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Notizie 16-31 dicembre 2020


Israele: vaccino a tappe forzate, ma gli arabi restano indietro

Nel paese già immunizzato quasi il 10% della popolazione. Città e villaggi palestinesi sono però in fondo alla classifica. E molti cittadini di religione ebraica vanno nei municipi arabi per aggirare le liste d'attesa.

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Con 800,000 persone che hanno ricevuto la prima iniezione del vaccino Pfizer in meno di due settimane, Israele svetta nelle classifiche mondiali per numero di vaccinati per abitanti (su una popolazione di 9,2 milioni). A fronte della risposta positiva oltre le aspettative, il Paese si trova però ad affrontare la sfida dello scetticismo rispetto all'iniezione ancora prevalente tra i cittadini arabi, che rappresentano il 20% della popolazione. La maggior parte delle città e dei villaggi arabi infatti si trova in fondo alla classifica dei municipi per numero di vaccinati. La risposta carente da parte della popolazione araba alla campagna vaccinazioni ha portato a un fenomeno che si sta diffondendo il tutto il Paese: i cittadini di religione ebraica, tra cui il tasso di richiesta dell'inoculazione è decisamente superiore, raggirano le lunghe liste di attesa negli ambulatori dei loro comuni di residenza per venire a vaccinarsi nelle città arabe.
   A Baka al-Gharbiah, Umm el-Fahm, Nazareth oltre l'80% dei vaccinati sono ebrei che arrivano da città dove gli appuntamenti, per via dell'alta domanda, possono essere fissati anche tra due mesi. Molti raccontano che nelle città arabe non solo è facile ottenere un appuntamento dall'oggi al indomani, ma è anche possibile presentarsi senza appuntamento e ricevere l'iniezione in loco senza lunga attesa. E ci sono pure quelli che non rientrano nelle categorie che in questa fase hanno accesso al vaccino - cioè i cittadini sopra i 60 anni e quanti soffrono di malattie pregresse, oltre al personale sanitario - che tentano la loro fortuna nelle cittadine arabe vicine, e quando a fine giornata rimane un surplus di dosi non somministrate, riescono a ottenere l'iniezione.
   Raed Daka, il sindaco di Baka al-Gharbiah, cittadina di 30,000 abitanti che si trova a due passi dalla linea verde che divide Israele dalla Cisgiordania, al centro di una strada immaginaria tra Cesarea e Jenin, vede anche un'occasione in quello che scherzosamente chiama 'turismo medico'. "E' l'opportunità di farci conoscere, di creare un'interazione. Normalmente si tira dritto sull'autostrada 6 e invece chi entra per il vaccino scopre anche una realtà che non conosceva e su cui aveva molti pregiudizi".
   La tenue risposta alla campagna vaccini tra la popolazione araba è un fenomeno che preoccupa molto il ministero della Salute, in quanto potrebbe minare l'obiettivo di arrivare a una immunità di gregge già a fine marzo. Il premier Netanyahu oggi ha visitato uno degli ambulatori nella città di Tira invitando la popolazione a non avere timore del vaccino. "Il vaccino è sicuro, protegge noi, le nostre famiglie e il nostro Paese. Ne abbiamo portato a sufficienza per tutti, ebrei e arabi, religiosi e laici. Tutti possono e devono vaccinarsi".
   Ayman Saif, già a capo dell'Autorità per lo sviluppo economico delle minoranze, è il consulente per la società araba del Commissario per la lotta al Covid. A colloquio con Repubblica specifica che al momento il tasso di vaccinazione tra la popolazione araba è solamente del 5%. "La campagna vaccinazioni è appena iniziata e stiamo investendo molto per cambiare la percezione tra i cittadini arabi: più pubblicità, apertura di ambulatori anche nei villaggi più piccoli, ma soprattutto utilizzando l'influenza che il nostro eccezionale personale sanitario ha sulla popolazione".
   Secondo i dati dell'Istituto nazionale di statistica israeliano, il 47% dei farmacisti, il 25% degli infermieri e il 17% dei medici sono arabi, costituendo una media del 20% del personale medico israeliano. "Se ognuno di loro portasse la propria famiglia a vaccinarsi, già sarebbe un passo enorme". A frenare la partecipazione dei cittadini arabi alla campagna vaccinazioni, spiega Saif, è innanzitutto la larga diffusione di fake news. "Va considerato anche che la possibilità di esposizione a teorie della cospirazione in lingua araba è infinitamente più alta rispetto all'ebraico, e questo ha un impatto drammatico. Stiamo investendo molto anche in campagne pubblicitarie sui social media. Abbiamo vissuto questo problema anche sull'esistenza stessa della malattia, con la conseguente mancanza di rispetto delle regole che ha portato all'alto tasso di contagio che ha caratterizzato questo settore".
   Le città arabe, insieme ai comuni dove risiede la popolazione ebraica ultraortodossa, hanno espresso i numeri più alti di contagi durante tutto il corso della pandemia. Si tratta di comunità caratterizzate da alte percentuali di densità demografica, con infrastrutture spesso carenti e dove le forze dell'ordine stentano a fare sentire la propria presenza. In più i matrimoni con centinaia di invitati e le preghiere di massa hanno contribuito a portare alle stelle la morbidità.
   Tra la società ultraortodossa la risposta alla campagna vaccini attualmente è più alta perché ha ricevuto l'imprimatur dei grandi rabbini che stanno sollecitando le rispettive comunità a non temere l'iniezione e "a vaccinarsi quanto prima per prevenire un pericolo per sé e per gli altri", come si legge per esempio nella lettera diffusa dal Rabbino Capo sefardita d'Israele.
   "Abbiamo coinvolto anche gli Imam" ci spiega Saif "per esempio chiedendo di inserire nei sermoni della preghiera del venerdì l'importanza della vaccinazione. La cooperazione di tutti i leader della società è ottima, quindi credo che sia solo una questione di tempo prima di vedere un aumento nella domanda di vaccinazione anche tra i cittadini arabi".
   Il ritmo serrato delle vaccinazioni in Israele - 150,000 iniezioni somministrate al giorno - potrebbe portare all'esaurimento delle dosi attualmente a disposizione prima del previsto, con i prossimi rifornimenti di Pfizer in arrivo solo a inizi febbraio, e a un conseguente rallentamento della campagna in corso. "Spero solo che non si convincano quando ormai non saranno rimasti più vaccini a disposizione e allora diranno 'ecco, lo Stato non ci ha fornito i vaccini'", ha detto ieri in un'intervista a Ynet il dottor Masad Barhoum, il direttore dell'Ospedale di Nahariya in Galilea, che ha duramente criticato la circolazione di fake news tra la popolazione araba, tra cui una delle più diffuse è che il vaccino possa danneggiare la fertilità. "Tutte sciocchezze" ha affermato Barhoum.
   Daka, il sindaco di Baka al Gharbiah, crede che all'origine della bassa adesione alla campagna vaccini vi sia anche la mancanza di fiducia generale dei cittadini arabi israeliani nelle istituzioni. "Si tratta di una fiducia già di base incrinata a causa della gestione fallimentare della piaga che più dilaga nella società araba israeliana, ovvero la criminalità organizzata, perché parlare di 'violenza' è ormai riduttivo". I regolamenti di conti tra famiglie rivali coinvolte in attività criminali di vario genere solo nel 2020 hanno fatto oltre cento vittime, con omicidi avvenuti anche in pieno giorno di fronte a una polizia che non riesce a gestire la situazione.
   "In un certo senso, la pandemia ha rappresentato una condizione in cui tutti eravamo uguali, ma presto sono emerse molte delle problematicità che riguardano i cittadini arabi" conclude Saif. "Lo studio a distanza per esempio ha evidenziato il divario in molte comunità rispetto alla qualità della rete internet, o alla disponibilità di adeguate attrezzature tecnologiche. Abbiamo avuto modo di esaminare degli svantaggi su cui c'era meno consapevolezza e spero si creerà ora l'occasione di investire più risorse e riparare".

(la Repubblica, 31 dicembre 2020)


Seconda vittima israeliana dopo aver ricevuto vaccino Pfizer poche ore prima

Sinceramente, la nostra preoccupazione per questo tipo di vaccino genico era per gli effetti a lungo termine, non per quelli a breve che, in teoria, dovrebbero essere stati testati e vagliati dalle agenzie governative di controllo. Invece, iniziano a verificarsi strani 'incidenti' anche a breve termine.
   Un altro cittadino israeliano è infatti deceduto dopo aver ricevuto la prima dose del vaccino contro il coronavirus sviluppato dalla Pfizer; l'uomo aveva 88 anni, riporta il giornale Times of Israel. "L'uomo è morto a Gerusalemme poche ore dopo aver ricevuto il vaccino contro il coronavirus", scrive il quotidiano.
   Allo stesso tempo i medici sottolineano che il paziente 88enne aveva problemi di salute "cronici, gravi e complessi". Come quelli di chi, in media, muore di Covid-19.
   All'inizio della settimana era stato riferito che un israeliano 75enne era deceduto per un attacco cardiaco dopo aver ricevuto il vaccino contro il coronavirus della Pfizer. Le prime analisi non avevano trovato evidenze tra il decesso e la vaccinazione avvenuta solo cinque giorni prima.
   La vaccinazione di massa contro il coronavirus è iniziata in Israele il 20 dicembre. Inizialmente il vaccino è stato offerto ad operatori sanitari, studenti di medicina, personale di istituzioni geriatriche e rappresentanti delle autorità, che dovrebbero, con il loro esempio, incoraggiare i cittadini a vaccinarsi. Nella seconda fase vengono vaccinati i cittadini di età superi ore ai 60 anni e le persone appartenenti alle categorie a rischio di complicazioni gravi del Covid.
   O è un vaccino antisemita, o abbiamo un problema.

«VoxNews, 31 dicembre 2020)


Vaccini scatenati

La campagna di vaccinazione contro il Covid-19 in Israele funziona 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. L'adesione è altissima.

di Micol Flammini

 
ROMA - All'inizio della campagna di vaccinazione contro il Covid-19 in Israele, il timore principale era che il governo si sarebbe dovuto impegnare a convincere gli scettici, che aveva immaginato fossero molti. Lo scetticismo invece non è stato un problema, anzi dalla prima settimana di vaccinazione gli israeliani hanno chiamato in massa per cercare di prenotare la loro dose. La campagna è iniziata il 20 dicembre, sette giorni in anticipo rispetto alla data annunciata. La priorità viene data al personale sanitario, alla popolazione con più di sessant'anni di età e l'obiettivo fissato dal premier Benjamin Netanyahu è di raggiungere le 150 mila immunizzazioni al giorno, così da avere, per la fine di gennaio, almeno un quarto della popolazione già vaccinata, circa 2,25 milioni di israeliani su un totale di 9,2 milioni di abitanti. Secondo alcuni commentatori però è possibile che tutto procederà in modo ancora più rapido. I dati del ministero della Salute israeliano indicano che già il 21 per cento della popolazione con più di sessant'anni ha ricevuto l'iniezione e domenica scorsa, dopo una settimana dall'inizio della campagna, il totale dei vaccinati era di 379.000 israeliani.
  Israele è il Paese con il più alto numero di dosi somministrate pro capite, secondo i dati diffusi dall'università di Oxford (Our World in Data): 7,44 per cento (l'Italia è a 0,01 per cento e la Germania 0,09). Il premier Netanyahu aveva concluso il primo accordo con Pfizer-BioTech per un totale di 8 milioni di dosi, le prime erano arrivate l'8 dicembre, ad attenderle all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv c'era il premier: "Questa è una grande festa per Israele", aveva detto. Poi si era fatto vaccinare in diretta tv assieme al ministro della Salute Yuli Edelstein sempre per cercare di dimostrare agli scettici che avrebbero fatto bene a fidarsi. Non aveva previsto che invece i cittadini avrebbero risposto alla campagna così in fretta, imponendo alle vaccinazioni un ritmo serratissimo e una distribuzione "scatenata", come la definisce il Times of Israel. Le altre dosi di vaccino arriveranno questa settimana, mentre per i primi mesi del 2021 sono attese 14 milioni di dosi da parte della società americana Moderna. 11 milioni di vaccini in tutto, basteranno per l'intera popolazione.
  I centri per la vaccinazione in Israele sono aperti 24 al giorno, anche il sabato e presto, ha detto il ministro della Salute, anche gli ospedali potranno gestire le dosi, aumentando in modo considerevole la capacità di immunizzazione del paese. Il Clalit Health Services, una delle quattro organizzazioni che in Israele sono incaricate di gestire i servizi sanitari, ha aperto 83 centri su tutto il territorio nazionale, ha attivato delle linee per la prenotazione dedicate a chi ha più di 75 anni. La stessa cosa hanno fatto anche gli altri e i centri per le vaccinazioni in Israele crescono di settimana in settimana. Secondo il quotidiano Haaretz, dalla scorsa settimana a oggi ce ne sono duecento in più. Mentre la campagna va avanti con successo - il premier ha detto che Israele sarà probabilmente il primo paese al mondo a raggiungere l'immunità di gregge - il paese è entrato nel suo terzo lockdown. Il numero dei contagiati è ancora alto -più di tremila al giorno - e i vaccini, ha detto Netanyahu, saranno soltanto una vittoria a metà se nel frattempo non saranno mantenute le restrizioni, "le due cose insieme ci faranno uscire dalla pandemia per primi al mondo", ha scritto il premier su Twitter riferendosi alla campagna per la vaccinazione e alla nuova chiusura, che sarà meno rigida rispetto alle due precedenti, con le scuole che rimarranno aperte.
  Il governo israeliano, ormai caduto, nonostante le grandi difficoltà politiche e gli scontri tra il premier Netanyahu e il vice Benny Gantz, è riuscito a organizzare una grande campagna vaccinale alla quale i cittadini hanno risposto con un entusiasmo che le autorità non si sarebbero aspettate. L'altissima domanda ha anche fatto in modo che il premier fissasse l'obiettivo di 150 mila di vaccinazioni al giorno e chiedesse alle società di fornire le dosi in tempi più rapidi. Il primo passo della campagna vaccinale per il governo traballante di Gerusalemme è stato quello di sottoscrivere durante l'autunno i contratti con Pfizer e Moderna e in un secondo momento si è occupato di allestire i centri per le vaccinazioni, nonostante un problema di calcolo-non ci si aspettava la grande adesione - risolto però in fretta. Israele sta anche lavorando a un suo vaccino, Brilife, che è entrato questa settimana nella sua seconda fase di sperimentazione. Il ministero della Salute spera che gran parte della popolazione verrà vaccinata entro l'inizio della primavera con le dosi disponibili di Pfizer e Moderna, e proprio nello stesso periodo i ricercatori del vaccino Brilife vorrebbero lanciare una sperimentazione su larga scala per testarne l'efficacia. Ma la domanda che si fanno gli scienziati è: se per quel momento il paese sarà quasi immune, come si farà a sapere se il vaccino israeliano funzionerà? Probabilmente per la terza fase bisognerà condurre i test all'estero, dicono i ricercatori, ma nel frattempo, anche se il vaccino Brilife sarà forse il piccolo sacrificato di questa campagna di vaccinazione scatenata, come ha detto il premier, Israele probabilmente potrà "aprire l'economia e fare cose che nessun altro paese può fare".

(Il Foglio, 31 dicembre 2020)


Sama' Abdulhadi arrestata in Palestina, appello per la liberazione

Sama' Abdulhadi, la regina della techno palestinese, è stata arrestata per aver suonato nel sito archeologico-religioso di Nabi Musa, posto tra Gerico e Gerusalemme.

 
Sama' Abdulhadi
La giovane e talentuosa artista SAMA' (Sama' Abdulhadi) protagonista della BoilerRoom Palestine 2020, icona della musica elettronica, delle donne e della lotta alle oppressioni è trattenuta in carcere dall'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con l'accusa di aver profanato un luogo religioso e violato le norme sanitarie in vigore.
Il problema è che, da quanto risulta, Sama' aveva il permesso ufficiale, tanto che la famiglia Abdulhadi ha rilasciato una dichiarazione dicendo che la DJ aveva ricevuto un'autorizzazione dal Ministero del Turismo e che l'evento, in forma privata, si è tenuto in una sezione lontana dalla moschea che si trova nel sito, in un'area aperta con non più di 30 persone munite, la maggior parte, di mascherine. Negando con veemenza che il concerto fosse un party di "adorazione del diavolo" come era stato denominato da alcuni fanatici religiosi via social.
La vicenda risulta surreale ma allo stesso tempo è delicata e intricata. Subito è stata lanciata una petizione per la sua liberazione immediata.
Il fatto si è svolto nel weekend di Natale presso il sito di Nabi Musa, ritenuto il luogo di sepoltura del profeta Mosè, ma è anche un luogo di interesse archeologico e turistico. Negli ultimi tempi il governo palestinese e soggetti esteri stavano investendo molto nell'area e anche la DJ stava producendo dei video, per promuovere la Palestina attraverso la musica elettronica, commissionati da Beatport.
In un'altra nota da parte della famiglia di Sama si legge infatti:
"Sama' sta producendo dei video sulla musica elettronica in Palestina, filmati in siti archeologici. Ha ottenuto il permesso dal ministero del Turismo, considerato che le riprese sarebbero state fatte nel cortile, che è separato dalla moschea e non è sotto la giurisdizione del WAQF (autorità preposta alla gestione dei luoghi sacri per l'Islam, ndr)".
Le autorità competenti, Ministero del Turismo e quello per gli Affari Religiosi, hanno negato di essere state coinvolti e si sono rimpallate le colpe. Nel frattempo il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha annunciato la creazione di un comitato investigativo per indagare sull'accaduto. Unico risultato è che a Sama' Abdulhadi, il 29 dicembre, è stata prolungata l'incarcerazione per altri 15 giorni con la motivazione che la techno non è parte della cultura palestinese.
Ultimamente però è stata pubblicata anche la documentazione che prova la legalità dell'evento rendendo illegale l'arresto di Sama'.
Tutto è esploso dopo la pubblicazione di alcuni video sui social che hanno generato scandalo e turbato i giovani musulmani, i quali si sono perfino recati sul posto, a quanto sembra, interrompendo l'evento. Mentre, nei giorni seguenti è avvenuta la distruzione di parti di quello che doveva essere un hotel costruito per incentivare il turismo, ci sono state delle preghiere sul luogo sacro per espiarlo dagli 'atti impuri avvenuti' e, soprattutto, cosa più triste, Sama' è stata vittima anche di attacchi mediatici e minacce verso la sua persona, per poi essere arrestata.
La vicenda assume, quindi, sempre più tinte scure e la paura è che la fenomenale DJ palestinese sia stata presa come capro espiatorio per placare la rabbia dei fedeli e di buona parte dell'opinione pubblica, onde evitare critiche al governo. Non è la prima volta che un evento techno viene osteggiato perché percepito come musica occidentale e quindi associato all'occupazione d'Israele. Ma a pensarci bene come ha detto il fratello di Sama', Seri, neanche il violino e il pianoforte fanno parte dell'eredità palestinese, non ci potrebbero essere l'hip-hop né l'orchestra. Poi il fatto di venire da una famiglia conosciuta, già sua nonna era una nota femminista e scrittrice, e di essere una donna, emancipata, anticonvenzionale e libera in una società ancora fortemente patriarcale di certo non aiuta, anzi.
Quello che emerge è l'evidenza di profondi problemi di carattere politico, religioso, sociale ed economico ancora irrisolti nella zona, che hanno lasciato un sostrato culturale e generazionale sfibrato e diviso il quale si riflette su tutti i livelli. Su questo, però, bisognerebbe riflettere molto a lungo.
Noi ci auguriamo solo che Sama' Abdulhadi venga rilasciata al più presto e che la sua musica continui a suonare senza repressioni e censure!

(Parkett - Exploring Electronic Music, 31 dicembre 2020)


Italgas e l'israeliana TaKaDu insieme per le reti idriche digitali

Si punta a ridurre le perdite che in Italia superano anche il 40% dei volumi immessi

ltalgas avvia il processo di trasformazione digitale delle reti idriche attualmente in concessione con l'obiettivo di migliorare l'efficienza operativa e la qualità del servizio facendo leva sulle eccellenze sviluppate nella gestione delle reti gas. Del resto, stando ai dati dell'lstat e come rilevato da diversi studi del settore, le reti idriche perdono circa il40% del volume immesso, con punte anche più rilevanti nel Mezzogiorno.
L'iniziativa del gruppo guidato da Paolo Gallo, che si inserisce nel piano al 2026 (in cui sono previsti 120 milioni di nuovi rivestimenti proprio nel settore idrico), riguarda le cinque reti in concessione a Caserta e in quattro comuni della provincia (Casaluce, Galluccio, Roccaromana, Baia e Latina) che servono complessivamente circa 30 mila clienti, 270 km di rete per un totale di 8 milioni di metri cubi d'acqua distribuiti.
   Per implementare il progetto, ltalgas punta su due elementi chiave. Innanzitutto l'accordo di partnership sottoscritto con la società israeliana TaKaDu, leader globale nello sviluppo di sistemi digitali per reti idriche e già attiva in 13 Paesi. ln secondo luogo sull'introduzione di un contatore intelligente "water smart meter" di ultima generazione, basato su tecnologia a ultrasuoni, con un piano che prevede la sua installazione in sostituzione di tutti i tradizionali misuratori entro il 2021.
   Il completamento del programma, che comporterà anche l'applicazione di una diffusa sensoristica lungo le reti cittadine, permetterà di tenere sotto controllo, in ogni momento, tutti i parametri di funzionamento delle infrastrutture, di rilevare in tempi brevi e con una precisione sempre più accurata eventuali guasti, e di intervenire rapidamente in caso di perdite. I risultati ottenuti saranno infine messi a disposizione delle utility idriche italiane, tramite un'offerta di servizi dedicata, volta a migliorare l'efficienza e la qualità del servizio e ovviamente a ridurre le perdite di rete.

(Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2020)


Un forte terremoto potrebbe colpire Israele. Il monito degli scienziati

di Paolo Castellano

Secondo un nuovo studio rilasciato il 30 dicembre dall'Università di Tel Aviv, nei prossimi anni un forte terremoto - si stima intorno al 6,5 della scala Richter - colpirà Israele e i paesi della Regione mediorientale. Senza le necessarie precauzioni potrebbero morire centinaia di persone, per non parlare dei danni irreparabili alle città.
   I ricercatori d'Israele, in collaborazione con l'International Continental Drilling Program (ICDP) che ha poi portato alla pubblicazione sulla rivista Science Advances, hanno spiegato di aver collocato una piattaforma di perforazione al centro del Mar Morto nel 2010 per studiare l'attività tellurica. Attraverso una strumentazione scientifica, gli studiosi sono penetrati nelle profondità del fondo idrico per centinaia di metri, analizzando circa 220mila anni di storia geologica del Mar Morto.
   Come riporta il Jerusalem Post, gli scienziati hanno scoperto uno schema ciclico, notando che i terremoti più devastanti si sono verificati nella Regione ogni 130-150 anni. Tuttavia, ci sono stati periodi più brevi - una decina di anni - tra movimenti tellurici di elevato impatto.
   Il prof. Shmuel Marco, alla guida della Porter School of Environmental and Earth Sciences dell'Università di Tel Aviv, ha dichiarato che ogni inverno le acque in piena sfociano nel Mar Morto, il punto più basso del pianeta, portando con sé frammenti e sedimenti che si accumulano sul fondo del lago salato in diversi strati.
   Attraverso equazioni e modelli informatici specifici, i ricercatori hanno analizzato il prodotto delle loro perforazioni e sono stati in grado di comprendere la fisica del processo, ricostruendo anche una documentazione della storia geologica dei passati terremoti. Come emerge dallo studio, la frequenza delle scosse sismiche nella valle del Mar Morto non è regolare ma cambia nel tempo.
   Considerando tutti gli elementi scientifici raccolti, i geologi ritengono che un altro terremoto dovrebbe colpire Israele e le nazioni confinanti nei prossimi anni e decenni. L'ultimo episodio sismico si è infatti verificato 93 anni fa, nel 1927, causando centinaia di feriti e innumerevoli danni a diverse città, Gerusalemme compresa.

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2020)


L'ex spia Jonathan Pollard arrivata in Israele, accolta da Netanyahu

L'analista militare fu arrestato nel 1985 e ha scontato 30 anni di carcere. Netanyahu gli ha consegnato la carta d'identità israeliana al suo arrivo.

 
Jonathan Pollard, l'ex analista militare Usa che negli anni '80 spiò per Israele e che ha scontato circa 30 di prigione, è rientrato in Israele la notte scorsa dopo che il mese scorso gli è stato rimosso anche il divieto di lasciare New York. Pollard, 66 anni, è stato accolto all'aeroporto Ben Gurion dal premier Benyamin Netanyahu che gli ha subito consegnato la carta di identità dello stato ebraico.
   Pollard e la moglie Esther sono arrivati al Ben Gurion su un aereo privato di Sheldon Adelson, magnate usa e proprietario del quotidiano Israel Hayom. "Bentornato - gli ha detto Netanyahu accogliendolo ai piedi della scaletta dell'aereo - è grande che tu sia finalmente a casa. Ora puoi finalmente cominciare una nuova vita, con libertà e felicità".
   Pollard, cittadino americano, fu arrestato il 21 novembre del 1985 nel sospetto di spionaggio a favore di Israele mentre era analista dell'intelligence della marina militare Usa. Due anni dopo, nel 1987, fu condannato a vita per la stessa imputazione. Nel novembre del 2015, dopo 30 anni di detenzione, fu rilasciato in libertà condizionale con obbligo di braccialetto e di non lasciare il Paese. Il mese scorso il dipartimento di Giustizia ha certificato la fine del periodo di libertà vigilata rimuovendo ogni altro ostacolo, eccetto il permesso di lasciare gli Stati Uniti.
   Il caso Pollard causò una forte crisi tra gli Usa e Israele, due paesi tradizionalmente alleati e un lungo braccio di ferro per la sua liberazione. I vari presidenti alternatisi alla Casa Bianca, ma anche Cia e Fbi, si sono sempre detti contrari. Ebreo americano, Pollard si dichiarò colpevole al processo e disse di aver passato informazioni classificate per amore verso Israele che gli ha concesso la cittadinanza durante il periodo di detenzione.

(RaiNews, 30 dicembre 2020)


Israele: media, Pence cancella visita di gennaio

Il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence ha cancellato una visita in Israele già programmata a gennaio prima dell'insediamento di Biden alla Casa Bianca.
Lo riferiscono i media israeliani che citano l'ambasciata Usa a Gerusalemme che tuttavia non ha spiegato i motivi della decisione.
Pence sarebbe dovuto arrivare - in quella che era considerata la sua visita di addio allo stato ebraico nella sua carica - tra il 10 e il 13 gennaio. Oltre Israele il programma di Pence prevedeva altre tappe in vari paesi.

(swissinfo.ch, 30 dicembre 2020)


Israele è il Paese più progredito

Lo Stato ebraico ha già immunizzato 500mila persone: più dei suoi contagi totali

di Tommaso Montesano

TABELLA DI MARCIA
L'obiettivo del governo è "coprire" in un mese un quarto della popolazione dello Stato, ovvero circa 2,2 milioni di persone.
LA CLASSIFICA
Il Paese che vanta la somministrazione di più dosi ogni 100 abitanti è proprio Israele: 5,68. Seguono Bahrain e Regno Unito.

Domenica scorsa è scattato il terzo lockdown, sull'onda dell'impennata dei contagi, oltre 5mila in un giorno. Ma Israele, come è nelle tradizioni dello Stato ebraico, non è stata a guardare. Mentre l'Italia sulla somministrazione dei vaccini è alle prese con i ritardi dovuti (anche) al maltempo, Gerusalemme - sotto la guida del quinto governo di Benjamin Netanyahu - ha risposto alle difficoltà accelerando sul piano della copertura anti-Covid.
   Il ministero della Salute ha riferito che il Paese ha vaccinato più persone in dieci giorni di quante ne siano state infettate dal virus dall'inizio della pandemia. Ecco i numeri: ieri è stata superata la soglia dei 500mila cittadini immunizzati, ovvero circa il 5% della popolazione israeliana (di 9 milioni di abitanti), da quando lo Stato ebraico ha iniziato la campagna per l'immunizzazione della propria popolazione, la scorsa settimana. E poiché dall'inizio dell'emergenza sanitaria Israele ha dovuto fare i conti - ultimo aggiornamento - con 409.338 casi e 3.257 vittime, ecco che le cifre danno ragione all'enfasi delle comunicazioni governative, che stanno insistendo sulla prossima sconfitta del virus se la campagna di vaccinazione proseguirà al ritmo attuale.
   Domenica scorsa il Paese è entrato nel suo terzo lockdown nazionale, che comporta la chiusura di gran parte delle attività economiche oltre a limitare i movimenti della maggior parte della popolazione entro un chilometro dalla propria abitazione. L'obiettivo, hanno rivelato fonti governative, è immunizzare in un mese un quarto della popolazione dello Stato, ovvero circa 2,2 milioni di persone. In questo modo, Israele potrebbe essere il primo Paese a raggiungere la cosiddetta "immunità di gregge", che impedisce al virus di circolare. Secondo quanto stimato dal biologo Eran Segal in un'intervista a Channel 12, già mezzo milione di vaccini sarebbero sufficienti a ridurre del 65% il numero di morti per Covid nel Paese.
   «Orgoglio nazionale: Israele è il campione mondiale dei vaccini!», ha twittato Netanyahu, condividendo un grafico che mostra la performance dello Stato ebraico. Il premier ha ragione di essere soddisfatto. Secondo la graduatoria stilata da ourworldindata.org, Israele è il Paese al mondo che ha fatto meglio in relazione alle vaccinazioni ogni 100 abitanti: 5,68 (dato aggiornato al 28 dicembre). Alle sue spalle c'è il Bahrain (3,23), seguito dal Regno Unito (1,18 somministrazioni ogni 100 abitanti). Al quarto posto si piazzano gli Stati Uniti, con 0,64 immunizzazioni. Per trovare il primo Paese Ue, bisogna scorrere la classifica fino al sesto posto, dove c'è la Danimarca (0,12). Israele sta facendo anche meglio della Cina, ferma all'ottavo posto insieme al Portogallo (0,07), mentre il 12esimo posto è occupato dalla Germania con 0,05 dosi somministrate ogni 100 abitanti.
   «Siamo in testa in tutto il mondo nell'approvvigionamento e nella somministrazione dei vaccini», ha aggiunto Netanyahu: «Siamo i campioni mondiali di vaccini. Il mio obiettivo ora è assicurare che continueremo con questo ritmo».
   Ieri il premier ha assistito personalmente, ha riferito il quotidiano Jerusalem Post, all'iniezione che ha permesso di superare le 500mila vaccinazioni.

(ItaliaOggi, 30 dicembre 2020)


Giaffa, a scuola il virus si combatte «tutti insieme»

La piccola Gal, madre cattolica e padre ebreo, ha fatto «campagna elettorale» con Nabil, musulmano. E la loro «lista unica» in classe ha vinto.

di Fiammetta Martegani

Gal e Nabil nella scuola di Giaffa
Kulna Iachad significa «tutti insieme». Più precisamente, «kulna» significa «tutti» in arabo e «iachad» «insieme» in ebraico, e questo è il nome di una delle tante scuole elementari bilingue situate a Giaffa, la città vecchia di Tel Aviv, uno dei porti più antichi al mondo, che risale ai tempi di Ramses II. E qui che San Pietro compie il suo primo miracolo resuscitando Tabità e facendo di Giaffa una delle culle del cristianesimo. E qui che nel 638 arrivarono i musulmani, conquistandola. Ed è qui che, sul finire dell'Ottocento, approdarono le prime navi di immigrati ebrei in fuga dall'Europa dei pogrom. Lentamente, ai piedi di Giaffa, cominciarono a essere costruiti i primi quartieri ebraici - Neve Tzedek e Kerem Hateimanim -, fino alla fondazione, nel 1909, di Tel Aviv. Ma già dalla fine del diciannovesimo secolo, una delle caratteristiche principali di Giaffa è stata la convivenza tra popoli e religioni differenti: quella cristiana nelle sue diverse confessioni (tra cui cattolici, armeni e ortodossi), l'ebraismo e l'islam.
   A Giaffa non mancano immigrati da tutto il mondo. Tra loro c'è Rebecca, italiana di Vasto, Abruzzo. Sua figlia Gal, 8 anni, fin da piccola ha sempre celebrato, con la sorellina Carla, tutte le feste cattoliche, assieme a quelle ebraiche, visto che il padre, Gilad, è israeliano, di Herzliya. Da quando vivono a Giaffa, Gal, che frequenta la Kulna Iachad, a scuola ha imparato l'arabo e ha iniziato a partecipare alle festività dei suoi compagni musulmani. Nabil è diventato il suo migliore amico.
   La sua famiglia è a Giaffa da generazioni e i suoi genitori, come quelli di Gal, hanno scelto di iscrivere qui i figli per trasmettere loro, fin dall'infanzia, l'idea di una convivenza possibile, gli uni accanto agli altri, costruendo un futuro assieme. Gal e Nabil hanno capito in fretta. E hanno imbastito una "campagna elettorale" per diventare capoclasse mai complicata come quest'anno, con lezioni alternate tra Zoom e sottogruppi in aula, a causa della pandemia, e tra un lockdown e l'altro. L'ultimo, il terzo, iniziato solo l'altro ieri a causa del numero crescente di contagi che ha portato il governo israeliano a richiudere tutto per due settimane, forse tre, se i numeri dei casi, saliti drasticamente nel corso delle feste, non scenderanno. Gal e Nabil non si sono demoralizzati, e pur dovendo sfidare otto contendenti, hanno presentato la loro "lista unica": manifesto scritto sia in arabo che ebraico, e determinazione ad affrontare le difficoltà condividendole, hanno ottenuto la maggioranza e oggi sono capoclasse. Insieme.

(Avvenire, 30 dicembre 2020)


Avvertimento americano a Israele: stop a progetti tech con Xi Jin Ping

Una società cinese sta anche costruendo il nuovo porto di Haifa.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Un invito a Israele a seguire con interesse la crescita incontenibile della Cina come superpotenza, non solo economica, è giunto ieri dal giornale Haaretz. «I suoi sforzi per promuovere un ordine mondiale multipolare e l'intensificarsi della competizione tra le superpotenze illustrano il notevole successo del 'Regno di Mezzo' nel tornare al centro della scena mondiale», notava in una lunga analisi il quotidiano, esortando poi Israele «a migliorare la sua comprensione delle aspirazioni e delle politiche della Cina e valutare le sfide e le opportunità che presenta la sua crescente presenza (nella regione)».
   Non è ciò che si aspetta da Tel Aviv l'Amministrazione Usa uscente. Trump ha fatto della lotta all'influenza globale di Pechino un suo cavallo di battaglia. E non ha mancato, pur usando i guanti di velluto con l'alleato Benyamin Netanyahu, di ammonire lo Stato ebraico dal rafforzare i rapporti con il colosso asiatico.
   Qualche giorno fa gli avvertimenti si sono fatti più espliciti. Il segretario di Stato aggiunto per il Vicino Oriente, David Schenker, si è detto molto preoccupato dalla possibilità che la Cina possa acquistare tecnologia israeliana che potrebbe usare per minacciare proprio lo Stato ebraico e gli Stati uniti. «Israele deve fare di più per monitorare gli investimenti cinesi, principalmente nell'hi-tech», ha affermato Schenker parlando a una conferenza sulla cooperazione accademica israelo-cinese. Quindi ha ricordato che la Cina rende meno efficaci le sanzioni americane contro Tehran acquistando il petrolio iraniano. Washington non ha mai digerito che una compagnia cinese, la Shanghai International Port Group, stia costruendo il nuovo porto di Haifa, il più importante di Israele. E ha messo in guardia il governo Netanyahu dal concedere a Pechino una «base di appoggio» dove attraccano la flotta di sottomarini israeliana (con capacità nucleare) e unità della Marina militare statunitense. Inviti che sono caduti nel vuoto. E le pressioni Usa su Israele potrebbero affievolirsi con l'ingresso il mese prossimo di Joe Biden alla Casa Bianca. II nuovo presidente difenderà gli interessi degli Usa nel confronto con i cinesi ma a differenza di Trump, si prevede, dovrebbe adottare una linea meno aggressiva e punitiva.
   In ogni caso Israele sa che non può sottrarsi a rapporti più stretti e più vantaggiosi con la Cina destinata a giocare un ruolo ancora più rilevante in Medio oriente senza incidere, almeno in apparenza, sugli equilibri strategici regionali. Lo dimostra la reazione insignificante che i vertici cinesi hanno dato all'Accordo di Abramo, la recente normalizzazione tra Israele e 4 paesi arabi che ha chiuso in un cassetto i diritti dei palestinesi.
   Netanyahu nel 2017 ha incontrato il presidente cinese Xi Jin Ping e rafforzato i legami commerciali tra i due paesi senza mostrarsi interessato alla supervisione di eventuali finalità nascoste degli accordi raggiunti.
   L'anno dopo il vicepresidente cinese Wang Qishan è intervenuto al vertice israeliano sull'innovazione. La strategia di Pechino incoraggia maggiori investimenti pubblici e privati sui mercati in Medio oriente in parziale alternativa a quelli in Europa dove le pressioni americane trovano più ascolto.
   E aumentano di anno in anno anche in Israele dove l'affare del nuovo porto di Haifa è ritenuto troppo ghiotto per dare ascolto alle preoccupazioni Usa.
   La Shanghai International Port Group sta investendo circa tre miliardi di dollari nell'Haifa Bayport con l'obiettivo di integrarlo nel programma di Pechino «Belt and Road Initiative». Al termine dei lavori il porto avrà la capacità di 1,86 milioni di container all'anno e sarà uno dei più nuovi e avanzati del Mediterraneo grazie alla tecnologia semi-automatizzata e ai trasporti robotici. E stando alle indiscrezioni riferite dai giornali economici israeliani, altre aziende cinesi sono pronte a partecipare alla gara di appalto per il rilancio del vecchio porto di Haifa. Anche in questo caso l'Amministrazione Trump è scesa in campo per impedire che l'intera baia della città israeliana «finisca in mani cinesi». II governo Netanyahu, spinto dalla sua corrente filo-cinese, ha scelto il silenzio.

(il manifesto, 30 dicembre 2020)


Ariel e il figlio del rabbino che ama la pace scrivendo poesie

di Francesca Brandes

È un piccolo grande libro, questo Talelei razon di Ariel Viterbo, uscito per i tipi di CLEUP (2020). Piccolo nel formato, peraltro elegante, con un bel disegno in copertina di Stefania Roncolato. Grande per le realtà che svela a chi voglia avventurarsi nella lettura. Condivide il destino di molta editoria, in quest'anno faticoso: testi di valore, editi con cura, ma non presentati al pubblico come si deve, poco diffusi e recensiti. Occorre rimediare, perché le liriche di questo autore eterodosso lo meritano sicuramente.

 Talelei razon e versi sinceri
  Sono versi sinceri, quelli di Ariel Viterbo, per nulla costruiti ad arte; testi che affrontano tematiche basilari: il rapporto con la fede, il rapporto con se stessi e il tempo che passa. L'amore, le radici. Il tutto in un continuo rimando ai Testi Sacri della tradizione ebraica, fino dal titolo, quel Talelei razon che significa - in senso benaugurale - "rugiade propizie". L'espressione si trova nel testo di una delle benedizioni che compongono l'Amidà, la parte centrale delle tre preghiere quotidiane dell'ebraismo: è la benedizione degli anni.

 Ariel Viterbo
  L'autore, di strada, ne ha fatta tanta: nato nel 1965 a Padova, figlio di una delle figure più carismatiche e care agli ebrei italiani, rav Achille Viterbo, si è trasferito in Israele a vent'anni. Pur mantenendo stretti contatti con la cultura d'origine, scrivendo soprattutto e parlando nella sua lingua madre, ha conosciuto tutte le contraddizioni della società israeliana: la guerra, le difficoltà di una vicinanza pacifica, l'importanza di un pensiero libero.

 Chi è l'autore di Talelei razon
  Laureato in storia e archivistica, Ariel lavora alla Biblioteca Nazionale d'Israele, a Gerusalemme. Editorialista, oltre che scrittore, ha vinto nel 2004 il premio giornalistico Claudio Accardi, con un articolo che dice molto della sua posizione interlocutoria, dal titolo Le possibilità della convivenza, sulla vita in comune tra israeliani e palestinesi.
In tanti anni, non ha cambiato idea, narrando e narrandosi in prosa e in poesia (Talelei razon è il suo terzo volume di liriche, sempre in italiano). Gli viene bene, raccontare l'umano in versi. Ha un passo rapido e tagliente, che riprende dall'ebraico la sintesi, mantenendo però la possibilità affabulatoria dell'italiano.

 I lavori di Ariel Viterbo
  Molti i testi dedicati alla propria fede, di disarmante verità critica. Resta nel cuore, ad esempio, Onnipotente: Persino Tu / sarai stanco / di melodie / innalzate, / di inchini / riverenti, / di lenti / dondolii. / Ascoltare / tutto il dolore /del mondo /e non poter / salvare nessuno. Parlare con Dio, specchiandosi nella sua inaspettata fragilità, nella sua sofferenza. Oppure riflettersi nello sguardo dell'essere amato: Attorno / la città era / una coperta / piena di sogni / mi mostravi il cielo / e lo toccavi / col mio dito.

 Il sogno di Ariel
  La fulminea velocità del messaggio comprende in sé il male e il bene, come nei versi brucianti di un altro grande poeta israeliano appena scomparso, Natan Zach. Tuttavia, quella nostalgia sottile, quasi acquatica, di pianure sfumate, è tutta italiana: appartiene alle pianure del nord, ai lungofiumi autunnali. Latte di padre, una delle sezioni della silloge, reca con sé la storia filiale di Ariel e anche la storia di un'intera generazione: il sogno di una Terra Promessa da vivere, di una vita finalmente in armonia. L'ansia di domani, invece, ruota tutta intorno a quei versi puliti e nitidi: come costruirsi o ricostruirsi? Come elaborare un futuro possibile?
Le risposte, sussurrate, stanno nella misura umana nel viaggio e nelle "rugiade propizie" che l'esistenza, ogni tanto, ci regala.

(éNordEst, 28 dicembre 2020)


I refrigeratori italiani destinati a Israele

In attesa di una chiamata dall'Italia conserveranno lì il vaccino anti-Covid

di Filippo Merli

E' la Capitale italiana del freddo. Dai gelati ai vaccini: Casale Monferrato, dal Piemonte, si è candidata per avere un ruolo di primo piano nella conservazione della cura anti-Covid prodotta da Pfizer e Biontech. AI momento, però, il commissario Domenico Arcuri si è rivolto altrove. Temporaneamente congelata dall'Italia ma prescelta da Israele. Lì dove sono destinati i refrigeratori di Casale per il mantenimento delle dosi.
   La candidatura del centro in provincia di Alessandria era arrivata alla fine di novembre. «Le aziende casalesi potranno essere utili per lo stoccaggio, il trasporto e la consegna di questo tipo di farmaco che per le sue caratteristiche dev'essere conservato a una temperatura di -80 gradi», aveva spiegato il sindaco di centrodestra, Federico Riboldi.
   La filiera del freddo di Casale impiega oltre 30 aziende per un totale di 2 mila lavoratori e un fatturato annuo di un miliardo e mezzo di euro. Un colosso di ghiaccio. Arcuri, però, ha optato per Pratica di Mare, la frazione del Comune di Pomezia che ospiterà il deposito refrigerato per il vaccino. Per il polo piemontese non è un problema. «La scelta di Arcuri non è certo strana», ha sottolineato Riboldi. «Pratica di Mare ha un ruolo centrale a livello nazionale. Questa non era l'ambizione di Casale: il nostro obiettivo non è diventare un deposito refrigerato, ma entrare in gioco nella seconda e terza fase, e cioè mettere a disposizione i nostri macchinari del freddo altamente specializzati nel trasporto e nella conservazione dei vaccini. Vogliamo ridare centralità a Casale a livello nazionale e internazionale».
   Per ora vale la seconda opzione. Perché se tra i confini nazionali Casale auspice di entrare a far parte della catena del ghiaccio in un secondo momento, in Israele è già protagonista. «Non abbiamo ricevuto richieste da parte dell'Italia e del commissario Arcuri, ma da Israele sì: si sono rivolti a società del distretto per forniture legate alla distribuzione del vaccino Pfizer>, ha rivelato il presidente dell'associazione europea delle aziende del freddo, il casalese Marco Buoni.
   Per Casale non è una novità: il 75% della produzione del settore della refrigerazione è diretta al mercato estero. E ora, per la conservazione del vaccino, i prodotti casalesi saranno impiegati dalle parti di Tel Aviv. In attesa di una chiamata dall'Italia. «Ora è sufficiente la struttura che hanno messo in piedi tra Pratica di Mare e i 222 frigoriferi che hanno recuperato», ha detto ancora Buoni a Repubblica Torino. «In più Pfizer garantisce che il confezionamento col ghiaccio secco, tramite scatole refrigeranti particolari, mantiene la temperatura giusta da un minimo di 10 giorni a un massimo di 35, se ricaricato». «La fase due interesserà una fetta di popolazione via via sempre più grande. Immaginiamo che in questa seconda fase ci potrà essere un coinvolgimento». La Capitale del freddo aspetta un cenno dall'Italia. Nel frattempo si concentra su Israele.

(ItaliaOggi, 30 dicembre 2020)


Israele ed Emirati Arabi impegnati a far chiudere l'agenzia Unrwa

Israele ed Emirati Arabi Uniti starebbero cooperando per arrivare all'eliminazione dell'Unrwa, l'agenzia Onu esclusivamente dedicata all'assistenza dei profughi palestinesi. La collaborazione sarebbe in corso da quando lo scorso agosto i due paesi hanno annunciato la normalizzazione dei loro rapporti. Stando a quanto riferito in un reportage del quotidiano francese Le Monde (ripreso domenica dal Jerusalem Post), i rappresentanti degli Emirati stanno studiando un piano d'azione inteso ad eliminare gradualmente l'Unrwa senza che cio' sia condizionato a una risoluzione del problema dei profughi.
   Gli Emirati Arabi Uniti, insieme a Qatar e Arabia Saudita, sono stati una delle principali fonti di finanziamento dell'Unrwa negli anni 2018 e 2019, dopo che gli Usa hanno tagliato i loro contributi. Da tempo, Israele afferma che l'Unrwa costituisce un ostacolo alla pace perche' ingigantisce e incancrenisce il problema dei profughi anziche' cercare di risolverlo, alimentando per di piu' fra i palestinesi l'illusione del cosiddetto "diritto al ritorno".
   Mentre l'UNHCR, l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati che si occupa di tutti gli altri profughi del mondo, si concentra sul reinsediamento promuovendo il rimpatrio volontario o l'integrazione locale, l'Unrwa mantiene decennio dopo decennio milioni di persone come profughi, adottando inoltre come profughi tutti i loro discendenti (anche se residenti in territorio palestinese o cittadini di un altro paese), il che fa di quella palestinese l'unica popolazione di profughi al mondo che nel tempo continua ad aumentare anziche' diminuire.

(Shalom, 29 dicembre 2020)


Cantante tunisino licenziato per avere duettato con un israeliano in una canzone di pace

Noamane Chaari, il musicista tunisino che ha collaborato con un cantante israeliano a una canzone che promuove la tolleranza religiosa tra musulmani ed ebrei ha subito gravi contraccolpi, tra cui essere stato licenziato dal suo lavoro presso un'emittente statale e minacce di morte sui social media.
   La canzone "Peace Between Neighbors", pubblicata la scorsa settimana, è stata eseguita dall'israeliano Ziv Yehezkel, un ebreo mizrahi che canta principalmente in arabo, e dal produttore e compositore tunisino Noamane Chaari. La collaborazione è stata organizzata dal Consiglio arabo per l'integrazione regionale, che tenta di far avanzare il dialogo arabo-israeliano nella regione.
   Il Consiglio arabo per l'integrazione regionale - una raccolta di intellettuali arabi che sostengono la normalizzazione con Israele - ha fatto pressioni su Stati Uniti e Francia affinché approvassero leggi che proteggano coloro le cui vite sono minacciate per la normalizzazione con gli israeliani.
   Joseph Braude, fondatore del Center for Peace Communications, che sostiene il Consiglio arabo, ha accusato: "La pressione di un alto funzionario ha causato il suo licenziamento dal lavoro e la pressione delle istituzioni dell'establishment ha costretto i suoi clienti privati a lasciarlo. Questa è una campagna per distruggerlo".
   Sebbene abbia lavorato come produttore musicale e compositore per la televisione statale tunisina, Chaari non aveva un grande seguito pubblico o una presenza online prima della controversia.
   La canzone è stata scritta da un artista yemenita che desidera rimanere anonimo per la propria incolumità, poiché vive in un territorio controllato dalle milizie filo-iraniane Houthi.
   La controversia che circonda la canzone è diventata rapidamente una questione nazionale, con alcuni commentatori che hanno scritto sui social media che Chaari dovrebbe "ricevere una buona lezione e picchiato a morte"; altri hanno detto che avrebbe dovuto essere giustiziato.
   "Quello che sta accadendo in Tunisia a Noamane Chaari è profondamente preoccupante. I legislatori americani sono uniti nel sostenere la convivenza nella regione [tra] ebrei e arabi. Le autorità tunisine devono intensificarsi per proteggere le richieste di pace e per fermare gli attacchi contro Chaari ", ha scritto sabato sera il senatore statunitense Ted Cruz in un tweet.
   La Tunisia è l'unico Paese libero del mondo arabo, secondo l'organismo di vigilanza sui diritti umani Freedom House. La conflittuale democrazia nordafricana contiene una classe secolare profondamente radicata insieme alla percentuale più alta del mondo arabo di combattenti stranieri dello Stato islamico.
   Il primo ministro tunisino Hichem Mechichi ha detto all'inizio di questo mese che il paese non ha intenzione di riconoscere Israele e che stabilire relazioni con lo stato ebraico "non era all'ordine del giorno". Il presidente del paese, Kais Saied, è noto per le sue opinioni intransigenti sulla normalizzazione, definendo "tradimento" lo stabilire legami aperti con Israele in una dichiarazione del 2019.
   In un'apparizione televisiva dopo l'uscita della canzone, Chaari ha negato che la canzone invocasse la pace tra Israele e il mondo arabo. Piuttosto, ha cercato di promuovere la pace "tra musulmani ed ebrei", ha detto il cantante al "Late Show" di Tunisian Channel 9. Gli altri ospiti, tuttavia, lo hanno accusato di aiutare "l'entità sionista usurpatrice".
   Chaari ha detto di aver visitato Israele e i territori palestinesi nel 2019, citando in particolare la città palestinese di Ramallah in Cisgiordania e Kfar Qasim, una città israeliana araba centrale. "Non ho mai tradito la causa palestinese … volevo fare un progetto sulla pace tra le religioni e, soprattutto, sulla pace tra musulmani ed ebrei, che sono stati divisi a causa delle politiche israeliane", ha detto Chaari.
   Ho scelto [Yehezkel] perché è contro il sistema, ama i palestinesi e ha radici irachene ", ha detto Chaari, aggiungendo:" È un iracheno con un passaporto israeliano ".
   "Dannato è colui che si normalizza e che tenta di persuaderci a normalizzarci. È impuro e rimarrà nella sua contaminazione, qualunque sia il comportamento dei governi ", ha detto Mu'taz Matar, emittente televisiva popolare egiziana dell'opposizione, che vive in esilio a Istanbul.
   Alcuni artisti tunisini, tuttavia, sono venuti in difesa del produttore. Il noto cantante tunisino Chamseddine Bacha ha definito le accuse contro Chaari "una campagna diffamatoria". Ma come Chaari, ha evitato di concentrarsi sulla nazionalità israeliana di Yehezkel. "Sostengo il mio amico e collega e rifiuto questa campagna diffamatoria contro il suo progetto artistico e la sua collaborazione con un artista iracheno di origini ebraiche", ha scritto Bacha in un post su Facebook.

