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Notizie 1-15 dicembre 2017


Una lampada del Museo dei Lumi di Casale Monferrato accesa a Ferrara

La Chanukkià di Omar Ronda scelta per inaugurare il Nuovo Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) nella città estense

 
E' stata una Chanukkià proveniente dal museo dei Lumi di Casale Monferrato a segnare l'inaugurazione del Nuovo Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis), di Ferrara, dedicato alla storia e alla vita ebraica.
Ma la lampada accesa alla presenza anche del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha un significato particolare tra le oltre 200 ospitate di solito in vicolo Salomone Olper. E' quella realizzata da Omar Ronda, l'artista biellese da poco scomparso, e considerata tra i pezzi più pregevoli tra quelli donati alla Comunità Ebraica Casalese nel corso degli anni da tanti artisti, tanto da essere stata tra i protagonisti della recente mostra alla Triennale di Milano.
L'inaugurazione del Museo, è infatti avvenuta nel pieno di questa festa (che inciso significa proprio "inaugurazione" in ebraico) e ad accendere il secondo lume di Chanukkà sulla lampada di Ronda di fronte alle autorità è stato il Rabbino Capo di Ferrara Luciano Caro.
Nel corso della cerimonia inaugurale sono intervenuti oltre al Capo dello Stato: il Presidente del Meis, Dario Disegni, il Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, il Presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini e il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini. Casale Monferrato è stata rappresentata da Elio Carmi vicepresidente dalla Comunità e Daria Carmi, Assessore alla Cultura.

(Casalnews, 15 dicembre 2017)


Triathlon estremo a Eilat, attesi in Israele duemila partecipanti

Manca poco alla Israman Ironman Garmin Race, la gara di triathlon israeliana che si svolgerà ad Eilat dal 24 al 27 gennaio 2018 ed è considerata tra le 10 competizioni di long triathlon più impegnative del mondo. Gli atleti dovranno nuotare per 3,8 km nelle acque del mar Rosso, pedalare per 180 km tra le montagne di Eliat e, al ritorno, percorrere una maratona di 42,2 km fino al traguardo in città. Coloro che sono alla ricerca di una sfida meno impegnativa potranno partecipare alla Half Israman, che prevede 1,8 km a nuoto, una gara in bici di 90 km e una corsa di 21,1 km. Quest'anno anche i piccoli atleti potranno gareggiare nella IsraKids, che estende la partecipazione alla gara a due gruppi divisi per fasce di età. Sono attesi circa 2 mila partecipanti provenienti da 25 nazioni, accompagnati da diecimila persone tra parenti, amici e visitatori che arriveranno ad Eilat per fare il tifo e partecipare ad uno dei maggiori eventi sportivi internazionali in Israele. «Eilat è raggiungibile con voli diretti dall'areoporto Orio al Serio e con poco più di tre ore di volo dall'Italia sarà possibile vivere la magia di una vacanza avvolti dal tiepido calore del deserto del Negev: calore e magia del mar Rosso, per vivere l'estate tutto l'anno, dove l'inverno non esiste» ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia.

(Travel Quotidiano, 15 dicembre 2017)


Berlino - Il monito della polizia: «Sequestreremo le bandiere Usa e di Israele»

La misura viene presa per evitare che vengano bruciate come accaduto lo scorso weekend davanti alla porta di Brandeburgo a Berlino.

BERLINO - La polizia di Berlino ha lanciato un monito in vista delle prossime manifestazioni contro la decisione di Donald Trump su Israele: chi porterà bandiere americane o israeliane potrà vedersele sequestrate, se le forze dell'ordine riterranno che vi sia rischio di nuovi roghi.
La misura viene presa per evitare che le bandiere siano bruciate, come è accaduto lo scorso weekend a Berlino - fra l'altro anche davanti alla Porta di Brandeburgo - dove tre bandiere israeliane sono state bruciate. È quello che ha spiegato all'agenzia di stampa italiana ANSA la polizia della capitale tedesca. Durante le manifestazioni sarà inoltre vietato incendiare bandiere.
Il veto dei roghi vale anche a Francoforte, in vista della dimostrazione di domani, dove la polizia ha fatto sapere, tramite la stampa locale, che «interverrà molto, molto velocemente».
Intanto in Germania continua il dibattito sull'antisemitismo, scatenato proprio dagli episodi della settimana scorsa. È un fenomeno che non «deve avere spazio in Germania», aveva tuonato ieri il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, e oggi gli fa eco Jens Spahn, giovane astro nascente della Cdu, che vede nell'immigrazione dai paesi musulmani il rischio dell'affermarsi di una nuova forma di antisemitismo, «l'antisemitismo di importazione».
Spahn ne parla in un'intervista sul numero in uscita domani di Der Spiegel, secondo un'anticipazione. I fatti dei giorni scorsi «hanno a che fare anche con l'immigrazione da un diverso contesto culturale, un contesto nel quale gli ebrei e gli omosessuali non sono proprio ben visti».

(tio.ch, 15 dicembre 2017)


Bahrein, attesa visita di una delegazione commerciale israeliana

GERUSALEMME - È attesa prossimamente in Bahrein la visita di una delegazione commerciale israeliana. Secondo quanto riporta il "Jerusalem Post", il prossimo mese una delegazione di imprenditori israeliani si recherà a Manama, in risposta alla visita che una delegazione di religiosi del Bahrein ha tenuto questa settimana in Israele. Ad organizzare il viaggio sarebbe il rabbino Abraham Kober del centro Simon Wiesenthal. Le autorità del Bahrein avrebbero accolto con favore questa iniziativa. La visita di alcuni religiosi di Manama in Israele, avvenuta nei giorni scorsi, è stata duramente criticata dalla stampa araba alla luce della crisi in corso per Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 15 dicembre 2017)


Gerusalemme e noi

Note a margine a un articolo di Eshkol Nevo sul Corriere sulla capitale dello stato di Israele

di Emanuele Calò

 
Eshkol Nevo
Il presidente Usa, Donald Trump, riconosce Gerusalemme come capitale dello stato d'Israele e decide di trasferirvi l'ambasciata. Non sembrerebbe, tuttavia, né che abbia creato Israele né che siffatto riconoscimento renda la capitale d'Israele più capitale di prima. Qualcuno pensa che sarebbe bello che uno stato palestinese insediasse la propria capitale in Gerusalemme est e che nel pomeriggio il presidente d'Israele andasse a mangiare la pita col falafel col presidente palestinese, senza guardie del corpo e che, se D-o vuole, litigassero per il calcio, anche in modo feroce, com'è giusto che sia. In quel mondo ideale, si proseguirebbe coi palestinesi il rapporto che si ha con gli arabi israeliani, al quale rapporto, alla luce delle catastrofi finora vissute, sarebbe da assegnare il massimo dei voti, con lode annessa. Il suddetto riconoscimento, secondo un'opinione quasi unanime, ostacolerebbe il processo di pace che, come ciascuno sa, era ai dettagli finali, mancando soltanto la definizione di quando e come spararsi. Per fortuna è intervenuto nel frattempo Eshkol Nevo, il quale scrive sul Corriere della Sera dell'11 dicembre che "Gerusalemme può rappresentare l'inizio della risoluzione del conflitto, se ricorderemo che non è solo nostra". Sennonché, quando avremo preso coscienza che non è solo nostra, non sarà cambiato nulla. Una simile coscienza animava i promotori del processo di Oslo, che è finito malissimo. Scorrendo le opinioni di Nevo, trovo tanto in comune con talune anime belle della Diaspora, anch'esse persuase della necessità di diventare più buone come chiave per migliorare il mondo e addivenire alla pace. Un pensiero così alla Rudyard Kipling da sembrare obsoleto, perché se è certamente possibile essere persuasi che sia sufficiente diventare migliori per cambiare il mondo, per converso, non è bastevole essere buoni per farsi amare, perché in quelle impegnative vicende tocca essere in due. Beninteso, Nevo potrà pur amarsi da solo ma, per farsi amare, dovrebbe quanto meno compulsare l'altrui parere. Alcuni scrittori israeliani si presentano al mondo, e ai loro potenziali lettori, quali anime candide, rischiando che qualche anima meno candida anziché prendere loro per pacifisti di sinistra, possa scambiarli per autoreferenziali privi della consapevolezza che non esistono soltanto loro, ma che esistono anche gli altri, col rispettivo corredo di diritti e di doveri, fra i quali ultimi vi è pure la responsabilità di cui ciascun essere umano è investito per le proprie azioni e decisioni. Non basta, quindi, che Nevo e tanti altri ricordino che Gerusalemme non è soltanto loro, perché non si è soli e abbandonati al mondo, ma esistono anche gli arabi palestinesi, senza i quali nessun progetto di condivisione potrà vedere la luce.
   Non escludo che molti lettori di Eshkol Nevo apprezzino la generosità e la modestia delle sue parole, senza notare che non si dovrebbe scrivere che "non c'è futuro senza compromessi e senza vedere l'altro" se non si dichiara al contempo che il compromesso è tale perché coinvolge le due parti e che lui, come israeliano, dovrebbe chiedere alla controparte se accetta il compromesso.
   Scrivendo come scrive, nella migliore delle ipotesi, Nevo illude sé stesso e i suoi lettori; nella peggiore delle ipotesi, sembrerebbe che non consideri che il prossimo abbia sì dei diritti - ci mancherebbe - ma anche delle responsabilità. L'irrilevanza di certa sinistra non sarebbe un bene se non insistesse, sempre e ovunque, a ritenersi depositaria della volontà generale nel più vieto stile di Jean Jacques Rousseau. Ora, mentre nell'ambito interno questo atteggiamento può dispiacere, quando lo si trasferisce in medio oriente, il pensiero corre subito all'anzidetta anima di Rudyard Kipling, facendo pensare che essere democratici di sinistra diventi talvolta, se non un ossimoro, quanto meno un'utopia.

(Il Foglio, 15 dicembre 2017)


Bedarida lascia dopo diciotto mesi. Misul guiderà gli ebrei fiorentini

di Jacopo Storni

Daniela Misul
Cambio al vertice della comunità ebraica fiorentina. Dopo un anno e mezzo di presidenza, lascia Dario Bedarida. Al suo posto, il consiglio della comunità ha nominato l'attuale vicepresidente Daniela Misul, mentre David Liscia e Rachel Camerini sono stati nominati membri di Giunta. Un cambio al vertice arrivato su richiesta dello stesso Bedarida (per sopraggiunti impegni lavorativi) che ha portato avanti un avvicendamento degli incarichi in continuità e piena sintonia di intenti. Bedarida, in questi diciotto mesi di presidenza, ha gestito tra l'altro la delicata transizione del rabbino, con Joseph Levi che ha lasciato l'incarico per il
pensionamento dopo 21 anni di ufficio a Firenze ad Amedeo Spagnoletto.
Daniela Misul, 59 anni, fiorentina, madre di tre figli, aveva già ricoperto la carica di presidente dal 2006 al 2010. E molto attiva nei progetti interreligiosi e scolastici ed è stata una delle protagoniste dell'iniziativa comunale «Le chiavi della città», che promuove l'offerta di percorsi educativi e formativi nelle scuole come attività laboratoriali, visite e spettacoli. Misul sarà a capo di una comunità che conta oltre 900 membri, una delle comunità ebraiche più numerose d'Italia dopo quelle di Roma e Milano.

(Corriere Fiorentino, 15 dicembre 2017)


Erdogan lancia la sua 'Opa' sul Medio Oriente

Dopo le Primavere Arabe ci riprova, cerca la terza via in un Islam diviso

di Cristoforo Spinella

ISTANBUL - Sembrava finito, il Sultano. Sopravvissuto per il rotto della cuffia al golpe che voleva abbatterlo. Fiaccato dagli schiaffi presi nei territori del fu Impero Ottomano, che sognava di tornare a guidare: dalla Siria, con la scommessa fallita di rovesciare Assad, all'irredentismo curdo che oggi brulica ai confini della Turchia. E invece è arrivata Gerusalemme: la sua nuova, insperata occasione. Forse l'ultima.
   Dopo le Primavere Arabe, Recep Tayyip Erdogan ci riprova.
   Come un signore del caos, si tuffa nel vuoto di leadership di un Medio Oriente unito nella condanna formale, ma diviso su quasi tutto il resto. Di fronte alla "sfida eccezionale" lanciata da Donald Trump - parole del segretario dell'Organizzazione dei Paesi islamici (OIC) - i musulmani sono apparsi impreparati. In una regione senza più una guida, sempre più divisa dalla frattura tra il fronte saudita e l'Iran sciita, il Sultano ha lanciato la sua Opa, tentando di accreditarsi come il primo paladino della causa palestinese. Come quando, ai tempi della Freedom Flotilla, a Gaza circolavano i suoi ritratti. L'occasione gli arriva su un piatto d'argento. La mossa della Casa Bianca fa breccia in una regione lacerata da ferite profonde. Anche nel summit dell'OIC da lui convocato mercoledì a Istanbul, pur evocando l'unità islamica contro "il pericolo sionista", il presidente iraniano Hassan Rohani non ha risparmiato un affondo contro chi, in Medio Oriente, ha incoraggiato Trump a "osare" su Gerusalemme, perché con Israele vorrebbe in realtà scendere a patti, e proprio contro Teheran.
   Non ha avuto bisogno di fare nomi: il riferimento ai Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, è apparso chiaro. Così, mentre i due fronti dell'Islam non si risparmiano accuse e minacce, Erdogan batte la via non allineata: la scorsa estate restando a fianco del Qatar, a metà strada tra Riad e Teheran; e ora con Gerusalemme, dove la leadership palestinese - orfana di grandi sponsor e fragile al suo interno - cerca di conquistare alla sua causa nuove potenze. Per Erdogan, è un ritorno alle origini, a quel "voi sapete bene come uccidere" sbattuto in faccia in mondovisione a Shimon Peres già nel 2009.
   Da lì in poi, cercando di cavalcare le Primavere Arabe, si era immaginato come nuovo Sultano del Medio Oriente. Una scommessa persa, allora. La sua 'inversione a U' si completò, con provvidenziale tempismo, un paio di settimane prima del putsch che provò a rovesciarlo, rappacificandosi con Russia e Israele. Ora, Erdogan ritenta l'azzardo. Ma se dovesse andargli male, stavolta rischia di restare senza paracadute.

(ANSAmed, 15 dicembre 2017)


Erdogan lasci in pace Israele

Lettera a La Verità

Sappiamo tutti che Gerusalemme è sempre stata la capitale di fatto di Israele: lo è da più di 3.000 anni. Forse, se nel mondo islamico studiassero la storia, lo capirebbero e accetterebbero. Questo non vieta a nessuno di pregare nella famosa moschea di Gerusalemme. Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, Paese dittatoriale in cui viene messo in carcere chiunque si opponga alla sua volontà, piuttosto che alla guerra contro Israele farebbe meglio a pensare a restituire la libertà al suo popolo.
Ingrid Grieg

(La Verità, 15 dicembre 2017)


Crisi degli alloggi in Israele. Niente di nuovo sotto il sole

di Luciano Assin

Indignados - Israele 2011
Indignados giovani
e meno giovani
Per chi se lo fosse già dimenticato più di sei anni fa e per l'esattezza durante l'estate 2011, sembrava che Israele fosse prossima ad un ribaltamento sociale mai visto prima. Migliaia di giovani invasero il centro di Tel Aviv per protestare contro il caro vita e in particolar modo sui costi proibitivi degli alloggi sia in affitto sia di proprietà. Per Israele sei anni è un lasso di tempo molto lungo e nel frattempo la protesta si è affievolita ed i mass media hanno altro a cui pensare. Ciò non significa che i problemi siano stati risolti, tutt'altro.
   Ma andando a scavare un po' nel passato, e più precisamente negli anni '30 del secolo scorso, si può vedere come lo stesso problema degli alloggi a buon mercato venne risolto, almeno in parte, accoppiando una nuova scuola di pensiero architettonica alle necessità del proletariato urbano soprattutto di Tel Aviv ma anche di altre città.
   Grazie all'appoggio massiccio dell'Histadrut, l'onnipotente sindacato unico, vennero costruite delle unità abitative autonome nel cuore della città, le "residenze dei lavoratori" secondo uno stile architettonico di avanguardia, moderno e funzionale: il Bauhaus. L'idea di queste enclave proletarie nel cuore di una città estremamente borghese come Tel Aviv era semplice e rivoluzionaria al tempo stesso. Si trattava di costruire una serie di quattro palazzine circondanti un ampio cortile erboso attorno al quale venivano installati una serie di servizi comunitari: un asilo, una drogheria, una lavanderia ed in alcuni casi anche un piccolo tempio. I tetti delle palazzine vengono solitamente adibiti come spazio dove asciugare il bucato.
   Ognuna di queste "residenze" era autonoma ed aveva un proprio regolamento che proibiva fra le altre cose l'affitto o la vendita degli appartamenti senza l'autorizzazione del condominio, per evitare l'ingresso di persone non in sintonia con lo spirito "proletario" degli inquilini. Le unità abitative erano semplici ma estremamente funzionali: due camere da letto (una per i genitori ed una per i bambini), un salone spazioso, cucina, bagno ed un balcone dove poter prendere il sole. Appartamenti semplici e un po’ spartani ma di ottima fattura.
   Paradossalmente il successo di questi piccoli kibbutzim urbani fu tale che abbastanza velocemente lo spirito originario di fornire alloggi a buon mercato alle masse si perse per strada, ed in poco tempo la nomenclatura del sindacato e del Mapai, il partito socialista al potere, ne divenne il principale affittuario. Fra gli inquilini più famosi vi era Levi Eshkol, futuro primo ministro d'Israele.
   Non è casuale il fatto che una parte non indifferente dell'intellighenzia del futuro stato d'Israele nacque e si sviluppò in questi quartieri. I bambini di allora respirarono un misto di ideologia socialista unita ad una solida base intellettuale fornita dai genitori, il tutto in un ambiente chiuso e protetto che aumentava l'identificazione del singolo allo sforzo comunitario e nazionale. Insomma, non erano certo gli stimoli quelli che mancavano.
   La realtà odierna è stata completamente stravolta, la posizione strategica delle palazzine, situate per lo più nel centro della città ne hanno centuplicato il valore. Come le case di ringhiera a Milano, anche a Tel Aviv le case popolari di un tempo sono diventate un ottimo investimento immobiliare. I quartieri rossi della "città bianca" sono ormai scomparsi, e retorica a parte, non sono cosi sicuro che sia un gran bene. Chiedetelo agli "indignados" del 2011.

(Alganews, 15 dicembre 2017)


Funzionario palestinese fa una donazione all'ospedale israeliano che gli ha salvato la vita

di Riccardo Ghezzi

 
Un funzionario dell'Autorità Palestinese ha donato decine di migliaia di shekel al Rambam Medical Center di Haifa dopo essersi fatto curare in quell'ospedale, salvandosi la vita.
Secondo fonti del nosocomio, il funzionario dell'Autorità Palestinese, che ha preferito restare anonimo, ha elargito un contributo finanziario per aiutare i bambini ricoverati con l'obiettivo di "costruire la pace attraverso la medicina".
L'uomo era stato ricoverato all'inizio di quest'anno a causa di un cancro e ha raccontato di aver deciso di fare una donazione all'ospedale dopo aver visto con i suoi occhi la convivenza tra israeliani e palestinesi, curati all'interno della stessa struttura.
"Quando sono arrivato al Rambam Medical Center, ho visto un'équipe medica che trattava i suoi pazienti con dedizione, ma ho visto anche la sofferenza dei bambini malati" è la dichiarazione del dirigente dell'Anp diffusa dall'ospedale. "Bambini palestinesi, israeliani, siriani e bambini di altri paesi vengono curati al centro ospedaliero per gravi malattie e hanno bisogno di tutto l'aiuto che possono ricevere".
La sua donazione servirà alla costruzione di una sala giochi per bambini nell'Istituto di Radiologia del Joseph Fishman Oncology Center.
"Ho deciso di fare una donazione per aiutare a salvare vite umane, al di là di qualsiasi considerazione politica" ha aggiunto l'uomo. "Sia gli israeliani che i palestinesi sono vittime della violenza e io mi sto adoperando affinché tutti possiamo contribuire alla pace e alla salute: curare i bambini, salvare vite umane, condividere scoperte scientifiche e formare medici palestinesi al Rambam, al fine di migliorare il sistema sanitario e la capacità di curare i pazienti nei territori dell'AP, incoraggiando altri a donare e contribuire al miglioramento della salute all'interno delle nostre due nazioni".
"La medicina è un ponte tra i popoli e la mia speranza è che con l'aiuto di questo piccolo contributo e di altri simili in futuro vedremo tutti un domani migliore" ha aggiunto il funzionario.
Il Rambam Medical Center è uno degli ospedali più famosi di Israele, il più grande centro medico del nord del Paese.
Insieme ad altri ospedali israeliani è considerato un modello di convivenza tra ebrei e arabi. Nei corridoi della struttura si trovano donne che indossano foulard e abiti tradizionali musulmani al fianco di ebrei ultra-ortodossi e pazienti con la kippah.
A partire dal 2015, metà dei letti dell'ala pediatrica per la cura del cancro è stata occupata da bambini provenienti da Gaza e dalla Cisgiordania.

(L'informale, 14 dicembre 2017)


La soluzione per Gerusalemme, quale futura capitale di due Stati

Alfano: "La soluzione per Gerusalemme, quale futura capitale di due Stati va ricercata da israeliani e palestinesi attraverso i negoziati nell'ambito del processo di pace". La risposta del ministro degli Esteri ad una interrogazione dell'on. Cicchitto.

ROMA - Sulla questione di Gerusalemme l'Italia è e rimane ancorata al consenso internazionale maturato all'ONU e all'Unione europea, una posizione che abbiamo ribadito sia a Bruxelles sia a New York con una dichiarazione condivisa con Francia, Regno Unito, Svezia e Germania. Lo ha detto il ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale Angelino Alfano, in risposta immediata ad una interrogazione dell'on. Fabrizio Cicchitto.
   La soluzione per Gerusalemme, quale futura capitale di due Stati - ha proseguito Alfano -, va ricercata da israeliani e palestinesi attraverso i negoziati nell'ambito del processo di pace basato sulla soluzione dei due Stati. Fino a che ciò non avverrà, l'Italia continuerà a mantenere a Tel Aviv la propria ambasciata presso lo Stato di Israele.
   Questa posizione del Governo è in linea con le mozioni che la Camera ha adottato nel febbraio 2015. Non sono però ovviamente messi in discussione i legami di profonda amicizia che ci uniscono allo Stato ebraico e che ci vedono impegnati per contribuire alla sicurezza di Israele e nella lotta contro l'antisemitismo. Proprio su quest'ultimo aspetto ho chiesto di organizzare alla Farnesina a fine gennaio una conferenza internazionale nel contesto della presidenza italiana dell'OSCE, una iniziativa che si pone in linea di continuità con il mio personale forte impegno anche da Ministro della Giustizia e da Ministro dell'Interno per la introduzione del reato di negazionismo e della intolleranza antisemita. Ricordo di avere firmato centinaia di decreti di espulsione di estremisti che volevano piantare nella nostra società i semi di questa orribile intolleranza. Ho ribadito a marzo questo mio impegno al Premier israeliano Netanyahu e ne ho dato ulteriore conferma quando ho dato istruzione di votare all'Unesco, per la prima volta nella politica estera italiana, contro l'ennesima risoluzione politicizzata su Gerusalemme.
   Immutato rimane anche il sostegno italiano al rafforzamento delle capacità istituzionali della Palestina e al suo sviluppo economico e sociale, come ho voluto testimoniare personalmente ad Abu Mazen e al Ministro degli Esteri palestinese quando li ho incontrati qui a Roma. Siamo ora preoccupati per gli sviluppi violenti nella regione con numerosi scontri a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza che hanno causato centinaia di feriti e alcune vittime. Abbiamo condannato fermamente i vili attacchi contro Israele a partire dai lanci di missili da Gaza perché la questione dello status di Gerusalemme non può assolutamente giustificare atti violenti contro Israele né incitamento all'odio o manifestazioni di antisemitismo.
   Il negoziato e la non violenza devono essere l'unica via per decidere sullo status di Gerusalemme. Abbiamo pertanto fatto appello di moderazione a tutti gli attori nella regione - ha concluso Alfano - e confidiamo nel loro senso di responsabilità affinché sia evitata l'escalation di violenza dalla quale nessuno trarrebbe beneficio.
   Cicchitto, in sede di replica, ha detto di "condividere interamente il testo e anche quello che ispira la posizione del ministro degli Affari Esteri".

(Inform, 14 dicembre 2017)


Conclusione: l’Italia sta con l’Onu, con Erdogan, con Abu Mazen e contro Israele. Le differenziazioni aggiuntive, gli appelli alla moderazione, gli inviti alla non violenza, le distanze dall’antisemitismo non contano: la presa di posizione su Gerusalemme, in particolare su Gerusalemme Est, dove si trova il Monte del Tempio, è la cartina di tornasole. M.C.


Salvò due ebrei dai nazifascisti: Ida ora è "Giusta tra le Nazioni"

Motta di Livenza. Cerimonia in onore della mottense, la medaglia consegnata alla figlia Maria Teresa Battistella. Presente all'evento anche la nipote della coppia ebrea che trovò rifugio e ospitalità a Lorenzaga

di Claudia Stefani

 
MOTTA DI LIVENZA - Una mottense nel Giardino dei Giusti. 'Chi salva una vita salva il mondo intero': è il verso del Talmud forse più conosciuto nel mondo dopo che Moshe Bejski, ebreo salvato da Oskar Schindler, lo usò per inaugurare nel 1962 il Giardino dei Giusti a Gerusalemme. Un giardino dove viene piantato un albero per ogni Giusto: una persona che ha salvato almeno un ebreo durante la Shoah.
   Oggi, non essendoci più spazio per le nuove piantumazioni, è stato costruito nel giardino un Muro d'Onore su cui vengono scolpiti i nomi. Sulla lastra di marmo è stato recentemente inciso anche il nome della lorenzaghese Ida Granzotto, vedova Battistella. La consegna della onorificenza, la più alta onorificenza civile di Israele, è avvenuta nelle settimane scorse a Venaria Reale, in provincia di Torino, dove la signora Granzotto si era trasferita nel 1953 con i figli.
   A ritirarla in memoria della madre la figlia Maria Teresa Battistella alla presenza di Estella Levi, nipote della coppia di ebrei salvati da Ida Granzotto. Nata nel 1905, Ida Granzotto risiedeva in una casa colonica abbastanza isolata in via Quartarezza a Lorenzaga, a poche centinaia di metri da Villa Wiel. Tra il 1943 ed il 1945 ospitò una coppia di ebrei perseguitati offrendo un nascondiglio dai rastrellamenti nazifascisti. «Ricordo che una coppia di coniugi, Edgardo e Gemma Levi, si presentarono a casa nostra chiedendo ospitalità» spiega la figlia Maria Teresa Battistella.
   «Posto ne avevamo e mia madre, allora già vedova con 5 figli, accettò immediatamente. Non sapevamo neppure che fossero ebrei. Una mattina la signora Gemma scese le scale in lacrime: c'erano i nazisti in paese. Quel giorno se ne andarono per non mettere in pericolo mia madre e noi bambini». Nell'aprile 1958 Ida Granzotto ricevette la medaglia d'oro dalla Comunità israelitica di Milano. Furono successivamente i Levi ad attivarsi con lo Yad Vashem, l'istituto per la Memoria dei Martiri e degli Eroi dell'Olocausto di Gerusalemme, affinché la loro benefattrice venisse nominata Giusta tra le Nazioni. Ida Granzotto è deceduta nel 1987, l'onorificenza arriva dunque postuma ma ha profondamente commossa la figlia Maria Teresa che non ha trattenuto le lacrime durante la cerimonia di consegna della medaglia avvenuta dalle mani di Sara Ghilad, Prima Assistente Ufficio Affari Pubblici e Politici dell'Ambasciata d'Israele in Italia. Sono attualmente 682 i Giusti italiani ricordati nel Giardino.

(la tribuna di Treviso, 14 dicembre 2017)


False Flag, un Israele quasi normale

Alcune serie televisive hanno un'idea di base così forte da resistere a qualsiasi vuoto di sceneggiatura e False Flag è senz'altro una di queste. La serie israeliana ideata da Maria Feldman e Amit Cohen, che abbiamo appena terminato di vedere su Fox e di cui è in produzione la seconda stagione, prende il nome da un termine usato dai servizi segreti di mezzo mondo, riferito ad operazioni di spionaggio portate avanti facendo ricadere le responsabilità su altri servizi segreti o stati. Gli esempi sono infiniti e anche provinciali, basti pensare alla strategia della tensione, con l'effetto perverso di dare per scontato che l'evidenza sia falsa. La serie stessa prende liberamente spunto da un fatto del 2010, l'uccisione di un terrorista di Hamas avvenuta a Dubai e di cui ovviamente si diede la colpa al Mossad.
   False Flag intesa come serie parte invece dal rapimento, avvenuto a Mosca, di un ministro iraniano la cui colpa viene subito data a cinque cittadini israeliani, apparentemente ignari di tutto e con soltanto una cosa in comune: avere tutti un doppio passaporto. Il governo israeliano nega però ogni responsabilità e incarica lo Shin Bet (uno dei tre 'servizi' israeliani, quello delegato alla sicurezza interna, oltre a Mossad e Aman) di indagare sui cinque: un chimico, Ben, una maestra d'asilo, Asia, una contabile, Natalie, un nullafacente, Sean, e un'insegnante, Emma. Si scoprirà presto che fra di loro ci sono altri tipi di relazione e che almeno due su cinque lavorano per servizi più o meno deviati, ma la trama a volte un po' debole nel giustificare tutto (non è possibile che gente pedinata possa navigare sul web senza essere intercettata) passa in secondo piano rispetto all'ambientazione e allo stile. L'ambientazione è un Israele quotidiano, un po' sonnacchioso e senza lussi, che apprende le notizie dal mondo come le apprendiamo noi, anche quando riguardano Israele. Lo stile non è certo adrenalinico, da imitatori degli americani, anche se l'azione non manca e lo stile dei poliziotti israeliani va oltre l'azione: quando uno degli indagati chiede l'avvocato gli viene risposto 'Fra dieci giorni, quando si parla di sicurezza dello stato'. Ma senza cattiveria, è così e basta. Quanto alla psicologia dei personaggi, rende credibile in ogni momento qualsiasi loro cambio di campo fra buoni e cattivi.
   Poi ognuno in Israele vede ciò che vuole: noi uno dei pochi paesi democratici e in senso ampio occidentali in cui esista un senso del bene comune. Cementato non tanto dalla religione, quanto dai nemici e da esperienze comuni come un servizio militare serio (tre anni gli uomini, due le donne) e persone ancora in grado di raccontare la fondazione del paese. Un paese che non a caso ha un premier come Netanyhu: super esperto di terrorismo, ha studiato al MIT e ad Harvard, ha condotto materialmente mille missioni rischiose fino alla guerra del Kippur prima di dedicarsi alla politica. Non esattamente la biografia di Gentiloni, Di Maio, Berlusconi o della Mogherini con la quale ha interagito qualche giorno fa, per quanto riguarda l'attaccamento al proprio paese, per non parlare dei tanti ministri della Difesa che non hanno mai fatto il servizio militare né quello civile. False Flag è in definitiva un buon esempio di televisione nazionale comprensibile anche all'estero, come altri successi israeliani tipo Prisoners of War o Galis Summer Camp, una boccata d'aria fra serial killer e corridoi della Casa Bianca.

(Indiscreto, 14 dicembre 2017)


Nazareth cancella il Natale. Il sindaco: "E' per colpa di Trump"

"No a Gerusalemme capitale di Israele": iniziativa senza precedenti del primo cittadino musulmano della cittadina a nord del paese che, insieme a Betlemme, è uno dei più importanti luoghi di culto della Cristianità

TIl sindaco della città arabo-israeliana di Nazareth, nel nord del paese, Ali Salam, ha deciso di cancellare le celebrazioni programmate per le feste natalizie, ad eccezione di quella per l'illuminazione dell'albero di Natale e la tradizionale marcia annuale. Insieme alla basilica della Natività di Betlemme e alla basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, la cittadina, con la sua basilica dell'Annunciazione, è uno dei simboli internazionali della Cristianità.
   Sorge nel luogo in cui, secondo la tradizione cristiana, l'arcangelo Gabriele annunciò a Maria la prossima nascita di Gesù, detto anche il Nazareno, ed è legata anche all'infanzia di Cristo che qui crebbe, nei luoghi della casa materna. Nazareth, cittadina di circa 75 mila abitanti, è una delle mete principali e irrinunciabili dei pellegrini che visitano la Terra Santa, soprattutto nei giorni delle celebrazioni di fine anno legate alla natività.
   Salam - che è di religione musulmana - ha motivato l'iniziativa, secondo l'agenzia ufficiale palestinese Wafa, per protesta "contro l'annuncio di Donald Trump su Gerusalemme", lo spostamento della sede dell'ambasciata Usa da Tel Aviv, esplicito riconoscimento a Gerusalemme dello status di capitale dello Stato di Israele.

(la Repubblica, 14 dicembre 2017)


“... per protesta contro l'annuncio di Donald Trump su Gerusalemme”. Che altro si potrà fare per dire che si rifiuta Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele?


Ma Donald non è pazzo. La città è il luogo degli ebrei. L'Europa legga la Bibbia

di Aharon Appelfeld

Aharon Appelfeld
Dopo averlo sentito negare per oltre vent'anni finalmente arriva un politico e afferma che Gerusalemme appartiene agli ebrei. Se volete è addirittura ridicolo. C'è la Bibbia e ci sono valanghe di libri di Storia sul rapporto tra Gerusalemme e gli ebrei. È stata la propaganda, soprattutto quella islamista, a diffondere l'idea che la Città santa non avesse alcun rapporto con noi. Non si vuole riconoscere che invece Gerusalemme è il cuore d'Israele, è l'identità ebraica dello Stato.
Detto questo non sono certo contento. Parliamo di una storia incompleta, abbiamo deragliato dal percorso di pace, non vedo alcuna riconciliazione all'orizzonte a meno di riconoscere che Israele è lo Stato degli ebrei. È questo il punto, a mio parere: manca la volontà di trovare un accordo, se lo si volesse veramente tutto verrebbe risolto, compresa la questione di Gerusalemme.
Trump è un businessman, non è un pazzo. Nominando la capitale d' Israele si è guardato bene dal parlare di tutta Gerusalemme. Lo ripeto, il punto di partenza è riconoscere l'identità ebraica del Paese - che è stato invece demonizzato per decenni - e poi tutto il resto sarà negoziabile. E mi meraviglio dell'Europa che, cresciuta com'è studiando il vecchio e il nuovo Testamento, si ostina a negare l'evidenza, non è possibile distinguere tra l'ebraismo e Gerusalemme. Facciamo piazza pulita della propaganda e poi torniamo a sederci a parlare di pace.
Capisco che i palestinesi siano delusi, vent'anni di trattative non hanno prodotto nulla. Ma non sono stati seri. L'idea di riportare a casa tre milioni di arabi della diaspora in un Paese piccolo come il nostro non può essere una pre-condizione perché è una follia, ci distruggerebbe da dentro. Ragioniamo in modo costruttivo piuttosto, la terra per la terra, l'acqua per l'acqua, chiediamo investimenti sostanziosi per entrambi all'America e all'Europa.
Il rischio di una guerra c'è, c'è sempre. Ma non scoraggiamoci, non mi pare che oggi la tensione sia maggiore rispetto al passato: siamo abituati a una costante Intifada a bassa intensità, non c'è mai stato un giorno di vera pace in Israele. Stiamo a guardare: Trump è diverso da Obama, e non tocca a me stabilire quale presidente sia il migliore. Il secondo voleva che gli Stati Uniti si disimpegnassero dalle vicende degli altri Paesi mentre il primo, con tutta evidenza, la pensa in maniera opposta.

(testo raccolto da Francesca Paci)

(La Stampa, 14 dicembre 2017)


«Grazie ai compagni antifascisti, ma ad ammazzarci oggi è l'islam»

Intervista a Davide Romano, assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano, preoccupato per «omicidi e stragi che adesso sono opera di fanatici musulmani».

di Alberto Giannoni

- Davide Romano, portavoce della sinagoga Beth Shlomo, il Comune sta introducendo una sorta di «certificato antifascista» per avere spazi pubblici e contributi. Lei che ne pensa?
  «Non credo molto alle etichette, è più importante concentrarsi su chi incita all'odio. Questa cosa andrebbe estesa ai gruppuscoli di sinistra e agli islamisti. Non limitiamoci a chi ci sta antipatico. Non si può essere "razzisti" coi razzismi, trattiamoli tutti allo stesso modo, interrompiamo tutta la catena dell'odio».

- La sinistra che riscopre l' «antifascismo militante» sente davvero il pericolo o lo fa per ragioni elettorali? Lei cosa direbbe a chi ha sfilato a Como?
  «Ci sono persone in buona fede - la maggioranza - e coloro che lo fanno per calcolo politico. Chi è stato a Como lo ringrazierei, aggiungendo che è importante manifestare contro il fascismo così come contro ogni totalitarismo, di tutti i colori: anche rosso o verde. Oggi vediamo omicidi e stragi che vengono fatte da bande di fanatici islamisti. Dal punto di vista quantitativo questo è un pericolo ben più presente di quello neofascista».

- Un pericolo avvertito anche a chi amministra questa città, secondo lei?
  «C'è attenzione verso il pericolo fascista, Sala in questo è anche più presente del suo predecessore. Ma io lancio un grido preoccupato: guardiamo alla Francia, i bambini ebrei non possono andare nelle scuole pubbliche senza essere aggrediti, gli ebrei non possono girare con la kippah. Si riscontrano attentati e manifestazioni di piazza ostili. In Svezia una molotov contro una sinagoga. È urgentissimo intervenire, sono cose che stanno accadendo adesso, anzi da 20 anni. Se prepariamo prima, governando l'immigrazione, è quello che accadrà qui».

- Sabato in piazza Cavour, al presidio contro Trump, hanno risuonato slogan pro intifada. Che effetto le fa?
  «È un segnale molto preoccupante e deve farci capire quanto l'integrazione stia fallendo. Queste persone che sfilano contro Usa e Israele manifestano un odio che è l'incubatore di ciò che accade altrove. La cultura dell'odio è il problema»

- Le comunità islamiche possono essere chiamate ad assumersi la loro responsabilità.
  «È importante. A molti di loro non interessa l'odio, altri simpatizzano per Israele ma non possono dirlo. Questo ci fa capire che dobbiamo dare più spazio a chi vuole un islam diverso».

- Cosa direbbe alla consigliera Abdel Qader, ex dirigente islamica?
  «Non posso che incoraggiarla a fare di più. Commentando i dati sull'antisemitismo diffuso fra i musulmani, lei parlò di "antìsìonìsmo". Se Sumaya pensa che sia legittimo, vorrei dirle che l'antisionismo ha causato quattro guerre, morti e massacri, anche Roma, sull'Achille Lauro e a Buenos Aires. E nascondendosi dietro l' antisionismo non si risolve il problema dell'antisemitismo islamico».

- L'estrema sinistra coltiva un antisionismo che è addirittura feroce.
  «E va a braccetto con gli islamisti, li aiuta a creare le basi dell'odio, radici che si alimentano a vicenda, si intrecciano. La storia insegna che dall'odio verso interi popoli non nasce niente di buono. E oggi non hanno capito la differenza che c'è fra liberare Gerusalemme, cosa che hanno fatto tutti i conquistatori, e una Gerusalemme libera, per tutte le religioni».

- Gli umori della Comunità milanese, di cui lei è assessore alla Cultura?
  «Viviamo in un mondo strano. Nel Giorno della Memoria c'è solidarietà vera, diffusa e sincera, ma quando si passa a Israele, a libertà e democrazia in Medio Oriente, si avverte una strana ritrosia».

(il Giornale, 14 dicembre 2017)


Mille anni di ebraismo italiano tra diversità e assimilazione

Mattarella alla mostra inaugurale del Meis di Ferrara

di Elena Loewenthal

 
Elena Loewenthal
Amato da tutti», sta inciso in latino alla fine del suo scarno epitaffio di pietra. In calce, una piccola menorah, il candelabro del Tempio di Gerusalemme ormai distrutto, segno della sua appartenenza. Alexander faceva il macellaio a Roma, intorno al III secolo d.C., e se quasi sempre è cosi difficile intravedere la vita vera dietro la storia con i suoi documenti e le sue tracce materiali, quella vita torna a noi quasi intatta, con la sua «diversità» di ebreo ma anche nel segno di una vicinanza amica, in fondo inattesa. È proprio questo il segno della mostra «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» che apre quest'oggi la vita del Meis, il Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, in via Piangipane a Ferrara.
   Perché, come spiegava Daniele Jalla, uno dei curatori di questa spettacolare mostra che è anche, soprattutto, un avvincente cammino in mille anni e più di storia, se la vicenda ebraica nella Diaspora può essere interpretata con due estremi - l'assimilazione o l'eliminazione-, quella degli ebrei italiani offre da sempre una terza via, che è un'integrazione consapevole. Malgrado molte difficoltà e una certa abbondanza di tragedie, l'ebraismo italiano vive da millenni in bilico fra la propria esiguità numerica e delle solide, tenaci radici che affondano in questa terra, e danno frutti.
   Questo è il filo conduttore del Meis, inaugurato ieri alla presenza del Presidente della Repubblica e del ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini: diversità e integrazione, con un'attenzione costante a quella unicità che è la storia ebraica italiana. Una giornata che è stata un vertiginoso cammino a ritroso nella storia, a partire dalla conferenza stampa che ha visto dialogare il Presidente del Museo, Dario Disegni, il Ministro Franceschini, Tiziano Tagliani sindaco di Ferrara, Michele Coppola, Responsabile Attività Culturali Intesa San Paolo, e Daniele Jalla a nome dei curatori della Mostra - con lui hanno lavorato Anna Foa e Giancarlo Lacerenza - sul futuro del Meis ma anche sulla riforma del sistema museale italiano e soprattutto sull'educazione alla convivenza per le nuove generazioni.
   Dal presente e dal futuro della cultura, entrare nella mostra è stato come precipitare negli abissi di un passato a cui tutti in fondo apparteniamo. Nei locali di quello che sino a non moltissimi anni fa era il carcere di Ferrara e che da un punto di vista strutturale è la parte originaria degli edifici museali che saranno pronti nel 2020, la mostra sui «Primi Mille Anni» dell'ebraismo italiano - che resterà aperta sino al 16 settembre 2018 ma di fatto costituisce il primo nucleo dell'esposizione permanente del museo - comincia da Gerusalemme, perché qui tutto comincia, e tutto torna ...
   Ma la prospettiva con cui si avvia il cammino espositivo della mostra e del Meis, un cammino supportato da una «applicazione» del multimediale davvero significativa e di grande impatto, è Gerusalemme vista dal deserto, Gerusalemme come meta di quel viaggio ancestrale che si dirige verso la Terra Promessa. Poco dopo, di sala in sala, il visitatore si trova a passare sotto l'Arco di Tito, che da due millenni è il simbolo stesso della Diaspora, cioè di un esilio ebraico che è anche dispersione: lì sotto gli ebrei romani per scaramanzia non sono mai passati sino al 1948, anno della fondazione dello Stato d'Israele. Dall'arco di Tito in poi, passando per il macellaio Alexander ma anche per la «iudaea» Claudia, una giovane schiava amata e rimpianta dal liberto che l'aveva comprata - come è detto nella sua lapide -, la storia ebraica italiana si dipana nei suoi eventi cruciali, nelle sue straordinarie conquiste culturali, nei suoi spostamenti lungo il nostro Stivale, attraverso una ricca messe di oggetti in mostra. Ma soprattutto, e in piena fedeltà a una vicenda storica fatta di libri e parole più che di monumenti e materia, attraverso il racconto di ciò che è stato.
   Un racconto fatto di luci e ombre, di rispetto e segregazione, di curiosità reciproca e a volte di odio. Ed è davvero significativo che il Meis apra in questo dicembre, alla vigilia del 2018 che segnerà gli 80 anni dall'emanazione delle Leggi Razziali: quasi un invito alla riflessione su quel passato e il nostro futuro.

(La Stampa, 14 dicembre 2017)


Erdogan aizza i musulmani contro Israele

Al summit con i Paesi islamici il presidente turco proclama Gerusalemme Est capitale della Palestina e definisce i soldati dello Stato ebraico «terroristi che uccidono bambini e arrestano». Putin si dissocia: «La nostra posizione è diversa dalla sua».

II Sultano attacca anche Trump: «Nell'Onu 196 Paesi contro di lui» Dietro al suo appello manovre espansionistiche e rapporti pericolosi

di Stefano Graziosi

Nel mezzo dello scontro su Gerusalemme capitale, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan alza il tiro. In apertura del vertice straordinario dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) a Istanbul, il Sultano ha usato parole durissime sulla questione: «Dobbiamo riconoscere lo Stato di Palestina con i confini del 1967, liberandoci dall'idea che questo sia un ostacolo alla pace», e «Gerusalemme come capitale dello Stato occupato di Palestina». «Almeno 196 Paesi Onu sono fermamente contrari alla decisione di Donald Trump., ha aggiunto Erdogan, ribadendo che «Gerusalemme è la nostra linea rossa. Israele è uno Stato occupante e terrorista, i suoi soldati sono terroristi che uccidono bambini di 10 anni e li arrestano». Sulla stessa linea si è collocato il presidente palestinese, Abu Mazen, secondo cui «Gerusalemme è e sarà sempre la capitale dello stato palestinese. Non ci sarà né pace né stabilità in mancanza di ciò». E ha poi aggiunto: «Dobbiamo riconoscere chiaramente che Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato di Palestina. Il nostro popolo si aspetta molto da questo incontro».
  La decisione presa unilateralmente dal presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele ha suscitato un putiferio in Medio Oriente. Non soltanto Hamas ha invocato una nuova intifada, provocando scontri e sommovimenti. Ma anche sul fronte internazionale le grane per Trump non sono state poche: a partire dal presidente francese, Emmanuel Macron, che ha condannato duramente la sua scelta. Adesso, in tutto questo caos, Erdogan sembra volerne approfittare, cercando di presentarsi come una sorta di novello califfo, pronto a compattare l'intero mondo musulmano dietro al proprio vessillo. Ed è così che, al summit di Istanbul, partecipano esponenti di mondi profondamente diversi e finanche in contrasto reciproco. Addirittura sciiti e sunniti sembrano uniti nella battaglia contro la Casa Bianca e lo Stato israeliano. «L'Iran è pronto a cooperare con tutti i Paesi islamici senza alcuna riserva o precondizione per la difesa di Gerusalemme», ha affermato il presidente iraniano Hassan Rohani. Lanciando un appello all'unità islamica contro «il pericolo del regime sionista» di Israele, il leader di Teheran si è detto convinto che «i problemi tra i Paesi islamici possano essere risolti attraverso il dialogo».
  Erdogan mira dunque a porsi come punto di riferimento di tutto il mondo musulmano, sfruttando la questione palestinese a proprio uso e consumo. Le mire espansionistiche e la spregiudicatezza machiavellica del Sultano, del resto, sono cosa nota. Da tempo, il presidente turco ha avviato una serie di manovre in netta controtendenza rispetto alla recente storia del suo Paese. Non soltanto, in politica interna, ha sempre più gettato alle ortiche il retaggio laico di Mustafa Kemal Atatürk. Ma è in politica estera che si notano le novità maggiori. Ha man mano allentato i suoi rapporti con l'Alleanza atlantica, spostandosi vicino all'orbita russa. E ha avviato un'azione di espansione diplomatica, economica e militare in seno al continente africano. Tutto questo, senza aver mai sciolto del tutto i suoi rapporti ambigui con alcune pericolose sigle islamiste (Isis in primis). Eppure la spregiudicatezza non si ferma qui. Perché le parole di fuoco usate ieri contro Israele non sono state accolte esattamente bene da parte del neo-alleato russo. «Siamo al corrente della posizione del leader turco e non corrisponde alla nostra», ha affermato il portavoce di Vladimir Putin, Dmitri Peskov, aggiungendo che «la posizione della Russia su Gerusalemme e sulla soluzione della questione mediorientale è ben nota».
  D'altronde, è risaputo che, sulla scena internazionale, il capo del Cremlino stia sempre più cercando di ritagliarsi il ruolo di mediatore all'interno di varie crisi: lo si vede con la questione nordcoreana così come sul problema di Gerusalemme. Se, sotto certi aspetti quindi, Putin potrebbe apprezzare l'avvicinamento tra sunniti e sciiti favorito da Erdogan, è altrettanto vero che il rinnovato iperattivismo anti israeliano del Sultano potrebbe lasciarlo piuttosto scettico. Il presidente turco, insomma, potrebbe non ritrovarsi solo lo Zio Sam come nemico. Anche i rapporti con Mosca rischiano di guastarsi. E, in tutto questo Gerusalemme rappresenta un'incognita dirimente.

(La Verità, 14 dicembre 2017)


Si consolida l'asse Iran-Turchia per guidare il mondo islamico contro USA e Israele

Erdogan e Rouhani si incontrano a margine della riunione della Organizzazione per la Cooperazione Islamica e cementano la nuova alleanza contro Israele e gli USA. E nessuno che si chieda cosa ci faccia la Turchia ancora nella NATO.

Iran e Turchia si sono alleate per combattere il "terrorismo" e per unire tutto il mondo islamico sotto questa bandiera.
Secondo quanto riferiscono le agenzie di stampa iraniane il presidente iraniano, Hassan Rouhani, e quello turco, Recep Tayyip Erdogan, si sono incontrati a margine della riunione straordinaria della Organizzazione per la Cooperazione Islamica (IOC) tenutasi ieri a Istanbul, in Turchia. Dalla riunione tra i due rais islamici è emerso che Iran e Turchia si sono accordati per implementare la collaborazione militare contro il terrorismo, una notizia che non avrebbe nulla di strano se non fosse che sia in Iran che in Turchia la parola "terrorismo" ha un significato diverso rispetto a quello che gli viene dato nel resto del mondo. Per loro combattere il terrorismo significa combattere prima di tutto Israele e poi tutti coloro che si oppongono ai due regimi islamici....

(Right Reporters, 14 dicembre 2017)


Netanyahu "non impressionato" dalle dichiarazione dei paesi musulmani contro Israele

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è detto "non impressionato" dalla dichiarazione dei leader musulmani riuniti ad Istanbul per la conferenza dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) sull'occupazione di Gerusalemme da parte di Israele. Parlando ad una cerimonia in ricordo dei veterani del Mossad (il servizio di intelligence israeliano) Netanyahu ha esortato i palestinesi a riconoscere la "realtà" che Gerusalemme è la capitale di Israele e lavorare per la pace, invece che per l'incitamento all'estremismo. Netanyahu ha affermato che il governo si assicurerà che venga garantita la libertà di culto per tutte le religioni. "Non solo è Gerusalemme la capitale di Israele ma noi proteggiamo la libertà di culto per tutte le religioni", qualcosa che non esiste altrove nella regione, ha dichiarato il premier. "Pertanto, tutte queste dichiarazioni non ci impressionano", ha detto Netanyahu a proposito della conferenza di Istanbul. "Alla fine la verità vincerà e molti paesi riconosceranno Gerusalemme come capitale di Israele e trasferiranno lì le loro ambasciate".

(Agenzia Nova, 14 dicembre 2017)


Una grande luce viene dallo Stato di Israele

La festa di Chanukkah di quest'anno è "un evento molto buono" per il primo ministro israeliano Netanyahu, come dichiara durante una celebrazione al Dipartimento di Stato. Ha preparato anche un consiglio pratico per i diplomatici di tutto il mondo.

Netanyahu accende la prima candela di Chanukkah
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano e ministro degli esteri Benjamin Netanyahu ha salutato i rappresentanti dello stato ebraico in otto paesi all'inizio della festa di Chanukkah. Durante una celebrazione nel ministero degli Esteri, martedì a Gerusalemme, ha acceso la prima delle otto candele di una Chanukkah. Ha sottolineato che Israele ha forza di splendore in una regione piena di "nemici crudeli". Lo stato ebraico sta invece dalla parte di progresso, umanità, inventiva e speranza.

 Cambiamento di reputazione
  Alla cerimonia erano presenti collaboratori del ministero degli Esteri israeliano in Brasile, Georgia, India, Svezia, Sud Africa, Turchia, Ucraina e Stati Uniti. Netanyahu ha detto che ha bisogno di rappresentanti dello Stato di Israele all'estero. Questi porterebbero la luce dello Stato nel mondo. "E in corso un grande cambiamento in fatto di reputazione dello Stato di Israele." Questo è dovuto alle numerose missioni di aiuto e cooperazione in varie aree, come energia, salute e acqua.
Netanyahu ha anche detto, secondo l'annuncio del ministero degli Esteri, che la Festa delle Luci di quest'anno è stata "un evento molto buono". Si riferiva al riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. E' un passaggio importante come la Dichiarazione Balfour scritta nel 1917.

 Soldati coraggiosi
  Allo stesso tempo, il capo del Likud ha ricordato i soldati del paese. Il loro coraggio è paragonabile a quello dei Maccabei nel II secolo a.C. I Maccabei combatterono contro la profanazione del tempio ebraico da parte degli ellenisti. La festa di Chanukkah celebra il miracolo di luce di quel tempo: una menorah nel tempio era quasi estinta, ma ha continuato ad ardere fino a quando il nuovo petrolio non tornò disponibile.
Netanyahu ha commemorato il soldato Ron Yitzhak Kokia, assassinato dai beduini ad Arad nella notte del 30 novembre. Ha anche ricordato i soldati uccisi a Gaza nel 2014, Hadar Goldin e Oron Schaul, i cui cadaveri Hamas non ha ancora rilasciato
Infine, Netanyahu ha invitato i paesi del mondo a riconoscere Gerusalemme come capitale e a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv. "Questo farebbe risparmiare anche tempi di guida."

(Israelnetz, 13 dicembre 2017 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La sinagoga di Helsinki e la comunità ebraica in Finlandia

di Chiara Costa-Virtanen

 
Yaron Nadbornik
 
La sinagoga di Helsinki
 
La sinagoga di Helsinki
A Malminkatu, nel cuore di Kamppi, sorge la sinagoga di Helsinki. L'edificio, che rivela il suo carattere religioso per via delle finestrine sulla facciata con la stella di David e l'alta cupola, non è immediatamente visibile per chi arrivi da Runeberginkatu, coperta com'è dalla mole dell'Hotel Radisson. Abbiamo incontrato Yaron Nadbornik, presidente della comunità ebraica, e portavoce della comunità religiosa presso l'USKOT Foruumi, il forum nazionale finlandese per la cooperazione inter-religiosa. Yaron è la persona più giovane che sia mai stata eletta presidente della comunità ebraica finlandese.

- Quanti sono i membri della comunità ebraica finlandese? Dove risiedono principalmente?
  Ci sono circa 1500 ebrei a Helsinki, 1100 dei quali sono membri della comunità, e altri 200 a Turku. In passato erano presenti anche altre due comunità, una a Tampere ed una a Viipuri, purtroppo ormai scomparse. Le comunità si riuniscono intorno alle due sinagoghe della nazione, entrambe Ashkenazi-Ortodosse, costruite rispettivamente nel 1906 e nel 1912.

- A quando risale il primo insediamento ebraico in Finlandia?
  È relativamente recente, risale al 1825. Tutto iniziò quando i militari ebrei (i cosiddetti cantonisti) che prestavano servizio nell'esercito russo in Finlandia, furono autorizzati a rimanere in Finlandia dalle autorità militari russe dopo il congedo.
  Nel 1869 il governo emanò un decreto che regolamentava questa normativa, e nel 1889 un decreto amministrativo che limitava la presenza di ebrei in Finlandia, per cui solo un numero limitato di loro poteva rimanere nel paese fino a nuovo avviso, e con l'obbligo di risiedere in città loro assegnate. Furono rilasciati visti temporanei con un periodo di validità non superiore a sei mesi.
  I lavori consentiti agli ebrei, essendo anche questi regolati dal decreto del 1869, li obbligavano a occuparsi principalmente del commercio di abiti usati. Era vietato frequentare fiere o svolgere le attività fuori dalla città di residenza. La minima violazione di queste limitazioni significava l'espulsione dal Paese. Ai loro figli era permesso di rimanere in Finlandia solo fino al matrimonio.
  Alla fine del 1880 c'erano circa un migliaio di ebrei residenti in Finlandia. Fu solo nel 1917, quando la Finlandia divenne indipendente, che gli ebrei ricevettero maggiori diritti civili. Il 22 dicembre 1917 il Parlamento approvò una legge riguardante i "professanti della legge mosaica", secondo la quale gli ebrei potevano per la prima volta diventare cittadini finlandesi.

- Come cambiò la condizione degli ebrei con l'Indipendenza della Finlandia?
  Tra le due guerre mondiali, la popolazione ebraica salì a circa 2.000 membri, a causa dell'immigrazione principalmente dalla Russia sovietica durante il primo periodo della Rivoluzione. Molti giovani ebrei erano studenti all'università, altri invece svolgevano libere professioni come medici, avvocati e ingegneri. Altri continuarono nel settore tessile e nell'abbigliamento.
  Con poche eccezioni isolate, gli ebrei non presero parte alla politica interna dei partiti e non si unirono a nessun movimento politico.
  Durante la Guerra d'Inverno del 1939-1940 gli ebrei finlandesi combatterono al fianco dei loro connazionali gentili. Durante la guerra tra Finlandia e Russia del 1941-44, a cui parteciparono anche ebrei finlandesi, la Finlandia e la Germania nazista erano alleati.
  Nonostante le forti pressioni tedesche, il governo finlandese si rifiutò di agire contro i cittadini finlandesi di origine ebraica, i quali continuarono a godere di pieni diritti civili durante tutto il conflitto.
  Oggi gli ebrei sono ben integrati nella società finlandese. I membri della vecchia generazione sono per lo più lavoratori autonomi, mentre la maggior parte dei giovani ha trovato un impiego in diversi settori. Non mancano nella comunità scienziati ed artisti, pittori, musicisti ed autori di notevole fama.

