Notizie 16-31 dicembre 2023
Il nazi-islamismo sciita e i suoi sodali
di Niram Ferretti
“La curva vitale del regime sionista ha iniziato la sua discesa, e si trova ora in una parabola discendente verso la sua caduta…Il regime sionista verrà cancellato e l’umanità sarà liberata”, così dichiarava l’ex presidente iraniano Ahmadinejad il 12 dicembre del 2006 durante il convegno negazionista che si teneva a Teheran dove si era adunata una impressionante congrega di psicotici e lunatici. Parole, che echeggiano quelle di Adolf Hitler riguardo alla necessità di liberare il mondo dalla presenza ebraica, e quelle di Hamas iscritte nella Carta del 1989 dove l’ebreo è il nemico dell’Umma, diventato poi, nel 2017, in un documento più morbido, non più l’ebreo in quanto tale ma il “sionista”. Parole che non sono diverse da quelle scritte nel 2018 dalla Guida Suprema Ali Khamenei sul suo account Twitter in lingua inglese, “Il regime sionista non durerà. Tutte le esperienze storiche lo evidenziano con assoluta certezza. Senza dubbio il regime sionista perirà in un futuro non lontano”. Futuro segnato dalla scansione delle lancette dell’orologio fatto collocare in piazza della Palestina a Teheran.
Nulla di sorprendente dunque, se Hamas, dopo un periodo di distacco ritornò nelle grazie iraniane, così come non c’è nulla di sorprendente nell’avere visto sempre nel 2018 una bandiera con la svastica piantata a Gaza durante i tumulti cominciati il 30 marzo di quell’anno ai confini di Israele, oppure aquiloni incendiari ornati di svastiche. Si tratta infatti, nel caso di Hamas e del regime sciita, della stessa linea ideologica, del medesimo collante virulentemente antisemita che appena si è creata l’occasione ha ripudiato la foglia di fico antisionista, quella che così tanto piace alla sinistra woke e non woke e furoreggia nelle piazze “pacifiste” occidentali.
L’ebreo è in fondo, per il radicalismo islamico sunnita o sciita che esso sia, il nemico metafisico essenziale, la condensazione purulenta di ogni male e ai gonzi che evidenziano come in Iran vi sia comunque ancora una comunità ebraica, seppure cospicuamente dimidiata, bisognerebbe far notare che i suoi appartenenti sono considerati dhimmi, che le sinagoghe sono gestite dal regime, che non possono chiudere di Shabbat e che i libri in ebraico sono proibiti. Si tratta, in altre parole, dello zoo ebraico di Teheran. D’altronde, il Padre della Patria Sciita, l’ayatollah Khomeini, non aveva alcun dubbio in proposito fin dai tempi in cui ascoltava le trasmissioni radio che i nazisti mandavano in onda da Zeesen, in farsi.
La propaganda antisemita del futuro riformatore era già ampiamente rodata negli anni ’60, quando dichiarava furente, “So che non volete che l’Iran giaccia sotto gli stivali degli ebrei!“. Per Khomeini, come per Hitler prima di lui, il complotto ebraico per dominare il mondo e soprattutto, nel suo caso, per distruggere l’Islam, era una certezza.
Una cosa deve essere specialmente chiara, che ai vertici del regime attuale che domina l’Iran c’è una casta di allucinati i quali condividono la persuasione che Israele sia la testa di ponte di un diabolico potere di cui gli Stati Uniti sarebbero la maggiore incarnazione, essi stessi imbrigliati nei suoi tentacoli. Ci riferiamo ovviamente alla famigerata lobby ebraica, il proseguimento in veste aggiornata dei Savi Anziani dei Protocolli e protagonista di un feuilleton del 2007 The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy di John Mearsheimer e Stephen M. Walt, demolito da Benny Morris e poi da Jeffrey Goldberg.
Satana si biforca in due, nel grande e nel piccolo, ma alla fine ha solo una fisionomia, quella ebraica. Gli iraniani in quanto tali non sono antisemiti più di quanto lo fossero i cento e passa milioni di tedeschi affatturati da Adolf Hitler, ma se è malata la testa di una nazione, anche il corpo, inevitabilmente, ne risente.
L’Iran è oggi la principale minaccia per Israele, di cui desidererebbe l’annichilimento, esattamente come Hitler voleva sbarazzarsi, ad uno ad uno, di ogni ebreo sulla faccia della terra. Fino a quando, come durante il periodo del nazismo in Germania, il paese sarà sotto sequestro da parte di fanatici millenaristi ammaliati dal culto della morte, e convinti che l’Islam sciita debba essere esportato in tutto il Medioriente e oltre, nessuna pace potrà mai essere possibile in una regione già di suo sempre soggetta a scosse sussultorie.
Chi pensa di potere addivenire a patti con questa genia, di poterla addomesticare e convertire al pragmatismo, come l’ex presidente americano Obama e Joe Biden, attuale continuatore della sua politica con l’Iran, è preda della medesima illusione di quanti, negli anni ’30, pensavano che Hitler si sarebbe ammorbidito concedendogli giusto quel lebensraum di cui aveva bisogno per respirare meglio.
Israele è oggi concentrato su Hamas, che dall’Iran ha ricevuto impulso e incoraggiamento, e la guerra finalizzata a smantellarne la capacità operativa a Gaza sarà ancora lunga e cruenta, ma il nemico maggiore è più lontano e più insidioso e in procinto di procurarsi gli ordigni atomici che dovrebbero distruggere “l’entità sionista”.
È l’appuntamento del futuro.
(L'informale, 31 dicembre 2023)
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La guerra con Hamas costerà a Israele almeno 50 miliardi di NIS nel 2024
Secondo il Ministero delle Finanze, la guerra in corso con i terroristi di Hamas dovrebbe costare a Israele circa 50 miliardi di NIS ($13,8 miliardi di dollari) nel 2024, ipotizzando che i combattimenti a Gaza terminino nel primo trimestre del nuovo anno.
Per soddisfare le esigenze di sicurezza di Israele fino al 2024, la spesa per la difesa dovrebbe aumentare di 30 miliardi di NIS, come ha riferito il Ministero delle Finanze in un documento presentato lunedì alla Commissione Finanze della Knesset.
Altri 9,6 miliardi di NIS saranno necessari per le spese civili derivanti dalla guerra, tra cui l’evacuazione dei residenti lungo i confini meridionali e settentrionali del Paese, il rafforzamento delle forze di emergenza come la polizia e la riabilitazione delle comunità devastate dalla guerra. Altri 8,8 miliardi di NIS sono stati messi a bilancio per altri costi, tra cui un maggiore finanziamento del debito pubblico e maggiori spese per i tassi di interesse rispetto a quanto previsto prima dello scoppio della guerra.
Di conseguenza, la spesa complessiva del bilancio per il 2024 dovrebbe salire a 562,1 miliardi di NIS dai 513,7 miliardi approvati a maggio. Nel frattempo, è probabile che le entrate statali, soprattutto quelle fiscali, siano inferiori alle previsioni a causa del rallentamento dell’economia durante il periodo bellico.
Secondo le stime del Ministero delle Finanze, le spese superiori al previsto e le aspettative di minori entrate statali porteranno a un deficit di bilancio del 5,9% del prodotto interno lordo nel 2024, rispetto al tetto previsto del 2,25%. La guerra tra Israele e Hamas è scoppiata il 7 ottobre, quando circa 3.000 terroristi hanno attraversato il confine con Israele dalla Striscia di Gaza via terra, aria e mare, uccidendo circa 1.200 persone e sequestrando oltre 240 ostaggi di tutte le età, per lo più civili.
In risposta, Israele ha mobilitato più di 350.000 soldati della propria riserva per unirsi ai combattimenti, allo scopo di eliminare il gruppo terroristico con una campagna militare su vasta scala a Gaza. L’esercito israeliano ha anche ammassato forze nel nord per contrastare gli attacchi del gruppo terroristico Hezbollah, sostenuto dall’Iran.
Il Ministero delle Finanze prevede che il prossimo anno l’economia crescerà a un ritmo dell’1,6%, rallentando ulteriormente rispetto al 2% previsto per il 2023, e dopo una rapida crescita del 6,5% nel 2022. Questo tra le aspettative di un continuo rallentamento dei consumi privati, delle transazioni immobiliari e degli utili aziendali a causa delle ripercussioni della guerra.
Il Ministero ha ridotto le previsioni delle entrate statali per il 2024 a 417,1 miliardi di NIS e prevede che saranno inferiori di 35 miliardi di NIS rispetto alle proiezioni di giugno.
Nelle ultime settimane, il governatore della Banca d’Israele Amir Yaron ha esortato i legislatori ad apportare modifiche e tagli alle spese del bilancio 2024 che non sono legate allo sforzo bellico o che non promuovono la crescita, per bilanciare l’aumento dei costi di guerra, pur mantenendo la responsabilità fiscale.
L’appello alla moderazione fiscale giunge mentre la banca centrale teme che la gestione da parte del governo del maggior onere di spesa per la sicurezza possa danneggiare la posizione di Israele sui mercati internazionali e influire negativamente sulle future decisioni delle agenzie di rating, che a loro volta potrebbero portare a un aumento dei costi per la raccolta del debito.
A metà dicembre è stato approvato un bilancio suppletivo per il 2023 di 28,9 miliardi di NIS per coprire i costi dei combattimenti in corso con Hamas e Hezbollah, di fronte all’opposizione dei partiti di entrambi gli schieramenti perché includeva alcuni finanziamenti destinati a progetti non legati allo sforzo bellico.
Il bilancio suppletivo comprendeva un aumento delle spese militari e fondi per le spese civili, come gli alloggi per gli sfollati dal nord e dal sud del Paese. Ma, cosa controversa, include anche centinaia di milioni di shekel nei cosiddetti “fondi di coalizione”, che sono fondi discrezionali destinati ai progetti di MK e ministri. Il bilancio supplementare aggiunge altri 25,9 miliardi di NIS al bilancio originale del 2023, portandolo a 510,6 miliardi di NIS, prima dei costi di servizio del debito. Altri 3 miliardi di NIS saranno stornati dai fondi esistenti.
Circa 17 miliardi di NIS dei 28,9 miliardi di NIS per la guerra saranno destinati ai costi della sicurezza, come l’acquisto di armi e i pagamenti per i riservisti dell’IDF, mentre 12 miliardi di NIS finanzieranno le spese del fronte interno.
(Israele 360°, 31 dicembre 2023)
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«Keren» una parola profetica per il Messia (3)
“Keren” nel libro di Samuele
di Gabriele Monacis
Nell'ultimo articolo ci siamo occupati del sacrificio di Isacco, nel cui racconto compare per la prima volta nella Bibbia il termine keren. Il racconto indica profeticamente il Messia che dà la sua vita per la redenzione di molti. Al posto del figlio Isacco, Abramo sacrificò un ariete le cui corna erano rimaste impigliate nel sottobosco. È proprio qui che troviamo la parola keren nel racconto: la parte dell'ariete (le corna) che gli conferiscono forza e aspetto regale si impigliò e lo rese facile preda di Abramo. E il nostro Signore Gesù Cristo ha permesso che gli venisse posta una corona di spine sul capo, cioè nel posto destinato alla incoronazione come Re dei Re.
In questo terzo articolo vogliamo esaminare più da vicino due passaggi in 1 e 2 Samuele in cui compare la parola keren. Se consideriamo 1 e 2 Samuele come un unico libro, i due testi si trovano all'inizio e alla fine del libro. In questa parte della Bibbia, keren ha anche un significato profetico, perché dice qualcosa di molto importante sulla vita di Cristo: la sua morte e la sua resurrezione. Ma andiamo con ordine.
Il libro di Samuele inizia con la storia di Elkana e delle sue due mogli, Anna e Peninna. Anna, che Elkanah ama molto, non ha figli perché Dio l'ha resa sterile. Peninna, che ha figli, umilia Anna per la sua sterilità. Ogni anno la famiglia si reca alla casa di Dio a Shiloh per offrire il sacrificio. È un giorno di festa per loro, ma anche un giorno di sofferenza per Anna. Leggiamo che un giorno, "afflitta com'era", pregò Dio e pianse amaramente (1 Samuele 1:10). In questa preghiera promise a Dio che se le avesse dato un figlio, lo avrebbe dedicato a Lui per tutta la vita.
Dio rispose alla preghiera di Anna e le diede un figlio, che lei chiamò Samuele. In 1 Samuele 2 è riportata la preghiera di ringraziamento di Anna, in cui loda e glorifica Dio perché ha ascoltato la sua preghiera. Nel primo versetto dice: "Il mio cuore esulta nel Signore; il mio corno è esaltato dal Signore". Nella preghiera di Anna, il "corno" (keren) simboleggia la "forza". Dice che Dio le ha dato una nuova forza quando era senza speranza. Ma questo non è l'unico momento della preghiera in cui ricorre il termine keren. Alla fine della preghiera, nel versetto 10, Anna dichiara che Dio "darà potere al suo re ed esalterà il corno del suo unto". In altre parole, Dio farà per il suo Unto (e in ebraico l'"Unto" è il Messia) quello che ha fatto per Anna: gli darà forza e lo solleverà dalla profonda umiliazione.
Come già detto, il termine keren compare anche alla fine del libro di Samuele. In 2 Samuele 22 troviamo il canto di ringraziamento di Davide, scritto quando "il Signore lo aveva liberato dalla mano di tutti i suoi nemici, anche dalla mano di Saul" (v. 1). Nel terzo versetto, Davide canta e loda Dio per la sua protezione: "Dio è la mia roccia in cui mi rifugio, il mio scudo e il corno della mia salvezza".
Sia Davide che Anna ringraziano Dio per averli salvati dai loro nemici. Ma c'è un altro parallelo: la preghiera di Anna e il canto di ringraziamento di Davide terminano con un riferimento al Messia. Anna parla del "corno del suo unto"; Davide canta in 2 Samuele 22:51 dicendo che Dio "ha dato grandi vittorie al suo re e mostra favore al suo unto Davide e alla sua discendenza per i secoli dei secoli". Anche in questo caso, l’”Unto" in ebraico è il Messia.
Anna e Davide potevano entrambi testimoniare di essere stati vicini alla morte per mano dei loro nemici. Ma nella loro angoscia, gridarono a Dio ed Egli li ha salvati e portati in un luogo di sicurezza. Quello che Anna e Davide hanno vissuto è un'immagine di quello che ha dovuto vivere il Messia. Anche Lui dovette scendere fino in fondo, nella valle della morte, e lì Egli gridò a Dio, che lo trasse fuori risuscitandolo dai morti.
(3. continua)
(Nachrichten aus Israel – Juni 2022)
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Antisemitismo genocida, il ritorno del "mostro"
Quegli slogan di odio nel cuore dell'Occidente
di Fiamma Nirenstein
Gina Semetich era sopravvissuta al campo di concentramento di Terezin, là era stata trascinata dalla Cecoslovacchia invasa dai nazisti. Adesso, a 91 anni, in Israele, a Kissufim, quattro chilometri da Gaza, i nazisti l'hanno trovata di nuovo, trascinata, picchiata, buttata per terra, uccisa. Perché era ebrea. I sopravvissuti che nel mondo hanno visto questa scena hanno capito che era tornata la Shoah. Diversa, come sempre è la storia, ma come nella loro vita precedente, i bambini sono stati ammazzati e fatti a pezzi (i nazisti li sbattevano nel muro, Hamas gli ha tagliato la testa), le donne incinte sono state sventrate, i giovani e le giovani violentati e uccisi, all'improvviso, in un pogrom. Nell'Essex la polacca Fran di 85 anni dice a un giornale che lei non si sente più sicura. Ha paura. Come lei tutti i sopravvissuti che hanno bisogno solo di abbracci. Tutti gli ebrei del mondo hanno dentro la memoria di una fuga, di una guerra, di un miracolo: c'è sempre in famiglia un avo, un nonno, una madre, vittime dell'antisemitismo. Ma dopo la seconda guerra mondiale, il mondo gli aveva giurato never again: Exodus era arrivata in porto, il legittimo sogno di decolonizzazione del Medio Oriente in cui ci fosse posto anche per lo Stato ebraico mai abbandonato, era stato la prima legittima affermazione di una promessa dopo Auschwitz. E adesso? Molte terribili storie, senza mai dimenticare quella Ucraina, marcano questo 2023, ma nessuna è minacciosa, dopo la strage di Be'eri o Kfar Aza, al grido di «Yehud yehud», come l'inseguimento degli ebrei nelle vie di New York, Londra, Parigi, Milano... Questo è stato l'anno del ritorno dell'antisemitismo genocida, il mostro che ha devastato la Terra solo 75 anni fa e che lo farà di nuovo se non si compirà una rivoluzione per ora non all'orizzonte.
Un famoso sindaco italiano qualche giorno fa in tv diceva che era stato a una manifestazione che era certo, filopalestinese come lui, ma certo non antisemita, era solo antisionista. Niente più essere più ingenuo o truffaldino. L'antisionismo odierno è antisemita, perché è genocida, vuole la distruzione di Israele e degli ebrei di tutto il mondo. E lo dimostra in ciò che fa e dice. Nelle botte, negli assassinii, nelle minacce, nella teorizzazione degli ebrei come male assoluto, quella dell'antisemitismo contemporaneo dopo quello religioso ed etnico. Mentre l'antisemitismo subito dopo l'attacco di Hamas si moltiplicava del 400 per cento, su Facebook occupava i post col 193% in più, in Francia gli ebrei venivano attaccati per strada 1.040 volte. I suoi cori di strada nel mondo dicono: «Fuck the jews», «A morte Israele», «Hamas Hamas uccidi gli ebrei», «Ci mangiamo gli ebrei», «Aprite i confini uccidiamo gli ebrei», «Fuori i sionisti da Roma», «Rivedrete Hitler all'Inferno», «Loro hanno le armi noi abbiamo Allah». Il motto più significativo è quello «dal fiume al mare la Palestina sarà libera»: ma si è verificato che la folla non sa da che fiume a che mare, è un'indicazione di genocidio metafisico, ma il sangue degli ebrei non lo è, e si è visto. Chi marcia o fa comizi, non vuole uno Stato palestinese accanto a Israele, ma la distruzione di tutto ciò che sia ebraico, in Israele come a Roma, come a Parigi. Università prestigiose, teatri, organizzazioni culturali, musicali, artistiche, espellono, terrorizzano, vilificano gli israeliani e gli ebrei. Ci hanno costretto a sorridere quando le tre direttrici dell'Ivy League fra le urla dei campus a caccia di ebrei si sono esibite nel loro: «Il genocidio dipende dal contesto». Ma non fa ridere che all'Onu, dopo aver conosciuto le atrocità mai viste nemmeno con l'Isis, Guterres se ne esca dicendo: «Non nasce nel vuoto».
Era già successo che Israele annegasse nel sangue, per esempio della Seconda Intifada senza un cenno di compassione. Ma adesso siamo più avanti. Anche la Kristalnacht ebbe luogo nel novembre del 1938, e ancora non c'era la guerra, né le deportazioni. Ma «dal fiume al mare» parla chiaro: «Globalize the Intifada». Non è il sionismo che crea il nuovo l'antisemitismo e con esso l'odio per l'occidente; esso è solo il nuovo veicolo dell'antisemitismo che ha già distrutto l'Europa e si sta estendendo dai kibbutz sul confine di Gaza all'affermazione violenta del movimento woke, dell'assertività musulmana, chiama guerra di liberazione il terrorismo, cerca alleanze (Iran, Russia) che destrutturino il mondo contemporaneo da religione a religione, da razza a razza, da sesso a sesso. Investe la conversazione di sinistra, distrugge la religione dei diritti umani. Il rifiuto di capire che uccidere 1.500 ebrei facendo a pezzi i bambini e le donne urlando «Yehud yehud» è antisemitismo, è pari alla rinuncia del principio di decenza per cui il mondo occidentale cercava, dopo aver ucciso 6 milioni di ebrei, di riscattarsi con never again. Ma adesso, non ci possiamo più credere. Non sono le piazze di ragazzi ignoranti o di immigrati furiosi che hanno la responsabilità della svolta attuale, e che la rendono pericolosa. Sono le anime gentili degli intellettuali e delle istituzioni. L'antisemitismo ha avuto una radice di odio religioso, poi etnico, e coi passaggi teorici legati al nazismo e poi col comunismo leader del mondo arabo, e infine con l'integralismo islamico contro l'impresa nazionale ebraica, si è trasformato in odio teorico, che ha invaso i media e le istituzioni. Tutti gli slogan di invenzione sovietica, poi trasferiti nella cultura woke, contro il colonialismo, l'imperialismo, il capitalismo, persino la supremazia bianca per cui gli ebrei sono diventati bianchissimi, persino l'odio lgbtq per il Paese in cui si rifugiano tutti i gay arabi... tutto si è rovesciato su Israele. Le maggiori istituzioni, specie l'Onu sono diventate la sentina dell'odio antiebraico mondiale: ogni mese il Consiglio di Sicurezza fa una finta «riunione sul Medio Oriente» contro Israele, l'anno scorso l'assemblea generale ha passato 15 risoluzioni contro Israele, e 13 sul resto del mondo, Iran, Turchia, Siria, Russia. Bernard Lewis, ricorda come la strage di 800 palestinesi perpetrata da cristiani libanesi a Sabra e Chatila nello stesso tempo in cui 20mila persone furono uccise a Hama da Assad padre, fu l'unica strage di cui si parlò perché la presenza militare di Israele in zona consentiva di biasimare gli ebrei. Sharon fu assolto da un tribunale internazionale. Nella difficile guerra in corso, Israele, dopo il 7 ottobre deve liberare sé stessa e il mondo a liberarsi da Hamas, batterlo sopra e sotto terra mentre usa i civili come scudi umani rispettando i diritti umani.
Israele difende la sua esistenza cosa che a differenza di qualsiasi altro stato, non gli viene riconosciuto. Never again, cioè, lo deve dire Israele stessa; nessuno glielo potrà impedire. Quello che il nuovo antisemitismo ignora è che è la prima volta in cui annichilire gli ebrei, con pogrom, stupro, sterminio, reclusione, non è più possibile. Per questo Israele deve purtroppo combattere: il mondo deve capire che non capiterà mai più che si lascino uccidere in silenzio. Pensarlo, immaginare che non debbano difendersi perché segnati da qualche colpa originaria, è antisemitismo: quindi, per esempio, è segno di doppio standard, ovvero di antisemitismo, chiedere un cessate il fuoco che riproponga la minaccia di Hamas. Non lo si chiederebbe a nessuno. Se si vuole essere degni di dire never again non ci sono scorciatoie.
(il Giornale, 30 dicembre 2023)
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Femministe in silenzio sugli stupri di Hamas
Un’indagine giornalistica rivela nuove testimonianze su violenze e mutilazioni commesse sulle donne israeliane dopo il raid del 7 ottobre.
di Carlo Nicolato
«#MeToo, tranne se sei ebrea». E' questa la sbalorditiva sintesi della reazione del movimento femminista occidentale al cospetto delle atroci violenze di Hamas ai danni delle donne israeliane stuprate, violate, torturate e uccise senza pietà il 7 ottobre.
La lentezza con la quale anche Un Women, l’agenzia dell’Onu per l’uguaglianza di genere, ha alla fine ammesso che qualcosa c’è stato con mille dubbi e troppi “ma” (uno su tutti che «non si può dimenticare la violenza indiscriminata di Israele») è un’onta che getta discredito perituro sulla stessa Organizzazione e su tutte le femministe accecate dai pregiudizi, dalle posizioni politiche, se non addirittura da indicibili questioni di razza.
• PROVE INCONFUTABILI
Eppure le prove inconfutabili sono lì, ci sono i filmati delle telecamere di sorveglianza e quelli girati dagli stessi assassini di Hamas, ci sono i racconti dei sopravvissuti testimoni oculari del massacro. Ci sono i cadaveri martoriati, mutilati, smembrati.
Il New York Times che ha definito e titolato la sofferenza di quelle donne «urla senza parole», ne ha fatto un reportage dettagliato frutto di una seria indagine durata due mesi in cui parla soprattutto chi in quelle ore è riuscito a nascondersi sfuggendo al massacro.
È la storia ad esempio di Sapir, una contabile di 24 anni che con altre centinaia di giovani era andata spensierata al rave della morte.
Pur ferita da un proiettile alla schiena Sapir era riuscita a nascondersi sotto i rami bassi di un folto tamerice e aveva visto tutto quello che succedeva intorno a sé. Aveva assistito in diretta allo stupro e l’uccisione di almeno 5 donne.
Ha raccontato che proprio lì, di fronte a lei, almeno 100 miliziani di Hamas armati si scambiavano armi e donne ferite come trofei di guerra, «era come un punto di raccolta». «La prima vittima che disse di aver visto era una giovane donna con i capelli color rame, il sangue che le scorreva lungo la schiena, i pantaloni abbassati fino alle ginocchia», racconta il Nyt, l’hanno stuprata così e quando lei cercava di ribellarsi le affondavano un coltello nella schiena. A un’altra mentre la violentavano le hanno tagliato il seno e poi se lo tiravano l’un l’altro come una palla, finché non è caduto a terra. Di tre donne ha visto solo le teste, mozzate.
Anche Raz Cohen e Shoam Gueta sono riusciti a nascondersi nel letto di un ruscello prosciugato. Hanno raccontato di aver visto un furgone bianco fermarsi una quarantina di metri di fronte a loro dal quale sono scesi cinque uomini e una ragazza seminuda.
L’hanno stuprata e poi l’hanno letteralmente massacrata con un coltello. I fatti sono stati confermati dai primi medici arrivati sul posto qualche ora più tardi.
Quattro di loro hanno affermato al New York Times di aver scoperto corpi di donne morte con le gambe divaricate e la biancheria intima mancante, alcune con le mani legate da fascette.
Altri sopravvissuti hanno raccontato che quando sono riusciti a scappare dal luogo del rave hanno trovato lungo la strada corpi di donne nude con le gambe divaricate e la zona vaginale fatta a pezzi. Tra loro c’era quello di Gal Abdush, madre di due figli, la cui foto, in cui appare seminuda e con la faccia bruciata, era circolata i primi giorni dopo l’assalto.
Scoperte del genere sono state fatte anche nei kibbutz assaltati da Hamas. Otto medici volontari e due soldati israeliani hanno confermato al Times che in almeno sei case diverse si erano imbattuti in un totale di 24 corpi di donne, ragazze e perfino bambine uccise nude o seminude, alcune mutilate.
• GLI ESAMINATORI
Gli esaminatori forensi inviati sul posto per il riconoscimento dei corpi hanno dovuto lavorare rapidamente per dare alle famiglie dei dispersi un senso di chiusura e soprattutto per determinare, attraverso un processo di eliminazione, chi era morto e chi era stato rapito e portato in ostaggio a Gaza. Molte prove sono andate perse così, anche perché la religione ebraica richiede che i funerali vengano fatti in fretta.
Ma oltre ai corpi, che comunque possono essere riesumati, e alle testimonianze, ci sono anche i video e le fotografie. Il Nyt li ha definiti insopportabili da vedere. Una serie di quelle fotografie riguarda il ritrovamento del corpo di una donna con chiodi conficcati nelle cosce e nell’inguine. Un video invece riprendeva i corpi di due donne soldato alle quali era stato sparato nella vagina. Di fronte a queste indicibili atrocità la sinistra dubita, le femministe tacciono e molte negano. Qualcuna, purtroppo tante, sostengono si tratti di «resistenza giustificata».
Libero, 30 dicembre 2023)
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Guerra giusta
I dettagli raccapriccianti che emergono dal circostanziato reportage del New York Times appena pubblicato relativo agli stupri, alle sevizie e alle uccisioni delle donne israeliane avvenute il 7 ottobre scorso da parte di Hamas, dettagli in parte già noti, ci mettono ancora di fronte, a ormai quasi tre mesi dagli eventi, all’orrore più bestiale.
Orrore che fin da subito Hamas ha cercato di negare e che, più è passato il tempo, più si è tentato di fare passare in secondo piano se non di dimenticare del tutto, spostando tutti i riflettori sulla guerra a Gaza e sulle vittime civili.
Le atrocità perpetrate da Hamas resteranno a perenne memoria tra le maggiori efferatezze commesse da degli esseri umani nei confronti di altri esseri umani.
Si è trattato di una deliberata e selvaggia volontà omicida. Soltanto chi ha smarrito completamente la bussola morale nonché un minimo criterio di razionalità può equipararvi le morti dei civili a Gaza.
Non sono mai esistite né mai esisteranno guerre senza morti civili, donne, anziani, bambini, e non ha molto senso stilare una classifica, partendo dalla Seconda guerra mondiale ad oggi.
L’assassinio deliberato corredato dalla crudeltà più sadica si pone su un piano completamente diverso, si pone sul piano dell’abiezione umana e della mostruosità, così come i bombardamenti massicci delle città e l’uccisione dei civili durante la Seconda guerra mondiale furono una inevitabile conseguenza dell’azione bellica mentre il programma sistematico di distruzione del popolo ebraico non lo era.
Sono distinzioni basiche e fondamentali e sono qui a ricordarci la necessità morale della guerra in corso, la sua giusta e inesorabile ragione d’essere, l’eliminazione di un nemico efferato e spietato, in modo che non possa più ripetere ciò che ha fatto il 7 ottobre.
L’antisemitismo ha diverse forme anche se ha un unico specifico, una costante che è l’asse intorno al quale ruota, quello di considerare l’ebreo, ogni ebreo, colpevole. Colpevole di cosa? La risposta è semplice e atroce, colpevole di esistere, è questa, infatti, la colpa ontologica, il vero peccato originale per l’antisemita. Da questa colpa originaria discende poi tutto il resto, ovvero le varie colpe singole, ognuna con le sue caratteristiche. E così, nel corso dei secoli, gli ebrei sono stati accusati, di volta in volta, di deicidio, la colpa più spaventosa immaginabile, di avvelenare i pozzi, di propagare la peste, di impastare le azzime con il sangue dei bambini cristiani sacrificati a questo scopo e, in seguito, di gestire occultamente le sorti del mondo a loro unico vantaggio, come viene esposto dai celebri Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso fine Ottocento fabbricato solertemente dall’Okhrana, la polizia segreta zarista.
In Licenza per un genocidio: I Protocolli dei Savi Anziani di Sion e il mito della cospirazione ebraica, Norman Cohn scrive, “Il mito della congiura mondiale ebraica si sviluppò dalla demonologia tradizionale”.
È questo un punto fondamentale da tenere presente quando si voglia toccare il tema dell’antisemitismo, la demonologia, perché di fatto, per l’antisemita, l’ebreo è, in quanto portatore di un male irriducibile, un demone, un essere che di umano ha solo l’apparenza, la quale tuttavia nasconde una intrinseca malvagità e negatività, che l’antisemita saprebbe indicare e smascherare.
Nulla di ciò è sottratto oggi all’unico Stato ebraico al mondo, Israele, sul quale, a cominciare dal 1967, anno della Guerra dei sei giorni, è stata riversata una delegittimazione che non ha pari nel panorama politico del dopoguerra. Questa propaganda, creata ad arte dai paesi arabi con l’indispensabile collaborazione dell’Unione Sovietica, ha avuto come obiettivo principale quello di demonizzare lo Stato ebraico, rappresentandolo il più possibile come una entità criminale, indegna di esistere, anzi, degna di essere eliminata. Vediamo qui all’opera, trasposte sul piano statuale, le stesse fosche proiezioni esercitate sugli ebrei nei secoli. La criminalità dell’ebreo, diventata collettivamente la criminalità degli ebrei, muta ancora di segno per diventare la criminalità dello Stato degli ebrei. Così come Hitler perseguiva la distruzione di ogni singolo ebreo al mondo, i nemici di Israele sognano la scomparsa definitiva dello Stato ebraico.
“Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo”, dichiarava nell’ottobre del 2002 Hassan Nasrallah, segretario di Hezbollah, sul Daily Star di Beirut. Affermazione perfettamente allineata con la volontà eliminazionista hitleriana.
La ininterrotta propaganda contro Israele, la sua demonizzazione, non è venuta meno con la caduta dell’Unione Sovietica, dove, ancora nel 1989 si poteva leggere un opuscolo dal titolo emblematico Le alleanze criminali del sionismo e del nazismo, (questa la più infame e perversa dell’accusa rivolta agli ebrei israeliani, di essere come i nazisti) ma continua ancora oggi, in buona parte in Occidente e, con particolare virulenza, all’interno del mondo arabo e musulmano in generale. E qui, occorrerebbe un discorso a parte su come l’antisionismo viscerale che il mondo musulmano ha fatto proprio a partire dagli anni ’30, in virtù della regia di quella che fu una delle figure di maggiore spicco del mondo arabo dell’epoca, Amin Al Husseini, l’allora Mufti filonazista di Gerusalemme, abbia ereditato in buona parte elementi, figure, miti dell’antisemitismo occidentale.
Come ha evidenziato Matthias Küntzel, l’antisemitismo, o meglio, la demonologia antigiudaica o antiebraica occidentale di cui, quella nazista ha rappresentato il furente apice, si è coniugata a partire dagli anni ’30 con gli stereotipi antiebraici contenuti nel Corano, creando una miscela esplosiva, il cui impatto, in Medioriente ha detonato inevitabilmente contro Israele. Basta leggere lo Statuto di Hamas del 1989 per trovarvi condensati molti degli stereotipi antisemiti tipici della tradizione occidentale mischiati al suprematismo musulmano.
In un suo articolo, L’Antisemitismo islamico, caratteristiche, origini ed effetti attuali, Küntzel ha specificato:
“Paradossalmente, da un lato, lo Statuto di Hamas ritrae gli ebrei come degradati, in fuga e nascosti, e dall’altro, come i governanti segreti e sinistri del mondo. Accorpa il Settimo secolo con il Ventesimo, e quindi le peggiori delle vecchie immagini islamiche e cristiane moderne degli ebrei. Le due immagini sono, ovviamente, incompatibili e costituiscono una costruzione assurda e contraddittoria. Attraverso questa miscela, tuttavia, entrambe le componenti si radicalizzano: l’antisemitismo europeo è rivitalizzato dallo slancio religioso e fanatico dell’Islam radicale, mentre il vecchio anti-giudaismo del Corano – supportato dalle teorie cospirazioniste del dominio del mondo – riceve una qualità nuova e letale”.
Non fu dunque un caso se a Gaza, nel 2018, quando Hamas e la Jihad islamica organizzarono una cosiddetta marcia di protesta contro Israele che offriva il pretesto a militanti delle due fazioni di sabotare la barriera divisoria tra Israele e l’enclave araba e introdursi nel paese, si sia vista una bandiera palestinese con la svastica e la svastica sia stata disegnata sopra aquiloni incendiari.
Così come non è certo un caso se ancora oggi, il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, godano di un’ampia diffusione nel mondo musulmano. E tutto ciò ci porta, inevitabilmente, all’Iran, unico paese islamico che considera esplicitamente Israele come un’entità satanica, e dove, in una piazza di Teheran, è collocato un orologio che scandisce il tempo che resta a Israele prima del suo annientamento.
Il 7 ottobre è stato l’apice di questo odio viscerale, nutrito nei decenni e giunto alla sua furia omicida più selvaggia appena è stato possibile scatenarla. Odio che viene inculcato fin dall’infanzia tramite un apparato pedagogico diversificato composto da asili, scuole e campi estivi, tramite il quale ai bambini viene insegnato che condurre il jihad è un dovere religioso, e che il martirio fa guadagnare al credente una ricompensa in cielo più grande di qualsiasi altra azione o virtù, specialmente se è diretto alla distruzione di vite ebraiche.
