Italia e Israele ricompongono il "puzzle" dei tessuti biologici
Come enormi puzzle di milioni di cellule, di decine e centinaia di tipi diversi. Sono i tessuti biologici, un rompicapo per gli scienziati di tutto il mondo che stanno affinando lo sguardo per carpirne sempre più i segreti. Fino a oggi è stato possibile conoscere la loro composizione, ma non la loro struttura. Un po' come se di un puzzle si conoscesse solo in modo approssimativo il tipo di pezzi che lo compongono, senza sapere però come metterli uno accanto all'altro.Un passo avanti potrebbe arrivare da una nuova tecnica di studio inventata a cavallo fra Italia e Israele, frutto della collaborazione nata fra i ricercatori del gruppo di Matteo Iannacone, a capo dell'Unità dinamica delle risposte immunitarie dell'Irccs ospedale San Raffaele di Milano, e il team di Ido Amit del Weizmann Institute for Science, in Israele. I due scienziati si sono conosciuti quando entrambi lavoravano a Boston e hanno deciso di mettere insieme le rispettive expertise per ideare la nuova potente tecnica per l'analisi dei tessuti biologici. Combinando la microscopia intravitale di Iannacone - grazie a cui si può seguire il movimento delle cellule in azione negli organi - con l'analisi dell'espressione genica - la carta d'identità di una cellula - sarà ora possibile ricostruire la struttura di un tessuto con una precisione al livello della singola cellula. La scoperta si è guadagnata le pagine di 'Science'. Il lavoro degli scienziati ha ricevuto il sostegno di diversi enti - European Research Council (Erc), Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc), Armenise-Harvard Foundation, ministero della Salute e Fondazione regionale per la ricerca biomedica - e promette di avere ricadute sul modo di fare ricerca in moltissimi campi biomedici.
(il denaro.it, 31 dicembre 2017)
Israele, l'unico luogo veramente sicuro per i cristiani in Medio Oriente
Da cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme, vi dico: chiedetevi come mai solo i cristiani d'Israele non cercano rifugio al di fuori del Medio Oriente
I giorni tra Natale e Capodanno sono un momento di riflessione, e siccome in quei giorni migliaia di cristiani si recano in Terra Santa sarebbe doveroso che essi fossero pienamente consapevoli della nostra vera situazione.
In quanto cristiano mediorientale desidero informarvi che, sebbene i capi musulmani abbiano cercato di convincere l'Occidente che qui i cristiani stanno bene, è vero il contrario. Inoltre, essendo nato e cresciuto nel quartiere cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme, posso dire con certezza che Israele è l'unico paese di questa regione in cui i cristiani possono prosperare.
La cosa potrebbe sorprendere per via di una recente lettera firmata da dirigenti della Chiesa, in cui si condanna la dichiarazione su Gerusalemme del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ripeto, la verità è molto più complessa. I cristiani in Medio Oriente, compresa Cisgiordania e Gerusalemme est, sono sottoposti a un'enorme pressione da parte dei capi musulmani. Negli anni scorsi la comunità cristiana in tutto il Medio Oriente ha enormemente patito per l'ascesa degli estremisti jihadisti....
(israele.net, 31 dicembre 2017)
Raid israeliano su Gaza dopo lancio di razzi
GAZA - I caccia israeliani hanno effettuato nella notte una serie di raid aerei sulla Striscia di Gaza che non hanno provocato vittime. Secondo quanto riferisce l'emittente televisiva "al Jazeera", sono state colpite postazioni del gruppo islamico di Hamas nella parte meridionale della Striscia palestinese. Fonti israeliane riferiscono che il raid aereo è scattato in risposta al lancio di razzi avvenuto venerdì scorso da Gaza verso un villaggio del Neghev. In una nota ufficiale l'esercito dello Stato ebraico sostiene che "l'attacco di venerdì dimostra ancora una volta che l'Iran - mediante organizzazioni terroristiche - mira ad un deterioramento della situazione nella Regione''. L'Iran, secondo Israele, ''potrebbe innescare nella Striscia una escalation, dopo alcuni anni di calma''. Per le autorità israeliane Hamas è responsabile della situazione di instabilità che si registra nella regione, mentre i media dello Stato ebraico riferiscono di un recente incontro tra un alto dirigente del gruppo islamico palestinese e funzionari di Teheran.
(Agenzia Nova, 31 dicembre 2017)
Salmo 90
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
Signore, tu sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e l'universo,
anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio.
Tu fai ritornare i mortali in polvere,
e dici: «Ritornate, figli degli uomini».
Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri ch'è passato, come un turno di guardia di notte.
Tu li porti via come in una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è falciata e si secca.
Poiché siamo consumati per la tua ira
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre colpe davanti a te
e i nostri peccati nascosti alla luce del tuo volto.
Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira;
finiamo i nostri anni come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira e il tuo sdegno
con il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a contar bene i nostri giorni,
per acquistare un cuore saggio.
Ritorna, o Signore; fino a quando?
Muoviti a pietà dei tuoi servi.
Saziaci al mattino della tua grazia,
e noi giubileremo, gioiremo tutti i nostri giorni.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti
e degli anni che abbiamo sofferto tribolazione.
Si manifesti la tua opera ai tuoi servi
e la tua gloria ai loro figli.
La grazia del Signore nostro Dio sia sopra di noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Riportiamo questo articolo da un sito il cui nome fa capire subito da che parte tende. E dovrebbe anche far capire che il progetto dei due stati che vivano luno accanto allaltro in pace e sicurezza è un sogno ad occhi aperti. L'idea che due Stati possano coesistere sul territorio della Palestina storica non ha alcun senso dice larticolista, senza preoccuparsi del fatto non ha alcun senso parlare di Palestina storica, come non ha alcun senso ed è semplicemente deviante e calunnioso parlare di colonialismo. Ma a chi sostiene tesi di questo tipo le argomentazioni storiche non interessano: limportante è proporsi di distruggere Israele, gli argomenti a sostegno della tesi si trovano strada facendo. E si troverà sempre chi ne resterà convinto, perché gli argomenti che in un modo o nellaltro danno addosso agli ebrei risultano sempre convincenti. NsI
di Bruno Guigue
In vendita nelle vetrine dei negozi occidentali dal 1993, la "soluzione a due Stati" è un prodotto adulterato, un raggiro acclarato. La capitolazione dell'OLP ha offerto all'occupante, su di un vassoio, l'insperata opportunità di accelerare la colonizzazione. Il disarmo unilaterale della resistenza ha gettato la Palestina in pasto agli appetiti sionisti. Catastrofe politica, il processo di Oslo ha corrotto l'élite palestinese e sprofondato questo movimento di liberazione, che era un tempo l'orgoglio del mondo arabo, nella piaga delle divisioni.
Con la complicità dei dirigenti di Fatah, la colonizzazione sionista ha polverizzato Gerusalemme est e la Cisgiordania, uccidendo sul nascere la possibilità concreta di uno Stato palestinese. Come si può costruire uno Stato vitale con frammenti sparsi di un territorio dimezzato ? Piena di colonie, la Palestina è stata cancellata dal rullo compressore dell'occupazione, eliminata dalla carta dalla conquista sionista. La Palestina di Oslo non è neppure un embrione di Stato. E' una menzogna cui si aggrappa una Autorità palestinese moribonda e screditata.
E' colpa degli "opposti estremismi", talvolta si dice. Ma da quando il colonialismo è moderato? E dove si è mai visto un popolo colonizzato rimettersi alla generosità del colonizzatore per ottenere giustizia? E' un comodo artificio quello di equiparare occupante e occupato, come se la responsabilità dovesse ripartirsi tra di loro. Permette alla coscienza occidentale di cavarsela a buon mercato, affermando che è tutta colpa di Hamas e di Netanyahu.
La realtà del conflitto, invece, va molto oltre questi due protagonisti. Il sionismo non è un nazionalismo ordinario, è una impresa di sradicamento. L'idea che due Stati possano coesistere sul territorio della Palestina storica non ha alcun senso. Colonialisti lucidi, i sionisti lo sanno bene. Icona del "processo di pace", il primo ministro Itzhak Rabin dichiarò alla Knesset, nel 1995, che non era proprio in questione la creazione di uno Stato palestinese, nemmeno un embrione di Stato, né oggi né mai.
Ovviamente si può fare come gli struzzi e sognare un sionismo immaginario, ma il sionismo che esiste veramente ha scarsa propensione per una condivisione territoriale insieme a degli autoctoni recalcitranti. Quel che vuole, è tutta la Palestina, "una Palestina ebraica come l'Inghilterra è inglese", secondo l'espressione usata dal presidente dell'Organizzazione sionista mondiale Haìm Weizmann, indirizzandosi alle potenze occidentali nel 1919. La spoliazione territoriale, l'appropriazione coloniale della Palestina non è un accidente del sionismo, è la sua stessa essenza.
Anche i Palestinesi lo sanno, e non hanno atteso il fiasco del sedicente "processo di pace" per rendersene conto. Nel settembre 1993, un "Fronte del rifiuto" nacque dal rigetto immediato degli accordi di Oslo. Riuniti nel campo di Yarmouk, in Siria, dieci movimenti palestinesi costituirono "l'Alleanza delle forze palestinesi". Organizzazioni filo siriane, islamiste o marxiste, denunciando l'imbroglio del "processo di pace" e condannando la politica della corrente maggioritaria dell'OLP. Quel che vogliono, è la fine del sionismo, e uno Stato unico in Palestina.
Questa opposizione a Oslo è stata sistematicamente occultata, soprattutto dalle associazioni occidentali di sostegno alla Palestina, generalmente allineate sulla strategia collaborazionista della corrente maggioritaria di Fatah. Questa coalizione di forze di opposizione era peraltro molto più rappresentativa dell'opinione palestinese, dei futuri dirigenti dell'Autorità nazionale palestinese. E alle elezioni del 25 gennaio 2006 nei Territori, i risultati elettorali di Hamas (42,6%) e del FPLP (4,1%), manifesti oppositori del "processo di pace", superarono ampiamente quelli di Fatah (39,6%).
Se si tenga anche conto dell'opposizione altrettanto categorica delle organizzazioni operanti in Siria e in Libano, i cui simpatizzanti non potevano partecipare allo scrutinio, risulta evidente che i Palestinesi erano maggioritariamente ostili a ciò che percepivano con lucidità come una vera e propria frode. L'avere omesso di consultare i Palestinesi della diaspora, in ogni caso, ha compromesso la legittimità di un processo per cui solo i dirigenti dell'OLP e una borghesia palestinese che abita nei territori avevano buone ragioni per provare qualche interesse.
Al popolo palestinese, per contro, gli accordi di Oslo hanno solo portato frutti marci. Questi trattati ineguali hanno accentuato le divisioni fratricide in seno al movimento di liberazione. Hanno offerto all'occupante un mezzo di pressione permanente sui Palestinesi, oramai prigionieri di istituzioni di paccottiglia. Lungi dal consentire l'emergere della Palestina, Oslo l'ha anestetizzata. Il meglio che possa augurarsi per i Palestinesi, è che pongano fine a questa farsa, che rompano tutte le relazioni con l'occupante e riprendano la lotta per uno Stato unico e democratico in Palestina.
(Invictapalestina, 31 dicembre 2017)
Rahel, ebrea in tumulto
Tedesca nata Levin, rifiutò le sue origini, poi in punto di morte arrivò alla riconciliazione: una vita interiore ricostruita attraverso le sue lettere nella Germania tra fine '700 e '800
di Emilio Gentile
Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un'ebrea. A cura di Lea Ritter Santini.
Postfazione di Federica Sossi, il Saggiatore, Milano, pagg. 430, € 22
Hannah Arendt abbandonò la Germania nel 1933. Portava con sé un manoscritto, al quale mancava soltanto l'ultimo capitolo. Lo scrisse a Parigi nel 1938, ma passarono altri venti anni prima di pubblicarlo. Non era un libro filosofico, anche se la riflessione filosofica, talvolta ermetica, circolava fra le sue pagine. Non era neppure un libro di teoria politica, anche se in taluni capitoli si aprivano quadri sulla politica. Era una «rappresentazione biografica basata su ricco materiale inedito», scritta «in maniera inconsueta», spiegava Hannah nella prefazione, pubblicandolo nel 1958 dopo molte esitazioni. Era la storia di una ebrea che non voleva essere ebrea, considerava l'essere nata ebrea una «nascita infame», «una vergogna», che la escludeva dalla società dove ambiva affermarsi: «Non dimentico la vergogna nemmeno per un secondo ... L'ebreo in noi va sterminato, è una sacrosanta verità, anche se la vita dovesse andare con lui».
L'ebrea che non voleva essere ebrea si chiamava Rahel Levin. Era nata a Berlino il 19 maggio 1771, figlia primogenita di un ricco gioielliere. Nel 1810 cambiò il suo nome in Rahel Robert, come fecero i suoi fratelli. Nel 1812, durante la guerra della Prussia contro Napoleone, quando gli ebrei prussiani ottennero la cittadinanza e numerosi si arruolarono per dimostrare il loro patriottismo, divenne patriota anche Rahel, affascinata dai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, e partecipò all'organizzazione dei soccorsi. Infine, nel settembre 1814,, battezzata con i nomi Antonie Friederike, sposò KarlAugust Varnhagen von Essen, diplomatico prussiano di quattordici anni più giovane di lei. Col matrimonio era convinta di aver finalmente compiuto la propria assimilazione. Si illudeva: alla fine, conclude la sua biografa: «Rahel è rimasta ebrea e paria». Ma quando morì il 7 marzo 1833, le sue ultime parole, riferite dal marito, furono: «Che storia! - Sono una profuga dall'Egitto e dalla Palestina [ ... ] . Con entusiasmo sublime penso a questa mia origine e alla trama del destino in cui si uniscono le più lontane distanze di spazio e di tempo; le più antiche memorie del genere umano, allo stato più recente delle cose. Quello che, per tanto tempo della mia vita è stata l'onta più grande, il più crudele dolore e l'infelicità, essere nata ebrea, non vorrei che mi mancasse ora a nessun costo».
La riconciliazione di Rahel con l'origine ebraica non attenuò la severità del giudizio che Hannah diede sui suoi sforzi per uscire dall'ebraismo. A Karl Jaspers, che l'aveva rimproverata di considerare Rahel «senza alcun affetto» e di costringerla «sotto un'unica prospettiva, quella dell'essere ebrea», Hannah rispose di avere scritto il libro «dal punto di vista della critica sionista all'assimilazione, in cui mi sono identificata, e che ancora oggi ritengo sostanzialmente giusta».
La questione ebraica era intrecciata con la vita interiore ed esteriore di Rahel. La sua esistenza si svolse in un periodo tumultuoso dell'ebraismo tedesco, fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, quando gli ebrei, dopo secoli di persecuzioni e di segregazione nel ghetto, ottennero l'emancipazione durante il regno di Federico II, per poi trovarsi nuovamente investiti, nel 1819, dal furore antisemita del nuovo nazionalismo tedesco, generato dalla guerra di liberazione contro Napoleone e dal romanticismo.
Tuttavia, nella storia raccontata da Hannah prevale la vita interiore di Rahel, ricostruita attraverso le sue lettere - pare che ne abbia scritte circa diecimila - ai suoi amici, amiche e amati, nelle quali manifestava se stessa con sincerità, nei sentimenti, nei pensieri, nelle riflessioni. Desiderava essere conosciuta e compresa come era. A un amico che non voleva far vedere a nessuno una lettera che gli aveva scritto, obiettò: «non bisogna aver timore di essere visti ... Se potessi aprirmi agli uomini come si apre un armadio e, con un gesto, mostrare le cose ben ordinate nei ripiani. Certo ne sarebbero soddisfatti; e, appena viste, le capirebbero anche»,
La vita di Rahel fu un continuo dialogo, fondato sul suo profondissimo senso dell'amicizia, specialmente se vissuta in intimi rapporti personali: «Non si sta mai insieme a una persona se non quando si è soli con lei ... Io vado ancora oltre - non si sta mai tanto insieme come quando si pensa all'altro in sua assenza e ci si immagina quello che gli si vuol dire».
Non ricca, non bella, neppure graziosa, Rahel aveva diciannove anni quando cominciò a riunire nella sua mansarda a Berlino un salotto che tenne vivo fino al 1806. Era frequentato dalle menti più brillanti della capitale prussiana. Uno degli amici ha ricordato che per esser accolti nel salotto «si davano molto da fare altezze reali, ambasciatori stranieri, artisti, eruditi, uomini d'affari, contesse, attrici», ma «ciascuno non aveva più o meno valore di quanto non potesse far valere con la cultura della propria personalità». Nello spirito dell'illuminismo, Rahel esaltava il talento individuale e l'universalità della ragione, che libera dal gravame della storia, con le sue tradizioni, pregiudizi, costumi e convenzioni. Per lei, il pensiero razionale era la sua personale via di uscita dall'ebraismo.
Nel salotto e nel vasto raggio delle sue corrispondenze, la forza di attrazione, la «calamita umana» come lei stessa si definiva, era il suo «talento unico»: «Non voglio essere rispettata per una qualche dote particolare, non voglio godere di nessun privilegio, tutto è talento, ma questo è un talento che ho conquistato da sola, un dono unico, e questo dovrebbe distinguermi, onorarmi». Rahel affascinava con la sua «ambigua innocenza affamata di curiosità». Goethe fu impressionato dalla originalità della giovane Rahel, che lo adorò diventando la prima sacerdotessa del suo culto. Heinrich Heine, giovanissimo discepolo di Rahel, benché lui fosse ostile all'assimilazione, la definì «la donna più ricca di spirito di tutto l'universo».
Ebbe molti amici e amiche, amò intensamente, con tumultuosa passione, uomini più giovani di lei. Soprattutto amava essere sommersa dalla vita «come il temporale se sono senza ombrello». Sentiva in sé un «destino oscuro, desolato e brutto», ma anelava alla felicità. «La felicità più nobile sulla terra è continuare a vivere, nonostante le cose di cui si è derubati». La sua idea di felicità non era beatamente ottimista: «La felicità non sparge petali di rosa sul cammino, ma permette di aprire gli occhi: ci si affretti a riconoscere che è molto e si godano fino in fondo le cose piacevoli, subito. Se sono veramente piacevoli, non si desidera possederle, ma vederle fiorire.A!Ia fine tutte le nostre lacrime e le nostre amare sofferenze non nascono se non per il desiderio di possedere e non si può mai possedere altro che la facoltà di gioire».
Nelle pagine dove sono narrate le vicende amorose di Rahel, si avverte una forte empatia della biografa per la protagonista della sua storia. Specialmente quando, fra l'una e l'altra, si svolge un dialogo ideale sulla relazione fra il caso e l'amore. Le loro riflessioni sfiorano talvolta la poesia. Rahel, dice Hannah, ha imparato «che l'amore solo occasionalmente, solo come imprevedibile caso felice, può garantire la vita, tutta la vita umana ... L'amore è "un dono del cielo", la magia più violenta, con cui la terra, quando è bella, può attrarre e incantare ... In che altra maniera il mondo le si potrebbe rivelare se non nel caso?» Rahel risponde: «Ci si abbandona all'amore buono o cattivo come in un mare, e poi la fortuna, le forze o il nuoto portano all'altra riva, oppure l'amore ti inghiotte come cosa sua». Per l'una e per l'altra, l'amore, che è straniero nel regno della ragione, è sovrano nel regno dell'umano, dove la sua capricciosa potenza trasforma il caso in destino, come un temporale quando siamo senza ombrello. E se pure avessimo un ombrello?
(Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2017)
"Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue"
Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».
Dalla prima lettera dell'apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 11
Filosofia ebraica? Parliamone
di Ugo Volli
Ha senso in generale parlare di "filosofia ebraica"? Naturalmente sì, se ci riferiamo a una tradizione che si è definita chiaramente in questo modo e va indietro fino a Filone d'Alessandria, e passando per Maimonide, Spinoza e Mendelssohn arriva ai grandi nomi del Novecento, da Cohen a Rosenzweig a Lévinas: una filosofia non solo fatta da ebrei, ma che si vuole ebraica nei contenuti e nello scopo.
Nondimeno esiste una certa difficoltà nel parlare di "filosofia ebraica", e forse vale la pena di discutere di questo problema. Esso va posto in due direzioni: può esistere una filosofia che sia ebraica invece che - diciamo - protestante o cattolica, italiana o americana? Ed esiste un pensiero davvero ebraico che possa dirsi filosofico? L'idea di una filosofia ebraica presenta almeno questo problema: che la filosofia si presenta sempre, per sua natura, universale; che cioè essa pretende che la sua validità non dipenda da chi la pensa o da chi la legge, ma che investa tutti, essendo fondata sulla pura ragione. Una filosofia che volesse essere solo ebraica rischierebbe dunque di essere una filosofia minore, parziale, locale, imperfetta. E' vero che nella cultura ermeneutica che parte da Nietzsche si insiste molto sul carattere concreto, situato, dei soggetti dei discorsi teorici, si sono proposti pensieri "al femminile", "neri", sudamericani, "proletari" e così via, per tener conto dei limiti, degli interessi, della prospettiva di chi parla; ma certamente i filosofi ebraici non hanno inteso pensare secondo quest'ottica limitata.
Una seconda ragione sta nel fatto che la filosofia non può partire da Dio e dalla Rivelazione, ma può solo eventualmente arrivarci. Deve iniziare dal mondo, dall'esperienza, dalla logica, per poi eventualmente provare a dimostrare l'esistenza di Dio, la creazione, la validità della Rivelazione - spesso senza riuscirci o negandole. La distinzione che Platone propone con forza fra filosofia e mito greco classico (parlando di "antica inimicizia" fra filosofi e poeti) e quella che la Scolastica propone fra filosofia e teologia vanno esattamente in questo senso.
Proprio per questa ragione, bisogna chiedersi se ci può essere un pensiero ebraico davvero filosofico, cioè che non parta dalla Torah e dalla tradizione di commento che la circonda. La filosofia si pone come pensiero "senza premesse", che non parte da un testo rivelato ma solo dalla retta ragione e quindi sembrerebbe incompatibile con l'ebraismo. E' un tema che fu sollevato già molto pesantemente contro Maimonide poco dopo la sua morte, con una discussione violentissima che scosse (anche con scomuniche e gravi violenze verbali) l'ambiente ebraico sefardita (soprattutto provenzale e spagnolo) intorno al XIII secolo. Dell'incompatibilità fra studi ebraici e sapere profano, ma soprattutto filosofico, si trova traccia del resto anche nel Talmud e dopo il Medioevo sono rarissime le eccezioni di coloro che prima dell'Ottocento si sono rivolti dal mondo ebraico alla filosofia: citiamo Spinoza (coi problemi che tutti sanno), Mendelssohn, accusato a sua volta da molti ambienti ebraici di andare verso l'assimilazione.
Poi però, con l'emancipazione, la fioritura di filosofi ebrei (o di origini ebraiche, la distinzione biografica e soprattutto quella culturale spesso non è chiara) fu grande, anche a dispetto della discriminazione che nelle università persistette a lungo nell'Ottocento e poi delle persecuzioni nazifasciste. E se alcuni di questi filosofi, come Edmund Husserl, per fare un nome per tutti, furono semplicemente segnati e poi magari perseguitati per le loro origini ebraiche, ma completamente integrati nel loro pensiero alla cultura europea, altri fecero del loro ebraismo un tema specificamente filosofico, a partire almeno da Rosenzweig e da Buber.
Un elenco molto ampio, un tentativo di classificazione e una serie di brevi (ma chiare e assai ben fatte) esposizioni del loro pensiero si trova in un volume ormai vecchio di qualche anno (è del 2003) ma prezioso per chiunque voglia informarsi sul panorama ricchissimo della filosofia ebraica dell'ultimo secolo: Il pensiero ebraico contemporaneo pubblicato da Morcelliana. Ne è autore Massimo Giuliani1, docente all'università di Trento. Per risalire più indietro sono utili due altri libri, quello di Rav Laras2 che illustra la storia del pensiero ebraico nell'età antica cioè fra gli ultimi libri del canone biblico e il pensiero talmudico (Giuntina 2006) e quello di Mauro Zonta3 che invece affronta la filosofia ebraica medievale dai tempi di Saadia Gaon (decimo secolo) fino al 1500 circa.
E' impossibile naturalmente tentare qui una sintesi di un percorso così lungo e accidentato, pieno di protagonisti di grandissimo rilievo. E' chiaro che non esistono contenuti esclusivi della filosofia ebraica, che si pone di fronte tutti i problemi filosofici fondamentali e spesso non accetta un confine preciso rispetto alla teologia e all'ermeneutica. E però i tre libri che ho citato, coprendo buona parte del percorso del pensiero ebraico (anche se ne sono esclusi i secoli che vanno dal Cinquecento all'Ottocento e dunque la grande Kabbalah di Safed e il chassidismo da un lato e i contributi di Spinoza, Mendelssohn e la discussione intorno alla Haskalah o illuminismo ebraico") ci aiutano a trovare una risposta al problema della possibilità di una filosofia ebraica.
Questa soluzione, che è comune alla grande maggioranza di coloro che si possono chiamare propriamente filosofi ebrei, consiste nel rivendicare il carattere universale della rivelazione ebraica, la sua verità e validità per tutti gli esseri umani. L'ebraismo è sì un lascito esclusivo del popolo che ha accettato la Torah, ma è anche il veicolo di valori universali che possono essere fatti propri da tutti i popoli. Quest'impostazione, soprattutto nel corso dell'ultimo secolo, ha caratterizzato la filosofia ebraica per il suo accentuato aspetto etico. In Lévinas come in Buber e in molti altri, il contributo ebraico si vede innanzitutto nel mettere in primo piano i doveri che le persone hanno nei confronti del loro tu", del volto d'altri", insomma del prossimo. Da questo punto di vista è difficile negare una specificità ebraica in questi filosofi, che certamente rispettano il carattere laico e universale di ogni filosofia, ma pensano che la filosofia debba partire dall'etica piuttosto che dalla metafisica o dall'epistemologia, dal rapporto con gli altri piuttosto che da quello con le cose, dal dovere piuttosto che dall'essere.
(1) Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana, Brescia,
(2) Giuseppe Laras, Storie del pensiero ebraico nell'età antica, Giuntina, Firenze
(3) Mauro Zonta, La filosofia ebraica medievale Storia e testi, Laterza, Roma- Bari
(Israele Storia e Cultura, 31 dicembre 2017)
Il boom dei vini kosher contagia anche l'Italia: dal Gavi all'Amarone
di Giuliano Balestreri
La storia del vino si intreccia da sempre con la religione ebraica. Almeno da quando, appena sceso dall'Arca dopo il diluvio universale, Noè piantò la prima vite: quella che nella Bibbia è definita "la più nobile delle piante e il cui frutto rallegra il cuore". E' innegabile che il vino rappresenti un elemento fondamentale nella ritualistica ebraica. E per questo la Torah disciplina con precisione il processo da seguire per il cibo e il vino kosher.
Basti pensare che un vino può essere definito kosher solo se sono state rispettate tutte le precise regole della Kasherut, sia nella coltura della vite che nella vinificazione. Il processo non è semplice: richiede una serie di passaggi che rappresentato un aggravio notevole per i produttori, ma la definizione di vino "idoneo" apre un mercato enorme. Il primo a credere nei nuovi vini kosher, 140 anni fa, è stato il Barone Edmond de Rothschild patron del Chateaux Lafite di Bordeaux che in Israele fondò la cantina Carmel nel 1882: cento anni dopo è arrivata la Golan Heights Winery e oggi esistono decine di aziende. E per forza di cose, un mercato del genere non poteva lasciare indifferenti i vignaioli italiani: la comunità ebraica tricolore conta 35mila persone, ma le potenzialità dell'export sono enormi.
L'idea di produrre il primo Gavi kosher al mondo è arrivata dal mio importatore di New York" racconta Andrea Spinola che con la cantina Marchese Luca Spinola ha iniziato a produrre secondo i dettami della Torah nel 2015: "L'idea mi ha incuriosito, abbiamo studiato il percorso da seguire, a marzo 2016 abbiamo stappato la prima bottiglia. Il risultato è quello di un vino naturale che fermenta da solo. Per questo sto iniziando a applicare alcuni dei principi imparati al resto delle nostre produzioni".
Genovese trapiantato in Piemonte, Spinola ha ottenuto la certificazione Klbd da Londra: "Tutta la produzione avviene sotto lo stretto controllo del rabbino. Prima di iniziare è venuto a visitare le cantine a controllare tutta l'attrezzatura. Una volta che inizia la vendemmia, le operazioni manuali sono svolte da lui, altrimenti il vino non può essere kosher". Particolarmente lunga è la fase di pulizia delle vasche che devono essere riservate esclusivamente al vino kosher: ognuna deve essere riempita d'acqua - 7mila litri - e lasciata riposare per 24 ore. Un procedimento da ripetere per 3 volte: dopo la vasca è purificata. Inoltre, i grappoli non possono essere raccolti finché la pianta non ha raggiunto il quarto anno di vita, mentre ogni sette anni la vite deve essere lasciata a riposo.
"Quando l'uva arriva in cantina e inizia la fermentazione - prosegue Spinola -, la vasca viene sigillata fino alla fine del processo riducendo a zero la possibilità di intervento dell'uomo. Il risultato è quello di un vino ancestrale, naturale senza additivi. E per questo le sue potenzialità sono enormi: sia per la comunità ebraica che per tutti gli amanti del vino". Non è un caso che in Italia siano già una decina le cantine con certificazione kosher e che tra i vini prodotti, oltre al Gavi, ci siano l'Amarone, il Chianti Classico e i rossi di Montalcino.
(Business Insider Italia, 30 dicembre 2017)
Netanyahu vuole stanziare un fondo per i sostenitori di Israele
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, vuole stanziare un fondo per aiutare i Paesi in via di sviluppo che supportano Israele a livello internazionale.
La cifra stabilita è di 50 milioni di dollari, che verrebbero distribuiti egualmente tra 50 Paesi. Ogni Stato riceverà un pacchetto di aiuti in base ai bisogni individuali in diversi settori, quali tecnologia, agricoltura, sviluppo e così via. Netanyahu intende includere questo progetto nel prossimo piano economico del Paese e considera irrisoria la cifra dell'investimento, se paragonata all'effetto che avrà e che, secondo il premier, sarà visibile già fra dieci anni.
Questa strategia è stata pianificata sia per inserire Israele in nuovi mercati di esportazione per il settore tecnologico, sia per contrastare quello che le autorità del Paese definiscono un atteggiamento contro lo Stato da parte delle Nazioni Unite. Il Ministero degli Esteri ha già redatto una lista di potenziali candidati a questo fondo, selezionando Paesi dell'Africa, dell'Europa orientale e dell'Asia.
Nel 2017 Netanyahu ha visitato numerosi Paesi con i quali aveva intenzione di rafforzare i rapporti, diventando il primo premier israeliano in carica a visitare l'America Latina, Singapore e l'Australia. Netanyahu ha visitato anche New York, Mosca, Pechino, Budapest e altre località dove ha promosso Israele come potenza crescente in grado di offrire il suo contributo al mondo. Il primo ministro israeliano ha anche visitato due Paesi dell'Africa, il Kenya e la Liberia, dove ha dichiarato che una delle massime priorità del suo Paese è rafforzare le relazioni con il continente africano.
La decisione di Netanyahu di stanziare un fondo per aiutare Israele a guadagnarsi il supporto di altri Paesi nel mondo è stata annunciata una settimana dopo l'approvazione, da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di una Risoluzione che respingeva la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele e di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa. Giovedì 21 dicembre, 128 Paesi avevano votato a favore della Risoluzione, 9 si erano pronunciati contro e 35 si erano astenuti. Oltre a Israele e Stati Uniti, gli altri Paesi che volevano respingere la Risoluzione erano Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau e Togo.
La decisione di Trump, annunciata il 6 dicembre, aveva fatto esplodere centinaia di proteste in tutto il mondo e aveva inasprito la lotta tra israeliani e palestinesi, che da quel giorno hanno aumentato le rappresaglie gli uni contro gli altri, mediante incursioni, arresti, raid aerei e lanci di missili.
(Sicurezza Internazionale, 30 dicembre 2017) - trad. Chiara Romano)
La rivolta iraniana che il regime reprime nel sangue
di Loredana Biffo
La manifestazione della popolazione di Mashhad, iniziata questa mattina a Shohada Square, di fronte al palazzo del comune, si è velocemente diffusa in una vasta area della città, con la partecipazione di circa 10.000 persone. I manifestanti, tra cui c'erano uomini, donne, persone anziane e bambini, hanno gridato: "No al rialzo dei prezzi!", "Il governo Rouhani: vuote promesse!", "Se risolveste un caso di corruzione, i nostri problemi sarebbero risolti!", "Né per Gaza, né per il Libano. La mia anima si sacrifica per l'Iran!". La presenza delle donne a questa manifestazione è stata impressionante.
L'Iran contrariamente a quanto ci raccontano i media nazionali, è un paese che ha il 70% della popolazione sotto la soglia della povertà, la disoccupazione è al 12,4 per cento: 3,2 milioni di iraniani su una popolazione di 80 milioni sono senza lavoro; i soldi che il regime ha investito per finanziare il terrorismo internazionale, Hamas, Hezbollah, nella regione siriana dove cerca di avere egemonia, così come nello Yemen, sono stati sottratti alla popolazione che ora versa in condizioni disperate, in particolare dopo il recente terremoto. Si tratta altresì di una zona strategica vitale sia dal punto di vista militare che sociale: il Kurdistan, una parte di paese dove si trova la maggior concentrazione di siti militari segreti dove si lavora incessantemente alla produzione di missili e armi belliche.
All'interno delle montagne di questo contesto geografico si trovano migliaia di chilometri di tunnel e gallerie ricche di depositi di armi e vengono effettuati esperimenti missilistici. Si tratta di strutture dentro alle quali non si sa esattamente cosa accada, potrebbero essere anche utilizzati per esperimenti nucleari, esperimenti che assorbono una parte cospicua del reddito nazionale, ai quali il regime lavora incessantemente.
A Qazvin, la popolazione ha scandito "Cari compatrioti, venite nella via e gridate per i vostri diritti." La popolazione di Bojnourd ha scandito in segno di protesta contro il saccheggio del sistema del Velayat-e faqih (ovvero la completa identificazione tra politica e religione): "L'Islam è uno strumento di oppressione " La popolazione di Sabzevar si è unita anche alle proteste nazionali contro il regime oppressivo e corrotto dei mullah.
Si tratta della prima grande manifestazione dopo le elezioni del 2009 che videro salire al potere Adhmadinejad che fece reprimere nel sangue le proteste dell'Onda verde, il movimento che contestava le elezioni truccate.
La condizione economica nel paese ha avuto un rapido e ulteriore peggioramento per via delle risorse che il regime investe nelle attività di spionaggio e intelligence, sono numerose le spie iraniane che lavorano in squadra con il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). All'inizio del 2017 la Corte Suprema tedesca ha condannato un agente iraniano per spionaggio ai danni di un parlamentare tedesco e di un professore di economia franco-israeliano, in un caso recante indizi di quello che le autorità hanno descritto come "una chiara indicazione di un tentativo di omicidio". Un altro tribunale in Germania ha condannato un agente iraniano per spionaggio in danno del movimento di opposizione. I servizi segreti iraniani hanno preso di mira principalmente gli esiliati in Europa.
Il servizio di ingelligence interno tedesco ha fatto notare nell'ultimo rapporto annuale che il regime è apertamente coinvolto nella diffusione di false informazioni sui suoi oppositori nel reclutamento in Europa di ex membri dell'opposizione a questo scopo. In particolare, nel tentativo di infangare l'immagine dei dissidenti, il regime ha riportato queste false informazioni ai legislatori di molti Paesi europei. La teoria alla base di questa impostazione consiste nello screditare l'opposizione dinnanzi alle classi dirigenti europee in modo tale da condurre queste ultime alla decisione di giungere ad un compromesso con la teocrazia dominante.
La politica di regime spietato e sanguinario è nota in tutta Europa, nonostante ciò si continua a fare affari con il regime clericale, ora hanno un bel dire coloro che hanno in qualche modo sostenuto questo regime che la protesta è solo dovuta alle condizioni economiche, la protesta è soprattutto politica, perché una grande maggioranza in Iran non ne può più di vivere oppressa dalla Repubblica Islamica che applica la sharia alla lettera attraverso il principio di velayat e-faqui, ancora una volta il regime sta mostrando al mondo il suo volto feroce, ma la corda si sta spezzando, questo il regime lo sa, di conseguenza la sua azione di repressione diventa sempre più dura e in queste manifestazioni lo dimostrano. Proprio mentre sto scrivendo queste parole le guardie rivoluzionarie degli Ayatollah stanno sparando sulla folla e nel solo mese di dicembre sono state impiccate 20 persone.
(Caratteri Liberi, 30 dicembre 2017)
Difendiamo l'Italia dall'antisemitismo
Dopo le manifestazioni islamiste è ora che politica e società civile si mobilitino
La manifestazione islamica a Milano
La società civile e democratica si mobilita sull"'emergenza fascismo" con forza, vigore e tempestività, eppure dorme ancora sulle manifestazioni antisemite che ci sono state in varie città d'Italia e soprattutto a Milano, in piazza Cavour. L'episodio di antisemitismo peggiore che il nostro paese abbia avuto da anni. Come ha scritto ieri questo giornale - l'unico - il 9 dicembre scorso anche in Italia è risuonato lo stesso terribile slogan antisemita di altre città europee: "Khaybar, khaybar ya yahud, jaish Muhammad saya'ud", che vuol dire "o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà". Ma mentre tutti i giornali del mondo si interrogavano sull'opportunità di lasciare che un coro fragoroso di antisemiti gridasse il proprio odio contro Israele, in una piazza pubblica e democratica, in Italia nessuno si è fatto delle domande serie, almeno non ancora. Ieri Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico e responsabile del Dipartimento sicurezza, ha scritto su Facebook che "chiederà personalmente al ministro Minniti un intervento. Un conto è la politica, un conto l'antisemitismo". Ed è sicuramente un primo passo. Ma eventi come quelli del 9 dicembre scorso non possono e non devono passare impuniti. Per la dignità della politica e della giustizia italiana. E' ora che la società civile si mobiliti tutta, compatta, per far valere le leggi non soltanto sull'apologia di fascismo ma anche sugli slogan islamisti che incitano alla distruzione di Israele e alla morte degli ebrei.
(Il Foglio, 30 dicembre 2017)
Sepolcri imbiancati
di Niram Ferretti
Il grido "Khaibar, Khaibar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà!" è da tempo in dotazione ai jihadisti. Nel suo opus magnum, A Lethal Obsession, Anti-Semitism from Antiquity to the Global Jihad, Robert S. Wistrich, il maggiore tra i grandi studiosi di antisemitismo della seconda metà del Novecento, lo ricorda, "Ci sono videotape di Hamas in cui 'martiri' contemporanei proclamano che la 'chiamata del jihad, la chiamata di Allah akbar, il tempo di Khaibar è giunto!'.
Questo grido lo abbiamo sentito scandito ripetutamente a Milano nella centrale Piazza Cavour, durante una manifestazione indetta contro la decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele.
Khybar è il nome dell'oasi dell'Hegiaz prevalentemente abitata da ebrei che Maometto conquistò nel 628. Il luogo ha assunto un significato simbolico nella prospettiva islamista di una soggiogazione finale degli ebrei. In mezzo ai vessilli palestinesi e alle urla di "Palestina libera", si è udita in arabo questa invocazione.
Un mese fa circa ci furono grandi stracciamenti di vesti e allarmati articoli sul ritorno del nazifascismo dopo che un carabiniere in una caserma di Firenze aveva esposto nella sua camera una bandiera della Kaiserliche Marine. Su Moked, divino divano dei pensierini ben pettinati del salotto buono dell'ebraismo italico, ci furono alti lai, tra cui quello di noti coiffeurs milanesi delle parole.
In testa Stefano Jesurum coiffeur reale, il quale intreccia idee anodine con prosa da educanda, spiegandoci che la minaccia viene sempre da destra essendo la sinistra ontologicamente monda come l'uovo primordiale.
Sì sa, oggi dobbiamo stare attenti al ritorno di adunate nere che marciano al passo dell'oca, come quelle che si sono viste a Milano, vere e proprie Männerbünde con in testa un torvo Führerprinzip.
Sono loro che adunati lanciano slogan antisemiti per la soggiogazione e lo sterminio degli ebrei, pardon degli israeliani che pur essendo ebrei (escluse le altre etnie, naturalmente) sono forse di una specie untermenschen rispetto a quella dei "colti" e verriani ebrei della diaspora, soprattutto quando sono progressisti e firmano petizioni per "liberare" la Cisgiordania dalla presenza ebraica. Dunque non si è udito alcun suono, non è apparso un animato sdegno su Moked.
Tace la comunità ebraica di Milano. Come mai questa distrazione?
Sì, vanno bene gli sdegni per i dileggi contro Anna Frank allo stadio Olimpico di Roma in corso per altro da decenni tra i tifosi della Lazio, ma magari anche qualche parolina contro chi fa uso di slogan jihadisti? D'accordo che bisogna essere cauti per non venire subito tacciati di islamofobia, questo sì, ma suvvia un po' di ardimento, di par condicio.
In realtà la questione è assai seria. Ebrei milanesi e di altri capiluoghi che ve ne state in silenzio e fingete di non sentire e non vedere, se non difendete Israele dai jihadisti, chi pensate che difenderà voi un giorno?
(Caratteri Liberi, 30 dicembre 2017)
Va in scena la rabbia «attutita»
Manifestazioni in tono ridotto nella quarta convocazione delle proteste palestinesi: feriti a Gaza e in Cisgiordania. Erdogan telefona a papa Francesco.
di Luca Foschi
RAMALLAH - Si ripete, per la quarta volta, il «venerdì di collera» a Gaza e in Cisgiordania. Secondo fonti dell' esercito israeliano tre razzi sono stati lanciati dalla Striscia verso le regioni confinanti di Israele. "Iron dome" il sistema antimissilistico difensivo, ha abbattuto due dei razzi, mentre il terzo ha colpito un edificio nella provincia di Shaar Hanegev, senza causare morti o feriti.
Le forze armate israeliane hanno replicato attaccando due postazioni di Hamas con incursioni aeree e colpi d'artiglieria. Le esplosioni sono state descritte come provenienti dalla zona centrale della Striscia, non lontano dal campo profughi di Nusseirat. In Cisgiordania gli scontri fra giovani palestinesi e forze miste di polizia ed esercito hanno avuto luogo in numerosi villaggi e in tutti i centri maggiori, Ramallah, Nablus, Hebron e Betlemme. Secondo la Mezzaluna Palestinese sarebbero trentacinque i feriti nelle diverse località della Cisgiordania.
Ventiquattro dimostranti palestinesi sono stati invece «feriti dai militari israeliani», secondo quanto aggiorna il ministero per la sanità di Hamas a Gaza. L'agenzia stampa palestinese Wafa riporta che nelle prime ore del mattino le forze israeliane hanno condotto quattro raid nei villaggi di Faqqua e Fandaqumiya, nella zona di Jenin, Qalqiliya, centro a pochi chilometri dal confine orientale con Israele, e Beit Hummar, a nord di Hebron. Le incursioni sono state caratterizzate da perquisizioni ai domicili e si sono concluse con l'arresto di quattro cittadini palestinesi. Nella notte fra mercoledì e giovedì i trattenuti sarebbero stati diciassette. La nuova stagione di attriti è stata innescata il 6 dicembre dalla decisione del presidente americano Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
Dodici i palestinesi uccisi dalle forze israeliane in questo frangente, centinaia i feriti. Sono circa trenta i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, il numero più alto dall'ultima guerra fra Hamas e Israele, esplosa nell'estate 2014. Nella giornata di ieri il presidente turco Erdogan ha chiamato al telefono papa Francesco, ribadendo al pontefice (come aveva già fatto la scorsa settimana in un'altra chiamata) l'importanza di preservare lo status quo di Gerusalemme, futura capitale di due Stati.
(Avvenire, 30 dicembre 2017)
Quale bene può venire a quei giovani palestinesi che si lasciano ferire e uccidere scagliandosi contro le forze israeliane? Nessuno. Quale contributo alla pace può dare il loro stupido immolarsi per la soddisfazione di coloro che odiano Israele? Nessuno. Papa Francesco, paladino della pace e del bene per tutti, rivolge loro qualche paterna esortazione a non danneggiare se stessi ed altri al solo fine di dare sfogo al proprio odio e a quello di tanti altri come loro? No, nessuna. O meglio, fa come fece papa Pacelli a suo tempo: annuncia al pubblico la sua pena per le cattiverie che ci sono nel mondo; fa sapere a tutti che lui sta pregando intensamente; esprime il suo vivo desiderio che gli uomini diventino più buoni; poi tace e resta a vedere quello che succede. Per favore, si smetta di parlare del papa come di alta autorità morale. M.C.
Cari lettori, ecco perché secondo me su Israele vi sbagliate
di Barbara Pontecorvo
Barbara Pontecorvo
L'anno volge al termine ed è tempo di bilanci. Bilanci in ogni dove, e anche in questo spazio virtuale (ma non troppo), in cui, con cadenze fisse, tento di aprire il dibattito su Israele e Medioriente. Intendiamoci, non vi è nulla di male nel dare sempre addosso a Israele, come fa la maggior parte dei commentatori, sull'assunto che si tratti di una realtà coloniale, perché gli ebrei sarebbero partiti dalla madrepatria nell'Isola che non c'è, governata da un terribile Peter Pan, da dove avrebbero invaso lo Stato di Palestina.
"L'avrebbero invaso, questo Stato di Palestina , in cui non sarebbero mai stati (prova ne è la denominazione araba sancita dall'Unesco di tutti i luoghi sacri, compresa la Tomba dei Patriarchi), perché gli ebrei sono dei matti/visionari/mitomani che vantano diritti estinti da millenni. Essendo sadici, oltre che dominatori del mondo e complottisti, fanno agli indigeni ciò che i nazisti fecero loro e, non paghi, praticano l'apartheid, ragion per cui 'meriterebbero la riapertura di quell'ultimo binario'. Gli ebrei, si sa, sarebbero benvenuti nei Paesi arabi, peccato che lì non ci sono oramai più, ma preferiscono rimanere lì a rubare la terra ai palestinesi".
Questa è la sintesi delle maggior parte delle lettere che giungono a questo mio blog, e siccome si tratta di una fede che trova riscontro nei dettagli e costoro non riescono ad avere visioni che vadano oltre i pregiudizi, non è scalfita da alcun argomento. Scrivo quindi sul muro, e questo andrebbe bene ma, soprattutto, parlo col muro, perché la maggioranza dei lettori è persuasa che non ci sia spazio per gli ebrei nel Medio Oriente. Ma non c'è spazio per gli ebrei nemmeno in Europa, aggiungiamo noi, perché le istituzioni ebraiche vivono barricate da decenni per paura che si ripetano gli attentati che ora infestano tutto il mondo.
Insomma, per alcuni lettori non esiste spazio per gli ebrei né in Italia, né' in Europa, né in Israele. Sono antisemiti? Certo che sì, perché la condizione degli ebrei in Italia ed in Europa non ha nulla a che fare col sionismo, e lo stesso vale per la condizione degli ebrei in Israele, perché la funzione del sionismo si è realizzata con la creazione dello Stato di Israele. Sarebbe carino che costoro ammettessero di essere antisemiti, ma vogliono, la maggior parte, essere sia razzisti che democratici. Potrebbero pure fondare il Partito razzista democratico - Prd, che si fonda su principi amorali avallati da chi, non moderando mai gli insulti di alcuna realtà, nemmeno virtuale, sa bene che è più facile creare il consenso sull'odio, che su proposte e contenuti. Sta di fatto che non potendo scrivere "lettori non vi amo", in uno spazio che non amo, non mi resta che ribadire: davvero non mi piacete.
(il Fatto Quotidiano - blog, 30 dicembre 2017)
La strategia anti iraniana di Trump
L'intesa con Israele per combattere Teheran. Con una virata sul deal nucleare
Gli Stati Uniti e Israele hanno raggiunto un accordo strategico per fronteggiare l'Iran e contrastare la sua influenza nella regione, manovra che segue il copione esposto da Donald Trump in un discorso a ottobre. Allora il presidente parlava di un approccio basato su quattro pilastri: lavoro con gli alleati per contrastare le attività destabilizzanti di Teheran, nuove sanzioni per bloccare i flussi di denaro verso i gruppi terroristici, controllo del programma missilistico e, last but not least, la promessa di smantellare ogni ambizione nucleare degli ayatollah. L'accordo con Israele è il primo passo fattivo a livello bilaterale per ottenere uno dei pochi obiettivi chiari della politica estera di Trump. I rappresentanti della diplomazia e degli organi di sicurezza si sono incontrati in segreto alla Casa Bianca il 12 dicembre, e dopo due giorni di negoziati hanno stretto un'intesa che ha alcuni obiettivi fondamentali, fra cui il ricorso ad "azioni diplomatiche segrete congiunte per bloccare la corsa dell'Iran verso gli armamenti nucleari" e l'impegno a fare di tutto per smantellare le attività filoiraniane nell'area, da Hezbollah in Libano alla Siria, dove Israele sta preparando una strategia per la delicata fase del dopoguerra. L'Iran è stato sponsor e sostenitore del regime di Bashar el Assad negli anni del conflitto. Nell'intesa anti iraniana raggiunta a Washington c'è anche un particolare che non deve passare inosservato: il documento parla di "passi diplomatici" nell'ambito del deal nucleare per "verificare che l'Iran non stia violando l'accordo". L'Amministrazione che aveva promesso di distruggere l'odiato accordo di Obama, ora prende misure per farlo rispettare.
