Inizio - Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici
Notizie 1-15 2021


È l’Italia la meta preferita dagli israeliani

L’Italia è la destinazione più cercata dagli israeliani. A confermarlo, i nuovi dati del sito TripsGuard, che, nell’era della pandemia, fa da bussola per viaggiatori.
  Come riporta Israel Hayom, il 22% delle visite effettuate dagli israeliani nel sito di TripsGuard proviene da utenti che cercano informazioni sulle misure in vigore per l’ingresso in Italia. Al secondo posto, con il 19% delle ricerche, ci sono gli Stati Uniti, in particolare New York. Inghilterra, Germania e Francia completano la cinquina delle mete preferite dagli israeliani.
  Sviluppato da Avian, società che si occupa di tecnologie per la vendita di biglietti aerei, TripsGuard offre informazioni aggiornate sulle misure predisposte per l’ingresso in circa 200 Paesi, inclusi i singoli stati degli USA. Grazie ad una mappa interattiva, gli utenti sono informati sulle regole adottate per i viaggiatori vaccinati e non, in base al luogo di residenza e al passaporto. Il sito, inoltre, raccoglie e aggiorna informazioni sulla quarantena e sulle norme anti-Covid in vigore.
  Mickey Haslavsky, fondatore e Ceo di TripsGuard ha affermato che “tenere sotto controllo le regole d’ingresso in diversi Paesi a causa dello scoppio della pandemia è diventato difficile e fornire informazioni aggiornate, richiede ore di lavoro”.
  L’Italia, secondo Haslavsky, è una meta ricercata per il clima invernale più mite rispetto ai Paesi del Nord Europa e per il numero di casi Covid inferiore rispetto ad altri luoghi in Europa e nel Mediterraneo.

(Shalom, 15 dicembre 2021)


Israele, la ministra ambientalista ferma il patto sul petrolio degli Emirati

L'accordo dovrebbe portare il greggio verso l'Europa: timori per l'inquinamento e la sicurezza nazionale

di Davide Frattini

GERUSALEMME - L’ultimo a parlare è stato Benny Gantz, il ministro della Difesa, che un paio di giorni fa ha espresso la sua opposizione a quelle tonnellate di petrolio arabo in movimento sopra al Mar Rosso e sotto al deserto del Negev. La prima a dire no è stata Tamar Zandberg alla cerimonia di insediamento al ministero dell'Ambiente, metà di giugno: per la leader di Meretz, sinistra radicale, fermare quell'accordo con gli Emirati Arabi Uniti - «danni giganteschi e irreversibili» - era la priorità al momento del giuramento e lo è in queste ore dopo la visita del premier Naftali Bennett ad Abu Dhabi e l'incontro con il principe ereditario Mohammed bin Zayed al Nahyan. Che ha benedetto l'intesa economica - di fatto privata, anche se la società israeliana Eapc è controllata dal governo - e aveva ottenuto il via libera da Bibi Netanyahu, come parte del premio economico dovuto per la normalizzazione dei rapporti. Netanyahu non è più al potere e neppure l'ex presidente americano Donald Trump che ha sponsorizzato gli Accordi di Abramo tra il Paese del Golfo e lo Stato ebraico.
  Sono già cinque i ministri della coalizione - di vedute ideologiche molto distanti su tutto il resto - contrari alla messa in opera del progetto. Tra loro anche Yair Lapid i cui sabati sera nel sobborgo residenziale di Ramat Aviv sono stati agitati dalle proteste davanti a casa: i gruppi ambientalisti chiedono di non mettere in pericolo la barriera corallina davanti ad Eilat, l'ecosistema nel deserto (l'Eapc è già responsabile di uno dei maggiori disastri nella Storia del Paese dopo una fuoriuscita dall'oleodotto), la costa del Mediterraneo davanti ad Ashkelon dove le petroliere continuerebbero il lungo viaggio del greggio emiratino verso il sud dell'Europa.
  Gantz, da ex capo di Stato Maggiore e ora responsabile della Difesa, si è lasciato convincere da un dossier pubblicato dall'Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale dell'Università di Tel Aviv: secondo gli strateghi l'accordo va bloccato perché il traffico super-intenso verso Eilat accrescerebbe il rischio di attacchi contro questi cargo da parte degli iraniani; una perdita di petrolio - dovuta a un'esplosione o a un incidente - inquinerebbe gli impianti di desalinizzazione nel Mar Rosso che garantiscono le forniture di acqua potabile; gli impianti di Ashkelon - già bersagliati negli 11 giorni di guerra tra Hamas e Israele alla fine di maggio - diventerebbero un obiettivo ancora più allettante per i fondamentalisti palestinesi che spadroneggiano su Gaza; l'intesa potrebbe danneggiare le relazioni con l'Egitto, già partner energetico degli israeliani. «Vale la pena correre tutti questi rischi per trasportare del petrolio che non sarà utilizzato da noi?», si chiedono gli esperti.
  Ormai il governo Bennett sembra orientato a rispondere di no e i diplomatici al ministero degli Esteri prevedono che le ricadute nel dialogo con lo sceicco Mohammed bin Zayed sarebbero minime. Perché restano sul tavolo e nelle casse future quei mille miliardi di dollari che gli Emirati contano di generare tra investimenti e scambi commerciali nei prossimi dieci anni.

Il Foglio, 15 dicembre 2021)


La bomba contro la Milano ebraica del settembre ’82 e la nube antisemita dell’epoca

di Ugo Volli

Esattamente 10 giorni prima dell’attacco terrorista alla sinagoga di Roma che uccise il piccolo Stefano Gaj Taché, nella notte fra il 29 e il 30 settembre 1982, a Milano ci fu un altro attentato antiebraico. Una bomba fu collocata all’ingresso di una delle due palazzine di Via Eupili, nella zona di Corso Sempione, vicino alla grande antenna della Rai, che ospitavano allora gli uffici della comunità ebraica, il Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e una piccola sinagoga che ancora oggi è molto attiva. L’esplosione fu molto potente, abbatté un portone molto solido e devastò l’interno fino al secondo piano. Non fece vittime solo perché avvenne di notte, quando l’edificio era deserto. Un paio di mesi dopo furono arrestati gli autori, tutti italiani appartenenti alla galassia dell’estremismo extraparlamentare di sinistra. I loro nomi sono Cesare Bonetti, Claudio Lamonica, Graziano Bianchi e Claudio Cordini, più i latitanti Franco Fiorina, Pia Sacchi e Federica Meroni, appartenenti a un gruppo effimero derivato da “Prima Linea”, i “Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria”, capeggiata da Susanna Ronconi.
  Fu un episodio molto significativo, ma oggi pochi se lo ricordano anche fra gli ebrei di Milano, perché esso fu certamente meno grave dell’attentato di Roma, su cui si concentrò subito il cordoglio e la rabbia della comunità milanese e che ancora oggi è al centro della memoria di quel terribile momento. Chi però ne fu testimone non l’ha dimenticato. Per esempio lo storico Michele Sarfatti, che è stato direttore del Cdec dal 2002 al 2016: “In quel momento ero appena arrivato e facevo l’archivista al Centro. Ricordo che abbiamo pensato che la bomba fosse diretta proprio contro di noi, anche perché qualche giorno prima un quotidiano ci aveva nominato, sbagliando, fra i centri culturali stranieri, come se noi fossimo l’equivalente per Israele del Goethe Institut o del Cervantes. Niente di male, naturalmente, anche se noi siamo un centro di ricerca italiano. E però forse i terroristi che cercavano un obiettivo israeliano hanno preso questa informazione sbagliata alla lettera e hanno colpito la nostra sede”. Il giurista Giorgio Sacerdoti, che in quel momento era presidente della comunità ebraica di Milano, non è convinto che l’obiettivo fosse così specifico: “Mi sembra difficile che conoscessero così bene l’organizzazione degli uffici. Le due palazzine erano state la sede della scuola ebraica per molti anni, allora erano la sede della comunità e delle istituzioni ebraiche a Milano, la volontà era di colpire tutti. O almeno minacciarci, perché l’attentato ci sembrò subito soprattutto dimostrativo.”
  Certamente l’attentato colse tutti impreparati. “Non era come oggi, - dice Sacerdoti - quand’è normale trovare una protezione delle forze dell’ordine davanti alle sedi ebraiche. Allora era difficilissimo ottenerla anche in momenti particolari come le feste. Non credo affatto che ci fosse una volontà politica che lo vietasse, si era ancora nel periodo del terrorismo interno e gli obiettivi possibili erano troppi. Diverse volte sono andato dalle autorità a chiedere protezione, e mi sono spesso sentito rispondere che non c’era il personale necessario.” “Eravamo decisamente impreparati. Dopo l’attentato venne qualcuno a spiegarci come chiudere le finestre o aprire i pacchi in maniera sicura. Prima non sapevamo fare neppure questo, eravamo completamente vulnerabili” conferma Sarfatti. Ma il clima era allarmante, un mese prima c’era stato un attentato molto sanguinoso a un ristorante di Rue de Rosier nel quartiere ebraico di Parigi, con parecchie vittime… Sarfatti: “Sì, il clima era molto acceso, il problema palestinese era presente dappertutto.” Sacerdoti: “C’erano grandi divisioni e polemiche, anche dentro il mondo ebraico. Avevamo fatto una mozione per chiedere a Israele di spiegare che cosa era successo a Sabra e Chatila, sempre mantenendo il nostro appoggio e la nostra solidarietà. Ma non bastava. L’odio dilagava. C’era stata la manifestazione dei sindacati a Roma con la bara lasciata davanti al Tempio. E anche una importante e coraggiosa risposta di Rosellina Balbi con un articolo amaro e lucido, intitolato Davide discolpati! Ma non ci aspettavamo certo la violenza diretta, né la bomba contro di noi, né gli spari e le bombe a mano contro la folla all’uscita del Tempio di Roma.”
  “A Roma furono terroristi palestinesi a colpire, a Milano resti del terrorismo italiano degli anni Settanta. Gente che voleva accreditarsi, mostrare di essere capace di colpire. Probabilmente puntavano non a essere riconosciuti dal terrorismo internazionale, ma da quel che restava delle Brigate Rosse.”
  Come reagì la comunità? “Ci fu grande allarme, ma non panico - dice Sarfatti - Cercammo di fare molta attenzione, di badare se qualcuno ci seguiva o se vedevamo una macchina ferma troppo a lungo davanti agli uffici. Poi venne subito l’assassinio a Roma e anche la reazione diffusa di condanna di quel crimine.” “La città reagì bene - aggiunge Sacerdoti - Ci fu, credo il 12 ottobre, una grande manifestazione promossa dalla Comunità, che sfilò per il centro di Milano. Io mi trovai a prendere la parola davanti alla sede del Comune in Piazza Scala, accanto al sindaco, che allora era Tognoli, un socialista amico degli ebrei e di Israele, a differenza di altri. Fu un grosso evento. Bisogna pensare che in quel momento non c’erano Giornate della cultura ebraica, Giorni della memoria, che noi eravamo abituati a non essere molto visibili, a tenere un profilo basso, com’era tradizione delle comunità.” La comunità di Milano sentì anche molto quel che era successo a Roma, non solo per solidarietà. Il padre del piccolo Stefano aveva studiato alle scuole ebraiche di Milano, aveva molti amici, la sua famiglia era stata parte della comunità, per molti fu una ferita veramente personale. Oggi una cosa del genere non sarebbe più possibile… Sì - dice Sarfatti - la mia sensazione è che la strage di Roma sia stata un punto di svolta, che il clima dell’antisemitismo molto diffuso in quegli anni abbia mostrato allora il proprio volto omicida e che progressivamente sia cambiato l’atteggiamento collettivo. E’ difficile parlare di cause per fenomeni così complessi, ma davvero ostilità che allora erano comuni, oggi sono inconfessabili.”

(Shalom, 15 dicembre 2021)
  

Turbo Abramo

di Daniele Raineri

ROMA - Succede che il filosofo americano Michael Sandel, che la Bbc presenta così: "Ha il profilo globale di una rockstar", si collega da Harvard con Riad in Arabia Saudita e parla di filosofia con quattro studenti universitari sauditi, due maschi e due femmine (con il velo sui capelli). E quando la conversazione cade sul concetto di legge e sulla forza che è legata a questo concetto, una studentessa commenta che nulla dovrebbe essere al di sopra della legge. Se mio padre, dice la studentessa, fosse colpevole di un crimine, lo consegnerei alla legge.
  E lo dice mentre il padre siede nell'auditorium affollato dove si tiene la conferenza. E i presenti applaudono scroscianti, in un paese che è regolato da legami clanici e regole tribali che hanno una forza millenaria e che è sotto il controllo di ferro di una dinastia, quella dei Saud e del principe ereditario Mohammed bin Salman, che si ritiene al di sopra della legge. Il filosofo Sandel aveva chiesto in modo esplicito agli organizzatori che non gli facessero tenere una lezione e di poter invece interagire in diretta con i giovani sauditi ed è stato accontentato. E il risultato è stata questa scena insolita, come insolite sono le altre scene che arrivano dall'Arabia Saudita in questi mesi - dai grandi concerti di musica pop dove il pubblico è misto fino agli sbarchi dei primi turisti occidentali che girano sulla costa del paese vestiti da turisti in vacanza. Sabato scorso c'è stato il concerto della star indiana Salman Khan a Riad, davanti a un pubblico di ottantamila persone. A ottobre al concerto gratuito di Pitbull, un musicista americano che fa hip hop latino e reggaeton, si dice ci fossero più di duecentomila persone. Una scossa tellurica attraversa il Golfo, culla del mondo musulmano, e la sentiamo arrivare fin sotto i nostri piedi.
  Succede anche, lo stesso giorno, che il primo ministro di Israele Naftali Bennett compia una visita senza precedenti negli Emirati Arabi Uniti e sia accolto da un picchetto d'onore e dall'emiro Mohammed Bin Zayed, che negli ultimi vent'anni ha molto manovrato per trasformare gli Emirati in una piccola potenza strategica e adesso scommette sulla tenuta della normalizzazione con Israele. E' una conseguenza degli Accordi di Abramo del 2020, i trattati di normalizzazione fra alcuni paesi arabi - finora Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan - e Israele. Bennett dice che la sua è una visita che fa la Storia, Bin Zayed lo corregge in modo retorico: è una visita che fa il futuro. La visita di Bennett arriva quando i due sponsor principali degli Accordi di Abramo,
  Donald Trump e Benjamin Netanyahu, sono usciti di scena. Gli Accordi vivono di vita propria, funzionano perché convengono a tutte le parti, c'è un allineamento forte. La visita del primo ministro arriva quando ormai la presenza di israeliani negli Emirati non fa più notizia, è diventata un fatto come gli altri. Di più sarebbe difficile ottenere.
  Abbiamo tutte le ragioni del mondo per sospettare che gli autocrati del Golfo abbiano secondi fini mentre sponsorizzano queste straordinarie aperture sociali e del resto hanno compreso che di isolamento si morirà nel mondo del futuro senza petrolio. E hanno molto da farsi perdonare: il principe Mohammed bin Salman è sospettato di essere il mandante dell'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. E abbiamo anche buone ragioni per guardare in modo non ingenuo gli Accordi di Abramo. I paesi arabi avevano sempre ignorato in modo ostinato l'esistenza di Israele, da più di un anno un primo gruppo di paesi ha rinunciato a quella posizione perché al centro degli accordi di riconoscimento ci sono ragioni pratiche come la paura di un conflitto con l'Iran e lo scambio commerciale di tecnologia bellica. Ma gli effetti di queste aperture sono più ampie e vanno molto oltre ai piani e all'immaginazione degli autocrati del Golfo. Stiamo assistendo a un cambiamento irreversibile nella cultura e nella mentalità di milioni di persone in una delle aree più difficili - e da più tempo - del pianeta. Stiamo guardando un paesaggio nuovo fatto di relazioni fra paesi che fino a poco tempo fa nemmeno si parlavano. Sul breve periodo l'onda tellurica potrebbe diventare più grande di quanto, per ora, riusciamo a percepire.

Il Foglio, 15 dicembre 2021)


Gli Stati Uniti l’avevano promesso, Israele l’ha fatto

Due attacchi a impianti siriani per la produzione di armi chimiche attribuiti a Israele sono una mossa di autodifesa vitale, ma anche un chiaro messaggio che va al di là della Siria

Gli attacchi attribuiti a Israele contro strutture segrete dove il regime siriano intendeva rilanciare la sua produzione di armi chimiche avevano tre obiettivi. Il primo era quello di impedire alla Siria di mettere le mani su armi non convenzionali, anche se erano solo nelle fasi iniziali di sviluppo. Il secondo era mettere in chiaro al presidente siriano Bashar Assad che Israele non avrebbe permesso alla Siria di tornare a minacciarlo con armi di distruzione di massa. Il terzo, fare arrivare ad altri paesi, in primis all’Iran, il messaggio che Israele è pronto a intraprendere analoghe operazioni contro chiunque sviluppi armi che minaccino la sua esistenza....

(israele.net, 15 dicembre 2021)


Il Pakistan riconoscerà Israele?

Secondo gli ultimi sviluppi, i presentatori in Pakistan parlano a sostegno della creazione di relazioni tra Pakistan e Israele. In una video intervista apparsa online, Mubashir Lucman parla dell’ideologia che nutre i cittadini pakistani che impedisce loro di riconoscere Israele. La domanda rimane: il Pakistan riconoscerà Israele? Mubashir Lucman ribadisce inoltre che il Pakistan deve essere educato per superare la sua ostilità verso Israele.
  Un altro addetto ai media ha scritto su Twitter: “Il presentatore Mubashir Lucman è apparso su un canale di notizie israeliano, i24News, per sostenere migliori legami tra Pakistan e Israele. Ha aggiunto che Israele non era un sogno, è una realtà. È un paese molto importante … la nazione di Israele è una nazione eccellente." Mentre molte persone hanno sostenuto la sua posizione, molte altre hanno espresso critiche.
  Un altro importante giornalista pakistano, Kamran Khan, ha scritto su Twitter: «Anche il Pakistan deve rivedere la sua politica israeliana. Messaggio per i pakistani dei Custodi della Sacra Moschea e di altri fratelli del mondo arabo. Le nazioni non hanno amici o nemici permanenti, solo interessi. Perché il Pakistan non vuole esercitare le sue opzioni? La sezione comune sotto questo tweet è piena di sentimenti anti-israeliani, poiché la maggior parte dei cittadini pakistani è fortemente contraria alle attività di Israele in Palestina.
  La questione se il Pakistan riconoscerà Israele non è semplice, questa domanda coinvolge ancora più attori internazionali e statali. In altre notizie, l’Arabia Saudita sta facendo pressione sul Pakistan per normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele.

• SPINTI DA ALTRI STATI
  La scorsa settimana, il primo ministro Imran Khan è apparso in un’intervista televisiva in cui ha rivelato che gli stati del Golfo stanno sollecitando il Pakistan a normalizzare i legami con Israele. Ha anche detto che gli Stati Uniti, insieme a «un altro paese», stanno facendo pressioni sul Pakistan perché riconosca lo Stato di Israele.
  Quando l’intervistatore ha cercato di interrogarsi su questo “altro Paese”, il premier ha risposto: “Lascia questo, andiamo avanti. Ci sono cose che non possiamo dire a causa delle nostre relazioni con loro [the Muslim countries pressuring Pakistan] Sono buone. Non vogliamo disturbarli. Inshallah, lascia che il nostro paese si alzi, poi fammi queste domande".
  La spinta a normalizzare le relazioni tra Israele e gli stati musulmani è cresciuta da decenni. Israele ed Egitto hanno ricevuto un trattato nel 1979 che ha normalizzato i legami tra i due stati. Nel 1994, Israele ha stabilito rapporti diplomatici con la Giordania, sotto la supervisione del presidente Bill Clinton. Negli ultimi mesi anche l’Arabia Saudita ha cercato di migliorare le relazioni con Israele.
  La reazione ricevuta dai presentatori pakistani, in particolare Mubashir Lucman, a sostegno delle relazioni normalizzate tra Israele e Pakistan dimostra che i cittadini pakistani non sono preparati a questo sviluppo. La profonda simpatia del Pakistan per la Palestina non consentirà mai relazioni pacifiche con Israele.

(WikiTechNews, 15 dicembre 2021)


Israele, Covid: giovani genitori contro il vaccino ai bambini

Solo il 47% degli interpellati fra i 25 e i 34 anni e il 46% fra i 35 e i 44 è favorevole al vaccino nella fascia 5-11 anni. Nella popolazione generale il dato di approvazione è del 56%, più alto con l’aumentare dell’età. A tre settimane dall’inizio hanno ricevuto una dose 110mila bambini su 1,2 milioni. I rischi del long-Covid anche fra i giovani. 

GERUSALEMME - La maggioranza dei genitori israeliani in giovane età è contraria a vaccinare i bambini. Si tratta della fascia di popolazione con maggiore probabilità di avere figli fra i 5 e 11 anni, il nuovo target di immunizzazione contro il Covid-19.
  Da quasi un anno lo Stato ebraico è il terreno sul quale viene testata nella pratica l’efficacia della campagna contro il nuovo coronavirus, grazie a un accordo con uno dei maggiori produttori e una diffusione a tappeto che ha già raggiunto gran parte della popolazione con la terza dose. Di recente le autorità sanitarie e di governo hanno deciso di estendere la somministrazione alla fascia che comprende il ciclo primario della scuola elementare, dove si registrano aumenti nei contagi anche in considerazione della scoperta della variante Omicron, ben più contagiosa di quelle conosciute sinora. 
  Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, con base a Gerusalemme, elaborato fra il 29 novembre e il primo dicembre su circa 800 cittadini ebrei e arabi, solo il 47% dei rispondenti fra i 25 e i 34 anni e il 46% fra i 35 e i 44 è favorevole al vaccino per i bambini. Un dato assai inferiore rispetto a quello della popolazione generale in Israele, dove il consenso verso l’immunizzazione della fascia 5-11 anni sale fino al 56%. 
  Dall’apertura della campagna tre settimane fa, solo 110mila bambini fra i 5 e gli 11 anni si sono vaccinati su un totale di 1,2 milioni. Il sostegno all’immunizzazione dei bambini aumenta con l’età, con il 56% dei 45-54enni, il 63% dei 55-64enni e il 73% di quelli di età superiore ai 65 anni favorevoli. Sostegno anche dai ventenni, per il 58% dei quali è giusto vaccinare anche i più piccoli, dato ben superiore alla fascia 24-44 anni. 
  L’indagine promossa da Idi mostra come le donne siano più favorevoli degli uomini alla vaccinazione infantile (61% contro 51%) e gli ebrei laici (65%) più disposti al vaccino rispetto ai religiosi. Sul fronte politico, gli elettori di sinistra approvano al 67%, quelli di centro al 62% e quelli di destra al 52% in tema di vaccini ai più piccoli. “Nel complesso - conclude la nota degli autori - emerge una maggioranza che sostiene la vaccinazione dei bambini, senza una differenza significativa tra ebrei e arabi”. 
  Interpellata da Haaretz la dottoressa Sharon Alroy-Preis, fra i maggiori esperti di salute pubblica del Paese, alla fine di novembre aveva individuato nelle persone non vaccinate o parzialmente vaccinate, bambini compresi, il principale vettore di diffusione del virus. E non ha risparmiato critiche per il basso tasso di immunizzazione dei piccoli, il 2% dei quali subisce gli effetti del cosiddetto long-Covid; l’incidenza sale al 4,6% fra quelli di età superiore ai 11 anni. Inoltre, avverte la scienziata, anche se il long-Covid coinvolge solo l’1% dei bambini, esso potrebbe metterne a rischio a migliaia nel lungo periodo con importanti riflessi sulla salute pubblica. 


Dunque il "long-Covid" (nuovo nome) potrebbe mettere a rischio migliaia di bambini nel lungo periodo con importanti riflessi sulla salute pubblica. E' scienza questa? M.C.  Dopo la vaccinazione

(AsiaNews, 14 dicembre 2021)


Stretta di mano Bennett-Bin Zayed: “Israele ed Emirati sono cugini”

Storico viaggio per il leader dello Stato ebraico. Il principe visiterà Gerusalemme. La minaccia iraniana e le opportunità economiche al centro dell’incontro.

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME — «Il messaggio che desidero trasmettere ai leader e ai cittadini degli Emirati è che la collaborazione e l'amicizia reciproche sono naturali. Siamo vicini e cugini». Naftali Bennett, primo ministro israeliano nella storia a visitare gli Emirati Arabi, incontra il principe reggente, lo sceicco Mohammed bin Zayed al Nahyan, portando parole di fratellanza. I due leader sono stati protagonisti di un lungo faccia a faccia che nella dichiarazione congiunta al termine del pomeriggio hanno definito "un successo."
  Al centro del colloquio a porte chiuse tra Bennett e bin Zayed anche la questione del nucleare iraniano. Entrambi i paesi considerano Teheran una minaccia, ma negli ultimi mesi Abu Dhabi è stata protagonista di un (tiepido) riavvicinamento con il regime degli Ayatollah. Alti funzionari dei due Paesi si sono incontrati di recente e anche il nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi è stato invitato ad Abu Dhabi. Tuttavia, nelle dichiarazioni pubbliche Bennett e bin Zayed hanno scelto di lasciare le tensioni regionali ai margini e di concentrarsi sulla volontà di rafforzare la cooperazione economica e tecnologica, annunciando la creazione di un fondo congiunto di ricerca e sviluppo a questo scopo. «Abbiamo portato avanti un dialogo significativo, approfondito e diretto sui nostri due paesi, sulla regione, sulla nostra economia e tecnologia e su cosa possiamo fare insieme», ha detto Bennett prima di ripartire alla volta di Gerusalemme. «Torno in Israele molto ottimista sul fatto che queste relazioni possano rappresentare un esempio di come possiamo fare la pace qui in Medio Oriente».
  Da parte sua, bin Zayed ha espresso la speranza che la visita possa favorire ulteriore cooperazione a beneficio dei popoli dei due Paesi e della regione, sottolineando che l'importanza dei valori di convivenza e pace come modo migliore per realizzare le aspirazioni dei popoli, come riportato dall'agenzia di stampa degli Emirati Wam. Secondo la televisione pubblica israeliana Kan, lo sceicco avrebbe anche accettato l'invito di Bennett a visitare Israele, una visita che se confermata avrebbe risvolti fondamentali per gli equilibri mediorientali.
  Il primo ministro israeliano è arrivato negli Emirati domenica sera, accolto con tutti gli onori, con un messaggio forte per tutto il mondo arabo. La visita ad Abu Dhabi, a lungo rimandata per via del Covid - anche dal predecessore di Bennett Benjamin Netanyahu - arriva un anno e quattro mesi dopo gli Accordi di Abramo, che hanno visto Israele e diversi stati arabi normalizzare le proprie relazioni diplomatiche. Da allora, tra Gerusalemme e Abu Dhabi, è iniziata una nuova stagione che ha visto le due nazioni allacciare strette relazioni diplomatiche, economiche e culturali. «La visita manda un messaggio chiaro: Israele fa parte della regione», ha commentato Yoel Guzansky, analista all'Institute for National Security Studies (Inss) affiliato all'Università di Tel Aviv. «Ritengo che questo punto rappresenti il grande successo degli Accordi di Abramo, su cui però è necessario continuare a lavorare, altrimenti si rischiano passi indietro». Per questa ragione, secondo Guzansky, il risultato più importante dell'incontro tra i due leader consiste nell'incontro stesso, «il fatto che abbiamo posato insieme per una fotografia, si siano stretti la mano e abbiano parlato di pace di fronte al mondo e al Medio Oriente».

(la Repubblica, 14 dicembre 2021)


Covid: Bennett in isolamento, un caso in aereo da Emirati

Il premier Naftali Bennett è entrato in quarantena dopo che è stato riscontrato un caso di positività al Covid nella delegazione che era con lui a bordo dell'aereo che lo ha riportato in Israele dalla visita ufficiale negli Emirati Arabi.
  Lo ha fatto sapere l'ufficio del premier stesso spiegando che l'intera delegazione è entrata in quarantena e che tutti, Bennett compreso, saranno sottoposti ad un nuovo tampone molecolare domani.
  I media hanno aggiunto che non è noto al momento se la persona positiva si sia infettata con la variante Omicron che si è manifestata in parecchi casi negli Emirati.

(swissinfo.ch, 14 dicembre 2021)


Concorso e polemiche. La regina di Bollywood miss universo in Israele

La 21enne Harnaaz Sandhu è diventata la terza indiana a conquistare il titolo. Respinti gli inviti a boicottare la gara

di Francesca Pierantozzi

PARIGI - Ha tenuto fede al suo nome, che significa «l'orgoglio del mondo», Harnaaz Sandhu, 21 anni, lndiana del Punjab, un metro e 76, 50 chili, occhi marroni, una criniera castana, un master da completare in Diritto pubblicò, mamma ginecologa e papà imprenditore: ha sbaragliato tutti e tutto a Eilat, diventando la terza ragazza indiana a vincere il titolo di Miss Universo, ha vinto sugli inviti a boicottare il concorso dei filopalestinesi o anti-israeliani, sulle risate scatenate dalla sua esibizione di grande imitatrice di miagolii di gatti, e anche sullo scetticismo che ormai suscitano i concorsi di bellezza. Difficile sapere se la corona d'imperatrice di bellezza la distoglierà dall'intenzione di diventare giudice. Lei per ora si è detta soltanto «felicissima di aver riportato la vittoria all'India dopo 21 anni». Le porte di Hollywood si sarebbero però già aperte dopo che la sua eleganza naturale, oltre al sorriso perfetto, l'hanno portata sul podio di svariati concorsi di bellezza indiani nell'ultimo anno e mezzo. Le sue delfine nell'universo saranno Nadia Ferreira, Miss Messico, arrivata seconda, e Miss Sudafrica Lalea Mswane, terza.

• L’INDIPENDENTE
  Mswane ha partecipato alla finale a Eilat da "ìndìpendente": il governo sudafricano aveva infatti annunciato di «ritirare il sostegno a Miss Sudafrica in seguito all'appello di svariate Ong nazionali che avevano chiesto di boicottare la finale in Israele in segno di solldarìetà con il popolo palestinese». La Miss aveva però deciso di andare ugualmente, al contrario della collega greca Rafaele Plastira, che ha comunicato con messaggio personale l'intenzione di non concorrere al titolo supremo di bellezza. Non parteciperò a Miss Universo: la ragione è il paese dove si svolge. Mi dispiace perché ho aspettato tanti anni per realizzare il mio sogno ma non posso salire su quel palco e fare come se niente fosse, quando lì vicino la gente si batte per sopravvivere». Indonesia e Malesia, paesi a maggioranza musulmana, non hanno inviato rappresentanti nazionali anche se hanno ufficialmente evocato motivi legati alla pandemia. In compenso figuravano in competizione sulle rive del mar Rosso Miss Marocco Kaouthar Benhalima e Miss Bahrein Manar Nadeem Deyani, in rappresentanza di paesi che hanno normalìzzato le relazioni diplomatiche con Israele l'anno scorso. Miss Marocco era stata però a sua volta boicottata in patria, dove un'ondata social le aveva chiesto di ritirarsi dopo aver scoperto le sue origini "straniere" a causa di una nonna nata in Algeria, paese con cui il Marocco è in rottura diplomatica.

• LA GEOPOLITICA
  A cercare di sgomberare dalla geopolitica la passerella di Miss Universo è stata in extremis la regina uscente Andrea Meza, già Miss Messico, che in un'intervista all'Assocìated Press aveva invitato le concorrenti e i rispettivi paesi a dimenticare politica e religione e a fare del concorso di Miss Universo un luogo di incontro di donne con origini diverse: «Quando arrivi a questo concorso - aveva detto Meza - dimentichi la politica e metti da parte anche la tua religione». Almeno altrettanto complicato è stato mettere da parte la crisi sanitaria. Se Israele era stato scelto come sede della finale anche per i dati positivi sul Covid, l'arrivo di Omicron ha reso l'organizzazione del concorso più tesa. Alcune concorrenti sono state testate positive al loro arrivo, a fine novembre. Tra di loro Clémence Botino, Miss Guadalupa e rappresentante della bellezza francese: dopo un isolamento di alcuni giorni. il tampone negativo è arrivato appena in tempo per consentirle di sfilare con le altre 80 concorrenti e di classificarsi tra le prime dieci. Nella sua presentazione, Clémence Botino ha scelto di rendere omaggio a Joséphìne Baker, la ballerina e cantante americana naturalizzata francese, resistente durante la seconda guerra mondiale, le cui spoglie sono state portate al Pantheon il 30 novembre in segno d! omaggio nazionale. «E stata una grande donna - ha detto Miss France - una militante e una femminista, che si è battuta per l’uguaglianza».

(Il Messaggero, 14 dicembre 2021)


Schermaglie cyber tra Stati: infrastrutture critiche e cittadini bersagli sempre più strategici Le recenti schermaglie tra Iran e Israele mettono in luce come le infrastrutture critiche rappresentino, sia a livello di cyber-security che economico, l’aspetto più importante da valutare nella gestione normativa ed economica da parte degli Stati, anche per gli effetti che gli attacchi producono sui cittadini.

di Tommaso Ruocco

Un singolo attacco a una centrale elettrica o idrica può mettere in ginocchio un’intera città o addirittura parte di una nazione. Norme come la Direttiva NIS o l’impianto del Perimetro di Sicurezza Nazionale Cibernetica dimostrano come l’UE e l’Italia in particolare stiano intensificando gli sforzi e gli investimenti nella difesa cibernetica.
  Tuttavia, tali sforzi potrebbero essere pregiudicati da azioni come le recenti schermaglie tra Iran e Israele, che potrebbero causare un effetto domino e notevoli ripercussioni anche sulla popolazione civile.

• Le schermaglie cyber tra Iran e Israele
  Il 26 ottobre 2021, in Iran, più di 4000 stazioni di servizio sono state disattivate da un attacco informatico che ha causato disservizi e rallentamenti del traffico. Milioni di persone sono state coinvolte sia direttamente che indirettamente ed il Governo di Teheran ha indicato come possibile autore dell’attacco lo Stato di Israele. Quasi una settimana dopo, il 3 novembre, Israele ha stilato un rapporto relativo ad attacchi effettuati da un sospetto collettivo di hacker collegato all’Iran, ai danni di un istituto medico e di un sito di incontri LGBTQ+ che hanno portato all’esfiltrazione di informazioni private su decine di migliaia di cittadini. Negli ultimi anni i due Stati sembrano aver intensificato gli attacchi informatici contro le reciproche infrastrutture, civili e non, causando danni a livello sia governativo sia politico ma soprattutto danneggiando la popolazione civile. Questi episodi continuano a sollevare tutta la problematica normativa, politica ed economica della cyber-security, della imprescindibile necessità di information-sharing tra gli operatori dei servizi essenziali, ed il ruolo fondamentale delle infrastrutture critiche nella nuova era della “cyber-war”.

• I settori più colpiti dalla pandemia “cyber” e le conseguenze sui cittadini
  Dati a livello globale indicano come gli attacchi alla sicurezza informatica siano aumentati tra il 2020 e 2021, non solo in termini di vettori e numeri, ma anche in termini di impatto, con riferimenti espliciti ad una crisi globale parallela a quella pandemica in corso: la crisi pandemica “cyber”. Come richiamato dagli esempi sopra citati, e come evidenziato dal rapporto ENISA Threat Landscape 2021, si evidenzia che i settori maggiormente colpiti da questi attacchi sono quello sanitario, quello sulla fornitura di servizi digitali ma, soprattutto, il settore generale civile, ovvero qualsiasi infrastruttura o servizio dedicati alla popolazione civile.
  Mentre è chiaro che gli Stati devono attuare misure per ridurre al minimo i danni causati da qualsiasi mezzo e metodo di guerra durante i conflitti armati, le caratteristiche uniche del cyberspazio, come dominio bellico, pongono nuove sfide nell’attuare tali misure. Né Israele né l’Iran hanno fornito prove sull’effettiva responsabilità degli attacchi, ma gli effetti degli stessi suggeriscono due considerazioni. Innanzitutto, tali attacchi hanno evidenziato come si possano mettere in seria difficoltà interi settori statali senza un intervento militare. Nel caso delle stazioni di rifornimento iraniane, infatti, sono stati necessari ben 12 giorni per ripristinare completamente il servizio e, secondo quanto riportato dal NYT, il governo ha temuto che gli hacker fossero entrati anche in controllo del deposito di carburante del Ministero e che avessero ottenuto l’accesso ai dati sulle vendite internazionali di petrolio, un segreto di Stato che potrebbe indicare se e come l’Iran sia stato in grado di aggirare le sanzioni internazionali.

• Matrice statale degli attacchi e obiettivi civili
  La seconda considerazione è forse quella più rilevante a livello di scurezza, difesa cyber e diritto internazionale umanitario (DIU). Se si considera l’eventualità di una effettiva matrice statale dietro tali attacchi, è da notare come gli obbiettivi siano stati esclusivamente civili. All’interno del paradigma dei conflitti armati, e quindi di tutto il panorama giuridico di riferimento, si crea un’asimmetria tra normativa e prassi militare da un lato e le particolari caratteristiche di una guerra cibernetica dall’altro. Nel caso specifico, i problemi che si sollevano sono diversi, dalla valutazione intrinseca del conflitto cyber, se interno o internazionale, alla valutazione giuridica dei nuovi attori. Il termine “hacker” comprende una ampia gamma di soggetti che opera in svariate attività diverse, e quindi risulterebbe azzardato affermare che gli hacker in quanto tali possano essere soggetti ad attacchi legittimi in caso di difesa. Senza confermare la diretta applicabilità del DIU ai conflitti di Stato nel e attraverso il cyberspazio, nel Rapporto 2015 del Gruppo di esperti governativi delle Nazioni Unite sugli sviluppi nel campo dell’informazione e delle telecomunicazioni nel contesto della sicurezza internazionale (UN GGE) il GGE ha affermato che la logica dietro il DIU è rilevante per qualsivoglia valutazione giuridica sulla condotta cibernetica statale, indicando come la strada verso una normazione sempre più stringente in campo cyber è in atto.

• Le responsabilità
  Inoltre, il caso Israele-Iran fa risaltare un’ulteriore problematica giuridica, ovvero attribuire la responsabilità a chi ha perpetrato un attacco contro uno Stato e, cosa ancora più importante, a chi lo ha ordinato. Questa rappresenterebbe la strada più diretta per ottenere la deterrenza informatica. Tuttavia, l’attribuzione cibernetica, in particolare tra Stati, è una questione ostica. Basti considerare come il diritto internazionale stabilisca che gli Stati dovrebbero avvertire le controparti prima di un attacco e che gli stessi sono responsabili anche delle azioni degli attori non statali sotto il loro controllo, e nonostante questi principi siano traslati nell’area del cyberspazio, non vengono rispettati (Second International Peace Conference, Hague Convention (III) on the Opening of Hostilites, 1910; Fifth-third session of the International Law Comission, ‘Draft Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, with Commentaries – 2001). Secondo quanto viene riportato sempre dal NYT, né Israele né l’Iran hanno pubblicamente rivendicato la responsabilità o incolpato l’altro per l’ultimo ciclo di attacchi informatici sostenuti. I funzionari israeliani si sono rifiutati di accusare pubblicamente l’Iran e i funzionari iraniani hanno accusato dell’attacco alla stazione di servizio un paese straniero, senza specificare quale.

• L’aspetto economico
  Infine, un altro aspetto da considerare è quello economico, anche a livello di adattamento ed evoluzione normativa, ma in questo caso soprattutto nell’area dei servizi e delle forniture. Secondo un report di IBM sul costo di attacchi cyber, il costo medio totale degli attacchi subiti è aumentato del 10% dal 2014 e questo dato prende in riferimento solo quegli incidenti che sono stati segnalati, i quali rappresentano solo una frazione degli incidenti effettivi. Anche se la prassi porta principalmente a considerare i grandi conglomerati o le grandi aziende come le uniche vittime ad essere economicamente colpite da violazioni di questo genere, così facendo si ignora la realtà economica dei fatti. Come hanno evidenziato gli attacchi tra Israele ed Iran, l’attacco alle stazioni di pompaggio iraniane ha avuto effetti economici diretti principalmente sulla popolazione. Ad esempio, le compagnie di taxi basate su app, Snap e Tapsi, hanno raddoppiato e triplicato le loro tariffe normali in risposta all’aumento vertiginoso dei costi del carburante non sovvenzionato. Le infrastrutture critiche, quindi, stanno diventano l’obbiettivo principale degli attacchi informatici. È interessante considerare quanto riportato dalla Cybersecurity & Infrastructures Security Agency (CISA) la quale sottolinea come la stima dei danni causati da un singolo ipotetico attacco informatico che coinvolga infrastrutture critiche causando un blackout, possa superare l’entità delle perdite globali aggregate da attacchi informatici a sistemi McAfee su base annua.

• Conclusioni
  Le infrastrutture critiche rappresentano, sia a livello di cyber-security che a livello economico, l’aspetto più importante da valutare nella gestione normativa ed economica da parte degli Stati.
  Attacchi a infrastrutture critiche transnazionali possono avere potenziali devastanti effetti domino. Alla luce delle schermaglie di cui abbiamo discusso, se si considera, ad esempio, il progetto EastMed sul gasdotto tra Israele e Italia, l’infrastruttura critica in questione si sviluppa oltre i confini nazionali; quindi, un attacco iraniano diretto al segmento israeliano avrebbe conseguenze a cascata anche sul versante italiano. In questo caso, oltre ad adeguate misure di sicurezza e a una pronta reazione in caso di incidente, sarebbe fondamentale una condivisione delle informazioni a livello internazionale che, purtroppo, non viene spesso valorizzata per via delle implicazioni legate alla sicurezza nazionale.

(Agenda Digitale, 14 dicembre 2021)


Gli USA non forniranno a Israele gli aerei per il rifornimento in volo

Un altro tiro mancino dell’Amministrazione Biden a Israele

L’amministrazione Biden ha respinto la richiesta di Israele volta ad accelerare la consegna di due jet da rifornimento KC-46 su quattro acquistati, che faciliterebbero un eventuale attacco aereo all’Iran.
  La scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha incontrato il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin e il segretario di Stato Antony Blinken e in quella occasione avrebbe avanzato la richiesta di anticipare la consegna di due KC-46 che permetterebbero di mantenere dozzine di aerei da combattimento in volo per 12 ore e a una distanza di oltre 11.000 chilometri.
  Il timore dell’Amministrazione americana è sicuramente quello che Israele voglia bombardare i siti nucleari iraniani usando proprio gli KC-46 anche perché così non avrebbe bisogno di chiedere basi a nessuno.
  Fonti militari hanno tuttavia affermato che l’IDF è ancora fiducioso che gli Stati Uniti possano cambiare idea.

(Rights Reporter, 13 dicembre 2021)


Ugo Mattei: «Oggi l’informazione sta utilizzando metodi squadristici»

Il giurista: «L’obiettivo è un regime autoritario. Con Cacciari e Agamben ci opponiamo. Ma non faremo un partito politico». [il risalto è aggiunto, ndr]

di Fabio Dragoni

«Un vecchio arnese comunista come me che difende i valori del liberalismo classico, quelli di John Stuart Mill (filosofo ed economista britannico, ndr) per intendersi, e mi becco del fascista dai borghesi benpensanti. Ma le pare? Dopo anni nel cda del Manifesto e con uno zio, Gianfranco, gappista, partigiano decorato della resistenza. Torturato a Via Tasso, suicida pur di non tradire i compagni...». Ugo Mattei è un fiume in piena. Laureatosi in giurisprudenza all'università di Torino, dove tuttora insegna, si è poi specializzato a Berkeley in California. Studi e collaborazioni accademiche successive nelle più prestigiose università del mondo: dalla London School of Economics alla University of California. Da Yale a Cambridge. Assieme ad Agamben, Cacciari, Freccero, Bizzarri e altri ha dato vita al think tank «Dubbio e precauzione». Con un evento in presenza e online molto seguito tenutosi lo scorso 8 dicembre. «Uno come Agamben, se solo avesse voglia, avrebbe cattedra ad Harvard o ovunque volesse. Giusto per dare un'idea del valore e del prestigio degli intellettuali che si stanno dando da fare insieme con me. Quasi 60 interventi e nove ore di lavoro. Gente vaccinata e no. Operante nei settori più disparati. Dalla virologia alla medicina clinica in senso stretto. Dalla politologia al giornalismo. Dalla filosofia alla farmacologia per arrivare all'economia e al diritto».

- Un nuovo partito?
 «L'ultima cosa che voglio è andare in Parlamento. Apriamo un ombrello culturale piuttosto. E costruiamo spazi di agibilità democratica al dialogo culturale e all'alleanza politica. Che oggi non ci sono. La contrapposizione fra destra e sinistra non ha base sociale. Si differenziano solo su aspetti irrilevanti quali il gender e la retorica sull'immigrazione. Questo lavoro che facciamo è "costituente", non può farlo un partito che per definizione rappresenta una parte. Il nostro è un approccio olistico. Ci occupiamo del tutto».

- Partendo da dove?
 «Riportiamo al centro i beni comuni e l'uomo come cittadino. Che prima è stato trasformato autisticamente in consumatore con la rivoluzione liberista degli anni Ottanta. Per poi trasformarlo in paziente sottoposto al trattamento della dittatura sanitaria. Un'involuzione autoritaria soprattutto nel mondo dell'informazione. Un regime spietato che utilizza il dileggio e la diffamazione per screditare gli oppositori. Le basta osservare il trattamento caricaturale riservato al nostro evento».

- Funziona così anche in America?
 «Pure lì, l'informazione usa la stessa strategia squadrista. Due opposte tifoserie che non si parlano nemmeno per studiarsi. Si va avanti a stereotipi e ritratti caricaturali del proprio avversario. Il blocco democratico atlantista - i liberal di Manhattan e della California - contrapposti ai "bifolchi trumpiani" del Sud e del Midwest armati fino ai denti. Due mondi separati con i loro network di riferimento. La Cnn per i dem e Fax per i repubblicani. Ma almeno c'è maggior pluralismo e il sistema tutto sommato funziona».

- In che senso?
 «Biden propone l'obbligo vaccinale, anche se in maniera meno feroce che da noi. Tre giudici federali lo bloccano. Un sistema federale che ha i suoi anticorpi; termine oggi abusato. Vi sono istituzioni di garanzia negli Stati Uniti. Gli anticorpi appunto. Cosa impensabile da noi. Il Quirinale e la Corte costituzionale non assolvono più alcuna funzione di garanzia. E i presidenti di Regione sono meri esecutori della politica emergenziale del governo. Anticorpi zero».

- La storia degli Stati Uniti cos'altro ci dice?
 «Hanno avuto momenti duri come le persecuzioni dei comunisti con il maccartismo e la segregazione razziale terribile al Sud. Ma la presenza del blocco sovietico antagonista ha spinto la società verso una progressiva emancipazione democratica. Oggi però questa spinta non c'è più e le galere sono piene di neri».

