Notizie 1-15 aprile 2022
Israele: con gli scontri sulla Spianata delle Moschee, Hamas sorpassa Abu Mazen
di Massimo Caviglia
Gli scontri avvenuti questa mattina a Gerusalemme sono semplicemente la conseguenza di quanto organizzato da settimane, con gli integralisti di Hamas, Fatah e perfino l’Isis che, attraverso le predicazioni e i social, hanno sottolineato l'importanza della jihad, la guerra santa, nel mese del Ramadan, esortando i musulmani in Israele a compiere attentati come è accaduto nelle ultime due settimane in cui si sono contate 14 vittime. I filmati delle telecamere di sicurezza della Moschea di Al-Aqsa mostrano chiaramente quanto accaduto oggi. Decine di uomini, col volto coperto e bandiere di Hamas e dell'Autorità Palestinese, sono entrati nella moschea e si sono preparati metodicamente ai disordini. La miccia, come da anni, è stata il lancio di grosse pietre dall’alto della Spianata delle Moschee contro i fedeli ebrei che pregavano nel sottostante Muro del Pianto preparandosi alla Pasqua. La polizia israeliana ha atteso la fine della preghiera islamica prima di salire sulla Spianata per impedire le violenze e allontanare i rivoltosi. E sono subito iniziati gli scontri secondo un copione ormai collaudato, anche sul numero dei feriti e le successive dichiarazioni. Il portavoce del Presidente Abu Mazen ha denunciato “l'assalto” della polizia definendolo “una dichiarazione di guerra al popolo palestinese”. Il partito Fatah del Presidente aveva già espresso il suo sostegno agli attacchi terroristici di queste settimane contro i civili israeliani. Ormai scavalcato da Hamas, Abu Mazen sta cercando in ogni modo di riguadagnare consensi. Facendo però proprio il gioco di Hamas, il cui obiettivo adesso è istigare alla violenza gli arabi israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania mantenendo però la calma a Gaza. Con la devastazione della Tomba di Giuseppe, e le provocazioni contro chi prega al Muro del Pianto, la nuova strategia mira anche a negare la presenza ebraica, non solo storica ma anche religiosa, nell’Israele di ieri e di oggi. Intanto la rischiosa convergenza di Pesach con la Pasqua cristiana e il Ramadan hanno suggerito all’esercito la chiusura delle frontiere con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza fino a domenica sera.
(SanmarinoTV, 15 aprile 2022)
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Algeria, l’antisemitismo mascherato da interesse nazionale
di Stephen J. Blank
Nonostante l’indubbio successo degli accordi di Abramo, l’antisemitismo fiorisce ancora in gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa, ad esempio in Algeria. In effetti, la crescita dell’antisemitismo algerino è, almeno in parte, attribuibile al successo di quegli accordi perché forniscono il pretesto per l’aumento dell’antisemitismo che si maschera come una difesa degli interessi algerini contro il Marocco. In realtà, questo antisemitismo si basa su una lunga tradizione in Algeria e nel mondo arabo che precede la formazione dello stato di Israele, ma che si è notevolmente ampliata a causa del conflitto secolare tra arabi ed ebrei sul destino della terra di Israele. Gli esempi di isteria del governo algerino in materia abbondano. Nel 2020 il governo ha denunciato i membri del Parlamento europeo come “sionisti”, perché hanno protestato contro le violazioni dei diritti umani da parte dell’Algeria. Più recentemente, nel 2021, il Cas algerino è stato sospeso per aver rifiutato di affrontare un avversario israeliano. Tuttavia, ovviamente questo antisemitismo si verifica anche in luoghi più seri. Così, quando l’ Unione africana ha concesso lo status di osservatore a Israele nel 2021, l’Algeria, tra gli altri membri, ha protestato così forte che questa decisione contraddiceva le precedenti risoluzioni pro-palestinesi dell’ Unione che alla fine ha dovuto sospendere il dibattito sulla questione, annullando così la sua precedente decisione. Naturalmente, l’Algeria ha celebrato questa decisione come una grande vittoria. Come notato sopra, le radici di questo antisemitismo rappresentano la mescolanza dello storico antisemitismo arabo, esso stesso, in misura non trascurabile, un prodotto dell’antisemitismo occidentale trapiantato in un nuovo progetto coloniale e imperiale in Algeria con rivalità di stato una volta che il colonialismo è terminato. Nel caso dell’Algeria, la prolungata rivalità con il Marocco sul Sahara occidentale ha guidato gran parte della sua politica estera, compreso il suo riavvicinamento alla Russia, e questo antisemitismo. Mentre il Marocco apparentemente ora crede di ottenere il sostegno internazionale sul Sahara occidentale; l’Algeria è diventata sempre più amareggiata per i legami del Marocco con l’Occidente, incluso Israele, ed è diventata sempre più filo-russa e anti-occidentale. Di conseguenza, ha appoggiato la causa della Russia in Mali contro la Francia e ha nuovamente manifestato il suo sostegno ad Hamas contro Israele. Allo stesso modo, le autorità algerine affermano che Israele sta contribuendo a pianificare attacchi separatisti contro la minoranza della Cabilia (MAK), di concerto con il Marocco. Allo stesso modo, affermano che i gruppi sostenuti da israeliani e marocchini sono responsabili degli incendi scoppiati in Algeria. Infine, sembra anche evidente che l’Algeria graviterà verso l’Iran le cui relazioni con il Marocco sono sempre state difficili, anche a causa del sostegno dell’Iran al Fronte Polisario, il movimento indipendentista nel Sahara occidentale. Il ravvicinamento israelo-marocchino, che include evidentemente anche potenziali vendite di armi da parte di Israele, figura evidentemente anche in questo partenariato Iran-Algeria, perché vi sono notizie di una imminente base congiunta israelo-marocchina nei pressi di Melila, in Marocco. Questi esempi di partenariato marocchino-israeliano incidono chiaramente sulla politica estera algerina. La disponibilità dell’Algeria a tradurre le tensioni politiche con Israele in un antisemitismo più pervasivo sottolinea una questione globale piuttosto oscura e pervasiva. La politica algerina esemplifica il processo più ampio e generale attraverso il quale gli interessi politici in competizione diventano etnicizzati e razzializzati fino al punto della demonologia. La politica antisemita dell’Algeria assicura che la competizione per l’influenza in Nord Africa sia ora intrisa di animosità per il Marocco e Israele. Sembra quindi che per l’Algeria ogni questione della politica africana, comprese le sue dispute con la Francia sul Mali e il suo riavvicinamento alla Russia, sia in qualche modo connessa con il mancato riconoscimento da parte dell’Occidente della giustezza della causa di Algeri nel Sahara occidentale. Questi processi gemelli di demonizzazione dei rivali politici e di commistione di tutte le sue lamentele eccezionali con un emozionalismo accentuato ed etnicizzato renderanno straordinariamente difficile per l’Algeria fare qualsiasi processo soddisfacente su quelle questioni che in realtà colpiscono seriamente i suoi interessi nazionali vitali. Ciò comporta probabilmente anche l’innalzamento di ulteriori ostacoli alla pace su queste e altre questioni nell’Africa settentrionale e occidentale, ad esempio la violenza civile del Mali, la guerra civile in Libia e, al di sopra di altre questioni mediorientali, la lotta tra Iran e Israele che si sta svolgendo in tutta la regione. Ma al di là della confusione del Medio Oriente tra la competizione politica con Israele e l’antisemitismo, l’Algeria sottolinea la realtà più profonda della crescente ondata di odio, il cosiddetto odio più antico e che trascende sia la destra che la sinistra politica, cresce oggi e si concentra non su ciò che fa lo stato di Israele, ma sul fatto della sua esistenza come stato ebraico. A differenza del Marocco, che ha cercato di fare la pace con Israele e facilitare una più ampia pace mediorientale e nordafricana, l’Algeria rimane consumata dalle sue paure e dai suoi odi. Finché rimarrà così, non avrà né pace né sicurezza.
(Inside Over, 15 aprile 2022)
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Il popolo che soffre non va abbandonato. L'Italia invece ha fatto a meno dei dottori non vaccinati erigendo la scienza a religione
di Silvana De Mari
Nel suo ottimo libro Lo stato di emergenza, riflessioni critiche sulla pandemia, Andrea Zholk mette a fuoco un elemento che, da solo, è sufficiente a dimostrare la tragica pericolosità e la totale ascientificità di tutta la narrazione pandemica. Si è trattata infatti di una narrazione, una narrazione orchestrata e diretta con scopi precisi. La scienza non può essere orchestrata e non può essere diretta, procede per ipotesi e verifiche oppure confutazioni, perché l'unica scienza esatta è il senno di poi. Le varie branche della medicina sono talmente complesse che al momento non possono neanche essere considerate scienze. La medicina quindi per definizione procede sempre con affermazioni a volte provate a volte contraddette, disaccordi e dissidi, e quindi con una continua e assoluta assunzione di responsabilità. Nella cosiddetta pandemia, la scienza è stata considerata gerarchica, prima imbecillità che dimostra come il tutto sia stato tragicamente ascientifico. In cima alla gerarchia sono stati messi alcuni esperti che hanno avuto prevalenza su altri. Già questo di suo sarebbe stato stupido, e in più i cosiddetti esperti dello Stato italiano, nessuno escluso, hanno meno pubblicazioni di molti esclusi e più conflitti di interessi. Chiunque si permetta di criticare tutta la narrazione, anche solo rifiutando l'Inoculazione, se è medico, è aggredito dagli stessi Ordini dei medici ed escluso dal lavoro. Se non è medico, nota Zhok, è considerato uno sciocco presuntuoso anatroccolo, paragonato a un qualunque passeggero che, una volta su un aereo, si permetta di andare dal pilota a chiedere perché stia schiacciando quel bottone e perché non ne schiacci un altro. Peccato che quello stesso passeggero non abbia scelto se salire o no sull'aereo spontaneamente, vi è stato costretto pena la perdita non solo di diritti civili, ma della stessa vita: non possiamo sopravvivere senza denaro e non guadagniamo se ci è impedito di lavorare.
• FRAINTENDIMENTO Peccato che quello stesso passeggero, considerato troppo idiota per decidere da solo se vaccinarsi o no, per subire l'inoculazione abbia dovuto firmare un consenso cosiddetto informato, dove si assume lui ogni responsabilità. Per rigogliosi tre minuti, il cittadino è promosso sul campo esperto totale, uno che sa tutto sugli effetti collaterali del farmaco incluso quello che non sanno gli stessi produttori i quali hanno pudicamente scritto sui foglietti illustrativi che ignorano sia gli effetti a distanza, sia quelli sulla fertilità, così che in caso di qualsiasi danno nulla gli sia dovuto. Il cittadino, deresponsabilizzato di qualsiasi scelta sulla propria vita, a cui viene detto come soffiarsi il naso, se può o non può uscire di casa e, nel caso sia uscito, a che ora deve rientrare, si assume completamente la responsabilità degli effetti collaterali di un farmaco sperimentale levandola agli «scienziati» che glielo stanno imponendo. I laureati in medicina sono però ufficialmente capaci di intendere e di volere. Se rifiutano l'inoculazione del farmaco, non possono essere accusati di semi analfabetismo scientifico. Eppure, sono stati zittiti, chi parla contro i cosiddetti vaccini rischia la radiazione degli ordini dei medici, e sospesi dal lavoro. E un'idea piuttosto stalinista della scienza. La scienza è il nuovo Dio e per lei è tragicamente valida l'affermazione di Nietzsche: Dio è morto. La scienza è morta. In Italia è morta la medicina. La medicina non sopravvive dove le voci siano azzittite e dove regnino interessi economici e politici più forti della verità è più forti dell'interesse del singolo e quindi del popolo. La strategia italiana sulla Sars-COV2 è sfociata con l'adozione del green pass attraverso una campagna moralistica che ha violato la convivenza civile, una violazione della deontologia medica consolidata, una strategia che allontana indefinitamente il ritorno alla normalità, scrive Zhok in un articolo che il quotidiano La Stampa, che lo aveva commissionato, non pubblica. Mi permetto di concludere che è evidente che il pass non abbia nulla a che fare con il contenimento della malattia, e con la sua risoluzione, ma con una distruzione di ogni pretesa di ogni qualsiasi libertà. Dove le voci sono unanimi, dove Facebook cancella le voci dissidenti, dove gli ordini dei medici cancellano le voci dissidenti, dove uno Stato paghi le voci obbedienti, dove i medici dissidenti sono processati benché abbiano salvato migliaia di vite, dove i medici che rifiutano l'inoculazione sono impediti nella loro attività, non avete scienza: avete una mostruosa propaganda che ha avuto lo scopo di annientare le libertà più elementari e di aumentare la morbilità di una nazione.
• METODI COERCITIVI L'idea che un virus a Rna, quindi mutabile, si fermi creando una immunità di gregge vaccinando tutti è un'idea talmente idiota che è difficile credere alla buona fede. L'ipotesi sarebbe possibile se il virus non mutasse, se il cosiddetto vaccino impedisse la trasmissione della malattia, se tutto il mondo fosse inoculato contemporaneamente, se le nazioni e in particolare la nostra avessero le frontiere chiuse. Dato che tutte queste affermazioni sono false, farsi inoculare non è un gesto di responsabilità come ha affermato il nostro presidente della Repubblica, e la criminalizzazione di coloro che, liberamente, hanno scelto di preferire affrontare i rischi della malattia originaria e non quelli della inoculazione, è un crimine umano e scientifico oltre che politico. Le affermazioni false fatte sulla inoculazione dal presidente del Consiglio - chi non si vaccina muore, se ci sono solo vaccinati la malattia non si trasmette - sono imperdonabili. I professori non inoculati hanno avuto il permesso, previa tortura tamponale, di tornare alle loro scuole, ma non alle loro aule. Stanno nelle biblioteche, negli sgabuzzini, nelle infermerie ora chiamate aula Covid perché l'unica malattia esistente è quella. Le infermerie sono utili perché sono un posto dove ricoverare innumerevoli ragazzi con inspiegabili malori, con miocarditi che dureranno tempi lunghissimi e non sempre saranno reversibili, con crisi epilettiche, con trombosi, con sindromi neuromuscolari. Giustamente i professori non potranno tornare in aula: se tornassero i ragazzi chiederebbero per quale motivo non si sono inoculati e potrebbero scoprire che la scienza non è univoca e che chi la vende come univoca in realtà sta mentendo, potrebbero scoprire che esistono la dignità e il coraggio del dissenso, potrebbero scoprire che i farmaci che stanno inoculando a loro e che sono stati inoculati a Camilla Canepa possono provocare effetti avversi anche gravi, e a volte la morte. E noi medici non inoculati non possiamo tornare a lavorare, restiamo quindi senza mezzi di sussistenza.
• DOVERI MANCATI È una tragedia sia per la perdita di ogni mezzo di sostentamento, sia per la perdita di un lavoro molto amato. In effetti curare un'epidemia allontanando il 10% dei medici e degli infermieri è un'idea bizzarra. E’ giusto che non possano tornare in corsia: sono quelli che hanno capito e che sanno curare. Saranno sostituiti dai medici ucraini. Se qui ci fosse una guerra io resterei a suturare i feriti. La mia completa disistima a tutti i medici che stanno scappando dal loro Paese in guerra, con la sola eccezione dei medici genitori di bambini, ma in questo caso devono restare con i loro bambini, traumatizzati dalla guerra e che sono in un Paese nuovo: hanno bisogno di loro 24 ore su 24. Se non hanno bambini, tornino al loro Paese, che ha bisogno di loro. E già che ci sono, che si portino dietro anche medici italiani, per esempio Burioni, Bassetti, Galli: trovo scandaloso che questi medici non si siano ancora diretti verso l’Ucraina. L'Ucraina ha bisogno di voi. Al 60% non sono inoculati e non portano le mascherine. Trovo indecente che non andiate soccorrerli e anche buffo che il loro primo problema siano le bombe e non il virus: secondo le vostre previsioni senza le vostre regole e il vaccino da voi raccomandato, i morti dovrebbero essere centinaia di migliaia. Io nel 1986 sono partita per l'Etiopia, era una nazione con un enorme numero di problemi inclusa una guerra. Voi restate a casa vostra? Che squallore! Il vostro scopo non era salvare l'umanità? Perché solo gli italiani? Dottor Burioni: il battaglione Azov al 90% non è inoculato. Lo spieghi a loro tra una lettura di Kant e un'altra, che sono sorci che devono restare chiusi nello scantinato. Se è vero, un terzo di quello che ci avete sempre raccontato, per l'Ucraina in questo momento la Sars-COV-2 non combattuta con le regole che ci avete imposto dovrebbe essere un problema ben più grave dei bombardamenti. Oppure se l'Ucraina può fare a meno di voi e di queste regole, non potremmo fare a meno che noi?
(La Verità, 15 aprile 2022)
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Gerusalemme - Scontri sul Monte del Tempio
Violenti scontri sono scoppiati venerdì alle prime luci dell’alba attorno moschea di al-Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme, quando diverse decine di palestinesi a volto coperto, alcuni con le bandiere di Hamas, hanno iniziato a scagliare pietre e ordigni esplosivi sui fedeli ebrei riuniti nel sottostante piazzale del Muro Occidentale (“del pianto”), costringendo la polizia a intervenire per disperderli. La polizia ha sottolineato che questi disordini “impedivano di fatto a migliaia di pacifici fedeli musulmani di accedere al complesso per le preghiere del secondo venerdì del mese Ramadan”.
La polizia ha affermato che prima di intervenire con mezzi anti-sommossa e procedere ad arresti, “erano stati dati invano molti avvertimenti e molte opportunità ai facinorosi per disperdersi autonomamente”. La polizia ha seccamente smentito l’accusa mossa da alcuni esponenti palestinesi secondo cui gli agenti sarebbero stati i primi ad avviare gli scontri. “Abbiamo fatto tutto il possibile per evitare di entrare nel complesso sul Monte del Tempio – ha spiegato il capo della polizia israeliana, Kobi Shabtai – Abbiamo cercato di lasciare la gestione della giornata al Waqf (musulmano). Ma quando gli agitatori hanno lanciato ordigni pirotecnici e pietre sui fedeli ebrei al Muro Occidentale, siamo intervenuti e li abbiamo arrestati”.
Un portavoce della polizia ha aggiunto: “Mentre la polizia si adopera per garantire la libertà di culto per tutti e preservare la legge e la sicurezza nei luoghi santi e in tutta Gerusalemme, vi sono altri che scelgono la violenza. Continueremo ad adottare misure energiche contro coloro che attentato alla pace e alla sicurezza dei cittadini”.
Israele – ha affermato il ministro della Pubblica Sicurezza Omer Bar-Lev – non ha nessun interesse che il Monte del Tempio diventi un epicentro di violenze che danneggiano sia i fedeli musulmani che i fedeli ebrei al Muro Occidentale”.
“Israele – ha dichiarato il ministro degli esteri Yair Lapid – è impegnato a garantire la libertà di culto per tutte le fedi e il nostro obiettivo è consentire la pacifica preghiera dei credenti durante le festività del Ramadan. Le violenze di questa mattina sul Monte del Tempio sono inaccettabili e vanno contro lo spirito delle religioni in cui crediamo. La convergenza (quest’anno) di Pesach, Ramadan e Pasqua (cristiana) è il simbolo di ciò che abbiamo in comune. Non dobbiamo permettere a nessuno di trasformare questi giorni sacri in una piattaforma di odio, istigazione e violenza”.
(israele.net, 15 aprile 2022)
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Israele. Testato con successo l’innovativo sistema di difesa laser “Light Shield”
di Luca Spizzichino
Israele, si sa, è uno dei paesi più avanzati tecnologicamente per quanto riguarda i sistemi di difesa. Il Ministero della Difesa dello Stato ebraico ha annunciato giovedì pomeriggio di aver condotto con successo i primi test del "Light Shield", un sistema di intercettazione laser all'avanguardia.
Il progetto è stato realizzato dalla Divisione Ricerca & Sviluppo dell'Amministrazione per lo sviluppo delle armi e delle infrastrutture tecnologiche in collaborazione con Rafael, sviluppatore del sistema, ed Elbit Systems. Il “Light Shield” è solamente la prima fase di un programma sperimentale pluriennale incentrato sullo sviluppo di un sistema laser terrestre e aereo per affrontare le minacce a varie distanze e altitudini. Negli ultimi test il sistema ha registrato successi nell'intercettazione di schegge, razzi, missili anticarro e veicoli aerei senza pilota, in una varietà di scenari complessi.
(Shalom, 15 aprile 2022)
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Dichiarazione di guerra! I palestinesi mettono in guardia gli ebrei sui sacrifici pasquali
"Per quel che mi riguarda, questo può portare alla guerra, non ho paura", dice il leader di un gruppo ebraico che vuole scalare il Monte del Tempio.
I palestinesi sono indignati. Ci sono rapporti secondo i quali un gruppo religioso ebraico marginale offre una ricompensa finanziaria per chiunque tenti di sacrificare un agnello pasquale sul Monte del Tempio a Gerusalemme. L'Autorità Palestinese (AP) considera il discorso sulla reintroduzione dei sacrifici ebraici nel luogo più sacro dell'ebraismo come una "dichiarazione di guerra". E Hamas chiede a migliaia di palestinesi di rispondere con una nuova ondata di violenza.
• Ritorno al Monte del Tempio! All'inizio di questa settimana, un gruppo religioso che si fa chiamare "Ritorno al Monte del Tempio" ha pubblicato un opuscolo in cui si dichiara che è giunto il momento di rinnovare le offerte pasquali nel luogo più sacro del giudaismo, il Monte del Tempio a Gerusalemme. Sapendo che questo è un compito praticamente impossibile, che può persino far finire una persona in prigione, il gruppo ha offerto incentivi finanziari per chi ci proverà. Ogni ebreo arrestato mentre scala il Monte del Tempio riceverà 400 shekel; chiunque verrà catturato con un agnello sacrificale riceverà 800 shekel; e se qualcuno riuscirà a sacrificare effettivamente un agnello sul Monte del Tempio durante la Pasqua, sarà ricompensato con 10.000 shekel.
• Dichiarazione di guerra Sebbene il gruppo sia piccolo e non abbia il sostegno di alcuna autorità religiosa o politica, la loro offerta ha subito attirato l'attenzione dei media israeliani e dei palestinesi. "La minaccia dei coloni di fare sacrifici sul Monte del Tempio porterà a un'escalation che finirà fuori controllo", si legge in una dichiarazione dell'ufficio del leader palestinese Mahmoud Abbas. Un altro alto leader palestinese ha aggiunto che "un sacrificio pasquale durante il Ramadan [che è in corso] è una dichiarazione di guerra e la nostra risposta sarà rapida". Hamas ha definito la campagna del gruppo ebraico "una pericolosa escalation che supera tutte le linee rosse in quanto costituisce un attacco diretto alla fede e ai sentimenti del nostro popolo e della nostra nazione durante questo mese sacro". Il gruppo terroristico ha sottolineato che "Israele sarà ritenuto responsabile delle conseguenze".
• Pronti alla guerra Il canale di notizie israeliano Channel 12 News ha parlato con Raphael Morris, direttore di Ritorno al Monte del Tempio, per chiedergli cosa ne pensa su un possibile nuovo round di conflitto violento. Morris è rimasto completamente imperturbato dalle minacce palestinesi e ha sottolineato che sia Abbas che Hamas usano abitualmente le percepite violazioni israeliane come giustificazione per le successive violenze palestinesi. "Ogni sei mesi, Abbas o Hamas hanno una sorta di crisi", ha detto. "Non credo che la soluzione per noi sia di capitolare. Piuttosto è il contrario. Se fai vedere la sovranità e agisci di conseguenza, penso che sia proprio questo che potrebbe prevenire la prossima ondata di terrorismo". E se questo non funziona, potrebbe essere necessaria una guerra per ripristinare completamente la sovranità ebraica in questo paese. "Non ho paura di iniziare una guerra", ha detto Morris.
• Monti e mucchietti Le autorità israeliane, intanto, hanno accusato i palestinesi di aver fatto ancora una volta di un moscerino un elefante. Il Ritorno al Monte del Tempio è un movimento marginale che non riuscirà affatto a raggiungere il suo obiettivo di sacrificare un agnello pasquale nel luogo sacro. In effetti, è quasi impossibile a ebrei e cristiani arrivarci con una Bibbia in mano, figuriamoci con un animale vivo da sacrificare. La polizia israeliana non tollera il disturbo dello status quo. "Le affermazioni secondo cui gli ebrei intendono sacrificare vittime su Haram al-Sharif [Monte del Tempio] sono completamente false e sono state fatte circolare da organizzazioni terroristiche palestinesi e altri per aizzare", ha scritto su Twitter il portavoce del governo israeliano in lingua araba Ofir Gendelman. "Manterremo lo status quo nei luoghi santi e non consentiremo alcun disturbo alla sicurezza o all'ordine pubblico a Gerusalemme o altrove".
(Israel Heute, 15 aprile 2022 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Turismo ebraico, Klaus Davi: "Applichiamo modello Salonicco"
REGGIO CALABRIA - «Come raccontava il settimanale Il Venerdì, grazie alla salvaguardia dei luoghi della memoria, il turismo ebraico è diventato il più importante per Salonicco, città greca nella quale, agli inizi del '900, vivevano circa 60mila ebrei, in gran parte deportati nei Lager nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e dei quali molti di origine calabrese visto che fonti storiche parlano dell'esistenza di una sinagoga chiamata Calabria, che dopo la metà del 1500 si divise in tre: Calabria Jashàn (dopo il 1553 fu nota come Nevè Shalom Dimora di Pace), Chiana e Calabria Chadàsch detta anche Ishmael (https://magenvisionstudio.wixsite.com/judeche/calabria).
Oggi, grazie all'impegno di studiosi e storici, nella città greca la cultura ebraica, a partire dallo studio della lingua, delle tradizioni culinarie e culturali, è stata riportata in auge con iniziative molto interessanti, tanto che il turismo da Israele è primo per flussi nella città, secondo quanto riferisce la stessa amministrazione comunale di Salonicco. Lo stesso può accadere con la Calabria se applicheremo un modello analogo a quello di Salonicco».
Lo dichiara Klaus Davi, responsabile del progetto 100 Giudecche di Calabria. «Il nostro progetto si inserisce perfettamente nel programma 'Calabria straordinaria' ideato dall'assessore Fausto Orsomarso e con il quale siamo in totale sintonia. Ci saranno importanti iniziative di 'sistema' che sta però al presidente Roberto Occhiuto e allo stesso Orsomarso annunciare. Il nostro obiettivo – continua Davi – è parlare a un'audience nazionale ma soprattutto internazionale. Il primo passo sarà creare una rete tra i comuni delle Giudecche. Il secondo fornire loro strumenti promozionali e narrativi. Con la mia amica Alessandra Ghisleri, abbiamo dato vita a uno studio sulla notorietà delle mete ebraiche nella nostra regione che renderemo noto dopo le festività cristiane ed ebraiche. Fondamentale sarà il contributo del delegato regionale dell'Ucei, il dottor Roque Pugliese», conclude Klaus Davi.
(ReggioTV, 15 aprile 2022)
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Trecento ebrei ortodossi a Baveno per celebrare i riti della Pesach
Il ritorno dopo lo stop a causa del Covid
Sono circa 300 gli ospiti di religione ebraica ortodossa che celebreranno la Pesach, ovvero la Pasqua all’hotel Simplon di Baveno (riservato in via esclusiva) e al Grand Hotel Dino. Resteranno sul Lago Maggiore fino a sabato 23. L’appuntamento è organizzato da un tour operator israeliano. «Il 20% circa - spiega Antonio Zacchera, amministratore delegato del gruppo alberghiero di cui fanno parte il Simplon e il Dino - proviene da Israele, mentre la rimanente parte arriva da vari Paesi europei». Prima dello stop imposto per due anni dal Covid oltre all’hotel Simplon anche il Regina Palace di Stresa veniva interamente riservato per gli ospiti di religione ebraica. Il primo appuntamento rituale sarà la cena Seder domani, seguita da analogo appuntamento il giorno successivo. E’ l’occasione in cui vengono narrati gli episodi biblici della fuga dall’Egitto. La preparazione del cibo e le forniture alimentari sono sottoposte al controllo di supervisori, che vigilano sul rispetto delle regole Kosher: per la Pesach vengono usate stoviglie dedicate così come è rispettata in modo rigoroso la tradizione dell’eliminazione di ogni traccia di cibo lievitato. Nella simbologia della Pesach ci sono anche le erbe amare, che riportano alla memoria la durezza della schiavitù, le uova sode per ricordare il lutto per la distruzione del tempio mentre il sedano ricorda la primavera. Per alcune delle giornate della Pesach vigono le stesse regole dello Shabbat, che per i più ortodossi significa il divieto di qualsiasi forma di lavoro, regola estesa anche al non poter usare apparecchiature elettriche. La presenza degli ospiti di religione ebraica è protetta da un servizio esterno affidato alle forze dell’ordine, mentre vi è anche un discreto dispositivo di sicurezza all’interno delle strutture. L’accoglienza pluriennale agli ospiti di religione ebraica ha aperto in questi anni nuove opportunità di mercato: «Agenzie che trattano clientela di religione ebraica si rivolgono spesso alle nostre strutture - dice Zacchera - per altre celebrazioni come meeting e congressi».
(La Stampa, 14 aprile 2022)
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Germania e Israele stringono una partnership energetica
Il Ministro dell’energia israeliano Karine Elharrar e il Sottosegretario di Stato parlamentare presso il Ministero federale dell’economia e dell’energia Oliver Krischer hanno firmato una dichiarazione comune di intenti in materia di cooperazione energetica.
L’obiettivo del partenariato energetico tedesco-israeliano è quello di trovare soluzioni per padroneggiare il cambiamento climatico e portare avanti lo sviluppo di tecnologie per un’energia affidabile, sostenibile e conveniente.
Le imprese e gli istituti di ricerca israeliani nel settore dell’energia beneficeranno di questa collaborazione. Saranno in grado di sfruttare le strette relazioni tra Israele e la Germania – una delle nazioni leader nell’UE – anche a beneficio dei loro partner tedeschi. Entrambe le parti mirano ad intensificare i progetti comuni di ricerca. Un gruppo direttivo intergovernativo di alto livello tedesco-israeliano si riunirà ogni anno. Si svolgerà un dialogo regolare che coinvolgerà il settore privato nell’ambito di gruppi di lavoro congiunti.
(ESGDATA, 14 aprile 2022)
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Vino e matematica alla tavola del Seder
di Rav Jacov Di Segni*
1. A cosa corrispondono i quattro bicchieri di vino?
I Maestri hanno prescritto di bere durante il Seder quattro bicchieri di vino: il primo durante il Qiddùsh, il secondo alla fine del Magghìd, il terzo alla fine della Birkat Hamazòn e il quarto alla fine dell’Hallèl. Il Talmud Yerushalmì spiega che sono in corrispondenza delle quattro espressioni di liberazione riferite a Moshè all’inizio della Parashà di Vaerà: “Io vi farò uscire… vi salverò dal loro duro lavoro, vi libererò…vi prenderò come Mio popolo”.
Nello Zòhar (Parashat Vaerà, 25b) è scritto che durante la schiavitù in Egitto anche la Parola (dibbùr) era in esilio e non era rivelata; nel momento in cui gli Ebrei escono dall’Egitto e diventano nuovamente liberi, riacquistano la capacità di parlare e utilizzare la voce in modo corretto, come dice il Salmo: “…quando il Signore uscì (a giudicare) la terra d’Egitto, io udii un linguaggio che mi era ignoto” (Salmi 81: 6). La balbuzie di Moshè Rabbènu che aveva “la bocca e la lingua pesanti” è quindi in realtà un difetto esteso a tutto il popolo, che viene sanato da Dio -“Colui che dà la bocca all’Uomo” (Shemòt 4:11) - nel momento della liberazione. Il Rebbe di Gur* (Sefàt Emèt) sviluppando questa idea, dà una nuova spiegazione alla mitzwà di bere quattro bicchieri di vino. Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico si articolano in cinque tipi di consonanti: gutturali, palatine, linguali, dentali e labiali. La Matzà che mangiamo la sera del Seder ha la funzione di rivitalizzare le lettere dentali, mentre i quattro bicchieri di vino servono a rigenerare le altre quattro tipologie di consonanti. È a ciò che allude il Salmo citato quando dice: “Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha tratto dalla terra d’Egitto, apri la bocca ed Io la riempirò” (Salmi 81:11). Il nome stesso della Festa di Pèsach può essere scomposto in due parole, che rimandano a questa idea: “Pe Sach” - la bocca parla.
2. Che significato hanno i calcoli che i Maestri fanno sul numero delle piaghe d’Egitto? A un certo punto della Haggadà vengono nominate le dieci piaghe: sangue, rane, pidocchi, animali feroci di specie diverse, mortalità del bestiame, ulceri, grandine, oscurità, cavallette e morte dei primogeniti. Subito dopo troviamo un insegnamento di rabbì Yehudà che per memorizzare meglio le piaghe secondo il loro giusto ordine era solito dare tre simanìm, ovvero delle formule mnemoniche, costruite sulle iniziali di ciascuna piaga: detzà”kh, ‘adà”sh, beach”àv. Non finisce qui la narrazione sulle piaghe però, perché vengono riportati tre calcoli diversi dei Maestri della Mishnà, che moltiplicano il numero delle piaghe, arrivando a numeri molto più alti. Tutti concordano che sul mare gli Egiziani furono puniti cinque volte in più rispetto alle piaghe in terra d’Egitto, e lo si deduce dal fatto che in Egitto gli Egiziani vedono “il dito di Dio” teso contro di loro, mentre sul mare è “la mano intera” che li colpisce, con tutte cinque le dita. Le differenti opinioni dipendono da quante furono effettivamente le piaghe in Egitto: 10 piaghe, come sembra dal racconto della Torà, oppure ciascuna piaga era divisa in quattro o cinque sottospecie di piaghe, come invece sembra dire un verso dei Salmi: “Egli aveva mandato contro di loro la Sua ira ardente, lo sdegno, la collera e la sventura, e una turba di angeli maligni” (78:49). Secondo rabbì Yosè ha Galilì gli Egiziani furono colpiti con 10 piaghe in Egitto, e con 50 piaghe sul mare; secondo rabbì Elièzer in Egitto 40 piaghe, e sul mare 200; secondo rabbì Aqivà in Egitto50 piaghe, e sul mare 250.
Un calcolo un po’ bizzarro, che secondo alcuni serve per tenere alta l’attenzione dei bambini. Ma se ipotizziamo che non ci sia discussione tra i Maestri, e andiamo a sommare le varie opinioni, abbiamo un numero che certamente ci è familiare: 613! Lo stesso numero complessivo delle mitzwòt comandate dalla Torà. Riassumiamo il calcolo: 10 piaghe originarie, 3 formule mnemoniche di rabbì Yehudà; 10 piaghe in Egitto e 50 sul mare di rabbì Yosè; 40 piaghe in Egitto e 200 sul mare di rabbì Elièzer; 50 piaghe in Egitto e 250 sul mare di rabbì Aqivà. Quale può essere il legame tra le piaghe e le mitzwòt? Lo Sefàt Emèt nota che c’è una corrispondenza non solo tra le 10 piaghe e i 10 comandamenti, ma anche tra le 613 piaghe e le 613 mitzwòt; e così come tutte le piaghe hanno origine e sono racchiuse nelle 10 iniziali, così anche le mitzwòt sono tutte quante alluse nelle 10 espressioni che furono pronunciate da Dio. Anche a proposito delle parole scritte sulle Tavole della Legge, la Torà dice che furono incise “con il dito di Dio”, mentre sappiamo che la Torà intera è come se fosse tenuta con il braccio destro di Dio (Devarìm 33:2). Dio si è manifestato in tutta la sua potenza in Egitto attraverso le piaghe che hanno colpito gli Egiziani prima in terra, poi sul mare; allo stesso modo si è rivelato sul Monte Sinai al Popolo d’Israele nel momento della Promulgazione dei Comandamenti, donando loro la Torà e le Mitzwòt.
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* Rabbì Yehudà Ariel Leib di Gur (Varsavia, 1847 - Gur 1905) è stato il terzo Rebbe della Chassidut di Gur ed è conosciuto per la sua opera Sefat Emèt sulla Torà e sulle Feste, in cui sono raccolti gli appunti delle lezioni che teneva alla sua comunità.
(Shalom, 14 aprile 2022)
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Israele allunga la stagione: incentivi per chi volerà sull’aeroporto di Eilat
di Isabella Catton
Israele crede nella ripresa. L’ultima notizia riguarda lo speciale incentivo predisposto dal Ministero del Turismo per le compagnie aeree che programmeranno voli dall'Europa all'aeroporto di Ramon, vicino a Eilat, nella prossima stagione invernale. L’obiettivo è quello di riportare nel Sud del Paese centinaia di migliaia di turisti dall'estero. “Ogni compagnia aerea che effettua un servizio diretto con l'aeroporto Ramon riceverà un sussidio di 60 euro a passeggero – precisa Kalanit Goren Perry, direttrice dell'ufficio nazionale israeliano del Turismo a Milano -. La compagnia aerea ha diritto a un sussidio per un massimo di 75 voli settimanali dallo stesso aeroporto, dal 1 settembre 2022 fino a fine maggio 2023, a esclusione dei periodi dal 9 al 16 ottobre 2022 e dal 5 al 13 aprile 2023”. Il termine per presentare le richieste è il 1 settembre 2022. Allo stesso tempo, il Ministero sta lavorando alla promozione del turismo nel deserto, al rafforzamento del Negev e dell'Arava, sviluppando al contempo le infrastrutture turistiche nell'area. La direttiva sui voli per Eilat aveva già registrato successo negli ultimi anni. Il numero di turisti arrivati a Eilat durante la stagione invernale 2019-2020, fino alla cessazione del turismo a causa della pandemia, aveva raggiunto la cifra record di circa 150mila unità. < “L’allungamento della stagionalità è fra le nostre priorità – aggiunge Goren Perry – in vista di una ripresa più strutturata. Già da Pasqua tuttavia stiamo assistendo al ritorno degli italiani, con una nuova domanda indirizzata verso strutture di target elevato e servizi esclusivi”.
(TTG Italia, 14 aprile 2022)
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Israele: il Ministero dell’Agricoltura apre alle importazioni di uova dalla Bulgaria
Il Ministero dell’Agricoltura di Israele ha appena aggiunto la Bulgaria all’elenco dei Paesi da cui importare le uova, elenco che comprende Portogallo, Spagna e Italia, dai quali importerà milioni di uova ad integrazione di quelle prodotte localmente.
In vista dell’emergenza in corso in Ucraina, i camionisti scioperano in Spagna e per prevenire la carenza di uova durante la Pasqua ebraica, il Ministero dell’agricoltura e dello sviluppo rurale sta aumentando le possibili fonti di importazione di uova in Israele e ha quindi approvato l’apertura di importazioni di uova dalla Bulgaria (in termini di condizioni veterinarie).
Il Ministero continua a mantenere un contatto costante con gli importatori ed esamina il mercato interno e, parallelamente, l’apertura all’importazione di uova da altri paesi, tra cui l’India.