(Bet Magazine Mosaico, 29 dicembre 2020)



Netanyahu irrompe su TikTok, successo immediato

Voto vicino, e già spadroneggia su Fb, Instagram e Twitter

Dopo aver mostrato grande abilità nel padroneggiare le tecniche di comunicazione offerte da Facebook, Instagram e Twitter questa settimana il premier Benyamin Netanyahu si è lanciato in una nuova avventura anche su Tik Tok, nell'intento di aprire un dialogo con gli adolescenti israeliani più giovani. In pochi giorni i primi sei filmati dal tono scherzoso (in genere in ebraico, uno anche in inglese) hanno raccolto 130 mila consensi.
In uno di essi ricorda il suo primo lavoro da liceale: lavava piatti in una cafeteria della Pennsylvania "per 50 centesimi ed un pasto". "Ora - chiede - parlatemi voi dei vostri lavori". In un altro filmato, ripreso nel suo ufficio, con una mano abbatte "un domino" di libri. "Un libro tira l'altro. Scrivetemi - suggerisce - che cosa state leggendo".
Secondo il quotidiano the Marker, Netanyahu è seguito su Facebook da 2,5 milioni di persone, su Twitter da 1,9 e da altri 900 mila su Instagram. Le sue attività nei social, secondo il giornale, cresceranno prevedibilmente nelle prossime settimane in vista delle elezioni anticipate del 23 marzo che avranno luogo mentre Israele si cimenta ancora col coronavirus.

(ANSA, 29 dicembre 2020)


Arrestata Dj donna palestinese. Ha "profanato" santuario islamico suonando lì

Per i familiari della Dj arrestata, la stessa sarebbe stata formalmente autorizzata dalle autorità a organizzare una festa techno nel sito di Nabi Musa.

di Gerry Freda

 
Sama' Abdulhadi
La prima Dj donna palestinese è stata arrestata domenica sera a Ramallah, in Cisgiordania, con l'accusa di avere "profanato" un luogo sacro all'islam organizzandovi una festa techno.
   La 29enne Sama' Abdulhadi è un nome celebre nel mondo della musica elettronica e si è appunto attirata di recente le ire delle autorità musulmane locali per avere messo su una propria esibizione nei pressi del sito di Nabi Musa, nel deserto della Giudea. Tale località, nel dettaglio, è un Maqam, ossia un santuario, con moschea annessa, costruito su un luogo che si considera la tomba di una figura fondamentale per il credo maomettano. In particolare, nel luogo citato, secondo la tradizione musulmana, vi sarebbe sepolto Mosè. Tale porzione di territorio, meta di pellegrinaggio da parte dei fedeli maomettani, ricade sotto la giurisdizione di Israele, ma è di fatto amministrato dall'Autorità nazionale palestinese.
   La festa techno con al centro l'esibizione della Dj si è svolta sabato sera, con centinaia di giovani palestinesi che si sono recati in quella località desertica, ubicata a pochi chilometri da Gerico e a mezz'ora di guida da Gerusalemme, per soddisfare il loro desiderio di musica e di alcol. Parte del concerto ha avuto luogo all'interno di un complesso alberghiero lì presente, amministrato dal ministero del Turismo palestinese.
   La diffusione su Internet di numerosi video del concerto della Abdulhadi incriminata ha immediatamente indignato gli ambienti religiosi palestinesi, con i chierici islamici che hanno subito tacciato la 29enne di avere contaminato con atti impuri il santuario dedicato a Mosè.
   Di conseguenza, il giorno successivo al concerto, è scattato l'arresto della Dj e la celebrazione, da parte di numerosi fedeli palestinesi accorsi a Nabi Musa, di una preghiera islamica riparatoria. Dopo avere pregato per purificare il sito religioso dall'oltraggio rappresentato dalla festa techno, quegli stessi fedeli hanno allora dato alle fiamme, al grido di "cacciare i cristiani e gli infedeli", gli arredi delle camere dell'hotel in cui si era svolta parte dell'evento musicale "osceno".
   Dopo l'arresto della Abdulhadi, incriminata per "offesa alla religione", i giovani palestinesi che avevano preso parte al concerto di sabato sera sono attualmente costretti di fatto alla clandestinità, ma sono comunque indignati nel vedere le istituzioni della Cisgiordania fare a gara a condannare quel concerto techno al solo scopo di non perdere il consenso della piazza in collera. A detta di alcuni di quei medesimi giovani, la scelta di Nabi Musa quale scenario ideale per la festa non sarebbe stata fatta per insultare l'islam, bensì sulla base dell'enorme potere suggestivo del santuario.
   Nessuno degli enti competenti per l'amministrazione del sito di Nabi Musa, ossia il locale ministero del turismo e il Waqf (l'autorità preposta alla gestione dei luoghi sacri islamici), si è finora attribuito la responsabilità di avere autorizzato la festa techno incriminata, con il premier palestinese Mohammad Shtayyeh che ha addirittura messo su una commissione d'inchiesta per fare luce su quanto accaduto. Il ministro degli Affari religiosi di Ramallah, Hussam Abu al-Rub, ha inoltre tuonato: "Quello che è accaduto è osceno. Non staremo in silenzio e perseguiremo chiunque vi abbia preso parte".
   I familiari della Dj arrestata non ci stanno però a fare passare la tesi per cui la stessa sarebbe una delinquente e una blasfema, assicurando che la 29enne era stata formalmente autorizzata dalle istituzioni a organizzare il concerto techno: "Sama' sta producendo dei video sulla musica elettronica in Palestina, filmati in siti archeologici. Ha ottenuto il permesso dal ministero del Turismo, considerato che le riprese sarebbero state fatte nel cortile, che è separato dalla moschea e non è sotto la giurisdizione del Waqf".

(il Giornale, 29 dicembre 2020)


Israele: movimenti in vista del voto, Livni torna in campo

Ex ministro Esteri con Lapid. Sindaco Tel Aviv annuncia partito

Si moltiplicano i movimenti politici in vista delle elezioni del 23 marzo in Israele. L'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni ha deciso di tornare in campo dopo aver scelto nel 2019 di non partecipare con il suo partito Hatnua alle elezioni dell'aprile dell'anno scorso.
Da allora è stata ai margini della vita politica.
Oggi, secondo i media, è in procinto di associarsi a Yair Lapid nel tentativo di unire le forze dello schieramento di centro sinistra anti Netanyahu. Livni ha cominciato la sua carriera politica proprio nel Likud che lasciò per seguire Ariel Sharon quando questi abbandonò la casa madre della destra israeliana per fondare Kadima.
Anche il sindaco laburista di Tel Aviv, Ron Huldai, ha intenzione di partecipare al prossimo voto con un suo proprio partito: questa sera, secondo quanto ha anticipato lui stesso, formalizzerà la mossa. "Centinaia di migliaia di israeliani - ha detto - sentono di non avere casa nell'attuale sistema politico.
Ridaremo loro speranza".

(ANSA, 29 dicembre 2020)


Marocco, Stati Uniti e Israele. Perché è giusto parlare di una svolta storica

di Khalid Chaouki

Lo scorso martedì 15 dicembre sulla scrivania del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Gutteres e del presidente del Consiglio di Sicurezza è arrivata la lettera ufficiale da parte degli Stati Uniti in cui l'amministrazione americana ha comunicato ufficialmente la decisione storica di riconoscimento della sovranità del Marocco sul Sahara. Nella comunicazione inviata dal rappresentante degli Usa alle Nazioni Unite Kelly Craft, si chiede inoltre di integrare il documento statunitense quale documento del Consiglio di Sicurezza.
   Un passo storico per l'appunto che, dopo decenni di trattative purtroppo senza alcuno sbocco con il Fronte Polisario, hanno spinto il presidente uscente Donald Trump a riconoscere le ragioni storiche del Marocco e la soluzione pragmatica e lungamente rilanciata dalla diplomazia marocchina di "Regione con forte autonomia" per il Sahara nell'ambito della sovranità del Marocco.
   Questo cambio di passo da parte di Washington è il frutto di almeno tre anni di lavoro e di confronti tra Rabat e la Casa Bianca sotto la supervisione diretta del Re del Marocco Mohamed VI come ha rivelato l'attivissimo ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita.
   Un dossier, quello del Sahara, che ha rappresentato in particolare nelle ultime settimane elementi di forte preoccupazione a conseguenza della violazione da parte delle milizie Polisario dell'accordo di pace siglato sotto l'egida Onu con l'occupazione del valico strategico di Guegerat.
   Questa azione illegale e provocatoria ha certamente contribuito a mostrare agli occhi dei maggiori osservatori internazionali la natura della formazione del Fronte Polisario, un gruppo di miliziani che per lungo tempo ha strumentalizzato le condizioni di una minoranza dei saharawi trattenendoli nei campi di Tinduf dietro la bandiera di rivendicazioni strumentali e senza alcuna prospettiva di sviluppo per la regione e per generazioni di saharawi.
   Uno degli esempi lampanti di un cambio di passo internazionale rispetto alla questione del Sahara sono state le dimissioni rassegnate dal presidente dell'Intergruppo parlamentare europeo di sostegno del Polisario, il deputato social-democratico Joachim Schuster, che ha fortemente condannato la violazione del Polisario degli accordi Onu.

 Il rilancio dei rapporti diplomatici tra il Marocco e Israele
  Un secondo segnale di evoluzione nella geopolitica dell'area magrebina e del Sahel è stata la decisione da parte del Marocco di riattivare i canali diplomatici con Israele grazie alla mediazione dell'amministrazione di Washington e al lavorio sotterraneo portato avanti da esponenti di spicco della numerosa e determinante comunità ebraica marocchina.
   Un legame storico, quello degli ebrei marocchini con la casa reale marocchina, che è ben rappresentato tutt'oggi con la presenza tra i massimi consiglieri del Re Mohamed VI di Andrè Azoulay, ebreo marocchino, grande uomo di dialogo e padre dell'attuale direttrice dell'Unesco ed ex ministra della cultura francese Audrey Azoulay.
   Non si tratta quindi di una "normalizzazione" dei rapporti con Israele ma di un riavvio delle relazioni tra i due Paesi, interrotti nel 2000 a seguito della crisi provocata dall'intifada. Una specificità del Marocco, nel quadro del cosiddetto "Accordo di Abramo", che offre al Paese maghrebino un'occasione di giocare un ruolo importante nella soluzione della crisi israelo-palestinese per due ragioni specifiche: 1) il Re del Marocco presiede la Commissione Gerusalemme in seno alla Conferenza dei Paesi islamici; 2) la presenza in Israele di oltre 700mila ebrei marocchini tra cui numerosi membri del governo di Tel Aviv e nella classe dirigente israeliana in generale.
   Condizioni per l'appunto particolari che, come anticipato in una recente telefonata tra il Re marocchino e Abu Mazen, spingeranno il Marocco a promuovere una soluzione di pace e verso la nascita di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano, come fra l'altro sancito ufficialmente di recente dalla Lega dei Paesi Arabi.
   Va ricordato infine, dettaglio per nulla trascurabile, che il Marocco è un Paese governato da oltre 10 anni da una maggioranza capitanata dal partito della galassia islamista Giustizia e Sviluppo, il cui premier El-Othmani ha difeso pubblicamente la bontà della decisione di riaprire le relazioni con Tel Aviv sottoscrivendo in mondovisione il nuovo accordo di cooperazione con la delegazione israeliana.
   Una nuova pagina di speranza alla fine di questo strano 2020 e che ci riserverà certamente parecchie sorprese nell'anno che sta per bussare alle nostre porte.

(Formiche.net, 29 dicembre 2020)


Fauda condannata dalla Croce Rossa per violazione dei diritti umani: l'ironia sul web

di David Zebuloni

Uno dei parametri esistenti per giudicare la riuscita di un film o di una serie tv, è quello di cercare di riconoscere il confine sottile che divide la realtà dalla finzione. Se i fatti riportati sullo schermo ci risultano reali e non fittivi, la loro riuscita cinematografica può definirsi assolutamente degna di nota. Esiste tuttavia un problema. Talvolta i fatti riportati sembrano talmente reali, da annullare completamente il loro lato fittizio. Così è accaduto con Fauda, la serie tv israeliana promossa da Netflix, che questa settimana è stata ripresa dalla Croce Rossa Internazionale per un'ipotetica violazione dei diritti umani.
   Cosa lega dunque l'organizzazione internazionale alla fortunata serie tv israeliana? Semplice. La scorsa notte i rappresentanti della Croce Rossa in Israele e a Gaza hanno pubblicato una bizzarra serie di tweet, nei quali hanno deciso di individuare le "violazioni" dei diritti umani apparse in Fauda. Inutile dire che in pochi minuti la notizia ha fatto eco in tutto il mondo, catturando così l'attenzione di migliaia e migliaia di fan. Ma non solo. A rispondere, infatti, sono stati anche gli autori stessi della fortunata serie tv: Avi Issacharoff e Lior Raz.
   "Teniamo in considerazione tutto ciò per l'elaborazione della quarta stagione e promettiamo di tornare presto con delle nuove violazioni delle leggi internazionali", hanno scritto i due con fare ironico e provocatorio, suscitando così un grande entusiasmo nel web. (Per tradurre l'entusiasmo in numeri, il commento degli autori ha ottenuto dieci volte tanti like rispetto allo stesso post della Croce Rossa). Issacharoff e Raz, tuttavia, non sono stati gli unici ad aver commentato la sterile accusa dell'organizzazione internazionale.
   Tra i commenti più acuti ed esilaranti, nonché quelli che hanno riscosso più consensi, troviamo il commento dell'attivista filo-israeliano Hen Mazzig. "Vorrei che documentaste anche le violazioni dei diritti umani nei film Marvel", ha chiesto Mazzing. "Quando il personaggio di Thanos ha ucciso molti nemici nella galassia, sono abbastanza convinto che abbia violato la Convenzione di Ginevra". E poi ancora. Il blogger britannico David Collier ha chiesto all'organizzazione un suo contatto per poter segnalare le violazioni dei diritti umani nei film di James Bond. Ido Daniel, invece, ha chiesto alla Croce Rossa di indagare anche su Gal Gadot e sulla sua occupazione illegale dell'isola amazzonica nei film di Wonder Woman.
   "Lo sconcertante attacco della Croce Rossa a uno dei fenomeni televisivi israeliani di maggior successo al mondo, è a dir poco sconcertante", ha dichiarato a N12 il responsabile dei movimenti sul web presso il Ministero degli Affari Strategici israeliano. "Non sono sorpreso che abbiano deciso di attaccare proprio Fauda, in quanto queste serie televisiva mostra fedelmente a decine di milioni di telespettatori in tutto il mondo la complessità della vita in Israele all'ombra delle minacce terroristiche e il grande impegno delle attività delle forze di sicurezza israeliane, che lavorano giorno e notte per impedire che qualcosa di brutto ci possa accadere."
   La voce più sincera e toccante rimane quella dei fan, fedeli sempre e comunque alla loro serie tv preferita, che ignorando totalmente le calunnie della Croce Rossa e cogliendo la palla al balzo hanno chiesto in coro: "Ma quando esce la quarta stagione?". Beh, direi che aspettiamo tutti una risposta.

(Bet Magazine Mosaico, 29 dicembre 2020)


Vetta dell'antisemitismo Bbc: «Gesù, rifugiato palestinese»

In alcuni programmi della tv britannica si cerca di cancellare l'identità di Cristo per renderla accettabile alle idee della sinistra terzomondista e filomusulmana.

di Daniel Mosseri

 
Più il mondo arabo si avvicina a Israele e più l'Europa si lascia abbagliare dalla narrativa antisionista palestinese. È un curioso strabismo politico e culturale. In questi giorni l'Arabia Saudita ha messo in circolazione nuovi libri di testo depurati dagli appelli a uccidere gli ebrei, e il Marocco ha incluso nei propri libri la storia della comunità ebraica marocchina. Nel frattempo in due trasmissioni radiofoniche la BBC ha affermato che Gesù era palestinese. Lo ha spiegato per primo il conduttore Robert Beckford durante una puntata di "Heart and Soul", programma dedicato alla spiritualità. Beckford ha raccontato come nel corso dei secoli l'iconografia occidentale abbia raffigurato Gesù, uomo o bambinello, come bianco «nonostante sia più realistico ritenere quale ebreo palestinese del primo secolo che Gesù fosse di pelle scura». E per chi non lo avesse capito, più avanti il conduttore ha ribadito che «quale ebreo palestinese del primo secolo era di colore scuro». Bontà sua Beckford si è almeno ricordato che Gesù era ebreo.
   Per i suoi colleghi di "Sunday Morning", trasmissione di BBC Radio Scotland, il Nazareno era «un palestinese di pelle scura», punto e basta. Dobbiamo credere a un semplice (doppio) lapsus dovuto alla scarsa preparazione dei conduttori della BBC? Camera, acronimo del "Comitato (britannico) per la precisione sulle notizie e le analisi sul Medio Oriente", la pensa diversamente. La BBC, spiega, presenta Beckford come «uno dei più importanti teologi neri del Regno Unito». Una persona che ha certamente studiato i Vangeli e che meglio di altri dovrebbe sapere che il territorio dove Gesù è nato si chiamava Giudea. Il nome Syria Palaestina fu imposto dai Romani alla regione non prima del 135 d.C. In quell'anno il militare Giulio Severo schiacciò nel sangue la rivolta del condottiero ebreo Bar Kokhba mettendo fine alla terza guerra giudaica. L'imperatore Adriano, che aveva vietato agli ebrei di circoncidere i propri figli maschi, de-giudeizzò quella terra a partire dal nome e fece divieto agli ebrei di risiedere a Gerusalemme.

 Progetto preciso
  Il sospetto che quello di Beckford sia un progetto di revisionismo culturale non è campato per aria. Il teologo non spiega come Gesù fosse uno dei maestri ebrei dell'epoca ma lo descrive come «una figura di spicco nella lotta contro il razzismo e la discriminazione» nonché «un rifugiato la cui famiglia dovette fuggire a causa delle persecuzioni: era uno degli oppressi dai colonizzatori del suo tempo». Le parole di Beckford ricordano le vignette propalestinesi natalizie che raffigurano Gesù, Giuseppe e Maria quali palestinesi umiliati ai posti di blocco israeliani fra Betlemme e Nazareth. La BBC, in altre parole, ha abbracciato la teologia della sostituzione che vuole Gesù non ebreo ma arabo. Nulla di nuovo sotto al sole. Si tratta di una delle tante appropriazioni culturali degli antisionisti per criticare o delegittimare Israele: alcune di queste hanno fatto breccia qua e là in Europa - come nel caso della BBC - altre hanno fatto carriera arrivando anche all'Onu. Fra le più scandalose si ricorda la risoluzione Unesco del 2016 secondo cui il Muro del Pianto di Gerusalemme, il luogo più sacro per l'ebraismo, andrebbe chiamato solo con il suo nome arabo di Haram al-Sharif.

(Libero, 29 dicembre 2020)


Ma l'antidoto non salva dal contagio

A Gerusalemme scatta il terzo lockdown e anche Londra ci pensa

di Francesco De Remigis

Lo sprint iniziale sul vaccino non consegna nuove libertà. Anzi. I Paesi che hanno bruciato le tappe annunciano nuove restrizioni. Dal terzo lockdown in Israele, alla Gran Bretagna. Perfino gli Stati Uniti proiettati verso la gestione Biden, nonostante quasi 3 milioni di «dosi»inoculate, lasciano intendere che la riconquista della normalità sarà lunga. Il vaccino aiuta, ma ha i suoi tempi. E molto sta ancora nelle attenzioni della popolazione. Gesti barriera, mascherine, lavaggio delle mani. E se negli Usa l'immunologo Anthony Fauci annuncia che «il peggio deve ancora venire», in Europa si torna a parlare di drastiche chiusure.
  Preoccupa la situazione in Gran Bretagna: ieri 41.285 nuovi casi di Covid. Il vaccino «inglese ha il vantaggio di costare meno, non dev'essere conservato a temperature proibitive ed è più facile distribuirlo negli stadi e nei grandi centri individuati dal governo: 4 milioni di vaccinati entro fine mese. Ma gli scienziati consigliano al premier Boris Johnson un severo lockdown nazionale, rispetto a quello light di novembre, e scuole superiori chiuse a gennaio. Per ora il ministro Michael Gove annuncia che nelle secondarie torneranno in classe solo gli studenti dagli 11 ai 13 anni. Ma la maggior parte dei bimbi di 11 anni resterà in didattica a distanza per la prima settimana per evitare che i contagi vadano fuori controllo. Il governo britannico ha ceduto alle pressioni dei sindacati che chiedevano la Dad per le secondarie, permettendo di effettuare test e vaccinare gli insegnanti dopo le vacanze di Natale. Le primarie riapriranno. Ma è probabile che nelle zone rosse inglesi gli studenti restino a casa fino a metà febbraio, filtra dall'esecutivo. Dopo il primo vaccino inoculato l'8 dicembre, gli scienziati avevano avvertito Bolo: il vaccino non è un pronti, via. «Se la Gran Bretagna deciderà una chiusura-light, a gennaio l'indice Rt risalirà sopra l'1% a causa della nuova variante inglese del coronavirus».
  Ieri è già scattato il terzo lockdown nazionale in Israele alle ore 16 italiane (le 17 locali). Confinamento di 14 giorni vista la ripresa dei contagi, balzati a oltre tremila al giorno. Le autorità sanitarie ritengono che possa estendersi fino a un mese, col divieto di muoversi oltre 1 km dalla propria abitazione salvo eccezioni di lavoro, per curarsi o spostarsi per comprovate necessità. Nonostante la vaccinazione di massa proceda «7 giorni su 7, 24 ore al giorno», da Gerusalemme a Tel Aviv tutte le attività commerciali non essenziali sono state chiuse, come bar e ristoranti. Decine di posti di blocco e multa di 500 shekel (circa 125 euro) per chi sgarra. Le scuole per ora restano aperte; trasporti pubblici al 50%della capacità.Anche in Francia l'ipotesi di terzo lockdown non è più tabù. Anche perché è tra i Paesi più riluttanti alla vaccinazione: contrario oltre un francese su due (56%). Appena il 13% si dice «certo» di farselo somministrare. «È gratuito», ha scritto ieri Emmanuel Macron. Oggi il consiglio di Difesa all'Eliseo potrebbe correre ai ripari: ri-confinamento «se la situazione epidemica dovesse peggiorare», si è lasciato sfuggire il ministro della Sanità.

(il Giornale, 29 dicembre 2020)


Nicolas Massu: "Ho sempre voluto lasciare il segno nel tennis"

di Giacomo Corto

Nicolas Massu
Il cileno Nicolas Massu, classe 1979, è famoso soprattutto per essere l'unico giocatore nella storia del nostro sport capace di aggiudicarsi la medaglia d'oro olimpica in singolare e in doppio all'interno della stessa edizione delle Olimpiadi: si tratta dei Giochi di Atene 2004, vittorioso rispettivamente su Mardy Fish e sulla coppia tedesca composta da Nicolas Kiefer e Rainer Schuttler.
"Il tennis è uno sport individuale, mentalmente sei solo", ha detto Massu in un'intervista per l'ITF. "Mi sono allenato nelle accademie sin dalla tenera età, per questo i miei genitori mi hanno insegnato come affrontare lo stress.
Non a caso ho un carattere così competitivo e lotto sempre fino alla fine. Per i sudamericani è molto difficile: non abbiamo tanti tornei, dobbiamo viaggiare sin da quando siamo giovanissimi. Tuttavia, ho sempre cercato di rimanere positivo ed essere più forte del mio rivale.
Ho sempre voluto vincere". Nicolas ha spiegato da dove proviene tutta la sua determinazione: "I miei nonni materni sono sopravvissuti all'Olocausto. Si trovavano ad Auschwitz. Dopo la guerra si spostarono in Cile, è stato mio nonno a farmi conoscere questo sport.
Per molti anni mi ha supportato, mi ha portato al circolo. Mia nonna, 94 anni, ha ancora il numero del campo di concentramento inciso sul polso. Mi hanno spiegato cosa sopportarono e questo mi ha dato forza. Se loro sono sopravvissuti a tutto questo, perché io non dovrei rimanere positivo giocando a tennis per guadagnarmi da vivere?"

 La magnifica esperienza vissuta ad Atene nel 2004
  Infine, Massu ha ripercorso il suo splendido ricordo delle Olimpiadi greche del 2004, in cui è riuscito a trionfare anche in doppio col connazionale Fernando Gonzalez: "Sono state le due settimane migliori della mia vita.
Ho sempre voluto scrivere la storia in questa disciplina. A cinque anni guardai le Olimpiadi di Los Angeles 1984, mentre nel 2000 sono stato il portabandiera del mio Paese a Sydney. E' stato indimenticabile, non credevo che quattro anni più tardi avrei vinto due medaglie d'oro.
A volte mi chiedo come possa essere possibile che io sia l'unico tennista maschile capace di aggiudicarsi due medaglie d'oro alle stesse Olimpiadi. Ho sempre lavorato sodo per vincere qualcosa di importante nella mia carriera, che fosse la Coppa Davis o un titolo del Grand Slam.
Avevo 24 anni, avevo esperienza e dal punto di vista fisico ero in ottima forma: il tabellone era molto difficile, ma riuscii ad arrivare fino in fondo e a vincere".

(Tennis World, 24 dicembre 2020)


Marocco sempre più vicino a Israele

Anche il re Mohammad VI presto andrà in Israele invitato dal primo ministro israeliano, come lo riferisce lui stesso in suo twitt. Intanto una delegazione marocchina si recherà in terra occupata per concludere ed ampliare gli accordi iniziati.
"Abbiamo concordato che la delegazione marocchina sarà qui all'inizio della settimana per portare concludere gli accordi.", questo dice il primo ministro israeliano in un video che ha pubblicato su Twitter.
Nello stesso video dice che ha avuto una conversazione aperta e amichevole con il re del Marocco, dove tra l'altro si mettevano in chiaro gli accordi prefissati con l'amministrazione Trump.
Le varie testate giornalistiche internazionali, non sono riuscite ad avere una conferma dalla parte delle autorità marocchine, solo da voci indiscrete si è potuto sapere che la telefonata è vera e che sia molto probabile vero quello detto dal primo ministro israeliano.
Anche perché a sostenere il video su Twitter del primo ministro, vi è il suo ufficio che rilascia una dichiarazione ufficiale: "I leader si sono congratulati a vicenda per il rinnovo dei legami tra i paesi, per la firma della dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti e per gli accordi tra i due paesi; inoltre, sono stati determinati i processi e i meccanismi per attuare gli accordi ".
Come ormai è chiaro a tutti gli osservatori internazionali, il progetto di normalizzazione è avviato e secondo sempre questa fonte non ufficiale, che non ha voluto rivelare il nome alle varie agenzie stampa internazionali, i due capo di governo hanno discusso tra l'altro di riaprire presto gli uffici diplomatici, di dare passaggio libero ai diplomatici transitanti dei due paesi, e di varie semplificazioni finanziarie e progetti per i due paesi da svolgere in comune.

(DailyMuslim.it, 28 dicembre 2020)


L’Unione delle comunità ebraiche italiane ringrazia gli sforzi di pace di Re Mohammed VI

La Presidente dell'UCEI ha inoltre apprezzato la Dichiarazione congiunta del Marocco con Israele e gli Stati Uniti d'America lodando l'iniziativa tripartita come una svolta storica.

Noemi Di Segni e Re Mohammed VI
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ringrazia gli sforzi di pace di Re Mohammed VI. Così la Presidente dell'UCEI, Noemi Di segni, ha rivolto il suo apprezzamento al Re Mohammed VI per gli sforzi compiuti nel promuovere la pace e la convivenza. E crede che la decisione marocchina di stabilire relazioni con Israele favorirà la cooperazione bilaterale e assicurerà la pace regionale. Commentando la decisione del Marocco di stabilire relazioni con Israele Di Segni ha affermato che "lavorare per la comprensione e la convivenza tra popoli, culture e identità è una delle sfide più grandi di oggi".
La decisione e l'iniziativa di Re Mohammed VI contribuiranno all'obiettivo del mantenimento della pace e avranno "certamente risultati incoraggianti".
La Presidente dell'UCEI ha inoltre apprezzato la Dichiarazione congiunta del Marocco con Israele e gli Stati Uniti d'America lodando l'iniziativa tripartita come una svolta storica. Di Segni ritiene che la dichiarazione "dia speranza di raccogliere i frutti di questa iniziativa, specialmente al servizio della pace".
La Storia, ha aggiunto, permette alle persone di capire che lo scambio tra paesi porta sempre "i migliori risultati e le migliori garanzie per combattere ogni forma di estremismo". I legami tra Marocco e Israele permetteranno "decisioni strategiche da prendere in futuro e questo è un fatto molto positivo", ha sottolineato.
Le affermazioni Di Segni giungono dopo che il Marocco e Israele hanno ufficializzato, martedì scorso la loro decisione di stabilire tutti i contatti e le relazioni diplomatiche.
Il Re Mohammed VI ha ricevuto il consigliere per la sicurezza israeliano Meir Ben-Shabbat, che ha co-guidato la delegazione israelo-americana in Marocco con il consigliere americano Jared Kushner.
Il 10 dicembre il Marocco ha annunciato la decisione di riprendere relazioni con Israele. La data segna anche la decisione di Trump di riconoscere la sovranità del Marocco sul Sahara.
Oltre a Di Segni, diverse altre comunità ebraiche in tutto il mondo hanno celebrato la decisione del Marocco di riprendere relazioni con Israele.
L'ultimo sostegno è stato dato dalla comunità ebraica marocchina di New York, che all'inizio della settimana ha detto che il riavvicinamento tra Marocco e Israele è "un evento storico che promuoverà la pace".
"Altri paesi seguiranno l'esempio del Marocco", ha detto il rabbino marocchino Gad Bouskila sull'avvicinamento.

(Notizie Nazionali, 27 dicembre 2020)


Dopo l'accordo di normalizzazione oltre 50.000 israeliani hanno scelto di visitare gli EAU

Palestine Chronicle. Con oltre 50.000 partenze da Tel Aviv da quando i due Paesi hanno firmato l'accordo di normalizzazione, gli israeliani hanno provocato un notevole boom del turismo negli Emirati Arabi Uniti, secondo quanto emerso da un rapporto.
Decine di migliaia di turisti da Israele sono volati negli Emirati, mentre le autorità israeliane ne prevedevano più di 70.000 durante gli otto giorni di Hanukkah, come riportato dal Washington Post.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato a rilasciare visti turistici per i cittadini israeliani, all'inizio di dicembre, dopo che i due Paesi hanno normalizzato le relazioni a settembre e avviato colloqui sulle reciproche opportunità di turismo.
Poco dopo l'annuncio, il Governo israeliano ha esortato i suoi cittadini a evitare i viaggi negli Emirati Arabi Uniti, esprimendo preoccupazione per la loro sicurezza dopo che l'Iran, a seguito dell'assassinio del suo principale scienziato nucleare, ha minacciato di attaccare obiettivi israeliani.
Nonostante l'avvertimento del Governo, i turisti israeliani non si sono fatti scoraggiare e sono corsi negli Emirati per celebrare l'Hanukkah.
"Sembra che la cortina di ferro si stia alzando", ha detto al Washington Post una israeliana in visita con il marito, con un pacchetto turistico di sette notti.
Per evitare tensioni con la gente del posto, il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato un avviso di viaggio di 29 pagine che consiglia ai cittadini di non affrontare questioni culturali e politiche delicate, come la famiglia reale, la democrazia e il trattamento dei lavoratori stranieri.
Israele spera anche che si verifichi un boom del turismo a Gerusalemme e che oltre 100.000 turisti dalla regione del Golfo decidano di visitare la Moschea di Al-Aqsa, il terzo sito più sacro dell'Islam.

(Infopal, 28 dicembre 2020 - trad. Sara Zuccante)


Cosa succede nel Beitar, il club di estrema destra israeliano?

L'arrivo della nuova proprietà araba non è piaciuto ai tifosi più radicali e razzisti (ovvero, la maggioranza).

L'ufficialità è arrivata qualche settimana fa, prima delle festività natalizie: il 50% delle quote di una squadra di calcio israeliana, il Beitar Gerusalemme, è stato acquistato da uno sceicco arabo, erede di una delle famiglie reali degli Emirati Arabi Uniti. Nulla di strano o di particolare, nell'era del calcio globalizzato, se non fosse per la collocazione politica del Beitar: la tifoseria è storicamente schierata all'estrema destra, al punto che numerosi gruppi di tifosi intonano spesso il coro "Morte agli arabi" quando occupano gli spalti dello stadio Teddy Kollek, impianto da 34mila posti inaugurato nel 1991; in virtù di questa ideologia, nella rosa del Beitar non c'è mai stato un solo giocatore arabo, ed è l'unica squadra israeliana a non averne mai acquistato uno. Almeno finora.
  Sì, perché la situazione potrebbe cambiare molto presto. Secondo quanto riportato dal New York Times, l'acquisto delle azioni da parte dello sceicco Hamad bin Khalifa Al Nahyan - coadiuvato da Moshe Hogeg, un dirigente israeliano legato al mondo delle criptovalute - sarebbe uno dei primi frutti degli accordi di distensione dei rapporti diplomatici tra Emirati Uniti e Israele, firmati in agosto e annunciati con grande enfasi da Donald Trump. Moshe Hogeg ha dichiarato che «questa acquisizione porta con sé un messaggio molto potente: siamo tutti uguali, possiamo lavorare insieme e fare belle cose»; lo sceicco Hamad, sulla stessa lunghezza d'onda, ha aggiunto che il Beitar potrebbe acquistare presto un giocatore arabo: «La nostra rosa è aperta a chiunque, a qualsiasi giocatore di talento: non importa da dove viene o quale sia la sua religione». Anche questo è un fattore di cambiamento rivoluzionario, nella storia del Beitar: in passato, i gruppi organizzati più radicali - tra cui La Familia, espressamente schierato all'estrema destra dello spettro politico - hanno protestato non solo per l'acquisto, ma anche solo per le semplici voci di mercato relative a giocatori musulmani, nigeriani, ceceni, mettendo in forte imbarazzo il club.
  Ovviamente, ora siamo su un altro livello: buona parte della tifoseria si è schierata in maniera molto dura contro la nuova proprietà, secondo quanto riporta il Guardian ci sono già state delle manifestazioni da parte de La Familia, tra cui la comparsa di alcuni slogan anti-arabi sui muri di alcune zone di Gerusalemme; il quotidiano inglese ha riportato alcune dichiarazioni di un membro non identificato del gruppo ultras, che ha spiegato come l'arrivo degli arabi minacci l'identità del club, «ma anche dell'intera città di Gerusalemme, storicamente divisa tra ebrei e arabi ma controllata dal governo israeliano». L'ala meno politicizzata della tifoseria non ha bocciato in maniera preventiva la nuova era, anche perché gli obiettivi del Beitar potrebbero diventare molto ambiziosi: gli investimenti dei nuovi soci dovrebbero superare quota 90 milioni di euro nei prossimi dieci anni, una cifra considerevole per un club che non vince il campionato nazionale dal 2009. Oltre il campo, però, ci sono evidenti obiettivi politici: Moshe Hogeg ha spiegato che «la sfida di cambiare la reputazione razzista del Beitar è davvero stimolante»; e poi ci sono da considerare i nuovi equilibri internazionali, non a caso l'asse tra Emirati Arabi e Israele è stato suggellato proprio con uno dei club più vicini all'estabilishment israeliano, sostenuto dal premier Netanyahu e anche dall'attuale Capo di Stato Reuven Rivlin, che anzi è stato parte della dirigenza prima di entrare in politica.

(Rivista Undici, 28 dicembre 2020)


Coronavirus, in Israele campagna da record: 300 mila le persone già vaccinate

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV - Ieri Israele è entrato nel terzo lockdown. Dicono sarà l'ultimo, dopo l'avvio della campagna vaccini a ritmo serrato, con l'obiettivo dichiarato di festeggiare senza restrizioni la Pasqua ebraica, a fine marzo. Il via l'aveva dato in diretta televisiva il premier Benjamin Netanyahu otto giorni fa e, da allora, la prima dose del vaccino Pfizer è stata somministrata ad altri 300.000 israeliani, portando il Paese in testa alle classifiche mondiali per numero di vaccinati.
   La risposta della popolazione è stata immediata e più entusiastica del previsto: i centralini delle quattro casse mutua sono stati presi d'assalto, con il calendario degli appuntamenti che si allunga fino a marzo, gente che accetta appuntamenti anche in città a ore di viaggio da casa, file che si formano già dall'alba per essere i primi a ricevere l'agognata iniezione. Al momento possono accedere al vaccino solo i cittadini sopra i 60 anni, persone con malattie pregresse e personale medico, tra due settimane il vaccino verrà esteso ad altre categorie. Ma c'è chi ha scoperto, così ha raccontato un gruppo di giovani, che se si arriva verso la fine del turno degli ambulatori, si può ricevere le dosi avanzate, che non possono essere ricongelate. Le casse mutua hanno arruolato personaggi famosi per invitare la gente a prendere appuntamento. La foto a spalla nuda e iniezione è la nuova moda.
   Da ieri anche gli ospedali sono coinvolti nell'operazione per alleggerire il carico sulle casse mutua. Alcuni centri hanno iniziato a lavorare non stop, notti e sabati inclusi, con l'imprimatur dato dai rabbini che hanno invitato i fedeli a vaccinarsi «senza perdere tempo, per prevenire il pericolo per sé e per gli altri». Il sindaco di Gerusalemme Moshè Leon ieri si è recato, insieme agli imam locali, in uno degli ambulatori di Sheikh Jarrah, quartiere est della città, per sensibilizzare la popolazione che, stando ai dati finora, è la più esitante a vaccinarsi.
   Netanyahu ha alzato la puntata annunciando che entro la fine di questa settimana si arriverà a 150.000 vaccini al giorno (ieri ne sono stati somministrati 80.000) e che l'obiettivo è in due mesi vaccinare metà del Paese, che conta 9 milioni di abitanti. Con le quarte elezioni in meno di due anni fissate per il 23 marzo, il premier in carica ha fatto dell'operazione vaccini e della promessa che questo sarà l'ultimo lockdown il proprio cavallo di battaglia. La campagna elettorale si giocherà tutta tra l'uscita dalla pandemia e — sul fronte delle opposizioni, a sinistra come a destra — l'uscita di scena del premier più longevo della storia del Paese.

(la Repubblica, 28 dicembre 2020)


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Quell'ago gelido mi ha restituito la libertà

di Fiamma Nirenstein

Dopo l'iniezione c'è fretta di chiudere con questo maledetto capitolo del Covid La fila è lunga, la pazienza è poca. Ma poi a contagiarci sono i sorrisi

E' come entrare in un mondo diverso quando l'ago finalmente inietta veloce, una saetta, quella fialetta trasparente: quanto è benedetta, quanto è gelata, e quanta sete ne ha il mondo. L'ingresso della piccola clinica di zona gestita da una delle compagnie di assicurazione medica semipubbliche in cui è suddivisa la sanità israeliana, sabato sera era pieno di gente come me, over 60, più qualche giovane speranzoso. Molti con l'appuntamento, molti con la speranza di chiudere subito, adesso questo maledetto capitolo del Covid.
   Quasi tutta Israele desidera sperimentare subito il miracolo della scienza, e da ieri la richiesta ha creato una folla fitta sulle porte dei centri della distribuzione, nonostante la data e gli orari vengano distribuiti per telefono: ma se si libera un posto, la parola d'ordine è vaccinare il più possibile. Fare entrare quanti lo desiderano, se si può. E già si vaccinano quasi 200mila persone al giorno, 300 mila circa sono già state vaccinate. Netanyahu, molto fiero, ha detto che se l'obiettivo di 150mila al giorno viene raggiunto in 30 giorni sarebbero 4 milioni e mezzo le persone vaccinate, tutte quelle a rischio e gli anziani, (ieri si sono intraprese le case di riposo).
   Dato che dopo tre settimane si deve iniettare la seconda porzione, in un mese più di un quarto del popolo sarà vaccinato. Qualche giorno fa il Bahrain aveva il primato, ma adesso il numero uno è il piccolo Paese che ama i miracoli. Il segreto, come è successo nella storia quando il piccolo paese di 9 milioni di abitanti è stato in pericolo, che la macchina della sopravvivenza, dell'invenzione e della solidarietà pulsa a tutto gas 24 ore su 24. Nonostante ieri sera alle 5 si sia inaugurato il terzo lockdown con grandi blocchi di traffico (anche se i ragazzi fino a 14 anni vanno a scuola in orari normali, i supermarket e gli alimentari sono aperti, e così i medici e altri servizi utili fino alle 5 di pomeriggio, e fino a quell'ora si può allontanarsi un chilometro da casa) e la gente faccia provviste e si angoscia per la rinnovata solitudine e il danno economico, il vaccino illumina il futuro.
   Ci si è arrivati lavorando in tempo per avere grandi quantità di Pfizer (quello che ho ricevuto anche io) e di Moderna, che è in arrivo nei prossimi giorni, come anche il vaccino israeliano Brilife, di cui si dice che sia il migliore. In secondo luogo, è scattata la risposta di massa, una mobilitazione fantastica di tutto l'apparato sanitario, dai grandi ospedali alle piccole cliniche, dai medici alle infermiere che come un esercito hanno intrapreso questo nuovo compito come una missione storica. In ebraico si dice «Shlichut», missione, ed è una parola usata per tutto quello che si fa in nome di qualcosa di più grande di noi. Le grandi frotte di persone anziane vengono a farsi vaccinare con o senza appuntamento, e già protestano e litigano e accusano le autorità secondo uno stile tutto israeliano, democratico e ribelle ma di gruppo, c'è amore verso i malati e i vecchi che arrivano accompagnati.
   Una volta bucati i vaccinati siedono per un quarto d'ora come richiesto a fronte dei pericoli di allergia, e guardano il futuro un po' stupefatti e sorpresi. Si sorridono. Sta veramente accadendo a noi, davvero: siamo vivi e ci stiamo vaccinando. Ci guardiamo negli occhi. É chiaro perché ci si commuove: si chiama libertà, si muore e si vive per questo.

(il Giornale, 28 dicembre 2020)


Il miracolo. La speranza. «Tutta Israele desidera sperimentare subito il miracolo della scienza ... con la speranza di chiudere subito, adesso questo maledetto capitolo del Covid». Il messia vaccino a lungo atteso è alfine giunto fra noi. «Sta veramente accadendo a noi, davvero: siamo vivi e ci stiamo vaccinando». Vien voglia di citare il Salmo 126: "Allora fu ripiena la nostra bocca di sorrisi, e la nostra lingua di canti di gioia". Certo, il motivo del giubilo allora era diverso: "Quando l'Eterno fece tornare i reduci di Sion, ci pareva di sognare ... Allora fu detto fra le nazioni: L'Eterno ha fatto cose grandi per loro, l'Eterno ha fatto cose grandi per noi, e noi siamo nella gioia. Allora fu detto.... ora si dice: "La Scienza ha fatto cose grandi per loro, la Scienza ha fatto cose grandi per noi e noi siamo nella gioia". E Netanyahu è molto fiero. M.C.


Dureghello e Di Segni tra le 110 donne del 2020 del Corriere della sera

Sono le 110 donne che si sono distinte nel corso di questo difficile 2020 nel ritratto fatto dal Corriere della sera.
Dalla cancelliera Angela Merkel a Barbra Streisand, dalla direttrice dell'Istat Linda Laura Sabbadini a Ursula Von Der Leyen ma anche molte protagoniste della lotta al Covid come l'infermiera simbolo Alessia Bonari o le virologhe Ilaria Capua e Antonella Viola.
Tra le 110 donne che hanno segnato questo 2020 menzioni anche per la Presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello e per la Presidente dell'Unione delle comunità ebraiche Noemi Di Segni.
Per il Corriere la Presidente CER "Rappresenta la complessa Comunità ebraica romana, la più antica della Diaspora, con grande tempra, combattendo ogni tendenza all'isolamento e aprendo continue porte al dialogo soprattutto con il mondo cattolico per superare le ferite storiche. Ricordando il rastrellamento nazista degli ebrei romani nell'Antico Ghetto del 16 ottobre 1943, quest'anno si è rivolta alle future generazioni: «Purtroppo il germe dell'odio e il seme del male sono infusi nell'animo umano. La capacità però di controllare queste forze, è ciò che dobbiamo insegnare e trasmettere. Ho molta fiducia nei ragazzi. Certo è che le difficoltà di oggi sono uno strumento di diffusione di odio e divisione. Dobbiamo quindi presidiare con maggiore forza». Per combattere l'antisemitismo ha indicato nella scuola e nei social i luoghi contemporanei dove tutelare una Memoria che eviti di ripetere le tragedie del passato. Il suo è un occhio consapevole della contemporaneità e della sua complessità. Ha eccellenti rapporti con tutte le istituzioni romane".
Mentre Noemi Di Segni "Guida il mondo degli Ebrei italiani con decisione ma anche con pazienza e con una straordinaria capacità di dialogo e di comprensione delle ragioni altrui, sottolineando continuamente il valore delle differenze come ricchezza della società italiana. In un anno molto difficile, in cui non sono mancati segnali di forte ripresa dei movimenti neofascisti, ha sempre opposto fermezza ma mettendo sempre da parte l'odio e la divisione. Ha unito le diverse e tante anime dell'ebraismo italiano cercando una sintesi rispettosa delle diverse peculiarità. Durante il Covid ha sostenuto con passione anche il ricorso alla Rete per le cerimonie on line: «Questi strumenti hanno aiutato la comunità ebraica italiana a mantenersi unita nonostante le restrizioni e l'impossibilità di riunirsi. Tali momenti di condivisione ci hanno aiutati a tenere un ritmo, ad avere una guida nelle nostre preghiere, coadiuvate e assistite a distanza».
Orgogliosa della menzione, in un post su Facebook Ruth Dureghello ha commentato così: "Grazie al Corriere della Sera per avermi inserito tra le 110 donne del 2020. È una scelta che mi onora e mi commuove. L'impegno di ciascuna di noi è il primo passo per costruire una società più giusta e solidale".

(Shalom, 27 dicembre 2020)


La democrazia israeliana imprigionata nelle sabbie mobili

La situazione in Israele secondo il punto di vista di un bimestrale online della sinistra ebraica italiana. Con il commento di Emanuel Segre Amar. NsI

di Shanna Orlik

Lo Stato di Israele si trova oggi in un contesto travagliato e senza precedenti: tra la pandemia globale, il primo ministro incriminato, lo scioglimento della Knesset e l'aumento delle disuguaglianze e della precarietà, la società israeliana non è mai stata così indebolita e divisa.
   L'instabilità politica continua, con nuove elezioni all'orizzonte nella primavera del 2021 che costeranno al contribuente israeliano tra 1 e 3 miliardi di shkalim, un clima politico che rafforza il senso di impotenza dei cittadini israeliani di fronte a una classe politica scollegata. Inoltre, la gestione della crisi del Covid-19 che Netanyahu accoglie con favore ha solo sviluppato una mancanza di fiducia tra gli israeliani nei loro leader, che hanno ripetutamente violato le loro stesse misure di contenimento. Gestione della crisi a due livelli quindi: regole vincolanti e privazioni di libertà per le persone comuni e infrazioni e deroghe per i membri della maggioranza, il governo e i loro parenti, e questo nella più totale impunità. Per la prima volta nella storia dello Stato ebraico, sono le avversità che dividono: le calamità, come guerre, operazioni militari o disastri naturali, hanno saputo, in passato, rafforzare il legame sociale e creare un sentimento di "soli contro tutti". Ma di fronte a un nemico che viene dall'interno, un nemico invisibile che ci minaccia tutti come il virus Covid-19, la società israeliana è scossa, divisa e sembra essere bloccata in sabbie mobili da cui nessuno sembra conoscere l'uscita.
   Il divario sociale sta crescendo in un momento in cui discorsi e piani di solidarietà sarebbero comunque una delle soluzioni per uscirne. Le politiche neoliberiste della "Start-up Nation" trascurano i più svantaggiati, e in un periodo di pandemia come quello che stiamo vivendo l'assenza di una rete di sicurezza sociale crea una situazione di precarietà, povertà e disoccupazione senza precedenti di cui non possiamo ancora immaginare le conseguenze a lungo termine.
   È in questo contesto che sono stati firmati gli storici accordi di normalizzazione di Abramo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Una "medaglia diplomatica" in più per Netanyahu che, non riuscendo a darsi anima e corpo per salvare il suo Paese da una stagnazione perdurante, preferisce migliorare la sua immagine sulla scena internazionale. In un momento in cui i capi di stato stanno concentrando tutti i loro sforzi per risparmiare i loro cittadini dalle conseguenze della crisi internazionale e per proteggere la salute e l'economia dei loro paesi, il duo Trump-Netanyahu sembra vedere i problemi (ed i loro interessi) altrove.
   Rinviare il processo, rinviare il voto del bilancio 2021, rinviare la rotazione con Gantz a premier... Così Netanyahu sembra organizzare le sue priorità, mettendo in pericolo i 9 milioni di israeliani e le migliaia di associazioni e imprese che chiudono i battenti una dopo l'altra per la mancanza di una votazione sul bilancio annuale. Mancanza di risorse, sussidi statali che non arrivano o anche decisioni che favoriscono monopoli e grandi imprese, a scapito dei lavoratori autonomi e delle imprese di quartiere, la rabbia rimbomba, anche tra i cittadini che, fino ad ora, hanno giurato con il motto "rak Bibi" (nient'altro che Bibi).
   La situazione si sta impantanando e da sei mesi, ogni sabato sera, si vedono per le strade centinaia di migliaia di persone che manifestano, in parte davanti alla casa del Primo Ministro, in parte su centinaia di ponti in tutto il Paese, ma anche davanti alla casa di Gantz, che precipita nei sondaggi, dopo aver tradito centinaia di migliaia di israeliani che hanno votato per il suo partito per costruire un'alternativa politica. Sfortunatamente, in considerazione dello stato dei partiti di sinistra israeliani, Gantz ha preferito dare a Netanyahu un'altra possibilità, ma alla fine ha ammesso la propria ingenuità ed il proprio errore votando per lo scioglimento del parlamento all'inizio di dicembre 2020.
   Nell'attuale realtà politica, dobbiamo affrontare i fatti: l'unica soluzione per offrire una valida alternativa ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni, tutti guidati da Netanyahu, è una coalizione con i partiti arabi.
   Se Netanyahu è pronto a "fare amicizia" con Mansour Abbas, il leader del partito islamico antisionista Ra'am, per soddisfare i suoi interessi, perché il centrosinistra rimane così cauto sulla possibilità di una collaborazione arabo-ebraica?
   Questo è ciò che lo storico partito di sinistra Meretz ha capito e ha iniziato ad inseguire in vista delle prossime elezioni. In un momento in cui gli istituti di sondaggio stanno evidenziando un drastico cambiamento tra i cittadini arabi israeliani, che non si sono mai sentiti così "israeliani", sembra che l'unica potenziale soluzione per tirarci fuori dalle sabbie mobili in cui siamo bloccati e rovesciare la dinastia Netanyahu stia nella collaborazione tra ebrei ed arabi israeliani. Mentre il Partito Laburista Avodà rischia di non superare la soglia di sbarramento alle prossime elezioni, la speranza di cambiamento, di porre fine alla crisi e di vedere l'istituzione di un processo di riconciliazione sociale nazionale sembra ora risiedere principalmente nei partiti Yesh Atid (guidato da Yair Lapid), Meretz (guidato da Nitzan Horowitz) e Lista Araba Unita (guidato da Ayman Odeh). Resta da chiedersi se il loro coraggio politico, la loro determinazione e leadership riusciranno a convincere l'elettorato intorno ad un progetto comune, sociale ed egualitario.

