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Notizie 16-30 aprile 2016


L'accordo Israele-Arabia Saudita-Egitto sulle isole di Tiran e Sanafir

Per placare la collera dei nazionalisti egiziani, dall'11 aprile scorso, giorno in cui l'Egitto ha rimesso all'Arabia Saudita le isole di Tiran e Sanafir, dichiarazioni ufficiali dei due governi si sono susseguite per dimostrare che tali isole sono sempre state di proprietà saudita.
A sostegno di questa tesi, i governi dei due Paesi e i loro sostenitori hanno diffuso diversi documenti interni.
Tuttavia, dal punto di vista del diritto internazionale, ha valore la sola Convenzione di Londra del 1840. All'epoca, al termine della "crisi d'Oriente" che vide opporsi Mehemet Alì al sultano, si convenne che il primo avrebbe rinunciato alla Siria per conservare l'Egitto e il Sudan, isole di Tiran e Sanafir comprese. Nessun altro trattato internazionale è intervenuto a modificare la sovranità su queste isole, fino all'annuncio del presidente al-Sisi.
Il ministro alla Difesa israeliano, Moshe Yaalon, ha da parte sua confermato che, prima di cedere le isole, il Cairo ha consultato Tel Aviv. In effetti, l'Egitto si era impegnato, con gli Accordi di Camp David, a garantire libertà di circolazione alla flotta israeliana nello stretto di Bab el-Mandeb, in cambio della restituzione delle isole Tiran e Sanafir occupate da Israele (si osserverà che Israele restituì le isole all'Egitto e non all'Arabia Saudita, cui le aveva tolte). Dato che i sauditi si sono impegnati al rispetto di questa parte degli Accordi di Camp David, Israele non ha mosso obiezioni alla cessione.

(Voltairenet.org, 30 aprile 2016)


Bufera antisemitismo sul Labour

Corbyn prova a minimizzare, ma Ken il rosso insiste: "Su Hitler ho detto la verità"

 
Ken Livingstone, detto "Ken il rosso"
Non accenna a placarsi la bufera antisemitismo sul Labour britannico, culminata con la sospensione dell'ex sindaco di Londra Ken Livingstone. Intervenuto in difesa di una giovane deputata radicale di ascendenze islamiche, Naz Shah, a sua volta sospesa ieri per aver auspicato il trasferimento di massa degli israeliani negli Usa quale presunta "soluzione" del conflitto in Medio Oriente, il provocatorio Livingstone questa volta si è lasciato andare a tratteggiare Adolf Hitler come una sorta di 'cripto-sionista' involontario. E neppure il nuovo leader Jeremy Corbyn, suo storico compagno di lotte filo-palestinesi nella sinistra interna, ha potuto più difenderlo. Nel giro di un'ora scarsa, anzi, gli ha fatto ritirare d'autorità la tessera dopo decenni di militanza e ha autorizzato l'avvio di un'azione disciplinare. Imputazione: "aver gettato discredito sul Labour".
   Corbyn è stato costretto a smentire che il partito laburista abbia "un problema con l'antisemitismo", critica immediatamente mossa dai conservatori, David Cameron in testa. "Non è una crisi. Non c'è nessuna crisi", ha detto alla Bbc, "se ci fosse qualunque forma di razzismo nel partito sarebbe affrontata e sradicata. Siamo totalmente contro l'antisemitismo in ogni forma nel partito". Il malcontento, però, è uscito allo scoperto tra gli stessi labouristi, a cominciare dal ministro degli Interni ombra, Andy Burnham, secondo cui il partito dovrebbe essere più veloce e incisivo nel modo in cui affronta certe questioni.
   Sulla polemica è tornato oggi il numero due del Labour, Tom Watson, assicurando che il partito è determinato "a dare una stretta" contro ogni infiltrazione di espressioni di antisemitismo più o meno mascherato nelle sue file. Watson ha parlato di affermazioni "abiette", aggiungendo che la sospensione dell'ex sindaco è "un segnale chiaro" della volontà d'imporre una "tolleranza zero sull'antisemitismo".
   Oggi 'Ken il rosso' ha rivendicato con forza le affermazioni su Adolf Hitler che gli sono costate la sospensione - "quando Hitler vinse le sue elezioni nel 1932, la sua politica era che gli ebrei dovessero essere trasferiti in israele. Sosteneva il sionismo; questo prima di diventare pazzo e finire con l'uccidere sei milioni di ebrei".
   "Tutto ciò che ho detto ieri è vero, porterò un testo accademico che lo dimostra al momento dell'indagine avviata dal Labour", ha detto Livingstone in un'intervista all'Evening Standard. Secondo il quotidiano, l'ex sindaco di Londra ha in mente di utilizzare un libro dello storico marxista Lenni Brenner che esamina "la collaborazione sionista con i nazisti". Livingstone ha incassato il sostegno di George Galloway, ex 'ragazzo terribile' dei labouristi, espulso dal partito nel 2012 e diventato leader del Respect Party, il partito del Rispetto. Secondo Galloway, i vertici del Labour hanno sbagliato a sospendere Livingstone perché nelle sue parole "non c'è nulla di falso, solo fatti, storicamente provati".
   Non è la prima volta che l'ex sindaco di Londra ha problemi con la religione ebraica. Nel 2006 Livingstone fu condannato a quattro settimane di sospensione per "aver screditato la carica" di primo cittadino insultando, al termine di una festa in municipio, un giornalista di religione ebraica - Oliver Finegold dell'Evening Standard - paragonandolo alla guardia di un campo di concentramento nazista. Per il maggiore partito britannico d'opposizione, dato in parziale recupero di consensi in vista delle elezioni locali in calendario fra una settimana, si tratta in effetti di una vicenda quanto mai imbarazzante.

(L'Huffington Post, 30 aprile 2016)


*


La ong di Corbyn dietro al festival di Hamas su come ammazzare ebrei

C'è un nuovo scandalo a sinistra dopo le dimissioni dei parlamentari che vogliono "trasferire Israele in America".

di Giulio Meotti

Jeremy Corbyn
ROMA - Il video di propaganda dura pochi secondi: si vedono numerosi bimbi palestinesi a un festival nella Striscia di Gaza con indosso l'hijab e la mimetica, mentre simulano l'uccisione di soldati israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Il "Festival palestinese per l'infanzia e l'istruzione", così chiamato e che si è tenuto nei giorni scorsi nella città di Khan Yunis, è stato trasmesso dal canale televisivo di Hamas. Agghiacciante, ma fin qui nulla di nuovo. Da anni Hamas e altri gruppi palestinesi incitano i bambini palestinesi a uccidere ebrei israeliani, proprio come fa l'Isis. Se non fosse che questo festival ha uno sponsor speciale: Interpal o Palestinian Relief and Development Fund, la ong inglese finanziata dal leader del Labour Jeremy Corbyn e da altri parlamentari della sinistra britannica. Interpal ha elargito 6.800 sterline a questo festival di Hamas. Lo stesso Corbyn è apparso in numerose serate di raccolta fondi a favore di Interpal, ha donato personalmente alla charity e ha accettato di esserne lo sponsor. Nel 2013 l'attuale segretario del Labour e la consorte accettarono addirittura un tour a Gaza finanziato da Interpal con tremila sterline.
   La rivelazione sulla ong Interpal arriva in un momento critico per Jeremy Corbyn, alle prese con pesanti e comprovate accuse di antisemitismo nel suo partito. Dopo settimane di accuse e testimonianze su parlamentari e assessori laburisti che hanno in odio gli ebrei e Israele, sono rotolate le prime teste dentro al Labour. La prima è quella di Naz Shah, la parlamentare che ha proposto di "trasferire Israele negli Stati Uniti". Poi è toccato a Ken Livingstone, ex sindaco di Londra e idolo leftist, che ha detto: "Ricordiamoci che anche Hitler era sionista, prima dell'Olocausto". Adesso arrivano i soldi al festival dell'odio di Hamas. "La realtà è che molti di coloro che si considerano difensori della causa palestinese sono di gran lunga troppo vicino a chi ha punti di vista profondamente razzisti e antisemiti", ha detto il deputato Andrew Percy. "E' assolutamente disgustoso che una charity sia coinvolta in un festival dell'odio che radicalizza i bambini per andare a uccidere ebrei innocenti".
   Uno dei migliori amici di Corbyn, Ibrahim Hewitt, è anche il portavoce di Interpal; egli ha scritto un pamphlet in cui giustifica la lapidazione delle donne accusate di adulterio. Corbyn stesso ha presenziato a eventi targati Interpal, come quello di Londra dal titolo "Palestine: Journey Through The Ages", in cui ha preso parte anche lo sceicco Zahir Mahmood, che disse che quelli di Hamas non erano terroristi ma "freedom fighters". In risposta alla rivelazione sul ruolo di Interpal nell'incitamento di Hamas, la Charity Commission del Regno Unito ha detto che tratterà l'incidente "come una questione prioritaria". Interpal è già oggi designata come fiancheggiatrice del terrorismo dagli Stati Uniti per i soldi che raccoglie in Inghilterra a favore di Hamas.
   Nel 2001, documenti sequestrati dall'esercito israeliano a Ramallah rivelarono che Interpal aveva fatto avere 33 mila sterline alla Islah Charitable Society, fondata da Jamal Tawil, un operativo di Hamas responsabile di attentati kamikaze. Essam Yusuf, uno dei dirigenti di Interpal, si fece fotografare mentre rendeva omaggio al dottor Abdel Aziz al Rantisi, il leader di Hamas che promise di "uccidere tutti gli ebrei" prima di essere eliminato da un caccia israeliano. Sempre Yusuf, che di Interpal è oggi il managing trustee, accompagnò il premier di Gaza, Ismail Haniyeh, a una manifestazione dove si inneggiava alla distruzione di Israele. Due giorni fa Corbyn ha commentato che non esiste un problema di antisemitismo nel suo partito. Non soltanto c'è, ma adesso scopriamo che passa anche attraverso quell'industria della carità che considera l'eliminazione di Israele un favore all'umanità.

(Il Foglio, 30 aprile 2016)


L'esercito di jihadisti nostrani che vive in Italia col sussidio

Sono almeno sette tra combattenti e reclutatori ad avere usufruito di un assegno dallo Stato con la scusa dell'indigenza o della famiglia numerosa. A un terrorista tunisino 15mlla euro di rimborso per essere stato espulso.

di Fausto Biloslavo

 
Alice Aisha Brignoli e suo marito Mohamed Koraichi
Jihadisti sì, ma con il sussidio del Belpaese dove reclutano per la guerra santa o incitano a farsi saltare in aria. Nel manipolo di arrestati o ricercati dell'operazione antiterrorismo di giovedì, la coppia Mohamed Koraichi e Alice Brignoli viveva con gli aiuti di stato prima di partire per la Siria. Nelle grosse inchieste dell'ultimo anno sono almeno sette i radicali islamici accusati di terrorismo, che da una parte complottano contro di noi e dall'altra incassavano sussidi vari.
   Mohammed e Alice, senza lavoro e con tre figli minori a carico portati nel Califfato, ottenevano assistenza a Bulciaghetto, in provincia di Lecco. Un sussidio che sfiorava i 1.000 euro al mese, la casa popolare concessa dal Comune ed un aiuto sulle bollette. Grazie agli aiuti pianificavano la partenza verso la Siria. Tutto assolutamente previsto dalle leggi vigenti.
   Stesso discorso per Ajman Veapi, il 37 enne macedone arrestato a Mestre lo scorso marzo, ma residente ad Azzano Decimo. Il suo vero impiego, secondo le indagini condotte dai carabinieri del Ros di Padova, consisteva nel reclutare jihadisti da mandare al fronte. Veapi risultava disoccupato e seguito dai servizi sociali. Da due anni percepiva 500 euro al mese dal fondo regionale di solidarietà del Friuli-venezia Giulia. Debora Serracchiani, governatore regionale e stellina del Pd si è complimentata con gli investigatori per aver scoperto il reclutatore jihadìsta, ma per i servizi sociali era tutto a posto.
   Lo scorso novembre l'operazione antiterrorismo nella provincia di Bolzano ha portato alla luce una vera e propria beffa. Abdul RahmanNauroz «particolarmente attivo nell'attività di reclutamento» viveva a Merano in un appartamento «pagato totalmente dai servizi sociali di quella città» si legge negli atti. Un alloggio gratuito dove avrebbe più volte cercato di convincere i suoi allievi «a partecipare ad azioni armate di guerra o terroristiche pianificate come suicide». L'integralista islamico aveva ottenuto la «protezione sussidiaria» dallo Stato raccontando di minacce di morte in Iraq da parte di Ansar al Islam, la stessa organizzazione del terrore di cui faceva parte.
   Hassan Saman, un altro arrestato nell'operazione riceveva 2.000 euro al mese dalle nostre casse essendo padre di cinque figli, che sognava di arruolare nelle fila delle bandiere nere.
   Nell'aprile 2015 è stata sgominata una rete di jihadisti, che aveva collegamenti con il Pakistan. A Foggia venne arrestato l'afghano Yahya Khan Ridi. Secondo gli investigatori era «il principale responsabile del trasferimento di denaro da e per il Pakistan». Nell' ordinanza il giudice per le indagini preliminari annota che «era arrivato illegalmente in Italia ottenendo indebitamente lo stato di rifugiato, in quanto si era accreditato falsamente come vittima di persecuzioni da parte dei talebani (ai quali invece era contiguo)», I rifugiati politici vengono equiparati ai cittadini italiani in materia di assistenza pubblica e assicurazione sociale. L'Inps certifica, che «viene riconosciuto il diritto all'assegno per la famiglia per se stessi e per il proprio nucleo familiare, compresi i familiari residenti all'estero». Il minimo è di 485 euro al mese, ma può arrivare a 23.300 euro all'anno con i ricongiungimenti.
   Un altro jihadista, si legge nell'ordinanza, si era presentato nel 2011 «alla Questura di Foggia dichiarando di essere perseguitato per motivi religiosi». Il suo referente nella rete lo aveva consigliato di spacciarsi per cristiano. Il 7 marzo 2012 la Commissione territoriale di Bari gli ha garantito la protezione internazionale rilasciandogli un permesso di soggiorno per cinque anni. Ed automaticamente sono scattati i benefici dell'assistenza economica.
   Nel gruppo dei pachistani spicca Hafiz Muhammad Zulkifal con 8 figli. L'imam della guerra santa abitava in una casetta di Verdellino nel bergamasco. Al fisco risultava nullatenente.
   Così riusciva ad incassare i sussidi per l'affitto (2500 euro in due anni) e per la scuola della prole (fino a 400 euro) oltre all'assegno familiare per i nuclei numerosi.
   Alla beffa si è aggiunto più volte il danno per l'erario delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo per aver rimandato terroristi condannati in Italia a casa loro, dove vige la pena di morte. Uno dei casi più eclatanti riguarda il tunisino Sami Ben Khemais Essid della cellula jihadista di Milano scoperta nel 2001.
   Otto anni dopo la Corte europea ha condannato l'Italia imponendo pure una penale di 15mila euro più interessi legali. Soldi dei contribuenti per un terrorista, che con la primavera araba è uscito dal carcere aderendo ad Ansar al Sharia, la costola tunisina dello Stato islamico.

(il Giornale, 30 aprile 2016)


Domenica 1o maggio, visita guidata alla Sinagoga di Verona

La Sinagoga di Verona
Domenica 1 maggio 2016, alle ore 15, nell'ambito delle iniziative culturali Scoprendo la (s)conosciutissima Verona, tutti i cittadini di Verona (e non solo) sono invitati a partecipare all'itinerario “Gli ebrei a Verona”: un percorso alla scoperta della Verona ebraica, che ci condurrà all'interno della Sinagoga, risalente al 1864.
La presenza della comunità ebraica a Verona, documentata sin dal 978, è molto antica e secondo alcuni autori risale all'epoca di Teodorico (5o secolo d.C.). Allontanati e varie volte richiamati, nel 1408 furono definitivamente autorizzati dalla Repubblica Veneziana ad abitare in città per occuparsi esclusivamente di prestito di denaro a interesse, vietato ai cristiani. Nel 1604, nell'area tra via Mazzini, piazza Erbe e via Pellicciai, venne aperto il ghetto ed eretta una sinagoga, che si rivelò però insufficiente ad ospitare l'aumentata comunità.
Il progetto fu affidato nel 1864 all'architetto Giacomo Franco, ma i lavori vennero presto interrotti per mancanza di fondi. Il suo completamento fu affidato all'architetto Ettore Fagiuoli, che alzò il soffitto con una volta a botte e aggiunse l'attuale facciata neoclassica. La nuova sinagoga venne definitivamente inaugurata il 20 settembre 1929 e tale è rimasta sino ai giorni nostri, grazie anche agli interventi di restauro effettuati nel 2002 che ne hanno garantito il buono stato di preservazione.
L'aumento demografico della comunità ebraica è testimoniato anche dalle case-torri che si affacciano su Piazza Erbe: non potendo costruire nuove abitazioni, in quanto il perimetro riservato agli ebrei era delimitato, si alzarono quelle esistenti. Ancora oggi, sembra che si sorreggano a vicenda, e rappresentano le uniche tracce del «Ghetto nuovo», dopo lo sventramento avvenuto negli anni Venti del Novecento.

(Verona Sera, 30 aprile 2016)


Iran recluta bambini soldato da inviare in Siria

I bambini soldato sono stati impiegati in battaglia nella guerra Iran-Iraq del 1980. Cantano i bambini: "Su ordine del mio leader, sono pronto a dare la vita"

di Franco Iacch

E' stato intitolato " i martiri che difendono il sacro santuario" ed è un nuovo video di propaganda volto a reclutare i bambini soldato per difendere la Siria e Bashar al-Assad.
E' stato trasmesso nei giorni scorsi sui medi statali iraniani.
Il video è stato prodotto dalla Bassij Music House, braccio mediatico del corpo paramilitare Bassij creato nel 1979 poi trasformatosi in una sorta di polizia politica.
Cantano i bambini: "Su ordine del mio leader, sono pronto a dare la vita. Non mi pento di separarmi dal mio paese per intraprendere il percorso che porterà al mio martirio. Raggiungerò, se devo, a piedi Damasco. Così come un uccello che vola al sacro santuario".
Commentando la nuova clip promozionale, Shahin Gobadi della commissione affari esteri del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), ha affermato che "questa clip promozionale manifesta la natura anti-umana del regime che cerca di mobilitare anche i figli dei propri fedelissimi come carne da cannone". I bambini soldato sono stati impiegati in battaglia nella guerra Iran-Iraq del 1980. L'Iran è il principale alleato regionale di Assad, garantendo a quest'ultimo sostegno economico e militare.

(il Giornale, 30 aprile 2016)


Così la parabola del piccolo Mortara ha finito per stregare Spielberg

Finisce ora su pellicola una paradigmatica storia d'intolleranza antiebraica nello Stato pontificio dell'800. Intervista con il prof. Davide Meghnagi.

di Daniel Mosseri

 
BERLINO - Un bambino ebreo in fasce battezzato di nascosto dalla domestica cattolica e strappato per questo motivo sei anni dopo all'affetto dei genitori. La drammatica storia si svolge a Bologna, Stato Pontificio, nel 1858. Nonostante le proteste dei suoi cari e di parte della comunità internazionale, Papa Pio IX non restituirà il piccolo Edgardo Mortara ai suoi affetti.
  Questa è storia e Papa Giovanni Maria Mastai Ferretti è stato beatificato nel 2000 fra le proteste di chi ricordava la sua responsabilità nella vicenda. La novità, invece, è che il regista Steven Spielberg ha annunciato di voler trasformare il caso Mortara in un film. Il Foglio ne parla con David Meghnagi, docente di Psicologia Clinica all'Università Roma Tre. Nato da famiglia ebraica a Tripoli nel 1949, Meghnagi ha studiato clinicamente il profilo psicologico di Mortara. Il professore definisce il suo caso "l'emblema della situazione in cui vivevano gli ebrei italiani". Emancipati dai Savoia ma non dallo Stato Pontificio, gli ebrei diventano la cartina di tornasole del cambiamento: "La Chiesa ne fa l'emblema stesso della modernità e su di loro dirotta la propria ostilità per il nuovo e per l'emancipazione". Traumatizzati, i Mortara chiesero l'aiuto degli ebrei romani, e questi di quelli torinesi, che a loro volta si rivolsero all'estero. Anche il filantropo britannico Moses Montefiore si recherà a Roma, ma il Papa non lo riceverà. L'ebraismo europeo, ricorda Meghnagi, reagirà organizzandosi nell'Alliance israélite universelle: "Si dimostra così che il mito 'dell'internazionale ebraica' è un'invenzione degli antisemiti: usciti dai ghetti, gli ebrei reagiscono all'antisemitismo che nei ghetti li vorrebbe ricacciare".
  Severe, secondo il fondatore del Master in Didattica della Shoah, le conseguenze per l'immagine della Chiesa di allora, il cui prestigio declinò sia nella Francia di Napoleone III sia in Gran Bretagna, dove il Times pubblicherà 20 articoli sul caso. Non andò meglio, secondo lo studioso, neppure all'interno di una Curia chiusa a riccio: "Questo bambino rapito in età precoce diventa il figlio del Papa e viene traumatizzato al punto che per non impazzire finisce per identificarsi con l'aggressore". Esperto di traumi intergenerazionali, Meghnagi si è concentrato sulle conseguenze psicologiche del rapimento. Nell'ottobre del 1858, a seguito di pressioni internazionali, ai familiari fu permesso di vedere Edgardo una sola volta. Questi dirà alla madre che la sera recita ancora lo Shema Israel, l'atto di fede pronunciato dagli ebrei prima di coricarsi. "Parole che dimostrano la sua volontà di non spezzare il legame con il proprio passato e con la propria famiglia. Più avanti questo legame si trasformerà in opposizione all'ebraicità dei genitori". Fino al 1870 il piccolo non potrà rivedere alcun familiare. Allo stesso tempo gli fu negato qualsiasi contatto con l'ambiente ebraico con cui si identificava: la sua deprivazione fu affettiva, ambientale, sociale e religiosa. Il giovane subì "un processo di svuotamento dei suoi rapporti con il passato" e ne uscì sano operando un rovesciamento dai risvolti paradossali: mentre l'Unità d'Italia si compie e gli ebrei si emancipano, Edgardo si identifica con chi l'ha costretto a modificare se stesso con la violenza psicologica, religiosa ed esistenziale. Diventerà un sacerdote attivo nella conversione degli ebrei e cercherà di convertire la sua stessa famiglia. Da adulto Mortara andrà negli Stati Uniti per fondare un movimento pro-conversione. Nuovo paradosso: sarà l'arcivescovo di New York, Michael Corrigan, a fermarlo. "L'alto prelato - ricorda Meghnagi - guardava con perplessità alla vis antiebraica di Mortara né voleva compromettere i buoni rapporti fra ebrei e italiani". Identificato con il suo sacerdozio, Mortara morirà nel 1940 in un convento nei pressi di Liegi. "Dopo aver sviluppato il culto della Santa Vergine, si ritirerà a studiare e a pregare, nel momento più drammatico per le comunità ebraiche di tutta Europa".
  Nel processo attivo con cui la personalità di Edgardo è stata riplasmata, il professore identifica il carattere universale di una storia che nel Ventunesimo secolo può interessare Spielberg: "Ancora oggi sappiamo cosa significhino il lavaggio del cervello e la distruzione dell'identità dei bambini: le conseguenze sono devastanti". Meghnagi pensa alle persecuzioni nel mondo musulmano contro yazidi e cristiani, "e all'offensiva dello Stato islamico che mina alle radici qualunque idea di convivenza". Per quanto terribile, quella di Mortara non è una storia unica nel suo genere, ma è tipica delle minoranze nei momenti più bui della storia. Il professore racconta come in Iran o nello Yemen i bambini ebrei rimasti orfani venissero subito fatti sposare. Il matrimonio combinato restava di facciata fino all'età adulta ma li proteggeva dalle conversioni forzate e dai rapimenti.
  Oggi uno strascico del caso Mortara resta. "Trovo inquietante", conclude Meghnagi, "come il diritto canonico non abbia mai adeguatamente rivisto le norme relative alla conversione operata di nascosto, anche sulle persone in punto di morte ricoverate negli ospedali". Secondo la prospettiva ebraica, la salvezza non può essere una facoltà concessa a chi converte, tanto meno quando la "salvezza" è somministrata in maniera surrettizia. "Si tratta di un problema non ancora risolto, nonostante gli enormi progressi compiuti dalla chiesa nel suo cammino di riconciliazione con gli ebrei".

(Il Foglio, 30 aprile 2016)


Europa, fai la cosa giusta su Hezbollah

di David Harris (*)

Sono passati quasi tre anni da quando l'Unione europea riuscì a superare resistenze che duravano da molto tempo, affrontando finalmente la questione dell'iscrizione di Hezbollah alla lista delle organizzazioni terroristiche. La buona notizia fu che i 28 Stati membri, spinti dalla determinazione sia della Bulgaria, che aveva subito un attacco omicida di Hezbollah l'anno prima, che di Cipro, che aveva arrestato un membro di Hezbollah intento ad esplorare possibili obiettivi, decisero di agire. La cattiva notizia fu che l'Unione europea decise di scindere Hezbollah in due, posizionando il "braccio militare" nella lista dei terroristi, lasciando fuori dalla lista "il braccio politico".
  Se mai ci sia stata una distinzione che non è una differenza, è questa. Non lo dico io, lo ha detto niente meno che lo sceicco Hassan Nasrallah, capo degli Hezbollah in Libano, sottolineando che nessuno avrebbe potuto dividere la sua organizzazione. Nel prendersi gioco della decisione dell'Ue, Nasrallah disse: "Non ci sarà mai un governo (del Libano, ndr) senza Hezbollah. Tanto per scherzare, propongo che i ministri del prossimo governo vengano dal braccio militare di Hezbollah".
  Non mi trovo spesso d'accordo con Nasrallah, ma in questa occasione, bisogna ammetterlo, aveva ragione a proposito dell'illusione dell'Unione nel credere che esistano due distinte Hezbollah. L'argomentazione dell'Europa si basava sull'affermazione che Hezbollah è anche un partito politico "legittimo", che prende parte alle elezioni, e alcuni dei suoi membri siedono nel parlamento del Libano. Quindi, inserire l'intera Hezbollah nella lista nera avrebbe negato il diritto di voto a coloro che li hanno eletti, oltre a mettere in pericolo la fragile stabilità del Paese levantino.
  E infatti, subito dopo la decisione presa nel 2013, Catherine Ashton, allora Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, spiegava: "Vogliamo essere chiari nel nostro supporto per i partiti politici del Libano e per il popolo del Libano. Abbiamo fatto una netta distinzione".
  Il problema di questa linea di difesa è che ignora completamente quel che invece dovrebbe saltare all'occhio. Innanzitutto, mentre Hezbollah prende parte alle elezioni, lo fa perché è un mezzo, neanche tanto discreto, di sfruttare un sistema democratico per prendere il potere. In secondo luogo, Hezbollah vuole entrambe le cose: essere parte del sistema politico, e allo stesso tempo mantenere le proprie forze militari al di fuori del controllo del sistema. In questo modo Hezbollah è da tempo uno Stato dentro uno Stato, che mette in pericolo la sovranità e la sicurezza del Libano. Incredibilmente, questa strategia a due vie ha sinora riscosso successo. Terzo, per quanto ci si voglia girare intorno con la retorica, Hezbollah è un'organizzazione terroristica, e tutte le parti che la compongono - non alcune, ma tutte le sue parti - danno supporto alla letale spinta ideologica ed agli obiettivi del gruppo. Ed è precisamente questo che si legge nelle conclusioni di un rapporto dell'Intelligence olandese: "Il braccio politico e terroristico di Hezbollah sono controllati da un solo consiglio coordinatore". E lo stesso studio afferma: "I Paesi Bassi hanno cambiato la propria posizione e non considerano più valida la distinzione tra braccio politico e terroristico di Hezbollah" (La Ue, purtroppo, non ha preso la stessa decisione).
  Quali sono gli obiettivi del gruppo? Non ci vuole uno 007 per scoprirli, basta scorrere la lista delle azioni messe in pratica da Hezbollah negli anni. Dall'unirsi al presidente siriano Assad ed alle forze dell'Iran nel commettere omicidio di massa in Siria, dove il conto delle vittime starebbe arrivando a 500mila persone dopo cinque anni di conflitto, al massacro negli anni precedenti di francesi ed americani nelle loro ambasciate e nelle basi militari; dal chiedere la distruzione di Israele al pianificare attacchi contro obiettivi ebraici ed israeliani in tutto il mondo, tra cui gli attacchi mortali all'ambasciata israeliana ed il palazzo dell'Amia a Buenos Aires; dall'uccisione di politici di opposizione all'utilizzo della popolazione civile in Libano come ostaggio, Hezbollah non ha tenuto nascosti la sua visione ed i suoi metodi preferiti.
  Anzi, queste sono così ovvie e trasparenti che, oltre agli Stati Uniti ed il Canada, anche i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) - Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti - e membri della Lega Araba hanno recentemente dichiarato che Hezbollah è un'organizzazione terroristica. Il segretario generale del Gcc, Abdullatif al-Zayani è stato chiarissimo quando ha accusato Hezbollah di commettere "attacchi terroristici, di trafficare in armi ed esplosivi, di fomentare sedizione e di incitare al caos e alla violenza", aggiungendo poi che le azioni del gruppo sono una diretta minaccia alla "sicurezza nazionale araba". Non ha fatto nessuna falsa distinzione tra ala "politica" e ala "militare", fateci caso.
  Ed è così che ci troviamo in questa strana situazione, dove gli Stati Uniti, il Canada, i Paesi Bassi, Israele, il Gcc e la Lega Araba sono tutti d'accordo sulla vera natura di Hezbollah, mentre l'Unione europea si trova curiosamente in disparte, appesa all'illusione di poter domare Hezbollah, quando in realtà non c'è alcuna prova che questo possa essere possibile. Non è forse giunta l'ora che l'Ue finisca il lavoro su Hezbollah iniziato con la decisione presa nel 2013? Sarebbe un passo importante che ostacolerebbe in maniera significativa la libertà di azione di Hezbollah in Europa, dato che i singoli governi avrebbero il potere di fermare i flussi di denaro e gli sforzi organizzativi del gruppo all'interno dei confini dell'Unione.
  Il terrorismo è una minaccia per noi tutti. Nell'affrontarlo, dobbiamo avere una visione chiara, decisa e risoluta. Hezbollah è esattamente quello che afferma di essere: un gruppo violento e assolutista fondato sull'Islam Sciita. Far finta che non sia così non serve a niente. È inutile illudersi che l'organizzazione possa cambiare grazie ai nostri sforzi di venirgli incontro, è una cosa impossibile quando si tratta di credo e fede incrollabili. A riprova, ecco ancora le parole di Hassan Nasrallah in persona: "Chiunque voglia disarmare con forza la Resistenza - e l'ho detto più di una volta - noi gli taglieremo le mani, lo decapiteremo e getteremo via la sua anima. Questa è la nostra determinazione".
  Nel passato, alcuni Paesi europei hanno tentato di occuparsi dei terroristi che operavano sul loro territorio placandoli con pene detentive leggere, indulti e accordi sottobanco, illudendosi che agissero in base a delle "legittime rimostranze", o semplicemente sperando che il problema scomparisse magicamente. Negli ultimi anni però, visti i recenti tragici eventi, l'Europa dovrebbe aver capito che questa strategia non paga. E dovrebbe anche, allo stesso tempo, essere arrivata a comprendere il fatto ineluttabile che il terrore è terrore. Egualmente, Hezbollah è Hezbollah. Non ci sono due Hezbollah, ma una sola. E questa unica Hezbollah, nella sua interezza, dovrebbe essere inserita al più presto nella lista della Ue delle organizzazione terroristiche.

(*) Direttore esecutivo dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 29 aprile 2016)


Allah über alles. La svolta islamica della Germania

di Giulio Meotti

Ne parla il quotidiano tedesco Die Welt. Il nuovo rapporto annuale del Consiglio di esperti delle Fondazioni tedesche in materia di integrazione e migrazione (SVR), intitolato "Molti dei, uno stato", ha annunciato che l'islam è oggi una parte importante della società tedesca.
   "La Germania è diventata un paese demograficamente multi-religioso", dovuto principalmente alla migrazione di massa dei musulmani dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ma anche dal calo dei cristiani praticanti che ha avuto anche un grande impatto nella crescita dell'islam in Germania. Detlef Pollack, professore di Sociologia della religione all'Università di Münster, predice che "almeno il 70 per cento delle persone in Germania" finirà per secolarizzarsi completamente, come è già successo nella ex Germania dell'est.
   Centinaia di migliaia di cristiani tedeschi ogni anno rinunciano formalmente alla loro fede. Niek Tramper, segretario generale dell'Alleanza Evangelica, ha detto: "Questo era un paese che inviava missioni. Ora è un paese da convertire nuovamente". Lo ha detto nel duomo di Erfurt, il cui selciato venne calpestato da Lutero, una delle più belle costruzioni medioevali che si possono ancora vedere in Germania.
Non a caso l'ex Ddr oggi fermenta di popolarità per Pegida, il movimento anti-islamizzazione. E' la terra di Weimar, dove sono vissuti Goethe e Schiller, e di Jena, sede di una delle più celebri università europee dove insegnò anche Hegel. Infine Eisenach, città natale di Bach dominata dal castello di Wartburg, emblematico maniero dove si rifugiò il padre della riforma protestante che, proprio qui, tradusse per la prima volta in tedesco il Vangelo per farlo leggere al popolo. Lo slogan di Pegida è "Wir sind das Volk": noi siamo il popolo, lo stesso usato nel 1989 contro il Muro dai tedeschi orientali. Chi convertirà nuovamente i ricchi tedeschi: il cristianesimo o l'islam? Torna in mente una storica copertina dello Spiegel. Titolo: "Mecca Germania".

(Il Foglio, 28 aprile 2016)


Varese - Sarà presentato il libro "Sono sionista" di Ariel Shimona Edith Besozzi

Ariel Shimona Edith Besozzi
Domenica 1 maggio, alle ore 16, sarà presentato a Varese, in via Santa Maria Maddalena 18, il volume "Sono sionista" di Ariel Shimona Edith Besozzi.
Il libro tratta della storia d'amore tra Ariel Shimona Edith, il suo popolo e la sua terra (Israele). Si tratta di una amore fortemente osteggiato e per lo più non riconosciuto, fatto di una moltitudine di elementi, di colori, luci, suoni e soprattutto prole. Attraverso la sua esperienza di vita, il suo percorso personale e politico racconta la gioia di un'affermazione identitaria che non può essere descritta ma piuttosto incontrata.
La Terra d'Israele è purtroppo, spesso, attraversata da conflitti, che si determinano a causa di una contesa che attraversa i secoli. Ciò nonostante chiunque si trovi a conoscerla, chiunque la percorra oggi non può che restare stupito dalla vitalità del popolo che la abita.
Nella tradizione ebraica si racconta che, se fossero state mandate le donne ad esplorare Israele la prima volta, quando il popolo si affacciò ad essa, ne avrebbero subito compreso la bellezza, la forza, l'unicità poiché le donne sanno come si ama la Terra. Non è semplice, domanda lavoro, dedizione, fatica, relazione, accettazione, attesa. Con questo spirito è nato il movimento che ha permesso la rinascita d'Israele, il Sionismo. Con questo amore e con la consapevolezza della difficoltà che questa affermazione comporta per essere compresa Ariel Shimona Edith Besozzi ha intitolato il suo libro "Sono Sionista".

(Varese Report, 29 aprile 2016)


Negazionismo, l'importanza di un avverbio

ROMA - È stato sospeso e rinviato l'esame, in aula al Senato, del ddl Negazionismo.
Alla ripresa dei lavori, la settimana prossima, dovrebbe essere approvato l'emendamento del presidente della commissione Giustizia, Nico D'Ascola (Ap), che riscrive l'articolo 1 togliendo nuovamente l'avverbio "pubblicamente" e quindi di fatto in questo riportando il testo alla versione della Camera.
L'emendamento aumenta inoltra le pene per chi nega la Shoah da 2 a 6 anni di carcere.
Con l'approvazione dell'emendamento D'Ascola il testo del ddl prevederà che si applichi "la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra".

(Public Policy, 29 aprile 2016)


Volevano colpire il Papa e l'ambasciata di Israele

Smantellata cellula dell'Isis in Lombardia. L'ordine del Califfato era: «Esplodere tra la folla». Obiettivi prescelti: i pellegrini del Giubileo e gli ebrei di Roma.


Sei arresti: tra loro una coppia con due figli piccoli che godeva di mille euro al mese di sussidio. Il campione di kickboxe combatteva con la maglietta del Daesh. Dal Califfato l'ordine di colpire Vaticano e ambasciata israeliana a Roma. Il gip di Milano Manuela Cannavale: molti fiancheggiatori ancora da identificare. Il gip di Milano Manuela Cannavale: molti fiancheggiatori ancora da identificare. Sequestrato anche un poema che incita alle azioni kamikaze.



di Andrea Morigi

IL POEMA
Dalle tue palme eruttano scintille,
e sgozza, che con il coltello
è attesa la gloria,
fai esplodere la tua cintura fra le folle
dicendo Allah akbar!
Accendi il fuoco sulla folla affluente,
versa sulla testa del crociato granate,
non aver mai pietà finché non si spezza,
nessuna vita tranne quella di un popolo
che ha combattuto per Allah
L'Isis si prepara a colpire nel centro della Cristianità, con i contributi statali. Due ricercati per terrorismo, raggiunti ieri da un'ordinanza di custodia cautelare della Procura di Milano, erano ospitati gratuitamente in Brianza e godevano anche di una pensione d'invalidità.
Ne approfittavano per convincere i loro amici a partire per andare a farsi esplodere in Siria e in Iraq. Uno lo avevano già radicalizzato, sennonché all'ultimo momento dall'alto gli era stato comandato di rimanere in Italia, per colpire come a Parigi e a Bruxelles. C'è il Giubileo della Misericordia e, il 25 marzo scorso, tre giorni dopo le stragi compiute in Belgio, arriva la chiamata alle armi. Dalla Siria Mohamed Koraichi esortava così Abderrahim Moutaharrik, rimasto a Lecco in attesa di ordini: «Quella è la capitale dei crociati, fratello mio, è quella, è lì che vanno a fare il pellegrinaggio, è da lì dove prendono la forza e da lì van - no a conquistare i popoli, e da lì combattono l'islam. Finora non è stata fatta nessuna operazione. Sai che se fai un attentato è una cosa grande. Allah è grande, preghiamo Allah, fratello mio». Insieme, avevano frequentato l'associazione culturale islamica «La Tolleranza» di Lecco.
   L'interlocutore, arrestato ieri in un blitz della polizia e del Ros dei carabinieri, poneva soltanto una condizione, che fossero evitate ripercussioni ai suoi congiunti. «L'unica richiesta che ti chiedo è la famiglia, tu sai voglio almeno che i miei figli crescano un po' nel paese del califfato dell'Islam». Almeno loro dovevano trovare rifugio nei territori del Califfato, poi lui sarebbe stato disposto a tutto: «Per questi nemici giuro, se riesco a mettere la mia famiglia in salvo, giuro sarò io il primo ad attaccarli, in questa Italia crociata, il primo ad attaccarla, giuro, giuro che l'attacco nel Vaticano, con la volontà di Dio». Odiava i cattolici, ma non trascurava gli ebrei: «Voglio colpire Israele a Roma», confida Moutaharrik in un'altra conversazione intercettata dagli inquirenti, parlando al telefono con Abderrahmane Khachia, anche lui finito in carcere. Nella telefonata, Moutaharrik fa riferimento a un suo disegno per compiere un attentato contro l'ambasciata di Israele. Si era anche già procurato una pistola, tramite un amico albanese.
   Infine, l'8 aprile, gli era arrivato da un misterioso Sceicco il comando di attaccare, attraverso quello che gli inquirenti chiamano il «poema bomba»: «Ascolta lo Sceicco, colpisci! Dalle tue palme, eruttano scintille, e sgozza, che con il coltello è attesa la gloria, fai esplodere la tua cintura fra le folle dicendo "Allah akbar"! Colpisci! Esplodi! come un vulcano, agita chi è infedele, affronta la folla del nemico, ringhiando come un fulmine, pronuncia "Allah akbar" e esploditi! o leone! che non si abbassa. Questa è la brigata della gloria, che vince, questo è il nostro califfato, ritorna in cima, ridà all'islam la sua gloria, i suoi battaglioni che hanno scosso i vicini e sono andati ad annientare gli infedeli senza cedere. Cancellare i confini che ci hanno decimato e riunirci dopo lo spargimento e l'allontanamento, in ogni paese fortemente e concedere al falco gli eroi dei nemici. Oh stato islamico! Accendi il fuoco sulla folla, versa sulla testa del crociato granate, non aver mai pietà finché non si spezza, nessuna vita tranne quella di un popolo che ha combattuto per Allah, il suo vero combattimento come ha ordinato, guadagna il paradiso, come i primi combattenti e vai verso, oh Abderrahim, la gloria che chiama chi va verso essa. Grida Allah akbar»,
   Lo hanno fermato mentre si accingeva ad accompagnare la moglie Salma Bencharki, di 26 anni, sua connazionale, e i figli di 2 e 4 anni. I bambini sono stati affidati ai nonni paterni. Del gruppo facevano parte anche Abderrahmane Khachia, 33 anni, residente a Brunello (Varese), fratello di un foreign fighter già morto in Siria e Wafa Koraichi, 24 anni, residente a Baveno in provincia di Verbania, sorella di Mohamed Koraichi, 31 anni, residente a Bulciago in provincia di Lecco, già in Siria coni tre figli e la moglie Alice Brignoli, 39 anni. Sono tutti indaga ti, tranne i bambini, per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale.
   Insomma, scrive il gip di Milano Manuela Cannavale nel1'ordinanza a carico dei sei sospettati, «è pienamente provata l'esistenza di una associazione terroristica denominata Is, alla quale partecipano gli indagati, oltre a numerose persone non identificate, associazione finalizzata a commettere azioni terroristiche organizzate dallo Stato islamico nei Territori occupati, in Paesi europei e in Italia». Tutto corrisponde all'avvertimento lanciato il 26 aprile dal direttore della National Intelligence americana, James R. Clapper, che confermava la presenza di cellule terroristiche clandestine in Gran Bretagna, Germania ed Italia, analoghe ai gruppi che hanno condotto gli attentati di Parigi e Bruxelles. Eppure si era parlato di uno dei tanti falsi allarmi e della mancanza di una «minaccia specifica». Ieri il ministro dell'Interno, Angelino Alfano ha ringraziato «tutte forze dell'ordine che hanno collaborato per un bel successo italiano: l'arresto degli aspiranti foreign fighters. La squadra lavora con efficienza e ha saputo dimostrare che in un contesto in cui il rischio zero non esiste il nostro sistema funziona».

(Libero, 29 aprile 2016)


Economia israeliana: le ragioni di un (cauto) ottimismo

Rispetto ai paesi OCSE, Israele presenta diversi punti di forza (e alcune problematicità)

Avendo ricevuto nella casella di posta elettronica una presentazione insolitamente fiduciosa intitolata "Israele: un'isola di successo economico", ho pensato di interpellare Adam Reuter, amministratore delegato della società di gestione dei rischi finanziari Financial Immunities nonché co-autore della presentazione insieme a Noga Kainan, presidente del forum CFO israeliano, per sapere cosa lo rendesse tanto ottimista rispetto alle previsioni catastrofiche che circolano normalmente di questi tempi anche in Israele. Dopo tutto, i tassi di crescita in Israele degli ultimi due anni non sono stati esattamente alle stelle, e il costo della vita rimane esorbitante a fronte di stipendi medi piuttosto bassi. Quello che è emerso dalla conversazione è che tutto è relativo....

(israele.net, 29 aprile 2016)


Israele nello scacchiere attuale

Intervista a Marco Paganoni direttore di www.israele.net sulla geopolitica israeliana.

Il Medioriente è sempre stato lo spazio geopolitico più difficile da comprendere e da capire, soprattutto in una situazione come quella attuale che ha visto l'emergere e lo sviluppo dello Stato Islamico, nonché le scelte e le conseguenze che da esso ne sono derivate, sia da parte degli attori globali che da parte degli attori regionali. Uno degli attori regionali storicamente più rilevanti è Israele, il quale attualmente sembra essere mantenere un approccio di basso profilo. Intervistiamo Marco Paganoni, direttore di www.israele.net, per cercare di capire verso quale orizzonte si sta prospettando il Paese ebraico.

- Come è stato visto l'accordo Iran- Stati Uniti sul nucleare?
  
In Israele questo accordo non è stato visto di buon occhio, non solo dal governo, ma anche dall'opposizione. Diverse erano le perplessità e soprattutto c'era la sensazione che si potessero ottenere molte più garanzie dall'Iran anziché quelle che sono state ottenute, in particolare sono già state allentate le sanzioni economiche e l'Iran può tornare sul mercato del petrolio. Due fattori questi che consentono al governo di Teheran di aumentare il suo peso specifico sullo scacchiere regionale consentendogli di divulgare le sue politiche fondamentaliste. Questa situazione preoccupa non solo Israele, ma anche altri Stati della regione, gli Stati sunniti del Golfo in primo luogo e anche l'Egitto, con la conseguenza di esacerbare lo scontro all'interno del conflitto siriano. La considerazione generale è che Israele ha avuto la sensazione con questo accordo di non avere più un appoggio abbastanza rilevante da parte di questa legislatura americana, anche se gli Stati Uniti restano i migliori alleati di Israele. E' evidente che il rapporto con gli Stati Uniti resta ma dietro le quinte si stanno profilando tutta una serie di relazioni, non solo con Egitto e Giordania, ma anche con l'Arabia Saudita e questo appare motivato dallo sdoganamento del fondamentalismo iraniano attraverso l'accordo sul nucleare, proseguito poi con le visite dei leader occidentali che attualmente hanno visitano Teheran, tra cui Renzi. Quindi si può evidenziare un riposizionamento nel quadro Mediorientale della politica estera israeliana con attori impensabili fino a poco tempo fa. Ovviamente le motivazioni che spingono a questo riposizionamento sono dovute a interessi economici e politici.

- L'accordo con Tehran rientra secondo lei in una possibile strategia statunitense che vede un disimpiego dell'area medioreintale e nella creazione di una sorta di equilibrio di potenza?
  E' una lettura plausibile, in quanto questa amministrazione americana ha fatto capire che intende impegnarsi meno nella zona mediorientale a favore di altri scacchieri, il Pacifico e la politica interna. Avendo la consapevolezza che le questioni mediorientali sono difficili se non impossibili da risolvere, gli Stati Uniti ancora pagano le conseguenze delle guerre in Iraq e Afghanistan, nonché scottati dall'esperienza libica, può darsi che abbiano optato per una sorta di scenario da Guerra Fredda in Medioriente, ovvero la costruzione di un equilibrio tra le varie potenze costruito sulla mutua consapevolezza che nessuno può prevaricare sull'altro. Questa prospettiva probabilmente è difficile da perseguire in quanto il Medioriente non risponde agli stessi schemi di comportamento che potevano applicarsi allo scenario della Guerra Fredda globale. Il Medioriente ha al suo interno soggetti e attori che non rispondono a una logica razionale e quindi può essere un azzardo pericoloso.

- Israele sembra avere una posizione di basso profilo sulla questione del Califfato Islamico e la guerra civile in corso, perché?
  
