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Notizie 16-31 dicembre 2022


L’incredibile storia del Piano NAKAM

di Gustavo Ottolenghi

Nell’autunno del 1945 un modesto gruppo di ebrei tedeschi sopravvissuti ai Campi di concentramento nazisti (KL Konzentrations lager) si riunirono in Lituania con l’intento di vendicarsi dei loro persecutori.

• Obiettivo: vendicare i sei milioni di ebrei eliminati nei lager
  Il loro progetto consisteva nell’uccisione di un numero di nazisti pari a quello da loro perpetrato contro gli ebrei dal 1933 al 1945 (oltre sei milioni di persone!). Il principio su cui si basava questa azione era il detto biblico “Occhio per occhio” “Una Nazione per una Nazione” (Levitico 24:19-20). Ispiratore di questa iniziativa fu Abba Kovner, combattente durante la Seconda guerra mondiale contro i tedeschi nel ghetto di Vilnius (Lettonia). Coadiuvato dalla moglie Vita Kemper – anch’essa partigiana – era stato animatore della locale clandestina “Fareinigte Partizaner Organizacje”, Organizzazione partigiana unita. Subito dopo la fine della guerra, Kovner si recò a visitare il Campo di sterminio (VL Vernichgtungs lager) nazista di Auschwitz in Polonia e la foresta di Ponary vicino a Vilnius ove i tedeschi avevano ucciso centinaia di migliaia di ebrei. Fortemente impressionato, meditò un progetto di vendetta per questi massacri e a tale scopo riunì, nel mese di ottobre del 1945 alcuni sopravvissuti da Auschwitz in un gruppo cui diede nome di “NAKAM” (“Vendetta” in ebraico).

• Eliminazione del maggior numero possibile di tedeschi in Germania
  Il nome deriva dalla frase “Dam Yehudi Nakam” (Il sangue ebraico sarà vendicato) i cui aderenti presero nome di “Nakamin”. In poco tempo a quel gruppo aderirono altri ebrei che si trovavano in Lituania e che erano scampati dai KL di Lovno (Ucrainaì e Cracovia (Polonia) raggiungendo le cinquanta unità. La vendetta prevista da Kovner doveva concretizzarsi in un piano principale (Piano A) e, qualora questo non si fosse potuto compiere, in un piano secondario (Piano B). Essi prevedevano entrambi l’eliminazione fisica del maggior numero possibile di tedeschi in Germania. La sede del “NAKAM” fu posta a Furth, città del Distretto di Norimberga, distante pochi kilometri da questo capoluogo. Il “Piano A” prevedeva di uccidere mediante avvelenamento dell’acqua potabile delle più grandi città tedesche (Monaco, Norimberga,Francoforte, Amburgo) il maggior numero dei loro abitanti. Come primo di questi obbiettivi furono scelti gli abitanti di Norimberga in quanto città simbolo del nazismo ove era nato, nel 1919, il N.S.D.A.P. (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi).

• A caccia di arsenico per avvelenare l’acqua potabile
  Kovner si mise quindi alla ricerca della quantità di veleno (arsenico) necessaria allo scopo. Essa fu infruttuosa in Germania, motivo per cui, nel mese di novembre, si recò con due “nekamin”, nella Palestina mandataria britannica ove sperava di ottenerla. Contemporaneamente a Norimberga Josef Harmatz, ebreo capo del NAKAM locale, riuscì a far assumere presso la Compagnia Idrica Municipale della città il “nekamin” Willek Schwerzreich. Quest’ultimo ottenne la planimetria dell’intero sistema idrico cittadino con l’ubicazione delle valvole delle principali condutture dell’acqua in tutta Norimberga. Versandovi il veleno in adeguata quantità si sarebbe ottenuto in questo modo l’avvelenamento dell’acqua potabile della città e poi, con le stesse procedure, quello dell’acqua delle altre grandi città tedesche, con la morte di tutti gli abitanti. Harmatz a quel punto attendeva soltanto l’arrivo di Kovner dalla Palestina con l’arsenico.

• Il Piano A falli per l’arresto di Kovner
  Questi aveva frattanto trovato il veleno nella quantità desiderata tramite il capo del Deposito chimico dell’Università di Gerusalemme e di due giovani appartenenti localmente all’”Haganah” (Organizzazione paramilitare sionista) iscritti alla Facoltà di Chimica. Introdotto l’arsenico in alcuni piccoli fusti, ai primi di dicembre Kovner si recò in Egitto con un autocarro e quivi si imbarcò coi fusti su una nave britannica diretta a Tolone in Francia donde sarebbe transitato in Germania e a Norimberga. A bordo Kovner fu denunciato come clandestino da persone rimaste ignote e venne arrestato, ma, prima dell’arresto, riuscì a gettare in mare i piccoli fusti col veleno. Riportato in Egitto, fu rilasciato dopo una detenzione di quattro mesi e rientrò in Germania. Il “Piano A” era fallito.

• Il Piano B mirava a eliminare i tedeschi detenuti nei campi di internamento
  Il “Piano B” aveva un obbiettivo di minor risonanza in quanto rivolto alla uccisione delle poche migliaia di nazisti che erano detenuti nei Campi di internamento alleati. Il primo Campo scelto fu quello di Langwasser (ex Stalag XIII D tedesco) situato nelle vicinanze di Norimberga, sotto controllo americano, nel quale erano detenuti 12.000 tra alti ufficiali delle SS e della Gestapo (Polizia segreta di Stato) oltre a personalità di spicco del N.S.D.A.P. Il piano venne approntato da un gruppo di nakamin al comando di Yitzak Avidad nei primi mesi del 1946, subito dopo il fallimento del “Piano A”:. L’uccisione di tutti i detenuti nel Campo doveva avvenire mediante avvelenamento della normale razione di pane loro destinata quotidianamente. A questo scopo occorreva innanzitutto introdurre qualche nakamin nel panificio fornitore del pane al Campo. Otto di questi, fra i quali Leipke Distel e Josef Harmaz, riuscirono a farsi assumere come panettieri nel “Konsum- Genossenschaftsbaeckerei di Norimberga, fornitore del pane per il Campo.

• Il veleno nel pane destinato ai detenuti non fece effetto
  Il loro compito consisteva nell’avvelenare, mentre lo confezionavano, il pane nero di segale destinato ai detenuti, spalmandolo con arsenico ( al personale di custodia veniva fornito pane bianco di farina di frumento, ben distinguibile da quello nero di segale). Distel e Harmaz nel giro di due settimane portarono nel panificio alcune bottiglie nelle quali avevano nascosto l’arsenico e le nascosero sotto le assi dell’impiantito. Il 13 aprile, giorno fissato per l’inizio dell’operazione, sei degli otto nakamin che erano stati adibiti alla confezione del pane vennero destinati ad altre mansioni per cui solo due rimasero per avvelenare tutto il pane di segale destinato ai detenuti. I nekamin, ricuperate le bottiglie con l’arsenico, riuscirono a spalmarlo misto a lievito solo su 3.000 delle 12.000 pagnotte destinate ai detenuti. Giunte regolarmente al Campo, esse vennero normalmente distribuite ai detenuti che le mangiarono.

• Soltanto una grande intossicazione ma nessun decesso
  Il veleno non fece però alcun effetto su di loro e dell’operazione dei nekamin non si seppe nulla. Anche il “Piano B” era fallito. Soltanto il 26 aprile il “New York Times” americano riportò che su 2.293 tedeschi prigionieri di guerra detenuti in un Campo di prigionia in Germania erano stati riscontrati “segni di intossicazione” e che 207 di essi erano stati ricoverati in ospedale senza che, peraltro, vi fosse intervenuto alcun decesso fra di loro. Questo fallimento venne imputato alla scarsa quantità di veleno che, nella fretta, era stato spalmato sulle pagnotte dai due nekamin e che quindi esso non aveva potuto produrre l’effetto mortale sui detenuti. Altra ipotesi fu che essi, in quel giorno, avessero consumato pane meno del solito, avendolo avvertito di sapore insolito e disgustoso.

• Dopo gli insuccessi la ritirata in Palestina
  Kovner, nel mese di giugno 1946 lasciò la Germania e, con un piccolo gruppo di nekamin, si recò in Palestina. Dopo aver partecipato a tutte guerre arabo-israeliane si stabilì nel kibbutz di Eni Hanoresh ove morì nel settembre 1987. Passò gli ultimi anni della vita scrivendo libri e poesie, vincendo anche il Premio Israele per la letteratura nel 1970.
Nel 1975 ,12 nekamin al comando di Ben Ya’akov ritornò ad Amburgo con l’intento di realizzare il “Piano A” del “NAKAM” , senza alcun seguito. L’attività del “NAKAM” rimase pressoché sconosciuta al pubblico sino agli anni novanta, allorché fu narrata da tre autori, uno italiano, Andrea Borghi nel libro “Nakam del 1999, uno americano, Rich Cohen, nel libro “The Avengers” del 2001.

(L'Incontro, 31 dicembre 2022)

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L’Onu vota per chiedere un parere legale sull’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che chiede alla Corte internazionale di giustizia (Cig) di esprimere un parere sulle conseguenze legali dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. La risoluzione è passata con 87 voti favorevoli, 26 contrari e 53 astenuti. Tra le nazioni occidentali, Israele, Stati Uniti e altri 24 membri – tra cui Italia, Regno Unito e Germania – hanno votato contro, mentre la Francia si è astenuta, così come tutti i Paesi scandinavi. Sostegno pressoché unanime alla risoluzione nel mondo islamico, anche tra gli Stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele come Marocco ed Emirati Arabi Uniti. La Corte internazionale di giustizia con sede all’Aia è il massimo tribunale delle Nazioni Unite che si occupa delle controversie tra Stati. Le sue sentenze sono vincolanti, sebbene la Cig non abbia il potere di farle rispettare. I leader palestinesi hanno accolto con favore l’esito della votazione che “riflette la vittoria della diplomazia palestinese”, ha affermato Hussein al Sheikh, segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
  “È giunto il momento per Israele di essere uno Stato soggetto alla legge e di essere ritenuto responsabile dei crimini in corso contro il nostro popolo”, ha dichiarato Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas. L’ambasciatore palestinese alle Nazioni Unite Riyad Mansour ha sottolineato che il voto è arrivato il giorno dopo il giuramento del nuovo governo israeliano guidato dal leader conservatore Benjamin Netanyahu. I partiti dell’ultradestra che compongono la coalizione di governo hanno promesso a rafforzare gli insediamenti in Cisgiordania, ma finora Netanyahu non ha dato alcuna indicazione al riguardo, mentre i funzionari israeliani non hanno ancora rilasciato alcun commento sulla risoluzione. Il testo era stato condannato dall’inviato israeliano delle Nazioni Unite, Gilad Erdan, prima della votazione. “Nessun organismo internazionale può decidere che il popolo ebraico sia ‘occupante’ nella propria patria. Qualsiasi decisione di un organo giudiziario che riceve il suo mandato dalle Nazioni Unite, moralmente fallite e politicizzate, è completamente illegittima”, aveva affermato Erdan.
  Il testo della risoluzione chiede alla Corte internazionale di giustizia di esprimere un parere consultivo sulle conseguenze legali “dell’occupazione, degli insediamenti e dell’annessione da parte di Israele (…) comprese le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme”. La risoluzione delle Nazioni Unite chiede inoltre alla Cig di spiegare come tali politiche e pratiche possano influenzare “lo status legale dell’occupazione”. L’ultima volta che la Corte si era pronunciata sul conflitto tra israeliani a palestinesi risale al 2004: allora i giudici avevano stabilito che la barriera di separazione posta dallo Stato ebraico era illegale, in una sentenza che era stata respinta da Israele in quanto “politicamente motivata”. I palestinesi hanno un governo con poteri limitati in Cisgiordania, mentre Gerusalemme est è stata annessa da Israele con una decisione non riconosciuta a livello internazionale: gli insediamenti israeliani sono ritenuti illegali dalla maggior parte dei Paesi, una visione però contestata da Israele che rivendica legamici biblici e storici con quei territori, oltre che necessità di sicurezza e autodifesa.

(Nova News, 31 dicembre 2022)

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Intanto, sulle tv dell’Autorità Palestinese: “La Palestina dal fiume al mare è nostro diritto permanente e indiscutibile”

Non si perde occasione per ribadire a Israele che bisogna promuovere la soluzione a due stati, ma dal campo palestinese continuano a giungere proclami di segno totalmente opposto.

“Non vedo l’ora di lavorare con il primo ministro Netanyahu, che è mio amico da decenni, per affrontare insieme le numerose sfide e opportunità che Israele e la regione del Medio Oriente devono affrontare, comprese le minacce dall’Iran”. Lo ha affermato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden giovedì sera, dopo l’entrata in vigore del nuovo governo israeliano. Biden ha aggiunto: “Gli Stati Uniti si adoperano per promuovere una regione sempre più integrata, prospera e sicura a vantaggio di tutta la sua popolazione. Sin dall’inizio della mia amministrazione abbiamo operato con i nostri partner per promuovere questa visione più speranzosa di una regione in pace, anche tra israeliani e palestinesi. Miriamo a proseguire questo importante lavoro con il nuovo governo israeliano sotto la guida del primo ministro Netanyahu. Come abbiamo fatto per tutta la mia amministrazione – ha concluso Biden – gli Stati Uniti continueranno a sostenere la soluzione a due stati e ad opporsi a politiche che ne mettano in pericolo la fattibilità o contraddicano i nostri reciproci interessi e valori”....

(israele.net, 30 dicembre 2022)

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Pelé e quel suo goal a Tel Aviv. “Gli israeliani pensano troppo invece di passare la palla

Pelé in Israele con la maglia del Santos
Simbolo di un Paese ma anche patrimonio mondiale del calcio. Ovunque sia andato Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé, ha lasciato un segno indelebile. Anche in Israele, dove gli appassionati di questo sport ebbero l’occasione di vederlo in azione con la maglia del suo Santos fronteggiare in amichevole una compagine mista composta da atleti dell’Hapoel Petah Tikva e del Maccabi Tel Aviv.
  Era l’11 giugno del 1961, neanche un posto libero sugli spalti dello stadio di Ramat Gan. L’occasione era d’altronde unica.
  Pelè, allora 20enne, non mancò neanche in quella occasione il suo proverbiale appuntamento col goal che l’avrebbe portato a superare un giorno quota 1000. Sua infatti la firma su una delle tre marcature con cui il Santos avrebbe sconfitto la squadra israeliana. In un raro video d’epoca scorrono le immagini di quella che fu, prima di tutto, una festa dello sport. Pelè che si libera facilmente del suo avversario e, da fuori area, scaglia un tiro imparabile. Una vittoria abbastanza in scioltezza per il Santos, anche per via di alcune fragilità tecnico-tattiche dimostrate dai padroni di casa. Raggiunto dai giornalisti a fine partita, O Rei avrebbe commentato: “Gli israeliani indugiano troppo a lungo con la palla e passano il tempo a pensare invece di calciare e passarla”.

(moked, 30 dicembre 2022)

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JMS 2022. Herzog: “La democrazia israeliana è vibrante e forte. E voi giornalisti avete il compito di raccontarla”

di Ilaria Myr


GERUSALEMME- “Il tema del raduno di quest’anno – Una nazione, un destino – è particolarmente appropriato. Perché questo momento della nostra storia che si sta svolgendo ci chiede di fare i conti con domande reali in modo onesto e diretto. Siamo, infatti, un popolo, unito da una storia condivisa e da un’eredità e un destino condivisi. Con il moderno Stato di Israele, i legami tra ebrei in tutto il mondo continuano a sostenere la nostra statualità e il nostro popolo”. Queste le parole che il presidente israeliano Isaac Herzog ha rivolto ai cento giornalisti dei media ebraici che hanno partecipato al Jewish Media Summit 2022, durante la terza e ultima giornata dell’evento, il 22 dicembre. Un discorso, il suo, che ha sottolineato la comunanza di destino e valori fra Israele e la diaspora.
  “Qui in Israele, riconosciamo i nostri fratelli, le nostre sorelle e fratelli in tutto il mondo, come famiglia e partner. Quando necessario, gli ebrei di tutto il mondo si uniscono per difendere e sostenere Israele combattendo i suoi odiatori e detrattori, combattendo il BDS, nei confronti dei governi stranieri, nei media, nei campus e altrove. I media ebraici sono spesso all’avanguardia in questi sforzi, offrendo una voce articolata per lo Stato di Israele e una rappresentazione sfumata di una realtà complessa”.
  Nel suo discorso, Herzog ha menzionato l’impegno di Israele di fronte ai “venti del crescente antisemitismo (che) si diffondono in tutto il mondo, Israele deve anche guidare la lotta globale contro di esso e proteggere, difendere e sostenere le comunità ebraiche e la vita ebraica ovunque nel mondo. Ma dobbiamo essere qualcosa di più della semplice difesa contro queste minacce molto reali”.
  Ci deve essere un dialogo costante e rispettoso fra Israele e diaspora, e il ruolo dei giornalisti in questo è centrale: “perché noi in Israele a volte non comprendiamo il popolo ebraico nel mondo e gli ebrei di tutto il mondo in varie comunità non hanno la comprensione di cosa sia la società israeliana”, ha dichiarato.
Soprattutto, le divisioni e le divergenze non devono trasformarsi in fratture che lacerano l’unità del popolo ebraico. A tal proposito, Herzog ha fatto riferimento all’esito delle ultime elezioni in Israele, che ha “sollevato molte domande reali da persone di tutto il mondo e, naturalmente, comunità ebraiche. Come i loro compagni israeliani, gli ebrei di tutto il mondo si preoccupano profondamente di Israele e vogliono sapere che possono ancora trovare il loro posto nel nostro collettivo. Sento queste preoccupazioni e le capisco. E vorrei rassicurarvi che la democrazia israeliana è vibrante e forte. Le molte voci che ci compongono non indicano la debolezza della nostra democrazia, ma la sua forza. Stato di diritto, libertà di parola, diritti umani e civili: questi sono sempre stati e saranno sempre i pilastri del nostro stato ebraico e democratico. E so che se riusciamo a rimanere aperti all’ascolto reciproco, scopriremo che condividiamo molto più di quanto potremmo pensare”.
  Infine, un appello ai giornalisti: “conto su di voi per dare voce a un’ampia varietà di prospettive su Israele. Abbiamo forti dibattiti nella nostra società, nel nostro parlamento, nella nostra arena pubblica, e questa è esattamente la storia della democrazia israeliana”.
Portando la sua personale esperienza, ha raccontato come la notte precedente all’incontro, fosse a Jaffa in una sinagoga a Jaffa Dalet, una sinagoga che comprende olim di varie nazioni. “In seguito sono andato a rendere omaggio e festeggiare con le comunità arabe cristiane nelle comunità più affascinanti di Jaffa, con i loro leader spirituali, persone molto impressionanti che hanno rotto molti soffitti di vetro nella società israeliana tra cui un ex Giustizia della Corte Suprema. Ed è stato celebrato con i musulmani e con gli ebrei. Più tardi siamo andati tutti nei centri comunitari con il sindaco di Tel Aviv-Jaffa, Ron Huldai, e tra la folla c’era un bel mix di ebrei, musulmani e cristiani – Ebrei venuti dall’Etiopia, dalla Russia, dal Caucaso, da tutto il Nord Africa, musulmani di tutte le denominazioni e cristiani di tutte le denominazioni. vista diversa di Israele, che normalmente non viene rappresentata. Chiedo ai media internazionali di approfondire la vera storia della democrazia israeliana e la sua meravigliosa diversità”.

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2022)

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“Comunità, tempo di parlarsi”

 
 
 
I dati parlano chiaro: a differenza d'Israele dove la popolazione è in continua crescita, le comunità ebraiche della Diaspora da decenni registrano un significativo calo demografico. Come affrontare la questione è uno - se non il - grande tema che si pone davanti all'ebraismo internazionale. Unito a un'altra importante tendenza: rispondere a un forte desiderio di appartenenza. "Ci sono molte spinte anche in Italia di persone che vogliono appartenere al mondo ebraico in modi differenti. Dobbiamo chiederci se, anche a fronte dei numeri in calo, non sia il momento di ampliare le prospettive. Di aprire ad altri modi possibili di sentirsi ebrei in una società in cui tutto è cambiato, in cui i valori sono liquidi e gli individui si spostano, ma cercano comunque un senso di comunità" sottolineava la sociologa Betti Guetta in un recente incontro a Milano, alla Biblioteca della Fondazione Cdec. Interrogativi che Guetta ha poi girato al suo ospite, il demografo Sergio Della Pergola, professore emerito dell'Università Ebraica di Gerusalemme, che per l'occasione ha presentato i dati dell'indagine sul mondo ebraico europeo commissionata dall'agenzia europea FRA (European Agency for Fundamental Rights) nel 2018. Prima di rispondere su possibili aperture, Della Pergola ha dunque dato un quadro generale del presente ebraico tra Diaspora e Israele. Punto di partenza, l'interrogativo sull'identità ebraica a cui hanno risposto gli intervistati dell'indagine Fra (che ha coinvolto dodici nazioni europee tra cui l'Italia): che cos'è per te l'ebraismo (una religione, una cultura, una tradizione, famiglia ... ), a cosa ti senti legato (a Dio, al ricordo della Shoah, a Israele ... ), come ti presenti (haredi, ortodosso, riformato, progressivo, semplicemente ebreo, misto, nulla).
  Aggregando i dati, quello che emerge chiaramente, evidenziava Della Pergola, è che "non esiste oggi in Europa uno stile di vita ebraico predominante, esiste semmai una notevole frammentazione". Andando a vedere i numeri e grafici presentati dal demografo la fotografia nello specifico vede un 5 per cento degli intervistati che si identifica come haredi; l'otto come ortodossi; 24 tradizionalisti; 15 reform; il 38 come "solamente ebrei", quindi senza affiliazioni specifiche; il 6 con nessuna delle definizioni e il 5 come miste. Dimostrazione di come il panorama ebraico sia molto eterogeneo nel Vecchio Continente. Così come lo è anche, puntando la lente sul nostro paese, anche in Italia. Anche qui chi si definisce semplicemente ebreo è la parte più consistente, anche più che nella media europea: il 54 per cento aveva scelto questa opzione. Chi si identifica come haredi o ortodosso (nel caso presentato da Della Pergola uniti insieme) rappresenta il 12 per cento del totale; il 16 si considera tradizionalista, il 10 reform e infine l’8 nessuna delle denominazioni proposte. "E interessante vedere come i dati sul mondo haredi/ortodosso e sui reform siano molto vicini fra loro - la riflessione di Della Pergola - il che dimostra la presenza di una forte polarizzazione". Polarizzazione che, al di là delle denominazioni, da un altro studio, promosso dalla Jdc e citato da Guetta, è un altro grande tema del futuro ebraico. "In questo sondaggio che ha coinvolto la leadership ebraica europea, tra le principali minacce per le comunità vengono individuate: l'alienazione dalla vita ebraica, il calo demografico e i conflitti interni". Quanto questi tre elementi siano poi centrali per l'Italia, ha proseguito la sociologa, lo dicono con forza i dati: l'allontanamento dalla comunità per il 70 per cento dei leader ebraici europei è ritenuto un pericolo. Per l'Italia questo dato sale al 90 per cento. Differenze simili ci sono anche su calo demografico e conflitti interni: se la media di preoccupazione europea si attesta al 61 per cento per entrambi i temi, in Italia sale all'88. Un clima di tensione che, affermava Guetta, produce poi disamoramento e allontanamento. "Parliamo di Milano, qui ci sono moltissime sinagoghe. Troppe, a mio parere. Sono la rappresentazione di una divisione e frammentazione: in quante si raggiunge minian? Siamo tutti molto disillusi. E moltissimi lo esprimono non essendoci: non partecipando agli eventi comunitari, non votando alle elezioni, non pagando le tasse e così via. Ma io credo che ci sia un potenziale che guarda agli ebrei che hanno voglia di fare. Come si vede dalla ricerca della JDC, l'Italia è, tra i Paesi europei, uno di quelli con il livello di conflittualità interna e di allontanamento maggiori". Guetta ma anche Della Pergola al riguardo hanno sottolineato la necessità di ricostruire un percorso di dialogo, che tocchi anche le diverse correnti ebraiche, per affrontare le sfide del futuro insieme. Va bene valorizzare le diversità e le tradizioni dei diversi gruppi etnici, ha aggiunto la sociologa, ma "bisogna avere qualche idea che possa mettere insieme anche comunità diverse.
  "Personalmente sono molto favorevole a creare un tavolo di conversazione con gruppi e individui che non fanno parte dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, in cui ci si confronti e si parli ascoltandosi", la posizione di Della Pergola in merito alla situazione italiana. Il riferimento era in particolare al mondo reform, che nel nostro paese rappresenta una minoranza. Non così negli Stati Uniti, ha ricordato il demografo, dove la maggioranza degli ebrei si identifica nella corrente reform. E questo, peraltro, avrà dei riflessi nei rapporti con Israele, che si consolida di anno in anno come il punto di riferimento per l'ebraismo, considerando che nel paese vive ormai la metà degli ebrei del mondo. "Con le ultime elezioni israeliane c'è stato un enorme aumento della corrente più integralista che purtroppo include elementi impresentabili nel partito Sionismo religioso. Questa corrente rischia, tra l'altro, di aprire nuove fratture con la Diaspora, soprattutto con quella Usa" ha spiegato Della Pergola, che invece auspica che vi sia tra Diaspora e Israele una dialettica sana e costruttiva.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2022)

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Il satellite israeliano EROS-C3 è in orbita. 61esimo lancio del 2022 per SpaceX

di Andrea D'Urso

SpaceX chiude il 2022 completando con successo 61 missioni, quasi il doppio rispetto alle 31 effettuate l’anno precedente. Con quest’ultimo lancio l’azienda ha portato in orbita il satellite dell’azienda israeliana ImageSat International (ISI). Il satellite si chiama EROS-C3 e il suo obbiettivo è ottenere immagini ad alta risoluzione della Terra. Per lo sviluppo del satellite, ISI ha lavorato a fianco di e-GEOS, società italiana costituita da Telespazio (80%) e ASI (20%).
  Il lancio è avvenuto dalla base militare di Vandenberg, in California, alle 8:38 del 30 dicembre, secondo il fuso orario italiano. In media, abbiamo assistito in questo 2022 a un lancio di SpaceX ogni 5,96 giorni, e per il 2023 l’obbiettivo dichiarato è di 100 missioni. Anche in questa occasione, SpaceX ha usato un Falcon 9 riutilizzato, il booster con numero di serie B1061, che ha volato per l’undicesima volta.

• La costellazione israeliana per l’imaging
  EROS-C3 fa parte della nuova versione di satelliti sviluppati da ISI chiamata EROS-NG (Next Generation), per l’osservazione terrestre ad alta risoluzione. Entro i 2026 ISI punta ad avere in orbita una piccola costellazione composta da 6 satelliti. Quattro di questi saranno gli EROS (Earth Resources Observation Satellite) della serie C per osservazione ottiche e multispettrali. Questi saranno poi affiancati da due satelliti che sfruttano la tecnologia SAR (Radar ad Apertura Sintetica), chiamati EROSAR.
  EROS-C3 è un satellite alto 4,58 m e con una massa di 400 kg, che orbiterà attorno alla Terra a circa 510 km di altezza. Viaggerà in senso contrario rispetto alla rotazione terrestre, su quella che viene definita orbita retrograda. Il satellite ha una risoluzione di 30 cm per pixel per le immagini pancromatiche e una di 60 cm per pixel per quelle multispettrali. Queste immagini verranno utilizzate principalmente dal dipartimento della difesa israeliano.
  La struttura principale di EROS-C3 è basata sull’OPTSAT-3000, un satellite militare italiano realizzato da Telespazio e l’Israel Aerospace Industries (IAI). La IAI è un’azienda interamente controllata dal governo israeliano e detiene anche una quota in ISI. Fondata nel 1997, nel corso degli anni la partecipazione da parte del governo ha causato diversi scontri tra i diversi investitori e l’azienda.

• Finalmente decolla il Falcon 9 B1061
  L’undicesima missione del booster B1061 sarebbe dovuta essere quella classificata come Starlink-2.4, programmata per il 18 novembre. Prima del lancio SpaceX aveva eseguito uno static fire test, per collaudare i diversi sistemi del suo vettore. Le accensioni statiche dei Falcon 9 sono ormai eventi alquanto rari e avvengono solamente in determinate condizioni. Non ci sono dichiarazioni da parte dell’azienda, ma è possibile che abbiano dovuto effettuare diversi lavori di manutenzione, come la sostituzione di più motori Merlin. Eseguita quella prova e analizzati i dati, SpaceX aveva infatti deciso di rinviare il lancio per effettuare maggiori controlli.
  Da allora non si è più saputo nulla né della missione né del B1061, fino a quest’ultimo lancio. Durante questo periodo altri Falcon 9 usati sono stati tenuti a terra, probabilmente per evitare che il problema al B1061 fosse presente anche in altri booster.
  Con l’undicesimo decollo e successivo atterraggio di questo primo stadio, SpaceX ha dimostrato di aver risolto tutti i problemi dei suoi vettori. Dopo il decollo, il B1061 è atterrato con successo sulla Landing Zone 4, situata a pochi metri dal pad di lancio. È la dodicesima volta in questo 2022 in cui assistiamo al rientro diretto sulla terraferma di un Falcon 9.
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(astrospace, 30 dicembre 2022)

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Hamas può colpire qualsiasi parte di Israele

Il movimento di Resistenza Islamica Hamas ha sviluppato le sue capacità missilistiche nella Striscia di Gaza in modo tale che i suoi missili possano colpire qualsiasi parte dei territori occupati. Queste dichiarazioni sono state rilasciate dal capo del dipartimento per le relazioni nazionali all’estero di Hamas, Ali Baraka, intervenendo a un convegno nella capitale libanese Beirut, in occasione del 35° anniversario della costituzione del movimento.
  Ha osservato che il mondo è stato testimone del fatto che le Brigate Ezzedine al-Qassam – l’ala militare di Hamas – hanno lanciato nel 2021 il missile Ayyash 250, con una portata superiore a 250 km, all’aeroporto di Ramon situato vicino alla città turistica israeliana di Eilat, sul Mar Rosso.
  L’alto funzionario di Hamas ha ulteriormente sottolineato il ruolo del movimento di Resistenza nella protezione della causa palestinese, aggiungendo che il movimento ha aderito all’opzione della Resistenza come scelta strategica per la libertà, il diritto al ritorno e l’indipendenza. Ha anche sottolineato che la Palestina è la patria del popolo arabo palestinese, aggiungendo che la liberazione della Palestina è “una responsabilità palestinese, araba e islamica”.
  Baraka ha inoltre chiesto la completa rimozione del blocco israeliano di Gaza, sottolineando nel contempo la necessità di unità nazionale, ponendo fine alle divisioni e raggiungendo la riconciliazione nazionale.
  Dal 2007 Hamas ha combattuto diverse guerre contro il regime israeliano. Il movimento di Resistenza afferma che Gerusalemme è al centro della lotta palestinese per la libertà.
  Trentacinque anni dopo, Hamas continua a raccogliere consensi grazie alla sua adesione alla Resistenza armata contro il regime israeliano. La gente a Gaza afferma che nonostante anni di assedio e molteplici guerre, Hamas è riuscito a sfidare ogni avversità e a sopravvivere a tutti i tentativi di indebolirlo.

(Il faro sul mondo, 30 dicembre 2022)

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Arrestato a Nablus pericoloso terrorista del gruppo Lions’ Den

Nell’edificio in cui è stato arrestato il sospetto è stata trovata un’arma che, secondo l’esercito israeliano, sarebbe stata usata per compiere attacchi

Le forze israeliane hanno arrestato venerdì mattina un agente del gruppo terroristico Lions’ Den (Tana dei Leoni) a Nablus, in Cisgiordania. Lo ha dichiarato l’esercito in un comunicato.
  Le truppe dell’unità nazionale antiterrorismo Yamam hanno circondato la casa del sospettato, che si è costituito. Nell’edificio è stata trovata un’arma che, secondo l’esercito israeliano, sarebbe stata utilizzata per compiere attacchi.
  Nel corso dell’anno, la Cisgiordania è stata oggetto di incursioni notturne da parte delle forze israeliane nell’ambito dell’operazione “Break the Wave”, avviata dopo una serie di attacchi terroristici mortali perpetrati contro gli israeliani all’inizio dell’anno.
  Secondo un rapporto pubblicato giovedì dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), quest’anno Israele ha registrato un aumento significativo degli attacchi terroristici: 31 persone uccise in incidenti legati al terrorismo dall’inizio dell’anno, contro le 4 persone uccise nel 2021 e le 3 nel 2020. Ciò rende il 2022 l’anno con il maggior numero di vittime dal 2015, quando 29 persone furono uccise in una serie di accoltellamenti, sparatorie e attacchi con automobili.

• Infiltrazioni dalla Siria
  Oggi in mattinata l’IDF ha riferito che ieri (giovedì) i soldati hanno arrestato due sospetti che avevano attraversato il confine dalla Siria. I sospetti sono stati arrestati vicino alla recinzione di confine e trasferiti per ulteriori indagini dalle forze di sicurezza.
  Al termine delle indagini, i sospetti sono stati riportati in territorio siriano.

(Rights Reporter, 30 dicembre 2022)

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Si insedia il nuovo governo di Israele. Netanyahu: “Un governo per la pace e la sicurezza dei cittadini”

di Ugo Volli

• I numeri Il sesto governo Netanyahu, trentasettesimo nella storia di Israele dall’indipendenza del 1948, ha giurato davanti alla Knesset ed è entrato oggi in carica. Ha una maggioranza di 64 seggi sui 120 della Knesset, è composto da 30 ministri (un numero alto che è caratteristico di molti governi israeliani, anche per via della “legge norvegese” che permette ai ministri di recedere dal ruolo di parlamentare ed essere sostituiti dai primi non eletti della loro lista, per la durata del ministero).

• La composizione del governo
  Fra i ministri più importanti, vi sono fra i membri del Likud, Eli Cohen agli esteri; Yair Levin alla Giustizia; alla difesa Yoav Gallant, che dieci anni fa rinunciò alla candidatura come capo di stato maggiore delle Forze Armate israeliane per via di un dossier falso, un complotto mai completamente chiarito; Ron Dermar agli affari strategici; Nir Barkat, già sindaco di Gerusalemme, all’Economia; Yariv Levin alla Giustizia; Amichai Chicli alla Diaspora; Yoav Kisch all’Educazione; Avi Dichter all’Agricoltura; Shlomo Karhi alla Comunicazione; Miri Regev ai Trasporti; Haim Katz al Turismo. Per gli altri partiti, sono importanti i ruoli di Itamar Ben Gvir alla sicurezza nazionale e del rabbino Amichai Eliyahu ai beni culturali (entrambi di Otzma Yehudit), di Bezalel Smotrich dei sionisti religiosi al Tesoro con competenza su Giudea e Samaria, di Aryeh Deri (Shas) alla Salute e all’Interno.

• Il discorso di Netanyahu
  Aprendo la sessione speciale della Knesset per presentare il suo nuovo governo, Benjamin Netanyahu ha tenuto un discorso ripetutamente interrotto da fischi dei parlamentari dell'opposizione, cinque dei quali sono stati espulsi dopo numerose ammonizioni della presidenza, per aver ripetutamente violato le leggi della Knesset. Nel frattempo, fuori dall’edificio del parlamento si svolgeva una manifestazione di protesta di qualche centinaio di militanti di sinistra. Ha detto Netanyahu: "Questo nuovo governo è determinato a ripristinare la governabilità, la pace e la sicurezza personale dei cittadini di Israele. Sento le continue lamentele dell'opposizione sulla 'fine dello Stato' e persino sulla 'fine della democrazia'. Membri dell'opposizione, perdere le elezioni non è la fine della democrazia, è l'essenza della democrazia. Un regime democratico è messo alla prova prima di tutto dalla volontà della parte perdente di accettare la decisione della maggioranza. [...] Questa è la sesta volta che presento un governo sotto la mia guida", ha detto Netanyahu. "Sono sopraffatto come la prima volta. Voglio cogliere l'occasione per ringraziare la mia cara e amata famiglia, mia moglie Sara che è qui oggi ed è sempre al mio fianco, i miei figli Yair e Avner, che mi stanno sempre accanto". Netanyahu ha quindi indossato una kippà e ha recitato la benedizione Shecheyanu.

• Il seguito
  Dopo Netanyahu hanno parlato tutti i leader dei partiti; è poi seguito il voto e la chiamata dei ministri per il giuramento individuale. Con il giuramento davanti alla Knesset il governo entra nei suoi poteri. Questa sera alla residenza del Presidente della Repubblica vi sarà la canonica foto di gruppo. Ma le scadenze non aspettano. Il progresso nell’armamento atomico e l’alleanza strettissima con la Russia a seguito all’aggressione all’Ucraina rendono urgentissima la questione iraniana; il terrorismo interno è molto cresciuto e deve essere affrontato. Ma già per lunedì, ignorando la richiesta di rinvio del ministero della giustizia, motivata col cambio di gabinetto, la Presidente della Corte Suprema Esther Hayut ha convocato una seduta dedicata a chiarire la posizione del governo sulla spinosa questione dell’insediamento di Homesh, edificato sulle rovine di un villaggio evacuato da Sharon. Il precedente governo era incerto sulla distruzione dell’insediamento, l’attuale è certamente contrario e vuole abrogare la legge che la consente. La Corte Suprema, intervenendo prima di questa iniziativa parlamentare, metterà certamente in difficoltà il governo.