(Ha Keillah, dicembre 2020)


L'articolo di Shanna Orlik (Ha Keillah) sembra non prendere in considerazione alcuni aspetti fondamentali: 1) molti dei partiti di destra che sono oggi contrari a Netanyahu non sono disponibili ad unirsi in un'alleanza governativa con i partiti arabi. 2) c'è nel mondo arabo israeliano una profonda differenza nei riguardi dello Stato di Israele tra la maggior parte degli arabi israeliani e gli uomini politici che li rappresentano 3) infine, gli stessi partiti arabi che si erano uniti per formare una lista comune sembrano non essere più disposti a proseguire con questa politica. Considerati questi aspetti l'idea della autrice dell'articolo non potrebbe essere messa in pratica nemmeno in un paese come Israele dove tanti dicono che avvengono i miracoli. Questo non sarebbe un miracolo, ma piuttosto una tragedia perché significherebbe mostrare a nemici giurati dello Stato realtà fino ad oggi tenute loro nascoste. Emanuel Segre Amar


Medio Oriente, Europa e l'imperialismo della Turchia

di Ugo Volli

Il Medio Oriente è da sempre un teatro geopolitico complesso, che non si lascia analizzare in contrapposizioni semplici. Dal punto di vista di Israele, che ne costituisce il centro naturale, ponte fra l'Egitto e il Maghreb e il bacino mesopotamico, la prima schematizzazione era quella pensata da Ben Gurion: lo Stato Ebraico era circondato da un primo cerchio di paesi arabi nemici (Egitto, Arabia, Giordania, Siria ecc.) a sua volta circondato da paesi più lontani ostili, come Iran, Turchia, Etiopia. Il primo cerchio si spezzò con le sconfitte nelle guerre frontali contro Israele e con i trattati di pace con Egitto e Giordania che seguirono, in cambio fu inventata l'organizzazione terrorista palestinista, che portò la guerra all'interno di Israele e in tutto il mondo, e che per una certa fase sembrò il pericolo principale per Israele, tanto che la sinistra al governo tentò di accordarsi pagando il prezzo di Oslo. Anche il cerchio esterno si spezzò o meglio cambiò segno, soprattutto dopo la rivoluzione iraniana. Poi i pericoli vennero dall'Iraq, con Saddam e l'Isis. Da una decina d'anni ormai il posto di nemico principale spetta all'Iran, che manovra quel che resta del terrorismo palestinista ma anche movimenti satelliti in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Con l'aiuto di Trump, Netanyahu è riuscito nel miracolo di trasformare questo rischio in opportunità, alleandosi con i paesi sunniti minacciati anch'essi dall'Iran.
   Ma ora un nuovo pericolo si affaccia all'orizzonte. E' la Turchia, che non ha più i buoni rapporti di un tempo con Israele da quando è governata da Erdogan, leader mondiale della Fratellanza Musulmana. Basta ricordare i casi delle flottiglia di Gaza o il tentativo turco di egemonizzare l'islamismo a Gerusalemme, bilanciati dalle tensioni di Ankara con l'Iran sulla Siria e i curdi. Ora però l'aggressività turca e la sua rivendicazione del passato imperiale è cresciuta molto, l'esercito turco ha aggredito l'Armenia direttamente e per mezzo di mercenari, ma si è scontrato pesantemente anche con la Grecia e Cipro, che sono alleati di Israele sul progetto di sviluppo delle risorse petrolifere del Mediterraneo orientale, di cui Erdogan vorrebbe impadronirsi.
   L'imperialismo turco è dunque direttamente contrapposto a Israele, sul piano geopolitico come su quello religioso. Ma di recente sono emerse con insistenza voci di proposte di accordo strategico sulle zone di influenza economica marittima che la Turchia avrebbe fatto a Israele, beninteso a spese di Cipro e della Grecia. E' una scelta difficile per Israele, anche perché l'Europa ha una posizione ambigua sulla Turchia: solo la Francia sta davvero con Grecia e Cipro, che pure sono parte dell'UE, mentre Germania, Spagna e pure l'Italia (per quel che conta) appoggiano la Turchia. Una partita diplomatica importante è in corso nel Mediterraneo, capace di condizionare non solo gli schieramenti mediorientali, ma anche l'economia europea.

(Shalom, 27 dicembre 2020)


Israele e i conti con le priorità Usa

Yoram Schweitzer, esperto di terrorismo
Il Mossad, il servizio segreto israeliano, ha tutte le capacità per colpire ed eliminare un obiettivo nel cuore dell'Iran, nelle vie della sua capitale Teheran. Israele però non ha in cima alla lista dei suoi ricercati i vertici di al-Qaeda, nel mirino da sempre degli Stati Uniti. Per questo, in controtendenza rispetto alle rivelazioni del New York Times, l'esperto di terrorismo israeliano Yoram Schweitzer non è convinto che a premere il grilletto contro Mohammed al-Masri, numero due di al-Qaeda, siano stati agenti israeliani. "Nessuno, a livello pubblico, sa veramente cosa sia accaduto a Teheran, ma se devo fare un'ipotesi informata penso che gli Stati Uniti sappiano benissimo agire da soli. Soprattutto quando si parla di un obiettivo inseguito per anni come al-Masri. Non dico - afferma a Pagine Ebraiche l'esperto, tra le voci sentite dallo stesso New York Times - che gli israeliani non abbiano aiutato, ma la ricostruzione dei media mi risulta difficile da credere". Molte le ipotesi circolate sul perché poi la notizia, che non ha ricevuto conferme ufficiali né da parte americana né da parte israeliana, sia arrivata all'orecchio del New York Times e quindi pubblicata.
   C'è chi, come il quotidiano israeliano Haaretz, la interpreta come un modo dell'attuale amministrazione Trump e delle autorità israeliane per ricordare al futuro presidente Joe Biden che non ci si può fidare dell'Iran su nessun fronte, e contro cui serve la mano pesante."Qualsiasi sia il messaggio fra le righe, quello che è chiaro è che Biden, come ha fatto Trump seguendo le orme di Obama, proseguirà con le eliminazioni mirate. E continuerà con il sostegno a Israele. Io sono tra quelli che ricordano ai tanti critici di Obama che, nonostante i suoi rapporti non facili con il Premier Benjamin Netanyahu, la sua è stata un'amministrazione che ha sempre sostenuto e aiutato Israele nel proteggersi dalle minacce alla sua sicurezza Biden farà lo stesso, ma noi non saremo in cima alla sua agenda". Schweitzer, capo del programma sul terrorismo e i conflitti a bassa intensità dell'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) di Tel Aviv, ricorda come l'amministrazione Trump abbia da un lato facilitato i rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi - portando alla firma dei rapporti di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti e Bahrein-, ma come dall'altra abbia scelto il disimpegno militare da molte zone. "Il rapporto tra Israele e Stati Uniti rimane imprescindibile per entrambi, ma è chiaro che Washington ha altre priorità in agenda.
   In particolare Biden non credo si concentrerà sul Medio Oriente, prima avrà la pandemia e la questione Cina da affrontare". Per questo, spiega a Pagine Ebraiche Schweitzer, Israele dovrà puntare molto sui frutti degli Accordi di Abramo e creare delle collaborazioni autonome con i paesi arabi per aprire a nuovi legami economici, scientifici e di sicurezza. "Essere autosufficienti è la strada vincente". E dovrebbero capirlo anche i palestinesi, spiega Schweitzer, rimasti fuori dalle intese con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, ma che, almeno a Ramallah, avrebbero di che guadagnare da un ritorno ai negoziati. "Certo per loro il cambio alla Casa Bianca è una buona notizia, avendo tagliato del tutto i rapporti con gli Usa durante l'amministrazione Trump, ma non credo che Biden potrà cambiare di molto la loro situazione sul terreno". La palla, sottolinea l'esperto, è soprattutto nelle loro mani.
   Una tesi condivisa anche dal ministro della Difesa Benny Gantz, che in una recente conferenza organizzata dall'Associazione Italia Svizzera ha auspicato un ritorno al tavolo delle trattative di Ramallah, senza però precondizioni. "I palestinesi non devono rimanere indietro, e non devono essere lasciati indietro. [ ... ] Ma basta con i sogni, torniamo alla realtà", ha dichiarato Gantz. Una realtà, sottolinea Schweitzer, che vede i palestinesi sempre più a margine di un nuovo Medio Oriente.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2020)


Nessuna esplosione, Israele smentisce l'incidente al confine con il Libano

In precedenza l'agenzia libanese Al-Mayadeen aveva riportato che una pattuglia israeliana era stata colpita da un'esplosione nei pressi della città di Adaisse, al confine con il Libano. L'agenzia aveva anche riportato che alcuni soldati israeliani erano rimasti feriti.
    "Le esplosioni che sono state udite questa mattina al confine con il Libano erano associate alle operazioni sul campo di routine dell'IDF al confine. Contrariamente a quanto affermato, nessun ordigno esplosivo è stato utilizzato contro le forze armate israeliane",
ha scritto il portavoce dell'esercito in un post su Twitter.
   Tensioni tra i due paesi sono scoppiate nel mese di settembre dell'anno scorso quando Israele aveva lanciato dei missili contro obiettivi libanesi, dopo un attacco di Hezbollah contro dei blindati israeliani lungo la frontiera. Hezbollah è considerato da Israele e USA un'organizzazione terroristica, mentre in Libano è un partito politico rappresentato in governo e parlamento. Le tensioni tra Israele ed Hezbollah nel 2006 avevano portato ad un'operazione militare durata 33 giorni, con 1200 morti da parte libanese e 160 da parte israeliana.

(Sputnik Italia, 27 dicembre 2020)


Bioparco, visita dell'ambasciatore di Israele per salvare una rara testuggine

 
ROMA - Un patto per la conservazione della rarissima testuggine Testudo kleinmanni. L'ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, si è recato il 23 dicembre in visita ufficiale al Bioparco di Roma, dove è stato accolto dal presidente della Fondazione Bioparco di Roma, Francesco Petretti.
La visita è stata l'occasione per discutere di futuri progetti che l'Ambasciata di Israele intende realizzare con la Fondazione Bioparco di Roma.
In particolare, si è discusso sulla volontà di approfondire la collaborazione in corso tra il Bioparco e lo Zoo Biblico di Gerusalemme per la conservazione della rarissima testuggine Testudo kleinmanni.
La testuggine, di cui il Bioparco ospita quattro esemplari donati dallo Zoo di Gerusalemme nel 2007, figura tra le specie più minacciate al mondo a causa della distruzione dell'habitat e del commercio illegale.
Il progetto, che ambisce alla finale "reintroduzione in natura dei rettili, ha altresì favorito studi genetici e morfologici da parte di istituti universitari attratti dalla rarità della specie e dalla scarsità di conoscenze sulla sua biologia", fanno sapere dal Bioparco di Roma.

(Roma24, 27 dicembre 2020)


Israele, la partita elettorale si gioca a destra. Al peggio non c'è mai fine...

di Umberto De Giovannangeli

Ormai è una partita che si gioca solo in una parte del campo: quello di destra. Perché l'altro, quello di sinistra, è assolutamente, malinconicamente, drammaticamente, irrilevante. Israele a destra una deriva senza freni. E, almeno per un futuro che si fa presente, irreversibile.Per coglierne la portata Globalist si affida ad una delle firme politiche più autorevoli del giornalismo israeliano: Anshel Pfeffer, columnist di Haaretz e corrispondente in Israele per The Economist.
  Ecco il racconto:
  "Sheffi Paz, leader della campagna razzista per liberare il sud di Tel Aviv dai richiedenti asilo, si è presa una breve pausa dall'irruzione negli asili e dal terrorizzare i bambini immigrati la scorsa settimana per twittare il suo apprezzamento per Gideon Sa'ar, il nuovo sfidante della premiership di Benjamin Netanyahu. Paz ha elogiato Sa'ar per il suo comportamento politico: 'Nessun ministro degli Interni ha deportato più infiltrati di lui'. Questo mercoledì Sa'ar ha dato il benvenuto a un altro disertore di alto livello del Likud al suo nuovo partito New Hope: Zeev Elkin, che come ministro incaricato dell'istruzione superiore è stato responsabile di aver recentemente spinto per la nomina del suprematista ebreo Effi Eitam come prossimo presidente dell'autorità commemorativa dell'Olocausto dello Yad Vashem. L'appassionato discorso d'addio di Elkin del Likud, che scagiona Netanyahu per aver usato l'ufficio del Primo Ministro per proteggersi da accuse di corruzione, avrebbe potuto essere pronunciato da uno degli arrabbiati oppositori di Netanyahu sulla via Balfour di Gerusalemme. Che Sa'ar ed Elkin siano ora i leader della campagna anyone-but-Bibi, che - se i sondaggi sono qualcosa da seguire - ha una buona possibilità di realizzare il suo obiettivo, dice tutto quello che c'è da sapere sulla debolezza della sinistra israeliana.

 Suicidio annunciato
  "L'elezione della 24a Knesset di Israele il 23 marzo - annota Pfeffer - sarà la prima nella storia del Paese in cui i due partiti con le migliori prospettive di formare una coalizione e di guidare il prossimo governo sono entrambi di destra. Due partiti con ideologie e piattaforme quasi identiche, i cui membri sono cresciuti nello stesso movimento. A meno che i sondaggi non siano estremamente sbagliati, il vincitore delle elezioni sarà il Likud, o il Likud 'ufficiale', guidato da Netanyahu, o il Likud di Sa'ar, alias New Hope. Come per le precedenti elezioni, anche questa sarà una questione di sopravvivenza di Netanyahu o di abbandono definitivo della carica. Ma il fatto che la storica missione di porre fine al suo lungo governo sia ora sulle spalle dei suoi avversari a destra è un cambiamento importante. Questo sarebbe normalmente il punto dell'articolo in cui tirare fuori un carico di statistiche su come Israele sia andato a destra negli ultimi decenni, ma esse presentano solo una parte del quadro. E dato che le statistiche più affidabili che abbiamo sono le elezioni vere e proprie, va sottolineato che oltre il 45 per cento degli israeliani che hanno votato alle ultime elezioni, appena nove mesi fa, ha votato per una delle tre liste di centro-sinistra - Kahol Lavan, Labor-Gesher-Meretz e la Joint List. E' più del 40 per cento che ha votato per i tre partiti di destra - Likud, Yamina e Yisrael Beitenu. Sì, gli israeliani sono più di destra che in passato, ma la ragione principale per cui Netanyahu è rimasto primo ministro per così tanto tempo è che è semplicemente molto più bravo di chiunque altro a costruire coalizioni e ha un'alleanza quasi indissolubile con i partiti ultra-ortodossi. Questo, e la debolezza della sinistra israeliana, che, diciamolo, non è mai stata davvero molto sinistra.
  Tornando alla fondazione di Israele, il Labour è sempre stato un partito nazionalista, orientato alla sicurezza, che vedeva Israele come parte integrante dell'Occidente a guida americana. L'unica ragione per cui ci aggrappiamo all'idea che il lavoro sia "lasciato" è che David Ben-Gurion e i suoi colleghi credevano che il modo più veloce per costruire un nuovo Stato ebraico sarebbe stato attraverso un'economia altamente sindacalizzata e, naturalmente, perché il lavoro e i partiti centristi che da allora lo hanno soppiantato hanno il Likud alla loro destra. Quando il Likud ha vinto le elezioni per la prima volta nel 1977, e ha completato la sua evoluzione da perenne outsider a partito di potere, anche la 'sinistra' doveva evolversi. Ma il kibbutzim e le aziende di proprietà della federazione del lavoro di Histadrut che avevano effettivamente costruito lo Stato nei primi anni stavano tutte andando in bancarotta, quindi aveva bisogno di una nuova narrazione. Ci sono voluti 16 anni per svilupparsi. Quando Yitzhak Rabin acconsentì a seguire il processo di Oslo e ad imbarcarsi in un compromesso storico con i palestinesi, la sinistra ebbe finalmente la sua nuova narrazione - erano il 'campo della pace. Ma essere il campo della pace non ha funzionato quando non c'è molta pace con i palestinesi di cui parlare, e quando, sotto Netanyahu, Israele ha avuto, se non la pace, molta meno violenza negli ultimi anni rispetto ai precedenti governi Labour e Kadima. Inoltre, Israele ora ha 'normalizzato', o è in procinto di normalizzare, i rapporti con sei membri della Lega Araba. Cinque di loro (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco) sono stati raggiunti sotto il Likud e solo uno (Giordania) sotto il Labour.
  Il 'campo della pace' sostiene che Israele potrebbe solo evitare uno 'tsunami diplomatico' e fare un passo avanti nella regione attraverso concessioni ai palestinesi si è dimostrato falso. E poiché ha messo tutte le sue risorse retoriche e ideologiche in quell'unico paniere, non ha più nulla da offrire agli israeliani. Non che non ci siano altri modi per cercare di convincere gli israeliani che la fine dell'occupazione di milioni di palestinesi è ancora necessaria. O che non c'è nessun altro programma per cui il centro-sinistra israeliano dovrebbe lottare. Ci sono molte questioni, ma nessuno ha pensato seriamente e si è sforzato di trovare un modo per articolarle. Il centro-sinistra non si definisce più 'campo della pace', sarebbe ridicolo in questo momento, ma invece di capire per cosa stia ancora lottando, si è involuto in un campo disfunzionale 'chiunque tranne Bibi', che non significa nulla. In assenza di un coerente piano post-Oslo per porre fine al conflitto con i palestinesi e senza altre politiche da offrire agli elettori, il centro-sinistra ha perso la sua bandiera della pace a favore del Likud di Netanyahu e la leadership del campo 'chiunque tranne Bibi' a favore del Likud 2.0 anti-Netanyahu. A meno di tre mesi dalle elezioni e con il centro-sinistra disperatamente diviso in scaglioni di partiti, alcuni dei quali, soprattutto i laburisti, sembrano avere poche possibilità di varcare la soglia elettorale in questo momento, non c'è tempo per proporre un nuovo ordine del giorno. Il meglio che gli elettori di questo campo povero e demoralizzato possono sperare è che i cosiddetti leader di ciò che resta dei laburisti e di Meretz possano accettare che questa sia un'elezione 'time-out', poiché non hanno alcuna possibilità di influenzare il risultato, fondere le loro liste e annunciare un periodo di auto-riflessione.
  Non sarebbe un danno per la sinistra ebraica della diaspora se anche loro facessero lo stesso. La loro preoccupazione per una sola questione quando si tratta di Israele - il conflitto con i palestinesi - non ha aiutato. Non perché non sia cruciale affrontare la questione. Lo è. Ma finché la sinistra israeliana non troverà il modo di affrontare anche altre questioni urgenti, continuerà a ridursi in irrilevanza. Gli alleati del campo della pace all'estero hanno commesso lo stesso errore di pensare di poter contribuire a generare pressioni su Israele per porre fine all'occupazione. Non è successo e non ci sono segni che funzioni in futuro.
  La sinistra non è riuscita a raggiungere la pace ed è stata sconfitta da Netanyahu. Ora è la destra che, si spera, libererà Israele dalla sua maligna presa di potere. Dal momento che la sinistra non può più essere incaricata di farlo, dovrebbe prendersi il tempo necessario per capire come si rende di nuovo rilevante".
  La destra - è questa la dura verità - ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d'Israele, su Medinat Israel, lo Stato d'Israele. In questa visione, la Sacra Terra, proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte. Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Ygal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al "capo dei criminali palestinesi", Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita, un interlocutore di pace. Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell'agire umano. E' all'avanguardia mondiale quanto a start up, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica e portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina, dell'innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri.

 Uno sguardo lungo
  Così stanno le cose. Per provare a tornare ad una qualche rilevanza, la sinistra dovrebbe avere il coraggio delle idee, di saper andare controcorrente, e di dotarsi di una visione di lungo respiro. Quella delineata da un "Grande d'Israele", recentemente scomparso: Zeev Sternhell. Così il grande storico israeliano ragionava in una intervista concessa, pochi mesi prima della sua morte, a chi scrive.
  "Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione 'a due Stati", e qui c'è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell'Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l'altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d'incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale".

 Uno Stato binazionale di nome Israele guidato da un arabo…
  "Per quel che conosco della realtà palestinese, non mi pare che sul piano politico sia un monolite, tutt'altro - fu la sua risposta -. E non mi riferisco solo alle divisioni tra le fazioni storiche, Hamas e al-Fatah, ma penso anche a quelle che separano laici e fondamentalisti. E per quanto riguarda Israele, non ne parliamo…Voglio dire che non va dato per scontato che in uno Stato binazionale il voto sia incardinato ad un principio assoluto di appartenenza etnica, che annulli totalmente visioni diverse, spesso opposte, di società, del rapporto tra Stato e religione, di parità di genere, di pluralità culturale che attraversano sia Israele che la società palestinese. D'altra parte già oggi Israele è uno Stato che ha come terza forza parlamentare una Lista, che già nella sua definizione, Lista Araba Unita, fa riferimento esplicito ad una popolazione, quella araba israeliana, che rappresenta oltre il 20% del Paese. So bene le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli da superare, che non sono solo politici ma culturali, identitari. Ma credo anche che questo sia il momento per un Nuovo Inizio. Sin qui si è detto: due popoli, due Stati. E' tempo di affermare 'due popoli, uno Stato. Democratico'".
  Le considerazioni di Sternhell dicono che ciò di cui la sinistra, non solo in Israele in verità, avrebbe bisogno, un bisogno vitale, esistenziale, è di trovare uno sguardo lungo, oltre la contingenza e oltre un tatticismo subalterno. Ma questa, per il momento, resta una speranza, da consegnare all'anno che sta per arrivare.

(globalist, 26 dicembre 2020)


E' una caratteristica degli intellettuali di sinistra di saper fare acutissime analisi della realtà e di sbagliarle tutte. Ma dopo, quando l'errore è sotto gli occhi di tutti, non per questo demordono: hanno sbagliato, è vero, ma nessuno meglio di loro sa fare acutissime analisi retrospettive del perché hanno sbagliato. Ma quando ripetutamente si sbaglia nel dire, non sarebbe meglio cominciare a tacere? M.C.



Le ricompense della saggezza

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 3.
  1. Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento,
    e il tuo cuore custodisca i miei comandamenti,
  2. perché ti procureranno lunghi giorni,
    anni di vita e prosperità.
  3. Bontà e verità non ti abbandonino;
    legatele al collo, scrivile sulla tavola del tuo cuore;
  4. troverai così grazia e buon senso
    agli occhi di Dio e degli uomini.
  5. Confida nel SIGNORE con tutto il cuore
    e non ti appoggiare sul tuo discernimento.
  6. Riconoscilo in tutte le tue vie
    ed egli appianerà i tuoi sentieri.
  7. Non ti stimare saggio da te stesso;
    temi il SIGNORE e allontanati dal male;
  8. questo sarà la salute del tuo corpo
    e un refrigerio alle tue ossa.
  9. Onora il SIGNORE con i tuoi beni
    e con le primizie di ogni tua rendita;
  10. i tuoi granai saranno ricolmi d'abbondanza
    e i tuoi tini traboccheranno di mosto.
  11. Figlio mio, non disprezzare la correzione del SIGNORE,
    non ti ripugni la sua riprensione;
  12. perché il SIGNORE riprende colui che egli ama,
    come un padre il figlio che gradisce.
  1. Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento,
    e il tuo cuore custodisca i miei comandamenti,

    La sapienza continua a parlare nella forma di un padre al figlio, il quale ora non appare più digiuno di istruzione. Molti buoni insegnamenti sono già stati dati, ma il rischio adesso è che essi possano cadere nell'oblio. Di qui l'esortazione: Non dimenticare il mio insegnamento. Nella Bibbia, dimenticare le parole di Dio significa farle uscire non dalla testa, ma dal cuore (De 4.9). Nel cuore dunque devono essere custoditi i comandamenti della sapienza, affinché nel momento pratico della scelta essi possano essere ricordati e applicati.

  2. perché ti procureranno lunghi giorni,
    anni di vita e prosperità.,

    La ricompensa promessa a chi segue le esortazioni della sapienza assume tre aspetti. I lunghi giorni alludono al fatto che, secondo la Scrittura, la vita umana è un dono che Dio può allungare o accorciare a seconda di come l'uomo si dispone nei confronti della Sua Parola (De 6.2, Pr 10.27). Parlando di anni di vita s'intende esprimere che i giorni donati da Dio ai Suoi fedeli meritano davvero il nome di "vita", perché costituiscono un tempo prezioso che vale la pena di essere vissuto. Parlando infine di prosperità (shalom) si allude alla pienezza di gioia e pace che contraddistingue la vita di chi vive nell'osservanza dei comandamenti di Dio.

  3. Bontà e verità non ti abbandonino;
    legatele al collo,

    "Bontà" e "verità" sono termini che compaiono spesso associati nei libri dell'Antico Testamento ed hanno un significato importante in relazione all'opera di salvezza di Dio (es. Sl 25.10, 40.11, 85.10, 86.15, 89.10). Molto più spesso i termini originali vengono tradotti con "bontà" e "fedeltà" (es. Es. 34.6; 2 Sa 2.6, 15.20; Sl 57.10, 117.2; Pr 16.6). La bontà di Dio è l'amore che Egli esprime verso gli uomini in relazione al patto che ha stabilito con loro. La verità (o fedeltà) di Dio rappresenta l'autenticità e la stabilità dell'atteggiamento di grazia che Egli si propone di avere nei confronti delle Sue creature. Queste caratteristiche di Dio sono raccomandate anche al discepolo, perché il Signore vuole che i suoi figli rassomiglino a Lui nel carattere e negli atteggiamenti (Mt 5.48; Lu 6.36). "Legatele al collo", cioè fa in modo che ti siano sempre presenti e non ti escano dalla memoria; "scrivile sulla tavola del tuo cuore", cioè permetti ai pensieri e ai sentimenti di Dio di scendere in profondità nella tua persona e di trasformarti ad immagine Sua.

  4. troverai così grazia e buon senso
    agli occhi di Dio e degli uomini.

    Alle esortazioni si alternano le promesse. A chi vive in conformità al volere di Dio viene promesso di trovare grazia ai Suoi occhi. E questo naturalmente può bastare a dare una pace piena, perché nessuna valutazione umana può scalfire il giudizio favorevole di Dio. Ma il fatto interessante è che viene promesso anche il gradimento degli uomini. A prima vista questo potrebbe sembrare poco realistico. Eppure esistono diversi esempi biblici. Si può pensare a Giuseppe (Ge 39.3-4), al piccolo Samuele (1 Sa 2.26), allo stesso Signore Gesù (Lu 2.52). Anche se gli uomini arrivano talvolta a contrastare violentemente coloro che testimoniano della grazia del Signore con parole ed opere (2 Ti 3.12), resta il fatto che molti non possono fare a meno di apprezzare le persone che vivono nella dipendenza da Dio. Resistono al messaggio di salvezza perché non vogliono pagare il prezzo legato al ravvedimento, e tuttavia devono riconoscere, anche se non sempre lo ammettono pubblicamente, che chi ha scelto di seguire il Signore ha fatto una buona scelta.

  5. Confida nel SIGNORE con tutto il cuore
    e non ti appoggiare sul tuo discernimento.

    Confidare significa appoggiarsi. Per questo l'uomo naturale fa molta fatica a confidare nel Signore: l'esercizio della fede gli fa perdere l'appoggio del suo proprio discernimento. Vorrebbe continuare a dire: "Io penso, io credo, io decido", per avere l'impressione di continuare a dirigere personalmente la sua vita, e invece viene esortato a ricordare quello che "Il Signore ha detto". Riceve l'invito a non appoggiarsi sulla sua capacità di giudizio e di decisione, ma sulla parola di Dio. E viene invitato a farlo con tutto il cuore, e non solo con la testa. Chi crede alla parola di Dio soltanto con la testa si limita a dire: "E' vero", e resta in piedi, appoggiato sulle sue sole gambe. Chi crede con tutto il cuore si sbilancia con il corpo e si appoggia su Colui che gli ha rivolto la parola. Qualche volta prova il timore di cadere, ma proprio perché ha fatto l'atto concreto di appoggiarsi, può fare la meravigliosa esperienza di verificare personalmente che il sostegno tiene.

  6. Riconoscilo in tutte le tue vie
    ed egli appianerà i tuoi sentieri.

    Queste parole fanno venire in mente quei due discepoli di Gesù che camminavano sulla via di Emmaus e, pur avendo accanto a loro il Cristo risorto, "non lo riconoscevano" (Lu 24.16). Si capisce allora l'esortazione della Sapienza: Riconoscilo in tutte le tue vie. Quando il credente cammina con gli occhi della fede impediti, gli sembra di essere solo e abbandonato da tutti. Ma non è così, perché "Il SIGNORE è vicino a tutti quelli che lo invocano" (Sl 145.18). Ma bisogna tenere gli occhi della fede ben aperti per accorgersi della vicinanza del Signore. Quando questo accade, anche se i sentieri che si stanno percorrendo si presentano pieni di sconnessioni e asperità, la promessa di Dio è in grado di dare piena consolazione: Egli appianerà i tuoi sentieri.

  7. Non ti stimare saggio da te stesso;
    temi il SIGNORE e allontanati dal male,

    Temere il Signore e fuggire il male sono espressioni che compaiono spesso insieme nella Scrittura (Gb 1.1, 28.28; Pr 8.13, 16.6). L'uomo naturale non sa riconoscere il male in tutte le sue espressioni, perché egli stesso ha una mente contaminata dal male. Se pensa di essere saggio in sé stesso, di non avere bisogno di istruzioni che gli giungano dall'esterno, inevitabilmente finisce per cadere nel male che la sua mente corrotta non gli permette di riconoscere. Chi invece teme il Signore, sa che soltanto la Sua parola può renderlo capace di fare le dovute distinzioni tra bene e male, perché "Il timore del SIGNORE è scuola di saggezza" (15.33). E la divina saggezza, dopo aver illuminato il male per quello che realmente è, rivolge all'uomo un invito pieno di autorevole grazia: Allontanati dal male.

  8. questo sarà la salute del tuo corpo
    e un refrigerio alle tue ossa.

    Il termine tradotto con "corpo" nell'originale significa "ombelico". Non è facile capire in quale senso viene usato questo vocabolo, anche perché compare soltanto qui e in Ez. 16.4. Forse può indicare la parte molle del corpo umano, in contrapposizione alle ossa, che ne rappresentano la parte dura. Ombelico e ossa designerebbero dunque l'intera personalità dell'uomo, nella sua dimensione fisica e psicologica. La promessa contenuta in questo versetto significherebbe allora che chi teme il Signore ed evita il male spirituale del peccato, ne evita anche certe conseguenze dolorose che si presentano in forma di malattie del corpo e disturbi dell'anima.

  9. Onora il SIGNORE con i tuoi beni
    e con le primizie di ogni tua rendita;

    Non si tratta di un generico invito alla generosità, ma di un'esortazione a onorare il Signore con i propri beni. Nell'antichità era convinzione comune che l'offrire doni a qualcuno fosse un modo per rendergli onore (1Re 10.10ss, Da 11.38). Anche Gesù chiedeva ai suoi uditori di onorare i genitori provvedendo materialmente alle loro necessità (Mt 15.3 ss). E l'apostolo Paolo invitava Timoteo ad onorare le vedove che sono veramente tali includendole nel catalogo delle persone che dovevano essere assistite (1 Ti 5.3). Melchisedec, re di Salem, benedisse Abramo e gli diede pane e vino; Abramo rispose e onorò Melchisedec donandogli la decima di ogni bene che aveva (Ge 14.17 ss). Dio ha amato gli uomini per primo (1 Gv 4.19) dando loro il Suo Figlio unigenito. L'onore che adesso gli uomini rendono a Dio mediante l'offerta di una parte dei beni ricevuti è dunque soltanto un'azione di risposta, che proprio per questo non può che essere accompagnata dalla gratitudine.

  10. i tuoi granai saranno ricolmi d'abbondanza
    e i tuoi tini traboccheranno di mosto.

    Dio non resta mai in debito con nessuno. Quando chiede, è sempre perché ha già dato. E quello che riceve lo deposita sul conto della Sua infinita grazia per farlo fruttare e poterlo restituire moltiplicato a colui da cui lo ha ricevuto. Il Signore onora i Suoi fedeli servitori (Gv 12.23); e anche in questo caso l'onore si esprime attraverso doni concreti come i granai ricolmi e i tini traboccanti.

  11. Figlio mio, non disprezzare la correzione del SIGNORE,
    non ti ripugni la sua riprensione;

    L'uomo è portato ad apprezzare gli interventi di Dio nella sua vita quando esprimono approvazione e sono costituiti da beni materiali; ma se invece Dio interviene per manifestare la Sua disapprovazione con l'uso di forme di correzione e riprensione, allora l'uomo tende a disprezzare l'operato di Dio, avvertendolo come una fastidiosa ingerenza nelle sue faccende personali. Il discepolo viene allora invitato a non respingere ("non ti ripugni...") la riprensione del Signore, perché anche i Suoi rimproveri correttivi sono espressioni concrete d'amore, esattamente come i granai ricolmi e i tini traboccanti.

  12. perché il SIGNORE riprende colui che egli ama,
    come un padre il figlio che gradisce.

    Forse il miglior commento a questo versetto si trova in Eb 12.4-11. Quello che dà senso alla sofferenza prodotta dalla riprensione è l'amore. Dio non è soltanto un abile pedagogo, un professionista esperto nell'arte dell'educazione: Dio è un padre. E un padre ama suo figlio, e quindi lo corregge, anche con l'uso di mezzi che provocano sofferenza. Sta scritto infatti: "Chi risparmia la verga odia suo figlio, ma chi lo ama, lo corregge per tempo" (13.24).
    Raramente nell'Antico Testamento Dio viene presentato come un padre, e quasi sempre come figlio si intende il popolo d'Israele (Es 4.23; Ml 1.6). Soltanto il Signore Gesù concederà agli uomini l'immensa grazia di potersi rivolgere al Creatore dei cieli e della terra come a un padre personale (Mt 6.9 ss). Per l'opera dello Spirito Santo adesso è addirittura possibile invocarlo con l'affettuoso nome di "Abbà" (Ro 8.15-16), equivalente al nostro "papà". E in un amorevole e saggio papà, un figlio sottomesso sa riconoscere le espressioni d'amore anche quando assumono la forma di rimproveri e castighi.

    M.C.

 

Pattuglia israeliana colpita da esplosione al confine con il Libano

Pubblicato il 26 dicembre 2020 alle 13:29 in Israele e Libano

Una pattuglia delle Israeli Defence Forces (IDF) è stata colpita da un'esplosione nei pressi della frontiera con il Libano.
L'esplosione sarebbe avvenuta all'alba ma è ancora incerta la natura dell'incidente. Secondo quando riferito dal canale libanese Al-Mayadeen ci sarebbero diverse vittime fra i soldati israeliani.
L'esplosione è avvenuta nei pressi della città di Adaisse questo sabato all'alba di una lunga notte di fuoco sulla Striscia di Gaza. L'esercito israeliano non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali.
I media libanesi nel frattempo riferiscono che la natura e le cause dell'esplosione non sono state ancora determinate e che non è noto il numero delle vittime tra i militari israeliani.
L'intera regione è nuovamente attraversa da un'escalation. Questa notte le forze di difesa israeliane (IDF) hanno condotto tre attacchi missilistici diretti su obiettivi militari di Gaza, dopo aver intercettato alcuni razzi provenienti dall'enclave palestinese.
La notte di Natale, lo scudo missilistico israeliano Iron Dome ha fermato due razzi sparati dalla Striscia di Gaza verso la regione meridionale del Paese.
Le sirene dell'allarme anti-aereo hanno risuonato nella tarda serata di venerdì ad Ashkelon, nel sud del Paese, al confine con Gaza.
"Per quanto riguarda il resoconto sull'attivazione delle sirene dell'allarme anti-aereo ad Ashkelon e nelle aree attigue al confine con la striscia di Gaza, due razzi sono stati lanciati dalla striscia verso il territorio israeliano. Essi sono stati intercettati dai sistemi di difesa anti-aerea Iron Dome", si legge nel comunicato diffuso dall'esercito di Tel Aviv.
Sui social network sono stati condivisi diversi video che mostrano il momento in cui i due vettori vengono abbattuti mentre si trovano a mezz'aria.
Il sistema Cupola di Ferro (Iron Dome in inglese) è un sistema d'arma mobile per la difesa antimissile sviluppato dalla RAFAEL, progettato per la difesa di punto e di piccole città, in grado di intercettare razzi a media velocità e proiettili di artiglieria con traiettoria balistica. Il sistema è dotato di un radar EL/M-2084 MMR della Elta e missili Tamir della RAFAEL. Pensato come contromisura difensiva per la minaccia dei razzi Grad e Katjuscia lanciati dalla Striscia di Gaza, dalla Siria, dal Libano o dalla penisola del Sinai contro le popolazioni di Israele vicine ai confini, è stato dichiarato operativo nel marzo 2011. Viene presentato come capace di intercettare minacce a corto raggio dai 3 ai 72 km in tutte le situazioni meteo.
In risposta all'attacco, l'IDF ha colpito alcuni obiettivi di Hamas, secondo quanto riferisce su Twitter, tra cui una postazione militare, una fabbrica di razzi e infrastrutture sotterranee. Secondo quanto riferisce Al-Mayadeen, il raid israeliano potrebbe aver colpito un ospedale pediatrico, il Dura Child Hospital.
Nei giorni scorsi, invece, si sono verificati alcuni raid in territorio siriano in cui sarebbero state coinvolte le forze israeliane. L'esercito arabo siriano ha attivato la contraerea per difendersi dall'attacco che ha colpito un centro di ricerca scientifica nella città di Masyaf, circa duecento chilometri a nord di Damasco, non lontano dalla frontiera con il Libano.

(Sicurezza Internazionale, 26 dicembre 2020)


Israele bombarda siti di Hamas dopo lancio di razzi da Gaza

Israele ha bombardato siti di Hamas nella Striscia di Gaza, dopo il lancio ieri da parte palestinese di due razzi sul territorio ebraico. Lo rende noto l'esercito israeliano. Israele specifica di aver colpito tre strutture di Hamas nella Striscia, tra cui un sito di produzione di missili, un'infrastruttura sotterranea e una postazione militare. Entrambi i razzi erano stati intercettati dal sistema antimissile iron dome. I razzi erano stati indirizzati verso Ashkelon e le zone israeliane attorno alla Striscia costringendo la popolazione a correre nei rifugi.
I media palestinesi hanno riferito che gli attacchi aerei hanno infranto le finestre a est di Gaza City, ma non ci sono segnalazioni di vittime. Nessun gruppo palestinese di Gaza ha rivendicato la responsabilità del lancio di razzi che ha rotto mesi di calma transfrontaliera.
Attacchi missilistici dalla Striscia e conseguente rappresaglie israeliane sono frequenti da anni, nel 2020 l'intensità si era molto ridotta a causa della pandemia da coronavirus, che ha colpito pesantemente sia Gaza che Israele.

(RaiNews, 26 dicembre 2020)


I ricercatori israeliani rivelano: questo è il modo in cui gli hacker avvelenano il DNA integrato

Grazie alle violazioni della sicurezza e alle violazioni normative, i ricercatori della Ben-Kurian University hanno dimostrato come gli hacker possono modificare i composti del DNA che agiscono a loro insaputa. Il capo del gruppo di ricerca spiega come difendersi e identificare vulnerabilità pericolose.
Come l'hacking degli agenti informatici, in tutto il mondo sembra che di recente non sia passato un solo giorno senza un attacco informatico significativo. FireE - o con lacune in Israele Scrivere, Habana Labs O Computer IAI. Ma con tutto il rispetto per la privacy o per i grandi danni economici, una vera preoccupazione è un attacco che mette in pericolo la salute delle vittime....

(PrettyGeneration, 26 dicembre 2020)


Terzo lockdown per Israele

A partire da domenica pomeriggio Israele entrerà in un terzo lockdown di due o tre settimane. Lo ha deciso il governo, mercoledì, per arginare la diffusione del coronavirus. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il vice primo ministro Benny Gantz hanno concordato, fra l'altro, che saranno chiuse le scuole ad eccezione dei primi 4 anni delle elementari e degli ultimi due delle superiori, mentre le classi intermedie studieranno a distanza. Agli israeliani sarà vietato allontanarsi da casa per più di un km e tutto il commercio sarà sospeso, anche se continueranno le consegne di cibo dai ristoranti. Il trasporto pubblico sarà ridotto. Gli assembramenti saranno limitati a non più di 20 persone all'aperto e 10 persone al chiuso.
   Nel frattempo, il direttore generale del Ministero della salute Chezy Levy ha detto che in cinque giorni sono stati vaccinati contro il coronavirus 180mila israeliani, di cui 40.000 giovedì e 65.000 mercoledì. "L'obiettivo è vaccinare almeno 4 milioni di persone entro il primo trimestre del 2021: abbiamo abbastanza vaccini per farlo" ha aggiunto Chezy Levy, citato da YnetNews. D'altro canto, Levy ha avvertito giovedì sera che i contagi in Israele potrebbero raggiungere i 9.000 al giorno prima della metà di gennaio, con anche 800 pazienti gravi, se non verranno attuate misure drastiche, per cui il lockdown potrebbe essere esteso finché i casi giornalieri non scenderanno sotto i mille.

(israele.net, 25 dicembre 2020)


Netanyahu: Molti altri Paesi arabi pronti a normalizzare i rapporti con Israele

Nei mesi scorsi Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco hanno avviato il processo di distensione e di riallacciamento dei rapporti con Tel Aviv.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivelato nel corso di un incontro con l'ambasciatore americano presso l'ONU Kelly Craft che nel prossimo futuro molti paesi potrebbero richiedere di ristabilire i legami diplomatici con Tel Aviv.
"Potete vederlo dai Paesi arabi: molti hanno già deciso di fare un passo avanti, altri lo faranno [...] penso che dovremmo continuare con questa politica e vedremo molti, ma molti Paesi, certamente di più di quanti la gente si aspetti", sono state le parole di Netanyahu.
In questo senso il primo ministro ha voluto esprimere a Craft il proprio ringraziamento nei confronti dell'amministrazione Trump per "aver difeso la verità e lo Stato di Israele" di fronte alla comunità internazionale.
In precedenza Ofir Akunis, un importante membro del partito di maggioranza relativa del Paese, il Likud, e ministro per la Cooperazione regionale di Israele aveva rivelato che ci sarebbero almeno due Paesi pronti a riallacciare i rapporti istituzionali con Tel Aviv, pur senza fare nomi specifici in questo senso.

 La normalizzazione dei rapporti con gli stati arabi
  Nel corso dell'anno appena passato sono stati ben quattro i Paesi arabo-musulmani che hanno deciso di normalizzare i propri rapporti diplomatici con Israele, decenni dopo che tale scelta era stata fatta da Egitto e Giordania.
In pochi mesi all'elenco dei Paesi in rapporti cordiali con Tel Aviv si sono aggiunti gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Sudan e infine il Marocco.
Per raggiungere tale risultato hanno avuto un ruolo di centrale importanza le concessioni fatte da Israele e dagli USA, ed in particolare sullo stop al piano di estensione dell'autorità statale israeliana sui territori della West Bank e la vendita di droni e F-35 accordata dal governo americano alle due monarchie del Golfo Persico.
Per quanto riguarda il Sudan, la normalizzazione non sarebbe stata possibile se Washington non avesse rimosso questo stato dalla lista dei Paesi che spalleggiano il territorio internazionale, mentre per il Marocco è stato determinante il riconoscimento da parte americana delle pretese di Casablanca sul Sahara Occidentale.

(Sputnik Italia, 25 dicembre 2020)


Droga sequestrata a Salerno era per finanziare Hezbollah

ROMA - L'ingente quantitativo di droga sequestrato lo scorso primo luglio in un porto del sud Italia sarebbe proveniente dalla Siria e usato per finanziare Hezbollah, l'organizzazione islamica libanese riconosciuta come terrorista da molti Paesi. Lo riferisce il « Jerusalem Post » riprendendo un reportage della britannica « Bbc ». La scorsa estate infatti 84 milioni di pasticche di Captagon, una metanfetamina, furono sequestrate dalla Guardia di Finanza nel porto di Salerno. Si trovavano in un cargo insieme a oltre due tonnellate di hashish. Il valore della droga, che è stata distrutta pochi giorni fa in Italia, superava il miliardo di euro. La merce, come hanno appurato i finanzieri, proveniva dalla Siria. Secondo l'inchiesta della Bbc, mentre all'inizio gli inquirenti avrebbero puntato il dito contro lo Stato islamico, al termine delle indagini si crede che la provenienza della droga sia legata al governo siriano di Bashar al Assad e i suoi alleati libanesi di Hezbollah. Già altre inchieste, infatti, secondo la televisione britannica, avrebbero mostrato che il traffico di questi stupefacenti rappresenta una delle maggiori fonti di introito per il gruppo libanese.

(MenaNews, 25 dicembre 2020)


Perché i mercati non temono le nuove elezioni in Israele

Gantz ha deluso le aspettative e parallelamente si è concentrato sugli attacchi a Netanyahu. Sa'ar prova a rilanciare, ma per affondare Bibi servirà ben altro.

di Francesco De Palo

 
Chi si sta coagulando nel "tutti contro Bibi" in occasione delle prossime urne israeliane? Cosa faranno gli ultraodossi orfani di Trump e chi spingerà dall'esterno la crociata di Gantz con un occhio al dossier energetico e agli accordi Abraham? I mercati intanto danno mostra di non temere le nuove urne.

 Knesset
  La Knesset è sciolta e come è noto gli israeliani torneranno al voto il 23 marzo dal momento che i tentativi di Gantz e Netanyahu di guadagnare tempo sono falliti, trasformando la loro coalizione nelle quarte urne in due anni. Un fatto senza precedenti. La mossa di Sa'ar inoltre punta a rafforzare il blocco anti-Netanyahu nel sistema politico israeliano, ma dovrà convincere gli elettori del Likud.
  Secondo un sondaggio dello scorso 15 dicembre, se le elezioni si fossero tenute quel giorno, il partito di Gantz avrebbe ottenuto solo 6 seggi su 120 alla Knesset. L'ex partner della coalizione di Gantz, Yesh Atid, secondo lo stesso sondaggio, 14 seggi. Significa che il celebrato nome nuovo della politica israeliana ha deluso le aspettative. Parallelamente si è concentrato sugli attacchi a Netanyahu.

 Qui Sa'ar
  Il Likud sembra stabile con circa 27 seggi, tallonato al secondo posto dal New Hope - Unity for Israel di Gideon Sa'ar che potrebbe incassarne 21. Sa'ar è un nuovo partito, che rappresenta la prima grande scissione dal Likud dai tempi di Sharon. Tra i due c'è stato un passato burrascoso, il che farebbe escludere una possibile cooperazione in chiave di governo, anche se sono minime le differenze ideologiche tra Netanyahu e Sa'ar accomunati anche dalla possibile presa sull'elettorato tradito da Gantz.
  Sa'ar ha pubblicamente accusato Netanyahu di aver creato una crisi politica per via del suo processo per corruzione, il tutto gravato dalla crisi economica dovuta al Covid. Ha sostenuto che il Likud si è trasformato in una nave vuota, che serve solo a garantire la sopravvivenza legale e politica di Netanyahu: "La festa si è trasformata in un culto per una persona. Netanyahu non può dare a Israele l'unità e la stabilità di cui ha bisogno. La cosa più importante in questo momento è sostituire Netanyahu", ha dichiarato.

 Qui Likud
  Il Likud ha accusato Sa'ar di essersene andato solo perché la sua popolarità sta calando nei sondaggi: "Sa'ar ha deciso di lasciare l'ala destra e unirsi alla sinistra. Come molti altri che se ne sono andati, anche lui sarà completamente schiacciato alle elezioni".
  Sono in tanti (forse troppi) a dare per vinto Benjamin Netanyahu: certo non può più contare sull'appoggio dell'alleato Trump, ma lo storico del paese rappresenta un elemento oggettivo nella sua sfera politica. E'stato sempre presente nelle turbolenze del paese, riuscendo a non far deperire il suo Likud nonostante tutte le crisi che ha attraversato. Inoltre il partito senza la sua leadership perderebbe lo zoccolo duro, non solo del suo elettorato ma anche del peso specifico in termini ideologici e programmatici.

 Scenari
  Sullo sfondo dei sommovimenti di carattere elettorale, non possono non giocare un ruolo significativo temi primari come l'Iran e il gas. Tel Aviv è preoccupata per le intenzioni di Joe Biden sull'Iran e sull'accordo nucleare del 2015, ma non ha ancora fatto passi ufficiali con l'amministrazione entrante per approfondire nel merito le questioni. Il gas è un dossier ormai avviato, costruito sul gasdotto Eastmed, ma con l'incognita rappresentata dalle policies di Erdogan e dalle reazioni dell'Ue.
  Inoltre i riverberi degli accordi Abraham dovrebbero procedere in una sorta di camera stagna, senza poter essere influenzati dall'instabilità politica. Infatti saranno i servizi finanziari a far crescere i legami economici tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti che, grazie all'accordo, aprono ad una nuova fase. Vale la pena di ricordare che negli stessi giorni dalla firma la banca israeliana Leumi ha concluso memorandum d'intesa (MoU) con First Abu Dhabi Bank (FAB) e Emirates NBD. Si preparano quindi una serie di investimenti congiunti nei mercati dei capitali di entrambi i paesi.
  Inoltre il continuo rafforzamento dello shekel, nonostante il caos politico, dimostra che i mercati non danno più alcun peso all'instabilità del sistema politico in Israele. Significa che i mercati in Israele non sono sensibili alle nuove elezioni. Almeno per ora.

(Formiche.net, 25 dicembre 2020)


È morto il violinista israeliano Ivry Gitlis

Virtuoso del violino, il musicista era considerato uno dei grandi della musica classica moderna. Aveva 98 anni

Ivry Gitlis
Il musicista israeliano Ivry Gitlis, virtuoso violinista di fama mondiale, figura carismatica con la passione per la sperimentazione, considerato uno dei grandi della musica classica moderna, è morto ieri, 24 dicembre a Parigi, all'età di 98 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla famiglia.
   Era nato il 25 agosto 1922 a Haifa, in Israele, e dagli anni '60 viveva nella capitale francese. Ha suonato con le più famose orchestre del mondo, tra cui la London Philharmonic Orchestra, la New York Philharmonic Orchestra, Berliner Philharmoniker, Wiener Philharmoniker, Philadelphia Orchestra e Israel Philharmonic Orchestra. Dopo gli studi musicali a Parigi iniziati all'età di 9 anni, Gitlis si perfezionò in violino con George Enescu, Jacques Thibaud e Carl Flesch, a soli 13 anni vinse il Premier Prix quale miglior studente del Conservatorio di Parigi. Rifugiatosi a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali naziste, dopo la seconda guerra mondiale ha fatto il suo debutto con la London Philharmonic Orchestra e nel 1950 si trasferì negli Stati Uniti. Nel 1963 è stato il primo violinista israeliano a suonare in Unione Sovietica.
   Nel 1968 partecipò allo spettacolo "Rock and Roll Circus" organizzato dai Dirty Mac, supergruppo musicale organizzato dai Rolling Stones e composto da John Lennon, Eric Clapton, Keith Richards e Mitch Mitchell. Molti compositori sono stati affascinati dal modo di suonare di Gitlis, tra i quali René Leibowitz che gli ha dedicato il Concerto per violino Op.50 (1958); Roman Haubenstock-Ramati con Sequenze per violino e orchestra (1958); Bruno Maderna scrivendo Pièce versare Ivry (1971), che Gitlis ha registrato dal vivo a Parigi il 25 maggio 1983. Nel 1975 recitò nel film di François Truffaut La storia di Adele H.. Nel 1990 è stato designato dall'Unesco ''Goodwill Ambassador per il "sostegno dell'istruzione e della cultura di pace e tolleranza". A Cremona nel 2017, all'età di 95 anni è stato insignito del Cremona Musica Awards 2017 per la categoria Performance. In quell'occasione ha suonato, col suo Stradivari del 1713 Sancy, Sicilienne in mi bemolle maggiore di Maria Theresia von Paradis.

(la Repubblica, 25 dicembre 2020)


Giuda e Giuseppe di fronte alla storia

di Scialom Bahbout - Parashà di Vaygàsh

I salmi consentono letture e interpretazioni diverse che sembrano contrastanti o addirittura prive di fondamento. L'idea di fondo è che, nonostante essa sia costituita da tanti libri, in un certo senso la Bibbia è un libro unico con un'ispirazione unitaria. Non è un caso che i salmi siano stati divisi in 5 libri ed ecco perché vengono spesso collegati a passi o episodi della Torà. Non ci deve meravigliare quindi la lettura che fanno i Maestri del Salmo 48, dedicato a Gerusalemme.