(PmiReboot, 14 aprile 2022)
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Ormai si sente un'unica voce. Quella del padrone
Esiste un mondo prefabbricato che nega la realtà, le sue varietà, le sue verità. E chi non ne condivide le posizioni passa per matto.
di Marcello Veneziani
La Cupola e gli spalti. Al centro, incombente, oppressiva, uniforme, la Cupola esprime in video, in audio, sui giornali, la voce del padrone; il tema a senso unico sia esso la pandemia, la guerra, il voto francese; ai bordi in basso, gli spalti non aderiscono alla «narrazione» unilaterale e ideologica imposta dalla Cupola ed esprimono altre opinioni, cercano fonti alternative d'informazione e di orientamento, sentono di essere pressati sotto una vera e propria macchina del consenso. Sono outsider, provengono da mondi e culture politiche diversi, a volte sono studiosi, inviati, intellettuali che hanno un polso diverso della situazione; più spesso è gente comune, che però non vuole rinunciare all'uso dell'intelligenza e del pensiero libero, al senso critico. Oltre loro c'è inevitabilmente chi estremizza, chi sposa un manicheismo rovesciato rispetto a quello somministrato dalla Cupola, ha posizioni infantili e complottiste, deduce contro storie da piccoli indizi, voci non confermate. Ma gli uni e gli altri vengono assemblati dalla Ditta in una sola risma, la gente si fa gentaglia, se non marmaglia. E coloro che articolano un ragionamento con argomenti seri e pacati, coloro che si limitano anche a esprimere dubbi ragionevoli, a non accontentarsi delle versioni ufficiali e degli uffici propaganda all'opera nella guerra, nel voto come ieri nella pandemia, vengono stoccati in due categorie da macero: quelli di destra, di cui non conviene neanche parlare, se non quando entrano nella cronaca giudiziaria, sono ritenuti civilmente morti, e da prima; e quelli di sinistra, che avendo assunto posizioni difformi rispetto al mainstream, all'establishment, insomma alla Cupola, vengono trattati come casi clinici con improvvisi problemi mentali, menti soggette a processi degenerativi. Come un tempo si mandavano i dissidenti in manicomio, così oggi non potendo accettare che un intellettuale di sinistra possa esprimere argomentazioni difformi dalla Cupola, lo si attacca e deride come uno che sta vaneggiando, ha perso la bussola, o al più è uno stravagante. È ridicolo leggere editoriali, rubriche o sentire commenti della Ditta (i suddetti menano in gruppo, pensano in clan): sono sempre denunce contro ignoti; se la prendono coi «negazionismi», così definiti ieri in tempo di virus come oggi in tempo di guerra, ma non si riesce a capire a chi si riferiscano. Usiamo omeopaticamente lo stesso metodo con loro, non citando nessun clone; ma basta sfogliare il Giornale Unico per vederli bene in vista, tutti allineati e coperti, con l'elmetto e il dito armato (digitali da guerra). Diventa oro colato per loro anche l'alternativa infelice di Mario Draghi tra la pace e l'aria condizionata: ma i draghi sono pecilotermi, come tutti i rettili, non hanno problemi termici (immagino Draghi in tv con la maglietta di Zelensky, per mostrarsi solidale e termoautarchico). Nella Cupola mezzo popolo si rifugia come sotto un guscio protettivo. Mezzo popolo invece no, avverte il soffocamento. O per dir meglio, la popolazione si divide in più fasce: i convinti ripetitori di tutto quel che somministra la Gazzetta Ufficiale della Cappa; i perplessi, che però per prudenza e quieto vivere ne accettano i verdetti e vi si attengono; gli struzzi, che mettono la testa sottoterra per non vedere, per non pronunciarsi e per non prender parte. Poi, dicevamo, ci sono gli altri, i più, quelli che non si accontentano di quel che passa il regime. Come definire questi ultimi? I No Vox, nel senso che non hanno voce in capitolo, o ce l'hanno flebile, fuori dal recinto, in luoghi periferici e remoti, oppure la pensano in questo modo ma sanno che è meglio non dirlo pubblicamente, e dunque adottano una formula a metà tra l'omertà e il mutismo volontario a scopo di sopravvivenza. La questione non riguarda solo i temi della guerra, il voto o la pandemia, e non riguarda solo gli italiani che pure restano la punta più avanzata del servilismo. Ma si allargano a gran parte dell'Europa, e buona parte d'Occidente, almeno nell'emisfero nord. Poi c'è il resto del mondo, che è quasi il novanta per cento ma agli occhi bolliti dell'Occidente è una «trascurabile maggioranza», direbbe ironicamente Ennio Flaiano. La sensazione generale è di vivere in un mondo prefabbricato che nega la realtà del mondo, le sue varietà, le sue verità, evidenti e nascoste. Aldo Giorgio Salvatori lo chiama il «Contromondo. in un libro da poco uscito da Solfanelli (Naufragio nel Contromondo, pp.196, 13 euro). Salvatori colleziona e commenta notizie, articoli dei giornali, perfino cartelloni stradali per mostrare le tante applicazioni ed effetti di questo sistema globale che ben riassume nella sigla Pug, acronimo di Pensiero unico globale: dai migranti agli sfruttati, dai grandi cancellati perché non conformi ai temi dell'omofobia e del gender fluid; dall'ideologia del clima alle mutazioni genetiche in corso, dal potere nero al potere degli eurocrati, dai fumetti agli spot, dall'animalismo al veganesimo fino all'antispecismo umano, solo per citarne alcuni. Brevi capitoli che danno uno spaccato del tempo in cui viviamo, rispetto a cui Salvatori esprime tutto il disagio di chi si sente un naufrago, uno straniero rispetto al suo mondo e al suo tempo. È una percezione che sento di condividere, e che ho espresso anch'io altrove. Ma torno nel frangente dei nostri giorni e osservo che ogni mutazione, ogni costrizione, ogni assuefazione nasce dall'annuncio di un'emergenza, rispetto a cui non è più tempo di dividersi, di discutere, di avere divergenze: sia esso il Covid o la guerra, i crimini contro l'umanità o il razzismo tornante, la violenza dei social, la minaccia sovranista e il rigurgito negazionista. Da una parte la Voce del Padrone, dall'altra i No Vox, coloro che hanno scarsa voce, tacciono o sono messi a tacere. Una guerra globale tra Mondo reale e Contromondo.
(La Verità, 13 aprile 2022)
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Ricercatori israeliani promuovono ‘un’arma naturale’ contro il Covid e i virus influenzali
di Jacqueline Sermoneta
Esiste un’arma naturale attiva contro il Covid-19 e i virus influenzali? Come possiamo rafforzare il nostro sistema immunitario? Uno studio israeliano dimostra che alcuni integratori, costituiti principalmente da sostanze presenti in frutta e verdura come anacardi, zucca, piselli e barbabietola, offrono una protezione “naturale ed efficace’.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Pharmaceuticals, è stato condotto dai ricercatori Ehud Gazit, Eran Bacharach, Daniel Segal del Shmunis School of Biomedicine and Cancer Research dell’Università di Tel Aviv e dai dottorandi Topaz Kreizer e David Zaguri.
Attualmente i vaccini a mRNA e i farmaci antivirali proteggono dal Covid e dai virus influenzali. Secondo il prof. Gazit questi integratori possono contribuire a ridurre la carica virale e la possibilità di contagio: lo zinco, associato ai flavonoidi - polifenoli che si trovano soprattutto in frutta e verdura - e il rame aumentano l’efficacia della cura.
“Test di laboratorio avanzati – ha detto il prof. Segal – hanno dato risultati molto promettenti e hanno consentito lo sviluppo di un trattamento sicuro, naturale ed efficace contro diversi tipi di virus e le loro mutazioni”.
“Fin dalla giovane età – osserva il prof. Bacharach - a noi tutti viene insegnato che la prevenzione è la migliore medicina. L’aspetto interessante è la potenziale flessibilità del trattamento: abbiamo scoperto che la combinazione di diversi flavonoidi con lo zinco aiuta a proteggere le cellule da molti virus. Crediamo che il prodotto possa servire a coadiuvare e migliorare l’effetto dei vaccini e dei farmaci antivirali esistenti”.
(Shalom, 13 aprile 2022)
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Mentre i negoziati sul nucleare iraniano arrancano, Israele prepara un Piano B per fermare Teheran
di Francesco Paolo La Bionda
I negoziati per il nuovo accordo sul nucleare iraniano durano ormai da più di un anno e, nonostante alcuni progressi, non sembrano vicini a una risoluzione. Israele, nettamente critico, si prepara intanto ad affrontare un eventuale fallimento delle trattative, con la crisi di governo in corso che potrebbe spingere gli schieramenti a posizioni più intransigenti verso il regime di Teheran.
- Il fallimento del primo accordo Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), questa la sigla ufficiale, era stato siglato la prima volta a Vienna il 14 luglio 2015 tra l’Iran, i cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, la Germania e l’Unione Europea. I negoziati allora erano durati venti mesi e avevano portato a un accordo in base al quale il regime di Teheran avrebbe limitato le attività di arricchimento dell’uranio al di sotto della soglia necessaria per il confezionamento di armi atomiche, ricevendo in cambio una corposa riduzione delle sanzioni in vigore. Nel 2018 però l’amministrazione Trump aveva ritirato gli Stati Uniti dall’accordo, siglato dal precedente esecutivo guidato da Obama, definendolo “orribile”. L’anno seguente il governo iraniano aveva ripreso ad arricchire l’uranio oltre i limiti previsti, de facto uscendo anch’esso dal JCPOA. Col cambio di inquilino alla Casa Bianca nel 2020, si è riaperta una finestra per un nuovo accordo, avendo Biden già annunciato in campagna elettorale la sua intenzione di ripristinare un’intesa diplomatica.
- La lunga e tortuosa strada verso un nuovo piano Nonostante la volontà sia dell’Iran, la cui economia è stata duramente colpita dal ritorno delle sanzioni americane, sia degli Stati Uniti, ansiosi di chiudere le partite mediorientali per focalizzarsi sulla sfida con Cina e oggi anche Russia, le negoziazioni si sono rivelate complesse e sebbene abbiano compiuto progressi, restano ancora contenziosi aperti tra le parti. Lo scorso 4 aprile, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, ha dichiarato che i rappresentanti del paese sarebbero tornati a Vienna solo per “finalizzare” il nuovo accordo, ma che mancava ancora una risposta degli Stati Uniti su alcune questioni irrisolte. Il 10 aprile 250 deputati iraniani su 290 hanno siglato una lettera in cui esortavano il governo a chiedere maggiori garanzie, e il giorno successivo Khatibzadeh ha lanciato un appello a Washington affinché rimuovesse da subito tutte le sanzioni contro l’Iran. Il contenzioso principale sembra vertere sul famigerato “Corpo delle guardie della rivoluzione islamica”, i pasdaran, che gli Stati Uniti avevano sanzionato nel 2019 designandolo come organizzazione terroristica. L’Iran, trattandosi di un organismo ufficiale dello stato, chiede che le misure punitive vengano rimosse mentre l’amministrazione americana non intende procedere su questa strada, temendo che possa essere interpretata come un segno di debolezza dall’opinione pubblica statunitense e dagli alleati. A rischiare di destabilizzare i negoziati si è inoltre aggiunta la guerra in Ucraina, con la Russia che ha inizialmente chiesto che le sanzioni occidentali non colpissero i suoi interscambi con l’Iran, una mossa interpretata dagli analisti come un tentativo di prendere in ostaggio il negoziato. L’intervento di Teheran, ansiosa di ridare ossigeno alla sua economia in crisi, ha tuttavia convinto Putin a tornare sui suoi passi.
- Israele aspetta l’accordo al varco con l’incognito del governo in crisi Israele si è sempre ufficialmente schierato contro qualsiasi forma di accordo con l’Iran fin dal primo negoziato, sostenendo che il regime islamista non avrebbe davvero fermato lo sviluppo di armi atomiche e si sarebbe avvantaggiato della riduzione delle sanzioni per continuare a finanziare i suoi affiliati in Medio Oriente, a partire da Hezbollah. Tuttavia, di fronte al progredire dei negoziati, l’esecutivo di Gerusalemme si è pragmaticamente adattato alla prospettiva che un nuovo accordo possa effettivamente essere stretto, nel contempo valutando misure unilaterali per fermare il programma nucleare iraniano nel caso di un fallimento dei colloqui. Lo scorso 6 aprile, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, durante un briefing con gli ambasciatori del paese, ha dichiarato che se non si dovesse trovare un nuovo accordo dovrebbe essere approntato un “Piano B”, che includa l’uso “della forza, della pressione economica e di quella diplomatica” per fermare la corsa all’atomica di Teheran, definendolo “una corsa contro il tempo”. Tuttavia lo stesso giorno si stava consumando la crisi di governo nello Stato ebraico, dopo che la deputata Idit Silman ha abbandonato la coalizione di governo del primo ministro Naftali Bennet, facendogli perdere la maggioranza alla Knesset. La perdita di un solo altro voto potrebbe consentire all’opposizione di indire nuove elezioni e di formare una nuova coalizione di destra attorno al Likud dell’ex premier Netanyahu. La contesa politica potrebbe spingere entrambe le parti a mostrarsi più intransigenti sul tema del nucleare di Teheran e a renderle maggiormente disposte all’uso della forza militare contro obiettivi iraniani, con conseguenze destabilizzanti per la regione mediorientale.
(Bet Magazine Mosaico, 13 aprile 2022)
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Perlasca, il fascista che aiutò gli ebrei
A 30 anni dalla sua morte è doveroso per il nostro Paese rìcordarsi di lui. Che salvò 10 mila persone dalla deportazione e dai campi di concentramento nazisti. Restando, comunque, uomo di destra.
di Marcello Veneziani
L'italiano che salvò più ebrei al tempo del nazismo fu un fascista di nome Giorgio Perlasca. E tempo di ricordarsi di lui, quest'anno sono trent'anni dalla sua morte.
La sua azione benefica fu tenuta nascosta per più di quarant'anni; solo alla fine degli anni Ottanta, fu riconosciuta la sua opera, fu insignito del Premio dei Giusti in Israele, fu ricevuto in Quirinale, furono pubblicati libri su di lui e sulla sua impresa. Ma poi tornò nel dimenticatoio.
Perlasca importava bestiame nei Paesi dell'Est. Al tempo dell'occupazione nazista in Ungheria - non aveva aderito alla Rsi per fedeltà al Re - si rifugiò presso la legazione della Spagna, a cui chiese asilo. Perlasca, arruolato nelle Camicie nere, era andato volontario in Spagna e aveva combattuto per due anni e mezzo dalla parte dei falangisti e dei franchisti contro i repubblicani e i comunisti. Ma in Ungheria fu internato; riuscì a fuggire con un falso permesso sanitario e nel cambio di regime a Budapest tornò nella sede diplomatica spagnola e ottenne un passaporto spagnolo.
La legazione della Spagna era impegnata «in una vasta e meritoria attività in favore degli ebrei» voluta dal governo franchista, ospitando nelle sue case tremila protetti.
Perlasca diventò funzionario (volontario, senza retribuzione) e cominciò ad adoperarsi per proteggere gli ebrei, ma presto il capo della legazione, Angel Sanz Briz, fu trasferito in Svizzera. E Perlasca vedendo ormai naufragare l'impresa di salvare gli ebrei. decise di assumersi lui il compito di proteggerli e farli sfuggire alle deportazioni. fino a spacciarsi per console di Spagna (arrivando a usare il timbro e la sigla del suo predecessore). «Abbiamo imparato a essere bugiardi», disse Perlasca "perché nella diplomazia la verità non si dice mai». Ma da diplomatici, aggiunse, si deve avere pure coraggio.
Abbiamo letto il dattiloscritto ampio e dettagliato di Giorgio Perlasca inviato nell'immediato dopoguerra al ministero degli Esteri spagnolo che ci ha girato insieme ad altri preziosi documenti suo figlio Franco. Sono descritte le traversie, il travaglio di quei giorni; gli incontri con ambasciatori e ministri, con i responsabili del partito fìlonazista e le autorità di polizia, insomma le perorazioni di Perlasca per riuscire a mettere in salvo 5 mila ebrei e proteggere 500 bambini ebrei abbandonati perché i loro genitori erano stati deportali. Perlasca descrive nei documenti e nei documentari storie toccanti di ebrei scampati alla deportazione. da lui aiutati. Per esempio, due bambini gemelli, sottratti alla deportazione e fatti entrare nell'auto della legazione spagnola, che godeva di extraterritorialità.
O la storia di una bambina di 11 anni che andò da lui e offri il suo corpo in cambio della salvezza di sua madre. Perlasca le dette un ceffone: e portò in salvo la madre con la sua bambina disposta a tutto pur di salvarla. Perlasca non scrisse solo lettere di protezione degli ebrei; si occupò delle loro prime necessità, a volte andò a recuperarli in giro, rischiando la deportazione. E contribuì a sventare lo sterminio nel ghetto di Budapest di 60 mila ebrei.
Sconfitta la Germania nazista, Perlasca dovette poi superare le diffidenze dei russi che avevano occupato l'Ungheria e sospettavano che lui e i suoi sodali fossero franchi tiratori nazisti. Un suo stretto collaboratore, l'avvocato Zol Lan Farkas, che si era adoperato nell'impresa umanitaria, «fu ritrovato con la testa sfracellata». Alla fine l'opera di Perlasca fu condotta in porto: aveva salvato «con qualunque mezzo la vita di migliaia di persone".
Ma il ministero degli Esteri spagnolo, forse per non alterare la rete dei rapporti internazionali, non riconobbe l'opera umanitaria di Perlasca che pure aveva svolto all'ombra della bandiera spagnola. Perlasca girò quel rapporto al nostro ministero degli Esteri, retto allora da Alcide De Gasperi, a cui scrisse una lettera che abbiamo avuto in copia. Perlasca sottolineava il salvataggio di migliaia di vite umane, come avrebbero confermato i tanti ebrei salvati. Si metteva a disposizione per ogni chiarimento e offriva la sua collaborazione, sottolineando che aveva fatto tutto questo «per conto della mia Patria». Ma anche De Gasperi e il suo ministero, per lo stesso imbarazzo, non dettero alcuna risposta, finsero di non averla ricevuta.
Così Perlasca con la sua storia entrò in quell'oblio quarantennale, come se nulla fosse mai accaduto. Come gli aveva scritto Sanz Briz: «Non speri niente da nessuno; né il suo governo né nessun altro riconoscerà i suoi meriti. Si accontenti con la soddisfazione che dà l'aver fatto un'opera dj bene, e con l'aver POTUTO resistere al terribile temporale dal quale tutti fummo vittime innocenti».
Espulso dai russi, dopo lungo peregrinare, Perlasca era intanto tornato in Italia. La ditta presso cui lavorava lo aveva licenziato, e visse momenti assai difficili con la sua famiglia. Dovette aspettare 40 anni quando alcune ebree da lui salvate lo rintracciarono e resero nota la sua impresa. Fu allora insignito nel 1989 da Israele del riconoscimento di «giusto tra le nazioni», gli fu intitolato un albero al museo di Gerusalemme e poi una foresta con 10 mila alberi, uno per ogni ebreo salvato da lui. E una lapide nel cortile della sinagoga di Budapest.
Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga volle incontrarlo e lo insignì nel 1991 dell'onorificenza di Grand'Ufficiale; fu approvato pure un vitalizio, che egli rifiutò. Pochi mesi dopo Perlasca morì. Restò la Fondazione Perlasca, curata da suo figlio che dice di lui: «Restò sempre un uomo di destra». Quel fascista che aveva salvato gli ebrei, dopo quella breve fiammata di riconoscimenti, tornò in un trentennale oblio.
(Panorama, 13 aprile 2022)
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Zemmour finisce sotto inchiesta per violazione della laicità
Messaggini pubblicitari agli elettori di "confessione ebraica”. In base alla legge che vieta i registri su base religiosa
Un'inchiesta preliminare è stata aperta in Francia dopo l'invio di sms da parte di Eric Zemmour ad elettori di confessione ebraica, alla vigilia del primo turno delle elezioni presidenziali di domenica scorsa. Citata dall'Afp, la procura di Parigi ha confermato l'apertura di questa inchiesta per violazione della privacy, Nel messaggino telefonico del partito Reconquète, era allegato un link esplicitamente rivolto ai francesi di origine ebraica per convincerli a votare per Zemmour. In Francia, il codice penale prevede fino a cinque anni di carcere e 300 mila euro di multa per la compilazione di registri in cui appaiano le origini etniche o il credo religioso senza il consenso diretto degli interessati, Il messaggio dell'ex polemista, che al primo turno ha ottenuto il 7,5%, era intitolato "Messaggio di Eric Zemmour ai francesi di confessione ebraica”.
(La Stampa, 13 aprile 2022)
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Genova - Presidente dell'Andrea Doria ed ex vice di Dello Strologo si candida con il sindaco
Dalla Comunità ebraica a Bucci: «Ariel un amico, non litigheremo».
IL RETROSCENA
«Ariel è un amico, la politica non ci dividerà: quando mi hanno chiesto di candidarmi con il sindaco Marco Bucci, è stato una delle prime persone con cui ne ho parlato». Per anni è stato vice di Dello Strolago alla guida della Comunità ebraica genovese, ma è soprattutto un volto noto perché guida una società sportiva storica come l'Andrea Doria. Angiolo Chicco Veroli, 46 anni, si candiderà a sostegno della riconferma di Marco Bucci, correndo nella lista civica del primo cittadino, Vince Genova. Una scelta maturata prima che il suo amico Dello Strologo fosse indicato come principale sfidante di Bucci.
«La comunità ebraica è un piccolo specchio della città, ci sono genoani e sampdoriani, ricchi e poveri, ma tutti con valori comuni - spiega Veroli - La mia scelta è arrivata prima che Ariel fosse candidato, ma resto convinto che Bucci e la sua lista civica siano il posto giusto in cui poter dare un piccolo contributo, in particolare sul tema dello sport come vettore di inclusività. La politica non ci dividerà, resteremo amici». Veroli è cugino dell'avvocato Filippo Biolè - altro potenziale candidato di centrosinistra, anche lui amico di Dello Strologo - punta ad allestire una piccola squadra anche nei municipi, per proporre iniziative concrete rivolte in particolare ai più giovani. L'Andrea Doria è impegnata da tempo sul tema giovanile, compreso l'interessamento - in tandem con Conad - nell'operazione di riqualificazione dell'ex centro sportivo Champagnat.
In “Vince Genova” si candiderà anche Marco Mensi, avvocato noto in città e coordinatore regionale de “La Buona destra”, il movimento fondato da Filippo Rossi, che sosterrà la ricandidatura di Bucci. «Durante gli ultimi anni Bucci ha dimostrato di essere un amministratore valido e capace, e non solo per la ricostruzione a tempo di record del Ponte Morandi - spiega Mensi - Mentre il centrosinistra si limitava a gestire il declino, ha rilanciato la nostra città con progetti nuovi e ambiziosi». M.D.F.
(Il Secolo XIX, 13 aprile 2022)
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Gli attacchi alla Tomba di Giuseppe: tutta la storia spiegata in breve
di Ugo Volli
- CHE COS’È ACCADUTO
Fra gli obiettivi dell’ondata terroristica che ha colpito Israele vi è anche un monumento, la Tomba di Giuseppe che sorge alla periferia di Nablus, in Samaria. La tomba è stata devastata due volte negli ultimi giorni da folle di palestinisti. In un altro incidente, due ebrei religiosi che cercavano di recarsi a pregare sulla tomba, disarmati e non scortati, sono stati feriti da terroristi con colpi d’arma da fuoco. Questi fatti hanno suscitato molta indignazione in Israele. Ci sono state dichiarazioni molto dure del ministro della difesa Gantz e del primo ministro Bennett, oltre che dei partiti religiosi e del Likud. Non è la prima volta che la tomba è oggetto di attentati palestinisti. Nel 1996 e poi nel 2000 il monumento fu in sostanza distrutto da folle di fanatici musulmani; ci furono scontri e diversi morti da una parte e dall’altra. Ricostruita da Israele, la tomba fu data alle fiamme nel 2014 e poi ancora e con maggior successo nel 2015.
- PERCHÉ IL MONUMENTO È IMPORTANTE
La Tomba di Giuseppe è uno degli edifici che ancora esistono in Israele legati a un episodio biblico. Alla fine del libro della Genesi/Bereshit, Giuseppe seppellisce a Hebron le spoglie del padre Giacobbe morto in Egitto. Nelle sue ultime volontà chiede ai figli di riportare anche la sua salma in Terra di Israele, quando potranno tornarvi (Genesi 50:25) e questo avviene: Mosè fa portare via le sue ossa quando gli ebrei escono dall’Egitto (Esodo 13:19) e il Libro di Giosuè (26:32) racconta che esse sono sepolte a Sichem, proprio la città che oggi è chiamata Nablus. Gli archeologi datano l’edificio attuale al tempo dell’esilio babilonese, come quello che oggi racchiude la Tomba dei patriarchi a Hebron è stato edificato da Erode. Ma senza dubbio i siti di queste sepolture (e anche quella di Rachele, accanto a Betlemme) sono identificati da una tradizione molto antica e sono oggetto di pietà popolare da venticinque o trenta secoli.
- PERCHÉ LA TOMBA È STATA ATTACCATA
Proprio la loro antichità e venerabilità rende questi monumenti obiettivi per i palestinisti. La storia di Giuseppe è riprodotta anche nel Corano (occupa l’intera sura 12). Ma essa conferma che Giuseppe era “figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, pronipote di Abramo”, cioè che era ebreo. La tomba insomma è la prova, anche nei termini dell’Islam che la Terra di Israele, dove Giuseppe volle farsi seppellire come i suoi avi, appartiene al popolo ebraico. Di conseguenza essa è oggetto di un odio nazionale che supera il comune tema religioso. Quando riescono a raggiungerle, i palestinisti cercano sistematicamente di distruggere tutte le tracce della presenza ebraica antica nella Terra di Israele, tutte le testimonianze dei Patriarchi, dei giudici e dei re. Di recente, per esempio, si è parlato molto dei danni inferti a una struttura che gli archeologi identificano con l’ altare che Giosuè costruì sul Monte Ebal, anch’esso vicino a Nablus (Giosuè 24: 29). Per non parlare dello scempio degli scavi compiuti sul Monte del Tempio a Gerusalemme.
- PERCHÉ LA SORTE DELLA TOMBA DI GIUSEPPE È PEGGIORE DI QUELLA DEGLI ALTRI LUOGHI BIBLICI
Nablus è la seconda città per numero di abitanti arabi nell’intera regione; nessuna meraviglia che un segno ebraico al suo interno sia oggetto di attacchi. Questo vandalismo dipende però anche da una rinuncia israeliana. Dopo gli accordi di Oslo la Tomba conservava lo status di un’enclave controllata dall’esercito israeliano. Vicino ad essa fu anche costruita una yeshiva. Ma nel 2000, in seguito a una fortissima pressione degli alti quadri militari, con minacce di dimissione del capo del settore meridionale dell’esercito, Yom-Tov Samia, il primo ministro Barak decise di cedere il controllo della tomba all’Autorità Palestinese, in cambio dell’impegno a custodirla e a garantirne l’accesso, che non fu mai mantenuto. Da allora gli incidenti si moltiplicarono, provocando parecchi morti e la frequente devastazione del luogo, non difeso dalle forze dell’Autorità Palestinese. La situazione attuale continua dunque un’intolleranza che dura da decenni: la prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che non vi può essere una presenza ebraica, anche puramente religiosa, dove governano i palestinisti.
(Shalom, 12 aprile 2022)
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In Iran gioiscono per gli attentati in Israele e vengono premiati con 7 miliardi di dollari
Eppure proprio in queste settimane vediamo cosa sta facendo all’Ucraina il maggior alleato degli Ayatollah, vediamo come questa gente (Putin, Raisi, Nasrallah e compagnia bella) mette sempre in pratica quello che dice
Mentre in Iran gioiscono per gli attentati in Israele e battezzano questa offensiva terroristica con il nome di “strategia dei mille tagli dall’interno” la comunità internazionale si appresta a scongelare 7 miliardi di dollari sino ad ora bloccati a causa delle sanzioni a Teheran. Lo rendono noto diverse fonti in Iran che trovano riscontro in alcune agenzie ufficiali iraniane, tra le quali l’IRNA. Secondo quanto si apprende domani un “alto funzionario”, che si ritiene essere europeo, si recherà a Teheran per “finalizzare il meccanismo per il rilascio di sette miliardi di dollari dei fondi congelati all’Iran”. Si apprende anche che mentre il mondo era giustamente distratto dall’aggressione russa all’Ucraina, la scorsa settimana l’Iran ha raggiunto accordi con alcuni paesi su un sistema per sbloccare una parte considerevole dei suoi fondi congelati all’estero. Sempre secondo quanto si apprende i fondi bloccati dovrebbero essere trasferiti sui conti bancari dell’Iran entro un periodo di tempo di poche settimane. La somma totale che verrà sbloccata in seguito a questi accordi è di circa sette miliardi di dollari. Ora vorremmo porre l’attenzione su quanto terrorismo potrà essere finanziato con sette miliardi di dollari, perché la loro destinazione sarà quella e non il sollievo del popolo iraniano da alcune sofferenze. Non solo, vorremmo porre l’attenzione anche sul fatto che se all’Iran verranno scongelati questa enormità di fondi significa che il nuovo accordo sul nucleare iraniano è cosa fatta, a dispetto di quanto affermi il Segretario di Stato americano, Antony Bliken. Ma la cosa che da più fastidio è che tutto questo avviene mentre Israele è sotto il più pesante attacco terroristico degli ultimi anni, mentre gli iraniani sui loro siti web gioiscono per i “successi della resistenza palestinese”. La mancanza di rispetto per le vittime israeliane degli attentati di matrice araba si allarga anche a coloro che nel mentre lavorano costantemente per raggiungere un nuovo accordo sul nucleare iraniano invece di pensare a come fermare il progetto genocida di Teheran. Eppure proprio in queste settimane vediamo cosa sta facendo all’Ucraina il maggior alleato degli Ayatollah, vediamo come questa gente (Putin, Raisi, Nasrallah e compagnia bella) mette sempre in pratica quello che dice. E l’Iran sono anni che sostiene di voler attaccare e distruggere Israele. E allora perché non facilitargli il compito scongelando decine di miliardi di dollari che andranno a finanziare il terrorismo come un fiume in piena? Perché non aiutarli a raggiungere il sogno della bomba atomica con la quale distruggere Israele? A disperarci per aver sbagliato come abbiamo fatto con Putin facciamo sempre in tempo.
(Rights Reporter, 12 aprile 2022)
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Con il Lucania Film Festival, la cultura ebraica torna in Basilicata
di Nathan Greppi
Il Lucania Film Festival, principale evento cinematografico della Basilicata che si tiene ogni anno a Pisticci (provincia di Matera), ha deciso che in ogni futura edizione organizzerà vari eventi culturali incentrati su un tema o paese specifico. Nella 23° edizione, che prevede eventi in varie località dal 17 al 21 maggio e poi il festival vero e proprio ad agosto, la kermesse sarà dedicata in particolare alla cultura ebraica. “Questa la genesi su cui la grande famiglia LFFi ha costruito un percorso di conoscenza e di apphttps://www.lucanafilmcommission.it/2022/03/14/allelammie-inaugura-la-nuova-linea-editoriale-del-lucania-film-festival/rofondimento che veda il Cinema come strumento di declinazione di indagine, di connessione di valori e di consapevolezza”, si legge nel loro comunicato. “Un costrutto di attività e azioni culturali di letture, masterclass, workshop, eventi da declinare nelle arti musicali, linguistiche, culinarie al fine di cristallizzare l’apporto e le influenze della cultura ebraica nella nostra costruzione civica, documentando e narrando in chiave contemporanea, con output culturali ex novo, attraverso residenze artistiche nazionali e internazionali con i massimi esponenti della cinematografia mondiale”. Lo scopo è soprattutto quello di rendere il pubblico lucano consapevole dell’apporto che la minoranza ebraica ha dato alla regione secoli fa, nonché del contributo dato da ebrei confinati in Basilicata durante la Seconda Guerra Mondiale, tra cui Umberto Terracini a Pisticci e Carlo Levi ad Aliano (un’esperienza che lo ispirò nella stesura del romanzo Cristo si è fermato a Eboli). Altro tema affrontato sarà quello della comparazione tra Matera e Gerusalemme in numerose opere cinematografiche di grande spessore, tra cui Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Critici cinematografici, scrittori, musicisti, maestri di coreutica, accademici e rabbini condurranno percorsi propedeutici per le scuole per produrre saggi, mostre, elaborati, spettacoli e una serie di azioni per il grande pubblico con lectio magistralis, seminari e workshop sulla scrittura e la cucina ebraica, sul teatro della memoria, sulla diaspora della musica e sullo Shabbat. La programmazione è stata promossa da vari partner, tra cui l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), l’Ambasciata d’Israele in Italia e il Centro di Studi Ebraici (CSE) dell’Università l’Orientale di Napoli. I comuni coinvolti nell’iniziativa sono principalmente: Potenza, Matera, Aliano, Montalbano Ionico, Pisticci e Venosa. Anche se oggi non esistono più comunità ebraiche in Basilicata, sono presenti numerosi reperti e siti archeologici che ne attestano la presenza in particolare nel Medioevo e ai tempi dell’Impero romano: il più importante è rappresentato dalle Catacombe di Venosa, un complesso di tombe ebraiche situato in provincia di Potenza che provano la presenza degli ebrei nella zona tra il III e il VII secolo.
(Bet Magazine Mosaico, 12 aprile 2022)
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Ucraina, serve un cessate il fuoco
di Fabio Marcelli
E’ necessario ed urgente che il brutto spettacolo no-stop di natura pornografica cui siamo spettatori da oramai un mese e mezzo finisca al più presto. Si tratta della peggiore pornografia, quella della guerra, col suo seguito di atrocità di ogni genere. La guerra informativa che si accompagna a quella guerreggiata vede dalle nostre parti un netto prevalere delle fonti per così dire filo-occidentale, che tendono ad attribuire ogni responsabilità a Putin e al suo esercito, imputandolo dei crimini che ha commesso ma anche di quelli che hanno commesso gli ucraini, a volte nel deliberato intento di incrementare ulteriormente la tensione per ottenere più armi. Un esempio di questa mistificazione ha avuto certa eco con La Stampa, capofila al pari di altri “giornaloni” e della RAI di questa campagna di disinformazione, che ha pubblicato in prima pagina la foto coi cadaveri delle vittime del bombardamento ucraino di una città del Donbass, imputando Putin del crimine. Di fronte alla sacrosanta richiesta di rettifica proveniente da uno storico come il prof. Angelo D’Orsi, la reazione del giornalone filo-NATO in questione è stata quella di iscriverlo d’ufficio nella lista dei filoputiniani.
Non è stato certo l’unico caso di censura e diffamazione. Il MINCULPOP bellicista che si è insediato in Italia e controlla da qualche tempo in modo rigido ed efficace i principali organi di stampa nonché quelli radiotelevisivi non sopporta alcun uso autonomo dell’organo cerebrale. Siamo giunti al punto che autorevoli e prestigiosi studiosi di relazioni internazionali e problemi strategici, come Alessandro Orsini e da ultimo perfino il direttore di Limes Lucio Caracciolo, vengono messi al bando e tacciati di filoputinismo per aver tentato di introdurre qualche elemento di razionalità e ragionevolezza nel discorso. Siamo tornati all’Inquisizione di medievale memoria.
L’unica valutazione possibile è quella che discende dal dogma indiscutibile secondo il quale Putin è il Male impersonificato, mentre Biden, Macron, Johnson, Draghi, Zelensky, ecc. sono il Bene. E nella lotta tra il Male e il Bene non c’è spazio per il raziocino ma esclusivamente nella fede senza se e senza ma. Mentre il Papa, vicario di Dio in terra, secondo la religione cattolica, fa suo il discorso della pace e chiede la fine immediata delle ingiuste sofferenze causate dalla guerra in corso, questi nuovi pontefici autoproclamati della guerra ci chiamano ad adorare incondizionatamente la NATO e il presidente statunitense Biden che devono liberare il mondo dal nuovo Satana alloggiato al Cremlino. In questo non somigliano per nulla al Pontefice romano mentre presentano, sia pure su fronti opposti, più di un tratto in comune col Patriarca Kyrill. Gli opposti estremismi guerrafondai spalancano un’autostrada alla guerra mondiale nucleare.
Le responsabilità di Putin sono evidenti, ma lo sono altrettante quelle della NATO e di tutto lo schieramento occidentale che da anni va preparando la trappola nella quale il presidente russo si è ficcato scatenando la sua guerra d’aggressione contro l’Ucraina. Se vogliamo dare una chance alla pace occorre tenere presente l’intero contesto esistente, i cui elementi principali sono l’accerchiamento della Russia da parte della NATO e il problema dell’autodeterminazione del Donbass, ma anche la definizione di nuovi equilibri che tengano conto dell’irreversibile declino della potenza statunitense e dell’emergere di una nuova realtà multipolare. Occorre mettere mano quindi a nuova architettura della sicurezza europea e mondiale che garantisca la pace, la sicurezza, l’autodeterminazione e i diritti di tutti i soggetti coinvolti. Una soluzione pacifica è possibile ed è a portata di mano. Occorre però a tale fine esercitare pressioni su tutti i contendenti diretti e indiretti. La richiesta di un immediato cessate il fuoco che è stata formulata da Papa Francesco va ripresa e rilanciata.
Ma Biden e la NATO hanno dimostrato chiaramente di non essere interessati a una soluzione pacifica perché la guerra in corso produce per loro benefici di varia natura e deve quindi continuare. Se poi si estenderà dall’Ucraina all’insieme dell’Europa poco male. Del resto l’Europa è stata già il teatro principale della Prima e della Seconda Guerra mondiale e, come si dice, non c’è due senza tre. La Cina potrebbe avere un ruolo determinante di mediazione ma tale ruolo viene impedito dagli Stati Uniti che non sopporterebbero un successo diplomatico di uno dei loro principali antagonisti. Per questo lorsignori continuano a buttare benzina nel fuoco di un incendio che minaccia di incenerirci tutti.
Quello che davvero deprime e sbalordisce, in un quadro del genere, è l’autolesionismo di settori, sia pure minoritari, dei popoli europei, compreso qualche gruppo sedicente di sinistra. Contro questo sfacelo occorre riaffermare le ragioni della pace, profondamente radicate nell’art. 11 del nostro testo Costituzionale che afferma in modo chiarissimo il ripudio della guerra. Le interpretazioni riduttive e fuorvianti che di tale disposizione sono state avanzate per avallare l’invio di armi a una delle parti in conflitto devono essere a loro volta ripudiate. Così come va ripudiata la NATO nel suo complesso, la cui flagrante contraddittorietà coll’esigenza fondamentale della pace è sempre più evidente a chi non guardi alla situazione internazionale con gli occhi dei mercanti d’armamenti e dei loro sciocchissimi servi.
(Altrenotizie, 12 aprile 2022)
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Bennett ha detto di ammettere la colpa per le dimissioni di Silman
E ha promesso di cambiare la strategia del partito
di Tacito Udinese
Secondo quanto riferito, il primo ministro Naftali Bennett ha detto ai dipendenti a lui vicini che ha la piena responsabilità delle dimissioni dalla coalizione del deputato di destra Edith Silman – una mossa che ha posto fine alla sottile maggioranza del governo alla Knesset, ha paralizzato la sua capacità di approvare la legislazione e l’ha lasciata vicina al potenziale collasso – aggiungendo che la sua strategia nei confronti del suo partito “non ha funzionato”.
Secondo il telegiornale di Channel 12, Bennett ha iniziato a rendersi conto che le tensioni tra lui e gli altri parlamentari di Yamina derivavano non solo dalla mancanza di interesse da parte sua, ma anche da opinioni divergenti sul nucleo del partito.
Channel 12 ha affermato che dalla nomina di Shimrit Meir a suo consigliere diplomatico, Bennett ha adottato un approccio più centrista, che potrebbe essere stata una delle principali fonti di preoccupazione all’interno di Yamina.
“Ci sono stati buoni risultati, ma la strategia alla fine non ha funzionato”, ha detto Bennett ai suoi consulenti in un recente incontro, secondo il rapporto. “La responsabilità, alla fine, spetta a me. Ora dobbiamo pensare a come risolverlo”.
Durante l’incontro, è stato detto che Bennett ha esplicitamente promesso una direzione più patriottica, sia in termini di retorica che di azioni che i parlamentari della mia destra potrebbero presentare al pubblico – al fine di migliorare l’attuale situazione all’interno del partito.
Il rapporto afferma che Bennett è anche arrabbiato con alcuni membri di sinistra e centristi della sua coalizione, che si rifiutano di ammorbidire le loro posizioni, rendendo difficile per i partner di destra tollerarle.
Questo apparente cambiamento di tendenza è arrivato dopo domenica scorsa, Silman non intende invertire la sua drammatica decisione della scorsa settimana di lasciare la coalizione.
MK Edith Silman presiede la riunione del comitato sanitario della Knesset, 28 febbraio 2022 (Yonatan Sindel/Flash90)
“La mia decisione di porre fine al mio periodo nella coalizione era basata sui valori ed è quindi definitiva”, ha detto in una nota.