- L'Italia invece?
 «Non abbiamo imparato niente da quello che è successo esattamente cento anni fa quando Mussolini andò al potere legalmente, con l'appoggio anglo americano proprio come oggi. La benedizione della grande finanza. Proprio come oggi. Il plauso degli industriali, proprio come oggi. E il silenzio della piccola borghesia oggi rappresentato dalle varie confederazioni delle piccole imprese. Proprio come oggi».

- Esiste il pericolo di un'involuzione autoritaria simile al fascismo?
 «È già sotto i nostri occhi. Molti di quelli che si ritengono di sinistra perché acquistano Repubblica e si occupano di gender o femminicidi, pensano al fascismo nei suoi ultimi anni. Un regime ormai apertamente dittatoriale. Ma nel momento in cui i fascisti sono arrivati lo Statuto albertino era in vigore. Il Paese stava cioè all'interno di quelle che all'epoca erano l'equivalente delle nostre garanzie costituzionali. Proprio come oggi. Il presidente del Consiglio Mussolini aveva avuto un incarico formalmente impeccabile. Come oggi il nostro premier. E si usavano metodi squadristi per ricondurre all'ordine le maestranze che si opponevano. Faccio il giurista ma anche politica e sto fra la gente. Ha mai visto come si lavora nel settore della logistica? In Amazon piuttosto che in molti porti? Esattamente le stesse logiche. Squadre di sicurezza private pagate dagli imprenditori che menano i dipendenti che protestano».

- L'involuzione autoritaria esplicita e conclamata del fascismo quando si è avuta?
 «Con i brogli elettorali del '24, la denuncia di Matteotti e il suo omicidio. Chi parla di queste derive presenti oggi viene considerato uno psicopatico. Come facevano allora i giornali asserviti al regime. Ma è questo ciò che deve fare un intellettuale critico».

- Cosa deve fare, di preciso?
 «Riflettere sugli aspetti economici fondativi. Sono questi che determinano la politica. Secondo una visione profondamente storicistica legata ai processi materiali. L'analisi dialettica è stata tolta di mezzo. La regressione culturale è impressionante. E pure giuridica».

- Cioè?
 «Stiamo sostituendo il diritto con le sue infrastrutture a tutela e garanzie (tribunali, avvocati, giudici, notai, eccetera) con l'algoritmo. Come una biglietteria automatica sostituisce il bigliettaio. Molto meno costoso. Basta un clic e il green pass che ti concedeva tutti i diritti non ti consente di fare più nulla. Un processo materiale legato alla concentrazione del capitale in un posto preciso».

- Dove?
 «Internet! I grandi social network producono un assetto a loro funzionale. Silenziano chi dà fastidio, fosse pure il presidente Trump. Mica aspettano un giudice. Una volta il capitalismo aveva bisogno di libertà e diritto per crescere e rafforzarsi. Oggi non servono più. Basta l'algoritmo di controllo».

- L'internet delle cose?
 «L'internet delle persone! Le controlli con il green pass e con la Rete. Non con il diritto».

- Anche la comunità scientifica ci mette del suo.
 «Ha praticamente abdicato al proprio ruolo. La tecnologia era il risultato della scienza. La ricerca di base serviva a produrre tecnologia che impattava sullo sviluppo della società. Oggi la tecnologia ha preso il sopravvento. E la scienza serve a giustificare il primato della tecnologia a sua volta prodotta dalla concentrazione del capitale. Pensi agli scienziati presunti tali che si sgolano per il green pass. E i processi politici sono condizionati».

- Come?
 «Un enorme trasferimento di risorse pubbliche verso Pfizer diventato l'emblema della tecnologia vaccinale. Da lì, il programma di vaccinazione obbligatoria. Pensi a quante altre cose si sarebbero potute fare con quei soldi. Quanti medici assunti? Quanta nuova potenzialità di trasporto pubblico in sicurezza? Quante scuole più moderne e sicure con impianti di areazione di ultima generazione? Il vaccino non può essere l'unica politica del Paese. E la scienza diventa dogma. L'infedele viene bruciato. Come succede oggi con lo squadrismo comunicativo. Ma la modernità nasce con l'ingegno. Oggi assistiamo agli ultimi rantoli della modernità e della statualità sovrana. Nasce con il rogo di Giordano Bruno e oggi muore con la deportazione di Assange che ha messo in crisi i dispositivi atlantisti di governo globale. Lo Stato moderno serviva al capitale. Ora non più».

- La Costituzione non ci protegge per niente?
 «La nostra Costituzione non è liberale in senso stretto come quella americana. Portava avanti un disegno riformista di convivenza fra capitale e lavoro. Pensi ai diritti di seconda generazione, quelli che richiedono uno Stato sociale. Scuola, sanità, assistenza, lavoro. Meticolosamente smantellati perché "non ci sono i soldi". Se ti privi di sovranità monetaria è ovvio che mancano i soldi. Insomma, tutto demolito nel nome della libertà e della concorrenza. Ma ora è in atto una nuova fase. Ancor più regressiva».

- Quale?
 «La soppressione delle più elementari libertà (i cosiddetti diritti negativi su cui lo Stato non dovrebbe mettere bocca) nel nome della salvaguardia della salute attraverso la paura della morte. Si ritorna lì. Al capitale la libertà non serve più. E così la diffama costruendola come egoismo e non come qualcosa per cui vale la pena di morire come fece zio Gianfranco. Ne faranno le spese non solo i lavoratori. Ma anche la piccola e media impresa e i risparmiatori. Pensi al cambiamento climatico, la nuova frontiera dell'ipocrisia. Nel nome di questo metteranno fuori mercato abitazioni non più adatte ai nuovi standard ecologici. Potranno essere acquistate a prezzo vile e ristrutturate dal grande capitale. A discapito del piccolo proprietario».

(La Verità, 13 dicembre 2021)


Bennett negli Emirati, una visita storica nel nuovo Medio Oriente

La prima volta di un premier israeliano ad Abu Dhabi dopo un anno dalla firma dei Patti di Abramo.

di Francesca Caferri

“Che meravigliosa accoglienza. Sono molto entusiasta di essere qui a nome del mio popolo nella prima visita ufficiale di un leader israeliano qui: non vediamo l'ora di rafforzare il rapporto", ha detto il primo ministro israeliano Naftali Bennett negli Emirati Arabi Uniti.
  "Una visita storica". I titoli simili di due dei principali giornali israeliani, il Jerusalem Post e Haaretz, non lasciano spazio ai dubbi sull'importanza della visita. Il viaggio è la prima volta di un premier israeliano nel Paese e arriva a un anno dalla firma degli Accordi di Abramo che hanno segnato l'inizio del disgelo fra Israele e una serie di nazioni arabe: gli Emirati ma anche Bahrein, Sudan e Marocco.
  Bennett ha incontrato oggi Mohammed bin Zayed, il principe ereditario che guida il Paese. Al centro dei colloqui, secondo quanto dichiarato dal premier al decollo da Tel Aviv, il "rafforzamento delle relazioni economiche e commerciali". "In un anno dalla normalizzazione delle nostre relazioni abbiamo già visto lo straordinario potenziale della partnership fra Israele e gli Emirati. Questo è soltanto l'inizio", ha spiegato Bennett ai giornalisti. "Il messaggio che desidero trasmettere ai leader degli Emirati Arabi Uniti e ai cittadini degli Emirati - ha detto in un'intervista esclusiva con l'agenzia di stampa degli emiratina Wam, durante la sua storica visita ad Abu Dhabi - è che la collaborazione e l'amicizia reciproche sono naturali. Siamo vicini e cugini. Siamo i nipoti del profeta Abramo" e il periodo dalla firma degli accordi di Abramo "sono la migliore prova che lo sviluppo delle relazioni bilaterali è un tesoro prezioso per noi e per l'intera regione".
  Ma oltre alle relazioni economiche sull'agenda si impone il tema dell'Iran: i colloqui per il rilancio dell'accordo sul nucleare Jcpoa a Vienna, sono guardati con preoccupazione sia da Israele che dagli Emirati. In particolare Israele non fa mistero della sua avversità nei confronti del tentativo di ripresa e ha chiesto agli Stati Uniti - che dopo l'abbandono del Jcpoa da parte dell'amministrazione Trump non prendono parte direttamente alla trattativa - di abbandonare ogni dialogo con Teheran e di adottare "misure concrete" per fermare l'avanzata iraniana verso il nucleare. Da parte loro gli Emirati condividono con Israele il timore per il nucleare iraniano, ma restano un partner economico importante per la Repubblica islamica e sarebbero i primi a pagare il prezzo dell'eventuale azione militare che Bennett e il suo ministro della Difesa Benny Gantz continuano a minacciare.
  Nelle settimane scorse il consigliere emiratino per la Sicurezza nazionale, Tahnoun bin Zayed, si è recato a Teheran, prima visita dopo il raffreddamento delle relazioni diplomatiche seguito alla rottura fra l'Iran e l'Arabia Saudita nel 2016: qui ha incontrato il neo-eletto presidente Ebrahim Raisi, rappresentante dell'ala più dura del regime, in quello che molti hanno visto come un tentativo di convincere il nuovo governo di Teheran a tenere una posizione più morbida sul dossier nucleare.
  Al di là della questione iraniana, la visita di oggi è la dimostrazione visiva di quello che pochi giorni fa in un lungo articolo Haaretz definiva "il nuovo Medio Oriente che si sta delineando". L'ultimo anno ha visto infatti la sigla di una serie di patti economici e strategici che prima della firma dei Patti di Abramo sarebbero stati inimmaginabili: dagli scambi diretti in campo economico, culturale e tecnologico fra Israele e gli Emirati. Agli accordi regionali come quello siglato a fine novembre per gli scambi di energia solare e di acqua fra Israele e la Giordania. Israele fornirà alla Giordania il 25% del suo fabbisogno di acqua. In un'intesa separata ma parallela, il regno hashemita produrrà l'8% delle energie rinnovabili usate in Israele. A mediare e a fornire materiali e tecnologia proprio gli Emirati.

(la Repubblica, 13 dicembre 2021)


*


Israele-Emirati, storico vertice «Ora serve una pace "calda"»

La strada tracciata dagli scambi commerciali tra i due paesi

di Raffaele Genah

TEL AVIV - L'incontro con Mohamed bin Zayed, principe ereditario degli Emirati è fissato per questa mattina, ma quella che gli osservatori definiscono una visita storica è già cominciata nella tarda serata di ieri con l'arrivo ad Abu Dhabi, della ristretta delegazione israeliana guidata dal premier Bennet. Le restrizioni dettate dal covid impongono alla visita un'agenda limitata e impediranno al primo capo di governo dello Stato ebraico che arriva nei paesi del. Golfo una puntata su Dubai, e ancora meno, un passaggio tra i  padiglioni dell'Expo.

• LA TELA
  Ma la posta in gioco è ben più alta. Passo dopo passo la trama di rapporti tra i due stati costruita dapprima quasi clandestinamente e poi ufficialmente con gli Accordi di Abramo che ridisegnano la geopolitica dell'intera area, prende corpo.
  «La visita ha lo scopo di approfondire la cooperazione in tutti i campi- ha detto Bennet prima di salire sull'aereo. I legami sono eccellenti e dobbiamo continuare a coltivarli e diversificarli e costruire una pace calda tra i due paesi».
  Incontri che cadono in un momento di alta tensione regionale mentre a Vienna, da un paio di settimane le potenze occidentali cercano di riavviare l'accordo nucleare con l'Iran, lamentando l'impasse in cui i colloqui sono precipitati. Israele spinge perché siano messe in campo maggiori restrizioni e che siano accompagnate da una "credibile" minaccia militare. L'Iran prosegue la corsa per l'arricchimento dell'uranio e al tempo stesso proclama di essere impegnata solo per scopi pacifici.
  In questo quadro il ruolo dei paesi del Golfo può risultare determinante. Lunedì scorso il consigliere per la sicurezza emiratino Tahnoon bin Zayed si è recato in Iran ma il possibile riavvicinamento tra i due Stati, l'uno capofìla degli sciiti nell'area, l'altro di osservanza strettamente sunnita, non sembra preoccupare Israele che si limita ad osservare come il viaggio del diplomatico di Abu Dhabi rientri in una serie di colloqui in diversi stati dell'area e che in questi anni la partnership commerciale tra i due paesi arabi non si è mai interrotta.

• GLI SCAMBI COMMERCIALI
  Ma crescono anche gli interscambi tra Emirati e Israele che nell'anno in corso hanno già superato i 500 milioni di dollari, quattro volte più dell'anno precedente quando non superarono la soglia dei125 milioni di dollari.
  Su questo terreno la strada sembra tracciata e promettente. Lo scorso mese si è avviata tra le parti una. trattativa per il libero scambio, e sono stati approvati specifici memorandum per promuovere alcuni obbiettivi degli accordi di Abramo individuando alcune aree di cooperazione, anche nel settore ambientale e scambi accademici e culturali. Nei giorni scorsi il presidente israeliano Herzog aveva avuto un lungo colloquio telefonico con il principe ereditario Mohamed bin Zayed "su questioni bilaterali e regionali", e pure tra le righe dell'ufficialità della nota diffusa in quella occasione traspare la preoccupazione da parte israeliana per la politica nucleare iraniana su cui lo stesso presidente Herzog ha lanciato più volte parole di allarme.

(Il Messaggero, 13 dicembre 2021)


Tolta la scorta alla famiglia di Netanyahu

Una commissione parlamentare israeliana ha deciso di togliere la scorta alla moglie e ai figli dell'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, sei mesi dopo che il leader ha terminato il suo incarico. La decisione, che entrerà in vigore oggi, è stata presa nonostante le richieste di Netanyahu, che ha denunciato regolari minacce contro la sua famiglia. Secondo le procedure standard, la scorta viene assegnata anche alla famiglia di un ex primo ministro per i primi sei mesi dopo la fine dell'incarico. Ma a gennaio, su insistenza di Netanyahu, quel limite è stato esteso da un comitato ministeriale a un anno. Oggi, lo stesso comitato ministeriale ha adottato una raccomandazione del servizio di sicurezza Shin Bet per ridurre il periodo a sei mesi, dicendo che non c'erano minacce imminenti alla moglie Sara e ai figli Yair e Avner. Netanyahu ha criticato la decisione dicendo che ci sono state minacce regolari contro la vita della sua famiglia e che «il futuro è già scritto». Intanto ieri almeno due palestinesi sono morti e altri sette sono rimasti feriti in una sparatoria scoppiata ai funerali di un membro di Hamas, ucciso in un campo profughi giorni prima.

(il Giornale, 13 dicembre 2021)


Nasce la Commissione DuPre, il movimento No Pass promosso da Cacciari, Freccero e Mattei

Otto filosofi, altrettanti scienziati e sei giuristi hanno firmato il manifesto: "Il vaccino non rappresenta una protezione totale".

di Sara Strippoli

Dopo i convegni dei giorni scorsi nasce ufficialmente  la Commissione DuPre , Dubbio e Precauzione.  Non un partito dunque, per ora,  come si era ipotizzato, ma un movimento che ha scelto di definirsi "Commissione" di cui è portavoce Carlo Freccero. Ne fanno parte Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Mariano Bizzarri, promotori dei due appuntamenti  scientifici che si sono svolti   all’International University College di Torino. In totale il manifesto di DuPre è stato sottoscritto da 22 persone:  otto filosofi, otto scienziati e sei giuristi.  Il quadro dell'attuale epidemia, spiegano, presenta una serie di criticità e l’insieme di problematiche richiede risposte e iniziative urgenti. "Le nostre non sono  divagazioni anti-scientifiche - sostengono i promotori - mai problemi sollevati sulla stampa scientifica e corroborati dal parere di numerosi esperti del settore".

• L'EFFICACIA DEI VACCINI
  L'efficacia dei vaccini è  il primo dubbio indicato dalla Commissione,  da cui derivano le considerazioni sul significato sanitario del Green Pass: "avere un Green Pass non significa essere “innocui” o “non contagiosi”. Contrariamente a quanto sostenuto, la vaccinazione modifica solo leggermente la probabilità di morire per Covid una volta che l’infezione è stata contratta". Una soluzione logica, aggiungono  "sarebbe quella di pensare ad un altro vaccino. Nel mondo non esiste solo Pfizer o Moderna. Altri vaccini sono sul tavolo dell’Ema e della Fda e alcuni di questi sono costruiti con virus inattivato" E che fine ha fatto il vaccino italiano ReiThera?, è il quesito con relativo annuncio di una interrogazione parlamentare urgente.

• "FARMACOSORVEGLIANZA"
  Si richiede un programma di "farmacovigilanza", compiti che la legge ha affidato ad Aifa e all'Istituto Superiore di Sanità: "Dubbio e precauzione, sostengono i promotori  "dovrebbero essere esercitati nella valutazione degli effetti collaterali del vaccino". E a proposito di vaccini per i bambini,  i DuPre citano le dichiarazioni di Crisanti:  "I  test della Pfizer sui bambini di età inferiore ai 5 anni sono stati condotti su un numero inadeguato di pazienti (circa 1300) e le conclusioni prodotte (e su cui si è basata la Fda nell’autorizzare il vaccino ai bambini) sono inaffidabili". Si elencano  i siti istituzionali da cui sono tratte le osservazioni e  non si tralascia la notizia su una indagine  attualmente in corso su Pfizer "come riportato dal British Medical Journal".

• "PRONTI A CONTROINFORMARE"
  "Disinformazione terroristica" è l'accusa della Commissione DuPre, che ritiene sopravvalutati gli allarmi sull'occupazione delle terapie intensive e  sulla pressione sugli ospedali:  "si forniscono dati falsi , come quando si afferma che si muore più di Covid che di cancro o di malattie cardiovascolari,  e si criminalizza le voci critiche". La Commissione, è la promessa, d'ora in avanti, intende svolgere un ruolo di informazione, o, se si vuole, di "Controinformazione". I contenuti saranno pubblicati sul sito Commissione Dubbio e Precauzione, la Cooperativa che ha collaborato ad organizzare i convegni torinesi dell'University College di Torino dove insegna il professor Mattei, candidato sindaco alle ultime amministrative di Torino.

(la Repubblica, 13 dicembre 2021)


Israele blocca l'autorizzazione per la quarta dose: "Per ora non serve"

Si è deciso inoltre di non ridurre a tre mesi il periodo tra seconda e terza dose di richiamo
  I Paesi con i livelli di vaccinazione più avanzati già prospettano una quarta dose per il prossimo anno, continuando ad ignorare che si dovrebbe mettere prima in sicurezza tutti con due dosi e poi pensare ad una eventuale terza o quarta e così via.
  Non serve, per il momento, raccomandare la somministrazione di una quarta dose di vaccino contro il coronavirus. Lo ha deciso il ministro della Sanità israeliano in una riunione andata avanti nella notte per valutare la proposta del premier israeliano Naftali Bennet e del suo ministro della Salute.
  Come spiega il Times of Israel, il comitato consultivo sulla gestione della pandemia ha inoltre deciso di non ridurre da sei a tre mesi il periodo tra la ricezione di una seconda dose di vaccinazione e una terza dose di richiamo.
  La proposta era finalizzata ad aumentare più rapidamente l’immunità generale nella popolazione a causa della diffusione della nuova variante Omicron del Covid-19.

(globalist, 13 dicembre 2021)


"... e poi pensare ad una eventuale terza o quarta e così via". Interessante quel "e così via". Vaccinazione a vita, ecco quello ci prospettano le multinazionali farmaceutiche tramite i politici. La discussione fra poco verterà soltanto sulla frequenza delle inoculazioni: ogni 9 mesì? no, meglio ogni 6; in casi particolari si può arrivare 3, ma senza esagerare perché bisogna pensare anche a chi può farlo soltanto ogni 12. "Repubblica zootecnica", l'ha chiamata qualcuno. L'interesse è tutto rivolto a mantenere in buono stato fisico i capi di bestiame e a limitarne le perdite. Tutto il resto è secondario. M.C.
In Israele, dopo la vaccinazione.


1849. Esuli napoletani e fuorusciti toscani a Londra

«Seguì un’ondata di perquisizioni, arresti, imprigionamenti, condanne ai lavori forzati, esili, vessazioni d'ogni genere, contro persone il cui solo delitto era talora, unicamente, quello di leggere la Bibbia o di frequentare ambienti non cattolici quali la cappella svizzera di Firenze.» Aspetti poco noti del Risorgimento italiano.

di Tommaso Todaro

Livorno, 20 febbraio 1849. La città era immersa nel sonno e la calma regnava sovrana, quando alla mezzanotte si verificava il ritorno improvviso delle deputazioni da Firenze, con la lieta novella della proclamazione della Repubblica in Toscana.
Il Granduca austriaco Leopoldo aveva abbandonato Siena il giorno 7, destinazione finale Gaeta, il giorno dopo Mazzini era sbarcato a Livorno, proveniente da Marsiglia e il 9, in Campidoglio, era stata proclamata la Repubblica Romana.
In città, nonostante l’ora tarda, fu subito festa: bande musicali percorrevano le vie e un albero della libertà, contornato da bandiere tricolori, fu piantato come per incanto in mezzo alla piazza, tra il frastuono delle campane e le grida di Viva la Repubblica.1
In mezzo a quel vociare festante, però, alcuni avevano il cuore colmo di una tristezza infinita: era quello dei molti esuli napoletano disseminati tra la folla....

(Nuovo Monitore Napoletano, 12 dicembre 2021)


Il programma nucleare iraniano innesca nuove tensioni tra Stati Uniti e Israele

WASHINGTON: Le divergenze di vecchia data su come affrontare il programma nucleare iraniano sono esplose in nuove tensioni tra l’amministrazione Biden e Israele, con due alti funzionari israeliani che lasciano Washington questa settimana preoccupati che l’impegno degli Stati Uniti a ripristinare l’accordo nucleare del 2015 porterà a un patto viziato che consente all’Iran di accelerare il suo programma di arricchimento nucleare. Le tensioni sono state evidenti per tutta la settimana, poiché l’amministrazione Biden ha cercato di portare l’alleanza con Israele in un fronte unito su come affrontare l’Iran nel prossimo anno.
  Nel tentativo di colmare il divario, questa settimana i funzionari statunitensi hanno fatto sapere che due mesi fa il presidente Joe Biden ha chiesto al suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, di rivedere il piano rivisto del Pentagono per intraprendere un’azione militare se lo sforzo diplomatico fosse fallito. I funzionari hanno anche delineato nuovi sforzi per inasprire, piuttosto che allentare, le sanzioni contro l’Iran.
  Dopo una telefonata tesa con Blinken 10 giorni fa, il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha inviato il suo ministro della Difesa, Benny Gantz, e il nuovo capo del Mossad, David Barnea, negli Stati Uniti questa settimana armati di nuove informazioni sull’arricchimento dell’uranio iraniano e sul lavoro di ciò che Israele dice è il loro gruppo di armi. Nonostante il discorso americano più duro, i funzionari israeliani se ne sono andati preoccupati che il contatto diplomatico con l’Iran potesse continuare.

(News Italia, 12 dicembre 2021)


Israele prepara un attacco contro l'Iran

Il ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz, ha detto di aver ordinato all'esercito di prepararsi alla possibilità di un attacco militare contro l'Iran. Gantz, che è attualmente negli Stati Uniti per convincere l'amministrazione Biden ad aumentare la pressione sull'Iran, ha anche informato Washington di questo passo, secondo quanto riferito dal quotidiano israeliano Haaretz, che cita un funzionario della difesa.
  I colloqui di Vienna sul nucleare iraniano non hanno prodotto «alcun progresso» e le potenze mondiali «capiscono che quella degli iraniani è una presa in giro», ha aggiunto Gantz.
  Nei giorni scorsi, Stati Uniti e Israele hanno discusso lo svolgimento di manovre militari congiunte che dissuadano l'Iran dallo sviluppare la bomba atomica.
  «Sono profondamente preoccupato per le azioni del governo iraniano in campo nucleare negli ultimi mesi, le sue costanti provocazioni e la sua mancanza di impegno diplomatico», ha affermato il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin. Il capo del Pentagono, che ha accolto a Washington il suo omologo israeliano, Benny Gantz, ha fatto riferimento a una recente esercitazione congiunta nel Mar Rosso di Usa, Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein e ha affermato che «continueremo a sviluppare questa architettura di sicurezza regionale attraverso la cooperazione militare, l'addestramento e le manovre congiunte».
  Gantz, da parte sua, ha espresso «piena fiducia nell'impegno degli Usa a evitare che l'Iran si doti di armi atomiche».

Libero, 12 dicembre 2021)


Bennett vola a sorpresa negli Emirati, prima visita ufficiale di un premier israeliano

Domani incontrerà domani il Principe della Corona, Mohammed bin Zayed al-Nahyan.

Naftali Bennett partirà a sorpresa nel primo pomeriggio per gli Emirati Arabi per la prima visita ufficiale di un premier israeliano nel Paese del Golfo. Lo ha reso noto il suo ufficio: si tratta di una visita ritenuta dai media "storica". Bennett incontrerà domani il Principe della Corona, Mohammed bin Zayed al-Nahyan, prima di rientrare in Israele. Sul tavolo le relazioni bilaterali tra i 2 paesi dopo gli Accordi di Abramo per "la prosperità e stabilità della regione".
  La missione serve a discutere del rafforzamento delle relazioni economiche e militari. Lo scorso giugno il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid si è recato in visita negli Emirati per l'inaugurazione dell'ambasciata israeliana ad Abu Dhabi, definendo la visita un "momento storico". E' stato il primo viaggio di alto livello di un funzionario israeliano dopo la firma degli Accordi di Abramo, avvenuta a Washington il 15 settembre 2020. Dopo l'avvio della normalizzazione delle relazioni i due Paesi hanno firmato una serie di accordi sia in ambito energetico, che finanziario e infrastrutturale, avviando una nוova fase nei rapporti tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi e musulmani.
  "Israele vuole la pace con tutti i suoi vicini. Non andremo da nessuna parte. Il Medio Oriente e' la nostra casa. Siamo qui per restare", aveva affermato Lapid durante il discorso di inaugurazione dell'ambasciata. Pertanto, "chiediamo a tutti i Paesi della regione di riconoscerlo e di venire a parlare con noi", aveva proseguito. L'ex primo ministro Benjamin Netanyahu aveva gia' programmato una visita ad Abu Dhabi, posticipata a causa della diffusione della pandemia di Covid-19.

(la Repubblica, 12 dicembre 2021)


Sui pedali della solidarietà

Aiutare gli altri è una benedizione, se si ha la possibilità non dobbiamo tirarci indietro".

Dice così Sylvan Adams, il mecenate israelo-canadese a capo della Israel Start-Up Nation protagonista di molte iniziative umanitarie intrecciate al mondo dello sport. L'ultima in ordine di tempo collegata proprio al ciclismo, la disciplina in cui la sua squadra si è imposta come un modello non soltanto agonistico ma anche valoriale.
  Sua infatti la regia di un'operazione di assistenza clandestina che ha consentito l'espatrio di vari cittadini afghani a rischio sotto il nuovo regime: tra loro cicliste e professioniste in vari campi minacciate in quanto donne emancipate, oltre a studenti, giornalisti e attivisti. Uno sforzo reso pubblico di recente che ha messo in gioco vari governi, con Israele punto di riferimento al pari di Svizzera, Francia, Canada, Emirati Arabi Uniti e Albania. Ed è proprio in Albania che Adams si è recato per incontrare faccia a faccia un gruppo di donne che avevano fatto del ciclismo la loro passione, impossibilitate non solo a perseguirla ma anche a proseguire la loro esistenza senza il timore di soprusi e violenze.
  Abbracci, commozione e poi tutti insieme sui pedali per le vie di Tirana, vestendo con orgoglio la divisa di un team che anche i tifosi italiani hanno imparato ad apprezzare, ormai da quattro anni, sulle strade del Giro. Nell'occasione Adams ha rivelato qualche dettaglio sull'azione di soccorso, sponsorizzata dall'Unione Ciclistica Internazionale: "La dinamica - ha spiegato - è stata molto simile alla trama di un romanzo o di un film di spionaggio. Ci sono persone che, per portare a termine la missione, hanno rischiato la vita". Per la Israel Start-Up Nation si avvicina anche l'appuntamento con una nuova stagione di impegni, gare, competizioni.
  Uno speciale incoraggiamento è arrivato in tal senso dal Presidente israeliano Isaac Herzog che ha voluto incontrare atleti e dirigenti nella sua residenza. "Grazie - ha detto loro - per rappresentare il Paese a un così alto livello e con una così grande professionalità. Siete, per tutti noi, un esempio.”
  Portavoce della squadra il ciclista con il curriculum più significativo in rosa, il quattro volte vincitore del Tour de France Chris Froome che nel 2021 ha reso meno delle aspettative ed è atteso, per il 2022, da un pronto riscatto. "Ci impegneremo - la sua promessa davanti al Capo dello Stato - per continuare ad essere un punto di riferimento per le nuove generazioni del ciclismo israeliano".

(Pagine Ebraiche, 12 dicembre 2021)


Si parte nel 1207 a C. Gli ebrei in 90 date

Parla Pierrc Savy, curatore di una storia del popolo d'Israele. «Tra chi viveva nella Gerusalemme di Salomone e chi oggi frequenta una sinagoga di BrookJyn le differenze sono enormi, ma c'è anche un'eredità di elementi comuni

di Amedeo Feniello

Un viaggio in novanta date, dal 1207 a.e., anno della vittoria del faraone Merenptah contro «un certo popolo di Israele», al 2006, anno della proclamazione della Giornata europea della memoria. È il lungo percorso della Storia mondiale degli ebrei (Laterza), un'opera che riprende l'Histoire des Juifs, apparsa l'anno scorso in Francia per l'editrice Puf. Non una semplice traduzione, ma per molti versi un'opera differente, integrata da dieci voci in più e da un diverso finale. Ne parliamo con il curatore, Pierre Savy.

- Fornire al lettore uno sguardo complessivo sulla vicenda degli Ebrei lungo tremila anni è uno sforzo ambizioso.
  «Certamente ambizioso, con uno sguardo aperto e un'impostazione di fondo, l'Histoire mondiale de la France (Seuil, 2017), che ha avuto diverse prestigiose continuazioni, tra cui la Storia mondiale dell'Italia diretta da Andrea Giardina. Ho cercato, con l'aiuto di Katell Berthelot e Audrey Kichelewski - e, per l'edizione italiana, di Anna Foa - di colmare le distanze, cercando di stimolare l'attenzione del lettore con un approccio accattivante, con lo sforzo anche di uscire da alcuni condizionamenti culturali. Non a caso l'ouverture del volume riguarda la prima menzione non biblica del popolo ebraico su una stele fatta installare dal faraone Merenptah, il successore di Ramsete II».

- Date da piluccare, come lei avverte nell'introduzione, che permettono di girovagare nel libro a piacere.
  «È uno dei pregi di questo modello. Poter penetrare il libro seguendo il gioco di temporalità differenti, con un percorso di lettura più agevole - e di sicuro più divertente! -di un libro classico. Le date aiutano molto: costituiscono, senza dubbio, un'eccellente porta di ingresso per penetrare storie le cui cronologie sono spesso disperatamente complicate. Una successione di date che però non vanno osservate in maniera teleologica, con un'immaginaria linea del tempo che confluisce verso i cataclismi del XX secolo. Ma tratteggiano, invece, proprio la diversità e la varietà delle storie, con la molteplicità dei punti di vista che ciascun autore ha voluto esprimere. Autori, vorrei sottolinearlo, di sensibilità e competenza diverse, capaci di fornire un quadro non esaustivo sulla storia degli ebrei, ci mancherebbe, ma il migliore possibile dello stato attuale delle ricerche. Con date straordinarie su cui riflettere: come, ad esempio, quella del 1935 riguardante Regina Jonas, la prima donna rabbino ordinata dalla Conferenza dei rabbini liberali di Germania. Una storia riscoperta solo negli anni Ottanta del secolo scorso».

- Veniamo ora ad uno dei nodi più problematici di questo libro, che pone subito una distanza: quella di non voler tracciare una storia dell'ebraismo ma una storia degli ebrei. Una differenza che mi sembra sostanziale.
  «Sì, davvero sostanziale. Lo sforzo è stato quello di mettere in luce la vicenda di una comunità di donne e uomini uniti - o, sottolineo, anche non uniti -, da una fede, da un'appartenenza, da pratiche culturali eccetera. Perché ciò che è risultato più difficile nella composizione del libro (e che resta la domanda di fondo che lo anima) è: di chi stiamo scrivendo la storia? Del popolo ebraico? Degli Ebrei con la iniziale maiuscola? O degli ebrei con la minuscola, espressione con la quale intendere solo le persone di religione ebraica? E le cose si complicano. Perché esiste una religione ebraica, ma anche un popolo ebraico. E l'uso del termine ebrei per designare milioni di donne e uomini lungo un arco cronologico di tremila anni come qualcosa di univoco, beh, anche questa è una forzatura discutibile. Se immagino la dimensione dell'esperienza ebraica dell'epoca di Salomone e la comparo a quella di un ebreo di Brooklyn del XXI secolo, il divario di vita, esperienze e condizioni è enorme. Eppure, esiste, e persiste, lo stereotipo degli ebrei considerati simili ad un oggetto capace di attraversare, come un meteorite inscalfibile, la storia dell'umanità. Sempre identici alla loro origine. Ma, le cose sono molto più sfumate, indefinite: la vita ebraica della diaspora ha apportato, col contatto con gli altri, innesti fecondi. Basti pensare allo yiddish, che è una lingua soprattutto germanica. O al meno conosciuto bagitto degli ebrei di Toscana. O alla cucina ebraica, che adatta agli usi ebraici prodotti e ricette locali: penso ad esempio alla tradizione romana».

- Mi spinge a dire, allora, che non esiste una cultura ebraica, ma mille culture, mille giudaismi, che si incarnano in modo differente.
  «Ci sono sefarditi e ashkenaziti, ebrei tedeschi, polacchi, austriaci,· italiani, argentini. Di New York e di Chicago, di Gerusalemme e Mosca. Una diversità che è indissociabile dall'ebraismo. Tuttavia, qui esplodono le contraddizioni. Perché un plafond comune comunque c'è, insito nell'idea stessa di esperienza ebraica, ossia nel fatto che questo popolo pensa di perdurare da millenni, anche basandosi su costruzioni culturali e miti. Ma alla base di questa convinzione c'è qualcosa di vero, ragioni perfettamente storiche e identificabili, presenti, per fare un semplice esempio, nello sforzo immane di conservare, spesso tra mille difficoltà, norme, rituali, tradizioni, feste. In poche parole, una singolarità identitaria. Un popolo che, sul piano religioso, sin dalle origini ha operato una rottura radicale con i propri vicini, dando vita a quella "distinzione mosaica", per usare le parole di Jan Assmann, che ha imposto con zelo ai propri membri un senso originario di responsabilità e di appartenenza, tante volte matrice di quel rifiuto netto di cui questo popolo disperso e minoritario è stato fatto oggetto nella storia».

- Vuole dire, insomma, che la principale spiegazione della sopravvivenza ebraica va cercata proprio in questa combinazione tra forte sentimento di appartenenza e alterità e notevole integrazione, che arriva talvolta fino all'assimilazione?
  «Proprio così. Nel senso di unità e diversità. Appartenenza pensata sul doppio modello di una parentela comune (la discendenza da Giacobbe, che ebbe come altro nome Israele) e di una provenienza geografica (la Giudea). Di un popolo che non ha alcuna coerenza genetica, ma si fonda su una realtà storica, di elementi culturali, di una ricca eredità di memorie e del desiderio di vivere insieme, per parafrasare Ernest Renan. Popolo che si inserisce, si badi bene, in una dimensione teologica, come popolo eletto cui viene promessa una terra, conquistata e perduta. Dove il legame costante con il ricordo di quella terra (l'anno prossimo a Gerusalemme" si recita nelle due sere di Pasqua), la sua conservazione nella memoria è uno degli elementi essenziali della vita religiosa ebraica».

(Corriere della Sera, 12 dicembre 2021)


12 dicembre 1524: a Roma nasce la comunità ebraica moderna

di Claudio Procaccia

Il 12 dicembre 1524 papa Clemente VII (1523-1534) ratificò i “Capitoli” redatti da Daniele da Pisa e così decretò la nascita dell’Universitas Hebraeorum Urbis, ovvero la prima Comunità ebraica di tipo moderno. Da Pisa era un banchiere toscano incaricato di redigere una sorta di statuto comunale che regolasse la vita degli ebrei di Roma. Non a caso tale mansione fu a questi demandata da un pontefice appartenente alla casata fiorentina de’ Medici (Giulio Zanobi di Giuliano). Infatti, i papi medicei erano ben consapevoli del ruolo rivestito dagli ebrei in campo economico e culturale nella Toscana rinascimentale e vollero utilizzare le loro competenze per le necessità dell’Urbe, una città in grande crescita e che aveva visto con favore il recente arrivo degli ebrei sefarditi.
  Il paradosso fu notevole: gli ebrei espulsi dalla cattolicissima penisola iberica e dai territori soggetti alla corona spagnola potevano vivere tranquillamente all'interno dello Stato ecclesiastico. Altrettanto paradossale fu il fatto che l'accoglienza da parte degli ebrei locali (divisi in collettività diverse come quelle italiane, francesi e tedesche) non fu delle migliori e i conflitti determinati dalle rivalità si acuirono notevolmente. Pertanto, i “Capitoli” ebbero il compito di definire le modalità di relazione tra le diverse componenti ebraiche. A questo proposito, fu istituita la Congrega dei Sessanta, una sorta di organo legislativo, realizzate una serie di strutture esecutive e altre di controllo dell’adeguata applicazione dello ”statuto”. Per garantire, la corretta gestione della “cosa pubblica” fu deciso che all'interno della Congrega i “seggi” fossero divisi equamente tra “italiani” e “ultramontani” (stranieri) e furono posti in essere una serie di pesi e contrappesi istituzionali molto efficaci. Infatti, tali strutture furono definitivamente abbandonate solo nel corso del XIX secolo.
  Attraverso i “Capitoli” erano gestiti i rapporti con la Sede apostolica, con le autorità civili e con le altre comunità. Sul piano interno, le strutture dell’Universitas amministravano, tra l'altro, il fisco e l'ordine pubblico, soprattutto nel difficile periodo del ghetto (1555-1870). Tale impianto si rivelò particolarmente efficace sia nel garantire un corretto rapporto con le autorità costituite, sia tra i membri della Comunità stessa. Il complesso rispecchiava la stratificazione sociale tipica dell'Antico Regime. Infatti, le cariche di maggior prestigio spettavano ai banchieri ma avevano ruoli significativi anche i mercanti possessori di grandi e “mediocri” ricchezze mentre i poveri non potevano candidarsi in nessun caso. A questo proposito, va ricordato che le suddivisioni classiste erano tipiche anche del mondo non ebraico dell'epoca.
  L’Universitas Hebraeorum Urbis era un organismo che rispondeva, peraltro, alle trasformazioni associate alla nascita dello Stato moderno che esigeva strutture centralizzate per combattere le forze sociali centrifughe coeve. Durante il periodo della reclusione la compagine ebraica così organizzata seppe far fronte ai problemi di sussistenza di una parte considerevole della popolazione del ghetto, fronteggiare crisi sanitarie come quelle determinate dalla peste del 1656 e garantire la tenuta identitaria contro le pressioni conversionistiche di istituzioni come la Casa dei catecumeni. A tale proposito, ebbero un ruolo di primo piano le Cinque Scole, le sinagoghe del ghetto, anch'esse suddivise in base alle componenti “etniche”: Scola Tempio (il beth hakneset degli ebrei di più antica presenza sul territorio), Scola Nuova (composta da ebrei italiani di più recente arrivo), Scola Castigliana, Scola Catalane e Scola Siciliana.
  Assai importante fu l'attività delle confraternite che avevano il compito di supportare le fasce più deboli della popolazione ebraica sia dal punto di vista materiale, sia da quello spirituale. Tutto questo consentì di ridurre fortemente il fenomeno dell’indigenza e delle abiure.
  Questo mondo scomparve con il periodo dell’emancipazione (1870-1938) che diede vita alle strutture comunitarie di tipo contemporaneo e con esso si dissolsero tutte le sue modalità di relazione e i processi identitari associati alla vita dell’Universitas Hebraeorum Urbis. Ma questa è un'altra storia.

(Shalom, 12 dicembre 2021)


Con Avi Avital il mandolino è incantevole

Domani al Manzoni di Bologna "Musica Insieme" propone il concerto dello straordinario artista israeliano: "Troppo poco studiato, riserva grandi sorprese".

di Marco Beghelli

BOLOGNA - Quale concerto natalizio, Musica Insieme propone quest’anno una serata un po’ atipica, con il mandolinista israeliano Avi Avital accompagnato dall’ensemble strumentale barocco Il Pomo d’Oro, unica tappa italiana di una breve tournée (domani sera al Manzoni, ore 20,30). Sulla carta, in realtà, il programma si presenta in linea con le aspettative del pubblico classico: una manciata di concerti di autori settecenteschi (Sarro, Durante, Barbella, Scarlatti, Paisiello) legati all’antica tradizione napoletana; inatteso è semmai il mandolino come strumento solista, il cui suono viene associato dal pubblico dei teatri alla serenata di Don Giovanni nell’opera di Mozart, e poco più.
  "Mozart – ci dice Avital – ripropone intelligentemente l’uso popolare del mandolino, come strumento di strada, utilizzandolo per una serenata sotto il balcone. Ma all’epoca era anche uno strumento da salotto, molto diffuso a livello amatoriale, specie fra gli aristocratici del centro Europa, mentre a Napoli era il tipico strumento dei barbieri, insieme alla chitarra. Mentre la chitarra veniva utilizzata come strumento d’accompagnamento, la natura del mandolino è piuttosto quella di strumento melodico, in tessitura acuta, accordato come un violino. Lo si usava soprattutto per trascrizioni di pezzi celebri, e sono poche le musiche originali composte espressamente da autori importanti. Beethoven scriverà due pezzi per mandolino e pianoforte dedicandoli a una contessa. La stessa regina Margherita di Savoia era una cultrice dello strumento".

- E dopo?
  "Ha continuato a prosperare come strumento folcloristico: il suo repertorio è dunque opera degli stessi esecutori e non dei grandi musicisti del mondo classico. Mahler lo usa nelle sinfonie come tocco timbrico di natura popolare, accanto ad altri strumenti estranei all’orchestra. Oggi invece non mancano i compositori che lo hanno riscoperto e che mi dedicano le loro opere originali".

- Si studia nei conservatori?
  "Non molto, anche se la situazione è migliorata da quando venni in Italia per un corso di perfezionamento con Ugo Orlandi, a Padova. In Germania solo due Hochschulen hanno la cattedra di mandolino; negli Usa forse neppure una, mentre c’è grande interesse in Brasile. Ma non si può parlare di mandolino in assoluto, perché non si è mai arrivati alla definizione di uno strumento standardizzato: l’immagine del mandolino con la cassa armonica bombata è tipicamente italiana, mentre in Israele uso uno strumento piatto; in America (molto usato per la musica bluegrass) ha una forma ancora diversa, e così in Brasile. Tecnica e repertorio sono altrettanto variabili: è questa la ricchezza culturale dello strumento".

- L’ensemble Il Pomo d’Oro?
  "È un gruppo barocco eccezionale. Li ho sentiti suonare a Hong Kong, e mi sono subito innamorato della loro energia. Ho proposto una collaborazione, ci siamo riuniti in prova appena una settimana fa e questa è la prima tournée che facciamo insieme: ci stiamo divertendo moltissimo!".

(Il Resto del Carlino, 12 dicembre 2021)



Salmo 56

-> PREDICAZIONE
Marcello Cicchese
agosto 2016
Dalla Sacra Scrittura

SALMO 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.


 

Conti bloccati alla onlus degli odiatori di Israele

Il presidente ha relazioni importanti coi 5 Stelle ed era fra i promotori dei sit-in dei cori jihadisti. L’Antiriciclaggio indaga.

Ne ha dato conto ieri «La Repubblica», spiegando che le misure sarebbero state adottate per «una serie di attività sospette». Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano - che ieri titolava «"Finanzia Hamas" Bloccati i conti a una onlus genovese» - questi movimenti di denaro sarebbero stati diretti verso i territori palestinesi, e non si tratterebbe solo dei progetti di beneficenza che risultano nel sito ufficiale della onlus.
  Il presidente dell'associazione è l'architetto Mohammad Hannoun, vecchia conoscenza per Milano e non solo. Come presidente dell'associazione palestinesi d'Italia, Hannoun è già apparso diverse volte sotto i riflettori, per iniziative e circostanze a dir poco discutibili. Già nel 2009 era comparso nelle cronache per la vicenda della famosa preghiera islamica sul sagrato del Duomo. E nel dicembre 2017 era fra gli animatori più accesi di una serie di discussi cortei pro Palestina (in realtà anti- Israele), fra cui il famoso sit-in in piazza Cavour in cui vennero scanditi anche cori jihadisti e antisemiti, tanto che alcuni giorni dopo - viste le reazioni - firmò una lettera di scuse indirizzata al prefetto in cui definiva «non condivisi» i cori anti-ebraici, esonerandosi da ogni responsabilità per le grida di «possibili ignoranti, o fanatici o infiltrati».
  Negli anni scorsi, e anche di recente, lo si è ritrovato al centro di una intensa attività di «lobbying» pro Palestina, con entrature importanti in politica. Alcuni deputati - per lo più eletti coi 5 Stelle - a settembre hanno dato notizia di incontri politici con lui e altri. E un articolo di «Mosaico», il portale della Comunità ebraica, dava conto nell'aprile 2019 dell'incontro fra il capogruppo 5 Stelle in commissione Esteri, Gianluca Ferrara, e una delegazione di «Parlamentarians for Jerusalem». Secondo il deputato Lucio Malan (oggi Fdi), di questa delegazione facevano parte Hannoun e anche Riyad Al Bustanji, figura al centro di molte controversie, che - sempre nel 2017 - aveva partecipato a un «Festival della solidarietà col popolo palestinese» sotto le stesse insegne di queste associazioni (il logo compare anche sul sito e cancella letteralmente Israele dalla mappa geografica del Medio oriente). Quel «festival» era articolato su tre tappe: Brescia, Verona e Assago, dove era prevista la partecipazione di Manlio Di Stefano, allora capogruppo 5 Stelle in commissione, con spiccate propensioni anti-israeliane, e oggi sottosegretario agli Esteri.
  «Chi sostiene Hamas - commenta Davide Romano, degli Amici di Israele e all'epoca del sit-in assessore alla Cultura della Comunità ebraica - fa un cattivo servizio innanzitutto alla società palestinese, prima ancora che a Israele. Sono infatti sempre di più i palestinesi schiacciati dal regime teocratico a Gaza. E spiace notare come anche nel nostro Paese ci sia troppa fiducia da parte della politica italiana nei confronti di chi è espressione dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è il braccio palestinese. Vorrei a questo proposito chiedere ai nostri politici di impegnarsi a non riconoscere istituzionalmente alcuna organizzazione musulmana italiana che abbia legami con la Fratellanza Musulmana».