Israele ha avuto una politica di basso profilo nei confronti della guerra civile siriana, ha fissato però dei paletti pubblicamente cercando di tenersi fuori da un impegno diretto. Questa posizione è motivata dal fatto Israele, su questo c'è anche un dibattito pubblico, vede la gran parte dei soggetti coinvolti nella guerra civile siriana - irachena come un nemico, ad eccezione magari di qualche piccola frangia isolata. L'unica eccezione consistente è quella dei curdi, nel senso che Israele ha una lunga storia di rapporti riservati con i curdi iracheni e siriani, cosa che sicuramente viene vista molto negativamente dalla Turchia. Israele ha sempre considerato il regime di Assad un elemento pericoloso in quanto era un vero e proprio stato con un esercito di tutto rispetto, vederlo quindi in defezione e con un indebolimento numerico e di dotazioni militari, dato l'impegno nella guerra civile, è sicuramente un vantaggio. L'aspetto negativo è che nonostante il regime di Assad fosse visto come un reale pericolo, garantiva comunque una situazione di stabilità, viceversa la situazione attuale di instabilità viene vista negativamente da Israele. La vera questione è come verrà risolta a guerra civile siriano - irachena, in quanto per Israele l'ISIS è visto come un fenomeno che ha delle caratteristiche vistose legate all'uso dei media e alla propaganda della paura, ma sicuramente gli Hezbollah vengono visti come un attore meno appariscente ma molto più pericoloso, in quanto ha una milizia ben addestrata e armata, alleata dell'Iran e che staziona a ridosso dei confini Israeliani. Impedire che gli Hezbollah approfittassero della situazione per dotarsi di armi più sofisticate in modo da minacciare i territorio del Golan, è stato uno dei paletti messi da Israele di cui di recente Netanyahu ha discusso anche con Putin.

- Recentemente è stato scoperto un nuovo giacimento di gas di acque israeliane, come può essere utilizzato? Anche nell'alleanza con l'Egitto?
  
La scoperta di questo nuovo giacimento gassifero è una prospettiva interessante sia per Israele che per l'Egitto che a sua volta ha scoperto un altro giacimento tramite l'ENI molto più grande. Questa scoperta è importante perché da una parte risolve parte del fabbisogno interno, viceversa esportandolo può diventare un fattore geopolitico importante verso paesi limitrofi, prima c'era anche l'Egitto, ma anche la Giordania e la Palestina. Attualmente la prospettiva di vendere gas all'esterno è una prospettiva che risente del forte dibattito interno riguardante la gestione delle royalty sui cui il governo israeliano ha visto un forte dibattito interno e una complicata votazione che ha visto anche le dimissioni del ministro dell'economia. Il Governo aveva firmato delle intese per la gestione del giacimento con la principale Company, israeliana - americana, è emerso un problema di antitrust in quanto sembra non rispettare le regole delle concorrenza. Netanyahu ha forzato l'accordo superando la questione ma è stata portata all'attenzione della Corte Suprema che ha bloccato la concessione in quanto rischia di non essere conforme alle regole sulla concorrenza. Ovviamente la prospettiva economica ha risentito di questa situazione. Il Governo Israeliano tenterà comunque di usare questa risorsa, anche se magari nel caso specifico l'Egitto probabilmente sarà in grado di diversificare i suoi rifornimenti energetici. Israele e Egitto possono e probabilmente avranno una prospettiva comune su alcune tematiche, il gas può essere un elemento, la lotta contro lo Stato Islamico è un altro elemento e anche la diffidenza verso le politiche iraniane. Sicuramente la stabilità egiziana interessa Israele come attore di primo piano nel quadro mediorentale, non a caso in Israele ci fu un elevata diffidenza durante l'anno di governo della Fratellanza Musulmana in quanto la stabilità e gli accordi precedenti, tra cui il trattato di pace, potevano essere fortemente a rischio.

- Recentemente la Turchia è sembrata più vicina a Israele è possibile una nuova alleanza regionale tra questi due attori?
  
Su questo ci sono dei segnali di riavvicinamento soprattutto da parte turca in quanto attualmente Erdogan si è infilato in un vicolo cieco, su questo anche la questione del gas può fare la sua parte, la Turchia è un altro Paese che ha un elevato fabbisogno di risorse energetiche, molto probabilmente ci sono dei canali di comunicazione in cui sono iniziate delle trattative anche se non ai massimi livelli. Anche in questa circostanza la questione dell'instabilità siriana e la sua prospettiva di risoluzione gioca la sua parte, la Turchia a centinaia di migliaia di immigrati da gestire, è naturale che Erdogan guardi favorevolmente al Israele, anche perché la collaborazione tra i due Paesi è una vecchia storia, interrotta dall'incidente che riguardava la "Flottiglia per la Pace", sulla quale la Turchia ha chiesto delle scuse, le quali sono arrivate, e un risarcimento su cui si sta trattando, oltre a cambiamenti di politica estera per quanto riguarda Gaza, che a suo tempo furono tra i motivi dell'allontanamento dei due Paesi. Ma al di là delle questioni in gioco i segnali di riavvicinamento sono chiari. Un dettaglio importante è la comunanza etnica tra Turchia, Israele e fino alla rivoluzione del 1969 anche con l'Iran, in quanto Paesi non arabi, elemento che in Medioriente conta maggiormente rispetto ad altre dinamiche. Fino a quando l'Iran non è diventato un Paese fondamentalista sciita con Israele e Turchia formavano un triangolo quasi naturale di Paesi non Arabi nello scacchiere mediorentale e questo oggi può essere importante per un riposizionamento di Israele.

(L'Indro, 28 aprile 2016)


L'Aliyah e quelle domande sul futuro

di Marta Spizzichino

In questo disordine generale in cui l'Europa ristagna da anni, si fa sempre più pressante !'idea di un ritorno in massa degli ebrei in Terra di Israele. Questa è una costante della tradizione ebraica che culmina con la venuta del Messia e che con il tempo è divenuta l'unica alternativa a un mondo che appare sempre più intollerante e inospitale. L'aliyah è il pellegrinaggio o, per meglio dire, quel cammino in salita compiuto per raggiungere Gerusalemme durante i tre pellegrinaggi prescritti per le festività di Pesach, Shavuot e Sukkot. Da un secolo però la parola assume un contenuto differente: essa è sinonimo di sicurezza per gli ebrei della diaspora. Ogni qual volta si presenta incertezza politica ed economica si pensa a Israele come terra materna pronta ad accogliere chi ha bisogno di professare la propria identità ebraica liberamente. Questa certezza va però barattata con l'insicurezza provocata dalla guerra e molti sono ben disposti a convivere con la seconda per ottenere la prima. Il fenomeno provoca svariati effetti sull'orizzonte ebraico ma anche più genericamente su quello collettivo. L'aspetto ideale o religioso della faccenda va però sommato a quello economico.
   Infatti si può dire che sia la crisi economica la chiave di lettura del fenomeno dell'aliyah nel 2009, quando i paesi con il maggior tasso di disoccupazione sono stati proprio quelli che hanno visto andar via il maggior numero di cittadini verso Israele di cui il 60% ha meno di trentacinque anni. Lo Stato è pronto a offrire numerose alternative in termini di lavoro e istruzione che allettano chi in Europa non vede che disoccupazione.
   Questa è la sintesi di ciò che è avvenuto alcuni anni fa e che si ripresenterà in modo ancora più massiccio se le condizioni socio-economiche non cambieranno a breve. L'aliyah assume così un significato più ampio. Ciò che all'origine si limitava a descrivere il pellegrinaggio ora definisce l'ascesa in senso fisico, come immigrazione, che ingloba a sua volta anche la crescita economica.
   Diverse domande sorgono spontanee: quale sarà il futuro per gli ebrei della diaspora? O più precisamente: vi sarà futuro? Come si dovrà declinare il rapporto tra ebraismo e diversità se il cittadino ebreo della diaspora è destinato a tornare nella terra d'origine? E dovere ricordare che la forza del popolo ebraico nei secoli è stata quella che ha recato ai suoi membri maggiore pena e sofferenza: il dover coniugare la propria identità con la diversità della nazione che lo ospita. Questa incertezza d'altro canto ha determinato un vantaggio notevole: la capacità di guardare le cose con occhio distaccato pur essendo pienamente coinvolti. In un paese in cui domina la somiglianza le tradizioni distinte verranno sempre più a offuscarsi e il rapporto con la diversità sempre più a scemare. Ciò che ci rende sicuri è ciò che a lungo andare ci svuoterà. Sarà dunque ancora possibile mantenere quell'attitudine all'analisi critica che è possibile trovare quando si è pienamente dentro e parzialmente fuori?

(Hatikwa, Unione Giovani Ebrei d'Italia, aprile 2016)


Cittadino israeliano scomparso in Ungheria

GERUSALEMME - Da una settimana non si hanno più notizie di Ofir Gross, un cittadino israeliano di 40 anni che si era recato in Ungheria. Lo riferisce la stampa israeliana. Le forze di sicurezza israeliane hanno allertato le polizie europee e le autorità ungheresi avvertendole della scomparsa dell'uomo. Le autorità di Budapest hanno prontamente avviato le ricerche dello scomparso. Gross aveva da poco terminato gli studi in ingegneria medica quando è partito per l'Ungheria. Inizialmente Gross si è recato presso la casa di un amico a Tiszakecske, nella parte centrale del paese, quindi si è allontanato verso Debrecen, nell'Ungheria orientale. È nel corso di questo spostamento che la famiglia ha perso ogni contatto con l'uomo.

(Agenzia Nova, 28 aprile 2016)


Le foto dei festeggiamenti della Pasqua ebraica

Preghiere, pane azzimo cotto al forno e pane lievitato bruciato in piazza

In questi giorni gli ebrei festeggiano la Pesach, la cosiddetta Pasqua ebraica, che ricorda la fuga e la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana sotto la guida di Mosé, nella notte in cui secondo le scritture sacre Dio uccise tutti i primogeniti egiziani. La Pesach è iniziata il 23 aprile e durerà fino al 30, ma gli otto giorni di festa sono preceduti da una lunga fase preparatoria. Nella settimana della Pasqua gli ebrei non possono mangiare cibi lievitati e per questo motivo nei giorni precedenti preparano la matzah, cioè il pane azzimo, e bruciano tutti i cibi lievitati presenti in casa.

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Nei giorni di festa ci sono diverse occasioni di raccoglimento: molti fedeli compiono un pellegrinaggio per pregare davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme e ricevere la benedizione dei kohanim, i sacerdoti del Tempio che si crede discendano da Aronne, il fratello di Mosé; i samaritani invece pregano sulla cima del monte Garizìm, vicino a Nablus, in Cisgiordania. E nelle foto di questi giorni, come per ogni festività, c'è anche chi si rilassa e fa il bagno in un fiume o schiaccia un pisolino su una panchina.

(il Post, 28 aprile 2016)


I Fratelli Verdi

In Svezia gli ecologisti al governo infiltrati dagli islamisti. La sinistra che non stringe la mano alle donne.

di Giulio Meotti

 
Yasri Khan, candidato a un posto nel direttivo politico dei Verdi e già presidente della organizzazione svedese Muslims for Peace and Justice
ROMA - Quando nel 1988 per la prima volta i Verdi sbarcarono al Parlamento svedese vennero chiamati "i figli della foca". Perché senza la moria nel Baltico, difficilmente avrebbero strappato venti seggi. Da allora, i Verdi si sono fregiati di aver saputo creare un ambiente "in cui l'uomo trova il suo posto". Ma all'ecologismo hanno sempre affiancato battaglie politiche. Durante la Guerra Fredda fu il pacifismo: "Come parlare di ecologia senza parlare del Vietnam?", dicevano. Oggi sono gli immigrati e il multiculturalismo. Ma forse si sono lasciati un po' prendere la mano.
   Adesso i Verdi, che fanno parte della coalizione al governo a Stoccolma, sono scossi dall'accusa di essere infiltrati da fondamentalisti islamici. La settimana scorsa si è dimesso il ministro dell'Edilizia, Mehmet Kaplan, di cui sono saltati fuori i legami con i nazionalisti islamisti del suo paese d'origine, la Turchia, e che ha paragonato Israele al nazismo. Lars Nicander, direttore del Centro per gli studi delle minacce asimmetriche allo Swedish National Defence College, ha detto che "oggi persone vicine ai Fratelli musulmani, un partito islamista, hanno acquisito una solida posizione nel partito dei Verdi. Vedo una somiglianza con il modo in cui il comunismo sovietico agiva durante la Guerra fredda, quando cercava di infiltrarsi nei vari partiti democratici". Due alti funzionari dei Verdi, Jon Karlfeld e Anders Wallner, hanno dichiarato che "anche se a oggi non vi sono indicazioni di un'infiltrazione, il Partito dei Verdi andrà avanti e indagherà la potenziale vulnerabilità".
   Dopo Kaplan è stata la volta di Yasri Khan, candidato a un posto nel direttivo politico dei Verdi e già presidente della organizzazione svedese Muslims for Peace and Justice, che ha rifiutato di stringere la mano a una giornalista, in ottemperanza alla sharia, la legge islamica. E' dovuto intervenire anche il premier, Stefan Lofven, che già deve gestire l'ingresso di 250 mila migranti in un paese di dieci milioni di persone, a ricordargli che "in Svezia stringi la mano a uomini e donne".
   Secondo numerosi sondaggi, il 65 per cento degli svedesi vuole adesso che i Verdi, i più accesi fautori delle frontiere aperte, siano cacciati dalla coalizione al potere. "Nel nostro desiderio di abbracciare una società pluralistica e multiculturale, abbiamo chiuso un occhio sui punti di vista non democratici", ha detto Gulan Avci, esponente dei liberali all'opposizione. Nel cercare di raffreddare gli animi, la leader del Partito dei Verdi, Asa Romson, che è anche vice premier, ha fatto peggio e in un'intervista televisiva ha descritto gli attacchi dell'11 settembre come "incidenti". Ha poi chiarito che condannava ovviamente gli attacchi che costarono tremila vite in America. Ci si è poi messo il fondatore dei Verdi, Per Gahrton, il quale ha detto che l'ex ministro Kaplan è stato vittima di una caccia alle streghe ordita da Israele. Gahrton è stato il presidente della Palestine Solidarity Association per dieci anni.
   Ma non finisce qui. Nuove immagini sono emerse in cui Kaplan e gli altri membri musulmani dei Verdi sono ripresi con le quattro dita alzate, il gesto utilizzato dai Fratelli musulmani in Egitto. Uno di loro, il giovane leader dei Verdi Salahaden Raoof, ha ripetuto il gesto durante una trasmissione sulla televisione svedese. Le quattro dita alzate al cielo fanno riferimento alla moschea di Rabaa, al Cairo: Rabaa, che in arabo significa proprio "quattro", è dove si realizzò il sit-in più grande della capitale a opera dei Fratelli musulmani, dopo la deposizione di Mohammed Morsi. Il gesto non è illegale in Svezia, ma molti membri del partito mettono ora in dubbio il fatto che esponenti della Fratellanza musulmana siano compatibili con la piattaforma femminista e gay friendly dei Verdi svedesi.
   Durante la Guerra fredda, i sovietici si approfittarono della celebre neutralità svedese, con il suo rifiuto del bipolarismo Stati Uniti-Urss, il rapido riconoscimento della Cina di Mao, la sospensione dei rapporti con l'America dopo il bombardamento sul Nord Vietnam, il disarmo nucleare predicato da Olof Palme, il socialismo welfarista, il "non allineamento", insomma il disimpegno svedese da Trelleborg ai confini estremi della Lapponia. Una neutralità fragile e ambigua che ora sembra tingersi di verde: il colore dell'islam.

(Il Foglio, 28 aprile 2016)


Farmaco israeliano contro il cancro arriva in Europa

Farmaco israeliano contro il cancro arriva in Europa. Tookad Soluble, il nuovo farmaco israeliano per la lotta contro il cancro alla prostata, somministrato mediante iniezione e attivato dalla luce laser, è stato recentemente approvato dall'autorità sanitaria del Messico. Ora è in fase di sperimentazione anche per l'Europa.
L'idea rivoluzionaria di questa terapia nasce dagli esperimenti di laboratorio effettuati, presso il Weizmann Institute, dal Prof. Yoram Salomon.
I pazienti ricevono una infusione endovenosa di Tookad Soluble, successivamente, delle fibre ottiche sottili vengono inserite nel tessuto canceroso e viene attivato una fascio di luce laser.
L'illuminazione attiva il farmaco che distrugge le cellule tumorali, senza danneggiare le cellule sane. Il farmaco viene totalmente eliminato senza residui tossici, tre o quattro ore dopo il termine della la procedura che dura circa 90 minuti.
Questo metodo rende possibile per la prima volta il trattamento di grandi tessuti cancerosi, con una procedura minimamente invasiva.

 Un nuovo paradigma
  L'approvazione del farmaco in Messico è avvenuta sulla scia di uno studio clinico effettuato anche in Europa, i cui dati sono stati presentati dal Dott. Mark Emberton presso la European Association of Urology scientific meeting che ha avuto luogo a lo scorso mese di marzo.

 Possibilità di curare altri tipi di tumore
  La terapia innovativa è stata sviluppata dal Prof. Yoram Salomon e dal Prof. Avigdor Scherz del Weizmann Institute in collaborazione con lo Steba Biotech di Lussemburgo e proprio quest'ultimo recentemente ha chiesto l'approvazione per l'utilizzo di Tookad anche in Europa.
Nel frattempo, sono in corso ulteriori quattro studi clinici per valutare l'efficacia della terapia per trattare anche altri tipi di tumore.

(SiliconWadi, 28 aprile 2016)


Pietro Masturzo in mostra a Reggio Emilia

Il fotografo vincitore del Word Press Photo 2010 protagonista della mostra inaugurale del Vicolo Folletto Art Factories con la storia di una famiglia di coloni
israeliani.


di Germano D'Acquisto

 
Nel 2010 ha vinto il World Press Photo, il più importante premio internazionale di fotogiornalismo, per un suo scatto realizzato sui tetti di Teheran nei giorni di protesta contro il governo. Oggi Pietro Masturzo, uno dei nostri fotoreporter più apprezzati al mondo, è il protagonista della mostra inaugurale del Vicolo Folletto Art Factories di Reggio Emilia. Un po' centro polifunzionale, un po' galleria, ma anche laboratorio di restauro d'arte contemporanea e spazio per workshop, il nuovo spazio espositivo espone 28 lavori del fotografo napoletano.
Classe 1980, una laurea in Relazioni internazionali alle spalle, Masturzo ama raccontare da sempre il coraggio e la resistenza degli uomini in situazioni di oppressione e di violazione dei diritti umani. Dall'Ucraina all'Egitto, dalla Libia all'Iran, passando per Israele e Gaza. Il suo mantra? «Vorrei usare la fotografia per conoscere meglio il mondo».
L'esposizione in terra emiliana, curata da Flavio Arensi, mette in scena la serie sull'esistenza quotidiana della famiglia di coloni israeliani Goldburt, per la prima volta mostrata al pubblico. Il fotografo rivela non solo la vita di tutti i giorni, ma anche la loro terra e soprattutto la fragilissima situazione della Cisgiordania. Gli scatti, che rappresentano l'intero portfolio, puntano l'attenzione sui contrasti e i paradossi di una esperienza assai complessa, che a noi appare lontana anni luce. «Oggi in Cisgiordania - racconta Masturzo - vivono circa 350.000 coloni israeliani, sebbene la loro permanenza su questo territorio sia considerata illegittima dalle Nazioni Unite, dalla Corte di Giustizia Internazionale e dalla Quarta Convezione di Ginevra. In questa terra di frontiera la vita costa poco ed è qui che Gedalia Goldburt ha deciso di trasferirsi insieme alla moglie Shira e ai loro sette figli, per realizzare il sogno di una vita semplice, religiosa e senza conflitti, lontano dal consumismo e dalla frenesia della città».
Pietro Masturzo, La terra promessa dei Goldburt, Vicolo Folletto Art Factories, Reggio Emilia, 5-27 maggio

(marie claire, 28 aprile 2016)


Festival del Cinema Italiano in Israele, chiusura in grande stile

Si prepara a chiudere i battenti in grande stile, in Israele, il Festival del Cinema Italiano: la manifestazione, giunta quest'anno alla sua terza edizione, ha preso il via il 10 aprile e si concluderà sabato 30. "Cinema Italia" è un'iniziativa dell'Associazione Culturale Adamas (Roma-TEL AVIV), realizzata in collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa, con il patrocinio dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv e il sostegno della Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti (IIFCA), dell'Istituto Luce Cinecittà Filmitalia, della Cineteca Nazionale di Roma, del Festival Internazionale del Cinema di Haifa, di Rai Cinema, Alitalia e Fiat.
Un programma ricco e variegato ha caratterizzato la rassegna (che ha "toccato" le cineteche di Haifa, Tel Aviv, Gerusalemme, Herzelyia, Holon, Sderot e Rosh Pina): accanto agli ultimi lavori di maestri di fama mondiale quali Ermanno Olmi, Marco Bellocchio, Matteo Garrone e i fratelli Taviani, sono state presentate le opere prime di una nuova generazione di giovani e talentuosi registi. Tra le pellicole apprezzate in Israele: "Non essere cattivo", "Il racconto dei racconti", "Noi e la Giulia", "Amore tossico" fino a "Lo chiamavano Jeeg Robot" opera prima di Gabriele Mainetti che recentemente ha trionfato alla 60esima edizione dei David di Donatello. Non è mancato l'omaggio a Ettore Scola con la proiezione del suo provocatorio "Brutti, Sporchi e Cattivi" in versione digitale restaurata.
Chiude il programma di questa edizione del Festival del Cinema Italiano in Israele "La luna di carta", episodio della fortunata serie televisiva di Rai1 "Il Commissario Montalbano". La fiction con Luca Zingaretti viene trasmessa da anni in tutto il mondo ma che non è ancora arrivata sul mercato israeliano.

(9colonne, 28 aprile 2016)


Tel Aviv, città simbolo della modernità d'Israele

Ciclo incontri da sud a sud. Protagonisti della serata il presidente dela Fondazione del Corriere della Sera Piergaetano Marchetti e l'editorialista Pierluigi Battista.

di Michele De Feudis

 
Tel Aviv
BARI - «Andare a Tel Aviv è la migliore risposta alla paura e a chi dall'Europa vorrebbe isolare Israele, per sempre» Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ha così sintetizzato il senso di un percorso di conoscenza e sensibilizzazione verso Israele e la sua cultura. L'ultima tappa del progetto "Da Sud a Sud", nell'atrio di Palazzo Diana, è stata un riuscito mosaico di arte, video, musica, letteratura, storia e geopolitica. Maddalena Tulanti, introducendo la serata, ha spiegato che "non c'è Mediterraneo senza Tel Aviv" e questa traccia si è sublimata nel messaggio di Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere della Sera e della Fondazione Italia-Israele per la cultura e le arti: "Le geografie contemporanee, che la globalizzazione dovrebbe avvicinare, rimangono estranee all'informazione quotidiana: per questo diventa essenziale promuovere iniziative nel campo delle attività umanistiche che rinsaldino i rapporti tra Italia e Israele". Marchetti ha inoltre ricordato come modello di dialogo la mostra "Botticelli in Israele", con l'esposizione nel museo di Gerusalemme dell'Annunciazione di San Martino.
  «A Tel Aviv la sabbia è dappertutto. Assesta le fondamenta delle case. La sabbia sta lì. Città aperta quasi per scommessa»: la lettura dell'attrice Daniela Baldassarra di un brano tratto da "Tel Aviv" di Elena Loewenthal e delle poesie di Yehudi Amichai, selezionate da Emanuela Angiuli, ha illustrato il paesaggio della capitale israeliana, mentre Luigi De Santis, costruttore, unico console israeliano in Italia, ha invitato a salire "sul primo volo per Israele, alla scoperta di un paese straordinario". Prima di addentrarsi nella modernità tecnologica della città, c'è stato un interludio di musica e danza popolare israeliana inscenata dal maestro Spartaco Catacchio. "L'eccellenza israeliana? La capacità di costruire dove non c'era nulla, credendo nel futuro attraverso l'innovazione, moltiplicando il valore": con un video da Lubiana, il giovane imprenditore barese Nicholas Caporusso, vincitore del premio startup dell'ambasciata d'Israele, ha indicato le peculiarità del rapporto con la modernità di una città all'avanguardia nel mondo.
  Il dialogo tra il maestro Emanuele Arciuli e il sociologo Pietro Polieri ha toccato il confine tra identità e/o musica israeliana. Per Polieri, rifacendosi a Gilles Deleuze, "i popoli nomadi non hanno una storia ma una geografia, e su questa base si scioglie la musica di Israele. Il popolo così non coincide mai con se stesso, allineato ad una schizofrenia identitaria". La posa dei semi di rinascita nelle buche da cui sono state espiantate le mine da soldati specializzati è la folgorazione contenuta in "Seeds", il video dell'artista Shahar Marcus, introdotto da Marilena Di Tursi. Infine Pierluigi Battista ha invitato a guardare a Tel Aviv liberi di "respirare libertà" nelle librerie "piene anche di libri antisionismo", nelle università "dove è presente un forte dissenso verso il potere" e nei giornali pieni di autentico vitalismo. "Israele in Europa? Mi accontenterei - ha concluso Battista - di un'Europa non ostile a Israele, estranea ai recenti boicottaggi".

(Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2016)


Israele e Canada partner in cyber-sicurezza

Israele e il Canada sono "partner naturali" quando si tratta di cyber-sicurezza. Questo è il commento dell'Ambasciatore israeliano in Canada Rafael Barak durante l'evento VENUS Cybersecurity Corporation and Carleton's Technology Innovation Management program alla Carleton University.

Prevedo un futuro in cui gli hub di sicurezza informatica di Ottawa e Beersheva saranno strettamente collegati in una più ampia rete globale di legami.

All'evento ha partecipato anche Zehavi, CEO di CyberSpark, l'innovativo centro sorto nella città meridionale di Beersheva. Zehavi ha commentato l'importanza della sincronizzazione tra il settore cyber, i funzionari accademici e governativi, per creare un vibrante ecosistema.
Il potere di un ecosistema risiede nel fatto che può generare un livello notevolmente più elevato di funzionamento attraverso la collaborazione sinergica delle parti interessate.
Steve Muegge, docente, ha commentato:

Gli imprenditori di Ottawa e gli imprenditori residenti in altre parti del mondo hanno molto in comune, tra cui la necessità di vendere a livello globale, non solo nei mercati locali. Per questo motivo, ha senso creare un ambiente che consenta a queste imprese di collaborare.

Il direttore di TIM, Tony Bailetti ha sottolineato quanto essere parte di un ecosistema che colleghi le città intelligenti in tutto il mondo sia la chiave per la crescita di Ottawa.

Abbiamo tutti bisogno di lavorare sodo per rendere Ottawa una città globale, con una forte capacità di sicurezza informatica e che sia capace di sviluppare un ecosistema in grado di collegare la nostra regione con gli ecosistemi di sicurezza informatica più vibranti esistenti nel resto del mondo.

(SiliconWadi, 27 aprile 2016)


Neoliberismo palestinese

Israele ha favorito la nascita di monopoli in Palestina controllati da burocrati palestinesi e partner privati. In che modo? L'Articolo 21 della Legge fondamentale palestinese afferma che "il sistema economico della Palestina deve essere basato sui principi dell'economia del libero mercato". L'apertura al neoliberismo ha aiutato a creare un quadro istituzionale che ha permesso ai gruppi di interesse di manipolare le politiche a fini privati. Il neoliberismo combinato con l'autoritarismo e una classe politica clientelare e corrotta ha consolidato il "crony - capitalism".

(Il Foglio, 27 aprile 2016)


A scuola da Goebbels e Yassin

Da Harvard a Londra, i capi degli studenti che odiano gli israeliani.

 
Manifestazione per il boicottaggio accademico di Israele in un campus americano
Si chiama Husam El Qoulaq ed è a capo dell'associazione "Studenti per la giustizia in Palestina" lo studente americano che la scorsa settimana, durante una conferenza pubblica presso la Harvard Law School, si è rivolto alla politica israeliana Tzipi Livni chiedendo come mai "puzzasse" tanto ("How is it that you are so smelly?". "It is a question about the odor of Ms. Tzipi Livni, she's very smelly, and I was just wondering"). Il Dottor Goebbels non avrebbe saputo dirlo meglio. Nelle stesse ore, dall'altro capo dell'Oceano Atlantico, Malia Bouattia veniva eletta nuovo presidente del sindacato nazionale degli studenti britannici (sette milioni di iscritti, tanta roba). Malia parla come lo sceicco Yassin, il fondatore di Hamas che istigava gli attentati kamikaze contro gli ebrei: "Pensare che la Palestina sarà libera solo grazie a raccolte fondi, proteste non violente e movimento Bds è problematico. Ciò non deve essere frainteso come un'alternativa alla resistenza del popolo palestinese".
  Studenti che accusano gli ebrei israeliani di puzzare o che sostengono l'uso della lotta armata da parte palestinese. Nulla di straordinario. Avviene quasi ogni giorno nei campus americani e nelle università europee, specie in quelle inglesi. Aggressioni fisiche. Come quella a Jessica Felber, una studentessa ebrea che a Berkeley è stata attaccata da un altro studente, Husam Zakharia, mentre partecipava a una manifestazione in favore di Israele. L'università era a conoscenza che Zakharia era un capo del gruppo "Studenti per la giustizia in Palestina", e che si era reso responsabile di altre aggressioni nel campus. Oppure aggressioni verbali e ideologiche, con le campagne per il boicottaggio di Israele nelle facoltà anglosassoni, il lancio di scarpe agli oratori israeliani o il disprezzo dei simboli ebraici. Questa santinomia violenta dei gruppi studenteschi ha facilitato la nascita di un clima antisemita. I professori poi fanno la loro bella parte. Come alla Columbia University, dove il professor Joseph Massad ha chiesto in aula a uno studente che aveva fatto la leva in Israele: "Quanti palestinesi hai ucciso?". No, il sangue ormai non raggela più. Quest'odio patologico è accolto da una fragorosa risata.

(Il Foglio, 28 aprile 2016)


L'Autorità Palestinese vuole che il mondo riconosca il "diritto" di uccidere israeliani

Per questo preme per l'assegnazione del premio Nobel a un capo terrorista condannato all'ergastolo.

Marwan Barghouti fotografato nel carcere Hadarim di Ashkelon in compagnia del terrorista Samir Kuntar, personalmente responsabile della strage di una famiglia israeliana a Nahariya nel 1979, prima che quest'ultimo venisse scarcerato da Israele su ricatto Hezbollah
L'Autorità Palestinese sostiene da anni che, in base al diritto internazionale, avvalorato da una risoluzione delle Nazioni Unite, i palestinesi hanno il "diritto" di attaccare e uccidere civili israeliani in qualunque luogo e momento. In base a questa teoria, i palestinesi che uccidono cittadini israeliani, non importa quali e in quali circostanze, compiono comunque qualcosa di eroico e positivo, e di conseguenza gli assassini palestinesi di civili israeliani vengono costantemente presentati come eroi e modelli cui ispirarsi....

(israele.net, 27 aprile 2016)


Iraq, il Pentagono "copia" le tecniche israeliane per bombardare Isis

Sparati missili di avvertimento prima di colpire gli edifici per evitare vittime civili. Raid Usa distruggono deposito finanziario: in fumo 500-800 milioni di dollari.

Gli Stati Uniti stanno adottando la stessa tattica di Israele nei bombardamenti contro l'Isis: lanciano un missile sopra un edificio per avvertire i civili all'interno che sta per essere bombardato.
   Le forze israeliane hanno largamente utilizzato la cosiddetta tattica «bussa sul tetto» durante gli attacchi su Gaza negli ultimi anni, nel tentativo di evitare di colpire civili.
   La tecnica è stata spiegata dal generale dell'Air Force Usa Peter E. Gersten, che ha illustrato l'attacco contro un centro di stoccaggio finanziario Isis a Sud Mosul, in Iraq, che ha portato alla distruzione di ingenti quantità di denaro.
   Le forze americane hanno distrutto in raid aerei su proprietà dell'Isis banconote per un valore tra 500 e 800 milioni di dollari (circa 440-700 milioni di euro). Si aggrava così la situazione economica dell'Isis. I raid, una ventina in tutto, ha spiegato il generale, hanno contribuito ad un calo dei nuovi arrivi e ad un aumento del 90% delle defezioni nell'organizzazione.
   Gersten non ha specificato come gli Usa siano riusciti a sapere quanto contante sia stato distrutto, ma ha stimato che nel corso di un solo bombardamento su una casa di Mosul - in Iraq - sono stati distrutti 150 milioni di dollari. In questo caso le forze che combattono l'Isis hanno ricevuto informazioni di intelligence sulla stanza in cui si trovava il denaro e la stanza è stata bombardata.
   «Quello distrutto era il maggiore magazzino di fondi di Isis e veniva gestito dal suo "Ministro delle Finanze" - ha detto Gersten -. Lo abbiamo visto entrare e uscire dal magazzino, abbiamo seguito i passaggi di denaro, studiato le misure di sicurezza e visto che dentro il palazzo c'erano anche una donna e un bambino». Per questo, aggiunge Gersten abbiamo fatto esplodere un Hellfire in aria, sopra l'edificio, abbastanza vicino per "bussare sul tetto" ma non distruggere il palazzo, poi abbiamo proceduto con l'operazione».

(La Stampa, 27 aprile 2016)


Nirenstein ambasciatrice: una nomina positiva

La scelta di Israele


Apprezzamento
Molte persone si sono compiaciute, sia tra la gente comune che tra i «notabili»
Negare la storia
Ciò che indigna veramente sono le contestazioni alla Brigata ebraica


di Giuseppe Laras
   Presidente del Tribunale rabbinico Centro Nord Italia

Mi sono deciso a scrivere in relazione alla nomina di Fiamma Nirenstein: io sto dalla sua parte e mi rallegro che sia in pectore la nuova ambasciatrice dello Stato di Israele in Italia. Non è vero che i rabbini italiani e gli ebrei italiani siano contrari alla sua nomina: potrei elencare moltissime persone, che vivono giorno dopo giorno, assiduamente e attivamente l'ebraismo, che si sono compiaciute per questa scelta, sia tra la gente comune sia tra i «notabili». Vi saranno certo anche i contrari, pure autorevoli, ma non sono l'unica voce, né quella maggioritaria.
   Fiamma è una donna intelligente e responsabile oltreché colta, attiva ed estrosa. E già questo fa bene sia all'ltalia sia all'ebraismo italiano, vista la cultura talvolta asfittica, da salotto buono o da palazzo, che ci contraddistingue da troppo tempo e con risultati mediocri.
   Fiamma conosce bene il Medio Oriente non solo perché ci ha vissuto, ma perché è allieva di uno dei migliori e più eminenti storici di quell'area, il grande Bernard Lewis, di cui culturalmente anche io umilmente mi considero scolaro. Fiamma meglio di molti altri saprebbe spiegare puntualmente le ragioni di Israele agli italiani, non solo restando sulla difensiva: e noi di questo abbiamo bisogno.
   C'è chi ne fa una questione di «doppia fedeltà» - persino «tripla» -, all'Italia, all'ebraismo e a Israele, riaprendo incomprensioni e timori di ottocentesca memoria: ebrei o italiani? Oppure: ebrei o israeliani? Ci vorrebbero pagine per spiegare quanto peregrine e improprie siano queste domande, che chiudono gli occhi colpevolmente o per ignoranza al contributo costante che gli ebrei italiani, pur fedeli a loro stessi (e questo oggi riguarda anche Israele), hanno dato con amore e talvolta con eroismo a questo Paese da ventidue secoli. A chi ha paura di sentirsi rifare simili domande rispondo: 1) tanto tristemente ce le fanno lo stesso e da decenni in varie odiose versioni; 2) oggi i nostri connazionali, specie certi intellettuali o politici, se le pongono a noi, devono porle necessariamente a centinaia di migliaia di musulmani, indù e così via ...
   Il governo italiano non ha contrarietà nei confronti di questa nomina, come da smentite ufficiali. Lo Stato di Israele ha avanzato una nomina di valore per l'Italia con il nome di Fiamma Nirenstein.
   Quello che certi giornali dovrebbero scrivere, invece, è ciò che indigna davvero gli ebrei italiani, ossia che certa sinistra contesti la Brigata ebraica il 25 Aprile, negando la storia e con questa il contributo ebraico alla Resistenza e alla sconfitta del nazifascismo. Vi è di più: si assiste a un doloroso e pernicioso capovolgimento della storia quando la bandiera della Brigata ebraica è vilipesa e invece sventolano, senza che nessuno si interroghi, bandiere palestinesi che, almeno in relazione alla storia della Seconda guerra mondiale, sono espressione di coloro che con Hitler erano alleati non solo per motivi contingenti ma ideologici. Mi riferisco a un certo Muftì - e ad altri come lui - , la cui storia è tutt'altro che trascurabile, e all'odio antisemita nazista che per decenni, anche dopo, egli ha inoculato ovunque gli sia stato possibile nel mondo islamico. E le ricadute sono purtroppo ben tangibili oggi.
   La verità, come insegnano non solo i Maestri di Israele, va sempre detta, perseguita e ribadita.

(Corriere della Sera, 27 aprile 2016)


Grazie, rav Laras


Una Liberazione senza bandiere Usa ma con Hezbollah

di Alberto Giannoni

Bandiere tante. Di tutti i colori dell'arcobaleno. Come giusto e legittimo: bandiere dei partiti, dei sindacati, di tutte le sigle scese in piazza a festeggiare la Liberazione. La Stelle di David invece è stata oggetto di contestazioni e insulti vergognosi. Compariva nello stemma delle Brigata ebraica, che partecipò alla guerra inquadrata nell'esercito britannico. Eppure la sinistra antagonista e i gruppi estremisti anti-israeliani e antisemiti non vogliono vederla, quella stella, né sulle insegne dei partigiani ebrei né sulla bandiera dello stato israeliano. È dovuto intervenire il servizio d'ordine del Pd, insieme ai City Angels, per consentire alla Brigata ebraica di sfilare con (relativa) tranquillità fino al Duomo. Altre bandiere sostanzialmente vietate sono quelle americane o inglesi. Pochissime anche lunedì, da potersi contare sulle dita di una mano. Eppure la Liberazione fu anche e soprattutto opera degli Alleati. Il Giornale ha raccontato negli anni passati i fischi che ha dovuto subire chi ha provato a sfilare a Milano, il 25 aprile, con stelle e strisce. Ed è grazie ad alcuni partiti come Forza Italia e i Radicali italiani, se ancora si rende omaggio, nei cimiteri di guerra degli alleati, ai soldati statunitensi e anglosassoni che hanno pagato con la vita la libertà degli italiani. «Faccio un appello ai consoli statunitensi e britannici e di tutti gli altri Paesi Alleati - dice oggi Davide Romano, assessore della Comunità e portavoce della Brigata ebraica - venite con noi a marciare il prossimo 25 aprile. Liberiamo la festa della Liberazione dagli intolleranti. Facciamola diventare una festa di tutti. Solo così, con le vostre bandiere e le nostre, restituiremo giustizia al corteo e alla storia. Gli intrusi sono quelli che fischiano le bandiere dei liberatori e dei Paesi democratici. Evidentemente preferiscono, come hanno sempre fatto, le dittature». E in effetti bandiere che non hanno destato particolari reazioni sono quelle gialle che lunedì sventolavano in San Babila, vicino agli urlatori. Bandiere di Hezbollah, organizzazione politica e paramilitare libanese, considerata terroristica in alcuni paesi del mondo. E quelle bandiere gialle riproducono graficamente un fucile d'assalto stilizzato. Sono un simbolo della Liberazione?

(il Giornale, 27 aprile 2016)


La Parashà della settimana commentata da Gerusalemme

L'amico Fulvio Canetti ci invia da Gerusalemme un suo commento alla Parashà della settimana. La pubblichiamo integralmente, con la sola aggiunta di note redazionali esplicative. Ringraziamo di questa espressione di amicizia che prendiamo anche come invito a scambiarci riflessioni sulla Sacra Scrittura. Canetti ha ricevuto e letto il testo del libro "La superbia dei Gentili", in cui sono riportati e commentati molti passi della Bibbia. La speranza è che anche questi commenti siano presi in considerazione. M.C.

La Parashà di Acharè moth [dopo la morte] inizia riferendo la morte dei figli di Aron, avvenuta durante l'inaugurazione del Misckan [tabernacolo] perché avevano offerto del fuoco straniero alla presenza del Signore.
Ma non è su questo punto che voglio soffermarmi, bensì intendo mettere a fuoco il legame che esiste tra la Terra d'Israele e il popolo ebraico in rapporto alle mitzvot [precetti].
Tre gravi peccati per cui la Torah ci chiede di scegliere la morte piuttosto che commetterli anche in pericolo di vita. Essi sono: l'idolatria, l'omicidio e l'adulterio, peccati che rendono la terra d'Israele impura per cui i suoi abitanti verranno vomitati a causa della loro condotta.
"Non contaminatevi con questi peccati come si sono contaminati i popoli che I-o ho cacciato davanti a voi. Ma voi osserverete le mie leggi e i miei statuti e non farete nessuna di queste azioni abominevoli così la terra non vi rigetterà".
Cosa significa essere vomitati oppure divorati dalla Terra d'Israele come nel caso degli esploratori?
La risposta a queste domande metterà in chiaro il legame straordinario che esiste tra la Terra e il popolo ebraico, legame valido solo per Erez Israel e per nessun'altra terra.
Cosa dissero gli esploratori ai figli di Israele al loro ritorno dalla spedizione? "Il paese che abbiamo attraversato è un paese che divora i suoi abitanti" Bamidbar [Numeri] 13.32.
Ora gli esploratori, facendo lashon harà [maldicenza] sulla terra che il Signore Iddio guarda tutto l'anno, avevano peccato alterando di proposito il significato della terra che divora per impaurire gli ebrei affinchè costoro non entrassero per la sua conquista.
"Divorare" significa invece trasformare il male in bene, praticando le mitzvot, per dare alla terra e al popolo una maggiore kedushà [santità] rispetto alle altre nazioni del mondo.
E' scritto "Erez okelet yochevea" [la terra divora i suoi abitanti] cioè lasciatevi mangiare dalla terra come insegna la Torah non cercate di creare cose se non avete un recipiente dove sistemarle.
Ed è questo il senso di guidare un trattore per lavorare la Terra che può "trasformare" un semplice ebreo per farlo salire verso una maggiore kedushà.
Ma attenzione! La Torah mette anche in guardia sul fatto che la Terra può vomitare i suoi abitanti in caso di condotta negativa da parte di costoro, che rifiutano la pratica delle mitzvot.
Difatti si vomita qualcosa che non si può digerire. In questo senso la Terra di Israele non riesce a digerire tutto quello che non è kasher e pertanto lo vomita come un corpo estraneo.
Cosa chiede D-o Benedetto al suo popolo?
"I-o vi domando di rispettare le mie leggi e i miei statuti e di non commettere alcuni di questi orrori rendendo la Terra impura."
La nostra Torah vuol rivelarci ancora una volta un insegnamento straordinario. La conquista e il possesso della Terra d'Israele non avvengono solo con la forza delle armi ma sopratutto con l'osservanza delle mitzvot affinché D-o Benedetto possa risiedere in mezzo a noi e perché no anche in mezzo al nostro piccolo minian.
Fulvio Canetti

(Notizie su Israele, 27 aprile 2016)


Particolarmente degno di riflessione, soprattutto per i sionisti laici, è il fatto che la Terra, essendo proprietà di Dio, può decidere di vomitare i suoi abitanti quando il Proprietario non sia soddisfatto del comportamento degli usufruttuari. M.C.


Tel Aviv, dove vince il nuovo

Pierluigi Battista introduce l'ultimo incontro di «Da Sud a Sud».

di Michele De Feudis

 
Pierluigi Battista
«Finché nel mirino dei martiri islamisti c'era solo Israele e si facevano esplodere nelle discoteche e nei pub di Tel Aviv, ogni reazione israeliana veniva considerata turpe. Ora nel mirino ci siamo noi europei, i terroristi ce l'hanno anche con noi: un italiano o un parigino può ben comprendere come scorre la vita a Tel Aviv»: Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera e scrittore, presenta un ritratto articolato di Israele e della sua capitale, le cui dinamiche ci riguardano molto più di quanto si possa immaginare. Battista, autore del libro Lettera ad un amico antisionista, interverrà oggi a Bari per l'ultimo incontro di «Da Sud a Sud».

- Battista, per conoscere Israele da dove bisogna partire?
  
«Da Tel Aviv. La città, il cui nome significa "la collina della primavera", esprime la quintessenza dell'identità israeliana. Riunisce la memoria di antiche radici e una costruzione integralmente nuova. Il rapporto tra Tel Aviv e Gerusalemme è paragonabile a quello tra San Pietroburgo e Mosca: le prime non hanno una sedimentazione storica antecedente. Il poeta Brodskij coniò la definizione di "città costruite dal nulla". Gerusalemme, invece, vive dentro di sé la sacralità delle tradizioni. A Tel Aviv si respira un'aria diversa, non si sente una eredità che può schiacciare» .

- Israele vive sul crinale tra guerra e modernità?
  
«L'anomalia è che lì permane il connubio tra guerra e democrazia, pur in presenza di una condizione bellica permanente, circondati da stati che non riconoscono "l'entità sionista". Di solito, dove ci sono conflitti, questi due elementi non vanno di pari passo».

- Quanto la città è immersa nel nostro tempo?
  
«Tel Aviv ha un rapporto differente con la modernità, tra avanguardie tecnologiche e costumi. Offre rifugio agli omosessuali palestinesi, ha una legislazione avanzata sui diritti civili».

- Religione e politica nella società israeliana sono separabili?
  «Esiste una mediazione complicata. Basta ricordare il pianto degli ebrei con Moshe Dayan dopo la guerra dei Sei giorni, davanti al muro del pianto. C'è di sicuro anche un fondamentalismo ebraico e professa che le terre siano state benedette dalla divinità. Ma la libertà non è in discussione. Nelle librerie della città è possibile trovare i saggi dello storico palestinese Edward Said, fortemente critico dello stato d'Israele».

- Il premier Benjamin Netanyahu è classificabile secondo le categorie politiche italiane?
  «No, ogni paragone è impossibile. Al momento è un leader più rassicurante della sinistra, ha un consenso forte. Non ha la grandezza di Ariel Sharon che, nonostante l'eccidio di Sabra e Shatila, nel 2005 sradicò gli insediamenti israeliani a Gaza».

- Da Renzi a Salvini tutti si professano in Italia amici di Israele.
  «In realtà il nostro paese ha una rilevante tradizione antiisraeliana, non solo tra i comunisti, ma anche tra i democristiani, o tra la destra e la sinistra petrolifera. Più del viaggio del leader della Lega, mi sembra rilevante l'attenzione per Israele del premier».

- Un consiglio letterario?
  
«Invito a leggere l'opera omnia di Amos Oz».

- Il calcio europeo con l'Uefa ha accolto Israele nella propria associazione. Dal calcio agli stati ...
  «L'adesione di Israele all'Ue era un vecchio pallino di Marco Pannella. Mi accontenterei di un'Europa che non aderisse più a boicottaggi verso Tel Aviv».

(Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2016)


Donne ebree, musulmane e cristiane fondano un Soroptimist a Gerusalemme

di Donatella Donati

L’inaugurazione del club Soroptimist di Gerusalemme
 
La presidente mondiale del Soroptimist Yvonne Simpson con la giornalista maceratese Ilaria Cesanelli
A Gerusalemme si è inaugurato un club Soroptimist fondato da donne ebree, mussulmane e cristiane. Un esempio concreto della finalità del Soroptimist International all’intesa internazionale. Il giorno della fondazione sono giunte a Gerusalemme da tutti gli stati d’Europa, dal Belgio al Regno Unito, dalla Polonia al Liechtenstein, dall’Austria alla Romania donne che hanno voluto con la loro presenza dimostrare la solidarietà ad una meta che qualche anno fa sarebbe sembrata impossibile. A seguire la manifestazione è stata una giornalista maceratese, Ilaria Cesanelli, che vive e lavora a Gerusalemme e ha seguito passo passo tutti gli eventi della giornata. L’arrivo dalla Nuova Zelanda della presidente mondiale Yvonne Simpson, il saluto della presidente della Federazione europea Maria Francesca de Franciscis, la presentazione della serata inaugurale da parte di Kathy Kaaf past president europea, la consegna della Carta alla presidente del nuovo club Raneen Nashif
  Le madrine del nuovo club sono state Aliya Kedem e Batia Biller membre del club di Rehovot città a 20 Km da Tel-Aviv. Nell’intervista fatta a Yvonne Simpson sono stati riconfermati gli obiettivi che uniscono tutte le donne dei vari club nel mondo che vanno in una sola direzione quella dell’amicizia tra i popoli, del rispetto dei diritti umani e della pace universale attraverso una rete sempre aperta. L’araba Raneen Nashif Gaber ha raccontato come sia stato scelto il nome del club dedicandolo a Hanan Nashif un personaggio assai noto a Gerusalemme. Ogni rappresentante della federazione europea ha consegnato doni e denaro per avviare alcuni service importanti ed è stato scelto quello di dare due borse di studio una ad una studentessa araba, una ad una studentessa ebrea per venire a studiare in Europa. Il vice sindaco di Gerusalemme Tamir Nir ha salutato le rappresentanti dei club europei augurando loro la collaborazione con quelli della Palestina, insistendo sull’importanza dei comportamenti di accoglienza e generosità. La giornalista maceratese ha subito pubblicato il video realizzato anche nella versione inglese che è stato messo in rete e fatto conoscere in Palestina, in Italia, in Europa e negli altri paesi del mondo, messaggio di accoglienza e di generosità in questi momenti così drammatici di rifiuti e di chiusure. Le rappresentanti delle varie nazioni hanno presentato a turno in un clima di commozione un augurio personale. Non sono mancate le lacrime.

(Cronache Maceratesi, 27 aprile 2016)


Il gruppo cinese Hna punta a investimenti in Israele

GERUSALEMME - Una delegazione del gruppo cinese Hna, che si occupa di trasporto aereo, turismo, immobili e logistica, si è recata in Israele per valutare possibili investimenti negli alberghi e nel settore dell'hi-tech. Lo riferisce la stampa israeliana. La visita avviene in occasione del lancio della nuova rotta aerea Tel Aviv-Pechino servita con tre voli a settimana dall'operatore cinese Hainan Airlines, controllato da Hna. Secondo la stampa locale il gruppo cinese punterebbe all'acquisto dell'hotel "Yediot Ahronot" di Israele. Hna è il più grande gruppo turistico privato cinese e vede nel turismo verso Israele un grande potenziale per lo sviluppo del mercato cinese. Il prossimo mese si recherà nel paese un'altra delegazione del gruppo per valutare possibili investimenti nel settore dell'hi-tech. Nel 2015 il gruppo Hna ha avuto entrate per 29,4 miliardi di dollari ed ha circa 180 mila dipendenti.

(Agenzia Nova, 27 aprile 2016)


Eroi di Israele, lettere da un fronte permanente

di Cesare Cavalieri

 
Ci sono libri che si preferirebbe non aver letto, perché incidono sulla coscienza così incline al quieto vivere. Uno di questi libri è la raccolta delle Lettere di Yonathan Netanyahu, pubblicata da quell'editore eye-opener che è Liberilibri (Macerata 2016, pagine 216, euro 16,00).
   Yonathan Netanyahu, per chi non lo ricordasse, era il fratello maggiore di Benjamin, attuale primo ministro di Israele, e di Iddo, scienziato e commediografo. Yonathan (Yoni) ufficiale comandante di Sayeret Matka, unità di élite dell'esercito israeliano, cadde mentre era alla testa del blitz di Entebbe, 3-4 luglio 1976, per liberare oltre cento ostaggi ebrei e israeliani. Aveva trent'anni.
   La prima lettera di Yoni è del 28 marzo 1963: diciassettenne, scrive dagli Stati Uniti, dove sta studiando (suo padre, Benzion, era direttore dell'Encyclopedia Judaica). È stupefatto dalla mediocrità dei compagni americani: «Le uniche cose di cui le persone parlano qui sono le auto e le ragazze. Un po' alla volta mi sto convincendo di vivere in mezzo a scimmie e non tra esseri umani». Brillantissimo negli studi, decide di rientrare a Gerusalemme per continuare l'università ebraica e iniziare la carriera militare nei paracadutisti, come faranno anche i suoi due fratelli minori. Combatterà nella Guerra dei sei giorni e in quella dello Yom Kippur, ferito e decorato, fino all'eroica conclusione di Entebbe.
   Leggere quelle lettere, indirizzate ai genitori, ai fratelli, alla ragazza che diventerà sua moglie e dalla quale divorzierà dopo quattro anni, pur senza rompere i rapporti, fa capire almeno un po' che cosa rappresenta davvero Israele per gli ebrei e la forza dei loro legami famigliari. Israele è circondato da Paesi che vogliono annientarlo. È in stato di guerra permanente e deve vincere per non essere cancellato dalla geografia. Yoni confida al padre il 28 gennaio 1973: «Voglio davvero la pace; non voglio vivere per la spada: una vita per uccidere e per tentare di non essere ucciso». In precedenza aveva scritto: «Non c'è nessun esercito come il nostro! Nessuno! È un esercito che vuole soltanto la pace e non cerca la guerra, eppure quando bisogna combattere, non c'è forza che possa fermarlo».
   E la solidarietà intemazionale? 18 settembre 1969: «Non siamo altro che una goccia in un oceano di guerre e calamità. In questo momento un intero popolo viene distrutto in Biafra, e nessuno dice una parola di protesta. E se qualcuno lo fa, nessuno alza un dito». Eppure c'è quel documento dell'Onu denominato "Responsabilità di proteggere", richiamato anche dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin nel discorso all'Assemblea dell'Onu il 29 settembre 2014: occorre promuovere una cultura della pace e della trattativa diplomatica, tuttavia «è sia lecito sia urgente arrestare l'aggressione attraverso l'azione multilaterale e un uso proporzionato della forza».
   Il libro è tradotto e presentato da Michele Silenzi, trentenne economista e scrittore. Giustamente Silenzi evidenzia che la ragion d'essere percepita da ebrei e israeliani è il sentimento identitaria valoriale, irrintracciabile nell'Europa di oggi, rassegnata al proprio declino alimentato da una buonista autocommiserazione. E cita Benedetto XVI che nella Caritas in veritate ha scritto: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo».
   Yoni è un eroe nazionale e un testimone esemplare. Nel discorso in memoria del tenente colonnello Yonathan Netanyahu, il 6 luglio 1976, il ministro della Difesa, Shimon Peres, evocò il compianto di Davide per la morte di Gionata: «La distanza nello spazio tra Entebbe e Gerusalemme, all'improvviso, ha accorciato la distanza nel tempo tra Yonathan figlio di Saul e Yonathan figlio di Benzion. Lo stesso eroismo nell'uomo. Lo stesso lamento nel cuore del popolo».

(Avvenire, 27 aprile 2016)


«Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo». Giustissimo. E la verità è che tutta la terra oggi contestata a Israele e definita "occupata" appartiene di diritto a Israele. L'attuale Papa farebbe bene a ricordarlo. M.C.


Mantova - «Ebrei protagonisti della lotta». Colorni ricorda la Brigata ebraica

Altra significativa tappa della festa della Liberazione. Il presidente della comunità ebraica ha letto i nomi dei 99 ebrei arrestati il 5 aprile 1944.

MANTOVA - Alla sinagoga di via Govi l'altra significativa tappa della festa della Liberazione. Il presidente della comunità ebraica, Emanuele Colorni, ha letto i nomi dei 99 ebrei arrestati il 5 aprile 1944 in città, deportati ad Auschwitz e mai più tornati. Ha ricordato il contributo alla Resistenza dei duemila ebrei, «mille inquadrati come partigiani e mille come patrioti». E tra chi combattè il nazismo sul campo vi fu la Brigata ebraica, «un gruppo di soldati volontari provenienti dalla Palestina che decise di riscattare i fratelli uccisi nei lager - dice Colorni -. Fu protagonista di molte azioni decisive come il primo sfondamento della linea Gotica». E poi i cinque ebrei medaglia d'oro e «il più giovane partigiano d'Italia, il 14enne mantovano Franco Cesana, ebreo, trucidato dai tedeschi». Colorni si è soffermato sull'assenza della Brigata ebraica alla sfilata di Roma «per non creare tafferugli: gruppi filopalestinesi, che nulla hanno a che fare con la Resistenza, si sono appropriati della festa». La cerimonia si è conclusa davanti al cimitero ebraico che, per la ricorrenza della Pasqua ebraica, è rimasto chiuso.

(Gazzetta di Mantova, 26 aprile 2016)


L' israeliana Elbit presenta il nuovo drone Skylark 3

Il drone Skylark 3
GERUSALEMME - Un mese fa Elbit ha presentato un drone tattico aggiornato, lo Skylark 3, della stessa famiglia degli Uav già in dotazione dell'esercito israeliano (Idf). Per il momento né Elbit né il ministero della Difesa hanno commentato la possibilità che questo nuovo mezzo possa essere utilizzato dalle forze armate israeliane. La Skylark 3 è stato progettato per ricevere comandi da terra tramite informazioni visive e contribuire alla sorveglianza e alla ricognizione della aree in prossimità delle unità operative. Attualmente le forze di difesa israeliane già utilizzano gli Skylark 1 e 2 per le quotidiane operazioni di sicurezza lungo i confini del paese e per le operazioni anti-terrorismo in Cisgiordania. Lo Skylark 3 ha un raggio di volo più ampio di 100 chilometri ed una autonomia di volo fino a sei ore.

(Agenzia Nova, 26 aprile 2016)


Vi spiego le cattive idee della sinistra su Israele (a proposito di 25 aprile e dintorni)
   Articolo OTTIMO!


di Umberto Minopoli

Vedo le immagini consuete delle manifestazioni del 25 aprile a Milano. Molti, a sinistra, vorrebbero che fosse la giornata del trionfo della retorica. In cui è possibile, almeno per un giorno, ritornare al bel racconto della Resistenza, dell'unità antifascista, di tutti i "buoni" che marciano uniti contro i "cattivi". E contro il Male. Poi compaiono, nei cortei, i consueti delinquenti che aggrediscono gli ebrei che sfilano sotto le insegne della Brigata Ebraica. E allora la retorica sfarina. E torniamo ad apprendere che il Male è tra noi.
   Perché il Male, amici cari antifascisti, è anzitutto, e prima di ogni cosa, l'odio contro gli ebrei. Perché è il simbolo di tutte le cattiverie del XX secolo. E molte delle nostre vecchie idee e convinzioni, che definiamo di sinistra, fanno parte del Male. E la peggiore di queste cattive idee di sinistra è l'opinione che, per oltre mezzo secolo, noi di sinistra abbiamo diffuso su Israele. Quella gentaglia, ricordatevelo, aggredisce la Brigata Ebraica non per la storia di ieri. Loro sono così asini da ignorare la verità sugli ebrei nella Resistenza italiana. Loro aggrediscono gli ebrei per la storia di oggi. Per Israele.
   Ad ogni 25 aprile, sistematicamente, voi persone di sinistra come me, stigmatizzate, vi strappate i capelli, condannate i delinquenti che aggrediscono la Brigata Ebraica. È ipocrita. Ed è troppo comodo, per dare credibilità alla condanna, bollare i delinquenti come fascisti e nazisti. Come infiltrati. Eh no signori! Questa ipocrisia deve finire. Gli ebrei non si difendono solo il 25 aprile. Troppo comodo. Avreste il dovere della verità. Che è questa: per quanto uguali ai fascisti e ai nazisti, quei delinquenti non lo sono. Sono quel che dicono di essere: persone cresciute, educate e pasciute in idee di sinistra che, in Italia, sono vulgata.
   A partire dalla visione ignobile di Israele che, molti a sinistra, hanno avuto e molti di voi ancora hanno. Non serve che lo mascheriate il 25 aprile. Molti di voi aggrediscono, simbolicamente, la Brigata Ebraica il resto dei giorni dell'anno. Quando contribuite a diffondere menzogne su Israele, circondato da 50 milioni di nemici, e sempre oggetto di guerra e aggressione araba, come popolo occupante! Quando chiudete gli occhi (e sotto sotto simpatizzate) sul terrorismo palestinese. Quando insultate quel piccolo popolo, eroico e geniale, trasformandolo, senza vergogna, esso che deve difendersi ogni giorno, da vittima a carnefice.
   Non potevate pensare che l'odio di sinistra, coltivato per mezzo secolo verso Israele, non producesse questa piccola immondizia che aspetta il 25 aprile per aggredire, nei cortei, la Brigata Ebraica. Grazie per aver difeso i partigiani ebrei. Grazie per le parole di condanna. Ma non chiamate fascisti quei delinquenti.
   Su Israele, gli ebrei, il sionismo la pensano come molti di voi. Stanno nel "nostro" album di famiglia. Passatevi, ogni tanto, una mano sulla coscienza.

(formiche.net, 26 aprile 2016)


Cinque innovazioni in aiuto alle persone con disabilità

 
In Israele, numerosi programmi attivati senza scopo di lucro stanno aiutando adulti e bambini con disabilità in tutto il mondo.
Ci sono circa un miliardo di persone in tutto il mondo con un qualche tipo di disabilità e l'organizzazione no-profit Beit Issie Shapiro sta contribuendo a rendere la loro vita un po' più facile.
Con sede in Israele, con partnership in tutto il mondo in paesi come l'Inghilterra, il Canada, gli Stati Uniti, Sud Africa, Cina e Giappone, lavora con aziende di tecnologia nello sviluppo di soluzioni per le particolari esigenze e le sfide dei disabili. Ecco cinque dei loro progetti che consentono alle persone con bisogni speciali di vivere una vita migliore.
  1. Google/Sesame Enable
    Realizzato insieme a Google, Sesame Enable, è il primo smartphone progettato per le persone che sono paralizzate perché è un dispositivo che si controlla con i movimenti del capo e con la voce. Sarà a disposizione gratuitamente per chiunque ne abbia bisogno.
  2. Migliorare l'accessibilità delle App
    Google ha invitato la Beit Issie Shapiro al suo campus di Tel Aviv per condurre uno workshop pilota nel 2014. Il programma ha avuto un impatto immediato sugli sviluppatori di applicazioni che vi hanno partecipato. Hanno migliorato in modo significativo l'accessibilità delle loro applicazioni per le persone con disabilità. Un altro workshop si è tenuto a marzo e Google sta progettando di replicare il programma nelle sedi di Londra e San Francisco.
  3. Adaptive - Tastiera iPad
    Le persone con disturbi motori, di vista o di apprendimento hanno spesso problemi con le tastiere che sono parte integrante dei dispositivi. Beit Issie Shapiro ha collaborato con la società di software SAP per sviluppare una tastiera per l'iPad che sia più facile da vedere e da leggere.
  4. Idroterapia
    I benefici dell'acqua per le persone disabilità come paralisi cerebrale, danni causati da ictus, sono stati scientificamente dimostrati e ciò ha portato la Beit Issie Shapiro ad aprire il primo centro di idroterapia in Israele nel 1992. Nel 2013, la Williams Island Therapeutic Swimming and Recreation Centre è diventata la prima struttura ad utilizzare gli iPad per comunicare in acqua con i bambini cognitivamente disabili.
  5. Servizi odontoiatrici
    Alcune persone con disabilità come paralisi cerebrale non hanno la forza o la capacità di prendersi cura dei propri denti e, purtroppo, la negligenza può portare a problemi più gravi. Nel 1989, la Beit Issie Shapiro ha aperto la Naomi and Shimon Ditkovsky Dental Clinic, prima struttura odontoiatrica creata appositamente per i pazienti con disabilità, come ad esempio per coloro affetti da autismo, per i quali le procedure dentali possono essere particolarmente stressanti. Ha introdotto una forma di terapia chiamata Snoezelen che include musica rilassante, luci soffuse, immagini proiettate sul soffitto e l'utilizzo di un giubbotto la cui leggera pressione "abbraccia" il paziente, calmandolo.
(SiliconWadi, 26 aprile 2016)


Le consegne di S-300 russi all'Iran avvernno in anticipo rispetto a quanto pianificato

Le forniture dei sistemi missilistici terra-aria S-300 russi all'Iran saranno attuate in anticipo rispetto al previsto. Lo ha reso noto il direttore del Servizio federale per la cooperazione tecnico-militare, Alexander Fomin.
"La Russia fornirà i S-300 all'Iran in conformità con il calendario stabilito, come avete chiesto, una parte in anticipo. Perciò speriamo che tutto vada bene", ha detto Fomim, citato da RIA Novosti.
Il 19 aprile il direttore di Rostekh, Sergej Chemezov, ha dichiarato che la Russia concluderà entro la fine dell'anno le consegne dei sistemi missilistici all'Iran.
Le autorità iraniane messo in mostra i sistemi missilistici S-300 ricevuti dalla Russia nel corso della parata militare che si è svolta a Teheran nella Giornata nazionale delle forze armate.
Della ricezione del primo lotto di S-300 secondo il contratto con la Russia ne ha parlato lunedì il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Hossein Jaber Ansari. Secondo quanto dichiarato, il trasferimento delle partite seguenti avverrà prossimamente.

(Sputnik Italia, 26 aprile 2016)


Alta tecnologia e agricoltura. Così Israele torna in Africa

Nuova ondata di investimenti nel Continente. Prima visita del premier nei Paesi subsahariani. Dietro al rinnovato interesse commerciale, anche obiettivi geopolitici: la capacità militare israeliana contro la minaccia jihadista.

di Matteo Fraschini Koffi

Uhuru Kenyatta, Presidente della Repubblica del Kenya
NAIROBI (Kenya) - «Israele sta tomando in Africa. L'Africa sta tomando in Israele. E il tutto sta succedendo in grande stile». Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, l'ha recentemente detto alla Knesset. L'aula era gremita di parlamentari israeliani e ambasciatori africani, insieme per la prima volta nella storia Un impegno necessario per Israele. A causa dei difficili rapporti con gran parte della comunità internazionale legati al conflitto israelo-palestinese, Bibi, come è comunemente noto, è in disperata ricerca di nuovi alleati: vuole ravvivare la propria economia e guadagnare supporto alle Nazioni unite.
   Niente sembra infatti arrestare l'onda di investimenti tra Israele e Africa nel futuro prossimo. «Il continente africano, avendo una delle più alte crescite al mondo, è in grado di fornire molte opportunità commerciali», ha dichiarato lo scorso marzo Yoram Elron, responsabile per l'Africa presso il ministero degli esteri israeliano. «Sfrutteremo la nostra esperienza in settori come agricoltura, telecomunicazioni, energie rinnovabili e infrastrutture. Inoltre - ha continuato Elron -, le nostre capacità militari saranno di grande aiuto contro la minaccia jihadista in vari Paesi africani».
   Netanyahu è infatti pronto a partire. La prima visita di un primo ministro israeliano in Africa subsahariana. «Nonostante il programma del suo tour non sia ancora pubblico - affermano gli analisti -, si sospetta che a luglio il capo di governo viaggerà in Ruanda, Kenya, Etiopia e Uganda». Un appuntamento molto importante per diversi aspetti. Luglio segnerà infatti i 90 anni dalla morte del fratello maggiore, Yonatan Netanyahu. Quest'ultimo fu l'unica vittima israeliana dello storico raid nell'aeroporto ugandese di Entebbe, quando nel 1976 le forze speciali liberarono alcuni loro connazionali presi in ostaggio dai terroristi palestinesi. Netanyahu sarà comunque in Africa soprattutto per fare business. «Chiedo agli uomini e donne d'affari israeliani di venire a sfruttare il clima di investimenti commerciali di cui gode il mio Paese», ha detto il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, invitato lo scorso febbraio a Gerusalemme. La stessa atmosfera si respira nei Paesi limitrofi di Uganda e Sud Sudan. Diversi studenti di entrambi gli Stati hanno infatti imparato in Israele tecniche di agricoltura e piscicoltura praticate nei kibbutz. «Alcuni governi africani non potranno che beneficiare dalla tecnologia israeliana agricola e dell'acquacoltura», ha affermato alla stampa Na'eemleenah, a capo dell'Istituto di ricerca Afro-Mediorientale di base in Sudafrica. È proprio in questa regione che Lev Avnerovich Leviev, uno dei più grandi uomini d'affari israeliani, ha investito per anni nei settori minerario, edile, e dell'energia. Le tracce di Leviev sono molto presenti in Angola, dove l'uomo d'affari ha dominato il mercato dei diamanti. Ma anche in Namibia attraverso un progetto legato a una miniera marina di fosfati. In Togo, il mercato dei fosfati è invece influenzato da tempo da un altro israeliano, Raphy Edery, il quale rappresenta il volere di Israele presso la Société nouvelle des phosphates du Togo (Snpt). «Israele e Ghana hanno collaborato su molti fronti tra cui la gestione dei rifiuti - hanno invece sottolineato gli esperti durante la visita in Israele del ministro degli affari esteri del Ghana, Hanna Tetteh, avvenuta lo scorso marzo -. In futuro non mancherà inoltre una promozione bilaterale nei campi dell'istruzione, dell'agricoltura e degli investimenti».

(Avvenire, 26 aprile 2016)


«Ignoranti e marginali. E' un errore collocare Israele a destra nella rilettura della storia»

La Brigata ebraica è il gesto glorioso di ebrei che tornarono in Europa per liberarla.

 
Emanuele Fiano, 53 anni, deputato Pd, è figlio di Nedo, ebreo deportato ad Auschwitz
e unico superstite di tutta la sua famiglia

MILANO - «I nuovi Sanbabilini sono isolati dal contesto politico-sociale del corteo. Sono ignoranti della storia». Emanuele Fiano, deputato Pd e responsabile nazionale per le Riforme del partito, esponente della Comunità ebraica milanese, figlio di Nedo Fiano deportato ad Auschwitz, commenta a caldo l'ennesimo attacco in piazza San Babila dei comitati pro Palestina con insulti e sputi alla Brigata ebraica nel corteo del 25 Aprile.

- Ignoranza o confusione?
  «Non sanno di cosa parlano e dimostrano ogni volta la loro assoluta marginalità. La Brigata ebraica è il gesto glorioso di ebrei che già abitavano sotto il mandato britannico in Palestina e che pur scampati alla Shoah sono tornati in Europa per liberarla, hanno partecipato a battaglie importanti, in Romagna per esempio, e finita la guerra sono rimasti in Italia ad aiutare famiglie che erano state distrutte».

- L'ebraismo in Italia ha partecipato alla Resistenza.
  
«Era ebreo Franco Cesana, il partigiano più giovane d'Italia, è stato ucciso a 13 anni. E Primo Levi quando fu arrestato in Valle d'Aosta faceva parte di una formazione partigiana. Gli ebrei nel momento dell'occupazione sono stati tra coloro che si sono ribella ti quando potevano e non sono stati deportati».

- A far salire la tensione è stata la presenza in corteo dei due candidati sindaci Sala e Parisi?
  «Si temeva che la competizione elettorale potesse essere un elemento in più di frizione, cosa che non è stata. E questo perché tra le due persone sul diritto di cittadinanza della Brigata in un corteo che celebra la liberazione dell'Europa, non c'è nessuna differenza».

- A Milano da due anni la Brigata ebraica sfila scortata dai giovani del Pd. Perché?
  «E un modo concreto per cristallizzare un principio importante. C'è qualcuno che vorrebbe sempre collocare Israele e gli ebrei dalla parte destra della storia. Noi vogliamo dimostrare che quell'idea è una mistificazione, un errore assoluto nella rilettura della storia»

- Essi criticano le politiche dei governi di Israele.
  
«Israele nasce costruito da persone che combattevano il nazismo e il fascismo. Punto. Non c'è altro da dire. Si possono criticare le politiche dei governi ma sulla patente di appartenenza di Israele al campo dell'antifascismo non c'è discussione».

- La preoccupa il fatto che a Milano si celebri il 25 Aprile con il saluto romano dove sono sepolti repubblichini e SS?
  
«Se qualcuno non ha ancora compreso da che parte stava il giusto e da che parte il torto nella storia d'Italia vuole dire che c'è molta strada da fare».

- Cosa serve?
  
«Dovremmo occuparci tutti del fatto che in un cimitero al grido "Sieg Heil" si celebri la Repubblica di Salò e che inAustria l'estrema destra prenda il 36% dei voti».

- Nell'immediato?
  
«È iniziata la discussione della mia proposta di legge per inserire il reato di apologia del fascismo nel codice penale in Commissione giustizia alla Camera».

(Corriere della Sera, 26 aprile 2016)


"Noi in via Tasso con Napolitano per dire basta alle aggressioni"


Fuori posto
No a bandiere che non c'entrano con la storia della Resistenza italiana.
Nuova celebrazione
Abbiamo riformato il rito del 25 aprile romano. L'anno prossimo un corteo.


di Gabriele Isman

 
 
 
ROMA - «E' andata bene, ma questa scelta ci è costata tanto: la comunità ebraica non era mai mancata dove il 25 aprile venivano ricordati i partigiani e la Resistenza, ma quest'anno non c'erano le condizioni per partecipare al corteo. A fine giornata Ruth Dureghello, numero uno degli ebrei romani, è stanca ma felice. E' stata lei ad accogliere Giorgio Napolitano e il Commissario straordinario del Campidoglio Francesco Paolo Tronca al Museo della Liberazione di via Tasso, in quegli spazi dove duemila antifascisti furono torturati dalle SS di Kappler e dove ieri si è tenuta una vera e propria contromanifestazione. «È il luogo dove meglio si può rendere omaggio alla resistenza romana celebrando il 25 aprile, dichiarerà poi Napolitano.

- In via Tasso avete portato anche il vessillo della Brigata ebraica, che non ha voluto partecipare al corteo dell'Anpi.
  "E' il Museo nazionale della liberazione ed è giusto onorare e ricordare chi ha reso possibile la Liberazione: tra loro anche partigiani ebrei come Elio Toaff, Leone Ginzburg e Alberto Terracina che è ancora vivo. Per questo abbiamo portato la bandiera della Brigata ebraica, e non dimentichiamo chi dalla Giudea Samaria venne in Italia a combattere il nazifascismo. In via Tasso noi abbiamo riformato la celebrazione romana del 25 aprile. L'anno prossimo potremo pensare a un corteo che arrivi qui.

- Quando è nata la scelta della contromanifestazione?
  
Venerdì, prima della festa di Pesach, che ricorda anch'essa una Liberazione, degli ebrei dall'Egitto. Noi abbiamo soltanto deciso di festeggiare altrove il 25 aprile, dove la Memoria potesse riappropriarsi della Storia Sapevamo che stavamo facendo la scelta giusta, anche non eravamo certi di come sarebbe andata.

- Napolitano è venuto a sorpresa e ha detto: "ho pensato che la cosa più semplice fosse questa. E' andata meglio di quanto vi aspettavate?
  «La segreteria del presidente ha telefonato chiedendo di attenderlo e da anni l'amministrazione di Roma Capitale non deponeva corone al Museo di via Tasso.

- A Milano è andata diversamente: la Brigata ebraica è stata contestata al corteo cittadino.
  «Cronaca di una discriminazione annunciata. Non è la prima volta che accade: l'anno scorso non abbiamo partecipato perché era shabat, ma nel 2014 qui a Roma vi furono le contestazioni. Tutto questo non è civile, non è il 25 aprile. Allora si abbia l'onestà intellettuale di dire che non si celebra la Resistenza italiana. Oppure non si portino vessilli che nulla hanno a che fare con la Liberazione del nostro Paese. Si deve tornare ai principi che ci connotano come democrazia.

- L'Anpi dice di voler lavorare da subito perché il corteo dell'anno prossimo sia unitario.
  «Mi fa piacere, ma siano mantenuti saldi i valori a cui si ispira il 25 aprile: non sia un'occasione di parte, con bandiere e aggressioni per noi inaccettabili.

- Guido Bertolaso, candidato al Campidoglio per Forza Italia, era in via Tasso con voi, e Roberto Giachetti del Pd ha detto che da sindaco si impegnerà per perché il 25 aprile sia una festa senza divisioni.
  «Bene questa trasversalità. I valori vanno oltre le bandiere. E' una questione di riconoscere i punti fermi, di non mistificare la storia, di rendere onore a chi ha permesso che questa Italia fosse libera Questo è il 25 aprile».

(la Repubblica, 26 aprile 2016)


Due facce della stessa medaglia

di Emanuele Pecheux

Milano - Piazza San Babila, 25 aprile 2015
Sembra essere divenuta una consuetudine, per una minoranza di supposti antifascisti, profittare della sfilata che il 25 aprile si svolge a Milano, una delle città simbolo della guerra di liberazione contro il nazifascismo, per inscenare e animare con insulti e minacce una jacquerie che si manifesta contro la Brigata Ebraica, i cui componenti tra il 1943/45 parteciparono attivamente alla guerra partigiana.
E' avvenuto anche ieri.
Che non si tratti di episodi isolati promossi da qualche solitario facinoroso sarebbe anche l'ora che tutti lo comprendessero, soprattutto in taluni settori sinistra che, per anni hanno tollerato se non favorito (e seguitano a farlo) il permanere di un retaggio ideologico del 900 che lo storico britannico Robert Conquest definì "secolo delle idee assassine".
Idee assassine, è opportuno ricordarlo, nazionalismo sciovinista, nazismo e comunismo che si nutrirono soprattutto di antisemitismo che affonda le sue radici nel Vecchio continente e fu codificato e costruito grazie al combinato disposto di falsi storici (I Protocolli dei savi di Sion), libelli e pamphlet di pseudo intellettuali reazionari con il concorso secolare della Chiesa cattolica che, solo per fare per esempio, abolì la preghiera del venerdì santo per i "perfidi ebrei" poco più di 50 anni fa, sotto il pontificato di Giovanni XXIII.
Non possono esservi dubbi: l' antisemitismo fu uno degli supporti ideologici su cui poggiarono tanto nazismo quanto lo stalinismo che diedero seguito a tale aberrazione con l'Olocausto e con continui pogrom in Unione Sovietica.
Oggi, codesto osceno pseudopensiero si nasconde dietro la definizione di antisionismo, ma altro non è che l'altra faccia della stessa medaglia. Che purtroppo è ancora, largamente utilizzata.
Le immagini del 25 aprile di Milano dimostrano che non è necessario inalberare bandiere che riportino ai simboli della barbarie per affermare il latente razzismo antisemita.
E' sufficiente indossare una kefiah, sventolare una bandiera palestinese o di qualche paese arabo e urlare "fuori i sionisti dal corteo".

(Avanti!, 26 aprile 2016)


Anche il Senato si schiera contro Obama sugli aiuti militari a Israele

Una lettera firmata da gran parte dei senatori chiede al presidente americano un impegno economico più deciso per sostenere la Difesa di Gerusalemme. I numeri di un accordo che rischia di saltare e la solita querelle diplomatica tra Barack e Bibi.

di Luca Gambardella

Il Senato americano prende una posizione netta nella querelle diplomatica tra il presidente americano Barack Obama e il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu a proposito dell'accordo sugli aiuti per la Difesa. Un'esclusiva di Reuters ha reso pubblica parte di una lettera indirizzata dal Senato alla Casa Bianca in cui si chiede al presidente di sottoscrivere in tempi rapidi il memorandum sugli aiuti americani alla Difesa israeliana. La richiesta bipartisan è sottoscritta da ben 83 senatori su 100, quattro quinti della Camera alta americana; primi firmatari sono il senatore repubblicano Lindsey Graham e il democratico Chris Coons. Tra di loro risulta anche il nome di Ted Cruz, in corsa alle primarie repubblicane, mentre tra i 32 democratici che aderiscono all'iniziativa manca Bernie Sanders. "Alla luce dell'aumento deciso delle sfide per la Difesa israeliana, siamo pronti a sostenere un accordo di lungo tempo sostanzialmente migliore per fornire a Israele le risorse di cui ha bisogno per difendere se stesso e preservare il suo livello militare", recita la lettera dei senatori.
  Le distanze economiche tra Washington e Gerusalemme sull'ammontare degli aiuti militari avevano indotto alcuni funzionari israeliani a ipotizzare che un nuovo accordo non sarebbe stato concluso entro la fine del mandato di Obama. L'offerta americana parte dai 30 miliardi di dollari già previsti dall'accordo decennale siglato nel 2007 e in scadenza l'anno prossimo. Il nuovo pacchetto prevede aiuti pari a circa 3,7 miliardi di dollari l'anno, per un totale di quasi 40 miliardi in 10 anni. Ma a irritare Israele è l'aggiunta di una serie di caveat che di fatto modifica al ribasso l'attuale memorandum. Tra i nodi principali c'è la voce delle spese straordinarie: secondo la nuova proposta americana, il Congresso potrà decidere per un surplus rispetto al budget garantito dal Dipartimento di stato e dal Pentagono solo in casi limitati di estrema emergenza. Dietro la decisione della Casa Bianca di contenere le spese ci sono due tipi di valutazioni, una economica e un'altra più politica. In base alla prima, l'Amministrazione americana ha fatto notare che negli ultimi anni gli aiuti extra garantiti a Israele e votati dal Congresso hanno ecceduto del 100 per cento il budget previsto dalla presidenza. Solo nel 2009, le spese hanno sforato di 1,9 miliardi di dollari quanto preventivato dall'Amministrazione. A dicembre del 2015, il Congresso aveva votato a larga maggioranza per l'approvazione di un finanziamento pari a 487 milioni di dollari per il potenziamento del sistema missilistico israeliano, oltre quattro volte quanto previsto dal Pentagono. La lettera sottoscritta ora al Senato verte anche sulla questione del potenziamento del sistema Iron Dome: mentre Obama aveva predisposto 150 milioni di dollari nel nuovo pacchetto di aiuti, i senatori chiedono uno sforzo ben maggiore, di svariate "centinaia di milioni di dollari", come riporta Reuters.
  Le richieste israeliane, di contro, sono ben maggiori: Gerusalemme chiede una somma compresa tra i 4 e i 4,5 miliardi di dollari l'anno, senza contare i contributi per lo sviluppo dei sistemi missilistici. Quando il vicepresidente americano Joe Biden si è recato in Israele lo scorso marzo, nel tentativo di riallacciare i contatti tra Obama e Netanyahu (qualche giorno prima il premier israeliano aveva alimentato le tensioni diplomatiche cancellando la sua visita al capo della Casa Bianca a Washington), buona parte delle discussioni hanno affrontato il problema del memorandum sulla Difesa. In quell'occasione, Biden aveva insistito che ciò che conta non è l'ammontare totale dell'accordo, ma come quel denaro è utilizzato. La questione, secondo alcuni funzionari americani sentiti lo scorso febbraio dal Washington Post, verte su "quanto Israele è disposta a spendere nel mercato dei contractor americani per la Difesa e quanto su quello israeliano". Al momento, gli Stati Uniti restano per Gerusalemme il primo paese fornitore di sistemi d'arma. Una delle transazioni più recenti ha riguardato quella per i caccia F-35 e F-16 (ogni F-35 costa all'incirca 110 milioni di dollari).
  Ma qui si arriva alla questione politica. La controparte israeliana ha risposto che i tempi sono cambiati e le minacce, dal 2007 a oggi, sono aumentate. Hezbollah in Siria e in Libano, lo Stato islamico nella penisola del Sinai, Hamas a Gaza mettono in pericolo l'esistenza dello stato ebraico. Ma soprattutto c'è l'Iran e la decisione da parte della comunità internazionale di porre fine alle sanzioni. Una decisione che, accusa Netanyahu, è stata alimentata proprio da Obama.

(Il Foglio, 25 aprile 2016)


Oltremare - La bussola

di Daniela Fubini, Tel Aviv

In occasione della mia laurea, ormai molti anni fa, un amico di famiglia mi regalò una bussola portatile, con l'augurio che io sapessi sempre dove mi trovo e verso dove dirigermi. È un oggetto piccolo e facilmente trasportabile, e anche per questo la bussola è poi venuta con me nei vari trasferimenti, e segna il nord adesso nella mia casetta di Tel Aviv. Nella stessa occasione, avevo ricevuto dalle amiche un quadro con il globo terrestre stilizzato, coloratissimo e allegro, sospeso in uno spazio grigio argento. Il biglietto diceva qualcosa come vai, il mondo è tuo. Il quadro però è rimasto fermo a Torino.
In questi anni turbolenti dall'11 settembre 2001 in poi, mi sono chiesta spesso se il mondo non stia perdendo completamente la bussola, e se non fosse il caso di riunire quei due regali, come atto minimo e un po' superstizioso - se è ignoto quale sia l'azione che può riportare l'ordine nell'universo, chissà, magari basterebbe davvero poco.
Al momento però, siamo nel mezzo dei sette giorni in cui come ebrei celebriamo la nostra liberazione e il simultaneo divenire popolo del popolo ebraico. E Mosè non aveva una bussola, evidentemente, altrimenti magari ci saremmo evitati 40 da girovaghi nel deserto, ma al momento dell'uscita dall'Egitto ancora non lo sapevamo. Poi c'è chi dice che senza quei 40 anni desertici non saremmo davvero un popolo, poi uno dice il vittimismo ebraico.
E poi oggi è anche il 25 aprile, Festa della Liberazione, giorno per il quale la bussola non serve neanche, che si sa benissimo dove si deve andare: in piazza. Un giorno di doppia liberazione, ebraica ed italiana, va festeggiato in piazza. E chi avesse dubbi, si ricordi quali erano nel '45 quelli che gli ebrei li mandavano a morire nei campi, e quali erano quelli che li nascondevano e li proteggevano dai nazifascisti. Ecco, appunto. Fuori a festeggiare, è Festa d'Aprile.


(moked, 25 aprile 2016)


A Milano il festival internazionale "Jewish in the city"

Quest'anno dedicato ai 150 anni della Comunità ebraica milanese

di Santa Nastro

Un maggio all'insegna della cultura ebraica e del dialogo tra religioni. Dal 29 al 31 maggio si tiene Jewish in the city. Terza edizione per questo festival internazionale, nel 2016 dedicato ai 150 anni della Comunità ebraica milanese. Il progetto richiama sessanta ospiti italiani ed internazionali invitati a confrontarsi nei luoghi simbolo della città di Milano, sede dell'iniziativa.
  La Sinagoga Centrale di Via Guastalla, la Sinagoga di via Eupili, la Sala Alessi di Palazzo Marino, la Biblioteca Ambrosiana, il Memoriale Binario 21, la Rotonda della Besana, l'Umanitaria, il Mudec, il Teatro Franco Parenti, il Cinema Anteo, la Fondazione Corriere della Sera: tutti questi spazi saranno aperti al pubblico per un dibattito aperto e interculturale con la città.

 La scena culturale israeliana
  Da sempre Artribune è interessato alla cultura ebraica, alla quale ha dedicato anche il nuovo progetto editoriale Artribune Israel, la prima rivista bilingue che racconta Israele e la sua vivace scena culturale ed artistica, ma anche coloro che hanno deciso di vivere la propria ricerca al di fuori dei confini del Paese.
  La manifestazione voluta da Rav Roberto della Rocca con Cristiana Colli e Gadi Schonheit che riconnette il tessuto cittadino con una identità culturale forte nelle nostre comunità, come quella ebraica, parte integrante della storia delle città italiane, soprattutto Roma e Milano, assume particolare significato con gli interventi degli autori chiamati a partecipare. Sono Antonio Calabrò, Mario Botta, Luca De Biase, Ferruccio De Bortoli, Danilo Eccher, Aldo Bonomi, Luca Zevi, tra gli altri. Molti gli appuntamenti in calendario, tra cui spicca il primo corso di cucina kosher, perché l'intercultura molto spesso passa anche dalla buona tavola.

(Artribune, 25 aprile 2016)


Enrico Mentana contro i contestatori: "Asini e intolleranti"

"Asini e intolleranti". Così Enrico Mentana definisce su Facebook gli autori della contestazione alla Brigata Ebraica a Milano.

di Claudio Torre

"Asini e intolleranti". Così Enrico Mentana definisce su Facebook gli autori della contestazione alla Brigata Ebraica a Milano.
"Di fronte alle nuove provocazioni contro la Brigata Ebraica ripeto pari pari quel che scrissi qui esattamente un anno fa - scrive il giornalista -. Promemoria per gli asini e gli intolleranti: il fascismo varò le leggi razziali contro gli ebrei, e poi collaborò con il piano nazista di annientamento. Per questo furono uccisi 3836 ebrei italiani.
Alcuni tra i capi della Resistenza italiana erano ebrei. La Brigata Ebraica combattè in Italia nel 1945 partecipando alla lotta di Liberazione inquadrata nell'esercito inglese. Solo un fascista neanche tanto inconsapevole può contestare 70 anni dopo la sua presenza nel corteo del 25 aprile. Aggiungo quest'anno: se poi si contesta la Brigata Ebraica per via di Israele, si offende la storia per colpire il presente, e si compie un'asineria doppia, quale che sia la libera valutazione che ognuno può dare sullo Stato israeliano".

(il Giornale, 25 aprile 2016)


Israele-Hamas, è guerra dei tunnel. Ma Tel Aviv ha un'arma segreta

di Gianluca Perino

 
Una nuova tecnologia segreta messa a punto da Tel Aviv e l'ipotesi che la mente che progetta i tunnel di Hamas sia passata al nemico. C'è questo dietro l'accelerazione della guerra che estremisti palestinesi ed Israele stanno combattendo sotto terra. Teatro principale dello scontro la parte sud della striscia di Gaza: è da qui che Hamas prova a passare i confini per uscire in territorio israeliano e colpire. Una strategia consolidata, migliorata nel corso degli anni grazie all'arruolamento di ingegneri e al sostegno economico, anche questo sotterraneo, degli Stati "amici". Qualche giorno fa le forze speciali dell'Idf (Israel Defence Forces) hanno scoperto un tunnel scavato da Hamas che dall'interno della striscia di Gaza arrivava a poche centinaia di metri da Kerem Shalom, un moshav nel sud di Israele. Un segnale preoccupante. Che ha fatto dire al ministro della Difesa Moshe Yaalon che «lo Stato ebraico non tollererà episodi simili» e che «se ci sfideranno, li colpiremo in modo molto duro». La galleria viaggiava ad una profondità di oltre trenta metri, si sviluppava per tre chilometri di lunghezza ed era abbastanza larga da consentire comodamente il passaggio di persone e armi. Insomma, un lavoro fatto da veri professionisti delle costruzioni.

 L'arma segreta
  Una fonte della sicurezza di Hamas si è affrettata a commentare l'accaduto sostenendo che si trattava «di un vecchio tunnel usato durante l'ultima guerra». Come a dire che quella galleria era lì da anni e il fatto che gli israeliani l'avessero trovata non era una gran notizia. Ma l'episodio ha anche un'altra lettura. Secondo l'intelligence di Tel Aviv, al contrario, la struttura era stata costruita nel corso degli ultimi due anni ed era dotata di energia elettrica e di apparecchiature che consentono lunghi periodi di permanenza al suo interno da parte degli operai. Quindi, i lavori erano in corso. E le dichiarazioni del premier Netanyahu dopo l'annuncio della scoperta («C'è stata una svolta globale nella nostra capacità di trovare i tunnel») hanno confermato almeno in parte le indiscrezioni sulla nuova, e per adesso misteriosa, tecnologia sviluppata da Israele.
  «Per combattere i nostri nemici - spiega il colonnello Peter Lerner, portavoce dell'IDF - utilizziamo tutte le tecnologie a nostra disposizione. Naturalmente la ricerca di nuove soluzioni non si interrompe mai. E la nostra strategia è ampia e si sviluppa in quattro direzioni: intelligence, tecnologia, ingegneristica e "boots on the ground", cioè con il lavoro di controllo dei nostri soldati sul terreno».

 Il mistero del disertore
  Ma c'è anche un altro avvenimento che potrebbe aver cambiato l'attuale corso della guerra tra Tel Aviv e Hamas sui tunnel. Alcuni siti internet israeliani, nei giorni prima della scoperta della galleria vicino Kerem Shalom, avevano riportato con insistenza la notizia del presunto tradimento da parte di una delle menti che progettano e gestiscono la realizzazione dei tunnel. Il nome dell'uomo, che sarebbe scomparso, non è mai venuto a galla. Ma Hamas ha precisato che si tratta di un cittadino passato in Israele per motivi personali. Spiegazione di fatto confermata nella sostanza anche da Netanyahu, che ha sottolineato come quella scoperta sia avvenuta grazie ad una nuova tecnologia introdotta da Israele. Un modo come un altro per dire che non è stato merito di una banale "soffiata".

 Soldi e aiuti per hamas
  Ma da dove arrivano i soldi che Hamas utilizza per realizzare questi tunnel, tenendo conto che in media servono almeno tre milioni di dollari per ogni opera? Secondo il colonnello Lerner «i terroristi impongono pesanti tasse alla popolazione di Gaza e ricevono finanziamenti diretti da parte dell'Iran, che li sostiene anche a livello tecnologico». E' possibile fare qualche conto, se si considera che dal 2014 (anno del lancio dell'operazione Protective Edge da parte di Israele) sono state scoperte in tutto una cinquantina di gallerie, quattordici delle quali puntavano direttamente all'interno del territorio israeliano. Quindi, non meno di 150 milioni spesi in poco meno di due anni. Ma è un dato comunque largamente al di sotto della cifra reale, anche perché l'IDF ritiene che ci siano molti altri tunnel attualmente in costruzione. «La loro è una strategia chiara - spiega Lerner - vogliono utilizzare questi passaggi per infiltrarsi nel nostro territorio, rapire i cittadini israeliani e fare attentati. Ma gli renderemo la vita difficile».

 Il rapporto Israele-Egitto
  Nella guerra dei tunnel sta avendo un ruolo importante anche il miglioramento dei rapporti tra Egitto e Israele. Il Cairo, infatti, dopo l'avvento al potere di Al Sisi ha avviato una dura lotta contro la realizzazione di gallerie scavate dal Sinai per entrare a Gaza: questi tunnel vengono utilizzati per il contrabbando delle armi e rappresentano una via di rifornimento fondamentale per le finanze di Hamas. Soltanto pochi giorni fa l'esercito egiziano ha allagato sette gallerie, rendendole di fatto inutilizzabili. Ma sono decine le strutture distrutte negli ultimi mesi. «In passato c'erano molti problemi - spiega il portavoce IDF Peter Lerner - ma adesso con l'Egitto abbiamo canali aperti per confrontarci e per gestire in collaborazione le criticità legate a queste attività criminali».
  Questa stretta, ma soprattutto la nuova tecnologia in possesso di Israele, avrebbe messo in difficoltà i vertici di Hamas. Che hanno investito moltissimo su questa strategia di guerra e che adesso si trovano spiazzati.