- Qual è la storia della sinagoga di Helsinki?
  Nel 1900, la città di Helsinki assegnò un lotto di terra alla comunità ebraica, sul quale costruire una sinagoga. L'area era la zona del mercatino ebraico, dove si vendevano abiti di seconda mano, che nel frattempo era stato trasferito a Simonkenttä. Il luogo è significativo, data la posizione centrale, a dimostrazione di come la minoranza ebraica fosse stata accettata dalla società finlandese.
  La comunità si trovò però ad avere grandi difficoltà a raccogliere i fondi sufficienti. Fu solo nel 1904 che la congregazione fu in grado di assumere l'architetto Johan Jacob "Jac." Ahrenberg per progettare la sinagoga, con a sé annessa una scuola ebraica. I lavori di costruzione iniziarono nella primavera del 1905 e l'edificio fu terminato nell'agosto del 1906. E l'anno scorso, nel settembre 2016, nella capitale finlandese si è riunito il Congresso ebraico europeo, ente che riunisce le organizzazione ebraiche nazionali, per discutere delle sfide dell'ebraismo del Vecchio continente e per festeggiare i 110 anni della sinagoga della città.
  All'interno, oltre agli spazi del culto, ci sono anche degli uffici ed una piccola sala di preghiera, la cosiddetta minyan, che viene usata anche come aula dalla scuola ebraica. All'interno dell'edificio c'è un bagno adibito per il mikveh, ossia l' immersione rituale nell'acqua utilizzata allo scopo di purificazione religiosa. All'interno è presente una vasca di raccolta dell'acqua piovana, dove sia uomini che donne devono immergersi per riacquistare purezza rituale dopo vari eventi, secondo le regole della Torah.
  In Finlandia, oltre a Helsinki, c'è un'altra sinagoga a Turku. La maggior parte delle sinagoghe europee continentali furono distrutte durante la seconda guerra mondiale, ma le sinagoghe in Finlandia sono eccezionalmente sopravvissute alle devastazioni della guerra.
  Queste due sinagoghe hanno un ruolo importante per gli ebrei finlandesi, contribuendo a rafforzare la cultura: non funzionano solo come centri per la vita religiosa, ma anche come luogo di incontro per le attività sociali e come sede scolastica dove insegnare le proprie tradizioni alle generazioni future.

- La comunità ebraica ha sollecitato una petizione per aumentare la sicurezza della sinagoga, con annessa una raccolta fondi. Perché?
  La comunità ebraica di Helsinki vive nella paura di attacchi da parte di neonazisti ed antisemiti: L'edificio è costantemente sorvegliato in modo da prevenire possibili attacchi terroristici. La metà dei fondi della comunità viene spesa solo per la sicurezza dei suoi membri. C'è stata una campagna per raccogliere fondi a favore della comunità. Sono stati raccolti oltre 30.000 € da utilizzare per la sicurezza del luogo, ma nell'ultimo anno sono stati spesi oltre 200.000 € per sistemi di difesa, senza contare tutti i volontari che lavorano per proteggere le infrastrutture.
  La comunità si prende cura 24 ore al giorno, ogni giorno, della sicurezza di bambini, adulti e anziani. Questo per permettergli di vivere la propria identità culturale e religiosa senza preoccuparsi della sicurezza personale.

(la Rondine, 13 dicembre 2017)


«Il Giro partirà da Gerusalemme»

Il triathlon a gennaio, primo test per Israele

di Alessandra Camilletti

«Non ci saranno problemi, il Giro d'Italia partirà da Gerusalemme come da programma ufficiale». La situazione politica internazionale, con le recenti tensioni in Israele, non cambia la tabella di marcia della corsa rosa. L'organizzazione della gara ha già svolto i primi sopralluoghi e per il momento sono slittate le verifiche sul campo da parte Rai, che detiene i diritti televisivi della Corsa; verifiche che dovrebbero essere effettuate prima della fine dell'anno o a gennaio 2018. Tappa breve ma intensa, quella di Gerusalemme, che il 4 maggio darà via al Giro numero 101. Il ministero israeliano del Turismo è al lavoro sull'attività di comunicazione. Così come il Comune di Gerusalemme. Anche l'evento Triathlon Israman di gennaio potrebbe diventare occasione di promozione della tappa di primavera. E il campione spagnolo, Alberto Contador, amatissimo in Israele, ha visitato i percorsi.

(Il Messaggero, 13 dicembre 2017)


Quattordici milioni di tedeschi fuori dall'Est

Cacciati nel '45 da territori persi per sempre. Nessuno, 70 anni dopo, si illude di riaverli. Perché per Gerusalemme il problema dovrebbe essere diverso?

di Roberto Giardina

 
Königsberg, la città prussiana che i tedeschi hanno irrimediabilmente perso con la sconfitta
BERLINO - Domenica a Berlino sono state bruciate le bandiere di Israele, per protesta contro la decisione di Trump di spostare l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Lunedì si è inaugurata una mostra su Gerusalemme sulla sua storia millenaria fino ad oggi. Ed un'altra mostra è aperta da qualche giorno al Martin Gropius Bau (fino al 14 marzo) sul rapporto tra musulmani ebrei e cristiani. Berlino è sempre stata una città di contraddizioni. E sono più evidenti in questi giorni. La Germania, come gli altri paesi dell'Unione europea, ha criticato il presidente americano che con la sua mossa avrebbe sabotato il processo di pace.
  Frau Merkel e il suo ministro degli esteri, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, hanno rilasciato dichiarazioni dure contro Trump. Ma due giornali nazionali, Die Welt e la Frankfurter Allgemeine hanno pubblicato commenti per lo più favorevoli. Il terzo, la Süddeutsche Zeitung, invece è critico. Il trasloco dell'ambasciata può innescare una pericolosa spirale di violenza. Ma i tre giornali, che hanno un forte peso sull'opinione pubblica, qualunque posizione sostengano, forniscono notizie, ricordano la storia con precisione. Nessuno è arrivato a scrivere, come ho letto su alcuni giornali italiani, che fino alla guerra dei sei giorni nel giugno 1967, «Gerusalemme era divisa tra Israele e Palestina».
  La maggioranza dei tedeschi, siano d'accordo con Trump o meno, è bene informata. Sa quale sia la situazione di fatto, senza dimenticare che alla fine della guerra, 14 milioni di tedeschi dovettero abbandonare le loro terre a est, da Königsberg, la città di Kant, a Stettino, a 140 chilometri da Berlino. Territori perduti per sempre, e che nessuno oltre 70 anni dopo si illude di poter riavere. Come è avvenuto per Fiume. «Perché in Israele dovrebbe essere diverso?» si chiede in molte lettere ai giornali. E non sono di ebrei. Il diritto internazionale, ricordano alcuni, è il diritto del più forte. Dal '67 sono trascorsi 50 anni, come tornare indietro? E i berlinesi si accingono a commemorare l'attentato al mercatino di Natale del 19 dicembre (12 morti, tra cui un'italiana, e 56 feriti), compiuto dal tunisino Amri. Tutti i mercatini in Germania, circa 2.500, sono sotto sorveglianza, ma è impossibile garantire la sicurezza totale. Una festa rovinata dalla paura.
  «Per le strade di Berlino si risente parlare ebraico ... gli ebrei tornano a vivere nella metropoli pacificamente ... », scrive il settimanale Die Zeit. Gli ebrei erano poche migliaia quando cadde il muro, oggi sarebbero 20mila secondo i dati ufficiali, forse 50mila, perché molti non si registrano nella comunità. Ma l'articolo risale a oltre due anni fa. Dal settembre del 2015, dall'arrivo in pochi mesi di oltre un milione di profughi, in gran parte musulmani, e l'improvviso furore nazionalistico che ha preso parte dei quasi tre milioni di turchi residenti in Germania che hanno votato (al 67%) per Erdogan, ha cambiato la situazione. Oggi, si consiglia agli ebrei di non farsi riconoscere per strada ad evitare aggressioni.
  La dimostrazione del week end, con 2.500 musulmani che marciano attraverso il cuore di Berlino, contro Israele e Trump, imbarazza il governo. Tutti stigmatizzano, ma con le loro parole, la Merkel e Gabriel hanno indirettamente incoraggiato i residenti arabi e turchi a scendere in piazza. «Bisogna vergognarsi se per le strade delle città tedesche torna a mostrarsi l'odio per gli ebrei», dichiara il portavoce del governo Steffen Seibert. «Noi ci opponiamo a ogni forma dell'antisemitismo e del razzismo», ha ribadito Frau Merkel. Il ministro degli interni, Thomas de Maizière, ha aggiunto: «Noi non accettiamo che ebrei e lo Stato di Israele vengano offesi in modo vergognoso». Leggermente diversa la posizione di Sigmar Gabriel: «Nonostante ogni comprensione per le critiche alla decisione di Trump su Gerusalemme, non si può giustificare che vengano bruciate le bandiere di Israele».
  In realtà, una situazione più che imbarazzante per il governo tedesco. La popolare Bild Zeitung pubblica un rapporto su Der Alltag van Juden in Deutschland, la vita quotidiana degli ebrei, in estrema sintesi, si lanciano razzi contro i bambini ebrei che giocano nei kindergarten, si aggrediscono i passanti, gli studenti musulmani minacciano i compagni ebrei. David Lieberberg, un gastronomo di Francoforte, ha dichiarato: «Ho proibito a mia figlia Luna, di dieci anni, di portare al collo la stella di David ... ». Il settimanale Der Spiegel, benché mai tenero con Trump, invita a visitare la mostra Welcome to Jerusalem (allo Judisches Museum fino al 30 aprile del 2019), per rispondere alla domanda «A chi appartiene la città?», ovviamente programmata da molti mesi. I visitatori potranno decidere con la loro testa al di là delle posizioni del governo dettate da convenienze politiche e economiche. A Berlino, almeno, è possibile.

(ItaliaOggi, 13 dicembre 2017)


Israele - Chiesa della moltiplicazione, quattro anni all'ultrà ebreo che la bruciò

GERUSALEMME - Un tribunale israeliano di Nazareth ha inflitto quattro anni di prigione a Yinon Reuveni, l'estremista ebreo condannato per aver dato fuoco alla Chiesa della moltiplicazione dei pani e dei pesci che si trova sul Lago di Tiberiade, nel nord di Israele. Reuveni è stato anche condannato ad altri due anni ai servizi sociali e al pagamento di 50mila shekel (12mila euro) di danni. Nel giugno 2015 Reuveni ed altri appiccarono fil fuoco, causando ingenti danni. Il presidente Reuven Rivlin si recò sul posto per solidarietà nei confronti dei benedettini tedeschi custodi del luogo. Il premier Benjamin Netanyahu dette ordine allo Shin Bet di condurre le indagini che portarono poi all'arresto di Reuveni. Alla condanna, in luglio, il giudice definì l'incendio «un crimine d'odio».

(Avvenire, 13 dicembre 2017)


Crisi su Gerusalemme capitale. Erdogan «gioca» da mediatore

Oggi il summit islamico a Istanbul. Scontri nei Territori

di Federica Zoja

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Recep Tayyip Erdogan
La mossa di Trump «aiuta la narrativa della cospirazione mondiale contro i musulmani, di cui Erdogan si sta servendo sia internamente sia all'esterno». Così Federico Donelli, ricercatore del Dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Genova, esperto di Turchia e di Medio Oriente, commenta gli attacchi del presidente Recep Tayyip Erdogan contro Israele e Stati Uniti d'America, seguiti al riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico da parte di Washington. Oggi Ankara ospiterà il summit dell'Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci): è turca l'attuale presidenza di turno.

- Già in passato il "reis" Erdogan si è proposto come difensore della causa palestinese, ma con scarso risultato.
  Sì, dal 2014 in poi è emersa l'incapacità turca di svolgere un ruolo di mediazione nella regione. Ma ora Erdogan ci riprova, candidandosi al tempo stesso a difensore della causa palestinese, rispetto alla quale l'opinione pubblica turca è assai sensibile, e a leader della comunità islamica, la Umma, composta da sunniti e sciiti. In proposito, si dice che dalla riunione di oggi potrebbe scaturire la proclamazione di Gerusalemme come capitale della Palestina.

- Erdogan, dunque, gioca su più tavoli in contemporanea. Rischia grosso?
  Sì, perché tutto lo scenario è nebuloso. Ma lo fa in primis in chiave interna, gli serve. Un caso di corruzione che vede coinvolto il governo e che riguarda transazioni economiche a cavallo fra Turchia e Iran sta mettendo in crisi l'immagine della presidenza. In più, una parte della base dell' Akp (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, "dominante" dal 2003) non si riconosce più nel partito com'è oggi. Il presidente, da grande comunicatore, sa come parlare alla sua audience e alle masse religiose per ritrovare consenso.

- Lo scenario è molto complesso e vede la Turchia alleata di Iran e Russia, e pure dialogante con l'Unione europea. È Ankara il nuovo pivot regionale?
  Non sappiamo quali accordi abbiano trovato a Soci (summit tripartito tenutosi in Russia a fine novembre) turchi e iraniani: ipotizziamo che abbiano raggiunto un'intesa che blocca la nascita di uno Stato curdo. Poi, c'è il rapporto con Mosca: da anni la Turchia segue una visione euro-asiatica, autonoma rispetto all'Occidente, pragmatica. Infine, ci sono i legami con le monarchie del Golfo, innanzitutto con il Qatar. E c'è ovviamente l'Europa, imprescindibile poiché rappresenta il grosso degli scambi commerciali e degli investimenti nel Paese. Viceversa, la questione del controllo delle rotte dei migranti (la Turchia ne ospita quasi 4 milioni) rappresenta una leva per far chiudere più di un occhio agli europei sulle violazioni dei diritti umani.

- E inoltre c'è Israele, con cui le relazioni non si sono mai interrotte.
  Esatto. Per la verità neanche fra sauditi e israeliani si sono mai interrotte. Ora la diplomazia americana è squalificata come mediatrice nel processo di pace. Potrebbe essere che ci provi quella turca. Ma il punto cruciale è: che cosa è stato chiesto a Israele in cambio di Gerusalemme capitale? Forse di colpire Hezbollah (sciita) in Libano per conto del fronte sunnita?

- Ci vorrà tutto l'equilibrismo turco, in tal caso, per conquistare e mantenere una posizione super partes nella contesa sunniti-sciiti.
  Sì. Molto dipende senza dubbio dall'evoluzione dello scenario siriano. Ma teniamo presente che la stabilità del regime, per quello turco come per tutti gli altri nella regione, rappresenta sempre il fine ultimo dei leader in campo.

(Avvenire, 13 dicembre 2017)


Giro d'Italia, rischia di saltare la partenza da Gerusalemme

L'escalation di violenze in Israele mette in dubbio l'organizzazione delle tre tappe La Rai, che ha i diritti tv, ha bloccato i sopralluoghi previsti nei prossimi giorni

di Francesca Monzone

ROMA - Il terrorismo e le questioni politiche internazionali colpiscono anche lo sport. Questa volta a finire sotto l'occhio del ciclone è il Giro d'Italia che per l'edizione numero 101, quella del 2018, potrebbe veder sfumare la storica partenza da Gerusalemme il prossimo 4 maggio. La Rai, che detiene i diritti televisivi del Giro, ha annullato tutte le partenze per Gerusalemme dove la prossima settimana i tecnici di viale Mazzini avrebbero dovuto effettuare i sopralluoghi per le riprese delle tre tappe in Israele.
  A quanto pare la stessa Farnesina avrebbe invitato la tv di Stato a non inviare personale in quella zona: si legge infatti dalla pagina del sito del Ministero degli Esteri di elevare la soglia di attenzione per i nostri connazionali a Gerusalemme e Cisgiordania e di evitare luoghi affollati nonché l'utilizzo di autobus o taxi collettivi.

 Lettera al papa
  La corsa "rosa" in Israele ha in programma tre tappe, una a Gerusalemme con una cronometro proprio nella città vecchia considerata attualmente zona ad alto rischio per attentati; una seconda frazione da Haifa a Tel Aviv e l'ultima da Be' Er Sheva a Eilat. La stampa sportiva internazionale nei giorni scorsi proprio riguardo la partenza del Giro d'Italia da Israele ha ricevuto comunicati provenienti dall'organizzazione belga ECCP Brussels e dalla Palestinian BDS National Committee attraverso le quali si stanno raccogliendo firme per evitare che la corsa passi da quei Paesi. È stata scritta una lettera anche a Papa Francesco nella quale si chiede di prendere le distanze dall'evento sportivo.
  La corsa a tappe italiana per il 2018 ha ideato un percorso speciale: non solo ha scelto di partire fuori dall'Europa, ma come tappa finale ha scelto Roma volendo accostare così due città così importanti dal punto di vista storico, religioso e politico, ossia Roma e Gerusalemme.
  Questi, però, momenti di grande conflittualità in Medio oriente: sono tempi di intifada, giorni di missili e di battaglia, di violenze e di morti.
  Lo sport purtroppo negli ultimi due anni è stato già coinvolto negli atti terroristici: è stato costretto ad annullare importanti partite di calcio oppure cambiare sede di grandi eventi sportivi, come nel 2016 quando i campionati Europei di ciclismo, che dovevano svolgersi a Nizza, vennero spostati a Plumelec in zona completamente opposta del Paese in seguito all'attentato del 14 luglio nella città francese. Prima ancora a rischio fu il Giro delle Fiandre dopo l'attentato all'aeroporto di Bruxelles e in quello stesso anno si temeva anche per l'arrivo a Parigi del Tour de France tanto che le misure di sicurezza furono imponenti e tutta l'area venne chiusa e presidiata due giorni prima dell'arrivo della corsa. Come non dimenticare poi l'attentato alla maratona di Boston nel 2013, dove morirono tre persone e i feriti furono oltre duecento.

 Alcune regioni candidate
  Gli organizzatori della corsa rosa non hanno detto nulla riguardo una possibile variazione del programma e un trasferimento della partenza da Israele, ma sicuramente avranno ideato un piano alternativo. A quanto pare ci sono regioni come la Puglia, la Toscana e l'Emilia che si sono già offerte di ospitare le eventuali tre tappe iniziali che non verrebbero disputate all'estero, ovvero in Israele. Se venisse meno la partenza dall'estero a quel punto si potrebbe ipotizzare un via direttamente dalla Sicilia che attualmente è la sede scelta per la partenza della quarta tappa della corsa italiana.

(Il Messaggero, 13 dicembre 2017)


La mossa era prevedibile. Ancora una volta si conferma che è la città di Gerusalemme il vero nodo politico della questione. Questione mondiale, non soltanto mediorientale o arabo-ebraica. Sarà interessante seguirne gli sviluppi nella parte ciclistica. M.C.


Gerusalemme, ignoranza capitale

di Vittorio Sgarbi

Il grande clamore di questi giorni e l'inverosimile dissociazione dell'Italia per la decisione del presidente Trump di stabilire la sede dell'ambasciata americana a Gerusalemme, sono la prova dell'ignoranza e dell'incompetenza del nostro governo e del consueto abusivismo dell'attuale ministro degli Esteri. Trump non ha inventato nulla e non ha fatto altro che prendere atto di una decisione del Parlamento israeliano. Ma nessuno sa che il vero Trump fu il democratico Clinton. Il Parlamento israeliano dichiarò Gerusalemme capitale dello Stato nel 1980, trentadue anni dopo l'indipendenza. Le ambasciate, pigramente, salvo qualche rara eccezione, rimasero a Tel Aviv, in attesa di una presa d'atto dai Paesi dell'Onu. Nel 1995 gli Stati Uniti decisero di riconoscere Gerusalemme capitale e, conseguentemente, di trasferirvi la rappresentanza diplomatica. Incoerentemente, e senza attenzione per la volontà dello Stato di Israele, i vari presidenti, tra demagogia e ipocrisia, hanno rinviato, di semestre in semestre, l'applicazione di quella legge per poter conservare il ruolo ambiguo degli Usa come potenza mediatrice tra israeliani e palestinesi. Giudicare politicamente una scelta o un'inadempienza amministrativa e arrivare a condannarla è una colpevole espressione di ragion di Stato che nega il senso stesso dello Stato. Vigliaccamente l'Italia, con altri Paesi canaglia, ha scelto questa strada, perseverando nell'ambiguità.

(il Giornale, 13 dicembre 2017)


Parlamentari alle marce antisemite, molotov sulle sinagoghe, roghi di bandiere israeliane.

La Svezia ha un problemino con gli ebrei

di Giulio Meotti

ROMA - Nel weekend, dopo la decisione statunitense di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, slogan come "morte agli ebrei" e "morte a Israele" sono stati scanditi davanti all'ambasciata americana a Londra e sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino. Ma è in Svezia che l'antisemitismo ha mostrato il suo volto più agghiacciante. Sabato sera, bombe molotov sono state lanciate contro una sinagoga a Göteborg, mentre un gruppo di ragazzi ebrei si barricava nell'adiacente centro ebraico. Poche ore dopo, bandiere israeliane venivano bruciate a Stoccolma. A Malmo, la terza città del paese, centinaia di persone si ritrovavano per gridare in coro "spareremo agli ebrei". E il giorno dopo, altre bombe molotov sono state lanciate contro una cappella ebraica. La polizia svedese ha incrementato la sicurezza attorno agli edifici della comunità ebraica dopo questi eventi che hanno scioccato il paese (il premier, Stefano Lòfven, ha condannato "l'incitamento alla violenza contro gli ebrei"). Ma il fatto che a una manifestazione in cui si gridava "morte agli ebrei" abbiano preso parte anche dei parlamentari svedesi (si difendono dicendo che non avevano compreso gli slogan in arabo) getta una luce sinistra sulla socialdemocrazia svedese.
   "Gli ebrei in Svezia sono spaventati e i genitori hanno paura di lasciare i figli all'asilo ebraico", ha detto Johanna Schreiber, una nota giornalista che vive a Stoccolma. "Si ha paura di andare in sinagoga e ci sono persone che si stanno togliendo le stelle di David perché hanno troppa paura a indossarle". Esprimere il sostegno pubblico a Israele può essere pericoloso, ma la polizia non sempre fornisce una protezione adeguata agli eventi proIsraele. Durante una manifestazione a Malmo, la piccola folla di sostenitori di Israele è stata costretta ad abbandonare l'evento dopo che la polizia non è stata in grado di impedire a migliaia di sostenitori palestinesi di attaccare le barricate e correre verso il gruppo. Idit Margulis, un israeliano che vive in Svezia da sette anni, ha smesso di andare ai raduni pro Israele dopo la nascita della figlia. "Ho paura che qualcuno mi ferisca quando sono lì", ha detto Margulis ai media svedesi.
   In seguito all'attacco a Göteborg, alcuni osservatori, tra cui il Simon Wiesenthal Center, hanno collegato gli incidenti all'atteggiamento del governo svedese nei confronti di Israele. Nel 2014, la Svezia è diventato il primo stato membro dell'Unione europea a riconoscere lo "stato di Palestina". Il ministro degli esteri Margot Wallström ha poi suggerito che la motivazione degli attacchi terroristici a Parigi, durante i quali i terroristi islamici hanno ucciso 130 persone, derivava dalla frustrazione dei palestinesi. Hanif Bali, un membro del Parlamento per il Partito moderato di centro destra, il più grande all'opposizione, ha ricevuto una miriade di lettere di odio a causa del suo aperto sostegno a Israele. Bali ha dovuto fare ricorso alla protezione della polizia dopo le minacce di morte.
   Qualche anno fa, dopo i primi clamorosi episodi di antisemitismo, il Wall Street Journal pubblicò un articolo dal titolo: "L'Eurabia si trova in Svezia". E andrà sempre peggio. Nei giorni scorsi, il Pew Forum ha spiegato che, a seconda dei flussi migratori, la Svezia entro trent'anni avrà fra il venti e il trenta per cento di popolazione di fede islamica. In quello scenario, lo slogan "Itbah al Yahud" (uccidete l'ebreo), risuonato nei giorni scorsi nelle piazze svedesi, rischia di diventare una colonna sonora nell'arrendevole socialdemocrazia scandinava.

(Il Foglio, 13 dicembre 2017)


Cosa significa il tour in Medio Oriente di Vladimir Putin. Parla Carlo Pelanda

Conversazione di Formiche.net con Carlo Pelanda, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell'Università Guglielmo Marconi di Roma.

di Marco Orioles

Con tre tappe in rapida successione - Siria, Egitto e Turchia - Vladimir Putin ieri ha compiuto un blitz fulminante in Medio Oriente. Si tratta - sostiene Carlo Pelanda, coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell'Università Guglielmo Marconi di Roma in questa intervista a Formiche.net - della riprova del nuovo attivismo russo in una regione di tradizionale competenza degli Stati Uniti. Frutto dell'intervento di Mosca nel conflitto siriano, dove Putin ha sparigliato le carte permettendo al presidente Bashar al-Assad di protrarre il suo potere, ma anche della scelta strategica americana di "disingaggiarsi" e di "affidare all'Arabia Saudita" il compito di mantenere l'ordine.
  Putin si dimostra un maestro della tattica, interloquendo simultaneamente con potenze rivali come Iran e Arabia Saudita, Egitto e Turchia, Israele e Siria, e ponendosi tra loro - spiega Pelanda - come "honest broker". Ma non è detto che da un punto di vista strategico queste mosse si rivelino vincenti, come dimostra la difficoltà - nonostante gli sforzi profusi - a trovare una soluzione al puzzle siriano. Non è neanche detto del resto, sostiene Pelanda, che a Putin interessi davvero. Dal suo punto di vista, del resto, la missione è compiuta: "A Putin interessa trionfare nelle presidenziali dell'anno prossimo", e al mulino della campagna elettorale appena partita "può portare la vittoria in Siria, dichiarata ieri nella sua visita lampo alla base di Khmeimim".
  Nel breve tempo trascorso in Siria, parlando di fronte alle sue truppe, Putin ha annunciato il parziale ritiro del dispositivo militare. Ma "è solo una mossa elettorale", sottolinea Pelanda. "Il ritiro infatti è già avvenuto da almeno tre mesi, quando i russi hanno rischierato le proprie risorse in modo tale da garantire un presidio da cui sono pronti a reintervenire quando vogliono. Ciò che è più interessante, dietro l'annuncio di ieri, è che con esso Putin ha preso le distanze da Assad". Già. Come nota un editoriale del Foglio di oggi, i generali russi hanno invitato il presidente siriano a non salire sul palco da cui Putin ha pronunciato il suo discorso. Non è tutto però, aggiunge Pelanda: "L'altro messaggio generale che Putin ha lanciato dalla Siria riguarda il Libano: poiché potrebbe esplodere, Putin ha voluto far sapere che la Russia non è vincolata ad intervenire nel Libano".
  Eppure Putin è stato colui che ha assicurato la sopravvivenza politica, se non fisica, di Assad. Lo ha fatto dispiegando la sua aviazione che, a partire dal settembre 2015, ha bombardato a tappeto l'opposizione, con la scusa di sconfiggere il terrorismo. Due anni dopo, con i ribelli confinati in poche enclave, Assad si sente al sicuro. E il suo patron russo può permettersi di dichiarare vittoria e invitare le parti a sedere ad un tavolo e a trattare. Due settimane fa a Sochi, alla presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e di quello iraniano Hassan Rouhani, Putin ha illustrato il suo piano di pace convocando un congresso del popolo siriano. Quante probabilità ha il capo del Cremlino di far siglare alle parti un accordo politico? "A Putin in verità della pace non gliene frega niente", è il giudizio tranchant di Pelanda. "L'interesse di Putin è fare fumo per tenere il pallino della crisi siriana. Il congresso del popolo significa solo che Putin, in accordo con l'Arabia Saudita, cercherà di gestire il post-Assad. La convergenza con Riad che Putin sta costruendo faticosamente altrimenti non reggerebbe. Putin vuole dunque apparire almeno pro forma come un buon mediatore, l'ago della bilancia, colui che fa il lavoro che l'America non fa più".
  L'America, dal canto suo, ha gestito - e vinto - il conflitto con lo Stato islamico. Lo ha fatto con la collaborazione militare dei curdi dell'YPG, inquadrati nelle Syrian Democratic Forces. Le stesse che Erdogan considera nemici mortali e che vuole mantenere fuori da ogni accordo di pace. Erdogan ora però è costretto ad assistere con orrore alla collaborazione tra russi e curdi in Siria. Come reagirà il sultano di fronte a questa provocazione? Pelanda invita a non farsi trarre in inganno. "Queste mosse sono comunque concordate. Non vengono fatte contro qualcuno, tanto meno contro Erdogan. Dimostrano semmai un'intelligenza strategica della Russia che vuole porsi in quel teatro come 'honest broker', come mediatore che ha soluzioni razionali per tutti e che cerca di accomodare tutti. Che gli riesca o meno, poi, questo è tutto da vedere".
  Oltre ad Assad, ieri Putin ha incontrato due alleati di Washington come Erdogan e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Che si sono recentemente avvicinati alla Russia. Un segnale che non è passato inosservato negli Stati Uniti, spingendo il New York Times a scrivere un articolo preoccupato che denuncia il declino dello storico ruolo americano nella regione. L'egemonia Usa in Medio Oriente è dunque al lumicino? "L'America si è disingaggiata da tempo", spiega Pelanda. "L'impero si sta ritirando, e non lo sta facendo a causa di errori, è una mossa pensata. Quanto a Donald Trump, il suo approccio è sintetico: il suo obiettivo primario è non disperdere le risorse. Dunque fa l'accordo coi sauditi e ci penseranno questi ora a tenere a bada gli egiziani. Inoltre Trump non vuole più spendere soldi per l'Egitto. L'approccio di questa amministrazione è cercare di guardare a ciò che veramente è l'interesse primario dell'America, per il resto se ne frega. Il proprio interesse vitale è fondamentalmente essere riconosciuti dall'Arabia Saudita come protettore contro l'Iran".
  Non è da oggi che si parla di declino americano. E non è da oggi che si parla di un'uscita della Turchia dalla sfera di influenza degli Stati Uniti. L'incontro di ieri tra Putin ed Erdogan ne è un'ulteriore conferma. Durante la conferenza stampa con il collega russo, il presidente turco ha annunciato che funzionari governativi di Mosca ed Ankara si incontreranno a breve per finalizzare la vendita alla Turchia del sistema missilistico S-400. "Qui però", secondo Pelanda, "la Turchia sta varcando una linea rossa. E secondo me pagherà un prezzo". Quale, gli chiediamo: l'uscita dalla Nato? "La Turchia è già fuori della Nato", risponde Pelanda. "Lo è da anni. A Trump comunque della Nato interessa poco. Non dimentichiamo che è dai tempi di George W. Bush che l'America sta maturando l'idea che è necessario convincere gli alleati a sviluppare competenze regionali, lasciando che l'America intervenga solo in casi estremi. È il concetto seguito da Barack Obama: leading from behind. Non confondiamolo però con una ritirata, perché l'America non vuole rinunciare al potere globale. Anche se non si capisce come l'America possa recuperare centralità".
  Sempre in conferenza stampa, Putin ed Erdogan hanno sottolineato che la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele "sta destabilizzando la regione e spazzando via ogni prospettiva di pace". Putin sta capitalizzando la rabbia anti-Trump? "Ma queste sono dichiarazioni per i giornali", dice Pelanda. "Di Gerusalemme non interessa nulla né a Putin né a Erdogan. L'unico a essere preoccupato per Gerusalemme è l'Iran. Queste dichiarazioni servono per rassicurare Teheran. Perché l'Iran vede la fine di Hezbollah e di Hamas".
  Ma anche l'Europa, ribattiamo noi, è preoccupata per la mossa di Trump. "L'unico ad essere davvero preoccupato è Emmanuel Macron", afferma Pelanda. Il presidente francese ha intuito che, come controparte per Gerusalemme, "Trump ha chiesto a Israele di fare pulizia dei terroristi. Che è poi anche una necessità: Israele non può andare avanti con i problemi di Iran ed Hezbollah sul collo. Se vuole sopravvivere deve annichilire Hamas e sconfiggere Hezbollah per evitare che continui a tenere il dominio sul Libano e quindi l'influenza sulla Siria. E questo è il motivo per cui Macron è molto agitato. Perché la Francia si sente il garante del Libano, che è il suo modo di sentirsi al centro della regione. Non dimentichiamo che la Francia ha benedetto l'accordo tra Hezbollah e i cristiani maroniti. Se adesso gli israeliani gli fanno fuori gli Hezbollah, la Francia è fuori. Questo è il motivo per cui Macron è stato molto attivo e ha chiesto ai governi europei di condannare subito la mossa di Trump".

(formiche.net, 12 dicembre 2017)


Collaborazione tra CREA e Comunità Ebraica di Roma per la produzione del tallèd di preghiera

 
Tallèd ebraico
Il prossimo 13 dicembre alle 11,30, la ricercatrice Silvia Cappellozza, responsabile del laboratorio di Padova del CREA Agricoltura e Ambiente, si recherà in visita al rabbino capo Di Segni, presso la Comunità Ebraica di Roma con una delegazione formata dal proprietario della ditta D'Orica, sig. Zonta, il rettore dello IUSVE di Venezia, prof. Arduino Salatin, il docente di Strategia e Fashion and Luxury Management della Bocconi di Milano, prof. Salvo Testa e il direttore dell'Agenzia veneta per l'innovazione nel settore primario, Ing. Alberto Negro. La visita ha lo scopo di rafforzare la collaborazione per la produzione degli tzitizit (frange) di seta per gli scialli di preghiera ebraici (tallèd), valorizzando la produzione agricola made in Italy.
Il tallèd, anche definito scialle di preghiera, è un indumento rituale ebraico il cui sviluppo della tradizione e storia risale ai tempi della compilazione della Torah.
Dopo lunghe e complesse ricerche, si sono ritrovate le radici di questa tradizione ed è stata avviata una nuova produzione, sotto il controllo dell'Ufficio Rabbinico della Comunità Ebraica di Roma.
La trattura del filo di seta e la realizzazione del tessuto per il tallèd è stato curato dalla ditta D'Orica, che ha anche coordinato e acquisito la produzione di bozzolo italiano realizzato dagli allevatori della rete Bachicoltura Setica, con la consulenza tecnico-scientifica, la formazione degli allevatori e la fornitura di uova da parte del CREA Agricoltura e Ambiente di Padova.

(CREA, 12 dicembre 2017)


Ruth Dureghello ricevuta dal Ministro Alfano

ROMA - La presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, è stata ricevuta alla Farnesina questa mattina dal ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano. Nel colloquio, che è stato "franco e cordiale", la Comunità Ebraica di Roma riferisce in una nota di aver espresso "perplessità riguardo alla linea dall'Italia rispetto al tema di Gerusalemme, sottolineando la vicinanza degli ebrei di tutto il mondo alla città capitale dello Stato d'Israele".
   "L'incontro segue gli ultimi episodi di antisemitismo che si sono verificati in Europa, tra cui l'attentato alla sinagoga di Göteborg in Svezia. La presidente Dureghello ha ringraziato il ministro Alfano per gli sforzi compiuti dal Governo nelle sedi internazionali e per l'organizzazione della conferenza sull'antisemitismo prevista per gennaio a Roma durante la presidenza Osce. Ha poi chiesto di rafforzare la cooperazione con la Farnesina e il Governo italiano per contrastare la rinascita dei movimenti xenofobi e razzisti e le violenze antisemite, mascherate sotto la veste di antisionismo", conclude la nota.

(ANSAmed, 12 dicembre 2017)


Malcontento sociale e divisioni politiche fiaccano l'appello alla terza Intifada

Leader palestinesi pragmatici e crisi economica: ecco perché la rivolta non ha preso piede

di Rolla Scolari

 
Gerusalemme
Subito dopo l'annuncio dell'amministrazione Trump del trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, Hamas - il gruppo islamista palestinese che controlla Gaza - ha chiesto ai suoi seguaci d'innescare una terza Intifada. Ci sono state manifestazioni nei Territori palestinesi della Cisgiordania e a Gaza, a Gerusalemme Est, la parte araba della città. Eppure, benché le violenze temute ci siano state, sono comunque risultate più contenute e meno sanguinose del previsto.
   Dopo la preghiera islamica di venerdì, tra Gerusalemme Est e Territori palestinesi secondo i dati delle autorità israeliane sono scese in piazza circa 3.000 persone, sabato il numero era sceso a 500, e domenica era inferiore. E se è troppo presto per fare bilanci, se la situazione resta a rischio e il minimo incidente può innescare terribili violenze, allo stesso tempo gli osservatori riflettono sull'utilizzo del termine Intifada: sollevamento, rivolta. «Terza Intifada» è un titolo che ricompare ogni volta che scoppiano scontri tra israeliani e palestinesi, come nel settembre 2015 e a luglio. Eppure, il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth» ha fatto notare come ci siano stati «migliaia di like online», e meno manifestanti in strada, mentre sul tabloid «Israel Hayom», vicino alla destra, Oded Granot ha spiegato come «la scarsezza della violenza mostri come i palestinesi non siano interessati a un'altra Intifada».
   Muhammad Shehada, giovane attivista palestinese originario di Gaza, scrive sul quotidiano liberal israeliano «Haaretz» come una terza Intifada «non sia nell'interesse né di Hamas né dell'Autorità nazionale palestinese» (Anp) e lo stesso giornale, in un altro articolo, racconta in tre punti «perché non ci sarà una terza Intifada»: mancano gli elementi delle sommosse del 1987 e del 2000. Oggi, i palestinesi a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est sono più divisi di allora, sia geograficamente sia politicamente, spiega «Haaretz». Da parte sua, Fatah, il partito del rais Abu Mazen che controlla la Cisgiordania, non ha intenzione di mettere in forse i suoi accordi di sicurezza con Israele, che garantiscono lo stipendio regolare a centinaia di membri degli apparati militari e delle forze dell'ordine, e permettono di arginare il rivale politico Hamas. Non è un caso che il giornale palestinese al-Ayyam, vicino a Fatah, abbia ripubblicato un editoriale del 2012 in cui si auspica un' «intifada calma». L'Autorità palestinese ha chiesto infatti alla popolazione di scendere in strada, ma in maniera pacifica, e agenti e poliziotti hanno lavorato al controllo del territorio e non, come accaduto nella seconda intifada nel 2000, abbandonato l'uniforme per unirsi agli scontri.
   Dall'altra parte, Hamas ha chiamato all'intifada, ma in Cisgiordania e Gerusalemme Est, non nella sua Gaza, perché come l'Anp il movimento non può permettersi oggi caos in casa.
   L'accordo raggiunto da poco dagli islamisti con i rivali di Fatah significa la fine del blocco economico sulla Striscia da parte di Egitto e Israele, la riattivazione della debole economia locale e quindi un auspicato indebolimento del malcontento sociale interno che mina la sua autorità. «Ci sono molta disperazione e rabbia palestinesi davanti alla mancanza di prospettive di progresso diplomatico e sulla fine dell'occupazione - scrive Haaretz - ma ci sono anche pragmatismo politico e la necessità di guadagnarsi da vivere».

(La Stampa, 12 dicembre 2017)


Ricordiamo qualche titolo dei media di sei giorni fa: Trump dà battaglia in Medio Oriente, Trump incendia il Medio Oriente, Trump agita i musulmani, Trump scatena l'ira araba, Trump infiamma il mondo arabo, Trump agita il mondo, Trump scuote il mondo. E all'interno: la terza intifada... la terza intifada... la terza intifada...La terza intifada sarebbe stata così bella da raccontare. Descrivere azioni violente contro il malvagio Israele, mostrare la ferocia dei suoi soldati, muovere a compassione per le sofferenze dei palestinesi occupati e oppressi. E invece niente. O poco, troppo poco. I palestinesi hanno deluso. Ma più che altro hanno deluso tanti, troppi giornalisti. M.C.


L'islam e Gerusalemme: una città senza valore, sacra per ordine di Arafat

Per secoli i musulmani non le hanno attribuito rilievo religioso. Ma la politica ne fa un simbolo: una bandiera filo-araba da sventolare contro l'Occidente.

di Fiamma Nirenstein

In questi giorni l'agguato dei media a qualsiasi ghiotto segnale che tutto da queste parti può prendere fuoco e esplodere in una carneficina, è stato commovente. Una passione che ha portato a esaltare ogni manifestazione, ogni piccolo falò di bandierine e ritratti come fossero una rivoluzione. In realtà anche il numero dei palestinesi coinvolti, salvo forse che il venerdì alla Moschea, è stato contenuto, la gente ha voglia di vivere e lavorare e per ora i leader sembrano distanti dal sentimento popolare. Ma il nome magico Yerushalaim, Jerusalem, Al Quds in arabo, sempre accompagnata dalla formula un po' stanca «sacra alle tre religioni» è diventata un passepartout che garantisce lettori, ascoltatori specie quando «prende fuoco» come si dice.
   E perché prende fuoco? Anche qui la lettura sembra ovvia, ma in realtà lo è meno di quel che si immagina. Sempre si ripete che la città è sacra alle tre religioni. Ma questo non basterebbe senza una miccia politica. La ragione sta nel fatto che l'Islam non può accettare che Gerusalemme non sia interamente sua. Lo ripetono anche i manifestanti «collo spirito, col sangue, ti difenderemo Gerusalemme», lo slogan che la Moschea di Al Aqsa sia in pericolo è un mantra caro ai terroristi suicidi che corrono a salvarla anche se lo status quo conserva la Spianata delle Moschee giorno dopo giorno. Ma Gerusalemme non è mai citata nel Corano e se ha avuto un'indubbia valenza politica per l'Islam conquistatore, meno ne ha avuto per l'Islam religioso. Finché diventa politico.
   La conquista araba nel 638 ha dato una sua impronta a quella che era stata per un millennio la capitale ebraica, conquistata dai romani nel 70, poi gestita dai Bizantini. Ma né gli ottomani né i giordani ne hanno fatto una capitale; al contrario anche sotto l'impero ottomano che inizia nel 1517 per passare la mano agli inglesi solo nel 1917 è stata periferica e negletta, nonostante le bellissime moschee. La città che al tempo del Secondo Tempio aveva 200mila abitanti, quando arrivarono i Turchi era scesa a 10mila. Gli ebrei, in genere bistrattati coi cristiani se non nel primissimo periodo sotto Omar, si abbarbicarono alla loro città santa, citata nella Bibbia più di 600 volte, nonostante le persecuzioni. Erano maggioranza già nell'800. Mecca e Medina sono per secoli le città sante per i musulmani. Il filosofo Ibn Taymyya vissuto all'inizio del '300 sostenne che l'esaltazione di Gerusalemme era giudeizzazione da rifiutare. Chi sostiene che la santità della città deriva dal viaggio notturno del profeta sul cavallo Al Buraq, contrasta con chi sostiene che quella città non è Gerusalemme. Nel 680 il califfo di Damasco decise di costruire un tempio sulla Rocca di Gerusalemme, il monte del Tempio, e di suggerire pellegrinaggi nel luogo per contrapporlo per motivi politici alla santità di Mecca e Medina. Ma Gerusalemme è rimasta in secondo piano fino alla guerra del '67 in cui Israele la unificò vincendo l'attacco di tutti i Paesi arabi coalizzati, compresa la Giordania che occupava mezza città. Da quel momento cresce di fronte alla disillusione araba la distanza del mondo arabo dalla leadership nazionalista e progressista (come Gamal Nasser, il grande sconfitto) e cresce vertiginosamente insieme al rifiuto di Israele, il ricompattamento intorno a temi religiosi.
   È da allora che si costruisce da parte della leadership palestinese che presto si definirà intorno alla figura di Arafat la potenza suggestiva e religiosa di Gerusalemme, anche per chiamare l'aiuto del mondo arabo alla propria causa. Arafat cominciò a invocare il martirio per Gerusalemme; fece di questa città la bandiera islamica più condivisibile contro Israele e l'Occidente, seguito a ruota dal conformismo terzomondista e antisraeliano dei tanti che non aspettavano altro prima nel mondo comunista, poi in Europa.

(il Giornale, 12 dicembre 2017)


La scelta americana su Gerusalemme è nata dall'accordo israeliani-sauditi

L'intesa contro gli sciiti vicini all'Iran: Riad ora punta sull'Egitto per chiudere la questione palestinese. L'Italia sbaglia a opporsi.

di Carlo Pelanda

Mike Pence
La decisione dell'amministrazione Trump di portare l'ambasciata a Gerusalemme, riconoscendola capitale di Israele in contrasto con la dottrina dei due Stati che la vede condivisa con i palestinesi, è un atto irrazionale e avventato, come accusano media e governi europei, o una strategia meditata?
   Va ricordato che lo spostamento dell'ambasciata è un atto approvato da anni dal Congresso e che da tempo, ogni sei mesi, viene sospeso dall'esecutivo. Donald Trump ha deciso di non sospenderlo più. Nella conferenza stampa in cui l'ha annunciato era evidentemente consapevole del vespaio che tale decisione avrebbe creato: in modo ripetitivo e agitato ha sottolineato che l'atto non implicava l'abbandono da parte degli Usa di un impegno per la pace e che avrebbe inviato subito, come è accaduto con un insuccesso diplomatico, il vice Mike Pence a fare un giro di rassicurazione in Palestina e dintorni. Tali immagini hanno alimentato nei critici l'idea che Trump non sia stato consapevole delle conseguenze. In realtà provano che lo era. Inoltre da giorni aveva avvertito i principali interlocutori arabi che avrebbe fatto la mossa. Israele, soprattutto, è da settimane che si prepara a contenere l'intifada ora in atto.
   Si tratta di una strategia. Quale? Alcuni sostengono abbia voluto creare una situazione di conflitto per dirottare le attenzioni dei media casalinghi sulle accuse di relazioni opache con la Russia in campagna elettorale. Altri ritengono che Trump abbia voluto dimostrare che mantiene le promesse fatte - Gerusalemme capitale è una di queste per compiacere le élite bibliste che vedono l'America come Seconda Gerusalemme protettrice della prima ed erede della sua missione - sia per ottenere consenso sia per dissuasione verso l'esterno. Difficile precisare il lato interno. Ma ci sono motivi sul lato esterno che giustificano la mossa strategica. Washington ha la priorità di contenere l'espansione di Russia e Iran, e in questa di eliminare in Libano il dominio degli Hezbollah filoiraniani, e dimostrare all'Arabia Saudita che l'America saprà aiutarla contro l'Iran stesso, anche per evitare che i sauditi, convergenti con la Russia in materia di prezzi del petrolio, espandano la collaborazione con Mosca.
   Probabilmente gli esperti di Trump gli avranno suggerito che bisogna ingaggiare Israele sia come potere nucleare di teatro per evitare che i Saud chiedano l'atomica sia come forza armata capace di eliminare i proxy filoiraniani nell'area, cioè Hezbollah e Hamas.In cambio bisognava dare qualcosa a Israele: il riconoscimento di Gerusalemme capitale. Trump, probabilmente, non ha l'intenzione di cambiare la dottrina dei due Stati contigui, Palestina e Israele, ma pare disposto ad abbandonarla per un obiettivo di rilievo maggiore, considerando che anche l'Arabia Saudita non ha interesse a difendere i palestinesi nel momento in cui ha bisogno di una convergenza con Israele.
   Mancano importanti dettagli, ma s'intravede un gioco strategico. Per tale motivo avrei preferito che l'Italia fosse stata zitta prima di dichiararsi in contrasto con gli Usa o per lo meno avesse mostrato riluttanza prima di aderire all'invito, di fatto proiraniano e pro Hezbollah, della Francia (che si considera protettrice del Libano) a dissociarsi come ha fatto intelligentemente la Germania. La mossa di Trump ha sbloccato lo scenario mediorientale e ha messo l'America non più in posizione di mediatore, ma di protettore dei sunniti. Gli europei hanno l'opportunità di fare con profitto i mediatori tra America e Russia-Iran: appare controproducente sul piano tecnodiplomatico mettere a rischio tale profitto potenziale per stare con la Francia che sostiene la parte avversa all'America. Ancor più strana è la difesa dell'idea di dare uno Stato ai palestinesi nel momento in cui questi mostrano, oltre alla corruzione che rende vago ogni accordo incentivante, di non saper controllare gli sciiti di Hamas collegati a Hezbollah.
   Dalla tomba, immagino, sta sorridendo l'ex premier israeliano Ariel Sharon, che anni fa progettò una strategia per tornare alla Giordania parte dei territori occupati da Israele e incentivare l'Egitto a prendere il controllo di Gaza. Chiaramente Giordania ed Egitto non vorranno incorporare tali virus, ma, qui forse la novità, l' Arabia Saudita ha i mezzi e l'interesse per incentivarli o forzarli, e chiudere così la stramaledetta questione palestinese. Sarà questo il secondo compenso per l'ingaggio di Israele? Tale opzione è una mia fantasia, ma la scossa data al teatro permette di pensarla. Israele? Sa che deve combattere per vivere e combatterà, sperando che la convergenza con Arabia Saudita e Stati Uniti porti a conflitti che poi chiudano con un nuovo equilibrio sia la questione palestinese sia quella mediorientale più generale.

(La Verità, 12 dicembre 2017)


Trump ha certificato la fine della causa palestinese, lo hanno capito anche gli arabi

Al di la delle parole di circostanza i regimi arabi danno poca importanza alla decisione di Trump. La questione palestinese non infiamma più nemmeno le folle arabe, lo hanno capito anche i giornalisti e gli analisti arabi che vedono la fine della causa palestinese così come la conoscevamo.

Se ne sono accorti anche i media arabi che la reazione del mondo musulmano alla decisione del Presidente Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele non ha "infiammato" il mondo islamico.
Fatima Mohie-Eldin scrive su Muftah che «la decisione degli Stati Uniti su Gerusalemme evidenzia l'indifferenza regionale nei confronti della Palestina» mentre Ali Abunimah, co-fondatore di Electronic Intifada, ha dichiarato ad Al Jazeera che «le dichiarazioni rese dai regimi arabi sono rigorosamente per il consumo pubblico» volendo intendere che sono solo a favore dell'opinione pubblica araba ma che in effetti agli arabi di Gerusalemme e della Palestina non importa nulla...

(Right Reporters, 12 dicembre 2017)


La pace secondo Usa e Israele: Gerusalemme Est ai palestinesi

Soluzione in vista: Netanyahu non cita più l'indivisibilità della capitale E Abu Mazen rivendica solo Al Quds, cioè la parte orientale della città. Solo l'Unione Europea non ha capito niente.

di Marco Respinti

Il 17 di Av del 5740, ovvero il 30 luglio 1980, la Knesset, il parlamento israeliano, ha emanato una legge fondamentale (analoga a una legge costituzionale) proclamando Gerusalemme capitale «unita ed indivisa». Ma dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale d'Israele da parte del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, il 6 dicembre, la grande assente è proprio l'indivisibilità della città. Non ne parla Trump, non ne parla il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non ne parla il presidente palestinese Mahmoud Abbas alias Abu Mazen. Che sia questa la chiave di volta? Nel riconoscimento di Gerusalemme capitale, infatti, colpisce meno il fatto in sé che non il momento in cui ciò avviene, un momento reso ideale dal clima di guerra fredda che aleggia sull'universo arabo-islamico spaccato tra sciiti e sunniti.
   Sul fronte sciita ci sono l'Iran, la Siria governata dalla minoranza alauita, le milizie separatiste dello zaidismo in Yemen ed Hezbollah in Libano che pure puntella il presidente cristiano Michael Aoun. Via Damasco, è tutto più o meno in quota russa.Dall'altra parte (il nemico del mio nemico è mio amico) ci sono i Paesi sunniti e dunque gli Usa. Mentre la Turchia traccheggia attendendo venti favorevoli, l'Arabia Saudita finge di non sentire il mal di pancia e si appoggia a Washington. Ma questo, colmo dei colmi, la colloca di fatto dalla stessa parte d'Israele. Morale, forse la via che porta a Gerusalemme passa attraverso un maxiaccordo epocale e tutto il resto è teatro: sul palco ognuno recita il proprio ruolo storico e dietro le quinte, ottenuto da Israele il sacrificio del mito dell'indivisibilità di Gerusalemme in cambio della garanzia di poter issare la bandiera della vittoria finale, la sostanza potrebbe regalare ai palestinesi una sorte di enclave dorata che ne salvi la faccia e fischi la fine della partita. Scrive infatti Daniel Pipes, fondatore e direttore del Middle East Forum, che la decisione di Trump «in effetti riconosce come capitale d'Israele la Gerusalemme ovest pre-1967 e non l'intera Gerusalemme» conquistata con la Guerra dei seigiorni.
   Del resto Riad, mentre bolla la mossa dell'alleato Trump come «ingiustificata e irresponsabile», pare stia da settimane cercando d'indorare la pillola ai palestinesi, spingendoli ad accettare la decisone della Casa Bianca. Perché? Perché ora l'Arabia Saudita teme più l'Iran che non Israele e così per il nuovo uomo forte di Riad, il principe ereditario Mohammed bin Salman, la sicurezza (e l'egemonia sul mondo arabo-islamico), potrebbe valere bene una Gerusalemme. A novembre il ministro israeliano dell'Energia, Yuval Steinitz, aveva dichiarato alla radio dell'esercito che il Paese della Stella di David aveva avuto contatti segreti con Riad. Tutto smentito, ma si sa che è come confermare.
   Cosa ci guadagna Trump? La risoluzione della madre di tutte le diatribe e un posto nei libri di storia come re dei mediatori, visto che l'Ue, l'unica che in tesi potrebbe sostituire Washington in quel ruolo, si è chiamata fuori. Ieri infatti a Bruxelles Netanyahu, chiamato da votazioni importanti alla Knesset, ha avuto solo il tempo per scambiarsi gelo e freddezza con l'Alto rappresentate agli Affari esteri, Federica Mogherini, mentre il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker non lo ha visto poiché trattenuto dalla ... neve.

(Libero, 12 dicembre 2017)


Blitz di Putin da Assad; "Via le mie truppe". Ora Mosca lavora a un nuovo ordine regionale

Il presidente nella base militare di Hmeymim. Poi vola da Al Sisi e da Erdogan

Vladimir Putin
Se i terroristi in Siria rialzeranno la testa, condurremo contro di loro dei raid mai visti
Recep Tayyip Erdogan
Con i colloqui di Astana contribuiamo a quanto stabilito dall'Onu a Ginevra per la pace in Siria

di Giordano Stabile

Ha evitato di pronunciare, forse per scaramanzia, le parole «missione compiuta». Ma il senso della visita di Vladimir Putin alla base aerea russa di Hmeymim in Siria, con l'annuncio del ritiro delle truppe russe, assomiglia molto al proclama di George W Bush a bordo della portaerei Abraham Lincoln il primo maggio 2003. Allora si trattava di celebrare la fine del regime di Saddam Hussein in Iraq e l'inizio di un nuovo corso, democratico e filo-occidentale, in Medio Oriente. Ora il nemico sconfitto è l'Isis e la Russia spera di imporre «un suo ordine» nella regione, basato su alleanze a tutto raggio e senza guardare per il sottile circa la natura dei regimi amici.
   La tappa siriana è stata la prima di un tour che ha toccato anche Il Cairo e Ankara. Lo zar è arrivato con un Tupolev partito da Soci, senza essere annunciato, tanto che secondo fonti dell'opposizione lo stesso presidente siriano Bashar al Assad è rimasto sorpreso. Ha avuto una colazione di lavoro con i vertici militari, poi ha passato in rassegna le sue truppe, in tenuta «coloniale», e ha annunciato «l'inizio del ritiro». Putin ha ringraziato i suoi soldati per aver sconfitto «i più agguerriti gruppi terroristici della storia» e ha avvertito che anche dopo il ritiro la Russia può scatenare «raid aerei di potenza mai vista» contro il pericolo jihadista.
   La precisazione è importante, perché anche se ormai lo Stato islamico è al lumicino, e per Mosca «sconfitto» tout court, il Paese non è stabile. I russi resteranno nella base aerea di Hmeymim e a Tartus, ma a ranghi ridotti. Assad ha ricostruito le sue forze armate su una base demografica erosa, può contare su, poche, unità scelte di valore ma per il controllo del territorio è costretto ad affidarsi a milizie territoriali locali e internazionali addestrate dai Pasdaran iraniani.
   La presenza russa non è massiccia, fra gli 8 e i 10 mila uomini, ma il loro ruolo è stato decisivo. I vertici militari hanno cercato di preparare il ritiro con l'invio di «polizia militare» composta da musulmani caucasici e, anche se senza mai ammetterlo, di contractors, anch'essi islamici, originari delle ex repubbliche asiatiche dell'Urss. L'idea è quella di riequilibrare con una presenza militare «sunnita» lo strapotere delle milizie filo-iraniane, in modo da evitare l'esplosione di una nuova rivolta sunnita. Queste forze «alternative» sono già stimate in 4-5 mila uomini.
   Non bastano. Putin punta anche a un «accordo politico» con un Congresso nazionale siriano che vedrà la partecipazione di tutte le componenti «politiche, etniche, religiose» che sarà definito nel round di colloqui ad Astana a gennaio. Per stabilizzare la Siria, Paese all'80% sunnita, Mosca punta anche a coinvolgere i curdi, con i quali ha ristabilito a novembre il coordinamento militare anti-Isis. Il tour de force di ieri lega quindi le due cose: partita siriana e più ampia partita mediorientale. Dopo la Siria, Putin è volato dal presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi, che aveva appena incontrato il presidente palestinese Abu Mazen e Re Abdullah di Giordania per la questione di Gerusalemme.
   Con il rais ha definito gli accordi per l'uso delle basi aeronavali egiziani da parte delle forze russe e per la realizzazione della prima centrale nucleare egiziana. Stesso menù, militare e civile, nella cena con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Dopo il sistema antiaereo S400 Putin vuole definire il contratto per la centrale nucleare di Akkuyu. Ma c'erano anche pietanze più indigeste. Su tutte la richiesta pressante di Erdogan per un via libera alle operazioni anti-curde in Siria. Una mossa che rischia di far crollare l'equilibrio costruito a fatica dallo zar.