(Il Foglio, 30 dicembre 2017)
La cultura di Trani è in lutto: si è spento l'ebraista Emanuele Gianolio
Emanuele Gianolio
È venuto a mancare stamani, all'età di 81 anni, Emanuele Gianolio, ebraista tranese e, più in generale, appassionato di storia e cultura della città. Gianolio era anche uno storico socio della Lega navale di Trani, in quanto vecchio lupo di mare.
La sua specializzazione, come detto, era soprattutto in storia e cultura ebraica. E non è un caso che Gianolio, nel 2000, abbia pubblicato, a cura del Giornale di Trani e per i tipi del Centro stampa Landriscina, «Gli Ebrei a Trani e in Puglia nel Medioevo», un pregevole volume sulla storia dell'ebraismo nel nostro territorio, che ebbe l'onore di essere introdotto dal più celebre ebraista della storia di Puglia, Cesare Colafemmina, a sua volta recentemente scomparso.
Proprio Colafemmina ne esaltò la puntuale indagine e «la capacità di focalizzare la storia della comunità ebraica di Trani, descrivendo e puntualizzandone il travaglio, lo sviluppo e la decadenza attraverso i secoli, a partire dalle varie ipotesi sulla sua fondazione fino alla definitiva espulsione, avvenuta nel 1541».
Inoltre, Gianolio non mancò inoltre di produrre altre pubblicazioni non soltanto sul tema dell'ebraismo, ma anche su altri aspetti della storia della nostra città.
Insieme con quelle, piacevoli racconti sulla sua storia di lupo di mare, della quale è sempre andato fiero, rappresentando così un fiore all'occhiello del settore culturale della Lega navale di Trani.
Non sono mancate, sul Giornale di Trani, lettere aperte e interventi critici sui problemi che, di volta in volta, la nostra città presentava e sui quali riteneva di levare la sua voce di ferma, ma costruttiva protesta.
(Radiobombo, 30 dicembre 2017)
Riflessioni su una festa altrui
di Anna Segre
Domenica scorsa (24 dicembre) tutto era aperto: supermarket, negozi, pasticcerie, tutti pieni di gente che si affrettava a comprare gli ultimi regali. Il traffico era quello di un giorno feriale, di quelli trafficati delle settimane precedenti. Natale aveva completamente cancellato la domenica. La sacralità della festa che cade una volta all'anno aveva annullato il riposo settimanale. Certo, si potrebbe (e si dovrebbe) riflettere sulla crisi economica di questi anni e sull'erosione progressiva dei diritti dei lavoratori, ma se la domenica fosse davvero sentita da tutti come sacra i negozi resterebbero comunque vuoti o semivuoti. In realtà nella psicologia comune, anche quando non c'è una reale necessità di far prevalere una festa sull'altra, l'eccezione tende a schiacciare la regola, la novità della festa attesa per mesi tende a prevalere sulla routine della festa che arriva puntualmente ogni sette giorni.
Mai come domenica scorsa ho capito quanto sia essenziale il principio per cui lo Shabbat è più importante di (quasi) ogni altra festività. Anche noi attendiamo con ansia Pesach o Rosh Ha-Shanà, anche noi ci prepariamo per mesi (soprattutto a Pesach), organizziamo cene ragionando per settimane sul menu, invitiamo e siamo invitati, arrivano parenti da lontano, incontriamo persone che non vedevamo da tanto tempo. Anche nelle nostre teste queste feste occupano forse più spazio dello Shabbat, ma non c'è niente da fare: lo Shabbat arriva comunque e quando arriva dobbiamo fermare i nostri preparativi; contro il nostro istinto che ci spingerebbe a far festa poche volte all'anno siamo costretti a far festa ogni sette giorni. Inutile dire quanto la regola sia più saggia del nostro istinto e quanto lo Shabbat ci protegga da noi stessi.
Capisco che è molto scorretto discutere su come le persone di altre religioni osservano le proprie feste. Quando gli altri lo fanno con noi giustamente ci dà fastidio. E in effetti è probabile che le cose viste da fuori si percepiscano diversamente da come sono: magari quella che ho interpretato come agitazione di persone che correvano di qua e di là era vissuta in realtà come una grande gioia che non toglieva nulla alla sacralità della domenica. Può darsi. A mia parziale scusante posso anche aggiungere che è davvero difficile evitare di ragionare sul Natale perché ci viene imposto a forza, che ci piaccia o no: alberi, festoni, luci colorate, auguri. Hanno cercato di farla passare come festività laica, e in gran parte ci sono riusciti. Ora si lamentano del fatto che si sia perso il significato religioso. Hanno ragione, ma si decidano: o deve essere la festa di tutti, e allora non può che essere una festa laica di luci colorate e regali, o è una festa cristiana, e allora smettano di cercare di imporla al mondo non cristiano. Non parlo del papa, che giustamente fa il suo mestiere; i telegiornali erano pieni di servizi scandalizzati sui cinesi che festeggiano il Natale senza sapere nulla del suo significato. E perché mai persone atee, buddiste o confuciane dovrebbero far festa per la nascita di un bambino ebreo un paio di millenni fa? O sotto sotto permane l'idea che chi non è cristiano sbaglia?
(moked, 29 dicembre 2017)
A sbagliare sono indubbiamente quelli che si dicono cristiani, a cominciare dal papa, con i suoi blasfemi riferimenti antibiblici. Per tutti gli altri è un fatto che subiscono o strumentalizzano in modo più o meno legittimo. M.C.
Eppure c'è un giudice, a L'Aia!
Il procuratore della Corte Penale Internazionale ha definitivamente respinto la richiesta di riaprire l'indagine sul caso della Mavi Marmara
Non si nasconde la soddisfazione, a Gerusalemme, per la decisione presa a fine novembre dalla Corte Penale Internazionale di non perseguire Israele per il raid del 2010 su una nave della flottiglia filo-Hamas che sosteneva di portare aiuti umanitari alla striscia di Gaza. La decisione è stata annunciata dal procuratore della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda.
La nave Mavi Marmara salpò dalla Turchia alla volta di Gaza nel maggio 2010 con il dichiarato intento di violare il blocco navale anti-Hamas decretato da Israele. Dopo i regolari avvertimenti da parte della Marina israeliana, rispettati dalle altre cinque navi della flottiglia, un commando israeliano abbordò la Mavi Marmara che si rifiutava di sbarcare il carico nel porto di Ashdod, da dove sarebbe stato trasportato a Gaza via terra dopo le necessarie ispezioni anti-armi. Ne seguì un violento scontro a bordo della nave, con il ferimento di dieci soldati israeliani e la morte di nove attivisti del gruppo islamista turco IHH, strettamente legato a organizzazioni jihadiste come Hamas e altre....
(israele.net, 29 dicembre 2017)
Centinaia di fedeli pregano per la pioggia in Israele
Preghiera per la pioggia a Gerusalemme
Il ministro dell'agricoltura israeliano ha trovato una soluzione alla scarsità d'acqua nel suo paese
Facile ironia con cui anche in questa forma si getta disprezzo su Israele
: Ha radunato diverse centinaia di credenti nel Muro delle Lacrime, a Gerusalemme, per pregare insieme per la pioggia.
La siccità degli ultimi quattro anni ha notevolmente colpito la desalinizzazione e gli impianti di trattamento biologico delle acque reflue, ha colto il governo e i contadini impreparati e particolarmente colpiti.
Il ministro, Uri Ariel, la cui responsabilità è la politica dell'acqua, ha detto alla radio pubblica che "La preghiera può aiutare". Il ministro ha organizzato l'evento, in cui erano presenti entrambi i grandi rabbini israeliani: Davide Lo degli ashkenaziti e Yitzhak Yosev dei sefarditi.
Il servizio meteorologico israeliano prevede che quest'inverno sarà molto secco.
Lo scorso marzo, il livello del lago di Tiberiade, il principale serbatoio di acqua dolce in Israele, ha raggiunto il suo punto più basso nel secolo scorso. Grazie agli impianti di dissalazione, tuttavia, il paese è finora sfuggito dalle vacanze all'approvvigionamento idrico. Tre quarti dell'acqua potabile consumata dalle famiglie provengono da queste unità.
(altsantiri.gr, 29 dicembre 2017)
Turchia-Vaticano: il presidente Erdogan e il Papa discutono la situazione di Gerusalemme
ANKARA - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avuto oggi una conversazione telefonica con papa Francesco in merito alla situazione in Medio Oriente dopo la decisione dell'amministrazione statunitense di ufficializzare il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele. Secondo quanto riferisce il quotidiano filogovernativo turco "Daily Sabah", Erdogan e il Papa hanno sottolineato l'importanza di preservare lo status quo della città santa per le tre religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e Islam - al fine di garantire la stabilità nella regione. Il quotidiano turco, citando fonti presidenziali, ha precisato che sia Erdogan sia il Papa hanno anche accolto con favore la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite contro il riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele, approvata il 21 dicembre scorso con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astenuti. Infine, il presidente turco e il Papa hanno concordato di tenere una riunione nel prossimo futuro per discutere della questione di Gerusalemme, delle relazioni bilaterali e degli sviluppi internazionali.
(Agenzia Nova, 29 dicembre 2017)
Il papa e Erdogan sono d'accordo su Gerusalemme. Chi poteva dubitarlo?
La Terra Santa della CCR
Chiesa Cattolica Romana
contro gli evangelici americani
I leader delle Chiese evangelical hanno avuto un peso determinante sulla decisione di Trump preannunciata in campagna elettorale. Questo settore del protestantesimo negli Usa rappresenta circa un quarto della popolazione del Paese. Nell'America profonda della cosiddetta Bible Belt, i cristiani sionisti offrono a Israele un sostegno che va oltre la dimensione politica. Organizzano cerimonie in favore di Israele, spesso in concomitanza con la festa ebraica delle Capanne (Sukkot); appoggiano in pieno la destra israeliana e gli insediamenti nei territori, più di molti ebrei favorevoli a una soluzione negoziata tra israeliani e palestinesi. Secondo un sondaggio realizzato dal Pew Research Center nel 2013 la percentuale di evangelical secondo cui Israele è la terra data da Dio al popolo della Bibbia è nettamente più alta della percentuale di ebrei americani.»
Quanto sopra riportato è contenuto in un articolo del sito cattolico Terrasanta.net. Non lo riportiamo perché non ci interessa contrastare punto per punto posizioni provenienti da una visione cattolica tradizionalmente antiebraica, oggi espressa nella forma di un viscido antisionismo, con laggravante inaccettabile di un uso deformante e strumentalizzato della Bibbia e del nome di Gesù. Vogliamo soltanto sottolineare che i terrasantisti della CCR sono riusciti a trovare un altro modo di parlar male della terna Usa-Trump-Israele: la presenza e lazione degli evangelical americani. Sapete perché gli Stati Uniti appoggiano Israele? ha chiesto una volta il famoso archeologo israeliano Dan Bahat; e ne ha dato la risposta: non è per la lobby ebraica, ma per la presenza di milioni di evangelici che sostengono Israele. E come mai accade questo proprio negli Stati Uniti, più che altrove? Risposta: perché lì la Bibbia è stata diffusa, letta, conosciuta e praticata nella forma popolare e democratica degli evangelical. Tutto questo sta cambiando, purtroppo, e certamente oggi ci sono anche, e stanno aumentando, evangelici antisionisti, come del resto ci sono tanti ebrei americani antisionisti. Ma la traccia storica rimane. Qui in Italia invece rimane la traccia storica di un'ignoranza biblica popolare, anche a livello giornalistico, retaggio secolare di un oscurantismo clericale che si fa sentire tutte le volte che si affrontano questioni connesse con temi biblici. E dove si trovano questioni politiche più collegate alla Bibbia di Israele e Gerusalemme? M.C.
(Notizie su Israele, 29 dicembre 2017)
Quel grido a Milano: "Ebrei tremate"
A Piazza Cavour risuona lo slogan del terrore islamista: "Khaybar, ebrei, l'armata di Maometto ritornerà". E' il motto dei jihadisti e dei missili di Hezbollah che ricorda la strage e la schiavitù degli ebrei. Spunti per Minniti.
di Giulio Meotti
ROMA - Malmo nelle scorse settimane è finita sui giornali di tutto il mondo per gli slogan antisemiti scanditi nelle piazze della terza città svedese durante le proteste per il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele da parte degli Stati Uniti. Il New York Times gli ha dedicato un editoriale a firma di Paulina Neuding, direttrice del magazine svedese Kvartal, in cui racconta la "verità sull'antisemitismo svedese".
Poi è stata la volta di Berlino, dove sotto la Porta di Brandeburgo i manifestanti hanno usato lo stesso slogan di Malmò. Anche il Financial Times è andato a occuparsene con una lunga inchiesta, raccontando il timore tedesco di questa rinascita dell'antisemitismo nel paese che ha orchestrato la Shoah. Ma nei giorni scorsi anche a Milano si sono sentiti gli stessi slogan nelle due manifestazioni organizzate contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Siamo oltre la ragazza che portava il cartello "i nazisti sono ancora in giro e ora si fanno chiamare sionisti", oltre agli inni alla "vittoria dell'Intifada", oltre agli striscioni contro il sionismo, oltre ai canti "un sasso qua un sasso là un sasso per la libertà", a sostegno della violenza palestinese. Quasi ovunque le stesse scene: Milano, Roma, Torino, Napoli, Firenze. "Il potere politico nasce dalla canna del fucile" recitava uno striscione a Roma. A Napoli si reclamava il "diritto alla resistenza palestinese". A Milano c'erano imam in testa alla manifestazione organizzata dall'Associazione palestinesi in Italia, con tanti cittadini non soltanto musulmani che marciavano dietro. Alla manifestazione del 16 dicembre a Milano c'era anche l'imam di Firenze e presidente dell'Ucoii, Izzeddin Elzir.
Ma è alla manifestazione-presidio di Piazza Cavour, il 9 dicembre scorso, che è risuonato lo stesso terribile slogan antisemita di Malmò: "Khaybar, khaybar ya yahud, jaish Muhammad saya'ud". La traduzione è questa: "Khaybar, Khaybar, o ebrei, l'armata di Maometto ritornerà". Un coro fragoroso ripetuto otto volte dai manifestanti a Piazza Cavour (video a lato). E a chiudere il takbir, il grido di battaglia islamista: "Allah Akbar! Allah Akbar!".
Khaybar è il nome dell'oasi dell'Hegiaz abitata da ebrei che Maometto conquistò nel 628. Il luogo ha assunto un significato leggendario e mitico nella prospettiva islamista di una sottomissione finale e violenta degli ebrei. Maometto, a capo di un esercito di milleseicento uomini, scandendo la parola d'ordine "Fino alla vittoria! Uccidi! Uccidi! Uccidi!", aggredì gli ebrei insediati nell'oasi di Khaybar, a nord di Medina, completando l'opera di "pulizia etnica" degli ebrei.
Il motto usato da Hamas e Iran
A questo proposito Robert S. Wistrich, il massimo studioso di antisemitismo al mondo, ha scritto nel suo capolavoro "A lethal obsession": "Ci sono video di Hamas in cui 'martiri' contemporanei proclamano che la 'chiamata del jihad, la chiamata di Allah Akbar, il tempo di Khaybar è giunto!'. Le canzoni evocano entusiasticamente il massacro degli ebrei ('i figli di Khaybar') come una specie di atto sacrificale. Le 'guerre ebraiche' del Profeta a Medina e Khaybar sono assunte come una conclusione esemplare dell'espulsione e dello sterminio delle tribù ebraiche nell'Arabia del VII secolo". La battaglia portò all'uccisione di numerosi ebrei mentre le loro donne e i loro figli furono portati via come schiavi. Khaybar è uno dei primi atti di pulizia etnica che si ricordi nella storia.
La battaglia di Khaybar contro gli ebrei viene evocata anche nei canti di vittoria alle manifestazioni di Hezbollah: "Khaybar, Khaybar, ebrei, l'esercito di Maometto tornerà", e "Khaybar l" è il nome di uno dei razzi di Hezbollah lanciati su Israele. Esiste una serie tv in Siria contro gli ebrei intitolata "Khaybar". Un religioso salafita egiziano, Hazem Shuman, in tv ha detto che "gli ebrei di Khaybar del VII secolo sono la replica dello stato di Israele". Migliaia di salafiti tunisini hanno scandito lo slogan "Khaybar" sventolando la bandiera nera del Califfato. Imam di Gaza hanno brandito un coltello in moschea e invitato i fedeli a seguire "l'esempio di Khaybar", quando Maometto partecipò di persona all'uccisione degli ebrei. Nella tradizione islamista oggi il canto "Khaybar Khaybar, ya yahud, Jaish Muhammad, sa yahud" è usato come grido di battaglia quando si attaccano ebrei o israeliani. Il segretario del Consiglio dei Guardiani iraniani, l'Ayatollah Ahmad Janati, in un sermone a Teheran in onda sul primo canale ha spiegato che il conflitto fra Hezbollah e Israele ricorda la battaglia tra i discendenti di Ali (gli sciiti guidati da Hassan Nasrallah) e gli ebrei di Khaybar. I musulmani che hanno umiliato gli ebrei "vanitosi e arroganti" di Khaybar, proprio come Nasrallah sta facendo con Israele. Il messaggio di quello slogan è chiaro: l'armata islamista sta per colpire nuovamente gli ebrei. Per questo oggi in tutta Italia sinagoghe, scuole e centri ebraici sono protette dalle camionette dell'esercito.
Nel 2009, la manifestazione a Milano contro Israele culminò nella vasta, silenziosa distesa di fedeli musulmani raccolta in preghiera davanti al Duomo. Lanciarono strali contro lo stato ebraico, bruciarono i drappi con la stella di David su sfondo bianco, come se fosse una effige satanica. Non era mai successo prima. Adesso Milano si intesta un nuovo record. Scandire in una delle sue piazze più importanti quello slogan sinistro, vera e propria chiamata all'omicidio degli ebrei. Possono le autorità italiane, dal Prefetto di Milano Luciana Lamorgese al ministro dell'Interno Marco Minniti, consentire che a Milano si scandiscano questi slogan antisemiti usati dalle organizzazioni terroristiche? Cosa ne è della lotta all'antisemitismo? E tutte le nostre leggi contro l'incitamento all'odio e alla violenza?
(Il Foglio, 29 dicembre 2017)
La star dagli occhi azzurri della propaganda palestinese
La simpatia che riscuotono le sceneggiate di Ahed Tamimi è chiaramente legata al suo aspetto, così diverso dalla tipica araba a capo coperto. Ma questo tratto razzista del suo successo importa poco, tanto funziona.
Per anni è stata la pin-up della propaganda palestinese, il fiore all'occhiello, la star di Pallywood (il termine coniato dal prof. Richard Landes per descrivere le messinscena hollywoodiane usate dalla propaganda palestinese per accusare Israele di crimini e violenze gratuite).
Ahed Tamimi, ovviamente, non è l'unica che si presta a queste esibizioni. Ma lei è la migliore. Sembra la ragazza fatta apposta per catturare il cuore dei fotoreporter stranieri e dell'opinione pubblica occidentale. Non porta né hijab né burqa. Al contrario, ha un tipico aspetto europeo. Una ragazza che potrebbe essere vostra figlia.
Da anni è al centro di provocazioni sempre più artificiose. Il suo obiettivo è sempre lo stesso: spingere i soldati israeliani a reagire con qualche intemperanza da filmare e divulgare. Non ci riesce mai, perché i soldati delle Forze di Difesa israeliane sono dei veri campioni di autocontrollo....
(israele.net, 29 dicembre 2017)
Bitcoin. La truffa che qualcuno finge di non vedere
La catena di Sant'Antonio 4.0 si chiama Bitcoin. Una truffa, punto e basta. Il nuovismo positivista della Silicon Valley non c'entra. E anche Israele lo contrasta.
di Sergio Luciano
La catena di Sant'Antonio 4.0 si chiama Bitcoin. Una truffa, punto e basta. Il nuovismo positivista della Silicon Valley non c'entra. Non c'entra l'innovazione, non c'entra il progresso, non c'entra l'automazione. È pura truffa. Questa nuova moneta digitale (in tanti ne parlano al plurale ("criptovalute"), come se ce ne fossero molte, ma è solo un modo di esprimersi che rientra nella truffa, perché millanta l'esistenza di un fenomeno mentre c'è un solo caso di rilievo) semplicemente non ha alcuna attinenza con la realtà dell'economia. Quindi costituisce un'unità di scambio disancorata da qualunque parametro e originata non dal calcolo economico di un'autorità collettiva riconosciuta, come sono oggi anche nel più derelitto Paese del mondo le banche centrali, ma dall'arbitrio di privati cittadini che formulano bitcoin sui loro computer come se stampassero banconote del monopoli, ma che - miracolo! - riescono per ora a farsi prendere sul serio da un po' di sprovveduti.
Com'è possibile una simile assurdità? Diciamolo chiaramente. Come ripeteva John Kenneth Galbraith, la Borsa è quel luogo che periodicamente provvede a separare il denaro dagli imbecilli. Ecco: per questo, la Borsa - ma in questo caso è più corretto parlare di "mercati finanziari" - ha bisogno spasmodico, come il tossicodipendente della droga, di nuovi miti. E periodicamente se ne inventa qualcuno. Lo esalta, lo accarezza, lo adula, inizia ad attrarvi sopra molti più denari di quanti ne meriterebbero, chi deve guadagnarci perché ha architettato il bluff ci guadagna e poi abbandona al suo destino il falso mito. È la storia di ogni bolla finanziaria, da che mondo è mondo. Solo che stavolta è peggio.
Spieghiamoci con un esempio relativo a un caso sano di bolla: in questo momento in Borsa a Milano è quotata regolarmente una società, si chiama Bio On, capitalizza circa 560 milioni di euro, mille miliardi di vecchie lire, eppure nel 2016 ha fatturato circa 5 milioni di euro, come un qualunque punto vendita McDonald's. Com'è giustificabile quest'abissale sproporzione tra il valore di mercato di una società del genere e le sue dimensioni economiche reali? È giustificabile, assai più del valore dei Bitcoin: perché le ricerche di cui Bio On è titolare e sta conducendo a ritmo serrato sullo sviluppo di nuovi materiali avanzatissimi, legittimano le più rosee speranze di business. Appena saranno compiuti gli ultimi, pochi passi scientifici, dicono i sostenitori, Bio On varrà in pieno ciò che la Borsa già esprime, anzi varrà di più, quindi il prezzo attualmente sproporzionato alla realtà economica dell'azienda, se ne rivelerà congruo; verrà "raggiunto" dalla realtà che prefigura. Auguri: si può essere d'accordo o meno, ma il ragionamento fila.
Nel caso del Bitcoin, dietro o sotto le superquotazioni non c'è assolutamente niente, neanche una corsa dei cavalli (che pure esprime un parametro di riferimento, per blando che sia, cioè la prestazione velocistica degli animali, e lo spettacolo che essa offre agli occhi degli appassionati). Il Bitcoin è solo una provocazione intellettuale anarcoide, di pochissimi promotori che pescano nel torbido del giustificato fastidio provato dall'opinione pubblica internazionale, disinformata, contro le banche centrali, quelle che emettono il denaro vero, come se fossero le banche - e non la politica - le responsabili di tanti asimmetrie economiche e ingiustizie sociali che il nostro mondo patisce. Ci stanno antipatiche le banche e i banchieri, non abbiamo quattrini a sufficienza e ce li facciamo da noi: questo è il ragionamento. Roba da bambini di sei anni, o da ubriachi.
Tra tanto dibattere si è distinto due giorni fa Israele, un Paese che fa sul serio nell'arte del governo e soprattutto innova più di tutti gli altri, Stati Uniti e Germania compresi, in proporzione al Pil: tanto per capirci, nessuno può dare a Israele lezioni di innovazione. Ebbene, la Consob israeliana, cioè l'autorità che controlla i mercati finanziari del Paese, ha annunciato che bandirà dalla borsa di Tel Aviv le (poche) società che basano il loro business sulle criptovalute. E non solo per una questione di "salute economica pubblica". Il Bitcoin viene attualmente utilizzato anche come unità di scambio per controparti clandestine: terroristi, soprattutto, e criminalità organizzata internazionale. Israele non può permetterlo.
Ma, fermi tutti. Se i delinquenti usano i Bitcoin, vuol dire che i Bitcoin hanno valore! Nossignore: può sembrare così, ma non lo è. Ancora una volta, spieghiamoci. Quando si ha a che fare con terroristi e criminali - stessa roba - quale sia il valore sottostante a uno scambio denominato in Bitcoin è evidente, ed è indegno della società civile: è la violenza, e l'omicidio. Se devo comprare un mitra, e sono un militante dell'Isis, come farò? O lo pagherò con contanti che mi saranno stati forniti dall'organizzazione; o lo scambierò con droga o altre merci a mia disposizione. Nel regolare la transazione ("oggi mi dai il mitra, domani ti arriva la coca") posso farmi bastare una stretta di mano; oppure, se non mi fido, per simulare un patto vincolante posso scrivere su un foglio che quel mitra valle mille o centomila Bitcoin, quanto la coca che domani consegnerò. E se poi la coca non la consegno, cosa succede? Chi mi ha venduto il mitra e non riceve in cambio la cocaina pattuita e denominata in Bitcoin, cosa farà di quel contratto? Lo porterà in un tribunale per ottenere un decreto ingiuntivo? Improbabile, no? Perché lo arresterebbero all'istante!
Il creditore insoddisfatto mette mano alla pistola, viene a cercare l'insolvente e gli spara. O va dal capo, lo denuncia e il capo gli spara. Dunque, se io faccio parte di un gruppo di mille terroristi che hanno deciso di scambiarsi armi e materiali vari o vettovaglie e concordano di fissare per ciascuna transazione un valore in Bitcoin a titolo di promemoria sulle compensazioni da farsi reciprocamente, il miglior notaio del valore di questo contratto saranno le armi: o tieni fede all'impegno, o ti ammazzo. Ma allora, il "sottostante" che rende reale il valore del Bitcoin è la legge della violenza. Pur sempre una legge
Attenzione. C'è un altro caso, analogo a questo del mitra, non criminale ma illecito, in cui una criprovaluta sembra aver valore e non ne ha: ed è quando uno scambio alla pari di merci lecite (un baratto, insomma: come a scuola quando il compagno di banco ci cedeva la sua merendina in cambio della gomma per cancellare) viene appunto denominato in Bitcoin. Cosa succede se una delle due controparti non onora il baratto e non consegna la merce pattuita in contropartita? Che dovrebbe pagare con i Bitcoin: ma può rifiutarsi, perché un contratto in Bitcoin è illecito in sé, e quindi non impugnabile, in quanto evade qualunque tassazione, che andrebbe ovviamente legata alla valuta legale nel Paese in cui avviene lo scambio. Sarebbe bello se potessimo pagare le tasse in Bitcoin, ma non si può!
Se invece l'azienda A compra dall'azienda B del legname al valore concordato di 1000 euro e lo paga dandole in cambio delle vernici per quel valore, c'è un scambio di fatture su cui si paga l'Iva. E quella la si paga in euro, ahimè: l'Agenzia delle Entrate non accetta mercanzie! In questo caso, tutto è regolare: e se l'azienda B, aperti i barattoli delle vernici, ci trova dentro l'acqua, può denunciare per truffa l'azienda A e trascinarla in tribunale impugnando il contratto di baratto. È la catena del diritto che funziona. Sarà onerosa, sarà inefficiente, ma si chiama civiltà.
Un'ultima annotazione: chi dice che le criptovalute convengono perché riducono l'uso del contante e quindi la dipendenza dei cittadini dalle banche, dice il vero. L'importante è che l'uso delle criptovalute al posto del contante "vero" sia regolato dalla legge, sia dunque "tracciato" dai governi e si svolga in comunità concordi nel riconoscere a quegli scambi una mera funzione rappresentativa di transazioni in denaro corrente che verranno saldate periodicamente a estinzione degli scambi figurativi intercorsi in criptovalute. Come i celeberrimi "miniassegni" che negli anni Settanta integrarono a lungo le monete metalliche italiane. Alla fine, quando ne raccoglievi tanti e li portavi in banca, te li accettavano come denaro!
Per capire meglio cosa significa questa forma istituzionalizzata di metaforizzazione del denaro normale basti pensare a quel che capita in un villaggio turistico: all'ingresso si fa la "strisciata" della carta di credito e si riceve un carnet di buoni (criptovalute pure loro) che si spendono giorno per giorno per comprare bibite e panini. Dopo una settimana si contano i buoni spesi, e la cassa preleva una sola volta dalla carta di credito il corrispettivo in denaro. Due effetti utili: meno costi, perché anziché tante transazioni, ciascuna con una sua commissione, un'unica transazione finale; e nessuna ansia di perdere la carta portandola in giro in spiaggia, in piscina, alla spa. Tutto qui.
Nel caso di Israele, l'uso del contante al fine di evadere il fisco è intensissimo, quasi come in Italia, solo che lì lo sanno e noi fingiamo di non saperlo. E il governo sta pensando per questo di deprimerlo in tutti i modi, imponendo al suo posto la moneta elettronica. Governativa, però, e vincolatissima. Altro che Bitcoin.
(ilsussidiario.net, 28 dicembre 2017)
Ecco la guida per i bambini palestinesi su come colpire gli ebrei. E UNICEF tace
Al-Fatah (i cosiddetti palestinesi moderati) pubblica su Twitter una guida dedicata ai bambini palestinesi dove spiega come colpire gli israeliani in quello che è chiaramente un incitamento ai bambini a partecipare agli scontri e a provocare violenze. Assordante e vergognoso silenzio di UNICEF.
Bambini palestinesi spediti volontariamente sempre in prima linea, perché si sa, un adolescente ferito o arrestato per aver commesso un crimine fa sempre notizia e mai come adesso i palestinesi hanno bisogno di "martiri" da esporre al mondo.
Così arriva su Twitter la guida per i bambini palestinesi su come colpire con le pietre i passanti ebrei o, meglio ancora, le macchine delle famiglie ebree in transito, una tecnica che nel corso degli anni ha provocato migliaia di incidenti stradali con decine di morti e centinaia di feriti....
(Right Reporters, 28 dicembre 2017)
«Non metterò il velo integrale». E la scacchista boicotta i sauditi
L'ucraina Muzychuk rinuncia alla gara a Riad. Negato il visto agli israeliani.
di Marta Serafini
Anna Muzychuk
È scacco al Re. O, meglio, al Principe. Soprattutto se ad ospitare il torneo mondiale del Rapid and Blitz Chess Championships è la monarchia saudita. E soprattutto se la campionessa in carica dà forfait per ragioni politiche.
A scatenare le polemiche poche parole, scritte su Facebook. «Tra qualche giorno perderò i miei due titoli mondiali, uno a uno. E questo solo perché ho deciso di non andare in Arabia Saudita, di non giocare secondo le regole di altri, di non mettermi l'abaya (la veste tradizionale tipica dei Paesi del Golfo lunga fino ai piedi, ndr)». Autrice del post è Anna Muzychuk. Ventisette anni, passaporto ucraino, Anna è diventata famosa per aver vinto l'anno scorso a Doha. Ma ora il suo gesto l'ha resa una star, tanto più che anche la sorella Mariya ha deciso di imitarla.
Certo, non è la prima volta che una giocatrice boicotta una manifestazione di questo livello: anche la campionessa statunitense Nazi Paikidze non andò ai mondiali dello scorso febbraio in Iran per non dover portare il velo. Ma per Riad e per MbS (sigla con cui viene chiamato il principe Mohammed bin Salman) impegnato nel Vision 2030, piano di riforme che comprende l'abolizione del divieto di guida per le donne e la riapertura dei cinema, la mossa suona come uno schiaffo. Tanto più se si considera che per ospitare i giochi la monarchia ha messo sul piatto un montepremi quattro volte più alto del normale, del valore di due milioni di dollari (uno e mezzo per i concorrenti maschi e mezzo milione per le donne).
Da non dimenticare poi come la monarchia saudita, pur di ospitare il torneo, sia andata contro una fatwa di Abdulaziz al Sheikh, principale autorità religiosa del Regno, che all'inizio del 2016 ha vietato gli scacchi definendoli una perdita di tempo e una fonte di rivalità inutile tra giocatori, nonostante il gioco sia stato diffuso nel mondo proprio dagli arabi.
Ma ad Anna Muzychuk politica e denaro evidentemente non interessano. E a chi le fa notare come il regolamento della competizione non obblighi le giocatrici a indossare né il velo né I'abaya, lei risponde secca che «mettermi il velo in Iran mi è bastato. E resta il fatto che le donne saudite sono obbligate a vestire questi abiti, hanno un guardiano maschio che le controlla, sono ancora considerati esseri umani di serie B e rischiano la vita per il solo fatto di essere donne».
Archiviata la decisione di Anna Muzychuk e le questioni di genere, rimangono altri nodi. La diplomazia degli scacchi a Riad vacilla anche per le ire degli israeliani. E non importa che di recente il capo di Stato maggiore d'Israele, Gadi Eisenkot, abbia lasciato intravedere delle aperture in funzione anti iraniana. Ai sette giocatori israeliani sono stati negati i visti per entrare in Arabia Saudita. Nella spiegazione dei funzionari sauditi, il rifiuto è dovuto all'assenza di legami diplomatici con Israele. Una mossa cui la Federazione israeliana ha risposto con una richiesta di risarcimento danni accusando i sauditi di aver «barato», lasciando intendere prima di essere disposti ad ammettere i giocatori israeliani per ottenere il permesso di ospitare il torneo, salvo poi tirarsi indietro.
Ammessi invece all'ultimo sono stati i campioni del Qatar, nonostante in giugno l'Arabia Saudita abbia tagliato i rapporti diplomatici ed economici con Doha, accusandola di essere troppo vicino all'Iran. Un mistero, insomma. Ma pensare di prevedere le mosse dell'avversario nella grande partita a scacchi del Medio Oriente è forse troppo azzardato.
(Corriere della Sera, 28 dicembre 2017)
L'Ambasciata italiana vada a Gerusalemme
Lettera al Giornale
Io sto con Israele, mai con questo governo di traditori (Gentiloni, Alfano, Renzi), l'ambasciata italiana deve avere sede a Gerusalemme. Il nuovo governo di centrodestra provveda.
Flavio Scuratti
(il Giornale, 28 dicembre 2017)
Ritornare da Auschwitz. La tragedia degli ebrei italiani
Elisa Guida racconta le peregrinazioni dei superstiti che rientrarono dai campi, tra solidarietà e indifferenza.
di Mario Toscano
Al termine della Seconda guerra mondiale, circa un milione di cittadini italiani attendeva con ansia di rientrare in patria. Erano prigionieri di guerra catturati dagli eserciti alleati tra il 1940 e il 1943, militari fatti prigionieri dai tedeschi dopo l'armistizio dell'8 settembre, lavoratori coatti, deportati politici e razziali. Un Paese devastato dalla guerra e dalla sconfitta e una società alle prese con la propria ricostruzione politica, materiale e morale, dovevano impegnarsi nel favorire il ritorno e il reinserimento di una massa di persone provata da esperienze drammatiche e da terribili sofferenze.
Alla scarsezza delle risorse disponibili, si aggiungevano le conseguenze della condizione di Paese sconfitto: l'Italia, infatti, non poteva organizzare direttamente missioni di soccorso, in particolare per i deportati, ma limitarsi all'assistenza dei reduci nel momento in cui rientravano nei confini nazionali. In questo drammatico contesto, particolarmente difficile era la situazione dei pochi ebrei sopravvissuti alla deportazione (meno di 700 su oltre 8.000 deportati). Perseguitati e deportati in quanto ebrei, non tornavano né in quanto italiani - formalmente non rientravano nella categoria dei reduci - né in quanto ebrei - non essendo prevista per essi nessuna iniziativa specifica. Le delicate e complesse problematiche di questa vicenda sono affrontate con rigore e sensibilità in un volume di Elisa Guida (La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, 2017), che integra i dati forniti dalla documentazione archivistica con le testimonianze individuali, illuminando gli aspetti istituzionali della questione con le suggestioni, le immagini e gli stimoli offerti dalle esperienze degli scampati allo sterminio.
Ampia attenzione è dedicata alla lunga marcia verso casa dei sopravvissuti al lager di Auschwitz, segnata da storie drammatiche, tra cui spicca la dettagliata ricostruzione di quella del sedicenne Piero Terracina, che offre una vivace testimonianza sul ruolo potenziale delle istituzioni e dei loro rappresentanti nel contribuire a lenire le ferite inferte dalla deportazione. Ricoverato nel sanatorio di Soci, sul mar Nero, appresa casualmente la notizia della presenza di un rappresentante diplomatico italiano a Mosca, il giovane avviò una corrispondenza - rinvenuta nell'archivio del ministero degli Esteri - alla quale l'ambasciatore Pietro Quaroni rispose con parole di conforto ed esortazione, utili a mitigare il clima incerto e difficile che dominava l'attesa del ritorno.
Attraverso lo studio delle vicende individuali, Guida illustra con cura le condizioni (la salute, l'età, la solidarietà) che potevano favorire il difficile ritorno a casa, e soprattutto indaga sul suo significato di viaggio interiore, di parentesi tra due fasi drammatiche dell'esistenza, nel richiamo frequente al racconto paradigmatico di Primo Levi.
Una tregua tra la guerra da cui si usciva e quella che si profilava per continuare a vivere, in cui esplodeva il contrasto tra il mondo esterno e il mondo interiore dei sopravvissuti; affioravano il timore e le angosce di fronte alla prospettiva di rientrare in case vuote di persone e di affetti e il divario incolmabile tra il sogno e la realtà del rimpatrio, esplicitato da tanti episodi che testimoniavano il disinteresse diffuso per i tormenti patiti, come documenta la delusione di un sopravvissuto al momento del rientro in patria: «che c'eravamo messi in testa?». Una domanda drammatica che non può essere lenita, alla quale questo volume fornisce un inquadramento storicamente adeguato e umanamente partecipe.
(La Stampa, 28 dicembre 2017)
A Berlino ragazzo ebreo offeso da coetanei arabi. In Serbia profanato un cimitero ebraico
di Roberto Zadik
Cresce l'antisemitismo in Europa. In una scuola di Berlino nei giorni scorsi, durante una discussione su Israele, alcuni studenti arabi hanno cominciato a accusare un adolescente ebreo di "uccidere i bambini" sostenendo che gli ebrei devono essere decapitati. E sempre in tema di antisemitismo, in Serbia, un cimitero ebraico è stato seriamente danneggiato da sconosciuti.
Berlino, ebreo attaccato a scuola al grido "Hitler era buono perché ha ucciso gli ebrei"
L'ingiuria allo studente ebreo del liceo berlinese Ernst Reuter ha provocato uno scandalo nel Paese e sembra si sia verificata all'inizio del mese. Secondo il quotidiano tedesco "Berliner Zeitung" episodio centrale dell'attacco sarebbe stato il momento in cui i suoi compagni gli avrebbero gridato "Hitler era buono perché ha ucciso gli ebrei", dopo che il giovane aveva animatamente discusso in classe con loro sulla creazione di uno Stato palestinese. Inneggiando al nazismo e al genocidio degli ebrei, i suoi coetanei l'hanno coperto di insulti, parolacce, terribili minacce come "devono decapitarvi tutti".
Ma stando alla testimonianza del giovane aggredito, nel suo liceo, si sarebbero verificati numerosi altri episodi dall'inizio della scuola. "Ho provato per mesi a tacere, a stare calmo a sorridere come nulla fosse ma ho deciso di rompere il silenzio riguardo ai commenti su Hitler" ha detto il ragazzo alla stampa locale riferendo tutti i fatti al preside dell'istituto che ha promesso di proteggerlo da eventuali ritorsioni a suo danno.
Come risultato di una serie di altri simili attacchi antisemiti, lo studente aggredito non può più giocare nel cortile della scuola durante gli intervalli per preservarlo da altre aggressioni. In seguito ad altre indagini il preside ha dichiarato di essere molto preoccupato per l'incidente che "ci spinge a rispondere con forza a questa ondata di antisemitismo e di attitudine anti ebraica e antisraeliana. Prenderemo provvedimenti affinché questo non accada più".
Da segnalare la replica del Rabbino della Comunità ebraica berlinese, Yehuda Teichtal, che ha rimproverato severamente la scuola sottolineando che "è una situazione insostenibile questa in cui uno studente sia costretto a sentire cose tanto disgustose. Ci aspettiamo che il governo agisca per prevenire l'odio, l'intolleranza e questi gesti di odio nella nostra società specialmente per quelli contro i giovani". Non è la prima volta che l'antisemitismo colpisce Berlino. Settimana scorsa, un video ha mostrato l'aggressione di un tedesco 60enne contro il ristoratore israeliano Yorai Feinberg .
Serbia, profanato il cimitero ebraico di Pancevo
Cambiando luogo, sempre in questi giorni, la comunità ebraica serba è rimasta sconvolta dalla violazione del cimitero ebraico della cittadina di Pancevo in cui sono state distrutte 47 lapidi. Secondo le prime ricostruzioni, i responsabili sarebbero entrati nel cimitero arrampicandosi sul muro e dirigendosi verso le tombe, alcune delle quali di pregio e risalenti al 18esimo secolo. Turbato per l'accaduto il presidente della comunità ebraica locale, David Montijas, ha detto: "Non erano mai successe cose del genere, siamo disgustati da questo e non possiamo credere che ci sia accaduto. In passato c'era stata qualche svastica ma mai qualcosa di tanto grave".
Condanne anche dal sindaco della città, Sasa Pavlov che ha condannato l'attacco annunciando di voler installare misure di sicurezza e telecamere nel cimitero.
(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2017)
Israele e le Criptovalute: L'idea della Criptovaluta Nazionale
di Angelica Musco
La Russia, nonostante le preoccupazioni di Putin, ha annunciato il lancio di una moneta digitale nazionale, il criptorublo. Dubai ha dimostrato l'intenzione di creare una moneta digitale di Stato, l'Emcash. Adesso anche Israele, e le criptovalute sembrano essere realtà.
Il governo israeliano sta infatti considerando l'idea di creare una criptovaluta nazionale. Nello specifico, si tratterebbe di dare una forma digitale alla moneta israeliana - lo shekel - mantenendo intatto il suo valore.
Il governo di Israele e le criptovalute
Secondo alcuni dati statistici, in Israele, il mercato nero rappresenterebbe circa il 22% del Prodotto Interno Lordo. Dunque, una moneta digitale, registrata e regolamentata dal governo israeliano, diminuirebbe e renderebbe piì difficili le transazioni del mercato nero.
Inoltre, insieme al lancio della moneta digitale, il governo israeliano sta considerando l'introduzione di una relativa legislazione. L'obiettivo sarebbe quello di ridurre sostanzialmente la quantità di denaro fisico nell'economia.
Il processo che vede la creazione dello shekel digitale in Israele è appena iniziato. Il governo israeliano ha anche lanciato il "Economic Arrangements Bill". Se approvato, questo creerebbe un collegio della Banca di Israele per valutare la possibilità di creare lo shekel digitale.
La Knesset, Parlamento israeliano, aveva già provato a far approvare una legge dello stesso genere due anni fa. Il risultato, però, è stato un fallimento. Ecco il motivo, dunque, dell'aggiunta delle leggi sul denaro contante. Ad ogni modo, numerosi fonti rivelano che la pressione per l'adozione di una valuta digitale sarebbe realmente alta.
(BusinessDaCasaNews, 27 dicembre 2017)
Muro del Pianto, futura stazione dei treni dedicata a Trump
Una linea ferroviaria correrà sotto la Città Vecchia di Gerusalemme
GERUSALEMME - «Fermata Donald Trump» al Muro del Pianto nel cuore di Gerusalemme. Se tutto andrà come predice il ministro dei trasporti Yisrael Katz, al presidente Usa, che ha riconosciuto la città capitale di Israele, sarà intitolata una delle stazioni di una avveniristica ferrovia che dall'aeroporto Ben Gurion trasporterà direttamente a Gerusalemme milioni di visitatori.
Il progetto - per ora ancora nella fase iniziale - prevede la costruzione di due stazioni sotterranee e scavi per oltre 3 chilometri di tunnel sotto Gerusalemme e la Città Vecchia: uno dei luoghi politicamente e storicamente più sensibili della regione, se non del mondo.
Più di 700 milioni di dollari il costo stimato e circa 4 anni il tempo necessario per i lavori. Katz - che è anche ministro dei servizi segreti - ha sottolineato in un comunicato - che la ferrovia ad alta velocità consentirà ai visitatori di raggiungere «il cuore pulsante del popolo ebraico: il Muro del Pianto e il Monte del Tempio» (la Spianata delle Moschee in ebraico).
La scelta di intitolare la fermata del Muro a Donald Trump è stata presa, ha spiegato Katz, «per la sua coraggiosa e storica decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele».
L'omaggio di Israele al presidente americano per una mossa (compresa quella dello spostamento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme) che ha registrato all'Onu una risoluzione di condanna votata anche da larga parte dell'Europa.
E che ha compattato il mondo arabo e scatenato la rabbia della leadership palestinese inviperita contro gli Usa ritenuti «mediatori disonesti» e una serie di proteste e scontri (con morti e feriti) in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme stessa, spinte anche da Hamas.
Agli scontri si sono aggiunti i razzi di nuovo lanciati contro Israele. Proprio oggi da Beirut i servizi di sicurezza del paese, citati dal Daily Star quotidiano libanese in inglese, hanno fatto sapere che diversi gruppi armati anti-israeliani, tra cui Hezbollah e Hamas, stanno formando un'alleanza - una sorta di asse inclinato verso l'Iran - per organizzare iniziative «a livello politico, militare e di sicurezza» contro la decisione di Trump su Gerusalemme.
Il capo dello Shin Bet (sicurezza interna di Israele) Nadav Argaman ha già messo in luce che Hamas sta approfittando della situazione innescata dalla dichiarazione Usa «per portare attacchi e minare la stabilità dell'Autorità nazionale palestinese».
Un sondaggio odierno ha rivelato che il 70% dei palestinesi sono a favore delle dimissioni del presidente Abu Mazen. Un dato che si è sommato al nervosismo negli ambienti politici di Ramallah di fronte a notizie - diffuse con insistenza da alcuni mezzi stampa arabi - secondo cui Usa ed Israele starebbero cercando (con l'assenso dell'Arabia Saudita) di far emergere un nuovo leader in sostituzione di Abu Mazen (82 anni), vista la sua strenua opposizione alla politica del presidente Donald Trump.
(tio.ch, 27 dicembre 2017)
Lorde, si muove l'ambasciatore israeliano in Nuova Zelanda
'La musica dovrebbe essere un linguaggio di tolleranza e amicizia'
Lorde
Mai, prima d'ora, l'iniziativa di un singolo musicista - anche più anziano, più conosciuto e più rilevante nella storia della musica - aveva mai fatto registrare una risposta spontanea da parte di un corpo diplomatico: la decisione di Lorde di cancellare il suo concerto a Tel Aviv in polemica (mai esplicitata, però, dalla cantante di "Melodrama") con le politiche adottate dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu nei confronti della popolazione arabo-palestinese ha scomodato nientemeno che Itzhak Gerberg, ambasciatore israeliano di stanza in Nuova Zelanda, paese dell'artista.
"E' deplorevole che tu abbia cancellato il tuo concerto a Tel Aviv causando un dispiacere ai tuoi fan israeliani", ha scritto l'ambasciatore nella sua lettera aperta indirizzata a Lorde: "La musica è un magnifico linguaggio di tolleranza e amicizia, che unisce le persone: un tuo concerto in Israele avrebbe portato il messaggio che una soluzione sarebbe potuta arrivare dal dialogo e un impegno costruttivo che porti al compromesso e alla collaborazione. La musica deve unire, non dividere, e il tuo concerto a Tel Aviv avrebbe contribuito a portare uno spirito di speranza e pace in Medio Oriente".
"Viceversa l'odio e il boicottaggio rappresentano ostilità e intolleranza e mi spiace vederti arrenderti al piccolo gruppo di fanatici del movimento BDS - Boycott, Divest and Sanction che nega allo stato di Israele il diritto a esistere. Ti invito a incontrarmi di persona per parlarne di Israele, dei suoi traguardi e del suo ruolo come unica democrazia in Medio Oriente".
(Rockol.it, 27 dicembre 2017)
Gerusalemme capitale - "Eurabia" schierata contro Trump e Israele.