(Il Messaggero, 25 aprile 2016)


Chi è Malia Bouattia, la leader degli studenti inglesi che attacca Israele e piace al Labour

Eletto il nuovo presidente del sindacato nazionale degli studenti britannici. Sette milioni di studenti saranno così guidati da una donna che ha bloccato i tentativi di condannare lo Stato islamico, che ha attaccato le comunità ebraiche e ha inneggiato alla resistenza palestinese.

di Gabriele Carrer

 
Malia Bouattia
E' Malia Bouattia il nuovo presidente del sindacato nazionale degli studenti britannici. Ben prima della sua elezione avvenuta al primo turno durante la convention di mercoledì scorso, la sua candidatura era stata al centro delle proteste delle associazioni studentesche ebraiche per alcune sue posizioni sulla questione israelo-palestinese e non solo. Formatasi all'università di Birmingham, definita un "avamposto sionista nel campo dell'istruzione superiore britannica" nel quale lei si è sempre sentita isolata e discriminata, Malia Bouattia vive nell'antisionismo ed antisemitismo più puri: le lobby sioniste e neo-con guidano Prevent, la strategia anti-radicalizzazione del governo britannico, oltre ai media mainstream e l'istruzione. Sette milioni di studenti britannici saranno così guidata da una donna che ha bloccato i tentativi di condannare lo Stato islamico, attaccato le comunità ebraiche e inneggiato alla resistenza palestinese. L'unione degli studenti ebrei si è dichiarata orgogliosa della lunga storia di sinergie positive con il sindacato nazionale ma ha espresso dubbi e preoccupazioni sul futuro del rapporto con la Bouattia presidente.
  L'attivista BDS Malia Bouattia ha vinto con il 50,9 per cento dei voti sull'uscente Megan Dunn, definito una "moderata". Si è imposta sulla rivale nonostante una lettera aperta di circa cinquanta leader delle comunità studentesche ebraiche che si erano detti "estremamente preoccupati" per le sue opinioni sull'ascesa dell'estremismo e dell'antisemitismo nelle università della Corona. Ci sono domande a cui bisogna ancora rispondere, ha sottolineato dopo l'elezione l'unione ebraica, che si dichiara in attesa di vedere onorato l'impegno promesso dalla neo-presidente contro ogni forma di antisemitismo, "compresi i tentativi di negare al popolo ebraico il diritto all'autodeterminazione". Uno degli interrogativi più grandi riguarda l'attività durante il suo precedente incarico da membro del comitato esecutivo del sindacato studentesco. Al tempo bloccò una mozione del sindacato di condanna verso lo Stato Islamico, bollandola come "islamofobica" e pretestuosa per giustificare una guerra. Più recentemente, riferendosi al Califfato di Al Baghdadi, ha negato ogni possibile minaccia del "cosiddetto terrorismo" nel Regno Unito.
  La presidente Bouattia si è inoltre espressa contro il processo di pace israelo-palestinese in quanto rafforzerebbe solo il "progetto coloniale" israeliano: "Pensare che la Palestina sarà libera solo grazie a raccolte fondi, proteste non violente ed il movimento BDS è problematica", afferma in un discorso finito su YouTube ma rimosso proprio in occasione della campagna elettorale e recuperato dal Telegraph. "Ciò non deve essere frainteso come un'alternativa alla resistenza del popolo palestinese".
  A congratularsi per la vittoria è stato il gruppo estremista Cage, noto nel Regno Unito per avere negato il terrorismo dello Stato islamico e ha preso le difese di Mohammed Emwazi, il boia kuwaitiano naturalizzato britannico, famoso come "Jihadi John". Il gruppo, fondato dall'ex detenuto di Guantanamo Moazzam Begg, e Bouattia hanno spesso tenuto conferenze nei campus per la difesa della comunità islamica dalla "criminalizzazione" operata dallo "stato di polizia" in ascesa in Gran Bretagna. Secondo l'uscente presidente Megan Dunn, Cage avrebbe avuto un ruolo chiave nella corsa della Bouattia; in risposta, la neo-eletta presidente ha accusato l'avversaria di "islamofobia" e difeso i suoi legami con Cage, partner prezioso nella lotta contro Prevent, lo strumento del governo britannico per demonizzare l'Islam. Ai festeggiamenti di Cage si è unito Raza Nadim, portavoce del gruppo per i diritti dei musulmani (MPACUK), una lobby estremista bandita dal sindacato studentesco per razzismo ed antisemitismo. Su Facebook Bouattia ha ringraziato Nadim per il sostegno alla sua campagna.
  I gruppi studenteschi ebraici si sono detti preoccupati per la sicurezza e la serenità dei loro studenti nei campus del Paese ma i legami della Bouattia arrivano fino al Parlamento di Londra. La vicepresidente del sindacato Shelly Asquith, socialista di estrema sinistra e stretto alleato della neo-presidente, è stata coordinatrice degli studenti e dei giovani per la campagna di Corbyn verso la leadership del Labour. E mentre il leader laburista continua ad altalenare tra le pulsioni antisemite dell'estrema sinistra del partito e le proteste dei moderati blairiani e millibandiani, il Times ha recentemente pubblicato un documento esclusivo che racconta l'odio predicato dagli imam nelle prigioni della Corona. Cd e libretti dell'estremismo islamico sono stati ritrovati in più di dieci prigioni britanniche nel mese di novembre, secondo un dossier del ministero della giustizia anticipato dal quotidiano britannico: condanne a morte per gli apostati, volantini misogini e omofobi, disprezzo per i valori britannici. Materiale a disposizione di tutti nelle cappellanie delle carceri inglesi: offrono gli imam, tace il Labour.

(Il Foglio, 25 aprile 2016)


Voleva uccidere ebrei

Dima ripresa dai suoi genitori
Detenuta di 12 anni rilasciata da Israele

GERUSALEMME - Israele ha rilasciato la palestinese più giovane mai detenuta nelle proprie carceri. Dima al-Wavi, 12 anni, era stata arrestata due mesi fa mentre con un coltello tentava di entrare in un insediamento di ebrei. Ammise che voleva uccidere dei civili e fu condannata a quattro mesi di prigione. Gli avvocati di Dima hanno trovato un accordo con il tribunale militare, che ha ordinato la consegna della dodicenne alle autorità palestinesi a un checkpoint di Tulkarem, dove erano in attesa i suoi genitori.

(Fonte: Nazione-Carlino-Giorno, 25 aprile 2016)


A dodici anni già voleva uccidere ebrei. Come le sarà venuta questa idea?


Famigliari di terroristi palestinesi fanno propaganda nelle scuole di Gerusalemme est

Alla presenza di rappresentanti del Ministero dell'istruzione dell'Autorità Palestinese

Due settimane fa si è tenuto un incontro speciale presso la scuola elementare Jabel Mukaber, a Gerusalemme est, tra gli scolari e i famigliari di alcuni terroristi palestinesi uccisi mentre compivano attentati contro cittadini israeliani.
Uno degli intervenuti all'incontro è Mohammad Aliyan, padre di Baha Aliyan, il terrorista che lo scorso ottobre, insieme a un complice, con armi da fuoco e pugnali ha ucciso tre passeggeri israeliani (Haviv Haim di 78 anni, Alon Govberg di 51 anni, e Richard Lakin di 76 anni) su un autobus di Gerusalemme nel quartiere Armon HaNatziv (Talpiot est), che è adiacente a Jabel Mukaber....

(israele.net, 25 aprile 2016)


Chi cancella la Brigata ebraica offende la Storia

Quelli che non vogliono la brigata ebraica alle manifestazioni del 25 aprile sono anche loro fascisti.

di Marco Pasqua

Un corteo dimezzato. Una manifestazione, quella organizzata dall'Anpi, che rinnega una parte importante della Storia della Resistenza. Dimezzata, perché, di fatto, cancella la memoria di quanti hanno perso la vita nella Brigata Ebraica, al fianco dei partigiani, per la liberazione dal nazifascismo. Come è stato possibile? Due anni fa, rissosi rappresentanti dei movimenti pro-Palestina (e vien da chiedersi quale legame esista tra gli slogan anti-israeliani urlati da quella parte e la lotta al nazifascismo), vennero alle mani con la delegazione della Brigata Ebraica. Motivazioni pretestuose, antisemitismo per nulla velato. L'anno scorso, invece, il corteo dell'Anpi venne annullato. E oggi la comunità degli ebrei romani e l'Aned hanno scelto di non sfilare dal Colosseo a Porta San Paolo, per ritrovarsi, invece, in sit-in davanti al museo della Resistenza di via Tasso. «Una loro scelta quella di non partecipare», sottolinea l'Anpi. «A quel corteo saranno presenti associazioni e organizzazioni con parole d'ordine e slogan e dichiarate intenzioni - dice l'Aned motivando la sua assenza a Porta San Paolo - che ben poco o nulla hanno a che vedere coi i principi ispiratori della Resistenza». Una decisione che rappresenta un fallimento. Intanto per gli ebrei, "espropriati" di una celebrazione che appartiene di diritto anche a loro. Ma è una sconfitta soprattutto per l'antifascismo grazie al quale è stato possibile costruire la Repubblica italiana. Dimenticare quella Storia, significa offendere la memoria di chi è morto combattendo per la nostra libertà.

(Il Messaggero, 25 aprile 2016)


Calogero Marrone, lo Schindler siciliano. Un impiegato che salvò centinaia di vite

di Gabriele Ruggieri

Fuggito da Favara, dove era vessato per le sue idee antifasciste, il direttore dell'ufficio anagrafe di Varese, ha aiutato ebrei e antifascisti a passare il confine con la Svizzera creando loro nuovi documenti. Nel 2012 lo stato ebraico gli ha conferito l'onorificenza di “Giusto tra le nazioni”.

 
Calogero Marrone
A Varese lo ricordano come un eroe. Lo stato di Israele gli ha conferito post mortem, nel 2012, l'onorificenza di Giusto tra le nazioni. Di Calogero Marrone, impiegato comunale favarese, tuttavia, per molti anni la memoria è stata persa. Marrone era un reduce della prima guerra mondiale. Un socialista e per questo aveva rifiutato di iscriversi al Partito nazionale fascista finendo così in carcere. Era un perseguitato politico nella cittadina dell'Agrigentino, oggetto spesso di vessazioni da parte della milizia fascista. Da qui la decisione di trasferirsi con la sua famiglia al Nord, dove vinse un concorso per entrare al Comune di Varese come applicato.
   «Aveva grandi qualità anche sul piano professionale - racconta Angelo Sicilia, autore di Testimonianze partigiane - In poco tempo, attorno alla metà degli anni Trenta, è riuscito a diventare capo dell'ufficio anagrafe del Comune in cui lavorava. In quel periodo Marrone era già in contatto con gli ambienti antifascisti del Varesotto, una provincia delicata vista la vicinanza al confine svizzero, sinonimo di salvezza per i perseguitati politici e successivamente per i tanti ebrei in fuga dalle leggi razziali». E come capo dell'ufficio anagrafe, il favarese, inizia a creare nuovi documenti con generalità alterate per favorire il passaggio oltralpe di antifascisti ed ebrei, riuscendo così a salvare le vite di centinaia di persone.
   Questa pratica, tuttavia, fu scoperta dopo la delazione di un fascista locale. Era il 1944. Marrone, che era stato avvisato dell'imminente arresto preferì non fuggire, anche per paura di ritorsioni contro sua moglie e i suoi quattro figli. Le accuse erano gravissime: collaborazionismo, favoreggiamento nella fuga di ebrei, violazione dei doveri d'ufficio e intelligenza con il Comitato di Liberazione nazionale. Il funzionario, che si era anche offerto di collaborare alle indagini a suo carico, venne prima incarcerato e poi trasferito nel campo di concentramento di Dachau, in Germania. E proprio in terra tedesca morì un anno dopo, il 15 febbraio del 1945 per un'epidemia di tifo scoppiata all'interno del lager, che sarebbe stato liberato dagli alleati dopo pochi giorni.
   «Pur essendo un siciliano verace - continua Sicilia - Calogero Marrone è ricordato come un eroe della resistenza lombarda. La sua è la storia esemplare di un uomo che ha sempre combattuto le proprie battaglie, ovunque si fosse trovato. Marrone è uno dei pochissimi siciliani ad aver ricevuto il riconoscimento di Giusto tra le nazioni dallo stato ebraico, riservato ai non ebrei che hanno agito in modo eroico rischiando la propria vita per salvare quella anche di un solo ebreo dal genocidio nazista. Un vero e proprio Schindler siciliano».

(MW MedioNews, 25 aprile 2016)


Udine - Lo striscione della Brigata Ebraica, al corteo del 25 aprile, non ci sarà

Una rappresentanza di cittadini sarà presente solo alla commemorazione nel cimitero anglo-americano di Adegliacco, ma niente sfilata per il centro di Udine.

UDINE - Lo striscione della Brigata Ebraica non ci sarà alla cerimonia del 25 aprile organizzata nel centro di Udine. L'annuncio è stato dato dal sociologo udinese Marco Orioles su Facebook, che insieme e Elio Cabib fa parte del Comitato Pro Brigata Ebraica.
    «In solidarietà con l'Aned (Associazione nazionale ex Deportati nei Campi Nazisti) e con l'associazione Brigata Ebraica di Roma, che hanno deciso di non partecipare al corteo del 25 Aprile nella Capitale e di non portare con sé lo striscione della Brigata Ebraica a causa del clima intimidatorio creato strumentalmente dai sostenitori della causa palestinese - scrive Orioles - anche noi privati cittadini udinesi, che abbiamo più volte sfilato nel corteo udinese esibendo lo striscione della Brigata Ebraica, scegliamo di non scendere in piazza il 25 aprile nella nostra città, optando per partecipare alla commemorazione che si terrà nel cimitero del Commonwealth di Tavagnacco alle 11».
Una scelta di solidarietà, come evidenzia Orioles: «Ci uniamo agli amici di Roma nell'auspicare che la ricorrenza del 25 aprile sia occasione per unire e non per dividere il popolo italiano, e nel deplorare chi ne approfitta per fomentare uno scontro ideologico che nulla ha a che vedere con i fatti che saranno ricordati. Ci troviamo nelle condizioni di dover esprimere anche quest'anno sconcerto per l'atteggiamento di alcuni soggetti che approfittano del 25 aprile per attaccare gli ebrei italiani e gli amici del popolo israeliano, ignorando così il fondamentale contributo che essi diedero alla liberazione dell'Italia dal nazifascismo. Condividiamo pienamente le parole dell'Aned quando sottolinea come sia inaccettabile che 'lo spirito e i significati del 25 aprile, della Resistenza, della Liberazione, della Repubblica, della Costituzione e del voto alle donne vengano così totalmente snaturati e addirittura fatti divenire atto di accusa contro le vittime stesse del nazifascismo'. Ci auguriamo - conclude - che nei prossimi anni il 25 aprile possa essere celebrato in un clima di concordia e nell'assenza di gesti di intolleranza che non possono appartenere a una giornata dedicata a ben altro.

(Diario di Udine, 24 aprile 2016)


Il 25 Aprile 1945 e la Resistenza dei duemila partigiani ebrei

Gli ebrei diedero un grande contributo alla sconfitta degli invasori nazisti: sia combattendo accanto agli Alleati che risalivano la penisola, sia unendosi ai partigiani.

di Aldo Cazzullo

Se oggi qualcuno dovesse in qualsiasi modo mancare di rispetto alla Brigata Ebraica (che a Roma sarà ancora assente dopo le tensioni del 2014), contraddirebbe lo spirito e la sostanza della Resistenza. Gli ebrei diedero un grande contributo alla sconfitta degli invasori nazisti e alla conquista della libertà e della democrazia: sia combattendo accanto agli Alleati che risalivano la penisola, sia unendosi ai partigiani.

 La militanza
  Circa duemila ebrei militarono in brigate di diversa fede politica. Uomini come Primo Levi ed Elio Toaff, destinati a lasciare un'impronta straordinaria del loro passaggio: lo scrittore di Auschwitz, il leader storico delle comunità ebraiche italiane. Ragazzi come Emanuele Artom, giovane studente torinese, commissario politico di Giustizia e libertà, che si batteva perché i compagni non fucilassero i prigionieri; ma durante un rastrellamento sarà proprio il prigioniero fascista da lui salvato ad additarlo come ebreo.

 I frati patrioti
  Torturato, fotografato per dileggio a cavalcioni di un asino con un berretto in testa (immagine pubblicata su una rivista tedesca con la didascalia «Juden»), fucilato, sepolto nottetempo in un bosco: il corpo di Emanuele Artom non sarà mai più ritrovato. Mentre un altro capo partigiano ebreo di Giustizia e libertà, Giulio Bolaffi, si salva perché con i suoi uomini si nasconde nel convento dei francescani di Susa: i frati rivestono i patrioti con i loro sai, e ingannano così i tedeschi.

 Il partigiano più giovane
  Era un ebreo anche il più giovane partigiano d'Italia, forse d'Europa. Franco Cesana non ha ancora compiuto tredici anni, quando annuncia alla madre che ha deciso di unirsi ai combattenti, come ha già fatto il fratello maggiore. La madre si dispera e tenta in ogni modo di dissuaderlo. Poi, quando capisce che Franco è irremovibile, gli dice: «Almeno giurami che non dirai a nessuno, ma proprio a nessuno, di essere ebreo». Franco giura. E, quando raggiunge la banda del comandante Marcello, scrive questa lettera alla madre, per tranquillizzarla e assicurare che non ha tradito il giuramento. Pochi giorni dopo, Franco Cesana cadrà in combattimento, facendo scudo al comandante con il proprio corpo. È medaglia di bronzo al valor militare.

(Corriere della Sera, 24 aprile 2016)


Il Gehakteleiber (pâté di fegatini ebraico) di Jean-Michel Carasso

Oggi la ricetta di un noto chef di origine francese

di Luca Bertini

 
Jean-Michel Carasso

Conosco Jean Michel da molti anni. Per un breve periodo abbiamo anche gestito insieme un'organizzazione di catering casher che avevamo chiamato Cashering. E' stato uno dei primi a scrivermi appena ho postato su Facebook il link alla presentazione delle Ricette del Cuore. Mi ha scritto per complimentarsi ma anche per dirmi che mi avrebbe dato volentieri la sua. Non avevo pensato fino a quel momento di chiederle ai colleghi cuochi pensando che non me le avrebbero date volentieri, ma, visto l'entusiasmo di Jean Michel, mi sono ricreduto ed ho cominciato a pensarci: ne ho già raccolte alcune. Considerata la primogenitura, la prima sarà quella di Jean Michel e ve la propongo oggi anche perché non sono riuscito ancora ad avere quella del rabbino di Firenze Joseph Levi che avrei voluto presentare oggi per completare la serie dedicata alle grandi religioni monoteiste, dopo aver pubblicato nelle scorse uscite quelle dell'imam e del vicario generale della Curia fiorentina. Quella di Carasso mi sembra la più adatta a rappresentare la comunità ebraica fiorentina in attesa di avere quella del rabbino che vi proporrò appena l'avrò.
   Le famiglie ebree hanno sempre una storia piuttosto complicata ed avventurosa. Entrambi i genitori di Jean Michel erano ebrei. La madre, Eva Guerber, nata a Parigi da una famiglia russa, era askenazita come vedremo fra poco nella ricetta, mentre il padre era sefardita, greco e quindi ebreo dell'impero ottomano, proveniente da una famiglia originaria di Kiev. Jean Michel è venuto in Italia nel '79 da Parigi dove ha vissuto parecchio con intermezzi in Belgio. E' nato e cresciuto in Congo belga dove la famiglia era scappata nel '42 per sfuggire alle perseguitazioni naziste. Frequenta da sempre la Grecia dove ad Atene ha ancora dei parenti.
   Carasso è uno dei cognomi della comunità ebraica dell'impero ottomano. Una delle versioni dell'origine dei cognomi ebrei data nel 1492, cioè quando sono stati cacciati dalla cattolica Spagna dove erano numerosissimi e non avevano cognomi ma patronimici, esattamente come in Italia. Gli ebrei si sono quindi disseminati nel mediterraneo e Jean Michel mi racconta che quelli che si chiamano Carasso probabilmente si sono fermati in Svizzera nel Ticino vicino a Bellinzona dove c'è un paese ed un monte con quel nome. Arrivati nell'impero ottomano dove i sultani li invitavano ad andare, gli veniva chiesto come si chiamavano. I musulmani, sentendo che anche loro usavano i patronimici, sostenendo che quello era il loro proprio sistema, pretendevano che avessero un cognome che li distinguesse da loro e gli davano quindi come cognome il nome del posto dal quale provenivano.
   Ovviamente i cuochi mi inviano le ricette composte di proprio pugno e non dovrò quindi intervenire come invece faccio per molti altri che non sono esperti di cucina. Ecco quindi la ricetta della famiglia Carasso inviatami da Jean Michel.
   Questo pâté della vecchia tradizione ebraica askenazita est-europea è praticamente la mia "madeleine di Proust". Era uno dei piatti preferiti di mia madre, e per me è legato a doppio filo alla sua memoria. E' vero che è molto buono ma è soprattutto uno dei simboli della cucina askenazita casalinga. Si mangiava (e si mangia tuttora) ogni venerdì sera e a tutte le feste.
   Le quantità decidetele voi, il procedimento è questo:
  • prima di tutto fare dorare molto bene (quasi caramellare) in margarina vegetale una quantità di cipolle bianche sminuzzate uguale a 1/3 del peso dei fegatini di pollo.
  • Una volta caramellata la cipolla, levarla dalla padella e tenerla da parte.
  • Fare rosolare molto a lungo i fegatini in margarina anch'essi in padella.
  • Una volta rosolati molto bene e cotti i fegatini, aggiungere la cipolla caramellata, 1/4 della quantità di fegatini di cipolla bianca cruda sminuzzata, i tuorli cotti sodi in una quantità più o meno uguale a 1 uovo per etto di fegatini, sale e pepe abbondante. Ridurre il tutto a pâté preferibilmente con il coltello oppure con il frullatore ad immersione, aiutandosi con aggiunte progressive di olio di semi.
  • Il pâté non deve essere molto liscio ma nemmeno troppo grossolano. Una cosa media... ecco... Deve rimanere abbastanza sodo quindi non mettere litri di olio.
  • Una volta fatto il pâté, sminuzzare grossolanamente gli albumi delle uova sode e inserirli nel pâté mescolando bene.
   Si può mangiare subito appena raffreddato del tutto, spalmato su pane di segale o altro. Si può anche mettere in forma, lasciare rapprendere in frigo per alcune ore e consumarlo a fette.
   Mi raccomando i cetrioloni molosso, sotto salamoia.

(Nove da Firenze, 24 aprile 2016)


A Casa Cervi suona la band anti-israele

GATTATICO (RE) - Tutto pronto al Museo Cervi di Gattatico per il Concerto della Liberazione che, maltempo permettendo, si appresta ad accogliere come ogni anno migliaia di persone nel nome del rock e dei valori di democrazia, solidarietà e pace.
Tra i gruppi sul palco quest'anno spiccano i marchigiani Gang, il cantautore Cisco e i milanesi Punkreas.
   Proprio la punk-rock band di Parabiago aprirà il concertone alle 15.30 subito dopo i saluti ufficiali del presidente del Senato Pietro Grasso, del sindaco di Reggio Luca Vecchi e della presidente del Museo Cervi Albertina Soliani.
   Chissà le loro facce se, come prevedibile, i Punkreas metteranno in scaletta due delle loro canzoni più famose. Stiamo parlando di "Intifada" e "La nostra storia". Due canzoni che fecero molto discutere al tempo della pubblicazione per una connotazione dei testi decisamente anti-israeliana. "Intifada", che già nel titolo si propone come canzone manifesto e omaggio alla resistenza palestinese, non risparmia critiche, anche feroci, a Israele sposando ovviamente la "diplomazia delle pietre". Chissà che ne pensa la Scuola di Pace del Comune di Reggio Emilia, uno dei soggetti organizzatori, delle parole non proprio "pacifiste" del brano: "Rivoglio la mia terra la voglio perché è mia. Non scendo a compromessi ne questioni di ricatti. Scendi nella strada qualcosa io ti posso dare e forse tu sarai contento. Scendi nella strada e troverai un'intifada". La canzone era contenuta nel secondo disco della band, "Uniter Rumors of Punkreas" del 1992. Lo si potrebbe archiviare come "peccato di gioventù" se non fosse che qualche anno più tardi, nel 2005, rincarano la dose con "La nostra storia" contenuta nell'album "Quello che sei". Il testo del brano non lascia dubbi sul pensiero dei Punkreas in merito alla questione mediorientale: "Hanno trovato nel Libro, l'origine, la risposta.
   Scacciare l'arabo pigro dovere di ogni sionista e tutta Europa s'inchina, richiama eserciti e vele lasciando nel cuore d'Oriente, la spina chiamata Israele! Passano gli Dei e raccolgono l'offerta. Ma la vittima è una sola e uno solo l'oppressore".
Insomma, i Punkreas hanno le idee chiare aprendo il consueto dizionario dell'anti-ebraismo (sionista, dei e denaro, "spina" d'Occidente). Ma gli organizzatori che idee hanno? E soprattutto, che faccia faranno le autorità nell'ascoltare queste parole?

(Prima Pagina Reggio, 24 aprile 2016)


I ragazzi autistici di Tsahal

Apprezzati nell'esercito per le loro qualità particolari

di Massimo Lomonaco e Aldo Baquis

 
I volontari autistici nell'esercito israeliano
Y. e Y. sono due giovani volontari dell'esercito israeliano: analizzano e sviluppano programmi che servono anche alle unità combattenti. Vivono quasi tutto il giorno insieme al resto dei soldati, ne condividono orari e compiti in un'Unità speciale dell'esercito dislocata a Tel Aviv. Y. e Y. sono due ragazzi autistici, due 'Rain man', come il personaggio interpretato da Dustin Hoffman. Fanno parte di un piano lanciato dall'esercito nel 2010 - che ha avuto l'incoraggiamento del Mossad - per integrare socialmente questi giovani che si trovano - ha spiegato all'ANSA Yotam, il capitano responsabile del loro addestramento - "in alto nello spettro dell'autismo". E le famiglie ne sono state felici. "Quella che viene definita una disabilità - ha aggiunto - è in realtà un punto di forza, importantissima soprattutto nei lavori ripetitivi di analisi. Loro riescono a vedere dettagli che agli altri sfuggono e che sono invece decisivi per la programmazione". E altri campi riguardano l'analisi di fotografie aeree, corsi per tecnici elettronici e anche la abilità di raccogliere una messe di informazioni su internet.
   Yotam - che li guida - è un giovane ufficiale che sembra più un loro amico che un superiore. Quando i cronisti dell'ANSA incontrano i due ragazzi, Yotam li segue con uno sguardo complice, da fratello maggiore. Nella confusione che regna nell'Unità per le pulizie della Pasqua ebraica, Y. (20 anni) non si scompone, nonostante si sappia che l'ordine è una condizione ottimale per gli autistici.
   "Alla fine dell'esercito voglio completare i miei studi in un collegio universitario", dice dapprima molto teso. Poi, a mano a mano, diventa più sciolto. Viene da una famiglia religiosa e questo, a suo dire, gli crea "qualche problema". "Io non lo sono - spiega - e voglio seguire la mia strada". Il suo momento migliore, racconta, è la mattina prima di arrivare all'Unità: "Mi piace prendere l'autobus. Le persone - confessa con un sorriso disarmante - la mattina presto in viaggio dormono e questo mi distende. Mi piace la tranquillità". Alla fine del periodo di ferma volontaria, Y., insieme ad altri ragazzi autistici, andrà a vivere in un appartamento a Sderot, nel Negev, non distante da Beersheba, messo a disposizione dell'esercito. "Lì - dice l'ufficiale - imparerà il tran-tran della vita quotidiana, acquisti, bucato, eccetera. Y. (anche lui 20 anni) sceglie di parlare con l'ANSA in inglese e il suo accento, accompagnato da una voce baritonale stupefacente, è a sorpresa da Oxford. L'ufficiale sorride: "E' israeliano al 100% ma dice di sentirsi più sicuro nell'esprimersi in inglese". Il motivo lo spiega lo stesso Y.: "Dopo il militare voglio fare l'attore, per questo mi alleno".
   Per ora però prevale il lavoro nell'esercito: "Anche quando sono a casa non smetto di pensarci. Qui mi trovo bene. Ho ottimi amici". Insieme a loro nella stessa Unità ci sono altri ragazzi autistici: nell'ufficio dove lavorano - una piccola stanza - regnano i computer. Lì passano ore a studiare i sistemi e programmi. "Andiamo a caccia - dicono - di falle nel sistema": la capacità di attenzione degli autistici è prodigiosa ma a loro stessi appare del tutto normale. E dopo questa esperienza di un anno, prolungabile fino a due, appaiono sicuri del fatto loro: anche dopo il congedo, quando saranno 'fuori', saranno capaci di essere produttivi ed indipendenti.

(ANSA, 24 aprile 2016)


25 aprile, la Brigata Ebraica non parteciperà al corteo romano: ''Contro di noi antisemitismo''

''Non ci sono le condizioni per partecipare al corteo del 25 aprile in modo sereno'', dice Flaminia Sabatello, portavoce della Brigata Ebraica, l'associazione che ricorda la formazione partigiana che, inquadrata nell'esercito britannico, partecipò alla Liberazione dell'Italia dal nazifascismo. Nel 2014, durante il corteo della Liberazione che si conclude ogni anno a Porta San Paolo si erano verificate forti tensioni tra militanti ebrei e manifestanti filopalestinesi.

(la Repubblica, 24 aprile 2016)


«Da Sud a Sud», ultimo incontro. Al Corriere si parla di Tel Aviv e Israele

di Maddalena Tulanti

Non potevano che essere Tel Aviv e Israele, i luoghi del Mediterraneo fra i più esposti sulla faglia tra guerre e pace, a chiudere il primo ciclo dei viaggi virtuali, «Da Sud a Sud», che Fondazione Corriere della Sera e Corriere del Mezzogiorno hanno intrapreso dal 4 marzo di quest'anno e che ci hanno condotto da Damasco a il Cairo passando per Tripoli e il Maghreb. Ci vediamo mercoledì 27 aprile, sempre nel cortile di palazzo Diana in piazza Massari 6, dove ha sede il Corriere del Mezzogiorno, sempre dalle ore 18 in poi. E' l'ultima volta che useremo il cortile, dal 6 maggio, quando inizierà il nostro cammino verso il Nord, sulle strade della nostra emigrazione, risaliremo in terrazza, dove l'anno scorso cominciò la nostra bella avventura.
   La serata sarà aperta da Piergaetano Marchetti, nella duplice veste di presidente della Fondazione Corriere della Sera e della Fondazione Italia-Israele per la cultura e le arti. Ci accompagneranno nel viaggio Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, che avrà il compito di disegnare il contesto politico e storico del paese in cui ci rechiamo; Emanuele Arciuli, pianista e maestro, che ricorderà a tutti noi quanto compositori e musicisti ebrei abbiano dato alla musica; Luigi De Santis, imprenditore barese che ricopre la carica di unico console onorario di Israele in Italia; e Nicholas Caporusso, barese anche lui, vincitore di una startup promossa dall'Ambasciata che lo ha portato prima a Berlino e poi a Lubjana. L'attrice Daniela Baldassarra leggerà brani scelti da Emanuela Angiuli dal testo Tel Aviv di Elena Loewenthal e alcune poesie di Yehuda Amichai. Mentre Marilena Di Tursi introdurrà i video dell'artista Shahar Marcus, Seeds e 1,2,3 Harring, due straordinari pezzi che restituiscono insieme sia la profondità di sentimento sia lo humour ebraico. Ci sarà anche un piccolo intermezzo di danza organizzato dal maestro di balli popolari Spartaco Cotecchia. Insomma, una serata impegnativa come tutte le altre dalla quale, siamo sicuri, uscirete arricchiti e maggiormente consapevoli, lo scopo di tutto il nostro lavoro.
   Questo vale soprattutto per Israele, il cui nome evoca immediatamente sentimenti forti. Non fosse altro che del paese conosciamo soprattutto la guerra con i palestinesi che pochi ormai hanno fiducia possa terminare. Come per i cani dell'esperimento di Seligman che non scappano dalle scosse nemmeno se ne hanno la possibilità perché si sono assuefatti, così anche noi di fronte al conflitto israelo-palestinese sembriamo ormai arresi. Proprio in questi giorni, il 15 aprile, è ricorso l'ottantesimo anno dalla data cui gran parte degli studiosi fa risalire l'inizio del conflitto. Come abbiamo letto in un articolo del Post proprio ieri «erano successe molte cose prima, e ne capitarono moltissime altre dopo, ma quello che avvenne quel giorno è considerato da molti esperti e storici uno spartiacque, nonché il momento in cui gli israeliani presero consapevolezza del fatto che i problemi con gli arabi della Palestina sarebbero stati risolti solamente con la forza». Che era successo quel 15 aprile 1936? Un piccolo atto criminale che, come spesso accade nella storia, fece da detonatore di un'esplosione di violenze. Due commercianti di pollame ebrei furono uccisi all'ingresso di Tel Aviv da alcuni arabi che chiedevano soldi per la loro causa. Ai funerali delle vittime ci fu una sommossa e molti arabi vennero uccisi da ebrei. E poi ce ne furono altre in cui i morti si scambiarono !'identità ma sempre morti erano. Quegli scontri - ha scritto il Post - convinsero la comunità ebraica del fatto che la convivenza pacifica coi palestinesi non fosse più possibile (e alla stessa conclusione giunsero anche le autorità britanniche, che per questo motivo alcuni anni più tardi proposero un piano di partizione che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e uno arabo). Fino a che David Ben Gurion, il fondatore del moderno Stato di Israele, teorizzò nel 1938 che «la mia soluzione alla questione degli arabi nello stato ebraico è il loro trasferimento negli altri paesi arabi». Eppure, fino agli anni Venti sembrava che la convivenza fra arabi e ebrei, che avevano cominciato a lasciare i vari paesi dell'esodo per tornare in Palestina, fosse possibile. Ci sono molte testimonianze che vanno in questo senso. Poi la storia si è messa in moto per l'altra direzione. E pare non voler tornare nei vecchi binari della convivenza e della condivisione.
   Fra una guerra e l'altra però Israele è diventato uno Stato fra i più potenti e ricchi. il pil pro capite dei suoi 8 milioni e 300 mila abitanti è solo di poco inferiore a quello dell'Italia (33 mila dollari contro i 35 mila degli italiani), e per capire quanto la democrazia e l'uguaglianza fra i propri cittadini siano avanzati basti pensare che non solo in Israele sono previste le unioni omosessuali, ma per loro è prevista anche l'adozione dei bambini. Qualche altro dato per capire di che tipo di paese stiamo parlando: secondo le Nazioni Unite, Israele ha il più alto tasso di durata degli studi e di scolarizzazione del Medio Oriente, è il terzo paese al mondo per numero di laureati (20% della popolazione), ha prodotto quattro vincitori di Premio Nobel, è fra i primissimi paesi al mondo per articoli scientifici pubblicati pro capite, ha otto università pubbliche, sussidiate dallo Stato. Con questi numeri non solo spicca nel Medioriente ma nel mondo intero.

(Corriere della Sera, 24 aprile 2016)


La Vice Ministro degli Esteri israeliana mette al mondo una bambina

La seconda figlia di Tzipi Hotovely si chiama Eliraz, e si unisce alla sorella Maayan e al padre Or Elon.

Tzipi Hotovely
24 aprile - La Vice Ministro degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely oggi ha dato alla luce una bambina nell'ospedale Assaf Ha Rofeh di Tzrifin.
Hotovely ha chiamato sua figlia Eliraz, un nome significativo, ha detto. Sia madre che bambina sono in buone condizioni.
La Vice Ministro, 38 anni, è sposata con Or Elon, e con lui ha avuto un'altra figlia, Maayan, che Hotovely ha partorito durante il suo precedente mandato di governo.
Hotovely non è il primo ministro a partorire, e utilizzare il congedo di maternità concesso dal governo, nel corso di una posizione ministeriale. Il ministro Gila Gamliel ha preso congedo di maternità durante la 18a Knesset, mentre serviva come Vice Primo Ministro.

(da Arutz Sheva, 24 aprile 2016 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


L'Iran offre ad Assad e alla sua famiglia la possibilità dell'asilo a Teheran

Lo ha reso noto oggi il Ministro dell'Intelligence iraniano Mahmoud Alavi

MOSCA - Teheran ha offerto al presidente siriano Bashar Assad e la sua famiglia asilo in Iran, per poter comandare nella massima tranquillità il suo esercito, ma la proposta è stata seccamente rifiutata. Lo ha reso noto oggi il Ministro dell'Intelligence iraniano Mahmoud Alavi. Secondo Al Mayadeen emittente del Libano, l'offerta è stata prorogata anche da Qasem Soleimani, il comandante dell'ala operazioni estere Guardia Rivoluzionaria iraniana. Assad avrebbe motivato il suo rifiuto sostenendo come la sua famiglia non sia diversa da "ogni famiglia siriana e rimarranno a Damasco." La Siria è dilaniata dalla guerra civile dal 2011, con le forze fedeli ad Assad che si contrappongono alle diverse fazioni che compongono l'opposizione, compresi i gruppi estremisti. A differenza dei paesi dell'Occidente, che appoggiano la cosiddetta opposizione moderata siriana, Teheran e Mosca sostengono che il presidente siriano sia l'autorità legittima nel paese.

(il Velino, 23 aprile 2016)


L'Associazione Italia-Israele di Firenze parteciperà alla manifestazione del 25 aprile

COMUNICATO STAMPA
l'Associazione Italia-Israele di Firenze parteciperà alla manifestazione del 25 aprile in Piazza dell'Unità Italiana nel nome di Enzo Sereni, eroe della Resistenza, che, dopo aver contribuito alla fondazione del kibbutz di Givat Brenner, nel 1944 tornò in Italia per partecipare alla lotta per la liberazione del nostro Paese. Dopo essersi fatto paracadutare dietro le linee nemiche per compiere una missione segreta, fu catturato dai nazisti e, portato a Dachau, vi fu fucilato il 18 novembre 1944.

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 23 aprile 2016)


Israele festeggia la Pasqua ebraica fra le tensioni

GERUSALEMME, 23 apr - Al via in Israele i festeggiamenti per la Pasqua ebraica, tra le tensioni per la nuova ondata di violenze che ha colpito la regione negli ultimi mesi. Stasera, con la tradizionale cena pasquale, il seder di Pesach, verra' inaugurato un periodo di 7 giorni di festa, che per le comunita' della diaspora dura un giorno in piu'.
   Le celebrazioni coincidono con un nuovo periodo di tensioni nella regione, da ultimo l'attentato suicida palestinese, rivendicato dal movimento islamista di Hamas, avvenuto lunedi' scorso su un autobus di Gerusalemme. "L'allerta e' stata elevata al livello 3 su 4 e migliaia di poliziotti sono stati schierati nei luoghi di intrattenimento e nei centri maggiormente frequentati", ha comunicato la polizia. Dalla notte scorsa, l'esercito israeliano ha sigillato i Territori Palestinesi, misura restrittiva che restera' in vigore, salvo casi umanitari, fino a sabato notte. Forte attenzione anche per la massiccia affluenza al Muro del Pianto. Dalla Spianata delle Moschee sono stati banditi parlamentari e ministri, la cui visita e' vista come una provocazione dai palestinesi. Una decisione presa per "ragioni di sicurezza" che non limita pero' l'accesso per "turisti e visitatori".
   Le celebrazioni della pasqua ebraica sono caratterizzate dall'assenza di prodotti lievitati, cosi' come vuole la tradizione dell'Esodo, dal momento che gli ebrei in fuga dall'Egitto non poterono consumare alcun alimento lievitato a causa dei lunghi tempi che il processo richiede. Ugualmente le case vengono pulite da cima a fondo per eliminare ogni traccia di prodotti lievitati. "Pulendo la nostra casa, allo stesso tempo puliamo le nostre anime", ha spiegato l'ultraortodossa Lea Glazer, che ha impiegato una settimana intera per eliminarne ogni briciola e residuo dalla sua abitazione. In questi giorni di festa le vie della capitale israeliana si sono animate e colorate grazie ad alcune iniziative locali, tra cui le opere di artisti internazionali tracciate in 3D sulle strade della citta'.

(AGI, 23 aprile 2016)


L'unità del popolo è la migliore delle nostre armi

Solo se ci mostreremo compatti riusciremo a superare i grandi problemi che ci spaventano.

di Michael Laitman

 
Michael Laitman
Alcune settimane fa, il partito laburista israeliano ha approvato all'unanimità il piano del leader dell'opposizione Isaac Herzog per la separazione dai palestinesi; un piano che si sforza di promuovere una soluzione a due stati.
   Durante la sua elaborazione, Herzog ha dichiarato che "la vittoria del Sionismo sarà il riconoscimento, da parte del mondo, dei blocchi, e primo fra tutti Gush Etzion. Quelli che non vogliono vedersi imporre un accordo di pace, dovranno adottare la mia proposta, un accordo di separazione nel quale noi siamo di qua e loro sono di là, e una linea rossa ci divide" .
   Tutti noi vogliamo la pace ma, a parer mio, questa non è la strada per attenerla. In primo luogo, anche se costruissimo un muro fra i due paesi, non saremmo in grado di chiudere la frontiera, perché tutto questo è semplicemente impraticabile.
   In secondo luogo, ma ancor più importante, il terrorismo contemporaneo non è dovuto solo all'infiltrazione fisica degli esecutori materiali, ma anche alla penetrazione ideologica delle idee, soprattutto attraverso internet. Il killer di San Bernardino che ha ucciso 14 colleghi di lavoro, è stato descritto come "normale" prima di essere radicalizzato attraverso i social media.
   Un altro esempio è il modo in cui l'ISIS recluta i volontari in tutto il mondo usando internet come mezzo di persuasione. Tra la metà del 2014 e la metà del 2015, quasi 30.000 persone sono entrate in Siria per unirsi all'ISIS. Tutte queste persone sono state educate all'Islam radicale interamente o parzialmente attraverso internet.
   Con l'attuale flusso di idee inoltre, è impossibile impedire agli arabi israeliani di venire radicalizzati. L'attacco terroristico mortale a TeI Aviv, perpetrato dall'arabo israeliano Nashat Milhem, indica che l'Islam radicale e violento si è già insediato in Israele, rendendo ogni proposta di separazione poco realistica, se non addirittura ingenua. Credo che, se vogliamo la pace, dobbiamo cercare un approccio completamente diverso da quello prospettato da Herzog. Potrebbe sembrare poco logico ma credo che ciò che dobbiamo fare è concentrarci sull'unione fra noi invece che cercare sempre di compiacere e placare il mondo. In realtà, in tutta la nostra storia come nazione, ci è stato detto che quando fra noi vi è l'unione, non solo siamo forti, ma c'è pace nel mondo, quindi non c'è bisogno di combattere. Questa è la forza che dobbiamo cercare: la forza dell'unione e dell'amore per gli altri. Non c'è modo di conquistare il favore del mondo se non impariamo ad unirci e ad estendere quell'unione al resto delle nazioni. E poiché il mondo non sarà in grado di imporre la pace al nostro popolo, ci incolperà per ogni guerra che si verificherà da ora in poi.
   Continuiamo a pensare che il mondo debba esserci grato per i nostri contributi alla scienza e alla cultura, ma il mondo non la pensa così. In realtà, gran parte dell'umanità ci considera come la peggior calamità del mondo, più sinistri di ogni tiranno e più distruttivi di qualsiasi terremoto. A parte qualche eccezione, le sole persone che tengono conto delle nostre qualità siamo noi, mentre il resto del mondo ci rinfaccia le nostre colpe.
   Se c'è una cosa per la quale il mondo ci dovrebbe ringraziare, questa è l'unione, naturalmente a condizione di avere unione da offrire. Abbiamo coniato il motto "Ama il tuo prossimo come te stesso" che è diventato una pietra miliare nella costruzione sia del Cristianesimo che dell'Islam. Infatti, la Regola d'oro (la versione più moderata di "Ama il tuo prossimo come te stesso") appare quasi in ogni religione, sistema di credenze e tradizione etica. Chiaramente non abbiamo idea di come realizzare questa regola, tantomeno nella sua versione più "rigida": "Ama il tuo prossimo come te stesso". Gli antichi Ebrei lo sapevano ma ora non ci sono più. Ciò che ne rimane siamo noi, e il resto del mondo che sta affondando nella nefandezza, ci accusa di tutto questo.
   La soluzione che vedo per i nostri problemi quindi, è quella di imparare ad unirci per poi diffondere questo metodo al resto del mondo. Dato che però è impossibile farlo con soluzioni militari ed essendo falliti gli sforzi diplomatici, possiamo separarci dai palestinesi o imparare a conviverci. Come ho appena spiegato, non possiamo realmente separarci da loro, così la nostra unica opzione è quella di imparare a vivere insieme. Per fare questo, dobbiamo prima imparare a vivere fra di noi per poi condividere questa capacità con i nostri vicini. Dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti dei palestinesi: loro saranno nostri nemici fintanto che noi saremo nemici di noi stessi. Escludendo le necessarie e preventive misure salvavita, dobbiamo lasciarli soli per mettere a fuoco fra noi l'unione interna. Quando la raggiungeremo, potremo distribuire tutte le bombe che abbiamo, senza il minimo rischio per la vita di nessuno, e questo da entrambe le parti del confine.
   Sto scrivendo questo articolo a circa una settimana dal congresso annuale sulla Kabbalah tenutosi qui a Tel Aviv, durante il quale si sono riunite circa 6.000 persone provenienti da 64 paesi di tutto il mondo per vivere questa unione in prima persona. Loro porteranno questo esempio nei loro rispettivi paesi e parteciperanno alla costruzione di un domani migliore. Tuttavia Israele deve essere la prima nazione a dare il giusto esempio al mondo.

(Shalom, aprile 2016)


Gli inviti ad essere uniti, ad amarsi, a vivere insieme in pace si possono sempre fare e sono anche inattaccabili, fino a che restano nel generale, che inevitabilmente è anche generico. “Dobbiamo prima imparare a vivere fra di noi”, sì, ma come? Si potrebbe avere qualche indicazione più precisa? Evidentemente no, perché come ammette lo stesso autore, «chiaramente non abbiamo idea di come realizzare la regola ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’». Però - aggiunge - “quando la raggiungeremo, potremo distribuire tutte le bombe che abbiamo, senza il minimo rischio per la vita di nessuno». Il che è come dire che il rimedio migliore per la malattia è la salute. M.C.


Essere ebrei in Scozia

I numeri allarmanti dell'ennesimo esodo da una città europea, sotto i colpi dell'antisemitismo.

 
Famiglia ebraica di fine Ottocento a Glasgow
 
Reduci scozzesi di religione ebraica della Seconda guerra mondiale
ROMA - Mentre gli ebrei fuggono dall'Europa, anche la Scozia diventa terra fertile per l'antisemitismo. Dopo gli esodi partiti dalla Francia e dal Belgio, dopo i sempre più frequenti casi di discriminazione nei paesi scandinavi, ora è il turno di Glasgow. Lo dicono i numeri e le testimonianze riportate da un bel reportage pubblicato oggi dal Guardian che descrive la drastica riduzione della comunità ebraica dalla prima città della Scozia. Gli ebrei di Glasgow sono dimuniti del 20 per cento in dieci anni, dal 2001 al 2011, scendendo da 4,222 a 3,396 individui. Qui, subito dopo la Seconda Guerra mondiale, gli ebrei raggiunsero quota 20 mila, la gran parte provenienti dai paesi dall'Europa orientale, in fuga dalla persecuzione nazista. I primi insediamenti risalgono però a molto prima, al 1800. Da allora gli ebrei di Glasgow hanno contribuito alla ricchezza culturale della città.
   Oggi, l'allarme più preoccupante è dato dal crescente senso di insicurezza che avvolge gli ebrei della prima città scozzese, una paura quotidiana che persino l'obiettività fredda dei numeri - comunque preoccupanti - non può descrivere nella sua interezza. Il Consiglio delle comunità ebraiche scozzesi (ScoJeC) ha provato a sintetizzare questo senso di paura dilagante. In un report intitolato "Essere ebrei in Scozia" si riporta che un ebreo su cinque è stato vittima almeno una volta di un crimine d'odio. Il Community Security Trust, che monitora le aggressioni antisemite nel Regno Unito, va più nel dettaglio e registra 31 eventi di discriminazione antisemita nel 2014, più del doppio rispetto all'anno precedente, quando erano 14. Quest'anno siamo fermi a otto, ma la comunità ebraica riferisce che il senso il senso di paura resta vivo in ogni credente, quasi sotto traccia.
   Sempre più fedeli non si sentono a loro agio nel dichiarare la propria confessione religiosa. Questo senso di vulnerabilità della comunità ebraica ha vissuto un'impennata dal 2014, a partire dalla guerra di Gaza. Da allora, riferiscono gli ebrei di Glasgow, le violenze e le discriminazioni sono aumentate tramutando la religione ebraica in uno stigma sociale. Basta poco, dalle scritte antisemite comparse sempre più di frequente sui muri della città, fino alle semplici conversazioni con gli amici, dove gli ebrei, dice il direttore dello ScoJeC al Guardian, spesso dissimulano la propria fede per timore di essere bollati come "diversi". Nonostante Glasgow resti il quarto capoluogo del Regno Unito per numero di credenti di religione ebraica (segue Londra, Manchester e Leeds), oggi quella stessa minoranza è in pericolo. E con essa l'identità stessa della città.