(il Giornale, 11 dicembre 2021)


Attacco alla sinagoga, Fiano: “Grave e inquietante quanto rivelato dal Riformista, governo ci espose ai terroristi”

di Umberto De Giovannangeli

Il suo impegno politico nella lotta all’antisemitismo s’intreccia indissolubilmente con la storia personale e della sua famiglia. Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, già membro della segreteria nazionale Pd, è il terzo e ultimo figlio (dopo Enzo e Andrea) di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, e della moglie Rina Lattes. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro Il profumo di mio padre, che racconta della sua vita di sopravvissuto della Shoah e del rapporto con il padre sopravvissuto ad Auschwitz.
  Tra il 1998 ed il 2001 è stato presidente della Comunità Ebraica milanese, dal 2001 al 2006 è stato invece consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Dal 2005 è segretario nazionale di Sinistra per Israele, associazione politica, che insieme a Piero Fassino e Furio Colombo che la presiede, si propone di sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e contrastare i pregiudizi anti-israeliani, che ritiene albergare anche in una parte consistente della sinistra italiana. In questo modo ha promosso iniziative che riguardano la convivenza interculturale e il confronto, come iniziative per il dialogo tra israeliani e palestinesi.

- Le rivelazioni de Il Riformista riattualizzano una vicenda tragica, l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, e riaccendono i riflettori sul “lodo Moro”, quello che lei ha definito il “lodo insanguinato”. Cosa racconta quel lodo?
  Racconta la situazione del nostro paese in quegli anni. Quel lodo di cui parliamo è evidentemente un elemento di scambio determinato da chi governava l’Italia, da chi aveva la responsabilità sulla politica estera di questo paese. Un patto non scritto in maniera formale, che prevedeva che le attività terroristiche dei movimenti palestinesi non avrebbero investito l’Italia. Uno scambio che contemplava, contemporaneamente, un appoggio alla politica palestinese. L’Italia sarebbe stata considerata un terreno di passaggio per le forze palestinesi e di converso la politica estera italiana avrebbe tenuto un profilo assolutamente filopalestinese. Questo intendiamo con questo terribile lodo che fece sposare all’Italia una posizione inaccettabile.

- In una intervista a questo giornale, Riccardo Pacifici, per anni presidente della Comunità ebraica di Roma, ha rivelato un episodio alquanto emblematico. Alla signora Daniela Gaj, la mamma del piccolo Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attacco alla Sinagoga, che si batteva perché anche lui fosse ricordato nella Giornata dedicata alle vittime italiane del terrorismo, fu motivata così l’esclusione del figlio: «È un ebreo, mica un italiano». Cosa c’è dietro questa terrificante affermazione?
  C’è una terribile concentrazione di odio che avvenne in quel periodo e il mancato superamento di stereotipi cari alla cultura antisemita sia di matrice cattolica che di matrice politica. Quelli sono gli anni della manifestazione sindacale, a cui partecipava anche la Cgil, che depositò davanti alla Sinagoga di Roma una bara. Quelli sono gli anni della guerra in Libano del 1982 con la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, non opera dei militari israeliani ma delle milizie cristiano-maronite. Quella tragica vicenda determinò in Italia una trasposizione dell’odio verso Israele, che era visto come il massacratore dei palestinesi, falsando la realtà storica di quel momento, verso gli ebrei italiani. Quella manifestazione testimonia tutto ciò. E dà conto anche di una sinistra italiana che, a parte alcune lodevoli eccezioni in cui mi colloco assieme ai miei maestri di quegli anni tra i quali Piero Fassino e Giorgio Napolitano, che Riccardo Pacifici cita nella bella intervista al Riformista, e anche altri come Valter Veltroni e Francesco Rutelli, in quell’inizio degli anni ’80 sulla vicenda mediorientale si era schierata unicamente da una parte e questo fu trasfuso in una parte della cultura corrente italiana. Quella risposta che cita Riccardo Pacifici fa gelare il sangue e testimonia di un periodo che però, va detto, fortunatamente è passato. La frase ricordata da Pacifici coglie un particolare dell’epoca quanto al pregiudizio antiebraico, ma è ancora più grave e inquietante quanto ha portato alla luce Il Riformista con le carte ritrovate nell’archivio di Stato.

- Perché più grave?
  Qui c’è una collusione di apparati dello Stato. Le segnalazioni dei telex che avete pubblicato dicono che ci potrebbero essere attentati a obiettivi israeliani in Italia ma anche a sinagoghe, nell’ambito di qualcosa che organismi dello Stato adesso dovranno scoprire, e nonostante queste segnalazioni, le forze dell’ordine non agiscono. Qui si va oltre l’antisemitismo. Qui c’è un calcolo, che va investigato, di relazioni internazionali.

- Cosa può fare oggi la politica perché sia fatta piena luce su quella pagina oscura della storia italiana?
  Il Partito democratico ha presentato subito una interrogazione parlamentare a firma mia e di Lattanzio. Io penso che sicuramente se ne debba occupare, in Parlamento, l’organo che si occupa del funzionamento dei servizi segreti di cui ho fatto parte anch’io per diversi anni, che è il Copasir. Questo organismo può chiedere, ne ha le prerogative, la desecretazione di altri atti, per scoperchiare quello che c’è sotto questa spaventosa costruzione che ha portato a quel morto di due anni e a quei 37 feriti. In più mi pare, come è stato scritto, non c’è solo la possibile omissione colposa o addirittura connivenza colposa con chi ha provocato quelle vittime. Bisogna anche capire il ruolo di Abdel Osama al-Zomar, il palestinese che fu arrestato un anno dopo la tentata strage, al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come avete ricordato, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia forse per evitare ritorsioni. Al-Zomar che era stato arrestato, che era stato multato, che era stato segnalato, che era conosciuto. Bisogna capire se all’interno di quel lodo sanguinoso ci fossero delle collaborazioni con alcuni palestinesi. Questo lo può sapere solo chi può scavare dentro queste carte ulteriormente. Voglio ricordare un altro episodio di quegli anni…

- Quale?
  Sigonella. Gli assassini di Leon Klinghoffer, sull’Achille Lauro, furono lasciati andare dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Gli americani chiedevano che fossero trattenuti a Sigonella, ma Craxi decise di lasciarli ripartire all’interno di un accordo con l’Olp. Stiamo parlando di persone che avevano ucciso a sangue freddo, a colpi di mitragliatrice, un povero anziano ebreo in sedia a rotelle che aveva la sola colpa di essere ebreo. Quel clima va ricostruito tutto. Ma a parte il clima, noi vogliamo sapere chi fece cosa e perché.

- Perché quella vicenda di oltre 39 anni fa è ancora attuale?
  Perché la difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto. Non ci possono essere accordi internazionali con forze terroristiche, come potrebbe essere stato in questo caso. La storia italiana è piena di racconti di omissioni e di segnalazioni a cui non ha corrisposto un’azione delle forze dell’ordine, negli anni bui della nostra Repubblica. Ed è ancora attuale perché la trasparenza deve essere una necessità che oggi più che mai è contemporanea. Tutto questo è contemporaneo, secondo me. Continua ad appartenere al rapporto che deve esserci tra le forze di sicurezza che lavorano nel segreto di un paese, e le sue politiche palesi. Dopodiché c’è una storia dell’antisemitismo e anche dell’antisionismo in Italia che, devo dire, è sicuramente migliorata. Nell’intervista, Pacifici può citare, nel Pci di allora, solo Fassino, Napolitano e Occhetto, e ricorda le parole di Giorgio Napolitano – l’antisionismo come forma moderna dell’antisemitismo -. E Pacifici li cita come una eccezione, perché il Partito comunista italiano dalla Guerra dei sei giorni in poi si era schierato con il blocco sovietico, schierato in quegli anni con l’Egitto di Nasser e con la Siria. Da allora c’è stata una evoluzione assoluta. Basta vedere quando oggi ci sono delle manifestazioni di solidarietà con Israele, perché ci sono attentati o per altre cose del genere, nel ghetto di Roma. Ricordo l’ultimissima, Enrico Letta era stato appena eletto segretario del Pd, c’erano tutti i segretari politici dell’arco parlamentare. Questo senza togliere che io, come Enrico Letta o Piero Fassino, ci batteremo sempre per una soluzione del conflitto israelopalestinese fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È cambiato il rapporto della sinistra italiana, per lo meno nella quale mi riconosco io, quella parlamentare, con quella vicenda. In quegli anni purtroppo non era ancora così. Non che questo c’entri con quegli attentatori, ma centra con quella storia che abbiamo raccontato. E con il lodo Moro.

(il Riformista, 11 dicembre 2021)


"La difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto." Mirabile dichiarazione in cui sono da sottolineare le seguenti parole: libertà, democrazia, Costituzione, accordo internazionale. Se ne tiene conto oggi? Si legga l'articolo che segue. M.C.


Paure, sospetti reciproci e rabbiosa discriminazione. Hanno ucciso il senso di umanità. È questo il mondo in cui vogliamo vivere?

Lettera di un'insegnante che da tre mesi è stata sospesa perché non ha il green pass.

Sono già trascorsi 3 mesi da quando sono stata sospesa dal mio lavoro di insegnante, perché non in possesso di green pass.
  Sono stati mesi molto intensi, fatti di incontri, di confronti, di condivisione di idee e progetti, di tanta solidarietà, di crescita personale, ma anche di rinunce e di tanta amarezza. Mesi in cui non ho mai smesso di portare la mia storia e il mio punto di vista all’attenzione della collettività, usando sempre pacatezza, modi garbati e rispettosi, anche quando venivo aggredita verbalmente o messa a tacere. Fortunatamente però ho avuto altre occasioni, in cui ho incontrato persone più sensibili al problema e desiderose di conoscere e di ascoltare con attenzione le mie argomentazioni.
  Tuttavia, nulla è cambiato, anzi la situazione è, a mio parere, peggiorata, soprattutto dal punto di vista umano: assistiamo infatti ad una pericolosa spaccatura sociale, alimentata dal sospetto e dalla paura reciproche, ad una inammissibile e vergognosa discriminazione tra cittadini, e ad un affronto alla dignità delle persone, che sono state colpite economicamente e private del loro lavoro, perché in libertà hanno scelto un’altra strada.
  Vivo giornalmente intorno a me il clima di sospetto di chi non esce per timore di venire a contatto con un positivo, sento la disperazione di chi non lavora e non sa come fare, la preoccupazione di chi sta per perdere il posto, la rabbia di chi è stato costretto a sottoporsi al trattamento, perché non aveva alternativa, l’indignazione delle famiglie, che vogliono tutelare i propri figli.
  Era questo ciò che si voleva ottenere? Questo è il mondo in cui vogliamo vivere? Nessuna pandemia, nessun pericolo possono giustificare tale situazione.
  Da insegnante, dico che le priorità sono e sempre saranno il sentimento di umanità, l’accoglienza e il rispetto verso tutti, il diritto alla libertà e al lavoro, diritti che saranno messi ancora di più in discussione, se non completamente cancellati, dall’imminente obbligo vaccinale per alcuni lavoratori, tra cui i docenti.
  Renderlo obbligatorio mi sembra inopportuno sotto diversi punti di vista.
  Per quanto mi riguarda, resto ancora molto perplessa circa l’efficacia del vaccino, poiché, a fronte di un’altissima percentuale di vaccinati, il virus continua a circolare, provocando numerosi disagi (nella scuole italiane, ad esempio, ad oggi ci sono circa 10.000 classi in Dad, nonostante tutto il personale della scuola sia vaccinato o controllato con i tamponi), malattie e decessi. Mi pare anche inutile e discriminatorio: i docenti, come tutti, conducono una vita sociale anche al di fuori dell’ambiente scolastico con il conseguente rischio di contagiarsi e contagiare; se poi il vaccino fosse l’unica, infallibile e sicura arma per frenare il diffondersi del virus, perché non estenderla a tutti con la conseguente assunzione di responsabilità?
  Poco tempestivo, perché, se la scuola fosse stata veramente un luogo pericoloso, l’obbligo sarebbe dovuto scattare a settembre. Poco utile, perché il trattamento, a quanto pare, non immunizza in modo definitivo, ha una durata limitata e presenta numerosi e importanti effetti collaterali. Diventa addirittura improponibile se si pensa che tale obbligo ha come contropartita la sospensione dal lavoro e dello stipendio, riducendo alla fame tante persone preparate, diligenti, competenti e sane e relegandole ai margini della società.
  Per me, dunque, risulta sempre più difficile adeguarmi ad una situazione così distante dai principi e dai valori in cui credo e sui quali ho sempre basato la mia professione. D’altro canto, rinunciare ad un lavoro, che ho costruito attraverso anni di studio, che richiede competenze che si costruiscono nell’arco di tanto tempo, e al quale ho dedicato gran parte della vita, è un sacrificio grande e doloroso.
Roberta Salimbeni

(Il Paragone, 11 dicembre 2021)


Chi dice candidamente che si vaccina come atto d'amore verso gli altri, continui pure a vaccinarsi se vuole, ma per favore, sempre come atto d'amore, spenda qualche parola verso il governo affinché abolisca l'infame angheria (così propongo di chiamarla) del lasciapassare verde. Stia pur tranquillo in coscienza: quelle disposizioni governative, con il bene dell'umanità non c'entrano niente. Piuttosto col suo contrario, come si può facilmente vedere anche da questa lettera. M.C.


Le ragioni di una abominevole segregazione

di Claudio Romiti

Così come scritto nero su bianco nelle ultime linee guida delle Regioni, il vaccino difende dalle forme gravi del Covid-19, ma non impedisce affatto la trasmissione del contagio. Stando così le cose, l’unica ragione per il rafforzamento di uno strumento abominevole qual è il Green pass è di natura prettamente politica. Con essa si tende a segregare chi, non vaccinandosi per i più disparati motivi, sembra incrinare il coacervo di interessi, politici, economici e professionali, che si cela dietro una infinita pandemia.

(l'Opinione, 10 dicembre 2021)


Ormai dovrebbe essere chiaro che è del tutto inutile far notare alle autorità le contraddizioni e illogicità contenute nelle loro disposizioni, sia per gli aspetti sanitari, sia per quelli amministrativi. Le autorità ormai si sentono soltanto leggermente infastidite dalle proteste e dalle argomentazioni critiche. La loro risposta, quando c'è, è del tipo: si fa così perché il governo ha deciso di fare così. Punto. E per chi trasgredisce ci sono le previste punizioni. Che bisogno c'è di dire di più? Anche su questo punto il governo sta lavorando per arrivare all'immunità di gregge, cioè la protezione del gregge da ogni argomento ragionevole che potrebbe portare il gregge a reagire. Pecore sono e pecore devono restare. Così vuole il pastore. M.C.


Lo scienziato: “Ci si aspettava che alti tassi di vaccinazione riducessero la trasmissione

La rivista The Lancet Regional Health ha appena pubblicato un interessantissimo articolo dello scienziato Prof. Dr. Günter Kampf dell’University Medicine Greifswald – Institute for Hygiene and Environmental Medicine di Greifswald, Germania – dal titolo molto eloquente: “La rilevanza epidemiologica della popolazione vaccinata contro il covid-19 è in aumento.”

• Ciò che esce fuori dall’analisi dello scienziato è veramente allarmante.
  “Ci si aspettava che alti tassi di vaccinazione contro il COVID-19 riducessero la trasmissione di SARS-CoV-2 nella popolazione riducendo il numero di possibili fonti di trasmissione e quindi di ridurre il peso della malattia COVID-19. Dati recenti, tuttavia, indicano che la rilevanza epidemiologica degli individui vaccinati COVID-19 è in aumento.

• La carica virale
  Nel Regno Unito è stato descritto che i tassi di contagio secondari tra i contatti familiari esposti a casi completamente vaccinati erano simili ai contatti familiari esposti a casi non vaccinati (25% per vaccinati vs 23% per non vaccinati). 12 di 31 infezioni per contatti domestici completamente vaccinati (39%) sono emersi da legami con persone completamente vaccinate. La carica virale di picco non differiva di stato vaccinale o tipo di variante.
  In Germania, il tasso di casi sintomatici di COVID-19 tra i completamente vaccinati (“infezioni de breakthrough”) è riportato settimanalmente dal 21 luglio 2021 ed era del 16,9% tra i pazienti di 60 anni e oltre. Questa proporzione è in aumento di settimana in settimana ed ha raggiunto il 58,9% il 27 ottobre 2021.
  La figura 1 fornisce una chiara evidenza della crescente rilevanza del completamente vaccinato come possibile fonte di trasmissione. Una situazione simile è stata descritta per il Regno Unito. Tra la settimana 39 e la 42, sono stati segnalati 100.160 casi di COVID-19 tra cittadini di 60 anni o più. 89.821 si sono verificati tra i completamente vaccinati (89,7%), 3.395 tra i non vaccinati (3,4%). Una settimana prima, il tasso di positività per 100.000 era più alto nel sottogruppo dei vaccinati rispetto al sottogruppo dei non vaccinati di tutte le età superiori ai 30 anni.

• Israele
  In Israele si è verificata un’epidemia nosocomiale segnalata che ha coinvolto 16 operatori sanitari, 23 pazienti esposti e due membri della famiglia. La fonte era un paziente COVID-19 completamente vaccinato. Il tasso di vaccinazione era del 96,2% tra tutti gli individui esposti (151 operatori sanitari e 97 pazienti). Quattordici pazienti completamente vaccinati si ammalarono gravemente o morirono, i due pazienti non vaccinati hanno sviluppato una malattia lieve.
  Il Centro statunitense per il controllo delle malattie e prevenzione (CDC) identifica quattro delle prime cinque contee con la più alta percentuale di popolazione completamente vaccinata (99,9-84,3%) come contee di trasmissione “alta”. Molti decisori presumono che il vaccinato può essere escluso come fonte di trasmissione. Sembra essere gravemente negligente ignorare la popolazione vaccinata come possibile e rilevante fonte di trasmissione al momento di decidere sulle misure di controllo della salute pubblica.”

(AdHoc News, 10 dicembre 2021)


Dalla strage alla Sinagoga al caso Moro. L’Italia ha bisogno di verità

Non sono pochi i misteri nascosti negli archivi di Stato che progressivamente i governi italiani stanno scegliendo di desecretare. Dall’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 al “Lodo Moro”, ecco la Storia d’Italia che serve al Paese.

di Maria Antonietta Calabrò

Il Riformista ha pubblicato 16 documenti ufficiali dell’allora servizio segreto interno il Sisde (oggi AISI) desecretati presso l’archivio di Stato in base alla legge Renzi del 2014 in base ai quali si può verificare che il rischio di un attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 era stato adeguatamente segnalato dai nostri servizi segreti (i documenti sono 16) ma che non venne fatto nulla per impedirlo. Ieri la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello ha chiesto che venga finalmente fatta luce su quell’attacco.
  A partire dall’apertura degli archivi (con una mole enorme di documentazione, quella versata alla Commissione Moro 2, che io ho potuto consultare è superiore a un terabyte) noi infatti abbiamo appreso dell’esistenza di un “patto sotterraneo” che era stato stretto dal governo Andreotti nel 1973 e che impropriamente fu denominato Lodo Moro (Aldo Moro era ministro degli Esteri di quel governo), ma di cui Aldo Moro fu la principale vittima. Un patto tra governo italiano e i terroristi palestinesi che avrebbe dovuto lasciare indenne il territorio italiano, ma avrebbe permesso il transito di armi attraverso il nostro Paese e la possibilità di colpire obbiettivi israeliani sul nostro territorio, come avvenne per l’attacco alla Sinagoga (che accadde quattro anni dopo l’assassinio di Moro).
  Arafat nei suoi Diari di cui il settimanale L’Espresso ha fatto un’anticipazione nel 2018, ha annotato: “L’Italia è una sponda palestinese nel Mediterraneo”, circostanza confermata da Abu Sharif “il volto del terrore” , braccio destro di Arafat nella sua audizione a Palazzo San Macuto del giugno 2017.
  Ormai le prove di questo patto occulto sono sterminate, ma sul “Lodo Moro” vero e proprio il governo Conte nel 2020, a quarant’anni dalla strage di Bologna e della tragedia di Ustica, ha confermato il segreto di Stato.
  Mario Draghi, lo scorso 2 agosto (2021) ha dato una nuova direttiva per l’ulteriore desecretazione degli archivi.
  Il vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) Ernesto Magorno ha dichiarato che il caso dei documenti Sisde relativi all’allarme per un attacco alla Sinagoga sarà portato all’attenzione dell’organismo parlamentare.
  Che gli accordi con i Palestinesi siano un grumo fondamentale da sciogliere per la storia italiana è dimostrato anche dalla polemica che ha coinvolto nei giorni scorsi (con dichiarazioni ed interrogazioni parlamentari) la fiction su Moro preparata dal registra Marco Bellocchio in valutazione per una sua trasmissione sui canali della Rai. “Se Moro è stato liberato dalle Brigate Rosse, da chi è stato ucciso?”, hanno dichiarato polemicamente Maurizio Gasparri e Federico Mollicone presidente dell’Intergruppo “La verità oltre il segreto”, membro della Commissione di Vigilanza Rai. “La messa in onda è contraria alla verità storica e giudiziaria, e volutamente ignora e fa a pezzi la Relazione, votata all’unanimità, della seconda Commissione d’inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni. Ormai, dopo la commissione Moro II anche gli storici di sinistra non hanno più potuto negare, come si faceva all’inizio, l’influenza internazionale sul caso Moro e sulle altre pagine strappate alle stragi del terrorismo italiano. Alcuni intellettuali invece come Bellocchio vogliono continuare ad accreditare una versione di una Guerra Fredda dove la parte dei cattivi spetta sempre e comunque all’Occidente. Chiederemo di evitare la messa in onda sui canali Rai, cioè la tv pubblica, su cui il Parlamento esercita la sua vigilanza”.

(Formiche.net, 10 dicembre 2021)


\ Ecco come e perché cresce il settore immobiliare in Israele

di Luca Spizzichino

Qual è lo stato dell’arte del settore immobiliare in Israele? Tra i vari ambiti influenzati dall’aumento del costo della vita a Tel Aviv, ma in generale in tutta Israele, quello dell’edilizia mostra un fortissimo incremento dei prezzi delle case, sia di nuova costruzione che già esistenti. Per conoscere meglio questo campo Shalom ha intervistato Miky Steindler, imprenditore italo-israeliano attivo in questo ambito.
  “Il settore immobiliare israeliano è in fortissima crescita, in modo continuativo e duraturo – spiega Steindler - uno sviluppo dovuto soprattutto al saldo demografico positivo e alla volontà degli ebrei all’estero di acquistare casa in Israele. Questo, infatti, porta a un continuo aumento della domanda reale, al quale però non vi è un’adeguata offerta d’immobili e ciò comporta un ovvio innalzamento dei prezzi”.
  Ma la differenza tra domanda e offerta, secondo Steindler, è solo una parte delle cause che portano l’importo per l’acquisto delle costruzioni ad essere così elevato. Secondo l'imprenditore sono diversi i motivi di questo fenomeno: il primo soggetto a guadagnarci molto dalla nuova costruzione di edifici è lo Stato, infatti, “quasi l’80% dei terreni è di proprietà pubblica e questo comporta un’asta per il loro acquisto” e un conseguente innalzamento dei prezzi. Lo stesso vale per quelli privati che si vogliono far diventare edificabili e per renderli tali, gli oneri fiscali sono elevati. A questo si aggiunge la mancanza di produzione propria del materiale edile, in gran parte importato, e l’alta tassazione sugli appartamenti, per i quali vengono pagati sia la tassa di registro sia l’IVA. In ultima istanza anche la mancanza di manodopera gioca il suo ruolo e a questo lo Stato sta cercando di far fronte nell’ultimo periodo firmando accordi con paesi dell’Est Europa e non solo.
  “Il costo della casa è uno dei temi più dibattuti nello Stato ebraico, perché non è solamente un problema economico, ma anche sociale, – sottolinea Miky Steindler – perché chi non ha un immobile proprio, come per esempio le giovani coppie, si trova in difficoltà”.
  Il prezzo delle case di nuova costruzione a Tel Aviv è in media di circa 60mila shekel al metro quadrato, mentre quelle vecchie sui 45mila NIS. Anche a Gerusalemme troviamo prezzi molto elevati, dai 25mila ai 40mila. Per avere delle cifre leggermente più accessibili bisogna uscire dal centro. Per esempio a Ra’anana il costo al metro quadro di una nuova casa è sui 25mila shekel. Proprio questa città insieme a Ramat Gan e tante altre cittadine vicine vedono una forte volontà da parte di coloro che vogliono acquistare casa: l’interesse è duplice, infatti, chi decide di abitare in quella regione lo fa sia per motivi lavorativi e familiari.
  Il costo medio è elevatissimo e questo porta i cittadini a guardare alle periferie. “La grande scommessa di questi ultimi anni è quella di creare una rete ferroviaria importante che permetta a chi abita fuori Tel Aviv di essere collegato senza dover utilizzare l’automobile” ha spiegato Steindler sostenendo inoltre che “se riusciranno a collegare la fascia costiera alta con Tel Aviv, allora si sarà fatto un buon lavoro”.
  Alle periferie guarda anche lo Stato per creare nuovi poli economici. Un articolo di Calcalist, rivista israeliana specializzata nell’ambito economico, suggeriva l’eventuale creazione di nuove Silicon Wadi in zone periferiche dello Stato ebraico, come per esempio Beer Sheva, Haifa e Tzfat, sulla falsariga di quanto sta avvenendo in Texas, nello specifico l’area di Houston, diventata la principale alternativa alla Silicon Valley. “Le ragioni oltre che economiche sono soprattutto strategiche e geopolitiche. – sostiene Steindler – Ma il processo richiederà decine di anni sia per problemi logistici che per gli elevati costi, per la creazione di infrastrutture”.
  “Si sta cercando di abbattere il costo della vita in queste zone e questo a livello strategico, soprattutto in un paese in guerra come Israele, è importantissimo. Ma ciò – secondo Miky Steindler – sta avvenendo con scarso successo. Gli israeliani, infatti, preferiscono abitare nella regione del Gush Dan, meno cara rispetto a Tel Aviv e ancora accessibile a buona parte dei cittadini”.

(Shalom, 10 dicembre 2021)


Israele, prorogata la chiusura dei confini ai turisti stranieri

Altri dieci giorni, fino al 22 dicembre, il bando per i turisti stranieri

Contro la variante Omicron e la diffusione del covid, Israele mantiene la chiusura dei propri confini e proroga di altri dieci giorni, fino al 22 dicembre, il bando per i turisti stranieri e coloro che non hanno passaporto israeliano. Lo hanno reso noto il primo ministro israeliano Neftali Bennett e il ministro della Sanità Nitzan Horowitz, anticipando che nei prossimi giorni potrebbero essere introdotte nuove restrizioni.
  In base alle linee di guida attuali, tutti gli israeliani di ritorno dall'estero devono rispettare un periodo in quarantena fino a quando non ricevono l'esito negativo del test per il coronavirus. Gli israeliani provenienti da paesi ad alto rischio sono invece tenuti a isolarsi in un hotel preposto per la quarantena fino a quando non ricevono un risultato negativo del test.

(Adnkronos, 10 dicembre 2021)


''Finanzia". Bloccati i conti a una Onlus genovese

Si tratta della Odv guidata da Mohammad Hannoun. L'associazione ha rapporti con alcuni predicatori islamici radicali. Indaga l'Antiriciclaggio.

di Massimiliano Coccia

ROMA - Una banca che chiude i conti, per una serie di transazioni sospette. E la segnalazione all'Antiriciclaggio per capire cosa sta accadendo. In Italia si sono accesi i riflettori sui rapporti di alcune associazioni e Hamas, il gruppo terroristico palestinese. In particolare l'attenzione si è concentrata sulla Associazione Benefica di solidarietà con il popolo palestinese - Odv, di cui è presidente Mohammad Hannoun, architetto palestinese trapiantato a Genova, già al centro di numerose inchieste per le attività di raccolta fondi destinate alle famiglie dei kamikaze palestinesi. La sua associazione - con sedi a Genova, Milano e Roma - nonostante la denominazione "onlus", non risulta essere iscritta al registro dell'Agenzia delle entrate. Recentemente ha subito la chiusura del conto corrente bancario da UniCredit, ufficialmente "senza nessuna motivazione". In realtà, l'istituto bancario di Piazza Cordusio, ha individuato una serie di attività sospette che hanno causato la sospensione dei vincoli contrattuali e la segnalazione all'Unione di Informazione Finanziaria, che sta valutando in questi giorni i vari indici di anomalia riscontrati. Secondo indiscrezioni la massiccia movimentazione di contante, l'invio di provviste economiche a soggetti non censiti in Palestina e ad altri inseriti nelle black list delle banche dati europee, sarebbero le ragioni determinanti le misure adottate. L' Abspp Onlus, come è riscontrabile dalle attività postate sui social, svolge una importante attività di raccolta fondi: pacchi alimentari, sostegno per la scolarizzazione restano le attività principali, alle quali si aggiungono l'organizzazione di conferenze con esperti di geopolitica e di preghiere con imam noti. Un'attività per un certo periodo sotterranea - in concomitanza con l'inchiesta della Procura di Genova denominata "Collette del terrore"- che dopo il rinvio a giudizio si concluse con un nulla di fatto, soprattutto per la mancanza di elementi verificabili in territorio palestinese.
  Il ruolo e il prestigio di Hannoun nel corso degli anni sono cresciuti notevolmente: da qualche tempo è presidente anche dell'Associazione degli "Europei per Al-Quds", un network costituito da decine di associazioni. Una serie di iniziative che l'architetto tiene ben ancorate in Italia, sia per la mole di interessi e donazioni provenienti nel nostro Paese, che per la sua capacità di dialogo con la politica. Ad ottobre anche Alessandro Di Battista è stato testimonial dell'associazione, partecipando a varie iniziative, tra cui lo smistamento dei pacchi di beneficenza; in passato Hannoun era stato ricevuto anche dal sottosegretario Manlio Di Stefano e da numerosi esponenti del Movimento Cinque Stelle. Lo scorso maggio l'associazione di Hannoun ha organizzato la preghiera del venerdì al Palasharp di Milano e alla Moschea Omar di Torino con lo stesso protagonista: Sheykh Riyad Al Bustanji, uno dei predicatori più radicali dell'islam.

(la Repubblica, 10 dicembre 2021)


Il sangue degli ebrei svenduto

di Fiamma Nirenstein

L' attentato del 9 ottobre dell'82, quando Stefano Gaj Tachè, due anni, fu ucciso dai terroristi palestinesi davanti alla Sinagoga di Roma, 37 furono i feriti , compì un doppio sfregio alla Storia. Quello degli assassini, e quello di chi non lo difese. Come ieri coi documenti alla mano ha scritto il Riformista in prima pagina, i poteri italiani erano stati avvisati che un attentato era pronto proprio per ammazzare ebrei o israeliani.
  Lo denunciò, e oggi ci sono le carte, Cossiga una quindicina di anni fa, e nessuno ha mai fatto seguito a quella terribile denuncia. Che implicava un accordo politico, certo di matrice andreottiana, con le organizzazioni palestinesi perché, in cambio della mano libera contro gli ebrei e Israele sul territorio italiano, si astenessero da attacchi contro italiani.
  Naturalmente era una balla anche questa, perché gli attentati di Fiumicino nel 73 (34 morti), dell'Achille Lauro, di Roma Fiumicino-Vienna, 1985 (19 morti) non guardavano l'identità delle vittime. Ma era esplicito che il sangue ebraico era comunque una merce di scambio.
  Arafat nello stesso anno aveva parlato alla Camera armato di pistola: Andreotti, padrino della politica filoaraba, gliel'aveva permesso mentre
  quasi solo Spadolini si contrapponeva. In generale si può dire che la furia terrorista dei palestinesi era già un fatto del tutto evidente, rimarcato da stragi di atleti (11 morti, alle Olimpiadi Monaco nel 72), di bambini a Maalot in una scuola, nel '74, 31 morti e da innumerevoli altri episodi di sequestro di aerei, di autobus, di esplosioni e spari.
  Ma in quegli anni si impostava la politica assolutoria e untuosa che ha fatto del mondo palestinese una vacca sacra intoccabile nella ferocia antisemita, nella disonestà, nella violazione interna dei diritti umani. Paura, desiderio di vantaggi petroliferi presso il mondo arabo, queste due furono le ragioni base della politica si «dhimmitudine» che denuncia in tanti studi Bat Ye'or, e che oggi sembra trovare un freno nei patti di Abramo. Ma ieri, come oggi, consentire, acquiescere, negoziare sull'aggressione e la morte degli ebrei è un aspetto classico dell'antisemitismo. Contiene la segreta convinzione che la loro vita non valga quanto quella degli altri. Quando il bambino Stefano Tachè è stato colpito sulle scale del Tempio, è doppio antisemitismo: quello di chi gli ha sparato, e quello di chi ha negoziato fino a lasciarlo senza protezione, nella sua tenerissima esistenza di bambino ebreo. Jewish lives matter.

(il Giornale, 10 dicembre 2021)


Gli Emirati Arabi aprono alla Siria di Assad

di Maurizio Delli Santi

La notizia ha fatto sobbalzare gli analisti che si occupano degli scenari geopolitici mediorientali. Si tratta delle ultime intese che gli Emirati Arabi Uniti hanno allacciato con la Siria e in particolare dei "Piani per rafforzare la cooperazione economica ed esplorare nuovi settori", concordati in un incontro tra il ministro dell'Economia degli Emirati Abdullah Bin Touq al-Mani e il ministro dell'Economia e del Commercio estero del governo siriano Mohammed Samer Khalil. Si è parlato anche di un accordo già firmato per la costruzione vicino a Damasco di un impianto fotovoltaico di 300 megawatt. In sostanza, si tratta di un vero e proprio abbraccio offerto da Abu Dhabi che segna una vera svolta per la politica di isolamento cui era condannata la Siria. Certo, Damasco è sempre stata sostenuta da Iran, Turchia e Russia, specie durante le fasi più critiche della guerra civile e dell'avanzata di Daesh. Ma ora con la pandemia e la crisi economica cominciava a pesare troppo l'allontanamento dell'Europa e in particolare degli Stati Uniti, che hanno colpito a fondo l'economia siriana con le sanzioni del Caesar Act.
  Nello scenario sempre convulso del Medio e Vicino Oriente, ora ci si interroga sulle ragioni che hanno spinto gli Emirati Arabi Uniti del principe Khalifa bin Zayed Al Nahayan ad avvicinarsi alla Siria. Una prima considerazione è di pura realpolitik: il presidente Bashar Assad regge il potere da oltre venti anni, ha resistito alle primavere arabe, al terrorismo del califfato, a oltre dieci anni di guerra civile, alle sanzioni economiche - in particolare quelle decise da Donald Trump - e alle accuse di crimini contro l'umanità. Se tutto questo non bastasse, nelle ultime presidenziali del maggio sorso avrebbe conquistato il 95,19% dei consensi, ossia 13.540.860 voti dei siriani, compresi quelli dei rifugiati all'estero. Se poi si considera che di fatto gli Stati Uniti hanno orientato la loro bussola strategica prioritariamente su altri fronti, privilegiando ora l'Indo-Pacifico, vale anche ipotizzare che nel quadrante mediorientale si stia avviando un processo di ridefinizione delle alleanze e degli assetti geopolitici.
  Va certamente sottolineato come gli Emirati Arabi Uniti abbiano assunto una postura di assoluto rilievo e particolarmente dinamica nella diplomazia mediorientale, sino a sottoscrivere nel 2020, insieme agli Stati Uniti e a Israele, gli Accordi di Abramo sulla normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico. Se dunque si valutano i rapporti tra Emirati, Stati Uniti e Israele ne discende una chiave di lettura sulla scelta di Abu Dhabi: riavvicinare la Siria, come tra l'altro ha già fatto la Giordania, per cercare di recidere il forte legame che sinora l'ha unita in particolare all'Iran sciita. In questa prospettiva s'inquadrerebbe anche la scelta di Bashar Assad di abolire la figura religiosa del Gran Mufti e un suo possibile avvicinamento al fronte della Lega araba, se non altro perché comincerebbe ad avvertire il peso dei Guardiani della rivoluzione iraniana, il cui attivismo ingombrante sta aggravando le conseguenze del conflitto con Israele.
  Occorrerà adesso osservare come reagiranno Russia e Turchia ma soprattutto l'Iran di Ali Khameini e Ebrahim Raisi, che ostentano ancora la politica di potenza dell'epoca di Soleimani, insistendo sui programmi nucleari, sui finanziamenti e sugli armamenti diretti ad Hamas ed Hezbollah. Difficile che vogliano rinunciare alle forti ingerenze sulle leadership sciite in Iraq, Libano e Siria. (la Ragione, 10 dicembre 2021)



"Io amo l'umanità". Il tormento di coscienza dell'ultravax

"Io amo l'umanità, sono i novax che non riesco a sopportare", pensava Draghino tra di sé. E non riusciva a farsene una ragione. "In fondo - si diceva - anche loro sono esseri umani".
"Già, ma se sono veri esseri umani perché non si vaccinano?" continuava a chiedersi Draghino, "così facendo si escludono caparbiamente dall'umanità e poi non vogliono riconoscere che in questo modo la loro stessa presenza in mezzo a noi vaccinati contamina l'umanità. Ecco perché non riesco ad amarli, anzi qualche volta mi verrebbe voglia di affogarli tutti: perché non sono veri esseri umani. Non è odio per gli uomini, è amore per l'umanità."
"Però non è bene affogarli tutti", riprendeva a tormentarsi Draghino, "perché questo non è degno della vera umanità. Se volontariamente si escludono dal genere umano, si deve rispettare il loro desiderio di appartarsi e lasciarli sopravvivere. Si dovrà dunque provvedere alla costruzione di appositi recinti in cui i novax possano amministrarsi tra di loro, con il permesso di avere in alcuni casi rapporti speciali con noi sotto condizione di chiari e precisi vincoli.
E l'umanità si mostrerà degna di se stessa. Io amo l'umanità"
M.C.



Il giornale dal bunker con cui Goebbels cercava di convincere i berlinesi a morire

Per otto giorni, fino all'arrivo dei russi, il gerarca fece circolare il «Panzerbär». Foglio delirante che negava la catastrofe in atto.


Quattro pagine in bici dai ragazzini in mezzo alle macerie, oppure fatte cadere con degli alianti sugli ultimi soldati nelle trincee L'ombra di Hitler curava il progetto in prima persona vergando invettive con cui incitava la popolazione a resistere fino all'ultimo respiro».

di Ignazio Mangiano

Mai in preda al panico e sempre lucido nel suo estremismo, Joseph Goebbels non smise di predicare la dottrina del nazismo. A qualsiasi costo, sino alla morte sua e del regime. Anche negando la realtà, distorcendola, incitando all'inutile martirio i suoi stessi concittadini, travolgendoli di menzogne. Ovviamente a mezzo stampa, il suo pezzo forte, il suo drammatico capolavoro, essendo riuscito a ridurre tutti i giornali tedeschi a «pianoforte del Terzo Beìch».
  Tra il 22 e il 29 aprile del 1945, con l'Armata Rossa che stringeva fino ad annientare Berlino, Adolf Hitler e Goebbels, nel loro tentativo di rendere comunque immortale la loro creatura, non rinunciarono alla propaganda. Ma dell'orchestra che aveva sostenuto la dittatura fino al crepuscolo non restava più da suonare altro che veleno e - si direbbe oggi - fake news. A Berlino, per di più, potevano contare soltanto su un ultimo precario giornale: il Panzerbär. Quattro pagine per otto uscite, in formato ridotto, usando una tipografia di fortuna, con una sola rotativa, e allestendo la redazione nel bunker sotto la Cancelleria cannoneggiata. Il logo (e nome della testata) era un orso corazzato, con la vanga e il panzerfaust tra le zampe: incitava i berlinesi a combattere fino all'ultimo secondo, perché la vittoria era vicina, così scrivevano i nazisti. Perché i rinforzi stavano arrivando e perché gli occidentali avrebbero presto cambiato le alleanze. A questo quotidiano è dedicato La propaganda nell'abisso, scritto da Giovanni Mari per Lindau.
  Goebbels si dedicò a quel progetto nell'asfissiante ridotto hitleriano, dettando i suoi articoli, dando ordini redazionali, intimando ai generali e a un manipolo di intellettuali, nonché ai soldati-giornalisti rimasti in piedi, di scrivere commenti e rapporti. Il Panzerbär fu distribuito tra le macerie da ragazzini in bicicletta, gratuitamente, qualche volta gettato da piccoli alianti sulle truppe rimaste isolate. Sulla prima pagina, mutuando il detto scolastico tedesco, c'era l'invito, stampato sulla testata, a «leggere e passare» ad altri.
  Una decina di articoli ripeteva ossessivamente - come Goebbels aveva insegnato - che «dietro all'ultimo dispiegamento massiccio di carri armati sovietici si nasconde un enorme abisso». Un editoriale, non firmato e quindi da attribuire direttamente al ministro della Propaganda, recitava: «Se riuscissimo, con l'ultima forza a nostra disposizione, a sfondare questa dura crosta, allora questa spinta andrebbe senza resistenze avanti fino al cuore del nostro nemico mortale». Non c'era nulla di vero.
  Ma questo era il teorema, studiato ad arte per ipnotizzare la popolazione nonostante la lucida previsione di sconfitta. E diventa paradossale, su quelle stesse pagine, quando i nazisti devono dar atto anche della distribuzione di provviste, smentendo nei fatti la bugia dei magazzini pieni riportata nei titoli. Il quotidiano riferiva come l'ufficio provviste avesse «destinato a ciascuna famiglia 250 grammi di carne, un etto di grassi, un quarto di chilo di zucchero» e «proposto una possibile permuta tra una lattina di verdure e una scatoletta di pesce». Il Reich dei 1.000 anni era ridotto a questo trasandato mercato della povertà, della fame, messo a rischio da crolli continui, cannoneggiamenti e suicidi. Ma tutto era imbellettato con la promessa di un imminente cambio della scena, grazie a miracolosi interventi strategici del Führer.
  Il Panzerbär riportava ogni giorno il bugiardo bollettino di guerra diramato dalla Wehrmacht e vidimato dagli uomini del ministero; ospitava feroci editoriali dei pochi gerarchi del Terzo Reich rimasti in vita o rimasti fedeli a Hitler, spiegava le fantomatiche ricostruzioni politiche di Goebbels sui motivi della guerra e sulla sua evoluzione futura, diffondeva la minaccia che ancora aveva la forza di farsi quotidianamente più aggressiva di Hitler: «Chi tradisce deve essere ucciso». E raccontava anche le storie del fronte, un fronte cittadino, esaltando singole disperate azioni di presunti eroi immediatamente diventati martiri, elogiando le donne che combattono al fianco degli uomini, innalzando a paladini i poveri ragazzini scagliati contro i carri armati sovietici.
  Il Panzerbär, il solo foglio che circolava sotto le bombe di Berlino, era la summa della propaganda totalitaria di guerra, intrisa di incommensurabili bugie e di opprimente violenza. Invogliava senza perifrasi i civili a scendere in strada, con poche granate e tra barricate improvvisate contro gli obici avversari, di fatto condannando a morte una popolazione senza più speranza; così come senza speranza era la cricca nazista, che infatti già aveva organizzato un suicidio di massa.
  Mari, giornalista del Secolo XIX, ha ricostruito l'intera vicenda del Panzerbär, dopo averne constatato una totale assenza di letteratura (salvo sporadiche citazioni nei manuali di storia del giornalismo berlinese in lingua tedesca, per altro non rigorose nella datazione delle uscite del giornale). «La propaganda nell'abisso» dimostra l'effettiva direzione editoriale di Goebbels, come del resto emerse da alcuni interrogatori; citando le persone e i soldati che contribuirono alla sua realizzazione, descrivendo l'opera giornalistica e tipografica, ricostruendo l'utilizzo di due diverse «sedi» operative e descrivendo il sequestro dell'ultimo numero da parte dell'Armata Rossa.
  Nel libro è raccolta e riprodotta l'intera produzione del Panzerbär, grazie alla consultazione di remoti archivi di Stato a Berlino e alla documentazione dell'Istituto tedesco per il marxismo e il leninismo dell'ex Ddr. C'è anche il numero uno, solo fotografato, sparito dai radar dagli studiosi del nazismo e non considerato dagli storici del giornalismo.
  Dopo una breve panoramica sul modello di propaganda deviata praticata dal Panzerbär, Mari confronta la realtà storica degli avvenimenti bellici, politici e personali nella Berlino assediata e la finzione giornalistica del quotidiano. Un capitolo per ogni giorno dal 22 al 29 aprile, con la ricostruzione sincera della battaglia e la traduzione criminale e paranoica del Panzerbär. Un parallelo tra realtà e propaganda da cui emerge la portata mistificatoria degli ultimi giorni del Terzo Reich, con Goebbels, il ministro imperiale diventato Difensore di Berlino, impegnato in prima persona nella costruzione di un colossale e criminale sdoppiamento della storia. D'altra parte, Goebbels aveva giurato a Hitler che avrebbe «costretto ogni singolo abitante di Berlino, uomo o donna che fosse, a battersi all'ultimo sangue per guadagnare le ore e i giorni che servivano per l'arrivo dell'armata di Wenck». Un'armata fantomatica, già paralizzata, annientata o in ritirata nel momento stesso in cui venivano scandite quelle parole.
  Sono tradotti e analizzati gli articoli più importanti e gli editoriali più pesanti, l'intera narrazione dell'ultima settimana di guerra, costata 100.000 vittime nella sola battaglia di Berlino. Si riconosce la fanatica mano di Goebbels, agitatore e sostenitore fino all'ultimo della guerra totale. Una serie di ricostruzioni che, una notte, in una drammatica riunione nel bunker, convinsero il generale Helmut Weidling ad attaccare il ministro della Propaganda: «La situazione è disperata: abbiamo solo sei tonnellate di viveri e una ventina di panzerfaust, lo so che i soldati combattono valorosamente. Purtroppo, questo valore viene eccitato da speranze che non sono più realizzabili. Si tratta di un commentario, il Panzerbär. Ciò che è detto là, è semplicemente una menzogna».
  Così Berlino diventa l'istrice a difesa dell'Europa, contro i «cagnacci bastardi» che la assediano, forti solo in gruppo ma già pronti a scannarsi per il boccone prelibato. Nella sua stralunata visione della storia, Goebbels firmò il suo estremo editoriale: «Fino all'ultimo respiro». E dice: «A Berlino tra le macerie fumanti della capitale del Reich si decide il destino dell'Europa e da questo, tu, camerata, non puoi separare il tuo. Pensa a questo, stringi i denti, resisti, sempre fedele al tuo giuramento e alla responsabilità che hai nei confronti dei tuoi successori, di tua madre, tua moglie e dei tuoi figli. La sentenza del destino è davanti a te, non puoi sottrarti e neanche rinviare la sua esecuzione». Fino a sovvertire la Storia, fino a sostenere che la guerra era stata voluta dalla congiura bolscevica ed ebraica.
  Questo ultimo respiro restò sospeso nell'aria insalubre di Berlino, resa densa dal fumo delle macerie. Quando viene distribuita, l'edizione del 29 aprile venne abbandonata e requisita dai sovietici, ormai pronti ad agganciare i loro artigli sul Reichstag.