(Shalom, 29 dicembre 2022)
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Parte il governo Netanyahu, in equilibrio tra Riad e Teheran

Contenere l’Iran, avvicinare l’Arabia Saudita. Per il governo Netanyahu che nasce oggi, la sfida sta nel superare le posizioni ideologiche interne per muoversi con pragmatismo nei grandi dossier internazionali di primario interesse (anche di Washington)

di Emanuele Rossi| 

Se il timore di un Iran nucleare è ancora (o meglio: adesso più che mai) la principale minaccia che il nuovo/vecchio governo israeliano si trova davanti, la possibilità di costruire una partnership con l’Arabia Saudita è una speranza. Sono questi due i capisaldi strategici su cui l’esecutivo di Benajamin Netanyahu — che oggi, 29 dicembre entra di fatto in azione — si troverà a lavorare.
  Il ritorno al governo di Bibi è segnato da questi due dossier anche perché nei pochi, recenti mesi di opposizione ha più volte dedicato spazio ai due temi (e a una serie di questioni correlate) per accusare i governi rivali di essere troppo deboli o poco incisivi, aggiungendo spunti sulle sue teoriche capacità (migliori) nel raggiungere su entrambi campi risultati (maggiori).
  Nella realtà, sia il contenimento di Teheran che la possibilità di normalizzare i rapporti con Riad non rientrano completamento nelle potenzialità di Netanyahu, perché tendono a essere questioni molto complicate in cui le volontà politiche del premier israeliano segnano solo una porzione delle forze in campo.
  Il governo che Netanyahu si appresta a guidare è “il più di destra e religiosamente conservatore della storia di Israele”, per dirla come l’Associated Press, includendo figure dell’ultra-destra nazionalista dei cananisti. E questo è già un fattore di complicazione certo nell’affrontare entrambi i dossier. Con l’Iran, il rischio è di impelagarsi in un confronto troppo serrato che potrebbe portare verso derive armate. Con l’Arabia Saudita le difficoltà di comprensione di mondi diversi può non essere d’aiuto in un eventuale dialogo.
  La formazione dell’esecutivo insieme a figure considerate estreme dal mondo arabo — per le loro visioni ultra-radicali — era già stato segnalato come un problema da alcuni Paesi parte degli Accordi di Abramo. E non è un segnale positivo per coltivare la speranza che Riad diventi in qualche modo parte della formula di normalizzazione con Israele, cosa che Netanyahu sogna sin da quando ha costruito l’intesa con l’amministrazione Trump.
  Va detto che il nuovo corso del potere saudita non disdegna l’idea di aumentare connessione e collaborazione con Israele, ma per una formalizzazione il momento potrebbe non essere ancora adatto. Se finora la tempistica (complicata dal ruolo austero che Riad occupa di custode dei luoghi sacri islamici) è stata più collegata alla salita al trono dell’erede Mohammed bin Salman, ora — con questo esecutivo — potrebbe anche esserci da parte saudita la volontà di evitare scivoloni di immagine. D’altronde, gli oltranzisti ci sono pure nel regno.
  La composizione del governo potrebbe avere un peso anche sull’altro dossier, l’Iran, sia in modo diretto che indiretto. In questo secondo caso la partita è giocata in modo incrociato con gli Stati Uniti. L’amministrazione Biden è preoccupata per il nascente governo Netanyahu, ma ha promesso di dargli una possibilità e di giudicarlo dalle sue azioni piuttosto che dalla retorica radicale dei suoi membri.
  Ciononostante, tutti i segnali indicano una netta discrepanza tra le basi ideologiche del governo e i principi e le politiche della Casa Bianca di Biden. Ciò può avere un peso nella possibilità che Washington lavori per costruire un ponte con Riad — lavoro su cui l’influenza potrebbe essere molto relativa, se si considera che il rapporto saudi-americano non è in una fase brillante. Ma questo può essere anche un fattore nella gestione dell’Iran.
  L’amministrazione Biden era convinta della possibilità di ricomporre il Jcpoa, l’accordo del 2015 per congelare il programma atomico iraniano che Netanyahu ha sempre detestato e su cui trovò un momentaneo successo convincendo Donald Trump a decidere per un’uscita unilaterale e dunque mettendo in crisi il sistema dell’intesa. Ora Washington sta quasi rinunciando (sebbene non ancora formalmente) a quella composizione.
  L’Iran è un attore internazionale con cui è diventato quasi impossibile dialogare alla luce del sostegno offerto alla Russia in Ucraina e alle sanguinose repressioni contro le proteste. Netanyahu calca molto sul primo aspetto, ma difficilmente otterrà dagli Usa una copertura diplomatica e militare per soluzioni drastiche come quella di un attacco chirurgico e preventivo contro le strutture atomiche iraniane. Altrettanto difficilmente gli Stati Uniti saranno coinvolti nella gestione delle fasi successive all’attacco. Almeno nel brevissimo periodo, almeno se non si presentano condizioni di emergenza.
  Ben Caspit, un giornalista molto esperto di Israele e dei suoi rapporti con gli Stati Uniti, ricorda su Al Monitor che durante  il secondo mandato di Barack Obama, Netanyahu respinse le sollecitazioni statunitensi a fare concessioni ai palestinesi in cambio di una più stretta cooperazione degli Stati Uniti sull’Iran. La formula era soprannominata dai suoi oppositori “Bushar per Yitzhar” (prendendo da esempio l’impianto nucleare iraniano in cambio del contenimento delle attività nell’insediamento ebraico di Yitzhar in Cisgiordania). Uno dei principali oppositori di quella proposta era il membro della Knesset Bezalel Smotrich, che — insieme al suo compagno politico ultra-radicale, Itamar Ben-Gvir — è una di quelle figure poco condivise all’esterno che sono diventate parte del nuovo governo Netanyahu.
  La non volontà di fare concessioni sul dossier palestinese peserà in modo incrociato anche con l’Arabia Saudita. Sia nel cercare di stabilire relazioni formali con Riad, che potrebbero essere legate ai colloqui di pace israeliani con i palestinesi e alla rinuncia sui piani di annessione della Cisgiordania; sia sul coinvolgimento di Washington in questi contatti.
  Per Netanyahu, tuttavia, resta il pragmatismo. Inglobare le politiche regionali degli alleati è una volontà strategica per gli Stati Uniti, e dunque una forma di Accordi di Abramo non ufficiale tra Israele e Riad sarebbe un grande successo geopolitico anche per Washington. Altrettanto l’Iran: contenerlo è fondamentale anche per dare stabilità all’allineamento arabo-israeliano. Per Netanyahu (e per Israele) così come per Riad, migliorare i rapporti reciproci è dunque vantaggioso. E però è un esercizio che richiederà equilibrio — su cui Netanyahu ha già provato a dare garanzie.

(Formiche.net, 29 dicembre 2022)

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Negli Usa 300 rabbini firmano una lettera contro il governo del premier israeliano Netanyahu

Oltre 300 rabbini negli Stati Uniti hanno firmato una lettera aperta che mette in guardia dal governo del primo ministro eletto Benjamin Netanyahu, sostenendo che quest’ultimo rischi di causare “danni irreparabili” attraverso politiche e prese di posizione estremiste. La lettera punta l’indice contro una serie di proposte presentate da figure politiche di orientamento nazionalista che entreranno a far parte del nuovo governo, definendole “un anatema per i principi della democrazia”.
  In particolare, i rabbini paventano una erosione dei diritti delle donne, l’espulsione di arabi israeliani e il ribaltamento di pronunciamenti della Corte suprema israeliana. Nella loro lettera, i rabbini statunitensi annunciano l’intenzione di contestare il nuovo esecutivo impedendo ai membri del Partito religioso sionista – una delle formazioni di estrema destra parte della nuova coalizione di governo – di prendere parte alle loro congregazioni e organizzazioni. “Quando a soggetti che pubblicizzano razzismo e intolleranza è consentito di parlare in nome di Israele (…) è necessario passare all’azione e far sentire la propria voce”, afferma la lettera.
  È prevista per oggi, giovedì 29 dicembre, la plenaria per la votazione della fiducia al nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia di Israele la cui coalizione, formata da partiti di destra e religiosi ultra ortodossi, ha ottenuto la maggioranza dei voti alle elezioni legislative del primo novembre scorso. Il primo ministro incaricato ha affermato ieri che lo Stato di Israele avrà un “governo stabile che rimarrà in carica per un intero mandato”, dopo che il partito da lui guidato, Likud, e l’alleanza di partiti ultra-ortodossi dell’Ebraismo della Torah unito (United Torah Judaism, Utj), hanno firmato un accordo con cui hanno stabilito una coalizione. Come riferito dal “Jerusalem Post”, dopo la firma di quest’ultima intesa, il presidente del Likud e primo ministro designato si è rivolto al suo partito, dicendo: “Vorrei ringraziarvi tutti per gli sforzi congiunti che ci hanno portato a questo giorno. Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Una grande percentuale dello Stato di Israele, oltre due milioni di israeliani, ha votato per il campo nazionale da noi guidato. Stabiliremo un governo stabile per un intero mandato conferitoci da tutti i cittadini di Israele”. Netanyahu ha anche annunciato la decisione unanime di nominare il deputato del Likud Amir Ohana presidente della Knesset, il Parlamento monocamerale israeliano, e Ofir Katz al ruolo di capogruppo della coalizione.
  Il premier designato ha anche annunciato l’agenda del proprio governo, in cui si presta attenzione anche all’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e alle leggi che limiteranno il potere dei tribunali. “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele – in Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria”, ha dichiarato Netanyahu, aggiungendo: “Il governo adotterà misure per garantire la governance e ripristinare il giusto equilibrio tra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario”, con riferimento a una prevista “legge di annullamento” che consentirà alla Knesset di rileggere i progetti di legge annullati dalla Corte Suprema in quanto antidemocratici, e ai piani per conferire ai politici un maggiore controllo sulla selezione dei giudici. Non manca, poi, l’impegno del futuro esecutivo israeliano a dare sostegno alle forze di sicurezza e agli agenti di polizia per “contrastare e sconfiggere il terrorismo” accanto alla “lotta contro il programma nucleare iraniano”.

(Agenzia Nova, 29 dicembre 2022)

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Via libera al Governo di Netanyahu

Il premier ha ottenuto la fiducia della Knesset. Nel nuovo esecutivo la presenza femminile è ridotta a quattro ministre su 29. Il nuovo Esecutivo di Benyamin Netanyahu, il trentasettesimo nella storia di Israele, ha ottenuto giovedì la fiducia della Knesset. Hanno votato a favore 63 dei 120 deputati, mentre i voti contrari sono stati 54. L'annuncio è stato dato dal neoeletto presidente del parlamento israeliano, Amir Ohana. Il premier uscente Yair Lapid si appresta a passare le consegne entro la giornata.
  La nuova compagine governativa è composta da 29 ministri: uno in più rispetto a quella varato un anno e mezzo fa da Naftali Bennett, insieme con Yair Lapid. I partner di Netanyahu sono noti in quello che è ritenuto il governo più di destra nella storia di Israele: i due partiti ultraortodossi Shas e Torah Unita, nonché le tre formazioni di estrema destra: Sionismo religioso di Bezalel Smotrich, Otzma Yehudit (Potenza ebraica) di Itamar Ben Gvir e Noam di Avi Maoz.
  La presenza femminile risulta molto ridotta. Al tavolo del Governo ci sono quattro donne: Miri Regev (trasporti), Idit Silman (ambiente), Orit Struck (missioni nazionali) e Galit Distel Etbarian (ministra nell'ufficio del primo ministro). In quello uscente le ministre erano nove. A quanto risulta tra gli undici membri del Consiglio di difesa del Governo (il gabinetto interno che affronta le questioni strategiche più delicate) non ci sarà alcuna donna.
  Le linee guida del suo Esecutivo prevedono, tra gli altri, impegni quali la continuazione della lotta contro il nucleare dell'Iran, l'estensione degli accordi di pace con i vicini arabi "nel contesto della difesa degli interessi di sicurezza, storici e nazionali di Israele", lo sviluppo della politica di insediamento "nella Terra d'Israele in Galilea, nel Negev, nel Golan e nella Giudea-Samaria (Cisgiordania)", il mantenimento dello status quo nei legami Stato-religione, "incluso il rapporto con i Luoghi santi".

(RSI, 29 dicembre 2022)


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Il nuovo governo Netanyahu: 4 domande importanti

di Ugo Volli

Oggi alle 11 è prevista la presentazione alla Knesset (il parlamento monocamerale di Israele) del nuovo governo presieduto da Benjamin Netanyahu. È un momento importante, perché Israele non riusciva a formare una maggioranza politica coerente da quattro anni, punteggiati da cinque elezioni parlamentari. È anche un momento di conflitto, perché una parte del mondo politico israeliano si era illusa in questi anni di essere riuscita a eliminare Netanyahu dalla vita politica e anche di avere superato la distinzione fra destra e sinistra. E invece si ritrovano un gabinetto Netanyahu caratterizzato da un programma esplicitamente di destra, nazionale e religiosa. Se il nuovo governo agirà bene o male, si vedrà in futuro. Certamente esso corrisponde ai risultati elettorali ed è pienamente legittimo dal punto di vista politico e giuridico. Ci sono comunque alcune domande che vale la pena di farsi sul suo programma, perché la propaganda interna e internazionale ha fatto molta confusione.

• Da quali partiti è appoggiato il nuovo governo e chi gli si oppone?
  Il Likud, storico partito di centrodestra che nasce dalla leadership di Menachem Begin ed è presieduto da Netanyahu, ha 32 seggi sui 64 della maggioranza. Sono alleati con lui i sionisti religiosi (14 seggi divisi fra tre piccoli partiti), i religiosi sefarditi di Shaas e quelli askenazinti della lista UTJ (composta a sua volta da due partiti). Contrari sono le due liste arabe (Ra’am, legata alla fratellanza musulmana) e la lista unitaria composta da comunisti e nazionalisti palestinesi vicini a Hamas; e poi i laici progressisti di Yesh Atid (presieduto da Lapid, 24 seggi), i socialisti di Avodà ormai di sinistra estrema, i nazionalisti antireligiosi di Israel Beitenu (presieduto da Liberman) il partito di Gantz (Unità nazionale, 12 seggi) che raggruppa ex generali e trasfughi del Likud. In tutto l’opposizione, molto frammentata ideologicamente, ha 56 seggi.

• E’ vero che il nuovo governo vuole boicottare gli omosessuali?
  No, è un’insinuazione propagandistica infondata. Netanyahu l’ha smentito e ha scelto come nuovo presidente della Knesset Amir Ohana, omosessuale dichiarato. Negli accordi di maggioranza vi è una clausola che prevede la possibilità di obiezione di coscienza per ragioni religiose rispetto a certe regole; per esempio sarà possibile organizzare eventi pubblici, come concerti e manifestazioni religiose tenendo separati uomini e donne, secondo le norme delle tradizione ebraica. Sarà anche possibile l’obiezione di coscienza su certe medicine o certi servizi, se essi sono disponibili altrove. Ma è escluso che questo comporti il boicottaggio di categorie di persone sgradite.

• Il nuovo governo annetterà Giudea e Samaria?
  No, Netanyahu si è impegnato internazionalmente a non farlo. Il governo si propone di avere un atteggiamento più comprensivo nei confronti delle comunità stabilite oltre la linea armistiziale del ‘49, rendendo meno difficili i riconoscimenti dei nuovi villaggi e le licenze di costruzione. In particolare il governo si è impegnato ad aiutare la crescita della comunità di Hebron e ad abrogare la legge che proibisce gli insediamenti nelle località abbandonate da Sharon nel 2005.

• Netanyahu vuole eliminare l’indipendenza della magistratura?
  No, vi è un piano per permettere alla Knesset di riapprovare, forse a maggioranza qualificata, le leggi abrogate dalla Corte Suprema e per modificare la procedura con cui sono scelti i giudici. La Corte suprema ha in Israele un potere senza paragoni nel mondo occidentale, funziona insieme da Corte di Cassazione e da Corte Costituzionale (in assenza di una costituzione scritta, si è data senza una base legislativa il potere di abrogare le leggi, soprattutto sulla base delle sue convinzioni su quali siano i principi fondamentali della democrazia). Inoltre può essere interpellata da chiunque, senza la mediazione di altri giudici come in Italia o negli Usa, e dunque ha la possibilità di intervenire subito sui casi controversi. Il progetto del nuovo governo, ha detto uno dei capi del partito sionista religioso, Bezalel Smotrich, è di rendere il sistema giuridico più simile a quello degli Stati Uniti.

(Shalom, 29 dicembre 2022)


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Netanyahu ha svenduto gli ebrei laici e le donne di Israele

Gli accordi di coalizione senza precedenti stabiliscono che miliardi di shekel saranno trasferiti per rafforzare l'isolazionismo religioso e ultraortodosso e la normalizzazione del loro controllo sul resto del pubblico israeliano. Con discorsi dolci e sguardi innocenti, ci si aspetta che i battaglioni ultraortodossi operino tra i "nemici" secolari.

di Or Kashti

Una parte fondamentale degli accordi di coalizione del nuovo governo Netanyahu è dedicata all’espansione del controllo da parte dei leader dei partiti religiosi e Haredi sul maggior numero possibile di settori della vita e alla sottomissione del vasto e variegato pubblico laico di Israele alla versione ortodossa dell’identità ebraica.
  Questa interpretazione ristretta e fondamentalista è destinata a diventare l’unica possibilità legittima che verrà promossa, onda dopo onda, attraverso la propaganda, l’ingresso di organizzazioni religiose nelle scuole pubbliche non religiose (e il divieto di altri programmi), l’espansione dei poteri dei tribunali rabbinici e la riprogettazione dello spazio pubblico. Mai così tanto denaro è stato destinato a questi obiettivi: miliardi di shekel ai membri di due tribù religiose – e la normalizzazione del loro controllo sul resto.
  Le interviste del Primo Ministro designato Benjamin Netanyahu ai media stranieri e i suoi frequenti “chiarimenti” non lo aiuteranno. Non ha alcuna intenzione di agire a nome di tutti gli israeliani. La finzione è finita, insieme alla relazione accettata con loro. Ora il contesto richiesto è “gli spazi della Terra d’Israele” – su cui gli ebrei, e solo gli ebrei, hanno “il diritto unico e inalienabile”, come recita la prima clausola della nuova piattaforma di coalizione.
  L’autonomia haredi sarà preservata e ampliata, in parte attraverso la promulgazione di una Legge fondamentale sullo studio della Torah (che afferma che lo studio religioso è “un valore fondamentale nel patrimonio del popolo ebraico”). L’obiettivo non è solo quello di garantire un finanziamento adeguato – ci sono abbastanza modi nascosti agli occhi del pubblico per farlo – ma soprattutto quello di prevenire qualsiasi cambiamento futuro e garantire l’esenzione degli studenti delle yeshiva dal servizio militare.
  Saranno raddoppiati gli assegni per gli studenti delle yeshiva, compresi quelli provenienti dall’estero. Saranno revocate le modifiche introdotte per limitare i “cellulari kosher”; aumenteranno i finanziamenti per l’istruzione haredi e per quella di altre religioni, limitando la supervisione della prima e garantendo l’indipendenza della seconda. Aumenteranno i finanziamenti statali per i servizi religiosi locali; le istituzioni culturali ortodosse riceveranno 500 milioni di shekel (141,3 milioni di dollari); gli studi per l’ordinazione a rabbino o a giudice di tribunale religioso saranno presi in considerazione al momento dell’iscrizione al servizio civile (evitando la necessità di studi accademici).
  I tribunali rabbinici saranno autorizzati a trattare casi di controversie finanziarie, a quanto pare non solo nei casi di divorzio, presumibilmente con l’accordo di entrambe le parti. Questo “accordo” è un travisamento: Il legame tra un rapporto ineguale tra uomini e donne e un sistema giudiziario che favorisce chiaramente i primi dovrebbe preoccupare tutti, certamente nel contesto dei piani per eliminare il monitoraggio esterno dell’ombudsman per le denunce contro i giudici.
  Il giudice rabbinico sarà “immune dal tribunale civile, che si basa su principi di uguaglianza e giustizia, equità e protezione delle parti più deboli”, ha dichiarato mercoledì la prof.ssa Ruth Halperin-Kadari dell’Università Bar-Ilan. È naturale che Israele si sia ritirato dalla sua dichiarata intenzione di ratificare la convenzione internazionale sulla lotta alla violenza contro le donne, nota come Convenzione di Istanbul. Su un altro fronte, invece, c’è stato un risveglio: “Il governo agirà per prevenire l’incitamento e il razzismo contro la comunità religiosa e/o Haredi, anche attraverso la legislazione, se necessario”.
  Un’altra misura significativa degli accordi, da sempre sogno dei partiti religiosi e Haredi, è la modifica della legge israeliana contro la discriminazione, in modo che gli eventi culturali e i programmi di studio possano essere separati per sesso “per gli Haredim e i religiosi che lo desiderano”. Le maschere sono cadute: La segregazione sessuale, costante promemoria dello squilibrio di potere tra i sessi, è diventata un diritto naturale, senza limiti.
  Questo è il nuovo standard. Il passaggio, che compare negli accordi di coalizione con diversi partiti, afferma che il proprietario di un’attività commerciale può negare un servizio “a causa della fede religiosa”. Alcuni loderanno Netanyahu per aver “chiarito”, in risposta alle critiche dell’opinione pubblica, che non avrebbe permesso di fare del male alle persone LGBTQ. In questo modo, hanno contribuito a fare un altro passo avanti nella legittimazione della visione del mondo che vede il cittadino come una sorta di soggetto. Ma la tutela dei diritti – di qualsiasi gruppo, non solo della comunità LGBTQ – non è una questione privata che dipende da un leader o da un altro.
  Dopo aver rafforzato le fondamenta dei loro regni separati, ricchi di budget e ben protetti, i leader dei partiti religiosi e Haredi si sono occupati dell'”identità ebraica” del pubblico laico.
  Il Ministro designato per le Missioni Nazionali, Orit Strock, elaborerà un programma per approfondire l’identità ebraica. Il programma comprenderà “il rafforzamento e il consolidamento dell’unità familiare”, tra l’altro per gli studenti e i “leader nel servizio pubblico”, con un budget da record di circa 2,5 miliardi di shekel in tre anni. Di questa somma, 600 milioni di shekel saranno destinati al “rafforzamento dei nuclei di missione” (anche detti Garinei Torah) per “aumentare il consolidamento sociale”.
  A questo abbraccio identitario va aggiunta “l’autorità per l’identità nazionale ebraica”, guidata da quel fanatico delle liste nere, Avi Maoz del partito Noam, che supervisionerà il “rafforzamento e la fortificazione dell’identità ebraica” in tutti i sistemi pubblici, con un budget di 200 milioni di shekel nei prossimi due anni (ricordando che a Maoz è stata affidata anche la responsabilità della programmazione scolastica esternalizzata).
  Si tratta di accordi senza precedenti. Daranno lavoro a legioni di haredi che opereranno con parole dolci e sguardi innocenti per il “nemico” laico. Non commettete errori: Dal punto di vista di Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir, Arye Dery e Yitzchak Goldknopf, questo non è un dialogo tra pari. L’atteggiamento nei confronti dell’enorme pubblico che si trova al di fuori delle loro comunità insulari va dal lavoro missionario allo strumentalismo. Questo è il nuovo ordine che il sesto governo Netanyahu sta promuovendo: una svendita di tutto ciò che non è ebraico, ortodosso e maschile.

(Haaretz, 29 dicembre 2022 - trad. Rights Reporter)
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Emerge in Israele il contrasto finora latente fra Stato democratico laico e Stato ebraico religioso. Dire "democratico" una volta significava che per la società ha valore normativo quello che proviene dall'elezione fatta dal popolo. Da un po' di tempo invece in molte nazioni occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti per finire all'Italia, è diventato democratico soltanto quello che è considerato tale dai "progressisti buoni", i profeti di una laicità libertaria spinta al massimo. E' democrazia liquida, dirà qualcuno, cioè liquefazione della democrazia. Forse era questo il suo destino. M.C.

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Google corregge la voce nel dizionario inglese che definiva “jew” un verbo offensivo

di Ilaria Ester Ramazzotti

Un “grottesco stereotipo antisemita”. Così l’ong Stop Antisemitism ha valutato la definizione della voce ‘jew’ [ebreo] che dava il dizionario online di Google in lingua inglese, fornito dalla casa editrice Oxford Languages. L’applicazione di Google descriveva in primis ‘jew’ come un verbo dall’uso offensivo, dal significato figurato di “contrattare con qualcuno in modo avaro o meschino”.
  Continuando la consultazione, dopo aver fatto clic su “traduzioni e altre definizioni”, il risultato di Google include diverse coniugazioni di questo verbo, come “jewed” e “jewing“, e rivela che la sua origine risale al XIX secolo in riferimento al modo in cui gli ebrei lavorano con il prestito di denaro e il commercio. Solo di seguito, come opzione secondaria, “jew” veniva descritto come il sostantivo che identifica un “membro del popolo ebraico”. Dopo alcune recenti proteste e segnalazioni, la definizione pubblicata da Google è stata cambiata: prima il sostantivo e successivamente il verbo.
  Fra le personalità intervenute per far cambiare la definizione del termine si conta quella del portavoce dell’ambasciata israeliana negli Stati Uniti Elad Strohmayer, che su Twitter ha scritto: “Non potevo crederci, quindi l’ho cercato su Google da solo… ehi @Google, che cos’è l’antisemitismo”?
  La versione italiana del dizionario di Google, ripresa sempre dall’editore Oxford Languages, indica il termine ‘ebreo’ per prima cosa come un aggettivo e sostantivo maschile che significa appartenente agli Ebrei, aggiungendo una seconda definizione di senso figurato che recita: “Con riferimento all’abilità che una tradizione antisemita riconosce agli Ebrei nel commercio e nella finanza, il termine è talvolta usato in senso polemico o addirittura come epiteto ingiurioso a proposito di persona dominata dalla sete di guadagno e dall’avarizia, e anche come sinonimo di strozzino e usuraio”.

(Bet Magazine Mosaico, 29 dicembre 2022)

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Israele quarta migliore economia tra i paesi Ocse

Secondo l’Economist, nel 2022 il paese ha registrato buone prestazioni nonostante gli sconvolgimenti politici

da Times of Israel

Israele è la quarta migliore economia per prestazioni nel 2022 nella classifica dei paesi Ocse stilata dall’Economist. Il settimanale britannico cita il buon andamento dell’economia come una delle “piacevoli sorprese” del 2022 in Israele “nonostante il caos politico” provocato dalla caduta del governo che ha portato gli israeliani alle urne per la quinta volta in meno di quattro anni.
  La classifica dell’Economist si basa su un punteggio complessivo calcolato su indicatori economici e finanziari come prodotto interno lordo (Pil), inflazione, performance del mercato azionario, debito pubblico.
  L’economia israeliana condivide il quarto posto con la Spagna e si posiziona dopo l’Irlanda fra i 34 paesi Ocse citati nella ricerca. La Grecia si guadagna il primo posto, seguita dal Portogallo al secondo, mentre Lettonia ed Estonia sono in fondo alla classifica. Giappone, Francia e Italia figurano nella top ten, mentre l’economia statunitense, cresciuta a un tasso dello 0,2%, si classifica al 20esimo posto, e la Germania, “nonostante la stabilità politica”, al 30esimo.
  Secondo questa indagine, i paesi come Spagna e Israele che non dipendono dalle forniture di petrolio e gas dalla Russia hanno ottenuto risultati migliori della media. “Quelli che hanno patito davvero sono i paesi che dipendono da Vladimir Putin per il carburante – osserva l’Economist – In Lettonia i prezzi medi al consumo sono aumentati di un quinto”.
  Secondo le stime del Ministero delle finanze israeliano, la previsione è che l’economia del paese sia cresciuta nel 2022 a un tasso del 6,3%, dopo la crescita ancora più sostenuta dell’8,1% nel 2021, l’anno della ripresa dalla pandemia. Il dato va messo a confronto con la prevista crescita del Pil per quest’anno del 3% delle economie mondiali, stando a una proiezione dell’Ocse.
  Le esportazioni israeliane, che costituiscono circa il 30% dell’attività economica del paese, dovrebbero aumentare di oltre il 10% fino a raggiungere livelli record compresi tra i 160 e i 165 miliardi di dollari nel 2022, secondo una stima prudente pubblicata domenica scorsa dall’Amministrazione commercio estero del Ministero degli esteri. Le esportazioni di servizi, compresi i servizi tecnologici come software e varie soluzioni di ricerca e sviluppo (R&S), hanno probabilmente superato le esportazioni di merci per il secondo anno consecutivo, con il 51% per i servizi contro il 49% per le merci. L’Europa si conferma il principale partner commerciale di Israele rappresentando il 38% delle esportazioni, seguita dalle Americhe con il 35% e dall’Asia con il 24%.
  Negli ultimi dodici mesi, attestandosi al 5,3% l’inflazione in Israele ha superato il limite superiore del range-obiettivo che stava fra l’1 e il 3%, ma è restata comunque significativamente inferiore a quella della maggior parte dei paesi sviluppati.

(israele.net, 28 dicembre 2022)</i>

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Israele: inaugurati i lavori di scavo nell'antica piscina di Siloe a Gerusalemme

di Michelle Zarfati

La piscina di Siloe
L'Israel Antiquities Authority, l'Israel National Parks Authority e la City of David Foundation hanno ufficialmente dato inizio ai lavori scavo della storica Piscina di Siloam, a Gerusalemme.
  La Piscina di Siloe, situata nella parte meridionale della Città di David e all'interno dell'area del Parco Nazionale delle Mura di Gerusalemme, è un sito archeologico e storico di importanza nazionale e internazionale fondamentale. La Piscina fu costruita per la prima volta circa 2.700 anni fa. Originariamente era parte del sistema idrico di Gerusalemme nell'VIII secolo a.e.v, durante il regno del re Ezechia, come descritto nella Bibbia nel Libro dei Re II, 20:20.
  La Piscina di Siloe fungeva da serbatoio per le acque della Sorgente di Gihon, che venivano deviate attraverso un tunnel idrico sotterraneo, ciò indica come già l’area fosse considerata una delle più importanti di Gerusalemme nel periodo del Primo Tempio. Per la sua posizione e importanza, la Piscina di Siloam fu rinnovata e ampliata circa 2000 anni fa alla fine del periodo del Secondo Tempio. Si ritiene inoltre che la piscina venisse usata durante questo periodo come bagno rituale ('mikveh') da milioni di pellegrini che convergevano alla piscina di Siloe prima di salire attraverso la Città di Davide al Tempio. Nel 1880, l'iscrizione di Siloe fu scoperta nel tunnel dell'acqua, a poche decine di metri dalla piscina. L’epigrafia, attualmente situata presso il Museo archeologico di Istanbul, è scritta in caratteri ebraici antichi e registra come l'acqua della sorgente di Gihon fosse deviata verso la piscina durante il regno del re Ezechia.
  Nel corso degli anni, molte tradizioni sono state associate alla Piscina di Siloe e, dalla fine del XIX secolo, è stata al centro di spedizioni da tutto il mondo: nel 1890, un gruppo di archeologi anglo-americani guidati da Frederick Jones Bliss e Archibald Campbell Dickey scoprirono alcuni gradini della Piscina, e successivamente negli anni '60 l'archeologa britannica Kathleen Kenyon scavò il sito. Nel 2004, durante i lavori infrastrutturali eseguiti dalla società idrica Hagihon, sono stati scoperti alcuni gradini della piscina. Di conseguenza, l'IAA iniziò uno scavo sistematico sotto la direzione dei professori Roni Reich ed Eli Shukron.
  Secondo le stime, la Piscina di Siloam ha attraversato più fasi di sviluppo e, al culmine della sua gloria, aveva all'incirca le dimensioni di 5 dunam (1¼ acri) ed era intarsiata con imponenti lastre di pietra. Per la prima volta nella storia moderna, lo scavo dell'IAA consentirà l'esposizione completa della Piscina di Siloe. Il progetto, facente parte di uno scavo archeologico ufficiale, è appena cominciato. Nella prima tappa i visitatori potranno osservare gli scavi archeologici, e nei prossimi mesi sarà aperta agli accessi turistici la Piscina di Siloe, attraverso un percorso che avrà inizio nel punto più meridionale della Città di David e culminerà alle orme del Muro Occidentale.
  Il sindaco di Gerusalemme, Moshe Lion, ha elogiato l’apertura del progetto. "La Piscina di Siloe nel Parco Nazionale della Città di David, a Gerusalemme, è un sito di importanza storica, nazionale e internazionale. Dopo molti anni di attesa, meritiamo di poter scoprire questo importante luogo e renderlo accessibile a milioni di persone e visitatori che giungono a Gerusalemme ogni anno".

(Shalom, 28 dicembre 2022)

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Addio a Maria Pia Balboni, custode della memoria

Finale Emilia, grande studiosa della comunità ebraica, è morta a 84 anni. Aveva pubblicato saggi e studi, fondò l’associazione culturale Alma Finalis

Maria Pia Balboni
Per Maria Pia Balboni la memoria era tutto: la memoria dei luoghi, a partire da quel Finale antico e prezioso di cui conosceva ogni ‘segreto’, e la memoria delle persone, testimoni di un passato ricco di storia e di storie, come quelle della piccola e generosa comunità ebraica che a lungo visse fra la Torre dei Modenesi e il Castello. Maria Pia Balboni sapeva che senza memoria non c’è futuro. Ci ha lasciato in silenzio, nel cuore del periodo festivo: nel primo pomeriggio di ieri l’hanno trovata senza vita nel suo appartamento di via degli Olmi, dove viveva sola. Nel giorno di Santo Stefano aveva conversato con amici dell’associazione Alma Finalis che lei stessa aveva fondato, ma ieri mattina non rispondeva più al telefono. Purtroppo i timori erano fondati: l’intervento dei soccorritori, allertati da amici e vicini di casa, si è rivelato inutile. Maria Pia Balboni soffriva da tempo per una malattia: quasi certamente una crisi le è stata fatale.
  Nata nel 1938, Maria Pia Balboni ha viaggiato in molti Paesi, accompagnando gruppi. Ha raccolto e conservato storie. E già molti decenni fa ha iniziato ad approfondire le vicende della comunità ebraica di Finale e del piccolo cimitero ebraico che ne tramanda la storia. Ha pubblicato studi e saggi, per esempio sull’incredibile figura di Rubino Ventura, ebreo finalese che divenne supremo generale dell’esercito del maharaja, e "Bisognava farlo" con le storie delle famiglie finalesi che durante gli anni bui della seconda guerra mondiale sfidarono i fascisti e i nazisti per accogliere in casa ebrei perseguitati. Per la sua appassionata attività, Maria Pia Balboni aveva contatti con studiosi internazionali. Fu lei, con il gruppo R6J6, a scoprire che Donato Donati, il mercante modenese che nel 1600 aveva acquistato il terreno per fondare il cimitero ebraico finalese, era un antenato del celebre giornalista Arrigo Levi che più volte tornò a Finale per onorare le sue ascendenze. E fu sempre lei a contattare anche il premio Nobel Rita Levi Montalcini che inviò una importante donazione per la cura del cimitero ebraico. Maria Pia era grande amica dello scrittore Giuseppe Pederiali che non mancava mai di ascoltare i suoi incantevoli racconti e sapeva trasferirli anche nei romanzi come "Emiliana". Sempre la dottoressa Balboni, con l’associazione Alma Finalis, ha caldeggiato la posa di due pietre d’inciampo dedicate a luminose figure di ebrei finalesi, la farmacista Ada Osima e il medico Emilio Castelfranchi, vittime della Shoah. "Con Maria Pia Balboni la nostra comunità perde un importantissimo riferimento culturale – sottolinea Elisa Cavallini, assessore alla cultura del Comune di Finale –. Faremo di tutto affinché i suoi temi di studio continuino ad avere per Finale la rilevanza che meritano, a onore della sua memoria".

(Il Resto del Carlino, 28 dicembre 2022)

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Ebrei Irlandesi: nuovo importante database alla Israel National Library

Gerusalemme, nuovo importante archivio degli ebrei irlandesi alla Israel National Library. Una vicenda sconosciuta svelata dai ventidue volumi del database

di Roberto Zadik

Sicuramente l’Irlanda è stata la patria di vari ingegni letterari, da Wilde, a Yeats a Beckett e di famose band musicali, come U2 e Cranberries, ma poco o niente si sa dei suoi ebrei e della loro affascinante storia millenaria.
  Una vicenda complessa che viene “svelata” dal nuovo imponente database che, stando all’articolo del Jewish Telegraphic Agency firmato dal giornalista David Klein lo scorso 21 dicembre,  recentemente la celebre Libreria Nazionale di Israele (Israel National Library) ha accolto fra i suoi materiali e che, in ventidue volumi, racconta tre secoli di ebraismo irlandese, dal 1700 ad oggi. Ma qual è la storia e le peculiarità degli ebrei irlandesi?
  Una presenza millenaria, secondo l’accurato resoconto del sito My Jewish learning, fin dal 1079, quella degli ebrei irlandesi immigrati dalla Normandia nel Medioevo. Questa popolazione ha subito delle  persecuzioni come la “cacciata” nel 1290, quando anche i  correligionari inglesi dovettero lasciare la Gran Bretagna, ma ha anche avuto i suoi momenti di splendore, dopo secoli di oblio; infatti, Dublino divenne rifugio sefardita per centinaia ebrei spagnoli e portoghesi, conoscendo una delle sue fasi migliori, dalla metà dell’Ottocento fino alla Shoah, con l’arrivo di popolazioni ebraiche provenienti anche dalla Germania, dalla Polonia e dall’Inghilterra che si dedicavano al commercio e all’importazione soprattutto di vini. Nei primi anni del Novecento, fu il loro periodo di massima espansione, passando da 453 presenze a quasi quattromila, distribuiti in vari centri del Paese, dal Nord, come a Belfast e a Limmerick, alla parte meridionale con la comunità di Dublino.
  Sicuramente questo ispirò il grande scrittore dublinese James Joyce che, nel 1904, scelse un immaginario ebreo come Leopold Bloom nel ruolo di protagonista del suo monumentale romanzo Ulisse e che fu molto legato al mondo ebraico dalla sua profonda amicizia con il celebre scrittore ebreo triestino Italo Svevo (al secolo Aron Hector Schmitz).
  Spesso boicottati e perseguitati dalla Chiesa e dalla popolazione locale, gli ebrei irlandesi non hanno avuto vita facile e, attualmente, sono meno di duemila, distribuiti fra Dublino, Belfast e Cork. In mostra, alla Israel National Library, l’elenco dei nomi, dei certificati di nascita e di sepoltura e una serie di materiali inediti  meticolosamente compilati e raccolti da Stuart Rosenblatt presidente della Società genealogica ebraica irlandese.
  Fra le curiosità presenti anche i censimenti, gli indirizzi delle abitazioni e i membri delle varie sinagoghe. Una testimonianza unica nel suo genere che permetterà, ai visitatori della Libreria, sia di conoscere un capitolo inedito di storia ebraica sia di ricercare qualche eventuale origine ebraica irlandese.
  Soddisfatto dell’iniziativa il presidente israeliano Isaac Herzog, il cui nonno, il rabbino suo omonimo Isaac HaLevi Herzog, venne nominato rabbino capo d’Irlanda dal 1921 al 1936. A questo proposito, ha affermato “non c’è bisogno di sottolineare che sento un collegamento molto personale con questa esposizione ed esprimo uno speciale apprezzamento per l’arrivo di questi volumi nel nostro Paese”. Attualmente  i volumi sono stati riprodotti solamente in cinque copie, una custodita a Gerusalemme, alla Israel National Library,  mentre le altre quattro sono a Dublino. Raquel Ukeles, capo delle collezioni della National Library, ha messo in luce che “questo database segna un’altra tappa fondamentale nel nostro incessante lavoro di ricostruzione storica e documentale delle varie comunità ebraiche nel mondo”.

(Bet Magazine Mosaico, 28 dicembre 2022)

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“Via la legge che vieta le discriminazioni”. Ora anche Israele teme l’assalto ai diritti lgbt+

Bufera su Netanyahu alla vigilia della nascita del nuovo governo per gli annunci dei partiti nazional-religiosi che lo sostengono. E la società civile si ribella

di Rossella Tercatin

Sono i diritti lgbt+ il primo nodo del nuovo governo israeliano a guida Benjamin Netanyahu. L'esecutivo - il più a destra di sempre - non si è ancora insediato e già infuriano le polemiche, con una parte di società pronta a combattere per mantenere il carattere liberale dello Stato ebraico. Nei giorni scorsi infatti è emerso che l'accordo raggiunto tra il Likud e il Partito sionista religioso prevede tra l'altro di modificare la legge che vieta agli esercizi commerciali di rifiutare i propri servizi ai clienti su base religiosa. Un accordo difeso dalla parlamentare Orit Strock che, in un'intervista alla radio pubblica Kan, ha rincarato la dose, suggerendo come anche i medici dovrebbero avere il diritto di rifiutare di condurre trattamenti contrari al proprio credo, a patto che possano essere forniti da un altro dottore.

• Contro i diritti lgbt+
  "Le leggi contro la discriminazione sono giuste quando creano una società giusta, equa, aperta e inclusiva, ma c'è una certa devianza in cui la fede religiosa viene calpestata e vogliamo risolvere il problema", ha detto Strock, che dovrebbe ricevere un ministero senza portafoglio. Le sue dichiarazioni hanno scatenato un putiferio. A insorgere non solo i membri dell'opposizione, ma anche il presidente Isaac Herzog, che in una rara presa di posizione si è dichiarato "molto preoccupato". "Le dichiarazioni razziste sentite nei giorni scorsi contro la comunità lgbt+ e in generale contro diversi gruppi mi turbano molto", le parole di Herzog. Questi avvenimenti sono solo gli ultimi di una lunga serie di episodi anti-lgbtq+. L'attuale maggioranza include anche un partito apertamente anti-gay - Noam - , cui sarà affidato il dipartimento responsabile dell'identità ebraica e delle iniziative educative presso l'ufficio della presidenza del Consiglio.

• Il Pride di Tel Aviv
  Israele è tradizionalmente considerato una nazione all'avanguardia per i diritti lgbt+. Il Pride di Tel Aviv è uno dei più iconici al mondo, e sebbene nel Paese non esista matrimonio civile le coppie dello stesso sesso possono registrare le proprie nozze celebrate all'estero alla stregua di quelle eterosessuali. Nell'ultimo anno inoltre è stato consentito anche a individui single, gay e trans di avere figli tramite madri surrogate. Forse per questa ragione l'idea che un albergo possa rifiutare di affittare una camera a una coppia lgbtq+ come ipotizzato da un altro parlamentare del Partito sionista religioso, Simcha Rothman, ha suscitato malcontento anche tra gli elettori di destra laici e tradizionalisti che supportano Netanyahu. Il quale, dal canto suo, ha assicurato che non permetterà alcuna forma di discriminazione. "Le parole della parlamentare Orit Strock sono inaccettabili", ha dichiarato in una nota. "Il Likud garantirà che non ci saranno danni alle persone lgbt+ o a qualsiasi cittadino israeliano".