(Il Foglio, 22 aprile 2016)


La nuova musica israeliana fa ballare il Medio Oriente

Il successo delle A-Wa illumina la scena degli artisti che cantano in arabo. Figli della cultura mizrahì, quella degli ebrei mediorientali e nordafricani, ora vincono i pregiudizi a suon di note. E varcano i confini.

di Alessandra Abbona


Le sorelle Haim tornano alle origini yemenite mischiando tradizione. elettronica e hip hop Neta Elkayam ha appreso dalla nonna la darija, il dialetto parlato dagli alawiti L'arabo, almeno quello cantato, non è più la lingua del nemico di Israele.


Neta Elkayam ha appreso dalla nonna la darija, il dialetto parlato dagli alawiti La foto della campagna del loro primo disco, che dopo il lancio digitale lo scorso inverno esce in cd il 27 maggio in Francia, le ritrae abbigliate in djellaba a motivi optical: l'autore è l'artista marocchino Hassan Hajjaj, il Martin Parr del Maghreb. Loro sono invece le A-Wa, giovane band femminile israeliana di origine yemenita che riempie i club di Tel Aviv cantando in arabo. «Siamo cresciute a Shaharut, una manciata di case nel sud di Israele, al confine con la Giordania», raccontano a pagina99 Tair, Llron e Tagel, le tre sorelle Haim che hanno formato il gruppo, «con i nostri genitori abbiamo ascoltato musica sin dall'infanzia, ma è grazie ai nonni patemi, giunti in Israele dallo Yemen negli anni '50, che abbiamo scoperto le nostre radici e il dialetto arabo».
 
Neta Elkayam
 
   Un successo di dimensioni internazionali, con recensioni entusiastiche su Le Monde, apparizioni su televisioni e radio francesi e nordamericane, paragoni con Ofra Haza (l'ormai scomparsa regina della musica israeliana, anch'essa di origine yemenita). Persino Al Jazeera ha titolato "La prima band israeliana che raggiunge il top della classifica cantando in arabo", mentre la loro pagina Facebook è seguita da migliaia di fan provenienti anche da Marocco, Egitto, Tunisia, Yemen. Le tre sorelle sono felici e stupite al tempo stesso di questa popolarità e confermano come i commenti lasciati dagli ammiratori arabi sui loro profili social siano positivi e fuori da ogni polemica.
   «Abbiamo iniziato ad ascoltare le melodie tradizionali cantate dalla nonna, in occasione di matrimoni e feste familiari», raccontano le A-Wa, «quindi ci siamo interessate al repertorio musicale delle anziane donne yemenite. Il primo a registrare queste canzoni, fino ad allora esclusivo patrimonio orale, fu negli anni '60 Shlomo Moga'a, così abbiamo deciso di riproporne alcune e visto che sin da bambine abbiamo studiato musica, cantarle insieme ci è parso naturale».
   Le loro voci acute che intonano il classico silsulim, il gorgheggio orientale, hanno destato l'interesse di Tomer Yosef, anch'egli di ascendenza yemenita e frontman della band Balkan Beat Box, che le ha lanciate, inserendo sonorità elettroniche e fornendo loro un supporto di ottimi musicisti.
   Il primo album Habib Galbi contiene dodici pezzi tradizionali contaminati da hip hop ed elettronica, con titoli aulici dei canti d'amore femminili della penisola araba: tra questi Ya Raitesh Al Warda ("Se tu fossi una rosa") o Zangabila ("La pianta di zenzero"), OraleA-Wa, il cui nome è un grido di incitamento in arabo, sono in tour tra l'Europa e gli Usa, con un live act fatto di voci antiche e armoniose, vestiti vintage che miscelano folklore e sneakers.
   Questo fervore musicale è uno degli aspetti di quella che in Israele è la rinascita della cultura mizrahì, che appartiene agli ebrei di origine nordafricana e mediorientale. Comunità che hanno convissuto con quelle musulmane per secoli, intrecciando attività e relazioni, fino alla nascita dello Stato ebraico e alla conseguente ostilità araba nei loro confronti. Furono circa 700 mila gli ebrei che lasciarono questi territori per emigrare in Israele. Per gli yemeniti, in particolare, venne allestita l'Operazione Tappeto Magico, un ponte aereo che tra il 1949 e il 1950 mobilitò circa 50 mila persone.
    Per i mizrahìm giunti nella Terra Promessa all'inizio la vita non fu facile. Il modello egemonico era quella di una nazione bianca e askenazita, fatta da pionieri che mal vedevano quell'invasione di confratelli dalla pelle scura e di lingua araba. Oggi però le cose stanno cambiando: la maggior parte della popolazione ha origini mizrahì e in essa una minoranza giovane e colta sta riscoprendo le proprie radici, lottando per avere voce in ambito politico, sociale, accademico.Alcuni attivisti accusano la classe dominante di aver marginalizzato per troppo tempo la comunità, mentre altri operano una rivendicazione culturale attraverso la promozione della musica tradizionale.
   Oltre alle A-Wa, sono numerosi gli artisti israeliani che hanno ripreso la lingua araba per i loro lavori. È il caso di Dudu Tassa, giovane cantautore di origine irachena tra i più popolari del Paese che ha attinto al patrimonio musicale del nonno e del prozio, Daoud e Saleh El Kuweiti. Questi furono i più grandi musicisti iracheni del XX secolo, autori di composizioni che hanno fatto la storia della musica araba. Emigrati in Israele negli anni '50, da star che erano, divennero due sconosciuti che si guadagnarono da vivere come commercianti, occultando il loro talento in una dimensione privata. Il nipote Dudu ha convissuto per anni con il loro mito, intraprendendo poi un viaggio alla ricerca delle proprie origini, fino a realizzare due album cantati in arabo iracheno e contenenti le canzoni originali del nonno riproposte con sonorità attuali: Dudu Tassa and the Kuweitis e Ala Shawati.
   I nonni sono stati l'ispirazione anche per Neta Elkayam, cantante e musicista di origine marocchina proveniente, come la maggior parte degli ebrei magrebini, da Be'er Sheva. Neta ha appreso la darija, l'arabo dialettale parlato nel regno alawita, dalla nonna, che gli ha passato anche la sua memoria musicale. Elkayam ha creato un progetto con canzoni e melodie ispirate ai repertori di artisti ebrei marocchini e algerini degli anni '40, '50 e '60 come Samy El Maghribi, Line Montye Maurice El Medioni, storici beniamini del pubblico magrebino sia musulmano che ebreo.
   L'arabo, almeno quello cantato, non è più la lingua del nemico di Israele.

(pagina 99, 23 aprile 2016)


Addio a Fred Mayer, ebreo tedesco che spiò i nazisti per gli Usa

La sua storia è narrata in “The real inglorious bastards”

di Massimo Lomonaco

Fred Mayer
Ben prima che Quentin Tarantino immaginasse i suoi 'Ingloriosi Bastardi', Fred (Frederick) Mayer poteva dire come soldato americano ebreo di aver contribuito a sconfiggere Hitler. La sua morte, avvenuta nei giorni scorsi a 94 anni a Charles Town in West Virginia negli Usa, è stata ricordata con risalto dai media israeliani perché la sua storia - narrata in un pluripremiato documentario del 2012 intitolato 'The real inglorious bastards' - è molto più che un film: è una delle più audaci e riuscite operazioni dello Oss, lo spionaggio americano, durante la guerra. 'Greenup' - come venne chiamata l'azione - è ancora oggi studiata come modello. Nato il 28 ottobre del 1921 in una famiglia ebraica di Friburgo ai margini della Foresta Nera, l'allora Fritz era poco più che un adolescente quando nel 1938 la madre e il padre, sotto la spinta delle persecuzioni naziste, decisero di lasciare la Germania e andare in America dove si stabilirono a Brooklyn.
   Diventato oramai Fred - e non volle mai più sentire la parola Fritz -, all'indomani di Pearl Harbour, Mayer si arruolò nell'esercito della sua nuova patria. Restio all'inazione, soprattutto quando i suoi correligionari venivano sterminati dai nazisti in tutta Europa, fece domanda per entrare nell'Oss, il servizio segreto americano, antesignano della Cia. Fu subito accettato: non solo parlava correntemente quattro lingue (tra cui ovviamente il tedesco), ma aveva una naturale abilità in tutto quello che faceva e una notevole dose di coraggio. "Non aveva il gene della paura", raccontò più tardi uno dei suoi reclutatori. Il gruppo a cui fu assegnato comprendeva, tra gli altri, altri quattro ebrei d'origine europea: George Gerbner (ungherese), Alfred Rosenthal e Bernd Steinitz (entrambi tedeschi), Hans Wynberg (olandese)."Ci eravamo impegnati - ha detto lui stesso nel documentario - a eliminare i nazisti e lo avremmo fatto oltre le linee nemiche. Era ciò per cui ci eravamo arruolati". "L'ufficiale che ci addestrò - ha raccontato nello stesso documentario un altro del gruppo, e sembra di sentire il film di Tarantino - ci disse che l'unica cosa che poteva insegnarci era premere il grilletto alla vista di un nazista".
   La grande occasione arrivò nel febbraio del 1945, Mayer venne messo a capo di 'Greenup', operazione che secondo l'Oss, aveva l'obiettivo di controllare la linea ferroviaria del Brennero, l'arteria principale di approvvigionamento delle truppe tedesche in Italia, e raccogliere informazioni sulla difesa dell' 'Alpenfestung', l'ultima linea di resistenza dei tedeschi in Austria. Paracadutato quello stesso mese oltre le linee nemiche nei pressi di Innsbruck, grazie alla collaborazione di un ufficiale austriaco, Mayer si infiltrò tra i ranghi dell'esercito e vestì la divisa tedesca. Fino al maggio dello stesso anno, raccolse - insieme a Wynberg - notizie fondamentali per l'Oss per bombardare i convogli nazisti che passavano il Brennero. Subito dopo, grazie ad un delatore, venne scoperto e torturato ma non rivelò i compagni ancora operanti nella zona.
   Anzi fu lui, un agente americano, che i nazisti - oramai consapevoli che la guerra era perduta - usarono per arrendersi.
   E così il 3 maggio del 1945, il comandante della 103/a divisione di fanteria Usa, incaricata di conquistare Innsbruck, vide scendere da un'auto della Werhmacht Fred Mayer che aveva già predisposto tutto: l'esercito tedesco si era arreso ad un ebreo che quasi 25 anni prima era stato costretto a fuggire dalla Germania.

(ANSA, 23 aprile 2016)


Un sistema hi-tech per individuare le gallerie palestinesi

di Fabio Scuto

GERUSALEMME. La guerra tra i miliziani di Hamas e i soldati di Israele avviene da tempo anche sotto terra. Perché da anni Hamas ha scelto come strategia quella dei tunnel d'attacco scavati nella sabbia e diretti verso Israele. Un tempo erano soprattutto sotto il confine con l'Egitto per contrabbandare armi, uomini e materiali di consumo per la popolazione, ma nella guerra del 2014 Israele ha scoperto che la minaccia principale era rappresentata proprio dai tunnel verso il suo territorio dai quali sono partiti decine di attacchi.
I desert rat, i topi del deserto di Hamas sono oltre mille, continuano a scavare notte e giorno. Un mestiere rischioso, ma pagato benissimo per ordine del capo militare Mohammed Deif, l'uomo che Israele ha tentato di uccidere sei volte negli ultimi dieci anni. I tunnel, lunghi anche 1,5 km e a una profondità di 40-50 metri, sono incamiciati di cemento, hanno luce e ventilazione all'interno. Dopo la guerra del 2014 Israele ha cercato una soluzione investendo milioni di dollari e ora sta raccogliendo i primi frutti, come nel caso della scoperta di un tunnel d'attacco la scorsa settimana che spuntava a fianco di un kibbutz a un chilometro dal confine.
L'Idf, non entra nei dettagli della tecnologia attualmente usata per trovare i tunnel a decine di metri di profondità, ma è noto che il sistema è stato messo a punto dalla Elbit Systems, società hi-tech per la Difesa, e utilizza sensori. Le informazioni vengono analizzate con un sistema di controllo basato su algoritmi. Il sistema è il primo del suo genere ed è stato sviluppato in Israele a tempo di record, anche con aiuti americani interessati al suo uso sul confine col Messico.

(la Repubblica, 23 aprile 2016)


Il calcio a Shabbat divide il governo israeliano

Infuria in Israele il dibattito sulla liceità dello sport al sabato. Netanyahu tenta la mediazione, tra doveri religiosi e diritti tv.


Circa 200 giocatori delle prime due serle hanno minacciato di scendere in sciopero Gil ortodossi sono In crescita anche nel pallone, di cui un tempo non si interessavano


di Dario Falcini

Eppure non risulta che cross, contrasti e simulazioni trovino un esplicito divieto nelle Scritture. Non erano queste le priorità degli avi. Che per sei giorni potevano e dovevano spezzarsi la schiena, ma al settimo, che fossero in fuga da un presunto faraone o nei giorni della semina presso il Giordano, dovevano interrompere le fatiche.
   Era Shabbat, che non a caso significa smettere. Di mietere, salare la carne, tosare come scritto nel Talmud, che indica 39 attività da evitare per godersi infine l'ingresso di Dio nella casa eretta con il proprio sudore. Ma un conto sono i testi sacri, un conto sono le interpretazioni. E all'interno della comunità ebraica possono essere particolarmente intransigenti, creative, contrastanti.
 
   È così giunta a incendiare il dibattito politico una campagna che va avanti da mesi e mira a meglio definire i confini di cosa è lecito fare e cosa no dal tramonto di venerdì fino a quello del giorno seguente. La porta avanti un gruppo di pressione guidato dai rappresentanti parlamentari ultra-ortodossi di Shas e Giudaismo Unito della Torah. Negozi aperti giorno e notte, nuovi cinema multisala e lo struscio del fine settimana di Gerusalemme sono stati oggetto dei loro strali.
   Se non è così semplice porre limiti alle abitudini individuali, altre leve possono essere azionate. A questa operazione lo scorso settembre si sono prestati circa 200 calciatori professionisti del campionato israeliano di prima e seconda divisione. «Non possiamo più giocare di sabato, lo impongono i nostri precetti», hanno detto prima di minacciare lo sciopero.
   La loro richiesta, sottoscritta da alcuni nomi di peso come il portiere dell'Hapoel Petah Tikva Avi Ivgy, Yossi Bit-ton dell'Hapoel Gerusalemme e Israel Rosh dell'Ms Ashdod, è arrivata davanti a un giudice del lavoro. Un po' a sorpresa gli atleti sono usciti vittoriosi dall'aula. Senza un esonero specifico, sanciva la toga, i calciatori devono astenersi da colpi di tacco, parate e tutto il resto.
   E gli esoneri non sono uno scherzo: spettano a medici, poliziotti o pompieri e vanno vidimati dal ministero dell'Economia. La sentenza ha aperto immediatamente una piccola crisi all'interno del governo, dove si fronteggiano gli esponenti più vicini agli ambienti religiosi e quelli più attenti alle sirene del mercato.
   Alla fine, la serrata è durata appena poche ore. Risolutivo è stato l'intervento del consigliere legale dell'esecutivo Yehuda Weinstein che, per giustificare il suo stop allo stop, ha richiamato l'istinto più atavico: la conservazione. «Il campionato si gioca di sabato da decenni e questo ha dato vita a un particolare status quo che non può essere alterato all'improvviso», ha dichiarato. Si tornava in campo.
   La mossa di Weinstein serviva più che altro a prendere tempo e dare la stura alle trattative. Sorgeva un comitato per risolvere la questione, che ora ha emesso il suo verdetto. Le parole del ministro allo Sport Miri Regev, pronunciate pochi giorni fa, lasciano intuire che c'è un accordo tra le parti, anche se non è dato capire esattamente quale.
   «Proseguiremo con lo status quo senza ferire i calciatori, né negare i loro diritti», ha spiegato. «Chi non vuole giocare potrà non farlo e le partite di Shabbat saranno ridotte al minimo».
   Si dice che la squadra potrà rinunciare al match se almeno sette tesserati ne faranno richiesta. L'abile compromesso è solo l'ultimo del governo Netanyahu, fenomenale nel saper conciliare l'inconciliabile.
   Che vuole dire tenere assieme le esigenze di una lega che ha venduto i diritti alle televisioni per un campionato spalmato su tre giorni e che ogni anno deve fare le acrobazie per assegnare lo stadio Teddy Kollek di Gerusalemme alle tre squadre che lo condividono a rotazione (Beitar, Hapoel Gerusalemme e Hapoel Katamon). Che vuole dire tenere assieme i gruppi di tifosi più laici, che aspettano tutta la settimana quei 90 minuti di gioco e nel giorno di riposo vorrebbero goderseli senza ansie o restrizioni. E quelli tradizionalisti, circa il 10% della popolazione ma in crescita, che fino a poco fa parevano una frangia marginale nel sistema calcio.
   «Un tempo chi aveva certe visioni della vita rinunciava allo sport per sé e per i figli e lo Shabbat è sempre stato un limite. Ora molti stanno rivalutando la questione e vogliono essere coinvolti», ha spiegato Dov Lipman, ex membro del parlamento israeliano che da sempre lavora per ridurre il gap culturale tra le diverse anime della società, intervistato dal New York Times.
   Nell'articolo sono riportate anche le posizioni dei tifosi. Come Levy, costretto ad abbandonare all'inizio del secondo tempo sullo 0 a 0 il match tra Hapoel Gerusalemme e Maccabi Herzliya, che vedeva impegnato il figlio: era venerdì e l'orologio correva verso il momento in cui l'auto va riposta in garage e possibilmente la lampadina spenta. Sono tanti, scrive ancora il quotidiano americano, a domandarsi: «Perché non si può iniziare un'ora prima?».
   Gli stessi giocatori hanno i loro crucci. Chi appoggia la protesta e ha firmato la petizione sostiene che la maggior parte degli atleti e delle società sportive stia con loro.
   Per il portavoce della lega israeliana Kobby Barda, «una persona religiosa rinuncia a tante cose, ma un professionista rinuncia ad altre e gli impegni si devono rispettare».
   Rimangono, come sempre, le storie e le scelte di ciascuno. Di chi ha mollato tutto per non commettere peccato e non finire a odiare se stesso, di chi è sceso di categoria e ha rinunciato al professionismo, di chi invece ogni giorno scende a patti tra regole divine e sportive perché ama il pallone oppure ha semplicemente bisogno di uno stipendio. Se l'accordo per abolire, o per lo meno ridurre, il calcio durante lo Shabbat reggerà, potranno continuare a metterselo in tasca, levando da lì la coscienza.

(pagina99, 23 aprile 2016)


Kamel Daoud sferza la "Francia ipocondriaca, oziosa e disperata"

"I dissidenti islamici ci comprendono meglio dei nostri intellò"

di Giulio Meotti

Kamel Daoud
ROMA - "Se scrivo una parola in Algeria, la citano fino in Svezia Potrebbe essere lusinghiero per l'autostima, ma è un inferno". Cosi, in un'intervista al Monde, Kamel Daoud ha parlato una settimana fa. E il perché di tanta eco e polemiche ai suoi articoli lo si capisce dall'ultimo che Daoud ha scritto sul Point. Si tratta di una delle più ficcanti analisi sullo stato della democrazia europea. Daoud sviscera la "malattia francese" che è la stessa di un intero continente. Lo scrittore algerino, oggetto di minacce di morte in patria e di attacchi da parte della gauche parigina, sostiene che il male che affligge la Francia è un misto di "morbidezza universale", di "isteria per l'ozio" e di "disperazione endogena". Daoud la chiama "ipocondria", dove lo "scherno di se stessi" si trasforma in un "ritiro" in cui si è "costretti a coltivare una compassione segreta". Un "paradosso raffinato". "Ogni nazione ha i suoi ritmi, quello della Francia sembra essere quello di messianismo e ozio alternato" sostiene lo scrittore algerino. E questo comporta "lo smembramento lento della sua eredità".
   Da oltre un anno Daoud sferza l'Europa dalle colonne del Point, costruendo con le proprie mani quella che Sébastien Le Fol ha chiamato "la maledizione del dissidente": "Per una certa sinistra europea, un pericolo minaccia l'umanità. Questo non è il terrorismo o il fondamentalismo religioso. Ma gli intellettuali dissidenti nel mondo musulmano come Kamel Daoud". Il Figaro due giorni fa ha pubblicato uno speciale letterario su "Les intellectuels et l'islam", queste mosche bianche islamiche che dicono più verità dei nostri intellò. "Agli occhi degli islamisti, la loro libertà è un atto di tradimento della ummah" spiega il Figaro. "Al tempo di Rushdie, molti personaggi della cultura fra cui Milan Kundera e Isabelle Adjani, si sono mobilitati per difenderlo. Oggi, questo supporto sarebbe probabilmente meno evidente". E' il caso, come Daoud, del giornalista franco-algerino Mohamed Sifaoui, condannato a morte dai fondamentalisti.
   Il Collettivo contro l'islamofobia in Francia rivendica la sua emarginazione dal dibattito pubblico, mentre lo scienziato della politica Pascal Boniface contesta la legittimità della sua presenza sui televisori. E' il caso di Nadia Remadna. Le minacce contro di lei non provengono da Raqqa, ma dalla sua città: Sevran, nella Seine-Saint-Denis. Scrive il Figaro: "Questi scrittori e giornalisti della cultura arabo-musulmana che denunciano la minaccia islamica e la violenza insita nel Corano vengono attaccati da ogni lato. Dalla censura ipocrita della libertà di espressione. Dagli ayatollah barbuti. Sono vittime di una duplice penalizzazione. Sono soli contro tutti". E' forse proprio questa condizione di eroi e di emarginati a fornire loro lo speciale grandangolo sull'Europa.

(Il Foglio, 23 aprile 2016)


Il 25 aprile a Roma. Liberazione, la nostra storia

di Anna Foa

Il comunicato dell'Aned che annuncia che l'associazione non parteciperà al corteo del 25 aprile, e conseguentemente l'organizzazione di una serata dedicata al 25 aprile al Pitigliani, sono due eventi che non possono che suscitare amarezza in tutti quegli ebrei che si identificano nei valori dell'antifascismo e della Resistenza. Capisco la necessità della scelta dell'Aned. Ma non posso che sentire che gli ebrei sono stati così espropriati di una celebrazione che apparteneva loro di diritto e costretti nuovamente in un ghetto. Perché essere obbligati a restare fuori dalle celebrazioni della Resistenza, Resistenza a cui tanti ebrei hanno partecipato in quanto italiani, è una sconfitta per tutti: per noi ebrei, nuovamente separati dagli altri italiani nel celebrare una Liberazione che avevamo pienamente condiviso con loro settant'anni fa, per la memoria dell'antifascismo e della Resistenza, per quell'idea di antifascismo su cui si è costruita la Repubblica italiana. Credo che l'Anpi romano dovrebbe fare una seria riflessione su questo punto: sul fatto di avere, per motivi politici, sacrificato la presenza degli ebrei nella celebrazione ai rapporti con centri sociali e movimenti antisionisti quando non decisamente antisemiti. Il fronte Propal non ha nulla a che vedere con la celebrazione del 25 aprile. Gli slogan antisionisti, gli attacchi alla Brigata Ebraica, le formulazioni antisemite che si percepiscono affiorare nell'ignoranza dei più e nell'estremismo di alcuni, tutto questo non deve avere spazio nel corteo.
   Il 25 aprile 1945, gli ebrei uscivano infine dai loro nascondigli, contavano i loro morti. Molti di loro avevano combattuto con i partigiani, in mezzo a loro. Non ci sono state formazioni partigiane solo ebraiche, come in Francia, come in Polonia. Ebrei e non ebrei hanno combattuto insieme e insieme hanno celebrato la vittoria in quei giorni di confusione e di rinascita della fine d'aprile. Erano sui palchi nelle piazze a fianco degli Alleati, sfilavano nelle città liberate. La Brigata Ebraica, parte dell'Esercito Inglese, ha combattuto valorosamente dentro le fila di questo esercito. Dopo la Liberazione, ha aiutato generosamente la ricostruzione del mondo Ebraico italiano, creato scuole, collaborato nella ricerca dei dispersi, dei morti. I rapporti tra ebrei e "sionisti" nell' Italia del dopoguerra erano stretti, non dimentichiamoci il ruolo dell'Italia nell'Aliyah Bet, non dimentichiamo i portuali che scendevano in sciopero per aiutare le navi dei profughi ebrei a salpare per Eretz Israel.
   La scelta di oggi mette fine per sempre non solo a questo particolare momento storico ma anche alla sua memoria. Ebrei e non ebrei celebrano la Liberazione gli uni separati dagli altri. La responsabilità è dell'Anpi, certo. Non ho dubbi su questo punto. Vorrei però ammonire noi ebrei di quello che questa conclusione rappresenta: la fine dell'antifascismo, un antifascismo di cui il mondo ebraico è stato a lungo parte. Non credo che in Italia ci possa essere un antifascismo senza ebrei, e credo che da parte sua il mondo ebraico abbia bisogno di richiamarsi all'universalità di quei valori, di quella memoria condivisa. Scrivo queste righe per augurarmi che da questa scelta di oggi si possa in futuro recedere, che non diventi definitiva. Per noi, per tutti.

(moked, 22 aprile 2016)


Incontri intergovernativi ceco-israeliani fissati per il 22 maggio a Gerusalemme

PRAGA - Il premier ceco Bohuslav Sobotka e altri membri del governo saranno in visita il 22 maggio a Gerusalemme per le consultazioni intergovernative ceco-israeliane. I temi riguarderanno i rapporti economici bilaterali, ricerca e sicurezza. Lo ha annunciato lo stesso premier Sobotka oggi in conferenza stampa. Si tratta della quarta riunione congiunta di questo tipo e Israele è uno dei pochi paesi con cui la Repubblica Ceca agisce in un formato simile (gli altri due sono Polonia e Slovacchia). Nell'ambito della visita, il governo ceco sarà rappresentato, oltre che dal premier, anche da gran parte dei suoi rappresentanti: il ministro dell'Industria Jan Mladek, quello della Difesa Martin Stropnicky, del Lavoro Michaela Marksova, della Salute Svatopluk Nemecek, dell'Istruzione Katerina Valachova, dello Sviluppo Regionale Karla Slechtova, dell'Ambiente Richard Brabec e infine della Cultura Daniel Herman.

(Agenzia Nova, 22 aprile 2016)


Israele ora guarda alla Russia. Addio Obama

di Daniel Mosseri

Israele non recederà mai dalle alture del Golan. Questo il messaggio che il premier israeliano Benjamin Netanyahu in visita a Mosca ha consegnato al presidente russo Vladimir Putin. Le alture strappate alla Siria con la guerra dei Sei Giorni (1967) rivestono per Israele un'importanza strategica. A differenza del Sinai riconsegnato all'Egitto o della Cisgiordania oggetto di un negoziato coi palestinesi, Israele non ha intenzione di restituire alla Siria gli altopiani a metà strada fra Gerusalemme e Damasco. Mentre Netanyahu visitava Putin, alcune centinaia di chilometri più a sud, l'Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo ricevevano il redivivo Barack Obama. In Arabia Saudita il presidente americano è inviso per aver sdoganato l'Iran e il suo programma nucleare. Obama si è impegnato in una due giorni per riallacciare con gli emiri del petrolio ma c'è da credere che i sauditi e i loro alleati resteranno delusi dal tono ambiguo del capo della Casa Bianca: «Nonostante l'accordo per il nucleare», ha affermato Obama davanti al Consiglio di Cooperazione del Golfo «noi tutti abbiamo serie preoccupazioni per il comportamento dell'Iran e per le sue attività destabilizzanti. Allo stesso tempo», ha aggiunto, «nessuno di noi guadagnerebbe da un conflitto con l'Iran».

(Libero, 22 aprile 2016)


Celebrare il terrorismo alla maniera dei palestinesi

di Khaled Abu Toameh (*)

Poco dopo l'esplosione causata da un attacco terroristico contro un bus di linea a Gerusalemme, lo scorso 18 aprile, molte fazioni palestinesi si sono precipitate a rilasciare dichiarazioni di plauso alla "eroica operazione", esortando i palestinesi a perseguire la strada della lotta armata contro Israele.
   L'esultanza palestinese per questo attentato terroristico, il primo di questo tipo dagli attentati suicidi compiuti durante la seconda Intifada più di un decennio fa, è un ennesimo elemento che conferma la crescente radicalizzazione tra i palestinesi. Questa radicalizzazione è in gran parte dovuta all'incitamento anti-Israele in corso e all'indottrinamento operato da vari leader e fazioni palestinesi. Non sorprende che sia stato Hamas il primo gruppo palestinese che ha plaudito l'attacco. Sami Abu Zuhri, il suo portavoce, ha detto che il movimento "approva l'operazione compiuta a Gerusalemme e la considera una risposta naturale ai crimini di Israele, soprattutto alle esecuzioni extragiudiziali e alla profanazione della Moschea di al-Aqsa. Il portavoce di Hamas riecheggia accuse simile lanciate dal presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, che ha dichiarato che i palestinesi non permetteranno agli ebrei di "profanare la Moschea di al-Aqsa con i loro piedi sporchi".
   E allora, come si può biasimare Hamas per aver avanzato accuse del genere contro gli ebrei quando Abbas, partner di pace di Israele, è stato il primo a dichiararsi contrario alle visite degli ebrei sul Monte del Tempio? Va ricordato che le accuse di Abbas sono arrivate poche settimane prima dello scoppio della cosiddetta "Intifada dei coltelli", l'ondata di violenza iniziata nell'ottobre del 2015.
   Anche un altro dirigente di Hamas, Hussar Badran, ha elogiato l'attacco terroristico dicendo che il suo movimento è determinato a proseguire la resistenza per "cacciare gli occupanti dai nostri territori palestinesi". Quando i leader di Hamas parlano di "cacciare gli occupanti dai territori palestinesi" intendono dire che Israele dovrebbe essere eliminato e rimpiazzato da un impero islamista.
   Dagli studi dell'Al-Aqsa Tv, l'emittente televisiva di Hamas, il conduttore Mohamed Hamed era così felice dell'attentato che si è complimentato con gli autori dell'attacco. Altri palestinesi che non sono necessariamente sostenitori del movimento islamico hanno elogiato sui social media l'attacco, invocandone altri. Su Twitter molti attivisti palestinesi hanno creato gli hashtag #Bus12 e #TheRoofoftheBusGoesFlying per celebrare l'accaduto. Anche i vignettisti palestinesi si sono immediatamente uniti al coro di esultanza per "l'operazione eroica" compiuta contro i civili israeliani. Una di essi, Omayya Juha, ha risposto prontamente disegnando una vignetta che mostra una donna palestinese che festeggia l'attentato "ululando" e distribuendo dolcetti (nella foto).
   Poche ore dopo l'attacco, le fazioni palestinesi sembravano essere in competizione tra di loro su chi dovesse rilasciare la dichiarazione più favorevole all'esplosione del bus. La Jihad islamica palestinese e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) hanno reagito con dichiarazioni separate di plauso, asserendo che questo atto terroristico ha segnato "uno sviluppo qualitativo" nell'Intifada. I due gruppi hanno giurato di continuare a uccidere gli israeliani, per "intensificare" l'Intifada. Poi, anche un altro gruppo chiamato Comitati di resistenza popolare ha rilasciato la sua dichiarazione in cui ha minacciato "attacchi più dolorosi contro il nemico sionista".
   Perfino Fatah, la fazione di Abbas, si è data un gran da fare per giustificare l'attacco terroristico. Inizialmente, Ra'fat Elayan, portavoce di Fatah, ha usato le stesse parole di Hamas per commentare l'esplosione del bus dicendo: "Questa è una risposta naturale alle pratiche israeliane contro il nostro popolo, come arresti, uccisioni e ricorrenti incursioni nella Moschea di al-Aqsa".
   Stando a quanto riferito, in tarda serata, alcuni palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza, sono scesi in strada per esprimere la loro gioia per l'attacco terroristico. Le dichiarazioni pubbliche rilasciate dai leader e gruppi palestinesi dopo l'attentato di Gerusalemme sono un altro segnale di come essi continuino a incitare il loro popolo contro Israele. È il genere di dichiarazioni che spingono le donne e gli uomini palestinesi ad afferrare un coltello (o in questo caso un ordigno esplosivo) e usarlo per uccidere il primo ebreo che incontrano per strada.
   Il principale ostacolo alla pace con Israele continua a essere la mancanza di un'educazione alla pace con Israele. Di fatto, si può affermare che non c'è mai stato un impegno concreto da parte dei leader e delle fazioni palestinesi a preparare la propria popolazione alla pace con Israele. Al contrario, il messaggio che inviano alla gente continua a essere fortemente contrario a Israele. L'incitamento, le minacce e la retorica infuocata porteranno solo ad altra violenza. Per il momento, tutto indica che i palestinesi si preparano a potenziare "l'Intifada dei coltelli", lanciando un'ondata di attentati contro gli obiettivi civili in Israele. A giudicare dalle reazioni di diversi attivisti e fazioni palestinesi, il consenso agli attacchi terroristici contro Israele è talmente ampio tra i palestinesi che essi non hanno avute remore a celebrare l'esplosione di un autobus pieno di civili. Questo solleva dubbi sulla disponibilità della leadership e della popolazione palestinese a muoversi in direzione della pace e della coesistenza con Israele.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 22 aprile 2016)


25 aprile: si ripete la vergogna dell’esclusione di ebrei

«Anche quest'anno si ripropone la vergogna per cui gli ex Deportati nei campi nazisti e le bandiere della Brigate ebraiche non potranno sfilare nel corteo organizzato dall'Anpi di Roma che si conclude a Porta San Paolo». Lo sottolinea Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Equality Italia. «Già l'anno scorso ex deportati ed ebrei hanno disertato la manifestazione perché nelle edizioni passate furono oggetto di aggressioni e minacce da parte di gruppi antagonisti e pro palestinesi. È colpa dell'Anpi di Roma se tutto ciò avviene, perché - afferma Mancuso - non ha saputo e non vuole tutelare chi davvero ha contribuito alla Resistenza, combattuto la guerra di Liberazione, patito pene indicibili a causa del nazifascismo».
Equality Italia, invita quindi a disertare «un corteo propagandistico di chiaro stampo antisemita» e, aderisce alla manifestazione organizzata da Aned, Centro Ebraico Italiano, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Associazione romana amici d'Israele, che si terrà al Centro Ebraico, il Pitigliani, il 25 aprile alle ore 20.

(ANSA, 22 aprile 2016)


Così il Qatar ha comprato la cattedra di Oxford a Tariq Ramadan

Donate undici milioni di sterline nel 2015 per propagare l'islam

di Giulio Meotti

 
Tariq Ramadan
ROMA - Tariq Ramadan lo aveva già confermato due anni fa in una intervista a Libération: "Certamente il Qatar ha sostenuto la mia cattedra, ma la sua gestione è sotto l'autorità esclusiva di Oxford". Adesso arriva l'inchiesta monstre del Monde, dal titolo "Tariq Ramadan: la sfinge", in cui si scopre quanto è costata al Qatar la cattedra su cui siede oggi il più celebre intellettuale islamico d'Europa e che gli è valsa, fra le altre cose, la nomina a "consigliere religioso" del premier inglese David Cameron. Il Monde punta i riflettori su Ramadan perché da mesi sta incontrando difficoltà nel suo paese d'adozione, la Francia (Ramadan è cittadino svizzero). A Béziers, Orléans e Argenteuil non gli è stato permesso di parlare pubblicamente. Alcune settimane fa Alain Juppé, sindaco di Bordeaux, lo ha definito "persona non grata", chiudendogli le porte. Non c'è università francese che gli consenta ormai di prendere la parola. L'accusa rivolta a Ramadan è quella di "ambiguità". E basta leggere il suo ultimo intervento su Politico Europe per capire fino a che punto arrivi il suo doppio linguaggio. Nel saggio, Ramadan spiega che le stragi di Parigi e Bruxelles sono la conseguenza diretta della nostra politica in medio oriente (l'Isis ringrazia). Intellettuale che ha scritto quasi trenta libri, sposato a una bretone cattolica di nome Isabelle che si è convertita all'islam e ha preso il nome di Iman, Ramadan vive in una casa molto british vicino allo stadio di Wembley, a Londra, ma trascorre la maggior parte del suo tempo nelle periferie delle città francesi, accolto come un eroe da famiglie popolari, da giovani ragazze che indossano il chador su uno sfondo di trucco, disoccupati, studenti, proprietari di piccole imprese spesso barbuti. Alcuni hanno letto i suoi libri. Altri hanno appreso dalle sue videocassette. C'è chi lo paragona all'amabile Mohammed Ben Abbes, il leader della Fratellanza musulmana che Michel Houellebecq immagina presidente francese in "Sottomissione". Da quando Ramadan ha annunciato di volere la nazionalità francese, le autorità di Parigi hanno messo in discussione le sue possibili ambizioni politiche. Con la sua oratoria impeccabile e il suo carisma, Ramadan ha innegabilmente contribuito a una nuova asserzione islamista in una generazione di musulmani francesi ed europei. Ramadan è diventato "il simbolo della visibilità di un islam europeo", secondo le parole della sociologa franco-turca Nilufer Gole. Ramadan ha anche saputo portare qualcosa che non esisteva prima nelle università europee, come a Friburgo: "Non esisteva una tradizione apologetica dell'islam nelle nostre università", ha detto Reinhard Schulze.
   La consacrazione è arrivata nel 2009. L'Università di Oxford gli ha offerto la posizione sognata: professore universitario. Haoues Seniguer, docente a Sciences Po, sostiene al Monde che "Ramadan deve in parte la sua nomina al predicatore Youssef al Qaradawi", guru della Fratellanza musulmana con base in Qatar, che è anche membro del consiglio di amministrazione del Centro di studi islamici a Oxford. Per questo il premier Cameron ha subìto pressioni dai governi di Egitto e Arabia Saudita - arcinemici della Fratellanza - secondo i quali Londra è "il centro delle attività della Fratellanza musulmana". La monarchia qatariota, soltanto nel 2015, ha donato undici milioni di sterline per rinnovare il college di Oxford dove insegna Tariq Ramadan. E' stata la stessa Sheikha Moza, moglie dell'emiro al Thani, a inaugurare il magnifico edificio progettato da Zaha Hadid, compianta architetto. Un copione che neppure Edward Gibbon avrebbe immaginato, quando nel suo "Declino e caduta dell'impero romano", scritto nel 1776, aveva spiegato che se Carlo Martello fosse stato sconfitto a Poitiers, il Corano "oggi sarebbe insegnato nelle scuole di Oxford". C'è riuscito il fratello Tariq.

(Il Foglio, 22 aprile 2016)


Campagnuccia contro Fiamma Nirenstein

Il vero obiettivo di Haaretz e Repubblica si chiama Benjamin Netanyahu

Va avanti da mesi ormai la campagnuccia che Haaretz e Repubblica hanno orchestrato per impedire a Fiamma Nirenstein di diventare ambasciatrice di Israele in Italia. Il giochino funziona così: il quotidiano della sinistra pacifista israeliana, bardo e baluardo di una certa intellighenzia disfattista, muove un'accusa basata su fonti anonime e immediatamente il quotidiano progressista italiano la rilancia. L'ultima è un articolo che Nirenstein avrebbe scritto nel 1996 per La Stampa, in cui la moglie del premier israeliano, Sara Netanyahu, non veniva definita, come sostiene Repubblica, "un mostro", ma "babau", ovvero una sorpresa bambinesca. Il precedente tentativo, di appena una settimana fa, tirava in ballo addirittura Matteo Renzi, che avrebbe chiesto a Netanyahu di ritirare l'incarico a Fiamma Nirenstein. Richiesta mai confermata dal premier italiano. Lo scorso inverno, sempre Haaretz e poi Repubblica, avevano "rivelato" che la nomina della Nirenstein non era piaciuta neppure a Ruth Dugherello, presidente degli ebrei romani, e a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, che si sarebbero spesi con il presidente israeliano Reuven Rivlin per impedire l'arrivo di Nirenstein. Indiscrezioni mai confermate. L'obiettivo di questi due giornali non è Fiamma Nirenstein, ma Benjamin Netanyahu, umiliarlo e colpirlo attraverso la sua nuova nomina ad ambasciatrice della ex giornalista e parlamentare italiana. Brutte accuse di doppia lealtà intanto, che hanno avuto echi sinistri nella storia ebraica, vengono scagliate contro Fiamma Nirenstein. Pessimo giornalismo d'accatto.

(Il Foglio, 22 aprile 2016)


Napoli e Tel Aviv a tavola di cultura

Napoli e Tel Aviv a tavola. Tavola di cultura. Il Mediterraneo assaggiato ed annusato grazie alle sapienti e creative mani di Shaul Ben Aderet, Fabio Bisanti e Salvatore Giugliano. Chef internazionali che in occasione del gemellaggio gastronomico tra Italia ed Israele, voluto dall'Associazione Italia Israele, presieduta da Giuseppe Crimaldi, con il patrocinio del Ministero del Turismo israeliano, nella splendida cornice di villa D'Angelo a Napoli, dove sono accorsi autorevoli ospiti, hanno proposto il meglio dell'arte culinaria mediterranea. Ed è stato un susseguirsi di esplosioni di sapori e sentori in bocca ed al naso.

Piatti proposti dagli chef per promuovere la cultura mediterranea attraverso la preparazione di cibi che ci accomunano da millenni e che sono riproposti in chiave contemporanea nel rispetto delle rispettive tradizioni.
Sapori equilibrati, eccellenti e di altissima cucina dove la sapidità del baccalà è stata annientata dalla salsa di fagioli in anice stellato (piatto di Fabio Bisanti e Salvatore Giugliano - Mimì alla Ferrovia) e dove la salsa vellutata degli involtini kadaif ha fatto percepire i singoli sapori delle melanzane e delle molteplici erbette (Shaul Ben Aderet). I piatti sono stati alternati secondo una bella coreografia di abbinamenti per una Italia e Israele unico paese a tavola.
Tra gli ospiti non poteva mancare l'Ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon che ha apprezzato il matrimonio culinario. Mentre il consigliere per gli Affari Turistici Ambasciata d'Israele, Avital Kotzer Adari ha raccontato perché sia importante visitare Israele.
Il menù ha previsto: Baccalà in salsa di fagioli con anice stellato seguito da Hummus con noci, verdure di stagione e tartufo con il Piatto tradizionale di mare condito con pomodoro e paprika. Quindi ravioli freschi ripieni di spigola e limone con salsa di zucchine, basilico e lime, Involtini di pesce kadaif su salsa vellutata di melanzane ed erbette. Per chiudere il Babà Vesuvio ed accanto le magie creative di Shaul Ben Aderet 'Malabi' panna cotta con succo di melograno e Baklavà con crema di pistacchi e noci.

(Napoli Post, 21 aprile 2016)


Pasqua ebraica, sicurezza rafforzata

Oltre 3.500 poliziotti dislocati a Gerusalemme.

GERUSALEMME - In vista della Pasqua ebraica (Pesach) che comincia venerdì sera per arrivare fino al 29 aprile, polizia ed esercito israeliani hanno predisposto una serie di misure di sicurezza che riguardano l'intero paese e Gerusalemme in particolare. Migliaia di agenti saranno schierati nei vari luoghi di divertimento e di gita, in modo da garantire il tranquillo svolgimento della festa. Più di 3.500 poliziotti, incluse unità speciali e di antiterrorismo, sono state dispiegati a Gerusalemme e, in particolare, nella Città Vecchia dove sono previste numerose cerimonie religiose con forte affluenza al Muro del Pianto. Questo fine settimana si svolge nel Quartiere Cristiano della Città Vecchia e al Santo Sepolcro anche la Festa del Fuoco Santo, la celebrazione più importante della fede ortodossa a Gerusalemme.

(ANSA, 21 aprile 2016)


Nuovo cinema israeliano

Dal 7 all'11 maggio presso Spazio Oberdan, Milano

 
MILANO - Dal 7 all'11 maggio 2016 presso Spazio Oberdan, Fondazione Cineteca Italiana e Fondazione CDEC Onlus (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), in collaborazione con il Centro culturale Pitigliani di Roma, organizzano la nona edizione della rassegna “Nuovo cinema israeliano”, a cura di Nanette Hayon e Paola Mortara della Fondazione CDEC.
  Quest'anno in programma una serie di titoli che ben rispecchiano le attuali tendenze della cinematografia israeliana. Un cinema a 360o, per stili e tematiche, con commedie, drammi a sfondo psicologico e documentari sul presente e sul passato.
  In calendario tre commedie che riflettono sulla realtà israeliana: Zero Motivation della regista esordiente Talya Lavie è una commedia sul mondo militare femminile che ha riscosso un enorme successo in Israele e all'estero; The Farewell Party, diretto da Sharon Maymon e Tal Granit, attraverso il linguaggio originale della commedia nera affronta il tema dell'eutanasia; Kicking out Shoshana di Shay Kanot, commedia brillante che prende di mira molti stereotipi - agenti sportivi, paparazzi, ebrei ultraortodossi, travestiti, drag queen, omofobi - nel segno di una nuova tolleranza.
  Tre drammi pongono domande sulla religione e sull'educazione: The Kindergarten Teacher di Nadav Lapid, un film complesso sul mondo dell'infanzia e sulla scuola, in cui un bambino "poeta" sostenuto con sincera passione dalla sua insegnante dovrà riappropriarsi della sua infanzia; Vice Versa di Amichai Greenberg, melodramma tratto da un controverso racconto di Yehoshua Greenberg che tratta il tema della malattia e della religione; Mountain di Yaelle Kayam, anche lei regista esordiente, film sorprendente su una donna madre di famiglia che vive insieme al marito, insegnante ortodosso, in un cimitero sul Monte degli Ulivi che di notte si trasforma in un mercato del sesso.
  Tre documentari affrontano poi la cronaca israeliana attraverso vicende personali, in cui i protagonisti tornano sulle tracce della propria storia famigliare: Hotline di Silvina Landsmann, in cui la regista ha seguito da vicino le attività di una ONG, entrando persino nelle aule del tribunale, per comprendere le dinamiche e la burocrazia che devono affrontare oggi i rifugiati; Rinascere in Puglia di Yael Katzir riporta un gruppo di donne israeliane nel sud Italia, dove dopo la guerra le loro famiglie erano state accolte prima di prendere il mare per Israele; Farewell Herr Schwarz di Yaelle Reuveny racconta una storia incredibile, che unisce due famiglie in Germania e in Israele, rivelando come il destino ha cambiato il corso delle loro vite.
  Infine un documentario italiano: Il Ghetto di Venezia, 500 Anni di Vita di Emanuela Giordano, racconto originale che attraverso l'animazione, il teatro, le interviste ai protagonisti della vita ebraica della Serenissima, narra la storia del più antico ghetto del mondo.
Programma

(Teatri Online, 21 aprile 2016)


il direttore generale dell'Unesco si dissocia da una risoluzione anti-israeliana

In risposta a una lettera di protesta del leader di Yesh Atid, Yair Lapid, il direttore generale dell'Unesco Irina Bokova ha inviato mercoledì una lettera in cui si dissocia dalla risoluzione che ignora i legami storico-religiosi ebraici con il Monte del Tempio di Gerusalemme. Nella sua lettera, Bokova dice che la decisione di definire il Monte del Tempio solo col nome musulmano è stata una decisione politica a cui lei si è opposta. "Ho già affermato più volte in passato - scrive Bokova - che dovrebbe essere vietato politicizzare l'Unesco. In qualità di direttore generale, ho preso una posizione chiara sulle circostanze che potrebbero incendiare questioni già incandescenti in Medio Oriente e sulla città vecchia di Gerusalemme con le sue mura, patrimonio mondiale dell'umanità".