Dietro le posizioni supinamente anti-israeliane ostentate oggi dai governi europei contro la decisione di Trump su Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, è il fatto che si sta ormai realizzando la profezia di Oriana Fallaci sulla nascita dell'"Eurabia": un continente che sta perdendo la propria identità e i propri principi di umanesimo ebraico-cristiano e illuministico in nome della più relativistica secolarizzazione, ma al contempo è sempre più potentemente infiltrato dall'islamismo.
di Eugenio Capozzi.
L'approvazione all'Assemblea generale dell'Onu della risoluzione che condanna la decisione degli Stati Uniti di spostare l'ambasciata israeliana a Gerusalemme segna il più alto grado di divisione tra Stati Uniti e democrazie europee dall'inizio del secondo dopoguerra. Nessun paese del vecchio continente, tanto meno membro della Ue, ha votato contro. Tutti favorevoli salvo 6 dei 35 astenuti (tutti stati dell'Europa orientale: Bosnia, Croazia, Romania, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria) e qualche assente.
In passato anche quando la distanza tra le due sponde dell'Atlantico era sembrata allargarsi a dismisura - cioè in occasione dell'intervento armato degli Stati Uniti in Iraq deciso da George Bush Jr nel 2003 - alla posizione nettamente contraria presa da Germania e Francia aveva fatto da contraltare un appoggio netto alla linea di politica estera americana da parte degli stati europei aderenti alla cosiddetta "coalizione dei volenterosi - da Gran Bretagna, Spagna e (più cautamente) Italia ai paesi slavi e baltici.
Successivamente, la politica di relativo disimpegno e di ambiguo leading from behind messa in atto da Barack Obama rispetto a Mediterraneo e Medio Oriente aveva attutito (o nascosto sotto il tappeto) i contrasti.
Ora, nel momento in cui Donald Trump - che all'inizio del suo mandato veniva ritenuto fautore di una linea isolazionistica e di un più stretto raccordo con la Russia putiniana - riafferma invece un atteggiamento classicamente presenzialista, da superpotenza attiva, sullo scacchiere mediorientale, rinsaldando i legami con Israele e cercando soprattutto di isolare l'Iran e i suoi emissari di Hebollah e Hamas, il dissidio riesplode nella forma più clamorosa.
Anche il Regno Unito - archiviando definitivamente la special relationship con gli Stati Uniti - si è allineato al grosso dei paesi del vecchio continente e della Ue in un rifiuto condito di atteggiamenti persino sprezzanti (si veda per tutti il recente discorso del "ministro degli esteri" Ue Federica Mogherini davanti al premier israeliano Benjamin Netanyahu a Bruxelles).
A cosa è dovuto questo blocco da parte europea (senza considerare l'opposizione geopolitica costante della Russia di Putin, che secondo molti avrebbe dovuto essere appunto un interlocutore privilegiato della politica estera trumpiana) rispetto alla riaffermazione di una consolidata strategia statunitense rispetto all'area, più volte ribadita in passato anche durante i mandati di presidenti democratici come Bill Clinton? Perché l'Ue è sempre più lontana da Israele, che rimane l'unica democrazia liberale del Medio Oriente e accentua sempre più la propria centralità economica e culturale tra i paesi altamente industrializzati del mondo?
Naturalmente elementi di distanza dall'asse Usa/Israele e di vicinanza ai paesi arabo-islamici sulla questione mediorientale erano già presenti da lungo tempo nelle democrazie del vecchio continente.
La vicinanza geografica, la preoccupazione per la propria sicurezza, il fabbisogno di fonti energetiche, i molteplici e radicati rapporti economici e commerciali, il retaggio di interessi coloniali e post-imperiali (nel caso di Francia e Gran Bretagna) spingevano senza dubbio fin dagli anni Quaranta e Cinquanta molte nazioni europee a guardare con preoccupazione ai conflitti legati alla nascita dello Stato ebraico, e a cercare per converso di costruire un ponte di dialogo con il mondo arabo.
Ma nel periodo della guerra fredda queste spinte erano contenute dall'allineamento alla Nato, e dal fatto che anche in Medio Oriente si era andata riproducendo a grandi linee la polarizzazione tra Usa e Urss come "patroni" rispettivamente di israeliani ed arabi: una polarizzazione che obbligava ad una scelta netta di campo. Tuttavia, come nei confronti dell'Urss, anche verso il mondo arabo alcuni paesi (tra cui l'Italia) cercarono di ritagliarsi, all'interno di questo quadro, soprattutto un ruolo di mediazione.
Man mano, poi, che il bipolarismo tra le due superpotenze si andò allentando, e che al contempo la situazione nel Medio Oriente si andò facendo più complessa con l'emergere dell'estremismo palestinese e l'affacciarsi dell'integralismo islamico, l'Europa di area comunitaria spostò sempre più l'asse della propria politica estera, pur non rinnegando ufficialmente la linea della Nato, verso una esplicita convergenza con la "causa palestinese" e con le classi dirigenti arabe. Fino ad arrivare all'aperta presa di distanze dalla superpotenza americana maturata dopo l'11 settembre 2001, la "war on terror" di Bush e il conflitto iracheno.
Ora, però, alla base dell'ulteriore approfondirsi del fossato che separa il nocciolo duro dell'Europa dall'altra sponda dell'Atlantico e da Israele c'è un fattore ulteriore oltre quelli già elencati, emerso nel frattempo con sempre maggiore evidenza: l'enorme incremento dell'immigrazione dai paesi islamici, che in molti paesi del Vecchio Continente ha raggiunto ormai percentuali rilevanti della popolazione; e la consapevolezza - per quanto dissimulata - che non soltanto nelle comunità provenienti da quei paesi l'integrazione con le società ospitanti non fa significativi passi avanti, ma anzi all'interno di esse si formano sempre più enclaves fanatiche ostili all'Occidente.
Prima gli attacchi di Al Qaeda, poi negli ultimi anni la diffusione sanguinosa del terrorismo dell'Isis, ad opera soprattutto di immigrati di seconda e terza generazione, hanno precipitato i governanti europei in uno stato di costante paura, e li hanno convinti sempre più della necessità di non esasperare i contrasti con gli islamici residenti nel loro territorio.
Da qui la tendenza a cedimenti sempre maggiori delle classi politiche europee su princìpi fondamentali come la libertà di espressione, le radici ebraico-cristiane del continente, e, appunto, la questione arabo-israeliana, usata spesso dalle frange integraliste per giustificare atteggiamenti violenti e intolleranti.
Insomma, ciò che non viene detto esplicitamente, ma è chiaro a chiunque voglia vedere dietro le posizioni supinamente anti-israeliane ostentate oggi dai governi europei (di varia estrazione politica: destre moderate come May e Rajoy; centristi come Merkel e Macron; sinistre come Gentiloni o il Ps portoghese) contro la decisione di Trump su Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, è il fatto che si sta ormai realizzando la profezia di Oriana Fallaci sulla nascita dell'"Eurabia": un continente che sta perdendo la propria identità e i propri principi di umanesimo ebraico-cristiano e illuministico in nome della più relativistica secolarizzazione, ma al contempo è sempre più potentemente infiltrato dall'islamismo.
Unica eccezione a questo quadro - più flebile che all'epoca della "coalizione dei volenterosi" - è la già citata astensione di slavi e "orientali". E' una fiammella rimasta accesa, ma è anche per ora troppo poco per sperare in un rinsavimento, e in un ritorno dell'Europa al ruolo di presidio di civiltà che essa avrebbe il dovere di svolgere, innanzitutto per la propria sopravvivenza. Tale ruolo non potrebbe, infatti, prescindere da un raccordo organico con Israele, avamposto dell'Occidente in una regione del mondo che del modello occidentale di società, quando conforme alle sue migliori tradizioni, avrebbe un disperato bisogno.
(Civico20, 27 dicembre 2017)
Cure grazie alla solidarietà: la piccola Mietta in Israele
La piccola Mietta ha festeggiato il Natale a Tel Aviv dove si trova con la famiglia per un ciclo di terapie.
Mietta in Israele con il papà
CASALMAGGIORE - La piccola Mietta ha festeggiato il Natale a Tel Aviv, in Israele, dove si trova con la famiglia per un ciclo di terapie col metodo "First step".
Un viaggio della speranza cui hanno contribuito le raccolte fondi effettuate da vari enti e associazioni del territorio casalasco e viadanese. Mia, quattro anni e mezzo, risiede coi genitori e la sorellina maggiore a Casalmaggiore. Soffre dalla nascita di una forma grave di canalopatia del potassio: una malattia rara che le impedisce di camminare e parlare come gli altri bambini, ma non di guardarsi intorno con occhioni curiosi e di sorridere al mondo. In casi del genere si è dimostrato efficace un metodo riabilitativo messo a punto da un'equipe di Tel Aviv. Nonostante il costo, i genitori di Mietta hanno ospitato a casa loro per ben due volte una fisioterapista israeliana esperta, che ha svolto con la bimba tantissimi esercizi, insegnando a papà e mamma come ripeterli in autonomia. Un percorso che ha portato a piccoli ma assai significativi passi in avanti: Mia infatti ha imparato a compiere da sola dei movimenti che prima le erano preclusi.
Ora il viaggio in Medio Oriente per una nuova sessione di cure. Per aiutare mamma e papà nel gravoso impegno, è stata costituita l'associazione "Il sorriso di Mietta"; e il territorio ha fatto scattare una vera e propria gara di solidarietà, in cui ha fatto la sua parte anche l'Oglio-Po Mantovano. Recentemente, ad esempio, è stato devoluto alla onlus il ricavato di una gara di motocross tenutasi a Rivarolo Mantovano (cui aveva partecipato anche il campione MotoGp Andrea Dovizioso); di una cena benefica promossa dal Rugby Viadana 1970 e dalla club-house 1.3; e del motoraduno "Save the Bobby" tenutosi il 25 aprile scorso al Muvi di Viadana. (r.n.)
(Gazzetta di Mantova, 27 dicembre 2017)
Gerusalemme: alleanza Hezbollah-Hamas contro la decisione di Trump
Diversi gruppi armati anti-israeliani, tra i quali gli Hezbollah libanesi e Hamas palestinese, stanno formando un'alleanza contro la decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.È quanto scrive oggi il quotidiano libanese in inglese Daily Star citando una fonte dei servizi di sicurezza di Beirut.
La fonte sottolinea che la decisione di istituire un "organo di coordinamento" fa seguito ad una dichiarazione del leader di Hezbollah, il Partito di Dio alleato dell'Iran, secondo il quale "l'asse della resistenza" deve concentrarsi sulle iniziative anti-israeliane ora che la guerra civile in Siria si avvia alla conclusione.
L'iniziativa, se confermata, favorirebbe un ulteriore avvicinamento di Hamas - affiliato alla Fratellanza musulmana sunnita - all'Iran sciita, dopo alcuni anni di freddezza dovuti al sostegno fornito dallo stesso Hamas al fronte anti-regime in Siria.
Dell'alleanza, oltre a Hezbollah e Hamas, dovrebbero far parte altri cinque gruppi armati attivi a Gaza e in Cisgiordania e la potente milizia sciita irachena Al Hashd al Shaabi.
Secondo la fonte citata dal Daily Star, un annuncio ufficiale potrebbe presto sancire la nascita del nuovo raggruppamento anti-israeliano.
(swissinfo.ch, 27 dicembre 2017)
Il negazionismo insegnato ai bimbi
Youpi, rivista francese per i piccoli, ha scritto che Israele non è "un paese vero"
Israele, come la Corea del nord, non sarebbe un "vrai pays", un paese vero e proprio. E' quanto ha sostenuto la celebre rivista francese per bambini Youpi, che nel suo ultimo numero ha pubblicato una cartina geografica del mondo con la seguente legenda: "Questi 197 paesi, tra cui la Francia, la Germania e l'Algeria, sono chiamati stati. Ne esistono anche altri, ma tutti gli altri paesi del mondo non sono d'accordo per dire che sono dei paesi veri e propri (per esempio lo stato di Israele e la Corea del nord)". La prima ad accorgersi dello scivolone negazionista del magazine è stata l'ambasciatrice israeliana in Francia, Aliza Bin Noun, che su Twitter si è detta "scioccata da questa menzogna insegnata ai bambini". "Una tale retorica non può che incitare all'antisionismo, indissociabile dall'antisemitismo, come ha ricordato il presidente francese Emmanuel Macron", ha tuittato la diplomatica. Subito, contro la cartina geografica presentata da Yuopi ai bambini sotto forma di quiz, ha alzato la voce anche il Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia), che ha chiesto e ottenuto il ritiro dalle edicole del numero. "E' una contro verità storica detta a dei bambini dai 5 ai 10 anni. Mi sono premurato di scrivere al caporedattore del magazine e al presidente del gruppo Bayard in merito a questo errore flagrante che appariva nel numero, chiedendogli di ristabilire la verità delle cose", ha dichiarato Francis Kalifat, presidente del Crif. La richiesta è stata accolta, e nei chioschi francesi, a gennaio, non ci sarà Youpi. Ma chi è abbonato alla rivista, riceverà comunque a domicilio il numero con la cartina che nega l'esistenza di Israele. "Non possiamo annullare le spedizioni", ha detto la portavoce della divisione jeunesse di Bayard, senza precisare il numero di persone che riceverà la pubblicazione. Il presidente della casa editrice, Pascal Ruffenach, si è scusato per la "maladresse", affermando che non c'era alcuna intenzione di "negare l'esistenza dello stato di Israele" e che nel prossimo numero sarà pubblicata una rettifica assieme a un articolo esplicativo sulla storia di Israele.
(Il Foglio, 27 dicembre 2017)
Bitcoin al bando, la scelta di Israele
L'authority: tutelare gli investitori
Israele vuole mettere al bando il bitcoin. L'assenza di regole nelle transazioni della criptovaluta ha spinto l'Autorità per la sicurezza (Isa) a convocare per la prossima settimana i regolatori finanziari per discutere l'argomento. «Fino a quando non ci sarà una chiara regolamentazione, faremo in modo che le società che commerciano principalmente in valute virtuali non siano in grado di farlo sul mercato azionario di Tel Aviv», ha annunciato Shmouel Hauser, direttore dell'authority. «Le attività delle società il cui core business è basato sui bitcoin saranno sospese. Questa politica continuerà fino a quando non sarà trovato un quadro normativo appropriato per le transazioni digitali». Una decisione presa innanzi tutto per tutelare gli investitori, visto che, per Hauser, «il bitcoin è una bolla speculativa e nessuno sa cosa ci sia dietro».
Intanto la valuta ha recuperato ieri il 10%, che corrisponde a un terzo dello scivolone avvenuto venerdì scorso: il bitcoin, sulla piattaforma lussemburghese Bitstamp, era quotato intorno a 15,050 dollari. Un valore ben inferiore al record messo a segno il 17 dicembre, quando aveva sfiorato quota 20 mila.
La caduta era stata prevista da molti analisti e osservatori nelle ultime settimane. Previsioni che si sono intrecciate agli allarmi lanciati dalle autorità di vigilanza e dai regolatori a tutte le latitudini. L'ultimo avvertimento è arrivato della Banca centrale di Singapore, secondo cui l'impennata dei prezzi guidata dalla speculazione prelude all'eventualità particolarmente alta di una forte caduta dei prezzi. Anche le quotazioni delle rivali del bitcoin sono risalite: Ethereum, la seconda criptovaluta per volumi di mercato, scambiava intorno a 771 dollari contro i 689 di domenica, anche se ancora molto lontana dal record di 900 dollari toccato recentemente.
(ItaliaOggi, 27 dicembre 2017)
Ecco perché Trump taglia i fondi all'Onu. È tensione con l'Europa
di Roberto Bongiorni
La decisione era nell'aria. Ma il taglio ai finanziamenti americani destinati alle Nazioni Unite rischia di esacerbare le già non idilliache relazioni tra Washington e i Paesi europei. L'amministrazione del presidente Donald Trump ha difatti iniziato a negoziare un taglio di 285 milioni di dollari per il 2018. Il piano è stato annunciato subito dopo che i Paesi membri avevano raggiunto un accordo, domenica, sul bilancio 2017-2018, pari a 5,4 miliardi di dollari. Il taglio americano sarebbe un duro colpo per le finanze dell'Onu in un periodo in cui gli altri Paesi membri non dispongono certo di facili risorse per coprire l'eventuale perdita dei finanziamenti americani.
Viene da chiedersi: perché proprio ora? Leggere questa decisione come la prima rappresaglia della Casa Bianca contro la bocciatura, da parte dell'Assemblea Generale Onu, del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele (annunciato da Trump il 6 dicembre), e del successivo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv, è facile e apparentemente intuitivo.
Sono stati ben 128 i Paesi, tra cui l'Italia, insieme alla totalità dei Paesi più importanti dell'Unione europea, a votare contro lo strappo di Trump. L'ambasciatrice americana all'Onu Nikki Haley aveva promesso che gli Usa si sarebbero ricordati di chi gli ha voltato le spalle.
Un appello, tuttavia, che finora non ha trovato molti sostenitori. Per ora solo il Guatemala ha seguito la Casa Bianca, annunciando a Natale, per bocca del presidente Jimmy Morales, l'intenzione di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Tuttavia la mossa del Guatemala potrebbe non restare un caso isolato. Secondo i media israeliani, infatti, presto seguirà l'annuncio dell'Honduras, mentre sarebbero una decina i Paesi che stanno valutando la possibilità di allinearsi alla scelta di Washington sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele (tra cui Romania e Slovenia).
La decisione di tagliare una parte (e non tutti) dei finanziamenti all'Onu non è legata solo alla crisi su Gerusalemme. In verità Trump non ha mai gradito - e lo ha ribadito più volte - l'ingombrante presenza delle Nazioni Unite, che in molti casi confligge con le sue strategie geopolitiche. In un'occasione il presidente americano ha perfino definito questa grande organizzazione di Stati, creata dopo la Seconda Guerra Mondiale, un club triste che ha sprecato le sue potenzialità.
Ma la battaglia condotta dagli Stati Uniti contro l'Onu è una battaglia anche contro gli sprechi e le inefficienze che da tempo affliggono le Nazioni Unite, e sono in parte riconosciute anche dai suoi vertici e da molti Stati membri.
«L'inefficienza e le spese facili dell'Onu sono ben note» ha denunciato l'ambasciatore americano Nikky Haley e «noi non consentiremo più che la generosità del popolo americano sia sfruttata».
Il finanziamento dell'Onu, come prevede un articolo della sua Carta, è soprattutto legato alla grandezza delle economie dei suoi Stati membri. Gli Stati Uniti sarebbero responsabili del 22% del budget operativo dell'Onu. Si tratta di gran lunga del più grande contributo. In numeri Washington ha sborsato 1,2 miliardi di dollari su 5,4 del budget 2016-2017.
Ma c'è di più. Gli Stati Uniti sono anche i maggiori contribuenti, in misura ancor più grande (28,5% del totale), alle missioni di peacekeeping dell'Onu, operazioni il cui budget, separato da quello generale, dovrebbe toccare nel 2017-2018 i 6,8 miliardi di dollari.
Resta da vedere se il piano di Trump si fermerà solo a 285 milioni di dollari. O se, come ha fatto intendere (forse solo per incutere timore) l'amministrazione americana, è solo l'inizio di un piano più vasto. In questo caso i problemi per l'Onu sarebbero davvero difficili da risolvere.
(Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017)
Velo e boicottaggio di Israele: così l'Arabia Saudita si è data scacco matto
Un torneo internazionale a Riad sta scatenando più di una polemica geopolitica. Un evento sportivo non basta per rinnovare con successo l'immagine tormentata di una nazione
di Enrico Cicchetti
La campionessa del mondo di scacchi ucraina, Anna Muzychuk
"Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista" ha detto l'ex campione mondiale Garri Kasparov. La scacchiera non è un universo limitato e innocuo: ne sa qualcosa Giovanni Leonardo Di Bona, detto il Puttino, scacchista italiano del Cinquecento che morì alla corte del principe di Bisignano, avvelenato per invidia. E il gioco al massacro fra i pezzi bianchi e neri ha spesso stimolato la fantasia dei narratori: è metafora della sfida con la morte, come nei fotogrammi del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman o nelle pagine dell'Alfiere nero di Arrigo Boito. O ancora nella Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, dove il microcosmo delle 64 caselle diventa il campo di battaglia in cui il destino degli individui s'intreccia a quello della Storia con la maiuscola. Ma se il fascino accigliato degli scacchi persiste, negli ultimi quarant'anni è come scomparsa la sua presa sull'opinione pubblica. Non è più il 1972, insomma, quando Bobby Fischer e Boris Spassky conducevano la loro Guerra Fredda per procura a Reykjavik, in quello che fu chiamato "l'incontro del secolo" - Fischer stesso la descrisse come la battaglia del "mondo libero contro i russi bugiardi, bari ed ipocriti". Eppure oggi i pezzi che si muovono sulla scacchiera stanno facendo di nuovo le veci di squadroni di carri pesanti e batterie di cannoni in un torneo internazionale che sta scatenando più di una polemica geopolitica.
A diventare campione del mondo di scacchi ci vogliono anni di lavoro, giornate spese sulla tavola e ore di angoscia per ogni singola mossa. Ma ci vuole pochissimo a rimetterci la corona. "Tra pochi giorni ho intenzione di perdere due titoli di campione del mondo, uno per uno", ha detto Anna Muzychuk. "Solo perché ho deciso di non andare in Arabia Saudita". Muyzchuk, 27enne ucraina, è la campionessa del mondo in carica in due discipline di scacchi veloci: rapide blitz. E a Riad oggi è iniziato il Rapid and Blitz Chess Championships, un torneo internazionale di scacchi. L'Arabia ha sedotto la Federazione mondiale degli scacchi (Fide) con un montepremi da due milioni di dollari - pari a quattro volte la tariffa annuale standard della Fide - e si è fatta concedere il diritto di ospitare la sfida, nel tentativo di migliorare la sua tormentata immagine internazionale.
Il primo scacco è arrivato però dalla campionessa ucraina, che non ha nessuna intenzione di indossare l'abaya la sopravveste scura con la quale le donne saudite sono costrette a coprirsi da capo a piedi. E ha deciso di boicottare l'evento, anche se l'organizzazione ha fatto sapere che non sarà obbligata a indossare il velo: "Lo faccio per i miei principi", ha risposto Muzychuk. Non solo: ai sette giocatori israeliani sono stati negati i visti per entrare in Arabia Saudita. Secondo i funzionari sauditi i visti non possono essere concessi perché il regno non ha legami diplomatici con Israele. La Federazione israeliana di scacchi ha comunicato che chiederà un risarcimento finanziario e affermato che era stato loro fatto credere che i giocatori avrebbero potuto partecipare e ha accusato Riad di avere ingannato la Federazione mondiale degli scacchi affinché venisse selezionata per ospitare il torneo.
In un messaggio su Twitter, Fatimah Baeshen, portavoce dell'Ambasciata saudita a Washington, ha risposto alla "presunta politicizzazione" dell'evento di scacchi, dicendo che i visti erano stati concessi a tutti i cittadini a eccezione di quelli provenienti da paesi senza legami diplomatici con il regno. Lior Aizenberg, portavoce della Federazione israeliana di scacchi, ha affermato che la decisione di impedire agli israeliani di partecipare è invece del tutto politica. Prima del torneo di martedì, gli israeliani erano in contatto con la Federazione degli scacchi sauditi, che si sarebbe detta "estremamente positiva sul fatto che avremmo avuto i visti per partecipare", ha spiegato Aizenberg.
Lo sforzo saudita per ospitare i mondiali della scacchiera arriva in un momento in cui il principe ereditario Mohammed bin Salman sta cercando di convincere i sudditi, gli alleati del regno e gli investitori stranieri che sta realmente diversificando e riformando l'economia e trasformando una nazione imbevuta di ultraconservatorismo musulmano sunnita in uno stato del 21mo secolo. Il torneo di scacchi in Arabia Saudita mostra come un rapporto non governato tra sport e politica possa sollevare anche problemi fondamentali di governance. E suggerisce che ci vuole molto più di un evento sportivo per rinnovare con successo l'immagine offuscata di una nazione. Insomma, forse il torneo sarà uno "Scacco matto" per Riad: un'espressione che nasce da uno sdrucciolamento fonetico dell'originario iraniano: "Scià matt", il re è morto.
(Il Foglio, 27 dicembre 2017)
Venivano da Puteoli gli ebrei campani
Meis, in mostra i primi mille anni della presenza giudaica in Italia: reperti da Pompei e dal Mann
Lo studioso
Giancarlo Lacerenza firma nel catalogo
il saggio sulle regioni del Sud
Le tracce
Fin dagli anni 40 d.C. la cittadina fu approdo strategico per uomini e merci
di Antonio Piedimonte
Nell'incertezza storica sull'arrivo degli ebrei in Campania, a tracciare un legame, stavolta certo, fra il Vesuvio e Gerusalemme, ci pensa il libro IV giudaico degli Oracoli sibillini: qui, l'eruzione del 79 è inserita in una serie di grandi sciagure, punizioni che Dio avrebbe inferto a Roma - colpevole della distruzione di Gerusalemme, del Tempio e del popolo santo - per dieci lunghe generazioni. Nella traduzione di Capelli del 1999 si legge: «Un principe di Roma giungerà nella Siria e, dopo aver dato alle fiamme il tempio di Gerusalemme e aver compiuto grande sterminio, devasterà degli ebrei il grande paese dalle ampie strade. Ma, allorché da uno squarcio nel suolo d'Italia si leverà un fuoco che giungerà sino alla vastità del cielo, arderà molte città, ucciderà molta gente, l'aria spaziosa si riempirà di molta cenere e fumo e cadranno dal cielo piogge come di terra rossa. Allora sarà dato conoscere l'ira del Dio dei cieli, poiché queste distruggeranno l'innocente tribù dei pii».
A tracciare un quadro di grande interesse sulla presenza ebraica in Campania è Giancarlo Lacerenza, che firma il capitolo Dal Vesuvio a Venosa, gli Ebrei in Campania e in Basilicata del catalogo edito da Mondadori Electa sulla mostra «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» allestita a Ferrara presso il Museo nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah in occasione della sua inaugurazione, tenutasi alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il Meis, questo l'acronimo, offre al visitatore un viaggio nei primi mille anni dell'Italia ebraica con un racconto curato da Anna Foa e Daniele Jalla, oltre che dallo stesso Lacerenza. Oltre duecento oggetti preziosi, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, quarantanove epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo: dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library.
Le prime tracce di una reale frequentazione giudaica in territorio campano, spiega Lacerenza, arrivano da Puteoli, grande centro mercantile che ben prima di Ostia svolse per Roma la funzione di porto annonario e di approdo per uomini e merci provenienti da ogni parte del Mediterraneo.
Parliamo degli anni intorno al 40, con l'arrivo del filosofo Filone e di altri membri della gerousìa giudaica di Alessandria con l'obiettivo d'incontrare Caligola, il quale s'intratteneva spesso nella vicina Baia.
Le testimonianze risalenti al primo secolo sono comunque assai difficili da interpretare, quando non già fraintese. «Il graffito latino in cui sono stati letti i nomi delle città di Sodoma e Gomorra», spiega Lacerenza, «di cui restano poche lettere, ha buone possibilità di essere stato tracciato ben posteriormente all'eruzione; le poche anfore contenenti vino "giudaico", secondo il titulus greco già d'incerta lettura e oggi evanido, può darsi che non fossero affatto destinate a clientela locale; e l'enigmatico poinium cherem seguito da due pentacoli, inciso a media altezza nel corridoio d'ingresso di un'abitazione privata, ha più del graffito apotropaico dell'anatema ebraico lanciato sulla città: come volevano i suoi primi editori e come la coincidente allusione a Sodoma e Gomorra lasciava a suo tempo interpretare».
Indizi e suggestioni, quindi, che lasciano presupporre, più che una reale presenza ebraica in area campana, una «conoscenza di cose ebraiche» da parte dei locali.
(Il Mattino, 27 dicembre 2017)
Ecco perché il Guatemala segue Trump sulla scelta di riconoscere Gerusalemme capitale
Jimmy Morales e le "eccellenti relazioni" con Israele. Dopo Stati Uniti e lo stato centro-americano ci sarebbero altri otto paesi pronti a spostare le loro ambasciate
di Maurizio Stefanini
ROMA - E' il Guatemala il secondo paese, dopo gli Stati Uniti, ad annunciare lo spostamento della propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. "Caro popolo del Guatemala, oggi ho conversato col Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu", ha scritto il presidente Jimmy Morales su Facebook proprio la vigilia di Natale, "e abbiamo parlato delle eccellenti relazioni che abbiamo avuto come nazioni da quando il Guatemala ha appoggiato la creazione dello Stato di Israele. Uno dei temi di maggior rilevanza è stato il ritorno dell'ambasciata del Guatemala a Gerusalemme. Per questo vi informo che ho trasmesso istruzioni alla ministro degli Esteri perché inizi i passi necessari. Dio vi benedica".
L'annuncio ha suscitato le ire immediate di Evo Morales, che a causa della crisi di Maduro in Venezuela e col cambio di linea del successore di Correa in Ecuador è ora il leader di fatto di quell'asse bolivariano latino-americano che si richiama all'eredità di Chàvez. Il presidente boliviano si è affidato a Twitter per lamentare come "alcuni governi vendano la propria dignità all'impero per non perdere le briciole dell'Usaid". Una frase forse non opportuna da parte di un leader che ha ricevuto dall'Iran una linea di credito da 287 milioni di dollari poco dopo la rottura delle relazioni con Israele.
Israele ha fatto in Guatemala alcuni investimenti, ha addestrato le forze speciali del paese centroamericano, ed è stato anche presente con importanti aiuti durante le varie catastrofe che hanno funestato questa terra. Ma è soprattutto dal mondo protestante fortemente legato all'evangelismo conservatore nord-americano (2016 il protestantesimo ha raggiunto il cattolicesimo come numero di fedeli, con un 45 per cento a testa di fedeli) che viene la spinta pro Gerusalemme. Ne fanno fede alcuni popolari gruppi pro-Israele su Facebook: da Reporte Honesto, che ha in questo momento 205.000 follower, a Unidos por Israele, che ne ha 662.918. D'altra parte a Tel Aviv c'è una Via Jorge García Granados dedicata al diplomatico guatemalteco che nel 1947 presiedette il Comitato Onu che diede il via libera alla nascita di Israele, il Guatemala fu il secondo paese al mondo a riconoscere Israele e il primo a trasferire l'ambasciata a Gerusalemme, anche se nel 1980 l'aveva poi riportata a Tel Aviv. Il Guatemala inoltre è stato anche uno dei sette paese che all'Onu si sono schierati con Stati Uniti e Israele in occasione dell'ultimo voto su Gerusalemme: assieme Honduras, Togo, Stati Federati di Micronesia, Nauru, Palau e Isole Marshall.
"Malgrado siamo stati solo nove in tutto il mondo abbiamo la totale certezza e convinzione che è questa la rotta corretta", ha commentato Jimmy Morales.
Secondo quanto ha detto la viceministro degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely in una intervista a radio Kan Bet potrebbero essere addirittura dieci i paesi che starebbero per riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, pur senza necessariamente per questo trasferire l'ambasciata. Non ha detto i nomi, ma in Israele si dava per scontato che il prossimo a decidere il trasferimento della rappresentanza potrebbe essere a breve proprio l'Honduras. Si parla anche di Romania e Slovenia, mentre un riconoscimento di Gerusalemme Ovest come capitale di Israele è venuto da Repubblica Ceca e Russia.
(Il Foglio, 27 dicembre 2017)
Stati arabi temono il boomerang dell'intransigenza palestinese
Giordania, Egitto e Arabia Saudita danno vita a una super-commissione della Lega Araba per sottrarre ai palestinesi la questione Gerusalemme.
Giordania, Egitto e Arabia Saudita sono contrariati dal modo in cui l'Autorità Palestinese ha reagito al riconoscimento del presidente Usa Donald Trump che la capitale d'Israele è a Gerusalemme e alla sua decisione di trasferirvi l'ambasciata statunitense. Il Segretario Generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, ha annunciato nello scorso fine settimana che si metterà a capo di una nuova commissione composta dai ministri degli esteri di Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Autorità Palestinese con lo scopo di ideare una nuova politica su Gerusalemme. Secondo fonti a Ramallah, Cairo e Amman sentite da Israel HaYom, la decisione di istituire la nuova commissione è stata presa dopo che è parso evidente che gli sforzi dell'Autorità Palestinese per contrastare l'annuncio di Trump erano risultati del tutto inefficaci. "La decisione di istituire questa commissione è stata di fatto imposta all'Autorità Palestinese dall'Arabia Saudita, dall'Egitto e dalla Giordania con una decisione sostenuta dalla Lega Araba - ha detto a Israel HaYom un alto funzionario giordano - Si tratta di una super-commissione diretta dal Segretario Generale della Lega Araba, che di fatto pone la Lega Araba alla guida della politica su Gerusalemme sottraendola ai palestinesi. Gli sforzi fatti dai palestinesi per influenzare l'opinione pubblica sono stati un completo fallimento e come unico risultato hanno portato il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a creare una frattura tra il mondo arabo e l'amministrazione Trump. E così ci ritroviamo di nuovo in balia della vuota retorica, demagogica e incendiaria, del presidente turco Recep Tayyip Erdogan"....
(israele.net, 27 dicembre 2017)
Un drone in volo su piazza Navona blindata: nei guai due turisti israeliani
Ad individuarlo gli agenti della polizia locale, in questi giorni in presidio sul posto.
ROMA - Un drone in volo su piazza Navona blindata. Impossibile? Una follia? E' quanto accaduto oggi pomeriggio alle 14.30 quando due turisti israeliani hanno fatto alzare il quadricottero sulla piazza. Ad individuarlo gli agenti della polizia locale in questi giorni in presidio sul posto.
Seguendo il volo gli operanti, provenienti dalla Task Force del Comando Generale e dal gruppo Centro, sono arrivati a individuare il pilota, un giovane turista di nazionalità israeliana accompagnato da una connazionale che, completamente ignaro delle normative che regolano l'utilizzo di droni sulla Capitale, stava registrando immagini.
(Roma Today, 26 dicembre 2017)
Natale tra verità e menzogna
di Marcello Cicchese
Ieri, nel giorno che la tradizione religiosa collega (senza alcuna veridicità storica) alla nascita di Gesù, sono andato con la famiglia a visitare "Il paese dei presepi", dove in questo periodo case, alberghi ed edifici pubblici espongono all'aperto, visibili al pubblico, la loro particolare realizzazione di presepio. Nella cartina messa a disposizione dal comune, quest'anno ne appaiono più di duecento. Se ne vedono di tutti i tipi, dai più tradizionali e "veristici" ai più fantasiosi e simbolici.
E' consolante vedere che la venuta di Gesù sulla terra sia ricordata in qualche modo, ma per chi legge e ama i Vangeli è anche occasione di riflessione amara. Si direbbe che in tutto questo la storia vera non c'entri nulla. C'entra la tradizione del posto, i ricordi della vita del paese, la fantasia creatrice, l'ingegnosità tecnologica (in alcuni casi davvero notevole), le dolci emozioni, l'aspirazione alla fratellanza umana, l'invito a volersi bene (almeno per qualche giorno), ma i fatti nudi e crudi non c'entrano.
Ho messo questa esperienza a confronto con quella fatta pochi giorni prima nella scuola della mia nipotina, dove le classi avevano fatto la loro rappresentazione natalizia davanti a genitori e parenti. Lì Gesù non ha fatto la sua comparsa in nessuna forma: mai nominato, nessun riferimento a fatti storici avvenuti. Lì infatti la tradizione del passato non ha peso: quello che conta è il presente, l'attualità. E nel presente ci sono cristiani a cui di Gesù interessa poco o niente, ci sono musulmani, animisti, buddisti e religiosi di tutti i tipi che bisogna rispettare e convogliare verso la pacifica convivenza. E' questa la vera commemorazione del Natale, ci ha spiegato la maestra che guidava la rappresentazione.
Povero Gesù! potrebbe dire qualcuno; ma meglio sarebbe dire: poveri noi! Sì, perché nella venuta di Gesù sulla terra Dio è veramente entrato nella storia del mondo, e ha fatto questo visitando il suo popolo Israele. L'ha fatto non per condannare, né Israele né il mondo, ma per salvare l'uno e l'altro.
"Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (Giovanni 3:17).
So bene di non dire nulla di originale, né di coraggioso, almeno per ora, perché fino a questo momento nel nostro paese tu puoi dire quello che ti pare in fatto di religione e nessuno te lo impedirà. A patto però che questo non significhi niente nei fatti, ma sia solo libera espressione del tuo personale modo di sentire. E sui sentimenti personali nessuno ci mette bocca. In fondo - penserà qualcuno - lui è cristiano, e quindi non può che dire quello che dice la sua religione. Noi invece...
Alla fine però resta la domanda: è vero o no che Dio, il Creatore del cielo della terra, ha visitato il mondo nella persona di Gesù, il Messia di Israele, popolo particolare che Dio si è formato per la redenzione del mondo e la salvezza eterna di tutti chiunque crede in Lui? "Ma che razza di domande fai?" dirà qualcuno inorridito davanti a tanta impertinenza. "Queste domande non si fanno! Vuoi fare il talebano? Vuoi scannare i dissidenti come quelli dell'Isis? Tienti la tua verità e non invadere quella degli altri, se sei un vero amante della pace".
Sì, perché oggi la verità non è legata a Dio, il Creatore del cielo e della terra. Quella verità non c'è, perché Dio non c'è. La verità si crea, e siamo noi uomini a crearla, con il pacifico dialogo. Non abbiamo creato il cielo e la terra, è vero, e la cosa ci disturba un po', ma con tanta buona volontà stiamo cercando di armonizzare le diverse verità particolari che ciascun gruppo umano si costruisce sulla base del proprio retroterra storico ed emotivo. Certo, ciascuno di noi è tentato di accentuare eccessivamente la propria verità, come se fosse l'unica, mettendo a rischio la pacifica convivenza a cui tutti aneliamo. E' comprensibile e normale che ciascuno di noi ami e difenda la propria verità, come è normale che ciascuno ami e difenda la propria mamma, e la consideri unica al mondo; ma non deve esagerare al punto di arrivare a disprezzare le mamme altrui. Lo stesso si deve fare con le verità altrui. Come dice in sostanza anche l'attuale papa, quando manifesta la sua simpatia per chi dà un pugno a chi parla male della sua mamma.
Intollerabile è quindi l'impudenza di Gesù che, dopo essere stato il piccolo bambino nato in una stalla, da grande ha osato dire:
"Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Giovanni 14:6).
Chi scrive crede questo sia vero. E che sia vero per tutti, non solo per lui e qualcun altro della sua religione. Se però qualcuno si sente minacciato da affermazioni così categoriche (ed è comprensibile, vista la storia del passato), si deve aggiungere che la violenza, in qualsiasi forma, non può mai essere collegata all'annuncio di questa verità. Quando ciò avviene, non è più verità, ma menzogna. L'annuncio della verità può provocare violenza di reazione, ma anche davanti a questa non è lecito rispondere con violenza. Sia ben chiaro che questo non è pacifismo universale e assoluto, ma istruzione specifica per chi annuncia ad altri il messaggio di Gesù.
Tornando ai presepi, anche lì purtroppo verità e menzogna sono mescolati insieme, e si sa bene che certi miscugli possono essere micidiali. Ne sottolineo solo due.
Il quadro bucolico fatto di pastori, pecore, grotta, mangiatoia, stella e magi d'Oriente, è commovente, e forse qualcuno pensa che lì, dove è nato Gesù, è nato anche il cristianesimo, la nuova religione universale. In realtà, invece, quello che lì avviene, e anche quello che segue, dev'essere considerato un fatto all'interno della storia di Israele, che poi ha avuto grandiose conseguenze all'esterno.
"In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore." (Luca 2:8-11).
Tutto questo non ha alcun senso se non si sa chi è Davide, che cosa significa Cristo (Messia) e qual è il popolo di cui gli angeli parlano, che in quel contesto è il popolo di Israele, non la generica umanità.
Questo riferimento positivo a Israele è sottaciuto e da molti semplicemente ignorato.
Un altro riferimento, questa volta negativo, è altrettanto sottaciuto e da quasi tutti ignorato è la presenza di quei due dolci animali che con il loro fiato riscaldano l'infreddolito Bambino: il bue e l'asinello. Sono un muto riferimento a una parola del profeta Isaia:
"Il bue conosce il suo possessore, e l'asino la greppia del suo padrone, ma Israele non ha conoscenza, il mio popolo non ha discernimento" (Isaia 1:3).
Il messaggio è semplice: il bue e l'asino sanno riconoscere in Gesù il Messia, Israele invece no. In questo modo il discorso con Israele finisce lì e comincia il capitolo cristiano. Il messaggio subliminale antisemita è partito. Forse per questo l'ex papa Ratzinger, che evidentemente ne sa un po' di più dell'attuale papa simpaticone, avrebbe voluto che i due animali sparissero dai presepi. Ma non sembra che tutti l'abbiano fatto.
L'altro esempio è costituito dai magi d'Oriente. In tutti i presepi sono tre, e la tradizione ha pure dato i nomi: Baldassarre, Gaspare e Melchiorre. Tutto inventato, naturalmente, non i magi, ma i nomi e il numero. Da nessuna parte nei Vangeli sta scritto che i magi erano tre; sta solo scritto che portarono oro, incenso e mirra. Tre tipi di dono, non tre magi, che invece potevano essere anche molti di più. Ma soprattutto, i magi non dovrebbero apparire nel presepio per il semplice motivo che non erano presenti al momento della nascita di Gesù.
"Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo»" (Matteo 2:1, 2).
Dunque Gesù era già nato, e quando lo trovarono
"Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra" (Matteo 2:11)
Dunque al momento della visita dei magi Gesù era in una casa, non in una grotta. Dopo la visita i magi, divinamente avvertiti, non tornarono da Erode, che voleva sapere dov'era "il re dei Giudei" per ucciderlo. E per essere sicuro di eliminare questo pericoloso re,
"Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò moltissimo, e mandò a uccidere tutti i maschi che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio dall'età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era esattamente informato dai magi" (Matteo 2:16).
Il che significa che a quel tempo Gesù poteva avere un'età fino a due anni.
La tragica "strage degli innocenti" riportata dai Vangeli fa capire che dalla "buona notizia" di Dio agli uomini non ci si deve aspettare che porti sempre "pace e bene" a tutti, non per la qualità della notizia, ma per la qualità di coloro che ricevono la notizia.
In ogni caso, resta il fatto che secondo i Vangeli Gesù è il Messia promesso a Israele per la salvezza di tutti coloro che credono in Lui ed è il Re dei Giudei che un giorno governerà da Gerusalemme non solo sui Giudei, ma su tutto il mondo.
Il messaggio biblico di Natale è storia di Israele arrivata ai pagani per la loro salvezza; Santa Claus è storia dei pagani arrivata ai cristiani per la loro degenerazione.
Due giorni e un cuore da salvare, il bimbo siriano curato in Israele
Il trasporto d'urgenza da un campo profughi
Un bimbo di due giorni nato a Cipro da genitori rifugiati siriani è stato portato d'urgenza nelle scorse ore in Israele per risolvere un grave difetto cardiaco.
Il bambino, nato in un campo profughi a Cipro, è stato trasportato in aereo venerdì sera affinché sia sottoposto a un'operazione complessa al Sheba Medical Center a Tel HaShomer. Ad avvertire le autorità israeliane della situazione del piccolo, il ministero della Sanità cipriota che ha contattato l'ambasciatore israeliano a Cipro Sammy Revel e ha chiesto che al bambino fosse consentito di entrare in Israele e ricevere cure. Le autorità israeliane hanno acconsentito alla richiesta cipriota e hanno dato il permesso anche al padre di entrare. Come già raccontato dal Portale dell'ebraismo italiano, nel corso del lungo e tragico conflitto siriano, Israele ha prestato spesso aiuto ai civili siriani, curandoli nei suoi ospedali nonostante ufficialmente il paese sia considerato un nemico.
(moked, 25 dicembre 2017)
Il Guatemala sposta l'ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme
E' il primo Paese a seguire l'esempio degli Stati Uniti. Insieme ad altri otto ha votato contro la risoluzione dell'Onu che condanna la decisione di Donald Trump.
Arriva nel giorno di Natale l'annuncio che il Guatemala sarà il primo Paese a seguire l'esempio degli Stati Uniti nella questione dell'ambasciata in Israele. Il presidente del Paese del Centramerica, Jimmy Morales, ha infatti reso noto di aver dato disposizione per trasferire l'ambasciata del Guatemala da Tel Aviv a Gerusalemme.
"Querido pueblo de Guatemala, hoy he conversado con el Primer Ministro de Israel, Benjamin Netanyahu. Hablamos de las excelentes relaciones que hemos tenido como naciones desde que Guatemala apoyó la creación del Estado de Israel.
Uno de los temas de mayor relevancia fue el retorno de la Embajada de Guatemala a Jerusalén. Por lo que les informo que he girado instrucciones a la Canciller para que inicie las coordinaciones respectivas para que así sea.
Dios los bendiga."
Il Guatemala è stato uno dei nove Paesi che hanno votato contro la risoluzione dell'Onu che condanna la decisione di Donald Trump.
Immediata la reazione di Israele che si è congratulata con Morales per quella che ha definito una coraggiosa decisione: "La sua decisione prova che lei e il suo Paese siete veri amici di Israele" ha twittato lo speaker del Parlamento israeliano Yuli Edelstein.
(euronews, 25 dicembre 2017)
Iran: Gerusalemme capitale della Palestina
L'Iran ha approvato una legge sull'urgenza di riconoscere Gerusalemme (al-Quds) come la capitale permanente dello Stato di Palestina. La mozione è stata approvata ieri con 187 voti a favore, 15 contrari e 9 astensioni su un totale di 233 deputati presenti durante una sessione pubblica del Parlamento.
La misura sarà allegata all'articolo 1 di una legge che stabilisce il sostegno della Rivoluzione Islamica alla nazione palestinese. Il piano è stato ora deferito alla relativa commissione parlamentare e sarà inserito nell'agenda del Parlamento entro le prossime 48 ore. L'Iran, dall'inizio della Rivoluzione islamica del 1979, è da sempre il primo sostenitore della causa palestinese, ed ha invitato i musulmani di tutto il mondo ad unirsi contro il regime occupante di Israele che non riconosce.
La liberazione della Palestina resta sempre argomento centrale nell'agenda politica della Repubblica Islamica dell'Iran. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Ghasemi, ha dichiarato ieri che la Palestina rimarrà per sempre la questione chiave del mondo musulmano.
(Fonte: Il Faro sul Mondo, 25 dicembre 2017)
Video: la verità su Gerusalemme
In 4 minuti, alcune semplici realtà di fatto che mondo arabo, Onu e gran parte dei mass-media preferiscono ignorare
Alcuni sostengono che Gerusalemme è una città occupata. Ammettono che una volta era la capitale del popolo ebraico, ma sostengono che perse quel titolo circa duemila anni fa dopo che venne distrutta e i suoi abitanti ebrei vennero esiliati. E dicono che nel 1967 gli ebrei sono ricomparsi e hanno catturato Gerusalemme dal popolo palestinese. Dunque, se è così, perché il presidente Donald Trump vuole spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme? Ma ecco la verità su Gerusalemme e il popolo ebraico.
Gerusalemme fu la capitale del regno ebraico fondato da re David tremila anni fa. Suo figlio, re Salomone, vi edificò il primo Tempio nel luogo dove, secondo la tradizione, mille anni prima aveva avuto luogo il "sacrificio di Isacco". I Babilonesi distrussero il Tempio e esiliarono gli ebrei, ma gli ebrei ben preso vi fecero ritorno. Cinquecento anni dopo, i Romani distrussero il secondo Tempio....
(israele.net, 25 dicembre 2017)
I social soffocano la comunicazione
di Michael Strassfeld*
Recentemente un mio amico ha scritto un articolo apparso su queste pagine. Ho dato un'occhiata ai commenti postati sotto e sono rimasto scioccato da quanto fossero perfidi nei confronti del mio amico e degli altri commentatori. Quasi nessuno dei commenti si riferiva al contenuto del pezzo, erano tutti attacchi ad hominem contro lo scrittore o chi d'altro avesse commentato. Mi chiedo se questa gente avesse realmente letto il pezzo o semplicemente supposto il punto di vista dell'autore basandosi solo sul titolo. ''E' palese che odi Israele e ami i terroristi che ammazzano i bambini nel sonno'' era il commento più gentile. Comunque, non è una sorpresa che internet sia uno dei principali responsabili dell'incapacità della nostra società di intavolare un discorso civile. Nella comunicazione istantanea, le persone rispondono spesso a caldo, trascinate dall'enfasi del momento, e dicono cose che probabilmente avrebbero evitato se avessero avuto il tempo di rifletterci o se avessero dovuto scriverle e mandarle per e-mail.