Questa è l’educazione all’infanzia e all’adolescenza che viene data a Gaza. Non c’è da meravigliarsi se molti di coloro che l’hanno ricevuta decideranno da adulti di affiliarsi a Hamas e alla Jihad Islamica coltivando la prospettiva di potere uccidere il numero maggiore di “demoni” ebrei.
(L'informale, 30 dicembre 2023)
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Come l’Iran prepara il grande attacco contro Israele
Quasi pronto il grande attacco contro Israele studiato a Teheran. Ma non sarà dal Libano come in molti si aspettano
di Paola P. Goldberger
Ieri un attacco aereo israeliano sull’aeroporto di Damasco ha ucciso [altri] dieci membri della Forza Quds, organo delle Guardie delle Rivoluzione iraniana – IRGC – che stavano accogliendo una delegazione iraniana di alto livello – di cui non si sa più niente – e l’ennesimo carico di armi diretto ad Hezbollah.
Quello di ieri è l’ennesimo attacco israeliano all’aeroporto di Damasco che è tutto fuorché uno scalo civile visto che proprio da questo aeroporto l’Iran fa transitare l’80% delle armi dirette a Hezbollah.
Missili di precisione, missili anticarro e difese aeree, tra cui i missili terra-aria Air-358 di fabbricazione iraniana, chiamati anche SA-67, in grado [teoricamente] di intercettare droni, aerei a bassa quota e missili, queste sono le armi che l’Iran sta trasportando in gran numero in Siria.
Secondo fonti di intelligence israeliane ci sarebbe un piano per far partire un grande attacco contro Israele con missili e droni dal territorio siriano e non dal Libano. Questo aggirerebbe la riluttanza ad attaccare di Hassan Nasrallah che non vuole coinvolgere il Libano nella guerra contro Israele.
A gestire l’attacco sarebbe sempre Hezbollah con la supervisione della Forza Quds e l’aiuto delle altre milizie sciite presenti sia in Siria che in Iraq le quali sarebbero già rifornite dei temibili droni Shahed-131 e i più grandi Shahed-136, ampiamente usati dai russi nella guerra in Ucraina.
Il Generale Sayyed Razi Mousavi, membro di altissimo rango delle IRGC ucciso qualche giorno fa da un raid israeliano, era in Siria proprio per coordinare il grande attacco a Israele che, secondo l’intelligence di Gerusalemme, partirà non appena le milizie alleate dell’Iran avranno abbastanza armi avanzate da poter tenere sotto pressione le difese israeliane per diversi giorni.
Il ritiro dal sud del Libano, dietro la “linea blu”, di migliaia di miliziani di Hezbollah che in molti hanno visto come un segno positivo, sarebbe quindi in realtà solo un riposizionamento sia delle truppe, che sarebbero destinate alla Siria, che delle armi avanzate, anche quelle riposizionate in Siria dove Bashar Assad non si è fatto scrupolo di dare l’OK all’Iran in merito all’uso del territorio siriano per il grande attacco contro Israele.
Quando avverrà il grande attacco contro Israele nessuno lo sa. Di fatto, secondo i piani iraniani, sarebbe già dovuto avvenire in concomitanza con la guerra tra Israele e Hamas allo scopo di impegnare lo Stato Ebraico su diversi fronti. Ma la riluttanza di Nasrallah a coinvolgere il Libano e il necessario riposizionamento di uomini e armi ha fatto slittare il piano di Teheran. Ma il grande attacco contro Israele ci sarà. Lo sanno a Gerusalemme e lo sanno a Washington.
(Rights Reporter, 30 dicembre 2023)
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Ristorante druso diventa kosher per unirsi ai soldati
"È stata un'esperienza molto importante per noi cucinare insieme e portare il cibo ai soldati", ha detto il proprietario del ristorante Noor.
di Sveta Listratov
L'odore delle spezie e il rumore delle pentole riempivano la cucina del ristorante Noor. In segno di solidarietà con i soldati che passano per il villaggio druso di Julis, in Galilea, il ristorante è stato reso kosher. "Voglio dare da mangiare a tutti i soldati israeliani! Sono tutti come figli miei, che siano drusi o ebrei", ha detto Basma Hino, la proprietaria del ristorante. Basma ha spiegato che all'inizio della guerra il ristorante aveva meno clienti e molto cibo inutilizzato. Lei e suo figlio Noor usavano gli avanzi per preparare pasti gratuiti per i soldati. Per il ventunenne Noor, che ha da poco terminato il servizio militare, è stato particolarmente commovente, perché ha dato da mangiare anche ai soldati che hanno servito nella brigata del suo defunto padre. "È stata un'esperienza molto importante per noi cucinare insieme e portare il cibo ai soldati. Avevano chiesto 400-500 porzioni; non avevo mai cucinato per quantità così grandi, ma è stato un grande onore per me farlo", racconta Basma. "In quel momento mi sono resa conto che non tutti i soldati potevano mangiare il mio cibo perché non era kosher. Così ho deciso di far certificare la mia cucina come kosher". La donna si è rivolta al viceministro dei Trasporti Uri Maklev, del partito United Torah Judaism, che ha aiutato Basma ad accelerare la questione con il Gran Rabbinato. Per rendere il ristorante kosher, pentole, stoviglie e utensili da cucina dovevano essere sostituiti o puliti in modo intensivo sotto la supervisione del rabbinato. Una volta completato questo lavoro, Basma apre il ristorante al pubblico tre giorni alla settimana e riserva un giorno esclusivamente alla preparazione dei pasti per i soldati. In questo giorno, cucina e distribuisce centinaia di pasti ai soldati di stanza negli avamposti del nord. Occasionalmente, collabora con il Fondo Nazionale Ebraico e ospita gruppi di volontari ebrei dagli Stati Uniti per aiutare a preparare e confezionare i pasti. Daniel Maller, un volontario americano, dice: "Questa guerra è una questione molto personale per gli ebrei americani, la sicurezza di questo Paese riguarda tutti noi. Per questo è incredibile quello che Basma ha fatto qui per i soldati". Maller, un avvocato di Arlington, Virginia, è venuto in Israele per una settimana come volontario e per un giorno la JNF lo ha portato a Julis.
• UN PATTO PER LA VITA Gli sforzi di Basma non sono passati inosservati. Lo stesso giorno, Yitzhak Wasserlauf, Ministro per lo Sviluppo del Negev e della Galilea, ha fatto una visita a sorpresa al JNF per esprimere il suo apprezzamento. "Con i drusi abbiamo un patto di vita e anche un patto di sangue, perché combattiamo spalla a spalla", ha detto Wasserlauf ai numerosi volontari. "Basma è un esempio delle persone meravigliose del nostro Paese, una fonte di ispirazione e di orgoglio. È molto emozionante vederlo". Dopo il suo discorso, Basma si è asciugata le lacrime dagli occhi. "Come drusa, è molto importante per me rafforzare il rapporto tra drusi ed ebrei", ha detto, "viviamo tutti insieme qui, combattiamo insieme in guerra e qui nel mio ristorante cuciniamo spalla a spalla per i nostri eroici soldati. Amiamo il nostro Paese, ed è una grande emozione sentire che i rappresentanti del governo ebraico mostrano tanto amore per la nostra comunità". Dopo aver fatto una pausa per asciugarsi un'altra lacrima, ha aggiunto: "È molto importante per noi continuare a lavorare e preparare il cibo per i soldati. In Israele vivono circa 145.000 drusi. I drusi occupano posizioni di rilievo nella vita pubblica e militare e il legame tra soldati ebrei e drusi è chiamato "legame di sangue". I drusi parlano l'arabo ma non sono musulmani e sono molto riservati riguardo alle loro credenze religiose. Le comunità druse in Israele, Libano e Siria si considerano discendenti del biblico Jethro, suocero di Mosè.
(Israel Heute, 29 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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J2: l’unità di intelligence dell’IDF che analizza milioni di file e documenti per combattere Hamas
di Luca Spizzichino
Sono più di 65 milioni i file elettronici e oltre 500mila documenti fisici raccolti dall'esercito israeliano a partire del 7 ottobre. Questa è la mole di informazioni raccolte sul campo dai soldati, che ogni giorno vengono inviate all'Unità di raccolta di documenti e mezzi tecnici della direzione dell'intelligence (J2) dell'IDF.
L'unità, composta principalmente da riservisti, ha il compito di estrarre informazioni dalle risorse raccolte da tutti i soldati sul campo, le analizza e le traduce in informazioni volte a facilitare l'attività dei soldati nella Striscia di Gaza.
La maggior parte dei documenti vengono analizzati da quattro esperti: uno in arabo, uno nella mappatura e nel paesaggio di Gaza, uno che comprende le esigenze generali di combattimento e tattiche dei soldati sul campo e uno esperto su come fornire le informazioni agli ufficiali in tempo reale. In alcuni casi, i funzionari a capo di questa unità di intelligence hanno contattato direttamente gli agenti sul campo, salvando così le vite dei soldati.
Ci sono stati anche casi in cui l'intera strategia di manovra di una divisione o di un battaglione è stata modificata sulla base delle informazioni fornite.
Mappe fisiche e file elettronici hanno rivelato all’IDF, grazie a questo gruppo, molti dei tunnel nascosti e dei punti in cui i tiratori scelti tendevano imboscate. Tra i documenti ritrovati c'è una mappa dei pozzi dei tunnel, che sono stati scoperti dalla 252a divisione nella residenza di un comandante di compagnia del battaglione Beit Hanoun di Hamas. Inoltre, è stato trovato un documento con l'ubicazione degli esplosivi nella zona di Beit Hanoun. Dopo l'esame da parte dell’Unità Raccolta Documenti e Mezzi Tecnici, le forze operative sono state inviate nella zona e hanno neutralizzato gli esplosivi.
Questi riservisti sono al lavoro da mesi, ma hanno espresso la disponibilità a continuare il loro ruolo per un periodo indefinito, nonostante la necessità di tornare alla loro vita quotidiana, ai loro mezzi di sostentamento e alle famiglie.
(Shalom, 29 dicembre 2023)
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“Il 7 ottobre ha aperto un vaso di Pandora da cui è uscito il peggio dell’antisemitismo”
Quanto successo il 7 Ottobre scorso in Israele è un orrore che non trova precedenti nelle pagine più buie della Storia.
di Walker Meghnagi, Presidente della Comunità Ebraica di Milano
Le indicibili barbarie perpetrate su dei civili inermi mostrate con vanto dagli aguzzini, le finalità genocide nei confronti del popolo ebraico in Israele e nella diaspora e alla cancellazione fisica dello Stato d’Israele compiute ed apertamente dichiarate con baldanza dai suoi perpetratori e dai loro burattinai e finanziatori superano probabilmente nella loro oscenità quelle naziste che si ritenevano irraggiungibili ed irripetibili.
Ci si sarebbe aspettato che tutto questo provocasse in tutto il mondo civile una reazione unanime di totale condanna e rifiuto. Ci si sarebbe aspettato che fosse chiara la distinzione tra un Paese brutalmente aggredito e costretto alla guerra per questioni esistenziali e un’entità terroristica con finalità genocide non solo nei confronti del proprio nemico giurato, ma anche della propria stessa popolazione dietro la quale si nasconde e che usa cinicamente a fini propagandistici. Ci si sarebbe aspettato che le Cancellerie internazionali, l’ONU, organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa, i giornali e le televisioni, ecc. anziché pontificare, rimproverare ed accusare solo ed esclusivamente Israele l’aggredito si rivolgessero, per lo meno con altrettanta foga e cipiglio, all’organizzazione terroristica autrice dello scempio e ai suoi mandanti.
Quello che invece è successo è che a distanza di pochissimi giorni dal 7/10
si è aperto un vaso di Pandora dal quale è fuoriuscito il peggio dell’antisemitismo alimentato anche da una campagna di disinformazione e pregiudizio ideologico da parte dei mass media e, tra gli altri, negli ambiti preposti alla formazione culturale, intellettuale ed etica delle nuove generazioni come quelli scolastici ed universitari.
Stiamo assistendo alla nascita di un secondo negazionismo, ormai affiancatosi a quello degli orrori nazisti, esteso anche alla negazione che il 7/10 si sia mai verificato (per lo meno nelle sue orrende modalità) e che ha fatte sue le stesse farneticanti dichiarazioni genocide del popolo ebraico e della soppressione dello Stato d’Israele dei promotori ed esecutori degli orrori del 7/10. Ormai siamo arrivati alla caccia e al linciaggio dell’ebreo come si sta verificando nei campus universitari e nelle strade americane e di molti paesi europei.
Insomma, una sensazione di scoramento di fronte a uno scenario molto preoccupante soprattutto considerando che in termini storici siamo a ridosso della fine della 2a guerra mondiale, dell’olocausto e di tutto quello che si è cercato di fare in questi decenni per sensibilizzare, informare e dare strumenti alla società civile per evitare il ripetersi degli orrori dell’antisemitismo e di qualsiasi forma di razzismo pregiudizio e discriminazione.
“Am Israel Hai” sempre!
(Bet Magazine Mosaico, 29 dicembre 2023)
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I nazisti volevano "soltanto" liberarsi della presenza degli ebrei, e per questo hanno scelto un mezzo sbrigativo ed economico per sbarazzarsi dei loro corpi. I massacratori palestinesi del 7 ottobre invece hanno espresso il loro demoniaco odio contro gli ebrei come persone accanendosi bestialmente contro i loro corpi. Altro che "mai più", questo è un "sempre di più!" lanciato come segno anticipatorio da imperturbabili odiatori degli ebrei. M.C.
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Il Presidente argentino Milei inaugura i giochi panamericani Maccabi di Buenos Aires con un impegno inalterabile per Israele
di Claudia De Benedetti
All’Arena Movistar di Buenos Aires si è svolta nel tardo pomeriggio del 27 dicembre l’inaugurazione dei XV Giochi Panamericani del Maccabi. Fino al 4 gennaio, oltre 3.000 atleti, in rappresentanza di 15 paesi, tra cui l’Italia, si sfideranno in 22 discipline. La cerimonia di apertura è stata fortemente caratterizzata dall’imprescindibile legame del Maccabi mondiale con Israele. Profonda commozione ha suscitato la lettura dell’Izkor in ricordo di tutte le vittime dei massacri perpetrati da Hamas e dei militari caduti in guerra a Gaza affidata a Romina Shvalb, del Kibbutz Nir Oz, che il 7 ottobre ha perso il cognato e quattro suoi famigliari sono stati rapiti.
Il Presidente dell'Argentina, Javier Milei, intervenuto al termine della sfilata delle squadre, ha confermato il suo "impegno inalterabile" nei confronti del popolo ebraico nella lotta contro il terrorismo islamico. "Il sacrificio e la passione - ha detto - prima o poi vengono premiati, nello sport come nella vita si deve imparare a convivere con gli avversari”. Nel ricordare una delle frasi più ricorrenti della sua campagna elettorale ha continuato: "non sono qui per guidare gli agnelli, ma per risvegliare i leoni. Vedo nei Giochi del Maccabi questo spirito di eccellenza e di coraggio.
La storia dei Maccabei è molto importante per me. Erano pochi contro molti, deboli contro forti, ma hanno vinto perché la vittoria in combattimento dipende dalle forze del cielo”.
Milei ha espresso poi il suo "sincero affetto per tutto il popolo ebraico e in particolare per coloro che hanno i propri cari vicini al fronte" e concluso il suo intervento con la frase "Viva la libertad, carajo", seguito da un lungo applauso del folto pubblico.
Dopo il discorso di apertura del Presidente del Comitato Organizzatore dei Giochi Ariel Isaak, il Capo del Governo della Città di Buenos Aires Jorge Macri ha sollecitato senza mezzi termini il rilascio degli ostaggi in mano a Hamas. "Lo sport - ha aggiunto - svolge un ruolo fondamentale nelle nostre comunità, unendo le persone, promuovendo uno stile di vita sano, la resilienza e l’auto-miglioramento, forgiando l’identità, senza perdere la specificità, favorendo amicizie e reti di mutuo soccorso". Significativa anche la partecipazione alla cerimonia della segretaria generale della presidenza, Victoria Villarruel, di Karina Milei, sorella del Presidente argentino e segretario generale della presidenza e Ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich.
(Shalom, 29 dicembre 2023)
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L'IDF utilizza i droni per sondare i tunnel sotterranei di Hamas
L'esercito israeliano (IDF) utilizza attivamente manovrabili compatti droni per indagare sui tunnel sotterranei nella Striscia di Gaza presumibilmente utilizzati da membri del movimento palestinese Hamas.
Secondo la pubblicazione americana The Wall Street Journal, il personale dell’esercito israeliano inizialmente ha provato vari metodi per esplorare i tunnel sotterranei nell’enclave palestinese. In particolare, l'IDF utilizzato per questi scopi robot, robot e cani vivi, ma il personale militare israeliano giunse presto alla conclusione che i droni erano l'opzione più economica ed efficace per esplorare estesi labirinti sotterranei.
È stato riferito che l’esercito israeliano utilizza droni di piccole dimensioni della XTEND, che ha uffici negli Stati Uniti e in Israele, per la ricognizione dei tunnel. Questi UAV sono dotati di telecamere speciali che hanno la capacità di creare modelli digitali del terreno 3D in tempo reale. Grazie a queste tecnologie è più facile per loro volare attraverso stanze e tunnel sotterranei.
Alcuni droni compatti vengono utilizzati dall’IDF non solo per la ricognizione, ma anche per attacchi mirati, poiché sono in grado di trasportare piccole quantità di esplosivi. Come riportato in precedenza, l’esercito israeliano utilizza ampiamente i droni americani per cercare le persone detenute nell’enclave palestinese.
(Top War, 29 dicembre 2023)
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Netanyahu: la Croce Rossa ha rifiutato di portare farmaci agli ostaggi israeliani a Gaza
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Croce Rossa 1944: “Non abbiamo trovato traccia di strutture per lo sterminio dei prigionieri civili ad Auschwitz” |
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“Il Comitato internazionale della Croce Rossa è stato del tutto inefficace nel procurare aiuti agli ostaggi tenuti da Hamas a Gaza. La sua mancanza di empatia e l’incapacità di adempiere al proprio mandato dimostrano quanto sia diventato obsoleto e inutile”. Inizia così un editoriale del Jerusalem Post che si è interrogato su un possibile ripensamento del ruolo della Croce Rossa, che in questo conflitto si è legata in maniera esclusiva alle capacità di mediazione del Qatar. Un ruolo che è stato al centro di un discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu che al plenum della Knesset ha affermato “Ho incontrato la Croce Rossa; ho consegnato loro una scatola di medicinali per alcuni degli ostaggi. Alcuni di loro ne hanno davvero bisogno. Ho detto a una rappresentante di portare questa scatola a Rafah; lei ha detto di no. È stata una conversazione difficile”. Dichiarazione riportata proprio dal quotidiano fondato il 1º dicembre 1932 con il nome Palestine Post da Gershon Agron, così come le parole della presidente del CICR Mirjana Spoljaric, che la scorsa settimana alla giornalista israeliana Dana Weiss ha detto di ritenere Hamas e Israele ugualmente responsabili dell’incapacità della sua organizzazione di accedere agli ostaggi. Un’affermazione che ha esasperato la Weiss, la quale ha risposto che l’unico risultato ottenuto dall’organizzazione è stato quello di trasportare il mese scorso gli ostaggi che erano stati rilasciati nelle mani di Israele: “Quindi in realtà ti stai comportando come un Uber, e non come un Uber molto buono”. L’attacco della cronista israeliana è anche in riferimento alle parole di alcuni ostaggi, i quali hanno riferito che il tempo trascorso sotto il controllo della Croce Rossa sono stati i momenti più spaventosi della loro prigionia.
Il Jerusalem Post si è interrogato sull’attuale ruolo della Croce Rossa, il documento che riportiamo qui ci fa interrogare su quello generale dell’organizzazione. Nel 1944, la Croce Rossa scrisse: “Non abbiamo trovato traccia di strutture per lo sterminio dei prigionieri civili ad Auschwitz”. Oggi scrive: “Non abbiamo trovato prove di armi o ostaggi tenuti negli ospedali di Gaza”. Serve altro?
(Progetto Dreyfus, 29 dicembre 2023)
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Parashà di Vayechì: Perché Efraim e Menascè furono considerati figli di Ya’akov?
di Donato Grosser
In questa parashà viene raccontato che Ya’akov, prima di dare il suo testamento spirituale e le sue benedizioni ai figli, fece chiamare il figlio prediletto Yosef che lo venne a visitare con i due figli Menascè ed Efraim. Ya’akov si rivolse a Yosef e gli disse: “Ora, i tuoi due figli che ti sono nati in terra d’Egitto fino a che io venni qui da te, saranno considerati come miei; Efraim e Menascè saranno per me come Reuven e Shim’òn. I figli nati a te dopo di essi, saranno invece considerati tuoi. Essi erediteranno tramite i loro fratelli” (Bereshìt, 48: 5-6). Così, essendo la primogenitura passata da Reuven a Yosef, Yosef ricevette due porzioni nella terra d’Israele tramite i suoi due figli. Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che Efraim e Menascè, sarebbero stati considerati due tribù separate e ciascuno di loro avrebbe ereditato una parte della terra d’Israele come gli altri figli di Ya’akov. Gli altri figli di Yosef invece sarebbero stati inclusi nelle tribù di Efraim e Menascè. R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (p. 83) osserva la stranezza del fatto che Ya’akov considerò Efraim e Menascè, nati in sua assenza in Egitto, come figli suoi, mentre quelli nati, dopo il suo arrivo in Egitto, li considerò figli di Yosef. Logicamente dovrebbe essere stato il contrario! Solo quelli cresciuti in Egitto alla presenza del nonno avrebbero dovuto essere stati considerati figli di Ya’akov! R. Feinstein spiega che da questo possiamo imparare un profondo insegnamento sull’educazione da dare ai figli. I genitori devono far sì che i figli seguano le vie della Torà non solo quando si trovano nell’ambiente famigliare e della yeshivà (o della scuola ebraica). Essi devono far sì che l’educazione impartita ai figli sia così potente da dare loro forza anche quando si trovano tra i gentili. L’educazione che Yosef ricevette fu tale che ovunque si trovava ebbe di fronte a sé l’immagine del padre. L’educazione che Ya’akov diede a Yosef fu così potente che Yosef educò i due figli Efraim e Menasce nel modo in cui suo padre lo aveva educato. Gli altri figli sarebbero cresciuti invece in un ambiente di Torà creato dagli zii e dai cugini. R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 353) commenta che Avraham e Yitzchak trasmisero la loro eredità spirituale ai loro figli ma non ai loro nipoti. Non vi fu una comunicazione diretta tra il nonno Avraham e il nipote Ya’akov, né tra il nonno Yitzchak e i nipoti Reuven e Shim’òn. L’influenza del nonno nei confronti dei nipoti fu indiretta. Con Ya’akov invece le cose furono diverse. Ya’akov non ebbe intermediari e trasmise la tradizione di Avraham direttamente ai nipoti. Diede ai nipoti Menascè ed Efraim la sua benedizione ancora prima di convocare i suoi figli quando si trovava sul letto di morte. Pose su di loro le sua mani per mostrare che vi era una trasmissione diretta della tradizione dal nonno ai nipoti. Nel casato di Ya’akov non vi era un salto generazionale. La halakhà trasmessa dai maestri nel trattato talmudico Yevamòt (62b) che “i figli dei figli sono come figli” deriva dalla dichiarazione di Ya’akov riguardo a Menascè ed Efraim.
(Shalom, 29 dicembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayechì (Visse)
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Perché Hamas non vuole rilasciare gli ostaggi
Poiché la pressione su Israele sale, il gruppo terroristico pensa ormai di poter vincere.
Accordo o non accordo? All'inizio della controffensiva israeliana contro Hamas, il gruppo terroristico ha implorato una pausa. Ha rilasciato 105 ostaggi per una pausa di sette giorni, oltre ad alcuni prigionieri di basso rango. Ma da allora Hamas ha rifiutato due offerte di pausa nei combattimenti, una più generosa dell'altra.
• Che cosa è cambiato?
Dopo che il gruppo terroristico ha rifiutato un'offerta egiziana durante il fine settimana di Natale, un membro del Politburo di Hamas ha spiegato: "Non ci possono essere negoziati senza una completa cessazione dell'aggressione": una fine della guerra. Il 20 dicembre, dopo aver rifiutato un'offerta israeliana, il membro del Politburo Ghazi Hamad ha dichiarato che Hamas non è più interessato a "una pausa qua e là, per una settimana, due settimane, tre settimane", anche se Israele fosse disposto a rilasciare i principali terroristi di Hamas.
Una spiegazione che fa riflettere è stata offerta da Meir Ben Shabbat, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele dal 2017 al 2021. Egli scrive che Hamas "ora si sente abbastanza sicuro" da rifiutare qualsiasi accordo che non lo porti alla vittoria definitiva. E’ una fiducia che può essere mal riposta, ma non è priva di fondamento.
“Se le condizioni in cui operano le nostre forze sono più difficili che in passato", spiega Ben Shabbat, "per i combattenti di Hamas la situazione è migliorata". Sotto la pressione dell'amministrazione Biden, Israele sta ora usando meno potenza di fuoco per le sue avanzate sul terreno. Questo lascia ad Hamas maggiori possibilità di tendere imboscate ai soldati israeliani.
Tra due attacchi lampo, i terroristi si nascondono in tunnel ben forniti. "Hamas controlla di fatto la maggior parte degli aiuti che entrano nella Striscia di Gaza", scrive Ben Shabbat. Anche per la pressione dell'amministrazione Biden, Israele ha autorizzato un aumento del flusso di carburante a Gaza, di cui Hamas ha bisogno per rimanere in clandestinità.
• Tre tendenze politiche potrebbero incoraggiare Hamas
Una è la crescente campagna dei giornalisti israeliani per liberare gli ostaggi a tutti i costi, anche con Hamas al potere. L'uccisione accidentale di tre ostaggi ha inferto un colpo politico alla convinzione che lo sforzo bellico di Israele avrebbe riportato a casa la sua gente.
In secondo luogo, il comportamento degli Stati Uniti rivela un desiderio prioritario di disinnescare il più ampio conflitto con i proxy dell'Iran. Gli attacchi degli Houthi nello Yemen rimangono senza risposta. Le milizie irachene riescono a colpire impunemente le basi statunitensi. Mentre il fuoco di sbarramento quotidiano di Hezbollah ha spinto circa 100.000 israeliani ad abbandonare le loro case, Washington esorta Gerusalemme a ridurre al minimo la sua risposta.
In terzo luogo, sebbene la Casa Bianca sostenga la controffensiva israeliana a Gaza, ora insiste sulla sua riduzione. Quasi quotidianamente emergono notizie di alti funzionari statunitensi che esortano Israele a "passare alla fase successiva delle operazioni": combattimenti a bassa intensità con incursioni dal confine. Israele sostiene di aver bisogno di più tempo per stanare Hamas, ma aumentare le perdite militari ha conseguenze negative.
Questo è il percorso di Hamas per la sopravvivenza e la vittoria: un cambiamento prematuro nello sforzo bellico di Israele per soddisfare il calendario politico di Biden. Perché rinunciare alla propria merce di scambio come ostaggio se si ha bisogno di resistere solo per qualche altra settimana?
Forse il difetto di questa analisi di Hamas è che presuppone che Israele segua il consiglio di Biden fino alla sconfitta. Dopo il 7 ottobre, non contateci. Le truppe israeliane continuano ad avanzare, espandendo le loro operazioni in alcune aree e concentrandosi su altre. Israele non ha altra scelta che continuare finché Hamas non sarà distrutto.
Israele ha intensificato i bombardamenti su tutta la Striscia di Gaza, anche a seguito della visita di Netanyahu a Gaza. La terra sta di nuovo tremando e la morte di civili non cambia nulla. Quanto alla sinistra israeliana, è così numerosa che può riunirsi nel retrobottega di un bar di Tel Aviv.
L'altra cosa che non viene presa in considerazione non è la popolazione israeliana, ma quella di Gaza, che vede il vero volto di Hamas. E questa è una bomba a orologeria che esploderà contro Hamas.
(JFORUM.fr, 28 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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‘Ho dato tutto, non ho rimpianti’: la lettera di un soldato dell'IDF caduto in battaglia a Gaza
di Michelle Zarfati
Il sergente Joseph Gitarts, caduto in battaglia a 25 anni lunedì scorso, all'inizio dell'offensiva di terra a Gaza ha scritto una lettera, recapitata ai genitori dopo la sua tragica morte. "Ho vissuto una vita piena e interessante, non avevo paura della morte. Ho fatto io stesso questa scelta e l'ho portata avanti fino alla fine. Sono caduto con onore per il bene del mio popolo, non ho rimpianti. - scrive il soldato - Avrei potuto scegliere di non combattere e nascondermi. Ma questo va contro tutto ciò in cui credo e contro la persona che sono. Pertanto, non avevo scelta, e farei la stessa cosa se potessi scegliere ancora".
La lettera sigillata è stata scritta da Gitarts ancora prima di essere chiamato come riservista per combattere a Gaza, anticipando il tragico scenario che ora è divenuto realtà. Lo scopo del ragazzo era di dare un'ultima consolazione ai suoi genitori con la paura di lasciarli per sempre a causa dei combattimenti. "Cari mamma e papà, vi amo moltissimo. Tutto è andato come doveva. Ho scelto io stesso questa strada. Voglio dirvi che sono fiero che siate stati miei genitori. Mi avete dato così tanto, una vita ricca, felice e piena. Sicuramente soffrirete molto, ma fatelo per me cercate di andare avanti. Ve lo auguro davvero. Entrambi avete molte persone vicine che vi sosterranno. Vivete la vostra vita, passate del tempo con i vostri nipoti e aiutate e sostenete lo Stato d'Israele" conclude il soldato nella lettera.
Gitarts, era un soldato del battaglione corazzato 7029 della 179esima brigata, caduto in una battaglia nel sud della Striscia di Gaza dopo essere stato colpito da un missile anticarro. Negli ultimi anni il ragazzo aveva studiato e lavorato sempre nel settore scientifico, conducendo studi approfonditi nel campo della medicina e dell'informatica. Nell'ultimo anno aveva iniziato a sviluppare una startup. Ad oggi, il numero totale delle vittime dell'IDF nella guerra ammonta a 491, di cui 158 morti dall'inizio dell'offensiva di terra a Gaza. Gitarts va aggiungersi ad una lunga e triste lista di giovani cui la vita è stata spezzata a causa della guerra tra Israele e Hamas.
(Shalom, 28 dicembre 2023)
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I bambini di Gaza
di Niram Ferretti
In questo periodo post-natalizio in cui abbondano Gesù palestinesi e si sprecano i paragoni tra i bambini morti a Gaza, piccoli Gesù martirizzati dai perfidi ebrei in uniforme israeliana, non si può fare a meno di evidenziare come siano proprio i bambini morti il cardine della offensiva propagandistica pro-palestinese.
“Cinquemila!” scandiva concitato in una trasmissione all’inizio della guerra, il direttore dell’Unità, Piero Sansonetti, fornendo le cifre insindacabili di Hamas. Oggi sono ottomila, forse di più. No, non occorre fare ironia sui bambini morti, ogni bambino ucciso è una tragedia, la questione è un’altra ed è quella sempre particolarmente focalizzata quando è Israele che combatte. Quanti bambini sono morti nella guerra in Siria, in quella in Yemen, nel Darfur, a Mosul, ecc.? eppure nessuno, se non forse l’Unicef se ne preoccupava in modo particolare. Sansonetti se ne stava placido e insieme a lui tutti gli altri, sonnecchianti sui cadaverini. Monsignor Ravasi non evocava Lamech, né Monsignor Zuppi, Erode, erano affaccendati altrove.
“Appena si evidenzia che la guerra in corso l’ha provocata Hamas uccidendo nei più barbari dei modi, 1200 cittadini israeliani e rapendone 240, subito si contrappongono le cifre ben maggiori dei morti civili a Gaza, soprattutto dei bambini, a significare che ben più grave è quello che ha fatto e sta facendo Israele, non c’è proprio paragone, chi è il vero terrorista è facile da dire.
“Si tratta di un sofisma fragile fondato sulla logica del numero dei morti, chi ne ha di più è dalla parte del giusto, chi ne ha di meno da quella del torto, dunque appare chiaro che, in rapporto ai morti, la Germania nazista era assolutamente dalla parte del giusto rispetto agli Alleati.
“Che non ci sarebbe a Gaza un solo bambino palestinese morto se il 7 ottobre Hamas non avesse commesso un eccidio, lo si omette convenientemente, così come si omette sempre convenientemente di dire che se il branco feroce di assassini che il 7 ottobre ha ucciso, decapitato, stuprato e sventrato, non si nascondesse tra i civili, non li usasse come scudi umani, non considerasse la vita della popolazione di Gaza poco meno che carne da macello da esibire tra finte lacrime e finta indignazione morale quando Israele risponde all’aggressione, i bambini che ora sono morti sarebbero vivi e vegeti.
“Le due omissioni sono necessarie alla rappresentazione scenica della barbarie israeliana, dell’isteria pilotata dell’indignazione contro la ferocia ebraica, perché come è noto, da Guglielmo di Norwich in giù e come ci ha ricordato anni fa Ariel Toaff, con il suo romanzo nero ricco di azzime imbevute di sangue, gli ebrei hanno una predilezione per quello dei bambini.
““Cinquemila!”, “Ottomila!”, “Diecimila!”.
“Se si potesse gridare “Centomila!”, il gaudio sarebbe sommo e allora sinagoghe bruciate a iosa come prescriveva già Lutero, caccia all’ebreo, morte al reo. Non si perdona agli assassini di bambini, o meglio si perdona a tutti quelli che li uccidono in guerre a cui l’opinione pubblica non drogata da decenni di propaganda, è del tutto indifferente, ma le guerre di Israele si sa, sono diverse.
“Il primo responsabile della morte dei bambini di Gaza, che fin dall’età della scolarizzazione vengono educati a odiare gli ebrei, “figli di scimmie e di maiali” come recita un hadit ben noto, è Hamas, di cui uno dei capi, Ismael Haniyeh, nel suo rifugio a Doha, barba bianca ben curata, in grigio e nero stile Prada, il 29 ottobre ha chiesto il sangue: «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi. Abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida, per spingerci avanti».
“Sa bene Haniyeh quale enorme lucro si ottiene per ogni bambino morto a Gaza, quale scudo protettivo essi rappresentino per l’organizzazione criminale di cui fa parte.
“Cinquemila!”, “Ottomila!”, “Diecimila!”.
“E le piazze si riempiono di anime nobili, di esagitati pacifisti che chiedono la “liberazione” della Palestina dal fiume al mare, ovvero lo sterminio di tutti gli ebrei israeliani. Se solo Adolf Hitler e Amin Al Husseini potessero ascoltarli. Anche loro, in fondo, amavano i bambini.
(L'informale, 28 dicembre 2023)
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Germania: l'ambasciatore israeliano Prosor mette in guardia da attentati di Hamas
BERLINO - L'ambasciatore di Israele a Berlino, Ron Prosor, ha messo in guardia da attentati del movimento islamista palestinese Hamas in Germania. Come riferisce l'emittente radiotelevisiva “Ard”, il diplomatico ha affermato che esponenti del gruppo al potere nella Striscia di Gaza sono arrivati da tempo nel Paese. Prosor ha quindi avvertito: “La Germania deve restare vigile, il terrorismo internazionale si arma costantemente, anche durante le feste”. L'ambasciatore di Israele a Berlino ha poi sottolineato che il divieto di attività di Hamas in Germania non è sufficiente. Secondo Prosor, infatti, le autorità tedesche dovrebbero monitorare meglio gli aiuti destinati ai palestinesi perché “nemmeno un centesimo” delle tasse può essere utilizzato da Hamas per “tunnel” nella Striscia di Gaza, “armi o terrorismo”.