(israele.net, 21 aprile 2016)


Italia-Israele e gli inconcepibili rigori a porta vuota

di Sergio Della Pergola,

Alla fine ci sono i calci di rigore. Solo che alla squadra di Israele non è consentito di schierare il portiere, e la squadra avversaria segna liberamente a porta vuota. Questo è il succo di quanto è successo giovedì scorso nello studio di Rai 3 al programma L'Erba dei Vicini condotto da Beppe Severgnini. EdV è un gioco-con-approfondimento. Per fare uscire gli italiani da un certo loro provincialismo, Severgnini presenta ogni settimana un confronto fra il Bel Paese e un'altra realtà internazionale. Lo fa con ricchezza di indagini filmate, interviste sul terreno, e anche un po' di umorismo, su un certo numero di temi di interesse, con poi un confronto in studio fra due buoni conoscitori, uno della realtà italiana, l'altro di quella dell'altro paese prescelto. Poi il pubblico in studio e il popolo del Twitter votano a favore dell'uno o dell'altro paese e la serata finisce con un punteggio e con vincitori e vinti (o pareggio), come in un buon match di calcio.
   Giovedì sera era il turno di Italia-Israele. Tre i temi prescelti: dove è più facile aprire una start-up, dove vive meglio un ventunenne, e dov'è più facile essere laico. In apertura, un abbastanza stringente e franco confronto sul tema controverso del conflitto fra Palestina e Israele, fra una persona che costruisce la sua vita in Israele da quasi mezzo secolo (il sottoscritto) e una giornalista, Paola Caridi, molto critica di Israele ma che ha vissuto a Gerusalemme per 10 anni e ha una certa cognizione di causa (nella trasmissione sull'Olanda il tema controverso concerneva la legalizzazione dell'uso di marijuana.) Alla fine, l'Italia si aggiudica la partita (4 a 2), e fin qui tutto bene: il caso di Israele è stato esposto in maniera competente e simpatica, altrettanto vale per il caso dell'Italia, sul conflitto si possono avere idee diverse ma se ne è discusso con decenza, il conduttore è molto equilibrato, semmai con qualche velata simpatia per Israele, e il pubblico ha il pieno diritto di esprimere le sue preferenze.
   Ma poi si arriva alla scena delirante dei rigori a porta vuota. Sale in cattedra Moni Ovadia e presenta a lungo le sue opinioni anti-israeliane. Senza contraddittorio. Cosa c'entra Moni Ovadia? Vive in Israele? No, e nemmeno visita il paese perché, dice, pensa che sarebbe considerato persona sgradita (non si preoccupi Moni: in Israele nessuno sa chi sia, e lui passerebbe del tutto inosservato). È un esperto orientalista? Semmai è uomo di teatro e sarebbe stato interessante un suo giudizio sul teatro in Israele, accanto a quello di un altro attore-regista, che però non c'era. Invece ha espresso giudizi unilaterali sulla politica israeliana e sul conflitto privi di ogni approfondimento e contesto storico. Dunque un siparietto fine a se stesso, contrario oltre a tutto alla logica empatica e al formato simmetrico della trasmissione.
   Non penso che l'iniziativa dell'infelice coda sia stata di Beppe Severgnini il cui body language trasudava imbarazzo. Ha perfino detto: "Io non devo condividere le sue opinioni: io faccio le domande, lui dà le risposte". A Beppe Severgnini va dato atto che ha portato Israele in prima serata illustrandone ampiamente la normalità e gli aspetti positivi, cosa rarissima di questi tempi. Ma nei confronti di nessun altro paese sarebbe concepibile o ammissibile l'idea di invitare in studio una persona le cui idee negative su quel paese sono note, senza replica, e solo per gettare un po' di fango e fare spettacolo. Nei confronti di Israele, invece, sì è lecito. Ecco la prova, la canna fumante di quei due pesi e quelle due misure che riflettono la patologia ossessiva dell'ostilità contro Israele e il servilismo nei confronti dei suoi nemici. I dieci minuti finali a L'Erba dei Vicini sono un classico caso di pedaggio dovuto, di un pizzo politico che va pagato a qualcuno altolocato in Rai. Ed è peccato per una buona trasmissione come l'Erba dei Vicini.

(moked, 21 aprile 2016)


Il rabbino: «Sì alla marijuana durante la Pasqua»

La marijuana è «kosher» (permessa) e dunque i consumatori a fini medici la possono fumare o mangiare in occasione degli otto giorni della Pasqua ebraica, che comincia domani sera. A dare il responso è stato uno dei più autorevoli rabbini «haredi» (pio), Chaim Kanievsky che risiede a Bnei Barak, sobborgo ultrareligioso di Tel Aviv.
Il rabbino, citato dai media, ha spiegato che la pianta - prima assimilata a un legume e quindi di norma proibita durante la festa - è invece legale per la legge religiosa ebraica se usata appunto a fini medici.
Kanievsky ha dato il suo responso «halachico» (la legge religiosa) dopo essere stato interpellato al riguardo dal gruppo pro-marijuana Sian. Già nel 2013 - hanno ricordato i media - un altro rabbino israeliano, Efraim Zalmanovich, stabilì lo stesso principio.

(Gazzetta di Parma, 21 aprile 2016)


Cisgiordania.
Anche la «capitale dei martiri» palestinese si è stufata dei "martiri"

È da sei mesi che va avanti la cosiddetta "Intifada dei coltelli", culminata lunedì con l'attentato a un autobus di linea a Gerusalemme. Più di 180 palestinesi sono morti nel tentativo di uccidere cittadini o soldati israeliani. In 29 ci sono riusciti. E c'è un villaggio in particolare della Cisgiordania che ha generato più attentatori di qualunque altro: Saer.

 «Capitale dei martiri»
  La cittadina rurale di 20.000 persone viene chiamata da molti palestinesi la «capitale dei martiri». Negli ultimi tre mesi, 11 giovani sono morti cercando di uccidere cittadini israeliani. «Abbiamo perso troppi figli», si confida al Washington Post Awni al-Jabbarin, che ha seppellito a Saer suo figlio Muayyad, 20 anni. Il ragazzo è stato ucciso da un soldato dopo essersi scagliato con un coltello contro di lui: «Non ha ottenuto niente così. Prego Dio che sia l'ultimo figlio di Saer a morire».

 Attentati in calo
  Nonostante l'esplosione di lunedì, nella quale sono rimaste ferite 21 persone, due gravemente, gli attentati stanno diminuendo. A ottobre, quando l'Intifada dei coltelli è cominciata, ci sono stati 78 tentativi di omicidio, 20 a marzo, quattro ad aprile. Un comandante dell'esercito israeliano in Cisgiordania spiega il calo: «I palestinesi sono stanchi, l'atmosfera è cambiata. La maggior parte degli attacchi non ha successo».

 A scuola col coltello
  Il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, non ha mai incoraggiato gli attacchi, al contrario di Hamas, anche se li ha condannati solo debolmente. Intervistato dall'israeliano Channel 2, ha dichiarato: «La nostra polizia entra nelle scuole. In una ha trovato 70 studenti con il coltello. Cerchiamo di spiegare loro che è sbagliato, che non vogliamo che muoiano uccidendo qualcuno. Vogliamo che tutti vivano». È vero, ha ammesso poi, «che da noi molti vengono incitati. Ma anche voi li incitate».

 Occupazione israeliana
  Il riferimento è all'occupazione israeliana della Cisgiordania, che va avanti da 49 anni, ed è divisa in tre aree: una governata dai palestinesi (circa l'11%), una da palestinesi e Israele (28%) e una terza da Israele (61%). Come dichiarato ad AsiaNews da Adel Misk, medico palestinese, portavoce di The Parents Circle, associazione che riunisce 250 familiari di vittime israeliane e 250 palestinesi, «fino a che vi sarà una occupazione» le violenze «perdureranno. Per questo è urgente trovare la via della pace».

 «Adesso basta»
  Un sondaggio condotto a marzo dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che ora la maggior parte dei palestinesi non sostiene più gli attentati, un'inversione di tendenza rispetto a dicembre. «Ora vogliamo un po' di quiete», si concede rapidamente Hassan Froukh, che ha seppellito suo figlio Fadi, 27 anni, padre di una bambina. «Adesso basta».

(Tempi, 21 aprile 2016)


«... fino a che vi sarà una occupazione le violenze perdureranno». La frase va modificata: «Fino a che si continuerà a parlare impropriamente di occupazione, le violenze continueranno», perché i fanatici vedranno in queste parole, dette da benpensanti persone equilibrate e moderate, la motivazione del loro odio e la legittimazione della loro violenza. M.C.


Il "Mein Kampf" è bestseller in saggistica

L'edizione critica del testo di Hitler è al primo posto della classifica dello Spiegel - È in ristampa la terza edizione.

 
BERLINO - Il Mein Kampf di Adolf Hitler, nell'edizione critica e scientifica curata dall'Istituto di storia contemporanea di Monaco (Ifz), è al primo posto nella lista dei bestseller di saggistica del settimanale Spiegel. E in tipografia è già in ristampa la terza edizione.
Uscito il primo gennaio scorso, a 70 anni dalla morte del dittatore, quando erano scaduti i diritti per anni affidati dagli alleati al Land della Baviera, il testo è subito andato esaurito nelle sue prime due edizioni.
Fin dall'inizio è apparso chiaro che le prudenze dell'editore sarebbero state travolte: dalle librerie erano arrivate 15.000 prenotazioni a fronte di sole 4000 copie stampate. E nonostante la voluminosità del testo (1966 pagine dovute alle 3500 note critiche), il prezzo volutamente elevato (59 euro) e il fatto che il libro non sia mai stato esposto in maniera evidente sugli scaffali, le richieste sono state eclatanti.
Con la terza edizione in ristampa si arriverà a 40.000 esemplari. Ma l'istituto storico di Monaco assicura alla tv pubblica Bayerischer Rundfunk che "il libro non è finito in mani sbagliate" e che non vi sono indicazioni di corse in massa all'acquisto da parte di estremisti di destra e neonazisti. Le segnalazioni che giungono dai librai indicano piuttosto che gli acquirenti sono soprattutto esperti e appassionati di storia e politica, dice l'editore.

(Corriere del Ticino, 21 aprile 2016)


L'antisemitismo divampa in Olanda, il paese di Anne Frank

di Giulio Meotti

L'odio per gli ebrei domina le strade dei Paesi Bassi. Slogan come "sporco ebreo" possono essere ascoltati in tutto il paese, così come la negazione dell'Olocausto è diventato prassi comune assieme a violente proteste contro Israele. "Tra il 50 e il 60 per cento degli ebrei ortodossi intorno alla mia età sono già partiti per Israele", ha detto Guy Muller del Centro di Informazione e Documentazione su Israele. La situazione per la comunità ebraica olandese è diventata così preoccupante che il rabbino capo olandese, Benjamin Jacobs, ha detto che "la gente sta discutendo di rimuovere le Mezuzah (l'astuccio che gli ebrei appendono agli stipiti delle porte) dal momento che li identificano come ebrei".
   Un articolo del Foglio del 2010 aveva già spiegato che saremmo andati in questa direzione. Una "fuga da Amsterdam". E pensare che nel 1973 le nazioni arabe imposero il boicottaggio petrolifero totale contro i Paesi Bassi, colpevoli, secondo loro, di aver favorito Israele prima, durante e dopo la guerra del Kippur. Al tempo, le chiese olandesi raccoglievano fondi per i villaggi israeliani. In seno alla Cee, l'Olanda favoriva i prodotti agricoli israeliani e il governo olandese si offriva di costituire un centro di transito per i profughi ebrei provenienti dai paesi dell'Est. Ma di quell'Olanda oggi non è rimasta traccia. Siamo tornati all'indifferenza pilatesca che portò al tradimento di Anne Frank.

(Il Foglio, 21 aprile 2016)


La Scuola di Chicago

L'ateneo di Bologna, sul boicottaggio d'Israele, impari dall'America

Mentre l'appello lanciato da un gruppo di accademici italiani per il boicottaggio delle università israeliane continua a ricevere consensi (sono oltre 300 le firme raccolte tra professori e ricercatori), una lezione di libertà giunge da uno degli atenei più prestigiosi al mondo. L'Università di Chicago ha infatti emanato un comunicato in cui annuncia di non volere in alcun modo interrompere le partnership con le aziende impegnate in attività commerciali in Israele, e ribadisce la sua opposizione "a ogni forma di boicottaggio accademico nei confronti di specifiche nazioni, inclusa Israele". La celebre università americana, con sede a Hyde Park, ha motivato la sua decisione sottolineando come il ricorso al boicottaggio o ad altre forme di pressione non farebbe altro che "sminuire il contributo distintivo offerto dall'università", cioè garantire ai professori e agli studenti un ambiente che consenta la massima libertà di discussione sulle varie tematiche pubbliche.
   L'università, che nella sua storia ha prodotto ben 89 premi Nobel, ha rivendicato la sua costante politica di opposizione ai boicottaggi accademici, ricordando di aver espresso questa posizione già nel 2007 e nel 2013: "Fin dalla sua fondazione, la libertà di ricerca della conoscenza ha rappresentato il valore più alto di questa università. Professori e studenti dovrebbero essere liberi di svolgere le loro attività di ricerca e di educazione in giro per il mondo, e di dar vita a forme di collaborazione sia all'interno che all'esterno del mondo accademico, incoraggiando il confronto con tutti i diversi punti di vista". "Per questa ragione - conclude il comunicato - l'università continuerà fermamente ad opporsi al boicottaggio di istituzioni accademiche in ogni regione del mondo, incluse le recenti iniziative contro le istituzioni israeliane".
   Un messaggio da recapitare agli accademici italiani che alla libertà di ricerca sembrano preferire il boicottaggio anti israeliano, spesso in nome di una doppia morale. Come nel caso dell'Università di Bologna, i cui docenti - come raccontato su queste colonne martedì scorso - pur essendo in prima fila nell'appello contro lo stato di Israele a sostegno di una fantomatica libertà, hanno da poco stipulato un accordo di collaborazione e di "promozione del dialogo" con le liberissime università dell'Arabia Saudita.

(Il Foglio, 21 aprile 2016)


Usa e Israele: Patto di cooperazione energetica

Usa e Israele: Patto di cooperazione energetica. Israele e Stati Uniti hanno deciso di rafforzare la loro cooperazione energetica. Il Segretario dell'Energia degli Stati Uniti Ernest Moniz e Yuval Steinitz, Ministro israeliano delle infrastrutture nazionali, dell'energia e delle risorse idriche, hanno recentemente firmato un accordo al King David Hotel di Gerusalemme per rafforzare una collaborazione già esistente tra i due dipartimenti di energia.
Queste le parole di Moniz:

Oggi, le nostre nazioni solidificano ulteriormente la cooperazione in corso. Gli Stati Uniti e Israele continueranno a promuovere la ricerca e lo sviluppo, ridurre i costi delle tecnologie energetiche pulite ed incoraggiare la collaborazione tra i migliori scienziati del settore energetico che operano nelle nostre nazioni.

L'accordo espande gli sforzi di cooperazione sul gas naturale, la protezione informatica delle infrastrutture energetiche, i programmi di ricerca e sviluppo di energia pulita, le energia delle centrali elettriche e il trattamento delle acque.
Inoltre, come specificato da The Times Of Israel, il patto riconosce l'importanza di sviluppare tecnologie energetiche e idriche avanzate per garantire acqua nel pieno rispetto dell'ambiente e aumentare l'efficienza energetica.
Moniz e Steinitz con la firma di questo accordo continuano un processo già iniziato lo scorso settembre.

(SiliconWadi, 21 aprile 2016)


Quel paragone improprio tra il "muro" di Vienna e la barriera difensiva israeliana

di Massimo Montebove

Il tentativo di paragonare il nascente "muro" di Vienna con la barriera difensiva costruita tra Israele e Cisgiordania, argomentato su Huffington Post da Eric Salerno, non regge e non mi piace.
   Non regge perchè da una parte abbiamo uno stato, l'Austria, che, complice anche l'assenza di una vera politica europea in materia, vuole egoisticamente venir meno ai propri doveri di accoglienza nei confronti di persone che scappano da guerre e povertà. Dall'altra, invece, abbiamo un sistema di protezione contro gli attentati che ha prodotto risultati concreti: dopo la sua realizzazione è stato registrato, infatti, un calo di circa il 90% per cento degli atti terroristici che partivano dalla Cisgiordania settentrionale. Siamo passati da una media di 26 attentati all'anno a circa 3.
   Non si tratta quindi di una "scusa" per bloccare il terrorismo, ma di un sistema efficace, magari poco ortodosso, ma evidentemente necessario in una realtà complessa come Israele, che ha avuto come primo risultato quello di salvare vite umane. Non solo. Va pure detto questa "linea" non divide israeliani e palestinesi, ma ebrei e palestinesi di Israele da un lato e palestinesi dei territori dall'altro. E' sufficiente farsi un giro a Umm el-Fahm, una delle più importanti municipalità arabo-musulmane dello Stato ebraico, per rendersi conto come anche molti palestinesi d'Israele apprezzino la barriera difensiva.
   Infine, ma non meno importante, una piccola nota politica. La separazione era una storica idea della sinistra israeliana, poichè la destra non ha mai voluto definire i confini. I conservatori sono stati, nei fatti, obbligati a creare la barriera a seguito della recrudescenza degli attentati. Vorrei vivere davvero in una società senza muri, fatta soltanto di ponti; in una collettività accogliente che non escluda, ma includa; in un mondo dove cristiani, ebrei, arabi, fedeli di altre religioni e laici possano vivere e convivere tranquillamente. Le cose, purtroppo, sono un pò più complicate. Prima ce ne rendiamo conto, meglio sarà per tutti.

(L'Huffington Post, 20 aprile 2016)


Antisemitismo e boicottaggio di Israele

GAVARDO (BS) - Si terrà questo venerdì 22 aprile alle 18 presso la sala del Museo Archeologico di Gavardo l'incontro con Giovanni Quer, ricercatore al Centro Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo presso l'Università di Gerusalemme, promosso dall'Associazione Italia Israele di Brescia
  "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità". E' questa la frase più celebre del ministro nazista per la propaganda Joseph Goebbels, un insegnamento che alla fine è risultato essere una delle più note lezioni di quella storia che non si deve ripetere. Non sono pochi i politici e i regimi che da allora si sono ispirati a quella massima per condurre campagne politiche denigratorie.
  Da registrare, in particolare, quella contro Israele che prevede il boicottaggio, in generale, dell'unica democrazia presente in Medio Oriente e delle sue produzioni in particolare. A fine gennaio ben 168 accademici italiani sottoscrivevano la campagna di boicottaggio del Technion, il Politecnico di Haifa che ebbe quale primo rettore Albert Einstein. I motivi? Pochi e confusi.
  Per capire queste nuove forme di antisemitismo, l'Associazione Italia Israele di Brescia, presieduta da David Elber, organizza, con il patrocinio dell'assessorato alla cultura del Comune di Gavardo, guidato da Daniele Comini e dalla Pro Loco del Chiese, un incontro con Giovanni Quer, editorialista de "Il Foglio", ricercatore al Centro Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo e post-doc al Forum Europa dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Dal 2015 post-doc presso il Computer Center dell'Università di Haifa per lo studio dell'antisemitismo e del razzismo.
  L'appuntamento di Gavardo è per venerdì 22 aprile alle ore 18.00 in piazza de Medici, presso la Sala del Museo Archeologico ed è ad ingresso libero.
  Giovanni Quer si occupa da anni di diritti umani e delle minoranze. E sono proprio le minoranze le prime vittime del boicottaggio di Israele, tenuto conto che nelle aziende della terra promessa lavorano prevalentemente famiglie palestinesi. Tra l'altro se compriamo un prodotto in una farmacia italiana abbiamo il 10% di probabilità che sia israeliano, realizzato proprio dai tecnici, non necessariamente ebrei, formati al Technion.
  In Israele vive oggi il 50% del popolo ebraico, circa 7 milioni di ebrei. Ma in questo minuscolo Stato convivono anche tante altre minoranze, etnie e religioni: arabi, mussulmani, cristiani, cerchessi, drusi, aramei, atei, buddisti, gay, pastafariani e tutti, per legge, hanno gli stessi diritti.
  Negli ultimi anni circa 1000 gay arabi palestinesi hanno chiesto e ottenuto asilo in Israele, visto che nei territori arabi l'omosessualità è reato, punibile con la morte.
  L'incontro con Giovanni Quer è ad ingresso libero e precede quello che si terrà, curato dall'Associazione Italia Israele di Brescia, nei prossimi mesi con Michael Sfaradi, giornalista e scrittore.

(Valle Sabbia, 21 aprile 2016)


Stella (di David) e strisce. Ebraismo vs politica estera americana

L'ultimo libro dello studioso Michael N. Barnett

di Antonio Donno

Michael N. Barnett
Gli ebrei americani hanno dato un vero contributo al nazionalismo ebraico, al sionismo, cioè a quel movimento che ha portato alla nascita dello stato di Israele? Quale che sia la risposta, qual è l'esito odierno del rapporto che si venne o non si venne a creare tra l'ebraismo americano e il sionismo, anche dopo la creazione di Israele? Si tratta di un problema che non è confinato soltanto alle pagine della storia, ma ha una valenza attuale importante, oltre che nella sua proiezione nel Muro. L'ebraismo americano ha vissuto una vita del tutto diversa da quella dei correligionari europei e questo dato ha avuto ed ha un rilievo decisivo nella sua collocazione ideale e politica nell'universo ebraico internazionale. Esso ha vissuto in un contesto stabilmente liberale, sostanzialmente immune dall'antisemitismo e questa fortunata realtà ha un peso rilevante nella visione che l'ebraismo americano ha avuto della politica internazionale soprattutto dal secondo dopoguerra ad oggi. Gli ebrei americani sono ebrei e americani nello stesso tempo: non si tratta di una doppia identità, ma di un'identità unica che ha due momenti intimamente connessi grazie alla cultura liberale, plurale in cui si sono radicati.
  Questo è il succo dell'analisi dello studioso di relazioni internazionali Michael N. Barnett nel suo "The Star and the Stripes: A History of the Foreign Policies of American Jews" (Princeton University Press). Le "politiche estere" dell'ebraismo americano sono legate alla stella (di Davide) e alle strisce (americane), che Barnett considera strettamente collegate dalla cultura liberale in cui l'ebraismo americano si è sviluppato, al di là delle diverse posizioni politiche e religiose che lo hanno caratterizzato dalla fine dell'Ottocento a oggi. Ma è così? Barnett, nella sua analisi, sembra considerare il sionismo come uno sgradevole incidente di percorso nelle "magnifiche sorti e progressive" dell'ebraismo americano, un fastidioso intoppo nella continuità di uno sviluppo sociale e culturale al riparo dal riproporsi periodico dell'antica malattia dell'antisemitismo della Vecchia Europa. L'ebraismo americano, per questo motivo, ebbe difficoltà a riconoscere e tanto meno a identificarsi con il sionismo, o lo accettò in una versione americana che non prevedeva la nascita di uno stato ebraico in Palestina, perché riteneva che gli Stati Uniti potessero essere la "homeland" degli ebrei del mondo: la diaspora ebraica si sarebbe riunita in una nuova "terra promessa". Solo tempo dopo, scrive Barnett, "per molti ebrei americani Israele è divenuto parte della loro anima". Questo è solo parzialmente vero e solo in determinati momenti, quando l'esistenza di Israele è sembrata in pericolo. In questo consistono le "politiche estere" dell'ebraismo americano, diviso tra liberalismo e tribalismo, per usare un termine di Barrett.
  In effetti, la nascita di Israele, di uno stato degli ebrei, sembrò a molti ebrei americani un fenomeno tribale assimilabile alle comunità ebraiche separate dei secoli precedenti in seno alle società cristiane europee o nel mondo islamico. Barnett sembra non accordare molta importanza a questo dato, che invece gioca un ruolo importante nella visione che gli ebrei americani hanno della realtà di Israele. L'analisi di Barnett non si sottrae al sospetto che in fondo per gli ebrei americani l'esistenza di Israele deve essere difesa quasi solo nel momento in cui è in pericolo, una sorta di recupero di coscienza di una storia plurisecolare da cui, tutto sommato, anche l'ebraismo americano discende; ma la cultura liberale (o meglio, liberal) di cui è imbevuto, con la sua appendice di cosmopolitismo e umanitarismo, predomina nel giudizio che spesso i settori "progressisti" dell'ebraismo americano danno della politica di Israele, distinguendo talora tra governi laburisti e governi conservatori.
  Barnett elude questo problema di fondo, anche se deve ammettere che "il liberalismo è centrale nella loro concezione del giudaismo". Ma non riconosce che la cultura liberal di gran parte dell'ebraismo americano presenta un ostacolo quasi insormontabile per una giusta valutazione della difficile realtà di Israele in un contesto che ne vuole la distruzione. Detto in altra maniera: l'ebraismo americano liberal ha difficoltà a riconoscere nello stato di Israele la culla dell'ebraismo e della sua ancestrale appartenenza alla terra avita. Vede nello stato degli ebrei una forma di nazionalismo difficile da digerire e da inserire in una visione liberale e cosmopolita che rappresenta la base culturale su cui è cresciuto l'ebraismo americano.
  Ma Barnett trascura un altro aspetto fondamentale. L'ebraismo americano non è un monolite. Se fosse così, la conclusione dell'analisi sarebbe semplice. Accanto agli ebrei americani liberal vi è un numero forse altrettanto grande di ebrei conservatori, la cui visione del posto dell'ebraismo americano nel mondo non è separata da quello degli ebrei di Israele, ma è in intima connessione con esso, con tutto ciò che culturalmente e identitariamente discende. Questa realtà è assente nel libro di Barnett.
   
(Il Foglio, 20 aprile 2016)


I tunnel del terrore di Hamas

di Daniel Reichel

Arrivava fino a 30 metri di profondità, era lungo diverse centinaia di metri e una persona poteva percorrerlo stando in piedi. È la descrizione del tunnel sotterraneo costruito dal gruppo terroristico di Hamas per infiltrarsi da Gaza in territorio israeliano. A scoprirlo e distruggerlo, l'esercito d'Israele che ha reso pubblica la notizia dell'operazione nelle scorse ore. Si tratta del primo tunnel di questo tipo scoperto dopo il conflitto nella Striscia di Gaza dell'estate del 2014 (Operazione Zuk Eitan). Rivestita con lastre di cemento, dotata di linee di comunicazione, condotte d'aria e rotaie per ulteriori scavi, la galleria è stata scoperta dieci giorni fa ed era stata realizzata da Hamas per infiltrarsi in Israele e compiere attentati terroristici nelle comunità che vivono nel Sud del Paese, spiegano dall'esercito. "La cruda verità è che Hamas continua ad investire milioni di dollari per costruire tunnel del terrore e di morte - ha dichiarato il portavoce di Tzahal Peter Lerner - Il tunnel scoperto in Israele dimostra una volta di più quali siano le distorte priorità di Hamas e come continui ad investire in strumenti di violenza".
   Recentemente il leader di Hamas Ismail Haniyeh, riporta il Guardian, ha dichiarato nel corso di una manifestazione a Gaza che "il nostro messaggio ai prigionieri è un messaggio impresso nel sangue. Alle armi e ai tunnel dedichiamo il nostro impegno". Non è ancora chiaro, riferisce Haaretz, se il tunnel sia stato costruito prima o dopo l'operazione israeliana Zuk Eitan a Gaza. Nel corso di quest'ultima, l'esercito israeliano ha affermato di aver distrutto 32 gallerie, 14 delle quali sbucavano direttamente in territorio israeliano. Secondo le informazioni diffuse, Hamas avrebbe costituito un'unità apposita per costruire i tunnel, composta da oltre 500 membri. Durante il conflitto del 2014, il gruppo terroristico aveva utilizzato per quattro volte dei tunnel per infiltrarsi in Israele, assalendo i soldati israeliani e assassinandone dodici. Secondo i dati riportati dal New Yorker, Hamas ha investito nella costruzione dei tunnel almeno 100mila dollari cadauno.

(moked, 20 aprile 2016)


Buone notizie

di Francesco Lucrezi

 
Villa D'Angelo
Mi sono più volte lamentato, dalle colonne della mia piccola rubrica settimanale, del fatto di dovere commentare, nella grande maggioranza dei casi, notizie brutte e sgradevoli, con conseguenti giudizi addolorati, sfiduciati, indignati ecc. Se dovessi essere giudicato soltanto da quello che scrivo per Moked, mi viene da pensare, certamente se ne ricaverebbe l'immagine di una persona cupa e pessimista, nella quale, almeno nella mia quotidianità, non mi riconosco.
   È con particolare piacere, pertanto, che oggi commento una bellissima iniziativa che è stata presa per questa sera a Napoli, la mia città (spesso condannata a farsi notare per la rumorosa e molesta presenza di animosi "antipatizzanti d'Israele"), ove, nella splendida cornice di Villa D'Angelo, avverrà addirittura un solenne "gemellaggio gastronomico" tra Napoli e Tel Aviv, due città famose in tutto il mondo, oltre che per la loro incomparabile bellezza, anche per la raffinatezza della loro cucina, che sa coniugare il culto delle tradizioni con la continua ricerca delle novità e delle contaminazioni creative del gusto. Un evento, intitolato "Mediterraneo. Quando la cultura si incontra a tavola" (organizzato dal Ministero del Turismo israeliano, dall'Ambasciata di Israele e dall'Associazione Italia-Israele di Napoli), a cui parteciperanno molti esponenti di spicco della realtà culturale e istituzionale partenopea, e che sarà anche l'occasione per il conferimento del riconoscimento di Amico di Israele ad alcune persone che si sono distinte per il loro impegno a tutela dei diritti umani e contro la discriminazione, l'antisemitismo e l'antisionismo. Protagonisti dell'incontro, i tre chef invitati, che rendono onore, sulle due sponde del Mediterraneo, alla nobile arte della tavola, dei quali ricordiamo brevemente i dati salienti:
   Shaul ben Aderet, classe 1964, eredita la passione per la cucina dalla mamma e dalla nonna, originarie dell'Irak. Ha diretto per 6 anni lo Zeze club a Ramat Hasharon, da dove ha servito molti importanti ristoranti di Tel Aviv, quali il Kimmel Restaurant, il Kimmel Bagilboa, The Blue Rooster, Mr. and Mrs. Lee, Yogghurt Kitchen. È stato anche conduttore di diversi programmi televisivi israeliani di tema culinario, come Meet the Chef, Holiday Receipe, The Boot (sulla cucina italiana). Collabora col Ministero degli Esteri israeliano.
   Fabio Bisanti, del 1974, diplomato all'Istituto alberghiero IPSAR Cavalcanti di Napoli, è stato chef all'Hotel Perla di Madonna di Campiglio, consigliere Provinciale dell'Associazione Cuochi di Napoli e Consigliere dell'Unione Regionale Cuochi della Campania. Entrato alla scuola di Auguste Escoffier, ha conquistato diverse medaglie, d'oro e d'argento per le sue sperimentazioni. È stato Executive chef della Cantinella di Napoli, della Cantinella di Capri, del Cantinella club e dell'Antica Trattoria di Sorrento. È poi diventato chef consulente e ha creato, nel 2001, l'Alta ristorazione di Fabio Bisenti.
   Salvatore Giugliano, classe 1991, è figlio di Michele, proprietario del celebre ristorante stellato "Mimì alla Ferrovia". Appena conseguita la maturità, nel 2011, ha preso a lavorare presso le cucine del "Maremma". Nel 2012 è poi entrato nello staff del ristorante Quattro passi e quindi del Faro di Capo d'Orso. È poi tornato a lavorare nel ristorante di famiglia, oltre che presso Il mosaico. Nel 2015, per acquisire nuove esperienze, è andato in trasferta in Giappone, dove si è impratichito delle tecniche culinarie del Sol levante.
   Una serata che si preannuncia tutta all'insegna dell'amicizia, della solidarietà, dell'amore per la vita e per la buona tavola. Sentimenti che fanno tutt'uno con l'amore per Napoli e per Tel Aviv, due città che custodiscono nel proprio DNA questi valori. Non ci resta che ringraziare i promotori dell'iniziativa (tra cui, in particolare, l'Ambasciatore Naor Gilon e il Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Napoli, Giuseppe Crimaldi) per l'impegno profuso, fare i complimenti più sentiti ai tre chef, e augurare a tutti i presenti buon appetito.

(moked, 20 aprile 2016)


Erba dei Vicini su Israele: perché solo Moni Ovadia?

Lettera a Beppe Severgnini

Gentile dott. Severgnini,
ho assistito alla alla puntata su Israele dell'Erba dei Vicini, e malgrado i suoi sforzi sono rimasto deluso della partecipazione di Moni Ovadia che ha rappresentato solo se stesso senza nessun contraddittorio. Rappresento in Italia il "Technion" di Haifa, oggetto di una violenta azione di boicottaggio da parte di BDS (boicottaggio contro Israele), e per esperienza conosco i danni che fanno sia agli israeliani che ai palestinesi. Dietro queste azioni si nasconde il tentativo di delegittimare Israele, e sempre una vena antisemita. La prego, se ci dovesse essere una seconda opportunità, di tenere presente queste semplici e dimostrabili osservazioni. Solo per sua informazione, in questo Istituto che ha avuto 4 premi Nobel negli ultimi 12 anni, il 20% degli studenti, dei professori e del personale tutto è arabo. Un caro saluto,
Piero Abbina

(Corriere della Sera, 20 aprile 2016)


Boicottaggio contro Israele. A Bologna l'università è una madrassa

L'Alma Mater alla deriva: gemellaggi con l'Arabia Saudita e violenza contro gli insegnanti.

di Enrico Paoli

Bologna la «rossa». Bologna la «dotta». Persino Bologna «è una regola», secondo l'ultima declinazione della città felsinea coniata da Luca Carboni. E, forse, Bologna una regola lo è davvero, soprattutto quando si tratta di andare contro Israele.
   Seguendo una liturgia antica, ma sempre nuova nelle sue applicazioni pratiche, l'università del capoluogo emiliano ha deciso di brillare nella speciale classifica di coloro che intendono boicottare l'ateneo israeliano. Sulle 338 firme raccolte dalla cosiddetta «intellighenzia italiana», come la definisce il Foglio, con l'obiettivo di boicottare l'università israeliana, un buon 10% è composto da professori dell'ateneo felsineo, il più antico d'Europa. «Il numero ed il peso culturale delle firme sta facendo discutere non solo il mondo accademico», sottolinea il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, «anche perché molti dei sottoscrittori anti Israele sono gli stessi che hanno contemporaneamente apposto il loro nome e cognome sul grande accordo quinquennale che la stessa Alma Mater Studiorum ha appena siglato con l'Arabia Saudita».
   Il patto arabo-bolognese, lanciato dall'ex rettore Ivano Dionigi e sancito dal nuovo Francesco Ubertini, entrambi in silenzio rispetto alla firma contro lo Stato ebraico di alcuni loro colleghi, prevede scambi di studenti e investimenti per la promozione di testi islamici. Tutto positivo, non fosse che basterebbe leggersi il rapporto di «Freedom House» sugli atenei sauditi, additati tra i più intolleranti verso le altre culture e soprattutto religioni, per capire che qualcosa non torna. E che, forse, un po' di cautela non avrebbe fatto male a nessuno. A partire dall'istituzione universitaria, che non è un fatto privato dei professori.
   Nei testi scolastici di formazione islamica gli ebrei sono ancora chiamati con nomi di animali, «scimmie» in questo caso, mentre i cristiani dipinti come generici «maiali». Per non parlare della fine da quelle parti di alcuni importanti siti archeologi, rasi al suolo in nome della lotta all'idolatria. O della situazione in cui versa la situazione femminile in contrasto siderale con le giuste rivendicazioni delle laicissime insegnanti della dotta università bolognese. Nel frattempo, oltre al gemellaggio con uno degli Stati più oscurantisti del mondo, non una parola ufficiale di solidarietà si è levata nei confronti del professor Angelo Panebianco, bolognese e costretto a far lezione sotto scorta.
   Non solo. Nella «illuminatissima» università ieri c'è stato l'ennesimo blitz degli attivisti di sinistra che hanno «assaltato» il senato accademico, dove era in corso la riunione per decidere i provvedimenti disciplinari per le turbolente contestazioni studentesche a Scienze politiche (nel mirino Angelo Panebianco ma anche la vicepresidente della Scuola, Pina Lalli) avvenute durante le lezioni. A dare il là alle proteste gli attivisti dell'assemblea di Scienze politiche, una delle due formazioni (l'altra è il Cua) protagonista delle iniziative di contestazione (l'assemblea è il gruppo vicino al collettivo Hobo).

(Libero, 20 aprile 2016)


L'islam che evoca Hitler? Non è una buona idea

Evocare lo spettro di Hitler forse non è stata l'idea più opportuna. Ecco perché.

di Roberto Fabbri

Aiman Maziek, presidente del Consiglio islamico tedesco, ha soppesato bene le parole prima di lanciare un'accusa molto dura verso Alternativa per la Germania (Afd), il partito xenofobo che tre giorni fa aveva definito l'islam «una ideologia anticostituzionale da mettere al bando».
   Maziek ha espresso l'indignazione della sua comunità con un paragone estremo: «È la prima volta dai tempi di Hitler che in Germania c'è un partito che scredita di nuovo un'intera comunità religiosa e ne minaccia l'esistenza».
 
Il Gran Muftì islamico a colloquio con Adolf Hitler

   In effetti il dirigente musulmano è stato molto attento. Ha evitato di citare la comunità ebraica, che fu quella tragicamente presa di mira da Adolf Hitler; e soprattutto è riuscito ad accusare l'Afd di comportarsi come Hitler senza dire che il Führer avesse perseguitato i musulmani. E questo non per caso, ma perché Hitler i musulmani non li perseguitò mai: preferì invece allearsi con loro, seppure con scarsa convinzione, per sterminare gli ebrei.
   La frase di Maziek è insomma un piccolo capolavoro di comunicazione politica, ma non può comunque sovvertire la verità storica. La quale dice incontestabilmente che molti leader arabi videro nel Terzo Reich nazista l'occasione imperdibile per chiudere i conti con gli ebrei non solo in Palestina - all'epoca nelle mani dell'odiata Inghilterra - ma nel mondo intero. Usare la figura tenebrosa di Adolf Hitler per lamentare una persecuzione religiosa nella Germania di oggi è dunque assai più che discutibile. Furono infatti proprio gli arabi - rappresentati dalla massima autorità religiosa del tempo, il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini - a cercare un'alleanza tattica con la Germania nazista in nome del comune radicale antisemitismo. Hitler, dopo aver ricevuto una lettera da al-Husseini in cui gli veniva chiesto aiuto per liquidare il «focolare ebraico» in Palestina, lo ricevette amichevolmente a Berlino nel novembre 1941. Qui il leader musulmano promise a Hitler aiuto concreto nella guerra «contro i comuni nemici: gli inglesi, gli ebrei e i comunisti». Fu di parola: mise a disposizione del Reich centomila volontari per formare le Waffen-SS musulmane, che passò in rassegna facendo il saluto nazista. Insomma, evocare lo spettro di Hitler forse non è stata l'idea più opportuna.

(il Giornale, 20 aprile 2016)


"
Insomma, evocare lo spettro di Hitler forse non è stata l'idea più opportuna." E' un po' poco: è un'ignobile sfacciataggine. Per chi non fosse sufficientemente informato, proponiamo la lettura di questo articolo della nostra rubrica Approfondimenti: "Adolf Hitler e il Muftì di Gerusalemme".


Giustizia israeliana. Bruciò un arabo, ebreo verso l'ergastolo

Israele punisce i suoi cittadini che si macchiano di atti di terrorismo contro gli arabi. Dopo il soldato incastrato da un video della ong B'Tselem mentre uccide un prigioniero palestinese e mandato a processo (ma ieri difeso da migliaia di persone in piazza a Tel Aviv), arriva giustizia anche per Muhammad Abu Khdeir, il sedicenne palestinese bruciato vivo il 2 luglio 2014. La notte del delitto avvenuto alla periferia di Gerusalemme est, il capo degli assalitori - Yossef Hahn Ben David (30 anni) - era capace di intendere. E dunque totalmente colpevole di quel brutale assassinio che tanto colpì l'opinione pubblica europea ed israeliana. Lo ha stabilito ieri la Corte distrettuale di Gerusalemme respingendo a perizia psichiatrica sottoposta alcuni mesi fa in extremis dalla difesa. La sua pena sarà resa nota ai primi di maggio. Lo scorso febbraio i suoi due giovanissimi complici sono stati condannati rispettivamente all'ergastolo e a 21 anni di carcere.
   I tre estremisti ebrei rapirono, picchiarono e diedero fuoco al ragazzino arabo per vendicare l'uccisione di tre ragazzi ebrei fra i 16 e i 19 anni - Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Frankel - rapiti mentre facevano l'autostop tomando da scuola e uccisi nel giugno 2014 nei pressi dell'insediamento di Gush Etzion, in Cisgiordania. Autori della strage, due militanti di Hamas, il gruppo terrorista palestinese, poi uccisi dalle forze di difesa israeliane.
   Quando il ragazzo palestinese venne ucciso, le famiglie di Eyal, Gilad e Naftali espressero subito la loro condanna dell'omicidio. «Anche nel dolore perla morte di mio figlio», disse la signora Frankel, «non so esprimere l'angoscia per l'orrore commesso a Gerusalemme». Mentre l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen collaborò con le forze israeliane, l'azione dei miliziani delle brigate al Qassam (braccio armato di Hamas) fu salutata da molti palestinesi in Cisgiordania e da tutta Gaza come un atto eroico, ed eroi furono definiti i rapitori-assassini dal portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum.

(Libero, 20 aprile 2016)


Alla scoperta della cucina ebraica e delle tradizioni con Carla Reschia

La giornalista, autrice del libro "In viaggio con la cucina ebraica. Alla ricerca del cibo perduto", ci racconta le origini storiche e religiose di alcuni tra i piatti tradizionali più antichi degli ebrei.

di Farian Sabahi

Domenica 27 marzo a festeggiare la Pasqua sono stati i cristiani, mentre gli ebrei dovranno attendere il crepuscolo del 22 aprile per celebrare Pesach. Una festività che si conclude otto giorni dopo, il 30 aprile. Tutte le feste ebraiche sono feste mobili perché seguono il calendario lunare, quindi cadono ogni anno in una data diversa. Gli ebrei si preparano con cura alla loro Pasqua. Anche di questo abbiamo parlato con la giornalista Carla Reschia, autrice del libro In viaggio con la cucina ebraica. Alla ricerca del cibo perduto dato alle stampe dai tipi di Algra (Viagrande, Catania, pp. 148, €15).
Una cucina legata alla storia ebraica. A cominciare dal pane "azimo" che si consuma per Pesach, la Pasqua ebraica…
Il cibo è legato alla tradizione e alla fede, non ne può prescindere. Mangiare, in questo senso, è un atto etico. Safran Foer, nel libro Se niente importa dove racconta la sua scelta vegetariana, parla di sua nonna, che era riuscita a sopravvivere alla Shoah senza infrangere le regole alimentari e che di fronte allo stupore dei suoi interlocutori - perché rinunciare anche al poco cibo disponibile quando era in gioco la vita - replicava "Se niente importa allora non c'è nulla da salvare". Il pane azimo di Pesach è un buon esempio di questi complessi legami: è cotto senza lievito perché ricorda la precipitosa fuga degli ebrei dall'Egitto e l'ultima frettolosa cena quando non ci fu nemmeno il tempo di aspettare che il pane lievitasse. Mangiarlo significa rivivere la memoria di uno degli eventi più significativi della narrazione biblica.

- Che cosa non deve mancare per il Seder, la cena della vigilia?
  La cena della vigilia, il Seder di Pesach, è un complesso rituale dove ogni boccone e ogni gesto hanno un significato. È piuttosto lungo e complesso ma, per sommi capi, si bevono quattro bicchieri di vino, secondo
 
Minestra d'orzo
 
Carne fredda di manzo con salsa di melanzane all'aglio (un piatto di Shabbat)
 
Cholent, uno stufato tradizionale della cucina ebraica
una precisa sequenza e recitando le opportune benedizioni in segno di gioia per la liberazione dall'Egitto e in memoria dei quattro grandi meriti degli ebrei durante la schiavitù: non cambiarono i loro nomi ebraici; non cambiarono la loro lingua; si mantennero fedeli alle loro regole morali e leali l'uno all'altro. Si mangia il Karpas, l'antipasto, intingendo nell'acqua salata, in ricordo delle lacrime versate in Egitto, un pezzetto di patata, di cipolla o di sedano, si intingono le erbe amare nel charoset, un composto dolce che secondo la tradizione ricorda la malta dei mattoni fabbricati dagli ebrei mentre le erbe amare rievocano l'amarezza dell'esilio. E poi si inizia il pasto festivo mangiando un uovo sodo perché le uova, rispose un rabbino, "simboleggiano l'ebreo: più si cuoce un uovo, più questo si indurisce."

- Perché ha deciso di scrivere un libro di cucina ebraica?
    In realtà il libro non nasce tanto come libro di cucina quanto come un itinerario tra letteratura, luoghi e cibo. È diviso in sei capitoli che sono anche tappe di un viaggio ideale, da Venezia a Gerusalemme. Dove la ricetta che conclude ogni capitolo ne rappresenta in qualche modo il riassunto.

- Come mai tanto interesse per la cultura ebraica?
  La cultura ebraica mi affascina da sempre e fa parte delle mie radici, quindi molte delle mie letture e dei miei interessi hanno riguardato l'ebraismo. Ebrea era la parte della mia famiglia che conosco meno e di cui sono - proprio per questo - più curiosa.

- Quali sono le peculiarità di questa cucina?
  Si tratta in realtà di "cucine", al plurale. Tante quanti sono gli ebrei della diaspora. Con un unico severo comune denominatore: la purezza rituale. Il cibo dev'essere preparato secondo le regole della kasherut: un codice alimentare e, al tempo stesso, religioso.

- Nel suo libro ci sono tanti rimandi alla storia, alla cultura. Lei si sofferma sul significato delle parole, per esempio di "ghetto": quali sono le origini di questo termine?
  La parola ghetto - che nel bene e nel male tanto ha segnato la storia non solo ebraica - nasce proprio a Venezia perché il quartiere destinato agli ebrei era vicino al "geto" ovvero alla zecca dove si coniavano le monete. La pronuncia dolce dei veneziani divenne gh in jiddish, la lingua degli ebrei askenaziti (cioè tedeschi).

- Veniamo alle ricette: come si preparano i bagel?
  Il bagel è una sorta di felice invenzione moderna di una ricetta ebraica perché combina un classico panino diffuso nel mondo anglosassone con il salmone, pesce ebraico d'elezione perché dotato di lisca ossea e di squame. Inoltre il salmone permette l'uso di panna cioè di un latticino, che non sarebbe consentito con la carne. Il bagel non appartiene alla tradizione biblica ma è lo spuntino più diffuso in grandi città come Londra e New York.

- Gli ebrei non mangiano piatti "etnici"?
  Si possono permettere la cucina cinese perché, non contemplando l'uso di prodotti caseari, permette di concedersi un pranzo diverso dal solito senza violare i precetti. Una delle regole cardine della cucina kasher, cioè a norma, prevede infatti il divieto di mescolare la carne e il latte e tutti i suoi derivati.

- Gli ebrei sono sparpagliati in tanti paesi diversi. Alla fine del libro lei dedica un capitolo agli ebrei dell'Asia: in che misura la loro cucina è diversa?
  Gli ebrei dell'Asia - come tutti gli altri della diaspora - si sono adattati o meglio hanno adattato la cucina locale alle loro esigenze. C'è quindi anche un pollo al curry kasher mentre le ricette tradizionali adottano ingredienti e sapori esotici, dai frutti alle verdure alle spezie.