(La Stampa, 12 dicembre 2017)


Visita a sorpresa di Putin in Siria: "Via le nostre truppe dal Paese"

Il leader del Cremlino vedrà al Sisi ed Erdogan. All'ordine del giorno la questione Gerusalemme

Vladimir Putin ha ordinato l'inizio del ritiro delle truppe russe dalla Siria: lo riporta la tv filo-Cremlino Russia Today riferendo di una visita a sorpresa del presidente russo nella base aerea russa in Siria di Hmeimim. Putin ha visitato questa mattina la base aerea di Hmeimim, dove ha incontrato il presidente siriano Bashar al Assad alla presenza dei rispettivi ministri della Difesa. Una tappa a sorpresa, quella di Putin in Siria, prima di recarsi in Egitto e Turchia per discutere, tra le altre cose, degli effetti della decisione del presidente americano Donald Trump su Gerusalemme capitale d'Israele.
  "Mosca non dimenticherà mai i sacrifici e le perdite nella lotta al terrorismo in Siria e in Russia", ha detto Putin, sottolineando che i suoi militari "tornano con gloria" dal Paese mediorientale, dopo una campagna durata oltre due anni e che ha comportato anche perdite, non solo successi. "Non dimenticheremo mai i sacrifici e le perdite che sono stati affrontati nella lotta al terrorismo, sia qui in Siria, che in Russia", ha detto, parlando alle forze armate nella base russa a Latakia
  La base di Hmeimim è stata istituita il 30 settembre 2015 dalla difesa russa per condurre un'operazione militare in Siria e sostenere le truppe governative nella guerra, a sostegno di Assad e contro l'organizzazione terroristica dello Stato islamico, e anche successivamente al conflitto resterà un presidio sul Mediterraneo per Mosca, armata anche con sistemi antimissile S-400.
  Il leader russo è poi volato in Egitto, dove è stato accolto dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Il Cremlino ha riferito che al centro del bilaterale con l'omologo egiziano ci saranno i temi della cooperazione bilaterale, "politica, economica e commerciale", e la stabilità e sicurezza in Medio Oriente. I due leder avevano buone relazioni, finché il Cremlino non ha sospeso i voli diretti con l'Egitto, dopo l'attentato di ottobre 2015 a un volo di turisti russi in viaggio dal Mar Rosso a San Pietroburgo, in cui sono morte 224 persone. A rivendicare l'attacco è stato un gruppo affiliato all'Isis nel Sinai.
  Da tempo i due paesi tengono colloqui sul potenziamento della sicurezza negli aeroporti egiziani, condizione posta da Mosca per riaprire i collegamenti aerei, ma per ora non si è giunti ad un'intesa. La collaborazione nel campo della Difesa è un altro tema cruciale tra i due Paesi: la visita di Putin arriva meno di due settimane dopo che il governo russo ha annunciato di aver raggiunto un accordo preliminare col Cairo - della durata di cinque anni, ma estendibile - sull'uso congiunto dello spazio aereo e delle basi militari dei due paesi. Una volta formalizzato, l'accordo estenderà la presenza di Mosca in Egitto, alleato storico degli Usa fin dagli anni Settanta.
  Altra questione urgente nella cooperazione economica è la sigla del contratto con Rosatom per la costruzione della prima centrale nucleare in Egitto, ad El-Dabaa. L'accordo intergovernativo - dal valore di 30 miliardi di dollari e che prevede quattro reattori della potenza di 1.200 megawatt ciascuno - è stato siglato a novembre 2015 al Cairo, ma la firma del contratto è sempre stata rimandata; secondo il giornale ufficiale egiziano Al-Ahrman, questa potrebbe avvenire proprio durante la visita di Putin. Fonti anonime russe, riportate dall'agenzia Bloomberg, hanno detto che l'accordo è pronto da tempo, ma l'approvazione finale dipende dai risultati dei colloqui politici ad alto livello. L'Egitto spera che il primo reattore entri in funzione nel 2024.
  Nel pomeriggio Putin volerà ad Ankara, su invito dell'omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, per discutere sui conflitti nella regione, specialmente del caso di Gerusalemme. "Si prevede che nei colloqui del nostro presidente con Putin si scambieranno opinioni su affari internazionali e regionali, soprattutto sui fatti di Gerusalemme e quello che accade in Siria, oltre alle relazioni bilaterali tra Turchia e Russia", si legge in una nota delle presidenza turca. Secondo l'agenda, la riunione tra Putin e Erdogan inizierà alle 16.30. Per le 18 è in programma una cena di lavoro delle delegazioni, dopo la quale è prevista una conferenza stampa (alle 19).

(L'Huffington Post, 11 dicembre 2017)


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Vladimir Putin alleato di Trump in Medio Oriente e garante dello scontento arabo

Tour diplomatico per il presidente russo, che vede Assad, Erdogan e Al Sisi, e amplia la sfera di influenza. The Donald tiene per sé Israele e sauditi.

di Umberto De Giovannangeli

Il futuro ha il marchio del passato. Di un ritorno a prima del 1979, a una divisione del Medio Oriente in zone d'influenza con un ruolo forte dell'Urss. In questa chiave, oltre che "vincitore" della campagna di Siria, Vladimir Putin si appresta a vestire i panni, ancora più strategici, di "garante" dello scontento arabo, di un Grande Medio Oriente che non porta i suoi conflitti interni a un livello da allarme rosso per la sicurezza internazionale.
  Il presidente russo gioca anche un ruolo da alleato di Donald Trump, a cui assicura la non implosione di un'area cruciale sul piano geopolitico e militare per la potenza americana. Con un'Europa ridotta a ininfluente spettatore di una partita troppo più grande delle sue divisioni e della perduta grandeur, il Medio Oriente - ma non solo - diventa teatro di una nuova triangolazione, della quale Vladimir Putin è cruciale. Il presidente russo vede a sorpresa Bashar al Assad e annuncia il ritiro del vittorioso contingente militare di Mosca dalla Siria, si reca al Cairo per colloqui e accordi commerciali con il capo dello Stato Abdel Fattah Al Sisi, vola in Turchia dal presidente Recep Tayyip Erdogan per discutere di Siria e Gerusalemme e parlare di cooperazione, anche militare.
  Nella triangolazione c'è la Russia con i suoi alleati diretti, Iran su tutti. Ci sono le petromonarchie del Golfo, a guida saudita, che affidano agli Usa la gestione dell'equilibrio regionale, pur guardando con nuovo interesse a Mosca. C'è Israele.
  Le manifestazioni che agitano il mondo musulmano dopo lo strappo americano su Gerusalemme non inducano ad affrettate conclusioni: nessuna ambasciata europea, almeno di quelle che contano, si sposterà da Tel Aviv a Gerusalemme, ma di certo il patto di ferro stretto da Benjamin Netanyahu con il principe ereditario saudita, il giovane e ambizioso Mohammad bin-Salman, è destinato a reggere. Perché riequilibratore dell'espansionismo sciita nella regione. In questo scenario, Putin disegna i caratteri di una "Yalta mediorientale". Oggi può farlo al meglio, ma non contro "l'amico americano". Perché tale resta per "zar Vladimir" il tycoon statunitense impiantato alla Casa Bianca. Il miglior presidente Usa che Putin potesse desiderare. Perché The Donald è un presidente che gioca la partita mediorientale, malgrado alcune sue debolezze, nonostante i muri, i Muslim-ban, gli strappi gerusalemiti che gli creano ostilità crescenti.
  I due presidenti sono entrambi dinanzi a un appuntamento elettorale. Infastidito dagli scandali del Russiagate, e ora anche dalle denunce di molestie sessuali, Trump vede davanti a sé delicate elezioni di "midterm". Sul fronte opposto, il problema dello zar è uno solo: evitare di essere rieletto presidente col 99% dei consensi.
  Perché la "triangolazione" mediorientale possa reggere, c'è bisogno di un Putin mediatore, garante per l'appunto, anche in nome e per conto di Trump. Deve vincere, certo, ma non strafare. Emblematico, in tal senso, è il recente vertice di Sochi. La comunità internazionale legge i conflitti aperti in Medio Oriente come sunniti contro sciiti? Ecco Putin scompaginare i giochi e riunire, in un vertice a tre il presidente turco Erdogan (sunnita) e il presidente iraniano Rohani (sciita).
  Sarebbe ingeneroso, oltre che errato, imputare al solo Trump l'emergere della Russia putiniana come asse centrale nella geopolitica mediorientale. Una parte di responsabilità, e non marginale, ce l'ha il predecessore del tycoon miliardario: Barack Obama, con la sua determinazione ad azzerare la presenza militare statunitense in Medio Oriente senza preoccuparsi del vuoto lasciato e di chi poteva riempirlo. Di fronte all'incedere delle Primavere arabe e della crisi di vecchi e fedeli alleati, come il presidente egiziano Hosni Mubarak, Obama decise di non decidere. E questo fu un messaggio devastante per i rais della regione: l'America ci lascerà soli. E allora, è meglio guardare verso Mosca. Perché lì regna un presidente che le scelte le fa e le porta fino in fondo.
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  Così è accaduto in Siria. Mentre gli Usa provavano ad armare una parte dei ribelli anti-Assad, Putin assieme all'alleato iraniano sceglie di puntellare il regime alauita e, nel frattempo, convincere il presidente-generale egiziano al-Sisi, come il turco Erdogan, che lui gli alleati non li lascia in braghe di tela ma anzi li arma, li sostiene al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, delinea con loro possibili spartizioni territoriali e di ricchezze naturali.
  Armi e affari: è la ricetta di Putin. Che fin qui ha pagato. La guerra all'Isis era diventata la priorità assoluta per il mondo libero? L'incubo peggiore aveva le sembianze di Abu Bakr al-Baghdadi? Dalla base russa di Hmeimin, in Siria, il "comandante Vladimir", proclama la disfatta dello Stato islamico e poi incontrato il presidente siriano Bashar al-Assad e il ministro della Difesa russo Serghiei Shoigu. La presenza russa in Siria è destinata a durare a lungo, visto che il presidente Putin ha ratificato un accordo con il governo siriano che consente alla Russia di mantenere la base aerea di Hmeimin, nella provincia di Latakia, per 49 anni, con la possibilità di estensione per altri 25 anni.
  Missione conclusa. Dopo aver vinto la guerra, ora è tempo di edificare la "pax russa". Non da solo, ma con il benevolo coinvolgimento di altri leader regionali. Dell'Iran, si è detto. Così come della Turchia. Ora, Putin guarda al Paese delle Piramidi e al suo presidente, l'ambizioso al-Sisi. Geopolitica e affari, anche sul fronte egiziano. Una miscela che paga. Dal vertice fra Putin e al-Sisi emerge l'intesa sull'inizio della costruzione della centrale nucleare di El Dabaah, dopo che le parti avevano firmato un accordo in cui l'agenzia atomica russa Rosatom si era impegnata a fornire all'Egitto un prestito che avrebbe coperto l'80% del costo di realizzazione. Rosatom, costruirà i quattro reattori, e nell'arco di 60 anni fornirà il combustibile nucleare per poi decommissionare l'impianto. Sarà Mosca, in base all'accordo, a provvedere al finanziamento del progetto con un prestito di 25 miliardi di dollari. Complessivamente, Putin ha portato al suo omologo egiziani un "dono" (in affari e finanziamenti) di 30 miliardi di dollari. E questo mentre, lo scorso agosto, gli Usa avevano bloccato l'erogazione di 95,7 milioni di dollari in aiuti all'Egitto.
  Tra gli altri argomenti in agenda, vi era anche la ripresa dei voli regolari tra i due Paesi, sospesi dopo l'incidente del 31 ottobre 2015, quando un aereo russo cadde sul Sinai causando la morte di 224 passeggeri. Il ministero dei Trasporti russo ha dichiarato che i voli diretti con l'Egitto potrebbero riprendere prima dell'inizio della Coppa del mondo in Russia nell'estate 2018. L'Egitto giocherà proprio contro la nazionale russa nella fase a gironi.
  Il tour di Putin prosegue, vola ad Ankara. Tra Putin ed Erdogan è un reciproco scambio di complimenti e di rassicurazioni reciproche. Si fissano altri appuntamenti, si cementa un'alleanza che ha come perno una Russia garante, di nuovo, del contenimento delle spinte indipendentiste dei Curdi. Basta e avanza per Erdogan il cui incubo maggiore non si è mai chiamato Isis ma "Grande Kurdistan". Alla Turchia, Mosca garantisce ciò che Erdogan ha sempre voluto: una zona cuscinetto alla frontiera con la Siria. In cambio, il "sultano di Ankara" non fa dell'uscita di scena di Bashar al-Assad un discrimine strategico. Ci penserà Putin a scegliere il momento più opportuno per l'uscita di scena del rais di Damasco. Ma se ciò potrà avvenire, è perché il "triangolo" regge. Perché Riad non si sentirà tradita da Erdogan e al-Sisi, perché Israele non decida di cambiar verso alla sua politica "attendista" rispetto ai conflitti interarabi e tra Arabi e "Persiani".
  Per giocare questa partita epocale, Putin dovrà confermare di essere all'altezza di un compito durissimo. D'altro canto, la storia del Medio Oriente offre una lezione che il leader del Cremlino deve dimostrare di aver colto: una guerra si può vincere, un dittatore si può abbattere, ma se non si ha una visione sul dopo, la tragedia busserà alle tue porte. E' stato così per George W.Bush in Iraq, e i costi di questa assenza di strategia, se per strategia non si intende spacciare l'ideologia "scontrista" dei neocon, totalmente fallimentare, l'America continua ancora a pagarli. Competitori-alleati, dunque. Comunque complementari. Perché se oggi, di fronte ai proclami di vittoria lanciati da Putin in Siria, non si torna a parlare di una nuova Guerra Fredda, è perché, paradosso della Storia, alla Casa Bianca non siede un liberal che avrebbe fatto dei diritti umani e dei principi intangibili delle libertà la leva per una resa dei conti con l'autocrate russo. Che ciò sia un bene, sarà il tempo a dirlo. Ma se il futuro non ci consegnerà l'esplosione della polveriera (nucleare) mediorientale, con effetti domino devastanti sull'intero scacchiere mondiale (a cominciare dal trentottesimo parallelo) è solo perché la strana "triangolazione" avrà retto. Il mondo si governa così.

(L'Huffington Post, 11 dicembre 2017)


Israele distrugge un tunnel di Hamas nella Striscia Gaza

GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha dichiarato aver distrutto un tunnel di Hamas nella Striscia di Gaza. Lo ha detto un portavoce dell'esercito israeliano, Jonathan Conricus, precisando che il tunnel è stato scoperto poche settimane fa e che l'operazione non ha provocato vittime. Il 30 ottobre le forze israeliane avevano distrutto una galleria simile costruita dal Jihad islamico, un altro gruppo armato palestinese. Questi tunnel sono destinati, secondo l'esercito, ad "attività terroristiche". Il tunnel distrutto partiva della città di Khan Younis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza, e penetrava per diverse centinaia di metri in territorio israeliano. "Consideriamo questa come una grave violazione della sovranità israeliana", ha detto Conricus ai giornalisti, aggiungendo che Israele non sta cercando di aumentare le tensioni con i palestinesi. Il tunnel era attivo da diverso tempo e, secondo il portavoce, non aveva alcuna correlazione con le proteste contro l'annuncio del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. La Striscia di Gaza è controllata dal movimento islamista di Hamas, considerato dagli israeliani come un'organizzazione terroristica.

(Agenzia Nova, 11 dicembre 2017)


Gerusalemme - Città unica, indivisibile e inappropriabile

di Donatella Di Cesare

 
Unica, indivisibile, inappropriabile, impossibile da capitalizzare, Gerusalemme è la città che si sottrae all'ordine degli Stati-nazione. Ne eccede la ripartizione, la trascende, la interdice. Contro questo scoglio, o meglio, contro questa rocca, sono naufragati tutti i tentativi che, in un'ottica statocentrica e nazionale, hanno mirato solo a frazionarla e segmentarla. Smacco della diplomazia e, ancor più, fallimento di una politica che procede con il metro e con il calcolo.
   Gerusalemme non divide; al contrario, unisce. Ed è proprio questa unità la sfida che non è stata raccolta. Perché già da tempo avrebbe dovuto essere immaginata una nuova forma politica di governo capace di rispondere alla sovranità verticale di questa città straordinaria, di rispondere alla sua costitutiva apertura orizzontale.
   Qui sta il punto della questione, ma nulla di ciò è avvenuto. Piuttosto si è fatta valere l'ipotesi, oramai sempre più lontana, di due Stati separati da confini incerti, precari, minacciosi.
   Non sarebbe stata, non è, anzi, più saggia, seppure inedita, la via di due comunità confederate? Sono oramai molti a crederlo. Città degli stranieri, culla dei monoteismi, residenza dell'Altro sulla terra, anche per i laici, Gerusalemme è quel luogo dell'ospitalità che resiste a una forzata e artificiosa spartizione.
   Yerushalaim, capitale di Israele - chi potrebbe non riconoscerlo? - ma anche soglia che Israele è chiamato a oltrepassare. Come ha già fatto - è bene ricordarlo - con la libertà di culto. Ogni rivendicazione nazionalistica, da ambo le parti, è fuori luogo.
   Qui dove si richiederebbero mitezza, prudenza, perspicacia, l'atto arrogante e fragoroso del trumpismo danneggia sia israeliani sia palestinesi. E tuttavia, proprio perché è lo scoglio teologico contro cui urta la politica, Gerusalemme può divenire modello extrastatale e banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli.

(Corriere della Sera, 11 dicembre 2017)


Gerusalemme capitale? Sì, certamente, "chi potrebbe non riconoscerlo?” Capitale di che? Ma di Israele, ovviamente. Della nazione Israele? No, perché “ogni rivendicazione nazionalistica è fuori luogo”. Ma allora, di che cosa è capitale Gerusalemme? “Gerusalemme può divenire modello extrastatale”, dunque capitale di un’entità universale trascendente “l'ordine degli Stati-nazione” e “banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli”. Chiaro? La lezione di filosofia politica finisce qui. Grazie. M.C.


Su Israele un'altra colpa dell'Europa codarda

Eppure questo sarebbe il momento per una formidabile accoppiata politica: sì a Gerusalemme capitale e piano di vero aiuto per una regolamentazione della West Bamk.

di Giuliano Ferrara

Gli argomenti di Bret Stephens in favore della decisione di Trump, che è l'unico forse a disprezzare più di me, su Gerusalemme capitale sono irrecusabili (New York Times, 8 dicembre).
  1. La pace in medio oriente non dipende dalla questione israelo-palestinese: basta citare i massacri in Libia, Egitto, Yemen, Iraq e Siria per rendersene conto.
  2. Come dimostrano i realistici rapporti attuali di Israele con Arabia Saudita, Egitto, Bahrein, e Abu Dhabi, malgrado lo stallo delle politiche per i due popoli e due stati, non è quella la questione che può impedire un riavvicinamento tra il mondo arabo e l'entità "sionista".
  3. Non è vero che gli Stati Uniti con quella decisione indeboliscono il loro ruolo di fair broker in medio oriente: quel ruolo è fallimentare da molti anni.
  4. Il carattere sacro e multilaterale in senso religioso di Gerusalemme dipende dalla libertà di culto assicurata per tutti: nei 19 anni di dominio giordano gli ebrei non potevano pregare al muro del pianto, ecco, non è stato vero l'opposto sotto la dominazione israeliana.
  5. Il pericolo di violenze palestinesi, il rischio di un nuovo incendio nei territori. Ma la arab street è sempre stata l'integrazione cinica in carne umana sacrificale delle politiche negazioniste degli stati e delle classi dirigenti corrotte che le promuovevano (infatti, va notato, con la delegittimazione dell'Autorità palestinese, di Hamas eccetera la risposta popolare è stata più di frustrazione che sintomo di una rivolta di massa).
  6. E' un regalo senza riscontro a Netanyahu, una rinuncia a un oggetto di scambio per la pace. Non è vero: agli israeliani di ogni tendenza politica piace, ma senza alcun entusiasmo indebito per un fatto compiuto da millenni, il fatto che Gerusalemme, loro capitale politica da settant'anni, sia riconosciuta diplomaticamente dal maggior alleato, per il resto i giochi di pace e guerra si fanno altrove.
  7. Il riconoscimento della realtà toglie al partito della paura e dell'annientamento, la teocrazia cleptocratica che si agita alle spalle dei palestinesi e li inganna e illude da decenni, la capacità di tenere diplomaticamente e simbolicamente in ostaggio Gerusalemme.
Ce n'è abbastanza per domandarsi a quale titolo gli europei si facciano belli con il volto degli altri. Qui la Francia delude, l'Italia delude, e molto. Si capisce, c'è una logica onusiana in certi comportamenti, e un mercato di scambio complesso, un suk, di cui forse è meglio non parlare, per non vergognarsi - politicamente e non moralisticamente -, ma l'opposizione alla decisione del Congresso americano (1995, due anni dopo il fallimento di Oslo per colpa di Arafat), finalmente ratificata dall'amministrazione Trump, sa di codardia, di conformismo, di mero pregiudizio, un automatismo irriflesso e poco lungimirante. Il presidente Gentiloni e l'Alto rappresentante Mogherini avrebbero dovuto riflettere, prima di mettersi a fare gli attivisti in Consiglio di sicurezza e altrove di un'Unione europea che su Israele le ha sbagliate tutte, colpevolmente, alimentando il vero incendio, che è il tentativo di delegittimarla con varie aperture al boicottaggio e di illudere l'Autorità palestinese con leccornie ad alto valore simbolico passibili di alimentare il suo senso di onnipotenza vittimario. Morti palestinesi, disperazione palestinese, isolamento e frustrazione del popolo: sono elementi di una tragedia che come tale va considerata. Questo sarebbe il momento per una formidabile accoppiata politica: sì a Gerusalemme capitale e piano multiforme di vero aiuto e incoraggiamento alla prospettiva di una regolamentazione seria e responsabile dell'area tormentata della West Bank, mettendo energia, soldi, capacità di mediazione e iniziativa politica al servizio della pace e del rinnovamento delle classi dirigenti in Palestina. L'Italia, che fu pur sempre il paese dell'Israel Day, il 13 novembre del 2003, e che è stato il paese capace sotto Berlusconi di offrire a Gerusalemme i doni di grazia di una politica lungimirante, avrebbe potuto cercare nella sua identità e storia la via del dubbio, dell'attenuazione dei riflessi condizionati, pavloviani, delle delegazioni europee all'Onu. Ma non è successo. Non si scarta dall'ovvio e dal già visto. La mancanza di fantasia e di autonomia politica dei nostri governi e della loro diplomazia, nonché nella maggioranza della stampa e delle televisioni, è abbacinante.

(Il Foglio, 11 dicembre 2017)


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L'illusione del know how

L'involontario ballon d'essai lanciato da Trump continua a svolgere la sua funzione. Uno dopo l'altro, i vari commentatori della politica israeliana sono indotti a far emergere in modo più delineato la loro posizione. Anche l'autore di questo articolo, amico deciso di Israele e dispregiatore altrettanto deciso di Trump, questa volta sembra costretto a dire qualcosa che, senza essere in appoggio a Trump (non sia mai), appoggia "argomenti... in favore della decisione di Trump". Gli dev'essere costato molto. Poi se la prende, a ragione, con l'Unione europea, Mogherini, Gentiloni che, a suo avviso, avrebbero sbagliato a non cogliere la provvidenziale occasione offerta al mondo da Trump. Dice infatti l'autore: "Questo sarebbe il momento per una formidabile accoppiata politica: sì a Gerusalemme capitale e piano multiforme di vero aiuto e incoraggiamento alla prospettiva di una regolamentazione seria e responsabile dell'area tormentata della West Bank". Che significa? Forse che "mettendo energia, soldi, capacità di mediazione e iniziativa politica al servizio della pace", come dice in seguito, si potrà ottenere il "rinnovamento delle classi dirigenti in Palestina"? Beh, se è vero che la mancanza di fantasia dei nostri governi è abbacinante, come lui dice, ce ne vuole molta di fantasia per immaginare che si possa convincere gli islamici a rinunciare a Gerusalemme e al Monte del Tempio offrendo loro "una regolamentazione seria e responsabile dell'area tormentata della West Bank, mettendo energia, soldi, capacità di mediazione e iniziativa politica al servizio della pace". E' l'illusione laica, occidentale, anche berlusconiana, che la soluzione di tutti i problemi, anche di questo, stia nel know how. No, Israele è anzitutto una questione di verità, prima che di modi. Le prime domande a cui rispondere non sono del tipo "come si fa?", ma "è vero che?" M.C.

(Notizie su Israele, 11 dicembre 2017)


Due nomi sono in gioco

di Marcello Cicchese

Per la Bibbia i nomi sono importanti, perché dare il nome esprime autorità. Due nomi allora sono in gioco in questo conflitto: Israele e Palestina.
Chi ha scelto il primo nome? Il Dio che ha creato i cieli e la terra:
    "Perciò di': Così parla Dio, il Signore: Io vi raccoglierò in mezzo ai popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d'Israele" (Ezechiele 11:17).
Chi ha scelto il secondo nome? L'imperatore romano che ha distrutto Gerusalemme e si era proposto di cancellare il nome di Israele dalla terra.
Israele e Palestina sono dunque due nomi dietro i quali sono in lotta due campi spirituali: da una parte Dio e il Suo popolo, dall'altra Satana e le nazioni. I ben intenzionati, gli "amanti della pace" che soffrono per le intolleranze degli "opposti estremismi" vorrebbero risolvere il problema facendo a metà: due zone, due Stati, due nomi: Israele e Palestina. Come dire: un po' a Dio e un po' a Satana. Questi pacifisti che credono di poter essere più buoni di Dio assumendo il ruolo di mediatori tra due gruppi di violenti in lotta, in realtà finiscono sempre per difendere una sola delle due parti: la Palestina. Alla fine costituiranno le truppe di riserva dell'esercito di Satana: dopo i falchi oltranzisti dell'Islam, scenderanno in campo contro Israele le colombe accomodanti delle Nazioni Unite. E tutti e due i gruppi parteciperanno alla comune sconfitta.
    "In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d'Israele, dice Dio, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici [...] Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui. Così mostrerò la mia potenza e mi santificherò; mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore" (Ezechiele 38:18,22-23).
(Da “Dio ha scelto Israele”)


Scontro Macron-Netanyahu. L'Europa sceglie i palestinesi

Il presidente francese pretende «un gesto di coraggio». Il premier israeliano: «È la nostra capitale da tremila anni»

di Fiamma Nirenstein

Un leader sa distinguere la vieta consuetudine da ciò che è giusto, sa attribuire il peso necessario alla verità quando le bugie non hanno portato a nessun risultato, sa vedere quando per raggiungere l'unità. l'Europa non deve utilizzare come ostaggio l'unica preda a disposizione per ottenere un voto compatto, Israele, mentre tutto il resto è dissidio. Sa individuare un alleato valoroso di fronte alle sfide del tempo, specie in tempo di terrorismo.
   Invece Macron incontrando Netanyahu all'Eliseo ha marcato di nuovo la sostanziale indifferenza dell'Europa per Israele, per la sua sicurezza e la sua esistenza: è la posizione ufficiale, quella di ripetere la parola Israele coniugandola sempre con occupazione, ignorando la realtà dei fatti, e Macron si è mosso da bravo scolaretto. Eppure il suo linguaggio corporeo rispettoso e cordiale, il sorriso, le pacche sulle spalle nonché la sua promessa di visitare Israele nel 2018 e la dichiarazione di non avere nessuna intenzione di organizzare un'altra fallimentare conferenza di pace, segnalano un desiderio di accordo, un sottinteso proibito. Ma manca il coraggio di non essere quella solita Europa che biasima Israele e gli Stati Uniti.
   Netanyahu ha detto nell'incontro in cui Macron invocava la pace: «La cosa più importante per un negoziato è riconoscere che l'altra parte ha il diritto di esistere. È questo il punto che ha impedito la pace fra israeliani e palestinesi. Ecco la mia offerta: sediamoci insieme e negoziamo la pace. Ho più volte invitato il presidente Abbas e lo faccio di nuovo qui. Questo è un gesto di pace». È stata questa la risposta alla richiesta di Macron, che ha domandato al primo ministro d'Israele «un gesto coraggioso verso i palestinesi, lo stop agli insediamenti», accompagnato dalla condanna del riconoscimento di Gerusalemme da parte di Trump. Forse era l'Europa a dover mostrare un po' di coraggio, in particolare la Francia dove l'antisemitismo ossessivo e omicida ha già spinto all'emigrazione 8mila ebrei nel solo 2016.
   E non è abbastanza coraggiosa Israele a mantenere una decisa, puntigliosa democrazia e un sistema giudiziario impeccabile mentre è parafulmine dell'odio islamista che la bombarda di terrorismo? Non è abbastanza coraggiosa nel mantenere la sua proposta di dialogo per la pace quando i palestinesi pagano stipendi ai terroristi e nominano scuole e strade in loro onore? Non soddisfa l'Europa il fatto che Gerusalemme sia, benché unita come capitale di Israele dal '50, affidata per quel che riguarda le tre religioni ai poteri di ciascuna delle fedi che la caratterizzano, garantendo così il libero accesso? E dov'è la richiesta di un gesto coraggioso ai palestinesi e al mondo arabo, mentre la violenza sembra la carta preferita o l'unica che sa giocare, mentre in Europa si diffonde l'antisemitismo, come in Svezia dove è stata assalita una sinagoga?
   Netanyahu ha descritto a Macron una realtà evidente a tutti: «Gerusalemme è la capitale di Israele da tremila anni, dove ha sede la Knesset, gli uffici del governo, le istituzioni importanti e il cuore del popolo ebraico». Deve forse restare il solo a non scegliere la propria capitale? Macron, quando dichiara che riconoscere Gerusalemme è pericoloso, non ha in mente o finge di non sapere quanto sia pericoloso proseguire in una menzogna che tiene i palestinesi nell'illusione di potere ottenere tutto senza dare niente, usando come leva il terrorismo, nel sogno di veder sparire Israele dalla Terra.

(il Giornale, 11 dicembre 2017)


A un Presidente europeo che in questa svolta della storia ha la sfrontatezza di chiedere al Presidente israeliano un “gesto di coraggio” bisognerebbe rispondere chiedendo a lui un gesto di decenza: chieda scusa e annunci le sue dimissioni da una carica manifestamente superiore alle sue capacità. M.C.


Su Gerusalemme capitale non decide l'America. Demonizzare Israele è inaccettabile
      Articolo OTTIMO!


di Barbara Pontecorvo

Trump non conferma né nega che Gerusalemme sia la capitale di Israele: Gerusalemme è dal 1950 la capitale dello Stato ebraico.
   Nel 1870 il Piemonte, con le truppe del nascente Stato italiano, sconfisse Pio IX e travolgendo le sue truppe, fece di Roma la sua capitale. Gli Stati accreditati presso il Papato ne presero atto. Avrebbero potuto fare altrimenti, lasciando senza rappresentanza il loro Stato perché l'Italia aveva scelto Roma per capitale? Sì, sarebbero potuti rimane a Torino o a Firenze, ma sarebbe stato irreale. Non lo fecero. Era palese che Roma era stata scelta come capitale dal Regno d'Italia, non dagli Stati i cui ambasciatori erano rimasti a Roma, essendo ormai accreditati non più presso il Papa Re bensì presso il Regno d'Italia. Più tardi, si sarebbero sdoppiate le ambasciate, ma sempre a Roma rimasero. Un secolo e mezzo addietro (quasi) la tecnica e la scienza erano per certi versi ai primordi, ma la logica talvolta dominava sulle sole emozioni.
   Oggi prevalgono le emozioni e sembrerebbe che sia stata l'America a decidere che Gerusalemme è la capitale d'Israele. Piuttosto, gli Usa lasciano aperta, se non addirittura spalancata, la facoltà per uno Stato palestinese di insediarsi a Gerusalemme Est, qualora decidano di intraprendere la via della pace. Se non fosse che il processo di pace non è mai nato perché, malgrado Israele abbia lasciato che l'Autorità Nazionale Palestinese si insediasse in quasi tutta Cisgiordania e si sia ritirato da Gaza (senza nemmeno lo straccio di una contropartita), l'Anp continua a pensare che presto o tardi la logica dei grandi numeri e dello scarto morale di chi lancia i missili finirà per completare l'opera che mira a eliminare gli ebrei dalla zona, come sono stati eliminati dall'Europa.
   Mandare messaggi ambigui, con una logica dettata dalla paura, non comporta soltanto la firma di una sentenza di morte per gli israeliani, ma anche per gli europei, vittime di attentati spietati. Demonizzare Israele senza denunciare che da parte palestinese non arrivano né arriveranno mai proposte di pace comporta responsabilità morali inaccettabili in un continente che si vuole democratico. Continuare - come fa la Unione europea - a diffondere lo slogan dei due Stati senza fare assolutamente nulla per portarlo a compimento, costituisce un segno di debolezza materiale e non solo. Non condannare le manifestazioni violente e di incitamento all'odio di questi giorni non ci metterà al riparo dal terrorismo.
   Dovrebbero iniziare i mass media ad informare in modo obiettivo ed imparziale, ponendo l'accento sull'assoluta necessità che il mondo palestinese - deresponsabilizzato da chi ancora riflette una mentalità neo colonialista - si impegni per la pace.
   Dovrebbero farlo integrando anzitutto nel proprio nascituro Stato coloro i quali vivono ancora in campi profughi senza esser profughi per le leggi internazionali, perché chi aveva trent'anni del 1948 ora sarebbe centenario e non dovrebbe poter tramandare il suo status fino alla quarta generazione (unici nel genere). Un richiamo alla pace postula anche il richiamo alla serietà dell'informazione, che rimane l'unico baluardo per arginare la deriva fascista e antisemita che stiamo vivendo.

(il Fatto Quotidiano - blog, 10 dicembre 2017)


Amici dell'Università di Gerusalemme: in un evento a Milano

Ripercorsi 40 anni di scambi culturali fra Italia e Israele. All'evento ha partecipato il direttore della Stampa Maurizio Molinari con un toccante intervento denso di ricordi personali e professionali

Nel 1976 un gruppo di docenti universitari italiani in visita in Israele si rese conto delle grandi potenzialità che avrebbe avuto un rapporto di collaborazione stabile e duraturo con l'Università di Gerusalemme, uno dei più prestigiosi atenei del mondo, fondato nel 1925, più di vent'anni prima dello stesso stato d'Israele. Nacque così l'idea di creare una associazione accademica con lo scopo di promuovere continui scambi culturali ad alto livello fra l'ateneo del Monte Scopus e le università italiane. E' così che nacque, il 6 marzo 1977, l'Associazione Italiana Amici dell'Università di Gerusalemme, che annoverava fra i fondatori personalità come Romolo Deotto, che fu il primo presidente, il suo successore Vittorio Enzo Alfieri, e poi Claudio Barigozzi, Paolo Beonio Brocchieri, Giulia Bologna, Arturo Colombo, Vittore Colorni, Enzo Evangelisti, Liliana Grassi, Niky Molcho, Alberto Rollier, Cesare Segre, Vittorio Tedeschi.
Lo scorso 27 novembre l'Associazione ha festeggiato i suoi primi quarant'anni con un evento presso il Museo di Storia Contemporanea di Palazzo Morando, a Milano, che ha visto la partecipazione, fra gli altri, del direttore de La Stampa Maurizio Molinari....

(israele.net, 11 dicembre 2017)


Da martedì è la festa ebraica di Chanukkah

Per otto giorni con l'accensione delle luci, i fritti, la trottola e la preghiera

di Miriam Massone

Oltre all'accensione dei lumi, la Chanukkah si celebra con dolci e giochi, per questo è una festa molto amata dai bambini
TORINO - Quando si spegne il sole, si accendono le grandi lampade di Chanukkah, che fanno dialogare le fedi. Cominceranno a brillare al tramonto di quello che per il calendario ebraico è il 24 kislev 5778, alias martedì 12 dicembre. Luce alla vigilia della festa cristiana di Santa Lucia, protettrice della vista. Una coincidenza che rafforza il legame interreligioso (l'anno scorso cadeva a Natale). Parafrasando il romanziere ebreo-americano Foer, «Ogni cosa è illuminata». E ogni cosa ha senso e significato, specie per l'ebraismo, dove anche il cibo è un rito, con i piatti kosher che educano raccontando, attraverso 613 precetti, storie di sacrifici o gratitudini per la sopravvivenza della comunità ebraica.

 Storia e ricorrenza
  «Chanukkah ricorda gli avvenimenti che si svolsero in terra d'Israele tra il 165 e il 168 dell'era volgare - spiega Claudia De Benedetti, presidente dell'Agenzia Ebraica per Israele (Sochnut Italia) -: Antioco IV Epìfane aveva trasformato il Tempio di Gerusalemme in un luogo di culto pagano». Prova, tra l'altro, che la città- oggi al centro di un incendio politico innescato dall'«investitura» del presidente Trump a «capitale d'Israele» - in realtà «da sempre è stata centro del pensiero e dell'identità ebraica: all'epoca i Maccabei insorsero contro il sovrano greco Antioco e, pochi contro molti, riuscirono a vincere e riconsacrare il Tempo». È Davide che batte Golia. Riscatto e rinascita di un popolo. Ma perché le luci? Dopo la riconquista di Gerusalemme, il Tempio andava ripulito, e le luci del candelabro riaccese. Le candele avrebbero dovuto ardere per otto giorni di fila, alimentate da olio di oliva purissimo (quello ottenuto dalla prima spremitura), ma si trovò solo un'ampolla con l'olio sufficiente per un giorno appena. Eppure, incredibilmente (anzi, miracolosamente) quel poco resistette per una settimana, al termine della quale fu possibile riaprire il Tempio: «Chanukkah vuol dire proprio questo, inaugurazione». Ecco perché il candelabro a nove bracci e le candele (la nona serve ad accendere le altre). Ed ecco perché la festa contempla anche leccornie rigorosamente fritte nell'olio come i bomboloni, «sufganiot». E poi «latkes» e «blintzes», simili a pancakes e crepes. E i giochi: «I bambini fanno ruotare una speciale trottola di legno (dreidel o sevivon) con quattro facce sulle quali ci sono le lettere dell'alfabeto ebraico, che assieme formano le iniziali della frase "Un grande miracolo è accaduto qui"» dice De Benedetti. Vuol dire che comunque (e ovunque) la si guardi c'è sempre un messaggio positivo «antico e attuale, universale e di luce: Chanukkah ricorda persone che seppero preservare e tramandare la propria fede». Martedì, al crepuscolo dunque, le tre comunità piemontesi di Torino, Vercelli e Casale Monferrato (un migliaio di iscritti, in tutto) daranno vita alla prima accensione davanti alle Sinagoghe. Il rito si compie. A Torino, in piazzetta Levi. Ogni giorno si accenderà una luce in più, a partire dal lato destro della lampada, che illuminerà per almeno mezzora. Così per otto sere, fino a martedì.

 Il museo dei lumi
  Casale, come da tradizione, ha scelto il cortile delle Api, attiguo alla Sinagoga per accogliere, con i fedeli, gli appassionati e i curiosi, anche i rappresentanti delle religioni monoteiste sul territorio, domenica 17, a partire dalle 16. Agli ebrei la capitale del Monferrato è particolarmente cara, perché sede della Sinagoga più antica del Piemonte e di una collezione di lumi unica al mondo, 180 che diventeranno 208 quest'anno grazie all'arrivo di 28 nuovi pezzi da Mantova. Alla guida della comunità casalese, lo stesso carismatico presidente da più di mezzo secolo, Giorgio Ottolenghi, classe 1923, che ha visto nascere il museo (inserito nella carta Abbonamenti Musei) 23 anni fa. Casale aveva già alcune lampade realizzate da Elio Carmi, mentre l'artista Emanuele Luzzati stava creando un'opera simile in ceramica da regalare alla comunità. Da qui, l'idea di una raccolta di Chanukkiot d'arte contemporanea: ce ne sono, tra gli altri, di Nespolo, Colombotto Rosso e Pomodoro. Diciottomila visitatori l'anno «i due terzi sono ragazzi, arrivano anche dagli Usa, da Israele, e nell'ultimo periodo dalla Russia».

 Il messaggio di apertura
  Apertura e coinvolgimento fanno parte del dna del popolo ebraico, ma non è sedurre né convertire, l'obiettivo: «Non conosciamo il proselitismo, non ci appartiene, a noi interessa far comprendere chi siamo, la nostra spiritualità, la nostra identità» spiega De Benedetti. È anche il senso della festa condivisa di Chanukkah. «Haneròt hallàlu», si recita tutti assieme davanti alla luce: «Questi lumi sono sacri e non ci è permesso di servircene ma solo di guardarli...».

(La Stampa, 10 dicembre 2017)


Israele, un'economia a prova di guerra

Nessun Paese al mondo ha dimostrato di avere un'economia così resistente a guerre e crisi internazionali.

di Roberto Bongiorni

I precedenti.
Dal 2006 a oggi il Paese ha dimostrato di essere resistente alle crisi come nessun altro al mondo
I punti di forza
La capacità di adattamento del settore hi-tech e l'efficienza dell'esercito hanno sempre protetto il business

Guerre e rivolte mettono in ginocchio l'economia di ogni Stato? Non per Israele. Forse nessun Paese al mondo ha dimostrato, anche nel recente passato, di avere un'economia così resistente a guerre e crisi internazionali.
   Gli israeliani ricordano bene l'estate del 2006, quando scoppiò la guerra tra Israele e il movimento libanese degli Hezbollah. Per 40 giorni i razzi Katiusha lanciati dal Libano caddero sulle cittadine settentrionali. La popolazione viveva giorno e notte nei rifugi. Parecchi missili colpirono anche Haifa, terza città di Israele, nota per essere il centro industriale e il cuore della "digital economy" israeliana. Un quarto del territorio era paralizzato. Ci si sarebbe aspettati un disastro economico, invece il 2006 si chiuse con una crescita del 6% del Pil.
   L'economia si era contratta, moderatamente, solo nel trimestre in cui era scoppiata la guerra, per poi riprendere a correre più veloce di prima. Una crescita che è continuata in modo costante. Anche quando, nel 2008, l'economia mondiale accusava una crisi finanziaria epocale, Israele non ne risentì. Né, sempre in quel periodo, la sua economia fu danneggiata dalla seconda guerra contro Hamas, l'operazione militare "Piombo Fuso" (27 dicembre 2008- 18 gennaio 2009). E nemmeno cinque anni dopo, quando scattò l'ancor più estesa operazione "Margine di protezione" (8 luglio-26 agosto 2014) per difendersi dalle centinaia di razzi Qassam lanciati da Hamas contro il territorio israeliano.
   Sarà così anche per questa crisi? Guardando alla crescita media degli ultimi cinque anni - pari al 3% gli israeliani hanno motivo per non essere pessimisti. Vuoi per abitudine (Israele è in perenne stato di conflitto sin dalla sua nascita), vuoi per la grande capacità di adattamento e flessibilità del settore hi-tech a lavorare in condizioni estreme, vuoi per l'efficienza dell'esercito nel proteggere i luoghi strategici, anche questa volta sembrano più agitati gli uomini d'affari stranieri che gli stessi businessmen israeliani. Quando, a inizio settimana, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh ha invocato una Terza Intifada contro Israele, la Borsa di Tel Aviv è rimasta sostanzialmente invariata (-0,4%) così come la valuta locale, lo shekel. Eppure le due precedenti Intifade provocarono migliaia di morti tra palestinesi e israeliani. E la seconda, la peggiore (ottobre 2000- 2005), sprofondò II Paese nella recessione (2001-2003). Ma fu l'ultima. E non appena cessarono le ostilità, l'economia ripartì subito.
   Prevedere cosa accadrà oggi non è però possibile. Non è dato sapere quanto dureranno i disordini, se scoppierà una guerra vera con Hamas, o se la crisi sarà contenuta. Le stime di due mesi fa indicavano per il 2017 una crescita del 3%, e del 3,4% nel 2018. Finora tutti i dati segnalano un'economia in salute, per quanto caratterizzata da grandi disparità nella distribuzione della ricchezza. La disoccupazione si è dimezzata in otto anni cadendo al 4,8% nel 2016. I consumi privati sono cresciuti, sempre nel 2016, del 6,3% e gli investimenti diretti esteri hanno superato i 100 miliardi di dollari (il 36% del Pil).
   Eppure c'è un settore, che la crisi la sente. E' il turismo, che l'anno scorso ha impiegato direttamente 130mila lavoratori e altri 100mila indirettamente (non poco per una popolazione di 7 milioni). In questo caso guerre e Intifade hanno sempre svuotato le località turistiche israeliane.
   Un colpo sarà inevitabile anche questa volta. Proprio quando il turismo stava vivendo un anno eccezionale. Nel periodo gennaio-ottobre 2017, sono stati registrati 3 milioni di ingressi di turisti (25,6% rispetto al 2016). Un record. Il ministro del Turismo Yariv Levin aveva festeggiato. «Si tratta di numeri senza precedenti. Abbiamo assistito a 12 mesi di record consecutivi».
   La stagione dei record si interromperà bruscamente. Ma l'economia israeliana ha le carte in regola per sopravvivere anche a questa crisi. E riprendere a correre.

(Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2017)


Ebrei italiani da mille anni

Il 13 dicembre apre nell'ex carcere cittadino il MEIS, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah.

di Giulio Busi

 
Lavori di allestimento del Museo Ebraico di Ferrara, che il 13 dicembre sarà inaugurato dal Presidente della Repubblica Mattarella
Dov'è il passato? Per quasi tutti noi, figli (o figliastri) di un'epoca digitale, la risposta è intuitiva. Il passato è alle spalle. Per vederlo dobbiamo voltarci all'indietro, smettere di avanzare, fermarci. Davanti a noi abbiamo - o crediamo di avere - il futuro. Se ci rivolgiamo però all'ebraico, ci aspetta una sorpresa. Le-fanim significa "prima", "in passato". Tradotto alla lettera, vuol dire "davanti", "ciò che ci sta di fronte". Il passato lo si guarda. Non di sfuggita o con imbarazzo, ma con l'occhio attento di chi vuol capire, imparare, ricordare. Semmai, è il futuro a rimanerci nascosto, inafferrabile dietro la nostra nuca.
   È un antichissimo rovesciamento simbolico, questo dell'orientarsi su ciò che è stato, il tenere il volto su quanto è già accaduto, che accomuna le lingue venerande della Mesopotamia, dal sumerico all'accadico. Sapienza profonda o passatismo archeologico? Prendete i tremila anni di storia ebraica, secolo più o meno, guardate cos'è successo, quanto è cambiato, finito, cosa si è trasformato. Eppure, dopo tutto questo tormentato, tragico, vitale, vigoroso procedere, il filo non s'è perso, la voce non s'è spenta, e il futuro ebraico non è solo una parola vuota. Dei tre millenni, almeno due sono trascorsi anche, talvolta soprattutto, in Italia. Una poetica etimologia ebraica, I tal Yah, «Isola della rugiada divina», ci dà testimonianza eloquente del rapporto emotivo e culturale che lega il giudaismo alle sorti del nostro Paese. Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS), che s'inaugura a Ferrara, giovedì 14 dicembre, con una cerimonia, il giorno precedente, a cui parteciperanno il Presidente Mattarella e il Ministro Franceschini, è la prima, grande istituzione di respiro internazionale nata per racchiudere tutta questa "rugiada" di benedizione e continuità, senza nascondersi la pioggia buia della discriminazione e della persecuzione.
   Se la vita in diaspora è di per sé mobile, trasversale, fluida, potrà mai esserci un luogo che la contiene e la rappresenta davvero? La risposta, ebraicamente, è: «Sì, se ... » Il "se", in questo caso, è un Museo-non-museo, che tenga il passato davanti agli occhi, e lo metta a disposizione di tutti - ebrei e non, italiani e non. Lo scopo è quello di percepire la diversità come forza, opportunità, insegnamento. Quando è stato istituito dal Parlamento, nel 2003, quello ferrarese era un museo sulla carta. Per trasformarlo in pietre, oggetti, racconti, ci sono voluti quasi quindici anni e una bella dose di ostinazione. S'è preso un complesso dalla storia tormentata, l'ex carcere della città estense, in via Piangipane, verso i margini dell'addizione erculea, la cinta ampia e ambiziosa voluta da Ercole I d'Este, entro cui Ferrara ha vissuto e sognato per cinque secoli. In funzione fino al 1992, il carcere si porta con sé la sua eredità di luogo separato e separante. Poteva sembrare un'ipoteca troppo pesante, eppure oggi, dopo il recupero mirabile del corpo di fabbrica centrale, e in attesa che vengano realizzati gli altri, nuovi edifici già progettati, questi ambienti, un tempo di confine e di afflizione, danno il proprio misterioso impulso alla rappresentazione della storia "altra" dell'ebraismo italiano. A Michel Foucault, inventore della nozione di "eterotopo", spazio irreale e, assieme, realissimo, sarebbe certo piaciuta la metamorfosi di una prigione in contenitore di memoria riattivata. Anzi, più che un recipiente inerte di cose già accadute, il MEIS ci si rivela come una macchina in piena funzione, che guadagna velocità ed è pronta a mettere in circolazione consapevolezza e informazioni.
   La mostra inaugurale, curata da Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Daniele Jalla, s'intitola Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, ed è accompagnata dallo spettacolo multimediale Con gli occhi degli ebrei italiani, che offre l'introduzione permanente ai temi del MEIS. Mille anni per cominciare, insomma, come un saggio dell'intero percorso, con il passo lungo di chi ha davvero tante cose da raccontare. Volete prendere l'avvio dalla Roma di Giulio Cesare, a favore del quale la comunità ebraica, già importante, si schiera compatta? O preferite vedervela con la conquista romana di Gerusalemme, nel 70 e.V., e l'orgoglioso sfoggio delle spoglie sottratte al Tempio, immortalato sull'Arco di Tito? Leopold Zunz, grande storico ottocentesco del giudaismo, ha scritto che i nomi rappresentano gli annali in cifra di un popolo. A giudicare dall'onomastica che ricorre negli oggetti e sulle lapidi in esposizione, fatte venire per l'occasione dai musei di mezza Italia e dall'estero, la vicenda ebraica nella Penisola, tra l'età antica e quella alto-medievale, è stata molto spesso al femminile. Tanti i nomi e gli scorci di vite di ebree - Claudia, Felicita, Marcella, Gaudentia, Isidora, Aster, Faustina, Coelia Paterna, Mara, Ammia, Artemidora. Spose e madri, naturalmente, ma anche orgogliose e prospere protettrici di sinagoghe, schiave deportate dopo la presa della Città santa, o bimbe strappate dalla morte all'affetto della famiglia. Ricordate in greco, in latino, in ebraico, perché dove c'è vita ebraica gli idiomi si moltiplicano e si accavallano, queste figure femminili, di cui intuiamo la vivacità, sono una delle novità di un racconto sempre avvincente. Che ci sia tanto ebraismo nel passato italiano sarà per parecchi una scoperta. E anche che ci sia tanta Italia nell'ebraismo. Durante il primo millennio, la geografia è vistosamente sbilanciata. L'ebraismo pulsa a sud e langue nella pianura padana e verso le Alpi. Da una parte i commerci, dall'altra la vita religiosa e quella culturale, poesia. La vita ebraica italiana attecchisce e si sviluppa tra Puglia, Campania, Calabria e Sicilia, sempre ravvivata dall'antica fiamma della Comunità di Roma, vera lampada perpetua, che ancor oggi rimane accesa, dopo tanti secoli. Sul giudaismo nel Settentrione sappiamo molto meno, soprattutto dopo il declino dell'impero romano. Un Museo dell'ebraismo italiano serve anche a questo. A prendere la carta geografica e a girarla sotto in su. Avete perso l'orientamento?Venite al Museo, e guardate davanti a voi.

(Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2017)


L'antisionismo assassino. Gli Usa avvertono l'Anp: stop alla taglia sugli ebrei

di Daniel Mosseri

Che il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni non fosse il migliore amico di Israele lo si era già intuito a ottobre del 2016 quando l'Italia si astenne sulla risoluzione Unesco secondo cui il Muro del Pianto, il luogo più sacro all'ebraismo, altro non è che l'appendice del complesso islamico della Spianata delle Moschee. Complice un distratto Gentiloni, allora ministro degli Esteri, il nostro ambasciatore all'Unesco si astenne. L'allora premier Matteo Renzi tirò le orecchie al titolare della Farnesina, ma per la cronaca passò la linea dell'errore senza dolo. Scrollatosi di dosso il rottamatore fiorentino, oggi il premier detta la linea in politica estera. Così l'Italia prende le distanze da Donald Trump, secondo il quale Gerusalemme è la capitale dello Stato ebraico. Al Palazzo di Vetro, Roma si accoda a Parigi e Berlino, criticando le dichiarazioni di Trump che «non aiutano le prospettive di pace nella regione». Come se invece negare la natura ebraica del Muro del Pianto su iniziativa dei Paesi islamici fosse la trovata del secolo.
   Viene allora da chiedersi cosa pensi il governo italiano di un provvedimento, questo sì una legge vera e propria, che il presidente degli Usa vorrà presto promulgare. Martedì la Camera dei Rappresentanti ha approvato il Taylor Force Act, un progetto di legge che prende il nome dal cittadino americano Taylor Force, militare 28enne veterano di Iraq e Afghanistan, accoltellato 1'8 marzo 2016 da un palestinese a Tel Aviv mentre l'ex vicepresidente Joe Biden era a colloquio con l'allora capo di Stato israeliano Shimon Peres. Proposto da deputati repubblicani e democratici, il progetto di legge chiede lo stop degli aiuti finanziari Usa all'Autorità palestinese (Anp) finché questa sosterrà finanziariamente gli atti di terrore. Non contenta di dedicare scuole e piazze a terroristi pluricondannati, l'Anp di Abu Mazen eroga aiuti diretti agli accoltellatori di ebrei. Non importa se le vittime sono abitanti degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi o semplici pedoni a passeggio in qualche città d'Israele. Come Taylor Force, in gita di istruzione con la Vanderbilt University. Il suo assalitore, che ferì a coltellate altre undici persone (fra le quali un arabo israeliano e un palestinese), fu abbattuto dalla polizia. Da allora l'Anp gli tributa il titolo di shaheed (martire) e versa alla sua famiglia una pensione. Secondo i calcoli del Jerusalem Center far Public Affairs ripresi dal Jerusalem Post a un accoltellatore arrestato spettano 400 dollari al mese, che schizzano a 3400 se il «martire» ha ucciso un ebreo. In caso di sentenza, la famiglia riceve altri 1.500 dollari e l'entità dell'emolumento cresce al crescere degli anni di carcere. La famiglia di un terrorista ucciso riceverà 100 dollari e la vedova 250. A vita. Secondo alcuni il Taylor Force Act, che deve ancora essere votato dal Senato Usa, non fermerà i trasferimenti Usa verso l'Anp. Sarà il tempo a giudicare. C'è da sperare intanto che qualche zelante cancelleria europea non si metta a criticare anche questa legge come contraria allo spirito della pace.

(Libero, 10 dicembre 2017)


La mossa Usa: tagliare i fondi all'Anp

Via i contributi se i palestinesi stipendieranno i terroristi

di Fiamma Nirenstein

Vogliamo capire che cosa sta facendo Donald Trump, invece di esercitarci nel popolare gioco del panico e del disprezzo? «Quando sono stato eletto ho promesso di guardare alle sfide del mondo con gli occhi aperti e un modo di pensare fresco. Non possiamo risolvere i problemi con gli stessi concetti falliti del passato o ripetere le stesse strategie fallite ... Il mio annuncio marca l'inizio di un nuovo approccio al conflitto fra Israele e i palestinesi». Così ha detto riconoscendo Gerusalemme capitale d'Israele: «Un nuovo approccio». Fatto di cosa? Molti hanno ignorato queste parole e hanno preferito decidere che Trump è il solito oggetto di dileggio. Fra questi i leader europei, che non vogliono capire che il loro ruolo di mallevadori della pace sarebbe esaltato dall'acquisizione del fatto che così non si va da nessuna parte.
   Il primo tema è stato quello della verità: Israele è in Medioriente per restare, gli ebrei non sono polacchi o marocchini capitati per caso in zona (me lo sono sentito ripetere durante una trasmissione radio da un ufficiale palestinese) ma figli del popolo indigeno che ha sempre avuto Gerusalemme capitale.
   Ma l'altro punto basilare che si deve capire è: non sarà il terrorismo a fornire la vittoria. Questi due pilastri fondamentali, identità e rifiuto del terrorismo, sono il lavoro intrapreso dall'amministrazione americana. Martedì scorso la Camera ha votato a grandissima maggioranza il Taylor Force Act che prende il nome dal cittadino americano pugnalato a morte da un terrorista palestinese a Tel Aviv. Quando la legge passerà in Senato gli americani taglieranno gran parte dei 280 milioni di dollari l'anno che donano all'Autorità palestinese a meno che smetta di pagare lo stipendio ai terroristi in galera e alle loro famiglie. In un bel saggio edito dal Jerusalem Center far Public Affairs il generale Yossi Kuperwasser ha misurato l'impegno economico della Anp nel sostenere il terrore. Nel 2014 ha pagato circa 300 milioni di dollari ai prigionieri continuando a sussidiarli quando vengono rilasciati e a pagare le famiglie di chi è morto durante l'attentato, magari suicida. È il 20% di tutto l'aiuto annuale. Chi è condannato a 3 anni o meno prende 340 euro, fino a 20 anni 1.700 euro, fino a 30 anni 2.900 euro. Quando si è rilasciati si portano a casa dai 1.271 ai 21.260 euro, per ricominciare. Più grande l'attacco, più sono i soldi che l'Autorità di Abu Mazen dà ai terroristi, più di 30mila in totale. Il Taylor Act taglia i fondi nel caso i palestinesi non cessino dalla pratica di incentivare il terrorismo. Naturalmente a lato di questo sorge il grandissimo palazzo dell'incitamento sui media, nelle scuole, nelle istituzioni e degli eventi che prendono il nome dei terroristi tappezzate dei ritratti dei «martiri». È un castello gigantesco: la cultura palestinese l'ha costruito accanto alla rivendicazione dei suoi diritti, mentre la condivisione con Israele non è mai stata portata a buon fine nemmeno di fronte alle offerte più convenienti, a Camp David come ad Annapolis.
   Il terrorismo dei palestinesi, impugnato da Arafat come un'arma che ha poi fatto scuola in tutto il mondo, costellato di eventi mostruosi come Entebbe, Monaco, Lod e Fiumicino, il Park Hotel, i rapimenti e la schiera di attacchi suicidi della seconda Intifada, il bombardamento di missili da Gaza, non è mai stato preso in considerazione come una variante capace di mandare all'aria qualsiasi «due stati per due popoli». Adesso Trump se ne sta occupando. Dall'Europa nessun segno di vita, anche se i suoi finanziamenti non sono da meno.