Il membro dissidente della Knesset ha invitato i suoi colleghi a “esprimere la posizione della maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e stabilire un governo sionista nazionale all’interno della Knesset”.
La defezione di Silman ha lasciato al governo solo 60 dei 120 seggi. All’opposizione ci sono 54 parlamentari, guidati dal parlamentare Benjamin Netanyahu, oltre ad altri 6 membri della Lista Congiunta dei partiti arabi che si oppongono a Netanyahu. Quindi, anche se al governo ora manca la maggioranza, non è immediatamente chiaro se ci sia una maggioranza per abbatterlo.
(SDI Online, 11 aprile 2022)
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In piena ondata terrorista, Israele non ha più una maggioranza di governo
di Ugo Volli
- Che cos’è successo? La deputata Idit Silman, che era il capogruppo parlamentare della maggioranza ha lasciato l’alleanza di governo. Dato che la coalizione aveva solo 61 deputati sui 120 del parlamento monocamerale israeliano (la Knesset), con questa perdita non c’è più una maggioranza.
- Perché queste dimissioni? Idit Salman se ne è andata perché non poteva accettare che Nitzan Horowitz, leader del partito di estrema sinistra non-sionista Meretz e ministro della Salute avesse dato istruzioni molto rigorose alle direzioni degli ospedali di evitare ogni azione volta ad assicurare che gli ospedali rispettassero le regole della Pasqua ebraica intervenendo per non ammettere i cibi vietati per Pasqua dalla Bibbia ebraica, cioè soprattutto il pane, la pasta e i biscotti fatti con cereali lievitati (ce n’è altri che rispettano queste regole, non essendo lievitati o fatti con altri materiali). Gli ospedali israeliani hanno rispettato questa regola, come la grande maggioranza degli ebrei israeliani, fin dalla loro fondazione. Poi c’è stato un ricorso alla Corte Suprema ed essa ha deciso che per rispetto all’eguaglianza dei non ebrei, non si potessero proibire questi cibi. Ma durante i governi precedenti si era trovato un compromesso, cioè i sorveglianti all’ingresso degli ospedali chiedevano per piacere ai visitatori di non introdurli e di solito erano obbediti. Horowitz è intervenuto per proibire anche questo, con un gesto di chiaro disprezzo alla religione, e Salman si è dimessa. Ma c’è un altro possibile dissidente nel partito di Bennett, Nir Orbach, che ha presentato al primo ministro un ultimatum per rimanere nella maggioranza: l'annullamento del piano di cancellare i sussidi per gli asili nido per gli studenti della yeshivot, le scuole religiose, e approvare quattromila nuove case per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Impossibile che siano approvate dai partiti di sinistra e da Liberman, fanaticamente contrario ai religiosi. E’ probabile che anche lui esca.
- Perché questi problemi nella maggioranza? Il governo attuale è sostenuto da una coalizione debole e composita. Vi sono partiti di destra come Yamina (cioè “destra”) cui appartiene il primo ministro Bennett e anche Silman, ma anche “Nuova speranza” di Gideon Saar e Israel beitenu di Liberman; vi è l’estrema sinistra di Meretz, la sinistra dei laburisti, la lista araba dissidente (ma legata agli islamisti) Ra’am, il centrosinistra con i partiti di Gantz e di Lapid. Fra Bennet è Lapid vi è un patto di alternanza nella posizione di Primo Ministro che dovrebbe scattare fra un anno e mezzo. Ma anche Gantz aspira al posto di premier. Insomma le forze politiche sono molte e piccole, senza un minimo di base ideologia comune e con molte tensioni personali e ambizioni contrapposte. E’ molto difficile, per chi è stato eletto con un programma di difesa del sionismo e di Israele, convivere con chi ha un programma opposto. Per fare solo un esempio, in piena ondata terrorista la deputata di Meretz Gaby Lansky, ha ritenuto opportuno dichiarare di essere favorevole alla pratica dell’Autorità Palestinese di pagare uno stipendio ai terroristi incarcerati o alla loro famiglia se erano morti nel “loro lavoro”: tutti meritano uno stipendio, ha spiegato Lanski.
- Perché si sono messi assieme? Negli ultimi due anni e mezzo vi sono state quattro elezioni, con risultati piuttosto costanti: una vasta maggioranza dell’elettorato israeliano vota a destra; il primo partito non solo di questa maggioranza di destra ma dell’intero schieramento politico è di gran lunga il Likud presieduto da Bibi Netanyahu. Alcune forze della destra (prima Liberman, poi Bennet e infine Saar, che è uscito dal Likud) si rifiutano però di partecipare a un governo presieduto da Netanyahu. La ragione addotta è il controverso processo per corruzione e conflitto di interesse che Bibi sta affrontando, ma sotto ci sono rivalità personali provocate anche dal pessimo carattere di Netanyahu. Alla fine, dopo una serie molto lunga di tentativi falliti, si è messa assieme una maggioranza risicata basata in sostanza solo sul progetto di impedire che Netanyahu torni al governo.
- Perché il Likud non sceglie un altro leader? Perché Netanyahu ha una solida maggioranza nel suo partito ed è anche il politico ritenuto più adatto a fare il primo ministro dalla maggioranza degli israeliani, come dimostrano i sondaggi. Il Likud inoltre rifiuta di farsi imporre il proprio leader dall’esterno.
- Che succede adesso? La legge israeliana rende molto difficili le crisi di governo. Ci sono tre strade: - O si trova una maggioranza che voti lo scioglimento della Knesset, portando a nuove elezioni. Ma anche in Israele molti deputati, eletti da appena un anno, sono restii a sottoporsi di nuovo a un processo elettorale, che dai sondaggi molto probabilmente confermerebbe, se non le posizioni dei singoli partititi, quelle degli schieramenti. E si tratterebbe di una mossa impopolare nel paese. - O c’è un voto di sfiducia costruttivo, cioè una maggioranza di deputati indica un nuovo primo ministro. Ma all’opposizione di Netanyahu mancano sette voti per poterlo fare. Dopo Salman ci sono altri dissidenti, come Orbach, ma probabilmente non in numero sufficiente. Potrebbe esserci un intero partito, per esempio quello di Gantz, a cambiare maggioranza. Ma non è una mossa facile, - Oppure si continua con un governo azzoppato e litigioso, incapace di approvare leggi alla Knesset perché senza maggioranza, che andrebbe avanti usando i poteri piuttosto ampi dell’ordinaria amministrazione e cadrebbe solo fra un anno, quando dovrà far passare il bilancio. Questa è la soluzione più probabile, ma anche forse la meno adatta a dare a Israele un governo autorevole in questa fase di crisi.
(Shalom, 11 aprile 2022)
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Israele tra sostegno all’Ucraina e difesa della propria sicurezza
Lo Stato ebraico assiste Kiev a livello umanitario e ha condannato l'aggressione russa, ma frena su armi e sanzioni. L'importanza vitale di mantenere un equilibrio. Parla il giornalista israeliano Carmel Luzzatti.
Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina lo Stato di Israele ha cercato di mantenere una posizione bilanciata, condannando da un lato l’aggressione di Mosca e inviando aiuti umanitari e dall’altro mantenendo aperti i canali con la Russia. Una postura definita da molti in Europa erroneamente “neutrale”, ma che appare come l’unica possibile per un paese da sempre circondato da stati ostili e con una popolazione che vede quasi un milione di immigrati da Paesi ex sovietici, di cui l’80 per cento di provenienza russa.
- Israele non è “neutrale” Intervistato da Tempi, Carmel Luzzatti, giornalista israeliano e già inviato estero da Israele per Rai e Sky, racconta la percezione della guerra in Ucraina nello Stato ebraico e spiega perché è sbagliato e semplicistico definire “neutrale” la postura di Israele nella crisi. «Israele non è neutrale, assiste l’Ucraina a livello umanitario come altri paesi in Europa», afferma il giornalista, ricordando che lo Stato ebraico ha aperto un ospedale in territorio ucraino a Mostyska, fuori Leopoli, unico paese a fornire questo tipo di sostegno sul campo, oltre ad aver accolto immigrati ucraini. Fin dall’inizio dell’invasione, lo scorso 24 febbraio, il governo israeliano ha condannato l’aggressione, in primis con il ministro degli Esteri Yair Lapid, e in questi giorni ha preso una posizione netta sui massacri di Bucha. Tuttavia, si è proposto allo stesso tempo come mediatore tra Kiev e Mosca come dimostrato dalla visita in Russia dello scorso 5 marzo – primo leader di un paese straniero a recarsi in visita in Russia dopo l’avvio delle operazioni militari – e dai continui colloqui telefonici con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky.
- No alle armi e sì all’aliyah per ebrei russi e ucraini Per Luzzatti su due punti Israele non è disposto a cambiare posizione: la vendita di armi e la possibilità di fornire sia agli ebrei ucraini che russi la possibilità di compiere l’aliyah, la cosiddetta “salita”, ovvero l’immigrazione nello Stato di Israele. Per quanto riguarda la vendita di armi all’Ucraina, secondo Luzzatti, pesano diversi fattori. In primo luogo, gli accordi con la Russia di tipo internazionale, che qualsiasi governo israeliano dovrà mantenere. Il giornalista ricorda infatti come Mosca sia molto più coinvolta in Medio Oriente rispetto agli Stati Uniti – ormai praticamente assenti – e all’Europa, con un approccio che non è sempre favorevole allo Stato ebraico. La Russia ha rapporti stretti con l’Iran – principale nemico di Israele – ed è presente in Siria, ma consente allo stesso tempo alle Forze di difesa israeliane di attaccare i convogli che trasportano armi dal territorio iraniano entro i confini siriani e in Libano. A nord Israele deve fare i conti con due nemici: il movimento scita Hezbollah in Libano, che minaccia con razzi e ora anche droni il territorio israeliano; i miliziani filo-iraniani attivi in Siria nei pressi delle Alture del Golan. «Sono in vigore accordi che qualsiasi governo israeliano dovrà mantenere. Ogni raid israeliano in Siria è coordinato a livello giornaliero con le forze russe», afferma Luzzatti, precisando che Israele dovrà mantenere questo tipo di libertà sui cieli siriani per la sua sicurezza.
- Le comunità ebraiche in Ucraina e Russia Il giornalista ricorda come il governo ucraino abbia espresso più volte delusione per il rifiuto di Israele a vendere armi. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky (ebreo come anche altri esponenti del suo governo) ha accusato Israele di non aver venduto il sistema di difesa antimissile Iron Dome all’Ucraina. Tuttavia, come osserva Luzzatti, il sistema Iron Dome, sviluppato da Israele per difendersi dagli attacchi di missili a corta e media gittata è stato finanziato dagli Stati Uniti ed è pertanto Washington a permettere qualsiasi vendita e a oggi tale permesso non è mai giunto. Inoltre, secondo il giornalista, il sistema in una situazione di guerra è di fatto difficilmente impiegabile, perché necessita di essere sviluppo e di un complesso addestramento per gli operatori. Altro discorso è quello “ebraico”. Luzzatti ricorda che sia in Ucraina che in Russia vivono grandi comunità ebraiche. Secondo dati del Congresso ebraico europeo, prima dell’invasione russa risiedevano in Ucraina dai 360.000 ai 400.000 ebrei. In base a stime dell’Institute for Jewish Policy Research gli ebrei in Russia erano 179.500 nel 2016, numero che sale a 380.000 per la popolazione ebraica cosiddetta allargata, che tiene conto anche di familiari non ebrei. In questo contesto, Luzzatti fa notare che la «prima missione di qualsiasi governo israeliano è assicurare che, nel momento in cui ce ne sarà bisogno, potrà aiutare gli ebrei a compiere l’aliyah in qualsiasi posto al mondo». «Se gli ebrei devono scappare dall’Ucraina, il governo israeliano dovrà assicurare un corridoio umanitario o voli umanitari coordinati con la Russia per consentire loro di giungere in Israele», aggiunge.
- Anche gli Usa chiedono equilibrio a Israele Luzzatti fa notare inoltre che anche lo stesso segretario di Stato Usa, Antony Blinken, durante la sua visita in Israele del 27 marzo per partecipare al vertice nel Negev (a cui hanno preso parte i ministri degli Esteri di Emirati, Egitto e Marocco) ha affermato che per gli Stati Uniti Israele deve mantenere una postura che gli consenta di poter dialogare con entrambe le parti. «A livello di opinione pubblica ci sono voci che accusano il governo di non essere troppo attivo contro la Russia, in parte dalla sinistra, ma non a livello politico ma di opinionisti», osserva Luzzatti. Luzzatti sottolinea che un punto controverso è quello relativo alle sanzioni contro la Russia. Finora Israele ha implementato alcune delle sanzioni bancarie adottate dagli Stati Uniti e dai membri dell’Unione Europea contro le istituzioni finanziarie russe, ma il governo non ha adottato alcuna politica sanzionatoria ufficiale. Per il giornalista, una delle ragioni alla base di questa posizione è il timore di Israele per lo strumento delle sanzioni internazionali, legato in particolare al rischio ipotetico di essere in futuro esso stesso sottoposto a restrizioni economiche da parte della comunità internazionale in caso di una eventuale nuova crisi nella Striscia di Gaza.
- Gli oligarchi russi di origine ebraica Un ulteriore punto indicato da Luzzatti che ha attirato critiche nei confronti di Israele è quello degli oligarchi di origine ebraica. Il più famoso è sicuramente Roman Abramovich, ma sono diversi i magnati provenienti dai Paesi ex sovietici, non solo dalla Russia, di origine ebraica che hanno acquisito la cittadinanza o la residenza israeliana negli ultimi anni. Uno degli ultimi Mikhail Prokhorov, indicato come la 12esima persone più ricca della Russia, considerato un rivale di Putin e pertanto non sottoposto a sanzioni. Lo scorso 4 aprile, l’oligarca è giunto in Israele per compiere aliyah e ha ricevuto la cittadinanza. «Essi non sono solo russi, sono cittadini israeliani. Non è possibile non farli entrare in un Paese di cui hanno la cittadinanza», sottolinea Luzzatti.
- Un caso complesso da non semplificare Il caso israeliano risulta quindi molto complesso e non è possibile fare semplificazione. Come ribadisce Luzzatti, in Israele dagli anni Novanta sono giunti in Israele oltre un milione di immigrati provenienti da paesi dell’ex Unione sovietica, di cui l’80 per cento di origine russa. Questa particolare situazione di Israele vede anche dibattiti fra le varie posizioni. «Ognuno guarda questa guerra in un modo. Molti russi ebrei capiscono le ragioni di Putin meglio di noi, mentre altri sono fortemente contro questa azione violenta del governo russo», afferma. «Molti degli immigrati russi non sono pro-Putin, ma al contrario criticano Putin», sottolinea il giornalista.
Un esempio è quello di Leonid Nevzlin, uno dei proprietari del noto quotidiano israeliano Haaretz, oligarca russo nato a Mosca nel 1959, che ha compiuto l’aliyah nel 2003 ed è noto per la sua posizione contraria al presidente Putin. Altro esempio è l’emittente in lingua russa Channel 9, rivolta agli israeliani di lingua russa (vi sono almeno 1,3 milioni di russofoni nello Stato ebraico), bloccata in Russia dopo il disegno di legge firmato da Putin che criminalizza la diffusione intenzionale di ciò che Mosca considera rapporti “falsi”.
(Tempi, 11 aprile 2022)
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Israele, "contro attentatori siamo ora all'attacco"
"Israele farà tutto il necessario per aver ragione del terrorismo. Siamo passati all'attacco. Arriveremo ovunque sia necessario, ed in qualsiasi momento, per spezzare quelle attività terroristiche". Lo ha affermato oggi il premier Naftali Bennett.
Il primo ministro ha commentato le operazioni da lui ordinate all'esercito e ai servizi segreti in seguito a quattro attentati avvenuti in rapida successione nelle ultime due settimane in altrettante città di Israele, in cui 14 persone sono rimaste uccise.
Nelle stesse ore nella Cisgiordania settentrionale unità dell'esercito hanno avuto ordine di catturare ricercati e di sventare nuovi attentati. "Lo Shin Bet (sicurezza interna), l'esercito e la polizia operano senza tregua per riportare la sicurezza e per neutralizzare la ondata terroristica. Non hanno limitazione alcuna".
Bennett ha poi condannato i vandalismi palestinesi avvenuti la scorsa notte a Nablus (Cisgiordania) nella Tomba del patriarca biblico Giuseppe, figlio di Giacobbe. "Non possiamo tollerare che sia colpito un posto a noi sacro, tanto più alla vigilia della nostra Pasqua. Sapremo raggiungere gli assalitori".
Intanto una donna palestinese di circa 40 anni è stata colpita a morte oggi dal fuoco di militari israeliani in un posto di blocco all'ingresso del villaggio di Hussan, presso Betlemme. Lo ha riferito la agenzia di stampa Wafa, che cita il ministero della sanità palestinese. La donna era disarmata, è stato precisato.
Secondo il portavoce militare israeliano in precedenza la donna si era avvicinata ai soldati in modo minaccioso e aveva ignorato i loro spari di avvertimento in aria. ''Di conseguenza le hanno sparato alla parte inferiore del corpo'', ha detto il portavoce secondo cui è stata avviata un'indagine.
(TvSvizzera.it, 10 aprile 2022)
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Medio Oriente: nuova operazione delle forze israeliane a Jenin, arrestati otto palestinesi
Il ministero della Salute dell'Anp ha affermato che undici palestinesi sono rimasti feriti.
Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno condotto questa mattina una nuova operazione di sicurezza nei dintorni di Jenin, in Cisgiordania, da cui proveniva l’autore della sparatoria che tre giorni fa ha ucciso tre persone e ferito altre undici a Tel Aviv. Lo hanno reso noto le stesse Idf, secondo le quali durante l’operazione condotta dalle forze speciali, tra cui le unità del commando navale israeliano Shayetet 13, sono stati arrestati otto palestinesi sospettati di “attività terroristiche” e confiscate diverse armi a Yaabad, villaggio situato a ovest di Jenin. Il ministero della Salute dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha affermato che undici palestinesi sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane in tutta la Cisgiordania. Secondo l’agenzia di stampa palestinese “Wafa”, ieri un palestinese è morto e altri sono rimasti feriti durante uno scontro a fuoco in occasione di un’operazione delle Idf a Jenin.
Ra’ad Hazem, l’autore della sparatoria dello scorso 7 aprile a Tel Aviv e originario di Jenin, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco a Jaffa, quartiere a maggioranza araba a sud di Tel Aviv due giorni fa. L’aggressore “non aveva una chiara affiliazione a un’organizzazione (terroristica), nessun tipo di formazione nel settore della sicurezza e non era stato mai arrestato”, secondo quanto ha dichiarato il servizio di sicurezza interno di Israele, lo Shin Bet. Il Jihad islamico palestinese e Hamas hanno elogiato l’attacco, ma non ne hanno rivendicato la responsabilità. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, ha condannato l’attacco e ha sottolineato i pericoli di “continuare le ripetute incursioni nella moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, e le azioni provocatorie di gruppi di coloni estremisti”, ha riferito l’agenzia di stampa palestinese “Wafa”. Nelle ultime settimane, in concomitanza con l’inizio del Ramadan, si sono intensificati gli scontri in Cisgiordania e a Gerusalemme e in alcune città israeliane si sono verificati attacchi compiuti da palestinesi e arabo-israeliani. Nelle scorse settimane almeno 14 persone sono rimaste uccise in quattro attacchi terroristici, di cui uno rivendicato dallo Stato islamico, nelle città israeliane di Beersheba, Hadera, Bnei Brak e Tel Aviv.
(Nova News, 10 aprile 2022)
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In Ucraina si combattono tre guerre parallele
di Antonio Li Gobbi
La guerra in Ucraina vede oggi combatter ben tre conflitti, che coinvolgono diversi protagonisti che ricorrono a strumenti differenti e soprattutto con obiettivi tra loro ben distinti.
Conflitti che sembra non tutti riescano o vogliano vedere, avvolti come siamo nella nebbia della propaganda e della disinformazione, e soprattutto nella superficialità di stringere lo zoom della nostra visuale su ciò che più può attrarre l’interesse di un pubblico incline più alla tifoseria da stadio che all’approfondimento.
Vi è indubbiamente un conflitto sanguinoso e violento tra le armate russe e ucraine, un conflitto combattuto sia con armi letali sia con maestria nella gestione della comunicazione. In questo conflitto si sta esprimendo una crudeltà che, giustamente, ci stupisce e ci indigna. Una crudeltà, una barbarie, una violenza di cui pensavamo che l’essere umano non fosse più capace. O quanto meno che non ci aspettavamo di riscontrare oggi in Europa.
Difficile ritenere che la guerra possa terminare presto perché i russi non accetteranno di perdere e gli ucraini sono convinti (a torto o a ragione è da vedere) che se resistono prima o poi gli USA e la NATO entreranno in guerra al loro fianco, capovolgendo l’esito dello scontro militare. Ma questo, per utilizzare una terminologia militare, rappresenta solo il livello “tattico-operativo” di quanto sta avvenendo in relazione alla crisi ucraina.
Vi è poi un livello che definirei “strategico”. Ovvero la guerra in atto tra USA e Russia. Si tratta di una guerra combattuta sia sul terreno (in questo caso per gli USA si tratta di una guerra per procura che Washington combatte utilizzando i soldati ed i civili ucraini) sia con la gestione della comunicazione sia con armi economiche (le sanzioni).
In questa guerra gli USA si avvalgono anche della NATO e della UE, che si sono immediatamente e convintamente schierate al fianco di Kiev e di Washington.
È chiaro, peraltro, che gli obiettivi ai due lati dell’Atlantico siano fondamentalmente diversi. Per alcuni stati Europei (Italia, Francia, Germania, Spagna) l’obiettivo sembrerebbe essere di giungere a una rapida de-escalation del conflitto facendo in modo da evitarne l’allargamento ai paesi NATO.
Ovvero, auspicano il conseguimento in tempi brevi di una pace stabile. Inutile evidenziare che affinché la pace possa essere “stabile” nessuna delle due parti sul terreno (Ucraina e Russia) dovrebbe risultare “visibilmente” sconfitta.
Per Washington, invece, l’obiettivo è radicalmente diverso: si tratta di sfruttare il conflitto ucraino per decapitare le eccessive ambizioni di tornare ad essere una “grande potenza” manifestate dalla Russia putiniana, favorire un “regime change” a Mosca, rinsaldare e rinvigorire la NATO (che stava dando evidenti segni di stanchezza) anche al fine di utilizzarla in futuro in funzione anticinese.
A tali obiettivi, in una visione che potrebbe apparire cinica, possono aggiungersi quelli di azzoppare la locomotiva economica europea (di cui Washington non gradisce la competizione) e far accantonare qualsiasi ambizione di autonomia strategica UE che possa minare l’unicità della NATO.
Evidente che gli obiettivi USA non possano essere conseguiti senza prima una “tangibile” sconfitta russa. Ciò può richiedere l’escalation dei combattimenti e soprattutto tempo, cioè mesi o forse anni.
Facilitare una soluzione negoziale non appare certamente coerente con gli obiettivi di Washington che vuole la caduta di Putin e quindi una sua sconfitta sonante. Lo stesso ampio ricorso a sanzioni economiche (che finora in Venezuela, Iran e Corea del Nord non hanno mai portato alla caduta del regime) indica una prospettiva di molti anni di interruzione delle relazioni economiche con la Russia. Una lunga interruzione che gli USA si possono permettere, ma che per molti paesi europei potrebbe comportare non trascurabili sofferenze al sistema produttivo)
Peraltro, vi è anche un terzo conflitto che si combatte intorno alla crisi ucraina. Un conflitto ben più importante per il nostro futuro: quello che viene combattuto a livello geo-politico tra USA e Cina.
È chiaro che Washington voglia inviare un messaggio a Pechino in relazione a Taiwan, far sapere ai cinesi che come gli USA sono riusciti ad aggregare una vasta coalizione per contrastare le mire russe sull’Ucraina, così saranno in grado di fare per difendere l’indipendenza di Taiwan e che anche in quel caso le armi sarebbero soprattutto di natura economico-finanziaria, armi che il Dragone forse teme di più.
Indipendentemente dal destino di Taiwan, di cui all’elettore americano medio importa relativamente, prendendo spunto dall’attacco russo all’Ucraina gli Stati Uniti stanno tentando di obbligare il mondo a scegliere con chi schierarsi: con il “mondo democratico” o con l’aggressore Putin e indirettamente con Pechino che notoriamente ha legami abbastanza solidi con Mosca.
Alla riunione dei ministri degli esteri della NATO del 6 e 7 aprile erano invitati oltre a ministri dei paesi NATO, di Ucraina, Georgia, Svezia e Finlandia anche i ministri dei principali alleati degli USA nell’Indo –Pacifico (Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Sud Corea).
Nel comunicato stampa del Segretario Generale al termine della riunione, al pericolo cinese veniva attribuito quasi tanto spazio quanto a quello russo. Ulteriore indice della volontà più volte espressa da Washington di utilizzare la NATO quale suo strumento anche nel confronto con la Cina.
Una divisione del mondo in due blocchi che si contrapporrebbero forse più con armi economiche e sanzioni incrociate che con le armi. Si vedrà quali saranno a lungo termine gli effetti di una tale divisione, soprattutto per quei paesi, come molti europei, le cui economie sono maggiormente dipendenti dall’interscambio commerciale con paesi “non graditi” a Washington.
(Analisi Difesa, 10 aprile 2022)
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Il capo rabbino di Odessa: «La mia comunità soffre, ricordiamo gli orrori del passato»
Avraham Wolff spiega il paradosso che gli ebrei ucraini come lui stanno vivendo.
di Marta Serafini
Siamo con Avraham Wolff , capo rabbino di Odessa e di tutta la regione del su dell’Ucraina. Il rabbino è tornato un mese fa dopo aver evacuato decine e decine di bambini orfani, della sua comunità, prima verso la Romania, poi finalmente in Germania. Il rabbino è tornato qui per proteggere la sua comunità e lo stiamo incontrando in un giorno particolare. Avraham Wolff spiega il paradosso che gli ebrei ucraini come lui stanno vivendo: mio nonno fuggì dalla Germania per mettersi in salvo, io ora porto lì gli orfani per salvarli dalla guerra.
(Corriere TV, 10 aprile 2022)
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Stati Uniti. No degli ebrei americani all'estensione dell'ora legale
di Alberto Simoni
Il senatore repubblicano Marco Rubio è il principale sponsor della legge approvata il 15 marzo con la quale quasi all'unanimità il Senato ha deciso che gli Stati Uniti dal prossimo anno vivranno sempre con l'ora legale. Stop al rito di spostare due volte all'anno avanti e indietro le lancette. La legge ora dovrà approdare alla Camera prima di essere firmata da Biden. Per Rubio gli americani risparmieranno in energia, gli incidenti stradali saranno di meno e si potranno fare più attività all'aperto. Tanti pro e pochi contro, al massimo l'avvertimento di qualche medico sulla qualità del sonno. Non tutti, dicono, si abitueranno rapidamente. Il senatore della Florida non avrebbe mai immaginato che a mettere in piedi una campagna contro le lancette dell'orologio, sarebbe stata la comunità ebraica. Che dice che il Sunshine Protection Act - così si chiama la legge - renderà impossibile ai fedeli fare la preghiera comunitaria del mattino e arrivare in tempo sul luogo di lavoro e a scuola nei mesi invernali. Secondo la tradizione ebraica, la preghiera comunitaria del mattino inizia dopo l'alba e dura generalmente fra i 30 e i 40 minuti.
L'ora legale - che attualmente comincia negli Stati Uniti la seconda domenica di marzo e termina la prima di novembre - estende l'oscurità nelle giornate invernali e tardo autunnali. Il rabbino Abba Cohen che è il vicepresidente dell'Agudah Israel of America, ha detto che la legge «impatta sulla nostra vita religiosa, sulle nostre famiglie e sul nostro lavoro». La lamentela è diventata una puntualissima e dettagliata lista di controindicazioni dell'ora legale (Daylight Saving Time) che è stata recapitata alla Camera dove gli ebrei sperano diventi materia di discussione e di voto. Moltissime sinagoghe in tutta America si sono mobilitate facendo circolare petizioni e la macchina delle lobby si è attivata presso Capitol Hill. In un documento diffuso a fine marzo, la Agudath Israel ha evidenziato che in tempo di ora legale a Detroit il sole sorge dopo le 8 del mattino per 131 giorni e per 23 giorni dopo le 9. «Come faranno gli ebrei osservanti a pregare?», ha detto Cohen che ha lamentato anche di non essere stato avvisato - come invece accade per ogni legge che impattano su alcune abitudini - dai senatori che il tema dell'ora legale sarebbe stato discusso con procedura rapida. Ora la parola alla Camera. Il tempo stringe.
(Specchio, 10 aprile 2022)
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L’amore che viene da un cuore puro
di Marcello Cicchese
“Lo scopo di questo incarico è l'amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni hanno deviato da queste cose e si sono abbandonati a discorsi senza senso” (1 Timoteo 1:5-6).
Il tema dell’amore non passa mai di moda. Questioni come salvezza e perdizione, ravvedimento e perdono dei peccati, a molti oggi non interessano; ma in fatto di amore sembra che tutti siano interessati e competenti. Anzi, su questo piano molti sono convinti di avere parecchie cose da insegnare anche ai cristiani. L’incredulo può ammettere senza difficoltà di non essere proprio un campione in fatto di amore per il prossimo, ma spesso è convinto di sapere molto bene come i cristiani dovrebbero amare e, soprattutto, come dovrebbero amare lui. Facendo riferimento alle sue conoscenze del vangelo, può arrivare perfino a rivendicare una specie di diritto ad essere amato, che naturalmente non vede soddisfatto dai cristiani che gli stanno di fronte. Di conseguenza si sente autorizzato a non prendere in considerazione il messaggio di salvezza che gli viene presentato.
• LA RELIGIONE DELL’AMORE Esiste, oggi come nel passato, un’indefinita religione dell’amore che vorrebbe comprendere tutte le altre. In questa religione si dà per scontato di sapere che cosa significa amare il prossimo, e di ogni altro culto, fede, convinzione, filosofia si sottolinea soltanto quello che serve all’esercizio dell’amore fra gli uomini. Tutto il resto viene tollerato, ma non ha molta importanza, e in ogni caso non deve interferire con la concreta pratica dell’amore. E si deve stare attenti a non parlare troppo dell’amore di Dio per gli uomini, se non si vuole che arrivino risposte del tipo: “Ma allora, se esiste un Dio così buono e onnipotente, com’è che ci sono ancora tante sofferenze nel mondo?”. Nella religione dell’amore il Dio della Bibbia può essere messo sul banco degli imputati. Alcuni cristiani sono intimiditi da queste critiche e reagiscono dandosi molto da fare. Qualche volta sembra quasi che vogliano difendere la reputazione del loro Padre celeste aiutandolo a essere buono. Le obiezioni degli increduli smuovono la loro incredulità e la fanno venire a galla. “Dio è veramente buono?”, è la domanda che giace inespressa nel fondo del loro cuore. L’uomo naturale crede di potersi impossessare facilmente del tema dell’amore: lascia ad altri i discorsi sui cieli eterni e si dedica ad amare gli uomini su questa terra. Ma dalla Scrittura sappiamo che “Dio è amore” (1 Giovanni 4.8) e che “il cuore dei figli degli uomini è pieno di malvagità” (Ecclesiaste 9.3). Come può l’uomo sperare di riuscire ad amare il prossimo prescindendo dalla Parola di Dio e fondandosi sugli slanci del suo cuore, se è vero che “Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio” (Mr 10.18) e che “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Geremia 17.9)? Chi è interessato all’amore tra gli uomini e non alla salvezza eterna deve sapere che, come non esiste una salvezza per opere, non esiste neppure un amore per opere. L’uomo non può sperare di riuscire ad amare gli altri disinteressandosi di Dio, perché “i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio; l'uomo non sa neppure se amerà o se odierà; tutto è possibile” (Ecclesiaste 9.1). La religione dell’amore, come tutti i culti offerti a “dèi stranieri” (Deuteronomio 13.2), è idolatria. L’affermazione biblica “Dio è amore” viene invertita e diventa “L’Amore è dio”. E un dio che non è “il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe" (Matteo 12.26),“il Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (Romani 15.6), è un idolo. I sacerdoti della religione dell’amore, cioè coloro che si sentono chiamati ad amare il prossimo con la loro saggezza e le loro forze, e i fedeli della medesima religione, cioè coloro che reclamano il diritto ad essere amati, hanno bisogno, come tutti, della Parola di Dio che li invita a convertirsi “dagl'idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero” (1 Tessalonicesi 1.9).
• AMORE E VERITÀ Ma i rischi di riferimenti generici e strumentali all’amore non mancano neppure nella chiesa di Gesù Cristo. E’ difficile che false dottrine e cattivi costumi riescano ad entrare in una chiesa senza che ci sia qualche richiamo a forme superiori di amore. Se poi si guarda con attenzione, si riconosce sempre che l’amore di cui si parla è staccato dalla giustizia e dalla verità. E quindi non è amore. “L'amore non fa nessun male al prossimo” (Romani 13.10), quindi se voglio amare l’altro devo conoscere qual è il suo vero bene. Devo dunque cimentarmi con il problema della verità. E come potrò trovare la verità, anche per quello che riguarda il bene della persona che voglio amare, se non ricercando la sapienza che mi viene dall’Alto attraverso l’ascolto ubbidiente della Parola di Dio? A che serve fare riferimenti generici all’amore se non so spiegare e giustificare i concreti obiettivi di bene a cui l’amore mi spinge? Chi mi dirà come devo amare un amico che ha tendenze omosessuali, un figlio minorenne che si ribella, un coniuge che si vuole separare, un datore di lavoro che richiede prestazioni ingiuste? “L’amore sia senza ipocrisia” (Romani 12.9), dice l’apostolo Paolo, e aggiunge: “Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene”, perché tutto quello che dà spazio al male non può essere vero amore. Non esistono scorciatoie sentimentali per amare il prossimo in modo conforme alla volontà di Dio. Se non vogliamo cadere nella finzione di chiamare amore per l’altro quello che è soltanto un’egoistica forma di autocompiacimento e autodifesa, abbiamo bisogno di misurare continuamente i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri propositi con la Parola di Dio vivente e vera presente nella Scrittura e sostenuta dallo Spirito Santo. Altrimenti il nostro sarà amore finto. E l’amore finto non solo non fa bene, ma fa male al prossimo. Se il vicino di casa mi viene a chiedere, piangendo, di dargli una corda per impiccarsi, certamente il mio amore per lui non si esprimerà nell’accondiscendere gentilmente alla sua richiesta. Questo è chiaro. Ma in altri casi, è altrettanto chiaro che una falsa comprensione dell’amore può renderci strumenti di male e non di bene? Per capire se stiamo facendo bene o male dobbiamo basarci sulla verità di ciò che è giusto o sbagliato, non sulle nostre emozioni, e neppure sulle reazioni della persona che vogliamo amare. Il vero bene, nostro e degli altri, può essere compreso soltanto per grazia, mediante la fede. E per arrivare a questo è necessario vivere costantemente nel timore di Dio, perché
“Il timore del Signore è il principio della sapienza; hanno buon senso quanti lo praticano” (Salmi 111.10).
• GLI OBIETTIVI DELL’AMORE L’apostolo Paolo aveva incaricato Timoteo di mettere ordine nella chiesa di Efeso. Si trattava di svolgere azioni delicate, di carattere anche disciplinare, ma fin dall’inizio Paolo avverte:
“Lo scopo di questo incarico è l'amore” (1 Timoteo 1.5).
Di solito si pensa all’amore come a uno stato d’animo che accompagna l’azione. Se i sentimenti interni sono amorevoli, l’azione esterna è giusta, altrimenti no. Chi ha questa convinzione passa il tempo a misurare la temperatura interna del suo sentimento d’amore e di quello degli altri, e da queste misurazioni fa scaturire i suoi giudizi sulla giustizia delle azioni. Nel passo biblico citato vediamo invece che l’amore esercitato è uno scopo, cioè un fine, un obiettivo, non una premessa. Parlando ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo li loda per le “fatiche” del loro amore (1 Tessalonicesi 1.3), perché l’amore biblico è un esercizio che ha come fondamento la verità. L’apostolo Giovanni lo ripete più volte:
“L'anziano alla signora eletta e ai suoi figli che io amo nella verità (e non solo io ma anche tutti quelli che hanno conosciuto la verità)” (2 Giovanni 1.1). “L'anziano al carissimo Gaio, che io amo nella verità “ (3 Giovanni 1.1)
L’incarico che Paolo affida a Timoteo ha dunque un obiettivo d’amore che per essere raggiunto ha bisogno di alcune premesse collegate alla verità, cioè a un rapporto veritiero, onesto e sincero con la Parola di Dio:
“Lo scopo di questo incarico è l'amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1 Timoteo 1.5).
• UN CUORE PURO Per amare il prossimo all’interno del piano d’amore di Dio il cuore dell’uomo deve essere puro, la sua coscienza deve essere buona, la sua fede deve essere sincera. Si tratta di condizioni di autenticità spirituale che sono possibili soltanto se la persona vive in un corretto rapporto con la verità. E per verità s’intende non un astratto ideale teorico, ma la persona, le parole e l’opera del Signore Gesù Cristo.
“Avendo dunque, fratelli, libertà di entrare nel luogo santissimo per mezzo del sangue di Gesù, per quella via nuova e vivente che egli ha inaugurata per noi attraverso la cortina, vale a dire la sua carne, e avendo noi un grande sacerdote sopra la casa di Dio, avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell'aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse. Facciamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci all'amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno” (Ebrei 10.19-24).
Soltanto dall’interno del “luogo santissimo” è possibile esercitare l’amore e compiere quelle buone opere “che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo” (Efesini 2.10). Ma al luogo santissimo si può accedere e in esso si può dimorare soltanto se si ha “piena certezza di fede” nel Signore Gesù, che morendo sulla croce ha aperto una “via nuova e vivente” e con il Suo sangue può perfettamente purificare il cuore e la coscienza di coloro che si avvicinano a Lui. Questo significa che anche gli affetti naturali più stretti devono essere mantenuti sotto il controllo della Parola di Dio, perché il cuore dell’uomo oltre ad essere malvagio è anche ingannevole. Non spinge solo a fare cose manifestamente cattive, ma anche cose falsamente buone:
“Dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni” (Matteo 15.19);
“Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Greremia17.9).
Non dobbiamo quindi mai fidarci del nostro cuore, anche quando sembra spingerci a nobili e altruistiche azioni, perché
“Chi confida nel proprio cuore è uno stolto, ma chi cammina da saggio scamperà” (Proverbi 28.26).
Gli sfaceli che si possono compiere a voler seguire gli ingannevoli impulsi d’apparente amore di un cuore maligno sono tra i più disastrosi. L’amore di sé travestito da amore per l’altro ha una forza distruttiva impressionante.
• UNA BUONA COSCIENZA E tuttavia l’inganno potrebbe essere scoperto. Il cuore impuro cerca di far credere alla persona di stare perseguendo un obiettivo d’amore, ma le vie che suggerisce per raggiungere quest’obiettivo hanno inevitabilmente qualcosa che ferisce la giustizia e la verità. Si deve dire qualche bugia, si deve fare un po’ di maldicenza, si deve accendere qualche inimicizia, si deve fare qualche torto, si deve coltivare qualche rancore. Tutto questo non può che portare ad avere una cattiva coscienza. Si capisce allora perché, per esercitare il vero amore, occorre avere anche una buona coscienza. Per ottenerla il Signore non si aspetta che la condotta sia sempre irreprensibile, ma chiede che il cuore sia asperso di quell'aspersione che lo purifica da una cattiva coscienza . Chiede cioè che si permetta alla luce della Sua Parola di penetrare nell’intimo della persona per compiere la sua opera di illuminazione, giudizio e purificazione.
“La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l'anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4.12).
Non sugli ingannevoli sentimenti e pensieri del cuore deve dunque basarsi l’esercizio dell’amore, ma sulla Parola di Dio che giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.