(IO Donna, 19 aprile 2016)


Gerusalemme si risveglia con la paura di un ritorno allo stragismo

In Israele e in modo particolare a Gerusalemme torna l'incubo del terrorismo: l'attentato di ieri che ha causato una quindicina di feriti ha risvegliato i peggiori ricordi.
Nelle ultime settimane la rivolta palestinese, caratterizzata anche da una serie di attacchi ai passanti, era stata battezzata "l'intifada dei coltelli". Ora tutto cambia, si ripensa all'intifada degli attentati, tra il 2000 e il 2005.
"Stamattina, come tutti a Gerusalemme, sono preoccupato. Di nuovo gli autobus non sono sicuri, c'è un problema ma penso che questo valga anche per i miei vicini arabi. Abbiamo tutti paura".
"Le esplosioni erano più frequenti prima, a Gerusalemme: da qualche anno non ce n'erano più, è una brutta cosa che riprendano, mi preoccupa".
Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet, ha confermato che l'esplosione di una bomba su un autobus ricorda effettivamente gli attentati dei primi anni duemila, che però avevano cariche molto più potenti.
Questa bomba, invece, non solo era meno potente di quelle di allora, ma era stata piazzata su un autobus vuoto al momento dell'esplosione. Le persone rimaste ferite si trovavano nei pressi.

(euronews, 19 aprile 2016)


Le nuove tecnologie contro i tunnel danneggeranno Hamas

GERUSALEMME - Le nuove tecnologie segrete utilizzate dalle forze di sicurezza israeliane per la scoperta dei tunnel sotterranei utilizzati da Hamas per uscire illegalmente dalla Striscia di Gaza causeranno un duro danno alle operazioni del gruppo islamico palestinese. Lo sostiene la stampa israeliana che continua a dare grande risalto alla scoperta annunciata ieri dalle autorità israeliane di un tunnel in fase di costruzione rinvenuto con nuovi strumenti di ricerca. Per la realizzazione di ogni singolo tunnel Hamas impiega centinaia di addetti e spende milioni di shekel, ora con le nuove tecnologie a disposizione di Gerusalemme tutti questi sforzi potrebbero diventare inutili, secondo gli analisti israeliani. I tunnel, in particolare, sono utilizzati dalla Nuhba force, l'unità di elite di Hamas che comprende circa 5 mila uomini e che li utilizza per entrare in territorio israeliano senza essere individuati dalle forze dell'esercito di Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 19 aprile 2016)


Netanyahu: i nostri militari non sono assassini

GERUSALEMME - I militari israeliani non sono assassini. Lo ha detto oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu commentando l'incriminazione per omicidio colposo a carico di Elzor Azariy, il soldato che lo scorso 24 marzo ha sparato ad un palestinese inerme ad Hebron uccidendolo. Parlando con i giornalisti poco prima dell'inizio dell'incontro con il premier di Singapore, Lee Hsien Loong, il capo del governo ha ribadito la sua fiducia nel sistema giudiziario del paese aggiungendo: "Come padre di un militare e primo ministro vorrei ribadire che le forze armate israeliane sostengono i propri militari. I nostri militari non sono assassini, loro combattono gli assassini", invitando l'opinione pubblica ad abbassare i toni sulla vicenda. Nella giornata di ieri, 18 aprile, Azariy è stato ufficialmente accusato di omicidio colposo; il giudice del tribunale militare di Jaffa ha anche accusato il militare dell'esercito israeliano di condotta disdicevole.

(Agenzia Nova, 19 aprile 2016)


Il partigiano ebreo Avraham Aviel si racconta davanti a mille studenti reggiani

Oggi ha 87 anni e non ha dimenticato la fuga verso Israele e lo sterminio della sua famiglia. Fu testimone al processo Eichmann.

 
REGGIO EMILIA - Il racconto di un'esistenza al limite del romanzo, unico superstite in famiglia della soluzione finale, giovanissimo partigiano nel gelo orientale, migrante per l'Europa a piedi, in fuga verso Israele, testimone al processo Eichmann.
   È una storia davvero emozionante, che riassume per molti versi quella di buona parte del 20esimo secolo, quella che i mille studenti reggiani del Viaggio della Memoria Istoreco hanno potuto ascoltare martedì mattina al teatro Valli dalla voce del protagonista, Avraham Aviel, vitalissimo 87enne partigiano ebreo di origine polacca. Un incontro organizzato come atto conclusivo del Viaggio della Memoria 2016, che fra febbraio e marzo ha portato a Praga e al campo di Terezin oltre mille studenti delle scuole superiori reggiane. Tutti insieme, accompagnati dai loro insegnanti, si sono ritrovati ieri mattina in un teatro Valli strapieno per la testimonianza di Aviel, chiamato in Italia da Istoreco per l'occasione.
   A salutare il partigiano, anche il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi, che ha parlato di muri, divisioni e aperture nell'Europa di ieri e di oggi, e il consigliere regionale Yuri Torri, che ha spiegato il lavoro della Regione per una nuova legge sulla memoria.
   La parola è poi passata ad Aviel. Nato in un villaggio rurale di quella che all'epoca era Polonia e oggi è Bielorussia, ha assistito allo sterminio di tutti gli abitanti ebrei della zona da parte dei nazisti nella prima fase di quella che è stata poi chiamata la soluzione finale. La madre e il fratello sono stati fucilati in una fossa comune assieme ad altre migliaia di persone nel 1941. Avraham, dopo essere riuscito a sfuggire, si è unito al fratello e al padre, poi morti negli anni successivi. Giovanissimo, si è unito a un gruppo di partigiani - sovietici ed ebrei - con cui ha combattuto sino alla fine del conflitto. Nel 1945, dopo un lunghissimo viaggio a piedi, ha raggiunto l'Italia e ha passato diversi mesi a Selvino, nelle alpi bergamasche, in un orfanotrofio per bambini ebrei gestito dal Cln milanese e dalla brigata ebraica.
   Dall'Italia, passando per una deportazione a Cipro dove ha conosciuto la moglie Ayala (anche lei passata da Selvino, peraltro), ha raggiunto Israele dove ha costruito la sua famiglia. Domenica Aviel - accompagnato da un gruppo di Istoreco - è tornato per la prima volta a Selvino con Ayala e due delle figlie. La testimonianza si è conclusa con un omaggio alla moglie, con il racconto della sua esperienza di bambina deportata, con lunghissimi applausi seguiti da alcune domande e da tanti abbracci da parte degli studenti presenti.

(Reggionline, 19 aprile 2016)


Ferrara - Meis, è Simonetta Della Seta il nuovo direttore

Designata all'unanimità dal Consiglio di amministrazione della Fondazione

FERRARA - È Simonetta Della Seta il nuovo direttore che, per i prossimi quattro anni, dovrà gestire il nascente Meis, avanzare proposte e dare impulso agli obiettivi e ai programmi di attività della Fondazione. Della Seta è stata designata ieri all'unanimità dal Consiglio di amministrazione della Fondazione Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della shoah di Ferrara. La scelta è stata prese sulla base del rapporto trasmesso dalla Commissione giudicatrice, composta da un museologo, da uno studioso di storia e cultura ebraica e da un esperto di management di beni e istituzioni culturali e museali, tra i tredici candidati che avevano preso parte alla selezione.
   «Questa nomina segna un momento molto importante nel percorso che, nell'autunno 2017, porterà all'inaugurazione del primo lotto del Museo, con la ristrutturazione del corpo centrale e l'allestimento di una prima, grande mostra - ha affermato il presidente del Meis Dario Disegni -. Non a caso all'insediamento del nuovo Consiglio, nello scorso gennaio, avevo indicato come prioritaria l'individuazione, attraverso un bando internazionale, di un valido direttore».
   Giornalista professionista, Simonetta Della Seta ha un corposo curriculum in cui si legge, tra l'altro, che è presidente della Commissione Cultura della Comunità ebraica di Roma e docente di Storia ebraica contemporanea nel Master in Cultura ebraica e Comunicazione dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane.

(Il Resto del Carlino, 19 aprile 2016)


Gerusalemme rivive l'incubo kamikaze una bomba sul bus

Sedici feriti tra i passeggeri di un altro mezzo La jihad islamica annuncia una nuova fase. Nascosta nel motore Gli investigatori stanno cercando di capire con certezza dove fosse piazzata la carica.

di Davide Frattini

 
GERUSALEMME - Le fiamme che si alzano tra le colline a sud di Gerusalemme, le sirene delle ambulanze che attraversano la città, i due autobus devastati dall'incendio. Per gli israeliani tornano le immagini, i suoni, la paura della Seconda Intifada, quando i kamikaze palestinesi colpivano.
   La polizia ha aspettato prima di denunciare l'«attentato terroristico, per ore le cause sono state dichiarate «incerte». Perché l'esplosione sarebbe avvenuta su un pullman vuoto, c'era solo l'autista, e le fiamme si sarebbero propagate a un secondo veicolo: i sedici passeggeri feriti viaggiavano su questa linea. Gli investigatori stanno cercando di chiarire dove fosse piazzata la carica. Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme, è stato il primo a presentarsi davanti alle telecamere e a usare la parola «bomba»: «Un ordigno è stato nascosto nel motore». I poliziotti della scientifica sospettano invece che le due vittime più gravi, per ora senza identità, possano essere gli attentatori, non è detto che volessero immolarsi come kamikaze, la detonazione potrebbe essere avvenuta in anticipo, in questo caso sul pullman con i passeggeri.
   Da Gaza i capi di Hamas hanno celebrato l'attacco senza rivendicarlo. Poche ore prima l'esercito israeliano aveva annunciato la scoperta di un tunnel scavato al confine tra la Striscia e Israele, come le gallerie preparate dalle truppe irregolari del gruppo fondamentalista per la guerra tra il luglio e l'agosto di due anni fa. Anche allora le violenze erano cominciate a Gerusalemme e in Cisgiordania fino a tracimare nei 59 giorni di conflitto. Adesso Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, promette di trovare chi abbia organizzato l'attacco sull'autobus: «Puniremo i colpevoli e i responsabili». Era dal novembre del 2012, durante un altro round di scontri con Hamas, che un attentato terroristico con l'esplosivo non colpiva una città israeliana, allora la borsa era sta lasciata a una fermata dei pullman aTeI Aviv. Lo Shin Bet, il servizio segreto interno, teme che la bomba di quella che gli analisti chiamano l'«intifada dei coltelli». Dallo scorso ottobre 28 israeliani e 2 americani sono stati uccisi, quasi sempre in attacchi solitari, giovani che assaltano con il pugnale civili e soldati sapendo che saranno uccisi: i morti palestinesi sono 189, secondo l'esercito israeliano per la maggior parte attentatori.
   L'esplosione a Gerusalemme è avvenuta proprio nei giorni in cui l'intelligence militare e i generali cominciavano a parlare di ritorno alla calma. Gli agenti dello Shin Bet cercheranno di capire se anche questa volta l'attentato sia stato organizzato da «lupi solitari»: senza un'organizzazione alle spalle, pianificano l'operazione nel chiuso delle loro stanze, vogliono emulare i «martiri» che li hanno preceduti. L'ordigno usato sull'autobus sembrerebbe artigianale, preparato senza le conoscenze degli ingegneri del terrore. Ma la jihad islamica, sempre da Gaza, già annuncia l'inizio di una nuova fase.

(Corriere della Sera, 19 aprile 2016)


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Dopo Bruxelles, terrore a Gerusalemme

Il franchising del terrore islamista e il doppio standard europeo

A Gerusalemme sono tornate immagini tristemente familiari: un autobus in fiamme, sventrato da un'esplosione, i feriti riversi per strada, alcuni gravissimi. E' successo a Talpiot, nella parte orientale della capitale di Israele, con un mezzo fatto saltare in aria da una bomba portata a bordo, stando alla polizia israeliana, forse dallo stesso terrorista suicida. L'attentato arriva dopo settimane di relativa calma, in cui la "Terza Intifada" sembrava entrata in sonno. Ma l'intelligence israeliana aveva avvertito: il terrorismo palestinese, di cui si deve ancora accertare il mandante per questo nuovo attentato a Gerusalemme, proverà a rialzare la testa e a colpire in occasione della Pasqua ebraica. Un mese dopo l'attentato all'aeroporto e quello alla metropolitana di Bruxelles, viene colpito un autobus a Gerusalemme. E' lo stesso terrorismo islamista, ma l'Europa non lo considera tale, imputandone le cause alle politiche israeliane. Ieri, dalla ben ordinata Svezia, è arrivata la notizia delle dimissioni di un ministro socialdemocratico, Mehmet Kaplan, che aveva paragonato lo stato ebraico al nazismo. Con Israele siamo sempre alle solite: le sue vittime hanno il sangue di un altro colore, le bombe contro gli ebrei non fanno rumore, la conta dei suoi morti e feriti non accende le redazioni dei giornali, almeno fino a quando Gerusalemme non risponde all'attacco e l'Europa ne condanna la "rappresaglia". Questa falsa equivalenza morale è oggi uno strumento, forse il più sinuoso ed efficace, per demonizzare e combattere Israele. Forse persino più delle bombe.

(Il Foglio, 19 aprile 2016)


È morta l'attrice e regista israeliana Ronit Elkabetz

L'artista era molto apprezzata e conosciuta per le sue pellicole. Aveva 51 anni ed è scomparsa dopo una lunga malattia

di Ariela Piattelli

 
Ronit Elkabetz
Se il cinema israeliano ha voltato pagina, celebrando successi in tutto il mondo, nei festival, nelle sale europee, lo deve anche a Ronit Elkabetz. L'attrice e regista è scomparsa oggi a soli 51 anni, lasciando due figli e il marito, l'architetto Avner Yasharon. Nessuno sapeva della sua malattia, e la notizia arriva come un fulmine a ciel sereno nelle prime ore del mattino, lasciando nello sgomento il mondo del cinema e della cultura israeliana.

 "Un'artista totale". Il ricordo di Amos Gitai
  «Bella, carismatica, emozionante». La ricorda così Amos Gitai, ascoltato da La Stampa. Il regista la volle come attrice protagonista nelle due pellicole Metamorphosis of a Melody e Alila. «Voglio parlare di lei al presente, come faccio ancora per i miei genitori- dice Gitai-. Ronit è una straordinaria, grande artista. Un'artista totale che porta tutta se stessa, la sua esperienza, ogni singolo elemento che compone la sua vita, nell'arte. Non ha mai studiato per fare l'attrice, è un talento naturale. Mette la sua bravura e la sua intelligenza in tutto, e anche il suo coraggio».

 Il personaggio
  Ronit Elkabetz è nata nel 1964 a Bersheba, città immersa nel deserto del Sud d'Israele. La sua è una famiglia ebraica molto tradizionalista di origine marocchina, e lei è la prima di quattro fratelli. Anche se suo padre insisteva nel parlare ebraico, in casa Elkabetz si parla l'arabo e il francese, con quella cadenza tipica degli ebrei marocchini che Ronit porterà nei suoi film autobiografici, insieme alla dimensione corale della famiglia. La Elkabetz esordisce come modella, poi arriva la voglia di fare teatro e cinema: nel 1997 si trasferisce per un periodo a Parigi e anche li si accorgono subito del suo talento. In Francia l'attrice lavorerà nel cinema e in teatro, e collaborerà tra gli altri con Fanny Ardant e Catherine Denevue. Il regista Eran Kolirin la porta sui grandi schermi di tutto il mondo con il suo film di esordio La banda, in cui Ronit è Dina, giovane donna che ospita in casa una piccola orchestra egiziana finita per sbaglio nel deserto. Il film va a Cannes, e in Israele le vale il Premio Ophir (il massimo riconoscimento del cinema israeliano) come miglior attrice. Ronit inizia a ritirare premi in Israele e nei festival internazionali.
  Il passaggio dall'altra parte della cinepresa, come regista (e sempre come attrice protagonista), avviene nel 2004 con To Take a Wife, che da' il via al sodalizio artistico con il fratello Shlomi e alla trilogia in cui lo spunto autobiografico porta Ronit ad immergersi nelle atmosfere della famiglia religiosa, da cui lei proviene, e ad affrontare la complessità delle dinamiche sociali, delle regole che la tradizione impone e dell'emancipazione. Ne nascono altri due gioielli di cinema, 7 Days, pellicola corale in cui recitano grandi star del cinema israeliano, e che ironia della sorte, racconta il lutto di una famiglia per l'improvvisa scomparsa di un giovane fratello durante la guerra del Golfo. Ultimo della trilogia è Viviane, film sul divorzio ebraico, girato interamente dentro una stanza, applaudito a Cannes e scelto come pellicola israeliana per gli Oscar nel 2014.

(La Stampa, 19 aprile 2016)


Napoli-Tel Aviv, gastronomia a confronto a Villa d'Angelo

Villa d'Angelo
Il Mediterraneo come un ponte capace di unire culture e tradizioni diverse e allo stesso tempo affini: da oggi Napoli e Tel Aviv sono più vicine grazie alla cucina. Domani sera, grazie a un'iniziativa della Federazione Italia-Israele, verrà celebrato il gemellaggio enogastronomico tra le due città. All'evento, che si terrà a «Villa D'Angelo», parteciperanno l'ambasciatore d'Israele, Naor Gilon, autorità civili e personalità del mondo universitario, imprenditoriale e scientifico partenopeo. Faccia a faccia, in un confronto tutto ispirato ai sapori mediterranei, tre chef: i napoletani Fabio Bisanti e Salvatore Giuliano (in rappresentanza dello storico ristorante «Mimi alla Ferrovia»), e Shaul Ben Aderet, uno dei più apprezzati nomi nel firmamento culinario israeliano. Hummus, peperone imbottito, parmigiana e baklavà: il tutto accompagnato dai vini delle Cantine Moio e da quelli kosher. Nel corso della serata - che si svolge con il patrocinio dell'Ente del turismo israeliano - verranno consegnati anche alcuni riconoscimenti: a cominciare dal premio speciale assegnato al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti per il suo impegno nella lotta contro le mafie e il terrorismo. Ci sarà spazio anche per la solidarietà, con donazioni che verranno devolute all'associazione «Tsad Kadima», organizzazione no profit che organizza il percorso formativo dei bambini che soffrono di lesioni cerebrali in Israele, a prescindere dalla religione, dal credo o dall'appartenenza etnica.

(Il Mattino, 19 aprile 2016)


Quei docenti di Bologna la rossa che si prostrano alla Mecca

Siglano patti con le liberissime università saudite e boicottano Israele.

di Giulio Meotti

E' arrivato a 338 firme l'appello italiano a boicottare l'università israeliana. Di questi docenti e ricercatori, un decimo proviene dall'Università di Bologna. Ma nella più antica università d'Europa nessuno ha avuto la premura di sollevare un problema morale di fronte al grande accordo che l'Alma Mater Studiorum ha appena siglato con l'Arabia Saudita. Non solo, ma alcuni dei protagonisti di questo patto accademico compaiono nell'appello contro i docenti israeliani. Bastava leggere il rapporto di Freedom House sugli atenei sauditi per capire che forse serviva un po' di cautela in più visto che in ballo non c'è il greggio, ma la nostra cultura: "La libertà accademica è limitata, informatori monitorano le aule per il rispetto delle norme, come il divieto di insegnare filosofia e religioni diverse dall'islam".
   ll patto con i sauditi, che durerà cinque anni, è stato lanciato dall'ex rettore Ivano Dionigi e sancito dal nuovo, Francesco Ubertini, entrambi silenti sui propri colleghi che ostracizzano lo stato ebraico. Nell'interscambio con Riad si parla di "promozione del dialogo", di pubblicare testi islamici, investendo in letteratura, filologia e musica, tramite conferenze e seminari, nonché lo scambio di professori e studenti. Forse i docenti bolognesi avrebbero dovuto sfogliare i libri usati nelle scuole saudite, dove gli ebrei sono chiamati "scimmie" e i cristiani "maiali". Nell'accordo c'è anche l'archeologia sotto la cura di Nicolò Marchetti, massimo esperto in materia all'Università di Bologna: bizzarro, visto che dell'epoca di Maometto alla Mecca restano in piedi pochi edifici. Gli altri sono stati tutti rasi al suolo in nome della guerra all'"idolatria" per farne hotel di lusso o pompe di benzina. Come la tomba di Amina bint Wahb, madre di Maometto, o la casa di Abu Bakr, l'amico del Profeta. La stessa fine che farebbero fare alla tomba di Dante Alighieri a Ravenna, reo di aver cacciato Maometto all'Inferno.
   Non è il primo accordo di interscambio con i sauditi. Nel 2014, rettore e docenti bolognesi volarono a Riad per partecipare a una fiera sull'educazione alla presenza di Khalid bin al Angari, ministro per l'Istruzione saudita. Lo scorso 10 ottobre l'allora rettore Dionigi, assieme all'ambasciatore saudita in Italia, ha partecipato a un convegno dal titolo "Tolleranza nell'islam e coesistenza fra le religioni". Sapeva il rettore che in Arabia Saudita non si può indossare una tunica, mostrare la croce, aprire una chiesa, che i cristiani sono perseguitati e che per arrivare alla Mecca per loro vige un apartheid autostradale? Fra i sostenitori dell'accordo coi sauditi c'è Giulio Soravia, direttore del Centro di scienze dell'islam a Bologna. La firma di Soravia, che già nel 2011 fu inviato dal rettore a partecipare a una conferenza in Arabia Saudita, campeggia anche nell'appello contro Israele. Mentre l'università stringeva patti con Riad, il Gran Mufti saudita stabiliva che "le donne che guidano sono prede del demonio". Che ne pensano le laicissime femministe dell'Università di Bologna la dotta e la rossa?
   Oltre a sottomettersi a uno dei regimi più oscurantisti al mondo, i docenti potevano dimostrare un po' di solidarietà all'unica democrazia del medio oriente, Israele, e ad Angelo Panebianco, un loro collega che fa lezione scortato. Intanto, a Riad, un intellettuale di nome Raif Badawi attende in carcere il prossimo ciclo di frustate, colpevole di "insulti all'islam" e di essere un "liberale". Molto di più di questi cattedratici con la doppia morale.

(Il Foglio, 19 aprile 2016)


Parma - Lenz, il 25 aprile debutta "Kinder"

 
PARMA - "Da domani sarà tristezza, da domani. Ma oggi sarò contento, a che serve essere tristi, a che serve". Inizia così Kinder [Bambini], il nuovo esito performativo della lunga ricerca sui temi della Resistenza e dell'Olocausto di Lenz Fondazione, presentato in prima nazionale a Lenz Teatro lunedì 25 aprile alle ore 21 (repliche dal 27 al 29 aprile, sempre alle ore 21).
   Un debutto che sta meritando l'attenzione di numerosi media. Una troupe della trasmissione Memo di RAI5 ha realizzato un servizio che andrà in onda venerdì 22 aprile alle 19.40 (in replica su RAI1 alle 02.30 circa e su RAI5 e RAIScuola nei giorni successivi). Radio3 Rai lunedì 25 aprile alle ore 22.45 circa dedicherà a Kinder [ Bambini ] una intera puntata della trasmissione Teatri in prova. Servizi anche su SkyArteHD, SkyTg24 e sul portale di Rai Storia. Presenza, infine, sulla stampa nazionale.
   "La storia della persecuzione antiebraica attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 è nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici anni per i bambini italiani. Soprattutto per gli ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e della eliminazione fisica della propria famiglia", spiega Francesco Pititto, autore di testo e imagoturgia, suggerisce la genesi di questo stratificato lavoro.
   "La drammaturgia di Kinder contiene diverse parti di questa Storia: l'elenco dei campi di lavoro e di sterminio, le lettere di una madre al "Signor Questore della Provincia di Parma", poesie anonime di bambini ebrei dei campi, dialoghi immaginari tra i bambini di Parma con altri due bambini dei campi, Tereszka e Papo, una versione ritradotta di Tenebrae di Paul Celan. Ma il nucleo drammaturgico rimane il canto. Ed ecco la presenza/resurrezione dei sei bambini del Coro di Voci Bianche Ars Canto diventare essenza performativa insieme ad un'unica attrice, Valentina Barbarini: riflesso e rifrazione di sei vite
Il coro dei bambini
troncate, tramite i loro sguardi silenziosi e poi voci recitanti e intonanti un unico Lied di Mozart che parla di un Maggio imminente, di violette, di giochi nella notte e nella neve, di un libero paese amato".
   Kinder va alla ricerca di un'eco di quel che non si potrebbe più dire, più ascoltare, più scrivere, mai più dimenticare, di un'arte non serena composta di voci straniere, rumori rielaborati fatti di rimandi sonori del Campo, movimenti musicali tesi a creare nuove dinamiche spazio-temporali, a cura di Andrea Azzali. "Stiamo parlando di bambini, è bene ricordarlo - rilancia Maria Federica Maestri, responsabile di installazione, elementi plastici e regia dello spettacolo - vogliamo concentrarci sui volti dei bambini ebrei di Parma, come su di un unico monumentale volto di bambino che possa rappresentare i Kinder di ogni guerra".

 Conversazione con Marco Minardi
  Inaugura il progetto una conversazione presso Lenz Teatro - il 25 aprile alle ore 18 - moderata da Marco Minardi, direttore dell'Isrec (Istituto storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea), con l'intervento dello storico torinese Bruno Maida, autore di diversi libri sulla Shoah e sui bambini ebrei, e della docente del Liceo Marconi di Parma Patrizia Bertolani, in dialogo coi Direttori Artistici di Lenz. La conversazione sarà incentrata sulla complessità della documentazione storica nella memoria contemporanea.

Info. Lenz Teatro, via Pasubio 3/e, Parma, 0521 270141, 335 6096220,
comunicazione@lenzfondazione.it

Presentazione

(la Repubblica - Parma, 19 aprile 2016)


«Avevo 17 anni, quando mi hanno rinchiuso ad Auschwitz»

I giovani di Sant'Egidio incontrano Hana Hnàtovà, sopravvissuta alla Shoah

"Avevo 17 anni, quando mi hanno rinchiuso ad Auschwitz". Questo il titolo dell'incontro dei giovani della Comunità di Sant'Egidio di Praga con Hana Hnàtovà, una signora di 92 anni, ebrea, sorella del famoso scrittore ceco Arno?t Lustig.
Hana è stata invitata a raccontare ai giovani la sua storia sofferta di diciassettenne che ha vissuto per diversi anni in quattro campi di concentramento (Terezín, Auschwitz, Freiberg, Mautthausen).
Fino a poco tempo fa Hana non aveva mai voluto parlare del suo passato. Ma, dopo la morte del fratello, ha sentito la responsabilità di trasmettere alle nuove generazioni un messaggio di pace e un forte rifiuto di ogni pregiudizio o discriminazione.
"Sono contenta di vedere cosi tanti giovani, sono felice, quando posso stare tra di voi. - ha detto - Voi, ragazze, siete così belle con i vostri capelli ricci e lunghi. A noi, ad Auschwitz, ci hanno tagliato i capelli per toglierci la nostra bellezza. Ma non sono riusciti a toglierci la solidarietà, la volontà di aiutarci a vicenda. Noi, che potevamo lavorare, abbiamo condiviso anche l'ultimo pezzo di pane con chi era più debole".
La sua testimonianza ha toccato profondamente gli ascoltatori e ha suscitato nei giovani presenti il desiderio diimpegnarsi affinchè questi valori, custoditi coraggiosamente dalal generazione che ha vissuto la terribile esperienza dell'Olocausto, non vadano smarriti, in un momento in cui l'Europa, di fronte alla sfida delle migrazioni, mostra di averne più che mai bisogno.

(Sant'Egidio, 19 aprile 2016)


L'esercito israeliano è sempre più religioso

Più di un terzo dei nuovi allievi ufficiali ha forti convinzioni sioniste e religiose, e questo potrebbe diventare un problema.

 
In un lungo articolo per l'agenzia stampa Reuters, la corrispondente da Gerusalemme Maayan Lubell ha raccontato come l'esercito israeliano si stia trasformando in una forza sempre più religiosa, e degli sforzi che alcuni politici e militari israeliani stanno facendo per mantenere intatta la sua tradizione laica. Dell'argomento si è cominciato a parlare in Israele soprattutto dopo l'ultima guerra a Gaza, nell'estate del 2014.
  Nella notte prima dell'invasione di terra, il Colonnello Ofer Winter, comandante della brigata Givati, una delle unità più decorate dell'esercito israeliano, ha fatto circolare tra i suoi uomini una lettera dai toni profetici, piena di richiami al "Dio di Israele" e che si concludeva con una citazione biblica. La lettera, racconta Lubell, iniziò immediatamente a circolare sui social network e sui giornali, e causò moltissime polemiche tra gli israeliani laici, che accusarono il colonnello Winter di aver interrotto una tradizione che durava fin dall'inizio della moderna storia di Israele: la separazione tra gli affari militari e quelli religiosi.
  L'esercito israeliano, noto con l'acronimo del suo nome in inglese, IDF (che sta per Israel Defence Force), o in ebraico, Tsahal, venne creato a partire dalle milizie più o meno regolari formate dagli ebrei che abitavano in Palestina prima dell'indipendenza. Dopo il 1948 l'esercito, come il governo, divenne una forza dominata da una élite laica e progressista. Moshe Dayan, il più celebre generale israeliano, insieme a moltissimi altri alti ufficiali dello Tsahal, aveva idee di sinistra ed entrò in politica con Mapai, il partito socialista che dominò la prima metà della storia politica israeliana.
  La lettera del colonnello Winter ha mostrato che questa situazione oggi è molto cambiata. Un esempio è il ruolo che oggi hanno i rabbini all'interno dell'IDF. Ci sono sempre stati religiosi all'interno dell'esercito israeliano, così come ci sono cappellani militari cattolici in quello italiano (il presidente della CEI Angelo Bagnasco, ad esempio, ha prestato servizio militare e riceve tuttora una pensione dallo Stato italiano equivalente a quella di un generale). Il ruolo dei religiosi-militari è simile in quasi tutti gli eserciti occidentali, e in genere si limita all'officiare cerimonie religiose. All'inizio degli anni Duemila, però, in Israele la situazione è cambiata e il rabbinato militare ha creato l'Unità per la consapevolezza ebraica, un'unità dell'esercito il cui scopo è offrire ai soldati lezioni e corsi in cui viene spiegato come la religione ebraica si intrecci con il dovere di difendere lo stato di Israele. L'Unità è accusata da molti di avere un'agenda di destra e conservatrice, in contrasto con la neutralità politica che dovrebbe caratterizzare l'esercito.
  Come la lettera di Winter, anche i corsi dell'Unità per la consapevolezza ebraica hanno attirato numerose critiche da parte di quelli che credono nella separazione tra esercito e affari religiosi. I militari che la pensano in questo modo, però, sono sempre meno. L'esercito israeliano non tiene statistiche ufficiali sulla percentuale di militari religiosi, ma secondo un recente studio realizzato da Maarachot, la rivista ufficiale del ministero della Difesa, e citato da Lubell, i nuovi allievi ufficiali con un passato religioso sionista sono aumentati di dieci volte negli ultimi vent'anni, passando dal 2,5 per cento del 1990 al 26 per cento del 2008. Secondo altri studi più recenti, questa percentuale arriva oggi a circa un terzo o addirittura al cinquanta per cento del totale.
  Gli israeliani che si identificano come religiosi sionisti, cioè che ritengono ci siano fondamentali ragioni religiose che giustificano l'esistenza dello stato di Israele, sono circa il 10 per cento della popolazione israeliana (il loro partito più importante è la Casa Ebraica, che alle ultime elezioni ha ottenuto il 6,74 per cento dei voti). La loro ideologia è differente da quella degli ebrei ortodossi, che di solito rifiutano il servizio militare. I sionisti religiosi, invece, ritengono l'esercito fondamentale per la sopravvivenza di Israele e hanno una percentuale molto alta di volontari che fanno parte delle unità di combattimento. Il fatto che moltissimi nuovi allievi ufficiali appartengano a questo gruppo fa sì che i religiosi sionisti siano considerevolmente sovra-rappresentati all'interno dell'esercito.
  Sono molti gli israeliani che negli ultimi anni stanno cercando di opporsi a questa tendenza. Lo scorso gennaio, il generale Gadi Eisenkot, capo di Stato maggiore dell'esercito, ha annunciato la sua intenzione di ridimensionare l'Unità per la consapevolezza ebraica. I sionisti religiosi hanno fatto appello al primo ministro Benjamin Netanyahu per fermare questa mossa. Netanyahu è un laico, ma il suo governo dipende anche dal supporto dei partiti religiosi. Per il momento, scrive Lubell, Eisenkot non ha dato segno di voler cambiare idea e lo scorso 4 aprile lo Stato maggiore ha annunciato che l'unità sarà spostata in un altro ramo delle forze armate, anche se i dettagli di questo cambiamento e le sue conseguenze pratiche non sono ancora molto chiari.
  Nel 2012, il Mevaker HaMedina (traducibile con "Controllore di stato", una sorta di Corte dei conti indipendente dal governo con un mandato molto più esteso), ha duramente criticato il rabbinato militare, accusandolo di aver diffuso tra le truppe, durante la guerra a Gaza del 2008-2009, volantini in cui si sosteneva la necessità di "non abbandonare un millimetro" di terra israeliana. Alcuni volantini spiegavano che a volte, sul campo di battaglia, è giustificabile essere "crudeli" con i nemici.
  Un altro episodio che mostra la preoccupazione di numerosi israeliani per l'ondata religiosa che ha investito l'esercito, è avvenuto lo scorso febbraio, durante la riunione di una commissione parlamentare. I difensori dell'Unità per la consapevolezza ebraica avevano chiamato a testimoniare un ufficiale, ferito nel corso della guerra del 2008-2009. L'ufficiale raccontò come dopo averlo visto ferito i suoi uomini si erano rifiutati di continuare a combattere, e furono convinti a farlo solo da un discorso motivazionale di un rabbino. «Questo è molto male», ha commentato Omer Bar-Lev, un ex colonnello dell'esercito e oggi parlamentare dell'Unione Sionista, una coalizione di centrosinistra: «Se i tuoi soldati hanno avuto bisogno di un rabbino per essere motivati a combattere, è molto male».
  L'ondata religiosa nell'esercito non è che un aspetto del ritorno del sionismo religioso in tutto lo stato di Israele. Oggi la Casa Ebraica è un partito fondamentale per il governo in carica e i suoi membri controllano diversi ministeri importanti. Anche se ufficialmente laico, il Likud, il partito del primo ministro Netanyahu, non può fare a meno dei sionisti religiosi e negli ultimi anni le sue posizioni si sono spostate verso destra in quasi tutti i campi. Yedidia Stern, un ricercatore che lavora in una fondazione vicina ai sionisti religiosi, ha raccontanto a Lubell come nel 1995, dopo che il primo ministro Yitzhak Rabin fu ucciso da uno studente che si identificava con il movimento, «l'intera area politica fu etichettata come un pericolo per lo stato, irrazionale e potenzialmente ribelle. Il sionismo religioso divenne una posizione illegittima. Vent'anni dopo la situazione si è ribaltata».

(il Post, 17 aprile 2016)


Netanyahu all'Unesco: il Monte del Tempio è sacro anche per gli ebrei

TEL AVIV - Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha criticato aspramente la decisione dell'Unesco di condannare «l'aggressione unilaterale» a Gerusalemme sulla Spianata delle Moschee (che gli ebrei chiamano Monte del Tempio) sostenendo che l'organizzazione dell'Onu non tiene conto che «è anche un luogo santo per gli ebrei».
La risoluzione dell'Unesco - passata, secondo i media, con 33 voti a favore, 6 contrari e 17 astenuti - chiama il luogo con la definizione araba di "al-Haram al-Sharif" o "Moschea di al-Aqsa" e si riferisce ad Israele come «potere occupante» condannandone «le aggressioni e le misure illegali contro la libertà di culto e l'accesso dei musulmani al loro sito sacro».
«Questa - ha detto Netanyahu - è un'altra decisione assurda dell'Onu. L'Unesco ignora la connessione storica unica tra l'ebraismo e il Monte del Tempio, dove due templi si sono innalzati per mille anni e dove ogni ebreo nel mondo per mille anni ha pregato. L'Onu riscrive una parte importante della storia umana».

(tio.ch, 18 aprile 2016)


Opgal, la soluzione israeliana per l'inquinamento

EyeCGas, la macchina fotografica di rilevazione di fughe di gas in impianti petrolchimici

In tutto il mondo, l'inquinamento atmosferico è ritenuto responsabile di una serie di malattie, tra cui cancro, difetti alla nascita e malattie respiratorie. Nonostante gli sforzi delle autorità per ridurre l'inquinamento nelle aree industrializzate - come accade anche a Haifa, in Israele - il problema persiste e sembra peggiorare.
  Una ragione di ciò, secondo la società di tecnologia israeliana Opgal, è che le autorità stanno cercando nel posto sbagliato: invece di esaminare le torri che fanno fuoriuscire il fumo, ciò che deve essere controllato è la saldatura nelle tubazioni che trasportano gas, petrolio, e prodotti chimici.
  In uno studio pubblicato nel mese di febbraio, i ricercatori dell'Università di Haifa hanno individuato un legame tra i disturbi infantili e l'inquinamento causato dall'industria pesante. Secondo la ricerca, i bambini nati in certi quartieri di Haifa, adiacenti alle industrie, presentavano delle anomalie nella circonferenza della testa. Inoltre, vi è una maggiore incidenza di cancro e malattie polmonari tra la popolazione.
  La città di Haifa ha già cominciato ad attuare alcuni progetti per la riduzione dell'inquinamento, come la limitazione del traffico nelle zone del centro, l'aggiunta di filtri per autobus ed un massiccio controllo delle fabbriche per garantire che esse non superino i limiti di legge per il rilascio di sostanze inquinanti.
  Ma secondo Opgal, c'è ancora altro da fare. In ogni zona altamente industrializzata, ci sono molte fonti "invisibili" di inquinamento, come le perdite da tubazioni o impianti di stoccaggio sotterraneo, le emissioni di inquinanti rilevati da fonti inaspettate o sconosciute (forse un vecchio serbatoio di gas sotterraneo che nel corso degli anni è stato dimenticato).
  Per risolvere questo problema, Opgal ha sviluppato EyeCGas, una macchina fotografica di rilevazione di fughe di gas in impianti petrolchimici.
  Il sistema, detto Opgal, è in grado di rilevare rapidamente una varietà di emissioni di gas idrocarburo come etilene, metano, butano, propano e altri composti dannosi per la salute.
  EyeCGas FX include una fotocamera a infrarossi e una telecamera a colori HD per il riconoscimento veloce di tali emissioni nelle zone che vengono ispezionate. Il dispositivo successivamente avvisa in modo automatico il personale della centrale tramite un messaggio sul display.
  Queste le parole del Dott. Ofer Dressler, Presidente del Municipal Association for Environmental Protection di Haifa:

Per un lungo periodo siamo stati alla ricerca di una soluzione che consentisse il monitoraggio in tempo reale delle emissioni provenienti da stazioni di servizio. Queste fonti sono responsabili per circa il 40% dell'inquinamento dell'aria nella zona. La telecamera EyeCGas è una soluzione tecnologica ideale che ci permette, per la prima volta, di monitorare le perdite nelle stazioni di servizio, al fine di controllare meglio l'inquinamento causato dai gas emessi nell'atmosfera.

  Lo scorso ottobre, il Ministero dell'Ambiente israeliano ha adottato ufficialmente le telecamere come un metodo approvato per rilevare fughe di gas.
  L'azienda crede fortemente che questa tecnologia possa semplificare il processo di controllo dell'inquinamento individuando le fonti delle emissioni con un metodo molto più efficace e conveniente.

(SiliconWadi, 18 aprile 2016)


Un israeliano sporge denuncia contro Kuwait Airways

Un cittadino israeliano residente a Ginevra accusa la compagnia aerea Kuwait Airways di aver rifiutato di vendergli un biglietto a causa della sua nazionalità. Ha presentato denuncia presso la giustizia ginevrina.
L'uomo si è visto rifiutare l'acquisto di un biglietto per un volo con destinazione Francoforte unicamente a causa della sua cittadinanza israeliana, afferma oggi il suo avvocato ginevrino Philippe Grumbach. La denuncia è per violazione delle disposizioni elvetiche che vietano qualsiasi discriminazione basata sulla razza, la religione o l'origine etnica di una persona.
L'avvocato si è pure rivolto presso l'Ufficio federale dell'aviazione civile (UFAC). Oltre a denunciare la violazione del diritto di spostarsi di una persona residente in Svizzera, il legale ha chiesto la sospensione provvisoria della licenza concessa alla compagnia dell'Emirato.
Il caso è stato rivelato dall'organizzazione statunitense The Lawfare Project, che combatte il boicottaggio decretato da determinati paesi nei riguardi dello Stato di Israele e che ha già denunciato pratiche discriminatorie della Kuwait Airways negli Stati Uniti.
Interrogato al riguardo, il direttore della compagnia aerea a Ginevra, John Fernandini, afferma di non essere a conoscenza del caso. La compagnia ha imposto determinate direttive per motivi di sicurezza, spiega Fernandini, rilevando che i cittadini del Kuwait non sono ammessi a bordo dei velivoli della compagnia israeliana El Al.

(swissinfo.ch, 18 aprile 2016)


Oltremare - Pulizie

di Daniela Fubini, Tel Aviv

In questi giorni affannati di pre-festivo, ove il festivo in oggetto è il più temuto, pianificato e pulito dell'anno, girano on-line da parecchio le classiche vignette con Mosè che si fa il selfie con il popolo ebraico sul fondo del Mar Rosso, in pieno attraversamento, o Mosè che bara nella gara di nuoto, correndo all'asciutto sulle piastrelle della piscina mentre gli altri nuotano faticosamente. Ancora non sono uscite quelle con cucine intere ricoperte centimetro per centimetro di carta d'argento, chiaramente di matrice americana, come se coprendo tutto di alluminio si raggiungesse una santità supplementare o si fugasse ogni presenza di cose lievitate.
Invece una fotografia quasi artistica mi ha riempita di sgomento: una cascata di foglietti aggrinziti dal sole, dalla pioggia e dalla pressione di altri foglietti spinti e accartocciati, che scende dall'alto verso il basso senza rete contro le pietre giallo chiaro scanalate. È la caduta dei nostri più puri desideri, quelli realizzati e quelli in attesa, delle preghiere intime e silenziose, che lungo l'ultimo anno abbiamo consegnato alle crepe del Kotel, o muro occidentale, senza mai pensare che prima o poi arriva il momento del carta alla carta, polvere alla polvere, e foglietti alla genizà, al deposito delle carte che contengono il nome divino. Nel caso dei bigliettini che tutti infilano nell'ignaro muro, nessuno deve sapere se il nome divino è presente o meno: chi fa questo tipo molto particolare di pulizia di Pasqua ha il divieto assoluto di leggere alcunché. Eppure l'immagine dei foglietti in caduta libera mi infastidisce.
Mi piacerebbe pensare che il Kotel non li voglia restituire, dovrebbe farli propri, uno ad uno, dopo poco che gli sono stati affidati. Mi piacerebbe che si pietrificassero nel muro come certe foreste, mantenendo i nostri segreti per sempre, e non per un solo brevissimo anno ebraico. O forse è meglio così, in fondo Pesach segnava un tempo l'inizio dell'anno, e allora è bene abbandonare i desideri e le preghiere dell'anno passato e prepararne di nuovi.


(moked, 18 aprile 2016)


15 anni fa, il primo razzo Qassam palestinese contro i cittadini israeliani

Fino ad oggi sono più di 7.000 i razzi lanciati, con un netto aumento dopo il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza.

Il 16 aprile 2001 le organizzazioni terroristiche palestinesi sparavano per la prima volta un razzo Qassam verso il territorio israeliano segnando una svolta nella natura delle minacce che Israele deve fronteggiare dalla striscia di Gaza.
Fino a quel momento i palestinesi avevano fatto ricorso principalmente a classici attentati terroristici e a spari di mortai contro i civili e militari israeliani dentro e attorno alla striscia di Gaza. Invece, dopo quel primo razzo artigianale dalla gittata di pochi chilometri, i gruppi terroristici hanno continuato a sviluppare la produzione di razzi, incrementandone considerevolmente la gittata, la potenza e i danni effettivi e potenziali, costringendo Israele ad approntare una risposta diversa, culminata nella messa a punto dell'innovativo sistema di difesa anti-aerea chiamato "Cupola di ferro"....

(israele.net, 18 aprile 2016)


Nuove tecnologie israeliane per la scoperta di tunnel a Gaza

GERUSALEMME - La recente scoperta di un tunnel sotterraneo di Hamas che dalla Striscia di Gaza doveva arrivare in territorio israeliano avvenuta grazie all'utilizzo di nuove tecnologie "rappresenta un importante passo avanti contro il terrorismo". Lo ha detto oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu commentando la notizia diffusa dai media israeliani in merito alla scoperta di un nuovo tunnel sotterraneo di Hamas. Il premier israeliano ha spiegato che le autorità di Gerusalemme "hanno investito molto nelle nuove tecnologie che consentono la scoperta e la distruzione di questi tunnel. Si tratta di sforzi continui che richiedono una grande determinazione". Il premier ha poi ribadito che Israele risponderà in modo vigoroso a tutti gli attacchi contro i suoi cittadini sottolineando "sono certo che Hamas capisce la nostra posizione". Le forze di sicurezza israeliane hanno scoperto un tunnel utilizzato da Hamas per spostarsi dalla parte meridionale della Striscia di Gaza in Israele. La scoperta è stata effettuata nei giorni scorsi grazie all'utilizzo di "nuove tecnologie", non precisate.

(Agenzia Nova, 18 aprile 2016)


Startup - Intervista a Jacopo Mele: Tra i migliori under 30 europei in visita in Israele

 
A sinistra, Jacopo Mele
Per il nostro giro di interviste ad imprenditori israeliani e non, oggi la redazione di siliconwadi.it ha contattato Jacopo Mele, giovane italiano di talento, Cofounder della Fondazione Homo Ex Machina Onlus e il più giovane nella lista dei trenta under 30 più influenti d'Europa recentemente diffusa dalla rivista americana Forbes.
Jacopo è appena tornato dal Forbes Under 30 Summit Israel, che si è tenuto tra Gerusalemme e Tel Aviv dal 3 al 7 aprile. Una conferenza che ha riunito i più grandi giovani imprenditori e game-changer dall'America, Europa, Medio Oriente e Africa, al fine di promuovere idee e collaborazioni per "cambiare il mondo". Tel Aviv e Gerusalemme, sono state lo sfondo perfetto: sono i luoghi più imprenditoriali del pianeta, con più startup pro capite della Silicon Valley.

1. Sei recentemente tornato dal Forbes Under 30 Summit in Israele, una delle più grandi conferenze sull'innovazione che riunisce giovani imprenditori. In cosa ha consistito il vostro incontro?
    Egrave; stato fantastico conoscere Israele con 600 Under 30 provenienti da tutto il mondo, che influenzano e innovano il proprio settore, per lavorare sulla coesione nella regione. Abbiamo partecipato ad eventi e sessioni di Hackathon, con l'obiettivo di lasciare questa meravigliosa terra più bella di come l'avessimo trovata!

2. Hai avuto modo di scoprire Tel Aviv e Gerusalemme, quale pensi che sia la differenza tra creare una startup in Israele, rispetto agli altri paesi?
    Penso che Israele sia una terra molto fertile per la crescita di una startup. La forza è nelle persone, capaci di vivere il qui ed ora in città come Tel Aviv che incarnano perfettamente l'aspetto della modernità insieme a quello di uno stile di vita mediterraneo, ponendosi le domande giuste per creare nuove economie.
    In questo panorama culturale i venture capital sono sempre attenti e pronti a captare e supportare queste nuove idee.