• Bank discount cambierà le sue linee guida
  Ma la reazione più forte è arrivata dalla società civile. Bank Discount, una delle maggiori banche d'Israele, ha affermato che cambierà le proprie linee guida per negare l'accesso al credito a società o individui che discriminano clienti sulla base di religione, razza, genere o orientamento sessuale. Un esempio seguito da diversi gruppi finanziari e high tech. Il vero quesito rimane cosa farà Netanyahu, se sarà cioè in grado di forzare la mano agli alleati, evitando - come già in passato - di concretizzare alcuni dei suoi impegni. Oppure, come prevede l'opposizione, si troverà costretto a cedere, provocando ulteriori gravi spaccature nella società.

(la Repubblica, 28 dicembre 2022)
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Si noti la successione di stringhe indicanti un'associazione che forse vuol mostrarsi fluida anche nella sua denominazione: lgbt+ nel titolo, poi si sale a lgbtq+ nel corpo, poi si ridiscende a lgbt+, poi si risale a lgbtq+, e infine si atterra definitivamente nell'lgbt+ di partenza. Segno di una certa indecisione dell'autore sul numero di variabili gender a cui fino ad oggi il movimento è riuscito ad arrivare. Del resto, quel + finale sembra indicare un'infinita potenziale di possibili articolazioni del costituendo "gender". In origine la serie dei "gender" era limitata a due, maschio e femmina, ma si sa, le possibilità dell'homo faber sono aperte all'infinito potenziale, quindi è retrogrado razzismo porre limiti alla formazione di nuovi generi umani liberamente scelti e tecnologicamente prodotti. Forse può essere proprio questo uno dei punti, non l'unico ma neppure il più trascurabile, in cui sta venendo fuori il contrasto in Israele fra Stato democratico e Stato ebraico, da sempre latente e sempre in qualche modo sistemato alla meglio. Ora però il nodo non sembra più accantonabile. M.C.

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Il governo Netanyahu nasce avvertendo gli Usa del legame Russia-Iran

di Emanuele Rossi| 

Secondo Amichai Stein di Kahn News, un giornalista molto informato su ciò che accade a Gerusalemme, l’intelligence e altri funzionari d’apparato israeliani in questi giorni starebbero particolarmente insistendo con i colleghi occidentali sui rischi dei collegamenti tra Russia e Iran. Nelle conversazioni, che avvengono in modo particolare con gli statunitensi (che danno maggiore credito e ascolto a certe considerazione di Israele) si pone evidenza e rischio che Mosca possa ricambiare, con l’assistenza sul programma nucleare iraniano, l’aiuto che sta ricevendo da Teheran nell’invasione russa dell’Ucraina.
  È noto che la Repubblica islamica sta fornendo armi di vario genere (soprattutto droni, molti dei quali costruiti sfuggendo al regime sanzionatorio Onu-Usa-Ue) alla campagna di conquista ucraina lanciata il 24 febbraio dalla Federazione Russa. Giovedì 22 dicembre, il capo del Mossad ha pubblicamente avvertito che “stiamo anche mettendo in guardia sulle future intenzioni dell’Iran di approfondire ed espandere la fornitura di armi avanzate alla Russia”, ma la questione va oltre. Secondo le informazioni ottenute da Stein, Mosca potrebbero aiutare Teheran non solo nell’assemblare una bomba atomica, ma anche nel fargli ottenere capacità per lanciarla.
  “Ci vorranno 1-2 anni all’Iran per acquisire la capacità di installare la bomba su un missile. La Russia può aiutare gli iraniani ad accorciare i tempi”. Il tema è iper-critico: l’Iran, un Paese sommerso dalle proteste popolari contro la gestione dello stato da parte della leadership – proteste che il regime sta cercando di reprimere da oltre tre mesi – sta da tempo portando avanti un programma nucleare. Teheran dice che è solo a scopi civili, Israele insiste che è un modo per raggiungere il deterrente nucleare e scombussolare gli equilibri mediorientali (che si basano anche sull’ambiguità strategica israeliana, che potrebbe essere l’unico Paese ad avere quel genere di armi nella regione). In ballo c’è il processo di ricomposizione del Jcpoa, i rapporti con Teheran e in definitiva il suo ruolo nel mondo.
  I funzionari russi sostengono che stanno lavorando per impedire all’Iran di ottenere la bomba nucleare, ed è questa la ragione per cui hanno sempre sostenuto il Jcpoa – l’intesa nata nel 2015 con l’avallo del Consiglio di Sicurezza Onu, poi naufragata per l’uscita statunitense nel 2018, e ora in una complessa fase di revisione. Il tentativo lanciato dall’amministrazione Biden di ricomporre l’accordo che congelava il programma nucleare iraniano sta andando malissimo: perché l’Iran ha avviato (per ritorsione all’uscita americana di quattro anni fa) un processo di arricchimento che non ha mai arrestato; perché Teheran ha sempre trovato pretesti per mantenere in stallo i negoziati; perché il regime iraniano sta reprimendo le proteste in modo brutale e aiutando la Russia in Ucraina.
  Mentre come sostiene Mattia Serra, del Mena Desk dell’Ispi, “non è chiaro quali conseguenze l’ingresso di certe personalità (legate all'altra destra nazionalista, ndr) al governo possa avere sui rapporti tra Israele e i partner internazionali, Stati Uniti e Unione europea in primis”, perché ciò potrebbe pesare anche sulle scelte in politica estera, è abbastanza chiaro che su temi come l’Iran, la direzione del nuovo governo di Benjamin Netanyahu resterà su un solco storico – seguito anche dai suoi predecessori. Per Israele, è inconcepibile che la Repubblica islamica – rivale esistenziale dello stato ebraico – possa ottenere un’arma come quella nucleare, e farà di tutto per evitarlo.
  La questione è ritenuta la principale problematica per la sicurezza nazionale, seguita dalle altre forme di minacce percepite e collegate all’Iran (come quelle provenienti dai proxy regionali dei Pasdaran, le varie milizie sciite che si muovono nella regione accomunate dall’odio ideologico contro Israele e più in generale contro l’Occidente). Dopo aver fatto ogni genere di pressione (per anni) contro il Jcpoa, ora Israele gioca la nuova carta del collegamento Iran-Russia. Usa e Ue hanno reagito in modo compatto contro l’invasione russa dell’Ucraina, considerata una sfida esistenziale alla stabilità globale. Per gli israeliani usare l’amicizia in rafforzamento tra Mosca e Teheran può servire per affossare definitivamente i tentativi di dialogo con i secondi, in quanto partner dei primi. Da qui, avviare altri tipi di opzioni, come quelli militari già sul tavolo (che potrebbero dipendere anche da alcuni equilibri interni al nuovo esecutivo).

(Formiche.net, 27 dicembre 2022)

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Un programma può manipolare ogni video

La start up israeliana Toka, che ha tra gli advisor l'ex premier Barak, è in grado di intercettare qualsiasi telecamera e alterarne le immagini. Lo strumento è pensato per i governi, ma con regole poco chiare. Nella lista dei clienti Paesi occidentali, pure l'Italia.

di Claudio Antonelli 

Il 20 gennaio del 2010 un gruppo di uomini dei servizi israeliani eliminò in un hotel di  Dubai Mahmoud Al Mabhouh, figura di spicco di Hamas. Fu un duro colpo per i palestinesi, ma uno smacco anche per Gerusalemme. L'operazione non fu proprio «pulita», come si dice in gergo. Le telecamere dell'albergo tracciarono i volti delle forze speciali. Dubai chiamò l'Fbi, gli inglesi scoprirono che la squadra israeliana in missione utilizzava passaporti di veri sudditi della Corona e cacciò da Londra un paio di diplomatici di Israele. Oggi questo pasticcio non sarebbe accaduto, grazie a un sistema di software prodotto da una start up, ovviamente israeliana, che prende il nome di Toka. Tra gli advisor c'è l'ex premier Ehud Barak e tra i fondatori addirittura il generale Yaron Rosen, per anni il capo della sezione cyber dell'esercito israeliano. 
  Se Toka fosse esistito nel 2010 avrebbe potuto agilmente intervenire sul sistema di sorveglianza dell'edificio e sostituire a posteriori o addirittura in presa diretta i volti degli agenti con quelli di altre persone. E nessuno sarebbe risalito al Mossad, garantendo a Tel Aviv un successo su tutti i fronti. La manipolazione è possibile grazie a un sistema estremamente complesso che non si basa soltanto sul software di punta (quello svelato l'altro ieri dal quotidiano Haaretz), ma da un sistema di connessioni che permette di setacciare e intervenire su qualunque telecamera praticamente in tempo reale. O meglio, in tempo reale se il perimetro di ricerca è più o meno limitato a un città. Per setacciare le telecamere globali collegate alla Rete ci vogliono probabilmente minuti. Ma alla fine della ricerca sarà possibile scoprire dove un singolo individuo è stato immortalato per l'ultima volta. 
  A novembre dello scorso anno il generale Rosen ha pubblicato un editoriale sul The Time of Israel spiegando, da ex pilota di elicotteri, che lo scenario e le necessità di difesa nei cieli sono cambiate molto più lentamente in decenni, di quanto sta accadendo negli ultimi mesi nel teatro di guerra cyber. Per questo Israele ha, da un lato, istituito un programma (Cyberas) per convertire in sei mesi soldati di fanteria (e non solo) in cyber guerrieri e, dall'altro, ha spinto il più possibile su start up come Toka. E in passato su altre già finite sulle colonne dei quotidiani perché connesse a fatti di cronaca che con il terrorismo nulla avevano a che fare. Basti pensare a Pegasus, un software spia, prodotto da Nso, e scoperto negli smartphone di numerosi politici occidentali, giornalisti o attivisti di varie Ong. Il nome Pegasus è in qualche modo collegato al Qatargate perché la scorsa primavera Bruxelles ha istituito una commissione d'inchiesta per scoprire quali governi ne facessero uso e contro chi. 
  Da lì il timore dei servizi d'intelligence marocchini di finire nell'inchiesta e le numerose sollecitazioni al gruppo di Antonio Panzeri con l'obiettivo di mitigare le ricerche. Ma Pegasus è solo uno dei tanti software svelati. Se torniamo indietro, scopriamo che anche gli italiani di Hacking team si sono trovati coinvolti in un fatto di cronaca. Dietro all'omicidio del saudita Jamal Khashoggi sarebbe stato testato un software in grado di bucare praticamente tutti i device. Vale la pena sottolineare che ogni volta che la stampa svela (o riceve una velina relativamente a) un software, è già pronto a entrare in commercio il modello successivo. Immaginiamo che potrà avvenire la stessa cosa anche con Talea. Il che porta a chiedersi che cosa mai sarà in grado di fare la versione aggiornata. 
  Sul suo sito ufficiale Toka ancora oggi spiega che i prodotti vengono offerti soltanto alle forze armate, alle organizzazioni per la sicurezza nazionale, all'intelligence e alle forze dell'ordine «degli Stati Uniti e dei suoi più stretti alleati». Per il giornale israeliano i clienti sono almeno Israele, Usa, Germania, Australia, Singapore. «Ma sulla mappa fornita dal pagina web della start up compare anche l'Italia, senza però fornire dettagli ulteriori», si legge sempre nell'articolo. Nell'elenco seguono Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito, Grecia, Canada. Anche solo fermandoci alla versione attuale, è facile immaginare la rete di informazioni che può essere raccolta su ciascun cittadino. Pegasus, per esempio, era in grado di bucare tutti i telefoni eccetto il vecchio Nokia 6610. Per il semplice fatto che si tratta di un apparecchio così poco diffuso che gli sviluppatori non hanno voluto dedicare tempo a metterlo nel mirino. Se poi aggiungiamo il numero presunto di telecamere installate nel mondo, si comprende quanto il cappio attorno alla nostra privacy sia stretto. Aithority stima che in Cina siano funzionanti 200 milioni di apparecchi di video sorveglianza. Gli Stati Uniti ne avrebbero 50 milioni e la Germania più di 5. Tante quante ne registra la Gran Bretagna o il Giappone. La piccola Olanda ha ben 1 milione di apparecchi attivi su un totale di 17 milioni di abitanti. Per rimanere nell'Ue, Germania e Olanda sono i Paesi più controllati. Contano infatti rispettivamente 6,2 e 5,8 telecamere ogni 100 persone. 
  In Italia, secondo statistiche non confermate, il rapporto dovrebbe essere 3 ogni 100 abitanti. Numeri impressionanti che inducono a riflettere sulle possibili conseguenze. Chi sviluppa i software e usa l'intelligenza artificiale per spalmarne l'efficacia su milioni di obiettivi tiene sempre a precisare che «gli standard etici vengono rispettati». Il tema è però: chi li scrive o chi li aggiorna?

(La Verità, 27 dicembre 2022)

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Jewish Media Summit: viaggio dentro Shtisel

di Ilaria Myr

Nerta Riskin nei panni di Ghiti in Shtisel
«Inizialmente nessuno voleva produrlo e, quando poi è stato trovato un produttore, fra di noi ci dicevamo ‘tanto non lo guarderà nessuno. Invece, con grande sorpresa di tutti, Shtisel è diventato un successo internazionale». Con queste parole Neta Riskin, l’attrice ha impersonato Ghiti nella famosa serie israeliana su una famigli ortodossa a Gerusalemme, ha sorpreso i giornalisti di tutto il mondo che hanno partecipato al Jewish Media Summit 2022 a Gerusalemme dal 19 al 22 dicembre. Nel suo interessante intervento, nel terzo giorno del summit, ha raccontato alcuni aspetti ed episodi inerenti alla famosa serie, in cui ha recitato la parte di una dei protagonisti.
  «Quando l’autrice mi ha chiesto di leggere il copione, ho subito rifiutato – ha spiegato -: io vengo da un mondo completamente non religioso, mi dicevo “non c’entro nulla con quello che mi propongono”. Alla terza volta in cui l’autrice ha insistito affinché la leggessi, ho ceduto, pur sapendo che, dal momento che avrebbero girato in agosto, non mi sarei mai vestita da ortodossa con il caldo… Ma quando l’ho letto, mi sono detta: è lo script più bello che abbia mai letto. È sì una serie su una famigli ortodossa, ma con la religione non ha niente a che fare. È invece una fiction sulle persone, sugli esseri umani e le loro vite, aspetti universali».
  Una volta accettato, l’attrice ha dovuto imparare a diventare Ghiti, una donna completamente diversa da lei, ortodossa e con cinque figli, e per fare questo le è stata affidata una coach. «La prima volta mi ha chiesto di camminare da un punto all’altro della stanza – ha continuato – e quando, perplessa, sono tornata, mi ha detto: “abbiamo molto lavoro da fare…Esisti troppo, devi minimizzare te stessa. E l’unica risposta che devi dare a qualsiasi cosa ti chiedano è Baruch hashem (grazie a Dio)».
  Mostrando anche degli spezzoni della serie, Neta-Ghiti ha spiegato come il suo personaggio è scritto come se fosse debole ma in realtà è molto forte. Questo è evidente all’inizio della prima serie, quando il marito, Lippe, perde se stesso in Sud America, per poi tornare in Israele, pentito.
  «Non sapremo mai cosa Lippe abbia fatto davvero, perché avremo solo la versione che Ghiti, non volendo ascoltarlo, si crea. Rifiutando di parlargli, non gli si dà la possibilità di avere una storia. E così salva l’equilibrio della famiglia (anche se non comunicare non è un espediente che consiglio…)».
  Come è normale che sia, fare una serie su una famiglia ortodossa implicava molte restrizioni – non toccarsi, non muoversi in un certo modo – e per farcelo capire l’attrice ha mostrato il pezzo della serie in cui Ghiti partorisce e Lippe, non potendole stare vicino, deve mostrarle il suo amore da un’altra stanza.
  Ma come mai questa serie ha avuto così tanto successo, anche internazionale? «Quando abbiamo iniziato era un piccolo show – ha spiegato -. Nessuno voleva produrlo, e fra di noi ci dicevamo “tanto nessuno lo guarderà“. Non avevamo neanche chi ci facesse le pubbliche relazioni! Le persone hanno però iniziato a guardalo e a parlarne fra loro, e addirittura nel mondo ortodosso hanno cominciato a guardarlo (non avendo la tv, lo guardavano dal telefono, e molti negavano di averlo guardato…). Addirittura, in un matrimonio ortodosso hanno cantato una canzone creata apposta per la serie, che la madre di Shulem in un sogno gli canta. Ma era stata creata dal nostro autore!».
  «Il successo internazionale? Non ho idea di come abbia raggiunto tanta popolarità al di fuori di Israele e mondo ebraico – continua -. Forse è perché siamo riusciti ad attraversare un ponte invalicabile e a coinvolgere le diverse anime. Ma soprattutto perché parla di valori universali da un punto di vista molto specifico, appunto quello haredì».
  Salutandola, una domanda aleggiava nell’aria: ci sarà una quarta stagione? La risposta è stata evasiva: “non penso”. Ma, come si dice, la speranza è l’ultima a morire…

(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2022)

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"Caro Del Bono, in Lituania si esaltano miti ed eroi nazisti e antisemiti"

Il 20 dicembre il consiglio comunale di Brescia e quello della città lituana di Kaunas hanno approvato la delibera riguardante il progetto di gemellaggio tra le due città. Nella città si sono sollevate alcune voci di dissenso. Riportiamo una lettera aperta inviata al Sindaco di Brescia Emilio Del Bono. NsI

Egregio Signor Sindaco Del Bono,
I comunisti e i socialisti lituani hanno combattuto a lungo per la libera Lituania Sovietica. Subito dopo la Rivoluzione di Ottobre del 1917 non solo in Russia, ma anche in Lituania ebbero inizio importanti eventi storici. Nell’ottobre 1918 si tenne il Primo Congresso del Partito Comunista della Lituania e già nel dicembre dello stesso anno iniziò il processo di formazione del potere sovietico in Lituania. Ma le forze di estrema destra insieme agli occupanti tedeschi repressero brutalmente i Soviet lituani. Dall’agosto 1919 in Lituania venne instaurato un brutale regime autoritario.
  Nel giugno 1926 fu eletto presidente della Lituania Kazis Grinyus che avviò riforme in senso progressista, suscitando il malcontento delle forze di estrema destra. Nel dicembre 1926 ci fu un colpo di Stato militare e il potere venne assunto da Antanas Smetona che instaurò un regime filo-fascista, reprimendo brutalmente l’opposizione, furono aperti campi di concentramento e vennero compiuti omicidi politici. Il malcontento era diffuso e nel giugno-luglio 1940 i resistenti socialisti guidati da Antanas Snechkus divennero i nuovi dirigenti della Lituania. Dal giugno 1941, quando i nazisti occuparono la Lituania, ebbe inizio la lotta clandestina partigiana in cui caddero Juozas Vitas e molti altri militanti del Partito Comunista della Lituania. Dal giugno 1941 ebbe inizio anche la Shoah e in Lituania venne annientato il 95% degli ebrei lituani (220.000 persone). L’antisemitismo in Lituania imperversa ancora oggi.
  Nel settembre 2015, dopo un’iniziativa pubblica, è stato arrestato il leader della comunità ebraica di Kaunas Haim Bargmann. Nel 2007 erano iniziati procedimenti penali contro lo scrittore e il giornalista ebrei Yitzhak Arad e Josif Memomeda, anche se i casi vennero chiusi dopo un anno. Nel marzo 2017 a Vilnius, durante la parata fascista sono risuonati slogan come “Brintzovskaya alla forca!”, manifestando pubblico odio verso la partigiana antifascista Faina Brintzovskaya, combattente del reparto partigiano sovietico, che viveva a Vilnius. Nella Lituania di oggi sono diventati norma la repressione, la violazione dei diritti umani, l’incitamento alla russofobia e la rinascita del fascismo. Omicidi di oppositori politici, persecuzioni brutali, carcere per i militanti comunisti e della sinistra, sequestri di materiali antifascisti e rimozione di libri di contenuto antifascista dalle biblioteche e dai negozi da parte delle forze di sicurezza. E’ un clima di riabilitazione del fascismo, di glorificazione dei criminali nazisti e di “caccia alle streghe” anticomunista quello che viene promosso delle autorità di Stato. Tutto ciò nell’indifferenza assoluta di governi dell’Unione Europea, delle forze politiche democratiche e dell’opinione pubblica occidentale.
  Le vittime della repressione comprendono ex partigiani, sopravvissuti alla Shoah, i rappresentanti della comunità ebraica, scrittori, attivisti, politici e giornalisti che hanno accusato di corruzione esponenti della società lituana. A tutto ciò dobbiamo aggiungere che in Lituania è stato introdotto un vero e proprio culto dei criminali nazisti e in loro onore sono stati innalzati monumenti, intitolate strade, piazze e scuole in diverse città della Lituania. Tante sono state le occasioni in cui sono stati ritirati dalla vendita libri scomodi, incarcerato oppositori, multato per le proprie opinioni e talora sono anche morte e state assaltate delle persone. Famoso è il caso di Aida Merkulova che è stata incendiata da uno sconosciuto. I libri di contenuto antifascista vengono sequestrati come i libri della scrittrice e giornalista lituana Ruta Vanagaite, nota soprattutto per i suoi sforzi volti a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla partecipazione dei lituani alla Shoah. I suoi libri sono stati rimossi da biblioteche e negozi attraverso operazioni militari.
  In nome del nazionalismo, il governo lituano nega il proprio passato santificando persone dichiaratamente antisemite e sostenitrici del “complotto giudaico” ben prima di essere obbligati dall’occupazione tedesca; glorificando i “fratelli della foresta”, gruppi per l’indipendenza in cui refluirono in gran numero ex membri delle Waffen SS lituane. Nonostante ciò l’estrema destra li giustifica in quanto “hanno combattuto il dominio sovietico”, mentre il governo giustifica la presenza delle svastiche come “simboli della cultura baltica”. Forse il silenzio occidentale è giustificato dal fatto che le organizzazioni naziste lituane vennero avallate da NATO e Stati Uniti, che nel 1950 dichiarano: «Le Unità Baltiche Waffen SS sono da considerarsi come separati e distinti nello scopo, l’ideologia, le attività e le qualifiche per l’adesione della SS tedesche, e quindi la Commissione ritiene che non siano un movimento ostile al governo degli Stati Uniti ai sensi della Sezione 13 dell’Atto sulle persone sfollate, e successive modifiche». Chiaro fu un articolo di Manlio Dinucci a riguardo sul neonazismo come fenomeno contemporaneo.
  Il nazista Jonas Noreika è considerato eroe nazionale dai lituani e criminale di guerra per i superstiti della comunità ebraica. Furono Vanagaite e la nipote stessa di Noreika a denunciare la nazione baltica per i crimini del collaborazionista. Solo in questo caso lo Stato lituano ha effettivamente riflettuto sull’identità di Jonas Noreika, perché non poteva liquidare sua nipote come “agente in nome delle menzogne sovietiche”.
  In Lituania, l’elenco di criminali di guerra lituani, collaboratori nazisti, responsabili di crimini contro la popolazione civile ha assunto proporzioni spaventose, venendo riabilitati dalle autorità di Vilnius nel silenzio e nell’indifferenza dell’Unione Europea e dei nostri governi italiani, che negli anni non hanno avuto neppure il coraggio di votare in sede ONU le mozioni presentate dalla Russia per impedire la glorificazione del nazi-fascismo in corso nelle repubbliche baltiche, in Ucraina e in altri Paesi dell’Europa orientale. E non ci si è limitati solo alla riabilitazione dei nazisti: a questi criminali, elevati al rango di combattenti “contro l’aggressione russa”, sono stati innalzati monumenti, concesse decorazioni e intitolate numerose istituzioni statali. Mentre coloro che, tra i militanti delle forze democratiche della Lituania, hanno osato solo alzare la voce per manifestare la propria indignazione, subiscono intollerabili persecuzioni, che le forze sinceramente antifasciste del nostro Paese dovrebbero avere il coraggio di denunciare con forza. 
  Come ha dichiarato Giedrius Grabauskas, Presidente del Fronte Popolare Socialista della Lituania: “Il Fronte Popolare Socialista della Lituania, insieme ad altre forze di sinistra e antifasciste, è attivamente impegnato in azioni contro la guerra e contro il fascismo. Diffondiamo appelli per la pace, per i diritti dell’uomo, contro la NATO, contro l’incitamento alla russofobia in Lituania”.
Sebino Franciacorta

(pressenza, 27 dicembre 2022)

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I fatti sull’Olocausto ebraico in Ucraina

di Giancarlo Elia Valori

Quando il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’ky, si è lamentato il 20 marzo 2022 che lo Stato di Israele non sostiene abbastanza l’Ucraina, ha dimenticato di ricordare ai concittadini che moltissimi ucraini si offrirono volontari per sterminare gli Ebrei: ricordiamo che uno dei luoghi più tristemente famosi è il massacro della gola di Babi Yar, dove circa 50mila Ebrei furono assassinati da collaborazionisti ucraini al servizio del III Reich nazista. Ora – grazie a mie memorie di studio e a fonti israeliane – vi racconto la sanguinosa storia degli ucraini contro gli Ebrei. Dagli ucraini del medioevo a quelli odierni, adoratori delle SS, le cui testimonianze “vessillifere” si sono riscontrate da prima e durante l’invasione sovietica: dall’inno delle SS in Piazza Majdan, alle relative sfilate neonaziste....

(il denaro, 27 dicembre 2022)

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Sannicandro, ebrei per scelta

1943 - Un gruppo di ebrei di Sannicandro con Enzo Sereni (con gli occhiali)
Quella degli ebrei di Sannicandro Garganico è una storia che ha fatto il giro il mondo. Nel settembre 1947 finisce sulla rivista americana Time e negli anni torna con regolarità sui media, spesso con toni urlati che dispiacciano alla comunità. La loro è d'altronde un'esperienza unica in Europa, che Pagine Ebraiche aveva ricostruito in tutta la sua complessità nel dossier al centro del suo primo numero come cinquant'anni dopo accadrà in Perù, anche qui tutto inizia con un uomo, Donato Manduzio, che a seguito di una visione si accosta alla lettura della Bibbia e ne rimane profondamente colpito. È il 1930, ha 45 anni, è un calzolaio, un invalido di guerra. con fervore approfondisce i contenuti del testo e inizia a diffondere quella religione fra chi gli è più vicino. Il gruppo elimina dalle case le immagini, celebra il sabato e le feste, studia la Bibbia e impartisce nomi ebraici ai nuovi nati. È un contesto che per molti aspetti richiama quello di Segundo. Sannicandro è allora una realtà rurale, povera, lontana dai centri urbani.Un mondo dove la religiosità di base è diffusa e gli emigrati di ritorno dagli Stati Uniti hanno introdotto i pentecostali e gli Avventisti del settimo giorno, che rappresentano per Manduzio un termine di confronto costante (lui stesso nel 1936 è multato come supposto "pastore protestante" per aver condotto un servizio religioso non autorizzato).
  Come i Bnei Moshe, i sannicandresi credono che gli ebrei non esistano più. Quando da un venditore ambulante si scopre che non è così, Donato scrive subito ad alcuni ebrei residenti a Torino e Firenze e contatta il rabbino capo di Roma. Angelo Sacerdoti, il quale all'inizio pensa sia uno scherzo.
  Manduzio però insiste e il rav prende a interessarsi alla questione mettendo però in chiaro che "l'ebraismo è assai poco incline al proselitismo e solo eccezionalmente accetta proseliti". Nel 1936 il gruppo di Sannicandro conta una cinquantina di persone, compresi i bambini, e mentre i contatti con Roma si fanno più stabili ogni tanto riceve la visita di ebrei "nati nella Legge". Le leggi razziali, due anni più tardi, non scalfiscono le loro convinzioni.
  Malgrado i consigli del nuovo rabbino di Roma, Davide Prato, i "Fedeli di Levi", come li chiamano i paesani, firmano in massa un documento in cui si dichiarano ebrei e si professano di religione ebraica anche davanti alle autorità. E forse grazie alla rete di parentele e solidarietà che lega i paesani, queste sembrano dimenticarsi di loro.
  Gli ebrei di Sannicandro attraversano così indenni gli anni delle persecuzioni finché nell'autunno del '43 incontrano i soldati della Brigata ebraica che per la prima volta schiudono loro la prospettiva dell'emigrazione. La svolta avviene nella prima settimana dell'agosto 1946. Con una cerimonia collettiva si celebra la conversione di parte del gruppo con un'immersione rituale nelle acque dell'Adriatico. Due anni dopo c'è una seconda tornata di conversioni e grazie ai riflettori dei media il mondo scopre questa vicenda affascinante. Manduzio muore nel 1948 e tra il '49 e il 50 la piccola comunità emigra in Israele dove si stabilisce prevalentemente al Nord, tra Biria e Zefat. Al paese rimangono solo quattro donne che non hanno potuto affrontare la conversione. Sembra l'inizio della fine ma le quattro signore non s'arrendono, tengono viva la tradizione di Manduzio, la trasmettono alle nuove generazioni. E il resto è storia di oggi.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2022)

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Riapre il primo hotel di Tel Aviv

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Ha aperto i battenti 109 anni fa e nel corso della sua breve, seppur gloriosa, storia, ha ospitato anche David Ben Gurion e Albert Einstein. Il primo albergo di Tel Aviv si chiama Hotel Elkonin ed è stato inaugurato nel 1913 dai proprietari Malka e Mehachem Elkonin, che venivano dalla Russia, ma negli anni ’40 l’albergo ha chiuso.
  I suoi locali sono stati trasformati in uffici e negli anni ’80 l’edificio è stato abbandonato. Situato nel quartiere di Neve Tzedek, dopo un’operazione di restauro, l’hotel torna sulla scena della Città Bianca con 44 camere e una piscina sul tetto con una vista mozzafiato. Ynet ne racconta la storia.
  Per il restauro dell’albergo gli architetti hanno pensato di andare indietro nel tempo, ispirandosi alle foto d’epoca in cui a fare da sfondo all’edificio c’è una Tel Aviv all’alba della sua storia. Le foto d’epoca tornano nei corridoi dell’hotel come una carrellata nella storia della città.
  Ma pur trovando ispirazione nel passato, l’hotel è pensato per offrire ogni confort all’avanguardia, dunque un ristorante con uno chef stellato, due suite di lusso e una spa.
  Il proprietario è l’imprenditore francese Dominic Romano che ha spiegato ai media israeliani quanto riaprire l'hotel fosse il suo sogno dopo essersi innamorato di Israele e di Tel Aviv. "Sono entusiasta di dare nuova vita a questo edificio storico portando un'ospitalità moderna" ha detto.

(Shalom, 26 dicembre 2022)

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Il nuovo governo israeliano giurerà il 29 dicembre

ROMA – Il nuovo governo israeliano presterà giuramento davanti al parlamento del Paese il 29 dicembre. Lo hanno riferito i media dello stato ebraico. Il nuovo governo sarà ratificato dalla Knesset e salirà formalmente al potere giovedì, ha scritto il Jerusalem Post, citando i messaggi del leader del partito del Likud, Benjamin Netanyahu, ai membri del parlamento.
  La riunione dovrebbe iniziare il 29 dicembre alle 11 ora locale (le 10 in Italia). Il 22 dicembre, Netanyahu ha informato il presidente israeliano Isaac Herzog di aver formato con successo un nuovo governo e la cerimonia di giuramento per il nuovo gabinetto dovrebbe aver luogo entro il 2 gennaio. Netanyahu, il cui partito ha vinto le elezioni parlamentari anticipate il 1 novembre in seno a una coalizione di destra, ha ricevuto il mandato dal presidente il 13 novembre per formare il nuovo governo del Paese. Il mandato doveva scadere l’11 dicembre, ma Herzog lo ha prorogato entro dieci giorni fino al 21 dicembre.
  Netanyahu è stato primo ministro israeliano dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021.

(askanews, 26 dicembre 2022)

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Dopo il Giro, Israele sogna anche la partenza del Tour de France

Dopo la spettacolare presentazione di giorni scorsi, che vede il Tour de France partire da Firenze, sembra non calare l’interessa attorno alla gara francese anche in altri Paesi. Sale così alla ribalta la candidatura di Israele. Nei giorni scorsi lo ha confermato Anat Shichor Aaronson speaker del Ministero del Turismo israeliano durante la conferenza stampa di presentazione della Gran Fondo Eilat. 
  “Il Giro d’Italia 2018 per noi è stato un primo passo. – spiega la funzionaria – Abbiamo investito 18 milioni di euro per quell’evento, dimostrato di saper lavorare ed il mondo ha capito che possiamo fare di più. Ancor prima del messaggio sportivo sono diversi gli elementi che possiamo dire siano rimasti in eredità, a partire dall’esposizione Media. Abbiamo svelato al mondo tanti luoghi che nemmeno gli israeliani conoscevano. In secondo luogo, è stata raccontata un’esperienza unica, che ha affascinato molti e che sono venuti a farci visita in seguito. Infine, è passato un messaggio ancor più importante. Il fatto che questa è un’area in cui si può vivere in pace”.
  Sono questi quindi gli elementi che ora spingono Israele verso un nuovo obiettivo: “Siamo consapevoli che bisogna lavorare moltissimo, ma siamo disposti a metterci in gioco e provarci. Come detto il Tour de France per la prima volta in questo continente sarebbe qualcosa di unico e ancor più grande delle altre sfide. Noi siamo determinati e vogliamo portare avanti la nostra sfida sportiva. Si può vincere e si può perdere, l’importante è dare sempre il nostro meglio”.

(Malpensa24, 26 dicembre 2022)

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Israele, immigrazione record nel 2022

Nel 2022 sono oltre 70mila gli olim - nuovi immigrati – arrivati in Israele, più del doppio rispetto ai 28.600 dell’anno precedente. Si tratta del numero più alto degli ultimi 23 anni. È quanto emerge dal rapporto ufficiale dell’Agenzia ebraica, l’ente semi-governativo israeliano che si occupa dell’immigrazione, e dal Ministero per l’Aliyah e l’integrazione.
  Secondo l’analisi, il numero più consistente degli olim è arrivato dai Paesi coinvolti nella guerra in Ucraina: 37.364 dalla Russia, 14.680 dall’Ucraina e 1.993 dalla Bielorussia.
  Si aggiungono 3.500 olim dal Nord America con l’assistenza del Nefesh B’Nefesh; 2.049 dalla Francia; 1.500 dall’Etiopia nell’ambito dell’operazione ‘Tzur Israel’; 985 dall’Argentina; 526 dalla Gran Bretagna; 426 dal Sudafrica e 356 dal Brasile. Numeri inferiori riguardano altri 85 Paesi.
  "È stato un anno drammatico che ha sottolineato il valore della reciproca responsabilità fra gli ebrei. - ha detto il presidente dell'Agenzia Ebraica, Doron Almog, al Times of Israel - L'Agenzia Ebraica ha contribuito a rafforzare la resilienza delle comunità ebraiche, ha sostenuto le popolazioni più deboli, ha riportato decine di migliaia di olim, ha salvato la vita agli ebrei in Ucraina, portandoli in un porto sicuro, Israele”.
  La maggior parte degli immigrati di quest’anno sono giovani: il 27% ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, che, secondo l’Agenzia Ebraica, “include professionisti in settori come medicina, ingegneria e istruzione”
  Il 24% degli olim ha un’età inferiore ai 18 anni, il 22% ha tra i 36 e i 50 anni, il 14% tra i 51 e i 64 anni e il 13% ha più di 65 anni.
  “L’Aliyah (immigrazione) ha un’importanza vitale per Israele. – ha spiegato Almog – Esprime la sua natura come Stato dell’intero popolo ebraico e la sua relazione strategica con l’ebraismo mondiale. Decine di migliaia di olim, arrivati quest’anno, contribuiranno a costruire la resilienza sociale e saranno un importante motore di crescita per l’economia”.
  L’operazione “Ritorno a casa”, avviata dall’Agenzia ebraica per salvare gli ebrei ucraini dopo l’invasione della Russia, è stata senza precedenti. Centinaia di anziani e sopravvissuti alla Shoah sono stati portati in Israele con voli di soccorso. L’organizzazione ha aperto centri per accogliere i rifugiati e fornire loro letti, pasti e cure mediche.

(Shalom, 25 dicembre 2022)

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Jewish Media Summit 2022: dentro Israele, per conoscere e confrontarsi

di Ilaria Myr

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GERUSALEMME – ‘One people, one destiny’, un popolo un destino: era questo il titolo del Summit organizzato dall’ufficio stampa del governo israeliano (GPO) per i media ebraici del mondo, che si è tenuto dal 19 al 22 dicembre a Gerusalemme. Un’occasione preziosa e unica per incontrare colleghi di tutto il mondo, e per conoscere da dentro molti aspetti della società israeliana difficili da vedere ‘da fuori’ Israele. Soprattutto, un’opportunità importante per tutti per riflettere sui rapporti fra diaspora e lo Ertez Israel. Come ha detto il Ministro della Diaspora Nachman Shay alla serata di Gala di apertura tenutasi al David Citadel Hotel: “Gli israeliani non sanno cosa vuol dire essere diaspora e non conoscono il contributo che la diaspora ha dato e continua a dare allo Stato di Israele. Abbiamo un comune denominatore, che è l’identità ebraica, non dobbiamo dimenticarlo”.
  All’evento di apertura è intervenuto anche il Ministro degli esteri Benny Gantz, che ha sottolineato come “la Storia ci ha dimostrato che affrontiamo ogni minaccia solo uniti…. Ricordiamoci che siamo più forti uniti e che il prossimo capitolo della nostra storia deve essere anche un trionfo, perché altrimenti da soli non ce la facciamo e perché il nostro destino è uno”.

• Dentro la politica interna ed estera
  La prima mattina di attività del Jewish Media Summit 2022, ospitata all’interno del Ministero degli esteri, è stata dedicata a conoscere più da vicino lo scenario politico e alcune delle questioni ‘calde’ che interessano Israele. Divisi in gruppi, i giornalisti hanno potuto confrontarsi con esperti su diversi temi: i rapporti con la diaspora, l’antisemitismo fuori da Israele e il pericolo di un accordo per il nucleare con l’Iran. In seduta plenaria, abbiamo parlato dell’importanza degli Accordi di Abramo per lo Stato di Israele, che hanno portato all’apertura delle relazioni con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, insieme ad alcuni rappresentanti impegnati nella questione. Lior Haiat, portavoce del Ministero degli Esteri, ha raccontato l’emozione di essere il primo diplomatico israeliano a entrare ad Abu Dhabi, mentre Ido Moed, del Ministero degli esteri, ha ricordato la commozione del cantare l’Hatikva, l’inno nazionale, negli Emirati Arabi Uniti. Shifra Weiss, portavoce all’ambasciata israeliana ad Abu Dhabi, ha testimoniato la sensazione di “essere finalmente accettati negli Emirati” (impensabile solo fino a qualche anno fa) e ha raccontato che nei prossimi mesi verranno costruite una moschea, una sinagoga e una chiesa su progetto di uno stresso architetto, a rappresentare quindi il dialogo e l’unità tra le tre religioni. Mentre Uri Rothman, della divisione Medio Oriente e processo di pace del Ministero degli Affari Esteri, ha spiegato come gli Accordi di Abramo, rendendo possibile il passaggio delle merci da Dubai, abbiano facilitato per Israele enormemente le attività di importazione ed esportazione da e per l’Estremo Oriente. “Stiamo attualmente parlando con Egitto e Giordania (paesi con cui Israele ha formalmente siglato la pace, ndr) per progetti congiunti nell’ambito green– ha continuato -. In Giordania esporteremo enormi quantità di acqua, e realizzeremo, grazie al sostegno degli Emirati Arabi, in Giordania una piattaforma per sfruttare l’energia solare”.
  Inoltre, sono stati ricordati gli ottimi rapporti con il Marocco, che proprio negli ultimi anni si stanno rafforzando. “È un paese che ha un legame molto forte con la sua storia e cultura ebraica – ha spiegato – e lo stesso re Mohammed VI mantiene ottimi rapporti con la propria comunità ebraica”.

