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Notizie 16-30 aprile 2017


Violoncello in spalla fino a Gerusalemme

La varesina Lucia d'Anna vive e suona in Israele e studia al Tel Aviv Conservatory con Myrna Herzog.

 
Lucia d'Anna
 
Lucia d'Anna
A Gerusalemme per scoprire sé e la musica, in un viaggio sulle vibrazioni del violoncello. Lucia d'Anna musicista varesina, classe 1992, vive da qualche mese in Israele, dove ha studiato alla Jerusalem Music Academy col maestro Zvi Plesser e ora studia violoncello barocco al Tel Aviv Conservatory con Myrna Herzog. Un bell'obiettivo raggiunto dopo un lungo percorso di studi cominciato proprio nella Città Giardino al Liceo Musicale di Varese con la maestra Elisabetta Soresina, continuando al conservatorio "G. Verdi" di Milano sotto l'insegnamento del maestro Marco Bernardin.
  Si è diplomata portando a compimento il Bachelor in music perfomance Master in Music Pedagogy e alla Hochschule Conservatorio della Svizzera Italiana sotto l'insegnamento di Taisuke Yamashita. Lucia, che si esibisce in formazioni cameristiche, fa parte dell'orchestra Junge Munchen Philarmonie ed è violoncello di fila aggiunto della sinfonica professionale "LaVerdi" di Milano, ha militato in orchestre giovanili e ricoperto il ruolo di violoncello di fila all'Accademia del Teatro alla Scala, ha partecipato anche a progetti per il teatro di prosa al Piccolo Teatro di Milano.
  Proprio alla conclusione dei master, però, in Lucia è nato il desiderio di andare oltre. «Mi stavo guardando intorno - racconta la violoncellista - Mi sarebbe piaciuto sfruttare il diploma anche a livello umanitario. A Gerusalemme, viveva un amico che mi ha consigliato di sentire i video di un insegnate, il maestro Zvi Plesser. L'ho trovato eccezionale e così ho deciso». Insieme alla sua formazione D'Anna ha iniziato ad occuparsi anche di quella dei più piccoli come volontaria al "Magnificat" di Gerusalemme, con "Sound of Palestine" nei campi profughi e nella "West Bank" a Beit Sahour. «Per l'insegnamento l'itinerario è stato lungo e si tratta di volontariato perché col visto da studenti non è possibile lavorare, ma è un'esperienza interessante e irripetibile in una città complicata e meravigliosa».

- Come ha scelto tra tanti strumenti proprio il violoncello?
  L'ho scelto perché ha un suono grave, caldo ma anche perché è simile alla voce umana. Abbracciandolo sento tutte le vibrazioni del legno, suono uno strumento vivo. Ho un rapporto di amicizia con il mio strumento e so che anche il violoncello ha giorni sì e giorni no.

- Quando ha capito che avrebbe fatto questo mestiere?
  Quando ho deciso di farlo come facoltà in università, ma soprattutto l'ho capito quest'anno in Israele, perché mi sono state date tante possibilità di collaborare con professionisti e mi è stata data fiducia.

- Cosa ha scoperto in Terra Santa?
  In Israele, anche Terra Santa, ho scoperto tantissime cose. Alcune riguardano la vita di tutti i giorni.

- Quali?
  Per esempio, si passano minimo tre metal detector al giorno. Altre, invece, riguardano la propria spiritualità. In Terra Santa c'è tanta energia forte e positiva, nonostante ci sia una costante tensione tra le tre religioni monoteiste. Altre ancora riguardano questo piccolissimo stato, Israele, che è bellissimo, in poco spazio si trovano paesaggi incantevoli. Ultimo, ma non meno importante per me, è la musica. Regna dalla classica al kletzmer alla tradizionale araba.

- Cosa si aspettava?
  Mi aspettavo un paese diverso, più chiuso forse, e pensavo di incontrare difficoltà con le persone del posto. Invece, pian piano, mi sto ambientando.

- Ci sono state delusioni?
  Sono state per ora poche: non è semplice vivere in un posto dove è molto complicato avere il visto quindi è difficile rimanere.

- Quali scoperte ha fatto?
  Anche se non si conoscono le lingue parlate, ebraico e arabo, si possono imparare e le persone sono sempre pronte ad aiutare.

- Cosa ha significato per la sua crescita professionale questa esperienza?
  Questa esperienza significa moltissimo sia per la mia professione che per la mia persona. Per la mia professione perché mi è stata data la possibilità di suonare con orchestre ed ensemble professionali e sto suonando in molti concerti. Mi sto concentrando soprattutto sulla musica barocca con strumenti originali.

- E per lei personalmente cosa ha significato trasferirsi e immergersi in una realtà tanto diversa?
  Personalmente mi ha aiutato e fatto crescere moltissimo: sto imparando a non dare niente per scontato, a non giudicare le persone per il loro credo o in base alle loro origini, qui si incontra davvero tutto. Sto vivendo anche molto a contatto con il mondo arabo che è interessantissimo e non così spaventoso. È un concetto molto importante da ribadire al giorno d'oggi vista le tensione che si sta creando in Europa. Ho amici sia palestinesi sia israeliani.

- In campo musicale, quali sono i suoi autori preferiti?
  Sono diversi, in particolare: Marin Marais, Johann Sebastian Bach, Ludwig Van Beethoven e Dmitrij Shostakovich.

- E per la musica leggera?
  De Andrè e Fabri Fibra.

- Quali sono i suoi progetti futuri?
  I prossimi progetti sono concerti di musica barocca in Israele fino a luglio e poi audizioni di musica barocca per le Hochschule del nord Europa.

- Cosa consiglia a chi vuole intraprendere il suo medesimo percorso?
  Per quanto riguarda la musica di prepararsi a studiare tanto, a spostarsi molto, a non aspettarsi di avere subito delle gratificazioni - verbali o economiche - perché bisogna darsi da fare per averle, ma è una scelta molto bella. Io, per esempio, non tornerei indietro. Per quanto riguarda Israele: armarsi di pazienza, perché sono un po' diversi dai modi europei, di arrivare e aprire la propria mente: si può scoprire tantissimo se si arriva senza pregiudizi.

- È cambiato il suo modo di lavorare?
  Sì, il mio modo di lavorare è cambiato molto: bisogna imparare a preparare più concerti insieme, per insegnare poche parole e molti fatti perché non parlo la loro lingua, quando si lavora con i professionisti bisogna essere sempre al top.

- Cosa le è mancato di Varese e cosa proprio no?
  Di Varese mi è mancata la mia famiglia a cui sono molto legata. Altre cose onestamente non mi sono mancate, l'ambiente musicale varesino non è dei più aperti, si potrebbe fare molto di più, ma c'è ancora da lavorare per avere risultati.

(La Provincia di Varese, 30 aprile 2017)


Mossad e Shin Bet cercano 007

Inserzioni ed enigmi matematici per superare le prove

Uno cerca laureati in filosofia e storia, l'altro è a caccia di esperti in high tech.
Il Mossad e lo Shin Bet, i due temibili servizi di sicurezza di Israele (il primo per l'estero, il secondo per l'interno), hanno pubblicato in questi giorni inserzioni sui loro siti web per reclutare nuovi 007 da impiegare in compiti di alto livello.
Ma completamenti diversi tra loro per le caratteristiche richieste. Il Mossad ha puntato per i propri agenti di intelligence su laureati in filosofia, storia, legge o comunicazione e anche altre materie. Lo Shin Bet invece ha inteso selezionare giovani dall'alto profilo tecnologico per le sue unità specializzate nel settore. E per farlo - adottando una prassi già percorsa in passato dallo stesso Mossad - ha messo on line un vero e proprio complicatissimo enigma matematico. A trovare la soluzione - hanno riferito i media - ci hanno provato 60mila israeliani ma solo in 6 sono riusciti a venirne a capo completamente e 20 solo in parte. Ora sarà lo Shin Bet a scegliere.

(ANSA, 30 aprile 2017)


Milano , distrutta la targa che ricorda il premier israeliano Rabin

La scritta era stata collocata l'anno scorso in piazza Tripoli dopo l'intitolazione dei giardini allo statista, insignito con il premio Nobel. Dall'Anpi solidarietà e vicinanza alla Comunità ebraica

Distrutta a Milano da vandali la targa dedicata a Yithazak Rabin. Lo ha denunciato l'Associazione nazionale partigiani d'Italia, esprimendo "profonda indignazione e ferma condanna per l'odioso oltraggio antisemita". L'episodio si sarebbe verificato sabato notte.
La targa era stata collocata nei giardini di piazza Tripoli, intitolati lo scorso anno al primo ministro israeliano, insignito nel 1994 del Premio Nobel per la pace. "Alla Comunità Ebraica di Milano esprimiamo tutta la nostra affettuosa solidarietà e vicinanza" ha detto il presidente dell'Anpi Provinciale di Milano, Roberto Cenati.

(la Repubblica, 30 aprile 2017)


Einstein, l'equazione della pace tra ebrei e arabi

Nell'Archivio dello scienziato all'Università ebraica di Gerusalemme: tra le sorprese una lettera del 1930 con cui proponeva di istituire un Consiglio di quattro rappresentanti per parte per risolvere le difficoltà "tra le due nazioni".

di Fernando Gentilini

GERUSALEMME - Einstein credeva che un'università ebraica a Gerusalemme potesse diventare un ponte tra Oriente e Occidente. E dopo la Grande guerra era andato fino in America pur di trovare i fondi per realizzarla. Nel 1923, durante il suo unico viaggio in Palestina, tenne un discorso al campus universitario sul monte Scopus, che stava per essere completato. E due anni dopo, all'apertura ufficiale, prese posto nel primo consiglio d'amministrazione, assieme a Weizmann, Buber e Freud.
  La decisione di lasciare all'Università il suo patrimonio letterario, inclusi i diritti di proprietà e quelli d'immagine, era quindi nell'ordine delle cose. E alla sua morte, nel 1955, furono l'assistente Helen Dukas, e l'amico e collega Otto Nathan, a dare esecuzione al testamento. Ci sono voluti anni, e il lavoro di tante persone. Ma oggi l'Archivio Albert Einstein è una realtà, e rappresenta da tre decenni il fiore all'occhiello dell'Università Ebraica di Gerusalemme.

 Da Tolstoj a Agostino
  Il campus Givat Ram è nella parte Ovest della città, non lontano dalla Knesset. Nel piazzale d'ingresso una foto a grandezza naturale ritrae Einstein in bicicletta. Gli Archivi sono più avanti, nell'edificio Levi. Ed è lì che incontro il professor Hanoch Gutfreund, già presidente dell'università.
  Mi accoglie nella sala della biblioteca privata di Einstein. Una stanza rettangolare, con un grande tavolo al centro. In un angolo la scrivania dello scienziato, di quelle fatte per scriverci in piedi (come faceva S. Y. Agnon nella casa di Talpiot); e per il resto scaffali fino al soffitto, pieni di magnifici volumi.
  Molti rispecchiano la cultura ebraica in Europa all'inizio del secolo scorso. Per esempio i romanzi di Tolstoj, le poesie di Heine o i testi filosofici di Spinoza. Altri, come Le confessioni di sant'Agostino o l'opera omnia di Gandhi, tradiscono gusti più personali: neoplatonismo, religione cosmica e pacifismo sono temi einsteiniani, ma vedere con i propri occhi le fonti d'ispirazione fa sempre un certo effetto. Su uno scaffale intravedo The Conquest of Everest, più in basso un volume sull'Art Nouveau. Non so fino a che punto Einstein amasse l'alpinismo o le avanguardie artistiche, ma magari li ha letti per davvero: il primo pensando al tempo che in montagna va più veloce, e il secondo fantasticando sulle forme egualmente curvilinee del suo universo.
  Il professor Gutfreund mostra il manoscritto con i fondamenti della teoria generale della relatività (Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie). Il meglio di Einstein è tutto lì, in quelle 46 cartelle del 1916: lo spazio-tempo, la luce che devia, un vuoto cosmico che non è più vuoto e che s'increspa come la superficie del mare.

 Albert «l'italiano»
  Lo scienziato pubblicò la sua teoria prima che potesse essere verificata. Una conferma importante, quella sulla deflessione dei raggi stellari, arrivò grazie all'osservazione dell'eclissi totale del 1919. Dopo di che le sue predizioni si sono avverate una appresso all'altra: Big bang, buchi neri, onde gravitazionali.
  Ma torniamo al manoscritto, alla sua prima pagina: perché i nomi dei due matematici italiani che vi figurano, Ricci e Levi-Civita, rivelano il contributo decisivo che il loro sistema algoritmico diede alla formulazione definitiva della teoria della relatività generale.
  Il professor Gutfreund ricorda lo scambio epistolare della primavera del 1915, tra Einstein e Levi-Civita. Lettere dense di equazioni, con le quali il secondo condivise con il primo il calcolo differenziale assoluto elaborato da Ricci-Curbastro e già applicato con successo ad altri problemi di fisica teorica. Einstein esitò, ma alla fine riconobbe che in fatto di equazioni il matematico ne sapeva più di lui. E la battuta con cui anni dopo avrebbe risposto a chi gli chiedeva cosa gli piacesse di più dell'Italia - «Spaghetti and Levi-Civita» - la dice lunga sulla stima e l'affetto per il collega.
  In realtà Einstein amava anche tante altre cose del nostro Paese, e non ne fece mai mistero. Da ragazzo, nel 1895, aveva passato alcuni mesi a Pavia, dove i genitori si occupavano di impianti elettrotecnici; e si era trattato di un periodo decisivo, senza il quale è difficile spiegare i tanti legami futuri con scienziati, intellettuali e personalità del nostro Paese (sull'argomento suggerisco il volume Einstein parla italiano a cura di Sandra Linguerri e Raffaella Simili, ed. Pendragon, Bologna 2008).
  Il fatto era che il giovane Einstein aveva vissuto in Italia un'avventura inebriante. Imparando la nostra lingua, stringendo amicizie, scoprendo libri, musei e città d'arte. Soprattutto aveva nuotato nel Ticino, partecipato alla vendemmia, suonato il violino alle feste, e una volta era persino andato a piedi fino a Genova, con lo zaino in spalla.
  Il ricordo di quei mesi spensierati nel Pavese non lo abbandonerà più. Forse anche perché alcune delle sue intuizioni più potenti - sull'individuo, la società, la scienza, la religione, il senso della vita - erano maturate proprio allora.
  In effetti non esiste campo del sapere cui Einstein non si sia poi applicato (basta leggere il suo Come io vedo il mondo). Il che vuol dire che bisognerebbe passarci anni in questo archivio per scoprire lo scienziato, il filosofo, il pacifista, lo scrittore, l'uomo preoccupato per la Palestina mandataria o quello che rifiutò la presidenza d'Israele.

 18 anni prima di Israele
  Proprio sull'Einstein più impegnato politicamente, Gutfreund ha in serbo un'ultima sorpresa: la lettera del 25 febbraio 1930, pubblicata sul quotidiano Falastin, con la quale si propone la costituzione di un Consiglio, composto da quattro ebrei e quattro arabi, per risolvere le difficoltà «tra le due nazioni». Un medico, un sindacalista, un religioso e un giurista per parte avrebbero dovuto riunirsi in segreto, e deliberare sul futuro di arabi ed ebrei. Non occorreva l'unanimità, sarebbero bastati tre voti per parte. E chi non se la sentiva di affrontare un determinato tema, avrebbe sempre potuto ritirarsi.
  Con ciò, diciotto anni prima che nascesse lo Stato di Israele, la questione della convivenza in Palestina tra arabi ed ebrei era stata posta: senza giri di parole, con la solita semplicità, da una delle menti più implacabili di tutti i tempi.

(La Stampa, 30 aprile 2017)


«Carciofi alla Giudia» Storie d'ebrei a Roma

di Antonio Castro

La storia d'amore tra David (ebreo tripolino già sfuggito dalla Libia di Gheddafi), e Rosamaria (diversamente giovane drammaturga teatrale prestata agli spettacoli da "cassetta" per sbarcare il lunario), è il fulcro di Carciofi alla Giudia (Mondadori, pp. 276, 18 euro), romanzo d'esordio di Elisabetta Fiorito, cronista parlamentare di Radio 24.
   Questo piatto tipico - della cucina e della tradizione giudaico-romanesca - offre lo spunto per raccontare uno spaccato delle tradizioni delle diverse anime della Capitale. Ci sono gli ebrei romani, piccola e fiera comunità che si vanta di essere la più antica del popolo eletto. E gli ebrei tripolini, come David, rifugiati nella Capitale alla fine degli anni Sessanta quando il Colonnello Gheddafi strappò loro beni, prospettive e la bella vita. E poi c'è la crisi economica che non risparmia alcuno, e rende un miracolo mandare avanti i negozi di abbigliamento di famiglia. Fino a immaginare di mollare tutto e di riparare in Israele alla ricerca di benessere e protezione.
   Rosamaria, con i sui studi dotti e alternativi, è figlia della buona borghesia romana, razionalista e attenta a non far sconfinare la religione nelle scelte di vita nonostante la crisi. L'impresa di famiglia va a rotoli, e il suo nucleo si spacca nel ricordo di quel benessere che sfugge via. In mezzo fa capolino Roma con i suoi quartieri più iconici (il Ghetto, Monteverde, il centro storico), e i due interpreti di questo godibile romanzo che si svolge tra la primavera e l'autunno del 2014, da Pesach, la Pasqua ebraica, e Yom Kippur, il giorno dell'espiazione.
   In questo sottile riferimento al calendario ebraico si intrecciano le giornate convulse di Rosamaria: presa per l'amore ritrovato per David, la forsennata ricerca di un incarico "serio" nel mondo teatrale (Fiorito ha anche vinto il "Fersen 2016" per la drammaturgia), un bimbo sbocciato in tarda età. E poi le due famiglie che fanno fatica ad intrecciarsi tra i dettami del kasherut ebraico (i dettami religiosi dell'alimentazione), e le tradizioni romane.
   David appare demotivato, apprensivo neopapà, accarezza il sogno di trasferire figlio, moglie e affari a Tel Aviv. Città che - pur a rischio attentati - gli appare piena di vita, frizzante, culturalmente all'avanguardia. Rosamaria non ci pensa minimamente: la sua Capitale brutta e sporca, è pure bellissima e struggente.
   In mezzo le ricette romane ed ebraiche (dal pollo ai peperoni al cous cous tripolino), fanno da invisibile collante tra le famiglie e le diverse storie. E i Carciofi alla Giudia, preparati dalla romanissima suocera di David, rappresentano il punto d'unione culinario tra le due famiglie. Un piatto della tradizione che riporterà la serenità nelle due famiglie.

(Libero, 30 aprile 2017)


Sostegno anti-Israele, Bruxelles si occupa del «caso Napoli»

Il Parlamento europeo accende i riflettori sul "caso Napoli", dove l'amministrazione comunale ha patrocinato alcune settimane fa a un convegno dalle organizzazioni che sostengono le politiche di "boicottaggio, disinvestimento e sanzione" contro lo Stato di Israele. Nel marzo scorso la giunta e la presidenza del Consiglio Comunale concessero l'aula di via Verdi agli attivisti dei movimenti "pro BDS" per lo svolgimento del convegno sul tema "A Napoli il Mondo: recepire il diritto internazionale umanitario nella quotidiana pratica amministrativa". Al termine del convegno venne anche avanzata la proposta di stilare una lista di imprese che "violano il diritto internazionale umanitario" per escluderle dagli appalti pubblici. Di qui i timori - denunciati anche dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane, presieduta da Noemi Di Segni - che l'amministrazione partenopea intenda introdurre nell'agenda del Comune un'azione concreta anti-israeliana di durata fondata sul "Bds".
  La delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con Israele, presieduta dal deputato Fulvio Martusciello, ha così deciso di dedicare una seduta su queste tematiche. «Abbiamo discusso di antisemitismo in Italia, analizzando insieme al deputato della Knesset Ohana il grado di rischio del nostro paese. Dove c'è antisemitismo c'è il seme del terrorismo - ha dichiarato l'europarlamentare - Per questo monitoriamo il moltiplicarsi delle iniziative tese al boicottaggio nei confronti di Israele e la pericolosa deriva che fanno in tal senso registrare alcune recenti prese di posizione da parte di alcune amministrazioni locali italiane».
  Alla seduta era presente anche il vicepresidente nazionale della Federazione Italia Israele, Giuseppe Crimaldi, che ha svolto una relazione soffermandosi sulle ultime iniziative assunte dall'amministrazione comunale di Napoli. «In Italia - ha detto Crimaldi - preoccupa non poco il carico di odio di cui sono intrisi appelli e messaggi dai toni sempre più minacciosi contro gli ebrei. E' il cosiddetto "hate speech", un linguaggio che promuove ostilità e incita contro gli israeliani e per questo spesso oltrepassa i limiti della libertà d'espressione. Le iniziative del Comune di Napoli in appoggio alla delegittimazione di Israele e al boicottaggio vanno contro le politiche che la città dovrebbe proporre in quanto definitasi "Città della Pace e della Giustizia". Dispiace dover constatare che le autorità locali dimostrano di sposare una narrativa unilaterale e particolarmente ostile a Israele: il sindaco de Magistris nel 2014 ha sostenuto che Israele stesse commettendo un genocidio a Gaza; il presidente del Consiglio Comunale ha detto che sostenere che Hamas sia un'organizzazione terroristica è solo una tesi. Nel 2012, un ordine del giorno del Consiglio Comunale aveva "condannato" l'impresa Pizzarotti, che collabora alla costruzione della linea ferroviaria tra Gerusalemme e Tel Aviv. Nel 2014 la città di Napoli si è attivata per una campagna apparentemente in favore della popolazione di Gaza durante l'operazione militare "Margine Protettivo": in quella sede il sindaco ha definito l'operazione militare israeliana un "genocidio"; accusando gli israeliani di crimini di guerra. Nell'aprile 2015 è stato proiettato nella Sala Campanella di Piazza del Gesù a Napoli per la prima volta in Italia il video antisemita "Israele il Cancro", in cui è intervenuta anche la regista che in quella sede non ha esitato a paragonare gli israeliani ai nazisti».

(Il Mattino, 29 aprile 2017)


A Ramallah, migliaia di manifestanti invocano la distruzione di Israele

di Nathan Greppi

 
Dimostrazione anti Israele a Ramallah
Nel corso dell'ultima settimana, migliaia di palestinesi hanno marciato per le strade di Ramallah urlando di voler "liberare la Palestina dal Fiume (Giordano) al Mare (Mediterraneo)" e di voler cancellare lo Stato d'Israele per instaurare al suo posto un califfato islamico.
   Secondo Arutz Sheva, la manifestazione è stata autorizzata dall'Autorità Palestinese, proprio quando il suo leader, Abu Mazen, sta preparando un incontro con il presidente USA Donald Trump previsto per la prossima settimana a Washington. Hossam Zamlot, rappresentante dell'Autorità a Washington, ha affermato che Abbas incontrerà Trump per "il suo impegno nel portare una pace giusta ed equa al fine di riconoscere i diritti del popolo palestinese."
Tuttavia, questa idea non risulta coerente con quanto succede a Ramallah. Il movimento che ha dato il via alla manifestazione, Hizb ut Tahrir, non solo nega a Israele il diritto di esistere, ma in più è contrario alla struttura laica del governo di Abu Mazen e vorrebbe cancellarla introducendo la Sharia. Il movimento ha organizzato la marcia proprio durante il 93o anniversario dell'abolizione della teocrazia in Turchia, avvenuta nel 1924.
   In un articolo per il sito americano Gatestone Institute, il giornalista Bassam Tawil ha descritto la marcia con questi termini: "Uno dopo l'altro, i capi di Hizb ut Tahrir sono usciti fuori a Ramallah […] per affermare la necessità di 'liberare tutta la Palestina' e ripristinare il Califfato Islamico. Uno di loro, il Dott. Maher Ja'bari, ha detto che 'Il Califfato Islamico verrà restaurato solo quando la Palestina verrà totalmente liberata […] La questione del califfato ha unito la nazione e pone le fondamenta per la liberazione della Palestina e l'imposizione della Sharia a tutti i musulmani sotto un unico capo."
   Tawil ha aggiunto che la marcia del movimento, "la quale raccoglie migliaia di palestinesi ogni anno, è solo un altra prova della crescente influenza di gruppi islamici radicali tra i palestinesi. In molti modi, è difficile trovare una differenza tra Hamas, l'ISIS, la Jihad Islamica e Hizb ut Tahrir. Condividono tutti lo stesso obiettivo: l'eliminazione di Israele e l'instaurazione di un regime islamico dove i non musulmani (dhimmi) vivranno come una minoranza e pagheranno la Jizya, la tassa emanata dai paesi islamici sui non musulmani che ci vivono."
   Tawil conclude affermando che questo tipo di manifestazioni istigano le generazioni più giovani a glorificare il jihad e a odiare Israele, e che "la pretesa di Abbas di trovare una pace giusta ed equa con Israele è smentita nella pratica da un fatto dopo l'altro."

(Mosaico, 28 aprile 2017)


Hamas verso il riconoscimento dei confini di Israele

Per accreditarsi a livello internazionale

GAZA - Il movimento islamico palestinese di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, si sta dirigendo verso posizioni più moderate al fine di potersi accreditare a livello internazionale. Secondo quanto riporta il giornale arabo "al Quds al Arabi", il gruppo islamico è sul punto di presentare un documento politico, in corso di redazione in Qatar, sul quale sta lavorando da quattro anno che prevede il riconoscimento di Israele entro i confini del 1967 e nel quale si definisce il conflitto con lo stato ebraico "puramente politico e non religioso". Il documento, composto da 41 articoli, è stato posto al vaglio di tutte le organizzazioni e le strutture legate ad Hamas ed è considerato, secondo quanto rivelano i suoi stessi dirigenti, la base "di una nuova Hamas". Il documento prevede quindi il riconoscimento dei confini israeliani del 1967 e dei territori palestinesi limitati alla Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme est ma non dello Stato di Israele in quanto tale, mentre viene abolita la parte contenuta nel documento fondativo di Hamas del 1987 che parla della distruzione dello stato ebraico e della nascita di uno stato palestinese su tutti i suoi territori storici.

(Agenzia Nova, 29 aprile 2017)


Prima o poi i movimenti che vogliono distruggere Israele capiscono che a presentarsi nella forma più aperta e brutale non conviene. Ha cominciato Arafat, con la sua impressionante parabola da magistrale terrorista a premio Nobel per la pace. Adesso è la volta di Hamas. Da quel punto vista, la cosa funziona, perché la maggior parte di quelli che odiano gli ebrei non vuole che questo sia detto apertamente. M.C.


Quelle donne soldato più addestrate degli uomini

Karahal è un battaglione di fanteria tutto femminile. Ne ha fatto parte Elinor Joseph, prima araba israeliana a servire in un'unità di combattimento.

di Luca D'Ammando

Il caracal è un felino che vive nel deserto. Eccezionale cacciatore notturno, ha dato il nome a un battaglione di fanteria molto particolare. Il Karakal infatti è la prima unità dell'esercito israeliano dove le donne possono combattere in prima linea. Nata nel 2000, ha il compito di pattugliare e garantire la sicurezza lungo il confine tra Israele e l'Egitto. Le donne, al pari dei commilitoni uomini, devono arruolarsi per un periodo di almeno tre anni. L'addestramento base, durissimo sia dal punto di vista fisico che mentale, dura quattro mesi e si svolge nella zona del deserto di Negev. La prova che chiude l'addestramento è una marcia lungo il confine. Oggi il Karakal è composto per il 70 per cento da soldati di sesso femminile.
 
Elinor Joseph
Elinor
   La storia di questo battaglione è anche la storia di Elinor Joseph, una donna speciale perché è stata la prima araba cristiana a essere ammessa nelle unità di combattimento femminili israeliane. Quando qualcuno la accusa d'indossare la divisa israeliana e di combattere con l'esercito che uccide arabi e musulmani, Elinor racconta sempre una storia. «La storia del missile lanciato dal Libano e caduto nel quartiere di casa mia quando abitavo a Haifa. Quel missile quel giorno ferì tanti arabi. Io l'ho visto con i miei occhi e per questo posso permettermi di rispondere che anche gli arabi ammazzano gli altri arabi».
   Elinor oggi ha 25 anni. Suo padre era un arabo cristiano che aveva combattuto con i paracadutisti d'Israele e la incoraggiò a tentare la carriera d'infermiera volontaria all'interno delle forze armate. Quando arrivò il giorno del reclutamento, era il 2010, Elinor scoprì di essere stata destinata a un ufficio. «Ci rimasi molto male - ha raccontato. - Quando protestai il colonnello comandante dell'unità a cui ero stata assegnata decise di mettermi alla prova e mi fece ammettere al programma d'addestramento richiesto per le unità combattenti».
   Passata la prova, Elinor si ritrovò a far la guardia a un posto di blocco in Cisgiordania, dove venivano fermati i palestinesi in uscita dalla città di Qalqilya: «In verità, la mia presenza al quel posto di blocco era un vantaggio per i palestinesi perché nessuno dei commilitoni osava maltrattarli in mia presenza. Quando sorgeva un problema potevo sempre intervenire discutendo in arabo per risolvere le questione». Eppure in tanti nel suo villaggio le hanno tolto il saluto: «Molti amici hanno smesso di frequentarmi. Qualcuno a parole continuava a parlarmi, ma quando mi voltavo mi pugnalava alle spalle». È così che Elinor scelse di presentare una nuova domanda per entrare questa volta nel battaglione Karakal, appunto il primo a schierare le donne sul fronte. Precedentemente le donne erano comunque impiegate nell'esercito - è bene ricordare che Israele è l'unico paese al mondo a richiedere il servizio militare obbligatorio alle donne - ma non partecipavano ai combattimenti diretti. Facevano parte del Corpo d'armi femminile ovvero il Chen, e dopo un addestramento di cinque settimane lavoravano come impiegate, autiste, infermiere, operatrici radiofoniche, istruttrici, personale dell'ordine e controllori di volo. In seguito a numerose pressioni da parte dell'opinione pubblica, nel 2000 venne apportato un emendamento alla legge sul servizio militare che stabilì che «le donne hanno lo stesso diritto degli uomini di servire in qualsiasi ruolo dell'esercito israeliano».
   Faceva parte del Karakal la soldatessa che, nel settembre 2012, durante uno scontro a fuoco uccise un terrorista islamista pronto a farsi saltare in aria con il suo giubbotto esplosivo. E faceva sempre parte del Karakal il capitano Or Ben Tehud, la donna ufficiale ferita in un attacco alla sua jeep nell'ottobre 2014, che scese dal mezzo e rispose al fuoco contribuendo a mettere in fuga gli assalitori. E da due anni a questa parte le soldatesse e i soldati di questa unità sono addestrati anche per scontri armati con l'Isis nello scenario del Sinai dove, secondo gli esperti militari israeliani, la minaccia dello Stato islamico è «concreta e crescente».

(Shalom, febbraio 2017)


Bari - Con Avishai Cohen Quartet chiude la rassegna 2016-2017 "Immagine"

Ultimo appuntamento della rassegna 2016-2017 "Imagine" dell'associazione musicale "Nel Gioco del Jazz. Mercoledì 10 maggio alle 21,00 al Teatro Forma di Bari si esibirà il quartetto del trombettista israeliano Avishai Cohen in "Into the silence". Sul palco ad accompagnare il musicista Yonathan Avishai al pianoforte, Yoni Zelnik al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria.
   Nato a Tel Aviv e cresciuto in una famiglia di musicisti, Cohen ha cominciato a prendere lezioni di tromba all'età di soli otto anni. Ha suonato con numerosi artisti jazz e ha sempre dichiarato di essere stato fortemente influenzato da Miles Davis. La sua prima registrazione per la ECM è stata nel quartetto del sassofonista Mark Turner nel settembre 2014. Sempre per la ECM ha pubblicato, da leader, il disco "Into the silence" con composizioni impressionistiche per un classico quartetto jazz. Del disco, dedicato alla memoria del padre del carismatico trombettista, Cohen ha firmato tutte e sei le tracce di registrazione: "Life And Death", "Dream Like A Child , "Into The Silence" , "Quiescence" , "Behind the Broken Glass" , "Life And Death - Epilogue". I brani, di lunga durata, consentono lo sviluppo di un flusso continuo di idee e di copioso materiale tematico.
   "Into the silence", nato da una forte esperienza interiore, ha quel dono dell'immediatezza che dai componenti del quartetto si trasmette direttamente all'ascoltatore. La sordina della tromba di Avishai dà il tono emotivo alla musica nei momenti di apertura dell'album, mentre la band ne esplora tutte le sue implicazioni. Dagli assoli creativi del pianista israeliano Yonathan Avishai, all'intesa con il batterista Nasheet Waits, all'interazione con il contrabbasso di Yoni Zelnik, il silenzio espresso dal trombettista esprime una dimensione interiore ricca di temi melodici che non rinuncia alla ricerca.

(Oltre Free Press, 29 aprile 2017)


Gemellaggio tra Sorrento e la città israeliana di Eilat

Mercoledì 3 maggio, cerimonia al Palazzo Comunale con una delegazione guidata dal sindaco Meir Yitzhak Haley. Presenzia l'ambasciatore Dan Haezrachy.

 
SORRENTO - Mercoledì 3 maggio, alle ore 18, presso la sala consiliare del Comune di Sorrento, si svolgerà la cerimonia di gemellaggio tra Sorrento e la città israeliana di Eilat. La delegazione, guidata dal sindaco Meir Yitzhak Haley, e costituita da Fred Mandelli, console onorario d'Italia a Eilat, Benny Gamlieli e Shmulik Taggar, rispettivamente presidente e segretario della Commissione di Gemellaggio della Città di Eilat, sarà accolta presso il Palazzo Municipale dal sindaco di Sorrento, Giuseppe Cuomo, dai rappresentanti della giunta e del consiglio comunale e dal responsabile comunale dei Rapporti Internazionali, Antonino Fiorentino. Presiederà la manifestazione l'ambasciatore Dan Haezrachy, vice capo missione dell'Ambasciata di Israele in Italia. L'iter per la ratifica del gemellaggio è stato avviato il 22 maggio 2016 con l'approvazione della risoluzione da parte del consiglio comunale di Eilat - scaturita dall'impulso dell'Ambasciata d'Italia in Israele, grazie anche all'apporto diretto del sorrentino Niccolò Manniello, diplomatico italiano a Tel Aviv - e il 21 luglio dello stesso anno, con il via libera del civico consesso di Sorrento.
  "Le connotazioni turistiche, compresa l'attenzione alla sicurezza e alla sostenibilità ambientale, unite ad un importante profilo storico cultuale, costituiscono punti di comune interesse tra Eilat e Sorrento - spiega il sindaco Cuomo - La nostra città è caratterizzata da un prevalente turismo internazionale, che sempre di più deve pensare a gestire il suo futuro verso nuovi segmenti di mercato, verso i quali l'area territoriale sorrentina esplica una sicura attrattiva". Eilat, che ha al suo attivo già 13 gemellaggi, ed ospita un consolato onorario italiano, è una città di circa 60mila abitanti, estesa su un territorio di 87mila ettari, situata nell'estremo Sud dello Stato di Israele, sulle rive del Mar Rosso. Il Golfo di Eilat è uno dei siti più importanti al mondo per le immersioni marine: l'area è particolarmente ricca di coralli e presenta un'ampia biodiversità. Ha inoltre una storia antichissima. Citata nell'Antico Testamento nel libro dell'esodo di Mosè dall'Egitto, assunse notevole rinomanza sotto il regno di re Salomone, per i commerci verso la penisola arabica e il Corno d'Africa, anche grazie alla vicine miniere di rame di Timna, tra le più antiche al mondo. Oggi Eilat è sede di un importante porto crocieristico, e di un centro turistico di ottimo livello anche grazie alla caratteristiche sub tropicali della zona. La città è considerata la capitale della vacanze in Israele, con oltre 2 milioni e 800mila visitatori l'anno e circa 10mila posti letto, che vanno dai b&b agli hotel a 5 stelle. La programmazione territoriale dell'area prevede a breve la realizzazione di un nuovo aeroporto e di una linea ferroviaria ad alta velocità, andando a connotare l'area, nell'immediato futuro, come distretto turistico metropolitano, incrementando ulteriormente i posti letto alberghieri. Sede di numerosi festival ed eventi, unisce attrattive subacquee e naturali, come la famosa Costiera dei Delfini, ai trail nel deserto.

(Vico Equense On Line, 28 aprile 2017)


Israele: più di 8.5 milioni di cittadini, 74,7% ebrei

20,8% di arabi. Di tutti gli ebrei del mondo, 43% vive nel paese

In Israele - che si prepara a festeggiare il 2 e 3 maggio il suo 69/o compleanno - vivono oggi 8.680mila cittadini, con 10 volte più ebrei dalla sua fondazione nel 1948. Lo rivela l'Ufficio Centrale di statistica secondo cui del totale complessivo della popolazione, gli ebrei sono 6.484mila, il 74.7%, mentre gli arabi israeliani 1.808mila, il 20.8%. Il restante 4,5%, circa 388,000 cittadini, sono cristiani non arabi, persone di altra religione o quelli senza affiliazione di credo, in larga parte quest'ultimi dalla ex Unione Sovietica. Se nel 1948, gli ebrei nel mondo erano 11.500mila e di loro il 6% viveva in Israele, nel 2015 la cifra era salita a 14.411mila con un 43% che risiede nello stato ebraico. Nell'anno scorso sono state 30mila le persone che hanno fatto 'aliya', la definizione che indica il 'ritorno' in Israele. Secondo i dati, oggi i 3/4 della popolazione ebraica è nata in Israele, un numero più del doppio di quello del 1948.
Tra gli ebrei israeliani, circa il 44% si identifica come laico, il 24% tradizionalista ma non religioso, l'11% religioso e il 9% come 'ultraortodosso'.

(ANSAmed, 28 aprile 2017)


Storia e riflessioni di un ebreo laico

Il racconto autobiografico di Bruno Segre, ebreo italiano autonomo nei giudizi. Una lettura capace di tenere viva l'attenzione sia che guardi all'Italia della prima metà del Novecento sia che ragioni di sionismo.

Bruno Segre, Che razza di ebreo sono io
ed. Casagrande, Bellinzona (CH) 2016
pp. 128 - 13,80 euro
«A noi ebrei di origine piemontese, i Savoia hanno dato la cittadinanza nel 1848 e ce l'hanno tolta nel 1938 con le leggi razziali». È solo uno dei passaggi frizzanti di questo libro-intervista in cui Bruno Segre, incalzato dalle domande dello storico Alberto Saibene, racconta la storia sua e della sua «famiglia medio-borghese, cosmopolita e antifascista», come lui stesso la definisce.
   Ormai più vicino ai novanta che agli ottant'anni, Segre rilegge con vivacità la propria biografia di ebreo non avvezzo a dogmatismi e autonomo nei giudizi. Per dare un'idea della tempra laica dell'uomo basterebbe leggere un brano come questo: «Molto spesso gli "altri", i non ebrei che ci guardano da fuori, pensano che noi ebrei siamo una sorta di monolito tenuto assieme da un'antica religione. E invece non siamo un monolito (forse non lo siamo mai stati). Anche se siamo pochi, siamo plurali. Plurali nelle idee, nelle abitudini, nei riti, nei modi di contemplare la modernità con la tradizione. (…) Ciò che la mia laicità mi porta ad avversare è il dogmatismo prevaricatore, qualsiasi matrice esso abbia e chiunque lo brandisca. Coloro che professano sinceramente una fede non sono di necessità portati a violare la libera espressione del pensiero altrui, mentre anche un ateo che si atteggi a chierico dell'ateismo esprime dogmatismo e diventa prevaricatore» (p. 93).
   Quando riflette sul plurisecolare antisemitismo, che alligna anche tra i cristiani, Segre si dice convinto che il cammino per superarlo resti lungo e che i mutamenti di prospettiva introdotti dal concilio Vaticano II siano ancora troppo recenti. «Detto ciò - osserva - voglio raccontare che cosa penso di avere capito attraverso la mia personale esperienza di ebreo che pratica, ormai da molto tempo, il dialogo con il "popolo cattolico". A partire dagli anni Novanta ho accettato decine di inviti da scuole, circoli culturali, comuni, sezioni di partiti politici, parrocchie, persino seminari vescovili, per partecipare a incontri e dibattiti su temi che variavano dal conflitto israelo-palestinese al sistema educativo di Nevé Shalom, dalle leggi razziali del '38 alla Shoah, dai dieci comandamenti del Sinai alla storia degli ebrei in Italia. Per decine di volte, quindi, mi sono ritrovato davanti a platee di cattolici, a fare i conti da solo con le loro convinzioni, a confrontarmi con le loro curiosità, le loro domande, i loro pregiudizi e le loro diffidenze, armato soltanto della mia nuda faccia, del mio bagaglio di cultura e di vita vissuta, portando con me alcune certezze, molte lacune e infiniti dubbi. Sapevo a priori che, a seconda dei casi, il mio discorso avrebbe potuto o non potuto fare breccia nell'animo degli ascoltatori ma che, in ogni caso, ciò che stavo per dire si sarebbe scontrato con le ancestrali difese di un pubblico pregiudizialmente antigiudaico. (…) Da questa personale esperienza di dialogo penso in ogni caso di avere capito quali e quanto ingombranti siano i problemi che incontra una qualsiasi maggioranza quando le accade di confrontarsi con una minoranza non perfettamente assimilabile e con le sue specificità culturali, linguistiche, religiose, di costume».
   Il libro è una lettura piacevole, capace di tenere viva l'attenzione sia quando guarda alle vicende italiane della prima metà del Novecento sia quando analizza il sionismo, in buona misura tradito secondo Segre, dell'Israele dei nostri giorni.
   «Non appartengo - confessa il protagonista di queste pagine - alla schiera di coloro che pensano che Israele sia al centro del mondo. A mio parere, Israele non è neppure al centro del mondo ebraico. La vita e la cultura di noi ebrei sono e saranno sempre plurali. E tuttavia, a dispetto della chiusura culturale, della deriva fascistoide e dell'arrogante grettezza etica di chi governa oggi Israele, sono ancora convinto della validità storica del progetto sionista, e continuo a credere che esso meriti d'essere portato a compimento. Il fatto è che, perché il progetto si realizzi, occorre che, in quella terra martoriata, accanto al libero Stato degli ebrei nasca e sia messo in condizione di vivere decentemente anche un libero Stato dei palestinesi. Senza la creazione di questo secondo Stato, il progetto sionista e lo stesso Stato d'Israele sono destinati al fallimento». (g.s.)

(Terrasanta.net, 28 aprile 2017)


Poche illusioni sulla pace in Medioriente

di Fiamma Nirenstein

Grandi opportunità o grandi delusioni in arrivo? Se lo chiedono in questi giorni sia Israele che i palestinesi: la visita di Trump in Israele è stata annunciata ieri per il 22 maggio, mentre il primo appuntamento con il presidente dell'autonomia palestinese Mahmoud Abbas è per mercoledì prossimo, un giorno dopo la celebrazione del 69 anniversario dell'indipendenza israeliana. Obama solo al suo secondo mandato si decise a visitare Israele, Trump invece viene subito. La visita è il primo segnale di quanto Israele sia importante per il presidente lo Stato Ebraico. Obama venne in Medio Oriente e visitò l'Arabia Saudita e l'Egitto, e ritenne inutile dare un'occhiata a Gerusalemme.
   Anche Trump visiterà gli Stati sunniti moderati, ma è evidente che farlo nell'ambito di una visita in Israele ha un significato politico di ricerca di un nuovo equilibrio regionale, di cui Israele è il protagonista. Il coinvolgimento è sottolineato dal fatto che lo accompagneranno la figlia Ivanka e il marito Jared Kushner e la visita avverrà intorno alla data in cui ricorre l'anniversario della Guerra dei Sei Giorni, quindi con uno sventolio ideale di bandiere a stelle e strisce a fianco di quelle bianche e azzurre.
   Che cosa ci si deve aspettare dagli incontri dato che Trump ha dichiarato di avere intenzione di passare alla storia come il presidente americano che è finalmente riuscito a portare in porto il processo di pace? La pentola delle buone intenzioni bolle a tutta forza, gli incontri si susseguono senza freno, ma la questione è complicata. Abu Mazen che va in visita fra pochi giorni ha alle spalle una popolazione che è stata educata nell'idea, oggi maggioritaria per il 44 per cento, che fra 25 anni Israele non esisterà più. Abu Mazen ha dichiarato di essere disponibile, ma è difficile capire che cosa sia effettivamente disposto a trattare quando l'epos coltivato nei libri di scuola, alla tv, sui giornali indica come maggiore obiettivo quello di cancellare gli ebrei con gli attentati terroristici, mentre l'Autonomia esalta la figura del «martire» attribuendo salari fissi ai detenuti per terrore o alle famiglie.
   Netanyahu ha messo sul tavolo la questione esortando pubblicamente Trump a chiedere ad Abbas conto dell'uso dei finanziamenti internazionali per finanziare il terrorismo. I palestinesi discutono in queste ore su una piattaforma che li metta in condizione di non rinunciare ai benefici ricevuti dalla amministrazione Obama che ha scelto come obiettivo i confini del '67 garantiti e lo stop alle costruzioni. La risposta consiste nel gestire il terreno del business che Trump preferisce con un «do ut des» in cui: Trump si impegni a rimandare il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, si smetta di giocare sulla visione irrealistica di chi propone i confini del '67, chiedendo però invece che di cancellare gli insediamenti di bloccarne l'espansione, di accettare un conferenza regionale in cui i palestinesi facciano per la prima volta parte di un fronte anti Iran e accettino di discutere la situazione regionale realisticamente.

(il Giornale, 29 aprile 2017)


Le sonate all'inferno dei condannati a morte nei lager

Il pianista Francesco Lotoro ha ritrovato ottomila spartiti di artisti passati dai lager e dai gulag. "Erano come quei cristiani che cantavano nel Colosseo prima di essere sbranati dai leoni. Di notte, con una candela, componevano anche nella stanza dove i nazisti facevano esperimenti medici. Il cattivo odore li proteggeva"

di Giulio Meotti

Quando gli fu chiesto di sintetizzare il rapporto fra la musica e la Shoah, il grande critico culturale tedesco Theodor W. Adorno disse: "Hitler e la Nona (sinfonia di Beethoven, ndr): milioni che si abbracciano". Con questa frase, Adorno voleva indicare la "Haine de la musique", l'odio della musica come è stato definito dal
La casa di Lotoro è il più grande archivio mondiale della musica concentrazionaria. Iniziò in Israele con la Sonata di Gideon Klein
francese Pascal Quignard, gli usi "malvagi" delle sette note, dalla fanfara, con cui i nazisti si impadroniscono di Primo Levi e delle "anime morte" di Auschwitz, ai cembali che incatenavano gli adepti durante i riti misterici latini e greci. Da trent'anni c'è un musicista italiano, il pianista Francesco Lotoro, che si è posto l'obiettivo di salvare la musica prodotta in quell'inferno. Sono le note uscite dall'universo concentrazionario del Novecento, lager nazisti e gulag comunisti. Uno splendido film sull'avventura di Lotoro, "The maestro", è da poco uscito per la regia di Alexander Valenti.
  "Ho iniziato per passione e voglia di esplorare territori nuovi, come ogni musicista", dice al Foglio il maestro Lotoro. "E non smetterò mai, farò questo fino alla fine dei miei giorni. Ero a Tel Aviv quando mi chiesero di eseguire la Sonata di Gideon Klein, composta nel lager di Terezin. Iniziai a cercare, fino a incontrare la sorella, Eliska". Questa pianista aveva appena trovato un'intera scatola di spartiti composti dal fratello durante la prigionia. E diede a Francesco una pergamena color sigaro, un rotolo di carta vellutato annerito con una stilografica dalla punta fine su un supporto di pentagramma prestampato: la sonata di Gideon, composta il 23 ottobre 1943 a Terezin. E' l'inizio di un viaggio angosciante e strepitoso. "E poi Emil Goué, francese, professore di fisica, che sopravvisse e tornò a insegnare, ma morì per una malattia contratta nel campo. Il figlio, che vive a Parigi, mi ha consegnato le sue opere. Ho iniziato nel 1998, avevo venticinque anni. In Italia all'epoca c'era il Dizionario della musica Utet, che usai per ricostruire alcuni nomi. Da allora ho trovato ottomila partiture. Conservo tutto in due case a Barletta".
  Casa Lotoro è, infatti, la più grande biblioteca mondiale della musica scritta nei campi di concentramento. Le scatole vi si ammucchiano, gonfie di spartiti. Sulle etichette: "Praga", "Berlino", "Brno". E poi "Goué", "Kropinski", "Ullman". Sulla fila superiore: "Terezin", "Dachau", "Auschwitz". "Ma spero finiscano presto in una cittadella della musica finanziata dal governo, dalla regione e dai privati". Lotoro registra un primo
Perché comporre in una simile situazione? "Dovevano fare testamento, lasciando quello che avevano. La loro musica"
disco al pianoforte, distribuito in Francia con il titolo "Les musiciens martyres de l'Holocauste" (I musicisti martiri dell'Olocausto). Ma non si ferma lì. Diventa un'ossessione per lui.
  Nella Partita per orchestra di Gideon Klein, prodigio praghese ucciso ventiseienne ad Auschwitz con un colpo di pistola, spira un'ansia ossessiva. Come anche nella Seconda sinfonia di Viktor Ullmann, melodia tristissima che vaga senza meta, raggelando il cuore. Appena arrivati ad Auschwitz, Ullman e la moglie sfilano davanti al dottor Mengele, che decreta la loro morte con un gesto della mano. Quella stessa tristezza, da non confondere con l'impotenza, si sente nella voce e nello sguardo di Lotoro, la cui mente è popolata di figure scomparse (per chi volesse sostenere il suo lavoro, c'è una onlus, Last Musik, che ne finanzia il progetto, i viaggi per tutta l'Europa, in Israele, in America latina).
  Lotoro, che insegna al conservatorio di Foggia, ha redatto l'Enciclopedia discografica della musica concentrazionaria, che riunisce in 24 cd la musica prodotta nei campi fra il 1933 e il 1945. E' un pianista missionario che si è convertito dal cattolicesimo all'ebraismo, scoprendo poi di avere un bisnonno ebreo. Le canzoni di Lotoro saranno eseguite a fine maggio a Roma e al Piccolo di Milano da Ute Lemper.
  "La musica dei campi ha trovato strade impensabili. Jack Garfein, emigrò in America dove sposò Carroll Becker. Era nel lager dove un amico gli cantò una canzone prima di andare alla morte e lui la utilizzò dopo la guerra. C'è chi ha visto l'Europa in un marciapiede di Vienna, c'è chi cantava l'Inno alla gioia di Beethoven in faccia a un soldato tedesco, umiliandolo. Il 29 maggio 1938 a Vienna sulla banchina del treno per Dachau Herbert Zipper intonò l'Ode An die Freude di Beethoven. Nacque allora l'Unione europea.
"Cantavano sulla banchina dei treni, cantavano condotti alla gasazione, cantavano anche quando le sirene imponevano il silenzio"
Quei musicisti dovevano fare testamento, consegnare quello che avevano. Nella Guerra civile spagnola si sentivano canzoni concepite tre anni prima a Dachau. Nel film 'Shoah' di Claude Lanzmann si vede una SS, Franz Suchomel, che canta una musica di Hermann Leopoldi che era stata scritta a Buchenwald e intonata dalle SS di Treblinka. Ho trovato musica anche nei campi di sterminio, come Sobibor, dove c'erano due violini, due flauti e due fisarmoniche. Mi sono messo alla ricerca di Erwin Schulhoff, della sua sinfonia numero otto, morto di tubercolosi nel 1942. Si era fermato ma si capiva dove stava andando, così l'ho ricostruita. Scrissi a Josef Beck, il grande musicologo, che mi mise in contatto con il figlio di Schulhoff, Petr. Viktor Ullmann aveva avuto una visione nel lager. 'Non ci siamo seduti sui fiumi di Babilonia', diceva. 'Abbiamo messo ordine nel caos'". L'11 marzo 2011, nella chiesa di Sant'Antonio a Barletta, Lotoro dirige in prima mondiale la versione originale del Kaiser van Atlantis, il capolavoro di Ullman composto nel campo.
  La musica nei campi fu persino innovativa. "Nei campi gli strumenti erano limitati e si doveva rivoluzionare la musica. Il lager nella sua tragicità e nella potente trasformazione concettuale che il musicista opera su di esso diventò l'ultima Bayreuth e la prima Darmstadt del linguaggio musicale del Novecento. Con un flauto e due violini componevano qualcosa di nuovo. A Birkenau c'era tutto tranne il contrappasso. Se in un campo di concentramento prendi la ghiera di una bomba, la agganci a una pelle di coniglio, monti un'asta di legno ricavata da una panchina, tiri su di essa i fili dei freni di una jeep, prendi il dorso di un pettine per stendere le corde e lo rinforzi con un pezzo di gamella, cosa ottieni? Un mandolino a forma di banjo".
  Lotoro fa notare un tragico paradosso. "Ad Auschwitz si faceva più musica nei blocchi dove si moriva di
"Viktor Ullman, ucciso ad Auschwitz, diceva: 'Non ci siamo seduti sui fiumi di Babilonia. Abbiamo messo ordine al caos'"
più. Adolf Eichmann applaudì all'esecuzione del Requiem di Verdi a Terezin. La musica non è estetica, ma azione. Come i cristiani che cantavano nel Colosseo prima di essere sbranati dai leoni. La musica ha ideologicamente distrutto il Terzo Reich. Il block cinque a Birkenau è sulla strada dove si passava per andare alla camera a gas. Simon Laks lo scrive che suonavano all'aperto. Andai a Birkenau e dissi alla funzionaria di controllare. Mi diede ragione".
  Lotoro ha trovato anche storie incredibili. "Come Ilse Weber, che finì a Birkenau. Era musicista, scrittrice, poetessa. Il marito nascose le opere della moglie nel maneggio di Terezin prima di partire per la morte. Ilse volle accompagnare i bambini nelle camere a gas. Disse loro di respirare profondamente, così non avrebbero sofferto. Fece un atto eroico, ma scrisse anche delle canzoni di musica leggera che sono dei gioielli. A Birkenau un'orchestrina accoglieva i convogli destinati alla gasazione. Era una strategia psicologica per celare quanto sarebbe successo. Dopo la gasazione gli addetti militari, uomini e donne, andavano nella sala prove e chiedevano Schumann e Grieg per rilassarsi. Nella camere a gas veniva intonato l'Ani Ma'amin, 'io credo con forza che arriverà il Messia'".
  La musica era anche rivolta. "Chi condusse la rivolta a Sobibor, ordinando di squarciare i reticolati e facendo fuggire i deportati? Il musicista ebreo ucraino Alexandr Aronovi Peerskij, detto Sasa. Chi nel giugno 1945 si mise a capo degli ex deportati di Terezin? Il pianista e musicologo ceco Vaclav Holzknecht. Chi inviò fuori dal lager di Sachsenhausen messaggi su cartoline nelle quali alcune sillabe erano
"Nell'ebraismo la memoria resta viva se la onori. Così è per questa musica: deve essere eseguita di nuovo per non farla morire"
appositamente scritte in tedesco errato, rivelando in piena guerra esperimenti medici sul vaiolo compiuti sui detenuti politici nonché la sorte riservata a ebrei e prigionieri di guerra sovietici? Il cantante e compositore polacco Aleksander Kulisiewicz che immagazzinò nel cervello 770 canzoni create dai suoi compagni ripetendole sottovoce tra le labbra per non dimenticarle. O come i coristi di Mauthausen che dopo una esecuzione capitale all'appello intonarono un travolgente 'Hymn an das Leben' in faccia al carnefice annientandolo umanamente e ideologicamente. O Ignacy Paderewski che dopo l'occupazione tedesca della Polonia nel 1939 divenne presidente del Parlamento polacco in esilio a Londra e diede numerosi concerti pianistici nel mondo raccogliendo fondi per la causa polacca".
  Eppure, si sono perse tante musiche nei lager. "Di Franz Klein, che scrisse un'opera in tre atti, ci è arrivata solo l'introduzione. Fu ucciso ad Auschwitz e la sua opera è andata perduta. Dal campo di Chelmno non è rimasto nulla. Di Ullman si sono perse le quattro cadenze scritte per i concerti di Beethoven".
  Lotoro non ricerca solo musica ebraica. "Nei campi dove c'erano cristiani si componevano le 'szokpa', la musica natalizia polacca. Ho trovato tanta musica cristiana, di monaci, di preti. Dachau fu l'epicentro della musica religiosa cristiana concentrazionaria, vi entrarono 2.579 sacerdoti, vescovi e monaci ma anche 109 pastori evangelici, 22 prelati greco--ortodossi e altri della chiesa riformata e veterocattolica; di essi, 1.034 morirono per inedia, malattia, impiccagione, fucilazione o crocifissi a testa in giù, 300 di essi subirono esperimenti medici o perirono sotto tortura".
"Più si era vicini alla morte, come ad Auschwitz, più si faceva musica. Kropinski dopo la liberazione da Buchenwald non compose più"
  Si scriveva musica ovunque si poteva. "Sui fogli di quaderno, sui giornali, sulle lastre a raggi X, sulla carta igienica. Josef Kropinski, soldato polacco, finisce ad Auschwitz, dove diventa il primo violino, poi a Buchenwald, dove di notte va a comporre nella stanza della vivisezione dei cadaveri. C'era tanfo, così i soldati non lo disturbavano. E' difficile immaginare un uomo che si chiude in una stanza a fare musica mentre l'altra stanza è piena di cadaveri. Nella camera di dissezione i laboratoristi analizzano i cadaveri, incidono l'epidermide, estraggono gli organi, studiano le reazioni delle loro cavie ai test d'esplosione delle granate e a ogni genere di virus e veleni. Il materiale prelevato viene poi inoltrato all'accademia medica di Graz o all'istituto di igiene di Berlino per un'analisi più approfondita. I camici bianchi di Buchenwald recuperano dai cadaveri anche tutto ciò che può avere un valore: i denti d'oro, ma anche la pelle. Divenne persino una 'specialità' locale: lavorare la pelle conciata per confezionare portamonete, abatjour, guanti o copertine di libri offerti ai visitatori di riguardo. Alla luce di una candela, il musicista ventinovenne scrive quella che sarà l'opera più ricca mai ritrovata nei campi. Impermeabile all'odore della morte, Kropinski riempie uno spartito dopo l'altro. Come in un processo di fotosintesi clorofilliana, Kropinski trasformava il carbone in ossigeno. Alla Liberazione si mise in marcia da Weimar a Monaco, ma a causa del freddo bruciò per scaldarsi le sue opere. Di 440 opere ce ne restano 117. E un violino. Voleva bruciare pure quello".
  Dopo la guerra, Kropinski non compone più un solo pezzo. I cinque anni di internamento hanno indebolito il suo cuore e lasciato postumi neurologici irreversibili. Non avendo potuto convalidare il diploma
"Non solo ebrei Ho trovato anche tanta musica composta dai cristiani, come a Dachau. E poi nei Gulag staliniani"
del conservatorio nel 1940, non potrà aspirare a un posto come professore di ruolo. Soprattutto, si rende conto che comporre musica non è più vitale come era al campo. Ormai è muto davanti al foglio bianco. Va a vivere a Wroctlàw, impiegato nell'amministrazione di una cooperativa agricola, suonerà il violino soltanto in famiglia, o a casa degli amici superstiti. In vita non riceverà mai alcun riconoscimento per la sua opera.
  Lotoro si mette sulle stracce di Rudolf Karel. "Insegnante di composizione, resistente, imprigionato a San Pancrazio a Praga, un luogo maledetto. Aveva la dissenteria ma scrisse intere opere, fra cui il 'Nonet', con dei pezzi di carbone appuntiti con cui si curava. Da prigioniero politico non poteva scrivere, così arrotolava i fogli nella biancheria, per farli uscire dal carcere. Morì di ipotermia dopo essere stato costretto a stare al gelo per una notte. A Westerbork Hans Krieg scrisse canti per l'accensione dei lumi a Channukkà mentre, l'ebreo olandese Hans von Collem compose Psalm 100 sul terriccio del campo di patate dove svolgeva i lavori forzati e poi lo stese su carta igienica. La domenica successiva, approfittando dell'assenza delle guardie, lo eseguì con un coro nelle latrine della colonia. Mi occupo anche di Gulag, della Vorkuta, dei campi comunisti dell'Nkvd, dove c'era il mastino ideologico ma non la camera a gas. L'arco cronologico da me scelto va dal 1933 al 1953, la morte di Stalin. I più grandi lì furono Protopopov, Mossolof, Nozirief. Ho viaggiato in quindici nazionie incontrato duecento sopravvissuti".
  Nell'inverno tra 1940 e 1941, Olivier Messiaen era in un lager tedesco. Parigino di fatto anche se era nato ad Avignone, organista e compositore, aveva 32 anni e godeva già di buona fama. Messiaen ottenne carta pentagrammata e matite e cominciò a scrìvere sotto l'urgenza di una ispirazione irrefrenabile. Nacque il
"Karel componeva sulla carta igienica, poi faceva uscire la sua musica di nascosto. Morì dopo una notte passata al freddo"
Quatuor pour la fin du temps (Quartetto per la fine del tempo, capolavoro della musica da camera).
  Che senso ha ricercare tutto questo? "Dove la vita cessa di essere fisica procede sul piano intellettuale e spirituale", continua Lotoro. Schopenhauer riconobbe l'unicità della musica giungendo ad affermare la sua indipendenza dal mondo fenomenico, tanto che "potrebbe sussistere anche se il mondo non esistesse più". "Ma l'opera muore se non la esegui", conclude Lotoro. "Nell'ebraismo la memoria vive se la ricordi. Ma non è solo Pompei, è Pompei più la biblioteca di Alessandria che vuole diventare Bayreuth e la Scala. Ancora siamo a Pompei, a ricostruire tutto, scavando negli archivi, parlando con i sopravvissuti, le famiglie. Sulla banchina delle stazioni in attesa della deportazione e negli stessi treni, i prigionieri hanno cantato e suonato; a Birkenau condotti alla gasazione, hanno cantato; a dispetto delle sirene serali che nei lager imponevano silenzio e coprifuoco, i deportati cantavano dalle finestre. Viktor Ullman diceva: 'Più avevamo voglia di vivere, più avevamo voglia di fare musica'".
  Come nel finale dell'opera Der Kaiser van Atlantis scritta a Theresienstadt da Ullmann, quando parafrasando il comandamento della Torah, i cantanti intoneranno: "Du sollst den großen Namen Tod nicht eitel beschwören". Non dovrai mai nominare il nome della Morte invano. E in ebraico: "Bemotàm zivu lanu et hachaim". Con la loro morte ci hanno comandato la vita.

