente. Ha appreso della competizione indetta da Yad va-Shem durante uno stage nell'Istituto di Tecnologia a Holon, presso Tel Aviv.
L'immagine da lei elaborata per il Museo mostra, su uno sfondo giallo, una sorta di una impronta digitale nera le cui linee sono tratteggiate da esili fili spinati. La premiazione avrà luogo il 6 aprile, alla presenza del direttore di Yad Va-Shem, Avner Shalev.

(ANSA, 4 aprile 2016)


Al via la seconda edizione del Master in Cultura Ebraica e Comunicazione

Prime due lezioni su Talmud e Israele nei media

ROMA - Il 5 aprile, giornata segnata dalla consegna del primo trattato del Talmud tradotto in italiano al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, avrà un epilogo legato all'avvio del secondo ciclo del Master in Cultura Ebraica e Comunicazione promosso dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'appuntamento è alle 18.30, al Centro Bibliografico Tullia Zevi (Lungotevere Sanzio 5, Roma). "Il Talmud tra universale e particolare" e "Israele nel mondo della stampa e dei media": questi i temi delle due lezioni con cui prenderà avvio il master, con interventi rispettivamente del rabbino capo della Capitale, rav Riccardo Di Segni, e del giornalista dell'ANSA Massimo Lomonaco. Il master, che comprende corsi che vanno dalla lingua alla storia della mistica, dalla letteratura contemporanea ai linguaggi multimediali e al cinema, è finalizzato alla formazione di figure professionali con competenze nelle diverse espressioni della vita, della storia, della religione e della cultura ebraica. Per i partecipanti al master è inoltre prevista la possibilità di periodi di stage nelle redazioni del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche e della rubrica televisiva Sorgente di Vita, ma anche al museo e all'archivio storico della Comunità ebraica di Roma, al Memoriale della Shoah Binario 21 a Milano e in numerose altre istituzioni.
I corsi potranno essere seguiti dal vivo o anche a distanza con le metodologie e-learning.

(ANSAmed, 4 aprile 2016)


Netanyahu: presto una National Cyber Defense Authority

Il premier israeliano: "Lavoriamo su cinque direttrici"

 
ROMA - Israele sta "lavorando contemporaneamente su cinque diversi livelli", al fine di posizionare il Paese "in prima linea nell'innovazione cibernetica". A spiegarlo, in un articolo a sua firma pubblicato dal sito Globes, è il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
 In primo luogo, ha scritto Netanyahu, Israele sta "sviluppando una strategia nazionale di cyber security". Si tratta di "una completa e continua risposta difensiva per tutte le realtà del Paese al fine di neutralizzare e contenere minacce ed eventi cyber", anche attraverso "una stretta collaborazione tra governo e sicurezza e il settore privato".
 Poi, ha spiegato, sta per far nascere "la National Cyber Defense Authority", una sorta di agenzia operativa civile che "avrà la responsabilità generale della cyber difesa; lavorerà a stretto contatto con le agenzie di difesa, il mondo economico e più in generale col settore privato; e bilancerà le esigenze di sicurezza nazionale contro i diritti democratici basilari".
 Terzo, Israele sta "sviluppando un'infrastruttura scientifica e tecnologica" e "promuovendo un ambiente di innovazione cyber in collaborazione con governo, istituzioni accademiche ed industrie". Per farlo sta "investendo in ricerca applicata e sviluppo ed in ricerca teorica in istituti di ricerca in cooperazione con le università di Tel Aviv, Ben Gurion e Bar Ilan, e con l'università ebraica di Gerusalemme e il Technion Israel institute of technology e formando professionisti del cyberspazio" anche con "programmi speciali nei licei".
 Inoltre, Netanyahu ha aggiunto che il suo esecutivo sta spingendo l'industria cyber del Paese, "investendo una grande quantità di capitale e sforzi", aprendo "mercati per essa nel mondo" e dando importanza "all'apertura di un centro nazionale di cyber in Beer Sheva". Quest'ultimo "sta agendo da calamita per le principali imprese cyber da israele e oltreoceano. Il governo - ha spiegato - sta garantendo incentivi a queste aziende, le quali stanno cercando di espandere la loro attività nel campo cyber".
 Infine, ha concluso il premier israeliano, il suo governo sta "incoraggiando la cooperazione internazionale" ed espandendo "le connessioni politiche, economiche e di sicurezza con molti Paesi", per fare del cyberspazio un luogo "aperto e sicuro e che faciliti la prosperità economica e il welfare sociale".

(askanews, 4 aprile 2016)


Netanyahu invita Abu Mazen

"Mi sono liberato da tutti gli impegni, la porta e' aperta"

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha oggi esteso un invito pubblico al presidente palestinese Abu Mazen affinché lo venga a trovare a Gerusalemme.
''La settimana scorsa - ha detto Netanyahu al ministro degli esteri ceco Lubomir Zaoralek - il presidente Abu Mazen ha detto alla televisione israeliana che se io lo invitassi, lui verrebbe. Ecco, lo invito. Mi sono liberato da tutti gli impegni questa settimana, saro' qui tutti i giorni. La mia porta resta aperta per chi vuole la pace con Israele''. Netanyahu ha aggiunto che sulla sua agenda il primo punto e' ''la fine della incitazione alla violenza'' contro gli israeliani. Anche il Capo dello stato Reuven Rivlin ha detto oggi di essere pronto a ricevere Abu Mazen.

(ANSAmed, 4 aprile 2016)


Più mare per pescare: la concessione di Israele ai pescatori della Striscia di Gaza

I pescatori palestinesi avranno più mare a disposizione. Israele ha infatti rivisto le restrizioni sulle operazioni di pesca ampliando l'area dei pescherecci: da sei a nove nove miglia nautiche al largo della costa sud di Gaza. Questa decisione si concretizza con un incremento economico stimato in 400 mila NIS (Nuovo sheqel israeliano), circa 93 mila euro. Dal 2007, per motivi di sicurezza, Israele ed Egitto hanno imposto un blocco navale del territorio costiero palestinese.

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(RaiNews, 4 aprile 2016)


Gerusalemme: telecamere sulla Spianata delle Moschee

Una decisione dalla Giordania con plauso di Israele e protesta dell'ANP

di Giuseppe Giannotti *

A giorni inizierà l'installazione di 55 telecamere a circuito chiuso nel complesso della Spianata delle Moschee (per i musulmani) o Monte del Tempio (per gli ebrei), a Gerusalemme. Lo ha annunciato il ministro giordano per gli Affari religiosi del Waqf, Hayel Abdul Hafiz Dawoud. La Giordania, come noto, è custode della Spianata.
   Nel darne l'annuncio, il ministro giordano Dawoud, secondo quanto scrive il giornale palestinese al Quds, ha spiegato che esse serviranno a documentare possibili "violazioni ed incursioni portate avanti dalle autorità israeliane nei luoghi santi islamici a Gerusalemme". Non scrive, il giornale palestinese, che l'Anp di Abu Mazen ha cercato in tutti i modi di impedire l'accordo per l'installazione delle telecamere, sostenendo che sarebbero solo servite a schedare i musulmani che andavano a pregare sulla Spianata. Il ministro degli Esteri dell'Ap, Riad al-Malki, in particolare, si diceva preoccupato che Israele avesse potuto usare le immagini delle telecamere per "arrestare i palestinesi con il pretesto dell'istigazione". Il governo israeliano si è detto sin da subito favorevole alle telecamere, ma solo perché avrebbero finalmente mostrato come i palestinesi facciano entrare furtivamente pietre, bombe incendiarie e altro materiale da gettare sugli ebrei in preghiera davanti al sottostante Muro del Pianto. Cosa che si verifica puntualmente in occasione delle grandi feste ebraiche.
   Le telecamere potranno anche smentire altre false affermazioni dei palestinesi secondo i quali "gli ebrei entrano continuamente nella Moschea di al-Aqsa" e pregano sulla Spianata delle Moschee. Bugie alle quali Israele è abituato. Nell'ottobre scorso, nei giorni nei quali si discuteva dell'accordo, poi raggiunto tra Giordania e Israele con la mediazione del segretario di Stato americano John Kerry, il muftì di Gerusalemme, sceicco Muhammad Ahmad Hussein, era arrivato a sostenere, in un'intervista alla televisione israeliana che "nella spianata delle moschee di Gerusalemme non c'è mai stato alcun tempio ebraico". Quella spianata, secondo il muftì, "era una moschea, fin dalla creazione del mondo, tremila anni fa e anche 30 mila anni fa". E poco importa se l'Islam a quel tempo non esistesse proprio…
   L'idea delle telecamere è partita da re Abdullah di Giordania nel tentativo di risolvere una situazione che stava degenerando con continui scontri. Comunque, al di là della solita guerra delle parole, le telecamere saranno presto in funzione e potranno stabilire la verità. Il materiale filmato sarà disponibile sia per le autorità palestinesi sia per quelle israeliane.

* Giornalista & Esperto di Medio Oriente

(Progetto Dreyfus, 4 aprile 2016)


Oltremare - Bandiera viola

di Daniela Fubini, Tel Aviv

E come ogni anno fra Purim e Pesach, il baratro climatico che divide Israele e ogni altro paese con cui io abbia a che fare si allarga all'infinito. Qui si va già al mare ogni fine settimana, pulizie di Pesach permettendo, mentre per esempio in Italia qua e là ancora si scia, a New York si va ancora zotto zero, e a Londra piove (sai che novità) e non si toccano i 15 gradi.
Però ogni anno porta novità. La rivoluzione che cambierà tutta la nostra lunga vita di spiaggia dal 2016, è che oltre alla bandiera nera che indica il divieto di entrare in acqua in caso di mare pericoloso, all'occorrenza i bagnini alzeranno invece bandiera viola in presenza di banchi di meduse. Notizia vera, o comunque passata in pompa magna al telegiornale delle otto - quindi oro colato.
E va bene. A parte che ogni bandiera viola, ovunque sventolata, fa felice il piccolo grappolo di tifosi della Fiorentina spiaggiati in Israele, e quindi sia la benvenuta. Ma non si potrebbe tentare di essere un filo più tecnologici, noi patria delle start-up?
Una app che identifica l'elettricità emanata dalle meduse, e che manda un'allerta quando si trovano a meno di 5 metri da noi? Ah no, poi entrare in acqua col cellulare sarebbe poco pratico. Un colore artificiale, assolutamente non tossico per pesci e umani, che viene disperso sulle coste e colora le meduse di giallo modello evidenziatore, in modo da vederle almeno dieci secondi prima che ci passino accanto strusciandoci addosso? Ah, giusto, le correnti per nulla quiete di questi litorali porterebbero il colore al largo in un batter d'occhio.
Allora mentre mettiamo un plotone di startappisti al lavoro, passi la bandiera viola con tanto di icona di medusa bianca. E come ogni anno, ci scanseremo.


(moked, 4 aprile 2016)


Se anche gli alawiti voltano le spalle ad Assad

Pressioni internazionali dietro un documento della minoranza al potere a Damasco.

di Fiamma Nirenstein

Con un documento firmato dalle principali famiglie alawite sembra davvero che la setta minoritaria al potere in Siria insieme alla famiglia Assad dal 1971 si prepari a un inevitabile cambiamento. Le pressioni, specialmente quelle americane e quelle saudite sono ultimamente diventate molto decise; e inoltre il giornale di proprietà saudita al-Hayat di Londra riportava che John Kerry, segretario di Stato americano, aveva informato diversi Paesi arabi di un accordo segreto con la Russia per spingere il dittatore siriano Bashar Assad a lasciare il Paese in vista di un accordo di pace. E gli alawiti, o almeno parte di essi, sembrano capire bene, dopo avere a loro volta subito, sembra, centomila perdite, ciò che ormai è scritto sui muri delle disperate, distrutte città siriane: la situazione è per loro sempre più pericolante e difficile, e per molti anche dispari.
   «Non tutte le hamule alawite - dice Harold Rhode, già consigliere del Pentagono e studioso di Medio Oriente - hanno goduto i frutti del potere di Assad, anzi, molte hanno sofferto mentre erano bistrattate da famiglie più importanti. E adesso il senso di vendetta e la preoccupazione per il futuro si mescolano».
   Gli alawiti giunsero al potere nel 1971 col padre di Bashar Assad, l'astuto Hafez, distinto e pallido tiranno omicida che nel 1982 inaugurò la tendenza stragista della famiglia con un eccidio di massa a Hama, dove fece fuori poco meno di 50mila abitanti sunniti. Superando gli scontri fra hamule gli alawiti sono rimasti per lo più serrati intorno alla leadership del raìs e hanno costituito un corpo militare famoso per la sua ferocia e determinazione, mentre il loro legame con lo sciismo diventava sempre più profondo. Ma ecco che dopo parecchi movimenti sotterranei, qualcosa si agita quasi sotto il sole: un documento in 35 punti stilato da esponenti che vivono in Siria esamina sotto il titolo «Dichiarazione di riforma di identità» la situazione che si è venuta a creare in questi cinque anni di guerra mostruosa, e mentre dichiara di «non essere contro Assad come persona» pure spiega: «Non possiamo salvare lo Stato se lui si dimette subito. Ma con lui al potere non ci saranno riforme. Così abbiamo bisogno di un cambiamento per fasi, monitorato dalla comunità internazionale».
   Il gruppo dei firmatari si pone come obiettivo di «superare i contrasti dottrinari che contrappongono alawiti e sunniti» ed è ovvio qui il riferimento alla parte della popolazione in armi contro il regime di Assad in un conflitto che ha fatto 350mila morti e spinto milioni di profughi via dalle rovine in fiamme, mentre entravano le orde dell'Isis nelle città siriane o si temevano, dall'altra parte, gli hezbollah e gli iraniani ormai protagonisti dello scontro. Non è da adesso che sunniti e alawiti sono in armi gli uni contro gli altri sulle propaggini del grande scontro sunnita-sciita, da quando l'identificazione degli alawiti con la parte sciita è diventata sempre più intensa: di fatto durante questa guerra, difficilmente senza il sostegno armato e strategico degli iraniani e la forza armata del gruppo terrorista degli hezbollah, tutti sciiti, Assad non sarebbe andato avanti a lungo.
   Quando Putin ha dichiarato compiuto il suo intervento in Siria, di fatto non ha prefigurato un abbandono del territorio siriano con lo sbocco sul Mediterraneo e la base area russa, ma certo ha lanciato un segnale che indebolisce il raìs. Da tempo è chiaro che un cambiamento di regime monitorato dalla comunità internazionale sia almeno parte della soluzione siriana, e che per questo occorra una defezione preventiva del muro di difesa alawita. Ma certamente l'Iran e gli Hezbollah (in difficoltà nella patria Libanese a causa dell'avventura siriana) chiederanno per questo la loro mercede, e non sarà la più facile o accettabile.