(La Verità, 10 dicembre 2021)


Hamas accelera

Attacchi agli israeliani in serie, i tempi per una crisi sono maturi. L'ambizione di una rivolta.

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri mattina una quattordicenne palestinese ha attaccato con un coltello una donna israeliana di 26 anni che stava accompagnando un figlio a scuola assieme a un altro figlio più piccolo in passeggino, nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme. La quattordicenne è stata arrestata poco dopo, la donna aggredita è stata dimessa dall'ospedale nel pomeriggio. Il gruppo armato Hamas ha dichiarato: "L'azione eroica a Sheikh Jarrah prova la grandezza del nostro popolo". L'accoltellamento fa parte di una serie di attacchi a sorpresa contro i civili israeliani. Sabato 4 dicembre un palestinese aveva accoltellato e ferito un ebreo ortodosso a Gerusalemme ed era stato ucciso dalla polizia. Domenica 21 novembre un predicatore palestinese, Fadi Abu Shkaydam, aveva aperto il fuoco con una cosiddetta "Carlo", una mitraglietta artigianale, tra i vicoli della città vecchia di Gerusalemme e aveva ucciso un ebreo. Hamas lo aveva riconosciuto come uno dei suoi leader. Il giorno prima un diciottenne palestinese aveva accoltellato e ferito un ebreo di 67 anni a Jaffa ed era stato arrestato per terrorismo. Mercoledì 17 novembre un sedicenne palestinese, Omar Ibrahim Abu Asab, aveva accoltellato due poliziotti e due civili a Gerusalemme prima di essere ucciso. Hamas lo aveva definito "un nostro martire". Nel mezzo di questa sequenza, lunedì 22 novembre, lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele, aveva annunciato l'arresto di cinquanta uomini di Hamas che erano sospettati di stare per compiere attacchi multipli contro i civili israeliani per creare il caos e provocare una sollevazione. Alcuni avrebbero dovuto appostarsi come cecchini e uccidere il maggior numero possibile di persone. Lo Shin Bet aveva sequestrato armi, denaro e materiale per fare quattro cinture esplosive. E a ottobre ci sono stati molti scontri fra palestinesi e polizia a Gerusalemme, di un'intensità che non si vedeva da tempo. L'idea che lega tutte queste notizie è che Hamas sta accelerando il ritmo delle operazioni ostili contro Israele, dopo la pausa seguita ai dieci giorni di conflitto disastroso nel maggio di quest'anno.
  Il gruppo agisce per fasi: dopo i round di guerra che arrivano a intervalli di anni entra in una fase di sonno per ricostruire le risorse che ha perduto e poi riaccelera di nuovo. Questa accelerazione arriva molto prima del previsto. In parte è il gruppo stesso a spiegare in pubblico le motivazioni della pressione aggressiva. Lunedì 6 dicembre una sua fonte ha spiegato ad al Jazeera che il gruppo sta considerando una escalation contro Israele come rappresaglia per il blocco di Gaza ancora troppo stretto e per il rallentamento delle ricostruzioni nella Striscia di Gaza (Israele controlla il passaggio del materiale edile. Due giorni fa un uomo di Hamas è morto nel crollo di un tunnel che stava costruendo per il gruppo). Martedì 7 Hamas ha dichiarato: il conto alla rovescia di un nuovo scontro con Israele è cominciato. In parte ci sono delle ragioni che non può spiegare in pubblico: il gruppo sente che l'Autorità nazionale palestinese - quindi l'organizzazione rivale e maggioritaria fuori dalla Striscia di Gaza - è debole ed è detestata da settori ampi della popolazione. Anche le violenze urbane tra arabi e israeliani a maggio sono state un segnale che Hamas ha osservato con attenzione, i tempi sono maturi per una crisi. Hamas vuole aprire una fase di instabilità violenta.

Il Foglio, 9 dicembre 2021)


No Pass e No Vax, ecco a voi il nemico interno da demonizzare

di Massimiliano Cacciotti

In un suo saggio del 2013, lo storico e politologo Giorgio Galli – noto per aver dedicato gran parte della propria ricerca intellettuale allo studio degli aspetti irrazionali e magici che concorrono ad alimentare l’adesione di massa verso particolari ideologie politiche, soprattutto quelle di natura totalitaria – così scriveva: 
  “Il regime totalitario si serve della categoria di nemico oggettivo, perfezionamento e compimento della categoria di nemico interno… Nemico oggettivo è colui che, nonostante ogni suo eventuale sforzo o opinione soggettiva, è di fatto nemico del regime per il semplice fatto di esistere… È dunque un nemico spersonalizzato, strutturale, impersonale: un nemico che proprio per la sua opaca oggettività potrebbe essere difficile o impossibile individuare e rappresentare, e che, proprio per questo, deve essere iper-rappresentato, con l’enfatizzazione dei suoi tratti negativi, così che contro la sua presenza sistemica, appunto oggettiva, si possa eccitare e scagliare il massimo di energia politica”. 
  In un modo un po’ più banale e semplificato, un concetto abbastanza simile viene ribadito anche da un pensiero che, negli ultimi mesi, sta girando molto sul web – sotto forma di meme – e che viene attribuito al filosofo inglese Bertrand Russel: “La paura collettiva stimola istinto del gregge e tende a produrre ferocia nei confronti di coloro che non sono considerati membri del branco”. 
  Detto in parole semplici, in ogni epoca storica – soprattutto in epoche di crisi – e per ogni ideologia politica antidemocratica, la necessità dei cosiddetti “capri espiatori” pare essere un elemento imprescindibile, che spesso viene portato avanti con atteggiamento sordo ad ogni ragionamento di buon senso e con più o meno grande e profonda ferocia, nei confronti del gruppo identificato come “nemico sociale”. 
  L’esempio degli ebrei durante il regime nazista è quello più noto, ma non si tratta di un’eccezione della storia. Il meccanismo si è riprodotto centinaia di volte, in ogni epoca e in ogni cultura, non solo in quella occidentale. Limitandoci all’Europa e all’occidente, è stato così fra cattolici e protestanti durante la Guerra dei trent’anni – nella quale perse la vita quasi un terzo della popolazione mitteleuropea – è stato così per gli untori durante le pestilenze, per i presunti controrivoluzionari borghesi durante le purghe staliniane, per i càtari e gli albigesi, per i vandeani durante la Rivoluzione francese, per le streghe di Salem in Massachusetts. 
  Per costruire questi “mostri” e giustificare la ferocia da scatenare contro di loro, è prima di tutto necessario – come spiegato da Galli – iper-rappresentarli, enfatizzarne la forza, raffigurarli come un’entità monolitica e oscura, che va al di là dell’umano, poiché è al tempo stesso al di sopra dell’uomo – praticamente un’entità malvagia, dotata di superpoteri e ramificazioni occulte, che vuole mettere in pericolo e forse addirittura sterminare l’umanità – e contemporaneamente al di sotto, al pari delle bestie, di cui i membri di quei gruppi condividono i bassi istinti e la totale mancanza di cultura. 
  È, in estrema sintesi, il tipo di raffigurazione simbolica e mitica con cui l’occidente ha rappresentato per secoli la figura del “diavolo”, cioè il male assoluto, che è contemporaneamente sovrumano e bestiale, e che si incarna dunque e ha le sue propaggini nella “diabolica” categoria sociale che, di volta in volta, viene presa di mira. 
  La ragione è evidente: disumanizzare e demonizzare il “nemico” giustifica un atteggiamento efferato e violento contro di lui. Ogni violenza verso un membro di quella categoria, non è più considerata un crimine, bensì un benefico atto per salvare l’umanità. “Tu sei il male e io sono la cura” si potrebbe dire, citando Sylvester Stallone in “Cobra”. 
  Spesso, però, quelle contro cui ci si scaglia, sono categorie sociali inesistenti. A volte inventate di sana pianta, come fu nel caso delle streghe. E comunque, anche quando esistono, si tratta di gruppi sociali assai poco monolitici e univoci nella loro struttura. Illuminante, in tal senso, fu quanto disse Marc Bloch – grande intellettuale e storico francese – negli anni Trenta del secolo scorso: “non ho mai pensato di essere ebreo, finché non incontrai degli antisemiti”. Fu proprio l’antisemitismo a rafforzare culturalmente e politicamente, per reazione, l’identità ebraica. 
  Dunque, spesso, è proprio la feroce guerra che viene fatta dai sedicenti “difensori del bene”, a dare a quei gruppi di “cattivi” un senso di identità (e conseguentemente, in una qualche misura, una effettiva “pericolosità” per il sistema), che altrimenti non avrebbero. Quella di considerarli il male – un male che non esiste nella realtà – diventa una sorta di “profezia auto avverante”. 
  Questo meccanismo è oggi in atto nei confronti dei cosiddetti “No Vax” e “No Pass”, categorie della comunicazione attualmente in voga, spesso mescolate le une con le altre e, altrettanto spesso, associate ad altre “creature” – più o meno reali, o più o meno mitologiche – di cui pullula il nostro immaginario collettivo associato al male. Vuoi il male della scarsa conoscenza scientifica, come nel caso dei “terrapiattisti” e degli “analfabeti funzionali”, oppure quello del minaccioso pericolo politico antidemocratico – sempre paventato come dietro l’angolo – come nel caso dei “gruppi neofascisti”. 
  Ovviamente si tratta di rappresentazioni simboliche, potremmo dire dei “Miti”, che presentano spesso una scarsa attinenza coi fatti. Che rapporti possa avere, ad esempio, un uomo dichiaratamente di sinistra come Massimo Cacciari – per citare uno dei più attivi e in vista fra i cosiddetti “No Pass” – col variegato pulviscolo dell’ideologia neofascista, non è dato sapere. 
  Cosa c’entri un raffinato intellettuale come Giorgio Agamben col “terrapiattismo” – tra l’altro una categoria iper-citata dai media, nonostante conti nel mondo poche dozzine di adepti – o con l’analfabetismo funzionale, è altrettanto poco chiaro. 
  Né è chiaro perché un Enrico Montesano e un Diego Fusaro, uno Stefano Puzzer e un Carlo Freccero, debbano essere messi in uno stesso calderone, considerati membri di un pericoloso, sovversivo e soprattutto unico pensiero politico. 
  Loro e quei milioni di persone che – in Italia e nel mondo – stanno avanzando critiche nei confronti della gestione della pandemia, non fanno affatto parte di un movimento univoco e monolitico, di un’entità schedabile e classificabile in una stessa e ben definita categoria politica e sociale, come quella dei semi-inesistenti e fin troppo citati “No Vax”. 
  Sono semplicemente persone – diverse per gusti, idee politiche, finalità, educazione e cultura e, tra l’altro, tranne poche eccezioni, niente affatto “No Vax” – che sollevano domande sulle numerose e oggettive contraddizioni riscontrate nella comunicazione dominante riguardo al rischio pandemico e alle conseguenti scelte sanitarie e politiche sinora effettuate. 
  Persone che, dunque, richiederebbero soprattutto delle convincenti risposte nel merito di quei dubbi, al fine di poter essere rassicurate e convinte della bontà di quelle scelte. Risposte che, qualora le decisioni prese dai diversi governi – come si spera – siano state dettate essenzialmente dalla finalità di proteggere la popolazione, senza doppi fini, sarebbe davvero semplice e immediato poter fornire, spegnendo così sul nascere ogni polemica. 
  Invece si sta seguendo una strada opposta: quella dell’invenzione prima e della criminalizzazione poi di questa mitologica categoria dei “No Vax”, messi tutti insieme, senza fare distinzioni. Si è scelta, dunque, la strada della rottura del dialogo e del patto sociale. Si è scelta la strada della disumanizzazione propagandistica, a cui viene quotidianamente sottoposta questa inedita “classe” di nuovi untori. 
  Si è perciò scelta la strada di dire – come ai tempi delle guerre di religione – “noi” siamo gli umani, “loro” no. Proprio come avrebbero fatto alcuni nostri avi, in epoche buie. O come avrebbero fatto i membri delle tribù dei “Bantù”, o di quelle dei “Lakota”, o degli “Inuit”, tutti nomi che, nelle rispettive lingue di origine, hanno lo stesso significato: “gli umani”. Perché la piena umanità – in quelle società ancora prive di scrittura, così come nella nostra attuale società dell’algoritmo – viene riconosciuta solo a chi è totalmente all’interno della tribù stessa e viene totalmente negata a tutti gli altri.
  Ma se i Bantù e i Lakota, perlomeno, spostavano all’esterno da sé il proprio “nemico disumano”, noi – moralmente impossibilitati, oggi, in epoca di “politicamente corretto”, a rappresentare il nemico come colui che ha etnia e colore della pelle diverso dal nostro – lo rappresentiamo al nostro interno, costruendo nuove categorie di “disumani”, al posto di quelle a cui storicamente eravamo più abituati. “Che tutto cambi affinché tutto resti uguale”, avrebbe detto il Gattopardo. 
  Come dicevamo all’inizio, socialmente questo avviene, di solito, nei momenti di particolare crisi e di paura. Su un piano politico, invece, di cosa sia prodromo e segnalatore questo meccanismo, lo ha spiegato bene Giorgio Galli. Anche in questo caso, per comprendere, basta tornare in alto e rileggere dall’inizio. Mi auguro solo che Giorgio Galli avesse torto.

(LabParlamento, 9 dicembre 2021)


La creazione del nemico oggettivo avviene nei momenti di particolare crisi e di paura, dice l'autore, e per sapere di che cosa è prodromo questo fenomeno secondo Giorgio Galli invita a leggere l'inizio dell'articolo, dove si dice: "“Il regime totalitario si serve della categoria di nemico oggettivo, perfezionamento e compimento della categoria di nemico interno…". L'autore spera che Giorgio Galli in questo caso abbia torto, ma tutto che invece ha ragione anche oggi. Nell'audio che segue si possono udire le parole con cui Giorgio Agamben ha concluso il convegno "Commissione Dubbio e Precauzione" svoltosi ieri a Torino. M.C.

In politica estera il governo Scholz si allontana dal pragmatismo della Merkel con Cina e Russia

E appoggia Israele come non mai


di Tino Oldani
  Il nuovo governo tedesco, sotto la guida del cancelliere Olaf Scholz, Spd, socialisti, e della verde Annalena Baerbock, ministro degli Esteri, vuole imprimere un nuovo corso alla politica estera tedesca. Di certo resterà europeista, tanto da affermare nel programma della coalizione semaforo che «l'europeismo non è negoziabile». Continuità vi sarà anche su altri temi, sui quali il programma di governo è chiaro: ribadisce l'adesione alla Nato, al Green Deal europeo, al patto di stabilità e al «forte partenariato tedesco-francese». Ma sui rapporti con gli altri attori globali, quali Usa, Cina e Russia, sono alle viste possibili cambiamenti di rotta rispetto alla politica di Angela Merkel. Un tema finora trascurato dai media mainstream, stregati dalla parità di genere nell'assegnazione dei ministeri nel nuovo governo tedesco, a cui hanno dedicato intere pagine. Ma è stata trascurata la questione di rilievo geostrategico anche nelle analisi più attente.
  «Il nuovo corso politico, per il momento solo immaginato, del cancelliere Scholz può essere riassunto nell'allontanamento dal pragmatismo che aveva caratterizzato la cifra del cancellierato Merkel», sostiene su Affari Internazionali Federico Niglia, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università per stranieri di Perugia. «Se nel quindicennio della Kanzlerin la Cdu aveva mantenuto la leadership, sovrapponendosi e appropriandosi dei programmi e delle istanze degli altri partiti, con Scholz sembra esserci l'intenzione di rispettare gli spazi identitari dei partiti, ipotesi che sembra confermata dall'attribuzione dei ministeri chiave ai leader dei Verdi e del Fpd, i liberali». Mantenere, però, all'interno del governo un compromesso tra le visioni identitarie e contrastanti dei leader dei tre partiti (socialdemocratici, verdi e liberali), e raggiungere un equilibrio che sia diverso dalla paralisi, non sembra però un'impresa facile.
  E noto che Scholz e la Baerbock hanno visioni diverse sulle relazioni internazionali. I socialdemocratici tedeschi, per esempio, hanno sempre avuto rapporti amichevoli con la Russia di Vladimir , così come li aveva la Merkel. Una vicinanza iniziata dall'ex cancelliere Gerhard Schroeder, favorevole alla costruzione del primo gasdotto Nord Stream e dal 2017 chairman del gruppo russo Rosneft, e proseguita da Frank-Walter Steinmeier, ex ministro degli Esteri nei governi Merkel, attuale presidente della Repubblica federale. La Baerbock, invece, è sempre stata contraria al gasdotto russo, e come leader dei Verdi si è sempre opposta alla costruzione del Nord Stream 2 e all'utilizzo del gas, in quanto energia fossile. Non solo: anche se negli ultimi mesi ha perso lo smalto politico che aveva in primavera, quando alcuni la pronosticavano come prossima cancelliera, e anche se il ministero più ambito dai Verdi, quello per l'Economia e il Clima, è stato assegnato a Robert Habeck, suo parigrado quale co-presidente dei Verdi, nominato vice-cancelliere, la Baerbock ha pur sempre ottenuto un dicastero chiave come gli Esteri.
  Alcuni, vista la sua inesperienza nel mondo diplomatico, l'hanno giudicata inadeguata per l'incarico. Ma altri, che ne ammirano la grinta, ricordano i suoi studi negli Stati Uniti (liceo in Florida) e in Inghilterra (London School), e sottolineano che è da sempre filoamericana e atlantista, favorevole alle sanzioni contro la Russia e all'ingresso dell'Ucraina nella Nato, nonché allineata sulle posizioni dure di Joe Biden contro la Cina e i paesi autocratici. Posizioni molto diverse da quelle della Merkel e di Scholz, entrambi concordi finora sul sostegno del neo-mercantilismo tedesco in Cina, e poco disposti a prendere ordini da Washington. Per questo, osserva Niglia, «resta da comprendere se, sui temi globali, il nuovo corso politico tedesco si tradurrà anche in un cambio di rotta».
  Su quest'ultimo punto, il saggista francese Thierrry Meyssan, su Voltairenet.org, osserva: «L'accordo di coalizione semaforo allinea la politica tedesca, punto per punto, a quella degli anglosassoni (Usa e Regno Unito)», Non solo. Ora il governo Scholz va oltre, soprattutto su un tema cruciale per le cancellerie dei big mondiali qual è il rapporto con Israele. L'accordo di programma afferma:» La sicurezza d'Israele è interesse nazionale della Germania, che assume l'impegno di bloccare i tentativi antisemiti di condanna d'Israele, anche all'Onu. Parimenti, dichiara che la Germania continuerà a sostenere la soluzione 'due Stati' del conflitto israelo-palestinese (ovvero, si opporrà al principio 'un uomo, un voto'), nonché si compiace della normalizzazione delle relazioni fra Israele e paesi arabi». Conclusione di Meyssan: «E la promozione di una minoranza, non più la sola protezione. Il governo Scholz affossa la tradizionale politica dell'Spd, il cui ministro degli Esteri in carica dal 2013 al 2018, Sigmar Gabriel, definiva il regime israeliano un' apartheid».
  A ben vedere, quando definisce la sicurezza d'Israele «una ragion di Stato della Germania», il programma del governo Scholz mostra una maggiore continuità con la politica della Merkel, che nel 2015, a differenza di Gabriel, difese a spada tratta Tel Aviv dalle minacce dell'Iran: «La sicurezza d'Israele è sempre stata ed è tuttora importante per ogni cancelliere tedesco, e così sarà nel futuro. Il mio è un impegno non solo militare, ma globale sulla sicurezza d'Israele. Sicuramente non siamo neutrali». Nell'occasione, respinse sdegnata ogni tentativo di paragonare alla Shoah la politica di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi: «L'Olocausto come chiaro tentativo di sradicare gli ebrei è un crimine unico. Questo tipo di paragone è totalmente sbagliato e incomprensibile».

(ItaliaOggi, 9 dicembre 2021)


Il governo italiano sapeva che ci sarebbe stato l'attentato alla sinagoga

1982: il governo sapeva e non fece nulla per impedire l’attentato agli ebrei

Cossiga l'aveva detto una quindicina d'anni fa, ma nessuno gli diede retta. Dissero: «Lo sapete: Cossiga è matto». Cossiga aveva dichiarato a un giornale israeliano che le autorità italiane, e lo stesso governo, erano stati informati, nell'estate e nell'autunno del 1982, che si preparava un attentato alla sinagoga. Si conosceva anche, seppure genericamente, la data: prima o dopo la festa del Kippur. L'attentato ci fu. Fu alla Sinagoga di Roma. Fu ucciso un bambino di due anni e furono feriti 35 ebrei a colpi di mitra. Quel giorno davanti alla Sinagoga non c'era neanche un poliziotto. Non solo, in vista dell'attentato, non era stata rafforzata la sorveglianza ma era stata del tutto abolita. La denuncia di Cossiga non era fondata sulla fantasia, o su voci. Siamo entrati in possesso di tutte le carte ufficiali che dimostrano che le cose andarono esattamente così. E che confermano anche il vecchio sospetto sull'esistenza del cosiddetto lodo Moro. Cioè un accordo tra Italia e terroristi arabi che garantiva l'Italia da attacchi diretti e in cambio lasciava mano libera ai terroristi, sia sulla logistica sia su eventuali attacchi agli ebrei. Cossiga, quando denunciò la cosa, disse agli israeliani: «Vi abbiamo venduti». Ora ci sono le prove: sì, li abbiamo venduti.
  Una serie di documenti sin qui ignota conferma le gravissime accuse mosse 15 anni fa da dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sepolte allora sotto una lastra di silenzio generale. Il 3 ottobre 2008 Cossiga rilasciò una lunghissima intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, muovendo accuse che in qualsiasi Paese, e probabilmente anche in Italia se provenienti da altra fonte, avrebbero provocato un mezzo terremoto, pur se riferite a eventi già vecchi di quasi tre decenni. Senza mezzi termini Cossiga accusò l'Italia di aver permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano, all'interno del cosiddetto lodo Moro. "In cambio di una 'mano libera' in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l'immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici. Fintanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d'Israele". La clausola, affermava l'ex capo dello Stato, ex primo ministro, ex ministro degli Interni legatissimo ai servizi segreti, equivaleva a una sorta di licenza di uccidere gli ebrei, "fiancheggiatori dei sionisti", nonostante il lodo Moro. La conclusione di Cossiga era perentoria: "Vi abbiamo venduto”.
  L'accusa dell'ex capo dello Stato fu completamente ignorata, come erano state lasciate cadere nel vuoto le sue rivelazioni dell'agosto precedente, che confermavano l'esistenza dell'ormai famoso patto segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi. Accordo che a tutt'oggi resta un fantasma. Ufficialmente non è mai esistito. Del resto con Cossiga era stata adoperata, fortunatamente senza conseguenze letali, la stessa strategia usata con Aldo Moro nei 55 giorni della prigionia: farlo passare per pazzo e si sa che di quel che dicono i pazzi non ci si deve curare. Cossiga non era pazzo e i documenti confermano che aveva ragione. Il principale attentato al quale l'ex presidente alludeva era quello contro la sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, nel quale fu ucciso Stefano Gaj Taché, di due anni, e furono ferite 37 persone. La possibilità di un attentato contro la sinagoga era stata segnalata dal Sisde più volte a partire dal 18 giugno 1982. Quel giorno il direttore del Sisde Emanuele De Francesco inviò un telex "riservato e urgente" a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Sismi intitolato "Probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa". Il testo era sintetico e inequivocabile: "Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l'ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei". L'Operazione "Pace in Galilea", cioè l'attacco israeliano contro le postazioni palestinesi, diretto a sradicare le loro basi in Libano che sarebbe proseguito per mesi, era iniziata da 12 giorni.
  Il 27 giugno il Sisde faceva partire un nuovo "Appunto riservato" secondo cui gruppi di studenti palestinesi "avrebbero in animo" attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. In testa alla lista dei possibili obiettivi c'era appunto la Sinagoga. In un Appunto del 27 agosto 1982, si afferma chiaramente che l'offensiva terroristica è in fase di ripresa ma che "l'atteggiamento dei fedayn verso l'Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell'O.L.P. e della causa del popolo palestinese". Secondo l'appunto due organizzazioni interne all'Olp, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina" di George Habbash e il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina" di Hawatmeh, stavano facendo entrare clandestinamente in Europa i loro commando.
  In tutto, dal 18 giugno al 9 ottobre, furono inviate 16 segnalazioni di possibili attentati in Italia, l'ultima il 2 ottobre, una settimana prima dell'attacco. In tre di queste era esplicitamente indicata la sinagoga come obiettivo. La più esplicita e precisa è del 25 settembre, spedita anche per conoscenza al ministero dell'Interno. Il Sisde affermava che una "fonte abitualmente attendibile" aveva segnalato la possibilità di attacchi del gruppo dissidente palestinese guidato da Abu Nidal "prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest'anno cadrà il 27 settembre". Anche dall'ambasciata israeliana, peraltro, era arrivato negli stessi mesi un avvertimento specifico: essendo troppo difficile colpire gli obiettivi israeliani, i palestinesi avevano deciso di prendere di mira gli ebrei. Il terrorismo avrebbe cioè colpito obiettivi ebraici, come appunto le sinagoghe, non israeliani o collegati a Israele. Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non fu presidiata. Non solo non fu aumentata la sorveglianza ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che solitamente stazionava lì in occasione di feste o cerimonie religiose. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle 19 della sera alle 7 della mattina seguente. Le stesse indagini, subito dopo l'attacco, non furono particolarmente stringenti e non portarono a niente. "Fui interrogato non al commissariato ma una specie di postazione mobile. Mi fecero qualche domanda generica e mi lasciarono andare", racconta uno dei testimoni, Leonardo Piperno, che aveva visto arrivare due degli attentatori in moto ed è a tutt'oggi convinto, come anche l'allora giudice Rosario Priore, che non tutti i terroristi fossero palestinesi.
  Il commando, secondo le ricostruzioni della polizia, era composto da 5 persone, 4 delle quali rimaste sconosciute. Il quinto attentatore, Abdel Osama al-Zomar, ex presidente dell'Associazione studenti palestinesi in Italia, fu arrestato un anno dopo al confine tra Turchia e Grecia, con un carico di 60 kg di tritolo. La sua ex compagna italiana, Anna Spedicato, disse che l'uomo le aveva confessato di essere l'organizzatore dell'attentato. L'Italia chiese l'estradizione fu immediatamente scarcerato dalla Grecia per evitare guai. È stato condannato in contumacia nel 1991. Le rivelazioni di Cossiga sul lodo Moro continuano a essere ignorate. Quel che successe davvero in Italia in quegli anni, strage di Bologna inclusa, non c'è alcun bisogno di chiarirlo ...

(il Riformista, 9 dicembre 2021)


Israele, i telefoni kasher Impediscono di chiamare il sabato e nei giorni di festa. Ora il governo vuole limitarli e gli ortodossi protestano.

di Elena Loewenthal

C'è ben altro a cui pensare, eppure per la delegazione di rabbini ortodossi che qualche giorno fa ha chiesto udienza a Yoaz Hendel, ministro delle Telecomunicazioni del governo israeliano, la faccenda è talmente cruciale che hanno chiamato in causa il rischio di un nuovo «olocausto» - o più semplicemente un infausto salasso demografico nei loro ranghi di osservanti.
  La questione risale all'ingresso in Israele, come nel resto del mondo, dei telefoni cellulari, che in questo Paese hanno raggiunto prestissimo una diffusione capillare. Da sempre, cioè da quando esistono i telefonini, gli ebrei osservanti possono attivare un piano tariffario dedicato perché l'uso del device è di per sé vietato il sabato e nelle feste. Anche le compagnie di assicurazione auto hanno un'offerta di questo tipo, che esclude la copertura quando secondo la legge religiosa è vietato spostarsi. I religiosi garantiscono di non usare né telefono né automobile nei giorni festivi.
  Le cose si sono complicate con l'avvento dello smartphone e delle sue potenzialità di navigazione. I rabbini della comunità ultraortodossa d'Israele sono corsi ai ripari anni fa con un rigoroso comitato di controllo che impone ai fedeli l'uso di una linea «kasher», cioè solo con determinati e tracciabili prefissi. Lo smartphone è, nella loro ottica, un pericoloso affaccio sull'idolatria e su una miniera di informazioni e immagini inammissibili. Internet e televisione sono banditi dalle case ultraortodosse. Israele è un Paese complesso, ricco di identità in conflitto fra di loro senza bisogno di entrare in quello che è il conflitto per antonomasia, quello arabo/ebraico: c'è una Tel Aviv che è la città più gay friendly del mondo e dell'innovazione digitale, dove però a pochi chilometri dal centro si trova una delle aree a più alta densità demografica del Medio Oriente, popolata di ultraortodossi vestiti di nero, donne con il capo coperto e frotte di bambini.
  Da quando esistono gli smartphone il comitato rabbinico per le questioni di telecomunicazioni li ha tassativamente vietati e ha proibito la portabilità dei numeri con i prefissi kasher. Ma ora, a quanto pare, le cose stanno cambiando: il ministro sta approntando una riforma che consentirà a tutti di cambiare operatore senza restrizioni. Questo farà sì che i numeri kasher non saranno né bloccati né tracciabili: nessuno, neanche i rabbini, potrà più avere la certezza che l'utente stia usando un telefono kasher - cioè senza accesso alla rete internet e a gran parte delle applicazioni di comunicazione. Nessuno potrà più fermare il «discreto» passaggio a piani tariffari non kasher di osservanti apparentemente insospettabili. Questa infausta prospettiva ha spinto l'autorevole delegazione a compiere un passo decisamente irrituale per i rappresentanti di una comunità tanto composita quanto diffidente delle istituzioni nazionali e di governo - come si è visto anche nella ritrosia che ha avuto di fronte alla campagna vaccinale in Israele. Quello, per l'appunto, di rivolgersi al ministro per chiedere di bloccare questo passo. Che viene non a caso alla luce dell'esperienza pandemica, quando i telefonini sono diventati uno strumento più indispensabile che mai. Se già prima la pubblica utilità della rete cellulare era per gli israeliani evidente - tutti hanno una app che segnala il lancio di missili da Gaza o dal Nord e indica all'utente il rifugio più vicino e i secondi che ci metterà a raggiungerlo -, con la pandemia questa funzione si è moltiplicata: Israele ha tenuto sotto controllo il Covid con il tracciamento dei contatti, la vaccinazione precoce e l'invenzione del «tav yaroq», che in Europa è diventato «green pass».
  Questo e altro motivano dunque la riforma volta a dare alla clientela ultraortodossa gli stessi diritti degli altri utenti avviata dal ministro Hendel, che non pare turbato dalle rimostranze del comitato rabbinico. La libertà, di navigazione così come di pensiero, passa anche e forse soprattutto dall'innovazione tecnologica.

(La Stampa, 9 dicembre 2021)


Israele punta a 400 taxi elettrici a guida autonoma in circolazione entro l'inizio del 2022

Taxi elettrici: una proposta totalmente green, è quella che Israele ha presentato martedì. Un innovativo progetto di legge per consentire a 400 taxi elettrici, a guida autonoma, dunque senza conducente, di operare in tutto il Paese a partire già dal prossimo anno.
  La proposta di legge del ministero dei Trasporti, che è stata presentata alla commissione per gli affari economici del parlamento, dovrebbe organizzare, supervisionare, e sviluppare il settore autonomo in Israele, inizialmente limitato ai soli taxi.
  Avner Flor, un funzionario del ministero, ha spiegato che 640 start-up israeliane avevano già mostrato interesse per il progetto, con obiettivi di zero incidenti stradali e riduzione delle emissioni e della congestione legata al traffico. "Nel prossimo decennio, questi veicoli saranno utilizzati principalmente per il trasporto pubblico e meno per i veicoli privati", ha detto ai legislatori nel corso del suo intervento. 
  Flor ha condiviso inoltre che circa 40 di questi veicoli a guida autonoma, con telecamere e sensori, sono già sulle strade israeliane e le aziende si trovano attualmente nella fase di esaminazione. Ha espresso la speranza che il funzionamento delle “navette” a guida autonoma inizi già il prossimo anno.
  Attualmente, in Israele ci sono già un certo numero di auto a guida autonoma in fase di test sulle strade israeliane realizzate dal colosso tecnologico russo Yandex (YNDX.O), con oltre centinaia di veicoli simili a Mosca.
  Michel Biton, presidente del Comitato economico, ha spiegato che verrà fatto tutto il possibile per far avanzare la legge e garantire la sicurezza di passeggeri e pedoni.
  Tra le aziende che sviluppano la tecnologia delle auto a guida autonoma c'è Mobileye, unità di Intel Corp (INTC.O), con sede a Gerusalemme. Avi Licht, avvocato e consulente di Mobileye, ha detto al comitato, secondo quanto riportato da una dichiarazione, che la società stava cercando di lanciare taxi a guida autonoma a Tel Aviv già quest'anno e che ciò aiuterebbe a guidare gli investimenti stranieri nel settore.
  La tecnologia che ha aiutato fino ad oggi l'esercito israeliano a guidare carri armati, intercettare missili e mantenere i suoi sistemi informatici sicuri, verrà ridistribuita verso lo sviluppo di auto senza conducente.
  Le case automobilistiche, tra cui General Motors (GM. N), Ford (FN) e Toyota (7203.T), stanno correndo per passare dalle linee a benzina a quelle completamente elettriche, investendo in modo significativo su modelli con sistemi di guida autonoma.

(Shalom, 9 dicembre 2021)


I raid aerei israeliani prendono di mira i moli di Latakia in Siria

Non era mai successo

di Daniele Raineri

ROMA - Nella notte fra lunedì e martedì aerei israeliani hanno bombardato alcuni container nel porto siriano di Latakia, che affaccia sul Mediterraneo orientale. Non è un fatto eccezionale che aerei israeliani colpiscano bersagli in Siria, anzi, la frequenza di questi raid a partire da ottobre si è intensificata - senza che dal governo israeliano, come da prassi, arrivi alcuna conferma o commento. E' invece un fatto insolito che gli aerei israeliani abbiano bombardato Latakia, porto centrale risparmiato dalla guerra civile e centrale nel sistema di potere assadista. Non era mai successo finora. Vicino a Latakia c'è la più grande base aerea russa nel medio oriente, quella di Hmeimim, e spesso navi da guerra russe attraccano ai moli del porto. Una settimana fa allo stesso molo che poi è stato bombardato era arrivata la nave iraniana Shar-ekord, che a marzo era stata colpita da un'altra esplosione in navigazione vicino alla costa della Siria. A marzo l'esplosione a bordo della nave era stata letta da tutti come un episodio della guerra discreta in corso tra israeliani e iraniani. Sei giorni fa - il giorno dopo l'arrivo della nave - alcuni aerei israeliani avevano interrotto all'ultimo minuto una missione sopra alla costa della Siria ed erano tornati indietro. Il raid tra lunedì e martedì potrebbe essere un secondo tentativo, questa volta andato a segno, di distruggere il carico. L'esperto militare Ron Ben-Yishai, che scrive per lo Yedioth Ahronot e di solito è bene informato, sostiene che sia stato distrutto un sistema di difesa contro i raid aerei. Il governo siriano ha invece pubblicato foto dei container colpiti che mostrano resti di pacchi di Nescafé e altri generi civili, ma il governo siriano non avrebbe alcun interesse a mostrare cosa succede davvero nel porto di Latakia. Alla fine di ottobre c'era stato un altro raid israeliano insolito, questa volta perché in pieno giorno, vicino a Latakia - il che aveva suggerito ci fosse una qualche urgenza di colpire il bersaglio.
  Questa campagna di bombardamenti da parte di Israele cominciata nel febbraio 2013 ha lo scopo di interrompere o perlomeno rendere molto difficile il traffico di armi sofisticate dall'Iran - soprattutto missili e sistemi di difesa aerea - verso la Siria e il Libano, in vista di una guerra contro Israele che prima o poi a detta degli esperti scoppierà. L'Iran vuole trasformare la Siria del presidente Bashar el Assad - che è debitore nei confronti dell'Iran per gli aiuti militari ricevuti durante la guerra civile e non si può opporre - in un avamposto del conflitto prossimo venturo. In teoria, secondo la dottrina iraniana, se le milizie in Siria e Libano saranno in grado di lanciare centinaia di missili contro Israele allo stesso tempo allora riusciranno a saturare le difese antimissile israeliane, a bucarle e a colpire le città. Questa dottrina della saturazione richiede però molti missili e anche alcuni sistemi di difesa aerea per bloccare i prevedibili raid aerei israeliani per colpire le squadre che lanceranno i missili e i depositi. In breve: quella che vediamo adesso è una fase anticipata di una guerra non ancora combattuta, nella quale entrambe le parti tentano di avvantaggiarsi il più possibile.

Il Foglio, 8 dicembre 2021)


Israele, sicurezza. Striscia di Gaza: completata la barriera difensiva

Il comandante delle forze armate israeliane, Aviv Kohavi, ha affermato che la nuova recinzione di quaranta miglia, estesa sopra e sotto terra, «muta la realtà lungo un confine dove gli attacchi sotterranei hanno perseguitato i militari per anni»

NETIV HA’ASARA – Ieri pomeriggio i massimi vertici della Difesa dello Stato ebraico hanno annunciato il completamento della costruzione dell’enorme barriera estesa lungo la frontiera con la Striscia di Gaza, sia in superficie che sotto terra, cioè in quella «profondità critica» in termini di sicurezza a causa della fitta presenza di gallerie scavate dai militanti delle organizzazioni armate palestinesi.

• NEGARE SPAZI AD HAMAS
  L’opera è costata al contribuente israeliano tre miliardi e mezzo di nuovi shekel, cifra pari a poco più di un miliardo di dollari Usa, e ha richiesto più di tre anni per la sua realizzazione. Essa ha la funzione di porre fine alla minaccia costituita dai tunnel transfrontalieri attraverso i quali vengono effettuati gli attacchi armati contro i militari israeliani da parte dei palestinesi infiltratisi dall’enclave di Gaza.
  «Questa barriera è un progetto creativo e tecnologico di prim’ordine che negherà ad Hamas una delle capacità che ha cercato di sviluppare, opponendo un muro di ferro, sensori e cemento tra esso e gli abitanti del sud del Paese», queste le parole pronunciate nell’occasione dal ministro della Difesa Benny Gantz.

• COME È FATTA LA BARRIERA
  La barriera lunga quaranta miglia (sessantacinque chilometri) è stata costruita lungo la linea di frontiera con la Striscia di Gaza e si estende fino al mare, allo scopo di impedire agli ingegneri e ai minatori dei gruppi armati attivi nella Striscia non scavino tunnel sottomarini che permetta l’infiltrazione nel territorio dello Stato ebraico, così come hanno tentato e sono riusciti a fare nel passato.
  Essa è composta da diverse componenti: una parete interrata in cemento armato costellata di sensori sismici per il rilevamento degli scavi in corso di gallerie; una recinzione in acciaio alta sei metri; una rete di radar e altri sensori di sorveglianza alcuni dei quali associati a sistemi d’arma telecomandati. A suo ridosso sono stati inoltre realizzati una serie di centri di comando.

• LE INFILTRAZIONI DALLA STRISCIA DI GAZA
  La decisione di edificare la barriera è stata presa a seguito della guerra del 2014, nel corso della quale le forze armate dello Stato ebraico concentrarono i loro sforzi principalmente per neutralizzare la minaccia allora rappresentata dai tunnel palestinesi. La preoccupazione di Tsahal è da tempo quella che Hamas o altre organizzazioni armate attive a Gaza utilizzino le gallerie transfrontaliere per infiltrare i loro militanti nelle zone abitate a ridosso del confine, dove potrebbero compiere azioni terroristiche o, anche magari soltanto per un breve periodo, mantenere il controllo su una porzione del territorio israeliano.
  Hamas, movimento islamista che attualmente governa nella Striscia di Gaza, ha utilizzato i tunnel per portare a termine attacchi mortali per la prima volta nel 2004, scavando sotto le posizioni israeliane all’interno dell’enclave e facendo poi esplodere potenti ordigni sotto di loro. Nel 2006 un nucleo della medesima organizzazione palestinese si sono infiltrati in Israele attraverso una di queste gallerie e hanno ucciso tre militari delle IDF, catturandone un quarto, il caporale Gilad Shalit, che hanno tenuto prigioniero per cinque anni prima di liberarlo in forza di un accordo di scambio raggiunto con il governo israeliano.

• I TUNNEL NEI RECENTI CONFLITTI
  In seguito i tunnel, sia quelli che attraversano il confine che quelli all’interno della Striscia di Gaza, sono stati ampiamente utilizzati durante la guerra del 2014, sebbene negli ultimi anni Hamas abbia apparentemente smesso di fare affidamento di pari passo al miglioramento delle capacità delle forze di sicurezza israeliano nella loro scoperta. In quell’occasione i militari delle IDF dovettero entrare nella Striscia per distruggere i tunnel che Hamas aveva scavato. In seguito, gli israeliani svilupparono nuove munizioni oltreché tattiche in grado di porre la loro aviazione nelle condizioni di colpire i tunnel dall’aria, rendendoli inutilizzabili se non distruggendoli completamente.
  Diversamente, i tunnel transfrontalieri non ebbero praticamente alcun ruolo nel conflitto di maggio tra Israele e i gruppi armati attivi nella Striscia di Gaza. In alcuni casi, Hamas tentò di utilizzarli allo scopo di inviare i loro combattenti fino al confine, con l’apparente intenzione di farli emergere all’improvviso per cogliere di sorpresa i militari israeliani e attraversare la linea di frontiera. In ognuno di questi casi, tuttavia, gli israeliani sono riusciti a individuare in anticipo questi tentativi e hanno quindi bombardato le gallerie dall’alto, in almeno un caso con i miliziani palestinesi ancora all’interno .

• LO SGUARDO RIVOLTO ALLA FRONTIERA LIBANESE
  Parlando con i giornalisti il brigadier generale Eran Ofir, che ha supervisionato tutti i principali progetti di costruzione delle barriere difensive in Israele negli ultimi anni, incluse quelle lungo i confini egiziano e libanese, si è astenuto dal dichiarare ufficialmente cessata la minaccia rappresentata dai tunnel, rilevando come siano presenti ancora dei punti deboli nelle difese israeliane di Gaza che potrebbero venire sfruttate dai palestinesi.
  Con la realizzazione della barriera lungo la Striscia di Gaza, il ministero della Difesa dello Stato ebraico ora rivolgerà le sue attenzioni al confine con il Libano, dove la recinzione di confine esistente viene considerata insufficiente dal punto di vista della sicurezza. L’attuale bilancio della Difesa prevede lo stanziamento di fondi a copertura delle spese di realizzazione di una barriera simile nell’Alta Galilea in funzioni di prevenzione o, quanto meno di mitigazione, della minaccia di infiltrazioni dei miliziani di Hezbollah.

(Sidertrend, 8 dicembre 2021)


Israele, altro picco di contagi e presto l'ok alla quarta dose

di Peter D'Angelo

Risalgono i casi di SarsCov2 in Israele: si torna a 719 positivi, in 240 ore. Per le sue caratteristiche (numeri piccoli rispetto a quelli europei) e per l'anticipo tra i Paesi occidentali nella campagna vaccinale, Israele è un buon laboratorio per capire cosa potrà accadere in Europa fra poche settimane, come lo è già stato per le ondate passate, con curve del contagio spesso sovrapponibili dopo uno o due mesi. I dati governativi confermano il nuovo picco di contagi come non avveniva da un sessanta giorni, ma la variante Omicron non è attualmente prevalente, la sua diffusione è ancora circoscritta. Dal 1° al 7 dicembre si sono registrati 7 decessi totali, di cui 5 tra soggetti non-vaccinati e 2 tra soggetti con tre dosi, tutti over 60. Mentre i casi "gravi', sempre nell'ultima settimana, sono stati 13 nei non-vaccinati, 2 nei doppi-vaccinati, e 4 con tripla-dose. Il tasso di infezione, su 490.586 test condotti, è ora pari allo 0,68%. Salgono a 106 i pazienti Covid ricoverati in gravi condizioni negli ospedali israeliani, 61 sono sottoposti a ventilazione, quasi tutti sopra i sessant'anni. I pazienti positivi, al momento, sono in totale 5.663.
  A partire da agosto il governo ha offerto la terza dose alla popolazione, primo Paese al mondo, creando il caso-guida per l'Occidente, appunto. Da allora a oggi, il booster è stato somministrato a 4,1 milioni di israeliani, mancano all'appello 1,6 milioni di soggetti per poter raggiungere i 5,7 milioni che hanno completato la doppia dose. Circa il 20% della popolazione sta esitando. Sono invece 6,3 milioni gli israeliani già vaccinati con una dose. Mentre da quanto riportato dal Jerusalem Post, secondo Sigal Regev Rosenberg, ceo di Meuhedet Health Services - una delle strutture sanitarie più grandi del Paese -, gli israeliani potrebbero aver bisogno di una quarta dose di vaccino contro il Covid-19 entro i prossimi due mesi. Sulla stessa posizione l'ad di Pfizer, che ha rilasciato una dichiarazione netta, "serviranno vaccinazioni annuali anti-Covid per molti anni", anche se questa interpretazione non è condivisa da esperti della Comunità scientifica come Antonio Cassone - membro dell'American Academy of Microbiology -, il quale ci ha spiegato che "questa presa di posizione del responsabile della Pfizer è finora priva di un fondamento scientifico". La strategia globale contro il Covid è sicuramente influenzata dalle scelte che Israele sta prendendo in questa fase, ma nella bilancia c'è da considerare la bussola
  Stati Uniti. In America la situazione sta mutando in corsa. L'obbligo vaccinale per gli operatori sanitari è stato congelato in dieci Stati americani - a seguito di una sentenza federale -, un dietrofront destinato sicuramente ad aprire un dibattito a livello internazionale. Quello che è certo è che grandi strutture sanitarie private stanno aggiornando la loro strategia. La Advent Health, una delle strutture private con più dipendenti oltreoceano - 83 mila - ha sospeso l'obbligo per i sanitari attraverso un comunicato stampa a firma del chief, clinical officer, Neil Finkler.
  Oltreché per la quarta dose, il board di esperti che consiglia il ministro della Salute israeliano nella strategia vaccinale, è sotto pressione dell'opinione pubblica anche per un'altra questione estremamente delicata: i vaccini pediatrici per i bambini di 5-11 anni già "guariti" da Covid-19. Il comitato è spaccato sulla questione, tuttavia, da quanto appreso dal Jerusalem Post, nelle prossime ore gli esperti prenderanno comunque posizione definitiva.
  Alcuni membri sostengono che i bambini guariti da Covid siano ben protetti e potrebbero aspettare fino a un anno prima di pensare a una possibile vaccinazione. Altri membri, in senso opposto, sostengono invece che i bambini guariti dovrebbero essere vaccinati subito dopo tre mesi da tampone molecolare negativo. Il dibattito è ancora aperto, anche in Italia, e sicuramente la decisione di Israele influenzerà anche le cancellerie europee.