(Il Foglio, 29 aprile 2017)


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Das Auschwitz Lied

Rosa Sorice
 
Francesco Lotoro
Tra i canti prodotti nei campi di sterminio nazisti è particolarmente noto “Das Auschwitz Lied”, che si presume sia stato scritto da Camilla Mohaupt, deportata ad Auschwitz e Bergen Belsen. Il testo è un adattamento alla melodia di un noto lied tedesco, "Wo die Nordseewellen trecken an den Strand", che veniva cantato anche dai soldati tedeschi caduti in prigionia durante la prima guerra mondiale.
Qui presentiamo il testo di Camilla Mohaupt, con la nostra traduzione in italiano, cantato dalla soprano Rosa Sorice con l'accompagnamento al pianoforte di Francesco Lotoro.


Zwischen Weichsel und der Sola schön verstaut
Zwischen Sümpfen, Postenketten, Drahtverhau
Liegt das KL-Auschwitz, das verfluchte Nest,
das der Häftling hasset, wie die böse Pest.
Tra la Vistola e il Sola ben nascosto,
tra paludi, torri di guardia, filo spinato
si trova il campo di Auschwitz, il nido maledetto,
che il prigioniero odia, come la peste.

Wo Malaria, Typhus und auch andres ist,
wo dir große Seelennot am Herzen frisst,
wo so viele Tausend hier gefangen sind
fern von ihrer Heimat, fern von Weib und Kind.

Dove c'è malaria, tifo e altro ancora,
dove l'angoscia dell'anima ti divora il cuore,
dove migliaia e migliaia sono intrappolati qui
lontani dalle loro case, lontani da moglie e figli.

Außer Läusen, Flöhen, plaget auch Fieber Dich,
viele tausend mussten sterben kümmerlich,
ja du wirst gequälet hier bei Tag und Nacht
und bei jedem Schritte ein Posten dich bewacht.

Oltre a pulci, pidocchi, anche la febbre ti consuma,
migliaia sono morti qui miseramente,
sì, qui tu sei tormentato giorno e notte
e ad ogni passo una sentinella ti sorveglia.

Häuserreihen steh‘n gebaut von Häftlingshand,
bei Sturm und Regen musst du tragen Ziegeln, Sand,
Block um Block entstehen für viele tausend Mann,
Alles ist für diese, die noch kommen dran.
Block um Block entstehen für viele tausend Mann,
Alles ist für diese, die noch kommen dran.

File di case, costruite dalle mani dei prigionieri,
tra tempesta e pioggia devi portare mattoni, sabbia,
blocco su blocco vengono su per migliaia di uomini,
tutto è fatto per quelli che devono ancora venire,
blocco su blocco vengono su per migliaia di uomini,
tutto è fatto per quelli che devono ancora venire.

Traurig siehst Kolonnen du vorüberziehn,
Vater, Mutter kannst du oft dazwischen seh‘n
darfst sie nicht mal grüssen, es brächte dir den Tod
so vergrößerst dadurch nur das ihre Not.

Tristemente vedi passare le colonne,
Padre, Madre, spesso li puoi riconoscere tra gli altri, ma non puoi salutarli, sarebbe per te la morte,
così accresci soltanto la loro pena.

Traurig ziehn die Reihen nun an dir vorbei,
schallend hörst Befehle du, wie "Ein, zwei, drei!"
Hier etwas zu sagen hast Du gar kein Recht,
wenn Dein Mund auch gerne um Hilfe schreien möcht.

Tristemente passano le file davanti a te,
imperiosi risuonano i comandi: "Uno, due, tre!"
Qui tu non hai alcun diritto di dire qualcosa,
anche se la tua bocca vorrebbe gridare
aiuto.

Vater, Mutter! Ob ihr noch zuhause seid?
Niemand weiss von unsrem großen Herzeleid,
träumen darfst Du hier nur von dem Elternhaus
aus dem das Schicksal jagte dich so schnöde hinaus.

Padre, Madre! Chissà se siete ancora a casa?
Nessuno sa del nostro grande dolore del cuore.
Qui tu puoi soltanto sognare la casa dei genitori
da cui così vilmente il destino ti ha cacciato
fuori.

Sollte ich dich Heimat nicht mehr wiederseh‘n
und wie viele andere durch den Schornstein geh‘n
seid gegrüßt ihr Lieben am unbekannten Ort
gedenket manchmal meiner, die ich musste fort.
Seid gegrüßt ihr Lieben am unbekannten Ort
gedenket manchmal meiner, die ich musste fort.

Se non dovessi più rivederti, o casa,
e come molti altri dovessi passare per il camino,
ricevete, o cari, il mio saluto nel luogo sconosciuto,
pensate ogni tanto a me, che son dovuto andare,
ricevete, o cari, il mio saluto nel luogo sconosciuto,
pensate ogni tanto a me, che son dovuto andare.

---

Per avvertire almeno un poco la tragicità di queste parole, si può ascoltare la musica originale di questo lied, che parla di onde del Mare del Nord che lambiscono la spiaggia, di gabbiani che gridano, suscitando nostalgia per la propria Heimat, la Frisia, regione settentrionale della Germania.


(Notizie su Israele, 29 aprile 2017)


Unesco, nuovo colpo di mano

In gioco la sovranità di Gerusalemme e le tombe dei Patriarchi e di Rachele

di Gianpaolo Santoro

La tomba dei Patriarchi
La tomba di Rachelei
Quell'incredibile vergognosa risoluzione Unesco sui luoghi santi, che decise di far indicare in arabo l'area del Monte del Tempio, quella sporca operazione di revisionismo storico che portò il primo ministro israeliano Netanyahu ad affermare: "dire che Israele non ha alcun collegamento al Monte del Tempio è come dire che la Cina non ha alcun legame con la Grande Muraglia o che l'Egitto non ha alcun collegamento con le piramidi…" rischia di avere una maledetta appendice, rischia di avere un secondo atto. Infame quanto il primo.
   Come abbiamo anticipato ieri l'Unesco si appresta ad un nuovo colpo di mano. Un ennesimo scippo alla storia, alla verità e alle coscienze. Il Comitato esecutivo dell'Unesco, infatti, intende votare il prossimo 2 maggio (Giornata dell'Indipendenza d'Israele) una risoluzione contro la sovranità israeliana su tutta Gerusalemme.
   Le diplomazie sono in fermento, i contatti si susseguono e si rincorrono. Diplomatici israeliani e americani stanno tentando di convincere i 58 paesi che compongono il Comitato esecutivo a votare contro la risoluzione. Ma sembra di essere di fronte ad una impresa disperata, una missione quasi impossibile. La risoluzione, infatti, è molto probabile che passi per via della maggioranza automatica dei paesi arabi che fanno fronte compatto contro Israele.
   L'anno scorso l'Unesco approvò, come detto, una risoluzione che disconosceva i legami ebraici (e cristiani) con il Monte del Tempio di Gerusalemme, indicato solo con il termine musulmano Al-Haram Al Sharif. Solo sei paesi votarono contro. Ed è bene ricordare che l'Italia clamorosamente si astenne.
   
Questa volta la risoluzione allarga ancora di più il suo attacco a Israele: non parla del Monte del Tempio, pur chiedendone però la riaffermazione, per dare più forza dopo una manciata di mesi a quel voto scellerato e che non ha rispettato la verità e la storia. Questa volta con la risoluzione si attacca frontalmente la sovranità israeliana su tutta la città Gerusalemme (e quindi non solo la parte est e la Città Vecchia).
   La risoluzione stabilisce inoltre che è nulla qualsiasi decisione presa su Gerusalemme da qualunque autorità israeliana (Knesset, Corte Suprema ecc.). Il disconoscimento totale. La follia.
   Una risoluzione che avrebbe qualcosa di storico visto che è la prima volta che l'Unesco col suo comitato esecutivo (dove siedono anche undici paesi dell'Unione Europea -Estonia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovenia, Spagna e Svezia- e gli Stati Uniti) viene chiamato a pronunciarsi sulla sovranità di Gerusalemme ovest dove sono presenti Parlamento, Governo e Corte Suprema, in pratica i principali organi di governo israeliani.
   La bozza di risoluzione, sempre da quanto trapelato, poi si occupa della moschea Ibrahimi e moschea Bilal bin Rabah, così come sono chiamate dai musulmani, che poi sarebbero la Tomba dei Patriarchi a Hebron e la Tomba di Rachele a Betlemme, cioè due fra i luoghi santi ebraici più importanti. La risoluzione pretenderebbe che la Tomba dei patriarchi e quella di Rachele diventassero "parte integrante della Palestina".

(Italia Israele Today, 28 aprile 2017)


Londra - Fermato con coltelli era sulla flotilla per Gaza nel 2010

Lo riferiscono a Reuters fonti investigative

L'uomo arrestato ieri a Londra perché sospettato di avere pianificato un attacco terroristico, che portava con sé dei cortelli vicino a Downing Street, si trovava a maggio del 2010 a bordo della nave turca della flotilla diretta a Gaza sulla quale i soldati israeliani realizzarono il blitz in cui furono uccisi nove attivisti turchi. Lo riferiscono a Reuters fonti investigative, che hanno identificato il sospetto come Khalid Omar Ali, di Londra. Il giovane, 27 anni, era monitorato dall'intelligence e dall'antiterrorismo del Regno Unito e resta in custodia per le accuse di terrorismo e possesso di armi. Secondo le fonti, si trovava sulla nave Mavi Marmara che faceva parte della flotilla che nel 2010 sfidò l'embargo navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza. Una delle fonti precisa che, secondo gli investigatori, il coinvolgimento del giovane nella protesta sulla flotilla è assolutamente separato da qualunque cosa possa averlo successivamente spinto ai fatti di ieri.

(LaPresse, 29 aprile 2017)


Papa ad Al Azhar: il terrorismo è falsificazione idolatrica di Dio

Grande Imam, islam lontano da terrorismo quanto cristianesimo

 
“Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv. 5:44)

 
IL CAIRO - "La violenza è la negazione di ogni autentica religiosità". Lo ha detto Papa Francesco alla Conferenza internazionale per la Pace organizzata al Cairo dall'Università di Al-Azhar.
"Volgendo idealmente lo sguardo al Monte Sinai - ha affermato -, vorrei riferirmi a quei comandamenti, là promulgati, prima di essere scritti sulla pietra. Al centro delle 'dieci parole' risuona, rivolto agli uomini e ai popoli di ogni tempo, il comando 'non uccidere'". "In quanto responsabili religiosi- ha proseguito -, siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità". "Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio". "Solo la pace è santa - ha aggiunto - e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio". "Ripetiamo un 'no' forte e chiaro ad ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio - ha ribadito il Papa -. Insieme affermiamo l'incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare.
Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica". "A poco o nulla serve alzare la voce e correre a riarmarsi per proteggersi: oggi c'è bisogno di costruttori di pace, non di provocatori di conflitti; di pompieri e non di incendiari; di predicatori di riconciliazione e non di banditori di distruzione", ha detto ancora il pontefice, aggiungendo che i "populismi demagogici" certo "non aiutano a consolidare la pace e la stabilità". "Nessun incitamento violento garantirà la pace - ha concluso -, ed ogni azione unilaterale che non avvii processi costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicalismi e della violenza"
Da parte sua il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed Al Tayyib, ha affermato che "l'islam non è una religione del terrorismo" come non lo sono il cristianesimo e l'ebraismo.
"L'islam non è una religione del terrorismo" solo "perché ci sono persone che hanno male interpretato" il suo messaggio "e hanno versato sangue di esseri umani, intimorito persone", ha detto il Grande Imam del più influente centro teologico e universitario dell'islam sunnita.
"Allo stesso modo il cristianesimo non è una religione del terrorismo", ha aggiunto con implicito riferimento alle Crociate, solo "perché c'è stata una comunità che ha alzato la croce" e ucciso ("raccolto anime").
"Allo stesso modo neanche l'ebraismo è una religione del terrorismo" per "l'occupazione dei territori palestinesi. Neanche la civilizzazione europea e americana a causa delle bombe di Hiroshima", ha proseguito il Grande Imam.
"Quindi - ha sottolineato - se si qualifica l'islam 'terrorista' non si salverà alcuna religione o civilizzazione", ha sostenuto Al Tayyib.
"Dobbiamo purificare le religioni da tutto quello che semina l'odio e da qualsiasi deviazione", ha sottolineato il Grande Imam di Al-Azhar. "Vi ringrazio, o Papa, per le vostre giuste dichiarazioni che non qualificano l'islam come terrorismo", ha detto ancora Al-Tayyib, definendo la visita del pontefice "storica", che avviene "durante una catastrofe umana estremamente triste". "La storia non ha mai conosciuto una catastrofe simile", ha aggiunto il capo dell'istituzione del Cairo. "Le catastrofi del mondo - ha proseguito - sono causate dal commercio delle armi per far funzionare le fabbriche della morte".
"Le crisi del mondo sono - ha concluso - sono causate dall'ignoranza delle religioni celesti".

(ANSAmed, 28 aprile 2017)


Perfetto! Non si poteva presentare in modo migliore l'ideologia che fra non molto sosterrà l'ORU (Organizzazione delle Religioni Unite). Religioni unite e tutte "celesti", naturalmente, come dice il Grande Imam che tesse l'elogio del Grande Papa. E tutte anelanti alla PACE. Ma è vero: sarà la paura del terrorismo a spingere il mondo verso le "religioni celesti" della PACE universale. Nel consesso cattolico-islamico d'Egitto oggi manca l'interlocutore ebreo, ma la PACE arriverà quando si troverà l'«uomo della provvidenza» che riuscirà a "trovare la quadra" stringendo un patto di PACE anche con quel testardo di Israele. A quel punto il mondo otterrà la sicurezza d’aver raggiunto finalmente quello che i religiosi celesti come il Grande Imam e il Grande Papa oggi predicano a tutti: la PACE.
"Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno" (1 Tessalonicesi 5:3). M.C.


Israele: l'Autorità per la Cyber Difesa sventa pericoloso attacco informatico

di Paolo Castellano

L'Autorità per la Cyber Difesa israeliana il 26 aprile ha annunciato di aver sventato un importante cyber attacco a 120 diverse organizzazioni israeliane sia pubbliche che private.
   Per ingannare i loro bersagli, gli hacker avevano inviato parecchie email ingannevoli attraverso i server di un istituto accademico e di un'azienda privata. Gli attacchi volevano colpire differenti target come aziende, ministeri governativi, istituzioni pubbliche e privati cittadini israeliani che lavorano nel campo della ricerca accademica, riporta il sito web del Jerusalem Post.
   Gli attacchi sarebbero potuti andare a buon fine a causa di una falla informatica (CVE-2017-0199) del sistema operativo Microsoft, (un bug di Microsoft Word). Negli ultimi giorni l'azienda però si è mossa per riparare le vulnerabilità venute a galla dopo le indagini dell'Autorità israeliana per la Cyber Difesa. «Microsoft ha rilasciato un aggiornamento che impedisce all'attaccante di sfruttare questa vulnerabilità, e noi raccomandiamo di istallarlo», ha affermato l'organismo in un comunicato.
   Secondo l'ente di sicurezza israeliano, un simile attacco informatico sarebbe già stato fatto in precedenza dall'OILRIG, una delle organizzazioni di hacking più attive a livello mondiale e sponsorizzata dal governo iraniano.
   La notizia dello sventato attacco informatico è arrivato due giorni dopo l'invio di una lettera a Benjamin Netanyahu da parte dei vertici dello Shin Bet, del Mossad, dell'IDF e del ministero della Difesa in cui si chiede al primo ministro israeliano di revocare i numerosi poteri dati all'Autorità per la Cyber Sicurezza perché impedirebbero un'efficace strategia militare contro il terrorismo informatico. «La proposta di legge vuole garantire ampi poteri all'Autorità per la Cyber Difesa, i cui propositi non sono ancora stati definiti con chiarezza, e ciò potrebbe danneggiare seriamente la principale attività degli enti militari che si occupano di sicurezza nel campo digitale», si legge nel documento.
   Prima delle vacanze pasquali, Israele si stava preparando per il quinto attacco annuale da parte del gruppo di hacker chiamato Anonymous. L'evento denominato #OpIsrael è stato pubblicizzato dal gruppo sui social media per mezzo di numerosi video in diverse lingue che incitano gli utenti del web ad "attaccare i siti governativi, i server e i database israeliani per disconnettere Israele dal mondo digitale".
   Secondo il dipartimento di Cyber sicurezza dell'Istituto internazionale che contrasta il terrorismo, i gruppi che vogliono colpire Israele sono Anonymous Palestine, Anonymous Gaza, Anonymous Germany, Anonymous RedCult, AnonGhost e MinionGhost. Sulla pagina Facebook del #OpIsrael ci sono 98 utenti che hanno confermato la loro partecipazione al progetto, altri 118 invece sono solo interessati all'evento.
   Diversi esperti di sicurezza informatica hanno dichiarato che l'#OpIsrael non può essere considerata una grande minaccia. Per ironia della sorte però gli attivisti che hanno supportato il progetto hanno dichiarato di essere stati a loro volta hackerati da altri pirati informatici. Secondo un documento di BleepingComputer, un sito italiano dedicato alla sicurezza digitale, gli attivisti sarebbero stati raggirati dopo aver scaricato un programma che conteneva un virus nascosto che consente agli hacker di avere accesso alle fotocamere degli attivisti, al loro microfono, ai messaggi di testo del browser, alle chiamate e alla localizzazione GPS. Non è però ancora chiaro chi abbia lanciato questo attacco informatico agli attivisti di Anonymous.

(Mosaico, 28 aprile 2017)


Rabbini del Novecento. Da Torino, l'esempio di tre Maestri

Marco Di Porto

 
ROMA - Al Centro Bibliografico stimolante incontro dedicato a tre figure di tre Maestri che hanno segnato la storia del rabbinato torinese e dell'ebraismo italiano: Dario Disegni, Sergio Josef Sierra, Menachem Emanuele Artom.
L'appuntamento si è svolto nell'ambito del ciclo di conferenze Rabbini italiani del '900, curato dalla coordinatrice delle attività del Centro Raffaella Di Castro e dal coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano Rav Gianfranco Di Segni, in collaborazione con il Centro di Cultura della Comunità Ebraica di Roma.
All'incontro sono intervenuti Rav Riccardo Di Segni, Rav Scialom Mino Bahbout, Rav Roberto Colombo, Rav Alberto Somekh, Dario Disegni, Shemuel Y. Lampronti e Aldo Zargani.
Su Rav Disegni, rabbino capo di Torino dal 1935 al 1959, sono intervenuti suo nipote e omonimo Dario Disegni, oggi presidente della comunità ebraica di Torino, della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia e della Fondazione Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, e Aldo Zargani, storico dirigente Rai e allievo del Rav da bambino. Ne è uscito un ritratto a tutto tondo, in cui a spiccare è stato il ruolo di guida della Comunità durante e dopo la guerra, l'impegno per la scuola rabbinica Margulies-Disegni (che oggi porta anche il suo nome) e per il progetto di una nuova traduzione del Tanach in italiano, tutt'oggi punto di riferimento.
La figura di Rav Sierra, rabbino capo di Torino tra il 1960 e il 1985, è stata ricordata dal nipote Shemuel Y. Lampronti e da Rav Alberto Somekh, che ne hanno illustrate alcune importanti caratteristiche: la grande tenacia, la forte attenzione all'aspetto etico delle Mitzvot (argomento al quale il Rav aveva dedicato un saggio dal titolo Il valore etico delle Mitzvot) e all'educazione dei giovani, nella sua altrettanto lunga stagione alla guida del rabbinato della rinascente Comunità torinese.
Su Rav Artom hanno infine parlato Rav Colombo e Rav Bahbout, sottolineando la sua grande sapienza: eccellente grammatico, storico, commentatore e traduttore, Artom fu Rabbino Capo di Torino dal 1985 al 1987, dopo esperienze a Perugia, in Israele e a Venezia.
"Tre personalità molto diverse tra di loro, che si sono confrontate con le particolari sensibilità della Comunità di Torino, sia politiche che intellettuali, e che ne hanno segnata la storia profondamente", ha commentato Rav Riccardo Di Segni.
Il prossimo incontro del ciclo di conferenze sarà dedicato ai rabbini di Firenze.

(moked, 28 aprile 2017)


A Yafo l'assemblea del Comites Tel Aviv

TEL AVIV - Il 21 aprile scorso il Bet Italia a Yafo ha ospitato l'assemblea del Comites (Comitato per gli Italiani all’Estero) di Tel Aviv.
  All'inizio dei lavori, il Comites si è congratulato con il Console Manniello per la nascita del figlio Francesco. Quindi sono stati affrontati i dviersi temi all'ordine del giorno.

 Vitalizio alle vittime delle leggi razziali
  La richiesta di accredito diretto dei vitalizi è stata inoltrata all'Ambasciata solo dal 28% dei circa 200 beneficiari ancora in vita ed alcuni dei moduli sono pervenuti con dati inaccurati o mancanti. Alcuni preferiscono proseguire con la modalità precedente, già collaudata e funzionante. Il maggiore impedimento burocratico sembra sia la necessità di richiedere o verificare il proprio codice fiscale. Il Comites ha rivolto un grazie particolare a Claudia Amati per l'assistenza offerta ai beneficiari nel disbrigo della pratica e al personale dell'Ambasciata per la collaborazione.

 Aperikucha
  Tre promotrici del progetto Aperikucha ne hanno presentato la formula vincente insieme ai programmi per il 2017, sostenuti anche da un finanziamento straordinario del Ministero degli Esteri che è stato ottenuto attraverso il Comites in collaborazione con l'Ambasciata. Il "contenitore" Aperikucha si è dimostrato particolarmente efficace per offrire una ribalta agli imprenditori italiani (e non) immigrati in Israele che operano con l'Italia. All'ultima edizione ha presenziato anche il Ministro per lo Sviluppo Economico, Mario Calenda, accompagnato dall'Ambasciatore Talò. Tutti gli italiani che abbiano una storia o un'idea da condividere (in soli sei minuti e quaranta secondi!) in ambito commerciale, tecnologico, accademico, artistico, culturale o altro, possono contattare Fiammetta Martegani (fiammettamartegani@gmail.com). Si è discusso anche della possibilità di "esportare" Aperikucha in altre città come Gerusalemme, Haifa e Beer Sheva.

 Irgun Ole' Italia
  Il marzo si è tenuta la seconda parte dell'assemblea nel corso della quale sono stati eletti alcuni consiglieri sparsi sul territorio i quali, in questi giorni, dovrebbero designare un proprio presidente.

 Kol Ha-Italkim
  Il Comites è stato interpellato per esprimere un parere (positivo!) sul notiziario degli italiani in Israele, Kol Ha-Italkim, nel quadro del contributo alla stampa italiana all'estero istituito dalla Presidenza del Consiglio (DL 63/2012 art.1 bis e DPR 138/14).

 Piano di Emergenza
  Come in tutti i paesi, anche in Israele esiste un piano di emergenza che prevede dei punti di raccolta coordinati da capi-maglia istruiti dall'Ambasciata. Il Console Manniello verificherà e comunicherà la lista dei punti di raccolta ed i riferimenti dei capi-maglia da contattare in caso di emergenza nella circoscrizione consolare di Tel Aviv (tutta Israele meno Gerusalemme ed i territori amministrati).

 Aire
  Il numero aggiornato degli iscritti all'Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero con residenza nella circoscrizione consolare di Tel Aviv è di circa 14600.

 Soldati Solitari
  Sembra che alcuni giovani italiani immigrati arruolatisi nell'IDF abbiano subito all'ultimo momento dei cambiamenti di data della cerimonia conclusiva dell'addestramento reclute, con conseguenti disagi per i familiari giunti dall'Italia per assistervi. In questi casi il Comites consiglia di rivolgersi all'Aguda' Lema'an HaChayal presso la quale la consigliera Paola Cantori (paolacan4@gmail.com) ha fatto volontariato per diversi anni.

 Commemorazione di Yom HaShoah
  Per motivi organizzativi la cerimonia di lettura dei nomi dei deportati dall'Italia uccisi dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale si è svolta quest'anno al tempio italiano di rechov Ben Yehuda a Tel Aviv invece che al tempio italiano "Ovadia da Bertinoro" di Ramat Gan, come era tradizione negli anni scorsi. Come sempre ha presenziato, partecipando anche alla lettura, l'Ambasciatore Talò.

(AISE, Agenzia Italiana Stampa Estero, 28 aprile 2017)


Donald, esordio da Netanyahu. Intesa sulla linea anti-Assad

di Giordano Stabile

BEIRUT - I cacciabombardieri israeliani colpiscono di nuovo Al-Assad e il suo alleato Hezbollah a Damasco e poche ore dopo Donald Trump annuncia la sua visita a Gerusalemme, il 22 maggio. Un'azione militare e un successo diplomatico che consolidano il nuovo legame fra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente Usa. Ed è sulla Siria, sulla necessità di «contenere» Assad rinvigorito dalla presa di Aleppo, che l'intesa si è cementata.
   Il raid, nelle prime ore del mattino di ieri, ha colpito depositi di armi e di carburante all'aeroporto della capitale siriana. L'attacco è arrivato poco più di un mese dopo la serie di raid del 17 marzo, quando però la difesa antiaerea di Damasco aveva reagito e alcuni missili del sistema anti-aereo S-200 avevano puntato gli F-15 con la stella di David ed erano arrivati fin nello spazio aereo israeliano.
   Due settimane dopo, il 4 aprile, è arrivato l'attacco con armi chimiche a Khan Sheikhoun. Il Mossad ha puntato subito il dito contro Assad. Ed è stato decisivo, probabilmente, nel convincere Trump a un raid di rappresaglia con missili Tomahawk sulla base dell'aeronautica di Al-Shayrat. In entrambi i casi la reazione di Mosca è stata dura a parole ma accomodante nei fatti, perché le forze armate russe non hanno attivato i più potenti sistemi S-300 e S-400, in grado in teoria di intercettare jet e missili.
   Mosca non ha nessun intenzione di mollare Assad, ma non cerca neppure la rottura con Israele. Il raid di ieri è arrivato dopo una telefonata fra il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman e quello russo degli Esteri Sergey Lavrov. Lieberman ha ribadito che «Israele non permetterà all'Iran di installare un nuovo fronte in Siria». Poco dopo il bombardamento è stato di fatto rivendicato dal ministro dell'Intelligence israeliana Yisrael Katz: «Ogni volta che riceviamo informazioni sui progetti di trasferimento di armamenti a Hezbollah - ha commentato- noi agiamo». Nella notte, ha fatto sapere, erano atterrati aerei cargo carichi di armi dall'Iran.
   In questo contesto arriva la prima visita all'estero di Trump. Ha scelto per il suo debutto sulla scena internazionale lo Stato ebraico. Obama ci mise 4 anni prima ad arrivare in Israele: in Medio Oriente i suoi primi viaggi furono in Turchia, Arabia Saudita ed Egitto. Anche la data, il 22 maggio, alla vigilia della festa della Città Santa e a ridosso del cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei giorni e della sua «riunificazione» sotto il controllo israeliano, è simbolica.
   Il 1o giugno scade l'ordine presidenziale di Obama che ha congelato l'applicazione della legge che impone il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Trump potrebbe annunciare anche questa svolta, prima di volare a Bruxelles e in Italia per il vertice Nato e il G7. Per Netanyahu sarebbe il trionfo.

(La Stampa, 28 aprile 2017)


In Israele si pensa che Trump non sposterà l'ambasciata

Israele ritiene che il presidente statunitense Donald Trump non sposterà per ora l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, come aveva più volte annunciato, nonostante la sua prossima visita nel paese indicata come possibile il prossimo 22 maggio.
Lo indicano vari commenti apparsi oggi sui media che, non solo citano le pressioni da parte dei paesi arabi, ma riprendono a questo proposito anche una dichiarazione rilasciata dal presidente Usa la scorsa notte in un'intervista alla Reuters. Ad una domanda sul possibile trasferimento dell'ambasciata, Trump ha evitato di rispondere invitando a porgli lo stesso quesito "tra un mese", epoca in cui dovrebbe arrivare in Israele. Ha sottolineato comunque di voler vedere "la pace tra israeliani e palestinesi. Non c'è alcuna ragione perché non ci sia".
Haaretz - che cita fonti al corrente dei fatti - sottolinea che Trump alla fine firmerà, come hanno fatto altri presidenti Usa, l'ordine presidenziale che sospende la legge che impone il trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme e che scade proprio ai primi del prossimo giugno.

(swissinfo.ch, 28 aprile 2017)



Viaggio in Israele organizzato dal "Gruppo Sionistico Piemontese"

Dal 3 al 10 settembre. "Politica, archeologia, cultura, natura"

Il Gruppo Sionistico Piemontese, presieduto da Emanuel Segre Amar, ha organizzato un viaggio in Israele nella settimana tra il 3 e il 10 settembre. Sono previste partenze da Roma e da Milano.
Il viaggio verrà accompagnato dal giornalista Giulio Meotti, fine conoscitore della realtà Israelo-Palestinese e dall'archeologo Dan Bahat, profondo esperto di Gerusalemme, e scopritore del tunnel che corre lungo il Muro Occidentale.

PROGRAMMA

Per informazioni o iscrizioni:
Agenzia Easynite, info@easyisrael.it

(Gruppo Sionistico Piemontese, 28 aprile 2017)


 


Raid di Israele a Damasco. Razzi su sito di Hezbollah

Gerusalemme non conferma, ma ministro Katz ribadisce: agiamo per impedire il trasferimento di armi dall'Iran al Libano. Abbattuto un drone sul Golan.

di Luca Geronico

La voce di una «enorme» esplosione vicino l'aeroporto di Damasco, rilanciata di primo mattino dall'Osservatorio siriano per i diritti umani, è stata subito dopo confermata da al-Manar, la tv vicina a Hezbollah. Molto «probabilmente», afferma la tv libanese, un attacco di aerei israeliani contro depositi di carburante e un non meglio precisato magazzino nei pressi dell'aeroporto internazionale, a 25 chilometri da Damasco. Poi, dall'agenzia ufficiale siriana Sana, precise accuse: le esplosioni sono state provocate da «un' aggressione israeliana compiuta con il lancio di missili contro installazioni militari» siriane. L'agenzia, citando «fonti militari», aggiunge che i missili sono stati lanciati dai «territori occupati», presumibilmente dalla parte delle Alture del Golan occupate dall'esercito israeliano, e hanno provocato solo «danni materiali».
   I media siriani avevano riferito di un precedente bombardamento in quest'area nel dicembre del 2014. Diverse fonti ritengono che dall'aeroporto di Damasco passi buona parte dei carichi di armi inviate dall'Iran per Hezbollah. L'esercito israeliano ieri si è trincerato dietro un freddo no comment, come in passato quando aveva compiuto altri raid su depositi di armi nell'area, che sospettava fossero destinate allo stesso Hezbollah. Tuttavia il ministro israeliano dell'Intelligence, Yisrael Katz, ha dichiarato che una esplosione di quel genere è coerente con la politica di Israele. «Stiamo agendo per impedire il trasferimento di armi sofisticate dalla Siria a Hezbollah in Libano tramite l'Iran», ha detto Katz.
   «Quando riceviamo serie informazioni sull'intenzione di trasferire armi a Hezbollah, agiamo. Questo incidente è totalmente coerente con questa politica», ha affermato. La Russia ha condannato come «atti di aggressione» contro la Siria, i raid israeliani e ha lanciato un appello «a tutte le parti» in causa a usare «moderazione» in Siria. Ma in serata è giunta la notizia che Israele ha abbattuto con un missile Patriot un obiettivo, probabilmente un drone, proveniente dalla Siria.
   Intanto in Siria si continua a morire ogni giorno: dieci persone, tra cui due neonati in incubatrice, sono morte a seguito di raid aerei contro due strutture sanitarie nel nord-ovest della Siria in mano ai ribelli. Altre nove persone, tra cui cinque bambini, sono morte in altri raid contro diversi villaggi della stessa regione, come ha indicato dall'Osservatorio siriano dei diritti umani che indica come responsabili jet russi. A Damasco, invece, si sono celebrati nei giorni scorsi i funerali di cinque siriani rapiti dai jihadisti e trovati morti in Libano. Quanto sia alta la tensione lo testimoniano le dichiarazioni del ministro degli Esteri britannico Boris Johnson: se gli Usa chiedessero un appoggio militare in nuovi ipotetici bombardamenti contro le forze governative in Siria per Londra «sarebbe difficile dire di no», ha dichiarato. Ieri Trump ha chiesto al Pentagono, di determinare il numero di truppe Usa in Iraq e Siria. Inoltre, sempre sul fronte diplomatico, la Siria ha definito una «campagna di inganni, bugie e accuse inventate» le prove annunciate mercoledì dalla Francia sull'attacco chimico del 4 aprile a Khan Sheikhoun. Anche questo, presumibilmente, materiale di discussione al prossimo vertice di Astana del 3 e 4 maggio a cui parteciperanno Russia, Turchia e Iran.

(Avvenire, 28 aprile 2017)


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In Siria non c'è la guerra mondiale ma molti raid israeliani

Ennesimo bombardamento sull'aeroporto internazionale di Damasco. Assad aveva promesso vendetta contro Gerusalemme

di Daniele Raineri

ROMA - Tre settimane fa il presidente americano, Donald Trump, ordinava un attacco limitato con missili contro una base aerea dell'aviazione siriana, in risposta a una strage con armi chimiche compiuta dagli assadisti tre giorni prima contro un piccolo centro abitato nella zona non controllata dal governo. Cosa è successo dopo? A dare retta ai commenti fatti a caldo in quei giorni, si era ormai sull'orlo di una guerra mondiale contro la Russia, grande sponsor del presidente siriano Bashar el Assad. Come se la Russia fosse subito pronta a scatenare una guerra per difendere l'inviolabilità della base siriana di al Shayrat, nella pianura spenta a sud della città minore di Homs. E di Assad in particolare si diceva che mai e poi mai avrebbe autorizzato un bombardamento chimico contro i civili, non poteva essere stato lui, perché sarebbe stato un suicidio politico-militare - e chissà cosa gli sarebbe successo ora. Non gli è successo nulla, oggi sappiamo la risposta. Il raid americano era un "one-off", un colpo singolo dimostrativo, sei soldati sono morti, Bashar el Assad è al suo posto a Damasco e la guerra civile va avanti come prima. Come misura cautelativa tutti gli aerei siriani sono stati spostati in una base vicino alla costa assieme con gli aerei russi, così gli americani prima di lanciare missili anche lì ci penseranno due volte - ed è probabile che il governo siriano abbia deciso di sospendere l'uso di armi chimiche per il futuro. Le denunce di chi diceva che la Siria ha tradito l'accordo del 2013 e conserva ancora scorte di armi chimiche sono state confermate, pure in questo caso non si segnalano conseguenze.
  L'esercito israeliano una settimana fa ha detto che le scorte di agente nervino ancora in possesso del governo siriano sono stimate tra una e tre tonnellate. Due giorni fa un rapporto dei servizi segreti francesi - che si sono procurati campioni delle armi chimiche usate nella strage di Idlib - è stato reso pubblico dal governo Hollande e ha confermato la responsabilità di Bashar el Assad. Nel rapporto c'è anche un'informazione importante, il gas sarin usato a Idlib contiene una sostanza che è come una firma chimica, in inglese il nome è "hexamine". E' uno degli ingredienti usati per creare il sarin, che di suo è una sostanza altamente instabile e corrosiva e quindi ha bisogno di una componente stabilizzante, come appunto l'hexamine. La stessa sostanza è stata trovata anche in altri attacchi chimici imputati al governo siriano, come quello dell'agosto 2013 a Ghouta che fece millequattrocento morti. Se si va a sfogliare l'inventario delle sostanze chimiche consegnate dal governo siriano nel settembre 2013 per evitare i raid aerei americani ci sono anche ottanta tonnellate della stessa sostanza - in pratica la Siria ammette di usare l'hexamine come stabilizzante per le sue armi chimiche e però nega di avere compiuto stragi chimiche in cui ci sono tracce della stessa hexamine. Il rapporto francese sostiene che il sarin è stato prodotto nel Centro per la ricerca e studi scientifici vicino Damasco, un'installazione che si occupa di tecnologia militare. Anche il governo americano è arrivato alla stessa conclusione e quattro giorni fa ha imposto sanzioni contro tutti i 271 dipendenti che ci lavorano - e di nuovo ha ignorato le giustificazioni bizzarre fornite dai russi, come per esempio il racconto del bombardamento casuale di una fabbrica di sarin in mano ai ribelli. Se assieme a questi rapporti si considera che il pilota che ha sganciato la bomba chimica è stato individuato e che le comunicazioni militari erano tenute sotto sorveglianza, il quadro è sempre più chiaro. L'uso di armi chimiche in guerra da parte del governo siriano è spesso affrontato in modo vago sui media, ma ormai - a dispetto del fatto che Damasco tenta di coprire tutto sotto un ovvio schermo di segretezza - ci sono molte informazioni a disposizione sugli uomini, i posti e le analisi chimiche legati agli attacchi più gravi. Prima o poi i dati finiranno per fare parte di un dossier d'accusa davanti a un tribunale internazionale.
  Nella notte tra mercoledì e giovedì c'è stato un nuovo, ennesimo raid aereo israeliano, questa volta contro l'aeroporto internazionale di Damasco, che è anche uno scalo importante per gli iraniani e le milizie libanesi di Hezbollah alleate di Assad. Il ministro dell'intelligence israeliano, Israel Katz, non ha confermato ma ha detto che l'attacco "è coerente con la politica di Israele: impedire i trasferimenti di armi sofisticate a favore di Hezbollah". Da novembre 2016 questi raid israeliani si sono molto intensificati. A marzo il governo siriano aveva promesso rappresaglie durissime in caso di attacchi israeliani, ma come fu per la promessa di consegnare le armi chimiche, anche questa finora è stata a vuoto. Ieri sera un missile Patriot israeliano ha colpito un drone siriano che aveva sconfinato sulle alture del Golan.

(Il Foglio, 28 aprile 2017)


Scienziati israeliani sviluppano test del sangue per il cancro al polmone

 
Scienziati israeliani sviluppano test del sangue per il cancro al polmone. Il nuovo test, sviluppato da scienziati israeliani della Nucleix, è in grado di diagnosticare la malattia molto prima che si diffonda nel corpo, aumentando così le possibilità di sopravvivenza.
Ogni anno, sono circa 1,8 milioni i nuovi pazienti affetti da cancro al polmone alcuni dei quali muoiono ad un anno dalla diagnosi. La maggior parte delle volte il cancro viene scoperto casualmente, dopo un test di screening, oppure a causa di sintomi anormali come una tosse prolungata, sangue, difficoltà respiratorie o perdita di peso.
La diagnosi della malattia avviene di solito tramite una TAC, ma il suo livello di accuratezza non è elevato, e nel 25 per cento dei casi, la scintigrafia polmonare mostra lesioni di cui solo il 3% sono davvero cancerose.
Il nuovo test è stato sviluppato dal Dott. Elon Ganor, CEO di Nucleix, in collaborazione con il Dott. Danny Frumkin, il Dott. Adam Wasserstrom e il Dott. Ofer Shapira. Il test si basa sulla caratterizzazione genetica del cancro.
La citosina è una delle quattro basi principali che si trovano nel DNA ed è tenuta insieme da tre atomi di idrogeno.
Uno studio condotto dal Prof. Haim Cedar dell'Università Ebraica di Gerusalemme ha trovato che i legami di idrogeno servono come una sorta di attivazione o disattivazione di diversi geni che hanno un effetto decisivo sulla suscettibilità al cancro e ad altre malattie. Quando un certo cambiamento si verifica sulla stessa molecola, inizia una divisione selvaggia ed incontrollata della cellula che causa la formazione del tumore.
I ricercatori israeliani sono stati in grado di isolare questo cambiamento e sono riusciti a progettare un esame del sangue innovativo che lo identifica. Per esaminare l'efficacia dello sviluppo, sono stati condotti due studi, coinvolgendo 170 volontari in ogni studio: 70 erano pazienti affetti da cancro al polmone e 100 erano in buona salute, ma appartenevano a gruppi ad alto rischio di cancro al polmone, come ad esempio forti fumatori.
I risultati hanno mostrato una specificità del 94% (vale a dire, il 94% dei soggetti sani sono stati identificati appunto come sani), e una sensibilità del 75% (vale a dire, il 75% dei pazienti sono stati infatti identificati come malati). Si tratta di un livello molto elevato di accuratezza.
I ricercatori prevedono che entro due anni il test sarà commercializzato e indicato per le persone di età superiore ai 50 anni che sono considerati forti fumatori o per quelli esposti a fumo passivo.
Queste le parole del Dott. Eolon Ganor a Ynetnews:
Si tratta di un risultato davvero significativo dopo otto anni di lavoro. Abbiamo sviluppato il test qui in Israele e sogniamo di dare un contributo significativo all'umanità e salvare vite umane. Siamo convinti che questo test potrà davvero salvare centinaia di migliaia di persone ogni anno in tutto il mondo.

(SiliconWadi, 28 aprile 2017)


Droni subacquei ed archeologia marina

COMUNICATO STAMPA
Nel quadro del suo programma volto far conoscere i molteplici aspetti della realtà dello Stato d'Israele, l'Associazione Italia-Israele di Firenze ha promosso per sabato 29 aprile alle ore 17.30, presso Le Murate, un incontro introdotto dal Prof. Benedetto Allotta, ordinario di Meccanica applicata alle macchine, sulle esperienze di ricerca di archeologia subacquea condotte in collaborazione tra l'Università di Firenze e l'Israel Antiquities Autorithy.
Dal 2010 il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell'Università di Firenze (DIEF) ha sviluppato vari droni subacquei nell'ambito di progetti di ricerca nazionali ed internazionali. Nel 2014 un gruppo di ricercatori dell'Università di Firenze ha partecipato ad una missione archeologica di due settimane in Israele svolta in collaborazione con la Israel Antiquities Authority (IAA) e l'University of Rhode Island (URI). E' stato il primo passo di una proficua collaborazione con la IAA e sono in programma nei prossimi due anni campagne nelle acque israeliane tra Caesarea e Akko con l'utilizzo di robot sviluppati dall'Università di Firenze in collaborazione con MDM Team SRL, Spin-Off Accademico UNIFI nell'ambito del progetto ARCHEOSUB cofinanziato dall'Unione Europea. Dal 1985 il tratto di costa è sotto la lente degli archeologi perché vi si trovano i resti di un villaggio neolitico (Atlit Yam) e relitti di tutte le epoche. Recentissimo è il ritrovamento di un ingente quantitativo di monete d'oro nei pressi del porto di Caesarea.
La conferenza illustrerà, anche con l'aiuto di filmati, l'affascinante approccio ai tesori sommersi tramite i droni subacquei, con particolare riferimento alle problematiche dell'archeologia subacquea in Israele.
Invito

(Associazione Italia Israele di Firenze, 28 aprile 2017)


Gran Mediterraneo, una nuova torre verde per Tel Aviv

Giardini e orti verticali per l'avveniristico grattacielo a spirale che rinnoverà lo skyline di Tel Aviv

Gran Mediterraneo - Tel Aviv
Si chiama Gran Mediterraneo il nuovo grattacielo che verrà realizzato a Tel Aviv e che unisce le più moderne tecnologie alla natura. La torre, progettata dall'architetto francese David Tajchman, è ricoperta di facciate vetrate a specchio e calcestruzzo bianco realizzato utilizzando le ultime tecnologie digitali.

 Orti, giardini verticali e una stazione di ricarica per veicoli elettrici
  Gran Mediterraneo sarà destinato agli usi più svariati. Oltre ad ospitare appartamenti, hotel e un parcheggio automatizzato per veicoli elettrici dotato di stazioni di ricarica, prevede anche orti e giardini verticali, spazi ricreativi e addirittura un centro termale.

 Un'icona per la città
  La torre vuole rinnovare lo skyline di Tel Aviv puntando su verticalità e forme avveniristiche.
"Con la sua geometria particolare che gli dà un effetto a spirale- ha dichiarato l'architetto- il grattacielo crea una rottura con l'ambiente urbano che lo circonda, diventando un'icona per la città."

(Casa e Clima, 28 aprile 2017)


Trump in Israele nei giorni della festa per i 50 anni della "riunificazione di Gerusalemme"

Il viaggio del presidente americano il 22 maggio

L'arrivo in Israele del presidente Donald Trump - del cui viaggio nello stato ebraico si è appreso ieri - è previsto per il 22 maggio prossimo. Lo scrivono i media israeliani che citano una fonte ufficiale anonima. Trump - che ripartirà dal paese il giorno dopo - sarà raggiunto, secondo la stessa fonte, dalla figlia Ivanka, dal genero Jared Kushner insieme all'ambasciatore all'Onu Nikki Halevy e il segretario di stato Usa Rex Tillerson.
L'arrivo per quel giorno di Trump in Israele coincide con alcune date importanti per la storia del paese. Il 23 maggio Israele festeggerà i 50 anni della «riunificazione di Gerusalemme» avvenuta con la Guerra dei 6 giorni nel 1967. Inoltre - ha ricordato qualche media - il 1 giugno termina l'effetto dell'ordine presidenziale con il quale l'ex capo della Casa Bianca Barack Obama congelò per sei mesi l'applicazione della legge che impone il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.

(La Stampa, 27 aprile 2017)


L'Anp taglia la corrente ad Hamas

Il Fatah ha annunciato che smetterà di pagare Israele per l'elettricità fornita alla Striscia. L'obiettivo dichiarato sarebbe colpire Hamas.

RAMALLAH - L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha comunicato ad Israele che smetterà da subito di pagare l'elettricità che Israele fornisce alla Striscia di Gaza controllata da Hamas.
La decisione - annunciata al Coordinatore israeliano per i Territori, generale Yoav Mordechai - è stata motivata dal presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) come mossa per combattere Hamas.
Ieri sera il Comitato centrale di Fatah, il partito di Abu Mazen, riunitosi a Ramallah, ha criticato Hamas, secondo i media locali, per non aver accettato l'ultimo tentativo di «raggiungere la necessaria intesa in modo che il Governo possa assumere tutte le sue responsabilità ed esercitare i suoi doveri legali nella Striscia».

(tio.ch, 27 aprile 2017)


Viaggio tra "i cespugli "high-tech delle startup di Israele

L'ispirazione del figlio di Peres, il mondo dietro a un telefonino e un'idea molto ambiziosa

di Daniel Mosseri

 
Chemi Peres
La formula è sconosciuta, benché gli ingredienti non siano né segreti né impossibili da replicare. Il risultato è ancora unico nel suo genere: nel giro di qualche decennio Israele, un paese con poco più di sette milioni di abitanti, è diventato una startup nation, se non startup nation per antonomasia. Nel piccolo stato mediorientale l'innovazione è di casa: automobili senza pilota; occhiali che leggono volti, etichette, giornali e banconote ai non vedenti; nanoparticelle che abbattono l'utilizzo di anticrittogamici in agricoltura; applicazioni smartphone per ridurre gli incidenti stradali o per aiutare tassisti a trovare nuovi clienti. Sono tutti prodotti ai quali lavorano giovani imprenditori e scienziati israeliani uniti per fare impresa.
  Fra i seimila startupper l'età media è piuttosto bassa. Se un italiano di 35 anni spesso non è in condizione di lasciare la casa paterna, questi alle spalle hanno studi di alto livello, almeno tre anni di servizio militare in zone di guerra, come minimo un paio di figli e altrettanti tentativi - più o meno fruttuosi - di fondare aziende innovative. Il confronto con l'Italia è impietoso ed è forse più opportuno paragonare Israele alla Silicon Valley, che però ha alle spalle i 39 milioni di abitanti della California (e i 324 degli Stati Uniti) e non confina con paesi ostili. C'è chi attribuisce proprio al servizio militare il successo di centinaia di aziende israeliane quotate al Nasdaq o rilevate direttamente da parte di giganti esteri - a metà marzo Intel ha incorporato MobilEye (produttore dei sensori per auto driverless) per 15,3 miliardi di dollari. C'è chi plaude alle istituzioni accademiche di alto livello, chi alla presenza di un'infrastruttura di sostegno finanziario che, fra incubatori e venture capitai, favorisce la deposizione e la schiusa di tante uova con la sorpresa dentro.
  E c'è chi come Chemi Peres ha smesso di interrogarsi sui perché e i per come del miracolo tecnologico, dedicandosi più empiricamente a sostenerlo. Terzo figlio di Shimon Peres, classe 1958 e un passato da pilota di jet, Chemi è il cofondatore di Pitango Venture Capital, il primo fondo israeliano VC con oltre 1,8 miliardi di dollari investiti in duecento compagnie locali scaturite dall'intuizione di un accademico, dalle necessità di un addetto della difesa o da quelle di un disabile. Nel riassumere le quattro fasi storiche dell'innovazione in Israele, Chemi Peres ricorda suo padre per il modo in cui usa la gentilezza trattenendo a stento il proprio entusiasmo. "Già nei primi anni dopo la fondazione, è stato necessario innovare per ottenere raccolti da una regione arida, dove il principale fiume, il Giordano, ha più storia che acqua". In quegli anni i tecnici israeliani hanno inventato l'irrigazione a goccia e sviluppato progetti di dissalazione, "cosicché oggi l'acqua non scorre più da nord a sud ma da ovest a est". Poi è arrivata la fase in cui l'innovazione nella difesa ha permesso la deterrenza - e perciò la sopravvivenza - dello stato ebraico. "Sono gli anni di Dimona", spiega riferendosi alla capitale del programma nucleare così fortemente voluto da suo padre, "un progetto avanzatissimo se si pensa alla giovane età dello stato nel quale veniva sviluppato". Questo passaggio hi-tech si è poi rivelato centrale nella fondazione dell'economia odierna.

 L'importazione del mercato
  Un paese circondato da nemici e privo di risorse naturali non avrebbe potuto vivere di agricoltura, "e l'intuizione di Shimon Peres è stato puntare su scienza e tecnologia". Pungolate anche da un settore difesa mai sazio di novità, le università hanno fatto il resto sfornando ingegneri di alta qualità. Mancava però l'accesso al mercato globale, che alla fine è stato importato. "Abbiamo offerto il bene più ricercato: lavoratori qualificati, a basso costo e fedeli. Fedeli perché Israele è un'isola difficile da lasciare". Dal canto loro le grandi corporation in cerca d'innovazione hanno risposto aprendo i propri centri R&D sul suolo israeliano. "Oggi ne abbiamo più di 350", sottolinea Peres. Un po' alla volta gli ingegneri locali hanno fatto proprio il know-how trasferito da grandi aziende come Ibm e Intel: appreso l'abc delle imprese, hanno poi imparato a diventare gli imprenditori di se stessi.
  La fondazione di startup tecnologiche è stato il passo successivo: creare un'azienda per risolvere un problema è diventato un tratto caratteristico della cultura israeliana. Oggi decine di giovani appena usciti dalle università e dalle Israeli Defense Forces (IDF) si lanciano nell'imprenditoria, sostenuti da un canale di finanziamento in grado di irrorare questo ecosistema "con sei miliardi di dollari l'anno, una cifra in crescita costante". Sulla pervasività dello spirito imprenditoriale per una volta gli israeliani si trovano tutti d'accordo.
 
Eran Shir
  La pensa così anche Eran Shir, fondatore di Nexar, un'azienda hi-tech che punta a trasformare ogni smartphone in uno strumento di prevenzione degli incidenti stradali. "A noi non piace rispondere agli ordini", scherza, "e l'unico modo di non obbedire a nessuno è diventare imprenditori". Alla sua terza esperienza da creatore d'impresa, Eran non attribuisce l'esplosione dell'ecosistema startup al ruolo delle forze armate - "quell'impulso è superato da tempo", afferma, "e tuttavia l'innovazione è anche una risposta allo stress" - ma riconosce come queste abbiano contribuito a plasmare la mentalità degli israeliani. "Nelle Idf esistono reparti in cui le menti migliori lavorano tutte insieme: è come essere in una pentola a pressione puntata su obiettivi precisi". Un suo commilitone, ricorda Eran, a soli 21 anni era responsabile di un progetto da 700 milioni di dollari e lui stesso era responsabile di un programma multimilionario per la difesa missilistica. "Eravamo undici ventenni con responsabilità critiche". I legami che si formano sotto le armi, riflette, "danno poi vita a reti che fuori richiederebbero anni per essere costruite. Secondo una mia ricerca i gradi di separazione fra le persone in questo paese sono al massimo 2,6: l'ho calcolato mappando tutte le telefonate fatte in Israele in un anno". Eran racconta anche del suo progetto di collaborazione con una grande compagnia assicuratrice italiana, interessata alla potenzialità di Nexar. "L'applicazione è in grado di ridefinire il profilo dell'autista: ieri era legato al numero degli incidenti; oggi invece siamo in grado di capire chi guida con prudenza, tenendo per esempio la distanza dal veicolo che lo precede". Agli autisti virtuosi individuati da Nexar, l'assicurazione intende offrire uno sconto. Vista da Israele l'Italia non è solo il paese del cibo e dello stile nel vestire bensì, "è il mercato in cui la telematica ha un penetrazione superiore al 10 per cento, la percentuale più alta al mondo". Da noi le black boxes per individuare i veicoli e vedere come si muovono sono già una realtà e non si tratta di una moda ma della risposta a uno dei mercati assicurativi più cari in Europa.