• Alla Knesset, regno della democrazia
  Nel pomeriggio abbiamo visitato la Knesset, la sede del parlamento israeliano. Interessante è stato capire come sono disposti i 120 seggi al suo interno – a forma di menorà – e come interagiscono fra loro i deputati. Bellissimo anche vedere le opere realizzate all’interno dell’edificio da Marc Chagall: mosaici e splendidi arazzi creati ad hoc dall’artista.
  Illuminante è stato poi l’incontro con quattro rappresentanti di forze politiche diverse – Yuli Edelstein (Likud, partito al governo) Sharren Heskel (Mahane Mamlachti, opposizione), Gilad Kariv (Avodà, opposizione) e Yitzak Pindrus (Agudat Israel, governo) – con opinioni e visioni ovviamente differenti, emerse anche nelle risposte date alle numerose domande fatte dai giornalisti invitati al Summit. Fra gli aspetti più sentiti come critici, la questione del rinnovo dell’Alta Corte di Giustizia e l’educazione nelle scuole ortodosse.

(Bet Magazine Mosaico, 25 dicembre 2022)

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Il software-spia che cambia le immagini delle telecamere di sorveglianza

Alcune immagini delle telecamere di sicurezza a Dubai nel 2010 riprendono alcuni 007 sospettati di aver partecipato all’assassinio di un esponente di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh.

La start up israeliana «Toka» fornisce ai governi occidentali un software in grado di accedere a tutte le telecamere di sorveglianza, di alterarne la realtà ripresa in tempo reale e persino quella del «passato» pescando le immagini archiviate nella memoria digitale e modificandole come desiderato. Il tutto senza lasciare, potenzialmente, alcuna traccia digitale. È il quotidiano Haaretz a svelare in una lunga inchiesta come funziona questo software — che sarebbe il primo al mondo — creato dalla società fondata dall’ex premier israeliano Ehud Barak e l’ex capo della divisione cibernetica dell’esercito del Paese ebraico Yaron Rosen.

• LE FUNZIONALITÀ
  Secondo il giornale israeliano la tecnologia fornita da «Toka» consente ai clienti di penetrare il sistema di videosorveglianza — di un edificio governativo, di un hotel, di una casa — e anche le webcam semplicemente selezionando l’area geografica che interessa. Una volta dentro è possibile osservare in diretta cosa succede davanti a queste videocamere, ma anche intervenire per mostrare quello che si vuole a chi quegli obiettivi li usa ufficialmente. Non solo. Stando ai documenti consultati da Haaretz chi usa questo software può anche accedere all’archivio video, individuare alcuni specifici momenti e cambiarli — sia il video che l’audio — per «nascondere attività di intelligence» durante le «operazioni».

(Corriere della Sera online, 25 dicembre 2022)

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Muore a 90 anni il Rabbino Drukman, già viceministro e pilastro del sionismo religioso

Aveva contratto il covid a inizio dicembre. Ex parlamentare della Knesset, era il leader spirituale di partiti e figure oggi partner del premier incaricato Benjamin Netanyahu come Betzalel Smotrich.

Il rabbino Haim Drukman
Rabbino, componente di governo e parlamentare. E soprattutto faro del sionismo religioso, segmento che rappresenta circa il 12% della popolazione ebraica di Israele e reduce - con i suoi partiti - da una significativa affermazione elettorale alle ultime politiche.
  E' morto all'età di 90 anni il rabbino Chaim Drukman, colpito dal covid all'inizio del mese. L'annuncio è stato dato dall'ospedale Hadassah di Gerusalemme. Figura di riferimento del leader del Partito Sionista Religioso, Betzalel Smotrich, che potrebbe essere nominato ministro delle Finanze nel prossimo governo di Benjamin Netanyahu, Drukman ha vinto l'Israel Prize ed è stato per decenni un importante mediatore nella politica israeliana. Già membro della Knesset e vice ministro, il Rabbino aveva ricoperto anche importanti incarichi religiosi prestando servizio come decano dell'Or Etzion Yeshiva.   
  Il leader israeliano Benjamin Netanyahu, che sta preparando la sua squadra di governo, ha espresso le sue condoglianze alla famiglia osservando che "lo Stato di Israele ha perso un grande leader spirituale, e io ho perso un amico personale che avevo in grande stima".
  "Il popolo ebraico - ha affermato Smotrich - ha perso uno dei giganti spirituali della sua generazione, un uomo giusto, un educatore, un uomo che ha dedicato la sua vita alla Torah, al popolo ebraico e alla terra di Israele".

(RaiNews, 25 dicembre 2022)

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Addio a Miss Israele

Lo Stato Ebraico abolisce l'acclamata competizione di bellezza e l'opinione pubblica si spacca in due.

dì David Zebuloni

A distogliere per un attimo l' attenzione dalle elezioni in Israele, le più sofferte e discusse degli ultimi anni, è stata una notizia apparentemente frivola e leggera, certo se messa a confronto con un tema tanto sensibile e cruciale quanto il futuro della leadership israeliana. Una notizia che ha inizialmente coinvolto gli appassionati di gossip, per poi sollevare un polverone su tutte le più autorevoli testate giornalistiche del Paese.
  Un vero terremoto che ha scosso il Paese più di quanto siano riusciti a fare Netanyahu, Gantz e Lapid. Si è infatti appreso che la competizione di bellezza Miss Israele, rigorosamente tenutasi nel Paese dal lontano 1950 ad oggi, è stata annullata. Proprio così: cancellata, revocata, abolita, eliminata senza lasciar traccia. Non si terrà dunque quest'anno, e non è chiaro se verrà ripristinata nel futuro prossimo. Ciò significa che Israele non spedirà una sua rappresentante al prestigioso concorso di Miss Universo previsto per il mese di gennaio negli Stati Uniti, e non nominerà un'esponente armata di fascia e coroncina pronta a promuovere tutte quelle cause di cui la più bella del paese si è sempre fatta carico. Più o meno volentieri. Come spesso accade, anche in questo caso l'opinione pubblica si è spaccata in due: pro e contro, favorevoli e contrari, estasiati e indignati. A sostenere la decisione storica sono stati quelli che hanno sempre visto nella gara di bellezza un insulto al genere femminile, un oltraggio nei confronti di quelle donne costrette a nascondere il proprio cervello dietro uno striminzito costume da bagno, un bel sorriso e delle parole vuote sulla pace nel mondo. A contestare l' annullamento della competizione, invece, sono state tutte quelle persone che hanno sempre riconosciuto nella Miss in questione delle qualità e un ruolo che superassero la semplice estetica. L'acclamato concorso di bellezza, sempre secondo molti, ha permesso infatti di far emergere grandi talenti quali quello dell'attrice Gal Gadot, che in tempi record ha conquistato i più importanti red carpet di Hollywood, e la conduttrice televisiva Ilanit Levy, presto diventata uno dei più noti e amati volti del paese. Ma non solo. Negli ultimi anni Miss Israele è sfociata anche nel sociale, quando ha nominato Yityish Aynaw come prima reginetta di bellezza etiope del paese, dando voce a tante ragazze che fino a quel momento si erano sentite trasparenti, come appartenenti a un'ingiusta serie B.
  Altre reginette hanno fatto parlare di sé, anche anni dopo il titolo e la corona. Linor Abargil, per esempio (non solo Miss Israele, ma anche Miss Universo), da modella e indossatrice di biancheria intima per le più popolari case di moda israeliane è recentemente diventata un'ultraortodossa di prima categoria, con tanto di copricapo in testa e gonna lunga fino ai piedi, donando così ai fan un nuovo modello di bellezza in cui credere. Mirit Greenberg, invece, è tornata a posare su tutte le copertine più importanti del paese dopo aver scoperto di avere un tumore al seno. In piene cure chemioterapiche, infatti, Mirit ha posato senza trucco e senza capelli, ricordando a chi se lo fosse dimenticato cosa sia la vera bellezza: quella naturale, che non ha bisogno di maschere per splendere.
  In un'intervista radiofonica, la modella e Miss Israele 2019 Sella Sharlin ha cercato di spiegare l'importanza della competizione in questione. Per chi non lo sapesse, questo concorso di bellezza fornisce molti strumenti a chi viene scelto. Io, per esempio, ho fondato un'associazione che si occupa di educazione finanziaria per i giovani. ll mio obiettivo è quello di dare una piattaforma alle donne che desiderano essere indipendenti, ha raccontato Sharlin. Poi ha aggiunto: Dobbiamo tenere sempre a mente la lunga tradizione di donne forti che hanno vinto la gara e influenzato l'industria del Paese. La sopracitata Linor Abargil, invece, dopo aver abbracciato il mondo ebraico ultraortodosso, si è mostrata meno disperata delle sue co-regine per l'annullamento del concorso. Sul suo profilo Instagram ha scritto: Voi vedevate in me una ragazza con una corona in testa,felice. lo vedevo invece una ragazza triste, che desiderava che qualcuno si accorgesse del periodo difficile che stava attraversando, che le mancava casa, che era lì solo perché desiderava scappare da tutto. Una donna non è solo il suo corpo o il suo viso, nessuno al mondo ha il diritto di criticarci o di valutare il nostro peso. Le persone cambiano, il mondo cambia, è lecito dire che abbiamo sbagliato e che dobbiamo andare avanti. Un grido di dolore, uno sfogo che ha commosso il web, gettando una nuova luce su quello che è il mondo delle Miss sempre sorridenti, sempre perfette nella loro taglia 42.

Tamar Morali
Incapace di prendere una posizione, mi sono rivolto a un'amica di vecchia data (per quanto un'amicizia tra due ventisettenni possa essere vecchia), chiedendo la sua opinione a riguardo. L'amica in questione è Tamar Morali, la ragazza che ha segnato la storia per essere stata la prima ebrea a competere come potenziale regina di bellezza in Miss Germania. Sì, la stessa Germania che fino a poco più di settant'anni prima vedeva in lei un essere inferiore e deplorevole. Oggi parliamo al telefono mentre lei allatta la sua prima figlia, con il tono di chi ormai vede la realtà da un'altra prospettiva, più matura e meno enfatica. Ho conosciuto Tamar anni prima che diventasse una promotrice della bellezza nel mondo e sentendola raccontarsi in questa nuova fase della sua vita, mi pare che nulla sia mai realmente cambiato nella percezione di estetica che la neo mamma ha sempre dichiarato di avere.
  Ho deciso di partecipare a Miss Germania perché ero ben consapevole di cosa mi aspettasse, sapevo a cosa andavo incontro, mi ha spiegato Tamar. In Germania, a differenza di altri posti, non si dà importanza solo alla bellezza, ma anche alla storia della concorrente e al suo messaggio universale. Ho incontrato nei casting ragazze sovrappeso e una ragazza alla quale mancava una gamba. Io sapevo di voler gareggiare per rendere nota la mia storia e quella del mio popolo. Volevo che una ragazza ebrea dalle radici ben piantate in Israele salisse sul palcoscenico e si mostrasse in tutto il suo splendore. Quello interiore, quello storico, quello simbolico, oltre che quello estetico. Desideravo farlo proprio lì, in Germania, per il passato che noi tutti conosciamo. Questa era per me la chiusura di un cerchio, il messaggio che volevo trasmettere a chi mi guardava, il motivo per il quale mi sono buttata in questa avventura. In merito alla medesima competizione, in Israele, Tamar ha specificato: Trovo che sia uno sbaglio annullare il concorso. Credo piuttosto che sia molto più efficace adattare il formato esistente all’epoca storica che stiamo vivendo, quella in cui ci sono donne che vogliono far sentire la propria voce e avere un impatto concreto sulla realtà circostante, e non solo apparire. Bisogna dare a ogni donna la possibilità di raccontarsi, perché sono le nostre storie e le nostre emozioni a renderci realmente belle.
  Mi affido dunque a Tamar e alla sua versione di questo tema apparentemente frivolo, ma estremamente complesso. Mi affido alle parole di chi questa realtà l'ha vissuta sulla propria pelle, sperimentandone in prima persona i pro e i contro, certo che la sua personale percezione di bellezza possa essere in qualche modo universale. Come diceva Sophia Loren, d'altronde, niente rende più bella una donna della consapevolezza di essere bella.
  E io aggiungerei, al di là di ogni titolo. Con o senza corona.

(Karnenu, dicembre 2022)

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Gesù è nato. E poi?

di Marcello Cicchese

Già, e poi? Che è successo poi? nei giorni immediatamente seguenti.
  Il racconto della nascita del piccolo bambino in una grotta, depositato in una mangiatoia, con gli angeli che lodano Dio e i pastori che accorrono nei campi sono, nell'uso, un quadro poetico che non ha bisogno di essere collocato in Israele. Per qualcuno anzi forse sarebbe meglio non farlo, per non indebolire quello che sarebbe il carattere universale dell'opera di salvezza di Gesù.
  E poi, che c'entra Israele col Natale? Gli ebrei hanno la festa di Chanukkà, che si festeggia proprio in questi giorni, quindi a ognuno il suo: agli ebrei il candelabro a otto luci, ai cristiani le pecorelle del presepe. E ci si ferma lì.
  Il Vangelo di Luca però non si ferma lì e racconta anche quello che è successo qualche giorno dopo la nascita del piccolo bambino.

    Quando furono compiuti gli otto giorni dopo i quali egli doveva essere circonciso, gli fu posto il nome Gesù, che gli era stato dato dall'angelo prima che egli fosse concepito (Luca 2:21)

A questo punto il riferimento a Israele non è più evitabile, perché i genitori di Gesù fanno una cosa che solo gli ebrei ancora oggi fanno: circoncidono il loro figlio. E non lo fanno per stravaganza, ma perché così sta scritto nella legge data da Dio al popolo d'Israele tramite Mosè:

    "Quando una donna sarà rimasta incinta e partorirà un maschio, sarà impura sette giorni; sarà impura come nel tempo del suo ciclo mestruale.  L'ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino" (Levitico 12:2,3).

I genitori del bambino si comportano dunque come semplici, normalissimi ebrei. Il racconto non  dice, in modo generico, che "aspettarono otto giorni", ma che furono compiuti gli otto giorni,  sottolineando così che Giuseppe e Maria volevano far trascorrere il preciso periodo  di tempo in cui, secondo la legge, la donna si trovava in uno stato di impurità dovuto al parto. Passati i sette giorni legali, l'ottavo giorno dalla nascita il bambino fu circonciso e gli fu assegnato formalmente il nome, che in questo caso non era stato scelto dai genitori ma da Dio stesso, e comunicato a Giuseppe attraverso l'angelo Gabriele (Matteo 1:21).
  Secondo la legge però il periodo di impurità della donna non finiva dopo i sette giorni dovuti al parto, ma proseguiva fino ad arrivare, nel caso di un figlio maschio, ad un totale complessivo di quaranta giorni per la "purificazione del sangue", da trascorrere in una condizione che oggi diremmo, non a caso, di "quarantena".
  Il testo del Levitico infatti continua così:

    Poi, lei resterà ancora trentatré giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà nessuna cosa santa, e non entrerà nel santuario finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione (Levitico 12:4).

Finito il periodo di impurità della donna, la legge richiedeva che i genitori offrissero in sacrificio un agnello e un piccione, con la possibilità di sostituire l'agnello con un altro piccione in caso di povertà.

    Quando i giorni della sua purificazione, per un figlio o per una figlia, saranno compiuti, porterà al sacerdote, all'ingresso della tenda di convegno, un agnello di un anno come olocausto, e un giovane piccione o una tortora come sacrificio per il peccato; e il sacerdote li offrirà davanti all'Eterno e farà l'espiazione per lei; e lei sarà purificata del flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. E se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due giovani piccioni: uno per l'olocausto, e l'altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote farà l'espiazione per lei, e lei sarà pura'” (Levitico 13:6-8)

Anche questo fecero Giuseppe e Maria, avvalendosi  dell'opzione dei due piccioni, probabilmente perché  un agnello per loro era troppo costoso.

    Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione, secondo la legge di Mosè portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore, com'è scritto nella legge del Signore: “Ogni maschio primogenito sarà chiamato santo al Signore”, e per offrire il sacrificio di cui parla la legge del Signore, di un paio di tortore o di due giovani piccioni  (Luca 2:22-24).

Nel passo di Luca si nota però che Giuseppe e Maria non si limitarono ad offrire il sacrificio di due piccioni per la loro purificazione, ma anche "portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore". Questo non era richiesto dalla legge per tutti i neonati, ma soltanto per i primogeniti maschi, come nel caso di Gesù. Questo perché i primogeniti, secondo la legge, appartengono a Dio, quindi devono essere formalmente restituiti a Lui in un atto simbolico di consacrazione. Cosa che anche Giuseppe e Maria fecero, portando Gesù al Tempio per "consacrarlo all'Eterno", secondo quello che sta scritto:

    Quando l'Eterno ti avrà fatto entrare nel paese dei Cananei, come giurò a te e ai tuoi padri, e te lo avrà dato, consacra all'Eterno ogni fanciullo primogenito e ogni primo parto del bestiame che ti appartiene: i maschi saranno dell'Eterno (Esodo 13:11,12).

Sono questi i fatti narrati nella Bibbia che si collegano a quel "Santo Natale" che oggi, 25 dicembre, si vorrebbe festeggiare. Ma è chiaro allora che questi fatti possono assumere senso e significato soltanto all'interno di un quadro che appartiene interamente alla storia d'Israele. Come fanno  gli ebrei a trascurarlo e i gentili a deformarlo?
  Entrando nei particolari della storia, si può dire che non si sa dove avvenne la circoncisione, che di solito si faceva in casa, e in ogni caso non aveva bisogno né di Tempio né di sinagoghe. Si sa soltanto, da quel che segue nella narrazione, che dopo quaranta giorni dal parto Giuseppe e Maria portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore, segno evidente che non dimoravano a Gerusalemme e nel frattempo potevano trovarsi ancora a Betlemme o anche essere tornati a Nazaret.
  Nel Tempio, in cui si trovavano per la consacrazione del bambino, avviene un fatto imprevisto: arriva inaspettato un uomo di cui non si sa nulla e che non si ripresenterà più nei Vangeli; si dice soltanto il suo nome, e che stava a Gerusalemme, e che era giusto e timorato di Dio. Sul suo tipo di devozione si dice soltanto  che "aspettava la consolazione di Israele".

    Vi era a Gerusalemme un uomo di nome Simeone; quest'uomo era giusto e timorato di Dio e aspettava la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra lui e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima di aver visto il Cristo del Signore. Egli, mosso dallo Spirito, andò al Tempio e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, se lo prese anch'egli nelle braccia, benedisse Dio e disse: “Ora, o mio Signore, lascia pur andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola, perché gli occhi miei hanno visto la tua salvezza, che hai preparato dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele(Luca 2:25-32).

Dev'essere sottolineato che anche queste parole fanno parte del racconto biblico della nascita di Gesù e dunque devono essere elemento della celebrazione del cosiddetto Natale. Si può notare allora che se il quadro natalizio campestre col coro degli angeli guarda al presente (Vi annuncio una grande gioia), e al futuro (pace in terra fra gli uomini che Egli gradisce), il quadro sacrale del Tempio rivolge lo sguardo verso un passato di sofferenza e schiavitù in cui si trova una promessa di consolazione che si avvera nel presente e comincia a compiersi proprio in quel bambino.
  Dire che Simeone "aspettava la consolazione di Israele" significa che era in attesa del compimento della promessa del Signore contenuta nelle parole del profeta Isaia:

    “Consolate, consolate il mio popolo”, dice il vostro Dio. “Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano dell'Eterno il doppio per tutti i suoi peccati” (Isaia 40:1,2).

La figura di Simeone acquista allora un posto emblematico nel piano di salvezza di Dio. Simeone è stato il primo uomo, un ebreo giusto e timorato di Dio, a sperimentare consapevolmente, nella sua persona, quella consolazione d'Israele che era stata promessa e lui aspettava con fervido ardore. È stato consolato. Ha visto coi suoi occhi la salvezza di Dio. Quello che teneva fra le braccia era soltanto un bambino, ma lui  ha esercitato la fede in Dio senza vedere nient'altro, semplicemente credendo con tutto il cuore che fosse proprio quel bambino il Messia di cui parla la Scrittura e che lo Spirito gli aveva indicato personalmente. Il suo pensiero sarà andato forse a quel passo del profeta Isaia:

    "... un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e l'impero riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace (Isaia 9:7).

Al questo punto Simeone si rivolge a Dio e gli dice che il tempo dell'attesa per lui è finito. A Dio ora chiede soltanto di essere lasciato andare in pace perché aveva visto coi suoi occhi, prima della sua morte, quella che egli chiama "la tua salvezza, che hai preparato dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”.

    "Luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele".

Anche questo è importante. Luce-genti, gloria-Israele. E' riconducibile alle parole del profeta Isaia con cui l'Eterno rivela il compito che vuole assegnare al suo servo Messia:

    “È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d'Israele; voglio fare di te la luce delle genti, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra” (Isaia 49:6)

Ecco i due obiettivi assegnati dall'Eterno al suo Servo: ricondurre a Dio Israele ed essere luce alle genti. In Isaia gli obiettivi avrebbero dovuto essere raggiunti in quest'ordine, e Gesù aveva cominciato a farlo, quando ai suoi discepoli aveva ordinato:

    “Non andate fra i Gentili e non entrate in alcuna città dei Samaritani, ma andate piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele (Matteo 10:6),

e alla donna cananea che chiedeva aiuto aveva risposto:

    “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele” (Matteo 15:24).

Ma per la risposta che Israele darà a Dio, l'ordine appare invertito nelle parole profetiche di Simeone: prima viene la"luce da illuminare le genti" , di cui anche le luci familiari e commerciali di questi giorni sono inconsapevole testimonianza; poi arriverà indubitabilmente anche la seconda: la "gloria del tuo popolo Israele".
  Si può allora trarre una prima conclusione. Schematizzando al massimo, si può dire che il racconto della nascita di Gesù secondo Luca si presenta in due parti: la prima avviene nei campi, la seconda nel Tempio. Nella prima parte Dio opera attraverso gli angeli, nella seconda attraverso lo Spirito Santo. I campi sono la scena in cui gli angeli annunciano l'arrivo sulla terra della salvezza di Dio nella venuta del Messia; nel Tempio di Gerusalemme lo Spirito Santo inizia a mettere in opera questa salvezza nella realtà dei fatti che proprio lì, nel centro di Israele, avvengono.
  Appare come rivelazione anche l'inversione nell'ordine dei compiti affidati al Messia: prima la luce alle genti, poi la gloria d'Israele. E anche di questa inversione si può individuare una traccia di motivazione nel racconto stesso.  La consolazione di Israele è rivelata da Dio al suo popolo nel punto giusto: il Tempio di Gerusalemme, ma chi si rivela adatto a ricevere questa rivelazione non sono i sacerdoti ordinati, ma un semplice israelita in fervida attesa del Messia. Nei campi si trovano gli umili pastori, nel Tempio arriva il pio Simeone: le autorità del popolo sono del tutto evitate. E' un fatto.
  Il racconto poi prosegue tornando ad occuparsi di Giuseppe e Maria:

    Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che dicevano di lui (Luca 2:33)

Più che comprensibile. Davanti a fatti di tale portata che altro si poteva chiedere a due semplici ebrei come Giuseppe e Maria?  Restavano meravigliati di quello che si diceva su Gesù: succede a tanti ancora oggi, dopo secoli dai fatti, figuriamoci a loro.
  Ma Simeone, pur non avendo cariche, li benedirà, e con autorità di profeta dirà loro parole che, come vedremo, saranno risuonate pesanti alle loro orecchie.

(continua)

(Notizie su Israele, 25 dicembre 2022)


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Israele ammette in tribunale  di aver perso l’accordo con Pfizer per le informazioni epidemiologiche
  • "Non abbiamo trovato un accordo firmato”, ha detto in tribunale l’avvocato Ahava Berman dell’ufficio del pubblico ministero per conto del Ministero della Salute, secondo i24.
  • “Abbiamo cercato in tutti i posti, inclusi l’ufficio del CEO e l’ufficio legale.”
  • “Il ministro israeliano della Sanità ha affermato davanti al tribunale che non è riuscito a localizzare l’accordo firmato con l’impresa farmaceutica Pfizer in merito alla parte di informazioni epidemiologiche sui vaccini contro il coronavirus, e allo stesso tempo ha dichiarato che non sa se sia mai stato firmato”.
  • “Il governo israeliano perde misteriosamente l’accordo sul vaccino Pfizer che prometteva di condividere i dati sulla popolazione. Il governo di Israele ha ammesso in tribunale di non essere riuscito a individuare il suo accordo sul vaccino COVID-19 con Pfizer nonostante un’ampia ricerca”, denuncia The Epoc Times.
  • “In una petizione pendente presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme, il Ministero della Salute israeliano (MoH) ha affermato di aver perso l’accordo e ha anche sollevato dubbi sul fatto che l’accordo sia stato firmato dalle parti coinvolte.
Nel settembre dello scorso anno, Philip Dormitzer, chief scientific officer di Pfizer, ha dichiarato a un raduno di accademici Zoom che Israele era “una specie di laboratorio” in cui l’azienda poteva vedere gli effetti del suo vaccino COVID-19, ha riferito The Times of Israel. Israele “ha immunizzato molto presto una percentuale molto elevata della popolazione, questo è un modo in cui possiamo quasi guardare avanti: quello che vediamo accadere in Israele accadrà di nuovo negli Stati Uniti un paio di mesi dopo”, ha detto all’epoca.
  Si stima che oltre sei milioni di persone abbiano ricevuto dosi di vaccini COVID-19 di Pfizer in Israele. Il paese ha registrato oltre 4,74 milioni di infezioni da COVID-19 al 18 dicembre, con 11.954 morti.
  L’accordo è stato reso pubblico nel gennaio 2021, ma molte delle sue clausole sono state poi nascoste. In calce c’erano le firme del direttore generale del ministero della Salute e di un dirigente della Pfizer il cui nome è stato oscurato. Secondo l’accordo, il MoH fornirà dati a Pfizer nella misura in cui tali dati non rivelino l’identità di un individuo.
  Nell’accordo tra le due parti, il MoH si è impegnato a trasferire settimanalmente i dati su casi confermati di COVID-19, ricoveri, casi gravi, uso di ventilatori, decessi e casi sintomatici. Inoltre, dovevano essere inclusi anche il numero di casi a settimana per fascia di età e altri fattori demografici.
  Nel caso in cui dati identificabili vengano accidentalmente divulgati alla società, Pfizer è obbligata a restituire e cancellare tali dati. L’azienda si è inoltre impegnata a utilizzare i dati esclusivamente per scopi di salute pubblica e ha accettato di non utilizzarli in modo discriminatorio.
  Da allora uno studio condotto in Israele ha riportato un aumento del rischio di sviluppare miocardite tra i giovani maschi che hanno assunto i vaccini COVID-19 di Pfizer.
  “Il tasso di incidenza della miocardite era basso, tuttavia, era principalmente nei giovani maschi dopo una seconda vaccinazione COVID-19, suggerendo una potenziale relazione tra il vaccino e la miocardite. I risultati hanno sollevato preoccupazioni sul potenziale aumento della miocardite dopo una dose di richiamo”, secondo il comunicato”.

(PRESSKIT, 20 dicembre 2022)
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Israeli Government Mysteriously Loses Pfizer Vaccine Agreement That Promised to Share Population’s Data


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Fiale Pfizer in cambio di dati sanitari. Israele “perde” le carte sull’accordo

Il governo non trova il testo dell'intesa: «Non sappiamo nemmeno se sia stata firmata» 

di Stefano Graziosi 

È un vero e proprio mistero quello che avvolge l'accordo tra Pfizer e Israele su dati e vaccini contro il Covid-19, Secondo quanto riferito dalla testata israeliana i24news, il ministero della Salute di Gerusalemme, che da giugno 2021 è guidato da Nitzan Horowitz, ha reso noto in tribunale di non riuscire più a trovare l'intesa che aveva stretto, ormai circa due anni fa, con il colosso farmaceutico statunitense. 
  Era infatti la fine del 2020, quando il governo israeliano si accordò con Pfizer per ricevere dosi di vaccino in via prioritaria in cambio della cessione di dati epidemiologici relativi alla propria popolazione. «Non abbiamo trovato un accordo firmato», ha detto l'avvocato dell'ufficio del procuratore Ahava Berman, a nome del ministero della Salute. «Abbiamo cercato in tutti i posti, inclusi l'ufficio del direttore generale e l'ufficio legale», ha aggiunto. La stessa testata ha ricordato che quell'accordo era stato reso noto nel gennaio del 2021, sebbene molte delle sue clausole fossero rimaste segrete. «Nell'accordo pubblicato», ha riferito sempre izsneuis, «era stato lasciato spazio alle firme dell'allora direttore generale del ministero della Salute, Hezi Levy, e di un'altra persona di Pfizer, il cui nome è stato oscurato, ma le loro firme non erano presenti». «Nella risposta del Dipartimento della Salute alla corte, si afferma che il Dipartimento quindi non sa se l'accordo sia stato firmato o meno», prosegue l'articolo. 
  Quando l'accordo venne annunciato, nel gennaio dell'anno scorso, furono sollevate preoccupazioni in riferimento alla tutela della privacy; preoccupazioni sottolineate da varie testate giornalistiche internazionali, tra cui il Washington Post, Haaretz e la National Public Radio. «I fautori affermano che l'accordo potrebbe consentire a Israele di diventare il primo Paese a vaccinare la maggior parte della sua popolazione, fornendo allo stesso tempo preziose ricerche che potrebbero aiutare il resto del mondo. Ma i critici affermano che l'accordo solleva importanti preoccupazioni etiche, tra cui possibili violazioni della privacy e un approfondimento del divario globale che consente ai Paesi ricchi di accumulare scorte di vaccini», scrisse all'epoca l'Associated Press. Ricordiamo che in Israele oltre 6 milioni di persone hanno ricevuto delle dosi Pfizer. 
  Infine, al di là della questione legata alla privacy, quanto sta accadendo nello Stato ebraico sembra quasi un film già visto di recente dalle nostre parti. Ricordate infatti i messaggi scomparsi tra i vertici di Pfizer e Ursula von der Leyen? «Quando un documento redatto o ricevuto dalla Commissione non contiene informazioni importanti, e/o è di breve durata, e/o non rientra nel campo di applicazione della direttiva, e/o non rientra nella sfera di competenza dell'istituzione, non soddisfa i criteri di registrazione e non viene quindi registrato. Questi documenti effimeri e di breve durata non sono conservati e di conseguenza non sono in possesso dell'istituzione». Questa fu la risposta data dalla Commissione europea lo scorso giugno all'Ombudsman europeo, che aveva chiesto chiarimenti in riferimento alle comunicazioni precedentemente intercorse tra la stessa von der Leyen e l'amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla. Ad aprile del 2021, il New York Times aveva infatti riferito che i due avevano trattato la fornitura di vaccini all'Ue tramite sms e telefonate. Tale rivelazione portò a richieste di chiarimento da più parti: richieste cadute nel vuoto. Comprese le due rivolte a Bourla, di presentarsi in audizione alla commissione d'inchiesta dell'Euoparlamento.

(La Verità, 24 dicembre 2022)
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Nella questione della legittimità dello Stato ebraico sulla sua terra, Israele si trova dalla parte della verità e contro il mondo. Nella questione delle vaccinazioni, Israele si trova dalla parte del mondo e contro la verità. "Notizie su Israele" ha preso e continuerà a prendere posizione netta su questi argomenti. Ripresentiamo sotto un articolo di più di un anno fa. M.C.


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L'orologio ebraico

di Marcello Cicchese

Negli ambienti evangelici gira da diversi anni, non so quanto conosciuto e letto, un libro che è uscito per la prima volta in francese nel 1957: "Quelle heure est il à l'horloge d'Israël?" Nel 1961 ne è uscita una seconda edizione arricchita da nuovi documenti ricevuti dal "Centre Sioniste d'Informations de Paris", nella cui dedica l'autrice, A. Blocher-Saillens, scrive: "Dedicato alla memoria della mia cara mamma Mme Rubens Saillens, che ci ha dato, fin dall'infanzia, un grande amore per Israele e un profondo interesse per le profezie che lo concernono".
   Di questo libro esiste da tempo anche una traduzione italiana. Qui vorrei  sottolinearne soltanto il titolo, che in sostanza vuole dire due cose:

  1. Dio dirige la storia del mondo dalla sua creazione fino alla sua dissoluzione e ricostituzione;
  2. Dio scandisce temporalmente il suo agire nella storia con interventi che ogni volta, in modo spesso inaspettato, mettono in evidenza Israele.

Di qui la necessità di esaminare e valutare fatti storici di importanza mondiale mettendoli in relazione con quello che avviene in Israele, anche nei suoi rapporti col mondo esterno.
   Darò un esempio - che forse farà gridare allo scandalo - tratto dal mio libro "Dio ha scelto Israele":

    «Theodor Herzl non avrebbe certo potuto prevedere, e tanto meno auspicare, che per arrivare a costituire quello Stato ebraico da lui previsto e progettato, l’umanità avrebbe dovuto passare per due immani tragedie come le guerre mondiali, e il suo popolo subire l’orrore della Shoà.
    Gesù però aveva avvertito: “Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre... ma tutto questo non sarà che principio di dolori” (Matteo 24:6-8).
    Il termine originale usato per dolori può essere tradotto anche con doglie, come in 1 Tessalonicesi 5:3. Non si tratta dunque di generiche sofferenze, ma di doglie che precedono un parto. Si potrebbe dire allora che le due guerre mondiali sono state  due tremende, dolorosissime spinte di un travaglio che ha prodotto il parto dello Stato d’Israele. Proprio questo è l’aspetto di gran lunga più importante di quelle due catastrofi mondiali: l’avanzamento del piano di Dio nel compimento dei  Suoi propositi verso Israele. E anche il cosiddetto Olocausto non deve essere considerato soltanto come una manifestazione particolarmente grave di malvagità umana, ma come il tentativo letteralmente diabolico, e naturalmente non riuscito, di opporsi al progetto di Dio. 
    Se si trascura la comprensione spirituale di questi fatti, e davanti all’avvenuto tentativo di sterminio degli ebrei si reagisce soltanto con umanistica indignazione, si rischia di essere strumentalizzati da quello stesso Satana che li ha istigati. E in parte questo sta già avvenendo. Le accuse di razzismo e di nazismo adesso sono rovesciate sugli ebrei, e il ricordo di quelle persecuzioni offre ai loro nemici una comoda motivazione per tentare di ripeterle, anche se in altra forma.»

L'attuale pandemia è indubbiamente un fatto storico di importanza mondiale, dunque è bene riflettere sull'impatto che ha con Israele. Si può fare a questo riguardo qualche riflessione comparativa su tre fatti che hanno interessato Israele negli ultimi anni:

  1. Gli accordi di Oslo (1993)
  2. Lo sgombero di Gaza (2005)
  3. La campagna vaccinale (2020-?)

Israele ha dovuto combattere diverse guerre e le ha vinte tutte, o quanto meno si può dire che non le ha perse. Questo è in linea col fatto che nazioni o popoli o gruppi religiosi con cui Israele ha combattuto rifiutano la sua presenza su quella terra, e alcuni vorrebbero ancor più che sparisse. Ma poiché Israele è il popolo di Dio, il tentativo diabolico di far sparire Israele da quella terra non è riuscito. E in questo periodo della storia non poteva riuscire.
   Tutto questo ricorda in un certo senso il tentativo di Balak, re di Moab, che cercò evocare le potenze diaboliche ingaggiando il mago Balaam affinché maledisse Israele, con tutte le conseguenze distruttive che ci si poteva aspettare (Numeri, capp. 22-24). La cosa però non funzionò. Però Balaam, servo di Satana, in un secondo tempo riuscì lo stesso ad attirare la maledizione su Israele, non  attraverso la spada, ma attraverso la seduzione di lascive donne madianite che trascinarono il popolo al culto idolatrico di divinità pagane (Numeri 25:1-18, 31:16). La cosa entrò nel ricordo come "il fatto di Baal Peor". 
   Per collegare i tre fatti con l'episodio biblico riportato, si potrebbe dire che:

  1. le guerre vinte di Israele si collegano al tentativo non riuscito del diabolico Balaam;
  2. i tre fatti sopra elencati si collegano al tentativo riuscito dello stesso diabolico Balaam.

Da notare una cosa singolare che hanno in comune i tre fatti: hanno riscosso tutti l'applauso delle nazioni. 

  1. Bravo Rabin a fare l'accordo con Arafat!
  2. Bravo Sharon a sgomberare Gaza!
  3. Bravo Netanyahu ad acquistare vaccini a vagonate dal colosso Pfizer!

Conseguenze:

  1. Arafat si è collocato a Ramallah e di lì ha organizzato la seconda intifada, una stagione di attentati terroristici e stragi suicide;
  2. Hamas si è collocato a Gaza e di lì fa piovere missili su Israele, con attacchi a scadenze indefinite da usare come spada di Damocle e merce di scambio;
  3. Pfizer si è collocato commercialmente in Israele e di lì detta il ritmo delle dosi di vaccino da inoculare a forza agli israeliani.
Il cittadino israeliano aveva creduto che dopo la prima o la seconda dose di vaccino, una volta raggiunto il numero necessario di vaccinati, avrebbe ottenuto lo stato di immunizzazione completa, così da poter riprendere la vita come prima, con la sola condizione di avere la patente verde in tasca da esibire in qualche caso come si fa con la patente automobilistica. "E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde", scriveva Fiamma Nirenstein il 16 marzo scorso; per poi concludere: "Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza".
   No, non è così. Non può essere questa la missione storica di Israele per la comune costruzione della salvezza. Proprio l'altisonanza dei termini usati fa avvertire quanto grande sia l'inganno a cui è sottoposto oggi Israele. E con lui tutte le nazioni che seguono il suo esempio. 
   Nei tre fatti elencati sopra, Israele ha cercato ogni volta di risolvere il suo problema vitale dimenticando il Dio dei suoi padri e stringendo alleanza con il dio delle nazioni, che il Vangelo di Giovanni chiama il principe di questo mondo. Ed è per questo che ha ottenuto ogni volta l'approvazione delle nazioni. 
   Ma come membro di una di queste nazioni, non sono affatto contento di vedere che il principe di questo mondo, nella forma del dio Mammona, sia riuscito a mettere in soggezione lo Stato d'Israele, facendolo apparire come un modello da imitare per il raggiungimento della comune costruzione della salvezza. Seguendo il modello Israele si sta cercando di arrivare all'inoculazione illimitata nel tempo di dosi vaccinali, all'obbligo vaccinale per legge, al controllo coatto di ogni operazione sociale del cittadino. E tutto questo per tutelare la vita del cittadino e il bene della comunità, senza alcun riferimento agli interessi di chi fabbrica, produce e vende vaccini. Cioè al dio Mammona.
   L'ancora di salvezza che lanciano i colossi farmaceutici, raccolto con cura dai governanti delle nazioni e imposto con la forza ai cittadini, è quella radicale cura che si può chiamare "intubazione vaccinale". Con la prima dose si fa l'aggancio al tubo salvifico, dopo di che nessuno ha più il coraggio o l'autorità di staccarlo. No, grazie. 