(il Giornale, 10 dicembre 2017)


Gerusalemme capitale - La Mogherini preferisce gli islamici a Israele

Bruxelles segue la Turchia e vuole riconoscere la Palestina. Ma Praga e Budapest bloccano una censura a Trump.

di Tommaso Montesano

Federica Mogherini, "Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione Europea"
Il pericolo non è Hamas che lancia missili sulla pianura meridionale israeliana. Né l'ennesima Intifada palestinese, arrivata al terzo giorno di violenze in Cisgiordania e Gaza. E neppure l'assalto dei ribelli islamici alla base Onu in Congo, al termine del quale sono rimasti a terra i corpi di 14 caschi blu.
   No: il problema, il "nemico", è Donald Trump. Colpevole di aver deciso di rendere esecutivo il Jerusalem Embassy Act del 1995, che prevede il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele. E così le iniziative diplomatiche si susseguono. Non bastava il cartello dei cinque Paesi europei, tra cui l'Italia, che al termine della riunione del consiglio di sicurezza dell'Onu ha ufficializzato uno strappo senza precedenti tra le due sponde dell'Atlantico, prendendo platealmente le distanze dalla Casa Bianca. «Non riconosceremo alcuna sovranità su Gerusalemme», hanno messo a verbale gli ambasciatori di Francia, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Germania in una dichiarazione congiunta. È a quel blocco di Stati che pensa Riyad al-Malkì, ministro degli esteri dell'Autorità nazionale palestinese, quando chiede l'approvazione, in Consiglio di sicurezza, di una risoluzione che sconfessi apertamente Trump.
   Alla mossa dei cinque diplomatici occidentali al Palazzo di Vetro, presto potrebbe seguire quella di Federica Mogherini. L'Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e la sicurezza (Pd) morde il freno. A caldo, Mogherini ha definito la decisione di Trump «molto preoccupante. Rischia di mandarci indietro in tempi ancora più bui di quelli che stiamo vivendo». Poi è arrivato l'invito ad Abu Mazen, leader Anp, a partecipare al Consiglio Ue di gennaio. Infine, ecco l'ultimo tassello: la stesura di un documento di censura agli Stati Uniti simile a quello sottoscritto a New York dai cinque ambasciatori europei. Un testo che dovrebbe ribadire la contrarietà di Bruxelles a mosse unilaterali sulla capitale israeliana. Un nuovo «no» a Trump che avvicinerebbe ancora di più l'Europa, e l'Italia, alla Turchia di Erdogan - che ieri a proposito di Gerusalemme ha definito Israele «potenza occupante» - piuttosto che a Washington.
   E che il documento Ue trasudi ostilità nei confronti della Casa Bianca è confermato dalla reazione di Repubblica Ceca e Ungheria, i due Paesi Ue più vicini ali' amministrazione americana, che alla riunione preparatoria del Cops - il Comitato politico e di sicurezza, composto dai rappresentanti diplomatici dei Ventotto - si sono messi di traverso. Solo la loro opposizione ha bloccato, per il momento, il via libera al documento, che per ora resta a livello di posizione del "ministro" degli esteri Ue.
   Ma non è finita qui. Giovedì prossimo è in programma il Consiglio Ue. Quella potrebbe essere l'occasione per altre sortite anti-Trump da parte del blocco più ostile al presidente Usa. Non a caso dall'Italia Mdp ricorda al premier, Paolo Gentiloni, che il Parlamento nel 2015 ha approvato una mozione che impegna l'Italia a riconoscere lo Stato di Palestina. Una richiesta ribadita ieri dallo stesso al Malki: «Riconoscere lo Stato di Palestina da parte dell'Europa è un investimento sulla pace e sulla stabilità». «Non è il momento opportuno», ribattono dalla Farnesina, dove rimandano la trattazione del dossier a dopo le elezioni. Ma ora il tema è sul tavolo.

(Libero, 10 dicembre 2017)


La partita a poker di Trump

Trump è forse matto, ma non credo sia un idiota né che lo siano gli uomini che lo circondano.

di Marek Halter

Trump è forse matto, ma non credo che sia un idiota né che lo siano gli uomini che lo circondano. Perciò, piuttosto che il gesto non ponderato di un leader incendiario, la pericolosa decisione di spostare l'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme mi pare più un'azzardata scommessa sul futuro della Palestina o, se preferite, una mossa da giocatore di poker.
   Nel momento in cui il mondo sembrava aver dimenticato il conflitto israelo-palestinese, il presidente americano ha lanciato un sasso in quello stagno, e improvvisamente il mondo intero è stato costretto a concentrarsi di nuovo sull'irrisolta questione. Da questo punto di vista, la sua strategia può sin da ora dichiararsi vincente perché si è finalmente tornati a discutere di quest'annosa crisi.
   Se questa è stata la sua prima mossa, vedremo molto in fretta quale sarà la seconda. Infatti, non credo che Trump abbia scelto di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele soltanto per accontentare la lobby della destra ebraica di Washington o per fare un favore al premier israeliano Benjamin Netanyahu. Mi auguro che la sua decisione, sicuramente maturata dopo aver consultato i suoi principali alleati mediorientali, e cioè il presidente egiziano Al Sisi e il giovane monarca saudita Mohammed Bin Salman, sia stata presa per rilanciare un processo di pace arenato ormai da anni. È infatti verosimile che dopo aver fatto questo regalo a Netanyahu, Trump possa chiedergli o, meglio, imporgli di sedersi al tavolo del negoziato con il presidente palestinese Abu Mazen. Esiste ovviamente il rischio che la strategia americana non funzioni, o che Washington non dia seguito a quanto annunciato da Trump, sarebbe a dire usare una nuova linea tattica per raggiungere la pace nella regione. Se ciò dovesse accadere, aumenterebbero fortemente i rischi che la Palestina s'infiammi di nuovo. Al momento mi sembra un'eventualità poco probabile perché come tutti i politici del pianeta credo che anche Trump abbia l'ambizione di restare nella storia, per esempio con un accordo di pace tra israeliani e palestinesi nel momento in cui tutti accusano gli Stati Uniti di abbandonare il mondo arabo. E potrebbe anche riuscirci, perché la leadership palestinese non è mai stata così debole e così divisa. Trump riuscirebbe così a scrollarsi di dosso l'immagine di presidente che va in giro per il mondo con il fiammifero in mano ad appiccare incendi diplomatici. Vista la mia lunga amicizia con l'ex premier israeliano Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995 da un colono ebreo della destra estremista, mi è stato chiesto mercoledì sera come avrebbe reagito alla decisione di Trump. Ebbene, non credo che una tale scelta sarebbe mai stata presa semplicemente perché Rabin non l'avrebbe mai chiesta. Diverso è per Netanyahu che si trova ora in grandi difficoltà, sia per l'opposizione della destra e degli ultra ortodossi all'interno del suo stesso schieramento politico, sia per il vicino esito di processi giudiziari che lo riguardano. La vicenda dell'ambasciata e della richiesta fatta a Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele è il suo canto del cigno.

(la Repubblica, 10 dicembre 2017)



Nuovo cielo e nuova terra

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Ed egli dimorerà tra loro; ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio né grido né fatica, perché le cose di prima sono passate». E colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono veraci e fedeli». E mi disse ancora: «È fatto! Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine; a chi ha sete io darò in dono della fonte dell'acqua della vita. Chi vince erediterà tutte le cose, e io sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma per i codardi, gl'increduli, gl'immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno che arde con fuoco e zolfo, che è la morte seconda.

Dal libro dell'Apocalisse, cap. 21

 


"Io ti ho teso un laccio, e tu Babilonia vi sei stata presa"

Questo articolo è stato scritto nel 1991 dall’allora direttore del Centro Studi Galilea di Bridges for Peace. E’ stato ripresentato sulla medesima rivista nel luglio 2001, nel pieno della seconda intifada. Da lì l’abbiamo ripreso e tradotto sul nostro notiziario nell’agosto dello stesso anno. Lo ripresentiamo oggi in una forma grafica diversa. E’ una riflessione biblica, e la Bibbia non perde di attualità col passar del tempo. NsI

di Jim Gerrish
    "Il re di Babilonia sta sul bivio, all'inizio delle due strade, per tirare presagi: scuote le frecce, consulta gli idoli, esamina il fegato" (Ezechiele 21.26).
Molto tempo fa uno dei più potenti re della storia antica stava nella valle del Giordano, di fronte alla porta posteriore di Israele. Chiese ai suoi stregoni di stabilire se doveva andare avanti e attaccare Gerusalemme o girare ad est e sottomettere gli Ammoniti. I suoi stregoni lo condussero diritto a Gerusalemme. A causa di questa sua decisione, il glorioso impero di Babilonia precipitò in rovina e così è rimasto per più di 2.000 anni. Secondo la Scrittura, resterà maledetto di eterna desolazione.
   L'odierna situazione del Medio Oriente ci ricorda qualcosa dell'esperienza di Nabucodonosor. Entrambe le situazioni non solo erano previste da Dio, ma sembra che fossero specificamente scelte da Lui per mettere alla prova le nazioni. In parole povere, il re Nabucodonosor abboccò all'amo. Cadde nella trappola che gli era stata posta dall'Onnipotente:
    "Io ti ho teso un laccio, e tu, Babilonia, vi sei stata presa, senza che te ne accorgessi; sei stata trovata e fermata, perché ti sei messa in guerra contro il Signore" (Geremia 50.24).
Anche oggi i potenti e le nazioni guardano l'esca e non sembrano accorgersi che le loro azioni verso Gerusalemme sono una trappola posta da Dio. Consultano i loro saggi e i loro stregoni. Alcuni sono ancora nella valle della decisione, ma altri hanno già stabilito nei loro cuori di andare avanti contro Gerusalemme.
   Oh, se queste nazioni potessero solo udire le parole di Nabucodonosor, illuminato da Dio dopo essere stato umiliato. Egli ha questo da dire, riguardo al potente Dio di Israele:
    "Tutti gli abitanti della terra sono un nulla davanti a lui; egli agisce come vuole con l'esercito del cielo e con gli abitanti della terra; e non c'è nessuno che possa fermare la sua mano o dirgli: «Che fai?»" (Daniele 4.35).
Molti passi della Scrittura mostrano che Dio ha preparato le attuali difficoltà nel Medio Oriente per mettere alla prova e giudicare le nazioni, proprio come nel passato. Nel libro di Gioele il Signore parla di questo:
    "Io adunerò tutte le nazioni, e le farò scendere nella valle di Giosafat. Là le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra di loro" (Gioele 3.2).
Dio dice inoltre:
    "In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno malamente feriti e tutte le nazioni della terra si aduneranno contro di lei" (Zaccaria 12.3).

 LA CONTROVERSIA DI DIO CON LE NAZIONI
  Nella Scrittura è detto chiaramente che Dio ha una controversia con le nazioni. I profeti parlano di questo e del giorno in cui essa sarà definita. Isaia indica questo giorno come
    "il giorno della vendetta del Signore, l'anno della retribuzione per la causa [o controversia] di Sion" (Isaia 34.8).

 QUALI SONO LE RAGIONI DI QUESTA CONTROVERSIA?
  Anzitutto, l'antico maltrattamento del Suo popolo. La Scrittura dice che Dio ha scelto il popolo ebreo tra tutti gli altri popoli per i Suoi scopi speciali:
    "Infatti tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio. Il Signore, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra" (Deuteronomio 7.6).
Adesso possiamo vedere che gli ebrei sono stati scelti per portare a tutte le nazioni la conoscenza dell'unico vero Dio. Gran parte di questo obiettivo certamente è stato raggiunto. Come cristiani, sappiamo che il nostro Messia e la nostra Bibbia ci sono stati dati dagli ebrei. Purtroppo le forze contro Dio di questo mondo hanno brutalmente attaccato il popolo ebreo per secoli. Sono stati spinti di nazione in nazione per 2.500 anni e sono stati perseguitati da ogni parte. Negli ultimi 2.000 anni perfino dei veri cristiani, e altri che solo di nome si dicevano cristiani, hanno compiuto alcune tra le più violente azioni antisemitiche, in diretta trasgressione del capitolo 11 dei Romani, cioè le crociate, l'inquisizione, le leggi e i precetti ecclesiastici antiebraici, ecc. In questo secolo gli ebrei sono stati massacrati dai nazisti, con il risultato che quasi un terzo della popolazione ebraica è stato annientato. Adesso le nazioni stanno stringendo il loro nodo intorno alla patria degli ebrei, la terra di Israele.
   Dio è in causa con le nazioni anche per la loro grande ipocrisia nei confronti di Israele. Le nazioni, attraverso l'agenzia delle Nazioni Unite, hanno continuamente usato Israele come capro espiatorio. Hanno condannato Israele in 49 occasioni mentre hanno rifiutato di condannare gli stati arabi per le loro flagranti atrocità. Fino allo scoppio della guerra del golfo non c'era stata neppure una singola condanna di uno stato arabo da parte delle Nazioni Unite. L'organizzazione, nella sua ipocrisia, ha anche votato quella vergognosa dichiarazione che equipara sionismo e razzismo. Le nazioni hanno di volta in volta riconosciuto le capitali di tutti i paesi della terra, ma rifiutano fino ad oggi di riconoscere la capitale di Israele, Gerusalemme.
   Le nazioni si sono spesso indignate per i più piccoli fatti in cui erano coinvolti gli ebrei, ma hanno chiuso gli occhi davanti a fatti molto più gravi quando gli ebrei non erano implicati. Per esempio, la stampa mondiale impazzisce di rabbia quando un palestinese è espulso da Israele, anche se quella persona è stata giudicata dalla sentenza di un tribunale ed è stato dimostrato che si tratta di un criminale che ha compiuto atti violenti. Ora, ci sono più die 230.000 palestinesi che recentemente sono stati espulsi dal Kuwait soltanto perché sono palestinesi e nonostante il fatto che durante la guerra del golfo sono stati pro-Kuwait, e questo compare a malapena nelle pagine posteriori dei giornali.
   E' difficile evitare la conclusione che Dio sta usando Israele per mettere alla prova le nazioni e verificare quale comprensione hanno di Lui e della Sua volontà per il mondo oggi. E' quasi come se Dio stesse attirando all'amo le nazioni usando Israele come esca. I profeti sembrano aver capito che Dio avrebbe usato Israele in questo modo negli ultimi giorni.
   Il Signore dice di Israele attraverso Geremia:
    "O Babilonia, tu sei stata per me un martello, uno strumento di guerra; con te ho schiacciato le nazioni, con te ho distrutto i regni" (Geremia 51.20).
Michea dice:
    «Figlia di Sion, àlzati, trebbia! perché io farò in modo che il tuo corno sia di ferro e le tue unghie siano di bronzo; tu triterai molti popoli; consacrerai i loro guadagni al Signore, e le loro ricchezze al Signore di tutta la terra» (Michea 4.13).
E infine Zaccaria dice:
    "In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti; Gerusalemme sarà ancora abitata nel suo proprio luogo, a Gerusalemme" (Zaccaria 12.6).

 ISRAELE SOPRAVVIVERÀ
  Oggi vediamo ancora presidenti e nazioni prendere posizione contro il popolo del patto e contro il paese che Dio ha dato loro. Sembrerebbe che tutto si muova contro Israele. Israele, comunque, ha una cosa a suo favore: il Re dell'universo è dalla sua parte e vi rimarrà per sempre. Sarà Israele ad essere alla fine vincitore, sotto tutti gli aspetti. Le nazioni che si muovono contro di lui spariranno come un sogno:
    "Sarai visitata dal Signore degli eserciti con tuoni, terremoti e grandi rumori, con turbine, tempesta, con fiamma di fuoco divorante. La folla di tutte le nazioni che marciano contro Ariel, di tutti quelli che attaccano lei e la sua cittadella e la stringono da vicino, sarà come un sogno, come una visione notturna" (Isaia 29.7-8).
Dio stesso combatterà contro di loro (Isaia 31.4-5) e contenderà con le nazioni che contendono con Israele (Isaia 49.26). Sarà pronto a punire tutti quelli che la opprimono (Geremia 30.20). Viceversa, coloro che stanno con Israele saranno benedetti qui ed ora (Genesi 12.1-3).
   La Scrittura dichiara che alcune nazioni non sopravviveranno alla loro contesa con Israele. Ci sono già state delle vittime, per esempio l'antico Edom (Malachia 1.3-4). Sappiamo dalla Scrittura che l'eterno nemico di Israele, la Siria, non sopravviverà. La città di Damasco certamente cesserà di esistere:
    "Oracolo contro Damasco. «Ecco, Damasco è tolto dal numero delle città e non sarà più che un ammasso di rovine" (Isaia 17.1).
Le nazioni che hanno perseguitato e disperso Israele potranno subire un destino simile. Il Signore dice attraverso il profeta Geremia:
    "Infatti io sono con te", dice il Signore, "per salvarti; io annienterò tutte le nazioni fra le quali ti ho disperso, ma non annienterò te; però, ti castigherò con giusta misura e non ti lascerò del tutto impunito" (Geremia 30.11)
Il profeta Zaccaria dipinge un quadro di come saranno in quei giorni le nazioni che avranno avuto la buona ventura di sopravvivere alla contesa con Israele:
    "Tutti quelli che saranno rimasti di tutte le nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno di anno in anno a prostrarsi davanti al Re, al Signore degli eserciti, e a celebrare la festa delle Capanne" (Zaccaria 14.16).
Alla fine Dio porrà un termine all'odio che ha infettato i paesi arabi nel Medio Oriente. I loro aspri attacchi contro Israele cesseranno. Il Signore dice attraverso Ezechiele che
    "Non ci sarà più per la casa d'Israele né spina che punge, né rovo che lacera fra tutti i suoi vicini che la disprezzano; e si conoscerà che io sono Dio, il Signore" (Ezechiele 28.24).
E Isaia dice che
    "I figli di quelli che ti avranno oppressa verranno da te, abbassandosi; tutti quelli che ti avranno disprezzata si prostreranno fino alla pianta dei tuoi piedi e ti chiameranno la città del Signore, la Sion del Santo d'Israele" (Isaia 60.14).

 È TEMPO DI DECISIONI
  Se crediamo alla Bibbia, dobbiamo capire che questo è un tempo in cui dobbiamo prendere delle decisioni. Come reagiremo a quello che sta succedendo nel mondo, e come tratteremo noi stessi Israele? Dobbiamo decidere se la Parola di Dio è realmente vera storicamente e profeticamente, o se è soltanto valida nella sfera della salvezza personale.
    Noi crediamo che sia vera in ogni ambito, sia in quello della salvezza, sia in quello che concerne la natura spirituale dei fatti politici del mondo, sia nella storia, sia oggi. Avvertiamo che i tempi sono seri e che i credenti seri devono mettersi in azione contro le tendenze attuali.
   Chi, tra i timorati di Dio, non sarebbe stato con Giosuè quando entrò nella terra promessa con i figli di Israele, o con Davide quando vinse i Filistei e invase il paese che Dio aveva dato agli Israeliti? E se i media di oggi dovessero riportare quei fatti o altri avvenimenti biblici, sotto quale luce dipingerebbero Giosuè, i Giudici, Davide e altri? Abbiamo il sospetto che non agirebbero in modo diverso da come fanno adesso. I media e le nazioni si scagliano contro Israele perché la loro visione del mondo è secolare e contraria ai piani, agli scopi e ai giudizi di Dio.
   Il ristabilimento della nazione di Israele e il miracoloso ritorno dei suoi cittadini sparsi dispersi contro ogni aspettativa dimostra in modo sufficiente che Dio non ha cambiato opinione riguardo a questa nazione. Dio continua ad ammonire uomini e nazioni con queste parole che riguardano Israele:
    "Non toccate i miei unti..." (1 Cronache 16.22).
Quelli che insisteranno a toccarli dovranno accorgersi che stanno toccando
    "la pupilla dell'occhio di Dio" (Zaccaria 2.8).
Veramente, per tutti noi è un tempo di urgente decisione nella valle della decisione, e tutti noi, come il re Nabucodonosor del passato, ci troviamo ora davanti a un bivio. Vedremo la mano di Dio negli avvenimenti di oggi che riguardano Israele a partire dalle Scritture, o soccomberemo davanti agli oracoli del mondo? La scelta è nostra.

(Bridges for Peace, luglio 2001 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Gerusalemme. "Non succederà proprio niente! Urleranno un po' e lanceranno un po' di pietre"

Intervista a Edward Luttwak

di Vanessa Tomassini

Edward Luttwak
"È un messaggio ai palestinesi che sono stati presi in giro da 60 anni. Da istituzioni e persone come la Mogherini (Alto-rappresentante e vice presidente della Commissione Europea, ndr.), la quale da 20 anni va in giro a parlare di palestinesi. C'è una famosa foto di Federica Mogherini a fianco di Arafat, come se fosse una stella del rock, o di musical, dove lei vuole sbaciucchiarlo, si vede dalla foto. Il governo iraniano, nel 1979, ha promesso che il suo unico scopo era quello di liberare Gerusalemme poi invece per errore, si sono fermati in Iraq, uccidendo quasi 800mila persone. Si sono sbagliati di strada. Poi è stata la volta di Saddam Hussein, anche lui voleva liberare Gerusalemme, ma per errore ha attaccato il Kuwait. Il governo di al-Assad ha giurato che avrebbe liberato Gerusalemme dagli ebrei, ed invece ha bombardato e quasi distrutto le tre principali città della Siria: Homs, Hama e soprattutto la metropoli di Aleppo".

- A dirci queste cose è il professor Edward Luttwak rispondendo da Washington alle nostre domande sulla scelta del presidente americano, Donald Trump, di spostare la sede diplomatica in Terra Santa, con tutto ciò che ne comporta.
  "L'Unione Europea invece ogni due minuti emette un comunicato a favore dei palestinesi, però non hanno mai fatto niente. Poi c'è il governo di Erdogan che giura che sarà lui a liberare Gerusalemme, intanto però il suo lavoro è quello di mettere in prigione i suoi concittadini: circa 60mila negli ultimi 12 mesi", prosegue l'economista e politologo, aggiungendo che "Abbiamo un fenomeno di macro-ipocrisia che ha preso in giro 3 generazioni di palestinesi. Trump invece vuole dare un messaggio chiaro: c'è stata una guerra dove qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso, voi siete quelli che avete perso. Quindi dovete accettare la sconfitta, come tanti altri popoli hanno fatto, da sempre. È giunta l'ora di fare i conti con la realtà e procedere a ricostruire la loro esistenza e ripartire. Questo è il messaggio. Bisogna dire la verità ai palestinesi, che hanno rifiutato qualsiasi proposta di pace è stata fatta loro. Se avessero accettato una di queste proposte, come quella di Jimmy Carter tanti anni fa, o quella portata da Clinton, anziché sperare sempre in una migliore offerta, avrebbero fermato il processo della perdita del loro territorio".

- Perché questa scelta è arrivata proprio in questo momento?
  "Da quando Trump ha fatto la sua visita in Medio Oriente c'è stata una lunga deliberazione su questo fatto ed oggi l'amministrazione americana è giunta a questa conclusione".

- Quindi non ci sono altre motivazioni politico-economiche?
  "L'unica motivazione politica è la spinta da parte dei cristiani evangelici, ai quali Trump aveva promesso di spostare l'ambasciata a Gerusalemme già in campagna elettorale. Sono stati loro che hanno insistito, sicuramente non il Governo Israeliano, che se ne frega altamente di questo".

- Ecco, molti negano che Gerusalemme sia una città ebraica…
  "È una città di chi allora, dei portoghesi? Non ho capito. C'è stata una popolazione da oltre 2mila anni e questo è un dato di fatto. La gente può pensare di questo, ma ci sono evidenze storiche, ma anche queste non contano. Ma il dato di fatto è che Gerusalemme è capitale di uno Stato che da sempre gli arabi hanno cercato di cancellare. La cosa è finita… hanno perso".

- Questo lo abbiamo capito, ma mi faccia finire la domanda perché è importante chiarire un aspetto. Israele è il fulcro delle 3 più importanti religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam…
  "Benissimo! Quando i musulmani controllavano la parte orientale di Gerusalemme, loro hanno distrutto molte sinagoghe, quando gli israeliani invece hanno preso il controllo della città non hanno distrutto nulla dei musulmani".

- Quello che vorrei cercare di chiarire con lei è che Gerusalemme diventa capitale di Israele, non dello stato ebraico. È corretto?
  "Certo è lo Stato d'Israele, non è lo Stato ebraico. Si chiama Israele punto e basta. I cattolici hanno il Vaticano che è lo stato dei Cattolici, ma Israele è lo Stato d'Israele. La cosa è differente".

- Viste le reazioni arrivate dall'Europa, lei prima parlava di Federica Mogherini, crede che Trump possa fare marcia indietro?
  "No. L'idea che la Mogherini possa far fare un passo indietro a qualcuno è assurdo. Questo è una prova di futilità, mettersi a fare rumore su un caso come questo illustra soltanto la mancanza di potere".

- Il primo ministro Benjamin Netanyahu, abbiamo già visto in altre occasioni essere una persona molto equilibrata, come sta reagendo?
  "Lui non ha chiesto questa cosa. È assolutamente contento anche se la scelta poteva essere fatta molto tempo fa. Notate bene che la federazione russa ha dichiarato Gerusalemme capitale un anno fa, senza alcuna reazione da parte di nessuno".

- E nei confronti degli alleati? Ad esempio come vede le dichiarazioni fatte dall'Italia ed altri 7 Paesi ieri al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite?
  "L'Italia ha sempre preso una posizione formale a tal riguardo e non c'è nulla di sorprendente. Nessuno ci crede e non ha alcuna importanza. Non c'è alcun contenuto".

- Ma quindi ora cosa succederà?
  "Non succederà proprio niente! Urleranno un po', lanceranno un po' di pietre, ma rispetto a quello che sta accadendo nel resto del Medio Oriente, questo è nulla, uno zero su zero".

- E la Turchia?
  "Vediamo se Erdogan prende un po' di tempo dall'arrestare i suoi concittadini. È da 60 anni che la Turchia fa dichiarazioni bombastiche senza poi fare nulla. Se inizieranno a fare qualcosa avranno a che vedere con la forza aerea israeliana. Se i turchi vogliono sperimentare, per sapere se sono cresciuti, se sono diventati capaci è la loro opportunità. Bene, ci provino".

- Invece come valuta il ruolo dell'Arabia Saudita?
  "I sauditi sono molto impegnati. Hanno appena comprato il Salvator Mundi per 400 milioni, avrebbero potuto darli ai poveri palestinesi nei campi. Si tratta di agire non di parlare".

(Notizie Geopolitiche, 9 dicembre 2017)


«Non siamo d'accordo con Trump». L'Italia con gli europei, strappo all' Onu

Al Consiglio di Sicurezza, dichiarazione di cinque Paesi su Gerusalemme.

di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON - Lo strappo, ora, è un atto politico ufficiale e vistoso. Gli ambasciatori all'Onu di Francia, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Germania hanno letto una dichiarazione comune davanti ai giornalisti dopo la riunione del Consiglio di Sicurezza: «Non siamo d'accordo con la decisione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele e di cominciare la preparazione per spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme». L'iniziativa è partita dalla rappresentanza francese che ha contattato Sebastiano Cardi e gli altri capi delle missioni europee presenti in questo momento nell'organo esecutivo delle Nazioni Unite. Al gruppo dei quattro (britannici e francesi sono membri permanenti) si è unita la Germania.
   Pur se ammantata nel linguaggio diplomatico, il documento è pesante. La mossa di Donald Trump «non è in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e non aiuta le prospettive di pace nella regione». In sostanza il blocco europeo accusa gli americani di violare le direttive concordate a livello mondiale. «Lo status di Gerusalemme - è scritto - deve essere determinato attraverso i negoziati tra israeliani e palestinesi. È una posizione costante dei Paesi dell'Unione Europea che, in questo quadro, Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia dello Stato di Israele che di quello palestinese. Fino a quel momento, noi non riconosceremo alcuna sovranità su Gerusalemme».
   In apertura della riunione l'ambasciatrice americana, Nikki Haley, è stata durissima, accusando «l'Onu di essere ostile da molti anni a Israele». La decisione di riconoscere la Città Santa come capitale è «ovvia», mentre «le Nazioni Unite hanno fatto più danno alle possibilità di una pace in Medio Oriente, anziché farla progredire».
   Il quadro internazionale della crisi, ora, si è complicato. Il Dipartimento di Stato, al di là delle ruvide parole di Haley sta cercando di spezzare l'isolamento. Ma il presidente palestinese Abu Mazen, non ritiene più «qualificati» gli Usa per «occuparsi del processo di pace». La Russia cerca spazio, offrendosi come mediatrice. L'Unione Europea si sta compattando. Con qualche difficoltà a Bruxelles. Federica Mogherini, Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri, sta lavorando a un documento simile a quello firmato dai 5 europei al Palazzo di Vetro. Ma ci risulta che nell'incontro preparatorio del Cops, il Comitato politico e di sicurezza, la discussione sia stata bloccata dall'Ungheria. Il premier Vicktor Orban si conferma grande estimatore di Trump e, almeno per ora, impedisce all'Ue di prendere una posizione unitaria sul tema.
   Negli Usa, invece, la strategia di Trump non ha diviso politici e opinione pubblica come ormai accade su tutti gli altri dossier. Osserva David Makovsky, analista del Washington Institute e, nel 2009 coautore con Dennis Ross (ex consigliere di John Kerry) di un best seller sul Medio Oriente («Miti, Illusioni e Pace ... », Viking/Penguin): «Parte del problema è nato perché Trump non ha preavvertito per tempo gli attori più coinvolti. Inoltre la comunicazione poteva essere molto migliore. Se si analizza bene il messaggio si vede che gli Usa mantengono aperta la questione dei confini tra Israele e Palestina. Penso che la Casa Bianca abbia spazio per spiegarsi meglio. Dovrebbe farlo subito con un grande sforzo rivolto soprattutto alla popolazione del Medio Oriente che segue con la tv satellitare gli "speech" del presidente».

(Corriere della Sera, 9 dicembre 2017)


L'Italia vota contro Trump su Gerusalemme

All'Onu l'Europa si schiera con i palestinesi contro il trasferimento dell'ambasciata Usa. E Bruxelles invita Abu Mazen.

di Carlo Nicolato

Cinque Paesi europei sono contro Donald Trump. E tra questi c'è l'Italia. Per il nostro Paese, e per Francia, Regno Unito, Svezia e Germania, la decisione della Casa Bianca di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele «non è conforme alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza» dell'Onu. Così l'Italia, ha comunicato l'ambasciatore di Roma al Palazzo di Vetro, Sebastiano Cardi, «manterrà la sua ambasciata in Israele a Tel Aviv». I diplomatici dei cinque Paesi Ue, dopo la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza, hanno dichiarato che la mossa Usa «non promuove la prospettiva di pace nella regione». Lo status di Gerusalemme, hanno aggiunto, va «negoziato fra Israele e Palestina».
   Fortuna, per l'Europa, che dall'altra parte c'è Trump. Ci fossero stati Clinton o Obama, stare dove ormai naturalmente sta, cioè con i palestinesi e contro Israele, per Bruxelles e associati sarebbe stato decisamente più complicato. Immaginatevi un Sigmar Gabriel qualsiasi che si metteva a dire «scusa Barack, la capitale di Israele è Tel Aviv, non Gerusalemme, e le ambasciate rimangono dove stanno». Impossibile. Contro Trump invece, vale tutto, non solo stare coi palestinesi che proclamano giorni di collera, guerra senza tregua, marce, violenze e distruzioni varie, peraltro già iniziate con relativi morti e feriti, ma anche invitare il loro guru a casa.
   Sì, è proprio così, il presidente palestinese Mahmoud Abbas, o Abu Mazen che dir si voglia, parteciperà in via ufficiale al prossimo Consiglio degli Esteri Ue previsto per gennaio, così come ha trionfalmente annunciato l'Alto rappresentante Federica Mogherini. Mogherini promette che inviteranno anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu e che anche con lui si parlerà di pace, ma questo è da vedere. Per il momento la presenza del favorito dell'Onu, Abu Mazen, lo stesso che fa gli accordi con i terroristi armati di Hamas, è assicurata.
   Così come sono assicurati i morti per le manifestazioni «pacifiche» da lui medesimo invocate e volute: si parla già di due o di uno e mezzo. L'esercìto israeliano ha confermato: a Khan Younis, al confine della Striscia di Gaza, i militari hanno sparato contro due scalmanati, indiziati di essere i principali istigatori delle rivolte violente. Uno dei due, Mahmoud al-Masri di 30 anni, sarebbe morto sul posto. L'altro è stato colpito alla testa da un proiettile ed è in fin di vita all'ospedale. In tutto sarebbero stati circa 3mila i palestinesi scesi in strada ieri. Oltre ai morti ci sarebbero circa duecento feriti. Ieri sera l'aviazione israeliana, in risposta ai razzi palestinesi (ieri sera colpita Sderot), ha attaccato tre basi di Hamas a Gaza. Dieci i feriti. D'altronde quando si fa appello alla piazza, come ha fatto il pacifico Abu, non si può certo pretendere che il tutto si risolva con qualche fiore infilato nei cannoni.
   Ed è un miracolo se le manifestazioni indette un po' in tutto il mondo islamico, dal Pakistan al Bangladesh, contro Israele e l'America rimangano tali e non diventino qualcosa di più di qualche slogan e bandiera bruciata. Eppure l'aizzatore di tutto questo non è Trump, ma il presidente palestinese, che volerà con tutti gli onori a Bruxelles a parlare con cognizione di causa tra quei politici sempre molto attenti nelle loro rispettive patrie e in quella comune, l'Europa, a puntare il dito contro chi predica odio e violenza, contro chi manifesta con le bandiere sbagliate. E contro chi calpesta uno dei diritti fondamentali dell'Ue, quello di «non discriminazione», quello che tutela le differenze di «sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età e tendenze sessuali». Vale la pena ricordare che Abu Mazen è presidente di quei territori nei quali i cristiani vengono emarginati, esclusi dagli aiuti economici e costretti a permessi speciali per studiare e lavorare. Nei quali le donne sono considerate proprietà dei loro mariti e della loro famiglia. Nei quali gli omosessuali vengono sistematicamente oltraggiati, incarcerati, e costretti a scappare. Dove? Naturalmente nell'odiata Israele, contro cui il mondo per bene manifesta mettendosi la coscienza in pace.

(Libero, 9 dicembre 2017)


Il ballon d'essai ha funzionato

di Marcello Cicchese

Sì, ha funzionato. Qualcuno, per motivi suoi, si è sentito spinto a dire una cosa ovvia, vera: Gerusalemme è la capitale dello Stato d'Israele, e i potenti della terra ci sono cascati: hanno dovuto dire in modo pubblico e chiaro che no, non è vero: nessuno può dire qual è e dove deve stare la capitale della nazione ebraica se non loro, i capi del mondo radunati nel consesso delle Nazioni Unite. Hanno dovuto dirlo anche quelli che avrebbero voluto traccheggiare, andare per le lunghe, esaminare i pro e i contro (per loro). Ha dovuto dirlo anche la nostra cara patria: l'Italia. L'Italia s'è desta: non ha taciuto, non si è schermita, si è decisamente accodata. Le nostre più alte autorità civili e religiose hanno preso posizione.
Così scrive Umberto De Giovannangeli su Huffpost:
    «L'Italia dunque rompe gli indugi e, dopo un iniziale "low profile", decide di schierarsi, politicamente, contro la scelta di Trump. Una scelta maturata in frenetiche consultazioni tra la nostra delegazione a New York, Palazzo Chigi, il Quirinale e la Farnesina. Al più alto Colle istituzionale, il Quirinale, il cattolico Mattarella non è rimasto insensibile, tutt'altro, alle parole pronunciate da papa Francesco su Gerusalemme nel corso dell'udienza generale, nell'Aula Paolo VI, del 6 dicembre: "Il mio pensiero va ora a Gerusalemme. Al riguardo, non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite. Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, ed ha una vocazione speciale alla pace. Prego il Signore che tale identità sia preservata e rafforzata a beneficio della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero e che prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti", aveva concluso Bergoglio.»
Anche il papa dunque ha dovuto esprimere in modo netto, nel consueto stile mieloso della "profonda preoccupazione" e "accorato appello", la sua strutturale avversione per lo Stato ebraico. In mille modi le Nazioni Unite hanno dimostrato di essere contro Israele, ma questo non ha mai turbato la sensibilissima coscienza del romano Pontefice. Tutt'altro.
Anche Trump si è pericolosamente esposto, e non in favore di Israele, come superficialmente qualcuno potrebbe pensare. Ha detto qualcosa su Gerusalemme: che è la capitale di Israele, e forse pensava che questo sarebbe bastato. E' stata certamente messa in conto la prevedibile "rabbia" violenta dei palestinesi, che del resto non conoscono altro modo di far politica, ma forse pensava che questo sarebbe bastato e che si potesse gestire la cosa senza dover dire altro. La reazione dei potenti della terra invece lo costringerà a dire qualcosa di più. Dovrà rispondere a una precisa domanda: Gerusalemme è o no la capitale unica e indivisibile di Israele? Se risponde sì ed è coerente nelle sue decisioni, è storicamente dalla parte di Israele. Altrimenti no. Anche Trump, come tanti altri potenti della storia, avrà fatto i suoi progetti su come usare gli ebrei per i suoi scopi, ma quando sarà messo davanti a un bivio, non c'è dubbio che se necessario li lascerà andare dolcemente al loro destino.
Sì, il ballon d'essai ha funzionato.

(Notizie su Israele, 9 dicembre 2017)


Gerusalemme e la centralità ebraica

Lettera al Direttore di La Stampa

di Riccardo Di Segni *

Caro Direttore,
martedì gli ebrei di tutto il mondo festeggeranno la festa di Chanukkà, accendendo ogni sera dei lumi per otto giorni. All'origine di questa festa c'è una storia militare: la rivolta degli ebrei ribelli contro il dominio dei greci seleucidi. La vittoria portò alla costituzione di un regno ebraico indipendente in Giudea, con capitale Gerusalemme, il cui Tempio fu ripulito dalle contaminazioni ellenistiche. Tutto questo avveniva intorno al 165 prima dell'era cristiana.
   La tradizione successiva ha cercato di concentrare l'attenzione più sul miracolo religioso della restaurazione che sull'evento militare; questa festa comunque rimane uno dei numerosi documenti della continua e intensa attenzione ebraica su Gerusalemme. Il nome della città evoca la pace; è stata invece perenne centro di scontri tra popoli e culture. Gli ebrei, conquistatori di quella città ai tempi del re David (nel X secolo prima dell'era cristiana ne fece la capitale del suo regno), esiliati, ritornati, per poco tempo sovrani indipendenti, poi di nuovo sconfitti ed esiliati, non hanno mai rinunciato a quella città, non solo come capitale dello spirito, ma come capitale reale. Anche quando le sanguinose guerre per il dominio di Gerusalemme avevano altri protagonisti (ad esempio cristiani, crociati e musulmani) gli ebrei erano presenti e marginali, vittime di massacri da parte dei belligeranti. Il pensiero sulla città comunque non veniva mai meno, sostenuto da riti, preghiere e date di calendario liturgico. Con queste premesse, il putiferio scatenato dalle dichiarazioni del presidente Trump su Gerusalemme non può essere spiegato solo in termini politici.
   La prospettiva storica e religiosa è indispensabile per capire la vera entità della questione e i meccanismi profondi e ancestrali che si attivano. Da una parte la centralità ebraica, di cui si è detto. Dall'altra l'opposizione reale e dura delle altre religioni, al di là del politically correct. Per i musulmani, in termini teologici e politici, per loro difficilmente distinguibili, la sovranità e l'indipendenza ebraica, tanto più su Gerusalemme, sono semplicemente intollerabili, gli ebrei al massimo possono essere sottomessi. E in termini cristiani pesa ancora l'idea dell'esilio ebraico e della perdita della terra e di Gerusalemme come punizione per il mancato riconoscimento della verità cristiana. Questa idea è presente fin dalle origini e rimane ufficiale fino al XX secolo. In altri termini anche il cristianesimo, con tutte le sue recenti aperture all'ebraismo, non ha del tutto elaborato l'idea della sovranità ebraica, dello Stato di Israele (si parla sempre di «terra santa») e tanto più di Gerusalemme capitale ebraica. Se la reazione alla dichiarazione di Trump è stata così forte e persino viscerale, ciascuno, anche non credente, si interroghi sulle sue motivazioni più o meno inconsce, sull'educazione ricevuta, sulla riluttanza a riconoscere al popolo ebraico i diritti che per altri sarebbero scontati.
* Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma

(La Stampa, 9 dicembre 2017)


Patrimonio Israele. Israele patrimonio

"Lo stato ebraico è da sempre patrimonio dell'umanità". Intervista a Ruben Della Rocca.

di Micol Flammini
ROMA - "E' ora di dichiarare Israele patrimonio dell'umanità". E' la proposta di Claudio Cerasa sul Foglio di ieri, contro il tentativo sistematico di cancellare Israele e la sua storia, "per difendere il popolo ebraico dalla nuova intifada culturale". La decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme ha fornito nuovo materiale ai tanti che non vedono negli attacchi contro Israele la matrice di un'ideologia violenta e distruttiva, e per questo è il momento di reagire. E' necessario portare avanti una nuova battaglia di civiltà - in cui l'Europa dovrebbe essere in prima linea - lanciando la candidatura di Israele come patrimonio dell'umanità. "Non posso che condividere l'iniziativa", commenta Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, contattato dal Foglio, "ma rispondo anche con una provocazione: Israele è già patrimonio dell'umanità per tutti coloro che hanno l'onestà di riconoscerla come faro di democrazia".
   "I paesi europei dovrebbero gettare il cuore oltre l'ostacolo", dice Della Rocca, "e assumersi la responsabilità di non lasciare spazio agli equivoci, fare dichiarazioni chiare e riconoscere a Israele i propri meriti, la sua civiltà e la storia".
   Per Della Rocca, il silenzio dell'Europa rischia di essere inteso come un tacito sostegno al progetto dei paesi che dominano l'Unesco di spazzare via l'eredità di una civiltà millenaria, negando la storia ebraica di luoghi come il Muro del Pianto o il Monte del Tempio.
   "Il Foglio ci ha sostenuti e noi come Comunità ebraica di Roma abbiamo sostenuto il Foglio nelle manifestazioni contro la risoluzione dell'Unesco", sorride il vice presidente. "Anche in questa battaglia non possiamo che essere vicini. Quale sia la posizione dell'Unesco nei confronti di Israele già lo sappiamo ma per chi sa distinguere è impossibile non notare quale sia il modello di civiltà che lo stato ebraico sta portando avanti". L'agenzia delle Nazioni unite per la cultura e la scienza, con le sue mozioni, ha annichilito il rapporto tra gli ebrei e Gerusalemme.
   Anche Della Rocca sostiene che l'attacco militare, culturale e politico con cui la decisione della Casa Bianca è stata accolta sia l'azione deliberata di un'ideologia distruttiva, che l'Europa deve combattere: "I vicini di Israele sono sempre stati pronti a tutto pur di cancellarlo e un sostegno maggiore da parte dell'Unione europea non farebbe altro che aiutare finalmente lo stato ebraico", che non solo è un faro di democrazia, ma anche di libertà politica e religiosa.
   Israele è l'avamposto d'Europa in medio oriente che però l'Europa non si decide a difendere. L'Italia dovrebbe farsi portatrice della battaglia per fare dello stato ebraico patrimonio dell'umanità e, perché no, l'inaugurazione il prossimo 14 dicembre del museo della Shoah di Ferrara potrebbe essere una buona occasione per ragionare sul tema: "La politica potrebbe dare un segnale più forte", conclude Ruben Della Rocca. "Alcune personalità importanti come il presidente Mattarella, che sarà presente all'inaugurazione, hanno già fatto molto, come la visita alle Fosse Ardeatine o il ricordo di Stefano Tachè, ma si potrebbe sempre fare di più. Intanto, noi stiamo con Cerasa e con il Foglio, lanciamo questa candidatura".

(Il Foglio, 9 dicembre 2017)


Quest'anno a Gerusalemme

E' stata divisa solo per diciannove anni. Ecco che cosa accadde dal 1948 al '67. Per la prima volta in un millennio di storia non rimase un solo ebreo nella Città vecchia. Fu un Isis ante litteram.

di Giulio Meotti

La città era divisa con filo spinato, bunker, cecchini e campi minati. I muri dividevano la città anche dentro le abitazioni. Agli ebrei era impedito l'accesso al Muro del pianto, ma anche i cristiani subirono vessazioni da parte del regime islamico di Amman. Il più antico cimitero del mondo venne devastato e le pietre usate per fare le strade. Di 150 mila tombe, 70 mila furono distrutte. Dopo il '67 gli israeliani hanno ripristinato il diritto dei musulmani di pregare sul Monte del Tempio, un diritto ora negato agli ebrei.

Nel gennaio 1964, quando Papa Paolo VI vi arrivò per la prima, storica visita di un pontefice nella moderna Gerusalemme, la città era divisa dal filo spinato. Si chiamava "kav ironi", la linea arbitraria di divisione della città. I cecchini giordani erano piazzati sui tetti, mentre i campi minati erano ovunque nella "no man's land", in ebraico "shetah hahefker", lunga sette chilometri. L'unico passaggio fra le due parti della città, quella israeliana e quella giordana, era attraverso la celebre Porta di Mandelbaum, dal nome dei coniugi Esther e Simcha Mandelbaum, proprietari della casa dove passava il confine.
   C'erano quartieri, come Abu Tor, con case che avevano un ingresso nella sezione giordana e uno in quella israeliana. I muri dividevano la città anche dentro le abitazioni. Ma mentre Paolo VI e il suo entourage furono in grado di attraversare liberamente Gerusalemme per pregare nei luoghi religiosi cristiani, israeliani ed ebrei potevano solo guardare dall'altra parte del filo spinato le mura della Città vecchia e, là sotto, sognare il Muro del pianto, il luogo più sacro al mondo per l'ebraismo. Allora, quando la Città vecchia era Judenrein, nessun Papa o Palazzo di vetro ha mai chiesto "l'internazionalizzazione di Gerusalemme".
   Quando altri tre pontefici (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) sono tornati a far visita a Gerusalemme, hanno trovato una città aperta a tutte le tre religioni, senza barriere, né fili spinati, né cecchini, né campi minati o discriminazioni su base religiosa. Una città dove chiunque può venire a pregare e omaggiare il proprio Dio. E' facile imbattersi oggi in musulmani salafiti arrivati dall'Arabia Saudita per visitare la Spianata delle moschee. Ora che gli Stati Uniti si sono decisi a riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele, da più parti si riscopre un'ansia di ridividere quella città.
   La città santa è stata conquistata da Gebusiti, Ebrei, Babilonesi, Assiri, Persiani, Romani, Bizantini, Arabi, Crociati, Mamelucchi, Ottomani, Inglesi, Giordani... Ma in migliaia di anni, Gerusalemme è stata divisa soltanto per diciannove anni, dal 1948 al 1967. E fu davvero un incubo.
   Fu un regime asimmetrico di divisione: mentre per Israele Gerusalemme ovest divenne la capitale, Gerusalemme est fu sempre una città di confine, un fortilizio. Gerusalemme occidentale era moderna, fiorente di attività politica e culturale, ricca e in costante crescita, mentre Gerusalemme est era un villaggio sonnolento, sottosviluppato e trascurato.
   Un anno fa, tre lettere spedite nel febbraio 1948 dalla Città Vecchia di Gerusalemme, in quel periodo assediata dalle forze arabe, furono rivelate dalla casa d'asta Kedem Auction House. Sono scritte dai residenti del quartiere ebraico durante l'assedio di Gerusalemme da parte delle forze arabe nella prima fase della guerra di indipendenza israeliana. Le lettere vennero scritte tre mesi prima che le forze inglesi lasciassero la città, allo scadere del Mandato britannico, e la Città Vecchia venisse conquistata dalle truppe giordane. Una delle lettere è una richiesta di aiuto firmata da Yitzchak Avigdor Orenstein, primo rabbino del Muro occidentale ("del pianto"), destinato a rimanere ucciso tre mesi dopo quando la Città vecchia verrà bombardata. "Abbiate pietà di uomini, donne e bambini e prendete misure drastiche, ove necessario, affinché noi non moriamo", si legge nella lettera del rabbino Orenstein. "La vita degli abitanti della Città vecchia è in grave pericolo, le truppe britanniche hanno bombardato il quartiere ebraico nelle notti scorse danneggiando la santità della sinagoga", scriveva Orenstein.
   La Gerusalemme ebraica fu il principale bersaglio dell'attacco giordano durante la guerra che accompagnò la fondazione di Israele. Il comandante della Legione, Abdallah el Tal, ricordò che "solo quattro giorni dopo il nostro ingresso a Gerusalemme, il quartiere ebraico era diventato un cimitero. Il ritorno degli ebrei è impossibile". Il 27 maggio del 1948, 108 dei 150 difensori del Quartiere ebraico della Città vecchia cadevano in difesa della popolazione di 1.700 persone, piegate dalla fame e dalla sete. Se l'assedio fosse continuato, gli arabi avrebbero costretto gli ebrei alla resa o alla fame. Tutta la città rischiava di essere conquistata dagli arabi.
   Dopo la fine delle ostilità e con la divisione della città, a tutti gli israeliani - ebrei, musulmani e cristiani - fu impedito l'accesso alla Città vecchia, in flagrante violazione dell'armistizio fra Israele e la Giordania, firmato nel marzo 1949.
   Ai turisti stranieri in visita a Gerusalemme fu richiesto di presentare un certificato di battesimo. Anche se i cristiani, a differenza degli ebrei, avevano accesso ai loro luoghi santi, anch'essi furono soggetti a restrizioni secondo la legge giordana. C'erano dei limiti sul numero di pellegrini cristiani ammessi nella Città vecchia e a Betlemme durante Natale e Pasqua. Le organizzazioni di beneficenza e le istituzioni religiose cristiane non potevano acquistare proprietà immobiliari a Gerusalemme o possedere proprietà vicino ai luoghi santi. E le scuole cristiane erano soggette a severi controlli. Dovevano insegnare in arabo, chiudere di venerdì, il giorno santo musulmano, e insegnare a tutti gli studenti il Corano. Allo stesso tempo, non fu permesso di insegnare materiale religioso ai non cristiani.
   Nel corso degli anni sotto il dominio giordano, ogni vestigia della presenza ebraica nella città fu sistematicamente cancellata. Durante quei diciannove anni di occupazione illegale e non riconosciuta dal resto del mondo, agli ebrei non venne mai permesso di visitare i loro luoghi santi nella parte occupata della città, in spregio del diritto internazionale e in violazione degli accordi armistiziali. Il plurisecolare cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi venne sistematicamente profanato; le antiche sinagoghe, come la celebre Hurva, e la maggior parte degli edifici dell'antico quartiere ebraico della Città vecchia, vennero scientificamente distrutti dagli occupanti illegali. Centinaia di pergamene della Torah e migliaia di libri sacri furono saccheggiati e ridotti in cenere. Per la prima volta in mille anni non rimase un solo ebreo o una sinagoga nella Città vecchia. Fu una sorta di Isis ante litteram. La popolazione cristiana della città scese da trentamila a prima del 1948 a undicimila nel 1967.
   In ogni storia di Gerusalemme questi sono gli anni perduti della città, in cui pare non sia successo nulla. Un periodo morto e in cui i bunker giordani dominavano la città. Come a Mutzav Hapa'amon, una delle 36 postazioni giordane, che dominava tutto, da Gilo all'Herodion. Nel 1955, un gruppo di archeologi prese parte a una conferenza al kibbutz Ramat Rachel. I cecchini giordani fecero strage di archeologi. Quattro i morti.
   Dopo la conquista da parte giordana, gli ebrei furono costretti a lasciare le loro case. Sinagoghe, biblioteche e centri di studi religiosi furono distrutti, saccheggiati, utilizzati per alloggiamenti o come stalle per gli animali.
   Agli ebrei venne proibito anche di suonare lo shofar, il piccolo corno di montone. Furono fatti appelli alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale per dichiarare la parte antica come una "città aperta" e fermare questa distruzione, ma non ci fu risposta.
   Migliaia di pietre tombali provenienti dal cimitero sul Monte degli Ulivi furono utilizzate come pietre da pavimentazione per le strade e come materiale da costruzione nei campi militari giordani. Parti del cimitero furono trasformate in parcheggi, fu allestita una pompa di benzina e fu costruita una strada asfaltata. L'Intercontinental Hotel venne edificato nella parte superiore del cimitero. Il più antico cimitero ebraico del mondo si ritrovò così devastato. Delle 150 mila tombe, alcune risalenti ai tempi biblici di Assalonne e Zaccaria, ne furono distrutte 70 mila.
   L'Onu, che oggi si dice allarmato per il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale, non approvò mai alcuna risoluzione contro questa distruzione della zona ebraica. Non appena la Città vecchia cadde nelle mani degli arabi musulmani, la libertà religiosa a Gerusalemme venne cancellata. Gerusalemme antica divenne di fatto, sia pure conservando la presenza cristiana, una città islamica. Gli ebrei furono cacciati e l'ebraismo cancellato.
   Mishkenot Sha'ananim, oggi uno dei luoghi più belli e trendy di Gerusalemme, luogo di ritrovo degli scrittori e degli intellettuali, divenne un insieme di baracche dove si viveva in costante paura dei colpi dei giordani. Mamilla, oggi fitta di ristoranti e boutique, era la linea di attacco, la "Sderot del 1948", dal nome della piccola cittadina israeliana affacciata su Gaza e per anni bersagliata dal lancio dei missili di Hamas. Gli ebrei nella Gerusalemme divisa vivevano in case protette da sacchi di sabbia e strisciavano contro i muri.
   A memoria, ci sono le fotografie dei bambini e delle donne che sfollano dagli incendi delle loro case nella Città vecchia, il Muro del pianto che versa in rovina, spoglio, abbandonato, convertito all'islam come al Buraq Wall, e la città più bella del mondo trasformata in un grande Checkpoint Charlie mediorientale. Nei cinquant'anni successivi alla liberazione del 1967, Gerusalemme sarebbe riesplosa a livello urbanistico, religioso, demografico, economico. E' successo sotto Israele, mai prima.
   Israele è l'unico custode di Gerusalemme che si sia dimostrato affidabile e responsabile. Dopo la liberazione, il governo israeliano varò la Legge per la Protezione dei Luoghi Santi, che garantiva libertà di accesso e di culto a tutte le religioni e autonomia ai vari gruppi religiosi nella gestione delle loro rispettive proprietà e dei loro luoghi santi. La Knesset estese la legislazione israeliana a Gerusalemme est, unificando così la città sotto il governo israeliano e mettendo fine alle leggi islamiche discriminatorie. Gli israeliani ripristinarono subito il diritto dei musulmani di pregare sul Monte del Tempio, malgrado il fatto che fosse anche il luogo più sacro all'ebraismo. Oggi il Wakf musulmano (consiglio religioso), a cui è affidata l'amministrazione del Monte del Tempio, impedisce agli ebrei di pregare su questo luogo.
   La storia dimostra non soltanto che una grande città divisa non funziona (Nicosia, Berlino, Belfast per citarne alcune). Ma soprattutto che il migliore destino di una città mista come Gerusalemme è quello di essere garantito soltanto dagli ebrei, per due motivi. Il primo è che il pluralismo funziona soltanto in una democrazia e Israele è l'unico paese democratico in una mezzaluna che va dal Nord Africa fino all'Asia minore. La seconda è che il rispetto delle minoranze non esiste nel mondo arabo-islamico.
   Adesso si vorrebbero riportare le lancette della storia a quel terribile periodo, i diciannove anni perduti di una Gerusalemme atterrita e buia. E che divisa non deve tornare a esserlo più.

(Il Foglio, 9 dicembre 2017)


Gerusalemme - Putin ed Erdogan sono i veri vincitori della partita

L'iniziativa di Trump su Gerusalemme giunge come un regalo supplementare per il leader russo: alla sua influenza si aprono spazi insperati nei Paesi arabi che gli Usa hanno imbarazzato con il loro annuncio

di Franco Venturini

Era fatale che Trump, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e annunciando il trasferimento dell'ambasciata Usa, modificasse interessi e gerarchie delle potenze che si muovono nel grande disordine mediorientale. In attesa di capire se a sostegno della sua mossa filo-israeliana il Presidente riuscirà a proporre un piano di pace più equilibrato che accontenti anche i palestinesi e le capitali arabe (impresa che si annuncia ardua), due vincitori di questo ennesimo braccio di ferro su Gerusalemme possono sin d'ora essere identificati: si chiamano Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, che si incontreranno lunedì per discutere della situazione.
   La Russia di Putin aveva puntato tutte le sue carte sulla Siria, e ora che l'Isis è stato quasi completamente sconfitto, e che la guerra civile è in fase di superamento, il Cremlino può vantare un buon raccolto. Assad è ancora al suo posto e almeno per un certo tempo ci resterà, l'alleanza di guerra tra Russia, Turchia e Iran (con l'aggiunta dei libanesi sciiti di Hezbollah) controlla le vicende siriane assai più dei negoziati di Ginevra o degli Usa. L'iniziativa di Trump su Gerusalemme giunge come un regalo supplementare: all'influenza russa si aprono spazi insperati nei Paesi arabi che gli Usa hanno imbarazzato con il loro annuncio.
   L'Egitto è un buon esempio, ma non è il solo. La posta di una partita che comincia appena sarà il ritorno della Russia nel mondo arabo sunnita, come ai tempi dell'Unione Sovietica.
   Il secondo vincitore, oggi stretto alleato del primo, è il Presidente turco. L'esponente cioè di un Paese non arabo ma islamico, che si sente offeso dalla mossa Usa. Per Erdogan l'occasione è duplice: accrescere il consenso interno e tornare a porsi come potenza mediorientale approfittando della consueta doppiezza delle capitali arabe che si scandalizzano per la sorte dei palestinesi ma ben poco fanno a loro sostegno. Ankara, come molti altri, dichiara di temere che Trump abbia involontariamente incoraggiato quel terrorismo che era stato appena sradicato con la sconfitta dell'Isis. Tema che fa drizzare molte orecchie, anche in Arabia Saudita. Lunedì Erdogan e Putin dichiareranno la loro preoccupazione, prima di brindare alla salute di Donald Trump.

(Corriere della Sera, 8 dicembre 2017)


Oggi i sauditi sono più vicini agli israeliani che ai palestinesi

Perché è più forte l'ostilità contro gli iraniani

di Angelica Ratti

 
Per i paesi del Golfo oggi l'ostilità verso l'Iran è più importante delle sorti dei palestinesi. E si ridisegnano le alleanze in una regione messa sottosopra dalla nuova politica degli Stati Uniti e dall'aumentato potere dell'Iran.
   In Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed Ben Salman, detto Mbs, ha il gusto della rottura come ha dimostrato eliminando il divieto alle donne di guidare l'auto. E adesso prova ad instaurare un nuovo clima nei confronti di Israele, con il quale la corona saudita non ha relazioni ufficiali, anche se dietro le quinte la cooperazione in materia di sicurezza e contatti vanno avanti da molti anni. Ma da qualche tempo i segni di un riavvicinamento aumentano e diventano pubblici. E anche se cozza contro la questione palestinese, la prospettiva di una normalizzazione non è più un tabù.
   Il Bahrein e la federazione degli Emirati Arabi Uniti, i due alleati più vicini dell'Arabia Saudita nel Golfo, sono della partita. A settembre, il fondatore del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, il rabbino Marvin Hier, ha affermato che il sovrano del Bahrein, Hamad Ben IssaAl-Khalifa, si è detto favorevole alla revoca del boicottaggio di Israele da parte dei paesi arabi. Gli Emirati hanno permesso a Israele di aprire una propria rappresentanza sul proprio territorio in seno all'Agenzia internazionale dell'energia rinnovabile che ha sede a Abou Dhabi.
   Queste iniziative, secondo il parere di alcuni osservatori, sono un modo per preparare l'opinione pubblica dei paesi del Golfo a una possibile ufficializzazione dei legami fra le petromonarchie e Israele. In seno a queste società, la solidarietà con i palestinesi si indebolirebbe, secondo quanto ha riportato Le Monde. C'è da dire che secondo alcuni analisti, i palestinesi avrebbero tradito l'Arabia Saudita quando Hamas, il movimento islamico palestinese, si è rifiutata di considerare il movimento libanese pro Iran Hezbollah, come una organizzazione terroristica.
   L'Arabia Saudita è il capofila dell'asse anti Teheran in Medio Oriente. Intanto, il premier israeliano Benyamin Netanyahou coltiva il sogno di un riavvicinamento con i paesi sunniti e poi, eventualmente, trovare una soluzione al problema palestinese. Il contrario di quanto ha fatto finora la Lega Araba che ha condizionato tutta la normalizzazione tra Israele e i paesi arabi per la fine dell'occupazione dei territori palestinesi. Le condizioni arabe sono chiare: due Stati con uno Stato palestinese del quale la capitale è Gerusalemme Est, ha dichiarato alla fine di novembre il capo della democrazia saudita Adel al-Jubeir.
   Arabia e Stati Uniti, in particolare Mohammed Ben Salman e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, lavorano a un piano per regolamentare il conflitto israelo-palestinese e facilitare la normalizzazione arabo-israeliana, ma ai palestinesi non va bene.