(il Giornale, 4 aprile 2016)


Chi è Cellebrite, l'azienda israeliana che ha sbloccato l'iPhone per l'FBI

 
Chi è Cellebrite, l'azienda israeliana che ha sbloccato l'iPhone per l'FBI. Ufficialmente era impossibile. Eppure, l'FBI ha dichiarato di aver sbloccato l'iPhone del responsabile dell'attacco a San Bernardino in California, senza l'aiuto di Apple.
  Un misterioso "terzo elemento" ha offerto i propri servizi. Gli esperti e i media puntano sempre più verso una startup israeliana, Cellebrite, ma la società e l'FBI stessa, hanno rifiutato di dare una conferma.

 Leader mondiale delle indagini sui telefoni cellulari
  Quali informazioni abbiamo su Cellebrite? Fondata nel 1999 a Petah Tikva nella periferia di Tel Aviv, la startup israeliana è specializzata in tecnologia dei dati. Oltre a lavorare con gli operatori di telefonia mobile per migliorare le relazioni con i clienti e il monitoraggio del ciclo di vita dei prodotti, la startup è rinomata nel mercato dell'informatica forense.
Il suo segreto? Una soluzione mobile chiamato UFED la quale, come spiega l'azienda, è un dispositivo completo e autonomo di estrazione di dati forensi mobili che unisce un eccezionale supporto per dispositivi mobili a una tecnologia di estrazione dei dati senza pari. Il dispositivo riesce a decodificare e analizzare i dati contenuti in smartphone, tablet e altri dispositivi portatili.

 Cellebrite, una soluzione utilizzata in oltre 100 paesi
  Secondo indiscrezioni la società avrebbe oltre 30.000 unità UFED installate tra le forze dell'ordine e le agenzie di sicurezza in circa 100 paesi.
Questa esperienza ha conquistato il gruppo giapponese di computer Sun, che ha acquistato la startup per una somma non rivelata. Cellebrite ha mantenuto la sua sede in Israele e i suoi due leader Yossi Carmil e Ron Serber.

 Quasi 500 dipendenti in tutto il mondo
  L'azienda è presente negli Stati Uniti, Brasile, Germania, Singapore, Regno Unito e da quest'anno anche in Francia. Secondo Les Echos, il suo fatturato supererebbe $ 100 milioni. Cellebrite oggi impiega circa 500 persone, la metà in ricerca e sviluppo.

(SiliconWadi, 4 aprile 2016)


L'Onu censura una mostra israeliana sul sionismo

L'ambasciatore Danon: "Ci adopereremo per diffondere il contenuto censurato a milioni di persone in tutto il mondo".

Le Nazioni Unite hanno deciso di censurare i tre pannelli relativi a Sionismo, Gerusalemme e Arabi israeliani compresi in una mostra di 13 pannelli su Israele, definendoli "inappropriati".
L'ambasciatore d'Israele all'Onu Danny Danon, che ha organizzato la mostra in collaborazione con la ong "StandWithUs", ha scritto domenica al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon chiedendo che la decisione venga revocata. Se la decisione non verrà revocata, Danon ha annunciato che esporrà i temi censurati con una nuova mostra volta a protestare contro l'assurdità della decisione delle Nazioni Unite..

(israele.net, 4 aprile 2016)


Per un'Europa più sicura si guarda a Israele

Dopo gli attentati di Parigi molti esperti israeliani avevano suggerito ai paesi europei di prendere a modello lo Stato ebraico per contrastare il terrorismo. La cosa si è ripetuta a marzo, dopo gli attentati di Bruxelles. Per Pini Schiff, ex direttore della sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion - Tel Aviv, quanto accaduto a Zaventem rappresenta "un colossale fallimento" della sicurezza belga. Un attacco simile, spiegava Pini all'Associated Press, sarebbe stato molto difficile in Israele. "La questione della prevenzione è complessa. Sento molte critiche all'intelligence europea ma dobbiamo partire da un presupposto. Il lavoro di intelligence non è mai perfetto: non lo è negli Stati Uniti, non lo è in Israele. Le falle sono purtroppo normali. E questo spinge i servizi di sicurezza a migliorarsi costantemente ma perché questo accada bisogna investire" spiega a Pagine Ebraiche Yoram Schweitzer, esperto di terrorismo internazionale e già consulente dell'ufficio del Primo ministro israeliano in materia di sicurezza. Il problema del Belgio è che questi investimenti non ci sono stati o sono stati parziali tanto che gli esperti, come Marco Lombardo, sociologo e docente della Cattolica di Milano, hanno definito il paese "il ventre molle d'Europa: una realtà divisa al suo interno, con una burocrazia farraginosa, che per due anni non ha avuto nemmeno un governa". "In Belgio - continua Lombardo, membro del centro di ricerca su terrorismo e sicurezza della Cattolica - ci sono sei corpi di polizia che quasi non si parlano, immaginatevi come riescono a coordinarsi sul terrorismo': La mancanza di scambio di informazioni tra servizi di intelligence - non solo in Belgio ma in tutta Europa - è stato individuato come uno dei grandi problemi sul fronte della capacità di rispondere alla capillare minaccia del radicalismo islamico. Per Eran Lerman, del centro di studi strategici della Bar Ilan, i governi europei hanno a lungo evitato di applicare misure più restrittive sulla privacy dei cittadini, in particolare quando musulmani, perché comprensibilmente diffidenti rispetto a pratiche che potrebbero sembrare discriminatorie. "L'azione dell'intelligence in realtà è l'alternativa a chi dipinge tutti i musulmani allo stesso modo e fa generalizzazioni razziste" dice Lerner al sito Israel21c. "Si tende a confondere gli atteggiamenti anti-musulmani - la sua analisi - con un'intelligence efficace. Se vi è la capacità di infiltrarsi in modo efficace si possono individuare i 'cattivi' e sventare i loro piani, e al contempo avere un rapporto normale con i gruppi di minoranza, che altrimenti saranno sempre più il bersaglio di sospetti indiscriminati".

(Pagine Ebraiche, aprile 2016)


Ebrei di Sicilia, la conferenza alla British Italian Society

Lunedi 18 aprile la lezione-conferenza dedicata a una delle pagine meno note della storia millenaria della Sicilia.

LONDRA - Le vicende degli Ebrei di Sicilia sono tra le meno note della storia dell'isola. Eppure, per oltre 1500 anni il popolo ebreo è stato di casa in Sicilia. Gli Ebrei vi erano presenti già nel 70BC, quando Cicerone visitò l'isola, e vi rimasero sotto le dominazioni Bizantine, Arabe, Normanne e Spagnole, influenzandone la storia e la cultura.
   Non vi erano ghetti in Sicilia. Per molti secoli Ebrei e Cristiani hanno convissuto pacificamente, facendo affari insieme. Gli Ebrei erano proprietari terrieri, lavoratori portuali, incisori di corallo, commercianti. Tra di loro vi erano traduttori, astronomi, medici, mentre alcuni ebbero ruoli da ambasciatore per il Re. Al suo apogeo, la comunità ebrea in Sicilia è stata una delle piò grandi e vibranti di tutto il Mediterraneo. Poi, l'inizio delle persecuzioni, fino all'espulsione avvenuta nel 1492 con un decreto firmato da Ferdinando d'Aragona e da Isabella di Castiglia.
   All'affascinante storia degli Ebrei di Sicilia è dedicata la lezione/conferenza che si terrà a Londra lunedì 18 aprile 2016, nei locali dell'esclusivo Oxford and Cambridge Club (71 Pall Mall London SW1Y 5HD), con inizio alle ore 19. L'evento è organizzato dalla British Italian Society, un'associazione culturale dedicata a promuovere nel Regno Unito l'arte e la cultura italiana, che quest'anno compie il 75mo anno di vita. A affrontare il tema sarà Susan Kikoler, scrittrice, docente e consulente in ambito culturale e teatrale.
   La conferenza esplorerà il mistero di cosa è successo agli Ebrei di Sicilia, e quale impronta il popolo ebreo ha lasciato nell'isola. Un interessante occasione per capire meglio una parte poco nota degli oltre 4,000 anni di storia della Sicilia (a breve oggetto di una grande mostra del British Museum).
   L'ingresso alla conferenza "The History of the Jews of Sicily" è a pagamento, al costo di £20 (ridotto a £15 per i membri della British Italian Society), acquistabile online in questa pagina. Dopo la conferenza è previsto un rinfresco.

(Londra, Italia, 4 aprile 2016)


Il 19 aprile a Mantova Ute Lemper canta la musica dei lager

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
Ute Lemper
«Per loro era l'ultima possibilità di sopravvivenza spirituale, la suprema testimonianza di umanità contro chi li considerava e li trattava come animali da macello». La giornalista Viviana Kasam parla così dei musicisti e compositori deportati nei lager che in prigionia continuarono a comporre, spesso di nascosto, per presentare l'evento musicale da lei organizzato con Last Musik Onlus, che si terrà a Mantova il 18 aprile in Sinagoga Norsa (su invito, riservato alle autorità e ai sostenitori) e il 19 aprile al Teatro Bibiena (aperto a tutti), in collaborazione con il Comune di Mantova e il Festival della Letteratura: a interpretare alcune canzoni scritte nei campi di concentramento sarà l'artista tedesca Ute Lemper.
Le musiche inserite nel programma fanno parte della raccolta del maestro Francesco Lotoro, musicista e musicologo pugliese, che da trent'anni dedica la sua vita a costituire un archivio della musica concentrazionaria e che ha finora raccolto 17 mila spartiti. «Al di là della bellezza delle canzoni, sono interessanti le storie di come sono state scritte e trovate- spiega Kasam -. Storie drammatiche come quella di Ilse Webwe, che scelse di accompagnare nella camera a gas il gruppo dei suoi scolari».
Al conservatorio di Mantova, inoltre, il 20 aprile si terranno due appuntamenti con il maestro Francesco Lotoro: uno con gli studenti delle scuole cittadine e uno aperto al pubblico alle ore 18, in cui il musicista racconterà dettagli della ricerca svolta per il suo vasto archivio e suonerà alcuni dei brani ritrovati. In anteprima, poi, verranno proiettati spezzoni del film Il maestro, una coproduzione italo-francese che documenta gli incontri di Lotoro con i compositori sopravvissuti alla Shoah, che verrà trasmessa quest'anno in televisione e al cinema.

(Mosaico, 4 aprile 2016)


Nuovo appello per proibire l'arrivo del predicatore islamico Tareq al-Suwaidan

Alcune associazioni Italia-Israele e il gruppo Everyone hanno chiesto anche alla Prefettura di Verona di vietare che questo personaggio parli agli Imam a San Giovanni Lupatoto.

L'Associazione Italia-Israele di Vercelli, Novara, Casale Monferrato, Alba, Bra, Langhe e Roero ed EveryOne Group hanno inviato un appello al Parlamento e al Governo della Repubblica italiana, ai membri italiani del Parlamento europeo e alle Prefetture di Verona, Como e Reggio Emilia chiedendo che non sia concesso al predicatore Tareq al-Suwaidan, leader in Kuwait della Muslim Brotherhood, di formare i futuri Imam presso l'Associazione Islamica italiana degli Imam e delle Guide Religiose a San Giovanni Lupatoto, né di tenere conferenze per le comunità islamiche di Como e Reggio Emilia.
   Dopo quello Lega Nord, un altro messaggio contrario all'arrivo del predicatore. Si legge nell'appello: "L'odio religioso, l'antisemitismo e le continue incitazioni alla violenza sono i germi letali di cui si nutre il terrorismo. Eppure, con un atteggiamento irresponsabile, l'Italia apre le porte e le braccia a un predicatore jihadista cui il Belgio ha negato il permesso di ingresso, mentre Stati Uniti, Regno Unito e Australia l'hanno dichiarato "persona non gradita". Tareq al-Suwaidan propugna la guerra santa contro Israele ("Noi odiamo i figli di Sion: sono i nostri nemici e devono essere eradicati completamente") e contro l'Occidente ("Ora gli stiamo porgendo una mano pacifica, ma non sarà così a lungo"). Nel 2012 Tareq al-Suwaidan annunciò la restaurazione del Califfato e ricordiamo che la Muslim Brotherhood sostiene la Jihad radicale nel mondo, con qualsiasi mezzo e qualsiasi arma".
   L'Associazione Italia-Israele di Vercelli, Novara, Casale Monferrato, Alba, Bra, Langhe e Roero ed EveryOne Group hanno chiesto alle istituzioni e alle autorità italiane di prodigarsi affinché questo predicatore non sia portato come esempio di santità e delle sue qualità di formatore nella comunità islamica italiana, dietro invito dell'Associazione Islamica italiana degli Imam e delle Guide religiose, un'istituzione che prepara gli Imam che dovranno predicare nelle moschee italiane.
   L'appello si chiude così: "Se si presentano figuri di questa specie come modelli come si può pensare di trasmettere ai predicatori i valori fondanti delle democrazie: la tolleranza, la pacifica convivenza, la fratellanza, la moderazione, l'accettazione di tutte le culture e le religioni? Ecco perché riteniamo vitale che le istituzioni impediscano gli incontri fra Tareq al-Suwaidan e la comunità islamica italiana, cui è assai più opportuno presentare modelli di moderazione, tolleranza e spirito di pace".