• UNA FEDE SINCERA Ma per agire nella vita concreta la Parola di Dio deve essere creduta. E’ quindi indispensabile avere una fede sincera. L’aggettivo “sincera” traduce un termine che letteralmente significa “non ipocrita” (anupokritov). Continua dunque ad essere sottolineato il rapporto indissolubile tra amore e verità: è possibile amare gli altri soltanto se si ha una fede vera nella Parola di Dio rivelata nella Scrittura. Ma abbiamo questa fede? Crediamo veramente che la Scrittura sia non solo “ispirata da Dio”, ma anche “utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia” (2 Timoteo 3.16)? La nostra fede nel Dio che parla è vera o simulata? Prendiamo, ad esempio, una forma d’amore molto naturale come quella per i figli. Ciascuno di noi è convinto di amare i suoi figli e cerca di farlo nel migliore dei modi. Ma da chi riceviamo le istruzioni? Dalla Scrittura o dai pedagoghi più o meno qualificati che troviamo in giro? Intorno a noi si parla soprattutto di spontaneità, creatività, sviluppo armonico del bambino. La Bibbia invece usa termini del tutto diversi, come riprensione, verga, correzione. A chi crediamo? La Scrittura insegna che se vogliamo amare i nostri figli dobbiamo imparare dal nostro Padre celeste. E in che modo il Signore ama i suoi figli?
“il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli” (Ebrei 12.6).
Il pericolo maggiore per la pianta che cresce sta dentro: per questo è necessaria la correzione. E questa deve avvenire anche attraverso la verga, cioè la punizione corporale.
“Non risparmiare la correzione al bambino; se lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno dei morti” (Proverbi 23.13-14).
A questo punto sono prevedibili le obiezioni collegate al tema dell’amore. Com’è possibile amare usando la violenza fisica? Le maniere forti non esprimono forse odio, invece che amore? La Bibbia dice esattamente il contrario:
“Chi risparmia la verga odia suo figlio, ma chi lo ama, lo corregge per tempo” (Proverbi 13:24).
Sono parole che ci mettono in guardia da una delle tentazioni più insidiose, la tentazione diabolica per eccellenza: voler essere più buoni di Dio. Non cerchiamo forse di “aiutare Dio a essere buono” quando sorvoliamo pudicamente su certe espressioni bibliche un po’ ruvide e con benevolenza ne mitighiamo le applicazioni o addirittura le sostituiamo con altre più sopportabili dalle orecchie moderne? I riferimenti alla verga non sono parole isolate, quasi fossero sfuggite di bocca in un momento di rabbia: si tratta proprio di un insegnamento ripetuto e variamente giustificato:
“La follia è legata al cuore del bambino, ma la verga della correzione l'allontanerà da lui” (Proverbi 22:15); “La verga e la riprensione danno saggezza; ma il ragazzo lasciato a sé stesso, fa vergogna a sua madre” (Proverbi 29:15); “Correggi tuo figlio; egli ti darà conforto, e procurerà gioia al tuo cuore” (Proverbi 29:17); “È vero che qualunque correzione sul momento non sembra recar gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa” (Ebrei 12.11).
Di nuovo, a chi crediamo quando da diverse parti ci arrivano parole contrastanti che vogliono istruirci su come si deve amare il prossimo? La nostra fede sincera è nel Dio che parla attraverso la Scrittura o in qualcun altro? Forse non si riflette abbastanza sulla gravità di certe posizioni che talvolta sono assunte in modo inespresso e forse inconsapevole. Se dico di non voler dare punizioni corporali a mio figlio perché penso in questo modo di fare il suo bene, mentre al contrario Dio dice che chi risparmia la verga odia suo figlio e quindi gli fa del male, la mia scelta significa “chiamare bene il male, e male il bene”. Ma Dio avverte:
“Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro!” (Isaia 5:20).
E quando il Signore dice “Guai!”, sono guai seri.
• DISCORSI SENZA SENSO Il riferimento all’educazione dei figli è soltanto un esempio. Purtroppo se ne potrebbero portare parecchi altri. La situazione sociale e il clima culturale del nostro tempo facilitano i generici richiami all’amore, dietro ai quali si nascondono spesso atteggiamenti idolatrici che spingono ad “allontanarsi dal Dio vivente” (Ebrei 3.12). La seduzione è sottile e non sembra che tutti se ne accorgano. Parole dirette e chiare della Bibbia vengono tranquillamente ignorate e sostituite con espressioni tecniche psicologizzanti che danno l’impressione di dischiudere comprensioni più profonde della realtà, mentre di fatto allontanano dalla semplice verità dell’insegnamento biblico.
“Temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo” (2 Corinzi 11:3).
Quali che siano i propositi d’amore che si perseguono, la deviazione dalla verità di Cristo porta inevitabilmente a non avere un cuore puro, una buona coscienza e una fede sincera; e di conseguenza si cade in “discorsi senza senso” (1 Timoteo 1.6), seguiti quasi sempre da azioni senza giudizio. E’ necessario quindi, anche e proprio quando si parla di amore per il prossimo, restare rigorosamente attaccati alla Scrittura, senza farsi intimidire da dotte disquisizioni intellettuali o intenerire da commoventi sfoghi sentimentali. La posta in gioco è alta, perché amore e odio sono realtà collegate alla vita e alla morte. E quindi non è lecito sbagliare.
“O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi” (1 Timoteo 6.20-21).
(Notizie su Israele)
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Israele sotto attacco
Un altro attentato, c'è paura di una nuova Intifada. E il governo è instabile
Ci sono degli elementi di novità rispetto al passato nella serie di attacchi terroristici lanciati in Israele che hanno ucciso 13 persone in poco più di due settimane. Intanto si tratta di cinque episodi che non hanno legami l'uno con l'altro. Secondo le forze di sicurezza, i responsabili agiscono per emulazione - con un sistema cosiddetto copycat - dopo avere visto in rete il video di un attentato precedente. Gli assalitori sono lupi solitari, cioè non appartengono a una organizzazione terroristica strutturata e gerarchizzata ma ne traggono ispirazione. Un po' quello che è successo con la cosiddetta intifada dei coltelli del 2015 e 2016, quando ragazzi e ragazze si lanciarono in decine di attentati isolati in Israele.
Si tratta di un fenomeno difficile da prevenire. Basti guardare al caso più recente, quello di giovedì sera a Tel Aviv quando un 28enne della Cisgiordania, prima di essere neutralizzato, ha ucciso con una pistola due persone e ne ha ferite altre 10 in una delle vie più importanti della città, piena di negozi e locali. Nonostante gli israeliani avessero schierato migliaia di uomini in più negli ultimi giorni, l'attentatore è riuscito a superare la linea verde armato. Hamas ha celebrato l'attentatore di giovedì, ma non ha rivendicato l'attacco.
Abu Mazen, leader di Fatah, ha condannato il gesto ma dopo poco il ramo del partito a Jenin, città d'origine dell'attentatore, ha definito il suo sacrificio "eroico", segno che nel partito il controllo dei vertici sulla base non è saldo. Anche questo è un problema per Israele, perché non si sa se questa catena di attentati possa sfociare in una nuova Intifada.
Per ora il premier israeliano, Naftali Bennett, non intende limitare le celebrazioni del Ramadan per non aumentare la tensione, ma il suo governo ha perso la maggioranza parlamentare aprendo una crisi politica che potrebbe condurre alla quinta elezione in quasi tre anni. Finora l'instabilità politica di Israele non ha causato falle nella sicurezza nazionale, ma questa è una situazione nuova, e il premier e il suo esecutivo devono fare una scelta che potrebbe essere vitale: governare o cadere sul pane lievitato.
Il Foglio, 9 aprile 2022)
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Israele: crisi del Knesset
Bennett perde pezzi di maggioranza
di Federica Scippa
In Israele una serie di turbolenze politiche scuotono la maggioranza in seno al Knesset. Il governo di Naftali Bennett, in carica dal giugno 2021, dopo aver soppiantato dodici anni di presidenza Netanyahu, rivela di non portare il reale stigma di un cambiamento sostanziale nella rappresentanza politica israeliana.
Quella di Bennett si presenta sin dal principio come una maggioranza instabile, caratterizzata da un alto grado di eterogeneità, che ci si aspettava l’avrebbe esposta a mosse da voltabandiera. È la deputata Idit Silman, esponente del partito di destra Yamina, a passare all’opposizione per divergenze irrisolvibili col resto della maggioranza, scaturite da una vicenda che riguarda il cibo che si può consumare negli ospedali pubblici durante il periodo pasquale, mettendo a rischio la longevità del governo Bennett. Seppur possa risultare plausibile, in considerazione del background della deputata, la sua indisposizione a cedere sul rispetto del divieto del consumo di cibi lievitati (chametz), come indicato nella Torah, durante il periodo pasquale, la sua decisione e la tempistica con cui la Silman si accinge a fare inversione di rotta fa pensare che sia in realtà parte di una manovra più estesa, auspicata da Netanyahu. L’ex presidente ha infatti accolto benevolmente l’annuncio di Silman, affermando in un video su Facebook: “Idit , questa è la prova che il principio che ti ispira è il timore per l’identità ebraica di Israele, la preoccupazione per la terra di Israele, ti do di nuovo il benvenuto nel campo patriottico”.
Ricordiamo che la Silman si è distinta in passato per il suo attivismo nei partiti della destra religiosa e nazionalista israeliana. Alle elezioni del 2021 era stata eletta con Yamina, lo stesso partito di Bennett, e alla nascita del nuovo governo aveva ottenuto due posti di prestigio: capogruppo della commissione Salute e whip della coalizione, cioè incaricata di radunare tutti i 61 voti necessari per approvare le proposte del governo. La crisi di governo non si presenta quindi come un fulmine a ciel sereno: era solo questione di tempo. Al contempo, non ci sono i numeri per formare una coalizione alternativa, sebbene nelle ultime ore si parli molto della possibilità che l’attuale ministro della Difesa, Benny Gantz, possa provare a mettere insieme una maggioranza diversa da quella attuale. Al momento l’ipotesi più plausibile è che entro qualche settimana la coalizione di governo perda altri pezzi in Parlamento e l’opposizione riesca a reperire i 61 voti che servono per indire nuove elezioni.
(International Web Post, 9 aprile 2022)
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Perché in Israele ci sono tanti attentati ultimamente?
Tredici morti e decine e di feriti in poco più di una settimana: mentre inizia il Ramadan e si avvicina la Pasqua ebraica, la scia di violenze potrebbe portare a nuove elezioni e al ritorno al potere di Netanyahu
di Enrico Franceschini
Quattro attentati, tredici morti e decine e di feriti in poco più di una settimana. L’offensiva terroristica che ha colpito Israele è stata rivendicata per lo più da “simpatizzanti” dell’Isis ma ha ricevuto sostegno anche da Hamas, il partito islamico che governa la striscia palestinese autonoma di Gaza. Mentre inizia il Ramadan e si avvicina la Pasqua ebraica, l’ondata di violenza coincide con una crisi politica che potrebbe portare a nuove elezioni e al ritorno al potere di Benjamin Netanyahu. Ecco cosa sta succedendo in Israele e quali ripercussioni potrebbe avere nella regione e negli equilibri internazionali.
- Partiamo dalla fine: cosa è accaduto ieri a Tel Aviv? Giovedì sera, all’inizio del weekend in Israele (dove la domenica è un giorno feriale), un uomo ha aperto il fuoco in un affollato pub sulla via Dizingoff, l’arteria centrale della città, piena di ristoranti, caffè e locali notturni, uccidendo due persone e ferendone almeno altre otto, alcune delle quali ricoverate in ospedale in gravi condizioni. Sembra che il terrorista abbia agito da solo e che fuggendo abbia sparato anche verso altri locali. La caccia per prenderlo si è conclusa venerdì mattina, quando polizia e agenti dello Shin Beth, il servizio di sicurezza interno israeliano, lo hanno trovato vicino a una moschea a Jaffa, il sobborgo meridionale di Tel Aviv dove vive una comunità arabo-israeliana: il fuggitivo è rimasto ucciso in uno scambio di colpi.
- Si sa chi fosse? Per ora le autorità hanno reso noto che è un palestinese di 28 anni, residente a Jenin, una delle città nei territori autonomi della Cisgiordania sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, e che era entrato in Israele illegalmente, senza un regolare permesso.
- L’attentato è stato rivendicato da qualcuno? No. Ma Hamas, il movimento fondamentalista islamico da anni al potere a Gaza e con seguaci anche in Cisgiordania, ha espresso sostegno all’azione con queste parole attraverso un suo portavoce: “Il movimento di resistenza islamico Hamas benedice l’eroica operazione avvenuta nel cuore della cosiddetta Tel Aviv che ha colpito il sistema di sicurezza sionista e ha dimostrato la capacità del nostro popolo di fare del male all’occupazione”.
- Quali altri attacchi terroristici ci sono stati nei giorni precedenti? La settimana scorsa cinque israeliani sono stati uccisi da un attentatore palestinese che ha aperto il fuoco da bordo di una motocicletta a Bnei Brak, un sobborgo di Tel Aviv. Quarantottore ore prima due arabo-israeliani affiliati all’Isis avevano ucciso due israeliani diciannovenni che prestavano servizio nella polizia di frontiera nella città di Hadera, nel distretto di Haifa, 45 chilometri a nord di Tel Aviv, nelle vicinanze del confine con i territori palestinesi. Qualche giorno prima un beduino, appartenente a una delle minoranze non ebraiche di Israele, aveva fatto quattro vittime a Beer Sheva, una città nel sud del Paese: anche lui era un militante dell’Isis.
- Tutto questo significa che il sedicente Stato islamico, sconfitto in Siria e in Iraq, rialza la testa nei territori palestinesi per attaccare Israele Per il momento sembra di no. Soltanto un pugno di palestinesi e arabo-israeliani sono stati identificati come seguaci dell’Isis e arrestati dal 2014, quando questo gruppo terroristico islamico è apparso in Medio Oriente. Mentre centinaia o migliaia di arabi da altre nazioni della regione si sono arruolati nell’Isis per combattere nella guerra civile in Siria, soltanto poche decine di arabo-israeliani o palestinesi lo hanno fatto. A 19 cittadini israeliani di origine araba identificati nelle file dell’Isis in Siria è stata revocata la cittadinanza israeliana. Alcuni hanno successivamente chiesto di tornare in Israele.
- Chi sono allora i palestinesi o gli arabo-israeliani che hanno rivendicato per l’Isis gli attentati della settimana passata? Probabilmente lupi solitari, giovani che si sono radicalizzati, identificandosi con l’Isis e traendo da esso ispirazione senza appartenere a un gruppo organizzato, anche se bisognerà aspettare che si completino le indagini sull’attentatore di Jenin per capirne di più: i servizi di sicurezza israeliani avrebbero certamente preferito prenderlo vivo per poterlo interrogare, ma raramente questo è possibile perché attacchi del genere tendono ad avere una missione suicida, sebbene il palestinese di Jenin che si è messo a sparare sulla via Dizingoff abbia tentato di fuggire e dunque di conservare la vita.
- Il fatto che ci siano stati quattro attentati uno dopo l’altro con una dinamica simile in diverse parti di Israele non suggerisce la presenza di un gruppo organizzato? Non necessariamente. L’esperienza del passato insegna che questi attacchi, anche in altri paesi, avvengono a ondate per il cosiddetto fenomeno del “copy-cat”, dell’imitazione di un gesto precedente. Ma anche se le indagini riveleranno che non c’erano contatti fra i vari attentatori, ciò non vuol dire che il fenomeno sia meno pericoloso: anche la prima Intifada palestinese, quella dei giovani che tiravano pietre, e in minor misura la seconda, quella dei kamikaze che si facevano saltare in aria nei bus e davanti alle discoteche, erano inizialmente nate come fenomeni spontanei, dunque in certo senso per imitazione o per contagio, finendo per rappresentare una tale minaccia per la sicurezza di Israele da portare ai negoziati di pace, dopo la prima Intifada, e alla rottura dei negoziati, dopo la seconda.
- Perché Hamas ha “benedetto” l’attentato di Tel Aviv, pur senza rivendicarlo come proprio? Anche qui bisogna vedere cosa produrranno le indagini: non si può escludere che Hamas sia coinvolta nell’attacco. Ma dare la sua approvazione all’attentato è un modo per metterci sopra il cappello, per cercare consenso tra i palestinesi che lo approvano. Fra i gruppi radicali islamici considerati come organizzazioni terroristiche da Stati Uniti e Unione Europea, come sono Hamas, la Jihad islamica, al Qaeda e l’Isis, c’è concorrenza e aspra rivalità, con accuse reciproche di non essere abbastanza radicali o talvolta di esserlo troppo. Hamas vide con preoccupazione la campagna di proselitismo di al Qaeda nei territori palestinesi. Sicuramente terrà gli occhi aperti per mantenere la leadership dell’opposizione a Israele, perlomeno nella striscia di Gaza, anche davanti all’offensiva dell’Isis, che sia o meno il prodotto di lupi solitari.
- E come ha reagito l’Autorità Palestinese che governa la Cisgiordania? Il suo presidente Mahmud Abbas, noto anche come Abu Mazen, ha emesso una non troppo aspra condanna degli attentati dei giorni scorsi. Attacchi che lo imbarazzano, nel momento in cui è ripreso un dialogo con il governo israeliano guidato dal premier Naftali Bennett, dopo un decennio di stasi durante il governo di Benjamin Netanyahu, anche se non si tratta di una ripresa dei negoziati di pace.
- Quale è la preoccupazione principale di Israele di fronte a questi attacchi? Che facciano salire la tensione nei territori palestinesi, proprio quando il governo di Gerusalemme ha intrapreso misure per cercare di mantenere la calma. Il momento in cui sono iniziati gli attacchi, il mese di digiuno del calendario islamico chiamato Ramadan, è lo stesso in cui lo scorso anno infuriò per due settimane la guerra a Gaza, cominciata con una rivolta a Gerusalemme Est contro la decisione della Corte Suprema israeliana di sgomberare alcuni residenti palestinesi, a cui fecero seguito attacchi con razzi da Gaza verso varie città israeliane, a cui risposero bombardamenti israeliani sulla striscia. In tredici giorni ci furono 15 morti e oltre 500 feriti tra gli israeliani, 248 morti e 1900 feriti tra i palestinesi. Per evitare il ripetersi di simili violenze, Israele aveva recentemente incrementato le misure di sicurezza ma anche intrapreso iniziative distensive, come la concessione di 20 mila permessi a palestinesi di Gaza per lavorare nello Stato ebraico.
- Che conseguenze politiche può avere la nuova ondata di violenza sulla questione israelo-palestinese? Rischia di congelare il dialogo tra il governo israeliano e l’Autorità Palestinese, un dialogo che per ora mira soltanto a migliorare le condizioni economiche dei palestinesi e in questo modo a garantire la sicurezza di Israele, ma che rappresenta comunque una svolta rispetto al periodo del governo Netanyahu.
- Può avere conseguenze anche sulla politica israeliana? Sì. L’attuale variegata coalizione di governo, che comprende partiti religiosi, di destra, di sinistra e per la prima volta nella storia di Israele anche un partito arabo, ha una maggioranza di appena un seggio, 61 a 59, alla Knesset, il parlamento dello Stato ebraico. O meglio, ce l’aveva: nei giorni scorsi un deputato ha lasciato la maggioranza per protesta per un provvedimento collegato alle norme della Pasqua ebraica. Per ora il governo naviga a vista, senza maggioranza, 60 a 60. Ma l’opposizione, guidata da Netanyahu, il cui partito ha comunque la maggioranza relativa, sta già facendo campagna per altre defezioni, mettere il governo in minoranza e provocare nuove elezioni: la sensazione che la sicurezza di Israele sia in pericolo è reale, perché da anni non avvenivano così tanti attentati, e sarebbe un elemento a favore di Netanyahu per tentare di riconquistare il potere. Tra l’altro proprio la presenza di un partito arabo nel governo potrebbe essere una delle molle che hanno ispirato gli attentatori: radicali evidentemente contrari all’idea che un partito che rappresenta gli arabi di Israele sia entrato a fare parte del governo con i partiti ebraici. Come sempre tanti tasselli agiscono nel puzzle della politica israeliana.
- E ci saranno conseguenze anche su scala internazionale? Una è che Israele, distratta dalla minaccia degli attentati, potrebbe essere meno impegnata nella mediazione avviata dal suo premier Bennett tra Russia e Ucraina per mettere fine alla guerra. Ma è anche possibile il contrario, che Bennett, per salvarsi politicamente in patria, moltiplichi gli sforzi per una mediazione che, se avesse successo, potrebbe riabilitarlo in vista di eventuali elezioni.
(la Repubblica, 8 aprile 2022)
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La rivincita di Netanyahu manda in crisi Israele
Israele rischia di nuovo le elezioni. Il futuro di Bennett è appeso ad un filo Netanyahu è di nuovo il possibile protagonista del futuro del Paese.
di Enrico Catassi e Alfredo De Girolamo
La sera del 17 novembre del 2003 Roma è teatro di una delle più impensabili operazioni diplomatiche del Medioriente contemporaneo. Nelle stanze dell’Hilton Cavalieri viene partorito il piano di disimpegno unilaterale israeliano (Hitnatkut). Fuori tutti da Gaza, settlers e soldati, con i secondi molto più felici dell’idea rispetto ai primi. Artefice, l’allora premier e leader del Likud Ariel Sharon. Il progetto viene esposto a Elliott Abrams, funzionario della Casa Bianca nell’amministrazione Bush jr. In quella circostanza, quasi sicuramente, Sharon aveva già maturato la strategia di manovra nella Knesset, con l’obiettivo di posizionarsi al centro. Tattica che si tramuterà successivamente nella decisione, anche in questo caso dirompente, di uscire dal Likud (dove era esposto agli attacchi della fronda interna guidata dal solito Netanyahu) e creare un suo movimento, Kadima. Partito che risucchierà voti, e volti, dalla destra del Likud e in parte dai laburisti.
La linea di Ariel “Arik” Sharon è vincente, la sua creatura ottiene 29 seggi nelle elezioni del 28 marzo 2006. Mentre, Arik però si trova in ospedale a Gerusalemme in coma vegetativo, a prendere il timone di Kadima e dell’esecutivo era intanto giunto Ehud Olmert. Che formerà una coalizione comprendente i laburisti di Avoda, gli ortodossi sefarditi di Shas e il partito dei pensionati Rafi Eitan. In seguito si aggiungerà l’appoggio di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu. Da quello schema di gioco è escluso Bibi Netanyahu, che sceglie di trincerarsi nei banchi dell’opposizione. In attesa di preparare il grande ritorno sulla scena. Avvenuto con arte, ma non con stile, il 31 marzo 2009, data della nascita del Netanyahu bis e inizio del suo lungo regno, che si concluderà ufficialmente il 13 giugno 2021 con il giuramento del governo Bennett-Lapid. Vaso fragile, per due ragioni: numericamente troppo esiguo (nato con un solo seggio di maggioranza alla Knesset) ed ideologicamente eterogeneo (sinistra, arabi, russi, destra nazionale e religiosa e liberali). A saldare anime così distanti politicamente ed incompatibili per natura è solo l’anti-Bibismo. Il collante tiene per quasi 10 mesi. Durante i quali, tra pandemia e guerra in Ucraina, la giovane coppia riesce persino ad incasellare l’approvazione del bilancio. Evitato questo scoglio tutto pare in discesa. E così il duo Bennett-Lapid può dedicarsi con una certa tranquillità a spaziare nella sfera diplomatica, sviluppando piene relazioni con i partner arabi che hanno aderito all’Accordo di Abramo sino a proporsi come mediatore nel conflitto ucraino.
Il clima del Medioriente improvvisamente si infiamma, il terrorismo torna nelle strade, la paura aumenta, le tensioni con i palestinesi salgono e l’allarme resta alto. Fatalmente Naftali Bennett si distrae troppo dalla stretta marcatura a Netanyahu. Credendolo forse concentrato nelle vicissitudini giudiziarie che lo riguardano e senza prendere sul serio gli avvisi di pericolo che gli vengono recapitati, commettendo l’errore di lasciare al falco della destra israeliana movimento per erodere pezzi alla risicata maggioranza. L’azione di Netanyahu è martellante da tempo, l’ex premier ci prova prima con Benny Gantz (già rimasto bruciato dalle promesse di Bibi, e quindi molto cauto), alla fine qualche ammiccamento c’è, tuttavia, il “complotto” non si finalizza. Comunque, sono in molti a pensare che il leader di Kahol Lavan può essere il punto debole su cui Netanyahu tenterà di sfondare. La coltellata a Bennett arriva il 6 aprile 2022 alla vigilia della pausa del parlamento, inflitta da chi gli è vicino, la parlamentare di Yamina Idit Silman, che con la sua defezioni produce un terremoto politico. Non è ancora chiaro se la Silman abbia rotto per motivi “religiosi” (non sarebbe stata la prima volta in Israele), dovuti ai dissidi con il ministro della Salute, da cui avrebbe voluto la rassicurazione che durante la Pesach fosse impedito negli ospedali di mangiare cibo chametz.
Un’altra ragione alla base della frattura con Bennett potrebbe essere il calcolo politico, il marito della Silman avrebbe chiesto ed ottenuto per la moglie delle sicurezze dal Likud. Oppure, molto semplicemente la decisione è stata motivata dal fatto che non avrebbe retto alla tensione della campagna di critiche di cui era oggetto. Comunque sia andata, è Netanyahu ad averne tratto vantaggio. Raggiungendo nella Knesset la parità tra maggioranza ed opposizione, 60 a 60. “La risposta immediata è che il governo può, almeno per ora, sopravvivere senza una maggioranza, purché non ci siano ulteriori disertori”. Scrive Anshel Pfeffer su Haaretz. Teoricamente anche se zoppicante il governo può andare avanti sino a Marzo 2023, quando ci sarà da votare la legge finanziaria. Se invece la Knesset dovesse optare per lo scioglimento si andrebbe al voto anticipato. E Yair Lapid – secondo le clausole del patto di governo – diventerebbe primo ministro ad interim per il periodo di transizione.
Tra i vari incastri possibili c’è persino l’opzione del ritorno di Netanyahu o la formazione di una nuova compagine governativa. Yamina è sempre andata stretta alle ambizioni di Bennett, alla quale non ha mai dedicato troppa attenzione. Con il rischio, appunto, di vedersela sgretolare tra le mani. La lezione di Sharon per battere Netanyahu è che devi anticipare le sue mosse, anche a costo di cambiare la macchina in corsa. Il futuro di Bennett è oggi appeso ad un filo. Per resistere all’assedio lanciato a Balfour street (residenza ancora in ristrutturazione dopo il trasloco della famiglia Netanyahu) deve fare affidamento sulla tenuta degli alleati. Ma per rompere l’accerchiamento non ha scelta che portare la guerra dentro il Likud, in profondità come avrebbe fatto Sharon.
(EURACTIV Italia, 8 aprile 2022)
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Attentato a Tel Aviv: due morti e 10 feriti, alcuni gravi
Ucciso l'assalitore, secondo fonti dei media un cittadino palestinese del nord della Cisgiordania. La polizia aveva una sua foto scattata dalle telecamere di sicurezza: maglietta e pantaloni neri, zaino blu.
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Si è conclusa con la morte dell'attentatore la caccia al responsabile dell'agguato della scorsa notte a Tel Aviv, che ha causato la morte di due persone e il ferimento di altre 10. Luogo dell'attacco, Dizengoff Street, strada piena di bar e ristoranti, solitamente affollata il giovedì sera. Secondo Amichai Eshed, comandante della polizia di Tel Aviv, l'attentatore ha aperto il fuoco all'interno di un bar affollato intorno alle 9 di sera per poi fuggire rapidamente. Due delle persone rimaste ferite sono morte in ospedale. Lo hanno riferito fonti dell'Ichilov Medical Center, dove si trovano gli altri 10 feriti, su alcuni di essi i medici si stanno prodigando per salvar loro la vita. L'autore dell'attentato è stato alla fine localizzato e ucciso: lo ha riferito la radio militare israeliana secondo cui si trovava nel centro di Jaffa (Tel Aviv), nelle vicinanze di una moschea. Si tratta di un palestinese, ha precisato la radio. Ha aperto il fuoco sugli inseguitori ed è stato colpito a sua volta, secondo una versione preliminare dell'accaduto.
• LA CACCIA ALL'UOMO DURATA TUTTA LA NOTTE La polizia aveva avviato nell'intera zona una caccia all'uomo, edificio per edificio, appartamento per appartamento, per catturare il responsabile dell'attentato. Il portavoce della polizia, Eli Levi, all'inizio ha parlato di due terroristi ma notizie successive hanno indicato la presenza di un solo attentatore. La polizia - secondo i media - aveva una sua foto, raccolta dalle telecamere di sicurezza: maglietta e pantaloni neri, zaino blu. L'emittente Channel 13 aveva riportato che l'attentatore sarebbe stato un cittadino palestinese del nord della Cisgiordania. Le autorità avevano invitato la popolazione della zona a restare chiusa in casa vista la situazione in atto, anche per non intralciare sia la ricerca delle forze di sicurezza sia i soccorsi. Truppe dell'esercito - comprese unità di élite - hanno affiancato gli agenti nella caccia all'uomo. Le immagini dell'attentato, rimbalzate sui social - il giovedì sera in Israele è il giorno della settimana più festaiolo - mostrano un clima di terrore al momento degli spari, con la gente impaurita che scappa all'impazzata nelle strade adiacenti. In particolare, in uno dei bar colpiti, gli avventori seduti ai tavoli fuori si scaraventano all'interno per sfuggire ai colpi.
• FINORA NESSUNA RIVENDICAZIONE L'attentato per ora non è stato oggetto di rivendicazioni. Anche se in un comunicato ufficiale Hamas ha definito eroico l'attentato di Tel Aviv: "Ci opponiamo ai tentativi di imporre un carattere ebraico a Gerusalemme, e all'ingresso di 'coloni' nella moschea al-Aqsa. Siamo determinati a difendere Gerusalemme col sangue e col fuoco". ''Noi salutiamo quella operazione - ha detto Mahmud a-Zahar, uno dei leader storici del movimento - che è una conseguenza della continua aggressione nella nostra terra e nei nostri Luoghi santi''. Il Jerusalem Post riporta che anche il movimento per la Jihad islamica ha celebrato l'attacco, definendolo "un chiaro messaggio all'occupazione che deve fermare le sue incursioni alla moschea di al-Aqsa". Nella notte era arrivata la condanna del Segretario di Stato Usa Antony Blinken. “Condanniamo con forza l'attacco terroristico in Israele. Siamo con le vittime e le loro famiglie” ha scritto in un tweet il responsabile degli Esteri di Washington.
• ABU MAZEN CONDANNA L'ATTENTATO Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha condannato "l'uccisione di 2 civili israeliani in una sparatoria nel centro di Tel Aviv". Al tempo stesso, citato dalla Wafa, ha ribadito che l'uccisione di palestinesi ed israeliani conduce solo ad un deterioramento della situazione" in un periodo segnato dal Ramadan, dalla Pasqua ebraica e da quella cristiana. Abu Mazen ha poi sottolineato il "pericolo delle continue incursioni sulla Moschea Al Aqsa e le azioni provocatorie di gruppi di coloni estremisti".
• UNA SCIA DI SANGUE Si tratta dell'ultimo episodio di una serie di attentati verificatisi nelle ultime settimane nel Paese. La scorsa settimana, un palestinese in Cisgiordania aveva aperto il fuoco sulla folla nella città ebraica ultra-ortodossa di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv, uccidendo cinque persone, tra cui due ucraini e un poliziotto arabo israeliano. Pochi giorni prima, due agenti di polizia, tra cui un giovane franco-israeliano, erano stati uccisi ad Hadera in una sparatoria rivendicata dall'Isis. Il 22 marzo, a Beersheva, città nel deserto del Negev meridionale, quattro israeliani hanno perso la vita in un attacco perpetrato da un insegnante condannato nel 2016 a quattro anni di carcere per aver pianificato di recarsi in Siria per combattere per Isis. I movimenti islamisti palestinesi di Hamas e della Jihad islamica avevano subito elogiato l'attacco. Sulla scia di questi attentati, l'esercito israeliano, la polizia e i servizi di sicurezza interna hanno arrestato dozzine di persone sospettate di avere legami con l'Isis in Israele e hanno intensificato le operazioni in Cisgiordania in particolare a Jenin, dove proveniva l'aggressore dell'attacco Bnei Brak. Almeno tre membri della Jihad islamica, il secondo movimento islamista armato palestinese dopo Hamas, sono stati uccisi la scorsa settimana durante uno scontro a fuoco in relazione a queste operazioni a Jenin. E domani a Gerusalemme sulla Spianata delle Moschee è il primo venerdì di preghiera del mese di Ramadan: la polizia ha già aumentato i suoi effettivi per timore di scontri. Scontri che da giorni si susseguono con manifestanti palestinesi in vari punti della Cisgiordania.
(RaiNews, 8 aprile 2022)
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Israele nel mirino del terrorismo islamico: i tre fattori di una possibile escalation
A ridosso del primo venerdì del Ramadan, la situazione si fa sempre più calda in Israele. Da una settimana a questa parte lo Stato ebraico è stato bersaglio di attentati rivendicati dall’estremismo islamico, quale ISIS e terroristi palestinesi. L’ultimo è avvenuto ieri, nel cuore della bella Tel Aviv che non dorme mai, dove hanno perso la vita due persone. Un attentato che mi ha scosso enormemente, perché arrivato circa due ore dopo aver inviato un messaggio ad un mio contatto in Israele: gli scrivevo che, proprio a causa dei precedenti, qualcuno avrebbe potuto attaccare. Rileggo quel messaggio, adesso, rabbrividendo. A posteriori, però, ragiono a mente fredda convincendomi del fatto che non sia stato un presentimento a guidare quelle mie parole, ma la semplice analisi dei fatti che mi ha portato a pensare: era prevedibile e potrebbe esserci una escalation militare come lo scorso maggio. Non era prevedibile solo a causa degli attacchi terroristici a Beer Sheva e Bnei Brak, ma per una serie di motivi che toccano religione, politica estera e persino il fronte ucraino. Partiamo dal primo. Il Ramadan è una delle ricorrenze più sacre del mondo islamico e costituisce uno dei cinque pilastri fondamentali della religione. I fedeli si riversano nelle moschee per pregare e stare assieme, ma molti ignorano che, per gli estremisti, questa sia una delle più prolifiche occasioni per fomentare i correligionari in rivolta contro ebrei ed israeliani. Il copione è circa lo stesso di quello messo in scena lo scorso anno nella moschea di Al-Aqsa, che era diventata un deposito di pietre da tirare verso i soldati così da provocare una risposta da usare come pretesto per lanciare razzi dalla Striscia. Uno scenario che oggi rischia di ripetersi e che potrebbe aggravarsi con le probabili risposte autonome dell’ala meno transigente israeliana. La miccia sembra nuovamente poter scoppiare. Punto due. Dalla ratifica degli Accordi di Abramo, il prestigio politico internazionale di Israele è cresciuto in maniera esponenziale, permettendo l’allaccio di storici rapporti diplomatici con paesi arabi come Emirati Arabi Uniti e Marocco. Uno sviluppo cresciuto di pari passo con l’intolleranza antisemita degli estremisti islamici, totalmente in disaccordo riguardo una possibile collaborazione e alleanza tra il mondo arabo ed israeliano. Non a caso l’escalation terroristica nello Stato ebraico ha avuto luogo al ridosso dello storico Summit nel Negev che ha coinvolto proprio Marocco, Bahrein, UAE, Egitto, Israele e USA. Una frustrazione, quella dei terroristi palestinesi, peggiorata anche dai primi segnali diplomatici che arrivano dalla Turchia, con cui Israele sembra aver trovato la chiave per intraprendere il processo di normalizzazione dei rapporti bilaterali: Hamas vedrebbe, così, togliersi il suo storico sostenitore. A legittimare il fermento estremista, potrebbe anche concorrere sia la rischiata crisi del Governo Bennet, impegnato nel tenere salda l’alleanza di partito, sia la lotta per il potere nella Striscia, dove Abu Mazen ha condannato gli attacchi terroristici finora compiuti in Israele. Punto tre. Il fronte ucraino sta ristabilendo progressivamente gli equilibri internazionali, tra cui anche il ruolo di Israele agli occhi del mondo. Da subito lo Stato ebraico è salito sul palco dei possibili mediatori tra Russia e Ucraina, in virtù delle condizioni che lo hanno permesso: non è solo culturalmente affine ai due paesi dell’Est, ma è anche il vicino di casa della Siria, attualmente sotto l’influenza di Putin. Israele necessita del lasciapassare russo per colpire gli obiettivi militari strategici dei Pasdaran e di Hezbollah sul territorio siriano, trovandosi nella difficile posizione di dover sostenere l’Ucraina ma solo con aiuti umanitari, per evitare di perdere questo vitale prestigio nel punto nevralgico della Siria. La guerra scatenata da Putin in Ucraina compromette il Medio Oriente più di quanto non dia a vedere, soprattutto perché, in virtù delle considerazioni fatte finora, la buca di sabbia mossa dalla Russia sta tracciando il sentiero ad Hamas, che potrebbe cavalcare l’onda del fronte ucraino per colpire di nuovo. Il fatto che possano attaccare a nemmeno un anno di distanza dall’ultimo conflitto è allarmante. Finora Hamas ha iniziato tre guerre contro Israele, con una cadenza media di una volta ogni sei anni: Piombo fuso nel 2009, Margine protettivo nel 2014 e Guardiani delle mura nel 2021. L’ultima ha dato segnale di un riarmo significativo nel numero e nella qualità, testimoniato dal lancio dei nuovi razzi che ha raggiunto le quattromila unità in undici giorni. Se la minaccia sembra nuovamente incombere, significa che la loro ripresa è stata più rapida degli scorsi anni. Questo accende un campanello d’allarme verso coloro che potrebbero aver favorito le condizioni: Libano e Siria. Oltre il loro aiuto, però, è bene notare come molti dei soldi necessari arrivino anche dalle pseudo ONG che mascherano la propria natura terroristica, spacciandola per umanitaria. La situazione è delicata e non sono da sottovalutare possibili peggioramenti che già dalle prime ore del tramonto di oggi potrebbero manifestarsi. Potrebbero manifestarsi col lasciapassare di una parte del mondo occidentale in totale silenzio nei confronti del terrorismo palestinese, ma sempre pronta all’attacco di Israele nel momento della risposta. Una risposta che, qualora arrivasse, non farebbe altro che ribadire un concetto sacro della vita: ognuno ha il diritto di difendersi. Israele ha il diritto di difendersi.
(UGEI, Unione Giovani Ebrei d'Italia, 8 aprile 2022)
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Knesset e tradimenti
Israele ripiomba in una crisi politica. Nuove elezioni sul pane lievitato
di Giulio Meotti
ROMA - Le forze di sicurezza d’Israele hanno sventato quindici attacchi terroristici in Cisgiordania e in Israele, ha rivelato il primo ministro Naftali Bennett durante una visita al quartier generale dell’esercito in Giudea e Samaria alla periferia di El Bireh. Il premier lo ha detto all’indomani dei tre attacchi terroristici – uno da parte di un terrorista palestinese e due da parte di arabo-israeliani – che hanno causato undici vittime, nella peggior ondata terroristica per intensità e letalità dalla Seconda Intifada. Ma intanto Israele si è ritrovato di nuovo nell’incertezza politica, comprese eventuali nuove elezioni anticipate. A rischio dunque il governo Bennett composto da destra religiosa, destra nazionalista, centro, sinistra e musulmani conservatori. Una convivenza difficile durata soltanto dieci mesi e che ora mette la coalizione a rischio di urne e defezioni. A Bennett bastava perdere un parlamentare per veder cadere la sua maggioranza alla Knesset. Idit Silman, presidente della coalizione e parlamentare del partito di destra Yamina, passa con il Likud dell’ex premier Benjamin Netanyahu, che ora organizza manifestazioni chiedendo il ritorno al voto.