(ItaliaOggi, 8 dicembre 2017)


Trump e Gerusalemme: genio o follia?

La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è un azzardo oppure il frutto di un piano geniale che vede il coinvolgimento delle potenze arabe in Medio Oriente?

Da ieri per gli Stati Uniti Gerusalemme è la capitale di Israele. E' il tardivo riconoscimento di una cosa ovvia e di un Diritto che però tutto il resto del mondo continua a ignorare e addirittura a negare.
Sulla decisione del Presidente Donald Trump ci sono due linee di pensiero all'interno del variegato mondo dei sostenitori di Israele, quella di coloro che temono un inasprimento del conflitto e che avrebbero preferito aspettare momenti migliori per il timore che gli sforzi volti a regolarizzare le relazioni con gli arabi finalizzati alla lotta contro l'Iran si potrebbero arenare, e quella del "se non ora quando", cioè di coloro che pensano che dopo 70 anni di inutili tentativi di pace con chi la pace non la vuole (i cosiddetti palestinesi) pensa che sia ora di mettere dei punti fermi e di mandare al diavolo la prudenza, costi quel che costi. Nessuno tuttavia mette in dubbio il fatto che la capitale di Israele sia Gerusalemme....

(Right Reporters, 8 dicembre 2017)


Trump cede qualcosa agli israeliani affinché gli israeliani cedano altro ai palestinesi

È meno semplicistico di come è stato descritto lo spostamento dell'ambasciata Usa

di Carlo Pelanda

Gli analisti si chiedono cosa ci sia sotto il riconoscimento formale, da parte statunitense, di Gerusalemme come capitale d'Israele nonostante gli avvertimenti da parte di tutto il mondo di non sfidare l'ira dell'Islam e dei palestinesi.
Le spiegazioni indicano motivi interni ed esterni, ma senza precisarli. Per quelli interni prevale l'idea che Trump in difficoltà abbia voluto marcare che mantiene le promesse elettorali.
In realtà, per il grande pubblico americano la questione di Gerusalemme non è sicuramente un tema primario.
Ma lo è per le élite americaniste massoniche, fuse con quelle bibliste, custodi del progetto (geo)simbolico che fu substrato di quello illuminista dei fondatori degli Stati
Uniti: far diventare Washington la terza Roma e, soprattutto, la seconda Gerusalemme, con potenza tale da sostituire le prime (Gerusalemme è il luogo del contratto con Dio) e diventare così il centro del mondo.
Per esempio, l'obelisco di Washington simboleggia, in linguaggio aperto, l'unità degli americani, ma, in linguaggio iniziatico, il centro del mondo stesso.
In sintesi, l'azione di Trump potrebbe essere finalizzata a comunicare l'ingaggio in tale missione americanista alle élite massoniche e bibliste per portarle a proprio sostegno e superare la crisi di credibilità interna.
L'ipotesi potrebbe apparire stravagante, ma bisogna considerare i codici simbolici che influenzano la formazione dei club di potere reale in America. Ci sono precedenti: George W. Bush enfatizzò il codice dei «Rinati in Cristo» sia per rafforzare il legame con le élite protestanti americaniste sia per affermare la fusione entro la figura presidenziale di capo religioso e imperatore, imitando la tradizione anglicana, in contrapposizione al cattolicesimo dove è il Papa a incoronare l'imperatore, simbolismo per affermare il diritto d'impero dell'America.
Sul piano dei motivi esterni sembra ovvio che Trump abbia ottenuto il consenso dell'Arabia, in cambio dell'alleanza anti iraniana in cui è inclusa anche Israele, prima di fare la mossa. Non si può escludere un segnale per limitare la convergenza petrolifera tra sauditi e Mosca.
Lo scenario è nebbioso, ma traspare che Trump voglia sbloccare lo stallo decennale della questione palestinese, dando a Israele qualcosa affinché molli qualcos'altro e mostrando ai palestinesi che non possono pretendere troppo.
Potrebbe essere una variante del piano Sharon che puntava a restituire parte del territorio palestinese alla Giordania, ingaggiare l'Egitto per il controllo di Gaza, il tutto in convergenza con i Saud, eliminando l'ipotesi di uno Stato palestinese.

(Italia Oggi, 8 dicembre 2017)


Per il momento l’annuncio di Trump resta soltanto una dichiarazione di principio: sul campo non è cambiato nulla. Lo spostamento dell’Ambasciata Usa a Gerusalemme è stato annunciato per un futuro più o meno lontano, e affinché questo avvenga realmente sarà interessante vedere che cosa Trump chiederà in contraccambio a Israele. Dopo questo solenne, formale annuncio, sarà difficile per Israele dire no a Trump, qualsiasi cosa gli salterà in mente di chiedergli. E se lo farà, se li troverà tutti contro. Stati Uniti compresi. M.C.


Dominata dagli islamisti, l'Onu cancella la Gerusalemme ebraica.

Assalto dall'Onu. Una risoluzione dietro l'altra alle Nazione Unite per cancellare la storia ebraica di Gerusalemme.

di Giulio Meotti

 
Yasser Arafat, terrorista palestinese e Kofi Annan, 7o segretario dell'Onu
ROMA - Pochi giorni prima che gli Stati Uniti riconoscessero Gerusalemme capitale di Israele, l'Assemblea generale dell'Onu ha votato 151 a 6 una risoluzione che cancella le radici ebraiche della Città vecchia e vi definisce Israele "potenza occupante". Hezbollah, intanto, chiama a raccolta i paesi arabi contro il governo Netanyahu. Una risoluzione che ricalca quelle dell'Unesco. E' soltanto l'ultima di una offensiva che i paesi islamici, con il voto di tutti i paesi della Ue, hanno lanciato contro Gerusalemme.
   E' di Yasser Arafat l'invenzione senza precedenti che ha negato l'esistenza della storia ebraica a Gerusalemme. Nel luglio 2000, durante il summit di Camp David tra Bill Clinton, Arafat ed Ehud Barak, Arafat se ne uscì con un coniglio dal cilindro. "La storia ebraica di Gerusalemme è un mito, il Tempio non è mai esistito", disse il leader palestinese. Per la prima volta si negò la provenienza nazionale degli ebrei da Gerusalemme. Da allora, questa cancellazione è stata adottata dall'Onu e dalla Ue.
   E' di 151 voti a favore, sei contrari e nove astenuti il bilancio della risoluzione delle Nazioni Unite che, tre giorni prima che gli Stati Uniti riconoscessero Gerusalemme capitale di Israele, ha negato la presenza ebraica e israeliana a Gerusalemme. La risoluzione afferma che "qualsiasi azione intrapresa da Israele, la Potenza occupante, per imporre le sue leggi, giurisdizione e amministrazione sulla Città santa di Gerusalemme sono illegali, nulle e prive di validità".
   La risoluzione è in linea con quelle simili approvate dall'Unesco, compresa l'omissione del "Monte del Tempio", usando invece solo il termine arabo-islamico per il sito, "Haram al Sharif". Soltanto sei paesi hanno votato contro all'Onu: Canada, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Stati Uniti e Israele. Nove gli astenuti: Australia, Camerun, Repubblica Centrafricana, Honduras, Panama, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Sud Sudan e Togo. L'Europa tutta ha votato contro lo stato ebraico assieme ai regimi islamici che l'hanno proposta e formulata.
   L'islam politico sta lanciando l'assalto a Israele dopo la decisione americana su Gerusalemme: l'Iran sciita, la Turchia di Erdogan, i potentati arabi, Hamas, Hezbollah (che ha espresso il suo sostegno a "una nuova sollevazione palestinese", affermando che tutti i paesi arabi e islamici dovrebbero appoggiarla". Ma a questa internazionale islamista si salda l'offensiva che le grandi burocrazie hanno lanciato contro Gerusalemme. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adesso riunita per condannare la decisione americana, ha appena votato in modo schiacciante per sconfessare i legami israeliani con Gerusalemme all'interno di ben sei risoluzioni anti israeliane approvate a New York. Tutti gli stati membri della Ue, che ora si dice "preoccupata" per la decisione americana su Gerusalemme, hanno votato contro Israele e a favore della risoluzione su Gerusalemme, compresi i paesi che si sono astenuti o si sono opposti allo stesso testo all'Unesco.
   L'agenzia dell'Onu per la cultura e la scienza con più risoluzioni si era intestata una campagna negazionista intesa a cancellare gli ebrei dai libri di storia. Solo quest'anno, gli organismi delle Nazioni Unite hanno approvato 18 risoluzioni contro Israele.
   Il Consiglio di sicurezza ha anche approvato una seconda risoluzione che ha chiesto a Israele di ritirarsi sulla linea precedente al 1967. 157 nazioni hanno votato a favore del testo, sette si sono opposte e otto si sono astenute. Anche qui, tutti gli stati membri dell'Unione europea hanno votato a favore della risoluzione. Gli organismi sovranazionali non sono a favore di una equa divisione di Gerusalemme. Ogni volta votano per cancellare la presenza ebraica e israeliana a Gerusalemme. Lavorano assieme ai paesi arabo-islamici per fare della Città santa una capitale musulmana.
   Nell'attuale sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tutti gli stati membri della Ue hanno votato per una risoluzione ciascuno per criticare Iran (1), Siria (2), Corea del Nord (3), Crimea (4), Myanmar (5) e Stati Uniti (6, per il suo embargo su Cuba). Al contrario, gli stati della Ue hanno votato per almeno 15 su 20 risoluzioni sponsorizzate dai regimi arabi che attaccano Israele.
   Lo scorso 22 novembre con la risoluzione "Peaceful settlement of the Palestinian question" l'Onu ha ancora una volta usato il termine islamico "Haram al Sharif" per indicare i luoghi santi di Gerusalemme, cancellando de facto quelli ebraici. Nessuno stato europeo si è fatto avanti contro la risoluzione. Stessa scena il 6 novembre: di nuovo soltanto "Haram al Sharif" nella risoluzione voluta da Sudan e Arabia Saudita.
   Tutte queste recenti risoluzioni dell'Onu indicano un assalto in corso da parte di una parte consistente dell'opinione pubblica internazionale contro Israele e Gerusalemme. Jeremy Corbyn, leader oggi del primo partito in Inghilterra se si andasse a elezioni, si è rifiutato di partecipare alla cena per il centenario della dichiarazione Balfour. In gioco, con quello storico testo, non c'erano i confini del 1967, ma l'esistenza e la nascita stessa di Israele.
   Altra che giusta divisione della città santa, all'Onu si lavora alacremente per una tabula rasa della storia ebraica e della presenza israeliana a Gerusalemme.

(Il Foglio, 8 dicembre 2017)


Nei laboratori del Technion di Haifa si combattono le sfide mediche di domani

 
Il Technion - Israel Institute of Technology - è costantemente classificato tra le migliori università di ricerca scientifica e tecnologica del mondo, ed è il primo ateneo di Israele. Dalla sua fondazione nel 1912, l'istituto ha formato generazioni di ingegneri, architetti e scienziati che hanno svolto un ruolo fondamentale nella posa dell'infrastruttura dello Stato di Israele e nella creazione di importanti industrie di alta tecnologia.
All'interno del vasto panorama didattico che il Technion offre, vi è una facoltà in particolare che giorno dopo giorno vuole combattere le sfide mediche di domani, la Biomedical Engineering (Ingegneria Biomedica), un campo che sta prendendo sempre più piede in Israele e nel mondo.
L'Ingegneria Biomedica comprende un ampio spettro di attività in cui le conoscenze e gli strumenti utilizzati nelle discipline di ingegneria tradizionali vengono applicate allo sviluppo di dispositivi e sistemi per la diagnosi, alla terapia clinica e alla ricerca delle basi fisiologiche e biologiche delle malattie umane. Con l'aumento dell'aspettativa di vita e l'importanza della qualità della vita nei paesi sviluppati, c'è una domanda crescente di prodotti e servizi ad alto livello sanitario. Per soddisfare queste esigenze, l'industria biomedica si sta sviluppando ad un ritmo accelerato ed è attualmente uno dei settori leader delle industrie high-tech.
Il laboratorio di Cardiovascular Nanomed Engineering ad esempio, è concentrato sugli aspetti ingegneristici della biologia vascolare, con particolare attenzione all'interazione tra emodinamica, fisiologia vascolare e fenomeni di sviluppo delle malattie vascolari. L'obiettivo a lungo termine di questa ricerca è quello di consentire una migliore comprensione delle caratteristiche delle malattie vascolari e di sfruttare questa conoscenza per sviluppare approcci terapeutici innovativi.
Nel laboratorio di Biomedical Optics, guidato dal Prof. Dvir Yelin, si studiano le applicazioni delle ottiche avanzate per affrontare alcune delle sfide cliniche di oggi e domani. I principali progetti di ricerca includono lo sviluppo di strumenti diagnostici minimamente invasivi e nuovi approcci terapeutici contro il cancro che prevedano tossicità ed effetti collaterali minimi.

(SiliconWadi, 7 dicembre 2017)


Islamico attacca un ristorante ebraico ad Amsterdam: "Allahu akbar"

Il ristorante ebraico attaccato dall'islamico
Un islamico ha attaccato un ristorante ebraico sull'Amstelveenseweg, ad Amsterdam. L'uomo era armato di bastone, aveva anche una bandiera palestinese e indossava una kefiah.
L'islamico ha gridato "Palestina e Allahu akbar" durante la sua azione e mentre distruggeva le vetrate. L'attacco è il primo in Europa a seguito della scelta del presidente americano Trump che ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele.
Il figlio del proprietario del ristorante descrive l'azione come "un attacco". "Vi sono sputi frequenti. Ma mai qualcosa di simile. Tutti sono terrorizzati ed è avvenuto un'ora prima dell'orario di apertura ".

(Vox, 7 dicembre 2017)


Netanyahu: altri paesi seguiranno gli Usa

L’esercito invia rinforzi in Giudea-Samaria

Benyamin Netanyahu è tornato oggi a felicitarsi con Donald Trump per il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele ("Ha legato per sempre il suo nome con la storia della nostra capitale") e ha rivelato che altri Paesi potrebbero seguire il suo esempio. "Siamo in contatto con altri Paesi affinché esprimano un riconoscimento analogo - ha detto il premier in un discorso al ministero degli Esteri - e non ho alcun dubbio che quando l'ambasciata Usa passerà a Gerusalemme, e forse anche prima, molte altre ambasciate si trasferiranno. E' giunto il momento".
"In seguito ad un esame della situazione da parte dello Stato maggiore, è stato deciso che un certo numero di battaglioni saranno inviati come rinforzo in Giudea-Samaria (Cisgiordania)": lo ha reso noto il portavoce militare israeliano. Le forze armate hanno messo in stato di allerta anche altre unità, ha aggiunto, "per far fronte a possibili sviluppi" legati alle proteste palestinesi.

(ANSAmed, 7 dicembre 2017)


Trump ha respinto il ricatto delle minacce violente e ha posto fine alla negazione della realtà

Che governo e Knesset abbiano sede a Gerusalemme non è mai stato oggetto di negoziato. Trump dice agli arabi: chi vuole davvero la pace negozi sulle questioni vere

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele è una decisione assolutamente corretta, innanzitutto per un semplice motivo: perché Gerusalemme è la capitale di Israele.
Quali che siano i confini municipali definitivi che verranno decisi dagli israeliani, quali che siano i confini e gli ordinamenti comunali che potrebbero emergere alla fine dei negoziati di pace, quale che sia ogni altra cosa che Gerusalemme potrebbe diventare un giorno (compresa la capitale arabo-palestinese), una cosa è assolutamente certa: Gerusalemme è la capitale di Israele.
L'anomalia non è che Trump lo abbia riconosciuto. L'anomalia è che non fosse successo fino ad oggi. E' la ragione è ovvia: la paura per l'opposizione di arabi e i palestinesi....

(israele.net, 7 dicembre 2017)


Israele dichiara operativo l'F-35

L'F-35I Adir sarà unico nel suo genere. Le concessioni ad Israele ed il punto sul programma Joint Strike Fighter. L'importanza del Block-4 e le criticità di ALIS

di Franco Iacch

 
F-35
Israele ha raggiunto la Capacità Operativa Iniziale dello Squadrone Golden Eagle (140) formato da nove F-35. La flotta F-35 di Israele sarà formata da 50 piattaforme tattiche. L'Aeronautica israeliana è l'unica forza aerea oltre all'Air Force USA ed al Corpo dei Marine, a dichiarare operativo l'F-35. Allo Squadrone Golden Eagle si uniranno altri sei F-35 entro il prossimo anno.
  Come sappiamo l'F-35I è una piattaforma tattica profondamente diversa da quelle che Lockheed Martin consegnerà ai partner del programma JSF. L'esatta natura delle alterazioni esterne ed interne non è chiara, ma senza dubbio l'F-35 di Israele differisce significativamente dalle tre versioni della Lockheed. I primi 19 F-35 acquistati da Israele hanno avuto un costo di 125 milioni di dollari ad unità, sceso a 112 milioni di dollari per il secondo lotto formato da 14 velivoli. Gli ultimi 17 F-35 avranno un costo unitario di 100 milioni di dollari. Il prezzo si riferisce esclusivamente all'acquisizione e formazione del personale e non alla manutenzione ed alla logistica. Il nuovo centro di formazione per gli F-35 israeliani si trova nella base aerea Nevatim, nel Negev. Lockheed Martin lo scorso anno ha annunciato di aver selezionato Elbit Systems per l'implementazione dei simulatori. Quest'ultima fornisce servizi di outsourcing per la forza aerea F-15/ F-16 nella base di Hatzor. Elbit Systems, infine, è leader mondiale nel settore dei display ad alta tecnologia. Oltre il 50% della formazione si svolge sui simulatori avanzati: in questo modo si riducono i costi per la formazione dei piloti. I 33 F-35A Conventional Take Off and Landing, o CTOL, acquistati attraverso il programma delle Foreign Military Sales (FMS) saranno consegnati entro il 2021: la fornitura sarà completata entro il 2024. Per quell'anno l'IAF avrà una flotta di 50 F-35 Adir basata su due squadroni schierati nella base aerea di Nevatim, nel sud di Israele.

 F-35 Adir: letale ma costoso
  Israele ha ricevuto nove F-35, il primo dei quali consegnato un anno fa durante una solenne cerimonia. Ribattezzato Adir, in ebraico Il Grande, rappresenterà un tassello aggiuntivo molto importante per il mantenimento della superiorità militare di Israele nell'area del Medio Oriente, grazie alle avanzate capacità di affrontare le minacce emergenti, come missili all'avanguardia, e di assicurare la protezione dello spazio aereo. L'F-35 combina una tecnologia stealth avanzata che garantisce la bassa osservabilità con la velocità e l'agilità di un caccia, un sistema di sensori totalmente integrato, la capacità netcentrica nelle operazioni e il supporto avanzato. Israele contribuisce al programma F-35 con la produzione di semi-ali per l'F-35A da parte delle Israel Aerospace Industries. Elbit Systems Ltd. realizza il casco Generation gamal Helmet-Mounted Display, che sarà utilizzato dai piloti dell'F-35 in tutto il mondo. Componenti compositi per la parte centrale della fusoliera dell'F-35, infine, sono realizzati da Elbit Systems-Cyclone. La piattaforma tattica F-35 è un sistema d'arma in divenire, progettata per contesti futuri per minacce oltre il raggio visivo. Israele considera l'F-35 come la migliore piattaforma tattica in inventario, tuttavia il governo ne ha riconosciuto l'elevato costo, richiedendo una "meticolosa valutazione" prima di ogni qualsiasi ordine futuro. Considerando i costi, l'IAF utilizzerà l'F-35 in operazioni classificate per la raccolta di informazioni elettroniche o per eliminare bersagli a lungo raggio protetti da sistemi integrati di difesa di ultima generazione.

 Le concessioni ad Israele
  Israele ha ricevuto negli anni delle versioni pesantemente modificate degli F-15 e F-16 ricevuti dagli Stati Uniti. Lockheed Martin ha prodotto una versione speciale del caccia F-16 dotato di Conformal Fuel Tanks, AGP-68(V)X Radar, Helmet Mounted Cueing System, Dorsal spine Avionics Compartment e comunicazione satellitare per le forze aeree israeliane. Fin dal 2015 Lockheed Martin è al lavoro per soddisfare una particolare esigenza del Ministero della Difesa israeliano: estendere il raggio d'azione dell'F-35 di almeno il 30%. L'F-35 israeliano sarà senza dubbio caratterizzato da sistemi avanzati ed un maggiore raggio d'azione. La IAF ha già richiesto serbatoi supplementari specifici così da non inficiare il profilo del caccia e le sue caratteristiche stealth. Israele è interessata ad estendere il raggio d'azione dello JSF per ridurre i rifornimenti in volo nelle missioni a lungo raggio. L'attuale raggio d'azione di un F-35 è di circa 1150 km. Se l'F-35 israeliano incrementasse del 30% il suo flight range potrebbe colpire obiettivi iraniani. Tuttavia il caccia avrebbe sempre necessità di un rifornimento in volo (l'IAF ha una capacità limitata), considerando che gli obiettivi iraniani si trovano ad una distanza minima di almeno 1000 km. In ogni caso, Israele ha le capacità di modificare pesantemente l'F-35, stravolgendone anche la cellula. In teoria, qualsiasi modifica al design del velivolo o al software dovrebbe essere compiuto dopo la firma di un accordo consensuale tra le parti. Tel Aviv, secondo prassi consolidata, è stata autorizzata ad implementare hardware indigeno e svariati sistemi di guerra elettronica. L'esatta natura delle alterazioni (esterne ed interne) non è chiara, ma alcune di queste dovranno essere scritte nel prezioso codice sorgente, gelosamente custodito dagli USA. E' un'eccezione per l'alleato nel Medio Oriente, che non sarà mai consentita ad altri partner.
  Sebbene l'F-35I sia basato sull'F-35A dell'Aeronautica USA, non conosciamo la reale configurazione e le funzionalità degli Adir.
  Ignoriamo le modifiche apportate a quell'unico F-35 acquistato da Israele nel maggio scorso come banco di prova. Non sappiamo se i nove Adir che hanno raggiunto la Capacità Operativa Iniziale implementano i nuovi aggiornamenti software indigeni.
  Solo indiscrezioni, infine, su una nuova versione dell'F-35 progettata da Lockheed, che dovrebbe essere consegnata entro il 2020, per rispondere ai particolari requisiti operativi di Israele.
  Probabilmente la più grande concessione fatta ad Israele riguarda il diritto di eseguire la completa manutenzione degli Adir in patria. Tutti gli altri paesi membri del programma JSF dovranno far volare i rispettivi F-35 nelle strutture autorizzate sparse nel globo (come quella in Italia). Non per Israele. Rete logistica, motori, avionica, struttura, rivestimento, armi ed ogni tipo di intervento necessario per rendere operativi gli F-35 si svolgerà in Israele. Un tale accesso ai sistemi di missione renderà più agevole l'integrazione delle armi di Israele. Non ultima l'integrazione C4I che consentirà agli F-35 di Israele di interfacciarsi con l'intera architettura di difesa e sorveglianza del paese.

 In missione da stanotte?
  Dichiarare un aereo pronto per le operazioni non significa mandarlo in battaglia (storia dell'F-22 insegna). Non avrebbe senso rischiare adesso una costosa piattaforma come l'Adir (che manca ancora di preziose capacità che acquisirà nel tempo) per le stesse missioni svolte fino ad oggi con successo dai velivoli della precedente generazione. Le piattaforme a bassa osservabilità non sono ovviamente invisibili. Un profilo stealth è concepito per ritardare il rilevamento ed il tracciamento della sorgente nemica. L'F-35 è ottimizzato contro i radar a banda X, mentre potrebbe essere rilevato da sistemi che utilizzano frequenze più basse. Tuttavia le capacità di guerra elettronica dell'F-35I dovrebbero garantirgli una certa impunità anche in contesti di ultima generazione.

 F-35: le integrazioni software
  La strategia dello sviluppo del programma JSF si basa sull'implementazione di software che di volta in volta incrementano le capacità della piattaforma. L'F-35 che volerà nel 2040, sarà dotato del Block-7. Ci sono più di 10 milioni di singole righe di codice nel sistema JSF.
  Il Block 1A/1B comprende il 78 per cento del codice sorgente necessario per le Capacità Operative Iniziali dell'F-35. Fornisce il software per l'addestramento e l'interazione primaria tra i vari sistemi principali.
  Il Block 2A aumenta le capacità generali del velivolo per l'addestramento dei piloti comprese le funzionalità off-board fusion, collegamenti dati iniziali, contromisure elettroniche e debrief migliorato. Con il blocco-2A, viene fornito l'86 per cento del codice necessario per raggiungere la Capacità Operativa Iniziale. Il Corpo dei Marine con l'F-35B ha raggiunto la Capacità Operativa Iniziale con il blocco software 2B.
  Il Block 2B conferisce Close Air Support basilare con la possibilità di lanciare AMRAAM (Advanced Medium Range Air to Air Missile), JDAM (Joint Direct Attack Munition) e GBU-12 (laser-guided aerial bomb). L'F-35B in servizio con i Marine è dotato di una versione speciale del software Block 2B. Lo squadrone dei Marine, chiamato 'Gruppo 1', presenta la maggior parte delle modifiche hardware già implementate (e che un domani saranno integrate nella produzione di massa) come le paratie rinforzate.
  Il Block 3i è descritto come un aggiornamento tecnico del Block-2B. Consente all'aereo di utilizzare JDAM, GBU-12 ed AMRAAM. La principale differenza tra il Block 2B ed il Block 3i è l'implementazione di nuovi hardware, in particolare di un nuovo processore integrato. Con il Block 3i viene fornito l'89 per cento del codice necessario per raggiungere la Piena Capacità Operativa.
  Il Block 3F (in fase di consegna ai reparti) dovrebbe conferire il 100 per cento delle capacità warfighting della piattaforma tattica, con integrazione totale di tutti i sistemi esterni. Sempre nel 3F sono presenti i codici per abilitare una serie di munizioni compresi i missili aria-aria a corto raggio AIM-9X, le Small Diameter Bomb GBU-39 e le GBU-49. Se integrato con il Block 3F, la GBU-49 consentirà all'F-35A di colpire bersagli mobili fino a quando le munizioni Laser Joint Direct Attack e Small Diameter Bomb II saranno integrate nelle release software successive. I test di volo con la GBU-49 sono iniziati pochi giorni fa. L'Air Force dovrebbe ricevere i primi 400 kit di guida entro la fine del prossimo gennaio. L'integrazione non è ritenuta complessa poiché la GBU-49 è molto simile alla GBU-12. Senza il software 3F finale, l'F-35 non potrà entrare in produzione su larga scala. Il software per abilitare il cannone GAU-22 a quattro canne rotanti da 25mm sarà rilasciato entro il 2019. E' capace di sparare tre mila colpi al minuto, con un'autonomia di 180/220 colpi. Al di là della capacità di penetrazione delle munizioni (inferiori all'Avenger), la dotazione standard dell' F-35A è inferiore di quasi 10 volte rispetto all' A-10.

 L'importanza del Block-4
  Il Block 4 sarà suddiviso in due segmenti. Il Block-4a sarà pronto tra il 2020 ed il 2021, mentre il 4B per il 2023/2024. I dodici milioni di dollari per scrivere il Block-4 sono stati inseriti nel bilancio 2014. Gran parte dello sviluppo del Block-4 sarà dedicato alle contromisure contro i sistemi di difesa aerea nemici esistenti e con quelli che sorgeranno negli anni futuri (finestra temporale stimata di venti anni). Il Block 4 abiliterà tutti gli asset dei partner del programma JSF che ne hanno fatto richiesta e le SDB-II (Small Diameter Bomb II). A differenza delle bombe a guida laser GBU-54 in grado di distruggere bersagli mobili, l'SDB II sarà in grado di farlo ad intervalli più lunghi e con ogni tipo di condizione meteo grazie al cercatore trimode: infrarossi, onde millimetriche e guida laser. Opzioni tipicamente non utilizzate in un unico sistema. Il collegamento dati bidirezionale a doppia banda consente all'SDB II di cambiare i bersagli o adattarsi a diverse postazioni durante il volo. Secondo Raytheon il sistema d'arma può classificare gli obiettivi da colpire. L'F-35 potrà trasportare internamente fino a otto SBD II così da non inficiare la firma radar. Soltanto gli Stati Uniti prevedono di acquistare 17 mila SDB II: dodicimila per l'Air Force e cinquemila per la Marina. L'importo complessivo dell'acquisizione delle Small Diameter Bomb II per il Pentagono è di tre miliardi di dollari.
  Il Pentagono ribadisce che non si prevedono difficoltà per la Capacità Operativa Iniziale della Marina che resta programmata al prossimo anno.

 Perché Israele non vuole ALIS
  La catena logistica degli Adir, così come confermato dall'Israel Aerospace Industries, non sarà gestita da ALIS, ma da un software indigeno. Nessun altro paese che partecipa al programma JSF riceverà tali concessioni. La rete logistica di Israele garantirà il pieno funzionamento della flotta Adir senza la connessione con l'infrastruttura globale statunitense.
  Lo scorso aprile Lockheed Martin ha annunciato il rilascio della versione 2.0.2 di ALIS, per la prima volta integrata con il sistema propulsivo F135 della Pratt & Whitney. ALIS o Autonomic Logistics Information System è il centro nevralgico del sistema F-35, un ambiente unico sicuro di informazioni a terra gestito da intelligenza artificiale. ALIS, sistema basato su Windows, consentirà ai piloti così come alla forza a terra di supporto di intraprendere azioni proattive per garantire l'efficienza del caccia in qualsiasi teatro operativo. Il software per la logistica è definito come la spina dorsale della flotta F-35. La versione 2.0.2 di ALIS per l'F-35B del Corpo dei Marine ha ricevuto un opportuno service pack, considerando la variante Stovl. I service pack sono sviluppati, testati e distribuiti su una linea temporale molto più rapida rispetto ai software principali. Rolls-Royce ha progettato la ventola di sollevamento, così come il modulo girevole direzionale. L'intero LiftSystem è associato all'albero motore F135 che alimenta le tre varianti del velivolo.

 La versioni di ALIS
  Secondo Lockheed, ALIS 2.0.2, rilasciato con nove mesi di ritardo ed inizialmente previsto per la capacità operativa iniziale dell'F-35A dell'Air Force, dovrebbe garantire una migliore connessione e stabilità. Nell'agosto del 2015, l'Autonomic Logistics Information System rilevava l'80% di falsi positivi. La versione 2.0.1, rilasciata al Corpo dei Marine un anno fa, avrebbe dovuto garantire una stabilità ottimale. Tuttavia, così come confermato da Michael Gilmore, all'epoca direttore del Dipartimento della Difesa per la valutazione operativa dei sistemi, l'architettura complessa continuava a palesare molteplici criticità e carenze informatiche.
  La versione 2.0.2 gestisce attualmente la flotta F-35 schierata nella base aerea di Nellis, Nevada, e dovrebbe essere stata rilasciata in tutti i siti operativi nel globo entro l'anno. A causa dei ritardi accumulati, alcuni aggiornamenti critici e particolari funzionalità previste nel software 2.0.2, sono stati spalmati sulle prossime versioni del sistema. Secondo linea temporale, ALIS 3.0 dovrebbe essere rilasciato entro l'inizio del 2018 cosi da completare la fase di sviluppo dell'F-35.
  La versione 4.0 di ALIS sarà completata entro il 2019.

 Come funziona ALIS
  E' sostanzialmente un hub utilizzato per pianificare le missioni, tenere traccia dello stato dei velivoli, interfacciato con la logistica di approvvigionamento. A differenza di qualsiasi altra piattaforma aerea, ALIS gestirà quotidianamente queste operazioni, in un unico hub nel mondo. L'obiettivo di Lockheed Martin è quello di abbattere i maggiori costi di manutenzione correlati all'evoluzione della tecnologia delle piattaforme da combattimento e rendere più agevole la gestione delle flotte. Tutti i server ALIS si collegheranno attraverso le reti militari: è progettato su un solo server globale chiamato Autonomic Logistics Operating Unit (ALOU), a Fort Worth, Texas. L'Autonomic Logistics Operating Unit gestisce l'intera flotta mondiale. Ogni nazione avrà un proprio server, chiamato Central Point of Entry (CPE). A loro volta, gli squadroni utilizzeranno a livello locale un server (fisso e trasportabile) chiamato Standard Operating Unit (SOU). La configurazione dei moduli SOU è strutturata sulla base operativa di riferimento: gli strumenti diagnostici sono progettati su parametri pre-programmati. Ogni F-35 è monitorato costantemente dal software Health and Usage Monitoring systems. Il tracciamento digitale dell'Autonomic Logistics Information System è progettato per consentire agli F-35 di un paese X di collegarsi al SOU che si interfaccerà al CPE. Quest'ultimo memorizzerà i dati e trasmetterà le informazioni all'Autonomic Logistics Operating Unit. Tutti gli F-35 sono programmati con gli ultimi dati operativi disponibili mentre ALIS è costantemente aggiornato con i requisiti di stato e di manutenzione tecnica di ciascun aeromobile. La velocità di download in debriefing del pacchetto missione dipende da diversi fattori. ALIS, in presenza di file incompleti, potrebbe impedire ad un aereo di decollare. Sarà essenziale quindi un ottimale e stabile connessione con il mainframe per garantire il flusso bidirezionale di informazioni. Qualsiasi interruzione potrebbe paralizzare le forze aeree. Ogni velivolo potrà perdere la connessione con il proprio server nazionale per un massimo di 30 giorni. Dopo tale termine, la piattaforma tattica dovrà essere messa a terra. Ristabilita la connessione, il SOU scaricherà i dati tattici e logistici nel CPE. Esisteranno quindi tanti server quanti saranno i paesi che acquisteranno l'F-35, ma un solo hub principale nel mondo. Ogni scambio di dati (compresi quelli classificati), per quanto breve, offre l'opportunità ad una minaccia informatica determinata ed abile di monitorare, interrompere o danneggiare i sistemi di informazione e di combattimento.

 ALIS non è mai stato progettato con un sistema di back-up.
  Il Pentagono prevede di schierare una seconda ALOU per la ridondanza, ma la tempistica non è ancora chiara. I timori quindi nascono (oltre all'attuale instabilità del sistema che continua a registrare un alto tasso di falsi positivi nonostante i continui service pack rilasciati) per particolari contesti in cui potrebbero verificarsi perdite di connessione ed intromissioni esterne. Azioni che potrebbero limitare le operazioni della flotta a 30 giorni dall'ultima connessione. L'Autonomic Logistics Information System non limita le operazioni di volo, ma rende cieche le squadre a terra sul reale stato del velivolo. Se offline, le squadre a terra non dovrebbero fare altro che procedere fisicamente, gestendo l'intera catena di rifornimento del caccia, così come la configurazione, la diagnostica degli errori, la pianificazione di missione ed il debriefing.

(il Giornale, 7 dicembre 2017)


Benvenuta Gerusalemme

Il trasferimento dell'ambasciata americana nella capitale di Israele, decisione del Congresso, è una risposta alla storia e a molti nemici. Processo difficile e da accompagnare. Lo status internazionale per le tre religioni. L'Italia si faccia avanti.

di Giuliano Ferrara

 
Gerusalemme - Knesset
Il trasferimento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale dello stato d'Israele, è una decisione del Congresso degli Stati Uniti votata ventitré anni fa, alla quale i presidenti nel frattempo succedutisi, che hanno sempre promesso di attuarla, hanno regolarmente derogato per ragioni diplomatiche. Queste ragioni sono venute meno e il gesto compiuto sotto l'Amministrazione Trump, simbolicamente potente e dunque pericoloso in sé ma inevitabile, è benvenuto. Se nel mondo e nelle agenzie Onu è di moda il boicottaggio di Gerusalemme, intesa come capitale dello stato ebraico, e dello stesso Israele, ecco la risposta. Se l'Iran si allarga in Siria, sotto protezione russa, ecco la risposta. Se l 'Iraq ha una tentazione più che sciita e anticurda, ecco la risposta. Se il Libano periclita sotto la ferula degli Hezbollah para-iraniani, ecco la risposta. Se in Egitto e in Arabia Saudita fanno sul serio, quando dicono di volere una nuova situazione geopolitica dell'area, sotto l'incombente minaccia prenucleare, ecco la risposta e l'incoraggiamento. Se il despota turco tiene il piede in otto scarpe, ecco la risposta. Se l'Unione europea e la Gran Bretagna non sono capaci di una politica mediorientale e di vera pace, ecco la risposta. Se la Lega araba, e dispiace per la Giordania, è divenuta un contenitore di parole e di minacce, ecco la risposta. Se l'Autorità palestinese gioca con Hamas una partita ambigua, ecco la risposta. Se il Vaticano non va oltre un generico irenismo pro palestinese, dopo aver cauzionato la guerra assadiano-putiniana in Siria con preghiere e digiuni, ecco la risposta. Se se se, ecco ecco ecco. Con tutte le contraddizioni e le rischiose conseguenze del caso, che ricadono su un Israele attento, ma non intimidito nonostante le diverse opinioni in merito e le divisioni politiche nella Knesset.
   Immediatamente e contestualmente sarebbe ragionevole se il governo di Benjamin Netanyahu prendesse una formale e visibile iniziativa per specificare che lo status internazionale di una città che è metastoricamente ebraica da alcuni millenni, e che poi è diventata il teatro della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo e infine il luogo dell'ascesa al cielo del Profeta Maometto, deve essere quello di una città libera in cui è protetta la libertà di culto indiscriminata, una città speciale che è capitale politica di un paese e capitale spirituale di almeno tre religioni abramitiche e delle loro diverse declinazioni e tendenze. E dell'iniziativa dovrebbe fare parte la disponibilità totale e sincera a negoziare ogni aspetto del carattere speciale di Gerusalemme con chiunque sia interessato alla pace dell'anima, in pace e in guerra, sempre e comunque. Non vedo alternative se non la preparazione di una guerra guerreggiata, l'ennesima, e tragica. Chi ci sta ci sta, e assume le garanzie del caso in un prevedibilmente lungo ma fecondo negoziato, e chi non ci sta si assume un tremenda responsabilità.
   Che Trump e il suo caro genero Jared Kushner siano in grado ci accompagnare questo processo, e che Netanyahu ne sia convinto e capace, è un altro paio di maniche. Ma c'è sempre il Congresso, che è all'origine della faccenda simbolica e diplomatica. E c'è la nostra responsabilità di italiani, per esempio, e di europei. Perché il presidente Paolo Gentiloni non si assume l'onere della proposta, magari con il conforto del capo dello stato italiano Sergio Mattarella, che ha voce in capitolo in molti sensi? Perché il Parlamento italiano non la fa sua? Sarebbe saggio. Sarebbe un modo di assecondare anche le preoccupazioni di Emmanuel Macron, che devono essere formulate secondo il corso preciso delle circostanze attuali, e non in modo demagogico, il che sarebbe nel suo stile di governo e di simbolismo politico. Tutto il resto, e cioè l'aspettativa superstiziosa di violenze e intifada, sulla quale palesemente scommette il giornalismo pigro della scena europea e americana mainstream, dovrebbe essere messo da canto. E la difesa della sicurezza di Israele, che fa il pari necessario ed eguale con lo sforzo di negoziare il negoziabile sempre, ma di posporre a un riconoscimento effettivo della realtà sionista benedetta trattative inutili dopo i celebri fallimenti del passato, è o dovrebbe essere al primo posto delle preoccupazioni di quanti hanno creduto di poter convivere, in modo spesso complice, con il boicottaggio del grande sogno dell'Ottocento, del Novecento e del XXI secolo.

(Il Foglio, 7 dicembre 2017)


Giustizia dopo anni di risoluzioni persecutorie. Riconosciuto il cuore pulsante di un popolo

Il coraggio del presidente. Israele respira aria nuova

di Fiamma Nirenstein

Trump ce l'ha fatta: non ha indicato né confini, non ha parlato di «tutta» Gerusalemme, e non l'ha divisa in occidentale e orientale, ha spiegato che il futuro è nelle mani delle due parti se vorranno creare due Stati per due popoli, ha reso più blanda la sua posizione firmando per il trasferimento dell'ambasciata ma spiegando che per costruirla ci vorrà del tempo. «È nel migliore interesse della pace» ha spiegato Trump, pace in Medio Oriente, spiegando con coraggio che essa deve svoltare di 360 gradi, che deve partire dalla verità esistente sul terreno e che i palestinesi non devono considerare aggressivo ciò che in ultima analisi prepara loro un futuro di cui godranno a loro volta.
   Non sarà facile, ma le altre strade sono state un disastro: Trump ha detto senza lasciare spazio al narcisistico processo di pace inventato sui confini di una guerra di aggressione subita da Israele nel '67, e intitolato «fine dell'occupazione» di uno Stato mai esistito. Gerusalemme è la capitale dello Stato d'Israele, ha detto, per 70 anni gli Usa non l'hanno riconosciuto restando ancorati alla «internazionalizzazione» decretata dall'Onu nel 1947 nonostante tutti i presidenti americani, compreso Obama, l'avessero promesso. Ma la paura ha vinto e anche adesso gli strepiti rischiano di coprire la realtà da cui potrebbe finalmente disegnarsi una situazione di giustizia, che restituisca a Israele la sensazione di essere vista come quello stato democratico e sempre minacciato che è, e ai palestinesi la consapevolezza che non otterranno nulla se proseguono sulla strada del rifiuto, della criminalizzazione, della delegittimazione. Trump ha concluso una delle tante torture che la comunità internazionale infligge a Israele: disconoscere la sua capitale.
   Trump ha incitato a non cambiare lo status quo, a arrivare a una soluzione concordata: anche questa una novità, dato che per esempio l'Europa, come faceva Obama, si pregia di disegnare i confini del futuro israeliano e palestinese. Ha messo da parte così il divieto insensato che ha in tutti questi anni non solo bloccato il riconoscimento, ma che ha anche messo Israele nell'angolo dell'Onu dove l'hanno perseguitata risoluzioni a centinaia, fino all'avvento ragionevole e benefico di Nicky Haley; ha punito la farsa politica per cui l'Unesco ha decretato che gli ebrei sono un epifenomeno indegno di menzione storica, mentre l'islam può rivendicare persino il Muro del Pianto.
  Cambia qualcosa da domani? Proprio niente fuorché lo stato d'animo, Gerusalemme resta la solita capitale di un stato democratico dove tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e si vive in pace nonostante il terrorismo. Ma il semplice cittadino sente un nuovo respiro, ha visto accettare la sua realtà quotidiana, adesso vive nella Capitale dove da 3000 anni il suo popolo ha deciso di tornare. Scoppierà l'inferno adesso? Non è probabile. Gran parte del mondo sunnita condivide con Israele interessi strategici fondamentali, probabile che non vedremo re Salman d'Arabia o il generale al Sisi d'Egitto alla conferenza che Erdogan vuole organizzare la prossima settimana. È anche difficile che i palestinesi, a parte la smania di Hamas, possano avviare una vera guerra. Certo domani, venerdì, sarà un giorno agitato alle Moschee. Il resto si vedrà. Forse ieri è stato il primo giorno di un vero processo di pace.


(La Stampa, 7 dicembre 2017)


Gerusalemme capitale, scontri tra manifestanti palestinesi e militari israeliani

Incidenti sono stati registrati a Gaza, Betlemme, Hebron e Ramallah

Dopo la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, scontri tra dimostranti palestinesi e reparti militari israeliani in Cisgiordania, a Gerusalemme est e lungo la linea di demarcazione con Gaza. Almeno 114 persone sarebbero rimaste ferite perché colpite con armi da fuoco, intossicate da gas lacrimogeni o contusi da proiettili rivestiti di gomma.
Gli scontri sono stati registrati in particolare a Betlemme, Hebron e Ramallah. Secondo la Mezzaluna rossa ci sarebbero almeno 60 feriti: 12 persone sono state ferite da armi da fuoco, 13 sono rimaste contuse da proiettili rivestiti di gomma e altre 32 sono state intossicate da gas lacrimogeni.
Principale obiettivo di queste manifestazioni di protesta è il presidente americano Donald Trump. A Gaza sono stati bruciati poster con la sua immagine. A Betlemme un suo grande ritratto, un graffito dipinto di recente su un muro della Barriera di sicurezza, è stato cancellato con la vernice nera. A Nablus i dimostranti hanno portato in piazza un fantoccio che aveva il volto di Trump e gli hanno dato fuoco. Sul web circola da mercoledì anche un fotomontaggio che mostra Trump steso sanguinante a terra, con i fori di proiettili in testa e al petto.

 Isis e Al Qaeda incitano ad attaccare gli Usa
  I sostenitori dell'Isis e di Al Qaeda minacciano attacchi contro gli americani dopo la proclamazione di Gerusalemme capitale di Israele. Lo riferisce il Site, il sito di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web. "Vi taglieremo la testa e libereremo Gerusalemme", recita uno dei messaggi, in arabo, ebraico e inglese, postato online e corredato dalle immagini della moschea di al Aqsa.

(TGCOM24, 7 dicembre 2017)


A sinistra difendono gli ebrei morti e odiano quelli vivi

di Giovanni Sallusti

Gratta gratta, le anime belle che affollano la Cupola del Politicamente Corretto riadattano un adagio che il generale Custer riferiva agli indiani: «l'unico ebreo buono è quello morto». La stessa compagnia di giro che, nei caminetti delle tecnoburocrazie europee come nei sottoscala delle redazioni nostrane, strilla da mesi contro un fantasma, l'improbabile ritorno del vecchio antisemitismo con la svastica, alla prova dei fatti si mette alla testa dell' antisemitismo contemporaneo, quello modaiolo, in kefiah, terzomondista, che mette nel mirino gli ebrei là dove vivono oggi, nello Stato d'Israele.
   Antefatto: Donald Trump decide di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. E rivendica la simbologia del gesto (che attua una legge promulgata dal Congresso nel 1995): nel guazzabuglio mediorientale la libertà e i valori che la sostanziano sono tutti dalla parte di Israele, eccezione vivente in mezzo a un florilegio di teocrazie islamiste assassine. Ed ecco che contro gli ebrei viventi, gli ebrei hic et nunc in carne, ossa e guerra quotidiana contro il terrorismo che dilania periodicamente i suoi civili, si alza compatto il grido proprio di quel clubbino tanto in ansia per la memoria degli ebrei morti. Che è sacrosanta, tragedia insopprimibile del Novecento, ma proprio per questo richiederebbe un minimo di coerenza nel 2017.
   Macché, dai giornali illuminati su su (si fa per dire) fino alle Mogherini e ai Macron, è tutta una condanna. Sacrilegio, si mina il percorso negoziale dei #duepopoliduestati, tuona la Cupola, ed è subito hashtag. Sono parole solenni, di una solennità appesa al nulla, visto che sia la rappresentante Ue per la politica estera che il presidente francese che l'ultimo opinionista del circondario filopalestinese fingono di ignorare che niente di simile a un «percorso negoziale» si dà oggi nell'inferno del Medio Oriente, fuori dagli editoriali e dalle risoluzioni Onu. Né potrebbe essere altrimenti, almeno finché il controllo della Striscia di Gaza e di fatto dello stesso governo palestinese (Abu Mazen è la perfetta foglia di fico da spedire ai meeting in Europa) starà nelle mani e nei kalashnikov di Hamas. Una simpatica congrega di seguaci di Allah che nel proprio Statuto contempla come obiettivo finale la distruzione d'Israele, il quale «rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla», e sentenzia che «non esiste soluzione alla questione palestinese se non nel [ihad».
   Allo stesso Papa Francesco, che si è sentito in dovere di «rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo», sarebbe allora il caso di chiedere: quale status quo? Quello dell'Intifada dei coltelli, quello in cui una delle due parti impegnate in un fantomatico negoziato mira all'annientamento dell'altra («soluzione finale», la chiamavano i vecchi maestri dei nuovi antisemiti), quello della jihad antiebraica? Proprio non lo vedete, l'antisemitismo montante oggi dietro quella versione religiosa del Mein Kampf che per Oriana Fallaci era il Corano, concentrati come siete a condonare sull'antisemitismo di ieri? È uno strabismo morale che ha un nome ben preciso: collaborazionismo.

(Libero, 7 dicembre 2017)


Gerusalemme sede dell'ambasciata Usa? Non una gran notizia

di Barbara Pontecorvo

 
Barbara Pontecorvo
Gli Usa probabilmente sposteranno la loro ambasciata in Israele a Gerusalemme. Di per sé non è una gran notizia, poiché Gerusalemme è già la capitale dello Stato di Israele e le ambasciate solitamente risiedono nelle capitali degli Stati che le ospitano. Per comprendere il tanto livore, ammesso che si possa, suscitato da questo proclama statunitense e già annunciato dal Presidente Trump in campagna elettorale, occorre fare un passo indietro.
   Lo Stato d'Israele, la cui nascita è stata proclamata nel 1948 dalle Nazioni Unite, ha da subito eletto Gerusalemme come sua capitale, con ciò intendendosi la parte Ovest; la parte Est di Gerusalemme era stata conquistata (o meglio occupata) dalla Giordania, fino al 1967, quando decise di muovere guerra ad Israele. Nel 1980, il Parlamento israeliano (la Knesset), approvava con legge fondamentale (avente valore costituzionale) la proclamazione di Gerusalemme come capitale ufficiale dello Stato, spostandovi tutti gli uffici amministrativi.
   Il problema di Gerusalemme capitale di Israele, ad un'attenta lettura dei fatti, quindi, non esiste. Non esiste perché Gerusalemme non è mai stata capitale di un nascente Stato palestinese: l'Anp (Autorità Nazionale Palestinese) ha già rifiutato almeno due volte l'opportunità di vedersi riconosciuta Gerusalemme Est come capitale, in virtù di accordi di pace.
   Ma non esiste per un altro, più profondo motivo. Se le autorità palestinesi, dopo aver stabilito che la Palestina è uno Stato arabo governato dalla Sharìa (la legge islamica che non riconosce ad altri la piena libertà di religione), avessero accettato anche solo per un attimo l'esistenza dello Stato di Israele, forse potrebbero discutere di ciò che fa Israele su una parte del proprio territorio, che gli stessi non riconoscono nemmeno in minima parte.
   La verità è che alcuni Stati arabi, tra i quali in particolare alcuni governi dei palestinesi, non accetterebbero la sovranità israeliana nemmeno su uno sgabuzzino, in quei territori come in nessun'altra parte del mondo.
   Per le stesse ragioni, ci si potrebbe domandare perché ad Israele dovrebbe interessare l'opinione di chi predica il disprezzo per la sovranità ebraica anche sul suddetto sgabuzzino. La situazione, se non fosse così tragica, sembrerebbe presa di peso da una qualche mediocre commedia. Quando le Autorità palestinesi smetteranno di recitare quel ruolo, perché gli altri Paesi arabi avranno comunicato loro di esserne stufi ed annoiati, allora non ci saranno più morti ed i popoli, ebrei e arabi, potranno finalmente vivere in pace. Sperando che il prossimo copione sia scritto da chi è stanco di lutti e di odio.
   Chi proclama le giornate della collera potrebbe provare a proclamare le giornate, non dico dell'amore, ma perlomeno della serenità. Magari a costoro non interessa smettere questa inutile e lunghissima guerra, incuranti del sangue versato e delle sofferenze ma alle persone civili potrebbe, invece, interessare.

(il Fatto Quotidiano - blog, 6 dicembre 2017)


Il “ballon d’essai” del Signore
    Mi sono scelto Gerusalemme perché vi dimori il mio nome e mi sono scelto Davide perché governi il mio popolo Israele (2 Cronache 6:6).
    L'Eterno consolerà ancora Sion e sceglierà ancora Gerusalemme" (Zaccaria 1:17).
    L'Eterno prenderà possesso di Giuda come sua eredità nella terra santa e sceglierà ancora Gerusalemme (Zaccaria 2:12).
Quando nacque Giovanni Battista, i parenti volevano chiamarlo Zaccaria, dal nome di suo padre, e ci fu discussione in famiglia. Zaccaria però troncò i discorsi, si fece dare una tavoletta per scrivere (dal momento che il Signore l’aveva reso muto per la sua incredulità) e scrisse: “Il suo nome è Giovanni”. Non scrisse: “Lo chiamerò Giovanni” perché il nome del bambino c’era già, non l’aveva deciso lui. “Gli porrai nome Giovanni”, gli aveva detto l’angelo quando gli era apparso nel Tempio (Luca, cap. 1).
  Qualcuno in questi giorni ha detto: “La capitale di Israele è Gerusalemme”, e ne è nata nel mondo una discussione interminabile. Ma anche se a Trump non è apparso in visione un angelo, probabilmente non s’è accorto d’aver detto una verità che non c’era bisogno che ci fosse lui per essere vera. La capitale della nazione che il Signore si è scelta per i suoi propri scopi è Gerusalemme. Lo è sempre stata, anche quando alla nazione sono venuti a mancare la terra, la città, il governo. Per secoli è rimasto soltanto un popolo, ma Dio ha voluto che in questo popolo non venissero mai meno il ricordo e la speranza: il ricordo tenuto vivo dalle tradizioni e dalle feste; la speranza della città tenuta viva dalla frase “Il prossimo anno a Gerusalemme”; la speranza del governo tenuta viva dalla rottura del bicchiere sotto il piede dello sposo, in attesa della ricostruzione del Tempio.
 
  Quello che oggi si vede in Israele non è il compimento pieno di queste attese, ma ne rappresenta un segnale indicativo. La dichiarazione trumpiana potrebbe essere un “ballon d’essai” del Signore. “Cerchiamo qualcuno che dica chiaro e tondo, in modo pubblico e da fonte autorevole, quello che è sempre stato vero, anche se gli uomini non lo sapevano. E vediamo l’effetto che fa”. Questo potrebbe aver pensato il Signore (ma è soltanto una mia ipotesi di lavoro). Ma perché affidare una verità così importante a uno strumento così discusso come l’attuale Presidente degli Stati Uniti? Non vedono forse tutti, soprattutto i più intelligenti fra loro, che è un personaggio rancoroso, irragionevole, instabile, testardo come un mulo? Sì, come un mulo, parente stretto dell’asino. Ma non potrebbe Dio, nella sua ironica regalità, servirsi proprio di un asino per far arrivare la sua volontà ai potenti e intelligenti di questo mondo? Sì, certamente, l’ha già fatto più di una volta, e non ha mai detto che avrebbe smesso.
  Noi occidentali, membri di quella civiltà europea che adesso vorrebbe ricordarsi di essere giudaico-cristiana, certamente ricorderemo l’episodio biblico dell’asina di Balaam. E ricorderemo anche la fine che fece l’antisemita che la cavalcava: fu costretto, suo malgrado, a benedire Israele. Non c’è quindi da preoccuparsi per gli antisemiti di oggi che si infuriano al solo pensiero che Israele possa essere benedetta con l’assegnazione di Gerusalemme come sua capitale, e continuano a bastonare Trump. Se Trump è l’asina, loro sono Balaam. M.C.

(Notizie su Israele, 7 dicembre 2017)


I 10 motivi per cui Gerusalemme è la capitale di Israele

di Paolo Castellano

Il 5 dicembre sul sito del Jerusalem Center for Public Affairs è stato pubblicato un interessante articolo che elenca in 10 punti le motivazioni per cui oggi bisognerebbe riconoscere Gerusalemme come capitale israeliana. Il decalogo, scritto dopo la notizia della decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, è stato creato da Alan Baker, esperto di diritto internazionale e direttore del sopracitato centro di studi. Ecco qui la sua lista:
  1. «Gerusalemme è stata la capitale ufficiale dello stato di Israele e il centro del suo governo sin dal 1950. Gerusalemme è la sede del Presidente di Israele, della Knesset, della Suprema Corte, e il luogo di molti ministeri di governo e istituzioni sociali e culturali. Gerusalemme è un antico centro spirituale della religione ebraica ed è anche considerata la città santa dai membri di altri credi religiosi. Israele protegge i luoghi sacri delle tre principali religioni».
  2. «Nel 1967, la Giordania ha rifiutato gli avvertimenti di Israele e ha incominciato un aggressivo conflitto contro Israele, bombardando Gerusalemme. In risposta all'attacco e per difendersi, Israele ha imposto la propria presenza nella parte Est di Gerusalemme, poi controllata dalla Giordania».
  3. «Come noto, lo status di Israele a Gerusalemme Est è interamente legittimato e accettato dalla comunità internazionale sotto la legge internazionale del conflitto armato».
  4. «L'unificazione del 1967 di Gerusalemme con Israele attraverso l'estensione della sua legge, giurisdizione e amministrazione nella zona orientale della città - non accettata dalla comunità internazionale - non ha alterato la legalità della presenza di Israele e del governo nella città».
  5. «Gli Stati Uniti hanno ripetutamente stabilito che la questione di Gerusalemme deve essere risolta in una negoziazione come parte di un solo, durevole e comprensivo accordo di pace».
  6. «Le numerose risoluzioni generate politicamente e le dichiarazioni dell'ONU, UNESCO, e altri, nel tentativo di revisionare e distorcere la lunga storia di Gerusalemme e di negare le basi religiose, legali e i diritti storici del popolo ebraico e dello stato di Israele a Gerusalemme, non hanno valore legale e non sono vincolanti. Non rappresentano nulla ma sono solamente un'interpretazione politica di quegli stati che hanno votato per approvarle».
  7. «L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele hanno stabilito negli accordi di Oslo che "la questione di Gerusalemme" è uno stato permanente di negoziazioni che può essere risolto solo attraverso una diretta negoziazione tra le due parti in campo. Il Presidente degli Stati Uniti, come i presidenti della Russia ed Egitto, il re di Giordania, e i rappresentanti ufficiali dell'Unione Europea, sono tra i firmatari come testimoni degli accordi di Oslo».
  8. «Né le risoluzioni ONU/UNESCO e neppure le dichiarazioni dei governi, dei leader e delle organizzazioni possono imporre una soluzione alla questione su Gerusalemme. Questi soggetti non possono nemmeno dettare o pregiudicare il risultato di tali negoziazioni».
  9. «Il riconoscimento del fatto che Gerusalemme sia la capitale di Israele e che la sede dell'ambasciata americana a Gerusalemme sia una sovrana prerogativa degli Stati Uniti non pregiudica e non influenza i processi della negoziazione della pace. Questi elementi sarebbero un riconoscimento di una lunga situazione fattuale e la rettifica di una storica ingiustizia».
  10. «Le dichiarazioni del re di Giordania, dei rappresentanti palestinesi, e dei leader arabi in cui viene detto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele o il trasferimento dell'ambasciata USA a Gerusalemme danneggeranno il processo di pace e scateneranno un'ondata di violenza, non sono altro che inconsistenti minacce e sfortunati tentativi di destabilizzare la sovranità del governo israeliano. Arrendersi a tali intimidazioni, che inneggiano alla violenza e al terrorismo, costituirebbe un pericoloso precedente e un segno di debolezza».
(Bet Magazine Mosaico, 6 dicembre 2017)


Abu Mazen: Gerusalemm è la capitale eterna della Palestina

Il presidente palestinese Abu Mazen ha detto di aver ordinato alla delegazione diplomatica palestinese di lasciare Washington e di rientrare in patria. "Gerusalemme - ha insistito - è la capitale eterna dello Stato di Palestina".
Il presidente palestinese ha anche accusato Trump di aver offerto un premio immeritato ad Israele "che pure infrange tutti gli accordi".
"La decisione odierna di Trump equivale ad una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace", ha detto in un discorso alla Nazione. Secondo Abu Mazen il discorso di Trump è in contrasto con le risoluzioni internazionali su Gerusalemme.