(il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2021)


Cacciari e Agamben. La china rovinosa

di Donatella Di Cesare

La pandemia non è un'invenzione del governo italiano, né dei governi europei, né tanto meno delle forze occulte del nuovo ordine mondiale. È un evento tragico, che ha inaugurato un'epoca inquietante, ed è una calamità planetaria senza precedenti, contro la quale sarebbero semmai servite misure più tempestive e rigorose. Perciò guardo con disapprovazione, tristezza e un certo sconforto all'iniziativa presa da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari che, insieme a Mattei e Freccero, hanno dato appuntamento all'International University College of Turin per costituire una "Commissione del dubbio e della precauzione". Speravo che si sarebbero fermati, che dopo le prime gravi dichiarazioni, risalenti alla scorsa estate, avrebbero fatto un passo indietro, o almeno di lato. Così non è. Proseguono invece per una china rovinosa, dove le loro posizioni si fondono con quelle dell'estrema destra, dove le loro voci filosofiche fungono da megafono dei negazionisti più beceri, dei complottisti più sguaiati. Con loro quei gruppi di no vax e no green pass che usano oscenamente la stella gialla degli ebrei gassati nei lager per indicare la propria fantomatica discriminazione.
  Gli errori di Agamben e Cacciari sono insieme di analisi politica e di giudizio filosofico. E lo dico con tanto più rammarico per la stima che ho sempre nutrito per entrambi. Ma come si può scambiare lo stato d'emergenza con lo stato d'eccezione? L'emergenza è un terremoto, un'alluvione, uno tsunami, un evento inatteso che s'impone nella sua necessità e va fronteggiato. Lo stato d'eccezione è dettato dalla decisione di una volontà sovrana. Anche chi non abbia letto i testi classici su questi temi sa ben distinguere tra una pandemia e un colpo di stato. Ciò che si verifica in questi ultimi anni è semmai il fenomeno nuovo di un potere che gira a vuoto, impotente di fronte ai disastri ecologici, incapace di contrastare gli effetti perversi del mondo malato.
  Chi ha una cultura di sinistra sa bene quanto i confini siano fluidi, quanto un'ambigua politica della paura, una certa fobocrazia possa avere buon gioco in circostanze d'emergenza. Ma denunciare meccanicamente il biopotere assurto a emblema del male, indicare nella pandemia un pretesto di controllo antidemocratico, finisce per diventare grottesco. Altra cosa è il giusto allarme e la legittima preoccupazione per uno stato d'emergenza istituzionalizzato che muterebbe l'ordinamento giuridico. Ma che senso può avere la battaglia contro il green pass? Dove sarebbe la discriminazione? Sono sempre stata favorevole al green pass, una misura necessaria che, per proteggere la maggioranza di chi si è sottoposto al vaccino, restringe la libertà di pochi, quei privilegiati che, rifiutando di vaccinarsi gratuitamente, pagano la propria scelta. La politica è connessa originariamente con la forza, la giustizia con la violenza. C'è una tragicità nelle scelte politiche inevitabili, come quelle che abbiamo vissuto in questi due anni, a partire dal lockdown, una tragicità che proprio Cacciari ci ha aiutato a considerare nel nesso tra politica e scienza. Perché ora questa sua visione quasi apolitica? Diffido di chi predica fiducia e raccomanda gentilezza. I conflitti sono conflitti. La democrazia non potrebbe esistere senza l'esercizio del sospetto. E la filosofia insegna il dubbio e la domanda. Ma lo scetticismo di principio è un atteggiamento analogo alla credulità sempliciona. Chiuso nel proprio dubbio insospettabile lo spirito critico finisce per trasformarsi in profeta occulto.
  Detto questo, aggiungo che la democrazia è anche ascolto di chi la pensa diversamente. Le tesi sostenute da Agamben e Cacciari, per quanto fuorvianti e sconcertanti, vanno contestate e respinte nel merito. Non mi piacciono gli attacchi astiosi e dissento abissalmente da chi, in nome di uno scientismo dogmatico, coglie l'occasione per lanciare una polemica vacua e pretestuosa contro la filosofia o la cultura umanistica. In questi ultimi tempi la scienza si è rivelata spesso incapace di assumersi le proprie responsabilità e persino di parlare nello spazio pubblico con le parole giuste: dubbi deleteri sono stati esternati a sproposito da chi ha mostrato solo rigidità. Se l'Italia ha risposto molto meglio di altri alla pandemia è grazie alla tradizione umanistica e al suo lascito di umanità.

(La Stampa, 8 dicembre 2021)


E' penoso constatare che dall'ambiente ebraico le sole voci che si fanno sentire in modo pubblico in fatto di pandemia non fanno altro che dar voce alla propaganda di regime. La filosofa Di Cesare tratta con sufficienza i suoi colleghi Agamben e Cacciari come persone che "fungono da megafono dei negazionisti più beceri". Ma è proprio questo che vuole il governo, cioè che ogni voce antigovernativa sia equiparata ai "negazionisti più beceri" (generico), ai "complottisti più sguaiati", ai terrapiattisti irrazionali, ai rivoltosi estremisti (di destra naturalmente, perché quelli di sinistra non ci sono più). E chiunque può contribuire in questo continuo discredito con articoli canzonatori o seriosi, trova facilmente spazio sulla libera stampa di regime. L'autrice pensa che "chi ha una cultura di sinistra" come lei sia facilmente in grado di capire che "gli errori di Agamben e Cacciari sono insieme di analisi politica e di giudizio filosofico", e neppure deve dimostrarlo, perché sulla stampa di regime non ce n'è bisogno: se parla contro i novax o i nopass va sempre bene. Ma è davvero in grado di capire? Trattare dall'alto in basso pensatori come Agamben e Cacciari con argomenti come quelli sopra riportati serve soltanto a far capire che di tutto quello che sta succedendo la filosofa non ha capito niente. Questo va detto senza bisogno di spiegazione, così come non si spiega per quale motivo le tesi sostenute da Agamben e Cacciari sarebbero fuorvianti e sconcertanti.
In allegato un file che riporta un intervento di Agamben sulla differenze tra stato di disciplina e stato di controllo in relazione alla situazione attuale. Chi lo trova fuorviante è fuori strada. M.C. Giorgio Agamben

Giorgio Agamben



Gli ebrei degni di rispetto solo quando sono vittime dei nazisti

Un videogioco che si propone di annientare gli israeliani

di Andrea Molle

Torno ancora una volta sul tema dell'antisemitismo, questa volta per commentare una notizia che proviene dal mondo apparentemente innocuo dei videogiochi. In questo caso voglio parlare di un gioco molto particolare che sarà disponibile sulla nota piattaforma Steam a partire da dicembre 2021: "I cavalieri della moschea di al-Aqsa".
  Si tratta di un prodotto in cui il giocatore impersonifica, senza troppi giri di parole, un terrorista il cui compito è quello di ammazzare il maggior numero possibile di soldati delle forze di difesa israeliane e morire onorevolmente da martire per la gloria di Allah. Come è lecito aspettarsi, diverse associazioni si sono unite al governo di Tel Aviv in protesta, bollando il gioco come antisemita. La pronta risposta dell'autore, figlio di un militante di Al Fatah immigrato in Brasile, è da manuale del moderno antisemitismo politicamente corretto, e cioè che il gioco non è contro il popolo ebraico ma solo (SIC!) contro Israele.
  Come spesso si sente dire soprattutto a sinistra, anche ragionevolmente, criticare Israele non è sempre antisemita. Ma sembra che ormai si sia raggiunto un paradosso: basta vestire l'antisemitismo con i panni della critica politica per renderlo sempre e comunque accettabile. E guai a protestare! La colpevolizzazione della vittima la fa da padrone. In questo caso poi, più che di critica alla politica israeliana, della quale non si intravvede nemmeno l'ombra, si parla di incitamento alla violenza, benché virtuale. E la presunzione che il videogioco non sia antisemita è basata sul fatto che nelle missioni, forse in attesa di un'espansione a pagamento, non si ammazzano donne e bambini. Poco importa all'autore e a chi ancora lo difende che i militari delle forze di difesa israeliane siano ragazzi e ragazze (la misoginia dell'informatico brasiliano qui abbonda) di leva che compiono solo il loro dovere di cittadini dello stato ebraico. Per lui è una battaglia personale e non cambierà certo idea.
  Spero solo che questa orrenda vicenda faccia finalmente svegliare gli ancora troppi fanatici del terrorismo di Hamas e Co, le scimmie urlanti del BDS (il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele). La loro non è mai stata una battaglia politica a favore delle anche legittime necessità del popolo palestinese, ma puro e semplice odio verso gli ebrei. Li tollerano solo quando sono le vittime amarcord della tragedia nazista. Ma la triste verità è che isolare e stigmatizzare Israele non fa che allontanare la speranza di una pace equa tra i due popoli che abitano la terra di Abramo.

(ItaliaOggi, 8 dicembre 2021)


New York in carenza di formaggio spalmabile: negozi di bagels in crisi

La storia ebraica dei bagels & schmear

di Michelle Zarfati

Immaginate che da domani in Italia finisca la crema per riempire i cornetti con cui fare colazione la mattina. Un cornetto, brioche per alcuni, è molto di più di semplice cibo: è un simbolo. Questo è esattamente quanto accaduto in America, con i suoi Bagels. Una pasta lievitata di origini polacche ed ebraiche. Originariamente dolce, il bagel è diventato ormai il pane simbolo degli Stati Uniti. Nonostante le origini siano riconducibili a certe regioni europee, si è ampiamente diffuso negli Stati Uniti, specialmente grazie alle migrazioni del ventesimo secolo.
  A riportare la notizia riguardante i famigerati bagels, molti media internazionali tra cui persino il New York Times, che ha annunciato una carenza spaventosa di formaggio spalmabile in città, di cui, i venditori di bagel di New York, fanno largo uso per preparare i loro famosi bagels ripieni, noti anche come bagels & schmear. Una notizia sconvolgente anche per le previsioni più distopiche sugli effetti devastanti che la pandemia ha avuto in giro per il mondo.
  Poco dopo la diffusione della notizia, i social, e in particolare Twitter si sono riempiti di commenti riguardo la vicenda, scatenando un’accesa discussione tra opinioni contrastanti. “Non ho mai visto niente di simile nei miei 45 anni nel settore", ha detto alla stampa il direttore di Tompkins Square Bagels, 184 Second Avenue.
  Sembrano dunque esser molteplici le ragioni che hanno portato il famoso “cream cheese” a scarseggiare per i negozi di Bagels della grande mela. Joel Wertheimer - ex segretario del personale della Casa Bianca del presidente Obama - ha twittato sabato, facendo eco ad Anbinder: "Hanno considerato di non mettere una sterlina su ogni bagel? - Adoro un buon schmear, (parola yiddish utilizzata per indicare il formaggio con cui si farcisce la bagel) ma i negozi di bagel mettono troppa crema di formaggio su ciascuna bagel” - ha Twittato Wertheimer – Potrebbero ridurre la quantità del 25% e nessuno se ne accorgerebbe". La maggior parte dei gestori di locali di bagels, non hanno accolto bene la polemica di esagerare nelle loro proporzioni, insistendo sul fatto che la ricetta consiste esattamente in una quantità “strabordante” di crema.
  Sebbene i negozi di bagels negli States siano un’economia di nicchia, possiedono una lunga tradizione famigliare. Alcuni di questi con origini ebraiche. Non è un caso che sia il pane, che il suo condimento affondino le radici nell’ebraismo dell’Est Europa. La stessa parola schmear utilizzata in senso tradizionale per riferirsi al formaggio cremoso spalmato su un bagel, proviene dall’yiddish e si ritiene che derivi dalla radice di “striscio” o “grasso”. I bagel semplici con schmear sono uno spuntino veloce e popolare simbolo di una pagina di storia dell’ebraismo americano.

(Shalom, 8 dicembre 2021)


Perché i palestinesi stanno fuggendo dalla Striscia di Gaza

Almeno tre palestinesi che sono fuggiti di recente in barca dalla Striscia di Gaza controllata da Hamas sono scomparsi, apparentemente dopo essersi capovolti con la loro imbarcazione al largo delle coste della Grecia e della Turchia.

di Khaled Abu Toameh

Una tragedia che ha di recente colpito la Striscia di Gaza ha ancora una volta messo in luce l'entità della sofferenza dei palestinesi che vivono sotto il governo di Hamas, il gruppo sostenuto dall'Iran.
  La tragedia serve anche a ricordare il doppiopesismo della comunità internazionale nell'affrontare il conflitto israelo-palestinese, in particolare l'ossessione per Israele e la tendenza a ignorare qualsiasi illecito da parte palestinese.
  Secondo notizie giunte dalla Striscia di Gaza, almeno tre palestinesi che sono fuggiti dall'enclave costiera controllata da Hamas sono scomparsi, apparentemente dopo essersi capovolti con la loro imbarcazione al largo delle coste della Grecia e della Turchia. I tre erano tra le decine e decine di palestinesi alla ricerca di una vita migliore lontano dalla repressione e dalla corruzione di Hamas.
  Una delle vittime è stata identificata come Anas Abu Rajileh, 25 anni; un'altra era Nasrallah al-Farra.
  L'episodio ha destato grande attenzione fra i palestinesi a causa di un audio registrato da uno dei migranti palestinesi che si trovava sull'imbarcazione, un messaggio vocale in cui informava la madre che uno dei suoi amici era annegato e le chiedeva di informare i familiari della vittima. "Mamma", si sente dire il giovane, "stiamo affogando e i pesci ci stanno mangiando".
  Molti giovani della Striscia di Gaza che negli ultimi anni sono riusciti a risparmiare del denaro o ad assicurarsi abbastanza soldi sono fuggiti in altri Paesi attraverso la Turchia e la Grecia. Secondo quanto riferito, hanno pagato migliaia di dollari in tangenti ai funzionari di Hamas, alle guardie di frontiera egiziane e ai trafficanti per aiutarli a lasciare la Striscia di Gaza in modo da poter iniziare una nuova vita in Europa e altrove.
  Un sondaggio di opinione condotto lo scorso anno dall'Università di Al-Aqsa nella Striscia di Gaza ha mostrato che il 51 per cento dei giovani che vivono a Gaza emigrerebbe volentieri se ne avesse l'opportunità. Oltre l'80 per cento degli intervistati ha spiegato che il motivo principale per cui vuole lasciare la Striscia di Gaza sono i fattori economici.
  In particolare, il sondaggio ha rilevato che il 73 per cento di coloro che hanno partecipato al sondaggio ha affermato che se Hamas e i suoi rivali della fazione al potere di Fatah, guidata dal presidente dell'Autorità Palestinese (AP) Mahmoud Abbas, smettessero di farsi la guerra, i giovani palestinesi non prenderebbero in considerazione l'emigrazione.
  Hamas e Fatah sono in guerra tra loro dal 2007. Poi, Hamas ha fatto un violento colpo di Stato contro l'AP, ha gettato i funzionari dell'Autorità Palestinese dagli ultimi piani di edifici alti e ha preso il controllo della Striscia di Gaza.
  Non è chiaro quanti palestinesi siano fuggiti dalla Striscia di Gaza negli ultimi anni. Secondo alcuni rapporti, più di 40 mila palestinesi sono riusciti a partire tra il 2014 e il 2020. Altri rapporti affermano che sono più di 70 mila.
  I palestinesi che hanno partecipato al sondaggio hanno espresso preoccupazione riguardo al fatto che tra i migranti figurano laureati e professionisti, soprattutto medici che preferiscono lavorare e vivere nei Paesi europei e non sotto Hamas.
  "Gli episodi di annegamento dei giovani nei loro viaggi di emigrazione mettono in ansia le loro famiglie", ha riportato il quotidiano panarabo Al-Quds Al-Arabi. "Allo stesso tempo, l'annegamento mostra l'entità della tragedia vissuta dagli abitanti della Striscia di Gaza, che spinge i migliori dei suoi figli ad emigrare".
  L'ultimo episodio ha scatenato un'ondata di proteste da parte di molti palestinesi, che si sono rivolti a varie piattaforme di social media per esprimere il loro sconcerto e l'incredulità in merito alla tragedia consumatasi e denunciare i leader di Hamas per non essere riusciti a migliorare le condizioni di vita della loro popolazione.
  Riferendosi allo stile di vita lussuoso condotto dalla maggior parte dei funzionari di Hamas nella Striscia di Gaza e all'estero, molti palestinesi si sono lamentati del fatto che mentre i pesci mangiano i poveri migranti, i dirigenti di Hamas continuano a gustare il miglior pesce e i frutti di mare offerti in Qatar e nella Striscia di Gaza.
  Dopo essere venuti a conoscenza della tragedia, altri palestinesi hanno lanciato su Twitter l'hashtag "Noi Vogliamo Vivere", in cui anche loro ritenevano Hamas responsabile dell'alto tasso di disoccupazione e di povertà nella Striscia di Gaza.
  Alcuni utenti dei social media hanno inoltre accusato la fazione Fatah di Abbas della loro persistente miseria, a causa della sua costante rivalità con Hamas.
  "Il governo [di Hamas] non sta facendo nulla per cambiare le vite umane lì", ha scritto il giornalista palestinese Walid Mahmoud. "A questo si aggiunga che i media non ne parlano e credo che non ne parleranno". Mahmoud, che proviene dalla Striscia di Gaza, ha spiegato che l'hashtag "Noi Vogliamo Vivere" riflette la misura in cui la popolazione di Gaza è indignata per la "stupidità dell'amministrazione [di Hamas] al potere".
  Riferendosi alla corruzione e all'apatia dei leader di Hamas nei confronti della sofferenza del loro popolo, alcuni palestinesi hanno rivelato che i figli dei leader di Hamas si regalano soggiorni nella località balneare egiziana di Sharm a-Sheikh.
  Un palestinese della Striscia di Gaza, che non ha rivelato il suo nome, ha postato un video in cui lancia un feroce attacco ai leader di Hamas, accusandoli di distruggere il futuro dei giovani.

    "Se i nostri dirigenti non si preoccupano di noi, questo è un disastro. (...) La gente sta morendo, sta morendo di fame. La vita delle persone è stata distrutta. I giovani stanno morendo e i pesci se li stanno mangiando. I leader [di Hamas] e i loro figli non sono migliori di me e dei miei figli".
A quanto pare, i due milioni di palestinesi che vivono sotto il governo di Hamas sono giunti alla conclusione che è Hamas, e non Israele, il responsabile della loro miseria.
  A giudicare dalle reazioni avute dai palestinesi all'ultima tragedia che ha coinvolto i migranti, è ovvio che molti palestinesi capiscono ciò che la maggior parte degli attivisti anti-israeliani non riescono a capire: che Hamas dà la priorità alla produzione e al traffico di armi piuttosto che fornire lavoro ai disoccupati e assistere chi vive in povertà.
  Hamas avrebbe potuto trasformare la Striscia di Gaza nella Singapore del Medio Oriente. Invece, ha preferito trasformarla in un centro per il jihad (guerra santa) contro Israele.
  Ghanem Nusseibeh, un musulmano palestinese appartenente alla più antica famiglia araba di Gerusalemme, ha commentato:
  "Negli ultimi 15 anni, Hamas ha fatto andare le cose a Gaza di male in peggio. Gli abitanti di Gaza vivono sotto un brutale regime islamista che li tiene in ostaggio di politiche stagnanti che fanno solo gli interessi di Hamas e dei loro alleati islamici globali. Se la comunità internazionale contribuisse a liberare Gaza da tali forze, aiuterebbe gli abitanti di Gaza a creare una Dubai del Mediterraneo o una nuova Singapore".
  Se i palestinesi nella Striscia di Gaza sono davvero così disperati, sarebbe opportuno che rovesciassero Hamas e ponessero fine al suo pugno di ferro sulla Striscia di Gaza.
  Tuttavia, Hamas continua a schiacciare il dissenso e a intimidire i suoi detrattori. Inoltre, Hamas continua a godere di popolarità tra numerosi palestinesi non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania. La ragione per cui il gruppo è così popolare è che molti palestinesi sostengono il suo appello ad eliminare Israele.
  Sarebbe più utile se i palestinesi in fuga dalla Striscia di Gaza rimanessero a casa e dedicassero le loro energie alla rimozione di Hamas dal potere, anche se tale rimozione dovesse avere un caro prezzo. Questo è l'unico modo per risolvere i problemi di Gaza.
  Accusare Israele di tutto ciò che è sbagliato nella Striscia di Gaza può ingannare molti negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito. Ma i palestinesi in fuga da Gaza e le loro famiglie che rimangono conoscono la verità: è Hamas che li ha portati nell'abisso, compreso il mare in cui stanno annegando.
Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 5 dicembre 2021 - trad. di Angelita La Spada)


Oggi a Gerusalemme summit trilaterale Israele, Grecia e Cipro

NICOSIA - La cooperazione tra Cipro e Israele crea prospettive immense per i due Paesi, per i loro cittadini e per l'intera regione esprimendo una visione di pace, stabilità e sicurezza collettiva. Lo ha affermato il presidente cipriota, Nicos Anastasiades, scrivendo sul libro degli ospiti della presidenza israeliana a Gerusalemme, dove oggi è stato ricevuto dal capo dello Stato Isaac Herzog. L'incontro è avvenuto prima del summit trilaterale di oggi a Gerusalemme tra Cipro, Israele e Grecia, al quale oltre a Anastasiades parteciperanno il premier israeliano Naftali Bennet e quello ellenico Kyriakos Mitsotakis. Secondo quanto osservato da Anastasiades, la cooperazione tra Cipro e Israele, così come quella trilaterale allargata alla Grecia, ha un'importanza geostrategica cruciale per lo sviluppo regionale.

(Agenzia Nova, 7 dicembre 2021)


La doppia crisi dell’Ucraina e dell’atomica iraniana - Una prova molto difficile per Israele

di Ugo Volli

I giornali quasi non ne parlano, concentrandosi piuttosto sulla nuova variante del Covid, sul “super Green Pass” o sulla complicata e ripetitiva partita a scacchi dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ma il fatto più importante è un altro: stanno giungendo al pettine i nodi di due gravi crisi internazionali, i cui esiti non sono affatto chiari ma che potrebbero dar luogo a scontri militari gravi, vere e proprie guerre. Le crisi riguardano teatri abbastanza lontani fra loro e certamente indipendenti, ma sono unificate dal fatto di essere alimentate dall’ambizione di potere di soggetti internazionali aggressivi ma sostanzialmente deboli, in crisi economica e demografica, che potrebbero facilmente essere tenuti sotto controllo da un Occidente deciso e consapevole di sé, ma sono facilitati invece dalla confusione, dall’irresolutezza, dalla debolezza della direzione politica di Stati Uniti e dell’Europa.
  La prima crisi è quella che riguarda l’Ucraina. Le minacce vengono dalla Russia, che ha costruito un imponente apparato militare intorno al paese, cui ha già sottratto qualche anno fa contro ogni legge internazionale la Crimea e a quanto pare ora si appresta a invaderla. Si tratterebbe di una mossa decisiva per la ricostruzione del vecchio impero russo e poi sovietico nel cuore dell’Europa, la quale si troverebbe di nuovo sotto la minaccia diretta delle armate russe. In un certo senso sarebbe la premessa per una specie di ritorno alla situazione precedente al crollo dell’URSS. Contro l’aggressività di Putin si sprecano le parole, ma né l’Europa né l’America ha accennato alla mossa ovvia che bloccherebbe l’avventura russa: portare anche qualche contingente simbolico di truppe occidentali in Ucraina. Putin giustamente l’ha definita “la linea rossa”. E’ probabile che la crisi si aggravi ancora e che alla fine Putin ottenga, in cambio a uno stop all’invasione, proprio l’impegno a non aiutare militarmente l’Ucraina e il riconoscimento di un diritto di supervisione e veto su quel paese analogo a quello che ha per la Bielorussia, di recente sostenuta da lui nelle provocazioni contro Polonia e Lituania. Si spenderebbero allora molti bei discorsi sulla pace e l’amicizia, ma l’impotenza europea e la sua “finlandizzazione” sarebbero certificate nei fatti, così come la fine della garanzia americana sul nostro continente.
  L’altra crisi è quella dell’atomica iraniana. E’ dalla caduta dello Scià, quasi mezzo secolo fa, che l’Iran ha identificato Israele come il nemico locale da distruggere e gli Usa come quello globale. A lungo i presidenti americani avevano cercato con un certo successo di contenere gli ayatollah circondandoli con una catena di alleanze e basi militari. Fu Obama nove anni fa a decidere di cambiare politica, riconoscendo a Teheran un’egemonia regionale a spese dei vecchi alleati, fra cui Israele e Arabia. Il trattato che insieme a Europa, Cina e Russia strinse con l’Iran aveva l’obiettivo di calmare le tensioni in Medio Oriente, trasformando per incanto con una firma su un pezzo di carta il bandito in poliziotto. Se poi qualcuno veniva rapinato dal poliziotto, peggio per lui. Ma ovviamente l’operazione non poteva funzionare. L’Iran continuò nella sua politica di aggressione dei vicini, nell’armamento atomico e nella sua ostilità strategica all’Occidente, come aveva predetto Netanyahu. Fece bene poi Trump ad annullare l’accordo, esercitando con le sanzioni e altri mezzi una politica di “massima pressione” economica nei confronti dell’Iran, che iniziava a piegarlo. La vittoria di Biden ha cambiato di nuovo il quadro. Il nuovo presidente democratico annunciò da subito che sarebbe tornato alla politica di Obama e che avrebbe rimesso in vigore il trattato, illudendosi che l’Iran fosse ben contento di tornarvi e disposto a rispettarlo. I fatti hanno dimostrato platealmente che non è così. Gli ayatollah hanno reso pubblici, da segreti che erano, i loro lavori di armamento nucleare e li hanno ancora intensificati; hanno continuato a sequestrare navi nel Golfo Persico, a esercitare potere imperiale in Siria, Libano, Yemen, ad aggredire chi non si sottometteva e a cercare di creare le premesse per la distruzione di Israele.
  Dopo lunghi rinvii che servivano a preparare il combustibile per la bomba nucleare, ora l’Iran è sul punto di averne accumulato abbastanza ed è tornato ai negoziati (solo indiretti, peraltro) con gli Usa accettando un unico punto di discussione: abolizione delle sanzioni e risarcimenti economici per quelle passate, senza concedere nessuna limitazione del proprio armamento o comportamento imperialistico. Ormai il fallimento delle trattative è chiaro a tutti, anche agli Usa, che hanno dichiarato di essere disponibili a considerare “altri mezzi” per impedire all’Iran di entrare nel club nucleare. Non si capisce bene se Biden sia abbastanza deciso per usare le forza militare e neppure se Israele ne abbia i mezzi. Ma è chiaro che la distruzione militare degli impianti atomici persiani è il solo mezzo per impedire che un Iran fornito di armi nucleari, rafforzato dalla sconfitta Usa in Afghanistan e dall’incapacità dei suoi nemici di fermarlo con la forza, eserciti il suo potere su tutto il Medio Oriente e in particolare possa operare contro Israele, protetto dalla dissuasione atomica (vale a dire: se provate a fermarmi militarmente, io vi bombardo con le armi nucleari).
  È una situazione difficilissima. O Israele, con o senza l’appoggio americano, riesce a colpire gli impianti nucleari iraniani ora, prima che la bomba iraniana sia militarmente disponibile - e questo significa la guerra nei prossimi mesi, con un avversario non ancora nucleare, ma forte e capace coi suoi satelliti di martellare Israele con migliaia di missili al giorno. O non ci riesce, e la guerra arriverà quando l’Iran deciderà di essere pronto e difeso dalla dissuasione nucleare.
  Le due crisi si intrecciano per la debolezza dell’Occidente e anche per il fatto che la Russia è alleata (fino a un certo punto) dell’Iran in Medio Oriente, ma anche che i confini dell’Iran verso il Caucaso non sono lontani dal Mar Nero su cui si affaccia l’Ucraina. In mezzo si trova la Turchia, che a sua volta ha un rapporto ambiguo con la Russia, l’Iran, Israele. La partita è aperta ed è assai complessa. C’è solo da sperare che Israele sappia giocarla bene, perché l’appoggio dell’Europa non c’è o non conta e quello degli Usa non è affatto assicurato.

(Shalom, 7 dicembre 2021)


Variante Omicron, in Israele picco di contagi da ottobre

Nelle ultime 24 ore si sono registrati 719 casi, con un tasso di infezione pari allo 0,68%

Risalgono i casi di coronavirus in Israele, dove si sta diffondendo la variante Omicron. Secondo le autorità sanitarie locali, nelle ultime 24 ore si è registrato un picco di contagi da ottobre, 719. Il tasso di infezione, su 490.586 test condotti, è ora pari allo 0,68%.
  Il ministero della Salute ha spiegato che sono 106 i pazienti Covid ricoverati in gravi condizioni negli ospedali israeliani, 61 sono sottoposti a ventilazione. Il sito di Ynet ricorda che dallo scoppio della pandemia sono 8.209 le persone morte in Israele per complicanze riconducibili al coronavirus.

(Adnkronos, 7 dicembre 2021)


Boom editoriali

di Daniele Raineri

ROMA - Un antico settimanale ebraico pubblicato a Londra, il Jewish Chronicle (Jc), rivela informazioni incredibili sulla campagna segreta dell'intelligence israeliana contro il programma atomico dell'Iran. Così incredibili che in pochi le prendono per buone, salvo che otto mesi dopo le migliori penne del New York Times scrivono le stesse cose dopo un'inchiesta molto lunga e dopo avere ascoltato fonti di intelligence americane e israeliane. E questo fa nascere un sospetto: forse il periodico con una diffusione infinitamente più piccola del New York Times ha fonti migliori? Il Jc è il più antico giornale ebraico, pubblicato senza interruzioni dal 1841 per divulgare le idee del sionismo, si occupa un po' di tutto e il 10 febbraio di quest'anno ha rivelato che il Mossad per uccidere lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh nel novembre 2020 aveva usato una mitragliatrice montata su un braccio robot nascosto a bordo di un furgoncino e manovrato da mille chilometri di distanza. Lo aveva fatto con questa formula vaga: "Il Jc può rivelare che". La notizia del killer-robot era circolata subito dopo l'uccisione dello scienziato, ma arrivava assieme a molte altre versioni da fonti delle Guardie della rivoluzione iraniana e sembrava un'invenzione fantasiosa per coprire il fallimento dei servizi di sicurezza.
  Anche l'articolo dettagliato sul Jewish Chronicle era scivolato via nell'indifferenza generale. Tuttavia il 18 settembre Ronen Bergman e Farnaz Fassihi, due giornalisti molto esperti che scrivono per il New York Times, hanno pubblicato dopo un'inchiesta che era durata mesi e dopo avere ascoltato fonti dei servizi americani e israeliani uno scoop sulla mitragliatrice e il braccio robot che aveva fatto trasecolare i lettori - ma non era che una versione migliorata delle cose che aveva scritto il Jewish Chronicle otto mesi prima. Certi particolari erano uguali, come il peso del marchingegno contrabbandato pezzo per pezzo in Iran da una squadra al servizio dell'intelligence israeliana: una tonnellata. Certi appena differenti: tredici proiettili scrive il JC, quindici il Nyt, ma la scena è la stessa. Certe altre cose, infine, le ha soltanto il Nyt: il modello della mitragliatrice, il fatto che il sicario che la manovrava fosse aiutato da un programma di intelligenza artificiale che correggeva il ritardo di un secondo e mezzo tra quello che lui vedeva sullo schermo in Israele e la realtà in Iran. Perché parlare del fatto che il Jewish Chronicle ci aveva azzeccato in quell'occasione? Perché giovedì due dicembre ha pubblicato un'altra esclusiva incredibile sulle esplosioni nei siti atomici dell'Iran. "Il Jc può rivelare che" l'intelligence israeliana ha assoldato "fino a dieci scienziati iraniani", che ad aprile hanno piazzato le bombe nel bunker sotterraneo di Natanz dove si trovano le centrifughe. Gli scienziati hanno ricevuto l'esplosivo celato nei rifornimenti del catering o lasciato cadere da droni che hanno sorvolato la base. Dopo l'operazione sono stati portati in salvo fuori dall'Iran. Un altro attacco contro la fabbrica di Karaj, che produce le centrifughe, è stato compiuto da un drone quadricottero "pesante come una motocicletta" che dopo essere stato assemblato pezzo per pezzo in Iran ha sorvolato la fabbrica e l'ha colpita con missili. Uno leggerebbe con scetticismo, ma se poi il New York Times conferma tutto fra otto mesi?

Il Foglio, 7 dicembre 2021)


Israele - Bloccato il piano per novemila nuove case

Israele ha rinviato il piano per la costruzione di 9mila unità abitative sul terreno dell'aeroporto Atarot a Gerusalemme est. La decisione è stata presa dal comitato di pianificazione. Ha affermato che prima di procedere bisognerà valutare l'impatto ambientale del progetto. Il piano - che prevedeva nuovi insediamenti per la popolazione ebrea ortodossa - era stato criticato dalla comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti. Intanto il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha ordinato di alzare il livello di allerta ai posti di blocco in Cisgiordania, dopo che un ragazzo palestinese di 16 anni si è lanciato con un'auto contro il checkpoint di Jabara, in Cisgiordania, prima di essere ucciso dalle forze di sicurezza.

(Domani, 7 dicembre 2021)


Furto sacrilego nella sinagoga del quartiere ebraico di Milano

MILANO - Rubati computer e medaglie preziose, i ladri hanno profanato i rotoli sui quali viene trascritta la Bibbia. Furto in una sinagoga di via Sederini, nel quartiere ebraico a Sud-Ovest del centro di Milano: due computer, 150 euro in contanti e alcune medaglie di valore sono il bottino dell'irruzione, che è stata scoperta ieri mattina poco prima delle 7.
  All'apertura, chi si occupa della sala di preghiera ha trovato immediatamente i segni del raid, e ha chiamato la polizia. I ladri hanno forzato una porta e sono riusciti ad accedere a una stanza, poi hanno fatto razzìa di quanto hanno trovato in denaro e attrezzature tecnologiche, mettendo le mani anche su alcuni oggetti particolarmente preziosi, le medaglie. Nella ricerca del bottino i malviventi avrebbero anche profanato i Sefer Torah, i rotoli sui quali viene trascritta la Bibbia ebraica poiché la parola di Dio non può essere toccata a mani nude: sono stati trovati srotolati e gettati a terra. Nella via Soderini, cuore del quartiere tra Bande Nere e Lorenteggio in cui hanno sede alcune delle istituzioni più importanti della Comunità ebraica di Milano come le scuole e la Rsa, oltre a negozi e ristoranti con specialità kosher, ci sono anche alcune sinagoghe, e la più famosa è la «Beit Chabad» o «Casa Chabad», punto di riferimento in particolare per gli ebrei ortodossi che si riconoscono nel movimento.

(Il Giorno, Milano, 7 dicembre 2021)


Tel Aviv senza spendere un capitale: da nord a sud e da est ad ovest

di Fiammetta Martegani

Nel 2021 l’Economist ha dichiarato Tel Aviv città più cara al mondo. Tutto vero, soprattutto a causa dell’impennata del real estate il cui valore per metro quadro negli ultimi dieci anni è raddoppiato, a differenza dei salari che sono rimasti praticamente gli stessi.  
  Eppure, abbandonarla è impossibile. Forse per il clima, la sua posizione geografica - arroccata sul mare - e le sue dimensioni su misura d’uomo che, nonostante il carovita, attirano non solo gli israeliani ma anche i turisti. A dire il vero, per esplorare la città, non serve un patrimonio: basta soltanto sapere dove andare.  
  Volendo partire dalle sue origini bisogna cominciare da sud, a Jaffa, uno dei porti più antichi del mondo - risale all’epoca di Ramses II - le cui rovine archeologiche sono visitabili nella città vecchia. Da qui, passando per il chiassoso Shuk ha Pishpishim – il Mercato delle Pulci – dove tra un robivecchi e l’altro ogni giorno apre anche un nuovo bar, si attraversa l’American Colony, antica roccaforte dei pellegrini arrivati da oltreoceano, per poi percorrere Park Hamesila, un’area pedonale, immersa nel verde, ricavata lungo la linea della ferrovia di epoca ottomana. È l’arteria principale di Neve Tzedek, il quartiere più antico della città, edificato nel 1887 dai primi pionieri sionisti, prima ancora che venisse fondata, nel 1909, l’odierna Tel Aviv.
  A differenza della Città Bianca, Neve Tzedek, vista dall’alto – dalla città vecchia di Jaffo - si distingue come “città rossa”, per il colore dei suoi tetti, che vanno scomparendo man mano che ci si dirige a nord, verso il centro, cuore dell’architettura in stile Eclettico e Bauhaus, a cui Tel Aviv deve il nome di White City e il riconoscimento - nel 2003, da parte dell’UNESCO - di patrimonio dell’umanità, grazie agli oltre 4.500 edifici in questo stile. Splendidi esempi di queste due architetture si trovano passeggiando lungo il viale alberato di Rothschild, polmone verde della città. Percorrendo tutto il Boulevard fino a nord si arriva al Teatro Habima e alla piazza della musica disegnata da Dani Karavan, fino a raggiungere Dizengoff Square, altro capolavoro Bauhaus, per poi deviare verso sud-est e approdare a Bialik Square.  
  Qui si trovano due piccoli musei – ad ingresso gratuito – che sono anche due gioielli: la Bauhaus Foundation e Casa Bialik, splendidamente conservata, ottimo esempio di stile eclettico e contenitore di interessanti mostre di arte contemporanea.  
  A questo punto potrebbe venire anche fame, e persino con un budget limitato, si possono gustare ottimi piatti, in uno dei tanti mercati. Basta farsi trascinare dagli odori e, procedendo da ovest verso est, ripercorrere alcuni dei luoghi della diaspora mediorientale del popolo ebraico. Se Neve Tzedek, e la città cresciuta a nord, sono state fondate dai pionieri dell’Europa dei Pogrom, i quartieri sorti attorno ai mercati sono quelli delle diaspore scappate dai Paesi limitrofi.    
  A Shuk ha Carmel buttatevi su un piatto tradizionale yemenita, come sono le origini del quartiere, fondato assieme alla città. Procedendo verso est, seguendo Nahalat Benjamin – dove il martedì e il giovedì viene anche allestita una coloratissima fiera dell’artigianato – si raggiunge Shuk Levinsky, il mercato delle spezie, ricco di ristornanti turchi e persiani, che approdarono in questa zona di Tel Aviv una volta fondato lo Stato. Qui si incrocia anche il quartiere di Florentin, regno hipster e divertente meta notturna.  
  Da sud a nord e da est a ovest, camminare per Tel Aviv è quindi anche un modo affascinante per attraversare la storia del Paese, a partire dalla casa-museo del primo sindaco, Meir Dizengoff, dove nel 1948 David Ben Gurion dichiarò l’Indipendenza dello Stato d’Israele, per poi finire, sul calar della sera, con una birra in spiaggia.  
  Il sole tramonta ad ovest, a picco sul mare. È uno spettacolo mozzafiato e non serve pagare alcun biglietto. Il miracolo si ripete ogni giorno, come quello di questa città, che non dorme mai.

(Shalom, 6 dicembre 2021)


Palestinesi protestano contro l'Autorità Palestinese

Negli ultimi giorni i residenti dei tre campi palestinesi di Betlemme (Dheisheh, Aida e Jibrin, noto anche come al-Azza) hanno lanciato proteste quotidiane contro l’Autorità Palestinese bloccando strade e incendiando pneumatici, per chiedere il rilascio di diversi giovani arrestati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese. Le proteste coincidono con i preparativi per le celebrazioni natalizie a Betlemme e nelle vicine città di Bet Jala e Bet Sahour, suscitando forti preoccupazioni fra i palestinesi cristiani dell’area. “Quello che sta accadendo è una piccola intifada contro l’Autorità palestinese – ha detto un giornalista palestinese di Betlemme citato domenica da Khaled Abu Toameh sul Jerusalem Post – I residenti dei campi sono infuriati con le forze di sicurezza palestinesi che reprimono i sostenitori di Hamas e Fplp”. Dal canto suo, un alto funzionario della fazione al potere Fatah, che fa campo ad Abu Mazen, accusa Hamas e Fplp di fomentare le proteste nei campi di Betlemme ed anche nelle aree di Nablus e Jenin.

(israele.net, 6 dicembre 2021)


Salvezza, pentimenti, fede, profeti. Ormai i vaccini sono una religione

La fisica ha prevalso sulla metafisica, guai a cedere alla tentazione di dubitare. La Caritas di Asti è arrivata a illustrare le punture di siero con frasi del Vangelo, E la terza dose è il compimento della trinità redentrice.

dì Francesco Borgonovo

Un massacro contro la verità
su questo si basa
la nuova religione
La domanda fondamentale, buona per ogni occasione importante, è: «Lei crede al vaccino?», Va posta con il tono adeguato, con il ritmo del sacerdote che chiede al fedele: «Rinunci a Satana?». A quel punto l'interrogato si affretta a rispondere: «Credo, cre·do al vaccino». Segue opportuna e ulteriore professione di fede: «Credo La Scienza una, santa, indiscutibile, infallibile». Guai a tentennare, guai a dubitare: si scade ìmmantinente nell'eresia, si viene tosto bollati come pericolosi adoratori di Satavax, infera divinità dei renitenti alla puntura. Al netto dell'ironia, qualcosa di diabolico qui si sta davvero manifestando. Assistiamo a una perversione dell'atteggiamento religioso, a un ribaltamento di piani in cui fisica e metafisica si sovrappongono, si ingarbugliano e si mescolano in una confusione fatale, che ondeggia fra il grottesco e l'inquietante.
  Ad Asti, per dire, la Caritas ha organizzato una raccolta fondi a sostegno della campagna vaccinale in Sud Sudan. Sul manifesto promozionale troneggia la citazione evangelica che dovrebbe accompagnare il cammino dell'Avvento: «I miei occhi hanno visto la salvezza» (Lc 2,30). Subito sotto, la gigantesca immagine di una sìrìnga. È solo una suggestione, ovviamente, ma sembra proprio che la luce del Cristo sia soppiantata da quella del Siero. Del resto ormai da tempo, sulla soglia delle chiese, non si trova più l'acqua benedetta ma il provvidenziale dispensatore di gel disinfettante: chi si lava mi segua.
  Allo scivolamento virologico dell'istituzione ecclesiastica si è dunque, e forse inevitabilmente, accompagnata l'ascesa di una nuova potenza religiosa: la Cattedrale Sanitaria. Essa è la depositaria unica della Verità, il luogo da cui promana il culto de La Scienza, vera e dannosissima malattia senile dell'ateismo. La Cattedrale ha i suoi santoni in camice bianco. Come i pastori catodici statunitensi, essi amano esibirsi in video e spesso i loro sermoni sono fiammeggianti: bisogna pur instillare il sacro terrore nel cuore degli uomini affinché scelgano la retta via e abbraccino La Scienza. Essi prevedono, vaticinano. Essi posseggono la conoscenza e possono discutere di ciò che desiderano, e che gli altri tacciano, si limitino ad ascoltare. I santoni decidono non sulla base di dati, ma su impulso dell'illuminazione. Se l'eclissi ha indicato che bisogna inoculare i minori, che si provveda senza indugi. E se qualche cattivo maestro si oppone, sia levato di mezzo: zittito, insultato, eliminato dallo schermo. Chi non si adegua alle direttive, invece, va semplicemente espulso dalla società.
  Si ripropone in versione aggiornata il meccanismo della dhimmitudine che anticamente si applicava a cristiani ed ebrei sottomessi dai musulmani (ad esempio in Andalusia). Gli infedeli erano tollerati, sì, ma erano a tutti gli effetti degli inferiori. Erano sottoposti a restrizioni, umiliazioni, punizioni severe. Non potevano accedere ad alcuni luoghi riservati soltanto ai seguaci della vera fede: proprio come accade ora. Dunque inchinatevi: il Vaccino è grande e al-Pregliasco è il suo profeta.
  Levato di mezzo Dio, in fondo, non resta che la Salute. Intesa però in senso antico, come «attributo che si possiede» e che può essere strappato dall'ira funesta di una divinità, allo stesso modo in cui la collera di Apollo scatenò la pestilenza sugli achei, privandoli della salute.
  La Cattedrale Sanitaria fornisce al volgo regole e istruzioni utili a non indispettire La Scienza, e a fronteggiare il Covid. Quest'ultimo morbo, a ben vedere, assomiglia - più che alla peste medievale a cui è stato spesso paragonato - alla sifilide rinascimentale, il temuto «mal francese». Come ha scritto lo storico Giorgio Cosmacini, la sifilide «era simbolo e modello della malattia peccaminosa e vergognosa», un flagello dipendente dalle caratteristiche morali dell'individuo. Così è oggi il Covid. L'utilizzo che ne viene fatto, non per nulla, è perfettamente descritto dalle parole del Muralto risalenti al 1495: «Il male serviva ottimamente per discriminare i buoni dai cattivi».
  Se rispetti i comandamenti della Cattedrale, se obbedisci, rientri nel novero dei salvati, altrimenti sei condannato a sprofondare. Sin dall'inizio della pandemia, infatti, il contagio è stato presentato come colpa. Dipende dai singoli cittadini, dal loro comportamento, se il flagello verrà debellato oppure no, se si potranno fare le vacanze di Natale o di Pasqua o riaprire le discoteche. Sarà il percorso salvifico stabilito dalla Cattedrale - e non, eventualmente, una cura studiata in laboratorio - a garantire protezione.
  Prima di tutto, è chiaro, ci sono le dosi, ormai distribuite come sacramenti. Con la prima si inizia la purificazione e si può entrare a buon diritto nella comunità di fedeli contraddistinta dal possesso della carta verde. Con le successive si salgono i gradini della beatitudine.
  Il vaccino è appunto la manifestazione concreta della salvezza, l'unica e la sola, degnamente portata in processione come il Santissimo al momento dell'arrivo in Italia. Non è un farmaco né un prodotto della ricerca potenzialmente utile a combattere una patologia. No: è diventato oggetto di devozione, la terza puntura completa la Trinità. Chi lo rifiuta è abietto, ha il marchio del demonio, è sommo peccatore e, dunque, anche untore. Per questo va isolato.
  Come le streghe davanti all'inquisitore, tuttavia, il reprobo può confessare, rendere noto di aver danzato con Satavax nelle notti di plenilunio. Forse, compiuto l'autodafé, potrà essere perdonato e, magari, salvato. Le conversioni mostrate in diretta tv sono particolarmente suggestive: il peccatore - colpito dal male in virtù delle sue immonde credenze - attraversa la sofferenza purificatrice. Piange e chiede scusa in favore di telecamera. Con soddisfazione l'intervistatore lo incalza: confessa, quante volte? Ecco l'untore, il no vax, finalmente scoperto, che ammette le sue colpe. Era lui a impestare le vie, a rendere torbide le acque. Ciarlatani e stregoni lo avevano ingannato, ma ora il purgatorio della terapia intensiva lo sta riconducendo sul sentiero della vera fede. Egli rinunzia a Satavax e proclama la necessità dell'inoculazione.
  Non sempre però basta rispettare i comandamenti. Quando la situazione si fa particolarmente grigia, quando il contagio risale e dalla Cattedrale promana l'ennesima scarica di paura, ecco che tocca ricorrere a feticci e amuleti. Ci si aggrappa alle mascherine all'aperto come un viandante si aggrapperebbe al crocifisso trovandosi di notte in un bosco della Transilvania. Il pensiero magico, dorso oscuro de La Scienza, dispiega la sua potenza. Chi ne contesta i dogmi, tuttavia, è accusato di essere irrazionale e credulone, come ha opportunamente dimostrato il Censis.
  Dunque comportatevi bene, prostratevi, e non cadete in tentazione. Copritevi il volto e cospargetevi il capo di cenere. E, soprattutto, evitate il contatto umano, ché a toccarsi si diventa ciechi.