 Un computer che prende decisioni
  Eran non è il solo a credere che il futuro di Israele sia nelle mani dei giovani. Per Benjamin Soffer "in Europa ci sono foreste di grandi aziende secolari e un neo ingegnere, italiano o tedesco, può sperare di essere assunto da una di queste. Da noi queste foreste mancano, ci sono però tanti piccoli cespugli". Soffer è il ceo del Technion Technology Transfer (T3), una struttura del Technion di Haifa- tre premi Nobel per la Chimica fra il 2004 e il 2013- dedicata a "facilitare la trasformazione delle idee innovative in prodotti e aziende di successo sul mercato globale". Se dei giovani brillanti vogliono coltivare un cespuglio, c'è chi come Soffer lavora per portare le loro idee fuori dai laboratori.
  Anche Chemi Peres è convinto che il futuro sia nelle mani dei trentenni. La chiave è la liquefazione digitale e la prova è lo smartphone che abbiamo in tasca. "Ogni telefono è anche un registratore audio e video, una calcolatrice, una torcia, un quotidiano, una rivista, una macchina fotografica e un videogioco: ma non lo è in modo molecolare bensì digitale". Il settore delle comunicazioni è stato uno dei primi a essere "disrupted", ossia travolto e riorganizzato dalla tempesta dell'innovazione. Basti pensare al VoIP, il protocollo per le comunicazioni vocali via internet inventato non a caso in Israele. L'onda digitale non si è fermata e punta adesso verso il settore medicale. Grazie alla digitalizzazione dei dati clinici di tutti gli israeliani una ventina di anni fa, ricercatori e informatici hanno a disposizione un'enorme banca dati nella quale far girare le loro macchine e farle diventare sempre più precise, intelligenti, pensanti. E' quello che ha fatto Mobileye con le sue automobili capaci di destreggiarsi nel traffico da sole ed è quello che fa Ibm dai suoi laboratori di Haifa. Il nostro progetto riguarda il futuro, "insegnare cioè ai computer a imparare in maniera autonoma facendo propri i meccanismi cognitivi", spiega al Foglio il direttore di Ibm Research, Oded Cohn. "Uno dei progetti che sviluppiamo qua è insegnare ai computer a prendere decisioni".
  Domani saranno delle macchine ad aiutarci a scegliere se acquisire quell'azienda, se prendere quel medicinale o se scegliere quella scuola per i nostri figli. Distratti dai nostri telefonini, non ci siamo accorti che il futuro era già arrivato. Per Chemi Peres il cambiamento è epocale e ci stiamo avviando verso un'èra in cui i governi avranno sempre meno potere, mentre i ceo aziendali ne avranno sempre di più. "Perché le soluzioni a problemi come cambiamento climatico e migrazioni non arriveranno dalle istituzioni ma dalla spinta delle imprese per l'innovazione". Nel frattempo la digitalizzazione non si ferma e travolge oggi anche finanza e assicurazioni, altri due settori destinati a essere dominati dai trentenni. "Ogni banca", osserva Peres, "si sta trasformando in un'azienda digitale con il suo cloud e le sue questioni di sicurezza". Pane per i denti dei neo ingegneri e informatici israeliani. "Tutto è ormai hi-tech", conclude, "e chi sa cavalcare meglio l'onda sono i giovani".

(Il Foglio, 27 aprile 2017)


Israele importa seimila cinesi

Accordo fra i due paesi per i muratori

di Ettore Bianchi

Israele e la Cina hanno segnato un accordo per assumere 6 mila muratori cinesi. L'obiettivo è di rispondere alla grande penuria di alloggi che è all'origine della forte crescita dei prezzi immobiliari. L'accordo siglato a Gerusalemme dal ministro della casa dello Stato ebraico, Yoav Galant, e dal vice ministro cinese del commercio, Fu Ziying, era stato negoziato e concluso, a grandi linee, il mese scorso durante la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu in Cina.
L'accordo prevede la clausola, controversa, che nessuno dei 6 mila operai cinesi potrà lavorare nella Cisgiordania occupata, secondo quanto hanno riportato fonti di stampa israeliana riprese da Le Figaro. Oded Revivi, uno dei rappresentati dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati ha deplorato che il governo che lotta contro il boicottaggio di questa regione (la Cisgiordania occupata), dagli Stati stranieri partecipa a questo boicottaggio. Sentito sulla questione, Yoav Galant non ha fornito precisazioni.
La questione abitativa è un tema sensibile in Israele. I prezzi degli immobili non hanno smesso di crescere dal 2008, secondo la banca centrale, incidendo in maniera considerevole sul costo della vita e provocando un'ondata di manifestazioni senza precedenti nel 2011. Migliaia di muratori stranieri, tutti originari dei paesi dell'Europa dell'Est, lavorano già in Israele. Le costruzioni nelle colonie, dove vivono all'incirca 400 mila israeliani, costituiscono il 3% dell'insieme dei nuovi cantieri nel paese.
Israele ha già concluso accordi bilaterali per l'impiego di lavoratori immigrati con la Thailandia e lo Sri Lanka per l'agricoltura, e con la Bulgaria, la Moldavia e la Romania per l'edilizia.

(ItaliaOggi, 27 aprile 2017)


Il filo tragico che lega il genocidio armeno e la Shoah è l'Islampolitik

Ebrei e armeni, due popoli originali e tenaci, due minoranze assolute, costitutive dell'oriente e dell'occidente. Una mostra al memoriale della Shoah a Milano.

di Giuseppe Laras

JUDEN UND ÜBERJUDEN, EBREI E SUPEREBREI
  Questo titolo delirante, antisemita e - come si vedrà - antiarmeno, corrispose alla normalità della politica, della cultura e dell'informazione tedesca dagli anni Novanta del XIX secolo sino al nazismo. Ciò basti per comprendere l'importanza e la preziosità della grande mostra sul Genocidio Armeno, il Metz Yeghern, che oggi si inaugura al Memoriale della Shoah di Milano.
   L'Islampolitik - economica, strategica e culturale - del Kaiser Guglielmo II normalizzò la stampa in chiave antiarmena e filoturca, adottando argomenti e stereotipi antisemiti contro questo antico popolo cristiano. Una delle poche eccezioni fu il Frankfurter Zeitung, quotidiano fondato da due ebrei tedeschi - L. Sonneman e H.B. Rosenthal - schieratosi in difesa degli armeni.
   Nel 1913 - dopo i massacri degli armeni di Adana (1909) - l'ambasciatore tedesco Wangenheim, sostenne che quella dell'alleato turco era "la naturale reazione al sistema parassitario dell'economia armena. E' noto che gli armeni sono gli elmi di oriente". E ancora: "Le attività economiche, che altrove sono portate avanti dagli ebrei, ossia la spoliazione dei poveri, sono qui condotte esclusivamente dagli armeni. Nemmeno gli ebrei sefarditi ivi residenti possono competere con loro". Gli armeni, in pratica, erano peggiori persino di noi ebrei: si trattava di überjuden, "superebrei"!
   L'Islampolitik si saldò con i provvedimenti omicidi del "sultano rosso", il famigerato Sultano-Califfo Abdul Hamid II (1894-1896). Si ripropose poi, con silenzi, connivenze e collaborazioni con i Giovani Turchi nel corso del Genocidio Armeno. Ebbe, infine, un'ulteriore oscena riedizione con la sinergia tra Mussolini, Hitler e i vari movimenti jihadisti, che da allora saldarono all'islam politico innumerevoli elementi nazifascisti, divenuti pandemici sino a oggi.
   Lewis Einstein, diplomatico ebreo dell'ambasciata Usa a Istanbul, nel 1917 scrisse da testimone oculare: "In questa guerra di orrori, l'annientamento degli armeni deve rimanere l'orrore supremo. Niente ha eguagliato la distruzione pianificata di un popolo, né i burocrati tedeschi possono facilmente sfuggire alla loro terribile parte di responsabilità per la loro acquiescenza in questo crimine". Una testimonianza giunge anche dai fratelli Aaronsohn, fieri sionisti, residenti all'epoca dei fatti in Eretz Israel. Aaron Aaronsohn, insigne agronomo e fondatore della rete di spionaggio NILI a favore degli Alleati dell'Intesa, così si espresse nel suo Memorandum (1916): "Centinaia di corpi di uomini, donne e bambini su entrambi i lati della ferrovia e cani che si cibavano di questi cadaveri umani". E ancora: "Il popolo armeno, una delle componenti più parche e più industriose dell'impero turco, se non addirittura la più parca e la più industriosa - e, badate bene, è un ebreo a dare questa patente - è ora un popolo di mendicanti affamati e calpestati. L'integrità delle vite familiari è andata distrutta, i suoi uomini sono stati uccisi, i suoi bambini, maschi e femmine, fatti schiavi nelle case private dei turchi, per compiacere vizi e depravazioni, questo è diventato il popolo armeno in Turchia". Concluse: "I massacri armeni sono frutto dell'azione pianificata con cura dai turchi, e i tedeschi certamente dovranno condividere per sempre con loro l'infamia di questa azione".
   Ebrei e armeni, due popoli originali e tenaci, esigui quanto a numeri; due minoranze assolute, costitutive sia dell'oriente sia dell'occidente, a cavallo di entrambi i mondi. Una miscela sufficiente per risultare incomprensibili e persino alieni ai più, con antiche, reiterate e violente accuse di "doppia fedeltà" o di tradimento. Questa la sorte, spesso simile, di entrambi.
   Nei secoli, armeni ed ebrei hanno egualmente sperimentato, pur da diverse prospettive, la perdita della sovranità nazionale; l'asservimento ad altre potenze e culture; la dhimmitudine; la diaspora; delazioni, massacri, deportazioni ferroviarie, marce della morte e l'annientamento genocidario; la rinascita culturale e politica della propria Nazione sopravvissuta; due diversi negazionismi. In entrambi i popoli la moderna rinascenza culturale è stata preceduta, sollecitata e accompagnata dal risorgimento linguistico e letterario, rispettivamente dell'ebraico e dell'armeno.
   Nell'imperversare del Metz Yeghern degli ebrei salvarono degli armeni; nel corso della Shoah degli armeni salvarono degli ebrei. Non è quindi un caso che l'inventore del lemma "genocidio", il grande pensatore e giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, lungamente abbia meditato anzitutto proprio sulla tragedia sofferta dagli armeni. Henry Morgenthau, in particolare, ebreo e ambasciatore americano presso la Sublime Porta, fu il promotore della prima operazione umanitaria del XX secolo, la Near EastRelief, che con un'enorme raccolta fondi - ammontante nel 1922 attorno ai 226 milioni di dollari- salvò le vite di molti armeni, soprattutto bambini (i bambini salvati tra il 1915 e il 1930 furono circa 132 mila, di cui sessantamila armeni).
   La passione genocidaria tedesca portò a tre genocidi nel corso del XX secolo: quello africano, in Namibia, degli Herero e dei N ama (1904-1907); il Metz Yeghern (1915- 1922) e la Shoah (1939-1945). Negli ultimi due casi, l'islam fu purtroppo ampiamente e attivamente coinvolto. L'istituto della dhimma, con i suoi squilibri e instabilità, le sue contraddizioni e la sua crudele subordinazione, servì a sostenere e giustificare, tra gli altri, i Massacri Hamidiani prima e il Genocidio Armeno poi.
   A parte il grande Johannes Lepsius - teologo protestante testimone del genocidio, che lottò strenuamente per gli armeni, difendendoli - e pochi altri, la chiesa luterana tedesca sposò la causa del Kaiser, come precedentemente - nel corso del genocidio degli Herero e dei Nama - poco ebbe a obiettare e come, successivamente, trovò ampie sue frange sostenitrici del nazismo.
   Non è un caso che nel 1933 lo scrittore ebreo Franz Werfel, amico di Kafka, abbia scritto il suo libro di maggior successo, I Quaranta Giorni del Mussa Dagh, tributo imperituro al genocidio patito dagli armeni, i cui bambini orfani vide in medio oriente. L'opera di Werfel divenne fuorilegge in Germania nel 1934. Per comprendere il ruolo "iconico" che il Genocidio Armeno ebbe per i nazisti, va evidenziato che per le SS SchwarzeKorps il libro fu il frutto indigesto dell'"ebraismo armeno degli Stati Uniti"!
   La Germania guglielmina fu il paese culturalmente più vivace dell'occidente, cosicché per ben tre occasioni il genocidio si è accompagnato alla modernità e alla civiltà raffinata. Quella tedesca fu una cultura filosofica e musicale; nelle facoltà tedesche filosofia e teologia, da secoli, si alimentavano vicendevolmente. Una metastasi letale e omicida è dunque latente nel pensiero filosofico, politico e teologico che da Lutero, passando per gli Idealisti, arrivò a Friedrich Naumann - tra i padri della Repubblica di Weimar -, Adolf Von Harnack, Carl Schmitt e Martin Heidegger.
   Fu così - tra acquiescenze germaniche, aguzzini turchi e curdi e, non da ultimo, jihad - che 1.500.000 armeni furono perseguitati e trucidati, assieme a centinaia di migliaia di vite di cristiani assiri, di greci del Ponto e di altre confessioni cristiane orientali minoritarie. Terribili furono le sofferenze patite dalle donne e dai bambini armeni, con riduzioni in schiavitù e compravendita di esseri umani nei mercati, islamizzazioni forzate, sevizie e persino crocifissioni.
   Si sarà compreso che Genocidio Armeno e Shoah sono inquietantemente collegati a doppio filo. Né il Metz Yeghern né la Shoah si prestano in alcun modo a ermeneutiche generalizzanti - e quindi dissolventi - ma richiedono sorvegliata serietà. Qualsiasi indebita generalizzazione falsa la storia e il pensiero. Per non perderne la comprensione e l'unicità, bisogna considerarli connessi, come avvenne.
   Ci sono alcuni fatti atroci occorsi ad armeni ed ebrei che equivalgono ad altrettante tremende rivelazioni sull'umanità dell'essere umano, che può scegliere di essere demone e facilmente educare altri in tal senso.
   Vi è tuttavia un fatto positivo, enorme per la forza della sua testimonianza, mai sufficientemente assunto, ricordato e portato a pensiero, talora persino oscurato: il popolo Armeno e il popolo di Israele non hanno smarrito, pur provata, piagata e scossa, la loro fede nel Signore Dio.

(Il Foglio, 27 aprile 2017)


Nuove minacce al console di Israele

Luigi De Santis ha ricevuto a casa un bigliello con una croce. Indaga la Digos

 
Luigi De Santis, unico console onorario di Israele in Italia
BARI - Un biglietto anonimo con una croce e la scritta in inglese «un ebreo anche qui». E' l'ennesimo atto intimidatorio che il console onorario di Israele a Bari, Luigi De Santis, denuncia alle forze dell'ordine. Nei giorni scorsi, il console ha trovato questo bigliettino nella cassetta postale della sua abitazione. «Un biglietto analogo - racconta - fu trovato nella mia precedente abitazione. E questo è un fatto inquietante, perché significa che chi li manda sa dove abito e anche che ho cambiato casa». Alla questura sono stati segnalati altri episodi dello stesso tenore che il console onorario De Santis ha subito: in particolare minacce e il danneggiamento della propria vettura. De Santis è l'unico console onorario d'Israele in Italia. Un ruolo che evidentemente lo espone particolarmente sul piano della sicurezza anche in considerazione dell'intensa attività con cui interpreta l'incarico. Solo poche settimane fa, De Santis, che è anche presidente dei giovani dell' Ance Bari e Bat, ha promosso un viaggio in Israele. All'iniziativa hanno preso parte circa 40 imprenditori di Confindustria provenienti da tutta Italia, soprattutto costruttori. L'obiettivo era quello di organizzare incontri istituzionali finalizzati a conoscere il sistema imprenditoriale israeliano, studiare modelli innovativi di bioedilizia e cogliere opportunità di business. E' possibile che proprio l'attivismo del console nel promuovere i rapporti tra la Puglia e lo stato che rappresenta sia finito nel mirino di qualche gruppo, o singolo, che considera Israele un obiettivo. Sul nuovo biglietto di minacce sta indagando la Digos di Bari.

(Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2017)


Ong contro Israele. "Come negli anni 30"

E' finanziata dalla Ue e accusa Israele di avvelenare i pozzi dei palestinesi. La ong della crisi Gerusalemme-Berlino.

di Giulio Meotti

ROMA. Una delle peggiori crisi diplomatiche fra Israele e Germania si sta consumando attorno a una ong, Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è rifiutato di incontrare il ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, in visita in Israele, dopo che il vicecancelliere aveva deciso di far visita alle ong B'Tselem e Breaking the Silence, nonostante la richiesta di Netanyahu di non farlo. Lo scorso febbraio, anche il premier belga Charles Michel aveva incontrato Breaking the Silence, dopo averla lautamente finanziata. "La mia politica è chiara: non incontrare diplomatici che visitano Israele e visitano organizzazioni che cercano di perseguire i nostri soldati come criminali di guerra", ha detto Netanyahu. "I nostri soldati sono la base della nostra esistenza". Nel 2012 lo stesso Gabriel disse di Israele: "Questo è un regime da apartheid", e la cancelliera Angela Merkel definì il commento "vergognoso".
   "Sono orgoglioso da israeliano che il mio paese possa sostenere le critiche di queste ong e sono contrario a Netanyahu", dice al Foglio Dror Ben Yemini, giornalista di punta di Yedioth Ahronoth. "Ma non penso che un ministro italiano andrebbe a Londra a incontrare ong che considerano i soldati inglesi 'criminali di guerra'. Queste ong sono parte della campagna di demonizzazione. C'è un doppio standard. Perché i governi europei finanziano ong contrarie alla stessa esistenza dello stato ebraico?". Già, perché? "Lo chieda a Gabriel. E' uno scandalo. Non c'entra niente l'occupazione, parliamo di organizzazioni che lottano per distruggere Israele. Queste ong sono finanziate dai governi europei, vanno nei parlamenti, nelle università, nei media, e influenzano profondamente la vostra opinione pubblica in Europa. Negli anni Trenta la demonizzazione era contro gli ebrei. Oggi è contro lo stato ebraico".
   Sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei più influenti in Germania, il giornalista Majid Sattar ha scritto: "I rappresentanti del governo tedesco durante le loro visite in Russia, in Cina e in Arabia Saudita attribuiscono sempre molta importanza agli incontri con i rappresentanti della società civile". La Faz mette dunque Israele sullo stesso piano di regimi autocratici e totalitari i cui governi reprimono la propria popolazione. Non risulta che i ministri tedeschi incontrino ong nelle visite di stato in paesi democratici come Svezia o Paesi Bassi.
   Non è un caso che il ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, incontri la ong Breaking the Silence (Shovrim Shtika, in ebraico). Il governo tedesco, infatti, la finanzia lautamente. Secondo Ngo Monitor, i governi europei coprono il 65 per cento dei fondi di questa ong che sostiene il boicottaggio di Israele. L'Unione europea, in aggiunta, per il biennio 2015-2017 ha dato altri 236 mila euro alla ong, Breaking the Silence gode dell'appoggio della bella gente. Richard Gere ha appena visitato Hebron accompagnato da attivisti di questa ong e il divo del cinema ha detto che "è esattamente come il vecchio Sud in America, quando i neri sapevano bene dove non potevano andare se non volevano avere la testa rotta o essere linciati". E' sempre Breaking the Silence ad aver organizzato il tour nei Territori del premio Pulitzer Michael Chabon, del premio Nobel Mario Vargas Llosa e di Dave Eggers, che firmeranno un libro contro Israele per i cinquant'anni della guerra dei Sei giorni, a giugno. In Svizzera, paese che finanzia molto la ong, Breaking the Silence ha organizzato una mostra fotografica contro l'esercito israeliano, facendolo apparire come una banda di assassini. Breaking the Silence ha avallato innumerevoli bugie contro Israele. Tanto da spingere il giornale di sinistra Haaretz a scrivere:
   "Breaking the Silence ha un programma politico chiaro e non può più essere classificata come 'organizzazione per i diritti umani"'.
   La più famosa bugia è quella di Yehuda Shaul, il capo della ong, che parlando di un villaggio della Cisgiordania ha affermato: "E' interessante il fatto che i residenti vi siano tornati, perché qualche anno fa i coloni avvelenarono tutto il sistema di approvvigionamento d'acqua del villaggio".
   Come è una bugia quella di Avner Gavriyahu, l'altro leader della ong, il quale sostiene che le Forze di Difesa israeliane sparano a palestinesi innocenti come se stessero giocando a un videogioco. Ma le menzogne di Breaking the silence hanno fatto il giro del mondo. Abu Mazen, leader dell'Autorità palestinese, ha raccolto una standing ovation al Parlamento europeo dopo aver detto che Israele avvelena i pozzi. La stessa storia antisemita è finita su Anadolu, l'agenzia di stampa turca.
   Il rapporto dell'Onu sulla guerra di Gaza del 2014 fa ampio uso di quelli di Breaking the silence. Il leader di B'Tselem, Hagai ElAd, ha di recente testimoniato contro Israele alle Nazioni Unite durante la risoluzione che per la prima volta ha condannato Israele. Breaking the Silence dopo la guerra di Gaza del 2009 ha sostenuto gli sforzi per perseguire i funzionari e i soldati israeliani. E' emerso anche che diversi finanziatori della ong hanno condizionato le loro donazioni a un certo numero di "testimonianze" contro l'esercito israeliano. Ad esempio, un documento ottenuto da Ngo Monitor mostra richieste simili dall'ambasciata britannica a Te! Aviv, dall'organizzazione olandese Icco (finanziata dall'Aia) e da Oxfam (finanziata dal governo britannico).
   A Basilea, in Svizzera, e a Strasburgo, in Francia, durante il Medioevo si bruciavano vivi gli ebrei accusati di avvelenare i pozzi. Oggi la stessa menzogna rimpalla in quelle stesse città grazie ad alcune ong. E' questo il vero e unico "silenzio" da rompere.

(Il Foglio, 27 aprile 2017)


Esplosioni all'aeroporto di Damasco, forse raid di Israele

I depositi di carburante sono esplosi all'alba all'aeroporto internazionale di Damasco

di Giordano Stabile

BEIRUT - Alcuni depositi di carburante sono esplosi all'alba all'aeroporto internazionale di Damasco. Secondo fonti locali sarebbero stati colpiti in un raid dell'aviazione israeliana. Israele non ha per ora confermato l'attacco. Di solito le sue forze armate si limitano a un no comment in questi casi.
I cacciabombardieri con la stella di David hanno colpito più volte convogli e postazioni dell'Hezbollah libanese vicino all'aeroporto e sulla superstrada che collega la capitale siriana al Libano. Il 17 marzo però la difesa antiaerea di Damasco ha reagito e alcuni missili del sistema S-200 sono arrivati fin nello spazio aereo israeliano, uno è stato abbattuto a sua volta dall'Arrow-3 israeliano.

 Enorme incendio
  Anche l'Osservatorio siriano per i diritti umani, vicino all'opposizione, ha confermato l'esplosione, che ha causato "un enorme incendio". Immagini delle fiamme altissime sono state postate su siti libanesi filo-Assad, come il quotidiano online Al-Masdar.

(La Stampa, 27 aprile 2017)


Quando Gramsci si schierò con gli ebrei

Gli 80 anni dalla morte del pensatore. Le lettere cruciali con Tania Schucht e Sraffa scaturite dal film "Due mondi", ora ritrovato.

di Alberto Cavaglion

"Due mondI" è un film uscito nella sale italiane nel 1931. Racconta la storia di un amore impossibile. L'autore, l'ebreo tedesco Ewald André Dupont, è un regista famoso. Il film è ambientato durante la prima guerra mondiale in una cittadina occupata dagli austriaci, poi dai russi. Durante la Pasqua si accendono scontri nel quartiere ebraico: tra le vittime c'è Nathan, figlio di un orologiaio. Stanislaus, un tenente mandato a ripristinare l'ordine, salva da uno stupro Esther, sorella di Nathan. Quando i russi riconquistano il paese, il tenente ferito è salvato dalla ragazza, che convince il padre a nasconderlo nel ghetto. I due giovani si innamorano, ma i rispettivi genitori si alleano per impedire il matrimonio.
   Tatiana (Tania) Schucht, sorella maggiore di Giulia, moglie di Antonio Gramsci, vede il film e si riconosce nella protagonista, uscendone sconvolta. Riemergono le memorie dell'odio antiebraico sperimentato nell'infanzia. A Gramsci, detenuto in carcere, scrive di essere convinta che l'antisemitismo sia eterno: nessun dialogo fra "i due mondi" le
sembra possibile. Gramsci reagisce con durezza, chiamandosi fuori da ogni distinzione, in nome delle sue origini: "Al contrario dei cosacchi, i sardi non distinguono gli ebrei dagli altri uomini".
   Tania si rivolge per un parere dirimente a Piero Sraffa, antifascista, emigrato a Londra. Sraffa ne approfitta per dire un'altra cosa, di cui Gramsci in carcere non può essersi accorto e cioè la tragedia in cui gli ebrei si stanno avviando nel momento in cui massimo è il loro consenso al regime dopo la legge sui culti ammessi del 1931.Ne scaturisce uno dei triangoli epistolari più rilevanti della cultura italiana del Novecento. Stupisce che gli studiosi di questa corrispondenza non abbiano sentito il bisogno di cercare e, soprattutto, vedere "Due mondi". Un film dimenticato. Abbiamo trovato una copia presso la Cineteca NazionaleCentro Sperimentale di Cinematografia in Roma. La versione italiana - altra scoperta importante - fu adattata per il nostro pubblico da un critico letterario assiduo frequentatore delle sale cinematografiche, Giacomo Debenedetti, che lavorava alla Cines. Lo stesso Debenedetti scrisse con ammirazione di questo film, subito dopo la stesura di "Svevo e Schrnitz", ebraicamente il saggio suo più controverso.
   Al suo arrivo a Torino Gramsci aveva abitato in piazza Carlina, cuore del vecchio ghetto cittadino. Forse per questa vicinanza nei "Quaderni del carcere" troviamo pagine assai importanti dedicate alla storia degli ebrei d'Italia nel Risorgimento. Dialogando a distanza con Piero Sraffa, ma anche con Arnaldo Momigliano e Cecil Roth, Gramsci rifletterà sul processo "parallelo" che nell'Ottocento aveva reso liberi cittadini della Nuova Italia tanto gli ebrei quanto i sardi, i napoletani, i toscani, i veneti. Di qui, secondo lui, la natura più lieve dell'antisemitismo, rispetto a quello osservato a Vienna o a Mosca. La odierna riscoperta di "Due mondi" aiuterà a riconsiderare pagine assai importanti dei "Quaderni" che non sono invecchiate e più in generale servirà a considerare sotto nuova luce il rapporto fra Gramsci e la questione ebraica, troppo in fretta archiviato dagli storici.

(Il Secolo XIX, 27 aprile 2017)



Parashà della settimana: Tazrià-Metzorà (Partorirà-Lebbroso)

Levitico 12:1-13:59, 14:1-15:33

 - Impurità (tumà) e purità (tahorà) sono gli argomenti centrali di queste due parashot gemelle, che riguardano la situazione di una donna fecondata (tazrià) che diviene impura dopo il parto e quella di una persona colpita dalla lebbra (metzorà) che diviene impura a causa della malattia.
Nel midrash rabbà citato da Rashì, è scritto che rabbi Shalmai sostiene che nel quinto giorno vengono creati gli animali puri e impuri e nel sesto giorno l'uomo. Quale è la differenza? Mentre l'animale resta stabilito nel suo stato naturale, l'uomo pur nascendo puro, può diventare impuro. Difatti dopo il peccato nel giardino dell'Eden la sua purità (bene) si mescola all'impurità (male). E' il comportamento che può far salire l'uomo (purità) oppure farlo scendere (impurità). Le fonti di questa sono il contatto con un cadavere, il ciclo mestruale delle donne, durante il quale sono vietati i rapporti, il parto e alcune malattie. Difatti una donna che ha partorito un bambino sarà impura per sette giorni come una donna che ha il ciclo mestruale (nidà) e solo all'ottavo giorno circonciderà il bambino. Nel dare una vita la donna prende una forma di impurità.
Per la nostra mente "moderna" questi argomenti possono apparire enigmatici e antiquati, ma bisogna domandarsi: "Come mai nel mezzo dell'impurità dovuta al parto, giunge la mitzvà della circoncisione? "All'ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bambino" (Lev. 12.2). E' stato già detto che il numero sette corrisponde alla natura-materia mentre il numero otto rappresenta la dimensione del soprannaturale, la spiritualità. La circoncisione dunque va intesa come riparazione dell'impurità dovuta al parto e insegnamento per l'uomo che la sua potenza virile deve essere moderata e santificata. La vita umana che emerge dal grembo materno porta impurità ma anche purità attraverso l'osservanza dei comandamenti ordinati da D-o (brit milà). Il messaggio della Torah è chiaro: il mondo creato è incompleto e spetta all'uomo aggiustarlo, mediante le sue opere e le sue preghiere per l'avvento del regno di D-o sulla terra (tempi messianici).

La malattia della lebbra detta "metzorà" che Rashì ha interpretato (mozì shem rà) cioè che fa uscire un nome cattivo altro non è che la "maldicenza". I nostri Saggi hanno affermato che "la vita e la morte sono nelle mani della lingua". La lebbra è una malattia che colpisce la pelle mediante la presenza di ulcere cutanee e alterazioni del suo colore. "Se un uomo avrà sulla pelle del suo corpo una protuberanza (se'et) o una scaglia (sappahat) o una macchia (baheret) questo sarà il male della zara'at" (Lev.13.2).
Il colpito dalla lebbra verrà condotto dal sacerdote Aronne che dopo averlo visitato lo dichiarerà "impuro". Il lebbroso a differenza di altre forme di malattia viene allontanato dalla Comunità e messo in uno stato di isolamento fino al giorno della sua guarigione. Perché questo? Può sembrare una terribile punizione per un malato, ma i nostri Maestri hanno fatto osservare che giacché ha "sparlato" del suo prossimo egli stesso si è allontanato dalla Comunità. La maldicenza verso gli altri è il peccato più grave che si possa commettere perché chiude le porte della Teshuvà al peccatore, impedendo a questo la riparazione delle proprie colpe. La maldicenza infine non colpisce solo il peccatore ma anche la vittima, che dovrà trovare la forza per non soccombere moralmente e socialmente davanti a menzogne devastanti. E' una delle conseguenze più terribili, come è accaduto al popolo ebraico a causa della maldicenza sulla Terra d'Israele fatta dagli esploratori. "Essi parlarono male del Paese che avevano appena esplorato" (Num.13.32).
Questo peccato è costato a Israele due distruzioni del Tempio, quattro esili e altre sofferenze che la Torah rivela per allusioni. Bisogna, per concludere, domandarsi chi sono oggi gli esploratori che "sparlano" sulla Terra d'Israele. Sono gli ebrei dell'esilio, assimilati ai costumi delle popolazioni in cui vivono, incapaci di concepire un giudaismo legato alla Nazione ebraica e soprattutto incapaci di scorgere il disegno salvifico di D-o Benedetto nella storia d'Israele. F.C.

*

 - "Questa è la legge ... per insegnare quando una cosa è impura (tamè, טמא) e quando è pura (tahor, טהור) (Lev. 14:54,57).
La distinzione puro-impuro è fondamentale nella storia del popolo ebraico, non in origine, ma da un certo momento in poi. Sono impuri certi animali; è impura una donna quando ha le mestruazioni e dopo un parto; è impuro un uomo quando ha certe malattie della pelle, tra cui la lebbra ma non solo; è impura una casa quando compaiono certe muffe; è impuro un uomo quando ha la gonorrea; sono impuri fino alla sera un uomo e una donna che hanno avuto rapporti sessuali, anche nel matrimonio.
Qualcuno vorrebbe attualizzare e osservare alcune di queste norme, scelte tra le altre in modo abbastanza arbitrario, ma in ogni caso trasgredendole, perché come avviene in una legislazione civile, i cittadini non possono decidere quali norme vogliono osservare e quali no. Resta il fatto che questo complesso legislativo non è assolutamente compatibile col nostro modo occidentale di pensare. Si pensi per esempio al lebbroso, che una volta riconosciuto come tale deve andare in giro a capo scoperto, con la barba coperta, con le vesti strappate, e gridare: "Impuro! Impuro!" affinché nessuno si avvicini e lo tocchi.
Con questo non si vuole affatto dire che il nostro attuale modo di pensare è quello giusto, ma che la valutazione di passaggi come questo richiede dal lettore una scelta interpretativa di fondo. I non ebrei sono costretti a dire qualcosa sul popolo a cui appartengono queste norme; gli ebrei sono costretti a dire qualcosa sul Dio che ha dato loro questi ordini.

Osservazioni preliminari
Si noti anzitutto che in queste disposizioni si indica ogni volta un male, ma non si dicono i rimedi per toglierlo. Non si dice, per esempio, che cosa si deve fare per la guarigione del lebbroso; il sacerdote non assomiglia affatto a un medico, ma piuttosto a un ufficiale sanitario: il suo compito è di stabilire se la lebbra c'è o non c'è; e nel caso ci sia stata ma il lebbroso ne sia guarito, procedere alle prescritte pratiche di purificazione al fine di consentire al "paziente" di essere reintegrato nella vita della società. La guarigione viene dall'Eterno, come la malattia; nello spirito del testo, quando si è davanti a un male, l'importante è conoscere quello che ne pensa il Signore, non quello che pensiamo di fare noi per toglierlo.
Il motivo di queste norme è chiaramente detto:
"Così terrete lontani i figli d'Israele da ciò che potrebbe contaminarli, affinché non muoiano a causa della loro impurità, qualora contaminassero il mio tabernacolo che è in mezzo a loro" (Lev. 15:31).
Ecco dunque il motivo vero delle rigide norme di purità: non la salute, ma la purezza del Tabernacolo di Dio presente in mezzo al popolo. Il privilegio unico di cui può vantarsi il popolo eletto nel periodo storico che qui stiamo trattando è proprio questo: Dio abita in mezzo a noi. Se questo non si accetta, tutto il resto non ha senso e può essere lasciato cadere senza esitazione. E' la presenza del Tabernacolo in mezzo al popolo che richiede le norme sulla purità.
Ma ora che il Tabernacolo non c'è più, che senso hanno quelle norme? La domanda è seria e sta al centro della riflessione sul popolo ebraico e sulla sua relazione con il messaggio dei Vangeli. E' nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) che si deve cercare la risposta. Qualcuno dirà che dalla Bibbia sono state tratte tante risposte, anche diversissime fra di loro, e che molte sono sbagliate. E' vero, ma le altre sono tutte sbagliate.

Osservazioni testuali
1. La problematica puro-impuro è del tutto assente nella stesura dell'originario patto del Sinai (Esodo, capp. 19-31). In tutto il libro dell'Esodo il termine "puro" (tahor) è usato soltanto per oggetti (candelabro, ghirlande, sonagli, olio, incenso, ecc.), e il termine "impuro" (tamè) non compare affatto; la prima volta che si trova nella Bibbia è in Levitico 5:2, in relazione all'impurità provocata dal contatto con un morto.
2. Tutte le impurità elencate sono manifestazioni della morte entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale: "... per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Romani 5:12). Il sangue legato alla nascita (mestruazioni, parto), segnala il fatto che con la nascita viene al mondo un uomo peccatore condannato a morire, cosa che non è affatto "naturale", ma tragica conseguenza di una situazione di conflitto tra Creatore e creatura. Malattie e deterioramenti delle cose sono espressioni di corruzione che prelude alla morte, conseguenza del giudizio di Dio: "Nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Gen. 2:17).
3. Dal capitolo 4 della Genesi in poi, Dio rivela ed esegue un piano di redenzione del mondo che ha deciso di attuare per liberarlo dalla situazione di morte in cui è caduto a motivo del peccato e da cui in nessun modo può risollevarsi da solo.
4. Come strumento del suo piano di redenzione, Dio ha scelto un popolo: Israele. La proposta originaria fatta dal Signore al Sinai attraverso Mosè offriva al popolo la possibilità di essere uno strumento santo, protetto da certe forme di contaminazione con la realtà di morte in cui era immerso, in vista di una redenzione che sarebbe avvenuta in seguito attraverso il "germoglio" (Isaia 4:2, Geremia 33:15)) che sorge dall'arido suolo della terra d'Israele (Isaia 53:2).
5. Con la rottura del patto provocato dall'adorazione del vitello d'oro, l'obiettivo del programma è rimasto invariato, ma sono cambiati forma e tempi del suo svolgimento. Il popolo ora ha bisogno di severi divieti per impedire che l'impurità del mondo contamini il popolo, e di precise norme di purificazione per i casi in cui la contaminazione è avvenuta.
Va detto infine che tutto questo fa parte della storia di un preciso popolo, a cui è stata data una precisa legislazione in un preciso periodo di tempo, al fine di conseguire un preciso obiettivo di Dio per il compimento del suo piano di redenzione del mondo.
Se questo non è vero, non vale la pena di prendere in considerazione quelle antiche e strane norme che si fa fatica a capire e sono impossibili da attualizzare, cercandone goffamente valori universali e atemporali .
Ma se questo è vero, qual è l'obiettivo che volevano ottenere? L'hanno ottenuto? Valgono ancora? Sono state aggiornate? Sono state abolite? Domande fondamentali, a cui non si può rispondere qui in poche righe.

Spunto di riflessione
Non sarà sfuggita la stranezza delle pratiche di purificazione. Nel caso del lebbroso guarito, il sacerdote deve prendere due uccelli: uno viene sgozzato e il suo sangue cade su acqua viva contenuta in un vaso di terra; poi s'immerge l'uccello vivo nell'acqua in cui è caduto il sangue; poi con quest'acqua si asperge sette volte l'ex lebbroso; infine si lascia andare libero nei campi l'uccello vivo (Lev. 14:1-7). "Norme cerimoniali", dirà qualcuno, pensando di aver spiegato tutto. Non esistono norme "cerimoniali" in Israele, ma precisi ordini di Dio che alludono a una realtà passata, modificano una realtà presente e annunciano una realtà futura. In questo caso, la realtà futura allusivamente annunciata è grandiosa: la resurrezione dai morti. Un uccello muore come conseguenza del male entrato nel mondo; un altro uccello ottiene vita e libertà dopo il contatto col sangue dell'uccello ucciso.
La risurrezione dai morti è un elemento caratteristico e ricorrente nella storia del popolo eletto; è una realtà che qui è adombrata allusivamente, ma che in seguito sarà espressa in modo chiaro dai profeti (Isaia 53) e alla fine sarà realizzata con la venuta del Messia. Con la sua morte, Gesù ha pagato il debito con Dio di Israele e del mondo; e con la sua risurrezione ha portato a Israele e al mondo vita e libertà. Non tutto è già pienamente avvenuto, ma certamente un giorno avverrà.
Di tutto questo parlano i Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento. Come fanno gli ebrei a dire che la cosa non li riguarda? M.C.

  (Notizie su Israele, 27 aprile 2017)


Anche la Svizzera è filopalestinese? Dichiazioni choc del Ministro degli Esteri elvetico

di Roberto Zadik

Nota per la sua neutralità e imparzialità, oltre che per igiene, puntualità e precisione, la Svizzera sembra essersi tristemente omologata all'ondata europea antisraeliana. Infatti secondo l'autorevole "Jerusalem Post", il Ministro degli Esteri Didier Burkhalter avrebbe recentemente incontrato alcuni membri di Hamas.
   Ovviamente, l'iniziativa è stata accolta da un coro di polemiche. Stando a quanto afferma il giornale svizzero Blick, Burkhalter avrebbe avviato la proposta di un "dialogo con Hamas" trasformando questa temibile organizzazione terroristica e violenta in un normale interlocutore politico.
   Fra le reazioni suscitate da queste dichiarazioni, indignazione e costernazione sono state espresse dal deputato conservatore e esperto di politica estera, Alfred Heer, che le ha definite "un inaccettabile tentativo di sostegno di Hamas da parte del Dipartimento degli Affari Esteri". Heer ha invitato Birkhalter a spiegare in maniera plausibile le motivazioni per le quali "la Svizzera dovrebbe sostenere organizzazioni notoriamente criminali come Hamas il cui unico obbiettivo è la distruzione di Israele".
   Da segnalare anche l'intervento dell'ambasciatore israeliano in Svizzera, Jacob Keidar, che ha sottolineato che "Israele stia cercando di persuadere le autorità svizzere e internazionali a classificare Hezbollah e Hamas come gruppi terroristici. Nonostante la Svizzera non sia membro dell'UE, si è distaccata da essa anni luce, sostenendo i terroristi".
   Sconcertato anche il segretario della Comunità ebraica svizzera, Jonathan Kreutner, che in questi giorni ha detto al Jerusalem Post: "Siamo molto scettici che il contatto con Hamas possa essere produttivo. Abbiamo sempre pensato che il Liberale Burkhalter,fosse nemico di Israele". Dubbioso sull'utilità di una relazione con Hamas, anche Yves Kugelman, caporedattore del magazine ebraico elvetico Tachles che ha ricordato come lo scorso dicembre il governo svizzero avessero speso assieme alla Finlandia quasi 85mila dollari per ospitare un workshop a Ginevra che riuniva membri di Hamas e di Al Fatah. Come se non bastasse, ha sottolineato Kugelman indignato, nel 2012 "il Parlamento svizzero, Bundeshaus, aveva invitato il portavoce di Hamas Mushir al Masri".
   Un clima incandescente dove anche l'ambasciatore israeliano ad interim Shalom Cohen ha affermato "Non siamo per niente contenti di questi sviluppi e ne parleremo con le autorità locali. E' stato un terribile errore invitare un membro di Hamas riconosciuti come terroristi dalla comunità internazionale".
   Del resto il Ministro Burkhalter non è nuovo a queste "simpatie" propalestinesi. Tempo fa era stato già tacciato di antisemitismo e di boicottaggio antisraeliano e in tema di politica filopalestinese della Svizzera, il direttore del giornale Basler Zeitung, Dominik Feusi, ha ricordato come il governo nel 2013 avesse dato 700mila dollari a sostegno di un uficio per i diritti umani con sede a Ramallah. In conclusione è intervenuto anche l'esponente dell'Agenzia di Difesa dell'Unione Europea, Pierre Alain Eltschinge, che ha rilasciato un'ambigua dichiarazione in difesa della Svizzera. "Esso" ha ricordato " è sempre stato un Paese neutrale e umanitario e per questo esso promuove il dialogo fra le diverse parti e non applica le sanzioni europee non classificando Hamas come gruppo ". Riguardo al rapporto col mondo ebraico, egli ha specificato come "il Paese si occupa da sempre di Shoah e condanna qualsiasi fenomeno di violenza e razzismo".

(Mosaico, 27 aprile 2017)


Il progetto del gasdotto da Israele all'Italia

L'Unione Europea ha approvato il progetto di un gasdotto che collega Tel Aviv all'Italia. Tra i promotori dello studio c'è anche l'italiana Edison.

 
I ministri dell'energia di Italia, Israele, Grecia, Cipro con il Commissario Europeo all'energia hanno dato il via libera allo studio del gasdotto Israele Italia
Al via lo studio per realizzare un gasdotto che collega Israele all'Italia. La decisione di muovere i primi passi del progetto è stata presa durante un incontro tra il Commissario Europeo all'energia Miguel Angel Canete e i ministri di Italia (era presente Carlo Calenda), Israele, Grecia e Cipro. Il vertice si è tenuto a Tel Aviv lo scorso 3 aprile.
   Il progetto punta a connettere l'Europa meridionale con i grandi giacimenti e riserve di gas del Medio Oriente. Obiettivo: rendere operativo il giacimento nel 2025.
   La pipeline sottomarina attraverserà Cipro, Creta e la Grecia. Il costo previsto è di circa 6.000 milioni di euro. Per l'Unione Europea il progetto è ambizioso e va nella direzione di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico.
   L'Unione Europea è alla ricerca di strade alternative alle forniture di energia in modo da ridurre la dipendenza dalla Russia. Bruxelles contribuisce economicamente allo studio per sviluppare il progetto del gasdotto. Progetto promosso dal Consorzio Igi Poseidon, una joint venture tra l'italiana Edison e la greca Depa.
   Tra gli obiettivi dell'infrastruttura sottomarina c'è quello di trasportare circa 900.000 milioni di metri cubi di gas.
   Le ingente riserve israeliane superano di molto le necessità locali. Israele ha fatto un accordo con la Giordania per esportare parte dei suoi giacimenti di gas in 15 anni per un valore di 10.000 milioni di dollari.
   Inoltre, a Tel Aviv confidavano di vendere il gas anche all'Egitto, sempre affamato di risorse energetiche. Ma gli egiziani hanno scoperto di recente un grande giacimento di gas nel delta del Nilo. Si stima che possa essere addirittura superiore a quello di Israele. Questa scoperta ha mandato a gambe all'aria i piani dello Stato israeliano di vendita del suo gas sul mercato egiziano. Tel Aviv quindi ha preso al volo l'occasione che veniva offerta dall'Europa.
   Il progetto della conduttura Israele Italia ha però un suo tallone di Achille. Lo spiega il periodico economico israeliano Globe. Il gas che arriva dal Mediterraneo orientale avrà costi elevati, almeno il 40% in più del prezzo del gas russo. Inoltre, ci sono anche difficoltà tecniche rilevanti. In primo luogo il passaggio del gasdotto a profondità marine di circa 3300 metri. In secondo luogo c'è l'attività vulcanica nei bassifondi marini compresi tra Cipro e Grecia che potrebbe danneggiare l'infrastruttura.

(Notiziario Estero, 27 aprile 2017)


«L'antisemitismo cresce. C'è troppa ignoranza. L'Anpi? E cambiata»

Il clima è cambiato perché la politica contingente ha iniziato a mescolarsi con questi momenti rievocativi

di Paola D'Amico

MILANO - Non doveva andare così. La contestazione alla Brigata ebraica a Milano, il doppio corteo a Roma. «C'è troppa ignoranza», dice Rav Giuseppe Laras, 82 anni, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia e già rabbino ad Ancona, Livorno e per 25 anni nel capoluogo lombardo, dove l'amicizia con il cardinale Carlo Maria Martini segnò forse il punto più avanzato del dialogo tra ebrei e cristiani. «Nessuno sa cos'è questa Brigata ebraica. Manca l'informazione. Erano giovani che hanno combattuto al fianco degli alleati lungo la linea gotica, hanno contribuito a sfondarla, ebbero molti morti».

- Invece?
  «Il nome stesso richiama dei guerrafondai. Non è così. Consiglio di andare nel cimitero militare di Piangipane: è costellato di stelle ebraiche, tutti soldati della Brigata che hanno dato la vita per liberare l'Italia».

- Il rischio?

  «Se perdura questo stato di non conoscenza si rischia che l'antisemitismo trovi ulteriore alimento».

- Il 25 Aprile dovrebbe essere una grande festa.

  «Un tempo lo era. Certamente. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, ho vissuto insieme a mio padre che era stato comandante garibaldino nelle valli di Lanzo l'atmosfera di commozione e festa che si respirava in quei momenti. In anni più recenti ho sempre partecipato ai cortei del 25 Aprile e parlato anche talvolta dal palco. Oggi è tutta un'altra cosa».

- L' Anpi a Milano ha tenuto insieme le varie anime.

  «E possiamo mettere un segno più. Ma l'Anpi è un altro elemento di debolezza. Un tempo rappresentava coloro che si erano distinti in quella guerra contro l'oppressione e la violenza. Oggi è un'associazione di persone perbene ma si è un po' svuotata di significato».

- Quindi?

  «Arrivano a consentire di partecipare al corteo, come è accaduto a Roma, a rappresentanti dei movimenti islamici, messi sullo stesso piano della Brigata ebraica».

- Da quando è cambiato il clima?

  «Da quando la politica contingente ha cominciato a mescolarsi con questi momenti rievocativi che non dovrebbero diventare un terreno di scontro».

- Una riflessione finale?

  «Cerchiamo nei momenti di depressione morale e politica come sono i tempi attuali di contrapporre pensieri alti e propositi nobili. Questo impegno è l'unico farmaco per guarire forse la malattia dell'oggi. E combattere la superficialità mettendo insieme i pezzi di storia. In questa direzione va la mostra sul Genocidio degli Armeni organizzata al Memoriale della Shoah che si apre domani».

(Corriere della Sera, 26 aprile 2017)


Alla scoperta della nuova cucina israeliana

di Margo Schachter

La cucina israeliana è il prodotto di 3000 anni di storia, 100 culture e della chutzpah, l'audacia degli anticonformisti. Fra pite gourmet, nuova cucina araba e birra biblica, c'è chi scommette che questa sarà la nuova meta gastronomica.
Raccontare la storia della cucina israeliana è un'operazione biblica. Seppur lo Stato di Israele festeggi ad oggi neanche 70 candeline, quel piccolo Paese è il prodotto di 3000 anni di storia (2000 di diaspora) e di persone di un centinaio di provenienze, finite per la prima volta nella storia a condividere oltre ad una sola una religione, una sola terra.
Dal deserto dell'Etiopia ai ghiacci della Russia, sono arrivate in Israele tutte le culture e le cucine ebraiche del mondo: il risultato però non è stato una semplice somma, ma la ricerca di nuova identità.
La cucina israeliana è certo fatta di cous cous e borsch, hummus e aringhe, ma è sopratutto uno stile di vita, di condividere la tavola, di concepire i sapori, ingredienti, influenze. Questa ricchezza di influenze e la voglia di innovazione rendono oggi Israele una meta gastronomica unica in cui tradizioni millenarie, regole religiose e tendenze internazionali coabitano senza conflitti, senza confini, senza pregiudizi - sfidando ogni regola.
In yiddish la cucina ebraica si direbbe avere chutzpah, l'audacia degli insolenti e degli anticonformisti, in ebraico è balagan, un gran casino.
Per vedere fin dove è arrivata la nuova cucina israeliana bisogna andare a Tel Aviv, la città che non dorme mai e mangia a qualunque orario, h24, nei ristoranti di Nuova Cucina araba di Haifa e al mercato di Gerusalemme, che di notte si trasforma nel luogo più cool della città.

 Cucina israeliana - Le pite gourmet
Se il falafel è la metafora di un intero Paese, le pite gourmet sono lo specchio dei tempi.
Eyal Shani è un celebrity chef, conduttore di Masterchef, imprenditore della ristorazione e l'uomo diventato famoso per sussurrare alle verdure.
A Tel Aviv oltre al suo ristorante gourmet Ha'Salon, ha aperto Miznon, un locale dove serve pite creative (quindi pane arabo con ratatouille, fish&chips, fegatini di pollo...).
Ha già due ristoranti anche a Parigi e Vienna e il suo cavolfiori arrosto è conosciuto worldwide: arriva a tavola bello abbrustolito, in un pezzo di carta da forno con qualche forchetta. Senza piatti, da condividere.

 La colazione 24h su 24, 364 giorni all'anno
  La colazione israeliana è la tradizione più radicata del Paese. Si mangiano pite, insalata di pomodori e cetrioli, hummus e tahina, formaggio labneh, yogurt, baba ganoush di melanzane, shakshouka di uova e pomodoro. È un pasto completo, abbondante e vegetariano che si mangiava nei kibbutz al ritorno dai campi.
Oggi è il grande brunch del sabato e della domenica, servito ovunque. A Tel Aviv, da Benedict, anche 24h su 24, e 364 giorni all'anno.

 La performance in cucina
Indirizzo famoso per la cucina, e l'ambiente rumoroso, MachneYuda è il ristorante di Gerusalemme dei tre chef Assaf Granit, Yossy Elad e Uri Navon. Cucinano davanti agli ospiti piatti creativi conditi con musica ad alto volume, inscenando una vera performance al momento del dessert - che viene composto direttamente sul tavolo al ritmo di canti e balli.
La sala si può trasformare in dancefloor il venerdì sera, e sembrerà comunque un posto tranquillo, paragonato alla movida notturna del grande mercato di Gerusalemme. Al Mahane Yehuda chiusi i banchi del shouk stracolmi di frutta e verdura, la sera aprono le serrande di locali e ristoranti, per un turn over gastronomico h24.

 Birra e cocktail
Come in qualunque altra parte del mondo, anche qui si sta assistendo alla comparsa dei primi cocktail bar di livello e dei microbirrifici. The Imperial a Tel Aviv, con il suo stile da speakeasy coloniale è entrato nella classifica dei Word's 50 Best Bar e nel 2016 ha aperto uno spin-off, La Otra, di ispirazione messicana.
Il primo microbirrificio israeliano ha aperto nel 2005, The Dancing Camel, nel centro di Tel Aviv, e oggi a distanza di poco più di 10 anni la scena è popolata di nomi come Alexander, o LiBira e Haifa, che oltre alle classiche producono birra israeliana con ingredienti locali come melograno, pompelmo, datteri...

 La nuova cucina araba
  Haifa, terza città del Paese e sede universitaria di livello internazionale, è anche il centro culturale più frizzante e moderno della componente araba levantina. Qui si parla di "Nuova Cucina Araba", chef come Omar Alelam nel suo ristorante Ale Gefen applicano tecniche contemporanee alle ricette della nonna e ogni anno a dicembre viene organizzato il festiva a-Sham, in cui chef provenienti da Israele, Palestina, Libano, Siria e Giordania cucinano insieme per mantenere viva la tradizione e per sperimentare ricette folk in chiave contemporanea.

 L'alta cucina israeliana
Catit è uno dei pochi indirizzi gourmet di livello internazionale del Paese. È il ristorante di Meir Adoni, origini marocchine, che in cucina fonde con un tocco personale Est e Ovest, passato e futuro. Ventidue posti a sedere da Catit, e altre insieme come BlueSky, Lumina e il bistrot Mizlala. Fra i suoi piatti-icona, una tartare Palestinese con carne cruda, tahina, pinoli e baba ganoush - un piatto assolutamente non kasher, come oramai cucinano la maggior parte degli chef - e il Croissant con cervello di vitello, pomodoro e peperoni affumicati.
Altri nomi da ricordare, Haim Cohen, pioniere della cucina gourmet a Tel Aviv nel suo locale israelo-
ashkenazita Yaffo TLV, e Tomer Niv, lo chef allievo di Heston Blumenthal che al Rama's Kitchen, a meno di venti km a Nord-Ovest da Gerusalemme faceva foraging nel deserto e ripercorreva ricette millenarie (purtroppo il ristorante è bruciato nel 2016 ed è ancora chiuso - ma una citazione era d'obbligo).
"Voglio portare la cucina israeliana a competere con il miglior cibo nel mondo" ha dichiarato il regista Roger Sherman, autore del documentario In Search of Israeli Cuisine, presentato nel 2016 e già proiettato in oltre 90 festival. È solo questione di tempo, ne sentiremo parlare.

(FineDinning Lovers, 26 aprile 2017)


Al corteo «antifascista» la follia degli estremisti che insultano gli ebrei

Contestatori isolati. Amici di Israele protetti da City Angels e dem. Autonomi subito bloccati

di Alberto Giannoni

Terzomondisti, anarchici e centri sociali (abusivi), nostalgici dell'Urss e tardo maoisti. C'è spazio per tutti al 25 aprile di Milano. Dentro il corteo ci sono tutte le sigle e siglette della diaspora comunista e gruppettara. Ma sembra che non si possa portare una bandiera americana. E sembra che non ci possano stare la Brigata ebraica e la Comunità ebraica, ovvero i figli e i nipoti di quelli che più patirono I' orrore nazista, ne i campi di sterminio. Sembra in realtà, perché la contestazione pesante che si temeva alla vigilia, alla prova della piazza si rivela come la messa in scena, più patetica che aggressiva, di una manciata di autonomi.
   Sono le 14 e la manifestazione non sembra enorme: il ponte avrà distratto molti. In piazza, ovviamente, si fanno vedere tutte le componenti possibili e immaginabili della sinistra ufficiale e istituzionale: ognuna con la sua bella bandiera, nel mezzo di una stagione politica tumultuosa di scissioni e alleanze. Il Pd, già prima che parta il corteo, deve affrontare alcuni contestatori (i militanti del «Cantiere», che ce l'hanno col decreto Minniti). La seconda razione di fischi piove ali' altezza di piazza San Babila, dove sono tradizionalmente appostati gli «ultrà» anti-israeliani e i filo-palestinesi più scatenati, che accolgono gli ebrei al grido di «fascisti, assassini, sionisti». C'è un filo, invece, fra la Resistenza, il sionismo e lo stato di Israele. La Brigata ebraica lo rappresenta ed è questo che non le viene perdonato. Ma in realtà sono sempre meno i contestatori della Brigata ebraica, e sempre più numerosi sembrano i suoi amici, che si inseriscono nel corteo fra la Cgil (con la segretaria Susanna Camusso) e il Pd, quel che resta di una possente macchina organizzativa che garantisce tutt'ora un servizio d' ordine compatto. Sono Pd e i City angels a proteggere Brigata e Amici di Israele dalla temuta contestazione. Lo spiegamento di forze dell'ordine è ingente: «Solo prudenza, la situazione appare molto tranquilla» dice il sindaco, Beppe Sala che in effetti, attorniato da qualche assessore e accompagnato dal presidente provinciale dell'Anpi, Roberto Cenati, si avvicina allo striscione con la Stella di David per un saluto che - si vede - vuole essere molto convinto ostentato. Lì trova i Radicali e il sottosegretario Benedetto Della Vedova, l'antropologa Maryan Ismail, simbolo della battaglia contro l'islamismo, e tanti altri. Con la comunità, insieme al presidente Raffaele Besso e all'assessore Davide Romano, le varie anime: le componenti giovanili, gli «scout», l'ala di sinistra e quella più ortodossa. Gli ebrei milanesi applaudono a lungo gli striscioni dell'Anpi. Qualcuno tende una mano e abbraccia Cenati, che ha schierato la sua Associazione a difesa della Brigata: «Grazie». Da brividi l'applauso con cui gli ebrei e i reduci dei campi si salutano a vicenda. «Tenetevi a braccetto, non per mano» il passaparola del servizio d'ordine, che si schiera su due file all'imbocco di San Babila, dove però tutto fila liscio. E in Duomo il presidente del Senato Pietro Grasso dice: «Siete e sarete sempre a casa vostra in una piazza come questa, chi contesta la vostra presenza nega la storia della Resistenza».