(Notizie su Israele, 10 settembre 2021)

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Israele sta pensando a un modo di interrompere i rifornimenti aerei Iran-Siria

di Paolo Mauri 

Israele sta cercando modalità per interrompere i collegamenti aerei tra Iran e Siria che vengono utilizzati da Teheran per rifornire Hezbollah in Libano (e si presuppone gli stessi pasdaran presenti in Siria) di sistemi d’arma.
  Secondo fonti della Difesa di Tel Aviv riportate da Breaking Defense, verrà presa “ogni misura” per fermare i voli. Altre fonti hanno confermato questa volontà israeliana specificando che la problematica sarà affrontata in futuro sia con mezzi cinetici che quelli non cinetici.
  Israele sta conducendo da anni una “guerra ombra” – solo perché non formalmente dichiarata, ma del resto dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale nessuno ha più consegnato dichiarazioni di guerra – per contrastare l’appoggio militare iraniano a Hezbollah in Libano e alle milizie filosciite in Siria, con incursioni aeree e altre attività terrestri.
  A seguito di un aumento degli attacchi israeliani contro le spedizioni via terra, l’Iran ha iniziato a utilizzare i collegamenti aerei per far affluire i rifornimenti. Qualcosa che si è già visto in passato, attraverso compagnie aeree come la Fars Air Qeshm, gestita dai pasdaran, che facevano la spola tra Teheran e Damasco.
  Secondo Tel Aviv la rinnovata amicizia dell’Iran con la Russia, dettata dalle esigenze belliche di Mosca, sembra aver rilanciato i voli da Teheran verso Damasco. Il Cremlino ha infatti sempre mal sopportato il palese sostegno iraniano alle milizie filosciite in Siria, in quanto ha innescato la reazione militare israeliana: quando c’è stato l’abbattimento dell’aereo spia russo Il-20M a settembre 2018, per opera di un errore della difesa aerea siriana allertata dall’ennesimo raid dell’aviazione di Tel Aviv, tra i due Paesi è stato concordato un meccanismo di de-escalation e soprattutto si è assistito a un rallentamento dei rifornimenti iraniani diretti in Siria.
  Ora, grazie ai maggiori legami tra Teheran e Mosca, sembra che l’Iran senta di avere mano più libera nell’usare lo scalo di Damasco per inviare armamenti, accettando nel contempo il rischio di un’eventuale ulteriore reazione israeliana.
  Fonti israeliane affermano che il numero di convogli di terra è diminuito negli ultimi mesi a seguito di una maggiore attenzione da parte di Israele nel colpirli, mentre sono aumentati i voli utilizzanti i soliti Boeing 747 usati dalla Fars Air Qeshm e dalla Mahan Air. La Fars Air è strettamente collegata alla Mahan Air, entrambe sotto embargo: risulta che dipendenti della Mahan occupino posizioni dirigenziali presso Fars Air e la stessa Mahan Air le fornisca supporto tecnico e operativo, facilitandone le operazioni illecite. Sappiamo che i piloti della Mahan non sono pubblicamente affiliati al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Irgc nel loro acronimo anglosassone), ma è molto probabile che alcuni dei piloti appartengano formalmente alle Irgc e siano in “prestito” alla compagnia; inoltre è possibile che alcuni dei piloti non appartengano ai pasdaran ma che “chiudano un occhio” sulle spedizioni di armi e sulla gestione delle Irgc.
  Israele quindi, proprio perché Mosca sta sdoganando Teheran grazie alle necessità imposte dalla guerra in Ucraina, sta elaborando piani per cercare di interrompere i rifornimenti via aerea diretti in Siria. L’approccio più diretto, quello di colpire gli aerei mentre sono a terra, sembra essere escluso in quanto, come riferiscono le fonti della Difesa israeliana, attaccare un aereo da carico civile in un aeroporto civile avrebbe gravi conseguenze per Israele. Invece si sta avanzando la possibilità di usare altre misure di attacco indiretto. Tra di esse ci potrebbe essere un raid sulla pista dell’aeroporto di Damasco, ma l’attacco non eliminerebbe il problema in quanto i danni verrebbero riparati dopo pochi giorni. Tuttavia ancora Breaking Defense riferisce che questo tipo di azione è stata progettata per essere un avvertimento.
  Un ex alto ufficiale dell’aeronautica militare israeliana ha affermato che si potrebbe ricorrere a un attacco informatico, che potenzialmente interromperebbe i sistemi di navigazione e di controllo dell’aeroporto. Israele dispone di unità miste (militari/civili) in grado di effettuare attacchi cyber molto efficaci, come dimostrato da quello effettuato all’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, in Iran, avvenuto per la prima volta nel 2009.
  Secondo Iran International, un sito web gestito da Londra dagli oppositori del regime iraniano, fonti dell’intelligence occidentale affermano che Caspian Air e Fars Air Qeshm hanno entrambe smesso di volare in Siria dopo gli ultimi attacchi israeliani su Damasco, lasciando Mahan Air come unica compagnia aerea iraniana a inviare rifornimenti, con un rateo di voli che è aumentato del 30% rispetto al solito.
  Il problema di un attacco cinetico, come il bombardamento dell’aeroporto di Damasco, è duplice: dal punto di vista politico, la messa fuori uso di uno scalo civile dopo un pesante raid aereo darebbe sponda alla propaganda anti-israeliana, e condannerebbe Tel Aviv agli occhi del mondo, dal punto di vista strettamente militare non eliminerebbe i voli in quanto essi proseguirebbero su altri scali come quello di Aleppo.
  Di abbattere gli aerei in volo non se ne parla, in quanto sarebbe un fatto ancora più grave rispetto al bombardamento di un aeroporto, pertanto l’attività nel campo non cinetico risulta l’unica realmente percorribile, sebbene un attacco cyber, per quanto pesante, avrebbe l’unico effetto di ritardare le consegne, non di cancellarle una volta per tutte.
  A Tel Aviv, non potendo contare su altri sistemi non cinetici di eliminazione della minaccia, non resta quindi che proseguire con la campagna di interdizione dei rifornimenti a terra per avere la sicurezza che essi vengano effettivamente eliminati, e dati i nuovi rapporti tra Mosca e Teheran, che hanno portato al nocumento di quelli russo-israeliani, non è escluso che si inaugurerà presto una nuova più cruenta fase di quella “guerra ombra” che da anni oppone Israele all’Iran.

(Inside Over, 24 dicembre 2022)

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A Kherson gli ebrei vengono accusati da Kyev di “collaborazionismo” con i russi

Certe tragedie della storia tendono a ripetersi. Sul New York Times e il Times of Israel, stanno avendo un certo risalto le accuse di collaborazionismo che le autorità di Kyev hanno rivolto contro alcuni esponenti della comunità ebraica  di Kherson recentemente riconquistata dalle truppe ucraine.
  Quando a marzo le truppe russe hanno attraversato il confine ucraino, migliaia di persone sono fuggite dalle città. Ma a Kherson, la città portuale meridionale di valore strategico per i russi, il rabbino Yosef Itzhak Wolff decise di rimanere.
  La sua decisione di rimanere è in linea con la filosofia del suo movimento ebraico, Chabad-Lubavitch, i cui rabbini sono soliti impegnarsi nelle città in cui sono stanziati e rimanervi nella buona e nella cattiva sorte.
  Una Chabad House è un centro ebraico ed il rabbino Chabad è un rabbino pronto a offrire ospitalità e servizi. Quando vengono  descritti dai media come “ultraortodossi”, in parte si risentono, ritengono infatti di essere un movimento ebraico senza etichette, e  come tale vorrebbero essere riconosciuti.
  Secondo quanto riportato questa settimana dal New York Times, Wolff si trova ora in Germania, preoccupato perché alcuni a Kherson lo accusano di aver collaborato con le forze russe.
  Nel frattempo, un membro della sua comunità ebraica rischia l’ergastolo per le sue azioni durante i primi giorni caotici della guerra, secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense.
  La Russia ha conquistato Kherson il 2 marzo. Tra coloro che vivevano nella città occupata c’era anche Yosef Itzhak Wolff, un rabbino nato in Israele e arrivato in Ucraina quasi 30 anni fa, subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’indipendenza dell’Ucraina. Negli ultimi 13 anni ha presieduto una comunità ebraica a Kherson che prima della guerra era stimata in 8.000 persone.
  Nei primi giorni della guerra, il lavoro di Wolff è stato quello di fornire cibo, medicine e mantenere le attività religiose di Purim.
  Durante un viaggio, riporta il quotidiano Times of Israel, Wolff ha schivato i proiettili trasportando cibo in città dal confine con la Crimea, dove anche suo fratello è rabbino. In un altro, secondo Chabad.org, è uscito a consegnare cibo mentre i carri armati russi attraversavano la città.
  “Nonostante i pesanti combattimenti nelle strade di Kherson, il rabbino Yosef Wolff non ha abbandonato la sua comunità nemmeno per un momento, rimanendo nella città devastata dalla guerra e servendo la popolazione locale”, ha dichiarato all’Agenzia telegrafica ebraica il rabbino Motti Seligson, portavoce del movimento Chabad. Ha definito Wolff un “vero eroe del popolo ebraico e per le persone di buona coscienza di tutto il mondo”.
  Prima delle persecuzioni razziali antiebraiche, particolarmente feroci nell’Ucraina dopo l’occupazione nazista, Kherson era un importante centro di vita ebraica, con circa 26 sinagoghe, ma ora è rimasta solo quella di Wolff. Prima della guerra, come nelle altre Chabad House in tutto il mondo serviva la comunità locale, ma era anche notoriamente accogliente per i volti sconosciuti, compresi i visitatori stranieri.
  Merci acquistate con l’aiuto del rabbino capo della regione di Kherson Yosef Wolff nella Crimea controllata dai russi vengono scaricate nella sinagoga di Kherson, occupata dai russi, sul Mar Nero, il 10 marzo 2022.
  L’apertura delle porte ai nuovi arrivati ha assunto una gravità maggiore dopo l’inizio della guerra e l’afflusso dei russi a Kherson. Per gran parte dell’anno non era chiaro se l’Ucraina avrebbe ripreso il controllo della città o se sarebbe diventata come la Crimea e sarebbe rimasta sotto l’occupazione russa. Il mese scorso, però, le forze armate ucraine hanno riconquistato Kherson, sospettando chiunque fosse percepito come collaboratore dell’esercito russo.
  Alcuni di questi sospetti sono ricaduti anche su Wolff, che aveva permesso ai soldati russi ebrei di pregare nella sua sinagoga. Nei giorni successivi alla liberazione, Wolff ha lasciato Kherson e l’Ucraina per la Germania. Ora, con la “caccia ai collaborazionisti” in corso, ha detto al giornale che non è sicuro di quando o se tornerà.
  Tra coloro che sono rimasti a Kherson c’è anche un membro di spicco della locale comunità ebraica, che ora viene perseguito per le sue scelte in mezzo alla disordinata realtà dell’occupazione.
  Illia Karamalikov, proprietario di un nightclub e membro del consiglio comunale di Kherson, era vicino a Wolff e spesso permetteva al Chabad di utilizzare lo spazio del suo nightclub per eventi, ha dichiarato il rabbino al New York Times.
  Nei primi giorni dell’occupazione, a Kherson l’amministrazione civile ucraina fuggì davanti alle forze russe e, dopo aver conquistato la città senza incontrare molta resistenza, la Russia si assunse poche responsabilità per la sua amministrazione, inviando invece i soldati verso altri obiettivi, come le regioni vicine di Odessa, Mykolaiv, Kryvyi Rih, Kiev.
  Sono stati gli abitanti del luogo a riportare una parvenza di ordine. Karamalikov ha aiutato a organizzare una pattuglia comunitaria di 1.200 persone per far rispettare il coprifuoco e controllare i saccheggiatori.
  Secondo il New York Times, fu proprio in questo ruolo che si trovò faccia a faccia con un pilota russo smarrito e confuso, che i suoi uomini avevano preso in custodia. Karamalikov tenne il prigioniero in un ripostiglio di casa sua per una notte, prima di prendere la decisione di restituirlo incolume alle forze russe.
  Questo gli è valso un’accusa di 12 pagine da parte dell’Ucraina, in quanto si è scontrato con le nuove leggi promulgate allo scoppio della guerra che stabiliscono che “la cooperazione con lo Stato aggressore, le sue formazioni armate o la sua amministrazione di occupazione” sono punibili come atti di collaborazione secondo il codice penale ucraino.
  Molti di coloro che hanno parlato con il New York Times hanno affermato che le leggi non tengono conto della realtà della vita sotto occupazione. “Tutte queste persone che sono scappate sono quelle che adesso ci stanno giudicando”, ha detto Wolff al giornale. “Sono tempi crudeli”.
  Secondo l’accusa, Karamalikov, restituendo il soldato, avrebbe “organizzato l’ulteriore partecipazione di un militare russo all’aggressione contro l’Ucraina”.
  Ma molti a Kherson non sono sicuri che avesse un’ altra opzione. L’organizzazione di vigilanza della comunità di Karamalikov era una forza volontaria e non militare il cui potere limitato consisteva nel costringere i saccheggiatori a svolgere un servizio per la comunità. Se avessero fatto del male al soldato li avrebbero resi combattenti contro la Russia.
  “Ci siamo chiesti in seguito: Avremmo dovuto uccidere il soldato e mantenere il segreto?”, ha dichiarato al New York Times uno dei collaboratori di Karamalikov, Andriy Skvortsov. “Ma ho deciso di no, non sarebbe stato un bene”.
  “Con una vita nelle sue mani, non riesco a immaginare che Illia possa mai uccidere qualcuno”, ha detto Wolff al giornale. “Quello che ha fatto è stata la decisione più umana che potesse prendere”.

(Contropiano, 23 dicembre 2022)

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Qualche giorno fa a Berlino
In occasione del 50° anniversario del massacro degli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco del settembre 1972, circa 100 auto hanno partecipato alla parata di Hanukkah nel centro di Berlino. Il percorso è iniziato con l'accensione pubblica della Channukià nello stato Olimpico, da cui successivamente è partito il convoglio, con la polizia che ha guidato il corteo e ha chiuso alcune strade per permettere alla parata di circolare facilmente.
  Il convoglio ha ripercorso le stesse strade in cui passarono migliaia di ebrei diretti nei campi di concentramento e sterminio. Tania, giovane madre e membro della comunità ebraica, ha detto al termine dell’evento: “È stata davvero una fonte di orgoglio per me, i miei figli sentono in maniera forte la loro identità ebraica per i miei figli”.
  Quando il corteo è arrivato alla Porta di Brandeburgo, si è svolta una cerimonia di accensione della chanukkià, alla quale sono seguiti balli e canti, insieme al sindaco di Berlino e alla senatrice per l'ambiente Bettina Jarasch, la quale ha sottolineato la propria felicità nel vedere così tante persone esprimere il proprio orgoglio e la gioia per la loro ebraicità. L’evento è stato ideato e organizzato dal rabbino Dovid Tiechtel e da Ruby Friedling.

(Shalom, 23 dicembre 2022)

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Figli e fortezze. Il ritorno di Netanyahu col governo più a destra di sempre

di Giulio Meotti

ROMA - Un film del 1986 di Denys Arcand si apre con un professore universitario, Rémy, che spiega agli studenti “che nella storia contano soltanto tre cose: i numeri, i numeri e ancora i numeri”. Ci sono due numeri che spiegano come è cambiata la politica d’Israele: 313 e 170. Il primo è il numero dei figli dei deputati della Knesset che formano la nuova maggioranza di Benjamin Netanyahu, il secondo indica i figli di tutta l’opposizione. Ieri il ministro delle Finanze uscente Avigdor Liberman, che con Bibi ha formato molti governi prima di andare all’opposizione, ha parlato di “governo delle tenebre che promuoverà lo stato halachico” (la legge religiosa ebraica). Sicuramente nasce il governo più a destra della storia israeliana con Likud, l’estrema destra Otzma Yehudit, i sionisti religiosi, il partito Noam e gli ortodossi di Shas e United Torah Judaism, per un totale di 64 seggi. Hanno un piano ambizioso: riforma giudiziaria per mettere i giudici sotto il controllo della politica, legalizzazione degli insediamenti (la destra deve però spiegare cosa farà in caso di collasso dell’Autorità palestinese, sempre più in crisi), lotta contro il secolarismo a scuola (gender e Lgbt) e più influenza religiosa sulle istituzioni sociali.
  L’elettorato israeliano non è mai andato tanto a destra e, come spiega Haaretz, persino i kibbutz per la prima volta hanno tradito i loro due partiti storici di riferimento, Meretz e Labour, ormai votati dall’Israele bianco e ricco. Netanyahu torna al potere spinto dall’Israele che si sente ai margini della affluent society: le scuole religiose da dove entrano ed escono ragazzini con gli tzitzit in polemica con l’ambiente laico che li circonda e che a milioni sono accorsi al funerale del rabbino Ovadia Yosef, che non lesinava attacchi feroci alle femministe, alla Corte suprema e alla sinistra (“non tiene conto dell’essere umano, le interessa il potere”); l’ebreo etiope, marocchino, iracheno, iraniano, algerino, che fino a ieri hanno vissuto nella casbah e nei ghetti dell’islam, e gli yemeniti dai grandi occhi verdi, le barbe appuntite, il naso sottile, fino ai settler con la camicia bianca e i Salmi, intenti ad approntarsi un giaciglio qualunque in quelle roulotte poste su una terra contesa ai palestinesi da mezzo secolo e che hanno più in comune con gli arabi israeliani di Mansour Abbas che con un bar di Tel Aviv. Almeno si capiscono. Il padre di Bibi, lo storico Benzion Netanyahu, era solito dire: “Gli ebrei e gli arabi sono come due capre che si fronteggiano su un ponte stretto. La capra più forte farà saltare quella più debole e credo che la potenza ebraica prevarrà”. Con l’America di Joe Biden a vigilare, per Netanyahu e la sua coalizione sarà complicato fare la rivoluzione. Con un eventuale ritorno di Donald Trump potrebbero avere mano più libera. Ma peserà la cronica, più che italiana, instabilità politica-parlamentare israeliana (cinque elezioni in tre anni). Resterà invece, costante futura, un paese meno occidentale e più mediorientale, meno liberale e più identitario. Per dirla con il biografo Bibi, Anshel Pfeffer, “una società ibrida di paure antiche e speranze hi-tech, una combinazione di tribalismo e globalismo”. Lo scrittore David Grossman si è lamentato che il suo paese è una fortezza, ma non ancora una casa per tutti. Per la destra al potere è meglio una fortezza di una casa che brucia.

Il Foglio, 23 dicembre 2022)

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Israele, sulla riforma della ‘legge del ritorno’ si scontrano gli interessi di due comunità ebraiche

di Claudia De Martino

Il sesto governo Netanyahu non si è ancora insediato e già suscita una profonda diffidenza nella diaspora per la proposta avanzata dai partiti religiosi di riformare la “Legge del Ritorno” in senso maggiormente restrittivo. I tre partiti religiosi al governo – i due partiti ultraortodossi UTJ, il Partito Unito della Torah, e Shas, il partito haredi mizrahi, insieme al partito dei Sionisti Religiosi (ha-Zionut ha-datit), oggi fortemente in crescita – hanno infatti annunciato la loro intenzione di emendare la “Legge del Ritorno” nella sua versione del 1950, successivamente modificata nel 1970, che attualmente prevede il conferimento immediato – nell’arco di 24 ore dall’ingresso nel Paese – della nazionalità israeliana a tutti coloro che desiderino immigrare in Israele, che non pratichino già altra religione e vantino almeno un nonno (un parente di terza generazione) o un coniuge ebreo, anche se non considerati tali secondo la legge biblica (halachà, ovvero per via matrilineare).
  I tre partiti religiosi sostengono, infatti, che vi sia una quota crescente di nuovi immigrati, soprattutto provenienti dai Paesi dell’ex Urss e in particolare dall’Ucraina (sarebbero 75.000 solo nello scorso anno gli Ucraini arrivati nel Paese), che non sono effettivamente ebrei né si sentono tali, ma che sfruttano le maglie larghe della “Legge del Ritorno” per emigrare in Israele, considerato un posto sicuro, un Paese politicamente stabile e dall’economia fortemente attrattiva, che in più finanzia tutte le spese relative al trasferimento, al ricollocamento e all’alloggio dei nuovi migranti nel Paese. Tali partiti lamentano infatti che, in presenza di una quota così considerevole di non-ebrei nelle ultime ondate migratorie (pari al 50%), la tenuta sociale del Paese possa essere a rischio nel lungo periodo a causa della loro mancata integrazione nel tessuto sociale israeliano.
  Al contempo, questi stessi partiti non desiderano incentivare la loro conversione religiosa all’ortodossia, impendendo di fatto a quei nuovi cittadini russi o ucraini, bollati come non ebrei ma già presenti nel Paese, di sposarsi legalmente con altri concittadini in assenza dei requisiti religiosi per farlo, ma anche in assenza di alternative laiche, ovvero dell’introduzione del matrimonio civile, a cui sono fortemente opposti. Circa 500.000 persone si troverebbero oggi in Israele in questa difficile situazione di sospensione tra due mondi: detentrici della cittadinanza israeliana, non potrebbero, però, beneficiare di diritti minimi come la libertà di sposarsi in patria ed essere sepolte nei cimiteri di Stato, anche se pagano regolarmente le tasse e svolgono il loro servizio militare.
  Esiste, dunque, un ampio divario nelle definizioni concorrenti dell’identità ebraica date dallo Stato, per quanto riguarda il conferimento della cittadinanza, e dal Gran Rabbinato, per quanto riguarda la possibilità di espletare i riti di passaggio della vita in Israele senza essere soggetti a discriminazioni. Un divario che la nuova proposta dei partiti religiosi vorrebbe colmare, portando anche lo Stato ad adottare la definizione più restrittiva del Gran Rabbinato ultraortodosso, riconoscendo in materia di legge il primato dell’interpretazione rabbinica già maggioritaria e vincolante in Israele e, possibilmente, limitando la possibilità di conversioni non ultraortodosse, anche se attualmente ammesse dalla Corte Suprema (secondo la storica decisione del 2 marzo 2021).
  A questa revisione si oppongono soprattutto quei gruppi, come gli ebrei masoretici o conservatori e gli ebrei della Riforma, che appartengono ad altre confessioni ebraiche diverse dall’ortodossia, che vedono positivamente la conversione e l’ingresso di nuovi membri nelle loro fila e temono meno l’assimilazione e la contaminazione con altre fedi religiose, auspicando il pluralismo tra le diverse confessioni ebraiche e una serena coesistenza con i laici. Riformatori e conservatori sono, però, meno del 7% in Israele e, dunque, un “epifenomeno”, come dichiarato da Nathan Zauberman, rappresentante francofono del partito Sionista religioso, mentre le percentuali si invertono drammaticamente nel caso delle comunità della diaspora e, soprattutto, della influente comunità ebraico-americana, per oltre l’80% identificata con queste due correnti.
  Sulla questione della riforma della Legge del Ritorno si delinea, dunque, uno scontro tra le visioni e gli interessi di due comunità ebraiche – quella israeliana e quella americana, che insieme rappresentano la maggioranza dei 15,3 milioni di ebrei al mondo, con rispettivamente 7 milioni in Israele e 7,6 milioni negli Usa -, che gradualmente evolvono in due direzioni antitetiche, simboleggiate dalle immagini contrapposte nella politica Usa di uno Stato, Israele, che si tinge sempre più di un “rosso repubblicano”, aggressivamente nazionalista, e di una comunità ebraico-americana tradizionalmente liberal, dunque democratica, e oggi sempre più a sinistra, spostata su posizioni antidogmatiche in materia religiosa ma anche crescentemente critica dell’occupazione dei Territori e sensibile alle condizioni di vita e ai diritti dei Palestinesi.
  Dietro questa battaglia di definizioni, tutta interna all’ebraismo, si gioca la questione dei rapporti tra lo Stato di Israele e la diaspora, ma anche la tentazione di una parte dei partiti religiosi di destra, fortemente rappresentanti in questo nuovo governo, di affermare un esclusivismo ebraico in materia di diritti e religione che rompa con la tradizione liberal-democratica occidentale e che proponga un modello di società diversa, dai valori autoctoni, fortemente coesa e collettivista al proprio interno, ma del tutto incapace di tollerare le minoranze, incluse quelle ebraiche, in nome di un diritto assoluto a governare della maggioranza e di una concezione distorta della democrazia.

(il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2022)
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Il contrasto istituzionale tra Stato ebraico e Stato democratico è inevitabile per Israele. Ed è umanamente insanabile come il contrasto politico tra Stato d'Israele ed entità palestinese. M.C.

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Antisemitismo nelle scuole palestinesi: l’UE minaccia taglio fondi

Libri di testo antisemiti finanziati dalla UE che ora minaccia il taglio dei fondi all'Autorità Palestinese.

Il Parlamento europeo ha recentemente adottato una risoluzione che “condanna fermamente” l’Autorità Palestinese per l’incitamento alla violenza e all’antisemitismo nei suoi libri di testo scolastici.
  La risoluzione, adottata il 14 dicembre, sottolinea che l’Unione Europea sta attualmente finanziando questo materiale e che sarebbe costretta a sospendere i finanziamenti in caso di uso improprio.
  La risoluzione è stata sostenuta da un’ampia maggioranza di legislatori e faceva parte di una mozione riguardante le “prospettive per la soluzione dei due Stati”.
  I punti 28 e 29 riguardano il curriculum educativo palestinese, affermando che l’insegnamento finanziato dall’UE deve allinearsi agli “standard UNESCO di pace, tolleranza, coesistenza e non violenza”. L’UE dichiara inoltre di “condannare fermamente i discorsi di odio, la violenza e l’antisemitismo che continuano a essere presenti nei programmi scolastici dell’Autorità Palestinese”.
  Molti eurodeputati hanno sottolineato che se l’uso improprio dei fondi in questo modo dovesse persistere ancora, i finanziamenti dell’UE verrebbero sospesi a tempo indeterminato.
  L’europarlamentare Miriam Lexman, figura centrale del Partito Popolare Europeo (PPE) slovacco, ha definito i libri di testo palestinesi “un ostacolo fondamentale alla risoluzione del conflitto”.
   L’eurodeputato olandese Bert-Jan Ruissen, membro del Partito politico riformato, parte dei Conservatori e Riformisti europei, ha dichiarato:

“È troppo chiedere di allegare una clausola alle sovvenzioni all’Autorità Palestinese? Che ci siano garanzie che i nostri soldi non vadano alle organizzazioni terroristiche e non vengano usati per libri di testo che esaltano la violenza?”
Il Commissario europeo per l’Uguaglianza, Helena Dalli, ha dichiarato che è “essenziale” apportare modifiche significative ai programmi scolastici.
  In risposta alla decisione, l’Autorità palestinese ha dichiarato in un comunicato che “lo Stato di Palestina si rammarica profondamente ed è preoccupato per gli sforzi compiuti da alcuni ambienti del Parlamento europeo per iniettare false affermazioni e attacchi contro i bambini palestinesi, le istituzioni e l’UNRWA”.
  Da parte loro, anche Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha rilasciato una dichiarazione in inglese, condannando “falsità e posizioni” e accusando l’UE di “uno spaventoso pregiudizio a favore di Israele”.
  Vale la pena notare che gli stessi libri di testo sono utilizzati anche dall’UNRWA, che riceve il sostegno finanziario americano.
  Oliver Varhelyi, un commissario dell’UE che sta supervisionando la questione, ha dichiarato che una seconda revisione dei libri di testo è imminente e che saranno prese le misure appropriate se la situazione non cambierà.
  Da tre anni a questa parte, l’UE ha votato a favore di una clausola nel suo bilancio annuale, secondo la quale l’Autorità Palestinese deve essere “attentamente controllata” a causa della sua incapacità di agire efficacemente contro i discorsi d’odio.
  Marcus Sheff, direttore generale dell’organizzazione pro-Israele Institute for Monitoring Peace and Cultural Tolerance in School Education (IMPACT-SE), ha dichiarato: 
“Hamas e l’Autorità Palestinese sono in sintonia sull’insegnamento dell’antisemitismo e dell’incitamento alla violenza nelle scuole palestinesi”.
L’ONG con sede in Israele monitora i programmi scolastici di tutto il mondo per garantire che siano conformi agli standard dell’UNESCO.

(Rights Reporter, 23 dicembre 2022)

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L’antisemitismo è in crescita negli Stati Uniti e può far breccia nel mondo trumpiano

di Matteo Muzio

Dopo il triste record dell’anno scorso, anche il 2022 verrà ricordato come un anno nefasto per la diffusione degli attacchi antisemiti sul territorio americano.
  Secondo i dati raccolti dal Center for study of hate and extremism dell’università della California, sede di San Bernardino, dal 1° gennaio al 1° dicembre 2022 nelle grandi città è stato peggiore di quello precedente. E dire che spesso alcune polizie locali non rendono pubbliche le denunce per crimini d’odio: anche per questo non ci sono dati nazionali, ma soltanto quelli riguardanti le grandi città. Come ad esempio New York, dove sono avvenuti 260 crimini di matrice antisemita, rispetto ai 170 del 2021.
  Ma anche gli ottanta attacchi a obiettivi ebraici registrati a Los Angeles, rispetto ai 71 del 2021 testimoniano un trend preoccupante nelle aree metropolitane, anche se l’Fbi registra una tendenza opposta fuori dai grandi centri abitati: nel 2021 i crimini sarebbero fortemente calati, con 396 denunce riportate contro le 959 del 2020.
  Ad ogni modo parliamo di grandi numeri, dato che secondo l’Antidefamation League, un’associazione che monitora l’antisemitismo negli Stati Uniti dal 1979, nel 2021 c’è stata una annata ineguagliata per il numero di attacchi contro obiettivi ebraici.

• Chi c’è dietro gli attacchi
  Nel 2021, ad aver scatenato un picco di attacchi, fu il breve conflitto tra Israele e Hamas nella striscia di Gaza. Nonostante la presenza di un piccolo ma nutrito gruppo di antisemiti di sinistra, vicini alla causa palestinese, la maggior parte degli attacchi viene attuata da persone vicine al nazionalismo bianco di destra. Per questo motivo la scorsa settimana il presidente Joe Biden, dopo aver ascoltato numerosi appelli provenienti da più parti, tra cui quello del leader democratico al Senato Chuck Schumer, ha creato una task force per combattere l’antisemitismo composta dai membri dello staff del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e da quelli del Consiglio per le Policy Nazionali.
  Non è chiaro quali che siano i poteri di questa struttura formata di fresco, se non quella di tenere un filo diretto con le comunità ebraiche d’America e di raccogliere eventuali idee per riforme da implementare a livello federale, come quella proposta dal sindaco di New York Eric Adams che toglierebbe la possibilità del patteggiamento processuale per chi si macchia di un crimine d’odio.
  Anche se è difficile non pensare che tutto questo attivismo non sia stato scaturito dalla famigerata cena dell’ex presidente Donald Trump insieme al rapper e cantautore Ye, un tempo conosciuto come Kanye West, e al nazionalista bianco Nick Fuentes.

• Il trumpismo e l’antisemitismo
  Trump non è nuovo a intrattenere rapporti con estremisti di destra, del resto il mondo che gravita intorno a lui ha idee che sono largamente condivise nel mondo del nazionalismo bianco, ma c’è sempre stata presente una forte vena filosionista nel trumpismo ed è stata ricorrente nella sua retorica il riferimento a “Israele come faro della civilizzazione”.
  Adesso però la figlia Ivanka, convertita all’ebraismo per sposare Jared Kushner, ha deciso di non partecipare alla terza campagna presidenziale del padre e di certo Stephen Miller, uno degli ideologi più feroci dell’antimmigrazionismo totale, non è certo una garanzia contro la penetrazione di elementi antisemiti nell’entourage di Trump.
  Per questo quella cena ha avuto una vasta eco di condanna anche tra gli esponenti repubblicani: Nick Fuentes, del resto, è uno dei maggiori influencer antisemiti presenti in ciò che rimane dell’Alt-Right, un movimento estremista nato su Internet nei forum di politica del portale 4Chan nei primi anni Dieci del ventunesimo secolo.
  Per Fuentes, autodefinitosi «incel« e «asessuato», gli Stati Uniti dovrebbero superare la definizione conservatrice di nazione giudaico-cristiana e definirsi direttamente «bianca e cristiana». Prima di questo incontro, che Trump ha definito «avvenuto a sua insaputa», dato che non sapeva chi fosse quel giovane amico bianco di Ye, Fuentes era noto solo a pochi addetti ai lavori che seguono il radicalismo di destra.
  Non si può certo definire un successo la conferenza da lui organizzata con un titolo non certo originale come “America First” e che si è tenuta a Orlando lo scorso febbraio. Tra gli ospiti di rilievo, per così dire, c’era la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene che ha tenuto un discorso in presenza mentre l’unico altro eletto invitato alla conferenza, Paul Gosar dell’Arizona, noto per aver condiviso un anime nel quale un personaggio col suo volto uccideva una simil Alexandria Ocasio Cortez, ha mandato solo un videomessaggio.
  All’epoca nessun altro membro dell’entourage trumpiano si fece vedere in quello che la stampa definì in modo sbrigativo ma efficace «un raduno di neonazisti», mentre adesso c’è il timore che il mondo di Fuentes possa diventare una delle gambe del traballante tavolo che sostiene il trumpismo.
  Ci sono altri indizi oltre a questo, come ad esempio il fatto che il profilo di Fuentes su Truth Social, la piattaforma alternativa a Twitter costruita da Trump per diffondere liberamente i suoi messaggi, è stato verificato e approvato con tutti i crismi dell’ufficialità.
  Lo stesso Trump, negli ultimi mesi, si è lasciato andare a dichiarazioni improvvide sugli ebrei americani che non avrebbero “compreso” cosa è stato fatto durante il suo quadriennio per il benessere di Israele, tanto che l’ex presidente ha dichiarato che potrebbe facilmente diventarne il primo ministro.
  Anche in passato, del resto, Trump aveva condiviso dei meme ironici che usavano brutali caricature antisemite per satireggiare suoi rivali democratici come il senatore Bernie Sanders o l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Nonostante le sue relazioni familiari, quindi, non si può certo dire che Trump sia impermeabile a certi stereotipi antisemiti. E dato che in passato non si è certo fatto scrupolo di reclutare estremisti di ogni colore per sostenere la sua causa, non si può escludere che possa fare lo stesso con gli antisemiti alla Fuentes nel prossimo futuro.
  Del resto nel prossimo futuro dovrà affrontare una dura sfida con il governatore della Florida Ron DeSantis, suo ex alleato, e ogni voto sarà prezioso per riconquistare la nomination repubblicana. Anche se a quel punto bisognerà vedere se l’establishment repubblicano sarà disposto ad accettare per l’ennesima volta ulteriori svolte a destra del proprio programma.

(Domani, 23 dicembre 2022)

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Nasce un nuovo governo Netanyahu

Giuramento entro fine anno

Il premier incaricato Benjamin Netanyahu è riuscito a formare un nuovo governo in Israele poco prima della scadenza della mezzanotte. ''Grazie all'enorme sostegno della popolazione alle scorse elezioni, sono stato in grado di formare un governo che lavorerà per il bene di tutti gli israeliani'', ha scritto Netanyahu su Twitter annunciando di aver telefonato al presidente Isaac Herzog per informarlo. E spiegandogli che, oltre al Likud di cui è leader, nel nuovo governo saranno rappresentati Sionismo Religioso, le formazioni ultraortodosse Shas e Giudaismo unito nella Torah, Otzma Yehudit e Noam.
  Il Jerusalem Post spiega che la coalizione di governo cercherà di prestare giuramento entro la fine della prossima settimana, anche se l'ultima data per l'insediamento di Netanyahu è fissata per il 2 gennaio. Lo stesso giornale sottolinea che potrebbe volerci un'altra settimana per conoscere gli accordi finali.
  Ex primo ministro più longevo della storia d'Israele, Netanyahu ha vinto le elezioni del primo novembre alla testa di un'alleanza che ha conquistato 64 dei 120 seggi della Knesset. Malgrado la maggioranza in Parlamento, la formazione dell'esecutivo si è però rivelata molto complicata, evidenziando la debolezza politica di Netanyahu. Sotto processo per corruzione, 'Bibi' ha trovato infatti alleati solo all'estrema destra.
  Il presidente russo Vladimir Putin ha telefonato a Netanyahu per congratularsi per la formazione del nuovo governo, riporta l'emittente N12. Durante il colloquio i due leader hanno affrontato diverse questioni, tra cui la guerra in Ucraina, e Netanyahu ha espresso l'auspicio che possa terminare presto. Lo riporta il sito del Jerusalem Post.

(Adnkronos, 22 dicembre 2022)

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Netanyahu scioglie la riserva: formato il nuovo governo

• Le trattative
  Seguendo il complesso percorso della legge israeliana, Benjamin Netanyahu ha annunciato ieri notte al presidente Herzog di essere riuscito a formare la maggioranza di governo. Ora gli resta una settimana per presentarne composizione e accordi alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano. Dopo la fiducia, finalmente, dopo quattro anni, Israele avrà un governo con una maggioranza politica coerente. Anche se l’indicazione degli elettori era molto chiara, con una maggioranza di 64 seggi su 120 per il centrodestra impegnato a governare con Netanyahu, il percorso che ha portato al nuovo governo è stato piuttosto complicato, con trattative molto dure fra il Likud e i partiti minori, che avanzavano pretese molto onerose sia in termini di programma che di posti di governo. La destra sionista in particolare ha richiesto di avere la responsabilità politica degli apparati di polizia e dell’amministrazione di Giudea e Samaria. Ma alla fine un equilibrio si è trovato, grazie soprattutto alla leadership di Netanyahu: nel sistema politico israeliano il primo ministro ha poteri notevoli e non c’è dubbio che Netanyahu sappia e voglia esercitarli. Come ha anche ribadito Biden, la garanzia per gli alleati è lui.

• Le critiche
  Già prima della sua formazione il nuovo governo è stato oggetto a durissimi attacchi sia all’estero che in Israele. Gli esponenti dei partiti che avevano formato il precedente eterogeneo governo collassato a giugno, in particolare Yair Lapid, Benny Gantz, Avigdor Lieberman, hanno annunciato non solo ostruzionismo parlamentare, ma anche manifestazioni di piazza e chiesto alle autorità locali di rifiutare le disposizioni del nuovo governo. Da parte dell’Unione Europea e dell’amministrazione americana vi sono stati ammonimenti solenni e minacce di boicottaggio. Questa volta l’oggetto principale della polemica non è tanto Netanyahu, anche se proprio contro di lui si era formato negli ultimi anni l’opposizione di blocco che aveva impedito negli ultimi anni di costituire un governo secondo le indicazioni politiche costanti dell’elettorato israeliano, che da ormai da tre decenni presenta una chiara maggioranza di centrodestra. L’opposizione si concentra invece questa volta soprattutto contro gli alleati che hanno reso possibile questo governo, in particolare contro i due partiti religiosi, i quali chiedono, come hanno sempre fatto, che gli israeliani decisi a vivere secondo le norme e i costumi tradizionali siano messi in condizioni di farlo; e soprattutto contro il raggruppamento sionista religioso, che vuole una lotta più energica contro il terrorismo, difende le comunità ebraiche costruite oltre la “linea verde” (i limiti armistiziali del ‘49) e insiste nel bloccare l’appropriazione illegale da parte di gruppi arabi e beduini di terreno in Giudea e Samaria.

• Ben Gvir
  Nel mirino è soprattutto Itamar Ben Gvir, 46 anni leader del movimento sionista religioso Otzma Yehudit (“Forza ebraica”), che insieme ai “Sionisti religiosi” guidati da Bezalel Smotrich ha ottenuto il successo più significativo delle ultime elezioni, passando da sei a quattordici seggi (su 120) e consentendo così la nuova maggioranza. Ben Gvir è avvocato, impegnato soprattutto nella difesa degli abitanti dei villaggi oltre la linea verde ed è accusato dai suoi avversari di estremismo anti-arabo e “fascismo” (un termine che ha pochissimo senso dentro il contesto israeliano). Ma è molto popolare soprattutto fra i giovani per il coraggio delle sue prese di posizione e la sua presenza personale nei luoghi e nei momenti di conflitto. Ha ottenuto il ministero della sicurezza e una legge che permetterà al suo ministero di indirizzare le scelte della polizia rispetto all’ordine pubblico.

• Due visioni
  Invece di concentrarsi sulla personalità di Ben Gvir, Smotrich e Netanyahu, per capire la situazione politica israeliana bisogna capire che fra maggioranza e opposizione vi sono due visioni politiche molto differenti. La minoranza di sinistra propone una visione simile alla sinistra europea e americana: uno stato laico, multinazionale, pacifico, in cui la religione sia solo un fatto privato, che accolga facilmente gli immigrati quale che sia la loro cultura e nazionalità e sia disposto a favorire la costituzione di uno stato palestinese in Giudea e Samaria. La destra invece, con accenti diversi, vuole non solo uno stato degli ebrei ma uno stato ebraico, che garantisca una continuità nazionale e religiosa, pur rispettando i diritti individuali senza discriminare nessuno per la sua appartenenza etnica, sociale, religiosa o per l’orientamento sessuale; pensa che il progetto palestinista non sia focalizzato sulla costituzione di uno stato palestinese ma sulla distruzione di quello ebraico; protegge la popolazione ebraica insediata nelle comunità oltre la linea verde, crede che la pace possa venire soprattutto dagli accordi con i principali stati arabi, propone una lotta aggressiva ai nemici di Israele, siano stati o gruppi terroristi, diffida dell’attivismo di una magistratura quasi tutta allineata con la prima posizione.
  Il governo attuale esprime questa seconda visione, che è quella scelta largamente dall’elettorato. Anche nella minoranza vi sono forze che condividono buona parte di questa visione, per lo più moderando l’aspetto religioso; ma esse hanno preferito allearsi nell’ultima legislatura con la sinistra e anche con un partito arabo espressione della Fratellanza Musulmana, pur di sbarrare la strada al leader naturale della destra, che è ancora molto chiaramente Netanyahu. In democrazia di fronte a contrasti così netti la scelta spetta all’elettorato, che si è pronunciata con chiarezza. Il peso determinante di Ben Gvir e Smotrich deriva dalle scelte di chi in passato era stato eletto su posizioni di destra e poi si era allineato nello schieramento opposto (Bennett, Sa’ar, Liberman, in parte anche Gantz). Gli elettori hanno scelto i partiti che davano loro garanzie di un’energica difesa dello stato ebraico e il governo attuale risponde a questa scelta. Ogni possibile soluzione intermedia è stata bruciata dalla campagna contro Netanyahu. E questo è forse un bene, perché Israele avrà una politica chiara, senza essere paralizzato dai conflitti interni al governo, come spesso è accaduto in passato.