(tvsvizzera, 6 dicembre 2017)


Gerusalemme capitale d'Israele

Comunicato stampa

In merito alla decisione del governo degli Stati Uniti di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme, l'Associazione Italia-Israele di Firenze - al di là di ogni discussione sulla scelta dei tempi e dei modi di questa decisione, che non sta ad essa valutare - non può non ricordare che Gerusalemme è la capitale dello Stato d'Israele indipendentemente dal riconoscimento di altri Stati, per indiscutibili ragioni storiche e per decisione della Knesset del 30 luglio 1980. Né può non ricordare che i rappresentanti palestinesi hanno costantemente rifiutato ogni proposta di pace che prevedesse anche una soluzione per lo status di Gerusalemme. Hanno rifiutato nel novembre 1947 il piano dell'ONU che prevedeva l'internazionalizzazione di Gerusalemme, hanno continuato a rifiutare ogni proposta di pace fino al luglio 2000, quando respinsero anche il piano di pace del presidente americano Bill Clinton, che prevedeva tra l'altro che Gerusalemme Est diventasse capitale dello Stato di Palestina, un piano - va ricordato - accettato dal governo israeliano. L'OLP ha continuato a rifiutare ogni ulteriore proposta di pace fatta negli anni successivi dal governo israeliano, proposte che prevedevano anch'esse Gerusalemme Est come capitale di un futuro Stato palestinese. Invece di accettare di trattare con il governo israeliano una soluzione di pace, che non può prescindere dalle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico, l'OLP ha scatenato un'offensiva propagandistica in tutte le sedi internazionali per ottenere un riconoscimento unilaterale del c.d. Stato di Palestina e minaccia adesso di scatenare una nuova ondata di violenze. Non è certo questa la strada per giungere alla pace e tanto meno per trovare una soluzione al problema dello status di Gerusalemme.

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 6 dicembre 2017)


Donald Trump si fa notare

Trump dà battaglia in Medio Oriente, Trump incendia il Medio Oriente, Trump agita i musulmani, Trump scatena l'ira araba, Trump infiamma il mondo arabo, Trump agita il mondo, Trump scuote il mondo. Sono affermazioni che si trovano in titoli di giornali di oggi. Ne presentiamo sotto una piccola selezione.
    L'avviso di Trump: a Gerusalemme l'ambasciata Usa
    La scelta di Donald Trump: Gerusalemme capitale d'Israele
    Trump: sposterò l'ambasciata a Gerusalemme
    Trump all'Olp: ambasciata a Gerusalemme
    «L'ambasciata Usa a Gerusalemme». Trump agita i musulmani. E l'Europa
    «Gerusalemme capitale d'Israele». Strappo di Trump
    Trump, strappo su Gerusalemme
    Israele, lo strappo di Trump: ambasciata a Gerusalemme
    Gerusalemme capitale, lo strappo di Trump incendia il Medio Oriente
    Su Gerusalemme Trump incendia il Medio Oriente
    Con Gerusalemme Trump dà battaglia in Medio Oriente
    Trump infiamma il mondo arabo
    "Ambasciata a Gerusalemme". Trump scatena l'ira araba
    La miccia - Gerusalemme a Israele rabbia globale su Trump
    «Ambasciata a Gerusalemme». Bufera dopo la mossa di Trump
    Gerusalemme, Trump scuote il mondo
    Gerusalemme capitale. Trump agita il mondo
    «Gerusalemme capitale», un coro di no a Trump
    Perché è pericolosa la mossa di Trump su Gerusalemme?
    Se Israele ora fosse più saggio di Trump
    Donald Trump e Gerusalemme capitale. Decisione giusta, uomo sbagliato
Qualunque cosa si pensi di Trump, ci si può chiedere se è più isterico lui o i suoi detrattori. Forse è l’argomento “Gerusalemme” che rende isterici. Non sarebbe in contrasto con quello che dice la Bibbia.

(Notizie su Israele, 6 dicembre 2017)


Difendere la pace senza temere nuove idee

di Paolo Lepri

È uno strappo, anche doloroso. Come tutti gli strappi può produrre nuove, imprevedibili lacerazioni, oppure può essere ricucito in maniera quasi invisibile. La terza possibilità è che il tessuto venga sostituito da uno più forte, in grado di resistere maggiormente all'usura del tempo. La decisione che il presidente americano Donald Trump sta per annunciare di spostare a Gerusalemme l'ambasciata degli Stati Uniti in Israele, seppure già prefigurata in passato dalla Casa Bianca, può cambiare tutto, anche in un mondo nel quale il conflitto israelo-palestinese aveva perso la sua dimensione centrale, aveva smesso di essere un punto di riferimento costante nelle relazioni tra l'Occidente e il mondo arabo, era diventato sempre meno la motivazione alla base del terrorismo islamico. È chiaro che si tratta di una scelta azzardata, perché la storia impone regole, giuste o sbagliate che siano, perché bisogna sempre tenere presente l'onda possibile delle reazioni. Ma anche perché le mosse unilaterali in un quadro di alleanze, come quello in cui l'America dovrebbe agire, sono rischiose in sé e per sé.
   E' stata una scelta azzardata perché la tela dei rapporti transatlantici con l'Europa (che ha da sempre una posizione precisa su questo tema, anche se modulata da sensibilità diverse) è troppo importante per non prendere posizioni condivise. La politica si fa con le idee. Anche con i gesti, naturalmente, ma i gesti richiedono ancora più approfondimento delle idee.
   Le voci del nostro incerto continente che non hanno nascosto la loro preoccupazione - da quella del presidente francese Emmanuel Macron a quella dell'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue, Federica Mogherini - esprimono concetti giusti. Hanno solo il difetto di dire soltanto che cosa non bisogna fare, ripetendo però - per quanto riguarda le iniziative da realizzare - formule che si sono rivelate inefficaci, ormai logorate dalla crescita dell'indifferenza, dall'inconsistenza politica e dall'ambiguità (Anp), dalla linea di rendere permanente lo status quo (Israele), dall'estremismo e dal fanatismo che nega la stessa esistenza dell'avversario (Hamas ). Detto questo, si tratta di affermare chiaramente che la soluzione dei «due Stati» nei modi ipotizzati in questi ultimi anni (da sempre sostenuta in ogni occasione da chi crede giustamente nella necessità di proseguire il processo di pace) è una formula che la realtà dei fatti ha reso inconsistente. Bisogna riconoscerlo e trarne le conseguenze. Il piano dei «due Stati» - affascinante sulla carta, ma non in quella geografica - poteva essere uno scenario praticabile all'epoca dei «no» di Arafat a Bill Clinton, prima che le esigenze di sicurezza di Israele si scontrassero sempre di più con l'instabilità aggressiva dei suoi vicini, con il gioco pericoloso compiuto dai principali attori del Medio Oriente (Iran in primo luogo) con l'espandersi della presenza ebraica - al di fuori delle risoluzioni internazionali - nei territori occupati nel1967-
   Riusciranno le onde anomale provocate dallo strappo di Trump a provocare un chiarimento, costringendo tutti - sulla scia dell'emergenza - a lavorare su nuove proposte? Non è escluso. Lo scenario più terribile, che non vogliamo nemmeno immaginare, sarebbe invece quello di sfruttare un eventuale aggravamento della situazione per compiere altre azioni unilaterali o giri di vite ingiusti nei confronti di tanta popolazione, lontana dal terrorismo, che vive in questa terra divisa. L'amministrazione americana sta mettendo finalmente a punto un nuovo piano che, come riferiva ieri il New York Times, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha illustrato il mese scorso al presidente dell'Anp Abu Mazen. Molti passi avanti dovranno essere fatti.
   Un'altra priorità (forse un'utopia) è che i Paesi arabi smettano di muoversi disinteressandosi alle conseguenze delle loro politiche. Parliamo dell' Arabia Saudita, delle nazioni sunnite impegnate nella coalizione anti-Houthi e dell'Iran che sostiene questa milizia nello Yemen. Quanto sta avvenendo in questo Paese è molto più di una «guerra dimenticata». Perfino il termine «catastrofe umanitaria», seppure adeguato alla tragedia che si sta consumando, porta con sé il senso del già visto e non la cifra di una implacabile unicità: migliaia di vittime, il colera che si sta diffondendo come una macchia di petrolio nel mare, bombardamenti che colpiscono con micidiale precisione zone civili, città distrutte, fame, denutrizione, mancanza di acqua, malattie. Il sostegno degli Stati Uniti all'intervento militare saudita non è simbolico. Vedremo se a Washington capiranno che questa è un'unica, complicata matassa.

(Corriere della Sera, 6 dicembre 2017)


Convergenze ebrei-sunniti. Dall'ira può iniziare il dialogo

Il piano del tycoon è ambizioso e rivoluzionario

di Fiamma Nirenstein

La frenetica opposizione alla possibilità che Trump decida di riconoscere Gerusalemme come capitale o persino di trasferirvi l'ambasciata non è di principio come vuole apparire, e neanche religiosa come Erdogan contrabbanda nei suoi discorsi più da capo della Fratelli musulmani che da presidente turco, tanto meno risponde alla preoccupazione che scoppi un inferno. È un omaggio alla più vieta delegittimazione d'Israele, col solito coro inclusa l'Europa, come se non fosse ovvio che è la capitale. L'ultima minaccia di un inferno è di ieri sera, quando Abu Mazen ha parlato al telefono con Trump, ma oltre a signora mia cosa ci combina, si devono essere detti molte cose e forse non tutte negative. Trump ha intenzione di rilanciare il processo di pace, i palestinesi che nonostante i discorsi roboanti sono deboli e chiusi in un angolo, forse desiderano anch'essi che qualcosa si muova. Ma la decisione di difendere la Moschea di Al Aqsa anche quando gli ebrei non hanno nessuna intenzione di toccarla, è un mantra obbligatorio di tutti gli islamici, dai palestinesi, alla Lega Araba, ai giordani, è un comizio inevitabile da parte di Erdogan, che non suscita nessuno stupore quando esprime il suo consueto odio per Israele ... Dispiace la consueta solerzia dagli europei impegnati da sempre a ridurre Israele ai minimi termini, dalla Mogherini a Macron. Le questioni sono due: in prìmìs, si tratta di nuovo di una bella occasione di delegittimazione dello Stato degli ebrei, del loro rapporto con Gerusalemme, della evidente ammissione del fatto che da 3mila anni è innanzitutto la città degli ebrei, dal '50 la loro capitale divisa dai giordani, dal '67 la capitale unita in cui tutte le religioni, le culture, le etnie.
   Ma la seconda questione è ancora più importante: da 20 anni il processo di pace ha perseguito strade inutili e fallimentari. Trump e il suo inviato e genero Jared Kushner stanno cercando di portare il Medioriente a cambiare strada perseguendo la pace in Israele mentre recuperano l'alleanza col mondo sunnita, perduta da Obama. È un disegno molto ambizioso: sarebbe per Trump un successo senza precedenti nella storia. Mai in realtà si è presentato un momento migliore: gran parte dei Paesi arabi, in testa l'Arabia Saudita, ha interessi comuni con Israele contro il pericolo iraniano. Avvalendosi di questo nuovo spazio e sapendo che in realtà è improbabile una rivoluzione del mondo arabo contro la decisione di riconoscere (Putin l'ha già fatto) Gerusalemme capitale perché gli interessi in comune sono maggiori dei contrasti, Trump avvia il suo progetto rivoluzionario. Gerusalemme è un banco di prova. L'alternativa fra spostare l'ambasciata e riconoscere la capitale ha tutta l'aria di una leva che probabilmente sarà stata usata nella telefonata. Se Abu Mazen sarà troppo duro, Trump potrebbe decidere per l'ambasciata altrimenti può ripiegare. Ma se i due decideranno di sedersi insieme, si parlerà di un piano diverso, che cancelli l'idea inaccettabile per Israele del confine del '67, assicurazione di guerra permanente, e preveda uno Stato palestinese con inserti territoriali israeliani e un allargamento nel Nord del Sinai. Se avverrà sarà un'operazione di verità cambiando strada da un vicolo cieco.

(il Giornale, 6 dicembre 2017)


Dobbiamo temere i nemici di Israele, non Trump

di Gustavo Bialetti

In un mondo normale Gerusalemme sarebbe la capitale d'Israele. E in un mondo normale tutte le democrazie compiute riconoscerebbero Israele come l'unica vera democrazia del Medio Oriente, mettendo fine a quest'insopportabile mix di affarismo e buonismo (le religioni sono tutte uguali) che produce posizioni come quella francese. La questione di Gerusalemme la devono decidere Israele e lo Stato palestinese nel loro normale dialogo di pace. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, vuole riconoscere in Gerusalemme la vera capitale d'Israele e quindi spostare l'ambasciata. Non si vede perché gli Usa non dovrebbero prendere una posizione chiara sul conflitto tra Israele e Palestina, mettendo i loro diplomatici dove vogliono. Che Gerusalemme sia da millenni la patria dell'ebraismo e degli ebrei è storicamente incontrovertibile. Certo, quello di Gerusalemme, molti secoli dopo, è stato anche il tempio di Gesù, che vi ha vissuto i suoi ultimi, drammatici, giorni. E Maometto sarebbe passato di qui prima di ascendere al cielo. Ma la capitale del cristianesimo è Roma e quella dei musulmani non è certo Gerusalemme. È che ognuno vuole mettere le sue bandierine. E su questo gli islamici non li batte nessuno, come si evince dal loro rigido criterio di non reciprocità sui luoghi di culto. Ma più che concentrarsi sulle uscite di Trump, servirebbe guardare chi gli dà addosso. Il più scatenato è il presidente turco Recep Erdogan, secondo cui il riconoscimento di Gerusalemme capitale d'Israele rappresenta una linea rossa per i musulmani. Egli minaccia di rompere le relazioni diplomatiche con Israele. Ecco, se un dittatore sanguinario come Erdogan prepara la rottura delle relazioni diplomatiche con uno Stato democratico, allora la strada è proprio quella giusta.

(La Verità, 6 dicembre 2017)


"Nelle università francesi divampa l'antisemitismo". Appello di intellettuali

Sale in cattedra chi vuole mandare “i sionisti al Gulag”

di Giulio Meotti

ROMA - C'è la banalizzazione dell'antisemitismo spicciolo e quotidiano che divampa nelle banlieue parigine, spesso neppure denunciato ormai per consuetudine e assuefazione. C'è la banalizzazione dell'antisemitismo tramite la sua diretta negazione, come nel caso di Sarah Halimi, la donna ebrea uccisa al grido di "Satana" e "Allahu Akbar". Un fatto derubricato a lungo dalle autorità come criminalità comune. Ora, un gruppo di intellettuali dice di voler "attirare l'attenzione sulla banalizzazione dell'antisemitismo nell'università". Si apre così, sul quotidiano della sinistra francese Le Monde, l'appello firmato da cinquanta accademici e intellettuali.
   "All'Università di La Rochelle, gli studenti che volevano criticare la mercificazione del mondo hanno messo in scena uno spettacolo in cui il cosiddetto rapporto ebraico col denaro veniva presentato come prova. Nonostante le proteste, l'università è rimasta impassibile". L'invito di Houria Bouteldja all'Università di Limoges del 24 novembre segue una logica simile. "Il presidente dell'università - che ha dovuto annullare l'evento di fronte alle proteste - ha sostenuto che 'i seminari di ricerca dovrebbero essere un'opportunità per discutere senza pregiudizi tutte le idee presenti oggi nella nostra società'. Discutere di tutto è una cosa. La domanda è chi e per quale scopo. Quando approfondiamo la ricerca e lo scopo della conoscenza? E quando passiamo all'ideologia e alla propaganda?".
Bouteldja ha sostenuto ufficialmente la "resistenza di Hamas", ha dichiarato "Mohamed Merah sono io" (il terrorista islamico che nel 2012 uccise quattro ebrei, di cui tre bambini, a Tolosa), si è orgogliosamente fatta fotografare accanto al graffito "Sionisti nel Gulag", ha condannato i matrimoni misti e ha detto che "gli ebrei sono gli scudi, i tiratori scelti della politica imperialista francese e della sua politica islamofoba". Vicina alla galassia della sinistra della France Insoumise e portavoce degli "Indigeni della Repubblica", Bouteldia dice di essere in grado di riconoscere gli ebrei "tra mille" persone.
   "L'antisemitismo sarebbe la prerogativa dei bianchi, l'antisionismo invece uno strumento di emancipazione" scrivono sul Monde i firmatari dell'appello. "La banalizzazione dell'antisemitismo prese il via quando l'università e alcuni dei suoi attori non hanno distinto più la ricerca scientifica dall'attivismo". Gli ebrei in Francia sono sempre più "assimilati, nel pensiero indigenista, ai colonialisti". Ne è un esempio il tirocinio per insegnanti organizzato dal sindacato Sud-éducation 93 a Saint-Denis, con tavole rotonde e seminari "non misti", ovvero "riservati ai non-bianchi".
   "Inaccettabile" ha detto il ministro dell'Istruzione Jean-Michel Blanquer. C'era anche il Collettivo contro l'islamofobia, una sorta di inquisizione militante che orchestra campagne per criminalizzare ogni critica dell'islam. Da un paio di anni in Francia si susseguono iniziative di questo tipo. Si chiamano "decolonizzate", come il campo estivo di Reims. Una specie di apartheid al contrario, multiculturale e ad elevato tasso di islamizzazione, lontana dalla Francia astratta, concettuale e romanzesca, la Francia dei bei quartieri e delle élite. Aree in cui non è bene essere donna, non è bene essere bianchi e tanto meno è bene essere ebrei. Qui è esploso il nuovo antisemitismo. Perché in Francia, oggi, l'ebreo è un bianco al quadrato.

(Il Foglio, 6 dicembre 2017)


Ferrara, i primi mille anni degli ebrei in Italia in mostra

Si intitola “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” la mostra che sarà presentata il 13 dicembre al Museo dell’ebraismo e della Shoah. Oltre duecento oggetti preziosi, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo.

 
L’ebraismo si apre ai non Ebrei. Succede a Ferrara, con un museo nazionale dedicato alla storia e alla vita ebraica, a partire dall’esperienza tutta singolare degli Ebrei italiani, da ventidue secoli parte integrante del tessuto del Paese. Sarà presentata dunque al Meis di Ferrara,mercoledì 13 dicembre e inaugurata al pubblico il giorno successivo, alla presenza del ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, la mostra "Ebrei, una storia italiana" a cura di Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Daniele Jalla alle 11:30. Interverrà Simonetta Della Seta, direttore del Meis.
   “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” è una mostra storica. Si propone cioè di comunicare attraverso un medium diverso dal libro - che costituisce lo strumento tradizionale della comunicazione storica - o del documentario o del film, l’interpretazione di un periodo del passato, attraverso una narrazione che si avvale di tutti i mezzi a disposizione dell’espografia, con la messa in spazio e scena di oggetti, testi scritti, immagini, fisse o in movimento, ricostruzioni, modelli.
   Il Museo dell'ebraismo e della Shoah offre così al visitatore un viaggio nei primi mille anni dell’Italia ebraica attraverso un racconto significativo, curato da Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Daniele Jalla, con l’allestimento dello studio GTRF di Brescia. A scandirlo sono oltre duecento oggetti preziosi, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, quarantanove epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo (dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library).
   Una tripla inaugurazione, quella del prossimo 14 dicembre: ad aprire saranno, infatti, la mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”, che del Museo costituisce, dal punto di vista scientifico ed espositivo, la prima grande sezione; lo spettacolo multimediale “Con gli occhi degli Ebrei italiani”, che rappresenta l’introduzione permanente ai temi del MEIS; il grande edificio restaurato di Via Piangipane, nel centro storico di Ferrara, che fino al 1992 ospitava le carceri cittadine, luogo di reclusione ed esclusione per eccellenza, e che ora torna a vivere come spazio aperto e inclusivo.

(fanpage.it, 6 dicembre 2017)xxx


Israele-Palestina, qualcosa (di grosso) si muove

Gerusalemme capitale di Israele e ai Palestinesi uno Stato proprio con capitale Abu Dis nel piano segreto di Stati Uniti e Arabia Saudita.

di Luciano Tirinnanzi

Fino a che era in corso il conflitto siro-iracheno, nessuno credeva che l'annosa questione israelo-palestinese potesse tornare al centro della politica mediorientale. Ma gli ultimi sviluppi, inclusa la possibilità che la Casa Bianca annunci ufficialmente il trasloco dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (riconoscendo di fatto quest'ultima come capitale dello Stato di Israele), hanno reso tale possibilità più concreta. Non solo.
  Secondo indiscrezioni del New York Times confermate da più fonti - tra cui membri di Hamas, Fatah e altri funzionari palestinesi e libanesi - esiste un piano preciso per la definizione di nuovi confini per la Palestina e l'elevazione di Gerusalemme a capitale esclusiva degli israeliani, che è già stato presentato ai diretti interessati.
  Prova ne siano le recenti (preoccupate) dichiarazioni provenienti da Giordania e Francia, che scongiurano Washington dal dare seguito allo spostamento dell'ambasciata, in quanto preludio del nuovo assetto territoriale.
  Tuttavia, il progetto sarebbe ormai in fase avanzata per diretta volontà dell'Arabia Saudita, dove non a caso nei mesi scorsi si sono svolte lunghe ambasciate e sono intercorsi colloqui serrati che hanno avuto come principali interpreti politici due giovani rampanti, il principe ereditario Mohammed Bin Salman della casa regnante saudita e Jared Kushner, consigliere del presidente degli Stati Uniti nonché suo genero.
  I due, oltre a condividere l'inesperienza dei trent'anni e ambizioni da futuri leader, sarebbero stati autorizzati dai rispettivi governi a sondare il terreno presso il leader di Al Fatah Mahmoud Abbas e il premier israeliano Netanyahu, circa la convenienza e le possibili tempistiche per l'attuazione del piano.

 Cosa prevede il piano
  Il quale prevede, sempre secondo le indiscrezioni, che i palestinesi ottengano uno Stato proprio, ma solo parti non contigue della Cisgiordania e una sovranità limitata sul proprio territorio. La stragrande maggioranza degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, invece, rimarrebbe allo stato attuale.
  Inoltre, alla Palestina non verrebbe riconosciuta Gerusalemme Est come propria capitale, né ai profughi palestinesi verrebbe data la possibilità di farvi ritorno per ricongiungersi con i discendenti.
  In compenso, la Striscia di Gaza verrebbe ampliata ottenendo una porzione del territorio desertico del Sinai egiziano, mentre tutti i palestinesi godrebbero di cospicui finanziamenti garantiti dalla monarchia saudita.
  Un funzionario del governo libanese ha affermato persino che il governo saudita avrebbe indicato come possibile nuova capitale della Palestina Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est separato dalla città dal muro di separazione costruito da Israele.
  Questo piano è lo stesso che sarebbe stato presentato a Mahmoud Abbas in persona dal principe Salman durante il loro misterioso incontro a porte chiuse tenutosi a Riad lo scorso novembre, del quale non a caso Abbas non ha ufficialmente fatto parola con nessuno. Salvo iniziare una girandola di telefonate ai leader regionali già dal giorno dopo, per chiarire la propria posizione in relazione ai negoziati di pace.
  Durante il colloquio con Salman, Abbas sarebbe anche stato minacciato dal principe ereditario di una sua prossima rimozione da leader di Fatah, se questi non si allineerà ai dettami del monarca in pectore. Un aspetto che ricorda molto da vicino quanto già fatto da Salman con il premier libanese Hariri, convocato a Riad e costretto a minacciare le proprie dimissioni per dimostrare l'influenza saudita sul Paese.
  Altre fonti hanno aggiunto del rifiuto di Abbas di vedersi riconosciuto dal monarca un compenso a titolo personale per i buoni uffici in questa delicata partita politica. Un altro degli elementi che rende questa storia plausibile.

 La posizione di Israele
  Se tali indiscrezioni non trovano aperta conferma presso nessun governo coinvolto nella partita, è però evidente che qualcosa sta effettivamente accadendo sottotraccia.
  L'ambasciatore saudita negli Stati Uniti, principe Khalid bin Salman, ha frenato le indiscrezioni, sottolineando come il regno rimanga "impegnato in un accordo basato sull'iniziativa di pace araba del 2002, inclusa Gerusalemme Est come capitale di uno stato palestinese basato sui confini del 1967". Eppure, il silenzio assoluto degli israeliani la dice lunga sulla fondatezza di tali negoziati.
  Di certo, un simile accordo non può che essere visto con favore da Tel Aviv, che condivide con l'Arabia Saudita un progetto ben più ampio della sola risoluzione della questione israelo-palestinese. E quel progetto si chiama Iran.
  Frenare l'espansionismo di Teheran è il vero punto di caduta per entrambi i governi, che negli anni hanno appianato le proprie divergenze in ordine alla necessità di impedire al nemico comune di avere la meglio nella regione. E quale miglior momento se non questo, in cui l'intero Medio Oriente è da ricostruire, in cui c'è un presidente americano totalmente favorevole a ridimensionare l'espansionismo in atto da parte dell'Iran, e in cui Egitto, Giordania e lo stesso Stato di Israele guardano a Riad e Washington con ritrovato interesse? Che poi nel balletto di dichiarazioni ufficiali gli stati arabi si affrettino a condannare un eventuale spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, preludio dell'accordo disegnato a Riad, è un gioco delle parti doveroso e responsabile, viste le conseguenze imprevedibili di un simile scenario. Ma la realtà è che il mondo arabo sunnita, uscito fortemente indebolito dalla guerra siro-irachena, non ha granché da perdere da un simile negoziato di pace, sia pur apertamente sbilanciato in favore di Israele, e può al contrario guadagnare maggior protezione. Ed ecco perché sono in molti a fare buon viso a cattivo gioco alle frenesie politiche del giovane Mohammed bin Salman, anche se questo significherà sacrificare la questione palestinese sull'altare della pace.
  Di certo, tutti hanno compreso che la mossa di Riad è stata concordata durante la visita di Donald Trump in Arabia Saudita lo scorso maggio. E che la decisione di spostare l'ambasciata vuole suonare come il segnale dell'inizio di una nuova stagione politica per il Medio Oriente. Che poi questa decisione possa condurre a un futuro di pace e prosperità, beh, questa è tutta un'altra storia.

(Panorama, 5 dicembre 2017)


"Love for lsrael", 8-10 dicembre 2017 - Firenze

Undici ospiti da tutta Italia e da Israele, per un viaggio alla scoperta di una terra e di una nazione di cui spesso si parla ma che, in fondo, in pochi conoscono veramente. Ospite speciale Ran Margaliot, team manager dell'lsrael Cycling Academy, nonché uno degli artefici della partenza da Israele del Giro d'Italia 2018.

Uno sguardo a 360 gradi su vita, economia, musica, cucina, tecnologia, sport, scienza, sicurezza e religione in Israele, per scoprire un Paese ai più sconosciuto. È lo scopo della conferenza "Love for lsrael", che l'Associazione Onlus Fede Speranza Amore organizza nel fine settimana 8-10 dicembre nella sua sede di via Empoli 15/2 a Firenze. Ingresso libero.
  L'evento, in collaborazione con l'Associazione Italia-Israele di Firenze, è a carattere culturale ed è totalmente apolitico. «Non vogliamo prendere alcuna posizione sulle questioni politiche mediorientali, che coinvolgono anche Israele - precisa Lorenzo Lippi, presidente onorario dell'Associazione Onlus Fede Speranza Amore - Questo appuntamento mira semplicemente a raccontare uno spaccato di questo Paese, ricco di storia e di tradizioni, ma anche all'avanguardia in diversi settori».
  La conferenza comincerà venerdì 8 dicembre alle 15,30 con i saluti del presidente onorario dell'Associazione Onlus Fede Speranza Amore, Lorenzo Lippi, e del presidente dell'associazione Italia-Israele di Firenze, il professore Valentino Baldacci. Alle 16 prenderà la parola il professore universitario Dario Peirone, che racconterà di come Israele sia una delle nazioni al mondo con il maggior numero di start up. Alle 17,30 sarà la volta del professore universitario Benedetto Allatta, che presenterà le relazioni scientifiche che legano Italia e Israele. Alle 21 ci sarà l'intervento dell'ex ministro dell'agricoltura di Israele, l'avvocata Orit Noked, che, partendo dalla propria esperienza personale, presenterà la realtà dei kibbutz.
  Sabato 9 dicembre alle 10,30 Giuseppe Platania, giornalista e pastore cristiano, affronterà il tema dell'Aliyà, cioè del ritorno degli ebrei in Israele. Alle 12 spazio a un intervento del senatore Lucio Malan. Alle 15,30 video-intervista alla giornalista Fiamma Nirenstein su antisemitismo e rapporto tra Europa e Israele. Alle 16,30 prenderà la parola Ran Margaliot, team dell'lsrael Cycling Academy, nonché uno degli artefici della partenza del Giro d'Italia 2018 da Israele: presenterà l'esperienza della prima squadra ciclistica israeliana, che raduna persone e religioni da tutto il mondo, e racconterà di quanto fatto durante la Seconda Guerra Mondiale dal ciclista Gino Bartali, "Giusto tra le nazioni". Alle 17,30 l'editore Daniel Vogelmann parlerà di Shoah e valore della Memoria. Alle 21 concerto dal titolo "Un viaggio musicale dall'Est Europa a Israele, passando per le tradizioni dell'Italia ebraica", a cura dell'artista Enrico Fink, che sarà accompagnato dai musicisti Vincenzo Lo Monaco e Tiziano Carfora.
  Domenica 10 dicembre alle 10,30 il rabbino Raphael Shore e sua moglie Rebecca, provenienti da Gerusalemme, spiegheranno del ritorno alla religione ebraica dei giovani israeliani e offriranno uno spaccato dell'esercito israeliano, di cui hanno raccontato diversi momenti attraverso i loro film, visto che i due sono anche produttori e sceneggiatori cinematografici (una loro pellicola è stata recensita dal prestigioso New York Times). L'ultimo intervento, alle 12, è riservato a Ran Margaliot, che svelerà come sia stato possibile portare il Giro d'Italia 2018 in Israele. La conferenza si concluderà alle 13 con un pranzo di specialità ebraiche in un locale antistante alla sede dell'Associazione (in via Empoli 6). Il pranzo è su prenotazione e ha un costo di 18 euro.
  Per informazioni e prenotazioni: segreteria@fedesperanzaamore. it.
Locandina

(Associazione Onlus FSA, 5 dicembre 2017)


Usa, la mina di Gerusalemme

L'Amministrazione Trump pronta al riconoscimento come capitale d'Israele. La decisione potrebbe essere comunicata nelle prossime ore o al più tardi domani. Il ruolo di Jared Kushner, genero del presidente.

di Roberto Bongiorni

Forse anche Jared Kushner, genero e consigliere del presidente Donald Trump, ha compreso che l'intenzione del presidente americano - riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele - rischia di creare una situazione esplosiva, ben peggiore di quella a cui voleva trovare una soluzione. Ecco perché anche ieri ha preso tempo; «(Trump) Sta ancora valutando molti fatti diversi - ha precisato Kushner - . Quando deciderà vorrà essere lui a comunicare (la sua decisione)».
   Gerusalemme. La Città Santa, la Città contesa. Rivendicata dai palestinesi come capitale del loro futuro Stato, «una e indivisibile» per gli israeliani. Fonte di disaccordi, di processi di pace falliti, di frustrazioni per tutti quei presidenti americani che ambivano a passare alla storia come gli artefici di una soluzione duratura e definitiva del conflitto israelo-palestinese. Là dove i suoi predecessori hanno fallito, Trump vuole riuscirci. A suo modo. Il primo passo potrebbe essere il riconoscimento di Gerusalemme (ma quale parte?) come capitale di Israele. Un annuncio storico, che secondo indiscrezioni americane, potrebbe avvenire molto presto. Forse già oggi. Successivamente a questo passo, dovrebbe seguire il trasferimento dell'ambasciata.
   Trump lo aveva promesso in campagna elettorale. Ma se alle intenzioni seguiranno davvero i fatti, una simile decisione provocherà un altro terremoto geopolitico in Medio Oriente, regione che sta già vivendo uno dei periodi più drammatici dell'ultimo secolo. Con l'eccezione di Egitto e Giordania, il cui trattato di pace con Israele è ancora in vigore - tutti gli altri paesi arabi (e molti musulmani) non riconoscono Israele come Stato. Il piano di Trump è già definito inaccettabile dal mondo arabo. E creerebbe disagio tra i molti Paesi della comunità internazionale, le cui ambasciate si trovano a Tel Aviv proprio per evitare il "nodo" Gerusalemme.
   Eppure Trump farebbe sul serio. Martedì il suo vice, Mike Pence, ha confermato come stia «attivamente considerando quando e come» mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. Domenica il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha protestato: «Qualsiasi passo degli americani relativo al riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, o anche lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, rappresenta una minaccia per il futuro del processo di pace e sarebbe inaccettabile per i palestinesi, gli arabi e per il mondo». «Sarebbe un disastro. Distruggerebbe il processo di pace»,ha avvertito ieri il Governo turco. Mentre il movimento islamico Hamas ha minacciato una terza intifada.
   Lo status di Gerusalemme è apparso spesso come un ostacolo insormontabile. Solo nella parte orientale della città, conquistata dall'esercito israeliano nel 1967, si trovano il muro del pianto ma anche la spianata delle moschee, o Monte del Tempio, (su cui si ergono luoghi sacri come la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa). Un piano di pace duraturo, che preveda uno Stato palestinese accanto a uno Israeliano, si è sempre scontrato con tre questioni di difficilissima soluzione: i confini, che i Palestinesi pretendono siano riportati alla linea verde (quelli precedenti alla guerra del 1967), il diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi (ormai milioni sparsi in Giordania, Libano e Siria), e la questione di Gerusalemme.
   Per i primi due punti c'erano stati timidi tentativi di studiare delle soluzioni alternative. A cominciare dai confini. Nel processo di pace è verosimile che i grandi insediamenti - Ariel, Gush Etzion, e Ma'ale Adumim - siano annessi a Israele. Evacuare queste città sarebbe quasi impossibile oltreché proibitivo da un punto di vista finanziario. Anche perché dopo il 1967 gli insediamenti in Cisgiordania sono cresciuti esponenzialmente. E oggi 470mila ebrei vivono al di là della linea verde (180mila a Gerusalemme Est) distribuiti su un territorio dove vivono tre milioni di palestinesi. L'espansione degli insediamenti - protesta l'Anp - ha trasformato la Cisgiordania in una terra a macchie di leopardo. Una delle soluzioni dibattute in passato sarebbe una compensazione territoriale ai palestinesi. Ma quali terre?
   Quanto al diritto di ritorno dei rifugiati, e dei loro discendenti nei luoghi di origine (quindi in molte città e villaggi israeliani) l'Anp è consapevole che stravolgerebbe demograficamente Israele. Su Gerusalemme Est, i palestinesi non sembrano invece disposti a negoziare. Così come il Governo israeliano, contrario a compromessi.
   Il piano di Trump appare dunque sin da subito approssimativo. Qualcuno del suo staff ha fatto capire che avrebbe fatto riferimento all'intenzione (e niente di più) di riconoscere Gerusalemme Est come capitale di un futuro Stato di Palestina, partorito da un «accordo definitivo» tra i due contraenti.
   Lo staff di Trump sta premendo sugli "alleati" i sauditi affinché medino per una soluzione accettabile. Il presidente palestinese avrebbe accennato a un'ipotetica proposta saudita già sul tavolo (smentita però da Riad) vista tuttavia come una mera provocazione a causa delle pesanti limitazioni al futuro Stato palestinese. Una proposta smentita anche dalla Casa Bianca.
   Ma una questione non è chiara. Quando parla di Gerusalemme come capitale di Israele, Trump intende solo la parte occidentale o anche quella orientale? La differenza non è da poco. Le potenziali conseguenze pure.

(Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2017)


«Lo status di Gerusalemme è apparso spesso come un ostacolo insormontabile». Le ambasciate «si trovano a Tel Aviv proprio per evitare il "nodo" Gerusalemme». Quanto ci vorrà perché si arrivi a capire che il problema è tutto racchiuso nella città di Gerusalemme? E le cose saranno ancora sopportabili fino a che resterà un problema: i guai veri cominceranno dopo che qualcuno dirà che è stato risolto e al mondo sembrerà che sia proprio così. "Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno" (1 Tessalonicesi 5:3). M.C.


Israele «fabbrica di manager». Le assunzioni all'insegna dell'high tech

di Giuliana Gagliardi

Israele «fabbrica di manager» che, in tempi brevi, trovano lavoro ben remunerato. Tra le specializzazioni richieste: high tech, cybersecurity, energia e telecomunicazioni. «Caratteristiche principali - dice Roberto Panzarani, consulente d'imprese - sono la velocità delle decisioni e la informalità nelle relazioni». Molto incentivate le numerosissime start up. I manager italiani sono apprezzati. Chi desidera fare un'esperienza lavorativa in Israele può puntare sulle aziende lt che hanno dato vita alla Silicon Wadi. Alcune sono LabPixies, comprata da Google, Atav, Park Parko e Wix.com. Le figure più richieste: sales engineer, strategie cloud engineer, cloud consultant for professional services, engineer for security. Una panoramica è offerta da www.careerisrael.com. La Est-Systems Ltd, Environmental Systems & Treatment, ricerca un ingegnere chimico per supporto alle vendite in Italia. I candidati devono possedere già un'esperienza nel settore farmaceutico, chimico o petrolchimico (www.estsystems.com). Si possono effettuare i colloqui nelle aziende locali, ma per ottenere il permesso di lavoro come stranieri, si deve presentare una lettera con proposta di assunzione. I neolaureati - o chi volesse fare uno stage in Israele - possono cliccare sul sito www.israeluni.it, portale in italiano sulle università israeliane.

(Corriere della Sera, 5 dicembre 2017)


La vendetta degli ayatollah: Saleh ucciso come Gheddafi

L'ex presidente yemenita rompe l'alleanza con gli Houti, amici dell'Iran. Quelli lo ammazzano subito, il corpo abbandonato alla folla inferocita.

di Carlo Panella

Chi si schiera contro gli sciiti iraniani fa una fine terribile, non solo viene ucciso, ma il suo cadavere viene esposto barbaramente agli insulti e agli sputi dei suoi nemici. Abdullah Saleh, ex presidente dello Yemen e sino a pochi giorni fa alleato di ferro degli sciiti yemeniti Houthi, sostenuti in tutti i modi dall'Iran, ha subito questa sorte ieri a Sana'a, capitale dello Yemen, nel bombardamento del suo palazzo e il suo cadavere con una vistosa ferita al capo è stato impietosamente portato in giro per le strade per essere insultato e schernito dai miliziani Houthi. La replica della scena che avvenne a Sirte, quando fu ucciso Gheddafi e il suo cadavere fu oltraggiato.
   L'uccisione di Saleh segna una svolta nella guerra civile yemenita, perché l'ex presidente non era a capo di una tribù marginale, come quella dei Ghaddafa del dittatore libico, ma della grande confederazione tribale degli al Hamar. Dunque, i suoi seguaci e i membri della sua tribù, nonostante abbiano perso il loro leader, continueranno a combattere e con ancora maggior lena contro gli ex alleati, gli Houthi sciiti.
   Per comprendere l'intricata guerra civile yemenita bisogna fare un passo indietro, al 2011. Scoppiò allora, come in tanti Paesi arabi, una «primavera» con poderose manifestazioni di piazza contro il regime, capeggiato appunto da Abdullah Saleh. Questi, uno sciita, o meglio, uno zaidita (setta religiosa yemenita appartenente ufficialmente alla componente sciita) era stato presidente, o meglio, dittatore dello Yemen per ben 33 anni. Nel giugno del 2011 una componente dell'esercito, controllata dal vice presidente e maresciallo Mansour Hadi, si schierò con la «primavera yemenita» e bombardò il palazzo presidenziale. Saleh fu gravemente ferito e trasportato in Arabia Saudita per le cure. Nel 2012 Mansour Hadi, che appartiene alla maggioranza sunnita, si badi bene, a seguito di elezioni non certo impeccabili (era l'unico candidato e ottenne il 98% dei voti!) fu eletto presidente. Ma, nel gennaio del 2015 l'Iran organizzò e armò una rivolta delle milizie sciite degli Houthi yemeniti che dichiararono decaduto Hadi e lo assediarono nel palazzo presidenziale dal quale riuscì a fuggire avventurosamente per rifugiarsi ad Aden. In quella occasione, il dato è fondamentale per capire gli avvenimenti di ieri, Saleh si schierò in pieno con la ribellione Houthi e iniziò così una feroce guerra civile con due «presidenti», Hadi e Saleh, e con due capitali, Sana'a e Aden. Tutti I Paesi del Golfo reagirono al colpo di mano degli iraniani e degli Houthi, perché era evidente che altri non era se non un passo fondamentale nella espansione della egemonia degli ayatollah di Teheran nella regione, parallela a quella in Iraq, Siria e Libano. Si formò una «Nato sunnita», voluta dall'attuale vero reggente dell'Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Salman, ministro della Difesa di Riad, e iniziarono feroci bombardamenti dell'aviazione saudita. Da allora, le sorti dell'intensa guerra civile (diecimila i morti, moltissimi i civili) sono state in equilibrio, con un leggero vantaggio dei filo-iraniani, che mantengono il controllo di Sana'a. Ma pochi giorni fa il fronte sciita si è rotto, per ragioni che non appaiono chiare, Saleh ha cambiato fronte e ha ordinato alle milizie a lui fedeli di schierarsi contro gli ex alleati Houthi. Da qui i primi sanguinosi scontri nelle strade di Sana'a e infine il bombardamento della abitazione di Saleh che è stato ucciso.
   In questo caotico contesto, in cui si registra una spaccatura verticale della componente sciita yemenita, tutto può accadere. Ma la cosa più probabile è che si apra una guerra civile nella guerra civile, non più solo sciiti contro sunniti, ma anche sciiti contro sciiti.

(Libero, 5 dicembre 2017)


Canada: crescono gli atti contro la comunità ebraica

di Paolo Castellano

Gli ebrei sono stati la minoranza che ha subito più crimini di odio nel 2016 in Canada, secondo i dati rilasciati dall'Istituto di statistica canadese.
Stando al "Documento di polizia sui crimini d'odio del 2016", rilasciato il 30 novembre, gli ebrei sono stati vittime di aggressioni per 221 volte, in crescita rispetto alle 178 dell'anno precedente (un incremento pari al 20%). I neri invece sono al secondo posto con 214 incidenti e le persone discriminate per il proprio orientamento sessuale sono 176.
Come riporta il Times of Israel, gli ebrei sono stati il gruppo religioso più maltrattato, seguito dai cattolici e dai musulmani, nonostante la percezione di una crescita dell'islamofobia. Nel 2016 i crimini d'odio contro i musulmani e i cattolici sono calati rispetto al 2015.
La polizia ha rilevato un totale di 1409 crimini di odio in Canada durante il 2016, 47 in più in confronto all'anno precedente.
«Mentre il Canada rimane una delle migliori nazioni al mondo in cui una minoranza possa insediarsi, l'antisemitismo e l'odio in tutte le sue forme resistono nei margini della società», ha detto Shimon Fogel, CEO del Centre for Israel and Jewish Affairs. «Siamo allarmati dal complessivo incremento dei crimini d'odio, la natura di questi crimini è sempre più violenta, e il picco degli incidenti riguarda la comunità ebraica», egli ha dichiarato.
"Gli Amici del Centro Simon Wiesenthal" ha espresso un simile sentimento.
«Solo nel mese precedente, noi abbiamo potuto osservare le svastiche disegnate sui muri di diversi edifici e anche difronte alla scuola ebraica che si trova nella zona Nord di Toronto», ha replicato Avi Benlolo, CEO del The Canadian Jewish News.

(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2017)


Limmud a Caracas: oltre 700 partecipanti ebrei

di Claire Dana-Picard

 
Per la prima volta, Limmud ha organizzato una giornata di incontro con gli ebrei di Caracas, capitale del Venezuela, in America Latina. Più di 700 persone sono arrivate per assistere. Gli organizzatori sono stati piacevolmente sorpresi dal numero di partecipanti che ha superato di gran lunga le loro aspettative.
  Fondata in Gran Bretagna nel 1980, Limmud è un'organizzazione caritatevole ed educativa che si propone di aiutare gli ebrei a trovare le loro radici e tradizioni. Organizza eventi in oltre 80 città in 40 paesi.
  La situazione degli ebrei venezuelani è piuttosto difficile. Più di due terzi di loro hanno lasciato il paese dopo il 1999, quando il presidente Hugo Chavez è salito al potere. La comunità ebraica, che fino ad allora contava circa 22.000 membri, ora ha solo 7.000 membri su una popolazione totale di 29 milioni. Alcuni sono andati in Israele, altri sono emigrati a Miami o in Spagna.
  Sotto il presidente Chavez, il Venezuela era considerato il paese più antisemita del Sud America. Sinagoghe e centri culturali ebraici sono stati presi d'assalto da milizie armate che hanno profanato i locali.
  Chavez, che era vicino al regime iraniano e sosteneva con veemenza la causa palestinese, si esprimeva in modo particolarmente duro sugli ebrei. Il suo successore Nicolas Maduro, che ha preso il potere dopo la morte di Chavez, è più o meno sulle stesse posizioni.
  Tuttavia, gli organizzatori del Limmud hanno potuto constatare che "la comunità ebraica appare più attiva che mai". Come prova, il gran numero di partecipanti all'evento il cui motto era: "Esplora l'ebraismo a modo tuo". Il pubblico ha potuto scegliere tra una trentina di attività molto diverse.

(Chiourim.com, 4 dicembre 2017 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Colloquio telefonico fra Putin e al Sisi, focus su Siria, Libia e questione palestinese

MOSCA - La crisi in Siria e le relazioni bilaterali sono stati i temi principali della conversazione telefonica fra i presidenti russo ed egiziano, Vladimir Putin e Abdel Fatah al Sisi. Lo riferisce l'ufficio stampa del Cremlino, secondo cui i due capi di Stato hanno proseguito il loro regolare scambio di opinioni sui temi principali della cooperazione russo-egiziana in diverse aree, incluso il settore dell'energia nucleare. I due presidenti hanno espresso soddisfazione per i progressi raggiunti nell'eliminazione delle sacche di resistenza terroristiche in Siria e hanno sottolineato l'importanza di consolidare gli sforzi per promuovere un dialogo infra-siriano che sia il più inclusivo possibile. Focus anche sulla situazione in corso in Libia e sul conflitto israelo-palestinese, due temi sui cui Putin e al Sisi hanno concordato di proseguire i contatti bilaterali a vari livelli.

(Agenzia Nova, 4 dicembre 2017)


E gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti si avviano velocemente
a non contare più niente
in Medio Oriente.



«Israele non si sente minacciato dall'esercito russo alle frontiere»

“Israele non si sente minacciato dalla comparsa delle truppe russe ai suoi confini”. Lo ha dichiarato il vice direttore generale del ministero degli Esteri dello stato ebraico Alexander Ben-Zvi.
Il premier russo Dmitry Medvedev la scorsa settimana ha incaricato il ministero della Difesa e il ministero degli Esteri di concordare con il Cairo la possibilità di condividere lo spazio aereo di Russia ed Egitto. L'accordo non si applica agli aeromobili che trasportano merci pericolose e agli aerei radar militari.
Il presidente sudanese Omar al-Bashir ha dichiarato a RIA Novosti che durante la sua visita a Sochi, il 23 novembre, ha discusso con il presidente russo Vladimir Putin la possibilità di creare una base militare russa sul Mar Rosso. Allo stesso tempo, al-Bashir ha sottolineato che la separazione del Sud Sudan nel 2011 è stata il risultato della politica statunitense. Egli ha notato che Mosca, come Khartoum, non approva l'interferenza di Washington negli affari interni dei paesi arabi.
Il Cremlino non ha rilasciato commenti sulle prospettive di creare una base militare in Sudan.

(Sputnik, 4 dicembre 2017)


Eurabia e la svendita di Israele: Intervista a Bat Ye'or

di Niram Ferretti

Pochi autori negli ultimi decenni hanno generato un dibattito acceso come quello suscitato dal lavoro di Bat Ye'or. A lei si deve l'ingresso nel mercato delle idee di termini come "dhimmitudine" ed "Eurabia", entrambi essenziali per comprendere la natura politica dell'Islam, il suo trattamento delle minoranze non musulmane e l'asse politico-economico costruito negli anni '70 tra l'Europa e il mondo arabo. E' in virtù di questo intreccio progredito per tappe, culminato con la crisi petrolifera del 1973, che Israele viene svenduto dall'Europa agli interessi arabi. Con lucida precisione, indicando uno dopo l'altro fatti, documenti inoppugnabili, dichiarazioni pubbliche, Bat Ye'or ci ha mostrato come l'Europa del dopoguerra e del dopo Shoah, abbia progressivamente reso l'antisemitismo ancora praticabile nella forma dell'antisionismo.
Recentemente in Italia, dove ha partecipato a Torino a un convegno organizzato da Emanuel Segre Amar, ha concesso una intervista all'Informale.

- Nel suo testo seminale "Eurabia" lei ha spiegato come l'Europa negli anni Settanta, guidata dalla Francia, abbia perseguito una specifica politica filoaraba in modo particolare contro gli interessi di Israele. In che misura ha contribuito l'antisemitismo in tutto ciò?
  E'difficile stabilire il ruolo dell'antisemitismo tra attori in molti paesi i quali hanno preso decisioni in una varietà di campi. Specialmente da quando nell'Europa postbellica era praticamente impossibile esprimere opinioni antisemite. Tuttavia, può essere notato che noti antisemiti sono rimasti in posizioni chiave. Quindi, malgrado le purghe postbelliche, negli anni '60 e negli anni '70 una rete influente di funzionari, intellettuali ed esecutivi che avevano appoggiato o collaborato con i regimi nazisti e fascisti sono rimasti in posizioni autorevoli all'interno dello stato. Per esempio, Walter Hallstein, che fu il primo presidente della Commissione Europea dal 1958 al 1967, era un convinto antisemita, un avvocato che insegnava all'università e un ufficiale delle SS. Aveva proposto una Europa unita sotto il nazismo dove l'applicazione delle leggi razziali di Norimberga avrebbe eliminato tutta la vita ebraica, una Europa nazista unita economicamente con il mondo arabo. Hans Globke, coautore delle Leggi di Norimberga, era consigliere del Cancelliere Adenauer e la sua eminenza grigia. Questa situazione esisteva in tutta l'Europa occidentale. Questi circoli promuovevano un'alleanza europea con gli stati arabi dove i criminali nazisti avevano trovato rifugio. Convertitisi all'Islam ebbero posizioni importanti in Siria e in Egitto nella guerra contro Israele. Non dimentichiamoci che dal 1930 una forte alleanza politica e ideologica basata su un comune antisemitismo univa il fascismo e il nazismo con le popolazioni arabo-musulmane. Questo attivo ma discreto nucleo euro-arabo acquisì importanza dopo il 1967 grazie alla politica filoaraba francese. Da quel momento, sotto il patronato del Quai d'Orsay, emerge un discorso degno di Goebbels in relazione allo Stato di Israele. Nonostante queste reti, tuttavia, l'opinione pubblica europea e i governi dell'epoca, con l'eccezione della Francia, non erano antisemiti. Fu la Lega Araba che impose alla Comunità Europea, dopo la guerra di Yom Kippur dell'ottobre 1973, una strategia politica antisemita la quale anticipava lo sradicamento dello Stato di Israele, come si vede dalla Conferenza dei Capi di Stato Arabi che ebbe luogo ad Algeri dal 26 al 29 novembre del 1973. A questo scopo usò l'arma del petrolio proibendo la sua vendita a tutti i paesi amici di Israele. L'embargo del petrolio sarebbe stato rimosso solo a queste condizioni: primo, il riconoscimento di un popolo Palestinese, precedentemente ignoto e di Yasser Arafat come suo unico rappresentante, secondo, l'islamizzazione di Gerusalemme e terzo, il ritiro di Israele sulle linee armistiziali del 1949. Abba Eban, all'epoca ministro degli Affari Esteri, chiamò questi confini, "i confini di Auschwitz", sarebbe a dire quelli della Soluzione Finale, perché mettevano Israele in un pericolo mortale. La Francia non venne colpita dall'embargo. Nel 1969 aprì una rappresentanza dell'OLP a Parigi non senza avere prima adottato una politica anti-Israeliana nel 1967. Secondo l'analista arabo Saleh A. Mani, una politica di convergenza euro-araba in contrasto a Israele venne concepita dalla Francia con Muammar Gheddafi nel 1973 prima della Guerra di Yom Kippur. In due dichiarazioni, nel novembre e nel dicembre del 1973, con sconcerto degli Stati Uniti, i Nove si sottomisero alle richieste della Lega Araba. Queste decisioni segnano l'inizio di una politica di alleanza europea con l'OLP il cui scopo, noto a tutti, era quello di distruggere Israele. Il sostegno europeo per la guerra araba contro Israele ha condotto a un movimento di delegittimazione e diffamazione dello Stato ebraico imposto dai paesi europei alle loro popolazioni sul piano politico, sociale e culturale, allo scopo di rimpiazzare Israele con la Palestina. Gli antisemiti si impegnarono in questo movimento, reso legale e promosso dagli stati.

- Le recenti risoluzioni Unesco del 2016 e del 2017 hanno espropriato simbolicamente Israele a Gerusalemme del Muro Occidentale e del Monte del Tempio e a Hebron della Tomba dei Patriarchi. Non è questo parte di una precisa strategia, la cancellazione della memoria ebraica dalla Palestina in modo da rimpiazzarla completamente con la storia islamica?
  Esattamente, questo è precisamente lo scopo. Tale decisione era già implicita nella decisione della Comunità Europea nel 1973 quando chiese il ritiro di Israele sulle linee del 1949 e l'islamizzazione di Gerusalemme. Si ricordi che la guerra del 1948-49 venne scatenata dai paesi arabi e dagli arabi in Palestina assistiti dai soldati musulmani delle armate fasciste e naziste della Seconda Guerra Mondiale. Durante questa guerra, le armate arabe presero Gerusalemme Est e i territori in Giudea e Samaria, che colonizzarono e islamizzarono cacciando gli abitanti ebrei. L'Europa non protestò contro questa acquisizione araba attraverso la guerra e per l'espulsione dei suoi abitanti ebrei. Dal 1949 al 1967, nessun popolo palestinese apparve in questi territori per reclamare il proprio stato. La politica anti-israeliana della Comunità Europea decisa nel 1973 venne riaffermata dalla CE durante il suo incontro con l'OLP, nella Dichiarazione di Venezia del giugno 1980. Con questo passo, la CE desiderava restaurare delle relazioni economiche fruttuose con i paesi arabi che si erano interrotte a seguito della pace separata tra Israele e l'Egitto che i paesi europei non riuscirono a impedire. La negazione dei diritti storici degli ebrei nel loro paese e la cancellazione della loro memoria religiosa e culturale conferma la versione e le interpretazioni islamiche della storia biblica. Il Corano afferma che tutti i personaggi ebraici biblici, Gesù incluso, erano musulmani. Arafat e Mahmoud Abbas, aiutati da storici europei, hanno continuato ad appropriarsi della storia del popolo ebraico. La soppressione da parte europea della storia e della memoria del popolo di Israele cancella quella della cristianità, la sua identità e la sua legittimità poiché il cristianesimo è radicato nel giudaismo. E se il giudaismo è una aberrazione o la falsificazione dell'Islam, così lo è il cristianesimo. Gli stati europei, che in linea di principio sono cristiani, sono d'accordo di islamizzare le fonti della loro identità teologica e religiosa, in virtù dell'odio nei confronti di Israele.

- In questi ultimi anni abbiamo visto sempre di più svilupparsi una narrativa il cui nucleo è che l'Islam avrebbe contribuito fortemente alla creazione dell'Europa. Allo stesso tempo nell'introduzione della Costituzione Europea non vi è alcuna menzione alle radici giudaico-cristiane dell'Europa. L'attuale papa non perde mai un'occasione per dichiarare che l'Islam è una religione pacifica e che, se ci sono musulmani violenti ci sono anche cristiani violenti. Cosa ha da dirci in merito?
  Questa narrativa relativa alla predominante influenza islamica sulla scienza europea viene da due fonti: una araba e l'altra europea, entrambe politiche. Gli esperti hanno mostrato che non vi è alcuna base storica, perché le radici dell'attuale civiltà europea sono il giudeo-cristianesimo, la Grecia, Roma e i filosofi dell'Illuminismo. La fonte arabo-musulmana è una risposta, dagli anni '20, '30 al confronto dei paesi musulmani con il progresso moderno della civiltà europea. La superiorità del mondo della miscredenza è umiliante e inaccettabile per l'Islam, il quale, attraverso questa pretesa culturale, attribuisce i meriti a se stesso. Detto questo, è chiaro che ci sono stati prestiti qui e là, così come ci sono stati da parte degli Indù e dei cinesi. Sono normali scambi tra popoli e civiltà ma non sono elementi fondamentali. E' vero che le antiche civiltà dell'Oriente hanno influenzato quelle emerse successivamente in Europa. Ma queste civiltà pagane, precedenti di tremila anni la nostra era, non devono nulla all'Islam che venne molto dopo, né all'Arabia geograficamente isolata nei suoi deserti. Questa affermazione è anche un modo per gli immigrati musulmani di asserire una antica presenza culturale e scientifica dell'Islam in Europa e di rivendicare diritti politici e religiosi nei paesi in cui emigrano. La fonte europea proviene dalla politica mediterranea il cui scopo è quello di unire le due sponde del Mediterraneo tramite una integrazione strategica e culturale. Utilizza il linguaggio accattivante del cortigiano nei confronti dei potentati arabi e cerca sempre di ingraziarsi la sensibilità musulmana in modo particolare tramite una speciosa similitudine storica tra l'Islam e l'ebraismo. Questa fonte non riconosce il giudeo-cristianesimo perché i musulmani se ne sentono offesi. Per facilitare l'integrazione di milioni di immigranti musulmani, l'Europa sta rinunciando alle sue radici. Nel 2000 il deputato francese Jean Louis Bianco discusse gli argomenti su questo soggetto nel Comitato di redazione della Carta Europea. Quando il negoziatore del governo francese, Guy Braibant, chiese "che conclusione potrebbero trarre i milioni di musulmani europei" se la Carta si fosse riferita ai valori cristiani?, il caso fu chiuso. Il papa ha ragione nel dire che la violenza esiste ovunque. Ma non stiamo parlando della violenza individuale, stiamo parlando di un sistema politico-religioso il quale promuove la guerra e che accetta solo tregue temporanee con i non musulmani. Per quanto mi è noto, il jihad, la guerra religiosa per la conquista planetaria, esiste solo nell'Islam. Senza volere minimizzare i periodi di tolleranza islamica o i tentativi di alcuni monarchi di modernizzare le concezioni islamiche, si deve riconoscere che l'ideologia jihadista giustifica il terrore, il fanatismo, la guerra e il genocidio. Se vogliamo creare una umanità più fraterna dobbiamo discutere apertamente gli obbiettivi e le leggi del jihad. Aiuteremmo i musulmani progressisti i quali combattono coraggiosamente questa lotta.