Salmo 48
  1. Canto, salmo dei figli di Qòrach
  2. L'Eterno è grande e molto celebrato nella città del nostro Dio, nel suo sacro monte
  3. Bella altura, gioia di tutta la terra è la montagna di Sion, all'estremo settentrione, città del grande Re.
  4. Dio nei suoi palazzi è noto quale fortezza
  5. Poiché ecco i re si sono radunati, sono passati ('averù) insieme,
  6. Hanno veduto e sono rimasti stupiti, si sono impressionati e sono fuggiti a precipizio.
  7. Là li ha colti lo spavento, la doglia come a una partoriente.
 Ma'asè avoth siman lebanim: primo round
  I Maestri (Bereshit Rabbà 93B) si chiedono cosa c'entrano i re in questo contesto? Prima il salmista dice che "si sono radunati" e poi aggiunge "sono passati assieme?" Applicando una delle 32 regole ermeneutiche di Rabbi Eli'ezer, figlio di Rabbi Yosè Hagalilì, il midrash risponde che l'incontro tra Giuda e Giuseppe può essere paragonato allo scontro tra due re: Giuda è il capo dei fratelli e Giuseppe è come un re per gli egiziani. Il midrash inoltre gioca anche sul significato della parola 'averù עברו  (sono passati) e la collega con la parola 'evrà עברה ira. In effetti, Yehudà e Yosef hanno un confronto piuttosto violento, come si può rilevare dal verbo Vajiggàsh che viene usato per gli scontri violenti. A questo punto i Maestri aggiungono che i fratelli (versi 6 e 7), vista la situazione, fuggono perché impressionati e spaventati e non partecipano allo scontro.
  Questa interpretazione, va inserita nell'idea generale che i racconti della Torà sono un'espressione dell'idea Ma'asè avoth siman lebanim (le azioni dei padri sono un simbolo per i figli) e legge questo racconto, oltre che riferentesi alla situazione del contesto, anche in una prospettiva più ampia: le tribù che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia ebraica successiva sono Giuseppe, (attraverso il figlio Efraim), e Giuda. Giuda costituirà il regno del Sud, con capitale Gerusalemme, ed Efraim creerà il Regno del Nord con capitale Samaria: i due regni saranno spesso in contrasto e in competizione tra loro. Il Regno del sud comprenderà anche la tribù di Beniamino e questo perché, proprio in questa parashà, Giuda unisce il suo destino a quello di Beniamino, dichiarando di essere pronto a divenire schiavo al posto del fratello: il Beth Ha-Mikdash sarà costruito proprio nella zona di confine tra le due tribù, segno della fratellanza dimostrata da Giuda nei confronti di Beniamino: il Santuario è il luogo in cui si manifesta l'unità e la fratellanza di Israel.

 Ma'asè avoth siman lebanim: tappe successive
  Secondo i Maestri Giuda e Giuseppe sono gli archetipi di due strade della redenzione del mondo oppure, con il linguaggio dei Maestri, due approcci diversi al Messianismo: "Messia figlio di Giuseppe" e "Messia figlio di Giuda". Giuseppe assume su se stesso il compito di far penetrare i valori ebraici nella civiltà egiziana e in tal modo di consacrarli: a tal fine fece tutto ciò che poteva fare per modificare la cultura di quel posto ed è quindi pronto ad arruolarsi al servizio dell'Egitto. Lui non nasconde la sua identità ebraica, il coppiere dice espressamente che c'era in carcere con lui un giovane ebreo, si vestirà poi da egiziano e si arruolerà al servizio della civiltà egiziana per innalzarla. L'intenzione di Giuseppe è di salvare il mondo, in accordo con la visione della redenzione ebraica, ma per mezzo dell'Egitto. Questa fase del Messianismo ebraico è chiamata "Messia figlio di Giuseppe".
  Giuda, al contrario, si rifiuta di comportarsi secondo le modalità di Giuseppe, dato che lui ne ha già sperimentato le conseguenze distruttive durante la permanenza della famiglia di Giacobbe presso Labano. Tutto ciò che era possibile fare per migliorare la cultura di Labano l'ha fatto per migliorare e modificare una situazione che ha costretto Giacobbe e la sua famiglia a fuggire per timore della vita: Giacobbe rivolge questa richiesta Lasciami andare via e io andrò al mio luogo e alla mia terra (30, 25). Giuseppe non era ancora nato quando erano accaduti tutti gli eventi accaduti presso Labano, ma Giuda e gli altri fratelli l'avevano sperimentato in pieno e per questo, ancora prima che le cose possano accadere, rifiutano la strada di Giuseppe. Alla fine dell'esperienza egiziana, svolta la sua missione, lo stesso Giuseppe chiede che le sue ossa siano riportate nella terra dei padri.

 Mito greco e midrash
  Un'interpretazione più ampia, sempre nella linea di Ma'asè avoth siman lebanim, propone Rav Leon Ashkenazi, soprannominato Manitou, in "Il mito greco e il midrash ebraico" (Midrash besod haafakhim, pag 156 e ) in cui delinea quale sia la concezione dei Maestri che caratterizza il pensiero ebraico rispetto a quella greco - ellenista.
  Tutte le "prove" che possono essere associate all'archetipo Giuseppe, quelle cioè in cui il popolo ebraico ha partecipato allo sviluppo della società in cui è vissuto, hanno spesso portato al tentativo di eliminare l'identità ebraica, anche con massacri e antisemitismo.
  Se analizziamo il processo con cui nasce il Cristianesimo vediamo che fin dall'inizio v'è un chiaro tentativo di sostituire Giuda con Giuseppe.
  La genealogia che appare su Matteo (I, 1- 16) segue quella biblica delle svolte che accadono ogni 14 generazioni: da Abramo a David, 14 generazioni; da David fino all'esilio Babilonese 14 generazioni; dall'esilio a Gesù 14 generazioni; le ultime parole della genealogia sono: Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, uomo di Miriam, dalla quale è nato Gesù, chiamato Mashiach.
  Armand Abecassis (Professore di filosofia e discepolo di Manitou) rileva l'acronimo seguente: Abramo a Davide, Davide a Gesù che è chiamato Mashiah…. A… D… M…. il sotto testo propone di vedere in Gesù il nuovo Adamo, quindi una nuova creazione dell'uomo che apre una nuova storia… . anche qui, viene evidenziato l'idea di qualcosa di nuovo ( una nuova relazione della rivelazione nel mondo) che "irrompe" nella storia e cancella la vecchia narrazione, cioè quella ebraica ….L'autore (gli autori) dei vangeli, riprendono le categorie del pensiero ebraico e ne fanno qualcosa altro… di diverso che sarà il cristianesimo. Il tutto e di capire bene e non confondere le categorie di ognuno.

 La storia d'Israele: fedeltà alla figura di Giuda
  Gesù "figlio di Giuseppe", nome del padre terrestre, ma anche figlio di David: c'è qui la volontà di riunire in una solo figura Giuseppe e Giuda? Le cose non stanno così: oltre a questo "dettaglio", non deve sfuggire che il nemico di Gesù è una persona chiamata Giuda (iscariota)… Lo scopo del narratore è quello di mettere in contrapposizione la strada di Giuseppe con quella di Giuda per delegittimare la via di Giuda .
  Questa contrapposizione attraversa tutta la storia di Israele: per gli ebrei questo è un racconto storico e l'identità ebraica è composta sia da Giuseppe che da Giuda, ma non è questa la posizione cristiana.
  Il mito cristiano - intendiamo la parola mito come la possibilità del pensiero ellenistico-cristiano di divinizzare una persona dopo la sua morte come facevano alla stessa epoca i Romani con l'apoteosi di certi personaggi come Giulio-Cesare, Ottaviano Augusto - ha generato un'altra fede, che nella Torà è rappresentata da Giuseppe e l'ha trasformato in un idolo.

 La fedeltà a Giuda è rappresentata dalla storia degli Ebrei,
  I giudei del tempo sanno bene come interpretare la genealogia di Matteo e questa potrebbe essere ancora legittima se il cristianesimo non fosse poi approdato all'idea - certamente lontana dalla tradizione ebraica - di Gesù figlio di Dio, quindi con attributi divini. Ogni uomo è figlio di Dio e non ci sono esseri privilegiati. Qui l'influenza del pensiero greco è fondamentale e qui troviamo lo spartiacque tra l'Ebraismo e la religione cristiana.
  Il dialogo con la Chiesa potrà veramente esserci se si è pronti a confrontarsi con coraggio con tutte le conseguenze che possono scaturire da un dialogo vero dopo circa duemila anni di non dialogo (questo non-dialogo è consistito nel tentare di ridurre l'identità ebraica a quella cristiana).
  Gli ebrei e l'ebraismo non appartengono alla storia delle religioni, ma alla storia dell'umanità.
  L'identità ebraica è innanzi tutto una identità storica, ma non religiosa di fede.
  Gli ebrei sono un popolo e una società con la loro storia.
  Un dialogo tra ebrei e cristiani potrebbe avvenire solo nel caso in cui cristiani siano in grado di rinunciare al mito del Dio fatto uomo e di dare ai testi un'interpretazione ancora più ampia, sempre nella linea di Ma'asè avoth siman lebanim, proponeva Leon Ashkenazi, soprannominato Manitou in "Il mito greco e il midrash ebraico" (Midrash besod haafakhim, pag 156 e ) in cui delinea quale sia l'idea dei Maestri che caratterizza il pensiero ebraico rispetto a quello greco - ellenista. Per essere più chiaro Leon Ashkenazi sostiene che un dialogo giudeo-cristiano potrebbe esistere - cosa difficile ma non impossibile - ma i cristiani per capire gli ebrei dovrebbero in effetti rinunciare all'idea del mito per avvicinarsi alla metodologia del midrash cioè alle categorie del pensiero ebraico…
  Nell'establishment cristiano potrebbe sorgere allora una teologia positiva verso gli ebrei non come concessione negativa: il cristianesimo crede che la dimensione Giuseppe comporti anche l'eliminazione della dimensione Giuda, l'Israele storico. Giuda rifiuta di suicidarsi, dato che sa che il percorso di Giuseppe è temporaneo, così come già aveva previsto Giuseppe stesso nel racconto della Genesi 50,25: "Dio vi ricorderà e farete salire le mie ossa da qui" e lo Zohar precisa "affinché lui non venisse trasformato in un Divinità per gli idolatri" (Beshallach 46, A).
  In sintesi: Il Messia figlio di Giuseppe è solo un'esperienza temporanea, di passaggio. Giuseppe in fondo è stato salvato proprio da Giuda, al contrario di quanto viene raccontato nei Vangeli per cui Giuda tradisce Gesù. L'aver trasformato la storia del figlio di Giuseppe in un mito è ciò che pone agli antipodi la storia ebraica con quella del cristianesimo. Ebrei e cristiani possono essere amici, ma questa condivisione non è possibile tra Cristianesimo ed Ebraismo.
  I Maestri avrebbero avuto più di un'occasione per trasformare la storia di un personaggio (Isacco, Giuseppe, Mosè) come divinità, ma si sono ben guardati dal farlo. Israele ha la consapevolezza di essere "figlio di Dio" che ha lottato con Dio. E combatterà affinché questa consapevolezza sia dell'umanità intera, senza fare alcuna violenza sia fisica che morale.

(Kolòt, 25 dicembre 2020)


L’articolo è interessante perché fa riferimento al testo biblico, oltre che naturalmente alla tradizione orale ebraica considerata quanto meno alla pari se non superiore al testo scritto. In più si fa intervenire l’argomento Messia, che indubbiamente è un tema fondamentale e problematico non solo nei rapporti tra ebrei e cristiani, ma anche per gli ebrei fra di loro. La figura del Messia è un concetto teologico, mentre tali non sono i concetti di Cristianesimo ed Ebraismo, che hanno soltanto valore sociologico-descrittivo. Interessante è il riferimento ebraicamente tradizionale, ma popolarmente abbastanza sconosciuto, dei due Messia, quello figlio di Giuda e quello figlio di Giuseppe. L’adozione dei due Messia, Bar Yoseph e Bar Yehuda, è il modo tradizionale con cui nella teologia ebraica si vuole spiegare l'apparente contraddizione della presenza nelle Scritture di un Messia sofferente e un Messia trionfante. Il cristianesimo spiega il contrasto in modo diverso: sostiene che non ci sono due Messia diversi, ma un solo Messia che si presenta in tempi diversi. L’articolo di Scialom Bahbout presenta la prima opzione, ed è interessante venirne a conoscere alcuni argomenti a supporto, ma ci sono testi autorevoli che presentano biblicamente anche la seconda opzione, e sarebbe augurabile che fossero un po’ più conosciuti, non solo dagli ebrei, ma anche dai cristiani. E’ vero che i cristiani spesso parlano a vanvera di quello che credono gli ebrei, ma si può dire che è vero anche il contrario. Magari anche per quel desiderio di avere scambi sociologicamente positivi tra “cristianesimo” ed “ebraismo”, sarebbe augurabile che anche gli ebrei, quando parlano di “cristianesimo” in termini teologici, fossero un po’ meno sbrigativi. M.C. - «Da Yosef a Giuseppe»


L'eredità ebraica che unisce le due Gorizie

Nel 2025 capitali insieme della cultura europea

di Adam Smulevich

 
Piazza della Transalpina
 
La recente ricognizione al cimitero di Valdirose
 
La lettera inviata dal rabbino torinese Dario Disegni al governo jugoslavo
In piazza della Transalpina, dove un tempo un muro divideva due mondi, la notizia è stata accolta con un boato. C'è infatti un risvolto non solo concreto ma anche simbolico nella vittoria della candidatura congiunta dell'italiana Gorizia e della slovena Nova Gorica, le due Gorizie sul cui confine si trovava la Cortina di Ferro, che insieme saranno Capitale europea nel 2025.
   Una splendida notizia per chi ha a cuore l'Europa unita, i suoi valori, le sue conquiste di pluralismo e democrazia. A ricordarlo anche i due capi di Stato Sergio Mattarella e Borut Pahor, in una dichiarazione diffusa dopo la proclamazione in cui si spiega come l'identità europea nasca e si rafforzi "valorizzando la cooperazione e l'armonia delle diverse lingue e culture che la arricchiscono". Il riconoscimento di un valore aggiunto che ha fatto esclamare al sindaco del capoluogo isontino, Rodolfo Ziberna, che a vincere, mai come in questo caso, non sono state solo due città ma l'Europa tutta.
   Tra i punti di forza del dossier un progetto di valorizzazione dell'identità ebraico-goriziana predisposto dalla Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia su un'idea della redazione di Pagine Ebraiche. Perno dell'operazione la riqualificazione del cimitero di Valdirose, oggi in territorio sloveno, dove riposano alcuni grandi della Gorizia ebraica. Illustri Maestri come rav Isacco Samuele Reggio, che agì nella prima parte dell'Ottocento. Ma anche protagonisti della scena culturale di anni successivi come il filosofo Carlo Michelstaedter, il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, la giornalista Carolina Luzzatto Coen. Un apporto di pregevole qualità ricordato oggi anche in una mostra permanente allestita all'interno della settecentesca sinagoga, questa situata invece in territorio italiano.
   "L'entusiasmo è davvero tanto. Si tratta di un'operazione densa di significato, in cui si vede tutto il senso dell'Europa unita", commenta al riguardo il presidente della Fondazione Dario Disegni. "Il nostro è senz'altro tra i progetti qualificanti. C'è quindi anche un pizzico d'orgoglio nell'aver dato un contributo a questo storico risultato".
   A lungo trascurato, il cimitero dovrà diventare uno snodo fondamentale per il turismo di matrice culturale. Questo è l'obiettivo della Fondazione, che in settembre ha svolto una ricognizione (assieme al presidente Disegni erano presenti il suo vice Renzo Funaro e il project manager Andrea Morpurgo) incontrando prima il rettore dell'Università di Udine Roberto Pinton, con cui è stata da poco firmata una convenzione relativa allo sviluppo del progetto, e il sindaco di Nova Gorica Klemen Miklavic, con cui sono stati discussi i dettagli di carattere operativo.
   "I progetti per la Capitale della Cultura cambiano spesso la vita delle città. Un vero e proprio motore di rigenerazione urbana. Ne sono stato testimone, nel 2019, a Matera. Da realtà semisconosciuta a polo d'attrazione internazionale: la percezione di Matera nel mondo è radicalmente cambiata. Un grande salto di qualità. Anche le due Gorizie - prosegue Disegni - potranno senz'altro beneficiare di questo appuntamento".
   Un impegno che a livello personale si incontra anche con la vicenda del nonno, il grande rabbino torinese Dario Disegni, che già nell'immediato dopoguerra si spese per salvare il sito da abbandono e oblio. Lo testimoniano alcune carte recentemente riscoperte, dove ad emergere è l'attivismo dello stesso rav Disegni e di un altro indimenticabile leader dell'ebraismo italiano quale fu Raffaele Cantoni.
   "Contiamo di partire al più presto. Già tra gennaio e febbraio, con i primi permessi", spiega l'architetto Morpurgo. L'inizio di un percorso che durerà vari anni e che avrà come obiettivo quello di consegnare alle due amministrazioni un cimitero pienamente restaurato (in un censimento del 1876 risultavano già 692 lapidi, la più antica delle quali risalente al Trecento). "Ci sarà molto da lavorare. I danni alle lapidi sono infatti ingenti, causati soprattutto dall'incuria e agenti atmosferici. Andrà anche recuperata la vecchia cappella per i riti funebri, che potrebbe diventare un luogo informativo permanente. Sul progetto - prosegue Morpurgo - ma anche sulla storia degli ebrei goriziani".
   Ad aprire i lavori sarà un'azione di monitoraggio, preludio all'operatività sulle singole lapidi. Si partirà poi con il restauro vero e proprio. Dal Liechtenstein è arrivato l'importante sostegno di una fondazione. Altre risorse dovrebbero arrivare come conseguenza della recente assegnazione. "C'è un grande interesse e fermento. Il progetto - sottolinea Morpurgo - ha d'altronde una sua evidente unicità: l'unico altro esempio di mia conoscenza in cui il patrimonio architettonico di una comunità ebraica è stato diviso tra due Paesi dopo la seconda guerra mondiale è quello di Francoforte sull'Oder. Il sito in cui si trovava la sinagoga, che fu data alle fiamme dai nazisti nel '38, è in Germania, mentre il cimitero, raso al suolo nel 1970, si trova sul versante polacco del fiume Oder, nella città di Slubice".
   Commenta Guido Vitale, il direttore della redazione giornalistica UCEI: "C'è grande, immensa soddisfazione. Le due Gorizie insieme anche nel segno della storia, della cultura e dei valori ebraici. Un progetto straordinario, necessario e destinato a durare nel tempo. Siamo onorati di aver gettato il primo sasso".

(moked, 25 dicembre 2020)


"Pace fra i vicini": un brano riavvicina (almeno in musica) Israele con Yemen e Tunisia

di Roberto Zadik

Questo 2020 ormai giunto alla fine è stato un anno decisamente particolare per Israele che lentamente sta normalizzando i rapporti diplomatici con i Paesi arabi dopo anni di tensioni e incomunicabilità. Anche se mancano all'appello lo Yemen e la Tunisia. A questo proposito secondo il Times of Israel sarà la musica a "riavvicinare" specialmente la Tunisia con Israele anche se solo per pochi minuti, giusto il tempo di una canzone. Il brano si chiama Pace fra i vicini e verrà interpretato dal duetto fra Ziv Yehezkel cantante israeliano di origini irachene esponente del fortunato genere musicale israeliano "Mizrahi" (Orientale) attualmente di grande successo nello Stato ebraico e la popstar tunisina Noomane Chaari.
  Elemento centrale della canzone è che i due artisti cantano entrambi in arabo con sottotitoli in ebraico e in inglese. Interessante la sottolineatura del sito che ha evidenziato che il brano è stato scritto da un autore che avrebbe scelto l'anonimato per proteggere sé stesso ed i due cantanti da possibili conseguenze. Esibendosi assieme nel video e attraverso il testo del brano i due artisti oltrepassano le reciproche differenze invitando gli ascoltatori all'abbattimento dell'odio e dei pregiudizi.
  Fra le frasi più toccanti "nella mia fede c'è posto per tutte le religioni costruendo ponti uno per l'altro". Un brano intenso e un video originale in cui non si parla esplicitamente né di Israele né della Tunisia anche se vengono mostrate alcune immagini dei due Paesi. Idea fondamentale del progetto è l'amicizia fra fedi e culture diverse in nome della tolleranza e del rispetto reciproco.
  Con questi intenti la popstar tunisina Chaari ha evidenziato in un'intervista rilasciata nei giorni scorsi a un notiziario israeliano di "non aver problemi con i miei fratelli ebrei e cristiani perché la nostra finalità è di avvicinare le religioni fra loro tralasciando le identità nazionali". Si tratta di un progetto importante organizzato dal Consiglio Arabo per l'Integrazione Regionale con sede a New York che si definisce "una iniziativa che promuove una cooperazione fra popoli senza confini".
  Malgrado gli entusiasmi la pace fra Israele e la Tunisia sembra però ancora lontana. Il Primo Ministro tunisino Hishem Mechichi ha specificato che il Paese non ha nessuna idea di riconoscere Israele e che l'idea di instaurare relazioni diplomatiche fra i due Stati al momento "non è in agenda".
  In tema di dichiarazioni polemiche il Times of Israel ha ricordato l'intervento del presidente tunisino Kais Saied. L'anno scorso, poco prima della normalizzazione dei rapporti con Israele di quattro Paesi arabi fra cui il vicino Marocco aveva etichettato queste intese come dei "tradimenti". Diversamente invece la pensa il cantante tunisino Chaari che ha ribadito "nell'arte non esiste la normalizzazione perché essa accetta tutti indipendentemente dalla loro religione".
  Il sito Marianne.net ha messo in luce il coraggio di questo cantante nato a Sfax e attivo da diversi anni che lo scorso 17 dicembre è stato oggetto di minacce di morte e attacchi decisamente pesanti dopo la distribuzione sul web del suo video con l'israeliano Yehezkel. Sul Times of Israel alludendo a queste offese egli ha detto "Sinceramente ho un po' di paura ma spero che tutto questo passi".

(Bet Magazine Mosaico, 25 dicembre 2020)


Un sistema di sicurezza collettivo

di Valentino Baldacci

Il numero e le caratteristiche dei Paesi che nel giro di breve tempo hanno deciso di stabilire rapporti diplomatici con Israele, superando la precedente situazione di ostilità se non addirittura di stato di guerra, spinge verso un quadro che non sia caratterizzato soltanto da rapporti bilaterali, ma permetta di stabilire un vero e proprio sistema di sicurezza collettivo.
   In questo momento sono infatti sei i Paesi arabi che hanno rapporti diplomatici ed economici con Israele (Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco) coprendo un'area che va dall'Atlantico all'Oceano Indiano passando per il Mediterraneo. Altri Paesi hanno di fatto già stabilito questi rapporti, come l'Oman, mentre il cambiamento di clima tra il Qatar e gli altri Stati del Golfo può preludere a cambiamenti di campo clamorosi. Anche lasciando da parte le voci su ulteriori accordi diplomatici ed economici con Paesi a maggioranza islamica di rilevante importanza come il Pakistan e l'Indonesia, che comunque sono esterni all'area di cui stiamo parlando, è evidente che la chiave di volta che permetterebbe di passare da una serie pur significativa di rapporti bilaterali a un vero e proprio sistema di sicurezza collettivo è costituita dall'atteggiamento dell'Arabia Saudita.
   Il problema dell'Arabia Saudita non può essere affrontato con lo spirito di chi crede che si stia parlando di una sorta di collana alla quale aggiungere uno dopo l'altro una serie di anelli che inevitabilmente, prima o poi, sono destinati a inserirvisi. Il problema dell'Arabia Saudita va affrontato tenendo conto non solo che, come Paese custode dei luoghi santi dell'Islam, è investito di una particolare responsabilità, ma anche avendo presente che esso è il Paese capofila nell'affrontare le pretese egemoniche dell'Iran. L'adesione dell'Arabia Saudita allo stabilimento di rapporti diplomatici con Israele e conseguentemente alla costruzione di un sistema di sicurezza collettivo, passa attraverso la soluzione di una serie di problemi che rappresentano il terreno di scontro tra i due campi sunnita e sciita.
   Primo fra tutti la soluzione del problema palestinese. Israele non farebbe errore più grande pensando che il problema palestinese stia di fatto scomparendo sulla scia dei successi diplomatici dello Stato ebraico. Il problema palestinese esiste ed è costituito in ogni caso dai milioni di persone che vivono tra Cisgiordania e Gaza e ai quali deve essere data una rappresentanza politica. Che finora la dirigenza palestinese - sia quella dell'OLP che quella di Hamas - abbiano dimostrato una totale incapacità ad affrontare il problema in termini realistici non toglie che esso continui ad esistere e debba essere risolto in termini che non mettano a rischio la sicurezza d'Israele. Il ruolo dell'Arabia Saudita nella costruzione di uno Stato palestinese smilitarizzato e di fatto sotto il controllo israeliano, sulla base di una cooperazione economica e scientifica, può essere decisivo.
   Nello stesso modo il ruolo dell'Arabia Saudita è decisivo nella risoluzione di altri problemi che caratterizzano l'area: primo tra tutti il conflitto interno allo Yemen; poi il Libano, dove va risolto il problema della presenza di Hezbollah; la Siria, che potrebbe trovare una via d'uscita dalla situazione di frammentazione e di dipendenza da Paesi stranieri dove l'ha condotta la dittatura di Assad; la Libia, dove probabilmente dovrà essere abbandonato il mito di un'unità nazionale costruita dal colonialismo italiano per tornare alla situazione vigente sotto il dominio ottomano che vedeva autonome Tripolitania e Cirenaica; infine lo stesso Iraq dove il quadro politico continua a essere precario.
   Un forte sistema di sicurezza collettivo potrebbe affrontare nel tempo tutti questi problemi in condizioni di forza di fronte alle due potenze destabilizzanti dell'area: l'Iran e la Turchia. Perché questo possa avvenire occorrerà però che il futuro sistema di sicurezza collettivo a partecipazione saudita non si ponga obiettivi di natura ideologica, dello stesso tipo di quelli che caratterizzano l'Unione Europea. Dovrà trattarsi di un sistema basato soprattutto sulla collaborazione diplomatica, militare ed economica, nella consapevolezza che si tratta di Paesi con caratteristiche politiche, sociali e culturali assai diverse. In fondo è stato così anche per il Patto Atlantico. Il tema dei diritti umani dovrà essere progressivamente introdotto nella misura in cui il sistema di sicurezza si sarà consolidato ma senza dimenticare che si tratta di Paesi che hanno sistemi politici profondamente diversi.
   In conclusione, se questo sistema di sicurezza collettivo vedrà la luce - e non si tratta davvero di un'utopia - esso dovrà fare i conti, in senso positivo, con il ruolo degli Stati Uniti e dell'Unione Europea e, in un senso decisamente diverso, con quello della Russia e della Cina. Ma potrà farlo da una posizione non subalterna agli interessi di tutti questi Paesi.

(moked, 24 dicembre 2020)


Per la quarta elezione in Israele si prepara l'esercito degli anti Bibi

L'ex politico del Likud, Gideon Sa'ar, è il nuovo rivale principale. la prossima offensiva a Netanyahu viene da destra. Lo sconfitto della dissoluzione della Knesset è Benny Gantz, il leader di Blu e bianco che perderà anche il ruolo di leader dell'opposizione.

di Micol Flammini

ROMA - Mentre la ventitreesima Knesset votava per il proprio dissolvimento, tutti erano impegnati a cercare il responsabile: chi, tra i due leader della coalizione, aveva deciso di portare Israele al voto per la quarta volta in due anni? Benjamin Netanyahu, premier e capo del Likud, accusava Benny Gantz, e Gantz, leader di Blu e bianco, accusava Netanyahu. Ufficialmente il governo è caduto perché non è riuscito ad approvare il bilancio entro la data prevista, ma negli ultimi giorni sembrava che i due leader avessero deciso di accordarsi, non tanto sul budget, quanto su una proroga. Non c'è stato molto da fare, i parlamentari hanno votato contro la proroga e si andrà a votare il 23 marzo del 2021.
  Questa elezione, però, presenta qualche elemento di novità. Durante le tre precedenti, il voto era stato un duello tra Netanyahu e Gantz, quest'ultimo si era presentato come l'alternativa più credibile al premier, era riuscito anche a strappargli qualche elettore del Likud più moderato. Dal nulla, questo ex capo di stato maggiore dell'esercito israeliano era diventato il principale rivale di Netanyahu, talmente importante che quando Donald Trump presentò il suo piano di pace per il medio oriente, chiamò anche lui a Washington, nonostante non fosse ancora nulla, se non il leader dell'opposizione. Sembrava essere la pedina più importante, l'ago della bilancia, sembrava che senza di lui, senza Gantz, nulla in Israele potesse muoversi. E infatti, nonostante le differenze e nonostante tutti e due avessero giurato che mai avrebbero formato un governo con l'altro, qualcosa si è mosso quando Gantz, l'oppositore, l'ex generale anti Bibi, decise per il bene del paese di cambiare idea, creando uno scossone dentro all'ala più a sinistra del partito. Tutta quella forza però l'ha perduta in fretta, nel governo a rotazione ha accettato che fosse Netanyahu a fare il premier per primo e lui, ministro della Difesa e vice premier, si è messo a guardarlo mentre parlava di annessione; faceva i discorsi alla nazione durante la pandemia; concludeva accordi di pace con i rivali storici nel medio oriente senza dirgli nulla e senza informarlo dei suoi incontri riservati con il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman e si faceva vaccinare il diretta contro il coronavirus. Qualcuno sostiene che Gantz abbia sofferto per le accuse di chi gli diceva di essersi "sporcato" formando il governo con Netanyahu e che da quel momento abbia cercato di farsi vedere integerrimo e pronto a far cadere il governo. Qualcuno al contrario sostiene che quel Gantz forte e rigoroso che duellava con il premier era una montatura, che è sempre stato troppo debole in politica e si è lasciato incantare dalle promesse di Bibi per brama di potere: era ormai chiaro che Netanyahu non gli avrebbe concesso la premiership che gli spettava a rotazione.
  Gantz è il grande sconfitto di questa nuova caduta e il suo ruolo nella prossima campagna elettorale non sarà neppure quello di leader dell'opposizione. E' uscito dimezzato, ristretto da questo governo e secondo i sondaggi dai 33 seggi conquistati a marzo dello scorso anno scenderebbe a sei, appena sopra la soglia di sbarramento. Ma anche Bibi esce da questo governo con qualche problema in più, perché a sfidarlo non troverà più Gantz e la sinistra, troverà un suo ex alleato ed ex ministro del suo partito: Gideon Sa'ar.
  Sa'ar era un esponente dell'ala più radicale del Likud e dopo aver tentato di sfidare Netanyahu alle primarie - un grande azzardo perché ormai il destino del Likud appartiene al premier e viceversa - ha deciso di uscirne e creare un partito tutto suo. Nuova speranza è stato fondato l'8 dicembre scorso, quando già il governo scricchiolava e Sa'ar aveva intuito che la quarta elezione si stava avvicinando. Rispetto a Gantz, l'ex ministro del Likud ha la possibilità non soltanto di rubare i voti più radicali del Likud, già ci sono state delle fuoriuscite, ma anche la forza di riunire attorno a sé altri partiti di destra. Se si votasse adesso, il partito di Netanyahu, secondo i sondaggi di Channel 12, avrebbe 28 seggi, rimarrebbe il primo partito, ma subito dopo verrebbe Nuova speranza con 20 seggi. Le ultime elezioni sono sembrate più un referendum su Netanyahu che un voto per il futuro governo del paese. La campagna elettorale contro Gantz era però anche incentrata sulle differenza tra i due partiti, basti pensare all'annessione della Cisgiordania: Bibi era a favore, Benny no. Oppure la legge sull'uguaglianza, che definiva il carattere ebraico dello stato, Bibi era a favore e Benny no. La campagna di Sa'ar probabilmente sarà invece tutta spostata sui temi più cari alla destra e si concentrerà sulle promesse che Bibi non ha mantenuto, come l'annessione della Cisgiordania.
  Il leader di Nuova speranza, avvocato di 53 anni, potrebbe diventare il leader di una grandissima coalizione anti Bibi e raccogliere quindi attorno a sé partiti molto diversi tra di loro ma accomunati dall'obiettivo di allontanare Netanyahu dal governo e fargli affrontare il processo per corruzione e abuso d'ufficio. Di questa coalizione, che avrebbe pochissima speranza di andare d'accordo, potrebbero far parte: Yair Lapid con Yesh Atid, Naftali Bennett con Yamina, Avigdor Lieberman con Yisrael Beytenu e anche Gantz. Tutti questi partiti non riuscirebbero ad avere la maggioranza, a meno che non chiedessero anche il supporto esterno della Lista comune dei partiti arabi. Tutti troppo stretti dentro a un contenitore piccolo che ha come unica prospettiva non tanto quella di governare, quanto quella di cacciare Netanyahu. Sa'ar dovrebbe diventare il capo di una schiera di uomini che hanno avuto il sogno di sfidare e battere il premier. Sa'ar ha ancora tempo per farsi conoscere, per organizzare una campagna elettorale convincente e per attirare la fiducia degli altri partiti politici. Sarà difficile invece per Netanyahu fare in modo che qualcun altro, dentro alla Knesset, si fidi di lui. Dopo aver dimostrato che anche in un governo di unità nazionale, come era quello formato con Gantz, non sarebbe disposto a lasciare il posto del primo ministro una volta esaurito il suo turno, chi altri si lascerebbe coinvolgere? Forse, suggerisce qualche analista sui media israeliani, proprio Sa'ar, ma dovrebbe pretendere di assumere lui per primo il ruolo del premier. Oppure, Netanyahu dovrebbe convincere Bennet e Yamina e i suoi alleati haredi, ma insieme, se i risultati fossero i numeri che diffondono oggi i sondaggi, arriverebbero a 58 seggi. Non abbastanza e anche in questo caso potrebbe servire rivolgersi a Sa'ar.
  Se l'offensiva al premier nelle ultime elezioni veniva dalle sinistra, ora viene dalla parte opposta. Sono cresciuti i partiti più radicali, quelli identitari, quelli che considerano Netanyahu troppo moderato. Mentre i moderati, che speravano in Gantz, adesso si trovano senza qualcuno che li rappresenti. Le elezioni in Israele sembrano una sfilata di nuovi possibili rivali del premier, uno dietro l'altro, da Lieberman a Lapid, da Bennet a Gantz, fino a Sa'ar, si sono alternati nel tentativo di impersonare il ruolo dello sfidante di Natanyahu. Un anti Bibi dietro l'altro sono usciti di scena, si sono fatti più piccoli. Forse sarà questo probabile esercito di figuranti anti Bibi a dare a Sa'ar qualche speranza di provare a formare un governo senza Netanyahu ma senza obiettivi comuni, o forse, come suggerisce Haviv Rettig Gur del Times of Israel, dopo una quarta elezione ce ne sarà probabilmente una quinta.
  I partiti politici hanno già iniziato ad assumere per la campagna elettorale, il Comitato elettorale aveva pubblicato annunci di lavoro per il personale dei seggi già una settimana prima che la Knesset si sciogliesse. Suggerisce Gur che, con questi sondaggi, potrebbe essere saggio per tutti gli interessati non licenziarsi troppo rapidamente dopo il 23 marzo. "Probabilmente ne avremo ancora bisogno per una quinta elezione improvvisa ad agosto".

(Il Foglio, 24 dicembre 2020)


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Bibi disinnesca Gantz ma i suoi nemici hanno una "Nuova Speranza"

Gideon Sa'ar: "Stiamo intraprendendo un percorso di unità: lo Stato Ebraico ne ha davvero bisogno». Il premier Netanyahu teme la "sua" destra, l'ex delfino Sa'ar raccoglie consensi col nuovo partito.

di Fabio Scuto

Il mancato accordo sul Bilancio ha chiuso in Israele la stagione del governo dei due nemici. Il patto contro-natura fra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz è finito nel peggiore dei modi, con una parte dei parlamentari di Likud e Kahol Iavan (Blu e bianco) che si è rifiutata di piegarsi alla disciplina di partito e ha fatto mancare i voti necessari alla fiducia. Tutti a casa e si torna a votare, per la quarta volta in due anni, il prossimo 23 marzo. Per la prima volta nella storia israeliana, le elezioni saranno una battaglia combattuta in modo schiacciante nell'ala destra dello spettro politico. Il partito laburista, che ha guidato l'Israele moderno per i suoi primi tre decenni, quasi certamente scomparirà dalla mappa politica; il suo ultimo leader Amir Peretz si è dimesso ieri. Anche l'alleanza Kahol Lavan, alla quale Benny Gantz ha attirato centinaia di migliaia di elettori di centro-sinistra promettendo ripetutamente che non avrebbe unito le force con Netanyahu accusato di corruzione, svanirà o quasi. Il generale che ha mancato alla sua parola è, politicamente parlando, un morto che cammina. La Lista Araba Unita (15 seggi) non sembra si presenterà ancora insieme e perderà consensi.
  Alcuni degli elettori abbandonati da Gantz rimarranno nel centrosinistra, votando per Yesh Atid di Yair Iapid (13 seggi). Ma la maggior parte dei sondaggi indica che molti tra coloro che in queste 28 settimane hanno manifestato ogni sabato contro Netanyahu si stanno dirigendo verso gli ultimi campioni del movimento "chiunque tranne Bibi": la rinascente Yamina del nazionalista ortodosso Naftali Bennett e il falco ribelle del Likud Gideon Sa'ar, con la nuova e straordinariamente popolare New Hope. Entrambi sono in grado di spodestare il Likud dal primato nella destra. Bibi stavolta potrebbe non farcela, e non perché la sinistra ha pescato l'ennesimo generale come frontman ma perché a destra ci sono altre due valide alternative. I loro argomenti per sostituire Netanyahu non sono ideologici. Né sono clamorosamente morali. I suoi due principali sfidanti non hanno appoggiato l'inesorabile assalto di Netanyahu alle gerarchie delle forze dell'ordine che lo perseguono, ma non hanno nemmeno guidato la difesa di una polizia oltraggiata e di una magistratura accusata da Netanyahu di "essere di sinistra". Questi sono due politici molto ambiziosi che vedono un'opportunità per fare ciò per cui i politici sono programmati: acquisire potere. Sa'ar ha promesso di non dare una mano alla distruzione della democrazia israeliana. Bennett ha fatto lo stesso lunedì sera. I puristi di sinistra che sono costernati dall'aumento del numero dei sondaggi della coppia (25-27 seggi su 120) farebbero bene a prestare attenzione anche a questo.
  Il primo ministro supplente Benny Gantz di Kahol Lavan si sta dirigendo alla sua quarta elezione al fondo della sua popolarità. Avrebbe potuto mantenere la sua dignità e la sua postura eretta di ex soldato se avesse respinto le richieste prepotenti e sfacciate di Netanyahu: richieste il cui scopo era quello di rompere le ossa del ramo giudiziario, svuotare il posto del ministro della giustizia della sua sostanza e consegnare al premier-imputato una scala sicura con cui scappare dal carcere che lo attende. Nella sua personale ricostruzione Gantz sembra arrivare da un altro pianeta: sostiene di essere l'unico candidato nel centrosinistra che potrebbe formare il prossimo governo con il sostegno dei partiti ultraortodossi. Se bisogna credere ai sondaggi, i partiti che sostengono la cacciata di Netanyahu hanno attualmente l'appoggio di quasi due terzi dell'elettorato; la battaglia di Bibi per sopravvivere questa volta potrebbe essere davvero più difficile che mai. Ha già lanciato la sua campagna elettorale, che si concentrerà sugli accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Il premier sosterrà anche di aver portato personalmente in Israele i vaccini contro il coronavirus. Benjamin Netanyahu si è abituato a condurre una campagna contro un unico principale rivale del centro-sinistra. Trovava facile lanciare accuse malvagie e false, al limite del tradimento, contro i suoi rivali e il razzismo espresso nei confronti degli "arabi che vogliono il nostro sangue". E così che ha attirato gli elettori di destra, che sono stati presi dal panico all'idea di un "governo di sinistra". Ma ora, con Gideon Sa'ar come principale rivale e Naftali Bennett come sfida secondaria, la tattica che lo aveva servito così bene non è più rilevante: sarà difficile per lui dipingerli come "collaboratori della sinistra".

(il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2020)


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Allacciamo le cinture: sarà una campagna elettorale dai toni più duri che mai

Due grandi differenze rispetto alle elezioni precedenti daranno il tono alla retorica che imperverserà in Israele nei prossimi tre mesi.

Diciamocelo francamente: i prossimi tre mesi saranno tra i più brutti nella storia politica di Israele. È vero che già gli ultimi due anni non sono stati una passeggiata. Israele è passato attraverso tre campagne elettorali e due anni di confusione e schermaglie tra partiti che non sono mai riusciti a trovare un modo per lavorare insieme a beneficio del vero depositario del potere sovrano in questo paese: il popolo israeliano. Ed è anche vero che Israele è diviso come non è mai stato nella storia recente. Viene di nuovo giocata la vecchia carta del conflitto etnico fra sefarditi e ashkenaziti (israeliani di origine afro-asiatica ed euro-americana ndr), la destra continua a guardare la sinistra dall'alto in basso e la sinistra continua a deridere la destra. C'è il campo pro-Bibi e il campo anti-Bibi, esattamente come nelle ultime tre campagne elettorali. Questa volta, però, ci sono due grandi differenze che daranno il tono alla retorica che imperverserà nei prossimi mesi.
La prima differenza è che Benjamin Netanyahu deve fare i conti per la prima volta con due forti rivali alla sua destra. Benny Gantz ha ingaggiato una battaglia formidabile nelle scorse tre elezioni, ma si identificava quasi esclusivamente con il centro-sinistra. Aveva pochissimi elettori di destra ed è stato abbastanza agevole per Netanyahu dipingerlo polemicamente come un leader debole e "di sinistra", un messaggio che ha funzionato bene presso la sua base di elettori del Likud....

(israele.net, 24 dicembre 2020)


Saipem, contratto in Israele

Saipem ha firmato un contratto da 200 milioni di dollari (163,9 mln euro) con Haifa Group per la costruzione di un impianto di ammoniaca nel sito di Mishor Rotem, in Israele. La produzione attesa dell'impianto è di circa 100 mila tonnellate di ammoniaca all'anno. La costruzione durerà tre anni. Il lavoro di Saipem comprende l'ingegneria, l'approvvigionamento, la costruzione e la messa in servizio dell'intero stabilimento. L'ammoniaca prodotta sarà utilizzata come materia prima per la produzione di fertilizzante a base di nitrato di potassio. «L'assegnazione di questo contratto conferma la focalizzazione di Saipem sulla transizione energetica e, nel contempo, la presenza in un'area molto dinamica e dalle grandi potenzialità, ha dichiarato Maurizio Coratella, ceo della divisione EeC onshore.

(ItaliaOggi, 24 dicembre 2020)


Dal Marocco i nuovi equilibri tra Africa, Medio Oriente e Occidente

Il Marocco sta normalizzando i rapporti con Israele, un passo che segna quello che sarà un lungo cammino in fase di strutturazione e trasformazione di una geopolitica che parte dall'Africa passando per il Medio Oriente sino ad arrivare all'Occidente, Stati Uniti in prima linea. Conversazione con Youssef Balla, ambasciatore del Marocco in Italia, per comprendere gli ultimi eventi e tracciarne prospettive e obiettivi.

di Karima Moual

 
Karima Moual
Solo l'altro ieri è atterrato il primo aereo da Israele a Rabat. È certamente tra i nuovi passi che segnano quello che sarà un lungo cammino in fase di strutturazione e trasformazione di una geopolitica che parte dall'Africa passando per il Medio Oriente sino ad arrivare all'Occidente, dove ancora una volta gli Stati Uniti tornano ad essere attori di prima linea. Formiche.net ha raggiunto l'ambasciatore del Marocco in Italia, Youssef Balla, per capire gli ultimi eventi e tracciarne prospettive e obiettivi.

- Ambasciatore, il riconoscimento del Sahara marocchino da parte degli Stati Uniti insieme alla ripresa dei rapporti tra Marocco e Israele, è la notizia di questa fine anno che sorprende e promette di cambiare la geopolitica in nord Africa e non solo. Che valore e implicazioni ha questa mossa di Trump?
  Il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della piena sovranità del Marocco su tutto il suo Sahara è una decisione importante, il risultato di anni di consultazioni reciproche. Una grande svolta decisiva rafforzata dal riconoscimento dell'iniziativa di autonomia proposta dal Marocco come unica base realistica e realizzabile per la risoluzione politica attorno alla falsa controversia regionale sul Sahara, creata e sostenuta dall'Algeria. Questo riconoscimento è importante perché arriva da una grande potenza, un Paese amico e un membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu, e da questo punto di vista rafforza e dà impulso al processo dell'Onu per raggiungere una soluzione politica definitiva a questa controversia regionale. Il presidente Donald Trump ha annunciato e firmato, durante il colloquio telefonico con SM il Re Mohamed VI, la promulgazione di un decreto presidenziale, con ciò che questo immediato atto comporta come forza giuridica e politica innegabile.
  Una decisione concreta alla quale è seguita la presentazione della nuova carta geografica del Marocco integrando le sue province meridionali e annunciando l'apertura di un Consolato Generale a Dakhla, con una vocazione essenzialmente economica e di sviluppo sociale, in particolare a beneficio degli abitanti delle province meridionali.
  D'altra parte il riconoscimento americano rappresenta un enorme passo avanti che servirà anche alla causa dei fratelli palestinesi. La riattivazione dei rapporti con Israele, che esistevano da anni anche in virtù della grande e solida comunità marocchina ebraica in Israele e nel mondo, servirà come strumento di pace e di riavvicinamento. La comunità internazionale riconosce l'importante ruolo del Marocco nel fascicolo mediorientale, e la causa palestinese è centrale per SM il Re, per il governo e per il popolo marocchino.

- Pensa che con la presidenza di Biden possa cambiare qualcosa?
  Il Marocco ha un rapporto di amicizia e relazioni secolari con gli Stati Uniti. Siamo stati la prima nazione a riconoscere il Paese nord americano nel 1777 e le nostre relazioni si sono rafforzate grazie ad una solida alleanza strategica basata sul dialogo permanente. Sul piano economico il Marocco è l'unico paese afro/arabo con un Accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e gode di uno statuto di Paese alleato principale di Washington al di fuori della NATO. Condividiamo infatti una visione comune su tanti settori e il rapporto di sicurezza e militare è testimoniato dall'altissimo livello di cooperazione che vede il nostro Paese principale partner per lo svolgimento delle più grandi manovre militari congiunte in Marocco insieme al nostro esercito.
  Il nostro è un rapporto di partenariato molto speciale, instaurato su dialogo e amicizia sia con l'amministrazione repubblicana che quella democratica. La posizione americana sulla questione del Sahara marocchino è sempre stata condivisa da tutte le amministrazioni, e il recente riconoscimento della piena sovranità del Marocco su tutto il suo Sahara è una naturale e logica evoluzione al sostegno dell'iniziativa di autonomia presentata dal Marocco nel 2007 alle Nazioni Unite e considerata seria, credibile e realistica.

- Se da una parte il Marocco festeggia il riconoscimento del Sahara Occidentale considerato da sempre come parte del proprio territorio, dall'altra non si può trascurare che c'è chi non ha visto di buon occhio la ripresa dei rapporti con Israele, insinuando che sia stato il prezzo dello scambio. Insomma, una ricostruzione semplicistica che equipara il Marocco e la sua storia dentro a quella mediorientale. Perché è sbagliata questa ricostruzione e analisi?
  Questo riconoscimento americano non significa l'abbandono della causa dei fratelli palestinesi, ma al contrario, la servirà attraverso la riattivazione di questi meccanismi. Si tratta di un importantissimo passo avanti che servirà alla causa della Palestina. Lo ha ribadito SM il Re Mohammed VI sia al presidente americano che al presidente palestinese. Una posizione che si basa su tre fondamenti: l'impegno per una soluzione basata su due Stati, uno palestinese e uno israeliano; il principio del negoziato diretto tra palestinesi e israeliani come unico processo per raggiungere una pace duratura. Infine, in qualità di Presidente del comitato Al-Quds (Gerusalemme), creato dall'Organizzazione per la cooperazione islamica, SM il Re si impegna a preservare il carattere islamico della città santa e la sua apertura a tutti i praticanti delle tre religioni monoteiste.

- In tutto questo, gli Stati Uniti tornano ad essere attori in Africa, Russia Cina e Turchia non sono da meno, mentre l'Europa è il grande assente…
  Sarebbe stato senz'altro auspicabile che l'Europa, alla luce del suo passato storico e dei suoi attuali legami umani ed economici con i Paesi della regione, si facesse promotrice di una simile dinamica volta a una soluzione politica e definitiva della falsa controversia intorno alla natura marocchina del Sahara.
  Non c'è dubbio che l'Africa è il continente del futuro, grazie al suo potenziale tanto nelle risorse umane quanto nella crescita economica. Basti ricordare che è l'unico continente con un tasso di crescita a doppia cifra, che rappresenta una grande opportunità che attrae interessi e investimenti dai grandi paesi. L'Europa è legata storicamente ed economicamente all'Africa ma deve raddoppiare gli sforzi perché ci sono nuovi attori che alzano l'asticella della concorrenza. In questo contesto l'azione europea, principalmente attraverso la Politica Europea di Vicinato, è chiamata ad evolversi per trascendere dalla mera logica funzione per ristabilire i suoi principi guida di solidarietà e differenziazione ma soprattutto deve coinvolgere maggiormente il sud nelle decisioni che le riguardano e creare sinergie a livello locale, regionale e continentale. A questo riguardo il Marocco si impegna con l'Ue a consolidare un partenariato solido, innovativo e reattivo e in linea con le sfide del momento.

- Cosa cambia concretamente (economia, politica, relazioni, investimenti) con questa decisione di Trump e come l'Italia può ritagliarsi uno spazio in questo cambiamento?
  Come dicevo oltre all'amicizia secolare tra le due nazioni, condividiamo un solido dialogo strategico perché siamo guidati dalla volontà di costruire un futuro più sicuro e prospero per le aspirazioni dei nostri cittadini in tutti i settori. Le regioni del sud del Marocco sono da sempre parte integrante in questa cooperazione bilaterale e l'annuncio del Presidente americano Trump dell'imminente apertura del Consolato Generale nella città marocchina di Dakhla rappresenta un passo importante in questo processo di consolidamento dei rapporti. La regione infatti presenta grande potenzialità economica in diversi settori strategici, soprattutto grazie al nuovo piano di Sviluppo lanciato da SM il Re con un investimento di oltre 8 miliardi di dollari, con l'obiettivo di trasformare la regione in una piattaforma economica, che si consoliderà con il porto di "Dakhla Atlantique". Questo porto permetterà il completamento con il porto di Tanger Med allargando la connessione marittima tra il Marocco e il resto del Mondo. Il settore energetico, ed in particolare delle energie rinnovabili, sarà nel cuore degli investimenti futuri.
  Proprio l'altro ieri il Marocco ha firmato un accordo con l'Agenzia americana International Development Finance Corporation (DFC) per la mobilitazione di investimenti globali di 5 miliardi di dollari in Marocco e nella regione. Questo progetto si inscrive nell'iniziativa americana "Prosper Africa" per trasformare il Marocco in un Hub economico regionale. I dati parlano chiaro. Si tratta di una regione in forte sviluppo economico, tanto da essere la prima in termini di Pil a livello nazionale (+11,5%), terza per investimenti pubblici nazionali e terza per investimenti in infrastrutture.

(Formiche.net, 24 dicembre 2020)


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Chi non digerisce l'accordo Israele-Marocco (siglato con l'ombrello Usa)

di Francesco De Palo

 
Reuven Azar, consigliere speciale di Netanyahu
Che cosa cambia non solo per Marocco e Israele (ma anche in chiave anti turca e iraniana) dopo l'accordo Tel Aviv-Rabat? La mossa che favorisce la normalizzazione israelo-marocchina, mediata dagli Stati Uniti, quali effetti avrà sulla geopolitica che si snoda tra il quadrante mediterraneo e quello mediorientale?