Gran parte della comunicazione istantanea è poi anonima. Non potrò mai sapere chi sia davvero Banana321, ovvero chi mi augura di morire di una malattia dolorosa. Banana321 si sente libero di scrivere qualsiasi cosa gli passi per la testa, proprio perché sa che il suo commento risulterà anonimo. Sicuramente non farebbe mai tutti quei commenti che scrive in forma anonima ad una festa, di fronte a persone in carne ed ossa.
Il risultato qual è? Che internet invece di incoraggiare la comunicazione reale, la sta soffocando.
In questo periodo di festa, in qualità di rabbino, dichiaro vietato postare commenti anonimi sui social. Un rabbino liberale solitamente non emette una psak din (''decisione di legge''). Nel mondo ortodosso i più grandi studiosi giuristi sono i Poskim ("i decisori'' della legge ebraica) e io non mi pongo certo al loro livello. Ma i rabbini hanno pur sempre l'autorità e la responsabilità di applicare la tradizione ebraica alle questioni morali del nostro tempo e questo dev'essere fatto con attenzione e scrupolo, non a caso. Nel definire la mia opinione una psak din, voglio semplicemente sottolineare la serietà di questo problema nella nostra società. Lasciatemi spiegare perché credo che postare commenti anonimi debba essere vietato.
E' vietato perché, così facendo, vengono violati una serie di comandamenti/mitzvot della Torah:
Non porrai inciampo davanti al cieco (Levitico 19:14)
Non andrai qua e là facendo il diffamatore fra il tuo popolo (Levitico 19:16)
Non odierai il tuo fratello in cuor tuo (Levitico 19:17)
Amerai il prossimo tuo come te stesso (Levitico 19:18)
Scrivere commenti cattivi su altre persone è proprio la definizione di diffamazione, a cui i rabbini si riferiscono con l'espressione Lashon hara, letteralmente "malalingua". Postare commenti di questo genere in forma anonima, inoltre, pone sicuramente ''inciampo davanti al cieco''. I rabbini dichiarano poi che non sono proibite esclusivamente le azioni dettate dall'odio. Il versetto afferma che seppur non si realizzino azioni concrete, provare odio in cuore è comunque vietato. Scrivendo discorsi carichi di odio viene quindi chiaramente violato anche questo mitzvah/comandamento. Infine, '' amerai il prossimo tuo come te stesso'' (secondo qualcuno il fulcro della Torah) è l'esatto contrario della malalingua. Dal momento che molti mitzvot vengono violati postando in rete commenti perfidi in forma anonima, è importante evitare di postare anonimamente anche commenti benevoli, poiché così facendo si potrebbero autorizzare post anonimi che siano anche solo leggermente negativi. Vorrei anche specificare che il comandamento biblico di rimproverare chi sta sbagliando ("hokha 'ah tokhiah" - "riprendi pure il tuo prossimo" (Levitico 19:17) non può essere compiuto con un commento negativo postato online. Sebbene il rimprovero implichi inevitabilmente la critica, i rabbini sottolineano che bisogna rimproverare l'altro quando si trova nelle condizione di poter ascoltare l' ammonimento.
Non sarà certo un commento cattivo a cambiare il comportamento della gente. L'intento della critica dovrebbe essere quello di migliorare la persona a cui ci si rivolge, non ferirla o metterla in imbarazzo. Questo non è lo scopo del rimprovero. I rabbini, infatti, interpretano il finale di questo versetto come un divieto ad infangare pubblicamente l'immagine di qualcuno, divieto che si applica perfettamente all'online trolling.
I comandamenti del Levitico tracciano una società ideale, compassionevole, in cui l'amore per il prossimo è tale da muoverci a rimproverarlo con dolcezza e per il suo bene. E una visione sicuramente ambiziosa, ma in fondo essere santi vuol dire questo. In occasione dello Yom Kippur sforziamoci allora di essere quei santi che la Torah ci sfida a diventare. Riflettiamo sui nostri interventi online, se sia giusto mascherarsi dietro nomi falsi o scrivere sotto i nostri veri profili Facebook. Dopotutto Dio ha creato il mondo attraverso la parola e anche noi il nostro mondo, virtuale e reale, lo creiamo attraverso la parola.
* Society for the Advancement of Judaism New York
(Pagine Ebraiche, dicembre 2017)
Venezia - Dal Lido a Ca' Foscari, pietre d'inciampo per non dimenticare
Il prossimo 22 gennaio verranno istallate le targhe di ottone in memoria degli ebrei veneziani deportati e trucidati nei lager
di Eugenio Pendolini
LIDO - Anche il Lido, così come Venezia e le altre isole della laguna, non fu al riparo dai nefasti tentacoli dei campi di sterminio nazisti. E da gennaio, una pietra d'inciampo in via Orso Partecipazio sarà lì a ricordare ciò a cui la follia umana può portare: le vittime dell'olocausto durante la Seconda Guerra Mondiale, gente comune la cui vita fu travolta dall'approvazione delle leggi razziali. Il prossimo 22 gennaio, infatti, saranno posate tredici pietre d'inciampo in giro per la città, tra cui la prima al Lido. La cerimonia inizierà alle 9.30, al civico numero 4 di via Partecipazio. Qui sarà posta la piccola targa di ottone, della dimensione di un sampietrino (10cm x 10cm) e su cui sono incisi i nomi delle persone, l'anno di nascita, la data, il luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta.
Riporterà i nomi della famiglia Bassani (Edgardo, Franco, Tina e Nives Servadio), arrestati il primo dicembre del 1943 e deportati ad Auschwitz. Alle 11, nella sede centrale di Ca' Foscari sarà posata una pietra in ricordo di Olga Blumenthal Secrétant, lettrice di tedesco all'Ateneo deportata nel'44 a Ravensbruck, dove morì il 24 febbraio 1945, all'età di 71 anni.
Dopo una lectio magistralis tenuta da Gunter Demnig, ideatore nel '95 dell'iniziativa delle Pietre d'inciampo, la cerimonia di posa riprenderà intorno alle ore 14 nei pressi di San Moisè. Qui saranno inserite nel terreno due pietre in memoria di Giuseppe e Giulio Fano, arrestati il 5 giugno del '44 e deportati ad Auschwitz. Sempre a San Marco sarà ricordata Emma Gertrude Calimani, arrestata il 5 dicembre del '43 e deportata nello stesso campo di sterminio polacco, dove perse la vita nel febbraio del '44. Davanti al civico 5393 di Castello, una pietra porterà il nome di Bruno Bassani, nato in quella casa nel 1912 e lì arrestato nel dicembre del '43, prima di essere assassinato a Buchenwald.
All'Ospedale civile una pietra collettiva testimonierà i fatti accaduti nel '44, quando quindici pazienti ebrei furono prelevati con la forza dalle loro degenze per essere deportati nei lager nazisti.
Le ultime sette pietre d'inciampo saranno posate a Cannaregio, un sestiere sconvolto più di altri nel periodo nefasto delle deportazioni. Porteranno i nomi di Anna Bassani (civico 5373), di Gustavo Corinaldi (civico 1171), di Achille Aboaf (civico 1445), di Regina Aboaf (civico 1215), di Edoardo Bassani (civico 2874), di Ida Calimani Navarro (civico 1091), e infine di Aldo Levi (civico 105).
Le tredici pietre d'inciampo davanti alle case dei veneziani deportati che saranno posizionate il 22 gennaio si aggiungono alle 56 già incastonate a partire dal giorno della memoria del 2014, con la prima edizione dell'iniziativa. Attiva in laguna dal 2014, l'iniziativa è stata promossa dal Comune di Venezia, insieme alla Comunità Ebraica, al Centro Tedesco di Studi Veneziani, all'Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea (Iveser), Insula, e con il patrocinio del Consiglio d'Europa. Il progetto è aperto alla cittadinanza, e dà la possibilità di dedicare una pietra su commissione e di offrirsi per la manutenzione dei porfidi. Una mappa interattiva disponibile sul sito dedicato mostrerà l'esatta posizione delle pietre, dislocate tra Cannaregio, Castello, San Marco, San Polo, San Servolo e, dal prossimo gennaio, anche al Lido.
(la Nuova di Venezia, 25 dicembre 2017)
Le radici profonde dell'estrema destra austriaca. Il malessere che influenzò Hitler e Himmler
La Teutonia, l'antisemitismo prima del Führer, l'anticlericalismo. Il clima culturale che fece nascere il concetto di razza. E la svastica sotterrata, simbolo di Odino.
di Nicola Graziani
Joerg Haider
La coalizione di destra-destra, nata a Vienna sulle ceneri della Grosse Koalition di popolari e socialisti, forse ha radici ancora più profonde del semplice appeal esercitato, per anni, da Joerg Haider sull'elettorato moderato.
Rivolta contro il mondo moderno, soprattutto quello democratico e borghese; rivolta contro le presunte contaminazioni dei popoli stranieri, e di conseguenza elaborazione di una ideologia "voelkisch" (termine di difficile traduzione, ma somigliante al nostro "nazionalpopolare"). Con questi ingredienti venne creata in Austria, esattamente un secolo fa, una miscela esplosiva che permise successivamente al nazismo di attecchire in quasi tutto il mondo di lingua tedesca.
Allora come adesso gli sconvolgimenti politici che stavano portando alla fine dell'impero Austro-Ungarico avevano creato le condizioni per una reazione da parte di quanti temevano di perdere la propria identità culturale e nazionale in favore del mondo moderno che si andava delineando. Non a caso, da parte di molti commentatori internazionali, il successo dei liberali di Joerg Haider venne messo fin da subito in relazione con l'adesione dell'Austria all'Unione Europea e al suo ingresso nell'euro. In più, negli ultimi 10 anni si è intensificato il fenomeno migratorio, saldandosi con le paure accese dalla crisi economica internazionale.
Il vecchio sogno della grande Teutonia
Oggi come allora un paese di frontiera del mondo tedesco vive l'angoscia di chi teme di scomparire sotto l'onda d'urto dei popoli slavi o dei borghesi francesi e anglosassoni, se non degli islamici che qua si affacciarono nel 1693, a reclamare la loro libbra di carne a Vienna e ai suoi abitanti. È il vecchio sogno della grande "Teutonia" che si erge allora a bastione del mondo tedesco per preservarne l'integrità dalla contaminazione straniera (ieri slava oggi islamica) un sogno che proprio nell'Austria a cavallo tra ottocento e novecento trova i primi teorici.
Non è un caso che, mentre in Germania la svolta antisemita avviene al momento in cui si profila la crisi della proprietà fondiaria, a Vienna questo avviene al momento del crollo della borsa, nel 1873, avvenimento che fa esplodere le tensioni fra le varie culture ed etnie che coabitavano nella capitale dell'ultimo grande impero sovranazionale. Nasce allora un movimento pangermanista basato su una ideologia che mischiava tratti populistici ad un malinteso senso del cristianesimo, di cui fu pioniere Georg Ritter von Schoenerer, grande demagogo e grande oratore i cui discorsi infiammavano il giovane Hitler.
Il suo era un nazionalismo anti-internazionalista caratterizzato da un totale rifiuto del sistema borghese e capitalista, portatore degli odiati valori della democrazia. Il suo programma era il seguente: "Annessione al Reich, lotta contro le ingerenze straniere, libertà da Roma" (intesa come Vaticano). Logica conclusione un totale anticlericalismo, antisemitismo ed antislavismo. Lo slogan preferito è questo (a scanso di equivoci): "La religione, la tua vale la mia. È nella razza che c'è la porcheria". Lo scandivano i giovani della Lega di Gustavo Adolfo, che di Schoenerer erano entusiasti accoliti.
La religione, la tua vale la mia. È nella razza che c'è la porcheria.
Inutile dire che, più che con gli altri, gli austriaci suoi seguaci ce l'avevano con gli ebrei. Giunsero a chiedere al parlamento una legge che prevedesse un compenso per l'uccisione di ogni singolo ebreo, compenso che poteva corrispondere ai beni dell'ebreo ucciso. Questo non impedì al suo movimento di ottenere un grande successo elettorale nel 1901, esattamente un secolo fa.
Karl Lueger
Le influenze sul giovane Hitler, pittore a Vienna
Ma ancora più di Schoenerer, il giovane Hitler che vendeva acquerelli per le strade di Vienna apprezzava Karl Lueger. Anche lui sedicente "cristiano sociale", viveva nel sogno di riportare l'Austria ad una mitica società medievale retta dai cavalieri, nutrita dai contadini e che metteva al bando l'usuraio ebreo. Proprio questa illusione fece presa su tanta parte della società austriaca, che da diverso tempo aveva imparato purtroppo ad apprezzare le teorie fantasiose e pericolose di quanti si prefiggevano lo scopo di tornare persino all'antica religione precristiana. È il caso di Guido von List, che sognò la restaurazione del wotanismo (l'antica religione di Odino-Wotan) passeggiando da giovane nelle catacombe che si trovano sotto il duomo di Vienna.
L'austronazismo, e la svastica
Il giovane List (il "von" se lo era aggiunto da solo al cognome) si recò immediatamente nella città di Carnuntum, dove i germani nel 380 dopo Cristo avevano fondato il Limes costantiniano dilagando nei secoli successivi per tutto l'impero romano. Lui ed alcuni amici, una notte, scavarono una buca sotto i resti della porta della città per seppellirci una croce uncinata. Fu quella la prima volta in cui l'austronazismo scelse la svastica (ritenuta simbolo del sole ed oggetto magico usato da Odino per separare le quattro componenti della materia: acqua, fuoco, terra ed aria) come proprio simbolo.
L'uomo è un animale bastardo creato dalla contaminazione dei superuomini ad opera dei pigmei. Occorre tornare alla purezza originaria.
Preferiva invece la croce templare Joerg Lanz von Liebenfels, creatore del "nuovo ordine templare", un ex frate di un convento alle porte della capitale austriaca. Scrisse un solo libro, un tomo di migliaia di pagine "Teozoologia". La tesi è la seguente: l'uomo è un animale bastardo creato dalla contaminazione dei superuomini ad opera dei pigmei. Occorre tornare alla purezza originaria. Inutile dire chi Lanz, che aveva elaborato le sue teorie osservando un sarcofago medievale scoperto nel convento dal quale poi sarebbe stato cacciato, considerasse i pigmei per eccellenza. Si è vociferato che fra i suoi amici, vi fosse, immancabilmente, Adolf Hitler. Non è mai stato provato. Ma questo non impedì di influenzare, e non poco, un altro tedesco. Heinrich Himmler, creatore delle SS.
(AGI, 25 dicembre 2017)
Il vero antisemitismo in Europa è politically correct
di Francesco Bechis
"L'antisemitismo contemporaneo è il motore del terrorismo internazionale". Parola di Fiamma Nirenstein, membro del Jerusalem Center for Public Affairs, giornalista e scrittrice con una carriera in prima linea a difendere il diritto all'esistenza di Israele, una causa che dal 2001 la costringe a girare sotto scorta. Intervenuta martedì all'incontro "Violent extremism, Hate Speeches. Nuove forme di antisemitismo" organizzato dal Centro Studi Americani e dal Bene' Berith Roma, cui hanno preso parte, fra gli altri, l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata e il sociologo Giorgio Tabasso, ha fatto il punto sul pericolo dell'antisemitismo in Italia. Un tema ritornato al centro del dibattito politico con il disegno di legge di Emanuele Fiano e alcune manifestazioni razziste all'interno degli stadi italiani. Fiamma di nome e di fatto, la giornalista fiorentina non ha lesinato critiche alle strumentalizzazioni che vogliono confinare il fenomeno ad una sola estrema. "Esiste oggi un antisemitismo non politically correct, cui non faccio alcuno sconto, che è legato all'estrema destra, vedi in Grecia Alba Dorata, e poi ancora in Polonia ed Ungheria" spiega Nirenstein, "ne esiste però uno più grande e pericoloso, è l'antisemitismo eliminazionista, contro gli ebrei e lo Stato di Israele nel suo complesso".
Pur restando la gravità del gesto, non sono le figurine di Anna Frank con la maglia della Roma che preoccupano la giornalista di origini ebraiche. "Chissenefrega di quella banda di deficienti, questo antisemitismo stragista ha tutto un altro carattere". Non dunque le celtiche o le svastiche sarebbero il volto più violento dell'antisemitismo in Europa, ma l'antisionismo, la negazione di un diritto all'esistenza per lo Stato di Israele. È un sentimento, racconta la Nirenstein, che affonda le sue radici nel Medio Oriente, in una larga parte della famiglia islamica, ma che è divenuto "un'ossessione per i politici e le istituzioni europee, il pane quotidiano delle organizzazioni umanitarie come Amnesty International, una pioggia quotidiana di risoluzioni Onu contro Israele e mai contro l'Iran e l'Arabia Saudita". Dura la denuncia della risoluzione Onu del novembre 2016 contro gli "insediamenti" israeliani, canto del cigno dell'amministrazione Obama che la Nirestein non esita a definire "un crimine" perché "ha dichiarato, con l'inaspettato supporto della delegazione americana, che Gerusalemme è territorio palestinese".
Non solo la politica è responsabile di aprire quotidianamente le porte al risentimento anti-israeliano. La scrittrice accusa di complicità anche il sistema mediatico europeo, che sotto le spoglie del blasone e della credibilità dei grandi giornali darebbe voce alla sola causa palestinese. A cominciare dalla stampa made in Italy: "Ricordo quando una giovane donna palestinese si fece saltare in aria uccidendo quindici persone, e venne iconizzata dal Corriere della Sera e da Repubblica" accusa la Nirestein. Che poi punta il dito sulla Chiesa Cattolica, "che si è sempre tirata indietro dal difendere gli ebrei, per paura di una reazione del mondo musulmano-egiziano".
Più diplomatico l'intervento di Giulio Terzi di Sant'Agata, che non a caso della diplomazia ha fatto la sua carriera, dapprima come Ambasciatore italiano all'Onu e in Israele, e per ultimo come titolare della Farnesina. Non nasconde però la sua simpatia per le battaglie e le accuse della Nirestein, che si sente di confermare dall'alto degli anni trascorsi nelle cancellerie estere. Per l'ex ministro del governo Monti non ci sono dubbi, l'antisemitismo oggi è primariamente una manifestazione interna al mondo islamico. E in particolare di una famiglia di fedeli di Maometto, perché se è senza dubbio vero che "esiste un fondamentalismo di matrice sunnita, quello sciita è più importante per risorse e capacità di penetrazione". Un odio atavico che non rimane confinato in Iran o in Palestina, ma ha messo le radici in molte delle comunità islamiche europee, soprattutto in Italia, dove "cinque delle sei principali associazioni sciite dimostrano una chiara associazione antisemita". È il caso di Assadakah, spiega Terzi, "che organizza settimanalmente convegni cui partecipano personaggi di Hezbollah sulla lista dei terroristi del dipartimento di Stato americano, ma anche autorevoli membri della politica italiana".
C'è infine frustrazione, continua l'ambasciatore, per un vuoto legislativo italiano sul contrasto alla radicalizzazione che non ha eguali in Europa. Un tentativo era giunto con la proposta di introdurre il reato di integralismo islamico firmata da Giorgia Meloni, e poi con il disegno di legge di Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli sulla prevenzione del radicalismo jihadista. "La prima è stata respinta automaticamente, succede così in Italia per le proposte delle opposizioni" chiosa Terzi, "il secondo", conclude, "ha aspettato 18 mesi per poter vedere la luce del giorno alla Camera, ma pare che continuerà a slittare ".
(Kolot, 24 dicembre 2017)
Israele: 400 attacchi sventati nel 2017, 13 suicidi
Nel 2017 lo Shin Bet (la sicurezza interna di Israele) ha sventato "400 attacchi, 13 di questi suicidi e 8 rapimenti". Lo ha fatto sapere il capo il direttore del servizio Nadav Argaman intervenendo ad un'audizione alla Knesset.
Argaman ha anche specificato che lo Shin Bet ha prevenuto "1.100 attacchi potenziali da parte di 'lupi solitari'". 54 invece gli attacchi compiuti nello stesso anno, in decrescita rispetto ai 108 del 2016. Tuttavia - ha ammonito - la diminuzione non deve trarre in inganno: "Hamas sta cercando al suo meglio di portare attacchi e di minare la stabilità dell'Autorità nazionale palestinese (Anp)".
Sia a Gaza sia in Cisgiordania, la situazione - ha aggiunto - "è instabile specialmente dopo la dichiarazione di Trump" e la realtà nella Striscia "è più che mai di sfida".
(swissinfo.ch, 24 dicembre 2017)
Israele, contro i Bitcoin lo shekel avrà una criptovaluta
L'utilizzo di questa moneta digitale aiuterebbe nella battaglia all'economia del sommerso
Una banconota da 200 shekel, pari a circa 48 euro
Bitcoin al posto del contante. Mentre i primi sono soggetti a fluttuazioni in odor di "bolla di svalutazione", l'idea che criptovalute gestite dalla banca centrale di un Paese possa diventare una moneta digitale alternativa sembra poter diventare una realtà.
Sull'ipotesi, come rivela in esclusiva il quotidiano Haaretz, ci starebbe lavorando la Banca d'Israele come sostituto del denaro contante: «invece di portare in giro una banconota da 200 shekel (che attualmente vale circa 48 euro), gli israeliani potrebbero semplicemente avere una linea di codice sul loro smartphone che rappresenta 200 shekel».
La maggior parte delle nostre transazioni avviene in forma digitale, con pagamenti elettronici usando carte di credito o bonifico bancari online. Ma questi sistemi si basano su società di gestione delle carte di credito o su una banca per permettere il passaggio di denaro da un soggetto all'altro: il tutto passa sempre attraverso un conto bancario.
L'idea di usare la criptovaluta, invece, sarebbe simile al sistema dei contanti che passano da una mano all'altra senza intermediazione attraverso smartphone. Al centro del sistema ci sarebbe la Banca di Israele, l'equivalente della Banca d'Italia, che fornirebbe le criptovalute così come fornisce i contanti alle banche: entrerebbero in circolazione dalle normali banche, sportelli automatici o con lo scambio fra persone.
A differenza del contante che perde ogni tracciabilità una volta emesso, spiega il quotidiano Haaretz nessuno potrebbe fare un uso anonimo del denaro. Ciò diventerebbe un utile strumento per combattere l'economia del sommerso che si basa proprio sul contante e che attualmente vale circa il 22 per cento del prodotto interno lordo del paese. Transazioni che per lo Stato equivalgono in tasse non riscosse a un importo quasi uguale al budget per l'istruzione del Paese. Un'economia sommersa in contanti che viene usata anche per finanziare le attività terroristiche.
(La Stampa, 24 dicembre 2017)
"Così Israele può far convivere passato e futuro"
Erel Margalit ha fondato 24 anni fa Jvp (Jerusalem Venture Partners), il principale fondo di venture capital
israeliano, che apporta innovazione e spirito imprenditoriale alle più pressanti sfide politiche, economiche e sociali di Israele. È stato scelto da Forbes come principale VC (Venture Capitalist) al di fuori degli Usa e definito dalla prestigiosa rivista finanziaria israeliana The Marke il primo venture capitalist dal tocco magico.
- Che cos'è oggi Jvp?
«Un fondo di venture capital con due centri di eccellenza, uno a Gerusalemme e uno a Be'er Sheva che include il principale incubatore di Israele nel campo della sicurezza informatica. Nel corso degli anni, Jvp ha contribuito a creare oltre 120 società e le ha spinte a diventare leader sul mercato globale. Siamo particolarmente interessati alle tecnologie nei settori dell'analisi dei dati, apprendimento profondo, cybersicurezza, software e archiviazione. Collaboriamo con le principali aziende tecnologiche per portare la rivoluzione digitale in tutti i settori, bancario, automobilistico, assicurativo, sicurezza, vendita al dettaglio e media».
- Come operate?
«Incontriamo e valutiamo oltre mille aziende all'anno, gruppi di giovani che hanno avuto un'idea. Possono nascere dalle forze armate israeliane e dalle loro forti unità tecnologiche o dalle istituzioni accademiche e, a volte, troviamo opportunità scartate dalle grandi industrie. I fondatori di solito sono persone molto brillanti che hanno bisogno di una guida per avere successo. Investiamo su otto-dieci aziende ogni anno lavorando a stretto contatto con il team fondatore e sviluppando il prodotto e il raggio di azione sul mercato. Abbiamo forti legami con i leader globali (recentemente abbiamo ospitato il leader francese Macron) e le multinazionali come Alibaba. Li ospitiamo spesso per imparare dalla loro esperienza di mercato e sapere quali problemi e soluzioni vedono nel mondo».
- Le start-up in genere hanno successo?
«Spesso sì, ma solo poche diventano grandi aziende. Come la CyberArk, che si occupa di sicurezza informatica e su cui avevamo investito nel 2001. Ragazzi partiti svantaggiati nella vita che hanno avuto un'idea eccezionale. Ci hanno messo anni per espandersi in Israele, negli Stati Uniti, in Europa e in tutto il mondo e nel 2011 hanno ricevuto un'offerta di acquisto di 150 milioni di dollari. Noi pensavamo fosse prematuro, gli altri investitori della compagnia volevano vendere e alla fine abbiamo detto: "Vi compreremo noi". Tre anni dopo l'abbiamo quotata in Borsa e ora è valutata a quasi 2 miliardi di dollari. È un esempio di come procediamo: a stretto contatto con le aziende e pronti a ulteriori investimenti se vediamo potenzialità».
- Cosa succede nel mondo oggi?
«La rivoluzione digitale sta cambiando le aziende, una categoria dopo l'altra e la maggior parte dei marchi oggi noti cambierà o sparirà nel giro di dieci o 15 anni. Penso a un'azienda di abiti che temeva che la concorrenza li avrebbe buttati fuori dal mercato: ci hanno contattato per comprendere meglio i giovani che sono il loro target, le tendenze e le loro preferenze e cosa potevano fare per coinvolgerli. La moda è solo uno dei fenomeni culturali odierni. Attraverso i vestiti si possono comprendere un sacco di cose, dalla musica alle preferenze culturali. Oggi l'azienda è in grado di trovare nei propri dati la chiave per rivolgersi alle nuove generazioni».
- E le sue ambizioni politiche?
«Ho fatto parte per cinque anni del Parlamento, promuovendo lo sviluppo economico in Israele e nell'intera regione. Quello che stiamo facendo qui in Jvp non è solo un fenomeno aziendale. Quando abbiamo iniziato, avevamo un obiettivo, dare a una città come Gerusalemme, che regge il peso di un enorme patrimonio storico, una nuova grande narrativa sull'innovazione e la convivenza. C'erano molti problemi di sicurezza in città e tanti avevano paura di andare al ristorante o di mandare i propri figli a scuola. Gerusalemme era la città più povera d'Israele, e molti giovani se ne stavano andando via. Quello che abbiamo fatto qui, unendo affari e cultura, ha cambiato il modo in cui i giovani vedevano se stessi e la città, e ha fatto loro capire che avrebbero potuto avere successo a Gerusalemme. Abbiamo dato a Gerusalemme una nuova storia creando un luogo in cui passato e futuro lavorano insieme. Oggi che su Gerusalemme si sta accumulando tanta tensione, vogliamo ricordare ai politici che innovatori, creativi, giovani, vogliono una città dove la convivenza non sia solo una frase, ma un modo di vivere. Dove i politici vedono la disperazione, gli imprenditori trovano una via e portano speranza».
- E il progetto della comunità di Bakehila?
«È stato messo a punto da mia moglie Debbie e da me ed è il più grande progetto di educazione sociale della città, che offre ai bambini svantaggiati la possibilità di avere successo. Quando unisci innovazione, arti applicate e sensibilizzazione sociale stai operando una trasformazione. Un'altra cosa che sto facendo è portare innovazione per collegare Israele con altri Paesi moderati nella regione. Se l'innovazione può trasformare un Paese, forse può costruire i primi ponti nell'intera regione. Saranno gli imprenditori a fare breccia perché la maggior parte dei politici è ancora intrappolata da vecchi concetti e vecchie idee».
(La Stampa, 24 dicembre 2017 - trad. Carla Reschia)
Gerusalemme. L'ultima grande e vergognosa buffonata dell'Onu
di Debora Faith
Molti amici, commentando il voto dell'ONU contro Gerusalemme capitale di Israele, hanno scritto una sola parola "Chissenefrega", a significare che quel voto, vergognoso, non ha nessun valore pratico perché Gerusalemme è comunque la capitale di Israele, lo è sempre stata, lo sarà per sempre e nessuna ignominia può cambiare la realtà. Quel voto è stato un ennesimo affronto, fatto di odio e di viltà, contro Israele e contro Donald Trump che ha voluto dare un senso alla risoluzione su Gerusalemme capitale passata al Congresso americano nel 1995.
Si, chissenefrega, sono d'accordo fino a un certo punto, perché a Israele l'essere tollerante, il rassegnarsi alle risoluzioni ONU con la certezza che tanto non hanno valore, che sono buffonate astiose, che tanto noi sappiamo di aver ragione, che prima o poi capiranno i nostri diritti storici e politici sulla Terra che abitiamo e che abbiamo trasformato in un bellissimo giardino, non ha portato mai nulla di buono.
Prima ci hanno scippato più di metà del territorio che ci avevano assegnato nel 1919 e nel 1922, poi gli arabi ci hanno assaliti con le loro guerre, le hanno perse tutte ma hanno dettato legge come se le avessero vinte.
Si sono appropriati di quell'identità -palestinese - che era degli ebrei da sempre, dopo la distruzione di Gerusalemme e del Regno di Israele e Giuda.
Hanno fatto terrorismo seriale e, con le loro sceneggiate e i civili usati come scudi umani, ci hanno fatto passare dalla parte del torto di fronte alla comunità internazionale, solo perché ci difendevamo.
Dopo la guerra del 67 abbiamo lasciato il Monte del Tempio in mano islamica in segno di generosità poiché là si trovava anche la moschea di Al Aqsa e da quel momento ci è stato proibito salirvi per pregare, è vietato persino muovere le labbra in una preghiera silenziosa.
La propaganda di Pallywood è riuscita a far credere al mondo che non esiste nessun legame tra il popolo ebraico e Gerusalemme e la Terra di Israele. E noi, buoni, a dire sì ma tanto la storia non si può cambiare, 3000 anni di storia non si cancellano, prima o poi capiranno che siamo noi gli autoctoni in Erez Israel, non gli arabi.
Capiranno? Non hanno capito un bel niente perché non gli interessa capire e l'ONU apre tuttora ogni sessione settimanale e mensile con un ordine del giorno fisso: condannare Israele, sempre e solo Israele. Via via, ci hanno tolto i nostri siti storici e religiosi più importanti, parte della nostra storia millenaria e li hanno trasformati in siti islamici: la Tomba di Rachele, la Tomba di Giuseppe, le tombe dei Patriarchi e delle Matriarche, il Kotel, Muro del Pianto, bagnato delle lacrime degli ebrei al ricordo della distruzione del Tempio da parte dei Romani.
Ci hanno tolto tutto e con il voto di giovedì scorso hanno decretato "il disconoscimento di ogni legame tra il popolo ebraico e Gerusalemme, oggi si rifà la storia" hanno detto.
Quindi per i 128 paesi che ieri all'ONU hanno votato si, gli ebrei non esistono in quanto popolo legittimo di Israele. Dovremmo lasciare la nostra terra ai palestinesi che stanno esultando.
L'Europa che ha votato vergognosamente contro Gerusalemme capitale di Israele, ha confermato la volontà di continuare quello che aveva iniziato nel secolo scorso, torturare, tormentare gli ebrei, se possibile, farli scomparire e allargare in Medio Oriente quello che, sul suolo europeo, è il più grande cimitero ebraico del mondo con 6 milioni di morti.
Non si rendono conto, nella loro pusillanimità, che stanno usando il loro odio antisemita contro se stessi perché sarà l'Europa, che giovedì ha dato un calcio anche alle proprie radici cristiane, a scomparire divorata dall'islam, spariranno le democrazie, spariranno la cultura e la civiltà e le nazioni che oggi vogliono annientare Israele, un domani non così lontano, assisteranno inermi e tremebonde, all'invasione dei "figli di Allah".
Israele no, Israele non sarà mai cancellato, Israele ha dimostrato di cosa è capace vincendo tutte le guerre di attacco di arabi armati fino ai denti. Israele ha vinto anche quando Tzahal mandava un' unica jeep a correre di duna in duna per far credere al nemico di essere tanti. Israele ha vinto grazie al coraggio del suo popolo e del suo esercito fatto dei nostri figlie e figli, così moralmente forti da riuscire a non reagire se una stronzetta palestinese, prima attrice di Pallywood, li va a prendere a sberle, sicura che nessuno l'avrebbe toccata.
L'Italia ha fatto, come tutta l'Europa una figura abominevole, tutti insieme hanno tradito l'unica democrazia viva e vitale del Medio Oriente e, presto, se continueranno a darsi la zappa sui piedi, di tutto il bacino del Mediterraneo. Hanno tradito un alleato per lisciare il pelo al sultano e agli altri dittatori del mondo arabo-islamico.
Mi vergogno per loro e spero che le comunità ebraiche ricordino questo tradimento il prossimo 27 gennaio, Giornata della Memoria della Shoah e rifiutino di ricordare i nostri milioni di morti accanto ai traditori della politica.
Ricordiamo e piangiamo la Shoah per contro nostro e andando a parlare nelle scuole per evitare che il veleno antisemita infetti i giovanissimi che, con Pallywood e i suoi divulgatori, sono in serio pericolo.
I politici italiani devono essere lasciati soli con la loro vergogna. Giovedì, 21 dicembre, l'Assemblea Generale dell'ONU, con 128 scandalosi voti, ha abbandonato e calpestato Israele per l'ennesima volta. Ricordiamola questa data e ricordiamo quei nomi, come hanno detto Trump e Nikki Haley, facciamo in modo che sia l'ultima ignominia contro il popolo ebraico e la sua Terra.
(Osservatorio Sicilia, 24 dicembre 2017)
Salviamo la Sinagoga Beth Shlomo
Appello dellAssociazione Amici di Israele di Milano
Cari amici e amiche, abbiamo bisogno del vostro aiuto per tenere in vita un importante pezzo dell'Ebraismo Italiano, la storica sinagoga Beth Shlomo Sheerit Haplità, I sopravvissuti. la cui origine fu nel campo di internamento di Ferramonti.
La sinagoga, salita lungo lo stivale con gli eroici combattenti della Brigata Ebraica fino a Milano dove ha trovato sede in Via Unione 5, ex sede della Brigata Fascista Amatore Sciesa, ha ricevuto ultimamente il prestigioso riconoscimento Ambrogino D'oro dalle mani del Sindaco di Milano. Questa storica sinagoga di Milano fu fondata dai sopravvissuti allo Shoah quando nell'immediato dopo guerra la sede provvisoria di via Unione divenne infatti il punto di raccolta per i sopravvissuti nel loro viaggio verso Israele, viaggio allora clandestino ed organizzato dai soldati della Brigata Ebraica. Da allora la sinagoga ha cambiato sede un paio di volte fino a stabilirsi nella sede attuale di Corso Lodi 8/c a Milano, tenendo sempre gli arredi originali di Via Unione, l'Armadio Sacro e i Rotoli originali del campo di internamento di Ferramonti.
La sede di Corso Lodi 8 è anche la sede dell'associazione Amici di Israele Nazionale (ADI) e del centro studi nazionale della Brigata Ebraica con un piccolo museo e uno spazio multimediale per organizzare serate gratuite aperte a tutti in tema Ebraismo/Israele/Brigata Ebraica. Tutte le funzioni del centro culturale, sinagoga compresa, sono aperte gratuitamente a tutta la cittadinanza senza distinzione di religione o nazionalità. Abbiamo urgente bisogno del vostro aiuto per tenere in vita questa perla di amicizia, fratellanza e storia. Ogni cifra sarà gradita, quelli che faranno un bonifico mensile di almeno 50 Euro per due anni, avranno una targa a loro nome come sostenitori del centro culturale Beth Shlomo
all'interno dei locali.
Vi preghiamo di diffondere l'appello a tutti i vostri amici e contatti. Grazie di cuore.
Eyal Mizrahi - Presidente ADI
Davide Romano - Assessore alla cultura della comunità Ebraica di Milano
Eugenio Schek - Curatore della sinagoga Beth Shlomo
(Associazione Amici di Israele di Milano, 24 dicembre 2017)
Gerusalemme è e resta capitale; l'intifada è un'altra cosa
Lettera al Giornale
Gentile Caputo, Trump non aveva finito di illustrare la decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele che già i palestinesi annunciavano l'ennesima intifada, la quinta, per l'esattezza. Ma a tutt'oggi della promessa intifada non si vede l'ombra. Gli stessi palestinesi sembrano non crederci più. Qualche scaramuccia, qualche morto, purtroppo, pochi disordini e lancio di sassi, ma niente di simile rispetto a quelle che negli anni passati monopolizzavano per settimane giornali e tg. Più che i diretti interessati, hanno fatto più rumore quei Paesi musulmani che da sempre lucrano sulla situazione dei palestinesi. Trump comunque un risultato lo ha ottenuto: ha portato gli Stati Uniti fuori dallo stallo nel quale si trovavano, schierandoli chiaramente dalla parte israeliana, anche per bilanciare l'espansione russa nell'area. C'è da augurarsi che anche l'Onu e l'Ue adottino provvedimenti, come hanno fatto gli Usa, che scuotano dall'apatia l'incancrenita situazione mediorientale, riportando tutti a un negoziato attivo.
Rocco Bruno
L'annunciata nuova intifada per protestare contro la decisione di Trump di riconoscere formalmente Gerusalemme come capitale di Israele è stata un fiasco anche superiore al previsto: poche migliaia di giovani sono scesi in piazza nella Cisgiordania controllata da al-Fatah, e a Gaza perfino Hamas, che aveva promesso fuoco e fiamme, si è limitata al lancio di qualche razzo. Il numero dei morti è stato quasi irrisorio per lo standard mediorientale. Le ragioni sono molteplici, anche se tutte intrecciate fra loro. I palestinesi hanno perso la fiducia di ottenere lo Stato che da decenni viene loro promesso, ma che i loro leader, incapaci o renitenti a trattare con Israele su basi ragionevoli, sono riusciti a creare solo sulla carta (nel senso di presenza all'Onu e riconoscimenti internazionali). Il mandato di Mahmoud Abbas, ormai ottantenne, è scaduto da otto anni, ma nuove elezioni non sono neppure contemplate, anche perché il settimo patto di riconciliazione con Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, è fallito come i precedenti. Nel resto del mondo arabo, la causa palestinese interessa sempre meno, e il blocco sunnita appare addirittura più ansioso di stringere accordi sottobanco con Israele in funzione anti-iraniana che a sollevare conflitti per Gerusalemme. La popolazione, sentendosi abbandonata, appare più preoccupata da disoccupazione, povertà e corruzione che dalla conquista di un proprio Stato, al punto che ben quattromila abitanti arabi di Gerusalemme- Est hanno chiesto la cittadinanza israeliana e a Gaza, ridotta in miseria e perennemente sotto assedio, c'è addirittura chi rimpiange i tempi dell'occupazione. Se ne può concludere che l'iniziativa di Trump non ha probabilmente giovato a rilanciare un processo di pace attualmente inesistente, ma non l'ha neppure allontanato, come ha cercato invece di sostenere, con l'improvvido sostegno degli europei, il Consiglio di Sicurezza.
Livio Caputo
(il Giornale, 24 dicembre 2017)
La Danimarca taglia gli aiuti alle ONG palestinesi colluse con il Movimento BDS
Coraggiosa decisione della Danimarca che decide di tagliare i finanziamenti a quelle ONG palestinesi colluse con il Movimento BDS e con le organizzazioni terroristiche.
Con una decisione veramente coraggiosa, visto i tempi che corrono, la Danimarca ha deciso di tagliare gli aiuti a 14 ONG palestinesi dopo che una indagine interna condotta dal Ministero degli Esteri danese aveva scoperto che queste ONG palestinesi usavano il denaro per finanziare operazioni di terrorismo o di boicottaggio contro Israele invece di usarli per progetti di sviluppo e assistenza.
Lo ha comunicato ieri sera lo stesso Ministero degli Esteri danese che oltre a questo ha fatto sapere di aver introdotto misure molto più restrittive per l'accesso ai fondi della cooperazione danese tra le quali il divieto tassativo di avere qualsiasi forma di legame con il Movimento BDS....
(Right Reporters, 24 dicembre 2017)
Gesù sale a Gerusalemme
Gesù andava avanti, salendo a Gerusalemme. [...] Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste, dicendo: «Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in cielo e gloria nei luoghi altissimi!» Alcuni farisei, tra la folla, gli dissero: «Maestro, sgrida i tuoi discepoli!» Ma egli rispose: «Vi dico che se costoro tacciono, le pietre grideranno». Quando fu vicino, vedendo la città, pianse su di essa, dicendo: «Oh se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata».
Dal Vangelo di Luca, cap. 19
«L'Onu e alcuni paesi europei sono ossessionati da Israele. Ma Gerusalemme è nostra»
Parla Michael Oren, ministro e storico israeliano
di Giulio Meotti
Michael Oren
ROMA - "Le Nazioni Unite hanno negato il legame del popolo ebraico con Gerusalemme, hanno negato la storia ebraica, hanno lanciato un assalto all'identità ebraica e per me la negazione del Monte del Tempio è come la negazione della Shoah, questo è puro antisemitismo". E' furioso Michael Oren con la risoluzione che giovedì all'Assemblea generale dell'Onu ha condannato la decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, spostando lì l'ambasciata. Attuale viceministro del governo Netanyahu con delega alla diplomazia pubblica, ex ambasciatore negli Stati Uniti, membro del partito centrista Kulanu, portavoce dell'esercito israeliano nelle guerre in Libano del 2006 e a Gaza del 2009, Oren è anche lo storico che ha scritto "Six Days of War", il libro di riferimento per la guerra del 1967.
"Parliamo di una città, Gerusalemme, citata 669 volte nella Bibbia ebraica", prosegue Michael Oren al Foglio. "Negarlo è delegittimare il popolo ebraico. Non è uno statement politico, ma ideologico". Come spiegarsi quel voto clamoroso di 128 voti a favore e 9 contrari all'Onu? "C'è la maggioranza automatica con 57 paesi islamici che hanno risorse e voti. Ma c'è un livello che va oltre la diplomazia e riguarda il pregiudizio. Ci sono duecento contese territoriali nel mondo, ma l'Onu parla solo di Israele. Nessuno si cura dei palestinesi massacrati in Siria. L'Onu sta mostrando una insana ossessione per gli ebrei e Israele". Da più parti si auspica Gerusalemme città aperta a tutti. "Gli ebrei sono a due ore di auto dai massacri della Siria, a due ore dal Sinai, a sette ore di auto da Baghdad, a un'ora di auto da Gaza" prosegue Oren. "E hai questa città come Gerusalemme santa per tutta l'umanità e che Israele mantiene in pace, dove protegge la libertà di religione, diritti per tutti, da mezzo secolo. E' un grandissimo traguardo per Israele. Dal 1967 la popolazione araba è triplicata a Gerusalemme. Se visiti la città puoi vedere come i nuovi palazzi siano quasi tutti nella parte orientale. La popolazione cristiana in Israele è cresciuta del mille per cento dal 1948. Ci sono cristiani ovunque in Israele, nell'esercito, nelle università, nelle corti giuridiche, e questo avviene mentre ovunque i cristiani stanno scomparendo. Israele è un paradiso per loro. Conosco ogni chiesa di Gerusalemme perché me ne occupavo per conto di Yitzhak Rabin".
Tranne il gruppo di Visegrad, l'Europa si è schierata contro America e Israele al Palazzo di vetro. "Ho incontrato ieri ministri e ufficiali europei, abbiamo relazioni stupende con l'Europa, che è il nostro partner economico principale. Ma perché allora marchia i nostri prodotti? L'Europa ha un ruolo importante qui nel lavorare con i palestinesi e questi tipi di risoluzione squalificano l'Europa. Oggi l'Europa occidentale è la nostra area più critica. Abbiamo rapporti migliori con molti paesi arabi. La Svezia è la nazione più ostile a Israele. Inoltre, queste risoluzioni avranno effetti negativi sul processo di pace che dicono di voler preservare, facendo credere ai palestinesi che possano fare a meno dei negoziati e degli Stati Uniti. Ma non è possibile. I palestinesi saranno rafforzati nel credere che otterranno di più e di più senza parlare con Israele". Il giorno dopo il verdetto dell'Onu, il cielo non è caduto sopra la capitale dello stato ebraico. "Israele non sarà intimidita e Gerusalemme rimarrà la nostra capitale". Intanto ieri Israele ha annunciato la volontà di uscire dall'Unesco entro il 2018.
(Il Foglio, 23 dicembre 2017)
La mossa di Abu Mazen "Non accetteremo più gli Usa come mediatori"
Israele: entro la fine del 2018 usciremo dall'Unesco
di Paolo Mastrolilli
«Non accetteremo più gli Stati Uniti come mediatore nel processo di pace, né accetteremo alcun piano che venga dalla loro parte». Lo ha detto il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen in reazione alla scelta del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, e spostare l'ambasciata da Tel Aviv. Abu Mazen ha spiegato che il problema non sta nella decisione sovrana di Washington sulla collocazione della propria rappresentanza diplomatica, ma nelle implicazioni legali del riconoscimento: «La decisione degli Usa sostiene l'illegalità e una sfrontata violazione dei nostri diritti. Gli Usa hanno scelto di diventare di parte. II loro piano per il futuro della Palestina non sarà basato sulla soluzione dei due stati e i confini del 1967, né sulla legge internazionale e le risoluzioni dell'Onu».
Abu Mazen è stato a Riad mercoledì, e il re Salman gli ha confermato che la sua linea resta la soluzione dei due stati con Gerusalemme Est capitale di quello palestinese. Quindi il presidente dell'Anp fatto la dichiarazione di rigetto della mediazione Usa. Può essere una chiusura definitiva, o anche un segnale. I punti fermi irrinunciabili restano i due stati e la capitale condivisa: se Trump G concederà, il dialogo potrebbe riaprirsi. Nel frattempo la sua ambasciatrice all'Onu Haley ha cominciato ad attuare la minaccia di «prendere i nomi» di chi si oppone a Washington, non invitando al ricevimento di Natale i 128 paesi che hanno votato contro gli Usa in Assemblea Generale.
Intanto Israele ha annunciato che lascerà l'Unesco entro la fine del 2018 per i «sistematici attacchi» da parte dell'Onu contro lo Stato ebraico. La decisione è stata presa per i «tentativi» dell'Unesco «di disconnettere la storia ebraica dalla terra di Israele». La lettera formale sarà presentata all'agenzia Onu entro la fine di quest'anno e che quindi Israele lascerà l'Unesco entro la fine del 2018.
(La Stampa, 23 dicembre 2017)
L'Italia è andata nel pallone
Votando all'Onu contro Trump e Gerusalemme. Rischia quindi di rimanere fuori dai giochi che contano.
di Mario Orioles
Germano Dottori
Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss e consulente scientifico di Limes, non è sorpreso dall'esito del voto all'Assemblea Generale Onu su Donald Trump e Gerusalemme. Che considera, in ogni caso, «totalmente ininfluente», diversamente dalle minacce di The Donald ai paesi non allineati al nuovo corso americano. Un nuovo corso che trova il nostro paese in posizione di sostanziale dissenso, come dimostrato dal voto italiano in assemblea generale, sintonizzato con la linea di appoggio all'Islam politico che Dottori attribuisce al nostro governo e che egli reputa problematico. L'America ha scelto di stare con Riad e il Cairo, e se non cambiamo rotta rischiamo di rimanere fuori dai giochi. Una posizione «miope e rischiosa», quella dell'Italia.
- La sua valutazione sul voto dell'assemblea generale dell'Onu?
Sarebbe stato sorprendente un risultato diverso. Quindi non mi meraviglio, se non del grande interesse che ha suscitato questo pronunciamento, a tutti gli effetti ininfluente. Paradossalmente, la vera conseguenza sono le possibili ritorsioni, che Trump potrebbe decidere di varare nei confronti degli Stati che hanno deluso le sue aspettative.
- L'Europa ha reagito compatta alla decisione di Trump, condannandola. E' un riflesso condizionato?
Ha votato compattamente contro gli Usa solo quella parte dell'Europa che si sente più vicina alla Germania. L'Europa del Trimarium ha in gran parte optato per l'astensione, come avremmo dovuto fare noi.
- Come spiega il voto dell'Italia?
L'Italia di Paolo Gentiloni è con la Germania e in Medio Oriente è tuttora molto vicina a Iran, Turchia e Qatar, mentre gli Stati Uniti sono con Riyadh, Gerusalemme e l'Egitto. Certo, ci sono stati tentativi recenti da parte italiana di avviare un riequilibrio, cercando interlocuzioni con l'Arabia Saudita. Ma la situazione è chiara: siamo con l'altro raggruppamento. C'è un'evidente nostalgia del grosso del sistema politico italiano, che cerca l'appoggio dell'America liberal malgrado sia all'opposizione. È una politica a mio avviso miope e rischiosa.