- Nella sua Carta del 1989, Hamas dichiara esplicitamente che la Palestina è un waqf islamico perenne. Ciò è molto coerente con l'idea islamica che una volta che un territorio è conquistato dall'Islam gli appartiene per sempre. Qual è la sua opinione in merito?
  L'opinione di Hamas è in accordo con le leggi della guerra islamica di conquista. Qualsiasi paese non musulmano conquistato dall'Islam diventa un waqf, una dotazione per tutti i musulmani. Non si tratta solo dei territori conquistati dai miscredenti che costituiscono un waqf ma l'intero pianeta il quale è destinato da Allah a diventare un waqf governato dal califfo per conto dei musulmani. E' questo credo che determina l'obbligo della conquista universale il quale è incombente su ogni musulmano, possibilmente attraverso la guerra. A maggior ragione nessuno dei paesi che sono già stati islamizzati può tornare ai suoi detentori precedenti. Questo ragionamento non si applica solo a Israele ma a tutti i paesi dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa i quali, conquistati e islamizzati tramite il jihad, sono diventati un waqf. Il concetto di waqf è apparso per la prima volta nell'Islam durante la conquista araba della Mesopotamia, Sawad, intorno al 636, in una discussione tra il califfo Omar ibn al Khattab e i suoi generali, a proposito dei territori e dei popoli conquistati. L'idea del waqf governato dal califfo per tutti i musulmani venne proposta da Ali, il futuro califfo. L'imposizione del waqf nella legge sulla terra relativa ai paesi sottratti ai popoli miscredenti ha proibito, con poche eccezioni, la divisione della terra e la proprietà privata, cosa che spiega l'assenza di diritti di proprietà degli abitanti dei villaggi nella Palestina ottomana e mandataria. Ma l'opinione di Hamas contiene una contraddizione. Se la Palestina è una terra waqf allora i palestinesi non hanno mai posseduto lotti di terreno demarcati secondo un registro del catasto. Se possedevano dei lotti allora la Palestina non è più una terra waqf. Hamas è teoricamente nel giusto nei termini dei diritti della conquista islamica fino al Mandato britannico che abolì questo diritto nella Palestina del 1917. Oggi l'Occidente deve fronteggiare una jihad globale, deve mettere in discussione le basi morali del jihad e se le leggi dell'islamizzazione della terra conquistata ad altri popoli può essere universalmente applicabile anche all'Europa. Nel 1973 l'Europa le impose a Israele definendo la Giudea e la Samaria terre arabe occupate a seguito dell'espulsione di tutti gli ebrei. I suoi recenti decreti in merito alla segnalazione dei prodotti che provengono da questi territori indica che l'Europa adotta le leggi del jihad e della sharia relativamente a Israele.

- La diffamazione di Israele prosegue da cinquanta anni. La imprevedibile e clamorosa vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni non è mai stata perdonata dagli arabi e dal mondo musulmano. Fino a che punto l'Europa ha contribuito a questa diffamazione e perché?
  Il mondo musulmano non ha accettato Israele dal 1948 e anteriormente. Era allo scopo di annientare Israele che la coalizione egiziano-siriana e transgiordana lo ha attaccato nel 1967. Il terrorismo palestinese e l'embargo sul petrolio costrinsero l'Europa a sottomettersi alle condizioni arabe. Nel 1973 il sostegno nei confronti dell'OLP divenne un elemento strutturale indispensabile della politica mediterranea euro-araba. L'antisemitismo, la diffamazione, l'incitamento all'odio e la delegittimazione di Israele divennero una fonte di profitti per l'Europa e andarono a costituire una base inamovibile che condizionò i suoi scambi economici, industriali, commerciali e culturali con il mondo arabo. La decisione europea di sostenere l'OLP in modo da costruire una strategia di unione con il mondo arabo-musulmano del Mediterraneo-Eurabia-ha determinato il condizionamento da parte delle università, dei media e della cultura del pubblico europeo in nome di una politica che ha giustificato moralmente l'eradicazione dello Stato ebraico. Il mondo arabo reclama dall'Europa la creazione della Palestina con Gerusalemme come sua capitale. La resistenza di Israele dal suo suicidio richiesto dall'Unione Europea, esacerba le tensioni. L'Europa paga miliardi ai palestinesi, all'UNRWA e alle ONG che diffondono l'odio per Israele su scala globale, dunque ha contribuito grandemente all'antisemitismo. I motivi di questa campagna sono solo il petrolio, i profitti economici e un virulento antisemitismo di matrice europea travestito da politica umanitaria.

- Israele è l'unico paese occidentale nel Medioriente. Oggi, in compagnia di quegli arabi e musulmani che lo detestano, troviamo estremisti di sinistra, terzomondisti e, ovviamente, estremisti di destra. Il comune denominatore di questo odio non è solo Israele ma l'Occidente di cui Israele è un simbolo. E' d'accordo?
  Geograficamente Israele non è un paese occidentale. E' una democrazia, uno stato legale ebraico il quale condivide valori fondamentali con l'Occidente a causa della loro comune eredità biblica e secolare. Tenga presente che tutte le chiese posseggono una Bibbia e che senza il giudaismo il cristianesimo non esisterebbe. Nel campo secolare il contributo della diaspora ebraica alla civiltà occidentale nei termini della legge, della cultura, della scienza e della solidarietà sociale è un elemento addizionale. Nell'Islam l'odio per l'ebreo e il cristiano sono inseparabili. Dall'inizio, il mondo arabo-islamico e quello turco cercarono di distruggere e islamizzare i regni cristiani. Questa guerra jihadista che l'Europa non vuole riconoscere, oggi intrapresa dalla penna, dalla corruzione delle elite, dal terrorismo e dalla distruzione della sua identità, dura da tredici secoli. Se avessimo aperto un dibattito su queste realtà, avremmo potuto svuotare l'ascesso e incoraggiato l'emergere di un Islam liberato dai fanatismi del passato. Molti musulmani lo hanno richiesto perché non tutti sono jihadisti. Gli estremisti di sinistra e i terzomondisti, sopravvissuti alle ideologie totalitarie si sono aggregati per interesse ai movimenti arabi e musulmani ostili all'Occidente e a Israele.

- Mentre Israele è considerato da una minoranza consistente del mondo occidentale come uno stato canaglia e l'antisemitismo è spesso giustificato dichiarando che è un effetto della politica di Israele nei confronti degli arabi palestinesi, che è un altro modo di dire che le vittime si meritano quello che gli accade, l'Islam è l'unica religione in Occidente che beneficia di una sorta di protezione inviolabile da parte della critica. Quali sono le ragioni principali di questo atteggiamento?
  I paesi occidentali sono perfettamente consapevoli dei pericoli insiti nel criticare le leggi islamiche. Il concetto di un Corano increato, in altre parole di un testo consustanziale con l'eternità divina, proibisce sotto accusa di blasfemia qualsiasi critica delle leggi radicate in esso. La proibizione di criticare l'Islam in Occidente ambisce a salvaguardare la suscettibilità delle popolazioni immigranti che non sono abituate alle libertà politiche e di espressione delle nostre democrazie. Questa proibizione non impedisce azioni criminali violente come l'assassinio in Olanda di Theo Van Gogh, tra gli altri, e la ritorsione dell'Organizzazione della Cooperazione islamica la quale raggruppa 56 paesi musulmani. La OIC richiede agli stati europei che non si affrettano a obbedirle misure severe che puniscano gli europei colpevoli di "islamofobia". Descrivo questa situazione in "Verso il Califfato Universale" edito in Italia da Lindau. E' d'altronde vero che questa critica dell'Islam pone un problema: mina la politica di amalgama euro-araba e provoca dei conflitti tra gli europei e decine di milioni di immigranti musulmani. Gli stati sono obbligati ad imporre la pace pubblica tra diverse religioni e popolazioni. Prigioniera del dilemma, la UE, incoraggiata dall'OIC, rinforza contro le sue popolazioni il suo arsenale repressivo punendo l'"islamofobia", dunque violando la libertà di espressione e di opinione.

- L'Europa è vecchia e Israele è giovane. In Europa il tasso di natalità è sceso drammaticamente negli ultimi decenni mentre in Israele è andato crescendo stabilmente. In Italia, giusto per fare un esempio, il tasso di natalità è di 1,3 mentre in Francia è di 2,0. In Israele è di 3,11. Israele, un paese circondato da nemici che vogliono la sua distruzione, è proiettato verso il futuro, mentre l'Europa, che si trova in una situazione molto più favorevole, sembra non credere più nel proprio futuro. Come spiega questo paradosso?
  Ci sono varie ragioni per questo declino europeo. I governi non hanno incoraggiato sufficientemente una politica amichevole verso le famiglie che solleverebbe la madre da una combinazione di lavoro domestico e esterno, ma è soprattutto la natura piacevole ed edonistica delle nostre società, una deliberata soppressione dei valori, una educazione che favorisce lo scetticismo, che incita i giovani a rigettare gli obblighi, gli impegni e i sacrifici relativi agli impegni e alla procreazione. Ma non dobbiamo esagerare, le nostre società europee custodiscono tesori di generosità e solidarietà. Israele rappresenta un popolo unito malgrado la sua frammentazione in diversi paesi e che potrebbe sopravvivere ovunque in virtù della solidarietà dei suoi membri. Dopo la distruzione della Giudea da parte dei Romani nel 135, le comunità ebraiche in esilio si diedero la regola di sopravvivere in mezzo a popolazioni ostili. Non posso spiegare la forza della speranza di Israele, forse proviene dai problemi di sopravvivenza di questo popolo eccezionale che vive nella permanenza del dialogo con Dio.

- Relativamente alla violenza nell'Islam, una delle principali distinzioni fatte dagli studiosi è quella tra l'Islam e l'Islamismo. In questa visuale l'islamismo sarebbe l'Islam andato alla deriva. Cosa ne pensa?
  Questa affermazione fa parte della retorica fuorviante dell'Europa la quale vive in negazione sin dai suoi accordi del 1973. Gli stessi musulmani la confutano. La violenza islamica che vediamo oggi, che sta terrorizzando molti musulmani e stati islamici, si è ripetutamente manifestata nella storia perché è conforme alla legge islamica. L'evoluzione delle idee e delle società musulmane nel ventesimo secolo attenuò o soppresse i comandamenti più rigorosi. Oggi molti intellettuali e leader politici come il maresciallo Abdel Fattah al-Sissi e persino l'Arabia Saudita chiedono un aggiornamento alle autorità religiose. L'UE e il governo di Barack Obama non hanno accompagnato o sostenuto questo movimento rivoluzionario e coraggioso che potrebbe cambiare totalmente le relazioni internazionali e portare pace, sicurezza e sviluppo economico a questi paesi. Obama e l'UE hanno collaborato alla primavera araba così male nominata e all'ascesa dei movimenti radicali.

(L'informale, 3 dicembre 2017)


Israele mette al bando il servizio Uber

di Nathan Greppi

Una Corte di Tel Aviv ha recentemente emanato un'ingiunzione contro la nota compagnia di trasporti Uber, dopo aver accolto una richiesta dall'Unione dei Tassisti. In questo modo, da mercoledì 29 novembre Israele entra in una lunga lista di paesi che hanno preso posizione contro l'azienda americana, nota per i metodi spregiudicati con cui tenta di aggirare le regole dei paesi in cui opera (e che da febbraio hanno suscitato anche le proteste dei tassisti italiani).
   Negli ultimi tempi, Uber si è ritrovata al centro di numerosi scandali, legati sia ai bassi salari che offre ai suoi dipendenti sia alle denunce per molestie sessuali che questi hanno ricevuto da parte di molte donne, soprattutto a Londra. Secondo Ynet, la reputazione della compagnia è talmente compromessa che i suoi amministratori delegati stanno viaggiando per il mondo al fine di convincere i politici che la compagnia sta cambiando il suo modello di business.
   In seguito alla decisione della corte, la compagnia ha dichiarato che non opererà più nell'area di Tel Aviv, ma spera di riuscire a rimanere nel resto del paese. Ha aggiunto che desidera lavorare con le autorità israeliane "per scoprire come la tecnologia può migliorare le nostre città con trasporti alternativi, sicuri e convenienti."
   Tuttavia, il modello di Uber è incompatibile con le leggi israeliane, che consentono solo a tassisti dotati di licenza di trasportare passeggeri a pagamento. Infatti, sia l'Unione dei Tassisti che il Ministero dei Trasporti si sono lamentati del fatto che l'azienda si serve di conducenti privi di licenza e assicurazione, lasciandoli sottopagati e minacciando i posti di lavoro dei tassisti.

(Bet Magazine Mosaico, 4 dicembre 2017)


Gerusalemme e rifugiati, ultime sfide di Trump

Gli Stati Uniti boicottano il protocollo Onu sulle migrazioni: «Sui nostri confini vogliamo decidere noi». Il presidente verso il riconoscimento della Città Santa come capitale israeliana. «Gerusalemme è stata la capitale eterna del popolo ebraico per oltre tremila anni. Da presidente la riconoscerò capitale indivisa dello Stato di Israele».

di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON - Lo strappo, l'ennesimo di questa presidenza, è atteso per martedì 4 dicembre. Donald Trump, secondo la Cnn, annuncerà il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, status proclamato dal Parlamento dello Stato ebraico nel 1980, ma non accettato dalla comunità internazionale. Non è chiaro se questa decisione sarà accompagnata anche dallo spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa.
   Il Dipartimento di Stato, secondo quanto riportato dalla Cnn, ha ricevuto istruzioni per proteggere le ambasciate Usa nelle «aree più sensibili»: si temono manifestazioni di protesta, anche violente subito dopo il discorso di Trump.
   L'indiscrezione è stata presa molto seriamente dal mondo arabo, entrato in grande agitazione. Ieri il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha rilasciato una dichiarazione: «Qualsiasi passo degli americani relativo al riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, o anche lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, rappresenta una minaccia per il futuro del processo di pace e sarebbe inaccettabile per i palestinesi, gli arabi e per il mondo intero». Il re di Giordania, Abdullah II, ha avviato le consultazioni per arrivare a una riunione di emergenza della Lega Araba e dell'Organizzazione della cooperazione islamica.
   All'ora di pranzo di ieri, a Washington, Jared Kushner, genero del presidente, è intervenuto al «Saban forum». Il marito di Ivanka da mesi si propone come mediatore tra Israele e Autorità palestinese.
   Ha raccomandato cautela: «Il presidente si prepara a fare la sua scelta, ma sta ancora esaminando molti aspetti di fatti differenti».
   È una decisione che investe tutta la politica estera dell'amministrazione, non solo il rapporto tra Stati Uniti e Medio Oriente. Anche l'Europa è in attesa. Da fonti diplomatiche risulta che gli americani non si siano consultati con nessuno. Se Trump dovesse procedere, sicuramente non troverebbe sponde nei principali Paesi Ue: Germania, Francia e Italia non sposteranno le loro ambasciate da Tel Aviv.
   L'isolamento internazionale, però, non è un problema per «The Donald». Il presidente americano ha ritirato gli Usa dall'accordo sul «climate change» e proprio ieri l'ambasciatrice all'Onu, Nikki Haley ha annunciato che gli Usa non aderiranno al «Global Compact on Migration», il protocollo delle Nazioni Unite firmato nel 2016 da 193 Paesi. «Le decisioni sulle politiche migratorie devono essere prese dagli americani e solo dagli americani. Siamo noi a decidere come meglio controllare i nostri confini», ha spiegato Haley. Con l'avallo del Segretario di Stato, Rex Tillerson: «Non possiamo sostenere in buona fede un processo che metterebbe a rischio la sovranità degli Stati Uniti».
   La «questione Gerusalemme» è una delle promesse elettorali di Trump, insieme con il Muro, la riduzione delle tasse, la cancellazione dell'Obamacare. Ma anche il rilancio del negoziato tra Abbas e il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa parte dell'agenda. Kushner ha compiuto diverse missioni, le parti aspettano una proposta. Il tema della capitale dovrebbe essere il punto d'arrivo della trattativa, non di una controversa partenza.

(Corriere della Sera, 4 dicembre 2017)


Gli ebrei sovietici e la creazione della storia

di David Harris (*)

 
David Harris
Trent'anni fa, il 6 dicembre 1987, più di 250mila persone manifestarono a Washington per chiedere al Cremlino di aprire le porte e lasciar emigrare gli ebrei sovietici. Da allora quel giorno è ricordato come "Freedom Sunday" (Domenica della Libertà), ed è stata la più grande manifestazione organizzata dagli ebrei nella storia degli Stati Uniti. Non fu una data scelta a caso.
   Il giorno successivo, il Presidente Sovietico Mikhail Gorbaciov, si sarebbe incontrato alla Casa Bianca con il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Sarebbe stata la prima visita ufficiale del Presidente Sovietico negli Stati Uniti da quando prese il potere nel 1985, dopo la morte di Konstantin Chernenko.
   Nel 1987, il numero di ebrei che avevano il permesso di lasciare l'Urss era bassissimo. Molti ebrei sovietici rimanevano confinati nei Gulag per via del loro attivismo politico, mentre le famiglie refusnik rimanevano per anni in uno stato di incertezza, al di là della Cortina di Ferro. Fui nominato coordinatore nazionale di Freedom Sunday, un gran privilegio. Fu un'esperienza esilarante e stimolante, non bastano le parole per descriverla, ma ci furono mille difficoltà.
   Innanzitutto, l'annuncio della visita di Gorbaciov fu dato con appena 5 settimane di preavviso. In quelle cinque settimane la nostra squadra lavorò 24 ore al giorno, sette giorni a settimana per coordinare la miriade di dettagli necessari a pianificare l'evento.
   In secondo luogo, il precedente primato di partecipazione ebraica ad una manifestazione a Washington era di 12-13mila persone, stabilito durante la manifestazione di supporto ad Israele nel difficile momento della guerra del giugno 1967. Il numero dei partecipanti sarebbe potuto essere insignificante, visto anche che la nostra manifestazione si sarebbe svolta in pieno inverno. E se fossero arrivati in pochi, avremmo potuto addirittura danneggiare la causa degli ebrei sovietici, mostrando al Cremlino che la questione era di scarso interesse.
   Inoltre, malgrado ci fosse l'impressione che l'ebraismo sovietico fosse un movimento compatto, esistevano gravi fratture tra quelle che venivano chiamate - forse a torto - "classe dirigente" e "attivisti" (Io stesso fui arrestato due volte dalle autorità sovietiche, fui espulso dal Paese, mi fu vietato l'ingresso in Urss per via dei miei "precedenti politici", e fui coinvolto nell'invio clandestino di migliaia di testi ebraici e di altro materiale agli ebrei sovietici: possibile che io non potessi essere considerato un "attivista" per via della mia collaborazione con un'organizzazione facente parte della "classe dirigente", cioè l'American Jewish Committee?) Avremmo potuto mettere da parte le nostre differenze e marciare uniti, anche solo per un giorno?
   Il ruolo di Natan Sharansky, leggendario prigioniero politico rinchiuso per nove anni nei campi sovietici prima di essere liberato nel 1986, fu fondamentale. Convinse gli organizzatori a mirare in alto. Disse che la manifestazione avrebbe dovuto essere massiccia, e che lo scopo era di radunare 250mila persone. Francamente, nessuno di noi aveva la minima idea di come arrivare a quel numero; ma Sharansky era uno che aveva affrontato il Kgb, non era un tipo facile da dissuadere. Furono 35 giorni straordinari. La reazione delle comunità ebraiche negli Stati Uniti, in Canada e in altri Paesi fu impressionante. Pian piano cominciarono ad arrivare comunicazioni in cui si confermava la presenza di un pullman o di un volo da una città o un campus universitario, che diventavano due, poi tre, quattro, cinque e così via. Si racconta anche che gli organizzatori ricevettero adesioni da parte di persone che dissero che sarebbe stata la loro prima partecipazione ad una manifestazione, ma che sentivano che qui si faceva la Storia, e volevano esserci. Molti ricordarono che durante l'Olocausto, la comunità ebraica americana fu di scarsa efficacia nella Seconda guerra mondiale, e che gli ebrei americani dovevano imparare dalla loro esperienza passata e far sentire la propria voce.
   Alla fine sfilarono oltre 250mila persone tra cui, va ricordato, un gran numero di non-ebrei. Quel giorno faceva freddo ma c'era un bel sole. Non mancarono oratori importanti, tra cui l'allora vice presidente George H.W. Bush. Uno dei problemi principali fu addirittura quello di contenere il gran numero di leader civici e politici, di ex prigionieri politici sovietici, di refusnik ebrei, e di altri importanti personalità che salivano sul podio e che quasi sempre sforavano ben oltre i minuti concessi per parlare! I media diedero grande risalto all'evento. Fu trasmesso per radio da "Voice of America", canale che arrivava nelle case dei sovietici, e scoprimmo in seguito che fu di grande supporto morale agli ebrei che ascoltavano dall'Urss. È un fatto documentato che quando il giorno successivo Reagan e Gorbaciov si incontrarono nell'Ufficio Ovale, il Presidente americano citò la nostra manifestazione, dicendo che era un'inequivocabile espressione dell'opinione pubblica, sollecitando il Presidente sovietico a prestare attenzione al messaggio.
   E il resto, come si dice, è Storia. Si aprirono le porte e gli ebrei sovietici potettero lasciare il Paese in gran numero. Alla fine oltre un milione di ebrei russi si trasferirono in Israele, trasformando profondamente il Paese e rivitalizzando lo spirito Sionista.
   Inaspettatamente, la diaspora tedesca divenne la comunità che crebbe a ritmo maggiore, con decine di migliaia di nuovi arrivi dall'area sovietica. Gli Stati Uniti ne accolsero centinaia di migliaia, al punto che oggi oltre il dieci per cento della comunità ebraica americana proviene dall'Unione Sovietica, vale a dire dal mio acronimo preferito, Fsu (Former Soviet Union - Ex Unione Sovietica, N.d.T.).
   Questa storia non è solo importante di per sé, ma funge da esempio di cosa è possibile, oltre ogni probabilità, quando il popolo ebraico resta unito, persevera, e unisce le proprie forze con quelle di altre persone di buona volontà. È un peccato però che quest'evento non viene ricordato quasi mai, e raramente viene citato nelle sinagoghe, nelle scuole, nelle discussioni pubbliche.
   Il 6 dicembre è una data da ricordare, e da celebrare per quello che è stato ottenuto, e soprattutto per ricordarci quel che è potenzialmente alla nostra portata.
(*) Ceo dell'American Jewish Committee

(l'Opinione, 4 dicembre 2017)


Io, reporter israeliano nelle zone di guerra del Medio Oriente"

Ital Anghel: "Il mio giornalismo? Vado con una telecamera dove i fatti accadono".

di Ariela Piattelli

Il reporter israeliano Ital Anghel
ROMA - «Per me il vero giornalismo è essere lì, sul campo». E' il motto di Ital Anghel. Il reporter israeliano dagli Anni 90 ad oggi ha seguito decine di conflitti nel mondo, in particolare in Medio Oriente, riuscendo a raggiungere posti considerati impenetrabili alle telecamere. Anghel, che lavora per UVDA, uno dei maggiori programmi di approfondimento della televisione israeliana, e a cui è stato assegnato il premio giornalistico "Sokolov", ha cominciato con la guerra nei Balcani e nel 2001 ha iniziato a seguire il Medio Oriente: «Il mio direttore mi spedì prima in Pakistan poi in Afghanistan con una piccola telecamera per raccontare la guerra contro i talebani. Ho sempre pensato che il giornalismo significasse essere dove tutto succede. Alcuni credono che io sia un pazzo, temerario, sia come giornalista sia come israeliano. Ma per me il mestiere del reporter è questo».

- Qual è stata la prima guerra che ha seguito?
  «Il mio primo servizio in una zona di guerra l'ho fatto in Bosnia nel '92. Per la prima volta ho visto qualcuno morire davanti ai miei occhi. Avevo paura, c'erano cecchini appostati ovunque. Lì conobbi anche un fenomeno tipico delle guerre, gli stupri sistematici. Ho intervistato molte donne vittime di stupro, e sono rimasto sconvolto da quei racconti. Incontrai poi lo stesso fenomeno nel Congo, dove ho seguito la guerra civile».

- Lei è l'unico reporter israeliano a seguire da vicino i conflitti in Medio Oriente e nel mondo arabo. Come israeliano ha paura?
  «Quando vado nei Paesi dove Israele è considerato il diavolo, la paura è legata più alla mia identità che alla guerra. Certo, mi spaventano i bombardamenti, ma ancor di più le domande delle persone che incontro sulla mia vita. Come quelle dei combattenti delle milizie sciite con cui sono stato a Mosul».

- Le milizie sciite stanno prevalendo in Medio Oriente. Perché?
  «Quando l'Isis si è espanso, Stati Uniti e Russia hanno deciso che quello era il nemico, e di aiutare quindi i nemici dell'Isis, ovvero le milizie sciite. E adesso abbiamo un asse sciita dall'Iran al sud del Libano. Per noi israeliani anche questo rappresenta un pericolo, e non è certo meglio dell'Isis. La realtà è comunque ancor più complessa: tutti parlano della fine dello Stato islamico, mentre Isis ancora esiste. A Mosul per esempio i suoi militanti si radono la barba, si mischiano tra la gente, e si fingono vittime, continuando a minacciare i civili. Molti di loro abbandonano le città e vanno nel deserto, dove l'esercito iracheno non è presente, e io penso che nel futuro attaccheranno proprio da li».

- Lei ha girato molti documentari in zone quasi inaccessibili alle telecamere.
  «Sì, per esempio anche nella zona curda della Siria. Lì ho scoperto una cosa straordinaria. L'esercito curdo è l'unico al mondo in cui c'è la parità assoluta tra uomini e donne. E ciò ha un risvolto positivo anche sul campo di battaglia. I guerriglieri dell'Isis, noti per la loro violenza e determinazione, credono che nel caso vengano uccisi in guerra conquisteranno il paradiso e le 72 vergini. Per loro le donne sono creature inferiori, e se una donna li uccide il paradiso le è precluso. Così le guerrigliere al fronte si fanno sentire, e i jihadisti tremano, si sentono minacciati dal fuoco nemico di una donna».

- Qual è il destino degli stati in guerra del Medio Oriente? Scompariranno?
  «Sono già scomparsi. Non esistono più Libia, Siria, Iraq, Afghanistan e così via. Ci sono solo le tribù, e questi Stati sono precipitati nel loro conflitto tribale interno».

- Nel 2002, dopo le operazioni dell'esercito israeliano contro la seconda Intifada, lei fu l'unico reporter ad entrare a Jenin. Cosa ricorda?
  «Fu un grande evento mediatico. Israele fece alcune operazioni a Ramallah, Tulkarem, Nablus, e giravano molte voci su un massacro a Jenin. Non c'era nessun giornalista a documentare ciò che stava avvenendo. Ricordo che Libération titolò "Massacro". Il produttore del programma di approfondimento del venerdì convinse l'esercito a farmi entrare a Jenin: capirono che bisognava lasciar andare un reporter, altrimenti sarebbe stato come fare un regalo ai mistificatori. Entrai con l'esercito, ma poi lo lasciai e mi feci guidare dai palestinesi: volevo guardare tutto con i mie occhi. Così dimostrai per primo che non ci fu alcun massacro».

- Cosa rappresenta oggi Hamas per i palestinesi?
  «A Gaza mi è capitato di parlare più volte con Hamas, che ha rappresentato un'alternativa alla corruzione di Fatah. Io so però che molti palestinesi adesso odiano Hamas perché questo oggi è diventato un movimento assolutamente fascista. Ma nessuno può dirlo».

- Quali sono le regole che segue nel suo lavoro?
  Seguo il mio istinto. Ci sono momenti che provo a non pensare a chi sono e dove sono. Mi concentro sul reportage, sul lavoro. Altra regola è osservare gli occhi delle persone. Dallo sguardo capisco se tutto va bene o c'è qualcosa che non va, se posso fidarmi o no. Io faccio tutto da solo, non ho operatori: quando mi vedete nello schermo è perché chiedo a qualcuno di riprendermi. Questo mi aiuta a stabilire un rapporto di fiducia con chi ho davanti. Comunque la regola più importante è quella di non dare mai l'impressione di avere paura. Se dimostrassi di averne solleverei sospetto. Una volta in Pakistan mi avvicinai ad un ragazzo che bruciava la bandiera israeliana. Mi ha offerto una sigaretta, e malgrado non sono un fumatore, gli ho chiesto di aiutarmi a fumare. Mi ha acceso la sigaretta con la bandiera in fiamme, abbiamo iniziato a parlare, e mentre la mia bandiera bruciava mi comportavo in modo tranquillo, come se tutto andasse bene. Ai miei colleghi consiglio non di non aver paura, ma di comportarsi come se non l'avessero.

(La Stampa, 4 dicembre 2017)


Chirurghi israeliani restituiscono il sorriso ai volti dei bambini africani

 
Alcuni chirurghi dell'ospedale israeliano Rambam di Haifa hanno aderito a una squadra internazionale in missione in Africa per correggere le deformità del viso nei bambini. Due di loro, il chirurgo craniofacciale Dott. Omri Emodi, ed il Dott. Zach Sharony sono andati di recente in Ghana per operare su bambini nati con severe deformità.
I due medici israeliani hanno partecipato ad una missione organizzata dall'organizzazione umanitaria Operation Smile, insieme ad un team di chirurghi e personale medico di 12 paesi.
Queste le parole del Dott. Omri Emodi:
Se un bambino ha una deformità al viso, ciò può influenzare qualsiasi azione: mangiare, bere, parlare e, naturalmente, la propria immagine di sé. È come se camminasse con un tratto distintivo, specialmente in Africa e potrebbe facilmente essere un emarginato.
I pazienti, che vanno dai pochi mesi ai 20 anni, sono venuti da tutto il Ghana. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate sulle labbra e sui palati, mentre altre coinvolgevano deformità facciali più complesse.
Operando senza sosta in sette sale chirurgiche improvvisate nella capitale di Ho, i medici hanno operato su molti pazienti in circostanze particolarmente impegnative. Sono 155 le operazioni completate in 8 giorni. I due medici del Rambam hanno precedentemente partecipato a missioni in Vietnam, in Etiopia, nelle Filippine e in altri paesi, trattando decine di pazienti ovunque vadano.

(SiliconWadi, 4 dicembre 2017)


Gli ebrei di Francia si sentono soli

Sacrificati dalla sinistra sull'altare del "vivere insieme"

Scrive Marianne (8/11)

Lo storico francese Georges Bensoussan, imputato in una causa legale per aver denunciato l'antisemitismo di matrice arabo-musulmana, parla della condizione degli ebrei di Francia. Parla anche del suo processo: "E' emblematico dello stato della società. In realtà non avrebbe mai dovuto esistere, perché, come ha dimostrato la sentenza che mi ha prosciolto il 7 marzo scorso, nei miei propositi non c'era stata alcuna stigmatizzazione di una popolazione, ma solo e semplicemente la volontà di esprimere, per mettere all'erta, quel che sanno tutti coloro che hanno legami con quel mondo: l'antisemitismo per lungo tempo era parte integrante del codice culturale del Maghreb, dove furono allevati e cresciuti un notevole numero di bambini che, tuttavia, conservano la capacità di liberarsi di questo retaggio, di riacquistare la propria libertà, sull'esempio della bella figura di Abdelghani Merah (fratello di Mohammed Merah, lo stragista di Tolosa). "Non appena sono venute a galla le accuse di aggressioni sessuali contro Tariq Ramadan, i social network hanno evocato un 'complotto sionista' e qualificano la prima donna che l'ha denunciato, musulmana di nascita, di essere una 'puttana sionista'. La stessa ondata di odio antiebraico contro Charlie Hebdo. Nel frattempo, al processo di Abdelkader Merah, si veniva a sapere che 'in famiglia, la madre e gli zii hanno sempre ribadito che gli arabi sono nati per odiare gli ebrei'.
   Questo antisemitismo una parte dell'élite francese si rifiuta di prenderlo in considerazione, come aveva già fatto sessant'anni fa, quando si era rifiutata di ascoltare Albert Memmi, che raccontava come la condizione degli ebrei maghrebini non fosse certo idilliaca". Bensoussan attacca "la cultura dell'estrema sinistra, minoritaria a livello di opinione pubblica, ma assai potente nei media e nelle università, che ha contribuito a imbavagliare questo paese. Gli ebrei che vivono in Francia, e in particolare quelli dei ceti popolari della comunità, si sentono abbandonati. E lo saranno ancora di più domani, sacrificati sull'altare della pace civile e del vivere insieme. E il loro abbandono è politicamente inscindibile dall'abbandono dei ceti popolari, ignorati da una borghesia integrata e 'aperta al mondo'.
   Quando, dopo lungo tempo, ci si è resi conto dell'avvenuto divorzio tra una certa sinistra e i ceti popolari, di rado si è fatto il collegamento tra questo abbandono dei ceti popolari e l'abbandono di una comunità ebraica divenuta ingombrante, come una critica silenziosa ad una vigliaccheria diffusa. Si ha una paura tale che la sua sola presenza fomenta la rabbia dei 'quartieri sensibili' e, quindi, costringe a trovare coraggio". Inoltre, la demonizzazione dello Stato di Israele apre la porta ad ogni forma di violenza. "La giustifica. Nel mentre, passo dopo passo, segue lo schema degli anni Trenta. All'ebreo 'nemico del genere umano' o 'il popolo di troppo' di ieri, oggi subentra 'lo Stato di troppo che minaccia la pace del mondo'. Con il pretesto della critica (legittima) alla politica israeliana, la demonizzazione dello Stato suona come la negazione del diritto dello Stato ebraico a esistere".

(Il Foglio, 4 dicembre 2017)


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Voci isolate contro l'antisemitismo

L 'ex premier socialista Valls e l'intellettuale musulmano Said

Scrive Newsweek (20/11)

 
Abdelghani Merah
Nella famiglia Merah, siamo cresciuti nell'odio verso gli ebrei, nell'odio di tutto quello che non fosse islamico". Sono queste le agghiaccianti parole pronunciate da Abdelghani Merah durante il processo a suo fratello Abdelkader Merah, accusato di essere stato l'autore assieme al terzo fratello, Mohamed, dell'omicidio di tre soldati, tre bambini ebrei e di un maestro di scuola a Tolosa, in Francia, nel 2012. Simone Rodan-Benzaquen, direttore dell' American Jewish Committee Europe, lo prende a esempio per una analisi dell'antisemitismo francese.
   "Queste affermazioni tremende, che lasciano capire in quale ambiente fosse cresciuto Mohamed Merah e come ragionasse la sua famiglia, hanno fatto nascere un dibattito pubblico su a che punto sia il livello di odio verso gli ebrei nella comunità musulmana francese. Per anni è stato quasi impossibile parlare dell'antisemitismo dei musulmani francesi. Molti si sono rifiutati di farci caso per motivi ideologici, per disagio, o per mancanza di coraggio. Il processo Merah ha portato alla luce una verità in Francia: le radici dell'antisemitismo affondano profondamente in alcuni elementi della comunità islamica francese. A questa miscela esplosiva vanno ad aggiungersi i social network, attraverso i quali gli antisemiti trasmettono l'antisionismo e le teorie del complotto, armi popolari contro gli ebrei.
   Un esempio recente dell'impatto dei social è stata la reazione allo scandalo che ha coinvolto Tariq Ramadan, il noto studioso islamico accusato di aver stuprato e molestato numerose donne. Nei giorni immediatamente successivi alle rivelazioni di Renda Ayari, la prima vittima presunta ad aver accusato Ramadan, c'è stata un'enorme ondata di minacce e insulti sui siti islamici francesi e sui social, in cui Ayari veniva accusata, tra le altre cose, di essere una 'troia pagata dagli ebrei sionisti per diffamare il buon nome di Tariq Ramadan'.
   L'antisemitismo in Francia si contraddistingue per il livello di violenza, che va dalle aggressioni ai rapimenti, arrivando addirittura all'omicidio. Ma è solo recentemente che qualche intellettuale e politico, in particolare a sinistra, ha osato parlarne apertamente. L'ex primo ministro Manuel Valls, socialista, è stato uno dei primi a descrivere, denunciare e combattere il problema.
   Oggi anche qualche intellettuale musulmano francese ha cominciato a farsi sentire. L'esempio più recente è quello del regista Said Ben Said, che in un articolo apparso sul Monde, ha criticato apertamente e coraggiosamente l'antisemitismo arabo musulmano, dopo aver appreso a luglio che non sarebbe stato incluso nella giuria di un festival del cinema che si sarebbe svolto a Cartagine in Tunisia, perché aveva prodotto film in Israele.
   Il coraggio morale di questi intellettuali musulmani dovrebbe essere lodato perché sappiamo quanto sia difficile per loro far sentire la propria voce. La Francia intera ha bisogno di sostenere queste voci moralmente coraggiose. Solo se l'intero paese affronta la realtà dell'antisemitismo, la Francia potrà continuare a sostenere gli amati valori dei diritti umani, 'liberté, égalité, fraternité"'.

(Il Foglio, 4 dicembre 2017)


Intellettuale arabo: Israele è uno stato legittimo

di Emanuel Baroz

Abdullah Al-Hadlaq è un intellettuale arabo le cui dichiarazioni pro Israele stanno facendo molto discutere. In una recente intervista all'emittente Alrai TV, lo scrittore kuwaitiano ha dichiarato che il mondo arabo dovrebbe riconoscere Israele come "legittimo stato sovrano indipendente".
Parole che gli sono valse accuse di pazzia, di tradimento e di essere un "agente sionista". Ma c'è di più, perché nell'intervista Al-Hadlaq non ha nascosto la propria ammirazione per Israele e per il suo sistema valoriale, ribadendo che Israele non è stato "rubato" agli arabi:
    "Coloro che dicono che Israele è stato rubato ragionano con la mentalità degli anni '50 e ancora prima. Quando lo stato di Israele venne fondato nel 1948 non esisteva uno stato arabo chiamato Palestina. Che piaccia o no, Israele è uno stato sovrano indipendente, ed è riconosciuto dalla maggior parte delle nazioni che amano la pace e la democrazia. Il gruppo di stati che non riconoscono Israele è composto dai paesi della tirannia e dell'oppressione. Ad esempio, la Corea del Nord non riconosce Israele, ma questo non sminuisce in nulla Israele e la sua esistenza".
Al-Hadlaq ha espresso la propria ammirazione per le università e per i centri scientifici israeliani, sottolineando "come non ne esistano nemmeno nei più antichi e potenti paesi arabi" e per lo stretto legame fra la popolazione israeliana e lo Stato ebraico:
    "Magari potessimo essere anche noi come la popolazione dello stato di Israele, che si è raccolta dal primo all'ultimo a difesa di un solo soldato israeliano. Vorrei essere io un soldato difeso in questo modo dal suo paese. Per Allah, se si fosse trattato di un soldato di un paese arabo, forse che il suo paese o il suo capo di stato si sarebbero mobilitati come hanno fatto in Israele? I paesi arabi hanno avuto miriadi di vittime e nessuno se ne è preoccupato più di tanto".
Al-Hadlaq non è nuovo a questo tipo di dichiarazioni. Già in passato l'intellettuale arabo aveva mostrato le proprie opinioni diametralmente opposte a quelle di quasi la totalità della galassia araba quando sostenne il diritto di Israele di difendersi di fronte agli attacchi di Hamas.

(Progetto Dreyfus, 4 dicembre 2017)


Addio a Nava Semel voce degli israeliani cresciuti dai sopravvissuti

La narratrice aveva 63 anni

di Giulia Ziino

Nava Semel
«Uno scrittore è qualcuno che ascolta ciò che non dovrebbe ascoltare, che guarda ciò che non dovrebbe vedere». Diceva così Nava Semel, scrittrice israeliana scomparsa sabato a lei Aviv, a 63 anni. Due settimane fa era morta la madre, Margalit, sopravvissuta ad Auschwitz ed emigrata in Israele. Proprio dall'esigenza di dare voce alla memoria della Shoah era nato l'impegno letterario di Semel, prima israeliana ad affrontare in un libro di narrativa, Il cappello di vetro (1985, in Italia pubblicato da Guida nel 2002), il tema della seconda generazione di suoi connazionali, nati da sopravvissuti ai campi di sterminio: «Mia madre - spiegava - ha cominciato a raccontarsi con i miei figli. A me non disse mai nulla». E l'orrore della persecuzione torna anche in E il topo rise (Atmosphere libri, 2012). Nata a Jaffa nel 1954 da genitori romeni - suo padre Yitzhak è stato membro della Knesset tra l'84 e l'88 - Semel, tradotta nel nostro Paese anche da Mondadori, ha lavorato a lungo per radio e tv ed era autrice di testi teatrali e per bambini. C'è anche un po' di Italia nella sua opera: nel romanzo Testastorta (Salomone Belforte, 2013) racconta di un musicista ebreo nascosto (e salvato) da una donna in una soffitta di Borgo San Dalmazzo, nel Cuneese.

(Corriere della Sera, 4 dicembre 2017)


Raid israeliano vicino a Damasco. "Colpita la base dei militari di Teheran"

Netanyahu: non lascerò che si trincerino in Siria

di Giordano Stabile

Israele torna a colpire in Siria, e questa volta direttamente le forze iraniane. Il raid è arrivato prima dell'alba di ieri e ha preso mira un complesso militare a El-Kiswah, 13 chilometri a Sud della capitale siriana. È un obiettivo sensibile, perché l'Intelligence israeliana sospetta che in quell'area gli iraniani stiano allestendo una propria base che potrebbe ospitare, oltre a numerosi depositi di armi, anche militari di Teheran. Tanto che, secondo la testata libanese Al-Mustaqabal, «dodici iraniani» sarebbero rimasti uccisi nel bombardamento.
   La tv di Stato siriana ha denunciato la «violazione della sovranità» da parte dello Stato ebraico e in un primo momento ha parlato di attacco con cacciabombardieri dallo spazio aereo libanese. Poi i media governativi si sono corretti e hanno specificato che il raid era stato condotto con missili terra-terra e due erano stati intercettati dai sistemi antiaerei S200. Fonti dell'opposizione però hanno confermato che almeno alcuni missili hanno raggiunto il bersaglio e si sono sentite forti esplosioni nella capitale.
   Le forze armate israeliane, come di consueto, non hanno né confermato né smentito. In precedenza però il ministro della Difesa Avigdor Lieberman aveva ammesso che Israele ha condotto «un centinaio di raid» contro le milizie sciite in Siria negli ultimi anni. E ieri, dopo l'attacco, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha insistito che Israele non permetterà all'Iran di «trincerarsi» nel territorio siriano e ha fatto capire che l'obiettivo dei raid erano proprio le forze iraniane. La «linea rossa», cioè il ritiro dei consiglieri Pasdaran e dei miliziani libanesi e iracheni, continua a essere ribadita agli Usa e alla Russia, mentre sono in corso i colloqui di pace di Ginevra e dopo che a Soci, Putin, Erdogan e Rohani hanno delineato i futuri assetti del Paese.

(La Stampa, 3 dicembre 2017)


Putin in Siria. La trappola del dopoguerra

di Maurizio Molinari

Ad oltre due anni dall'intervento in Siria, la Russia di Vladimir Putin può vantarsi di aver incassato un indubbio successo militare con la sopravvivenza del regime di Bashar Assad, ma per dargli profondità strategica deve ora porre fine alle ostilità e gettare le basi per la ricostruzione. E' a tal fine che Putin ha riunito a Sochi l'iraniano Hassan Rohani, alleato militare, ed il turco Recep Tayyp Erdogan, partner politico, tentando di porre le premesse del dopoguerra. Ma è un terreno sul quale il Cremlino appare, per la prima volta, in difficoltà.
  I motivi sono quattro. Il primo è la netta divergenza fra Mosca e Teheran su chi guiderà la Siria a conflitto concluso perché gli iraniani vogliono a tutti i costi tenere al potere Bashar Assad, considerandolo il garante dei loro interessi, mentre per i russi il nome del leader di Damasco conta relativamente perché la priorità è piuttosto mantenere la Siria unita grazie a istituzioni stabili, al fine di assicurarsi la permanenza delle proprie basi nel lungo termine. Il disaccordo sulla sorte di Assad è denso di insidie per Mosca perché potrebbe portare il resuscitato Raiss a schierarsi senza remore con Teheran, ostacolando i piani del Cremlino. Qualche segnale di questo tipo è già arrivato con le dichiarazioni di Bouthaina Shaaban, consigliere presidenziale, e del vice ministro degli Esteri, Faisal al-Mikdad, «scettici» sul dialogo con le opposizioni auspicato proprio da Mosca proponendo un «Congresso del popolo siriano».
  In secondo luogo non è chiaro quali forze militari saranno in grado di proteggere l'unità della Siria nel dopoguerra perché l'esercito del regime è stato polverizzato, ad esclusione dei reparti scelti che sorvegliano i palazzi di Bashar Assad, ed a controllare gran parte del terreno sono unità iraniane, reparti Hezbollah e milizie sciite irachene mentre i cieli sono dominio incontrastato dell'aviazione russa. C'è poi l'incognita turca: il patto di Sochi fra Putin, Rohani ed Erdogan affida ad Ankara il ruolo di garante de facto della maggioranza sunnita ma il suo interesse è assai più limitato perché vuole impedire che il Rojava curdo-siriano diventi una roccaforte della guerriglia del Pkk. Infine, ma non per importanza, c'è la ricostruzione di un Paese devastato da sei anni di guerra: Putin non dispone di risorse economiche a sufficienza per guidarla ed ha dunque bisogno degli investimenti di Europa, Stati Uniti e Paesi del Golfo, ma al momento non mostra la volontà di chiederli perché significherebbe scendere a patti con i rivali regionali.
  Come se non bastasse, sul fronte militare siriano i generali russi hanno alcuni evidenti grattacapi ovvero i raid aerei israeliani non avvengono più solo contro Hezbollah perché colpiscono basi iraniane - come avvenuto ieri notte - mentre la presenza di un contingente Usa nella base di Al Tanf, ai confini con la Giordania, consente al Pentagono di sorvegliare i movimenti di uomini e armi fra Siria e Iraq.
  Insomma, il dopoguerra dei russi in Siria dopo aver salvato Bashar Assad si preannuncia disseminato di rischi quanto lo fu quello degli americani in Iraq dopo aver abbattuto Saddam Hussein. Allora come oggi la potenza vincitrice del conflitto armato si trova a fare i conti con la difficoltà di ricostruire perché ciò significa scontrarsi con la dinamica di impegnare risorse crescenti in una regione instabile per natura e combattiva per vocazione. Ecco perché per Putin l'obiettivo di far uscire il grosso delle proprie truppe dalla Siria può rivelarsi la parte più difficile dell'intervento, con il rischio di apparire ai russi intrappolato dentro un conflitto che ha già vinto.

(La Stampa, 3 dicembre 2017)


Tff, la vittoria alla storia di un amore in Israele

Ram Nehari
TORINO - Alla fine a sbancare la 35a edizione del Torino Film Festival che si è chiuso ieri sera è stato "Don't Forget Me" di Ram Nehari con uno spaccato della complessa realtà israeliana attraverso l'amore di una ragazza anoressica e un suonatore di tuba un po' fuori di testa; ha vinto il premio come miglior film e anche quelli per il premio miglior attore e attrice andati rispettivamente a Nitai Gvirtz e a Moon Shavit (premio ex aequo con Emily Beecham per "Daphne" di Peter Mackie Burns).
   Il premio del pubblico è andato invece a "A voix haute" di Stèphane De Freitas, film sul valore della parola e sul potere travolgente delle idee. La giuria presieduta da Pablo Larrain ha assegnato una menzione speciale anche a uno dei due film italiani in concorso, "Lorella e Ram Nehari Brunello", opera prima di Jacopo Quadri. Un documentario che segue la vita di due fratelli agricoltori legati, al di là del ritorno economico, alla loro azienda e soprattutto alla terra ereditata dai genitori.
   Una menzione speciale è andata a "Kiss and Cry" di Chloè Mahieu e Lila Pinell, a cui è andato anche il premio per la miglior sceneggiatura. Le due registe mettono in campo un gruppo di pattinatrici quindicenni, tra amicizie, competizioni e dominate da un sadico allenatore. Il premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, infine, è andato a "Fabrica de nada" di Pedro Pinho, uno spaccato del Portogallo tra crisi e post-capitalismo. Il premio Fipresci (Federazione internazionale della stampa cinematografica) è stato attribuito invece a "The Death of Stalin" di Armando Iannucci.

(Il Secolo XIX, 3 dicembre 2017)


Così il filosofo antinazista sacrificò Eva giovane ebrea

di Fabrizio Coscia

NAPOLI - Nella vita di Imre Lakatos - íl geniale filosofo della scienza ebreo ungherese, che fu allievo di Karl Popper e teorico della metodologia dei programmi di ricerca - c'è stata una pagina buia: scampato ad Auschwitz, entrò nella Resistenza antinazista e fu a capo di una cellula clandestina comunista-sionista di Nagyvàrad, tra i cui componenti c'era anche una ragazza di origine rumena, Eva Izsàk. La giovane militante, diciottenne, fu giudicata da Lakatos un potenziale pericolo per i componenti del gruppo in caso di un suo arresto (considerato probabile a causa dei suoi tratti marcatamente ebraici) e dunque condannata a morte per suicidio con íl cianuro. La sentenza fu eseguita nell'estate del 1944 nella foresta di Debrecen.
   Questa storia è stata raccontata da Januaria Piromallo nel libro Il sacrificio di Éva Izsàk (Chiarelettere), tratto dalla testimonianza del filosofo Imre Toth e dal Memoriale della sorella di Eva, Maria Zinan, e adesso è diventato uno spettacolo, in scena al Ridotto del Mercadante fino a oggi alle 17, per una produzione del Teatro Stabile di Napoli, con l'adattamento e la regia di Alessandra Feu , e con interpreti Andrea Renzi nel ruolo di Lakatos (il cui vero nome era Lipsitz) e Teresa Saponangelo nei panni di una giornalista americana che sta scrivendo una monografia sul celebre filosofo e vuole indagare sulle sue reali responsabilità nella condanna a morte della giovane ebrea.
   Lo spettacolo è costruito tutto sul confronto-scontro tra l'arrogante e maschilista Lakatos e l'intraprendente giornalista che incalza la sua preda-idolo. Anche lo spazio scenico (di Maria Crisolini Malatesta) è caratterizzato da questa contrapposizione, con l'articolazione dei due appartamenti separati da cui l'uomo e la donna comunicano tra loro solo telefonicamente. Solo nel finale, quando la giornalista si reca nella casa londinese del filosofo, l'incontro si traduce in una resa dei conti di fronte alla necessità di una liberatoria confessione. Regia e adattamento risultano efficaci al serrato svolgersi della vicenda. Ottima la prova di Renzi, capace di passare con versatilità dalla maschera supponente ed egolatrica del personaggio, a inattesi guizzi comici. Brava anche la Saponangelo nel dare corpo alla determinazione di chi vuole conoscere la verità.

(Il Mattino, 3 dicembre 2017)



La parola profetica più salda

Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà. Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla maestosa gloria gli disse: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto». E noi l'abbiamo udita, questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo. Abbiamo inoltre la parola profetica più salda a cui farete bene a prestare attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori. Sappiate anzitutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da vedute personali; perché nessuna profezia venne mai dalla volontà dell'uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, sospinti dallo Spirito Santo.

Dalla seconda lettera dell'Apostolo Pietro, cap. 1

 


Cnn: "Trump riconoscerà Gerusalemme capitale di Israele"

Il presidente americano, Donald Trump, martedì dovrebbe annunciare che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale israeliana.

di Raffaello Binelli

La notizia era nell'aria ora arriva la conferma, anticipata dalla Cnn: gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale israeliana.
L'emittente di Atantalo riferisce citando "funzionari statunitensi con conoscenza diretta e diplomatici stranieri". Ora si aspetta solo che Trump faccia l'annuncio, mentre firma la rinuncia a mantenere l'ambasciata americana a Tel Aviv per altri sei mesi. Un obiettivo che Israele attendeva da tempo.
Alcune fonti ritengono che Trump tenterà di attenuare il malcontento palestinese, forse dicendo che solo Gerusalemme Ovest è capitale di Israele, in contrasto con la parte orientale della città, che i palestinesi rivendicano come proprio seggio di governo. Ma al momento non c'è ancora niente di certo: "Il presidente - ha detto un portavoce della Casa Bianca - ha sempre detto che è una questione di quando, non di se. Il presidente sta ancora valutando le opzioni e non abbiamo nulla da annunciare".
Un'altra fonte della Casa Bianca ha raccontato alla Cnn che non è stata ancora presa una decisione definitiva. L'annuncio metterebbe gli Stati Uniti in una singolare posizione con i propri alleati. Mentre Israele rivendica Gerusalemme come sede del governo, infatti, non vi sono ambasciate straniere, dato che la comunità internazionale vede quella di Gerusalemme come una questione da risolvere come parte di un più ampio accordo di pace.
Trump però ha fatto una campagna impegnandosi a spostare l'ambasciata, una promessa fatta dai precedenti presidenti che si sono fermati di fronte alle complessità della situazione e alle reazioni che potrebbe innescare.

(il Giornale, 2 dicembre 2017)


Se davvero Donald Trump dovesse dichiarare Gerusalemme Ovest, solo Gerusalemme Ovest, capitale di Israele, giustamente si dirà che Vladimir Putin l’ha preceduto. E il danno fatto a Israele sarebbe maggiore di tutti quelli fatti da Obama in otto anni. M.C.


Israele, le nazioni e i credenti in Gesù

di Marcello Cicchese

Lo Stato d'Israele è ormai una realtà da più di cinquant'anni. Come questo sia potuto accadere, nonostante le enormi difficoltà e il freddo odio di nemici determinati a distruggerlo, non è facilmente spiegabile con categorie puramente umane. Possiamo ricordare le parole con cui lo storico Benny Morris conclude il suo poderoso trattato sul conflitto arabo-israeliano:
    "Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell'insieme il successo dell'impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all'ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?"
   L'autore dice: "Fin qui...", e naturalmente non può essere sicuro che i sionisti continueranno ad essere i vincitori dello scontro. Ma di quale scontro si tratta?
   Nel libro del profeta Isaia si parla del "giorno della vendetta del Signore, l'anno della retribuzione per la causa di Sion" (Is 34:8). Lo scontro vero che si sta preparando è tra il Dio che ha scelto Israele e le nazioni che sono spinte da Satana a muoversi contro il popolo eletto. Sarà un giorno di vendetta "poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage" (Is 34:2). L'indignazione è causata dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna. Questo trattamento assumerà forme tragiche e spaventose negli ultimissimi tempi che precedono il ritorno in gloria del Signore Gesù, ma i suoi caratteri sono riconoscibili anche adesso. Non dovrebbe questo fatto provocare anche nei credenti sentimenti di indignazione per il comportamento ingiusto e ipocrita delle nazioni verso Israele, pur sapendo che a Dio soltanto spetta la vendetta? E la mancanza di questi sentimenti non potrebbe essere un segnale preoccupante di un intorpidimento spirituale che impedisce di riconoscere le manovre dell'Avversario?
   Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l'Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione hanno saputo riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: "No". La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare.
   Un fratello tedesco che ha vissuto il tempo del nazismo e negli ultimi anni della sua vita si è interessato molto di Israele, in uno dei suoi libri su questo argomento onestamente confessa:
    "In Germania non pochi cristiani, tra cui anche chi scrive, hanno visto nel Nazionalsocialismo la salvezza del popolo. Abbiamo accolto con favore l'espulsione degli ebrei dalla nazione tedesca. Fin dal 1933 il "Täuferbote", giornale delle Chiese Battiste austriache, scrisse che "Dio, attraverso la Rivoluzione nazionale in Germania, ha imposto agli ebrei un potente alt". Su "Die Botschaft" e "Die Tenne", giornali delle Assemblee dei Fratelli, il primo per le chiese, il secondo per i giovani, si può trovare una sconsiderata approvazione della epurazione della Germania dai nemici dello Stato, e in particolare dagli ebrei immigrati. Di fronte alla forzata emigrazione, alla brutalità delle SS, alle crudeli sofferenze che si abbattevano sugli ebrei, sembrava possibile, anche nei nostri ambienti, spiegare alla luce della Bibbia, senza problemi, la persecuzione e l'espulsione degli ebrei con la maledizione che incombeva su Israele. In questo modo tranquillizzavamo la nostra coscienza e ci sembrava che anche un "antisemitismo evangelico" fosse giustificato."
   Quando poi si cominciò a capire come stavano veramente le cose, all'entusiasmo subentrò la paura, e le varie chiese furono talmente occupate a risolvere il problema dei loro rapporti con lo Stato totalitario da non avere più né il tempo, né la forza, né lo spirito di martirio per impegnarsi a favore degli ebrei.
   I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E' preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice "globalizzata", le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una "umana comprensione", dell'odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele. Le mostruosità diaboliche di giovani educati all'odio e spinti a uccidere sé stessi insieme a uomini, donne e bambini colpevoli soltanto di essere ebrei non sollevano indignazione, non fanno quasi più notizia. I pacifisti, i sognatori di una pace universale raggiunta con sforzi umani si lasciano ingannare dall'anelito di giustizia con cui si presenta la "lotta di liberazione" della Palestina dagli ebrei "usurpatori". Come tutte le persone imbrogliate, cercheranno di rinviare il più possibile il momento in cui dovranno ammettere di essersi lasciati ingannare; e quando non potranno più farlo, saranno occupati a risolvere il problema della loro paura.