 Volo
  Il primo volo diretto da Tel Aviv a Rabat è partito ieri dall'aeroporto Ben-Gurion, con a bordo una delegazione guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner e dal consigliere per la sicurezza nazionale israeliana Meir Ben-Shabbat. Kushner ha incontrato nel maggio 2019 il re marocchino Mohammed VI presso la residenza reale di Rabat.
Il Marocco è il quarto Paese arabo e musulmano ad accettare di normalizzare i legami con Israele, sulla scia degli accordi di Abraham. Ufficialmente le relazioni tra Marocco e Israele sono nate nel 1994 ma poi Rabat le ha congelate sei anni dopo in seguito allo scoppio della seconda Intifada palestinese. Ieri le delegazioni hanno siglato accordi sull'esenzione dal visto per diplomatici e sulla cooperazione in materia di risorse idriche, finanza e aviazione civile.

 Svolta
  Gli accordi di Abraham stanno ridisegnando la cartina di alleanze e influenze. Ieri Rabat ha annunciato la sua intenzione di "facilitare i voli diretti per il trasporto di ebrei di origine marocchina e turisti israeliani da e verso il Marocco". In una dichiarazione ufficiale ha messo l'accento su alcuni passaggi significativi che danno l'idea di come si stia aprendo una fase del tutto nuova: ha citato lo "sviluppo di relazioni innovative in campo economico e tecnologico" con l'impegno a "lavorare per riaprire uffici di collegamento nei due paesi, come è avvenuto in passato per molti anni fino al 2002".
In parallelo ecco che gli Usa hanno riconosciuto, per la prima volta, la sovranità del Marocco sui territori contesi del Sahara con il Fronte Polisario, che è sostenuto dall'Algeria e che cerca di stabilire uno stato indipendente. In più va tenuto in considerazione il fatto che dopo la decisione della Mauritania di rescindere i rapporti con Israele nel 2010, oggi è il Marocco l'unico paese del Maghreb a mantenere un link con Israele. Il Marocco è anche il paese musulmano che ha prodotto il maggior numero di immigrati ebrei in Israele, 250.000.

 Elbaz
  Un ruolo nell'accordo lo ha avuto l'investitore marocchino, Yariv Elbaz, molto noto in Francia e Israele, che avrebbe agito da intermediario tra Washington e Rabat, assieme ad altri due nomi di peso come Reuven Azar, consigliere speciale di Benjamin Netanyahu e Yosef Pinto, un rabbino ortodosso israeliano-marocchino a capo dell'organizzazione Mosdot Shuva Israel.
Elbaz, un passato in BNP, appare sulla scena della finanza nel 2010 quando conclude in Africa importanti accordi nel campo delle infrastrutture. Da quel momento inizia ad avere una forte visibilità anche in eventi di livello mondiale, come il Global Entrepreneurship Summit (GES) a Marrakech e il Forum Africa di New York a Libreville: eventi riconducibili al noto imprenditore marocchino Richard Attias.

 Reazioni
  Quali le reazioni dopo la ripresa delle relazioni Rabat-Tel Aviv? In primo luogo si segnala la diffusa rabbia popolare araba, che con Hamas vede messa in pericolo la sua azione anti occidentale. Il gruppo palestinese ha condannato la normalizzazione delle relazioni tra Marocco e Israele, definendola "una grande delusione per il popolo palestinese e per la sua causa", come scritto su Twitter dal portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri.
È di tutta evidenza come il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara occidentale da parte degli Stati Uniti arriva in un momento critico per la regione e avrà anche riflessi precisi sia sulla Fratellanza Musulmana sia sull'iperinvasività turca nella macro area.
Sul punto si registrano alcuni movimenti nel governo di Ankara, desideroso di uscire dall'isolamento "occidentale" in cui è finito per via del dossier energetico, provando a ripristinare le relazioni diplomatiche con Israele. La Turchia potrebbe voler inviare un nuovo ambasciatore a Tel Aviv, ma si tratta di un'operazione di per sé molto complicata per le note ragioni dettate dalla postura di Erdogan verso l'Iran e verso il duo Cipro-Grecia, con cui Israele ha eccellenti rapporti.
Sarà a questo punto utile leggere in filigrana le prime reazioni all'accordo da parte della nuova amministrazione statunitense, anche se ieri un portavoce della squadra di transizione di Joe Biden ha rifiutato di commentare la notizia.

(Formiche.net, 23 dicembre 2020)


La guerra dei budget riporta Israele sulla via delle urne

Crisi sovrapposte. L'alleanza di governo tra Netanyahu e Gantz crolla nel momento peggiore tra pandemia, lockdown e recessione

Le elezioni del 23 marzo sarebbero le quarte in meno di due anni: e le prime dell'era Covid In calo di popolarità, a processo per corruzione, il premier potrebbe trovarsi sulla via del tramonto

di Roberto Bongiorni

Pensavano di spuntarla ancora una volta. Con una nuova legge ad hoc, e un rinvio che permettesse loro di provare a sopravvivere. Ma Benjamin Netanyahu, primo ministro e leader del partito conservatore Likud, e Benny Gantz, vice-premier e leader del partito centrista Blu e Bianco, non hanno fatto i conti con le rispettive fronde interne. E così la guerra del budget tra i due rivali costretti a convivere nello stesso governo sta trascinando Israele a nuove elezioni. Sarebbero le quarte in meno di due anni. Le prime dell'era Covid19. Quindi in un periodo ancora più burrascoso e incerto. Con il Paese già alle prese con la terza ondata della pandemia, un altro imminente lockdown, l'economia in recessione, l'Iran sempre più agguerrito e un nuovo presidente americano certo meno "amico" di Israele e dei suoi piani. Insomma, non vi poteva essere contesto meno adatto.

 La sfiducia della Knesset
  La fronda interna alla coalizione di destra di Netanyahu ha messo il premier più longevo nella storia di Israele alle corde, unendosi a diversi deputati di centro sinistra. Così l'accordo stretto all'ultimo minuto da Netanyahu e Gantz, che prevedeva di rinviare la data per approvare il budget 2020 entro 31 dicembre e quella del bilancio 2021 entro il prossimo 5 gennaio, è stato bocciato lunedì sera dalla Knesset, il Parlamento, durante un seduta concitata. Per due soli voti, 49 a 47. Tra i contrari vi era almeno un deputato del Likud e tre di Blu e Bianco.

 L'incognita Iran
  Il voto sarebbe il prossimo 23 marzo. Ovvero tra tre mesi. Un periodo di tempo che potrebbe consentire all'Iran di compiere ulteriori progressi nell'arricchimento di uranio a gradazioni molto preoccupanti con Israele senza un governo. A meno di un fulmineo, quanto difficile, accordo tra Teheran e la nuova amministrazione di Joe Biden, questo scenario appare credibile. Quattro elezioni in due anni sono un primato negativo per Israele, giù alle prese con proteste popolari ed una profonda crisi economica.

 Una convivenza difficile
  La guerra dei budget ha-dunque fatto la sua vittima. Anzi le sue vittime: il governo di Emergenza nazionale, ovvero quell'anomalo Esecutivo "a rotazione" nato in maggio dopo estenuanti trattative. La premiership di Netanyahu, il primo a guidare questo governo, e quella che sarebbe dovuta spettare per 18 mesi a Benny Gantz a partire dal prossimo novembre. Con Netanyahu tutto è ancora possibile. Il premier dalle sette vite è riuscito a salvarsi in estremo. Ma questa volta sembra la fine della sua era. La convivenza con Gantz non era mai stata facile. Anzi. Ma le cose sono andate precipitando. Da diversi mesi a mettere contro i due rivali-alleati è stata la "guerra del budget". Che doveva esser approvato entro 100 giorni dalla formazione del governo, quindi in agosto. Appena prima che il governo cadesse per un mancato accordo, Netanyahu e Gantz erano riusciti a far rinviare l'approvazione del bilancio entro il 23 dicembre.
Qual è il motivo di attrito? Bibi ne vorrebbe uno valido per un anno, Gantz invece punta a un bilancio unico anche per tutto il 2021. Il motivo è semplice: un budget più lungo impedirebbe a Netanyahu di far cadere il governo prima che Gantz, che oggi è anche ministro della Difesa, inizi il suo periodo di rotazione (18 mesi) da primo ministro.
   La legge infatti prevede che il Parlamento si dissolva automaticamente se il piano di spesa non è stato approvato entro la data prevista. Se prevalesse il budget di un anno, Netanyahu potrebbe avere mano libera nel provocare una crisi e andare a elezioni senza dover passare a Gantz la premiership ad interim.

 Pandemia e povertà
  Al pari di altri Paesi industrializzati, e forse ancor più di loro, la Start Up Nation sta soffrendo una grave crisi economica che ha allargato oltre le previsioni la percentuale delle famiglie cadute in povertà: povertà che durante i io mesi di pandemia è aumentata del 50%. Secondo le ultime stime dell'Ocse nel 2020 la contrazione dovrebbe attestarsi sul 4,3 per cento. Ma il terzo e probabile lockdown frenerà la ripresa. Le stime parlano di un magro 2,1% sotto la media mondiale. In quest'ottica approvare un budget nazionale, necessario a tamponare anche le grandi sofferenze del sistema sanitario, è ancor più prioritario.

 La fine dell'era Netanyahu?
  Se non si troverà una soluzione entro oggi - ipotesi ormai data per altamente improbabile - il Parlamento di Gerusalemme si dissolverà automaticamente. Ma questa volta sarà probabilmente diverso.
   Perché Netanyahu rischia di perdere anche lo scettro di leader dei conservatori, che deteneva da oltre vent'anni. Secondo i sondaggi il nuovo partito di destra ("Nuova speranza") annunciato lo scorso mese da Gideon Sa'ar, un grande alleato di Bibi all'interno del Likud fuoriuscito dal partito, è già la seconda forza del Paese. Questa volta Bibi non potrà più costruire una campagna militare contro la sinistra rea, a suo giudizio, di consegnare il Paese agli arabi. Non potrà certo etichettare Sa'ar, e ancora meno Naftali Bennett, altro suo alleato e leader del partito di destra "La casa Ebraica", come collaboratori della sinistra. Incalzato dalle proteste per la gestione della pandemia, e per il processo in cui è imputato per tre casi di corruzione (spostato nuovamente all'inizio del prossimo anno), Bibi si trova a combattere la battaglia politica più importante della sua vita. In gioco è la sua sopravvivenza come leader politico.
   Con una fronda interna che rischia di indebolire la sua figura e nuovi aspiranti leader, anche Gantz ha i suoi bei grattacapi. E anche lui affronta questa nuova tornata elettorale ai minimi della sua popolarità, minata soprattutto dalle sue decisioni di proseguire l'esperimento con Netanyahu nonostante diversi deputati del suo partito e della sua coalizione fossero irritati anche dai rinvii del processo di Netanyahu e dai potenziali tentativi per farlo deragliare.
   Ecco perché nelle quarte elezioni potrebbe davvero uscire qualcosa di nuovo. E non è detto che non possa anche essere qualcosa di buono e duraturo per la sola vera democrazia del Medio Oriente.

(Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2020)


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Naufraga l'alleanza Netanyahu-Gantz, Israele alle quarte elezioni in due anni

Niente accordo sul bilancio in Parlamento, alle urne a marzo. E spunta un'alternativa al premier: il polemico avvocato Saar.

LA PACE CON IL MAROCCO
Decollato il primo volo da Tel Aviv a Rabat a bordo Jared Kushner
LA CAMPAGNA ANTI COVID
Scattata la vaccinazione di massa nel Paese: via con tutti gli over 60

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Gira a velocità supersonica il palcoscenico rotante israeliano. Tutti i cittadini sopra i 60 anni sono attaccati ai telefoni e ai computer per fissare il loro turno per ricevere il vaccino, ormai in distribuzione frenetica. Le star, dopo Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin, fanno a gara per vaccinarsi in diretta. Però, intanto, il ministro della Sanità Yuli Edelstein annuncia un indispensabile lockdown: i contagiati di ieri sono 3.594, un numero altissimo per Israele. E mentre le maschere del sorriso di speranza e della disperazione occhieggiano surrealistiche l'una all'altra, un terzo e un quarto panorama confondono le idee: è partito dall'aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv un volo speciale El Al per il Marocco portando dal re dignitari israeliani insieme a una delegazione americana capeggiata da Jared Kushner, il grande tessitore della pace mediorientale e genero di Trump. "È un volo pieno di speranza per chiudere gli accordi di pace con Israele: entusiasti i marocchini di qui e gli ebrei di là, stavolta la pace è con un grande Paese musulmano che conta millenni di rapporti alterni col popolo ebraico, e che finalmente abbraccia lo Stato Ebraico.
   Ma ecco lo scenario che su tutti è il più paradossale: ieri notte a mezzanotte è scaduto il termine per cui, privo di un voto di un bilancio approvato, il Parlamento deve necessariamente dissolversi. E così, fra contrazioni e sussulti, mentre fino all'ultimo Netanyahu e Gantz hanno cercato di evitare la valanga, si disfa la precaria alleanza Likud- Bianco e Blu tra Bibi Netanyahu e di Benny Gantz, svanisce l'ipotesi della rotazione su cui la coppia si era costruita e Israele va alle elezioni per la quarta volta in due anni, il 23 marzo. Tre deputati di Gantz e due di Bibi spariti dalla circolazione più un paio di voti contro hanno spedito Israele alle urne. Colpa di Bibi che non ha voluto votare il bilancio mettendo a rischio la rotazione promessa? Colpa di Gantz che non ha accettato la promessa tardiva di ottemperare alle promesse?
   Tutta Israele, e quasi tutto il governo hanno cercato, alla fine, di evitare un esito assurdo in un periodo in cui il Paese è intento alla pandemia, con l'aggiunta della variante inglese che chiude intanto gli aeroporti e che contribuirà al lockdown prossimo venturo. Le elezioni porteranno a un disastro per Gantz, che ha perso il controllo di un partito ormai crollato dai 30 seggi originari, si dice a 6 seggi; disturberanno, anche se in modo non decisivo, Netanyahu mettendo in prima fila Gideon Saar, un avvocato cinquantenne che si presenta come aggressiva e polemica alternativa a Bibi all'interno del Likud stesso; probabilmente smembreranno la sinistra; metteranno arabi e religiosi in una posizione spinosa e difensiva dopo la messa sotto accusa del periodo del coronavirus; difficilmente creeranno un'opposizione capace di battere la lunga gestione Netanyahu. Questo di fatto è il motivo per cui alla fine, benché Gantz e Bibi abbiano tentato di disinnescare la miccia, non ci sono riusciti. Una coalizione di parlamentari ha deciso di far fuori un governo con la parola d'ordine «qualsiasi cosa fuorché Bibi». Fino all'ultimo momento si è sperato che il governo potesse votare l'allungamento dei negoziati sul budget, ma i ribelli di ambedue i partiti hanno subito chiarito di non voler salvare la coalizione.
   Sulle acque di Israele ha galleggiato nella crisi l'esplosivo della furia anti Bibi. Perché Netanyahu è al governo da 11 anni, e non è di sinistra, anche se è laico e liberale. Non importa se ha salvato la pace, l'economia, la pelle degli israeliani dai più terribili pericoli: l'odio settario lo perseguita. E la cosa curiosa, e alla fine ancora una volta, di nuovo, sarà lui a vincere le elezioni.

(il Giornale, 23 dicembre 2020)


"Le crepe in ogni cosa": un progetto fotografico ritrae i soldati soli in Israele

di David Zebuloni

 
Il fenomeno dei cosiddetti soldati soli in Israele è diventato ormai comune e sempre più apprezzato dagli stessi cittadini israeliani, che nel tempo hanno imparato ad aprire ai giovani volontari le loro case e i loro cuori. Quando parliamo di soldati soli, ci riferiamo ovviamente ai quei ragazzi e quelle ragazze provenienti da ogni angolo del mondo e arrivati in Israele unicamente per prestare servizio militare nelle forze di difesa israeliane, lasciando così le loro famiglie e i loro paesi di origine a tempo spesso indeterminato.
   Affascinato da questo fenomeno, il fotografo canadese Brant Slomovic ha dedicato gli ultimi cinque anni della sua vita ad immortalare questi giovani eroi. "Quando ho sentito parlare per la prima volta di soldati soli, mi ha colpito soprattutto il loro straordinario senso di appartenenza allo Stato di Israele", ha detto Slomovic in un'intervista al Times of Israel, realizzata dalla sua casa a Toronto. "Guardandoli, ho potuto capire meglio me stesso e le scelte che ho fatto nella mia vita."
   Slomovic ha recentemente pubblicato il suo primo libro, intitolato The Cracks in Everything (in italiano, Le crepe in ogni cosa), nel quale presenta i ritratti realizzati a sessanta soldati soli provenienti da 17 paesi diversi. "Girando le basi militari di tutto il paese, sono rimasto molto colpito dal desiderio di questi ragazzi di dare il loro contributo per servire qualcosa che è più grande di loro", ha detto Slomovic al Times of Israel. "La maturità, la disponibilità, il senso di sacrificio di questi ragazzi mi ha ricordato la vecchia scuola, nel senso migliore del termine."
   In Israele ci sono all'incirca 3.500 soldati soli che prestano servizio nell'esercito di difesa israeliano, la maggior parte dei quali provengono dal Nord America o dalle nazioni dell'ex Unione Sovietica. Altri invece provengono dall'Europa o da paesi come il Panama, l'Argentina, il Brasile, l'Australia, l'India e l'Etiopia. Molti dei soldati volontari europei, provengono proprio dall'Italia.
   A prendere parte all'ambizioso progetto fotografico, infatti, è stato Samuel Capelluto, nato e cresciuto a Milano e arrivato in Israele nel 2016 per terminare i suoi studi liceali ed arruolarsi nell'esercito di difesa israeliano come soldato solo. "Sono stato scelto da Slomovic insieme ad un altro ragazzo, proveniente dal Belgio, che serviva nella mia stessa base militare", ha raccontato Capelluto a Mosaico. "Slomovic ci ha portato in un bellissimo posto, con un paesaggio desertico mozzafiato. È stato bello vedere come la sua arte abbia unito i due mondi: il suo e il nostro. È stato emozionante riscoprirci attraverso i suoi occhi di artista, ci ha fatto sentire importanti. Poteva scegliere di ritrarre qualunque altro soldato, ma lui ha scelto proprio noi, soldati soli, e l'ha fatto con grande professionalità e grande umanità."

(Bet Magazine Mosaico, 23 dicembre 2020)


Lotta al terrore e sicurezza d'Israele. Le priorità di Biden con l'Egitto

Il democratico non userà toni troppo duri sui diritti. Al Sisi è strategico per gli equilibri.

II nuovo governo Usa delegherà all'Europa il dossier libico per concentrarsi sul Golfo Ankara potrebbe avere un ruolo di deterrenza per i russi nei Balcani e nell'Est Europa I diplomatici Usa sono "consapevoli che non sarà facile ricostruire il rapporto con la Ue"

di Francesco Semprini

NEW YORK - Puntare a un equilibrismo tra Turchia ed Egitto per giocare di sponda con l'Unione europea nel Mediterraneo e rilanciare il multilateralismo nel Golfo arabo. È questa, secondo fonti vicine all'amministrazione americana entrante, la strategia messa a punto dalla squadra di governo di Joe Biden in materia di politica estera. «Il Mediterraneo è un'area di importanza vitale ma su alcuni aspetti è necessario delegare gli alleati europei, concentrandoci sulle aree strategiche del Golfo persico», spiegano le fonti. In questo senso alcuni dossier, come quello libico, rimarranno di competenza di Bruxelles e degli alleati regionali come l'Italia, su cui gli Stati Uniti si adopereranno solo di riflesso. «Biden è un convinto atlantista, la sua amministrazione rafforzerà i rapporti con l'Ue avrà una particolare interesse sul fronte del Mediterraneo. Ma su alcune questioni sarà di supporto e non vorrà sostituirsi alla sua leadership», spiegano ambienti diplomatici americani sentiti da La Stampa.
   Affermazioni che spiegano come Biden si troverà a dover gestire una complicata fase di transizione, restituendo da una parte fiducia ai suoi tradizionali alleati, dall'altra a dover ribaltare la politica isolazionista di Donald Trump. È chiaro che non può abbandonare il Mediterraneo dal momento che è un'area di fondamentale interesse dove Mosca, Pechino ed Ankara puntano a sfruttare gli spazi lasciati vuoti dal revisionismo di trumpiana memoria. Il 46esimo presidente americano si trova davanti una Libia in fiamme, ha un rapporto con la Turchia sempre più difficile certificato dall'ultimo monito lanciato da Washington - e cioè le sanzioni per gli S-400 russi - e un'alleanza sempre più solida con Marocco e Tunisia che può sfruttare per stabilizzare l'area nordafricana. Mentre l'Egitto sarebbe ben lieto di consolidare il suo ruolo di valido partner americano pur avendo da molto tempo rapporti eccellenti con Cina e Russia. Nel frattempo non si placano le tensioni tra Grecia, Turchia e Cipro, mentre Israele, dopo la normalizzazione dei rapporti con molti Paesi arabi, potrebbe diventare un nuovo punto di interesse per gli idrocarburi del Mediterraneo. «Il ruolo crescente della Cina - anche in Medio Oriente e in Africa - impone maggiore attenzione e non sarà facile tomare allo stato delle relazioni Ue-Usa poiché un soggetto importante e assertivo come la Cina è entrato ormai in gioco», affermano fonti americane.
   Un intreccio di interessi e di potenziali spigolosità dinanzi alle quali è fondamentale rilanciare o rinvigorire certi rapporti, a partire dalla Turchia. Biden punterà su Ankara come deterrente ad azioni russe nei Balcani e nell'Est europeo. A partire dall'Ucraina dove Recep Tayyip Erdogan sta stringendo accordi che rappresentano una nuova spina nel fianco di Vladimir Putin. Oltre al fatto che Ankara rappresenta il primo presidio militare di appoggio insediato sulla sponda sud del mediterraneo, secondo quel progetto di ottomana memoria assai caro al sultano Erdogan. Il quale, agli occhi della nuova amministrazione Usa, si fa garante di argine a quella fratellanza musulmana che rende complicati i rapporti con il resto del mondo arabo. Ci si aspetta così una posizione americana più dura nei confronti di Vladimir Putin e dell'avventurismo militare della Russia nel Mediterraneo che coinvolgerà direttamente l'Europa e verrà recepita in modo diverso da Paese a Paese. In questo quadro, né gli europei, né gli americani (repubblicani o democratici) hanno ancora elaborato una strategia credibile nei confronti della Turchia di Erdogan e delle sue ambizioni regionali.
   Facendo in qualche modo piacere all'Egitto di Al Sisi col quale Biden vuole mantenere i buoni rapporti ereditati dal suo predecessore. Sarà pur vero l'interessamento americano sui dossier legati alla morte di Giulio Regeni e alla detenzione dello studente egiziano di Bologna Patrick Zaki, ma è chiaro che il presidente eletto non userà toni di troppo severi con il collega egiziano limitandosi a tenere qualche posizione su questioni inerenti i diritti umani. Il Cairo è fondamentale per la sicurezza di Israele ma soprattutto è un attore chiave nelle relazioni col mondo arabo. In particolare, in quella chiave che vede gli Usa interessati nel rafforzamento dei rapporti nel Golfo specie tra Emirati e Qatar ed in vista del vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo che si terrà a gennaio dove Biden non vuole essere da meno di Trump e blindare alcuni accordi strategici seppur in un'ottica più multilaterale.
   In questo senso sono state chiarificatrici le parole di Michael Carpenter, consigliere di politica estera di Biden: «Certo, è un tema su cui dobbiamo coordinarci con gli italiani. Penso sarete enormemente importanti per la strategia meridionale della Nato, riguardo Nord Africa e Mediterraneo, che va rafforzata. In queste regioni guarderemo a voi per un ruolo guida, che tocca anche il problema delle migrazioni». Quanto alla Libia, bisogna superare le rivalità fra Italia e Francia: «Ci vuole coordinamento, nella Nato e nella Ue, e gli Usa devono favorirlo». Il punto è chiedersi se gli Usa di Biden saranno in grado di garantire tale coordinamento.

(La Stampa, 23 dicembre 2020)


Aramei cristiani ed ebrei sono il popolo indigeno di Israele

Israele è sempre stato centrale nella storia del mondo e ora più che mai

di Shadi Khalloul

La comunità cristiana aramaica esiste da secoli in Terra d'Israele. Gesù e la sua famiglia ebrea della discendenza del re Davide parlavano aramaico, così come tutti gli abitanti della regione della Galilea all'epoca. Solo più tardi la popolazione cristiana di Israele ha subito un brutale processo forzato di arabizzazione dopo la conquista musulmana nel VII secolo.
   I cristiani della Mezzaluna Fertile (che ora comprende Israele, Libano, Siria e Iraq) sono discendenti diretti della popolazione aramaico-siriana che abitava questa regione insieme agli ebrei molto prima della conquista arabo-musulmana.
   Ebrei e cristiani hanno condiviso un libro sacro comune da quei primi tempi e fino ad oggi. Entrambi fanno risalire le loro origini spirituali ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe (Israele) e al libro dei profeti. Entrambi pregano e cantano i Salmi del re Davide, e molte delle nostre preghiere sono molto simili nel contenuto, specialmente nella nostra visione del mondo esterno e di altri popoli.
   Inoltre, condividiamo un'ascendenza comune. Abrahamo e la sua stirpe erano aramei (vedere Deuteronomio 26: 5). Non è un caso che il cristianesimo, emerso dal giudaismo, sia stato adottato per la prima volta dal nostro popolo e da questa regione si è diffuso nel mondo.
   Israele, la Terra santa e promessa, il cuore ideologico dell'Antico e del Nuovo Testamento, è sempre stata vittima di prove e tribolazioni da parte dei musulmani. Per quanto si possa ricordare, qualsiasi cosa di importanza storica veniva regolarmente saccheggiata e mutilata. Templi e chiese furono trasformati in moschee e la centralità storica del Mediterraneo orientale negli affari mondiali fu, non senza ragione, ridotta al minimo.
   Ma resta un fatto storico innegabile che la "Palestina" è stata la patria degli ebrei e dei primi cristiani. E nessuno di loro era di origine araba. Solo attraverso la conquista divennero seguaci o sudditi dell'Islam. Questa è l'origine degli arabi in questo paese. Come si può dedurre da questa storia che la "Palestina" è o è mai stata un paese arabo?
   Nonostante secoli di conquiste e distruzioni, qui rimangono tracce storiche, monumenti e cimeli sacri delle nostre due religioni a testimonianza delle vere origini di questo paese e della sua gente.
   I luoghi santi, i templi, il muro del pianto, le chiese, le sinagoghe, le tombe dei profeti e dei santi - tutti questi sono simboli viventi delle sorelle nella fede ebraismo e cristianesimo, che fermamente respingono le pretese di coloro che vogliono trasformare la "Palestina" in una terra araba.
   Gettare questo paese, come anche il Libano, in un'unica pentola con il "mondo arabo" significa negare la storia e danneggiare irreparabilmente il futuro sociale e spirituale del Medio Oriente e del mondo.

(israel heute, 23 dicembre 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Israele-Anp: è ripreso il dialogo sul trasferimento di dazi doganali

Delegazioni dell'Autorità nazionale palestinese e di Israele sono impegnate nella definizione delle modalità del trasferimento a Ramallah di dazi doganali raccolti dall'erario israeliano per conto di quello palestinese. Lo ha riferito il premier palestinese Mohammed Shtayeh al proprio governo, secondo l'agenzia di stampa Wafa. Questo sviluppo è stato reso possibile dalla recente decisione dell'Anp di riprendere il coordinamento economico e di sicurezza con Israele dopo una interruzione iniziata nel maggio scorso, in protesta per i progetti di Israele (poi rientrati) di estendere la propria sovranità su parti della Cisgiordania. Israele, scrive la Wafa, deve inoltrare ora all'Anp circa un miliardo di dollari per i mesi in cui i trasferimenti si sono arrestati. Secondo l'agenzia ancora non c'è però una intesa sulla intenzione israeliana di dedurre 180 milioni di dollari, ossia l'equivalente di quanto il governo di Ramallah ha stanziato per le famiglie di palestinesi reclusi per quelli che Israele qualifica come «atti di terrorismo». Nel frattempo la radio pubblica israeliana ha aggiornato che è imminente la ripresa del coordinamento di sicurezza fra le due parti.

(Lavoro, 23 dicembre 2020)


Primo volo diretto da Israele al Marocco, Kushner guida la delegazione Usa

Destinazione Marocco. Jared Kushner, consigliere e genero di Donald Trump, e il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, Meir Ben-Shabbat, sono alla guida della delegazione di Stati Uniti e Israele attesa nel regno. "E' una visita senza precedenti che accelererà la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Marocco", ha detto ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Kushner e Ben-Shabbat, che incontreranno re Mohammed VI, arriveranno a Rabat a bordo del primo volo commerciale diretto da Tel Aviv, un volo della El Al, come sottolineano i media israeliani in attesa della partenza. A Rabat, scrive il Jerusalem Post, è prevista la firma di una serie di documenti da parte delle delegazioni di Usa e Israele, i primi nel quadro della normalizzazione dei rapporti tra Israele e Marocco.
   Il Marocco è il quarto Paese ad avviare la normalizzare dei rapporti con Israele dopo Emirati, Bahrein e Sudan. Nei giorni scorsi con l'annuncio dell'accordo tra Israele e Marocco, Trump ha anche riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale. Poi il Marocco ha annunciato una 'rivoluzione' nei programmi scolastici, con l'introduzione di storia e cultura ebraica. "Le azioni coraggiose di Trump hanno causato un'esplosione di pace", ha dichiarato ieri Kushner da Gerusalemme.

(Adnkronos, 22 dicembre 2020)


Anche Israele ora ha scoperto la bici. "Saremo l'Olanda del Medio Oriente"

Il vicesindaco di Tel Aviv Meital Lehavi assicura: "Le due ruote creano benefici per l'intera comunità, abbassano i costi sanitari e migliorano la qualità della vita e dell'aria. Sono un volano per l'economia e per il turismo”. E ora a Gerusalemme le colline non fanno più paura: tra il 2017 e il 2019 il numero di bici è aumentato del 200 per cento.

di Giovanni Battistuzzi

 
A Tel Aviv ci sono 140 chilometri tra corsie e piste ciclabili. E il Comune a maggio ha approvato un nuovo piano per altri 160 chilometri entro il 2025
 
Bar Rafaeli è stata testimonial del Giro d'Italia che è partito da Gerusalemme nel 2018: conta più una bici pedalata da lei che cento convegni
Iniziò tutto con una risata. Un ghignare così rumoroso che sembrò sancire la fine di qualsiasi progetto. Eppure era tutto abbastanza semplice: bastava tracciare delle linee di vernice ai lati della carreggiata e il più era fatto. Quel ridere poteva seppellire qualsiasi buona volontà, se non fosse che chi pedala sa che ciò che in molti ritengono impossibile, impossibile non è. È solo una questione di perseveranza.
   Era il 1994 quando quattro ciclisti urbani di Tel Aviv presentarono al consiglio comunale della città israeliana un piano per promuovere la bicicletta come nuovo mezzo di trasporto. Il no fu categorico. Ridendo risposero loro: siamo mica nei Paesi Bassi. Assioma che prevedeva tre corollari: le bici sono cosa da terzo mondo; gli israeliani sono troppo abituati a guidare per poter anche soltanto prendere in considerazione la possibilità di perdere una corsia; Tel Aviv guarda al futuro, altro che pedalare: avremo una metropolitana con tre linee.
   Per la metro toccherà aspettare ancora del tempo. Ventisei anni sono passati e non è stata ancora finita. In compenso però la risata di allora, si è trasformata prima in progetto, infine in realtà. A oggi in città ci sono centoquaranta chilometri tra corsie e piste ciclabili sugli ottocentocinquanta di rete viaria.
   Una rete ciclabile ormai insufficiente. E così a maggio il comune ha approvato un piano per la realizzazione di altri centosessanta chilometri entro il 2025. Nuovi tratti che metteranno in comunicazione quelli già esistenti per dare continuità all'infrastruttura. Il motivo è semplice: "La bicicletta crea benefici per l'intera comunità, abbassa i costi sanitari e migliora la qualità della vita e dell'aria della città. Inoltre è un volano per l'economia. Aumenta la capacità di spesa delle persone e porta turismo", ha sintetizzato il vicesindaco Meital Lehavi.
   Un cambiamento che non riguarda solo Tel Aviv, dove nel 2019 il 15 per cento degli spostamenti sono stati fatti pedalando e la bicicletta è usata regolarmente dal 20 per cento della popolazione. Ma che si sta espandendo. Dal nord del paese, Nahariya, sino al golfo di Aqaba, Eilat. Dalle coste del Mediterraneo, Haifa e Netanya, al lago di Tiberiade. E pure a Gerusalemme dove solo fino a un decennio fa l'utilizzo della bici era considerato impossibile "perché troppo collinare e troppo trafficata", disse l'ex ministro dei Trasporti, Shaul Mofaz.
   Colline e traffico non sono spariti, "eppure il numero di biciclette in città negli ultimi anni è aumentato continuamente. Tra il 2017 e il 2019 circa del 200 per cento", spiega al Foglio mobilità Doc Orijlbrek, cicloattivista ed ex membro dell'Agenzia israeliana per la sicurezza stradale. "Un incremento percentuale che sembra enorme, ma il numero assoluto è ancora esiguo. Gerusalemme, rispetto a Tel Aviv e Haifa, è ancora molto indietro. Al momento esistono una cinquantina di chilometri di percorsi ciclabili. Che è poco, soprattutto perché oltre un terzo sono all'interno di parchi o aree verdi".
   L'amministrazione comunale di Gerusalemme nel 2018 aveva approvato un piano di incentivo alla ciclabilità. Poco o nulla è stato fatto sino a oggi. Il Covid ha però reso necessario un ripensamento. Al vaglio dell'amministrazione c'è un nuovo piano strategico che prevede un rafforzamento della rete viaria dedicata alle biciclette e portarla a 188 chilometri entro il 2025. A differenza di quello approvato due anni fa il nuovo progetto non prevede la creazione di piste esterne alla carreggiata, ma corsie ciclabili.
   "Se inizia a cambiare pure Gerusalemme la transizione verso un nuovo modo di muoversi sarà irreversibile", dice Ben Klein, professore di storia in un liceo di Tel Aviv, cicloattivista e avventuriero a pedali. Klein in sella a una bicicletta ha compiuto due giri del mondo seguendo due itinerari diversi. "Solo vent'anni fa usare la bicicletta per muoversi sembrava utopia, oggi è realtà in molte città. E anche fuori città. È stato realizzato l'Israel bike trail, una ciclovia, quasi tutta sterrata, che unisce Hermon a Eilat: dall'estremo nord all'estremo sud. E funziona. Ci sono centri di assistenza, ristoranti, bar disseminati lungo l'itinerario. Quasi ventimila persone all'anno pedalano lì. Qualcuno lo fa tutto, la grande maggioranza solo qualche tratto. E c'è sempre più gente che ha scelto la bici come principale mezzo di trasporto".
   Klein ritiene che c'è stato "un fortunato cocktail di eventi" alla base della scoperta della bicicletta da parte degli israeliani. "Ho sentito dire da diversi politici che l'aumento dei ciclisti è stato causato dalla nuova coscienza ambientalista. La bici non la scegli perché ecologica, la scegli perché è meglio. A spingere la gente a pedalare non è stato il rispetto dell'ambiente, è stato il traffico, il comprendere che stare in coda è tempo perso. È stato il farsi i conti in tasca, il capire che quelli per la benzina sono soldi buttati. È stato un cambio di percezione: il ciclista non è più uno sfegato, ma è un figo. Conta più una bici pedalata da Bar Rafaeli che cento convegni. Sono state le infrastrutture. È stata, in parte, la tecnologia. Le ebike hanno messo in sella gente che non avrebbe mai preso una bici. E se vedi che pedalare non è solo fatica e sudore, la bici diventa un messaggio comprensibile a tutti. E poi c'è il ciclismo. Il Giro d'Italia del 2018 è stato un volano pazzesco. Per una settimana ovunque si parlava di ciclismo. E se parli di qualcosa poi ti sale la curiosità".
   È stato Sylvan Adams, il patron della Israel Start Up Nation, la squadra che ha tesserato Chris Froome per la prossima stagione, a volere e a impegnarsi per organizzare la partenza della corsa rosa a Gerusalemme. Una mossa inserita all'interno di un progetto per rendere Israele "l'Olanda del Medio oriente". "Ci vuole ancora decenni, ma la strada intrapresa è quella giusta", conclude Klein.

(Il Foglio, 22 dicembre 2020)


Al Jazeera spiata con il software di Israele

Dozzine di giornalisti sotto controllo. I mandanti: sauditi ed emiratini

di Chiara Clausi

Una spy story che ricorda John Le Carré e ha conquistato tutti i riflettori. Dozzine di giornalisti di Al Jazeera sono stati presi di mira da spyware avanzati venduti da un'azienda israeliana, la Nso Group, in un attacco probabilmente collegato ai governi dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. I ricercatori di Citizen Lab dell'Università di Toronto hanno pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio come il software Pegasus abbia infettato i telefoni cellulari di 36 giornalisti, produttori, conduttori e dirigenti della tivù con sede in Qatar. Un attacco informatico senza precedenti. Ma Citizen Lab ha anche affermato che era probabile che fosse stata scoperta solo una «minuscola frazione» degli attacchi. L'ultimo sembra aver utilizzato una tecnologia «zero clic»: il che significa che gli obiettivi non avrebbero dovuto fare clic su un collegamento dannoso per essere infettati. La tecnologia sta diventando «più sofisticata, meno rilevabile», ha evidenziato Citizen Lab.
   Tamer Almisshal, il giornalista investigativo di Al Jazeera che ha fatto emergere il caso, ha rivelato che il suo cellulare è stato fatto analizzare dopo che erano state ricevute minacce di morte sul telefono utilizzato di solito per chiamare i ministeri degli Emirati Arabi Uniti per raccogliere informazioni. «Hanno minacciato di farmi diventare il nuovo Jamal Khashoggi», ha raccontato Almisshal. «Così abbiamo consegnato il telefono a Citizen Lab, che ha scoperto che era stato hackerato». I ricercatori hanno affermato che anche un'altra giornalista, Rania Dridi, presentatrice londinese della rete Al Araby del Qatar, è stata spiata. «Non so come spiegare i miei sentimenti. La tua vita privata, non è più privata. Non è stato per un mese, è stato per un anno. Quello che è accaduto ti fa sentire insicuro».
   Ha poi aggiunto che credeva di essere stata presa di mira perché si è occupata di argomenti delicati come i diritti delle donne oppure perché un suo stretto collaboratore è noto per essere un critico duro dei governi saudita ed emiratino. Ma non è la prima volta che Nso finisce sotto i riflettori. Alla fine del 2018 Omar Abdulaziz, un dissidente saudita vicino al giornalista assassinato Jamal Khashoggi, ha avuto il suo telefono infettato da questo software, utilizzato dalle autorità saudite per spiare le comunicazioni di Abdulaziz con Khashoggi, ucciso e smembrato nel consolato saudita a Istanbul nell'ottobre 2018.
   Ma su quanto accaduto ai giornalisti di Al Jazeera, Almisshal è stato molto duro: si tratta di «un crimine contro il giornalismo. Grazie a questo spyware, giornalisti sono stati arrestati, fatti sparire o addirittura uccisi. Khashoggi è solo un esempio». E' evidente che l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti continuano a vedere la tivù qatarina come una grave minaccia ai loro interessi. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno imposto al Qatar un ferreo boicottaggio nel giugno 2017, accusando Doha di sostenere il «terrorismo» e di avere legami troppo stretti con l'Iran. Queste nazioni hanno rese note 13 richieste per porre fine al blocco, inclusa la chiusura di Al Jazeera. Il Qatar si è rifiutato di soddisfare qualsiasi richiesta che minasse la sua sovranità.

(il Giornale, 22 dicembre 2020)


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Per spiare i giornalisti di Al Jazeera usati server anche in Italia?

Nel report dello scandalo rivelato dal Citizen Lab dell'università di Toronto si legge che la società israeliana NSO Group ha utilizzato anche server presenti in Italia per spiare i 36 dipendenti dell'emittente televisiva Al Jazeera, a Doha in Qatar.

di Luigi Garofalo

Come è avvenuto l'attacco con lo spyware e quali dati sono stati spiati
 
 
Ecco tutti i dati che il sofwtare spia 'Pegagus' è in grado di trasferire sui server del NSO Group
"L'infrastruttura utilizzata in questi attacchi includeva server in Germania, Francia, Regno Unito e Italia", si legge anche questo nello scandalo rivelato dal Citizen Lab dell'università di Toronto, secondo cui 36 dipendenti dell'emittente televisiva Al Jazeera, nella sede di Qatar, (giornalisti, produttori, conduttori e dirigenti), sono stati spiati, a luglio e agosto 2020, dal software 'Pegasus' fornito da NSO Group, nota azienda israeliana che vende strumenti di intrusione digitale alla polizia e alle agenzie di spionaggio. In questo caso il software, si legge nel report, è stato utilizzato per conto del governo di Riad e degli Emirati Arabi Uniti. "Anche il telefono personale di un giornalista della TV londinese 'Al Araby' è stato violato", ha documentato il Citizen Lab dell'università di Toronto.
   NSO Group è stata ritenuta da subito anche responsabile della creazione dello spyware che ha infettato l'iPhone X dell'uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos.
   Secondo le prove del Citizen Lab, gli smartphone "sono stati compromessi utilizzando una catena di exploit che chiamiamo KISMET, trasmesso attraverso iMessage di iPhone nei giorni in cui gli utenti non scrivevano messaggi con l'app".
   I giornalisti sono stati hackerati da quattro operatori del software "Pegasus", si legge nel report di denuncia, "tra cui un operatore MONARCHY che attribuiamo all'Arabia Saudita e un operatore SNEAKY KESTREL che attribuiamo agli Emirati Arabi Uniti".
   Citizen Lab dell'università di Toronto ha anche comunicato di aver condiviso le loro scoperte con Apple e "ci hanno confermato che stanno esaminando il problema".
   Tutti i possessori di iPhone sono invitati a fare l'aggiornamento all'ultima versione del sistema operativo, perché "dovrebbe garantire nuove protezioni contro questo genere di attacchi".
   Ricordiamo che il software 'Pegagus' di hackeraggio viene venduto dall'azienda israeliana solo a governi stranieri per intercettare gruppi ristretti, non gli utenti medi". Ma si sa che gli spyware possono finire in mani sbagliate o possono essere utilizzati anche da Governi, in modo illegale, per trasformare gli iPhone in strumenti di sorveglianza ad insaputa dei possessori.
   Server presenti anche in Italia, come si legge nel report di Citizen Lab dell'università di Toronto. Alle autorità competenti il compito di avviare le indagini per accertare la verità ed eventuali reati.
   Nel frattempo negli Usa i Big Tech, tra cui Microsoft e Google, si sono uniti alla battaglia legale di Facebook contro la società israeliana NSO, sostenendo alla corte federale che gli strumenti dell'azienda israeliana sono "potenti e pericolosi".

(key4biz, 22 dicembre 2020)


Canta l'amicizia con Israele. Musicista tunisino minacciato di morte e licenziato

Mentre il mondo arabo fa la pace con lo stato ebraico

di Giulio Meotti

ROMA - Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein e Sudan. E' impressionante la lista dei paesi del mondo arabo islamico che in questi ultimi mesi hanno fatto la pace con Israele. Un cantante tunisino ha pensato che fosse arrivato il momento di mettere in musica quest'atmosfera di normalizzazione che non si vedeva dai tempi della pace con l'Egitto e la Giordania. Così, il 13 dicembre, Noamane Chaari ha caricato su Internet il video di una canzone che aveva appena registrato con un musicista israeliano. La canzone, in arabo, parla di sogni di pace, di ulivi, del mare, di Tunisi, di Gerusalemme. Chaari ha registrato con Ziv Yehezkel, un ebreo iracheno. Un invito a costruire ponti tra ebrei e arabi. Ospite di una trasmissione della famosa stazione radio Mosaìque Fm, il giovane musicista è stato oggetto di minacce di morte. Sottolineando che l'autore dei testi, un poeta yemenita, è rimasto anonimo per non rischiare la decapitazione nel suo paese, il conduttore Hedi Zaiem ha chiesto: "Cosa succederà all'uomo che l'ha cantata?"
   Minacciato di morte, licenziato dal suo datore di lavoro, il canale 1 della televisione pubblica, Noamane Chaari racconta ora all'Obs: "Sono stato accusato di spionaggio e tradimento. Alcuni media hanno deliberatamente cercato di inimicarmi l'opinione pubblica tunisina, invocando la violenza contro di me".
   Così, nel paese in teoria più moderato della regione, l'unica "primavera araba" di qualche successo, è ancora un crimine cantare la pace con gli ebrei. Il presidente conservatore Kaìs Saìed parla di "entità sionista", come gli ayatollah iraniani. E il sindacato Ugtt, che ha vinto il Premio Nobel per la Pace, ha rimesso sul tavolo l'idea di una legge che criminalizza l'instaurazione di rapporti diplomatici con lo stato ebraico.
   Il sindacato dei professionisti della musica, affiliato proprio all'Ugtt, ha condannato la "provocazione contro il popolo tunisino e tutto il popolo arabo" di Chaari. Il cantante si era anche recato in Israele con una delegazione araba. Si è esibito nei territori palestinesi, a Ramallah e nei villaggi arabi israeliani. La sua "colpa" è anche quella di avere scritto la canzone con un ebreo di origini irachene e di madre marocchina, mentre le immagini di Baghdad compaiono insieme a quelle di Tunisi nel video musicale. Dietro, ovviamente, c'è la lunga storia degli ebrei arabi, scacciati nell'ordine di un milione dopo la nascita di Israele. Un grande tabù che, in Tunisia, è simboleggiato dalla sinagoga di el Ghriba, a Djerba. "La cosa migliore che puoi fare adesso è guardare la telecamera e chiedere scusa ai tunisini", intima a Chaari un conduttore televisivo. "Perché dovrei scusarmi? Non ho fatto niente di male". "Hai cantato con un israeliano e non chiedi scusa? Tutti gli artisti tunisini ti boicotteranno. Nessuno lavorerà più con te". Chaari osserva che "le minacce provengono da un gruppo Facebook che ha molti giornalisti tra i membri". Dalla sua pagina ufficiale riceve messaggi privati: "Morirai come tuo padre".
   Da quattro settimane Chaari partecipava a un programma trasmesso dal canale nazionale Wataniya. Dopo la clip, il musicista ha ricevuto una telefonata che gli diceva di "restare a casa per un mese".
   La normalizzazione culturale resta tabù. Amin Maalouf, lo scrittore franco-libanese, per aver parlato al canale israeliano i24, è stato al centro di una campagna con richieste di privarlo della cittadinanza libanese e di metterlo a processo. Stessa sorte per il regista libanese Ziad Doueiri, reo di avere girato alcune scene in territorio israeliano. A Boualem Sansal hanno tolto il premio che gli era stato consegnato per avere scritto il romanzo arabo di maggiore successo in Francia dopo che aveva partecipato a un festival letterario a Gerusalemme. Per avere visitato Israele, il grande scrittore egiziano Ali Salem ha visto la propria carriera distrutta per sempre. E il boicottaggio ha colpito anche lo scrittore algerino Yasmina Khadra, reo di favorire la normalizzazione con lo stato ebraico. Quando Sarah Idan, la regina di bellezza dell'Iraq, ha fatto un selfie con Miss Israele, si è scatenato un concorso di violenza verbale. Senza la normalizzazione culturale e lo sdoganamento del tabù ebraico, il mondo arabo costruirà soltanto una pace di carta con Israele.

(Il Foglio, 22 dicembre 2020)


Israele, parte la campagna di vaccinazioni

Il via giovedì, già duecentomila prenotazioni. In arrivo quattro milioni di dosi entro fine anno. Ma il governo studia nuove misure restrittive.

di Sharon Nizza

Il Capo di Stato Maggiore dell'esercito israeliano, Aviv Kohavi, si fa vaccinare in pubblico
TEL AVIV - La campagna vaccinazione contro il Covid iniziata ieri in Israele sta riscontrando grande partecipazione da parte della popolazione. Secondo i dati rilasciati dalle quattro casse mutua che gestiscono l'operazione, 200.000 israeliani hanno già prenotato il loro appuntamento per l'inoculazione da quando si è aperta la possibilità giovedì sera. L'inizio della campagna era previsto per il 27 dicembre, ma la settimana scorsa è stato anticipato, con il premier Benjamin Netanyahu e il ministro della Salute Yuli Edelstein che sabato sera si sono sottoposti per primi all'iniezione del vaccino Pfizer, in diretta televisiva.
   L'anticipo ha causato alcuni problemi logistici per le casse mutua, come l'intasamento del sistema di prenotazioni, lunghe attese telefoniche o l'impossibilità di prenotare in questa fase anche la seconda iniezione, che va effettuata a distanza di 21 giorni dalla prima. Tuttavia, il ministero della Salute ha espresso soddisfazione per la risposta dei cittadini. Le casse mutua hanno inviato sms ai rispettivi iscritti informando che verranno contattati, a seconda delle fasce di età e del background medico, per fissare gli appuntamenti. Al contempo, i cittadini a cui in questa prima fase è aperta la vaccinazione - ovvero sopra i 60 anni e pazienti a rischio a causa di malattie pregresse - possono prenotarsi per telefono oppure online. "Venerdì sera ho provato a prenotarmi online e ho ottenuto l'appuntamento domenica, così ho già fatto la prima iniezione" ci racconta Dani Sher, che, superati i 70 anni rientra tra gli aventi diritto. "La maggior parte dei miei conoscenti ha ottenuto appuntamenti nell'arco di una settimana".
   "Il fatto che abbiamo già iniziato la campagna di vaccinazione a un ritmo molto serrato, mi fa prevedere che per il prossimo Pesach (la Pasqua ebraica, che si terrà a fine marzo, ndr) potremo già festeggiare senza le restrizioni che hanno caratterizzato le festività nel 2020" ci dice il professore Jonathan Halevy, presidente dell'Ospedale Shaarè Zedek di Gerusalemme.
   "L'obiettivo è vaccinare 60.000 persone al giorno, il che significa che in 100 giorni la totalità della popolazione potrà essere vaccinata", spiega Halevy. La popolazione israeliana conta 9,2 milioni di abitanti, ma da questa cifra vanno sottratti i cittadini sotto i 16 anni - non vaccinabili con i preparati in dotazione finora - e quanti hanno già contratto il virus. Questa mattina il direttore generale del ministero della Salute ha annunciato che, diversamente da quanto comunicato nelle settimane precedenti, anche le donne incinte, che allattano o che programmano una maternità potranno vaccinarsi e saranno inserite nella categoria di cittadini con accesso prioritario all'inoculazione.
   Il vaccino in uso in Israele è quello di Pfizer, di cui al momento vi sono 600.000 dosi nel Paese. Entro la fine di dicembre arriveranno altri quattro milioni di dosi, sufficienti per 2 milioni di persone. Israele ha chiuso contratti anche con Moderna e AstraZeneca per un totale di 24 milioni di vaccini, sufficienti per 12 milioni di persone. Il surplus potrebbe essere trasferito - non è ancora chiaro in che modalità - all'Autorità Nazionale Palestinese, da dove decine di migliaia di lavoratori palestinesi entrano in Israele quotidianamente. Il professore Halevy ci conferma che funzionari del ministero della salute israeliano sono in contatto con omologhi palestinesi per accertarsi che anche l'Autorità Palestinese inizi a breve la campagna vaccini.
   Secondo i sondaggi della settimana scorsa, il 63% degli israeliani si diceva propenso alla vaccinazione. "Credo che l'esempio dato dalle istituzioni politiche, dal personale sanitario, ma anche dai leader religiosi abbia spinto la gente ad avere più fiducia nel vaccino e prevedo che l'adesione sarà più vasta" dice Halevy. "Pensiamo al personale medico: i sondaggi iniziali indicavano che un 25% era riluttante a farsi vaccinare, ma, come posso testimoniare dall'adesione nel nostro ospedale, credo che questa cifra gradualmente si ridurrà a una cifra irrisoria, intorno al 4%".
   Grandi compagnie come la società elettrica, l'industria aeromobile o il colosso del cyber Check Point - che ancora lavorano a distanza o a personale ridotto - stanno cercando di ottenere la priorità nella fila degli aventi diritto al vaccino per i propri lavoratori, "in quanto si tratta di lavoratori vitali".
   "Non è pensabile imporre la vaccinazione in un Paese democratico, ma probabilmente il ritorno alla normalità verrà facilitato per chi si sarà sottoposto all'iniezione" dice Halevy. "Per esempio con l'esenzione dalla quarantena per chi viaggia, oppure con la possibilità di accedere a ristoranti o al teatro, che prevedo verranno riaperti con l'avanzare della campagna vaccini".
   E mentre il Paese festeggia l'euforia di quella che potrebbe essere una prima luce verso il ritorno a una vita non condizionata dal distanziamento fisico, il governo sta valutando nuove misure restrittive a fronte del continuo aumento dei contagi negli ultimi giorni. Oggi inoltre è stato deciso che, a partire da mercoledì, gli israeliani che rientrano da qualsiasi Paese verranno obbligati alla quarantena negli hotel Covid dedicati, provocando quindi un rientro di massa di decine di migliaia di turisti che si erano recati all'estero per scampare alle restrizioni in casa.
   