(il Giornale, 26 aprile 2017)


Il 25 aprile da «separati» della Comunità ebraica a Roma: "Speriamo sia l'ultima volta"

di Andrea Carugati

 
ROMA - La prima manifestazione del 25 aprile "separata", forse anche l'ultima. La comunità ebraica di Roma celebra la Liberazione in via Cesare Balbo, a Roma, davanti alla sinagoga che fu anche sede della Brigata ebraica durante l'occupazione nazista della Capitale. «Vorrei che quella di oggi fosse l'ultima manifestazione che si fa in questo modo e che il prossimo anno si torni a manifestare tutti insieme», spiega il rabbino capo Riccardo Di Segni. «Ma non siamo noi ad aver causato queste celebrazioni separate».
   A dividere il loro corteo da quello dell'Anpi è stata - spiega- «la mancata volontà di ascolto» da parte dell'Anpi romana, non di quella nazionale. Sono stati, ragiona dal palco il rabbino, «i miti velenosi e pericolosi secondo cui il conflitto tra israeliani e palestinesi oppone buoni contro cattivi, oppressori contro oppressi. Non è così. Siamo stati costretti a fare una manifestazione alternativa quando i nodi sono venuti al pettine, quando Pietro Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, è stato insultato durante una manifestazione». «Ma la nostra volontà è di tornare a manifestare tutti insieme, riconciliati».
   Di Segni è il più pacato, sul piccolo palco davanti alla sinagoga. La presidente della comunità ebraica romana Ruth Dureghello è più esplicita nell'accusa di revisionismo rivolta all'Anpi romana: «Noi vogliamo stare insieme ma nella verità della storia. Chiediamo loro di fare una scelta: dire chi allora erano i liberatori e chi gli alleati di Hitler. Chiediamo loro di dire allora con chi sarebbero stati: dalla parte dei liberatori o da quella del Gran Mufti di Gerusalemme, che era alleato con Hitler?».
   Il conflitto israelo-palestinese, in tutta la sua presente durezza, è il protagonista di questo scontro, dopo che per anni le Brigare ebraiche sono state oggetto di contestazioni al corteo ufficiale dell'associazione partigiani (anche oggi a Milano), corteo a cui è stata invitata una delegazione palestinese. «La storia è qui, il resto sono menzogne», attacca Ruben Della Rocca, numero due della comunità ebraica, che ringrazia gli ambasciatori dei paesi alleati presenti in via Balbo, dalla Polonia alla Nuova Zelanda, passando per Usa, Francia, Regno Unito, Australia e Israele. «Non esistono altre bandiere legate alla guerra di Liberazione dell'Italia». E ricorda come «un luogotenente del Gran Muftì sia il padre di una dei terroristi di Monaco», e di come tramite Eichmann abbia tentato di «esportare la soluzione finale anche in Palestina». Applausi dalla platea, dove sventolano le bandiere della Brigata ebraica.
   La risposta delle istituzioni è forte. Sul palco sfilano la sindaca Raggi, il vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio, Maria Elena Boschi a nome del governo, i presidenti delle commissioni Esteri Casini e Cicchitto. Tra la gente il presidente del Pd Matteo Orfini, Roberto Giachetti, Miguel Gotor di Mdp, Stefano Fassina e Loredana De Petris di Sinistra italiana. I democratici hanno scelto di partecipare solo alla manifestazione della comunità ebraica, mentre Mdp e Si si sono unite anche al corteo Anpi.
   «Oggi è il giorno della Liberazione e nessuno ha diritto di inserirci significati diversi. Il 25 aprile è la festa della memoria e dell'unità e non delle divisioni», ha detto la sottosegretaria Boschi. «Non siamo qui contro qualcuno, ma per dire grazie a chi, come la Brigata ebraica, ha combattuto per la libertà. La memoria è un dovere civile nell'era della post-verità. Chi pensa di tenere fuori la Brigata ebraica nega la verità e la storia. Nessuna giustificazione dell'attualità geopolitica può consentire di scalfire il valore del 25 aprile. Il nostro Paese ha una posizione da sempre: due popoli, due stati. Israele ha non solo il diritto ma il dovere di esistere».
   «L'abbiamo detto anche alla sindaca Raggi: siamo pronti a tornare a manifestare insieme ad altri. Ma questa giornata lasciatecela fuori dalle polemiche», chiude Della Rocca. Carla Di Veroli, nipote di un partigiano di Giustizia e libertà: «Ho partecipato fin da bambina alle manifestazioni dell'Anpi. Ma negli ultimi anni c'era stata troppa tensione verso di noi. Finalmente oggi un ricordo senza tensioni».

(La Stampa, 25 aprile 2017)


ANPI sta con chi odia ebrei

Lo ''strappo'' a Roma sulla celebrazione della Festa della Liberazione e' rimasto. La ricucitura forse non e' stata neppure tentata o, se lo e' stata, non cercata fortemente e ad ogni costo, e almeno per quest'anno e' andata cosi': da una parte la Comunita' ebraica, dall'altra l'Anpi. Due celebrazioni distinte, in luoghi diversi, distanti fisicamente ed anche nella sostanza. In mezzo il sindaco di Roma nel tentativo di tenere insieme i pezzi di quella che ovunque e' una ricorrenza che dovrebbe unire l'intero Paese. ''Noi da qui gridiamo forti e uniti che vogliamo stare insieme ma vogliamo starci nella verita' e nella storia che fu fare una scelta. Gli ebrei della Brigata ebraica giunsero in Italia dall'allora Palestina e sconfissero le truppe nemiche e si organizzarono e aiutarono la Resistenza. Non e' una scelta facile la scelta della verita' ma noi non vogliamo fare la scelta della revisione della storia. Chiediamo solo di fare una scelta: chiediamo loro di dire allora con chi sarebbero stati dalla parte dei liberatori o da quella del Gran Mufti di Gerusalemme, che era alleato con Hitler''. Parole forti da Ruth Dureghello, presidente della Comunita' ebraica, per sottolineare, insieme all'auspicio che questo non si ripeta piu', anche la distanza ancora una volta con l'Associazione nazionale dei partigiani italiani per l'invito rivolto alla comunita' palestinese, casus belli di questa divisione romana nel giorno della Liberazione.

(il Nazionalista, 25 aprile 2017)


Firenze - L'Associazione Italia-Israele alla manifestazione del 25 aprile

L'Associazione Italia-Israele di Firenze ha partecipato, come l'anno passato, alla manifestazione per la Festa della Liberazione. Ci siamo raccolti intorno all'immagine di Enzo Sereni, eroe della Resistenza, e abbiamo partecipato al corteo che si è concluso in Piazza della Signoria. Quì il nostro cartello con l'immagine di Enzo Sereni è stato ammesso accanto al labaro della Comunità ebraica, come già era avvenuto l'anno passato, sull'Arengario di Palazzo Vecchio dove sono stati tenuti i discorsi ufficiali. Quest'anno il cartello è stato sorretto da uno dei nostri più giovani soci. L'anno scorso venivamo guardati più con curiosità che altro, e c'era chi si chiedeva chi era Enzo Sereni: quest'anno il Sindaco Dario Nardella ha iniziato il suo discorso proprio citando il nostro cartello e la nostra presenza e parlando di Enzo Sereni e del contributo ebraico alla Resistenza, e anche Aldo Cazzullo, oratore ufficiale, ha di nuovo citato Enzo Sereni.
All'inizio della manifestazione, in Piazza dell'Unità italiana, c'era un decina di palestinisti, ciascuno con una grande bandiera in mano per cercare di sembrare tanti, mescolati ad altri due o tre che portavano le bandiere del Partito comunista marxista-leninista. Una degna compagnia. Come già era accaduto l'anno passato, appena iniziato il corteo sono scomparsi: a loro chiaramente della Resistenza e della LIberazione non interessa molto.
Valentino Baldacci
Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 25 aprile 2017)


"Menorà: culto, storia e mito", affascinante mostra interreligiosa

Una mostra di notevole interesse per le implicazioni, artistiche, culturali e religiose, sarà inaugurata il 15 Maggio a Roma.

di Ida Cuzzocrea

Per la prima volta due importanti musei come il Museo Vaticano e il Museo Ebraico di Roma collaborano per una "mostra congiunta" che esporrà preziose opere provenienti da tutto il mondo. Opere in parte inedite e in parte poco conosciute per favorire concretamente la conoscenza e il dialogo fra due importanti realtà.
  La Menorah, candelabro a sette luci, simbolo universale dell'ebraismo è al centro di questo percorso espositivo che evidenzia l'alto valore simbolico e l'esistenza di un aspetto inter-religioso dell'iniziativa perché, come ha sempre sottolineato Papa Francesco, "L'ebraismo e la cristianità appartengono a una sola famiglia". E questa mostra vuole essere realmente "un ponte unificante" fra ebrei e cristiani per un reciproco e costruttivo cammino.
  Circa 130 le opere esposte. Da Mosè ai nostri giorni il viaggio di questo candelabro, antico oggetto mistico, espressione della Luce Divina, rappresentato in Oriente e in Occidente affascina e coinvolge. Fonte di ispirazione anche per molte opere cristiane, la Menorah appare per la prima volta nel libro dell'Esodo dove si legge che, per volere divino, fu realizzata da Mosè per il tabernacolo con quaranta chili di oro puro. Interessante la presentazione delle due direttrici (Barbara Jatta, per i Musei Vaticani e Alessandra Di Castro per il Museo Ebraico di Roma) di questo percorso espositivo che comprende Quadri, Sculture, Incisioni, Reperti Archeologici e Letterari che evidenziano l'esistenza simbolica del rapporto fra Cristianesimo e Ebraismo.

 Tre i grandi nuclei della mostra suddivisi in sezioni.
  Il primo nucleo è articolato in tre sezioni che abbracciano l'arco di tempo che va dall'antichità ai primi secoli dell'era moderna. Viene ricostruita la storia del candelabro, dalla sua presenza nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua scomparsa a Roma.
  Il secondo nucleo strutturato in quattro sezioni, evidenzia (con un percorso avvincente che va dalla tarda antichità fino alle soglie del XX secolo) il carattere aggregante della cultura e dell'identità ebraiche.
  Il terzo nucleo caratterizzato da una unica grande sezione, offrirà al visitatore una ampia panoramica di opere di grandissimo livello con inedite forme espressive che abbracciano un arco temporale dal dopoguerra al XXI esimo secolo. In questa ultima sezione sono visibili opere d'arte di notevole pregio come le coinvolgenti tele di Marc Chagall e capolavori della letteratura come "Il Candelabro sepolto" di Zweig.
  Un progetto molto impegnativo la realizzazione di questa mostra, che ha richiesto un lavoro lungo e complesso di circa tre anni e mezzo. Grazie al serio impegno degli organizzatori si è riusciti a ottenere in prestito, opere molto preziose che provengono dai più prestigiosi Musei come il Louvre, la National Gallery di Londra, il Museo di Gerusalemme, l'Albertina di Vienna, l'Opificio delle pietre dure di Firenze.
  Significative testimonianze provengono anche da Napoli e da Toledo. Interessanti e rari i preziosi oggetti di vetro decorati in oro. Due splendidi candelabri del diciottesimo secolo provengono da Palma di Maiorca. Una attenta sosta merita il bassorilievo in pietra risalente al primo secolo A.C., rinvenuto da pochi anni e proveniente dell'antica Sinagoga di Magdala in Galilea. Di grande interesse storico-artistico la Bibbia di San Paolo di epoca Carolingia e i preziosi vetri di epoca romana, decorati in oro. Molto forte l'interesse di prestigiose Istituzioni Internazionali verso questa esposizione senza precedenti, che offre, attraverso le numerose espressioni artistiche, la sofferta storia di questa lampada, alta un metro e mezzo, esclusivamente alimentata con olio puro di oliva estratto da olive verdi con un procedimento tipico dell'epoca.
  Nel libro dell'esodo si legge inoltre che, il candelabro originale fu conservato nel Tempio di Salomone. Dopo la distruzione del tempio ad opera dei Babilonesi La Menorah fu portata a Roma nel 70 dopo Cristo. L'evento è testimoniato dal bassorilievo presente nell'arco di Tito, in cui viene descritta, la sfilata del candelabro come trofeo di guerra insieme ai prigionieri ebrei.
  Razziata nel Sacco di Roma sembra sia stata trasportata in Africa e quindi a Costantinopoli dove se ne sono perse le tracce. Così la Menorah esce dalla storia per entrare nel mito e nella leggenda. Molte le ipotesi sulla sua scomparsa, ma nessuna fino a questo momento, è stata ritenuta valida. Fra le tante "fantasie" ricordiamo quella in cui si ipotizzava che il famoso candelabro fosse nascosto in Vaticano. In passato fu sollecitato persino il pontefice Giovanni Paolo II, ma come era prevedibile, non si approdò a nulla se non a cercare inutilmente di screditare la Santa Sede.
  La mostra, che resterà aperta fino al 23 Luglio prevede l'utilizzazione di apparati didattici per coinvolgere bambini e ragazzi di ogni età orientandoli alla conoscenza di una cultura che è cultura del dialogo e della comprensione reciproca.
  Questo simbolo di pace, adottato anche dalla cristianità è presente non solo nelle catacombe ebraiche ma nei sarcofagi, nei gioielli, nei calici con preziose incisioni che permettono al visitatore di rivivere un passato dalle forti emozioni. Con ammirazione segnaliamo una incisione del candelabro su una moneta del primo secolo A.C. che riteniamo uno dei pezzi più preziosi e interessanti di questa esposizione che vuole essere un segno di Pace ed Espressione della tensione alla Luce e alla Spiritualità.
  Un messaggio umano, storico estremamente valido, quello che ci viene da una lettura espositiva che ci porta indietro nel tempo facendoci ricordare il vero significato dell'arte, oggi forse un po' troppo strumentalizzata, ma sempre eterno simbolo di Luce.

(l'eco del sud, 25 aprile 2017)


Tre giorni in gravel bike nel deserto del Negev

Nel deserto del Negev
Marc Gasch e Diego Grasa di XPDTN3, accompagnati dalle guide locali Nimi Cohen e Zach Uchovsky, hanno pedalato per tre giorni nelle aride distese del Negev.
Il Negev è un deserto roccioso situato nel sud di Israele, che con i suoi 13.000 km2 copre quasi la metà del paese, e che si estende dal Mediterraneo fino alla zona più secca e calda vicino a Eliat, sul Mar Rosso.
Arido e secco, ma con qualche pioggia nelle zone più vicine al mare Mediterraneo, il Negev è famoso per i suoi enormi canyon, i profondi crateri rocciosi e gli innumerevoli "Wadi" che in lingua araba e ebraica significa, "letti di fiumi in secca". Un paesaggio perfetto per le escursioni in gravel bike e di grande impatto scenografico per i reportage video-fotografici.
I quattro biker, con l'appoggio di un mezzo di assistenza che garantiva l'approvigionamento ed il supporto per i trasferimenti più lunghi, hanno completato un itinerario di tre giorni che li ha portati a scoprire gli angoli più suggestivi di questa isolata regione desertica.
Il bellissimo video, realizzato anche con l'utilizzo di un drone, comunque parla da solo.

(urbancycling, 25 aprile 2017)


Perché Netanyahu ha cancellato l'appuntamento col ministro tedesco che critica Israele

Gerusalemme ha chiesto a Berlino di evitare l'incontro con due ong che diffondono propaganda anti-israeliana. "Inimmaginabile", dice il ministro degli Esteri Gabriel, che nel 2012 aveva descritto Israele come uno stato di apartheid.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cancellato all'ultimo il suo incontro con il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel in visita in Israele. Netanyahu ha chiesto al ministro tedesco di scegliere fra l'incontro con lui o con due organizzazioni non governative, critiche nei confronti di Israele: B'Tselem e Breaking the Silence. Quest'ultima in particolare sostiene che le forze di difesa israeliane (Idf) commettono crimini di guerra. Netanyahu ha ricevuto il sostegno di Yuli Edelstein, portavoce della Knesset, che ha scritto su Twitter che Breaking the Silence e B'Tselem diffondono propaganda anti-israeliana e ha invitato Gabriel ad annullare i suoi incontri con le ong.
   Gabriel, che nel 2012 aveva descritto Israele come uno stato di apartheid, ha detto che sarebbe stato "un evento straordinario, per usare un eufemismo", se Netanyahu avesse annullato i loro colloqui in programma, e ha sostenuto che è normale parlare con rappresentanti della società civile. "Immaginate se il primo ministro israeliano fosse venuto in Germania e avesse voluto incontrare persone critiche nei confronti del governo e questo avesse detto che non è possibile. Sarebbe impensabile", ha detto il ministro tedesco alla televisione nazionale Zdf. A rispondere a Berlino è il ministro dell'Istruzione Naftali Bennett: "Breaking the Silence non è un'organizzazione anti-Netanyahu ma è anti-Idf". Posizione che trova l'appoggio anche dell'ex ministro della Difesa Moshe Ya'alon: "Il finanziamento e la partecipazione dell'Europa su questi temi travalica molte linee rosse nelle relazioni tra i nostri paesi".
   Nel frattempo, il leader dell'opposizione Isaac Herzog (Unione sionista) ha adottato un approccio diverso: in un incontro con Gabriel oggi a Gerusalemme ha presentato il suo punto di vista sulle azioni dell'esercito israeliano. "L'Idf ha quotidianamente a che fare con la minaccia terroristica nella regione più complessa del mondo. In tutte le guerre di Israele ha dimostrato più e più volte di agire secondo le norme del diritto internazionale e nel rispetto dei diritti umani. Talvolta, anche mettendo a rischio la vita di soldati in campo, le forze di difesa israeliane hanno interrotto azioni militari per la preoccupazione di colpire i civili, spesso utilizzati dai terroristi come scudi umani".

(Il Foglio, 25 aprile 2017)


La Brigata Ebraica e la rinascita del 25 aprile

La memoria può essere inquinata, annacquata e banalizzata: per questo va difesa bene. Lettera al “Corriere della Sera” del Rabbino Capo di Roma.

Caro direttore,
 
Rav Riccardo Di Segni
nell'ultima commemorazione del massacro delle Fosse Ardeatine, è stato scorto tra il pubblico il gonfalone della Guardia d'onore alle reali tombe del Pantheon. Molti si sono chiesti che ci stessero a fare, i custodi della memoria di casa Savoia, in quel momento e in quel luogo le poco onorevoli gesta dell'ultimo re di Savoia. Il fatto è che le celebrazioni possono perdere senso, gli inquinamenti sono sempre possibili.
   Si fa presto a dire memoria. La memoria di fatti importanti non solo può evocare traumi e divisioni mai composte, ma se gestita incautamente provoca ulteriori lacerazioni. Il 25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo, non è la festa di tutti, come qualcuno dichiara retoricamente, è il ricordo di una guerra civile. Ma per gli ebrei è una festa, non solo come la fine di un incubo ma anche come segno di rinascita. Perché la partecipazione ebraica alla lotta contro il nazifascismo è un dato reale e non di piccolo conto.
   Non c'è stata infatti solo la resistenza nei ghetti e nelle foreste dell'Europa orientale, c'è stata la partecipazione di migliaia di ebrei nell'Armata Rossa e negli eserciti delle democrazie occidentali; c'è stata anche la resistenza nell'Europa occidentale, con un contributo di partecipazione, di decorazioni e di vittime ben superiore all'entità numerica degli ebrei; c'è stata infine la Brigata ebraica, che seppure inquadrata tardivamente nei ranghi dell'esercito britannico, che non si fidava di un corpo ebraico organizzato, nel marzo e nell'aprile del 1945 fece a tempo a versare il suo sangue per la liberazione dell'Italia.
   Nel ricordo ebraico è ben difficile distinguere tra la vittima passiva e inerme, comunque martire e sacra, e chi ha imbracciato le armi; per altri talora risulta difficile e anche inaccettabile capire la differenza tra i singoli ebrei sparsi negli eserciti e nelle bande partigiane e quelli invece riuniti come tali a combattere con una loro bandiera; perché quella è stata una rivoluzione storica e identitaria che è alla base della fondazione dello Stato d'Israele. Questo è il motivo per cui consciamente o inconsciamente il vessillo della Brigata ebraica, che ha tutti i diritti di sfilare insieme ai liberatori, è esposto ai fischi e agli insulti di qualcuno.
   La memoria può essere inquinata, annacquata, banalizzata. I problemi di oggi meritano tutta la nostra attenzione alla luce delle lezioni del passato, ma bisogna evitare confusioni e malintesi. Oggi l'attualità è anche quella di sanguinose guerre nel Medio Oriente (nel senso di Siria e Iraq). Ma l'attenzione retorica e fuorviante si concentra solo sulla Palestina, con inviti ufficiali di sezioni locali dell'Anpi, in ossequio a un modulo interpretativo grossolano che oppone i buoni contro i cattivi, gli oppressi contro gli oppressori. Per questo molti ebrei non accettano che si metta sullo stesso piano ideale la lotta di liberazione antifascista con un'interpretazione approssimativa e parziale del conflitto mediorientale.
   Sono figlio di partigiani. I miei genitori scappati insieme a due bambini si rifugiarono in un paese delle Marche e si unirono alla banda partigiana della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione, mia madre, concreta e antiretorica, non volle prendere la tessera di «patriota», come si chiamavano allora i partigiani; mio padre ebbe una medaglia d'argento.
   Non credo che partecipassero intensamente alle manifestazioni dei primi anni. Si limitavano, ma non era poco, a esporre alla finestra di casa il tricolore nelle feste nazionali. Mi chiedo cosa avrebbero fatto oggi davanti a tutte le polemiche. Dubito che avrebbero accettato di sfilare con le loro memorie in mezzo a un cordone di sicurezza e insieme a chi viene invitato maldestramente e retoricamente come combattente per la libertà. Bisogna stare attenti alle scelte e alle parole, quando si confronta l'attualità con la storia.
   Tra i fatti d'attualità più gravi c'è l'arrivo di migliaia di migranti sulle nostre coste. Condividiamo la preoccupazione per la difesa della dignità e dei diritti dei migranti, ma l'equiparazione dei campi di raccolta con i campi di concentramento è fuorviante e rischiosa. Per noi i campi di concentramento sono stati l'anticamera dei campi di sterminio, senza via di scampo. E chi si occupa dell'ordine pubblico spesso davanti a criminalità comune non può essere messo sul piano di una guardia nazifascista. La memoria esige cautela.
Riccardo Di Segni
Rabbino Capo di Roma

(Corriere della Sera, 25 aprile 2017)


Ebrei Usa contro papa Francesco: "I campi profughi non sono lager"

Il Pontefice aveva paragonato i campi profughi ai campi di concentramento. Dura reazione degli ebrei Usa: "I riferimenti storici devono essere fatti con accuratezza".

di Ivan Francese

Alla fine la reazione delle comunità ebraiche non si è fatta attendere.
Le parole con cui Papa Francesco ha paragonato i campi profughi ai campi di concentramento non sono andate giù alle grandi comunità ebraiche degli Usa, riporta il quotidiano israeliano Jerusalem Post.
E così la American Jewish Comittee ha emesso una condanna senza appello: "Le condizioni in cui i migranti si trovano a vivere in Europa - ha detto il ceo David Harris - possono certo essere difficili e meritano un'attenzione internazionale sempre maggiore, ma di certo non si tratta di campi di concentramento."
Harris non esita a correggere le parole del Pontefice: "La precisione di linguaggio nel riportare i fatti è assolutamente essenziale quando si fanno riferimenti storici, soprattutto quando a farli è una figura così importante e rispettata a livello mondiale."
Parlando all'isola Tiberina appena sabato scorso, il Santo Padre aveva esortato all'accoglienza, tracciando un paragone destinato a fare discutere: "I popoli generosi che li accolgono - aveva detto il Papa - debbono portare avanti da soli questo peso, e gli accordi internazionali sembrano più importanti dei diritti umani. I campi di rifugiati, tanti, sono campi di concentramento per la folla di gente lasciata lì."

(il Giornale, 25 aprile 2017)


Per tutto quanto attiene alla sua figura pubblica, Mario Josè Bergoglio è tutt’altro che una figura rispettabile. Sia nei suoi riferimenti a Dio, sia nei suoi riferimenti alla verità storica, sia nei suoi riferimenti ai rapporti tra uomini, papa Bergoglio è l’epitome di tutto ciò che vi è di più distorto, menzognero e fuorviante nella storia della cristianità istituzionale cattolica. M.C.


Toaff, Artom e gli altri. Così i partigiani ebrei lottarono per la Toscana

La famiglia Valobra di Firenze: i quattro fratelli furono combattenti, le due sorelle staffette.

di Adam Smulevich

Ebrei italiani nella Resistenza

Partigiani ed ebrei. Spesso in prima linea, con incarichi di alta responsabilità. Assoluti protagonisti della Liberazione del Paese dal nazifascismo. Furono all'incirca 2 mila in tutta Italia, come ha ricordato lo scorso anno Aldo Cazzullo alla vigilia di un altro 25 Aprile carico di veleni che ha tirato in ballo la memoria della Brigata Ebraica, il corpo formato da 5 mila volontari arruolatisi nella Palestina mandataria (il futuro Stato di Israele) cui va riconosciuto tra gli altri lo sfondamento della Linea Gotica nella vallata del Senio, in Emilia-Romagna. Una memoria spesso oltraggiata e strumentalizzata, che ha portato gli ebrei romani a discostarsi dal tradizionale corteo organizzata dall'Anpi (dove invece sfileranno le bandiere palestinesi). Una frattura dolorosa, ma inevitabile.
   Duemila partigiani, arruolatisi dal Piemonte al Centro Italia. Un dato che ha un suo peso, per una minoranza numericamente esigua come quella ebraica. Anche la Toscana fece la sua parte, a partire da un trentenne livornese di sani principi che avrebbe conquistato uno spazio nella storia del Novecento e che domani Pisa (la città dei suoi studi) onorerà intitolandogli una passeggiata: Elio Toaff. Il giovane rabbino accolse senza esitazione la sfida posta in quei giorni drammatici. Una scelta che lo portò a contatto con l'abisso della crudeltà. I suoi occhi, gli occhi di un partigiano della Brigata Garibaldi X-bis «Gino Lombardi», furono infatti tra i primissimi a testimoniare i crimini compiuti a Sant'Anna di Stazzema. In alcune lettere inedite ritrovate di recente dal figlio Ariel, chiaramente emerge il peso dell'orrore vissuto ma anche la voglia di ricostruire, di guardare al futuro come a un tempo di nuove opportunità.
   Centrale fu anche il contributo dell'ebraismo fiorentino. Su tutti vale l'esempio dei Valobra, quattro fratelli e due sorelle cresciuti a pane e antifascismo. Cesare, Enzo, Sauro e Dante combattono, Lea e Rossana fanno invece le staffette clandestine. Dante, membro del Partito d'Azione, è catturato dai fascisti e imprigionato a Villa Triste. Liberato grazie all'intervento di Elia Dalla Costa, il cardinale che lo Stato di Israele ha voluto tra i suoi «Giusti», si aggrega alla brigata partigiana Lanciotto. Il 29 giugno del 1944 è ucciso a Cetica, nell'Aretino. Spicca anche la figura di Alessandro Sinigaglia, cui il sociologo Mauro Valeri ha dedicato il libro Negro Ebreo Comunista. Sinigaglia era nato a Fiesole nel 1902, figlio di un ebreo di origini mantovane e di una cittadina statunitense di colore. Tornato a Firenze dopo anni di confino a Ventotene, con l'arrivo dei tedeschi in città si prende carico di organizzare e guidare una delle prime formazioni gappiste. Nel febbraio del 1944 cade vittima di un imboscata tesa dalla Banda Carità in via Pandolfini. Una targa ricorda oggi quel fatto di sangue.
   Fu partigiano anche un politico di spessore come l'esponente liberale Eugenio Artom, futuro consigliere comunale, ma anche futuro membro della Consulta nazionale e senatore della Repubblica. Braccato dai persecutori per via della sua identità ebraica, Artom ebbe salva la vita grazie al collega di partito Renato Fantoni che, d'accordo con la moglie Beatrice, lo nascose in una casa a Pian del Mugnone. Un'azione meritoria che ha portato Fantoni, come Dalla Costa, tra i «Giusti».
   Diversa invece la sorte che toccò al pisano Eugenio Calò. Vicecomandante della Brigata Garibaldi, si rifiutò di avallare esecuzioni sommarie nei confronti dei prigionieri tedeschi catturati tra le valli del Casentino. Quando fu lui ad essere catturato, non ebbe la stessa fortuna. Dopo l'interrogatorio, fu infatti ucciso. Per quanto riguarda la Brigata Ebraica, prezioso fu il coinvolgimento di tanti ex soldati nel rilancio di Comunità e istituzioni duramente provate dalla Shoah (a Firenze, ma non solo). Alcuni scelsero poi di viverci, in Toscana. Come Haim Abrahami, uno degli ultimi testimoni di quei giorni, scomparso qualche settimana fa in provincia di Lucca. Anche nel crepuscolo della sua vita, gravemente malato, non ha smesso di affrontare gli inciampi della sua difficile quotidianità a testa alta. Un vero combattente, fino all'ultimo.

(Corriere Fiorentino, 25 aprile 2017)


Quella sinistra arretrata che vuole distruggere israele

di Fiamma Nirenstein

Non c'è nulla di sorprendente nel fatto che alla manifestazione del 25 aprile si crei uno scontro oltraggioso sulla Brigata ebraica. L'Anpì, che è il promotore delle manifestazioni celebrative, di fatto non può o non vuole impedire che dal corteo si stacchino e aggrediscano i vessilli della Brigata drappelli con bandiere palestinesi o peggio del Bds, il fronte di boicottaggio conto Israele, di fatto un movimento travestito di legittimità che è invece collegato a tutti i peggiori nemici dello Stato ebraico fino ai terroristi. L'uso della data in cui si festeggia la Resistenza per attaccare Israele, lo Stato degli ebrei che sono le maggiori vittime della Seconda guerra mondiale, è un paradosso micidiale, e la presidente della Comunità Dureghello fa bene a non aderire alla manifestazione.
   Di fatto lo scontro non è sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza contro i nazi-fascisti: è sull'idea che quello che di buono gli ebrei fanno sia una foglia di fico per celare la loro perversione. Come la disponibilità a curare tutti nei loro ospedali (anche i terroristi palestinesi o i siriani feriti in una guerra che non li riguarda) o il rispetto di legge per le persone omosessuali, o il formidabile uso della giustizia in ogni circostanza anche la più scomoda, o il codice di comportamento per l'esercito ... Foglie di fico, che nascondono gli ebrei con la coda e con le zanne, persecutori di palestinesi. Lo stesso per la Brigata ebraica. Nessuno può negare che i volontari che dalla Palestina vennero a rischiare la vita a fianco degli inglesi (come mio padre Alberto nel battaglione 148) costituiscano un fatto storico. La questione che ha buttato l'Anpi per lunghi anni in questa brodaglia di menzogne antisemite e di ulteriori attacchi gratuiti contro Israele ha a che fare con due elementi: il primo riguarda l'uso della «Resistenza», una parola destoricìzzata, ideologizzata, resa universale per adattarla ai combattenti di qualsiasi guerra di liberazione vera o supposta, dai centri sociali agli Hezbollah ai palestinesi. Quindi perché non anche al terrorismo, o al Bds che del terrorismo è parente in quanto si propone la distruzione totale dello Stato degli ebrei. In secondo luogo, quella contro Israele è una battaglia primaria e indispensabile per questi movimenti, forse la prima: quella su cui si addensano tutti i luoghi comuni del più bieco conservatorismo di sinistra, quello che nega il diritto all'autodifesa, che non riconosce come tale il terrorismo, che solo a sentire le parole «nazione» e «identità» gli piglia un colpo, che non è capace di concepire l'idea che gli ebrei non debbano più piegare la testa e strisciare sotto il peso della loro storia, sperando che l'Iran un giorno si decida a far fuori Israele se non ce la fanno i palestinesi. La negazione del ruolo della Brigata ebraica nella guerra di liberazione e la scelta invece di scegliere per partner i palestinesi che erano alleati, tramite il loro capo, il Mufti Haj Amin Al Husseìni, a Hitler stesso (è uscita ora dagli archivi una bella lettera di Himmler al Muftì), e di promuovere il Bds, proprio a ridosso del giorno della memoria dei Sei Milioni, è molto interessante: rende di fatto il movimento guidato dall'Anpi (anche se a Milano, mi dice il capo dell'Associazione amici di Israele Davide Romano, il loro capo Roberto Cenati difende la presenza della bandiera con la stella di Davide) un alleato del suo peggior nemico; ricorda il loro sterminio aggregandosi al carro di una propaganda palestinese criminalizzatrice, ossessiva, antisemita, in cui si cerca di negare ogni giorno la storia testimoniata dalle vestigia e dalle scritture di tutto il mondo, ovvero il legame di Gerusalemme con gli ebrei, in cui si accusa Israele di violenza mentre non passa un solo giorno senza che si accoltellino, si travolgano, si uccidano passanti innocenti gridando Allah hu Akbar. Questa è oggi la bandiera di una sinistra arretrata e misera di fronte a Israele, alla sua storia, alla sua vita. Che il resto della sinistra si faccia sentire.

(il Giornale, 25 aprile 2017)


In bici tra le tappe della Memoria. Bloisi al Museo della Shoah in Israele

Il superciclista, 63 anni, è partito lo scorso 19 marzo dal lago di Comabbio

di Matteo Fontana

 
Giovanni Bloisi a Gerusalemme
Dopo più di un mese di viaggio solitario in sella alla sua bici, Giovanni Bloisi, il ciclista della memoria di Varano Borghi, è giunto ieri al museo del memoriale della Shoah, lo Yad Vashem di Gerusalemme.
   Il momento forse più emozionante e significativo per il pensionato sessantatreenne partito lo scorso 19 marzo dalle rive del lago di Comabbio e giunto in Israele dopo aver attraversato la penisola, toccando molti luoghi della memoria. «Sta andando tutto benissimo - ci racconta Bloisi via WhatsApp - dovunque sono stato ho ricevuto una grande accoglienza, davvero commovente; non immaginavo una cosa di questo genere». Il superciclista varesotto sta compiendo questo viaggio per rinnovare la memoria della colonia ebraica di Sciesopoli, che si trova a Selvino, in provincia di Bergamo, che ospitò centinaia di bambini ebrei dopo la seconda guerra mondiale; l'imponente stabile sta cadendo a pezzi e occorre intervenire al più presto.
   In Israele, Bloisi è stato accolto proprio dagli ex bambini di Selvino, oggi ormai anziani; una battaglia per la memoria che Giovanni sta portando avanti con il professor Marco Cavallarin, docente di storia. «Da parte loro e dei loro nipoti - prosegue il ciclista della memoria - ho ricevuto un'accoglienza straordinaria; si sono detti entusiasti del modo in cui vivo la storia dei bambini di Selvino. Mi hanno adottato come loro figlio e mi hanno offerto la loro casa ogni volta che vorrò venire in Israele». Anche la televisione israeliana ha intervistato Bloisi, evidenziando la sua incredibile impresa; anche tanti ciclisti israeliani, come accaduto durante le tappe italiane del viaggio, hanno voluto accompagnare per un tratto di strada le pedalate di Giovanni.
   Nel corso del suo viaggio lungo lo stivale, prima di imbarcarsi a Brindisi per la Grecia, il ciclista di Varano ha incontrato migliaia di persone, tra cui molti giovani, che gli hanno regalato dei braccialetti portafortuna. Altri, compresi dei varesini, gli hanno affidato oggetti e fotografie storiche, risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, da portare allo Yad Vashem ieri mattina, come il gagliardetto consegnatogli dagli studenti del liceo scientifico di Casoli, in provincia di Chieti, dove ha fatto tappa il 3 aprile.
   Le soddisfazioni per gli incontri avuti e per l'accoglienza ricevuta supera di gran lunga la fatica fisica; in questi giorni Giovanni ha pedalato sotto i 36 gradi tra Tel Aviv e Gerusalemme. Non sono mancati poi un paio di guai tecnici alla bici, che nel volo tra Atene e la capitale israeliana era stata anche smarrita; l'ottimismo e il sorriso di Bloisi hanno avuto sempre la meglio, anche sui rigidi controlli aeroportuali.
   «Agli addetti alla sicurezza ho raccontato la storia dei bambini di Sciesopoli e sono stati tutti gentilissimi» spiega Giovanni che resterà ancora alcuni giorni a Gerusalemme ospite di nipoti di ex bambini di Selvino. «Non so ancora quali saranno le prossime tappe - conclude - perché ho conosciuto molte persone che mi vogliono ospitare».

(La Provincia di Varese, 25 aprile 2017)


Ebrei in Germania preoccupati per la propria sicurezza

Rapporto di una speciale commissione indipendente sull'antisemitismo: reati cresciuti del 7,5% rispetto al 2015

BERLINO - Gli ebrei in Germania sono sempre più preoccupati per la loro sicurezza, a seguito degli episodi di antisemitismo a cui assistono nella vita quotidiana. È quanto emerge dal rapporto di una speciale commissione indipendente sull'antisemitismo, che è stato presentato oggi a Berlino dopo due anni di lavori.
E i dati confermano: secondo le statistiche sulla criminalità, diffuse oggi dal ministero degli Interni tedesco, in Germania i reati a sfondo antisemita sono cresciuti nel 2016 di circa il 7,5% rispetto al 2015.
Gli esperti sollecitano l'istituzione di un delegato nazionale sull'antisemitismo, la creazione di un sistema più efficace per registrare e perseguire i reati antisemiti e il miglioramento dei servizi di consulenza e sostegno alle vittime dell'antisemitismo. Stando al rapporto, internet e i social media sono diventati i principali canali di diffusione della propaganda d'odio e antisemita. Gli ebrei in Germania percepiscono inoltre l'antisemitismo tra i musulmani come un problema sempre più grande.
Gli esperti invitano però a evitare conclusioni affrettate. Spesso i musulmani vengono visti come i responsabili principali dell'antisemitismo, tuttavia "mettiamo in guardia dal trascurare o minimizzare il ruolo dell'estremismo di destra", ha detto Patrick Siegele, direttore dell'Anne Frank Zentrum di Berlino e coordinatore del gruppo di esperti. L'estrema destra resta la causa maggiore dell'antisemitismo in Germania, notano gli esperti. La commissione stima che circa il 20% della popolazione in Germania abbia un "latente antisemitismo".

(Corriere del Ticino, 24 aprile 2017)


Altri tre F-35I Adir arrivano in Israele

Israele, domenica 23 Aprile, ha ricevuto altri tre F-35I Adir che vanno ad aggiungersi ai due consegnati a dicembre del 2016. I velivoli sono atterrati sulla Nevatim Air Base dove è stato applicato l'emblema con la stella di David. L'F-35, secondo i piani di Israele, dovrà fornire la superiorità aerea completa nella regione per i prossimi 40 anni.

 
Nonostante il primo squadrone con gli F-35I Adir non sia ancora operativo, almeno tre dei cinque aerei invisibili di quinta generazione F-35I (Adir) faranno il loro debutto nel tradizionale sorvolo il 1o Maggio prossimo in occasione del giorno dell'Indipendenza.
  Assemblati negli Stati Uniti dalla Lockheed Martin, gli F-35 israeliani hanno componenti costruiti da società israeliane, tra cui Israel Aerospace Industries, che ha prodotto la porzione esterna delle ali, la Elbit Systems-Cyclone, che ha costruito i componenti compositi centrali di fusoliera e la Elbit Systems Ltd che ha costruito i caschi dei piloti.
  Malgrado questo progetto sia uno dei più controversi degli ultimi decenni e con un prezzo di circa 100 milioni di dollari per velivolo, Israele baserà gran parte dei suoi piani di difesa su questo velivolo del quale si aspetta di ricevere un totale di 50 esemplari da suddividere in due gruppi di volo completi entro il 2022. Ad oggi Israele ha previsto la consegna di sei/sette aerei all'anno, fino al primo gruppo di 33 caccia.
  E' importante ricordare che Israele, insieme all'Italia sono i primi due paesi ad operare il caccia stealth F-35 fuori dagli Stati Uniti. L'obiettivo di Israele è di conseguire la completa supremazia nella regione in ogni teatro: aria, mare, terreno e cyber con questo aereo che cambierà le regole del gioco. Il Ministero della Difesa israeliano ha affermato che al momento questi aerei una volta arrivati in Israele non lasceranno la nazione se non per eventuali missioni di combattimento.

 Impiego operativo in combattimento?
  E proprio questa breve nota ci porta indietro ai primi di marzo quando secondo un giornalista francese i primi 2 Lockheed Martin F-35A Adir consegnati a dicembre sarebbero già "scesi in campo". Secondo quanto riferito, un primo attacco aereo sarebbe già stato condotto in gennaio contro obiettivi in Siria.
  Georges Malbrunot, che scrive per il giornale francese Le Figaro, ha citato fonti dei servizi segreti francesi ed ha postato lo scorso 7 marzo su Twitter immagini di caccia stealth israeliani che avrebbero partecipato la notte del 12-13 gennaio ad un raid sul territorio siriano. La missione avrebbe avuto come target il contrasto di obiettivi intorno alla capitale, Damasco.
  Secondo Malbrunot, Il pacchetto d'attacco comprendente gli F-35 avrebbe colpito magazzini contenenti sistemi missilistici mobili terra-aria (SAM) di fabbricazione russa Pantsir-S1 che Israele temeva potessero essere consegnati dalla Siria alle forze Hezbollah che operano in Libano. Il magazzino sarebbe stato localizzato a Mezzeh, un aeroporto militare nei pressi di Damasco.
  Durante lo stesso attacco, come riferito dalle fonti, l'aviazione israeliana (IAF) avrebbe distrutto una batteria anti-aerea S-300 schierata nei pressi del palazzo presidenziale siriano sul monte Qassioun. Sempre secondo la fonte anonima dell'intelligence francese citata da Malbrunot, almeno un jet F-35, avrebbe sorvolato il palazzo del presidente siriano Bashar al-Assad prima di far rientro in Israele.
  Malbrunot ha continuato il suo resoconto citando un soldato senza nome, spiegando che: "Con il Pantsir in mano ad Hezbollah, l'organizzazione che Israele definisce come terroristica, impedirebbe di fatto all'aviazione israeliana di operare sui cieli del Libano con la libertà che gode attualmente".
  Dando per scontato che le fonti stiano dicendo il vero, sembra improbabile che Israele ammetta l'uso di F-35 in questa fase. In passato tuttavia, la IAF è stata veloce nel far entrare in combattimento nuovi mezzi se richiesto da specifiche e da missioni altamente paganti.
  Il costante contrasto delle forniture di armi avanzate nelle mani di Hezbollah potrebbe benissimo aver portato l'aviazione Israeliana ad utilizzare sin da subito la piattaforma di 5o generazione. Certo è che vi è stato un attacco aereo contro l'aeroporto di Mezzeh e nella data specificata. Al momento, le autorità siriane attribuiscono la responsabilità dell'attacco alle forze di difesa israeliane (IDF).

 A proposito di F-35I Adir
  I primi due Lockheed Martin F-35I Lightning II, ADIR per la IAF, sono giunti alla base aerea di Nevatim il 12 dicembre dello scorso anno. I primi due aerei - AS-1 (s/n 901) e AS-2 (s/n 902) - hanno ricevuto la stella di David, marchio nazionale, in una cerimonia ufficiale dopo l'atterraggio, presenti le massime autorità del Paese, degli USA e dei fornitori.
  Il velivolo equipaggerà il 140o Squadrone 'Golden Eagle', in precedenza operativo su velivoli Lockheed Martin F-16A/B. Nella lunga trasvolata dagli USA hanno viaggiato con piloti e contrassegni americani.
  Il primo F-35 israeliano, AS-1, ha effettuato il suo primo volo il 25 Luglio 2016 decollando dalla Joint Reserve Base Naval Air Station di Fort Worth, TX. Il secondo jet, AS-2, lo ha seguito pochi giorni dopo, l'8 agosto.
  I due F-35 sono giunti a Nevatim via Lajes nelle Azzorre e Cameri in Italia giungendo in Israele con 24h di ritardo rispetto alla tabella di marcia a causa delle avverse condizioni meteo in Italia e l'esigenza di rispettare i protocolli di sicurezza americani.
  Fino ad oggi, Israele ha ordinato 50 F-35A "convenzionali" (CTOL) usufruendo dei canali FMS (Foreign Military Sales). I primi 19 F-35A sono stati ordinati nel 2010 ad un costo di 2,7 miliardi di dollari. Nel novembre 2014 Israele ha autorizzato l'acquisto di altri 14 F-35A a cui si sono aggiunti 17 opzioni, in un accordo del valore di circa 2,8 miliardi di dollari. Le consegne del secondo lotto dovrebbero iniziare tra 2 anni per terminare nel 2021.
  Al fine di acquisire la piena operatività di 50 velivoli e poter così schierare i suoi primi due squadroni composti da 24 aerei ciascuno, Israele ha approvato nel novembre 2016 la conversione in ordine fermo delle sue 17 opzioni ad un costo intorno ai 2,5 miliardi di dollari. Al di là dei 50 F-35 attualmente contrattualizzati, l'amministrazione degli Stati Uniti ha approvato l'acquisto da parte di Israele sino ad un massimo 75 F-35.

(Aviation Report 24, 24 aprile 2017)


Il sindaco di Trieste riceve il nuovo rabbino della comunità ebraica

Nel rivolgere parole di benvenuto al Rabbino capo, il Sindaco Roberto Dipiazza si è soffermato sulle potenzialità e sulle opportunità del territorio, dalle prestigiose realtà scientifiche all'economia e al terziario, con particolare riferimento al Porto Vecchio e alla sua valorizzazione, al rilancio turistico di Trieste e alla sua vocazione multiculturale, concordando la volontà di una sempre più stretta e proficua collaborazione nell'interesse della città e dei suoi imporanti luoghi di culto.

(Trieste Prima, 24 aprile 2017)


La cultura dell'odio. I misfatti dell'Onu

di Federico Steinhaus

Nelle ultime settimane tre notizie ci hanno particolarmente colpiti, lasciandoci a metà fra l'amarezza dell'odio per Israele che da parte araba si rinnova con virulenza e la ridicola celebrazione del non voler vedere/udire/dire che ingessa l'Onu a riti tanto assurdi quanto moralmente osceni.

 Notizia numero uno
  L'Unrwa, l'Agenzia dell'Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha deciso - finalmente! - di operare una revisione, sia pure modesta e non radicale, nelle materie curricolari che si insegnano nelle scuole che gestisce nei territori dell'Autorità Palestinese. Ad esempio, vorrebbe eliminare la carte geografiche in cui Israele è cancellato e la Palestina si estende dal mare al Giordano, inserire qualche immagine femminile, o di maschi e femmine insieme, in sostituzione di quelle esclusivamente maschili, modificare i testi che si riferiscono al conflitto con Israele eliminando quanto non risponde a verità, ed eliminare riferimenti negativi ad Israele che siano fuori contesto (ad esempio, in libri di matematica).
  Il ministero dell'Educazione palestinese ha immediatamente rifiutato di accettare questi cambiamenti ed ha minacciato di perseguire in tribunale l'Unrwa, cioè l'Onu; il ministro Sabri Saidam ha affermato che i palestinesi "chiedono un'educazione che crei la liberazione" dall'occupazione israeliana; due dei deputati arabi più radicali eletti al parlamento israeliano, Ahmad Tibi e Hanin al-Zoabi, hanno detto che "è diritto dei palestinesi sotto occupazione incitare contro di essa" e che "incitare contro l'occupazione ed i suoi crimini non è solo un diritto, ma una obbligazione umana".
  Hamas ed impiegati dell'Unrwa hanno per parte loro protestato in quanto, affermano, questi cambiamenti servono gli interessi americani ed israeliani. Secondo le autorità palestinesi, inoltre, questi cambiamenti hanno lo scopo di inoculare negli studenti una cultura di normalizzazione e coesistenza con Israele, il che significherebbe distorcere l'identità palestinese.

 Notizia numero due
  Pochi giorni prima di un infuocato anniversario della Liberazione, che vorrebbe sostituire gli ebrei della Brigata Ebraica coi palestinesi nel corteo ufficiale, il membro del Comitato Centrale di Fatah (la fazione palestinese "moderata") e responsabile del Tesoro Muhammad Shtayyeh ha dichiarato alla televisione ufficiale dell'Autorità Palestinese che Fatah non intende riconoscere Israele (ma non aveva già riconosciuto Israele Arafat?) , dimostrando che quando Hamas e Fatah confliggono è solo per la conquista del potere, mentre sui rapporti con Israele la pensano allo stesso modo.
  Il membro dell'ufficio politico di Hamas, Mahmoud al-Zahar, ha infatti dichiarato alla televisione libanese Al-Mayadeen che l'introduzione nella nuova costituzione di Hamas del concetto di uno stato palestinese in Cisgiordania ed a Gaza, al fianco di Israele, costituisce "nulla più che un passaggio tattico, che non influisce sul diritto dei palestinesi a tutta la terra di Palestina".
  Il 31 dicembre 2009 lo stesso presidente dell'Autorità Palestinese aveva dichiarato che fra Fatah e Hamas non esistono divergenze sui temi fondamentali, ed il 22 ottobre 2014 il consigliere di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per gli affari religiosi, Mahmoud al-Habbash, ha affermato che per la Sharia tutta la terra di Palestina è un possesso inalienabile a norma delle leggi religiose islamiche, e la televisione ufficiale palestinese l'11 giugno 2016 aveva confermato che "ogni granello di terra palestinese è nostro…è parte della Palestina benedetta e sacra".

 Notizia numero tre
  Ecco infine un altro capolavoro dell'Onu: l'Onu ha eletto l'Arabia Saudita a membro per il 2018-2022 della Commissione per la promozione dell'eguaglianza di genere e della presenza femminile nei luoghi di potere. Verrebbe da ridere, se non fosse una tragica realtà. Lo stato che più di qualunque altro opprime le donne, che non possono guidare un'automobile o muoversi senza l'accompagnamento di un uomo, non è precisamente il miglior componente di questa commissione. Il voto era segreto, ma solo sette dei 54 stati che fanno parte dell'Ecosoc non hanno votato per l'ingresso dell'Arabia Saudita nella commissione, e ciò significa che almeno 5 stati dell'Unione Europea dei 12 presenti nella commissione hanno votato a favore. I 12 stati sono: Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Svezia e Gran Bretagna. Dubitiamo fortemente che quei 5 "colpevoli" di una assurdità scandalosa vorranno confessare pubblicamente il misfatto.

(L'Informale)


"L'ONU pensi al 'pericolo Iran' invece di accanirsi su Israele"

L'appello degli Usa all'Onu

di Paolo Castellano

Il 20 aprile gli Stati Uniti hanno chiesto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di occuparsi di meno del conflitto arabo-israeliano per affrontare diplomaticamente le attività "estremamente distruttive" dell'Iran nella regione mediorientale.
Come riporta il portale Israelnationalnews, l'ambasciatrice americana, Nikki Haley, ha accusato l'Iran di essere "il principale responsabile" dei conflitti nel Medio Oriente e inoltre ha promesso di lavorare con gli alleati di Washington per chiedere all'Iran di rispettare le risoluzioni ONU.
La Haley ha affermato che l'Iran supporterebbe il Presidente siriano Bashar al-Assad, i ribelli Huthi nello Yemen con il rifornimento di armi, le milizie sciite in Iraq addestrate da militari iraniani, e il gruppo Hezbollah che momentaneamente cerca di destabilizzare il Libano.
«Il conflitto israelo-palestinese è un problema molto importante e per questo degno di attenzione. Ma mi sembra che sia l'unica questione di cui si occupi questo Consiglio», la Haley ha dichiarato durante l'incontro mensile del Consiglio sul Medio Oriente.
«L'incredibile natura distruttiva delle attività iraniane e degli Hezbollah in tutto il Medio Oriente richiede oggi ancora più attenzione di ieri - l'ambasciatrice ha poi aggiunto - tali questioni dovrebbero diventare la priorità del Consiglio quando si discute dei problemi della regione mediorientale».
Le affermazioni della Haley sono state pronunciate il giorno dopo la dichiarazione del Segretario di Stato americano, Rex Tillerson, che ha definito "un fallimento" l'accordo nucleare con l'Iran. Lo stesso Presidente Donald Trump ha infatti messo in programma una revisione degli accordi per aumentare le sanzioni all'Iran.
Il Consiglio convoca mensilmente una riunione sul Medio Oriente e sul conflitto arabo-israeliano. La Haley ha ripetutamente accusato i vertici dell'ONU di avere un atteggiamento ostile nei confronti di Israele.
Descrivendo le riunioni mensili come delle "sessioni di accanimento su Israele", la Haley ha detto che i dibattiti "non fanno nulla per cercare una soluzione ma creano solo confusione allontanando Israele dai futuri negoziati con gli arabi".
L'amministrazione Trump ha fortemente criticato la politica dell'ex-Presidente Barack Obama per aver rifiutato a dicembre di applicare il veto a una risoluzione antisraeliana.
L'ambasciatrice americana all'ONU ha definito la risoluzione, che è stata approvata dopo l'astensione degli Stati Uniti, un "terribile errore".

(Mosaico, 24 aprile 2017)


Yom HaShoah

Al suono delle sirene la vita si è fermata oggi in Israele per due minuti di raccoglimento in occasione del Yom HaShoah, la giornata di lutto nazionale in cui vengono ricordati sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti. Questa giornata precede di una settimana il giorno dell'Indipendenza nazionale.

(Notizie su Israele, 24 aprile 2017)


Gli ebrei italiani, Eugenio Curiel e la memoria corta di Milano

Con la storia non si scherza

di Leonoardo Coen

A proposito del 25 aprile, di Brigata Ebraica e della scarsa memoria dei milanesi. Tedeschi e fascisti organizzarono alla Stazione Centrale tre dei 20 convogli italiani destinati ai campi di sterminio. Il primo lasciò Milano il 6 dicembre del 1943: destinazione Auschwitz. C'erano 96 ebrei, di cui 61 uomini e 35 donne. Il secondo fu formato il 30 gennaio del 1944 per deportare, dalla Stazione Centrale (più precisamente dal famigerato binario 21) 128 ebrei, di cui 97 uomini e 31 donne. Il terzo convoglio fu allestito alla Centrale il l 9 maggio 1944 per Bergen-Belsen: salirono in un vagone 35 ebrei. Comprendendo altri 31 trasporti da Trieste (1.177 persone) e uno da Borgo San Dalmazzo (328 persone), più gli ebrei deportati di Rodi e Coo (cittadini italiani dal 1924), le vittime del genocidio nel nostro Paese accertate dal Centro di documentazione ebraica di Milano furono 7.858.
  Quasi 1.000 ebreI, il 4 % della popolazione ebraica italiana (percentuale di gran lunga superiore a quella degli italiani) entrarono nella Resistenza: ne morirono circa 100. Sette furono insigniti di medaglia d'oro alla memoria. Come il docente universitario Eugenio Curiel che per primo aveva chiamato a raccolta tutti i giovani d'Italia contro il nemico nazifascista. Nei confronti dei soldati di Graziani, però, Curiel invitava a non considerarli in nessun caso perduti per sempre, spiegava in quali condizioni avevano probabilmente dovuto piegarsi ai bandi e alle minacce per arruolarli. Puntava ad organizzarne la disgregazione, "perché in loro vedeva delle forze viventi in sviluppo e non solo delle divise" (lo scrisse nel 1951 sull'Unità il partigiano Quinto Bonazzola). Purtroppo, i militi delle Brigate Nere, grazie ad un delatore, lo fermarono a Milano, tra piazzale Baracca e via Enrico Toti, l'eroe della stampella. Curiel tentò la fuga. Lo ferirono ad una gamba, terribile intreccio del destino. Si rialzò, ma lo falciò una raffica. Era il 24 febbraio del 1945. Aveva 32 anni. La spia incassò la taglia. E la scampò.

(il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2017)


L'oasi delle startup Hi-tech e imprese: Israele batte tutti

Incubatori, centri di ricerca e visti speciali per «cervelli» stranieri. Anche Enel a caccia di talenti nel paese amato dal venture capital.

di Elena Comelli

 
Dai pompelmi Jaffa all'hi-tech, la strada non è breve. Israele l'ha percorsa in vent'anni e oggi la bilancia commerciale è in attivo proprio grazie all'alta tecnologia, che costituisce oltre il 50% dell'export. L'economia è cresciuta del 4% nel 2016 e le startup locali hanno raccolto 5 miliardi di investimenti dai capitalisti di ventura. «È stata una felice combinazione fra la nascita della net economy, la concentrazione di centri di ricerca di alto livello e le politiche del governo», sostiene Chemi Peres, figlio del presidente mancato l'anno scorso e fondatore di Pitango, il più grande fondo di venture capital israeliano. Dai primi anni Novanta, Peres ha raccolto due miliardi di dollari, principalmente da Usa e Cina (dall'Europa è arrivato meno del 20%) investendo in oltre duecento società.

 Le tre accelerazioni
  «La prima ondata è arrivata con lo sbarco in Israele dei big della tecnologia, in cerca di cervelli: da Ibm a Intel, da Cisco a Ge, da Hp a Sap, passando per Microsoft, Apple, Google, Facebook, Amazon e altri trecento colossi hi-tech hanno installato qui importanti centri di ricerca, attingendo agli scienziati formati nei dipartimenti universitari più all'avanguardia sull'intelligenza artificiale, la robotica, la bioniformatica, le nanotecnologie», racconta ancora Peres.
  Da qui è partita la seconda ondata, che ha trasformato il Paese in una «Startup Nation», con la crescita di migliaia di imprese locali: Israele ha più società quotate al Nasdaq di qualsiasi altro Paese, esclusi gli Stati Uniti, e più investimenti in venture capital di Germania o Francia.
  Gli incubatori si sono affiancati ai centri di ricerca delle multinazionali. SoSa (South of Salame), uno dei più grandi, con 2. 500 startup e 400 partner industriali, ospita anche il primo acceleratore dell'Enel fuori dall'Italia. «Abbiamo individuato 60-70 startup focalizzate sull'innovazione energetica e sceglieremo le tecnologie più interessanti per integrarle nel nostro portafoglio», spiega Eran Levy, responsabile dell'Enel Innovation Hub.
  La terza ondata è in corso oggi, con le startup locali che diventano campioni internazionali. La nuova generazione di imprenditori sta rivoluzionando interi settori, come nel caso di Mobileye per l'auto a guida autonoma, e si cominciano a vedere i primi cambiamenti economici e sociali, con la graduale inclusione nella crescita dei cittadini arabi, che costituiscono un quinto della popolazione israeliana, ma hanno una partecipazione troppo bassa alla cultura imprenditoriale.
  Il prossimo passo è diventare il punto di riferimento mondiale per gli innovatori. «Vogliamo attrarre forze con un nuovo visto per imprenditori», spiega Avi Hasson, chief scientist del ministero dell'Economia. L'Israel Innovation Authority ha lanciato un programma chiamato Innovation Visas, che fornirà un visto per 24 mesi e sostegno economico agli imprenditori stranieri in arrivo, con l'obiettivo di un prolungamento di 5 anni se il progetto riesce a diventare una società. «Investiamo il 4,3% del Pil in ricerca e sviluppo, uno sforzo molto sbilanciato sul settore privato, che mette 1'85% dei soldi», precisa Hasson. E lo Stato che cosa fa? «Punta sulle imprese più rischiose, quelle che i capitalisti di ventura evitano». Perché solo così si aiuta l'innovazione.

(L’Economia, 24 aprile 2017)


Gli arabi che sostennero la "soluzione finale" sono stati anche i primi a negare la Shoà.