(La Verità, 6 dicembre 2021)


A che punto siamo


Israele, possibile la quarta dose del vaccino per gli immunodepressi

Gli esperti della sanità valuteranno l'ipotesi

Israele sta prendendo in considerazione la somministrazione di una quarta dose del vaccino anti-Covid alle persone immunodepresse. Lo riferisce "Canale 12" secondo cui esperti della sanità discuteranno, in presenza della variante Omicron, l'eventualità di un'ulteriore dose alle fasce di popolazione a rischio maggiore.
  La terza dose in Israele, il booster, è stata somministrata a luglio scorso subito ai pazienti con sistema immunitario compromesso, inclusi quelli sotto trattamento anti tumore.
  Non è “irragionevole” che possa occorrere “un quarto vaccino”, ha detto il ministro della Sanità israeliano, Nitzan Horowitz, in diverse interviste, spiegando di non escludere questa ipotesi.

(RaiNews, 6 dicembre 2021)


Siamo arrivati a quattro. Meno il vaccino funziona, più dicono che bisogna vaccinarsi. "Non è irragionevole", dice il ministro. Chissà se un giorno arriverà a dire "è folle". M.C.


Antica moneta asmonea rinvenuta in casa di un arabo di Gerusalemme

di David Di Segni

Il penultimo giorno di Hanukkah, gli investigatori della polizia hanno rinvenuto una serie di preziosi oggetti archeologici nella casa di un arabo di Gerusalemme est durante una perquisizione. Tra questi, anche una moneta di epoca asmonea contrassegnata dall'immagine di una menorah ed un sigillo con caratteri ebraici antichi. Il sospettato è stato trattenuto per essere interrogato e le monete sono state trasferite al dipartimento di polizia di Gerusalemme, prima di essere esaminate dall'Autorità per le Antichità. La scoperta dei manufatti è avvenuta proprio poco prima dell'ultima notte di Hanukkah, la festa che ricorda anche la vittoria degli Asmonei sull'impero seleucide.

(Shalom, 6 dicembre 2021)


Iran: praticamente falliti i colloqui di Vienna rimane l’opzione militare GERUSALEMME – Sembrano già falliti i colloqui di Vienna che avrebbero dovuto portare ad una riedizione del JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano.
  L’Iran non ha fatto concessioni, anzi ha rilanciato ponendo condizione forte del fatto che ormai si trova praticamente ad un passo dalla meta, cioè la bomba atomica.
  Non è un caso quindi che il capo del Mossad, David Barnea, già da sabato si trova a Washington dove sta mostrando alla sua controparte americana le ultime scoperte fatte dal Mossad sul programma nucleare iraniano e come questo programma sia ormai sulla soglia del punto di non ritorno.
  E mercoledì prossimo sarà il turno del ministro della Difesa Benny Gantz che sarà a Washington per incontrare il Segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, e poi il Segretario di Stato Antony Blinken.
  Ormai non ci crede più nessuno che si possa riattivare un qualche compromesso con Teheran per cui Israele si sta preparando al peggio, cioè ad uno scontro armato con l’Iran.
  Non per niente il governo israeliano ha approvato altri cinque miliardi di shekel a favore dell’IDF e destinati ai sistemi d’arma e ai proiettili per Iron Dome nella chiara consapevolezza che ormai per fermare l’Iran (ammesso che non sia troppo tardi) resta solo l’opzione militare.
  Ieri Benny Gantz nel commentare il nuovo stanziamento a favore della difesa ha detto che Israele si deve preparare a qualsiasi scenario difensivo, consapevole che attaccare l’Iran vorrebbe dire attivare una reazione da parte di Hezbollah dal Libano, della Jihad Islamica palestinese da Gaza e quasi sicuramente anche da Hamas (sempre da Gaza).
  Ieri osservatori esterni facevano notare che in Israele sembra tutto normale, tutto tranquillo. Ma non è così e gli israeliani sanno che l’Iran è per loro una minaccia esistenziale. Sanno quindi di doversi preparare anche agli scenari peggiori.

(Rights Reporter, 5 dicembre 2021)


Eitan è tornato a casa. Lo zio: «Ora sta bene»

Il piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone è rientrato a Travacò Siccomario dopo l' odissea legale in Israele. E' tranquillo e presto dovrebbe rientrare nella scuola delle Canossiane.

di Simona Rapparelli

Il piccolo Eitan è tornato a Pavia e diversi pavesi, con il senso di rispetto che li contraddistingue da sempre, chiedono con semplicità che si crei se non il silenzio assoluto almeno un pochino di normalità attorno alla vicenda di un bimbo di appena 6 anni che di situazioni drammatiche ne ha dovute vivere fin troppe. Intanto, dopo l'arrivo da Tel Aviv all'aeroporto di Orio al Serio in provincia di Bergamo, Eitan ha raggiunto nella tarda serata di venerdì l'abitazione degli zii paterni Aya (tutrice del piccolo) e Or Nirko a Travacò Siccomario, il paese della cintura pavese dove ha sempre vissuto e dove, con i genitori, aveva trascorso un'esistenza serena fino alla tragica giornata del Mottarone; Eitan è stato accompagnato in casa in braccio dal vice ispettore della polizia Andrea Lenoci che ha detto che il piccolo «era felice» di tornare a casa. Lenoci con altri agenti ha accompagnato il bambino e la zia Aya, a bordo di un suv bianco, dall'aeroporto di Orio al Serio fino a casa.
  Una volta arrivati nel cortile della villetta, il poliziotto ha preso in braccio il bambino e lo ha portato all'interno. Su un altro suv scuro viaggiavano lo zio Or Nirko e le cuginette. Durante tutto il viaggio il bambino è stato «tranquillo e si è addormentato quasi subito, perché era molto stanco», ha aggiunto il poliziotto. Ed è toccato allo zio, nel tardo pomeriggio di ieri, comunicare che il bambino «sta bene» prendendo contatto per pochi istanti con i numerosi giornalisti che attendevano una dichiarazione fuori dalla villetta di Travacò. Ora tutti i componenti del nucleo familiare (Eitan ha accanto a sé anche le due cuginette con cui ha sempre condiviso momenti di gioco e divertimento e ha ritrovato a fargli festa anche il gatto Oliver, compagno di giochi di tante giornate) dovranno trascorrere un periodo di quarantena dopo il rientro. Nell'immediato futuro di Eitan, quindi, ci si augura che ritorni un po' di stabilità: data l'età, il bambino dovrà cominciare a frequentare la scuola primaria presso l'Istituto delle suore Canossiane di Pavia che lo aveva accolto già per la materna. «Siamo felici che il bambino sia tornato a casa, la sua vita è qui», ha detto Domizia Clensi, sindaco del comune dove risiede la famiglia. «Finalmente Eitan potrà ritrovare anche i suoi piccoli amici. Siamo vicini agli zii e ai nonni paterni, che hanno avuto giustizia e hanno potuto finalmente riportare a casa Eitan: ma non faremo una festa pubblica per lui: dobbiamo rispettare la volontà della famiglia di vivere in massima riservatezza e tranquillità un momento così delicato».
  E che si spengano i riflettori su una vicenda tanto intricata lo hanno chiesto anche i legali della famiglia Biran Nirko, che hanno dichiarato che il bimbo ora vivrà «stabilmente» a Pavia dopo il pronunciamento del tribunale israeliano contro il nonno materno, Shmuel Peleg, che aveva rapito Eitan e lo aveva portato in Israele lo scorso settembre. Prima della partenza da Tel Aviv, il bambino ha potuto salutare il nonno materno e poi la sua ex moglie, la nonna Esther Cohen: con loro potrà avere solo contatti telefonici.

(Avvenire, 5 dicembre 2021)


«Siamo nati in questa comunità e qui vogliamo crescere i nostri figli»

di Ilaria Myr

Hanno fra i 18 e i 35 anni. Alcuni hanno studiato alla scuola ebraica, altri nelle scuole pubbliche. Alcuni hanno frequentato l’Hashomer Hatzair o il Benè Akiva, altri nessun movimento giovanile. Alcuni sono religiosi, altri più tradizionalisti, altri ancora del tutto secolarizzati. Molti sono cresciuti con il “mito” del centro sociale ebraico Maurizio Levi, decantato dai loro genitori come luogo di aggregazione di tutti gli ebrei di Milano, ma in prima persona non ne hanno mai visto uno. Tutti, però, concordano su una cosa: scarseggiano le attività organizzate dalla Comunità ebraica di Milano per la fascia 18-35 anni, quell’età-limbo fra l’adolescenza e la vita adulta, in cui si comincia a dare una direzione concreta al proprio futuro, studiando o lavorando, pensando magari anche a mettere su famiglia.
  Una volta finito il liceo e ormai fuori dai movimenti giovanili, i ragazzi ebrei a Milano si trovano così senza alcun polo aggregativo e attività – a parte quelle organizzate da diversi gruppi autonomi interni – dove potere conoscere anche altri coetanei, stringere belle amicizie e, magari, chissà, trovare anche l’anima gemella. Perché, sebbene la comunità non sia molto grande e fra di noi ci si dica che “ci conosciamo tutti”, in realtà non è poi così vero: chi ha studiato alla scuola ebraica vorrebbe conoscere “facce nuove”, mentre chi ha frequentato scuole esterne, ha contatti con ragazzi ebrei solo se ha alle spalle anche un’esperienza in un movimento giovanile, dove ha creato amicizie che spesso durano anche dopo, durante gli anni dell’università e nell’età più adulta. Chi poi ha avuto pochi legami con la comunità durante l’adolescenza, ha maggiori difficoltà a mettersi in contatto con altri ragazzi. Per non parlare poi degli ebrei di altre comunità o stranieri, israeliani in primis, che vengono a studiare a Milano, città sempre più attrattiva e internazionale: riuscire a intercettarli e coinvolgerli nella vita comunitaria sarebbe un arricchimento per tutti. (Vedi anche l’articolo All’ombra del Duomo: come vive uno studente israeliano a Milano, Bet Magazine luglio 2021, ndr).
  Eccoci dunque nel merito di uno dei temi più attuali e urgenti della nostra comunità, che anche nell’ultima campagna elettorale è stato al centro delle proposte delle liste candidate, e che è uno dei grandi obiettivi della lista Beyahad e del neoeletto assessore ai giovani Ilan Boni (vedi intervista nelle pagine successive). Ma cosa vogliono davvero i giovani? Quanto davvero hanno voglia di conoscersi fra loro, andando al di là delle diversità di pensiero? O quanto, invece, riflettono fra loro la polarizzazione e la frammentazione che purtroppo caratterizzano questa comunità? Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro.

• Al di là delle divisioni interne
  «Fra noi giovani non c’è la “guerriglia” che c’è invece fra gli adulti in comunità. Sicuramente c’è molto più rispetto reciproco. Ho degli ottimi ricordi dei miei anni passati a scuola ebraica con i miei compagni, e con alcuni di loro mantengo ancora belle amicizie, anche se abbiamo opinioni e percorsi diversi. Quindi no, tra noi non si riverberano le divisioni interne, e anzi, ci piacerebbe superarle. Ma se fra gli adulti c’è un clima così divisivo e di scarso dialogo, certo questo non giova anche a noi, perché alla fine si creano pregiudizi reciproci». Daniele Panzieri, classe ’96, ha studiato per tutti gli ordini di studio alla Scuola ebraica, frequentando anche l’Hashomer Hatzair.
  I suoi amici sono i suoi “chaverim” del movimento, ma è ancora molto legato ad altri compagni del Bené Akiva, e sarebbe interessato a partecipare, se ci fossero, a delle attività indirizzate a tutti i giovani della comunità.
  La pensa così anche Marta Borsetti, anche lei 25enne, che usa parole ancora più dure, spingendosi anche più in là. «Purtroppo lo spettacolo a cui ci hanno abituato i politici negli ultimi anni è stato molto sconfortante: proprio chi dovrebbe indirizzarci alla convivenza e al rispetto reciproco dà invece un pessimo esempio, generando fra i giovani anche disinteresse nei confronti della vita comunitaria. Lo dimostrano anche le ultime elezioni: molti della mia cerchia non hanno votato, perché scoraggiati. “Tanto a cosa serve”, si sono detti. E questo è un vero peccato, anche perché in questa comunità noi ci viviamo e in un futuro vorremmo anche farci crescere i nostri figli».

• Un centro sociale in stile Maurizio Levi?
  Appurato, dunque, che la volontà di conoscere e frequentarsi fra giovani ebrei è forte e va al di là di qualsiasi differenza, è importante capire quale sia la formula giusta per rispondere alle loro esigenze. Una possibile è sicuramente quella di un luogo d’incontro fisico, una sorta di centro sociale nello stile di quello che fu il Maurizio Levi, in cui tutti i giovani ebrei di Milano potevano recarsi per attività culturali, giocare a carte, fare sport, ballare, giocare a calcetto, mangiare un falafel, guardare film, festeggiare un compleanno o un bar-mitzvà, studiare o semplicemente passare del tempo insieme. «Mi piacerebbe molto che ci fosse un luogo fisico dove incontrarsi – spiega Julian Etessami, classe ’99, studente di medicina al quarto anno, ex B.A. -. Si dovrebbe però cercare di coinvolgere più gente possibile a frequentarlo, senza che diventi solo punto di riferimento per gruppi ristretti. Ci vorrebbe qualcuno che faccia in modo di garantire l’eterogeneità nella frequentazione, con attività diverse che siano attrattive per tutti. Iniziative digitali? No, meglio quelle reali».
  La pensa così anche la sua coetanea Micol Sioni, che però, per la propria fascia di età, è molto disillusa. «Quello che manca per i giovani è un centro sociale, qualcosa che li riunisca tutti, come succedeva ai tempi dei miei genitori. Ma penso che dalla mia età ci sia poco da fare: molti sono andati all’estero a studiare, e quelli che ci sono difficilmente parteciperebbero alle attività…».
  Dagli anni gloriosi del Maurizio Levi, però, di acqua ne è passata sotto i ponti: la comunità è cambiata e la vita di tutti è profondamente diversa. E, ça va sans dire, i giovani in primis sono profondamente differenti dai loro coetanei di 40 anni fa: molto meno politicizzati e contrapposti fra loro, sempre connessi grazie alle tecnologie e aperti al mondo.
  Per questo c’è chi vorrebbe, accanto a un luogo fisico, anche eventi organizzati in diversi luoghi della città. «Sarebbe un’occasione per conoscere anche altri locali, per fare feste o aperitivi – commenta Sara Galante, classe 2000 – con altri ragazzi ebrei della Comunità e anche stranieri che vivono a Milano».
  Ma c’è anche chi considera che l’opzione “centro sociale” non sia adatta ai reali bisogni dei giovani e che non sarebbe un investimento utile da parte della Comunità. «Abbiamo ritmi di vita troppo serrati fra studio e lavoro, e ormai, essendo in molti usciti dalla casa dei genitori, siamo molto più di prima sparsi nelle diverse zone della città – spiega Marta Borsetti –. Penso quindi che sarebbe più utile e stimolante organizzare di volta in volta attività in altri luoghi, anziché sempre nello stesso, così conosceremmo anche posti diversi».

• Il ruolo centrale della CEM
  Indipendentemente dalla formula – centro sociale o eventi in città – un fatto è certo: devono essere organizzate delle iniziative che possano aggregare le diverse anime giovanili ebraiche, al di là delle differenze, e che siano vicine al loro mondo.
  Ben vengano dunque tornei sportivi, eventi di cucina, gite fuori porta, trekking, e anche appuntamenti culturali, certo, in cui però si favorisca lo scambio reciproco. A organizzarli dovrebbe essere qualcuno, delegato dalla Comunità, che sia trainante, che conosca bene le esigenze di questa variegata fascia di età e che prenda spunto dalle loro idee, magari coinvolgendoli direttamente anche nella creazione.
  Ma non solo. «La comunità ebraica dovrebbe fare percepire ai giovani l’importanza e i benefici di vivere in comunità, anche fornendo supporto nella costruzione del loro futuro, che molti vedono incerto, e questo oggi non avviene – spiega Davide Fiano (classe ’97) -. Ad esempio, fornendo strumenti per lavorare su queste incertezze, con incontri con professionisti o corsi di tecnologia. Solo così la Comunità si affermerebbe come polo che fornisce reali opportunità in cui un giovane può crescere».
    (Bet Magazine Mosaico, 5 dicembre 2021)


Chanukkà alle scuole elementari e medie

di Giorgia Calò

Grandi festeggiamenti per Chanukkà anche alle scuole ebraiche: dopo aver acceso le Chanukkiot nelle rispettive classi, gli studenti della scuola media Angelo Sacerdoti si sono dedicati ad una serie di attività ricreative e interattive, tutte inerenti al tema della festa. Ma Chanukkà è soprattutto la festa dei bambini, e sono stati proprio i piccoli della scuola elementare Vittorio Polacco a riempire il Tempio Maggiore con i loro canti e la loro gioia. Un momento di festa per alunni e insegnanti.

(Shalom, 5 dicembre 2021)


Vaccini e richiami - Estremismo no vax

Domani sarà il primo giorno di super green pass e sui quotidiani si discute come saranno applicate le nuove misure. Si parla inoltre di terza dose, con l’immunologo Sergio Abrignani, membro del Cts, che, intervistato dal Corriere, parla d’Israele dove “si è visto che il richiamo ripristina la risposta dell’organismo e corregge il declino della memoria. È stata una buona notizia perché significa che la variante Delta non sfugge alla vaccinazione”. Il Messaggero ricorda che tra due settimane si partirà anche in Italia con l’immunizzazione tra i 5 e gli 11 anni, già “cominciata da tempo negli Stati Uniti e in Israele”. E richiama le parole di Giorgio Palù, presidente di Aifa, secondo cui “la popolazione da 0 a 11 anni in Italia ha 300 casi per 100mila abitanti a settimana, l’incidenza più alta dell’infezione”.

Su l’Espresso si analizza come l’estrema destra in tutta Europa stia usando il fenomeno no vax per alimentare la rabbia e guadagnare consensi. “In Europa – si legge – l’abbraccio tra destra politica e movimento anti-vax è stato oggi relativamente naturale: una parte della popolazione, già impaurita dalla crisi economica, delusa dalla gestione delle ondate migratorie, indebolita dalla crescente disuguaglianza sociale, ha trovato nelle tesi complottiste anti-vaccini diffuse dai politici di estrema destra il modo per riconquistare una sorta di controllo sulla propria vita”.

(moked, 5 dicembre 2021)


La comunità ebraica italiana sembra essersi totalmente allineata con la linea governativa in fatto di incitamento alla vaccinazione universale e demonizzazione di chi vi si oppone. Si direbbe che su questo punto stiano tutti dalla parte di Israele. Discriminazioni civili, violazioni di diritti umani costituzionali, trattamenti da stato di polizia non sollevano obiezioni. Una così uniforme e compatta assenza di senso critico in una comunità di ebrei è stupefacente. M.C.


Attacchi informatici e hacker: l’altra “guerra ombra” in Iran e Israele

di Lorenzo Vita

Tra Iran e Israele le ostilità si sono tramutate in un conflitto latente che si combatte su diversi domini. Uno di questo è quello cibernetico, dove da anni vengono effettuati attacchi su più livelli di cui nessuno conosce l’autore ma che tutti sospettano possa essere il “nemico di sempre”. In Iran, per esempio, uno dei principali obiettivi degli attacchi informatici è stata la centrale di Natanz, cuore del programma nucleare iraniano. Prima con il virus Stuxnet, che si suppone – in base ad alcune inchieste – sia stato creato da una collaborazione tra agenzie Usa e israeliane e che doveva disabilitare l’attività delle centrifughe del polo nucleare iraniani. Poi con altri attacchi (l’ultimo quest’anno) che hanno interrotto per un certo periodo di tempo i lavori all’interno della centrale provocando rallentamenti su tutto il programma iraniano.
  Recentemente però gli attacchi sembrano aver cambiato obiettivo. Non più solo attacchi su persone, entità e grandi obiettivi di natura strategico-militare, ma attacchi rivolti anche alla popolazione. In Iran, nelle scorse settimane si è parlato con insistenza di un’ondata cyber che avrebbe paralizzato i distributori di carburante di tutto il Paese. Un’interruzione di servizio che per l’Iran è stato più di un campanello d’allarme, dal momento che sono ancora vive le immagini delle rivolte che sono esplose anche per via del costo dell’energia. Per Israele, invece, la questione assume caratteristiche diverse, ma non per questo meno inquietanti e prive di allarme sociale. L’ultimo caso ad aver destato scalpore è stato il tentativo di spiare il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz. Un assalto sventato solo alla fine ma anche avrebbe potuto compromettere in modo sensibile la sicurezza del ministro e dell’intero apparato governativo dello Stato ebraico. Nello stesso periodo, Israele è stato colpito da un altro attacco hacker con il quale gruppi di pirati informatici sono penetrati nelle reti di sicurezza di siti e app strappando un’enorme quantità di dati sensibili dei cittadini, tutti finiti nel dark web o nei gruppi Telegram. Il “raid informatico” è avvenuto ad opera di un gruppo noto come Black Shadow, e che molti analisti ritengono collegato all’Iran.
  Come ha spiegato su Il Foglio Daniele Raineri, i servizi di sicurezza usano per questi gruppi la sigla Apt, “per indicare le Advanced persistent threat, le minacce avanzate persistenti, quindi squadre di specialisti anonimi che da un luogo protetto dedicano tutto il loro tempo ad attaccare le reti internet degli altri”. Israele si è rivelato estremamente vulnerabile nelle ultime settimane. E questo è un problema per un Paese che ha fatto sempre della solidità anche tecnologica uno dei suoi capisaldi. Lo Stato ebraico ha puntato da diversi anni a formare una vera e propria fortezza cyber che non riesca a subire attacchi ma anche anzi, riesca a colpire senza essere nemmeno riconosciuto, se non quando formalmente compie degli atti che fanno ritenere in modo abbastanza certo che sia stata compiuta un’operazione in grande stile. Nell’estate del 2020, per esempio, Israele conferì un riconoscimento pubblico alla ormai nota Unit 8200 per un attacco contro un “obiettivo nemico”. Tanti collegarono l’encomio all’attacco contro Shahid Rajaee, che secondo Teheran aveva provocato la paralisi del porto di Bandar Abbas.
  Il problema però è che questa notorietà e l’aver esportato la guerra informatica su un piano anche mediatico potrebbe essere una lama a doppio taglio. Se è vero infatti che Israele appare come una delle maggiori potenze mondiali in questo dominio, dall’altra parte diventa sempre più difficile mantenere non solo il segreto, ma anche la sicurezza. Le armi a disposizione sono moltissime e il dark web offre continuamente input per colpire. La rete si allenta, proprio perché si allarga, e tutto inizia a essere meno solido e “segreto”. In questo senso, il quotidiano israeliano Haaretz ha lanciato un avvertimento che riguarda l’utilizzo della piattaforma Linkedin da parte di ex uomini della Unit 8200 per cercare lavoro. In teoria nessuno dovrebbe rivelare le modalità organizzative dell’unità o i ruoli di comando, tuttavia è difficile fermare chiunque sia entrato in contatto con l’élite informatica delle forze armate israeliane, specialmente quando aziende private vengono attratte proprio dall’esperienza all’interno di quella che ormai è un’agenzia nota nel mondo. Aver fatto parte della Unit 8200 o del Mossad è insomma una “vetrina”. Basti pensare che, come scrive Agenzia Nova, il gruppo Schwarz, leader nella vendita al dettaglio, si è affidato ad ex agenti del Mossad contro gli attacchi hacker. Il quotidiano tedesco Handelsblatt ha spiegato che, a questo scopo, Schwarz ha investito circa 700 milioni di dollari per rilevare la maggioranza di XM Cyber, società di sicurezza informatica israeliana.
  Tutto questo però non fa i conti, o almeno, non li fa totalmente, con la presenza di un avversario decisamente meno sprovveduto di quanti molti possano credere. L’Iran, nonostante gli attacchi subiti, vanta un eccellente grado di formazione dei propri ingegneri informatici e le forze armate di Teheran sono da anni impegnati a costruire una trincea che eviti attacchi ma che sia in grado di compiere strike chirurgici anche nel cuore di Israele. Sono molte le analisi che riguardano le capacità di attacchi con malware e ransomware da parte degli hacker iraniani o di gruppi in qualche modo legati alle forze di Teheran. Un caso particolarmente importante per la gravità dei danni inferti fu l’attacco con il virus Shamoon che colpì in particolare il colosso saudita Saudi Aramco. Il New York Times scrisse che i funzionari dell’intelligence americana si fossero convinti che dietro vi era proprio l’Iran. E a conferma di questa ipotesi, importanti furono le parole del segretario alla Difesa, Leon E. Panetta, il quale definì l’attacco ad Aramco come “una significativa escalation della minaccia informatica”.
  Oggi la minaccia torna a essere molto sentita ma nell’ambito civile. Nessuno può confermare che gli attacchi che hanno colpito Iran e Israele abbaino avuto la regia del principale rispettivo avversario. Si rimane nei sospetti e in quella guerra ombra che si combatte in parallelo con il ben noto negoziato sul programma nucleare iraniano e che viene combattuta dal mare al mondo informatico fino al deserto tra Iraq e Siria. Tuttavia è chiaro che colpire i distributori di carburante in un Paese in crisi e rubare dati sensibili, medici e non solo, in uno Stato come Israele sono segnali che inducono a credere che le minacce siano diventate sempre più estese e capillari e che soprattutto colpiscono non più solo le infrastrutture militari o legate a programmi bellici, ma qualsiasi elemento possa creare un danno molto esteso e incisivo anche nella stessa società nemica.

(Inside Over, 4 dicembre 2021)



Israele: un rivivere dai morti

di Marcello Cicchese

Nel suo libro “Viva Israele” lo scrittore arabo Magdi Cristiano Allam esprime il suo pieno convincimento che oggi più che mai la difesa del valore della sacralità della vita coincide con la difesa del diritto all'esistenza di Israele. Si nasconde dunque in Israele il senso profondo della “sacralità della vita”? Qualcuno potrebbe osservare che certe religioni pagane esaltanti la fertilità e la fecondità esprimono meglio dell’ebraismo l’amore in senso lato per la vita. Non si difende Israele contrapponendo a morbose ideologie esaltanti la morte euforiche ideologie esaltanti la vita, perché anche queste ultime possono rivelarsi come seducenti vie che conducono alla morte.
  In realtà, quello che conta non è l’esaltazione unilaterale dell’uno o dell’altro dei due termini “vita” e “morte”, ma il modo in cui vengono collegati fra di loro. Si può dire che nella maggior parte delle ideologie di stampo nazi-fascista o islamico-terroristico, la forza della vita viene esaltata e messa a disposizione della morte in vista di un traguardo glorioso da raggiungere in un futuro più o meno lontano. Si pensi ai “sani e forti” giovani fascisti e nazisti preparati alla guerra di conquista nazionale, o ai “sani e belli” bambini islamici preparati a farsi saltare in aria insieme a tanti ebrei con l’obiettivo di raggiungere uno stato di paradisiaca beatitudine.
  Per l’Israele della Bibbia le cose sono diverse: morte e vita sono entrambe presenti, ma a differenza delle ideologie pagane le vie bibliche non partono dalla vita per finire nella morte, ma incontrano la morte per giungere a una nuova vita.
  Le cose sono cominciate con Abramo. All’età di settantacinque anni, quindi non più nel pieno vigore della vita ma già piuttosto attempato, il patriarca viene chiamato da Dio a “morire socialmente” separandosi dai suoi familiari e da tutto il suo mondo per andare in un luogo ignoto. Lì Dio promette che lo benedirà, lo farà diventare una grande nazione e farà sì che in lui tutte le nazioni della terra saranno benedette. Passano gli anni e non succede niente. Quando Dio si rifà vivo Abramo glielo fa notare: “Tu non m’hai dato progenie” (Genesi 15:3), dice al Signore, e premurosamente chiede se il suo erede sarà Eliezer, il suo servo di Damasco. No, risponde il Signore, non sarà un siriano a portare la benedizione al mondo, ma “colui che uscirà dalle tue viscere sarà erede tuo” (Genesi 15:4). Per fugare i comprensibili dubbi di Abramo, Dio lo porta fuori (evidentemente si trovavano in casa) e gli dice: “Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare. Tale sarà la tua progenie” (Genesi 15:4).
  Dopo di che accade uno dei fatti più importanti della storia dell’umanità:

    “Ed egli credette all’Eterno, che gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:5).

Che cosa aveva fatto di tanto straordinario Abramo per essere considerato giusto davanti Dio? Quali opere meritorie aveva compiuto? Quale superiore stile di vita aveva esibito? Quali precetti della Torà aveva diligentemente osservato? Sta scritto soltanto che “Egli credette all’Eterno”. Questa è stata l’opera sua. Tutto il resto è stata ed è opera dell’Eterno.
  Il premio però non arriva subito. Gli era stato detto che dai suoi lombi sarebbe uscita una grande nazione, e poiché la sua progenie avrebbe dovuto essere innumerevole come le stelle del cielo, Abramo poteva pensare che sarebbe stato molto meglio per lui se fosse stato avvertito prima, quando era più giovane e più forte. Anche la moglie scelta per lui da Dio avrebbe potuto essere un po’ più adatta: fosse stato in lui, forse avrebbe scelto una prolifica donna come quelle che hanno oggi gli ebrei ultraortodossi, capaci di sfornare un figlio all’anno per la durata di vent’anni. Abramo invece era già in età avanzata e sua moglie Sarai si poteva considerare morta dal punto di vista della fertilità: era sterile. I due coniugi non obiettano, ma certamente si saranno chiesti come sarebbe potuto avvenire tutto quello che Dio aveva promesso. E’ la donna allora che prende l’iniziativa, e fa quello che fanno spesso quasi tutti i credenti, anche i più pii: elabora una teoria interpretativa della Parola di Dio del tipo “aiutati che Dio t’aiuta”. Non dice: “Io sono sterile”, ma “L’Eterno m’ha fatta sterile” (Genesi 16:2). Dunque - avrà pensato - se è Dio che m’ha fatta sterile, vuol dire che si aspetta la nostra collaborazione nell’affrontare questa realtà. Poiché io sono prolificamente morta, prenderò tra le mie serve egiziane una forte, gagliarda e prosperosa giovane da offrire a mio marito affinché possa avere da lei un figlio. Partorirà sulle mie ginocchia, e questo significherà che il bambino che nascerà sarà giuridicamente figlio mio, e quindi anche di Abramo. Davanti all’importanza del progetto dinastico voluto da Dio - avrà sempre pensato Sarai -, anche i sentimenti di gelosia devono essere messi a tacere. E ai suoi occhi forse questo sarà sembrato il doloroso sacrificio che si chiedeva a lei per collaborare all’attuazione del piano di Dio.
  “Abramo dette ascolto alla voce di Sarai” (Genesi 16:3), ma non sembra che in questo abbia ricevuto l’approvazione di Dio. Anche Adamo aveva fatto una cosa simile con sua moglie, e come risultato si era sentito dire da Dio:

    “Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie... mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai” (Genesi 3:17,19).

Le conseguenze però furono diverse nei due casi, perché non sono le sole azioni dell’uomo a determinarne gli effetti, ma il rapporto tra le azioni e la Parola di Dio. Ad Adamo Dio aveva dato un ordine e una promessa precisi: “... non ne mangiare, perché nel giorno che ne mangerai, certamente morrai” (Genesi 2:17). Adamo non ha ascoltato una precisa Parola di Dio, e con la sua disubbidienza ha mostrato di non credere a quella Parola. Ed essa si è puntualmente avverata: dalla vita in cui si trovava Adamo è caduto nella morte, come Dio aveva preannunciato. Ad Abramo invece Dio aveva dato un altro ordine e un’altra promessa:

    “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:1-2).

Abramo ha ascoltato quella Parola, e con la sua ubbidienza ha mostrato di credere alla Parola di Dio, ed essa ha cominciato a compiersi nella sua vita. Se nel caso di Adamo la Parola di Dio disubbidita ha prodotto un passaggio dalla vita alla morte le cui conseguenze continuano a sentirsi ancora oggi, nel caso di Abramo la Parola di Dio ubbidita ha compiuto e continua a compiere un’opera di passaggio dalla morte alla vita le cui conseguenze valgono ancora oggi e continueranno a valere per l’eternità. La colpa di Abramo non è di non aver ascoltato una precisa Parola di Dio, ma di aver ascoltato le parole della moglie. Le conseguenze sgradevoli ci sono state, ma non potevano essere tali da annullare la promessa di Dio. E l’aspetto fondamentale di questa promessa, come si manifesterà chiaramente in seguito, consiste proprio nell’annuncio di una nuova vita che Dio farà sorgere là dove il peccato dell’uomo ha prodotto la morte. Per questo, ovunque interviene l’azione salvifica di Dio la morte compare per prima, affinché sia evidente che il Dio in cui l’uomo è invitato a credere è Colui che può e vuole vincere la morte in tutti i suoi aspetti: nelle sue cause, nella sua potenza e nei suoi effetti.
  Nella coppia Abramo-Sarai l’elemento prolificamente morto era la donna. Sarai ha tentato di rimediare alla cosa con umana razionalità, cioè sostituendo il pezzo difettoso con uno perfettamente funzionante: la sterile Sarai è stata rimpiazzata dalla fecondissima Agar. Ed è nato Ismaele, da cui è scaturito un mare di guai. La “morte prolifica” di Sarai, espressione della morte presente nella natura come conseguenza della morte spirituale causata dal peccato, è stata aggirata ricorrendo alla “vita prolifica” di Agar, espressione della vita naturale ancora presente dopo il peccato. Ma non poteva essere questo il modo in cui Dio si proponeva di vincere la realtà profonda della morte provocata dal peccato.
  Il Signore non è intervenuto immediatamente per vanificare sul nascere quel tentativo umano di modificare la sua opera di redenzione: ha permesso che Ismaele nascesse e ha lasciato passare nel silenzio altri tredici anni, fino a quando Abramo non era più in grado di generare. Se l’intervento dell’uomo aveva mirato a sostituire il pezzo morto con uno vivo, il non intervento di Dio aveva fatto sì che anche il pezzo vivo arrivasse a morire: all’età di novantanove anni Abramo era ormai prolificamente morto, come Sarai, e proprio per questo era ormai convinto che l’erede promesso da Dio non poteva che essere Ismaele.
  Ma è a questo punto che Dio si rifà vivo con Abramo e gli cambia il nome:

    “Quanto a me, ecco il patto che faccio con te; tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni; non sarai più chiamato Abramo [patriarca], ma il tuo nome sarà Abraamo [padre di una moltitudine], poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni” (Genesi 17:4-5).

Poi, inaspettatamente, Dio nomina per la prima volta sua moglie:

    “Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei»” (Genesi 17:15-16).

A questo punto il venerando patriarca ha una umana e molto comprensibile reazione:

    “Allora Abraamo si prostrò con la faccia a terra, rise, e disse in cuor suo: «Nascerà un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara partorirà ora che ha novant’anni?» E aggiunge: «Oh, possa almeno Ismaele vivere davanti a te!»” (Genesi 17:17-18).

Ma Dio risponde:

    “No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco. Io stabilirò il mio patto con lui, un patto eterno per la sua progenie dopo di lui” (Genesi 17:19).

La difficoltà di Abraamo sta nel credere che la vita promessa da Dio possa scaturire da due corpi prolificamente morti. Proprio questo invece era il proposito di Dio: far sorgere la vita dalla morte. E Abraamo, sia pure dopo qualche esitazione, alla fine crede. Di questo rende testimonianza l’apostolo Paolo quando di lui scrive:

    “Egli è padre di noi tutti (com’è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». Senza venir meno nella fede, egli vide che il suo corpo era svigorito (aveva quasi cent’anni) e che Sara non era più in grado di essere madre; davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo. Perciò gli fu messo in conto come giustizia.” (Romani 4:16-22).

Anche Sara partecipò a questa fede:

    “Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare” (Ebrei 11:11-12).

La nascita prodigiosa di Isacco doveva significare che la vita promessa da Dio è una vita che sorge dalla morte, e proprio per questo la vince.
  La fede, o è fede in Dio “che fa rivivere i morti” o non è fede.
  La fede di Abraamo però viene ancora una volta messa a dura prova quando Dio gli chiede di restituirgli proprio quel figlio che così miracolosamente gli aveva donato:

    “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo e gli disse: «Abraamo!» Egli rispose: «Eccomi». E Dio disse: «Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e va’ nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò».” (Genesi 22:1-2).

Senza esitare Abraamo parte per il monte Moria, e durante i tre lunghi giorni di viaggio nel cuore del padre il figlio Isacco era già morto. Abraamo era pronto a uccidere suo figlio, come Dio gli aveva ordinato. Aveva forse smesso di credere nella Parola di Dio, che da quel figlio gli aveva promesso di avere un’innumerevole progenie? No, al contrario: Abraamo era pronto a uccidere Isacco proprio perché aveva fede in Dio “che fa rivivere i morti”, come la Scrittura attesta:

    “Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: «É in Isacco che ti sarà data una discendenza». Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione” (Ebrei 11:17-19).

Se nelle persone di Abraamo e Sarai la morte era presente come fatto biologico, conseguenza storica del peccato dell’uomo, nella persona di Isacco la morte annunciata era presente come destino storico predisposto da Dio per la salvezza dell’uomo. Isacco fu ridonato ad Abraamo “come per una specie di risurrezione”, anticipazione di una risurrezione che rappresenterà la benedizione per “tutte le famiglie della terra”, come promesso da Dio fin dall’inizio.
  L’esperienza di Abraamo è tutt’altro che unica nella storia d’Israele. Al contrario, la realtà di una vita che scaturisce dalla morte è una caratteristica ricorrente del popolo di Dio.
  Giuseppe dovette fare l’esperienza di una morte civile nelle carceri di Potifar prima di assurgere ai più alti livelli della vita sociale diventando vicerè d’Egitto. E sarà proprio questa specie di risurrezione a permettere alla sua tribù familiare di rimanere in vita. La Bibbia presenta con parole commoventi il momento in cui Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli:

    “Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!» Quelli s’avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto” (Genesi 45:4-8).

Qui interviene un elemento nuovo. In questo caso l’esperienza di morte, cioè la prigionia di Giuseppe nelle carceri d’Egitto, pur essendo guidata dalla volontà di Dio non avviene come conseguenza naturale dell’originaria caduta di Adamo, ma come conseguenza di un preciso peccato commesso dai discendenti di Abraamo. E questo fa vedere che Dio usa anche e proprio il peccato dell’uomo come strumento di salvezza per fargli giungere la sua grazia.
  E’ in Egitto che la tribù patriarcale di Abraamo diventa popolo. Il processo si svolge nell’arco di più di quattrocento anni e non avviene nella terra promessa, ma in un paese pagano. Il popolo non fiorisce sotto la spinta di autonome e brillanti iniziative di formazione delle strutture sociali, come per esempio è avvenuto nell’Israele di questi ultimi decenni, ma languisce sotto una mortale schiavitù. La Bibbia non dice che gli ebrei in Egitto abbiano invocato l’aiuto divino, anche perché nei quattro lunghi secoli di sofferenze subite nel silenzio di Dio avranno probabilmente fatto in tempo a dimenticare che esisteva un Dio che un giorno era intervenuto nella vita dei loro antenati. Le grida che lanciavano erano gemiti di dolore, non invocazioni di aiuto.
  Ma se gli ebrei si erano dimenticati di Dio, Dio non si era dimenticato di loro.

    “Durante quel tempo, che fu lungo, il re d’Egitto morì. I figli d’Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione” (Esodo 2:23-25).

Dio allora sceglie Mosè per liberare il suo popolo e farlo diventare una nazione. E questo difficile ingresso in una nuova vita avviene con ripetuti passaggi attraverso esperienze di morte. Mosè, insieme a tutti i maschi ebrei, era destinato alla morte, ma viene salvato dall’intervento provvidenziale di Dio. Da adulto Mosè si presenta al faraone per chiedergli di lasciare andare il suo popolo, e come primo risultato ottiene che l’oppressione del popolo aumenta fino a diventare insopportabile.

    “Uscendo dal faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli, e dissero loro: «Il Signore volga il suo sguardo su di voi e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano una spada per ucciderci»” (Esodo 5:20-21).

La morte invece si abbatte sugli uomini in Egitto, ma non sugli ebrei. I loro primogeniti, al contrario di quelli degli egiziani, restano in vita perché in ogni famiglia la morte colpisce i primogeniti degli animali, invece che degli uomini.
  Anche poco dopo l’uscita degli israeliti dall’Egitto, Dio fa passare il popolo attraverso un’altra esperienza di morte sicura. Avevano già fatto un po’ di strada quando Dio dice in sostanza a Mosè: falli tornare indietro e mettili in una posizione senza via di uscita, in modo che i loro nemici pensino che ormai il popolo non ha più una via di scampo:

    “Il Signore parlò così a Mosè: «Di’ ai figli d’Israele che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, fra Migdol e il mare di fronte a Baal-Sefon. Accampatevi davanti a quel luogo presso il mare. Il faraone dirà dei figli d’Israele: “Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi”. Io indurirò il cuore del faraone ed egli li inseguirà. Ma io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, e gli Egiziani sapranno che io sono il Signore». Ed essi fecero così” (Esodo 14:1-4).