(la Repubblica, 22 dicembre 2020)


Il Natale tra false teologie e verità evangeliche

di Tommaso Todaro

Ad ogni vigilia di Natale tutti diventano buoni, ma c'è sempre qualcuno che è più buono degli altri.
Si moltiplicano presepi, alberi di Natale più o meno accuratamente addobbati e si fanno acquisti straordinari per alimenti e libagioni.
Qualcuno, per sentirsi più leggero, fa anche un poco di carità, preferibilmente per via telematica mediante interposte associazioni, magari religiose e di facciata, incessantemente martellati da lacrimevoli implorazioni pubblicitarie ma ignorando quale sia il vero significato di prossimo: colui con il quale si ha un diretto contatto umano fatto di amore, pietà e desiderio di lenire le altrui sofferenze.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …» Anche qua il Vangelo ha qualcosa da insegnare.
Chi legge e ama i Vangeli non può che rimanere sconcertato di fronte a tanta ipocrisia, superficialità, indifferenza e perché no, anche ignoranza della vera essenza del Natale.
«Or in quella medesima contrada v'eran de' pastori che stavano ne' campi e facean di notte la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annunzio di una grande allegrezza che tutto il popolo avrà: Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.» (Luca 2:8-11)....

(Nuovo Monitore Napoletano, 21 dicembre 2020)


L'Europa smetta di votare contro Israele

Le solite risoluzioni alle Nazioni Unite

Scrive Yedioth Ahronoth (15/12)

Lo stesso giorno in cui Israele riceveva la lieta notizia della normalizzazione dei rapporti con il Marocco, tutto era business as usual per il resto della comunità internazionale, con l'Assemblea generale delle Nazioni Unite che adottava sette risoluzioni contro lo stato ebraico (un trattamento che non viene riservato a nessun altro stato membro ndr)", scrive Ben Dror Yemini. "E' vero, ci sono molti altri paesi nel mondo. Ed è vero che in un elenco di paesi che violano i diritti umani, Israele non figurerebbe di certo tra i primi 10 e nemmeno tra i primi 20 o più. Milioni di persone nel mondo sono state chiuse in `campi di rieducazione', vasti territori sono stati occupati, migliaia di civili sono stati uccisi, centinaia di giornalisti sono imprigionati e molto altro ancora. Ma niente di tutto ciò sembra interessare la comunità internazionale. Solo Israele. Di tutti i paesi occidentali solo il Canada e gli Stati Uniti, oltre naturalmente Israele, hanno votato contro questa risoluzione. La Germania, purtroppo, ha votato a favore. Il che è interessante, visto che tra le decine di milioni di profughi creati in quegli anni, almeno 12 milioni erano persone di lingua tedesca espulse dopo la Seconda guerra mondiale dalla Repubblica Ceca, dalla Polonia e da altri paesi. Pagavano il prezzo dell'aggressione tedesca. C'è qualche differenza tra i profughi dalla Palestina e i profughi dalla Polonia o dalla Repubblica Ceca? No, non c'è. Ma quando si parla del conflitto arabo-israeliano la Germania, come tutti gli altri paesi europei, sostiene automaticamente la pretesa palestinese del 'diritto al ritorno' nelle antiche case. E stando agli stessi che insistono con questa richiesta, si tratta in realtà di un'istanza per l'eliminazione dello stato ebraico. Che non è verosimilmente l'intenzione della Germania, della Danimarca o della Francia. Ma quando questi paesi votano più e più volte in modo così vergognoso e ipocrita, non aiutano di certo i palestinesi a uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Al contrario. Non c'è alcuna possibilità al mondo che i palestinesi abbandonino la pretesa di eliminare lo stato ebraico quando viene appoggiata dagli amici d'Israele in Europa. C'è da chiedersi come mai Israele non abbia posto una semplice domanda alla Germania: perché sostenete il `diritto al ritorno' quando si tratta dei palestinesi, ma vi guardate bene dal farlo quando si tratta dell'Europa? E quando continuate a parlare della nakba palestinese, perché diavolo dimenticate o vi rifiutate di riconoscere la nakba ebraica? I profughi ebrei non avevano dichiarato guerra ai paesi arabi in cui vivevano. Eppure vennero espulsi o costretti a fuggire, e alla maggior parte di loro fu sequestrato e confiscato ogni bene e ogni proprietà. La definizione operativa di antisemitismo dell'Ihra, adottata da molti paesi inclusa la Germania, lo indica tra l'altro come `applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele, richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico'. Quindi sì, quando vota in questo modo all'Onu, la Germania (e l'Europa ndr) si comporta in modo antisemita e non c'è motivo per non dirlo".

(Il Foglio, 21 dicembre 2020)


Gli Accordi di Abramo e la diplomazia delle fragole

Digital Farming tra Israele ed Emirati

di Marco Magnani, Stefania Scarpino

 
Tra i primi effetti degli Accordi di Abramo - firmati a Washington il 15 settembre scorso da Emirati Arabi Uniti (Eau), Bahrain e Israele - vi sarà certamente una maggiore cooperazione economica tra i Paesi aderenti.
Solo un mese dopo lo storico volo che trasportò la delegazione israelo-americana ad Abu Dhabi per negoziare l'accordo, l'agenzia governativa Abu Dhabi Investment Office ha annunciato l'apertura a Tel Aviv della sua prima (e unica) sede estera. L'obiettivo è costruire una solida collaborazione in alcuni settori strategici, a cominciare dal digital farming.

 Petrolio e agricoltura digitale
  La resilienza nel settore agroalimentare è un tema di rilevanza storica nella penisola arabica. Avverse condizioni climatiche, limitate risorse idriche e scarsa qualità del suolo, rendono da sempre i paesi della regione importatori netti di beni alimentari.
Negli Emirati l'agricoltura vale solo lo 0,73% del Pil. Le conseguenze negative di questa situazione sono state storicamente disinnescate dalla prosperità economica dovuta alle esportazioni di petrolio. Ma la sostenibilità di questo modello nel lungo periodo è messa a rischio da trend quali la crescente lotta al cambiamento climatico, la transizione da idrocarburi a energie rinnovabili, il calo della domanda di petrolio dovuto al rallentamento dell'economia mondiale. Tutti fattori che portano al progressivo declino degli introiti del greggio e suggeriscono la diversificazione dell'economia.
Per questi motivi gli Eau, ulteriormente stimolati dalla necessità di rilanciare la crescita nell'era post Covid-19, stanno puntando sull'agricoltura digitale. Un settore con enormi prospettive di crescita, grazie alle crescenti necessità alimentari a livello globale, che sostengono la domanda, e ai continui progressi della tecnologia digitale, che consente incrementi di produttività ed espansione dell'offerta.

 Agritech negli Emirati
  Già nel marzo 2019 il governo di Abu Dhabi ha aumentato di circa 1,5 miliardi di dollari la spesa in ricerca e sviluppo da indirizzare a food security e water scarcity, ponendosi due ambiziosi obiettivi per il 2051: incrementare la produzione agricola del 30% e conquistare il primo posto del Global Food Security Index.
Inoltre, gli Eau hanno lanciato un pacchetto d'incentivi pubblici di oltre 270 milioni di dollari a specifico sostegno dell'agritech. L'accordo con Israele potrebbe consentire un ulteriore salto di qualità per trasformare la regione in un hub internazionale del desert farming.
L'opportunità per gli Eau è economica, strategica, e diplomatica. Contrariamente al resto dell'economia del Golfo, colpita da recessione e crollo del prezzo del petrolio, l'agritech sta registrando livelli di crescita record. E la necessità di rafforzare le catene di distribuzione regionali, in reazione alla pandemia globale, attira investimenti da Paesi limitrofi, quali Kuwait e Arabia Saudita. Inoltre, acquisire una leadership internazionale nel settore garantirebbe agli Emirati un peso politico rilevante nei confronti dei tanti Paesi alle prese con simili sfide di produzione alimentare e un ruolo significativo nella sfida globale alla fame nel mondo.

 Israele partner ideale
  Israele è il partner ideale per perseguire questa visione strategica. Perché quanto a innovazione è un punto di riferimento a livello internazionale e perché ha accumulato una straordinaria esperienza nel settore agricolo.
All'alba della dichiarazione d'indipendenza del 1948, Israele si trovò ad affrontare una seria emergenza alimentare a causa delle limitate risorse naturali, del rapido aumento della popolazione dovuto alle ondate migratorie, e della forte incertezza geopolitica. Oggi il Paese, nonostante un territorio poco favorevole (per la World Bank solo il 13,6% è coltivabile), è vicino all'autosufficienza nella produzione agricola ed è leader mondiale dell'agricoltura tecnologica.
Esperienza accumulata, successi ottenuti e capacità di attrarre investimenti dell'agritech da parte di Israele, rappresentano una grande opportunità per gli Eau. Il 60% dell'export agricolo di Tel Aviv proviene infatti da una regione che geograficamente ricalca le caratteristiche del Golfo. Inoltre, gli israeliani hanno sviluppato tecnologie all'avanguardia per la desalinizzazione dell'acqua.
L'incontro tra know how e tecnologie israeliane da una parte e visione strategica e investimenti degli Eau dall'altra, potrebbe creare - letteralmente - il "terreno fertile" per la nascita di un centro d'eccellenza dell'agricoltura digitale applicata agli ambienti desertici.

 Fragole, mirtilli e pomodori nel deserto
  La normalizzazione delle relazioni politiche tra Israele e Eau sta stimolando un'ampia collaborazione in ambito agricolo. L'israeliana Nobel Green, specializzata nel marketing dell'agribusiness, e AgraMe, la più grande esposizione del settore ospitata annualmente a Dubai, hanno siglato un importante accordo di cooperazione e condivisione di best practice. OurCrowd, la principale piattaforma di venture capital israeliana, ha siglato una partnership con il gruppo emiratino Al Naboodah per favorire investimenti bilaterali nell'agritech.
Abu Dhabi ha annunciato la costruzione nel deserto arabico della più grande indoor farm del mondo, che produrrà 10mila tonnellate annue con il 95% di risorse idriche in meno rispetto a quanto richiesto dai metodi tradizionali. Per questo gli Eau stanno inviando osservatori nel deserto del Negev, nel sud di Israele, per acquisire tecniche di desalinizzazione dell'acqua e competenze agricole, soprattutto per la produzione in serra di fragole, mirtilli e pomodori.
Gli accordi sottoscritti da Israele e Eau sono storici. La collaborazione nel digital farming potrebbe essere solo un punto di partenza. Per soddisfare i bisogni alimentari della penisola arabica, stabilire una più ampia cooperazione economica e tecnologica, mantenere buone relazioni diplomatiche nel lungo periodo. Tuttavia, solo il tempo dirà se la diplomazia delle fragole può portare stabilità e pace nella regione.

(Affarinternazionali, 21 dicembre 2020)


Raggi solari, turbine e intelligenza artificiale. Come creare energia nel deserto

La BrightSource racconta la sua tecnologia per costruire centrali elettriche ad energia solare. Fra torri alte centinaia di metri, campi di specchi e un uso sempre maggiore di dati e algoritmi.

di Jaime D'Alessandro

 
 
E' nata nel 2006 ed è diventata celebre per quella che sembra una installazione: tre torri alte centinaia di metri circondate da campi di specchi capaci di generare 377 megawatt nel deserto del Nevada. Il biglietto da visita di BrightSource, azienda americana con radici in Israele, è questo: una tecnologia capace di generare energia come le centrali elettriche tradizionali, creando vapore ad alta temperatura per far girare le turbine. Ma invece di utilizzare combustibili fossili o energia nucleare, BrightSource sfrutta i raggi del Sole.
   Ora, dopo il progetto in Nevada del 2013, sta aprendo una nuova centrale presentata anche alla Maker Faire di Roma. La stanno costruendo in collaborazione con la General Electric in un altro deserto, quello del Negev, a 130 chilometri a sud di Gerusalemme. La torre centrale è alta 250 metri e l'intero impianto di Ashalim è capace alimentare 100 mila abitazioni.
   "Usiamo un sistema di specchi che riflettono la luce verso una torre", racconta Gil Kroyzer, vice presidente della compagnia che si occupa di ricerca e sviluppo nelle soluzioni che servono a gestire gli impianti basati su tecnologia a concentrazione solare, nota in inglese come concentrating solar power (Csp). "Siamo stati fra i primi a impiegare questo tipo di soluzione e nel 2015 abbiamo aggiunto un'innovazione che permette di immagazzinare l'energia durante il giorno per continuare a fornirla di notte".
   Quella dell'accumulo di energia è un tassello essenziale essendo sia il solare sia l'eolico dipendenti dalle condizioni meteorologiche. Per questo i colossi del web, che stanno virando rapidamente verso le rinnovabili per i loro data center, usano da un lato l'intelligenza artificiale per ottimizzare i consumi e per prevedere quando ci sarà vento e sole, dall'altro impiegano le batterie per conservare l'energia in eccesso. BrightSource sta facendo la stessa cosa nelle sue centrali, l'ultima delle quali in costruzione negli Emirati Arabi Uniti, per riuscire a fornire elettricità in maniera continuativa in ogni condizione.
   Rispetto al fotovoltaico, che genera elettricità direttamente dal calore del Sole, le centrali termiche che usano il solare per generare il vapore necessario a far girare le turbine come quelle della BrightSource, hanno più facilità nell'immagazzinare energia da usare quando il Sole non c'è. La compagina di Kroyzer ha in più puntato sulla struttura a torre centrale che a loro avviso sarebbe la più efficiente.
   "Nei nostri sistemi di controllo impieghiamo tanto la visione artificiale quanto gli algoritmi predittivi", spiega l'ingegnere israeliano. "Ci servono per calibrare gli specchi e posizionarli nella maniera migliore possibile ottimizzando momento per momento il calore prodotto. Ma usiamo le Ai anche per le previsioni meteo così da avere un'idea precisa di quanta energia riusciremo a produrre. L'uso dei dati è essenziale, costruire centrali non basta. Il mondo delle rinnovabili ha bisogno di strategie complesse che si possono mettere in campo solo grazie alla tecnologia".
   Secondo lui, il settore energetico si è mosso fino a poco fa con logiche molto conservative rimanendo ai margini dell'innovazione digitale. Per questo si vanta di assumere ingeneri ed esperti che vengono da settori molti diversi. Per Gil Kroyzer e i suoi è quella la chiave del futuro.

(la Repubblica, 21 dicembre 2020)


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Entro vent'anni anche il sud dell'Europa avrà il suo deserto

Siccità e pandemia i temi al centro della Conferenza internazionale sulle terre aride, i deserti e la desertificazione (DDD). "Il degrado della terra ha un chiaro impatto su tutti gli ecosistemi naturali".

di Sharon Nizza

 
GERUSALEMME - Ogni ora della giornata, 1300 ettari di terra coltivabile diventano inutilizzabili a causa della desertificazione e della siccità, per un danno economico che ammonta a 42 miliardi di dollari l'anno. È uno dei dati sconvolgenti su si è discusso durante la Conferenza internazionale sulle terre aride, i deserti e la desertificazione (DDD) che si è tenuta a novembre e promossa dall'Istituto Jacob Blaustein per la Ricerca del Deserto dell'Università di Ben Gurion, in coordinamento con la Convenzione contro la desertificazione dell'Onu (UNCCD). La sua settima edizione, in versione virtuale come da protocollo Covid, ha richiamato ancora una volta la comunità scientifica e tutti quanti hanno la lungimiranza di capire che la sfida della desertificazione impatta l'intero globo e va affrontata a partire da ieri.
   Una sfida che non conosce confini. La connessione tra cambiamenti climatici e fenomeni migratori, la diffusione di nuove malattie, la necessità di intraprendere azioni decisive verso soluzioni agricole sostenibili, oltre alla presentazione delle ricerche più innovative nel settore, sono state al centro della tre giorni che ha visto la partecipazione di oltre 2000 iscritti da 108 Paesi, tra cui anche il nuovo alleato israeliano, gli Emirati Arabi Uniti, e l'acerrimo rivale, l'Iran.
   Uno degli argomenti affrontati ha riguardato proprio la connessione tra pandemia e desertificazione. "Il degrado della terra ha un chiaro impatto su tutti gli ecosistemi naturali" dice il professor Shimon Rachmilevitch, presidente della conferenza. "Gli animali lasciano i propri habitat naturali e si spostano verso realtà urbanizzate, portando gli umani ad essere esposti a nuovi e diversi organismi, come il Covid-19".
   La sfida n. 1: la razionalizzazione delle risorse idriche. "Stiamo vivendo un'era drammatica" dice a Green&Blue Aaron Fait, originario di Bolzano, da quasi trent'anni in Israele, professore di biochimica vegetale all'Istituto Blaunstein, con una specializzazione nella viticultura in zone climatiche estreme. "Lo sfruttamento delle aree destinate alla produzione agricola ha raggiunto la saturazione. Lo spreco idrico nell'irrigazione è insostenibile: per un'arancia che mangiamo, vengono utilizzati in media 50 litri d'acqua!"
   Tra i wadi del deserto roccioso del Negev nei pressi del Kibbutz Sde Boker - il luogo che il fondatore dello Stato, David Ben Gurion, negli anni '60 scelse come casa per dare corpo al suo motto "fare fiorire il deserto" - l'Istituto Blaunstein è considerato un'eccellenza mondiale nella ricerca per contrastare siccità e aridità. Tanto che qui la desertificazione è un fenomeno sotto controllo, proprio per via dell'investimento in tecnologie mirate alla coltivazione dei terreni aridi e al risparmio idrico. Tra queste dune è stata inventata l'irrigazione a goccia negli anni '60, e Israele oggi è "il primo Paese al mondo per l'utilizzo di acque riciclate e desalinizzate: costituiscono il 70% del totale delle risorse idriche utilizzate nell'agricoltura" ci dice il professor Fait. Non lontano da qui, nel Centro R&D Aravà, viene prodotto il 70% dell'agricoltura israeliana destinata ad esportazione.
   Una minaccia che ci riguarda sempre più da vicino. Sono sfide che riguardano anche l'Italia: il Cnr riporta il continuo aumento di aree nel Sud del Paese in cui la sostanza organica nel suolo raggiunge un allarmante 2%, come ha ricordato nel suo saluto introduttivo l'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, che da anni testimonia il sostegno del nostro Paese alla conferenza DDD.
   Secondo i ricercatori, è questione di un paio di decenni perché anche il Sud dell'Europa si trovi faccia a faccia con il fenomeno della desertificazione. Per questo c'è molta attenzione verso l'esperienza israeliana. Nel suo ambito, Fait ha avviato svariate cooperazioni con atenei europei, tra cui l'Università di Udine e persino viticoltori da Bordeaux guardano al Negev, dove, nonostante le condizioni climatiche sfavorevoli, negli ultimi 15 anni sono nate ben 20 aziende vinicole di successo.

(la Repubblica, 1 dicembre 2020)


Cinquantamila israeliani hanno già visitato gli Emirati Arabi Uniti dopo gli Accordi di Abramo

di Paolo Castellano

Da quando Israele ha normalizzato i rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti, più di 50mila israeliani hanno visitato il paese arabo. Queste cifre turistiche sono state svelate da un articolo comparso il 18 dicembre sul Washington Post.
   In base agi Accordi di Abramo siglati questa estate, oggi i cieli degli Emirati Arabi Uniti sono aperti ai voli commerciali israeliani. Ciò ha permesso ai cittadini d'Israele di poter visitare famose attrazioni turistiche emiratensi come il grattacielo più alto del mondo Burj Khalifa di Dubai e la capitale Abu Dhabi.
   Secondo il Washington Post, le partenze turistiche da Israele verso lo Stato del Golfo verranno incrementate dalla festività di Chanukkà. Quest'anno la festa ebraica può essere celebrata anche negli Emirati Arabi Uniti senza timori di alcun tipo: ai piedi del Burj Khalifa è comparsa una Chanukkiyah in segno di condivisione e accoglienza. Quest'ultimo avvenimento è soltanto uno dei segni della pacificazione tra le due nazioni.
   La comunità ebraica emiratense che si concentra a Dubai, una delle città più importanti degli Emirati Arabi Uniti, ha affermato di aver organizzato uno staff di 30 persone. Inoltre, diversi ristoranti kasher sono stati inaugurati e altri 150 locali hanno adottato cibi conformi alla kasherùt nei loro menù.
   Infine, la comunità sta progettando di costruire un mikvah "conforme agli standard di lusso di Dubai". «Probabilmente sarà il mikvah più bello al mondo», ha dichiarato Rav Mendel Duchman, rappresentante del Centro della comunità ebraica emiratense.
   
(Bet Magazine Mosaico, 21 dicembre 2020)


Miss Francia, sfilata dell'odio. «Sei un'ebrea e devi morire»

La seconda classificata al concorso di bellezza ha parlato delle proprie origini. Onda antisemita sul web. Il ministro degli Interni «scioccato». Crescono i casi di odio e razzismo.

di Francesco De Remigis

 
April Benayoum
«Ho origini abbastanza variegate: mia madre è serbo-croata e mio padre italo-israeliano». Tanto è bastato per trasformare una serata televisiva di gala in una calamita di insulti vomitati on line. Migliaia di utenti, collegati alla finalissima di Miss Francia sabato sera, non hanno gradito la «genealogia» di April Benayoum, 21 anni: una delle protagoniste in gara. Impegnata in una semplice presentazione di se stessa, e del suo melting pot, contro di lei si è scatenata un'assurda campagna d'odio. Ancora una volta, è emerso il lato oscuro di una Francia costretta a fare i conti col dilagare dell'antisemitismo in casa. Tanto da far agire il ministro dell'Interno Gérald Darmanin, «scioccato» per la tempesta di insulti alla 21enne: da «spregevole mélange» a «Hitler, hai dimenticato di sterminare Miss Provenza». La polizia del web si è mossa subito, come pure le procure, allertate dagli esposti della ministra alla Parità donne-uomini Marléne Schiappa sulla base dell'articolo 40 del codice di procedura penale che impone di segnalare un reato di cui si è conoscenza.
   Solo ieri è stato ricostruito il puzzle dei peggiori accenti antisemiti, oltre che di apologia della Shoah: «Israele non esiste, è Palestina, taci, devi morire». L'assalto xenofobo le è costato il gradino più alto del podio. E finita seconda nonostante fosse favorita sulle altre reginette. Quando ha menzionato le sue origini israeliane la «cloaca antisemita» è deflagrata, denuncia la Lega internazionale contro il razzismo e l'antisemitismo (Licra). «Perderai, rimpiangerai di essere viva». Una marea ha invaso Twitter. E in pochi minuti.
    Nessuno pensava che la presentazione di Miss Provenza, in gara per la corona di Miss Francia 2021, potesse innescare una pioggia di commenti antisemiti e tweet di apologia della Shoah. Invece, mentre in Tv si celebrava un concorso di bellezza, la splendida 21enne, fiera (e anche felice) di raccontare il proprio ritratto di famiglia, è stata virtualmente linciata. Fino a costringere la magistratura a intervenire. E la politica tutta a condannare. La piattaforma di monitoraggio Visibrain ha scoperto che i tweet che si riferiscono a Israele sono esplosi dopo il racconto del suo albero genealogico, sfiorando i 40mila. «Condanno assolutamente certi commenti, ma non mi interessano», ha detto la vittima (che ha scoperto tutto a fine concorso). «Non mi sfiorano». Alla fine trionfa Amandine Petit. Anche lei ha espresso «sostegno» alla rivale, indignandosi per l'assurdità dell'accaduto in un concorso di bellezza.
    Nel 2019 toccò alla bellissima Vaimalama Chaves, allora 23enne, a finire nel mirino degli haters. Non appena fu pronunciato il suo nome come vincitrice, fu sommersa: «Cicciona», «è troppo grassa». E via. Stavolta i protagonisti della scandalosa campagna sono «ricercati». Inseguiti dalla giustizia, fa sapere il governo. Oltre alle sue origini, sono state bersagliate anche decine di foto di Benayoum, accusata d'aver ritoccato la vetrina su Instagram al punto da rendersi quasi irriconoscibile una volta «in presenza» su Tfl. Francia dunque nuovamente obbligata a interrogarsi su un antisemitismo sotterraneo che risale in superficie. Sempre più spesso. TF1, come la Endemol, stigmatizzano i commenti contro la giovane donna. «Miss France non è più un concorso di bellezza ma un concorso di antisemitismo», denuncia l'Unione degli studenti ebrei di Francia. Per l'intelligence di prossimità, gli atti antisemiti segnavano +27% (687) già l'anno scorso. Diversi politici hanno anche denunciato la mancanza di reattività di Twitter. «L'antisemitismo non è un'opinione, è un crimine ed è tempo che i social se ne accorgano», dice la vice-sindaca di Parigi Audrey Pulvar.
   
(il Giornale, 21 dicembre 2020)


Marocco, il grande amico di Israele: grazie al Mossad

di Fabio Scuto

Sei decenni di rapporti segreti, militari, politici e culturali tra Israele e Marocco hanno dato frutti pubblici con l'annuncio la scorsa settimana della normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, dopo quelle già avviate con Bahrein e Emirati arabi uniti. Tutti i "ramsad" del Mossad dagli anni '60 hanno visitato il Marocco e si sono incontrati con regnanti e capi dell'intelligence. Al centro di questa lunga alleanza clandestina c'è sempre stato il semplice riconoscimento che cooperando tra loro, i due Paesi avrebbero tutelato al meglio i loro interessi nazionali.
   Negli anni i rapporti hanno conosciuto alti e bassi; sono stati trasformati e plasmati in forme diverse, a volte contraddittorie, ma sono sempre rimasti solidi nel loro nucleo. Già negli anni '50, Israele aveva contatti con il Marocco governato dalla Francia, ma le relazioni acquisirono davvero slancio dopo che il Paese ottenne l'indipendenza nel marzo 1956. Dopo, la piccola comunità ebraica rimasta in Marocco ha fatto da ponte tra i due Paesi, soprattutto durante i momenti di tempesta e di crisi. Il regno di Hassan II è considerato l'epoca d'oro delle relazioni segrete tra i due paesi, relazioni coltivate sia dal Mossad che dalla controparte marocchina, guidata dal generale Mohamed Oufkir e dal colonnello Ahmed Dlimi. Entrambi gli ufficiali sarebbero stati poi uccisi per ordine del re, che li accusava di complottare contro di lui. Israele fu anche accusato di aver aiutato i servizi segreti marocchini a uccidere a Ginevra Mehdi Ben Barka, l'oppositore più temuto da re Hassan. Due anni dopo, Israele vinse la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il prestigio israeliano aumentò e questo contribuì a migliorare le relazioni con il Marocco. Il surplus bellico di Israele - tank e cannoni di produzione francese - fu venduto all'esercito marocchino. Re Hassan ospitò gli incontri segreti tra il Mossad e l'Egitto che aprirono la strada allo storico trattato di pace di Camp David. Legami informali ma sempre saldi. I rapporti di intelligence e militari dei due Paesi oggi sono migliori che mai, è un classico esempio del Mossad che funge da braccio della politica estera ombra di Israele.
   
(il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2020)


Israele, il premier Netanyhau si vaccina in diretta tv

Il farmaco della Pfizer è stato somministrato anche al ministro della Salute Edelstein. L'obiettivo è di vaccinare a regime 50mila persone al giorno

di Sharon Nizza

"Una piccola iniezione per un uomo, un grande passo per la salute di tutti noi". Parafrasando le parole di Neil Armstrong nel raggiungere la Luna, il premier Benjamin Netanyahu ha espresso la solennità del momento, trasmesso in diretta tv (anche dall'emittente saudita Al Arabiya), dopo essere stato sabato sera il primo israeliano a essere vaccinato contro il Covid-19, all'Ospedale Tel Hashomer. Con lui, anche il ministro della Salute Yuli Edelstein che, con una certa commozione, ha ricordato come proprio il 19 dicembre rappresenti una data simbolica perché ricorda l'inizio del processo che subì in Unione Sovietica a causa dei suoi tentativi di emigrare in Israele.
   A Netanyahu ed Edelstein è stato somministrato il vaccino Pfizer, di cui sono arrivate in Israele al momento 600.000 dosi con le quali, da domenica, verrà avviata la campagna di vaccinazione del personale medico degli ospedali e delle casse mutua. Domenica procederanno con l'iniezione anche il Presidente dello Stato Reuven Rivlin e il Capo di stato maggiore Aviv Kochavi. A partire da lunedì sarà poi il turno dei cittadini sopra i 60 anni e dei pazienti a rischio per malattie pregresse.
   Giovedì le casse mutua hanno aperto una linea dedicata alla campagna di vaccinazione che, nel giro di poche ore, è collassata per l'alta risposta da parte della popolazione. Secondo i dati raccolti, 40.000 israeliani verranno vaccinate nei prossimi giorni. Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Yediot Ahronot venerdì, il 63% degli israeliani è intenzionato a vaccinarsi, con un 24% pronto a procedere subito, mentre un 39% dopo aver visto la reazione dei primi vaccinati. L'82% del personale medico ha espresso la volontà di essere vaccinato. I cittadini che riceveranno il vaccino, dovranno sottoporsi a una seconda iniezione dopo 21 giorni.
   A partire da gennaio, con l'arrivo di maggiori dosi, l'obiettivo delle quattro casse mutua - responsabili per la somministrazione all'intera popolazione - è di vaccinare 50.000 persone al giorno. "Se si rispetterà questo ritmo, il vaccino potrebbe avere un impatto significativo sulla morbilità già da febbraio", ha affermato il professor Eran Segal dell'Istituto Weizmann, uno dei consulenti dell'unità di crisi Covid del ministero della Salute.
   Oltre che con Pfizer, Israele ha stretto accordi anche con Moderna e AstraZeneka per un totale di 24 milioni di dosi, sufficienti per 12 milioni di parsone, che arriveranno gradualmente nel corso del 2021. Parallelamente, l'Istituto Biologico di Ness Ziona ha da poco avviato la seconda fase di sperimentazione umana del vaccino made in Israel, che prevede, a differenza degli altri, un'unica iniezione. Attualmente, considerato l'approvvigionamento superiore alle necessità della popolazione israeliana (9 milioni di abitanti), vi è un dibattito all'interno del ministero della Salute circa la continuazione della costosa sperimentazione del vaccino di casa. Il ministero della Difesa - da cui dipende l'Istituto Biologico - ha confermato che la sperimentazione andrà avanti per "garantire a Israele una totale indipendenza nel futuro".
   C'è anche la possibilità che le dosi in eccesso vengano trasferite all'Autorità Nazionale Palestinese. Nei giorni scorsi la questione vaccini è stata affrontata in un incontro tra esponenti del ministero della Salute israeliano e palestinese - il primo da quando il Presidente palestinese Abu Mazen ha riavviato il coordinamento con Israele dopo oltre sei mesi di interruzione. Inoltre, l'Autorità Palestinese è in trattativa per l'acquisto di 4 milioni di dosi del vaccino russo, ma Israele ha affermato che potranno raggiungere la popolazione palestinese solo se questo verrà approvato dal ministero della Salute israeliano.

(la Repubblica, 20 dicembre 2020)


Shoah, addio a Nedo Fiano. La memoria come resistenza

È morto a Milano uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz. Fu testimone instancabile dell'abisso. Il figlio Emanuele: «Non usci mai dal Lager». Liliana Segre: «E’ come un lutto di famiglia».

dl Alessia Rast

 
Nedo Fiano
«A 18 anni, ad Auschwitz, sono rimasto orfano. Quest'esperienza devastante ha fatto di me.un uomo diverso, un testimone per tutta la vita».
   Lo è stato, Nedo Fiano, un testimone lungo il corso di un'intera esistenza, interrottasi ieri pomeriggio a Milano, nella casa di cura dove era ricoverato con la moglie Rina Lattes. Nato a Firenze il 22 aprile 1925, aveva 95 anni, di cui tantissimi spesi tra gli studenti a rivivere l'orrore, senza che mai lo abbandonasse il ricordo della madre Nella sulla rampa del lager, i suoi grandi occhi verdi pieni di paura, mentre la separavano da lui e dal marito, mandandola subito alla camera a gas.
   Sarebbe tomato da solo Nedo. Ad Auschwitz lavorò schiavo proprio su quella banchina, dove arrivò con la famiglia il 23 maggio 1944. Sul braccio gli fu tatuato il suo numero: A-5405. Non era più un essere umano ma uno Stück, un pezzo. Sarebbe stato liberato l'11 aprile 1945 a Buchenwald, dove lo avevano trasferito i nazisti in fuga nell'ultima fase della guerra. Per un periodo, raccontò al ritorno, fu anche costretto a lavorare accanto al medico assassino Josef Mengele. «Avvicinava i bambini, i gemelli in particolare, con cioccolatini e caramelle. Poi li torturava con i suoi esperimenti. Fu terribile», testimoniò.
   Nedo Fiano era una delle ultime voci ancora in vita della Shoah. Parlò instancabile in tantissime scuole. E, come altri superstiti, disse che la salvezza arrivò per caso. Perché conosceva il tedesco, che gli aveva insegnato il nonno. E, poi, perché sapeva cantare. Fu costretto a farlo davanti ai suoi aguzzini: doveva intonare, ricordava, brani noti come 'O sole mio durante le loro cene. Ma questo gli consentì di potere avere almeno un po' più di cibo, decisivo quando si è ridotti a scheletri.
   A dare la notizia della morte è il terzogenito Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, che proprio di recente aveva finito di scrivere Il profumo di mio padre. L'eredità di un figlio della Shoah (Piemme, da gennaio). «E stato insieme bello e difficile — confessa — avere un padre sopravvissuto ad Auschwitz. Lo diceva lui stesso: non era mai uscito davvero da lì». Eppure la vita «gli ha riservato una fine strana — prosegue il figlio —: negli ultimissimi anni mio padre aveva subito un deterioramento cognitivo, una perdita delle capacità di ricordare. Proprio lui che aveva speso l'intera vita per la memoria, a cercare di fare capire quello che era stato. Invece, di recente, era come se non sapesse più nulla di Auschwitz, né di sé stesso. Forse, dopo che per oltre settant'anni un dolore indicibile si è perpetuato dentro di lui, questa fase estrema è stata una benedizione». Su Facebook, dove pochi giorni fa aveva annotato il dolore per non poterlo vedere, a causa delle norme anti Covid, Emanuele Fiano ricorda anche l'ottimismo, la voglia di vivere del padre: «Non avrò mai la sua forza, ma da lui ho imparato che per le battaglie di vita e contro ogni odio bisogna combattere sempre».
   «La perdita di Nedo è come un lutto in famiglia», dice Liliana Segre, senatrice a vita, anche lei superstite della Shoah. «Siamo stati Stücke — prosegue —, pezzi di uno stesso mosaico orribile. Siamo tornati in pochi e quello che potevamo confessarci è impossibile da dire a qualcun altro». Entrambi però, aggiunge la senatrice, «siamo stati salvati dall'amore: io, dopo il ritorno, dall'incontro con mio marito Alfredo, lui da quello con Rina, Rirì, da cui ha avuto tre figli bravissimi, affettuosi». Li ricorda anche Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane: «Nedo tornò con la disperazione negli occhi. Ma anche la voglia di costruire e ricostruire insieme all'amata Rina, la compagna di scuola ritrovata, e insieme alla quale avrebbe messo al mondo Enzo, Andrea ed Emanuele».
   Trovò la forza di andare avanti forse anche per sua madre, Nedo. Per lei, disse, per mantenere una promessa che le aveva fatto, a 43 anni si era laureato alla Bocconi.


Lo scienziato israeliano in vena di scherzi

di Sergio De Benedetti

Il generale, scienziato e professore israeliano in pensione Haim Eshed ha dichiarato recentemente durante una intervista al Jerusalem Post che umani ed alieni gestiscono in comune da anni una base sotterranea su Marte. Ha inoltre aggiunto che il futuro ex Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è al corrente della cosa ed avrebbe voluto rivelarla ma che gli extraterrestri glielo avrebbero impedito per ragioni non meglio specificate attraverso una comunicazione segreta di cui ovviamente non abbiamo particolari.
   Nato nel 1933 ad Haifa, Eshed ha diretto il centro spaziale israeliano dal 1981 al 2010 ed ha spiegato al giornalista che lo intervistava che se avesse raccontato questa vicenda cinque o dieci anni fa, lo avrebbero preso per un pazzo visionario mentre oggi l'ipotesi non sussiste. Perché abbia detto questa corbelleria con tanta sicurezza è un mistero. Il giornalista comunque ha ammonito Eshed riguardo la responsabilità pesante di questa affermazione "marziana", non suffragata da alcuna prova scientifica e che ricorda fantasiose storie dell'immediato secondo dopoguerra quando, reduci dal leggendario programma radiofonico di Orson Welles del 1938, tutti eravamo più o meno convinti che prima o poi i Marziani sarebbero arrivati davvero.
   In apparenza, il Professore israeliano non sembra avere segni di alterazione mentale e tantomeno squilibri da malattie classiche dell'età: il suo modo di esporre infatti, appare calmo, quasi suadente, e tale che se stesse raccontando dei suoi lunghi trascorsi professionali riguardo lanci satellitari inviati nello spazio, saremmo fortemente interessati poiché provenienti da uno scienziato noto nel mondo, più volte presente a Cape Canaveral per missioni comuni con gli Stati Uniti. Libero docente presso diverse università, ha scritto da solo o con altri colleghi anche stranieri, numerose pubblicazioni scientifiche ed ha partecipato a congressi nei cinque continenti, più volte anche nelle vesti di relatore. E dunque?
   Due considerazioni spontanee. Prima: attraverso le attuali disponibilità della potenza dei propulsori, per raggiungere il pianeta Marte occorrerebbero quattro anni e, ma non ne sono certo, altrettanti ne occorreranno per tornare. Poiché gli astronauti americani sono già arrivati chissà da quando ed abbiamo ragione di ritenere che gli Alieni siano i Marziani già sul posto, come se la passano i nostri Eroi? O forse, durante questi anni ci sono stati rocamboleschi ricambi di equipaggio con viaggi continui andata/ritorno di cui nessuno ha potuto parlare, coinvolgendo quindi altri Presidenti americani almeno fino a George Bush jr.? Seconda: il saggio di Hagar Yanai The Universe beyond the Horizon (L'Universo oltre l'Orizzonte) sottotitolato Conversations with professor Hainz Eshed recentemente uscito nelle librerie israeliane e praticamente invenduto, può rappresentare la molla che ha fatto scattare nello scienziato il desiderio di rendere più appetibile la pubblicazione al lettore distratto attraverso una intervista shock che ha fatto comunque il giro del mondo? Avverto: propendere per questa seconda considerazione, è dannatamente banale.

(Libero, 20 dicembre 2020)


La guerra del pane tra mafia, ebrei e fronte sindacale

La storia insanguinata del bagel. La tradizionale ciambella americana diventò un tale affare che spinse i clan Lucchese e Genovese a entrarvi con la forza. La resistenza dei panificatori.

di Roberto Pellegrino

 
 
Tonda con un buco in mezzo, da non confondere con la donut, la ciambellina fritta e spruzzata di zucchero, perché il suo impasto è simile a quello del pane, ma più denso. Le bagel sono alla base dell'alimentazione statunitense, esportate con successo ovunque. La pagnotta yankee, però, dietro le sue numerose farciture, nasconde un secolo di lotta violenta per il suo lucroso mercato, orchestrata dalla mafia italoamericana, sindacati e panificatori ebrei fuggiti dai nazisti.
  Ogni mattino negli Stati Uniti tre miliardi di bagel sono sfornate dai panificatori e un altro miliardo è prodotto dall'industria alimentare. Create negli anni Venti da un ebreo ashkenazita, emigrato in America dall'Europa dell'Est, per la mancanza di sale, nell'impasto originale, le bagel divennero subito il pane quotidiano della popolosa comunità ebraica della costa orientale. Questo ignoto panificatore, non arrostiva, ma bolliva in acqua le ciambelle, completandole in forni a vapore. Dagli anni Venti ai Sessanta le bagel invasero gli Stati Uniti, prodotte esclusivamente dai forni artigianali ebrei di New York. I cinque milioni di dollari annui di fatturato del 1929 divennero cinquanta milioni nel 1960. Poi le bagel, col boom economico degli anni Sessanta, inondarono anche l'Europa, diventando una moda alimentare. Produrle era più proficuo che comprare titoli petroliferi e gli artigiani panificatori ebrei, morti di fame in Europa, adesso si compravano ville milionarie negli Hamptons. Un flusso simile di denaro non poteva sfuggire alla mafia italoamericana, che, nella seconda metà degli anni Cinquanta, minacciando fornitori, panificatori e sindacati ebrei, iniziò la sua scalata alle bagel. Erano gli anni delle due potenti famiglie, i Lucchese e i Genovese, boss del gioco d'azzardo ad Atlantic City e Las Vegas, magnati della prostituzione, delle armi e del nascente traffico di stupefacenti. Mollarono il mitra e si allearono per quelle pepite d'oro di farina.
  Un solo ostacolo disturbava i mafiosi: a non volersi piegare alle loro pretese era il potente sindacato creato ad hoc dai panificatori ebrei di bagel, il Local 338. Dettava legge su un mercato da ottanta milioni di dollari con margini di guadagno altissimi e un milione d'iscritti. Jason Turbow, nipote di uno dei fondatori ebrei ha raccontato la guerra delle ciambelle. «Gestire il mercato delle bagel per i Lucchese e Genovese era un gioco da ragazzi, a parte il sindacato che dopo avere subito intimidazioni, incendi dolosi e gambizzazioni, si era ricompattato. Le bagel fruttavano tanto e non c'erano i rischi del mercato dell'eroina».
  Quando nel 1927 i panificatori di bagel fondarono l'Union Local 338, i pesanti turni da dieci ore e le condizioni di lavoro a sessanta gradi, furono regolamentati e i salari aumentati. Un dipendente panificatore di bagel negli anni Sessanta guadagnava più di un elettricista e aveva l'assicurazione medica. Gli iscritti erano gli unici in grado di cuocere le «ciambelle ebree col rigor mortis», come erano chiamate con disprezzo dai puristi del pane, per la loro inconfondibile durezza. Chiunque avesse voluto produrle, doveva assumere uno dei suoi iscritti. E chi non seguiva le regole, subiva i picchetti fuori dal forno. Il Local 338 era un'organizzazione chiusa e potente, dove erano ammessi solo figli e parenti dei fondatori. Impenetrabile perché tutti parlavano in consiglio solo in yiddish, mentre le mani della mafia si allungavano sui forni grazie a Giovanni Ignazio Dioguardi, detto Johnny Dio, il potente uomo della famiglia Lucchese. Il boss aveva portato nelle mani della mafia italoamericana quasi tutti i sindacati dell'East coast. Johnny era amico intimo di Jimmy Hoffa, il controverso sindacalista. A lui nel 1957, Dioguardi aveva fatto vincere le elezioni dell'International Brotherhood of Teamsters, il potentissimo sindacato degli autotrasportatori, truccando le elezioni.
  Nel 1963 Dioguardi, dopo una condanna a tre anni di carcere per evasione fiscale, entrò alla Consumer Kosher Provisions, produttrice di carne kosher. Consumer era in competizione commerciale con American Kosher Provisions del gangster Max Block che imponeva i suoi prodotti a fucilate ai supermercati. Dioguardi trasformò la Consumer in First National Kosher Provisions per mangiarsi l'intero settore alimentare ebreo. Era nata «Kosher Nostra» che voleva anche le bagel. Dioguardi con la WeS Baking Corporation, un'industria del Bronx che usava manodopera non specializzata e sindacalizzata e una macchina da mezzo milione di ciambelle a settimana. Johnny Dio impose ai panificatori ebrei di spegnere i forni e rivendere le sue bagel industriali, dichiarando guerra al Local 338 che accettavano solo prodotti fatti a mano. Allora il sindacato chiamò i Bagel Boys, i pretoriani della ciambella doc del boss Thomas Eboli, temutissimo capo dei Genovese. Dopo un paio di sparatorie, Eboli e Dioguardi s'incontrarono e la WeS fu scaricata perché Johnny si alleò con i Boys. La Local 338, accerchiata dalle due più potenti famiglie mafiose d'America, però riuscì a far approvare ai mafiosi un nuovo contratto per i panificatori che stavano fuggendo dal sindacato indebolito e che, a breve, sarebbe stato spazzato via dalla Lender's, un colosso industriale da cento milioni di bagel al mese. Impiegava tre operai non specializzati che lavoravano come otto abili artigiani. Nel 1965 Lender's era la più grande azienda al mondo di bagel. Nel 1967 il consiglio degli anziani rabbini era debole e poco influente, mentre gli iscritti erano quasi scomparsi e le bagel erano congelate e cotte in qualsiasi bar. L'era d'oro della ciambella era finita. Mafia e sindacati erano stati piegati dall'industria.

(Controstorie, 20 dicembre 2020)


L'ipocrisia dell'unione europea. Gli animali 'soffrono' solo se uccisi da ebrei e musulmani

di Ugo Volli

La sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che ha stabilito il diritto degli stati membri di subordinare la possibilità di uccisione degli animali a requisiti "umanitari", impedendo in pratica la macellazione rituale ebraica (e anche quella musulmana) perché avvengono senza lo stordimento preventivo degli animali che è proibito dalla legge ebraica, non ha avuto echi sulla stampa ma merita una riflessione, perché rischia di rendere impossibile la vita agli ebrei osservanti in buona parte d'Europa. C'è un'ipocrisia di fondo in una società che permette, anzi incoraggia la caccia, le cui vittime non sono certo stordite preventivamente; che ospita sul suo territorio enormi allevamenti di animali da pelliccia destinati a una morte crudele per futili motivi (in Danimarca hanno ammazzato recentemente un paio di milioni di visoni, per il sospetto di un contagio virale); che usa largamente gli animali per la sperimentazione clinica anche di cosmetici, spesso allo scopo preciso di misurare la loro sofferenza quando sono sottoposti a prodotti tossici; che alleva in condizioni orribili decine di milioni di bovini, pollame, ovini, suini, che spesso non hanno letteralmente lo spazio per girarsi su se stessi; che consente l'esistenza di circhi in cui gli animali sono costretti a comportamenti innaturali e dolorosi (pensate solo agli elefanti costretti a danzare su due zampe)... e proibisce però forme di macellazione concepite nell'antichità per minimizzare la sofferenza degli animali. Un dolore inutile che, per chi non lo sapesse, la legge ebraica interdice energicamente. Insomma, sotto questi provvedimenti c'è una cecità o uno strabismo morale. Lo stesso che porta altri a voler proibire la circoncisione dei minori, ma non la chirurgia estetica sulle bambine.
   Io credo profondamente nel rispetto degli animali (e naturalmente dei bambini), sono diventato vegetariano trent'anni fa avendo assistito all'uccisione (non rituale) di un cavallo in un macello trasformato durante un festival in luogo di spettacolo. Sono contento di sapere che nella tradizione ebraica la condizione naturale dell'uomo è vegetariana e la carne fu permessa dopo il Diluvio solo come concessione alla fragilità umana. Ma so anche, per osservazione personale, che nei macelli - quelli "buoni" - gli animali sanno benissimo di essere portati alla morte e lo stordimento, che è attuato di per sé in maniera violenta con una sorta di chiodo sparato nella fronte, non cambia la loro consapevolezza è solo una scusa. O un pretesto: la solita ipocrisia dell'Unione Europea, debole coi forti e prepotente coi deboli, ma che non cessa mai di esaltarsi per la sua "moralità" e la "tutela dei diritti". Salvo rinunciarvi di fronte alla resistenza della Turchia, della Russia. O magari anche solo dell'industria della caccia.

(Shalom, 20 dicembre 2020)


Al Sisi: la causa palestinese è una costante della politica dell'Egitto

IL CAIRO - La causa palestinese è una costante della politica dell'Egitto. Lo ha detto il presidente dell'Egitto, Abdel Fatah al Sisi, in occasione dell'incontro con il ministro degli Esteri della Giordania, Ayman al Safadi, e con il capo della diplomazia di Ramallah, Riyad al Malki. Lo ha reso noto il portavoce della presidenza del Cairo, Bassam Radi. Le parti hanno discusso degli sforzi volti a riavviare i colloqui di pace in fase di stallo. "L'Egitto continuerà ad esercitare sforzi volti a ripristinare i diritti legittimi dei palestinesi, compresa l'istituzione di uno Stato palestinese indipendente, secondo le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, tenendo conto dei recenti cambiamenti a livello regionale e internazionale", ha affermato Al Sisi. Inoltre, "è molto importante unificare efficacemente gli sforzi arabi e internazionali nel prossimo periodo al fine di attivare i meccanismi relativi ai colloqui di pace", ha aggiunto il capo dello Stato. Nel corso della visita al Cairo, Safadi e Malki hanno incontrato la controparte egiziana, Sameh Shoukry. In un comunicato congiunto diffuso al termine del trilaterale è stata evidenziata la necessità di porre fine alla spaccatura palestinese, raggiungendo una riconciliazione intra-palestinese per riavviare i colloqui di pace.

(Agenzia Nova, 19 dicembre 2020)


Istigava alla Jihad, arrestata

La donna, una cittadina tunisina, invitava a compiere attentati in nome dell'Isis

ROMA - Invitava sui social a compiere attentati in nome dell'Isis e forniva istruzioni dettagliate per fabbricare esplosivi. Fermata dalla polizia una cittadina tunisina residente a Latina per associazione e addestramento con finalità di terrorismo internazionale e istigazione a commettere delitti di terrorismo. Le indagini, svolte dal Servizio per il Contrasto all'Estremismo e Terrorismo Esterno della DCPP/UCIGOS e della Digos di Latina e coordinate dalla Procura di Roma, sono scattate dopo la segnalazione di un profilo Telegram attivo nella propaganda in favore dell'Isis. «Voglio seminare terrore intorno al mondo» avrebbe detto la 35enne in una frase intercettata dagli inquirenti. Nei suoi confronti il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco contestano il reato di partecipazione all'organizzazione terroristica dell'Isis, istigazione e diffusione del materiale prodotto dalla struttura terrorista attraverso la cosiddetta «jihad mediatica».
   L'arrestata, monitorata dagli inquirenti alla luce di una progressiva radicalizzazione, postava sui social veri e propri manuali per la fabbricazione di bombe, autobombe e l'utilizzo di armi bianche. La donna faceva parte, inoltre, di vari gruppi chiusi di Whatsapp, tra cui uno con oltre 300 persone sia del medioriente che in Europa. A quanto accertato avrebbe condiviso video inneggianti al martirio e alla jihad, e contenuti multimediali in cui Osama Bin Laden invita il popolo musulmano alla lotta armata e al martirio. Condivisi anche video in cui vengono illustrate tecniche militari di combattimento, stratagemmi per mimetizzare il vestiario e istruzioni dettagliate su come realizzare ordigni, oltre a manuali per la preparazione di esplosivi in casa e documenti in cui viene illustrata la procedura per la preparazione del veleno alla ricina. Si trattava in alcuni casi di veri e propri tutorial sul confezionamento di esplosivi, divulgando a utenti della rete simpatizzanti di Isis dettagliate istruzioni, da lei stessa prodotte, su come costruire ordigni, oltre a inviti a commettere azioni violente indicandone anche le diverse possibili modalità. Sequestrati nella sua abitazione telefoni e computer su cui verranno effettuati accertamenti per approfondire il suo circuito di relazioni. Alla luce delle risultanze investigative, la Procura di Roma ha emesso il provvedimento di fermo nei confronti della 35enne accusata di essersi "associata all'organizzazione terroristica denominata Islamic State", di aver svolto "reiterata attività di istigazione diffondendo materiale di propaganda e inneggiando alla jihad e al martirio, istigando alla commissione dei delitti di attentato per finalità terroristica, atti di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi e per "aver fornito istruzioni sull'uso di materiale esplodente, armi da fuoco e armi chimiche al fine di arrecare grave danno al Paese".