- L'annuncio di Trump è stato secondo lei dettato da interessi elettorali, o c'è altro dietro?
Per Trump, la pace tra israeliani e palestinesi l'avrebbe dovuta negoziare il nuovo uomo forte di Riyadh, Mohammed bin Salman, sulla base di un piano secondo il quale Gerusalemme avrebbe dovuto essere divisa, attribuendo lo status di capitale della Repubblica palestinese futura a un sobborgo orientale della Città santa, Abu Dis. Bin Salman però non ce l'ha fatta, perché Abu Mazen ha avuto paura che l'accettazione del progetto saudita ne potesse compromettere la sopravvivenza politica. Trump è entrato nella partita per forzare la mano ai palestinesi. Alla fine, il vertice della vecchia Conferenza islamica ad Ankara si è concluso con una dichiarazione che indica Gerusalemme Est quale capitale del futuro Stato palestinese.
- Dopo l'annuncio di Trump la reazione del mondo arabo è stata contenuta. Come mai?
Mi sembra sia ovvio. A cercare una rivincita non è solo l'Islam politico della Fratellanza Musulmana, ma anche tutti coloro che negli Usa avversano la nuova Amministrazione. Ormai si congiungono due urti trasversali: a quello che contrappone sostenitori e nemici dell'Islam Politico si è aggiunta la guerra civile light che imperversa negli Usa. I liberal sono con la Fratellanza Musulmana e la Repubblica islamica iraniana, che vantano radici comuni, mentre Trump sta tentando con Putin e bin Salman di restaurare l'ordine, prima di alleggerire l'impronta americana nel mondo.
- Quanto pesano gli sviluppi della guerra in Siria sugli eventi odierni?
Mi paiono al momento marginali, ma ci sono degli elementi da tenere sott'occhio. La guerra civile si va concludendo con la vittoria di Bashar al Assad. A determinarla è stata l'azione russa che ha costretto la Turchia ad abbandonare la mischia. Lo Stato Islamico è morto quando Ankara si è riconciliata con Mosca e ha chiuso le sue frontiere, tagliando i flussi di ogni genere che permettevano a Daesh di alimentare il proprio sforzo. Penso invece che Mosca si sia riavvicinata all'Arabia Saudita e che Trump si attenda dai russi un contributo al contenimento delle aspirazioni regionali iraniane.
- Quante probabilità ha il piano di pace di Trump di decollare, dopo la presa di posizione su Gerusalemme?
Le stesse di prima, se non di più. Tutto dipende dai rapporti di forza che si stabiliranno tra sostenitori e nemici dell'Islam Politico. Anche Abu Mazen probabilmente capirà che la propria posizione intransigente implicherà il ridimensionamento del ruolo di Fatah rispetto a quello di Hamas.
(ItaliaOggi, 23 dicembre 2017)
Israele: attese decine di migliaia di turisti per le festività natalizie
Previsto un aumento del 20% dei pellegrini cristiani per quest'anno. Il ministero del Turismo mette a disposizione navette gratuite da Gerusalemme a Betlemme
Il ministero del Turismo di Israele sta lavorando per accogliere le decine di migliaia di turisti che hanno programmato di visitare Israele per il periodo natalizio. Dalle 15:00 del 24 dicembre fino alle 03:00 del giorno di Natale, offrirà un servizio navetta gratuito per i pellegrini che si recheranno da Gerusalemme e Betlemme e viceversa. La partenza degli autobus è programmata ogni 30 minuti all'ora e mezz'ora di ogni ora, dalla fermata dell'autobus vicino al parcheggio della Carta, di fronte alla Porta di Jiaffa e vicino al Mamilla Boulevard.
L'autobus si fermerà anche vicino all'ingresso del Monastero di Mar Elias e presso l'incrocio Rosmarin prima di proseguire verso Betlemme attraverso l'incrocio di Rachele, per poi tornare a Gerusalemme. Ci possono essere modifiche al programma a seguito della richiesta.
Il ministero del Turismo ha tenuto la scorsa settimana il tradizionale ricevimento annuale di Natale per i dirigenti della Chiesa e i membri delle comunità cristiane in Israele. Il direttore generale del ministero del turismo, Amir Halevi, ha acceso le candele di Hanuka.
Sua Eminenza l'Arcivescovo Aristarco del Patriarcato Greco Ortodosso di Gerusalemme ha parlato di Gerusalemme come "simbolo universale di pace e la destinazione più importante al mondo per i pellegrini". L'arcivescovo Aristarco ha sottolineato come ci sia un "numero straordinario di pellegrini in visita alla città, un numero che cresce ogni anno". Padre Koryoun Baghdasaryan del Patriarcato ortodosso armeno e il dott. Juergen Buhler, direttore dell'ambasciata cristiana internazionale di Gerusalemme, hanno entrambi parlato dell'importanza di realizzare un pellegrinaggio a Gerusalemme e nei luoghi santi del Paese, offrendo un'esperienza unica e significativa per i fedeli che camminano sulle orme di Gesù.
Le statistiche
Secondo le statistiche diffuse dal ministero del Turismo oltre la metà di tutti i turisti che hanno visitato Israele nel 2016 erano cristiani. Il ministero stima che 120.000 dei turisti che hanno visitato Israele nel dicembre 2016 fossero pellegrini cristiani. Una crescita di circa il 20% è attesa nel periodo di Natale di quest'anno rispetto allo scorso anno, in linea con l'aumento complessivo previsto del turismo verso Israele.
Il 53% dei 2,9 milioni di turisti - così classificati perché hanno soggiornato almeno una notte nel Paese - che hanno visitato Israele nel 2016 erano cristiani. Di questi, il 38% erano cattolici, il 28% protestanti, il 28% ortodossi. Tra i protestanti, il 75% erano evangelici - che comprendono il 21% di tutti i turisti cristiani e il 13% di tutti i turisti -, mentre il 21% provenivano dalla chiesa tradizionale e da quella afroamericana. Tra gli ortodossi, il 71% appartiene alla Chiesa ortodossa russa e il 29% agli ortodossi greci e ad altre confessioni.
Il 23% di tutti i turisti di Israele ha definito lo scopo della loro visita come pellegrinaggio. La stragrande maggioranza di tutti i visitatori cristiani visita Gerusalemme e circa il 40% di questi visita Tel Aviv-Giaffa. I siti più visitati dai cristiani risultano essere la Chiesa del Santo Sepolcro, il Quartiere ebraico, il Muro occidentale, la Via Dolorosa, il Monte degli Ulivi, Cafarnao, la Chiesa dell'Annunciazione e la Città di David.
"Davvero unica al mondo risulta l'esperienza di un viaggio in Terra Santa e il Natale in Israele regala emozioni insostituibili" ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia.
(Guida Viaggi, 22 dicembre 2017)
Tra accuse reciproche, già a rischio l'accordo tra l'Autorità palestinese e Hamas
Il leader di Hamas, Yahya Sinouar pessimista sul prosieguo dei contatti che dovrebbero agevolare il trapasso dei poteri nella Striscia di Gaza.
Yahya Sinouar
Comincia già a scricchiolare l'accordo nella Striscia di Gaza tra Hamas e Fatah, firmato poco più di due mesi fa, grazie alla mediazione egiziana. A farsi portavoce delle difficoltà di conciliare le due anime palestinesi è stato Yahya Sinouar, capo di Hamas a Gaza e ''architetto'' dell'accordo, che ieri ha fatto capire che l'intesa potrebbe avere lo stesso esito - negativo - dei precedenti tentativi a partire dal 2007, quando la stessa Hamas ha preso il controllo della Striscia.
In base all'accordo, Hamas ha accettato di restituire il controllo amministrativo e di sicurezza della Striscia di Gaza all'Autorità palestinese, compresi i posti di frontiera con Egitto e Israele. In cambio, l'Autorità palestinese dovrebbe revocare le misure di ritorsione finanziarie adottate nel 2017 per costringere Hamas alla conciliazione, come lo stop al pagamento della bolletta elettrica di Gaza a Israele.
Hamas e Fatah si erano date il termine del primo dicembre per completare il trasferimento di poteri nella Striscia di Gaza e risolvere "tutte le loro differenze".
L'accordo avrebbe dovuto porre fine allo spiccato dissenso tra i due campi, ma la sua attuazione ha mostrato la persistenza dei disaccordi.
"Il progetto di riconciliazione sta crollando. Questo è ovvio ", ha detto Sinouar, i cui commenti sono stati ripresi dai media sostenuti da Hamas.
Hamas dice di avere trasferito l'intero controllo amministrativo della Striscia di Gaza, ma questa non è l'opinione di Fatah. Per il primo ministro palestinese, Rami Hamdallah, Hamas non ha trasferito fondi come previsto.
Da parte sua, Hamas sostiene che il governo di Hamdallah non abbia pagato gli stipendi a Gaza come aveva promesso.
Hamas ha sfrattato, con la forza, l'Autorità palestinese dalla Striscia di Gaza (una striscia di terra di 41 chilometri, abitata da quasi due milioni di persone) nel 2007, dopo aver vinto le elezioni parlamentari nel gennaio del 2006.
Gli abitanti della Striscia sono stati severamente provati da tre guerre contro Israele dal 2008, dalla disoccupazione, dalla scarsità d'acqua e dalla povertà.
Mentre Hamas è considerato un gruppo terroristico dagli Stati Uniti, da Israele e dall'Unione Europea, L'Autorità Palestinese è riconosciuta invece dalla comunità internazionale come l'organismo ufficiale di governo nei territori palestinesi.
Entrambe le parti non sono al loro primo tentativo di riconciliazione. Le discussioni avviate nel 2011 hanno portato alla firma di un accordo di riconciliazione nel 2014 che avrebbe dovuto determinare la nascita di un governo di unità nazionale, ma il tentativo è fallito.
(globalist, 22 dicembre 2017)
Israele annuncia, fuori dall'Unesco entro la fine del 2018
Israele ha annunciato che lascerà l'Unesco entro la fine del 2018 per i "sistematici attacchi" da parte dell'organizzazione delle Nazioni Unite contro lo Stato ebraico.
Il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nahshon, ha precisato che la decisione è stata presa per i "tentativi" dell'Unesco "di disconnettere la storia ebraica dalla terra di Israele", aggiungendo che la lettera formale sarà presentata all'agenzia Onu entro la fine di quest'anno e che quindi Israele lascerà l'Unesco entro la fine del 2018.
Lo scorso 12 ottobre gli Stati Uniti avevano annunciato di volersi ritirare dall'agenzia delle Nazioni Unite dopo mesi di tensioni sul nodo del Medio Oriente. E lo stesso giorno il premier israeliano Benyamin Netanyhau aveva dato istruzioni di "preparare l'uscita di Israele dall'Unesco in parallelo con gli Usa".
Netanyahu aveva reso omaggio alla scelta del presidente americano. "La decisione di Trump - aveva detto - è coraggiosa e morale, perché l'Unesco è diventato un teatro dell'assurdo e perché piuttosto che preservare la storia la distorce".
Tre giorni dopo il premier israeliano aveva ribadito la sua decisione di uscire dall'agenzia Onu: "la mia istruzione di lasciare l'organismo - aveva spiegato - resta immutata e procederemo per realizzarla". "L'Unesco è diventata la sede di risoluzioni bizzarre, anti israeliane e in pratica antisemite. Ci auguriamo che cambi strada ma non abbiamo grandi speranze".
(swissinfo.ch, 22 dicembre 2017)
Gerusalemme capitale, cosa c'è di sbagliato nella risoluzione Onu
di Barbara Pontecorvo
Ancorché il voto di ieri all'Assemblea generale delle Nazioni Unite di condanna alla decisione statunitense di spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme capitale (che tale era e tale rimane) non sia un fulmine a ciel sereno, sorprendono invece i numeri di chi non l'ha condivisa: 21 Paesi assenti, 35 astenuti e 12 contrari; 128 Paesi favorevoli alla condanna, tra cui l'Italia ovviamente, che essendo stata sovente dalla parte sbagliata della storia, non ha voluto rinunciare alle tradizioni.
Tra i nuovi astenuti rispetto al passato alcuni Paesi europei storicamente a favore delle centinaia di risoluzioni dell'Assemblea generale contro Israele (che fanno la felicità di chi ha in antipatia lo Stato ebraico): Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Lettonia, Croazia. Si sono, poi, astenuti anche altri Paesi non europei, altrettanto a sorpresa: Ruanda, il Messico, il Malawi, la Colombia. Si è astenuta però anche l'Australia, storicamente vicina a Israele e Stati Uniti.
Ma soprattutto l'Inghilterra. Si sa che Matthew Rycroft, ambasciatore britannico, prima della votazione in Consiglio di sicurezza, aveva dichiarato che la decisione del presidente Usa Donald Trump di spostare l'ambasciata a Gerusalemme non avrebbe agevolato "le prospettive di pace nella regione". Avendo noi in Italia un ottimo ex attore comico che è diventato leader politico, sappiamo che quello non è un itinerario senza ritorno, visto che l'altrettanto ottimo Rycroft potrebbe diventare uno dei migliori librettisti degli attori comici per la sua sensazionale battuta, perché solo a lui poteva venire in mente di dichiarare che ci sono prospettive di pace nella regione, proprio come in una pièce del teatro dell'assurdo.
Quanto all'Italia, il delegato al Consiglio di Sicurezza Sebastiano Cardi, aveva dichiarato in tale sede che lo status di Gerusalemme quale futura capitale dei due Stati è soggetto a negoziati fra Israele e Palestina, che gli Usa potrebbero giocare un ruolo cruciale al riguardo, e che l'Italia attende proposte per una sistemazione. Contrariamente a Rycroft, Cardi ha condannato almeno l'attacco coi missili da Gaza contro Israele; gli altri delegati invece sui missili di questi giorni hanno preferito tacere, forse ritenendo che agli ebrei un poco di missili in testa potessero addirittura far bene.
La notizia è che finalmente le Nazioni Unite e le sue Agenzie potranno liberamente affermare che Gerusalemme era più probabilmente una città dell'Honduras che una città ebraica. Quando si acquista la Bibbia e si leggono i libri sacri ebraici collocati prima dei Vangeli, scoprendo che in tutti i passaggi Gerusalemme è centrale, i numerosi odiatori potranno dire che si tratta di errori di stampa. Grazie a tutti i paesi votanti (insistiamo, Italia compresa), ormai si sa anche che spetta all'Onu decidere la strada e il numero civico delle ambasciate. C'è solo augurarsi che a noi, dato il peso specifico che abbiamo nel contesto internazionale per colpa di decisioni come questa, non spettino le periferie.
(il Fatto Quotidiano - blog, 22 dicembre 2017)
Perché questi sette paesi hanno votato con Usa e Israele per Gerusalemme capitale
Solo nove paesi hanno espresso voto contrario alla risoluzione Onu che ha bocciato la decisione di Trump su Gerusalemme: oltre naturalmente a Stati Uniti e Israele, vi sono Guatemala, Honduras, Repubblica di Palau, Isole Marshall, Nauru, Stati federati della Micronesia e Togo.
Il 21 dicembre l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato in larga maggioranza a favore della risoluzione, non vincolante ma dall'enorme peso politico, che rifiuta la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele.
128 stati membri, tra i quali Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Russia, hanno bocciato la linea della Casa Bianca sulla delicatissima questione palestinese, preferendo rinviare la decisione sullo status della città sacra per tutte le religioni abramitiche a futuri negoziati da avviare quando il processo di pace sarà abbastanza maturo da permetterlo.
Solo nove paesi hanno espresso voto contrario alla risoluzione: oltre naturalmente a Stati Uniti e Israele, vi sono Guatemala, Honduras, Repubblica di Palau, Isole Marshall, Nauru, Stati federati della Micronesia e Togo.
Tre di questi ultimi sette paesi sono ex colonie statunitensi che tuttora vivono sotto l'influsso di Washington.
La Repubblica di Palau è costituita da un gruppo di isole al largo dell'oceano Pacifico, a circa 500 chilometri dalle Filippine. Indipendente dal 1994 e con una popolazione di 21.400 abitanti, è uno delle nazioni più giovani e meno popolose del mondo.
Decisamente più popolati gli Stati federati della Micronesia, che con i loro 104mila abitanti sono uno dei nove paesi più popolosi tra quelli che hanno votato contro la risoluzione nella riunione dell'Assemblea generale del 21 dicembre.
Gli Stati federati della Micronesia sono indipendenti dal 1986, quando firmarono un "accordo di libera associazione" con Washington che permette ai cittadini delle piccole isole dell'Oceania di viaggiare, vivere e prestare servizio militare negli Stati Uniti senza aver bisogno di visto.
Le Isole Marshall, uno stato insulare dell'oceano Pacifico passato sotto il controllo statunitense al termine della Seconda guerra mondiale, hanno una popolazione di soli 53mila abitanti.
Come si legge nel manuale Corso di diritto internazionale di Sergio Marchisio, la minuscola repubblica presidenziale è indipendente dal 1986 ma, come gli Stati federati della Micronesia e la Repubblica di Palau, ha concluso "accordi di libera associazione con gli Stati Uniti che pongono queste tre entità in una situazione analoga al protettorato, con ingerenza assoluta in materia di difesa e sicurezza e autorizzazione preventiva statunitense per i rapporti internazionali". Negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto mondiale, tra il 1946 e il 1958, gli Usa eseguirono una serie di test nucleari su alcuni atolli dell'arcipelago.
Particolarmente noto è quello del 1o marzo 1954 nell'atollo di Bikini, passato alla storia con il nome in codice Castle Bravo: il più grande test nucleare mai condotto dagli Stati Uniti, con una potenza di circa mille volte superiore ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nell'agosto 1945.
Tra i quattro stati insulari del Pacifico che hanno promosso la linea di Trump sulla questione israelo-palestinese, Nauru è l'unico a non avere una storia come colonia Usa.
Tuttavia, il suo peso a livello internazionale è assai ridotto: con poco più di 10mila abitanti su un territorio di 21 chilometri quadrati, Nauru è la più piccola repubblica indipendente del mondo, unica al mondo a non avere una città capitale.
Honduras e Guatemala, i due paesi dell'America centrale che hanno votato contro la risoluzione Onu su Gerusalemme capitale, hanno una storia lunga decenni di stretti legami diplomatici e militari con gli Stati Uniti.
Tutti e due paesi seguono da sempre le indicazioni di Washington per quanto riguarda le decisioni adottate in sede internazionale. Durante gli anni Ottanta, l'Honduras sostenne gli Stati Uniti per quanto riguarda le attività di interferenza in Nicaragua, tra le quali il sospetto ricorso alla forza armata diretta con la disseminazione di mine nelle acque territoriali nicaraguensi, e l'opposizione alla guerra civile a El Salvador.
Il Togo è l'unico paese africano ad aver votato contro la risoluzione Onu che ha bocciato la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele.
La scelta di Togo è l'unica ad aver davvero sorpreso gli esperti di politica internazionale, considerando anche la posizione chiara dell'Unione africana sull'argomento.
Una "decisione inutile alla causa palestinese che non porterà la pace nel territorio", ha detto pochi giorni fa Salah Hammad, esperto per i diritti umani del Dipartimento per gli affari politici dell'Ua.
Dietro il voto di Togo, più dell'influenza di Washington, ci sono i rapporti particolarmente positivi con Israele.
Il presidente Faure Gnassingbé ha infatti ospitato il vertice Africa-Israele a Lomé ed è stato in visita da Netanyahu nello stato ebraico. I buoni rapporti tra i due paesi sono stati dunque determinanti nel voto all'ONU del Togo.
Tra le 35 astensioni ci sono quelle di alcuni alleati chiave degli Stati Uniti, tra i quali i vicini Messico e Canada.
L'ambasciatore canadese alle Nazioni Unite Marc-Andre Blanchard ha criticato la risoluzione, tacciata di offrire un punto di vista troppo ristretto su una questione assai più complessa.
Tuttavia, Blanchard ha confermato la volontà del Canada di "mantenere lo status quo esistente nei luoghi sacri di Gerusalemme".
Un'astensione che sa di bocciatura, quindi. Come Canada e Messico hanno votato anche altri paesi americani come Argentina, Colombia, Repubblica Dominicana, Panama e Paraguay.
Gli stati europei che si sono astenuti sono Bosnia Erzegovina, Croazia, Repubblica Ceca, Lettonia, Ungheria e Polonia.
(TPI, 22 dicembre 2017)
LOnu boccia Gerusalemme capitale
L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato 'no' al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele voluto dal presidente americano Donald Trump lo scorso 6 dicembre. Sono stati 128 i Paesi che hanno votato a favore della richiesta dell'Onu agli Stati Uniti di rivedere il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, nonostante la minaccia di Trump di tagliare i finanziamenti americani. Nove sono stati i voti contrari alla risoluzione, 35 i Paesi che si sono astenuti.
Oltre agli Stati Uniti e a Israele, a votare contro la bozza di risoluzione presentata da Turchia e Yemen per il non riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele all'Assemblea generale delle Nazioni Unite sono stati Honduras, Togo, Guatemala, Palau, Micronesia, Isole Marshall, la Repubblica di Nauru.
Fra i 35 paesi che si sono astenuti figurano gli altri due paesi dell'America del Nord - Messico e Canada - insieme ad Australia e Filippine. Anche cinque paesi della Ue si sono astenuti, mentre hanno votato a favore della risoluzione che dichiara "nulla e non valida" ogni decisione sullo status di Gerusalemme 22 dei membri della Ue, tra i quali Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna. Mentre altre 21 delegazioni non si sono presentate del tutto al voto, indicando che le minacce di Trump di tagliare i fondi e gli aiuti e l'azione di lobbing di Israele ha sortito dei risultati.
La risoluzione, cosa prevede
La risoluzione approvata a larghissima maggioranza dall'Assemblea generale dell'Onu "afferma che ogni decisione e azione che mira ad alterare il carattere, lo status o la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non ha effetto legale, è nulla e non è valida". Per questo "deve essere rescissa in linea con le risoluzioni pertinenti del Consiglio di sicurezza e a questo proposito invita tutti gli Stati a non portare missioni diplomatiche nella città Santa di Gerusalemme". La risoluzione, presentata da Turchia e Yemen, chiede a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di rifarsi alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza riguardo a Gerusalemme e a non riconoscere alcuna azione o misura contraria a queste risoluzioni.
Anp, è vittoria per Palestina
Il voto dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite su Gerusalemme, dice il portavoce del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas, "è una vittoria per la Palestina". "Questa decisione - ha aggiunto la portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeina "riafferma ancora una volta che la giusta causa palestinese gode del sostegno della comunità internazionale e nessuna decisione presa da nessuna parte potrebbe cambiare la realtà, ovvero che Gerusalemme è un territorio riconosciuto dal diritto internazionale".
(Adnkronos, 22 dicembre 2017)
Il programma biblico procede: le nazioni della terra si stanno adunando contro Gerusalemme, caricandosi di una "pietra pesante" che ricadrà sopra di loro.
In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno malamente feriti e tutte le nazioni della terra si aduneranno contro di lei (Zaccaria 12:3).
In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme (Zaccaria 12:9).
Tutti quelli che saranno rimasti di tutte le nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno di anno in anno a prostrarsi davanti al Re, al Signore degli eserciti, e a celebrare la festa delle Capanne (Zaccaria 14:6).
Jihad diplomatico contro Israele
No a Gerusalemme capitale. Così l'Onu abbandona un alleato prezioso
E' con 128 voti a favore e soltanto 9 contrari che l'Assemblea generale dell'Onu ha approvato ieri la risoluzione di condanna della decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e spostare lì la sua ambasciata. Non si tratta soltanto di un voto clamoroso contro l'America. E' soprattutto jihad diplomatico contro Israele. Il mondo, in sessione plenaria, sta dicendo al piccolo Davide asserragliato in medio oriente: "Oggi disconosciamo i legami fra il popolo ebraico e Gerusalemme"
«Perché tumultuano le nazioni?»
. Hanno votato contro la risoluzione Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Togo e ovviamente Israele e Stati Uniti. Contro, tutti i principali paesi Ue, a partire da Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna. Tra i 35 astenuti ci sono Australia, Canada, Argentina, Polonia, Romania, Filippine e Colombia. Alla prova dei fatti, nel momento critico, l'Europa ha votato contro il suo più solido e autentico alleato in una regione caotica e centrale non soltanto per la nostra sicurezza, ma anche per i nostri valori. Gerusalemme è la culla del monoteismo giudeo-cristiano che in Israele si è inverato nella storia. L'Onu sta dichiarando fake quella storia. Questo voto, infatti, è soltanto l'ultimo di una serie che nelle sedi internazionali fa tabula rasa dei legami fra la città santa e il popolo d'Israele e il suo stato, definito ormai d'abitudine "potenza occupante". La convocazione dell'Assemblea generale è stata richiesta da Turchia e Yemen, a seguito del veto posto dagli Stati Uniti a una risoluzione simile proposta dall'Egitto al Consiglio di sicurezza. Turchia e Yemen: uno stato sulla strada della dittatura e uno stato fallito, dove si uccidono i presidenti. A questo si è ridotto l'Onu? La dignità è stata salvata dall'intervento dell'ambasciatrice Usa all'Onu, Nikki Haley: "L'America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme. Nessun voto alle Nazioni Unite farà la differenza. Ma questo è un voto che gli Stati Uniti ricorderanno". Poco prima il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva definito l'Onu "la casa delle bugie". I paesi occidentali che hanno votato questa risoluzione hanno compiuto un tradimento della civiltà e della democrazia che soltanto in Israele sono fiorite in quella parte di mondo. Non solo. Nel tempo del jihad fisico e culturale si tratta di un tentativo di placare l'internazionale islamista dandole in pasto lo stato ebraico. Israele si saprà difendere, con le unghie, i denti e le parole, adesso che da nord a sud ai suoi confini si stringe la tenaglia del terrore finanziato dall'Iran e dalla galassia jihadista. Ma oggi è un giorno triste. Un giorno di abbandono di un nostro alleato. Il più in pericolo. Il più prezioso.
(Il Foglio, 22 dicembre 2017)
Perché tumultuano le nazioni?
Perché tumultuano le nazioni, e tramano i popoli cose vane?
I re della terra si ritrovano e i principi congiurano insieme contro l'Eterno e contro il suo Unto. E dicono: «Rompiamo i loro legami e sbarazziamoci delle loro funi».
Colui che siede nei cieli ne riderà; il Signore si farà beffe di loro. Egli parlerà loro nella sua ira e nel suo grande sdegno li renderà smarriti: «Sono io che ho insediato il mio re sopra Sion, il mio santo monte».
Annuncerò il decreto dell'Eterno. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedimi, e io ti darò in eredità le nazioni e le estremità della terra come tuo possesso. Tu le spezzerai con uno scettro di ferro, le frantumerai come un vaso d'argilla».
Ora dunque, o re, siate savi; accettate la correzione, o giudici della terra. Servite l'Eterno con timore e gioite con tremore.
Rendete omaggio al Figlio, affinché non si adiri e voi non periate per via, perché la sua ira può divampare in un momento.
Beati coloro che si rifugiano in lui.
Salmo 2
Il sogno atavico è realtà: umiliare gli Usa e Israele
di Fiamma Nirenstein
I palestinesi naturalmente festeggiano, la menzogna onusiana è la loro festa, Gerusalemme secondo il voto non è la capitale di Israele, tutte le delegazioni, i capi di stato, che hanno visitato la Knesset, si sono sbagliati. Trump è stato letto male volontariamente: ha semplicemente riconosciuto una verità lapalissiana lasciando alle parti la sistemazione futura e chiedendo di mantenere fino ad allora lo status quo. Invece è stato assalito da un branco affamato di antiamericanismo, finalmente. La vittoria è stata la solita festa di odio cieco contro gli Usa e Israele. Che bello poter dire «colonialista» a Trump e a Israele come ha fatto il ministro degli esteri palestinese Ryiad Maliki, esaltare la «democrazia» di Erdogan contando sul doppio registro degli stati canaglia che hanno il loro ombrello nell'Onu. Ma qualcosa è cambiato: è vero, ci sono stati solo 9 voti a favore dai soliti Paesi piccoli e coraggiosi. Ma ci sono state molte sorprese fra le 35 astensioni: l'Europa si è spaccata, l'Ungheria, la Croazia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Lettonia, la Bosnia (musulmana!) hanno rotto il consueto consenso europeo nonostante Macron avesse insistito. L'Italia ha accettato, ed è una vergogna, di più, un peccato mortale. Tutti i suoi ultimi primi ministri hanno parlato alla Knesset pretendendo amicizia immortale. Tutti hanno visto la bellezza della città amata da 3mila anni, mai capitale di nessun altro, e il rispetto democratico per le tre componenti religiose. Il voto è stato un misto di antisemitismo, di paura, di cecità di chi non vede che solo la verità può indurre un processo di pace, e che le menzogne odierne non hanno mai spinto i palestinesi a rinunciare al terrorismo e al rifiuto di Israele.
Il sogno atavico dell' Assemblea è umiliare gli Usa, vedendo in Israele la longa manus del potere americano. Non si sostenga che si è difeso un processo di pace che il mondo arabo ha sempre rifiutato, anche di fronte, due volte, all'offerta di buona parte Gerusalemme. Qui si sottende che gli ebrei sono estranei a Gerusalemme e persino a Israele, e questo giustifica la «resistenza armata» ovvero il terrorismo, i razzi da Gaza. Forse neppure la risoluzione che Obama fece votare al Consiglio di sicurezza fu cosi drammatica. Ieri, è stata la più evidente verità a essere vituperata e messa al bando dall'Onu, insieme alla decisione americana di riconoscerla.
Non è un bel risultato. È anche una sorpresa che Colombia, Argentina, Messico, Malawi, Ruanda, Kenia, Congo si siano astenute: Africa e America Latina hanno risposto ai contatti impostati da Netanyahu quest'anno. Erdogan ormai abbracciato alla Russia e all'Iran, ha sbraitato, come usa ormai sempre, dicendo che «non si può comprare la democrazia turca coi tuoi dollari». Due accenni sbagliati per il leader di un Paese davvero poco democratico e molto corrotto. È così poco fine citare il denaro, come ha fatto Trump annunciando che si ricorderà di chi vota contro gli Usa, ma è anche illogico spendere tanti soldi per chi approfitta della prima occasione per insultarti e boicottarti. Il bugdet dell'Onu è pagato dagli Usa per il 22%, fra spese di routine e speciali si tratta di più di 800 miliardi. Secondo uno studio accademico recente, l'Onu è inquinata da un mare di corruzione e di comportamenti disgustosi fino allo sfruttamento sessuale. Nelle sue commissioni si occupa quasi esclusivamente di condannare Israele, mentre i Paesi violatori di ogni diritto umano fanno la parte dei giudici. Tenere in piedi una fabbrica di puro odio, è un'azione folle.
(il Giornale, 22 dicembre 2017)
Solo chi ieri si era illuso oggi può essere deluso.
L'Italia entra nella lista nera degli Stati Uniti
Il governo Gentiloni si schiera con i palestinesi. E Washington ora ci chiederà il conto della protezione militare
di Fausto Carioti
Da una parte Israele e gli Usa di Donald Trump. Dall'altra i palestinesi, i Paesi islamici e i loro tanti amici sparsi per il mondo. L'Italia e gran parte degli Stati europei hanno scelto di schierarsi al fianco dei secondi, contro i primi. L'assemblea delle Nazioni Unite ha approvato a larghissima maggioranza ( 128 voti contro 9) la risoluzione, scritta da Yemen e Turchia, che condanna la decisione di trasferire da Tel Aviv a Gerusalemme l'ambasciata statunitense, scelta che equivale a riconoscere la città del Tempio come capitale di Israele.
La votazione di ieri in pratica non cambia nulla, gli Stati Uniti tirano dritto. Ma lo strappo politico tra le due sponde dell'Atlantico non ha precedenti e Trump ha assicurato che ci saranno conseguenze. "Non ci dimenticheremo di questo voto", ha ribadito Nikki Haley, ambasciatrice statunitense all'Onu. Proprio lei, due giorni fa, aveva riportato in un tweet ciò che lo stesso presidente le aveva detto: "Lasciamo che votino contro di noi, risparmieremo un sacco di soldi".
Avvertimento che vale innanzitutto per i Paesi arabi e musulmani foraggiati da Washington. Sui giornali americani e israeliani c'è già la lista dei beneficiati che hanno votato contro gli Stati Uniti e adesso rischiano il taglio dei fondi: l'Afghanistan, che ogni anno riceve aiuti per 4, 7 miliardi di dollari, l'Egitto (1,5 miliardi), l'Iraq (1,1 miliardi), la Giordania, il Pakistan e così via. Spese che ora Trump ha ottimi motivi per ridurre o eliminare, al pari dei finanziamenti che il suo Paese versa alle Nazioni Unite.
La lista nera, però, non finisce qui. La Haley era stata molto chiara: "Prenderemo nota di ogni singolo voto. Ci segneremo i nomi". Significa che in quell'elenco c'è anche l'Italia. I Paesi europei sono vulnerabili e noi più degli altri. Non riceveremo aiuti cash come l'Afghanistan, ma dobbiamo agli Stati Uniti la protezione che ci garantiscono tramite la Nato, nei cui confronti siamo inadempienti cronici. Gli accordi con Washington prevedono infatti che ogni Paese dell'alleanza investa in uomini e attrezzature militari due punti di Pil, che per l'Italia significano 33 miliardi di euro l'anno; ne spendiamo, invece, poco più della metà. In Europa solo Grecia, Estonia, Polonia e Regno Unito rispettano questa intesa.
Trump è stufo di pagare per gli altri e lo ha spiegato a quattr'occhi allo stesso Paolo Gentiloni durante l'incontro che i due, ad aprile, hanno avuto alla Casa Bianca. E, dopo quello che è successo ieri, il presidente americano non ha più motivi per essere benevolo con noi: la differenza, a carico del contribuente italiano, ammonta a 16 miliardi di euro l'anno. L'appoggio degli Stati Uniti è fondamentale anche dal punto di vista logistico. L'ultimo esempio è di questi giorni: all'interno della missione euro-africana gestita dai francesi, l'Italia sta per inviare 470 soldati e 150 mezzi in Niger. Siccome i Paesi europei non hanno gli apparecchi per organizzare il trasporto aereo, i nostri saranno costretti ad una rischiosa traversata lunga 2.400 chilometri nel deserto del Niger. Senza lo zio Sam, insomma, i Paesi Ue non riescono nemmeno a fare come si deve un'operazione a sud della Libia. Ciò nonostante, hanno appena scelto di ignorare gli avvertimenti di Trump. Dal cui esercito, a questo punto, sarebbe ingenuo pretendere quell'aiuto che in Africa ci risolverebbe tanti problemi.
Per la cronaca, la risoluzione secondo cui la decisione statunitense su Gerusalemme "è nulla, priva di validità e deve essere revocata" è stata votata da ben 22 membri della Ue. Tra questi, oltre all'Italia, figurano Francia, Germania e Regno Unito. Trentacinque delegazioni, in seguito alle pressioni esercitate dalla Casa Bianca, hanno scelto invece di astenersi, incluse quelle di Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Canada e Australia.
Il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha accusato l'Onu di essere "la casa delle bugie". Per il suo ambasciatore, Danny Danon, il voto di ieri "finirà nel secchio della spazzatura della storia". Rivolgendosi agli Stati che avevano appena votato in favore della risoluzione, il diplomatico ha aggiunto: "Siete marionette manovrate dal burattinaio palestinese".
(Libero, 22 dicembre 2017)
Tensione atlantica: lo scontro con gli Usa spacca i Paesi dell'Unione Europea
L'isolazionismo di Trump allontana l'America dagli alleati. Ma l'Europa dell'Est si smarca e si schiera con Washington.
Mevlut Cavusoglu
«I Paesi non si sono fatti intimidire dagli amerlcani»
Benjamin Netanyahu
«Rigettiamo del tutto una risoluzione assurda»
Abu Mazen
«Questo voto dell'Assemblea è una vittoria per la Palestina»
di Marco Ventura
ROMA - Nessuna sorpresa per la frattura tra Europa e Stati Uniti su Gerusalemme. Preoccupazione, invece, per la spaccatura interna all'Unione, con tre Paesi del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) che si sono astenuti sulla risoluzione anti-Trump. Osservatori autorevoli come Gianni Castellaneta, ex ambasciatore d'Italia a Washington, e Ferdinando Nelli Feroci, già Commissario europeo per l'Industria e oggi presidente dello lai (Istituto affari internazionali) sottolineano la fragilità dell'Unione. «La posizione degli europei era stata esposta con chiarezza al premier israeliano Netanyahu a Bruxelles», ricorda Nelli Feroci. «Con il voto all'Onu, il fossato tra Europa e Stati Uniti si approfondisce, anche se non è il primo episodio del genere né sarà l'ultimo. Ma è grave che alcuni Paesi Ue abbiano deciso di dissociarsi dalla linea comune. La spaccatura con l'America di Trump era scontata, non quella tra europei».
L'isolazionismo
Già, perché l'isolazionismo di The Donald offrirebbe su un piatto d' argento all'Europa la possibilità di farsi valere. «Tuttavia questo è il momento peggiore nella migliore occasione possibile per l'Europa di dimostrarsi unita», sintetizza Castellaneta. «Oggi l'Unione è attraversata dai populismi e dilaniata da tendenze centrifughe a Est col gruppo di Visegrad, a Ovest con la Brexit. L'Europa potrà riunirsi solo se Germania e Italia riusciranno a darsi un governo stabile e se tutti riusciranno a superare gli egoismi nazionali». Del resto la frattura tra le coste dell'Atlantico non è una novità assoluta. «Basta guardare alla storia della diplomazia statunitense», sottolinea il nostro ex ambasciatore negli Usa. «Un orientamento isolazionista è all'origine della fondazione degli Stati Uniti: l'indipendenza ruppe il cordone ombelicale con la madrepatria». Castellaneta cita la dottrina Monroe della prima metà dell'800 con gli Usa concentrati sul proprio "cortile di casa". L'intervento nella Seconda guerra mondiale è arrivata solo sulla scia del tragico attacco a sorpresa di Pearl Harbour. L'isolazionismo ha «sempre serpeggiato negli Stati Uniti, sostenuto dai movimenti evangelici, da una cultura americana anglosassone che vede gli altri come viziosi. Ma proprio le basi morali e le qualità degli Stati Uniti li hanno portati alla fine a dare il meglio di sé e contribuire a pace, stabilità e diritti umani». Perciò Castellaneta invita a guardare al domani. Trump si sgancia dalla corrente principale della politica internazionale e lascia «più spazio a Russia e Cina nelle rispettive aree di interesse, mentre l'Europa avrebbe una chance per mostrarsi compatta e costituire un terzo polo». Questa frattura potrà esser superata con uno scatto in avanti della diplomazia europea, con una ripresa d'iniziativa di una Europa finalmente compatta.
Le tappe del distacco
Le tappe del distacco americano dal mondo sono state ricordate da Charles A. Kupchan, già consigliere per la sicurezza nazionale Usa 2014- 2017, oggi professore di relazioni internazionali alla Georgetown University. Cioè: gli appelli al protezionismo, la cancellazione del Transpacific Partnership, le polemiche con la Germania della Merkel (che ha ricambiato invitando gli europei a «prendere in mano il proprio destino»), l'uscita dagli accordi di Parigi sul clima, il ripudio dell'intesa nucleare con l'Iran, e Gerusalemme capitale. «All'orizzonte non c'è un mondo senza Occidente, ma un Occidente senza l'America. L'Europa - dice Kupchan - non ha altra scelta che guardare oltre questa presidenza. Il trumpiano "America first" significa in realtà "America only''». Non "prima l'America", ma "solo l'America". Eppure, per Castellaneta gli Usa hanno una capacità di influire «che va al di là del singolo presidente. Trump ha soltanto reso le relazioni internazionali più nette, separando amici e nemici».
(Il Messaggero, 22 dicembre 2017)
Giro dItalia - Il turco Örken costretto a lasciare il team israeliano
Hanno pesato le tensioni in Medio Oriente, la scelta di Trump e la dura replica di Erdogan. Era un simbolo di integrazione e pace nella lsrael Academy. «La mia famiglia è in una situazione terribile».
di Luca Gialanella
Ahmet Örken
Era il più coccolato dai compagni. E a novembre aveva toccato la vetta più alta per un corridore turco e musulmano: «Ambasciatore per la pace», nominato direttamente dal figlio del premio Nobel Shimon Peres (presidente di Israele). Ahmet Örken, 25 anni, campione nazionale turco della cronometro, con la mezzaluna sul petto a fianco dei ciclisti della Israel Cycling Academy che portano la stella di David, aveva fatto una scelta coraggiosa. E rischiosissima. Durata poco più di un mese. La sua avventura è finita ieri. Un bruttissimo colpo per chi crede nei valori assoluti dello sport.
Orken era molto felice di questa esperienza. La Israel Academy è il progetto del manager Ran Margaliot per lanciare una squadra Professional nel grande ciclismo mondiale: la missione è «pace, unire, creare ponti», con una squadra che schiera corridori cristiani, musulmani ed ebrei. «Ci sono stati dei problemi tra i nostri Paesi, ma qui non mi sento straniero. Insieme, abbiamo l'opportunità di ispirare la gente e di cambiare il mondo intorno a noi», disse Orken. Sullo sfondo, la Grande Partenza del Giro d'Italia 2018 da Gerusalemme. Ma dopo la decisione del presidente americano Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di spostare qui l'ambasciata, il clima in Medio Oriente si è di nuovo infuocato. Il presidente turco, Erdogan, è stato durissimo contro Israele, e le parole di Örken, ieri, fanno capire benissimo il clima che ha dovuto affrontare. Con una pressione diventata insostenibile.
Lui viene da Konya, nell'altopiano centrale dell'Anatolia. Un milione di abitanti, capoluogo della provincia più grande della nazione, importante città romana e bizantina. Scrive Örken: «Ringrazio molto la Israel Academy per l'opportunità che ho avuto, sin dall'inizio sono stato accolto come in una famiglia. Ma sfortunatamente i recenti avvenimenti mi hanno portato a questa decisione. La mia famiglia a Konya - e specialmente mia madre e mio fratello - si è trovata in una situazione terribile. Sono un corridore, ma in primo luogo un figlio devoto e un fratello. E' stata un'esperienza unica e continuerò a sperare che questo programma vada avanti».
(La Gazzetta dello Sport, 22 dicembre 2017)
Gerusalemme capitale d'Israele. Bufera sul corteo «islamico»
BOLZANO - L'associazione famiglie magrebine e "Un ponte per l'integrazione" organizzano una marcia per dire no a Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. La manifestazione si terrà alla vigilia di Natale e proprio questo ha sollevato una serie di proteste. Della Lega ma anche dell'associazione Italia-Israele.
A sollevare il caso è il consigliere comunale della Lega Nord, Carlo Vettori. «Hamas proclama la nuova Intifada e Bolzano risponde. Le reazioni saranno come quelle viste in giro per il mondo con le bandiere degli Stati Uniti d'America ed Israele bruciate? In pieno periodo dei mercatini di Natale è saggio - si domanda l'esponente del Carroccio - autorizzare una simile manifestazione nella nostra città? Tutto ciò rischia di avere pesanti ripercussioni sull'economia del turismo della nostra città e della nostra provincia. Il sindaco Caramaschi - conclude Vettori - è al corrente di questa situazione».
Alessandro Bertoldi, presidente dell'Associazione Italia Israele Alto Adige Südtirol, in una nota chiede che «società e politica prendano le distanze» dalla manifestazione. «Non possiamo che esprimere il nostro sdegno e sconcerto rispetto ad un evento così simbolicamente violento, indecente e provocatorio - afferma Bertoldi - tanto più se organizzato a ridosso del Santo Natale. Gerusalemme è sempre stata e resterà per sempre la capitale eterna di Israele, a prescindere dal riconoscimento di chiunque. Il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e del presidente Trump dello status di capitale dello Stato ebraico a Gerusalemme non è stato che un riconoscimento di una situazione de facto, su cui pare evidente a chiunque essere insensato sindacare considerando che si tratta della libera scelta e decisione di un Paese libero e sovrano». Bertoldi conclude: «La provocazione di tenere tale evento il giorno della vigilia del Santo Natale è evidente a chiunque e mira ad attaccare simbolicamente sia le radici ebraiche che quelle cristiane dell'Europa. Una parte considerevole del mondo islamico sa bene che attaccare Israele e la sua capitale significhi attaccare la cultura e le radici dell'Occidente intero. Difendere Israele significa difendere noi stessi, vale a dire difendere l'unica democrazia liberale del Medio Oriente. Vigileremo sui contenuti della manifestazione stessa che - conclude Bertoldi - auspichiamo quantomeno possano essere civili e pacifici».
(Corriere dellAlto Adige, 22 dicembre 2017)
Relazione su incontri tenuti a Gerusalemme
Un amico israeliano di EDIPI, ebreo italiano residente a Gerusalemme, relaziona sugli incontri tenuti nei giorni 10-11 dicembre 2017 durante l'ultimo viaggio dell'associazione in Israele.
di Fulvio Canetti
Nella città vecchia di Gerusalemme nei locali del convento Maronita si sono tenute due conferenze sull'arca organizzate dal progetto voluto dalla dirigenza EDIPI guidata da Ivan Basana. La prima è stata sul tema dell'Arca dell'Alleanza di Mosè, la seconda di queste sull'Arca di Noè.
I relatori sono stati rispettivamente Dan Bahat e Azad Vartanian. Il primo ha parlato dell'Arca dell'Alleanza che era già scomparsa dal Tempio di Gerusalemme all'epoca della conquista babilonese della città perché riposta secondo il profeta Geremia sul monte Nebo in un luogo sconosciuto. Gli utensili presenti nel Tempio invece sono stati presi successivamente dai Romani e portati a Roma come bottino di guerra. Nel 400 e.v. quando vi fu il sacco di Roma ad opera dei Vandali nord-africani questi utensili sacri vennero portati a Cartagine e da qui a Costantinopoli. Giustiniano imperatore per motivi sconosciuti, donò questi oggetti alla grande Chiesa NEA di Gerusalemme dove ancora oggi dovrebbero essere sepolti sotto le sue rovine.
A questa conferenza è seguita quella dello scrittore Vartanian che ha spiegato, mediante immagini fotografiche eccezionali, le localizzazioni dell'Arca di Noè sul monte Ararat in Armenia. Nel filmato non sono mancate testimonianze storiche sulla popolazione armena discendente secondo la tradizione dai figli di Noè. Sono stati visti i villaggi armeni devastati dai Turchi e le immagini orribili delle foibe, dove i criminali turchi gettavano la popolazione armena.
Il giorno successivo, sempre su progetto EDIPI, si è svolta la cerimonia nei locali del Keren Ha-Yesod di Gerusalemme con la proiezione del film ''Oltre il Confine'' dei registi Massa-Azzetti e la presentazione del libro dello scrittore Marco Albino Ferrari, ambedue (film-libro) realizzati per onorare il personaggio e la memoria di Ettore Castiglioni in predicato di esser ''Giusto delle Nazioni''.
Ettore Castiglioni era un giovane alpinista milanese, che rifuggì la ricchezza della sua famiglia per dedicarsi al bene del prossimo, aiutando i bisognosi, i perseguitati politici e razziali a passare il confine italiano verso la Svizzera per trovar loro salvezza. In questi sentieri della speranza Ettore, durante una tempesta di neve, trovò la morte per assideramento.
Il progetto EDIPI è quello che il Castiglioni venga riconosciuto quale ''Giusto delle Nazioni''. Per questo scopo è già in programma in Italia (probabilmente a Febbraio 2018), un ulteriore evento per sensibilizzare il pubblico alla sottoscrizione di un fondo per l'apposizione di una ''targa'' in una scuola agricola del Golan, o in altro posto a Gerusalemme, onde poter onorare la sua memoria.
Dopo i saluti tra i convenuti Ivan Basana ha illustrato le motivazioni spirituali del coinvolgimento di EDIPI nel progetto Castiglioni inoltre è stato espresso da Vito Anav, di Keren Hayesod, un sentito ringraziamento a questo progetto di EDIPI che troverà la sua realizzazione con la benedizione di D-o e con il contributo umano.
(EDIPI, 22 dicembre 2017)
L'ossessione anti-Israele delle Nazioni Unite: dieci esempi di quest'anno
Revisionismo storico, faziosità, ipocrisia e vere e proprie bufale (fino al voto su Gerusalemme)
Riportiamo qui di seguito una lista delle dieci più sconcertanti azioni intraprese dall'Onu contro Israele nel 2017, fra le tante che si potrebbero citare.
- Un'agenzia Onu di 18 paesi arabi con sede a Beirut ha pubblicato un rapporto che accusa Israele di "apartheid". Hillel Neuer, direttore esecutivo della ong UN Watch, ha preso la parola per porre una semplice domanda ad Algeria, Iraq, Siria, Egitto, Libia, Libano, Yemen e agli altri paesi dell'agenzia: "Dove sono finiti i vostri ebrei?". Sulla sala è sceso un imbarazzato silenzio. Il video dell'intervento di UN Watch è diventato virale su internet con 5 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo....