(Agenzia Nova, 28 dicembre 2023)
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Regno Unito: metà degli ebrei pensa di lasciare il paese
di Nathan Greppi
Secondo un recente sondaggio, condotto dalla CAA (Campaign Against Antisemitism), quasi la metà degli ebrei britannici sta pensando di lasciare il Regno Unito a causa del clima d’odio antisemita cresciuto dopo i fatti del 7 ottobre e l’inizio della guerra tra Israele e Hamas.
Come riporta il Jerusalem Post, il sondaggio è stato condotto dal 12 al 17 novembre, intervistando 3.744 persone. Per essere precisi, il 48% degli ebrei nel paese ha detto che sta considerando l’idea di emigrare a causa dell’antisemitismo, mentre il 34% non vuole farlo.
Il 69% si è dichiarato d’accordo sul fatto di essere meno propenso rispetto al 7 ottobre ad indossare in pubblico segni distintivi della propria ebraicità, come la kippah o il Magen David al collo. Il 15% ha detto di non essere d’accordo in merito, e il restante 16% non ha risposto. Inoltre, il 61% ha affermato che loro o qualcuno a loro vicino è stato vittima o testimone di episodi di antisemitismo dopo il 7 ottobre.
Difronte alla frase “I crimini d’odio antisemiti sono trattati dalla polizia come ogni altro crimine d’odio”, due terzi degli ebrei si sono dichiarati in disaccordo. Solo il 16% si è dichiarato d’accordo, e il restante 18% non ha preso posizione.
Prese di posizione sono state fatte anche in merito all’organizzazione integralista Hizb ut-Tahrir, fortemente presente nel Regno Unito e che predica l’imposizione della Sharia e l’instaurazione di un califfato globale; il 90% degli ebrei britannici vorrebbe che fosse classificata come organizzazione terroristica.
• PARTITI POLITICI
Quando gli è stato chiesto quali partiti sono troppo indulgenti verso l’antisemitismo, il 63% ha indicato il Partito Laburista. Questo dato ne fa il partito più accondiscendente verso gli antisemiti secondo la comunità ebraica, seguito dal Partito Nazionale Scozzese (47%), dal Partito Verde (42%), dai Liberal Democratici (32%) e dallo Sinn Féin (32%). Il partito considerato meno vicino agli antisemiti è il populista Reclaim Party (11%).
• GUERRA E ISRAELE
Per quanto riguarda la copertura mediatica del conflitto tra Israele e Hamas da parte della BBC, l’86% degli ebrei da un giudizio negativo, e solo il 4% lo giudica positivamente. Un altro 4% non ha espresso giudizi, e il resto dichiara di non guardare mai i programmi della BBC né di leggerne gli articoli sul sito.
Alla domanda se si considerano sionisti, circa 4 ebrei su 5 hanno risposto di sì. Solo il 6% ha risposto di no, e il resto non ha espresso alcuna opinione in merito.
(Bet Magazine Mosaico, 28 dicembre 2023)
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L'esercito israeliano mostra i tunnel di Hamas vicino a un ospedale
di Askanews
ROMA - L'esercito israeliano ha diffuso nuove immagini di operazioni militari nella Striscia di Gaza e di tre tunnel appartenenti ad Hamas scoperti vicino all'ospedale Rantisi e a una scuola superiore nella stessa zona di Gaza City. Si vedono anche armi e diversi dispositivi rinvenuti nell'operazione.Israele ha intensificato gli attacchi nel Sud della Striscia di Gaza e l'esercito ha comunicato che continuerà le sue operazioni a Khan Younis, includendo nelle sue attività anche i campi profughi del territorio. Secondo il ministero della Sanità palestinese più di 21.000 persone sono state uccise in 11 settimane di guerra.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che la popolazione di Gaza è in "grave pericolo".
VIDEO
(askanews, 28 dicembre 2023)
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Gaza: l'orrore dei cunicoli e la speranza di un futuro di pace
Hamas ha costruito una rete di tunnel che si estende più della metropolitana di Londra: una spaventosa città sotterranea, covo di assassini e sanguinari. È così che si fanno gli interessi del popolo palestinese?
di Guido Salvini
Quello che più colpisce negli eventi di Gaza e che impedisce a questa tragedia di finire è il perdurare della guerra dei tunnel. Poteva sembrare una favola o un argomento di propaganda ma davvero Hamas aveva costruito sotto le case una seconda Gaza, una spaventosa città sotterranea profonda anche 60 metri e che si dirama forse più estesa della metropolitana di Londra, per centinaia di chilometri. Un tunnel è stato scoperto pochi giorni fa, ai confini di Israele, largo come una autostrada. Un reticolo dell’orrore difficile espugnare e che allunga la sofferenza di tutte le parti in causa.
Antri del male che hanno ingoiato le loro vittime, ci sono imprigionati in catene gli ostaggi che restano, e che nascondono sadici assassini. Lo è certamente Yahya Sinwar, il capo di Hamas che vive al centro della tela, probabilmente uno psicopatico che ha strangolato di sua mano presunti nemici.
Un orrore che sembra simile alla distopia di Herbert George Wells nel romanzo fantastico "La macchina del tempo" in cui uno scienziato, dopo aver inventato appunto la macchina che lo trasporterà nel futuro, scoprirà che la terra sarà abitata da due specie di esseri. I Morlocchi ripugnanti e mostruosi che abitano nelle viscere della terra ed escono dal sottosuolo solo per catturare e nutrirsi di coloro che vivono in superficie, i civili e gentili Eloi nome, forse non è solo una coincidenza, che ricorda la parola Elohim che in lingua ebraica significa Dio.
Hamas ha costruito una spaventosa città sotterranea al posto di cercare di dare benessere al suo popolo. Sono certamente enormi le quantità di cemento, acciaio, carburante e altre risorse, che provenivano soprattutto dagli aiuti internazionali, sottratte ai bisogni degli abitanti di Gaza: case scuole e ospedali che era possibile costruire al posto dei tunnel. In un video diffuso nelle scorse settimane si vede una ragazzina, forse di 7 anni, indicare con la mano il terreno desolato e pieno di macerie in cui vive e dire "Hamas è nei tunnel e la gente è lasciata qui sopra, da sola", come in un embrione di rivolta contro l’organizzazione criminale che ha dominato negli ultimi vent’anni Gaza.
Ma il popolo palestinese non può decidere nulla. Hamas sapeva perfettamente quali conseguenze avrebbero subito i civili dopo l’attacco del 7 ottobre ma la loro vita non importa nulla e i morti saranno comunque, a maggior gloria di Allah, accolti nel paradiso dei martiri.
Se i terroristi di Hamas avessero un minimo rispetto per i cittadini di Gaza dovrebbero semplicemente arrendersi. Ma non lo faranno. Nei paesi del medio oriente teocratici o dominati da sanguinarie dittature la vita umana non vale nulla, vale solo la forza. E più innocenti morranno coinvolti e vittime loro malgrado nella causa sacra più questa otterrà linfa vitale. Sono anche loro, i 2 milioni di cittadini di Gaza, ostaggi di Hamas non meno dei 140 israeliani e cittadini di altre nazionalità scomparsi il 7 ottobre e non ancora ritrovati.
L’esercito israeliano che non a caso si chiama IDF, cioè forze israeliane di difesa, non ha cercato la guerra ma è stato costretto a farla e volentieri ne avrebbe fatto a meno. E, per quanto dura sia stata la sua risposta, esiste per difendere Israele e non per distruggere i suoi vicini. Per questo, sul piano morale, vi è un differenza abissale tra i due mondi.
Certamente molti e non a torto hanno solidarizzato in passato per la causa palestinese. Ma questo è stato possibile sino a quando le sue rivendicazioni sono state l’espressione di un desiderio di autodeterminazione e di costruzione di una nazione. Oggi Hamas e altri movimenti palestinesi sono solo una propaggine della Jihad mondiale. E questo cancella ogni legittimazione politica e storica con in più il timore che Hamas, pur sconfitta a Gaza, diventi, nell’eccitazione della guerra santa, egemone in Cisgiordania travolgendo la debole e corrotta Autorità nazionale palestinese. Egemone proprio di fronte a Gerusalemme.
Tutto ciò non significa che anche Israele non debba essere criticato per alcune sue scelte. Ad esempio l’invadenza dei coloni in Cisgiordania e cioè nei territori che dovrebbero far parte dello stato palestinese e, per quanto concerne la politica interna dell’attuale governo, il tentativo di controllare la magistratura la cui indipendenza è uno dei fiori all’occhiello della democrazia israeliana, l’unica degna di questo nome in tutto il Medio oriente. Una magistratura, lo dico da “collega” che ad esempio è stata in grado di sanzionare i militari e i civili israeliani che, pur in uno stato di guerra permanente, hanno oltrepassato i limiti della difesa consentita.
Chi esita deve ricordare che Israele in medio oriente è l’unico stato in cui possiamo identificarci, potremmo dire che è l’ultimo paese europeo. Lo testimoniano la libertà politica, i diritti civili e religiosi di tutti i cittadini, anche non ebrei, l’esistenza di una stampa indipendente, il fatto che coloro che ci vivono siano cittadini e non sudditi come invece in tutti i paesi arabi. Lo testimoniano anche le grandi conquiste che ha offerto anche a tutto mondo nel campo delle scienze, l’ingegneria e l’agricoltura moderna soprattutto che hanno fatto di deserti un giardino, dell’arte e della cultura. Il mondo palestinese avrebbe dovuto cercare di trarne insegnamento e di copiare Israele, non di cancellarlo dalle carte geografiche.
Un pensiero terribile dopo le tragedie di questi giorni, dando per scontato che Israele alla fine in qualche modo vincerà sradicando per il momento Hamas, è cosa potrà succedere tra 10 o 15 anni. Se il popolo palestinese non si doterà di una dirigenza che invece di adorare la guerra, cerchi la pace e consideri gli israeliani vicini di casa e non nemici da distruggere, qualcosa di simile ad Hamas ritornerà e nascerà una generazione allevata nell’odio. I bambini e ragazzi che in questi giorni soffrono quanto accade a Gaza, resi incapaci di comprendere che sono stati i loro capi violenti e corrotti a portare loro e i loro fratelli maggiori in una strada senza uscita, penseranno e agiranno solo in termini di vendetta.
Tutto ricomincerà da capo e i morti di oggi saranno stati inutili. Nascerà invece un Gandhi in Palestina, illuminato dalla non violenza? Forse, ma temo proprio di no.
Il Foglio, 26 dicembre 2023)
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Abbiamo ricevuto la segnalazione di questo interessante articolo direttamente dall'autore, il magistrato in pensione e pubblicista Guido Salvini. Lo ringraziamo vivamente della sua collaborazione, che ci auguriamo possa utilmente avvenire anche in seguito. NsI
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Il dilemma della guerra a Hezbollah
di Ugo Volli
• I sette fronti di Israele
Come ha dichiarato di nuovo ieri il ministro della difesa Yoav Gallant, attualmente Israele è attaccato da sette lati: Gaza, Giudea/Samaria, Yemen, Siria, Libano, Iraq e Iran. Di questi fronti il più attivo è quello di Gaza, da cui si è sviluppata l’invasione del 7 ottobre e dove oggi sono impegnate le truppe sul terreno. Ma esso non è probabilmente il più pericoloso, o almeno non lo è più, dopo due mesi e mezzo di combattimenti. L’Iran è la fonte principale di tutti gli attacchi a Israele, ma ha scelto di combattere per mezzo degli arabi che in fondo disprezza, senza mettere a rischio le proprie truppe. Anche quando Israele gli infligge un brutto colpo come l’uccisione in Siria del generale Razi Mousawi, forse il più importante ufficiale delle Guardie Rivoluzionario eliminato dopo Soleimani, gli ayatollah reagiscono minacciando rappresaglie apocalittiche, ma stando attenti a non entrare direttamente in guerra. L’Iraq è abbastanza lontano dai confini israeliani, e la fazione sciita in quel paese, pilotata anch’essa dall’Iran, se la prende soprattutto con le basi americane, almeno in parte ricambiato. Lo Yemen fa lo stesso con il commercio marittimo internazionale che porta merci vitali all’Europa dal Golfo Persico e dall’Estremo Oriente, e anche qui la risposta è guidata dagli Usa, che anzi hanno chiesto a Israele di non agire in prima persona, analogamente a quanto accadde durante la prima guerra del Golfo.
• La Siria
Resta il fronte settentrionale, che si divide fra Siria e Libano. In Siria, vicino al Golan israeliano, sono schierate truppe iraniane e di Hezbollah, oltre che l’esercito siriano, telecomandato dall’Iran e direttamente appoggiato dalla Russia. Qui Israele è intervenuto spesso con bombardamenti di interdizione, per evitare accumuli di armi e truppe vicino ai propri confini. Ma non è un punto molto attivo, anche perché la capitale Damasco è ad appena 60 chilometri dal confine israeliano e non vi sono ostacoli naturali a difenderla; i carri armati israeliani potrebbero arrivarci in un’ora o poco più e la Siria non ha oggi aviazione o forze corazzate sufficienti per impedirlo.
• La lunga storia del conflitto fra Israele e Libano
Il confine davvero pericoloso in questo momento è dunque quello libanese. Vi sono ragioni geografiche per questo pericolo: il territorio libanese incombe dall’alto in basso sulla pianura costiera che porta a Haifa e anche sulla riva settentrionale del lago Kinneret, un po’ come faceva la Siria prima di essere sloggiata dal Golan. Da qui non è difficile tagliare in due il paese, arrivando fino alla valle di Jeezrael e a Bet Shean. Vi sono poi ragioni storiche: oltre ai conflitti storici dal 1948 al 1967, vi sono state già due guerre fra Israele e Libano, nel 1982 e nel 2006 e soprattutto la seconda è stata difficile per l’esercito israeliano che ha fatto fatica a manovrare nelle strette valli delle montagne libanesi. Israele ha sentito spesso una qualche vicinanza con il Libano cristiano di un tempo, ha cercato alleanze con le forze che lo difendevano e ha anche costituito una zona cuscinetto nel Libano del Sud abbandonata però presto. Ma il problema del Libano si chiama Hezbollah.
• Hezbollah
Fondato appena nel 1982, Hezbollah organizza la maggior parte degli arabi sciiti che sono diventati la componente demografica maggioritaria del Libano. Grazie al supporto iraniano, Hezbollah controlla o paralizza tutte le istituzioni dello stato libanese; la forza militare del movimento è cresciuta a tal punto nel corso degli anni tanto da essere considerata non solo molto più potente dell'esercito regolare libanese ma, della maggior parte delle forze armate arabe, tanto da essere stata determinante nel mantenere al potere Assad nella guerra civile libanese. Per l’Iran il Libano è fondamentale perché costituisce il punto finale della “mezzaluna sciita”, il “ponte terrestre” che per la strategia degli ayatollah dovrebbe congiungere la Persia al Mediterraneo, sancendo per la prima volta da tredici secoli il predominio sciita sull’Islam. Per ottenere questo risultato L’Iran ha scelto il pretesto ideologico della lotta contro Israele e ha armato Hezbollah più di chiunque altro del suoi satelliti. Oggi si ritiene che il movimento terrorista libanese abbia fra i 100 e i 200 mila missili puntati sul territorio israeliano, fra cui molti attrezzati con le tecnologie di navigazione che consentono una grande precisione di tiro; comunque tanti da poter saturare le difese di Iron Dome e colpire molto pesantemente le basi militari israeliane e anche la popolazione civile. A questo quadro bisogna aggiungere che anche Hezbollah, come Hamas, ha scavato gallerie oltre il confine con Israele, alcune delle quali sono state scoperte; ma probabilmente non tutte. Infine il tentativo di appeasment di Hamas condotto dal governo Lapid sotto pressione americana, violando le regole costituzionali per concedere al Libano senza il referendum previsto una fetta di fondale marino ricca di gas al confine fra i due paesi, non ha evidentemente ottenuto il risultato che si attendeva, visto che non ha affatto frenato Hezbollah dal partecipare alla guerra.
• Una solidarietà parziale
I terroristi libanesi da subito dopo il 7 ottobre hanno mostrato la loro solidarietà ad Hamas provocando ogni giorno alcuni scontri a fuoco sul confine, bombardando case, sparando razzi contro automobili. Ancora ieri hanno tirato un missile su una chiesa ortodossa in Galilea, ferendo il sacrestano e poi i soldati israeliani che lo stavano soccorrendo. Sono riusciti a fare sfollare tutta la popolazione israeliana dell’Alta Galilea, che non può tornare a casa prima che la minaccia terrorista non sia finita. Ma hanno badato bene a non superare la soglia della guerra vera e propria e Israele ha accettato la tattica rispondendo in maniera strettamente proporzionale, perché non era nel suo interesse avere due guerre aperte contemporaneamente.
• Il dilemma
Ora però Israele si trova di fronte a un dilemma. Deve continuare in questa tattica, non aprendo subito un conflitto che rischia di essere molto più difficile e costoso (anche in termini di israeliani uccisi) di quello di Gaza? O deve continuare a stare al gioco degli Hezbollah, sapendo però che essi non sono stati affatto dissuasi dal tentare un’invasione come quella del 7 ottobre e magari assai più grande, ma aspettano solo il momento più conveniente per muoversi di sorpresa? Questo è il maggior problema strategico di questo momento per la leadership politica e militare di Israele. Per il momento Israele ha chiesto ufficialmente che Hezbollah sia obbligato a rispettare la risoluzione 1701 della Nazioni Unite che decise, come condizione per la fine della guerra del 2006, di obbligare Hezbollah a ritirarsi a nord del fiume Litani, che corre in media a 10-15 chilometri dal confine di Israele (ma in un punto i chilometri sono solo 5). Per ora Hezbollah non ha accettato e Israele minaccia di costringerlo con le armi, il che vorrebbe dire guerra aperta. Ma basterebbe questa ritirata ad annullare il pericolo di un gruppo la cui forza principale sono i missili? Non bisognerà comunque cercare di sconfiggere e sbandare questo gruppo che si propone la distruzione di Israele come obiettivo strategico? E che farà allora l’Iran, che ha investito su Hezbollah ben di più che su Hamas? Nessuno può dirlo oggi; ma certo il vero problema in Medio Oriente è questo: l’esistenza di un gruppo terroristico potentemente armato e di uno stato (l’Iran) che lo alimenta e cerca di affermarsi attraverso un nuovo genocidio degli ebrei.
(Shalom, 27 dicembre 2023)
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Israele può cacciare Hamas. Anche se l'Onu lavora contro
di Edward Luttwak
Non appena iniziò la prima guerra di Israele, il 15 maggio 1948, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, allora partner privilegiato in Medio Oriente, imposero un embargo totale sulle armi a tutte le parti coinvolte, perché gli eserciti arabi avevano già i loro kit di armi leggere, mitragliatrici e artiglieria da campo forniti dalla Gran Bretagna, e persino alcuni aerei e carri armati, mentre gli ebrei avevano solo fucili e mitragliatrici.
L'obiettivo del ministero degli Esteri britannico e del Dipartimento di Stato americano era proprio quello di sconfiggere al più presto l'appena proclamato Stato di Israele, in modo da preservare la stabilità del potere britannico sulla regione, comprese le basi aeree veramente strategiche dall'Egitto all'Irak (quella che i britannici hanno mantenuto a Cipro è ancora utilizzata ogni giorno dagli Stati Uniti).
Poi è successo qualcosa di completamente inaspettato: gli ebrei hanno iniziato a vincere, mentre i palestinesi fuggivano in preda al panico invece di accogliere le unità egiziane, siriane e giordane con incarico britannico che stavano invadendo il Paese. Avendo favorito la guerra per porre rapidamente fine a Israele, dovettero interromperla per salvare i loro alleati arabi al collasso, re Farouk d'Egitto, re Faisal d'Irak e l'emiro Abdallah di Transgiordania.
L'intraprendente ministero degli Esteri aveva pronto il rimedio necessario, prontamente sostenuto dall'obbediente Dipartimento di Stato: l'11 giugno 1948, l'allora nuovissimo Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite impose un cessate il fuoco totale, dopo 26 giorni di combattimenti. Se gli israeliani non avessero ripreso a combattere il 9 luglio 1948 per unire i frammenti di territorio strappati fino ad allora agli eserciti invasori, Israele non sarebbe potuto emergere come Stato vitale.
Lo schema stabilito per tutti i cessate il fuoco delle Nazioni Unite in tutte le guerre successive, vale ancora oggi: non appena Israele lancia la sua controffensiva e inizia a vincere, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (dominata da dittature e Stati musulmani) richiede un cessate il fuoco immediato, e subito aumenta la pressione perché il Consiglio di Sicurezza ordini effettivamente il blocco delle attività belliche. Hamas non ha mai avuto la possibilità di vincere, ma se in qualche modo lo avesse fatto almeno per una settimana, l'Assemblea Generale non avrebbe nemmeno preso in considerazione l'ipotesi di un cessate il fuoco, proprio come accadde nell'ottobre 1973 quando Egitto e Siria sembrarono vincere durante la prima settimana di guerra.
Ma è solo per quanto riguarda i cessate il fuoco imposti dall'Onu che c'è continuità: tutto il resto è molto diverso ora che Israele non è più circondato da Stati nemici e deve vedersela solo con gli ausiliari dell'Iran a Gaza, in Libano e nello Yemen.
Gli Stati Uniti possono certamente contribuire a dissuadere Hezbollah e sono l'unica potenza in grado di disarmare la minaccia Houthi alla navigazione sul Mar Rosso e sul Canale di Suez, che sta già danneggiando gravemente l'Egitto e il porto saudita di Gedda. Ma solo Israele può mettere fuori gioco Hamas, combattendo in un vicolo, in un tunnel e in un bunker dopo l'altro in tutta la Striscia di Gaza.
Molto ragionevolmente, l'amministrazione Biden ha chiesto agli israeliani di sbrigarsi a combattere, invece di prolungare le sofferenze dei civili di Gaza che fanno gridare allo scandalo la sinistra rumorosa del Partito democratico. Altrettanto ragionevolmente, l'amministrazione Biden ha chiesto agli israeliani di usare meno potenza aerea, meno artiglieria e più fanteria per ridurre le vittime civili.
Ma muoversi più velocemente in un terreno urbano intricato, con molti grattacieli ideali per i cecchini e tunnel che si irradiano sotto gli scantinati da cui uscire all'improvviso dietro i soldati che avanzano, aumenterebbe drasticamente le perdite israeliane. Lo stesso vale per qualsiasi riduzione imposta sui tiri di artiglieria e sugli attacchi aerei. E fare entrambe le cose contemporaneamente, con un'azione più rapida sul terreno condotta con meno potenza aerea e meno artiglieria di supporto, moltiplicherebbe esponenzialmente le perdite.
Poiché i leader di entrambi gli schieramenti sanno queste cose, e poiché si rispettano reciprocamente, c'è un processo di reciproco accomodamento giorno dopo giorno. Ma Israele non può porre fine alla sua offensiva, né accettare dei cessate il fuoco in cambio di ostaggi che durino più del tempo necessario per le consegne dei sequestrati.
Le sue forze devono insistere giorno dopo giorno fino a quando ogni scantinato e ogni tunnel non saranno stati sgomberati, riducendo nel frattempo il numero di combattenti addestrati da Hamas. Al contrario, la cattura dei leader più importanti non può essere un obiettivo realistico: con tutti i loro soldi per pagare i famosi e sfuggenti contrabbandieri beduini del Sinai in grado di portarli ai loro jet privati, è fin troppo facile per loro raggiungere le suite a cinque stelle che li aspettano a Doha.
Ma se gli uomini armati di Hamas saranno così ridotti di numero da non poter più sottoporre la popolazione di Gaza alla guerra perpetua voluta dai miliziani, sarà una vittoria sufficiente. Anche se la macchina dell'Unwra per perpetuare lo status di rifugiati dei palestinesi fuggiti, non sarà sostituita dal loro reinsediamento, cosa che sarebbe dovuta accadere generazioni fa.
(il Giornale, 27 dicembre 2023)
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Bibi sistema Hamas e sfida Teheran
di Carlo Nicolato
La guerra in Medio Oriente, o per meglio dire di Israele contro tutti, si è ormai tramutata in una drammatica sfida a scacchi senza esclusione di colpi, in cui Gerusalemme per la prima volta non ha risposto reagendo a un attacco, ma ha mosso per prima aspettando la risposta del nemico. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto ai parlamentari della Knesset che Israele sta combattendo su sette fronti e ha risposto su sei di essi, ma il settimo, che è il più importante, è stato provocato e si aspetta la sua risposta.
Si tratta dell’Iran ovviamente al quale Israele ha ucciso in un attacco aereo su Damasco il generale Razi Mousavi, considerato il responsabile del coordinamento dell'alleanza militare tra Iran e Siria, colui che si occupa di armare le milizie alleate degli ayatollah. Gli altri fronti di cui parla il ministro sono Gaza, Libano, Siria, Giudea e Samaria (Cisgiordania), Iraq e Yemen. «Tutti coloro che agiscono contro di noi sono un potenziale bersaglio» ha detto Gallant, aggiungendo che «nessuno ha l’immunità». Perché «se non si raggiungono gli obiettivi della guerra, ci troveremo in una situazione in cui il problema non saranno coloro che vivono vicino a Gaza o nel nord; il problema sarà che le persone non vorranno vivere in un luogo dove non sappiamo come proteggerle».
L’Iran ha promesso vendetta, ma non è ancora chiaro come abbia intenzione di agire. Il ricordo della figuraccia dopo l’eliminazione, ordinata da Trump, del generale Soleimani, di cui peraltro Mousavi era amico e stretto collaboratore, è ancora viva e Teheran vorrebbe evitarne un’altra. Tantopiù che Biden ha più volte sottolineato che qualora l’Iran decidesse di attaccare direttamente Israele gli Stati Uniti si schiererebbero automaticamente con tutto il loro enorme potenziale militare a difesa dell'alleato. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha promesso che Israele «pagherà sicuramente per questo crimine», mentre il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian scritto su X che «Tel Aviv deve affrontare un duro conto alla rovescia»: ma conviene davvero all’Iran infilarsi direttamente in un conflitto in cui ha solo la certezza di uscirne malconcio? Un puntuale rapporto dell’AIEA fa sapere che nelle ultime settimane l’Iran ha triplicato il ritmo con cui produce uranio potenzialmente utilizzabile come arma militare, invertendo un precedente rallentamento iniziato a metà di quest’anno. A gennaio la stessa agenzia dell’Onu aveva avvertito che Teheran possedeva già materiale nucleare sufficiente per «diverse» armi, facendo riferimento a 70 chilogrammi di uranio arricchito al 60% di purezza e mille chilogrammi al 20%. Probabilmente solo una mossa di terrorismo strategico che comunque rende l’idea sugli eventuali rischi di una guerra allargata al Golfo Persico.
Gallant ha comunque aggiunto che «questa sarà una guerra lunga e dura» ma che Hamas verrà comunque punito, «ci vogliano mesi o anni». L’esercito israeliano ha già pagato un duro tributo con la perdita di 161 soldati, gli ultimi tre dei quali uccisi ieri in battaglia. Un altro soldato sarebbe invece morto per un'infezione fungina dopo essere stato ferito. I medici hanno fatto sapere che il giovane è deceduto nonostante sia stato tempestivamente trattato in uno dei centri medici più attrezzati. Si ritiene che almeno altri 10 militari abbiano contratto lo stesso fungo dopo essere stati feriti e che alcuni ostaggi rilasciati avessero infezioni dello stesso genere.
Libero, 27 dicembre 2023)
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Il romanzo nero su Israele del corrispondente del Corsera Redazione
Quando non si ha il coraggio delle proprie opinioni si preferisce mascherarle con dei veli, sottili a dire il vero, in modo da fare credere di essere obiettivi, imparziali cronisti della realtà.
Lorenzo Cremonesi, su Il Corriere della Sera finge di fotografare con occhio distaccato il conflitto tra Israele e Hamas, ma è del tutto palese la forzatura ideologica con cui lo rappresenta. Di lui abbiamo già dato conto e di nuovo lo facciamo.
La maschera ormai è stata gettata a terra. Negli ultimi articoli e video da Gerusalemme e Gaza, Cremonesi ci racconta di ebrei ortodossi che vorrebbero distruggere la Spianata delle Moschee (che è anche e precedentemente Monte del Tempio) per edificarvi il Terzo Tempio, accusa confezionata dal Mufti di Gerusalemme negli anni ’30, e di un vero e proprio progetto sionista genocida in corso a Gaza, dove intervista selettivamente chi afferma che i bombardamenti israeliani avvengono senza preavviso.
Per Cremonesi c’è un piano preciso sostenuto da quello che è ormai diventato la caricatura del villain per antonomasia, Itmar Ben Gvir, ministro per la Sicurezza, “che vorrebbe cercare di sfruttare il momento per espellere all’estero il massimo numero di palestinesi”.
Dunque, agli occhi di Ben Gvir e dei suoi invasati seguaci il pogrom del 7 ottobre “offre l’opportunità di realizzare il vecchio sogno sionista di regalare agli ebrei ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’. In questo senso vanno le azioni militari e le prese di posizione dei dirigenti israeliani negli ultimi giorni”.
Cremonesi storico improvvisato, estrapola una celebre frase di Theodore Herzel spacciandola per progetto sionista, quando era già chiaro a Vladimir Jabotinsky negli anni ’20 che il sionismo avrebbe dovuto tenere conto che la Palestina non era una regione spopolata ma che vi dimoravano gli arabi, e che con loro bisognava trovare una forma di convivenza a patto che accettassero il diritto degli ebrei di vivere sulla terra dalla quale avevano avuto origine. Ma il peggio viene dopo, i bombardamenti in corso sarebbero, per il giornalista, finalizzati se non a un progetto genocida (è insistita la sua sottolineatura dei “massacri”) allo spopolamento della Striscia.
Dunque la guerra in corso ha un obbiettivo dichiarato, abbattere il governo terrorista di Hamas, il quale sarebbe però la copertura del “vecchio sogno sionista”.
Si potrebbe, a questo punto fare un passo ulteriore, Cremonesi dovrebbe prendere più lena, e affermare che l’eccidio del 7 ottobre è stato organizzato da Israele al fine di trasformare Gaza in una Cartagine moderna.
(L'informale, 27 dicembre 2023)
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Svezia – L’antisemitismo degli immigrati? Un problema degli ebrei
Otto anni fa, la televisione svedese realizzò un servizio a Malmö. Due reporter portavano la kippah nel quartiere di Rosengård. Entrambi furono cacciati dai residenti della zona. Il servizio confermò ciò che molti altri reportage avevano già sostenuto nei primi e nella metà degli anni ’90: per la strade di Malmö l’antisemitismo è un problema serio.
La sede della locale comunità ebraica è stato oggetto di attacchi nel corso degli anni e il rabbino Chabad, Shneur Kesselman, è stato minacciato e molestato. In diverse occasioni, quando ci sono state manifestazioni che hanno toccato il conflitto tra palestinesi e israeliani, non si è mai stati lontani da slogan antisemiti. Quando Donald Trump ha pianificato di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, circa duecento persone si sono riunite in una piazza di Malmö, con la scritta “Abbiamo dichiarato l’intifada da Malmö. Rivogliamo la nostra libertà e spareremo agli ebrei”.
Con questi precedenti, non sorprende nessuno che dopo il 7 ottobre proprio a Malmö abbiamo assistito alle prime celebrazioni degli eventi. Non erano ancora stati ritrovati tutti i corpi che una carovana di auto percorreva le strade della città per festeggiare l’attacco. Qualche settimana dopo, una bandiera israeliana è stata data alle fiamme fuori dalla sinagoga di Malmö.
L’antisemitismo visibile a tutti gli abitanti della città non è una novità. È noto da tempo e ha ovviamente influenzato la minoranza ebraica a Malmö. Eppure non è mai diventato una questione politica importante in Svezia. Il Partito Socialdemocratico, che ha governato a lungo la città, non si è affrettato a esprimere condanne nette o a fare un dramma per una minoranza della città che emigra volontariamente per vivere una vita ebraica libera e senza ostacoli. Ci sono state condanne a metà e promesse di iniziative di dialogo e di educazione. La situazione di Malmö non è diventata un grande problema nemmeno in Svezia. Non ci sono state grandi manifestazioni di massa contro il razzismo. Nessuna protesta pubblica diffusa. Il che è strano. Pochi paesi in Europa come la Svezia si preoccupano del razzismo, quando questo proviene dall’estrema destra.
Nel paese c’è un’ampia consapevolezza e vigilanza sul razzismo, ed è per questo che è anche una delle popolazioni al mondo in cui i pregiudizi hanno il più basso sostegno. Esistono tuttavia differenze significative all’interno del Paese. Fra la popolazione nel suo complesso, l’antisemitismo è poco diffuso: circa il 5% ha opinioni antisemite. Ma tra coloro che si identificano come musulmani, la cifra si avvicina al 40%. È questa differenza che viene ricordata a Malmö. L’antisemitismo di estrema destra esiste da tempo ed è improbabile che scompaia. Ma il suo livello è così basso e stabile che non rappresenta un pericolo esistenziale per la minoranza ebraica. Al contrario, la violenza fisica visibile e non infrequente degli immigrati dal Medio Oriente è un’altra cosa: probabilmente costituisce l’ultimo capitolo della storia ebraica di Malmö.
(moked, 27 dicembre 2023)
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Israele, grazie a Brothers in Arms, adotta i cani robot per i combattimenti a Gaza
L’organizzazione dei riservisti dell’IDF Brothers in Arms ha acquistato tre cani robot per l’esercito, che raccoglieranno informazioni salvavita e “assisteranno i soldati da combattimento per operare in modo ottimale sul campo”.
Brothers in Arms ha rifiutato di approfondire l’argomento, ma è sicuro che l’organizzazione, i cui membri conoscono bene le condizioni di combattimento a Gaza, hanno coordinato la loro donazione con le esigenze dei soldati sul campo e delle autorità dell’IDF, nell’acquisto dei tre cani robot Vision 60, prodotti da Ghost Robotics. L’azienda statunitense produce anche i cani robot per l’esercito americano. Ogni cane costa 165.000 dollari.
I cani robot di Ghost Robotics esplorano le aree sopra e sotto il suolo e sono altamente mobili e agili. I robot possono arrampicarsi su cumuli di terra, sabbia e mattoni, attraversare pozzanghere profonde e persino galleggiare sulla loro superficie. In caso di ribaltamento, sono programmati per rimettersi in piedi e continuare la missione come se nulla fosse. I cani robot possono operare sottoterra e, a differenza di altri cani robot controllati a distanza, quelli di Ghost Robotics sono semi-autonomi e possono controllare la propria velocità di movimento e arrestarsi senza l’intervento umano. Tuttavia, richiedono una comunicazione continua con l’operatore.
Secondo fonti estere, i cani robot sono dotati di vari sensori che permettono loro di identificare oggetti e persone di notte o in condizioni di scarsa visibilità, oltre che di un dispositivo che consente di collegare sensori non standard, come il radar laser (lidar), permettendo la mappatura 3D dell’ambiente. Si ritiene che tali caratteristiche consentano di individuare le cariche esplosive e di salvare vite umane e prevenire lesioni. La loro stabilità in varie situazioni, come scale e pendii ripidi, è migliore di quella di altri robot a trazione cingolata che si ritiene siano già in servizio presso l’IDF. Secondo le stime, al momento non è previsto un equipaggiamento più ampio dell’IDF con questi cani robot. Questi cani robot hanno alcuni svantaggi. La durata della batteria è breve: teoricamente fino a tre ore, ma in pratica a volte solo 90 minuti. Non possono trasportare più di 10 chilogrammi.