Scrive Uri Edelman: «Il Mufti di Gerusalemme Amin Al Husseini fu un fedele alleato di Hitler, con il quale condivideva l'idea di annientare completamente il popolo ebraico. Questa loro visione alla fine è fallita. Da allora la maggioranza dei tedeschi ha estirpato quell'ideologia dai cuori e dalle menti. Oggi il mondo è abituato a una Germania diversa, contrita e pronta a pagare le colpe di quel suo leader. La dottrina del Mufti, invece, continua a prosperare ancora oggi, inculcata nei bambini sin da piccoli, insegnata in quelle scuole musulmane che predicano giorno e notte che gli ebrei sono infedeli e che devono essere i primi ad essere cancellati dalla faccia dalla Terra. Proclamano che il piccolo lembo di terra su cui vivono gli ebrei appartiene agli arabi palestinesi, che sarebbero i discendenti di cananei e filistei; che gli ebrei non hanno alcun legame coi luoghi sacri né alcuna legittima rivendicazione sul Monte del Tempio di Gerusalemme; che anche il Muro Occidentale ("del pianto") appartiene ai musulmani perché il loro profeta Muhammad vi legò Buraq, la sua miracolosa cavalcatura alata. In breve, una riscrittura totale delle verità storiche zeppa di invenzioni, illusioni e inganni....

(israele.net, 24 aprile 2017)


La sinistra inglese radical chic e antisemita. Cosa dice il caso Livingstone

L'ex sindaco di Londra, beniamino dei progressisti multiculti, è un negazionista della Shoah. dietro la facciata della critica a Israele

da Haaretz (10/4)

Ken Livingstone
La decisione di sospendere parzialmente Ken Livingstone consentendogli tuttavia di rimanere membro del Partito laburista britannico non è stata presa in fretta o senza attenta considerazione delle implicazioni e dell'impatto di tale scelta. Essa anzi ha fatto seguito a giorni di riflessione e alla constatazione che Livingstone è effettivamente colpevole: ma evidentemente essere colpevole d'aver ripetutamente e volontariamente fatto a pezzi la sensibilità ebraica non è sufficiente per rendere qualcuno inadatto a tenere in tasca la tessera del Partito laburista". Lo scrive Dave Rich sul quotidiano della sinistra israeliana Haaretz. "Non è bastato che Livingstone, un anno fa, abbia detto che Hitler negli anni 30 'sosteneva il sionismo'. Livingstone è andato più a fondo di quanto si pensasse possibile quando ha affermato, sulla soglia della sua stessa udienza disciplinare, che negli anni 30 'le SS istituirono campi di addestramento per preparare gli ebrei tedeschi alla vita in Palestina', e che la Germania nazista vendette armi 'all'esercito clandestino ebraico' nel quadro di una 'concreta collaborazione' che è continuata fino all'inizio della Seconda guerra mondiale. Inutile dire che nessuna di queste affermazioni corrisponde al vero, e che gli altri suoi esempi di presunta collaborazione tra le autorità naziste e il movimento sionista sono o del tutto infondati o distorsioni tali dei fatti della storia da risultare fondamentalmente menzogneri. Ma non è questo il punto. Le affermazioni di Livingstone vanno ben oltre l'equiparazione sostanzialmente immorale tra Israele e Germania nazista tanto in voga nei circoli anti-israeliani. E vanno anche al di là della pretesa di tracciare una parentela ideologica tra sionismo e nazismo su cui trotzkisti come Lenni Brenner (che Livingstone cita come fonte autorevole) si sono accaniti per decenni.
  Che Livingstone possa ripetutamente dire queste cose e rimanere nel Partito laburista rende impossibile continuare a considerare quello laburista come un partito che si oppone coerentemente all'antisemitismo in tutte le sue forme, come insiste a dire il suo attuale leader Jeremy Corbyn. Le due cose non sono compatibili fra loro. Non c'è un solo storico serio della Shoah o della Germania nazista che concordi con l'interpretazione della storia data da Livingstone. Le sue affermazioni sono state invece applaudite da NickGriffin, ex leader del British National Party, e da Gilad Atzmon, che definisce se stesso 'un ebreo orgoglioso di odiare se stesso' e viene evitato persino da molti attivisti filo-palestinesi a causa del suo curriculum di dichiarazioni antisemite.
  Il nome di Atzmon ci porta a un convegno di tre giorni sulla legittimità di Israele, che si è tenuto ai primi di aprile a Cork, in Irlanda. Uno dei principali organizzatori del convegno è stato il professor Oren Ben-Dor, della Southampton University. In effetti non ha senso evitare Atzmon e poi abbracciare Ben-Dor, giacché le loro opinioni su ebrei, ebraismo e identità ebraica sono del tutto simili. A quanto è stato riferito, Ben-Dor ha detto al convegno di Cork che gli ebrei hanno una 'mentalità da vittima' contraddistinta dal 'desiderio represso di essere odiati e boicottati', e che devono 'ridiventare umani'. Altri oratori hanno paragonato Israele alla Germania nazista e uno in particolare ha persino sostenuto che i genitori israeliani fanno deliberatamente patire la fame ai loro figli in modo da crescerli come spietati killer. Un altro, naturalmente, ha insinuato che 'agenti del Mossad' siano coinvolti negli attentati terroristici dell'11 settembre. Tutto questo, non lo si dimentichi, nell'ambito di un convegno accademico dove dovrebbero essere rispettati degli standard minimi di verificabilità e ponderatezza delle argomentazioni, e i cui risultati, una volta pubblicati, possono influenzare generazioni di studenti. Livingstone, e tanti con lui, vorrebbe farci credere che lamentare questo genere di affermazioni non costituisce altro che un subdolo tentativo di mettere a tacere le critiche verso Israele. In realtà, nessuna delle affermazioni appena ricordate ha niente a che fare con una normale critica delle politiche israeliane. Appartengono, invece, a un odio paranoico ossessivo verso Israele totalmente slegato dalla realtà e sempre più fantasioso nel forgiare le sue calunnie: un odio che riflette, e a sua volta alimenta, l'antisemitismo contemporaneo. La sinistra britannica non è di per sé antisemita. Tuttavia sta diventando sempre più un luogo dove un certo tipo di antisemita si sente a proprio agio".

(Il Foglio, 24 aprile 2017)


Quei bimbi ebrei in fuga dal Gran Muftì e da Hitler

La vicenda dei piccoli che scapparono dalla persecuzione nei Paesi conquistati dai nazisti, passando dalla Croazia e da Nonantola, nel Modenese. Il libro di Mirella Serri e il 25 aprile.

di Pierluigi Battista

Conoscessero anche solo un po' di storia, avrebbero evitato di maltrattare gli ebrei italiani il prossimo 25 Aprile. Avrebbero potuto informarsi e conoscere la vicenda drammatica raccontata da Mirella Serri in un libro appena pubblicato per Longanesi e che s'intitola Bambini in fuga, arricchito di un sottotitolo da sottoporre ai responsabili dell'Anpi romana che scioccamente, al di là ovviamente delle legittime differenze su un conflitto che non riesce a pacificarsi sul principio «due popoli, due Stati», hanno usato le organizzazioni filo-palestinesi per spacciare l'assurda tesi di Israele come casa statale dei nuovi nazisti e dei palestinesi come nuove vittime: «I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono». In questo libro i protagonisti sono 4 gruppi. C'è quello di Hitler e della sua banda che ha allestito lo spettacolo mostruoso della «soluzione finale» per il popolo ebraico come momento necessario dell'edificazione del Reich millenario costruito con la vittoria nella guerra.

 Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme che odiava gli ebrei
  C'è il gruppo di bambini ebrei che scappano dalla persecuzione nei Paesi conquistati dai nazisti e passano prima dalla Croazia e poi per Nonantola, un paese della provincia di Modena. Ci sono, terzo gruppo di cui dovremmo andare orgogliosi, gli italiani che in condizioni difficilissime, proibitive, sfidando la gelata e la morte, aiutano i «bambini in fuga» che poi, finita la tragedia, riusciranno a raggiungere in Palestina il nucleo ebraico che pochi anni dopo, legittimato da una risoluzione dell'Onu e avversato dagli arabi contrari all'insediamento di un'«entità sionista» nella regione mediorientale, diventerà Stato di Israele. C'è poi un quarto gruppo, quello dei musulmani della Bosnia, che darà vita alla divisione Handschar delle Waffen SS, fondamentale nell'oscena caccia al bambini ebrei in fuga dall'Olocausto, sotto l'impulso e grazie all'organizzazione del vero personaggio di questo libro di Mirella Serri e che gli antisionisti in cerca di bandiere antifasciste per il 25 Aprile dovrebbero conoscere: Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, l'uomo che odiava gli ebrei e che per contrastarli aveva trovato in Hitler il suo faro e nello sterminio del popolo ebraico il programma in cui riconoscersi.

 Ostilità antibritannica
  Lo Stato di Israele ancora non esisteva negli anni Trenta, ma la sola presenza ebraica nelle terre sante dell'Islam veniva considerata dal Gran Muftì di Gerusalemme un corpo da sradicare con la forza. La sua predicazione prevedeva la diffusione dei più vieti pregiudizi dell'antisemitismo: «L'opprimente egoismo insito nel carattere degli ebrei, la loro turpe convinzione di essere la nazione eletta da Dio li rende indegni di fiducia», e ancora: «Gli ebrei non possono mescolarsi a nessun'altra nazione, ma vivono come parassiti tra le genti, ne succhiano il sangue, si appropriano indebitamente dei loro beni, ne corrompono la morale». È questo esplicito antiebraismo che crea una corrispondenza d'amorosi sensi con Hitler. Rafforzata da una questione geopolitica: perché l'ostilità antibritannica del Gran Muftì si alimenta dalla decisone di Londra, svanito l'Impero ottomano, di riconoscere sin dal 1917 la necessità di un «focolare ebraico» da accogliere nella terra degli avi. Contro Londra, Hitler è il grande alleato e il furore antiebraico di matrice islamica dl Gran Muftì vedrà nel progetto nazista di cancellazione degli ebrei dalla faccia della Terra il compimento di una strategia politica oltreché il segno di un delirio antisemita.

 Falsificazione insopportabile
  Dimenticare questo sfondo storico, evocato dal libro di Mirella Serri, in una ricorrenza come il 25 Aprile apre le porte a una forma di falsificazione insopportabile, che rovescia i ruoli, quello della Brigata ebraica che proprio insieme agli inglesi partecipò militarmente alla lotta contro Hitler, e quello di un uomo che, finita la guerra, avrà una grande influenza nella negazione araba di un «focolare ebraico». Oggi quelle bandiere con la stella di Davide vengono oltraggiate, mentre non viene ricordato chi diede il suo appoggio allo sterminio del popolo ebraico voluto da Hitler. Un oltraggio che ci riguarda, e riguarda tutta la nostra storia.

(Corriere della Sera, 24 aprile 2017)


Ebrei a Shanghai, le carte ritrovate

Fra il 1933 e il 1941 circa 18mila ebrei in fuga dall'Europa e specialmente da Germania, Austria e Polonia, in quegli anni nella morsa del nazifascismo, delle leggi razziste e della guerra, riuscirono a rifugiarsi a Shanghai.
Determinante, per la loro salvezza, una serie di coincidenze favorevoli, ma anche il prodotto dell'impegno e del coraggio di chi, come il console generale della Cina a Vienna Ho Fengshan, lo "Schindler cinese", offrì a non meno di 3mila ebrei austriaci una via di salvezza verso la Cina.
Napoli fu una delle città che videro il transito, per alcuni anni, di queste navi dirette verso l'Estremo Oriente.
Attraverso documenti, testimonianze, libri, fotografie, l'esposizione "Gli Ebrei a Shanghai" organizzata dall'Istituto Confucio dell'Università degli studi di Napoli "L'Orientale" in collaborazione con lo Shanghai Jewish Refugees Museum, che ha curato i pannelli espositivi, l'Istituto Italiano di Cultura, il Consolato Generale d'Italia a Shanghai, la Comunità ebraica cittadina, il Centro di Studi Ebraici e la Biblioteca Nazionale di Napoli, illustra per la prima volta al pubblico gli aspetti storici, le vicende collettive, i drammi personali e i momenti di speranza vissuti a Shanghai dalla comunità dei rifugiati, sradicati dai propri Paesi di origine e trovatisi a vivere in una realtà completamente nuova.
Nel 1942, con l'ingresso dei giapponesi a Shanghai, le autorità nipponiche imposero l'istituzione di un ghetto nell'area di Tilanqiao, nel distretto di Hongkou, obbligando tutti i rifugiati ebrei a stabilirvisi. Il ghetto esaurì la sua funzione nel dopoguerra, quando la maggior parte dei residenti scelsero di trasferirsi negli Stati Uniti, in Australia, in Canada e in Israele, iniziando una nuova vita.
Nel 2007 l'antica sinagoga di Shanghai, "Ohel Moshe", fondata da immigrati russi già nel 1907, è stata ristrutturata e destinata a ospitare un museo interamente dedicato alla vicenda dei rifugiati ebrei: lo Shanghai Jewish Refugees Museum, frequentato sino ad oggi da più di 300mila visitatori.
In occasione dell'esposizione alla Biblioteca Nazionale, visitabile fino al 20 maggio, la mostra è stata arricchita da una preziosa selezione di testi antichi e moderni sulla Cina, tratta dai ricchi fondi della Biblioteca; e da numerosi documenti d'epoca sull'assistenza ai rifugiati, tratti per la prima volta dall'Archivio Storico della Comunità ebraica.

(moked, 23 aprile 2017)


Palestinese ferisce quattro persone a Tel Aviv

Polizia, è un attentato. Sospesi permessi a palestinesi

TEL AVIV - Un palestinese ha accoltellato sul lungomare di Tel Aviv almeno quattro persone ferendole leggermente ed è stato poi fermato da alcuni agenti. Lo ha detto il portavoce della polizia precisando che si è trattato di un attentato. Secondo una prima ricostruzione, il palestinese - residente a Nablus in Cisgiordania
e di cui si stanno ora esaminando le modalità di ingresso in Israele - ha colpito le prime due persone con attrezzi da lavoro nei pressi dell'Hotel Leonardo su Hayarkon Street e quindi altre due a poco distanza dall'Hotel Herods. L'uomo è stato poi immobilizzato dai dipendenti degli alberghi e dagli agenti accorsi sul posto.
A seguito dell'attentato, il coordinatore delle attività militari israeliane nei Territori Yoav Mordechai ha sospeso la concessione di permessi di ingresso giornalieri per i palestinesi della Cisgiordania
      come sopra
. Lo ha reso noto la radio militare secondo cui questa sospensione dovrebbe avere una durata di alcuni giorni.

(ANSA, 23 aprile 2017)


Dall'Italia a Israele, la scelta di Micol prossima "medaglia d'eccellenza" dell'esercito

di Ariela Piattelli

E' tra i migliori soldati dell'esercito israeliano e sarà premiata con la "medaglia d'eccellenza" dal presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin. Ha 25 anni Micol Debash, che dall'Italia è andata a vivere in Israele per fare un'esperienza professionale. Poi ha deciso di restarci e di arruolarsi nell'esercito. Oggi è caporale e da ordini a cinque soldati della sua unità.
   Così il 2 maggio, data in cui si festeggia il giorno dell'Indipendenza dello Stato d'Israele, Micol Debash sarà nella residenza di Rivlin assieme ad altri 120 ufficiali scelti come i più meritevoli per il loro contributo all'esercito e al Paese. Alla cerimonia saranno presenti anche il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della difesa Avigdor Lieberman, e il capo di Stato maggiore Gadi Eizenkot. «Mi hanno detto del premio il giorno del mio compleanno - dice la caporale -, non me lo aspettavo ed invece mi è arrivato questo regalo». L'unità della Debash si occupa di relazioni internazionali nelle accademie militari. Nell'Israel National Defence College ogni anno arrivano a studiare alti ufficiali, esponenti del ministero degli esteri, della finanza e della difesa.
   L'obiettivo dell'accademia è creare un linguaggio condiviso sulla sicurezza nazionale. «Su questi temi Israele rappresenta un'eccellenza - continua -. Per questo molti arrivano da altri paesi per frequentare le accademie israeliane. Io mi occupo proprio di quegli ufficiali arruolati in altri eserciti che vengono per studiare sicurezza nazionale, il mio ruolo è una sorta di portavoce, sono a stretto contatto con addetti militari e ambasciate. Ho anche il compito di seguire le delegazioni che arrivano dai collegi militari del mondo: le porto ai confini, le aggiorno sulle situazioni, gli faccio incontrare gli ufficiali al fronte. L'idea è dare una prospettiva strategico militare, ma anche raccontare il Paese, sfatando falsi miti e pregiudizi. Insomma, ogni giorno mi impegno ad accrescere e a migliorare le relazioni dell'esercito israeliano con quelli degli altri paesi, ed è questa la motivazione del premio».
   Quest'anno a Gerusalemme sono premiati, tra gli altri, 20 "soldati soli", ovvero quelli che non hanno la famiglia in Israele, «io sono una tra questi - continua -. Sono partita sola nel 2014 per fare un "internship" in un quotidiano israeliano. Poi mi sono trovata bene, e ho preso la cittadinanza. Cercavo un modo per contribuire al Paese, ho deciso di arruolarmi, ma a 24 anni ormai avevo superato il limite di età. Così ho dovuto insistere parecchio e alla fine mi hanno presa». Per lei c'è anche una motivazione personale che ha giocato un ruolo fondamentale nella scelta di indossare la divisa: «Ho seguito le orme di mio padre, anche lui ha fatto l'esercito in Israele, l'ho perso quando avevo 16 anni. Oggi porto al collo la sua medaglietta vicino alla mia». L'esperienza militare alla Debash è servita anche per capire quale professione intraprendere quando, tra pochi mesi, lascerà l'esercito: «Quando mi sono arruolata pensavo che fosse un sacrificio, una pausa dalla vita - conclude -. In realtà questa esperienza mi ha fatto crescere anche professionalmente e ho deciso che dopo l'esercito farò un master in sicurezza nazionale con specializzazione in antiterrorismo».

(La Stampa, 21 aprile 2017)


Ebrei e amici di Israele fra Assago e il 25 aprile

«Stop alle prediche d'odio»

C'è una doppia inquietudine che grava, in questi giorni, sugli ebrei di Milano e sugli amici di Israele. Da un lato un «Festival» che per gli esperti si colloca nell'alveo dei Fratelli musulmani, dall'altro gli appelli a contestare la Brigata ebraica, che arrivano da sinistra e dalle frange estreme dei centri sociali. Il segretario degli Amici di Israele Davide Romano, che ha riscoperto la storia della Brigata ebraica, mette in guardia da eventi come quello di Assago: «Siamo stufi - dice - di sentire tante parole di condanna dopo gli attentati terroristici, e sempre e solo silenzi di fronte ai predicatori di odio. Questa è l'ennesima possibilità per parlare, speriamo che non venga persa. Sono queste le occasioni in cui si vede davvero chi è contro l'odio che contribuisce a alimentare il terrorismo».
Martedì il corteo del 25 aprile si annuncia teso, ma le insegne della Brigata ebraica ci saranno. E ci sarà l'associazione milanese Pro Israele. «Bandiera della Brigata in alto, bandiere israeliane (per chi vuole) sulle spalle» è l'indicazione. E il presidente milanese Alessandro Litta Modignani scrive: «Come tutti gli anni (...) riceveremo molti applausi (che ricambieremo) strette di mano, abbracci, apprezzamenti. Lungo il corteo, festeggeremo felici l'anniversario della fine della dittatura e della guerra. Quando arriveremo all'angolo di piazza San Babila, un manipolo di facinorosi, con il volto stravolto dall'odio, ci copriranno di insulti, maledizioni e invettive (che non ricambieremo)». «Ognuno se ne andrà per la sua strada, con un vago senso di amarezza nell'animo, ma con la convinzione di avere fatto la cosa giusta».

(il Giornale, 23 aprile 2017)


Mattis a Tel Aviv: gli USA si impegnano a mantenere la sicurezza di Israele

 
Durante una conferenza stampa congiunta con la controparte israeliana, Avigdor Lieberman, il segretario della difesa americano, James Mattis, ha affermato che gli USA apprezzano i forti legami con Israele.
   Il 21 aprile, Mattis è stato in visita a Tel Aviv, dove ha incontrato il presidente israeliano Reuven Rivlin, ed il primo ministro, Benjamin Netanyahu. Da quando è stato nominato segretario per la difesa americano, è il primo viaggio ufficiale che Mattis ha compiuto in Israele. "Sono onorato di tornare qui per mostrare il mio rispetto verso questo paese", ha riferito Mattis durante la conferenza con il ministero della difesa israeliano.
   Dopo aver visitato l'Arabia Saudita e l'Egitto, due alleati chiave degli USA nella regione mediorientale, il segretario della difesa americano si è recato in Israele per rafforzare i legami di sicurezza e per instaurare una cooperazione più forte. Mattis ha riferito di aver concluso il terzo meeting con Lieberman, da gennaio ad aprile, e che il loro dialogo costante riflette la profondità delle relazioni tra gli USA e Israele. "La forza dei nostri rapporti è chiara", ha affermato Mattis, aggiungendo che "in seguito al bombardamento americano contro la base di Sharyat in Siria, il 7 aprile, Israele ha espresso immediatamente il proprio supporto all'azione statunitense".
   Discutendo sulle questioni di sicurezza della regione, Washington ha affermato di riconoscere che l'ISIS rappresenta "un pericolo chiaro e presente", non solo in Siria e in Iraq, ma anche in Israele, in altri paesi della regione, in Europa, e anche negli gli USA stessi. "La campagna militare contro i jihadisti in Siria e in Iraq sta andando avanti, abbiamo accelerato e intensificato le operazioni nelle aree intorno ai maggiori centri sotto il controllo dei terroristi per rimuovere fisicamente il califfato", ha spiegato il segretario della difesa americano. Riguardo alla questione iraniana, gli USA riconoscono la necessità di affrontare le attività destabilizzanti di Teheran in Medio Oriente. "L'Iran continua a minacciare Israele e i paesi vicini con missili ed attività marittime e cibernetiche, insieme ad altre azioni indirette, come il sostegno ad Hezbollah, che sta aiutando il regime siriano, e agli Houthi, in Yemen", ha spiegato Mattis, aggiungendo che "alla luce di tali evidenze, gli USA si impegneranno a mantenere la sicurezza di Israele". Il 15 settembre 2016, gli Stati Uniti hanno fornito a Tel Aviv un pacchetto di aiuti dal valore di 38 miliardi di dollari, sotto forma di assistenza militare, dalla durata di 10 anni, il quale ha costituito il pacchetto di aiuti dal valore più alto che gli USA abbiano mai donato ad un altro paese. Dall'altra parte, Netanyahu ha accettato di dare alcune concessioni a Washington, tra cui la promessa di non chiedere alcun ulteriore fondo al Congresso americano, al di là del budget annuale concordato dal nuovo pacchetto, e anche di spendere una buona parte degli aiuti per promuovere il proprio settore della difesa.
   "La nostra alleanza con Israele è la pietra miliare di un'architettura di sicurezza regionale più vasta che comprende la cooperazione con l'Egitto, la Giordania, il Regno dell'Arabia Saudita e altri partner del Golfo ", ha detto Mattis, il quale ha concluso dicendo: "Il mio obiettivo è quello di rafforzare ulteriormente le nostre alleanze per scoraggiare e sconfiggere le minacce degli avversari".

(Sicurezza Internazionale, 23 aprile 2017)


L'Anpi ha vietato alla comunità ebraica di partecipare

Lettera a “il Fatto Quotidiano”

Scrivo in merito alla partecipazione della comunità ebraica romana alla manifestazione del 25 aprile, organizzata dall'Anpi di Roma. Mi sembra che si stia obliterando il fatto che I'Anpi di Roma ha precluso alla brigata ebraica di concorrere e partecipare alla manifestazione. In che modo? Estendendo l'invito ad associazioni di italiani (non palestinesi) massimalisti o militanti di ultrasinistra intenzionati a contestare la presenza della brigata ebraica e della comunità israelitica romana. In questo modo si sta trasformando il 25 aprile in qualcosa che non c'entra affatto, in una gazzarra antisraeliana. Altrove, a Milano o Torino, le cose stanno andando diversamente. La sezione Pd romana non c'entra, come non c'entra alcuna dietrologia legata al referendum del 4 dicembre. Non trasformiamo il 25 aprile in un potpourri. A ciascun giorno il suo affanno.
Antonio Caputo

(il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2017)


Qatar-Usa: incontro a Doha tra emiro Al Thani e capo del Pentagono

L'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, accoglie il Segretario alla Difesa americano James Mattis presso la residenza Prince's Sea Palace di Doha, il 22 aprile 2017.
DOHA, 22 apr - Il segretario alla Difesa Usa, James Mattis, ha incontrato oggi l'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, in occasione della sua visita in Qatar, dove ha sede la maggiore base aerea statunitense del Medio Oriente. La visita a Doha rientra in un tour iniziato il 19 aprile scorso dall'Arabia Saudita, proseguito in Egitto e Israele e che dovrebbe concludersi domani a Gibuti. Il capo del Pentagono ha in programma oggi anche un incontro con il ministro della Difesa del Qatar, Khalid Al Attiya. I colloqui con l'emiro sono stati focalizzati sulla lotta allo Stato islamico, la crisi siriana e il ruolo regionale dell'Iran, che gli Usa ritengono "destabilizzante".
  Sostegno Usa ad Israele, ruolo dell'Iran nello scacchiere mediorientale, crisi in Siria e conflitto israelo-palestinese sono stati invece i temi principali affrontati dal segretario alla Difesa Usa nel corso della sua visita nello Stato ebraico. Il capo del Pentagono ha incontrato il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, il premier, Benjamin Netanyahu, il capo dello Stato, Reuven Rivlin, ed altri alti funzionari di Gerusalemme. Il sostegno di Washington allo Stato ebraico per affrontare le minacce regionali è stato ribadito da Mattis nel corso del suo incontro con Netanyahu. Gli Stati Uniti sono impegnati a fermare le minacce regionali e fare tutto il possibile per consegnare un mondo pacifico e libero alle nuove generazioni, ha detto il segretario alla Difesa Usa. "Penso sia importante ricordare che se le persone buone non si uniscono, le persone cattive possono fare molti danni", ha affermato il capo del Pentagono.
  Il ruolo dell'Iran nel quadro geopolitico regionale è emerso invece nel corso dell'incontro fra Mattis e l'omologo israeliano Lieberman. E' cruciale imporre nuove sanzioni sull'Iran per scardinare l'asse che collega la Corea del Nord all'Iran, fino a raggiungere la Siria ed il movimento sciita libanese Hezbollah, ha detto il ministro della Difesa israeliano. "Non vi è dubbio che il problema principale per noi e per tutti è l'asse del male che va dalla Corea del Nord a Teheran, Damasco ed Hezbollah a Beirut", ha affermato Lieberman accogliendo calorosamente il segretario Usa alla Difesa, che lo scorso 18 aprile ha intrapreso un tour in Medio Oriente, partendo dall'Arabia Saudita. Mattis è il primo funzionario dell'amministrazione Usa a recarsi in Israele. Lieberman ha sottolineato come "Israele non sia nella posizione di dare alcun consiglio agli Stati Uniti" per valutare se l'Iran stia rispettando l'accordo sul nucleare firmato nel luglio 2015.
  Il responsabile della Difesa israeliano ha evidenziato il "completo nuovo approccio" dell'amministrazione del presidente Donald Trump nei confronti di paesi come Corea del Nord, Iran e Siria. "E' un messaggio chiaro al regime iraniano e siamo molto soddisfatti", ha affermato Lieberman. Da parte sua, Mattis ha dichiarato che l'Iran sembra stia rispettando l'accordo sul nucleare, ma Washington riconosce la necessità di affrontare "le attività destabilizzanti dell'Iran che continua a minacciare Israele ed i paesi della regione attraverso missili balistici, attività della Marina e cibernetiche". Il capo del Pentagono ha messo in guardia anche nei confronti della "minaccia" che Teheran compie attraverso partner come Hezbollah "per mantenere al potere il presidente siriano Bashar al Assad".
  Secondo quanto sottolineato in un comunicato stampa diffuso nei giorni scorsi dal Pentagono, l'obiettivo della visita di Mattis, la prima del segretario alla Difesa in Medio Oriente e Nord Africa, è "riaffermare le alleanze militari chiave degli Stati Uniti" e discutere della cooperazione per contrastare le attività che destabilizzano lo scenario internazionale e sconfiggere le organizzazioni terroristiche. Il viaggio mira inoltre ad offrire agli alleati una maggiore chiarezza sulla strategia di politica estera di Trump e la volontà da parte di Washington di utilizzare la sua potenza militare più liberamente rispetto all'amministrazione di Barack Obama.
  La scelta come prima tappa dell'Arabia Saudita conferma l'intenzione dell'amministrazione Trump di rafforzare i rapporti con lo storico alleato, divenuti particolarmente freddi negli ultimi anni di governo dell'amministrazione Obama, in particolare a causa dell'accordo sul nucleare iraniano. La visita di Mattis a Riad, giunge a pochi mesi dal viaggio negli Emirati arabi uniti avvenuto nel mese di febbraio, il primo nel Golfo del responsabile della Difesa e comandante del Comandando centrale degli Stati Uniti (Centcom). I colloqui a Riad rientrano nella nuova strategia degli Stati Uniti in Siria e in Yemen. Washington starebbe prendendo in considerazione il ruolo più attivo nel conflitto yemenita, dove l'Arabia Saudita guida la coalizione di paesi arabi a sostegno del governo del presidente Abd Rabbo Mansour contro i ribelli sciiti Houthi appoggiati indirettamente dall'Iran. Al vaglio dell'amministrazione Trump vi sarebbe l'avvio di un nuovo tipo di assistenza all'Arabia Saudita, che include il supporto dell'intelligence, oltre alla possibile vendita di missili di precisione all'Arabia Saudita.
  Nel corso della visita al Cairo, Mattis ha espresso il sostegno di Washington alla lotta al terrorismo che sta portando avanti il governo egiziano. L'Egitto è rimasto in questi anni uno dei principali beneficiari dell'assistenza militare e degli aiuti esteri statunitensi, che ammontano a circa 1,5 miliardi di dollari l'anno. La bozza di bilancio federale presentata al Congresso dalla Casa Bianca, tuttavia, non include alcuna garanzia scritta in merito alla prosecuzione degli aiuti all'Egitto o a qualunque altro paese, fatta eccezione per Israele. L'Egitto, in particolare, riceve circa 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari e 150 milioni di dollari di assistenza economica. Il paese arabo è infatti il secondo maggiore beneficiario di aiuti statunitensi dopo Israele. Nel 2013, tuttavia, Washington ha sospeso il programma di aiuti in seguito alla deposizione del presidente islamista Mohamed Morsi. Gli aiuti sono ripresi nel 2015, con il divieto di acquisto di armamenti su ampia scala disposto dalla precedente amministrazione di Barack Obama.
  La visita in Qatar di Mattis ha lo scopo invece di rafforzare i rapporti con Doha, che a differenza di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non ha ancora instaurato stretti legami con Washington, pur restando un partner fondamentale per gli Stati Uniti. Il piccolo emirato ospita la sede regionale del Centcom ed è un attore importante nella guerra siriana. Di particolare importanza risulta inoltre la tappa a Gibuti. Il capo del Pentagono visiterà la base statunitense ospitata nel paese africano che gestisce le operazioni in Yemen e in Somalia contro i militanti di al Qaeda e di al Shabaab. La scorsa settimana il Pentagono ha annunciato l'invio di alcune decine di militari in Somalia della 101ma divisione aviotrasportata per addestrare l'esercito nazionale e condurre operazioni di sicurezza. Il numero di militari nel paese del Corno d'Africa non è ancora noto con chiarezza, ma risulta il più consistente impegno di Washington dal 1993.

(Agenzia Nova, 22 aprile 2017)


Il 25 aprile e il valore della memoria degli ebrei che ci liberarono

Riflessione sulle inopportune polemiche riguardo a chi e come dovrebbe sfilare per la festa della Liberazione. Al centro del dibattito la cosiddetta Brigata Ebraica "Chativah Yehudith Lochemeth" che combattè valorosamente per la Liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo. Secondo qualcuno per sfilare con i partigiani il 25 aprile gli ebrei dovrebbero rinunciare alla loro bandiera con la stella di David: come offendere la storia e la lotta contro ogni tirannia.

di Marco Perduca
Marco Perduca è stato Senatore della Repubblica dal 2008 al 2013 eletto con i Radicali. E' dirigente dell'Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.


Come purtroppo accade da qualche anno a questa parte, anche questo 25 aprile, Festa della Liberazione dal nazifascismo, porterà con sé polemiche su chi parteciperà ai cortei commemorativi. Al centro del dibattito la cosiddetta Brigata Ebraica "Chativah Yehudith Lochemeth".
   Come ha ricordato sul Corriere della Sera qualche giorno fa Paolo Mieli la Jewish Brigade "fu istituita il 20 settembre del 1944 per decisione di Winston Churchill e, al comando del canadese Ernest Frank Benjamin, fu inquadrata nell'esercito che combatteva contro i tedeschi". Fu quindi frutto di una chiamata alle armi che il governo britannico lanciò alle autorità ebraiche in Palestina e che portò a combattere, con particolari successi in Italia centrale, migliaia di persone. Come accadde per altre formazioni alleate, rappresentò una brigata trans-nazionale - i militari di origine ebraica provenivano un po' da tutta Europa oltre che da quello che poi sarebbe diventato lo stato d'Israele.
   La brigata infatti non combatté solo sul fronte europeo, Moshè Dayan, che 26 anni dopo avrebbe guidato l'esercito israeliano nella Guerra dei Sei Giorni, perse un occhio sul fronte siriano, molti membri della Brigata negli anni successivi avrebbero combattuto contro i loro alleati britannici per l'indipendenza di Israele e ne sarebbero diventati dirigenti. L'efficacia, e anche il sacrificio, di quei liberatori d'Italia potrebbe esser presto riconosciuta con un'apposita legge presentata alla Camera dei Deputati dalla Deputata dal Partito Democratico Lia Quartapelle.
   La Liberazione dell'Italia, che tra l'altro non sarebbe mai avvenuta per come avvenne senza l'apporto delle forze militari alleate, viene "interpretata" e "attualizzata" con l'aggregazione di altre associazioni e gruppi che si battono per liberazioni di vari genere e specie ma mai, guarda caso, relative regimi nazional-socialisti d'oggi. Tra queste ve ne sono diverse filo-palestinesi, perché da sempre è filo-palestinese la sinistra ufficiale italiana che gestisce le manifestazioni del 25 aprile e le associazioni "combattentistiche" che le convocano e organizzano.
   Ma quale è il problema attorno al quale son nate le polemiche? L'effige della Brigata Ebraica è, praticamente, quella che diverrà la bandiera di Israele, l'unica differenza è che il Maghen David era giallo. Purtroppo sappiamo che se al mondo c'è una bandiera che suscita sentimenti contrastanti dopo la Star-Spangled Banner quella è la bandiera israeliana. Probabilmente non esiste paese dove non si sian tenute manifestazioni, ahinoi anche pacifiste, che non si siano concluse con falò di queste due bandiere. Chi lotta per i diritti dei palestinesi, anzi, diciamola meglio per la creazione di uno Stato palestinese, non tollera di vedere la bandiera del nemico al proprio fianco. Questo è il problema per cui agli eredi della Brigata Ebraica non è concesso di sfilare in pace il 25 aprile. Qualche anno fa, in occasione della marcia di Roma, si arrivò all'aggressione fisica contro la comunità ebraica - che per onorare i propri avi combattenti non si tirò indietro.
   Ora, tutto sarebbe da iscrivere nei consueti scambi di opinioni, sempre molto forti, tra filo-israeliani e filo-palestinesi se non fosse che, per l'appunto, durante la seconda guerra mondiale la leadership religiosa e politica dei palestinesi stava dalla parte dei nemici! Come segnalava in un pezzo sull'Huffington Post italiano Vittorio Pavoncello giorni fa "è recente il ritrovamento di un telegramma inviato da Heinrich Himmler (numero due della Germania nazista dopo Hitler) al Gran Mufti di Gerusalemme Muhammad Amin al-Husayni, in cui si offrirebbe la collaborazione allo sterminio degli ebrei in Palestina. Un semplice scambio di favori: uno li eliminava in Europa e un altro in Palestina. Il Gran Muftì, amico personale del Fuhrer, nel 1943 fu inviato dai nazisti nei paesi balcanici per reclutare combattenti islamici e formare la 13 Waffen Gebirds Division SS Handschar, unità che si distinse particolarmente, insieme agli Ustashà di Ante Pavelic, in efferati crimini di guerra soprattutto verso le inermi popolazioni civili".
   L'Associazione Nazionale Partigiani Italiani, ANPI ha un atteggiamento non omogeneo in tutta Italia e come risultato, quest'anno i rappresentanti della Brigata non marcerano a Roma mentre saranno presenti a Milano. Certo è che il non chiarire chi, come e quando si schierò da quale parte durante la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di resistenza che portò alla liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo non aiuta celebrare chi perse la vita per la libertà oltre 70 anni fa.
   Concordo pienamente con l'amico Pavoncello quando lamenta che "vecchi manifestanti ebrei vengono offesi e vilipesi da giovani che ignorano la storia […] cancellando la memoria di oltre 2.000 ebrei partigiani d'Italia, tra i quali Emanuele Artom, giovane studente torinese, Giulio Bolaffi, giovane capo di Giustizia e Libertà, come Franco Cesana il più giovane partigiano d'Italia, Primo Levi, Toaff, Leo Valiani, Umberto Terracini".
   Nel 2017 sarebbe arrivato il momento di liberarci da oscurantismi e negazionismi e guardare avanti alle liberazioni dalle ahinoi molte tirannie ancora esistenti. Purtroppo dovremo aspettare l'anno prossimo.

(La Voce di New York, 22 aprile 2017)


La mummia in Israele

Una mostra interessante ospitata nel Museo d'Israele a Gerusalemme.

 
La mummia insieme ad altri oggetti dell'epoca egizia, sono ospitati all'interno dell'ala archeologica del Museo d'Israele a Gerusalemme.
Protagonista di questa mostra è un mummia custodita nel suo sarcofago originale e risale a 2200 anni fa, l'esposizione raccoglie molti altri oggetti ritrovati in alcune tombe egizie che comprendono l'arredo tipico funerario, risalenti al IV secolo AC.
La "mummia" è l'unica in Israele e fu donata All'Istituto Pontificio Biblico di Gerusalemme nel 1930, in onore della sua costituzione, dall'associazione Gesuita di Alessandria, questo è il motivo del suo soprannome, infatti molti chiamano questa Mummia con il l'acronimo di "Alex".
La mummia all'epoca arrivò in sarcofago decorato con immagini di divinità e iscrizioni che identificano la salma come un sacerdote di alto rango della città Egizia di Akhmim.
Oltre a questa mummia, l'esposizione comprende un ibis imbalsamato, perfettamente custodito.
Questo prezioso oggetto fu regalato dal Presidente Egiziano Anwar el-Sadat nel 1979 al vice premier israeliano Yigael Yadin (che tra l'altro fu un famoso storico e archeologo), in occasione del suo storico viaggio in Israele.

(Cool Israel, 22 aprile 2017)


Autorità Palestinese e Unrwa, culle dell'irredentismo estremista che nega l'esistenza di Israele

È articolo di fede nella comunità internazionale che l'Autorità Palestinese sia una forza moderata che vuole fare la pace con Israele. Questa credenza è stata erosa da molte azioni e dichiarazioni dell'Autorità Palestinese sin dalla sua creazione con la firma degli Accordi di Oslo, ma in qualche modo sopravvive e sta alla base di molte critiche che vengono mosse al governo di Israele. L'ultima prova che l'Autorità Palestinese è in realtà un ostacolo alla pace non ha ricevuto alcuna attenzione dalla stampa occidentale. Eppure il recente diverbio scoppiato tra l'Autorità Palestinese e l'Unrwa la dice lunga su ciò che c'è di sbagliato nell'Autorità Palestinese.
Le scuole e i progetti di aiuto dell'Unrwa sono stati culle di irredentismo estremista finalizzato a cancellare l'esistenza dello stato ebraico, e sono stati addirittura sfruttati da Hamas. In particolare, molti critici hanno notato come le scuole dell'Unrwa in Cisgiordania e striscia di Gaza abbiano programmi e libri di testo che insegnano a 600mila ragazzi palestinesi a respingere la legittimità di Israele e a glorificare la lotta armata per distruggerlo....

(Italia Israele Today, 22 aprile 2017)


Siena - Luciano Valensin alla Sinagoga, martedì 25 aprile inaugurazione della mostra

Presentazione dell'opera donata dall'autore alla Società Israelitica di Misericordia di Siena

Luciano Valensin - "Oranti in Sinagoga"
Data dal forte significato simbolico, quella di martedì 25 aprile è stata scelta per inaugurare - alle 16 - la mostra Luciano Valensin alla Sinagoga di Siena, con la presentazione dell'opera 1945: oranti in Sinagoga che l'artista ha donato alla Società Israelitica di Misericordia di Siena. L'esposizione, con una selezione di circa 20 opere, resterà aperta fino al 15 maggio ed è visitabile nei giorni di apertura di domenica, lunedì e giovedì dalle 10.30 alle 17.30, tour ogni mezz'ora a partire dalle 10.45 e fino alle 16.45.
Il dipinto di Valensin, realizzato in occasione del Giorno della Memoria nel gennaio scorso, è fortemente legato al tema della memoria e alla riapertura della Sinagoga, attorno alla quale la comunità ebraica si raccolse nei mesi successivi la Liberazione della città nel 1945. Il quadro conclusa la mostra resterà in Sinagoga dove ha sede la Società Israelitica di Misericordia.
Luciano Valensin, pittore, poeta e regista teatrale, di teatro per ragazzi, è nato a Siena nel 1938 e vive a Poggibonsi. Diplomato all' Istituto d'Arte di Siena nel 1960, ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Firenze e insegnato disegno ed educazione artistica fino al 1998.
Attivo dal 1960 nella pittura, ha presentato le sue opere in mostre personali e collettive in Italia e all'estero. In questi primi mesi del 2017 Valensin ha partecipato alla collettiva "Lo spirituale nell'arte. Espressioni di Armonia tra le fedi" nello spazio museale del Centro Islamico Culturale d'Italia a Roma e "Libertà delle memorie" a Siena presso le Stanze della Memoria.

(Siena Free, 22 aprile 2017)


Il terrorista opinionista del New York Times

di Yair Lapid*

La cosa che maggiormente sorprende - e che fa infuriare - sull'opinione pubblicata da Marwan Barghouti sul New York Times è il modo con cui viene presentato l'autore. "Marwan Barghouti è un leader palestinese e un parlamentare". Questo non è un errore, è un inganno intenzionale.
  
Chiunque legge l'articolo senza conoscenza dei fatti, arriverà alla conclusione che Barghouti è un combattente per la libertà imprigionato per le sue opinioni. Niente è più lontano dalla verità. La parte mancante dell'articolo è che Marwan Barghouti è un assassino. E 'stato condannato in un tribunale civile (non militare) per cinque omicidi di civili innocenti. Ed è stato coinvolto in decine di tentativi di attacchi terroristici. Ha ucciso, ha portato la morte ed il dolore nelle famiglie, ha distrutto vite.
  
Barghouti non solo crede nella violenza, ma crede anche che sia permesso di mentire. Egli crede nell'opera delle organizzazioni terroristiche, crede che l'Occidente è debole e ingenuo e che, quindi, i nostri media debbano essere raggirati per manipolare l'informazione e attaccare il sistema democratico dall'interno.
  Il tentativo del New York Times con Barghouti è stato quello di "bilanciare", il tentativo di creare una uguale condizione tra assassino e assassinato, terrorista e vittima, menzogna e verità.
  Così Barghouti ha potuto raccontare le storie d'orrore sulle torture subite nelle carceri israeliane. Storie che però non hanno alcuna prova e che reggono sul nulla. Le torture che descrive sono vietate dalla legge israeliana ed anche i più grandi avversari sono costretti a riconoscere che Israele rispetta le leggi.
  La realtà è un'altra. La verità è che ci troviamo difronte ad un terrorista condannato, un carcerato che sta inventando storie su coloro che lo imprigionano, come fanno i prigionieri in tutto il mondo, Stati Uniti compresi.
  Un giornale responsabile prima di pubblicare un articolo di accuse così gravi avrebbe dovuto accertarsi della veridicità delle accuse, vedere se c'erano prove che confortavano la tesi sostenute nell'articolo. Invece il New York Times ha pubblicato quest'articolo di menzogne nelle sue pagine di opinione e non si nemmeno preoccupato di spiegare ai suoi lettori chi era veramente l'autore: un assassino condannato per cinque omicidi.
  
Il momento più alto della sanguinaria carriera di Barghouti è stato durante la Seconda Intifada che, vale sempre la pena ricordare, è scoppiata subito dopo che il primo ministro israeliano, Ehud Barak, aveva offerto ai palestinesi un'offerta che l'intero mondo, compreso il presidente Clinton, riteneva impossibile rifiutare: un ritiro alle linee del 1967, una divisione di Gerusalemme, una soluzione umanitaria alla questione dei rifugiati. Yasser Arafat in tutta risposta mandò Barghouti e la sua gente a uccidere gli israeliani in attacchi suicidi sugli autobus e sui centri commerciali.
  Ecco perché Barghouti è in carcere. Non per le sue opinioni, non per il suo desiderio di uno stato palestinese, non per il suo diritto alla libertà di espressione. Sarebbe potuto - insieme ai prigionieri che sono con lui - essere un libero cittadino di uno Stato palestinese indipendente da tempo se avesso scelto la strada della democrazia. Ha scelto la via del terrore, dell'omicidio e della violenza. Ma il New York Times ha trascurato di raccontarlo ai suoi lettori.
* Presidente del partito israeliano Yesh Atid

(Italia Israele Today, 21 aprile 2017)


«Si strumentalizza una festa per i soliti attacchi a Israele»

L'intervista - La presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello

Il riconoscimento
«Dal Parlamento un bel segnale Tempi lunghi, ma è così per tutto»
Le celebrazioni
Ci ritroveremo in via Balbo dov'era la sede della Brigata
Impegno
Il 25 aprile deve servire a celebrare valori, non divisioni

 
Ruth Dureghello
«Le dico la verità, questa settimana appena trascorsa mi ha dato un po' di stanchezza». Parla Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma. Mancano tre giorni al 25 aprile e sia la Comunità che la Brigata Ebraica non sfileranno con l'Anpi. Da questa decisione, è scaturito un fiorire di polemiche che hanno coinvolto anche il mondo politico.

- È stanca per la guerra di polemiche, presidente?
  «Mah, guerra mi sembra un parolone. C'è un impegno civile che rivendico, l'impegno per la verità storica, culturale e valoriale. E mi auguro sempre si arrivi a una soluzione».

- Quale sarebbe? Non far partecipare al corteo le realtà pro-Palestina?
  «Riportare le cose nella dovuta misura. Il 25 Aprile, se non ricordo male, è la Festa della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo. In questo giorno si celebra chi fece una scelta in favore di certi valori, in moltissimi casi perdendo anche la vita. Oggi, parlare d'altro, mescolare cose diverse, mi sembra coincida con il tradire quello spirito. Un problema di questa società di oggi è la confusione, che è un espediente per evitare decisioni chiare e per evitare distinguo laddove vanno fatti. Tutto ciò ci indebolisce».

- Ieri, però, in una nota della rete romana di solidarietà per la Palestina, che sarà al corteo, c'è scritto che il loro dissenso non è contro la Comunità Ebraica o la Brigata Ebraica, ma contro le politiche di Israele ...
  «Appunto. Non mi pare un approccio molto corretto. Le sembra opportuno che la Festa della Liberazione possa diventare uno strumento per rappresentare il dissenso verso Israele?»

- Come sarà allora il 25 aprile della Comunità Ebraica?
  «Ci ritroveremo a Via Balbo, la sede in cui la Brigata Ebraica si è insediata a Roma. E si tratta di un luogo molto importante per la storia della città, perché lì la Brigata coordinò la sua attività ma si impegnò anche per dare un sostegno concreto alla popolazione civile, collaborando con la Comunità e con le staffette partigiane. Il contributo della Brigata fu importantissimo per portare conforto ai romani, distribuendo cibo, indumenti, organizzare le prime scuole».

- La vostra decisione di non partecipare ha creato molte reazioni nel quadro politico, addirittura il Pd si è spaccato. Come la vede?
  «Guardi, anche entrare nel merito di queste cose sarebbe una strumentalizzazione. Lo ripeto: ho posto una questione valoriale e culturale e le questioni politiche, in un quadro che come sappiamo è molto frammentato, vanno riportate nei contesti adeguati. Il 25 Aprile non lo è».

- Alla Commissione difesa della Camera, intanto, è arrivato il primo via Libera alla legge per attribuire la Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Brigata Ebraica.
  «Sì, una cosa che ci rende molto soddisfatti».

- Però la proposta è rimasta ferma quasi due anni...
  «Io guardo sempre al risultato, e mi pare inutile fare questioni sui tempi. Dal Parlamento è arrivato un segnale di cui va colta l'importanza. Poi, mi pare che i tempi parlamentari siano lunghi non solo in questo caso».

(Il Tempo, 22 aprile 2017)


L'ex Br dell'omicidio Tobagi capopopolo degli anti-Israele

Giordano guida gli ultrà filopalestinesi che vogliono cacciare la Brigata ebraica dal corteo del 25 aprile. Con le «stelle di David» sfilerà Parisi. E si farà vedere anche il sindaco.

di Alberto Giannoni

MILANO - Contestazioni, insulti e appelli al boicottaggio. A Milano la Brigata ebraica sarà dentro al corteo per la Liberazione, ma il clima in cui sfileranno le stelle di David fa paura.
   Le frange estremiste dei centri sociali già preparano l'accoglienza in San Babila, all' altezza della strettoia che separa la sfilata dall'arrivo in piazza Duomo, dove parleranno il sindaco Beppe Sala e il presidente del Senato Pietro Grasso, che ha già avvertito: chi attacca la Brigata ebraica «nega la storia e la piega a interessi avulsi dallo spirito del 25 aprile». Una scomunica istituzionale che lascerà probabilmente indifferenti gli ultrà di un fronte anti-israeliano composto da pochi (ma) esagitati.
   Il coordinamento lombardo del Bds (la sigla che propugna «Boicottaggio, disinvestimento e Sanzioni» nei confronti di Israele) ha confermato che sarà in piazza, ma precisa che «non ha mai partecipato, né partecipa alle contestazioni nei confronti della Brigata ebraica». In effetti sono praticamente dei moderati rispetto al Fronte Palestina, al Forum Palestina e ad altre realtà in cui sguazzano vecchi arnesi dell'estremismo. Il Forum Palestina ha condiviso un intervento in cui si sostiene che le Stelle di David rappresentano «un oltraggio» al 25 aprile, simboli di «uno stato occupante che si è macchiato di crimini di apartheid e pulizia etnica».
   Ci si muove in un impasto delirante di terzomondismo, (malcelato) antisemitismo di sinistra, decrepite suggestioni ideologiche, autentiche bufale. Basti pensare che negli anni scorsi sono stati contestati anche i reduci dei campi di sterminio. E si sono mossi fra urla, sputi e bandiere di Hezbollah gli stessi ebrei milanesi, che sfilavano dietro lo striscione della Brigata che con 5mila uomini partecipò alla Liberazione inquadrata nell'esercito britannico. Particolarmente attivo negli appelli alla contestazione è Francesco Emilio Giordano, lo stesso - ricordano gli Amici di Israele - che ha fatto parte della «Brigata XXVIII marzo» responsabile dell'omicidio del giornalista Walter Tobagi. Condannato a 30 anni e 8 mesi, in appello divenuti 21 anni, Giordano ha finito di scontare la pena nel 2004. Due anni fa si è parlato di lui per un attacco a testa bassa rivolto all'ex presidente della Comunità ebraica milanese, e oggi esponente del Pd, Lele Piano, che resta fra i destinatari di farneticanti polemiche, come Roberto Cenati, il presidente dell' Anpi Milano che - a differenza di quello nazionale - si è schierata dalla parte della Brigata ebraica. Ma non mancano attacchi a Radio Popolare (storica emittente della sinistra milanese).
   E ovviamente viene definito «sionista» (aggettivo distorto e impiegato come il peggiore degli insulti) anche lo stesso Sala, che l'anno scorso ha reso omaggio allo striscione della Brigata e ieri ha confermato: «Buona parte del corteo la farò vicino al gonfalone del Comune, però vorrei anche muovermi e in particolare passare a fianco della Brigata ebraica». Sala potrebbe incontrare Stefano Parisi, suo avversario un anno fa nella campagna elettorale per la fascia tricolore, oggi leader di «Energie per l'Italia», da sempre vicino alla causa di Israele. Parisi ha annunciato che sfilerà con la Brigata ebraica e, come accaduto negli anni scorsi, ci saranno esponenti di Forza Italia, dei Radicali, di Lombardia popolare e della Lega: il capogruppo Alessandro Morelli, presente nel 2016, dice che «col cuore» ci sarà anche quest'anno. E il leghista municipio IV, il 24 celebrerà «la vita e la nascita di Israele» nella data ebraica della Giornata della memoria.

(il Giornale, 22 aprile 2017)


Il Gran Muftì che scelse il Führer contro gli ebrei

Amin al-Husayni, il leader religioso finito al centro della polemica romana

di Roberta Zunini

Il Gran Mufti di Gerusalemme con i volontari bosniaci delle Waffen-SS nel novembre 1943
Dall'ascesa al potere di Adolf Hitler nel 1993, gli ebrei tedeschi avevano tentato di accelerare il trasferimento dei propri figli e nipoti in quella Eretz Israel che allora si chiamava senza distinzioni Palestina ed era governata dal 1920 dalla Gran Bretagna che ne aveva assunto il mandato dalla Società delle Nazioni. I nazisti, pur di sbarazzarsi degli ebrei cittadini tedeschi, non contrastarono il loro "ritorno" nella terra degli avi, anzi, già che c'erano, ne approfittarono per imporre loro il deposito di somme di denaro assai esose nelle casse del Terzo Reich. Ma nel 1937 le cose cambiarono e per gli ebrei la Terra Promessa divenne sempre più irraggiungibile. A determinare questa dirimente e drammatica svolta contribuì con forza la comparsa sulla ribalta internazionale di sua "Eminenza" il Gran Muftì di Gerusalemme, Amn al-Husseini -nato a Gerusalemme nel l897, capo politico-spirituale degli arabi palestinesi in maggioranza di confessione islamico sunnita. Una figura tornata d'attualità dopo che la presidente della Comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, ha annunciato che non sfilerà con l'Anpi in polemica con le associazioni filopalestinesi definite, in modo assai generico, "eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler".
  Husseini ricopriva la carica dal 1921 e fin dall'inizio aveva sostenuto le sollevazioni contro la colonizzazione inglese del Medio Oriente e in seguito, una volta fuggito da Gerusalemme perché ricercato dalla Corona, e raggiunta Berlino nel 1941, darà un contributo fondamentale alla nascita di milizie islamiche che verranno utilizzate dai nazisti per sterminare gli ebrei dei Balcani. Lo scopo di Husseini era impedirne una volta per tutte un eventuale ingresso in Palestina che secondo lui doveva essere abitata solo dagli arabi musulmani. Del resto è stato uno strenuo fautore della guerra santa contro gli infedeli a partire dagli ebrei, nonché uno dei primi membri della Fratellanza Musulmana. Quando Al Husseini incontrò il Führer il 28 novembre del 1941 gli espresse innanzitutto "la grande ammirazione che il mondo arabo prova nei confronti del Reich", per poi chiedergli di prendere in considerazione la messa a punto di una dichiarazione pubblica a favore della causa dei popoli arabi. In cambio gli promise la collaborazione degli squadroni della morte islamici per portare a compimento la Shoah.
Il ruolo cruciale svolto dal Gran Mufti nella persecuzione dei giovani ebrei in fuga dal nazismo lo ha analizzato in profondità la saggista Mirella Serri nel libro "Bambini in fuga. I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono", appena pubblicato da Longanesi. Nel libro viene ricordato che dopo la nomina di Hitler a Cancelliere, il Gran Mufti gli scrisse un'appassionata lettera di congratulazioni: "I musulmani dentro e fuori la Palestina danno il benvenuto al nuovo regime tedesco e si augurano che il sistema di governo fascista antidemocratico si affermi in altri Paesi". Con la sua predicazione e i messaggi radiofonici diretti ai fratelli musulmani, Al Husseini appariva in gran sintonia con il dettato nazista. "Era infatti solito ad affermare - scrive la Serri - che l'opprimente egoismo insito nel carattere degli ebrei,la loro turpe convinzione di essere la nazione eletta di Dio e il loro affermare che tutto è stato creato per loro e che gli altri popoli sono animali, li rende indegni di fiducia. Durante le visite in Croazia e in Bosnia, il Gran Muftì dosò in una sapiente commistione gli elementi di propaganda, per cui da una parte istigava all'odio e al risentimento e dall'altra predicava la partecipazione alla guerra e il sacrificio personale. I leader delle comunità islamiche riportavano nelle moschee i suoi appelli esortando i fedeli a offrirsi come volontari nella divisione musulmana delle Waffen-Ss.
  "La divisione di al Husseini avrebbe dovuto garantire la presenza di milizie islamiche nei punti caldi del conflitto mondiale. Nella seconda metà del 1944 la divisione con la scimitarra fu, invece, trasferita nell'Ungheria meridionale dove fu in prima linea nei combattimenti. Ma s'impegnò anche a fare la sua guerra in casa e a decimare i numerosi nemici interni, i partigiani titini e gli ebrei. Le milizie della Handschar uccisero il novanta per cento degli ebrei di Bosnia (12.600 su 14.000)", si legge ancora nel libro di Mirella Serri che, a proposito delle polemiche scoppiate in seguito alle dichiarazioni dell'Anpi in vista del 25 aprile, osserva: "Non è plausibile che l'Anpi equipari la comunità ebraica romana a quelle palestinesi e che, peraltro, la cataloghi come una comunità straniera. Per quanto riguarda il Gran Mufti Husseini, va sottolineato che non ha avuto la sua Norimberga". Husseini è morto nel 1974 a Beirut senza subire alcun processo.