(Ameerica Oggi, 19 dicembre 2020)



Vanità delle vanità, tutto è vanità

PREDICAZIONE
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006
Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

La campagna anti-Covid è anche elettorale, a Netanyahu la prima dose

di Michele Giorgio.

Questa sera Benyamin Netanyahu sarà il primo degli israeliani a vaccinarsi contro il Covid-19. Lo seguirà il ministro della sanità Yuli Edelstein. Poi sarà la volta del presidente Rivlin e di altri ministri.
   Ufficialmente il premier di destra presterà il suo braccio a un'iniziativa tesa a convincere l'opinione pubblica israeliana a aderire alla campagna di immunizzazione di massa che avrà inizio domani per il personale sanitario, gli ospiti delle case di riposo, i militari e gli over '60. Un sondaggio indica che il 63% degli israeliani è orientato a farsi vaccinare, una quota in salita rispetto ai giorni scorsi, ma anche in Israele è consistente il numero dei dubbiosi e dei no-vax.
   Allo stesso tempo per Netanyahu le vaccinazioni hanno anche un significato politico perché, con la maggioranza di governo che sta per frantumarsi, con ogni probabilità si abbineranno alla campagna per le quarte elezioni parlamentari in due anni. Con un piano che prevede 60mila vaccinazioni al giorno — per la fine del 2021 ci saranno in Israele dosi di vaccino Pfizer e Moderna pari a oltre 12 milioni, oltre sette milioni a metà anno — si prevede che a marzo, quando si dovrebbe andare al voto, si cominceranno a vedere i primi risultati positivi, con una diminuzione importante dei contagi e decessi.
   Un contesto in cui Netanyahu potrebbe rappresentarsi come il leader che sta portando il paese fuori dalla pandemia e dalla crisi economica, e mettere in secondo piano la politica anti-Covid incerta, fatta di decisioni prese e revocate nel giro di poche ore, che ha contraddistinto l'azione del suo governo specie in questi ultimi mesi.
   I contagi continuano a salire in Israele dove si parla di terza ondata. Giovedì sono stati 2.933, il tasso di positività è risultato superiore al 3% e le terapie intensive tornano a riempirsi. I decessi da marzo sono 3057, un numero lontano da quelli drammatici dell'Europa e negli Usa ma la popolazione israeliana è molto più giovane rispetto, ad esempio, a quella di Italia e Germania. Nonostante l'aggravarsi della situazione e l'adozione di nuove misure restrittive, i comportamenti di alcuni settori della popolazione sono fuori controllo. Qualche sera fa molte centinaia di ebrei haredim (religiosi ultraortodossi) hanno partecipato a Gerusalemme ai riti finali della festa di Hannuka senza mascherine e distanziamento. A inizio mese le tv avevano mostrano assembramenti di centinaia di persone in fila nei centri commerciali. Gli ammonimenti delle autorità sanitarie e le multe non scoraggiano chi stenta a rispettare le regole.
   La crisi politica non aiuta a concentrare l'attenzione sulla pandemia. Il leader centrista di Blu Bianco, e ministro della difesa, Benny Gantz non appare intenzionato a cedere a Netanyahu sull'approvazione della finanziaria 2020 e 2021 confermando così lo scenario del voto anticipato. La legge prevede che se entro la mezzanotte del 23 dicembre non sarà stata approvata la legge di bilancio, allora la Knesset sarà sciolta e si andrà alle urne.

(il manifesto, 19 dicembre 2020)


Cosa accadde la notte in cui fu ucciso il generale Soleimani

di Mauro Indelicato

Il 2020 non si è presentato nel migliore dei modi. Ancor prima che da Wuhan giungessero notizie su un focolaio di un nuovo coronavirus, il 3 gennaio il mondo ha temuto di essere sull'orlo di una nuova guerra. In piena notte, le agenzie di stampa hanno iniziato a battere la notizia di alcune esplosioni che avevano interessato l'area attorno l'aeroporto di Baghdad. Si era pensato a un nuovo episodio relativo alle tensioni in corso nel Paese mediorientale, scosso dalle proteste popolari contro il governo che, solamente pochi giorni prima, avevano portato anche all'assalto dell'ambasciata Usa. Nel giro di poche ore, invece, la situazione è risultata del tutto diversa: i boati descritti nelle prime notizie arrivate dalla capitale irachena erano frutto di un raid ordinato da Washington. L'obiettivo era uno dei leader iraniani più importanti: il generale Qassem Soleimani.

 Il raid del 3 gennaio
  A capo della brigata Al Quds, Soleimani era uno degli elementi di maggior spicco dei Pasdaran, i guardiani della rivoluzione. Ma la sua importanza nella gerarchia iraniana non la si doveva unicamente al suo ruolo militare, quanto anche a quello politico: è stato lui l'architetto della strategia della mezzaluna sciita. Un corridoio cioè in grado di collegare idealmente le capitali di Paesi a guida sciita: Teheran, Baghdad e Damasco, fino ad arrivare a Beirut. Un progetto volto ad espandere l'influenza iraniana nella regione, circostanza questa certamente mal vista in primis dagli Stati Uniti e da Israele. Nei giorni precedenti al raid statunitense, in più occasioni si era parlato della presenza di Soleimani in Iraq. Alle ore 00:32 del 3 gennaio 2020, il generale era tornato a Baghdad atterrando nella capitale irachena con un normale volo di linea da Damasco. Gli Usa erano da alcune settimane sulle sue tracce. Il 29 dicembre in California il presidente Donald Trump si era riunito con i principali vertici e consiglieri militari: all'ordine del giorno la situazione iraniana, le informazioni su Soleimani e la possibilità di compiere un raid contro il generale. L'ordine di eliminare l'artefice della politica estera di Teheran sarebbe stato impartito in quelle ore.
   Dopo il suo arrivo a Baghdad, le forze Usa si sono messe in azione. Da una base statunitense in Iraq si è alzato in volo un drone Mq-9, il quale ha individuato il corteo che trasporta Soleimani dall'aeroporto verso il centro della città. Poco dopo quattro missili sono stati lanciati verso le auto che correvano in direzione di Baghdad. Il raid non ha lasciato scampo al generale e ad altre nove persone che si trovavano assieme a lui ma in due auto diverse. Tra le vittime anche Abu Mahdi al-Muhandis, capo delle milizie sciite irachene. Le conferme della morte di Soleimani sono giunte già in nottata sia dal governo iracheno, che da quello iraniano e statunitense. La notizia ha fatto il giro del mondo e all'alba il medio oriente si è svegliato con gli spettri di una nuova guerra.

 Cosa ha voluto significare colpire Soleimani
  C'è un piccolo dettaglio che può spiegare l'intero contesto attorno all'operazione: Soleimani era atterrato a Baghdad con un volo di linea. Si è parlato nei giorni successivi alla sua morte della convinzione del generale di essere protetto da una sorta di immunità diplomatica. Ma in realtà più semplicemente Soleimani si sentiva immune proprio per l'importanza della sua figura. Colpire lui equivaleva per gli iraniani a un raid su Teheran. Forse non si aspettava che l'astio tra Iran e Usa fosse arrivato a livelli così alti. Alcuni giorni prima in Iraq era stata assaltata l'ambasciata di Washington, mentre le milizie filo sciite avevano lanciato ordigni contro alcune basi statunitensi nel Paese mediorientale. Anche per questo dalla Casa Bianca si era deciso di alzare la posta in palio. Uccidere Soleimani non voleva significare solo tagliare la testa della cabina di regia della politica estera iraniana, ma anche colpire uno sei simboli più popolari sia nel suo Paese che nel mondo sciita.
   Durante la guerra contro l'Isis in Siria, spesso il generale è apparso al fronte in supporto sia dell'alleato siriano che delle milizie iraniane. Il suo continuo viaggiare da un capo all'altro del medio oriente, ovunque fossero presenti interessi iraniani, ne ha fatto una delle figure più emblematiche sia a livello politico che sociale. Nella città santa di Qom sono stati innalzati vessilli di lutto in tutte le moschee, la salma di Soleimani ha percorso tutto il Paese prima della sepoltura, ai suoi funerali hanno partecipato migliaia di persone. Non era morto solo un generale, ad essere ucciso era stato uno "shadid", ossia un martire.

 La reazione iraniana
  Di fronte a un'azione del genere, i vertici di Teheran non potevano non reagire: rimanere fermi dopo l'uccisione di un simbolo del potere iraniano, avrebbe dato una dimostrazione di fragilità e debolezza sia all'interno che all'estero. Per questo il mondo ha avuto il timore di trovarsi dinnanzi alla possibilità di una guerra su vasta scala, capace di mettere a diretto confronto Usa ed Iran assieme ai rispettivi alleati regionali. Tuttavia Teheran, complice anche la crisi economica innescata dalle sanzioni reintrodotte da Washington pochi anni prima a causa dell'affaire sul nucleare, non poteva rispondere a muso duro. La reazione è sì arrivata, ma si è rivelata controproducente: nella notte dell'8 gennaio missili sono stati lanciati verso diverse basi statunitensi in Iraq. Il governo iraniano aveva avvisato del raid quello iracheno, che a sua volta ha girato le informazioni alle autorità militari Usa. Le bombe non hanno provocato molti danni, né tanto meno vittime sul versante statunitense. Quella stessa notte a Teheran, un volo di linea della Ukraine International Airlines diretto a Kiev è precipitato poco dopo il decollo. L'11 gennaio il governo iraniano ha ammesso l'errore umano: il velivolo era stato centrato da un ordigno sparato nella notte dei raid contro le basi Usa in Iraq.

(Inside Over, 19 dicembre 2020)


Quando i cattolici hanno ceduto all'abbraccio di Mussolini

di Valerio De Cesaris

 
Cent'anni fa, nel 1920, Benito Mussolini si convinse che la chiesa cattolica dovesse diventargli compagna di viaggio nel suo cammino alla conquista del potere. Sino allora l'aveva considerata, per usare le sue parole, «un'istituzione tendente al potere politico per eternare lo sfruttamento e l'ignoranza del popolo», mentre riteneva che quella cristiana fosse «una morale di rassegnazione e di sacrificio, che può essere cara ai deboli, ai degenerati, agli schiavi: ma che si risolve in una diminuzione della ragione e della personalità umana».
   In molti articoli di giornale, talvolta fumati con l'eloquente pseudonimo Vero Eretico, Mussolini aveva bollato il cristianesimo come il residuo di un mondo finito e aveva scritto che il papato e il clero andavano spazzati via per costruire un`Italia nuova, affrancata dalle catene di ogni credenza religiosa. Aveva dedicato alla sua battaglia antireligiosa pubblicazioni di vario tipo, tra cui un romanzo, L'amante del cardinale, che Ignazio Silone avrebbe definito un «romanzo anticlericale pornografico» mentre Margherita Sarfatti, scrittrice, amante e biografa del duce, la avrebbe liquidato come «un polpettone senza capo né coda». Mussolini aveva fatto della polemica atea e anticristiana un punto di forza della sua militanza politica Eppure, nel 1920 tutto cambiò. Improvvisamente, tra lo stupore di tanti suoi compagni di militanza, il duce del fascismo si scoprì filocattolico. Prese a elogiare il Vaticano come punto di riferimento per centinaia di milioni di persone nel mondo e, dopo aver rinnegato il suo precedente attivismo anticristiano, si disse un uomo «profondamente religioso». Si propose come un difensore delle istanze cattoliche e prospettò esiti felici della questione romana, se il fascismo fosse andato al governo del paese. Mussolini non si era convertito sulla via di Damasco (o di Roma). Semplicemente, dopo la disfatta elettorale del 1919, aveva capito che il movimentismo fascista delle origini era insufficiente. Così impresse una virata a destra per attrarre nazionalisti e cattolici conservatori. Fiutò la debolezza del Partito popolare italiano, che nonostante un'ottima affermazione elettorale era diviso all'interno e godeva di un sostegno fragile dal Vaticano. Intuì di poter conquistare spazio a destra e divenne così filocattolico, in un tempo in cui il cattolicesimo italiano era per lo più su posizioni conservatrici. Soprattutto, Mussolini, con la sua svolta del 1920, apri le porte a un discorso nazional-cattolico, che tendeva a inglobare il cattolicesimo, in chiave identitaria, all'interno di un'ideologia nazionale, fascista e, di li a breve, imperialista. Buona parte del cattolicesimo italiano cedette alla seduzione del potere e si lasciò andare all'abbraccio del fascismo, sperando nella nascita di uno stato confessionale.

 Il santo più indiano
  Il nazional-cattolicesimo prese quota come ideologia per l'Italia fascista e si manifestò appieno nel 1926, in occasione del centenario della morte di san Francesco, celebrato in una grandiosa coreografia come «il più santo degli italiani e il più italiano dei santi». Il 1929, con i Patti lateranensi, segnò un ulteriore rafforzamento del nazional-cattolicesimo, destinato però a infrangersi nella seconda metà degli anni Trenta quando Mussolini, con un altro radicale cambio di rotta, spinse il fascismo all'adozione di un'ideologia razziale che era incompatibile con il cristianesimo e che provocò la fine dei sogni nazional-cattolici, con grande delusione degli ambienti ecclesiastici vicini al regime. È una storia lontana un secolo. Eppure, la tentazione del nazional-cattolicesimo e dell'utilizzo politico della religione non è relegata in un tempo passato. È la visione proposta oggi dai sovranismi, che inseriscono la fede religiosa in un discorso d'identità di popolo contrapposta agli "altri". La storia non ci è mai davvero maestra di vita, tuttavia qualche lezione ce la offre: quando la Chiesa italiana si lasciò andare, in molte sue articolazioni, all'abbraccio con il fascismo, il nazional-cattolicesimo divenne l'ideologia su cui basare il sogno di uno Stato confessionale, che avrebbe ridato centralità ai valori cattolici. Sappiamo come quella storia andò a finire.

(Domani, 19 dicembre 2020)


Se Salvini deve essere visto come un Mussolini che tenta di guadagnarsi il consenso della chiesa con il suo rosario in mano, bisogna dire che ha fatto proprio male i suoi conti. Non avrebbe capito niente della chiesa cattolica di oggi. Sembra a qualcuno che papa Bergoglio sia attirato da qualche forma di nazional-cattolicesimo? Con chi parla oggi il papa? Con Salvini? No, con Scalfari, il campione dell’ateismo religioso. Che cosa dovrebbe insegnare la storia alla chiesa cattolica di oggi? A non abbracciare come ieri il “nazionale-cattolicesimo”? Ma è questo il rischio che sta correndo oggi l’istituzione papale? No, e l’autore lo sa. Ma bisogna pur dire qualcosa contro i “sovranismi” di oggi, e un aggancio pur che sia alla storia “maestra di vita” può sempre servire. M.C.


Il pallone e il dovere della Memoria

Il progetto di mostra itinerante

di Cesare Gaudiano*

 
Alcuni storici palloni che saranno protagonisti della mostra itinerante
Avvicinare le nuove generazioni all'ebraismo, alla storia d'Israele e alla Memoria parlando di sport.
   È l'obiettivo principale del Progetto "Il Calcio e la Shoah". L'idea - lanciata dall'associazione Italia Israele di Foggia in collaborazione con Renato Mariotti, presidente dell'ASD lnternational Football Museum - punta a realizzare l'obiettivo che il presidente nazionale della Federazione, Giuseppe Crimaldi, si è posto sin dall'inizio del suo mandato e che può essere sintetizzato nello slogan "rieducare le nuove generazioni" avvicinandole - senza pregiudizi o contaminazioni ideologiche - ad una storia entusiasmante e tuttavia anche tragica. In che cosa consiste il progetto? Essenziale sarà il contributo fornito dall'associazione presieduta da Mariotti, già impegnata in progetti che hanno alla base l'etica nel calcio e che nel 2019 ha per questo ricevuto il "Premio Nazionale Fair Play" dal Coni.
   Ennio Flaiano scrisse che "l'infanzia è l'unico luogo della vita che non possiamo mai abbandonare perché è sempre nella nostra infanzia che fissiamo i fatti che segnano la nostra esistenza". Ed è partendo da questa citazione che il progetto viene trasformato in realtà.
   La mostra - grazie anche alla collaborazione e al sostegno dell'ambasciata d'Israele a Roma - sarà itinerante e coinvolgerà i ragazzi delle scuole primarie e medie inferiori. Avrà il titolo "1945-2020. 75 anni dalla scomparsa dei campioni del calcio nei campi di sterminio".
   Alla fine dell'Ottocento il calcio inizia a diffondersi in Italia; in un Paese nel quale il lavoro contadino determinava la crescita e lo sviluppo dell'economia. Il calcio, di pari passo, riusciva a catturare l'attenzione trasversale degli appartenenti a tutte le classi sociali. È stata questa l'origine di un fenomeno, non solo sportivo, che nell'immediato dopoguerra ha visto la nascita di migliaia di società dilettantistiche nelle città d'Italia. Attraverso l'attaccamento ai colori sociali della propria squadra si è finito per esprimere un senso di appartenenza al proprio territorio e alla cultura di riferimento.
   Ecco che i campioni del calcio, anche se semplicemente campioni della squadretta del proprio paese, diventavano per i bambini simboli e personaggi da emulare, anche nei modi di vivere.
   Con l'aiuto del calcio - e grazie al prezioso patrimonio di "cimeli" custoditi da Mariotti - potremmo far riflettere ancora di più i bambini, i ragazzi, sulla tragedia della Shoah: in particolare sullo sterminio attuato verso i campioni dello sport, soprattutto di quelli del calcio, nella Germania degli anni terribili; campioni con alto senso di appartenenza alla bandiera, "usati" come veicolo di promozione dei regimi totalitari dell'epoca. Sfruttati per "la facciata" e poi barbaramente uccisi solo perché ebrei.
   Una storia poco approfondita e che va invece divulgata a giovani e giovanissimi. La mostra si avvarrà dunque di strumenti diretti (i palloni originali utilizzati per alcune finali della Coppa del Mondo, gli scarpini e le magliette dei calciatori tedeschi che militavano nelle massime serie, poi deportati e morti nei lager), sia interattivi, con proiezioni e altro materiale informatico. Un modo originale e diretto per fare educazione corretta.

* Presidente dell'Associazione Italia Israele di Foggia

(Shalom, dicembre 2020)


Israele, fanteria soffre di carenza di truppe

Esperti militari sionisti hanno criticato il capo di stato maggiore israeliano, Avivi Kochavi, per il suo fallimento nel colmare il divario tra le unità di fanteria e quelle della marina, dell'intelligence e dell'aeronautica.
L'analista militare, Alon bin David, ha dichiarato, in un articolo pubblicato dal quotidiano Maariv, che Kochavi, proprio come i suoi predecessori, segue strategie molto tradizionali e insicure, aggiungendo che i suoi piani si basano principalmente sulle truppe regolari.
Bin David ha sottolineato che le forze di riserva di Israele mancano delle capacità di combattimento professionali, notando che anche la fanteria regolare soffre di carenza di truppe. Tutte le modifiche apportate da Kochavi finora sono fallite, riporta l'articolo di Maariv.

(il faro sul mondo, 18 dicembre 2020)


Chanukkà proibito in Cina. Gli ebrei cinesi lo festeggiano in segreto

di Paolo Castellano

Mentre in altre parti del mondo gli ebrei stanno celebrando con gioia Chanukkà, in Cina i membri della comunità sono costretti a pregare e a festeggiare di nascosto per sfuggire ai divieti dell'autorità di Pechino. In base alle leggi cinesi, non è consentito professare l'ebraismo anche se gli ebrei hanno legami storici con la super-potenza asiatica.
   Come riporta il Jerusalem Post, in questo periodo la Repubblica Popolare Cinese sta accrescendo i propri sforzi nel reprimere le influenze straniere e le religioni non approvate.
   In Cina, con 1,4 miliardi di cittadini, è presente una minuscola comunità ebraica che si attesta intorno alle mille presenze; secondo gli esperti, solo 100 stanno praticando coraggiosamente il loro credo, tuttavia da più di un secolo manca un rabbino a rappresentarli.
   La prima comunità ebraica cinese si stabilì nella città di Kaifeng più di mille anni fa. Il numero massimo di ebrei in Cina è arrivato a 5 mila nel XVI secolo. Nonostante le guerre, i disastri ambientali, le conversioni, la comunità ha trasmesso alle nuove generazioni la preziosa identità ebraica.
   Nei prossimi mesi, le autorità cinesi potrebbero imporre più severamente la repressione dell'ebraismo che, lo ripetiamo, attualmente è una religione fuorilegge in Cina, nonostante la sua lunga storia all'interno del paese. Il Partito Comunista Cinese non ammette una totale libertà di religione ma riconosce solo alcune fedi: il Cristianesimo protestante e cattolico, il Buddismo, il Taoismo e l'Islam.
   Amir, un fedele ebreo che vive in Cina e che ha deciso di mantenere l'anonimato per non subire ritorsioni, ha rivelato al Telegraph di essere molto preoccupato per il futuro della sua comunità. «Ogni volta che festeggiamo, abbiamo paura», ha dichiarato Amir, aggiungendo che la comunità ebraica si stia sforzando a rispettare la tradizione nel segreto.
   Come riporta l'inchiesta del Telegraph, il Partito Comunista Cinese ha cancellato anche gli elementi fisici della presenza dell'ebraismo in Cina. Ha inoltre rimosso mostre museali sulla storia della comunità e imposto divieti per qualsiasi traccia tangibile degli ebrei cinesi, compresa la rimozione dei resti di una sinagoga del XII secolo e di pietre con caratteristiche incisioni. Alcune di queste pietre risalgono al XV secolo.
   Per di più, sono stati rimossi i pochi caratteri e simboli ebraici che un tempo si potevano notare per le strade di Kaifeng. Mentre il luogo dove in passato un gruppetto di ebrei pregavano è stato occupato dalla propaganda cinese con una telecamera e avvisi che ricordano ai cittadini che l'ebraismo è una religione illegale e non riconosciuta.
   Dunque, gli ebrei cinesi sono così tanto terrorizzati da Pechino da aver rinunciato anche a incontrarsi in pubblico. L'ebraismo è più sicuro se professato in segreto e la vera sfida è quella di trovare i soldi per acquistare vino e cibo kasher. Le stesse difficoltà riguardano i testi sacri, i fedeli sono costretti a utilizzare bibbie cristiane, ignorando semplicemente le parti riguardanti il Nuovo Testamento.
   Anson Laytner, rabbino in pensione e presidente dell'Istituto sino-giudaico, ritiene che la politica del Partito Comunista Cinese non sia un atteggiamento antisemita. La Cina non ha mai esternato antisemitismo, anzi, ha espresso apprezzamento per tutti quegli ebrei che hanno raggiunto il successo, considerandoli un esempio da imitare. Inoltre, il paese asiatico ha accolto diversi rifugiati ebrei durante la Shoah.
   Laytner ha poi spiegato che gli atteggiamenti cinesi riguardo all'ebraismo non causeranno tensioni nelle relazioni con Israele. Secondo il rabbino, lo Stato ebraico non vuole mettere a rischio i rapporti diplomatici con la Cina per una piccola comunità di ebrei che accoglie anche membri che provengono da matrimoni misti.

(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2020)


Il Marocco introduce gli studi ebraici a scuola

Prosegue il disgelo arabo-ebraico

di Claudia De Martino

Gli ebrei e i musulmani sono per definizione in lotta tra loro, o almeno così abbiamo imparato a percepirli attraverso il conflitto arabo-israeliano. Tuttavia, la storia ricorderà la data del 13 agosto 2020 come uno spartiacque: il momento in cui il mondo arabo sunnita ha deciso di voltare pagina e "normalizzare" le proprie relazioni con il Paese ebraico, tenendo conto della sua vittoria nel conflitto e della sua stabile collocazione nella regione.
   Da quel momento in poi, all'Egitto (1978) e alla Giordania (1994) già legati da trattati di pace "fredda" con Israele, si sono aggiunti alcuni Paesi arabi minori del Golfo (Emirati Arabi Uniti e Bahrein) sponsorizzati, però, dalla potente Arabia Saudita, poi persino l'ex stato canaglia del Sudan in cerca di una distensione con gli Stati Uniti, e infine anche il Marocco, Paese arabo di una cerchia più esterna e mai intervenuto militarmente nel conflitto proprio grazie alla contrarietà della monarchia all'arruolamento di volontari marocchini nell'esercito di liberazione della Palestina.
   La decisione del Re Mohammed VI ha, però, colto di sorpresa l'opinione pubblica, perché il Marocco non si è limitato all'avvio di relazioni diplomatiche e al lancio di nuove rotte commerciali, ma ha toccato la sfera culturale e identitaria legata alla formulazione dei programmi scolastici, generalmente un tabù nelle relazioni arabo-ebraiche.
   Onore, dunque, al sovrano Mohammed VI per aver sfidato una "linea rossa" invisibile che divideva artificialmente arabi ed ebrei occultando la loro plurisecolare convivenza pacifica in terra d'Islam e la loro attuale coesistenza in alcuni Paesi musulmani, come la Repubblica islamica d'Iran, che distingue tra sionisti ed ebrei senza pregiudizio per quest'ultimi; la Tunisia, dove i pellegrinaggi alla sinagoga di Djerba non si sono mai interrotti; la Turchia, dove sopravvive una piccola comunità ebraica estremamente dinamica.
   Il Marocco è il primo Paese arabo-berbero a tracciare questa nuova strada, essendo la monarchia alawita associata al tradizionale ruolo di "Comandante dei credenti", ivi inclusi i sudditi di altre fedi: un ruolo di protezione effettivamente esercitato dal re Mohammed V durante la Seconda guerra mondiale nella ferma opposizione all'introduzione della legislazione antisemita da parte del Protettorato francese, ritenuta estranea allo spirito del Regno.
   Tuttavia, il Marocco di oggi guarda anche più pragmaticamente al rilancio delle relazioni con Israele, essendo il Regno alla ricerca di una nuova collocazione geopolitica tra Europa e mondo arabo all'insegna della promozione di un'identità nazionale moderna improntata ad un "Islam aperto e tollerante" (in netto antagonismo con le tendenze salafite del Golfo), alla rivoluzione "green" e all'apertura ai grandi traffici internazionali sulla rotta della nuova "Via della Seta" con i suoi investimenti nel porto di Tangeri.
   Non stupisce, dunque, che in anni insospettabili, e prima ancora che parlare di Israele fosse considerato accettabile all'interno della Lega Araba, il Marocco aveva già creato nel 1993 una Fondazione per il patrimonio culturale giudeo-marocchino e un Museo del giudaismo marocchino a Casablanca (1997) e finanziato la ricostruzione del quartiere ebraico di Essaouira con la sua sinagoga centrale (la Bayt Dakira).
   Al pragmatismo di Rabat si mescolano certamente ragioni storiche più profonde: fino al 1954 il Marocco fu patria di 250.000 ebrei sia di origine locale - concentrati sulle montagne dell'Atlas e di lingua berbera - che sefardita (ovvero emigrati dalla Spagna post 1492), presenti nelle città costiere e di lingua giudeo-ispanica e/o araba, che costituivano la classe sociale più alta e cosmopolita, arrivando ad essere impiegati come ambasciatori e consiglieri dei sultani.
   Tuttavia, oggi di ebrei nel Paese ne rimangono a stento 3000, esclusi gli israeliani di origine marocchina che discretamente fanno già la spola tra Tel Aviv e Casablanca per viaggi, lavoro o affari: degli oltre 250.000 originari, pari al 10% dell'allora popolazione marocchina, la quasi totalità emigrò in Israele dopo il raggiungimento dell'indipendenza (1956), in parte per paura di possibili persecuzioni antiebraiche legate al montare dei partiti nazionalisti arabi (Hizb al-Istiqlal) dell'epoca, in parte soggiogata dalla propaganda sionista e dalla sua capillare macchina di emigrazione clandestina (il Mossad le-'Aliyah Bet).
   Nonostante il Re Mohammed V si fosse opposto con ogni mezzo all'emigrazione dei suoi sudditi ebrei rassicurandoli sulle loro prospettive di vita in un Marocco indipendente e arrivando a proibirne l'emigrazione per legge nel 1957, la quasi totalità degli ebrei del Paese prese la via di Israele senza fare più ritorno, lasciando un enorme vuoto culturale dietro di sé. Oggi il nipote di quello stesso Re, Mohammed VI, vede forse nel ritorno di quegli ebrei anche la possibilità di rimarginare quella ferita storica, ritraendo il suo Paese come una patria amorevole che non ha mai cessato di pensare che la convivenza fosse possibile, seppur all'interno di regole e costumi tradizionali.
   Non occorre, però, cadere nell'errore di romanticizzare eccessivamente questo passaggio, come ha fatto martedì Gubermann, direttore esecutivo dell'American Sephardic Federation ai microfoni di Radio 24 in una puntata dedicata all'introduzione della cultura ebraica nelle scuole del Regno: l'obiettivo dichiarato sarà anche lottare contro estremismo islamico, antisemitismo e negazionismo, ma la finalità ultima del Regno rimane quella di capitalizzare sul processo di normalizzazione di Trump, assicurandosi i benefici che Usa e Europa vorranno elargire ai Paesi più volenterosi in questo senso.
   
(il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2020)


Trump ha smentito gli esperti sul Medio Oriente e ha messo Biden di fronte a una realtà nuova

La "dura realtà" predicata da John Kerry è durata poco. La squadra di Biden dovrà trovare un modo per rovesciare i paradigmi sia di Trump che di Obama se vorrà costruire sui successi di uno per promuovere gli obiettivi dell'altro.

Esiste un video del 2016 in cui si vede l'ex Segretario di stato americano John Kerry che interveniva al Saban Center del Brookings Institute, e che ora circola alla grande sui social network, soprattutto della destra. Vale la pena guardarlo e citarlo per intero:
John Kerry: «Non ci sarà una pace separata tra Israele e il mondo arabo. Voglio che questo sia molto chiaro a tutti voi. Ho sentito diversi eminenti politici in Israele affermare a volte: beh, ora il mondo arabo è in una posizione diversa, dobbiamo solo andargli incontro e possiamo lavorare su alcune cose con il mondo arabo, e [poi] tratteremo con i palestinesi. No, no, no e no. Posso dirvi che è stato ribadito anche nell'ultima settimana, quando ho parlato con leader della comunità araba. Non vi sarà progresso e pace separata con il mondo arabo senza il processo palestinese e la pace palestinese. Tutti devono capirlo. Questa è la dura realtà».
Perfetto. Ora smettetela di ridacchiare e chiedetevi seriamente: come mai Kerry sbagliò così clamorosamente? Poiché quattro anni fa, quando formulò la sua incauta previsione, non era affatto l'unico. In effetti, anche solo sei mesi fa nessuno si aspettava che entro la fine del 2020 Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco avrebbero tutti pubblicamente annunciato l'intenzione di "normalizzare" i rapporti con Israele....

(israele.net, 18 dicembre 2020)


Ciclismo - Froome scopre l'Argentina. A gennaio debutta con Israel

di Matteo Pierelli

 
L'atteso debutto di Chris Froome con la maglia della Israel adesso ha una data certa: il 24 gennaio alla Vuelta San Juan in Argentina. Quello di quest'anno sarà un percorso condizionato dalla pandemia per la corsa più importante del Sud America: partenza e arrivo saranno per cinque volte su otto al Circuito San Juan Villicum, garantendo alla bolla della carovana meno spostamenti possibili. E Froome, quattro volte re del Tour, che ha lasciato il team Ineos (ex Sky) lo scorso novembre dopo 10 anni di sodalizio in cui sono arrivati anche un Giro e due Vuelta, sarà la star della corsa.

 Cast di livello
  Il keniano bianco si sta allenando al sole della California e, a gennaio, comincerà il ritiro in Israele, prima di volare in Argentina dove non ha mai corso: la Vuelta San Juan sarà la prima prova di livello della stagione, a maggior ragione dopo la cancellazione (per il Covid) del Tour Down Under in Australia. «Questa gara significherà l'inizio tanto atteso di un nuovo capitolo della mia carriera: non vedo l'ora di correre con i miei nuovi compagni di squadra» ha detto Froome, che nel 2021 ha come grande obiettivo il quinto trionfo al Tour. Oltre al campione britannico, in Argentina dovrebbero essere al via altri big come Elia Viviani e Filippo Ganna (due volte secondo, nel 2018 e 2020), Peter Sagan e Joao Almeida, quarto al Giro dopo aver vestito per 15 giorni la maglia rosa.

(La Gazzetta dello Sport, 18 dicembre 2020)


Israele potrebbe dare vaccini all'Anp

Israele sta pensando alla possibilità di consegnare all'Autorità nazionale palestinese (Anp) vaccini contro il Covid se avrà un surplus di dosi. Lo ha detto il viceministro della sanità Yoav Kisch all'emittente pubblica Kan. «Israele - ha spiegato Kisch - si sta assicurando di avere più del 100% di vaccini per il Paese. Se constatiamo che i bisogni sono soddisfatti e abbiamo ancora dosi, prenderemo sicuramente in considerazione di aiutare l'Anp". Israele avvierà da domani le vaccinazioni, a partire dal premier Netanyahu. Nei Territori Palestinesi, Gaza compresa, la situazione è altresì preoccupante: l'Anp ha stretto accordi per ricevere 4 milioni di dosi del vaccino russo Sputnik V ma potrebbero non bastare. I nuovi casi, nelle ultime 24 ore, sono stati in tutto 2.149 e 30 i morti: 18 in Cisgiordania e 12 nella Striscia di Gaza.

(Avvenire, 18 dicembre 2020)


Perché l'Ungheria non conosce i due ungheresi che hanno fondato Hollywood

Di loro gli ungheresi sanno ben poco. Quando Adolph Zukor e Vilmos Fuchs erano famosi, in Ungheria erano ancora in vigore le leggi razziali. Ed entrambi erano ebrei.

di Micol Flammini

Hollywood inizia a Zemplén, una regione che in Ungheria è famosa soprattutto per il vino, ma questo, secondo alcuni giornalisti e storici ungheresi, gli ungheresi non lo sanno. Che il regno del cinema non ci sarebbe senza gli europei è cosa nota, e a noi europei piace anche ripeterlo spesso, ma, scendendo ancora di più nei dettagli, non basta dire che è tutto merito degli europei, perché molto si deve a due in particolare: senza la vita romanzesca di due ungheresi probabilmente Hollywood non sarebbe mai esistita, oppure avrebbe avuto un'altra storia, meno favolosa.
   Adolph Zukor e Vilmos Fuchs erano originari di Ricse e di Tolcsva, nella zona di Zemplén e negli anni Ottanta dell'800 tutti e due lasciarono l'Europa per trasferirsi negli Stati Uniti. Zukor era rimasto orfano, aveva quindici anni quando se ne andò e appena arrivato in America lavorò per un po' in un negozio di pellicce e poi entrò in società in una delle prime sale giochi dell'epoca. Lì iniziò a vedere i primi cortometraggi, e un'idea, con tutte quelle immagini davanti agli occhi, deve avergli iniziato a ronzare per la testa e poco meno di dieci anni dopo, dopo tante scene viste e riviste e chissà immaginate, decise di comprare i diritti di distribuzione di "La regina Elisabetta", interpretata da Sarah Bernhardt, un film ovviamente muto, come muto sarà il primo lungometraggio americano, "The Prisoner of Zenda", prodotto da Zukor ancora prima di fondare, assieme a Jesse L. Lasky, la Paramount Pictures. Tutto in silenzio, soltanto immagini, perché è all'altro ungherese, Fuchs, che è invece legata la storia del suono.
   Vilmos Fuchs aveva un'altra storia, era arrivato negli Stati Uniti con tutta la famiglia, e non ci sono pellicce né sale giochi nel suo passato, c'era un'azienda di famiglia, venduta per darsi al cinema. Comprò una sala a Brooklyn e siccome Fuchs era molto meno attaccato di Zukor alle sue origini ungheresi, il suo nome lo aveva già cambiato in Fox ed è da quella sala di Brooklyn che inizia a mettere su la Fox Corporation, e vince anche un Oscar nel 1929 come produttore di "Aurora", film di Friedrich Murnau. Anche Zukor venti anni dopo vincerà un Oscar e dalla sua, rispetto a Fuchs ha anche una stella lungo Hollywood Boulevard. Se Zukor era tanto attaccato al suo essere ungherese, talmente tanto da aver rincorso la sua patria persino sposando una donna ungherese e appendendo nel suo studio la frase: "Non è sufficiente essere ungherese, ma può aiutare", per Fox quella patria lontana era poco più di un ricordo. Tutti e due hanno scritto una biografia, Zukor per raccontare Hollywood e i propri problemi economici, Fox per raccontare se stesso, raccogliendo materiale d'archivio e sue interviste e una fine molto silenziosa: è morto dopo un incidente mentre la sua compagnia e il cinema erano attraversati da una crisi molto dura.
   Nonostante l'America li consideri tra i fondatori di Hollywood, per qualcuno ne sono i veri fondatori, la loro memoria in Ungheria è stata dimenticata. C'entra il tempo, c'entra un'Ungheria che non era ancora Ungheria, due guerre mondiali di mezzo, il nazismo e l'origine ebraica dei due. Di loro gli ungheresi sanno ben poco e non hanno neppure avuto modo di inorgoglirsi troppo per il fatto di aver fondato l'universo del cinema. Qualcuno ha pensato che non fosse giusto, che fosse il caso di far sapere all'Ungheria che senza due ungheresi Hollywood non sarebbe stata Hollywood. Ci hanno pensato Tamàs Kollàrik e Sàndor Takó, esperti di cinema che hanno rimesso in fila la vita dei due, le biografie, le traversate dell'Atlantico, hanno incrociato le loro avventure, si sono addentrati in un universo letterario che ha prodotto le prime opere in ungherese su Zukor e Fuchs. Quando i due erano famosi, in Ungheria erano ancora in vigore le leggi razziali e sia Zukor sia Fuchs erano ebrei. Poi, una volta arrivati i comunisti, i due produttori erano diventati traditori, comprati dall'America e dal capitalismo, quindi non degni di essere ricordati tra i talenti ungheresi. Adesso, in questa nuova Ungheria, che sembra sempre così chiusa e con poca voglia di avventura, nell'epoca di Orbàn, i due autori sperano di risollevare Zukor e Fuchs dalla damnatio memoriae.
   
(Il Foglio, 18 dicembre 2020)


La Bulgaria dovrebbe designare Hezbollah nella sua interezza come organizzazione terroristica

Quando Mustafa Kyosov è arrivato al lavoro il 18 luglio 2012, non si aspettava che fosse il suo ultimo giorno di lavoro. Originario di Yurukovo, nel sud-ovest della Bulgaria, Kyosov ha lavorato come autista di autobus turistici nella famosa città turistica di Burgas sul Mar Nero. Il laborioso bulgaro stava aiutando i turisti israeliani a salire sul suo autobus all'aeroporto di Sarafovo quando una bomba piazzata da un operativo del gruppo terroristico Hezbollah sostenuto dall'Iran è esplosa

di Toby Dershowitz e Dylan Gresik

Kyosov e cinque israeliani, tra cui una donna incinta, sono stati uccisi e quasi altri 40 sono rimasti feriti fisicamente. Molti altri sono rimasti psicologicamente feriti, poiché i testimoni hanno descritto l'esplosione che ha mandato parti del corpo e sangue che volavano nell'aria.
   Dopo otto anni, il 21 settembre, un tribunale bulgaro ha condannato due agenti di Hezbollah, Meliad Farah e Hassan El Hajj Hassan, per aver fornito gli esplosivi e il supporto logistico per l'attacco, condannandoli in contumacia all'ergastolo senza condizionale. Per i genitori in lutto di Kyosov, le frasi non bastano. E non dovrebbe bastare neanche per la Bulgaria.
   "Se n'è andato all'età di 36 anni - ha lasciato suo figlio, ha lasciato sua moglie e ci ha lasciati soli", ha detto la madre di Mustafa, Salihe Kyosova, secondo 24 Chasa. "Niente lo riporterà indietro; non importa quali siano le frasi."
   Immediatamente dopo l'attentato, mentre l'indagine approfondita del governo bulgaro ha stabilito che Hezbollah era responsabile dell'attacco, nel processo del 2020 la corte non ha nominato né incriminato Hezbollah. Il sostegno logistico e finanziario agli attentatori del gruppo terroristico con sede in Libano gli ha permesso di portare a termine questo attacco mortale sul suolo bulgaro che ha causato la morte di un cittadino bulgaro.
   Le prove conclusive hanno costretto l'Unione europea a riconoscere la minaccia dell'organizzazione per il continente - con l'UE designa la cosiddetta "ala militare" del gruppo come gruppo terroristico nel 2013. Questa designazione parziale, che fa perno su un falsa divisione dell'entità unitaria, ha lasciato una lacuna negli sforzi dell'UE per ritenere Hezbollah responsabile.
   Mentre il recente verdetto della corte nei confronti di questi due agenti è un primo passo importante, la Bulgaria è ora a un bivio.
   La Bulgaria può accettare le intimidazioni di Hezbollah, come hanno fatto alcuni paesi europei, temendo ritorsioni per aver sanzionato l'organizzazione. Questi governi possono erroneamente credere che accontentandosi di una designazione parziale, possono evitare attacchi futuri.
   Oppure la Bulgaria può prendere una strada diversa. Designare Hezbollah come organizzazione terroristica nella sua interezza - oltre a congelarne le risorse finanziarie, vietare le attività di raccolta fondi ed espellere i suoi membri - contribuirebbe a minare la legittimità di Hezbollah e proteggere i cittadini dell'UE.
   Dall'attacco del 2012, lo slancio per ritenere Hezbollah responsabile si è sviluppato in tutto il mondo. La Bulgaria e la stessa UE hanno ora l'opportunità di colmare il divario di responsabilità.
   Confrontato con indiscutibile prova dell'attività maligna di Hezbollah sul suo stesso suolo, una Germania un tempo esitante di recente ha sanzionato il gruppo nella sua interezza. Lettonia, Lituania, Slovenia e Serbia hanno anche recentemente bandito il gruppo terroristico. Nelle ultime settimane Estonia, Guatemala e Sudan hanno fatto lo stesso, unendosi a Stati Uniti, Canada, Argentina, Bahrein, Colombia, Honduras, Israele, Kosovo, Paesi Bassi, Paraguay e Regno Unito. In tutto il mondo, oltre 15 paesi - insieme alla Lega araba e al Consiglio di cooperazione del Golfo - hanno designato l'intera Hezbollah.
   Anche il governo della Bulgaria ha la capacità di farlo. Il suo Consiglio dei ministri può aggiungere la totalità di Hezbollah all'elenco delle sanzioni ai sensi delle leggi antiterrorismo della Bulgaria.
   Ciò non sarebbe solo un'importante misura di giustizia per le vittime, ma anche per la stessa Bulgaria. Il 2016 la decisione della Bulgaria di aggiungere Farah e Hassan alla sua lista del terrorismo è stato un passo nella giusta direzione.
   A settembre, un funzionario statunitense ha annunciato che dal 2012 Hezbollah ha immagazzinato e trasportato il nitrato di ammonio in tutta Europa, l'ingrediente esplosivo utilizzato nell'attacco di Burgas. Dal 2015, le autorità del Regno Unito, della Germania e di Cipro hanno sequestrato scorte di nitrato di ammonio, secondo quanto riferito, destinato all'uso da parte del gruppo terroristico.
   Nitrato di ammonio è il composto chimico che ha causato la massiccia esplosione del 4 agosto a Beirut, che ha ucciso quasi 200 persone e causato miliardi di dollari di danni. In risposta, il popolo libanese ha parlato con i piedi e con la voce: anni di paura e di accomodamento hanno ceduto alle manifestazioni diffuse per protestare contro il terrorismo, la corruzione e gli illeciti di Hezbollah in Libano.
   È il momento giusto per enfatizzare nuovamente un nuovo approccio per fermare la condotta maligna di Hezbollah e non consentire a Hezbollah di operare impunemente sul suolo europeo.
   Non c'è risarcimento o condanna che possa riportare indietro Mustafa Kyosov e i cinque turisti israeliani. Per garantire una vera responsabilità, perseguire una giustizia duratura e scoraggiare futuri attacchi terroristici sul suo territorio, la Bulgaria può, tuttavia, designare Hezbollah nella sua interezza e incoraggiare i suoi partner dell'UE a fare lo stesso.

Toby Dershowitz è vicepresidente senior per le relazioni con il governo e la strategia presso la Foundation for Defense of Democracies, dove Dylan Gresik è analista delle relazioni con il governo.

(Reporter UE, 17 dicembre 2020)


Libano, attivista anti-Hezbollah condannata a tre anni di carcere

Kinda al Khatib è accusata di aver collaborato con Israele

di Sharon Nizza

 
Kinda al Khatib
Dubai - L'attivista libanese Kinda al-Khatib, 23 anni, già detenuta da sei mesi, è stata condannata lunedì dal Tribunale militare di Beirut a tre anni di carcere e lavori forzati perché riconosciuta colpevole di "collaborazione con il nemico", ossia Israele. Con lei è stato condannato a dieci anni di carcere, in contumacia, anche Charbel Hage, 35 anni, analista finanziario che oggi vive a Washington. Entrambi erano stati accusati di aver violato la legge sul boicottaggio, art. 278 del codice penale, che vieta ai cittadini libanesi qualsiasi tipo di interazione con israeliani. Il reato: un'intervista concessa a giugno da Charbel - da Washington - a una Tv israeliana, sulla crisi economica in Libano. Kinda avrebbe intermediato.
   La famiglia della giovane ha respinto ogni accusa, sostenendo che si tratti di un arresto politico, "la prova che in Libano non c'è libertà di espressione". Con i suoi 30,000 followers su Twitter, Kinda condivideva opinioni critiche di Hezbollah e dell'alleato di governo FPM, il partito del Presidente Michel Aoun. Dalle manifestazioni anti-governative dell'ottobre 2019 era diventata una voce di riferimento tra gli attivisti del distretto di Akkar, il più povero del Paese, dove all'alba del 18 giugno è stata prelevata dalle forze di polizia.
   "È tutta una farsa" dice Hage al telefono con Repubblica da Washington, la voce scossa dalla notizia appresa da poco. "Nell'atto di accusa è scritto che Kinda e io abbiamo avuto un incontro all'Ambasciata USA a Beirut con esponenti diplomatici europei. Ma io Kinda non l'ho mai incontrata di persona. Ho solo rilasciato un'intervista pubblica come analista, dagli USA, dove una legge come quella libanese sul boicottaggio peraltro è illegale".
   Hage collabora con "Hezbollah Monitor", un'organizzazione che pubblica dati sull'impatto che ha sull'economia libanese il partito guidato da Hassan Nasrallah, che indica come il principale responsabile della crisi economica e istituzionale del Paese, avendo creato un circolo di corruzione senza precedenti. Dice che la scelta di includerlo nell'atto di accusa - notizia che ha appreso solo a inizi settembre - e la condanna a ben dieci anni hanno uno scopo preciso. "E' un messaggio intimidatorio a tutti i libanesi che vivono all'estero: vi raggiungiamo ovunque siate. E avviene proprio nei giorni in cui diversi Paesi arabi stanno avviando relazioni diplomatiche con Israele, che di certo porteranno a interazioni di vario genere: negli Emirati per esempio vivono oltre 200,000 libanesi, il messaggio è rivolto in primis a loro".
   Secondo l'atto di accusa, Kinda avrebbe visitato Israele durante un viaggio in Giordania con il fratello - arrestato con lei e rilasciato dopo due giorni - che ha sempre negato la circostanza. C'è poi un'altra serie di accuse, per i sostenitori di Kinda "ridicole e senza fondamento": avrebbe tentato di mediare un incontro tra lo stesso giornalista israeliano e l'erede al trono saudita Mohammed bin Salman, e condiviso non specificate informazioni di intelligence con diplomatici europei e un agente del Kuwait.
   Charbel ci racconta che Kinda a gennaio era già stata denunciata da un'attivista pro-Hezbollah per "aver criticato il Presidente, mettendo a rischio la sicurezza nazionale con i suoi tweet contro Aoun e Nasrallah". Due volte era stata costretta dall'intelligence militare a firmare un impegno a non criticare Hezbollah, "un noto metodo per silenziare gli oppositori. È evidente che il problema con Kinda era il suo attivismo e il seguito che aveva". Un suo amico le aveva suggerito più volte di placare i toni, perché "prima o poi succederà qualcosa". Lei stessa aveva scritto su twitter di essere certa che avrebbero cercato di incastrarla con false accuse.
   "Questo è il Libano oggi" conclude Hage "un Paese il cui il sistema giudiziario non riesce a obbligare chi di dovere a prendere parte alle indagini sull'esplosione al porto di Beirut, ma non si fa problemi a emettere sentenze contro attivisti anti-Hezbollah. L'intero sistema è al servizio di Hezbollah". "Leggi che criminalizzano i contatti con gli israeliani sono diffuse in tutti i Paesi arabi" dice a Repubblica Mostafa El-Dessouki, direttore del Consiglio Arabo per l'Integrazione Regionale, un'organizzazione che unisce attivisti provenienti da 15 Paesi arabi.
   Solo nelle ultime settimane sono avvenuti due episodi emblematici: il cantante tunisino Noamane Chaari, che giovedì scorso aveva reso nota la sua collaborazione, a distanza, con un cantante israeliano, con il quale ha eseguito un duetto "Peace Among Neighbor" ("Pace tra vicini"), sta subendo un violento attacco nel suo Paese da parte del sindacato dei musicisti e delle principali emittenti televisive.
   Il mese scorso invece, il cantante egiziano Mohamed Ramadan, per via di una foto scattata a Dubai insieme al collega israeliano Omer Adam, è stato citato in giudizio per "vilipendio del popolo egiziano", con un'udienza fissata per il 19 dicembre.
   Il Consiglio Arabo per l'Integrazione Regionale sta promuovendo una proposta di legge, già sostenuta da 85 parlamentari bipartisan in Francia e presentata ad agosto al Congresso americano, volta a istituire un rapporto annuale dei casi in cui cittadini di Paesi arabi siano intimiditi o puniti per aver interagito con israeliani. "Queste leggi reprimono la società civile e impediscono agli arabi di contribuire a colmare il divario israelo-palestinese in maniera costruttiva" dice El-Dessouki. "Se la legge passerà - e ambiamo a promuoverla anche in Italia - si tratterà di un passo importante per il monitoraggio e la protezione dei diritti civili".