3. Indicaci 3 aggettivi che meglio descrivono il perfetto giovane business manager:
    Networker
    Dirompente
    Perseverante

4. Jacopo, dove sarai tra 5 anni?
   A disimparare per imparare.

(SiliconWadi, 18 aprile 2016)


Google e gli altri, il Fisco chiede il conto sull'Iva

I giganti digitali stranieri al centro di una rivoluzione fiscale.

di Daniel Reichel

Un messaggio arrivato dal cielo di Tel Aviv: Google così tutti gli altri giganti digitali che operano in Israele devono pagare le tasse come le altre aziende del paese. A chiederlo, un gigantesco dirigibile che la scorsa settimana è stato visto volare nei pressi della sede israeliana di Google. Sullo zeppelin compariva a caratteri cubitali la scritta in inglese "Google deve pagare le tasse" e dall'altra parte, in ebraico, "Kahlon (ministro delle Finanze, ndr) tassa Google". A sponsorizzare l'iniziativa di protesta, l'avvocato Guy Ophir, esperto di diritto digitale, e autore di una petizione lo scorso ottobre in cui chiedeva l'applicazione dell'Iva (al 17 per cento) anche alle multinazionali straniere che hanno sedi in Israele. "Tutti i contribuenti sono uguali per quanto riguarda la pressione fiscale, ma alcuni valgono di più e a loro non è richiesto di pagare l'imposta sul valore aggiunto", affermava nella petizione Ophir, chiedendo l'applicazione di quest'ultima anche a giganti come Google, Facebook e Amazon. Una recente circolare dell'Agenzia delle entrate sembra dare ragione a questa richiesta e ciò potrebbe portare nelle casse dello Stato milioni di shekel.

(moked, 17 aprile 2016)


«Israele non cambierà i suoi confini»

Il premier Netanyahu ha dichiarato che non lascerà il Golan

«Israele non lascerà mai le Alture del Golan»: lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu che questa mattina sul posto ha tenuto una riunione straordinaria del governo.
«La linea di confine attuale - ha spiegato - non cambierà indipendentemente da quanto avverrà sul versante siriano. Nei 49 anni in cui Israele ha mantenuto il controllo su questo territorio, si è avuta pace e prosperità. Israele - ha aggiunto - è oggi la soluzione e non il problema».
Il futuro assetto politico in Siria è stato oggetto ieri di una telefonata fra il segretario di Stato Usa John Kerry e il premier Benyamin Netanyahu, secondo cui è tempo che la comunità internazionale accetti che le alture del Golan resteranno sotto controllo israeliano.
In un intervento di fronte ai ministri del suo governo convocati oggi in riunione straordinaria sul Golan, Netanyahu ha aggiunto di aver detto a Kerry di «nutrire dubbi che la Siria possa tornare ad essere quella che era in passato».
«Ho detto al segretario di Stato - ha proseguito - che Israele non si opporrà ad un accordo politico per la Siria, a condizione che esso non venga a detrimento della nostra sicurezza. Cioè che, in fin dei conti, le forze dell'Iran, degli Hezbollah e dell'Isis siano espulse dalla terra siriana».
È giunto il momento, ha concluso, che la comunità internazionale prenda atto di due «fatti basilari»: che la linea di demarcazione con Israele non sarà alterata, e che il Golan «resterà per sempre sotto sovranità israeliana».

(tio.ch, 17 aprile 2016)


Addio Aurelio Klein, fu salvato dal giusto Bartali

La sua testimonianza è stata decisiva per far entrare Ginettaccio tra gli eroi di Israele

di Adam Smulevich

 
Aurelio Klein
«Ho la sensazione che tra qualche minuto avrà una bella storia da raccontare». Firenze, dicembre 2010. Aurelio Klein è un distinto signore di 89 anni. Sorride, con eleganza, sull'uscio di casa. E sorride anche la moglie Joli, complice perfetta. «Prego, si sieda. Anzi, vada direttamente al computer. C'è un signore che l'aspetta su Skype».
   Il signore in questione si chiama Giorgio Goldenberg. Risponde da Kfar Saba, Israele. E per la prima volta racconta una vicenda che lascia senza fiato e che da Pagine Ebraiche farà presto il giro del mondo. Nei mesi più bui un campione della bicicletta dal naso importante e dal cuore d'oro l'ha nascosto in un appartamento in via del Bandino, salvandolo da morte certa assieme ai suoi cari. «Se sono vivo lo devo al mio eroe, il grande Gino Bartali» afferma Giorgio aprendo un capitolo del tutto inedito sulle imprese umanitarie di Ginettaccio. Aurelio è seduto sul divano, in silenzio. Ogni tanto lancia uno sguardo, alla ricerca di un contatto visivo con l'emozionato cronista. Si sforza di cogliere l'impatto delle parole di Giorgio. E se il momento delle rivelazioni meriti di essere ulteriormente approfondito. «Forse è bene che anch'io le dica qualcosa» afferma dopo qualche titubanza. E, dosando le parole, con profonda commozione, spiega come quella casa fu un porto sicuro anche per lui, che vi trascorse sessanta lunghissimi giorni prima di tentare, con successo, l'espatrio in Svizzera.
   Aurelio ci ha lasciati qualche giorno fa. Ma la sua memoria resta viva. E con lui resta vivo il ricordo della testimonianza accolta dal Memoriale della Shoah di Gerusalemme per integrare, con nuove prove, il fascicolo che ha portato all'inserimento del nome di Bartali tra gli eroi dello Stato ebraico. A Firenze, Klein arriva dopo essere sfuggito all'arresto nella sua Fiume. A Firenze, potrà ricongiungersi con i Goldenberg. A Firenze, soprattutto, c'è Bartali. Aurelio trascorre due mesi in clandestinità (novembre 1943-gennaio 1944) in via del Bandino, aspettando un documento d'identità contraffatto dal Comitato di Liberazione Nazionale. Una volta nelle sue mani, sale sul primo treno diretto a Nord. Nei pressi del Lago Maggiore un gruppo di contrabbandieri di sigarette lo aiuta a trovare un varco. E così, al termine di un'avventurosa scarpinata, è un uomo libero. «Scavo nel mio passato e vorrei ricordare più cose di quel periodo. Non posso però dimenticare Bartali e la centralità della sua figura nel mio passato» raccontava allora. Per poi aggiungere: «Spero che la mia testimonianza possa contribuire a rendergli l'onore che merita». Il giorno della solenne cerimonia in sinagoga, a Firenze, il più commosso era lui.

(Corriere fiorentino, 17 aprile 2016)


"Noi Spielberg, il cinema nel sangue e un'altra storia di eroi da raccontare"

Nancy, sorella di Steven, presenta il suo documentario "Above and Beyond". Su un gruppo di piloti ebrei americani che volarono in aiuto di Israele nel '48.

di Ariela Piattelli

Una foto d'epoca di alcuni piloti volontari ebrei americani, combattenti della Seconda Guerra Mondiale
Il sangue non è acqua, e il dono della narrazione passa per le vene. Insieme a tante altre cose. Anche a Hollywood. «Siamo una famiglia di narratori», dice la produttrice Nancy Spielberg, sorella di un certo Steven, che arriverà a Roma a maggio per presentare il suo documentario Above and Beyond, diretto da Roberta Grossman, in occasione di Yom Haatzmaut (il giorno dell'Indipendenza dello Stato d'Israele) per un evento organizzato dall'Associazione Progetto Dreyfus.
  L'amore per l'entertainment ai fratelli Spielberg arriva dall'infanzia, quando a Phoenix, in Arizona, c'era ben poco da fare durante la lunga e calda estate. «Non avevamo la piscina per contrastare le alte temperature da deserto - racconta - e quindi ci siamo creati il nostro entertainment. Quando Steven disse che voleva fare un film con noi, lo abbiamo fatto. Amiamo raccontare le storie, siamo una famiglia di narratori. Per noi anche un noioso giro al mercato si trasforma in una grande avventura. Da quando facevamo i film da piccoli, Steven ha continuato la strada di regista. Mia sorella Anne è diventata sceneggiatrice (ha scritto Big, con Tom Hanks, ndr), Sue ha la sua attività, e io ho scritto, e ora produco, film».
  Above and Beyond racconta l'avvincente storia dei piloti volontari ebrei americani, combattenti della Seconda guerra mondiale, che con i loro aerei volarono a fianco dell'esercito israeliano nella guerra del '48. Nancy ha saputo di questa storia grazie a una email di uno sconosciuto che le ha parlato di Al Schwimmer, il fondatore dell'Israeli Air Force. «Rimasi impressionata dalla storia di Al - dice -, che aveva portato di contrabbando, con altri piloti, gli aerei da guerra dagli Stati Uniti in Israele per combattere gli eserciti arabi che subito dopo la dichiarazione d'Indipendenza attaccarono lo Stato Ebraico. È una storia straordinaria in cui un gruppo di piloti, che già aveva scampato la morte durante la Seconda guerra mondiale, rischia di nuovo la vita per aiutare gli altri».
  Come fonte Nancy ha avuto il Presidente Shimon Peres: «L'ho incontrato nel 2011, lui era molto vicino a Schwimmer. Peres mi ha guidato. Uno in particolare ci è stato d'aiuto nel rintracciare gli altri piloti, Smoky Simon, che nel 1948 fu il primo a dirigere le operazioni dell'Israeli Air Force». Correva voce che il fratello Steven stesse pensando a un film sullo stesso tema: «Sono andata da lui con l'idea del film, volevo essere sicura che non stesse lavorando su questo argomento. L'ultima cosa che volevo era competere con Steven Spielberg! Lui rimase entusiasta del mio soggetto e mi assicurò che non ci stava lavorando».

 Il progetto «On the Map»
  La Spielberg ha scelto di produrre film sulla storia d'Israele e degli ebrei perché sono argomenti che la riguardano da vicino. «Da bambini non eravamo molto legati al nostro ebraismo - ricorda -. A Phoenix c'erano pochissimi ebrei. I nostri vicini ci erano ostili. Ci sentivamo degli estranei, ma non ne capivamo il perché. Celebravamo alcune feste ebraiche, ma oltre a questo nulla. Non si era mai parlato neanche della Shoah in famiglia, scoprii la storia all'età di 10 anni, quando iniziai a frequentare la scuola ebraica. Li iniziò a fiorire la mia identità ebraica. Chiedemmo ai nostri genitori di mangiare cibo kasher e di far sparire il bacon da casa. Essere ebrei diventò più semplice quando ci spostammo a Los Angeles».
  Da quel momento fiorì anche il legame con Israele, dove Nancy ha una casa a Gerusalemme, mentre sua figlia Jessy ha intrapreso la carriera di cantautrice e attrice a Tel Aviv. Anni fa Nancy andò in kibbutz e promise a se stessa che un giorno ci si sarebbe trasferita. «Israele è la mia casa perché è la patria degli ebrei, da migliaia di anni. Credo che oggi sia uno dei posti più sicuri dove vivere».
  Adesso la produttrice sta lavorando ad alcuni documentari e a un film di finzione. «Ho prodotto On the Map - continua -, sulla storica partita di basket tra Maccabi Tel Aviv e la squadra dell'Armata Rossa Cska Mosca nel 1977». Il Maccabi vinse, raggiungendo un risultato sportivo e politico importantissimo. «Il film racconta anche la finale con il MobilGirgi di Varese, che rese Israele per la prima volta vincitore del campionato europeo».
  E se lei arriverà in Italia tra poco, nel 2017 è atteso suo fratello Steven, che girerà il film sulla storia del bambino ebreo Edgardo Mortara: «Ho appena saputo di questo progetto - conclude -, e ne sono entusiasta».

(La Stampa, 17 aprile 2016)


Milano - Il design israeliano sbarca in Triennale

Lavori del designer Ezri Tarazi
Giovani designer assieme a nomi già affermati approdano da Israele alla XXI Triennale di Milano, dedicata al tema Design after Design. Due le mostre proposte e presentate ieri al pubblico milanese: la prima, curata da Luka Or e dall'enigmatico titolo "Yes &..", porta in Triennale i lavori di venti studenti della Holon Institute of Technology che raccontano, non senza ironia, la realtà israeliana. La seconda, Higher View, è incentrata sul lavoro di Ezri Tarazi e al rapporto con la sua città natale, Gerusalemme. "Dopo il grande successo di Expo, Milano ci ha chiamati ad una seconda sfida: presentare il design israeliano proprio qui, nella capitale mondiale del design. - ha spiegato durante la presentazione dell'esposizione l'ambasciatore d'Israele Naor Gilon, presente assieme al Consigliere alla Cultura dell'ambasciata Eldad Golan - Ma anche Israele, come Milano, ama le sfide, e ha scelto di partecipare con due mostre che illustrano l'essenza di Israele: la tecnologia al servizio della società e la visionarietà. Due progetti originali con i quali Israele continua il dialogo con la città di Milano e con tutti i suoi ospiti internazionali, e che certamente possono contribuire a rendere sempre più forti e dinamici i rapporti tra le nostre culture". A presenziare all'appuntamento, tra gli altri, il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Jarach e i presidenti della Comunità ebraica di Milano Raffaele Besso e Milo Hasbani; oltre al presidente della Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti Piergaetano Marchetti e la vicepresidente Anita Friedman.
Nell'esposizione, attraverso il design prende forma la complessità e la vivacità della realtà culturale d'Israele. "Questo pluralismo - scrive nella presentazione Ravid Rovner, storico e teorico del design - viene espresso nel design israeliano, che spesso si occupa di conflitti di identità etnica, di tradizione e della sua rottura, e a volte tenta di rendere unica e separare la cultura del paese di provenienza da quella israeliana, mentre altre volte prova a mediare tra le due, a mescolarle e a renderle attuali".

(moked, 17 aprile 2016)


Ungheria - Seppelliti i resti degli ebrei fucilati nel 1944

Dopo anni di polemiche ed esitazioni delle autorità, sono stati seppelliti nel cimitero ebreo di Budapest i resti umani trovati nel 2011 nel Danubio durante la ricostruzione del ponte Margherita.
Un centinaio di ossa, appartenenti molto probabilmente agli ebrei fucilati dai nazisti ungheresi.
Migliaia di ebrei finirono fucilati nel fiume. Sono 450 mila gli ebrei ungheresi deportati nei campi di concentramento nel 1944, mentre altre migliaia sono stati uccisi nel Paese.
La cerimonia funebre rappresenta una vittoria per le organizzazioni degli ebrei ungheresi di fronte alle autorità che, per molto tempo, non hanno voluto riconoscere che questi resti appartenessero alle vittime ebree.

((swissinfo.ch, 17 aprile 2016)


Roma segreta - Trastevere, il vicolo dell'Atleta ritrovato

La copia di una statua di Lisippo trovata nell'800 nel quartiere ha dato il nome a una strada.

di Fabio Isman

 La storia
 
Copia della statua dell'atleta scolpita nel bronzo da Lisippo e conservata nei Musei Vaticani
  Il vicolo dell'atleta ritrovato è a Trastevere, tra le vie dei Salumi e dei Genovesi. Un pezzetto di strada che prima si chiamava delle Palme, evidentemente perché nel luogo ve ne erano (e tra un attimo, vedremo perché). Qui nel 1844, è avvenuto un ritrovamento archeologico tanto importante, da conferire il nome al luogo. Si ritrova una copia romana in marmo di una statua bronzea famosissima di Lisippo, del 330 avanti Cristo, l'Apoxyòmenos: un pugile che si deterge il corpo con lo strigile, un raschietto di metallo. Sembra che in antico adornasse le Terme di Agrippa, le prime in città, dalle parti di Torre Argentina. Tiberio amava tanto quella statua, che la voleva nel suo palazzo sul Palatino; dovette però ricollocarla dov'era, per le proteste. Subito la copia è esposta ai Musei Vaticani. Una variante è il cosiddetto Atleta di Lussino, assai simile: trovato nel 1966, è agli Uffizi. La copia dei Vaticani è stata anche restaurata
da uno scultore famoso, Pietro Tenerani; con essa spuntarono fuori pure altri reperti: parti di statue e di un cavallo in bronzo, anch'esso ritenuto dello stesso maestro greco.

 Le antichità
  Il vicolo cambia subito nome. E studiando il luogo, ci si accorge di un'altra, importante scoperta. Si chiamava delle Palme perché questi alberi, simboli della Giudea, erano davanti a un'antica sinagoga. La si vede ancora, con una porticina e, al piano superiore, due archi. Infatti, nella zona gli ebrei s'insediarono nei tempi più remoti, prima di trasferirsi, nel medioevo, nel rione Sant'Angelo. Sappiamo che, ad un certo punto, formavano il dieci per cento della popolazione romana, e possedevano 12 templi in cui pregare. Uno era la casa medievale di vicolo dell'Atleta, distrutto per un incendio nel 1268. Oltre ad essa, al numero 12, al 2 e 4 c'è una ancora bella casa rinascimentale; e al 16, una tipica di Trastevere, con la scala esterna. Al 20, è incastonato un frammento di sarcofago; e al 23, si vede una colonna scanalata.

 Nathan
  Della sinagoga scrivono storici e viaggiatori ddell'800; e c'è ancora un'iscrizione, sulla colonna che regge le due arcate della loggia. Parla di un tal Nathan, e potrebbe essere il rabbino Nathan ben Yechiel (figlio di Yechiel), vissuto dal 1035 al 1106, che risulta appunto aver fondato una sinagoga con bagno rituale in Trastevere. Nathan è poi l'autore di opere importanti; in particolare, d'un lessico talmudico, l'Arukh. Ad una, premette la sua breve biografia in versi: dapprima, comprava e vendeva lino; si mette a studiare solo per la morte del datore di lavoro: prima con il padre, poi con autorevoli maestri anche non italiani. Va in Sicilia, frequenta le accademie di Talmud a Bari e Pavia. Attorno al 1070 è di nuovo a Roma, ed è scelto per dirigere la scuola rabbinica; erige almeno due templi. Nella casa di vicolo dell'Atleta si vede ancora quello che era un pozzo. Un nipote di «rabbi» Nathan, Yechiel, era, in tempi successivi, amministratore del patrimonio di papa Alessandro III, il senese Rolando Bandinelli.

 Gll Anaw
  Entrambi facevano parte di una delle famiglie romane più antiche, gli Anaw; uno di loro rammenta appunto l'incendio del 1268, in cui andarono distrutti 21 Rotoli della Legge e vari altri arredi sacri: episodio così grave, che per ricordarlo fu istituito apposta un giorno di digiuno, osservato a lungo dalla comunità ebraica. In quel periodo, viene anche profanato il più antico cimitero giudaico di Roma: a Porta Portese, tra la chiesa di San Francesco aRi pa e piazza Bernardino da Feltre. «Ortaccio degli ebrei» era chiamato, ed è stato luogo di sepoltura fino al 1645: sostituito da un nuovo cimitero all'Aventino, dove ora c'è il roseto comunale.
  L'edificio di vicolo dell'Atleta, cessata la funzione sacra, è stato, nel tempo, convento, fornace, casa privata e un magazzino; nel ristorante che è ora si può visitare l'antico livello di calpestio; si vedono muri e archi in laterizio d'eta repubblicana. Di case medievali, in città, ce n'erano assai di più fino all'Ottocento; oggi, questa è tra le rare rimaste in vita.

(Il Messaggero - Roma, 17 aprile 2016)


Progressi di Israele nel monitoraggio delle attività di Hamas

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane hanno incrementato in maniera significativa la loro capacità di raccogliere intelligence sull'ala militare di Hamas negli ultimi due anni, e il livello di preparazione del Comando meridionale delle forze armate è migliorato di conseguenza: lo hanno riferito ieri fonti militari di alto livello citate dalla "Jerusalem Post". Il Comando meridionale è incaricato di vigilare sui movimenti e le operazioni dei 25 battaglioni regionali di Hamas, e ha preparato per ognuna di queste unità rapporti dettagliati. Nell'eventualità di una nuova escalation militare a Gaza, le forze armate israeliane appronterebbero i loro piani di battaglia sulla base di queste informazioni. "Prima dell'operazione Protective Edge del 2014 non disponevamo di informazioni così dettagliate", ha spiegato la fonte. Oggi ai comandanti di brigate, battaglioni e compagnie vengono assegnate regioni precise, e dispongono di dati che li assisterebbero nella neutralizzazione degli obiettivi", hanno spiegato le fonti anonime. In caso di conflitto, le unità israeliane sarebbero incaricate di uccidere o catturare quanti più ufficiali e combattenti di Hamas possibile e distruggere le infrastrutture per la produzione di armi, così da spezzare immediatamente la resistenza del gruppo.

(Agenzia Nova, 16 aprile 2016)


Berto l'edicolante - Il seder

di Mario Pacifici

 
Per tutta l'infanzia Berto si era faticosamente barcamenato fra la fede ebraica di suo padre e quella cattolica di sua madre ma non aveva mai preso partito per l'una o per l'altra. Nel suo personale Olimpo, confuso ma rassicurante, convivevano senza screzi il Kadosh Baruchù di suo padre con Gesù, la Madonna e qualcuno di quei Santi che sua mamma particolarmente venerava. La sera recitava lo Shemà e poi a seguire il Pater Noster, ma non si inginocchiava perché questo, diceva la mamma, sarebbe dispiaciuto al papà.
Crescendo, Berto aveva goduto di quella libertà di coscienza che viene spesso concessa ai figli dei matrimoni misti, più per l'incapacità dei genitori di coniugare in qualche modo le reciproche tradizioni che per una vera scelta laica. Ma era una libertà cui le timide catechesi materne e il prorompente orgoglio identitario di suo padre mettevano la mordacchia.
In breve, era venuto su senza una religione o una fede, se non quella tutta interiore fatta di buoni propositi e buoni sentimenti. Era un credente? Forse sì, ma solo a modo suo. Senza regole e senza orpelli. Per carattere si sentiva più attratto dall'ebraismo paterno che dalle gerarchie e dalle iconografie sontuose della Chiesa. Una volta si era messo perfino a studiare con un rabbino ma l'impatto non era stato felice. Lui voleva essere ebreo come suo padre. Condividere un sentimento di appartenenza e fare blandamente proprie certe tradizioni. Non era pronto invece ad affrontare la radicale conversione che gli veniva richiesta per essere ammesso a un mondo cui, in cuor suo, sentiva di appartenere.
Berto pensava a tutto questo mentre saliva le scale a piedi, smaltendo, pianerottolo dopo pianerottolo, quel filo di apprensione che gli si era insinuato addosso. Scrutava i nomi nella penombra delle scale ma quando vide la mezuzah seppe di essere arrivato. Terzo piano. Prese fiato, si rassettò la giacca e finalmente suonò il campanello. Nel sentire il tramestio di passi all'interno, si chiese ancora una volta se avesse fatto bene ad accettare l'invito. In realtà non aveva avuto scelta. Un Seder in famiglia dopo decenni di emarginazione: perché mai avrebbe dovuto rifiutare?
La porta si aprì sul sorriso di Eleonora. Dietro di lei s'accalcavano i ragazzi e in fondo lo aspettava suo cugino Daniele. Rispetto a lui un ragazzo, ma l'unico dei familiari con cui avesse conservato negli anni un simulacro di rapporto. Qualche telefonata di auguri. Qualche visita in edicola. Non molto di più a dire il vero, ma pur sempre un legame.
Berto si fece avanti. Aveva portato qualcosa per i ragazzi e un mazzo di fiori per Eleonora. Ruppe il ghiaccio con loro e si lasciò guidare verso la sala da pranzo. C'era una lunga tavolata e molti ospiti che non conosceva. Lo presentarono a tutti e lo coinvolsero nelle chiacchiere. L'atmosfera era cordiale e festosa. Lui se ne lasciò prendere di buon grado e mentre faceva del suo meglio per apparire a proprio agio, stringeva fra le mani la sua Haggadah tradotta e traslitterata.
L'aveva cercata a lungo in casa. Non la vedeva da anni. Da quando, almeno, alla morte di suo padre, aveva smesso di partecipare al Seder della scuola: da solo non aveva senso si era detto allora, anche se oggi non ne era più così sicuro.
Di certo il suo legame con l'uscita degli ebrei dall'Egitto era un corollario dell'amore che portava a suo padre.
Lui ne aveva fatto in casa una sorta di evento laico. Una ricorrenza da celebrare non tanto per i significati religiosi quanto per il suo prorompente senso di affrancamento da ogni giogo servile.
Suo padre aveva decriptato le scritture a modo suo. Questa è la festa della libertà, diceva. Questa è la più grande delle lezioni. Valida per tutti i popoli e tutti gli individui. In ogni tempo e ad ogni latitudine. Le aveva decriptate escludendone l'aspetto divino, o quanto meno relegandolo ad un ruolo marginale. Certo, diceva, l'oppressione degli egiziani è stata spezzata dalle dieci piaghe. Ma la svolta è giunta quando un popolo intero si è messo in marcia verso il deserto, lasciandosi alle spalle ogni certezza, pur di conquistare la libertà.
Quello, diceva, era stato il vero miracolo. Un popolo di schiavi che scopre la libertà e gioca il tutto per tutto pur di emanciparsi.
Ora erano a tavola e due o tre bimbi intonavano Ma Nishtanah, ponendo la domanda che avrebbe innescato tutta la narrazione. Perché, chiedevano, questa sera è diversa da tutte le altre?
Berto lo sapeva: la più semplice delle domande era anche la più complessa. Aveva smanettato su internet quel tanto che bastava per sapere che la narrazione era piena di significati riposti. Concetti espressi perché fossero comprensibili ai bambini avevano impegnato per secoli menti erudite. E lo sforzo esegetico era tutto nel cavare da quel momento topico della storia degli ebrei, la road map del loro sviluppo futuro. il senso profondo della loro diversità, coltivata generazione dopo generazione.
Certo, Berto non aveva il bagaglio culturale necessario a indagare nel labirinto dei significati riposti, ma una cosa credeva di averla capita. Noi non siamo qùui a celebrare una ricorrenza. Non siamo qui a santificare un miracolo. Siamo qui per appropriarci di quegli eventi. Per immedesimarci fino in fondo nell'afflato vitale che spinse i nostri padri a portare la rivoluzione nei propri cuori, prima ancora che negli editti duri del Faraone.
In fondo, si chiedeva, non siamo tutti noi protagonisti di quella stessa rivoluzione? Non siamo chiamati in ogni giorno e in ogni generazione a liberarci del giogo oppressivo di qualche tiranno? A ragionare con la nostra testa per liberarci dagli insulsi stereotipi che ci cuciono addosso?
E che differenza c'è fra un popolo che esce dai tormenti della schiavitù per avviarsi verso il deserto e un popolo che si lascia alle spalle i cancelli di Aushwitz per dirigersi verso le colline della Galilea? Berto provò un senso di amarezza a quel pensiero. La vera costante della nostra storia, pensava, è che c'è sempre un Faraone pronto a scagliarsi contro di noi. E ogni volta siamo costretti a batterci per la giustizia e la libertà, senza far conto sull'aiuto decisivo di piaghe miracolose. Era un pensiero laico quello. Un popolo determinato non ha bisogno di miracoli per emanciparsi dalla tirannide.
Berto ne era convinto e consapevole ma questo non gli impedì di sollevare un dito e di intonare con convinzione: "Uno è il D-o che in cielo è, uno fu e uno è!"

(Shalom, aprile 2016)


Don Michele Montanari e Alfonso Mucciarini insigniti dell'onorificenza di "Giusti fra le Nazioni"

PAVULLO (MO) - Lunedì mattina 18 aprile, due pavullesi entreranno nell'elenco dei Giusti fra le Nazioni, che comprende le persone non ebree che negli anni della seconda guerra mondiale non esitarono a mettere a repentaglio la loro vita per salvare quella di ebrei perseguitati. Si tratta di don Michele Montanari, allora parroco di Verica, e di Alfonso Mucciarini, che accolsero e protessero alcune famiglie altrimenti destinate alla deportazione e alla morte quasi certa. I nomi di don Montanari e Alfonso Mucciarini saranno iscritti sulle pareti d'onore del Giardino dei Giusti di Yad Vashem, il memoriale ufficiale dello Stato d'Israele che ricorda e rende omaggio alle vittime dell'Olocausto, e si aggiungono a quelli delle famiglie Succi, Casolari, Romani e Serafini, insignite dell'onorificenza due anni fa.
La cerimonia, promossa dall'Ambasciata di Israele a Roma e dall'Amministrazione comunale di Pavullo, inizierà alle 11, presso la sala consiliare del Municipio e sarà introdotta dai saluti del Sindaco di Pavullo Romano Canovi. Seguiranno l'intervento di Sara Ghilad, Primo Assistente presso l'Ambasciata di Israele in Italia e le testimonianze dei salvati e dei salvatori. Al termine, la consegna dei diplomi e delle medaglie, che attestano l'onorificenza di Giusto fra le Nazioni, il più importante riconoscimento civile dello Stato d'Israele, alla memoria di don Michele Montanari e di Alfonso Mucciarini, effettuata da Sara Ghilad.

(Modena2000, 16 aprile 2016)


Hamas avvelena le menti dei bambini palestinesi

di Khaled Abu Toameh (*)

 
Ismail Haniyeh, capo di Hamas a Gaza, ama i bambini
Così li vuole i bambini, il capo di Hamas

Hamas avvelena da anni i cuori e le menti dei bambini palestinesi. Il movimento islamista sta ora tentando una nuova tattica di lavaggio del cervello: l'esorcismo. La pratica, che mira a scacciare i "demoni" che potrebbero essersi insinuati nelle anime dei bimbi, sconcerta molti palestinesi. Questo nuovo abuso su minori perpetrato da Hamas è stato mostrato in un video che è finito sui social media palestinesi. La crudeltà del comportamento ha suscitato polemiche tra la popolazione.
   Nel video si vedono bambini isterici in compagnia di predicatori esorcisti che lavorano per il ministero del Wakf (ente del patrimonio islamico) controllato da Hamas nella Striscia di Gaza. Questo rito umiliante e invasivo viene praticato nella scuola Al-Nil di Gaza City. I predicatori fanno parte di un gruppo chiamato "La nave della salvezza missionaria". Essi entrano nelle scuole di Gaza City e si assicurano, attraverso il rito di esorcismo, che i bambini siano pentiti e fedeli all'Islam. Il gruppo è gestito dalla Direzione generale per la predicazione e la guida del ministero del Wakf.
   Il video, che mette in luce la natura dell'indottrinamento religioso messo in atto da Hamas sugli scolari della Striscia di Gaza, fa venire in mente un film thriller. Nel filmato, si sente dire a uno dei predicatori di Hamas: "Non siamo venuti a mettere in atto una recita, ma a scacciare il diavolo dal cuore e dalla mente e far entrare lo soddisfazione di Allah nei cuori".
   Il video mostra ragazzini terrorizzati, inginocchiati nel cortile della scuola, e altri che urlano. Nel frattempo, i predicatori di Hamas con i microfoni in mano, scandiscono a voce alta: "Allahu Akbar!" (Allah è il più grande!), il grido di guerra islamico. Il fatto che Hamas abusi dei bambini in età scolare non è una novità ed è tutt'altro che una sorpresa per chi da tempo è seguace del movimento islamista di Gaza. Questi sono i bambini che vengono poi reclutati come "combattenti" nel jihad (guerra santa) contro Israele e gli "infedeli". Fin dalla violenta presa del potere nella Striscia di Gaza nel 2007, Hamas ha usato i bambini come scudi umani e come "soldati" nella lotta contro Israele. Minori in uniforme, che brandiscono fucili automatici e coltelli sono diventati parte integrante delle parate militari e dei raduni di Hamas. I bambini palestinesi vengono filmati mentre viene loro insegnato a odiare chi viene considerato un nemico dell'Islam. È così che le nuove generazioni di palestinesi vengono allevate nel culto dell'esaltazione degli attentatori suicidi e dei jihadisti.
   Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell'Olp, ha espresso il proprio raccapriccio per il video, osservando che i sermoni dei predicatori sono pregni di intimidazione e orrore. Questo comportamento, ha dichiarato la Ashrawi, dimostra il "carattere reazionario" del regime di Hamas nella Striscia di Gaza, che avrebbe un impatto negativo sullo sviluppo della società e sui valori dei palestinesi. Hanan Ashrawi ha inoltre denunciato questa pratica come una palese violazione delle convenzioni che tutelano i diritti dei minori.
   Anche il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), il gruppo terroristico marxista, ha preso posizione contro il video. Il Fronte ha espresso la propria indignazione per i "trattamenti disumani" inflitti ai minori e ha chiesto che venga immediatamente aperta un'indagine su questa forma di tortura mentale e degradazione. Il gruppo ha anche lanciato un monito contro il lavaggio del cervello cui vengono sottoposti i bambini e sul loro indottrinamento attraverso il fanatismo religioso.
   Il video girato nella scuola di Gaza City mostra il lavaggio del cervello e gli abusi cui vengono sottoposti i bambini da parte dei leader palestinesi. Il filmato mostra anche la marcia della società palestinese verso l'adozione dell'ideologia e di tattiche che sono proprie dell'Islam radicale e di gruppi come l'Isis e Al-Qaeda. Ora il processo di pace in Medio Oriente attende di essere sottoposto a un esorcismo.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 16 aprile 2016 - trad. Angelita La Spada)


Esagerato? Si guardi questo video prodotto qualche anno fa con il consenso di Hamas Soldiers of Allah


Il libro che apre tutti i segreti

Talmid al lavoro
"Il Talmud è, in un certo senso. il libro del grande mistero del popolo ebraico. È un libro misterioso non perché è scritto in una lingua diversa e con uno stile tutto suo. ma perché è un libro unico nella letteratura mondiale. Inizia come un'opera circoscritta nei suoi scopi, un commentario alla Torah orale, ma presto arriva ad affrontare ogni possibile argomento che sia rilevante per l'umanità, ovunque si trovi". Sono le parole usate dal rav Adin Steinsaltz, traduttore e commentatore del testo in ebraico, francese, russo e spagnolo, per provare a dare una definizione del Talmud. Un'opera che nei normali schemi però non ci può stare. Fa domande, ma non dà risposte; commenta, ma è corredata di commenti; non inizia nemmeno da pagina uno, che in fondo è quello che di sicuro si sa su ogni libro che si prende in mano. I suoi trattati, che cominciano sempre da pagina due, rappresentano infatti la dialettica continua tra l'uomo e il prossimo, Dio, gli elementi della natura, ma soprattutto del dialogo continuo e sempre aperto delle scuole dei Maestri che compongono il testo. Certo, il Talmud non si può studiare da soli. Già a partire dalla sua introduzione, mette subito in guardia su questo il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che presiede il Progetto di traduzione italiana del Talmud Babilonese, di cui esce per i tipi di Giuntina il primo volume, dedicato al trattato di Rosh haShanah. Però questa traduzione, corredata di note esplicative, "malgrado la sua apparente complessità, offre finalmente al lettore di lingua italiana il livello base, comunque imprescindibile, di comprensione". La scelta del trattato di Rosh haShanah come primo vuole essere "un buon auspicio", ha spiegato Di Segni a Pagine Ebraiche.
  Al suo interno viene affrontato il tema del calendario, a partire dall'apertura con la descrizione e la discussione rabbinica sui diversi capodanni e una parte significativa dedicata al capodanno più importante, appunto Rosh haShanah. "Secondo i Maestri - si legge in una nota esplicativa curata da Jonatan Della Rocca - l'uomo fu creato il primo di Tishrì, quella che è divenuta poi la data ebraica del capodanno. Rosh haShanah ricorda quindi la creazione dell'uomo, un uomo la cui dignità e la cui immagine divina devono essere rispettate e difese, senza alcuna distinzione di popolo, di religione, di cultura, contro ogni violenza, anche quando un insegnamento erroneo le vorrebbe far credere espressioni della volontà divina. Questa idea, che è alla base dell'insegnamento anti-idolatria dell'ebraismo, è stata sempre la bandiera del popolo ebraico". Per tale contenuto che fornisce all'uomo una vera e propria guida per la condotta morale, il rav Di Segni mette in guardia quanti pensano "che si possa essere ebrei senza tutto questo". Al contrario, spiega, "l'assimilazione è l'eredità di un abbandono degli studi talmudici". Come esempio di una simile perdita di valori, il rav fa quindi riferimento a una discussione su questioni molto tecniche, come può esserlo la forma o la dimensione di una Sukkah, la capanna. "Potrebbe sembrare fuori dal mondo - la sua osservazione - ma in verità costringe a mettere in moto i meccanismi del pensiero e del ragionamento". Per questo, la trasmissione di un'opera complessa e composita come il Talmud anche attraverso una traduzione italiana che può fornire da ulteriore strumento per districarsi tra i suoi intrecci, costituisce un importante pilastro per la cultura ebraica - ma non solo. Il Talmud risale, nei suoi strati più antichi, a oltre duemila anni fa e consiste nella raccolta degli insegnamenti dei Maestri del popolo ebraico su un arco di circa sei secoli, fino al v secolo. È suddiviso in due componenti principali, la Mishnah e la Ghemarah. La seconda è l'analisi dettagliata della prima. La Mishnah è divisa a sua volta in sei Ordini e ciascun ordine è suddiviso in diversi trattati per un totale di 63. La lingua della Mishnah è l'ebraico, quella della Ghemarah l'aramaico. L'opera ha una complessa stratificazione: non è un'opera unitaria ma è una raccolta di detti di molti Maestri diversi, esposti nel corso di varie generazioni, quasi sempre in contrasto l'uno con l'altro. Il Talmud, in effetti, è la registrazione delle discussioni fra gli studiosi: il modo con cui la discussione procede è quello delle domande e delle risposte, delle obiezioni e dei tentativi di risolvere le difficoltà e le contraddizioni.
  La sua edizione italiana dà conto di tutto questo, corredando il testo, oltre che con spiegazioni e commenti, anche con schede illustrative dei diversi argomenti di ordine scientifico, storico e linguistico che vengono toccati durante la discussione talmudica, a volte solo marginalmente ma spesso in modo più sostanziale. In ultima analisi, secondo il rav Steinsaltz il Talmud è dunque "un libro del mistero che è totalmente aperto perché il segreto che contiene non ha bisogno di essere nascosto. essendo così profondo e criptico che ci si può solo connettere ad esso. ma non si può mai arrivare a comprenderlo appieno". "Per gli ebrei - continua il rabbino - il Talmud è un libro vitale perché in una certa misura da lui dipende la loro stessa esistenza. Ma, contemporaneamente, il Talmud trasmette al mondo intero un messaggio, che forse il mondo, solo adesso può cominciare a comprendere".

(Pagine Ebraiche, aprile 2016)


In un articolo comparso su Repubblica il 28 dicembre 2005, rav Adin Steinsaltz viene intervistato da Susanna Nirenstein, che al rabbino chiede: "E‘ possibile essere ebrei senza il Talmud?" Al che Steinsaltz risponde: «Se essere ebrei significa che i maschi vengano circoncisi è chiaro che puoi farlo senza il Talmud. Ma se essere ebrei è qualcosa che si allunga nella vita privata e ancor più nella vita di una persona come parte della comunità, l‘esperienza ci dice che non è possibile». Su questo forse è d’accordo anche rav Di Segni, che “mette in guardia quanti pensano che si possa essere ebrei senza tutto questo". E aggiunge: “il Talmud è un libro vitale perché in una certa misura da lui dipende la loro stessa esistenza. Ma, contemporaneamente, il Talmud trasmette al mondo intero un messaggio, che forse il mondo, solo adesso può cominciare a comprendere". Se si dice che dal Talmud dipende l’esistenza stessa degli ebrei, saranno loro stessi a confermarlo o a negarlo, ma se si aggiunge che “il Talmud trasmette al mondo intero un messaggio”, allora ogni cittadino del mondo deve poter valutare il messaggio ricevuto senza che chi lo invia si offenda. M.C.


Ebraismo e realtà virtuale. Talmud e internet

"Che cos'è il Talmud per il popolo ebraico se non il tentativo di trasportare, di portare con sé, l'essenza del proprio mondo distrutto, di dare coerenza ad una realtà di devastazione? E che cos'è la Rete, questa connessione pervasiva, globale eppure portatile, che non a caso si realizza in un mondo dove prevalgono il frammento e la distruzione di un senso generale delle cose?" Con queste parole viene presentato nelle edizioni Einaudi il libro "Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi", di Rosen Jonathan. Ne riportiamo qui un estratto.
    «Spesso, riflettendo sulle pagine del Talmud, ho pensato che mostrino una strana somiglianza con le home page di Internet in cui non vi è nulla che sia completo. Le icone e i riquadri che le costellano sono come porte attraverso cui il visitatore può accedere a una infinità di conversazioni e testi che rimandano l'uno all'altro. Prendiamo una pagina del Talmud. Vi sono alcune righe tratte dalla Mishnah, le conversazioni che i rabbini hanno portato avanti (per centinaia di anni prima che venissero codificate intorno al 200 dell'Era Volgare) intorno a una vasta gamma di questioni giuridiche che per lo piu scaturiscono dalla Bibbia ma che vanno a toccare una miriade di altri argomenti. Sotto queste righe vi è poi la Ghemarah, che comprende le conversazioni che altri rabbini di un'epoca successiva hanno portato avanti intorno alle conversazioni dei rabbini dell'epoca precedente incluse nella Mishnah. Dal momento che sia la Mishnah che la Ghemarah si sono sviluppate oralmente per centinaia di anni prima di essere codificate, accade che, nel breve spazio di poche righe, rabbini di periodi diversi partecipino al dialogo, e questo avviene sia all'interno di ciascun frammento che nella giustapposizione dei frammenti sulla pagina, dando l'impressione che i rabbini conversino direttamente gli uni con gli altri. Oltre alle norme giuridiche, il testo include anche racconti fantastici, frammenti di storia e di antropologia e interpretazioni bibliche. All'interno della pagina si estende poi una sottile striscia verticale in cui si trovano i commenti dell'esegeta medievale Rashi, che interpretano sia la Mishnah che la Ghemarah, e i brani della Bibbia (elencati anche in un altro punto della pagina) all'origine di suddette riflessioni. Sull'altro lato rispetto alla Mishnah e alla Ghemarah vi sono poi gli scritti dei discepoli e discendenti di Rashi, i tosafisti, che commentano l'opera del loro maestro e i commenti che a sua volta Rashi espone nel suo testo. Inoltre la pagina è costellata di rimandi ad altri brani del Talmud, a svariate codificazioni della legge ebraica (come ad esempio quella di Maimonide) e al Shulchan Arukh, la famosa codificazione cinquecentesca della legge ebraica a cura di Yosef Qaro. A questo miscuglio naturalmente bisogna aggiungere il punto di vista dello studente intento a leggere la pagina, il quale si trova inevitabilmente a prendere parte a una conversazione che si estende nell'arco di oltre duemila anni.»
      Indubbiamente tutto questo è molto lontano dall'immensa mole di ricette, notizie telegrafiche, bollettini meteorologici, chat rooms, biblioteche universitarie, foto pornografiche, riproduzioni di Rembrandt e verbosità promozionali d'ogni tipo che fluttua indisturbata nel cyberspazio. Il Talmud è frutto dell'imperativo morale della legge ebraica, del libero pensiero di grandi menti, delle oppressioni dell'esilio, del cosciente bisogno di tenere unita una cultura e del forte desiderio di capire e seguire la rivelazione della parola di Dio. Non vi era nessuno che cercasse di acquistare un biglietto aereo o di darsi un appuntamento galante. Inoltre il Talmud fu redatto dopo centinaia di anni di trasmissione orale, e fu messo per iscritto da redattori (per lo piu) sconosciuti, maestri dell'erudizione e dell'invenzione che vagano come fantasmi di area in area offrendo i loro suggerimenti anonimi, sollevando quesiti, suggerendo risposte e confutazioni, e a causa della loro molteplicità si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di un'intelligenza organizzatrice al lavoro.
      Eppure, quando guardo le pagine del Talmud e vedo tutti questi testi uno vicino all'altro, intimi e invadenti, come bambini di immigrati che devono dormire nello stesso letto, mi viene comunque in mente la cultura frammentaria e caleidoscopica di Internet. Per centinaia d'anni, norme relative a quasi tutti gli aspetti della vita ebraica si sono spostate in volo avanti e indietro, da ebrei dispersi in un angolo remoto del mondo ad altrettanti centri di studi talmudici. Anche Internet è un universo pervaso da un illimitato desiderio di sapere, fatto di informazioni e dispute, in cui chiunque sia dotato di modem può girovagare per un po' e, lasciandosi alle spalle il caos del mondo, fare domande e ricevere risposte. Mi conforta pensare che un mezzo della tecnologia moderna riecheggi un mezzo così antico.»
Se questo è vero, si può davvero dire che il Talmud ha precorso i tempi. Ha anticipato la rete, struttura democratica orizzontale che non sopporta gerarchie di valore, non accetta livelli di verità, ma dove tutto si svolge in un perpetuo scambio tra partecipanti al dialogo in cui ciascuno può fare riferimento alla verità, ma senza pretendere che sia una verità unica, valida per tutti. Ha quindi anticipato il postmodernismo novecentesco, che ha frantumato il concetto di verità disperdendolo in una miriade di frammenti multicolori, con l’invito a ricomporre liberamente esemplari secondo il proprio gusto, proprio come con il calidoscopio, con l’impegno di non pretendere che sia l’unico valido, e neppure il migliore di tutti, ma con la libertà di esporre il proprio esemplare al confronto dialogico con quello altrettanto valido degli altri. Ma è questo il valore attuale del Talmud? M.C.

(Notizie su Israele, 16 aprile 2016)


Francia - La scuola pubblica fa paura

di Adam Smulevich

"È una realtà, purtroppo. Ed è una realtà inaccettabile". Intervenendo alla cena annuale del Conseil Représentatif des Institutions Juives de France, il massimo ente di rappresentanza dell'ebraismo d'Oltralpe, il primo ministro Manuel Valls ha riconosciuto con chiare parole il problema.
Gli ebrei francesi non temono per l'incolumità fisica solo quando passeggiano per strada con la kippah, entrano in sinagoga, frequentano locali casher, ma anche quando mandano i loro figli nella scuola pubblica.
"Nel 2015 si sono registrati oltre 900 attacchi antisemiti. E la nostra impressione è che per il 2016 le cose non andranno meglio. Per questo molte famiglie stanno decidendo di ritirare i ragazzi dalle scuole gestite dallo Stato" afferma il direttore generale del Crif, Robert Ejness, in una intervista a Vice News.
Non vengono definiti parametri quantitativi ma il trend, spiega Ejness, va chiaramente in quella direzione anche tra chi è ben lontano dal prendere in considerazione l'ipotesi dell'aliyah, la "salita" in Israele, un'opzione sempre più gettonata nella Francia ebraica.
Gli episodi antisemiti, dall'offesa verbale all'aggressione fisica vera e propria, fanno registrare diverse matrici. C'è l'immancabile estrema destra, in compagnia di gruppi di estrema sinistra. Ma a preoccupare sono soprattutto i segnali che arrivano dal mondo islamico, dai tanti giovani (anche di terza generazione) che ancora oggi fanno fatica ad integrarsi. "Siamo consapevoli che la violenza non è la strada praticata dalla gran parte degli islamici francesi e che queste azioni vanno circoscritte a una minoranza. Ma si tratta comunque di un numero significativo di persone" sottolinea Ejness.

(moked, 16 aprile 2016)


Il vertice di Istanbul si chiude con la condanna delle interferenze di Iran e Hezbollah

Aumenta il divario fra Riad e Teheran

ROMA - Si chiude con una condanna alle interferenze dell'Iran e del movimento sciita Hezbollah il 13mo summit dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic), tenutosi in questi giorni ad Istanbul e a cui hanno partecipato oltre 30 fra capi di Stato e di governo, compresi il re saudita Salman bin Abdulaziz e il presidente iraniano Hassan Rohani. Alla vigilia dell'incontro, considerato strategico per tentare di ricucire le divisioni interne al mondo musulmano, i media turchi ed egiziani, le cui leadership hanno rapporti con i due paesi rivali, avevano lasciato intendere ad un possibile incontro fra il re saudita e il presidente iraniano, voci subito smentite da Teheran. Secondo gli analisti il comunicato finale, la cui bozza era già circolata nei giorni precedenti al summit, sarebbe frutto di una serie di pressioni attuate dall'Arabia Saudita e dai paesi sunniti del Golfo che hanno seguito una strategia già attuata in febbraio e marzo in due differenti incontri dei paesi membri della Lega araba.

(Agenzia Nova, 16 aprile 2016)


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