(Veronasera, 3 aprile 2016)


Hamas torna a ricattare Israele: «Abbiamo quattro ostaggi a Gaza»

Due soldati in realtà sono già morti, uno dei civili è uno squilibrato. Chiesti denaro e scambio di detenuti

Hamas torna a lanciare segnali di guerra verso Israele. Di fronte alle telecamere della sua Al-Aqsa Tv, il portavoce dell'ala militare di Hamas, Abu Obeida, ha mostrato la scorsa notte le immagini di quattro israeliani che sarebbero «prigionieri» a Gaza. Per conoscerne le condizioni, ha avvertito, Israele dovrà pagare. E per riaverli fisicamente, dovrà versare un vero e proprio riscatto in denaro. Ma attualmente - ha precisato - non ci sono trattative in corso. Nel video Abu Abeida, ha smentito quanto affermato in passato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in merito a negoziati per il rilascio degli ostaggi ha accusato Netanyahu di «mentire al suo popolo» e soprattutto ai «parenti dei soldati in custodia».
Tre delle immagini presentate dal miliziano dal volto coperto erano note. Due mostrano i volti dei militari israeliani Oron Shaul e Hadar Goldin. Shaul, secondo l'esercito israeliano, morì in combattimento nell'estate 2014 a Sajaya (Gaza) e il secondo, alcune settimane dopo, in un agguato a Rafah. In entrambi i casi i rabbini militari informarono le famiglie che i congiunti erano certamente morti. Per Goldin si svolsero funerali di massa. I loro resti, ammette Israele, potrebbero essere ancora in mano di Hamas.
   Più complesso il caso del terzo israeliano: Avera Mengisto, 28 anni, un ebreo di origine etiope che per la sua instabilità mentale non ha prestato servizio militare. Nella trasmissione di Hamas è stata esposta una sua immagine in abiti borghesi, presa da Facebook. Il 7 settembre 2014, quando il conflitto fra Israele e Hamas era terminato da poco, Mengisto raggiunse il kibbutz israeliano di Ziqim (Ashqelon), balzò di sorpresa sopra i reticolati di confine ed entrò a Gaza. Sul caso fu imposta la censura nel tentativo di attivare organizzazioni umanitarie. Falliti gli sforzi, nel luglio 2015 la stampa israeliana fu autorizzata a riferire che gli israeliani «dispersi» a Gaza erano in realtà due. L'altro è un beduino del Neghev la cui identità è tutt' oggi protetta da censura.
   Hamas ieri ne ha pubblicata la foto: il giovane - che pure soffre di qualche instabilità e che a quanto risulta non ha servito nell'esercito israeliano - indossa una camicia da lavoro di foggia militare. Nei giorni scorsi alcuni mezzi stampa araba avevano scritto che Hamas ed Israele avevano intrapreso una trattativa indiretta, probabilmente attraverso l'Egitto. Ma Abu Obeida ha replicato che informazioni del genere sono infondate. Come condizione preliminare Hamas esige la liberazione da parte di Israele di decine di miliziani palestinesi liberati nel 2011 in cambio del caporale Ghilad Shalit, e poi nuovamente arrestati in Cisgiordania.
   La sortita di Abu Obeida ha riaccesa a Gaza le speranze di decine di attivisti palestinesi espulsi nel 2002 dalla Cisgiordania in seguito all'assedio della Basilica della Natività. Sperano di mettere fine alloro confine se avrà luogo un nuovo scambio di prigionieri, come già successo in passato. Ma nella giornata del riposo sabbatico i dirigenti di Israele hanno mantenuto il silenzio e i segnali di fumo emessi da Gaza sono rimasti per ora senza risposta.

(il Giornale, 3 aprile 2016)


25 aprile, nuovi punti interrogativi sulle iniziative per la Liberazione

di Adam Smulevich

Comunità Palestinese di Roma e del Lazio; Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila; Comitato Con la Palestina nel cuore; Forum Palestina; Comitato per non dimenticare il diritto al ritorno; Fronte Palestina (Roma); UDAP; Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese; associazione "Amici dei prigionieri palestinesi"; Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese. Sono alcune tra le molte decine di sigle che, sotto il cappello del Forum Palestina, hanno lanciato una mobilitazione per la partecipazione attiva alle celebrazioni del prossimo 25 aprile.
Una presenza "militante antifascista, internazionalista, antisionista e antimperialista" e da condurre "sulla scia dei risultati conseguiti lo scorso anno". Così si legge in un appello che chiama a raccolta le diverse espressioni della galassia propal in previsione di una riunione organizzativa che si svolgerà giovedì prossimo nei locali della facoltà di Fisica dell'Università La Sapienza di Roma.
"Invitiamo tutti e tutte ad intervenire alle celebrazioni del 25 aprile 2016 a Roma e a fare altrettanto in tutta Italia in maniera forte e unitaria. Porteremo con noi la bandiera della Palestina, simbolo della più lunga e accanita lotta contro l'invasore e l'oppressore dei nostri tempi, e le bandiere di tutte le Resistenze" fanno sapere dal Forum Palestina.
Parole che suonano inquietanti e che rischiano di seminare nuove tensioni nell'intricato cammino che, ogni anno, avvicina alle celebrazioni del 25 aprile. La festa della Resistenza intesa come festival dell'antisionismo. Una pericolosa deriva che lo scorso anno aveva portato all'inevitabile scissione tra Campidoglio e Anpi Roma, protagonista di un corteo dove, su iniziativa di alcune di queste associazioni, sono risuonati ancora una volta slogan di odio nei confronti di Israele. Un pugno in faccia alla storia e alla memoria. Anche a quella dei soldati della Brigata Ebraica che, giunti dalla Palestina mandataria, contribuirono alla liberazione del paese dal nazifascismo e i cui morti riposano oggi nel cimitero militare di Piangipane.
L'appello lanciato dal Forum Palestina costituisce anche la prima gatta da pelare per il nuovo Consiglio dell'Anpi Roma, che sarà nominato nelle prossime ore al termine di una due giorni di congresso che ha fatto seguito al recente commissariamento della sezione (tra i vari motivi che hanno portato all'adozione della misura straordinaria anche la gestione dello scorso 25 aprile).

(moked, 3 aprile 2016)


Lombardia e Veneto in trincea. «No al predicatore anti-lsraele»

Coro di proteste contro l'imam estremista. Il kuwaitiano Tareq Al Suwaidan, già dichiarato sgradito da Usa e Belgio, terrà conferenze in Italia dal 7 al 17 maggio. Il portavoce della sinagoga di Milano: «Zone grigie da isolare»

di Claudia Osmetti

Tareq Suwaidan
La tournée italiana di Tareq Al Suwaidan, predicatore kuwaitiano col pallino dell'antisemitismo, rischia di finire prima che prenda in mano il microfono. Dalla Lombardia al Veneto la levata di scudi è unanime, quei dieci giorni in programma all'insegna dell'odio verso Israele e l'Occidente devono essere «bloccati». Parola di Nicola Molteni, deputato comasco della Lega Nord, che dà voce a perplessità per la verità espresse - anche via internet - non solo da politici, ma anche da cittadini: «Al Suwaidan profetizza la conquista di Roma e la sottomissione dei cristiani: nel delirante tour che gli è stato bandito in Belgio e negli Stati Uniti è prevista una tappa anche a Como: non lo vogliamo, dev'essergli impedito di entrare nel Paese per fare proselitismo».
   Il diretto interessato, classe 1953, laurea master e dottorato in America, una militanza nelle file dei Fratelli Musulmani, l'organizzazione islamista diffusa soprattutto in Egitto e dichiarata fuorilegge da una mezza dozzina di Paesi arabi, dovrebbe tenere una serie di conferenze in Italia dal 7 al 17 maggio prossimo. Sul patrio suolo l'ha invitato l'Associazione islamica italiana degli Imam e delle guide religiose, una vera e propria "scuola" diretta ai capi delle varie comunità islamiche dello Stivale. Il volantino che pubblicizza l'evento è scritto rigorosamente in arabo. Come a dire: roba nostra. Quelle "lezioni", tutte sermoni e indottrinamento del tipo il-Califfato-sta-arrivando, non saranno aperte al pubblico. Nossignori: unicamente dedicate alle guide religiose (musulmane, manco a dirlo).
   Ma se Suwaidan ha intenzione di salire in cattedra pure nella sede dell'associazione a San Giovanni Lupatoto (pochi chilornetri a sud di Verona), anche in Veneto c'è chi è pronto a mettergli i bastoni tra le ruote. Come Lorenzo Fontana, eurodeputato ancora del Carroccio, che si dice «preoccupato» dell' arrivo in Italia del predicatore milionario - secondo la rivista statunitense Forbes, Suwaidan è il secondo oratore islamico più ricco al mondo per reddito)
   che odia Israele: «La mia non è una questione sull'Islam - puntualizza il leghista, - ma sulla persona: c'è da chiedersi perché altri Paesi lo hanno dichiarata "sgradito" ma da noi può venire a predicare, in un momento particolare come questo».
   Anche perché il "divulgatore" che ha già messo in subbuglio mezza Italia è tutt'altro che ponderato. Basta dare una letta ai suoi numerosi interventi, disseminati qua e là nel web. Nel 2014 pontificava che «il sangue che sacrifichiamo è certamente prezioso, ma i nostri morti sono in paradiso mentre i loro [degli israeliani, ndr] sono all'inferno». Oppure: «Tutte le madri islamiche, non solo quelle palestinesi, dovrebbero allattare i propri figli con l'odio verso i figli di Sion». O ancora: «La Palestina sarà liberata solo con la jihad, gli ebrei verranno finiti dalle nostre mani». Vedi alla voce: islam moderato.
   Così a Como anche la Digos sta avviando accertamenti su quell'appuntamento che vedrebbe Al Suwaidan parlare dal palco del Just Hotel di Lomazzo. Lo stesso parroco di Rebbio, frazione di Como, don Giusto Della Valle, si è lasciato sfuggire che «se davvero siamo di fronte a un predicatore fondamentalista è difficile dire sì all'incontro». E se il presidente dell'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche d'Italia, Ezzedine El Zir, interpellato da Libero sulla faccenda, ha tergiversato per più di un giorno, rifiutandosi alla fine di commentare l'iniziativa, Davide Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, non ha dubbi: «Come con le Brigate Rosse, il terrorismo islamico va combattuto con le forze di sicurezza ma non solo. Vanno prosciugate le zone grigie o addirittura di simpatia verso l'integralismo: per questo è importante isolare i predicatori di odio come Suwaidan. E devono essere i musulmani per primi a farlo. Altrimenti domani nascerà una nuova organizzazione jihadista in un ciclo infinito che abbiamo già visto».

(Libero, 3 aprile 2016)

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Invito al predicatore anti Israele. Fontana contro la scuola per Imam

Suwaidan «sgradito» in Belgio e Usa, in maggio sarà a San Giovanni Lupatoto.