(la Repubblica, 16 dicembre 2020)



La farina nel vaso non finì e l'olio nell'orciuolo non calò

di Marcello Cicchese

Nell'ultimo giorno di Chanukkah, una festa in cui si parla di un olio prodigioso del passato, può essere incoraggiante riportare alla memoria un passo della Bibbia in cui si parla di un altro olio miracoloso, che rifiutandosi di calare di livello all'interno di un orciuolo, insieme a una farina anch'essa restia a diminuire di peso nonostante il consumo, è riuscito a non far spegnere la vita di una povera vedova pagana a cui altrimenti non sarebbe rimasto altro che morire insieme al suo unico figlio.
   Siamo nella terra dei Sidoni, Libano, nono secolo avanti Cristo. Carestia. Sono mesi che non piove. A una povera vedova libanese non è rimasto quasi più niente da mangiare. Esce dalla sua città, Sarepta, in cerca di un po' di legna per cuocere quel po' di farina che ha ancora in un vaso e quel po' di olio che le è rimasto in un orciuolo, sapendo che non ha più nient'altro in casa e quindi che lei e suo figlio sono destinati presto a morire di fame.
   Ma mentre sta nella campagna a raccogliere la legna, le si fa incontro un uomo che la chiama e dice: "Ti prego, vammi a cercare un po' d'acqua affinché io beva". Richiesta un po' brusca, a dire il vero; ma il fatto strano è che la donna ubbidisce senza fare obiezioni.
   Ma l'uomo non s'accontenta, e mentre la donna si allontana le grida dietro: "E portami, ti prego, anche un pezzo di pane". Strano modo di procedere, quello dell'uomo, e anche quello della donna. Come si spiega?
   Lo spiega la Bibbia, da cui è tratto il racconto. Uomo e donna stanno ubbidendo entrambi a un ordine di Dio. L'uomo è Elia, a cui Dio ha ordinato in modo preciso: "Alzati, va' a Sarepta e stabilisciti lì". Va bene, potrebbe aver pensato Elia, ma il problema di vitto e alloggio, come lo risolviamo? Elia però non ha pensato questo, perché prima di essere mandato in Libano aveva dovuto sottostare a un training preparatorio che Dio gli aveva fatto fare sulla riva di un torrentello in Galaad. Il Signore l'aveva fatto sistemare lì dicendogli che al vitto avrebbero provveduto i corvi, a cui aveva dato l'ordine di portargli da mangiare. Ogni giorno, carne e pane, mattina e sera. E così è stato. All'acqua invece avrebbe provveduto il torrente. Solo che il torrente a un certo punto si seccò, cosa tutt'altro che rara da quelle parti. Fu allora che Dio ordinò ad Elia di trasferirsi in Libano; ma per rassicurarlo su vitto e alloggio gli disse: "Ecco, io lì ho dato ordine a una vedova che ti dia da mangiare" .
   
Dunque Dio aveva dato due ordini: uno ad un ebreo ed uno a una pagana. E questo spiega la reazione della vedova alla richiesta di Elia. Dio aveva deciso che i due si dovevano incontrare, ma nessuno dei due sapeva come sarebbe stato il seguito della storia. Tutti e due però ubbidirono, e la storia così poté andare avanti [chi conosce il Nuovo Testamento sa che qualcosa del genere si trova anche lì].
   Ma dei due, chi si è trovato in maggiori difficoltà è la donna. Le viene ordinato di nutrire uno sconosciuto che arriva, ma come si fa quando non si ha da mangiare neanche per sé? Si capisce allora la sua risposta quando Elia gli chiede del pane.
    «Ella rispose: 'Com'è vero che vive l'Eterno, il tuo Dio, del pane non ne ho, ma ho solo una manata di farina in un vaso, e un po' d'olio in un orciuolo; ed ecco, sto raccogliendo due stecchi, per andare a cuocerla per me e per mio figlio; la mangeremo, e poi morremo'».
Il modo in cui Elia risponde alla vedova può riassumere un intero trattato sulla fede:
    «Elia le disse: 'Non temere; va' e fa' come tu hai detto; ma fanne prima una piccola focaccia per me, e pòrtamela; poi ne farai per te e per tuo figlio.
Le comprensibili risposte a una simile richiesta avrebbero potuto essere molto dure, ma Elia gioca d'anticipo:
    «Poiché così dice l'Eterno, l'Iddio d'Israele: - Il vaso della farina non si esaurirà e l'orciuolo dell'olio non calerà, fino al giorno che l'Eterno manderà la pioggia sulla terra'.
Il significato di queste parole potrebbe essere: "Se tu pagana vuoi ricevere il dono di rimanere in vita attraverso un miracolo compiuto dal Dio d'Israele mostra di credere in Lui condividendo con me, servo del Dio d'Israele, tutto quello che hai per la tua sopravvivenza".
   E così fece la donna:
    «Ed ella andò e fece come le aveva detto Elia; ed essa, la sua famiglia ed Elia ebbero di che mangiare per molto tempo. Il vaso della farina non si esaurì, e l'orciuolo dell'olio non calò, secondo la parola che l'Eterno avea pronunziata per bocca d'Elia»
Il racconto è ben noto e vale la pena di rileggerlo con nuova attenzione sulla Bibbia, al capitolo 17 del primo libro dei Re. Ma c'è da chiedersi come mai un miracolo così ricco di significato profetico e di particolari teneramente allusivi sia così trascurato nella memoria degli ebrei e nella riflessione dei cristiani. Tanto più che il prodigio della farina e dell'olio non è durato pochi giorni, ma "per molto tempo", forse tre anni; ed è servito a tenere in vita una povera vedova pagana con suo figlio, permettendo così ad un profeta come Elia di continuare a svolgere il servizio che l'Iddio di Israele gli aveva affidato per il suo popolo.
   E se un giorno la memoria di questo fatto storico dovesse trasformarsi in una festa, ad essa potrebbero partecipare gioiosamente insieme ebrei e gentili. Perché nel racconto si vedono due persone, un ebreo e una pagana, che per la loro fede nel Dio d'Israele ne sperimentano la potenza vivificante. E questo rimanda all'Evangelo, di cui l'apostolo Paolo dice che
    "esso è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco" (Romani 1:16).
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(Notizie su Israele, 18 dicembre 2020)



Israele: accordo sul bilancio entro martedì o si va a nuove elezioni

Se la legge di bilancio non verrà approvata entro la mezzanotte di martedì prossimo, Israele dovrà tornare alle urne, per la quarta volta in due anni. A chiarire la scadenza è stato il portavoce della Knesset, il parlamento israeliano, mentre la crisi appare sempre più probabile.
Secondo l'emittente Channel 12, i due principali partiti del governo - il Likud del premier Benyamin Netanyahu e Blu e Bianco del ministro della Difesa Benny Gantz - hanno ormai smesso di negoziare e vi sono "zero probabilità" di evitare nuove elezioni a fine marzo. Se così sarà, il voto sarà ancora una volta una sorta di referendum su Neyanyahu, primo ministro più longevo della storia d'Israele, ma anche imputato per corruzione. Il quadro politico sarà in parte mutato rispetto alle elezioni del marzo 2020.
Uno dei principali avversari interni di Netanyahu, Gideon Sa'ar ha appena lasciato il Likud per fondare un nuovo partito di centro destra, "Nuova Speranza", che potrebbe erodere i consensi del premier. D'altro canto Blu e Bianco appare logorato dall'esperienza di governo e in calo nei sondaggi. Secondo Times of Israel, il suo numero due, il ministro degli Esteri Gabi Ashkneazi potrebbe lasciare presto il partito.

(Shalom, 17 dicembre 2020)


Israele testa sistema per intercettare missili nemici

L'addestramento militare si è concluso positivamente

TEL AVIV - Nelle ultime ore il ministero israeliano della difesa ha reso noto il test avvenuto con successo di un sistema multiraggio in grado di intercettare missili a corta e a lunga gittata (leggi anche l'articolo pubblicato da AVIONEWS). L'addestramento militare è stato portato a termine presso una delle basi dell'aeronautica di Tel Aviv, senza alcun dettaglio che possa permettere di individuare la località esatta. Il test, inoltre, ha coinvolto anche l'agenzia per la difesa missilistica degli Stati Uniti. In pratica, si è trattato di una serie di attacchi simulati con razzi da crociera, balistici e aerei droni; secondo quanto riferito dai funzionari israeliani, è la prima volta in assoluto che si effettuano addestramenti del genere visto che sono state sfruttate le componenti dei sistemi di difesa aerea a più livelli. Le conclusioni del ministero sono state improntate all'ottimismo: secondo Tel Aviv, il sistema di cui si sta parlando sarà capace di intercettare qualsiasi tipo di minaccia, anche quelle simultanee nel corso dei conflitti. Per il ministro Benny Gantz, i test militari appena conclusi sono la dimostrazione dell'approccio moderno di Tel Aviv per quel che concerne le minacce di altre forze armate. Il sistema è stato definito come uno dei più avanzati che esiste al mondo, grazie alla collaborazione proficua tra il dicastero e la direzione della ricerca e sviluppo.

(AVIONEWS 17 dicembre 2020)


Con l'ebraico Vatican News si rivolge al mondo in 36 lingue

Si arricchisce il portale d'informazione della Santa Sede, che da oggi offre contenuti destinati ai lettori di lingua ebraica. Il Patriarca Pizzaballa: "È una lingua simbolicamente importante per noi cristiani".

Beatitudine? Reverendissima?
Vatican News da oggi "parla" anche in ebraico. Il portale di informazione multimediale della Santa Sede, inaugurato tre anni fa, apre nuove pagine web che portano a 36 le lingue in cui si esprime e si rafforza l'impegno a portare la parola e la testimonianza del Papa ovunque nel mondo, raccontando allo stesso tempo la vita della Chiesa universale nei diversi Paesi. Quella ebraica, scrive il Patriarca Latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa in un messaggio in occasione del lancio delle nuove pagine, non è come si potrebbe pensare soltanto "un'altra lingua in più tra le tante". L'ebraico, afferma Pizzaballa, "è una lingua simbolicamente importante per noi cristiani, perché costituisce una delle lingue alla radice della storia della Chiesa: insieme al greco e all'aramaico, è la lingua delle Scritture". Naturalmente, aggiunge, "il sito è in ebraico contemporaneo, una lingua che è stata ripresa nell'età moderna, ma direttamente legata alla lingua dei Patriarchi, dei Profeti e dei Re dei tempi antichi e del popolo ebraico del tempo di Gesù".
   Il Patriarca latino di Gerusalemme ripercorre gli sforzi prodotti dalla Chiesa nella storia recente, sin dal Concilio Vaticano Il, per sviluppare rapporti amichevoli con il popolo ebraico, per contribuire al "miglioramento del mondo". Il presule ricorda momenti simbolici, come le visite degli ultimi Papi alle sinagoghe in varie parti del mondo, gli incontri con i rappresentanti del popolo ebraico, le visite in Terra Santa, al Muro Occidentale e allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah.
   Papa Francesco si è rivolto spesso ai popoli dell'area e ai loro leader chiedendo, non solo a nome della Chiesa, un rinnovato impegno nella ricerca di soluzioni per i conflitti regionali che impediscono alla regione di vivere in giustizia, pace e prosperità. "Anche per questo - scrive Pizzaballa - è importante che risuoni anche in ebraico l'invito alla riconciliazione e al perdono, invito che caratterizza il servizio delle Chiese locali di Terra Santa, invito basato sulla vita e sulla missione di Gesù".
   La lingua ebraica non è in realtà del tutto nuova nel mondo della comunicazione della Santa Sede: aveva infatti esordito sul sito web di Radio Vaticana nell'ottobre 2010, in occasione dell'Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medioriente, rimanendovi fino al dicembre 2017. Oggi si inaugura una nuova stagione grazie all'impegno e la collaborazione del Patriarcato Latino e del Vicariato San Giacomo di Gerusalemme.

(Vatican News, 17 dicembre 2020)


Come al solito. Il Vaticano si accorge adesso che ci sono persone che parlano ebraico. E’ nello stile secolare della CCR (Chiesa Cattolica Romana): prima combatte e cerca di annullare chi considera nemico perché attenta alla sua sovranità; se non ci riesce del tutto cerca compromessi di comodo al miglior prezzo possibile; se l'avversario sembra aver ottenuto un successo stabile cerca di superarlo appropriandosi di parte della sua ideologia. Si pensi a quel riferimento al “miglioramento del mondo” con cui vorrebbe appropriarsi dell'ebraico tikkun olam. Disgustoso. M.C.


Il Marocco è la prima nazione islamica a insegnare la cultura ebraica

di Paolo Castellano

Dopo l'annuncio della storica normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Marocco, il 13 dicembre il paese nordafricano ha annunciato una modifica rivoluzionaria all'interno dei piani di studio delle scuole marocchine. A breve, gli studenti del Marocco potranno partecipare a lezioni di storia e cultura ebraica.
   Questa novità educativa farà parte del curriculum ufficiale delle nuove generazioni marocchine e punta a consolidare il rapporto tra Israele e lo Stato arabo. È un fatto senza precedenti: per la prima volta un paese a maggioranza islamica, dove l'Islam è la religione di Stato, pone l'accento sull'importanza della cultura ebraica come strumento per stabilizzare e diffondere la pace.
   Serge Berdugo, segretario generale del Consiglio delle comunità ebraiche del Marocco che ha sede a Casablanca, ha dichiarato all'AFP che questa riforma scolastica avrà "l'impatto di uno tsunami".
Secondo Jewish Press, il nuovo piano di studi contenente le discipline sull'ebraismo sarebbe già stato concordato prima dell'avvento della normalizzazione diplomatica con Israele. Il Marocco sta cercando di rinnovare e aggiornare le competenze degli studenti attraverso un piano elaborato nel 2014.
   Fouad Chafiqui, capo dei programmi accademici del Ministero dell'Istruzione di Rabat, ha detto che l'iniziativa mira a "far emergere le diversità del Marocco".
   Inoltre, due associazioni ebraiche degli Stati Uniti, la Federazione americana sefardita e la Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, hanno affermato di "aver lavorato insieme al Regno del Marocco e alla comunità ebraica marocchina" per realizzare questa "riforma rivoluzionaria".
Precisamente, le associazioni ebraiche americane hanno pubblicato un messaggio congiunto su Twitter: «Garantire che gli studenti marocchini imparino totalmente e con orgoglio la loro tollerante storia, incluso il filosemitismo marocchino, è un antidoto contro l'antisemitismo».
   All'interno del nuovo programma scolastico, verranno adottati due nuovi libri destinati alla quarta e alla sesta classe: volumi che descrivono la vita e l'eredità degli ebrei marocchini sotto il sultano Mohammed Ben Abdellah al-Khatib.

(Bet Magazine Mosaico, 17 dicembre 2020)


Israele e Marocco creeranno camera congiunta di commercio

Riportiamo un comunicato di un sito superfilopalestinese. Si noti il tono giornalistico oggettivo con cui è riportata la notizia. Qualcosa indubbiamente è cambiato. NsI

Tel Aviv - Palestine Chronicle. Sono in corso i piani per lanciare una Camera di Commercio tra Israele e Marocco, a seguito della recente normalizzazione tra i due Paesi, con un incontro previsto per il 25 dicembre a Tel Aviv per discutere la sua inaugurazione.
World Morocco News ha rivelato martedì che il Presidente della Camera di Commercio Israele-Francia è stato incaricato di preparare l'incontro che includerà 15 figure del mondo degli affari per costituire l'associazione.
La Camera di Commercio Israele-Marocco mirerà a promuovere opportunità d'affari tra i Paesi e fornirà loro studi e assistenza.
Simile alla normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan con Israele, lo stabilimento di rapporti diplomatici del Marocco con Tel Aviv è stato annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ormai alla fine del mandato. Come parte dell'accordo, gli USA riconosceranno la contestata rivendicazione del Marocco sul Sahara occidentale.
Mercoledì, è stato riferito che il consigliere senior e genero di Trump, Jared Kushner, guiderà una delegazione statunitense in Israele e Marocco, la prossima settimana, per discutere ulteriormente l'accordo di normalizzazione.
Lunedì, le autorità marocchine hanno disperso un gruppo di attivisti che si erano radunati davanti al parlamento, a Rabat, per denunciare la mossa di normalizzazione e mostrare solidarietà ai palestinesi.

(infopal, 17 dicembre 2020)


La Lista: Gli ebrei di Napoli e la Shoah

di Vincenzo Cortese

SOTTOTITOLO
Il libro ripercorre le vicende degli ebrei di Napoli che subirono le persecuzioni razziali e le successive deportazioni nei campi di sterminio. In particolare l'autore si sofferma sulle quarantadue persone di una lista, quella dei cittadini napoletani di fede ebraica che si trovarono lontani da Napoli, appena liberata dal regime nazifascista, proprio nel momento in cui iniziarono i viaggi della morte verso il lager di Auschwitz.
Il libro si propone lo scopo di conservare la memoria di queste persone affinché ciò che è accaduto non possa più ripetersi.

(Septem Literary - Altervista, 16 dicembre 2020)


Israele, spiragli di normalizzazione con il Pakistan

di Sharon Nizza

DUBAI - Il quotidiano israeliano Israel Hayom ha rivelato ieri che "una delegazione diplomatica di un grande Paese asiatico musulmano ha visitato Tel Aviv due settimane fa", nell'ambito dei contatti per un possibile avvio delle relazioni diplomatiche con Israele. Secondo quanto appreso da Repubblica da fonti che richiedono l'anonimato, si è trattato di una delegazione pachistana. Da quando è iniziata l'ondata di normalizzazione tra Israele e Paesi musulmani, il 13 agosto con l'annuncio degli Emirati Arabi Uniti, seguiti poi da Bahrein, Sudan e Marocco nell'arco di tre mesi, sono frequenti le voci su pressioni saudite su Islamabad affinché consideri la via diplomatica con lo Stato ebraico. L'erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (noto come Mbs), che il mese scorso ha incontrato "segretamente" il premier israeliano Netanyahu in Arabia Saudita, pare stia tentando di "normalizzare la normalizzazione", ossia testare la reazione dell'opinione pubblica del mondo musulmano, spingendo altri grandi Stati musulmani a procedere prima di Riad, che in quanto custode dei due luoghi Santi più importanti per l'Islam si trova in una posizione estremamente delicata.
  
Sebbene sia nota l'esistenza di una cooperazione di intelligence e militare sottobanco tra Israele e Pakistan, la posizione ufficiale di Islamabad è che un accordo di normalizzazione non possa prescindere dalla risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Così aveva ribadito dopo l'annuncio dell'accordo tra Israele ed Emirati, parlando allo stesso tempo di "uno sviluppo con implicazioni di vasta portata".
  Non si placano le voci su nuovi Paesi che potrebbero unirsi all'ondata della normalizzazione che sta cambiando i giochi nello scacchiere mediorientale. Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno annunciato una visita in Israele del vicepresidente Mike Pence a metà gennaio, in cui, secondo la stampa israeliana, è possibile verranno annunciati due nuovi Stati. In molti parlano di Oman e Indonesia, ma c'è anche chi guarda alle trattative per la riconciliazione in corso tra Qatar e Paesi del Golfo come un possibile segnale premonitore di un cambiamento di rotta anche su Israele. Si tratterebbe di un cambiamento radicale che impatterebbe direttamente la dinamica israelo-palestinese, in quanto a Doha risiede la leadership di Hamas all'estero. E proprio nella capitale qatariota si è recato lunedì il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), cercando una mediazione - dopo il fallimento di quella turca e poi egiziana - negli sforzi di riconciliazione tra le fazioni palestinesi, presupposto per la convocazione di nuove elezioni, che sarebbero le prime in 14 anni.
  Un altro sviluppo che avrà le sue ripercussioni sulle nuove dinamiche regionali è la nomina di ieri da parte del premier israeliano Netanyahu del nuovo direttore del Mossad, noto per ora solo come "D." (il nome verrà rivelato una volta superato l'esame della commissione per le nomine governative). D. attualmente è il vice direttore dell'Agenzia di intelligence israeliana ed è stato raccomandato dal direttore uscente, Yossi Cohen. Cohen, considerato l'architetto delle nuove alleanze mediorientali, in vista del termine del suo mandato nei prossimi sei mesi, secondo la stampa israeliana starebbe valutando la discesa in campo nell'arena politica. Netanyahu, che lo considera uno dei suoi possibili eredi, vorrebbe inviarlo a Washington come prossimo ambasciatore israeliano, dove con le ottime relazioni bipartisan intrecciate nel corso di una carriera trentennale nei servizi, potrebbe dare un contributo fondamentale alla continuazione del percorso avviato con gli Accordi di Abramo anche durante l'amministrazione Biden.
  Netanyahu, che è solito annunciare nomine importanti all'ultimo momento, questa volta ha deciso di procedere con largo anticipo nell'eventualità che il Paese possa andare a elezioni anticipate a marzo e lui possa perdere, per la prima volta dal 2009, la maggioranza di governo. L'attuale coalizione di governo ha fino al 23 dicembre per cercare di trovare un compromesso. Se per allora non si sarà trovata una soluzione, il Parlamento israeliano si scioglierà automaticamente per mancata approvazione della legge di bilancio, portando il Paese alle quarte elezioni in meno di due anni.

(la Repubblica, 16 dicembre 2020)


Killer, robot, fake news. L'assassinio di Teheran

di Davide Frattlnl, Viviana Mazza e Guido Olimpo

 
L'ultimo giorno di vita di Mohsen Fakhrizadeh inizia a Rostam Kola, a nord ovest di Teheran. Lascia la località per raggiungere Absard, a circa 230 chilometri, nonostante la scorta lo abbia avvisato di una segnalazione di pericolo. Con lui ci sono la moglie e undici guardie dell'unità speciale Ansar-ol-Mahdi distribuiti in un convoglio di 3-4 auto. Alle 14.30 sono a Absard, imboccano la via omonima, un'arteria veloce. E' il teatro dell'agguato, seguito da ricostruzioni diverse.
   Partiamo dalla prima, lanciata da un giornalista iraniano residente a Londra. Parcheggiato sul lato destro della strada c'è un pick-up carico di legna che esplode al passaggio del primo mezzo, costringe il convoglio a fermarsi. Entrano In azione i sicari, gli agenti reagiscono, uno offre il suo corpo come scudo. Ma per il padre del piano atomico iraniano non c'è scampo, è raggiunto — preciserà in seguito uno dei figli — da 4 o 5 proiettili «speciali» sparati da vicino. Un testimone, intervistato dalla tv, conferma la sequenza. Infine un dettaglio. Nella zona vi sarebbe stato un black out attribuito ad un sabotaggio del team.
   La seconda ricostruzione — con il timbro dell'ufficialità — scompagina tutto, anche se non è priva di confusione. L'auto della scorta è in avanscoperta, risuona un rumore sordo. Un oggetto (o proiettile) potrebbe aver danneggiato il parabrezza della Nissan dello scienziato. Che ordina all'autista di fermarsi e scende dalla vettura blindata con al fianco un agente. Un'imprudenza. Appena fuori è falciato dalle raffiche di un'arma automatica piazzata su un pick-up fermo a 10-15 metri. Le fonti ufficiali, aggiungendo ogni giorno un pezzo, la descrivono così: «radiocomandata, via satellite»; ha sparato 13 proiettili; munita di un sistema per il riconoscimento facciale e intelligenza artificiale; in dotazione alla Nato, provvista di silenziatore. Gli assassini invisibili distruggono con una carica il camioncino, restano i rottami, compresi pezzi di armi israeliane (tesi ufficiale). Una missione completata in tre minuti, attribuita al Mossad e complici interni. Partono le indagini, annunciano í primi di arresti e, ieri, l'«identificazione di tutti i colpevoli».
   La narrazione non chiude la partita, infuria la lotta dei lunghi coltelli. Vi partecipano apparati di sicurezza, politici, esuli. La storia della mitragliatrice è giudicata da alcuni un tentativo dei Guardiani di giustificare il fallimento. I loro rivali dell'intelligence li incalzano: vi avevamo avvertiti, sapevamo anche del posto esatto dell'imboscata. C'è la caccia alla talpa. La famiglia ricorda che Fakhrizadeh è morto da martire, con la moglie al suo fianco. Lei ha sul volto i segni delle schegge. Gli esperti indipendenti mostrano cautela sulla teoria dell'arma in remoto, alcuni non lo escludono a priori, altri ancora pensano che la verità sia nel mezzo, con qualche trucco che abbia sorpreso tutti.

 L'aereo di Netanyahu
  T7-CPX. La sigla identifica il Gulfstream usato dal primo ministro israeliano per le missioni private che dovrebbero rimanere private. Decolla alle 19.30 dall'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, atterra a Neom, 50 chilometri di deserto che galleggiano in mezzo al Mar Rosso. Il primo ad accorgersi della rotta inusuale è un giornalista del quotidiano Haaretz: Avi Scharf è un flight tracker, gli appassionati che monitorano via Internet i voli nei cieli di tutto il mondo, e rilancia via Twitter lo stupore per quel collegamento tra due Paesi nemici.
   Neom è una metropoli che ancora non c'è: il nome viene dalla combinazione di neo (nuovo) e la parola araba mustaqbal, futuro. Mohammed Bin Salman, il principe ereditario saudita, lo considera il suo regalo all'umanità — «un salto di civilizzazione» — un balzo dal costo di qualche miliardo di dollari che sarà gestito dall'intelligenza artificiale per competere con i grattacieli di Dubai. Per ora sono pochi palazzi piantati sulla terra ocra, più set polveroso di Blade Runner che slancio evolutivo.
   Quel 23 novembre l'aereo da 14 posti resta sulla pista per 4 ore. Abbastanza perché Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il principe possano discutere delle possibili alleanze da lì a qualche mese e delle possibili mosse da lì a qualche giorno. Gli israeliani e gli americani confermano l'incontro, i sauditi smentiscono: troppo presto per ufficializzare una relazione rimasta clandestina.
   Al fianco di Netanyahu c'è Yossi Cohen, il capo del Mossad, uno degli uomini che il leader della destra considera più fidati fino al punto di averlo indicato come un possibile successore. Ha un profilo diverso dal boss che lo hanno preceduto alla guida dell'Istituto. Più pubblico, meno segreto: quando nel 2018 il premier israeliano annuncia che gli agenti sono riusciti a recuperare i dossier del programma nucleare iraniano, ai reporter arriva la conferma da fonti anonime che l'operazione sia stata pilotata da Cohen stesso. Il colpo di intelligence è presentato dal primo ministro con un colpo di teatro in diretta mondiale: sfila come un mago il drappo nero che nasconde i faldoni dell'archivio e illustra documento dopo documento i piani del progetto Amad (Speranza). Soprattutto ne identifica quello che i servizi israeliani considerano il capo e promotore: Mohsen Fakhrizadeh.
   Cohen arriva al vertice con la promessa di reinstillare negli 007 la spavalderia per i piani audaci e soprattutto di evitare imbarazzi spionistici come quello di dieci anni fa: undici degli agenti nella squadra spedita in un hotel di Dubai a uccidere Mahmoud al Mabhouh, considerato il trafficante d'armi in capo per Hamas, erano stati compromessi dopo l'omicidio dalle telecamere di sorveglianza. Cambia il modus operandi: il Mossad sotto di lui usa sempre meno operativi israeliani e preferisce coordinare piccoli gruppi di mercenari internazionali o locali, ognuno incaricato di eseguire un pezzo del piano e ignaro di quello che stanno facendo gli altri. Le stesse tattiche con cui sarebbe stato ucciso Fakhrizadeh.

 Il «regalo» per Biden
  Netanyahu non è stato il primo a puntare i riflettori su Mohsen Fakhrizadeh. Nel 2007 lo scienziato fu posto sotto sanzioni Onu. Nello stesso anno l'intelligence Usa dichiarò in un rapporto: «Crediamo fermamente che il programma di armamenti nucleari di Teheran sia stato sospeso nell'autunno del 2003». Gli Stati Uniti avrebbero raggiunto quella conclusione dopo aver intercettato email e telefonate dello scienziato sospettato di essere negli anni Novanta il capo del programma per lo sviluppo di armamenti nucleari, ovvero di un possibile passaggio dalla ricerca civile a una testata atomica: apparentemente, si lamentava perché gli avevano tagliato i fondi. La Repubblica Islamica ha sempre negato l'esistenza di un programma di armamenti nucleari e afferma che gli scopi sono puramente civili. Poco dopo l'accordo sul nucleare del 2015 con cui l'Iran accettò di congelare il suo programma in cambio della rimozione di sanzioni internazionali, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica chiese di incontrare Fakhrizadeh. Ma le richieste vennero respinte.
   Lo scienziato sessantenne, membro dei Guardiani della Rivoluzione che aveva combattuto nella guerra Iran-Iraq, manteneva un basso profilo. Dopo la morte, la Guida Suprema Ali Khamenei lo ha definito «uno dei più importanti scienziati nei campi del nucleare e della difesa», mentre l'ambasciatore all'Onu Majid Takht Ravanchi ha sottolineato che aveva ideato un test per il Covid-19 e stava lavorando al vaccino. Nel 2015 il presidente Hassan Rouhani gli aveva dato un riconoscimento per il suo lavoro. Ma è stato diffuso un audio inedito in cui si sentiva Fakhrizadeh dubitare dell'intesa: «Non possiamo fare compromessi con l'America». Sia conservatori che moderati rivendicano il martire come «uno dei loro».
   Molti in patria lo paragonano al generale Qassem Soleimani, ucciso dagli americani in Iraq il 3 gennaio 2020. Ed è entro l'anniversario dell'assassinio di Soleimani che gli esperti occidentali si aspettano una rappresaglia. Gli analisti vicini alla nuova Amministrazione Usa vedono l'attentato come un tentativo di Israele, con l'appoggio dell'Amministrazione Trump e dei sauditi, di ostacolare il ritorno all'accordo sul nucleare promesso da Joe Biden dopo l'abbandono unilaterale del suo predecessore. Il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha assicurato che l'Iran tornerà all'accordo, se gli Stati Uniti riprendono a rispettarlo. All'inizio del 2020, Teheran preferì evitare una vera escalation, rispondendo con una rappresaglia militare limitata dopo l'uccisione del generale Soleimani. Il 2020 volge alla fine, ci sono ancora 35 giorni di transizione tra Trump e Biden e, di nuovo, la tensione è altissima.

(Corriere della Sera, 16 dicembre 2020)


*


Guerre antiche e nuove dell'Iran 'apocalittico'

L'uccisione del leader del progetto nucleare di Teheran riapre anche il dibattito geopolitico

RIFLESSIONE
Norvell De Atkine studia la storia bellica persiana per analizzare il presente
STRATEGIE
L'opzione nucleare è molto pericolosa in mano a dei fanatici millenaristi

di Fiamma Nirenstein.

Mohammed Al Saaed, l'analista politico del giornale saudita Okaz scrive il 30 novembre «come si può condannare l'uccisione di un uomo che ha dedicato la sua vita a costruire una sinistra bomba atomica per un regime malvagio, mentre non condannano l'uccisione di tanti innocenti nella regione. L'Iran uccide Siriani, Iracheni, Libanesi, ha distrutto lo Yemen, e sponsorizza gruppi terroristici...». A cui, aggiungiamo noi, l'Iran uccide americani, francesi cittadini di ogni origine, colore, credo... e programma il genocidio in un intero Paese che «verrà cancellato dalla faccia del mondo», Israele.
   L'uomo di cui qui si parla è Moshen Fakhrizadeh. È stato definito scienziato, fisico, professore universitario. Ma non c'è nulla che rappresenti meglio delle reazioni pietistiche di questi giorni allieliminazione di Fakhrizadeh la confusione e l'ignoranza sul regime degli Ayatollah e sui suoi molteplici significati. In realtà le condoglianze, se si dà ai dolenti il beneficio di inventario, sono suonate più che altro come una nota di amaro biasimo nei confronti di Israele. È stata un'occasione irresistibile per mostrare i propri colori, per dare di gomito al regime più feroce del mondo che perseguita, soprattutto, i propri cittadini soggiogati e perseguitati dalle Guardie della Rivoluzione degli Ayatollah. Ma le lacrime sullo «scienziato nucleare» Moshen Fakhrizadeh sono lontane dalla comprensione di quel che Fakhrizadeh rappresentava per la guerra iraniana.
   Il punto di vista umanitario, tipico della nostra cultura, non funziona quando si parla di un generale in guerra, e qui di questo si tratta: di un altissimo ufficiale, responsabile del programma fondamentale per uno scontro in atto nel presente. Fakhrizadeh, infatti, non era uno in primis scienziato o professore universitario, ma un generale della Guardia Rivoluzionaria che, mentre insegnava fisica all'Università delle Guardia Imam Hussein, aveva un ruolo strategico nel maggiore fra i disegni di conquista di uno Stato islamico mondiale, da compiersi per passi successivi, in cui l'atomica è fondamentale. E Fakhrizadeh era il padre della bomba da quando, nel 1998, era stato messo alla testa del programma nucleare, col ruolo di capo del PHRC, il centro di ricerche per lo sviluppo nucleare.
   La determinazione di Fakhrizadeh a raggiungere la bomba si articola in mille invenzioni e cambiamenti di strada. La maggioranza degli sciiti appartiene alla corrente dei duodecimani: crede alla sequenza dei dodici imam succeduti a Maometto. II dodicesimo, Muhammad ibn Hossein al Mahdi, nato nell'869, è sparito a 72 anni ma dal suo divino nascondimento prepara il suo ritorno e il giorno del giudizio. Dal '79, momento della rivoluzione khomeinista, esso diventa, per l'Iran, imminente. La guida degli imam verso l'obiettivo è variamente interpretata, ma sicura, e nella battaglia è fatale l'uso della Taqiyya, ovvero la dissimulazione per il bene supremo della comunità, consente di procedere verso l'obbiettivo con bugie e mosse diplomatiche mentre prosegue lo scontro col mondo degli infedeli e dei traditori della fede. Il così detto Mahdismo è molto rilevante nella leadership odierna, gli sciiti, che hanno molto sofferto la loro condizione di minoranza islamica, pensano che coll'avvento del Profeta le sofferenze avranno fine. E come Ahmadinejad e anche Khamenei hanno ripetuto, per il ritorno del Mahdi occorre una conflagrazione universale. Che quindi non è temuta, ma auspicata: il grande momento del mahdismo è stato quello di Ahmadinejad. Ma anche se c'è chi lo ritiene più immediato e chi meno, gran parte della leadership civile e militare è comunque fedele o vicina a questa ideologia compreso il "moderato" Rouhani.
   La bomba atomica, la distruzione di Israele, le ossessive minacce all'Occidente, la violenza con cui il regime reprime il comportamento indipendente, sia nel campo delle opinioni che il quello personale (basta pensare all'oppressione delle donne e dei gay, fino alla condanna a morte), la spesa enorme che si carica per finanziare gli Hezbollah, Hamas, gli attentati terroristici che ne fanno il primo Stato terrorista, il mantenimento di milizie come i Basiji e Quds, tutti addestrati, feroci, pronti a colpire... sono tutti segnali dell'esistenza di uno stato di guerra continua, la guerra messianica che invoca la rivoluzione mondiale.
   Un saggio scritto per l'ASMEA da Norvell B. De Atkine, Historical considerations in understanding Iran's Military and their way of war, traccia il rapporto fra la guerra iraniana odierna e quella dei secoli trascorsi. De Atkine cita fra i molti testi History of Warfare di John Keegan che dipinge le guerre persiane contro i greci come «evasive, indirette, molto astute psicologicamente e nell'uso delle informazioni segrete», mentre Kaveh Farook con Ombre nel deserto spiega che i persiani ottenevano la distruzione del nemico con l'uso dei loro arcieri, da lontano, prima di dover entrare in un corpo a corpo. Potevano «oscurare il sole» con una nuvola di frecce che piovevano dall'alto.
   Bravi e coraggiosi combattenti, tuttavia, come dice Erodoto, avevano metodi di combattimento di cui il saggio sostiene la permanenza; così anche un intenso senso di identità di fronte alle ripetute invasioni occidentali e orientali, dagli arabi agli inglesi; si loda, nel saggio, la capacità persiana di raffinata immaginazione, di uso della diplomazia e delle informazioni, e anche la superba capacità di lanciare immense folle nella lotta. Oggi basta pensare alle folle di fronte a Khamenei che gridano «morte all'America», dimostrando una incredibile hubris e fiducia in sé stesse e nella propria fede. Per capire Tom Holland nel suo The Persian Fire, sempre citato da De Atkine: «se si guarda a come i Persiani vedono sè stessi, nessun popolo ha una maggior fiducia nella propria virtù».
   Virtù di guerrieri e conquistatori, iscritta nel loro carattere nazionale e nell'evidente ambizione delle élite, dalla loro convinzione che il loro ruolo nel mondo è sottostimato e non riconosciuto per ciò che vale. Recentemente poi l'amara esperienza della guerra con l'Iraq ha insegnato a cercare di vincere i conflitti evitando la perdita umana ed economica di uno scontro diretto, ha esaltato l'uso antico di gruppi locali "proxy" come gli Hezbollah o Hamas, ha raffinato l'uso del sorriso diplomatico alla Zarif. Tutto questo rientra nella tecnica di una guerra in corso, oggi, ma guerreggiata in stile diverso. Una guerra in cui Fakhrizadeh era un generale combattente.

(il Giornale, 16 dicembre 2020)


La luce di Hanukkah illumina lo Spallanzani. "Giardino per i morti Covid"

di Marina de Ghantuz Cubbe

Le candele di Hanukkah con il candelabro ebraico a nove bracci, illuminano l'ospedale Lazzaro Spallanzani. Un luogo simbolico dove la comunità ebraica di Roma ha voluto celebrare il settimo giorno della festa delle luci. Un gesto di gratitudine verso il più importante istituto nazionale di malattie infettive, per l'incessante battaglia che medici e infermieri stanno combattendo contro il Covid 19.
   «Abbiamo voluto portare allo Spallanzani la luce della lampada che ricorda la resistenza, la resilienza e il contrasto alle tenebre dalla distruzione, nel luogo in cui la vita riparte e si illumina la speranza», ha spiegato la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, che ha partecipato all'accensione insieme al rabbino capo della comunità, Riccardo Di Segni, al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, al vicepresidente, Daniele Leodori, all'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato, e alla direttrice generale dello Spallanzani, Marta Branca.
   Proprio a Branca Dureghello ha donato anche un certificato: in Israele sorgerà un giardino in ricordo di tutti i medici e gli operatori sanitari «che hanno perso la vita per salvare altre vite».
   Per il rabbino Di Segni, solo la forza della comunità unita può consentire a ciascuno di superare questo momento di enorme difficoltà «proprio come la comunità ebraica che è riuscita a salvarsi nonostante il tentativo di opprimerla». Medico e figlio a sua volta di un medico che ha operato anche allo Spallanzani, ha poi sottolineato íl «messaggio di speranza e gratitudine verso chi è impegnato in prima fila nella lotta al virus».
   Il significato simbolico di questa accensione «parla alla storia di tutti noi — ha aggiunto Zingaretti — e avviene in un giorno drammatico, perché ancora oggi ci sono stati 800 morti». Lo Spallanzani «è lusingato di ricevere la luce di questo candelabro — ha commentato Marta Branca — Perché ci dà forza e speranza di rinascita. Speriamo di superare presto questo momento».

(la Repubblica - Roma, 16 dicembre 2020)


«La Lega pensa alla cultura, il Pd ai favori»

Il regista nominato direttore del Teatro Comunale di Ferrara grazie al Carroccio: «La sinistra non mi ha mai offerto nulla e ora, da filopalestinese, valorizzerò Israele. Céline? Un grande anche se nazista».

di Francesco Specchia

Una volta qualcuno era comunista, direbbe Giorgio Gaber, allo spettacolo di Moni Ovadia, comunista, filopalestinese, ebreo errante della cultura appena nominato direttore del Teatro Comunale di Ferrara grazie al leghistissimo sindaco della città Alan Fabbri. Appena nominato e democraticamente massacrato da destra e sinistra.

- Ovadia, mettere lei a capo di un teatro di una giunta leghista è un po' come mettere Xi Jinping alla Federal Reserve, o Giorgia Meloni al posto di Greta Thunberg. Non si trova un po' in imbarazzo?
  «Ma no. Era già successo a Cividale del Friuli, al Festival della Mitteleuropa dove ero stato arruolato dal sindaco di Forza Italia Attilio Vuga. Diceva che gli avevo fatto ingoiare tutte le cose di sinistra che detestava. Non condivideva il mio pensiero, ma portavo cose belle alla città, ed era contento».

- Però, scusi, lei non era quello che il leghismo «è un brodo di coltura del fascismo»? Parliamoci chiaro. La mossa di Vittorio Sgarbi di proporla alla direzione del teatro - sacrosanta e oltre le ideologie - ha scontentato la destra e annichilito la sinistra...
  «La mia nomina sotto l'ala leghista è importante per il Paese: hanno riconosciuto di avere un gap nella cultura, e sono corsi ai ripari. Ai miei spettacoli capita spesso di avere nel pubblico gente con Libero o Il Giornale in tasca che fa: "Ovadia, non sono d'accordo con lei. Ma è bravo e la vengo a vederla". D'altronde se un tuo avversario politico fa la cosa giusta, è serio riconoscergliela. Ai congressi del Pd io, sulla politica economica dicevo: "Chiedo troppo se chiedo di ispirarvi a Tabacci?" Ecco, ogni militanza ha pari dignità, io sono e resterò di sinistra».

- Però, la sinistra non le ha mica mai offerto la direzione di un teatro...
  «Eh, no. Mi telefonavano solo per chiedermi favori sotto elezioni, e io che credevo ai valori davo una mano. Ho partecipato anche alla fondazione del Pd, pensavo potesse nascere qualcosa di buono, con Veltroni che mi invitò a recitare un discorso di Primo Levi. Finché non ho cominciato, sull'Unità di Colombo, a criticare la svolta del Pd che scimmiottava la terza via di Tony Blair che io considero un criminale di guerra. Spariti tutti, e io non ho mai avuto santi in paradiso».

- Pensi il destino. Lei parlava con Veltroni e Bertinotti. E ora si ritrova con Alan Fabbri, l'assessore Gulinelli, il discusso "Naomo" Lodi, uomini di Salvini. Il quale - inizialmente scettico - s'è congratulato per la scelta. Salvini. Cosa dirà lei, ora, ai compagni?
  «Fabbri e Naomo, con me, sono stati dei signori. Io nella Lega ho trovato interlocutori validissimi. E ho chiesto che il mio appannaggio non fosse superiore di quello degli omologhi in altre città; e ogni altro mio lavoro in teatro non verrà ovviamente pagato, per correttezza. Eppoi, via, sugli epiteti, sono cose che si dicono, da ragazzo avevo amici come Salvini con cui al bar si discuteva animatamente, e si finiva con un "Non capisci un cazzo!" reciproco. Finiva II e ci ritenevamo fieri avversari».

- Però, lei nel suo discorso di insediamento ha citato Louis-Ferdinand Céline...
  «E che c'entra ora Céline?»

- Come che c'entra, scusi? Céline era un tantino nazista. Lei, studioso yiddish, è ebreo con parenti finiti nei lager...
  «Célinè ha avuto problemi personali e, certo, era umanamente terrificante; ha aderito al nazifascismo fino alla fine. Ma lei può negare che il suo Viaggio al termine della notte sia un assoluto capolavoro? Che dovremmo dire, allora, del nazista Heidegger che fosse un filosofastro o una delle menti più raffinate di ogni tempo? Dovremmo lapidare Barenboim che ha suonato Wagner in Israele solo perché Wagner era razzista?».

- Oddio. Scusi se insisto. Ma lei non era quello candidato alle elezioni per Agnoletto e Tsipras, le battaglie civili, i migranti, el pueblo unido...?
  «Sì. Ma l'intelligenza redime. Il confronto si fa sul piano umano, non ideologico. Albertazzi e Fo fecero insieme meraviglie. Io non sono per l'embrassons nous, ma non posso non notare che Schindler, quello della lista, era nazista, e Perlasca fascista; eppure salvarono centinaia di ebrei. L'essere umano a volte è stupefacente».

- Ha trovato "stupefacenti", col senno di poi, i movimenti che si è ritrovato ad appoggiare dalla sinistra estrema?
  «Davvero non so cosa sia successo ad Ingroia. Credevo davvero in una rivoluzione, poi si sono persi. Con Tsipras siamo passati, ma subito abbiamo cominciato a litigare ed è saltato tutto per la malattia endemica della sinistra: il settarismo. Litigavano per i posti».

- E Franceschini?
  «Il ministro sbaglia nel lasciar chiusi i teatri, dove i contagi sono stati pochisismi. Io li riaprirei in tre turni da 40 minuti a sera alle 20, 21 e 22»

- Sapeva che la sua nomina ha fatto incazzare molti ebrei, date le sue bordate contro Israele e Netanyahu?
  «Sono molto odiato dagli ebrei di destra, alcuni loro hanno creato il simpatico profilo "Uccidiamo Moni Ovadia" con frasi tipo "peccato che i tuoi non sono morti nella Shoah". Mi danno dell'antisemita. Io sono antisionista, e considero Israele legittimo ex risoluzione Onu 181. All'atto di costituzione di Israele ci fu la famosa frase "una terra senza popolo per un popolo senza terra", peccato che un popolo là già ci fosse. Potrei anche aver torto, ma quello che voglio è un fiero scambio d'idee».

- Ad occhio, lo scambio di idee sarà Nerissimo.
  «Guardi, col mio amico Pd Emanuele Fiano ci scontriamo sul concetto di "Gerusalemme capitale indivisa". Uno dei miei storici interlocutori è un ebreo Usa ex colono che vota repubblicano, mi dice sempre: "Moni, io sono sionista, ma se significa mettere in gioco i valori dell'ebraismo, si fotta il sionismo". Tra l'altro tutte le mie fonti non sono arabe, ma israeliane».

- Moni, non deve mica convincere me. Ha pensato di chiamare, per esempio, i direttori d'orchestra israeliani, o le compagnie come la Batsheva Dance Company?
  «Certo. Israele culturalmente è una potenza. Io ho lavorato con un direttore d'orchestra pazzesco di Tel Aviv, Omer Meir Wellber che chiamerò a Ferrara. Così come inviterò i loro corpi di ballo, tra i più bravi al mondo».

- Senza entrare nel dettaglio del centrodestra culturalmente debole (lo è parecchio), cosa ha sbagliato la Lega?
  «Anni fa dissi loro: voi siete per i dialetti, perché non organizzate un grande festival della cultura vemacolare dedicato a Carlo Porta? Non c'è contradizione tra l'essere europeisti e preservare la propria cultura. Con Ermanno Olmi si voleva fare un Macbeth in bergamasco».

- Quindi quale sarà il suo "piano di rientro culturale" con questa giunta?
  «Il Talmud dice che se uno tende la mano verso di te non ti domandare, dai e basta. Ieri il mio contrabbassista è stato invitato da un amico leghista ad un ritrovo in Regione. Lui ha risposto: "Ma io sono di sinistra, con voi non c'entro nulla" e quello: "E che ci frega, noi parliamo di cultura"».

(Libero, 16 dicembre 2020)


Vale il detto:
   Tra letterati, artisti e sportivi
   ci sono persone di grandi capacità
   che sanno dire con grande serietà
   le più grandi stupidità.
Per il caso specifico si precisa che nella classe degli artisti si fa rientrare quella degli affabulatori, e tra le grandi capacità quella di saper raccontare barzellette. M.C.


Israele, il miliardario del Golfo che si è comprato la squadra anti-araba e sfida i tifosi razzisti

Lo sceicco Hamad ben Khalifa al-Nahyan: «Sarà un esempio di collaborazione»

Negli anni Settanta c'era la politica del ping pong, per favorire il disgelo fra la Cina di Mao e l'America di Nixon. Oggi c'è la politica del calcio fra Israele e gli Emirati, per approfondire le relazioni diplomatiche appena instaurate con gli Accordi di Abramo. Fra i più fermenti sostenitori dell'intesa c'è lo sceicco Hamad ben Khalifa al-Nahyan, parte della famiglia reale di Abu Dhabi e fra gli uomini più ricchi al mondo, con il pallino degli interventi sociali e lo sviluppo sostenibile. Al-Nahyan ha spinto per la normalizzazione e adesso ha messo a segno un colpo clamoroso, l'acquisto di metà di uno dei principali club di calcio di Israele, il Beitar Jerusalem. Una svolta nei rapporti fra Paesi arabi e lo Stato ebraico, tanto più che la tifoseria del Beitar è famosa per i suoi cori razzisti contro gli arabi. "Vogliamo dare un esempio di lavoro comune fra musulmani ed ebrei - ha spiegato Al-Nahyan -. Questi giovani tifosi hanno subito un lavaggio del cervello e fanno parte del lato oscuro. Noi dobbiamo porgergli una mano e mostrargli la luce".
  Lo sceicco ha fondato l'Hamad Bin Khalifa Department of Projects con lo scopo di investire i proventi petroliferi in progetti sociali ed ecologici nei Paesi in via di sviluppo e ora si è fatto paladino dell'integrazione fra lo Stato ebraico e il Golfo. Come biglietto da visita ha presentato un piano di investimenti da cento milioni di dollari in dieci anni, un'enormità nel campionato israeliano. Ma si è anche dichiarato favorevole al reclutamento di giocatori arabi in un club che è l'unico in Israele a non schierarne neanche uno. Vige il veto della più forte tifoseria ultrà nel Paese, la "Familia", famosa per i suoi cori razzisti. I campioni arabi avversari, in una nazione dove il 19 per cento degli abitanti è arabo, vengono chiamati "terroristi", fra cori che inneggiano a Yigal Amir, l'assassino dell'ex primo ministro Yitzhak Rabin, fautore della pace con i palestinesi, oppure a Baruch Goldstein, autore del massacro alla moschea sopra la tomba dei patriarchi a Hebron.
  La "Familia" è nata all'inizio degli anni Duemila, in piena seconda Intifada, il nome fa riferimento alla mafia italiana e i supporter si distinguono per la loro divisa nera e i passamontagna. Adesso lo sceicco dovrà convincerli che è bello tifare anche per giocatori arabi e che la pace e la convivenza fra Israele e gli Stati della regione è possibile e vantaggiosa per tutti. I petrodollari possono dare una mano ma ci sono ancora tanti muri da scalare. Gli Emirati sono stati costretti a sospendere i visti ai cittadini di 13 Paesi musulmani, compresi quelli di Turchia, Iran, Iraq e Libano, per il timore di attacchi terroristici nei confronti dei turisti israeliani, che dopo gli accordi di Abramo possono entrare liberamente nel Paese, senza visto. Presto vedremo amichevoli fra le squadre del Golfo e quelle israeliane ma per una "normalizzazione" di tutto il Medio Oriente la strada è ancora lunga.

(La Stampa, 16 dicembre 2020)


Cellebrite e Signal, si possono decifrare i messaggi criptati

Messaggi cifrati? Nessun problema, ora è possibile decifrarli su Signal. ecco come l'azienda israeliana Cellebrite ci riesce.

 
La nota azienda israeliana Cellebrite produce sistemi che danno la possibilità alle forze dell'ordine di accedere ad iPhone ed altri dispositivi bloccati. In un post sul suo blog ha annunciato che ora è in grado anche di decifrare i messaggi cifrati di Signal, applicazione di messaggistica che permette di effettuare chat con contenuti crittografati.
L'app è libera e open source. Essa è disponibile per le piattaforme IOS, Android e per desktop su Windows, Linux, Mac. Questa applicazione è sviluppata da Signal Foundation e da Signal Messenger LLC. Essa usa un protocollo di sicurezza aperto, Signal Messaging Protocol, insieme ad algoritmi di crittografia end-to-end (Curve25519, AES-256, HMAC-SHA256).
   
Questi sono in grado di rendere sicure tutte le informazioni scambiate in chat. Nel post pubblicato viene sposto che le forze dell'ordine evidenziano un rapido aumento nell'adozione di app altamente cifrate, come Signal. Queste integrano funzionalità come il blurring delle immagini per impedire alla polizia di analizzare i dati. I criminali ricorrono a queste applicazioni per comunicare, inviare allegati, affari illegali da mantenere nascosti e lontani dagli occhi delle forze dell'ordine.
   Proprio per questo gli israeliani si sono messi al lavoro per trovare un modo al fine di poter decifrare questi messaggi. Cellebrite spiega ancora che lavorano incessantemente per sostenere investigatori nel settore pubblico e privato. Lo scopo è quello di escogitare nuovi modi per accelerare il cammino della giustizia, tutelare le comunità e salvare vite.

(Cellular.it, 16 dicembre 2020)


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