(israele.net, 21 dicembre 2017)
Tra Mediterraneo e Africa orientale: ecco tutte le "proiezioni" di Israele
La mossa del presidente degli Stati Uniti Donald J.Trump di riconoscere Gerusalemme come legittima capitale di Israele ha esacerbato le tensioni in Medio Oriente, segnalando paradossalmente la delicata situazione in cui lo Stato ebraico si trova attualmente nel contesto regionale.
Israele, infatti, vive un contesto caratterizzato dal deterioramento delle sue relazioni nello scenario regionale: oltre quindici anni di scriteriate politiche statunitensi hanno portato al rafforzamento dell'acerrimo rivale iraniano, i rapporti con la Turchia di Erdogan sono ai minimi storici, il legittimo governo siriano di Bashar al-Assad avversato da Israele ha consolidato la sua tenuta, Hezbollah rimane un attore dinamico e fondamentale e al governo di Benjamin Netanyahu non è restata altra scelta che costituire l'innaturale e strumentale asse con l'Arabia Saudita del dinamico principe Mohammad bin Salman.
Al tempo stesso, Israele risulta di fatto una fortezza invulnerabile sotto il profilo militare per l'elevato livello delle sue forze armate, recentemente certificato dall'entrata in funzione del sistema Iron Dome, e la sua rilevanza geopolitica, fatto che consente a Israele di poter in ogni caso orchestrare una sua autonoma proiezione al di fuori del tormentato scenario regionale. Due sono le principali direttrici di espansione dell'influenza israeliana: il Mediterraneo e il continente africano.
Se in campo mediterraneo Israele risulta da tempo un attore dinamico, avendo operato un deciso rafforzamento della sua marina militare e essendo cresciuto il suo interesse per i giacimenti di gas offshore, la presenza di Israele in Africa si è decisamente rafforzata nelle ultime settimane. Particolarmente interessante per Israele risulta lo scenario dell'Africa orientale e del Mar Rosso, regione dall'elevata importanza geopolitica nelle quali sono coinvolte numerose potenze di prima e seconda fascia, dagli Stati Uniti all'Iran, dalla Cina all'Arabia Saudita.
Il viaggio di Netanyahu in Kenya e gli interessi di Israele in Africa orientale
Una proiezione nella regione bagnata dalle acque dell'Oceano Indiano occidentale e del Mar Rosso, fragili e vitali arterie di comunicazione per numerosi importanti traffici commerciali di rilevanza planetaria, risulta funzionale alla grande strategia di numerosi Paesi: tale fatto ha reso Stati come Sudan, Gibuti, Eritrea e Kenya sempre più importanti dal punto di vista geopolitico.
Proprio in Kenya il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha voluto rilanciare la volontà del governo di Israele di espandere la sua presenza in Africa orientale: Netanyahu ha visitato il Paese il 28 novembre scorso in occasione dell'insediamento del contestato presidente Uhuru Kenyatta e, come riportato dal Times of Israel, ha incontrato e dialogato con 11 capi di Stato e di governo dell'Africa orientale e centrale.
Il viaggio di Netanyahu ha portato all'ufficializzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Ruanda, alla conclusione di importanti memorandum di intesa per investimenti da parte di Israele in progetti energetici nel continente africano e al rafforzamento di un dialogo iniziato nel corso del precedente viaggio del Primo Ministro in Africa orientale risalente al 2016.
La cooperazione diplomatica ed economica potrebbe aprire la strada al grande obiettivo di Israele in una regione tanto strategicamente importante quanto di difficile gestione: garantirsi un dialogo continuo coi governi dell'Africa orientale su questioni securitarie e una crescente cooperazione nel sistema della Difesa che porti non solo a rilanciare l'export militare israeliano ma anche a riequilibrare le mosse dei rivali nell'area. Un obiettivo a lungo raggio che, di fatto, segnala le preoccupazioni di Israele per la tenuta del sistema geopolitico mediorientale, tanto precario da portare anche un attore solidamente radicato come Israele a guardarsi prudentemente le spalle.
(Gli occhi della guerra, 20 dicembre 2017)
Israele e Palestina, due stati con pari diritti
Per quanto concerne Gerusalemme, la soluzione mi sembra logica: Gerusalemme è una città santa per l'ebraismo come lo è per l'islamismo e per il cristianesimo. Nell'ambito di una soluzione a due Stati alla pari non vedo alcun problema nel considerare la parte Ovest capitale di Israele e la parte Est capitale della Palestina.
di Daniel Barenboim
Daniel Barenboim
La decisione del governo americano di trasferire l'ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come capitale di Israele, è l'ultimo di una serie di gravi interventi geopolitici nel conflitto israelo-palestinese. La decisione evidenzia come ogni iniziativa esterna tenda a favorire una delle due parti in conflitto e a demoralizzare l'altra, generando euforia da un lato e violenza dall'altro. Senza una contrapposizione risoluta e compatta a questa recente decisione, la soluzione del conflitto si allontanerà ulteriormente.
La nuova esplosione di violenza seguita alla mossa statunitense e le reazioni internazionali ribadiscono la necessità di esaminare alcuni aspetti del conflitto. Ormai da vari decenni il mondo parla della possibilità di una soluzione a due Stati. Occorre però chiedersi: dov'è il secondo Stato? Questo aspetto è particolarmente importante in quanto il conflitto israelo-palestinese è diverso dalle centinaia di conflitti della storia dell'umanità. Le ostilità si scatenano in genere tra due nazioni o tra due gruppi etnici che si contendono risorse come l'acqua o il petrolio. Invece il conflitto israelo-palestinese non riguarda due nazioni o Stati, ma due popoli profondamente convinti di aver diritto allo stesso piccolo pezzo di terra, sul quale vogliono vivere, preferibilmente senza l'altro. Ecco perché questo scontro non si può risolvere né sul piano militare né su quello meramente politico: occorre trovare una soluzione umana.
I fatti sono noti, non è necessario riportarne il dettaglio. La risoluzione del 1947 di dividere la Palestina ha incontrato il netto rifiuto da parte della totalità del mondo arabo. Forse questa decisione o la reazione conseguente sono state un errore, comunque dal punto di vista palestinese è stata una catastrofe. Ma la decisione era presa e tutti hanno dovuto imparare a fare i conti con i suoi effetti. I Palestinesi hanno da tempo rinunciato al loro diritto all'intero territorio della Palestina, dichiarandosi a favore di una divisione del Paese mentre Israele continua la pratica illegale degli insediamenti nei territori, mostrando scarsa disponibilità a imitare i Palestinesi. Alcuni aspetti del conflitto sono in una certa misura simmetrici. Altri sono invece asimmetrici. Israele è già uno Stato, uno Stato molto forte e deve quindi assumersi una parte maggiore di responsabilità.
Nessuno oggi mette seriamente in dubbio il diritto di Israele di esistere. Tuttavia, sulla questione israeliana il mondo è diviso. Da un lato esistono nazioni che si sentono responsabili per gli orrori inflitti dall'Europa agli ebrei e non si può che essere grati per il perdurare di questo senso di responsabilità. Purtroppo dall'altro lato esistono tuttora persone che negano l'Olocausto, fatto che alimenta alcune posizioni estreme nel mondo arabo e suscita giustamente disperazione tra la popolazione ebraica di Israele. Ciò nondimeno, malgrado tutte le giustificate critiche all'ostilità palestinese nei confronti di Israele, non si può considerarla una continuazione dell'antisemitismo europeo.
Di fronte alla decisione unilaterale degli Usa, faccio un appello al resto del mondo: riconoscete lo Stato della Palestina come avete riconosciuto Israele. Non ci si può attendere che due popoli nemmeno due persone che non si riconoscono reciprocamente trovino un compromesso. Per una soluzione a due Stati servono appunto due Stati che al momento non ci sono. La Palestina è occupata da 50 anni e non ci si può certo aspettare che i Palestinesi entrino in trattativa da questa posizione. Tutte le nazioni sinceramente interessate a una soluzione a due Stati devono riconoscere la Palestina e pretendere che venga immediatamente avviato un dialogo serio. Una soluzione a due Stati con pari diritti sarebbe la sola strada verso la giustizia per i Palestinesi e la sicurezza per Israele. Per quanto concerne Gerusalemme, la soluzione mi sembra logica: Gerusalemme è una città santa per l'ebraismo come lo è per l'islamismo e per il cristianesimo. Nell'ambito di una soluzione a due Stati alla pari non vedo alcun problema nel considerare Gerusalemme Ovest capitale di Israele e Gerusalemme Est capitale della Palestina.
Lancio quindi un appello alle grandi nazioni che non l'hanno ancora fatto affinché riconoscano subito la Palestina, con l'impegno ad avviare immediatamente i negoziati sui confini e sugli altri aspetti essenziali del conflitto. Non sarebbe un passo contro Israele, ma un passo in direzione di una soluzione sostenibile per entrambe le parti. È assolutamente chiaro che la volontà di pace di entrambi i popoli, Israeliani e Palestinesi, deve partire dagli stessi presupposti. Non si può forzare una soluzione dall'esterno. Quindi mi spingo oltre con il mio appello e invito i popoli di Israele e della Palestina a dichiarare in modo netto e chiaro che non ne possono più di questo conflitto decennale e che vogliono finalmente la pace.
(Corriere della Sera, 21 dicembre 2017 - trad. Maria Franca Elegante)
... non vedo alcun problema nel considerare Gerusalemme Ovest capitale di Israele e Gerusalemme Est capitale della Palestina, dice il famoso direttore dorchestra. E bisogna credergli, perché è vero: lui i problemi non li vede, non li vede proprio. Però ci sono. E lui, invece di aprire gli occhi apre la bocca. E così conferma il detto:
Tra letterati, artisti e sportivi,
ci sono persone di grandi capacità
che sanno dire con grande serietà
le più grandi stupidità.
Una via al terrorista Arafat. L'ultima trovata di Giggino
Il sindaco di Napoli celebra l'ex leader dellOlp e i suoi massacri
Cittadinanza onoraria
È stata riconosciuta un anno fa all'esponente di Hamas Bilal Jayd
Il primo cittadino
Ha sostenuto anche il progetto di boicottaggio di Israele
L'attentato
Alla sinagoga di Roma ad opera di un commando palestinese
di Dimitri Buffa
Una via a Napoli da intitolare a Yasser Arafat. Ci mancava e ci ha pensato, in questi giorni di vigilia natalizia, il sindaco Luigi de Magistris a colmare la lacuna.
Incurante dei mugugni, che presto diventeranno polemiche e poi una vera e propria rivolta, da parte della comunità ebraica napoletana. Che da ferragosto 2016 a l'altro ieri si è già dovuta sorbire prima la cittadinanza onoraria attribuita a un esponente di Hamas, Bilal Jayd, poi la conclamata adesione del sindaco stesso al «Bds», a marzo del 201 7, cioè al progetto di boicottaggio e disinvestimento in Israele promosso in tutto il mondo dalla lobby arabo islamica, e infine, qualche giorno fa, il conferimento di questa cittadinanza onoraria a Yasser Arafat. Il tutto motivato con «il premio Nobel per la pace» ricevuto ai tempi degli ormai morti e sepolti accordi di Oslo del 1993. Peraltro insieme all'ex presidente israeliano Shimon Peres e all'allora premier Yitzhak Rabin, poi assassinato anni dopo da un sedicente fanatico religioso ebreo. Rabin e Peres, però, nella toponomastica napoletana non entreranno.
E per chi si domandasse retoricamente del perché delle polemiche con la comunità israelitica locale già duramente provata parla il curriculum vitae (o forse «mortis») dello stesso Arafat. Molti si chiedono in realtà se Arafat fosse veramente degno del Nobel ottenuto a suo tempo (1994). La prima risposta, sarcastica, che si ottiene se si interroga in materia un qualsiasi ebreo di Napoli ( o se si legge la bacheca di qualcuno di loro su internet) è la seguente: «Alfred Nobel inventò la dinamite». Come a dire che Arafat era considerato un'autorità in materia. Fatto sta che è stato ritenuto degno di una strada o di una piazza (è ancora da decidere) nella splendida città che De Magistris amministra da quasi due mandati. Ma se negli anni precedenti gli accordi di Oslo il fatto che Abu Ammar avesse partecipato come mandante o ispiratore ai più sanguinari delitti dell'Olp ai danni di cittadini israeliani o ebrei americani, dai vari dirottamenti degli anni '60 ai due attentati a Fiumicino degli anni '70 e '80, passando per Monaco '72, l'attentato alla Sinagoga di Roma dell'ottobre 1982 e il dirottamento della Achille Lauro nel 1985 (azioni sempre ufficialmente svolte e rivendicate da fazioni dissidenti dell'Olp, come il Fplp, ma di certo con la piena consapevolezza della casa madre) poteva non essere considerato come causa che impedisce una pace e una riconciliazione tra ebrei e palestinesi sulla falsariga di percorsi già visti in paesi come il Sud Africa, è dopo il fallimento di Camp David che le responsabilità dell'ex padre padrone della Palestina diventano inquietanti. Arafat, che nella precedente vita di capo dell'Olp e del terrorismo palestinese era sostanzialmente una pedina dell'Urss nella guerra fredda, e la sua lotta armata non era molto dissimile da quella delle Br in Italia o della Raf in Germania, salvo per i mezzi dieci volte più imponenti, dall'estate del 2000 si trasformò improvvisamente in predicatore di odio islamico. In pratica rincorse Hamas sul suo stesso campo e mentre all'Onu teneva discorsi di pace in inglese in patria, a Ramallah, parlava in arabo in discorsi, poi trasmessi dalle tv israeliane in tutto il mondo, in cui la parola più usata era «al jìhad», Una volta la pronunziò tre volte in un celebre incitamento all'odio dopo l'episodio dei terroristi che si rifugiarono nella chiesa della Natività a Betlemme.
Se nel 1982 durante il governo Spadolini, che per poco non si dimise per questo fatto, entrava nel Parlamento italiano con la pistola nel cinturone, tipo western palestinese, dall'estate del 2001 portò la seconda Intifada al culmine della sua ferocia: iniziava l'epoca in cui le mamme a Tel Aviv mandavano i figli a scuola su due pullmann diversi per essere sicuri che almeno uno di loro tornasse a casa vivo. Epoca che finirà gradualmente dal 2006 in poi, cioè due anni dopo la morte di Arafat (pare per Aids) a Parigi. Cioè da dopo il completamento del famoso muro divisorio tra Israele e i territori che di fatto impedì l'ulteriore penetrazione degli «shaheed» nel territorio dello stato ebraico. Il muro che oggi anche Papa Francesco definisce «una vergogna» ma che la maggioranza dei cittadini israeliani considerano la cosa migliore fatta da un governo negli ultimi venti anni. Va anche ricordato che esiste anche chi è convinto, come l'analista Daniel Pipes, che la seconda intifada e l'11 settembre 2001, facessero parte di un unico disegno di rivolta islamista contro l'Occidente, a partire come al solito dall'America e Israele. Fatto sta che dal 2000 a oggi, cioè dall'inizio della seconda intifada, abbiamo conosciuto i cosiddetti martiri suicidi islamici anche in Europa, soprattutto dopo l'esplosione del fenomeno dell'Isis. Che dai palestinesi terroristi islamici è idealmente andato a scuola. Poi, a parte il terrorismo, forse qualcosa che avrebbe dovuto fare riflettere Luigi De Magistris, prima di decidere di intitolare questa strada, o piazza, ad Arafat, sarebbe dovuta essere la coerenza dell'ex pm con la sua crociata contro la corruzione. Arafat non era di certo uno che poteva unirsi ai coretti di «onestà , onestà» dei grillini. O ai comizi sulla legalità di politici come lo stesso De Magistris. Aveva portato all'estero una fortuna in soldi dei palestinesi. Una bella parte del bilancio dell'Anp, a partire dai fondi che generosamente Europa, Usa e Arabia Saudita, elargivano ed elargiscono ogni anno come aiuti umanitari. Dopo la sua morte la moglie Suha venne quasi sequestrata a Parigi da emissari della dirigenza dell' Anp che pretendevano almeno una parziale restituzione del maltolto. Si arrivò a una mediazione i cui termini esatti tuttora nessuno conosce.
Infine i diritti umani: nei territori palestinesi sotto Arafat, ma anche oggi, si può venire giustiziati sommariamente anche per un semplice sospetto di essere un informatore di Israele o per reati legati alla morale sessuale islamica.
(Il Tempo, 21 dicembre 2017)
Chi è Dov Moran, l'inventore della chiave USB
Dov Moran
Dov Moran è un imprenditore ed investitore israeliano, meglio conosciuto come l'inventore della famosa, ed ormai utilizzata in tutto il mondo, chiave USB. Nato a Ramat Gan, dopo aver conseguito la laurea presso il Technion di Haifa fu consulente informatico.
Moran costituì nel 1989 la M-Systems, un'azienda diventata pioniera nel mercato dei dati flash. L'azienda inventò l'unità flash USB (inizialmente con il nome di DiskOnKey e oggi conosciuta come chiave USB), il FlashDisk (DiskOnChip) e diversi altri dispositivi di archiviazione di dati.
Sotto la guida di Moran, M-Systems raggiunse miliardi di dollari di fatturato fino all'acquisizione da parte di SanDisk Corp, nel 2006, classificata ancora oggi come una delle più grandi acquisizioni nella storia di Israele.
Dopo la vendita di M-Systems, Moran fondò Modu, un'azienda che propose un nuovo concetto telefonico modulare, i cui brevetti furono acquistati da Google nel 2011. Oggi, questi brevetti sono alla base del progetto modulare di Google chiamato Project Ara.
Dov Moran, uomo visionario che ha fatto dell'informatica il suo credo, fu anche presidente di Biomas, sviluppatore di prodotti farmaceutici innovativi.
Nel corso del suo lavoro imprenditoriale, Moran depositò più di 40 brevetti e istituì anche Grove Venture, un fondo di capitali che investe principalmente in cloud computing, big data e Internet Of Things.
Moran percepisce l'istruzione come base per l'innovazione. Per tale ragione, segue tuttora gli imprenditori israeliani aiutandoli a trasformare la ricerca e l'innovazione in affari concreti.
(SiliconWadi, 21 dicembre 2017)
Che cosa sta facendo Israele per ottimizzare i suoi uffici cyber
Il primo ministro Benjamin Netanyahu accorperà due entità: ecco come e perché
di Michele Pierri
Il governo israeliano si appresta a fondere il National Cyber Bureau con la National Cybersecurity Authority, entrambi facenti capo al primo ministro, per dar vita ad una sola entità.
I compiti
La nascita della nuova realtà, decisa dal premier Benjamin Netanyahu, è stata sancita domenica scorsa. L'organismo - spiega Israel Defense - avrà il compito di definire le politiche e costruire l'apparato di difesa informatica del Paese, oltre ad assumersi la responsabilità delle operazioni.
Il percorso
La decisione, rileva The Jewish Press, giunge alla fine di un percorso iniziato nel 2011, quando il primo ministro Netanyahu istituì il National Cyber Bureau per guidare la strategia e impostare la politica nazionale sulla difesa cibernetica. Successivamente, nel 2015, nacque la National Cyber Defense Authority, con l'obiettivo di fungere da braccio operativo principale dell'apparato informatico del Paese.
Chi guiderà l'organismo?
Non è ancora chiaro quale sarà la governance del nuovo organismo. La settimana scorsa, l'ufficio del primo ministro ha annunciato che il capo del National Cyber Bureau e del National Cyber Directorate (che include a loro volta sia il Bureau sia la National Cyber Security Authority), Eviatar Matania, lascerà i suoi incarichi entro la fine dell'anno (guidava l'agenzia sin dalla sua fondazione). E che il nome dell'esperto che guiderà l'Incd sarà presto annunciato.
Il modello israeliano
Il governo israeliano investe da tempo una grossa parte della sua attenzione istituzionale sulle questioni relative alla sicurezza cibernetica, sia sotto il profilo militare e d'intelligence (per la salvaguardia dei propri interessi strategici), sia come volano e veicolo dello sviluppo economico. Uno degli elementi che sta spingendo il successo di Israele in questo frangente è stata la decisione - sempre di Netanyahu - di creare un cluster di sicurezza informatica in una città nel deserto, Be'er-Sheva. CyberSpark industry initiative, questo il nome dell'insediamento, altro non è che un progetto nazionale lanciato nel 2014 con l'obiettivo di riunire in un solo posto le aziende locali, le multinazionali globali, tutti i livelli di governo, i militari e il mondo accademico, e sostenere così lo sviluppo di un ecosistema informatico fiorente. Israele, anche grazie a questa iniziativa, ha visto nascere nel suo CyberSpark circa 350 aziende nazionali che hanno come core business proprio la cyber security e che esportano annualmente e in tutto il mondo, secondo le stime più recenti, servizi e tecnologie per circa 6 miliardi di dollari.
(formiche.net, 20 dicembre 2017)
Viaggio EDIPI di Hanukkah: due serate speciali sulla storia di Ettore Castiglioni
L'attestato di riconoscimento preparato da Vito Anav (a sinistra) di Keren Hayesod, consegnato ad Azad Vartanian (al centro) che lo farà pervenire al nipote di Ettore Castiglioni. A destra lo scrittore Marco Albino Ferrari
Nel programma del viaggio organizzato da Evangelici d'Italia per Israele per Hanukkah 2017 (7-14 dicembre) erano contemplate due serate per la presentazione dei libri sulla vita di Ettore Castiglioni.
La presenza di Marco Albino Ferrari autore di uno e curatore dell'altro, sui diari scritti proprio dal Castiglioni recentemente editi da Hoepli, ha contribuito ad una serata quanto mai interessante con molti interventi. In entrambe le serate, la prima a Gerusalemme, nella sede dell'Agenzia Ebraica e la seconda a Tel Aviv nell'Istituti Italiano di Cultura dell'Ambasciata Italiana è stato proiettato il film "Oltre il Confine - La storia di Ettore Castiglioni" dei registi padovani Andrea Azzetti e Federico Massa che è risultato un documentario molto ben realizzato e che ha ottenuto, nella sua breve vita, vari riconoscimenti nazionali ed internazionali.
La storia è quella dell'alpinista e antifascista Ettore Castiglioni, raccontata attraverso le immagini dei luoghi e la voce del diario che riporta le sue angosce e le sue speranze, da Milano al rifugio nelle montagne dove si rifugiò dopo l'8 settembre per la sua seconda vita da partigiano. In questa esperienza salvò decine di ebrei e perseguitati politici italiani, tra cui il futuro primo presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi, incappando però nell'arresto delle guardie di confine svizzero portandolo alla prigionia e poi alla fuga impossibile fino alla morte oer assideramento che lascia ancora molti dubbi. Nel film, come peraltro durante le due serate, è stata la voce dello scrittore Marco Albino Ferrari, curatore dell'edizione critica del diario, a ripercorrere i momenti salienti della vita dell'alpinista, tra documenti e testimonianze, per addentrarsi nel mistero della sua morte. A questo punto ci si domandava perché lui, alpinista provetto che ben conosceva l'impossibilità dell'impresa, decise di calarsi seminudo dal lato più difficile del passo montano al confine con la Svizzera, per poi cedere all'assideramento giusto pochi metri entro il confine italiano. Una storia che meriterebbe, data anche la qualità del documentario, di entrare nelle scuole.
(EDIPI, 20 dicembre 2017)
Cosenza, città amica degli ebrei
Si è celebrata nel centro storico la Festa delle Luci
COSENZA - La Festa ebraica delle Luci (Chanukka) è uno degli appuntamenti fissi del cartellone di iniziative che l'Amministrazione comunale programma per il periodo delle festività e, insieme ad altre - la Giornata Europea della Cultura ebraica, la Giornata della Memoria, lo studio sulla Menorah, legata alla leggenda di Alarico - riafferma la tradizione di 'Cosenza, città amica degli ebrei'.
Quest'anno la cerimonia dell'accensione della chanukkìa, il candelabro a nove bracci, è stata preceduta dalla visita a Palazzo dei Bruzi della Presidente della Unione Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, accompagnata dal delegato UCEI per la Calabria Roque Pugliese e dal Rav. Umberto Piperno, accolti nel Salone di Rappresentanza dal Presidente del Consiglio Pierluigi Caputo e dal prof. Geppino De Rose. La Festa ebraica delle Luci, tanto nel suo momento istituzionale quanto nella cerimonia dell'accensione, ha raccolto intorno a sé, ancora una volta, i rappresentanti delle altre religioni con quel sentimento di fratellanza che necessita, ancora oggi, di essere affermato e testimoniato. E tutti, in Largo Antoniozzi, che nel centro storico può definirsi la porta di ingresso di quello che era il quartiere ebraico, hanno partecipato all'accensione della bellissima Chanukkìa, accendendo ognuno una luce.
La Festa delle Luci ha anche una sua cucina, in particolare un dolce fritto, le 'sufganiot', che nell'occasione è stato preparato e offerto dagli allievi dell'Istituto di Istruzione Secondaria " P. Mancini" di Cosenza.
(LameziaClick, 20 dicembre 2017)
Gerusalemme, avvertimento degli Usa all'Onu: «Ci segneremo i nomi»
In vista del voto dell'Assemblea sulla mozione contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale. Il tweet dell'ambasciatrice Haley: «Non ci aspettiamo che ci prendano di mira»
L'ambasciatrice Usa all'Onu, Nikki Haley,
«Gli Usa si segneranno i nomi». È l'avvertimento lanciato dall'ambasciatrice americana all'Onu, Nikki Haley, in vista del voto di giovedì all'Assemblea generale dell'Onu riunita in sessione straordinaria sulla risoluzione che chiede al presidente Donald Trump di ritirare la dichiarazione con cui gli Stati Uniti hanno riconosciuto Gerusalemme capitale d'Israele.
La sessione speciale è stata chiesta dai Paesi arabi e arriva dopo che Washington ha posto il veto a una risoluzione (presentata dall'Egitto) in cui si chiedeva ai paesi membri di non trasferire le loro ambasciate a Gerusalemme, dove gli altri 14 voti erano stati a favore. I palestinesi avevano anticipato l'intenzione di portare un testo simile all'Assemblea generale, dove nessun Paese ha potere di veto, ma le cui risoluzioni non hanno carattere vincolante.
Per essere approvata la risoluzione ha bisogno di una maggioranza dei due terzi dei voti. La Haley aveva già definito «un insulto» il semplice fatto che tale mozione sia stata presentata in Consiglio di sicurezza.
(Corriere della Sera, 20 dicembre 2017)
Imputato Israele
"Col suo voto all'Onu su Gerusalemme, l'Europa fomenta l'antisemitismo". Intervista a Yossi Klein Halevi.
di Giulio Meotti
ROMA - E' di quattordici contro uno il bilancio del voto sulla risoluzione al Consiglio di sicurezza dell'Onu con cui lunedì l'Egitto ha chiesto di non spostare le ambasciate a Gerusalemme, come invece hanno stabilito gli Stati Uniti. Per la prima volta da un anno, l'America ha messo il veto all'Onu e lo ha fatto proprio su Israele. Quattordici i voti a favore della risoluzione contro "Gerusalemme capitale": Cina, Russia, Inghilterra, Francia, Giappone, Italia, Egitto, Bolivia, Uruguay, Svezia, Ucraina, Etiopia, Kazakistan e Senegal. Neppure nelle risoluzioni sulla Siria - l'uso del gas nelle stragi dei civili-si era arrivati a tutti contro uno.
"Il voto di ieri è parte di una lunga stagione del sospetto coltivato dall'Europa su Israele", dice al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano di cultura liberal, corrispondente da Gerusalemme per molte testate americane e senior fellow allo Shalom Hartman Institute, dove dirige con l'imam Abdullah Antepli della Duke University la Muslim Leadership Initiative. Yossi Klein Halevi ha anche scritto "Like Dreamers", il libro in cui racconta la storia dei paracadutisti israeliani che nel 1967 liberarono Gerusalemme. "Gli europei ormai votano regolarmente per le risoluzioni delle Nazioni Unite che negano la storia ebraica di Gerusalemme e definiscono Israele 'paese occupante' nella sua stessa capitale. Così si nega la nostra legittimità. La risoluzione di ieri al Consiglio di sicurezza cancella dunque la storia della nostra capitale. L'antisemitismo europeo ha sempre visto gli ebrei come l'altro per eccellenza. Adesso è Israele l'altro assoluto. Siamo l'unico paese al mondo che non ha diritto di definire e scegliere la propria capitale. Se leggi la decisione dell'Amministrazione Trump, non c'è scritto quali siano i confini di Gerusalemme, se siano nella parte ovest o est, che saranno oggetto di negoziato. E' piuttosto un riconoscimento de facto di Gerusalemme capitale di Israele. L'Europa ci sta invece dicendo che non abbiamo alcun diritto a Gerusalemme. L'Europa ha nostalgia per una Berlino divisa e vorrebbe vedere anche Gerusalemme nuovamente divisa? Non meravigliatevi che gli israeliani vedano oggi l'Unione europea come una forza politica ostile".
C'è il paradosso per cui paesi, come la Francia e la Svezia, alle prese internamente con un antisemitismo spaventoso, votano contro lo stato ebraico all'Onu. In Francia, gli ebrei sono vittime di un "esodo interno": non c'è solo l'aliyah dei 40 mila ebrei riparati in Israele in soli dieci anni, c'è anche una fuga degli ebrei dentro la stessa Repubblica francese, dalle banlieue alle città. In Svezia, negli ultimi giorni, bombe molotov sono state lanciate contro le sinagoghe e slogan come "morte agli ebrei" sono stati scanditi nelle piazze delle città principali, da Stoccolma a Malmo.
Quello che ci ostiniamo a non vedere
"L'Europa non vuole vedere l'antisemitismo nelle proprie strade", conclude al Foglio Yossi Klein Halevi. "Ma c'è una vera e propria schizofrenia nella mente europea: isolando e stigmatizzando Israele, assaltando lo stato ebraico nelle sedi internazionali, l'Europa incoraggia quello stesso antisemitismo di cui prova imbarazzo".
A votare, lunedì sera all'Onu, c'era un carrozzone di stati ricchi e democratici (come Francia e Inghilterra), di stati falliti e poveri (come il Senegal) e di giganti autoritari (come la Cina). Si trovano d'accordo soltanto nel processare di fronte all'opinione pubblica internazionale uno stato che copre lo 0,0001 per cento della superficie della terra, grande quanto il New Jersey o la Puglia, i cui abitanti ammontano a un millesimo della popolazione mondiale, ma che è l'unico stato al mondo degli ebrei. Lunedì sera, seduto in un angolo, c'era l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon. Sembrava il testimone di un processo.
(Il Foglio, 20 dicembre 2017)
Museo dell'ebraismo a Ferrara
Adesso anche l'Italia lo possiede come ce l'hanno tutte le altre grandi nazioni europee. Una città con una comunità a lungo accolta e protetta.
di Gianfranco Morra
L'arcosolio delle colombe ebraiche di Venosa
Molte città italiane hanno un loro museo ebraico locale, in genere
vicino alla sinagoga ricostruita. Ma ora abbiamo molto di più. Il presidente Sergio Mattarella ha inaugurato a Ferrara il primo grande Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano. Fu voluto dal parlamento con la legge 91 del 2003 e per metà è già realizzato e funzionante. Gli spazi, davvero ampi, sono quelli dell'ex carcere, appoggiato alle mura rinascimentali e non lontano dal ghetto. Un carcere dove purtroppo tanti ebrei hanno atteso di partire col treno senza ritorno. È stato fatto un grande restyling che non è un adattamento, ma una creazione nuova. Per ora completata solo in parte.
Nei prossimi anni si aggiungeranno alle sale espositive anche quei comfort che sono richiesti da un museo moderno: biblioteca, archivio, auditorium, caffetteria e shopping (cinque, come i libri della Thorah). Ma perché Ferrara? Si dirà perché dietro le quinte ci sono (oltre ad Alain Elkann) due ferraresi, Vittorio Sgarbi e Dario Franceschini. Ma non solo. Ferrara è una delle città italiane che ha avuto una comunità ebraica a lungo accolta e anche protetta. Ancor oggi i turisti cercano (come già i viaggiatori del «Grand Tour» i luoghi, pieni di mistero e di fascino, da loro abitati, in vita e in morte. Il vecchio cimitero di via Vignatagliata non è certo quello di Praga, ma suscita una non diversa suggestione.
E sono lieti di assaporare, nel vecchio ghetto, i piatti della cucina ebraica. E poi con un diffuso romanzo, che divenne film con Vittorio De Sica, Il giardino dei Finzi Contini, Giorgio Bassani ha reso virale la comunità ebraica ferrarese nel mondo. I turisti continuano a chiedere in quale luogo si trova, non sanno che si tratta di una fiction letteraria. Scarsi nel medioevo, gli ebrei arrivarono a Ferrara soprattutto dalla Spagna. Erano sefarditi e i sovrani cattolici li avevano prima costretti ad una finta conversione e poi cacciati come «marranos» (porci). Nella Ferrara, città che dominava nell'urbanistica, nella cultura e nell'arte, era duca Ercole I, che in un primo tempo li protesse: «Siamo molto contenti che vengano ad abitare qua con le loro famiglie» (1492).
Ma era solo la «carota». Quando crebbero troppo e divennero 2.000, Ercole usò anche il «bastone»: «Che tutti li Hebrei et marani abitanti in Ferrara e nel Ferrarese debiano tutti portare lo O in lo petto giallo cusito» (1496). La protezione cessò del tutto quando il papa nel 1597 occupò Ferrara e Urbano VIII (Barberini) istituì quel ghetto, con i suoi cinque cancelli, che, tranne la parentesi dell'occupazione francese, durò sino all'Unità d'Italia. Tuttavia gli ebrei erano ben inseriti nella comunità ferrarese, dove esercitavano il commercio, ma anche la professione medica. L'ebraismo in genere rifiuta l'integrazione, ma cerca anche una convivenza rispettosa del potere politico. Religione del popolo «eletto», manca di ogni proselitismo, non crea conflitti di religione, anche se è saldamente legato ai suoi riti e costumi.
Forte sarà la loro partecipazione al processo dell'indipendenza italiana. E alcuni ebrei aderirono al fascismo e Renzo Ravenna fu podestà di Ferrara dal 1926 al 1938, molto apprezzato e ben voluto per l'opera di sviluppo della città. Era amico di Italo Balbo, che era del tutto contrario alle leggi razziali e in Libia salvò molti ebrei. Dal 1938 gli ebrei furono emarginati e dal 1943 eliminati: Ravenna si salvò in Svizzera, ma degli ebrei ferraresi solo cinque su cento tornarono dal lager. Questa triste storia verrà narrata con una nuova mostra fra qualche anno.
Per ora il Museo ha allestito una esposizione inaugurale, dedicata al primo dei due millenni di presenza degli ebrei nel nostro paese (Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni; sino al 16 settembre 2018, ore 10-18, lunedì chiusa). Di loro si ha notizia a partire dal secondo secolo a. C. ma solo nell'Italia meridionale. A Roma, ovviamente, ma anche a Napoli, Taranto, Salerno, Capua, Trani, e nei principali porti siciliani. Vi giunsero numerosi dopo che Tito nel 70 distrusse il Secondo Tempio e la città di Gerusalemme. Un evento epocale visualizzato in mostra con una enorme riproduzione di un fregio dell'Arco romano di Tito: gli inservienti portano via dal tempio tutti gli oggetti sacri e preziosi.
La mostra espone 200 reperti di straordinario valore provenienti da musei di tutto il mondo: manoscritti, documenti medievali, anelli, sigilli, monete, amuleti, oggetti di culto.
Di grande suggestione l'arcosolio delle catacombe ebraiche di Venosa (V secolo), con affrescati i simboli della religione: la menorah (il settuplice candelabro), lo shofar (corno), il lulav (palma) e l'etrog (cedro). Molte grandi città mondiali dispongono di grandi e ricchi musei dell'ebraismo. Anche se nessuna ancora è riuscita a raggiungere la perfezione di quello di Berlino. Già esisteva e fu chiuso dai nazisti. L'architetto destrutturalista Daniel Libeskind lo ha progettato e concluso nel 2001. Ora a queste città si aggiunge Ferrara.
(ItaliaOggi, 20 dicembre 2017)
Arrestata la piccola provocatrice palestinese. Ma Israele si divide sui soldati «troppo buoni»
La scena ripresa con il cellulare e messa sui social. Le reazioni tra indignazione, ira e timore. La 16enne è una professionista delle aggressioni ai militari. Ora rischia 7 anni
di Fiamma Nirenstein
Remissivi, troppo buoni: non sembri strano, parliamo dei soldati israeliani, in genere ritratti come giovani armati fino ai denti. Aggressivi e severi col nemico. Stavolta è il contrario: non si sono dimostrati troppo morbidi? Non se ne approfitterà il nemico? La scena è una zona vicino a Ramallah, presso il villaggio di Nabi Saleh. Il sole è alto, qualche ulivo, la terra rossa, le case dei palestinesi in vista. Due giovani della distinta unità dei Givati montano la guardia per evitare attacchi agli israeliani. Ed ecco le ragazzine. La macchina da presa è già in funzione, i telefonini vibranti di azione.
Si sono fatte carine, una biondina detta Shirley Tempie dai suoi vicini di Nabi Saleh, già con molta esperienza nel campo delle provocazioni ai soldati israeliani, famosa tanto da essere stata invitata in Sud Africa, e a cena, in Turchia, Tayyp Erdogan. Una ragazza più grande ha un manto lucente di capelli neri appena fatti e la kefia aggiustata con arte incorno al collo; seguono altre ragazzine tutte giovanissime, fragili, carine e dietro la madre della famiglia eroica, la famiglia Tarnimi. È pronta al suo ruolo di matrona palestinese con la testa fasciata, infuriata dietro a figlie e nipoti. I Tamirni sono star degli scontri, specializzati in Intifada, distinti nell'attacco collettivo con telecamera, compresi i bambini sempre usati dai palestinesi, a un soldato trovato da solo e ridotto a terra fra botte e insulti. Lui non usò l'arma che pure aveva, è proibito dal codice di comportamento israeliano finché non è in pericolo la vita.
La telecamera qui ha dettato legge fino al paradosso: le ragazze si sono fatte sotto, hanno cominciato a spintonare i soldati, a insultarli e a urlare, hanno persino tirato degli schiaffi cercando una di quelle risposte per cui i palestinesi poi mandano in giro sui social media, ripreso da Bbc e Cnn, un cattivissimo, orribile soldato che tira uno spintone a una ragazzina piccola piccola e bionda. Non è successo, i soldati si sono beccati parandosi appena la faccia con le mani tutti gli sputi e le spinte. Hanno fatto bene? Israele discute. È una vera rottura epistemologica nella storia del potere dell'immagine, la sua incoronazione.
Il film è stato fatto circolare dai palestinesi per far vedere quanto sono tonti i soldati e quanto sia mal difeso il Paese, ovvero per creare confusione. Ha funzionato: ci sono state molte reazioni irate, molte invece compiaciute, la madre di uno dei ragazzi si è detta orgogliosa, i politici hanno reagito in maniera dolce-amara. Un Paese a rischio deve sapere gestire il dilemma della macchina da presa senza arrendersi. È possibile? Ahed Tamimi, la ragazzina protagonista, è stata arrestata con quattro giorni di ritardo. L'accusa è «sospetto di aver attaccato un ufficiale e un soldato», un reato per cui si può essere condannati fino a sette anni. Il padre della ragazza ha postato un video in cui si vede che l'arresto è stato accompagnato dal sequestro violento dei telefonini, macchine da presa, lapotop. Ma quelli glieli ricompra Erdogan.
(il Giornale, 20 dicembre 2017)
Laboratorio israeliano licenzia 14 mila persone
Leader mondiale dei farmaci generici
di Ettore Bianchi
Teva, industria israeliana, leader mondiale nella produzione di farmaci generici, taglierà 14 mila posti, pari al 25% dell'organico, nei prossimi due anni, per comprimere i costi e riguadagnare la fiducia degli investitori. Una decisione dolorosa, di sopravvivenza per Teva che è in grande difficoltà dopo la disastrosa acquisizione di Actavis negli Stati Uniti e coinvolta in un caso di corruzione. L'annuncio della ristrutturazione ha prodotto un balzo del 10,2% del titolo Teva, giovedì scorso alla borsa di New York
Il piano del nuovo patron di Teva, Kare Schultz, manager danese chiamato in soccorso a settembre (il sesto in cinque anni) lascia a secco gli azionisti che non riceveranno alcun dividendo per il 2017, anno nero che si chiuderà con una perdita di circa 3,5 miliardi di euro. Ma sono i dipendenti a pagare il prezzo più alto con 14 mila licenziamenti, a partire da gennaio 2018. Di questi, 1.750 in Israele. Inoltre, Schultz prevede di chiudere o vendere un numero significativo di siti di produzione e ricerca in tutto il mondo. Infine, niente bonus ai dipendenti che resteranno in azienda. Con queste misure draconiane Schultz spera di risparmiare 3 miliardi di dollari l'anno (2,5 mld di euro), pari a circa il 19%, entro fine 2019. Tagliando i costi fissi, Schultz vuole assicurarsi che l'azienda possa onorare tutti i suoi impegni finanziari. Ma al di là di queste misure di emergenza, resta da capire la strategia di crescita: Teva deve scommettere tutto sulle copie dei farmaci che hanno perso il brevetto, ma come può crescere e guadagnare con i generici in un mercato in cui un pugno di grandi attori impone prezzi sempre più bassi?
(ItaliaOggi, 20 dicembre 2017)
Dopo le minacce antisemite in Canada aumentano le misure di sicurezza nelle sinagoghe
In occasione della festa ebraica di Hannukkah, sono state recapitate lettere minatorie nei confronti della comunità israelita. Insulti contro gli ebrei sui muri di scuole e università.
L'effetto domino di proteste e minacce innescato dalla decisione del presidente americano Trump di spostare l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, raggiunge anche il Canada dove sinagoghe di diverse città, tra le quali Montreal e Toronto, hanno ricevuto lettere di minacce antisemite in occasione della festa ebraica di Hanukkah. Tanto che le forze di polizia hanno predisposto nuove misure per garantire la sicurezza dei luoghi di preghiera.
Minacce che non sono state prese alla leggera: lo stesso primo ministro Justin Trudeau, utilizzando Twitter, ha fatto giungere il suo ''sostegno per la comunità ebraica del Canada", assicurando che "questi atti odiosi e antisemiti" non saranno tollerati.
Oltre a quella di Montreal, sette sinagoghe hanno ricevuto gli stessi messaggi antisemiti, a Toronto, Kingston, Hamilton, ed Edmonton, secondo quanto reso noto dalla branca canadese dell'organizzazione caritatevole ebraica B'nai Brith.
Michael Mostryn, presidente della B'nai Brith Canada, stigmatizzando le minacce, ha anche deplorato il fatto che negli ultimi mesi messaggi antisemiti siano spuntati sui muri di scuole, università o edifici pubblici.
In Canada, Paese tradizionalmente molto tollerante, anche per il suo multiculturalismo, negli ultimi tempi si sono manifestati episodi di odio razziale, come attacchi alle moschee e manifestazione contro i flussi migratori da parte di gruppi di estremisti di destra in Quebec.
(globalist, 20 dicembre 2017)
Missile dallo Yemen su Riad Rischio di guerra con l'Iran
Appoggiati da Teheran, i ribelli houthi hanno colpito la residenza della monarchia durante una riunione.
di Fausto Biloslavo
Il nuovo missile lanciato su Riad, capitale dell'Arabia Saudita, e intercettato in volo prima di colpire il palazzo reale è l'ennesimo campanello d'allarme per la guerra che verrà.
Nel 2018 una scontro aperto fra Iran e sauditi appoggiati indirettamente da Israele e Stati Uniti è uno scenario sempre più probabile.
Ieri i ribelli houthi dello Yemen, appoggiati da Teheran, hanno rivendicato il lancio di un missile balistico Burkan 2 che avrebbe dovuto colpire il palazzo Al Yamama, residenza della monarchia saudita durante una riunione al vertice con diversi ministri. Il sistema anti missile fornito dagli americani ha fatto esplodere in volo l'ordigno lanciato dallo Yemen travolto dalla guerra civile, a mille chilometri di distanza.
La capitale saudita è stata scossa dal boato dell'esplosione. Una nuvola bianca nel cielo ripresa dai telefonini dimostra che il missile stava piombando sulla città. Non è la prima volta: in maggio il primo missile era stato intercettato a 200 chilometri dalla capitale durante la visita in Arabia Saudita del presidente Donald Trump, che ha ribadito l'appoggio Usa contro l'Iran. Il 4 novembre un secondo missile è esploso sopra l'aeroporto internazionale di Riad, obiettivo del lancio sempre dallo Yemen. Nel Paese confinante si combatte dal 2015 una spietata guerra civile fra la minoranza sciita degli houthi e i sunniti alleati dell'Arabia Saudita. Iraniani e sauditi sono pesantemente coinvolti nel conflitto per procura. Teheran, nonostante le smentite, aiuta e fornisce armi ai ribelli sciiti e i sauditi sono intervenuti direttamente con raid aerei. Lo Yemen è isolato da un blocco navale e terrestre che affama la popolazione e scatena le rappresaglie sciite. Il lancio dell'ultimo missile è stato annunciato come «una nuova escalation militare nella guerra contro la coalizione militare guidata dall'Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti» secondo un funzionario della Difesa yemenita in mano agli houthi.
La scorsa settimana l'ambasciatore americano alle Nazioni Unite, l'agguerrita Nikki Haley, ha mostrato i resti di un missile a corto raggio di fabbricazione iraniana che sarebbero i rottami di quello lanciato dagli sciiti a novembre verso l'aeroporto internazionale della capitale saudita. L'erede al trono, principe Mohammed bin Salman, ha definito il lancio dei missili «un atto di guerra». Gli sciiti iraniani e i sunniti sauditi si odiano da sempre, ma il braccio di ferro in Medio Oriente si è trasformato in guerra per procura non solo nello Yemen. In Siria i giannizzeri iraniani, con il cruciale appoggio dei russi, hanno salvato il regime di Bashar Al Assad nonostante l'invio di armi e soldi sauditi ai ribelli, comprese le formazioni estremiste. In Irak, confinante con l'Arabia Saudita, il governo e le milizie sciite pro-Iran hanno vinto la guerra contro l'Isis aprendo un corridoio terrestre da Teheran fino a Beirut sulle sponde del Mediterraneo. In Libano la crisi politica fra sunniti e sciiti, che potrebbe esplodere in conflitto armato, è alimentata da Riad in funzione anti Hezbollah, il partito armato costola degli ayatollah.
Israele, che considera l'Iran una minaccia mortale, sarebbe pronto ad aiutare sotto banco i sauditi in caso di conflitto con Teheran. L'escalation dei missili è solo un campanello d'allarme della guerra che potrebbe scoppiare il prossimo anno, su più fronti, sconvolgendo ancora una volta il Medio Oriente.
(il Giornale, 20 dicembre 2017)
Lieberman: pronti a pagare il prezzo della decisione di Trump su Gerusalemme
GERUSALEMME - Israele è pronto a pagare il prezzo della decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale del paese: lo ha dichiarato oggi il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, citato dal quotidiano locale "Jerusalem Post". Il ministro si trova in visita ufficiale nelle regioni meridionali dello Stato ebraico, recentemente oggetto di attacchi con razzi provenienti da Gaza. Mentre Israele ribadisce di non tollerare attacchi da parte palestinese, Lieberman ha precisato che il paese è attualmente "più preparato di sempre, e Hamas ha ricevuto il messaggio". I jet israeliani hanno colpito nelle ultime due settimane oltre 40 obiettivi di Hamas, organizzazione ritenuta responsabile da Israele degli attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza; la risposta israeliana segue il lancio di diversi razzi diretti verso i territori meridionali israeliani. Il ministro Lieberman ha aggiunto che Israele "sa cosa fare, come farlo e quando prendere l'iniziativa. Ciò che è importante ora è sostenere la causa di Gerusalemme". Lieberman si è infine detto impressionato dall'ottimismo che avrebbe riscontrato durante la visita presso le comunità della regione meridionale: "Non si può che apprezzare la perseveranza della popolazione residente e il suo sostegno alle istituzioni della difesa". Tuttavia Tamir Idan, responsabile del Consiglio regionale di Sdot Negev, nel sud del paese, aveva dichiarato domenica di "non essere preparato ad una situazione di emergenza da fronteggiare quotidianamente".