VERONA - «Tutte le madri della nazione islamica, non solo le madri palestinesi, devono allattare i loro bambini con l'odio per i figlio di Sion. Noi li odiamo. Sono i nostri nemici ». Di lui, nel novembre del 2014, il primo ministro e quello dell'Interno belga, dissero che «questo predicatore ha inaccettabili credenze antisemite e la sua presenza qui è una minaccia per l'0rdine pubblico » e gli negarono il permesso d'ingresso in Belgio. È stato dichiarato «persona sgradita» in America - dove è stato indagato come finanziatore dei Fratelli Musulmani- e in Gran Bretagna. Ma tra poco più di un mese Tareq Al Suwaidan, scrittore, storico, imprenditore e, soprattutto, predicatore musulmano sarà in Italia. Un «tour», dal 7 al 17 maggio, che lo porterà anche a San Giovanni Lupatoto dove ha la sua sede nazionale l'Associazione Islamica italiana degli Imam e delle Guide religiose.
  Una «scuola», nata negli stessi giorni degli attentati di Parigi che «come scopo ha quello di preparare degli Imam che abbiano una formazione occidentale e conoscano le leggi e i fondamenti del Paese nel quale predicheranno, per evitare qualsiasi tipo di estremismo», dissero allora i promotori. Ma tra una lezione sulla Costituzione italiana e una sul Corano, evidentemente c'è spazio anche per un predicatore come Al Suwaidan che, stando alla rivista Forbes, è al secondo posto nel mondo per reddito annuale tra gli oratori islamici. «Divulgatore» con un utile netto da un milione di dollari, il predicatore kuwaitano. Che se odia Israele non è che ami l'Occidente. «Dobbiamo dirgli che stiamo stendendo una mano di pace ora, ma non sarà così a lungo», dichiarò nel Duemila. Ma a quanto pare non disdegna di venirci a far proseliti. E la sua annunciata calata a San Giovanni - oltre che a Como e a Reggio Emilia - non è sfuggita al vicesegretario della Lega Nord nonché eurodeputato Lorenzo Fontana.
  «È preoccupante - ha dichiarato - che l'associazione islamica che si occupa della formazione degli Imam, quegli stessi Imam che poi predicheranno in Italia, inviti nel nostro Paese per un ciclo di incontri itinerante di dieci giorni un esponente dei Fratelli Musulmani, personaggio che incita espressamente all'odio e al martirio contro Israele, e per queste posizioni bandito in Belgio e non gradito in altri Paesi». «Preoccupazione » che Mohsen Khochtali, responsabile del dialogo interreligioso della comunità islamica di Verona, rimanda al mittente . Con g l i interessi. «Noi non abbiamo invitato Suwaidan per propagandare le sue idee, ma per il suo lavoro di formatore. Non potrà esporre le sua ideologia politica n e se lo farà dal pulpito della nostra moschea saremo i primi a mandarlo via. Da noi viene come "tecnico", per "formare" e non per esprimersi. Noi non siamo responsabili per quello che ha detto in passato. È gente come Fontana che invece fomenta l'odio razziale con le sue parole populiste, che confonde l'Islam con il terrorismo, quando è chiaro che i terroristi non hanno niente a che fare con la nostra religione e con i milioni di musulmani che vivono in pace e subiscono le loro azioni». Replica di Fontana: «La mia non è assolutamente una questione sull'Islam, ma su questa persona. C'è da chiedersi perché altri Paesi lo hanno dichiarato "sgradito" e in Italia può venire a predicare, soprattutto in un momento particolare come questo...». Tant'è. Ognuno rimane sulla propria barricata. E il bailamme sulla venuta di Tareq Al Suwaidan è solo all'inizio.


“Noi non siamo responsabili per quello che ha detto in passato”, dice Mohsen Khochtali, E’ interessante la dichiarazione del “responsabile del dialogo interreligioso della comunità islamica di Verona”. Quindi, se lui e i suoi amici islamici venissero a sapere che il mese scorso il loro ospite avesse detto: “Fra due mesi farò saltare in aria l’Arena di Verona”, loro non farebbero una piega. Perché, essendo una cosa detta ieri che riguarda il domani, a loro oggi non interessa. Perché a loro interessa l’ospite soltanto “per il suo lavoro di formatore”. E se anche il suo lavoro di formazione consistesse nell’insegnare ai semplici come si costruiscono bombe portatili, purché il formatore non esprima pubblicamente le sue idee, cioè come potrebbero essere usate, nessuno avrebbe niente da ridire. Loro sono per la pace, l’hanno detto e lo ripetono in continuazione. A loro la legislazione italiana consente di dirlo, a noi speriamo che sia consentito dire che non ci crediamo. M.C.

(Corriere del Veneto, 2 aprile 2016)


Il business della intifada palestinese ha fallito il suo obiettivo

Il business della intifada palestinese che avrebbe voluto mettere le mani sul più grande affare economico del Medio Oriente, quello degli aiuti alla Palestina, ha fallito il suo obiettivo, non è riuscito cioè a trasformare la cosiddetta "intifada dei coltelli" in una vera rivolta in grado di ricompattare il mondo arabo dietro alla causa palestinese.
A vanificare gli sforzi di questi criminali internazionali sono stati gli stessi palestinesi che non hanno seguito in massa i terroristi che negli ultimi sei mesi hanno ucciso e ferito centinaia di israeliani. La scintilla della "grande rivolta" non è scoccata vanificando così il piano di chi voleva affondare i denti nella torta degli aiuti ai palestinesi, prime fra tutte le tante ONG occidentali che proprio su quella torta contano parecchio per la loro sopravvivenza. Per mesi hanno incitato i più disperati tra i giovani palestinesi a commettere attentati contro cittadini israeliani e a trasformarsi in martiri affinché loro potessero continuare ad attingere indisturbati alla mangiatoia degli aiuti alla Palestina. Ma tutti gli sforzi profusi in questa direzione si sono dimostrati vani proprio perché a non crederci sono stati la stragrande maggioranza dei palestinesi....

(Right Reporters, 3 aprile 2016)


Obama toglie l'islam dalle parole di Hollande

A Washington il presidente francese parla di terrorismo musulmano. La sua dichiarazione scompare dal video. Vietato accostare terrorismo e religione musulmana.

di Glauco Maggi

 
Quando si tratta di combattere il «terrorismo islamico», il presidente Obama non usa mezzi termini. I militanti dell'lsis (o Isil, come lui, unico al mondo, insiste a chiamare il Califfato), se gli riesce li ammazza davvero, onore a lui. Il 25 marzo, per esempio, il capo del Pentagono ha annunciato che le forze speciali Usa in Siria hanno eliminato in un raid notturno il numero 2 dell'organizzazione, Al-Qaduli. No, il «terrorismo islamico» che proprio non sopporta è l'espressione verbale di per sé, anzi l'aggettivo «islamico». Non lo ha mai profferito in nessun discorso, da quando nel 2014 commemorò il primo americano decapitato, il reporter James Foley, prima di andare sul campo di golf a Martha Vineyard, a quando ha pianto le vittime di Bruxelles guardando una partita amichevole di baseball seduto al fianco di Raul Castro nello stadio all'Havana. E, inflessibile, ha sempre finora vietato ai membri della sua amministrazione l'accostamento lessicale tra le azioni terroristiche nel mondo, dalla California a Parigi, e la religione del babbo kenyota e del patrigno indonesiano.
   Adesso, Barack Hussein ha fatto di più. Ha indotto il suo staff a censurare un discorso pubblico del maggior alleato che l'America ha contro l'Isis, Francois Hollande. Il presidente francese aveva pronunciato le due parole, «Islamist terrorism», al Summit internazionale per la Sicurezza Nucleare, davanti a 85 capi di governo e allo stesso leader USA, ma dagli 8 minuti del video del suo discorso sono stati epurati proprio i soli secondi «politicamente scorretti». La trascrizione dell'evento mostra che il capo francese aveva detto, al minuto 4.49, «siamo anche ben consapevoli che le radici del terrorismo, il terrorismo islamico, sono in Siria e in Iraq». Invece di inserire la frase intera, l'amministrazione Obama ha messo sul web un filmato in cui la traduzione inglese di «terrorismo islamico» è sparita.
   I primi ad accorgersi del «salto» sono stati gli attivisti del Media Research Center (Mrc), una no-profit che monitora Tv e giornali. Secondo il New York Post, dopo aver messo il video senza tagli, la Casa Bianca l'ha cancellato e rimesso poi successivamente con la voce dell'interprete silenziata. MRC ha riportato che anche la registrazione ufficiale MP3 del meeting è stata censurata, ma non la trascrizione. Sulla pagina YouTube della Casa Bianca sono subito apparsi commenti caustici. «Grazie, ministero della Propaganda, per aver semplicemente pubblicato la prova», ha scritto uno. E un altro: «Bella retromarcia, Casa Bianca. Hai cercato di censurare Hollande e lo sai».
   Un portavoce ha penosamente tentato di salvare la faccia ai censori dell'apparato, sostenendo che il vuoto nell'audio era dovuto a un errore tecnico. «Niente è stato censurato» ha detto il portavoce al New York Posto «Un problema tecnico con l'audio, emerso durante la registrazione del discorso di Hollande, ha provocato una breve sospensione della registrazione audio della traduzione inglese. Non appena il problema è stato portato alla nostra attenzione abbiamo postato un video aggiornato con l'audio completo' che corrisponde alla trascrizione scritta». Alle sei di venerdì, il filmato sul sito governativo comprendeva «Islamic terrorism».
   Con tutta la buona volontà, credere al guasto tecnico perfettamente coincidente con la paranoia di Barack verso l'uso del termine «islamico» è francamente impossibile. Ma ammettendo per assurdo che sia andata davvero come dice la Casa Bianca, saremmo davanti a un caso di punizione del Dio della Tecnologia. Soltanto perché Obama si è pervicacemente ostinato, per oltre sette anni ormai, a non voler chiamare con il suo nome vero l'estremismo radicale islamico, l'«incidente» dell'Hollande censurato sta avendo il rilievo che ha. Si fosse adeguato alla realtà dei fatti, cioè avesse usato lo stesso linguaggio che è pratica normale di tutti i quotidiani del mondo, New York Times compreso, nessuno avrebbe notato il «salto di parole» più che sospetto, e reso solenne dal contesto in cui è avvenuto. Il presidente francese stava riconoscendo che «con Obama abbiamo lavorato per coordinare ulteriormente i nostri im pegni, le nostre organizzazioni, i nostri servizi quando si tratta di combattere questi terroristi, e stiamo assicurando che tra Europa e Usa ci sia un livello molto alto di coordinamento». Ma tra alleati in una guerra mortale, la prima cosa da fare sarebbe mettersi d' accordo su chi è il nemico, a partire da come si chiama. "Guardandomi attorno, vedo nazioni che rappresentano la stragrande maggioranza dell'umanità, da diverse regioni, razze, religioni, culture", ha detto ieri Obama al Summit. «I nostri popoli hanno l'aspirazione comune di vivere in pace e sicurezza e di esseri liberi dalla paura. La lotta all'Isil continuerà ad essere difficile ma insieme prevarremo e distruggeremo questa vile organizzazione». Invece di essere il presidente degli Stati Uniti nel mondo reale di oggi, preferisce la parte del leader sovranazionale, contro l'Isil-Spectre, in un film di fantapolitica.

(Libero, 3 aprile 2016)


La Germania spiava Netanyahu

I servizi tedeschi avrebbero spiato anche altri Paesi amici

Il servizio di spionaggio tedesco Bnd ha spiato per anni l'ufficio del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. La notizia, riferita dal settimanale tedesco Der Spiegel, è citata oggi con grande evidenza dalla stampa israeliana. Secondo la rivista tedesca, il Bnd avrebbe condotto attività di spionaggio anche verso altri Paesi amici della Germania, nonché verso istituzioni internazionali.
Der Spiegel - secondo la stampa israeliana - non precisa in che anni il Bnd abbia cercato di carpire segreti nell'ufficio del premier israeliano, né se sia riuscito nel proprio intento, né quali fossero le informazioni che lo interessavano, né se le operazioni di spionaggio siano ancora in corso. In Israele, finora, nessuna reazione ufficiale.

(ANSA, 3 aprile 2016)


Come potremmo vivere senza le messinscene di Pallywood?

Riecco la nostra adorata Shirley Temper! la quasi maggiorenne Ahed Tamimi, protagonista indiscussa delle produzioni di Pallywood tanto apprezzate dai media occidentali, ritorna con un nuovo video che siamo sicuri farà la felicità dei reporter giunti in massa a Nabi Saleh - dove risiede la famiglia Tamimi - per filmare "gli incidenti" spontanei manifestatisi. Pazienza che il costo di queste messinscene diventa sempre più esorbitante: il budget dei giornali europei se ne farà una ragione.
L'intento delle foto che oggi «faranno il giro del web» è chiaro: dimostrare la brutalità dell'esercito israeliano, che maltratta bambini e donne, una delle quali stramazza letteralmente al suolo per il dolore prodotto dalle "percosse" subite....