Davanti a loro il mare, alle spalle gli egiziani che stavano arrivando, gli ebrei si trovavano ancora una volta in una specie di tomba. Ma proprio questo voleva Dio: dare loro la vita facendoli passare per un’esperienza di morte. Il popolo d’Israele giunge alla vita attraversando miracolosamente il mar Rosso, e la morte attraverso cui erano passati indenni si abbatte sugli egiziani che li inseguivano.
  Tutta la storia successiva del popolo d’Israele, anche dopo la lunga esperienza biblica, può essere letta seguendo l’intreccio sempre ripetuto di morte e nuova vita. Al contrario della pagana esaltazione della vita, che necessariamente deve ignorare o sminuire o addolcire la tetra realtà della morte, la storia e la cultura ebraica, fino a che restano nel quadro biblico, inglobano la morte senza minimizzarne la gravità, ma indicando la possibilità del suo superamento in una nuova vita. “Prigionieri della speranza” è un’espressione biblica (Zaccaria 9:12) che ben si presta a rappresentare sinteticamente la situazione in cui è “costretto” a vivere il popolo eletto.
  Non deve sembrare strano allora che per la salvezza di Israele, e quindi di tutto il mondo, il Re d’Israele, che è anche il Re del mondo, sia dovuto passare attraverso un processo di morte e risurrezione. La realtà di una nuova vita che nasce dalla morte rappresenta la chiave di comprensione del fenomeno ebraico, in tutte le sue espressioni: storiche, sociali e individuali. Di morte e risurrezione parla il profeta Isaia quando scrive:

    “Ma piacque all’Eterno di fiaccarlo coi patimenti. Dopo aver dato la sua vita in sacrifizio per la colpa, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni, e l’opera dell’Eterno prospererà nelle sue mani. Egli vedrà il frutto del tormento dell’anima sua, e ne sarà saziato; per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, e si caricherà egli stesso delle loro iniquità” (Isaia 53:10-11)

Questo servo dell’Eterno che passa attraverso la morte per vincerla, e non solo per sopravvivere ad essa, dopo la morte fisica e la morte sociale dell’umiliazione e del disprezzo conoscerà la gloria dell’elevazione politica al di sopra di ogni altro potere della terra:

    “Ecco, il mio servo prospererà, sarà elevato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, son rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante sì da non parer più un uomo, e il suo aspetto si da non parer più un figlio d’uomo), così molte saran le nazioni, di cui egli desterà l’ammirazione; i re chiuderanno la bocca dinanzi a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, e apprenderanno quello che non avevano udito (Isaia 52:13-15)

Questo servo dell’Eterno è il Re de giudei, che è risorto dai morti perché ha vinto la morte. E poiché non si può pensare che un Re esista senza una nazione e un popolo, è evidente che il popolo dei giudei, cioè Israele, vivrà in eterno (Geremia 31:35-37). O meglio, passerà attraverso una traumatica e conclusiva esperienza di morte da cui risorgerà a nuova e immortale vita. Proprio questo è il messaggio lasciato dall’apostolo Paolo, quando parlando degli ebrei aveva predetto che la loro “riammissione” sarà come “un rivivere dai morti” (Romani 11:15).
  Non la generica “sacralità della vita”, ma il binomio “morte e risurrezione” è la caratteristica di Israele come realtà storica. Caratteristica che è nello stesso tempo un messaggio rivolto al mondo. E se qualcuno chiede: perché il popolo degli ebrei è sempre riemerso dopo ogni tentativo di sterminio? perché si poteva essere certi che la nazione di Israele sarebbe riapparsa sulla sua terra? perché si può essere certi che Israele sopravviverà a tutti i tentativi di distruggerlo? La risposta è semplice: perché Gesù Cristo, il Re dei giudei, è risuscitato dai morti, e “la morte non ha più potere su di lui” (Romani 6:9). (Notizie su Israele, febbraio 2011)




Eitan in Italia: un paese intero fa festa

Arrivato ieri sera da Tel Aviv con la zia paterna. I nonni materni: «Partita aperta»

di Nino Materi

Eitan è tornato in Italia. Finalmente. Il volo decollato ieri pomeriggio da Tel Aviv è atterrato in serata all'aeroporto di Orio al Serio (Bergamo).
  Col bimbo c'era la zia paterna Aya, suo marito Or e le due figlie: la nuova vera famiglia di Eitan. Il gruppo ha poi proseguito in auto alla volta di Travacò Siccomario (Pavia), il paese dell'«eterno ritorno» dove per questo sfortunato bambino di 6 anni l'esistenza sembra continuamente cominciare e ricominciare. Senza dargli tregua. Impietosamente.
  Qui la sua vita era ripresa una prima volta dopo la strage del Mottarone del 23 maggio 2021 quando aveva perso padre, madre, fratellino e bisnonni; qui era stato rapito l'11 settembre da un nonno sciagurato e portato a Tel Aviv dove è rimasto per 83 giorni; qui ieri è ritornato - speriamo - per sempre. In mezzo, fra questa tragedia in più atti, una disputa giudiziaria avvilente. Che poteva - e doveva - essere risparmiata a un bambino già così tanto provato dal destino. Nei giorni scorsi sono state confermate le due decisioni di primo e secondo grado con cui i giudici israeliani avevano riconosciuto «la sottrazione internazionale del minore» da parte del nonno materno, disponendo «l'immediato rimpatrio del bambino in Italia». Una decisione scontata in accoglimento dell'istanza della zia paterna, Aya Biran, tutrice legale del piccolo. Mentre sul nonno materno, Shmuel Peleg, pende ora un mandato d'arresto internazionale con le accuse di «sequestro di persona, sottrazione e trattenimento di minore all'estero e appropriazione indebita del passaporto del bambino». Nell'inchiesta, condotta dalla Squadra mobile pavese, era stato già arrestato con mandato europeo Gabriel
  Alon Abutbul (il complice di nonno di Eitan), bloccato a Cipro dove risiede, e scarcerato nei giorni scorsi con obbligo di firma in attesa della conclusione del procedimento di estradizione. Infine, guai giudiziari anche per la nonna materna, Esther Cohen (ex moglie di Shmuel Peleg), indagata anche lei dalla procura di Pavia come complice nel rapimento del nipote. Intanto la zia paterna, Aya Biran, già tutrice del bambino, ha presentato ai giudici milanesi richiesta di adozione, cui ovviamente si oppongono i nonni materni.
  Cosa aggiungere ancora sul dramma di Eitan? Ormai si è detto e scritto tutto. Forse troppo. Ma la colpa è solo di alcuni suoi parenti stretti, quelli che in gergo deamicisiano si definirebbero «affetti più cari»: un'espressione che però nella vicenda-Eitan rischia di suonare decisamente stonata. Un nonno che rapisce il nipotino con modalità da blitz militare è storia da sentimenti calpestati nel più assurdo dei modi. Eppure Eitan ha dovuto subire perfino questo, lui «piccolo», tradito dalle infamità del mondo dei «grandi»: adulti che avrebbero dovuto tutelarlo dal tanto male già patito e che invece gli hanno riservato un'ulteriore dose di strazio. E non è ancora finita, se è vero com'è vero che i nonni materni (quelli del rapimento), nonostante abbiano perso in tutte le sedi legali, ancora non si arrendono: «La partita non è ancora finita». La «partita», la chiamano proprio così. Come se si trattasse di una competizione sportiva, dov'è prevista anche rivincita e bella.
  Chissà se lunedì Eitan andrà regolarmente alla scuola elementare dov'era stato iscritto prima di essere trascinato via in Israele.
  Intanto da ieri il suo paese festeggia. Peccato non ci sia nulla da festeggiare. (il Giornale, 4 dicembre 2021)


Il caccia F-15 dell'aeronautica israeliana effettua un atterraggio di emergenza

Il comando militare israeliano conferma le informazioni secondo cui il caccia F-15 dell'aeronautica israeliana ha effettuato un atterraggio di emergenza durante l'esercitazione. Nel riassunto del servizio stampa dell'aeronautica militare dell'IDF, si dice che i piloti sono rimasti feriti quando l'aereo è atterrato.
  È noto che il combattente ha eseguito un volo di linea come parte di esercitazioni regolari. Ciò è avvenuto nella parte meridionale di Israele. I piloti del velivolo assegnato al 69° Squadrone dell'Aeronautica Militare dell'IDF ad un certo punto hanno dovuto affrontare un problema tecnico. Secondo alcuni rapporti, è associato all'uscita del carrello di atterraggio.
  Quando l'aereo ha iniziato a scendere, quando si è tentato di rimuovere tutti i carrelli di atterraggio da uno di essi, sono sorti problemi. Di conseguenza, secondo la stampa israeliana, l'atterraggio è stato effettuato con i montanti anteriori e sinistro estesi, ma senza quello destro.
  Dopo l'atterraggio, i piloti israeliani hanno iniziato a fornire assistenza medica sul posto. Non è stato segnalato il ricovero.
  Al momento sta lavorando un gruppo di specialisti, che sta cercando di capire le ragioni di quanto accaduto, ovvero perché si è verificato un problema tecnico di questa natura.
  I media israeliani scrivono che questo è il primo caso negli ultimi anni di un F-15 dell'aviazione IDF con un malfunzionamento in volo.
  Il comandante dell'aeronautica israeliana, il maggiore generale Amikam Norkin, ha annunciato la sospensione delle esercitazioni con aerei F-15.
  È interessante notare che pochi giorni fa (alla fine di novembre) si è verificato un incidente nell'aeronautica israeliana e anche con l'F-15. Poi, come scrivono i media locali, l'aereo "è quasi caduto". Durante l'esercitazione per combattere le minacce aeree e terrestri, il pilota è stato brevemente distratto dalle letture degli strumenti e l'aereo ha perso quota. Quando l'auto si stava già muovendo ad alta velocità verso il suolo, il pilota è riuscito a stabilizzare il volo. Alla fine non è successo niente.



(recensione militare, 4 dicembre 2021)


All’Onu, 129 paesi ignorano il carattere ebraico e cristiano del Monte del Tempio di Gerusalemme

Anche l’Italia tra i paesi che hanno accettato ancora una volta di indicare come esclusivamente musulmano il sito sacro a tre religioni e centrale nella storia e cultura ebraica.

di Tovah Lazaroff

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato mercoledì scorso una risoluzione che disconosce i legami ebraici con il Monte del Tempio indicandolo esclusivamente con il nome musulmano di al-Haram al-Sharif.
  Il testo, denominato “Risoluzione di Gerusalemme” e approvato con 129 voti contro 11, risponde alla spinta esercitata da Autorità Palestinese e paesi arabi perché il sistema delle Nazioni Unite etichetti il luogo più sacro dell’ebraismo come esclusivamente islamico.
  Gli Stati Uniti, che si sono opposti al documento, hanno affermato che l’omissione di una terminologia inclusiva in riferimento al sito sacro a tre religioni suscita “reale e grave preoccupazione”, spiegando che “è moralmente, storicamente e politicamente sbagliato che i membri di questo organismo sostengano un linguaggio che nega” le connessioni sia ebraiche che cristiane con il Monte del Tempio o al-Haram al-Sharif. Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese a esprimere preoccupazione per la mancanza di un linguaggio più inclusivo.
  Nel tentativo di guadagnare maggiore sostegno alla risoluzione, gli estensori hanno apportato alcuni piccoli emendamenti rispetto alla versione approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 2018 con 148 voti a favore contro 11. Quel testo faceva due volte riferimento ad al-Haram al-Sharif col solo termine musulmano: una nell’introduzione e una nel corpo della risoluzione. Questa volta, la locuzione squilibrata al-Haram al-Sharif è stata inserita solo una volta nell’introduzione. Nonostante questa modifica, il sostegno alla risoluzione è diminuito, con il passaggio del numero di paesi astenuti da 14 a 31. Tre anni fa, tutti i paesi europei avevano sostenuto il testo. Quest’anno, alcuni di loro hanno cambiato voto. Ungheria e Repubblica Ceca si sono opposte alla risoluzione, mentre Albania, Bulgaria, Danimarca, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia e Slovenia si sono astenute.
  Un rappresentante britannico ha affermato: “La risoluzione adottata oggi fa riferimento ai luoghi santi di Gerusalemme in termini puramente islamici senza riconoscere la terminologia ebraica del Monte del Tempio. Il Regno Unito ha chiarito da molti anni che non concorda con questo approccio e sebbene accogliamo con favore la rimozione della maggior parte di questi riferimenti, siamo delusi dal fatto di non aver potuto trovare una soluzione al riferimento finale. Il Regno Unito ha quindi mutato il proprio voto da ‘sì’ ad ‘astenuto’. Se il riferimento sbilanciato fosse stato rimosso, il Regno Unito sarebbe stato pronto e disponibile a votare ‘sì’. Il che – ha concluso il rappresentante britannico – non deve essere frainteso come il riflesso di un cambiamento della politica del Regno Unito su Gerusalemme. È anzi un segnale importante del nostro impegno a riconoscere la storia di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste”.
  L’Unione Europea ha assunto una posizione intermedia, accogliendo con favore gli emendamenti apportati dall’Autorità Palestinese e dal gruppo dei paesi arabi volti a ridurre il numero di circa 20 risoluzioni contro Israele presentante ogni anno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “L’Unione Europea – ha affermato un suo rappresentante – ribadisce che ogni volta che nella risoluzione di Gerusalemme si fa riferimento al Monte del Tempio/al-Haram al-Sharif si dovrebbero utilizzare entrambi i termini, vale a dire Monte del Tempio e al-Haram al-Sharif”. Il che dovrebbe valere per qualsiasi testo relativo a Gerusalemme, ha detto il rappresenta europeo, aggiungendo: “L’Unione Europea esorta tutte le parti a non negare i legami storici di altre religioni con la città di Gerusalemme e i suoi luoghi santi cercando di delegittimare la loro storia”. Nonostante queste parole, il testo squilibrato è stato approvato da un discreto numero di stati dell’Unione Europea, tra cui Belgio, Francia, Spagna e Italia.
  Il rappresentante dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite, Riyad Mansour, ha ringraziato i paesi che hanno sostenuto il testo, affermando che si tratta di “una risoluzione appropriata e necessaria”. Dopo averne giustificato il linguaggio settario (dicendo che è quello già usato in altre risoluzioni approvate dall’Onu), il rappresentante palestinese ha esortato abbastanza paradossalmente a “respingere i tentativi di trasformare il conflitto israelo-palestinese in uno scontro religioso”.

Da: Jerusalem Post, 2.12.21

(israele.net, 4 dicembre 2021)


Lite per 72 euro. Berlino chiede indietro i soldi all'ebrea morta

La Germania nazista ha perseguitato e distrutto la sua famiglia. Nonostante la fuga in Francia, la famiglia Siesel, ebrei, viene catturata e deportata ad Auschwitz. Nel 1942 il padre di Charlotte riesce nelle ore convulse dell' arresto ad affidare la figlia alla Croce Rossa grazie alla quale la ragazza, sola al mondo, riuscirà a trasferirsi prima in Svizzera e poi nella Palestina mandataria nel 1945. Charlotte Siesel, diventata Amira Gezow, è morta in Israele lo scorso gennaio a 91 anni.
  Dagli anni '50, Amira aveva combattuto per farsi riconoscere quale perseguitata razziale dalla Germania, che finalmente, negli anni '80 le aveva concesso un sussidio, simbolico e non retroattivo, da 72 euro al mese versati ogni trimestre. Amira però è morta allo scoccare di un bimestre e, puntuale, la burocrazia tedesca ha chiesto agli eredi di restituire i 72 euro ai quali Amira non aveva più diritto. La figlia Ayelet, statunitense, ha raccontato al mensile ebraico Forward di aver protestato presso il consolato tedesco a New York. «Mi hanno urlato, hanno detto che stavo rubando soldi alla Germania». Alla fine Ayelet ha staccato un assegno da 72 euro al governo tedesco.
  Nel giorno della morte di Amira, il sindaco di Mannheim, una delle città in cui la famiglia Gezow aveva trovato rifugio all'inizio del nazismo, aveva espresso a nome del consiglio comunale, «le mie più sentite condoglianze ai parenti» per il decesso «di una delle più importanti testimoni contemporanee dello sterminio».

Libero, 4 dicembre 2021)


Festa di Chanukkah, domenica alle 19 l'accensione nel piazzale della Sinagoga Scolanova

Il Talmud racconta che nel Tempio appena riconsacrato fu trovata una piccola ampolla di olio puro con il sigillo del Sommo Sacerdote

TRANI - Domenica 5 dicembre alle ore 19.00, nel piazzale antistante la Sinagoga Scolanova, la comunità ebraica accenderà l’ottava luce della festa di Chanukkah. Parteciperà all’accensione il Rabbino Capo di Napoli Rav Ariel Finzi.
  Chanukkah significa in ebraico “inaugurazione” ed è una festività che dura otto giorni e commemora la consacrazione del Tempio di Gerusalemme dopo che un gruppo di guerrieri Ebrei, i Maccabei, miracolosamente sconfisse il potente esercito Greco-Siriano.
  Era, infatti, l’anno 165 dell’era volgare allorquando gli Israeliti guidati da Giuda Maccabeo, figlio del sacerdote Mattatià, affrontarono e sconfissero gli occupanti siriani ripristinando la sovranità della Toràh (la Legge scritta e orale data da Dio a Mosè) e dei Suoi precetti sul popolo ebraico.
  Il Talmud racconta che nel Tempio appena riconsacrato fu trovata una piccola ampolla di olio puro con il sigillo del Sommo Sacerdote. L’olio poteva bastare per un solo giorno ma avvenne un grande miracolo: l’olio bruciò per otto giorni, diffondendo una bellissima luce e dando così la possibilità ai sacerdoti di preparare l’olio nuovo. Fu così che i Maestri proclamarono che a partire dalla vigilia del 25esimo giorno del mese ebraico di Kislèv e per i successivi otto giorni gli ebrei celebrassero l’avvenimento del miracolo dell’olio che non si consumò. Per otto sere viene accesa una fiammella in più sulla Chanukkia, un candelabro a 9 braccia (otto fiamme oltre allo shammash, il lume che serve ad accendere gli altri lumi).
  Chanukkah manifesta in pieno l’universalità dell’ebraismo, che si esprime nel monoteismo e in una Legge divina e morale su ogni aspetto della vita quotidiana che anche chi non è ebreo può riuscire a condividere.
  Ed è proprio nel segno di tale condivisione di valori inestinguibili come la libertà e la multiculturalità che l’intera cittadinanza è invitata a partecipare.

(TraniLive.it, 4 dicembre 2021)


Spinoza, il “sogno eretico” che fa ancora paura

365 anni dopo viene rinnovata la cherem: scomunica, maledizione, espulsione e condanna per eresia ai danni del grande filosofo Baruch Spinoza, dalla comunità ebraica di Amsterdam.

di Antonio Di Dio

AMSTERDAM, 3 dicembre 2021. Succede che per motivi di studio mi trovo in Olanda per un’attività di ricerca, presso l’Università di Groningen, sul grande filosofo Baruch Spinoza. Succede che visitando la casa museo di Spinoza, situata a Rijnsburg – un borgo nei pressi di Leida – mi sia imbattuto non solo tra i libri e le rudimentali mole per la realizzazione di lenti del filosofo e ottico olandese, ma anche in quello storico documento che ha sancito una delle pagine più brutte nella storia della filosofia occidentale.
  Sapevo bene dell’atto di cherem, la scomunica, ai danni del giovane filosofo da parte della comunità ebraica sefardita di Amsterdam, da cui proveniva e presso cui si era formato, ma vedere con i miei occhi il terribile depennamento del suo nome dalla lista della comunità, nel documento storico esposto in museo mi ha colpito non poco.
  Succede inoltre che – notizia di queste ore riportate dai giornali locali, oltre che dal Times of Israel – il 30 novembre, il rabbino Joseph Serfaty, capo spirituale della comunità sefardita di Amsterdam, ha negato al professore Yitzhak Melamed il permesso di accedere alla sinagoga e alla biblioteca della comunità. L’ha dichiarato «persona non grata».
  Il professore in questione è un importante studioso di Spinoza, nonché docente di filosofia alla Johns Hopkins University. Dalle notizie riportate sui quotidiani locali, ho appreso che recentemente aveva richiesto alla sinagoga di Amsterdam il permesso di visitare il luogo e accedere alla biblioteca con una troupe cinematografica che lo avrebbe filmato mentre faceva ricerche negli archivi.
  Una rete televisiva israeliana sta infatti girando un documentario sul celebre filosofo e la sua scomunica nel 1656, a distanza di ben 365 anni. Riportano le cronache attuali di un durissimo documento emanato dal rabbino in cui viene sancito che «Spinoza e i suoi scritti» sono stati scomunicati «con la più grave interdizione, un divieto che rimane in vigore per sempre e non può essere revocato».
  Nel documento il rabbino motiva l’attività scientifica di Melamed su Spinoza come causa sgradita alla comunità: «Lei ha dedicato la sua vita allo studio delle opere vietate di Spinoza e allo sviluppo delle sue idee». Dice che la richiesta di riprese «è incompatibile con la nostra secolare tradizione halachica, storica ed etica e un inaccettabile attacco alla nostra identità ed eredità».
  La curatrice del museo di Spinoza a Rijnsburg mi ha riferito di un tentativo, nel 2015, all’interno della comunità ebraica di Amsterdam di revocare la scomunica, ma nel dibattito interno prevalse l’intransigenza degli ultra-ortodossi. 
  Ma chi fu davvero Spinoza? E cosa successe realmente nel 1656? Baruch Spinoza, giovane intellettuale nato ad Amsterdam nel 1632, da genitori portoghesi di origine ebraico-sefardita che, in quanto marrani – ovvero forzati a convertirsi al Cristianesimo, ma che privatamente mantenevano la loro fede ebraica – erano stati costretti per motivi religiosi ad abbandonare il Portogallo e a stabilirsi nella calvinista Olanda. Il giovane Baruch riceve la prima formazione scolastica nella comunità ebraica sefardita di Amsterdam, studiando il Talmud e la Torah.
  Ma successivamente divenne nota la tensione filosofica che motivava il giovane Baruch a stimolare dibattiti che turbavano i sonni tranquilli dei dogmatici ortodossi della piccola comunità. I motivi teorici della scomunica ai suoi danni sono ancora poco chiari, tuttavia gli studiosi ipotizzano diverse cause: c’è chi sostiene, come il grande biografo Steven Nadler, che già a quei tempi – nel 1656 aveva appena ventiquattro anni – il giovane Spinoza non credesse nell’immortalità dell’anima; al contrario, Nicola Abbagnano e una consistente schiera di studiosi, ipotizza che i motivi sono da individuare in alcuni nuclei specifici del suo pensiero, quali l’inconciliabilità della sua filosofia con l’ebraismo nella sua identificazione di Dio con la natura (Deus sive Natura: Dio, ovvero la Natura) e nel rifiuto di un “Dio-persona”, creatore e produttore del mondo, come quello biblico.
  È utile ricordare, a tal proposito, il caso del portoghese Uriel Da Costa, anche lui oggetto di cherem da parte delle comunità ebraiche di Amburgo, Amsterdam e della Ghetteria di Venezia negli anni venti del ‘600, per aver sostenuto la tesi sull’origine pienamente naturale dell’anima e la conseguente morte di essa col corpo. Tuttavia, mentre Uriel Da Costa a seguito di questa grave scomunica decise di togliersi la vita, Baruch Spinoza, dopo l’immediata espulsione da Amsterdam reagì, dopo un breve soggiorno presso il suo caro insegnante di latino Franciscus Van den Enden, transferendosi a Rijnsburg, dove lavorò come ottico e soprattutto dove produsse gran parte dei testi che lo resero celebre, tra tutti l’Etica (pubblicata postuma).
  Nel tema citato poc’anzi del Deus Sive Natura viene rifiutata la tesi di un Dio trascendente ma, al contrario, affermata quella di un Dio come sostanza immanente, ovvero la Natura. Questo pensiero fu il motivo per cui a lungo è stato considerato ateo, da altri invece come un panteista; tuttavia, molti studiosi parlano al contrario di un ‘’iper-teismo’’ e di una profonda religiosità nel suo pensiero: Spinoza accetta la prova ontologica di Cartesio, che considera la prova dell’esistenza necessaria di Dio, come il fondamento di tutto e in questo contesto Spinoza sviluppa il concetto di “causa sui”; Dio è causa di se stesso, non è fondato da nient’altro, ma fonda se stesso. 
  Il riferimento dunque ad una struttura autofondante, che non può essere causa trascendente della natura, ma deve esserne invece causa immanente, è parte essenziale del suo pensiero. Causa trascendente, infatti, può essere solo qualcosa di finito, che al di fuori di se stesso ha un’altra cosa finita; se Dio fosse solo causa trascendente del mondo allora questo esisterebbe indipendentemente da Dio. Sarebbe cioè creato da Dio, ma avrebbe una propria autonoma sussistenza: questo per Spinoza non è possibile. 
  Potremmo dire che il pathos di Spinoza, nella negazione della trascendenza di Dio rispetto al mondo, in verità non permette di accettare l’autonomia ontologica del mondo. Proprio perché il mondo non può avere tale autonomia rispetto a Dio, Dio (ovvero la Natura) diventa causa immanente e non trascendente. 
  Esemplare è anche e soprattutto il suo grande studio con tutte le argomentazioni sui miracoli e sulla lettura in generale della Bibbia (da lui considerata una mera opera umana), con grandi intuizioni ermeneutiche e un profondo lavoro di traduzione e comprensione, sviluppato nella sua altra grandissima opera, Il trattato teologico politico (opera che decise di pubblicare sotto falso nome). 
  Come ci ricorda Steven Nadler in uno dei suoi testi: «Il filosofo si impegna da un lato nell’elaborazione di un progetto morale e politico che prevede la nostra liberazione dai vincoli delle passioni, soprattutto dalla paura e dalla speranza, su cui si basa la manipolazione ecclesiastica delle nostre vite; ma si impegna anche dall’altro in una polemica filosofica e morale contro un certo tipo di teodicea – fatta proprio dai rabbini del Talmud, da Saadya, da Maimonide, da Gersonide, e da una nutrita schiera di altri filosofi, ebrei e gentili – per cercare di convincerci tutti a non scorgere nella virtù un fardello che ci dovremmo accollare quaggiù per guadagnarci chissà quale ricompensa nell’aldilà».
  In ultimo, va evidenziato come tutta la vita di Spinoza è stata caratterizzata dal rigore e dalla coerenza, concretizzatasi nella ricerca della libertà del filosofare, per cui si è battuto. A tal fine vanno letti i suoi rifiuti ad assumere impegni accademici, come il rifiuto di insegnare presso l’Università di Heidelberg, temendo di non poter mantenere la sua autonomia e libertà di intellettuale, al costo di morire in miseria.
  Ecco che tesi, concetti e attività di questo tipo ancora oggi finiscono per turbare inesorabilmente le certezze dogmatiche del rabbino Joseph Serfaty e succede che la libera Amsterdam, e tutta la sua comunità di intellettuali ampiamente sconcertata da ciò, scopre che oggi i conti con la sua storia non sono del tutto in ordine.
  Qui di seguito una poesia scritta da Albert Einstein e dedicata all’Etica di Spinoza in occasione della sua visita alla casa museo (originale in tedesco e traduzione a lato):


Wie lieb ich diesen edlen Mann
Mehr als ich mit Worten sagen kann.
Doch fuercht’ ich, dass er bleibt allein
Mit seinem strahlenden Heiligenschein.

So einem armen kleinen Wicht
Den fuehrst Du zu der Freiheit nicht.
Der amor dei laesst ihn kalt
Das Leben zieht ihn mit Gewalt.

Die Hoehe bringt ihm nichts als Frost
Vernunft ist fuer ihn schale Kost.
Besitz und Weib und Ehr’ und Haus
Das fuellt ihn vom oben bis unten aus.

Du musst schon guetig mir verzeihn
Wenn hier mir fellt Muenchhausen ein,
Dem als Einzigen das Kunststueck gediehn
Sich am eigenen Zopf aus dem Sumpf zu ziehen.

Du denkst sein Beispiel zeigt uns eben
Was diese Lehre den Menschen kann geben.
Mein lieben Sohn, was faellt dir ein?
Zum Nachtigall muss man geboren sein!

Vertraue nicht dem troestlichen Schein:
Zum Erhabenen muss man geboren sein.


Quanto amo quell’uomo nobile
Più di quanto posso dire con le parole.
Anche se temo che dovrà restare tutto solo
Lui con la sua aureola splendente.

Così un povero nanetto
Chi non conduci alla Libertà.
Il tuo ‘amore di Dio’ lo lascia freddo
La vita lo trascina in giro con la forza.

L’alta quota non gli porta che congelamento
La ragione per lui è pane raffermo.
Ricchezza e Donne e Fama e Famiglia
Questo lo riempie dall’alba al tramonto.

Devi essere abbastanza bravo da perdonarmi
Perché qui mi viene in mente Münchhausen ,
L’unico a cui sia mai riuscito il trucco
Di tirarsi fuori dal pozzo nero per i suoi capelli.

Pensi che il suo esempio ce lo mostri
Quello che l’insegnamento umano ha da dare.
Mio caro figlio, cosa ti è preso?
Devi nascere un usignolo!

Non fidarti del confortante miraggio:
Devi essere nato in vetta.


(Eco Internazionale, 4 dicembre 2021)


Eitan, oggi rientra in Italia: è tutto pronto

Ha visto in uno spazio 'neutro' a Tel Aviv e alla presenza di un assistente sociale, prima il nonno Shmuel e poi, separatamente, la sua ex moglie, la nonna Esther Cohen

Tutto  pronto per il rientro in Italia del piccolo Eitan, unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone e conteso tra le famiglie di origine del padre e della madre, entrambi morti assieme al fratellino, ai bisnonni e ad altre nove persone nell'incidente dello scorso 23 maggio. A tre mesi di distanza dal giorno in cui è stato rapito e portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg, il bimbo stasera, assieme alla zia paterna Aya Biran e suo marito Or Nirko e alle due cuginette, decollerà per ritornare nella villetta di Travaco' Siccomario, nel pavese. Ieri per lui è stato il giorno dei saluti e dei preparativi. (La sentenza della Corte Suprema)

• I saluti
  Ha visto in uno spazio 'neutro' a Tel Aviv e alla presenza di un assistente sociale, prima il nonno Shmuel e poi, separatamente, la sua ex moglie, la nonna Esther Cohen: con loro continuerà a sentirsi per telefono mentre con gli zii da parte di mamma la promessa è di incontrarsi presto. Il bimbo è stato anche sottoposto al tampone come i famigliari che con lui prenderanno il volo in direzione Bergamo. Un volo in cui, da quanto si è saputo, avranno da parte del personale di bordo tutte le attenzioni necessarie affinché sia garantita la massima serenità.

(TGCOM24, 3 dicembre 2021)


Israele invia una delegazione di medici in Romania per aiutare i reparti COVID-19

di David Fiorentini

Una delegazione israeliana di cinque medici, guidata dal dottor Rami Sagi, vice direttore della divisione ospedaliera del Ministero della Salute israeliano, si è recata a Bucarest, in Romania, su invito dell’ambasciatore di Israele in Romania David Saranga.
  La spedizione, composta da personale medico senior dei rinomati ospedali Rambam, Hadassah e Shaare Zedek, è stata accolta da alti funzionari governativi, tra cui il dott. Raed Arafat, Segretario di Stato presso il Ministero degli Interni rumeno. I medici, riporta JNS, hanno visitato gli ospedali di Bucarest, così come diversi ospedali da campo stabiliti nelle vicine periferie.
  Al momento, la Romania è all’apice della quarta ondata, conta più di 5.000 nuovi casi e 500 decessi al giorno. “Il peso sugli ospedali è evidente. Nonostante usino medicine moderne, attrezzature avanzate e protocolli di trattamento ampiamente riconosciuti, queste misure non sono sufficienti”, ha affermato il dott. Fuchs, direttore del reparto COVID-19 A del Rambam Health Care Campus.
  Secondo il direttore israeliano, nonostante la conversione dei reparti di pronto soccorso in centri COVID-19, persiste una forte carenza di risorse e posti letto, poiché, a causa della mancanza di un efficiente sistema di follow-up extra-ospedaliero, spesso anche i pazienti non gravi rimangono a lungo ricoverati.
  Nella sua visita, infatti, il team israeliano ha appreso che, oltre alla penuria di ventilatori, mancano le preziose bombole di ossigeno che permetterebbero ai pazienti meno critici di curarsi a casa.
  Per di più: “La Romania ha un movimento di protesta particolarmente attivo contro i vaccini, che ha contribuito a tassi di vaccinazione estremamente bassi nonostante l’aggressiva campagna di vaccinazione del Governo. – ha continuato Fuchs – Il nostro obiettivo è quello di aiutare le squadre sanitarie a sconfiggere l’attuale ondata di COVID. Spero che saremo in grado di contribuire in qualche modo alla gestione di questa viziosa malattia da parte del popolo rumeno, rafforzando ancora di più la profonda relazione tra i nostri due Paesi”.

(Bet Magazine Mosaico, 3 dicembre 2021)


Sono nella black list dei terroristi. Il ministro Di Maio li riempie di soldi

Il caso sollevato da FdI: ai fondamentalisti palestinesi i fondi della cooperazione italiana. Ma la Farnesina difende le Ong.

di Fabio Amendolara

Terroristi per Israele, Canada e Usa ma poveri cooperanti per la Farnesina italiana. Sull'asse Roma-Tel Aviv va in scena una spy story. A sollevare il caso è stato il deputato di FdI Andrea Delmastro sulla base di informazioni in possesso dei servizi segreti israeliani: «I soldi della cooperazione internazionale a organizzazioni legate al Fronte popolare per la liberazione della Palestina». Ma il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha replicato chiedendo a Israele di rivedere le informazioni in suo possesso. Intanto è stato arrestato dalla polizia di Venezia un sospetto estremista islamico, appartenente all'Isis, ricercato dall'autorità giudiziaria di Tunisi. Il giovane era arrivato in Italia su un barcone attraccato a Lampedusa. Ora si trova nel centro di permanenza di Gradisca in attesa di estradizione.
  Ci sono anche i fondi italiani della cooperazione internazionale nelle casse di una formazione politico-militare palestinese di ispirazione marxista-leninista che Canada, Stati Uniti e Unione europea bollano come una «organizzazione terroristica». Al pari di Israele, dove il caso si è subito trasformato in uno scandalo. Ma il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fa il pesce in barile e, rispondendo a una interrogazione presentata dal deputato di Fratelli d'Italia Andrea Delmastro Delle Vedove, invece di stoppare immediatamente i flussi di denaro, si è fatto portavoce di una «azione di sensibilizzazione nei confronti delle autorità israeliana affinché queste ultime forniscano prove più circostanziate a sostengo delle gravi accuse mosse alle organizzazioni oggetto del provvedimento di designazione».
  La risposta di Di Maio è imbarazzante. E i presunti terroristi marxisti-leninisti, ovviamente, ringraziano. Ma ora bisognerà capire cosa c'è dietro. Il caso è scoppiato il 6 maggio scorso, quando sul quotidiano Jerusalem post è apparsa una notizia dai contenuti dirompenti: quattro palestinesi erano stati accusati di aver dirottato fondi per la cooperazione allo sviluppo, provenienti dall'Europa, verso il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. L'organizzazione, fondata nel luglio 1967 da George Habash, si definisce come «fazione di avanguardia della classe lavoratrice palestinese e più in generale dei lavoratori salariati», il cui obiettivo strategico è «la liberazione della Palestina dall'occupazione coloniale sionista» e la «creazione di uno Stato democratico palestinese su tutto il territorio della Palestina storica, con Gerusalemme quale sua capitale».
  L'allarme era stato lanciato dallo Shin Bet, l'intelligence israeliana che si occupa della minaccia interna, che hanno informato il governo sostenendo di aver scoperto l'esistenza di un «sistema di organizzazioni sparse in Europa, capaci di ottenere milioni di euro da dirottare per finanziare azioni violente e terroristiche».
  Gli israeliani hanno fornito nei mesi scorsi anche alle controparti europee prove che dimostrerebbero che sei organizzazioni messe sotto accusa (Al Haq, Uawc, Defence for children, Bisan center, Adameer e Union of palestinian women's commitees} sarebbero coinvolte in operazioni di raccolta e riciclaggio di fondi a favore del Fronte popolare per la liberazione della Palestina usati per il reclutamento di attivisti e per sostenere le famiglie di terroristi condannati. Una sorta di soccorso rosso alla palestinese. Esponenti di due organizzazioni non governative finanziate, inoltre, sarebbero stati arrestati e condannati l'anno scorso in quanto membri di una cellula terroristica affiliata al gruppo socialista rivoluzionario, responsabile dell'uccisione della diciassettenne Rina Shnerb nell'agosto 2019.
  Nel 2018, inoltre, l'Arab Bank aveva fermato i flussi bancari a favore di un'altra Ong finita nel mirino per presunti legami di alcuni suoi esponenti con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. «Lo Shin Bet», sostiene Delmastro, «ha dichiarato di avere una lunga serie di prove che documentano come queste organizzazioni palestinesi producano reportistich e attività fittizie in grado di giustificare l'impiego dei fondi provenienti dall'Europa». E la Ngo monitor, una Ong israeliana, ha condotto uno studio secondo il quale oltre 70 funzionari di Ong palestinesi sarebbero collegati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Delmastro ha quindi ricordato che «l'articolo 270 bis del codice penale italiano sanziona il reato di finanziamento al terrorismo». E che «qualora quanto rappresentato dal ministro degli Esteri israeliano fosse vero, ciò rappresenterebbe una macchia indelebile per la cooperazione allo sviluppo in Italia»,
  Le informazioni fornite da Israele, però, secondo Di Maio, «non appaiono sufficienti». E rimandando la palla nel campo israeliano è arrivato a sostenere che «altri sviluppi» sarebbero invece «meritevoli di attenzione», quali «le demolizioni e gli sfratti di proprietà palestinesi, gli episodi di violenza da parte dei coloni ai danni della popolazione palestinese e gli annunci di nuovi insediamenti nei territori occupati». Una risposta che sembra scritta dagli avvocati del Fronte popolare. Inoltre, Di Maio ha ricordato che« alcune di queste organizzazioni intrattengono fruttuosi rapporti con le nostre organizzazioni della società civile per l'attuazione di importanti progetti di cooperazione». E ha affermato che, nonostante la richiesta arrivata da Israele di interrompere i finanziamenti, non chiuderà i rubinetti, anzi: «Due organizzazioni tra quelle designate collaborano attualmente come partner di organizzazioni italiane in progetti finanziati tramite i bandi ordinari gestiti dall'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo».
  La risposta, come era facile immaginare, ha fatto infuriare Delmastro: «È agghiacciante che i fondi della cooperazione possano finire nelle mani di terroristi e che per Di Maio vada bene così. Non è possibile che ci sia solo anche la lontana possibilità che quei fondi della cooperazione italiana arrivino a finanziare le organizzazioni terroristiche».

(La Verità, 3 dicembre 2021)


Perché stupirsi se molti non hanno fiducia nei vaccini?

di Gerardo Coco

Il numero di falsità e distorsione di fatti sul Covid-19 e relative varianti è sbalorditivo. Ricorda il “1984” di George Orwell, la distopia in cui sono tollerati solo i fatti e le idee sanciti dai governi. Un numero inquietante di professionisti medici, virologi e immunologi – le cui posizioni e prestigio dipendono dagli Esecutivi e dunque da quello che la politica consente loro di fare e dire – ha sempre affermato che si sarebbe tornati alla normalità dopo un ampio utilizzo dei vaccini. Ma era ampiamente prevedibile che i vaccini non avrebbero impedito di ammalarsi di Covid e di diffonderlo agli altri. A circa un anno dall’inizio della campagna vaccinale mondiale, ci sono innumerevoli casi segnalati nei Paesi più vaccinati di alti tassi di trasmissione virale. Israele, uno dei primi leader nella vaccinazione, ha anche il più alto tasso di infezione del pianeta. La maggior parte dei nuovi casi sono tra i vaccinati, così i governi e i “sottomessi” cercano disperatamente di nasconderlo.
  Allora, se tutti sono vaccinati e possono ancora contrarre e diffondere il Covid, perché i non vaccinati dovrebbero essere un pericolo per i vaccinati? Niente di quello che sta accadendo ha più senso, perché i governi si sono intrappolati in una rete infinita di bugie e niente di quello che hanno fatto e stanno facendo è degno della minima fiducia. Più volte abbiamo scritto che, poiché il Covid risiede a un livello molto ampio anche negli animali, non esiste alcuna possibilità che un vaccino possa porvi fine. Sarà come per l’influenza, tornerà stagionalmente perché si evolverà. A volte si è avuta l’influenza aviaria e altre, l’influenza suina. Il vaiolo è stato debellato solo perché era limitato agli esseri umani. Ciò significa che questa forzatura sui vaccini è una “frode” deliberata.
  I vaccini non sono mai stati concepiti per sradicare il virus che non riusciremmo mai a eliminare anche indossando tute protettive al chiuso 24 ore su 24, 7 giorni su 7, ricevendo i vaccini in corso. Volevano che credessimo che le cose sarebbero tornate alla “normalità” dopo che il vaccino fosse stato disponibile. È iniziato come un processo di vaccinazione una tantum in due fasi per continuare con una serie infinita di richiami. I vaccini a mRna sono nuovi e non si ha una piena comprensione degli effetti a lungo termine. Il pericolo è che potrebbero ridurre l’immunità ad altre malattie, alterando il sistema immunitario naturale, anche se non ci sono studi a lungo termine per confermare o negare questa affermazione. Ma proprio come l’uso eccessivo di antibiotici sta portando ai superbatteri, questi vaccini potrebbero mettere a nudo l’immunità naturale e aumentare il rischio di nuove mutazioni che, inevitabilmente, si manifesteranno. Pertanto, quanto alla sicurezza di questi vaccini, solo il tempo lo dirà. Ora, pur sapendo ben poco sui suoi effetti, la società produttrice di vaccini, Moderna, ancor prima che la Comunità scientifica abbia avuto la possibilità di studiare la nuova variante Omicron che ha oltre 32 ceppi, ha affermato di essere vicina alla produzione di un nuovo vaccino. Di conseguenza, all’inizio di questa settimana, il titolo di Moderna è salito del 14 per cento, uno dei migliori risultati fino a oggi dell’indice di borsa S&P 500. Nessuno comprende ancora questa variante e già si è pianificata la produzione di un nuovo vaccino! Ciò dovrebbe sollevare molte domande e la prima e più ovvia è: se queste aziende non comprendono le varianti, come possono sviluppare vaccini sicuri e efficaci?
  La realtà è che le aziende produttrici stanno ora cercando di “incassare” l’Omicron, poiché ogni nuova variante rappresenta un mercato potenziale di oltre sette miliardi di persone. Dato che non è mai stato possibile fermare un virus altamente mutante con la vaccinazione, cosa che era ben nota, l’intera impresa del vaccino Covid è stata fin dall’inizio una “frode” gigantesca. Tutto ciò non è una sorpresa per chiunque abbia familiarità con la dinamica dell’industria farmaceutica. I produttori di farmaci (Big Pharma) tendono a sopravvalutare l’efficacia dei loro prodotti, facendo del loro meglio per sottovalutarne gli effetti collaterali. È a questo scopo conducono prove che vengono manipolate per ottenere i risultati desiderati.
  Per far approvare i propri farmaci Big Pharma, attualmente, spende oltre 4,5 miliardi di dollari in attività di lobbying. L’influenza politica spiega anche perché l’immunità naturale, superiore a quella vaccinale, perché priva di effetti collaterali, sia stata scandalosamente ignorata. I produttori hanno sfruttato il senso di emergenza provocato dalla pandemia per condurre prove affrettate e incomplete, progettate per ottenere i risultati che servivano ai governi. Ci sono tutte le ragioni per credere che l’efficacia dei loro prodotti non fosse affatto vicina all’intervallo di 92-98 per cento inizialmente previsto anche per le varianti che erano in circolazione in quel momento.
  Il meglio che si possa sperare ora è che questi “falsi” vaccini distribuiti da governi senza scrupoli, che non ammetteranno mai errori e avide compagnie farmaceutiche, siano inefficaci. Essendo somministrati nell’ordine di milioni di dosi al giorno, possiamo solo pregare che i potenziali effetti collaterali di questi intrugli testati frettolosamente da “spietati profittatori” non producano la più grande calamità sanitaria della storia.

(l'Opinione, 3 dicembre 2021)


«Niente di quello che sta accadendo ha più senso, perché i governi si sono intrappolati in una rete infinita di bugie e niente di quello che hanno fatto e stanno facendo è degno della minima fiducia.» E' una realtà che molti non riescono più a vedere perché la rete internazionale di bugie vaccinali si è autorigenerata per una confluenza di interessi illeciti, paure latenti e diffuse stupidità, diventando un'unica grande menzogna, talmente grande da non essere più riconosciuta da chi ormai ci si vive dentro. E ha dato la parola alla follia che siede su "i luoghi elevati della città per gridare a quelli che passano per la via: chi è sciocco, venga qua!" (Proverbi 9: 13-18). Chi può, provi a resistere. Presentiamo questo articolo anche in formato PDF proponendo di diffonderlo tra amici e conoscenti. M.C.


L'altra faccia dei vaccini

Sono migliaia i casi in tutta Europa, segnalati sul sito Eudravigilance dell'agenzia del farmaco Ema, di sospetti «effetti avversi» che si sono verificati dopo la somministrazione dei quattro antidoti contro il Covid. E che hanno coinvolto vari organi, dal cuore al cervello, dagli occhi alla pelle. Nell'attuale corsa all'immunizzazione, le tante testimonianze di chi ha dovuto affrontare questi esiti descrivono una realtà su cui la scienza dovrebbe interrogarsi.

di Angela Camuso

«Io ora a 47 anni sono cieca» si dispera Caterina Santangelo, di Catania, titolare di un'azienda agricola. «Due giorni dopo la seconda dose Pfizer non ci vedevo più. Forse per un trombo o un'ischemia al cervello di cui ho trovato traccia negli esami. Un medico ospedaliero mi ha certificato la correlazione con il vaccino, ma altri medici mi dicono che non c'è legame. Già dopo la prima dose avevo avuto dolori dal gomito sinistro fino al torace ma pensavo fosse normale. La sera prima di diventare cieca erano tornati quei dolori, ma io stupidamente non sono corsa in ospedale. Ora ho la vita rovinata».
  Gli eventi avversi «gravi» segnalati in Europa dopo il vaccino Pfizer, spesso causa di ricovero con prognosi riservata, sono 219.960 secondo i dati Eudravigilance del 20 novembre scorso (è la banca dati dell'Ema, l'Agenzia europea del farmaco, che raccoglie le segnalazioni di sospette reazioni avverse ai medicinali autorizzati, provenienti da medici e pazienti). Di questi, 12.218 al sistema linfatico e alla circolazione, 28.917 al cuore; 11.883 le persone danneggiate agli occhi, 10.942 quelle con problemi al sistema immunitario, 1.068 i tumori benigni e maligni, 1.748 gli effetti su donne in gravidanza e nascituri, 12.869 quelli per sistema riproduttivo e allattamento. Sempre secondo Ema, dopo il vaccino Moderna gli eventi gravi segnalati sono stati 69 .024 di cui 10.262 al cuore; 2.388 a sistema riproduttivo e allattamento, 499 i tumori benigni o maligni; 9.922 quelli dermatologici e sottocutanei, 32.143 gli effetti gravi al sistema nervoso. Per AstraZeneca ne vengono segnalati 203.685, tra cui: 113.981 al sistema nervoso, 17.920 a quello vascolare, 12.168 agli occhi, 19.470 le infezioni. Per Johnson & Johnson sono 13.164, dei quali 1.219 al cuore, 5.543 al sistema nervoso, 2.271 alla respirazione e 2.517 al sistema vascolare. In totale, per tutti e quattro i vaccini, gli effetti gravi (anche mortali) sono 505.833, quelli non gravi 675.288. Riguardano soprattutto persone tra 18 e 64 anni, più le donne, e il trend è in crescita. Dal terzultimo aggiornamento, del 19 ottobre, all'ultimo, 20 novembre, sono stati segnalati 40.252 effetti gravi in più, 26.094 solo per Pfizer, e quelli cardiaci sono quasi il triplo di quelli non gravi: nelle schede di segnalazione, si legge che dopo Pfizer, l'ultimo adolescente è morto per arresto cardio-respiratorio il 17 novembre, un altro per miocardite il 3 novembre; il 2 novembre un altro minorenne ha avuto un arresto cardiaco e il 18 ottobre è morta una ragazzina. Il 13 ottobre sei morti adulti tra 18 e 64 anni per miocarditi e infarti, altre 97 in ospedale per pericarditi.

• Infarti, problemi deambulatori, visivi, riacutizzazioni di patologie pregresse
  C'è anche "l'effetto trigger", ossia scatenante: uno può avere una patologia silente e il vaccino provoca un evento acuto» sostiene Alessandro Capucci, da Bologna, cardiologo e medico dello sport (vaccinato come tutti i medici, per i quali sussiste l'obbligo). «Su 40 pazienti che vedo a settimana, sette-otto hanno problemi, presumibilmente legati all'iniezione. Ci sono anche donne di 30 anni che non riescono più a camminare». Stesso allarme da un altro cardiologo, Fabrizio Salvucci, fino a un anno fa nei reparti Covid: «Sto vedendo molte perimiocarditi da vaccino. Fino al 1° ottobre, in 30 anni non avevo mai fatto segnalazioni alla Farmacovilanza, ora ne ho dovute fare nove in 21 giorni. Soprattutto per la terza dose».
  Le pericarditi, se non curate, possono dare perimiocardite e dilatazione del cuore (sono la terza causa di morte negli sportivi): «Mi è successo con un ragazzo che dopo il vaccino accusava dolore al petto e dispnea. Fastidi lievi, però dopo sei mesi aveva una perimiocardite, scoperta perché è stato ricoverato per un altro intervento. Io l'ho potuto correlare al vaccino perché avevo un suo eco cardiogramma antecedente».
  La perirniocardite da vaccino può essere fulminante. L'Ema sulle schede dei pazienti morti il 13 ottobre cita uno studio di Antonio Abbate sul legame temporale tra questa infiammazione cardiaca e il vaccino Pfizer, sull'International Joumal of Cardiology del 18 agosto 2021. «Un signore è arrivato poco tempo dopo la terza dose con una perimiocardite violenta, che abbiamo potuto curare in tempo» prosegue Salvucci.