(Agenzia Nova, 19 dicembre 2017)
Stati Uniti isolati su Gerusalemme. Anche l'Italia vota contro
Gli Stati Uniti sono sempre più isolati all'Onu dopo la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Washington ha usato il potere di veto per bloccare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza elaborata dall'Egitto, che puntava ad invalidare la decisione del tycoon. Il testo era stato appoggiato da tutti i 14 membri del Consiglio Onu. Italia inclusa. Sebbene n´ gli Stati Uniti, né Trump siano stati menzionati direttamente nel documento, che ha espresso «il profondo rammarico per le recenti decisioni riguardanti lo status di Gerusalemme». Il testo, approvato all'unanimità ma bloccato dal veto, ha di fatto ottenuto evidenziato l'isolamento dell'America. L'Italia aveva sostenuto la risoluzione «in quanto riafferma principi consolidati e già sanciti in diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu»: lo ha detto l'ambasciatore Sebastiano Cardi, rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, dopo aver votato a favore del testo per invalidare la decisione del presidente Usa Donald Trump su Gerusalemme. «Lo status di Gerusalemme come futura capitale di due Stati deve essere negoziato tra Israele e Palestina, nel quadro di un processo di pace», ha sottolineato Cardi.
(La Stampa, 19 dicembre 2017)
Così Obama fermò il blitz anti-Hezbollah
La priorità a Washington era l'intesa nucleare con l'Iran. Che cosa accadde?
di Paolo Mastrolilli
Si chiamava «Project Cassandra», era l'operazione con cui la Drug Enforcement Administration degli Stati Uniti aveva scoperto lo schema usato da Hezbollah per arricchirsi con il traffico di droga e armi. Quando però le agenzie americane avevano ammassato abbastanza prove per incriminare i colpevoli, i vertici dell'amministrazione Obama le avevano fermate, per non compromettere le trattative con l'Iran per l'accordo sul programma nucleare. A rivelarlo è un'approfondita inchiesta del sito «Politico», che ha parlato con i responsabili dell'operazione. Nel 2008, anno dell'elezione dell'ex senatore dell'Illinois alla Casa Bianca, la Dea aveva scoperto i primi indizi del traffico, che fruttava ad Hezbollah circa un miliardo di dollari all'anno. Il gruppo sciita basato in Libano aiutava l'esportazione della cocaina dal Venezuela agli Stati Uniti, e poi riciclava i soldi comprando auto usate trasportate in Africa occidentale. I profitti ripuliti tornavano nelle banche libanesi, alimentando in continuazione questo circolo, che serviva a finanziare le attività del Partito di Dio in tutto il mondo. I traffici infatti venivano usati anche per trasportare armi e uomini, che spesso venivano associati alle missioni diplomatiche iraniane per condurre attività segrete di destabilizzazione. La rete delle complicità era molto vasta, perché la vendita della droga veniva fatta in collaborazione con i leader venezuelani, prima Chavez e poi Maduro, mentre le armi passavano attraverso la Siria, gestite da un intermediario libanese di nome Ali Fayad che riportava al presidente russo Putin. Un altro uomo chiave era Abdallah Safieddine, l'inviato di Hezbollah a Teheran, e un personaggio soprannominato «Ghost», il fantasma, che gestiva le operazioni negli Usa. La Lebanese Canadian Bank era una delle istituzioni finanziarie chiave dell'intero progetto. Quando la Dea si era sentita pronta ad intervenire con incriminazioni, arresti e richieste di estradizione, il governo Obama l'avrebbe fermata. Lo hanno detto a Politico Derek Maltz e David Asher, che gestivano il «Project Cassandra», sostenendo che l'amministrazione non voleva correre il rischio di urtare l'Iran e far saltare l'accordo nucleare.
(La Stampa, 19 dicembre 2017)
Missili da Gaza sui civili israeliani. mentre l'Onu pensa a Trump
I caccia israeliani hanno colpito oggi all'alba due postazioni militari di Hamas nella Striscia di Gaza in un raid di rappresaglia per il lancio di missili di ieri notte che hanno colpito due case nel sud di Israele, senza fare vittime. Lo ha reso noto l'Esercito israeliano che, in un tweet, ha affermato la responsabilità "dell'organizzazione terroristica Hamas per gli atti ostili partiti da Gaza". I missili sparati dai caccia israeliani hanno colpito i target ma non avrebbero fatto vittime, secondo fonti sanitarie. I razzi hanno raggiunto le comunità agricole di Nativ Hasarah e Yad Mordecai, secondo quanto riferito dall'esercito israeliano. Più di dodici razzi sono stati esplosi dalla Striscia di Gaza da quando il presidente statunitense Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, suscitando l'appello di Hamas a una nuova Intifada. Intanto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà oggi la bozza di risoluzione presentata dall'Egitto per respingere la decisione annunciata il 6 dicembre dal presidente americano di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di volervi trasferire l'ambasciata di Washington. "Qualsiasi decisione e azione che si presume di aver alterato il carattere, lo status o la composizione demografica della Città santa di Gerusalemme non ha effetto legale, è nulla e deve essere revocata in conformità con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza", si legge nella bozza di risoluzione. Nel documento viene anche chiesto di risolvere lo status di Gerusalemme attraverso i negoziati e di "respingere profondamente le recenti decisioni sullo status di Gerusalemme".
(Secolo dItalia, 19 dicembre 2017)
D'Alema straparla su Israele
Prima di accusare Gerusalemme di apartheid si faccia un giro in Cisgiordania
L'idea di chiudere i palestinesi dentro delle enclave, una sorta di Bantustan, era stata dei boeri in Sudafrica, e poi si è visto come è andata a finire". Così l'ex premier e ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, interviene contro Israele dopo la decisione americana di riconoscere Gerusalemme capitale dello stato ebraico. Il regime segregazionista sudafricano fondava la propria politica di separazione tra neri e bianchi su una differenziazione di carattere ontologico razzista. Nulla del genere esiste in Israele, una società multietnica e multireligiosa nella quale gli arabi israeliani godono degli stessi diritti sociali e civili degli ebrei israeliani, dei cristiani israeliani e di altre minoranze etnico-religiose presenti nel paese. Fanno parte dell'esercito, sono eletti alla Knesset, occupano posizioni istituzionali prestigiose (la Corte suprema israeliana è presieduta da un arabo) e possono accedere alle medesime occupazioni di tutti gli altri cittadini. Nulla di simile esisteva in Sudafrica. Ma poco importa per l'agenda dei denigratori alla D'Alema, che dipinge la West Bank come una sorta di Bantustan. Mentre in Israele esiste un venti per cento di arabi, lo stato palestinese agognato da D'Alema senza mai prendere in considerazione le preoccupazioni israeliane dovrebbe costruirsi sulla cacciata di ogni singolo ebreo (lo ha detto chiaramente Abu Mazen). Come è successo a Gaza dal 2005. All'ingresso di ogni area palestinese c'è una insegna: "Pericolo, vietato l'ingresso agli israeliani". In quelle israeliane va da sé che non esiste nulla di tutto questo. Ma D'Alema, asserragliato nei suoi pregiudizi, questo non può saperlo.
(Il Foglio, 19 dicembre 2017)
Portico d'Ottavia, magia della storia di un'altra Roma
Il ghetto ebraico è una delle zone più cariche di fascino e di dolore. Ora il recupero del monumento è un invito a riscoprirlo.
Resti del tempio romano restaurato nella zona del Portico d'Ottavia
I restauro del Portico di Ottavia riporta all'attenzione di tutta la città una delle sue zone più affascinanti, più cariche di storia e di dolore: il ghetto ebraico. Ancora oggi, quando passeggio per quei vicoli o nel corso largo del quartiere, ho l'impressione di trovarmi in una sorta di paese, in un luogo che ha mantenuto, soffrendo e sperando, una sua precisa identità, una sua severa dolcezza. La gente si saluta, si ferma a parlare, ci sono anziani seduti fuori dai portoni, gruppi di ragazzi che si ritrovano davanti ai bar, c'è un clima di resistenza comunitaria, di difesa istintiva delle proprie tradizioni. Per molti secoli gli ebrei romani erano parte di una città cosmopolita, confusa, generosa. Ma nel 1555 tutto cambiò: il papa Paolo IV nella bolla "Cum nimis absurdum" stabilì che gli ebrei romani dovevano tutti abitare in quei tre ettari circoscritti e recintati, una sorta di gabbia aperta di giorno e chiusa da pesanti cancelli dal tramonto all'alba. Gli ebrei erano obbligati a portare un segno di riconoscimento, uno straccio azzurro annodato in testa o al collo, lo sciamanno, non dovevano possedere alcun bene immobile e potevano commerciare solo in stracci.
Nel 1572 papà Gregorio XIII tentò addirittura una conversione forzata di tutta la popolazione del ghetto, che era obbligata a seguire messe e "prediche coatte" . L'oppressione degli ebrei romani fu interrotta solo nel 1798, quando la nuova amministrazione francese, seguendo i principi dell'Illuminismo, liberò gli
ebrei dalla prigione del ghetto. Ma quando i francesi furono cacciati, tutto tornò come prima. La gloriosa Repubblica romana nel 1849 cancellò quell'orrore, ma anche stavolta il ritorno del Papa riportò alla chiusura dei cancelli e alla ghettizzazione degli ebrei. Solo nel 1870, dopo Porta Pia, fu restituita la libertà ai nostri concittadini ebrei, e nel 1903 fu inaugurata la nuova sinagoga, sul Lungotevere.
Il peggio però doveva ancora accadere, il 16 ottobre del 1943 più di mille ebrei furono catturati e deportati dai nazisti nei campi di concentramento. Pochissimi riuscirono a sopravvivere e a tornare a casa, soltanto diciassette persone. Giacomo Debenedetti ha raccontato quella tragica giornata in un libro che tutti dovrebbero leggere, soprattutto oggi, visto il rigurgito di gruppuscoli fascisti, braccia tese, slogan aberranti, antisemitismo sfacciato. Molti ragazzi romani non sanno nemmeno cosa sia il ghetto, quale sia la sua storia, quanto sia parte decisiva del tessuto urbano e sociale di Roma. Forse hanno mangiato i carciofi alla giudìa, qualche piatto della tradizione ebraico-romana, ma difficilmente si spingono a passeggiare tra queste strade così poco modaiole e trendy.
Ora speriamo che il restauro del Portico di Ottavia, che accolse meravigliose statue classiche e poi i banchi del pesce, e poi fu solo rovina romantica, conduca nuovi visitatori nel ghetto: è il centro dolente di Roma, un posto dove si percepisce la ferocia della Storia ma anche il coraggio di chi si è ribellato a ogni violenta separazione. È un capitolo vivo del libro infinito della nostra città, un bene prezioso.
(la Repubblica - Roma, 19 dicembre 2017)
Vienna insiste sul doppio passaporto
Si insedia in Austria il governo popolari-nazionalisti. Israele annuncia che boicotterà i ministri di estrema destra.
di Vittorio Da Rold
«I sudtirolesi potranno chiedere la cittadinanza austriaca già nel 2018, al più tardi all'inizio del 2019». Queste le parole incendiarie dette in territorio italiano, a Bolzano, dal parlamentare austriaco Werner Neubaur, responsabile Fpoe (il partito populista xenofobo austriaco andato al governo con i popolari di Sebastian Kurz) per i rapporti con l'Alto Adige. La richiesta, ha detto, presente nel programma di governo potrà essere avanzata da chi si è dichiarato tedesco e dai suoi figli e sarà gratis «per non gravare sulle tasche delle famiglie». Secondo Neubauer, in futuro atleti altoatesini potranno gareggiare per la nazionale austriaca.
Con il nuovo governo Kurz che ha imbarcato i populisti di estrema destra di Strache a Vienna si è tornati a parlare di questa vecchia questione, che ha subito suscitato le critiche di governo italiano e Ue. Il neo cancelliere Sebastian Kurz (che ha escluso un referendum sull'Europa) oggi incontrerà a Bruxelles il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, e dovrà subire un esame di europeismo. E si parlerà anche di questa provocazione inserita nel programma di governo: la concessione del doppio passaporto austriaco agli altoatesini che, alla dichiarazione di appartenenza linguistica, hanno optato per quella tedesca o ladina.
Immediata la reazione della Farnesina «È una discussione da affrontare con delicatezza. Il governo si è appena insediato e ne parleremo nei termini che sono assolutamente più coerenti con la nostra storia e con la tutela di quelle nostre popolazioni e di quei nostri concittadini che hanno sempre avuto una posizione molto chiara in merito», ha detto da Pechino il ministro degli Esteri Angelino Alfano. «Il governo di estrema destra in Austria rischia di riportarci ai tempi più bui della nostra storia», ha affermato il capogruppo socialista Gianni Pittella.
Come se non bastasse è arrivato ieri sera l'ostracismo da parte del governo israeliano. «Israele ha deciso che boicotterà i ministri del "Partito della Libertà" austriaco», mantenendo «contatti con i livelli professionali dei ministeri e con il cancelliere eletto», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, retto da Benyamin Netanyahu.
Il clima politico a Vienna ieri era caldo per l'insediamento dell'esecutivo. Diciotto anni fa Joerg Haider, l'allora leader del Fpoe, dovette entrare all'Hofburg, il palazzo presidenziale, per il giuramento passando da un tunnel sotterraneo a causa delle vibranti proteste. Chi scrive era presente allora e oggi, in un panorama europeo completamente mutato, Heinz-Christian Strache, il suo successore, ha potuto dire di essere arrivato «a testa alta». Anche se non sono mancate le proteste, con lancio di uova e pomodori. Seimila persone si sono radunate a Vienna al grido di «fuori i nazisti dal governo»; esponenti dell'opposizione e studenti hanno manifestato contro la coalizione che si è impegnata a irrigidire le norme sull'asilo e sull'immigrazione, mantenendo nel contempo, su richiesta del presidente europeista Van Der Bellen, un impegno a favore dell'Ue. Il cancelliere Kurz, 31 anni, è il più giovane capo di governo in Europa (e paradossalmente il più esperto, essendo l'unico con precedenti esperienze di governo). Ma il Fpoe avrà il controllo dei ministeri dell'Interno, Difesa ed Esteri, e servizi segreti. Il suo leader, Heinz-Christian Strache, sarà vice cancelliere.
(Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017)
Sebastian Kurz, nuovo Cancelliere austriaco, riconosce Israele come Stato ebraico
Il nuovo governo austriaco parte bene.
Oggi il Cancelliere Sebastian Kurz ha parlato di Israele come di uno stato ebraico. Il chiaro riferimento ha solo un precedente in Europa: quello di Angela Merkel. Un trentenne nazionalista che fa ben sperare per il futuro. Per il resto, la democratico-fallimentare Europa ha ancora molto da imparare.
(L'informale, 18 dicembre 2017)
Challah, il pane ebraico dall'alto valore simbolico
Un lievitato ricco di storia, cultura e fede; una simbologia nascosta e un racconto che viene rivissuto ad ogni panificazione.
Challah
Un impasto simile a quello del pain brioche, bianco, soffice, intrecciato e dal sapore leggermente dolciastro: è la challah, al plurale challot, una delle componenti essenziali del pasto dello shabbat e di tutte le feste ebraiche.
Adatto per accompagnare cibi sia dolci che salati durante i pasti principali o per concluderli, il tipico pane ebraico si rivela ottimo anche se gustato da solo a colazione o merenda e conserva a lungo il profumo e la morbidezza.
Storia e origini della challah
Priva di latte o burro, in rispetto delle regole alimentari ebraiche che non consentono l'assunzione congiunta di carne e derivati del latte, della challah è possibile rintracciare dei riferimenti anche nella Torah.
«Parla ai Figli d'Israele, quando voi sarete entrati nel paese dove sto conducendovi e mangerete del pane, ne sottrarrete un'offerta al Signore» (Torah; Num. 15, 18-19).
È, dunque, questa l'origine del pane ebraico che viene portato al sabato su ogni tavola e sempre in coppia a simboleggiare la doppia porzione di manna che Dio elargiva agli israeliani nel deserto alla vigilia del sabato (shabbat) e delle feste.
La caratteristica di questo pane, quindi, non risiede tanto nella tipologia di impasto quanto nel suo alto valore simbolico. Si racconta che poiché il popolo ebraico, durante il cammino di quarant'anni nel deserto, non poteva raccogliere la manna al sabato, giorno tradizionalmente destinato al riposo, Dio provvide a donarla in razione doppia ogni venerdì sera. In questo modo, l'avrebbero avuta nella loro disponibilità anche al sabato.
In ricordo di questo evento, ancora oggi, i fedeli preparano i pasti del sabato con almeno due forme di pane, custodite all'interno di panni di stoffa bianchi, uno sopra l'altro, a ricordare lo strato di rugiada che ricopriva sopra e sotto quel prezioso cibo celeste che era la manna.
Le attività previste nello shabat
Challah appena sfornata
Lo shabbat, cioè il venerdì sera, è per gli ebrei un momento importante e speciale della settimana. Subito dopo il tramonto del sole, essi recitano una preghiera, il kiddush, attraverso cui si rende grazie a Dio di aver creato il mondo e di essersi riposato nel settimo giorno; durante il kiddush si benedicono il vino e il pane, la challah appunto
La parola shabbat, deriva dal verbo ebraico "shabat" che significa "smettere" e, nello specifico, si riferisce alla regola che prescrive di cessare determinate azioni e attività, prima fra tutte il lavoro.
È la stessa Genesi a raccontarci che Dio, dopo aver creato l'universo in sei giorni, si riposò al settimo. Questo fa si che, ad ogni praticante la religione ebraica, sia richiesto di astenersi dal lavoro e da tutta una serie di attività al venerdì sera per potersi consacrare completamente a Dio il sabato. In realtà, poiché la religione giudaica identifica l'inizio del giorno con il tramonto, lo shabbat inizia col tramonto del venerdì e termina con il tramonto del sabato.
Challah: forma e significati
La forma intrecciata della challah può avere fino a 12 capi di pasta. Dimensione e intreccio, dunque, variano ma mai casualmente in quanto, ad ogni tipo di intreccio, corrisponde un significato preciso:
3 trecce simboleggiano la pace, la verità e la giustizia;
4 capi intrecciati simboleggiano l'amore e rappresentano le braccia incrociate degli innamorati;
1 treccia a 12 capi o 2 trecce a 6 servite insieme rappresentano le 12 tribù d'Israele, una delle varianti di intreccio meno diffuse presso gli ebrei europei.
I piccoli semi di sesamo o papavero che ricoprono il pane, ricordano, invece, i fiocchi di manna che Dio fece cadere dal cielo.
In origine, da questo pane, era prelevata la "decima" (hafrashat) che veniva offerta a Dio nella persona del Kohain, uno dei sacerdoti del Tempio. In seguito alla distruzione del tempio i saggi, per evitare che tale tradizione venisse dimenticata dai fedeli, istituirono una sorta di variante nella pratica, che prescriveva di prelevare un pezzetto dell'impasto del peso di circa 30 grammi, da bruciarsi nel forno, invece, di essere consumato. Ancora oggi tale regola viene seguita in ogni casa ebraica e presso i fornai di origine ebraica che bruciano un pezzetto di impasto, dopo averlo avvolto in un foglio di carta stagnola.
La rigida pratica dell'offerta
La parola challah che possiamo tradurre con "perforare" o "fare un buco", originariamente si riferiva proprio al pezzo di impasto che doveva prelevarsi per essere offerto a Dio, più che alla forma del pane.
La preparazione di questo pane e il prelievo dell'offerta, sono considerate da sempre incombenza esclusivamente femminile. La pratica dell'offerta è tuttora severamente regolamentata e implica il rispetto di norme precise.
Innanzitutto l'obbligo di prelevare la challah dipende dalla quantità di farina e dagli ingredienti usati nell'impasto. Essa, infatti, si preleva unicamente dai pani realizzati con farina di avena, grano, orzo o spelta e che nell'impasto contengano acqua.
Se nell'impasto sono stati utilizzati meno di 1200 grammi di farina, la challah non deve essere prelevata. Se, invece, la farina utilizzata è di almeno 1200 grammi la challah si preleva ma senza impartire alcuna benedizione alla stessa perché la benedizione è prevista solo se il quantitativo della farina pesata è di 1600 grammi o più.
La benedizione va eseguita prima dell'intreccio della pasta e recita:
«Benedetto tu sia Signore, nostro D-o re dell'universo, che ci hai santificato con questo comandamento, e ci hai comandato di separare la challah».
A questo punto può essere prelevata una parte di impasto di circa 30 grammi, mentre contestualmente chi panifica recita «questa è la challah». Solo a questo punto essa viene avvolta in un foglio di carta stagnola per essere bruciata nel forno.
Algeria: Sonelgaz, "attrezzatura israeliana importata per errore"
ALGERI - In una dichiarazione diffusa ieri alla stampa, la compagnia algerina Sonelgaz ha ammesso di aver importato apparecchiature "made in Israel" per "errore" e ha confermato di aver presentato una denuncia e aperto un'indagine sul caso, sostituendo tempestivamente l'attrezzatura di fabbricazione israeliana con un prodotto europeo. L'importazione di attrezzature da Israele ha destato scalpore ad Algeri a causa del boicottaggio dell'Algeria di tutti i rapporti con quello che la stampa locale definisce "'entità sionista". La direzione di Sonelgaz è stata rapida nello spiegare la vicenda dopo il clamore sollevato dall'interrogazione di un deputato in parlamento. La dichiarazione afferma che l'accordo riguarda la creazione di una centrale elettrica a Orano (Algeria occidentale), con una capacità di 450 megawatt, l'attrezzatura è stata importata dalla Cg General Electric e dopo l'ispezione è stato accertato che le attrezzature importate includevano "valvole Made in Israel". Le autorità doganali sono state informate dell'errore e hanno formalmente sequestrato le merci il 4 aprile 2017.
(Agenzia Nova, 18 dicembre 2017)
Erdogan sfida Trump: ambasciata a Gerusalemme Est, capitale della Palestina
di Marta Ottaviani
TORINO - Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, rilancia: Ankara aprirà l'ambasciata a Gerusalemme est, capitale della Palestina. Dopo il vertice di mercoledì scorso della Cooperazione dei Paesi Islamici, che ha riconosciuto la parte est della città capitale dello Stato palestinese, il capo di Stato della Mezzaluna è pronto ad alzare la posta, lanciando un vero e proprio guanto di sfida al Presidente americano, Donald Trump, che il 7 dicembre scorso ha riconosciuto Gerusalemme capitale dello Stato di Israele.
Erdogan ha reso note le sue intenzioni ieri, durante un comizio a Karaman, località dell'Anatolia centrale. Il capo di Stato ha dichiarato: «Abbiamo già riconosciuto Gerusalemme Est capitale della Palestina, ma non siamo ancora stati in grado di aprire la nostra ambasciata lì perché Gerusalemme al momento è sotto occupazione. Ma, a Dio piacendo, in un giorno vicino apriremo anche la nostra ambasciata». Erdogan ha poi accusato Trump di aver organizzato «un'operazione sionista», che non tiene conto della posizione della comunità internazionale e delle decisioni delle Nazioni Unite. Il presidente turco è ormai noto per la durezza delle sue esternazioni sulla vicenda, soprattutto nei confronti dello Stato Ebraico, definito di recente «terrorista», «killer di bambini» e «invasore» Parole di fuoco, che però non sembrano avere un effetto sulle relazioni commerciali fra Turchia e Israele che, dal 2002, ossia da quanto Erdogan ha preso per la prima volta la guida del Paese come primo ministro, non hanno fatto altro che crescere. I dati del Ministero dell'Economia, parlano da soli. Se nel 2002, l'interscambio commerciale fra Turchia e Israele era appena 1,3 miliardi di dollari, nel 2015 è stato di 4,3. ha sfondato il muro dei 4,5 miliardi di dollari e, stando alle recenti dichiarazioni del viceministro dell'Economia turco, Ibrahim Senel, nei primi 10 mesi di quest'anno ha fatto registrare un incremento del 13%.
Intanto, quella che si apre, sarà una settimana delicata. Ieri è arrivata all'Onu la bozza della risoluzione che mira ad annullare la decisione di Trump, anche se né il presidente né gli Usa sono mai citati nel testo. Il documento è molto meno duro e di condanna rispetto al precedente, mantenendosi secco e tecnico e basandosi su un principio di merito per il quale sono annullate tutte le decisioni prese sulla questione di Gerusalemme capitale, a meno che non siano il frutto di un negoziato fra le parti. In pratica, vengono dichiarate nulle le iniziative unilaterali. Il voto fra i 15 membri del Consiglio di Sicurezza, potrebbe arrivare già questa settimana, ma la bocciatura è scontata, visto che è richiesta l'unanimità e gli Usa detengono un seggio permanente. A quel punto, Recep Tayyip Erdogan, ormai alfiere per eccellenza della causa palestinese, potrebbe fare votare il documento dall'Assemblea Generale dell'Onu, le cui deliberazioni, però, non hanno valore esecutivo, a differenza di quelle del Consiglio di sicurezza. Si tratterebbe quindi di un successo solo simbolico, per quanto significativo.
Anche a Gerusalemme sarà una settimana difficile. Dopodomani arriverà il vicepresidente americano, Mike Pence, per una visita di due giorni durante la quale incontrerà il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin. Nessun colloquio invece con i palestinesi, che hanno deciso di considerarlo una persona non grata per via dall'appartenenza alla squadra di Donald Trump e che hanno organizzato proteste per il suo arrivo. Pence non incontrerà nemmeno i rappresentanti delle Chiese cristiane a Gerusalemme. La prima tappa del suo viaggio sarà una visita al Muro del Pianto, luogo sacro per la religione ebraica. Giovedì il vice di Trump parlerà alla Knesset, il Parlamento israeliano, che si trova a Gerusalemme, e il giorno dopo andrà in visita allo Yad Vashem, il Museo-simbolo dell'Olocausto. Da parte di Netanyahu è già arrivato un caloroso benvenuto. Il premier di Gerusalemme, ieri, prima della riunione di governo, ha voluto ringraziare nuovamente l'amministrazione di Washington per aver «difeso la libertà di Israele».
(Il Secolo XIX, 18 dicembre 2017)
Capi delle Chiese: la pretesa "esclusiva" su Gerusalemme porta a una "situazione oscura"
GERUSALEMME - Ogni pretesa di esercitare un possesso esclusivo su Gerusalemme aprirà la strada a una "situazione oscura", perché contraddice l'essenza e le caratteristiche della Città Santa, e "calpesta il meccanismo stesso che ha custodito la pace attraverso le epoche". Lo hanno ribadito 13 Patriarchi e Capi di Chiese e comunità cristiane presenti in Terra Santa, nel messaggio comune diffuso in vista del prossimo Natale. I Patriarchi e Capi delle Chiese di Terra Santa, con implicito riferimento alle decisioni prese di recente dall'Amministrazione USA in merito a Gerusalemme, riaffermano la comune posizione "a favore dello Status Quo della Città Santa, fino a quando un giusto accordo di pace non sarà stato raggiunto tra israeliani e palestinesi, sulla base dei negoziati e delle leggi internazionali".
I cristiani della Terra Santa - si legge nel testo, pervenuto all'Agenzia Fides - sanno che la loro presenza e testimonianza "è strettamente connessa con i Luoghi Santi a con la loro accessibilità", che rende la città un potenziale luogo d'incontro e unità tra "persone di fedi differenti". Per questo "ogni approccio esclusivista nei confronti di Gerusalemme contraddice l'essenza e le caratteristiche della Città, e calpesta il meccanismo stesso che ha custodito la pace attraverso le epoche. Gerusalemme - aggiungono i Capi cristiani di Terra Santa - è un dono sacro. Un tabernacolo. Una terra santificata per il mondo intero. Tentare di possedere la Città Santa di Gerusalemme, o confinarla entro termini di esclusivismo, condurrà a una situazione molto oscura".
Domenica 17 dicembre, presso il sito del battesimo di Gesù, Re Abdallah II di Giordania - che domani, martedì 19 dicembre, sarà ricevuto in Vaticano da Papa Francesco - ha incontrato i Capi delle Chiese e comunità cristiane presenti in Terra Santa in occasione degli auguri per le imminenti festività natalizie. In tale occasione - riferiscono le fonti ufficiali del Patriarcato latino di Gerusalemme - i rappresentanti delle Chiese di Terra Santa hanno espresso gratitudine a Re Abdallah per il sostegno da lui ricevuto nello sforzo di custodire le proprietà ecclesiali intorno ai Luoghi Santi. Il Re di Giordania ha ribadito che i diritti di cristiani e musulmani su Gerusalemme sono "eterni", e ha rivendicato per la dinastia Hascemita il ruolo di "protezione" dei Luoghi Santi cristiani e musulmani della Città Santa. Anche in occasione di quell'incontro, i rappresentanti autorevoli di Chiese e comunità cristiane hanno ribadito la propria contrarietà alla decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, e hanno chiesto al Re di Giordania di difendere anche a nome delle Chiese il profilo e lo status giuridico della Città Santa anche nei contatti con le Cancellerie degli altri Paesi, oltre che presso le organizzazioni internazionali come l'Onu e l'Unesco. All'incontro con Re Abdallah erano presenti, tra gli altri, il Vescovo luterano Munib Younan, il Patriarca greco ortodosso di Gerusalemme Theophilos III, il Custode di Terrasanta p. Francesco Patton ofm e l'Arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme. Quest'ultimo, nel suo intervento indirizzato al Re di Giordania, ha ribadito la condivisa deplorazione per le dichiarazioni che puntano a cambiare il "fragile equilibrio" in Terra Santa e che "non aiutano il processo di pace, ma anzi approfondiscono ulteriormente la già radicata sfiducia tra israeliani e palestinesi". L'Arcivescovo Pizzaballa ha ripetuto che le "decisioni unilaterali" su Gerusalemme "non porteranno la pace, ma la renderanno ancora più lontana", perché "Gerusalemme è un patrimonio di tutta l'umanità" e "ogni rivendicazione esclusiva - sia politica che religiosa - è contraria alla logica stessa della Città". L'Amministratore apostolico del Patriarcato latino ha anche avuto parole di apprezzamento per il ruolo di "custode dei Luoghi Santi di Gerusalemme e delle comunità che vivono e esprimono se stesse in quei luoghi", rivendicato dal monarca hascemita.
(Agenzia Fides, 18 dicembre 2017)
Gerusalemme, tutte le mosse alla vigilia del Consiglio di Sicurezza dell'Onu
di Marco Orioles
Proseguono le turbolenze innescate dall'annuncio con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oggi molto probabilmente il Consiglio di Sicurezza dell'Onu metterà ai voti una risoluzione egiziana che condanna la decisione del presidente americano, dichiarandola "nulla e vuota". Ma la bozza, circolata nel fine settimana nelle mani dei rappresentanti dei quindici paesi rappresentati nell'organismo di New York, è stata redatta con linguaggio blando, al fine di evitare di incorrere nel comunque probabile veto americano: una cautela che tradisce la volontà di non infastidire troppo le manovre della Casa Bianca, che a gennaio annuncerà il suo piano di pace per la Palestina.
La bozza, che è stata visionata dall'Afp, dichiara che "ogni decisione e azione che mira ad alterare il carattere, lo status o la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non ha alcun effetto legale" e "deve essere annullata in accordo con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza". Si chiede inoltre agli stati di astenersi dall'impiantare missioni diplomatiche a Gerusalemme, atto che rappresenterebbe una violazione della legge internazionale.
Il testo tuttavia non menziona esplicitamente gli Stati Uniti, limitandosi ad esprimere "rammarico per le recenti decisioni sullo status di Gerusalemme". Un espediente dietro cui al Jazeera intravede la mano di Londra, non meno timorosa del Cairo di suscitare l'ira di Washington e di far scattare la tagliola del veto.
Chi non teme il muro contro muro con gli Stati Uniti è invece Recep Tayyip Erdogan. Che ha fatto sapere che, in caso di bocciatura, la risoluzione passerà all'Assemblea Generale, che potrà votarla a maggioranza semplice. Ieri inoltre il presidente turco ha annunciato che la Turchia aprirà a Gerusalemme un'ambasciata. "Se Dio vorrà", ha tuonato davanti ai membri del suo partito nella città di Karaman, "è vicino il giorno in cui ufficialmente, col permesso di Dio, apriremo la nostra ambasciata là".
Sin dal giorno dell'annuncio di Trump, il presidente turco ha tentato di capitalizzare la rabbia musulmana. Su sua iniziativa, i 57 paesi dell'Organizzazione della Conferenza islamica si sono riuniti a Istanbul mercoledì scorso per annunciare il loro dissenso nei confronti della mossa trumpiana. Ma il tentativo di Erdogan di unire la umma islamica si è infranto davanti alla riluttanza dell'Arabia Saudita e di un'altra trentina di paesi, che a Istanbul non hanno mandato il proprio capo di stato o di governo ma un semplice membro di gabinetto.
Non tutti, insomma, si schierano senza condizioni dalla parte del presidente palestinese Mahmoud Abbas. Che ieri, attraverso il suo consigliere diplomatico Majdi al-Khalidi, ha fatto sapere nuovamente di non considerare più gli Stati Uniti come mediatore di un nuovo negoziato con Israele. "La dichiarazione del presidente" Abbas "è auto-esplicativa", ha detto Khalidi, ricordando le parole di fuoco pronunciate dal capo dell'Autorità palestinese a Istanbul. "Non incontreremo alcun esponente dell'amministrazione americana", ha aggiunto Khalidi, "per discutere la pace tra palestinesi e israeliani, perché il presidente è stato molto chiaro su questo". Il riferimento è a Jason Greenblat, inviato della Casa Bianca per il processo di pace, che questa settimana sarà in Israele. Khalidi precisa comunque che nemmeno Greenblat ha chiesto di parlare con Abbas: d'altronde "lui sa che non ci sarà alcun incontro, anche se lo chiedesse".
Ieri frattanto in Indonesia 80 mila persone sono scese in piazza per protestare contro la decisione americana. "Sollecitiamo tutti i paesi" - ha dichiarato il segretario generale del Consiglio degli Ulema indonesiani, Anwar Abbas - "a rigettare la decisione unilaterale e illegale del presidente Donald Trump con cui ha fatto di Gerusalemme la capitale di Israele".
(formiche.net, 18 dicembre 2017)
Due semplici parole che fanno paura
Perché tanto timore di dire "Gerusalemme capitale"?
Scrive Haaretz (11/ 12)
Alla richiesta di nominare la capitale di vari paesi, diverse persone avrebbero difficoltà a ricordare che la capitale del Canada è Ottawa e che la capitale dell'Australia è Canberra, ma ben pochi avrebbero difficoltà a ricordare che la capitale dello Stato ebraico è, ovviamente, Gerusalemme". Così Moshe Arens, ex ministro israeliano della Difesa ed editorialista di Haaretz. "Allora, dove sta il problema se si riconosce esplicitamente questa ben nota realtà come ha fatto la settimana scorsa il presidente degli Stati Uniti? Chi è che non vuole che vengano proferite queste semplici parole? Chi è che si infuria quando le sente dire da altri? Chi è che trema di paura quando le sente pronunciare? Gerusalemme è ufficialmente la capitale di Israele da 68 anni, ed è la capitale del popolo ebraico da tremila anni. Chi rifiuta di riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico non vuole riconoscere Gerusalemme come capitale del paese che vorrebbe spazzare via dall'esistente. E intanto nega ogni legame storico tra Gerusalemme e popolo ebraico. Lo fanno capi palestinesi ignoranti, che siano affiliati a Fatah o a Hamas. Lo fanno i nemici giurati di Israele a Teheran, gli ayatollah iraniani. Lo fanno i leader dei paesi che si rifiutano di avere relazioni diplomatiche con Israele. Non solo si rifiutano di riconoscere che Gerusalemme è la capitale di Israele, ma si infuriano quando sentono che qualcun altro la riconosce.
E che dire degli amici di Israele nelle capitali dell'Europa occidentale, che intrattengono rapporti diplomatici con Israele, i cui ambasciatori presentano le credenziali al presidente d'Israele a Gerusalemme e i cui leader parlano alla Knesset a Gerusalemme quando visitano Israele? Perché non riconoscono che Gerusalemme è la capitale di Israele? Perché attaccano il presidente degli Stati Uniti quando dichiara che Gerusalemme è la capitale di Israele? Tolto il velo dell'ipocrisia e della politica interna che influenzano il loro atteggiamento nei confronti di Israele, rimarrebbe solo il loro desiderio di promuovere la pace tra Israele e palestinesi. Si aspettano che i palestinesi ottengano concessioni da Israele in cambio del riconoscimento che Gerusalemme è la capitale d'Israele. Ma se credono di dare ai palestinesi una forte carta negoziale, si sbagliano. In realtà mettono un ostacolo alla ripresa dei negoziati (che sono cessati da quando Barack Obama, entrando alla Casa Bianca, chiese che venissero fermate indistintamente tutte le attività di costruzione al di là delle linee armistiziali del 1949 pensando in questo modo di far avanzare il processo di pace). I palestinesi, specialmente quelli che vivono a Gerusalemme est, sanno bene che Gerusalemme è la capitale di Israele. La maggioranza dei palestinesi di Gerusalemme est preferirebbe vivere sul versante israeliano del confine, a Gerusalemme, anziché in uno stato palestinese quando venisse istituito".
(Il Foglio, 18 dicembre 2017)
Gerusalemme capitale d'Israele
Lettera al direttore di Gazzetta di Parma
Egregio direttore,
pur consapevole di essere una voce fuori dal coro, desidero esprimere la mia opinione su un tema oggi tanto discusso: l'iniziativa del Presidente Trump di trasferire l'Ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, esprimendo così con tale atto l'implicito riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele. Il riconoscimento è un atto per sua stessa natura unilaterale e, d'altra parte si riferisce ad una realtà presente da ben 3000 anni. Il sottacerla, come il fingere di ignorarla significa solo creare le premesse perché un accordo di pace non possa mai concludersi e nemmeno iniziare. D'altra parte che dire dell'irresponsabilità. di coloro che a gran voce chiamano ad una nuova e violenta intifada, incoraggiando così nuove ondate di morti e di suicidi per «martirio»? È forse possibile realizzare un qualsiasi tavolo di trattative con interlocutori che tanto hanno a spregio la vita umana? E d'altra parte, usare l'ipocrisia per fingere l'accettazione di ciò che non è disponibile, è forse una modalità percorribile? Credo di no, e penso che se questo nuovo incendio lo si riuscirà in qualche modo a spegnere, allora davvero potranno nascere premesse per un dialogo tra i due popoli basato sulla chiarezza, superando l'ipocrisia e puntando ad un futuro in cui ci sia la pace e l'interesse per entrambe le parti. Questo dovrebbe essere, a mio avviso, l'auspicio anche dell'Europa.
Maria Vittoria Valdrè, Parma
(Gazzetta di Parma, 17 dicembre 2017)
Roma - Hanukkah: la festa delle luci ebraica accende piazza Barberini
Piazza Barberini si illumina per la tradizionale accensione della Chanukkah, il grande candelabro a nove bracci che celebra la ricorrenza ebraica dell'Hanukkah. Centinaia i fedeli richiamati dall'evento, cui il 17 novembre ha reso omaggio anche la sindaca Virginia Raggi intervenuta al fianco del rabbino per l'accensione del settimo dei nove lumi che compongono l'oggetto sacro. Presenti anche Ruth Dureghello, portavoce della Comunità ebraica di Roma, e l'Ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs. Balli e canti tradizionali hanno accompagnato la cerimonia. La grande festa delle luci (o dei lumi) commemora la nuova consacrazione di un altare nel Tempio di Gerusalemme dopo la riconquistata libertà da Antioco IV, che nel II secolo avanti Cristo lo aveva trasformato in un luogo di culto pagano. E tentato anche di sradicare elementi fondamentali della religione ebraica, proibendo la pratica della Legge sacra fino a una rivolta guidata da un anziano sacerdote, Giuda Maccabeo. Dopo la riconquista di Gerusalemme, Maccabeo ordinò di purificare il Tempio, di ripristinare l'Arca dell'Alleanza e che le luci del candelabro fossero riaccese. Le candele avrebbero dovuto ardere per otto giorni di fila, alimentate da olio di oliva puro, ma purtroppo si trovò l'olio sufficiente per un solo giorno. Gli ebrei prepararono un candelabro di stagno e ferro e accesero ugualmente i lumi. Miracolosamente, l'olio durò per tutti gli otto giorni dei festeggiamenti. Un miracolo che a distanza di millenni si continua a commemorare, tra lo stupore e il fascino di fedeli e laici.
(la Repubblica, 18 dicembre 2017)
L'Ambasciata della discordia
di Pier Giorgio Lignani
Ma è davvero tanto importante che l'Ambasciata americana in Israele si sposti di poche decine di chilometri? Lo spostamento deciso da Trump, da Tel Aviv a Gerusalemme, ha valore solo sul piano simbolico, perché implica che gli Usa riconoscono che la capitale di Israele è Gerusalemme. In effetti, lo Stato di Israele dichiara che la sua capitale è Gerusalemme, e lì hanno sede tutte le autorità nazionali israeliane. In linea di principio, la scelta della sede della capitale è una questione interna di ciascuno Stato, e nessun altro ci dovrebbe mettere bocca. Ma la situazione di Israele non è ancora definita dal punto di vista del Diritto internazionale. Molti Paesi perlopiù quelli arabi - non considerano legittima l'esistenza stessa dello Stato d'Israele. Gli altri - fra i quali gli Usa e gli Stati europei riconoscono bensì lo Stato di Israele, ma con riserva: non considerano definitivamente accettati i suoi confini, e lo faranno solo nel momento in cui israeliani e palestinesi firmeranno la pace e decideranno, di comune accordo, come regolare i rapporti fra le due comunità o i due Stati - in modo da convivere pacificamente.
Quando gli Stati che riconoscono Israele (fra cui l'Italia) hanno stabilito di non tenere le loro ambasciate a Gerusalemme ma a Tel Aviv, hanno inteso con ciò fare un gesto simbolico per sottolineare, appunto, che c'è ancora da discutere e da decidere il futuro di quei territori. Fra le questioni da decidere vi è al primo posto la sistemazione definitiva di Gerusalemme; e a deciderla non potranno essere unilateralmente gli israeliani.
Lo status di Gerusalemme dovrà essere deciso da israeliani e palestinesi insieme - anche i palestinesi considerano Gerusalemme la loro capitale, pure se di fatto non lo è - ma l'accordo fra i due popoli, se mai ci sarà, dovrà salvaguardare e garantire i diritti delle Chiese cristiane di tutto il mondo.
Per gli occidentali, tenere le Ambasciate fuori di Gerusalemme significa dunque avere una merce di scambio per trattare con Israele. Una merce simbolica, ma che ha valore. Trump ci ha rinunciato. Ecco perché il fatto è preoccupante.
(La Voce, 18 dicembre 2017)
Purtroppo questo discorso, dal punto di vista del Diritto internazionale come oggi viene inteso, sta in piedi. Alla reticente e ambigua dichiarazione di Trump risponde in modo chiaro la dichiarazione di Erdogan, il quale dice di voler stabilire unambasciata turca a Gerusalemme Est. Linghippo è avvenuto nel 1947, quando lOnu ha calpestato il diritto internazionale fino ad allora praticato commettendo larbitrio di dividere in due uno Stato che de jure era già nato con la Risoluzione di Sanremo del 1920: lo Stato ebraico. Concentrandosi sulla questione della sicurezza, Israele ha commesso lesiziale errore di tralasciare la lotta giuridica sul piano dei diritti, favorendo in questo modo lo stabilizzarsi della favola delloccupazione, abilmente raccontata in tutte le tonalità dai nemici di Israele. L'«antisemitismo giuridico» sta raccogliendo i suoi frutti visibili. M.C.
«Sette punti»
"Lo avevano detto subito ". Il dramma che si nasconde dietro questa semplicissima foto
Postano il selfie insieme e in poco tempo fa il giro del mondo: loro due, bellissime, riscuotono milioni di like. Poi, però, accade l'impensabile.
Ma siamo davvero pazzi? Un gesto così bello e così simbolico che aveva commosso il mondo intero, ora è diventato un caso assurdo che lascia senza parole. Doveva essere uno scatto distensivo, un vero e proprio messaggio di pace. Niente, però, è andato secondo i piani: la famiglia dell'attuale Miss Iraq, Sarah Idan, è stata costretta alla fuga dal paese a causa delle minacce ricevute dopo un selfie in cui la giovane modella, che vive negli Stati Uniti, era apparsa in compagnia di Miss Israele. Iraq e Israele in un solo scatto, insieme, come mai era successo prima: e ben venga che siano state due ragazze, due donne, due giovani a lanciare il messaggio. E invece no, non è accettabile. Lo scatto incriminato risale a novembre ed è stato fatto a Las Vegas, durante le selezioni di Miss Universo: nel selfie Sarah Idan, che vive negli Stati Uniti, sorride accanto ad Adar Gandelsman, Miss Israele. Entrambe vestono la fascia di miss. E la scritta in inglese: "Peace and Love from Miss Iraq and Miss Israel". Meglio di così? La foto va sugli account Instagram di entrambe le ragazze, sollevando subito migliaia di like ciascuna.
Ma anche critiche e insulti feroci. Anche perché la ragazza irachena ha postato diversi scatti in cui è vestita solo con un bikini. "Le due cose insieme hanno creato un casino a casa sua, dove la gente ha minacciato che se non fosse tornata a casa e rinnegato quelle foto e il suo titolo (di Miss Iraq), l'avrebbero uccisa", ha raccontato la Gandelman alla tv israeliana. Sarah ha difeso la sua foto e il suo significato e i suoi familiari, che vivono in Iraq, sono stati costretti a fuggire.
Di loro si sono perse le tracce e, secondo diversi media fra cui il britannico Independent, si sarebbero nascosti in casa di parenti o amici fidati. Va detto che Sarah Idan, in quei giorni, aveva postato diversi scatti in cui compariva con diverse concorrenti provenienti da ogni zona del mondo, compresi alcuni paesi della Lega Araba. Nessuno, però, sembra averle perdonato lo scatto con la rappresentante di Israele, lo stato considerato un vero e proprio nemico da parte dei vicini musulmani.
(Cafferina Magazine, 17 dicembre 2017)
Netanyahu ringrazia l'amministrazione Trump per aver "difeso la verità di Israele"
GERUSALEMME - Il governo israeliano ringrazia gli Stati Uniti per avere "difeso la verità di Israele". In questo modo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha aperto oggi la riunione settimanale del gabinetto. Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Netanyahu ha fatto riferimento alle posizioni recentemente espresse dall'amministrazione Trump secondo cui gli Stati Uniti escludono scenari di pace in cui il Muro del Pianto non sia in territorio israeliano. In tal modo, gli Usa hanno ribadito il loro riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come capitale di Israele, annunciato dal presidente Trump il 6 dicembre scorso. Netanyahu ha poi commentato la visita del vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, in Israele, prevista dal 20 al 22 dicembre prossimo. Il premier israeliano ha definito Pence, ritenuto uno dei maggiori ispiratori dell'iniziativa sul riconoscimento, "un grande amico di Israele e di Gerusalemme". Netanyahu ha poi voluto ribadire lo "speciale apprezzamento" del governo israeliano per "la determinazione e la leadership del presidente Trump e della sua amministrazione nel difendere la verità di Israele". Infine, il premier israeliano ha elogiato "la fermezza" con cui il governo di Washington "respinge i tentativi di utilizzare l'Onu [...] contro Israele".
Oggi, il governo egiziano ha presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una proposta di risoluzione in risposta al riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come capitale di Israele da parte degli Stati Uniti. Il documento afferma che ogni mutamento dello status di Gerusalemme è privo di effetti legali e deve essere respinto. La proposta egiziana potrebbe essere votata dal Consiglio di sicurezza già domani, 18 dicembre. Secondo quanto si legge nella bozza, quella di Gerusalemme è una questione "che deve essere risolta mediante negoziati". Inoltre, la proposta egiziana afferma che "tutte le decisioni e le azioni che hanno lo scopo di modificare lo status o la composizione demografica" di Gerusalemme "sono prive di effetti legali, nulle e devono essere respinte". Tuttavia, nella stessa giornata di oggi, l'ambasciatore di Israele alle Nazioni unite, Danny Danon, ha fatto sapere che non vi sarà alcun voto delle Nazioni Unite sulla proposta egiziana, poiché "Gerusalemme è la capitale di Israele e nessun voto o dibattito cambierà questa evidente realtà".
(Agenzia Nova, 17 dicembre 2017)
Sindaco di Nazaret: le feste di Natale ci saranno
Giorni fa un annuncio contrario per protesta controTrump.
Ali Salam, sindaco di Nazaret
Il sindaco di Nazaret, città arabo israeliana del nord del paese, ha fatto sapere che le feste di Natale si svolgeranno nel luogo da programma e non saranno ridotte come annunciato nei giorni scorsi in protesta contro la decisione di del presidente Usa Donald Trump su Gerusalemme. "Le notizie che gli eventi di Natale erano stati cancellati - ha detto il sindaco Ali Salam citato dai media - non erano corrette. Come ogni anno la città è decorata per le feste". Il 14 dicembre l'agenzia ufficiale palestinese Wafa aveva riportato una dichiarazione di Salam, che è musulmano, in cui si annunciava la sospensione, eccetto per l'illuminazione dell'albero di Natale e per l'annuale marcia di Capodanno, per protesta "contro l'annuncio di Donald Trump su Gerusalemme".