(Shalom, 22 dicembre 2022)

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Ripetere una menzogna all’infinito non la trasforma in verità

Affermare che Gesù era palestinese è falso, e sarebbe persino comico se non fosse anche offensivo.

Nel Nuovo Testamento non compaiono mai le parole Palestina e palestinese: vi si legge, invece, che Gesù nacque in Giudea, visse nella terra d’Israele e praticò il giudaismo. Ogni anno, specie in occasione delle feste cristiane, esponenti e mass-media palestinesi dicono e ripetono che Gesù era “palestinese”. Ma si tratta di una spudorata falsità in base a quello che tutti, e per primi gli stessi palestinesi, intendono per “palestinese”...

(israele.net, 22 dicembre 2022)

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Chanukkah: Pitigliano celebra la festa ebraica delle luci

Domenica 25 dicembre, alle 16.15, in piazza Garibaldi

Quest’anno la festa ebraica delle luci Chanukkah coincide con il Natale. Pertanto, Pitigliano il 25 dicembre festeggerà non solo il Santo Natale dei cattolici, ma anche la celebrazione religiosa ebraica, che dopo tanti anni viene riportata in piazza, grazie alla collaborazione tra associazione “La piccola Gerusalemme”, comunità ebraica di Livorno-Grosseto e Comune di Pitigliano.
  L’appuntamento è il 25 dicembre, alle 16.15, in piazza Garibaldi, per completare l’accensione del candelabro ad otto luci simbolo della festa che dura 8 giorni ed è iniziata la sera del 18 dicembre. Saranno presenti il Rabbino Capo della comunità ebraica di Livorno-Grosseto, Rav Avraham Dayan, l’amministrazione comunale, Elena Servi, presidente dell’associazione “La piccola Gerusalemme”. Parteciperà anche il vescovo della diocesi di Pitigliano, Monsignor Giovanni Roncari: “Insieme all’impegno diocesano per il dialogo e per le iniziative concrete ormai in essere da diversi anni anche a livello internazionale – afferma Monsignor Giovanni Roncari –, la coincidenza delle due feste fornisce un’occasione speciale per incontrarsi, pregare insieme e rinnovare il nostro impegno di amicizia e collaborazione“.
  “Per il Comune di Pitigliano – aggiunge il sindaco Giovanni Gentili – è importante mantenere vive le tradizioni della cultura ebraica che sono parte integrante del patrimonio di Pitigliano.“
  Chanukkah vuol dire inaugurazione o consacrazione ed è una festa che si collega ad un avvenimento particolare: “I greci seleucidi – spiega Elena Servi – erano un popolo di conquistatori che vivevano nell’area che corrisponde all’odierna Siria. Quando occuparono le terre degli ebrei, vollero imporre la loro religione politeista introducendo nel tempio le immagini degli dei. Per gli ebrei che credono in un solo Dio, spirito puro, i greci avevano commesso una profanazione. Un gruppo di ebrei, chiamati maccabei, guidati dal valoroso Giuda Maccabeo, si ribellarono e dopo una dura lotta durata tre anni, con l’aiuto di Dio, ebbero la meglio sui greci, riconquistando il tempio di Gerusalemme. Ma per riconsacrarlo, oltre a togliere le immagini degli idoli, avrebbero dovuto accendere la lampada perenne, che doveva ardere davanti al tabernacolo dove erano conservate le tavole della legge. Il sacerdote trovò nel tempio una sola ampolla di olio puro, che sarebbe bastata per accendere la lampada per un giorno, nonostante ciò, la luce durò 8 giorni dando così la possibilità ai sacerdoti di preparare altro olio. La festa Chanukkah dura appunto 8 giorni, per ricordare questo miracolo“.
  Portare la festa in piazza è un modo per rendere partecipe tutta la comunità di Pitigliano: “Uno dei precetti relativi alla festa – spiega Rav Avraham Dayan, Rabbino Capo della comunità ebraica di Livorno-Grosseto – è infatti quello di rendere pubblico il miracolo dell’olio, segno di speranza per la libertà di tutti gli uomini, nel reciproco rispetto. Per questo si usa accendere i lumi al tramonto o più tardi, quando c’è ancora gente nelle vie, vicino alla finestra che si affaccia sulla strada.
  Da anni in tante piazze italiane i lumi vengono accesi in presenza di numerosi intervenuti, per ricordare a tutti che la libertà deve essere un bene comune ad ogni essere umano. Particolarmente significativo, peraltro avvenendo in uno dei giorni più importanti per il mondo cristiano, è che questa bella festa approdi nella piazza di Pitigliano, che per la sua storia, quale ‘Piccola Gerusalemme’, è da sempre considerata un esempio di città del dialogo”.

(Grosseto Notizie, 22 dicembre 2022)

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Israele si risveglia dal suo incubo

Il professor Shmuel Shapira, che ha diretto l’Israel Institute for Biological Research dal 2013 al 2021, ha criticato il ministero della salute per i blocchi e la campagna di vaccinazione di massa.
  Shapira, che ha avuto lui stesso tre vaccinazioni, ha preso una posizione veemente su Twitter. Il governo israeliano afferma che il vaccino mRNA di Pfizer è sicuro ed efficace. “La scomoda verità sul vaccino è che non è né efficace né sicuro”, ha scritto il professore.
  “Ho sbagliato tre volte: al primo tiro, al secondo e al terzo. La gente dimentica che Israele si è offerto volontario per essere il laboratorio del mondo. Non c’erano quasi dati disponibili”, ha detto.
Una catastrofe globale. Il database del governo mostra un aumento del 10.000% delle notifiche di cancro dovute ai vaccini Covid.
Il professore ha sottolineato che i dati di un database governativo mostrano un aumento del 10.000% dei casi di cancro a causa dei vaccini contro il coronavirus.
  In un’intervista a Channel 12 lunedì, Shapira ha affermato che le sue critiche riguardano principalmente i vaccini mRNA e non tutti i vaccini corona. “Non sto suggerendo che il vaccino di Pfizer sia un falso totale, ma dubito che possa essere definito un vaccino”, ha detto.
  Il professor Shapira si rammarica di aver ricevuto il vaccino a mRNA di Pfizer. Il Ministero della Salute afferma di essersi arrabbiato così tanto sui social media perché il programma israeliano di vaccinazione contro il coronavirus che ha condotto è fallito.
  Il professore ha risposto che il vaccino dell’Istituto di ricerca biologica era buono, efficace e ha superato con successo le prime fasi, nonostante i tentativi di contrastare il programma.
  Dopo aver lasciato l’istituto nel maggio 2021, Shapira ha affermato di essere stato seriamente ostacolato dal governo nello sviluppo di un vaccino israeliano. Secondo lui, il ministero aveva cattive intenzioni.
  “Anche Israele si sta svegliando da questo incubo”, risponde lo statistico in pensione Herman Steigstra.

(GPNews, 22 dicembre 2022)
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E qualcuno si chiede perché su un sito dedicato a Israele si parli anche di vaccinazioni... Ah già, i no vax.

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Nella nostra indifferenza sta crescendo l'odio verso gli ebrei

di Andrea Molle

In questi giorni capita di attraversare i centri delle città o i sonnolenti quartieri delle periferie intravvedendo festosi addobbi natalizi. Ma qualche volta capita anche di osservare, sebbene sempre più raramente, che alcune case ospitano una serie di luci più piccole e più semplici: le candele di una Menorah molto particolare. Il candelabro ebraico con nove braccia che simboleggia la festa di Chanukkà, la celebrazione della vittoria dei Maccabei contro l'occupazione ellenista dell'antica Giudea e la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme.
  A Chanukkà abbiamo l'occasione per riflettere sulla storia ebraica, che spesso molti ignorano volontariamente, pensando a tutti i momenti in cui gli ebrei sono stati incredibilmente vulnerabili, attaccati e messi in schiavitù. Un giogo dal quale si sono liberati, mettendo a repentaglio la loro stessa vita. Una minaccia, quella della persecuzione che per gli ebrei mai scompare e che anzi, proprio quest'anno, fa più paura che mai. Negli Stati Uniti, il paese più tollerante nei confronti del popolo ebraico, l'organizzazione ADL che monitora l'antisemitismo nel paese, ha contato ben 2.717 incidenti. Un picco storico che vede un aumento del 34% rispetto all'anno precedente.
  Per non parlare poi della recente retorica antisemita portata alla ribalta da star come il cantante Kanye “Ye” West e il giocatore di pallacanestro Kyrie Irving. Quest'anno dunque mettere la Menorah alla finestre è assumersi il rischio di essere attaccati, ma al contempo è un segno di forza. Ma una Menorah alla finestra può fare davvero la differenza nella lotta contro l'antisemitismo? Certamente, come è stato dimostrato in passato. Ma solo se gli ebrei non sono lasciati soli. La domanda diventa cosa può fare allora la società civile per far sentire la comunità ebraica più sicura, in un momento in cui è sotto attacco da destra come (e forse di più) da sinistra?
  Esporre Menorot in spazi pubblici rafforza la solidarietà. È una dichiarazione contro l'antisemitismo e un segno di alleanza con gli ebrei, per non isolare il popolo ebraico. Ma è anche il riconoscimento che l'antisemitismo non colpisce solo gli ebrei, ma colpisce tutti, perché fa parte del pattume cospirazionista, che è la chiave di così tanto odio nella società contemporanea. Per questo l'antisemitismo non farà che aumentare senza l'intervento di tutti. E non si deve dimenticare che l'antisemitismo è la base di tutte le altre forme di odio etnico e razziale. Perché l'antisemitismo è il proverbiale canarino nella miniera di carbone.

(ItaliaOggi, 21 dicembre 2022)

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Un’isola di sale nel Mar Morto: un attrazione mai vista prima d’ora

C’è un’isola fatta interamente di sale nel Mar Morto. Per raggiungerla si deve nuotare in acqua con una concentrazione di sale del 34%.

di Daniele Paolucci

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L’isola salata del Mar Morto è un luogo interessante quasi da sembrare un miraggio. È un’isola privata fatta di sale che si trova nel mezzo del Mar Morto.
  L’isola è accessibile solo nuotando in uno degli specchi d’acqua più salati della Terra, con una concentrazione di sale del 34%, quindi non è affatto semplice raggiungerla. Ma per fortuna, alcuni fotografi coraggiosi hanno scattato delle immagini straordinarie dell’isola.

- L’isola di sale nel Mar Morto
  Per raggiungere questa isoletta occorrono circa 20 minuti di nuoto dalla spiaggia di Ein Bokek, in Israele, che dista circa 2 ore da Gerusalemme. Nuotare nel Mar Morto non è facile. Perché il sale spinge verso l’alto gambe e braccia.
  Il Mar Morto è in realtà un lago salato che si trova nel punto più profondo della terra, 415 metri sotto il livello del mare, e questa posizione rende l’acqua molto salata. 
  Il Mar Morto è sicuramente uno dei luoghi più mozzafiato del mondo e vale la pena visitarlo già solo per questo. Ma una volta arrivati, potrai ammirare incantesimi ancora più unici e bizzarri.
  Arrivare in questa isola di sale è un qualcosa di unico, un esperienza da vivere almeno una volta nella vita. Venendo qui, tutti rimangono perplessi su come un albero possa crescere in un luogo così salato che di base non consentirebbe la presenza né di animali e né di piante.
  In effetti, l’esistenza di un albero su questa isola è dovuta al fatto che alcuni uomini possono raggiungerla ogni giorno per nutrirlo e mantenerlo in vita.

- Isole rotonde, sentieri e spiagge
  Ma nel mezzo del Mar Morto ci sono anche altre isolette molto particolari. Un’altra delle meravigliose creazioni di Madre Natura. Queste isole rotonde di sale si trovano così vicino che puoi facilmente raggiungerle senza bagnarti dalla vita in su.
  Il momento migliore per fotografarle è subito dopo l’alba, quando l’acqua è calma e la luce è morbida. Questo consiglio vale per tutte le formazioni saline sul lato israeliano del Mar Morto.
  In più, sempre nelle vicinanze, si trova anche un sentiero salato che ti permetterà di camminare in lungo nelle acque del Mar Morto. Questo è estremamente bello e puoi arrivarci quasi senza bagnarti i piedi. È lungo circa 20 metri e visto dall’alto è veramente molto suggestivo.
  Invece trovare una bella spiaggia sul Mar Morto non è affatto facile. Ma grazie ai suoi folli livelli di sale, il Mar Morto ha creato una spiaggia salata molto alternativa. Sfortunatamente, non è la spiaggia dove puoi semplicemente sdraiarti e rilassarti perché è abbastanza “dolorosa”. Ma è comunque un qualcosa di meraviglioso per gli occhi.

(NanoPress Viaggi, 21 dicembre 2022)

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Dal pallone alla Torah. Intervista a Snir Gueta, il rabbino calciatore

Rav Snir Gueta, 34 anni, è un ex-calciatore professionista che ha militato nelle fila del Maccabi Haifa e Maccabi Netanya, prima di ritirarsi per dedicarsi agli studi rabbinici.
  Oggi studia tutto il giorno nel Kollel e la sera insegna. Lo abbiamo incontrato dopo alcune sue attività a cui ha partecipato durante il suo soggiorno romano, tra cui una serata al Tempio Beth-El e una visita alla scuola ebraica.

- Cosa l’ha spinta a ritirarsi in anticipo dalla carriera di calciatore per diventare rabbino?
  È una decisione che ho preso alcuni anni prima di lasciare calcio. Andavo spesso ad ascoltare lezioni di Torah e dopo un paio di  anni ho capito che quella era la verità. Era ciò che dovevo fare. Il Signore D-o mi ha aiutato in questa decisione.

- Lo sport può essere una piattaforma efficace per combattere l’antisemitismo ed il razzismo?
  Una persona che è antisemita fuori dal campo di calcio lo è anche sul campo di gioco, ma non ho mai sentito di simili problemi per quanto riguarda le squadre che conosco.
  Non so se lo sport possa riuscirci, perché alla fine ci sono sempre persone molto estremiste. Lo sport può dare qualcosa in più, ma non penso che abbia la forza necessaria per combattere qualcosa di così grande.

- Pensa che rispettare Shabbat e le festività ebraiche possa conciliarsi con le competizioni  calcistiche che spesso si svolgono durante i weekend?
  Dipende dal tipo di persona. Una persona già molto ortodossa non ha niente a che fare con il calcio, mentre una persona che si sta rafforzando, e che si vuole avvicinare a D-o può trovare una soluzione. Per esempio in Israele si deve trovare una soluzione poiché una grande parte della popolazione israeliana è tradizionalista, quindi si deve trovare un connubio tra Shabbat e calcio.

- Quest’anno la partita di Champions League Maccabi Haifa-Juventus si è svolta il 5 ottobre, ovvero il giorno di Kippur alla fine del digiuno. Come si può affrontare la questione?
  È chiaro che è un problema. Se un giocatore digiuna non può giocare la sera e se non si concede ad un giocatore la possibilità di digiunare il giorno più sacro per il  popolo ebraico, questo è sicuramente un problema.

- Come si combinano sport, competitività e religione?
  Riuscire ad avere successo nello sport come scopo nella vita non è adatto a chi è ultraortodosso. Soprattutto il calcio dà la sensazione ad un calciatore forte e famoso di essere come una divinità.

- Oggi ha incontrato i ragazzi della scuola ebraica. Come suggerirebbe ad un giovane di dedicarsi allo sport e allo studio della Torah?
  È molto individuale. Dipende. Alcuni ragazzi possono studiare di più e altri di meno. Un ragazzo che non riesce a dedicarsi allo studio è meglio che si dedichi di più allo sport invece che andare in giro e fare averoth (peccati).

- In che modo la sua vita da sportivo influenza il modo con cui si approccia oggi allo studio?
  Sicuramente la mia vita precedente ha una influenza importante sulla mia vita di oggi. Mi dà la forza di fare di più. Mi dovevo svegliare presto, avevo allenamenti duri. Sono molto abituato all’impegno. L’impegno che prima mettevo nello sport oggi lo metto nello studio.

- Gioca ancora a calcio ogni tanto?
  Certo che sì!

(Shalom, 21 dicembre 2022)

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Giorgia e l’ebraismo

Così la visita al ghetto è servita più al suo partito che a lei. Analogie e differenze con Fini.

di Simone Canettieri

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ROMA - Il giorno dopo la visita della premier, dalle parti del ghetto ebraico, gira questa riflessione: “Il gesto di Fini in Israele nel 2003 servì all’allora leader di An più che ad An. Fece un atto per cambiare se stesso, per affrancarsi definitivamente da una storia. Discorso diverso, invece, quanto è accaduto al Museo ebraico lunedì: Giorgia Meloni sta cambiando il suo partito, è un percorso che continua spedito, un processo da cui non si potrà tornare indietro”. La presidente del Consiglio e leader di Fratelli d’Italia alla cerimonia di Chanukkah si è commossa e ha abbracciato la presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello. Ha ribadito che le “leggi razziali furono un’ignominia”. Ha detto che “la cultura ebraica è parte di quella italiana”. Da quando è premier, nemmeno due mesi esatti, Meloni ha incontrato a Palazzo Chigi il presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder, e ha inaugurato la targa commemorativa dei giornalisti ebrei perseguitati dalle leggi razziali. Un’attenzione speciale che culminerà con un viaggio in Israele all’inizio dell’anno. Già a gennaio o al massimo a febbraio. Il percorso della capa della destra italiana non è stato facile e chissà se si è concluso del tutto. A precederlo, un reciproco processo di metabolizzazione da ambo le parti: quella di Fratelli d’Italia e quella della comunità ebraica. Basti pensare che nell’ottobre del 2021, a pochi giorni dal voto per le comunali di Roma, saltò all’ultimo momento la sua visita al ghetto, in occasione dell’anniversario del rastrellamento. Erano i giorni in cui il candidato del centrodestra Enrico Michetti sosteneva che “per gli ebrei c’è stata più pietà perché avevano le banche”. Ma erano usciti anche i video del capo della delegazione di Fratelli d’Italia in Europa, Carlo Fidanza, mentre inneggiava alla birreria di Monaco di Hitler con tanto di saluto romano. Alla fine la comunità ebraica della capitale, la più antica d’Europa, decise che non fosse ancora il momento di ospitare la visita della leader di destra. Serviva “un’ulteriore riflessione”. Per evitare reciproche strumentalizzazioni, fu la versione diffusa al tempo.
  La marcia di addio dal sospetto e dalla accuse di nostalgia fasciste del partito meloniano è andata avanti però spedita, in questo ultimo anno, cruciale ai fini elettorali. Fra frenate e accelerazioni. Come dimostra la candidatura alle ultime elezioni politiche di Ester Mieli, giornalista, già portavoce della comunità ebraica della capitale. Meloni non entrava nel ghetto da quando era ministro della Gioventù del governo Berlusconi. All’epoca fece parte della delegazione che partecipò a un evento nel Tempio. L’altro giorno dunque c’è stata una visita che ha dello “storico”, arricchita dal dettaglio sincero delle lacrime, con tanto di abbraccio alla padrona di casa. Fotogrammi che l’hanno subito accostata, per potenza delle immagini a quelli di Gianfranco Fini, molti anni prima. Meloni si è trattenuta anche dopo la cerimonia, quando ormai la diretta video era terminata, per una trentina di minuti. Riempita di dolcetti ebraici si è concessa anche una battuta: “E ora dove li metto? Non posso uscire da qui con una doggy bag, altrimenti vai a capire i giornali che scriverebbero”.
  Il tutto si è svolto comunque in un clima “molto disteso”. Lei e Dureghello sembrano avere anche una consuetudine telefonica e un’intesa “da donna a donna”. L’incontro è andato in scena in una cornice geopolitica sfuggita ai più. La premier si è portata con sé i pezzi più importante della sua famiglia politica. E cioè di Fratelli d’Italia: il ministro plenipotenziario Francesco Lollobrigida e il sottosegretario a Palazzo Chigi, braccio ambidestro, Giovanbattista Fazzolari. Alla cerimonia c’erano, tra gli altri, l’ambasciatore israeliano Alon Bar e quello facente funzioni degli Usa Shawn Crowley. Ecco perché nel breve discorso la premier ha parlato anche di guerra in Ucraina. Per dare evidenza, pure in questa occasione, della collocazione italiana nel patto euro-atlantico. Piccoli segnali convinti e non per piacere, comunque molto apprezzati. E che scavano all’interno della destra italiana più che nei rapporti fra il governo e Israele. Meloni ha un rapporto con Benjamin Netanyahu e all’ultima Cop27 ha incontrato il capo di stato Isaac Herzog. Discorso diverso sono le abiure, le lacrime e le condanne per un pezzo di storia del Novecento. Ecco perché, come ragionano dalle parti della comunità ebraica, “la visita dell’altro giorno non è servita a Giorgia come leader, ma più che altro al partito che guida come monito”.

Il Foglio, 21 dicembre 2022)
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Giorgia e Ruth: due "romane de Roma", Presidente del Consiglio della nazione con capitale in Roma l'una, Presidente della Comunità ebraica con sede in Roma l'altra. Incontro "storico", dice qualcuno. In ogni caso incontro significativo, molto più di quello che ci fu anni fa tra il Papa della Chiesa Cattolica Romana e il Rabbino Capo della Comunità Ebraica Romana. Allora fu un incontro artificioso tra "religioni" nel mondo, oggi è un incontro meno pretenzioso ma più umano tra due presenze politiche in una medesima nazione. Due donne che meritano rispetto, per quello che sono personalmente e per le posizioni che occupano. M.C.

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Meloni, Hanukkhah e l’antisemitismo moderno. Parla Bendau

Il saggista: “Meloni ha dato un segnale importante e positivo. E ha fatto bene a sottolineare che l’equivalenza tra identità-intolleranza-autoritarismo, che taluni hanno fatto diventare luogo comune, è insidiosa e fallace”. E sul Monte del tempio: “La negazione della storia ebraica, della sacralità del luogo e del suo valore identitario per gli ebrei, antichi e contemporanei, è parte significativa del problema”.

di Federico Di Bisceglie

Giorgia Meloni ha preso parte all’accensione della lampada di Hanukkhah, la “festa delle luci”. Questa festa celebra la resistenza ebraica contro l’ellenizzazione forzata, la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme profanato dall’imposizione di culti pagani, la tenacia di pochi che sfidarono la forza dei molti. Contestualmente, la Presidente del Consiglio ha condannato ancora una volta il fascismo e la normativa razziale. Formiche.net ha raggiunto il saggista Vittorio Robiati Bendaud per approfondire il significato di quest’incontro e non solo.
  “Mi hanno chiamato degli amici dicendomi che la presidente sarebbe intervenuta e ho ascoltato il suo intervento” – risponde Vittorio Robiati Bendaud, studioso e saggista co-autore della postfazione al libro “Il Monte del Tempio” (Guerini&Associati) di Yitzhak Reiter e Dvir Dimant -. “Ha dato un segnale importante e positivo. E ha fatto bene a sottolineare che l’equivalenza tra identità-intolleranza-autoritarismo, che taluni hanno fatto diventare luogo comune, è insidiosa e fallace. Ho apprezzato che, da una prospettiva laica e istituzionale, abbia sottolineato che l’ebraismo è parte fondante e irrinunciabile della società e della cultura italiana, che ha contribuito e contribuisce a plasmare. Hanukkhah è una festa di libertà: politica e religiosa. E la libertà ha dei costi, e non è scontata né autoevidente, come evidenziato dalla presidente del Consiglio. È una delle feste più identitarie del popolo ebraico, eppure ha una dimensione universale straordinaria: una lezione di libertà e indipendenza; di libertà religiosa, culturale e nazionale.
  Si tratta di una lezione “calda” per la nostra attualità: si pensi ai musulmani perseguitati in maniera totalitaria dal regime cinese; all’attuale persecuzione, anche in questi giorni, della piccola enclave armena nel Caucaso da parte di democrature politiche-religiose guidate da leader tremendi sì, ma abili calcolatori e raffinati strateghi, che riescono a mettere sotto scacco molti Paesi occidentali; al Qatargate (che, con ogni probabilità, è la punta di uno spaventevole e immane iceberg), con tutti i finanziamenti in Occidente alla politica, come pure, e ancor più, a moschee fondamentaliste e a singoli politici, intellettuali nostrani, dipartimenti universitari pronti a vendersi; alla distruzione quasi totale del cristianesimo iracheno-siriaco perpetrata solo pochi anni fa dall’Isis e, parimenti, al genocidio degli yazidi di cui ormai nessuno parla più”.

- Alla presidente del Consiglio è molto caro il tema dell’identità, anche culturale e nazionale. Che ne pensa?
  Esprime una linea di pensiero, quella del conservatorismo libertario-liberale, estremamente florida, interessante e degna, che in Italia fa fatica a decollare (mirabile, al riguardo, l’esperimento culturale promosso dal professor Giuseppe Valditara con Lettera 150), tra accuse farneticanti e strumentali di “fascismo” da parte di certa sinistra e rigurgiti o tentazioni di “vecchio fascismo”, mai scomparso, in certuni ambienti di destra. L’antisemitismo, però, è trasversale a questi due mondi, specie per quello che concerne la sua declinazione antisionista, ma non solo. Non è questo il caso, però, a fronte di anni di pubbliche e ferme prese di posizione al riguardo, né di Giorgia Meloni né di Matteo Salvini. Il loro compito, come per gli esponenti della sinistra, è di vigilare molto attentamente e prontamente in proposito nei ranghi dei rispettivi partiti e nell’elettorato passivo.

- Giorgia Meloni invitò a Roma Yoram Hazony, il pensatore israeliano, formatosi anche negli Stati Uniti, autore de Le virtù del Nazionalismo (Guerini & Associati).
  Fui io a volere la traduzione italiana di quel libro e a tradurlo, d’intesa con l’editore Angelo Guerini, recandomi a Washington per il primo convegno del National Conservatorism, assieme all’amico Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica di Milano. L’intervento inaugurale fu di Peter Thiel, che è gay. Una forma di conservatorismo liberale e libertario, che, come tale, aborrisce e combatte razzisti, omofobi e antisemiti, per intenderci. Tempo dopo, Giorgia Meloni invitò in Italia Yoram, promuovendo questo libro, che offre buoni e significativi spunti di riflessione.

- Lei condivide appieno l’opera di Hazony?
  È un testo importante, che andrebbe letto. Credo che su alcune tematiche quantomeno smascheri dei cortocircuiti, che già non è poco. Ciò premesso, nessun libro, fortunatamente, esaurisce questioni immense e inesauste come quelle concernenti “impero” e “nazione”. Ci accosterei, culturalmente e politicamente, Harry Frankfurt, Roger Scruton, ricordato da Giorgia Meloni al momento del suo insediamento, e Douglas Murray.

- Hanukkah rinvia a Israele, a Gerusalemme e al Tempio – di Salomone prima ed erodiano poi -. La Guerini & Associati ha appena pubblicato il libro “Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia contesa”, degli studiosi israeliani Reiter – intellettuale di sinistra – e Dimant, con postfazione dell’illustre scrittrice Antonia Arslan e sua. Ce ne può parlare?
  Si tratta di un libro eccellente, al contempo di ricerca accademica e di alta divulgazione culturale, che andrebbe letto da politici, giornalisti e docenti, anche per evitare sproloqui. Apprendiamo da esso che le fonti islamiche classiche, qui ampiamente documentate, dalla nascita dell’Islam sino agli albori del XX secolo, riallacciavano la narrazione islamica a quella ebraica, santificando quel peculiare luogo, così caro anche all’Islam, proprio perché indissolubilmente legato alla precedente e continuativa storia ebraica, in qualche modo accettata dall’Islam tradizionale. Dopo gli anni ‘20 e, in particolare, dopo la Guerra dei Sei Giorni, per ragioni teologico-politiche, le dirigenze islamiste hanno diffuso una Storia alternativa, cancellando o minimizzando quella ebraica (e cristiana).
  Questa riscrittura della Storia non solo contraddice grossolanamente la realtà dei fatti, ma persino la storia e le stesse fonti islamiche classiche: la negazione delle radici ebraiche dell’Islam, insomma, arreca danno anche all’Islam e ai musulmani, oltreché agli ebrei, rafforzando gli estremisti e alimentando disinformazione ed equivoci. Tengo a precisare, tuttavia, che, per quanto il crinale sia potenzialmente scosceso, questo testo è molto importante proprio perché è estremamente onesto, puntuale e ampiamente documentato, rifuggendo polemiche e invitando, non alle animosità, ma allo studio, alla comprensione, alla riflessione e al rispetto dall’altro, inteso anche come alterità religiosa.

- C’è alta tensione sulla questione del Monte del Tempio.
  Ovvio, purtroppo. Perché è il luogo dove i non-detti e i cortocircuiti strutturali tra i tre monoteismi da carsici diventano manifesti e tangibili. La negazione della storia ebraica, della sacralità del luogo e del suo valore identitario per gli ebrei, antichi e contemporanei, è parte significativa dal problema.

- Ma ci sono anche gli estremisti ebrei, però.
  Certo, e perché non dovrebbero esserci? Appartenere all’ebraismo o a una qualsiasi minoranza umana – religiosa, politica, etnica, di preferenza sessuale – (come pure a maggioranze) e rivendicarlo non significa in alcun modo avere ipso facto la patente della bontà, della maggiore sensibilità o di particolare liberalità. Ciò premesso, gli estremisti ebrei – una sparuta minoranza, per la verità – che vorrebbero ricostruire il Tempio sono avversati dai pronunciamenti ufficiali del Rabbinato Centrale di Israele, che si è espresso chiaramente e più volte in senso contrario. Ove il problema vi sia (e c’è), va monitorato e affrontato con ferma intransigenza, specie laddove vi siano ammiccamenti con la politica o riscuota alcune simpatie in ambienti più vasti. In Israele, comunque, i terroristi ebrei sono motivo di sconforto e inquietudine per la nazione e vengono giustamente condannati dal sistema di diritto; altrove, in varie parti del mondo, per quel che riguarda l’Islam radicale, sono considerati eroi o martiri, a danno in primis dei musulmani. Questa la differenza fondamentale.

- Lei crede nel dialogo con l’Islam?
  L’Islam è una tradizione religiosa e culturale plurale, ricchissima e gloriosa, spaziante dalla mistica all’arte, che abbraccia secoli, e che meriterebbe di essere conosciuta meglio da tutti. L’Islam deve molto all’ebraismo e l’ebraismo deve molto all’Islam, come pure la lingua e la grammatica ebraiche a quella araba, tra loro sorelle. Prima – o con – del dialogo viene il rispetto. Ebrei e musulmani dovrebbero dialogare molto di più, laddove dialogo deve significare anche dissenso; se regge il dissenso, il dialogo funziona. Tale dissenso però non deve essere strumentale, per cancellare o sopraffare, ma leale, per affermare una differenza sostenibile. Sono fermamente convinto che l’Islam, i Paesi islamici e i musulmani, e con loro l’ebraismo e lo Stato di Israele, hanno oggi tutti eccezionale interesse a continuare a dialogare o a iniziare a farlo, anche nel segno degli Accordi di Abramo.

- E circa l’Unesco e le sue controverse delibere sul monte del Tempio e la spianata delle moschee?
  L’Unesco, dietro pressione di molti governi arabi o islamici, ha portato avanti questa linea negazionista (e quindi antisemita) della storia ebraica e mondiale, peraltro innescando una crisi al suo interno. Certo servivano altri voti, ossia quelli degli Stati che si sono prestati a una riscrittura ideologico-politica della Storia – ebraica, cristiana e islamica, dell’Occidente e dell’Oriente musulmano al contempo – per ideologia antisraeliana, per ignoranza e impreparazione, per dimenticanza colpevole della propria storia, per business… E vi furono poi gli Stati astenuti: il caso ignominioso del nostro Paese. Come se Giuseppe Verdi, per fare un esempio celeberrimo, non avesse fatto iniziare il Nabucco, opera così sacra e vitale per la storia dell’Italia libera e unita, proprio all’interno del Tempio di Gerusalemme! Fu ignavia diplomatica? Personalmente l’ho vissuto come un doppio tradimento: dell’ebraismo e della storia di Italia, entrambi svenduti e ipotecati.

- Politicamente è la linea più diffusa nella sinistra italiana.
  È tristemente vero, ed è motivo di grande preoccupazione. C’è, tuttavia, sinistra e sinistra! Piero Fassino, Vannino Chiti, Irene Manzi, pur provenendo da storie politiche diverse, sono confluiti nel PD e hanno cercato di mantenere posizioni equilibrate o di sincera amicizia e leale sostegno a Israele. Ciò, ancor più, vale per il senatore a vita Giorgio Napolitano, come pure per il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ciò premesso, Matteo Renzi ha giustamente posto, con efficacia, la questione dell’antisemitismo di sinistra. E ha fatto molto bene! Recentemente, ad Assago, si è svolto un incontro filopalestinese dal titolo “Gerusalemme è nostra”, a cui presero parte anche taluni politici italiani. È stato il senatore Ivan Scalfarotto, uomo di sinistra, a cui vanno la gratitudine e la stima mie personali e di tanti ebrei italiani e non solo, che con coraggio, lungimiranza, prontezza e determinazione ha denunciato la questione, facendo opportunamente scoppiare il caso.

(Formiche.net, 20 dicembre 2022)

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Meloni commossa al Museo Ebraico per Chanukkà

“Ebrei parte fondamentale dell'identità italiana. Le leggi razziali un’ignominia”

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Il Primo Ministro Giorgia Meloni al Museo ebraico ha partecipato commossa all’accensione della Channukkià, accolta dalla Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello e dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni. Presente anche il sopravvissuto alla Shoah Sami Modiano. “L'identità non è escludente. Voi siete una parte fondamentale dell'identità italiana. E questo significa che l'identità non è qualcosa che esclude, ma che aggiunge e rafforza tutti quanti”: queste le parole del premier, che con questa visita ha anche ribadito che le leggi razziali del 1938 “furono un’ignominia”.
  La cerimonia è stata toccante, sia per la solennità della festa, sia per il coinvolgimento del Presidente del Consiglio, la quale ha affermato che “le tenebre del mondo non spengono la luce”, alludendo ai lumi del candelabro a nove braccia simbolo della ricorrenza.
  Giorgia Meloni si è detta “molto contenta di essere qui per questa cerimonia, perché ho riflettuto sui tanti significati che sono raccolti in queste celebrazioni e penso che occorra dare a questi insegnamenti la massima divulgazione”, aggiungendo che “la storia di questa festa è una festa di coraggio, di un popolo che difende la sua identità, le sue tradizioni, la fede”; cose che al momento “vengono considerate troppe spesso un ostacolo o un nemico. Io penso che senza quello che ci portiamo dietro, noi non possiamo avere né la forza né la consapevolezza per affrontare le sfide che abbiamo di fronte”.
  Infine Giorgia Meloni ha annunciato un viaggio in Israele entro il prossimo anno.

(Shalom, 20 dicembre 2022)


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Le lacrime di Meloni e la riconciliazione alla festa ebraica

di Elena Loewenthal

Alla fine, anzi all'inizio, la storia nelle feste ebraiche è sempre un po' la stessa: «hanno provato a sterminarci, siamo sopravvissuti e ora tutti a tavola». Questa è una vecchia battuta di spirito che però ben si attaglia anche ai giorni di ricorrenza che stiamo vivendo questa settimana e che il premier Giorgia Meloni ha voluto condividere con la sua presenza all'accensione delle candele di Chanukkah ieri a Roma. Questa festa ricorda infatti la reinaugurazione del Tempio di Gerusalemme dopo che era stato violato dal paganesimo ellenista, ma soprattutto il miracolo di quell'orciolo d'olio rimasto per illuminare il Tempio che bastò per otto giorni invece che per pochi istanti.
  Una sorta di moltiplicazione della luce così come è narrata nei libri dei Maccabei e ripetuta quasi all'infinito nelle case ebraiche, raccontata ai propri figli perché non dimentichino il dolore della sconfitta e la paura di essere annientati insieme alla forza di una salvezza che prima o poi arriva. Non a caso questa festa cade in questa stagione, in cui la luce è più preziosa: l'albero di Natale e il candelabro di Chanukkah non sono poi così distanti l'uno dall'altro. La festa è anche l'unica che va resa pubblica, raccontata a chi non è ebreo per condividerne il miracolo: è prescritto infatti che le candele siano visibili alle finestre delle case o accese sulla piazza. In questo senso, pur essendo una festa cosiddetta minore, Chanukkah ha assunto nella storia un significato profondo di condivisione della memoria e della fede – a dispetto di millenni di barriere imposte alle comunità ebraiche in tutta la Diaspora e più che mai in quella europea.
  Il gesto di Giorgia Meloni, la sua presenza all'accensione delle candele (ogni sera per otto giorni se ne accende una in più), ha non solo il significato di un incontro pubblico e di una riconciliazione importante simboleggiata dal dialogo con Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana che, non dimentichiamo, è la più antica d'Europa e non solo. È anche la consapevolezza di un cammino che, seppure fatto a ritroso prima verso la memoria della Shoah con le parole che il Presidente del Consiglio ha speso nei confronti delle leggi razziali e delle persecuzioni nazifasciste e ora condividendo la rievocazione e la gioia di questa festa invernale, è di fatto tutto rivolto a un futuro di dialogo e coscienza condivisa. L'assunzione di responsabilità verso il passato – che, beninteso, nulla ha a che vedere con la colpa ma è anzi il principio fondamentale per cui la storia ci appartiene e noi apparteniamo alla storia – è infatti lo strumento primo per affrontare il presente ed educare a un futuro di civiltà. Questi passi del premier, condotti uno per volta ma in una direzione che non si può non definire quella giusta, di coscienza e rispetto, rappresentano nel loro insieme un percorso importante di cultura, civiltà e buona politica.