(Il Borghesino, 3 aprile 2016)


Modello israeliano di sicurezza: un accordo non scritto tra governo e cittadini

di Amit Zarouk
   Portavoce e consigliere politico, Ambasciata d'Israele

Amit Zarouk
Negli ultimi giorni tanto è stato detto e scritto sul "Modello israeliano" di sicurezza e di come gli israeliani siano stati costretti a conciliare la vita "normale" con la minaccia incombente del terrorismo. È vero, Israele purtroppo sin dalla sua fondazione ha subito costanti minacce terroristiche: kamikaze, spari, coltelli etc., guerre con missili, razzi ed invasioni da parte dei paesi arabi. È anche vero, che per far fronte a tutto questo, è stato costretto a sviluppare una serie di metodi tecnici, tecnologici, tattici e legislativi, con l'unico scopo di permettere ai suoi cittadini di continuare a vivere la vita di tutti i giorni.
   Alla base del "Modello israeliano" per una vita normale, nonostante la minaccia costante delle azioni terroristiche, c'è un "accordo non firmato" fra cittadini e governo e fra cittadini stessi, che potrebbe essere riassunto da una semplice formula: per ottenere un livello ragionevole di sicurezza e per condurre una quotidianità serena si deve accettare il concetto che anche noi cittadini siamo chiamati a fare la nostra parte. Questo che cosa significa? Ad esempio, che si debbano accettare ragionevoli limitazioni alla nostra privacy e fare piccole rinunce in termini di comodità. Arrivare 3 ore prima di un volo all'aeroporto per fare un controllo di sicurezza più approfondito, aprire le borse prima di ogni ingresso al cinema, centro commerciale o ufficio pubblico, accettare di buon grado di far bonificare la nostra macchina prima di entrare in un parcheggio pubblico, e sia uomini che donne di prestare servizio militare obbligatorio. Inoltre diamo la nostra disponibilità per servizi di sicurezza nelle nostre città e scuole e se necessario a far parte di squadre di pronto soccorso.
   Il tema della sicurezza, data la particolare situazione in cui è stata ed è costretta a vivere la popolazione israeliana, è uno dei valori percepito come fondamentale dall'intera cittadinanza, per questo motivo è diffusa la convinzione che sia giusto destinare una quota rilevante delle finanze pubblica alla spesa per le forze dell'ordine, i servizi d'intelligence e di sorveglianza. Non solo lo Stato ma anche i privati, ai tempi della seconda intifada infatti, quando i ristoranti e i bar venivano colpiti quotidianamente, basti pensare che nel solo 2001 più di 1000 israeliani sono stati massacrati in attentati, anche noi comuni cittadini eravamo chiamati a fare uno sforzo ulteriore pagando un "extra payment di sicurezza" nei locali e ristoranti.
   Sì! lo so che questa realtà israeliana potrebbe provocare un sentimento di frustrazione. Purtroppo per noi è una "normalità" conosciuta dal giorno zero. Ma una cosa è certa non cederemmo mai al terrorismo e a chiunque voglia promuovere la cultura della morte. In ebraico si dice: "U'BAHARTA BA'HAYIM" - "SCEGLI LA VITA" e allora, abbiamo scelto: nonostante l'investimento istituzionale e privato sulla sicurezza, Israele ha un'economia solida, che cresce più della maggior parte dei paesi occidentali, Israele è il centro mondiale della tecnologia e dell' innovazione, abbiamo sviluppato una sistema educativo e universitario eccellente, abbiamo creato una società moderna, creativa e liberale.
   Ma sempre, sempre con la consapevolezza che dobbiamo anteporre la salvaguardia della vita ancor prima della qualità stessa.

(L'Huffington Post, 2 aprile 2016)


L'internazionale antisemita

di Deborah Fait

Un interessante articolo di Daniel Schatz, esperto di politica europea, sul Jerusalem Post, mi ha riportato indietro nella storia, a vent'anni dopo la Shoah, nella Polonia del 1968. Tre milioni di ebrei polacchi erano passati per i camini dei campi della morte, bruciati vivi dentro le sinagoghe, massacrati dal nazismo e dai suoi complici.
Sarebbe stato lecito pensare che, basta, quel genocidio era stato l'ultimo atto dell'odio che l'Europa provava per il popolo ebraico, che tutto era stato troppo, che persino Satana era ormai sazio di sangue ebraico.
Sì, era lecito pensarlo e crederlo. I russi e gli americani avevano spalancato i cancelli di Auschwitz, di Bergen Belsen, di Treblinka, Mauthausen e di altre migliaaia di campi installati dai tedeschi nell'Europa occupata dalla Germania nazista, avevano visto l'inferno in terra, i cadaveri dei morti e quelli dei vivi, avevano aperto i forni, avevano incominciato a capire quello che nessun essere umano avrebbe potuto immaginare.
Sì, era logico pensare "Mai più", che quell'orrore sarebbe stata la fine dell'odio antisemita perché dopo 2000 anni di persecuzioni era stato raggiunto il fondo, i popoli d'Europa stavano ancora calpestando le ceneri di 6 milioni di ebrei. Era ora di dire basta!
Gli ebrei polacchi, sopravvissuti alla Shoah, non avrebbero mai pensato, nessuna mente umana avrebbe potuto, che quell'odio antico non fosse ancora placato e che dal Male assoluto del nazismo sarebbero finiti tra gli artigli di un altro Male, il comunismo.
 
Wadislaw Gomulka
Nel 1968 ebbero inzio le purghe e 20.000 ebrei furono scacciati dalla Polonia, l'Intelligentia ebraica fu costretta a fuggire e a lasciare il Paese che, nonostante tutto, ancora amavano. Scrittori, scienziati, artisti furono espulsi dal governo di Wadislaw Gomulka che aveva lanciato un'enorme campagna di odio subito dopo la guerra dei 6 giorni con questa motivazione: "L'aggressione di Israele contro gli arabi è stata applaudita dagli ebrei polacchi sionisti.... non vogliamo un quinto potere nel nostro paese..." proclamò Gomulka durante un discorso all'Unione dei Lavoratori e si scatenò l'inferno un'altra volta.
Più di 100.000 persone a Katowice manifestarono contro gli ebrei chiedendo una purga per colpire "i sionisti agenti dell'imperialismo". "I sionisti a Sion! - urlavano - Taglieremo la testa della piovra antipolacca" ed ebbero inizio gli arresti, le torture, gli omicidi.
Un ebreo rifugiatosi in Israele, racconta di essere stato due anni in una cella di isolamento, di aver subito torture e umiliazioni. "Mi facevano abbassare i pantaloni urlandomi "sporco ebreo", io chiudevo gli occhi pensando che erano i mei connazionali polacchi che stavano facendo a me le stesse cose che i nazisti avevano fatto ai miei genitori... quando mi liberarono mi resi conto che nessun ebreo era rimasto in Polonia, tutti i miei amici erano scappati o erano stati uccisi".
Un'altra ebrea, Dorotea Bromberg, racconta di essere stata cacciata da scuola, il padre era stato licenziato e incarcerato, avevano perso la casa, nessuno rivolgeva loro la parola, nemmeno per la strada. Erano come appestati. Solo un'amica le era rimasta vicino e l'aveva difesa dagli altri compagni di scuola e dagli insegnanti.
"Si chiamava Grazyna, racconta, per avermi difesa fu espulsa da scuola e da tutte le scuole polacche... aveva 16 anni, come me, andò a casa, scrisse una lettera per dire quanto si vergognasse del suo Paese, aprì il gas e si uccise.
Avevo perso la mia unica amica ma non bastava, fui accusata della sua morte, portata alla polizia e subii un processo davanti a tutta la scuola. Quando mio padre uscì dalla prigione dove era stato per 10 anni con l'accusa di "sionismo", chiedemmo il permesso di lasciare il Paese".
Tutti i beni degli ebrei furono confiscati. Storia vecchia. Era accaduto in Europa, secolo dopo secolo, fuga dopo fuga, pogrom dopo pogrom. Era accaduto nei paesi arabi, anno dopo anno, da sempre. "I sionisti a Sion" urlavano i comunisti in Polonia e in tutti i paesi facenti parte dell'URSS.
Infine, dopo tanto dolore, siamo arrivati a Sion per sentire urlare per le strade d'Europa "Sionisti, fuori dalla Palestina". Mai contenti. Dovunque si vada prima o poi ci cacciano, da quando siamo a casa nostra minacciano un altro genocidio, l'Iran lo scrive sui suoi missili, anche in caratteri ebraici per farcelo capire meglio, che Israele sarà distrutto. Il mondo tace e aspetta che accada.
 
Oggi, nel 2016, le cose non sono cambiate. Israele viene isolato, boicottato, deve difendersi non solo dagli arabi ma dalle varie organizzazioni antisemite sparse nel mondo, comandate dal BDS che è il peggior pericolo che minacci oggi Israele perché si è insinuato in modo virale nella società facendo rinascere l'odio ovunque anche dove, forse, si era sopito.
La sua propaganda è instancabile, il boicottaggio non colpisce solo la politica e l'economia, entra nelle università, avvelena le menti dei giovani, impedisce gli scambi culturali e scientifici. E' una metastasi che infetta il mondo intero con una facilità e una velocità impressionanti. I musulmani ammazzano gli occidentali che, per uno strano, incomprensibile fenomeno, li difendono, li giustificano, arrivano persino ad autoaccusarsi per poi riversare la loro avversione sugli ebrei e su Israele.
E' difficile da capire ma è la millenaria storia dell'antisemitismo ad essere inspiegabile, una vera e propria internazionale dell'odio susseguitasi nei secoli, radicata tanto profondamente da essere ormai parte del DNA delle nazioni del mondo.
La storia insegna, nessuna forma di razzismo è mai stata così ricorrente, incessante e permanente nel tempo come l'odio antiebraico.
Incomprensibile tanto più se si pensa che gli ebrei erano i cittadini più tranquilli e rispettosi, quasi invisibili, per secoli rinchiusi nei ghetti, non davano fastidio a nessuno... eppure li odiavano a morte.
In Belgio, dopo le stragi di marzo, alcuni individui nelle piazze di Bruxelles hanno coperto la bandiera israeliana con quella palestinese, in Place de la Bourse l'hanno bruciata, hanno tentato in tutti i modi di cancellare ogni simbolo di Israele messo là per onorare le vittime del terrorismo islamico. Il tutto nell'indifferente silenzio di chi stava a guardare e qualche applauso. Un operatore belga, a chi gli chiedeva delucidazioni sulle modalità burocratiche per far ritornare in Israele le vittime israeliane dell'attentato all'aeroporto, ha risposto" Israele? Io conosco solo la Palestina".
Abbiamo un Presidente degli Stati Uniti, Barak Hussein Obama, nemico di Israele e amico dei Fratelli Musulmani, che sono l'origine del nazismo islamico e arabo-palestinese, come dice David Horowitz. Abbiamo un Alto rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri, Federica Mogherini, nemica di Israele, innamorata dell'Iran che vuole polverizzarci. I nostri vicini e nemici palestinesi vogliono gettarci in mare. Il mondo urla "Boicotta Israele, ammazza Israele". Cosa possiamo aspettarci di più? Sembra un incubo, è un incubo! In questi giorni di panico generale dopo gli attentati, l'unica soddisfazione è l'eccellenza riconosciuta da tutti dell'aeroporto Ben Gurion, quello stesso contro il quale, chi veniva in Israele prima della strage in Belgio, protestava e stramalediva per i troppi controlli. "Non si vergognano" mugugnavano "che impudenza, che maleducati, cosa vogliono, tutti questi controlli, vedono solo terroristi, sono proprio fissati."
Beh, adesso ci prendono ad esempio, chiedono persino il nostro aiuto, sanno che con pochi controlli e troppo lassismo si può anche morire perché il terrorismo islamico non perdona. Passata la paura, quando penseranno di non aver più bisogno di Israele, ricominceranno. Non illudiamoci.

(Inviato dall’autrice, 2 aprile 2016)


Come gli Stati Uniti finanziano indirettamente Hamas

Gli Stati Uniti finanziano indirettamente Hamas e la Fratellanza Musulmana attraverso generose donazioni di Stato apparentemente ad uso umanitario ma in realtà destinate a ben altri scopi.

La Islamic Relief Worldwide (IRW) è una organizzazione islamica bandita da Israele e dagli Emirati Arabi Uniti in quanto per gli israeliani lavora per ottenere fondi da girare poi ad Hamas mentre per gli Emirati Arabi usa i fondi destinati ufficialmente ad altri scopi per finanziare e sostenere la Fratellanza Musulmana.
La Islamic Relief Worldwide ha sede nel Regno Unito e secondo i servizi israeliani è una delle maggiori fonti di finanziamento per Hamas, non si spiega quindi come recentemente abbia ottenuto dal Dipartimento della Salute e Servizi Umani degli Stati Uniti una generosa donazione di 270.000 dollari la cui destinazione non è stata specificata, questo proprio mentre in Israele e in parte del mondo arabo si cerca di interrompere il flusso di finanziamenti al gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza....

(Right Reporters, 2 aprile 2016)


Eugenio Zolli, il rabbino capo convertito da Pio XII (e dall'oro di Kappler?)