• Altri occhi e orecchie
I cani robot sono in servizio con l’esercito degli Stati Uniti dal 2020 e svolgono principalmente compiti di guardia e protezione delle basi militari. Gli ufficiali dell’aeronautica statunitense hanno dichiarato alla rivista di notizie militari “Task & Purpose” che i cani robot “rappresentano più occhi e orecchie sul terreno, con la capacità di elaborare informazioni in modo particolarmente rapido in diverse aree strategiche allo stesso tempo”.
Durante un’esercitazione condotta in Nevada, i robot di Ghost Robotics hanno alimentato gli obiettivi in un sistema di intelligence per la gestione della guerra, e in un’altra esercitazione condotta dall’unità del Comando del Fronte Interno degli Stati Uniti nel Nord Dakota, i robot hanno simulato l’attività durante un attacco nucleare/biologico/chimico. Ghost Robotics ha anche dimostrato che il suo robot è in grado di smaltire ordigni esplosivi, in collaborazione con un’azienda chiamata Zero Point, specializzata nella produzione di sistemi per neutralizzare gli esplosivi.
L’amministratore delegato di Ghost Robotics, Jiren Parikh, ha dichiarato in un’intervista di due anni fa: “La maggior parte dei nostri clienti utilizza il cane robotico per missioni di intelligence, acquisizione di obiettivi, esplorazione del sottosuolo e della superficie in luoghi difficili, mappatura, sicurezza contro gli ordigni esplosivi, dispiegamento di infrastrutture wireless e sicurezza delle strutture e, di fatto, per qualsiasi uso in cui siano necessari. Questi robot sono migliori di quelli che si muovono su cingoli o ruote”.
• La questione etica
Due anni fa, in occasione di una conferenza tenutasi a Washington, Ghost Robotics ha presentato il suo cane robot armato di un fucile mitragliatore con un mirino ottico avanzato, una telecamera termica per la visione notturna e la capacità di sparare fino a una distanza di 1.200 metri.
Il cane robot con la sua potenza di fuoco è diventato la star della conferenza, ed ha suscitato anche polemiche nell’opinione pubblica. Ma ogni preoccupazione era prematura. Sono passati due anni e i cani robot sono ancora in servizio disarmato nelle forze militari che li utilizzano.
L’evento ha suscitato anche una polemica tra i produttori di robot e in ottobre Boston Dynamics, la più grande e conosciuta azienda del settore, ha lanciato una petizione per chiedere a tutti i produttori di robot di non armare i loro prodotti e di concentrarsi invece sulle applicazioni salvavita e sul mantenimento della pace. Boston Dynamics ha scritto: “L’installazione di armi su robot autonomi o controllati a distanza rappresenta un nuovo tipo di pericolo per il pubblico e solleva questioni morali”.
Altre cinque aziende hanno firmato la petizione lanciata da Boston Dynamics, ma Ghost Robotics non era tra queste.
L’impiego di robot armati nelle forze armate sembra inevitabile, se si considera che paesi non democratici si stanno muovendo in questa direzione. Una società di difesa cinese ha già sviluppato un UAV armato.
• Controllo coreano
Ghost Robotics è un’azienda statunitense con 75 dipendenti che ha raccolto finora diversi milioni di dollari. La scorsa settimana è stata acquisita dal produttore di armi coreano LIX Nex 1 per 240 milioni di dollari. Anche la sua grande rivale Boston Dynamics è controllata dal gigante coreano Hyundai, che ne ha acquisito il controllo due anni fa a una valutazione dell’azienda di 1,1 miliardi di dollari.
Esistono alcune somiglianze tra i cani robot di Ghost Robotics e quelli di Boston Dynamics, che ha citato Ghost in giudizio per presunta violazione della sua proprietà intellettuale, tra cui 500 brevetti che detiene o di cui ha chiesto la registrazione nel campo della robotica. In risposta Ghost Robotics sostiene che i suoi prodotti sono nati all’Università della Pennsylvania, sotto la supervisione di un esperto di brevetti sui robot a quattro zampe, nel 2001. Ghost Robotics sostiene inoltre di essere il principale fornitore di robot deambulatori del governo statunitense e dei suoi alleati.
L’industria dei robot militari deambulanti è divisa tra Corea e Stati Uniti. Israele, un Paese con una vasta industria di armi e robotica, attualmente non ha aziende che lavorano nel campo dei robot deambulanti.
(Israel 360, 23 dicembre 2023)
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Non ci sarà mai una Palestina “dal fiume al mare”
Uno slogan ingannevole che alimenta pericolose illusioni. Serve i disegni dei jiadisti e dei capi palestinesi che vivono di conflitto. Ma è delirante e imperdonabile quando viene urlato da studenti laici in Occidente
di Todd L. Pittinsky
Quando gli studenti protestano, spesso lo fanno nell’ingenua convinzione di poter rendere il mondo come pensano che dovrebbe essere urlandogli contro. Può trattarsi di un rito di passaggio che suscita tenerezza, persino ammirazione. Ma quando gli studenti gridano in massa “la Palestina sarà libera dal fiume al mare” (from the river to the sea, Palestine will be free), si tratta di qualcos’altro: qualcosa di pericoloso e persino letale.
Secondo alcune ricerche, molti degli studenti che gridano questo slogan non sanno nemmeno indicare con esattezza di quale “fiume” e di quale “mare” si stia parlando. Né sono in grado di indicarli su una mappa. In breve, non hanno la minima idea di cosa stanno effettivamente dicendo.
Ma Hamas lo sa bene. Hamas ha detto e ripetuto chiaramente, più e più volte, che “Palestina libera dal fiume al mare” è un appello per uno stato palestinese arabo musulmano che comprenda tutto il moderno Israele. Il che lo rende un esplicito appello per l’annientamento dello stato ebraico e il genocidio degli ebrei, cosa che Hamas ammette volentieri.
Non ci sarà mai una Palestina dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). Dunque, quale danno reale può derivare da studenti che a migliaia di chilometri di distanza urlano questa rivendicazione: una rivendicazione tanto insensata che persino Rashida Talib (nota congressista palestinese-americana anti-israeliana ndr) ha cercato di descrivere, abbastanza curiosamente, come un appello meramente “aspirazionale”?
In realtà, possono derivarne molti danni per le persone che vivono a Gaza, cioè le persone a nome delle quali i manifestanti sostengono di protestare.
Quando gli islamisti urlano “Palestina dal fiume al mare”, non stanno facendo una dichiarazione politica: stanno esprimendo la volontà di morire da martiri pur di annientare gli ebrei. Nella loro mente, non stanno combattendo un conflitto sui confini: stanno combattendo una guerra santa. Se sono maschi e muoiono in quella guerra, nell’aldilà Allah concederà loro 72 vergini per farci esattamente quello che state pensando.
Quando studenti laici in Occidente gridano lo stesso slogan, non fanno che promuovere sciaguratamente un insieme di credenze religiose e un sistema statale teocratico al quale loro per primi non aderirebbero né si sottometterebbero mai. Ma, cosa ancora peggiore, ostacolano il progresso dei palestinesi alimentando la falsa speranza che un giorno uno stato palestinese rimpiazzerà lo stato ebraico, anziché coesistere al suo fianco. Il rifiuto della dirigenza palestinese di optare per la coesistenza anziché l’annientamento è stata, ed è, una delle principali cause delle sofferenze dei palestinesi da 76 anni.
Ai palestinesi fu offerta la possibilità di diventare uno stato con il piano di spartizione originario delle Nazioni Unite del 1947, con gli Accordi di Camp David del 1978, col vertice di Camp David del 2000, con le offerte israeliane del 2008. Il ritiro di Israele da Gaza nel 2005 fu un’altra opportunità per i palestinesi di iniziare a costruire uno stato, ma la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 (elezioni che Hamas non ha più permesso che si tenessero) e la sua violenta presa del potere a Gaza nel 2007 hanno portato a rilanciare in grande stile la “guerra santa” e la falsa speranza che un giorno l’intero Medio Oriente sarà judenrein “ripulito dagli ebrei”. Questo è ciò che di fatto invocano tanti studenti nelle piazze d’America e d’Europa. E se non se ne rendono conto, la loro ignoranza è voluta perché Hamas non ne ha mai fatto mistero.
Una versione soft dello slogan “dal fiume al mare” rivendica un “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati (e tutti i loro discendenti), che trasformerebbe da un giorno all’altro Israele in uno stato arabo musulmano. Per non parlare che, se i palestinesi hanno un diritto al ritorno, lo stesso dovrebbe valere per tutti gli ebrei (e loro discendenti) “etnicamente ripuliti” da Iraq, Egitto, Libia, Siria, Yemen, Marocco, Tunisia e altri paesi arabi a metà XX secolo.
Il punto, in ogni caso, e che quand’anche si concludesse che la Palestina dovrebbe estendersi dal fiume al mare, ciò non accadrà. Israele è forte ed è disposto a usare tutta la forza per difendere la propria esistenza.
È già abbastanza grave che la dirigenza palestinese abbia sprecato tutti questi decenni alimentando nei palestinesi questa falsa speranza. Ma almeno c’è una certa logica in questo comportamento: serve a mantenere al potere quel particolare gruppo dirigente (che si sostiene grazie al conflitto infinito).
Ma quando lo fanno gli studenti americani ed europei, è semplicemente delirante e imperdonabile. Sono moralmente colpevoli di condannare un’altra generazione di bambini palestinesi a vivere in uno stato di inutile povertà e sotto una feroce tirannia islamista, dilapidando la loro idea di futuro in una fantasticheria distruttiva e autodistruttiva. ____
(Da: Times of Israel, 22.12.23)
(israele.net, 26 dicembre 2023)
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La Striscia di Gaza deve essere dehamasificata prima di un autogoverno
Le lezioni apprese dalla denazificazione della Germania dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale.
di Ariel Kahana
GERUSALEMME - L’esercito israeliano sta facendo piazza pulita del terrorismo che si è accumulato nella Striscia di Gaza per tre decenni. In caso di vittoria, siamo praticamente tornati al punto di partenza. Come si possono controllare due milioni di arabi a cui è stato insegnato fin dalla nascita a uccidere gli "ebrei subumani"? E questo in un'area piccola, sovraffollata, devastata e priva di risorse naturali, la cui popolazione non ha una tradizione di autodeterminazione e di lotta per il progresso, ma una cultura della jihad e dell'omicidio?
Il termine "denazificazione" fu coniato dal Pentagono due anni prima della sconfitta di Adolf Hitler. L'idea di base era quella di distruggere il nazismo non solo militarmente, ma in tutti i settori della vita.
Gli Alleati imposero una condizione ancor prima di realizzarla. Chiesero la resa completa e incondizionata di Hitler. C'è già una differenza tra il caso tedesco e il nostro. Israele non ha parlato di resa di Hamas. Al contrario, stiamo trafficando con loro e con i loro sostenitori del Qatar nel bel mezzo della guerra.
Nel 1945, ogni cittadino tedesco ha sentito la sconfitta nel modo più personale e difficile. Morte, fame, distruzione, prostituzione, saccheggi, stupri, mercato nero e soldati stranieri erano onnipresenti. La Germania nazista era come se fosse stata inghiottita dalla terra. Non furono avviate misure di riabilitazione fino a quando ciò non fosse avvenuto.
Gli americani imposero il pieno dominio militare sulla loro zona di occupazione in Germania per quattro anni. All'inizio gli americani adottarono una linea molto dura. Tutti i cittadini tedeschi di età superiore ai 18 anni dovettero compilare un questionario che riportava i loro legami con il partito nazista. Si scoprì che il 10% della popolazione era iscritto al partito.
Tuttavia, alla fine della guerra furono arrestati solo 400.000 tedeschi, 90.000 dei quali furono imprigionati fino al 1947. A circa 3,5 milioni di persone che avevano un ruolo importante nel NSDAP fu permesso di lavorare solo come operai.
Nel frattempo iniziarono i processi di Norimberga. I processi si svolsero deliberatamente in territorio tedesco e furono ampiamente trattati dai media tedeschi. Gli alti funzionari superstiti del regime nazista furono processati. Alcuni furono giustiziati, altri condannati all'ergastolo o a pene più brevi. I processi avevano lo scopo di inviare il messaggio che l'ideologia nazista doveva essere cancellata dalla faccia della terra.
Il generale Dwight Eisenhower riteneva che "solo una forza di occupazione a lungo termine e inflessibile può portare i tedeschi a un cambiamento fondamentale della loro attuale filosofia politica".
Va da sé che alla Germania fu vietato di costituire un esercito o altre forze armate.
La denazificazione ebbe successo soprattutto perché ogni cittadino tedesco sperimentò personalmente e dolorosamente dove portava il nazionalsocialismo. Soprattutto, però, dopo la sconfitta non c'era più nessuno che potesse riaccendere i sentimenti nazionalisti, come era accaduto dopo la Prima guerra mondiale.
Un'altra ragione per cui la Germania accettò l'Occidente fu l'alternativa dell'Est: il comunismo. In altre parole, i cittadini della Germania occidentale capirono che dovevano obbedire all'America perché altrimenti sarebbero stati distrutti da Joseph Stalin.
• NON SI TRATTA SOLO DI GAZA Questa opinione è sostenuta da Michael Dobbs, autore del bestseller internazionale Six Months in 1945: FDR, Stalin, Churchill and Truman - From World War to Cold War, che descrive il crollo della Germania. Egli ritiene che la sfida di Israele a Gaza sia ancora più complessa di quella degli Alleati in Germania.
"Penso che il paragone sia affascinante, ma alla fine, purtroppo, molto improbabile", ha detto in un'intervista a Israel Hayom. Il paragone è invitante perché si suppone che due nemici sconfitti [Germania e Giappone] possano diventare alleati prosperi e democratici".
"Eppure, perché l'analogia non regge? In primo luogo, anche se Gaza sarà sconfitta e occupata alla fine della guerra, è solo una piccola parte del mondo arabo. La Jihad, i jihadisti, l'Islam politico e gli islamisti continueranno a esistere e a prosperare altrove, sia nel mondo arabo che nel Medio Oriente in generale. Inoltre, la loro causa potrebbe essere rafforzata e rivitalizzata dal ricordo degli eventi di Gaza. Quindi non può e non deve essere una sconfitta totale come quella del nazismo o del militarismo giapponese".
"In secondo luogo", aggiunge Dobbs, "in Germania in particolare, l'occupazione alleata da parte degli Stati Uniti e dell'Occidente era vista come di gran lunga migliore dell'alternativa: l'occupazione da parte dell'Unione Sovietica. Sebbene sia certo che molti gazesi siano stufi di Hamas, non credo che sostengano (anche passivamente) una continua occupazione israeliana di Gaza sulla stessa base".
Alla fine, l'autore e giornalista conclude: "Auguro a Israele di avere successo e spero in un risultato che allevi le sofferenze di entrambe le parti. Ma i problemi dell'occupazione e della costruzione di strutture di governo democratiche in un Paese sconfitto sono scoraggianti e rappresentano una sfida ancora più grande rispetto alla situazione affrontata dagli alleati occidentali dopo la Seconda guerra mondiale".
Oltre alle differenze tra la Gaza del 2024 e la Germania del 1945, il mondo è diventato molto più piccolo grazie alla tecnologia. Oggi le armi possono essere fabbricate in qualsiasi casa e qualsiasi utente di telefoni cellulari può imparare a costruire bombe. Inoltre, gli Stati Uniti potevano fare quello che volevano in Germania. Il mondo intero, invece, osserva ogni mossa di Israele.
• SCONFITTA ASSOLUTA Nonostante tutte queste differenze, Israele può imparare qualcosa dalla storia tedesca. Primo: Hamas deve essere sconfitto in modo assoluto, non solo con un "colpo decisivo". L'esperienza tedesca insegna che la popolazione di Gaza deve capire che Hamas ha portato su di loro terribili sofferenze e che è stato bandito da questo mondo.
E c'è un'altra lezione: finché Hamas non capitolerà, non si potrà parlare di ricostruzione della Striscia. Questo contraddice l'intenzione di Israele di permettere ai residenti di Gaza di tornare alle loro case nella striscia settentrionale, come ha spiegato questa settimana il ministro della Difesa Yoav Gallant.
Se la ricostruzione inizia prima della scomparsa di Hamas, la responsabilità degli orrori di Gaza non sarà ancora radicata nella mente della gente. Da un punto di vista militare, ci si chiede anche perché un quartiere debba essere ricostruito se Hamas ne riprende il controllo due minuti dopo.
Dopo la resa e lo sgombero dell'area dai terroristi, deve avvenire un processo approfondito di dehamasificazione. Indipendentemente dal fatto che il governo della Striscia di Gaza venga assunto da noi o da un'organizzazione internazionale, è imperativo che vengano attuate riforme per sradicare l'ideologia di Hamas e altri contenuti antisemiti e anti-Israele. Questo deve essere un prerequisito fondamentale.
Possiamo imparare dall'esempio tedesco che ci sono modi per sradicare un'ideologia viziosa. Anche se non ci sarà un successo, gli sforzi non saranno stati vani. La minaccia rappresentata da Gaza esiste da 75 anni. Dopo quello che è successo, possiamo e dobbiamo fare tutto il possibile per eliminarla definitivamente.
Ecco perché, ad esempio, i processi contro i membri di Hamas dovrebbero svolgersi a Gaza e non a Gerusalemme. Ogni casa e ogni aula di Gaza deve vederli, anche se ciò significa chiudere internet e controllare i media. Se gli abitanti di Gaza vogliono godere della democrazia, devono dimostrare di esserne degni. Non possono avere entrambe le cose.
Qualsiasi futuro governo di Gaza dovrà essere estremamente anti-Hamas. Inoltre, non deve interferire nel conflitto armato palestinese. Ciò non farebbe altro che alimentare nuovamente il fuoco. Chiunque governi Gaza, il suo compito sarà quello di regolare la vita civile e porre fine a qualsiasi tipo di incitamento contro Israele o gli ebrei. Nessun compromesso, nessun battito di ciglia, nessun "se" o "ma".
• NIENTE UNRWA, NIENTE AUTORITÀ PALESTINESE L'UNRWA non può più essere attiva a Gaza, punto e basta. Per inciso, il paragone con la Germania calza a pennello. Dopo la Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite hanno fondato un'organizzazione per l'assistenza ai rifugiati che da allora ha reinsediato milioni di rifugiati nel continente e nel mondo. L'UNRWA, invece, non ha risolto un solo problema di rifugiati palestinesi e, al contrario, educa le future generazioni a uccidere gli ebrei e, in alcuni casi, le aiuta anche fisicamente a farlo.
Israele, ovviamente, non può permettere all'Autorità Palestinese di esercitare il controllo sulla Striscia di Gaza. Le riforme necessarie in Cisgiordania non sono meno necessarie di quelle di Gaza. Il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, che nega l'Olocausto, non ha ancora condannato i crimini nazisti di Hamas.
Gli abitanti della Striscia di Gaza dovrebbero essere educati alla tolleranza, all'integrazione e all'accettazione degli ebrei come normali vicini. Tutto ciò sembra utopico e non c'è dubbio che i demoni assassini non scompariranno da un giorno all'altro o addirittura in un decennio. Ma se vogliamo la vita, non c'è altra strada.
In un mondo ideale, sarebbe meglio se un governo straniero, di qualsiasi tipo, arabo o occidentale, ripulisse la fogna di Gaza. Le possibilità che ciò accada sono scarse. Chiunque entri a Gaza incontrerà una resistenza violenta e fuggirà per salvarsi la vita, soprattutto se Hamas non verrà spazzato via.
C'è quindi ogni motivo per credere che l'intero onere, quello civile e non solo quello della sicurezza, alla fine ricadrà sulle nostre spalle. Vale la pena di interiorizzarlo. Le dichiarazioni di Israele secondo cui "i palestinesi si governeranno da soli il giorno dopo" sono premature.
Prima di impegnarsi per l'autogoverno palestinese, Israele deve prima chiarire nel dettaglio come avverrà il processo di dehamasificazione. Questo è un prerequisito per la sopravvivenza.
(Israel Heute, 26 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ucciso in Siria un importante comandante delle guardie rivoluzionarie
di Luca Spizzichino
Sayyed Reza Mousavi, alto comandante delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, è stato ucciso in un presunto attacco aereo israeliano alle porte di Damasco in Siria. A dare la notizia il canale Al Mayadeen, affiliato a Hezbollah, che ha reso pubblico il nome dell’ufficiale iraniano.
Mousavi era il responsabile del coordinamento del finanziamento e del trasferimento della logistica da Teheran ai rappresentanti iraniani in Siria, nonché dei rapporti con l’esercito siriano. Considerato uno dei generali più importanti e anziani delle Guardie rivoluzionarie, corpo militare che dipende direttamente dall’ayatollah Ali Khamenei, secondo i media iraniani, si ritiene che fosse uno stretto confidente del generale iraniano Qassem Soleimani, l’ex capo della forza Quds ucciso da un drone statunitense nel gennaio 2020. I media israeliani, che hanno ripreso la notizia, hanno definito Mousavi l’omicidio mirato di più alto profilo dai tempi di Solemani.
Il governo israeliano non ha commentato l’accaduto. Non è tardata invece ad arrivare la reazione del regime iraniano attraverso una dichiarazione del presidente iraniano Ebrahim Raisi alla TV di stato. “Senza dubbio, l'usurpatore e il feroce regime sionista pagherà per questo crimine", ha affermato Raisi. Anche il ministero degli Esteri iraniano ha rilasciato una dichiarazione, avvertendo che Teheran "si riserva il diritto di rispondere al momento e nel luogo appropriati all'assassinio" di Mousavi. Anche Hezbollah ha rilasciato una dichiarazione, definendo Mousavi "uno dei migliori fratelli che hanno lavorato per decenni a sostegno della resistenza islamica in Libano".
(Shalom, 26 dicembre 2023)
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Il difficile momento del controllo del territorio
di Ugo Volli
• I caduti di Israele aumentano
È un momento non facile per i combattenti dell’esercito israeliano. Nelle battaglie di venerdì sono caduti sedici militari, circa venticinque negli ultimi tre giorni, 152 dall'inizio dei combattimenti. Ciò non significa che le forze armate di Israele non stiano vincendo. Non c’è stata una singola occasione durante questa guerra in cui Hamas sia riuscito a respingerle o a riconquistare terreno da loro conquistato. Secondo il Capo della Divisione Strategia dello Stato Maggiore, generale Eliezer Toledano, 7.824 miliziani terroristi sono stati eliminati durante la guerra, oltre probabilmente ad altri 2000 nel territorio israeliano immediatamente dopo la strage del 7 ottobre. Nel corso delle operazioni terrestri i militari israeliani hanno sequestrato e distrutto a Gaza "circa 30 mila ordigni, razzi anticarro e altri razzi" di Hamas, come ha affermato il portavoce militare israeliano Daniel Hagari.
• Una guerra senza precedenti
Ma l’occupazione del territorio nemico e la ripulitura delle roccaforte terroriste, in superficie e soprattutto sotterranee, è molto più rischiosa e difficile della conquista e dell’azione preliminare dell’aviazione. Non c’è mai stata una guerra di questo tipo, essa non può essere paragonata né alle azioni di controguerriglia dell’Estremo Oriente e del Sudamerica e nemmeno alle grandi battaglie urbane della Seconda guerra mondiale, come l’assedio di Stalingrado o a quella di Falluja durante la seconda guerra del Golfo, in cui le forze corazzate non avevano freni nell’abbattere i centri nemici. È una guerriglia urbana feroce e minuziosamente preparata, in cui tutto il territorio è stato trasformato con mezzi imponenti in una gigantesca fortezza, proprio in previsione di una battaglia come questa. I soldati devono spesso procedere a piedi in un terreno pieno di case e di macerie, costellato da pozzi di accesso alle gallerie sotterranee, da cui spuntano terroristi isolati o in piccoli gruppi, che non portano mai divise e non mostrano le armi, fingendosi civili, fino al momento in cui possono cogliere alle spalle i soldati e cercare di colpirli a tradimento.
• Il discorso di Netanyahu
Che la situazione sia delicata, che vi sia un rischio di stanchezza e scoraggiamento per queste perdite e per la situazione dei rapiti, è confermata dal fatto che vi sono stati ieri due importanti discorsi alla nazione, convergenti nei toni e nei contenuti. Uno è stato fatto dal Presidente Herzog, che ha fatto appello alla resistenza della nazione, alla sua unità e all’appoggio di tutto il paese all’opera delle forze armate e dei servizi di informazione. Più politico e impegnativo quello del primo ministro Netanyahu, com’è nel carattere della sua carica: "Stiamo approfondendo la guerra nella Striscia di Gaza. Continueremo a lottare fino alla completa vittoria su Hamas. Questo è l’unico modo per restituire i nostri rapiti, eliminare Hamas e garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele. Ci vorrà tempo, ma siamo uniti: i combattenti, il popolo e il governo. Siamo uniti e determinati a lottare fino alla fine. La guerra ha un prezzo, un prezzo molto alto nella vita dei nostri eroici guerrieri, e noi facciamo di tutto per preservare la loro vita. Ma una cosa non sarà fatta: non ci fermeremo finché non otterremo la vittoria.” Non è solo un discorso di incoraggiamento, è un impegno politico, che si ripercuote nei rapporti con il principale alleato di Israele, gli Stati Uniti. Netanyahu e Biden si sono di nuovo parlati nei giorni scorsi e la decisione di Israele è stata ribadita al Presidente americano. In un’intervista immediatamente successiva, Biden ha dichiarato di non aver chiesto a Netanyahu di sospendere i combattimenti: la presa d’atto di una decisione che smentisce tutte le voci su nuove trattative di tregua.
• Gli obiettivi attuali
Molte delle missioni effettuate negli ultimi giorni sono tentativi di raggiungere i capi di Hamas, che si ritiene siano nascosti a Khan Yunis; o almeno di circondarli e impedire loro di fuggire. La maggior parte degli scontri del fine settimana hanno avuto luogo in questa zona, a una decina di chilometri dal confine egiziano e a metà strada fra il mare e la frontiera con Israele, che ora è il punto focale della guerra. Sei brigate stanno attualmente operando nell'area sotto un comando unificato di divisione, ma è possibile che l'esercito possa portare in combattimento ulteriori forze nei prossimi giorni. Secondo quanto affermano le fonti militari, la sfida operativa in questa zona richiederà almeno un altro mese di combattimenti per riuscire a danneggiare in modo definitivo le gallerie fortificate di Hamas. Come nel nord della Striscia di Gaza e nella città di Gaza, questa rete di tunnel di Hamas, da cui emergono i terroristi per tentare di attaccare i soldati e da dove si sparano anche i razzi che continuano a mirare la popolazione civile israeliana, pone la sfida operativa più complessa per i militari. Un'altra sfida sta negli sforzi per recuperare i rapiti e ottenere informazioni sul loro luogo di detenzione. Purtroppo per ora Israele riesce solo a recuperare le salme dei rapiti che sono stati assassinati da Hamas, com’è successo ieri per sei di loro a Jabalia. Per entrambi gli obiettivi Israele ha promesso grandi ricompense in denaro, ma finora senza successo.
• Ancora scontri a Gaza City
Oltre allo sforzo principale a Khan Yunis, un’altra divisione israeliana è entrata in combattimento nell’ultima roccaforte nel nord della Striscia, Daraj, il quartiere nordoccidentale di Gaza City dove opera ancora un battaglione di Hamas. Un'altra area in cui si sono verificati diversi eventi operativi durante il fine settimana è quella in cui opera la Divisione 99, che ora è responsabile del corridoio logistico che taglia in due la Striscia, nella parte meridionale della città di Gaza. Negli ultimi giorni la divisione ha operato in nuove aree a sud di Gaza City, verso i campi profughi di Nusirat e al-Ma'azi. Oltre ai combattimenti a Khan Yunis, sembra che le forze armate israeliane considerino i campi profughi nella Striscia centrale come obiettivo principale in questa fase, perché vi hanno sede imponenti istallazioni di Hamas, che vanno ancora bonificate e distrutte.
• La prossima fase
Gli ambienti militari stimano che l’attuale fase della guerra finirà probabilmente tra metà gennaio e la fine del mese. Israele dovrebbe passare allora a una fase meno intensa dei combattimenti a Gaza, secondo un’impostazione strategica in cui meno forze opereranno sul terreno, impegnandosi in raid verso obiettivi definiti o altre operazioni mirate. Ma a questo punto sarà il momento in cui l’attenzione potrebbe passare al fronte settentrionale. Se gli scambi a fuoco continueranno anche in questa fase e non vi sarà alcuna ritirata dei terroristi a nord del fiume Litani, le possibilità di una guerra con Hezbollah aumenteranno notevolmente.
(Shalom, 25 dicembre 2023)
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L'IDF distrugge il quartier generale sotterraneo di Hamas nel nord della Striscia di Gaza
Recuperati i corpi di cinque ostaggi israeliani dai tunnel sotto il campo di Jabalia.
di Joshua Marks
GERUSALEMME - Le Forze di Difesa israeliane hanno annunciato domenica sera il completamento di una "operazione su larga scala per distruggere il quartier generale sotterraneo settentrionale di Hamas nella Striscia di Gaza".
Le truppe avevano recuperato i corpi di cinque ostaggi all'inizio del mese dopo aver scoperto il sistema di tunnel sotterranei durante le attività a Jabalia, il più grande degli otto campi profughi della Striscia di Gaza.
Il campo era stato conquistato nelle scorse settimane dalle forze israeliane, che avevano ucciso numerosi terroristi in feroci combattimenti e trovato centinaia di armi.
I soldati hanno poi scoperto l'enorme sistema di tunnel, che fungeva da quartier generale sotterraneo di Hamas e comprendeva due livelli: il primo era profondo quasi 30 metri, il secondo ancora di più. La rete di tunnel aveva molte ramificazioni e veniva utilizzata per controllare le operazioni di combattimento e il passaggio dei terroristi.
Vi si trovavano armi, infrastrutture per la produzione di armi e sale di emergenza. Il sistema di tunnel era collegato a un condotto che conduceva alla casa di Ahmed Ahandor, il comandante della divisione settentrionale di Hamas nella Striscia di Gaza, ucciso dall'esercito israeliano il mese scorso dopo 18 anni di mandato.
Secondo l'IDF, il sistema di tunnel passava sotto il terreno di una scuola e di un ospedale e li utilizzava come scudi civili.
In un tunnel sono stati trovati i corpi di cinque ostaggi portati a Gaza durante il massacro del 7 ottobre: Ziv Dado, Ron Sherman, Nick Beiser, Eden Zacharias ed Elia Toledano. Sono stati trasferiti in Israele per una sepoltura adeguata.
"Alla fine dell'operazione, le truppe hanno distrutto il quartier generale sotterraneo. La distruzione del quartier generale di Jabalia fa parte dello sforzo di distruggere l'infrastruttura di tunnel di Hamas e di danneggiare i suoi alti comandanti e le sue capacità strategiche. Questi sforzi sono in corso e vengono ora effettuati a Khan Yunis e nel sud della Striscia di Gaza", ha dichiarato l'IDF.
• Centinaia di armi trovate nel complesso scolastico di Gaza City
L'esercito israeliano ha ucciso dei terroristi che si nascondevano in un complesso scolastico nel quartiere di Sheikh Radwan, a Gaza City, e vi ha trovato centinaia di armi, tra cui granate, bazooka ed esplosivi.
Decine di terroristi arrestati durante il raid nelle scuole, che si trovano vicino a moschee e case, sono stati trasferiti per ulteriori indagini.
"Abbiamo fatto irruzione in una scuola dove si nascondevano molte persone", ha detto il maggiore (in pensione) R., vice comandante di compagnia dell'unità d'élite Shayetet 13. "Dopo che la popolazione è stata evacuata, abbiamo trovato molte armi nascoste tra gli effetti personali della gente nei locali".
Ha aggiunto: "Tra le altre cose, abbiamo trovato armi, cartucce, lanciagranate, cariche [esplosive] e granate con meccanismi di funzionamento avanzati e innovativi".
• Le forze combinate continuano gli attacchi in tutta la Striscia
Le forze israeliane di terra, mare e aria continuano ad attaccare obiettivi in tutta la Striscia di Gaza, comprese le squadre del terrore e le postazioni "militari" di Hamas, ha annunciato l'IDF lunedì mattina.
A Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza, sono state trovate numerose armi di Hamas, tra cui fucili Kalashnikov, cariche esplosive e cartucce pronte all'uso.
I soldati hanno anche preso d'assalto un edificio a Khan Yunis, nella Striscia di Gaza meridionale, dove sono state trovate armi, e successivamente hanno perquisito l'infrastruttura terroristica nella casa di un terrorista di Hamas prima di distruggerla.
• Due soldati uccisi a Gaza
Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno reso noti i nomi di due soldati uccisi nei combattimenti nel nord di Gaza lunedì mattina: Nitai Meisels, 30 anni, di Rehovot e Rani Tamir, 20 anni, di Ganei Am.
La loro morte porta a 156 il numero dei soldati uccisi dall'inizio delle operazioni di terra nella Striscia di Gaza; dall'inizio della guerra, il 7 ottobre, sono stati uccisi in totale 489 soldati.
• Netanyahu: "Non ci fermeremo finché non avremo raggiunto la vittoria".
In una dichiarazione di domenica sera, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito la posizione del governo secondo cui la guerra contro Hamas continuerà fino al raggiungimento della vittoria.
"Cittadini di Israele, stiamo intensificando la guerra nella Striscia di Gaza. Continueremo a combattere fino a quando non sarà raggiunta la vittoria assoluta su Hamas. Solo allora potremo restituire i nostri ostaggi, eliminare Hamas e garantire che la Striscia di Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele", ha dichiarato.
"Ci vorrà tempo, ma siamo uniti: i soldati, il popolo e il governo. Siamo uniti e determinati a combattere fino alla fine", ha aggiunto.
"La guerra ha un prezzo, un prezzo molto alto sotto forma di vite dei nostri eroici soldati, e faremo tutto il possibile per proteggere le vite dei nostri soldati. Ma c'è una cosa che non faremo: Non ci fermeremo finché non avremo raggiunto la vittoria".
(Israel Heute, 25 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il nuovo volto dell’antisemitismo
di Silvia Baldi
Da cristiana impegnata da diversi anni nel dialogo ebraico-cristiano, rivolgo questo mio breve intervento in particolare ai cristiani delle varie confessioni essendo onorata del fatto che la parte ebraica sia qui ad ascoltare.
Riguardo alle radici, non posso non partire da un prologo ineludibile: l’epistola ai Romani dell’apostolo Paolo.
In questa epistola, caposaldo del suo pensiero teologico, Paolo dedica tre interi capitoli alla radice del cristianesimo: Israele. Si tratta dei capp. 9, 10 e 11.
L’epistola ai Romani consta in tutto di sedici capitoli. La parte centrale, appunto questi tre capitoli, costituisce il trattato teologico su Israele più importante del Nuovo Testamento dove Paolo si espone esplicitamente per tutto ciò che riguarda la relazione tra ebrei e cristiani. Non si tratta di un pensiero in coda all’epistola e nemmeno di un riferimento introduttivo ma di tre capitoli centrali. Rarissimamente su questi capitoli, si odono commenti nelle chiese. Al cap. 11, in particolare, Paolo parla di “radice santa” di “olivo domestico” riguardo a Israele, in cui sono stati innestati – un dispregiativo – degli “olivastri”, “un olivo selvatico per natura”, i non ebrei, cioè le nazioni. La Bibbia, infatti, non distingue tra le varie nazioni. Vi è una sola distinzione biblica: ‘am Israel, il popolo d’Israele e i goyim, le nazioni tutte. Ad esse, alle nazioni, Paolo lancia per tre volte un monito preciso: «Non vantarti contro l’olivo domestico (Israele) ma ricordati che non sei tu a portare la radice ma è la radice che porta te»; subito dopo incalza: «Non insuperbirti, nei loro confronti, ma temi!», e incalza ancora: «Non siate presuntuosi in voi stessi». Non credo ci sia un monito che sia rimasto più inascoltato di questo nel mondo cristiano.