(da “Dio ha scelto Israele”)


Il Roma Club Gerusalemme festeggia i suoi primi 20 anni

GERUSALEMME - Per i festeggiamenti dei primi venti anni dalla nascita il Roma Club Gerusalemme, col patrocinio dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv, organizza una giornata tutta giallorossa martedì 5 dicembre.
Per festeggiare è stato organizzato un Torneo di calcetto al campo d'erba del Beth Hanoar cui seguirà una cena tra tifosi romanisti in Israele, con la presenza dell'Ambasciatore d'Italia Gianluigi Benedetti.
Dopo cena sarà possibile seguire la partita di Champions League Roma - Qaraba valida per la qualificazione agli ottavi di finale.

(aise, 2 dicembre 2017)


Israele ratifica l'accordo e entra nel Consiglio oleicolo internazionale

La storia dell'olivicoltura israeliana ha radici antiche e l'olio d'oliva era alimento base fin da epoca romana. Oggi gli oliveti israeliani coprono 36 mila ettari per una produzione di poco più di 16 mila tonnellate di olio all'anno.

 
Israele è il settimo Paese ad aver aderito e ratificato in via definitiva l'accordo internazionale sull'olio di oliva del 2015. La comunicazione formale è stata depositata presso le Nazioni Unite a New York ma anche presentata dall'Ambasciatore israeliano a Madrid, Daniel Kutner, al Direttore esecutivo del Coi, Abdellatif Ghedira.
   In Israele, fin dall'antichità, le famiglie più importanti avevano un piccolo frantoio, per poter autoprodursi l'olio e già da epoca romana l'olio di oliva era alimento base nella dieta, oltre a essere utilizzato per l'illuminazione e per le cerimonie religiose. Oggi l'olio di oliva è alimento molto diffuso e vive una nuova e crescente popolarità in virtù dei suoi benefici per la salute.
   Attualmente Israele ha una superficie olivicola di 36 mila ettari. La sua produzione media di olio d'oliva nel corso delle ultime 5 campagne è di 16 mila tonnellate, l' 82% delle quali rientra nella categoria dell'olio extra vergine di oliva, mentre il resto è classificato come olio d'oliva vergine. Il consumo annuo pro capite di olio d' oliva è di circa 2,3 kg.
   L'olio d'oliva viene prodotto in circa 90 frantoi, la maggior parte dei quali sono moderni frantoi a due o tre fasi. Il paese produce inoltre 15 mila tonnellate di olive da tavola e gli israeliani consumano circa 2,6 kg di olive da tavola all'anno.
   Al 23 novembre 2017, tredici membri hanno firmato l' Accordo internazionale sull'olio d' oliva e sulle olive da tavola del 2015 (Algeria, Argentina, Unione Europea, Iran (I. S.), Israele, Giordania, Libano, Libia, Montenegro, Marocco, Tunisia, Turchia e Uruguay). Di questi, cinque hanno notificato l' applicazione provvisoria dell' accordo (Algeria, Argentina, Unione europea, Libia e Marocco). Sette paesi hanno ratificato, accettato, approvato o aderito definitivamente all'accordo (Israele, Giordania, Libano, Montenegro, Palestina, Tunisia e Turchia).

(Consorzio Nazionale degli Olivicoltori, 1 dicembre 2017)


Medio Oriente: l'Iran e Hezbollah accendono le micce

Hamas e gli sciiti riportano Israele nel mirino.

La tanto auspicata "riconciliazione palestinese", intentata dall'Autorità nazionale palestinese e sostenuta da al-Fatha, sta attraversando un periodo di profonda crisi in ragione dell'estrema riluttanza di Hamas di privarsi dei propri armamenti, come richiesto dagli accordi raggiunti.
   L'insediamento del governo palestinese, guidato da Rami Hamdallah, non ha avuto luogo e ai mediatori egiziani le parti hanno richiesto di posticipare ulteriormente il termine per l'attuazione degli accordi sottoscritti a Il Cairo. Ma proprio i mediatori di Al Sisi hanno sottolineato che la richiesta di disarmo di Hamas è una mera chimera propendendo per posticipare la consegna delle armi successivamente all'effettivo raggiungimento di un accordo di pace con Israele.
   Nella settimana in corso, Khalil Alhiya, uno dei leader di Hamas, ha sottolineato l'intenzione di non aderire alla richiesta di disarmo, minacciando, inoltre, la ripresa degli attacchi contro Israele. Il vice-leader di Hamas a Gaza ha inoltre affermato che le armi oggetto della richiesta di consegna saranno inviate in Giudea Samaria per combattere contro gli israeliani.
   Quasi in contemporanea con le dichiarazioni di Alhiya, un altro leader di Hamas, Salah al-Bardawil, durante una conferenza stampa, ha dichiarato che la cooperazione con Hezbollah si è di fatto rinforzata, avendo appianato le tensioni dovute all'intervento della fazione sciita in Siria a fianco delle truppe di Bashar al-Assad in contemporanea alla presa di posizione di Hamas in favore dell'esercito libero siriano, diretta emanazione dei Fratelli Musulmani.
   Nel 2013, infatti, a seguito di questa scelta di Hamas, Hezbollah ridusse notevolmente il suo apporto economico in favore della fazione sunnita, riattivando il flusso dei finanziamenti solo negli ultimi mesi dell'anno scorso. Durante il suo intervento, al-Bardawil, ha evidenziato che la richiesta di disarmo di Hamas, inoltrata per facilitare la riconciliazione con Fatah, non è mai stata messa in atto. A conferma di quanto dichiarato dall'esponente di Hamas, Hassan Nasrallah, l'incontrastato leader di Hezbollah, ha annunciato l'invio alla fazione a Gaza, di un'ingente partita di razzi anticarro Komet, di fabbricazione russa, in funzione anti-israeliana.
   Proprio Israele sarà, quindi, costretto a guardarsi da due diversi fronti. Il primo formato da Hamas e le milizie alleate nella Striscia di Gaza, il secondo da Hezbollah e le Iranian Revolutionary Guard Corps in relazione al fronte a nord dello stato ebraico. Al riguardo, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, in un discorso tenuto nel mese di ottobre, sottolineò che "per Israele non esiste più un solo fronte di guerra. E questo rappresenta l'assunto iniziale sulla base del quale stiamo preparando i nostri soldati".
   E mentre Gerusalemme si prepara ad affrontare l'ennesimo conflitto paventato da più fonti, le smanie bellicistiche di parte sciita fanno segnalare l'apertura di un nuovo capitolo da parte dell'Iran nei confronti dell'Occidente. Il generale Hossein Salami, vicecapo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, ha infatti affermato che, se l'Europa seguiterà a sostenere la politica degli Stati Uniti nei confronti di Teheran, divenendo di fatto una seria minaccia per l'Iran, i Pasdaran si vedranno costretti ad aumentare la portata dei loro missili a 2.000 chilometri, rendendoli idonei a essere lanciati sul territorio del vecchio Continente. Una minaccia abbastanza vacua, tenuto conto delle condizioni di estrema instabilità, anche economica, e del pericolo di nuove e più stringenti sanzioni che potrebbero colpire lo stato degli Ayatollah.

(Ofcs.report, 2 dicembre 2017)


Nocera Umbra - Nasce l'associazione Italia Israele

L'associazione aderisce alla Fondazione nazionale Italia-Israele

Si è costituita a Nocera Umbra l'associazione Italia-Israele. L'Associazione di Nocera Umbra aderisce alla Federazione Nazionale Italia-Israele. Scopo prioritario delle associazioni è quello di sostenere le ragioni di Israele (anche attraverso la veicolazione di una corretta informazione) nell'ambito di una vicinanza e solidarietà politica con lo Stato ebraico e le sue istituzioni.
L'associazione è composta nella quasi totalità da cittadini di Nocera. Presidente (pro tempore) è Omar Proietti, membri del direttivo sono Piccioni Giuseppe, Grilli Paolo e Bianchini David. E' attiva anche una pagina facebook @ItaliaIsraeleNoceraUmbra.

(Tuttoggi.info, 2 dicembre 2017)


Siria, l'aviazione israeliana colpisce una base dell'Iran

Raid a Sud di Damasco, la contraerea siriana lancia missili

di Giordano Stabile

L'aviazione israeliana ha colpito questa mattina all'alba una base in costruzione a Sud di Damasco, dove l'Intelligence sospetta si stia allestendo una base per i Pasdaran iraniani. I cacciabombardieri avrebbero lanciato i loro missili dallo spazio aereo libanese. La capitale siriana dista appena cinquanta chilometri dal confine con il Libano.

 Primo attacco diretto su postazioni iraniane
  Israele ha colpito decine di volte in Siria durante i sei anni di guerra civile, ma gli obiettivi erano di solito depositi di armi e convogli di rifornimenti diretti a Hezbollah. Questa sarebbe la prima volta che viene colpita una installazione iraniana. In Siria ci sarebbero oltre mille "consiglieri militari" dei Pasdaran, che guidano le milizie sciite alleate. Secondo fonti siriane, la contraerea ha lanciato missili contro i jet israeliani, che però non sono stati colpiti.

 Le trattative
  L'attacco arriva dopo alcuni segnali di distensione. La scorsa settimana erano filtrate indiscrezioni su un'offerta del presidente siriano Bashar al-Assad a Israele, con la mediazione russa: una zona militarizzata, e senza presenza di Hezbollah e consiglieri iraniani, profonda 40 chilometri a partire dal Golan. Quattro giorni fa il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, aveva detto che non riteneva ci fossero militari iraniani in Siria, solo consiglieri, anche se aveva ammonito che era la politica di influenza dell'Iran nella regione il "vero pericolo".

 Ginevra in stallo
  L'attacco arriva dopo il primo round negoziale a Ginevra fra governo e opposizione siriana. Le posizioni sono molto distanti e la rappresentanza della presidenza siriana ieri è tornata a Damasco e ha minacciato di non ripresentarsi se i ribelli non faranno concessioni.

(La Stampa, 2 dicembre 2017)


Se la Corea del nord non ha ancora la Bomba forse è merito di Israele

Usa, Giappone e Corea del sud sono i paesi esposti alle minacce. Ma Gerusalemme è forse l'unica che controlla i suoi traffici.

di Giulia Pompili

ROMA - America, Giappone e Corea del sud sono i tre alleati direttamente coinvolti dalle minacce della Corea del nord. Ma a guardare bene la storia e l'evoluzione della strategia di Pyongyang, almeno dagli anni Settanta in poi, c'è un quarto paese che, nella distrazione generale, si è occupato più volte della questione nordcoreana e dei suoi arsenali: Israele. Perché ne parliamo oggi? Perché mercoledì scorso la Corea del nord ha testato un tipo di missile balistico, lo Hwasong-15, molto più avanzato rispetto a quanto la comunità internazionale si aspettava da Pyongyang - fonti del ministero della Difesa giapponese, soltanto un mese fa, spiegavano al Foglio che lo spauracchio missilistico internazionale era lo Hwasong-14, la versione precedente dell'ultimo testato.
   Per anni abbiamo usato la strategia del "negazionismo": autorevoli scienziati ed esperti, da ogni parte del mondo, negavano la possibilità che la Corea del nord potesse raggiungere con successo la costruzione di un arsenale atomico e missilistico realmente minaccioso per l'America e il mondo libero. La potenza dell'ultimo test nucleare e degli ultimi tre missili balistici intercontinentali ha smentito per l'ennesima volta i dati dell'intelligence (la stessa intelligence che nel 2011, alla morte di Kim Jong-il, avrebbe scommesso sulla caduta del regime dei Kim "nel giro di pochi mesi"). E quindi, all'alba di una nuova prova di forza nordcoreana, la domanda è: come ha fatto un paese sanzionato da decenni, che mette alla fame il suo popolo, ad avere queste capacità? Il primo paese a occuparsi dell'arsenale atomico nordcoreano è stato Israele, per una ragione egoistica: sin dagli anni Cinquanta Pyongyang ha rapporti commerciali molto fitti con alcuni paesi tradizionalmente considerati nemici di Israele. Si tratta di armi, convenzionali, chimiche e nucleari - durante la guerra del Kippur la Corea del nord mandò perfino dei soldati a combattere al fianco dell'Egitto.
   Per Gerusalemme fermare la Corea del nord significa strozzare le fonti di approvvigionamento di paesi come Iran e Siria. All'inizio degli anni Novanta si era quasi arrivati a un deal: la Corea del nord stava per vendere all'Iran gli scud Rodong 1, Israele aveva proposto alla Corea del nord, dopo varie trattative e incontri segreti, l'acquisto di una miniera d'oro nordcoreana, pagata in contanti, in cambio della non-consegna dei missili a Teheran. L'accordo fu mandato a monte dagli americani, secondo la versione israeliana. Ma il momento decisivo del coinvolgimento israeliano negli affari nordcoreani si ha il 22 aprile 2004, quando a Ryongchon, in Corea del nord, vicino al confine con la Cina, un treno salta in aria con un'incredibile detonazione. All'interno del convoglio viaggiavano una dozzina di siriani, poi sospettati di trasportare materiale nucleare. Più volte l'evento è stato legato alla successiva operazione israeliana Orchard, quando Israele - era il 6 settembre 2007 - bombardò il sito nucleare siriano di Deir Ezzor, una copia esatta di un reattore nordcoreano. Tre giorni prima la Corea del nord aveva consegnato al sito di Deir Ezzor una partita di cemento.
   Il sistema regge ancora oggi: a fine settembre, come riportato sul Foglio da Daniele Raineri, alla parata militare delle Guardie rivoluzionarie iraniane hanno sfilato i missili Khorramshahr, pressoché identici ai Musudan nordcoreani. Il team di esperti dell'Onu che studia l'efficacia delle sanzioni investiga sistematicamente sulla "presenza diffusa" di cittadini nordcoreani in Siria e in medio oriente. E ci sarebbe sempre Israele dietro il difficile monitoraggio dei cargo nordcoreani che grazie alle false flag riesce a eludere le sanzioni - è anche per questo che si parla sempre di più, in Asia orientale, di un blocco navale contro Pyongyang.

(Il Foglio, 2 dicembre 2017)


Perché Trump spinge per Gerusalemme capitale dello Stato di Israele

di Marco Orioles

 
Gerusalemme, capitale di Israele
Gerusalemme, come la vorrebbero i palestinesi e tanti altri
Ogni governo nel mondo cerca, nei limiti del possibile, di mantenere le promesse elettorali. Così intende fare quello di Donald Trump in merito ad una questione controversa che promette di fare scalpore negli ambienti diplomatici internazionali e di infiammare il Medio Oriente. Secondo indiscrezioni di stampa, basate su fonti interne all'amministrazione Trump e sulle voci di esponenti di governo di paesi alleati degli Stati Uniti, il presidente Usa si accinge ad annunciare che l'America riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e intende quindi trasferire lì la propria ambasciata, spostandola dall'attuale sede di Tel Aviv.
   È una mossa, quella considerata da Trump, che ricalcherebbe fedelmente quanto detto in campagna elettorale. E rispecchierebbe la piena sintonia tra il suo governo e quello di Benjamin Netanyahu, primo ministro dello Stato ebraico. Trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme è un passo che non solo cementerebbe la storica alleanza tra Stati Uniti ed Israele, ma consentirebbe a The Donald di cancellare i passi falsi del suo predecessore Barack Obama, sotto la cui presidenza le relazioni tra i due paesi hanno raggiunto il minimo storico. Per rilanciare i rapporti, Trump ritiene evidentemente che non ci sia nulla di meglio del segnalare al mondo che l'America, unico paese al mondo, riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e da lì condurrà i suoi rapporti diplomatici con l'alleato.
   A confermare l'intenzione di Trump ci sono le parole pronunciate martedì a New York dal suo vice Mike Pence, che ha confermato come il presidente stia "attivamente considerando quando e come" mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. Pence, peraltro, è in procinto di partire per il Medio Oriente, con tappe in Egitto e in Israele, dove avrà probabilmente modo di saggiare le conseguenze della decisione del suo capo.
   Una decisione che potrebbe essere gravida di conseguenze in una regione che, con l'eccezione di Egitto e Giordania, continua a non riconoscere il diritto dello Stato ebraico ad esistere e non ha formali relazioni diplomatiche con esso. E che sarebbe interpretata, da parte di una comunità internazionale che non ha mancato nel tempo di esprimere simpatie nei confronti della causa palestinese, come un'inutile provocazione. Che innescherebbe reazioni a catena in un'opinione pubblica islamica da sempre sensibile nei riguardi della sofferenza dei palestinesi.
   Le rivelazioni di queste ore appaiono in effetti come un ballon d'essai, buone per esplorare gli atteggiamenti degli altri paesi e delle rispettive opinioni pubbliche. Se Trump è uomo strutturalmente incapace di compromessi, e dunque in grado di innescare azioni spericolate, la sua squadra di governo sembra essere stata messa in piedi per studiare le necessarie contromosse e per operare i bilanciamenti indispensabili alle manovre imprudenti e umorali di un leader incontrollabile. Non è un caso che le voci che circolano siano circostanziate. Le fonti sentite dalla Cnn precisano che Trump non ha ancora deciso se riconoscere come capitale di Israele l'intera Gerusalemme o solo Gerusalemme ovest. Non è affatto un dettaglio, perché se gli ambienti vicini a Netanyahu amano ritenere Gerusalemme la capitale "unica e indivisibile" dello Stato di Israele, lo statuto della città è ancora sospeso e ogni ipotesi di negoziato tra palestinesi ed israeliani, in tutte le salse con cui è stato cucinato dai tempi degli accordi di Oslo, prevede la condivisione della sovranità sulla città, con Gerusalemme ovest capitale dello Stato ebraico e Gerusalemme est del futuro Stato palestinese. L'annuncio di Trump, dunque, non potrà che essere calibrato in funzione di quella trattativa israelo-palestinese che il suo governo ha più volte promesso di rilanciare.
   Sempre secondo le fonti sentite dalla stampa americana, il piano di Trump non sarebbe privo di condizionalità. L'intenzione è quella di procedere, dopo l'annuncio del presidente, al trasferimento dell'ambasciatore americano David Friedman a Gerusalemme, senza però far seguire un contestuale trasloco dell'ambasciata, che rimarrebbe a Tel Aviv. Inoltre, in un altro dettaglio che rivela come ci si stia muovendo in un campo minato, il messaggio del capo della Casa Bianca comprenderebbe un riferimento all'intenzione americana di riconoscere Gerusalemme est come capitale di un prossimo venturo Stato di Palestina. Stato che scaturirebbe da quello che l'amministrazione Trump ha definito un "accordo definitivo" tra i due contraenti.
   Un accordo su cui sta lavorando alacremente il genero di Trump, Jared Kushner. Che insieme all'inviato speciale del presidente, Jason Greenblat, ha tessuto in questi mesi la tela diplomatica necessaria per predisporre il Medio Oriente alla svolta. I dieci mesi di amministrazione Trump hanno segnato un deciso allineamento degli Stati Uniti alle posizioni dei principali paesi sunniti, Arabia Saudita in testa, nel nome della comune ostilità nei confronti dell'Iran. Un'intesa di cui gli Usa ora intendono fare tesoro per rilanciare l'iniziativa di pace israelo-palestinese e passare all'incasso.
   Sembra delinearsi, dunque, un "grand bargain" - uno di quegli accordi spettacolari su cui il tycoon ha costruito la sua fama. Il mondo arabo può tornare a contare, dopo gli anni infausti di Obama, su un'alleanza di ferro con la superpotenza a stelle e strisce. In cambio, essi promettono di riconoscere Israele. Che, a sua volta, accetta di negoziare la nascita di uno Stato di Palestina. Una sequenza più facile a dirsi che a farsi, ma che non di meno evidenzia la natura incisiva e spregiudicata della politica estera dell'amministrazione Trump. Che più di ogni altra cosa ama distinguersi da chi l'ha preceduta.

(formiche.net, 2 dicembre 2017)


Antibiotici personalizzati diventano realtà grazie a ricercatori israeliani

 
Un sistema diagnostico sviluppato presso il Technion di Haifa consente la personalizzazione rapida e accurata di un antibiotico per ciascun paziente.
Se il sistema verrà commercializzato, i pazienti con infezioni pericolose per la vita o che hanno bisogno di cure urgenti potranno godere di diagnosi più veloci e vedersi somministrare il trattamento più efficace.
I risultati sono stati recentemente pubblicati in Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
Gli antibiotici sono uno dei modi più efficaci per trattare le infezioni batteriche. Ma l'uso diffuso e incontrollato ha accelerato lo sviluppo di batteri multi-resistenti. Come spiegato dal Dott. Jonathan Avesar del Technion di Haifa, ogni giorno, centinaia di test vengono effettuati presso ogni ospedale in Israele per mappare i livelli di resistenza dei batteri prelevati dai pazienti. Il problema è che questo è un test lungo, poiché si basa sull'invio del campione al laboratorio e su una analisi della coltura batterica. Questo processo richiede circa 2 giorni.
Il nuovo metodo sviluppato dal Technion di Haifa fornisce risultati accurati in tempi brevi sulla base di un campione molto più piccolo. È evidente che una risposta più veloce permette di iniziare il trattamento in modo precoce e migliorare la velocità di recupero del paziente.
I ricercatori del Technion hanno dimostrato la possibilità di analizzare direttamente i batteri dai campioni di urina dei pazienti, saltando così la fase di isolamento e, potenzialmente, salvare vite umane.

(SiliconWadi, 1 dicembre 2017)


Yehoshua: ormai la soluzione dei due stati non è praticabile

"Mi impegno da 50 anni per la soluzione dei due stati, tra israeliani e palestinesi, sul piano politico, ideologico, e con i palestinesi. Ma con rammarico vedo che è una soluzione che perde quota": lo ha detto ai Med Dialogues Abraham Yehoshua, scrittore israeliano.
"Innanzitutto per responsabilità delle due parti - ha affermato - Israele naturalmente ha le sue colpe, con i nuovi insediamenti che continua a costruire, ormai sarebbe impossibile trasferire i 400.000 israeliani che sono andati a vivere in questi insediamenti, il che sarebbe l'unica soluzione. Ormai resta un quarto dell'originale territorio palestinese. Dal loro canto, i palestinesi insistono con tenacia con il ritorno, ma se 3 o 4 milioni di palestinesi tornassero non ci sarebbe più uno stato israeliano". "Quindi sempre più mi rendo conto che la soluzione dei due stati non è più realizzabile. Dobbiamo individuare una nuova soluzione, ma evitare l'apartheid, che continuiamo a promuovere nei territori. Un'idea che potrebbe essere utile è l'identità mediterranea, che potrebbe essere molto utile per gli israeliani, che sono al 50% di origine mediterranea, gli arabi e anche gli europei".

(ANSAmed, 2 dicembre 2017)


Abraham Yehoshua rappresenta bene la categoria degli intellettuali di sinistra: lodevoli nelle intenzioni, analitici nelle diagnosi, sicuri nelle ricette, impegnati nelle terapie, disastrosi nei risultati. Dopo il disastro: acuti nel descrivere gli errori del passato, candidi nel proporne altri da commettere in futuro, insopportabili a chi capita di starli a sentire. Adesso a Yehoshua è venuta l’idea dell’«identità mediterranea». Ma non farebbe meglio a concentrarsi sul prossimo romanzo? M.C.


Il volontariato civile in Italia? Si può fare in Israele

Già è partito un primo gruppo di giovani, tra i 18 e i 28 anni.

di Luca D'Ammando

Il servizio civile ti cambia la vita». Così recita lo slogan che vuole convincere i giovani italiani ad affrontare esperienze formative all'estero. E sicuramente si troveranno a vivere situazioni affascinanti i dieci ragazzi provenienti da tutta Italia appena partiti per Israele per 10 mesi di servizio civile. Un progetto a cura della Onlus Spes, il Centro di servizi di volontariato del Lazio, in collaborazione con l'Israel Volunteer Association, che offre una significativa opportunità di crescita, non solo professionale, ma anche umana.
   Da una parte, sette volontari stanno portando il loro contributo alla "Casa dei nonni Merkaz Horìm", Qui, nelle città di Akko e Nahariva, all'estremità settentrionale della baia di Haifa, si devono occupare di anziani fragili, parzialmente autosufficienti, persone con disabilità e storie alle spalle di disavventure e marginalità varie, dalla tossicodipendenza al carcere. Dall'altra parte tre ragazzi, invece, sono all'opera all'osservatorio marino "Coral Word". nel Mar Rosso, sul Golfo di Eìlat, all'estremo sud del paese. In quel mare - dove sono presenti oltre 800 specie tra pesci, coralli, molluschi e tartarughe - contribuiranno a tutelare e migliorare l'ambiente sottomarino.
   L'importanza di questo percorso di servizio civile è stata sottolineata anche dall'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, che, prima della loro partenza, ha invitato presso la sua residenza a Roma i dieci volontari (cinque ragazze e cinque ragazzi) in un ricevimento a cui hanno partecipato tra gli altri la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il capo del dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale Calogero Mauceri e il sottosegretario al Lavoro e politiche Sociali Luigi Bobba.
   Dopo aver svolto un mese di formazione presso il centro Spes, i dieci ragazzi sono volati a Tel Aviv, dove hanno completato la loro preparazione attraverso un seminario intensivo, per poi raggiungere le due destinazioni. Non prima, però, di essere ricevuti dall'ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti.
   I giovani volontari hanno già iniziato a raccontare giorno dopo giorno il loro viaggio e la loro permanenza in Israele attraverso Facebook e Instagram e nella pagina Yallah Civil.

(Shalom, novembre 2017)


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Tzavà? Ora esiste un'alternativa

L'esperienza di Sara Castelnuovo che attraverso il servizio civile Sherut Leumi è sulle ambulanze del Maghen David Adom, pronta a soccorrere e ad aiutare i cittadini di Tel Aviv.

di Claudia Pavoncello

In Israele c'è la possibilità di svolgere il servizio civile, Sherut Leumi, in alternativa al servizio militare. Chi ne può far parte? Ragazze, ma anche ragazzi osservanti, chi soffre di malattie e allergie gravi (diabetici e celiaci, per esempio), chi per motivi psicofisici non ha ottenuto un punteggio abbastanza alto per far parte dell'esercito, obiettori di coscienza. Persone che, nonostante non si arruolino nell'IDF, hanno comunque la voglia di aiutare il prossimo, di donare un anno della loro vita agli abitanti d'Israele. Giovani nelle cui vene scorre comunque l'ideale sionista.
   Ci sono diversi tipi di Sherut: c'è il servizio nell'ambito sociale (ragazze che fanno volontariato in orfanotrofi e case per ragazzi provenienti da famiglie disagiate}, nell'ambito educativo (scuole e musei), ci sono ragazze che svolgono il loro Sherut all'estero, insegnando il sionismo e la Torah nelle scuole della diaspora. Si può svolgere il volontariato negli ospedali, da aiuto medico, o rifornendo gli scaffali del pronto soccorso. E poi ci sono le Bnot Sherut che svolgono il volontariato presso il Maghen David Adom, la "Croce Rossa" israeliana. Sara Castelnuovo, è tra queste. Ha fatto l'aliya dall'Italia. Dopo un intenso corso durato un mese, e vari test attitudinali, Sara ha iniziato un anno fa il suo volontariato presso Maghen David Adom spendendo almeno quaranta ore settimanali sulle ambulanze di Tel Aviv, qualificata come Choveshet (un grado in meno rispetto ai paramedici). Il suo desiderio era proprio quello di rendersi utile alla società israeliana, rispettando anche il suo interesse per la medicina e l'assistenza.
   Dopo un anno dal suo inizio e dopo essersi trovata ad affrontare tanti casi, assistere partorienti, tranquillizzare vecchietti doloranti, affrontare rianimazioni - riuscite e non, e di conseguenza la morte di alcuni pazienti - Sara è soddisfatta per il suo lavoro. Nonostante il suo Sherut sia stato duro emotivamente e fisicamente, con turni stremanti e pazienti molto esigenti, Sara si è svegliata con la consapevolezza di aver aiutato gli altri. Sara è anche considerata, come altre circa 300 ragazze, Bat Sherut Bodeda (sola) in quanto ha fatto l'aliya senza i genitori. Ma mai si è veramente sentita sola, grazie alla grande famiglia del Maghen David Adom Tel Aviv e, ancor di più, all'Amutat Bishvil, un'organizzazione il cui scopo è aiutare emotivamente ed economicamente queste ragazze pronte a lasciare tutto per servire lo stato d'Israele. Bishvil offre dei servizi che aiutano le ragazze a sentirsi a casa, andandole a prendere all'aeroporto al loro arrivo in Israele, fornendo loro il necessario affinché la casa sia arredata e abbia tutti gli elettrodomestici necessari, organizzando Shabbatot divertenti in cui le ragazze si conoscono tra di loro e condividono le proprie esperienze. Ma ciò che mi ha sorpreso di più del loro lavoro è l'assegnazione di una "sorella maggiore", una ragazza israeliana che aiuti le bnot sherut bodedot durante l'anno e che sia un'amica per il futuro, con cui uscire a divertirsi, che le consoli nei momenti di nostalgia di casa e le faccia sentire a proprio agio. Spero che questo mio scritto sia chiarificatore per le ragazze italiane che vogliono fare l'aliya: l'alternativa all'esercito c'è e si chiama Sherut Leumi.

(Shalom, novembre 2017)


Israele e il nodo est-ovest Rcs Sport: «La corsa parte da Gerusalemme»

di Luca Gialanella

 
Israele, 18 settembre 2017: Levin (ministro del turismo), il mecenate Adams, Vegni e Bellino (Rcs), Barkat (sindaco di Gerusalemme), Regev (ministro cultura e sport) e Lotti (ministro dello sport)
Una parola, «west», ovest, accanto a Gerusalemme ha alzato per una notte la tensione tra il governo di Israele e Rcs Sport, che organizza il Giro. Quella parola, presente nel video di presentazione del Giro 101 e nell'altimetria della prima tappa, ha scatenato la reazione dei ministri Miri Regev (cultura e sport) e Yariv Levin (turismo), intervenuti il 18 settembre a Gerusalemme nella cerimonia di lancio della storica partenza al fianco del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat.

NOTA - La parola «ovest» rimanda alle diverse posizioni sullo status internazionale della città, mentre nella nota dei due ministri si legge che «non c'è ovest ed est, Gerusalemme è una città unita». Per questo motivo, minacciavano di far saltare la partnership dell'evento se la parola non fosse stata rimossa. Ieri mattina il comunicato di Rcs Sport ha chiuso la polemica: «Rcs Sport tiene a precisare che la partenza del Giro d'Italia avverrà dalla città di Gerusalemme. Nel presentare il percorso di gara è stato utilizzato materiale tecnico contenente la dicitura 'Gerusalemme Ovest', imputabile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quell'area della città. Si sottolinea che tale dicitura, priva di alcuna valenza politica, è stata comunque subito rimossa da ogni materiale legato al Giro». A questo punto, arriva il comunicato dei ministri Regev e Levin: «In seguito alla nostra richiesta alla direzione del Giro d'Italia, ci felicitiamo della sua rapida decisione di rimuovere la definizione di "Gerusalemme ovest" dalle sue pubblicazioni ufficiali». E' stato deciso, tra il direttore generale del ministero dello Sport, Yossi Sharabi, e la direzione del Giro, che nei prossimi giorni gli organizzatori saranno in Israele per coordinare il tracciato e garantire che la gara si svolga come progettato «dalla Torre di Davide e la Porta di Giaffa, e attraverso Gerusalemme•.

(La Gazzetta dello Sport, 1 dicembre 2017)



"Tappa a Gerusalemme ovest": Ira di Israele, Giro in retromarcia

Stato ebraico furioso dopo la gaffe: "La capitale è unita". L'ipotesi della "manina" del movimento di boicottaggio.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Se qualcuno poteva sperare che in una bella mattina di maggio (così prevede il calendario della gara) nel profumo delle rose a Gerusalemme il Giro d'Italia avrebbe preso il via in atmosfera di pace, che l'iniziativa di un giro globalizzato e extraeuropeo avrebbe preso le ali senza suscitare un'ondata di aggressività...
   Beh, si sbagliava. Il Boicottaggio contro Israele cerca di raggiungere il Giro.
   È stato certo un lapsus senza dolo, ma il nervo toccato nella presentazione della corsa quando si è parlato della partenza da Gerusalemme ovest, com'era scritto nel sito ufficiale, invece che da Gerusalemme tout court, è scattato al diapason. Subito in una nota congiunta la ministra dello sport Miri Regev e del turismo Yariv Levin (dopo un impegno che si dice sia di 12 milioni di dollari) hanno fatto sapere che Israele non avrebbe sostenuto la gara a meno che la definizione non venisse cambiata, e ha anche aggiunto che definire la capitale Gerusalemme ovest rompeva gli accordi con gli organizzatori: «A Gerusalemme capitale d'Israele non c'è est o ovest, c'è Gerusalemme unita».
   Subito la disgraziata espressione è stata tolta, dimostrazione che davvero non c'era bisogno di inquinare le acque o che lo si è voluto comunque fare anche se la delicatezza della questione è evidente, cosa di certo discussa negli incontri preparatori. La corsa compirà il suo primo percorso extraeuropeo percorrendo tre tappe in Israele su itinerari che non urtino la sensibilità di nessuno, anche se si sa che la cosa non è fra le più semplici. L'iniziativa di scrivere Gerusalemme ovest non appare come una pura gaffe, un lapsus calami: è una posizione politica che tende a delegittimare Gerusalemme nel suo 50o compleanno come capitale. Di più: tende ad avvilire la passione israeliana e ebraica per la loro capitale trimillenaria. Insomma, è un'ennesima riproposizione della delegittimazione di Israele costruita sulla cancellazione della memoria e della sua identità. Basta pensare a due episodi: la scelta dell'Unesco di dichiarare il Monte del Tempio, alias spianata delle Moschee, col Muro del Pianto, patrimonio esclusivamente arabo, e la vicenda di tal Flicker, judoka israeliano vincitore dell'oro ad Abu Dhabi, che ha dovuto gareggiare senza bandiera e senza inno, che si è cantato tutto da solo. Si tratta di due episodi di Bds, boicottaggio della identità israeliana, la grande guerra in corso. Nel caso di Gerusalemme: l'idea della divisione fra Gerusalemme est e ovest, richiama quella di occupazione e quindi di indesiderata divisione fra due parti della città di cui la parte est deve essere considerata palestinese. La verità è che la città fu divisa e occupata per 19 anni, dal '48 al '67, dalla Giordania, quando Israele combatté in ambedue i casi guerre di aggressione del mondo arabo. Nel primo caso ha perduto, e la città è stata divisa; nel secondo ha vinto e la città è stata riunificata. Da allora c'è libertà di movimento, di culto, assicurazione sociale, ospedali, scuole, diritto al lavoro, opinione, mezzi di trasporto, voto per ebrei e arabi. I sondaggi tra i palestinesi provano che per la grande maggioranza vivrebbero sotto sovranità israeliana.
   Dividere la città creerebbe subito disparità per la popolazione araba e il turismo religioso attuale conoscerebbe i disagi e la paura della continua crescita del mondo islamista. Quando la città fu divisa nel '48, le strade di abitazione ebraica erano continuamente prese di mira da cecchini, un po' come è successo con Gaza che liberata si è munita di missili con cui anche ieri ha sparato su Israele. Per Israele Gerusalemme non è una questione semantica, è una ragione di vita, e l'Italia, col Giro, sembrava averlo finalmente capito. Adesso il pericolo è quello che l'occasione ecciti il movimento BDS, che si è rivolto già persino al Papa per far cassare l'evento. L'ambasciatrice palestinese a Roma Mai Alkaila ha protestato per la correzione del sito, denunciando quella che ritiene un'occupazione illegittima.
   Yizchalk Rabin disse: «Gerusalemme è stata riunita, non sarà mai più divisa di nuovo». Non era certo un estremista! Non sarà il Giro d'Italia, comunque a dividere la capitale.

(il Giornale, 1 dicembre 2017)


Gli “amanti della pace” fanno finta di non capire, o forse proprio non capiscono, che il nodo della contestazione che il mondo muove allo Stato d’Israele non sta negli “insediamenti illegali”, non sta nella politica del governo di Netanyahu, non sta nei confini del ‘67, ma sta in una sola cosa, ben precisa: Gerusalemme. Tante benevole concessioni potranno essere disposti a fare gli “amanti della pace” che hanno una benevola antipatia verso Israele, tante sofferte concessioni potranno fare gli “amanti della pace” che vivono in Israele e si dicono israeliani, ma bisognerà arrivare ad ammettere che il nodo del contendere è tutto racchiuso nella sorte che si vuole dare alla città di Gerusalemme. Sono ambigui tutti coloro che, ebrei o non ebrei, fanno mostra di essere amanti della pace dichiarando di essere favorevoli alla soluzione dei “due stati che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza” senza dire se Gerusalemme deve essere la capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico d’Israele, o no. Chi parla senza prendere chiara posizione su questo preciso punto contribuisce ad aumentare il cumulo delle fumose chiacchiere che avvolgono questo argomento. M.C.



Gerusalemme, una pietra pesante per tutti i popoli

Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti; verranno pure contro Giuda, quando cingeranno d'assedio Gerusalemme. In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso saranno interamente fatti a pezzi, anche se tutte le nazioni della terra fossero radunate contro di lei. In quel giorno", dice l'Eterno, "io colpirò di smarrimento tutti i cavalli e di pazzia i loro cavalieri; aprirò i miei occhi sulla casa di Giuda, ma colpirò di cecità tutti i cavalli dei popoli. I capi di Giuda diranno in cuor loro: "Gli abitanti di Gerusalemme sono la mia forza nell'Eterno degli eserciti, il loro Dio. In quel giorno farò dei capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni. Essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti; ma Gerusalemme sarà ancora abitata nel suo proprio luogo, a Gerusalemme. L'Eterno salverà prima le tende di Giuda, perché la gloria della casa di Davide, e la gloria degli abitanti di Gerusalemme non cresca più di quella di Giuda. In quel giorno l'Eterno difenderà gli abitanti di Gerusalemme; in quel giorno il più debole fra loro sarà come Davide, e la casa di Davide sarà come Dio, come l'Angelo dell'Eterno davanti a loro. In quel giorno avverrà che io mi adopererò per distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme.

Dal libro del profeta Zaccaria, cap. 12

 


Palestinesi: Se non ci darete tutto, non potremo fidarci di voi

di Bassam Tawil*

I palestinesi si sono fatti un'idea: Il piano di pace di Trump è negativo per noi e non lo accetteremo. Il piano è pessimo perché non costringe Israele a dare tutto ai palestinesi.
  Se e quando l'amministrazione Trump renderà pubblico il suo piano di pace, i palestinesi saranno i primi a rigettarlo, semplicemente perché non soddisfa tutte le loro richieste.
  Trump presto si renderà conto che per Mahmoud Abbas e per i palestinesi il 99 per cento non è abbastanza.
  I palestinesi sono ancora una volta arrabbiati - questa volta perché l'amministrazione Trump non sembra condividere la loro posizione riguardo al conflitto israelo-palestinese. I palestinesi sono anche arrabbiati perché credono che l'amministrazione Trump non voglia costringere Israele a soddisfare tutte le loro richieste.
  I palestinesi la vedono in questo modo: se non sei con noi, allora sei contro di noi. Se non accetti tutte le nostre richieste, allora sei nostro nemico e non possiamo fidarci di te nel ruolo di mediatore "onesto" nel conflitto con Israele.
 
  La settimana scorsa, fonti non confermate hanno ancora una volta riportato che l'amministrazione Trump ha lavorato a un piano di pace globale in Medio Oriente. I dettagli completi del piano rimangono ancora sconosciuti.
  Ma ciò che è certo - secondo le fonti - è che il piano non soddisfa tutte le richieste dei palestinesi. In realtà, nessun piano di pace - da parte degli americani o di qualsiasi altra parte - sarebbe in grado di offrire ai palestinesi tutto ciò che loro chiedono.
  Le condizioni dei palestinesi sono irrealistiche come sempre. I palestinesi chiedono ad esempio che a milioni di "profughi" palestinesi sia riconosciuto il diritto al ritorno in Israele. Inoltre, i palestinesi vogliono che Israele si ritiri entro i confini indifendibili, il che favorirebbe un avvicinamento di Hamas e di altri gruppi a Tel Aviv.
  L'Autorità palestinese (Ap) e il suo leader, l'82enne Mahmoud Abbas, ora nel dodicesimo anno del suo mandato quadriennale, continuano a insistere sul fatto che non accetteranno altro che uno Stato palestinese indipendente e sovrano, con Gerusalemme Est come capitale, nei territori conquistati da Israele nel corso della guerra dei Sei giorni del 1967.
  La cosa più pericolosa è che anche nell'improbabile eventualità che Abbas firmi un accordo, potrebbe in seguito arrivare un altro leader che affermi a giusto titolo che Abbas non aveva alcuna autorità per firmare nulla poiché il suo mandato era scaduto da tempo.
  Hamas, il gruppo terroristico islamista palestinese che controlla la Striscia di Gaza, sostiene che non accetterà mai la presenza di Israele su territori di "proprietà musulmana". Hamas vuole tutte le terre che Israele avrebbe presumibilmente "portato via" nel 1948. In parole povere, Hamas vuole la distruzione di Israele per instaurare un califfato islamico in cui ai non musulmani verrebbe riconosciuto lo status di dhimmi ("persone protette").
  A differenza dell'Autorità palestinese, Hamas ha il merito di essere chiaro e coerente riguardo al suo vero obiettivo. Dalla sua fondazione avvenuta decenni fa - e nonostante le recenti speranze illusorie espresse dagli esperti occidentali - Hamas ha rifiutato di cambiare la sua ideologia o di ammorbidire la sua politica. È fermamente ancorato alla sua posizione secondo la quale nessun musulmano ha il diritto di cedere nessuna parte delle terre di proprietà musulmana ai non musulmani (in questo caso, gli ebrei. Lo stesso dicasi per la "pulizia" della Turchia, volta a eliminare gli armeni e i greci non musulmani).
  D'altra parte, l'Autorità palestinese - Giano bifronte - continua a parlare a più voci, inviando messaggi contrastanti tanto alla propria popolazione quanto alla comunità internazionale. Nessuno sa davvero se l'Ap abbia una strategia chiara e coerente nei suoi rapporti con Israele.
  Mahmoud Abbas sa come sembrare estremamente gentile, e spesso lo fa quando incontra i leader israeliani e occidentali. Ma quando parla in arabo alla sua gente, talvolta è difficile distinguere Abbas dal leader di Hamas Ismail Haniyeh.
  Alcuni dei più alti funzionari di Abbas sembrano essere ancora più estremisti di Hamas. Tranne, ovviamente, quando questi ufficiali palestinesi affabili e con tanto di istruzione occidentale vengono mandati a parlare agli occidentali. E allora, tutto a un tratto, i loro toni diventano mielosi.
  Poiché i leader dell'Autorità palestinese e i loro sostituti sono dissonanti, inviano messaggi contrastanti al mondo sulle loro reali intenzioni e spesso riescono a ingannare tutti. Troppo spesso il mondo crede ai messaggi che vuole sentire anziché a quelli meno comodi e reali. I messaggi contraddittori dell'Ap hanno dato l'impressione che essa sia tanto un partner di pace quanto un nemico, a seconda di chi li ascolta e quando.
  Una cosa è chiara: i palestinesi ritengono che non corra buon sangue tra loro e gli Stati Uniti. A loro avviso - e lo reputano instancabilmente da lungo tempo - gli Stati Uniti non sono in grado di svolgere un ruolo imparziale da mediatore nel conflitto con Israele. Ciò che preoccupa i palestinesi è l'alleanza forte e strategica tra gli Stati Uniti e Israele.
  I palestinesi hanno accusato ogni amministrazione statunitense degli ultimi quattro o cinque decenni di essere "di parte", a favore di Israele. L'amministrazione Trump sta per ricevere una lezione sulla politica palestinese. Se e quando Washington renderà pubblico il suo piano di pace, i palestinesi saranno i primi a rigettarlo, semplicemente perché non soddisfa tutte le loro richieste.
  Mahmoud Abbas sa che non può ritornare dai suoi cittadini con qualcosa che non sia ciò che ha promesso al suo popolo: il cento per cento.
  Nelle settimane scorse abbiamo già avuto un assaggio della risposta palestinese. Ecco, ad esempio, quello che il portavoce di Abbas, Nabil Abu Rudaineh, ha affermato quando gli è stato chiesto di commentare le notizie relative al piano di pace e alla minaccia americana di chiudere la missione diplomatica dell'Olp a Washington: "L'amministrazione americana ha perso la capacità di agire da mediatrice nella regione. Gli Stati Uniti non possono più essere visti come i promotori del processo di pace".
  Le parole di Abu Rudaineh sono state molto più sobrie e misurate dei commenti sull'amministrazione Trump espressi da altri ufficiali e fazioni palestinesi.
  Il capo negoziatore dell'Olp, Saeb Erekat, è arrivato addirittura a minacciare che i palestinesi sospenderanno tutte le comunicazioni con gli Stati Uniti se la missione diplomatica dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina venisse chiusa.
  Ovviamente, nessuno sembra prendere sul serio la minaccia di Erekat. Interrompere le relazioni con gli Stati Uniti equivarrebbe a un suicidio per i palestinesi. Senza il sostegno finanziario e politico americano, l'Autorità palestinese ed Erekat sparirebbero in pochi giorni. A questo punto non è chiaro se quanto affermato da Erekat in merito all'interruzione delle relazioni con gli americani includa anche il rifiuto di accettare gli aiuti finanziari statunitensi.
  Tuttavia, le minacce di Erekat vanno viste nel contesto della crescente rabbia palestinese e dell'ostilità nei confronti dell'amministrazione Trump. Questa rabbia si traduce ora in un attacco retorico a Trump e alla sua amministrazione. I palestinesi accusano l'attuale amministrazione di lavorare e complottare al fine di "liquidare" la causa palestinese, e questo con l'aiuto di alcuni paesi arabi, tra cui l'Arabia Saudita e l'Egitto.
  I palestinesi si sono fatti un'idea: Il piano di pace di Trump è negativo per noi e non lo accetteremo. Il piano è pessimo perché non costringe Israele a dare tutto ai palestinesi. Per i palestinesi, il piano è negativo perché viene visto come parte di una cospirazione ordita da Jared Kushner e dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. I palestinesi sono convinti che Trump voglia "liquidare" la loro causa e non risolverla.
  Trump sta per affrontare lo stesso iter di cui fu testimone il presidente Bill Clinton a Camp David, diciassette anni fa. A quel tempo, con grande stupore di Clinton, Yasser Arafat respinse un'offerta incredibilmente generosa da parte dell'allora premier israeliano Ehud Barak. Trump presto si renderà conto che per Mahmoud Abbas e per i palestinesi il 99 per cento non è abbastanza.
* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 1 dicembre 2017 - trad. Angelita La Spada)


I big italiani in Israele alla ricerca di startup

I nostri investimenti nel Paese a 600 milioni nel 2017

di Monica D' Ascenzo

Startupnation. Israele non sarà la Silicon Valley, ma nell'industria delle imprese innovative si è guadagnata la medaglia di nazione di startup. Non che i numeri siano impressionanti: la stima è di circa 5mila startup, quando nel 2016 secondo il Centre for Entrepreneurs a Londra ne erano registrate oltre 200mila. Eppure il livello di innovazione del Paese è tale che ha una percentuale di investimenti stranieri del 47% contro il 9% medio dell'Europa e il 74% di clienti stranieri contro il 56% europeo .È così che Tel Aviv si è guadagnato il terzo posto a livello mondiale per disponibilità di tech talent alle spalle di Silicon Valley e NewYork.
  Il confronto con l'Italia, poi, è impietoso: Israele conta una spesa in ricerca e sviluppo pari al 4% sul Pil contro 1'1,3% dell'Italia; un tasso di laureati del 48,8% nella fascia d'età 25-64 anni contro il 17,5% italiano; un numero di ricercatori pari 17,4 ogni mille abitanti contro il 4,9 italiano. L'ecosistema ha attirato gli investimenti stranieri che negli ultimi 15 anni sono quintuplicati superando i 100 miliardi di dollari. Per non parlare dello shopping delle grandi multinazionali come Google, Apple, Facebook e Microsoft. Basta ricordare i 15,3miliardi messi sul piatto da Intel per comprare la startup Mobileye. Gli investimenti dall'Italia non sono stati da meno, anche se contenuti in termini assoluti: 600 milioni di dollari nel 2017, che dovrebbero salire, secondo le stime, a 700 milioni il prossimo anno. Hanno preso la via di Israele grandi gruppi italiani in cerca di innovazione. «Israele è un Paese straordinario perché c'è innovazione, imprenditorialità e l'Israeli Innovation Authority sta avendo un forte successo nel connettere le aziende con le università, gli acceleratori e tutti gli innovatori e gli imprenditori del Paese» sottolinea Ernesto Ciorra. direttore Innovazione e Sostenibilità del gruppo Enel, che prosegue: «Enel ha aperto un Innovation Hub in Israele nel 2016 con due persone a cui se ne aggiungeranno altre nel corso del 2018 per sviluppare le nostre attività di innovazione nel Paese. Abbiamo forti relazioni con le autorità di innovazione, i centri di ricerca, gli acceleratori e i fondi di venture capital: siamo nel centro dell'ecosistema di startup». Ma i progetti del gruppo italiano non terminano qui: «Durante l'estate Enel ha partecipato ad un bando del Governo israeliano per creare un laboratorio dove testare soluzioni innovative collaborando con startup. Insieme al nostro partner locale Shikun & Binui abbiamo vinto la concorrenza di altri 20 grandi player internazionali. Il Governo israeliano contribuirà in buona parte alle spese del laboratorio e finanzierà anche fino all'80% i costi operativi dei progetti per i prossimi 3 anni».
  Non solo industria, ma anche finanza nell'innovazione israeliana. Così Intesa Sanpaolo è volata nel Paese per fondare con HSBC, Santander, Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank e Intel il fintech hub "The floor", «Intesa Sanpaolo può scegliere se entrare nel capitale delle startup attraverso i fondi dedicati del gruppo oppure se affiancarle nello sviluppo, testare le loro tecnologie al proprio interno e acquistarne i servizi. Israele al momento è il primo Paese straniero con cui sperimentiamo tecnologie di startup e abbiamo ottimi rapporti con tutto l'ecosistema, dalle università agli incubatori» spiega Fabio Spagnuolo, head of Network & Promotion of Innovation Culture di Intesa Sanpaolo, che prosegue: «Ci occupiamo anche di fare scouting per imprese nostre clienti in cerca di innovazione tecnologica. Nel 2018 parteciperemo al "Our Crowd Global Investor Summit", il maggior evento per i grandi investitori in Israele e il più grande al mondo per il settore dell' equity crowdfunding».
  In Israele investe anche Philips: «Abbiamo assunto 500 persone negli ultimi anni nella nostra sede di Haifa. Le aree di inserimento sono quelle dello sviluppo software nell'ambito della salute. In aggiunta abbiamo inserito personale nell'attività di ricerca e sviluppo» sottolinea Livio Zingarelli, head HR & Business Transformation Italia, Israele e Grecia di Philips. Un consiglio per gli startupper nostrani? «Nel mio percorso professionale di oltre 25 anni dedicati all'economia digitale e innovazione, un anno su cinque l'ho trascorso a esplorare Israele. La "Silicon Wadi" è un modello unico di ecosistema di innovazione, dove alla contaminazione nella ricerca si associa grande senso pratico. È una filiera dove poter apprendere, realizzare e mettere in moto velocemente lo sviluppo del potenziale. La densità di startup (la più alta al mondo) sostenuta dal sistema, lo spirito imprenditoriale, la cultura internazionale, rappresentano per me l'unicum a cui ispirarsi» racconta Gionata Tedeschi, managing director Accenture Strategy Europe e fondatore di 3 startup: Cendant, Buongiorno e SaldiPrivati.

(Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017)


Sulla Siria quanto si può fidare Israele di Putin?

Fioccano le dichiarazione secondo le quali Putin garantirebbe a Israele che l'Iran non resterà in Siria. Sono assurdità, basta guardare la realtà
Sulla Siria quanto si può fidare Israele di Putin? A sentire il presidente del comitato per gli affari esteri e la difesa della Knesset, Avi Dichter, Israele può stare tranquillo e dormire tra due cuscini che alla presenza iraniana in Siria ci pensa Putin.
Cosa fa essere così tranquillo il Presidente della commissione difesa della Knesset? Ha avuto rassicurazioni dalla Russia durante il viaggio istituzionale fatto pochi gironi fa da lui e da altri cinque membri del comitato da lui presieduto.
«La Russia sta lavorando affinché il presidente siriano Bashar Assad controlli totalmente la Siria e che il paese sia privo di forze straniere, incluse le forze iraniane» ha detto Avi Dichter in una intervista rilasciata a Israel Hayom.
Le dichiarazioni di Dichter andrebbero quindi a confermare le voci di stampa secondo le quali Putin sarebbe rimasto sensibile alle richieste israeliane condite anche da minacce di intervento se l'Iran si fosse posizionato stabilmente in Siria....

(Right Reporters, 1 dicembre 2017)


I bagel, l'Italia e New York

Storia di come il buco con il pane intorno è diventato lo snack newyorchese definitivo, anche se è nato nell'Est Europa. I bagel sono sbarcati nel nuovo mondo con gli ebrei in fuga dall'Europa orientale.

di Anna Momigliano

 
 
Nel 1683 a Vienna una coalizione tra il Sacro Romano Impero, che a quel punto non era né sacro né romano né un impero, la Confederazione polacco-lituana, gli Asburgo e vari principati germanici sconfisse i turchi in quella che oggi è ricordata come una delle battaglie più importanti della storia moderna. A guidarla c'era Jan III, re di Polonia: il Papa lo definì «il salvatore della Cristianità» (sottotesto: avessero vinto i turchi, oggi saremmo tutti musulmani). Quando rientrò a Varsavia, Jan fu accolto come un eroe e, visto che era un appassionato di equitazione, un fornaio pensò bene di inventare, in suo onore, un pane a forma di staffa: lo battezzo bügel, dal tedesco Steigbügel, cioè staffa. Oltre ad avere una forma sferica, il bügel aveva anche un'altra caratteristica: la sua pasta andava bollita prima di essere infornata, come nel caso di un altro celebre export culinario della Mittleuropa, il brezel. Il re, che in mezzo a tutti quegli onori s'era preso bene, decise di mostrare la sua magnanimità abrogando una legge del 1496 che proibiva agli ebrei di panificare. Per non esagerare, tuttavia, si aggiunse una clausola: gli ebrei potevano produrre e vendere soltanto i pani bolliti, come i brezel e i bügel. Quelli, come dargli torto, scelsero i bügel, ma, visto che in yiddish la Umlaut non si porta, presero chiamarli bagel. Era nato il piatto tipico della cucina ebraica newyorchese, preferibilmente servito con salmone affumicato e cream cheese.
   Le strade del gusto seguono raramente una linea retta. Capita così che uno snack o una pietanza trovi le sue origini in un luogo e finisca dall'altro capo del mondo, per poi essere nuovamente esportato, per vie traverse e nel corso dei secoli, in un luogo vicino a quello d'origine. Uno dei risultati è che certi cibi danno un'immagine di sé assai diversa a seconda del posto. Prendiamo il bagel. In Italia è percepito come un cibo americano, infatti è diventato popolare grazie all'onda lunga dell'innamoramento nostrano per lo street food Usa rivisitato in gourmet: a Milano i bagel si possono gustare, a prezzi non particolarmente modici, in posti come la California Bakery, la Bagel Factory (che è nato nel 2011 da una costola di California Bakery) o il Juicebar. In America i bagel sono un piatto newyorchese. A New York sono un piatto ebraico. In Israele, che della cucina ebraica dovrebbe essere l'epicentro, sono visti come qualcosa di trendy ed esotico.
   I bagel sono sbarcati nel nuovo mondo con gli ebrei in fuga dall'Europa orientale: tra il 1880 e il 1924, data in cui gli Usa iniziarono a imporre una quota sull'immigrazione ebraica, arrivarono circa due milioni di profughi. Molti di questi si stabilirono a New York e lì si misero a bollire e infornare il pane che per secoli avevano bollito e infornato nei ghetti. Nei primi anni Cinquanta, avvennero molte cose che contribuirono a fare del bagel qualcosa di simile a ciò che è oggi. Primo: la comunità ebraica, un tempo marginalizzata, cominciò a beneficiare del miracolo economico americano e a sentirsi sempre più parte del Paese; secondo: si diffuse, complice la crescita economica e una certa attenzione agli svaghi family-friendly, la moda del brunch e dell'American Breakfast, con uova, salsicce, succo d'arancia e pane tostato; e, terzo, la Kraft iniziò a promuovere massicciamente un suo prodotto che esisteva già da un po', il Philadelphia cream cheese.
   Gli ebrei americani, che a quel punto erano soprattutto americani, volevano partecipare di questa moda del brunch. Però, visto che rimanevano pur sempre ebrei, mica potevano mettersi a mangiare uova e bacon (il maiale non è kasher). Allora venne loro l'idea di creare un nuovo rito del brunch: visto che c'era anche tutto un boom di cream cheese, perché non spalmarlo su un bagel? Qualcuno poi s'accorse che se ci si aggiungeva qualche fetta di salmone era anche meglio (il salmone affumicato è un altro ingrediente molto amato dalla cucina ashkenazita: è pratico, grasso, gustoso… e non è maiale).
   Essendo l'America quel grande crogiolo di popoli che sappiamo, in breve tempo la tradizione "bagel & cream cheese" si diffuse anche, se non soprattutto, tra i gentili. Inizialmente a New York e poi nel resto della nazione. La Kraft prese a pubblicizzare il formaggino Philadelphia accompagnato da bagel. Oggi i bagel sono un elemento trasversale della cucina americana: li vende il giga-nazional popolare Dunkin' Donuts, che li ha aggiunti alle ciambelle nel 1996, ma abbondano anche nei brunch menu di luoghi ben più altolocati, senza distinzioni etniche o geografiche, anche se un purista potrebbe fare notare che il posto ideale per gustarne uno è Russ & Daughters, il leggendario caffè ebraico che sorge nella grande mela da più di cento anni.
   Difficile ricostruire con esattezza come i bagel siano arrivati in Italia: sarebbe un po' come trovare una data precisa all'innamoramento nazionale per il cibo americano. Un processo, di cui Milano è certamente la capitale, iniziato almeno a partire dagli anni Novanta, che probabilmente ha conosciuto la sua massima espansione nella prima metà degli anni Dieci, e che secondo alcuni sta ora iniziando a ridimensionarsi. Quello che è piuttosto chiaro è ciò che il bagel evoca in Italia: New York, cioè la modernità cosmopolita, non certo l'assedio di Vienna.

(Studio, 1 dicembre 2017)


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