Nato in Galizia, iscritto al Pnf e nascosto dal Vaticano durante l'occupazione nazista, fu protagonista di un clamoroso caso che ancora oggi fa discutere ebrei e cristiani.

di Sergio De Benedetti

Eugenio Zolli
Il giorno dell' ottantesimo genetliaco di Pio XII, il 2 marzo 1956, rendeva l'anima a Dio il professor Eugenio Zolli, docente di Lingua e letteratura ebraica presso La Sapienza di Roma nonché, analogamente, presso il Pontificio Istituto Biblico.
   Nato a Brodj (oggi nella Galizia ucraina) il 17 settembre 1881, all'epoca Eugenio si chiamava Israel Anton Zoller, il padre proveniva da una famiglia ebraica di origine polacca, mentre la madre era una ebrea tedesca. Dopo aver raggiunto brillantemente la maturità' si iscrisse all'Università di Vienna, ma presto decise di trasferirsi a Firenze e di frequentare anche il locale Collegio Rabbinico, forte della presenza di due insegnanti galiziani come lui, Samuel Margulies e Hirsch Chayes. Nel 1910 Zoller si laureò in Filosofia e l'anno dopo otterrà il titolo rabbinico. Nel 1913 ebbe la nomina di vice rabbino di Trieste e, dunque, ritornò nell' ambito dell'impero asburgico sotto cui era nato.
   Rabbino capo dal 1916, il 3 novembre 1918 celebrò in sinagoga una cerimonia di ringraziamento per l'ingresso delle truppe italiane. Nel 1922 diventò cittadino italiano e l'anno dopo incontrò Emma Majonica, triestina, che subito sposerà. I due avranno una figlia, Myriam. Un viaggio nel 1925 in Egitto e Palestina gli consentirà un confronto religioso con il rabbino capo di Gerusalemme, Avraham Kook, da lui conosciuto anni prima a Trieste. Nel luglio 1933, con l'instaurazione obbligatoria dei nomi e cognomi italianizzati, Israel cambiò le sue generalità in ltalo Zolli e si iscrisse al Pnf.
   Come è facile immaginare, la città di San Giusto era parte integrante di una catena umanitaria di esuli europei che volevano raggiungere la Palestina. Israel/ltalo si occupò di tutto questo in prima persona e venne calcolato che, nel periodo della sua permanenza nel territorio giuliano, non meno di 180 mila persone fossero state assistite dalla comunità ebraica da lui capeggiata. Ma nel 1938, a seguito delle leggi razziali, Italo fu privato del suo incarico universitario a Padova e l'anno dopo perse anche la cittadinanza italiana, divenendo apolide. Nel dicembre 1939 arrivò la nomina di rabbino capo di Roma, la più antica comunità ebraica d'Europa.
   Dopo 1'8 settembre 1943 la situazione precipita ma Zolli sembra avere le idee chiare: il Tempio deve chiudere, gli schedari vanno immediatamente distrutti, la popolazione ebraica di Roma deve disperdersi nel territorio circostante e dove la situazione possa mostrarsi più critica, nascondersi. Di diverso avviso appaiono però i due presidenti con cui il rabbino deve necessariamente confrontarsi: Dante Almansi dell'Unione delle Comunità Israelitiche in Italia e Ugo Foà della Comunità ebraica romana. Entrambi, infatti, sono incredibilmente convinti che occorra continuare a comportarsi con i tedeschi esattamente come finora ci si era comportati con il governo fascista.
   Il 27 settembre il colonnello Herbert Kappler impone agli ebrei una taglia di 50 chili d'oro da reperirsi entro 36 ore, pena la deportazione di molti ebrei. Zolli ne trova 35 e spacciandosi per un ingegnere riesce a entrare in Vaticano per chiedere a Pio XII i restanti 15. Il pontefice si mostra subito disponibile, ma nel frattempo altre associazioni cattoliche hanno provveduto. Poche ore prima che la sua casa venga distrutta e bruciata dalle SS, Zolli scompare. 1116 ottobre avviene il rastrellamento nel Ghetto di Roma e oltre mille persone vengono prelevate, portate sui carri merci piombati pronti alla stazione Tiburtina e avviate ad Auschwitz.
   Ma dove si è nascosto Zolli? Una sorprendente indicazione viene fornita da Antonio Spinosa nel libro Pio XII, l'ultimo Papa, che nel citare l'episodio della taglia e dell'entrata di Zolli in Vaticano, racconta come penetrato una prima volta spacciandosi per ingegnere, sia tornato una seconda volta nei più modesti panni di muratore, ottenendo rifugio. Il 27 ottobre, infatti, a inviare l'accorato appello al pontefice per le conseguenze drammatiche del rastrellamento, provvederà il facente funzione di rabbino, David Panzieri. Dopo l'attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 e la conseguente strage delle Fosse Ardeatine del giorno successivo, il 3 giugno gli Alleati entrano a Roma. Riaperto il Tempio, una solenne funzione viene celebrata da Panzieri, presente Italo Zolli che però, subito dopo, viene dichiarato dimissionario a forza, poiché nei mesi cruciali dell'occupazione tedesca, dalla taglia alla liberazione, si è reso irreperibile. In questo caos, le autorità militari alleate sciolgono i Consigli e mandano tutti a casa, lasciando a Panzieri solo l'ordinarietà delle funzioni religiose. Panzieri era un piccolo, grande uomo, con una determinazione straordinaria. Aveva officiato le cerimonie rituali anche a Tempio chiuso, utilizzando un piccolo locale nell'Isola Tiberina del quale i tedeschi non si accorsero mai.
   Le ripicche intanto si fanno odiose, a Zolli viene offerta la possibilità di diventare direttore del Collegio Rabbinico e questi sembra poter accettare; a metà gennaio del 1945 tutto appare risolto e il 26 la nomina si può ritenere ratificata, ma il successivo 6 febbraio Zolli comunica a sorpresa di non voler più accettare l'incarico e, una esatta settimana dopo, entra nella chiesa di Santa Maria degli Angeli in piazza Esedra e viene battezzato da monsignor Luigi Traglia, assumendo il nome di Eugenio Pio per rispetto a Pio XII (Eugenio Pacelli). Con lui c'è anche la moglie, che al nome di Emma aggiunge quello di Maria.
   La notizia è una bomba e in breve fa il giro del mondo. ltalo/Eugenio viene accusato di eresia e tradimento, il notiziario della comunità ebraica esce listato a lutto, negli Usa gli ebrei offrono danaro a Zolli perché torni sui suoi passi, ma egli rifiuta e ribatte con sdegno che la sua conversione (che lui in realtà chiama «adesione») è frutto di una decisione presa da molto tempo e fortemente meditata, nulla dunque che possa in qualche modo far riferimento agli accadimenti drammatici del 1943-44.
   Come si può immaginare, molto è stato scritto riguardo questa decisione di Eugenio Zolli. Noi abbiamo preferito attenerci il più possibile ai fatti, senza entrare negli avvenimenti romanzati quali le visioni soprannaturali, il carisma del pontefice, le lotte intestine nelle comunità o il risentimento per non essere stato ascoltato dopo il "furto" dell'oro di Kappler, determinando lo sterminio di molti ebrei che forse, almeno per una buona parte, avrebbero potuto salvarsi se si fossero dispersi nella campagna romana e dintorni.
   Eugenio riprese la sua attività di professore universitario. Nel 1953 si concesse una lunga pausa di studio e si recò negli Stati Uniti dove presso l'Università di Notre Dame ad Indianapolis tenne diverse conferenze e pubblicò nel 1954 la sua biografia Before The Dawn, giunta tradotta in Italia solo 50 anni dopo.

(Libero, 2 aprile 2016)


Giampiero Rorato: la cucina ebraica è una cucina sana

VENEZIA - L'intervista con Giampiero Rorato, gastronomo, esplora la cucina ebraica non solo secondo il palato, ma anche secondo la salute. Quella ebraica è infatti una cucina sana ed equilibrata, il cui principio base è la purezza. Le famose regole e i divieti alimentari posti dalla religione e dalla cultura ebraica, derivano anche dalla storia, dalle contingenze, dalle necessità del corpo umano. Per esempio, durante il passaggio nel deserto alla guida di Mosè, l'alimentazione per gli ebrei era diventata importantissima. Mantenersi sani e in forze era necessario per sopravvivere in un ambiente ostile come quello del deserto e le cose a cui fare attenzione erano moltissime: alcuni alimenti che si potevano trovare nell'ambiente erano indigesti o dannosi; alcune carni, come quella del maiale, degeneravano velocemente al caldo estremo e perciò venivano vietate per non rischiare di mangiare carne avariata.
Certo oggi le conoscenze scientifiche e tecniche e lo sviluppo tecnologico hanno cambiato le cose, ma ancora adesso la cucina ebraica è più sana di altre e, aggiornata alle novità moderne, può essere un valido modello di alimentazione quotidiana.
La commistione poi delle diverse cucine nel Ghetto ha creato piatti unici. Essendo il primo Ghetto in Europa, ebrei da tutti i paesi giungevano nel Ghetto, che sì, voleva dire essere rinchiusi, ma, tristemente per lo stesso motivo, era l'unico modo per essere protetti. I sefarditi dalla Spagna, gli aschenaziti dal Nord Europa, i levantini dall'Oriente e certo gli Italiani. Quella di Venezia è una cucina originale anche tra quelle ebree proprio per questo. Di questo e di tanti piatti, tra cui le ricette raccolte da Anna Maria Pellegrini dalle anziane del Ghetto, si parlerà nel libro che uscirà a breve "Cucina Ebraica Veneziana" edito da Bastiani Editore. Per esempio, dei bigoi in salsa, che pensiamo siano veneziani, ed invece sono un piatto elaborato dagli ebrei, o come le sarde in saor. La varietà culturale degli ebrei veneziani va salvaguardata!

(Venezia Radio TV, 1 aprile 2016)


Israele - Dopo sei mesi di terrore gli attacchi diminuiscono

Le Forze di difesa Israeliane hanno registrato un calo nel numero di aggressioni e attacchi terroristici dopo sei mesi di escalation. I dati relativo al mese scorso non sono ancora stati diffusi, ma secondo una fonte della sicurezza citata dal quotidiano "Haaretz", a marzo vi sono stati meno incidenti rispetto ai 155 del mese di febbraio. A ottobre, quando è iniziata la "ondata di terrore" si sono verificati 620 attacchi ai danni di cittadini israeliani a Gerusalemme, all'interno della Cisgiordania e in tutta la Striscia di Gaza. Alcuni ufficiali delle Forze di difesa israeliane hanno tentato di spiegare il motivo per cui il fenomeno che il Comando centrale definisce "rivolta popolare limitata" non è una Intifada come quelle avvenute alla fine del 1980 e nei primi anni del 2000. Una differenza sostanziale è che in Cisgiordania c'è ancora libertà di movimento: un palestinese che voglia recarsi dal nord di Jenin a Ramallah fino al nord di Gerusalemme può farlo senza passare attraverso i checkpoint israeliani. Anche quando l'accesso ai villaggi o in città è stato bloccato, ciò è sempre avvenuto in maniera parziale e temporanea.

(Agenzia Nova, 1 aprile 2016)


Bergamo: esposto il Rotolo di Ester alla Biblioteca Civica Angelo Mai

 
Il rotolo di Ester
Sabato 2 aprile 2016 alle ore 11.00 verrà inaugurata la mostra "Il Rotolo di Ester figurato della Biblioteca Civica Angelo Mai, fine sec. XVII", esposizione promossa in collaborazione con il Comitato per la CulturaBiblica di Bergamo, nell'ambito della VIII Edizione di "Effettobibbia": Cambiare la storia: il libro di Ester.
   Il prezioso manoscritto, insieme ad altre edizioni della Bibbia, rimarrà esposto presso l'Atrio Scamozziano della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo fino al 23 aprile e sarà visibile durante gli orari di apertura della Biblioteca (dal lunedì al venerdì dalle 8.45 alle 17.30 e il sabato dalle 9.00 alle 13.00). Il Libro di Ester è un testo biblico che racconta la storia di una coraggiosa fanciulla ebrea che, ai tempi del re persiano Assuero, riuscì, insieme al cugino Mardocheo, a sventare il complotto che Haman, un ministro di corte, aveva ordito per sterminare il popolo ebraico. Questo libro fu letto in seguito come una parabola della vita degli ebrei in esilio e ha dato origine alla festa ebraica di Purim, che il 14 del mese ebraico di Adar (febbraio-marzo), tra preghiere, canti e banchetti, commemora la salvezza del popolo ebraico dal malefico progetto di Haman e celebra questo felice ribaltamento delle sorti. La parola Purim, infatti, significa 'sorti', e allude alle 'sorti' che Haman trasse (Est. 3:7) per individuare il mese dell'anno nel quale avrebbe messo in atto il suo spregevole piano. Tirando le 'sorti', Haman si convinse che il mese di Adar gli sarebbe stato favorevole; ma la storia decise diversamente.
   Tra gli usi di Purim vi è il precetto di leggere il Rotolo di Ester, Meghillat-Ester in ebraico, nella sua interezza. Per rendere comprensibile il testo in lingua originale a tutti i membri di una comunità si cominciò, sin dal Medioevo, a tradurre il racconto biblico nelle varie lingue e si instaurò l'uso di leggere queste 'parafrasi' durante il banchetto di Purim. Presto queste traduzioni divennero autentici rimaneggiamenti letterari della storia di Ester finalizzati alla trasmissione del messaggio che questo racconto porta con sé: celebrare la gioia per lo scampato pericolo e ricordare che, grazie alla volontà divina, la salvezza è sempre possibile nella storia. Secondo tradizione, la Meghillat-Ester composta per essere letta nella ricorrenza festiva di Purim, deve possedere determinati requisiti: presentarsi in forma di rotolo di pergamena, contenere solo il Libro di Ester ed essere scritta a mano. Accanto alle caratteristiche stabilite dalla tradizione, ve ne sono altre che dipendono dall'iniziativa individuale o dalla moda dell'epoca; tra queste vi è anche l'uso dell'elemento decorativo che, sulla base delle attestazioni a noi note, è documentato a partire dal XVII secolo, epoca a cui risale anche l'esemplare esposto, posseduto dalla Biblioteca sin dalla metà dell'Ottocento.

(WWWITALIA, 1 aprile 2016)


Israele amplia lo spazio mare per i pescatori palestinesi a Gaza

GAZA - Israele intende ampliare la zona marittima nella quale possono operano i pescatori palestinesi di Gaza. Lo ha annunciato il sindacato locale del settore, spiegando che da domenica nella zona meridionale della Striscia saranno autorizzati a spingersi fino a 9 miglia nautiche dalla terra (poco piu' di 16 chilometri) rispetto alle 6 miglia ora in vigore. Questo limite, ha aggiunto il presidente del sindacato Nizar Ayyash, verra' pero' mantenuto nella zona settentrionale, che confina con lo Stato ebraico.
La decisione, presa dalle autorita' israeliane alla vigilia della stagione della pesca, dovrebbe portare 400mila shekel (poco meno di 100mila euro) in piu' all'anno all'economia dell'enclave, duramente colpita dall'isolamento imposto da Israele. Il blocco navale limita anche le operazioni di pesca e le imbarcazioni vengono prese di mira dal fuoco israeliano appena si avvicinano al limite imposto. Sono circa 4mila i pescatori di Gaza di cui, oltre la meta' vivono sotto la soglia di poverta'.