Questo monito ci intima a ripartire da noi stessi, cioè da noi cristiani, nella riaffermazione delle radici comuni. In questo percorso, il primo passo dovrà essere una piena e continua assunzione di responsabilità da parte nostra. Ciò lo sostiene, ad esempio, Rudolf Rendtorff, teologo tedesco vissuto tra il 1925 e 2014, che ha dedicato tutta la vita al dialogo ebraico-cristiano, i cui scritti sono una fiamma ardente da fare impallidire persino i nostri più audaci interventi. Scrive in proposito Rendtorff che il primo presupposto per un dialogo onesto è “che i cristiani siano disposti a trasformare sé stessi e la loro teologia” in un’analisi autocritica e autonoma, senza aspettarsi coinvolgimento dalla parte ebraica. Cioè dire, non si può parlare di radici comuni se la parte cristiana, indipendentemente da quella ebraica, non è disposta a inserirsi in un percorso di autocritica. Rendtorff sostiene che “data la storia bimillenaria dell’antigiudaismo cristiano, un dialogo autentico con la parte ebraica, è possibile solo a partire dall’assunzione di responsabilità” di questa nostra (cristiana) tragica storia di antigiudaismo.
L’opposto della superbia, della presunzione e del senso di superiorità è un’attitudine di umiltà, come sostiene Madre Basilea Schlink, altra teologa, baluardo cristiano tedesco sorto dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Ma l’umiltà è una virtù rara che costa caro per tre ragioni negative: non va di moda; non si nasce umili; non lo si diventa dalla sera alla mattina. Eppure, l’umiltà è l’unico antidoto al monito paolino.
Umiltà significa, riconoscere senza se e senza ma che l’antisemitismo è un tratto costitutivo dell’uomo europeo-cristiano; che in Europa, “l’antisemitismo cristiano”, come afferma lo storico ebreo Jules Isaac paladino del dialogo ebraico-cristiano, “è il ceppo potente, dalle profonde e molteplici radici, sul quale sono venute a innestarsi in seguito tutte le altre varietà di antisemitismo anche anticristiane come il razzismo nazista”, fino a Hamas.
Senza umiltà, espressa in un’attitudine di ammissione continua, di riconoscimento del nostro fallimento e di quello dei nostri padri, non sradicheremo mai l’odio antisemita dal nostro cuore e tanto meno dalla nostra società. Se non siamo disposti noi stessi a fare questo percorso di autocritica, come possiamo pretendere che lo facciano israeliani e palestinesi in quella terra?
Oggi l’antisemitismo ha mutato volto per chiamarsi antisionismo, anti-Israele.
Il 7 ottobre scorso, in un solo giorno, in un massacro di una tale efferatezza che non conosce pari nella storia, (donne incinte sventrate e i loro feti fatti a pezzi; donne violentate a rotazione alle quali vengono poi amputati i seni per giocarci a calcio), i terroristi islamici di Hamas hanno massacrato milleduecento persone e rapite duecentocinquanta, tra cui trenta bambini, in ostaggio nella Striscia di Gaza. Del piccolo Kefir di dieci mesi non si hanno più notizie. Ancora oggi Hamas detiene centotrentasette ostaggi, venti dei quali sarebbero morti.
Cosa ci si sarebbe aspettati da Israele? Cosa ci aspetteremmo innanzitutto da uno Stato di diritto se non la difesa dei propri confini e della propria popolazione? Una lettura molto credibile di questi fatti sostiene che i terroristi islamici di Hamas abbiano pianificato un massacro così bestiale proprio perché sapevano bene quale gigantesca reazione israeliana ciò avrebbe provocato e questa reazione avrebbe mosso tutta la comunità internazionale contro Israele. Tutto questo fa parte di un gioco bestiale, terrificante e diabolico di Hamas, che è quello di confondere le acque in una marmellata indefinita di bene e male, che si ritorca contro Israele per la sua distruzione. Nessuno di noi dovrebbe cadere in questa trappola.
Eppure, proprio poco fa, domenica 10 dicembre, tanto per fare un esempio, su Rai 1, durante il TG1 delle ore 20 è stato trasmesso un servizio su Betlemme in cui si è sentita una cosa grave. Mi chiedo intanto quanti cristiani sappiano che Betlemme è la città in cui è nato il Re Davide, il re ebreo Davide, la figura regale messianica più elevata della storia ebraica? A Betlemme è nato il re ebreo Davide e Gesù, il Messia ebreo dei cristiani. Eppure, proprio ieri sera, il pastore della Chiesa luterana di Betlemme ha mostrato il suo presepe con un bambin Gesù avvolto nella kefià palestinese, dicendo che, se fosse accaduto oggi, Gesù sarebbe nato a Gaza.
Al pastore luterano di Betlemme vorrei dire, che secondo le Scritture, non solo anche oggi Gesù nascerebbe ebreo, nella terra che è anche degli ebrei, ma che persino il suo ritorno, così atteso nella parusìa cristiana – basti pensare alla preghiera del Padre Nostro che recita: “Venga il Tuo regno” – avverrà in quella terra ebraica da ebreo degli ebrei.
Capiamo bene che, come ha sostenuto poc’anzi il prof. Meghnagi, quella del linguaggio è una questione molto importante. Ricordo a tal proposito ciò che disse alcuni anni fa il prof. Marvin Wilson, Università del Massachusetts, autore del libro Nostro padre Abramo, le radici ebraiche della fede cristiana da me tradotto per Edipi (Evangelici d’Italia per Israele). Raccontava Wilson di essersi trovato, un giorno, in una chiesa di una grossa denominazione evangelica americana. Entrando nella scuola domenicale aveva posto attenzione su un disegno raffigurante un bambino che saliva una scalinata di una chiesa. Il disegno riportava una didascalia: “Gesù era un bambino cristiano che andava in chiesa tutte le domeniche”. Questa didascalia apparentemente innocua reca invece tre bugie, piccole ma subdole e insidiose: Gesù non era infatti un bambino cristiano ma ebreo; non si recava in chiesa ma in sinagoga; non vi andava di domenica ma di sabato.
Fermo restando che ciò che sta accadendo in questi giorni in Medio Oriente è un’enorme tragedia per entrambi i due popoli, quello israeliano e quello arabo-palestinese, e che ci auguriamo finisca ieri, ci rendiamo conto del sottile e subdolo gioco manipolatorio che sottostà a certe dichiarazioni e che vorrebbe portarci a confondere il bene con il male, l’aggressore con l’aggredito?
Si può esprimere, cioè, piena compenetrazione di sentimenti per entrambe le parti, popolazione civile israeliana e popolazione civile arabo-palestinese senza bisogno di confondere le acque, senza bisogno di mentire manipolando i fatti storici nuocendo pertanto ad entrambe le parti, poiché le menzogne nuocciono sempre?
Voglio infine concludere questo mio intervento tornando al monito paolino. Il triplice appello a non imboccare la strada della presunzione mostra che anche l’apostolo Paolo si era dovuto occupare del problema che alcuni cristiani si ritenessero superiori agli ebrei e vi si oppose con la massima energia.
Ma se ascoltiamo attentamente le sue affermazioni, risulterà chiaro che Paolo non sostiene che cristiani ed ebrei abbiano “radici comuni”. L’apostolo adopera la metafora della radice in un senso molto più radicale e inequivocabile: la radice è una sola, l’unica radice è il popolo d’Israele eletto da Dio. Da qui la riflessione che anche il titolo del nostro convegno debba essere corretto. Israele, radice santa, è la definizione paolina esatta. Noi cristiani siamo stati innestati successivamente nell’albero nato da questa radice: noi veniamo DOPO. Siamo e restiamo quelli che sono sopravvenuti in un secondo momento – quale grande lezione di umiltà abbiamo qui da imparare!-, viviamo di ciò che abbiamo ricevuto da Israele e che continuiamo a ricevere da questa radice.
Non dovrebbe bastare questo per fare dei cristiani tutti, un popolo nuovo unito e accorpato per la difesa del popolo d’Israele e di tutti gli altri popoli così come auspicato nella promessa biblica rivolta ad Abramo: «Benedirò chi ti benedirà e maledirò chi ti maledirà; e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,3)?
_____ Il presente intervento è stato letto a Roma, lunedì 11 dicembre 2023 presso il Palazzo dei Gruppi Parlamentari – Camera dei deputati nel contesto del convegno “Nel ricordo delle comuni radici”.
L’autrice, Silvia Baldi è docente di lettere, studiosa di dialogo ebraico-cristiano, autrice del volume In cammino verso la riconciliazione, Salomone Belforte, Livorno 2021
(L'informale, 25 dicembre 2023)
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Gaza, Hamas spara sulla folla di palestinesi che assaltava i camion di aiuti: due morti
di Giovanni Trotta
Gravissimo incidente a Gaza, stavolta non per colpa dei soliti israeliani. Un gruppo di civili palestinesi assalta un camion di aiuti per prendere da mangiare. I miliziani di Hamas sparano sulla folla e uccidono un ragazzino. Il terribile racconto riportato da testimoni oculari, perché come è noto né Hamas né le autorità palestinesi di Gaza dicono nulla. La tragedia accaduta ieri a Rafah, nel sud della Striscia, e dimostra il disastro umanitario che si sta consumando a Gaza, malgrado il preteso impegno di una serie di organizzazioni internazionali umanitarie, Nazioni Unite in testa. La popolazione palestinese è esasperata e disperata, con il 93% dei civili che rischiano la morte per fame dopo due mesi e mezzo di bombardamenti israeliani, popolazione che fa ressa per una bottiglietta d’acqua, un pezzo di pane o una scatoletta di cibo.
• Prima i colpi in aria, poi sulla folla
Sempre secondo i testimoni, mentre una folla di persone si lanciava su uno dei pochi camion di aiuti fatti passare dal valico di Rafah con l’Egitto, i terroristi di Hamas, che controllano spietatamente gli aiuti internazionali, hanno sparato inizialmente in aria. Ma ciò non faceva desistere la folla affamata, ormai abituata ai colpi, e a quel punto gli uomini di Hamas hanno di nuovo sparato dei colpi. E questa volta, a rimanere per terra morto, un ragazzino. Una violenza che ha provocato la risposta dura della folla che si è lanciata contro un vicino commissariato di polizia attaccandolo a sassate. In seguito, a quanto pare, secondo le fonti, una seconda persona sarebbe poi morta in ospedale. Anche a Khan Yunis un’altra persona che cercava di appropriarsi di aiuti, è stata ferita da agenti di Hamas.
• Hezbollah martella il nord di Israele, che replica coi raid
E la guerra continua: le sirene sono risuonate nella città israeliana di Shlomi, in alta Galilea, in seguito al lancio di razzi dal Libano meridionale, lanciati dai terroristi di Hezbollah, alleati di Hamas. L’esercito israeliano ordinava agli abitanti di una ventina di località della Alta Galilea situate vicine al confine di chiudere i cancelli di ingresso fino a nuovo ordine. Non solo: l’esercito ha chiuso al traffico alcune arterie stradali nel nord di Israele ritenute esposte al fuoco degli Hezbollah. Si calcola che oltre 60 mila persone siano sfollate nelle ultime settimane dal nord di Israele in seguito ai continui attacchi di Hezbollah provenienti dal neutrale Libano. Ingenti danni materiali sono segnalati nelle località di Israele più vicine al confine con il Libano.
(7Colli, 25 dicembre 2023)
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L'IDF scopre un deposito di armi di Hamas in una scuola di Gaza City
di Emanuel Fabian
24 dicembre 2023.
In una scuola usata come rifugio nel quartiere Sheikh Radwan di Gaza City, le truppe della 401esima brigata corazzata e dell'unità di commando Shayetet 13 della marina hanno combattuto contro uomini armati del gruppo terroristico palestinese Hamas e hanno trovato un nascondiglio di armi, secondo l'esercito israeliano.
Tsahal ha fatto irruzione nella scuola dopo aver ricevuto informazioni sulla presenza di terroristi di Hamas nell'area. Molti di loro sono stati eliminati durante l'operazione, mentre decine di altri si sono arresi.
"Dopo aver evacuato la popolazione [civile], abbiamo trovato molte armi nel complesso, nascoste tra le attrezzature dei civili", dice un vice comandante della compagnia Shayetet 13 in un video, mostrando fucili d'assalto, granate e altri ordigni esplosivi trovati nella scuola.
L'IDF afferma che le decine di terroristi di Hamas che si sono arresi e che sono stati inizialmente interrogati dagli ufficiali dell'unità 504 della Direzione dell'Intelligence militare sulla scena sono stati portati in Israele per ulteriori interrogatori.
(Times of Israel, 24 dicembre 2023)
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Il legame speciale tra le famiglie degli ostaggi
di Fabiana Magrì
Chissà se qualcuno conierà un termine per definire quello speciale legame che, dopo il 7 ottobre, si è creato tra le famiglie degli ostaggi israeliani. Per Liran Berman (36 anni), Omri Shtivi (30) e Ilay David (26) si tratta di una forma di fratellanza allargata che include loro stessi e i rispettivi fratelli minori Ziv e Gali Berman (26), Idan Shtivi (28) e Evyatar David (22). Cioè i “secondi” di casa, che sono stati presi in ostaggio da Hamas e portati a Gaza.
“I fratelli maggiori esistono per proteggere i minori”, così la vede Ilay. Più di ogni cosa, aspetta il momento in cui potrà riabbracciare il suo Evyatar, che tra pochi giorni compirà 23 anni. Omri ha un solo desiderio da 76 giorni: “Bere un caffè con Idan sul balcone di casa mia”. Che non è solo un piccolo gesto di quotidiana intimità. È un vero e proprio topos israeliano. “Quando li rivedrò, li stringerò in un abbraccio. Il più a lungo possibile. Anzi, non li lascerò andare mai più”. In quell’abbraccio, Liran Berman deve contenere Ziv e Gali che, racconta, hanno una sorta di “twin power”. Cioè quel potere magico dei gemelli che è un mix di energia vitale ed empatia.
Storie che si intrecciano tra loro e con quelle degli altri prigionieri israeliani. Fenomeno che non sorprende in un paese piccolo, in cui i kibbutz sono luoghi dove si tende a fare tribù e l’esperienza della leva obbligatoria, con la lunga appendice del “miluim”, il servizio da riservista, ti lega per la vita a una seconda famiglia.
I Berman vivevano tutti a Kfar Aza, tranne Liran. E sono corsi tutti nei rifugi, la mattina dell’assalto di Hamas al kibbutz, nel Sabato Nero di ottobre. Talia e Doron Berman, i genitori che sono riusciti a scampare ai terroristi rinchiudendosi nel “mamad”, sono stati liberati dall’esercito israeliano alla mezzanotte di sabato. L’altro figlio, Idan, è stato salvato la domenica pomeriggio. La lotta per liberare Kfar Aza, una delle comunità più devastate, è andata avanti sino al lunedì. “Per dieci giorni Ziv e Gali sono stati dati per dispersi. Eravamo pronti a piangerli morti”, ricorda il fratello maggiore. Invece il 17 di ottobre due ufficiali ci hanno detto che risultavano rapiti. “È assurdo - riflette Liran - come possa esserci sembrata una bella notizia, in quel momento”. Ma adesso che sono passati due mesi, non è rimasto più nulla di quell’incauto sollievo. Soprattutto perché dall’ultimo rilascio di ostaggi durante il cessate il fuoco, da Gaza sono usciti solo cadaveri. Kfar Aza guarda negli occhi Shejaiya, dentro la Striscia, dove venerdì si è verificato un tragico incidente. I militari, sotto la pressione dei combattimenti, la paura delle imboscate e la stanchezza, hanno sparato a tre connazionali che erano riusciti, con le loro forze, ad arrivare a un passo dalla libertà e dalla salvezza. Uno di loro, Alon Shamriz di Kfar Aza, era uno dei migliori amici dei gemelli Berman, fin dalla culla. Lo racconta Liran, proprio mentre si trova in visita alla famiglia di Alon per la “shivà”, la settimana del lutto, nella loro nuova provvisoria casa nel kibbutz di Shefayim che ha accolto gli sfollati - e nel cimitero anche i cadaveri - dei residenti di Kfar Aza. “Non sono giorni facili. Ma sosteniamo e crediamo nell’esercito qualunque cosa faccia - commenta -. È stato un errore gravissimo ma sappiamo che il loro impegno è massimo”.
Evyatar David e Idan Shtivi non si conoscevano, ma entrambi sono stati presi in ostaggio dal Nova Festival. Il primo è comparso in due video diffusi da Hamas su Telegram sei ore dopo aver perso i contatti con la famiglia. Ilay David racconta che nel primo filmato suo fratello veniva trascinato dai terroristi a Gaza, preso per i capelli, con un fucile puntato addosso e la maglietta lacerata. “Ma almeno cammina, è vivo”, ha pensato in quel momento. Nell’altro era insieme ad altri ragazzi. Le riprese indugiavano sui volti. “I terroristi volevano che vedessimo il terrore nei loro occhi. E volevano mostrare l’orgoglio che provavano nell’esibirli come trofei. È stato molto doloroso vedere mio fratello sottoposto a questa umiliazione”. Idan ha provato a fuggire, è stato ferito e infine preso e portato a Gaza. “Quando ho visto la sua auto, con le fiancate trivellate di colpi, i sedili e l'air bag impregnati di sangue, mi sembrava irreale. Soffre di disturbi d'ansia. Posso solo immaginare cosa stia passando”, si preoccupa suo fratello. Liran, Omri e Ilay sono disposti a tutto pur di liberare i fratelli minori. Ritengono, visto il precedente accordo che ha portato alla liberazione di 105 ostaggi, che la pressione militare dovrebbe continuare a essere affiancata da quella diplomatica. “Non so se un cessate il fuoco immediato sia la soluzione. Dobbiamo essere responsabili anche per gli altri cittadini israeliani”, riflette Ilay David. Ma poi aggiunge: “Se fosse l’unica soluzione, sia quel che sia. Dobbiamo riportarli a casa subito”.
(Shalom, 24 dicembre 2023)
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7 ottobre – Angelica Calo Livnè e la strategia delle emozioni contro la propaganda
Alla conferenza promossa dal Movimento ‘Cinque Stelle’ a Genova su “Spade di Ferro”, la guerra d’Israele contro Hamas, erano stati invitati un giovane medico di Gaza che ha studiato in Italia e un altro medico palestinese che vive in Italia dal 1969, ma che ha lasciato il cuore a Gerusalemme, sua città natale. Poi c’era una leader dell’associazione Assopace che organizza manifestazioni per la Palestina libera “From the river to the sea”, il grido di battaglia urlato a gran voce per le strade d’Europa. Interlocutori molto impegnativi. L’idea di invitare me e Yehuda, mio compagno di vita e di viaggio, è stata di Ariel Dello Strologo, amico di vecchia data con il quale abbiamo presentato importanti progetti in passato, che ha suggerito di far sentire al convegno la voce dell'”altra parte”, la voce di Israele. Così ci ha chiamati e ci ha chiesto di venire: “È un incontro per gli studenti dei licei e voi che siete impegnati da molti anni nell’educazione al dialogo, potete portare un vero messaggio di pace!”.
Chi immaginava di lasciare Israele di questi tempi anche se solo per pochi giorni! Qui sembra tutto paralizzato ma la vita continua e bisogna stare all’erta per aiutare, rivedere progetti che la guerra, che sembra ora interminabile, ha stravolto e rimesso in discussione. Prima di partire per Genova ci siamo fermati a Roma per abbracciare la famiglia e gli amici. Siamo stati inondati più di sempre di affetto, abbiamo percepito sulla pelle il dilagare e la minaccia inarrestabile dell’antisemitismo in Italia e in tutta l’Europa e la grande solitudine, una sorta di tradimento di quegli amici d’infanzia che non ti riconoscono più e ti cancellano dalle liste di conoscenti… Il 7 ottobre è stato dimenticato. Il dolore, la violenza, lo stupro e l’elenco dei rapiti israeliani, sono scomparsi dalla coscienza e nelle menti e nei cuori c’è posto solo per Gaza: per le immagini delle case bombardate, dei bambini che piangono nelle strade nelle braccia di madri affamate. I numeri delle vittime di Tsahal sono citati ovunque: decine di migliaia. Israele è identificata con Benjamin Netanyahu e sembra essere un mostro potente, assetato di vendetta, che non si ferma di fronte alla tragedia e provoca genocidi, massacri apartheid e pulizia etnica – le quattro parole magiche che fanno presa sulle masse, anche su chi aveva un barlume di simpatia nei nostri confronti!
Stava per nascere la nostra nuova nipotina, tre dei nostri figli erano appena usciti da Gaza dopo quasi due mesi di miluim e l’animo era occupato da mille ansie ma, in questi giorni, chiunque abbia la possibilità di far sentire la voce di Israele deve farlo. Siamo partiti con il cuore pesante e il dolore per i rapiti, i caduti, le case, le famiglie distrutte nel sud, prigionieri di un trauma, feriti e senza pelle, con la sensazione che ci attanaglia da anni nei convegni ai quali abbiamo partecipato con la sinistra estremista e i palestinesi più moderati che non riescono a capire il dolore di Israele, non riescono ad ascoltare e ad avere empatia anche per i nostri lutti e per le nostre tragedie. Dai pochi commenti degli amici che abbiamo incontrato abbiamo capito che, a Genova, ci stavamo infilando nella tana del lupo.
Il convegno è stato trasmesso in diretta in tutte le scuole superiori di Genova, e si aperto mentre un missile degli Hezbollah sfondava le mura dell’auditorium di Sasa che sorge proprio accanto al liceo e a pochi metri da casa nostra. La conferenza è stata aperta da tre relatori, che hanno in apparenza presentato la progressione storica del conflitto israelo-palestinese ma in realtà hanno travisato la realtà con affermazioni spudoratamente di parte come: “Il sionismo è colonialismo – nel 1948 loro (gli israeliani) si sono presi tutte le terre che avrebbero dovuto essere divise in due stati – nel 1967 si sono presi la Giudea e la Samaria e nel 1973 si sono presi il Golan e ora, a quanto pare, intendono prendere anche Gaza”. Questo “si sono presi” è stato ripetuto più volte, senza menzionare nessuna guerra, senza ricordare che siamo stati attaccati ogni volta e trascinati con la forza in conflitti imposti e che ogni soldato, ogni persona che cade in un attacco terroristico sono per noi una perdita e un dolore insopportabili. Il giovane medico di Gaza ha parlato di massacro da parte di Israele senza una sola parola di biasimo nei confronti di Hamas, senza un accenno di compassione per la sofferenza delle nostre donne, ragazze, bambini e anziani. Gli organizzatori, che avevamo incontrato via Zoom qualche giorno prima, hanno lasciato i nostri tre interventi per la fine del convegno, intuendo lo spirito con cui intendevamo partecipare: lo spirito di chi porta la vera pace, il senso e la volontà di avvicinare e proporre soluzioni. Hanno sentito che potevamo fare la differenza, dare un colore diverso all’incontro, diffondere un messaggio di speranza nonostante l’intolleranza dell’altra parte. Abbiamo raccolto tutte le nostre forze per trasformare il buio che si era creato nei nostri confronti e creare una luce completamente diversa sullo Stato di Israele, verso tutti coloro che per nove mesi, sono scesi nelle piazze per scongiurare il disastro e la mancanza di democrazia. Ariel ha parlato della narrativa palestinese, che utilizza parole come olocausto e genocidio, termini che risuonano ancora, da 80 anni, in ogni cuore ebraico nel mondo, che appartengono al nostro dolore collettivo, usate ora, dalla propaganda palestinese per screditare e demonizzare le nostre azioni di difesa causando ondate di antisemitismo nei nostri confronti. Poi è stata la volta di Yehuda, che, con la sua voce pacata, ha parlato degli sforzi immani e preziosi di Israele per continuare a educare al rispetto e alla solidarietà, alla positività, ma anche della fatica di andare avanti per ricostruire il futuro nonostante la rabbia, l’impotenza verso la violenza inenarrabile e incontenibile alla quale siamo stati sottoposti. Ha raccontato la nostra volontà di continuare a marciare a fianco di quegli arabi israeliani che hanno espresso la loro opposizione, il dolore e la vergogna per le atrocità di Hamas.
Poi è stato il mio turno. Mentre mi struggevo a contenere le bugie dei falsi storici e degli attivisti schierati che hanno preceduto Ariel e Yehuda ho pensato che abbiamo bisogno di strategie, e non solo militari. La dolcezza e la fermezza con cui loro due hanno esposto le nostre verità e i nostri sentimenti mi hanno fatto capire ancora di più che la nostra strategia era quella vincente. Il mondo islamico fondamentalista ha scelto di fomentare l’odio nei nostri confronti. Noi volevamo arrivare ai cuori, all’attenzione vera di quei ragazzi che si nutrono solo di Tik Tok, Instagram e di descrizioni orribili dello Stato di Israele. Non abbiamo risposto con livore alle accuse o alle menzogne di chi ha parlato prima di noi; abbiamo puntato direttamente all’umano che alberga nell’animo di ognuno. Quando è stato il mio turno ho invitato cinque giovani volontari e ho chiesto a uno di loro di creare una scultura immaginaria, un quadro vivo che raccontasse il dolore della guerra. Il pubblico assisteva in silenzio, incuriosito e incredulo.
Ho chiesto una musica di sottofondo e quando un ragazzo, un po’ impacciato ma molto emozionato, è entrato a far parte della piccola opera viva che aveva creato ho chiesto a un altro volontario, il sesto, di venire a trasformare quell’immagine, cambiando le posizioni dei compagni secondo ciò che sussurrava il suo cuore, ispirandosi ai sentimenti di speranza che avevamo trasmesso. Il pubblico sembrava ipnotizzato. La Sala del Munizionere del Palazzo Ducale di Genova è diventata per qualche minuto un arcobaleno dopo la più terribile tempesta. I giovani attori improvvisati e il pubblico hanno colto il significato profondo del loro ruolo di futuri cittadini, che capiscono cos’è il dolore, la paura, la tragedia di tutti. Senza pregiudizi. Tiziana Beghin, deputata Cinque Stelle al Parlamento Europeo che aveva promosso l’evento, ha concluso con grande emozione: “Voi ragazzi, con questa inaspettata rappresentazione che ha coinvolto tutti, avete dimostrato che, se si immagina qualcosa, lo si può realizzare.” Era il messaggio che noi avevamo donato al pubblico: come è descritto nella tradizione della Kabbala: Il pensiero crea la realtà. E di questo ci alimentiamo in Israele:
Trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro,
le loro lance in falci;
un popolo non alzerà più la spada
contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell’arte della guerra.
E noi ci crediamo! Prima o poi la visione del profeta Isaia si avvererà!
Appena atterrati a Tel Aviv ci ha accolto la sirena. Un brivido difficile da descrivere…e qualche minuto dopo nostro figlio Kfir ha telefonato per annunciare che la nuova nipotina era nata. Benvenuti in Israele!
(moked, 24 dicembre 2023)
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«Keren» una parola profetica per il Messia (2)
“Keren” nella storia del sacrificio di Isacco.
di Gabriele Monacis
Nel primo articolo abbiamo visto che la parola ebraica keren significa letteralmente "corno", ma nelle nostre Bibbie viene tradotta anche come "forza" o "potenza", poiché questo è un possibile significato simbolico. Keren può comparire in contesti molto diversi; gli articoli di questa serie si concentreranno principalmente sui passi biblici in cui il termine viene utilizzato. Il nostro obiettivo: vogliamo esaminare come questa parola parli profeticamente della persona e della vita del Messia Gesù.
Abbiamo anche visto che nel Nuovo Testamento, in Luca 1, il valore profetico di questa parola è confermato dal canto di lode di Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Zaccaria loda Dio, che ha mandato Colui che aveva promesso per la redenzione del suo popolo. E al versetto 69 dice che Dio ha "suscitato per noi" "un corno di salvezza nella casa del suo servo Davide". L'espressione "corno della salvezza" è un chiaro riferimento a Gesù Cristo, che nacque pochi mesi dopo queste parole di Zaccaria.
L'ebraico keren compare 80 volte nella Bibbia - 94 volte se includiamo l'equivalente aramaico karna (קרנא), che ricorre solo nel Libro di Daniele.
La prima volta che troviamo keren nella Bibbia è in Genesi 22, dove Dio mette alla prova Abramo ordinandogli di sacrificare il suo amato figlio Isacco. Come sappiamo, Abramo prese Isacco e tutto il necessario per il sacrificio e partì per la montagna che Dio gli aveva indicato. Una volta lì, costruì un altare, legò il figlio, lo pose sull'altare e prese un coltello per ucciderlo. Stava per uccidere Isacco, quando l'angelo del Signore lo fermò e gli disse:
"Ora so che temi Dio, perché non hai risparmiato il tuo unico figlio per causa mia!" (Genesi 22,12).
E nel versetto successivo leggiamo ancora:
"Allora Abramo alzò gli occhi e guardò, ed ecco che dietro di lui c'era un ariete impigliato in un boschetto per le corna. Allora Abramo andò, prese l'ariete e lo offrì in olocausto al posto di suo figlio".
Quando leggiamo questa storia, non possiamo fare a meno di pensare al nostro Signore Gesù Cristo. Come Abramo, Dio Padre non ha risparmiato il suo amato Figlio, ma lo ha dato in sacrificio per la redenzione di tutti coloro che credono in Lui.
Nella storia di Abramo e Isacco, l'animale sacrificale era un ariete con le corna. Abramo vide che si era impigliato nel sottobosco con queste corna. Ci dice qualcosa il fatto che le sue corna, tra tutte le cose, gli portarono la morte. La parte del corpo che dà all'ariete forza e vittoria contro i nemici - e maestà regale agli occhi degli altri animali - è proprio quella che lo fa impigliare nel sottobosco. Così è facile per Abramo afferrarlo e ucciderlo. Siamo di fronte a un paradosso significativo: le corna dell'ariete servono per trafiggere i nemici, non per impigliarlo e ucciderlo!
L'immagine dell'ariete le cui corna sono impigliate nel sottobosco ci fa pensare involontariamente a nostro Signore Gesù Cristo. Prima di crocifiggerlo, i soldati gli intrecciarono una corona di spine (Marco 15:17). Doveva essere simile al boschetto di spine in cui si impigliò l'ariete. Gesù Cristo, l'amato Figlio di Dio, che suo Padre non ha risparmiato, era come l'ariete nella storia del sacrificio di Isacco. L'ariete si impigliò con le sue corna, con i segni del suo potere e della sua dignità regale. E Gesù, il Re dei re e Signore dei signori, che è degno di essere incoronato, si è volontariamente impigliato in una dolorosa corona di spine e si è lasciato uccidere sulla croce.
La vita di Isacco, che doveva essere sacrificato e morire per ordine di Dio, fu risparmiata dalla vita di un ariete. Allo stesso modo, il sacrificio di Gesù sulla croce dà vita a tutti coloro che accettano questo sacrificio e credono in Lui, in modo che non debbano morire.
Il termine keren, nel contesto della storia del sacrificio di Isacco, indica profeticamente il Messia, il Figlio di Dio e Re dei re, che non dimostrerà il suo potere distruggendo i suoi nemici. Si presenterà invece davanti al suo popolo con grande umiltà e darà la sua vita per la redenzione di tutti coloro che riconoscono in lui il Figlio che il Padre non ci ha nascosto.
(2. continua)
(Nachrichten aus Israel – Mai 2022)
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Gli eroi silenziosi che salveranno il Paese
Dalla mamma di Yotam all'infermiera, dal tassista all'anziana: storie di straordinario coraggio.
di Fiamma Nirenstein
Si chiama Iris Haim. È la madre che ha perduto il figlio nel modo più atroce, Yotam, un ostaggio rapito da Kfar Aza il 7 ottobre; scambiato per terrorista, è stato ucciso dai soldati per errore, dopo essere sfuggito a Hamas, mentre cercava di farsi riconoscere insieme ad altri due ragazzi. Sventolavano una bandiera bianca, ma non è servito. A Gaza, la confusione della guerra, le trappole perverse, i travestimenti di Hamas, hanno giocato un effetto mortale: e il batterista coi capelli rossi, insieme ad Alon Shamriz e a Samar Talaka è stato ucciso.
La sua mamma, dal 7 ottobre fra le famiglie dei rapiti, si è rivolta con dolcezza ai soldati del 17esimo battaglione della Brigata Bislamach:
«Sono la mamma di Yotam, voglio dirvi che vi voglio tanto bene, quello che è accaduto non è colpa vostra, la colpa è solo di Hamas che il loro nome sia eroso dalla storia; non esitate se vedete un terrorista, tutti abbiamo bisogno di voi, venite ad abbracciarmi».
Iris ha lasciato tutti senza parole, anche in un Paese in cui oggi si richiedono miracoli da ciascuno: se la maggioranza delle persone, in una situazione difficile cerca il riparo, l'eroe o l'eroina al contrario si espone. Così Iris, invece di polemizzare come hanno fatto in molti (tipo il Capo di Stato maggiore) ha preferito perdonare l'errore: ai ventenni che in divisa sfidano la morte ha suggerito (per il bene di tutti e nonostante l'atroce dolore per l'uccisione del figlio), di difendersi da chi esce dai cunicoli o si avvicina travestito. Iris ha costruito così un ponte fra la battaglia straziante delle famiglie dei rapiti e il sacrificio terribile dei soldati: indispensabile, e per niente ovvio. Proclamare «beato il popolo che non ha bisogno di eroe» significa privare il popolo di una grande risorsa, a volte indispensabile. Israele in particolare dal 7 di ottobre, ha bisogno di eroi per risorgere da quelle ceneri: a loro è affidato il recupero della forza, dell'onore stesso. Dal 7 di ottobre le storie del valore civile e militare sono un'enciclopedia. E in queste pagine le donne risplendono: per esempio, il 7 di prima mattina la bella Amit Mann di 22 anni, infermiera, si è fatta strada, mentre le sparavano, fra i feriti e i cadaveri fino all'ambulatorio, e là si è presa cura di tutti quelli che si sono trascinati da lei, finché al telefono ha detto ai suoi «siate forti sono entrati i terroristi»; è stata uccisa col dottore. Gli arabi israeliani, specie i beduini, sono corsi in tanti ad aiutare: Awad Darawshe, paramedico, corso alla festa Nova, ha curato le orribili ferite dei ragazzi uno dopo l'altro mentre Hamas faceva strage, è stato ucciso mentre fasciava un ragazzo; il tassista Yussef Alzianda, beduino, che aveva portato una dozzina di ragazzi alla festa, per fuggire ne caricava trenta per volta e tornava ogni volta per una piccola spola di salvataggio:è sopravvissuto. Or Ben Yehuda, una bella ragazza madre di tre bambini, comandante di un tank, si è buttata a combattere al kibbutz Sufa con i suoi dodici soldati e ha ucciso e messo in fuga i terroristi salvando molte persone, mentre il suo collega Avi Kolelashvili, di 24 anni, tentando lo stesso attacco, è caduto.