(La Stampa, 20 dicembre 2022)

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Per la "Khanukkà" giovedì nella Sinagoga Scolanova l'accensione della quinta candela

Sarà possibile assistere al rituale che ricorda un miracolo avvenuto nell'antichità

di Stefania De Toma

Sinagoga Scolanova
Visitare la sinagoga Scolanova nel cuore di un rituale suggestivo e che affonda le radici in un miracolo avvenuto ai tempi di Antioco IV, il re che voleva costringere gli ebrei a convertirsi all'idolatria greca: sarà possibile giovedì a partire dalle 18,00 nella Sinagoga di Scolanova, per l'accensione della quinta delle otto candele che da domenica scorsa fino a domenica prossima viene accesa su ognuno dei limiti di una lampada a otto braccia.
  "È un'occasione per far conoscere anche ai fedeli di altre religioni la nostra storia, i nostri rituali, ma anche la Sinagoga di Scolanova che molti -soprattutto giovani - non conoscono, se non dall'esterno": così Michele Parisi, fiduciario della comunità ebraica di Napoli che è responsabile della Sinagoga Scolanova.
  Un'apertura alla conoscenza e al rispetto reciproci particolarmente importante ancor più se si tiene conto di quanto la cultura ebraica sia radicata nella storia di Trani e che la potenza economica della Città fiorì nel Mediterraneo proprio a partire dall'insediamento degli ebrei a Trani dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dell'imperatore romano Tito . Molti cittadini ignorano il fatto che ancora oggi Trani, con le sue quattro sinagoghe (benché solo una sia aperta al culto ma di cui un'altra sia sede dell' interessantissimo Museo Sinagoga Sant'Anna ), sia meta di visita da ebrei da tutto il mondo - lo scorso anno arrivò anche l'ambasciatore di Israele nella Città - nonché importante centro internazionale di studi della cultura ebraica.
  L'evento miracoloso da cui nasce la festa di Khanukkà si verificò nel 165 a.e.v.; il re Antioco IV, che dominava la Giudea, cercò di imporre agli ebrei la cultura greca.
  Per costringerli ad abbandonare Dio e diventare idolatri giunse a porre gli idoli nel Santuario e a consacrare un altare del Tempio a Zeus.
  La situazione era molto pericolosa poiché il popolo ebraico rischiava di scomparire inghiottito dall'ellenismo; mentre alcuni si lasciarono assimilare, però, altri si ribellarono. Tra i capi della rivolta vi erano i Maccabei, che sotto la guida di Yehudà Maccabei, riuscirono a liberare Gerusalemme e il Tempio dal dominio straniero. Gli ebrei ripulirono e consacrarono nuovamente il Tempio al servizio divino. I sigilli apposti sulle scorte d'olio d'oliva puro erano stati infranti e, pertanto, resi impuri dagli invasori. Al momento di accendere la Khanukkià (candelabro), trovarono soltanto una piccola ampolla d'olio d'oliva puro, chiusa con il sigillo del Sommo Sacerdote, che sarebbe bastata per un solo giorno. Miracolosamente, l'olio durò otto giorni, il tempo necessario per preparare l'olio nuovo.
  In ricordo di questo miracolo i maestri istituirono la festività di Khanukká . Per commemorare il miracolo, a partire dal 25 di kislév (calendario ebraico) ogni sera per otto giorni si accendono i limiti di una lampada a otto braccia chiamata khanukkiyà.

(Trani Viva, 20 dicembre 2022)

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Cruciverba ricorda una svastica, bufera social sul New York Times

Nel suo commento pubblico, il creatore del cruciverba si diceva "entusiasta" per la pubblicazione del suo primo puzzle domenicale sul NY Times, spiegando di avergli dato "una divertente forma a vortice".

Il New York Times nella bufera per aver pubblicato un cruciverba che secondo alcuni ha la forma di una svastica, tra l'altro nel giorno precedente la prima notte di Hanukkah. Tra i commenti sui social quello di Donald Trump Jr, che lo ha definito "disgustoso". 
Anche sul sito del quotidiano sono comparse numerose critiche: "A chi importa se è stato 'non intenzionale'? Non è a questo che servono gli editori?", scrive uno dei tanti utenti che chiedono al giornale di intervenire. Nel suo commento pubblico, il creatore del cruciverba si diceva "entusiasta" per la pubblicazione del suo primo puzzle domenicale sul NY Times, spiegando di avergli dato "una divertente forma a vortice".
Un portavoce del quotidiano ha assicurato che si tratta “di un comune disegno di cruciverba: molte griglie aperte nei cruciverba hanno un simile schema a spirale per le regole sulla simmetria rotazionale e i quadrati neri”. Ma le sue parole non sono bastate a placare ira e sospetti.  

(TODAY Mondo, 20 dicembre 2022)

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Scommessa su Eilat, l’altro Mar Rosso: nuovo volo diretto dall’Italia a Israele

Sarà il nuovo volo diretto Roma-Eilat operato da Wizz Air a consolidare l’immagine sul mercato italiano di Eilat, centro balneare del Mar Rosso israeliano.   
  “Eilat è una destinazione in ascesa, perfetta - ha spiegato la direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano del Turismo, Kalanit Goren, in occasione di un evento a Roma - per soddisfare le esigenze delle famiglie con bambini, ma anche dei giovani. È uno dei principali centri turistici d’Israele, già conosciuto dai mercati internazionali, soprattutto da quelli scandinavi, che ora anche agli italiani avranno l’opportunità di apprezzare per il suo mare, le escursioni nel deserto del Negev, ma anche come base per risalire il Paese fino a Gerusalemme o Tel Aviv”.  
  A testimoniare l’importanza crescente di quest’area, la realizzazione del nuovo resort ‘Midbar’ - deserto in ebraico –, frutto di un investimento di circa 60 milioni di euro, che sarà aperto nel 2025. E l’inaugurazione nel 2023 di Waterland, il più grande parco acquatico del Middle East.  
  Attivo dallo scorso 17 dicembre, il Roma-Eilat di Wizz Air viene operato due volte a settimana, il martedì e il sabato, ma le possibilità di raggiungere Israele, ha evidenziato la direttrice dell’ente, non sono mai state così tante: “Oggi abbiamo oltre cento voli diretti alla settimana con l’Italia. Questa offerta ampliata di voli risponde a una domanda di viaggi che è tornata a crescere. Lo dimostra il fatto che solo a novembre i visitatori italiani sono stati oltre 11mila e che l’Italia si posiziona al sesto posto tra i mercati più importanti”.

(TTG Italia, 20 dicembre 2022)

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A Berlino torna la Chanukkià della foto di Posner: portò la luce nel buio della storia

C’è una Chanukkià nella storia contemporanea che ha un valore particolare. È quella della celebre foto scattata in Germania, a Kiel, nel 1931, da Rachel Posner, moglie del rabbino Akiva Posner. È un’immagine iconica perché simboleggia la sfida, la volontà di mantenere i valori e l’identità dell’ebraismo, contro l’affermarsi del nazismo in Germania.
  I Posner riuscirono a fuggire verso la Palestina mandataria e a quasi novant’anni dopo la Chanukkià di Kiel viene accesa a Berlino, come a dire che la luce ha vinto sul male: all’accensione saranno presenti anche i nipoti dei Posner e il Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier.
  La Chanukkià arriva da Gerusalemme, perché fa parte della mostra permanente del memoriale della Shoah Yad Vashem. Ma prima di arrivare a Berlino, il candelabro a nove bracci è stata ospitata in una mostra a Kiel, dove, attraverso la sua storia, si è potuto approfondire quella della famiglia Posner.
  Akiva Posner, rabbino a Kiel dal 1924 al 1933, si attivò subito contro l’odio anti ebraico ed esortò gli ebrei a fuggire dalla Germania. La famiglia Posner arrivò nella Palestina del mandato britannico con i loro tre figli. La foto della Chanukkià catturò l’attenzione di mezzo mondo nel 1974, quando a Rachel fu chiesto dal museo di Kiel oggetti che raccontassero il quotidiano degli ebrei di Kiel.
  "Rachel ha inviato loro circa 17 delle sue fotografie della vita di tutti i giorni - ha detto al The Guardian Yehuda, uno dei nipoti dei Posner - L'immagine della finestra era solo una di queste, ma è quella che ha colpito maggiormente le persone". Da quel momento la foto ha iniziato ad arrivare in molti Paesi del mondo, diventando un simbolo di resistenza ebraica. Un simbolo di luce che illumina il buio della storia.

(Shalom, 19 dicembre 2022)
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Berlino e la Chanukkià. Oggi


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Berlino, Scholz incontra i bambini ebrei in occasione di Hannukah

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha celebrato la festa di Hannukkah con la comunità ebraica di Berlino in una scuola della capitale. La festività è iniziata domenica e durerà fino al 26 dicembre e ricorda la liberazione dagli Elleni nel secondo secolo A.C. ed è caratterizzata dall'accensione dei lumi di un particolare candelabro a nove braccia.
  "La festa delle luci mostra la vivacità della vita ebraica in Germania, un vero regalo e un miracolo, pensando all'incredibile sofferenza inflitta dai tedeschi agli ebrei", ha detto Scholz.

(Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2022)
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Scholz besucht Chanukka-Feier in Berliner Schule


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Chanukkah, oggi Meloni ‘accende’ il candelabro ebraico

Anche gli ebrei festeggiano il Natale. Si chiama Chanukkah, dura otto giorni – quest’anno dal 19 al 26 dicembre – e deve la sua origine ad eventi occorsi due secoli prima della nascita di Cristo.  Ogni anno, a più di duemila anni di distanza, il ‘Natale ebraico’ ricorda la riconquista del Tempio di Gerusalemme. La parola Chanukkah significa “inaugurazione” o “consacrazione”, in memoria dell’inaugurazione del nuovo altare nel Tempio, quando un gruppo di guerrieri Ebrei, i Maccabei, miracolosamente sconfisse il potente esercito Greco-Siriano. Chanukkah (o Hanukkah o Chanukkà) è detta anche “festa delle luci” “festa dei lumi”.  Ogni anno, intorno al periodo di Natale, nel “periodo più buio dell’anno”, si mettono le candele su un candelabro a nove braccia. Il primo giorno si accende una candela più quella centrale, il secondo giorno tre (due più quella centrale), e via così per arrivare a nove.

• La ‘festa delle luci” che dura otto giorni
  Il giornale dell’ebraismo italiano, Pagine ebraiche, spiega come si svolgerà la ricorrenza: “Otto luci per l’identità e la vita. Otto luci contro le tenebre. Dal tramonto odierno molte città italiane si illumineranno nel segno di Chanukkah, la festa ebraica della luce. Numerose le occasioni d’incontro da Nord a Sud del Paese. Come nel caso della tradizionale cerimonia di accensione a piazza Barberini, nel cuore di Roma, a cura del Movimento Chabad Lubavitch che la organizza ininterrottamente dal 1987. Ma sarà tutta l’Italia ebraica ad illuminarsi, dentro e fuori le sinagoghe, negli spazi comunitari e nelle piazze, con la presenza attiva di istituzioni e cittadinanza”.

• A Roma accensione del candelabro con la premier
  In occasione della festività ebraica di Chanukka, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni parteciperà alla cerimonia di accensione del candelabro che si svolgerà al Museo Ebraico di Roma alla presenza del Rabbino Capo, Riccardo Di Segni, e della presidente della Comunità Ebraica Ruth Dureghello. La cerimonia è prevista oggi alle ore 17.30.

(Nel Quotidiano, 19 dicembre 2022)

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Argentina sul tetto del Mondiale, l’entusiasmo dei fan israeliani

La proiezione della finale nella residenza del Presidente Isaac Herzog
Dopo vari tentativi andati a vuoto Lionel Messi è riuscito nel suo obiettivo di vincere un Mondiale, suscitando reazioni euforiche tra gli amanti del pallone a ogni latitudine. Anche Israele, dove la “pulce” è popolarissima, non ha mancato di celebrare questo appuntamento con la Storia (perlomeno del calcio). Festa in particolare per i tanti ebrei d’origine argentina che vivono nel Paese. Dalle grandi città ai kibbutz come Or Haner, nel sud d’Israele, fondato da migranti giunti da Buenos Aires e dintorni. Una radice avvertita con particolare senso di appartenenza. “Abbiamo sognato a lungo questo giorno. Una vittoria che meritavamo, come squadra e come nazione” le parole di un residente, riportate dalla stampa israeliana.
  Tra le voci della festa argentina quella di Andrés Cantor, popolarissimo commentatore di Telemundo, le cui esultanze dopo i goal della Seleccion sono ormai leggenda. Ieri sera la più significativa e attesa da un popolo. Un “Goooooool” che ha fatto il giro del mondo quello urlato al microfono dal figlio di due sopravvissuti alla Shoah di origine est-europea che ha tra i suoi estimatori un’altra voce niente male come David Letterman (che lo ha spesso invitato al suo show).
  Scorrono intanto sugli schermi televisivi le immagini di Messi durante alcune sue apparizioni israeliane per partite di calcio e progetti sociali: dall’incontro con Shimon Peres, che non avrebbe resistito alla tentazione di palleggiare insieme al suo beniamino, proclamandolo poi “ambasciatore di pace”. A una sua sosta in preghiera al Kotel, il Muro Occidentale. Cartoline da sempre nel cuore dei fan locali e oggi rispolverate nel momento in cui l’Argentina torna dove mancava da 36 anni.

(moked, 19 dicembre 2022)

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Cent’anni dalla morte di Eliezer Ben Yehuda, che ha fatto rivivere la lingua ebraica

di Ugo Volli

• Una rinascita sorprendente
  E’ appena trascorso, senza quasi essere notato, un anniversario importante per la cultura ebraica contemporanea. Venerdì scorso cadeva infatti il centenario della morte di Eliezer Ben Yehuda, l’uomo che più di ogni altro è stato determinante nella rinascita della lingua ebraica. L’ebraico non era mai morto del tutto, come è accaduto all’etrusco o al sumero, ma già da alcuni secoli prima dell’Era Comune non era più usato nella vita quotidiana, era difficilmente compreso dal popolo, che parlava invece un dialetto dell’aramaico, lingua imperiale del Medio Oriente antico. E se la Scrittura è formulata in ebraico (solo con qualche inserto aramaico qua e là) e anche la Mishnà lo è, invece la Ghemarà, lo strato più recente del Talmud scritto fra il secondo e il settimo secolo, è invece in aramaico. Nella diaspora gli ebrei hanno continuato a usare l’ebraico come lingua sacra per il culto e (insieme all’aramaico) come strumento di discussione intellettuale. Ma a casa parlavano yiddish, ladino, giudeo-arabo, i vari linguaggi misti come in Italia il giudeo-romanesco, veneziano o piemontese. Durante il XIX secolo i maskilim, esponenti dell’illuminismo ebraico, incominciarono a pubblicare libri e giornali in ebraico, ma solo per argomenti politici e culturali. Herzl stesso era convinto che nel nuovo stato ebraico si sarebbe parlato una lingua europea, magari il tedesco, mentre altri pensavano allo yiddish. Se ciò, contro tutte le aspettative, non avvenne, il merito fu soprattutto delle ricerche lessicografiche e della battaglie politiche di Eliezer Ben Yehuda.

• Gli inizi della vocazione
  Nato col nome di Eliezer Isaac Perelman Elianov il 7 gennaio 1858 a Luzhky (Governatorato di Vilna, allora Impero russo, oggi in Bielorussia) da una coppia di chassidim del movimento chabad, rimasto orfano di padre a cinque anni, Eliezer segue il tradizionale corso di studi in una piccola scuola talmudica a Polatsk, sempre in Bielurussia. Qui però viene in contatto con i libri e le idee del modernismo ebraico e non vuole rinunciarvi: per questo viene espulso. Lo salva un uomo di affari chassidico, Samuel Naphtali Herz Giona, di cui sposerà prima la figlia maggiore Deborah e poi, dopo la morte di lei, l’altra figlia Chemda. Protetto e aiutato da Hertz, Eliezer ottiene la licenza ginnasiale russa, impara le lingue europee, inizia a scrivere degli articoli politici, vuol fare il medico. E’ molto colpito dalla guerra di liberazione della Bulgaria contro i turchi, si convince che anche il popolo ebraico debba liberarsi, conquistando la sua terra e che per questo gli ebrei abbiano innanzitutto bisogno di tornare alla loro lingua. Per studiare medicina si trasferisce nel 1877 a Parigi, dove entra in contatto con gli ambienti protosionisti. Si ammala però gravemente di tubercolosi e decide di sposare Deborah e di trasferirsi con lei a in Terra di Israele, per guarire col clima più caldo o per morire lì.

• Da Pereleman a Ben Yehuda
  A Gerusalemme fa il giornalista e l’insegnante alle scuole istituite dalla famiglia Rotschild, ma il rinnovamento dell’ebraico diventa la sua missione di vita, la sua ossessione. Non è una posizione solo teorica e filologica, è una precisa idea politica: per Ben Yehuda la lingua è uno dei più importanti mezzi del sionismo, lo strumento della rinascita del popolo ebraico sulla sua terra. Si cambia il nome in Ben Yehuda, “figlio di Giuda” che era sì il nome di suo padre, ma anche quello del regno di Giudea, da cui viene la denominazione di ebreo in molte lingue, fra cui lo stesso ebraico, E’ contrastato dagli ambienti più tradizionalisti della comunità ebraica locale, che considerano blasfemo il suo tentativo di adattare la lingua santa in strumento di uso quotidiano. Viene arrestato da turchi per il sospetto di essere un agitatore politico contro il loro dominio. E’ poverissimo, malato, diffamato; ma tiene duro. Lavora indefessamente a un dizionario in cui elencare non solo le parole della tradizione e della Scrittura, ma anche inserire i vocaboli per tutti i nuovi fenomeni e gli oggetti inventati dalla modernità in modo da avere una lingua utile per tutte le circostanze della vita. Come dire “treno”, “pomodoro”, “università”, “giornale”, “transatlantico” in ebraico? Ben Yehuda scheda tutti i testi della tradizione, ma attinge anche ad altre lingue semitiche come l’arabo e se proprio occorre propone dei calchi ebraici delle parole occidentali Quando gli nasce il primo figlio Ben Zion, impone a se stesso e alla moglie di parlargli solo in ebraico. Dopo venti secoli e passa, il bimbo è il primo parlante nativo in ebraico.

• La vittoria
  Gradualmente intorno a lui si forma un gruppo di insegnanti e intellettuali che condivide le sue idee. Riesce a convincere i benefattori europei che mantengono le scuole per gli ebrei di Israele a far condurre l’insegnamento in ebraico. In Israele, ma anche in Europa inizia a nascere una letteratura ebraica di alto livello, la cui prima bandiera è il poeta Hayim Nahman Bialik. Riesce a trovare i fondi per il suo gigantesco dizionario della lingua ebraica, di cui pubblica nel corso degli anni i primi otto volumi (diventeranno diciassette negli anni Cinquanta). Vince anche la battaglia per far sì che l’insegnamento nella prima università ebraica funzionate, il Technion di Haifa, si svolga in ebraico e non in tedesco come volevano i finanziatori. Ciò richiede la formazione di un lessico scientifico ebraico, per nulla scontato prima. Esausto per il grande lavoro, minato dalla tubercolosi che non aveva mai vinto del tutto, Ben Yehuda muore a Gerusalemme il 16 dicembre 1922, salutato e riconosciuto da tutti come uno dei padri della rinascita non solo della lingua ma anche del popolo ebraico. La sua memoria è presente ogni giorno nel miracolo della vita quotidiana di una lingua che a lungo era stata data per finita e che invece prospera. Un miracolo che è bello ricordare proprio a Hannukkà.

(Shalom, 18 dicembre 2022)

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Un Dio ignorato e dimenticato

Paralleli degni di nota tra la situazione incontrata da Paolo sull'Areopago e il mondo di oggi. E ciò che questa storia significa per noi. 

di Stephan Beitze 

Circa duemila anni fa ha avuto luogo una storia che presenta sconcertanti paralleli con la nostra epoca. 
Leggiamo in Atti 17,16-34: 

    Mentre Paolo li aspettava ad Atene, lo spirito gli s'inacerbiva dentro nel vedere la città piena di idoli. Frattanto discorreva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie; e sulla piazza, ogni giorno, con quelli che vi si trovavano. E anche alcuni filosofi epicurei e stoici conversavano con lui. Alcuni dicevano: 
      «Che cosa dice questo ciarlatano?» E altri: «Egli sembra essere un predicatore di divinità straniere», perché annunciava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero su nell'Areòpago, dicendo: «Potremmo sapere quale sia questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu ci fai sentire cose strane. Noi vorremmo dunque sapere che cosa vogliono dire queste cose». Or tutti gli Ateniesi e i residenti stranieri non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità. E Paolo, stando in piedi in mezzo all'Areòpago, disse: «Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi. Poiché, passando e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al Dio Sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo,io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo; e non è servito dalle mani dell'uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: «Poiché siamo anche sua discendenza". Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall'arte e dall'immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell'ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell'uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti risuscitandolo dai morti». 
      Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: «Su questo ti ascolteremo un'altra volta». 
      Così Paolo uscì di mezzo a loro. Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l'areopagita, una donna chiamata Damaris e altri con loro.
L'apostolo Paolo era giunto ad Atene. In attesa dell'arrivo dei suoi collaboratori, fece un giro per la città. Si trattava di una delle più importanti città dell'epoca, soprattutto per quanto riguarda la cultura, lo sport e la religiosità. Capita spesso, tuttavia, che proprio quelli che ritengono la loro conoscenza e capacità come eccezionali siano molto superstiziosi. Nel caso di Atene era così perché la popolazione era completamente degenerata nell'idolatria. Là Paolo discusse con quattro gruppi di persone: con i Giudei, gli Epicurei, gli Stoici ed i Pii. 
  I Giudei avevano la loro religione e la loro Legge, di cui andavano fieri, pensando di essere speciali e migliori di tutti gli altri. Pensavano di ottenere il favore di Dio attraverso il rispetto di certi rituali. 
  Inoltre, vi erano due correnti filosofiche che ebbero la loro origine ad Atene. Una gli Epicurei, che dovevano il loro nome ai discepoli del filosofo di Atene Epicuro. La loro era una filosofia che si concentrava sul godimento come scopo centrale della vita anziché sulla sapienza. Gli Epicurei erano materialisti che non arrivavano a negare l'esistenza di Dio ma ritenevano che Egli non si immischiasse nelle vicende umane. Essi credevano che, alla morte di una persona, il suo corpo e la sua anima si dissolvessero. In altre parole: essi vivevano essenzialmente per godere del «qui ed ora». 
  In contrasto con essa, la filosofia stoica poneva la sapienza come principale scopo della vita. Un tempo, Atene era celebre per la sua raffinata cultura, per la sapienza, per la filosofia e per le belle arti. Si poteva quasi affermare che là si onorava il sapere, la sapienza umana. Tutti quelli che vi giungevano con un grande sapere ed erudizione erano accolti a braccia aperte. Gli ateniesi erano specialisti in discussioni filosofiche e gli Stoici erano panteisti che cercavano di condurre una vita onorevole. Erano zelanti e si consideravano persone distinte e particolarmente degne e pertanto si sentivano superiori agli altri. 

• I VICOLI CIECHI 
  I diversi gruppi di persone incontrate da Paolo ci sono anche oggi - forse con alcune varianti ma con le stesse caratteristiche principali. A questi gruppi dobbiamo gran parte dei modi di pensare che predominano nel mondo di oggi. 
  Ci sono quelli sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Nel nostro testo si dice che gli abitanti di Atene si distinguessero per la loro ricerca delle novità. Oggi avviene qualcosa di simile. La gente cerca ovunque qualcosa che dia loro sicurezza, pace, speranza o benessere. Poiché c'è sempre qualche novità ventilata da qualcuno, provano continuamente cose nuove. Ma proprio questo mostra che manca qualcosa che sia veramente sicuro ed efficace. Viviamo nell'epoca del relativismo. Ciascuno ha la sua verità, per la quale pretende dagli altri attenzione e rispetto. Questo ci dice qualcosa di serio. Se ci sono molte verità, che si contraddicono in uno o più punti, allora non esiste nessuna verità assoluta. Perciò molti definiscono, a ragione, la nostra epoca come l'epoca della post-verità. Tuttavia che tragedia è per l'umanità non avere più una verità assoluta, se non si può più credere a nulla, se tutto è relativo, tutto dipende dalla valutazione soggettiva o dal gusto personale! Ciò provoca un'enorme insicurezza negli esseri umani. Non c'è nulla a cui aggrapparsi o di cui essere sicuri che non ci pianterà in asso. 
  E così la gente cerca la propria felicità, certezza e sicurezza in cose diverse. Si corre di qua e di là, nella speranza di trovare il senso della vita. Ma quello che si trova dura solo per un po', sicché poi si rimane frustrati per aver subito un'ulteriore delusione. Qualcuno frequenta una chiesa, semplicemente per curiosità o per cercare qualche alternativa. Gesù per loro è solo un grande maestro, il fondatore di una nuova religione - una fra le tante, solo una ulteriore via. Alcuni apprezzano l'amore che trovano nelle chiese ma solo fin tanto che appaia qualcosa di più interessante, più divertente o meglio, corrispondente ai loro bisogni. 
  I materialisti vivono esclusivamente per i piaceri. Vi sono persone che modellano la loro vita sullo stile epicureo, perseguendo solo i godimenti. Vivono secondo il motto: «Vivi la vita: ce n'è una sola.» Pertanto, molti fanno solo ciò che soddisfa i loro desideri. 
  Feste, amicizie, hobby, divertimenti, viaggi, sesso, forse anche alcol e droghe e molte altre cose sono alcuni dei mezzi che essi utilizzano per raggiungere quella che loro credono sia la felicità, ma alla fine, tutte queste cose, si esauriscono rapidamente. Di conseguenza, si deve presto tornare a cercare qualcosa che dia maggior piacere per poi approdare al medesimo risultato. Tutto ciò è strettamente legato al materialismo. Chi possiede molto, di solito, è bene accolto in società, mentre chi non ha nulla è emarginato, da ciò nasce la ricerca continua di un numero maggiore beni materiali. Siamo diventati una società consumistica, proprio perché molti sperano di trovare in questo la loro felicità. 
  Tuttavia, tutti i traguardi o il benessere raggiunto lo si può perdere in fretta, inoltre, persino l'auto più nuova e veloce, la nuova casa o il viaggio in Thailandia non riescono a riempire il vuoto che si ha dentro. Per di più, ci sarà sempre qualcun altro che ha qualcosa di più e migliore di noi. Tutto ciò produce una nuova frustrazione e non fa altro che aumentare il desiderio di traguardi nuovi da raggiungere per sentirci appagati. Si precipita in un circolo vizioso, nel quale non si trova pace. 
  Un altro gruppo è formato da chi aspira ad essere una brava persona, altri ancora sono i moralisti, i quali credono di essere buoni ed utili per la società. Al contrario di coloro che vivono per i piaceri, essi vedono realizzato il loro obiettivo di vita nel fare del bene al prossimo. Sono i primi a finanziare la costruzione di un orfanotrofio o di una scuola in Africa. Fanno donazioni per combattere la fame nel mondo. Sostengono i profughi e forse anche organizzazioni ambientaliste. Spesso denigrano gli altri considerandoli inferiori a loro solo perché non agiscono allo sesso modo. Sicuramente molto di ciò che fanno è buono, ma tutto questo li condurrà a trovano davvero la felicità e la sicurezza che durano nel tempo? 
  C'è anche chi cerca la saggezza e la conoscenza. Gli ateniesi erano molto colti e, proprio come loro, anche oggi molti si sforzano di raggiungere sapienza, titoli ed auto-realizzazione. Il mondo è sempre più pervaso dal culto del sapere, naturalmente io non sono contro coloro che studiano. Io stesso ho fatto studi universitari e, ancora oggi, continuo a studiare. Il problema non sta nel sapere ma nasce quando questo diventa l'unico scopo di vita e i loro risultati e traguardi raggiunti una bandiera da sventolare ad ogni occasione. Persino la Bibbia dice che la conoscenza gonfia (1 Corinzi 8,1). Per questa categoria di individui assume gli aspetti di una religione che li condurrà a trovare un senso alla loro vita. La loro soddisfazione principale è vantarsi della loro conoscenza dimostrando di sapere più degli altri, vincere ogni discussione ed essere riconosciuti per le proprie conoscenze e prestazioni. Purtroppo non importa quanta conoscenza, saggezza e riconoscimento essi ottengano perché, comunque, anche in questo non trovano alcuna duratura soddisfazione nella vita. Il motivo è semplice: fare affidamento sulle proprie capacità, non serve, costoro devono rendersi conto di aver bisogno di Dio. 
  Proseguendo nell'elenco di persone accomunati dalle stesse caratteristiche troviamo i religiosi che vedono nella religione la via per arrivare a Dio, al Cielo o ad una meta superiore attenendosi con scrupolo ai rituali e ai comandamenti della religione che seguono. Credono di guadagnare una posizione migliore grazie alla loro pietà e soprattutto grazie alle loro opere. Pensano che Dio possa essere soddisfatto di loro se frequentano la chiesa con assiduità, se cantano nel coro, se fanno generose offerte o se impegnano il loro tempo e le loro energie senza risparmiarsi nel sociale. 
  Come possiamo constatare, vi sono anche oggi, come nell'antica Atene, le più diverse filosofie di vita, ma tutte hanno in comune la mancanza di qualcosa e ciò si riflette sulle persone, rendendole insoddisfatte, aggressive, egoiste, ecc. Questo stato di cose, è stato relazionato da alcuni studi del comportamento, rappresenta persino uno dei fattori che provoca l'aumento di problemi psichici e dei suicidi. Non c'è nulla di assolutamente certo. Verso quali di queste attitudini o filosofie di vita siamo più propensi? 
  Le strade che intraprendiamo portano forse l'agognata pace, la vera soddisfazione, la sicurezza presente e futura? 
  Come abbiamo appena constatato, sono tutti vicoli ciechi che rafforzano la frustrazione, lo scoraggiamento e la ricerca sempre più disperata di una vera soluzione. Forse siamo convinti della correttezza del nostro stile di vita. Ma qualunque sia stato il nostro atteggiamento fino ad ora, abbiamo l'umiltà di verificare cosa Dio ci dice ed ci offre affinché possiamo prendere la decisione giusta? 

• L'UNICA VIA
  Quando Paolo parlò agli ateniesi, si riferì al fatto che, nonostante ciò che erano, avevano e facevano, essi avevano dimenticato ciò che era essenziale, avevano dimenticato la cosa più importante. Lui era arrivato in una società molto religiosa, nella quale veniva adorate più di cento divinità - fra le quali molte che erano legate ad uno degli stili di vita preferiti dalla gente. Perdipiù, in molti casi, la gente dava libero sfogo ai propri bassi istinti, come, fra l'altro, con l'adorazione del dio del vino o della dea della fertilità. 
  Alcuni erano rigorosi nella loro venerazione alle divinità, che venivano rappresentate materialmente in modi diversi. Ma nessuno di questi idoli poteva esaudire le loro preghiere, muoversi o avvicinarsi a loro. 
  Nel dubbio di aver dimenticato qualche divinità, che poi si sarebbe potuta adirare contro di loro, avevano innalzato anche un altare «al Dio sconosciuto» (Atti 17,23). 
  Parlando con loro, Paolo dice che erano nell'ignoranza (V. 30). Pur facendo parte della cerchia composta dalle persone più sapienti della loro epoca (e le dottrine dei loro pensatori fino ad oggi sono ancora apprezzate e studiate), non sapevano la cosa più importante per la loro vita e il modo in cui potevano avere accesso all'eternità. Essi, semplicemente, ignoravano chi fosse il vero Dio. 
  Pensando alla nostra società, sono convinto che se Paolo fosse qui oggi, dovrebbe ripetere la stessa cosa. Per la maggior parte della gente, il Dio della Bibbia è un perfetto estraneo. Un parallelo con l'altare recante l'iscrizione «al Dio sconosciuto» oggi lo troviamo quando osserviamo le gigantesche cattedrali, mirabilmente edificate. Milioni di persone le frequentano ogni anno, scattano foto, studiano i dettagli architettonici, le associano ai monarchi che vi regnarono e si ricordano dei matrimoni da favola che vi furono celebrati, ignorando tuttavia lo scopo per il quale furono costruite. 
  Molta gente non sa nulla di chi sia Cristo. Se oggi facessimo un sondaggio in una scuola e chiedessimo agli studenti quale sia la loro opinione su chi fosse Gesù, alcuni di loro non saprebbero cosa rispondere o addirittura lo collegherebbero a qualche personaggio famoso se non addirittura a un calciatore. 
  Qualche anno fa, parlai con un membro dei Gedeoni, i quali distribuiscono Nuovi Testamenti nelle scuole, nelle prigioni, negli ospedali, negli alberghi, ecc. Gli chiesi quale interesse per Dio notasse in Germania. Egli rispose: «Illustrerò questo con una esperienza personale. Una volta abbiamo distribuito davanti ad una scuola Nuovi Testamenti. In tale occasione, ne offrii uno ad un adolescente di circa 12 anni. Mi chiese cosa fosse. Gli risposi che era una parte della Bibbia e che in esso si parlava di Dio. Al che il ragazzo replicò: «A che mi serve Dio?» 
  Dio non è solo sconosciuto ma molti lo ignorano consapevolmente. 
  Paolo fu invitato ad esporre e difendere questa nuova fede sull'Areopago. L'Areopago era la sede del tribunale, nel quale i giudici, i saggi e tutti i responsabili si radunavano per discutere delle questioni cittadine e per emanare sentenze (tuttavia Paolo non venne citato come un delinquente ma portato là per curiosità). 
  L'apostolo evidenziò, innanzitutto, la religiosità degli ateniesi. Egli disse loro: «io vi trovo in ogni cosa fin troppo religiosi!» (Atti 17,22). Il termine utilizzato nel testo greco per l'adorazione delle divinità è deisidaimo, che significa sia superstizione estrema che venerazione delle divinità (deido: timore; daimon: demone o dio pagano). Colpisce che questa parola, nell'originale, contenga il concetto di «demone». 
  In un altro passo, l'apostolo afferma che nella venerazione delle immagini è contenuta l'adorazione dei demoni (1 Corinzi 10,20). Dio proibì con la massima chiarezza l'adorazione di qualsiasi essere od oggetto (Esodo 20,4.5). Pertanto chi viola questo chiaro comandamento, anche se gli attribuisce il nome di un santo, si apre ad enormi influenze negative. 
  Poi Paolo mostrò loro che c'è un vero Dio, che ha creato il Cielo e la terra ma anche gli esseri umani. Grazie a Dio, non siamo prodotti del caso o di una grande esplosione (il Big Bang) ma dello speciale atto creativo di un Dio d'amore. Egli aveva un interesse esplicito per la creazione dell'uomo. Questo Dio non ha bisogno di templi per la propria dimora o di persone che gli portino il cibo, poiché Egli è il creatore di tutto. 
  In un altro passo, Paolo afferma che l'uomo, semplicemente osservando la creazione, dovrebbe giungere alla conclusione che Dio esiste (Romani 1,18-21). Se siamo onesti ed osserviamo la bellezza, l'ordine e l'armonia di tutto ciò che esiste o la meraviglia del nostro corpo, possiamo riconoscere la necessaria esistenza di un essere dall'intelligenza superiore, che ha creato tutto e sta dietro alle leggi fisiche che mantengono questo ordine. Qui non v'è alcun caso, bensì pianificazione fin nel minimo dettaglio. 
  Alcuni negano l'esistenza di Dio solo perché non l'hanno ancora visto. Ma se v'è un orologio con tutti i suoi meravigliosi meccanismi, nessuno dubita dell'esistenza dell'orologiaio. Nell'ammirare un maestoso edificio, riteniamo correttamente che vi sia stato un architetto, anche se non l'abbiamo mai visto. Allo stesso modo la natura ci offre la prova della necessaria esistenza di un Creatore. 
  Pensiamo per un attimo allo spazio infinito che ci fa capire che la sua causa deve anche avere un'esistenza infinita. L'esistenza di energia inesauribile è testimone dell'onnipotenza. La prima causa dell'infinita complessità è la prova di una conoscenza perfetta. L'esistenza d'un tempo incalcolabile rimanda ad una causa eterna. E così riconosciamo che tutto è da ricondurre ad un Creatore che è infinito, onnipotente, onnisciente ed eterno. Infine, la prima causa della vita non può che essere la vita. Dal nulla non viene nulla. E l'essenza di Dio è la vita. 
  Ciò che colpisce maggiormente nella creazione, è il particolare interesse verso una determinata creatura - l'essere umano. Fisicamente possiamo anche essere simili alle scimmie ma v'è qualcosa nel nostro essere che ci rende infinitamente superiori ad esse. Le uniche creature sulla terra che pensano e si domandano da dove vengono, dove vanno e perché esistono sono gli esseri umani. La maggior parte delle persone riconoscono l'esistenza di un essere superiore che, in un modo o nell'altro, venerano. Per questa ragione, abbiamo così tante religioni. La Bibbia lo conferma, dicendo: 

    «Dio ha perfino messo nei loro cuori il pensiero dell'eternità, sebbene l'uomo non possa comprendere dal principio alla fine l'opera che Dio ha fatta.» (Ecclesiaste 3,11). 

Lo scopo per il quale Dio ha creato l'uomo è, come dice il nostro testo: «affinché essi cerchino il Signore» (Atti 17,27). 
  Per quanto riguarda l'esistenza di Dio, molti la ammettono ma non l'hanno ancora trovato, sicché continuano a cercarlo, battendo strade diverse. La maggior parte delle persone rientra in questo gruppo. Possono essere teisti, agnostici o religiosi. 
  Gli atei, al contrario, negano l'esistenza di Dio perché non l'hanno trovato. La loro argomentazione non è molto logica. Cerchiamo di illustrarla: io nascondo un lingotto d'oro in una grande città e lo annuncio sui mezzi d'informazione. Molti si mettono alla sua ricerca. Alcuni tornano stanchi e dicono semplicemente di non aver ancora trovato l'oro. Vi sono però anche alcuni che rinunciano, dicendo: «non avendo trovato il lingotto d'oro, non può esistere.» Questa è, in soldoni, la risposta dei pochi veri atei esistenti. Dal momento che essi non hanno trovato Dio, suppongono (con presunzione) che Egli non possa esistere. 
  Alla ricerca del Dio perduto. La Bibbia ci dice che l'uomo è perduto ed incapace di trovare la via per arrivare a Dio (Isaia 53,6). Tuttavia Dio vorrebbe essere ricercato da tutti: 

    « ... affinché cercassero il Signore, se mai riuscissero a trovarlo come a tastoni, benché egli non sia lontano da ognuno di noi ... » (Atti 17,27). 

E seppure gli uomini, in generale, non vogliano avvicinarsi a Dio, secondo Paolo Egli non è «lontano da ognuno di noi» (v. 27). 
  Egli è così grande da comprendere tutto ma, al tempo stesso, vorrebbe avere comunione con ciascuno di noi personalmente. E non v'è nulla che l'uomo possa mettere al posto di Dio. Ne deriva l'inutilità delle immagini che vengono adorate. Un Dio così grande non può essere rappresentato da un pezzo di pietra, gesso o tela. 
  Dio è stato paziente, a lungo, nei confronti dell'ignoranza umana. Ora, però, Egli comanda che «tutti gli uomini in ogni luogo» si ravvedano (v. 30). Il ravvedimento implica un'inversione del corso della propria vita di 180 gradi. Abbiamo corso in una direzione ma ora si tratta di andare nella direzione opposta. Chi non ha ancora sperimentato questo radicale cambiamento non è ancora salvato. Si può essere molto saggi o religiosi ma se non s'è giunti a questo cambiamento di direzione e ad accogliere Gesù nella propria vita, ancora non si conosce veramente Dio. 
  Potremmo chiederci perché pentirsi e di che cosa. Tutti abbiamo avuto od abbiamo ancora un problema. Dio creò l'essere umano a propria somiglianza ed aveva una perfetta comunione con essi. Ma gli esseri umani si ritennero più intelligenti di Dio, vollero farcela senza di Lui, percorrere la propria via e questo portò al peccato, che significa mancare l'obiettivo di Dio. Ma poiché Dio è santo, Egli non può avere comunione con un essere che ha peccato. La Bibbia dice: 

    «Non vi è alcuna distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Romani 3,23). 

E poiché Dio è giusto, Egli deve anche giudicare il peccatore attraverso Gesù Cristo, Suo figlio (Atti 17,31). Per questo motivo, Dio esige dall'essere umano il pentimento per i propri peccati. Non v'è alcuna altra via mediante la quale essere salvati. L'essere umano è molto orgoglioso e pensa di poter vivere senza Dio. Molti si ritengono saggi ma non vogliono riconoscere questa fondamentale verità. Perché se siamo onesti, a nessuno di noi piace sentirsi dire cosa fare, tanto meno sentirci dire che stiamo sbagliando. 
  L'uomo più saggio che sia mai vissuto - il re Salomone - disse: 

    «Il timore del Signore è il principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l'istruzione!» (Proverbi 1,7). 