(il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2017)


Israele, in arrivo altri caccia F-35

GERUSALEMME - Tre nuovi aerei da combattimento F-35 "Adir" destinati all'Aviazione delle Forze di difesa atterreranno in Israele domani. Lo ha riferito la Difesa israeliana. I tre velivoli, che decolleranno dagli Stati Uniti oggi, si uniranno agli altri due esemplari dello stesso velivolo consegnati a Israele nel mese di dicembre. I cinque F-35, battezzati "Adir" ("Possente"), presentano una serie di modifiche espressamente richieste dalla Difesa israeliana per l'impiego di sistemi di guerra elettronica domestici, e il mese prossimo parteciperanno per la prima volta alla parata della Giornata dell'Indipendenza. Israele è stato il primo paese al di fuori degli Stati Uniti a ricevere in dotazione il nuovo cacciabombardiere stealth, che ha ordinato in tutto in 50 esemplari. Le Forze di difesa dovrebbero disporre di due interi squadroni di F-35 entro il 2022.

(Agenzia Nova, 22 aprile 2017)


Risposta del Sindaco di Cinisello Balsamo Siria Trezzi alla lettera di Andrea Jarach

 
Cinisello Balsamo
MILANO 22 Aprile - Pubblichiamo la risposta di Siria Trezzi, Sindaco di Cinisello Balsamo, alla lettera di Andrea Jarach (Presidente di Keren Hayesod Italia Onlus, Appello Unificato per Israele) che lamentava l'esistenza nella cittadina lombarda di una via intitolata ai "Martiri Palestinesi", come lettera riportata ieri dal nostro giornale.

Gentile signor Jarach,
le assicuro che non vi era nessuna motivazione antisemita e discriminatoria nella scelta toponomastica di intitolare una via cittadina ai Martiri Palestinesi.
La decisione risale all'ottobre del 1982 quando era sindaco Virgilio Canzi; fu proposta dalla commissione toponomastica e votata all'unanimità da tutte le forze politiche in Consiglio comunale sull'onda emotiva provocata dal massacro di Sabra e Chatila avvenuto qualche settimana prima, tra il 16 e il 18 settembre 1982 a danno di migliaia di civili. Un episodio che suscitò forte clamore e sdegno e scosse molte coscienze. In quel periodo si decise di intitolare tre nuove vie a personaggi illustri e una ad un episodio di drammatica attualità.
Comprendo bene che il termine "martire" è improprio ma va contestualizzato. Ci stiamo riferendo ad una scelta di 30 anni fa, allora non ci si riferiva certo al termine Shahid, con il quale negli anni si sono definiti i combattenti/attentatori suicidi palestinesi.
Valuteremo cosa fare. Ma non è semplice cambiare il nome ad una via in cui risiedono oggi 516 persone ed è in fase di assegnazione un nuovo complesso edilizio. La sostituzione comporterebbe un disagio e un danno economico per gli abitanti.
Una soluzione potrebbe essere quella di aggiungere la data della strage per evitare ogni equivoco.
La nostra città ha sempre dimostrato di essere rispettosa. La presenza di un Istituto scolastico dedicato ad Anna Frank, i monumenti, le pietre commemorative a tutti deportati e i numerosissimi incontri di riflessioni proposti anche in occasione del Giorno della Memoria attestano la nostra attenzione e premura nei confronti del popolo ebraico.
Avrei preferito, quindi, altre modalità di comunicazione e non un attacco scatenato sul web. Sono in ogni caso disponibile ad un incontro per trovare insieme un accordo
Siria Trezzi - Sindaco

*

Risposta di Andrea Jarach
Caro Sindaco,
la ringrazio per la pronta risposta. Che mostra grande sensibilità.
Mi è chiaro che sarebbe impossibile andare oltre quanto lei propone e comunque non ho alcun titolo, oltre a quello di cittadino milanese, a chiedere interventi.
Trovo la sua ipotesi intelligente e utile a contestualizzare la toponomastica con un evento particolare senza lasciare spazio a interpretazioni equivoche.
Immaginavo la titolazione fosse opera di giunte precedenti, anche se non pensavo fosse così lontana nel tempo, certamente oggi è più chiaro a tutti quale significato si dia al temine "Martiri" parlando di Medio Oriente.
Purtroppo le parole possono essere un incentivo alla violenza.
Spero davvero di avere una opportunità di conoscerla e la ringrazio ancora per la risposta.
Andrea Jarach

(Milano Post, 22 aprile 2017)


Il «ministro» grillino in tour coi Fratelli musulmani

Il capogruppo 5 Stelle ad Assago: ospite anche l'imam che inneggia al martirio dei bimbi

di Alberto Giannoni

MILANO - Lo chiamano «Festival della solidarietà con il popolo palestinese» ma per qualcuno è già «il tour dell'odio» contro Israele.
   Tre tappe fra Brescia, Verona e Assago. Oggi le prime due, domani quella milanese, cui parteciperà anche Manlio Di Stefano, capogruppo in commissione Esteri del Movimento 5 Stelle.
   Fra gli ospiti, una serie di personaggi controversi, secondo gli esperti riferibili all'area dei Fratelli musulmani e spesso ambigui (a dir poco) sul tasto dolente dell'antisemitismo. Promotori due sigle, la prima è l'Associazione dei palestinesi in Italia; l'altra - l'Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese - presenta un logo che cancella letteralmente Israele dalla mappa geografica del Medio oriente. A Brescia, d'altra parte, la star sarà l'imam Riyad AlBustanji, noto per aver infiammato il Ramadan di Milano nel 2013. Presentato come un «sapiente» noto per avere concluso a 24 anni l'apprendimento a memoria di tutto il Corano, Bustanji in un'intervista a una tv satellitare mediorientale aveva inneggiato al «martirio» religioso, confessando di aver portato sua figlia a Gaza per imparare dalle donne palestinesi come si allevano i figli al «jihad». La presenza di un predicatore di questo genere a un evento con migliaia di fedeli musulmani (con un assessore a rappresentare il Comune) determinò la rottura dei rapporti fra la comunità ebraica milanese e i centri islamici del Caim, allora guidati da Davide Piccardo. Bustanji andrà d'accordo con Ahmad Shahroury, imam e predicatore televisivo, che in un video ha così elencato le caratteristiche degli ebrei: «Fra gli altri viltà, tradimento, ipocrisia».
   Questo il clima dell'evento. Ad Assago presenzierà con entusiasmo Manlio Di Stefano, ministro «in pectore» dei 5 Stelle, movimento che il quotidiano israeliano «Haaretz», dopo la sua visita in Medio Oriente con Luigi Di Maio, ha definito apertamente ostile a Israele. D'altra parte, in un'intervista al «Manifesto», pochi giorni dopo Di Stefano, spiegò (bontà sua) di escludere sanzioni a Israele «in questo momento», parlando di un «attacco diplomatico». Domani a Milano ci sarà anche Arturo Scotto, ex capogruppo di Sel oggi in Mdp come Giovanna Martelli, altra ospite. E nel volantino, praticamente tutto in arabo, sono annunciati fra gli ospiti una serie di altri personaggi che lo staff del professore Lorenzo Vidino, studioso e direttore di un progetto di studio sull'estremismo alla George Washington University, ricostruisce così. Samira Douaifia, intanto, «algerina, componente del Msp, il maggiore partito islamico algerino, legata ai Fratelli musulmani, attivista della Women's Gaza Flotilla nel 2016, fu respinta dalle autorità israeliane e rimpatriata in Algeria». Poi Abdallah Sanaan, «imam a Medina, molto legato agli eventi dei Fratelli musulmani in tutta Europa». E Abdelfattah Mourou, «politico e avvocato tunisino, fra i fondatori del Tunisian Islamic Tendency Movement, oggi conosciuto come Ennahdha Party, di cui è stato anche vicepresidente». Infine Mohamed Moussa El Shereif, saudita, «storico» e predicatore, che in un video ha definito gli ebrei come «nemici di Dio, della fede e del profeta» e in un articolo su Bin Laden, sui pro e contro, gli rimproverò gli attacchi nei Paesi musulmani, lodandolo per aver «riacceso la scintilla del jihad nelle anime (dei musulmani)».

(il Giornale, 22 aprile 2017)


Livorno - Ai Granai di Villa Mimbelli seminario di approfondimento: 'Scienza ed Ebrei'

Villa Mimbelli a Livorno
Il rapporto tra il mondo della scienza e gli ebrei con un approfondimento sulla figura di Federigo Enriques sarà l'argomento dell'iniziativa in programma per giovedì 27 aprile alle 16.30 ai Granai di Villa Mimbelli a Livorno. Il seminario, collaterale alla mostra "Ebrei in Toscana XX - XXI secolo", vedrà la proiezione di alcuni estratti dal film di Francesco Andreotti dal titolo "Le armonie nascoste. Federigo Enriques nella cultura dell'Europa", presentato e commentato dalla prof.ssa Ornella Pompeo Faracovi (Centro Studi Enriques di Livorno). Il rapporto tra scienziati e nazifascismo sarà l'argomento trattato dal Prof. Simone Duranti (Università di Siena) nel suo intervento dal titolo "Perdere il mondo per amore del mondo. L'acosmia dell'intellettualità ebraica in esilio durante la persecuzione nazifascista". A coordinare l'evento sarà Catia Sonetti, Direttrice dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della Provincia di Livorno (ISTORECO). Si chiude con questo il ciclo di seminari di approfondimento contestuali alla mostra "Ebrei in Toscana XX - XXI secolo", per visitare la quale ci sarà tempo invece fino al 1o maggio, tutti i giorni festivi compresi (ad eccezione di lunedì 24 aprile) con orario 10-13 e 16-19.

(#gonews.it, 22 aprile 2017)


Tolstoj alla Mecca

Dalla Siria alla demografia, la Russia è mossa dalla paura dell'islam. Quando Khomeini scrisse a Gorbaciov: "Convertitevi".

di Giulio Meotti

Nel 2050, da un terzo alla metà della popolazione russa sarà di fede islamica. Oggi. i salafiti nell'ex impero sovietico sono 700 mila Andarono in Afghanistan per fermare il contagio khomeinista all'islam sovietico. Cosa disse Boris Eltsin dopo il crollo del 1991 Quando cadde il comunismo le chiese tornarono a splen- dere, ma anche le moschee, incorag- giate da sauditi, iraniani e pachistani Sono duemila i russi uccisi in attentati terroristici da quando Putin è salito al potere. Un prezzo di sangue altissimo

La paura del terrore islamico permea la storia russa. Nel XIX secolo si scrivevano storie sugli ufficiali russi che combattevano guerrieri nel Caucaso coperti dai drappi del Profeta (come "Hadji Murat" di Lev Tolstoj). L'ufficiale slavo contro l'islamista, uno che lotta per proteggere la civiltà cristiana, l'altro determinato a sradicarla. Il tema echeggia ancora oggi sulla televisione russa. Dmitry Kiselyov, l'anchorman preferito da Vladimir Putin, ha detto che "la Russia sta salvando l'Europa dalla barbarie per la quarta volta". Quarta volta? "Contiamole" ha risposto Kiselyov. "I Mongoli, Napoleone, Hitler, e ora lo Stato islamico". Alcuni giorni fa, Politico ha pubblicato una lunga analisi su come "la Russia ha rapidamente sostituito gli Stati Uniti come il nemico numero uno di Al Qaeda, Stato islamico e altri gruppi jihadisti sunniti motivati dall'ideologia salafita violenta e puritana". Le recenti azioni russe in medio oriente, compresi gli interventi in Siria e in Libia, hanno elevato la Russia a obiettivo principale dei jihadisti. Ovunque è intervenuta all'estero, la Russia sembra essere stata sempre mossa da una profonda paura dell'islam radicale.
  Putin ha affermato a Charlie Rose della Cbs che la ragione "più importante" per cui la Russia è entrata in Siria era la "minaccia del loro ritorno". Dove per "loro" sono i settemila musulmani russi partiti per combattere con il Califfato. "Noi", ha spiegato Putin, "possiamo aiutare Assad a combatterli nel territorio siriano". La Russia è superata solo dalla Tunisia e dall'Arabia Saudita nel numero di cittadini nelle fila dell'Isis. E' molto più avanti della Francia con 1.800 combattenti, di Gran Bretagna e Germania con 760 ciascuno e del Belgio con 470. Graffiti in lingua russa sono presenti a Darayya, in Siria ("Pregheremo nel tuo palazzo, Putin! Tatari e ceceni, alzatevi!"), e c'è anche un distretto "russo" a Raqqa, accanto a scuole e asili nidi in lingua russa.
  Gli esperti russi, tra i quali Alexei Malashenko del Moscow Carnegie Center e Roman Silantiev del ministero della Giustizia, stimano che in Russia oggi esistano migliaia di gruppi salafiti, con l'islamismo che si è diffuso "praticamente in tutte le regioni della Russia, tra cui la Siberia e addirittura l'Estremo Oriente". Si parla di 700 mila salafiti russi. L'Isis ha già espresso il desiderio e la capacità di colpire gli obiettivi russi, con i suoi affiliati nella penisola del Sinai che si sono assunti la responsabilità della distruzione del volo 9232 da Sharm elSheikh a San Pietroburgo.
  In un'intervista al mensile americano Atlantic, Henry Kissinger di recente ha detto: "La Russia si sente strategicamente minacciata da un incubo demografico al confine con la Cina; da un incubo ideologico nella forma dell'islam radicale lungo il confine meridionale; a ovest dall'Europa. Mosca la considera una sfida storica". La Russia ha anche una paura demografica interna. Un recente rapporto della Jamestown Foundation, dal titolo "Come l'islam cambierà la Russia", ha spiegato bene questa sfida: "La Russia conta circa 15 milioni di persone di origine musulmana, 1'11 per cento della popolazione. Mosca ha la più grande comunità musulmana in Europa. Dati i cambiamenti demografici, i musulmani rappresenteranno un terzo (la stima al ribasso) e la metà (la stima al rialzo) della popolazione russa entro il 2050". La stessa Pravda, nella sezione inglese, ha pubblicato un articolo dal titolo "L'islam sarà la prima religione russa nel 2050?". Oltre all'avventurismo nei paesi musulmani, le forze russe hanno intrapreso una campagna durissima di contro-insurrezione contro i militanti islamici dall'Ingusesia all'Ossezia nel Caucaso. I jihadisti sono responsabili di grandi attacchi contro lo stato russo, tra cui la crisi di ostaggi al teatro di Mosca nel 2002, l'assedio a Beslan nel 2004, le bombe a Mosca nel 2010 e l'attacco suicida dell'aeroporto Domodedovo nel 2011, per citarne alcuni. Fino all'assassinio in streaming dell'ambasciatore russo a Istanbul. "Meglio morire in lotta coi russi, che vivere con gli infedeli", recita un motto dei jihadisti del Caucaso. Durante la prima guerra cecena, dal 1994 al 1996, la Russia perseguì una politica di terra bruciata per distruggere tutto a vista. Il blitz natalizio dell'Armata rossa in Afghanistan, che turbò gli equilibri geopolitici nell'Asia Centrale, fece sì che i sovietici abbracciassero i confini del grande risveglio islamico. L'invasione dell'Afghanistan avvenne anche per impedire il contagio, via Kabul, del fondamentalismo khomeinista all'islam sovietico. A Est i russi arrivarono al passo di Khyber, assurto a notorietà mondiale grazie ai corrispondenti di guerra britannici e alla letteratura coloniale. L'Armata rossa arrivò a poche centinaia di chilometri da Islamabad, capitale di un paese musulmano che ospitava le retrovie dei guerriglieri afghani, in lotta contro il regime filorusso di Kabul. Ma in Afghanistan la vittoria dei mujaheddin sui russi avrebbe dato agli islamisti un enorme incoraggiamento. Quando crollò il comunismo, il leader dell'Iran, l'ayatollah Khomeini, scrisse una lettera a Mikhail Gorbaciov, il primo messaggio in assoluto che il leader iraniano avesse mai inviato a un capo di stato straniero. Khomeini invitò il capo dello stato più ateo del mondo a convertirsi all'islam. "Abbracciate la religione islamica, perché lì risiede il vero significato della vita. Non fatevi abbagliare dal verde giardino dell'occidente". "Eccellenza", scriveva l'imam, "mi permetta di ricordarle che l'invocazione all'Onnipotente si leva oggi con forza dai minareti e dalle moschee di alcune importanti repubbliche sovietiche". E concludeva: "L'Iran è il più grande e più forte cuore del mondo islamico, ed è in grado di colmare il vuoto di fede che esiste nel sistema comunista". Khomeini tirò fuori un planisfero pubblicato a Teheran e che divideva il mondo in tre settori: nero per il "grande Satana" americano, rosso per la "Russia pagana" e i suoi domini, e verde per la Repubblica islamica che rappresenta la volontà di Allah. Il planisfero, uscito nel terzo anniversario della Repubblica, delimitava il mondo islamico dall'Indonesia al Marocco e vi includeva le repubbliche musulmane dell'Urss. Khomeini sognava di mettere le mani sui sovietici di origine turca che facevano registrare il più alto tasso di natalità: uzbeki, tartari, kazachi, azerbaigiani, turkmeni, kirghizi, ujguri. Per il 90 per cento erano di fede islamica.
  I leader del Cremlino hanno lottato contro i musulmani più volte nel corso del secolo scorso. Durante la Seconda guerra mondiale, i musulmani della Crimea furono esiliati in Siberia da Stalin. Dopo che l'Unione sovietica si è disintegrata nel 1991, il presidente russo Boris Eltsin chiese all'Ucraina di rimanere nell'Unione. "Non possiamo avere una situazione", disse Eltsin, "in cui la Russia e la Bielorussia avrebbero due voti come stati slavi contro cinque per gli stati islamici". Poco dopo, "nel nome di Allah", i ribelli del Dagestan proclamarono la nascita di una "repubblica islamica". La Russia ha sempre "condito" i suoi interventi in politica estera con la retorica religiosa antislamica. Come nella guerra in Kosovo, quando l'immaginario russo ortodosso lanciò il mito di Kosovo Polje. Letteralmente "Campo dei merli", è il nome della battaglia che oppose il 28 giugno 1329 i serbi agli invasori turcoottomani, in cui le forze serbe, tre volte meno numerose, persero valorosamente e che segnò la memoria collettiva nazionale serba, ultimo baluardo post-bizantino ed europeo di fronte al nemico turco-musulmano. Nel tumultuante scenario che dal Caucaso si estende fino alle steppe mongoliche, dominato dallo scontro tra la cristianità ortodossa e l'islam, si è prefigurata con anni d'anticipo la tragedia jugoslava. Grozny, assediata e devastata, si trasformò in una succursale cecena di Sarajevo; ma l'intera Cecenia, soccorsa dalla Turchia, aiutata dall'Iran, si sarebbe poi trasformata in un Afghanistan conficcato come una mina nel cuore dell'impero russo.
  Nel 1929, il leader sovietico Mikhail Kalinin presentò la sua visione per l'Asia centrale: "Insegnare ai popoli della steppa di Kyrgyz, al piccolo produttore di cotone uzbeko e al giardiniere turkmeno gli ideali del lavoratore di Leningrado". Il governo sovietico bruciò così i libri scritti in arabo. Nel 1912 c'erano circa 26 mila moschee in Asia centrale. Nel 1941 ne erano rimaste solo mille. Racconta il Washington Post, in un articolo dal titolo "Come il tentativo sovietico di distruggere l'islam ha cresciuto una generazione di radicali", che ancora oggi i musulmani in Asia centrale possono essere puniti se parlano di islam al di fuori di una moschea o leggono un Corano non autorizzato. In Kirghizistan, le prediche degli imam devono essere approvate e l'Uzbekistan ha addirittura bandito le barbe.
  Quando cadde il comunismo, in Russia la fede ortodossa ebbe una vera e propria esplosione e nelle città russe, come disse allora un acuto osservatore, "il suono delle campane delle chiese è tornato a riempire l'aria. Cupole dorate di fresco scintillano al sole. Chiese fino a poco tempo addietro ridotte a un ammasso di rovine oggi riecheggiano di canti meravigliosi. Le chiese sono i luoghi più affollati della città". Ma parallelamente alla rinascita dell'ortodossia ce ne fu anche una islamica che travolse l'Asia centrale. Nel 1989 esistevano 160 moschee e una madrassa (seminario islamico); all'inizio del 1993 c'erano diecimila moschee incoraggiate da Arabia Saudita, Iran e Pakistan. Fu allora che la Russia iniziò a condannare "wahabismo" e "salafismo", espressioni usate per indicare l'influenza straniera, mentre coltivava relazioni con l'islam nazionale (in Cecenia ci sono state le più grandi manifestazioni contro Charlie Hebdo). Decisivo l'odio fra Mosca e il grande polo dell'islam sunnita, l'Arabia Saudita, che per mezzo secolo, fino al 1990, non ebbero rapporti. L'esercito russo combatterà contro i musulmani in Tagikistan. A Cipro, i russi hanno difeso la parte greco-cristiana. E l'Armenia cristiana è stata un baluardo filo russo contro la Turchia islamica. La "terza Roma" degli zar si cominciò a proclamare difensore delle popolazioni cristiane oppresse dall'islam. "Gli zar russi e la chiesa per secoli hanno mantenuto stretti rapporti con i cristiani mediorientali e hanno dichiarato il diritto di sostenerli, fa parte della nostra coscienza storica", ha spiegato IosifDiskin, presidente della commissione interreligiosa della Camera pubblica russa. Anche nella guerra in Siria, infatti, la Russia presenta spesso le operazioni militari come un dovere persino religioso. Il portavoce un po' focoso del patriarcato di Mosca, Vsevolod Chaplin, ha parlato di "guerra santa" contro il terrorismo in Siria. "Questa non è la prima volta che il jihad è stato invocato contro la Russia", ha detto Chaplin a Foreign Policyi. "E siamo sempre usciti trionfanti". Ma ciò che Chaplin non ha citato è che le vittorie della Russia contro l'estremismo islamico sono giunte a un costo terribile: duemila persone sono state uccise in decine di attacchi in tutto il paese da quando Putin è salito al potere.
  I media russi pubblicano spesso foto di sacerdoti ortodossi che benedicono le armi, compresi gli aerei, mentre i cappellani sono incorporati nelle unità militari. Una copia dell'Icona di Kazan della Madre di Dio è stata inviata dal patriarcato ortodosso a una parrocchia in Siria. La parte posteriore dell'icona porta l'iscrizione: "Dono della diocesi di Ekaterinburg della chiesa ortodossa in memoria dei soldati russi che hanno dato la loro vita per la pace e la fine delle turbolenze nell'antica terra siriana". I teologi della chiesa ortodossa russa basano questo mito sull'espressione "antemurale Christianitatis", il baluardo della cristianità che risale all'epoca dell'espansione turca in Europa. Una visione abbracciata anche da molti alleati populisti di Putin, il Visegrad-4 guidato dall'Ungheria di Viktor Orbàn.
  Su questa propaganda russa cristiana ha certamente influito anche il passato sovietico. Quando Lenin salì al potere, disse ai suoi che "a più rappresentanti del clero reazionario spariamo, meglio è". Dopo il 1917, l'Unione sovietica ha assistito alla più grande persecuzione dei cristiani dai tempi di Diocleziano: 200 mila preti uccisi e 41 mila chiese distrutte. Qualche giorno fa, da Aleppo, sono arrivate le immagini della "prima messa di Pasqua" celebrata nella grande città siriana. Tocca una corda profonda dell'animo russo, oltre a rafforzare l'immagine (e la propaganda) di Mosca e degli alleati dell'orso come baluardo contro Allah.
  Il conte Tolstoj, cantore della solarità della vita, nell'epilogo di HadjiMurat stabilisce un'analogia tra i guerrieri del Caucaso e il cardo tartaro, che è come se racchiudesse il conflitto fra la Russia e l'islam. "Che razza di energia - commenta osservando un maggese arato in cui, unico, si è salvato appunto un cardo infangato ma sempre eretto verso l'alto - tutto è stato vinto dall'uomo, milioni di piante ne sono state annientate, ma lui, qui, non s'arrende ancora".

(Il Foglio, 22 aprile 2017)


Il 25 aprile, la resistenza e i meriti storici degli ebrei

È più che giustificata la decisione della presidente della Comunità israelitica di Roma Ruth Dureghello di non aderire alla manifestazione promossa dall' Anpi.


Riconoscimento
In via di approvazione una meritoria proposta di legge per la medaglia d'oro alla brigata ebraica
Dignità
Incredibile dover «trattare» per ricordare un supplizio di cui sono stati le principali vittime

di Paolo Mieli

Appare più che giustificata la decisione della presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello di non aderire alla manifestazione promossa dall'Anpi in occasione del 25 Aprile e di promuoverne una propria. Eviterà così agli ebrei romani di essere coinvolti in quelli che il giorno dopo sarebbero stati definiti dai media «incidenti» e che sono invece aggressioni a coloro che sfilano dietro le bandiere della Brigata ebraica. Da moltissimo tempo la spregevole usanza delle offese (o peggio) alle insegne di quella Brigata inquina le cerimonie italiane in onore della Resistenza. In misura intermittente, per fortuna. C'è stato persino chi (Ugo Giannangeli su «Palestina rossa») ha messo in dubbio l'opportunità che quei vessilli, quasi fossero abusivi, vengano issati nei cortei in memoria della nostra guerra di Liberazione.
   Ricordiamo brevemente di cosa stiamo parlando. La Jewish Brigade fu istituita il 20 settembre del 1944 per decisione del primo ministro britannico Winston Churchill e, al comando del canadese Ernest Frank Benjamin, fu inquadrata nell'esercito che combatteva contro i tedeschi.
   In realtà un Reggimento palestinese era nato molto prima, nel 1941, quando l'avanzata di Erich Rommel pareva incontenibile e Londra fece appello a «tutte le forze disponibili» per contrastare l'attacco nazista nell'Africa settentrionale.
   A quel tempo gli ebrei già stanziati in Palestina si divisero: la parte maggioritaria, inquadrata nell'Haganah (il nucleo militare costitutivo del futuro esercito di Israele), accolse l'appello del governo inglese. Sicché molti israeliti di Palestina si arruolarono per combattere i nazisti: in quei giorni del '41- nel corso di un'operazione in Siria, Paese all'epoca controllato dalla Francia collaborazionista di Vichy - Moshè Dayan, l'uomo che nel '67 avrebbe guidato i soldati israeliani nella «guerra dei sei giorni», perse I' occhio sinistro, a coprire il quale portò poi una benda nera per il resto della vita. Altri, come Enzo Sereni e Hanna Senesh, persero eroicamente la vita in Europa. Fu, quella di schierarsi con gli alleati, una scelta sofferta per gli ebrei di Palestina. E, a suo modo, lacerante. Già nel '41 la cosiddetta «Banda Stern» (in cui militava il futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir) e, dopo il '44, l'«Irgun» ( che tra i suoi annoverava un altro futuro premier dello Stato ebraico, Menachem Begin) decisero di rompere con la maggioranza sionista e di non concedere alcuna tregua agli inglesi. David Ben Gurion, invece - anche in considerazione del fatto che la parte prevalente dei palestinesi guidata dal mufti Amin al-Husseini si era schierata al fianco di Hitler - tenne duro e mandò migliaia dei suoi uomini a combattere contro il Terzo Reich. In Medio Oriente, ma anche nell'Europa orientale, in Olanda, Belgio, Francia, soprattutto in Italia. E qui siamo al motivo per cui molti ebrei (assieme beninteso a parecchi non ebrei) partecipano da anni alle manifestazioni che celebrano la Resistenza dietro le insegne della Jewish Brigade. Lo fanno per onorare la memoria dei loro correligionari provenienti dalla Palestina che nel 1944, a novembre, sbarcarono sul suolo italiano, furono riaddestrati a Taranto per imparare a guerreggiare nel nostro Paese e presero parte all'ultima, decisiva fase della lotta di Liberazione: dai combattimenti di Alfonsine (19 e 20 marzo 1945) alla «battaglia dei tre fiumi» (9 e 10 aprile 1945) che culminò con lo sfondamento della Linea gotica. Combatterono sotto una bandiera identitaria (tre strisce - azzurra, bianca e azzurra - con al centro una stella di Davide); molti persero la vita; varie lapidi, la più importante a Ravenna, ricordano quei caduti per la nostra libertà che ancora oggi riposano in cimiteri italiani, in particolare quello di Piangipane. Ed è assai significativo che proprio ieri, in Parlamento, sia giunta ad una tappa decisiva la meritoria proposta di legge (prima firmataria l'esponente pd Lia Quartapelle) perché alla Brigata ebraica sia conferita la medaglia d'oro al valor militare per la Resistenza.
   Questo spiega a quale titolo e in ricordo di cosa alcune persone sfileranno martedì prossimo sotto quelle bandiere. Vicende romane a parte, meno comprensibile (anche se nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il diritto di chiunque a partecipare a qualsiasi genere di manifestazione) è il motivo per cui - ad esempio - alla sfilata milanese del 25 Aprile abbia aderito il Bds, un movimento nato nel luglio 2005 che promuove «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» contro lo Stato di Israele (una campagna da cui si sono dissociati persino intellettuali notoriamente filopalestinesi e ostili allo Stato ebraico come Norman Finkelstein e Noam Chomsky ). I Bds hanno annunciato che parteciperanno alla sfilata con cartelli in cui verranno ricordati «i nomi dei villaggi distrutti da Israele dal 1948 in poi». Un modo per riproporre la rappresentazione (non nuova) degli israeliani di oggi come eredi dei nazisti di ieri. E qui si capisce il loro scopo che con l'autentica Resistenza del '43-'45 - come hanno sottolineato ieri due storici assai sensibili ai valori dell'antifascismo, Guido Crainz e Giovanni Sabbatucci - non ha niente a che spartire. Appresa questa notizia, anche i rappresentanti milanesi della Jewish Brigade avevano deciso di ritirare le proprie insegne dalla manifestazione. Ma c'è Anpi e Anpi. Quella milanese, con una presa di posizione sorprendentemente ferma, ha indotto la comunità ebraica ad un ripensamento. Roberto Cenati, presidente del comitato provinciale milanese dell'Associazione nazionale partigiani italiani, si è pubblicamente impegnato non solo a «isolare e respingere le provocazioni» contro i rappresentanti della Brigata ebraica ma ha tenuto a mettere in chiaro che chi offende il loro simbolo «ingiuria l'intero patrimonio storico della Resistenza italiana». Cenati ha fatto poi un assai significativo passo ulteriore invitando gli iscritti all'Anpi a «non aderire assolutamente all'appello del Bds». Un gesto di grande coraggio nel clima che si respira di questi tempi in Europa.
   Sembra incredibile che, in alcune città del nostro continente, degli ebrei (i quali sulle politiche dello Stato di Israele avranno, come è ovvio che sia, le opinioni più disparate) debbano essere costretti a «trattare» per il diritto a prender parte con dignità a manifestazioni in ricordo di un supplizio di cui furono le principali vittime. Anche se c'è da aggiungere che in altre città d'Europa - soprattutto in Francia - agli israeliti accade di peggio. E per fortuna qui in Italia esistono uomini come Cenati che, nei momenti decisivi, sanno prendere decisioni che non lasciano spazio ad ambiguità. Persone per il cui operato confidiamo che stavolta le insegne della Brigata ebraica (assieme a tutte le altre che si richiamano alla lotta di Liberazione ) saranno accolte da applausi. In parziale risarcimento dei ben udibili fischi degli anni passati. E a far dimenticare quel che nel frattempo sarà accaduto a Roma.

(Corriere della Sera, 21 aprile 2017)


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«Estrema sinistra in malafede, ma lo strappo si può ricucire»

Equiparare Brigata e palestinesi significa non conoscere la storia

di Fulvio Fiano

 
ROMA - Riccardo Pacifici, storico presidente della comunità ebraica di Roma e oggi membro dell'Israeli Jewish Board, parte da un chiarimento: «Non c'è nessuna spaccatura con l'Anpi ma solo con quella frangia revisionista che si è impossessata del simbolo della Resistenza. Gente in malafede e ignorante».

- L'Anpi conta oggi 125 mila iscritti (2.500 a Roma) di cui circa 6 mila ex partigiani, oltre ai loro parenti e agli amici della causa, sulla cui fedeltà ai valori della Resistenza l'associazione mette la mano sul fuoco.
  «Eppure equiparare la bandiera della Brigata ebraica a quella del popolo palestinese significa non conoscere la storia. Ho avuto l'onore di conoscere Massimo Rendina (il vicepresidente Anpi morto nel 2015, ndr) e so che oggi si rivolterebbe nella tomba».

I partigiani rilanciano l'invito all'unità. Perché a Milano è possibile marciare assieme e a Roma no?
  «Perché lì ci sono numeri da manifestazione nazionale, un servizio d'ordine che tutela i simboli della Brigata ebraica e le provocazioni sono state in tono assai minore rispetto a Roma, dove si è arrivati a contestare Renata Polverini quando guidava la Regione e Nicola Zingaretti quando era alla Provincia. Anche Ignazio Marino prese le distanze».

Influiscono di più questi fatti, il dato storico o il conflitto israeliano-palestinese?
  «Tutti e tre. La Brigata combatteva con i partigiani, il Gran Muftì era alleato dei nazisti. La comunità ebraica ha radici decennali a Roma e non può finire nella lista degli "ospiti stranieri". E se si voleva invitare un popolo oppresso, ma qui non entro nel merito, perché non chiamare i siriani o i cubani? Questa è una provocazione politica. La bandiera palestinese non può esserci, i palestinesi sono i benvenuti. Direi lo stesso per i giapponesi».

- Lo strappo è ricucibile? «

  «Sì, ci sono cinque giorni per farlo. E' paradossale che mentre anche il centrodestra comincia a vivere questa festa in senso unitario, la sinistra estrema se ne allontani».

(Corriere della Sera, 21 aprile 2017)


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Primo sì all’attribuzione della Medaglia d’oro alla Brigata ebraica

ROMA - Primo via libera alla Camera alla legge che consente di attribuire la Medaglia d'oro al valor Militare alla Brigata Ebraica, la formazione composta da volontari ebrei che all'interno dell'esercito Britannico, combatte' in Italia contro i nazisti negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. La Commissione Difesa ha infatti approvato la legge in sede referente e la prossima settimana, grazie all'accordo di tutti i gruppi, sarà approvata in sede legislativa dalla stessa Commissione, accelerando così il via libera e la trasmissione al Senato per il sì definitivo.

(ANSA, 21 aprile 2017)


Una via ai «Martiri palestinesi», ma con una postilla

Il sindaco di Cinisello Balsamo dopo la protesta della Comunità ebraica: «Correggere la targa».

di Alberto Giannoni

MILANO - Sarà corretta la targa di «via Martiri palestinesi». Dopo le proteste, il primo cittadino di Cinisello Balsamo Siria Trezzi tende una mano e si mostra disponibile a conciliare una soluzione: «Comprendo bene che il termine "martire" è improprio - ha ammesso ieri il sindaco della cittadina dell'hinterland milanese - ma va contestualizzato». «Ci stiamo riferendo - ha spiegato - a una scelta di 30 anni fa, allora non ci si riferiva certo al termine Shahid, con il quale negli anni si sono definiti i combattenti-attentatori suicidi palestinesi». Ed era proprio questa la questione sollevata da Andrea Jarach, presidente della sezione italiana del Keren Hayesod, un network internazionale d'ispirazione sionista. «I sedicenti Martiri palestinesi - aveva attaccato Jarach, autorevole esponente della comunità ebraica milanese - altro non sono che terroristi che hanno macchiato di sangue non solo il Medio oriente ma anche il mondo intero». La polemica, riportata due giorni fa sul «Giornale», verteva proprio sul possibile equivoco di una strada intitolata agli jihadisti, peraltro a due passi da Milano, dove intanto si teme una pesante aggressione alla Brigata ebraica da parte di frange irriducibili dell'estrema sinistra e dei centri sociali. La discussa scelta toponomastica di Cinisello è stata presa molti anni fa, dopo il massacro di Sabra e Shatila, in Libano: «La decisione - conferma oggi la sindaca - risale all'ottobre del 1982», «proposta dalla commissione toponomastica e votata all'unanimità da tutte le forze politiche in Consiglio comunale sull'onda emotiva provocata dal massacro di Shabra e Chatila avvenuto qualche settimana prima». «Un episodio - spiega - che suscitò forte clamore e sdegno e scosse molte coscienze. In quel periodo si decise di intitolare tre nuove vie a personaggi illustri e una ad un episodio di drammatica attualità».
La soluzione proposta dal Comune sarebbe dunque integrare il nome della via con la data, per contestualizzare il tutto. «Nessuna motivazione antisemita e discriminatoria» garantisce comunque Trezzi. Il sindaco sottolinea la «nostra attenzione e premura nei confronti del popolo ebraico» e invita il Keren Hayesod a un incontro «per trovare insieme un accordo», premettendo che il cambio di nome di una via in cui risiedono 516 persone è soluzione impraticabile. Ma Jarach è già soddisfatto così: «Apprezzo molto le parole del sindaco - risponde - ha dimostrato sensibilità, capisco che cambiare nome non è semplice, questa mi sembra una soluzione rispettabile, l'importante è che si prenda coscienza, che non siano sdoganate parole equivocabili. L'importanza delle parole la conosciamo. Se nell'accezione comune "martiri" significa vittime, nell'accezione jihadista vuol dire attentatore suicida, chi è morto per la Causa».

(il Giornale, 21 aprile 2017)


Siamo contenti che la cosa sia stata chiarita e adeguatamente aggiustata. Avevamo segnalato la stranezza pochi giorni fa nel nostro notiziario del 15 aprile, ma forse altri già lo sapevano perché nessuno vi ha fatto riferimento.


Cartellino rosso della Fifa per Israele?

Ma tutti in Qatar ai Mondiali, dove gli israeliani non possono entrare.

Pare che la Fifa voglia imporre all'Ifa (Israel Football Association) di revocare lo status di professionismo ai club israeliani che giocano nelle "colonie", ovvero nelle città che sorgono nei Territori presi con la guerra del 1967. Lo scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz. Gianni Infantino, a capo della Fifa, potrebbe dunque applicare contro lo stato ebraico un doppio standard che non ha fatto pesare, ad esempio, per i veri casi di aggressione territoriale in giro per il mondo. Jibril Rajoub, presidente della Federazione calcio palestinese, ha chiesto alla Fifa che sia messa all'ordine del giorno la questione per i lavori del Consiglio della Fifa, che si riunirà a Manama, in Bahrein, il 9 maggio. Il ministero degli Esteri israeliano ha inviato una nota a decine di ambasciate chiedendo loro di persuadere i loro paesi ospitanti a rimuovere la questione dall'agenda della Fifa e che, nel caso di un voto, Israele debba prepararsi al peggio. Numerose associazioni sportive hanno aderito all'appello palestinese. Per l'Italia hanno firmato, fra le altre, l'Unione italiana sport per tutti (Uisp, con 1 milione 300 mila iscritti). E' un mondo bizzarro: Rajoub, un terrorista già condannato all'ergastolo ma che ottenne la libertà nel 1985 nell'ambito dell'accordo con l'Olp, che dà lezioni di diritti umani all'unica democrazia del medio oriente, arrivando persino a sequestrare l'agenda della Fifa. Speriamo che non accada. O sarebbe un brutto giorno per il pallone e la democrazia. Ma tranquilli: ci sono pur sempre i Mondiali nel Qatar nel 2022, un paese dove gli israeliani non possono entrare.

(Il Foglio, 21 aprile 2017)


lsrael Ban

Gli accademici si battono per i colleghi esclusi dal Muslim Ban di Trump, ma boicottano quelli dello stato ebraico.

di Giulio Meotti

ROMA - 171 tra società scientifiche e organizzazioni accademiche che protestano, otto università che impugnano l'executive order, mille scienziati che aprono i loro laboratori ai ricercatori esclusi dagli Stati Uniti, un appello con seimila firme di docenti e studiosi da tutto il mondo. Il Muslim Ban di Donald Trump ha scatenato l'ira della comunità accademica occidentale, molto sensibile all'esclusione dagli Stati Uniti di ricercatori e studiosi che provengono dai paesi islamici sanzionati dall'Amministrazione americana. "Il 27 gennaio 2017, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che istituisce un divieto di 90 giorni che nega l'ingresso negli Stati Uniti da sette paesi musulmani", recita l'appello principale. "L'ordine istituisce il razzismo e promuove un ambiente in cui le persone musulmane sono vulnerabili ad atti di violenza e di odio. Tra coloro che sono colpiti dall'ordine ci sono accademici e studenti che non sono in grado di partecipare a conferenze e alla libera comunicazione delle idee. I sottoscritti intraprendono azioni solidali con coloro che sono colpiti dall'ordine di Trump impegnandosi a non partecipare a conferenze internazionali negli Stati Uniti, finché il divieto persiste".
Cosa c'è di più progressista, inclusivo e intellettualmente libero di un accademico occidentale che lotta per mantenere aperta la comunità universitaria e scientifica? Bene. Peccato che coloro i quali hanno promosso questi appelli ne stiano facendo girare di ben altri, razzisti, discriminatori, bigotti. Sono gli appelli per boicottare i colleghi israeliani. E' l'Israel Banche imperversa nelle stesse università contro gli accademici con passaporto dello stato ebraico. Nadine el Enany, la prima firmataria dell'appello contro gli Stati Uniti, è una delle autrici dell'appello per boicottare i colleghi accademici israeliani. Sarah Keenan, inglese e anche lei boicottatrice di Israele. E Bill Bowring, anche lui boicotta Israele. E scorrendo l'elenco ci sono anche tanti italiani. Come Paola Bacchetta, che insegna gender studies a Berkeley, firmataria di appelli contro Israele. Arshin Adib-Moghaddam, professore di Letteratura comparata all'Università Soas di Londra, ha annunciato che cancellerà il tour negli Stati
Uniti per il suo libro per protestare contro la "xenofobia" di Trump. Questo non ha però impedito ad Adib-Moghaddam di promuovere appelli per boicottare i ricercatori e i professori israeliani. C'è Gareth Dale, supervisore dei PhD alla Brunei University e studioso di Karl Polanyi, anche lui firmatario contro Trump ma per il bando dei docenti israeliani. Dall'Italia c'è anche Luca Guzzetti dell'Università di Genova, che ha firmato l'appello degli italiani per boicottare i colleghi del Technion di Haifa, mentre dall'Inghilterra Steven Rose, firma contro Israele dal 2002.

 L'obiettivo è l'isolamento
  A notare il paradosso sul Wall Street Journal è Ruth Wisse, esperta di letteratura yiddish a Harvard. La campagna contro Israele ha "lo scopo esplicito di isolare accademici e istituzioni israeliane. Il suo obiettivo è negare agli studiosi israeliani l'accesso a conferenze scientifiche, riviste e opportunità di lavoro". Esattamente quello che, secondo i firmatari dell'appello contro Trump, starebbe facendo il Muslim Ban ai ricercatori di religione islamica. "Se le università sono disposte a combattere il divieto di viaggio del governo contro gli studenti provenienti da paesi di maggioranza musulmana, perché i membri delle loro facoltà combattono per prevenire lo scambio con controparti accademiche dalla patria ebraica?", si chiede Wisse. "I membri di queste facoltà cercano di prevenire l'interazione con il centro accademico più dinamico del medio oriente". O forse gli accademici yemeniti, siriani, somali, libici e iraniani hanno diritto alla libera circolazione delle persone e delle idee, mentre gli ebrei israeliani si meritano il ban liberal occidentale?
Ruth Wisse nota un ulteriore paradosso. "Le restrizioni imposte dall'Amministrazione Trump avrebbero lo scopo di prevenire gli attacchi contro l'America. Nel frattempo, l'obiettivo della campagna del boicottaggio di Israele è quello di attaccare la più libera democrazia in medio oriente. Non è un caso poi che l'Iran e la Siria, due paesi presi di mira dal divieto di viaggio, siano anche due paesi dediti alla distruzione di Israele". Ma è forse proprio questo il segreto inconfessabile dell'ipocrita ceto accademico.

(Il Foglio, 21 aprile 2017)


Egitto-Usa: Washington sostiene gli sforzi egiziani nella lotta al terrorismo

IL CAIRO - Il capo del Pentagono si recherà a partire da stasera in Israele, dove incontrerà, tra gli altri, il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Per Mattis si tratterà del terzo incontro in tre mesi con l'omologo israeliano. Fonti vicine al dossier citate dal portale web "Al Monitor" riferiscono di un grande feeling tra i due: all'incontro del 7 marzo a Washington, il loro colloquio privato sarebbe dovuto durare solo 15 minuti e invece è terminato dopo circa un'ora. In Israele il segretario Usa alla Difesa incontrerà anche il capo di stato maggiore, Gadi Eizenkot, e il generale Tal Russo, comandante (riservista) dei Depth Corps (le forze speciali israeliane per le operazioni a lungo raggio), suo vecchio amico dal 2007. "Al Monitor" ipotizza che Mattis potrebbe parlare con il generale Russo della questione iraniana, priorità assoluta per la politica estera e di difesa di Tel Aviv.

(Agenzia Nova, 20 aprile 2017)


Firenze - Tavola rotonda sulla figura di Arnaldo Momigliano

Ieri pomeriggio 20 aprile l'Associazione Italia-Israele di Firenze ha promosso al Gabinetto Vieusseux una tavola rotonda sulla figura di Arnaldo Momigliano e in particolare sulla raccolta dei suoi scritti "Pagine ebraiche" curata da Silvia Berti. L'iniziativa ha avuto un notevole successo, per la presenza di un folto pubblico e per l'alto livello degli interventi dei partecipanti alla tavola rotonda (oltre alla curatrice, Alberto Cavaglion, Ida Gilda Mastrorosa e Ida Zatelli, coordinati dalla nostra vicepresidente Gigliola Mariani Sacerdoti). Non è stata soltanto messa a fuoco la figura di Momigliano come grande storico dell'antichità: sono stati affrontati anche temi vicini ai nostri giorni, come il rapporto di Momigliano con il fascismo (entrambi i suoi genitori furono inghiottiti nel vortice della Shoah), il ruolo degli ebrei nella storia d'Italia e l'attentato alla Sinagoga di Roma del 1982. Particolarmente interessante è stata la discussione sull'intervista finora inedita concessa a Silvia Berti da Momigliano poco prima della sua scomparsa. All'incontro ha partecipato anche il rabbino capo di Firenze Rav Joseph Levi.

(Associazione Italia Israele di Firenze, 21 aprile 2017)


"Ci chiamano stranieri così negano la storia"

Intervista a Ruth Dureghello, Comunità Ebraica di Roma: "Come italiana e come romana non mi sento più rappresentata dall'Anpi: non rinunciamo ai nostri valori.

di Gabriele Isman

ROMA - «Come italiana e come romana non mi sento più rappresentata dall'Anpi che nega l'importanza del contributo degli ebrei romani e della Brigata ebraica alla Lotta di liberazione dal nazifascismo». L'ultimo corteo del 25 Aprile a cui gli ebrei della Capitale hanno partecipato è del 2014, quando vi furono momenti di tensione con sostenitori filo-palestinesi, ma quello di Ruth Dureghello - 50 anni, da due presidente della comunità ebraica romana - è un passo ulteriore.

- Presidente, ritira la patente della memoria all'associazione partigiani?
  «Non mi riconosco nei valori, se non comprendono il contributo degli ebrei romani e della Brigata, con la comunità paragonata a un'associazione straniera ed equiparata alle associazioni filo palestinesi, eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler. L'Anpi romana nega verità storiche e culturali e si pone fuori dalla storia, smettendo di rappresentare i veri partigiani».

- Eppure dopo l'assenza degli ultimi due anni, un dialogo tra comunità e Anpi era iniziato. Cosa è successo?
  «L'Italia non ha ancora fatto i conti con la propria storia e le proprie responsabilità: riconoscersi nei valori della Costituzione e del nostro Paese è qualcosa a cui non vogliamo rinunciare o, peggio ancora, che siano usati contro di noi. Non l'avrebbero permesso i partigiani e non lo permettiamo noi oggi».

- Quali le condizioni irrinunciabili per una manifestazione unitaria del 25 aprile a Roma?
  «Cosa c'entrano le associazioni filo palestinesi col 25 aprile? Nessuno nega i diritti a manifestare, ma i connotati della Liberazione sono definiti da 70 anni di ricerche storiche. Chi ha combattuto per liberare Roma e l'Italia dal nazifascismo non sfila accanto a chi rivendica cause diverse. Ebrei romani e Brigata c'erano, come gli eserciti di altri Paesi che fecero scelte di campo e valori. Non posso dire altrettanto di quelle associazioni».

(la Repubblica, 20 aprile 2017)


Il gran Mufti alleato di Hitler contro gli ebrei

di Giovanni Sabbatucci

 
Il telegramma di Himmler al Gran Muftì di Gerusalemme

Il telegramma
Il 25 aprile è la data scelta dall'Italia repubblicana per celebrare la fine dell'occupazione nazifascista e la riconquista delle libertà politiche e civili. Naturale che a festeggiare la ricorrenza siano in primo luogo le associazioni partigiane, seppur ormai trasformate, col passare degli anni, in associazioni politico-culturali. Meno naturale che i dirigenti dell'Anpi ritengano doveroso invitare alle celebrazioni nazionali militanti della resistenza palestinese. Succede ormai da qualche anno: e ogni volta i cortei organizzati per festeggiare la liberazione dal nazismo sono diventati occasione per violente, anche se sparute, contestazioni rivolte contro le rappresentanze delle comunità israelitiche, in particolare contro i pochi superstiti della Brigata ebraica che combatterono sul fronte italiano dopo essere sfuggiti avventurosamente alla morte nei lager. Questa volta, le comunità israelitiche hanno deciso di non partecipare al corteo ufficiale e di manifestare per conto proprio. A loro si sono associati - e questa è una novità - i vertici del Partito democratico.
Difficile dar loro torto.
Ognuno è libero di scegliere la resistenza che preferisce, o di esaltare i movimenti di liberazione nazionale nati dalle lotte contro il colonialismo, senza troppo badare alle loro credenziali democratiche. Ma associare i combattenti palestinesi alle celebrazioni ufficiali per la sconfitta del nazifascismo significa commettere un clamoroso errore storico oltre che un atto politicamente inopportuno. È noto, infatti che negli Anni '30 del Novecento, nella sua (legittima) lotta per l'indipendenza, il nazionalismo arabo cercò e ottenne sostegno nell'Italia fascista. E che il gran Mufti di Gerusalemme Amin al Husseini, una delle più alte autorità dell'Islam sunnita, fu alleato e amico di Hitler e lo incoraggiò, per quanto era in suo potere, a perseguire sino in fondo il programma di sterminio del popolo ebraico. Non si vede allora che senso abbia invitare gli eredi del nazionalismo arabo a celebrare insieme la sconfitta del nazifascismo, che fu in fondo anche la loro sconfitta. E farlo proprio in un momento in cui piccoli e grandi fuochi di antisemitismo tornano ad accendersi anche in Europa.

(La Stampa, 20 aprile 2017)


"Gli Ebrei a Shanghai"

La vita nel ghetto cinese nella mostra presso la Biblioteca Nazionale di Piazza del Plebiscito a Napoli

"Gli Ebrei a Shanghai" è il titolo della mostra che sarà ospitata a Napoli, dal 20 aprile al 20 maggio 2017, presso le sale della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Piazza del Plebiscito.
L'inaugurazione della mostra "Gli Ebrei a Shangai" si svolgerà giovedì 20 aprile alle ore 17.00 in Sala Rari alla presenza del Direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli "Vittorio Emanuele III" Francesco Mercurio, di Elda Morlicchio Rettrice dell'Università degli studi di Napoli "L'Orientale", di Paola Paderni Direttrice dell'Istituto Confucio dell'Università degli studi di Napoli "L'Orientale", e di Lydia Schapirer Presidente della Comunità Ebraica di Napoli.
Il prof. Giancarlo Lacerenza dell'Università degli studi di Napoli "L'Orientale" illustrerà il percorso espositivo.
Seguirà visita guidata alla mostra allestita nella Sala Esposizioni.
Si tratta di un allestimento - organizzato dall'Università degli Studi di Napoli L'Orientale, l'Istituto Confucio, l'Istituto Confucio di Napoli e la Biblioteca Nazionale di Napoli, in collaborazione con Shanghai Jewish Relugges Museum, l'Istituto Italiano di Cultura del Consolato Generale d'Italia a Shanghai, la Comunità Ebraica di Napoli ed il Centro di Studi Ebraiciun - che punta a raccontare gli anni della Seconda Guerra Mondiale e la vita nel ghetto di Shanghai dei circa 18mila Ebrei in Cina attraverso lettere, documenti e fotografie.
La mostra, a ingresso gratuito, sarà aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle ore 19.00 e il sabato dalle ore 8.30 alle ore 13.30.

(Napoliflash24,20 aprile 2017)


E Mosca riconosce Gerusalemme ovest capitale di Israele

 
Il parere di Eran Etzion, analista del Middle East Institute di Washington

La posizione russa non è guidata dalla nobile aspirazione di portare la pace in Medio Oriente. È una mossa sofisticata, nella perpetua partita a scacchi con gli Usa. Mosca tenta di garantirsi un ruolo in Medio Oriente. E le sue relazioni con Israele sono basate su «rispetto e sospetto» reciproco. Ma la decisione è un passo avanti, perché una posizione de facto diventa de iure. Quanto agli Usa, la loro posizione non sarà influenzata dal trasferimento dell'ambasciata russa. I palestinesi giudicheranno la mossa con sospetto e tenteranno di spingere Mosca a riconoscere Gerusalemme Est come loro capitale.
Putin offre a Netanyahu il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Solo Gerusalemme Ovest, è vero, mentre la parte Est diverrebbe capitale del futuro Stato palestinese. Comunque una «bomba»: nelle ore concitate prima del raid di Donald Trump in Siria, Putin ha cercato di ammorbidire lo Stato ebraico per convincerlo a premere sugli Usa prima dell'attacco. La Russia è la prima grande potenza a riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale israeliana. Nel 1984 Costa Rica ed El Salvador avevano spostato l'ambasciata a Gerusalemme, per poi ritrasferirla a Te! Aviv nel 2006. Sebbene Israele consideri Gerusalemme sua capitale, tutte le ambasciate sono a Tel Aviv. In campagna elettorale, Trump aveva promesso di spostare quella americana a Gerusalemme, ma non l'ha ancora fatto per timore di scatenare la rabbia araba. Quanto a Gerusalemme Est, annessa da Israele nel 196 7, è rivendicata dai palestinesi come loro capitale.
«Lo Stato ebraico ha dichiarato Gerusalemme sua capitale nel 1950, ma la Russia è la prima nazione a riconoscerla come tale» riporta il Jerusalem Post, secondo cui Mosca intende spostare a breve l'ambasciata a Gerusalemme Ovest. The Jewish Chronicle, il più antico quotidiano israeliano, precisa: «Il governo russo intende riconoscere Gerusalemme Ovest subito, piuttosto che aspettare fino a quando Gerusalemme Est diventi la capitale di un futuro Stato palestinese». The Hill, quotidiano Usa, spiega la posizione russa: «Mosca ha ribadito il suo "appoggio alla soluzione dei due Stati", pur riconoscendo che Gerusalemme Ovest dovrebbe essere capitale di Israele e Gerusalemme Est capitale di un futuro Stato palestinese».

(Panorama, 20 aprile 2017)


Ma quale Nelson Mandela, signor Barghouti, lei è solo un terrorista

«Non so a voi, ma a me fa un po' schifo sentire uno stragista impenitente che parla di "lotta pacifica" e Convenzioni di Ginevra»

Si immagini questa situazione: Terry Nichols, l'autore dell'attentato ad Oklahoma City del 1995, firma un editoriale pubblicato sul New York Times in cui si paragona niente di meno che a Nelson Mandela; parla di se stesso come di un combattente per la libertà, afferma di perseguire la pace, la dignità e la libertà; si scaglia contro le autorità per il suo "arresto arbitrario" e accusa il personale della prigione federale di tortura e violazione sistematica dei diritti umani. Non fa il minimo accenno, invece, alle 168 persone che ha ucciso nell'attentato. L'articolo si conclude con la dicitura (di per sé ineccepibile): "Terry Nichols è un uomo d'affari ed ex soldato dell'esercito degli Stati Uniti". Presumo che i miei amici americani avrebbero qualche commento piuttosto pesante da fare a proposito dell'assassino condannato per strage ed anche del giornale che gli ha dato voce in quel modo. L'editoriale del terrorista palestinese Marwan Barghouti pubblicato lo scorso 16 aprile dal New York Times non è diverso....

(israele.net, 20 aprile 2017)



Parashà della settimana: Sheminì (Ottavo)

Levitico 9.1-11.47

 - "Nell'ottavo (sheminì) giorno Moshè convocò Aronne e i suoi figli e gli anziani d'Israele" (Lev. 9.1).
La nostra parashà si apre con la convocazione di Moshè della Comunità d'Israele per l'inaugurazione del Tabernacolo, che ha luogo il primo del mese di Nissan (Aprile) nel deserto del Sinài. "Sette giorni" sono stati necessari per preparare Aronne e i suoi figli al sacerdozio e all'ottavo giorno ebbe inizio l'inaugurazione del Tempio.
Il Maharal di Praga fa notare che il numero sette sta a simbolizzare il mondo della natura, essendo sette i giorni della creazione, sette lo spettro dei colori della luce ecc. mentre la dimensione "ottava" corrisponde a quella del soprannaturale (Presenza divina). Il mondo dunque non è governato solo dal determinismo della materia ma soprattutto dal potere della Parola di D-o che orienta la Storia dell'uomo. Il Tabernacolo è pertanto il luogo d'incontro tra il mondo materiale con quello spirituale, dove la gloria di D-o si manifesta agli uomini in tutto il suo splendore.

Morte di Nadav e Avihù
I figli di Aronne Nadav e Avihù, offrirono, durante l'inaugurazione del Tabernacolo, dell'incenso non richiesto dal Signore. "Nadav e Avihù presero ognuno il proprio incensiere, vi misero sopra del fuoco, posero su di esso dell'incenso e presentarono al Signore un fuoco estraneo che non avevano avuto ordine di presentare. Uscì allora un fuoco dal Signore, li divorò ed essi morirono" (Lev. 10.1).
L'incenso (ketoreth) è una parola aramaica che significa "legame" da cui si evince che l'intenzione dei figli di Aronne era santa, nell'unire l'alto con il basso. Difatti il Signore dopo la loro morte ha detto: "Per mezzo di coloro che Mi sono vicini, mostro la mia santità" (Lev.10.3). Quale significato ha allora la loro morte? I nostri Maestri hanno dato alcune spiegazioni. Una prima interpretazione è l'entrata nel Tempio di costoro in stato di ebrezza cioè della rottura della loro identità. Una seconda è che Nadav e Avihù hanno agito di loro iniziativa senza consultare Moshè ed Aronne, provocando una rottura nella Saggezza divina. Infine una terza spiegazione in quanto ambedue i fratelli erano "celibi" simbolo questo della rottura delle relazioni umane.
L'incenso secondo la Tradizione ebraica, è il mezzo che unisce la dimensione materiale con quella spirituale. Pertanto l'offerta dell'incenso, durante l'inaugurazione del Tabernacolo, era il momento in cui questa unione sarebbe dovuta avvenire con la presenza della Gloria di D-o che si manifesta sul popolo intero" (Lev. 9.23). Nadav e Avihù hanno creduto in questa circostanza straordinaria, che era giunto il tempo della Redenzione e il male era stato sconfitto. Ma la realtà era molto diversa, considerato che il grado di spiritualità sia del popolo ebraico che dell'Umanità era ancora troppo basso per operare un tikkun olam (riparazione) del peccato di Adamo e del vitello d'oro.