Al Kibbutz Kfar Aza, il comandante dei Golani Tomer Greenberg, ha combattuto salvando decine di persone, e ha portato in salvo due piccolissimi gemelli ritrovati fra i loro genitori morti. Greenberg, cercando di salvare un soldato caduto in un'imboscata è stato ucciso da Hamas. A ogni funerale dei soldati uccisi i loro colleghi raccontano che la fine di questi 20enni è quasi sempre legata alla scelta di lanciarsi al salvataggio dei compagni. Ma dentro casa il sangue freddo non è diverso: Rachel Edri di Ofakim, un'anziana signora, per ventiquattro ore, come in un film dell'orrore, ha servito cibo, raccontato storie, cantato canzoni frenando i terroristi, finché è arrivato l'esercito che ha perduto nello scontro due uomini. Israele risuona di episodi stupefacenti, che sanno di un'epopea antica e nuovissima, antica e in costruzione. Achille scelse una vita breve ma valorosa piuttosto che lunga e inane. Le sue imprese si leggono da millenni.
(il Giornale, 23 dicembre 2023)
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Guterres vede (finalmente) i video del 7 ottobre. “L’umanità al suo peggio”
di Sarah G. Frankl
Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres afferma che “nulla può giustificare gli orribili attacchi terroristici lanciati da Hamas il 7 ottobre, o il brutale rapimento di circa 250 ostaggi”. In un post su X, Guterres ribadisce il suo “appello affinché tutti gli ostaggi rimasti vengano rilasciati immediatamente e senza condizioni”. Il post segue l’approvazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiede di accelerare immediatamente l’invio di aiuti a Gaza e di “creare le condizioni” per la fine della guerra tra Israele e Hamas, scatenata dagli attacchi del gruppo terroristico del 7 ottobre, in cui migliaia di terroristi hanno ucciso 1.200 persone, per lo più civili, e preso circa 240 ostaggi. “Per quanto difficile possa apparire oggi, la soluzione dei due Stati – in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e gli accordi precedenti – è l’unica strada per una pace sostenibile”, ha scritto in un post precedente. “Qualsiasi suggerimento contrario nega i diritti umani, la dignità e la speranza del popolo palestinese”. Questa settimana Guterres ha visto il documentario di 47 minuti dell’IDF sulle atrocità di Hamas del 7 ottobre in una proiezione privata presso la sede dell’ONU, dopo notevoli pressioni da parte di funzionari israeliani, come ha riferito Channel 12 martedì. Guterres non aveva partecipato a precedenti proiezioni organizzate da funzionari israeliani presso le Nazioni Unite, adducendo difficoltà di programmazione. Il filmato include scene strazianti di omicidi, torture e decapitazioni durante il massacro di Hamas nel sud di Israele, compresi i video grezzi delle bodycam dei terroristi. Secondo l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan, Guterres ha dichiarato, dopo aver visto il filmato, che l’attacco di Hamas è “l’umanità al suo peggio”. Dallo scoppio della guerra, Guterres ha dovuto affrontare un notevole contraccolpo da parte dei funzionari israeliani a causa di commenti che sono stati interpretati da alcuni come anti-Israele e a favore di Hamas. A ottobre, il capo delle Nazioni Unite è sembrato suggerire che l’impulso per il devastante assalto di Hamas fosse il controllo dello Stato ebraico sui territori palestinesi, nonostante Israele si sia ritirato unilateralmente da Gaza nel 2005. “È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto”, ha detto Guterres, spingendo Erdan e il ministro degli Esteri Eli Cohen a chiedere le sue dimissioni. Più di recente, Cohen ha accusato Guterres di sostenere Hamas e ha chiesto nuovamente le sue dimissioni dopo che il capo delle Nazioni Unite ha scritto una lettera in cui chiedeva un cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas. Cohen ha anche condannato la decisione di Guterres di invocare una rara clausola della Carta delle Nazioni Unite per sollecitare l’intervento del Consiglio di Sicurezza. Il 9 dicembre, gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sostenuta da quasi tutti i membri del Consiglio e da decine di altre nazioni che chiedeva un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza. Il vice ambasciatore statunitense Robert Wood ha criticato il Consiglio dopo il voto per non aver condannato i massacri di Hamas del 7 ottobre in Israele o per non aver riconosciuto il diritto di Israele a difendersi. In un altro post pubblicato oggi su X, Guterres afferma che dallo scoppio della guerra il 7 ottobre “136 dei nostri colleghi [delle agenzie ONU] a Gaza sono stati uccisi in 75 giorni – qualcosa che non abbiamo mai visto nella storia delle Nazioni Unite”. “La maggior parte del nostro personale è stata costretta a lasciare le proprie case. Rendo omaggio a loro e alle migliaia di operatori umanitari che rischiano la vita per sostenere i civili a Gaza”, scrive. (n.d.r. i membri delle Nazioni Unite citati da Guterres sono in effetti membri della UNRWA e quindi con molta probabilità membri di Hamas o loro fiancheggiatori)
(Rights Reporter, 23 dicembre 2023)
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Nuovi aiuti a Gaza. Ma non servano per altre stragi
di Alessandro Sallusti
L'Onu ha approvato ieri un sostanzioso pacchetto di aiuti alla popolazione civile di Gaza. Legittimo, per carità, e lo è anche se filmati recuperati dagli israeliani documentano come buona parte di quella popolazione il 7 ottobre scese in piazza per festeggiare il rientro alla base dei terroristi palestinesi che avevano appena compiuto la strage più cruenta del dopoguerra con oltre mille civili israeliani inermi giustiziati a freddo nel giro di poche ore. Ma andiamo oltre. L'Onu ha da tempo dispiegato in quell'area uno dei suoi più numerosi contingenti di assistenza umanitaria, tredicimila dipendenti a Gaza e altri quattromila in Cisgiordania. La domanda è: come è possibile che nessuno di questi «inviati di pace» abbia avuto il minimo sentore di ciò che stava accadendo? Come è possibile che nessuno di loro si sia accorto che Hamas stava costruendo una città sotterranea fatta di decine di chilometri di cunicoli con bunker riempiti di armi e munizioni?
E ancora. Gli israeliani entrati a Gaza hanno scoperto, e mostrato al mondo, come alcune di quelle gallerie siano un capolavoro di ingegneria e tecnologia, il che presuppone il coinvolgimento di personale civile altamente specializzato e di molta manodopera , oltre che di enormi investimenti. Cosa che, come ha ricordato di recente Paolo Mieli sul Corriere della Sera, stride con la miseria economica, umana e urbanistica della Gaza alla luce del sole che tutti noi ben conosciamo.
Insomma, il dubbio fondato è che gli aiuti umanitari convogliati negli ultimi anni a Gaza siano finiti per finanziare e alimentare interventi che di umanitario avevano ben poco, come ben si è visto il 7 ottobre. E che ciò sia potuto succedere grazie anche alla distrazione, per usare un eufemismo, del sostanzioso contingente Onu presente sul posto.
Noi siamo certamente felici che riprenda il flusso di aiuti ai civili, pur sapendo che per lo più stiamo parlando di persone che sono state quantomeno complici materiali e politici della preparazione della strage. Ma abbiamo molti dubbi che l'Onu oggi abbia la credibilità per gestire in modo corretto e trasparente un'operazione umanitaria che non vorremmo si trasformasse, nelle sue mani, nell'ennesimo aiuto incondizionato a chi nega il diritto all'esistenza di Israele e che facendo leva sull'orrore della guerra sta semplicemente cercando il modo di riorganizzarsi, per tornare quanto prima a colpire con rinnovata ferocia.
(il Giornale, 23 dicembre 2023)
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Israele avanza a rilento, mentre si apre il fronte all’Onu
di Giulio Meotti
ROMA - “L’esercito fiuta la fine e cerca di ottenere risultati prima che venga dichiarato un cessate il fuoco nella prima metà di gennaio. E’ probabile che gran parte dei riservisti ritorneranno a casa. L’esercito sarà impegnato a organizzare una fascia di sicurezza di un chilometro”. Il più insider dei giornalisti israeliani, Nahum Barnea, ieri su Yedioth Ahronoth esprimeva un po’ dello scetticismo sul fronte militare che avanza a rilento.
E mentre Israele sembra aprire a una “Autorità palestinese riformata” per il dopo Hamas, le due condizioni per la vittoria israeliana ancora non si vedono: la liberazione dei 130-140 ostaggi rimasti e l’eliminazione di Yahya Sinwar e Mohammed Deif, che si è scoperto non era affatto disabile. Finora solo la trattativa con il Qatar ha garantito la liberazione degli ostaggi. A due mesi dall’inizio dell’operazione di terra, Israele non ha ancora il pieno controllo del nord della Striscia. Solo ieri, Tsahal ha conquistato Shejaiya a est di Gaza City. Nel centro della Striscia, le operazioni sono appena iniziate con l’ordine ieri a Bureij di evacuare a sud. Intanto sono 471 i soldati israeliani uccisi dal 7 ottobre, di cui 139 nell’invasione di terra (più della prima e della seconda guerra del Libano messe assieme).
E mentre il segretario dell’Onu, António Guterres, usciva “sconvolto” dalla visione del video di 47 minuti sulle atrocità di Hamas, la battaglia si spostava dentro al Consiglio di sicurezza, dove gli Stati Uniti avrebbero ottenuto i cambiamenti desiderati su una risoluzione degli Emirati, che ieri è stata approvata, con l’astensione americana, e sostiene una pausa nei combattimenti per consentire l’ingresso degli aiuti, senza richiedere il cessate il fuoco. Sia Washington sia Gerusalemme si oppongono al cessate il fuoco che andrebbe solo a vantaggio di Hamas, che parla di 20 mila palestinesi uccisi, senza distinguere fra terroristi e civili. Gli Emirati, l’unico paese arabo nel Consiglio, avevano chiesto la “cessazione delle ostilità”, rielaborata a favore di “pause e corridoi umanitari estesi”. La risoluzione chiede di “creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità”. In pratica gli Stati Uniti danno a Israele un altro po’ di tempo. Un mese, forse. La fine della guerra passerà, oltre che da Khan Younis, anche dai bizantinismi dell’Onu.
Il Foglio, 23 dicembre 2023)
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Piovono critiche su Papa Francesco dagli ebrei Usa
Preoccupati perché non distingue tra terrorismo di Hamas e difesa di Israele
di Franca Giansoldati
Proprio mentre l'American Jewish Commettee – una delle più antiche organizzazioni ebraiche mondiali che si batte contro l'antisemitismo – mette in discussione l'atteggiamento sbilanciato di Papa Francesco («Siamo molto preoccupati») perché domenica scorsa all'Angelus ha usato il termine terrorismo per definire le bombe di Gaza senza fare alcuna distinzione tra gli atti di «violenza intenzionale» del 7 ottobre da parte di Hamas e le vittime involontarie che si verificano purtroppo in una «guerra giusta», il Vaticano ha inviato in Terra Santa un cardinale di peso con il compito di sostenere la comunità cattolica locale che si appresta a celebrare il Natale.
In un comunicato il Vaticano ha informato che il Papa addolorato per la “terza guerra mondiale a pezzi” che affligge il mondo, ha incaricato il suo Elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski, di portare un suo messaggio «nei territori dove ancora risuona il rumore delle armi». «Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre "fratello", e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam!»
L'atteggiamento bipartisan di Papa Francesco resta però un punto di angustia per il mondo ebraico che percepisce tanti suoi interventi come partigiani o non obiettivi della situazione. «E' necessario distinguere chiaramente tra chi ha causato la guerra quando di parla di autodifesa di Israele e di lotta contro la barbarie e il terrore di Hamas».
Nel frattempo il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Terra Santa, ieri sera in un incontro on line ha ammesso che la guerra scatenata da Hamas ha effettivamente causato un piccolo terremoto nei rapporti tra il mondo cattolico e l'ebraismo. «Voglio dire che quello che è accaduto il 7 ottobre è ingiustificabile, e deve essere condannato. E' fuori discussione. Non ci devono essere fraintendimenti. È qualcosa di terribile nella sua brutalità e intenzione - ha spiegato - Ora le nostre relazioni con il mondo religioso ebraico sono in difficoltà. Nel mondo ebraico la leadership ha percepito una certa freddezza sia da parte della Santa Sede che nostra, hanno contestato le prime dichiarazioni dei Patriarchi e forse non hanno tutti i torti. Avremmo dovuto attendere un po' per pubblicare la nostra nota ma in quel momento non avevamo capito cosa fosse in gioco. Il mondo ebraico percepisce una parzialità che non credo ci sia stata. Del resto il Papa è stato molto chiaro nel condannare il 7 ottobre, anche se la Santa Sede quanto interviene ha un linguaggio tutto suo. Personalmente sono stato molto chiaro nella condanna. Da parte della Chiesa, tuttavia, mantenere le relazioni con il mondo ebraico significa essere chiari nella lotta contro l'antisemitismo che è esploso in tutta Europa. In questo dobbiamo essere molto chiari».
(Il Messaggero, 23 dicembre 2023)
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"... il Papa è stato molto chiaro.... personalmente sono stato molto chiaro... in questo dobbiamo essere molto chiari". La realtà è che nel mondo vaticano di chiaro non c'è quasi niente: l'ambiguità polisemica del linguaggio è una costante stilistica. Gli ebrei hanno tutte le ragioni di diffidare: la "Santa Sede" si considera teologicamente in alternativa allo Stato ebraico. M.C.
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Hamas ha raccolto informazioni sulle basi dell'IDF prima dell’attacco del 7 ottobre
di Luca Spizzichino
Hamas aveva preparato una vasta infrastruttura di intelligence prima degli attacchi del 7 ottobre, compresi rapporti dettagliati sull'attività dell'IDF nelle basi e le varie località al confine con la Striscia di Gaza. È quanto emerge dalle indagini dell’Unità 504 della Divisione Intelligence israeliana sulla base degli interrogatori ai terroristi dell’unità Nukhba e le informazioni documentali e tecniche raccolte dai soldati israeliani.
Secondo una fonte militare, l’organizzazione terroristica palestinese è riuscita a mappare le posizioni degli insediamenti al confine, le basi militari dell'IDF e poi ha addestrato e i terroristi sui punti deboli di tutti questi luoghi. Il 7 ottobre quindi hanno attaccato il sud di Israele, sapendo esattamente dove andare a colpire.
La stessa fonte militare ha rivelato inoltre che l’unità Nukhba era a conoscenza delle falle nella sicurezza di una base militare israeliana situata a chilometri di distanza dal confine.
"Il livello della loro consapevolezza riguardo quella base dei servizi segreti nel Negev occidentale ci è sfuggito, sapevano esattamente cosa volevano ottenere," ha spiegato al Jerusalem Post. Tutto ciò, secondo il militare, non sarebbe stato possibile senza un agente esterno, presumibilmente hacker iraniani, che hanno fornito all’intelligence di Hamas ogni singolo dettaglio, anche i computer specifici da prelevare dalla sala server nei bunker dei servizi segreti israeliani.
Dalle indagini è emerso inoltre che i terroristi avevano come obiettivo l’intercettazione dei sistemi di comunicazione criptati della Divisione di Gaza e delle forze israeliane nel settore.
Alla luce delle falle nella sicurezza al confine con la Striscia, l’esercito sta già provvedendo a rafforzare le misure di sicurezza dei luoghi sensibili al confine e si è inoltre deciso di riesaminare il sistema di sicurezza e difesa dell’Intelligence Corps a Kiryat Modi'in, attualmente in costruzione. Inoltre, già nel prossimo anno, verrà sicuramente rivoluzionato il campo della difesa e della sicurezza informatica nell’IDF, cambiando radicalmente il modo di affrontare la questione.
(Shalom, 22 dicembre 2023)
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Dopo la guerra molti problemi resteranno aperti
di Ugo Volli
• Che fare dopo la guerra?
La guerra contro i terroristi è ben lungi dall’essere terminata, come si vede anche dai lanci di missili che negli ultimi giorni essi sono riusciti ancora a fare sulle principali città israeliane: da quelle vicine come Ashdod e Beer Sheva, fino alle grandi zone urbane di Tel Aviv e di Gerusalemme. Ma l’operazione procede e, se le sarà lasciato ancora il tempo che ci vuole, senza dubbio sarà in grado di smantellare completamente l’imponente complesso di fortificazioni sotterranee costruite da Hamas in tutta la Striscia con investimenti enormi nel corso di due decenni; e riuscirà anche a eliminare i suoi capi sopravvissuti fino a oggi che si nascondono ora in queste gallerie, salvo quelli che riusciranno a scappare in Egitto. Resta il compito difficilissimo di trovare e salvare i rapiti, ma questo sarà probabilmente il compito finale della missione a Gaza, perché essi sono probabilmente tenuti vicini ai capi terroristi come scudi umani della loro vita. Ma la conclusione militare della guerra a Gaza pone dei problemi politici e di sicurezza di grande complessità.
• Giudea e Samaria
Il primo problema riguarda Giudea e Samaria, dove l’attività terroristica, incessante già da prima della guerra, è stata moderata solo dall’azione continua delle forze di sicurezza, che hanno arrestato oltre un migliaio e mezzo di terroristi e simpatizzanti smantellando le loro strutture sotterranee che riproducevano in piccolo quelle di Gaza e liquidandone oltre un centinaio. È chiaro che bisognerà andare avanti così, cercando giorno per giorno di bloccare un meccanismo di emulazione, imitazione e militanza organizzata, lo stesso che l’altro ieri ha portato alla morte autoinflitta di due ragazzi di 16 e 14 anni che stavano trasportando in moto una bomba improvvisata (IED) da loro costruita, per impiantarla su una strada della Samaria.
• Il Libano
Il secondo problema è che cosa fare riguardo agli alleati di Hamas che stanno sugli altri fronti. In particolare, dopo che per tutto il tempo della guerra Israele ha tollerato che Hezbollah sparasse razzi sui villaggi della Galilea, rispondendo solo colpo su colpo e badando a non provocare un’escalation del conflitto, per non dover combattere una guerra su due fronti. Ma ora che progressivamente una parte delle truppe potrà lasciare Gaza all’azione delle forze speciali impegnate a distruggere le gallerie, la domanda è che fare con una forza altrettanto aggressiva e molto più potente di quella di Hamas. Si può lasciare che, contro le risoluzioni dell’Onu, che avevano stabilito nel 2006 che non potessero stare al sud del fiume Litani, una quindicina di chilometri in media a nord del confine di Israele? Lo si può ottenere per via diplomatica? Ma basterà?
• È possibile convivere col terrorismo di Hezbollah?
Si può vivere a fianco di un esercito terrorista che minaccia disastri ancora maggiori di quelli del 7 ottobre? O bisognerà cercare di distruggere la forza militare di Hezbollah come quella di Hamas, al costo di combattimenti durissimi, bombardamenti intensi su tutto Israele, troppo intensi per fermarli con Iron Dome, e naturalmente di una rovina per il Libano meridionale pari a quella di Gaza? Gli Usa, al solito, hanno cercato di trovare un piano accettabile anche per Hezbollah, con il ritiro dei terroristi a Nord del Litani, in cambio dell’abbandono da parte di Israele di qualche territorio minore che l’Onu ha assegnato allo stato ebraico sulla base dei confini storici, ma che il Libano rivendica. Ma è accettabile questa soluzione che permette a Hezbollah di non perdere la faccia né la forza missilistica, dunque di rivendicare una vittoria che compenserebbe la sconfitta di Hamas e proverebbe che il terrorismo comunque paga? Gli abitanti della Galilea, che sono dovuti sfollare per sfuggire ai tiri dei terroristi, possono tornare a casa sapendo che la minaccia è sempre lì, coi missili e le fortificazioni nemiche costruite anche se per il momento sguarnite? E chi controllerà che il ritiro di Hezbollah non sia fittizio o provvisorio, visto che la forza dell’Onu che doveva garantirla, quell’UNIFIL in cui anche i militari italiani hanno avuto una parte notevole e talvolta anche il comando, si è rivelata completamente inefficiente? Vi sono stati negli anni scorsi situazioni in cui i militari di questa forza si sono lasciati bloccare, depredare dai loro mezzi, perfino uccidere dai terroristi e dai loro simpatizzanti. Pochi giorni fa è stato documentato un lancio di missili contro Israele letteralmente a pochi metri da una postazione dell’Unifil, che non ha fatto nulla per impedirla. La reazione israeliana ha colpito, oltre al gruppo terrorista, anche alcuni militari della forza internazionale, provocando proteste, ma non cambi di politica.
• Siria e Yemen
Un problema analogo rischia di porsi per quanto riguarda la Siria, con la costruzione di forza iraniana e di Hezbollah ai confini del Golan, che Israele cerca da anni di bloccare con bombardamenti. È un rischio che si è intensificato in questi mesi e che potrebbe portare prima o poi a uno scontro diretto di fanterie e carri armati. E poi c’è la questione dello Yemen, dove la coalizione internazionale per evitare il blocco del canale di Suez ha raggiunto, a quanto pare i quaranta paesi (ma senza Cina e Russia che non agiscono contro i pirati e in cambio non sono attaccate da loro), ma sembra orientato più che a colpire gli Houti per togliere i loro i mezzi militari che minacciano le navi commerciali, a metterle in convoglio e scortarle, con una forma di difesa solo passiva. È questa attitudine a non combattere direttamente le varie forme di pirateria e terrorismo a costituire il grande problema della politica occidentale in questo periodo, perché essa è poco efficace e incoraggia in sostanza i terroristi a violare sempre più spesso e sempre più a fondo la legalità internazionale, dando loro un crescente senso di impunità. Non a caso Israele ha deciso di mandare nel Mar Rosso alcune unità militari, ma di non inserirle nella flotta internazionale per coordinarsi con gli Usa, per mantenere la propria capacità di reazione se gli Houti riuscissero fare danni seri con i loro missili e droni a navi o al territorio israeliano. Dopo la guerra resterà comunque il problema di come trattare questi nidi di violenza e terrorismo che ormai costellano il Medio Oriente, grazie alla protezione, al finanziamento e agli armamenti che vengono dall’Iran.
• Che fare a Gaza?
Da questo quadro di problemi mancano due problemi principali. Il primo è che fare della Striscia di Gaza, una volta completamente conquistata e il secondo è come regolarsi con l’Iran, che al di là dell’uso dei suoi satelliti (Hamas, Hezbollah, Houti, esercito siriano, gruppi sciiti in Iraq e Bahrein) resta il nemico principale e la più grave preoccupazione strategica di Israele, con l’armamento atomico vicinissimo (se non già raggiunto), l’alleanza con la Russia e un arsenale convenzionale in forte crescita, grazie anche al fatto che l’amministrazione Biden ha sbloccato nei mesi scorsi ingenti fondi che erano stati sequestrati da Trump. L’Iran è la testa dell’idra del terrorismo in medio Oriente. Sarà possibile neutralizzarlo? Ne dovremo parlare ancora.
(Shalom, 22 dicembre 2023)
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Lettera di Andrea Bocelli a Yaffa Adar, sopravvissuta al lager di Hamas
di Sarah G. Frankl
Nella puntata della scorsa settimana del programma d’inchiesta Uvda di Canale 12, Yaffa Adar, 85 anni, ha raccontato come è sopravvissuta a 49 giorni di prigionia di Hamas.
«Ogni mattina cantavo Bocelli a me stessa e dicevo: Dio, forse questo porterà un buon giorno. Forse oggi arriverà [la mia liberazione], ha ricordato la donna, ammettendo che per molto tempo quel giorno non è mai arrivato.»
Il famoso cantante lirico italiano Andrea Bocelli è venuto a conoscenza dell’intervista e ha deciso di contattare Adar, scrivendo una lettera trasmessa da Uvda.
«Carissima signora Yaffa Adar.
Vorrei poterla abbracciare!.
Vorrei ringraziarla per l’emozione che la sua storia ha suscitato in tutte le persone che hanno avuto il privilegio di ascoltarla e soprattutto in me, visto che, incredibilmente, ne faccio parte!.
Davvero non avrei mai pensato che la mia umile voce, questo grande dono che ho ricevuto immeritatamente dal cielo, potesse un giorno rivelarsi così importante!.
Non c’è premio, non c’è applauso, non c’è onore o riconoscimento che valga quanto le sue parole, che le assicuro non dimenticherò mai.
Grazie a voi, d’ora in poi, canterò con rinnovato entusiasmo, con rinnovata fede, con nuova energia.
Spero di poterla incontrare un giorno e cantare, solo per lei, tutto ciò che desidera, in modo da cancellare, per quanto possibile, il ricordo doloroso di giorni terribili, che non riesco nemmeno a immaginare.
Ammiro profondamente il suo coraggio, che è un esempio per tutti noi. Dall’altra parte dell’oceano, le invio i miei più calorosi saluti, pieni di gratitudine, ammirazione e affetto.»
Uvda manda in onda un filmato della nipote di Adar che legge per la prima volta la lettera di Bocelli.
Wow! Wow! Wow! Che onore! Andrea Bocelli!, esclama lei, premendosi la lettera sul petto.
(Rights Reporter, 22 dicembre 2023)
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La pelle di Hamas
Al Cairo il gruppo non pensa alla tregua ma a un piano con l’Anp per rimanere a Gaza dopo la guerra
di MIcol Flammini
ROMA - Hamas ha rifiutato la proposta di liberare quaranta ostaggi in cambio di una tregua di sette giorni, vuole il cessate il fuoco permanente, che tradotto vuol dire: la fine della guerra. Per la prima volta, i terroristi della Striscia di Gaza hanno portato con loro durante le trattative i membri del Jihad islamico che tiene in prigionia un numero non precisato di ostaggi. Le due organizzazioni terroriste avrebbero detto ai mediatori egiziani incontrati al Cairo che, prima di parlare di qualsiasi accordo, Israele deve fermare l’offensiva. L’andamento dei bombardamenti contro le città israeliane è un indicatore per capire come vanno le trattative, come si muove la diplomazia.
Ieri è stata una giornata molto intensa, le sirene hanno suonato per tutto Israele, segno del fatto che i terroristi hanno ancora razzi e postazioni, nonostante ieri, l’esercito israeliano abbia detto di avere il pieno controllo di Gaza City. In questi mesi di mediazioni, trattative a distanza, Israele ha capito che Hamas ha sviluppato due modi di pensare: uno a Doha e l’altro a Gaza. L’ultima parola continua ad averla la leadership rimasta dentro alla Striscia. Sono stati i qatarini i primi a evidenziare queste differenze e i movimenti tra una leadership e l’altra. Se oggi la proposta di accordo ha ricevuto un “no”, le cose potrebbero cambiare tra qualche settimane. Al Cairo era presente Ismail Haniyeh che vive a Doha, Israele aveva promesso l’eliminazione di ogni leader del gruppo, ma ha ricevuto un lasciapassare per questo viaggio, in cui però non ha negoziato soltanto l’eventuale tregua dentro alla Striscia: Hamas era in Egitto anche per prepararsi al futuro. In queste settimane alcuni membri dell’organizzazione hanno rilasciato interviste in cui dichiaravano di volere la fine della guerra. Husam Badran ha detto al Wall Street Journal che Hamas punta alla costituzione di uno stato nei confini del 1967 e ad al Monitor un altro uomo di Hamas ha dichiarato prima la necessità di riconoscere lo stato di Israele, poi si è corretto dicendo che “la resistenza andrà avanti fino al ritorno”. Nello statuto di Hamas è stato inciso un obiettivo che non lascia spazio a fraintendimenti: l’eliminazione di Israele attraverso il jihad. Le dichiarazioni dei due funzionari sono in contrasto con lo statuto, ma al Cairo Hamas e i suoi leader erano per far politica, assicurarsi una continuità, istituzionalizzarsi attraverso Fatah. Il dialogo tra Hamas e i funzionari dell’Autorità palestinese non si è mai interrotto, ma la differenza nelle dichiarazioni è sempre stata palese: Abu Mazen, il leader dell’Anp, ha sempre riconosciuto l’esistenza di Israele. Gli Stati Uniti stanno intensificando i rapporti con l’Anp, hanno detto apertamente che il disegno del dopo Gaza deve includere Abu Mazen, il leader che ha più di ottant’anni, la cui autorità è messa in discussione. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, a luglio c’era già stato un incontro in Egitto, a El Alamein, tra Haniyeh, Abu Mazen e il capo dell’intelligence egiziana Abas Kamel per esaminare l’adesione di Hamas all’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Olp di Arafat, che oggi fa capo ad Abu Mazen. In quell’occasione Abu Mazen disse a Haniyeh che Hamas avrebbe potuto far parte dell’Olp riconoscendo gli accordi firmati con Israele, quindi la soluzione dei due stati. Non era nelle intenzioni di Hamas, che però ora avrebbe ripreso i colloqui. Haniyeh vorrebbe un nuovo incontro tra la leadership di Fatah, secondo Haaretz avrebbe chiesto agli egiziani di occuparsene anche cercando di includere Ziyad al Nakhalah, il leader del Jihad islamico, che era con lui al Cairo. Il gruppo terroristico pensa al dopo e ha individuato in Fatah la strada della sopravvivenza. Fatah è debole, Abu Mazen è debole, in tanti vogliono rimpiazzarlo, Hamas pensa di aver trovato una scorciatoia per mantenere un controllo nella Striscia, ma non ha cambiato idea rispetto al suo statuto.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu insiste nel dire che non potrà essere l’Anp a governare Gaza. Ieri Netanyahu ha detto: “Dopo aver eliminato Hamas, userò il mio potere per assicurare che Gaza non sarà mai più una minaccia per Israele, non sarà né Hamastan né Fatahstan”, quindi non sarà governata né da Hamas né da Fatah. Lo ripete da settimane, senza lasciarsi fermare neppure dai richiami americani, che non sono gli unici a pensare al dopo. Dentro la Striscia, l’esercito sta cercando gli uomini del gruppo, cerca in modo particolare Yahya Sinwar. Benny Gantz, ex ministro della Difesa che oggi fa parte del gabinetto di guerra nonostante sia un oppositore del premier, la scorsa settimana ha lanciato un avvertimento che oggi sembra particolarmente urgente: eliminare Hamas non vuol dire fermarsi a Sinwar, l’idea del gruppo è più ampia, va oltre lui. E sta lavorando per salvarsi e restare.
Il Foglio, 22 dicembre 2023)
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L’urlo di Spielberg contro il Male. Un docufilm dopo l’attentato di Hamas
Il regista ha deciso di raccontare l’attacco dello scorso 7 ottobre raccogliendo centotrenta testimonianze di ebrei sopravvissuti
di Antonio Monda
La decisione di Steven Spielberg di raccogliere tutto il materiale disponibile per realizzare un documentario che racconti le atrocità commesse da Hamas lo scorso 7 ottobre sigilla un rapporto imprescindibile del cineasta con il suo popolo, sia sul piano esistenziale che su quello artistico. La dichiarazione fatta in occasione dell’annuncio ha un tono pieno di dolore e sconcerto («non avrei mai immaginato di assistere nella mia vita a barbarie così indicibili nei confronti degli ebrei») e la decisione di agire attraverso la Shoah Foundation, che ha fondato nel 1994, evidenzia come Spielberg equipari l’orrore di quanto avvenuto il 7 ottobre con l’abominio dell’Olocausto.
Quella data, definita in un primo momento come l’undici settembre israeliano, è il sintomo di una tragedia persino più grande, che ha avuto numerose declinazioni precedenti all’Olocausto, come i pogrom: «l’antisemitismo non è mai andato via, era solo meno visibile e oggi è rivenuto alla luce con arroganza», ha aggiunto, parlando di una «situazione simile alla Germania degli anni Trenta». Lo sgomento con cui ha parlato denota lo stesso approccio umanista dei suoi film, ma la sostanza del grido d’allarme non differisce molto da quanto scriveva Bertold Brecht a commento delle immagini dei gerarchi nazisti: «il ventre da cui sono strisciati è ancora fecondo». Mai come adesso è necessario «combattere ogni forma di antisemitismo e di odio», ha concluso Spielberg, e il nuovo progetto, che prevede la testimonianza di 130 persone sopravvissute al massacro, sarà visibile presso il Visual History Archive della USC Shoah Foundation’s Countering Antisemitism Through Testimony Collection, il centro della University of Southern California che ha come missione documentare l’antisemitismo successivo all’Olocausto. Un ruolo fondamentale lo rivestirà Shaylee Atary Winner, riuscita a scampare al massacro insieme alla figlia di quattro settimane grazie al sacrificio del marito Yahab Winner. La donna racconta che trovarsi a essere «inseguita come una preda insieme alla sua bambina» le ha fatto rivivere l’esperienza dei familiari massacrati nell’Olocausto.
Non è certo un caso che il rapporto tra predatori e carnefici sia centrale nel cinema di Spielberg, che ha dato vita alla Shoah Foundation sull’onda del riscontro internazionale di Schindler’s List per preservare la memoria della tragedia dell’Olocausto: nei soli primi cinque anni di vita, la fondazione ha realizzato 52.000 interviste, coinvolgendo anche sopravvissuti ai mostruosi esperimenti di eugenetica, oltre a chi è stato perseguitato perché omosessuale, Rom, Sinti o Testimoni di Geova. Schindler’s list ha rappresentato nella vita di Spielberg uno spartiacque, ma solo chi sino ad allora ne ha giudicato superficialmente il cinema come escapista è rimasto stupito dalla crescente dedizione a questo tema. La sua testimonianza non si limita alle attività della Shoah Foundation e ai documentari: è in cantiere un adattamento di Apeirogon, il libro di Colum McCann che racconta il sodalizio tra un israeliano e un palestinese che hanno entrambi perso una figlia nel conflitto. Il regista è rimasto commosso dalla dimensione di speranza presente nel magnifico libro dello scrittore irlandese e ha in mente di completare una trilogia sul popolo ebraico, cominciata con Schindler’s List e continuata con Munich, la pellicola sulla strage degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco del 1972 e la successiva rappresaglia a opera dei servizi segreti.
Per lungo tempo ha pensato di dirigere anche un film sul caso Mortara, ma poi ha rinunciato non sentendosi idoneo a raccontare con accuratezza l’Italia dell’Ottocento. Mentre Marco Bellocchio ha affrontato la vicenda in Rapito, Spielberg a preferito realizzare I Fabelmans, nel quale ha raccontato in chiave autobiografica la scoperta dell’antisemitismo. Il termine “indicibile” con cui ha descritto le atrocità del 7 ottobre, è rivelatorio per interpretare il modo in cui ha raffigurato il male nel suo cinema: un esempio lampante è il personaggio realmente esistito di Amon Göth, che in Schindler’s List si diverte a sparare a caso verso un gruppo di ebrei per dimostrare il proprio potere assoluto. Quando il gerarca nazista interpretato da Ralph Fiennes lancia un urlo di fronte a un rogo di cadaveri, assistiamo, in un crescendo di orrore e follia, alla vittoria delle tenebre. Spielberg conosce l’insegnamento teologico per cui il male è un mistero che non si può spiegare ma solo raccontare, ed è illuminante a questo riguardo quanto mette in scena in Duel, dove un camionista vuole uccidere un automobilista senza alcun motivo: Spielberg non mostra mai le fattezze di chi perpetra questo abominio, ma solo quelle della vittima, ritratto in tutta la sua umanità e il suo spirito di sopravvivenza rispetto a una manifestazione del male allo stato puro. È un approccio registico ripetuto costantemente: nello Squalo il predatore attacca implacabile, motivato unicamente da furia distruttrice, e anche in questa occasione, come in Duel e in Schindler’s List, sono le vittime ad avere la dignità della resistenza e di un’esistenza delineata. Si tratta dello stesso sguardo con cui è impostato questo nuovo progetto: i filmati in cui sono immortalati i bambini sterminati, e i letti pieni di sangue, sono la rappresentazione per immagini di un indicibile urlo di dolore, con il quale Spielberg celebra il martirio di vittime innocenti di fronte alla disumanità di carnefici che impersonano il male assoluto, e come tali non possono avere né un volto né un’anima.