• Netanyahu vuole tornare al voto
Silman si è scontrata con il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, che ha incaricato i funzionari del suo ministero di dare seguito a una sentenza della Corte Suprema e permettere ai pazienti di portare pane lievitato negli ospedali durante Pesach, la Pasqua ebraica. Silman è contraria alla norma perché in contrasto con la Legge ebraica, la Halakà: “Ho lavorato per l’unità con tutta me stessa, battendomi per il bene comune”, ha detto Silman. “Ma non posso aiutare la dissoluzione dello Stato d’Israele e l’identità religiosa del popolo ebraico”. A Pesach c’è il divieto di fare uso di pane lievitato in ricordo di quella precipitosa fuga dall’Egitto che impedì agli ebrei di aspettare che il pane avesse il tempo di lievitare e cuocere. Perciò nelle settimane che precedono Pesach nelle case ebraiche si fa una rigorosa pulitura per eliminare ogni traccia di prodotto lievitato: la ricerca del “chametz”. La stretta osservanza vuole che si usi vasellame apposito, che non sia mai venuto in contratto con alcunché di lievitato.
Ieri un altro parlamentare di Yamina, il partito di Bennett, Nir Orbach, ha presentato al primo ministro un ultimatum per rimanere nel governo: l’annullamento del piano di cancellare i sussidi per gli asili nido per gli studenti della yeshiva, le scuole ebraiche, e approvare quattromila nuove case per gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. “Senza una soluzione a questi problemi, non posso rimanere nella coalizione”, ha detto Orbach. La defezione di Silman dalla coalizione ha scatenato una raffica di speculazioni sul fatto che anche altri membri del piccolo partito di destra del primo ministro starebbero cercando di abbandonare la nave. Il ministro delle Finanze, il falco laico Avigdor Liberman, aveva spinto per porre fine ai sussidi per gli studenti religiosi. Si ipotizza che anche il ministro della Difesa, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, sia in procinto di passare con il Likud per porre fine all’attuale governo e formarne uno nuovo.
Ma Netanyahu ha bisogno di altre sette defezioni per poter avere la maggioranza alla Knesset. Non sarà facile per il Likud formare dunque una maggioranza alternativa a quella di Bennett. C’è anche l’ipotesi di un nuovo governo guidato dall’attuale ministro degli Esteri e primo ministro vicario, Yair Lapid, fresco di successo per aver ospitato Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto al vertice del Negev, e che due giorni fa ha espresso la condanna più forte contro la Russia (su Bucha, Lapid ha accusato Putin di crimini di guerra).
• Le relazioni con la Russia
Sull’incertezza politica pesano, infatti, le relazioni con la Russia nei fronti siriano e ucraino (Bennett si è speso molto nei colloqui con Vladimir Putin). Netanyahu si è congratulato con il primo ministro ungherese Viktor Orbán per la sua rielezione e imprimerebbe una svolta ancora più realista alla politica estera israeliana. Ma l’Iran potrebbe vedere la confusione politica in Israele come un’opportunità sui fronti che interessano a Israele, dal Libano con Hezbollah a Gaza, dove finanzia e arma Hamas e Jihad islamico.
Il Foglio, 8 aprile 2022)
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Il peso degli attentati (e di Netanyahu) nella crisi del governo israeliano
Il peso degli attentati (e di Netanyahu) nella crisi del governo israeliano
Crisi politica in Israele: il governo Bennett è tecnicamente senza maggioranza dopo l’uscita della collega di partito Idit Silman. Sullo sfondo la crisi di sicurezza legata ai vari recenti attentati e le manovre politiche di Netanyahu.
di Ferruccio Michelin
Il governo di Israele ha perso la maggioranza nella Knesset mercoledì, quando il capogruppo di coalizione del partito Yamina (quello del primo ministro Naftali Bennett) ha annunciato di unirsi all’opposizione. È uno sviluppo importante perché l’attuale esecutivo si regge su un solo seggio di maggioranza e basterebbe un’altra uscita per portare al collasso il governo Bennett, a meno di un anno dalla sua formazione. Tutto mentre il Paese affronta una crisi di sicurezza connessa a una serie di attentati di matrice jihadista. La capogruppo e collega di partito del primo ministro, Idit Silman, ha annunciato mercoledì mattina di non poter sostenere l’eterogeneo governo di unità (composto da formazioni di sinistra e nazionaliste) e ha chiesto la formazione di un nuovo governo di destra senza tenere nuove elezioni. La scusa formale mossa da Silman è legata al pane lievitato e al Passover (la Pasqua ebraica). Silman, che ha alle spalle anni di attivismo nella destra religiosa, ha attaccato il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, del partito Meretz (sinistra laica), il quale aveva annunciato che il governo avrebbe applicato una sentenza della Corte Suprema del 2020 che permette ai visitatori negli ospedali di portare del cibo lievitato, come il pane quotidiano, ai pazienti ricoverati durante il periodo pasquale. L’ebraismo vieta di consumare qualsiasi genere di cibo lievitato (chametz) durante questi giorni, e gli ebrei ortodossi come Silman tengono molto a certe indicazioni della Torah. La deputata ha ricordato che l’indicazione di non mangiare cibo chametz era stata rispettata anche nei campi di concentramento nazisti durante l’Olocausto, e per tale violazione dei principi religiosi Horowitz avrebbe dovuto lasciare il dicastero. Il ministro di Meretz non si è dimesso e pare non abbia intenzione di farlo, e la deputata nazionalista di Yamina ha lasciato la maggioranza. Ma ci sono rumors (usciti per esempio su Haaretz) secondo cui a pressare la deputata sia stato Benjamin Netanyahu. Anche secondo le fonti dell’informatissimo giornalista israeliano Barack Ravid, Netanyahu avrebbe promesso alla deputata un posto di primo piano nella lista del Likud alle prossime elezioni e il ministero della Salute, se il Likud dovesse tornare di nuovo player centrale del prossimo governo. L’ex primo ministro ha detto in uno dei suoi video (pubblicato su Facebook): “Idit, questa è la prova che il principio che ti ispira è il timore per l’identità ebraica di Israele, la preoccupazione per la terra di Israele, ti do di nuovo il benvenuto nel campo patriottico”. Inoltre, più del pane chametz, a muovere Silman sono state le condizioni di (in)sicurezza che si sono create in questo periodo, in cui la Pasqua, il Passover e il Ramadan si sovrappongono creando un pretesto per gli attacchi terroristici dei gruppi armati che si oppongono allo Stato ebraico – da quelli palestinesi a quelli collegati allo Stato islamico, che come spiegavano su queste colonne Stefano Dambruoso e Francesco Conti potrebbe essersi portato in vantaggio laddove al Qaeda non era mai riuscita: attecchire dentro Israele. Per Netanyahu il contesto è perfetto. Da tempo è noto che le comunità ortodosse (come quella in cui vive Silman) pressano l’ex capogruppo e altre figure di area per staccare la presa al governo Bennett, accusato di essere troppo leggero sulle questioni securitarie, anche perché in coalizione con forze di sinistra e con il partito Raam (formazione conservatrice che rappresenta gli arabi-israeliani). La situazione è peggiorata anche perché due degli attentatori che hanno colpito Israele nelle ultime tre settimane erano arabi cittadini israeliani. Il dibattito pubblico è stato oggetto di una dinamica già vista altre volte in questi casi: i leader arabi denunciano gli attacchi, e la destra israeliana accusa tutti gli arabi in Israele di responsabilità collettiva per le morti, chiedendo vendetta. Della situazione ha approfittato la lobby dei coloni, che pressa sul fatto che il governo non dia permessi di costruzione negli insediamenti nella Cisgiordania occupata. Tutto questo ha aumentato la pressione su Silman (e allargato lo spazio per Netanyahu). La decisione di Silman ha messo in stallo il governo anche su alcuni passaggi internazionali che riguardano proprio le relazioni con l’Autorità palestinese. L’amministrazione Biden sta cercando da mesi di arrangiare un incontro – a livello di Consiglio di Sicurezza – tra israeliani e palestinesi: ne ha parlato con egiziani e giordani, e avrebbe il loro sostegno, nel cercare di sbloccare una questione che il governo Bennett non ha mai voluto affrontare per le divisioni interne sul tema. Washington cercava di dare uno scatto, ma stante l’instabilità politica a Gerusalemme il piano con ogni probabilità salterà.
(Formiche.net, 8 aprile 2022)
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Il Friuli Venezia Giulia collabora con Israele: obiettivo le città “intelligenti”
“Questo protocollo rappresenta il primo passo di una importante collaborazione che il Friuli Venezia Giulia ha inteso mettere in campo con la municipalità di Modi’in nell’ambito delle Learning cities ma che potrà trovare nuovi ambiti di applicazione anche nel settore della logistica, famiglia, inclusione sociale e ricerca”. Lo ha dichiarato ieri il governatore Massimiliano Fedriga in videocollegamento con la città israeliana in occasione della firma dell’accordo che vedrà collaborare la Regione, nell’ambito di un progetto avviato nel 2018 tra il nostro territorio, la locale municipalità, il Multidisciplinary Center di Modi’in e l’Università della LiberEtà del Friuli Venezia Giulia. Alla presenza del sindaco di Modi’in-Maccabim-Re’ut Haim Bibas, il capo dell’Esecutivo ha posto in evidenza la volontà di rafforzare le relazioni bilaterali già esistenti, espandendole anche ad altre realtà che intendano partecipare all’iniziativa. “L’incontro di oggi – ha detto Fedriga – è un appuntamento strategico non solo per il progetto Learning cities ma anche per l’amicizia e i rapporti che si sono ormai consolidati tra il nostro territorio, il Comune di Modi’in e lo Stato di Israele. L’intesa siglata ci consentirà di portare avanti non solo il progetto sull’apprendimento permanente ma di ampliare ulteriormente gli ambiti di collaborazione in altri settori che noi riteniamo strategici per il Friuli Venezia Giulia. Infine, farò in modo che il progetto Learning cities, attraverso la Conferenza delle Regioni – ha concluso Fedriga – si estenda anche ad altre aree d’Italia”. In occasione della firma del protocollo a rappresentare la Regione a Modi’in c’era l’assessore all’Istruzione, formazione e famiglia Alessia Rosolen che nel suo intervento ha posto in evidenza l’importanza dei temi oggetto dell’accordo. “L’intesa di oggi – ha detto – è solo il primo passo di un lavoro che è iniziato anni fa con il progetto Learning cities, un percorso di comunità e identità che vale per Israele ma anche per il Friuli Venezia Giulia. Il presidente Fedriga e l’intera Giunta sui temi dell’accordo, quali famiglia, comunità e crescita condivisa, ha costruito la politica di governo del Friuli Venezia Giulia in questi quattro anni. Inoltre, siamo convinti ci siano ancora spazi di crescita legati anche al Pnrr e alla progettazione europea e ancora non direttamente toccati da questa intesa ma che approfondiremo quali la formazione e apprendimento, temi che formano l’identità di un popolo”. L’intesa firmata oggi prevede l’elaborazione e realizzazione di programmi e progetti di comune interesse con particolare riguardo agli ambiti istituzionale, dello sviluppo economico, formativo e sociale nonché lo scambio di esperienze di lavoro da realizzarsi anche per mezzo di visite, consulenze e seminari rivolti a operatori economici, rappresentanti istituzionali e del mondo scientifico, culturale, formativo. Per lo sviluppo territoriale, le parti collaboreranno nell’organizzazione di attività riguardanti l’applicazione delle tecnologie a beneficio di un territorio, per aumentare la qualità dei servizi a favore dei cittadini, adottando modelli di città intelligenti-smart cities, quale condizione fondamentale per lo sviluppo di learning cities. Per quanto attiene invece la ricerca scientifica e innovazione, verrà sostenuta la creazione di rapporti di partnership tra istituti di istruzione superiore e università, centri di ricerca scientifica e soggetti economici, affinché ciascuno possa, nell’ambito delle proprie competenze, contribuire allo sviluppo e al trasferimento di tecnologia. Sui temi sociali, è prevista una collaborazione per organizzare iniziative volte a contrastare il fenomeno dilagante dell’antisemitismo o a ciò che genera l’odio verso lo Stato di Israele. Inoltre, verranno organizzate iniziative riguardanti la crescita demografica, il sostegno alla natalità, l’inclusione sociale, ritenendo la famiglia il nucleo fondante di una comunità.
(, 8 aprile 2022)
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Bennett già in crisi: rischio voto anticipato in Israele
Senza maggioranza l'esecutivo nato a giugno per archiviare l'epoca Netanyahu.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME - Potrebbe essere già arrivato al capolinea il "governo del cambiamento" di Naftali Bennett in Israele, insediatosi in giugno dopo oltre un decennio di dominio di Benjamin Netanyahu. La parlamentare Idit Silman di Yamina - lo stesso partito di Bennett -, ha infatti improvvisamente annunciato le sue dimissioni, privando la compagine della sua maggioranza. «Non permetterò di danneggiare l'identità ebraica dello Stato d'Israele», ha scritto Silman nella lettera indirizzata a Bennett. «Continuerò a cercare di persuadere i miei amici a tornare a casa e formare un governo di destra».
A scatenare l'ira di Silman sarebbe stata una circolare del ministro della Sanità, Nitzan Horowitz, agli ospedali del Paese per permettere cibi lievitati durante la settimana della Pasqua ebraica quando agli ebrei è vietato il consumo di pane, pasta e simili (una scelta che in realtà rappresenta l'implementazione di una decisione in tal senso della Corte Suprema). Per molti però la faccenda è solo una scusa e la parlamentare sarebbe pronta a entrare nel Likud e ricevere, in caso di nuovo governo a guida Netanyahu, il posto di ministro della Sanità. «Bentornata a casa nella vera destra», l'ex premier ha commentato rivolgendosi a Silman.
L'attuale compagine governativa è la più variegata che il Paese ricordi. A formarla sono otto partiti rappresentativi di anime politiche e sociali diverse se non addirittura opposte: la destra simpatizzante dei valori religiosi di Yemina, quella risolutamente laica di Yisrael Beytenu, e quella laica ma più tradizionalista di Nuova Speranza, il centro di Blu e Bianco e Yesh Atid, il centro sinistra del Partito laburista, la sinistra di Meretz e infine, per la prima volta nella storia, un partito arabo, Ra'am.
Sebbene già in passato i mal di pancia non fossero mancati all'interno della coalizione (nel corso dei mesi la maggioranza è andata sotto in varie occasioni), con la defezione della deputata Bennett ha ufficialmente perso i 61 voti su 120 necessari per guidare la Knesset.
Cosa accadrà ora però non è affatto scontato. Il sistema parlamentare israeliano consentirebbe di formare una maggioranza alternativa senza andare a elezioni, ma al momento l'opposizione non ha i numeri per un'ipotesi del genere, a meno che non si registrino altri cambi di casacca, oppure, in quello che sarebbe uno sviluppo clamoroso, Netanyahu non consenta a qualcun altro di diventare premier con il supporto del Likud.
Un'altra possibilità è che l'attuale governo rimanga in sella senza maggioranza e senza legiferare fino al marzo 2023, la scadenza entro cui approvare la prossima legge di bilancio. Se invece l'opposizione dovesse passare una mozione per sciogliere la Knesset si andrebbe a elezioni, ma ad assumere l'interim sarebbe l'attuale ministro degli Esteri Yair Lapid, che secondo gli accordi di coalizione sarebbe dovuto diventare premier a metà della legislatura nell'agosto 2023.
(la Repubblica, 7 aprile 2022)
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Israele a rischio elezioni. E Bibi torna protagonista
Si dimette la presidente della coalizione Silman Il premier Bennett non ha più la maggioranza
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Israele rischia di nuovo le elezioni; il governo è in crisi, Benjamin Netanyahu è di nuovo il possibile protagonista del futuro del Paese da quando ieri ha rassegnato le sue dimissioni la presidente della coalizione, membro del partito «la Destra», Idit Silman. La Knesset ha 120 parlamentari, occorrono 61 membri per governare e oggi sono ridotti a 60, Naftali Bennett è un leader azzoppato: ma non è detto che si dimetta. Può darsi che seguiti a cercare di tirare avanti cercando di ricostruire il consenso o l'appoggio a una coalizione di 60, la Knesset è in vacanza per la Pasqua e questo allunga i tempi. Ma è improbabile che riesca a recuperare qualche nome e l'opposizione può chiedere il voto di sfiducia: 61 voti basteranno a distruggere l'attuale laboriosissima coalizione arlecchino. Tuttavia, il Likud non ha un leader da proporre che verrebbe votato come primo ministro da 61 parlamentari. La Lista Araba, per esempio, non ci starebbe. E il Likud, comunque, punta decisamente alle elezioni: è ciò che Bibi spera, perché la maggioranza è ancora nelle sue mani, lo è sempre rimasta, il Likud conta ancora su circa il 30 per cento dei voti.
Il 40 per cento degli elettori, dice un'indagine recentissima, pensa che Netanyahu sarebbe un migliore primo ministro di Bennett, che oggi ha solo il 14 per cento dei consensi. La crisi è reale anche se l'ha suscitata la scarsa esperienza e la poca coesione di un governo di tanti colori: è la sua intrinseca debolezza alla fine che lo ha portato a una contrazione espulsiva proprio nel momento in cui è assediato da un'ondata terrorista. Idit Silman, del partito stesso di Naftali Bennet, «Destra», ha spiegato così: «Purtroppo non ne posso più ... Ho lavorato per l'unità con tutta me stessa... battendomi per il bene comune. Ma non posso aiutare la dissoluzione dello Stato d'Israele e l'identità religiosa del popolo ebraico». Idit Silman è un religiosa haredi, una quarantunenne dura e assertiva, sempre molto curata nell'abbigliamento, nel trucco e nelle acconciature della testa mezzo-coperta; si è sempre fatta valere con «Yemìna» ottenendo da Bennett il ruolo di presidente della coalizione, e poi si è sentita abbandonata, tanto da inventarsi un'aggressione politica fisica mai avvenuta, Nello stesso tempo ha sofferto le molte critiche per aver abbandonato la sua parte per unirsi a quel governo con tante punte di sinistra. Per la destra è sempre stato difficile in questi dieci mesi sentirsi a proprio agio: il partito arabo al governo e una sinistra estrema, l'atteggiamento debole di fronte agli Stati Uniti e all'accordo con l'Iran, l'assalto del terrorismo e i fondi che Israele seguita a versare a Abu Mazen che li destina al terrorismo.
E poi la botta ideologica finale che è stata la scusa della crisi di Idit: il ministro della sanità Nitzan Horowitz (Meretz, sinistra liberal molto esibizionista) che diffonde una lettera a tutti gli ospedali chiedendo di ottemperare alle leggi che consentono a chi vuole di far entrare cibo non casher nella settimana di Pasqua che comincia il 15 di questo mese. Ovvero, per Pasqua, è tradizione ebraica spazzare via dalle case e dai luoghi pubblici tutti i cibi lievitati, è una tradizione che il 70 per cento degli israeliani osserva, religioso o no, e come ha detto la Silman: «è una linea rossa». Horowitz, è vero, ha voluto fare una provocazione laicista, dato che nessuno negli ospedali ha mai frugato le borse dei visitatori per vedere se portavano un panino, tantomeno le borse di chi va a trovare pazienti arabi. Ma tutti dicono che da giorni si preparava la defezione e che Silman era sul mercato: Netanyahu le avrebbe già offerto il decimo posto in lista e il ruolo di ministro della Salute.
Intanto con un intervento pubblico le ha subito dato il bentornato a casa ed è cominciata una caccia ad altri nomi di parlamentari per un «governo stabile, forte ... chiamo quelli che furono eletti nelle liste di partiti nazionali...sarete benvenuti a braccia aperte». Si riapre il grande scontro, ed è di nuovo intorno a Bibi, alla discussa necessità di avere un leader che guidi un Paese sempre assediato dalla minaccia fatale che si serve del terrorismo, dei missili e dei droni arabi oltre che della minaccia atomica iraniana, oltre che di una propaganda martellante finanziata a miliardi. Ed è davvero difficile per Israele avere un primo ministro che oggi ha solo 5 parlamentari, nonostante la legge elettorale glielo consenta. La crisi sarebbe sopravvenuta comunque.
(il Giornale, 7 aprile 2022)
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Israele: accordo bilaterale con il Costa Rica per le importazioni di ananas
Il ministero dell’Agricoltura di Israele ha firmato un accordo bilaterale con il Costa Rica per le importazioni di ananas, in modo da poter soddisfare la crescente domanda di questo frutto. Si tratta del primo accordo di importazione dopo l’approvazione della riforma in agricoltura, ed è avvenuto dopo un processo di valutazione dei rischi, condotto presso i servizi di protezione e audit delle piante del ministero dell’Agricoltura israeliano in collaborazione con l’Autorità per la protezione delle piante del ministero dell’Agricoltura del Costa Rica, e soggetto a condizioni che garantiranno l’importazione di frutti sani. Nell’ultimo anno Israele ha importato dal Kenya e dalla Repubblica Dominicana oltre 4.200 tonnellate di ananas in circa 575 spedizioni, con un aumento di circa il 95% rispetto al 2020. Per soddisfare la domanda di ananas e per favorire la riduzione dei prezzi, il Ministero dell’agricoltura e dello sviluppo rurale sta aprendo il mercato al Costarica, che rappresenta un’ulteriore fonte di importazione di ananas. Leggi il documento originale.
(PmoTeboot, 6 aprile 2022)
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Per qualche briciola lievitata
Perché il governo israeliano potrebbe cadere sul chamètz a pochi giorni da Pèsach.
di David Piazza
Inquadrare la mossa repentina del deputato Idit Silman solamente nelle strette categorie del rapporto tra stato e religione, non aiuta purtroppo a capire l’iceberg che si nasconde sotto la crisi di governo che si è forse aperta stamattina. Da anni infatti la Corte Suprema d’Israele, un paese senza una legge costituzionale, persegue senza alcun chiaro mandato istituzionale, obiettivi politici e sociali di ridefinizione dell’identità ebraica del paese, con sentenze che mirano a rafforzarne la componente democratica e universalista a danno di quella identitaria e particolarista.
A parole tutti concordano che lo stato d’Israele, l’unica democrazia al mondo che si fondi su una legge che riconosce l’immediata cittadinanza a membri di una sola religione che fino a un momento prima avevano vissuto all’estero (“Legge del ritorno”), sia “democratico” ed “ebraico”, ma nei fatti tutte le ultime sentenze della Corte Suprema arrivano nei fatti a limitarne il carattere ebraico. Vuoi per facilitare l’ingresso e poi la residenza stabile di immigrati non ebrei, vuoi per dare una propria precisa interpretazione delle leggi sulle conversioni, vuoi per minare la base legale degli insediamenti, vuoi per limitare le azioni di contenimento delle minacce terroristiche, vuoi infine per danneggiare il cosiddetto delicato “status quo”, quella serie di taciti accordi per la convivenza tra le componenti osservanti e meno osservanti della società israeliana.
E da quest’ultima categoria che parte l’attuale “crisi del chametz”. Negli ospedali israeliani infatti da molti anni vige il divieto d’ingresso per il cibo lievitato portato da visitatori all’interno delle strutture, che devono però garantire per tutti i pazienti il rispetto delle regole ebraiche alimentari, particolarmente rigorose per la durata della festa di Pesach, cioè sette giorni. Bisogna riconoscere che particolarmente fastidiose sono state le “perquisizioni” operate all’ingresso ai danni di cittadini che spesso hanno solo una vaga idea del particolare (e limitato nel tempo) rigore, ma il risultato permetteva sia a chi è religioso, sia anche a chi è solo tradizionalista (e sono moltissimi) un certo rispetto della norme religiose della festa.
Una recente sentenza della Corte Suprema, sollecitata sempre dallo stesso singolo minuscolo gruppetto di attivisti, ha decretato che, nel rispetto delle libertà individuali questo divieto del cibo lievitato, esercitato dagli ospedali in maniera assolutamente indipendente, andasse abolito.
Lo zelante ministro della salute, Nissan Horowitz del partito laicista e di sinistra Meretz, non si poteva perdere questa ghiotta occasione e in barba all’accordo di governo che tiene insieme una coalizione formata da molte e diverse anime, secondo il quale ogni legislazione in contrasto con lo “status quo” dovrebbe essere prima discussa tra i leader della coalizione stessa, ha ordinato l’applicazione della sentenza della Corte Suprema che “vieta il divieto” sul cibo lievitato.
Da fuori sembra il solito scontro tra osservanti e non, ma non è affatto così. Cerchiamo di capire perché.
Il rigore del consumo di cibo lievitato durante la festa di Pesach è innanzitutto tra i più gravi dell’intera legge ebraica, che ne prescrive non solo il divieto di consumo, ma anche il semplice possesso. Una sola briciola di cibo lievitato infine può “contaminare” nei giorni di festa, un’intera cucina preparata faticosamente per il rispetto delle regole da molti giorni prima. La pena stabilita inoltre per la trasgressione di questa regola è della stessa gravità del mangiare nel giorno di Kippur.
Certamente una follia rituale agli occhi di chi non la vive, che tuttavia dura solo pochi giorni l’anno. Molti in Israele si domandano perché mai nessuno obietta quando vengono rispettate le limitazioni alimentari dei celiaci o delle persone dalle mille allergie, mentre quando le restrizioni alimentari sono di carattere religioso possono essere tranquillamente ignorate nello spazio pubblico. Anche le prime possono a rigore limitare le libertà civili fondamentali, ma tutti le adottano perché sono alla base della convivenza civile, dove il rispetto delle diversità è visto come un fine superiore.
Esattamente come vaccini e mascherine nella pandemia che continua a fare vittime.
Per ritornare alla Corte Suprema e al suo “attivismo giudiziario” che la porta frequentemente ad annullare leggi della Kenesset o ad emanarne di nuove in assenza di legislazione, il vero pericolo di Israele non sono certo le bricioline di pane, ma un’istituzione che confonde pericolosamente le classiche distinzioni tra potere politico e potere giudiziario.
Questa Corte interviene infatti sempre di più su questioni identitarie delicate per le quali i politici si debbono sottoporre ogni volta al giudizio degli elettori, e successivamente al dibattito democratico parlamentare, mentre il corpus giudiziario, in nome di un’autonomia che nessuno può minacciare, sta diventando un organismo chiuso, autoreferenziale e politico a tutti gli effetti, con una chiara e marcata agenda di parte, capace di fare e disfare.
(Kolòt, 6 aprile 2022)
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Gantz ad Abu Mazen, facilitazioni per Ramadan
Colloquio tra i due per le preghiere sulla Spianata delle Moschee
TEL AVIV – Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha annunciato una serie di facilitazioni per i palestinesi diretti a Gerusalemme durante l’attuale mese di Ramadan per le cerimonie religiose. Gantz ne ha parlato con il presidente Abu Mazen in un colloquio telefonico durante il quale ha detto che sarà permesso l’ingresso a uomini al di sopra dei 50 anni, alle donne e ai bambini nella Moschea di Al-Aqsa sulla Spianata durante le preghiere del venerdì. Mentre resta l’obbligo per gli uomini tra i 40 e i 50 anni di ottenere i permessi necessari.
Inoltre, Gantz ha autorizzato le visite , da domenica a giovedì, ai parenti in Israele ai palestinesi che risiedono in Cisgiordania. Ulteriori facilitazioni potranno essere stabilite in una prossima riunione che faccia il punto sulla situazione di sicurezza dopo gli ultimi attentati palestinesi che hanno causato la morte di 11 persone.
(ANSA, 6 aprile 2022)
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Poseidon: il gasdotto da Israele in Puglia: soluzione?
Poseidon, il progetto di un gasdotto dimenticato torna alla luce: da Israele, passando sotto il Mar Mediterraneo, arriverebbe fino in Italia.
di Silvia Curletto
Il progetto del gasdotto chiamato EastMed-Poseidon era stato autorizzato un decennio fa e poi dimenticato. I rallentamenti ai lavori del progetto derivavano dall’intenzione di non intaccare gli equilibri presenti nella regione mediterranea. Evitando così anche il rischio di alimentare delle tensioni con la Turchia. Ma la crescente necessità di approvvigionamento del gas da diverse fonti ha fatto ripartire il progetto del gasdotto. Quest’ultimo trasporterà gas per quasi duemila chilometri, dal Bacino Levantino nel Mediterraneo Orientale, tra Israele, Egitto e Cipro, fino ad Otranto.
• Gasdotto Poseidon: il progetto riparte
Il progetto del gasdotto denominato Poseidon dovrebbe riuscire a trasportare oltre dieci miliardi di metri cubi di gas all’anno. Le sue capacità potrebbero però anche essere raddoppiate. Le tempistiche dei lavori potrebbero richiedere, secondo i protagonisti della realizzazione del progetto, Depa e Igi Poseidon, dai tre ai quattro anni. La data di inizio dei lavori è stata fissata per il mese di ottobre del 2023 con l’autorizzazione firmata dal ministro Roberto Cingolani. Entro la fine dell’anno 2022 invece si dovrebbero concludere le attività di design e di sviluppo del progetto, decidendo infine l’investimento necessario.
La decisione di iniziare i lavori per la realizzazione di un progetto di un gasdotto di quasi un decennio fa avviene a causa della situazione a cui l’Italia è sottoposta da quando il conflitto tra la Russia e l’Ucraina è iniziato. Tale circostanza ha infatti definito la nuova necessità per lo stato italiano di ricercare e diversificare le fonti di approvvigionamento del gas. Evitando così di utilizzare energia derivante dalla Russia. Il carico di energia che il nuovo gasdotto potrebbe apportare potrebbe ridurre il problema della crisi energetica, che sembra essere all’ordine del giorno fin dall’inizio della guerra.
(News Mondo, 6 aprile 2022)
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La coalizione del premier Bennett perde la maggioranza alla Knesset
La coalizione è passata da 61 a 60 seggi su 120 al Parlamento monocamerale a causa del cambio di posizione della deputata Idit Silman, che ha annunciato le proprie dimissioni dal partito Yamina (lo stesso del premier Bennett) dopo un accordo con il leader dell’opposizione, l'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, capo del partito Likud
La coalizione del primo ministro di Israele, Naftali Bennet, ha perso la maggioranza alla Knesset, il parlamento del Paese, rischiando di portare Israele verso le quinte elezioni in soli tre anni. Secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano “Hareetz”, la coalizione è passata da 61 a 60 seggi su 120 al Parlamento monocamerale a causa del cambio di posizione della deputata Idit Silman, che ha annunciato le proprie dimissioni dal partito Yamina (lo stesso premier Bennett) dopo un accordo con il leader dell’opposizione, l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, capo del partito Likud. Secondo “Hareetz”, l’ex premier avrebbe infatti promesso alla deputata il ruolo di ministro della Salute se si fosse candidata alle prossime elezioni con la sua lista. Bennett e Silman avrebbero dovuto incontrarsi ieri, ma Silman ha annullato l’incontro all’ultimo minuto e ha inviato la lettera di dimissioni al primo ministro, secondo la quale alcuni partner della coalizione “non sono disposti a scendere a compromessi”. “È giunto il momento di formare un governo nazionale, ebraico e sionista”, ha proseguito Silman.
(Nova News, 6 aprile 2022)
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I possibili scenari dopo le dimissioni della deputata di Yamina Idit Silman
Con le dimissioni della deputata del parlamento israeliano, il governo guidato dal premier Naftali Bennett ha perso la risicata maggioranza alla Knesset, con l’opposizione che vanta 60 seggi al pari della coalizione che guida l’esecutivo.
Con le dimissioni di Idit Silman, deputata del parlamento israeliano e leader della coalizione di destra Yamina confluita nelle fila dell’opposizione, il governo guidato dal premier Naftali Bennett ha perso la risicata maggioranza alla Knesset, con l’opposizione che vanta 60 seggi al pari della coalizione che guida l’esecutivo. Secondo i media israeliani, i possibili scenari sono quattro: un effetto domino dovuto all’abbandono di un altro esponente della coalizione di governo e l’avvio di nuove elezioni; la migrazione nei ranghi dell’opposizione dell’attuale ministro della Difesa Benny Gantz e leader del partito Blu e Bianco, con la possibilità di ottenere il premierato; una rimonta dell’ex premier e leader del Likud, Benjamin Netanyahu; una resistenza dell’attuale coalizione fino al 2023. Per quanto riguarda la prima ipotesi il crollo dell’esecutivo potrebbe avvenire nel caso in cui un altro membro della Knesset abbandoni la coalizione confluendo nelle fila dell’opposizione guidata dal Likud di Netanyahu, consentendogli di approvare il disegno di legge per disperdere la Knesset e portare Israele a nuove elezioni. In questo caso, subito dopo la dispersione della Knesset, il ministro degli Esteri Yair Lapid diventerebbe primo ministro fino alla formazione di un nuovo governo. Per Silman, la situazione ideale sarebbe che un altro membro di Yamina si stacchi dal partito in modo che possa poi – insieme al precedente deputato di Yamina Amichai Chikli – formare una nuova fazione che sarebbe in grado di fondersi con un gruppo esistente e correre in una nuova elezione. Per quanto riguarda la seconda ipotesi, il ministro della Difesa e attuale presidente del Partito Blu e Bianco, Benny Gantz, dovrebbe unirsi all’opposizione prima dello scioglimento della Knesset e diventare primo ministro di Israele. Questo scenario è probabile per una serie di ragioni. Il primo è che Gantz, che attualmente serve come ministro della Difesa, è stato scontento dell’attuale governo sin dal suo inizio. Era particolarmente infastidito dal fatto che Bennett – con sei seggi e ora cinque – diventasse primo ministro mentre lui – Gantz – aveva otto seggi. Inoltre, Gantz potrebbe preferire questa opzione alla dispersione della Knesset che vedrebbe Lapid diventare primo ministro. Le strade dei due politici si sono divise quando Gantz ha deciso nel 2020 di unirsi all’ultimo governo di Netanyahu. La terza ipotesi vede invece una rimonta di Netanyahu che potrebbe riuscire a raccogliere i deputati necessari a formare un governo guidato dal Likud. Secondo gli analisti, Netanyahu sarebbe più propenso a concedere il premierato a Gantz, rispetto ad un altro del suo partito che potrebbe incrinarne la leadership. Infine, il quarto scenario ipotizzato dai media israeliani vede invece un governo, ormai incapace di legiferare, riuscire comunque a sopravvivere fino a gennaio 2023 quando dovrà approvare un nuovo bilancio. Il governo non sarebbe in grado di approvare alcuna legge, ma potrebbe essere lo scenario migliore in questo momento per Bennett.
(Nova News, 6 aprile 2022)
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Prosegue la produzione degli AW119Kk per le Forze Armate Israeliane
di Aurelio Giansiracusa
Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha assegnato ad AgustaWestland Philadelphia Corporation, con sede a Philadelphia in Pennsylvania, una modifica del valore di 29,2 milioni di dollari ad un contratto già in essere per il nuovo elicottero AW119Kx.
I lavori relativi tale commessa saranno eseguiti a Philadelphia, in Pennsylvania, con una data di completamento stimata per il 30 giugno 2024.
Trattasi di approvvigionamento di aeromobili per l’anno fiscale 2022 con fondi dell’esercito statunitense e fondi per le vendite militari estere (Israele) per un importo di 29, 2 milioni di dollari.
L’U.S. Army Contracting Command di Redstone Arsenal in Alabama, è la stazione appaltante.
Il Ministero della Difesa israeliano nel 2020 aveva siglato con l’omologo italiano un accordo reciproco che vedeva Tel Aviv acquistare un pacchetto di addestramento da Leonardo che comprendeva 12 elicotteri da addestramento AW119KX e due simulatori per la Air Force Flight School. Roma da parte sua acquistava nuovi lotti di missili Spike prodotti da Rafael e simulatori avanzati per diversi modelli di elicotteri dell’Esercito Italiano, frutto di una partnership tra Leonardo e Elbit Systems.
I primi sette elicotteri erano stati acquistati nel 2019 e gli altri cinque nel 2020.
Nelle Forze Armate israeliane gli AW119Kk prendono il posto degli anziani Bell 206 “Sayfan”, entrati in servizio dai primi anni ’70 del passato secolo.
(Ares Osservatorio Difesa, 5 aprile 2022)
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Microchip e conduttori, gli affari di Giorgetti in Israele
In Israele il ministro Giorgetti ha analizzato il dossier semiconduttori con gli alti piani di Tower Semiconductor
di Federico Giuliani
In Israele il ministro Giorgetti ha analizzato il dossier semiconduttori con gli alti piani di Tower Semiconductor. Non una società qualunque, ma quella che ha fin qui messo sul tavolo investimenti pari a 500 milioni di euro per l’area di Agrate Brianza. Inserire l’Italia nella grande partita globale dei microchip: è questo uno degli obiettivi di Giancarlo Giorgetti, appena rientrato da una lunga “missione” in Israele. Certo, il ministro dello Sviluppo Economico aveva e ha tre le mani diversi nodi spinosi da sciogliere, ma il tema dei semiconduttori occupa un posto di rilievo ai vertici della sua agenda. Non potrebbe essere altrimenti visto che, al momento, l’Unione europea può nutrirsi di una piccolissima fetta che pesa appena il 9% della quota di mercato mondiale. Il grosso della produzione è invece nelle mani di Stati Uniti, Cina, Corea del Sud e, ovviamente, Taiwan, una delle regine indiscusse del settore.
• Un settore strategico L’Ue, e dunque anche l’Italia, ha bisogno di potersi affidare a un’adeguata produzione di microchip. Senza la quale, oltre a dover dipendere dagli altri, è costretta a continuare a fare i conti con pesantissime ripercussioni sull’autonomia di vari settori, dalla difesa all’industria passando per il cloud. Qualche settimana fa Bruxelles aveva svelato un progetto che, facilitando la transizione digitale e quella verde, avrebbe consentito, da qui al 2030, di raddoppiare la produzione europea di semiconduttori, arrivando a coprire una quota di mercato globale pari al 20%. In attesa di capire se le promesse saranno mantenute, l’Italia sta sondando il terreno per non farsi cogliere impreparata. Anche perché stiamo parlando di un settore altamente strategico, a maggior ragione per uno Stato “di trasformazione” come l’Italia che, a fronte di un’eventuale penuria di semiconduttori, si troverebbe a fare i conti con il blocco di molteplici filiere chiave e con la necessità di acquistare i microchip da altri Stati.
• La missione di Giorgetti E qui torniamo alla trasferta israeliana di Giorgetti. Il ministro ha analizzato il dossier semiconduttori con gli alti piani di Tower Semiconductor. Non una società qualunque, ma quella che ha fin qui messo sul tavolo investimenti pari a 500 milioni di euro per l’area di Agrate Brianza. E non in una regione qualunque ma in Lombardia, ovvero nella regione fortino del ministro Giorgetti, eletto nella circoscrizione di Varese e nato a Cazzago Brabbia. Unendo i punti è possibile tratteggiare il piano di Giorgetti: rilanciare l’impegno del governo Draghi nella produzione di semiconduttori “made in Italy” puntando sulle aziende chiave dell’Italia, la maggior parte delle quali situate nel suo bacino elettorale. Una mossa che, in caso di futura fumata bianca, potrebbe consentire al nostro Paese di avere meno pressioni sul campo di microchip e semiconduttori vari.
• Tower Semiconductor e Intel Abbiamo parlato di Tower Semiconductor. Siamo di fronte ad un'azienda israeliana che produce circuiti integrati analogici speciali per varie aziende di semiconduttori, acquistata nel febbraio 2022 da Intel per circa 5,4 miliardi di dollari. E proprio Intel ha promesso in Italia investimenti che potrebbero toccare i 4,5 miliardi nell’ambito di assemblaggio finale di chip e microchip, su un totale di 80 miliardi rientranti in un impegno europeo. L’obiettivo di Giorgetti, dunque, è quello di convincere in qualche modo Intel a portare più investimenti in Italia, dal momento che gran parte del budget aziendale sarebbe destinato a Francia e Germania.