Animali permessi e animali proibiti
Il nutrimento non ha solo uno scopo apportando energie alla vita dell'uomo, ma anche sostegno spirituale mediante la benedizione del pasto con cui si ringrazia D-o per quanto donato. Nel descrivere gli animali permessi o proibiti la Torah ne fa una classificazione generale, come oggi accade nelle discipline scientifiche, di quelli che vivono sulla terra, quelli nell'acqua e quelli volatili. "Questi sono gli animali che potrete mangiare" (Lev. 11.2) devono avere uno "zoccolo che abbia una fessura" ed essere ruminanti. Per gli animali acquatici devono essere provvisti di "squame e pinne" ed infine per i volatili sono proibiti quelli forniti di "artigli e becco ricurvo" perché rapaci. F.C.

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 - L'espressione "dono della legge" non è adatta ad indicare l'originario patto mosaico. L'unicità del popolo eletto non può consistere nel privilegio di aver ricevuto in dono un preziosissimo manuale di istruzioni. Come un uomo quando chiede a una donna di sposarlo, il Signore si è presentato al popolo portandogli in dono l'amore che aveva manifestato per lui liberandolo dalla schiavitù d'Egitto e offrendogli di entrare in una privilegiata relazione di comunione tra Creatore e creatura che richiedeva, per la sua stessa natura, che accettasse liberamente e di buon grado le sue particolari disposizioni.
Questa esclusività d'amore, che separa Israele dagli altri popoli in un collegamento intimo con Dio, doveva costituire la santità di Israele, il suo essere messo a parte per un servizio esclusivo nel piano di redenzione di Dio. Dunque non il dono di una legge, ma una proposta di santità.

Dio mantiene al popolo vita e santità
La violazione di questo primo patto mosaico, che possiamo chiamare "patto di redenzione", non avvenne quando il numero delle trasgressioni diventò talmente alto da risultare insopportabile, ma quando il popolo compì un atto che costituiva l'esatto contrario di ciò che stava alla base del patto stipulato col Signore: si prostrò in adorazione davanti a un falso dio creato con le proprie mani. Un atto solo, ma decisivo, come fu quello di Adamo ed Eva. E come in quel caso, il Signore non tornò indietro, ma andò avanti.
Avendo rinunciato a "togliere la vita" al popolo per l'intercessione di Mosè, Dio aveva pensato di togliergli almeno la "santità", cioè "ridurlo allo stato laicale", rinunciando a fare di lui un regno di sacerdoti. Aveva espresso questo proposito dicendo a Mosè che avrebbe lasciato andare il popolo nella Terra Promessa, ma gli avrebbe tolto quello che è la vera caratteristica esclusiva di Israele rispetto agli altri popoli: si sarebbe rifiutato di andare ad abitare in mezzo a lui. Mosè aveva capito bene l'antifona, per questo si oppose con tutte le sue forze: "Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).
L'intercessione di Mosè ebbe successo e in questi capitoli si vede Dio che manifesta il primo segno di voler continuare ad abitare in mezzo al popolo. Mosè fa un annuncio solenne: "... oggi l'Eterno vi apparirà ... la gloria dell'Eterno vi apparirà" (Lev. 9:4,6).
Stranamente, Dio fa la sua solenne apparizione senza chiedere prima niente al popolo: non pretende che dia segni concreti di ravvedimento, non impone esercizi o promesse di ubbidienza; chiede soltanto che i sacerdoti si purifichino e si consacrino compiendo i sacrifici richiesti per l'espiazione del peccato loro e di quello del popolo (Lev. 9:7).

Dio si avvicina al popolo
L'avvicinamento di Dio al popolo può essere misurato da quello che avviene nella tenda di convegno. Si ricorderà che dopo il fattaccio del vitello d'oro, Mosè parlava da dentro la tenda e il Signore rispondeva da fuori. Dopo la stipulazione del secondo patto, che possiamo chiamare "patto di conservazione", il Signore era disceso nella tenda, ma Mosè era dovuto rimanerne fuori. Adesso, dopo i riti di espiazione fatti dai sacerdoti, Mosè ed Aaronne entrano entrambi nella tenda e ne escono fuori portando al popolo la benedizione, confermati da un'azione visibile del Signore: "... e la gloria dell'Eterno apparve a tutto il popolo" (Lev. 9:23).
Ma il Signore dà un segno ancora più vistoso per confermare il suo atteggiamento di rinnovata benevolenza verso il popolo: mostra di gradire il sacrifico che gli hanno fatto inviando un fuoco che brucia l'olocausto: "E un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e consumò sull'altare l'olocausto e il grasso; tutto il popolo lo vide, proruppe in grida di gioia e si prostrò con la faccia a terra" (Lev. 9:24).
Pace fatta? Sì, in un certo senso, ma non perché sia tornato tutto come prima. Adesso si andrà avanti, con le norme che Dio indicherà sulla base di quello che sarà il comportamento del popolo.
La gioia del popolo alla vista della gloria dell'Eterno e del fuoco consumante conferma che l'elemento caratteristico del popolo eletto è la presenza del Signore in mezzo a lui, non il privilegio di possedere una nobilissima legislazione con cui consolarsi per la sua prolungata assenza.

La vicinanza di Dio è pericolosa
La pericolosità della nuova presenza di Dio in mezzo al popolo si vede da quanto accade subito dopo ai figli di Aaronne. Molto probabilmente Nadab e Abihu volevano soltanto dare espressione alla gioia del popolo per la riconciliazione avvenuta manifestando la loro gratitudine a Dio con un gesto umano di risposta al fuoco divino che aveva consumato l'olocausto. Ma avviene una cosa tremenda: "un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e li consumò..." (Lev. 10:2) ; ed è la stessa espressione usata per il sacrificio sull'altare: "un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e consumò l'olocausto" (Lev. 9:24). E nessuno intorno deve piangere o disperarsi, perché i due "morirono davanti all'Eterno" (Lev. 10:2), e tutto questo avvenne a maggior gloria del Signore: "Allora Mosè disse ad Aaronne: «Questo è ciò di cui l'Eterno ha parlato, dicendo: "Io sarò santificato da coloro che si avvicinano a me, e sarò glorificato davanti a tutto il popolo"». E Aaronne tacque" (Lev. 10:3).
Dopo l'idolatria del vitello d'oro, il Signore si era impegnato, con il patto di conservazione, a mantenere non soltanto l'esistenza del popolo, ma anche la sua santità, cioè il suo carattere distintivo rispetto a tutti gli altri popoli. L'elezione divina dunque non sarà più tolta al popolo, ma già da questo primo fatto si comincia a vedere che la santità gli produrrà "spine e triboli", come ha fatto la terra con Adamo dopo il suo peccato.
Il paragone con il peccato originale di Adamo ed Eva continua ad essere efficace e rivela un carattere unitario del modo di agire di Dio. Il perdono annunciato dal Signore contiene in entrambi i casi una promessa che Egli farà continuare la storia in vista di un suo futuro intervento, ma resta il fatto che nel frattempo il peccato compiuto determina una rottura che non lascia le cose come prima. Dopo la caduta dei nostri progenitori, l'immagine di Dio presente nella coppia è rimasta, ma indubbiamente deformata; la donna ha continuato a partorire, ma con un dolore moltiplicato; l'uomo ha continuato a lavorare, ma con il "sudore della fronte"; la terra ha prodotto all'uomo non solo olio e frumento, ma anche "spine e triboli"; gli animali hanno avuto paura di lui e qualche volta l'hanno attaccato.

Animali puri e animali impuri
Ci si può chiedere allora se la severa distinzione tra animali puri e animali impuri sia davvero una superiore forma di saggezza donata da Dio al popolo eletto o una forma di disciplina all'interno del patto di conservazione dopo la caduta del popolo nell'idolatria. Di animali puri e impuri non si parla nel testo che Mosè lesse al popolo prima della ratifica del patto (Es. 24:7-8); non ne ha parlato neppure il Signore a Mosè nei quaranta giorni e quaranta notti trascorsi sul monte Sinai. Il popolo riceve per la prima volta queste disposizioni dalla bocca di Mosè ed Aaronne, su preciso ordine del Signore (Lev. 11:2).
Per quale scopo? Si sono ricercate ragioni igieniche di vario tipo, ma non sono affatto convincenti. Noi pensiamo soprattutto alla salute ("quando c'è la salute c'è tutto"), la Bibbia pensa invece soprattutto alla santità. E non è forse la santità che il Signore aveva deciso di mantenere per il suo popolo, e avrebbe voluto che il popolo mantenesse nei rapporti con Lui? La spiegazione migliore dunque la dà Dio stesso:
"Io sono l'Eterno, il vostro Dio; santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non contaminatevi con alcuno di questi animali che strisciano sulla terra. Poiché io sono l'Eterno che vi ho fatto salire dal paese d'Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo" (Lev. 11:44-45).
Doveva dunque essere un segno, e nei rapporti giuridici i segni sono importanti. Non in se stessi, ma per la realtà che significano. Questo vuol dire che se la realtà significata contraddice il segno che la esprime, sono guai. Questo indubbiamente è avvenuto nella storia del popolo d'Israele, ma l'avvertimento vale anche per altri.
La cosiddetta "kasherut", l'insieme delle norme che regolano ciò che è lecito mangiare per un ebreo osservante, è rimasto indubbiamente un segno di distinzione di Israele rispetto agli altri popoli. Se il Signore considererà valida questa forma di "santità" rispetto agli altri popoli come una forma di santità anche rispetto a Lui, non sta a noi giudicare. M.C.

  (Notizie su Israele, 20 aprile 2017)


Alu Caprè

di Angelica Edna Calò Livne

Quando, per la prima volta, rappresentammo Chad Gadya, secondo l'antica tradizione del ghetto di Roma, nella grande sala da pranzo del Kibbutz Sasa, come lo allestivamo nel Ken dell'Hashomer Hazair, con i costumi, con l'angelo della morte tutto vestito di nero che shachtava lo shochet che si era bevuto l'acqua, che aveva "smorzato" il fuoco, che aveva "abbruciato" il bastone e via di seguito, nessuno immaginava che sarebbe diventata una delle tradizioni più solide di Sasa. I ragazzi del Garin (il gruppo Aliyah) col quale eravamo arrivati dalla Francia, dalla Svizzera e dall'Italia, continuarono a salire ogni anno sul palco insieme, poi con propri figli, poi fu coinvolta altra gente di Sasa e da allora tutto il kibbutz ha imparato a cantare:"Alu Caprè, alu caprè". Il nostro Seder è un vero avvenimento con 700 persone tra famiglie e ospiti. I quattro bicchieri di vino vengono dedicati al raccolto, al rinnovo del ciclo della vita, al popolo d'Israele sparso nei quattro angoli della terra, ai nostri soldati di guardia nella notte di festa e alla pace... che prima o poi verrà. Quest'anno, per la prima volta, sono stata invitata a un Seder fuori dal kibbutz. Ho comunicato che ci sarebbe stato un Chad Gadya ma in ebraico. Incredibile quante persone mi abbiano fermato sui viottoli del Kibbutz: "Ma non è possibile un seder a Sasa senza Alu Caprè! I miei nipotini vengono da Tel Aviv solo per Alu Caprè!" - "Io aspetto tutta la serata solo per lo spettacolo di Alu Caprè!" insomma bisognava inventare qualcosa. Cosi ho fatto un video. Gatti veri, cani veri, fuoco autentico, acqua dell'irrigazione dei nostri campi della Valle di Hule, il capretto e il bove degli ovili e delle stalle di Sasa, i bastoni del Parco Avventura del kibbutz e i bambini che cantano sulle auto blindate di Plasan, che sbocciano come fiori in prati coperti di anemoni e fanno capolino dai cesti della lavanderia.
È stata una festa di gioia per tutti. E che finalmente questo capretto abbia la meglio su tutti i fuochi, i bastoni, i malvagi e le disperazioni del mondo!

(moked, 19 aprile 2017)


Pasqua, record di ebrei in visita al Monte del Tempio

di Mordechai Sones

Un record. Il Monte del Tempio ha registrato il suo massimo di visite di ebrei da quando fu liberato quasi 50 anni fa. Sono stati più di 1700 gli vhe nel giorno di Pasqua hanno fatto visita al Tempio, facendo così registrano un aumento del 35 per cento.Il rabbino Yitzhak Levy esperto di storia e archeologia del periodo del Tempio e pellegrino veterano al Monte del Tempio, ha definito i cambiamenti radicali sul Monte del Tempio e il suo ingresso come "i giorni del Messia. "La rivoluzione nel servizio ai pellegrini è passato da un sentimento di resistenza a quello di un invito che riscalda i cuori che battono per il Tempio. "
Positivi anche i segnali sulla cooperazione tra le organizzazioni e la polizia. " Questa Pasqua l'area del Monte del Tempio non è mai stata chiusa agli ebrei a causa di disordini o di minacce da parte dei musulmani, al contrario di anni precedenti. Molte efficienti le forze di polizia - ha continuato Yitzhak Levy - che hanno realizzato una serie di arresti preventivi e detenzioni periodici di sospetti musulmani. Ha funzionato tutto molto bene comunque in generale.
Al cancello d'ingresso al Monte del Tempio, ad esempio, la polizia ha permesso la creazione di una sede Tempio Organizzazione stand con rinfresco per quelli in attesa di salire al monte, e la polizia, ha anche distribuito carte benedette ai pellegrini.
Durante i giorni precedenti alla Pasqua la polizia ha portato gli ebrei al Monte del Tempio in due gruppi paralleli contemporaneamente cos' il tempo di attesa è stato molto breve rispetto agli anni precedenti."

(Italia Israele Today, 19 aprile 2017)


Israele, nuovo attacco con un'auto a una fermata dell'autobus

Un ferito fra i passanti, il palestinese alla guida ucciso dai militari di pattuglia

di Giordano Stabile

 
L'auto del palestinese
BEIRUT - Un palestinese ha attaccato con la sua auto lanciata a forte velocità un gruppo di persone a una fermata dell'autobus vicino all'incrocio di Gush Etzion, sulla superstrada 60 (tra Gerusalemme e Betlemme). Una pattuglia di militari ha aperto il fuoco per fermarlo, il mezzo si è schiantato sul retro di un pullman. L'assalitore, colpito alla testa, è morto. Fra i passanti c'è un ferito, non grave.
Il palestinese, 21 anni, era originario di Sawahreh, un villaggio vicino a Betlemme, non lontano dal luogo dell'attacco. Il raccordo di Gush Etzion, vicino ad alcuni insediamenti ebraici, è stato oggetto di molti attacchi duranti la cosiddetta "Intifada dei coltelli", cominciata nell'ottobre del 2015.
Venerdì scorso una studentessa inglese, 25enne, era stata uccisa a colpi di coltello da un palestinese di 57 anni a una fermata delle metropolita leggera, vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme. Dall'ottobre del 2015 sono 37 gli israeliani assassinati, assieme a due turisti americani. Nello stesso periodo 163 palestinesi sono rimasti uccisi durante gli attacchi con coltelli, armi da fuoco o veicoli lanciati sulla folla.

(La Stampa, 19 aprile 2017)


Il sacrosanto 25 aprile senza l'Anpi

Il boicottaggio della comunità ebraica romana contro i nuovi mistificatori

"L'Anpi che paragona la Comunità ebraica di Roma a una comunità straniera è fuori dalla storia e non rappresenta più i veri partigiani". Così scrive la presidente della comunità ebraica della capitale, Ruth Dureghello, annunciando il boicottaggio della comunità che presiede al 25 aprile con l'Anpi. L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si riunirà in via Balbo, di fronte all'allora sede della Brigata Ebraica, il corpo militare dell'esercito inglese composto da ebrei che vivevano sotto il mandato britannico nell'odierna Israele. Si riuniranno in nome di quei partigiani e sionisti, come Emmanuele Artom, seviziato a morte dai nazisti. "A causa dell'impossibilità di partecipare al corteo del 25 Aprile a seguito della scelta dell'Anpi di cancellare la storia e far sfilare gli eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere e delle ripetute aggressioni, avvenute negli anni passati, ai danni dei rappresentanti della Brigata Ebraica, il mondo ebraico ha deciso di organizzare una propria manifestazione". Sacrosanto. Come è sacrosanta la decisione pure del Pd di sfilarsi dall'Anpi.
   Vecchia storia, ma eco di fantasmi ideologici attualissimi. Nel 2003 esponenti della Comunità ebraica furono costretti ad abbandonare la manifestazione in Campidoglio, dopo gli slogan che urlavano "Israele sei il primo della lista". Al congresso di Rifondazione, l'immagine di Anna Magnani uccisa dai nazisti fu accostata a quella di un bambino palestinese. "Roma città aperta" si riferiva al passaggio dei nazisti nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943. Furono presi più di mille ebrei. Ne tornarono sette. Gli altri sono passati per il camino di Auschwitz. A Ramallah dove sono le camere a gas? E' un misto di ignoranza e delle peggiori dottrine largamente in circolazione a fare di Israele il "nuovo nazismo". Un morbo che ha contagiato anche tanti esponenti della cultura (Dario Fo raccoglieva fondi fuori dai teatri per i "partigiani palestinesi"). Nei giorni scorsi il New York Times ha pubblicato un editoriale a firma Marwan Barghouti, leader dell'Intifada. Ma si è "dimenticato" di scrivere che Barghouti sconta cinque ergastoli per avere ucciso numerosi civili israeliani, fra cui un sacerdote. Ai mistificatori dell'Anpi andrebbe ricordato ogni giorno che il vero partigiano è Israele, che resiste da settant'anni a chi vorrebbe buttarlo a mare.

(Il Foglio, 19 aprile 2017)


Rutu Modan a Tempo di Libri

"Non posso sapere cosa farei se non fossi me stessa. Mi chiedono che effetto fa essere un'autrice di fumetti donna. Ma non ho mai pensato che fare fumetti sia una professione maschile. Perché, poi?", raccontava l'israeliana Rutu Modan, famosa e pluripremiata autrice di fumetti, a Pagine Ebraiche in un'intervista a firma di Ada Treves. Da allora le strade di Modan e del giornale dell'ebraismo italiano si sono incrociate più volte: come nel caso di "Being Rutu Modan", documentario realizzato dalla troupe di Giovanni Russo, coordinatore di Lucca Comics, sull'autrice israeliana e nato da una collaborazione fra Lucca Comics, l'Ambasciata israeliana in Italia e Pagine Ebraiche o come la mostra al Museo ebraico di Bologna "Essere Rutu Modan" nata anche grazie al lavoro di DafDaf, il giornale per bambini dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. E le strade torneranno ad incrociarsi domani a Milano dove, in occasione della prima edizione della manifestazione Tempo di Libri (che ha aperto i battenti questa mattina e proseguirà fino a domenica), andrà in scena l'appuntamento "L'identità personale e collettiva, l'appartenenza ed il confronto fra diverse culture", con protagonista proprio Rutu Modan, affiancata dalla giornalista della redazione UCEI Ada Treves e da Giovanni Russo. Alle 17.30 al lab. Elephant (padiglione 4) il pubblico potrà infatti ascoltare il dialogo con l'autrice di Unknown/Sconosciuto e La proprietà (Rizzoli-Lizard) e visitare, presso lo stand di Lucca Comics & Games a Tempo di Libri, la mostra a lei dedicata.

(moked, 19 aprile 2017)


E il "New York Times" trasforma un terrorista in un futuro leader

La storia di Barghouti: condannato a 5 ergastoli ora lotta per le condizioni dei carcerati in Israele. E il mondo dimentica.

di Fiamma Nirenstein

Marwan Barghouti è un terrorista condannato da Israele nel 2004, dopo la seconda Intifada, a 5 ergastoli e più di 40 anni di carcere.
   Invece il New York Times lo ha definito solo «leader e membro del parlamento», pubblicando una melensa colonna sull'attuale sciopero della fame nelle prigioni israeliane. Il commento sul maggiore giornale americano di fatto lo ricandida per l'ennesima volta nel ruolo di leader coccolato dall'Occidente almeno quanto Abu Mazen. E si guarda bene dal menzionare la sua vera carriera, quella di assassino seriale. Strano? Per niente, nella logica che fa di Israele un Paese in cui è normale vedere cadere a schiera cittadini innocenti in stragi terroriste. Netanyahu ha detto: «Definire così Barghouti è come definire Assad pediatra».
   Il contesto del lapsus del maggiore giornale americano è uno sciopero della fame di circa mille condannati palestinesi sui 6mila dietro le sbarre. Le richieste sono tipiche di tutti i movimenti disegnati sulla più classica immagine del detenuto che vuole migliorare la sua condizione. Ma lo sfondo ha una tinta tutta particolare, quella che gli dà la leadership di Barghouti: il leader dei Tanzim e delle Brigate di Al Aqsa, il braccio violento di Fatah nella seconda Intifada, condannato per i crimini. Cioè per la gestione di una delle fasi più sanguinarie della storia del Fatah, che portò a quasi 2mila morti.
   Barghouti era un giovane (è del 1959) leader nazional popolare, chi scrive l'ha intervistato più volte, e l'ha trovato ciarliero e sorridente, abile nel gestire la sua popolarità fra fiancheggiamenti di Arafat nelle trattative come nel terrore, ma populista contro la corruzione della classe dirigente. La cronista lo intervistò in una casa nel cui cortile a Ramallah razzolavano le galline, e i suoi armati fino ai denti, la tallonavano fin dentro la cucina in cui si svolse l'incontro. Era una specie di allegro camorrista nazionalpopolare, ma in realtà abile assassino di decine di persone. In carcere è diventato sempre più importante e sempre più inviso ad Abbas, che ha escluso lui e i suoi amici dai ruoli cui Barghouti pensa di avere diritto. Il gioco tende a ricollocarlo a una quota di potere molto elevata, competitiva con Abu Mazen. È un gioco rischioso, perché dipende dai risultati che lo sciopero riuscirà a ottenere, e quindi dalla risposta degli israeliani che non sono inteneriti dalle richieste dei carcerati. A giudicare però dal New York Times, ci sarà chi sosterrà lo sciopero, anche se già in Israele si ripete che le condizioni carcerarie sono assai rispettabili.
   Barghouti comunque è stato astuto di nuovo: ha scelto la via della protesta nazional popolare verso la leadership che lui ha sempre visto, come un compito insanguinato.

(il Giornale, 19 aprile 2017)


Milano - Corteo 25 aprile. Sala: difenderemo la Brigata ebraica

Il sindaco raccoglie appello dell'Anpi. Timore per le possibili contestazioni di gruppi anti Israele vicini agli antagonisti e alla sinistra radicale.

di Caterina Maconi

 
Giuseppe Sala, sindaco di Milano
«Sono totalmente d'accordo con l'appello dell'Anpi a difendere la Brigata ebraica». Il sindaco Giuseppe Sala ieri ha risposto così alle parole del presidente provinciale dell'associazione dei partigiani, Roberto Cenati, che invitava a «isolare e respingere» le eventuali provocazioni e contestazioni alla Brigata ebraica in occasione della manifestazione che si terrà il prossimo 25 aprile per celebrare la Liberazione. Contestazioni che avvengono ormai da anni da parte di gruppi pro Palestina e contro Israele, che fanno riferimento molto spesso all'area antagonista e della sinistra radicale. Cenati si è espresso dopo che Andrea Jarach, editore e presidente nazionale dell'associazione ebraica Keren Hayesod Italia, in un post su Facebook aveva scritto: «Amici, il 25 aprile vi propongo di recarci a Roma. Purtroppo la nostra presenza a Milano a fianco delle inevitabili bandiere palestinesi e quest'anno dei movimenti Bds (Boycott Divest Sanctions, ndr.) che odiano Israele, sarà questa volta davvero fuori luogo». Così Cenati ha preso posizione dicendo che «Bisogna con forza ribadire che chi offende il simbolo della Brigata ebraica ingiuria l'intero patrimonio storico della Resistenza italiana». Rimane invece alta la probabilità che nel Campo 10 del cimitero Maggiore il 25 aprile ci sarà la parata di alcuni gruppi di estrema destra, che ogni anno vanno ad omaggiare quanti sono caduti sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. «Siamo coscienti che non si può vietare l'ingresso al cimitero: quindi ci affidiamo al buonsenso e alla responsabilità», ha detto il sindaco. Anche se è «nostra volontà di non permettere che avvenga», come espresso anche da Anpi, Aned e altre sigle della galassia antifascista.
   Se a Milano la situazione sembra essersi ripristinata, con la tradizionale presenza in corteo della Brigata ebraica, a Roma domani parte in commissione Affari costituzionali della Camera l'iter per una proposta di legge presentata da alcuni deputati del Pd - Lia Quartapelle e Emanuele Piano sono stati i primi firmatari - e da Fabrizio Cicchitto (Alleanza Popolare) che chiede di attribuire la Medaglia d'oro al valor Militare alla Brigata ebraica, che all'interno dell'esercito britannico ha combattuto in Italia contro i nazisti negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale. Sempre il Pd a Milano anche per questo anniversario della Liberazione sarà in manifestazione al fianco della Brigata ebraica «per difendere il suo diritto a celebrare il sacrificio di quanti ci liberarono dalla dittatura nazifascista», ha spiegato il segretario metropolitano dem, Pietro Bussolati. «Al corteo, dedicato quest'anno ai temi dell'integrazione dell'accoglienza, sfileremo con il blu dell'Europa - ha detto ancora Bussolati - di fronte alle minacce sovraniste e populiste che avanzano, perciò, difenderemo l'Europa unita, preziosa eredità della Resistenza».
   Stasera invece alle 18 alla Casa della Memoria (via Confalonieri 14), il consigliere comunale di Milano Popolare, Matteo Forte, che è anche uno storico, presenterà il suo libro "Porzus e la Resistenza patriottica". Interverranno l'ex candidato sindaco per il centrodestra Stefano Parisi e l'ex primo cittadino Giuliano Pisapia.

(Avvenire, 19 aprile 2017)


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Resa di Sala sul corteo neofascista del 25 aprile

MILANO - Il 25 aprile nero a Milano e a Monza si farà. Alla fine si è dovuto arrendere anche il sindaco Giuseppe Sala: «Siamo coscienti che non si può vietare l'ingresso al cimitero: quindi ci affidiamo al buon senso e alla responsabilità». E a un bel po' di poliziotti chiamati a vigilare sulla doppia manifestazione organizzata da Casa Pound e Libertà Azione al Campo 10 del cimitero Maggiore dove sono sepolti i caduti della Repubblica Sociale Italiana e i loro alleati nazisti tedeschi. Stessa sfilata di gagliardetti e saluti romani prevista anche il pomeriggio a Monza all'omologo Campo 62.
Le altre celebrazioni nel giorno della Resistenza a Milano ci sono sempre state. L'allora sindaco Gabriele Albertini ai suoi tempi non mancava di presenziare alle cerimonie per i caduti della Rsi, tra anziani reduci oramai spariti grazie al calendario e giovanotti di Casa Pound. L'Anpi insiste: «Basta con questi vergognosi oltraggi alla Storia. E ora di vietare il corteo e di mettere fine alle provocazioni». Ma pure dopo un incontro con Prefetto e Questore si è capito che non si può.

(La Stampa, 19 aprile 2017)


«Usa e Gran Bretagna sapevano dal 1942 dello sterminio degli ebrei

Ma fecero poco per fermarlo»

NEW YORK - Fin dal dicembre del 1942, ben prima che fossero scoperti, a fine guerra, i campi di sterminio, gli Alleati sapevano bene cosa stesse succedendo agli ebrei europei: circa 2 milioni di loro già erano stati uccisi dai nazisti ed altri 5 erano in pericolo mortale. Per questo, in sede Onu, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano anche preparato le accuse di crimini di guerra contro Adolf Hitler e i suoi accoliti. Tuttavia, nonostante le pressioni e le testimonianze dirette dal campo del massacro, fecero molto poco per impedire che tutto andasse avanti.
   A fornire robustezza ad una tesi già ampiamente condivisa dagli storici e che dà un altro colpo di maglio alle teorie negazioniste, si aggiunge ora il libro `Human rights after Hitler' basato su documenti usciti a distanza di 70 anni dagli archivi delle Nazioni Unite. L'autore, lo storico Dan Pesch - professore al Centro per gli studi internazionali e la diplomazia del Soas dell'Università di Londra - ne ha parlato con il quotidiano `The Indipendent', ripreso con grande evidenza oggi dai media israeliani.
   E il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme Efraim Zuroff ha confermato all'agenzia Ansa il contenuto dell'opera. «Certo che lo sapevano. Non sono stati pochi, comprese le organizzazioni ebraiche, che all'epoca - ha detto Zuroff - li avevano informati con testimonianze dirette su cosa stesse avvenendo nell'Europa occupata dai nazisti».
   Nel dicembre del 1942 - dopo che gli Usa (entrati in guerra un anno prima), la Gran Bretagna ed altri paesi avevano diffuso una pubblica dichiarazione su quanto stessero subendo gli ebrei europei basata su informazioni avute dalla resistenza ai nazisti e da ex prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di prigionia - il ministro degli esteri inglese Anthony Eden fece una denuncia davanti al parlamento di Sua Maestà. «Le autorità tedesche - disse - non contente di negare alle persone di razza ebraica in tutti i territori sui quali si estende il loro barbaro controllo, i più elementari diritti umani, stanno ora portando ad effetto la spesso ripetuta intenzione di Hitler di sterminare il popolo ebraico».
   Né va dimenticata la testimonianza del militare polacco Jan Karsky che nell'autunno del 1942 riferì agli inglesi e al presidente Usa Franklin Delano Roosevelt la situazione di estremo pericolo degli ebrei europei.
   Cosa successe allora che impedì di aiutare chi era in pericolo? A questo proposito Pesch ha ricordato le difficoltà avute dall'inviato all'Onu di Roosevelt, Herbert Pell, nel superare le difficoltà continuamente frapposte ad un intervento: non solo quelle da parte «degli antisemiti presenti nel Dipartimento di stato» ma anche le preoccupazioni espresse da alcuni di loro sulle possibili ripercussioni economiche con la Germania del dopoguerra.
   «Tra le ragioni date da americani e inglesi per limitare le accuse ai nazisti - ha detto Pensch - c'era la comprensione che almeno con alcuni di loro sarebbe stato necessario ricostruire la Germania e confrontarsi con il Comunismo, visto come il pericolo maggiore».
   E non è un caso - ha ricordato lo storico - che per consultare gli archivi dell'allora Commissione per i crimini di guerra dell'Onu, è occorso il permesso del Segretario Generale dell'organizzazione ma anche per molti anni ai ricercatori non sia stato consentito di prendere nota di ciò che consultavano.

(Il Secolo XIX, 18 aprile 2017)


Lettera al sindaco di Cinisello Balsamo: "Via Martiri Palestinesi un'offesa ai veri martiri"

Gentile Sindaco,
inorridito sono venuto a conoscenza che nel Suo comune, facente parte della nostra città metropolitana (Milano n.d.r.), esiste una via Martiri Palestinesi.
Devo segnalarle che i sedicenti Martiri palestinesi (detti in arabo Shahid), altro non sono che terroristi che hanno macchiato di sangue non solo il Medio Oriente ma anche il mondo intero. Sono definiti Martiri coloro che con cintura esplosiva hanno ucciso decine di persone in Israele sugli autobus e nei locali pubblici, nei mercati e per la strada. Martiri sono definiti e onorati dalla autorità nazionale palestinese coloro che hanno accoltellato vecchi e studenti, bruciato bambini in auto con i genitori, sgozzato neonati. Martiri sono quelli a venire che l'educazione all'odio prepara a sacrificare la vita per fare danno agli ebrei o agli "occidentali" nel prossimo futuro.
Erano Martiri palestinesi coloro che fecero saltare le caserme in Libano, in Arabia Saudita, e i centri culturali e le ambasciate in Argentina, in Sudan, e che uccisero a sangue freddo i viaggiatori all'aeroporto di Fiumicino e il piccolo Stefano Gay Tachè, gettando una granata sui bambini che uscivano dalla sinagoga di Roma.

Martiri palestinesi.
Che fecero da scuola ad altri Shahid in Francia, Belgio, Germania, Svezia, Norvegia, Russia, USA.
Insomma aver intitolato una via ai Martiri Palestinesi è un grave insulto a tutti i veri martiri della storia.
Penso che lei non ne fosse cosciente e che la scelta scellerata sia opera di qualche predecessore.
Mi auguro che lei voglia porre rimedio al più presto per rispetto alle migliaia di vittime dei terroristi oggi onorati da Cinisello Balsamo.
Mi auguro di vederla alla sfilata del 25 aprile con la Brigata Ebraica che concorse a liberare l'Italia dai nazisti, gli stessi nazisti con cui si alleò il capo politico dei palestinesi arabi Haj Amin al Husseini nella speranza di una "soluzione finale" del problema ebraico anche in Medio Oriente.
Andrea Jarach
Presidente Keren Hayesod Italia Onlus, Appello Unificato per Israele

(L'informale, 18 aprile 2017)


Un po' di verità sullo sciopero della fame dei detenuti palestinesi in Israele

Ieri la stampa internazionale ha dato molto risalto allo sciopero della fame dei detenuti palestinesi in Israele. Era immancabile, ogni volta che c'è da parlare di palestinesi e che, soprattutto, c'è da parlar male di Israele scorrono fiumi di inchiostro. In realtà la stampa internazionale tanto schierata contro il terrorismo islamico non fa altro che fare propaganda proprio a quel terrorismo islamico che in teoria dovrebbe combattere.
Partiamo da chi ha organizzato lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi. L'organizzatore di questa "iniziativa" si chiama Marwan Barghouti, condannato a cinque ergastoli per l'omicidio di cittadini israeliani. Al di la della narrazione che fanno alcuni sulla figura di Barghouti, dipinto quasi alla stregua di un "Mandela Palestinese", non siamo di fronte a una figura nemmeno minimamente accostabile a qualsiasi prigioniero politico, qui siamo di fronte a un terrorista islamico palestinese crudele e spietato, uno che ha ammazzato gente, condannato a cinque ergastoli in quanto ritenuto colpevole di 21 capi d'imputazione per omicidio avvenuti nel corso di 33 attentati. Nemico giurato di Abu Mazen, Barghouti è un uomo scaltro e molto intelligente tanto da riuscire a fare politica addirittura dal carcere dove è così "oppresso" che oltre ad aver potuto studiare, può rilasciare interviste ai giornali, inviare articoli alle testate di tutto il mondo nei quali fa propaganda terrorista e denigra Israele. Anche in questa iniziativa c'è tutto l'odio che nutre sia per Israele che per Abu Mazen, forse più per quest'ultimo che per lo Stato Ebraico visto che, secondo molti analisti palestinesi, il vero obiettivo di questo sciopero della fame dei detenuti palestinesi è proprio Abu Mazen...

(Right Reporters, 18 aprile 2017)


Israele: stime Fmi, crescita in calo nel 2017, ma risale nel 2018

WASHINGTON - La crescita economica reale in Israele sarà pari al 2,9 per cento nel corso del 2017, per poi aumentare al 3 per cento nel 2018. E' quanto emerge dal World Economic Outlook di primavera pubblicato oggi dal Fondo monetario internazionale (Fmi). L'economia del paese mediorientale è cresciuta del 4 per cento nel 2016, a fronte di una media regionale (Medio Oriente e Nord Africa) pari al 3,8 per cento nello stesso periodo. L'indice annuale dei prezzi al consumo in Israele, secondo l'Fmi, sarà dello 0,7 per cento nel 2017 e dell'1,4 per cento nel 2018. La disoccupazione rimarrà stabile rispetto al 2016, attestandosi al 4,8 per cento. Le partite correnti passeranno invece dal 3,6 per cento del 2016 al 3,4 per cento nel 2017 e 2018.

(Agenzia Nova, 18 aprile 2017)


A Gerusalemme per il festival delle Luci

Il festival delle Luci di Gerusalemme, in programma dal 28 giugno al 6 luglio, è un'occasione irripetibile per vivere l'accostamento tra storia millenaria e opere d'arte contemporanea. Cinque i percorsi disponibili, caratterizzati da una tonalità di colore diverso: verde, bianco, blu, rosso e viola. Migliaia i visitatori che camminano lungo le stradine della Città Vecchia di Gerusalemme e, all'esterno, costeggiandone le mura. Un'atmosfera magica resa ancora più indimenticabile grazie alle installazioni luminose, prodotte ed elaborate da artisti locali ed internazionali. Oltre alle installazioni, il festival propone anche spettacoli e presentazioni curati dagli stessi artisti, oltre a una fiera d'arte che consente di ammirare e comprare oggetti particolari. Il festival permette, inoltre, di visitare in via eccezionale, al calar del sole, alcune attrazioni della Città Vecchia normalmente chiuse dopo il tramonto. Giunto alla sua nona edizione, l'evento è perfetto per turisti, famiglie con bambini e amanti dell'arte e l'ingresso è completamente gratuito. Tra gli spettacoli imperdibili si segnala Pyromania, una surreale sfilata di musicisti che si terrà tutte le sere, a ripetizione, presso il quartiere Armeno: il passaggio degli artisti sarà arricchito da luci, suoni e ritmi coinvolgenti, che invoglieranno i visitatori a ballare. il to Go Asia propone il pacchetto Go Gerusalemme, Città Mozzafiato, 5 giorni / 4 notti, comprensivo di trattamento b/b presso il Dan Boutique Jerusalem 4 stelle, visita della Città Vecchia con guida e assicurazione di viaggio, a partire da 750 euro a persona.

(Travel Quotidiano, 18 aprile 2017)


Alla Spezia si testeranno i filobus di Tel Aviv

di Marco Toracca

La Spezia - I filobus di Tel Aviv saranno testati alla Spezia. Non solo: anche la città austriaca di Graz, insieme alla capitale israeliana, utilizzerà la filovia spezzina per valutare le prestazione dei nuovi mezzi elettrici dotati di supercapacitatore. Lo ha detto Renato Goretta, amministratore delegato di Atc Esercizio, che ha spiegato che la sperimentazione inizierà a breve, entro qualche settimana.
   I test che forniranno anche ad Atc un importante banca dati per futuri eventuali investimenti nel settore. Il filobus a supercapacitatore è un modello particolare di trazione elettrica che si aggiunge alle due già esistenti: i mezzi totalmente elettrici come i Breda bus anni '80 rimessi in funzione di recente alla Spezia e dotati solamente di una piccolissima autonomia senza fila proprio per le manovre di emergenza e quelli attualmente in uso bimodali come i Trollino che hanno oltre al motore elettrico anche uno diesel ecologico che possono alternare senza problema come avviene in città da anni. Il supercapacitatore si distingue dagli altri due perché è in grado una volta giunto a destinazione di ricaricare le proprie batterie perché nella pensilina di fine corsa trova una cenrtralina dedicata proprio a questa funzione. Questa tecnologia è in uso in Svizzera e tra poco giungerà a Graz come farà la capitale dello stato ebraico con i nuovi mezzi che proverà alla Spezia. «Tra le altre novità - ha concluso Goretta- anche l'arrivo di nuovi autobus che presto rinforzeranno la nostra flotta».
   Da segnalare che La Spezia non è la prima volta che viene scelta come testa da importanti città. Negli anni '80 su Seattle a provare i filobus nel capoluogo del levante ligure. Adesso tocca ad israleilani e austriaci. Il meccanismo definito del supercapacitatore in uso per esempio a Ginevra preleva molta energia in poco tempo durante il processo di ricarica lampo limitando così a pochissimi minuti il tempo di sosta al capolinea di ricarica.

(Il Secolo XIX, 18 aprile 2017)


I complimenti di Hamas per la vittoria di Erdoğan e gli insulti del Sultano ad Israele

di Riccardo Ghezzi

"La Turchia ha compiuto un grande passo sulla strada dello sviluppo, raggiungendo un nuovo successo" ha twittato Izzet Er-Resa, uno dei leader di Hamas, inviando le sue congratulazioni al presidente turco Erdoğan, al primo ministro Binali Yildirim e ai leader dei partiti politici turchi.
L'Olp, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dal canto suo non ha mancato di esprimere la propria felicità per il voto, sostenendo che il risultato del referendum potrà contribuire alla stabilità della Turchia e a garantire maggior sostegno alla causa palestinese.
L'entusiasmo palestinese per la vittoria di Erdoğan, sia pur striminzita nei numeri (il 51% ha votato Sì alla sua riforma), è comprensibile. Il responso delle urne consegna al nuovo "sultano" un potere spropositato, ben al di là di una normale repubblica presidenziale, senza sufficienti garanzie di contrappesi e controlli reciproci tra potere esecutivo (il presidente) e potere legislativo (il parlamento). Un percorso già avviato con l'introduzione dell'elezione diretta del presidente nel 2014.
Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato di avere le idee chiare sul sistema presidenziale da lui auspicato, sostenendo nel discorso di fine anno del 2015 che «Ci sono esempi in tutto il mondo. E ci sono anche esempi nel passato, se si pensa alla Germania di Hitler, è possibile vederlo».
La riforma costituzionale, approvata ieri, elimina la figura del primo ministro e riduce sensibilmente i poteri del parlamento. In ossequio al presidenzialismo della Germania di Hitler.
Non è solo questo però ad entusiasmare Hamas e l'Olp. L'atteggiamento del "Sultano" nei confronti di Israele è sicuramente di buon auspicio per i leader palestinesi.
Nel gennaio 2009 a Davos, in Svizzera, durante la Conferenza del World Economic Forum, l'allora primo ministro turco si è rivolto all'omologo israeliano Shimon Peres con queste parole: «Capisco che vi possiate sentire un po' in colpa (…) Quanto ad ammazzare, voi sapete ammazzare molto bene. Sono bene al corrente che avete ammazzato bambini sulle spiagge» prima di essere interrotto dal moderatore e abbandonare infuriato la conferenza per protestare contro "l'eccessivo spazio" dato a Peres.
Un anno e cinque mesi dopo, nel maggio 2010, il famoso incidente della "Freedom Flotilla": la nave battente bandiera turca "Mavi Marmara", in testa ad una flottiglia di attivisti filopalestinesi, era stata intercettata dalla marina israeliana mentre tentava di violare il blocco di Gaza. Quando i soldati delle forze speciali israeliane si sono calati dagli elicotteri a bordo della nave, sono stati aggrediti dagli attivisti armati di bastoni, coltelli, catene e sbarre metalliche. La reazione dei militari, dieci dei quali feriti tra cui due gravemente, ha provocato 9 morti tra gli aggressori. Anche in quell'occasione Erdoğan non le ha mandate a dire, definendo "terrorismo di Stato" il raid sulla nave turca che stava violando il blocco, con attivisti armati fino ai denti e pronti ad ingaggiare uno scontro con i commando israeliani. Il premier turco ne ha approfittato per accusare Israele di rappresentare "la principale minaccia per la pace regionale", arrivando a chiedere che gli impianti nucleari israeliani fossero ispezionati dall'AIEA (Associazione Internazionale per l'Energia Atomica) e ad accusare il governo di Gerusalemme di aver trasformato Gaza in una "prigione a cielo aperto".
Nel 2013 è tornato alla carica, definendo il sionismo un "crimine contro l'umanità" paragonabile a islamofobia, fascismo e antisemitismo.
Nel 2016 Israele e Turchia hanno firmato un accordo di riconciliazione e Gerusalemme ha espresso ufficialmente rammarico per la morte dei nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara. I precedenti del Sultano turco, però, continuano ad essere musica per le orecchie dei dirigenti di Hamas e dell'Olp.

(L'informale, 18 aprile 2017)


Come funziona (bene) un ospedale tutto digitale: l'eccellenza è in Israele

Israele è all'avanguardia nell'utilizzo degli strumenti digitali in ambito sanitario. Il cittadino che ha bisogno del proprio medico di medicina generale può prenotare via web, tutti i referti sono trasmessi per via elettronica, tutto è archiviato in un vero big data sanitario.

di Sergio Pillon (*)

 
Si è tenuto ai primi di marzo l'evento Med in Israel, che si tiene a Tel Aviv ogni due anni ed ha come sottotitolo "il battito cardiaco dell'innovazione in medicina".
  Alla fine degli anni '90, Israele aveva più di 200 aziende legate alle scienze della vita. Oggi ci sono oltre 1300 aziende attive e nel 2015 le esportazioni del settore hanno raggiunto la cifra di 8 miliardi di dollari, in crescita costante dal 2008. Esiste una ricchissima pipeline di startup nel settore, fortemente supportate dai business angels e dal governo. Il settore più rappresentato nelle scienze della vita è quello dei dispositivi medici (oltre il 60% delle aziende), che integra le tecnologie nel campo dell'elettronica, delle comunicazioni e elettro-ottica Quest'anno erano coinvolti più di 500 esportatori di dispositivi medici, impiegati in una grande varietà di applicazioni sanitarie, cardiovascolari e vascolari periferiche, neurologia e malattie degenerative, medicina d'urgenza, terapia intensiva e riabilitazione, malattie respiratorie e gestione delle vie aeree, oncologia, ginecologia, ortopedia e medicina dello Sport, gastroenterologia, controllo delle infezioni, oftalmologia, terapia del dolore, terapia delle ferite difficili, patologia orale e dentale, dermatologia e medicina estetica.
  Non c'è nessun altro paese al mondo con una tale concentrazione di aziende del settore della scienza della vita. La caratteristica che ho trovato realmente innovativa è la strettissima cooperazione tra il sistema sanitario pubblico e le aziende. Israele ha un sistema sanitario con molte similitudini con quello Italiano ma le aziende sono profondamente radicate nelle istituzioni accademiche, di ricerca, nazionali internazionali. Sono anche strettamente collegate alle aziende sanitarie operative, per supportarle per esplorare l'innovazione per rispondere sfide odierne: abbassare i costi complessivi dell'assistenza sanitaria, soddisfare le esigenze in continua evoluzione in un mondo con un costante invecchiamento della popolazione. Naturalmente l'attenzione alla sicurezza è sempre centrale e il concetto di "security by design" è evidente e sempre presente e cybermed è stata una delle relazioni più interessanti.
  Il padiglione centrale era riservato al Clalit, una delle "mutue" israeliane, che festeggia gli oltre 100 anni di attività. In Israele il cittadino o il lavoratore, come accade in Italia, è assistito per l'assistenza di base (i nostri LEA) da un sistema sanitario nazionale ma, a differenza dell'Italia, il cittadino può scegliere tra quattro diversi fornitori e il Clalit è il maggiore. Il Clalit ha medici di medicina generale, centri diagnostici e specialistici territoriali, spesso integrati in strutture multispecialistiche, ma soprattutto la Digital Health è l'asse portante del sistema per i 4.4 milioni di assistiti, 14 ospedali pubblici, 9,638 medici, 11,081 infermieri, 100 centri odontoiatrici,1,503 poliambulatori, 48 poliambulatori pediatrici e 384,408 sessioni di telemedicina.
  Il cittadino che ha bisogno del proprio medico di medicina generale può prenotare l'appuntamento via web, tutti i referti sono trasmessi per via elettronica, tutto è archiviato, dall'ambulatorio all'ospedale, fino agli eventi amministrativi, in un vero big data sanitario. Dal punto di vista del paziente se ha semplicemente bisogno del rinnovo della prescrizione dei farmaci abituali, il medico, alla ricezione della richiesta sul proprio PC di studio ha contemporaneamente aperta la cartella del paziente e apponendo il dito sul lettore di impronte digitali, produce tutte le ricette necessarie che vengono caricate nel sistema e viene generato il messaggio per il paziente, informandolo che può recarsi in una qualsiasi farmacia del Clalit per ritirare i farmaci ove siano disponibili (si, esiste anche la disponibilità del farmaco in tempo reale). Contemporaneamente viene alimentato un Big data sanitario che consente al responsabile del centro diagnostico ed al medico di valutare le proprie performance e quelle degli operatori in termini di qualità del servizio (ci sono indicatori che tracciano anche il tempo di contatto con il singolo paziente, indicatori che in presenza di determinate patologie o terapie verificano se sono stati eseguiti i controlli necessari, generando dei reminder per il medico, …) indicatori di efficienza e controllo della spesa, con continui raffronti tra i centri considerati analoghi per tipologia di pazienti e territorio. Tutti i pazienti del Clalit possono scaricare un'app che consente di usufruire dei servizi via smartphone e la televisita è uno strumento usato routinariamente al di fuori dell'orario di apertura degli ambulatori del pediatra, del medico di medicina generale e h24 per il teleconsulto dermatologico.
  Per la parte ospedaliera sono andato a visitare il Rabin Medical Center, un centro ospedaliero che per dimensioni potrebbe essere considerato forse analogo al Policlinico Gemelli di Roma, nato dalla fusione di due ospedali, il Beilinson e l'Hasharon hospital. Alcuni numeri/anno che possono dare l'idea delle dimensioni della struttura: circa 9.000 parti, 150 trapianti, (cuore, polmone, fegato e reni), quasi il 70% di tutti i trapianti in Israele hanno luogo presso RMC.
  Oltre 6.000 interventi tra cardiologia interventistica e cardiochirurgia, 24.000 pazienti sottoposti a indagini genetiche, il 15% dei malati di cancro in Israele viene seguito qui, oltre 8.000 vittime di incidenti stradali all'anno trattate, 35.000 interventi chirurgici, 650.000 visite ambulatoriali ed oltre 100.000 ricoveri all'anno. Tutti questi pazienti sono seguiti da 4.500 persone, dei quali circa 1.000 medici e 2.000 infermieri, per 1.300 posti letto e 40 dipartimenti.
 
Il menù dei servizi disponibili online all'assistito Clalit, anche via app
  Naturalmente i numeri sono anche legati all'organizzazione del sistema e per un medico il più impressionante è il numero di ricoveri rispetto ai posti letto, che mostra una grandissima efficienza del sistema. Il Rabin Medical Center dispone di otto (8!) informatici interni, naturalmente moltissimi servizi sono in outsourcing e i più innovativi sono realizzati anche attraverso partnership con aziende e/o startup. Il servizio informatico del Rabin ha coordinato la realizzazione di ALMA (Advanced Live Management Analytics), un sistema di analisi in tempo reale di tutti i dati del sistema ospedaliero, integrati con il fascicolo sanitario elettronico del paziente; ALMA è la vera "anima" dell'ospedale.
  La mission di ALMA è di migliorare l'assistenza sanitaria e l'erogazione dei servizi con l'uso di dati in tempo reale elaborati attraverso algoritmi proprietari, presentando i dati in una modalità che li rende facilmente utilizzabili dai decision makers, facilitando l'eccellenza operativa e clinica (big data sanitario in real time)
  A giudizio del Rabin Medical Center i prodotti IT ospedalieri tradizionali non sono adeguati alle esigenze moderne dell'ospedale. Gli EMR (cartelle cliniche elettroniche) comunemente sul mercato sono sistemi su larga scala che mostrano le informazioni presenti solo in viste specifiche per paziente. Molta inefficienza operativa viene nascosta perché manca la presentazione dei dati per tutto il "sistema ospedale" in grado di supportare le esigenze operative dell'ambiente ospedaliero nell'insieme. Negli EMR tradizionali non esiste una modalità per ottenere una visione interdipartimentale di informazioni cliniche e operative.
  Un esempio personale: in un ospedale romano dei più moderni ho avuto mio suocero ricoverato. Il collega ha richiesto un esame particolare, dopo due giorni non era in cartella, lo ha richiesto ancora senza successo, poi mi ha proposto di farlo privatamente, dopo la dimissione. Solo al ritiro della copia della cartella ho capito l'arcano: ogni volta il giorno successivo la risposta del laboratorio era un foglio con scritto al posto della risposta "provetta errata". L'infermiere evidentemente non metteva il foglio in cartella, semplicemente indicava che l'esame andava ripetuto, ed i suoi colleghi hanno ricevuto la risposta "provetta errata" e non l'hanno inserita in cartella. Solo nella stampa automatica della cartella è emerso l'arcano, perché i dati di laboratorio sono stampati automaticamente dal database del laboratorio….
  ALMA attinge le informazioni da tutti i sistemi dell'ospedale, li integra con il fascicolo sanitario elettronico e li presenta in formato grafico chiaro e semplice. Il cruscotto è aggiornato in tempo reale (figura 2) e presenta le informazioni più aggiornate per i gestori, che siano amministrativi o clinici. Il contenuto del "cruscotto", visibile con un semplice browser web, è basato sul ruolo dell'utente (medico, infermiere, coordinatore, direttore,…) e può essere personalizzato in base alle preferenze dell'utente stesso. Le viste vanno da quella del top management, con le colonnine di allarme, ad esempio occupazione dei letti in un reparto superiore al 100% o inferiore all'80%, liste di attesa che superano un valore preimpostato, pronto soccorso sovraccarico, costi oltre il budget per dispositivi, carenza in magazzino ecc, fino alla vista del singolo medico/infermiere di reparto. Ad esempio nell'incontro che abbiamo avuto cliccando sulla vista del ginecologo è apparso che tre pazienti avevano una emoglobina inferiore ad 8, due avrebbero partorito in mattinata, una era in attesa da due giorni di un esame ecc. Cliccando sulla colonnina che evidenzia il problema si apre un foglio dati che porta alla vista dei pazienti in questione e della loro cartella clinica (figura 3), sempre che l'utente loggato abbia privilegi sufficienti per poter vedere la cartella.
  Impressionante anche la presentazione dei dati di laboratorio: cliccando sull'emoglobina delle pazienti citate prima abbiamo visto il grafico del valore durante l'intera gravidanza e, se presente, anche dei controlli precedenti, non solo i valori rilevato durante il ricovero! Cambia completamente l'approccio e si risolve anche il problema che io da giovane medico definivo "la sfortuna del letto n.15". Infatti spesso la visita alla mattina inizia dal letto n.1, e passano anche due ore prima che si arrivi in fondo. Se poi si arriva in fondo quando stanno per servire il pranzo le azioni che potevano essere compiute la mattina passano al pomeriggio ed a volte alla mattina successiva. Con un approccio per rilevanza dei problemi e non per cartella anche la gestione clinica cambia. I risultati sono arrivati, anche in campi inaspettati. Mi hanno riferito ad esempio un crollo delle infezioni ospedaliere, la riduzione dei tempi di degenza ma soprattutto una "gara" tra i primari a vedere implementato il sistema nel proprio reparto, visti i miglioramenti gestionali e la qualità della clinica Con miglioramenti amministrativi che preferiscono mantenere riservati.
  Nella presentazione di ALMA la conclusione degli sviluppatori merita di essere trascritta integralmente "Unique Clinician - IT Collaboration Leading physicians, nurses and administrators took part in creating the content of ALMA, and based it on state of the art international standards. Thus, it supports the operational, clinical and administrative needs of all hospitals including large academic, tertiary medical centers. ALMA was proudly developed by Clalit in Israel."
  Il punto chiave è una collaborazione definita come "unica" tra clinici ed IT, ma anche tra gli amministratori, il personale amministrativo, i clinici (medici ed infermieri) e l'IT, realizzando un sistema che tutti vorremmo sia come operatori sanitari sia come pazienti.


(*) Direttore UOD Telemedicina, Dipartimento Cardiovascolare, A.O. San Camillo-Forlanini, Vicepresidente SIT

(Agenda Digitale, 18 aprile 2017)


Milano - 25 Aprile, «Boicotta Israele» ci sarà. L'Anpi: difendere la Brigata ebraica

Cenati critica i gruppi filo-palestinesi. Parisi: posizione coraggiosa

di Massimiliano Mingoia

L'associazione nel mirino
«Boicotta Israele» annuncia la presenza al corteo con cartelli che indicheranno i nomi dei villaggi distrutti dagli israeliani
Il presidente dei partigiani
Respingere le inaccettabili contestazioni contro gruppi protagonisti di azioni decisive nella guerra di liberazione
Il leader moderato
Finalmente l'Anpi prende le distanze senza ambiguità da chi vuole contestare la Brigata ebraica

MILANO - L'associazione Bds (Boycott Divest Sanctions) parteciperà al concerto del 25 Aprile ed è pronta a contestare la Brigata ebraica. Un fatto che nei giorni scorsi aveva fatto dire ad Andrea Jarach, editore e presidente nazionale dell'associazione Keren Hayesod Italia: «Amici, il 25 Aprile vi propongo di recarci a Roma. Purtroppo la nostra presenza a Milano a fianco delle inevitabili bandiere palestinesi e dei movimenti Bds che odiano Israele sarà questa volta davvero fuori luogo».
  Un'ipotesI di addio a Milano che non è sfuggita al presidente cittadino dell' Anpi Roberto Cenati, che ieri ha scritto un appello pubblicato sul sito Internet della comunità ebraica (mosaicocem.it): «Nella ricorrenza del 72o anniversario della Liberazione si svolgerà a Milano una grande e unitaria manifestazione che si concluderà in piazza Duomo con l'intervento, tra gli altri, del presidente nazionale dell' Anpi Carlo Smuraglia e del presidente del Senato Pietro Grasso. Siamo convinti che anche quest'anno Milano, Città Medaglia d'Oro della Resistenza, saprà isolare e respingere ogni tipo di provocazione e di inaccettabili contestazioni come quelle che si sono verificate negli anni trascorsi, da parte di uno sparuto gruppo di cosiddetti "filo palestinesi", all'indirizzo della Brigata ebraica». Cenati sottolinea che «tutti noi dobbiamo essere grati ai 5 mila soldati della Brigata ebraica che si sono resi protagonisti di azioni decisive, come il primo sfondamento della linea Gotica e l'ingresso in numerose località dell'Italia centrale». Il numero uno milanese dell'Anpi rilancia l'allarme Bds: «Quest'anno l'associazione Bds ha ipotizzato di partecipare al corteo del 25 Aprile con cartelli nei quali si indicherebbero "i nomi dei villaggi distrutti da Israele dal 1948 in poi". Invitiamo i presidenti di sezione e i nostri iscritti a non aderire all'appello Bds che probabilmente circolerà nei prossimi giorni».
  L'appello di Cenati ha convinto Jarach a confermare la presenza della Brigata ebraica al corteo milanese. Le parole del presidente dell'Anpi sono piaciute anche al leader di Energie per l'Italia e consigliere comunale Stefano Parisi: «L'intervento del presidente dell' Anpi di Milano finalmente offre un contributo di chiarezza dopo tante ambiguità emerse in passato dall' Anpi. Prendere le distanze in modo netto da chi da anni boicotta e cerca di impedire alla Brigata ebraica di manifestare il giorno della Liberazione è un fatto meritorio e, purtroppo, coraggioso».