• I timori arrivano anche da altri medici
  Roberta Ricciardi, neurologa che all'ospedale universitario Cisanello di Pisa segue pazienti con miastenia, malattia auto-immune, avverte: «Non si può dire: "tutti si debbono vaccinare": bisogna selezionare, altrimenti rischiamo di creare danni. Io ho 7.500 pazienti con miastenia grave e la maggior parte dei vaccinati è peggiorata: ora hanno difficoltà a masticare, parlare, camminare». Un aiuto primario di un ospedale della Sicilia confida: «In un anno vedevo uno-due casi di trombosi della vena centrale della retina, invece ne ho già riscontrati una quindicina dall'estate, alcuni dopo poche ore dopo la somministrazione. Hanno dato problemi tutti questi nuovi vaccini. Il paziente ha una perdita del visus e poi scopri un evento trombotico. Se viene in pronto soccorso entro un'ora si può risolvere ma in genere ciò non succede. E quindi perde la vista, di solito a un occhio solo. Il problema a volte è che tu medico di pronto soccorso correli l'evento, ma il paziente poi non segnala all'Aifa: al momento della vaccinazione non viene neanche dato un modulo per eventuali reazioni avverse».
  La segnalazione è lasciata alla libera iniziativa del paziente o del medico di base, e i dati Ema possono essere sottostimati: l'Olanda, con meno di un terzo della nostra popolazione, ha segnalato per Pfizer 15 mila eventi avversi in più rispetto all'Italia.
  «Mio padre è morto mentre stava tagliando la bistecca a mio figlio. È stramazzato davanti a un bambino di 9 anni. I medici dicono che non è stato il vaccino, ma era sanissimo» racconta Chiara. Ha chiesto alla procura l'autopsia, ma dopo tre mesi non ha avuto ancora risposta. Betty T. ha avuto un arresto cardiaco dopo la prima dose e ora il medico le ha fatto l'esenzione. Natasha P, dalla Sardegna: «Mio padre ha 70 anni e si è trasformato, in due settimane dalla seconda dose, in un vecchio di 90 ... Ha iniziato a ingobbirsi, a respirare male ... Ora è ridotto a letto con la macchina dell'ossigeno».

• Quali siano le cause di queste sospette reazioni avverse è quanto si sta cercando di capire
  I primi studi si concentrano sulla proteina Spike, che accomuna i quattro vaccini e può innescare processi infiammatori. Uno studio su Pub Med di Jiping Liu ha analizzato le alterazioni patofisiologiche prodotte da questi vaccini: conclude raccomandando prudenza nella somministrazione in chi ha patologie come diabete, disfunzioni renali, disturbi della coagulazione.
  Un'altra indagine di Martina Patone sulle complicazioni neurologiche dopo i vaccini e dopo il Covid, sempre su Pub Med, conclude riportando 38 casi in eccesso della sindrome di Guillain-Barré su 10 milioni di persone che avevano ricevuto il vaccino Astrazeneca (e 145 casi in più, su 10 milioni, dopo una diagnosi di Covid-19).
  Francesca Melingolo, di Cesena, educatrice per bambini disabili, 41 anni, ora è un'invalida e non sa se e quando guarirà: «I miei figli da bambini hanno fatto anche i vaccini facoltativi, ma io con questi non ero convinta. Per lavorare ho ceduto. Dopo cinque minuti ho avuto una forte compressione alla testa, poi il dolore è andato sparendo, ma la sera ho avuto un intorpidimento del viso poi esteso alla gamba e al braccio destro. Il medico curante ha ipotizzato un legame col vaccino e mi ha mandato al pronto soccorso. Ho fatto Tac e altri esami ma ancora non so che cosa ho. Ho il lato destro paralizzato e nessuno mi ha dato una terapia. Ora non ho più forze».
  «La figlia di un'amica di 19 anni, dopo Moderna ha avuto febbre per dieci giorni a 37,5, poi all'11° giorno febbre alta: in ospedale le trovano un'anomalia al cuore. Gli esami del sangue erano sballati ma nessuno ha registrato la correlazione. Poi un'altra amica, dopo Pfizer: paralisi al viso e perdita di equilibrio, anche qui nessuna segnalazione. Ho saputo di donne con continue mestruazioni, anche di 50 giorni consecutivi e fibromialgia all'utero» scrive Cinzia.
  Per Chiara, infermiera a Padova, seconda dose il 26 gennaio scorso, il 27 inizia un forte dolore alla gamba destra, poi ai polpacci, nei mesi dopo tachicardia e spossatezza. Al pronto soccorso, le riscontrano il morbo di Basedow. «Non ho familiarità per problemi di tiroide e prima stavo bene, vorrei capire se può essere stato il vaccino. Ora dovrò fare il terzo richiamo?».
  Più fortunata Tatiana Krevatin, che scrive: «Dopo la prima dose ho avuto un'emiparesi facciale, risolta in una decina di giorni». «Al fratello del mio ex marito» scrive Lorena «dopo qualche mese dal siero è stato diagnosticato un tumore fulminante al cervello. Ha 53 anni, sempre stato bene. Gli danno poche settimane di vita. A una mia parente, in menopausa da due anni, è tornato il ciclo. Un mio amico, 56 anni, dopo un giorno dalla seconda dose lamentava dolori al petto ed è stato ricoverato per forte scompenso cardiaco: faceva il magazziniere, ora non riesce più a sollevare neanche un peso di tre chilogrammi e attualmente sta facendo terapie».
  Sui social si stanno formando gruppi di aiuto. Tanti dopo il vaccino si sono ammalati e ancora non sono guariti. E poi ci sono le morti improvvise senza risposte. Quella di Traian Calancea, per esempio, 24 anni, residente a Trento, del 20 ottobre scorso: sano, sportivo, trovato esanime sul pavimento del bagno per un'emorragia cerebrale dieci giorni dopo il Pfizer. La madre ha presentato denuncia.

(Panorama, 1 dicembre 2021)


Israele - Variante Omicron, stop al tracciamento di cellulari contagiati

Il governo non esclude di riattivarlo in caso di necessità

Cellulari dei contagiati da variante Omicron tracciati in Israele. Il controverso programma locale finirà oggi. Il programma affidato ai servizi d'intelligence interni dello Shin Bet era stato approvato domenica e scade oggi. Il primo ministro Naftali Bennett e il ministro della Salute Nitzan Horowitz hanno annunciato questa sera che non lo estenderanno, riferisce Times of Israel. Il programma ha contribuito "allo sforzo per interrompere la catena di infezioni", hanno spiegato Bennett e Horowitz, riservandosi di riattivarlo nel caso fosse necessario. "Avevo insistito che l'uso di questa tecnologia dovesse essere ristretto e di breve durata, per qualche giorno, per poter ottenere informazioni urgenti per ridurre la diffusione di una variante sconosciuta. E' esattamente quello che abbiamo fatto", ha detto su Twitter Horowitz, che l'anno scorso si era opposto all'uso del programma quando era all'opposizione.

(Adnkronos, 2 dicembre 2021)


Aspettando Eitan

Dopo la sentenza della Corte israeliana domani è previsto il rientro a Pavia del bimbo conteso. Il paese è pronto ad accoglierlo nella massima riservatezza per dargli almeno un po' di tranquillità.

Il sindaco: "Spegniamo i riflettori pensiamo a lui come a nostro figlio" Per il viaggio da Tel Aviv accanto a lui ci saranno anche le cuginette

di Niccolò Zancan

PAVIA - Non ci sono palloncini colorati al cancello, nemmeno uno striscione di bentornato. C'è, invece, un telone verde a coprire la vista sul giardino e sull'ingresso di casa di Eitan Biran. Lo hanno messo i nonni paterni come gesto d'amore. E così che dovrà essere il futuro. Un futuro protetto, riparato. Un futuro lontano dal chiasso e dalla morbosità. Un futuro il più possibile simile alla vita di un bambino di sei anni. Domani è il giorno: dopo il rapimento organizzato e messo in atto dal nonno materno Shmuel Peleg e dopo tre mesi di contesa giudiziaria fra l'Italia e Israele, Eitan Biran, l'unico sopravvissuto alla sciagura della funivia del Mottarone, torna a casa.
  È questo l'indirizzo assegnato dal giudice, una villetta come tante in una piccola frazione alle porte di Pavia. Dove i suoi genitori erano venuti a vivere e lavorare, dove sognavano di comprare una casa nuova. Lo ribadisce il punto 33 della sentenza della Corte Suprema israeliana con cui è stato rigettato l'ultimo ricorso, forse il passaggio più importante nelle motivazioni dei giudici: «Non si può contestare che il luogo di residenza normale del minore, trasferitosi dopo il suo rapimento in Israele, fosse in Italia. Il minore ha vissuto in Italia quasi tutta la vita. Il suo caso non è quindi assimilabile a un viaggio all'estero di un genitore per un periodo determinato, al quale il ricorrente ha fatto riferimento. I giudici di primo grado hanno stabilito di fatto che i genitori del minore defunti avevano deciso di restare in Italia».
  Eccola, è questa. È la casa italiana. Dietro al telo verde, davanti a un'edicola e alla lavanderia gestita dalla signora Elena Milanesi: «Ho sentito le notizie. Sono felice del ritorno di Eitan. Ma adesso bisogna lasciarlo in pace, povero bambino. Non potrà mai dimenticare quella terribile tragedia, spero almeno che possa trovare un po' di serenità. Più di tutto, mi auguro che non gli abbiano fatto sapere della contesa legale. Sarebbe un altro dolore ingiusto e aggiuntivo».
  Proprio così. Almeno su questo aspetto, a parole, sono sempre stati tutti d'accordo. Sia gli zii affidatari, Aya e Nirko Biran. Sia la famiglia Peleg, che dopo il rapimento dell'11 settembre a bordo di un jet privato e con l'aiuto di un contractor, ha fatto di tutto per trattenere il bambino a Tel Aviv. Scontri di avvocati e dispute su canali televisivi concorrenti, anche colpi bassi. Ma al piccolo Eitan hanno sempre cercato di fare intendere quei giorni in Israele come una vacanza. Perché in effetti succedeva ogni estate. Ogni estate della sua vita precedente.
  E' anche per questo motivo che il ritorno sarà all'insegna della massima riservatezza. Dovrà essere un ritorno normale. Anche il sindaco di Pavia Fabrizio Fracassi, che aveva organizzato una raccolta fondi sotto il titolo di «Un pensiero per Eitan», adesso chiede che vengano spenti i riflettori. «Ho seguito dall'inizio questa bruttissima vicenda. Sono estremamente felice del ritorno del bambino a casa, ma mi resta un po' di apprensione fino a quando non lo vedrò. È troppo brutto quello che gli è stato fatto. Pensare a quel rapimento organizzato dal nonno con un mercenario mi lascia ancora sgomento. Ma il giorno del ritorno di Eitan a Pavia, proprio quel giorno, certamente sarà un bel giorno. Però ... ». Però, cosa? «Chiedo a tutti di aver rispetto. Eitan ha bisogno di tranquillità. Ha bisogno dell'amore e dell'affetto della sua nuova famiglia. Chiedo a tutti di avere molta delicatezza. Stiamo parlando di un bambino di sei anni che ha vissuto il peggio del peggio che possa toccarti in un'esistenza. Ha perso i genitori, ha perso il fratello. Pensiamo a lui come se fosse nostro figlio».
  Dietro a questo telo verde ci sono i giochi. E qui davanti parte la strada per andare a scuola, la stessa scuola che frequentava l'anno scorso. All'istituto Maddalena di Canossa hanno già recepito il messaggio: «Non diremo una sola parola su Eitan. E' una questione troppo delicata». La direttrice della scuola, madre Paola Canziani, aveva raccontato di quel banco improvvisamente vuoto, si era detta scioccata per il rapimento. Ma adesso anche lei non vuole più commentare. E' il tempo del silenzio.
  Sarà il rumore di sempre ad accogliere Eitan Biran. I giochi con le cugine che frequentano la sua stessa scuola, i nonni paterni che abitano dietro casa e hanno sempre aspettato questo giorno senza perdere la calma. Non hanno rilasciato una sola dichiarazione dal giorno del rapimento. Adesso stanno preparando la casa per il ritorno. C'è il camper delle vacanze parcheggiato sul retro, c'è una scritta in ebraico sull'accoglienza all'ingresso. E ci sono loro, anche questa sera, a tenere le luci accese.
  Prima di tornare in Italia, però, Eitan Biran saluterà i nonni come alla fine di una vacanza. O almeno, tutti cercheranno di farlo assomigliare a qualcosa di simile, e più saranno convincenti, più saranno stati bravi, più potrà essere una partenza tranquilla. E' già stato organizzato l'incontro. Concordato il posto con gli avvocati e l'autorità giudiziaria. Eitan Biran saluterà il nonno che l'ha rapito come dopo un semplice viaggio estivo. Poi, assieme ai suoi nuovi genitori, Aya e Nirko Biran, assieme alle sue cugine che sono già sorelle, si imbarcherà su un volo di linea, un normalissimo low cost.

(La Stampa, 2 dicembre 2021)


Israele sconsiglia viaggi all'estero, ma la moglie del premier parte con i figli: è bufera

A causa della variante Omicron il governo ha invitato i cittadini a non uscire dal Paese. L'opposizione attacca Naftali Bennett. Il portavoce: "Viaggio programmato"

TEL AVIV - Bufera politica e mediatica in Israele dopo la decisione di Gilat Bennett, moglie del premier Naftali Bennett, di andare in vacanza con i figli all'estero proprio all'indomani delle misure restrittive introdotte dal governo per evitare l'ingresso nel Paese (già avvenuto) della nuova variante Omicron. E così, mentre la linea politica del governo del marito sconsiglia agli israeliani di viaggiare fuori del Paese, la moglie fa le valigie e parte con i figli.
  Inevitabile l'attacco di maggioranza e opposizione nei confronti di Bennet per la scelta della consorte. Ma dall'ufficio del premier fanno sapere: "Il viaggio era stato programmato prima delle nuove restrizioni che hanno definito 'Paesi rossi' tutti quelli del Centro e del Sud dell'Africa. Ora è stato rivisto in base alle nuove disposizioni".  La meta, secondo quanto reso noto dai media locali, dovevano essere le isole Mauritius che tuttavia sono diventate 'rosse' e per questo è stato scelto un altro posto.
  Ma la nuova destinazione di Gilat Bennett non ha evitato la polemica, tanto più che il governo di Tel Aviv ha deciso di adottare la linea del rigore, chiudendo le frontiere per due settimane con il divieto d'ingresso agli stranieri e l'ampliamento della quarantena obbligatoria per gli israeliani vaccinati che arrivano dall'estero. In base alle nuove regole, infatti gli israeliani vaccinati dovranno entrare in quarantena per 72 ore e fare un altro test il terzo giorno dopo il loro arrivo, mentre i viaggiatori non vaccinati dovranno invece rimanere in quarantena per almeno una settimana e potranno lasciare l'isolamento solo dopo aver ricevuto un esito negativo del test condotto il settimo giorno.Infine gli israeliani provenienti da paesi "rossi" ad alto rischio dovranno essere messi in quarantena in hotel scelti dallo Stato fino a quando non riceveranno un risultato negativo del test del virus. 

(Il Giorno, 2 dicembre 2021)


Gaza senza salari, spunta l'intesa Hamas-Qatar-Egitto

L'autore di questo articolo parla di "blocco imposto da Israele 14 anni fa" ma non nomina il blocco posto dall'Egitto. "Siamo in una grande prigione", dicono i palestinesi, ma non sono molte le prigioni da cui si può sparare come da Gaza. Forse risparmiando un po' di soldi sui missili.... NsI


di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il Mancanza di infrastrutture, poca energia elettrica, scarsa acqua potabile, disoccupazione record, povertà estrema e tanto altro. E lungo l'elenco dei problemi della Strida di Gaza aggravati o causati dal blocco imposto da Israele 14 anni fa. E ci sono anche problemi che vengono fuori periodicamente. Come la mancanza di fondi dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i 5,7 milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, Siria e Libano, Cisgiordania e Gaza.
  L'Unrwa, colpita dall'interruzione dei finanziamenti Usa ordinata da Donald Trump e dal calo di quelli di altri paesi, ha fatto sapere di non essere in grado di garantire il salario a tutti i 28mila profughi che lavorano nei suoi ambulatori, scuole e centri per la distribuzione degli aiuti alimentari.
  Il capo dell'agenzia, Philippe Lazzarini, è stato molto chiaro: «I bisogni dei rifugiati palestinesi aumentano mentre i finanziamenti all'Unrwa ristagnano dal 2013. L'assistenza alla maternità e all'infanzia cesserà, mezzo milione di ragazze e ragazzi non sanno se potranno continuare a studiare e i rifugiati più poveri non riceveranno denaro e assistenza alimentare». Con l'amministrazione Biden, ha aggiunto, sono ripresi i finanziamenti statunitensi ma questo sviluppo è stato vanificato dal drastico calo dei fondi di altri paesi donatori.
  A Gaza hanno manifestato e scioperato in migliaia. La protesta si è interrotta dopo le rassicurazioni giunte da funzionari locali dell'Unrwa. Come andranno le cose nessuno lo sa.
  L'Unrwa al momento non ha fondi per pagare gli stipendi di novembre. «Qui a Gaza si vive alla giornata da anni, non c'è lavoro, siamo in una grande prigione, per molti di noi sopravvivere è già tanto», ci diceva ieri da Gaza Azmi Hijazi, insegnante in una scuola dell'agenzia delle Nazioni Unite. Se Azmi può augurarsi che fondi freschi giungano nelle casse all'agenzia per i profughi, oltre 50mila dipendenti pubblici e le loro famiglie sono allo stremo: da sette mesi ricevono meno della metà dello stipendio già basso. Il governo del movimento islamico Hamas non ha liquidità. Ha però fatto sapere dell'esistenza di un accordo tra l'Egitto e il Qatar che permetterà di aggirare l'opposizione di Israele all'uso delle donazioni per gli stipendi dei dipendenti pubblici a Gaza.
  Doha acquisterà carburante in Egitto e lo invierà ad Hamas. Il movimento palestinese a sua volta venderà il carburante a Gaza e utilizzerà i ricavi per pagare i dipendenti pubblici. Le cose però non sono così lineari. Il Qatar conferma solo l'accordo con l'Egitto per l'acquisto del carburante e di materiali per la ricostruzione di Gaza, dopo l'escalation militare tra Hamas e Israele del maggio scorso. E non ha fatto menzione di una intesa specifica per gli stipendi.
  Israele insiste di non essere parte dell'accordo ma è chiaro che le forniture di carburante non sarebbero possibili senza il consenso di Tel Aviv. Potrebbe essere un passo verso l'accordo per una tregua a lungo termine tra Hamas e Israele e per lo scambio di prigionieri di cui si parla da tempo.

(il manifesto, 2 dicembre 2021)


Tel Aviv, quanto mi costi. Roma a buon mercato (ma c'è il caro benzina)

La classifica delle metropoli più dispendiose. Parigi perde il primato, Città Eterna al 48°

di Serena Coppetti

Non è più Parigi la città più cara al mondo, ma Tel Aviv, il centro finanziario israeliano, che nell'ultimo anno ha «spento» la Ville Lumière, scivolata al secondo posto insieme a Singapore, e ha detronizzato in un colpo solo anche Zurigo e Hong Kong, lo scorso anno prime a pari merito insieme alla capitale francese. Una rivoluzione geopolitica quella fotografata dal Worldwide Cast ofLiving, ovvero l'ultimo rapporto dell'Economist Intelligence Unit, la business unit del gruppo Economist che fornisce previsioni e servizi di consulenza economici attraverso ricerche ed analisi di mercato. Le città italiane non compaiono nella top ten dei luoghi in cui il costo della vita è più alto, ma neanche tra le prime 20. Anzi. Non si sa se essere contenti o meno, ma Roma risulta essere sempre meno cara (se non per la benzina), e registra il crollo maggiore in classifica. È scesa di ben 16 posizioni in un anno, piazzandosi dal 32° al 48° posto. I motivi, a detta del report dell'Economist, la diminuzione dei prezzi dell'abbigliamento e dei beni di prima necessità.
  Ma non il costo della benzina. In questa speciale classifica la nostra capitale è tra le top ten, anzi, si piazza al settimo posto, dopo Hong Kong, Amsterdam, Oslo, Tel Aviv, Amburgo, Atene.
  Se la nostra capitale ha avuto un crollo in picchiata, viceversa il balzo più grande ma all'insù, lo ha fatto Teheran, passata in 12 mesi dal 79° al 29° posto, grazie (o per colpa) dei prezzi decollati con le sanzioni statunitensi. Sulla bilancia per stilare la classifica, sono stati infatti inseriti costi e servizi di 173 Paesi: 40 in più rispetto a quelli presi in considerazione nell'ultima edizione. Con le variabili di questa pandemia che ha contribuito a far salire e scendere il costo della vita. «I problemi della catena di approvvigionamento hanno contribuito ai rincari, mentre il Covid e le restrizioni che comporta continuano a pesare sulla produzione e i commerci mondiali», si legge nel report. E se il report vede il primato di Tel Aviv nella «forza della moneta israeliana, lo shekel, rispetto al dollaro, poiché l'indice utilizza come base i prezzi di New York», proprio per questo tra le città più care, risultano anche New York, Ginevra, Copenhagen, Los Angeles e Osaka.
  Fanalino di coda sono Damasco (Siria) e Tripoli (Libia). «In generale, la parte alta della classifica resta dominata dalle città europee e da quelle asiatiche sviluppate, mentre quelle nordamericana e cinesi mantengono prezzi relativamente più bassi», precisa lo studio dell'Economist. In generale, comunque l'aumento dei prezzi rilevato è stato il più rapido degli ultimi 5 anni, pari al 3,5%, rispetto a quello dello scorso anno che arrivava appena all'l,9 per cento.

(il Giornale, 2 dicembre 2021)


L'appello dell'associazione medica ebraica

"Vaccinarsi, scelta di responsabilità"

Proseguono, nel mondo ebraico, gli appelli a vaccinarsi come atto di responsabilità verso se stessi e verso il prossimo. L’Associazione Medica Ebraica, in un intervento firmato da Rosanna Supino e Benny Assael a nome di tutto il Consiglio direttivo, ricorda che “tutte le sperimentazioni scientifiche, ivi comprese quelle riguardanti i vaccini contro il Sars-Covid-19, sono pubbliche, preventivamente approvate da decine di comitati etici indipendenti pubblici e privati; i protocolli sono pubblicati al momento della sottomissione alle autorità regolatorie; i dati degli studi sono valutati in tempo reale da commissioni indipendenti che possono interromperle in qualsiasi momento se compaiono eventi ritenuti rischiosi; i consensi informati devono essere approvati dalle autorità regolatorie e dai comitati etici di tutte le istituzioni che partecipano alla sperimentazione; ogni soggetto è libero di uscire dallo studio ad ogni momento”. Si aggiunge poi nel merito: “I risultati delle sperimentazioni sono pubblici, sottoposti alla comunità scientifica e a enti pubblici regolatori in ogni paese in cui il vaccino dovrà essere utilizzato”.
  Il direttivo dell’Ame specifica quindi che “i dati epidemiologici riguardanti la malattia da Sars-Cov19 sono pubblici e dimostrano in maniera inequivocabile la protezione indotta dalla vaccinazione, riducendo il numero di casi di infezione e proteggendo fortemente dalla malattia grave o dalla probabilità di decesso”. La riprova, viene evidenziato, “è che l’epidemia miete vittime perlopiù nelle aree a scarsa copertura vaccinale”. Ad accompagnare la vaccinazione, di cui si sottolinea la fondamentale importanza, i “classici provvedimenti di contenimento delle infezioni come il tracciamento, gli screening, i controlli sanitari, le eventuali misure di isolamento”. Supino e Assael, in conclusione, ribadiscono: “La vaccinazione è oggi il principale strumento per evitare contagi, ricoveri, paralisi del sistema sanitario che finiscono per colpire anche i portatori di altre malattie o chiunque abbia bisogno di cure per altre affezioni e per prevenire una paralisi socio-economica”.

(moked, 2 dicembre 2021)


L'Associazione Medica Ebraica ha scelto di associarsi pienamente alla propaganda governativa in fatto di covid, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello poliziesco. Gli argomenti generici riportati sono quelli soliti della propaganda ufficiale. Dire che certi dati riportati "dimostrano in maniera inequivocabile la protezione indotta dalla vaccinazione" fa capire che la posizione di questi medici è politica, non scientifica. La vera scienza non parla così. E i medici infatti sono operatori, non scienziati. La loro dichiarazione serve soltanto a rendere pubblica la loro posizione. Se ne prende atto, senza darle alcun altro valore. Almeno da parte di chi scrive. M.C.


*

Vaccinarsi, scelta libera e impegnativa

di Marcello Cicchese

Con questo articolo vorrei prendere in considerazione un particolare aspetto della situazione pandemica che riguarda noi cristiani evangelici: il problema di coscienza.
  Davanti ai dubbi sulla risposta da dare alle pressioni delle autorità, molti, anche tra quelli che nutrono seri dubbi sulla soluzione vaccinale, pensano che sia loro dovere seguire le indicazioni ricevute perché la Scrittura dice che "ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori" (Romani 13:1). E' bene allora sottolineare che a questo riguardo le autorità non ordinano la vaccinazione. Non vaccinarsi non è un reato, infatti non è comminata alcuna pena a chi non si vaccina.
  La coscienza non è posta allora davanti al dilemma "ubbidire o no a un ordine?" ma, "accettare o no un invito che mi viene fatto?" La risposta devo darla io, e me ne devo assumere la piena responsabilità.
  Decidendo di non mettere l'obbligo legale sulla vaccinazione, lo Stato ha voluto scaricarsi di una responsabilità, lasciandola interamente sul singolo cittadino. Nessuno, come semplice cittadino, è obbligato per legge a vaccinarsi, neanche i medici, gli insegnanti o i poliziotti, perché possono sempre scegliere di fare un altro lavoro. Tutti devono "liberamente" scegliere. Lo Stato si limita soltanto a stabilire, con tutta la sua autorità, quali sono le conseguenze di ogni "libera" scelta. Insomma, un po' come fa la mafia quando fa "un'offerta che non si può rifiutare". E se uno la rifiuta la colpa è sua, perché avrebbe dovuto saperlo che gli sarebbe arrivata una pallottola in corpo.
  Chi va a farsi vaccinare non esegue un ordine, ma chiede di essere vaccinato. E se ne assume interamente la responsabilità. Riportiamo qui quello che deve firmare un vaccinando:

  • Ho letto, mi è stata illustrata in una lingua nota ed ho del tutto compreso la Nota Informativa redatta dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AlFA) del/dei vaccino/i: " "
  • Ho riferito al Medico le patologie, attuali e/o pregresse, e le terapie in corso di esecuzione.
  • Ho avuto la possibilità di porre domande in merito al/ai vaccino/i e al mio stato di salute ottenendo risposte esaurienti e da me comprese.
  • Sono stato correttamente informato con parole a me chiare. Ho compreso i benefici ed i rischi della vaccinazione, le modalità e le alternative terapeutiche, nonché le conseguenze di un eventuale rifiuto o di una rinuncia alla dose addizionale o di richiamo (dose "booster").
  • Ho altresì compreso la possibilità di ricevere nella stessa seduta vaccinale la somministrazione di una dose di un altro vaccino come previsto dalla circolare del Ministero della Salute n. 44591 del 02/10/2021 "Intervallo temporale tra la somministrazione dei vaccini anti-SARS-CoV-2/COVID-19 e altri vaccini"
  • Sono consapevole che qualora si verificasse qualsiasi effetto collaterale sarà mia responsabilità informare immediatamente il mio Medico curante e seguirne le indicazioni.
  • Accetto di rimanere nella sala d'aspetto per almeno 15 minuti dalla somministrazione del/dei vaccino/i per assicurarsi che non si verifichino reazioni avverse immediate.

Sotto queste dichiarazioni il vaccinando deve apporre la sua firma, senza che nessun altro firmi qualcosa per assumersi una responsabilità nei suoi confronti. Anzi, se dopo la vaccinazione si dovesse verificare qualche effetto collaterale, anche in questo caso la responsabilità è sua, perché deve informare il suo medico curante, al quale comunque non può chiedere nessuna assunzione di responsabilità nei suoi confronti.
  Volendo parlare di problemi di coscienza, il vaccinando dovrebbe forse chiedersi: ho letto davvero la Nota informativa ecc.?; ho riferito al mio Medico le patologie ecc.? ho fatto domande in merito al vaccino e stato di salute ottenendo risposte esaurienti e da me comprese?
  Particolarmente importante è la quarta domanda. Dopo aver sottoscritto di essere stato "correttamente informato con parole chiare" affinché non possa dire di non aver capito, il documento continua:

    "Ho compreso i benefici ed i rischi della vaccinazione, le modalità e le alternative terapeutiche, nonché le conseguenze di un eventuale rifiuto o di una rinuncia alla dose addizionale o di richiamo".
Il vaccinando dunque viene avvertito che accogliendo la prima dose di vaccino accetta il fatto che a questa dose potranno seguirne altre, e che lui ha ben capito quali sono "le conseguenze di un eventuale rifiuto". E quali sono? Non viene detto. Adesso però si possono capire meglio quali sono le conseguenze di un eventuale rifiuto: perderai il green pass. Che ti serve per vivere. E questo è un modo di fare mafioso.
  Chi si vaccina non ubbidisce a un ordine, ma compie in piena responsabilità una scelta con la quale consapevolmente assume un obbligo davanti a un'autorità che richiede da lui una piena "libera" sottomissione.

(Notizie su Israele, 2 dicembre 2021)


Slovenia: ministro Sanità annuncia stop a vaccino J&J dopo morte di una 20enne

Il ministro della Sanità della Slovenia, Janez Poklukar, ha annunciato che la sua volontà è quella di interrompere la somministrazione del vaccino Johnson & Johnson dopo che una 20enne è morta per una trombosi da esso indotta. La correlazione tra il decesso e la somministrazione del vaccino è stata infatti confermata da un comitato di esperti che, si legge sul sito del governo, all’unanimità si è schierato a favore dell’esistenza di un «legame diretto tra la vaccinazione e l’insorgenza della sindrome». La sospensione era già stata attuata in via precauzionale dopo la morte a settembre della donna ed ora, ha spiegato Polkulkar, «il protocollo di vaccinazione provvisorio attualmente valido con Johnson&Johnson diventerà permanente».

(L'Indipendente, 1 dicembre 2021)


Eitan tornerà in Italia con la zia il 3 dicembre

Il bambino sopravvissuto alla tragedia del Mottarone rientra dopo la sentenza della Corte suprema israeliana dei giorni scorsi.

Eitan, il bambino sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, tornerà in Italia con la zia paterna il prossimo 3 dicembre con un volo da Tel Aviv, dopo la sentenza della Corte suprema israeliana dei giorni scorsi.
  Dopo oltre due mesi dal rapimento a casa della zia paterna Aya Biran a Travacò Siccomario, in provincia di Pavia, del piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, nei giorni scorsi la Corte Suprema israeliana infatti ha messo la parola fine alla vicenda. Con una sentenza a lungo attesa ha respinto il ricorso del nonno materno Shmuel Peleg, destinatario per aver sottratto illegalmente Eitan di un mandato di cattura internazionale della magistratura italiana. Il giudice Alex Stein ha ribadito che in base alla Convenzione dell'Aja - alla quale Israele ha aderito - si è trattato di «un rapimento» verso cui la Carta internazionale prevede «tolleranza zero» e che impone «la restituzione immediata» ai tutori. Quindi ha smontato uno dei cardini dei legali di Peleg, ovvero che la casa di Eitan sia Israele.
  Al contrario, ha stabilito che è indiscutibile che «il luogo normale di vita del minore sia in Italia dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza». Se poi c'è terreno giuridico per discutere del «bene» del minore, il luogo deputato a farlo - per il giudice - non è Israele bensì l'Italia. Così come tocca alle «autorità giudiziarie italiane» stabilire se ascoltare il minore «nel processo di adozione o in un altro processo che riguardi il suo bene».
  Infine, il giudice Stein ha sottolineato che il nonno materno non ha provato, nel suo ricorso alla Corte, che il ritorno di Eitan in Italia «rischia di provocare» al minore «danni mentali e fisici significativi». Per questo ha disposto - una volta restituiti a Eitan i passaporti italiano (da parte del Tribunale) e israeliano (dalla Polizia) - il ritorno del piccolo a casa della zia paterna Aya Biran, come stabilito dalle 2 precedenti sentenze del Tribunale della famiglia e della Corte distrettuale di Tel Aviv.
   Ha poi condannato nonno Peleg, come le volte scorse, al pagamento delle spese processuali: 25 mila shekel, pari a circa 7 mila euro. Una decisione «legalmente, moralmente e umanamente corretta», l'hanno salutata Shmuel Moran e Avi Chimi legali di Aya Biran, affidataria del minore.

(la Provincia pavese, 1 dicembre 2021)


Israele chiede a Di Maio: non votare contro di noi

Le risoluzioni Onu a senso unico

Peggio del Myanmar e della Corea del Nord Il record di Israele all'Onu è sconcertante: dal 2015 sono state 112 le risoluzioni contro lo Stato ebraico votate dal Palazzo di vetro. Nessun altro Paese è stato colpito da più di 13 risoluzioni L'unica democrazia del Medioriente è presa invece di mira con costanza dall'Assemblea internazionale, assai comprensiva invece nei confronti di vere dittature. Spesso con l'assenso del nostro Paese.
  A cercare di mettere fine a questa situazione assurda arriva un appello, firmato da esponenti di tutto l'arco costituzionale, rivolto a Luigi Di Maio perché, nella Assemblea Generale al via da oggi a New York, il nostro ministro degli Esteri, «nel determinare la posizione del nostro Paese in merito a quelle votazioni, «voglia tener conto della necessità di non ampliare questa grave anomalia che, oltre a danneggiare Israele, rischia di minare l'autorevolezza della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, che va invece difesa perché possa svolgere adeguatamente il suo alto ruolo a beneficio della comunità internazionale». Hanno firmato l'appello Bruno Astorre (Pd), Alex Bazzaro (Lega), Massimo Vittorio Berutti (Coraggio Italia), Rossana Boldi (Lega), Emilio Carelli, (Coraggio Italia), Marco Di Maio (lv), Raffaele Fantetti (Maìe), Emanuele Fiano (Pd), Silvia Fregolent (lv), Marta Grande (MSs), Maurizio Lupi (Noi con l'Italia), Lucio Malan (FdI), Fucsia Nissoli Fitzgerald (FI), Andrea Orsini (FI), Alberto Pagani (Pd), Emanuele Prisco (Fdl), Maria Rizzotti (FI), Luca Squeri (FI), Maria Tripodi (FI).
  Pagani, Orsini e il leghista Paolo Formentini hanno firmato anche un secondo appello a Di Maio perché l'Italia non si associ ad alcuna risoluzione Onu che neghi il retaggio ebraico-cristiano di Gerusalemme citando, nei documenti ufficiali, «solo il termine arabo-musulmano di "Haram Al-Sharìf''»,
  Il tema non è certo nuovo. Lo aveva sollevato su queste stesse pagine, Dror Eydar, ambasciatore israeliano a Roma dal settembre 2019. «Noto una discrepanza», aveva dichiarato nel luglio scorso, «tra questi rapporti così stretti e l'attitudine dell'Italia verso Israele nell'arena internazionale, a cominciare dall'Onu. Io non capisco, noi non capiamo. Tutti sanno che le decisioni Onu contro Israele sono un teatro dell'assurdo, eppure tutti, Italia inclusa, partecipano alla scena».
  Erano i giorni dell'intervento su Gaza deciso dal governo Netanyahu. «È stata l'operazione di uno Stato democratico», spiegò Eydar, «contro Hamas, organizzazione terroristica di stampo nazista. Eppure il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha varato una risoluzione per investigare su Israele, accusandolo di avere commesso "crimini di guerra"».

Libero, 1 dicembre 2021)


Israele e Marocco accendono insieme la Chanukkià

Il 10 dicembre 2020 veniva siglato l’accordo Tripartito tra USA, Israele e Marocco in cui i due paesi si impegnavano per una reciproca collaborazione commerciale e culturale.
La festa di Chanukkà è l'occasione perfetta per celebrare il primo anniversario di questa nuova collaborazione: alla Fondazione Alcide De Gasperi si è tenuta una cerimonia in cui l’Ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar e l'Ambasciatore del Regno del Marocco Youssef Balla hanno acceso i lumi della Chanukkia, come segno di pace e speranza per il futuro.

(Shalom, 1 dicembre 2021)


No Vax e distorsioni della Memoria, la linea dura della Germania

Il paragone tra restrizioni anti-Covid e Shoah è costato caro a un cittadino tedesco No Vax che si è visto infliggere, da un tribunale di Amburgo, una sanzione di 1800 euro. Una linea dura che sta suscitando vari apprezzamenti nel Paese e potrebbe essere adottata presto anche altrove, ad esempio in Baviera: i tribunali di quel länder si sono infatti detti pronti a perseguire penalmente abusi e oltraggi della Memoria che anche in Germania hanno preso da tempo una piega inquietante. Un tema sollevato di recente da Felix Klein, il commissario nazionale per la lotta contro l’antisemitismo: “Chi indossa le stelle gialle relativizza la Shoah. La legge dovrebbe fornirci i mezzi per intervenire”, aveva auspicato in un momento di particolare proliferazione di tali simboli e follie. La sua voce, finalmente, sembra essere stata ascoltata.

(moked, 1 dicembre 2021)


"Chi indossa le stelle gialle relativizza la Shoah", nulla da dire in contrario. Resta da vedere se i länder assumono quella linea dura "che sta suscitando vari apprezzamenti nel Paese" per amore verso gli ebrei o per odio verso i novax. M.C.


Israele su Omicron: "Protetti con 3 dosi". E in tutta Europa solo 44 malati lievi

Il ministro della Salute Horowitz: "Il richiamo copre dalla variante, niente panico". Anche Ema insiste: "Vaccini efficaci". I dati del centro di controllo europeo: "Casi in 11 Paesi, per lo più asintomatici".

Ancora una giornata sulle montagne russe con l'opinione pubblica, spiazzata per molte ore, dopo le rassicurazioni degli esperti sui sintomi lievi, e ovviamente le Borse a farne subito le spese: c'è da rimettere mano al vaccino. E se lo dice il Ceo di Moderna, Stéphane Bancel al Financial Times, c'è poco da star tranquilli. Si prevede «un calo sostanziale» dell'efficacia degli attuali vaccini contro la Omicron mentre serviranno dei mesi per mettere a punto nuovi vaccini efficaci. «Penso che in nessun modo l'efficacia possa essere la stessa che abbiamo avuto con la Delta non so dire di quanto, perché dobbiamo aspettare i dati. Ma tutti gli scienziati con cui ho parlato dicono che non sarà buono». In realtà, al di là del calo probabile di protezione, il vero nodo è che «Moderna e Pfizer non possono produrre miliardi di dosi la prossima settimana, è matematicamente impossibile. Ma possiamo avere i miliardi di dosi entro l'estate? Sicuro», prevedendo che Moderna possa produrre 2-3 miliardi di dosi nel 2022.
  Una dichiarazione perciò da riportare nei binari della ragionevolezza anche perché solo pochi giorni fa l'azienda ha detto di esser pronta in tempi «rapidissimi» a produrre un booster adatto. Molto più positive le dichiarazioni di Pfizer: «Il vaccino probabilmente non protegge dall'infezione, perché abbiamo avuto dei casi ma forse protegge dalla terapia intensiva. Più persone si vaccinano e meno possibilità ha il virus di evolvere e mutare», sottolinea la vicepresidente senior di BioNTech, Katalin Karikó, mentre l'amministratore delegato di BioNTech, Ugur Sahin, ribadisce che il vaccino offrirà probabilmente una forte protezione contro qualsiasi malattia grave, causata da Omicron, i test di laboratorio sono attualmente in corso e analizzeranno il sangue di persone che hanno ricevuto due o tre dosi del vaccino per vedere se gli anticorpi inattivano la variante. E, comunque, se dovesse presentarsi la necessità di adattare i vaccini anti-Covid approvati nell'Ue alla nuova variante, l'Ema potrebbe autorizzarli nel giro di «tre-quattro mesi».
  Ma tra tante ipotesi la buona notizia arriva da Israele, dove i primi dati mostrano che con 3 dosi di vaccino Pfizer si è protetti dalla variante Omicron. «La situazione - spiega il ministro della sanità israeliano, Nitzan Horowitz, al Times of Israel - è sotto controllo e non c'è motivo di panico. Ci aspettavamo una nuova variante e siamo pronti. Nei prossimi giorni avremo informazioni più precise sull'efficacia del vaccino ma le prime indicazioni mostrano che coloro che hanno fatto il richiamo sono molto probabilmente protetti contro questa variante». Una conferma indiretta dell'esiguo numero di casi confermati per la nuova variante: 44 da 11 paesi, appartenenti a UE e spazio economico europeo. Lo rende noto la responsabile del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), Andrea Ammon. La maggior parte dei casi confermati è legata a viaggi in paesi africani, alcuni hanno preso voli in coincidenza verso altre destinazioni tra l'Africa e l'Europa; «tutti i casi sono asintomatici o presentano sintomi lievi. Sono in corso accertamenti su altri possibili contagi sospetti». Ema e Oms, intanto, continuano a lavorare con le istituzioni europee e case farmaceutiche, per capire come affrontare questa nuova situazione: «È molto importante - evidenzia la direttrice esecutiva dell'Ema, Emer Cooke - dare il messaggio che i vaccini attuali danno protezione e dobbiamo fare le terze dosi a chi le necessita». Infine Omicron non sembra eludere i test, «siamo ancora in grado di diagnosticarla e presumibilmente, se questo funziona per i test, dovrebbe funzionare anche per il vaccino», afferma Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza.

(il Giornale, 1 dicembre 2021)


*


Terza dose contro la Omicron. Israele: il richiamo è efficace

Gli studi dei virologi dello Stato ebraico confermano l'importanza del booster Le Regioni chiedono più personale: riattivare anche gli hub della Difesa

di Francesco Malfetano

ROMA - Anche su Omicron Israele è arrivato prima di tutti. Dopo aver chiuso per due settimane le frontiere come precauzione per contrastare la nuova variante del Sars-Cov2, è proprio da Israele che arrivano le prime rassicurazioni scientifiche sull'efficacia del vaccino nei confronti della mutazione. Per il ministro della sanità del Paese Nitzan Horowitz infatti, «le prime indicazioni mostrano che coloro che hanno un richiamo sono molto probabilmente protetti contro questa variante». In altri termini l'aver ricevuto tre dosi di vaccino Pfizer (come ha fatto il 44 per cento circa degli israeliani) sembrerebbe garantire una protezione adeguata anche contro le forme gravi di Covid19 causati dalla mutazione scoperta in Sudafrica.
  Non solo. In una videoconferenza tenuta ieri tra la task force per lo studio delle varianti dell'Istituto Spallanzani di Roma e i colleghi del NICD (Istituto Nazionale delle Malattie Infettive del Sud Africa) «I dati epidemiologici mostrati non sono al momento in grado di suggerire o confermare un possibile aumento di infezioni tra le persone vaccinate. E' dunque, possibile che i vaccini attualmente in uso mantengano la loro capacità di protezione contro la malattia grave anche in presenza della nuova variante». Una posizione netta che nella mattinata di ieri è stata sottolineata anche dall'Ema, l'agenzia europea per i medicinali. «Dai dati che vediamo» su Omicron «i vaccini autorizzati sono efficaci e continuano a salvare persone da forme gravi e dalla morte. Anche se la nuova variante si diffonderà di più, i vaccini che abbiamo continueranno a garantire protezione» ha rimarcato la direttrice esecutiva dell'agenzia, Emer Cooke, in un'audizione al Parlamento europeo, insistendo proprio sulla necessità di fare i richiami.

• L'ITALIA
  L'invito dell'Ema è chiaro: bisogna potenziare gli sforzi per la campagna di richiamo. Questione a cui in Italia sì è iniziato a lavorare ormai da un mese. Al punto che proprio da oggi, accedendo alle rispettive piattaforme digitali, è possibile prenotare il booster per tutti i cittadini maggiorenni (non più i soli over 40 quindi), a patto però che siano passati almeno 5 mesi dal completamento del ciclo vaccinale primario. Un'accelerazione decisa ma necessaria dato che, ad oggi, gli italiani che hanno ricevuto tutte e tre le dosi sono "solo" circa 6milioni, quasi il 10 per cento.
  D'altronde il calendario che il commissario per l'Emergenza Francesco Paolo Figliuolo ha rivolto alle Regioni nei giorni scorsi non lascia spazio ad interpretazioni: ora l'obiettivo è somministrare 4,6 milioni di vaccini dal 1 al 12 dicembre, con un ritmo medio dì circa 400mila inoculazioni al giorno. Un target ambizioso che se pure la macchina vaccinale italiana ha già dimostrato in estate di saper sostenere, non è affatto scontato. Gli amministratori locali hanno infatti risposto ieri al commissario lamentando carenza di personale per le somministrazioni in vista del necessario rafforzamento degli hub vaccinali. Non solo, molti governatori - tra cui il calabrese Occhiuto - hanno anche richiesto la riapertura degli hub messi a disposizione dalla Difesa, così come era stato disposto mesi fa durante la prima fase della campagna vaccinale.

• GLI ESPERTI
  Non a caso la comunità scientifica internazionale ha risposto molto piccata alle parole poco rassicuranti dell'amministratore delegato della casa farmaceutica Moderna Stéphane Bancel (in un'intervista ha affermato di prevedere un «calo sostanziale» dell'efficacia degli attuali vaccini contro la variante Omicron) definendole, ad esempio, «Premature e fuorvianti in questo momento». Tra questi, ad esempio. il microbiologo Antonio Cassone, membro dell'American Accademy of Microbiology, ed ex direttore di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità che ha specificato come «Sarà possibile fare chiarezza quando ci saranno i dati di ricerche e osservazioni cliniche. Sappiamo già che questi vaccini non proteggono sufficientemente dall'infezione ma proteggono dalla malattia ed è probabile - ha continuato - che le persone pienamente vaccinate, inclusa la terza dose appena possibile per tutti, saranno sufficientemente protette dalla malattia». Anzi per Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza «La regola della vaccinazione vale ancora di più in questo momento. Perché dobbiamo togliere spazio al virus».
  Anche perché, data la stagione, c'è da fare i conti anche con le vaccinazioni anti-influenzali. Secondo la Fondazione Gimbe infatti, quattro regioni e una provincia autonoma con le scorte disponibili di vaccino antinfluenzale non raggiungono coperture pari o superiori al 75% della popolazione target per età. Sono Piemonte (61%), Molise (60%), Campania (56%), Provincia Autonoma di Bolzano (52%) e Valle d'Aosta (48%).

(Il Messaggero, 1 dicembre 2021)


«Anche su Omicron Israele è arrivato prima di tutti». Questo primato in vaccinismo non esalta. Piange il cuore a vedere Israele al primo posto nell'universale instupidimento antipandemico. M.C.


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.