L'uomo veramente saggio riconosce ed agisce in base a questa verità. Se riconosciamo che Dio esiste, che le Sue parole sono vere e che dobbiamo ravvederci ed andare a Lui per essere salvati, allora dimostriamo vera saggezza. 
  La via che porta a Dio. Paolo continuò il suo sermone, mostrando l'unica via della salvezza. Egli aveva notato la religiosità degli ateniesi ma anche la loro completa ignoranza di Dio. Lo stesso avviene ancora oggi. Molti dicono di credere in Dio. Alcuni affermano persino di credere in Gesù e di essersi pentiti dei loro peccati. Ma le loro affermazioni sono spesso solo una mera religione. Non hanno alcuna autentica, profonda relazione con Dio. Credono in Dio, così come credono genericamente all'amore, all'energia o al loro conto in banca. 
  La Bibbia dice che noi possiamo essere salvati solo se abbiamo un rimedio per il nostro stato di peccato. E così Paolo narrò agli uomini d'Atene di Gesù, che è morto e risuscitato (Atti 17,31). Infatti, l'unica possibilità di essere assolti dalla colpa e di ottenere il perdono dei nostri peccati deve essere pagata. Tuttavia, nessun uomo può pagare il nostro debito, essendo tutti debitori. Perciò Gesù Cristo doveva venire nel mondo per portare il nostro peccato. L'innocente giusto morì sulla croce per espiare la pena che noi abbiamo meritata. Ma Gesù è anche risuscitato dai morti. Così Egli ha dimostrato la Sua potenza sulla morte fisica ed eterna. Attraverso Lui e soltanto Lui, l'essere umano ottiene la vita piena ora e l'accesso alla vita eterna presso Dio nel cielo. 
  In Romani 5,1 l'apostolo Paolo si riferisce ad una verità fondamentale: «Giustificati dunque per fede abbiamo pace presso Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.» Si viene dichiarati giusti da Dio solo mediante la fede in Gesù Cristo. La domanda è come si manifesta questa fede. 
  Mia moglie ed io abbiamo conosciuto una giovane donna molto religiosa. Lei affermò che avrebbe creduto in Dio e in Gesù e si sarebbe ravveduta dai propri peccati. Ma c'era qualcosa che non ci lasciava tranquilli, sicché la invitammo a casa nostra per un colloquio sul tema della fede. Quando le chiesi su cosa si basasse la sua fede, le illustrai il concetto attraverso la sedia su cui stava seduta. Era venuta da noi per la prima volta e non conosceva la sedia ma si era fidata del fatto che la potesse reggere. Le chiesi cosa sarebbe successo se non mi fossi fidato pienamente della sedia. Mi sarei appoggiato con tutta la forza sul tavolo per assicurarmi che la sedia non si rompesse sotto il mio peso. Il tavolo è un'immagine per le istituzioni religiose - siano esse cattoliche, dei Mormoni, dei Testimoni di Geova o persino evangeliche. Si tratterebbe di fede in Gesù + una chiesa. Quindi non sarebbe fede solo in Gesù. 
  Io potrei anche appoggiarmi su qualcuno seduto accanto a me. Questo è l'esempio della fede che viene divisa con un sacerdote, il papa, un padre spirituale o persino con persone defunte come i santi o la vergine Maria. Si tratta pur sempre di una fede divisa. Non di una fede integra e totale in Gesù Cristo. Facciamo un esempio: ho una patologia cardiaca letale. E v'è un solo chirurgo al mondo capace di curarla efficacemente. Arriva il giorno dell'intervento, mi mettono sul tavolo operatorio e compare un assistente che mi dice: «Il chirurgo ha un altro appuntamento ma non preoccuparti ti opererà sua madre.» Allora domando: «Questa donna è anche un chirurgo?» - «No, ma è una bravissima donna, che ama molto suo figlio.» Ovviamente, non le permetterei di operarmi. Così è con la salvezza, quando ci si vuole appoggiare su qualcun altro. Per quanto buono sia o possa essere stato un altro soggetto, solo Uno salva. 
  Per tornare all'immagine della sedia, vi può essere ancora un terzo caso. Posso anche stare seduto con le ginocchia piegate e toccare appena la sedia. Questo vorrebbe dire contare più su me stesso e le mie forze che su Gesù. Questo è un tipico esempio per molte persone che si considerano buone e compiono tante buone opere. Ma la Bibbia è univoca: 

    «Vi è infatti un solo Dio, ed anche un solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù uomo» (1Timoteo 2,5). 

Oppure: 

    «E in nessun altro vi è la salvezza, poiché non c'è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati!» (Atti 4,12). 

La salvezza è possibile solo mediante Gesù. 
  Rispetto alla realtà di un numero infinito di strade sbagliate, che questo mondo offre e che l'uomo ha trovato ma finiscono in vicoli ciechi e rispetto ad una società nella quale la verità per ciascuno è relativa, Gesù afferma espressamente: 

    «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Giovanni 14,6). 

L'apostolo Giovanni mostra nel suo Vangelo quanto è incapace l'uomo di trovare, nonostante tutte le sue conoscenze ed i suoi sforzi, una vera pace e stabile sicurezza. Ma egli precisa che credendo in Gesù si trova la vera vita, poiché il Signore Gesù dice: «Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano ad esuberanza» (Giovanni 10,10). 
  In Atti 17,28 veniamo confrontati con il fatto che Dio è vivente. Egli è l'unico che può donare la vita - non solo biologica, ma anche spirituale ed eterna. Nessuno può trovare il vero senso della vita, se non ha un rapporto con Dio. 
  L'essere umano ha varie possibilità ma esse si riassumono in due: o una vita ignorando Dio o una vita nella piena identificazione con Dio mediante l'opera di Cristo sulla croce. Altrove, Gesù indica la realtà di ogni essere umano in questo mondo. Vi sono solo due vie e ciascuno di noi si trova su una di esse. Consideriamo la fine rispettiva delle due vie. Gesù dice: 

    «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa. Quanto stretta è invece la porta e angusta la via che conduce alla vita! E pochi sono coloro che la trovano!» (Matteo 7,13.14). 

Vi sono due vie a cui corrispondono mete diverse alle quali esse approderanno. Gesù ha avvertito con molta chiarezza in merito al pericolo di percorrere la via senza di Lui perché la sua meta è la condanna eterna, l'inferno. Come dice Paolo ad Atene: 

    «Poiché egli ha stabilito un giorno in cui giudicherà il mondo con giustizia, per mezzo di quell'uomo che egli ha stabilito; e ne ha dato prova a tutti, risuscitandolo dai morti» (Atti 17,31), 

cioè il Signore Gesù Cristo. Ma c'è anche la via per il Cielo, per la vita eterna, se si crede in Gesù e lo si accoglie. La decisione è personale: quale via scegli tu? Quale decisione prendi? Su cosa, o meglio, su chi basi la tua fede? Solo su Gesù? 

• LA SCELTA DELLA STRADA
  Ad Atene vi furono due reazioni al messaggio dell'apostolo Paolo. 
  Dio disprezzato. Per la maggior parte degli astuti ateniesi il messaggio di Paolo era quasi ridicolo. Da un lato erano convinti che gli dei non potessero morire e dall'altra il concetto di risurrezione appariva loro ridicolo. I filosofi dell'epoca videro in Paolo solo un «parlatore», letteralmente: un «raccoglitore di semi». In altre parole, qualcuno che sfrutta quello che altri hanno gettato via o hanno lasciato cadere. 
  L'apostolo Paolo, un tempo personalità di spicco del Giudaismo, che aveva fruito della più elevata formazione religiosa, venne a conoscenza e riconobbe il semplice messaggio di un uomo che aveva dato la Sua vita per lui. Per quelli che si credevano sapienti, questo messaggio era troppo semplice. 
  La salvezza gratuita che ci viene offerta, senza dover compiere opere particolari o meritare alcunché, da accettare semplicemente per fede, è ritenuta da molti ancora oggi troppo facile per essere vera. Altri poi non vogliono cambiare la loro vita e preferiscono continuare ad ignorare Dio. Questa è la via del Dio rigettato.
  Dio accettato. A dispetto del gruppo numeroso, che si riteneva più intelligente e preferiva proseguire con le sue filosofie e la sua idolatria, vi erano anche persone timorate di Dio. Non sappiamo esattamente a chi si riferisse l'autore degli Atti degli apostoli ma possiamo desumere trattarsi di coloro che cercavano con onestà ed umiltà la verità su Dio per la loro vita. Perciò è scritto: «alcuni ... credettero» (Atti 17,34). Credettero che il Signore Gesù era venuto nel mondo per morire per loro, per liberarli dalla loro colpa, per perdonare i loro peccati e per donare loro la vita eterna. Oggi ciascuno è di fronte a questa decisione. A noi piace andare per la nostra strada, seguendo le nostre personali filosofie di vita, ma dovremmo riflettere sul fatto che Dio esiste, il Cielo e l'inferno sono una realtà e la decisione che prendiamo influenzerà e sarà determinante per la nostra vita, su dove trascorreremo l'eternità. La Bibbia ci avverte con molta serietà: 

    «Dio infatti non ha mandato il proprio Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Infatti chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano riprovate ... Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio dimora su di lui» (Giovanni 3,17-20, 36). 

In un mondo pieno di offerte seducenti, senza sicurezza, senza pace autentica e pieno di vicoli ciechi, il Signore Gesù vuole condurci alla verità, alla vita nella pienezza e alla salvezza eterna. Continuamente ci rivolge l'invito: 

    «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, da dentro di lui sgorgheranno fiumi d'acqua viva» (Giovanni 7,37.38). 

Andiamo a Gesù ed Egli placherà la nostra sete! Andiamo a Cristo ed Egli ci salverà! Il dono della salvezza ci viene attribuito quando crediamo in Lui. Ma la fede è molto più di un esercizio intellettuale. La fede in Gesù come salvatore contiene il pentimento per i nostri peccati nonché l'accettazione della morte di Gesù sulla croce anche per i nostri peccati e del suo ruolo di nostro personale salvatore. Quelli che prendono questa decisione di fede, iniziano molto di più di una religione - iniziano un rapporto personale con Dio stesso! In modo speciale, ogni persona può diventare un amato figlio di Dio (Giovanni 1,12). A chi vuole entrare in questa relazione, la Bibbia promette che «chi invocherà il nome del Signore, sarà salvato» (Romani 10,13). 
  Hai già fatto questo o vuoi farlo proprio ora? 

(Chiamata di Mezzanotte, set/ott 2022)




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"Viviamo in una società di complici”

Discorso integrale del filosofo Giorgio Agamben in commissione DuPre nel corso dell’evento “Le faux sans réplique: Guerra, profittatori, ed aumento del carovita: quali strumenti di reazione democratica ed economica?” Una dura invettiva che mette in dubbio non solo le falle dei sistemi democratici nostrani, ma anche alcuni dei postulati su cui la controinformazione ha fatto più affidamento negli ultimi anni, specie nel biennio pandemico.

“Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche soltanto di poter uscire. Credo che anche fra di noi non tutti si siano resi conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei principi del diritto e delle istituzioni pubbliche. Credo che ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente scavalcare. E se un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme, di disfacimento. Ho usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due. E se, come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere. Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per l’Europa nella seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato se stessa». Per questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.
  Ma non è di questo che volevo parlarvi; mi preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e possiamo continuare a fare in una tale situazione. Io condivido infatti pienamente le considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da Luca Marini quanto all’impossibilità di una rappacificazione. Non può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni.
  Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare di correggere. Chi pensa questo s’illude. Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica. In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto penale: il complice – a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta, nel senso che cercherò di spiegare.
  Nella terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha posto in essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo. Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società – che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile. Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico – agiscono sempre come complici e mai come rei.
  Credo che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova prospettiva il patto hobbesiano. Il contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera, estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di questo essere com-plici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.
  Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.
  Vi è anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto fra l’uomo e il cittadino. Hannah Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia ambigua e come nelle Dichiarazioni dei diritti sia in realtà in questione l’iscrizione della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello Stato nazione moderno.
  I diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino. L’emergere in pianta stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la sovranità dello stato moderno. Quella che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto, in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione , nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura. Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.
  La domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora sentirci obbligati rispetto a questa società? O se, come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati, secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa obbligazione e parlare pubblicamente?
  Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare.
  Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in questione la stessa medicina. Se non si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale.
  Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione. È forse necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi? È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.
  Se ho evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo. È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere di guardare.
  Non intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere con rigore e acutezza. Questo lavoro può essere ed è senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo semplicemente con una strategia a lungo termine.
  In questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati. Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza compromessi e senza nostalgie”.

(Radio Radio TV, 12 dicembre)


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Il "comune buon senso" dei complici

di Marcello Cicchese

Lo scoppio della pandemia, o più precisamente il modo in cui la società a vari livelli l'ha affrontato, il cambiamento di pensieri e atteggiamento che ha provocato, impongono a chi ne vuol parlare in un modo non puramente pragmatico (che devo fare per riuscire a sfangarla alla meno peggio?) di mettere in discussione la sua Weltanschauung, la sua visione del mondo, per dire a se stesso, se non agli altri, in quale misura intende mantenerla e difenderla, o se ritiene di doverla modificare e in che cosa. Giorgio Agamben lo sta facendo, con consapevolezza e, a quanto sembra, con onestà intellettuale e morale. 
  Alla fine, a chi gli chiede "che fare?" risponde candidamente: "Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare". 
  Gli usuali concetti politici di democrazia, costituzione, diritti umani gli sembrano inutilizzabili nella novità di situazione in cui troviamo, ma precisa che non intende ricorrere a "vaghi principi metastorici", e invita a fare una "precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo". 
  Si pone però una domanda: con quale linguaggio non "metastorico" si dovrà fare questa analisi storica? Agamben dice che dobbiamo "lasciar cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati". Ma dove pescheremo allora i nuovi concetti e le nuove verità con cui esaminare questa novità epocale? Come risposta viene in mente la nota frase di Heidegger: Nur noch ein Gott kann uns retten! "Solo un dio adesso ci può salvare". Forse potrebbe voler dire che alla fine, dopo aver visto che al termine di una serie di discorsi filosofici accortamente inanellati uno dopo l'altro, quando ci si accorge di essere approdati a conclusioni semplicemente insensate, o plurisensate, o contraddittorie, e di essere in un vicolo cieco, non resta che sperare nell'arrivo di un messia metafilosofico che metta ogni cosa a posto e ci spieghi tutto.
  Com'è noto, per la fede cristiana un tale Messia esiste, ed è assai più che metafilosofico. Il linguaggio con cui oggi in quanto cristiani si può parlare in modo non vuoto e autoreferente di quello che sta accadendo nella società non può essere che quello biblico. Ovviamente non si pretende che questo sia accettato da molti, anzi ci si deve aspettare che più facilmente sia respinto, ma questa deve essere la testimonianza di fede dei cristiani: l'uso del linguaggio biblico nel parlare di ciò di cui tutti parlano in altra lingua.
  E' accaduto invece che per  parlare di quello che  è accaduto e sta accadendo in seguito alla pandemia (obblighi vaccinali, dichiarazioni menzognere delle autorità, decreti ricattatori, disposizioni insensate, prevaricazioni  a vari livelli) in ambito evangelico sia stato usato quasi esclusivamente il linguaggio del "comune buon senso". Per la questione sanitaria è stata lasciata la parola ai tecnici della scienza; per la questione dei decreti emanati per il mantenimento della "salute pubblica" è stata lasciata la parola ai politici del momento. Il riferimento biblico è stato ridotto al minimo: rispetto per i competenti che con la loro scienza lottano contro il male presente nella natura decaduta; rispetto per i competenti del governo che hanno il compito di mantenere l'ordine nella società. Punto. 
  Utili riferimenti al messaggio biblico sono stati fatti per invitare a mantenere l'unità fraterna nella comunità, esortare alla solidarietà verso il prossimo che è nel bisogno, spingere all'evangelizzazione di coloro che sono lontani dalla fede. Tutto buono, naturalmente, ma basta? Non viene il dubbio di essere trasportati da una corrente di cui non abbiamo capito né da dove viene né dove va, proprio come lo Spirito di cui parla Gesù (Giovanni 3:8), ma ben diverso da quello, anzi contrario. 
  Dopo l'emergenza pandemica è venuta l'emergenza militare. E qui è accaduto un fatto strano. Gli evangelici, che in tema di contagio, vaccinazioni e disposizioni legali  hanno mantenuto sempre un grande riserbo nel riferirsi puntualmente alla Bibbia, nel parlare di aggressione all'Ucraina si sono lanciati in audaci riferimenti biblici, con tentativi di lettura degli avvenimenti alla luce delle profezie bibliche.  E' sembrato quindi che di questi fatti di interesse mondiale, di cui oggi tutti parlano proponendo proprie letture e interpretazioni, si potesse  parlare con linguaggio biblico. 
  Non sono mancati tentativi di accostamento a fatti del passato o del futuro presenti nella Bibbia. Qualcuno, per esempio,  si è avventurato nel chiedersi se Putin sia o no un precursore dell'Anticristo che verrà. Non sono state date risposte, ma il dubbio è stato insinuato. 
  Nessuno invece ha sollevato un altro dubbio, che pure poteva venire alla mente, e si è fugacemente affacciato alla mia: cioè se un precursore dell'Anticristo potesse essere il premier italiano che ha preceduto quello attuale. Accenno al fugace dubbio soltanto adesso, per poi lasciarlo subito cadere, anche perché dalle comuni interpretazioni del personaggio emerge che si tratta di una persona molto intelligente. 
  In entrambe le emergenze, pandemia e guerra, bisogna dire dunque che la riflessione degli ambienti evangelici si è mossa lungo la linea maggioritaria del "comune buon senso". Con qualche coloritura biblica nel secondo caso, e quasi niente nel primo. Questo fa pensare. Il mondo evangelico si trova ormai in osmosi col mondo secolare? Fino al raggiungimento di un preoccupante equilibrio paritario?
  La relazione di Agamben parla di biopolitica, quindi fa riferimento proprio alla prima emergenza, che nonostante le apparenze resta quella più grave da ogni punto di vista, anche perché appare essa stessa come un virus che mira a contagiare l'intero corpo sociale, rivolgendosi con vari accenti alle diverse parti che lo compongono, anche quella religiosa. E c'è un motivo per dire che la bioemergenza è la più grave: perché fa un uso  totale e "scientifico" della menzogna. E' su questa che si basa la sua costruzione; è con l'uso reiterato ed ossessivo della menzogna che riesce a trasformare tutti i cittadini in complici, al punto che non si sa più contro chi rivoltarsi, perché tutti sono ad un tempo vittime e carnefici. 
  Tutti complici, e manca il reo, dice Agamben. All'individuazione di questo "reo" potrebbe rivolgersi la riflessione evangelica, sapendo che nella sua ricerca non si può che far uso del linguaggio biblico, cioè riferirsi in modo strutturale a parole, fatti e concetti che si trovano in modo esclusivo nella Bibbia. In questo sito si è provato, con la consapevolezza dei propri limiti, ad affrontare aspetti importanti della bioemergenza con riferimenti fondamentali alla fede cristiana biblica. La stessa "Obiezione di coscienza in risposta all'obbligo di vaccinazione" che si trova stabilmente nella pagina iniziale può esserne un esempio. Ma molto resterebbe ancora da fare. 

(Notizie su Israele, 17 dicembre 2022)

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Netanyahu, i rapporti con Riad volano per negoziati con Anp

TEL AVIV – Una normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita potrebbe costituire "un salto di qualità" nei negoziati – congelati da anni – tra israeliani e Autonomia nazionale palestinese (Anp). Lo ha detto il premier incaricato Benyamin Netanyahu in una intervista con l’emittente Al Arabiya nella quale ha sottolineato che gli Usa "devono riaffermare" le loro tradizionali alleanze con i partner in Medio Oriente, in particolare con Riad. A giudizio di Netanyahu non "dovrebbero esserci oscillazioni periodiche o addirittura selvagge" in quelle relazioni che sono "l’ancora della stabilità nella regione".
  Nonostante gli Accordi di Abramo con i Paesi del Golfo che hanno di fatto innescato un processo di distensione nell’area della penisola arabica come, ad esempio, il sorvolo della zona da parte dei velivoli israeliani, Israele e Arabia Saudita tuttavia non hanno ancora allacciato normali relazioni diplomatiche. Ma i loro rapporti si sono rafforzati a fronte del comune nemico iraniano.

(ANSA, 16 dicembre 2022)

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A Dubai apre un supermarket kosher per la comunità ebraica (e turisti)

É il primo nei Paesi del Golfo ed è frutto di crescenti legami con Israele in seguito agli “Accordi di Abramo”. Si chiama Rimon e sorge nei pressi del Jewish Community Center. Rabbino Levi Duchman parla di “enorme felicità”. Fra i primi appuntamenti la festa delle luci (Hanukkah). 

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DUBAI - In settimana a Dubai ha aperto i battenti il primo supermarket kosher al servizio della locale comunità ebraica, in continua crescita negli ultimi due anni grazie anche agli “Accordi di Abramo” sottoscritti da Israele con parte del mondo arabo. Un aumento che, di riflesso, ha fatto schizzare la domanda di cibi che rispecchiano l’insieme di regole religiose e pratiche alla base della cucina degli ebrei osservanti, oltre a essere un mercato di interesse anche dal punto di vista economico. 
  Il supermercato kosher è una prima assoluta per tutta l’area del Golfo. Il negozio si chiama Rimon (termine ebraico per “Melograno”) e sorge a cinque minuti in auto dal Jewish Community Center, che ospita al suo interno una sinagoga e prevede classi di Torah oltre a eventi di socializzazione e incontro. Fra i grandi fautori dell’apertura il rabbino Levi Duchman, una delle figure più autorevoli della comunità ebraica degli Emirati Arabi Uniti, il quale ha voluto ringraziare governo e autorità per la collaborazione fornita nella realizzazione del punto vendita. 
  “Al mio arrivo otto anni fa - ha spiegato il rabbino ad al-Monitor - ho fin da subito sentito il bisogno di realizzare più infrastrutture ebraiche. Ora che abbiamo un supermercato kosher pieno e la possibilità per le famiglie e i turisti di venire a trovarci, è un grande passo avanti per la normalizzazione e verso una vita secondo i dettami ebraici qui negli Emirati Arabi Uniti”. L’apertura del supermercato giunge durante le festività natalizie, quando la domanda di cibo tradizionale è abbondante. Gli scaffali sono riforniti di ingredienti popolari e tradizionali come patate, marmellate, zuppe; fra le prime ricorrenze la festività ebraica di Hanukkah (la festa delle luci) che inizia il 18 dicembre e si conclude il 26, dopo otto giorni. Nelle celebrazioni che ricordano la vittoria della luce sulle tenebre, osserva Duchman, “avere il nostro supermercato kosher qui, permette alle famiglie di acquistare cibo kosher” e questo è fonte di “enorme felicità”. 
  Rimon ha una pagina social in cui racconta prodotti e iniziative e, come da tradizione, osserverà la chiusura per lo Sabbath, il giorno di riposo dalla mezzanotte di venerdì fino al calar della sera del sabato. La presenza di un centro specializzato per il cibo kosher era un’esigenza sentita da tempo per la comunità ebraica, perché la preparazione degli alimenti si discosta dai metodi per la realizzazione del cibo halal, in conformità alla legge islam. Nel 2021 gli Emirati contavano un 11% di popolazione nativa, di cui l’85% musulmani sunniti. Dalla firma degli Accordi a settembre 2020 almeno 250mila turisti israeliani hanno visitato il Paese e l’obiettivo è farne arrivare altri anche dalle nazioni della diaspora, mentre la comunità ebraica locale è formata da circa 500 persone.

(AsiaNews, 16 dicembre 2022)

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La Palestina ringrazia la risoluzione ONU a favore della sovranità palestinese sulle sue risorse naturali

RAMALLAH – L’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA) ha rinnovato l’adozione della sovranità permanente del popolo palestinese nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e della popolazione araba nelle Alture occupate del Golan siriano in una risoluzione sulle loro risorse naturali.
  159 Stati membri hanno votato a favore della risoluzione, otto hanno votato contro – Canada, Ciad, Israele, Isole Marshall, Stati federati di Micronesia, Nauru, Palau e Stati Uniti – e 10 si sono astenuti.
  Le Nazioni Unite hanno affermato che “con il testo, l’Assemblea ha chiesto a Israele, potenza occupante, di cessare lo sfruttamento, il danneggiamento, la perdita o esaurimento e la messa in pericolo delle risorse naturali nel Territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme Est, e nelle Alture occupate del Golan siriano”.

(Infopal, 16 dicembre 2022)
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Questa è l'ONU, organizzazione delle Nazioni-Unite-Contro-Israele. I palestinesi, naturalmente, ringraziano.

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I 35 anni di Chanukkà a piazza Barberini: la libertà e l’orgoglio di essere ebrei

di Sarah Tagliacozzo

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Sono trascorsi 35 anni da quando fu accesa la prima candelina della grande chanukkià di Piazza Barberini a Roma. Un evento molto amato dalla comunità ebraica ma anche dai tanti cittadini e turisti curiosi che si trattengono per festeggiare insieme la festa delle luci. Quest’anno la prima candelina verrà accesa il 18 dicembre. Rav Shalom Hazan ci ha raccontato la storia di questa iniziativa.

• Come è nata l’idea di accendere la chanukkià a Piazza Barberini? 
  All’inizio degli anni Settanta, intorno al 1972, il Rebbe ha cominciato a parlare di come la festa di Chanukkà promuovesse l’osservanza dell’ebraismo usando eventi legati alla festività e alla stessa chanukkià. Nel 1974, un rabbino Chabad di Philadelphia organizzò l’accensione di una grande chanukkià in pubblico davanti all’Independence Hall, che è un considerato la culla degli Stati Uniti come nazione. La chanukkià esposta a Philadelphia era alta circa un metro e mezzo, e la sua accensione pubblica fu il primo evento di questo tipo registrato negli Stati Uniti. In seguito, nel 1975, il rabbino chabad dell’Università di San Francisco, in California, Rav Chaim Drizin, ideò il progetto di costruire e di accendere una grande chanukkià in pubblico – un’idea che piacque molto al Rebbe, tanto che iniziò a promuovere l’iniziativa tra i vari emissari del movimento chassidico nel mondo.

• E a Roma cosa accadde?
  Nel 1987, mio padre, Rav Itzchak Hazan, direttore dei Chabad a Roma, si informò sulla possibilità di fare una cosa di questo genere anche nella sua città. Si rivolse quindi a Rav Toaff chiedendogli una mano per ottenere i permessi e lo invitò a collaborare all’iniziativa. Rav Toaff appoggiò pienamente il progetto, e scrisse una lettera presentando mio padre al Consiglio comunale, chiedendo il loro supporto per organizzare l’iniziativa. Anche al Comune di Roma piacque molto l’idea. Mio padre pensò che Piazza Barberini potesse essere il posto più adatto, sia per la sua posizione centrale, nel cuore di Roma, che per il grande spazio aperto che offre – dove è possibile svolgere una cerimonia senza dover disturbare il traffico. Il comune diede i permessi necessari per costruire la grande chanukkià in mezzo alla piazza e da quel momento in poi il Comune di Roma ha sempre pienamente appoggiato tale iniziativa, al punto da considerarlo un appuntamento fisso e tipico della vita romana.

• Qual è l’importanza dell’iniziativa? 
  Il Rebbe voleva promuovere questa attività sia per coinvolgere le persone nelle mitzvot e avvicinarle di più al mondo della Torà, ma anche per la fierezza di sentirsi al sicuro nell’esprimere la propria identità ebraica nello spazio pubblico. Spesso noi ebrei, purtroppo, a causa delle vicissitudini che abbiamo affrontato nella storia, non vogliamo mettere troppo in mostra il nostro ebraismo. Siamo molto attaccati alle nostre tradizioni, ma per strada non sempre mettiamo in mostra il nostro essere ebrei.
  Quel primo anno, dopo la conclusione della cerimonia, quando ormai erano andati via tutti, mio padre notò un signore rimasto solo a fissare la chanukkià piangendo. Piangeva, piangeva con la kippà in testa. Malgrado mio padre non lo conoscesse, decise di avvicinarsi e gli chiese come andasse e perché fosse triste. Lui gli rispose che non era triste, ma che erano lacrime di gioia. Gli raccontò quindi la sua storia. Era sopravvissuto alla Shoah. Era stato preso dai tedeschi, riuscendo a fuggire prima di essere deportato. Disse che era la prima volta dai tempi della guerra che si trovava per strada e non dentro ad un tempio con la kippà in testa. “Sono qui con la kippà in testa e sono fiero di essere qui con la kippà in pubblico” disse. Quell’uomo era Angelo Di Porto z’’l, venuto a mancare pochi mesi fa. 
  È questo il significato più profondo dell’iniziativa di accendere la chanukkià in pubblico. Angelo Di Porto ha espresso un sentimento generale: non dobbiamo nascondere il nostro essere ebrei, possiamo anche farlo per strada ed esserne fieri.

• Come è stata accolta l’iniziativa dai cittadini romani?
  Questo evento è diventato subito molto formale anche per la collaborazione di Roma con una organizzazione internazionale come Chabad Lubavitch. Già dal primo anno, Piazza Barberini era piena di ebrei romani e tripolini, di non ebrei, curiosi e turisti. È diventato subito un appuntamento fisso. La chanukkià è un ambasciatore di luce per la cittadinanza perché il messaggio di illuminazione e dei pochi che possono essere forti contro molti sono alcuni dei temi di Chanukkà ribaditi dai rabbanim, ma anche dagli esponenti delle istituzioni che intervengono e sottolineano l’idea di essere lì per mostrare che nell’oscurità basta una piccola fiamma per illuminare. Si tratta di un tema comune a tutti, non solo al popolo ebraico.

(Shalom, 16 dicembre 2022)

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Cambiare la Legge del ritorno

Durante la fase delle negoziazioni per formare il nuovo governo d'Israele i partiti Shas, YaHadut HaTorah e Sionismo religioso hanno posto alcuni punti come essenziali per poter far parte della coalizione guidata da Benjamin Netanyahu. Tra questi, inserire nel patto di coalizione una modifica alla Legge del Ritorno del 1950. La norma stabilisce il diritto di ogni persona di religione ebraica nel mondo a immigrare in Israele e ottenere la cittadinanza israeliana. Tra coloro che possono farvi ricorso, chi ha almeno un nonno o un coniuge ebreo, o si è convertito all'ebraismo.
  I media raccontano che i tre partiti della maggioranza vorrebbero cancellare in particolare il primo punto, definito come la "clausola del nipote". Una modifica - ritenuta dai più poco plausibile - che se dovesse andare in porto rappresenterebbe una cambiamento radicale. Non tanto nei numeri, ha sottolineato ad Haaretz il demografo Sergio Della Pergola. "Ma dal punto di vista simbolico, sarebbe un cambiamento importante e una mossa molto stupida", il commento del professore emerito dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Nel 2022 nel mondo le persone che si identificano come ebrei sono circa 15,5 milioni, riferisce Della Pergola al quotidiano israeliano. Sarebbero invece 25,5 milioni le persone che, secondo le norme attuali, possono fare richiesta per l'aliyah. Tra queste, tre milioni possono usufruire della "clausola del nipote", due delle quali vivono negli Usa. "In media, solo circa 3.000 americani emigrano in Israele ogni anno e la maggior parte di loro sono ebrei ortodossi. Ciò significa che, in pratica, un cambiamento nella definizione di idoneità non avrebbe un grande impatto sull'aliyah" spiega Haaretz, sulla base dei dati di Della Pergola.
  La cancellazione della "clausola del nipote", aggiungono altri media, avrebbe soprattutto effetto sugli olim provenienti dai Paesi dell'ex Unione Sovietica. Un tale cambiamento - scrive ad esempio il Times of Israel - avrebbe drasticamente ridotto il numero delle richieste di emigrazione in Israele dall'Ucraina e dalla Russia, arrivate dopo l'invasione decisa da Mosca. Tra coloro che, all'interno della maggioranza, difendono la Legge del Ritorno nei suoi elementi attuali anche l'ex speaker della Knesset Yuli Edelstein. Parlando alla Knesset durante un evento sull'aliyah, Edelstein - a sua volta immigrato dall'Unione Sovietica - ha avvertito che cancellare la "clausola del nipote" potrebbe portare alla scomparsa dell'intera Legge del Ritorno. "Non cerchiamo di cambiarne una parte. Non cerchiamo di migliorarla. Lasciamola in pace", ha esortato dagli scranni della Knesset.
  Entrambi i rabbini capo d'Israele, David Lau (ashkenazita) e Yitzhak Yosef (sefardita), si sono espressi a favore della modifica della norma. Una posizione già espressa in passato più volte. "Lo Stato di Israele - aveva ad esempio detto rav Lau nel 2014 - deve decidere se vuole essere uno Stato sociale per il Terzo Mondo, accogliendo tutti coloro che hanno un legame con l'ebraismo, o forse solo coloro che sono ebrei". Una posizione che trova una sponda nelle affermazioni di oggi di alcuni rappresentanti della Knesset. Tra cui un compagno di partito di Edelstein, Shlomo Karhi. "Il 72 per cento degli immigrati nel 2020 non sono ebrei", ha scritto Karhi sui suoi profili social commentando il possibile emendamento della Legge del Ritorno. "Il 41 per cento degli immigrati lo scorso anno ha ricevuto un passaporto e dei sussidi ed è tornato nei propri Paesi d'origine. Questo non è solo uno spreco di denaro pubblico, ma è una minaccia esistenziale per il futuro della nazione ebraica in questo Paese, con i matrimoni misti e l'assimilazione dilaganti. E tempo di rimediare, prima che il danno sia irreversibile" la posizione di Karhi, che trova il sostegno dei partiti Shas, Sionismo religioso e Yahadut HaTorah. La modifica dunque potrebbe diventare un tema caldo di questa nuova legislatura.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2022)

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Geni antichi e moderni raccontano la storia degli ebrei aschenaziti

di Federica DʹAuria

L'antica sinagoga di Erfurt
Durante il XIV secolo, nella città tedesca di Erfurt, oggi capitale della regione della Turingia, abitava una delle maggiori comunità aschenazite d’Europa. Gli aschenaziti rappresentano il principale gruppo etnoreligioso di fede ebraica che si costituì nell’area della Renania a partire dal X secolo e che nei secoli successivi si diffuse nell’Europa centrale e orientale.
  Un gruppo di ricercatori dell’università di Harvard e dell’università ebraica di Gerusalemme ha collaborato con la comunità ebrea di Erfurt per svolgere il più ampio studio genetico mai condotto finora su una popolazione aschenazita medievale: sono stati sequenziati i genomi di 33 individui vissuti tra il 1200 e il 1400 sepolti in un cimitero ebraico tardomedievale scoperto a Erfurt nel 2013. L’analisi genetica ha mostrato che all’epoca nella città convivevano due gruppi di aschenaziti – provenienti, rispettivamente, dall’Europa occidentale e da quella orientale dall’unione delle quali sembrano discendere i moderni aschenaziti.
  I risultati di questo lavoro di ricerca, la cui prima firmataria è Shamam Waldman, dell’università ebraica di Gerusalemme, sono particolarmente preziosi perché permettono di iniziare a ricostruire le più remote dinamiche demografiche della popolazione aschenazita, ancora in parte sconosciute.
  Alcuni precedenti studi di genetica avevano già cercato di formulare delle ipotesi riguardo l’origine e la provenienza dei primi aschenaziti tramite l’analisi del dna degli aschenaziti moderni. Da queste indagini è emerso che la popolazione aschenazita di tutto il mondo risulta oggi essere geneticamente omogenea. Esistono infatti delle varianti genetiche, alcune delle quali purtroppo associate alla predisposizione a specifiche patologie, che ricorrono con una frequenza molto più alta in questo gruppo di popolazione rispetto alla popolazione globale. La scarsa diversità genetica che caratterizza gli aschenaziti contemporanei suggerisce che essi discendano tutti da uno stesso gruppo ristretto di circa cento individui.
  Questa scoperta implica che nella lunga e complessa storia degli aschenaziti si formò a un certo punto un collo di bottiglia che ridusse drasticamente la loro diversità genetica. Un collo di bottiglia è un fenomeno per cui, in seguito a un evento solitamente catastrofico (come un’epidemia, una strage o un disastro ambientale), il numero dei membri di una popolazione diminuisce notevolmente nel giro di poco tempo. In questi casi, i pochi sopravvissuti sono quelli da cui discenderanno le future generazioni della popolazione in questione. Se alle dinamiche genetiche si accompagnano alcune tradizioni culturali per cui gli individui di queste comunità continuano a praticare l’endogamia per molte generazioni, questi continueranno a conservare la maggior parte del patrimonio genetico del nucleo di sopravvissuti al collo di bottiglia. Questo è ciò che è accaduto con gli aschenaziti, il cui isolamento genetico dura da secoli e ha plasmato il loro dna, che oggi riflette una discendenza intermedia da popolazioni dell’Europa occidentale.
  L’analisi dei genomi di individui contemporanei non poteva però fornire dati precisi per ipotizzare come e quando fosse avvenuto questo collo di bottiglia così antico. Al contrario, il materiale genetico di individui vissuti molti secoli fa, in un’epoca molto più vicina all’evento in questione, poteva nascondere preziose informazioni a riguardo. Eppure, non era facile né scontato ottenere l’approvazione della comunità ebraica locale, il cui credo impone di rispettare i morti e di non disturbare il loro riposo.
  I ricercatori che hanno condotto lo studio hanno quindi dovuto cimentarsi con un problema di etica religiosa che non poteva, naturalmente, essere ignorato. La questione è stata risolta con un accordo con il rabbino di Erfurt che ha concesso agli studiosi di trarre il DNA da analizzare da denti già staccati ritrovati nelle sepolture già scoperte. Come osserva Andrew Carry, che ha raccontato questa storia su Science, l’accordo in questione potrebbe costituire un precedente per svolgere, in futuro, altri studi sul DNA antico di popolazioni ebraiche senza violare la sensibilità religiosa dei locali e, soprattutto, agendo nel loro interesse.
  Le ipotesi tratte dagli studi condotti in precedenza suggerivano che il collo di bottiglia e la conseguente crisi demografica risalissero proprio al XIV secolo, periodo caratterizzato dall’epidemia di peste nera. Eppure, dall’esame dei resti umani ritrovati nel cimitero di Erfurt – sui quali sono state effettuate anche analisi al radiocarbonio e isotopiche per stabilire il periodo e la collocazione geografica in cui vissero gli individui in questione – sembra che il collo di bottiglia sia avvenuto in epoche ancora più remote. I ricercatori hanno scoperto non solo che gli aschenaziti contemporanei discendono da quelli che abitavano a Erfurt e nelle regioni circostanti nel XIV secolo, ma anche che questi ultimi erano già geneticamente omogenei allora. Questo significa, come viene spiegato nello studio, che il collo di bottiglia in questione debba essersi verificato diversi secoli prima.
  Ma questi non sono gli unici risultati degni di nota dello studio di Waldman e coautori, i quali hanno anche constatato che il patrimonio genetico degli individui seppelliti a Erfurt fosse sì piuttosto omogeneo, ma non tanto quanto quello dei moderni aschenaziti. Le analisi genetiche hanno permesso di distinguere tra le persone seppellite nel cimitero di Erfurt due discendenze genetiche: una associabile all’area occidentale dell’Europa e un’altra all’Europa centrorientale. L’esistenza di due gruppi di diversa cultura, lingua e provenienza all’interno della comunità aschenazita di Erfurt è stata confermata anche dal controllo dei registri fiscali e immobiliari dell’epoca, dove compaiono i nomi e i cognomi dei residenti aschenaziti medievali.
  L’ipotesi dei ricercatori è che questi due gruppi discendessero, rispettivamente, da un primo nucleo di aschenaziti arrivati in Renania nell’800 e dai membri di un altro gruppo di aschenaziti giunti a Erfurt (la quale si trovava in una posizione centrale tra le comunità ebraiche europee dall’est e dell’ovest) da Boemia, Moravia e Slesia nel XIV secolo.
  I risultati permettono infine di intuire quanto fosse profondo il senso di appartenenza di questa comunità, che se già nel Medioevo era omogenea da generazioni (e così è rimasta, osservando i genomi moderni) significa che i matrimoni misti tra gli ebrei e i cristiani, che pure abitavano a Erfurt e nelle altre città medievali circostanti, fossero molto rari, nonostante queste due popolazioni vivessero a stretto contatto.
  Come precisato dagli stessi autori, quella proposta nello studio non rappresenta certo una ricostruzione precisa e definitiva delle dinamiche demografiche degli aschenaziti antichi; gli sforzi per riportare alla luce queste remotissime vicende potranno continuare solo grazie alla collaborazione tra scienza e comunità locale nel rispetto degli interessi di quest’ultima e della sensibilità religiosa dei suoi membri.

(UniPD, 16 dicembre 2022)

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