• Il ruolo di STMicroelectronics
Se per migliorare la tecnologia legata ai microprocessori e simili il governo ha creato un fondo da 150 milioni di euro nel 2022 e 500 milioni all’anno dal 2023, per quanto riguarda i semiconduttori Roma ha intenzione di incrementare la produzione di ST Microelectronics. Questa è una società italo-francese partecipata dal Ministero dell’Economia che ha due stabilimenti in Italia: ad Agrate Brianza – quello nel quale Tower Semiconductor ha investito 500 milioni – e quello di Catania. Lecito supporre che Giorgetti punterà a rafforzare l’hub siciliano, magari grazie ad un investimento pubblico o a Tower Semiconductor. Che, in tal caso, anziché aprire i rubinetti per il mercato francese di STM lo farebbe per quello italiano. A proposito dell’investimento di Tower Semiconductor, Jonathan Hadar, a capo della missione economica di Israele in Italia, ha recentemente dichiarato che quell’operazione potrebbe non essere un “episodio isolato”. “In Italia vi sono numerose ottime imprese e vi sono molte aziende in Israele che stanno guardando con interesse al vostro Paese”, ha aggiunto Hadar. Riferendosi tanto a possibili acquisizioni che partnership o joint venture. Una duplice occasione che Giorgetti intende cogliere al volo.
(True News, 5 aprile 2022)
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Ramadan con nuovi attacchi terroristici
di Alfredo De Girolamo e Enrico Catassi
Nell'era della pandemia e della guerra in Ucraina una nuova ondata di attacchi terroristici ha colpito Israele. Tre attentati in breve successione lasciano presagire che forse siamo ricaduti in una drammatica fase del conflitto. Alta l'allerta, con l'esercito israeliano schierato al fianco della polizia. Sul quotidiano Haaretz l'esperto di questioni militari Amos Harel ha commentato: “La serie di attacchi terroristici che ha sconvolto l'agenda nazionale e restituito un senso di paura nelle strade delle città israeliane, ha messo in evidenza qualche zona d'ombra nell'apparato della difesa”. Le ragioni per cui la sicurezza è stata presa in contropiede potrebbero essere due: l'aver sottovalutato il numericamente esiguo coinvolgimento di persone identificabili con l'Isis e la rapidità dell'effetto di emulazione (copycat) nell'influenzare la catena degli attentati. Tuttavia, parlare di falla nel sistema è alquanto prematuro e non corrisponde al vero, come spiega lo stesso Harel: “Non c'è stato nessun preavviso delle follie omicide dei tre cittadini arabi di Israele”. La concomitanza con il mese del Ramadan, periodo che di solito coincide con un innalzamento delle tensioni, complica notevolmente le cose. Il governo israeliano pare intenzionato, per non aggravare ulteriormente una situazione già delicata, a non imporre restrizioni, che solitamente vanno dalla chiusura (lockdown) dei Territori Palestinesi alla limitazione della libertà di culto per i fedeli musulmani. Misure che tuttavia potrebbero essere introdotte successivamente, in caso di escalation. Per David Horovitz, prestigiosa firma del The Times of Israel, “tutto lascia pensare che il terrore e lo spargimento di sangue peggioreranno”. Puntualizzando: “Incolpare genericamente gli arabi è ingiustificato e controproducente”. Se i primi due attentati (Beersheba e Hadera) sono stati compiuti da arabi israeliani, legati all'Isis, quello a Bnei Brak, periferia di Tel Aviv, in cui hanno perso la vita cinque persone, è stato condotto da un terrorista palestinese di Jenin, affiliato alle frange estremiste di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Il fatto che sia sfuggito alle maglie dei servizi segreti di Ramallah ed abbia gravitato nello storico movimento di liberazione della Palestina ha direttamente chiamato in causa il presidente Abu Mazen. Il quale ha preso pubblicamente le distanze dall'episodio, condannandolo: “l'uccisione di civili palestinesi ed israeliani porta solo ad un ulteriore deterioramento della situazione”. La decisione di mettere in chiaro la propria posizione non era scontata, visto che in passato la ferma condanna non si era sempre fatta sentire così esplicita da parte dell'inquilino della Muqata. In queste ore sul successore di Arafat sono piovute numerose critiche interne, soprattutto tra le nuove leve di Fatah. In un partito frantumato da dissidi e faide, dove l'ottuagenario leader è in seria difficoltà di comando. Mentre, può contare sull'appoggio esterno di Giordania, USA ed Europa, almeno per ora senza concrete alternative su cui puntare.
(QuiNewsPisa, 5 aprile 2022)
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Il terrorismo in Israele e la mediazione nel conflitto Russia-Ucraina
Intervista all’ambasciatore Dror Eydar
di Paolo Castellano
«I terroristi vogliono uccidere gli ebrei e rompere le loro tradizioni alla vigilia delle feste religiose. È la loro natura». Queste le parole dell’ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, che il 3 aprile ha fatto visita alla Comunità ebraica di Milano. Durante il suo soggiorno milanese, presso la Sinagoga Centrale Eydar ha rilasciato a Mosaico un’intervista in esclusiva sui principali temi d’attualità riguardanti lo Stato ebraico. Al momento Israele sta affrontando una nuova ondata di terrorismo e cercando di mediare una pace tra Russia e Ucraina. Inoltre, la presenza dell’ambasciatore è stata l’occasione per scambiarsi reciprocamente gli auguri di Pesach.
- Ambasciatore Eydar, sono momenti complicati per Israele. Nell’arco di una settimana abbiamo avuto tre attentati. Perché si sta verificando una nuova ondata di terrorismo? Prima vorrei dire che ogni attacco terroristico deve essere analizzato attraverso due dimensioni: sincronica e diacronica. Sincronica perché i terroristi vogliono uccidere ebrei. Questa è la loro natura. Inoltre, in questo momento, siamo alla vigilia delle feste religiose: tra poco si celebreranno il nostro Pesach, la Pasqua cristiana e il Ramadan musulmano. Ovviamente i terroristi vogliono disturbare e rompere questo clima di festa fatto di rapporti famigliari. Inoltre, di recente si è anche svolta una storica conferenza avvenuta nel Negev che ha visto la partecipazione dei ministri degli Affari esteri di alcuni Stati arabi. Tale conferenza è il contrario di tutto quello che i terroristi incarnano. Il terrorismo rappresenta un vecchio paradigma in Medio Oriente, mentre l’incontro del Negev raffigura una nuova prospettiva. Israele e i suoi alleati arabi stanno intraprendendo una direzione alternativa: per il loro futuro i paesi sunniti moderati hanno capito che devono costituire la normalizzazione diplomatica con Israele. I paesi arabi non fanno un favore a Israele ma è qualcosa di reciproco. Perché gli Stati arabi possono dare un contributo a noi e noi a loro, offrendo la nostra tecnologia e sicurezza specialmente per difenderci dall’Iran che lavora per destabilizzare il Medio Oriente. Teheran desidera l’egemonia nella Regione, imponendo una volontà sciita contro la maggioranza sunnita. Per di più, i terroristi guardano ciò che sta succedendo in Ucraina, credono che l’Occidente si trovi in una situazione di debolezza e per questo pensavano di lanciare questi vili attacchi. Ma c’è anche una prospettiva storica dentro cui dobbiamo considerare gli atti terroristici. È da più di 100 anni che questi terroristi o i loro predecessori si oppongono a questo cambiamento nella storia del nostro popolo: tornare a casa a Sion, concludere l’esilio. Durante gli ultimi 150 anni ci sono stati nemici che volevano bloccare il ritorno del nostro popolo, impedire la possibilità di costruire un nostro paese indipendente e ostacolare la nostra prosperità. Anche l’Olocausto è stato un tentativo di bloccare questa nuova tendenza della storia ebraica. Riguardo lo storico incontro nel Negev: ciò rafforza la nostra presenza nella patria antica, a Gerusalemme; dà linfa ai nostri valori di condivisione e di collaborazione su questa terra, rafforzando i rapporti con i nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo, il popolo ebraico, la diaspora. Israele è lo Stato degli ebrei e ci sentiamo responsabili anche per la vita, la sicurezza e la prosperità degli ebrei sparsi per tutto il pianeta. Insieme sono sicuro – e credo anche con l’aiuto di Dio – che supereremo questa ondata di violenza.
- Qual è la strategia per prevenire nuove violenze e rassicurare la popolazione? Come ho già dichiarato in altre sedi, Israele sta prestando molta attenzione all’evolversi della situazione. Abbiamo fatto tutto ciò che è necessario per implementare la sicurezza, mobilitando l’intelligence e posizionando nelle vie di Israele un numero più ampio di agenti di polizia e di altri enti che si occupano di sicurezza all’interno dei confini israeliani. Non abbiamo bisogno di essere preoccupati, ma dobbiamo solamente essere più attenti. Questo è quello che faremo.
- A proposito di ebrei nel mondo, in Ucraina la popolazione ebraica è attualmente sotto attacco. Cosa sta facendo Israele per aiutarli? Israele ha inviato sostegno umanitario al popolo ucraino. Abbiamo inviato più di 100 tonnellate di attrezzatura medica, tende invernali e altri prodotti. Noi dell’Ambasciata di Roma abbiamo inviato a Leopoli sei enormi generatori per fornire elettricità continua agli ospedali. Abbiamo costruito un ospedale da campo in Ucraina con le tecnologie più avanzate al mondo e con i migliori dottori e infermieri israeliani. Il nostro staff sanitario sta aiutando migliaia di pazienti ucraini. Come ho detto, ci sentiamo responsabili dei nostri fratelli e sorelle in Ucraina. Non solo. Anche per gli ebrei che si trovano in Russia. Vogliamo aiutare chi vuole scappare dalla zona di rischio e chi intende fare l’aliyah, emigrando in Israele e tornando finalmente a casa.
- Tuttavia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha criticato Israele per non avergli fornito supporto militare… Riguardo alle lamentele del presidente Zelensky, il nostro primo ministro ha avuto colloqui con Vladimir Putin in persona. Naftali Bennett ha mediato tra le parti. Per di più, i negoziati adesso sono in Turchia e continua l’iniziativa di Israele di mediare un cessate il fuoco. Tuttavia, dobbiamo considerare che Mosca è al nostro confine poiché attualmente opera in Siria; inoltre in Russia ci sono ebrei e di conseguenza dobbiamo essere molto attenti a ciò che facciamo. Lo Stato ebraico sta cercando una mediazione ma alla fine Israele non è un grande attore. Non è uno dei protagonisti in questo dramma come lo sono l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Israele non può fare di più di ciò che dovrebbero fare questi due imperi. Ovviamente condanniamo l’attacco della Russia e lo abbiamo dichiarato pubblicamente attraverso le parole dei nostri ministri. Il nostro paese vuole la fine della guerra. Detto ciò, lo scopo della fondazione di Israele è di essere un rifugio sicuro per tutti gli ebrei al mondo. Per questo dobbiamo muoverci con attenzione per non compromettere questa missione. E poi, dobbiamo ricordarci che mentre in Ucraina si svolge un dramma mondiale, una tragedia, in un’altra parte d’Europa, a Vienna, stanno continuando i negoziati per l’accordo sul nucleare dell’Iran. Accontentare gli iraniani, secondo noi, provocherebbe un’ulteriore catastrofe europea e mondiale. L’Iran guarda con interesse quello che sta accadendo in Ucraina e sa che la polizza assicurativa per il suo regime sanguinoso è la bomba atomica. Negli ultimi 20 anni, il mondo non ha ascoltato gli appelli di Israele. Dobbiamo capire che non si tratta solamente di un pericolo per Israele ma di un pericolo per tutto l’Occidente. Un semplice dato: l’Iran sta sviluppando missili con un raggio oltre i 3mila km. Questi missili potranno essere utilizzati come minaccia per l’Italia e per l’Europa. Proprio come fa la Corea del Nord. Per questo siamo amareggiati per il contenuto dei negoziati. In ogni modo, dobbiamo sottolineare che questo accordo non vincola Israele. Se c’è una lezione che abbiamo imparato dalla storia è che Israele e il popolo ebraico non devono contare sugli altri ma difendersi con la propria forza.
- Tra poco celebreremo Pesach, una festività che ci ricorda e celebra la tenacia del popolo ebraico… Certamente. Per questa ragione auguro a tutta la comunità ebraica italiana, specialmente a quella di Milano, Pesach Kasher veSameach. Inoltre, auguro a tutti voi prosperità e sicurezza. Vi invito a visitare Israele senza paura. Dobbiamo ricordarci che questa lunga storia è iniziata al primo Pesach quando siamo usciti dalla schiavitù per inseguire la libertà eterna. In questo lungo cammino abbiamo avuto tanti ostacoli: distruzione e guerre ma anche redenzione e prosperità. Negli ultimi 2000 anni il popolo ebraico è in un periodo più grande e perciò non dobbiamo aver paura dei terroristi perché loro fanno parte del passato. Am Israel Chai.
(Bet Magazine Mosaico, 5 aprile 2022)
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La crisi vista dalla Palestina dove la molotov è «terrorista»
L'Ucraina sta alla Russia come la Palestina sta a Israele. Può essere questa l'equivalenza che fa arrabbiare i "palestinesi" per l'«ipocrisia degli occidentali» che condannano per motivi morali i russi che bombardano gli ucraini e non gli israeliani che bombardano i palestinesi. L'equivalenza certamente non sta in piedi, ma quando si dà credito incondizionato a certa stampa, si può arrivare dappertutto. Riportiamo questo articolo di un giornale notoriamente anti-israele che tuttavia qui fornisce informazioni e spunti di riflessione. NsI
di Michele Giorgio
Non è semplice, dopo oltre un mese, rappresentare la posizione dei palestinesi nei confronti della decisione di Vladimir Putin di scegliere la via militare e di attaccare l'Ucraina.
Il primo fattore da considerare è la differenza esistente tra la linea del silenzio scelta dall'Anp di Abu Mazen e dal movimento islamico Hamas, per non compromettere i rapporti con Mosca, e quella della popolazione, o almeno di una parte di essa, più incline a solidarizzare con Kiev. L'atteggiamento della gente comune però sta mutando. È passato dalla solidarietà ai civili ucraini colpiti dall'invasione dall'esercito russo - per giorni sui social tanti hanno postato foto di edifici e infrastrutture in Ucraina colpiti da missili e dei profughi in fuga dalla guerra, assieme a quelli di Gaza distrutti da attacchi israeliani - a una posizione più neutrale, figlia del disappunto generato dall'«ipocrisia degli occidentali».
UN SONDAGGIO del Palestine Center for Policy and Survey Research rivela che il 43% dei palestinesi attribuisce alla Russia la responsabilità della guerra, ma un altro 40% ritiene che la colpa vada data all'Ucraina.
Abbastanza simili le posizioni degli arabo-israeliani (i palestinesi in Israele) secondo un sondaggio del Peace Index. Lohara, una giovane attivista di Ramallah, prova a spiegarci la spaccatura: «Come palestinesi la nostra simpatia va sempre ai civili diventati profughi e che ricordano i nostri profughi. Inoltre condanniamo ogni occupazione militare - precisa rispondendo a una nostra domanda -. Detto ciò ci aspettavamo in questa occasione che da parte del presidente ucraino ci fosse solidarietà nei confronti del popolo palestinese. Zelensky però ama Israele che ci opprime da decenni e occupa dal 1967 le nostre terre. Per noi è stata una delusione cocente e così si è spenta l'iniziale spinta filo-ucraìna».
In conseguenza di ciò sono diventati più visibili sui social e talvolta anche nelle strade i sostenitori della Russia, spinti dall'avversione verso gli Stati Uniti alleati di Israele e dall'idea che lo scontro tra Mosca e Washington abbia resuscitato il conflitto Est -Ovest con futuri riflessi positivi in Medio Oriente e per la questione palestinese. Non pochi opinionisti e intellettuali puntano il dito contro gli europei e gli statunitensi, leader politici e opinione pubblica, che condannano l'occupazione russa e appoggiano la resistenza armata ucraina ma non usano lo stesso metro di giudizio nei confronti dell'occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. La molotov, la bottiglia incendiaria, è stata perciò oggetto di non poche analisi in queste settimane.
I palestinesi scrivono che mentre quelle che lanciano gli ucraini contro i carri armati degli occupanti russi sono considerate legittime dagli occidentali, quelle che scagliano i palestinesi contro gli occupanti israeliani sono «terrorismo».
Alcuni sottolineano la rapidità con cui Usa e Ue hanno imposto sanzioni economiche, finanziarie e sportive alla Russia mentre «non impongono alcuna sanzione a Israele». Persino il presidente dell'Anp, che pure evita posizioni di rottura con gli Usa, non ha mancato di dire al segretario di Stato Blinken: «Non troviamo nessuno che consideri Israele uno Stato al di sopra della legge».
DISCORSO A PARTE per i palestinesi islamisti. Se tra questi è ugualmente forte il sentimento anti-Usa, è vero anche che molti di loro nutrono una profonda avversione per Mosca perché ha permesso al presidente siriano Bashar Assad di sbaragliare militarmente i suoi avversari, rappresentati da vari movimenti islamici e jihadisti e perché è alleata dell'Iran sciita. Hamas però non vuole attriti con il Cremlino che tiene aperte le porte ai suoi dirigenti. Quando nei giorni scorsi alcune decine di donne ucraine, sposate a palestinesi, hanno provato ad organizzare a Gaza un raduno pro-Kiev, la polizia di Hamas le ha mandate a casa esortandole a non creare problemi.
(il manifesto, 5 aprile 2022)
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Il vice ambasciatore di Israele accolto in Municipio: “Gemellaggio virtuoso con Trieste”
Presente il sindaco Dipiazza. Menzionato il protocollo firmato tra Trieste e la città israeliana di Modiin, con lo scopo di instaurare rapporti di collaborazione e scambio di esperienze fra le due città.
Il gemellaggio tra Trieste e la città israeliana di Modin è stato al centro dell'incontro avvenuto ieri in Municipio tra il Vice Ambasciatore di Israele, Alon Simhayoff e il Sindaco di Trieste Roberto Dipiazza. Simhayoff era in visita in città accompagnato dal Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Trieste, Renzo Sagues. Presente anche la Vicesindaco, Serena Tonel con l’assessore Sandra Savino.
Al centro del cordiale colloquio temi culturali, economici e scientifici legati allo sviluppo della città e all’attuale fase di rilancio e riqualificazione del Porto Vecchio. Il Sindaco Dipiazza, ribadendo gli ottimi rapporti di amicizia con la comunità ebraica di Trieste da sempre città multietnica e multireligiosa, ha ricordato l’importanza del dialogo e delle relazioni pacifiche tra i popoli e a tal fine sta lavorando per riunire qui i presidenti dell’area balcanica come già avvenuto nel 2010 per il concerto dei tre presidenti in piazza Unità d’Italia.
Il Vicesindaco Tonel ha quindi menzionato il protocollo già firmato tra Trieste e la città israeliana di Modiin, Comune israeliano di 90 mila abitanti, a metà strada circa fra Tel Aviv e Gerusalemme, avente lo scopo di instaurare una serie di rapporti di collaborazione e di scambio di esperienze fra le due città e Amministrazioni pubbliche, seguendo il filone del cosiddetto “apprendimento permanente”, proposto a livello globale dall'UNESCO e consistente in un insieme di “pratiche virtuose” svolte in diversi settori, ma aventi tutte il fine di un complessivo miglioramento delle condizioni di vita e di un accrescimento delle conoscenze da parte della popolazione. Al termine il Vice Ambasciatore Simhayoff ha condiviso con il Sindaco l’importanza di incentivare attività in vari settori in partnership e di favorire rapporti di scambio.
(TriestePrima, 5 aprile 2022)
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La provocazione: “Vi spiego perché do ragione a Putin”
L'autore, docente di chimica fisica all'Università di Modena, autore del libro "Non esiste alcuna emergenza climatica", racconta le ragioni di Putin sull’attacco all’Ucraina e perché non sta dalla parte di Zelensky.
di Franco Battaglia
Dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso di rompere ogni indugio. Se, messo con le spalle al muro fossi costretto a scegliere, ebbene: io sto con Putin. E voglio cogliere subito l’occasione di obiettare a Maria Giovanna Maglie (che stimo tanto che, come dissi a suo tempo, l’avrei ben vista al Quirinale), la quale ha ipotizzato che chi sta con Putin lo fa perché attira (o fa comodo) stare con l’uomo forte e potente. Cara Maria Giovanna, guardi che qui il più forte, potente (e prepotente) è Biden.
• PERCHÉ L’OCCIDENTE HA SCELTO ZELENSKY Capisco che mi meriterò le invettive dell’universo mondo occidentale, ma pazienza. Il mondo occidentale è il mio mondo e non lo cambierei con alcun altro dei mondi reali. Di quelli possibili, che stanno nell’Iperuranio platonico, non voglio occuparmene. Quello occidentale è il mondo che ho la presunzione – o l’illusione – di ritenere il migliore e lo reputo a me amico. Senonché, per deformazione professionale, tendo a prendere molto sul serio il monito amicus Plato, sed… etc. Col che non voglio dire di essere io detentore della verità – ci mancherebbe – ma solo che cerco, per quanto possibile e con tutti i miei difetti e limiti, di perseguirla. Quali sono le argomentazioni di chi sta con Zelensky? Certamente non il fatto che le guerre vanno condannate a prescindere: purtroppo le guerre fanno parte delle cose del mondo, ove troppe ve ne sono. Esse sono l’equivalente tra nazioni di ciò che accade, quotidianamente, tra i singoli umani, una specie che non ci vuole molto sforzo a chiamare imperfetta e, se non spesso, sicuramente a volte, stupida. Posto quindi ciò, quando ci sono due contendenti, si può scegliere di stare dalla parte di uno dei due, o per convenienza o per convinzione. Naturalmente si può anche decidere di stare a guardare. Il fatto è che il mio mondo occidentale, quello che io amo e che reputo amico, ha scelto. O meglio: quelli che contano hanno scelto, e hanno scelto Zelensky. Quanto a me, prima di adeguarmi voglio capire. Allora: quali sono le argomentazioni di chi sta con Zelensky? Naturalmente parlo delle argomentazioni dichiarate, perché le eventuali non dichiarate possiamo solo immaginarle, ma qui scegliamo di non esercitare la fantasia e ci atteniamo alla realtà così come ci viene raccontata da chi sta con Zelensky. V’è, di fatto, una sola argomentazione dichiarata per la scelta fatta, ed è la seguente. «La Russia ha aggredito l’Ucraina, una nazione sovrana, cosicché la Russia è un aggressore e a essa va tutta la nostra condanna; mentre all’Ucraina, che è stata aggredita, va tutto il nostro sostegno morale e, possibilmente, materiale». Non mi pare vi siano altre motivazioni dalla parte della Ue e degli Usa.
• LE RAGIONI DI PUTIN L’argomentazione dell’altra parte per giustificare ciò che essa chiama non “guerra” ma “operazione militare speciale” è, innanzitutto, che a essa la Russia vi è stata costretta. Ad ascoltare le dichiarazioni dell’ambasciatore russo in Italia Sergey Razov, nei mesi precedenti l’inizio dell’invasione, Putin aveva lamentato, in Ucraina, la colpevole costruzione di una struttura militare minacciosa verso la Russia, e aveva richiesto una soluzione della sgradevole circostanza sia a Washington che agli altri Paesi della Nato. È vero? Non è vero? Per saperlo basta tornare indietro nel tempo. Nel mio precedente pezzullo ho già citato l’articolo “mano-tesa/ultimatum” di Putin del 12 luglio 2021. Ma spingiamoci fino al 23 dicembre 2021 e riportiamo le seguenti parole di Putin in pubblica conferenza-stampa, ove il presidente russo lamenta che nel Donbass (abitato da russi così come il nostro Sudtirolo è abitato da tedeschi) dopo il 2014 il governo ucraino era intervenuto con due operazioni militari provocando il genocidio di 14 mila civili russofoni). Dice Putin: «Abbiamo l’impressione che il governo Ucraino stia preparando una terza operazione militare e, mettendo le mani avanti, ci avverte di non immischiarci e di non pensare di intervenire in difesa di quella gente, perché – dicono – se intervieni e li difendi, ci saranno altre sanzioni. E noi dobbiamo essere pronti per questa evenienza. Ma le nostre azioni dipenderanno non dal processo di negoziazione quanto piuttosto dalle garanzie sulla sicurezza incondizionata della Russia. A questo proposito, lo abbiamo detto in modo chiaro ed esplicito: ogni ulteriore espansione a est della Nato è inaccettabile. Cosa c’è di ambiguo qui? Forse noi stiamo mettendo missili ai confini degli Stati Uniti? No! Sono gli Stati Uniti che vengono qui coi loro missili. Essi sono già alle nostre porte». Ci si può chiedere se, per caso sono, quelli detti (attentato alla sicurezza di Mosca, eccidi di Maidan, di Odessa, nel Donbass), immaginazioni senza riscontro con la realtà. Orbene, quanto al timore di missili Nato a 600 km da Mosca, esso era ben fondato, visto che Zelensky dichiarò di aver capito che l’Ucraina non può stare nella Nato un buon mese dopo l’inizio dell’invasione russa. Quanto agli eccidi: le informazioni che per anni potevano leggersi su Wikipedia su quello di Odessa sono state sbianchettate e revisionate pochi giorni fa. In ogni caso, Wikipedia non è una fonte attendibile, e val la pena citare in proposito alcune interrogazioni di parlamentari Ue alla Commissione Europea.
• IL RUOLO DELL’UNIONE EUROPEA 1. Interrogazione del 7 novembre 2014. «Il 2 maggio scorso, ad Odessa, è avvenuta una strage, davanti e all’interno della Casa dei sindacati, che ufficialmente ha provocato 48 vittime. Tuttavia, secondo stime non ufficiali, i caduti potrebbero essere anche 150, cui vanno aggiunte diverse centinaia di feriti scampati per poco all’eccidio. I morti sono tutti di nazionalità ucraina e di etnia russa. La versione ufficiale delle autorità ucraine è stata da più parti messa in discussione. Tuttavia, le autorità di Kiev e di Odessa non hanno, a quanto è dato sapere, effettuato alcuna indagine approfondita, né individuato alcun colpevole. Numerosi indizi suggeriscono che non è stato il presunto incendio dell’edificio a uccidere coloro che si trovavano all’interno, lì rifugiatisi per non essere massacrati in strada, bensì sono stati colpi di arma da fuoco o armi di altro genere. Esistono filmati che mostrerebbero poliziotti sparare sui disperati che cercavano di fuggire dalle finestre e tutte le prove disponibili indicano che gli assedianti intendevano uccidere. A fronte di tale inaccettabile massacro, può la Commissione far sapere se ritiene opportuno esprimere una ferma condanna dell’accaduto e adottare posizioni in materia di politica estera che aiutino a prevenire il ripetersi di simili drammatici eventi?» 2. Risposta del 23 marzo 2015 da parte della Commissione Ue. «Nelle sue conclusioni del 12 maggio 2014 il Consiglio Affari esteri ha dichiarato quanto segue: “I tragici eventi di Odessa del 2 maggio, che hanno provocato la morte e il ferimento di numerose persone, devono essere investigati in modo accurato e tutti i responsabili devono essere consegnati alla giustizia”».
3. Interrogazione del 17 novembre 2017. «Il 18-20 febbraio 2014, nell’ambito del conflitto ucraino, sono rimaste uccise almeno cento persone in piazza Maidan, a Kiev. In controtendenza rispetto alla versione immediatamente fornita dai media internazionali, alcune intercettazioni emerse hanno rivelato che la strage sarebbe stata compiuta da cecchini agli ordini della nuova coalizione filo-occidentale. In particolare: a tre anni di distanza dai fatti, un servizio d’inchiesta ha portato alla luce le confessioni di alcuni degli stessi cecchini di Maidan che hanno ammesso come dietro la strage di dimostranti e poliziotti non ci fossero gli uomini del presidente filo-russo Viktor Yanukovich, ma piuttosto i capi dell’opposizione appoggiata dall’Unione europea. Secondo queste testimonianze, si chiede alla Commissione: intende chiarire la propria posizione, alla luce delle rivelazioni emerse? Ritiene opportuno avviare un’inchiesta? Non ritiene di dover riconsiderare gli equilibri nell’area, il riconoscimento delle aree di competenza e l’incondizionato appoggio oggi garantito al governo di Kiev?» 4. Risposta del 22 gennaio 2018 da parte della Commissione Ue. «La Unione Europea annette grande importanza alle indagini sui tragici avvenimenti di piazza Maidan (2013-2014) e di Odessa (2 maggio 2014). L’Unione ha esortato più volte, anche in occasione del dialogo regolare con l’Ucraina sui diritti umani, a svolgere le debite indagini su tutti gli atti di violenza e su tutte le violazioni dei diritti umani e a consegnare i responsabili alla giustizia». I fatti sono che ad oggi il governo ucraino non ha punito nessuno per gli eccidi di piazza Maidan, di Odessa e, men che meno, in Donbass. La Russia chiede giustizia da 8 anni senza ottenerla: diceva Cicerone che chi non ottiene giustizia dalle aule dei tribunali, inevitabilmente la cerca nelle strade.
• SIMPATIE NEO-NAZISTE
Poi c’è l’accusa delle simpatie neo-naziste del governo ucraino. L’accusa è dismessa come sicuramente falsa dai nostri mezzi di comunicazione perché Zelensky sarebbe ebreo. Senonché è un fatto che in alcune città ucraine sono issate statue e sono dedicate vie e piazze in onore di Stepan Bandera. Per esempio a Leopoli, a Kolomyia, a Novojavorivs’k. Basta cercare su Google Map per verificare. Chi è costui? Leggiamo su Wikipedia (che, evidentemente, non ha ancora provveduto a sbianchettare questa voce): «Stepan Bandera collaborò con la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Quando le truppe sovietiche si ritirarono da Leopoli, con l’Atto di restaurazione dello Stato ucraino Bandera annunciò la creazione di uno Stato ucraino indipendente e dichiarò di voler sostenere i piani espansionistici nazisti, giurando fedeltà ad Adolf Hitler».
Insomma, tutte le accuse di Putin sembrano fondate: gli eccidi dal 2014 in poi, le simpatie naziste del governo ucraino (che nasce dalle ceneri del colpo di stato del 2014), la minacciosa militarizzazione dell’Ucraina. Personalmente mi pongo due domande. Primo, mi chiedo se per caso questa azione aggressiva di Putin non abbia scongiurato un futuro conflitto mondiale, ben possibile se l’Ucraina fosse nella Nato. Si può obiettare che se l’Ucraina fosse stata nella Nato la Russia non l’avrebbe attaccata. Già, ma questo significa che la persecuzione delle minoranze russe in Ucraina non sarebbe cessata. Secondo, mi chiedo se Putin non avrebbe potuto usare altre armi per raggiungere lo scopo. Per esempio, sanzioni, tipo la chiusura dei rubinetti di gas verso l’Europa: sembra poco credibile che la Russia abbia bisogno di vendere gas all’Europa, visto che ha altri clienti, da alcuni dei quali l’Europa – che geni – si approvvigionerebbe acquistando indirettamente, a prezzo più alto, gas russo. Quindi, no, sembra proprio di no: Putin aveva il dovere di smantellare la struttura militare offensiva che si stava costruendo in Ucraina. Che alla fine ci riesca, è un’altra storia. Ma io, esaminato tutto l’esaminabile, sto con la Russia.
(Nicola Porro, 4 aprile 2022)
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Riportando questo articolo non vogliamo dire di essere d'accordo su tutto, ma è un fatto che la versione governativa ufficiale, ripresa dalla maggior parte dei media, ha lo stesso carattere di tendenziosa menzogna e intimidazione dei dissenzienti che ha sostenuto la campagna di vaccinazione forzata. Quindi ci sta bene anche una posizione come questa. Se l'Oriente russo appare in questo momento come il regno della violenza, l'Occidente atlantico si rivela come il regno della menzogna. Il mondo ebraico sembra essersi tutto allineato con l'Occidente, ma per Israele la menzogna estesa e organizzata alla lunga è molto più rovinosa della violenza. M.C.
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Claudia Lamanna vince l’International Harp Contest in Israele
Claudia Lucia Lamanna porta sul tetto del mondo la sua passione ed anche le sue origini, Noci! Ha vinto ad Akko, in Israele, la più prestigiosa competizione per arpa al mondo: l’International Harp Contest in Israele.
Questa è una competizione di arpa fondata nel 1959 da Aharon Zvi Propes nella città di Gerusalemme, è stato il primo concorso per arpa nella storia dello strumento.
A presiedere la competizione di quest’anno è stata l’ambasciatrice e membro del governo israeliano Colette Avital.
I partecipanti sono stati 63 provenienti da 25 Stati diversi, hanno partecipato 49 musicisti da 22 Stati: il dato di participanti più alto di sempre.
In semifinale sono giunti solo 9 concorrenti e solo 3 concorrenti in finale: la nostra compaesana Claudia Lucia Lamanna, la tedesca Lea Maria Löffler e la portoghese Beatriz Cortasao.
Claudia Lucia Lamanna con la sua Arpa ha incantato la platea e la giuria, conquistando il primo posto, aggiudicando una serie di concerti in tutto il mondo ed un’arpa del valore di 55mila dollari.
(LEGGI NOCI, 4 aprile 2022)
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Emirati – Israele: firmato accordo su trasporto marittimo
Come già preannunciato nei giorni scorsi tra i due Paesi che hanno sottoscritto gli accordi di Abramo.
Gli Emirati Arabi Uniti e Israele hanno firmato un accordo per intensificare la cooperazione nel campo del trasporto marittimo, migliorare lo scambio di esperienze e rafforzare le partnership strategiche per servire interessi comuni, ampliando ulteriormente le loro relazioni. Secondo quanto ha annunciato l’agenzia di stampa emiratina “WAM” l’accordo è stato firmato dal Ministro dell’Energia e delle infrastrutture degli Emirati, Suhail Al Mazrouei, e dal Ministro dei Trasporti di Israele, Merav Michaeli. Il Ministro emiratino Al Mazrouei ha spiegato alla stampa locale: L’azione congiunta tra Emirati Arabi Uniti e Israele rientra nel quadro della determinazione dei due Paesi a garantire sicurezza economica, stabilità e prosperità permanenti e di sviluppare e rafforzare economie nazionali sostenibili. Nei giorni scorsi, Emirati e Israele hanno concluso i colloqui su un accordo di partenariato economico globale che dovrebbe aumentare il commercio non petrolifero e gli investimenti. Arabia Felix raccoglie le notizie di rilievo e di carattere politico e istituzionale e di sicurezza provenienti dal mondo arabo e dal Medio Oriente in generale, partendo dal Marocco arrivando ai Paesi del Golfo, con particolare riferimento alla regione della penisola arabica, che una volta veniva chiamata dai romani Arabia Felix e che oggi, invece, è teatro di guerra. La fonte delle notizie sono i media locali in lingua araba per dire quello che i media italiani non dicono.
(ExPartibus, 4 aprile 2022)
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Il vero nemico dei palestinesi è il terrorismo palestinese
Se non si mette fine al terrorismo, non ci può essere fine dell'occupazione: per capirlo basta guardare la mappa di Israele.
Il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ha dovuto essere minacciato perché si decidesse a pronunciare una riluttante condanna dell’attacco terroristico a Bnei Brak, e comunque non ha mai condannato i due precedenti attentati a Beersheba e Hadera. Certo, i primi due attentati erano stati effettuati da cittadini arabi israeliani sostenitori dello Stato Islamico (Isis), non da palestinesi come invece il terzo. Ma condannare atti di efferato terrorismo contro civili innocenti sarebbe sempre la cosa giusta da fare. Per uno che afferma di voler costituire uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, questa reticenza non ha senso. Davvero Abu Mazen ancora non capisce che, se non si mette fine al terrorismo, non ci può essere la fine dell’occupazione sotto la quale i palestinesi vivono ormai da 55 anni?
(israele.net, 4 aprile 2022)
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Caro Colombo, pure io sto coi bimbi (tutti) Infatti dico "No armi"
di Donatella Di Cesare
Sono anch'io dalla parte dei bambini ucraini in fuga. E da quella delle donne, esposte a ogni violenza, degli anziani, inermi e abbandonati. Ma con uno sforzo di immaginazione, oltrepassando la frontiera, sono anche dalla parte dei bambini russi che, nelle periferie delle metropoli o nelle regioni più isolate, saranno vittime delle sanzioni europee e moriranno di fame, stenti, malattie. Senza perdere di vista né l'evidente sproporzione di forze tra Russia e Ucraina, né tanto meno la scellerata aggressione, punto l'indice contro i capi, i leader, i governi di entrambi i paesi, che stanno portando i rispettivi popoli a un massacro insensato. E lo fanno, peraltro, in una escalation sfrenata evitando quasi intenzionalmente ogni trattativa.
In questo senso la mia prospettiva è certamente diversa da quella di Furio Colombo. Non credo infatti che basti condannare "l'interventismo di Putin", Questa visione, che io ritengo unilaterale, nel migliore dei casi finisce nel vicolo cieco della condanna, mentre nel peggiore può portare, mediante l'invio di armi, a un coinvolgimento dei paesi europei in questo conflitto.
Ecco perché sin dall'inizio ho criticato quella propaganda bellicistica che fa un uso subdolo della parola "resistenza" al fine di conquistare la benevolenza dell'opinione pubblica italiana. Questa nuova guerra mondiale nel cuore dell'Europa è uno scontro tra due Stati nazionali, una regressione quasi selvaggia al nazionalismo più efferato. Mai avremmo potuto pensare di dover vivere un evento del genere nel XXI secolo. Proprio per questo sono stata cauta nel riferimento ad altre guerre. Certo, come dimenticare l'aggressione ingiustificata all'Iraq, con tutto quel che ne è conseguito anche per le nostre democrazie, messe alla prova da leggi speciali? Per non parlare della Siria, del Libano e degli altri scenari bellici che Colombo giustamente menziona. Ma è pur vero che questa guerra è vicina, anzi vicinissima, e da oltre un mese viene combattuta nel territorio europeo, dove ormai si è creata una faglia sempre più profonda, che difficilmente verrà sanata in tempi brevi. È una guerra nazionalistica europea, con tratti ottocenteschi, ma nel contesto globalizzato dove si fronteggiano le grandi potenze: Usa e Cina. Tutto questo a danno dei popoli, dei più deboli, dei più poveri, che pagheranno un prezzo altissimo. Da una parte, come dall'altra, ricchi e potenti si salveranno.
Non c'è una umanità di serie A e un'umanità di serie B. Fa bene Colombo a ricordare i lager libici, dove da anni vengono perpetrati orrendi crimini. Denunciamo ovunque le violenze e non restiamo indifferenti. Perciò plaudiamo all'accoglienza dei profughi ucraini, ma restiamo esterrefatti di fronte a una politica migratoria evidentemente razzista che discrimina chi ha la pelle più scura: gli studenti stranieri o i lavoratori temporanei di altre nazionalità, che erano in territorio ucraino, non sono compresi nella protezione accordata dall'Europa. Bambini afghani, siriani, curdi restano a morire fuori dalle nostre frontiere. Il problema è lo Stato nazionale, una forma politica discriminatoria che ora mostra il suo volto decrepito e violento. Perciò auspichiamo una Unione europea dei popoli in grado di superare il criterio della nazione. Chi è di sinistra, anziché prendere le parti di una nazione contro l'altra, dovrebbe assumere il punto di vista che un tempo si diceva inter-nazionalista e che oggi potremmo dire al di là delle nazioni.
Studiare il pensiero del Novecento, filosofi come Heidegger, che hanno avallato il nazismo, e come Walter Benjamin o Hannah Arendt, che ci hanno indicato le vie d'uscita, i varchi, è indubbiamente oggi un grande vantaggio. Fa capire che viviamo ancora all'ombra di Auschwitz, ma aiuta anche a non ripetere gli errori del passato.
(il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2022)
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L’ebraismo si proietta nel metaverso
Intervista a Rav Shmuli Nachlas, il Chabad di Toronto pioniere del nuovo centro ebraico virtuale
di Sarah Tagliacozzo
I Chabad sono dappertutto, dal Nepal al Perù; fra pochissimo saranno anche nel Metaverso. Ma che cos’è il Metaverso? E perché costruire un centro Chabad nel Metaverso? Il progetto nasce dalla fantasia di Rav Shmuli Nachlas, rabbino Chabad a Toronto, dove gestisce insieme alla moglie Chani un centro giovanile ebraico che organizza attività educative e creative, come coinvolgere gli stessi ragazzi nella progettazione di un nuovo edificio a misura delle loro esigenze e gusti.