(la Repubblica, 22 dicembre 2023)
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Evangelici d'Italia per Israele. Ma solo fino al messia
di Marianna Gatta
«Tutto ciò che facciamo segue la parola di Dio. Dio ha previsto che il popolo ebraico dovrà ritornare alla terra che gli ha assegnato, noi vogliamo solo affermare la sua volontà», sostiene Andie Basana, attuale presidente dell’Edipi, Evangelici d’Italia per Israele. «Noi amiamo questa nazione», recita in bianco e blu il sito dell’associazione, la stella di David nel mezzo. Nata nel 2003 con sede a Padova, è stata la prima organizzazione evangelica italiana a sostenere l’aliyah, letteralmente «la salita», il ritorno del popolo ebraico a Gerusalemme. «Nella Genesi, Dio promette ad Abramo una terra e gli dice: “benedirò quelli che ti benediranno”, perciò noi li sosteniamo – spiega Basana – Dal 1948 il piano di Dio si sta compiendo». Alla complessa e drammaticamente attuale questione dell’occupazione israeliana del territorio palestinese sono legate le profezie bibliche sostenute da alcune correnti evangeliche. Attraverso le sedi di varie associazioni, ai nuovi cittadini israeliani arrivano anche contributi dall’Italia. Oltre a organizzare convegni per «offrire ai cristiani italiani una corretta informazione circa il ruolo di Israele nel progetto di Dio», l’Edipi finanzia l’insediamento di ebrei provenienti da altri paesi nello Stato d’Israele. L’AIUTO è per lo più di ordine economico. «Non è abbastanza dire di sostenere Israele secondo i dettami della Bibbia, bisogna anche fare qualcosa di concreto, appoggiarlo con i beni materiali», continua Basana. Le donazioni, di cui non divulgano l’entità, provengono dalle chiese evangeliche di tutta Italia e sono inviate soprattutto alle congregazioni di ebrei messianici, che hanno riconosciuto in Gesù il messia. L’Edipi tuttavia mantiene anche rapporti con le istituzioni laiche e sostiene campagne dal respiro internazionale, come quelle dell’organizzazione sionista Keren Hayesod, che nel 2022 ha aiutato 74.915 olim, ebrei che decidono di «tornare» in Israele, ha fornito un’abitazione a 4.586 nuovi cittadini e ha sostenuto i giovani stranieri che dopo un’esperienza nell’esercito israeliano, vogliono costruirsi una vita nel paese. Sono varie le associazioni e le chiese che si sono riconosciute nell’appoggio allo Stato israeliano. Tra le più attive c’è Cristiani per Israele (C4I), fondata nel 1979 in Olanda e con sede italiana a Padova, che vanta di aver aiutato oltre 130mila ebrei a portare a termine l’aliyah. Il loro sito sostiene: «Siamo in preparazione della venuta del Messia, le profezie si stanno adempiendo davanti ai nostri occhi». Una delle teorie che avvicina gli evangelici a Israele è quella che vede la “restituzione” della terra promessa al popolo ebraico come il compiersi della profezia biblica che porterà alla fine del mondo e quindi al ritorno del messia. Solo chi ha sostenuto la parola di Cristo si salverà, per gli altri, compresi gli ebrei, gli stessi destinatari di preghiere e aiuti, l’apocalisse. «Quando si parla dell’apocalisse chi studia teologia sa che Israele è l’orologio di Dio. Le cose che accadono in Palestina sono un avanzare della lancetta di Dio, sono i rintocchi del Suo tempo», spiega il pastore Emanuele Frediani della Chiesa Apostolica in Italia, attiva dal 1958 con sede a Grosseto. Sul loro sito si legge: «La profezia biblica non depone per una pace universale senza prima attraversare drammaticamente gli eventi escatologici», Prima la fine del mondo, quindi, poi la pace. TALE LETTURA pone l’occupazione del territorio palestinese come danno collaterale, l’inasprimento del conflitto come naturale corso degli eventi e il trionfo di Israele al centro dei presagi divini. Non stupisce che dal 7 ottobre l’impegno evangelico sia cresciuto. «Le persone ora sono più coinvolte. Facciamo più preghiere, raccogliamo più soldi», racconta Basana. La mobilitazione avviene per contrastare l’antisemitismo, considerato il motore della crisi. «Non ne facciamo un discorso politico – spiega il pastore Frediani – Ora è a Gaza, prima in Europa, prima c’era Hitler, ora l’Iran, cambiano i protagonisti, la storia rimane la stessa. Crediamo che il problema sia spirituale. Se Israele dicesse che l’Islam è la sua religione, la guerra cesserebbe in un attimo». Negli Stati uniti le associazioni evangeliche sioniste sono molto più potenti. L’International Fellowship of Christian and Jews (IfcJ) ha raccolto, solo nel 2022, 233.663 dollari di donazioni per ripartirle tra diversi progetti, tra cui un fondo per 4.500 famiglie di soldati. John Hagee, il pastore leader del Cufi (Christian United for Israel) che vanta 10 milioni di iscritti, si è espresso più volte dall’inizio della guerra: «Dio si sta preparando a difendere Israele». Si ricorre alla lettura delle sacre scritture per interpretare l’attualità e per giustificare le atrocità commesse a Gaza. I palestinesi vengono accostati agli Amalechiti, avversati dal Signore: «Se Dio ha ordinato il loro sterminio, perché Israele non può distruggere il regime palestinese di Hamas?», si legge in un recente articolo sul sito dell’Edipi. Alcuni evangelici sembrano non ricordare che dal 1948 la popolazione cristiana, per lo più composta da palestinesi autoctoni, si sia ridotta fino a costituire appena il 2% degli israeliani e che i rappresentanti delle chiese cattoliche e ortodosse hanno spesso denunciato discriminazioni. SECONDO la Nev, l’agenzia stampa della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei), la popolazione protestante in Italia può essere stimata tra le 350 e 430mila persone, ma il numero raddoppia se si considerano gli stranieri. Non tutti condividono queste teorie. L’assemblea della Fcei insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), ha approvato un documento su Israele e Palestina che incoraggia le chiese a «pregare per una giusta pace, costruita sui diritti umani per tutti i popoli della regione», citando la soluzione dei due stati. La Fcei scrive: «Come credenti, ci sembra ancora possibile imboccare le strade di pace e giustizia indicate da tante profezie, che proprio in queste terre sono state annunciate al mondo».
(il manifesto, 22 dicembre 2023)
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"Si ricorre alla lettura delle sacre scritture per interpretare l’attualità e per giustificare le atrocità commesse a Gaza". Questa è la conclusione "morale" dell'articolista. Come in tanti altri casi, anche lei su tutto quello che accade in questo campo non capisce niente, ma non vale la pena di controbattere: chi non vuole capire non capirà mai. Per chi è interessato: "Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora". M.C.
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Parashà di Vaigash: Come portare buone notizie
di Donato Grosser
Dopo aver ritrovato Yosef e ricevuto da lui l’ordine di raccontare al padre che era vivo ed era il governatore d’Egitto, i fratelli avevano un grosso problema da risolvere. Come raccontare al vecchio padre Ya’akòv che Yosef era vivo senza che gli venisse un colpo e morisse. La cosa non era facile. R. Moshè Alshich (Adrianopoli, 1508-1593, Safed) nel suo commento Toràt Moshè cita un passo dal Talmud babilonese (Ketubòt, 62b) dove è raccontato che rabbi Chananyà figlio di Chachinai tornò a casa dopo dodici anni senza farsi annunciare. Sua moglie era seduta e setacciava la farina. Alzò gli occhi, lo vide e lo riconobbe, ebbe le palpitazioni per l'agitazione e per lo stress emotivo il suo cuore cessò di battere. Rabbi Chananyà pregò l’Eterno: Padrone del mondo, è questa la ricompensa di questa povera donna? La sua implorazione ebbe buon esito e la moglie sopravvisse. R. Mordekhai Ha-Kohen (Safed, 1523-1598, Aleppo) in Siftè Kohen, citando un midràsh, scrive che i fratelli al ritorno dall’Egitto incontrarono la piccola Serach figlia di Asher che cantava. Le chiesero di andare dal nonno Ya’akòv e di inserire nella sua canzone le parole “Yosef è vivo”. In questo modo il refrain entrò pian piano nelle orecchie di Ya’akòv. Poi finalmente dissero in modo esplicito a Ya’akòv che Yosef era vivo. Nella Torà è scritto: “E tornarono dall’Egitto e arrivarono nella terra di Canaan dal loro padre Ya’akòv. E gli raccontarono che Yosef era ancora vivo ed era il governatore di tutto il paese d’Egitto. Ma il suo animo rimase abbattuto perché non poteva prestare loro fede. Gli raccontarono poi tutto ciò che Yosef aveva detto loro, vide i carri che aveva mandato per trasportarlo; solo allora lo spirito di Ya’akòv si ravvivò” (Bereshìt, 45:26-27). Per quale motivo Ya’akòv non credette al racconto dei figli che Yosef era ancora vivo? Una prima risposta la si trova in Avòt de-Rabbi Natan (30:4) dove è scritto che la punizione di chi racconta bugie è che anche quando dice la verità non gli si crede. Così avvenne con i figli di Ya’akòv che raccontarono il falso al padre. All’inizio egli credette loro quando gli presentarono la tunica insanguinata di Yosef facendogli credere che era stato sbranato da un animale feroce. Ma poi quando gli raccontarono la verità dicendogli che Yosef era vivo, non li credette. In ogni caso è difficile capire perché nella parashà sia scritto che “non li credette”. Quando Yosef raccontò il secondo dei suoi sogni nel quale “il sole, la luna e undici stelle si prostravano a me”, una indicazione sulla sua futura salita al potere, è scritto: “I suoi fratelli furono gelosi di lui, ma suo padre conservò memoria del fatto” (Bereshìt, 37:9-11). Se Ya’akòv conservò memoria del fatto, per quale motivo non credette che Yosef era vivo ed era diventato governatore d’Egitto? Una risposta a questo dilemma la diede r. Itzchàk Abarbanel (Lisbona, 1437-1508, Venezia) nel suo commento alla Torà. Egli scrive che Ya’akòv rimase abbattuto quando gli raccontarono che Yosef era vivo perché la sola menzione di Yosef gli fece ricordare la sua grande pena per la perdita del figlio e dopo ventidue anni di assenza aveva perso ogni speranza di rivederlo. Solo dopo aver visto i carri che aveva mandato Yosef, con il permesso del faraone, per trasportare lui e la famiglia in Egitto, si rese conto che Yosef era veramente vivo.
(Shalom, 22 dicembre 2023)
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Parashà della settimana: Va-iggash (Si avvicinò)
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Michel Houellebecq: «Perdoniamo gli stupri commessi sulle israeliane per l’origine dei violentatori»
Lo scrittore parla agli israeliani dopo gli attacchi del 7 ottobre da Gaza: «Mi aspettavo un grande movimento di simpatia e di solidarietà verso gli ebrei, è successo il contrario. Sono passati due mesi e stento ancora a crederci». Il dialogo è un estratto della lunga intervista concessa a Yedioth Ahronoth.
di Tamar Sebok
«Dopo il 7 ottobre, come prima reazione sono rimasto attonito, stupefatto. Per gli orrori commessi, per le conseguenze in Francia. Faccio fatica a superare lo choc, ma so che dovrei provarci», confessa lo scrittore francese Michel Houellebecq.
- Che cosa pensa della reazione in Europa? È stata lenta, inadeguata? «Sono considerato uno scrittore depresso, deprimente, disilluso, diciamo che l’ho letto spesso negli articoli su di me e ho finito per dirmi che dev’essere vero. Ma in questo caso mi ero fatto delle dolci illusioni. Ero convinto che anche i peggiori gauchisti, quelli che di solito appoggiano senza riflettere tutte le azioni palestinesi, che trovano sempre da ridire sulla politica di Israele, avrebbero detto che no, non si poteva davvero fare passare una cosa del genere. Mi aspettavo un grande movimento di simpatia e di solidarietà con gli ebrei. È successo esattamente il contrario, gli atti antisemiti si sono moltiplicati. Sono passati oltre due mesi e stento ancora a crederci».
- Pensa che il governo avrebbe dovuto fare di più per sostenere Israele, o è soprattutto l’opinione pubblica a sorprenderla? Il presidente Emmanuel Macron ha aspettato molti giorni prima di andare a Tel Aviv, e ci sono comunque 40 francesi tra le vittime, una cifra enorme nella scala degli attentati. «Quel che dice Macron non ha più troppa importanza. E quanto agli attentati ci abbiamo fatto l’abitudine, un prete sgozzato non desta più grande emozione. La migliore metafora quanto agli ebrei, non so chi l’abbia trovata, è quella del canarino».
- Il canarino nella miniera. «Sì, quando un ebreo è perseguitato in quanto ebreo, il cristiano ha buone ragioni per preoccuparsi: è il prossimo sulla lista. Un’altra cosa che mi ha infastidito è stata la narrazione globale offerta dai media: i palestinesi buoni e i cattivi di Hamas che usano i primi come scudi umani. Non riesco a crederci, in fondo è sempre lo stesso ritornello che sentiamo in Francia sul fatto che non bisogna generalizzare, è stancante».
- Quel giorno tremila palestinesi hanno attraversato la frontiera di Gaza, sono tanti. «Sì, sono tanti».
- Ma allo stesso tempo il nord di Gaza non esiste quasi più. «Voi israeliani siete esperti negli attacchi mirati, è vero, ma a Gaza è estremamente difficile portarli a buon fine, quindi sì, ci sono molte vittime innocenti. Ma, per me, state facendo quel che è necessario. Non vedo come potreste fare altrimenti».
- In questi giorni abbiamo assistito anche a una fusione tra antisemitismo e critiche anti-Israele che prima non era completa. «Ho un vero problema di comprensione con l’antisemitismo».
- Che cosa non capisce? «Il razzismo è facile da capire. Vedi un nero, ti dici: non mi piacciono i neri. Vedi un bianco, ti dici: non mi piacciono i bianchi. È basico, animale, immediato. L’antisemitismo è più strano. Si ricorda del film Monsieur Klein ?»
- Quello con Alain Delon. «Sì. L’ho visto quando avevo 18 anni, ma ancora mi ricordo una scena. I nazisti avevano teorie pseudo-biologiche, e in quella scena prendono le misure del cranio e misurano gli angoli del viso per dire: questo è ebreo, questo no.
Sulla base di una serie di parametri poco evidenti bisognerebbe provare o no odio per una persona. Va detto che è piuttosto bizzarro e contorto. L’odio, di solito, è più semplice. Non sono la prima persona ad avere difficoltà di comprensione al riguardo. Quando Sartre dice: Céline era antisemita perché veniva pagato, dimostra di non credere veramente all’antisemitismo di Céline. In pratica, Sartre commette un errore di dettaglio: Céline non era pagato in denaro ma in prestigio, era felice di essere invitato a cene che riunivano i protagonisti più prestigiosi della collaborazione con gli occupanti, organizzate da dignitari nazisti che erano a loro volta felici di essere distaccati a Parigi. Céline ne approfittava per ripetere il suo solito numero del mendicante di genio, era soddisfatto di sé. In fondo, anche Sartre aveva difficoltà a comprendere l’antisemitismo».
- Eppure l’antisemitismo esiste da così tanto tempo. «È vero, si possono elencare tanti tipi di antisemitismo. Dell’antisemitismo cattolico tradizionale rimangono poche tracce, anche i cattolici di mentalità più ristretta hanno capito quel che la loro religione deve all’ebraismo e che cosa la separa da esso. Anche l’antisemitismo diciamo aristocratico (disprezzo per il commercio, esaltazione delle virtù militari) è più o meno scomparso, e gli aristocratici ora lavorano nella finanza senza problemi. L’antisemitismo di sinistra, invece, ha ripreso vigore».
- Lei oggi dice di sentirsi sconnesso, fuori dal mondo. Ma è noto per sapere interpretare e spesso anticipare lo spirito del tempo. Pensa di riuscirci ancora? «Dovrei riuscirci, sono noto per questo, ma ci sono cose che vanno oltre la mia comprensione e che suscitano in me paura e disgusto. Altro esempio, l’atteggiamento woke. Non esiste odio tra bianchi e neri in Francia. Le persone che cercano di fomentarlo, di creare odio dove non esisteva, se ci riuscissero, compirebbero un’opera criminale. I neri francesi non credono a queste sciocchezze, non ci incolpano per il nostro passato coloniale. Negli Stati Uniti, sì, la schiavitù e la segregazione hanno lasciato il segno, lì c’è un problema reale».
- Il punto sensibile degli israeliani sono gli ostaggi, le donne e i bambini catturati, anche i giovani soldati. In Israele esiste un particolare concetto di democrazia, mentre dall’altra parte ci sono persone che non seguono le regole. Questa è una delle cose che ci sfuggono. «Nel caso in questione, voi israeliani seguite le decisioni del vostro leader. Ricordo di aver letto un’intervista ad Ariel Sharon che mi aveva colpito, in cui diceva: “Essere primo ministro di Israele è il lavoro più difficile del mondo”. Nel momento in cui l’ho letta ho sentito che era vero, che non potevo immaginare un lavoro più difficile. Perché spesso si è obbligati a combattere guerre, con tutto ciò che ne consegue: abbandoniamo gli ostaggi o siamo pronti a tutto pur di salvarli? Sono scelte morali orribili, e ogni decisione è sbagliata, sotto la pressione costante di una democrazia attiva. Mentre in Francia, e a dire il vero in tutti i Paesi che conosco, quando c’è una guerra la democrazia va in letargo. Il premier di Israele è sottoposto a pressioni che non riesco nemmeno a immaginare. Non voglio dire che approvo tutto ciò che Benjamin Netanyahu ha fatto. Continuare a costruire insediamenti in Cisgiordania è una cattiva idea. Non ho nulla contro i coloni, ma l’espansione degli insediamenti deve finire. Se non ci sono confini stabili è impossibile negoziare la pace. Mi sembra un’impossibilità logica, è banale buon senso: per la pace servono frontiere stabili e un’esistenza stabile».
- Israele non le ha mai avute. «Ma bisognerà arrivare a questo risultato, in un modo o nell’altro. Anche se al momento il problema non è questo. I Paesi vicini devono capire che Israele esiste e continuerà ad esistere. Diversi Paesi arabi sembrano giunti alla conclusione che non potranno mai eliminare Israele».
- Questo è uno dei motivi per cui Hamas ha attaccato Israele. «Sono d’accordo. Anche Hamas ormai deve convincersi che non riuscirà a eliminare Israele. Quindi bisogna punirli in modo sufficientemente duro. Mi dispiace dirlo così brutalmente, ma la base della guerra è il rapporto di forze».
- La religione ebraica le interessa dal punto di vista filosofico? «Non ne so nulla, i monoteismi non mi interessano granché. Per quanto ne so, non sono ebreo. Sostengo gli ebrei per ragioni morali. C’è una differenza morale tra una bomba piazzata indiscriminatamente in un luogo pubblico e un attacco mirato in cui un assassino viene giustiziato (caso tipico: i terroristi di Monaco nel 1972, eliminati uno per uno dal Mossad). In definitiva, sono i mezzi impiegati che ci permettono di dare un giudizio morale sul fine perseguito, e quindi di scegliere da che parte stare».
- In Israele c’è stata molta sorpresa nel vedere che tutta la mobilitazione internazionale per le donne, il movimento #MeToo e così via, abbia completamente ignorato le violenze sessuali commesse il 7 ottobre. «Sì, qualcosa del genere è già successa in Europa. C’è stato il caso celebre e molto significativo delle molestie di massa a Colonia la notte di Capodanno. In linea di principio, in Francia, in Europa, lo stupro è un crimine assoluto. Bene, però c’è un gruppo di individui di origine extraeuropea che molesta centinaia di donne a Colonia, ma poiché sono extraeuropei, vengono più o meno perdonati. Lo stesso vale per i palestinesi».
- Esiste una sottomissione? «È il minimo che si possa dire. Quando le donne ebree venute a ricordare gli stupri commessi da Hamas sono state espulse dalla manifestazione contro la violenza sulle donne, è stato un momento difficile da digerire... Ma, a pensarci bene, bisognerebbe usare una parola più forte di “sottomissione”. Forse “suicidio”? Penso che assistiamo all’avanzare di una sorta di nichilismo, che è - e mi spiace davvero ammetterlo, perché sono sempre stato critico nei confronti di Nietzsche - uno sviluppo del nichilismo europeo definito da Nietzsche. Potremmo anche, e probabilmente in modo più appropriato, parlare dell’ascesa della pulsione di morte evocata da Freud, del trionfo finale di Thanatos su Eros. In una parola, l’Occidente è messo male. Ma Israele può sopravvivere».
- C’è qualcos’altro che ritiene importante dire agli israeliani? «Beh, sì: i recenti avvenimenti in Francia, e più in generale in Europa, e credo anche negli Stati Uniti, dimostrano chiaramente che un rifugio sicuro per gli ebrei è necessario. Israele è più che mai indispensabile. Tra l’altro, mi chiedo se sarei ammesso, in deroga, se un giorno chiedessi di emigrare in Israele».
- Cittadino onorario, credo. «Questo mi rassicura - e il peggio è che non sto nemmeno scherzando».
(Corriere della Sera, 21 dicembre 2023 - trad. Stefano Montefiori)
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Le scoperte sulla “metropolitana” di Hamas e i movimenti diplomatici
di Ugo Volli
• Le istallazioni sotterranee
Il difficile e pericoloso lavoro dei soldati israeliani a Gaza rivela sempre nuovi dettagli su come i terroristi hanno trasformato Gaza in un’immensa fortificazione. Oltre alla grande galleria scoperta qualche giorno fa (quattro chilometri di lunghezza nel nord della striscia fra Jabalia e il valico di Erez con molte diramazioni, 50 metri di profondità, un’ampiezza tale da consentire il passaggio di un’automobile; per intenderci come il percorso della Linea B della metropolitana di Roma da Termini a Marconi), sono state scoperte numerose altre istallazioni. Nei giorni scorsi è stata esplorata la zona di Gaza City riservata agli uffici dei massimi dirigenti di Hamas; è venuto fuori che ogni edificio era dotato di pozzi con scale a chiocciola o a pioli, addirittura ascensori, che portavano nella rete sotterranea con numerose gallerie che collegavano fra loro i palazzi del potere e portava più in basso ai depositi d’armi, agli uffici e ai rifugi sotterranei. Vi erano porte blindate per rendere difficile la penetrazione, mine, apparati di comunicazione complessi, luoghi di comando e caserme sotterranee. L’esercito israeliano ha messo filmati con visite virtuali e mappe di queste istallazioni. Ma l’inventiva dei terroristi per produrre strumenti di morte è ricchissima. Sempre nei giorni scorsi si sono trovati camion, che avevano l’aria innocua di mezzi di trasporto commerciali, ma in realtà erano depositi di missili e lanciarazzi. L’obiettivo più recente delle azioni delle forze armate di Israele è Rafah, la città che sorge intorno al valico con l’Egitto. Essa non è stata ancora presa ma è sottoposta all’attacco con bombe che esplodono in profondità nel terreno, disabilitando almeno lo strato dei tunnel più vicino alla superficie. Nel frattempo si è sparsa la notizia per cui il capo terrorista di Gaza, Yahya Sinwar, sarebbe sfuggito ben due volte per pochissimo alle armi israeliane durante la sua fuga nelle gallerie.
• La risoluzione degli Emirati
Nel frattempo continua il lavoro diplomatico. C’è una risoluzione presentata all’Onu da un gruppo di paesi arabi capeggiati dagli Emirati che chiede la fine dell’offensiva israeliana, intorno a cui essi lavorano da giorni. Non si tratta qui più di una tregua umanitaria ma della chiusura totale dell’operazione. La risoluzione doveva essere votata lunedì, poi è stata rinviata diverse volte per evitare il veto americano e adesso si parla di un voto entro giovedì. Il lavoro diplomatico di Israele cerca di far sì che la resistenza americana a queste risoluzioni continui. Gli Emirati hanno anche minacciato di sospendere gli aiuti umanitari se i combattimenti non finiranno. Secondo i paradossi della politica mediorientale, gli Emirati arabi fanno parte degli “Accordi di Abramo”, sono in ottimi rapporti commerciali e perfino turistici con Israele, temono l’Iran che è il loro potente e arrogante dirimpettaio sul Golfo Persico, ma si sono dati un obiettivo politico - la sospensione dei bombardamenti - che coincide proprio con quel che pretende Hamas. Di fronte all’offerta israeliana di una settimana di tregua contro la liberazione di quaranta rapiti (una proposta che è al rialzo rispetto alla regola della tregua precedente, basata sull’equivalenza di dieci sequestrati per un giorno di sospensione dell’azione israeliana), c’è stato un rifiuto netto da parte dell’organizzazione terroristica che ha ribadito la precondizione della fine dell’operazione a Gaza per iniziare a discutere degli ostaggi. E dunque si continua a combattere. Netanyahu e Gantz, il ministro della Difesa Gallant, il capo di stato maggiore Halevi, hanno tutti dichiarato più volte negli ultimi giorni la determinazione di Israele a condurre l’operazione fino in fondo, chiaramente sostenuta dall’opinione pubblica.
• Una guerra dell’Iran
Per Israele è invece essenziale poter distruggere completamente Hamas, anche perché quella iniziata il 7 ottobre non è una semplice azione terrorista del gruppo, ma una tappa della guerra dell’Iran per la distruzione di Israele. La leadership militare iraniana vede le attuali operazioni di Hamas nella Striscia di Gaza come un preludio a una guerra a lungo termine mirata a distruggere Israele. Non si tratta di un’opinione, ma di dichiarazioni esplicite dei responsabili militari dell’Iran, come emerge ripetutamente dal monitoraggio che diverse organizzazioni, innanzitutto il meritorio sito MEMRI fanno dei media islamisti. Ad esempio il generale Hossein Salami, comandante delle guardie rivoluzionarie iraniana, che è il principale braccio armato del regime degli ayatollah, ha affermato nei giorni scorsi durante un incontro dei comandanti provinciali che la resistenza palestinese si sta esercitando e sta acquisendo l'esperienza necessaria nella "formula per distruggere Israele". Il ministro iraniano della Difesa e della Logistica delle forze armate, generale Mohammad Reza Gharaei Ashtiani, ha affermato il 18 novembre che i fallimenti dell'esercito e dell'intelligence israeliani dal 7 ottobre forniscono lezioni per le future azioni contro lo stato ebraico. I comandanti delle guardia rivoluzionarie avevano già presentato l'operazione di Hamas come un preludio a futuri attacchi contro Israele. In un’intervista del 15 ottobre, l’ex comandante delle guardie, il generale Mohammad Ali Jafari, ha descritto l’attacco come un “allenamento” per preparare e addestrare le future operazioni contro Israele. Salami aveva precedentemente delineato quella che vedeva come la formula per distruggere Israele durante un’intervista nell’agosto 2022. Salami ha sostenuto che gli Hezbollah libanesi e le milizie palestinesi devono effettuare più operazioni di terra e combattimenti urbani all'interno di Israele che destabilizzerebbero Israele e generare sfollamenti interni che porteranno al collasso di Israele. Insomma, la partita non è contro un gruppo terroristico relativamente isolato, ma contro uno schieramento che vede in quel che sta succedendo una battaglia di una guerra che continuerà. Se questa battaglia non fosse vinta completamente, altre ne seguirebbero presto, soprattutto usando le forze di Hezbollah, che restano in attesa.
(Shalom, 21 dicembre 2023)
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I ragazzi di TikTok combattono come leoni!
Saluto la più giovane generazione del popolo! Devo proprio dirlo
di Aviel Schneider
Sono entusiasta della nostra giovane generazione che da 75 giorni difende il nostro Paese e la nostra esistenza. Giovani coraggiosi, ragazzi e ragazze, che il 7 ottobre sono andati in guerra alla velocità della luce e senza esitazione, lasciandosi tutto alle spalle - compresi i loro telefoni cellulari e iPhone. Una generazione che tutti pensavamo non potesse vivere senza i propri cellulari e smartphone. Una generazione TikTok o dello schermo, che abbiamo spesso etichettato come smidollata, che vive più che altro in una realtà e in un mondo virtuali. Con gli occhi e le dita solo sullo schermo. Non c'è niente che li tenga lontani dai video, dalle immagini e dalle notizie sullo schermo, il mondo intorno a loro può anche esplodere, ma la loro testa è china. Certo, la giovane Generazione Z ha contagiato anche la vecchia generazione. Ma ora, giù le mani dal joystick e prendete la pistola.
Dopo lo Shabbat nero, i giovani israeliani cresciuti con uno smartphone in mano stanno dimostrando di essere molto più capaci di quanto si pensasse inizialmente. Hanno capito subito la necessità del momento e hanno messo da parte i loro cellulari. Questa è la Generazione Z, dove tutto accade rapidamente, come sui social network e sui media. Sono eroi, coraggiosi e in azione con uno spirito combattivo invidiabile, non meno della generazione di combattenti dei primi anni pionieristici dello Stato. La barbara invasione del sud, la guerra e l'intera situazione in cui Israele sta lottando per la propria esistenza e sopravvivenza hanno scosso tutti loro.
È impossibile raccontare tutte le storie eroiche dei combattimenti a Gaza, della loro determinazione e spinta a sparare ai terroristi in scontri a fuoco diretti fino alla gloriosa vittoria. Questi sono i nostri ragazzi di TikTok e una generazione che spesso abbiamo considerato come bambini digitali che erano i più grandi combattenti elettronici nei giochi per computer. Chi di noi non ha mai sentito parlare di "World of Warcraft" o "Call of Duty"? Non con un joystick in mano, però, ma con un fucile e proiettili veri. Ora sono nella realtà e questo entusiasma me e molti altri padri intorno a me. Ora questi bambini sono schierati su tutti i confini di Israele, non solo nella Striscia di Gaza, ma anche nel nord di Israele, al confine con il Libano, sulle alture del Golan, in mare e in aria. Stanno combattendo in quella che probabilmente è la peggiore guerra dalla fondazione dello Stato di Israele, 75 anni fa. E non si lamentano.
Chi aveva anche la minima preoccupazione sulla prossima generazione, in cui tutto ruota intorno allo schermo e a TikTok, si sbagliava. La giovane generazione è la nostra speranza: la giovane generazione si preoccupa del Paese, delle proprie famiglie e dei propri cari. La giovane generazione spesso si preoccupa più dell'entroterra e dei propri cari che di se stessa sul campo di battaglia. Quale che sia la motivazione che muove il popolo, davanti al servizio militare i giovani ora vogliono servire nelle unità di combattimento più dure, come si faceva una volta, invece che nelle unità informatiche climatizzate e digitali di Tel Aviv. Quando parlo con i giovani, sento da tutti le stesse frasi, solo con parole diverse, anche dai miei figli. La vita assume un significato e delle proporzioni nuove. Ho incontrato giovani molto motivati. Persone che amano così tanto il loro popolo e il loro Paese da essere disposti a sacrificare la propria vita per esso. Cose e pensieri che fino al 7 ottobre erano semplicemente irrilevanti. Una generazione di giovani nati tra il 1995 e il 2010. Segue la Generazione Y (nota anche come millennial), è la prima generazione cresciuta con gli smartphone e sta combattendo nella Striscia di Gaza e nel nord di Israele.
Il testamento di un giovane israeliano mostra l'amore e la responsabilità per questo Paese. Ben Sussman (22 anni) - generazione TikTok - è caduto a Gaza e le sue parole hanno commosso l'intera nazione:
«Sto scrivendo questa lettera mentre sono in viaggio verso la base. Se state leggendo questa lettera, deve essermi successo qualcosa. Sono felice e grato per il privilegio di difendere la nostra bella terra e il nostro bel popolo di Israele. Se mi dovesse succedere qualcosa, vi proibisco di piangere. Ho avuto il privilegio di realizzare il mio sogno e il mio destino.
Potete essere certi che vi guarderò dall'alto con un ampio sorriso. Probabilmente mi siederò accanto al nonno per recuperare quello che ci siamo persi. Ognuno di noi parlerà di ciò che ha vissuto e di ciò che è cambiato tra le due guerre. Forse parleremo anche un po' di politica.
Se, Dio non voglia, siete seduti alla shiva (la settimana di lutto), trasformate la settimana in divertimento e gioia con amici e familiari. Vi invidio, ragazzi. Vorrei potermi sedere lì con voi. E ancora qualcosa. Se, Dio non voglia, sarò fatto prigioniero, vivo o morto, non permetterò che un solo soldato venga danneggiato a causa di qualsiasi trattativa per il mio rilascio. Proibisco di fare campagne, combattere battaglie o cose del genere. Non accetto che siano rilasciati terroristi per il mio bene, in nessuna forma. Non fraintendete le mie parole. Lo ripeto ancora una volta. Ho lasciato questa casa senza nemmeno essere chiamato per il servizio di riserva.
Sono pieno di orgoglio e di determinazione, e ho sempre detto che se dovessi morire, preferirei morire per difendere altre persone e lo Stato. Possa il mio nome non essere mai dimenticato».
Sono innamorato delle giovani generazioni e ripongo in loro tutte le mie speranze di ottenere una leadership migliore per questo Paese. Non solo, voglio incoraggiare tutti i genitori dei bambini di TikTok e dire loro che avete dei figli fantastici e che i vostri figli e le vostre figlie vi sorprenderanno tutti nei momenti di bisogno come quello che stiamo vivendo ora nel Paese. Dopo tutto, siamo tutti fatti a Sua immagine e somiglianza. Anche se i nostri figli non crescono come siamo cresciuti noi e come vorremmo, anche loro sono fatti a immagine di Dio e hanno talenti e doni che spesso scopriamo solo più tardi o nei momenti di bisogno. I nostri bambini TikTok combattono come leoni - e che leoni! I leoni di Giuda!
"Ecco, il popolo si alzerà come una leonessa e si ergerà come un leone" (Numeri 23:24).