(AGI, 1 aprile 2016)


Hamas riallaccia i legami con Il Cairo

Sempre più lontana dall'Iran, il 4 aprile Hamas incontra una delegazione dell'intelligence egiziana

di Monica Mistretta

 
Hamas è sempre più vicina all'Egitto. Dopo quasi tre anni di guerra sotterranea con il Presidente Abdel Fattah al-Sissi, giocata tutta sui tunnel che collegano Gaza al Sinai, il 4 aprile è previsto un incontro decisivo tra una delegazione di Hamas e l'intelligence egiziana. I temi del possibile accordo sono la cessazione della cooperazione finanziaria e logistica di Hamas con le tribù beduine del Sinai, legate all'Isis, in cambio della riapertura del valico di Rafah che separa la Striscia di Gaza dall'Egitto. Ma tutto è ancora in sospeso.
   In questi tre anni di guerra non dichiarata Hamas ha giocato al limite dell'equilibrismo sui due fronti che infiammano il Medio Oriente cercando di mantenere i legami con l'Iran e conquistandosi l'appoggio, anche finanziario, del fronte sunnita guidato dall'Arabia Saudita. Un gioco difficilissimo che ha dimostrato il pragmatismo estremo del movimento islamico che dal 2007 governa la Striscia di Gaza. Ma alla fine il peso dell'appoggio di Hamas alle formazioni anti-Assad in Siria, in particolare quelle più vicine alla Fratellanza Musulmana, ha avuto il suo peso. E l'Iran ha reagito.
   Il primo all'interno di Hamas ad accusare il colpo è stato Kahled Mishal, leader politico del movimento, che il 15 marzo ha lanciato una dichiarazione piuttosto lapidaria per le abitudini mediorientali, di solito più inclini alle sfumature. «L'Iran per via dei suoi interessi in Siria ha smesso di sostenere Hamas». La risposta dell'Iran non si è fatta attendere. Due giorni dopo il canale televisivo 'Al Mayadeen', vicino all'Iran, riportava l'esito dell'incontro tra Qassem Soleimani, comandante delle forze Qods iraniane, e una delegazione di Hamas avvenuta il 18 febbraio a Teheran. In quell'occasione Soleimani aveva dichiarato che Hamas è ormai uscita dall'asse della resistenza.
   Gli egiziani non hanno perso tempo. Alla fine di febbraio sui quotidiani arabi circolavano voci su un incontro al Cairo tra alti funzionari dell'intelligence egiziana e israeliana. Gli accordi tra Hamas e le tribù del Sinai legate all'Isis sono un cruccio per entrambi. E così, agli inizi di marzo, il Ministro dell'Interno egiziano, Magdy Abdel Ghaffar, alzava il tiro e accusava Hamas di aver cooperato con la Fratellanza Musulmana egiziana nell'assassinio del procuratore generale Hisham Barakat, ucciso alla fine di giugno nel 2015.
   Il 12 marzo c'è un primo incontro tra gli uomini di Hamas e l'intelligence egiziana. Tutto deve essere andato bene perché subito dopo Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento, ha parlato di una nuova pagina nelle relazioni con l'Egitto. Anche da parte egiziana, il giornale 'Al-Ahram', vicino al Governo, ha cominciato a riferirsi ad Hamas come a un «movimento di resistenza palestinese che avrà sempre un grande significato per gli egiziani». Passano pochi giorni, il 18 di marzo i vertici di Hamas si incontrano a Doha, in Qatar, per prendere una decisione su quanto proposto dagli egiziani.
   Il contenuto dei possibili accordi resta ancora oggi 'top secret'. Ma il 20 marzo si diffonde sui media arabi la notizia che gli uomini del braccio armato di Hamas hanno sostituito un grande cartellone che campeggia a Saraya, a Gaza City. Non c'è più quello che inneggiava alla Fratellanza Musulmana, con la foto dell'ex Presidente egiziano Al Mursi. Al suo posto ce ne è un altro con questa scritta: 'la resistenza non punta le sue armi contro entità estere'. Un messaggio per il Cairo.
   Arriviamo al 20 marzo e Hamas prende posizione. Il Ministro dell'Interno di Gaza chiude un'associazione iraniana operativa nella Striscia dal 2004. Si chiama Al-Bakyat-El-Salehat ed è finanziata nientemeno da una fondazione che porta il nome dell'ayatollah Khomenei, l'Imam Khomenei Relief Foundation. Un messaggio per Teheran.
   Il 25 marzo, l'atto finale. Un'unità delle Brigate Al Qassam, braccio armato di Hamas, passa attraverso i tunnel e recupera nel Sinai Ghassan Arjani, uno dei suoi membri operativi collegati alle tribù beduine, riportandolo a Gaza. Un chiaro segnale al Cairo: Hamas è disposta ad allentare i legami con il Sinai e le interferenze nella politica egiziana.
   È probabile che l'incontro di lunedì prossimo tra gli uomini dii Hamas e l'intelligence egiziana sia quello decisivo. Hamas sembra disponibile a schierarsi con il fronte sunnita, dalla parte dell'Arabia Saudita e dell'Egitto. Gli conviene perché la guerra dei tunnel è costata parecchio in termini finanziari. La battaglia sotterranea con l'Egitto forse sta per terminare. Ma pochi all'interno di Hamas sono disposti a chiudere definitivamente i ponti con l'Iran. La 'realpolitik' esige un riavvicinamento al Cairo, ma i giochi in Medio Oriente per Hamas restano aperti. All'angolo, è sempre pronta una svolta.

(L'Indro, 1 aprile 2016)


«Attenti a chi accogliamo: i figli potrebbero ucciderci»

L'allarme del portavoce della sinagoga di Milano: «Salviamo le vite di chi scappa. Ma anche le nostre».


Ambiguità
Si prosciughi l'area di simpatia per l'estremismo. Come le «sedicenti Brigate Rosse» del Pci anni '70
Violenza
Il terzomondismo ascolta solo chi urla di più ed è il più forte. E fa più notizia di chi si impegna


di Alberto Giannoni

 
Davide Romano
«Dobbiamo salvare le vite, è vero. Ma anche le nostre». Gli ebrei, da sempre, sono i primi ad avvertire il pericolo del fanatismo. Lo sentono nell'aria. «Proprio come i canarini che i minatori portavano nelle gallerie» dice Davide Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano. «Quel canarino da anni fa fatica a respirare perché manca ossigeno», spiega.

- Un fanatismo soffocante?
  «Al di là degli attentati, da anni ci sono problemi di intolleranza da parte delle minoranze islamiche più fanatiche. Sono conseguenza di una incapacità di governare il fenomeno».

- Ma lei ora sente un pericolo incombente?
  «Il pericolo c'è, lo dice la cronaca. In Europa dal 2000 è diventato difficile parlare di Shoah e gli ebrei vengono aggrediti da minoranze fanatiche. Ma l'Occidente ha chiuso gli occhi. Eppure, la strage di Tolosa anticipa quelle di Parigi e Bruxelles».

- Cosa dobbiamo fare? Continuare ad accogliere'?
  «È nostro dovere aprire le porte a chi scappa dalle guerre. Dobbiamo salvare più vite possibile ma anche le nostre. E salvare loro dal diventare quelli che ci uccideranno. Non abbandonarli alla jihad».

- Ma è davvero possibile? E quanto tempo ci vorrà?
  «Le migrazioni sono iniziate negli anni Ottanta. Abbiamo di fronte modelli che hanno fallito. Servono principi chiari, con doveri e diritti».

- Oggi si parla solo di diritti?
  «Non dobbiamo lasciare alcuno spazio vuoto. Perché l'islam radicale è liquido e si infila dove trova spazi vuoti. Carceri, scuole, disagio sociale. Si deve monitorare senza timori di violare il politicamente corretto. Imponendo i nostri principi».

- Guardare in faccia il pericolo?
  «Bisogna smettere di negare che esista il problema. Chiamare le cose col loro nome. Il fatto che l'Isis riceva sostegni da alcuni Paesi islamici è un fatto. Chi non vuol vedere rischia di fare esattamente come il Pci che parlava di "sedicenti Brigate rosse". Dobbiamo prosciugare l'area di simpatia per l' estremismo. Anzi, devono farlo le comunità islamiche. Altrimenti possiamo anche sconfiggere Al Qaida prima e l'Isis, poi, ma arriverà sempre qualcos'altra».

- Chi chiude un occhio?
  «C'è l'idea che esista un solo islam e gli si possa concedere tutto. Ma esistono diverse voci. Il terzomondismo ascolta chi urla di più, ma è il più forte. E la violenza fa più notizia, per esempio, del Marocco che promuove corsi per gli imam in funzione anti-integralista».

- A Milano la Comunità ebraica (di cui lei è assessore) ha bocciato il piano del Comune per le moschee.
  «Il problema deve essere ricondotto alla base, a una guerra di fazioni. Il bando dava il timbro, con la possibilità di imporsi sulle altre, a una fazione. Ci sono stati appelli all'apertura, caduti nel vuoto. Non è riuscita ad aprirsi a tutti».

- Ci ha provato davvero? Alcuni episodi fanno pensare a una certa ambiguità.
  «È la logica della fazione. La moschea doveva essere strutturalmente pluralista. Una moschea senza la comunità marocchina o somala tenderebbe alla faziosità. Io avrei preferito una scelta di merito a favore di chi ha fatto di più per affermare i diritti, per esempio delle donne. e ora faccio un appello ai candidati sindaco, perché spieghino chiaramente cosa vogliono fare».

- Voi ebrei avete subito un'aggressione, però, da frange politiche, il 25 aprile'?
  «Sì, da una sinistra antagonista, che sposa tesi anti-ebraiche e anti-americane e pattume vario che accomuna i fanatici estremisti e religiosi. Comunque la Brigata ebraica tornerà in piazza con le sue bandiere. Guai ad abbassare la testa».

(il Giornale, 1 aprile 2016)


Salvini, il tour della sicurezza in Israele. «Ma io non voglio un mondo di muri»

Al check point con Gaza, poi in una fabbrica di filo spinato: per eliminarli servono regole. Le parole del capo dei controlli ai varchi: quello che accade qui, accadrà in Occidente.

di Paolo Foschini

KEREM SHALOM - Lo scanner telecomandato passa ai raggi X 850 camion al giorno. Gli ultimi undici tunnel sono stati allagati dall'Egitto o sbriciolati da Israele con microterremoti artificiali. Insomma a Gaza non dovrebbe entrare (né da Gaza uscire) uno spillo che Dio o perlomeno Netanyahu non voglia. E l'ex militare Ani Shaked, il quale con duecento civili alle dipendenze del ministero della Difesa controlla il posto di frontiera merci più caldo del medio-oriente, fa una sintesi che naturalmente non stupisce gli esperti ma che per Matteo Salvini è toccante: «Certo, capita ancora che nei camion troviamo di tutto. Come le mimetiche militari del mese scorso, nascoste dentro scatole di indumenti per bambini. Ma sappiamo pure che dentro la striscia di Gaza vivono un milione e 800 mila persone, di cui 1158 per cento sotto i diciotto anni. Quasi tutte persone innocenti, che hanno bisogno di ogni cosa. In mezzo però ci sono 30 mila uomini armati, tra soldati di Hamas e terroristi. Il nostro compito è aiutare i primi a neutralizzare gli altri». Matteo Salvini, alla testa di una delegazione della Lega che ha appena terminato la visita, si ferma davanti al muro e la sintetizza a sua volta in un tweet: «Trentamila soldati di Hamas (finanziati da chi?) tengono in ostaggio milioni di persone».
   Eppure a guardarlo in faccia mentre ascoltava il racconto dell'ex soldato Shaked, a Matteo Salvini, si capiva che forse capiva quanto era tutto più complicato di uno slogan. Shaked, che oggi ha 56 anni e tra i vigneti di Kerem Shalom è cresciuto, dice che «non esistono soluzioni semplici, io lo so che se il mio vicino di casa ha fame e solo cinque ore al giorno di corrente elettrica, è un problema anche per me, ma la convivenza va costruita ogni giorno». Avverte: «È un problema di demografia. Quello che oggi succede in Israele succederà in Occidente». Sorride, saluta, torna al suo lavoro. La coda dei camion è lunghissima.
   Per il segretario della Lega Nord è la conclusione di un viaggio in Israele volto ad accreditarlo come interlocutore riconosciuto, ma anche un'immersione dentro una politica di «sicurezza e difesa» che egli considera un modello (anche) di «responsabilità». D'accordo, appena l'altra mattina aveva riferito quasi gongolante del termine bullshit, stronzate, con cui il ministro da lui incontrato liquidava qualsiasi ipotesi di dialogo con l'Islam. Ora invece, davanti al muro di Gaza, Salvini dice «non voglio un mondo fatto di muri e filo spinato, ma per eliminare i muri servono regole. Ed è la politica delle sinistre a far sì che invece debbano restare in piedi». Poi vabbé, la giornata la chiude con una visita a una fabbrica di sistemi d'allarme e appunto filo spinato. Ma sono dettagli.
   In fondo il giorno prima c'era stata l'altra visita importante di questo viaggio, quella al museo di Yad Vashem dedicato alla memoria della Shoah, e l'Italia sembrava lontana, anzi, «quanto è piccola la politica italiana vista da qui», aveva detto. Ma vale solo fino alle ultime ore prima del rientro: il viaggio è praticamente finito, e in realtà la testa di Salvini è già alla manifestazione di oggi nel Paese dell'ex ministro Fornero. E alla dichiarazione con cui si congeda dal confine di Gaza: «Noi siamo pronti per governare con chi ci sta». Forse è Gaza a essere già lontana.