Ancora non si sa con precisione come sarà il Metaverso, che aspira a diventare un mondo parallelo che coinvolge diverse tecnologie, tra cui la realtà virtuale, che consentono agli utenti di interagire in un mondo virtuale. «Vogliamo metterci lì, impegnarci, iniziare qualcosa e crescerci insieme» spiega Rav Nachlas.
«Penso che per capire meglio cosa sia il Metaverso possa aiutare immaginare di tornare agli anni ’90 e raccontare che in futuro si potrà guardare al cellulare che cosa abbiano mangiato gli altri a pranzo oggi e che si trascorreranno 3/4/5 ore sui social media. Le persone ti avrebbero probabilmente presa per matta anche nel 2000! Ecco, il Metaverso è un’esperienza sociale più coinvolgente, fondata sulla realtà».
In futuro sarà possibile indossare un visore e partecipare dalla propria casa alle attività del centro “MANA”, già in costruzione sul terreno acquistato con criptovalute sulla piattaforma Decentraland. Per il momento c’è solo un cantiere su cui sono stati posizionati cartelli segnaletici e coni stradali che suggeriscono che i lavori sono ancora in corso. Anche se è ancora ad uno stadio embrionale, il centro già presenta alcuni caratteri fortemente ebraici: «Da migliaia di anni, la tradizione ebraica prevede che quando nasce una nuova comunità in un luogo nuovo, la prima cosa che si fa è costruire un mikve. Ovviamente nel Metaverso il mikve non serve, ma ho comunque messo uno stagno di acqua sul terreno» racconta Rav Nachlas.
Ciò che conta è come verrà usato questo nuovo strumento: «Lì ci sono già persone ebree che stanno cercando di capire come funziona, che fanno affari o che socializzano. Penso che il Metaverso sia un’opportunità per insegnare, guidarli, aiutarli con la religione e la spiritualità, così come si fa già su altre piattaforme».
Non mancano potenziali difficoltà: come assicurarsi, ad esempio, che non si possa partecipare alle attività di Shabbat tenendo in considerazione i diversi fusi orari dei luoghi da cui accederanno gli utenti. Rav Nachlas e il suo team sono sicuri che si possano trovare soluzioni grazie all’esperienza già acquisita su internet, come bloccare la chat qualora l’utente stia attivo in un paese dove Shabbat non è ancora finito.
E le mitzvot? Avranno valore? Si dovrà dire l’apposita preghiera prima di lavarsi le mani nel mondo virtuale? Rav Nachlas spiega che durante la pandemia sono stati affrontati temi analoghi riguardanti la vita ebraica online. «Con internet si può fare molto per aiutare le persone» sottolinea. Nel Metaverso si potranno dire benedizioni mentre si mangia o si beve un caffè insieme nella realtà virtuale, si potranno dire preghiere, si potrà spiegare come mettere i tefillin. Tuttavia, spiega Rav Nachlas, «le mitzvot stesse dovranno continuare ad essere fisicamente ancorate al mondo reale»: ad esempio a Sukkot non si potranno impugnare e scuotere il lulav o l’etrog attraverso una icona virtuale, ma sarà necessario farlo nella vita reale.
Il progetto canadese ha catturato l’attenzione delle comunità ebraiche del mondo. A Roma, Rav Zalmen, spiega che «nel Metaverso gli ebrei italiani potranno scoprire comunità diverse, dove l’ebraismo e il mondo giovanile del popolo ebraico si riuniscono avvicinandosi alle pratiche, alla mentalità ebraica e alle tradizioni che ci hanno da sempre uniti e da sempre dato una sensazione speciale di far tutti parte di una grande famiglia. Da oggi anche da tutto il mondo ci potremo incontrare tutti in una stanza del nuovo bet Chabad del Metaverso».
(Shalom, 4 aprile 2022)
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Mondo parallelo, realtà virtuale, mondo virtuale. Non è irrealta - dicono - ma realtà aumentata. Il digitale aumenta il reale come il cibo aumenta il peso. E come per il peso, che quando è aumentato è poi difficile farlo diminuire, così sarà per la realtà, che dopo averla così bene aumentata non riusciremo più a farla tornare indietro. "Sembra... ma non è!" siamo ancora in grado di dire oggi. Ma se qualche abitante del mondo parallelo di domani dovesse dire la stessa cosa, probabilmente gli verrà risposto: "E che vuol dire? c'è forse qualcosa di diverso dal sembrare?" No, certamente no - gli sarà spiegato -: tutto è sembianza. "Io sembro colui che sembro", dichiarerà il dio virtuale ai devoti abitanti della realtà aumentata. M.C.
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Operazione “Rompere l’onda”. Israele reagisce all’ondata terrorista
di Ugo Volli
• La situazione sul campo
Si estende ancora quella che è certamente la più importante ondata terroristica da anni in Israele. Venerdì c’è stato uno scontro a Hebron con la neutralizzazione di un terrorista. Nella notte fra venerdì e sabato si è avuto un conflitto a fuoco molto violento a Jenin. Fonti dei servizi segreti avevano informato le forze di sicurezza di aver individuato a Jenin, in Samaria, una cellula apparentemente già all’inizio di un’operazione terrorista. Intorno all’una e mezza di notte, l’unità d’élite della guardia di confine Yaman ha localizzato la cella e mentre tentava di eseguire gli arresti, i terroristi hanno aperto il fuoco. Le forze Yamam hanno risposto al fuoco, eliminando tre terroristi. Diverse ore dopo, in un'operazione congiunta dell’esercito e dello Shin Bet nel villaggio di Shuweika, vicino a Tulkarem, le truppe israeliane hanno arrestato l'ultimo terrorista sospettato di essere un membro della cellula. L'arresto è stato effettuato in pieno giorno ed è stato stimato che il terrorista stava tentando di effettuare un ulteriore attentato. I soldati hanno anche individuato un fucile d'assalto M16 e munizioni in possesso del terrorista. Diversi militari israeliani sono rimasti feriti nell’operazione fra cui uno di loro, un tenente colonnello, in maniera grave. La morte dei tre terroristi ha innescato altri disordini, fra cui il più grave è stato un episodio consistente sabato notte vicino alla porta di Damasco a Gerusalemme.
• L’operazione antiterrorismo
Insomma la situazione non si è affatto calmata, anche per i richiami al terrorismo e alle mobilitazioni di massa che vengono da tutti i movimenti palestinisti. Ma è iniziata la reazione israeliana, con il richiamo di riservisti delle forze di polizia e il dispiegamento di un’operazione massiccia di pattugliamento, prevenzione e di individuazione delle unità terroristiche che ha l’obiettivo di riconquistare la calma e mantenerla durante il mese di Ramadan, che si apre proprio oggi. Il nome dell’operazione è, come sempre, programmatico “Rompere l’onda”.
• I dati di marzo
Nel frattempo sono usciti i dati sull’attività terroristica di marzo, i peggiori dal 2017. Durante il mese sono stati condotti 821 "atti di guerra", che hanno ucciso 12 israeliani, ferendone 64. Sono morti anche venti arabi dell'Autorità Palestinese. A marzo sono stati condotti 52 attacchi a fuoco, di cui 25 attacchi terroristici vicino a Jenin. Ci sono stati nove attentati condotti con accoltellamenti o tentativi di accoltellamento e due attacchi con l’uso di automobili per investire i passanti. Inoltre, i terroristi hanno effettuato sette incendi dolosi contro strutture militari, 255 attacchi con lanci di pietre e 28 bombe incendiarie. Infine, ci sono stati 296 episodi di conflitto con le forze della sicurezza israeliana, 119 episodi di conflitto con "coloni" e 47 proteste di massa contro "l'occupazione".
• Le prospettive
Israele ha lunga esperienza nel trattare questo tipo di disordini ed è improbabile che, superato l’effetto sorpresa, essi possano ancora estendersi, salvo che vi sia un intervento diretto di Hamas. Le forze militari sono mobilitate e, con una mossa abbastanza inedita, il primo ministro Bennett ha invitato i cittadini forniti di porto d’armi a muoversi armati, quando escono di casa. È stata l’azione di un civile, un guidatore d’autobus legalmente armato, a eliminare il terrorista che ha fatto quattro vittime a Beer Sheva, all’inizio di questa ondata.
• Conseguenze politiche
Vi è poi il tema delle conseguenze politiche di questa situazione, tanto nei rapporti con l’Autorità Palestinese, quanto in Israele. Sottoposto a quanto pare a forte pressione da parte del ministro della difesa Gantz, il dittatore dell’Autorità Palestinese ha condannato gli attentati (ma poi ha subito aggiunto che la colpa era… dell’”occupazione”). Del resto sul piano internazionale la condanna è stata generale, salvo l’Iran e i suoi satelliti. Perfino l’islamista Erdogan ha emesso un comunicato di condanna. Sul piano interno senza dubbio gli attentati e la reazione delle forze di sicurezza aggiungeranno nuove tensioni nella maggioranza di governo, già molto differenziata e disarmonica.
(Shalom, 3 aprile 2022)
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La comunità di Gesù
«Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa.
Quanto è stretta la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e come sono pochi quelli che la trovano!
Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi con vesti di pecore, mentre internamente sono lupi rapaci.
Dai loro frutti li conoscerete: forse che si raccolgono grappoli d’uva dalle spine o fichi dai rovi?
Così ogni albero buono fa frutti buoni, mentre ogni albero cattivo fa frutti cattivi.
Non può l’albero buono portare frutti cattivi, né l’albero cattivo portare frutti buoni.
Ogni albero che non porta buon frutto viene tagliato e buttato nel fuoco.
Li riconoscerete dunque dai loro frutti.
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non profetammo nel tuo nome, nel tuo nome non cacciammo demoni e nel tuo nome non facemmo molti prodigi?
E allora io dirò loro: andate via da me, voi che operate l’iniquità» (Matteo 7:13-23)
- «Entrate per la porta stretta, poiché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa.
- Quanto è stretta la porta ed angusta la via che conduce alla vita, e come sono pochi quelli che la trovano!
La comunità di Gesù non può separarsi arbitrariamente dalla comunità di quelli che non ascoltano la chiamata di Gesù. Essa è invitata dal suo Signore, con una promessa ed un comandamento, a seguirlo. Questo le deve bastare. Essa deve affidare ogni giudizio ed ogni separazione a colui che l’ha scelta secondo il suo proponimento, non per meriti e opere sue, ma per la sua grazia. Non è la comunità ad effettuare la separazione, ma questa avviene a causa della chiamata.
Così una piccola schiera di uomini che seguono Gesù viene separata dalla maggioranza degli uomini. I discepoli sono pochi e saranno sempre pochi. Questa parola di Gesù taglia alle radici ogni falsa speranza di efficacia. Mai un seguace di Cristo ha posto la sua speranza nel numero. «Come sono pochi...», ma gli altri sono numerosi e lo saranno sempre. Ma essi vanno incontro alla loro perdizione. Quale altra può essere la consolazione dei discepoli in tale esperienza se non che a loro è promessa la vita, l’eterna comunione con Gesù?
La via di chi segue Gesù è stretta. È facile passare oltre, è facile non vederla; è facile perderla anche quando vi si è già incamminati. È difficile da trovare. La via è veramente stretta, il precipizio su ambo i lati pericoloso: essere chiamati ad una cosa straordinaria, farla eppure non vedere e non sapere di farla... questo è veramente una via stretta. Confessare la volontà di Gesù e darne testimonianza, eppure amare il nemico di questa verità, il suo ed il nostro nemico, con l’amore incondizionato di Gesù Cristo... questo è veramente una via stretta. Credere alla promessa di Gesù che chi lo segue possederà la terra, eppure incontrare, indifesi, il nemico, subire l’ingiustizia piuttosto che commetterne... questo è veramente una via stretta.
Vedere l’altro e riconoscere la sua debolezza, la sua ingiustizia, e non giudicarlo mai, annunziargli l’Evangelo, ma non gettare mai le perle ai porci... questa è veramente una via stretta. Finché in questa via riconosco quella che mi è stato ordinato di percorrere e la percorro preso dalla paura di me stesso, in realtà è una via impossibile. Ma se vedo Gesù Cristo precedere, passo dopo passo, se guardo solo a lui e lo seguo, passo per passo, sarò mantenuto su questa via. Se guardo alla pericolosità della mia azione, se guardo la via invece di guardare colui che mi precede, il mio piede sta già vacillando. Infatti egli stesso è la via. Egli è la via angusta e la porta stretta. Bisogna trovare solo lui. Se lo sappiamo, allora percorriamo la via stretta e passiamo per la stretta porta della croce di Gesù Cristo che conduce alla vita, e allora proprio il fatto che è stretta ci dà certezza. Come potrebbe essere larga la via percorsa dal Figlio di Dio in terra? via che noi, che siamo cittadini di due mondi e che viviamo al margine tra la terra ed il cielo, dobbiamo percorrere? La via stretta deve essere quella giusta.
- Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi con vesti di pecore, mentre internamente sono lupi rapaci.
- Dai loro frutti li conoscerete: forse che si raccolgono grappoli d’uva dalle spine o fichi dai rovi?
- Così ogni albero buono fa frutti buoni, mentre ogni albero cattivo fa frutti cattivi.
- Non può l’albero buono portare frutti cattivi, né l’albero cattivo portare frutti buoni.
- Ogni albero che non porta buon frutto viene tagliato e buttato nel fuoco.
- Li riconoscerete dunque dai loro frutti.
La separazione tra comunità e mondo è avvenuta. Ma la parola di Gesù ora avanza, giudicando e separando, nella comunità stessa. La separazione deve essere fatta sempre di nuovo tra gli stessi discepoli di Gesù. I discepoli non devono poter credere di sfuggire semplicemente il mondo e rimanere poi nella piccola schiera sulla via stretta, senza pericolo. Verranno in mezzo a loro dei profeti falsi e con la confusione aumenterà anche la solitudine. Ce n’è uno accanto a me, esteriormente un membro della comunità, c’è un profeta, un predicatore, in apparenza e a parole e a opere un cristiano, ma interiormente motivi oscuri lo spingono verso di noi, interiormente è un lupo rapace, la sua parola è menzogna e la sua opera inganno. Egli sa nascondere bene il suo segreto, ma in segreto egli compie la sua opera oscura. Egli si trova in mezzo a noi non perché ve lo abbia spinto la sua fede in Gesù Cristo, ma perché il diavolo lo spinge nella comunità. Forse egli cerca il potere e l’influenza, il denaro, la gloria, con i suoi propri pensieri e le sue profezie. Egli cerca il mondo, non il Signore Gesù Cristo. Egli nasconde i suoi malvagi progetti sotto una veste cristiana e sa che i cristiani sono un popolo credulone. Egli conta di non essere svelato nella sua veste innocente. E sa pure che ai cristiani è vietato giudicare e, a tempo debito, lo rammenterà loro. Nessun uomo può vedere nel cuore dell’altro. E così egli travia molti. Forse lui stesso non lo sa nemmeno; forse il diavolo che lo spinge gli impedisce di veder chiaro in se stesso.
Ora, avvertimenti di questo genere da parte di Gesù possono suscitare nei suoi seguaci grande paura. Chi conosce l’altro? Chi sa se dietro le apparenze cristiane non si nasconde la menzogna e il traviamento? Potrebbe, così, penetrare nella comunità una profonda diffidenza, un osservarsi a vicenda con sospetto, uno spirito di giudizio dovuto a paura. Potrebbe farsi largo una dura condanna di ogni fratello. Ma Gesù libera i suoi da questo sospetto che necessariamente dividerebbe la comunità. Egli dice: L’albero marcio porta frutti cattivi. A suo tempo si farà conoscere da sé. Non occorre che guardiamo nel cuore degli altri. Dobbiamo attendere che l’albero porti frutto. Ai frutti si riconosceranno, a suo tempo, gli alberi. Ma il frutto non si farà attendere a lungo. Qui probabilmente non s’intende il divario fra parola e opere dei falsi profeti, ma il divario fra apparenze e realtà. Gesù ci dice che un uomo non può vivere a lungo sotto false apparenze. Arriva il momento di portare frutti, arriva il momento della separazione... prima o dopo si riconoscerà chi è. All’albero non serve a nulla non voler portare frutti. Il frutto nasce da sé. E allora il momento in cui sarà necessario distinguere un albero dall’altro, il momento della fruttificazione, rivelerà tutto. Quando giunge il momento della divisione tra mondo e comunità - e può arrivare ogni momento – la confessione giusta non permette di avanzare pretese di minime scelte di tutti i giorni, si manifesterà che cosa è marcio e che cosa buono. Qui resisterà solo la realtà e non le apparenze.
Gesù s’aspetta dai suoi discepoli che, in tali occasioni, sappiano distinguere nettamente le apparenze dalla realtà e sappiano separarsi dai cristiani di nome. Questo li esime da ogni esame dell’altro uomo fatto per curiosità, ma richiede veracità e decisione nell’accettare il verdetto di Dio. Può essere prossimo il momento che i cristiani di nome vengano strappati dal nostro mezzo, che noi stessi veniamo smascherati come cristiani di nome. Perciò i discepoli sono invitati a rimanere in più stretta comunione con Gesù e a seguirlo più fedelmente. L’albero marcito verrà tagliato e gettato nel fuoco. Tutta la sua magnificenza non gli servirà a nulla.
- Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Ma la separazione che opera la chiamata di Gesù è ancora più profonda. La divisione, dopo aver separato mondo e comunità, cristiani di nome e cristiani veri, penetra nella schiera di coloro che si confessano discepoli. L’apostolo Paolo dice: «Nessuno può dire che Gesù è suo Signore se non per lo Spirito santo» (1 Corinzi 12,3). Nessuno, per proprio ragionamento, per forze e decisioni proprie, può affidare la sua vita a Gesù, nessuno riconoscerlo suo Signore. Ma qui vien considerata la possibilità che ci sia chi chiama Gesù suo Signore senza lo Spirito santo, cioè senza aver sentito la chiamata di Gesù. Il che è tanto più inconcepibile se si considera che a suo tempo chiamare Gesù Signore non fruttava nulla in terra; anzi, era una confessione che esponeva ai massimi pericoli. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli». Dire Signore, Signore è la confessione della comunità. Non tutti quelli che la pronunciano entreranno nel regno dei cieli. La divisione passerà proprio in mezzo alla comunità confessante. La confessione di fede non dà nessun diritto a Gesù. Nessuno potrà mai richiamarsi alla sua confessione di fede. Il fatto di essere membri della chiesa dalla confessione giusta non permette di avanzare pretese di fronte a Dio. Non saremo beati in base a questa confessione. Se pensiamo così commettiamo lo stesso errore di Israele che considerava la grazia della sua elezione come un diritto di fronte a Dio. Pecchiamo, così, contro la grazia di colui che ci chiama. Dio non ci chiederà se siamo stati evangelici, ma se abbiamo fatto la sua volontà. Lo chiederà a tutti e così pure a noi! I confini della chiesa non sono i confini di un privilegio, ma la benevola scelta e chiamata di Dio. «Pas o legon» - e - «all’o poion» ‘dire’ e ‘fare’ non sono qui intesi senz’altro come rapporto tra parola e fatto. Qui si parla di due diversi atteggiamenti dell’uomo davanti a Dio. O legon kurie - chi dice: Signore, Signore – è l’uomo che in base al suo dir di sì avanza delle pretese, o poion - chi agisce - è chi agisce in umile obbedienza. Il primo è colui che si giustifica con la sua confessione di fede, il secondo colui che agisce, l’uomo obbediente che si affida alla grazia di Dio. Qui, dunque, proprio il parlare dell’uomo diviene il correlativo della sua autogiustificazione, l’agire, invece, il correlativo della grazia, di fronte alla quale l’uomo non può fare altro che obbedire e servire umilmente. Quello che dice: Signore, Signore, si è chiamato da sé a seguire Gesù, senza lo Spirito Santo, o ha fatto della chiamata un proprio diritto. Colui che fa la volontà di Lui è stato chiamato e graziato, obbedisce e segue Gesù. Egli sente la chiamata non come diritto, ma come giudizio e grazia, come volontà di Dio, alla quale sola egli vuole ubbidire. La grazia di Gesù richiede uomini che agiscono, e l’azione diviene la vera umiltà, la vera fede, la vera confessione della grazia di colui che ha chiamato.
- Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non profetammo nel tuo nome, nel tuo nome non cacciammo demoni e nel tuo nome non facemmo molti prodigi?
- E allora io dirò loro: andate via da me, voi che operate l’iniquità».
Chi confessa solo è dunque separato da chi agisce. Ora la separazione viene spinta ancora all’estremo. Qui, alla fine, ora parlano uomini che hanno superato le prove fino a questo punto. Sono fra quelli che agiscono, ma ora essi si richiamano appunto a questa loro azione invece che alla loro confessione di fede. Hanno operato in nome di Gesù. Sanno che la confessione non giustifica, perciò sono andati a glorificare il nome di Gesù in mezzo alla gente mediante l’azione. Ora si presentano a Gesù e gli mettono davanti le loro azioni.
Gesù qui manifesta ai suoi discepoli la possibilità di una fede satanica, che si richiama a lui, che compie opere meravigliose, simili fino all’irriconoscibile alle opere dei veri discepoli di Gesù, opere in amore, miracoli, forse anche autosantificazione, e che pure ha rinnegato Gesù ed il cammino al suo seguito. Lo stesso lo dice l’apostolo Paolo nel tredicesimo capitolo della prima epistola ai Corinti, sulla possibilità di predicare, profetizzare, avere ogni conoscenza, anzi, ogni fede tanto da poter trasportare monti, ma senza amore, cioè senza Cristo, senza lo Spirito Santo. Anzi, ancor più: Paolo deve persino considerare la possibilità di compiere le opere d’amore cristiano, di dare i propri beni, fino al martirio... senza amore, senza Cristo, senza Spirito Santo.
Senza amore - vuol dire che, nonostante tutto, in tutte queste azioni non si fa l’opera essenziale, non si segue veramente Gesù, quest’opera che, in fondo, non può realmente compiere se non colui che chiama, cioè Gesù Cristo stesso. Questa è la più profonda, la più incomprensibile possibilità del potere satanico nella comunità, l’ultima separazione, che, però, avviene solo il giorno del giudizio universale. Ma essa sarà definitiva. Chi segue Gesù, però, deve chiedere dove si trovi, allora, l’ultimo metro secondo cui uno è ben accetto a Gesù e un altro no. Chi rimane e chi no? La risposta di Gesù agli ultimi respinti dice tutto: «Io non vi ho mai conosciuti». Questo, dunque, è il segreto che viene mantenuto sin dall’inizio del sermone sulla montagna fino a questa conclusione. L’unico problema è, se siamo conosciuti da Gesù o no. A che cosa dobbiamo attenerci, se sentiamo come la Parola di Gesù compie la separazione tra comunità e mondo, e poi all’interno della comunità stessa fino al giorno del giudizio, se non ci rimane più nulla, non la nostra confessione di fede, non la nostra obbedienza? Ci rimane solo la sua Parola: «Io vi ho conosciuti». Questa è la sua Parola eterna, la sua eterna chiamata. Qui la fine del sermone sul monte chiude il cerchio riallacciandosi alla sua prima parola. La sua parola al giudizio universale... è rivolta a noi con l’invito a seguirlo. Ma dall’inizio alla fine rimane la sua Parola, la sua chiamata. Chi seguendolo non si attiene ad altro che a questa Parola, chi lascia perdere il resto, viene portato da questa Parola attraverso il giudizio universale. La sua Parola è la sua grazia.
(Da "Sequela" di Dietrich Bonhoeffer)
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Sta nascendo una Nato mediorientale?
Tutti i dettagli sul vertice diplomatico che si è tenuto nel deserto israeliano tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e Marocco per costruire una “nuova architettura regionale” di deterrenza. L’articolo di El Pais
I capi della diplomazia d’Israele, degli Stati Uniti, dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti (UAE) e del Marocco, si legge su El Pais, si sono coordinati lunedì per scoraggiare le avventure espansionistiche dell’Iran e hanno creato una “nuova architettura regionale” basata su un “forum permanente”. Il vertice ministeriale senza precedenti tenutosi domenica a Sde Boker, un ex kibbutz nel Negev, il deserto meridionale di Israele, ha gettato le basi per l’embrionale “Nato” regionale contro “l’Iran e le sue [milizie] satelliti”, ha detto Yair Lapid, il ministro degli Esteri che ha ospitato la riunione. L’incontro senza precedenti dei capi della diplomazia d’Israele e dei quattro paesi arabi, benedetto dalla presenza del segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha dato vita a un forum stabile di “cooperazione in materia di sicurezza, d’intelligence e di tecnologia” in un quadro di “progresso [economico] e di tolleranza religiosa”. “Questa nuova architettura di capacità condivise che stiamo costruendo intimidirà i nostri nemici comuni”, ha sottolineato Lapid alla conferenza stampa congiunta che ha chiuso il vertice del Negev, in uno schieramento simbolico di funzionari diplomatici in un hotel di lusso nel deserto. Fonti diplomatiche israeliane hanno detto alla stampa ebraica che la futura cooperazione militare sarà principalmente marittima, contro la pirateria e il sabotaggio navale, e aerea, per neutralizzare la crescente minaccia dei droni. La condanna dell’attacco rivendicato dallo Stato Islamico (ISIS), in cui due arabi israeliani hanno ucciso due poliziotti nella città settentrionale di Hadera domenica notte, ha permeato tutti i discorsi di chiusura. Il ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita è stato uno dei più espliciti: “La nostra presenza qui è la migliore risposta [al terrorismo]”. Anche Blinken è stato enfatico, ricordando che qualche anno fa un incontro come quello che si è concluso nel Negev sarebbe stato “impossibile da immaginare”. Gli accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi paesi arabi hanno portato all’incontro. “Gli Stati Uniti presteranno il loro pieno sostegno a questo processo di trasformazione nella regione”, ha sottolineato il segretario di Stato, prima di mettere in guardia che gli accordi di Abramo – ai quali hanno aderito finora gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein nel Golfo Persico, il Sudan in Africa e il Marocco nel Maghreb – non sono un sostituto del processo di pace israelo-palestinese, sospeso dal 2014. L’Autorità palestinese e la Giordania, il suo più stretto alleato, sono stati i maggiori assenti al forum del Negev. Anche se Amman era stato convocato al conclave, il re Abdullah II ha scelto di andare a Ramallah lunedì per evitare di evidenziare la solitudine del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Quando Blinken gli ha fatto visita domenica nella sede presidenziale della Muqata per ribadire che gli Stati Uniti continuano a difendere la soluzione dei due Stati, il veterano del rais palestinese ha evocato la necessità di “mettere in pratica le idee in cui si crede”.
• LA QUESTIONE PALESTINESE
Gli Stati Uniti si accontentano ora di incoraggiare Israele a fare una “pace economica”, volta a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, senza portare avanti i negoziati per creare uno stato palestinese indipendente. “Le due parti sono ormai lontane”, si è giustificato il funzionario del Dipartimento di Stato. Il presidente Abbas ha sostenuto che “i recenti incidenti in Europa [riferendosi all’invasione russa dell’Ucraina] hanno dimostrato che c’è un doppio standard (…) per cui nessuno ritiene Israele responsabile” per la sua occupazione dei territori palestinesi. La questione palestinese è stata citata nei suoi discorsi finali alla stampa dai ministri degli esteri arabi. Ma Abdulatif al-Zayani del Bahrein e Abdullah bin Zayed degli Emirati Arabi Uniti hanno sottolineato il rilancio dell’accordo nucleare con l’Iran, che gli Stati Uniti stanno finalizzando contro i desideri di Israele e dei suoi alleati del Golfo. Hanno anche sottolineato le minacce che Teheran pone nella regione attraverso i suoi partner sciiti nella milizia Hezbollah del Libano e i ribelli Houthi dello Yemen. La rimozione del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran dalla lista statunitense dei gruppi terroristici, che Teheran esige prima di ripresentare il patto atomico, è anche una linea rossa per i firmatari degli accordi di Abramo. L’Egitto, che ha relazioni diplomatiche con Israele da 43 anni, ha rafforzato i legami politici dopo decenni di “pace fredda” per non essere sostituito dalle monarchie del Golfo come partner regionale privilegiato. Il ministro degli Esteri Sameh Shoukry ha sottolineato che la mediazione del Cairo dopo il conflitto dell’anno scorso nella Striscia di Gaza è stata determinante per ridurre le tensioni. La cooperazione militare tra i due paesi, tuttavia, non è praticamente cessata dal 1979. Le forze di difesa israeliane hanno rivelato all’inizio di questo mese che i loro aerei hanno abbattuto droni iraniani che trasportavano armi per le milizie di Hamas a Gaza “sopra lo spazio aereo di un paese vicino” nel 2021.
• RABAT RICEVE GARANZIE PER LA SUA INTEGRITÀ TERRITORIALE
Mentre l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein si trovano tutti nello stesso spazio mediorientale in cui si trovano l’Iran e i suoi satelliti, il Marocco sembra essere troppo lontano da questo scenario di tensione. Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha dato per scontato, nel suo discorso finale al conclave diplomatico, che il “vertice del Negev invia un forte messaggio alle forze estremiste guidate dall’Iran che cercano di destabilizzare la regione”. A questo scopo, si sta creando “un fronte unito impegnato per la pace e la prosperità”. Lapid ha dedicato una menzione speciale al Marocco per chiarire la sua presenza in Israele. “Il rapporto speciale che è emerso contribuirà a contrastare gli attacchi al Bahrein, agli Emirati Arabi e a Israele, e contro i tentativi di minare la sovranità e l’integrità del Marocco”. “In questo contesto”, ha ribadito il capo diplomatico israeliano, “la dichiarazione della Spagna la settimana scorsa a sostegno del piano d’autonomia del Marocco per il Sahara occidentale, che altri [paesi] hanno già approvato, è un passo positivo”. Una delegazione delle forze armate israeliane ha appena ratificato a Rabat gli aspetti tecnici dell’accordo di cooperazione militare firmato dal ministro della difesa Benny Gantz durante la sua visita in Marocco lo scorso novembre. Israel Aerospace Industries (IAI) ha avuto un fatturato di 22 milioni di dollari (19,4 milioni di euro) in Marocco l’anno scorso. Tra gli altri modelli, IAI produce il drone antisommossa Harop, un piccolo aereo senza pilota con una portata di più di 1.000 chilometri, difficilmente rilevabile dai radar e capace di trasportare più di 20 chili di carico esplosivo. Il Fronte Polisario ha denunciato la morte nel 2021 di una dozzina di civili in bombardamenti con droni nel Sahara occidentale, in attacchi che attribuisce all’esercito marocchino.
(Start Magazine, 2 aprile 2022)
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Israele, rapporti tesi con l’Onu
di Bruno Russo
Israele dopo un ruolo nella guerra, diplomaticamente parlando, ambiguo e assai discusso, viste le relazioni con la Russia e l’etnia del presidente Ucraino, ha ufficialmente dichiarato che non collaborerà con la Commissione creata dal Consiglio Onu per i diritti umani per indagare su presunti abusi contro i palestinesi durante gli undici giorni di conflitto scatenati lo scorso maggio da Hamas. L’indagine e la presidente della commissione Navi Pillay, denuncia Israele, sono pregiudizialmente prevenuti contro Israele. La decisione è stata annunciata giovedì scorso in una lettera dai toni molto duri inviata alla stessa Navi Pillay da Meirav Eilon Shahar, ambasciatrice d’Israele presso la sede di Ginevra delle Nazioni Unite, in cui si legge: “È ovvio per il mio paese, come dovrebbe esserlo per qualsiasi osservatore imparziale, che semplicemente non c’è nessun motivo per credere che Israele riceverà un trattamento ragionevole, equo e non discriminatorio da parte del Consiglio e da questa Commissione d’inchiesta”.
Il Consiglio ha istituito la Commissione investigativa – composta dalla presidente Pillay, dall’australiano Chris Sidoti e dall’indiano Miloon Kothari – pochi giorni dopo la cessazione dei combattimenti dello scorso maggio. Già allora l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, affermò che le azioni israeliane avrebbero potuto costituire crimini di guerra, apparentemente senza prendere in considerazione le denunce di Gerusalemme che accusa Hamas di mirare a causare intenzionalmente vittime civili usando oltretutto i propri civili come copertura per le sue attività militari. La Commissione non ha precedenti, dal momento che non ha limiti di mandato: può esaminare qualsiasi presunta violazione israeliana in Cisgiordania, a Gaza e all’interno Israele in qualunque epoca, e può indagare senza scadenza in modo permanente avvalendosi di un budget di 4,1 milioni di dollari già approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
La presidente Pillay, ex Alto commissario Onu per i diritti umani, si distinse a suo tempo per aver nominato quattro missioni conoscitive contro Israele, cioè più che su qualsiasi altro paese, e per aver convocato la conferenza anti-israeliana detta Durban II, che offrì un podio, fra gli altri, all’allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, un dichiarato negazionista della Shoà. In passato Pillay ha definito Israele uno stato “di apartheid” e ha appoggiato il movimento BDS per il boicottaggio dello stato ebraico.
Da tempo Israele denuncia i pregiudizi anti-israeliani delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio Onu per i diritti umani, un organismo di 47 membri che include paesi caratterizzati da un pessimo curriculum in fatto di diritti umani e da aperta ostilità nei confronti dello stato ebraico come Cina, Cuba, Eritrea, Pakistan, Venezuela e un certo numero di paesi arabi. “Israele si confronta in modo frequente e regolare con un’ampia gamma di organismi internazionali per i diritti umani come parte del suo impegno per lo stato di diritto e il progresso dei diritti umani – scrive l’ambasciatrice Eilon Shahar nella lettera – Allo stesso tempo, ci aspettiamo che tali organismi agiscano in buona fede, senza pregiudizi e non al servizio di un’agenda politicamente predeterminata. Purtroppo, nulla di tutto ciò si può aspettare dalla Commissione” in questione. La rappresentante israeliana afferma che l’indagine è chiaramente “concepita per fungere da strumento politico, e non come un organo investigativo imparziale”, e “costituirà sicuramente un ennesimo increscioso capitolo degli sforzi tesi a demonizzare lo stato d’Israele distorcendo i dati fattuali e giuridici e stravolgendo i valori, il linguaggio e i meccanismi dei diritti umani allo scopo di portare avanti una campagna faziosa”.
Ido Avigal, 6 anni, fu ucciso nella sua casa a Sderot da razzi palestinesi il 12 maggio. Due giorni dopo, perirono i suoi parenti sotto un attacco di razzi da Gaza durante il suo funerale. Eilon Shahar sottolinea che la Commissione rientra nello schema di comportamento discriminatorio del Consiglio Onu per i diritti umani che ha puntato su Israele nove indagini, cioè quasi un terzo di tutte le indagini varate dal Consiglio. Israele è anche l’unico paese contro cui è dedicato un punto all’ordine del giorno permanente in ogni sessione e un relatore speciale, ed è soggetto a più condanne del Consiglio che tutti gli altri paesi messi insieme. Sebbene la Commissione sia stata istituita a seguito del conflitto tra Israele e Hamas dello scorso anno, il suo mandato non fa nessuna menzione del terrorismo di Hamas, che a maggio lanciò circa 4.400 razzi contro la popolazione civile israeliana. “Imponendo di indagare sulle cosiddette ‘cause alla radice’ del conflitto – aggiunge l’ambasciatrice israeliana – il Consiglio ha cinicamente gettato le basi perché la Commissione manipoli la realtà e prenda di mira selettivamente Israele con l’intento di delegittimare e persino criminalizzare la sua stessa esistenza”. Eilon Shahar afferma inoltre che la stessa Pillay e gli altri “membri della Commissione hanno più volte preso posizioni pubbliche ostili a Israele proprio sull’argomento che sono ora chiamati a indagare ‘in modo indipendente e imparziale’.” La lettera accusa in particolare Pillay per aver “personalmente sostenuto un’agenda anti-israeliana e numerose dichiarazioni anti-israeliane, così come la campagna estremista del BDS contro Israele”. La lettera della rappresentante israeliana afferma senza mezzi termini che i membri della commissione sono stati scelti proprio “perché macchiati da pregiudizi e sulla base della loro storia di attivismo e accuse ostili contro Israele, in modo da garantire un risultato prestabilito in anticipo e politicamente motivato”.
Ecco perché, conclude Eilon Shahar, oltre metà dei membri del Consiglio Onu per i diritti umani non ha sostenuto l’istituzione di questa Commissione, che non farà altro che “contribuire alla polarizzazione tra israeliani e palestinesi allontanandoli ulteriormente da una riconciliazione e una pace autentiche”. Purtroppo – scrive Yifa Segal, esperta di diritto internazionale, ex presidente e amministratore delegato dell’International Legal Forum ed ex capo-staff dell’ambasciata d’Israele negli Stati Uniti – la nostra esperienza dimostra che non ci si può aspettare imparzialità dall’Onu, almeno per quanto riguarda Israele. Ma questa volta sembra che sia stata abbandonata persino una parvenza di obiettività. A questo punto non solo molte organizzazioni prendono posizione contro questa Commissione d’inchiesta intrinsecamente parziale, ma lo fanno anche i cittadini israeliani che si sono stancati di subire in silenzio. Questa settimana è stata lanciata l’iniziativa “Lettera dei cittadini israeliani”. Il documento, alla cui stesura ha partecipato chi scrive, è una lettera unica che verrà presentata alla Commissione delle Nazioni Unite a fine mese. La “Lettera dei cittadini” consente a qualsiasi cittadino israeliano che si trovava in Israele durante la guerra del maggio scorso di dare voce a ciò che ha vissuto sotto gli attacchi di Hamas, aggiungendo la propria firma.
In quanto attivista legale che conosce bene le Nazioni Unite, desidero sottolineare che quello che ci preoccupa non è la ricerca della verità. Al contrario, magari fosse proprio questo l’obiettivo dell’Onu. Siamo preoccupati per la politicizzazione e le conclusioni predeterminate, che purtroppo è ciò che dimostra la nostra esperienza. Un onesto esame del diritto internazionale condurrebbe necessariamente qualunque ricercatore obiettivo a una conclusione chiara e semplice: un’organizzazione terroristica che prende di mira deliberatamente i civili usando i propri civili come scudi umani è il peggior tipo di criminale. Da decenni il movimento BDS e altri gruppi per la delegittimazione di Israele cercano di fare pressione per lo smantellamento dell’unico stato ebraico, e ora sembra che Amnesty e la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite abbiano deciso di seguire le loro orme. Qui non si tratta di quali confini dovrebbe avere lo stato ebraico, ma del fatto in sé se possa esistere una patria ebraica. Che questa tendenza trovi le sue radici nell’antisemitismo o sia guidata da persone in buona fede ingannate dagli antisemiti, in ogni caso i sionisti di tutto il mondo devono unirsi nella battaglia contro di essa.» L’atto terroristico avvenuto intorno al 24 di Marzo 2022 riapre la contesa e getta un altro punto a sfavore della comunità internazionale che peccando di obiettività mette a repentaglio le intese di pace ammesso che ce ne siano state di una certa validità nel tempo.