(ANSAmed, 17 dicembre 2017)
A Ramallah l'Intifada resta «dispersa»
Giovani palestinesi nelle strade chiamano alla rivolta del venerdì, ma la gente è stanca. Piccoli scontri con i soldati e proteste: episodi minori. «Non ci rimane più nulla, non possiamo permettere che Gerusalemme diventi proprietà esclusiva israeliana». Intanto il sindaco di Nazareth ci ripensa: sì a Natale le celebrazioni civili.
di Luca Foschi
RAMALLAH - Agglutinata dalla rabbia irrisolta del venerdì di protesta la piccola massa di giovani ha preso le strade di Ramallah appena è scesa la notte, quando le troupe televisive hanno ormai abbandonato la Porta di Damasco o il check point di Qalandia, teatro all'imbrunire dell'ultimo confronto giornaliero: dai tetti delle case in eterna costruzione i soldati israeliani osservano i ragazzi del campo profughi armati di fionda, che gridano e tirano senza speranza nella luce sempre più fioca.
Giovani, a volte poco più che bambini i duecento nel buio di Rarnallah, sfilano davanti alla chiesa melchita, fra gli stretti passaggi della città vecchia cantano in coro «l'oltraggio» di una «Gerusalemme israeliana», la voglia di una ribellione diffusa e costante. Si sciolgono, esitano sulla direzione da prendere. Al passaggio un uomo azzarda un'opinione sull'utilità del baccano. Lo sciame disperso si ricompatta intorno a quella che sembra poter degenerare in una rissa, prosegue poi nell'arrampicata che porta alle vie del commercio. Alcuni seguono timorosi nelle retrovie, altri osservano sull'uscio. Un poliziotto accompagna il corteo descrivendo il percorso a una trasmittente. In lontananza ancora ulula un'ambulanza. Quattro morti e quasi trecento feriti nell'ennesima giornata di scontri del venerdì. Migliaia i palestinesi che hanno sfidato le forze israeliane a Hebron, Nablus, Betlemme. I sassi fra le mani o nelle frombole, il coltello con cui Muhammad al-Adam ha ferito un soldato ad al-Bireh prima d'essere ucciso. I manganelli, i gas lacrimogeni e le pallottole, vive o vestite di gomma. La guerra d'attrito per le strade e le campagne è una chiara espressione dall'aritmetica diplomatica risultante dalla postura dei diversi soggetti politici, nazionali e internazionali. La chiamata di Hamas a trasformare il venerdì, e il venerdì soltanto, in ribellione. La risolutezza diplomatica, e solo diplomatica, di Fatah e del presidente Abu Mazen. Le marce e la voce degli arabi israeliani, fermi nel condannare lo strappo operato Washington e Israele. L'indiretto supporto europeo e quello più convinto dei Paesi musulmani, la tradizionale ambiguità di alcuni governi arabi, l'assistenza paventata da Iran ed Hezbollah, in attesa di un concreto segnale palestinese. L'occasìone più vicina sembrerebbe il viaggio in Israele che il vicepresidente americano Pence farà fra mercoledì e venerdì. Cristiano evangelico, è percepito da molti palestinesi come l'eminenza grigia che ha guidato la scelta di Trump di non posticipare più lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. La probabile visita al Muro del Pianto evoca la passeggiata di Sharon sulla Spianata delle moschee che nel 2000 innescò la seconda Intifada.
Oggi l'Intifada è solo in limine, desultoria e dispersa come l'energia dei duecento di Ramallah, che picchiano sui vetri dei ristoranti e delle sale da tè, invocando la partecipazione o accusando il peso morto della vita che continua identica, nonostante tutto. «Non ci rimane più nulla ormai, non possiamo permettere che Gerusalemme diventi proprietà esclusiva degli iraeliani. I politici ci devono sostenere senza trucchi, non usarci come in passato», dice Khaled, ventiquattrenne commesso in un negozio di telefonia, mentre la piccola massa è in cammino verso il municipio. Ad un tratto viene superata da una squadra di agenti in tenuta antisommossa, che sbarrano il passaggio in prossimità dell'incrocio, illuminati da un albero di Natale. Una delegazione si stacca dal corteo e discute animatamente con l'ufficiale della polizia, che nega l'accesso e invita la manifestazione a sciogliersi. La risposta è accesa, il più intraprendente fra gli ambasciatori si scaglia, trattenuto, contro l'ufficiale. Altri agenti rovistano il capannello e i marciapiedi, costringendo chi filmava a riporre il telefono. L'alterco scema, non ci sono arresti, i giovani ripiegano verso la piazza di al-Manara, palcoscenico storico di ogni giubilo o protesta.
Il flusso è attraversato però dai mezzi delle forze speciali, pochi uomini ma armati di kalashnikov. A cento metri da al-Manara i soldati intervengono con decisione nel diluire l' assembramento. I ragazzi vengono strappati di forza dalle frange esterne del gruppo, le ingiunzioni sono urlate con impazienza paternalistica. Nessuno osa riprendere. L'unico fra gli "shabaab" deciso a opporsi viene soffocato da una presa nel collo e spinto via. Nella rotonda di al-Manara arriva solo uno stillicidio muto di volti furiosi, o rassegnati.
Intanto ieri sera il sindaco di Nazareth ha fatto sapere che le celebrazioni civili del Natale non saranno sospese, come era stato annunciato nei giorni scorsi dopo la decisione degli Usa su Gerusalemme.
(Avvenire, 17 dicembre 2017)
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Senza leader né lavoro: è l'Intifada dei disperati
Scontri per Gerusalemme. A tirare le pietre adolescenti che non si riconoscono nei vecchi capi
di Cosimo Caridi
GERUSALEMME - Solo dieci giorni fa i palestinesi erano pronti a un passo storico: la riconciliazione tra Fatah e Hamas. Per la prima volta in un decennio c'era la concreta possibilità di una leadership unita. È finita male. Di mezzo ci si è messo Donald Trump e il tema più spinoso di tutti: Gerusalemme, dove il presidente americano ha deciso di trasferire l'ambasciata Usa.
Sono nove i palestinesi uccisi dall'inizio degli scontri. Ieri si sono svolti i funerali dei quattro ragazzi morti venerdì. In migliaia hanno partecipato ai cortei, due in Cisgiordania e due nella Striscia di Gaza, ai quali ha partecipato anche il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh.
Trent'anni fa i palestinesi diedero vita all'intifada delle pietre. Yasser Arafat era il leader indiscusso e la sua kefiah divenne il simbolo di un popolo, di una generazione. I giovani vedevano in lui la possibilità di cambiamento. Oggi a tirare le pietre contro l'esercito israeliano sono gli adolescenti, specialmente quelli dei campi profughi. Pochi lupi solitari, trentenni disperati, s'immolano con un attacco suicida. Cercano di provocare il dolore dell'avversario, scappando da una vita che li intrappola. Il 40 per cento della popolazione palestinese è minore di 14 anni. La generazione che si affaccia al mondo del lavoro ha vissuto umiliazioni e vessazioni, non ha un piano politico e nel futuro vede povertà e sottomissione. A rappresentarli c'è un gruppo di burocrati vecchi e corrotti.
Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, ha 83 anni ed è al potere dalla morte di Arafat. La sua strategia è un conflitto a bassa intensità. Vuole acquistare credibilità in seno alla comunità internazionale. Però non basta. Il riconoscimento della Palestina da parte di questo o quel paese non ha cambiato la realtà dei fatti. I Territori sono occupati, l'economia è in ginocchio e i palestinesi che vivono in Israele sono trattati come cittadini di serie B.
In tutte le maggiori città la disoccupazione giovanile tocca picchi del 60 per cento. Va ancora peggio a Gaza dove lavora un ragazzo su dieci. Chi ha tra i 20 e i 40 anni ha studiato, ma non può viaggiare. L'impiego più agognato è in una delle ong internazionali. A chi si affaccia alla vita adulta poco importa se Hebron sia considerata un luogo di culto ebraico o islamico.
Vogliono una compagnia telefonica nazionale che abbia una connessione dati, chiedono di potersi allenare e partecipare a eventi sportivi con coetanei di tutto il mondo, di presentare i propri film nei festival internazionali. I giovani non ripongono le loro speranze in Abbas, non hanno intenzione di lottare per salvare i privilegi di Fatah.
L'unico possibile successore di Mahmoud Abbas trova nelle carceri israeliane. Marwan Barghouti sta scontando diversi ergastoli per le azioni condotte e ordinate durante la seconda Intifada. Il suo carisma è indiscusso. Lo scorso maggio, una sua lettera inviata al New York Times fu sufficiente a far iniziare uno sciopero della fame. Vi aderirono centinaia di detenuti politici. Israele difficilmente lo rimetterà in libertà. E anche se lo facesse, il suo passato macchiato di sangue lo rende poco adatto alle negoziazioni con la Comunità Internazionale.
(il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2017)
La responsabilità di questa situazione dei palestinesi ricade anzitutto sulle loro autorità, che da Arafat in poi hanno nutrito lodio per gli occupanti ebrei unito allillusione di poter dare loro una spallata decisiva che li costringa a sparire. Tutto questo sorretto dallodio internazionale per Israele e da media come i due qui presenti che con i loro viscidi commenti rinfocolano un odio che in molti casi probabilmente condividono. Sono anni che i media giustificano criminali carneficine di civili israeliani attribuendole alla disperazione dei poveri palestinesi. Era falso. Adesso invece è vero: le carneficine non riescono più a farle e la loro disperazione è autentica. Sono stati sospinti in un cunicolo senza vie duscita dove pagano di persona per il gusto di altri che stanno alla finestra e si compiacciono di poter trovare conferme ai loro malevoli commenti su Israele. M.C.
L'altra cucina. Da Israele le uova cotte nella peperonata
di Roberta Salvadori
Shakshuka
Per semplificare si può dire che la shakshuka è un piatto di uova, cotte in una peperonata piccante, originario di Tunisia e Algeria, arrivato sulle tavole ebraiche durante l'Impero Ottomano. L'ideale sarebbe usare un padellino singolo per ogni commensale, ma non è obbligatorio.
La ricetta è più o meno questa (ma le variabili domestiche possono essere tante): si rosolano in olio aglio, cipolla tritata e peperoncino. Vi si fa saltare del peperone fresco a pezzetti poi si aggiungono abbondanti pomodori maturi spezzettati freschi o pelati in scatola e un po' di concentrato di pomodoro, sale e pepe.
Si lascia cuocere una decina di minuti e poi vi si versano delicatamente per non romperle, le uova sgusciate. Lasciare cuocere il chiaro d'uovo finché si rapprende. Ma il tuorlo deve restare morbido.
Cospargere di prezzemolo tritato e subito in tavola.
Variante vegana: tofu al posto dell'uovo.
(Corriere della Sera, 17 dicembre 2017)
Israele: in corso uno sciopero generale dopo i licenziamenti di Teva
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Centinaia di migliaia di israeliani sono oggi in sciopero generale dopo la chiamata alla lotta da parte dei sindacati a causa della massiccia ondata di licenziamenti annunciati da Teva, la maggiore azienda farmaceutica del paese con ramificazioni in tutto il mondo.
Solo in Israele saranno 1750 gli impiegati a perdere il posto di lavoro: in totale la riduzione di organico sarà di oltre 14'000 persone, il 25% della forza lavoro.
Lo sciopero in corso fino alle 12.00 ora locale interessa tutti i settori, compreso lo scalo aereo del Ben Gurion. Manifestazioni sindacali si sono svolte in molte località del paese, Gerusalemme compresa.
(swissinfo.ch, 17 dicembre 2017)
Perché cercate il vivente fra i morti?
Era il giorno della preparazione, e stava per cominciare il sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, seguito Giuseppe, guardarono la tomba, e come vi era stato deposto il corpo di Gesù. Poi, tornarono indietro e prepararono aromi e profumi. Durante il sabato si riposarono, secondo il comandamento. Ma il primo giorno della settimana, la mattina molto presto, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparati. E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro. Ma quando entrarono non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come vi parlò quand'era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell'uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». Ed esse si ricordarono delle sue parole. Tornate dal sepolcro, annunziarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri.
Dal Vangelo di Luca, capp. 23,24
Aumenta il traffico passeggeri nell'aeroporto Ben Gurion
Continuando la tendenza dei primi mesi, novembre 2017 si è concluso con un aumento del traffico passeggeri: 1,45 milioni di passeggeri sono transitati dall'aeroporto di Tel Aviv Ben Gurion, il 18% in più rispetto a novembre 2016.
Il traffico passeggeri ha cosi' totalizzato 18,8 milioni di transiti nel periodo gennaio-novembre, il 16% in più rispetto al corrispondente periodo dell'anno scorso. Il traffico è stato potenziato da Ryanair, che ha iniziato la sua piena attività in Israele nell'ottobre di quest'anno, e ha trasportato 5500 passeggeri dall'aeroporto Ben Gurion. Il numero di aeroplani che si sono serviti dell'aeroporto Ben Gurion a novembre è stato di 10.117, il 17% in più rispetto a novembre 2016. Sono darti resi noti dall'Autorita' israeliana dei porti e degli aeroporti, ripresi dal quotidiano economico Globes. Novembre è considerato un mese debole per il traffico passeggeri, ma il numero di passeggeri che viaggiano all'estero ha continuato a crescere, tra l'altro a causa dei prezzi relativamente bassi di novembre e della popolarità dei viaggi d'affari in questo periodo, prima delle festività cristiane.
Una mappa delle città visitate dagli israeliani include New York, Parigi, Roma, Londra, Amsterdam e Bucarest. Molti passeggeri sono transitati dagli aeroporti di Istanbul e Mosca verso altre destinazioni.
Le compagnie aeree con il numero di passaggi piu' frequenti sono le seguenti: El Al Israel Airlines Ltd. (TASE: ELAL) con 400.000 passeggeri, una variazione del 3,5% rispetto all'anno scorso. Turkish Airlines, al secondo posto, con 88.000 passeggeri, l'8% in più rispetto allo scorso anno. La compagnia aerea britannica easyJet è arrivata terza a novembre con 76.000 passeggeri, il 27% in più rispetto al mese corrispondente dello scorso anno, seguita dal vettore ungherese Wizz Air, le cui attività passeggeri in Israele hanno raggiunto quota 71.000 a novembre, il doppio dello scorso anno. La compagnia aerea russa Aeroflot, che si sta rafforzando nel settore dei voli in coincidenza, ha fatto volare 62.600 passeggeri a novembre.
(italpress.com, 16 dicembre 2017)
Gaza, la lunga mano di Suleimani
L'uomo di Teheran per le operazioni speciali all'estero, dall'Iraq al Libano, ora si occupa della campagna di Hamas contro Israele
di Daniele Raineri
Lunedì scorso il generale iraniano Qassem Suleimani, regista delle operazioni in medio oriente - dall'Iraq alla Siria al Libano e altrove -, ha telefonato ai comandanti delle forze palestinesi più forti nella Striscia di Gaza per assicurare l'appoggio dell'Iran in caso di escalation contro Israele. Suleimani ha parlato con Marwan Issa, capo delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio militare di Hamas, e con il capo delle Brigate Gerusalemme appartenenti al gruppo Jihad islamico. Queste telefonate di Suleimani sono state annunciate dai media iraniani e la notizia ha un valore simbolico molto potente. Il generale ha uno status leggendario nel mondo sciita, accresciuto negli ultimi anni grazie alla sua presenza ubiqua sui campi di battaglia in Iraq e in Siria, e quindi il suo endorsement ai lanci di razzi da Gaza equivale a investire pubblicamente il suo prestigio nelle operazioni mentre è ancora fresco delle campagne vittoriose contro lo Stato islamico.
Nella settimana successiva all'annuncio americano dello spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme i gruppi di Gaza hanno sparato 24 razzi verso Israele, ma 11 sono caduti in territorio palestinese e questa imprecisione fa sospettare che i lanci non siano di Hamas, ma di fazioni salafite minori a cui ora Hamas concede di avvicinarsi ai reticolati della Striscia. Di solito Hamas controlla i confini per evitare attacchi non autorizzati che provocano l'inevitabile bombardamento di risposta da parte dei jet israeliani, ma adesso si è ritirata.
Le fazioni salafite di Gaza sono sunnite e in alcuni casi legate allo Stato islamico - basti pensare alla brigata Omar Hadid, che prende il nome dal capo iracheno dello Stato islamico nella città di Fallujah durante la battaglia contro gli americani nel 2004. C'è dell'ironia nel vederle sparare razzi contro Israele in accordo con l'Iran sciita (che lo Stato islamico odia) seppure per intercessione di Hamas, altro gruppo sunnita.
Ma non è che una conferma del fatto che c'è molta flessibilità quando si tratta di infliggere danni a Israele. Negli anni scorsi Hamas aveva rotto con l'Iran e si era schierata con i sunniti della rivoluzione siriana in lotta contro il presidente Bashar el Assad. I tunnel che i ribelli siriani usavano per piazzare esplosivo sotto le basi degli assadisti sono stati scavati grazie al know-how portato dagli uomini di Hamas, che sono diventati espertissimi della materia costruendo centinaia di tunnel sotto il confine egiziano per far passare beni di contrabbando. Assad aveva cacciato i vertici di Hamas da Damasco, dove per anni avevano goduto di ospitalità. Ma nel marzo dell'anno scorso a Teheran il generale Suleimani aveva ricucito le relazioni grazie a un incontro riservato con tre leader del gruppo palestinese. Il giorno dopo le sue telefonate , il presidente iraniano Hassan Rohani ha chiamato il capo di Hamas Ismail Haniyeh. Lunedì il capo di stato maggiore dell'Iran, Mohamed Hussein Baqari, ha detto di sperare nello scoppio di un'intifada palestinese.
Ora l'alleanza con l'Iran funziona di nuovo bene, a dispetto della divisione tra sunniti e sciiti. Del resto era stato lo stesso eclettico generale Suleimani (sciita) a offrire asilo agli uomini di al Qaida (sunniti) in fuga dall'Af - ghanistan dopo l'intervento americano nell'ottobre 2001: coltivare risorse per impiegarle in piani a lungo termine è una sua specialità. Il piano in questo caso è l'harassment militare di Israele dal confine sud, con una escalation di violenza. Oltre ai razzi, ieri ci sono stati scontri ai checkpoint israeliani e proteste di massa (con gigantografie di Suleimani) - l'esercito ha ucciso quattro palestinesi e ne ha feriti centosessanta.
(Il Foglio, 16 dicembre 2017)
La relazione speciale tra la Repubblica Ceca e Israele
di Andrea Muratore
Nel contesto generalizzato di critiche provenute dal fronte europeo verso la decisione del Presidente statunitense Donald J. Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, la Repubblica Ceca si è distinta per la sua presa di posizione nettamente contrastante. Nella giornata del 7 dicembre, infatti, il Ministro degli Esteri ceco Lubomir Zaoralek ha comunicato il riconoscimento, da parte di Praga, di Gerusalemme come legittima capitale dello Stato di Israele, enfatizzando una volta di più la saldezza dei rapporti tra i due Paesi, costituitisi dal 1993 a oggi come una vera e propria "relazione speciale"
Nonostante il Primo Ministro entrante della Repubblica Ceca, Andrej Babis, abbia dichiarato la sua perplessità circa l'opportunità della mossa di Trump, come riportato da Matteo Tacconi su Eastwest, i rapporti privilegiati tra Praga e Tel Aviv sono destinati a consolidarsi nei prossimi tempi, dato che l'amicizia tra Repubblica Ceca e Praga, dal 1993 in avanti, è risultata incondizionata e centrale nell'approccio internazionale dei due Paesi.
Israele, in particolare, gioca un ruolo primario nella visione internazionale della Repubblica Ceca, che dopo la fine della Guerra Fredda ha conosciuto una difficile evoluzione.
Repubblica Ceca e Israele: un'amicizia granitica
La Cecoslovacchia, predecessore storico della Repubblica Ceca, occupa un ruolo centrale nella storia della costituzione dello Stato di Israele, in quanto il governo di Praga fu tra i 33 Paesi delle Nazioni Unite che votarono favorevolmente alla proposta che lo istituiva nel 1947 e, soprattutto, contribuì in maniera decisiva ad armare e supportare il nascente esercito dello Stato ebraico, consegnandoli oltre 40mila armi da fuoco e 86 aerei da caccia tra il 1947 e il 1949.
Dopo un periodo di flessione dovuto alla Guerra Fredda, le relazioni bilaterali si riscaldarono repentinamente nel 1993, quando la "Rivoluzione di velluto" sancì la scissione pacifica di Repubblica Ceca e Slovacchia e aprì la strada a una fase intensa di scambi e contatti tra Praga e Tel Aviv.
Visitando Praga nel maggio 2012, Benjamin Netanyahu ha infatti sottolineato come il governo israeliano abbia nella controparte ceca il suo "migliore amico in Europa": Praga ha attivamente supportato Tel Aviv in tutti i più scottanti casi in cui Israele è stata coinvolta negli ultimi anni.
La Repubblica Ceca ha infatti preso le parti di Israele nell'incidente con la Turchia riguardante la Freedom Flotilla nel 2010; ha promosso per via parlamentare una risoluzione di censura alla mozione europea del 2015 che sanzionava, di fatto, i prodotti provenienti dai territori occupati illegalmente da Israele nel West Bank, a Gerusalemme Est e nelle alture del Golan; ha censurato la decisione dell'UNESCO che condannava duramente Israele nel 2016.
Sulla scia di una solidarietà che non è mutata al variare dei leader di Praga, sono arrivate le dure dichiarazioni del vulcanico Presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, che ha definito "codarda" l'Unione europea per la sua presa di posizione su Gerusalemme.
La geopolitica di Praga: le ragioni storiche dell'appoggio a Israele
La Repubblica Ceca, di fatto, conserva un forte legame culturale con Israele, fondato anche sull'origine storica della comunità ebraica in Palestina, al cui interno i componenti provenienti dall'Europa orientale hanno sempre rappresentato una percentuale importante.
L'appoggio della Repubblica Ceca a Israele si inserisce nel contesto dell'approccio difficile che i Paesi dell'Europa orientale dell'area ex sovietica hanno avuto nei confronti degli equilibri internazionali dai primi Anni Novanta ad oggi. Paesi come Ungheria, Polonia e la stessa Repubblica Ceca si sono a lungo dibattute tra un appoggio condizionato all'Unione Europea e una solida fedeltà all'Alleanza Atlantica, pensata soprattutto come contrappasso alla passata appartenenza al Patto di Varsavia, a cui andavano ad assommarsi dibattiti sulla reale identità nazionale che li contraddistingueva.
Nel caso della Repubblica Ceca, l'appoggio diplomatico costantemente accordato a Israele potrebbe essere stato influenzato da un profondo comune denominatore culturale e storico: come riportato da David Harris sull'Huffington Post, di fatto Praga rappresenta la "Gerusalemme d'Europa", con le sue profonde influenze ebraiche e gli straordinari monumenti del quartiere di Josefov commemoranti un passato che la barbarie nazista ha intaccato ma non è riuscita a smantellare.
Un forte substrato, dunque, giustifica la vicinanza tra Praga e Tel Aviv. Ci si potrebbe domandare, tuttavia, se lo sfoggio retorico ceco in favore di Israele risulti realmente funzionale agli interessi dei due Paesi o se rappresenti, nell'ottica di Praga, una sorta di "atto dovuto" che ne inficia le reali capacità di muoversi con cautela nel terreno diplomatico.
(Gli occhi della guerra, 16 dicembre 2017)
E' Israele il paradiso delle fedi, Gerusalemme il suo cuore
Ovunque si cacciano i cristiani, i siti religiosi (anche musulmani) sono in pericolo. Dallo stretto di Gibilterra al Golfo persico esiste un solo rifugio spirituale: lo stato ebraico
Israele è appena intervenuto in Siria per salvare dalla persecuzione islamista di al Nusra i drusi, che in Israele già sono protetti
Oltre i confini di Israele si consuma l'odio religioso: l'ultima strage nel Sinai contro i musulmani sufi da parte dell'Isis
Gerusalemme ha appena riconosciuto una nuova religione, gli Aramei (i loro fratelli siriani di Malooula stanno peggio)
E' l'unico paese dove il numero dei cristiani cresce (ora si arruolano anche nell'esercito con la stella di Davide)
I cristiani stanno scomparendo al di là della barriera di sicurezza, sotto il dominio autocratico e islamista dell'Autorità palestinese
A Gaza, dove governa Hamas, non c'è più un solo ebreo da dodici anni, ma stanno diminuendo anche i cristiani
Ci sono più musulmani che indossano la divisa militare israeliana di quanti non ve ne siano nell'esercito del Regno Unito
Le minoranze mediorientali stanno vivendo quanto patirono già gli ebrei dopo il 1948. In 856 mila fuggirono dai paesi arabo-islamici
di Giulio Meotti
A fine novembre, lo sceicco Mowafak Abu Tariff, capo spirituale dei drusi in Israele, si è incontrato con il comandante della divisione nord dell'esercito israeliano, Yoel Strick. Hanno stretto un accordo: se i terroristi islamici di al Nusra avessero tentato di prendere i villaggi drusi nel Golan siriano, l'esercito con la stella di Davide sarebbe intervenuto per prevenire un altro massacro. Un'autobomba aveva appena ucciso nove fedeli di questo antico sincretismo religioso e filosofico. E nel 2015 venti drusi, tra i quali anziani e bambini, erano stati massacrati dai miliziani di Nusra nel villaggio di Qalb Loze, nel nord-ovest della Siria. "L'esercito israeliano è pronto ad aiutare gli abitanti del villaggio per un impegno preso nei confronti della popolazione drusa", aveva annunciato l'esercito israeliano. E' bastata la minaccia a salvare i drusi.
Faceva impressione vedere tutti quei drusi coi loro mustacchi e il copricapo ringraziare gli israeliani. Nello stesso esercito israeliano, oltre confine, servono migliaia di drusi che vivono nei villaggi del Carmelo e della Galilea. La loro alleanza con gli ebrei si radica nel sangue della guerra d'Indipendenza del 1948 e, prima, nell'emigrazione ebraica degli anni Venti. I drusi hanno regalato a Israele trecento vite nelle guerre dal 1948 in avanti (molti poliziotti israeliani uccisi nelle recenti ondate di violenze a Gerusalemme erano drusi).
Adesso è un gran moraleggiare sulla stampa e nei media sulla necessità di tenere Gerusalemme "città aperta" dopo la decisione americana di riconoscerla capitale di Israele. Sul Corriere della Sera, Donatella di Cesare chiede per la città, e come lei tanti altri, di diventare "banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli". Basterebbe una cartina del medio oriente per vedere che, in una fascia di terra che va dallo Stretto di Gibilterra al Golfo Persico, c'è soltanto una città e un paese "banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli".
Ogni anno ce lo conferma la World Watch List di Open Doors, la ong americana che stila la classifica dei paesi che perseguitano i cristiani. A eccezione di Corea del Nord e Afghanistan, si trovano tutti ai confini d'Israele. A nord c'è il Libano, una sorta di Yugoslavia mediorientale dove oltre a non esserci più gli ebrei, i cristiani, i sunniti e gli sciiti sono sempre sull'orlo di una guerra civile. Poi la Siria, collassata su se stessa, dove l'odio religioso e settario ha fatto macelli e gassati. Oltre l'Iraq, da cui i cristiani sono scappati e le minoranze, come gli yazidi, sono finite nelle fosse comuni.
Nel 2017, la popolazione di Israele ha raggiunto gli otto milioni e 680 mila abitanti. Di questi il 74 per cento (sei milioni e mezzo) sono ebrei. Gli arabi sono il venti per cento della popolazione (1,8 milioni), mentre gli "altri" (cristiani non arabi, bahai e altre minoranze) costituiscono il cinque per cento della popolazione. Il paragone che va fatto è con uno stato arabo, come la Tunisia o l'Egitto, che oggi avrebbe dovuto avere una cospicua minoranza ebraica e un'altra cristiana. Entrambe, queste ultime, sono svanite ovunque o lo stanno per fare. Invece la popolazione araba in Israele è oggi molto più grande di quanto non fosse durante il mandato inglese.
L'anno scorso, Israele ha perfino riconosciuto l'esistenza di un nuovo gruppo di cristiani, gli "aramei", entro i suoi confini; qualcosa che nessuna nazione araba o musulmana in medio oriente ha mai fatto o avrebbe mai fatto. Israele ha riconosciuto un distinto gruppo religioso ed etnico: gli indigeni dell'antica Mezzaluna fertile. La loro lingua, l'aramaico, era parlata da Gesù secoli prima che l'islam arrivasse nella regione. Johnny Messo, presidente del Consiglio mondiale degli aramei, ha elogiato Israele "per essere il primo stato al mondo a riconoscere il nostro popolo in linea con il diritto internazionale. Ci incoraggia a continuare la nostra lotta per il nostro riconoscimento in Turchia, Siria, Iraq e Libano". "L'unico rifugio sicuro per il nostro popolo nell'intera regione è Israele", ha detto Jahn Zaknoun, portavoce della Christian Aramaic Society in Israele. "E' l'unico posto in cui stiamo crescendo demograficamente nell'intera regione. Nel 1948 vi erano tra i 50 e i 70 mila aramei nel paese, e oggi ce ne sono 130 mila".
Per capire l'unicità di Israele ci sono proprio i due gruppi di aramei. Quelli in Israele, che crescono, che sono riconosciuti e che vivono al sicuro. E quelli in Siria, nelle montagne a sud di Damasco, nella piccola città di Maalula, a lungo sotto assedio nella guerra civile fra gli islamisti e il regime di Assad. Come per i drusi. Protetti dentro a Israele, esposti ai massacri e alla spoliazione fuori dai suoi confini.
Nessun altro paese fra Africa e Asia minore ha simili percentuali di pluralismo confessionale. Haifa è la città più multietnica del medio oriente. Vi sono ebrei, cristiani, musulmani sia sunniti che sciiti (forse solo in Israele pregano nelle stesse moschee), drusi e bahai, la comunità religiosa originaria dell'Iran che ha in Israele il suo quartier generale. La minoranza sincretista bahai, perseguitata dagli ayatollah, ha trovato riparo in quel piccolo stato, più piccolo della Toscana, con i suoi ventimila chilometri quadrati, a confronto con i paesi arabo-islamici che lo circondano su una superficie di tredici milioni di chilometri quadrati.
A testimoniarlo c'è lo splendore del tempio bahai ad Haifa, meta di pellegrinaggio di decine di migliaia di fedeli poiché si tratta del primo luogo di culto della religione fondata dal persiano Mirza Husain Ali Nuri e che si propone di unificare il meglio delle religioni sorte in precedenza, offrendo un messaggio di pace all'umanità. I circa quattro milioni di bahai sparsi in tutto il mondo hanno in Israele il loro grande tempio spirituale, mentre sono atrocemente perseguitati nei paesi musulmani.
Il mese scorso, la comunità sufi del Sinai, al confine con Israele, è stata praticamente decimata in una strage che ha ucciso oltre trecento fedeli. Quel Sinai da cui i cristiani, presi di mira dai fondamentalisti islamici, stanno scappando a gambe levate. Lo stesso accade in Siria.
Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo, alla ong Aiuto alla chiesa che soffre ha detto pochi giorni fa che la comunità cristiana è ridotta a meno di un terzo rispetto al 2011. "Dei circa 150 mila fedeli ne rimangono poco più di 40 mila", molti in case semidistrutte dalle bombe. Dimezzato anche il numero di chiese, ospedali e strutture sanitarie. Quella Siria dove la guerra civile si è trasformata in fratricidio etnico e religioso e in una distesa di rovine di chiese e tesori archeologici come Palmira.
Stessa scena ovunque, in Nordafrica come nel medio oriente. In Egitto, dove i cristiani copti subiscono attentati e vessazioni, come in Algeria, dove i cristiani sono costretti a subire discriminazioni continue. La situazione più drammatica è quella dell'Iraq, dove le chiese sono state incendiate e i cristiani scacciati da Mosul. In 120 mila lasciarono le case nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014. I cristiani erano il 95 per cento della popolazione mediorientale nel settimo secolo, il venti per cento nel 1945, il sei per cento oggi e si prevede che nel 2020 si dimezzeranno ancora.
"Ci saranno ancora dei cristiani in medio oriente nel Terzo millennio?", si chiedeva vent'anni fa il diplomatico francese Jean-Pierre Valognes nel libro "Vie et mort des chrétiens d'Orient". La tanto decantata eterogeneità mediorientale si sta riducendo alla monotonia di una sola religione, l'islam, e a una manciata di idiomi. In Libano, il paese dove i cristiani per decenni hanno avuto la guida della nazione e che confina con Israele, si è passati dal 55 per cento della popolazione a meno del trenta. Il paese è sempre sull'orlo della guerra civile settaria. In Egitto la popolazione cristiana si è sempre attestata sul venti per cento del totale: oggi è scesa sotto il dieci. Erano il diciotto per cento in Giordania, altro stato confinante con Israele, ma oggi sono il due per cento. In Turchia la persecuzione anticristiana ha assunto il volto della spicciola intolleranza, con la mancanza di seminari, il divieto per gli stranieri di diventare sacerdoti e la discriminazione che rende difficile trovare un lavoro, una casa, ottenere un documento. Come ha spiegato Joseph Alichoran, uno dei maggiori specialisti di storia dei cristiani d'oriente, "la maggior parte dei cristiani di Turchia ha subito un genocidio tra il 1896 e il 1923, e tra quelli che non sono morti la maggioranza ha scelto l'esilio piuttosto che restare in un paese negazionista". I cristiani turchi sono dei "sopravvissuti". In Arabia Saudita, non si può indossare una tunica, mostrare la croce o pregare in pubblico. Alla Mecca ci sono due uscite autostradali: una per i musulmani e una per i non musulmani (ma di questa apartheid non si parla). Qui la commissione per la Promozione della virtù ha persino suggerito il bando della lettera "X", perché troppo simile a una croce. Ma sono gli stessi edifici musulmani a finire nel mirino.
Dell'epoca di Maometto, alla Mecca restano in piedi solo una ventina di edifici. Gli altri sono stati abbattuti dalla furia iconoclastica wahabita. Distrutta è la tomba di Amina bin Wahb, madre del Profeta. Distrutta la casa di Khadijah, moglie di Maometto. Quella di Abu Bakr ospita l'Hilton. Un destino che ricorda la cupola d'oro di Samarra, in Iraq, abbattuta in un attentato di al Qaida che scatenò la guerra etnica e settaria. Non una sola moschea in Israele è mai stata toccata, nonostante la propaganda palestinese ripeta che la moschea di al Aqsa a Gerusalemme "è in pericolo".
Oggi i cristiani aumentano di numero in un solo paese nel medio oriente: Israele. Dall'ufficio centrale di statistica israeliano leggiamo come nel 1949 ammontavano a 34 mila i cristiani, oggi a 170 mila e a 187 mila è la previsione per il 2020. Negli altri paesi mediorientali, il fanatismo islamista sta cancellando ogni traccia del passato pre-islamico. Gerusalemme è oggi un piccolo paradiso per ogni confessione cristiana (cattolici di rito latino, greco, armeno, etiope, melchita e gli anglicani). Oltre la barriera di sicurezza, i cristiani stanno invece scomparendo.
Nel 1950, Betlemme e i villaggi circostanti come BeitJala erano per 1'86 per cento cristiani. Ma alla fine del 2016, la popolazione cristiana si è ridotta a solo il dodici per cento. In tutta la Cisgiordania, i cristiani rappresentano meno del due per cento della popolazione, mentre fino agli anni Settanta i cristiani erano il cinque per cento della popolazione. A Betlemme oggi ci sono solo undicimila cristiani.
A Gaza, la situazione per i cristiani è persino più tragica. Nel 2006, quando Hamas ha preso il potere, c'erano cinquemila cristiani a Gaza. Dieci anni dopo, ne rimangono solo 1.100, come ha detto Samir Qumsieh, proprietario di Nativity Tv, l'unica emittente televisiva cristiana palestinese. A Gaza sono stati deturpati cimiteri e statue cristiane. Una folla musulmana nel febbraio 2002 ha attaccato chiese e negozi cristiani a Ramallah. La prima chiesa battista di Betlemme è stata incendiata in almeno quattordici occasioni e il parroco, Naem Khoury, è stato colpito. A Gaza, nel giugno 2007, un leader della chiesa battista, una delle più antiche della zona e che contiene l'unica biblioteca cristiana di Gaza, è stato rapito e assassinato. La scuola della Sagrada Familia è stata incendiata e l'edificio delle suore nel Convento delle Suore del Rosario nel giugno 2007 è stato saccheggiato e sono state bruciati immagini e libri sacri. Non c'è più nemmeno un solo ebreo a Gaza, da quando Ariel Sharon li portò via nel 2005. La Striscia presto sarà una regione interamente islamica.
In Israele vive il sessanta per cento in più di cristiani che nei Territori palestinesi. Assieme a un gruppo etichettato come "uno dei peggiori nemici del popolo ebraico". Hanno attaccato l'autorità dei rabbini e hanno affermato che il Talmud è pieno di falsità, si sono pure alleati con alcuni degli avversari più crudeli degli ebrei, come gli zar russi. Eppure oggi i caraiti - membri di una propaggine ebraica che nega la tradizione talmudica-rabbinica - stanno fiorendo in Israele. Questa comunità sta vivendo un raro boom nella sua storia antica milletrecento anni. Principalmente concentrati nelle città di Ashdod e Ramla, la comunità dei caraiti conta oggi trentamila persone. Nel 1932, solo dodicimila caraiti rimasero in tutto il mondo. Nel 1948, i caraiti - che erano fioriti nel Medioevo sotto il dominio musulmano - subirono la stessa persecuzione nei paesi arabi degli ebrei locali e in fuga dai paesi arabi furono accolti dal neonato governo israeliano (oggi ci sono anche minuscole comunità negli Stati Uniti e in Europa).
Per capire questa unicità di pluralismo di Israele è istruttiva una visita ai samaritani, uno dei più antichi gruppi etnici del mondo. Metà di loro vive a Holon, città-satellite di Tel Aviv, l'altra metà a Nablus, nei Territori della Cisgiordania. Quest'ultimo villaggio samaritano è una autentica énclave di libertà e sicurezza incuneata fra i campi profughi palestinesi, dominio di gang e terroristi. I samaritani vivono fra i palestinesi ma sono protetti dall'esercito israeliano (Gerusalemme gli ha anche dato la cittadinanza). Altrove in medio oriente, altre fedi minoritarie, come gli yazidi, sono state macellate e ora si scoprono in Iraq sempre nuove fosse comuni con i membri di questa comunità. I samaritani erano appena un centinaio quando gli inglesi governarono la Palestina quasi un secolo fa, mentre oggi sono 865, grazie soltanto alla protezione israeliana (si dice che il premier israeliano Benjamin Netanyahu abbia una foto con i sacerdoti samaritani). Lo studioso Nathan Schur li ha descritti come "probabilmente il più piccolo gruppo di persone che ha conservato per molti secoli una propria coscienza nazionale". Il villaggio samaritano di Kirya Luza è un microcosmo di diversità. C'è una sola strada, ragazzi della locale università di Nablus che parlano in arabo, ragazze in minigonna che parlano ebraico e vengono dalla periferia di Tel Aviv, turisti israeliani e stranieri. Non esiste nulla di simile in tutti i Territori.
Mentre gli arabi cristiani fuggono da Iraq, Siria, Egitto, Autorità Palestinese, in Israele vi sono arabi cristiani arruolati nelle forze armate israeliane. Ci sono più musulmani che servono nell'esercito israeliano (mille a oggi) che in quello del Regno Unito.
In tutti gli stati confinanti con Israele, la libertà di coscienza dei musulmani è violata ogni giorno, ogni giorno ce n'è qualcuno che finisce al patibolo o in prigione per molteplici reati legati alla fede, dalla lunghezza del velo delle donne al numero delle preghiere quotidiane. In Israele sono al sicuro. I cristiani stanno scomparendo ovunque, gli ebrei se ne sono andati da un pezzo. E' la pulizia etnica di cui nessuno parla. C'erano 38 mila ebrei in Libia. Ora non ce ne sono più (la comunità ebraica di Roma ha goduto di una iniezione di vitalità grazie all'arrivo di tanti ebrei libici, di cui parla il film "L'ultimo esodo"). In Algeria c'erano 140 mila ebrei, in Iraq 150 mila ebrei, in Egitto altri 80 mila. Dove sono tutti ora? A differenza dei rifugiati palestinesi che si tramandano lo status di profughi di generazione in generazione e che devono la propria condizione a una guerra dichiarata dai loro leader, questi 856 mila ebrei rifugiati dai paesi arabi non hanno mai ricevuto compenso o aiuto internazionale.
Di fronte a questo quadro di cancellazione del pluralismo e dell'odium fidei che impazza, qual è lo stato che ossessiona tanto la comunità internazionale e l'occidente in particolare in questi giorni e di cui si vorrebbe con ogni mezzo dividerne la capitale? Israele e Gerusalemme. Uno stato dove le chiese sono meno protette dall'esercito che a Parigi o a Colonia. Mai un solo sacerdote cristiano è stato ucciso in Israele, mentre un anno fa è successo persino in Francia a padre Hamel. Uno stato dove religione e laicità si intrecciano senza negarsi a vicenda, ma dove che tu sia ortodosso, laico, scettico o ateo, non devi rendere conto a nessuno.
In una Europa sempre più secolarizzata e su cui preme un medio oriente sempre più monocolore e monoculturale (l'islam fondamentalista), vibra quest'ansia suicida di dividere la capitale di Israele.
(Il Foglio, 16 dicembre 2017)
L'odio contro la bellezza. Miss Iraq in esilio per una foto con Miss Israele
Miss Israele (a sinistra) e Miss Iraq
Miss Iraq, Sarah Idan, è stata costretta a fuggire dal suo Paese insieme alla famiglia dopo aver ricevuto minacce di morte per aver postato online una fotografia che la ritrae con Adar Gandelsman, miss Israele, alla competizione di Miss Universo a Tokyo. La didascalia della foto, diffusa via Instagram, recitava: «Peace and Love from Miss Iraq and Miss Israel».
«Una volta tornata a casa è stata minacciata lei e la sua famiglia. Le è stato detto che se non avesse rimosso le foto le avrebbero tolto il titolo (di Miss Iraq, ndr) e l'avrebbero uccisa», ha raccontato Gandelsman alla tv israeliana. In un altro post su Instagram Idan si è scusata con chi ha ritenuto la foto «dannosa per la causa palestinese» e ha chiarito che non aveva alcun intento politico, ma voleva «esprimere la speranza e il desiderio di pace tra due Paesi». Ma non si è pentita di aver diffuso la foto sui social media, tanto da non averla ancora rimossa da Instagram.
(Libero, 16 dicembre 2017)
Israele: la follia è nel metodo
Un altro esempio di filosofia politica che assume come fondamento una falsità storica: la nascita dello stato di Israele come "risarcimento simbolico nei confronti degli Ebrei". Di filosofie moraleggianti su Israele basate sulla falsità è ormai piena la letteratura giornalistica. NsI
di Sarantis Thanopulos
La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è folle. La affermazione di Netanyahu che la città è la capitale di Israele da tremila anni altrettanto. In entrambi i casi c'è del metodo nel disegno che il folle persegue con ostinazione.
Se si seguisse il principio antistorico evocato dal premier israeliano, l'Italia potrebbe accampare diritti sui territori dell'impero romano (Mussolini lo fece), agli indiani d'America dovrebbe essere restituito il dominio sulle loro terre perdute e a Istanbul dovrebbe essere re-issata la bandiera dell'aquila bicefala dell'impero bizantino (i nazionalisti greci l'hanno lungamente sognato).
La creazione di uno stato ebraico in Palestina fu il risultato di una catastrofe epocale, del primo tentativo sistematico di fermare la storia, cioè il corso della vita e le sue trasformazioni. La nascita di Israele fu innegabilmente un atto violento che nulla aveva a che fare con la continuità di un diritto, che la storia aveva reso insensata. È stata, piuttosto, un risarcimento simbolico nei confronti degli Ebrei che non ha riparato il danno dell'umanità ed è stato realizzato a spese di chi con la produzione di questo danno centrava poco o niente.
Creato in conseguenza di un attentato gravemente dissolutivo alla storia, e iscritto nel mito dell'eterno ritorno, Israele è, nondimeno, un atto storico, una realtà che esprime una trasformazione (sospesa). Non la si può sradicare come una metastasi perché non è un tumore. È il luogo in cui a un dolore immane rimasto senza casa è stato consentito di alloggiare. La pretesa della sua sparizione (da parte di chi l'ha vissuta come incubo) è altrettanto illogica come la retorica che si è appropriata della sua fondazione.
In Palestina si gioca da parecchio tempo il destino del mondo. La nostra capacità di rimettere in movimento la storia per non confondere la catastrofe con la trasformazione. La prima lascia il tempo che ha trovato: conferma l'immobilità che fa morire, distruggere il passato. La seconda elabora il conflitto necessario che fa parte del movimento della vita.
Lo stato di Israele ha un senso storico solo se diventa la terra dell'incontro tra due lutti: il lutto dell'occidente per la distruzione di una parte di sé, pericolosamente incombente sul tutto, e il lutto dei paesi musulmani per la loro crisi di prospettiva che non può essere risolta con un odio identitario nei confronti dell'invasore.
Minare l'equilibrio in Palestina, fondato attualmente sul diritto del più forte e sul potere degli integralisti e quindi fragilissimo, è follia diventata metodo. In essa si riflette la sconfitta della passione (indissociabile dal lutto), che, perse le sue ragioni (la permanenza del suo oggetto), di fronte al precipizio, piuttosto che fare il passo laterale che le avrebbe consentito di riposizionarsi nel mondo, si perverte nel calcolo, trasforma la sua impasse in metodo di manipolazione dell'esistenza.
Trump e Netanyahu sono protagonisti di un modo di vivere fondato sull'arbitrio calcolato, che a sua volta, folle creatura emancipata dal suo creatore - l'essere umano perso nei meandri della spersonalizzazione -, li fabbrica e li calcola come suoi agenti. Credono di essere padroni del mondo, ma non sono padroni di se stessi. Efficienti nella costruzione di un agire che anestetizza i sentimenti e congela, rendendole inutilizzabili, le incertezze, le paure e le sofferenze, procedono in senso anti-tragico: seminano cattiva sorte a destra e a manca, non pagando mai di persona. Il mondo non è così grande perché consentiamo loro di agire indisturbati e minare il nostro destino.
(il manifesto, 16 dicembre 2017)
Dunque per Thanopulos "Lo stato di Israele ha un senso storico solo se diventa la terra dell'incontro tra due lutti" e per Donatella Di Cesare Gerusalemme deve diventare "quel luogo dell'ospitalità che resiste a una forzata e artificiosa spartizione ... modello extrastatale e banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli". Due esempi di teologia laica. La Bibbia dice cose più serie, sia riguardo al passato, sia riguardo al futuro. M.C.
Grave errore abbandonare Israele
Lettera al Giornale
L'accogliente Europa, grazie all'araba fenice nonché portavoce dell'Ue Mogherini, sbatte le porte maleducatamente in faccia al Primo ministro israeliano Netanyahu, al quale vorrei far sapere che questi burocrati rappresentano solo una parte della società europea, quella più ostile ad Israele. Comunque se può essere di consolazione allo sgradito ospite, e per chi non è allineato con questi padroni dell'Europa, vale sempre il detto che ci viene tramandato dalla saggezza popolare: meglio soli che male accompagnati.
Enzo Bernasconi
Ma il punto, caro Enzo, è proprio quello: la solitudine. Da soli, visti i protagonisti in campo, gli israeliani non possono far nulla, se non difendersi dagli attacchi. In quella zona del mondo ci sono troppi interessi e troppi attori: i russi, gli americani, gli europei, gli arabi e via discorrendo. Comprenderà che uno Stato, se rimane isolato, può essere solo schiacciato dall'uno o dall'altro, o da molti messi insieme. Israele ha bisogno di alleati, e bene ha fatto Donald Trump a ribadire ciò che gli americani hanno sempre detto: la vera Capitale israeliana è Gerusalemme, non Tel Aviv. Lo so: secondo alcuni, la posizione americana rischia di compromettere il cammino di pace. Ma quale pace? Sono anni e anni che laggiù se le danno di santa ragione facendo un passo avanti e uno indietro, indipendentemente dalla capitale Gerusalemme o Tel Aviv. Anni e anni che il processo di pace è bloccato. Evidente che quello che finora è stato fatto non è servito a nulla se non ad allungare all'infinito un cammino che non porta alla pace. E allora meglio forzare la mano e parlare chiaramente, proprio come ha fatto Trump. Gliela racconto in modo molto semplice: non si possono fare le frittate senza rom - pere le uova. E dunque chi ci prova andrebbe, se non seguito, almeno non criticato. Esattamente l' opposto di quello che l'Europa, non solo la Mogherini, ha fatto nei confronti di Trump e Israele. Ma che quest'Europa non valga molto e abbia fatto dell'ambiguità la sua ragion d'essere non è certo una novità.