(Il Giorno, 18 aprile 2017)


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Il corteo in blu dei Patrioti europei. «Lo spirito antifascista è unitario»

L'appello per il 25 Aprile. «Difenderemo la Brigata ebraica dalle contestazioni». Previsti gli interventi di Carlo Smuraglia (Anpi) e del presidente del Senato Pietro Grasso.

 
«La forza straordinaria della Resistenza deriva non dalle divisioni ma dall'Unità». Con questo messaggio, con la bandiera dell'Europa o indossando qualcosa di blu, al 25 aprile sfileranno i tanti che aderiscono al movimento «Noi Patrioti europei».
   Tra chi ha sottoscritto l'appello a «non tradire lo spirito di chi ha combattuto il fascismo» e a non lasciarsi fuorviare da un antifascismo che sta diventando «settario e respingente», c'è anche Laura Wronowski, 93 anni compiuti, nipote di Giacomo Matteotti e partigiana di Giustizia e Libertà. «Di Europa si parla molto - spiega - Ma non siamo molto uniti. "Europa" sembra una mano di flatting spalmata alla meglio su Paesi che in modo un po' confuso si fanno i fatti loro, mentre una massa di diseredati preme sui confini».
   Laura di cortei ne ha macinati tanti ma è sulla propria generazione che oggi punta il dito: «Non abbiamo fatto granché per educare i nostri figli. Metà di noi si è adagiata su un benessere fasullo, l'altra metà si è data da fare in modo settario». Dinanzi alla recrudescenza del movimenti di estrema destra aggiunge: «Abbiamo la Costituzione ma si doveva andare più in là e capire che il conflitto da cui uscivamo era stata la guerra di un regime non di un popolo. Avremmo dovuto fare di più per le nuove generazioni». Perché il valore della libertà va coltivato in culla. «I miei figli li ho cresciuti in semplicità con pochi concetti sani ma robusti. Come diceva mia madre: è importante remare contro corrente, è l'unico modo per non dare all'ammasso il cervello».
   Il 25 aprile, il corteo partirà alle 14.30 da corso Venezia, all'altezza dei giardini pubblici per arrivare in piazza Duomo alle 15.30 dove si terrà il comizio coordinato da Roberto Cenati, al quale prenderanno parte Carmelo Barbagallo, segretario generale Uil, Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi, il sindaco Giuseppe Sala, Giuliano Banfi, vicepresidente Aned, Awa Kane in rappresentanza dei migranti, il presidente del Senato Pietro Grasso.
   Erik Burkhardt, portavoce di «Noi Patrioti d'Europa», iniziativa che qualcuno ha bollato di «revisionismo», sottolinea l'importanza di ritrovare lo spirito unitario che ha contraddistinto la lotta di liberazione. E stigmatizza poi il clima di odio fomentato sulla rete contro la Brigata ebraica: «C'è chi si arroga il diritto di dare patenti di legittimità per la partecipazione a un corteo così importante per la democrazia. Fenomeno che si ripete ogni anno per la Brigata ebraica che però non è più lasciata sola».
   L'appello affinché Milano, Città Medaglia d'Oro della Resistenza, sappia «isolare e respingere ogni tipo di provocazione e di inaccettabili contestazioni all'indirizzo della Brigata ebraica» era stato lanciato nei giorni scorsi dal presidente Anpi provinciale, Cenati. Il quale ha anche inviato «i presidenti di sezione e i nostri iscritti a non aderire assolutamente all'appello del Bds che probabilmente circolerà nei prossimi giorni. Appelli e sigle come quella del Bds non hanno nulla a che fare con la ricorrenza della Liberazione e rischiano di creare pericolose tensioni che potrebbero turbare lo svolgimento della manifestazione nazionale che anche quest'anno sarà sicuramente partecipata, numerosa e pacifica». P.D'A.

(Corriere della Sera, 18 aprile 2017)


Migranti, odio e terrorismo. Le «armi» del nuovo Sultano

Si infrange il sogno di un islam moderato e del glorioso marchio di Ataturk. Si marcia verso un altro califfato

di Fiamma Nirenstein

 
Ataturk e Erdogan
La vittoria di Tayyip Erdogan, triste perché tecnicamente può attribuire al presidente grandi poteri fino al 2029 e costituire un micidiale grattacapo per tutto il mondo, è tuttavia una vittoria risicata e contestata che getterà la Turchia in una fase di instabilità e può crearle alcune delle sue consuete crisi di nervi, molto dannose per tutti. Non è la vittoria che il raìs voleva, nella campagna per il cui raggiungimento ha dato dei «nazisti» alla Merkel e agli olandesi, sciorinando il sempre fertile zibaldone del nazionalismo turco. Erdogan non è il tipo che ammette che metà del Paese, quando lui gli chiede di amarlo e di considerarlo il suo legittimo Sultano, possa dissentire, che la sua Istanbul, e anche Ankara, Izmir, Adana, Antalya, cioè i centri economici del Paese, siano per il «no» al potere santificato che lui ritiene suo per volere divino.
   Erdogan avrebbe voluto una vittoria totale, dal tentativo di golpe del luglio scorso ce l'aveva messa tutta per bonificare la Turchia: l 40mila perseguitati e incarcerati, chiuse 169 pubblicazioni, varie, dozzine di parlamentari arrestati. Erdogan è convinto che il suo potere sia una missione indispensabile per riportare il Paese alla potenza dell'impero Ottomano, farne il centro dell'islam, diventando una specie di Iran sunnita, in cui la libertà personale ha pochissima importanza e si realizza la santa profezia.
   Erdogan è stato per molti anni la speranza sia dell'Europa sia degli Usa, l'unico Paese islamico ponte col mondo musulmano. Ha potuto così fare di tutto senza pagare pegno, ha lasciato che l'Isis ricevesse, attraverso il suo tacito accordo, uomini e rifornimenti attraverso i suoi confini fino a che ha cambiato bandiera del tutto nella trattativa con le varie parti. I suoi passaggi da una parte ali' altra della barricata nel conflitto in Siria, le persecuzioni ai suoi compatrioti, l'accoglienza ai leader di Hamas, la incredibile furia antisemita con cui ha perseguitato Israele finché gli è convenuto, le difficoltà poste alla Nato e infine la crisi di nervi anti europea in cui ha definito la Merkel e gli olandesi «nazisti» perché hanno impedito le manifestazioni in suo favore sui loro territori nazionali mentre la sua folla gridava «Allah u Akbar».
   Ormai gli americani e gli europei hanno realizzato che la Turchia rischia di perdere il glorioso marchio di Kemal Ataturk e di acquistare invece quello di Abdul Hamid, l'ultimo vero sultano ottomano modello di Erdogan, cui è dedicato un pompatissimo serial tv. Per il presidente turco la storia dell'Impero è la sua storia, il suo desiderio lo stesso dei Fratelli Musulmani (di cui è il capo politico effettivo): stabilire in Turchia e nel mondo l'indispensabile califfato che cancella le regole peccaminose dell'Occidente. Per Erdogan è stato naturale alzare la voce con la Germania e l'Olanda: la minaccia è una regola da quando sta a lui trattenere il flusso islamico verso l'Europa in cambio di una ricompensa. È tipico di Erdogan, se lo si contraddice, ricorrere a gesti sconsiderati e minacciare l'Europa in tempo di frequenti attentati, sapendo che l'esercito islamico è immenso e che si mobilita a seconda della chiamata religiosa più potente.
   Sconsiderato è stato mettere a rischio i suoi rapporti con gli Usa e con altri 34 Stati sguinzagliando i suoi agenti segreti alla caccia degli uomini del nemico Fethullah Gulen, sconsiderato avere un palazzo di 110 stanze, sconsiderato essersi giocato il visto in Europa su una questione relativa alla definizione del terrorismo nel codice penale, sconsiderato gridare a Shimon Peres: «Voi sapete come uccidere!». Ma lui è fatto così. Fino al 2029. E, a quel punto, sarà assolutamente chiaro che nessuno Stato islamico è destinato alla democrazia, purtroppo. Dispiace per noi, per Ataturk e per i turchi, anche i più islamisti.

(il Giornale, 18 aprile 2017)


Ungheria - Affluenza record alla marcia per ricordare le vittime della Shoah

Si è svolta a Budapest, in Ungheria, la tradizionale "Marcia per la Vita" per commemorare le vittime dell'Olocausto. Partecipazione record quest'anno: sono state diverse migliaia le persone che hanno partecipato all'evento che si tiene ogni anno il 16 aprile, giorno nel quale, del 1944, ebbe inizio la ghettizzazione degli ebrei ungheresi; oltre 400mila furono deportati nei campi di concentramento. Nella città si sono tenute una fiaccolata sul lungo-Danubio, commemorazioni ufficiali, mostre, momenti di preghiera e concerti.

(TGCOM24, 17 aprile 2017)


Gaza: la centrale elettrica cessa le attività

Corrente razionata. Dure polemiche fra Hamas e Anp

GAZA - L'erogazione della corrente elettrica ai quasi 2 milioni di abitanti di Gaza e' stata razionata da ieri in seguito alla cessazione delle attività della centrale elettrica della Striscia per crescenti difficoltà finanziarie. In assenza dei 100 Megawatt prodotti finora da quella centrale, gli abitanti di Gaza devono spartirsi adesso i 30 Megawatt provenienti dalla rete egiziana e i 120 Megawatt forniti da Israele. Le case possono oggi contare su sei ore di corrente elettrica, seguite da un black-out di 12 ore.
Sull'origine della crisi Hamas e l'Autorità nazionale palestinese si scambiano dure accuse, che vanno ad aggiungersi a quelle già sollevate a inizio mese con la decisione del premier Rami Hamdallah di ridurre significativamente gli stipendi dei funzionari dell'Anp a Gaza. Nei giorni scorsi, su iniziativa di Hamas, in alcune località della Striscia si sono avute accese manifestazioni contro Abu Mazen. Intanto a Gaza si attende l'arrivo di una delegazione di Ramallah.

(ANSAmed, 17 aprile 2017)


17 aprile 1848 - Pio IX ordina di abbattere il muro che circondava il ghetto

di Enrico Gregori

Papa Pio IX ordina di abbattere il muro che circondava il ghetto. Con la proclamazione della Repubblica Romana, nel 1849, la segregazione fu abolita e gli ebrei emancipati. Caduta la Repubblica, lo stesso pontefice obbligò gli ebrei a rientrare nel quartiere sia pure ormai privo di porte e recinzione.
Il ghetto ebraico di Roma è tra i più antichi ghetti del mondo; è sorto infatti 40 anni dopo quello di Venezia che è il primo in assoluto. Il termine deriva dal nome della contrada veneziana, gheto, dove esisteva una fonderia (appunto gheto in veneziano), ove gli ebrei di quella città furono costretti a risiedere; un'altra possibile etimologia fa risalire l'origine di questa parola all'ebraico גט ghet (pl. גיטים ghittim o גיטין ghittin), che significa separazione.

(Il Messaggero, 17 aprile 2017)


Perché Hezbollah ha già vinto, grazie alla guerra in Siria

Il gruppo estremista sciita libanese è diventato uno dei più importanti e influenti alleati di Assad, riuscendo allo stesso tempo a trasformare se stesso.

 
Una mappa dell'Institute for the Study of War che mostra la presenza di Hezbollah in Siria (la parte rossa tratteggiata, al confine con il Libano)
Tra i pochi vincitori delle guerre che si stanno combattendo in Siria c'è Hezbollah, un gruppo sciita libanese alleato dell'Iran e del regime del presidente siriano Bashar al Assad. Non succede spesso che si parli di Hezbollah in relazione alla guerra siriana. Nei trent'anni precedenti all'inizio del conflitto, nel 2011, Hezbollah era conosciuto soprattutto per la sua aperta ostilità verso Israele, ma la sua capacità di agire fuori dai confini nazionali era sempre stata piuttosto limitata. La guerra in Siria ha cambiato tutto: per Hezbollah - così come per altri gruppi, come lo Stato Islamico - la guerra è stata un'incredibile opportunità per rafforzarsi: per esempio gli ha permesso di formare la sua prima alleanza con una potenza globale, la Russia, e di mettersi a capo di una milizia in grado di fare operazioni militari all'estero. La trasformazione di Hezbollah, che è una delle conseguenze più importanti della guerra in Siria, è stata raccontata in un articolo sul Wall Street Journal della giornalista Maria Abi-Habib.

 Da dove arriva Hezbollah
  Hezbollah, che significa il "Partito di Dio", nacque all'inizio degli anni Ottanta per combattere l'occupazione israeliana del Libano, che era cominciata dopo che alcuni militanti palestinesi provenienti dal Libano avevano compiuto degli attacchi in territorio israeliano. Fin dall'inizio Hezbollah ebbe l'appoggio dell'Iran, e in particolare delle Guardie Rivoluzionarie, l'unità d'élite dell'esercito iraniano creata dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. I nemici di Hezbollah erano Israele e i suoi alleati: nel 1985 i vertici del gruppo diffusero una "lettera aperta" con la quale identificavano gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica come i principali nemici dell'Islam e invocavano la distruzione di Israele, responsabile a detta loro di occupare le terre abitate dai musulmani. Nel 1989 gli Accordi di Taif misero fine alla guerra civile in Libano che si era combattuta nei 15 anni precedenti: tra le altre cose, con gli accordi si accettava la presenza dell'esercito siriano in territorio libanese - i soldati siriani sarebbero rimasti lì fino al 2005, anno della cosiddetta "rivoluzione dei cedri" - e si stabiliva il disarmo delle milizie armate. A Hezbollah, che aveva l'appoggio dell'Iran e della Siria, non furono però tolte le armi e tre anni dopo il gruppo partecipò alle elezioni nazionali per la prima volta nella sua storia.
  Nel corso degli ultimi 25 anni Hezbollah ha accresciuto il suo ruolo nella società e nella politica libanese. Ha creato una serie di programmi sociali in aiuto alla popolazione, per esempio legati alla gestione di scuole e strutture ospedaliere, e ha cominciato a far parte del governo libanese, all'interno del quale ha assunto sempre più importanza. Allo stesso tempo non ha abbandonato la lotta armata contro Israele. Nel 2006 Hezbollah e Israele hanno combattuto una guerra, e nonostante l'evidente disparità di mezzi militari Hezbollah è sopravvissuta e ha continuato a reclutare nuovi soldati ed espandere il suo arsenale militare. Ma la sua opportunità più grande per crescere e trasformarsi in qualcosa di diverso è arrivata con l'inizio della guerra in Siria, nel 2011.

 Cosa è cambiato con la guerra in Siria
  Hezbollah è intervenuta in Siria per garantire la sopravvivenza del regime di Assad, suo prezioso alleato, e l'integrità delle sue linee di rifornimento dall'Iran al Libano. La partecipazione degli uomini di Hezbollah nella guerra siriana si fa risalire al 2011, anche se il gruppo ha negato qualsiasi coinvolgimento fino al 2013. Gli uomini di Hezbollah non solo hanno partecipato direttamente ad alcune battaglie molto importanti, come quella per la riconquista della città siriana di Qusayr nel 2013, ma hanno anche addestrato e consigliato le altre forze dello schieramento di Assad per combattere sia i ribelli che lo Stato Islamico (soprattutto i ribelli). Maria Abi-Habib ha scritto:
    «Hezbollah ha contribuito alla sopravvivenza del regime di Assad aiutando l'esercito siriano, del tutto indisciplinato e afflitto dalla corruzione e dalle defezioni. Nelle città siriane prima sotto il controllo dei ribelli e poi riconquistate, i combattenti di Hezbollah sono stati visti tenere i soldati siriani per i polsi o per la divisa e forzarli a riportare ai legittimi proprietari gli elettrodomestici e i mobili saccheggiati. I civili siriani dicono che capita che i combattenti di Hezbollah trattino senza rispetto i soldati siriani sul fronte di guerra, un netto cambiamento rispetto alla deferenza del passato. Auto con vetri oscurati e con targhe libanesi arrivano sgommando ai checkpoint siriani, i comandanti di Hezbollah si rifiutano di consegnare i loro telefoni durante i controlli identificativi o di rispondere alle domande poste loro dagli alleati siriani.»
L'importanza di Hezbollah è cresciuta nel tempo, anche grazie alle armi ottenute dall'Iran. Andrew Exum, consigliere per il Medio oriente dell'ultima amministrazione Obama, ha detto: «È difficile vedere persone salire di rango nell'intelligence o nell'esercito siriani senza una qualche forma di benedizione di Hezbollah o degli iraniani». Rappresentanti di Hezbollah hanno partecipato ai negoziati sponsorizzati dalla Russia successivi alla sconfitta dei ribelli ad Aleppo e hanno incontrato l'inviato speciale della Cina che si occupa di questioni siriane. La stessa decisione del regime di Assad di riconquistare Aleppo, controllata dai ribelli, prima di avviare un'offensiva militare contro Raqqa, controllata dallo Stato Islamico, sarebbe stata un'idea di Hezbollah e dell'Iran. Questa strategia, diversa da quella pensata dai comandanti di Assad, si è poi dimostrata vincente, se la si guarda dalla prospettiva del regime siriano.
  Ancora più rilevante è il fatto che la guerra siriana abbia permesso a Hezbollah di diventare una forza di "counter-insurgency", ovvero una forza in grado di combattere efficacemente la guerriglia dei ribelli anti-Assad (il termine "insurgency" indica un tentativo prolungato di combattere un governo tramite tecniche di guerriglia; "counter-insurgency" indica la capacità di contrastare l'"insurgency"). Hezbollah, in pratica, ha fatto fruttare i suoi molti anni di esperienza di guerra asimmetrica contro Israele, cioè quella guerra combattuta tra due parti che hanno una enorme differenza di risorse militari. Non solo: Hezbollah, con l'aiuto di un corpo d'élite dell'esercito iraniano, ha addestrato delle milizie sciite semi-autonome di fatto slegate dal potere di Assad, che includono decine di migliaia di uomini e che sono già usate da Hezbollah per influenzare ancora di più la politica in Siria.

 Israele e la Siria post-guerra
  Hezbollah non è solo una preoccupazione per i nemici di Assad in Siria. Nonostante Israele abbia mantenuto finora un ruolo piuttosto marginale nella guerra siriana, evitando di farsi coinvolgere da una o dall'altra parte, non si può dire che il governo di Tel Aviv abbia rinunciato a difendere i suoi interessi. Periodicamente aerei da guerra israeliani fanno dei raid nello spazio aereo siriano per colpire obiettivi di Hezbollah, o convogli iraniani che si sospetta portino armi o altro materiale militare in qualche base di Hezbollah in Libano. Inoltre nel marzo di quest'anno Hezbollah ha annunciato la formazione delle "Brigate per la liberazione del Golan", un gruppo con base operativa in Siria che ha l'obiettivo di riprendere il controllo delle alture del Golan, un territorio al confine tra Israele e Siria e conquistato dagli israeliani durante la guerra dei Sei giorni del 1967.
  Anche la Siria post-guerra, ha scritto Abi-Habib, potrebbe diventare un'opportunità per Hezbollah. Secondo una stima recente della Banca Mondiale, la ricostruzione in Siria potrebbe valere più di 100 miliardi di dollari. Hezbollah a quel punto potrebbe mettere a disposizione la sua esperienza maturata dopo la guerra contro Israele nel 2006, quando organizzò la ricostruzione di interi quartieri di Beirut, e inserirsi nell'economia siriana post-bellica. È probabile che l'influenza di Hezbollah non riguarderà solo l'economia siriana, ma anche la politica del regime di Assad. Prima dell'inizio della guerra, Assad aveva mostrato di volersi avvicinare ad alcune monarchie del Golfo - per esempio stava migliorando i suoi rapporti con l'Arabia Saudita - e aveva anche considerato un trattato di pace con Israele, paese con cui la Siria non ha mai avviato relazioni diplomatiche e contro cui ha combattuto alcune guerre. Oggi la situazione è completamente diversa: Assad deve fare i conti con quello che vogliono i suoi alleati, perché è grazie a loro che è ancora lì, e i suoi alleati non vogliono fare la pace né con Israele né con i sauditi.

(il Post, 17 aprile 2017)


Livorno - Lectio magistralis, sulla storia degli ebrei in Italia

21 aprile, ai Granai di Villa Mimbelli

Venerdì 21 aprile, alle 16.30, presso i Granai di Villa Mimbelli lectio magistralis, sulla storia degli ebrei in Italia. Alberto Cavaglion (Università di Firenze) ospite del programma di iniziative legato alla Mostra "Ebrei in Toscana"
"Gli ebrei in Italia dall'Unità alla Liberazione": questo il titolo del primo dei due seminari organizzati contestualmente alla mostra «Ebrei in Toscana, XX-XXI secolo» presso i Granai di Villa Mimbelli di Livorno.
L'iniziativa rappresenta una preziosa occasione per conoscere ed approfondire la situazione degli ebrei in Italia nel periodo compreso tra l'unificazione dello Stato fino al 1945, con un inquadramento generale approfondito. Una vera e propria lectio magistralis tenuta dal prof. Alberto Cavaglion (Università di Firenze), uno dei massimi esperti sulla questione ebraica nell'età contemporanea.
Per visitare la mostra ci sarà tempo invece fino al 1o maggio, tutti i giorni festivi compresi (ad eccezione di lunedì 24 aprile) con orario 10-13 e 16-19.
Per maggiori informazioni: Istoreco Livorno, Complesso della Gherardesca, via G. Galilei 40-57122
Tel. 0586809219. E-mail: istoreco.livorno@gmail.com
Sito web: www.istorecolivorno.it

(Pisorno, 17 aprile 2017)


Sul tram di Gerusalemme: l'uccisa e l'uccisore

Aveva 21 anni Hannah Bladon, la studentessa britannica uccisa venerdì scorso in un attentato all'arma bianca sul tram di Gerusalemme che ha causato anche il ferimento di una 30enne incinta. Hannah Bladon studiava religione, teologia e archeologia presso l'Università di Birmingham ed era a Gerusalemme per un programma di scambio presso la Scuola Internazionale Rothberg dell'Università di Gerusalemme, nel cui ambito aveva preso parte anche a uno scavo archeologico. Musicista di talento, faceva parte di un gruppo che suonava per la chiesa della sua città.
Ha una storia di problemi mentali l'arabo 57enne che venerdì scorso ha compiuto un attentato all'arma bianca sul tram di Gerusalemme causando la morte della studentessa britannica Hannah Bladon, di 21 anni. L'uomo, bloccato sul posto da un poliziotto fuori servizio e tratto in arresto, ha ammesso d'aver effettuato l'attacco sperando che i soldati avrebbero reagito uccidendolo. Secondo i servizi di sicurezza israeliani, non è la prima volta che palestinesi con disturbi mentali effettuano attacchi terroristici nella speranza di rimanere uccisi giacché la glorificazione dei "martiri" nella società palestinese cancella lo "stigma" della malattia mentale dalla famiglia dell'attentatore.

(israele.net, 17 aprile 2017)


I venti di guerra durante la pasqua di ebrei e cristiani

di Cosimo Risi

Pesach ebraica e pasqua cristiana coincidono quest'anno. A ricordarle intervengono non le tradizionali professioni di pace ma i turbini di guerra che rombano in Medio Oriente e in Asia.
  Le armi di distruzione di massa tornano di moda: non per decretare la loro distruzione ma per riaffermare la loro attualità.
  Il regime siriano è accusato di avere sganciato bombe chimiche su un villaggio occupato dai ribelli, non importa che fra le vittime si contino incolpevoli bambini che certo non hanno avuto il tempo di ribellarsi.
  Gli Stati Uniti costatano che l'ONU non reagisce adeguatamente al misfatto. Lo scontato veto russo blocca la risoluzione di condanna e l'autorizzazione alla reazione.
  Il Presidente Trump, vuoi per afflato umanitario e vuoi per cercare il consenso interno che gli manca dal momento dell'elezione, ordina di bombardare la base aerea da cui sarebbero decollati i velivoli fatali.
  Pochi i danni materiali: i siriani, verosimilmente avvertiti dai russi, a loro volta avvertiti dagli americani, avevano sgombrato per tempo. Resta il fragore di una reazione unilaterale, che gli alleati degli americani qualificano necessaria, che gli alleati dei siriani bollano di pretestuosa. La missione a Mosca del Segretario di Stato USA, lo stesso che il Presidente Putin aveva insignito di un'onorificenza quando guidava la Exxon, si risolve in una "non rottura".
  Il che significa che i due paesi sono d'accordo nel non essere d'accordo. E' già qualcosa. Guai ad essere in disaccordo sul disaccordo: fra due superpotenze, parimenti assertive sul piano internazionale, ci sta poco da scherzare, l'incidente sta dietro l'angolo. E d'altronde tutti ricordiamo il Dottore Stranamore di Stanley Kubrick.
  Il dittatore nordcoreano, in Estremo Oriente, ordina l'ennesimo esperimento volto a mostrare che il suo paese è dotato dell'arma nucleare e dei sistemi per lanciarla anche a grande distanza. Fino a colpire la California, come pretende la propaganda? Di sicuro dalla gittata sufficiente a raggiungere gli alleati asiatici d'America, Sud Corea e Giappone.
  Il Presidente Trump non ci sta ed ordina ad una flotta con portaerei di muovere verso il Mare Giallo. Le immagini mostrano i militari a stelle e strisce addestrarsi in Sud Corea a sbarchi sull'altra sponda. La Cina invita Pyongyang a desistere dall'esperimento.
  I rapporti fra Beijing e Washington non sono ottimali dopo l'annuncio del Presidente Trump "America first", e cioè: riduciamo lo squilibrio commerciale nei confronti della Cina e riportiamo a casa certe produzioni. Una nuova azione militare si profila, a meno che la Cina non eserciti fino in fondo la sua capacità di persuasione o finché il giovane dittatore ritrovi la prudenza del predecessore, che pure minacciava sfracelli ma poi desisteva dal porli in atto.
  La geopolitica, una disciplina tornata alla ribalta dopo anni di silenzio, è in subbuglio. Le relazioni internazionali sono mobili, in maniera anche forsennata e con un tasso d'imprevedibilità che poco dice di buono. Una lezione basilare di diplomazia vuole che nel mondo domini la prevedibilità delle azioni più che l'ostentazione della forza.
  Con le armi di distruzione di massa, che nessuna convenzione internazionale ha definitivamente debellato, l'incidente è probabile quanto l'errore di valutazione. La stabilità richiede anzitutto saggezza.
  L'Europa della saggezza, che ha bandito la guerra dal continente grazie all'Unione, ha il dovere di dire e fare qualcosa di definitivo. Non solo più guerre nel nostro continente ma neppure nelle immediate vicinanze. A cominciare dalla Siria.

(Salernonotizie, 17 aprile 2017)


Pokemon aiuta i militari di Israele ad addestrarsi nella cyber defence

di Francesco Bussoletti

 
 6 squadre IDF hanno difeso le loro città virtuali dal Team Rocket
  I Pokemon aiutano i militari israeliani ad addestrarsi nella cyber defence. Il mese scorso un gruppo di cadetti delle diverse forze armate del Paese Ebraico ha partecipato a un'esercitazione sulla difesa informatica legata ai famosi mostri del media franchise giapponese. Lo riporta il blog delle Israel Defense Forces (IDF). Gli allievi si sono divisi in 6 team, ognuno dei quali rappresentava una creatura dell'universo Pokemon, per respingere gli attacchi informatici di una serie di intrusi contro le loro città. Lo hanno fatto per una settimana. A rappresentare gli aggressori, il Team Rocket (un'organizzazione criminale presente nella serie animata e nel gioco di carte collezionabili). Questo era formato da cyber istruttori delle IDF, il cui obiettivo era catturare il Pokemon simbolo della vittima. Una specie di ruba bandiera virtuale.

 L'obiettivo era addestrarsi nelle risposte a cyber attacchi reali su vasta scala
  "Scopo dell'esercitazione era simulare un cyber attacco reale su vasta scala, ha spiegato il tenente Roi, comandante del corso di addestramento -. Gli attacchi erano basati su aggressioni reali che sono avvenute in tutto il mondo. I cadetti hanno dovuto difendere i loro network dalle minacce, eliminandole, capendo come erano stati presi di mira e riportando le reti alla normalità". Per la priva volta, peraltro, i tentativi di intrusione sono stati condotti anche attraverso dispositivi Internet of Things (IoT). In uno di questi, infatti, il Team Rocket ha preso il controllo di un dispositivo mobile e lo ha usato per avere accesso a tutti i dati sul network. In un altro, ha attaccato direttamente la rete, colpendo router, modem e altre infrastrutture.

 Oggi la più grande minaccia è il ransomware, ma i pericoli sono in costante evoluzione e mutamento
  "La più grande minaccia che affrontiamo è definita il 'ransomware' - ha proseguito Roi -. L'attaccante convince l'utente a cliccare su un link, da cui inconsapevolmente scarica un malware, che si installa in modo nascosto sul suo sistema. E' una minaccia che tutto il mondo affronta oggi". Peraltro non è l'unica. I pericoli sono in costante evoluzione e mutamento. I cyber istruttori lo sanno e si sono regolati di conseguenza nell'esercitazione. "Le cose possono cambiare in un attimo - ha concluso l'ufficiale delle IDF -. Gli attaccanti possono mettere le mani sui codici ed effettuare variazioni. Di conseguenza, i difensori devono rapidamente adattare le tecniche di cyber defence".

(Difesa e Sicurezza, 16 aprile 2017)


Venti di guerra con Hamas

"Dobbiamo essere pronti. Il conflitto può scoppiare già in estate"

"Dobbiamo essere pronti per un confronto con Hamas di questa estate", ha detto, ministro israeliano Yoav Gallant parlando a Radio Esercito. "Siamo stati e siamo ancora in una guerra aperta con il nemico criminale", parlando ad una cerimonia commemorativa a Gaza per Mazen Fuqaha, che è stato recentemente assassinato.
La sensazione che Hamas stia preparando una nuova offensiva militare è abbastanza diffusa. Nel mese di gennaio, un alto funzionario militare dell'Idf ha dichiarato a Channel 2 che Hamas ha pienamente rifornito la capacità militare che aveva perso dopo il 2014 grazie al funzionamento del programma di protezione Edge.
Una gran parte della riserva di missili di Hamas sono realizzati dentro la Striscia di Gaza. Il funzionario ha detto che il materiale per la fabbricazione delle armi è stato per la gran parte trasportato attraverso il valico di Rafah.

(Italia Israele Today, 16 aprile 2017)


Deturpata la targa dedicata a Gino Bartali

I vandali hanno colpito nel "Giardino dei Giusti" che ricorda chi si è opposto alla Shoah, agli altri crimini contro l'umanità, e ai totalitarismi.

di Roberto Davide Papini

La targa commemorativa di Gino Bartali deturpata dai vandali (foto "Moked")
FIRENZE - Ci sono occassioni in cui la famosa frase di Gino Bartali ("l'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare") appare purtroppo azzeccata e sempre attuale. E' il caso dell'atto vandalico compiuto da ignoti nel "Giardino dei Giusti" di Firenze (in via Trento) con la deturpazione della targa che ricorda proprio il grande "Ginettaccio", il campione di ciclismo che aderì negli anni '43/'44 a una rete clandestina per salvare centinaia di perseguitati, soprattutto ebrei, dalla barbarie nazifascista. Con la sua bicicletta il grande ciclista fiorentino non si "limitava" a vincere grandi corse in linea e a tappe, ma trasportava i documenti falsi destinati a far scappare i perseguitati.
Proprio per questo nel 2013 Bartali venne riconosciuto "Giusto fra le Nazioni", e oltre a essere onorato a Gerusalemme è giustamente ricordato anche nella sua Firenze in quel "Giardino dei Giusti", in via Trento, voluto dal Comune per ricordare chi si è opposto alla Shoah (e agli altri crimini contro l'umanità) e ai totalitarismi.
In questi giorni, però, alcuni sconsiderati hanno deturpato la targa commemorativa di Bartali: a darne notizia, con tanto di foto, è Adam Smulevich (giornalista dell'Unione comunità ebraiche italiane) su Moked, il portale ufficiale dell'ebraismo italiano. Smulevich ricorda che "dal 2006 un esemplare di Lagerstroemia Indica (mirto crespo) proveniente dal centro florovivaistico del Comune ha trovato dimora in quella sede per onorare la memoria di Ginettaccio, riconosciuto ufficialmente in quanto "Giusto" nel settembre del 2013. Un piccolo ma significativo omaggio della città al suo campione, oggi deturpato da chi non conosce il significato della parola vergogna".

(La Nazione, 16 aprile 2017)


Pasqua a Gerusalemme

di Francesco Chiucchiurlotto

VITERBO - Sono stato a Gerusalemme per la Domenica delle Palme e trovo utile ed opportuno parlarne oggi, 15 aprile Vigilia di Pasqua, anche perché la prima volta che visitai Israele/Palestina fu 17 anni fa e quindi un paragone, anche storico o politico, ma soprattutto di impressioni tra i due momenti credo abbia un qualche significato.
Allora, nel 2000, un'era geologica fa, Arafat il capo prima di Al Fatah poi dell'Autorità Palestinese, che dopo gli accordi di Camp David, Oslo ecc., sembrava il primo embrione di uno stato.
Il clima era ovunque euforico, ma il fermento che notavamo, l'attivismo che si percepiva soprattutto a Betlemme dove alloggiavamo, era foriero dell'errore drammatico di Arafat che avrebbe rifiutato le proposte israeliane giudicate insufficienti, avviando poi con la seconda intifada, quella terribile "dei coltelli", la disfatta del movimento e la sua fine politica e personale, con l'oscura morte di Parigi.
Giorni fa a Ramallah, visitando il mausoleo che contiene le sue spoglie, non ho potuto non pensare al suo famoso discorso all'ONU quando col la kefiah tradizionale in testa, un ramoscello d'ulivo in una mano ed un revolver nell'altra, pose al mondo la questione palestinese come centrale per la pace nel mondo.
Oggi è cambiato tutto in profondità, non solo in Israele, ma nel mondo e soprattutto nel Mediterraneo, il "mare nostrum" dei Romani, in cui le geopolitiche hanno per priorità la Siria, la Turchia, la Libia ed i flussi migratori.
Ciò si avverte nella graduale integrazione delle popolazioni arabe nella società israeliana, con il tran tran quotidiano vissuto con l'ammonimento costante di un muro di lastroni di cemento che delimita villaggi, paesi, zone sensibili, passaggi e percorsi obbligati.
Anche nel west bank, il settore palestinese, con quel che resta della lenta ed implacabile penetrazione degli israeliani affamati della terra millenaria dei loro Patriarchi, si ha l'impressione di una dura ma normale lotta per sbarcare il lunario in una terra arida e brulla dove miracolosamente abbondano frutta, verdura e pastorizia, come attività principali, cui si aggiunge il turismo religioso delle città sante della cristianità, dell'ebraismo e dell'Islam.
C'è però come un ombra che incombe sulla visione quasi rassicurante che si ricava girando tra un check point e l'altro; è quella dei due milioni di Palestinesi rinchiusi nella striscia di Gaza, isolati fisicamente in un rettangolo i cui lati sono il mare, due lati con Israele ed uno con l'Egitto, e politicamente costretti ad una ideologia che non prevede l'esistenza dello stato di Israele, in una disperata prospettiva di resistenza e conflitto.
La presenza dei cristiani, cattolici, armeni, ortodossi, è fondamentale come presidio e garanzia dei valori democratici occidentali cui Israele è tenuto; purtroppo ogni anno il loro numero decresce e quindi anche il nostro turismo in Terra Santa è importante; una volta nella vita un cattolico dovrebbe farlo questo viaggio, come del resto per i mussulmani è obbligo, per se stesso e la sua spiritualità, ma anche per altro.

(On Tuscia, 15 aprile 2017)


L'angoscia degli scampati, senza una idea del domani

Dopo la Shoah. Chiusa l'esperienza dello sterminio, iniziò il dramma del dove andare e del che fare. I sopravvissuti si trasformarono in profughi, prima di diventare pedine della diplomazia: «La liberazione dei campi», da Einaudi

di Francesco Benigno

«Eravamo scampati alla morte, non ne avevamo più paura; iniziò la paura della vita»: con queste parole Hadassah Rosensaft racconta il sentimento prevalente di molti ebrei sopravvissuti alla Shoah al momento della liberazione. Avevano perso le famiglie, gli amici, le proprie case e non avevano dove andare, perché non c'era nessuno ad attenderli da qualche parte. Freddie Knoller, internato a Belsen, descrive così l'arrivo delle truppe britanniche: «nessuno esultò. Un silenzio angoscioso caratterizzò il momento della nostra liberazione: eravamo troppo deboli, avevamo patito troppo per potere gioire».
  Contrariamente alla rappresentazione oleografica che alcuni film hanno fissato nel nostro immaginario, il momento della liberazione dei campi non fu un'esplosione di esultanza, e non costituì il ritorno a una vita normale. Si chiudeva certo l'esperienza dello sterminio ma iniziava una storia, che sebbene meno tragica era ancora assai drammatica: prolungata e angosciosa, l'incertezza sul che fare, sul dove trasferirsi, sul come immaginare il domani trasformava i sopravvissuti in displaced persons, individui spiazzati, sfollati: insomma, profughi. È questo il versante meno battuto degli studi sulla Shoah, che viene indagato con puntiglio dallo storico americano Dan Stone in “La liberazione dei campi. La fine della Shoah e le sue eredità” (Einaudi, pp. XXXIII-272, euro 23,00).
  Svolta su una serie ragguardevole di fonti, la ricerca racconta in una prima parte la conquista dei campi da parte delle truppe sovietiche e anglo-americane; mentre nella seconda parte si diffonde sulla sorte degli scampati sia dal punto di vista soggettivo, indagando le loro speranze e le loro angosce, sia da quello della politica internazionale: i profughi divennero infatti una pedina non trascurabile nel grande gioco diplomatico che si aprì con l'avvio della cosiddetta guerra fredda.
  La liberazione dei campi, a occidente come ad oriente, fu accompagnata da sbigottimento, incertezza, incomprensione. Alla vista delle truppe alleate i lager squadernavano uno scenario irreale, che ricorda da vicino L'inferno di Hyeronimus Bosch. I sopravvissuti apparivano macilenti, nudi o ricoperti di luridi stracci e coperte, sorta di scheletri viventi. Pochi tra loro corsero, al momento della liberazione, incontro ai salvatori, e ancor meno furono quelli che caddero in preghiera: la maggioranza restava ferma, e muta. Di fronte a loro anche i soldati più temprati dalla guerra scoppiavano non di rado a piangere: in molti casi era difficile anche solo distinguere i morti dai vivi, e anche questi erano in uno stato di inedia tale da farli sopravvivere solo poche ore o qualche giorno. Nel propagandare la despecificazione degli ebrei e degli altri gruppi umani destinati allo sterminio, il nazismo era riuscito nell'intento di produrre un meccanismo infernale capace di trasformare gli individui in esseri spettrali, privandoli delle fattezze della specie umana. Marcus Smith, un medico giunto a Dachau il 30 aprile 1945 commentò così l'irrealtà che gli si parava davanti: «Chiudo gli occhi, questo non può essere il XX secolo».
  Non fu tuttavia facile per i liberatori, e di conseguenza per l'opinione pubblica internazionale, comprendere le dimensioni e la specificità della Shoah, e il libro di Stone consente bene di capire il perché: i campi non erano tutti uguali e si distinguevano originariamente in campi di concentramento (destinati alla repressione degli avversari politici e/o dei gruppi sociali perseguitati dal regime) e in campi di lavoro coatto. Durante la guerra, grazie soprattutto all'azione delle SS di Himmler, i campi di concentramento si trasformarono in parte in campi di eliminazione degli oppositori politici, reali o immaginari, per poi divenire qualcosa di ancora diverso, strumenti di annientamento al servizio della Shoah. Inoltre, i principali campi di sterminio si trovavano ad est e vennero dunque «scoperti» non dagli alleati ma dalle truppe sovietiche.
  Il regime sovietico inquadrava la questione ebraica all'interno della lotta antifascista e non aveva perciò interesse a sottolineare la specificità del genocidio ebraico rispetto allo sterminio di altri gruppi. La lentezza e le difficoltà con cui l'opinione pubblica internazionale mise a fuoco la Shoah dipese dunque anche dal fatto che i campi di sterminio erano solo una parte dell'universo concentrazionario, e d'altra parte i tedeschi in ritirata cercarono di distruggerne le prove per quanto poterono, continuando l'opera di annientamento attraverso quel trasferimento forzoso di prigionieri noto come «marce della morte». Inoltre, gli ebrei sopravvissuti erano una minoranza, circa 90.000, meno di un terzo della popolazione internata che venne liberata, in un contesto di milioni di persone tra sfollati, profughi e rifugiati che attraversavano l'Europa in ogni direzione per tornare a casa.
  La scelta del dove andare fu per molti sopravvissuti profondamente angosciosa. La scoperta dell'annientamento delle proprie famiglie produceva un senso di solitudine e di smarrimento esistenziale tali da rendere difficile ogni scelta. Come disse Charlotte Chaney, un'infermiera statunitense che partecipò alla liberazione di Dachau, «il loro incubo era finito, o forse, appena iniziato». Molti sopravvissuti si acconciarono a rimanere nei campi profughi allestiti dall'Unnra, l'organizzazione delle Nazioni Unite per le vittime della guerra. Questi campi rimasero aperti per un tempo assai lungo, sino ai primi anni cinquanta e in essi si crearono comunità autonome, spesso capaci di condizionare le scelte degli alleati. In particolare, fu consistente il movimento degli ebrei mobilitatisi per ottenere dai Britannici il permesso di andare in Palestina: molti fra loro si aggiunsero così a quegli ebrei, in tutto circa 100.000, che vi si recarono, grazie all'organizzazione Brikhah, clandestinamente.
  Le relazioni in rapido deterioramento tra gli alleati e i sovietici complicarono la questione della sorte degli ex internati. Da una parte i sovietici attaccavano la posizione britannica, ostile per ragioni geopolitiche a una massiccia emigrazione ebrea in Palestina, accusando il governo del Regno Unito di insensibilità morale. Dall'altra gli alleati incoraggiavano gli sfollati provenienti dall'est Europa, come ad esempio gli Ucraini, a non tornare nei paesi del blocco sovietico. Gli Stati Uniti, poi, esercitavano pressioni sui britannici per abbandonare la linea contraria al popolamento ebraico della Palestina.
  La pressione degli sfollati, unita a quella della locale guerriglia armata ebraica, valse a rafforzare l'iniziativa politico-diplomatica statunitense, costringendo infine i Britannici a rassegnare il mandato e a consentire la nascita dello stato d'Israele nel maggio 1948.
  Nel frattempo gli ebrei ex internati avevano vissuto in pieno le conseguenze della guerra fredda: l'Iro, la nuova organizzazione internazionale che sostituì l'Unrra fu in buona sostanza prona alle direttive statunitensi, volte a creare un ampio fronte anticomunista e disponibili perciò ad arruolare anche ex nemici: adottò così una politica di manica larga nella concessione dello status di rifugiati a gente dell'est Europa che talora aveva collaborato coi nazisti, un orientamento vissuto da tanti ebrei, vittime equiparate ai carnefici, come un'atroce beffa. Il libro di Stone non approfondisce questo punto, che avrebbe meritato più attenzione: è anche con questi sistemi, infatti, che fu permesso a tanti quadri intermedi del regime nazista o a suoi collaboratori di emigrare verso i paesi dell'America Latina. Le ragioni della politica avevano rapidamente prevalso e i profughi si trovarono allora, proprio come oggi, a viaggiare come vasi di coccio insieme a vasi di ferro.

(il manifesto, 16 aprile 2017)


Verona - Sagi Rei, il musicista israeliano presenta il suo nuovo album

di Federico Messini

Sagi Rei
 "L'amour toujours" 
VERONA - Martedì 18 aprile alle ore 18.00 alla Feltrinelli di via Quattro Spade il musicista israeliano Sagi Rei presenterà il suo nuovo album intitolato "Emotional Songs Live From Blue Note" e il concerto che si terrà a Verona, al teatro Camploy, il prossimo 12 maggio.
L'incontro, promosso in collaborazione con Event!, sarà condotto da Matteo Sambugaro.
Sagi Rei, per la prima volta a Verona, è noto al grande pubblico per le sue riletture in chiave acustica di brani dance anni novanta.
Il suo successo ha inizio nel 2005 con l'album "Emotional songs" che conquista immediatamente il pubblico e viene pubblicato in 15 nazioni, rientrando tra i primi 100 album più venduti in Italia.
A più di dieci anni di distanza dall'uscita del suo primo disco e dopo diversi dischi d'oro e di platino, Sagi Rei ritorna con una raccolta di sedici brani medley registrati dal vivo nello storico locale Blue Note di Milano.
Un viaggio tra le note di classici della musica pop, funky, jazz e dance come "Bilie Jean" (Michael Jackson), "Fragile" (Sting), "All around the word" (Lisa Stansfield), "What is love" (Haddaway), "Freed from desire" (Gala), "L'amour toujours" (Gigi D'Agostino) e gli inediti mai pubblicati "Fast car" (Tracy Chapman), "Overjoyed" "Master blaster" (Stevie Wonder) e altre ancora, tutte rivisitate dallo stile unico dell'artista israeliano.
L'album, il quinto pubblicato da Sagi Rei, anticipa la tournée estiva che lo vedrà protagonista anche a Verona, al teatro Camploy, il 12 maggio.

(Verona News, 15 aprile 2017)



"Al Dio sconosciuto"

Ora, mentre Paolo li aspettava ad Atene, il suo spirito s'inacerbiva in lui, vedendo la città piena di idoli. Egli dunque discuteva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie, e ogni giorno sulla piazza con quelli che incontrava. Con lui discutevano pure alcuni filosofi epicurei, e stoici. Alcuni dicevano: "Che vuol dire questo cianciatore?". E gli altri: "Egli pare essere un annunziatore di divinità straniere", perché annunziava loro Gesù e la risurrezione. Così lo presero e lo condussero nell'Areopago, dicendo: "Potremmo sapere qual è questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu rechi cose strane ai nostri orecchi, vogliamo dunque sapere che cosa significano queste cose". Or tutti gli Ateniesi e i forestieri che dimoravano in quella città non avevano passatempo migliore che quello di dire o ascoltare qualche novità. Allora Paolo, stando in piedi in mezzo all'Areopago, disse: "Ateniesi, io vi trovo in ogni cosa fin troppo religiosi. Poiché, passando in rassegna e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: "Al Dio sconosciuto". Quello dunque che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi fatti da mani d'uomo, e non è servito dalle mani di uomini come se avesse bisogno di qualcosa, essendo lui che dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa; or egli ha tratto da uno solo tutte le stirpi degli uomini, perché abitassero sopra tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche prestabilite e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore, se mai riuscissero a trovarlo come a tastoni, benché egli non sia lontano da ognuno di noi. Poiché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come persino alcuni dei vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua progenie". Essendo dunque noi progenie di Dio, non dobbiamo stimare che la deità sia simile all'oro o all'argento o alla pietra o alla scultura d'arte e d'invenzione umana. Ma ora, passando sopra ai tempi dell'ignoranza, Dio comanda a tutti gli uomini e dappertutto che si ravvedano. Poiché egli ha stabilito un giorno in cui giudicherà il mondo con giustizia, per mezzo di quell'uomo che egli ha stabilito; e ne ha dato prova a tutti, risuscitandolo dai morti". Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo beffavano, altri dicevano: "Su questo argomento ti ascolteremo un'altra volta". Così Paolo uscì di mezzo a loro. Ma alcuni si unirono a lui e credettero fra i quali anche Dionigi l'areopagita, una donna di nome Damaris e altri con loro.
dal libro degli Atti, cap. 17

 


«Centro di ricerca del mondo»

Innovazione come priorità: Israele catalizza l'interesse dei big hi-tech globali

di Elena Comelli

 
L'obiettivo è diventare il centro di ricerca del mondo. Israele spende il 4,3% del Pil in ricerca e sviluppo - più di Paesi campioni dell'innovazione come Svezia, Svizzera o Germania - con una forte prevalenza di investimenti privati sui contributi del governo, che coprono appena il 15% della torta. Le decisioni strategiche su come impiegare questi fondi e centrare l'obiettivo fanno capo a Avi Hasson, Chief Scientist del ministero dell'Economia: «Il mio ruolo è inserito nel dicastero che si occupa dello sviluppo economico, non della scienza o dell'educazione, perché la mia missione è trasformare Israele in un hub internazionale della ricerca e farne un volano di crescita per tutto il Paese», spiega Hasson, 46 anni, da sei in questo ruolo.
   In parte, la missione è già compiuta. Israele ha più società quotate al Nasdaq di qualsiasi altro Paese, tranne gli Stati Uniti, e più investimenti in venture capital di Germania o Francia. La bilancia commerciale è in attivo proprio grazie all'alta tecnologia, che costituisce oltre il 50% dell'export. L'economia non ha risentito della crisi globale e nel 2016 è cresciuta del 4%, mentre le startup locali hanno raccolto quasi 5 miliardi di investimenti dai capitalisti di ventura. «Ricevo delegazioni da tutto il mondo, che mi chiedono come abbiamo fatto, ma non esiste una ricetta infallibile per mettere in moto una rivoluzione tecnologica», spiega Hasson. Certo è che la sua strategia non è incentrata sui contributi statali, ma sulla creazione di un ecosistema favorevole all'innovazione e al trasferimento di conoscenze dalle università alle imprese.
   Tutto è cominciato una ventina d'anni fa, con lo sbarco delle regine della tecnologia, in cerca di cervelli: da Ibm a Intel, da Cisco a Ge, da Hp a Bosch, passando per Microsoft e a seguire anche Apple, Google, Facebook, Amazon hanno installato qui importanti centri di ricerca - oltre 300 in tutto - attingendo agli scienziati formati dalle università all'avanguardia in molti settori chiave, dalla bioinformatica all'intelligenza artificiale, dalla robotica alle nanotecnologie. Ben 34 di questi centri sono diretti da ex-alunni del Technion di Haifa, il più importante Politecnico israeliano, stabilmente nella top 20 dei dipartimenti di Computer Science del mondo e sesto per imprenditorialità e innovazione in una recente ricerca del Mit. Negli ultimi dieci anni dal Technion sono usciti tre Nobel e 42 delle 72 società israeliane quotate al Nasdaq. Non sono da meno altri istituti superiori, come il Weizman o la Hebrew University di Gerusalemme, che ha un dipartimento di intelligenza artificiale da sempre nella top ten del mondo in questo settore.
   Dai centri di ricerca delle multinazionali si è innescata una fioritura di spinoff, che ha trasformato il Paese in una "startup nation", con la crescita di migliaia di imprese locali. La terza fase è quella di oggi, con le startup locali che diventano campioni internazionali, come nel caso di Mobileye per l'auto a guida autonoma, fondata nel '99 da un professore di computer science alla Hebrew University, Amnon Shashua, e venduta a Intel il mese scorso per 15,3 miliardi di dollari.
   Il prossimo passo è diventare il punto di riferimento mondiale per gli innovatori. La crescita dei centri di ricerca esteri, che si è intensificata negli ultimi anni, deve andare di pari passo con lo sviluppo dello spirito imprenditoriale. «Vogliamo attrarre forze fresche con un nuovo visto mirato», spiega Hasson. La Israel Innovation Authority ha lanciato un programma chiamato Innovation Visa, che fornirà un visto per 24 mesi e incentivi a imprenditori stranieri, con un prolungamento di cinque anni se il progetto riesce a diventare una società. Hasson punta ad allargare la platea, investendo nei progetti più rischiosi, «quelli in cui il venture capital non si azzarda ad entrare», e includendo nello spirito d'impresa i cittadini arabi, che costituiscono un quinto della popolazione ma hanno una partecipazione troppo bassa al miracolo economico israeliano. La rivoluzione tecnologica non dev'essere solo un terreno di gioco per pochi eletti.

(Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2017)


Don Mazzarello e gli ebrei tratti in salvo a Lerna nel '43

Un cappellano molto coraggioso e una vicenda che coinvolse anche gli zii di Primo Levi.
di Domenico Ribatti

Paolo Mazzarello, che insegna Storia della Medicina alla Università di Pavia, ha ricostruito in un avvincente racconto la storia di Lisa Vita Finzi e di Enrico Levi, zio dello scrittore Primo Levi in Quattro ore nelle tenebre. Dopo 1'8 settembre 1943, per sfuggire alle persecuzioni razziali, alcuni ebrei genovesi si trasferirono nell'Oltregiogo e, per non dare adito a sospetti o possibili delazioni, evitarono di risiedere in centri abitati e preferirono alloggiare in cascine ubicate in aperta campagna. Tra di loro i coniugi Levi che con una coppia di amici cercarono rifugio a Lerma nel Santuario della Rocchetta dove incontrarono un sacerdote, Luigi Mazzarello (nessun rapporto di parentela con l'autore del libro), che era il cappellano e che riuscirà a salvare loro la vita. In quegli stessi giorni nei monti circostanti si compiva l'eccidio della «Benedicta» che provocò la morte di 147 partigiani e la deportazione in Germania di molti giovani.
   Don Mazzarello, a rischio della propria vita, si offrì di ospitarli. Ma rimaneva il problema del trasferimento senza incappare in uno dei numerosi posti di blocco che i nazifascisti mettevano in atto. Pertanto il trasloco venne studiato con particolare cura ricorrendo ad un giovane e coraggioso contadino, Pietro Ferrari, offertosi volontario. Il trasporto venne effettuato in una notte piovosa utilizzando un carro trainato da buoi e percorrendo strade secondarie. Fradici, ma salvi, i Levi raggiunsero il Santuario che presentava diversi punti favorevoli allo scopo: disponibilità di locali idonei grazie alla presenza dell'ospizio; isolato dalle vie di comunicazione principali; frequentato da fedeli che difficilmente si sarebbero prestati a delazioni.
   Don Luigi, preoccupato dalle indiscrezioni che si diffondevano sull'asilo dato agli ebrei, nonostante le precauzioni prese perché non fossero scoperti, si premurò di mettere in atto alcune misure per proteggerli. Per prima cosa, il sacerdote spostò un confessionale che nascondeva la porta di una sala, arredata con poltrone e vari mobili, da cui dipartiva una scala, assai stretta, che scendeva ad una cripta. Quest'ultima presentava numerosi loculi, scavati nel fianco dell'altura, tra i quali alcuni inutilizzati, ma già dotati di marmi di chiusura che avrebbero potuto offrire un sicuro nascondiglio per gli ebrei. Tra l'altro esisteva anche una porta esterna al fabbricato del Santuario coperta di ruggine perché inutilizzata da anni che consentiva di raggiungere direttamente la cripta. Quando i fascisti effettuarono un sopralluogo, il graduato che comandava il manipolo fece mettere al muro gli astanti e iniziò la perquisizione di tutti i locali e dei sottotetti. Si fermarono solamente davanti alla porta esterna che immetteva alle tombe poiché le folte erbacce, mostravano chiaramente che quell'ingresso non era stato utilizzato da lungo tempo. Ma era ormai mezzogiorno e i militari si fecero servire un pasto abbondante e se ne andarono razziando anche gli alimenti che rimanevano.
   Don Luigi Mazzarello continuò a ricoprire l'incarico di cappellano sino alla sua morte avvenuta nel 1959, ma non sarà mai dimenticato poiché il nipote Luigi Mazzarello ha lasciato un dettagliato racconto su quanto era accaduto a Lerma. Inoltre il Rabbino capo di Genova, Giuseppe Momigliano, dette l'avvio ad un procedimento per innalzare Don Mazzarello a «Giusto tra le Nazioni», significativo riconoscimento dello Stato d'Israele verso coloro che aiutarono gli ebrei nel triste periodo della Shoah. Il riconoscimento gli è stato attribuito dallo Yad Vashem di Gerusalemme nel 2012.
«Quattro ore nelle tenebre» di Paolo Mazzarello (Bompiani, pagg. 220, euro 13,00).

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 aprile 2017)


L'orrore dei campi di sterminio nel racconto di Shlomo Venezia

Il 20 aprile, alle 18,30, parla la vedova del sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau

di Palmina Nardelli

PUTIGNANO - Giovedì 20aprile, alle 18,30, nella sede dell'immobile confiscato alla mafia «La Mente e le Mani», in via della Conciliazione 135, Marika Kaufinann, moglie di Shlomo Venezia, sopravvissuto ai campi di sterminio, presenterà il libro «Sonderkommando Auschwitz», in altre parole la verità sulle camere a gas, scritto da suo marito, deceduto nel 2012.
L'intento è conservare la memoria laica, civile e democratica di ciò che accadde nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. L'appuntamento si tiene, non a caso, in prossimità del 25 aprile, anniversario della Liberazione.
   L'iniziativa, dal titolo «La storia e la memoria», è ideata dalla professoressa Angela Cino e dall'associazione Lumen e realizzata in collaborazione con la Cooperativa Herbora e il B&B «Casa Riccardi», Lo scopo è «far dialogare le ultime candele della memoria della Shoah con le giovani generazioni che, spesso, conoscono in modo superficiale l'immane tragedia che si abbattè sull'Europa tra il 1940 e il 1945».
   Shlomo Venezia fu uno dei più importanti testimoni dell'Olocausto e, come tanti sopravvissuti, iniziò a parlare dell'orrore dei lager solo molti anni dopo essere stato liberato. Aveva fatto parte del Sonderkommando, una squadra speciale selezionata dagli SS tra i deportati per far funzionare la spietata macchina dello sterminio nazista. I componenti di quel nucleo operativo avevano il compito di accompagnare il disperato carico umano che giungeva nel lager nelle camere a gas, dopo avere loro rasato i capelli e aiutati a svestirsi.
   Durante l'incontro, alcuni studenti che hanno partecipato al Treno della Memoria 2017 parleranno della loro esperienza a Birkenau e Auschwitz. L'evento coinvolge anche i giovani del Rotaract e dell'associazione «A Me Mi», mentre i cinque giovani volontari del Servizio civile di Putignano allestiranno un banchetto informativo inerente il servizio civile nazionale.

(La Gazzetta di Bari, 16 aprile 2017)


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