(Il denaro, 1 aprile 2022)
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Giorgio Brown e il legame con i patrioti ebrei della famiglia Rosselli
di Roberto Riviello
Chi non sa che Giuseppe Mazzini nacque a Genova, e che proprio lì riposano le sue spoglie nel cimitero monumentale di Staglieno? Ma forse non tutti sanno che il fondatore della Giovine Italia morì a Pisa, 150 anni fa (10 marzo 1872), dove si trovava sotto il falso nome di Giorgio Brown, ospitato da Pellegrino Rosselli e Giannetta Nathan in una casa che oggi è diventata la Domus mazziniana. Non è un caso che Mazzini, già malato e ricercato dalla polizia, si fosse rifugiato in casa dei Rosselli; un cognome che nella storia italiana ritornerà durante gli anni del fascismo quando i fratelli Carlo e Nello Rosselli, fondatori di Giustizia e Libertà, dopo un lungo esilio a Parigi, verranno uccisi da una formazione dell’estrema destra. Pellegrino e Giannetta erano ebrei, patrioti e mazziniani convinti; e Giuseppe Mazzini sapeva di poter contare sulla loro fedeltà in quanto già dai tempi del suo esilio a Londra aveva stabilito stretti rapporti con patrioti ebrei che vedevano in lui un vero e proprio profeta: il “Mosé” dell’Italia unita ma anche della liberazione degli ebrei italiani. È dunque sul tema dell’intrecciarsi della questione risorgimentale con quella ebraica che vorrei soffermarmi per spiegare meglio i motivi della permanenza di Mazzini a Pisa nei suoi ultimi giorni di vita. La storia dell’emancipazione degli ebrei italiani è stata ampiamente studiata ed approfondita dagli studiosi, per cui adesso ci è chiaro che il Risorgimento fu un’occasione straordinaria per le comunità israelitiche presenti sulla Penisola di contribuire fattivamente al fenomeno rivoluzionario con due obiettivi: rivendicare la piena “italianità”; e dimostrare che la loro diversa fede religiosa poteva benissimo fondersi con quella nuova religione civile del culto della Nazione diffusa da Giuseppe Mazzini. Il successo della partecipazione degli ebrei alle vicende del Risorgimento fu, per così dire, consacrato dalla Legge sull’Emancipazione che Vittorio Emanuele II proclamò il 29 marzo 1848 all’interno del Regno di Sardegna e che in seguito estese a tutto il Regno d’Italia; dando così inizio ad una storia nazionale che durante tutto l’Ottocento andò quasi in controtendenza rispetto agli altri Stati europei, come la Francia e la Germania, dove nascevano sentimenti sempre più marcatamente antisemiti, dei quali il processo al capitano Dreyfus fu la manifestazione più emblematica ma non certo la sola. La nazione Italia nasceva nel segno di una sovranità aperta – oggi diremmo “inclusiva”-, mentre altrove il vento del nazionalismo su base etnica iniziava a soffiare e ad alimentare il mito della razza pura, tra un revival di culti pagani tardogermanici e la diffusione del neo-romanticismo di stampo wagneriano che poi sappiamo bene a quali esiti tragici condussero. Questo ci spiega perché, mentre nella Germania degli anni Venti e Trenta del XX secolo l’antisemitismo propagandato dai circoli razzisti e poi dal partito nazista di Hitler e Himmler trovarono un fertile terreno di coltura; nell’Italia fascista, al contrario, non fu facile convincere gli italiani della “diversità razziale” dei loro compatrioti israeliti, i quali si erano conquistati la cittadinanza italiana sui campi di battaglia e non a chiacchiere, a partire dal Risorgimento per poi continuare durante tutta la Grande guerra. Con il Risorgimento si stabilì più che una semplice alleanza tra gli ebrei italiani e i patrioti laici e/o cristiani. Come ha spiegato benissimo Ester Capuzzo in “Gli ebrei italiani dal Risorgimento alla scelta sionista”, ci fu tra gli ebrei e il massimo esponente della filosofia risorgimentale, Giuseppe Mazzini, un vero e proprio scambio in termini di valori: se i primi videro nella sua idea di Nazione la possibilità di riaffermare il loro bisogno mai sopito di una Patria in cui identificarsi e in cui finalmente trovare il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici grazie alla nuova cittadinanza italiana-nazionale; Mazzini, da parte sua, si ispirò profondamente ai testi biblici, proponendo una lettura “risorgimentale” della Bibbia, sintetizzata nel suo celebre slogan di Dio e Popolo. L’idea mazziniana, dunque, che un popolo sia tale soltanto se trova la sua naturale dimora nello Stato-nazione e che questo sia non soltanto una giusta aspirazione di carattere politico, ma anche un tragitto segnato – potremmo dire “destinato”- come lo fu il cammino degli ebrei verso la Terra promessa, che fu guidato da un profeta e soprattutto indicato dalla volontà divina, ha evidentemente una chiara matrice biblica; che si capisce benissimo quando Mazzini, nella lettera “Alla gioventù italiana”, scrive : “Siate i Mosé che guidino la Nazione nella Terra promessa”. Con quanto entusiasmo furono recepiti questi ed altri messaggi in ambienti israeliti, lo si capisce da quell’anello fatto di sostegno materiale e di affetto che gli ebrei italiani costruirono intorno a Mazzini esule a Londra e che poi lo seguì a Roma durante la gloriosa esperienza della Repubblica nel ’49 e non lo abbandonò mai: fino agli ultimi giorni della sua vita che egli trascorse – come abbiamo già detto – a Pisa nella casa dell’amico ebreo Pellegrino Rosselli.
(Arno.it, 2 aprile 2022)
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Morire per Kiev
di Cristofaro Sola
Mozione d’ordine per i media: facciamo che per qualche giorno venga interrotto il racconto non-stop della guerra in Ucraina, si dia un taglio alla narrazione del dramma ucraino combinato in tutte le salse della retorica e si passi a parlare della tragedia che ci riguarda da vicino e ci parla di povertà. Gli italiani questa guerra insensata non l’hanno voluta ma ne subiscono le conseguenze. L’inflazione sale per il nono mese consecutivo. Secondo le stime preliminari dell’Istat, a marzo l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale (Nic) registra un aumento dell’1,2 per cento su base mensile e del 6,7 per cento su base tendenziale annua. Un tale livello di inflazione non si raggiungeva dal luglio 1991. Per Assoutenti si tratta di “Un massacro per le tasche dei consumatori”. Di chi la colpa? Non sono soltanto i prezzi dei beni energetici non regolamentati a schizzare in alto. C’è l’impennata dei prezzi degli alimentari freschi ad aggravare l’esborso per la spesa delle famiglie. L’Istat ha calcolato che a marzo l’inflazione, al netto dei soli beni energetici, passa dal +2,1 per cento del mese precedente al più +2,5 per cento. Assoutenti valuta che le famiglie italiane a parità di consumi subiranno una stangata pari a complessivi 42,3 miliardi di euro nell’anno in corso. D’accordo, c’è la guerra. Ma c’è anche la speculazione e c’è l’incapacità della politica di assumere scelte dirompenti. Servirebbe una classe dirigente in grado di parlare il linguaggio della verità. Invece, grazie ai media al servizio permanente del sistema, siamo inondati da un mare di bugie e distratti dalla demagogia dei buoni sentimenti. Da quaranta giorni sentiamo ripetere che l’Occidente sta per travolgere l’orso russo; che la parabola politica del tiranno del Cremlino sta per concludersi grazie a un colpo di Stato; che la sorte dell’armata russa sul campo di battaglia è segnata; che l’economia russa è al collasso grazie alle sanzioni decise dagli alleati dell’Ucraina; che il rublo frana; che i titoli del debito pubblico russo sono declassati a spazzatura. Invece, scopriamo che Vladimir Putin è saldamente al comando e gode di buona salute; che l’Ucraina è stata semidistrutta dai bombardamenti russi che proseguono senza sosta; che l’economia, nonostante le difficoltà del momento, non è crollata sotto l’effetto paralizzante dalle sanzioni, ma continua a girare; che il debito pubblico russo non è in default e le cedole in scadenza sono state regolarmente onorate; che il rublo non è precipitato, ma è tornato nello scambio con il dollaro ai livelli pre-crisi. L’unica cosa vera riguardo alla nocività delle sanzioni è che stanno sì facendo male, ma più a noi che a loro. E “noi”, sta per “gli italiani”. Il quadro economico complessivo del nostro Paese è notevolmente peggiorato. La decisione di Putin di imporre ai Paesi ostili che il pagamento del petrolio acquistato venga effettuato in rubli e non più in dollari o in euro farà molto male all’interesse nazionale italiano. Lo comprende o no il Governo che se Mosca dovesse chiudere il rubinetto del gas, l’apparato industriale salterebbe in aria definitivamente? Secondo un’indagine di Arte, l’associazione che raggruppa i reseller e i trader di energia italiani, pubblicata ieri l’altro da Il Sole 24 ore, un cliente su sei oggi fatica a pagare le bollette di luce e gas. Sempre secondo la stessa fonte, in febbraio l’incremento medio dei distacchi di forniture per morosità rispetto allo scorso anno è stato del 36,50 per cento.
Da decenni, pur di non impegnarci in una realistica politica energetica, preferendo cercare le farfalle delle rinnovabili sotto l’Arco di Tito, ci siamo affidati alle forniture di gas provenienti dalla Russia e adesso ne paghiamo le conseguenze. E non sarà la promessa statunitense di venderci qualche miliardo di metri cubi del loro gas a salvarci. In primo luogo perché non sarà sufficiente a compensare le mancate forniture dalla Russia; in secondo luogo, il gas americano è più costoso; in terzo luogo, perché se pure ne ricevessimo in abbondanza dagli Stati Uniti non sapremmo come riportarlo dallo stato liquido a quello gassoso attesa l’insufficienza infrastrutturale dei rigassificatori. Siamo alla canna del gas ma con il rischio che il gas ce lo stacchino: una condizione fantozziana. Mario Draghi continua a dire che tutto va bene e che il fronte unito dell’Europa sta piegando l’arroganza del nemico. Ma il premier crede davvero a ciò che dice? Ieri l’altro ha discusso al telefono per quasi un’ora con il leader moscovita sulla questione del pagamento del gas in rubli non cavandone un ragno dal buco. È da settimane che sta tentando di spuntare in sede comunitaria un’intesa per mettere un tetto al costo del gas senza riuscirvi. La proposta lanciata in sede Ue di uno stoccaggio comune della materia prima energetica? Smarrita sulla strada per Bruxelles. Ancora una volta i Paesi del Nord fanno muro rimandando al mittente le richieste di solidarietà. D’altro canto, insieme alla Germania, siamo i soli in Europa a dipendere tanto pesantemente dal gas russo, perché gli altri dovrebbero darci una mano? Per la favoletta che in Europa siamo una cosa sola? Una notizia: il tempo delle favole, come l’unità dell’Europa, non è mai esistito. Ma li ascoltate gli industriali, gli agricoltori, gli allevatori, gli albergatori, e in generale il mondo produttivo, cosa dicono? L’aumento generalizzato, e incontrollato, dei costi di produzione li costringerà a fermarsi, se non l’hanno già fatto. Dopodiché, cosa ne sarà di noi? Reddito di cittadinanza per tutti? Verosimilmente, diventeremo dipendenti dall’import di beni di scarsa qualità che i Paesi dell’Estremo Oriente potranno produrre a minor costo grazie alla maggiore offerta di materia prima energetica resa disponibile dalla Russia a seguito della rottura commerciale con l’Europa. Adesso è chiaro il perché le autorità cinesi abbiano intitolato il progetto della nuova via della seta Belt and Road Initiative. La traduzione autentica non è, come si penserebbe, “Una cintura, una via” bensì “un cappio al collo è la sola via che vi resta”. Come scansare il burrone nel quale stiamo precipitando? Spiace per la sorte degli ucraini, ma dobbiamo pensare a come sottrarci all’immane tragedia che si staglia sul nostro orizzonte, prima che sia troppo tardi. Non prendiamoci in giro: l’unica via d’uscita è costringere i padroni del vapore europeo – Francia e Germania – ad affrontare Putin in un negoziato diretto che abbia all’ordine del giorno la normalizzazione dei rapporti tra le due aree strategiche dell’Ovest e dell’Est Europa, indipendentemente da ciò che accadrà in Ucraina. Ma vi sembra possibile che le speranze di pace noi europei le abbiamo appaltate alla mediazione di un tiranno del calibro di Recep Tayyip Erdoğan, il padrone della Turchia? Al punto in cui siamo, l’exit strategy è prendere le distanze da Kiev. Del resto, a noi occidentali fare la parte che nel Vangelo fu di Ponzio Pilato riesce benissimo. Abbiamo voltato lo sguardo nel 2008, quando Mosca ha impartito una dura lezione alla Georgia prendendosi le repubbliche dell’Ossezia del Sud e Abcasia. L’abbiamo voltata nuovamente con la Moldavia quando, al termine di una guerra interna cominciata nel 1992, il 18 marzo 2014 la Transnistria, formalmente parte del territorio moldavo, ha chiesto l’adesione alla Federazione Russa. E abbiamo finto di non vedere quando, nel 2015, in Siria la Russia ha colpito con attacchi aerei e missilistici tutti i nemici del presidente Bashar al-Asad. Anche con l’annessione della Crimea non è che la protesta sia stata irresistibile. D’altro canto, non dovremmo dolercene troppo, visto che da occidentali abbiamo fatto l’identica cosa con il Kosovo, strappato nel 1999 alla Serbia a suon di bombardamenti aerei. La strategia di Putin in Ucraina mira all’occupazione della regione del Donbass e della costa meridionale dell’Ucraina che dà sul Mar Nero e sul Mar d’Azov. Putin le occuperà comunque creando uno stato di fatto difficilmente reversibile. Prendiamone atto e torniamo rapidamente alla normalità nei rapporti con Mosca. In alternativa, non c’è la pace ma la Terza guerra mondiale. Probabilmente l’ultima. Se poi è questo che si vuole, che il mondo come lo conosciamo venga cancellato e solo a pochi eletti sia concesso il privilegio di rifondarlo, i governanti lo dicano chiaramente perché siano i popoli a decidere delle loro sorti. E nessun altro.
(l'Opinione, 2 aprile 2022)
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Mario Draghi dice che tutto va bene probabilmente perché il bene a cui pensa non è quello degli italiani.
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È finito lo stato di emergenza, ma per molti italiani non cambia nulla
di Raffaele De Luca
Da questa mattina non è più in vigore, dopo oltre due anni, lo stato di emergenza legato alla pandemia: nonostante ciò, però, diverse restrizioni sono ad oggi in vigore, motivo per cui la vita dei cittadini sarà in diversi ambiti ancora limitata. Con il recente decreto-legge relativo al “superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da Covid-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza”, è stata infatti definita la roadmap per il ritorno alla normalità che sarà solo graduale, ragion per cui diverse restrizioni a diritti e libertà sono tuttora presenti. In tal senso, se da un lato a partire da oggi tramonta ad esempio il sistema dei colori ed il green pass (sia base che rafforzato) non è più necessario in diversi luoghi tra cui negozi ed uffici pubblici, dall’altro il super green pass è ancora in vigore – e lo sarà fino al 30 aprile – per accedere tra l’altro a sale gioco, centri benessere, eventi sportivi al chiuso, piscine e palestre nonché servizi ed attività relativi allo sport di squadra e di contatto. Proprio quest’ultimo punto rappresenta il primo tema da approfondire dato che, seppur da oggi sia possibile praticare sport all’aperto senza alcuna certificazione, gli over 12 privi del super green pass non potranno fare sport nei modi sopracitati. A tal proposito, non si può non porre la lente d’ingrandimento in maniera particolare sulla situazione relativa ai ragazzi che, nonostante siano già stati ampiamente danneggiati dalle restrizioni pandemiche, dovranno ancora esibire il lasciapassare sanitario per, ad esempio, potersi allenare in palestra. Un problema di non poco conto, con il benessere psico-fisico dei giovani privi del green pass rafforzato che rischia di essere ulteriormente compromesso non potendo ancora svolgere tutti i tipi di attività sportiva. Oltre a ciò, un’altra questione da ricordare è quella dell’obbligo vaccinale, presente per diverse categorie tra cui innanzitutto quelle del personale sanitario e degli operatori delle Rsa. Per gli appartenenti a queste ultime, infatti, l’obbligo vaccinale vi sarà fino al 31 dicembre 2022, pena la sospensione dalle mansioni e dallo stipendio. Per categorie quali il personale scolastico e le forze dell’ordine nonché per gli over 50, invece, l’obbligo di sottoporsi al vaccino anti Covid terminerà il 15 giugno. Tuttavia, a differenza del personale sanitario, per accedere al luogo di lavoro è adesso sufficiente per gli appartenenti a tali categorie mostrare semplicemente il green pass base. Una menzione speciale deve essere indubbiamente riservata ai docenti scolastici non vaccinati, che sono stati autorizzati a tornare a lavoro in maniera alquanto discutibile non potendo entrare nelle classi per svolgere la propria professione. Il decreto-legge, infatti, considera l’adempimento dell’obbligo vaccinale condizione necessaria per lo svolgimento delle attività didattiche a contatto con gli alunni, motivo per cui prevede che il dirigente scolastico debba “utilizzare il docente inadempiente in attività di supporto all’istituzione scolastica”. I professori, in pratica, sono stati riammessi a scuola da paria. Dunque la fine dello stato di emergenza in Italia non coincide affatto con la fine delle restrizioni e di quelle che anche Amnesty International ha definito “discriminazioni verso i non vaccinati”. Il certificato verde rimane necessario per svolgere molte attività così come l’obbligo vaccinale per molti cittadini. E per tutti la fine del sistema del green pass (o meglio la sua sospensione, dato che il governo si è riservato la possibilità di riattivarlo) non sarà nemmeno il primo maggio come riportato su molti media. Non sarà così, ad esempio, per le visite nelle Rsa e nei reparti di degenza delle strutture ospedaliere (dove rimarrà obbligatoria la certificazione rafforzata addirittura fino al 31 dicembre). Non sarà così nemmeno per gli obblighi vaccinali: questi rimarranno in vigore fino al 15 giugno per gli ultra-cinquantenni e ancora fino al 31 dicembre per personale sanitario e operatori delle Rsa.
(L'INDIPENDENTE, 1 aprile 2022)
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Undici morti in sette giorni. Perché c'è una nuova ondata di terrore in Israele
di Luca Gambardella
ROMA - Quattro attentati e undici morti in appena sette giorni sono il segnale che Israele è sull'orlo di "una nuova ondata di terrore", ha detto il premier Naftali Bennett in un discorso alla nazione. Bennett è finito sotto accusa perché era dal 2017 che lo Stato islamico non rivendicava attentati in Israele, ed era addirittura dalla seconda intifada del 2006 che il paese non contava tanti morti. Tutti e quattro gli attacchi di questi giorni hanno colpito il cuore del paese, mettendo in dubbio le capacità delle forze di sicurezza e quelle del governo, dove c'è solo il ministro della Difesa, Benny Gantz, a vantare un'esperienza sul campo tra le forze armate. "Cosa ci si aspetta da voi, cittadini israeliani? Vigilanza e responsabilità - ha detto il premier- Per chiunque abbia il porto d'armi, questo è il momento di portare con sé la pistola". L'invito di Bennett alla difesa diffusa è la risposta che chiedevano gli israeliani, spaventati da una minaccia che interessa zone diverse e lontane del paese.
Martedì scorso a Bnei Brak, dopo che un uomo armato di un fucile d'assalto M-16 ha aperto il fuoco sui passanti in un quartiere ebreo ortodosso uccidendo 5 persone prima di essere neutralizzato, i residenti sono scesi in strada urlando "vendetta" e "morte agli arabi". Il livello di allerta è stato alzato al massimo - non succedeva dal maggio scorso - e le forze di sicurezza hanno lanciato ieri l'operazione "Wave Breaker", schierando migliaia di uomini di rinforzo lungo il confine con la Cisgiordania. Ieri, nei pressi di Jenin, un militare israeliano è stato ferito e tre palestinesi sono stati uccisi nel corso di un'operazione. Nelle stesse ore più a sud, nell'insediamento di Gush Etzion, un palestinese ha ferito un soldato su un autobus a colpi di cacciavite. Gli attacchi più gravi sono stati quelli dei giorni precedenti. Il 22 marzo, a Be'er Sheva, un beduino israeliano affiliato allo Stato islamico ha ucciso quattro persone a coltellate in un centro commerciale e in una stazione di servizio. Cinque giorni dopo, due terroristi arabo-israeliani, anch'essi ispirati dal Califfato, hanno ucciso due guardie di frontiera a Hadeera. Infine, martedì scorso, altre cinque persone sono state uccise dall'assalitore di Bnei Brak. In questo caso la rivendicazione è arrivata dalle Brigate dei martiri di al Aqsa, un gruppo combattente palestinese affiliato al partito al Fatah.
Ci sono diversi aspetti che preoccupano le autorità israeliane. Il primo riguarda le modalità. Era da anni che arabi-israeliani non attaccavano Israele oltre la Linea verde, quella che segna il confine con la Cisgiordania, dimostrando lacune nella sorveglianza della barriera. L'agguato alle due guardie di frontiera a Hadeera, così come l'attacco di Be'er Sheva, sembra siano stati sferrati da lupi solitari. Il terzo invece, quello di Bnei Brak, ha richiesto un coordinamento particolare: l'assalitore, il 26enne Diaa Hamarsheh, ha prima sconfinato illegalmente dalla Cisgiordania e solo una volta in territorio israeliano, con l'aiuto di complici, si è procurato il fucile d'assalto. E' un aspetto insolito, visto che gli attacchi più recenti sono stati sferrati con coltelli. Secondo le autorità israeliane, gli attacchi hanno innescato un cosiddetto "sistema copycat": ogni attentato influenza il successivo, creando un processo di emulazione fra gli assalitori difficile da arrestare.
A peggiorare le cose c'è il momento particolare, e pericoloso, in cui arriva la nuova ondata di attentati. Domani inizia il Ramadan, il mese sacro dell'islam, nelle prossime settimane cadrà anche la Pasqua cristiana e quella ebraica, Pesach. Una combinazione di ricorrenze religiose che si mescola allo Yom HaAtzmaut, la festa d'indipendenza israeliana, e alla Naqba palestinese, che commemora l'esodo degli arabi palestinesi durante la guerra civile del 1947-48.
Sui social, molti gruppi armati hanno inneggiato ai martiri di questi giorni. Abu Hamza, portavoce delle brigate al Quds, i combattenti del gruppo palestinese del Jihad islamico, ha annunciato che i combattenti sono "in massima allerta". E anche Hamas ha trasmesso un comunicato in cui dice che "la resistenza ha il dito sul grilletto". C'è poi il contesto internazionale e della guerra in Ucraina, che Hamas sta cercando di strumentalizzare per esacerbare ancora di più un clima di tensione. "Non c'è alternativa alla lotta - ha detto Khaled Meshaal, capo di Hamas all'estero - Basta negoziati. Se c'è una lezione che dobbiamo trarre dalla guerra fra Russia e Ucraina è che dobbiamo imporre la nostra volontà sul terreno, e non importa cosa si dice di noi. Quando imponi il dato di fatto sul terreno, tutti si arrenderanno, che gli piaccia o no".
Il Foglio, 1 aprile 2022)
Da Israele la Jihad lancia un messaggio: sarà un Ramadan di sangue
Gli attentati di questi giorni non sono casuali; il piano prevede sangue e ancora sangue.
di Stefano Piazza
Sabato inizia il Ramadan e se guardiamo a ciò che sta accadendo in Israele prima della festività islamica, prepariamoci ad un periodo di straordinaria violenza. Il Ramadan in teoria è il mese nel quale i fedeli di religione musulmana dovrebbero approfondire la loro pietà e rinnovare il loro impegno nei confronti di Allah tuttavia, in quanto tale, è spesso associato ad un momento di maggiore attività dei terroristi dal momento che la “jihad contro i non credenti” viene intrapresa come un puro atto di obbedienza. Ma cosa sta accadendo in Israele?
Lo scorso 22 marzo quattro cittadini israeliani sono stati assassinati a Beer Sheba da Mohammad Ghaleb Abu al-Qi'an, insegnante 34enne della città beduina di Hura nel deserto del Negev – che ha accoltellato tre delle vittime e investito con la macchina la quarta. L’uomo che è stato ucciso dal conducente di un autobus (che era armato) e che si era fermato per prestare soccorso alla vittime, aveva scontato quattro anni di carcere dopo essere stato arrestato nel 2015, insieme ad complici dalle forze di sicurezza israeliane per aver tentato di entrare in Siria dove si sarebbe unito all’Isis, inoltre aveva tentato di reclutare degli studenti nell’istituto dove insegnava.
Cinque giorni dopo nella città di Hadera che si trova nel distretto di Haifa a circa 45 km a sud di Haifa ed a circa altrettanti chilometri a nord di Tel Aviv, due arabi israeliani, i cugini Ibrahim e Ayman Aghbarya, hanno ingaggiato un conflitto a fuoco in Herbert Samuel Street uccidendo 2 poliziotti e ferendo seriamente altre dieci persone. In questo caso lo Stato islamico per la prima volta dal 2017, attraverso la sua agenzia stampa Amaq, ha rivendicato l'attacco «Due membri delle forze di polizia (di Stato) ebraiche sono stati uccisi e altri sono rimasti feriti in un attacco di commando» e da giorni sui canali di riferimento dell’Isis si celebrano i due terroristi dei quali sono stati diffusi alcuni video uno dei quali li mostra accanto ad una bandiera dell'Isis, mentre in un immagine uno dei cugini è abbracciato allo sceicco terrorista Raed Sallah, capo del “Movimento islamico-Frazione Nord”, che da poche settimane è tornato in libertà.
Infine a completare la settimana di sangue il 29 marzo 2022 il 27enne palestinese Diaa Hamarsha, terrorista della Jihad islamica che aveva scontato una pena a sei mesi per attività terroristiche e vendita illegale di armi, ha iniziato a sparare con un fucile automatico M-16 sulla persone per strada e prima di essere ucciso dalla polizia è riuscito ad uccidere cinque persone, tra cui un agente di polizia. Tre attentati terroristici in soli sette giorni (ben cinque negli ultimi giorni) è un numero impressionante che fa paura soprattutto se si pensa a cio’ che potrebbe accadere con la rarissima coincidenza di tre festività quali il Ramadan, la Pesach ( la Pasqua ebraica) e la Pasqua cristiana.
Secondo Franco Iacch analista strategico «Le organizzazioni terroristiche inquadrano il divenire all'interno della propria narrativa apocalittica. Se tutto avviene secondo il volere divino, la coincidenza temporale di tre tradizioni di fede potrebbe essere interpretata nella visione jihadista come una propizia occasione da sfruttare per “guadagnare il massimo beneficio durante il Ramadan cosi da raggiungere le più alte stanze del Paradiso”.Tatticamente parlando sono date che facilitano il coordinamento poiché universalmente conosciute nel mondo musulmano. Lo Stato islamico ha decontestualizzato le classiche prescrizioni del Corano per garantire un supporto religioso ad omicidi e missioni di martirio». Quindi nella nuova mentalità radicale islamista continua Iacch «si sostiene la liceità e la natura obbligatoria della jihad nel Ramadan, definito come il “mese di conquista”. Nella distorta reinterpretazione della teologia islamica, l'omicidio durante il Ramadan è considerato un atto devozionale mentre le ricompense saranno triplicate durante la Notte del Destino. Il tema della gloria del martirio è ricorrente nella propaganda jihadista, tuttavia al martire consacrato nella Notte del Destino sarà assicurata la gloria e la redenzione. Laylat al-Qadr rappresenta anche una ottimale finestra temporale per la diffusione dei messaggi (sebbene gli ordini di attacco non abbiano scadenza) delle principali organizzazioni terroristiche».
Il premier israeliano Naftali Benett a proposito degli attentati ha dichiarato «Le nostre forze di sicurezza operano. Combatteremo il terrorismo con determinazione, caparbia e pugno di ferro. Nessuno ci sposterà da qui. Vinceremo» al quale ha fatto eco il leader palestinese Mohmoud Abbas che ha dichiarato “L’uccisione di civili palestinesi e israeliani porterà solo a un ulteriore deterioramento della situazione, soprattutto perché ci stiamo avvicinando al mese sacro del Ramadan e alle festività cristiane ed ebraiche» Non la pensano cosi’ i terroristi di Hamas che per bocca di uno dei molti portavoce su Twitter ha dichiarato «La lotta armata continua, siano benedette le mani degli eroi”. Possibile tutto questo sia una risposta al “Summit del Negev” di domenica e lunedì scorsi nel quale si sono seduti allo stesso tavolo i ministri degli Esteri di Israele, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco ed Egitto? Per Hamas e le altre organizzazioni terroristiche si è trattato «del vertice della vergogna al quale abbiamo risposto». Mentre la Pasqua si avvicina in alcune moschee in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza hanno sollevato il takbir, per celebrare «l'operazione a Tel Aviv».
Alzare il takbir significa lodare pubblicamente Allah, di solito nella forma di "Allah hu-Akbar". Ma di questo nessuno ne parla, meglio non scriverlo perché magari a qualcuno potrebbe venire in mente di smetterla di mandare centinaia di milioni di euro per sostenere l’odio contro gli ebrei. Per qualcuno è sempre meglio continuare a invitare i terroristi a fare conferenze anche in Italia.
IL PROCLAMA DELL'ISIS PER IL RAMADAN
I Mujaheddin lo accolgono (il Ramadan) disegnando piani per colpire il nemico nelle sue articolazioni. Il Ramadan è il mese della jihad e delle sue conquiste (in riferimento al Mese di Conquista), quindi approfittane, o Mujahideen, per indebolire i tiranni e i loro eserciti da un lato, e per diffondere guida e conoscenza ai musulmani in generale dall'altro, e continua la notte durante il giorno, poiché il Ramadan è una delle stagioni del popolo dell'Aldilà, tutto è benedetto e le ricompense in esso sono raddoppiate. Cambiate, o musulmani, e la cosa più importante che il credente decide nel Ramadan è di cambiare se stesso in modo che la sua condizione sia migliore dell'anno precedente. Consigliamo ai comuni musulmani di sforzarsi di sbarazzarsi della loro debolezza e del dominio dei nemici su di loro, e ciò avverrà solo mediante la jihad per la causa di Dio, impugnando le armi, combattendo i tiranni e sacrificandosi per questa solida religione. Selezioniamo anche i giovani della nazione, che sono stati presi dalla negligenza e dal divertimento, per pentirsi a Dio durante il Ramadan e tornare a Lui, perché Dio ama coloro che si pentono, e devono fare jihad, perché è una porta attraverso che Dio rimuove l'angoscia e l'angoscia, e Dio espia i peccati e le cattive azioni con essa. E lode a Dio Onnipotente che Dio prolunga la sua vita per testimoniare questo mese santo. Quanti di quelli Dio Onnipotente sono morti e non si sono resi conto in questi giorni, e il conciliatore è colui che è stato forte, ricordando Dio, adorando, diligente e sforzandosi. O Dio, rendici tra coloro che digiunano e compiono il Ramadan con fede e in attesa della ricompensa, e dai quali sarà accolta la migliore delle azioni (jihad), e lode a Dio, Signore dei mondi.
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(Panorama, 1 aprile 2022)
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Lorefice e la sinagoga di Evelyne Aouate: “Realizzerò il suo sogno, era un amore di quello bello”
L’arcivescovo racconta l’amicizia che lo legava alla leader della comunità ebraica: “Un rapporto di stima e di sentimenti”.
di Claudia Brunetto
Le luci della prima festa di Chanukkah a cui partecipò appena nominato arcivescovo di Palermo se l'è portate sempre dentro. Chiese ai suoi: "Chi è questa Evelyne che mi invita?". Non sapeva che quella donna, punto di riferimento di tutta la comunità ebraica siciliana, sarebbe stata lei stessa una luce abbagliante pronta a guidare e proteggere. Corrado Lorefice andò al primo appuntamento senza sapere nulla di lei e da quel momento, ogni anno a dicembre, non mancò mai all'ex carcere dello Steri per una delle più importanti feste ebraiche.
Perché c'era Evelyne Aouate, morta l'altro ieri a 81 anni dopo una lunga malattia, e c'era tutta la comunità ebraica con cui l'arcivescovo dall'inizio del suo cammino a Palermo ha sempre voluto dialogare per creare insieme anche con l'Islam un ponte di pace fra le tre religioni monoteiste. Ma prima di tutto questo, Evelyne Aouate, per Lorefice è stata un'amica del cuore e dell'anima. Una persona da sentire al telefono tutte le settimane anche soltanto per una parola di conforto e incoraggiamento reciproco, ognuno per la propria missione in città. "Un amore a prima vista", ha detto ieri nella casa di Aouate in via Wagner dove nel giro di un'ora, dopo di lui, si sono presentati pieni di dolore l'imam e il pastore della chiesa valdese.
"Un amore di quello bello" come a voler provare a spiegare agli altri quell'unicità dei rapporti umani che solo chi c'è dentro può capire davvero. E lo hanno dimostrato le lacrime e i singhiozzi morti in gola che hanno spezzato la voce di Lorefice, ieri, mentre leggeva per Aouate i salmi e il Kaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche in cui si santifica il nome di Dio. "La prima cosa è stata l'amicizia, il rapporto umano dal primo momento, tutto il resto è venuto dopo, il presupposto è stato proprio il riconoscersi nel volto dell'altro, dell'altro soprattutto diverso da te. Questa era la grande capacità di Evelyne, questo ha permesso di condividere con lei il modo di abitare Palermo nel segno della ricchezza della diversità di fede e religioni ", dice l'arcivescovo.
Evelyne Aouate amava la città dove viveva da oltre sessant'anni e dove ha combattuto per fare riemergere la storia di quei cinquemila ebrei cacciati da Palermo nel 1492. Proprio come lei che è dovuta scappare con la sua famiglia dall'Algeria in Francia. " L'ha scelta come sua città, ne percepiva tutta la potenzialità di bellezza, ecco perché ha contribuito alla bellezza di Palermo. Sapeva che anche la presenza delle religioni in dialogo è un motivo di ricchezza per la città degli uomini. Che si arricchisce, appunto, della presenza di un Dio che ha questa visione: gli uomini e le donne che vivono nella casa comune, nella pace ", dice Lorefice.
Adesso il sogno di Aouate di inaugurare una sinagoga a Palermo è anche il suo. Del resto ne è stato l'artefice. Quando ad appena una settimana dalla richiesta della referente della comunità ebraica di trovare un posto per trasformarlo in una sinagoga, l'arcivescovo la chiamò dicendo che il posto per realizzare il suo sogno l'aveva trovato. L'oratorio sconsacrato di Santa Maria del Sabato, in vicolo della Meschita, dove un tempo nasceva l'antico quartiere ebraico di Palermo. Dopo oltre cinque secoli, Aouate, voleva la sinagoga proprio dove era sempre stata fino alla fine del Quattrocento. In curia arrivarono telefonate anche dall'America per sapere se la notizia di una sinagoga nel cuore di Palermo fosse vera. Aouate la voleva anche per i turisti ebrei in visita in città.
"Mi ricordo quando l'ho chiamata per dirglielo, non ci credeva, era molto felice, non se lo aspettava che avessi trovato un luogo dopo una settimana dalla sua richiesta. " Come hai fatto?", mi ripeteva. Adesso spero davvero che si possa realizzare, non l'ha potuta vedere in vita, ma resta la sua eredità per tutti noi, non soltanto per la comunità ebraica. Un luogo di preghiera che manca", racconta Lorefice.
Aouate era incredula, ma allo stesso tempo ha sempre pensato che fosse il frutto di un cammino segnato dal loro "rapporto di stima e sentimenti " . " Ha ascoltato la voce degli ebrei siciliani. Lo ha fatto con sensibilità estrema e con la volontà di riavvicinare le nostre confessioni religiose. Ci siamo subito sentiti come fratelli e sorelle " , diceva Aouate. Il sogno comune c'è, serve che diventi realtà con l'impegno di tutti.
(la Repubblica, 1 aprile 2022)
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«Ci mandano al macello». I foreign fighters scappano dall’Ucraina
I media li hanno esaltati come eroici combattenti per la libertà, ma la realtà sul campo è diversa. La legione internazionale di Zelensky non ha armi per fronteggiare «la superiore potenza russa». In Donbass è morto un italiano che combatteva con i filorussi.
«Perché dovrei sprecare la mia vita per niente? Un conto è combattere per la sicurezza dell’Ucraina e la salvezza dell’Europa, un altro è suicidarmi». Sono queste le ragioni che hanno spinto Phil, veterano di 35 anni dell’esercito britannico, ad abbandonare l’idea di unirsi alla legione internazionale ucraina creata dal presidente Volodymyr Zelensky per contrastare la Russia.
• «Non voglio essere carne da cannone»
Come altri ventimila foreign fighters, spesso esaltati dai media come eroici combattenti per la libertà in articoli che veicolano una visione romantica e irrealistica della guerra, anche Phil si è recato in Ucraina per combattere. Ma dopo aver visto le condizioni del conflitto sul terreno e l’organizzazione dell’esercito ucraino, ha deciso di tornare indietro. «Non voglio essere usato come carne da cannone», ha dichiarato a Vice. Phil non è il solo foreign fighters a essere tornato a casa. La sua, come quella di tanti altri, è una storia che trova poco spazio nei media perché racconta della drammatica realtà della guerra che non lascia spazio a visioni romantiche ed edulcorate del conflitto.
• «C’è caos e disorganizzazione: è l’inferno»
Harry Vermeer, olandese di 36 anni, sposato con tre figli, era partito da Utrecht carico di ideali, belle intenzioni ed equipaggiamenti militari. Come racconta a Het Laatste Nieuws, appena arrivato in Ucraina ha fatto marcia indietro: «Sono stato avvicinato da alcuni reclutatori, ma anche da altre persone che mi hanno raccontato di soldati inglesi mandati al fronte con un vecchio Ak-47 e 12 proiettili, altri senza neanche quelli, subito uccisi. Non avrei avuto scampo, non aveva alcun senso». Jesper Söder, di origine svedese, era uno delle centinaia di foreign fighters che aspettava ancora armi e addestramento nella base militare di Yavoriv, nella provincia di Leopoli, quando è stata attaccata dai russi il 13 marzo. «Laggiù era l’inferno: bombe, missili, grida, panico. I russi sapevano esattamente dove colpire e dove eravamo, dove si trovavano le nostre armi», ha raccontato all’Associated Press. Circa 35 persone sono morte nell’attacco e Söder, che è riuscito a salvarsi, è subito scappato in Polonia alla testa di un gruppo di scandinavi, inglesi e americani. Secondo altri volontari, «c’è molto caos e disorganizzazione. Molte legioni, molte false promesse, molta disinformazione. Troppe persone che non sanno neanche come si spara». Secondo quanto affermato dal britannico Matthew Robinson, «puoi arrivare qui con i migliori ideali ma devi porti dei limiti. Anche se vuoi aiutare la gente, rischi di essere inviato al fronte in breve tempo e potresti risultare poco più che carne da macello».
• «La legione internazionale è solo propaganda»
Un gruppo di combattenti canadesi ha dichiarato al Globe and Mail di aver abbandonato l’Ucraina a causa della mancanza di equipaggiamenti militari e dopo aver dovuto firmare strani contratti. «Pensavo che mi avrebbero armato, invece volevano mandarmi a fronteggiare i russi senza neanche un’arma», racconta Paul Hughes. «Si sono segnati il mio numero di passaporto e mi hanno chiesto di firmare un contratto che mi avrebbe impedito di abbandonare il paese a meno di ottenere il permesso», spiega Mark Preston-Horin. «Mi sono rifiutato e me ne sono andato subito, anche perché non mi avrebbero dato né armi, né giubbotti antiproiettile, neanche un elmetto». Aggiunge poi: «Credo che questa legione internazionale sia stata concepita come strumento di propaganda per dare l’impressione che il mondo intero stia combattendo contro la Russia di Putin. Ma non hanno niente che faccia pensare a una vera unità internazionale». Secondo un rapporto del Het Laatste Nieuws, oltre metà dei foreign fighters belgi sono già tornati a casa perché, come spiega uno dei rientrati, «c’è differenza tra combattere ed essere mandati al massacro». Lo raccontano bene a Vice due soldati che hanno combattuto in Afghanistan con la Nato, uno americano e uno polacco, secondo i quali «i soldati sono male equipaggiati e schiacciati dalla superiorità dei russi. Alcuni tra i volontari, inoltre, abusano di droghe. Combattere con gli Stati Uniti e la Nato era un’altra cosa, c’erano supporto aereo, personale medico, logistica, armi, intelligence. Qui in Ucraina non c’è niente di tutto questo».
• Si può aiutare l’Ucraina senza sparare
Quando è scoppiata la guerra, spiega ancora il veterano britannico Phil, «la mia prima reazione è stata: “Devo fare qualcosa, devo aiutare, devo andare e combattere”. Dopo aver visto la situazione, però, ho cambiato idea». Phil è ancora dell’idea di aiutare l’Ucraina e si è reso disponibile per lavori di tipo umanitario o per l’addestramento delle reclute. Per tutto il resto, concorda con il canadese Mark Preston-Horin: «A chi ancora voglia partire per l’Ucraina, dico: non andate, non sprecate il vostro tempo e la vostra vita».
(Tempi, 1 aprile 2022)
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