(Corriere della Sera, 1 aprile 2016)


L'Isis non è imbattibile. Israele (unico paese occidentale serio) l'ha ignorato

E Putin, con poche botte, l'ha ridotto a topi impazziti


Il cinquantennio 1945-'89 è stato per l'Occidente forse il periodo più felice della sua storia millenaria, ci siamo convinti che avevamo trovato la quadra. Così, la mia generazione, specie la successiva, l'hanno considerata una vacca da mungere, abbiamo dilapidato le ricchezze, ci siamo assegnati un welfare da ricchi, pur essendo ancora dei poveracci, ci siamo dati diritti di ogni genere, rifiutando al contempo doveri elementari, fino al cadere nel peggiore dei morbi, il politicamente corretto.


di Riccardo Ruggeri

 
Riccardo Ruggeri
Nei due Camei precedenti ho raccontato i miei 7 giorni di guerra all'Isis, consumando news e talk fino allo sfinimento, per cercare di capire la loro strategia, quella delle nostre élite, le modalità di reazione delle nostre classi medie e povere, come il tutto si inserisca nel processo di decadenza che, a nostra insaputa, stiamo vivendo.
   «Vaste programrne» avrebbe detto il Generale Charles De Gaulle ma non è così, le mie riflessioni sono quelle di un vecchio signore che ha tempo da spendere, che non si attende alcun ritorno, né di essere creduto e neppure di convincere chicchessia. Leggo, studio, pilucco informazioni, viaggio, mi confronto con persone (solo) normali, non frequento salotti, cerco di farmi un'idea di dove stia andando il mondo, quello in cui vivranno i miei amati nipotini.
   Lo dico senza iattanza, Isis non l'ho mai considerato una minaccia strategica. Certo, facile parlare quando hai avuto la fortuna di non essere nei luoghi ove hanno operato, ma in una prospettiva storica sono dei pidocchi, sgradevoli, fetenti, ma nulla più.
   Il loro destino è segnato, presto perderanno il loro pseudo Stato, ritorneranno quella organizzazione criminale che erano, avranno la quota di mercato (di loro competenza fra le diverse mafie mondiali) riferita a quella parte di business mondiale per ora non ancora quotato a Wall Street.
   Il fatto che Israele (unico paese occidentale con una vera dignità statale) li abbia sostanzialmente ignorati, il fatto che Putin (unico leader politico degno di questo nome) in un paio di mesi li abbia ridotti a topi impazziti, riconsegnandoci Palmira, mi ha rasserenato.
   Non riesco a prenderli sul serio, più le stragi sono sanguinose, più i corpi sono violati con bombe drogate (chiodi, vetri, pallini), più continuano a farcene di tutti i colori (dominano il rosso sangue e l'arancione simil-guantanamo), più emerge un fatto drammatico: siamo noi occidentali i veri malati, siamo ciechi, abbiamo la presunzione di prevedere tutto, siamo come quei politici e supermanager che elaborano i piani pluriennali, i risultati (sulle slide) crescono anno dopo anno in modo entusiasmante, nella realtà mai si realizzano. Sempre più ricchi di chiacchiere, sempre più penosamente ridicoli.
   Dobbiamo convincerci che il cinquantennio 1945-'89 (fine della guerra, caduta del Muro) è stato per l'Occidente forse il periodo più felice della sua storia millenaria, l'abbiamo considerato figlio delle nostre teorie politiche, economiche, sociali, ci siamo convinti che avevamo trovato la quadra. Così, la mia generazione, in particolare la successiva (baby boomers), l'hanno considerata una vacca da mungere, abbiamo dilapidato le ricchezze che ci ha dato a piene mani, ci siamo assegnati un welfare da ricchi, ci siamo dati diritti di ogni genere, rifiutando al contempo doveri elementari, fino al cadere nel peggiore dei morbi, il politicamente corretto.
   Ora la Storia ci presenta il conto, e noi siamo impreparati. Continuiamo a trastullarci con queste idiote App alle quali le felpe californiane ci hanno ridotto, rassomigliamo sempre più a solitari fumatori di oppio dal volto scavato. Non abbiamo capito che questo meraviglioso cinquantennio non era merito nostro o delle nostre teorie, ma un banale accidente della Storia, frutto casuale della congiunzione di tutti i fatti positivi che potessero verificarsi in un dato istante storico.Ma la magia è passata, chissà in quale altro secolo del millennio tornerà.
   Nella nostra infinita prosopopea ci siamo illusi che la Scienza e la Cultura (le maiuscole non sono mie) ci avrebbero fornito tutta la strumentazione per affrontare qualsiasi problema si presentasse, convinti che nulla ci avrebbe spaventato, la nostra razionalità avrebbe vinto. Il «Cigno Nero» (la meravigliosa metafora di Nassin Taleb), noto fin dal '700, dopo essere comparso nel '29, ricomparve nel 2008, assunse la forma di disastro 1 (economia), poi di disastro 2 (immigrazione selvaggia), ora di disastro 3 (terrorismo islamico). Eppure le nostre élite si mossero come nulla fosse avvenuto, rifiutandosi persino di ammettere che il cigno fosse nero, preferirono considerarlo bianco sporco.
   Taleb chiama «Antifragile» la capacità, non certo di prevedere il prossimo disastro (impossibile) ma di costruire sistemi adatti a reggere lo shock, in altre parole non ricette per prevenire disastri, ma per diventare disastro-resistenti (antifragile).
   Dal 2008 continuiamo ad accumulare rischi, il Cigno Nero è sempre lì, dietro l'angolo, per ora le nostre élite non lo capiscono, continuano a credere che ci siano solo cigni bianchi. Chi ha molto vissuto sa che ci sono pure quelli neri, anzi sono quelli (benedetti) che ci fanno lottare per sognare un mondo di cigni bianchi.

(ItaliaOggi, 1 aprile 2016)


Il Talmud in italiano: un successo di tecnologia e sapere

Un ambizioso obiettivo raggiunto con la traduzione del trattato di Rosh haShanà e che proseguirà nei prossimi anni. Lo spiega ai lettori di Shalom il rabbino capo rav Riccardo Di Segni.

Intervista a cura di Piero Di Nepi

- Nel 2012 il Cnr ha avviato il progetto di traduzione in italiano del Talmud che ha raggiunto un primo, importante traguardo. Di che si tratta?
  E' il primo volume a stampa della traduzione italiana del Talmud Babilonese, il trattato di Rosh haShanà.

- Come si articola il progetto?
  L'obiettivo ambizioso è la traduzione in lingua italiana del Talmud Babilonese. Esistono traduzioni in altre lingue, ma in italiano c'era finora solo il trattato di Berakhot, parziale e con molti aspetti discutibili e "datati". Le dimensioni e la difficoltà di questo progetto in ambito italiano richiedevano investimenti e collaborazioni ad ampio livello. Le novità della formula italiana consistono nel finanziamento da parte dello Stato (Ministero dell'Istruzione) e nell'affidamento del progetto a un consorzio con due soci, il CNR e l'UCEI, entrambi con funzioni di controllo e operative. Il CNR predispone la piattaforma tecnologica digitale sulla quale lavorano tutti i traduttori e revisori, l'UCEI attraverso il Collegio Rabbinico lavora alla traduzione.

- Il progetto è stato recentemente presentato all'Accademia dei Lincei.
  Dopo anni di studi, di preparazione ed impostazione, abbiamo voluto parlare pubblicamente del progetto solo con un primo risultato concreto e tangibile davanti, un volume stampato e rilegato. Per mostrare
 
come sono stati impiegati i fondi, e questo è l'inizio. Non ci piaceva l'idea di presentare fumo. Ora anche i più critici potranno avere qualcosa di concreto da discutere. La sede prescelta e le presenze più autorevoli dello Stato hanno sottolineato l'importanza dell'investimento e della sua realizzazione.

- Partito nel 2013, il progetto si concluderà nel 2017.
  Questi limiti temporali si riferiscono alla fase di start-up e produzione in tempi medi; il progetto necessariamente dovrà estendersi nel tempo.

- Cosa è esattamente l'istituto di linguistica computazionale?
  E' un istituto del CNR con sede a Pisa. Si occupa di analisi delle lingue con mezzi digitali, con ricerche all'avanguardia. Nel nostro caso ha preparato la piattaforma digitale alla quale tutti i collaboratori si devono collegare per lavorare, e per farlo ha interagito sistematicamente con i nostri esperti.

- Quali sono le competenze ebraiche coinvolte?
  Le competenze necessarie per questo progetto sono di diversa natura, da quelle digitali a quelle amministrative e giuridiche e soprattutto di comprensione del testo talmudico. Per la stessa natura del progetto, di quest'ultima parte si occupano studiosi ebrei di Talmud a vari livelli di competenza, organizzati in una gerarchia che va dalla formazione al controllo della qualità dei risultati.

- Qual è il livello di competenza dei linguisti non ebrei?
  Per quanto riguarda la lingua ebraica ed aramaica, la parte digitale del progetto consente elaborazioni ed analisi delle lingue e del testo che sono un prodotto collaterale della traduzione e che richiedono a loro volta specifiche competenze non necessariamente talmudiche o religiose.

- Forse gli ebrei italiani non sono particolarmente preparati sulla materia...
  Ed è questo il motivo principale per cui si lavora alla traduzione. Eppure nei secoli scorsi gli ebrei italiani hanno avuto un ruolo importante, in alcuni casi fondamentale, nella trasmissione e nello studio del Talmud; si pensi solo alle prime edizioni a stampa (finite nei roghi di Campo de' Fiori). Stiamo cercando di recuperare un'enorme ricchezza che qui sembrava persa. Il Talmud è il testo principale della cultura rabbinica e nessuno ne dovrebbe fare a meno, tanto più le numerose
schiere che parlano di ebraismo, cultura ebraica e valori ebraici e non ne hanno mai studiato una pagina.

- Qual è stato il ruolo del collegio rabbinico ?
  Il Collegio Rabbinico ha stabilito i criteri fondamentali di traduzione, ha seguito l'evoluzione del progetto in ogni dettaglio, ha fornito un nucleo di traduttori che poi si è allargato in tutto il mondo. Stiamo dimostrando che malgrado la discesa quantitativa e qualitativa dell'ebraismo italiano è stato possibile formare negli ultimi decenni una classe di studiosi.

- Che tipo di traduzione, quale tipo di impostazione grafica?
  Il Talmud non si presta a una traduzione letterale, deve essere ben reso in italiano comprensibile e corredato di continue spiegazioni. Per questo nella nostra edizione la traduzione dell'originale è in neretto affiancata dalla spiegazione in caratteri normali. Per ogni facciata di Talmud abbiamo proposto la pagina classica in testo originale con l'aggiunta di vocalizzazione e nella pagina accanto la traduzione, con richiami numerici per scorrere dall'originale alla traduzione.

- Il progetto prevede anche formati digitali?
  Il progetto comprende una parte digitale nella quale lavorano i traduttori e un risultato finale sia in formato cartaceo che elettronico. Per ora al pubblico sarà disponibile, per motivi essenzialmente commerciali, la parte stampata. Dopo la prima diffusione si aprirà l'accesso elettronico, che comunque dovrà comportare un pagamento. Un sito internet verrà attivato a breve ma solo per conoscere i termini del progetto.

- Quali le principali difficoltà incontrate nella traduzione?
  La resa in italiano del ragionamento, le forme differenti di espressione, l'antichità del contesto e di una lingua, l'uso di termini tecnici difficilmente traducibili (ad esempio tutti conoscono l'espressione ma nishtanà, in aramaico mai shenà, che significa "che differenza c'è" ma non è la traduzione letterale, che dovrebbe essere "cosa è variata". ovviamente improponibile); la necessità di intervenire con note, schemi, tabelle; la necessità di uniformare i criteri, perché bisogna decidere una volta per tutte se scrivere "Rabbi" maiuscolo o minuscolo, con o senza accento o con la sola sigla "r.", o il nome 'Akiva con o senza il segno iniziale " ' ", con la q o con la k, con o senza accento finale ( e sono già otto varianti possibili). Abbiamo dovuto ragionare e mettere in discussione abitudini consolidate; per fare un esempio, noi nelle nostre scuole traduciamo letteralmente yatzà yedè chovatò "è uscito d'obbligo", ma questa espressione in italiano non c'è (forse entrerà per nostra mediazione): si dice "adempiere un obbligo".

- Ci si è ispirati alle edizioni già esistenti in inglese, francese, spagnolo?
  Le varie edizioni, anche quelle ebraiche, hanno fornito delle proposte, che però abbiamo rielaborato con le nostre scelte autonome dopo appassionate discussioni.

- Perché soltanto il Talmud Bavli'?
  Ogni studioso di Talmud sa che il testo base e di preferenza è il Talmud babilonese; quando avremo finito questo passeremo ad altri....

(Shalom, aprile 2016)



Dio in questi ultimi giorni ha parlato a noi

Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi.

dalla lettera agli Ebrei, cap. 1

 


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