(Israel Heute, 21 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Guerra Israele–Hezbollah: significativa escalation
Hezbollah ha lanciato razzi contro Kiryat Shmona e altre città del nord poco dopo la mezzanotte di mercoledì, dopo una giornata che ha visto una significativa escalation di attacchi transfrontalieri tra Israele e l’organizzazione terroristica libanese. Il gruppo sostenuto dall’Iran ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di aver lanciato razzi Katyusha contro Kiryat Shmona in risposta ai continui attacchi di Israele contro villaggi e case civili, giurando di non permettere che i civili vengano danneggiati o che le comunità libanesi diventino terra di nessuno. Le Forze di Difesa Israeliane non hanno rilasciato dichiarazioni immediate sul lancio dei razzi. Il Comune di Kiryat Shmona ha dichiarato che la salva comprendeva almeno otto razzi, due dei quali sono atterrati in città, causando danni alle infrastrutture, alle case, a una scuola materna e alle automobili. Non sono stati segnalati feriti. Il comune ha dichiarato che gli altri cinque proiettili sono stati intercettati, mentre un razzo è caduto in un’area aperta. L’attacco missilistico di Hezbollah è avvenuto dopo che gli aerei da guerra israeliani hanno condotto attacchi aerei in profondità nel Libano nella tarda serata di mercoledì, colpendo un’area boschiva vicino alla città di Bouslaya, a più di 20 chilometri dal confine. Un annuncio dell’IDF ha detto che i jet da combattimento hanno colpito un centro di comando di Hezbollah nel sud del Libano in risposta ai ripetuti attacchi al confine. Nel frattempo, quattro razzi sono stati lanciati dalla Siria verso le alture del Golan, facendo scattare le sirene a Mas’ade e Ein Quiniyye. L’IDF ha dichiarato di aver bombardato la fonte del fuoco e di aver preso di mira una posizione dell’esercito siriano come risposta. Le truppe hanno anche aperto il fuoco contro alcuni agenti terroristici che si sono avvicinati al confine con il Libano, vicino a Metula, ha detto l’IDF. In precedenza, l’esercito ha dichiarato di aver effettuato un’ondata di attacchi contro siti di Hezbollah. Gli obiettivi comprendevano edifici militari, siti di lancio di razzi, un centro di comando e un deposito di armi appartenenti al gruppo terroristico. L’IDF ha dichiarato che carri armati e artiglieria hanno anche bombardato aree lungo il confine con il Libano per “rimuovere le minacce”. Inoltre, le sirene hanno suonato nel nord di Israele dopo che due missili terra-aria sono stati lanciati dal Libano contro un aereo israeliano. L’IDF ha dichiarato che l’aereo non è stato colpito nell’attacco. Durante l’attacco sono stati lanciati diversi razzi contro Israele e l’IDF ha utilizzato un missile intercettore. In mattinata, l’IDF ha effettuato attacchi preventivi contro obiettivi di Hezbollah, che secondo l’esercito comprendevano siti militari dove operavano i membri del gruppo terroristico e altre infrastrutture. È raro che Israele colpisca per primo negli scontri in corso con Hezbollah, anche se non è inedito. Sempre mercoledì, la National News Agency libanese ha riferito che un cecchino israeliano ha sparato e ucciso un uomo nella sua auto vicino alla città libanese di confine di Kfar Kila. Hezbollah, che normalmente annuncia la morte dei suoi combattenti, non ha rivendicato l’uomo come suo membro. Il gruppo ha poi annunciato che un suo combattente è stato ucciso in un attacco israeliano contro una casa nella città di Markaba, mercoledì sera. Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Herzi Halevi, ha dichiarato mercoledì che Israele “non tornerà alla situazione precedente” al confine e garantirà “un’altra condizione, molto più sicura” per i residenti delle comunità di confine. “Comunque vadano le cose, ci sarà molto da fare qui nel prossimo anno”, ha dichiarato. Israele ha avvertito che se la comunità internazionale non allontanerà le forze di Hezbollah dal confine con mezzi diplomatici, entrerà in azione. Negli ultimi giorni, funzionari degli Stati Uniti e della Francia in visita nella regione hanno cercato di evitare un’escalation sul fronte libanese. Israele ha dichiarato che non tollererà più la presenza di Hezbollah lungo la frontiera settentrionale dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre, in cui migliaia di terroristi hanno fatto irruzione in Israele da Gaza, uccidendo circa 1.200 persone e sequestrandone oltre 240, per lo più civili. Da quella data, le forze guidate da Hezbollah hanno attaccato quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, affermando di farlo per sostenere Gaza durante la guerra. Finora, le scaramucce al confine hanno provocato quattro morti civili da parte israeliana e la morte di sette soldati dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi missilistici dalla Siria, senza alcun ferito. Da parte libanese, le vittime sono state più di 130, secondo il bilancio dell’AFP. Il bilancio comprende almeno 110 membri di Hezbollah – alcuni dei quali sono stati uccisi in Siria – 16 operatori terroristici palestinesi, un soldato libanese e almeno 17 civili, tre dei quali erano giornalisti.
(Rights Reporter, 21 dicembre 2023)
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Aiuto pratico dalla Germania
Un gruppo va in Israele dalla Germania all'inizio di dicembre. I cristiani vogliono esprimere la loro solidarietà con lo Stato ebraico. Questo si manifesta anche in modo molto pratico.
di Merle Hofer
Per una settimana 21 cristiani tedeschi si sono recati in Israele per dimostrare che sono al fianco di Israele. Hanno visitato una scuola a Gerusalemme dove imparano bambini evacuati dal sud di Israele. "La visita all'asilo e alla scuola è stata fantastica", dice Kathrin Schmolz. "Sono rimasta colpita da quanto fossero bravi gli insegnanti con i bambini, ma le storie che hanno raccontato sono state dure da sopportare". I partecipanti sono stati colpiti anche dalla visita alla "Piazza degli ostaggi" di Tel Aviv, dove hanno parlato con i parenti dei rapiti.
E’ stata Werner Hartstock ad avere l'idea del viaggio. Membro degli Amici sassoni di Israele, gestisce da 26 anni un'agenzia di viaggi in Sassonia. "Avevo programmato un viaggio illustrativo per mostrare alla gente com'è veramente Israele". Il viaggio è stato annullato a causa della guerra.
"Ma non riuscivo sopportare la situazione rimanendo a casa", dice. "Ho parlato con il mio partner israeliano Keshet e abbiamo organizzato il viaggio. Non senza una certa dose di brontolii allo stomaco. Ma quando sono arrivate le prime iscrizioni, non c'è stato più alcun dubbio: andiamo in Israele".
Anche Pascal Scheidegger di Keshet è entusiasta: "Il viaggio è stato esaurito 24 ore dopo la sua pubblicizzazione. È stato incredibile!". I suoi superiori sono stati arruolati nell'esercito come riservisti, e lo svizzero è ora in gran parte responsabile della pianificazione e dell'organizzazione del viaggio da solo. Il viaggio è stato organizzato con il titolo "Mai più è ora".
Una partecipante ha stampato grandi foto che ritraggono lei e alcuni amici con grandi cartelli: "Siamo dalla parte di Israele". Li regala quando incontra persone nel Paese. Gli israeliani accettano volentieri questo cartello.
• AIUTO NELL'AGRICOLTURA
Per due giorni il gruppo si è recato a Pri Gan. Lì, la famiglia Rosental coltiva frutta e verdura su 100 ettari. "Dei 100 lavoratori che abbiamo normalmente", racconta il figlio Or, "ne sono rimasti solo 24 al momento. I lavoratori dall'estero sono tornati a casa, quelli del posto prestano servizio nell'esercito. È difficile far fronte a tutto il lavoro".
Per questo motivo vengono volontari da tutto il Paese per aiutare a coltivare. Bisogna raccogliere avocado e agrumi. Ci sono aziende che organizzano un giorno alla settimana per i loro dipendenti affinché possano aiutare nel sud del Paese
Il gruppo tedesco si dedica alla potatura delle piante di pomodoro in un'enorme serra della famiglia Rosental. Sono fornite loro delle forbici e le piante devono essere potate dall'altezza degli occhi fino a terra. Sono forniti anche guanti in lattice; alcuni hanno portato i loro guanti da giardinaggio da casa. Dopo due giorni, solo un terzo della tenda è stato completato.
Una partecipante riferisce: "È davvero assurdo che io partecipi a questo progetto. Ho forti dolori alla schiena e non posso fare questo tipo di lavoro a lungo. Ma io stessa provengo da un ambiente agricolo e quando vedo quanto lavoro c'è qui", indica le grandi serre, "devo andare avanti. È importante essere al fianco di Israele. Soprattutto ora".
Pri Gan è un piccolo kibbutz a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza. In passato i razzi non erano rari, ma dal 7 ottobre tutto è cambiato. "Tutti gli abitanti di Pri Gan sono stati evacuati a Eilat", dice Or. Solo quelli che sono assolutamente necessari per il lavoro sono ancora qui.
In sottofondo si sentono gli elicotteri militari e gli attacchi dell'esercito israeliano a Gaza. I media israeliani lo descrivono come un miracolo: quando sono iniziati gli attacchi, i membri della squadra di sicurezza del vicino villaggio di Schlomit hanno lasciato le loro famiglie per respingere i terroristi a Pri Gan. Il villaggio è stato ampiamente protetto, ma i vicini hanno pagato un prezzo alto: tre guardie di sicurezza di Schlomit sono state uccise dai terroristi.
• RAZZI E GENERI DI CONFORTO
Il primo giorno, il gruppo sta per tornando a Gerusalemme quando sente l'allarme di un razzo. I visitatori si trovano in un vasto campo, troppo tardi per cercare un posto al riparo. In aria si può può vedere il noto sistema di allarme Iron Dome che intercetta il razzo a mezz'aria.
Il secondo giorno sentono anche un allarme: una voce annuncia "Zeva Adom, allarme rosso" due volte all'altoparlante. La guida turistica chiama con calma attraverso la tenda: "Per favore, sdraiatevi tutti a terra!". Gli impatti non tardano ad arrivare. Anche in questo caso, la cupola di ferro viene utilizzata due volte.
La guida turistica chiede ai partecipanti di rimanere in piedi per qualche minuto accanto a un pilastro della tenda. Solo pochi giorni fa a Tel Aviv, un residuo di razzo è caduto a terra accanto ai passanti pochi minuti dopo l'attacco.
Grazie al contatto di un partecipante, il gruppo visita spontaneamente il magazzino logistico di una base militare. Lì, i partecipanti possono vedere come i giovani soldati coordinano le operazioni dei loro commilitoni nella Striscia di Gaza su piccoli computer e schermi enormi. Alla fine della visita, gli israeliani ricevono una grande scatola di calzini fatti in casa, cioccolata e cola.
• PER AMORE DEL PAESE E DEL SUO POPOLO
Angelika Preneux di Oelde, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, è già stata in Israele 14 volte. "Mio marito Henry è stato 15 volte. Abbiamo anche partecipato al viaggio di solidarietà del 2014. Per il prezzo che abbiamo pagato per questa settimana, avremmo potuto rimanere in Corsica per diverse settimane. Ma abbiamo imparato ad amare la gente di qui. E siamo rimasti sconvolti da quanto è successo il 7 ottobre. Il mondo è in silenzio. Vogliamo dimostrare che siamo al fianco di Israele".
Sono sposati da quasi 54 anni. Era ovvio che avrebbero volato insieme. Nonostante il rischio che nessuna assicurazione li avrebbe coperti in caso di annullamento del viaggio.
A 71 e 75 anni, sono i partecipanti più anziani del viaggio. A casa, nella loro chiesa, hanno un gruppo di preghiera per Israele. "Si è ridotto un po' a causa dell'età".
Henry è sicuro: "C'è molto da rivedere nel cristianesimo. Sono piuttosto deluso dal silenzio dei cristiani. Nel corso degli anni ho imparato molto dalle conferenze e mi sono informato. Vorrei trasmettere quello che ho imparato. Penso che la gente qui possa vedere che è” col cuore che siamo qui. E poi aggiunge: "Dio non si fa mai trovare in debito. Quando benediciamo Israele, Lui ci benedice".
(Israelnetz, 20 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele insegue Deif, l’imprendibile capo militare di Hamas
Almeno sette volte il leader delle Brigate al Qassam è sopravvissuto agli attacchi condotti dall’aviazione dello Stato ebraico ma ogni volta è sopravvissuto
di Guido Olimpio
Non è per caso che Mohammed Deif sia soprannominato l’ombra. Israele lo insegue, prova ad eliminarlo, a volte lo «sfiora» ma il capo militare di Hamas resiste nella clandestinità. Inseguito da altre «ombre»: le voci incontrollabili, le notizie imperfette, le false informazioni.
L’esercito ha ottenuto video recenti dove il leader delle Brigate al Qassam appare in buone condizioni. Zoppica leggermente, tuttavia non sembra aver subito mutilazioni o menomazioni fisiche importanti. In passato è stato detto che fosse rimasto semiparalizzato, poi che aveva perso una gamba ed un braccio in seguito a raid israeliani. Invece i filmati – rivelati dal giornalista Ben Caspit – raccontano altro. Fonti militari hanno commentato lo scoop sostenendo di non essere sorprese: sapevano che lo stratega del movimento era in ottima salute.
Il miliziano è stato preso di mira nel corso degli anni da numerosi strike, attacchi condotti dall’aviazione israeliana in base ad informazioni dell’intelligence. Almeno sette gli episodi - raccontano i media -, azioni che però non hanno neutralizzato il grande ricercato. Ogni volta le ricostruzioni aggiungevano dettagli su ferimenti (presunti) subiti dal comandante. Ed hanno anche ipotizzato che sia stato curato all’estero per poi rientrare a Gaza attraverso un tunnel sotto il confine con l’Egitto. Particolari difficili da confermare, dettagli che hanno contribuito ad elevarne il prestigio.
La realtà parla per Deif: dalla metà degli anni ’90 è un protagonista del braccio armato della fazione, ha migliorato la qualità dei «Battaglioni», ha creato il sistema di difesa sviluppato sui tunnel, ha messo a punto la logistica in grado di produrre armi nella Striscia. Dai razzi ai controcarro. Infine, ha coordinato l’assalto del 7 ottobre, preparato per un lungo periodo senza che il nemico capisse (o volesse farlo) la minaccia incombente.
Deif, sulla cui testa c’è una taglia di centomila dollari, potrebbe essere nascosto nella zona di Khan Younis, nella zona sud. E forse non è troppo lontano neppure Yahya Sinwar, la guida politica di Hamas. L’emittente Canale 13 ha sostenuto che sarebbe riuscito a sottrarsi alla cattura almeno due volte usando la rete di gallerie creata nel grande campo profughi. Per Gerusalemme la decapitazione della gerarchia nemica è uno degli obiettivi primari, per ragioni belliche e di propaganda. Anche se molti sono consapevoli che l’eliminazione dei dirigenti spesso ha un impatto limitato su organizzazioni radicate.
Gli ultimi rapporti dal «fronte» hanno rivelato come Hamas e Jihad abbiamo preparato nuclei capaci di combattere in modo separato o autonomo. Nel settore settentrionale i reparti palestinesi hanno patito perdite, molti gli ufficiali uccisi; tuttavia, i mujaheddin hanno continuato nella campagna di logoramento affidata a piccoli team con lanciatori RPG, granate, ordigni. Circa 130 i soldati israeliani caduti nei combattimenti.
(Corriere della Sera, 20 dicembre 2023)
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America ebraica, la situazione è critica con allarmi bomba in centinaia di sinagoghe
di Roberto Zadik
Aumenta la preoccupazione fra gli ebrei americani per gli allarmi e il rischio attentati a sinagoghe e istituzioni.
Stando ai media statunitensi, dopo la raffica di manifestazioni antisraeliane, ora arriva una cupa spirale di minacce che sta seminando panico e sconforto in molte comunità ebraiche statunitensi. Secondo quanto riporta il Jewish Telegraphic Agency, in un articolo firmato dalla giornalista Phylissa Cramer uscito lunedì 17 dicembre, fra sabato e domenica i luoghi ebraici americani di 17 Stati sarebbero stati “bersagliati” da circa centonovantanove minacce, delle quali cento nello Stato della California e sessantadue in Arizona.
Per smorzare i toni ed allentare la tensione, l’articolo però specifica che le investigazioni locali smentiscono l’effettiva pericolosità delle intimidazioni ricevute. Nonostante le rassicurazioni ricevute dalla polizia, a causa di questi attacchi per ora verbali, la paura ha spinto, durante la funzione sabbatica del mattino, i frequentatori della sinagoga di Boulder in Colorado a scappare durante la preghiera.
Oltre a questo episodio anche una congregazione ebraica, nel Massachusset, ha cancellato le lezioni scolastiche la domenica mattina. Il peggio però, stando a quanto diffuso dal testo, è accaduto in Alabama; a raccontarlo è stato un tweet del legislatore ebreo Philip Ensler che ha postato un video, sulla sua pagina web, che mostrava le persone in fuga durante un momento solenne della preghiera sabbatica come la lettura della Torah.
“Prego che venga il giorno” ha commentato Ensler “in cui nel giorno del riposo possiamo pregare e vivere in pace”.
Il legislatore che, fra i suoi incarichi, ricopre anche il ruolo di direttore esecutivo della Federazione Centrale Ebraica dell’Alabama, ha affermato che sei delle sette istituzioni ebraiche presenti nella sua area sarebbero state oggetto di minacce antisemite. Questo crescendo di attacchi, stando all’articolo del JTA, avrebbe scatenato il panico fra gli ebrei statunitensi in questi due tormentati mesi dal massacro dello scorso 7 ottobre in Israele.
Oltre a ciò i media americani testimoniano che le autorità Usa hanno arrestato una serie di persone accusate di aver partecipato a queste ingiurie e minacce; fra questi ci sarebbero un minorenne in California, settimana scorsa, ed un cittadino peruviano lo scorso mese di settembre. Purtroppo i provvedimenti adottati dai vari Stati non sembrano avere la dovuta efficacia e il JTA specifica che le minacce sarebbero iniziate dalle grandi feste ebraiche autunnali e non certo da ora.
Preoccupata anche la Federazione ebraica del New Jersey che ha affermato che “purtroppo abbiamo buone ragioni per credere che questa tendenza negativa continuerà nei mesi che verranno”. La frase è parte di una dichiarazione uscita domenica pomeriggio a ridosso delle cinque minacce ricevute da ignoti anche in questo Stato.
(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2023)
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La coalizione contro gli Houti
di Ugo Volli
• “Prosperity guardian”
.La notizia più importante della giornata è la costituzione di una coalizione di 19 stati per far fronte al terrorismo navale degli Houti, finanziati ed armati dall’Iran, i quali dalle loro basi nello Yemen, che dominano lo stretto di Bab el Mended, bloccano la navigazione fra Mar Rosso e Golfo di Aden, cioè chiudono l’accesso al canale di Suez. Si tratta probabilmente dell’arteria marittima più importante del mondo, perché mette in comunicazione le merci dell’Estremo Oriente (India, Cina, Giappone, Vietnam) e il petrolio del Golfo Persico coi mercati del Mediterraneo (l’Europa meridionale inclusa l’Italia) e di qui attraverso lo stretto di Gibilterra con l’Europa settentrionale e la costa orientale degli Stati Uniti, cioè la zona più prospera del pianeta. Ieri sette fra le maggiori compagnie di navigazione internazionale avevano annunciato di aver sospeso la navigazione attraverso Suez e di aver deciso di far passare le loro navi oltre il capo di Buona Speranza, la punta meridionale dell’Africa. È un giro che aumenta il percorso verso il Mediterraneo di due settimane, con i ritardi e i costi conseguenti. Col pretesto di attaccare Israele, il blocco dunque costituisce una perdita economica importante per l’Europa, ma minaccia anche la rovina dell’Egitto per cui i ricavi del pedaggio di Suez è una posta fondamentale di bilancio. La coalizione americana è denominata “Prosperity guardian”, ne farà parte anche l’Italia, che ha messo a disposizione una corvetta avanzata, insieme a USA, Regno Unito, Spagna, Bahrain, Canada, Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Seychelles e altri paesi arabi che hanno scelto di non essere esplicitamente citati, per un totale di 19 stati. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler “lasciare un’ultima chance alla diplomazia” prima di colpire gli Houti, ma hanno già spostato il gruppo navale che stava nel Golfo Persico a 120 chilometri dal porto yemenita Aden, con una portaerei che dunque è a distanza ideale di tiro dalle posizioni yemenite. Anche Israele ha navi militari avanzate nel Mar Rosso (alcune corvette e probabilmente un sottomarino portamissili), ma come sempre in questi casi la sua azione non è dichiarata.
• L’incidente alla parrocchia cattolica di Gaza
Ci sono novità anche sulla vicenda non ancora chiara delle due donne perite nella parrocchia cattolica a Shejaya, nella città di Gaza. Ieri l'esercito israeliano ha concluso un primo esame dell’incidente. Come abbiamo riferito ieri, il Patriarcato latino di Gerusalemme aveva accusato le forze armate israeliane dell'incidente, sostenendo che i suoi cecchini avessero ucciso due donne, una madre e una figlia, mentre erano all'interno della chiesa e ferito una decina di altre persone, sparando loro “a sangue freddo e senza preavviso” all'interno dei locali della chiesa. L’esercito ha affermato in una dichiarazione che la sua analisi “ha rilevato che il 17 dicembre, nel primo pomeriggio, i terroristi di Hamas hanno lanciato una granata a razzo (RPG) contro i soldati dalle vicinanze della chiesa. Le truppe hanno poi identificato tre persone nelle vicinanze, che operavano come osservatori per Hamas guidando i loro attacchi in direzione dei militari. In risposta, le nostre truppe hanno sparato verso gli osservatori. Anche se questo incidente è avvenuto nell’area in cui le due donne sarebbero state uccise, i rapporti ricevuti [su queste morti] non corrispondono alla conclusione della nostra analisi iniziale che ha rilevato che le truppe stavano prendendo di mira vedette nemiche. Stiamo continuando il nostro esame dell'incidente". Ha aggiunto la nota: “L’esercito israeliano prende molto sul serio le rivendicazioni di attacchi su siti sensibili, in particolare chiese che sono luoghi santi per la fede cristiana. Israele dirige le sue operazioni contro l’organizzazione terroristica Hamas e non contro i civili, indipendentemente dalla loro affiliazione religiosa. Le forze armate adottano molte misure per mitigare i danni ai civili nella Striscia di Gaza. Questi sforzi sono in contrasto con Hamas che fa tutto ciò che è in suo potere per mettere in pericolo i civili e li sfrutta, così come i siti religiosi, come scudi umani per le loro attività terroristiche.”
• Riparte la trattativa per la liberazione dei rapiti?
Infine vi sono sviluppi non chiari nella questione di una possibile trattativa fra Israele e Hamas per la liberazione dei rapiti. Fonti di stampa dicono che vi è un’offerta israeliana di due settimane di tregua per dar modo a Hamas di raccogliere tutti i sequestrati (giacché il gruppo terrorista afferma che si siano dispersi fra vari gruppi e in luoghi diversi) e liberarli. La trattativa si svolge questa volta in Egitto, dove dovrebbe arrivare oggi il capo di Hamas in esilio Ismāʿīl Haniyeh, che vive normalmente a Doha, in Qatar e già sono presenti il direttore del Mossad, David Barnea e i servizi segreti americani. Ci sono forti pressioni internazionale per questa tregua e sarà difficile dopo di essa per Israele riprendere l’operazione antiterroristica. Dunque in teoria essa è molto favorevole a Hamas, che ha subito pesanti sconfitte sul terreno, non è mai riuscito a bloccare l’avanzata israeliana, ha subito la dissoluzione di alcune delle sue formazioni e rischia in ogni momento di perdere i suoi dirigenti interni Mohammed Deif e Yahya Sinwar. Ma prima di partire Haniyeh ha dichiarato di nuovo che la fine totale dell’”aggressione israeliana a Gaza” non è neppure il prezzo per il riscatto dei rapiti, ma solo la precondizione per l’apertura delle trattative. Poi si discuterà dell’entità di uno scambio fra i rapiti e i terroristi detenuti in Israele, che Hamas vorrebbe liberare tutti. Sarebbe una vittoria straordinaria per Hamas, che ne rilancerebbe la popolarità e l’azione terroristica. Ma anche in Israele c’è chi vorrebbe una soluzione di questo tipo: non solo alcune famiglie dei rapiti (e questo è comprensibile), ma i politici arabi e l’estrema sinistra. Vedremo nei prossimi giorni come si svilupperà questo negoziato e come esso si intreccerà con le tensioni politiche che si sono riaperte in Israele.
(Shalom, 20 dicembre 2023)
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Il direttore di un ospedale di Gaza ammette: “Hamas lo usa come struttura militare”
Il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Gaza a Jabaliya ha rivelato in un interrogatorio allo Shin Bet che il suo ospedale nel nord di Gaza è stato trasformato in una struttura militare sotto il controllo di Hamas e che a un certo punto aveva ospitato un soldato rapito. Nei filmati pubblicati martedì dallo Shin Bet e dalle Forze di difesa israeliane, si vede il direttore dell’ospedale Ahmed Kahlot dire a un interrogatore israeliano che Hamas ha uffici all’interno dell’ospedale e lo usa come base per attività operative.
“Sono stato reclutato in Hamas nel 2010 con il grado di generale di brigata – racconta nell’interrogatorio -. Nell’ospedale ci sono dipendenti che sono agenti militari delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam: medici, infermieri, paramedici, impiegati e membri dello staff״.
Durante l’interrogatorio Kahalot descrive come Hamas utilizza gli ospedali per scopi militari, nascondendo i suoi agenti, svolgendo attività militare, spostando i membri di Hamas e persino portando un soldato catturato in ospedale.
“Si nascondono negli ospedali perché per loro l’ospedale è un luogo sicuro. Non verranno presi di mira quando sono dentro un ospedale”.
“Conosco 16 dipendenti dell’ospedale – continua -: medici, infermieri, paramedici o impiegati… che ricoprono anche posizioni diverse ad al-Qassam”.
Kahalot descrive poi l’organizzazione di Hamas all’interno dell’ospedale. “Ci sono uffici dove si trovavano il leader di Hamas e due alti funzionari. C’è un posto dove si trovava il soldato (il soldato rapito). C’è un posto per gli interrogatori, per la sicurezza interna e per la sicurezza speciale. Tutti hanno un telefono privato linee all’interno dell’ospedale”.
“Loro [Hamas] hanno un’ambulanza privata, anche il colore e il modo in cui è dipinta sono diversi, e non ha targa. L’hanno usata per trasportare il soldato [rapito] e trasportare i corpi… Non ci ha aiutato a trasportare i feriti. Li ho pregati di portare qualcuno all’ospedale indonesiano, di portarlo allo Shifa [ospedale], ma hanno rifiutato. La loro missione è più importante”.
Infine, il giudizio più forte. “I leader di Hamas sono codardi. Ci hanno lasciato sul campo mentre si nascondevano in luoghi segreti… Ci hanno distrutti”.
Il 12 dicembre, il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha affermato che le forze israeliane erano entrate nell’ospedale Kamal Adwan, cosa che l’IDF ha successivamente confermato. Nel corso di diversi giorni, le truppe hanno arrestato circa 90 agenti all’interno dell’ospedale e sequestrato numerose armi.
Secondo una dichiarazione congiunta dello Shin Bet e dell’IDF sull’operazione, alcune delle persone catturate nell’ospedale avevano partecipato ai massacri del 7 ottobre.
(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2023)
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Qui una base dei terroristi. Covi, armi, 100 miliziani e un’ambulanza dedicata"
Kahlot gestiva il presidio medico Adwan di Jabalya. Nella deposizione racconta: «Qui non vengono colpiti». I 16 incarichi fasulli occupati dai jihadisti «Sono codardi. Scappano e ci lasciano sul campo».
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Orrore segue orrore quando si parla di Hamas. Quando per esempio la Cnn intervista il direttore di un ospedale, ne ricava notizie inequivocabili che in genere creano un’ondata di rabbia a senso unico: parlano dei morti e feriti che la guerra provoca ed è sempre colpa dell’esercito israeliano. Ogni vita, ogni ferito è una tragedia: ma chi ne racconta? È diverso se d’un tratto si capisce che il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Jabalya è anche un generale di Izzadin al Kassam, l’ala più feroce di Hamas. Si chiama Ahmed Hassan Kahlot, nel suo ospedale erano stati arrestati 90 terroristi operativi, dice Tsahal, fra cui diversi hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre, e la loro cattura è avvenuta fra armi automatiche, lanciagranate, ordigni esplosivi tutto nascosto dentro l’ospedale.
Dalla deposizione di Kahlot, un uomo non giovanissimo, concentrato e diretto, esce il ritratto più vero di Hamasland, un piccolo stato nazificato dove non c’è istituzione, anche quella per definizione più umanitaria, che non sia una sentina di crudeltà e paura. Kahlot racconta di far parte di Hamas dal 2010, di esserne un alto grado militare. Gli ufficiali di Hamas si servono del suo ospedale per nascondersi e preparare azioni; se si nascondono, hanno là delle stanze che usano per una decina di giorni, e poi cambiano nascondiglio: «L’ospedale è un posto sicuro, qui non li colpiscono»; ultimamente, dice, ci sono stati fino a cento armati fissi dentro l’ospedale. In genere hanno ruoli fasulli fra i dottori, i paramedici, i portantini, ne ha contati 16. Hamas è ovunque, ha uffici, depositi, stanze di emergenza interna e speciale, linee telefoniche proprie. Vi stazionano due comandanti importanti, Majdi Abu Amcha e Majud Al Masri, un volto militare e anche politico dell’organizzazione.
I terroristi dispongono di ambulanze private, testimonia Kahlot, senza numero e con colori speciali, le usano per sé, e adesso per spostare un soldato rapito, e cadaveri. Kahlot ha chiesto di usare le auto per trasportare feriti, ma la risposta è stata «no». Perché? «Avevano cose più importanti di aiutarci portare i feriti». Alla fine Kahlot definisce «codardi» i suoi capi: è sincero, o cerca la simpatia degli israeliani? «Loro scappano, si nascondono, ci hanno lasciato sul campo, noi paghiamo il prezzo». È un pensiero diffuso: lo è fra la gente affamata che assalta i camion di aiuti, fra chi prende la strada del Sud quando gli israeliani avvertono di andarsene e Hamas li trattiene.
Insomma, Hamas semina una storia repellente: l’ospedale trasformato in base per terroristi, i malati in scudi umani, gli armati travestiti da medici; le bambole che piangono in ebraico per chiedere aiuto e poi esplodere sui soldati; le donne con le cinture di tritolo; un uomo di 74 anni che è saltato per aria mentre andava verso i soldati; le mitragliatrici e il tritolo nella camera dei bambini, le moschee, le scuole dell’Unrwa, le case come coperture di gallerie buie e lerce per nascondersi, per scappare, per ficcarci i disperati ostaggi. Valigie di soldi negli appartamenti, i capi all’estero a godersi la vita mentre i gazawi restano nel fango dell’inverno e Sinwar è sotto terra.
È Gaza stessa che grida che cos’è Hamas. Ed è stupefacente che di fronte alla dura ma regolata condotta di un esercito che combatte per distruggere Hamas, ma non infierisce sui civili, si possa insinuare che i soldati di Tsahal se la prenderebbero con due donne in Chiesa. Se Tsahal fa un errore terribile, come per i tre rapiti uccisi, si muove anche il capo di stato maggiore per mettere sotto accusa i suoi. Adesso, anche monsignor Pizzaballa dichiara che forse c’erano cecchini di Hamas in zona. Resta certo solo che Hamas non ha un codice morale di comportamento, anzi, li viola tutti.
(il Giornale, 20 dicembre 2023)
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Gaza: l'orrore dei cunicoli
di Guido Salvini
Quello che più colpisce negli eventi di Gaza e che impedisce a questa tragedia di finire è il perdurare della guerra dei tunnel.
Poteva sembrare una favola o un argomento di propaganda ma davvero Hamas aveva costruito sotto le case una seconda Gaza, una spaventosa città sotterranea profonda anche 60 metri e che si dirama, forse più estesa della metropolitana di Londra. per centinaia di chilometri. Un tunnel è stato scoperto appena ieri, ai confini di Israele, largo come una autostrada. Un reticolo dell’orrore difficile da espugnare e che allunga la sofferenza di tutte le parti in causa.
Antri del male che hanno ingoiato le loro vittime, ci sono imprigionati in catene gli ostaggi che restano, e che nascondono sadici assassini. Lo è certamente Yahya Sinwar, il capo di Hamas che vive al centro della tela, probabilmente uno psicopatico che ha strangolato di sua mano presunti nemici.
Hamas ha costruito una spaventosa città sotterranea al posto di cercare di dare benessere al suo popolo. Sono certamente enormi le quantità di cemento, acciaio, carburante e altre risorse, che provenivano soprattutto dagli aiuti internazionali, sottratte ai bisogni degli abitanti di Gaza : case scuole e ospedali che era possibile costruire al posto dei tunnel.
In un video diffuso nelle scorse settimane si vede una ragazzina, forse di 7 anni, indicare con la mano il terreno desolato e pieno di macerie in cui vive e dire “Hamas è nei tunnel e la gente è lasciata qui sopra, da sola”, come in un embrione di rivolta contro l’organizzazione criminale che ha dominato negli ultimi vent’anni Gaza.
Ma il popolo palestinese non può decidere nulla. Hamas sapeva perfettamente quali conseguenze avrebbero subito i civili dopo l’attacco del 7 ottobre ma la loro vita non importa nulla e gli uccisi saranno comunque, a maggior gloria di Allah, accolti nel paradiso dei martiri.
Se i terroristi di Hamas avessero un minimo rispetto per i cittadini di Gaza dovrebbero semplicemente arrendersi. Ma non lo faranno. Nei paesi del Medio oriente, teocratici o dominati da sanguinarie dittature, la vita umana non vale nulla, vale solo la forza. E più innocenti morranno coinvolti e vittime loro malgrado nella causa sacra più questa otterrà linfa vitale. Sono anche loro, i 2 milioni di cittadini di Gaza, ostaggi di Hamas non meno dei 140 israeliani e cittadini di altre nazionalità scomparsi il 7 ottobre e non ancora ritrovati.
L’esercito israeliano che non a caso si chiama IDF, cioè Forze israeliane di difesa, non ha cercato la guerra ma è stato costretto a farla e volentieri ne avrebbe fatto a meno. E, per quanto dura sia stata la sua risposta, esiste per difendere Israele e non per distruggere i suoi vicini. Per questo, sul piano morale, vi è un differenza abissale tra i due mondi.
Certamente molti e non a torto hanno solidarizzato in passato per la causa palestinese. Ma questo è stato possibile sino a quando le sue rivendicazioni sono state l’espressione di un desiderio di autodeterminazione e di costruzione di una nazione. Oggi Hamas e altri movimenti palestinesi sono solo una propaggine della Jihad mondiale. E questo cancella ogni legittimazione politica e storica con in più il timore che Hamas, pur sconfitta a Gaza, diventi, nell’eccitazione della guerra santa, egemone in Cisgiordania travolgendo la debole e corrotta Autorità nazionale palestinese. Egemone proprio di fronte a Gerusalemme.
E ricordiamo, per quanto concerne la capacità dell’odio di diffondersi, che anche Cremona, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, ha conosciuto la predicazione violenta di un Imam radicale che ha dovuto essere fermata con la sua espulsione dal nostro paese.
Tutto ciò non significa che anche Israele non debba essere criticato per alcune sue scelte. Ad esempio l’invadenza dei coloni in Cisgiordania e cioè nei territori che dovrebbero far parte dello Stato palestinese e, per quanto concerne la politica interna del governo Netanyahu , il tentativo di controllare la magistratura la cui indipendenza è uno dei fiori all’occhiello della democrazia israeliana, l’unica degna di questo nome in tutto il Medio oriente. Una magistratura, lo dico da “collega” che ad esempio è stata in grado di sanzionare i militari e i civili israeliani che, pur in uno stato di guerra permanente, hanno oltrepassato i limiti della difesa consentita.
Chi esita deve ricordare che Israele in Medio oriente è l’unico Stato in cui possiamo identificarci, potremmo dire che, guardando ad est, è l’ultimo paese europeo. Lo testimoniano la libertà politica, i diritti civili e religiosi di tutti i cittadini, anche non ebrei, l’esistenza di una stampa indipendente, il fatto che coloro che ci vivono siano cittadini e non sudditi come invece in tutti i paesi arabi.
Lo testimoniano anche le grandi conquiste che ha offerto anche a tutto mondo nel campo delle scienze, l’ingegneria e l’agricoltura moderna soprattutto che hanno fatto di deserti un giardino, dell’arte e della cultura. Il mondo palestinese avrebbe dovuto cercare di trarne insegnamento e di copiare Israele, non di cancellarlo dalle carte geografiche.
Un pensiero terribile dopo le tragedie di questi giorni, dando per scontato che Israele alla fine in qualche modo vincerà sradicando per il momento Hamas, è cosa potrà succedere tra 10 o 15 anni.
Se il popolo palestinese non si doterà di una dirigenza che invece di adorare la guerra, cerchi la pace e consideri gli israeliani vicini di casa e non nemici da distruggere, qualcosa di simile ad Hamas ritornerà e nascerà una generazione allevata nell’odio.
I bambini e ragazzi che in questi giorni soffrono quanto accade a Gaza, resi incapaci di comprendere che sono stati i loro capi violenti e corrotti a portare loro e i loro fratelli maggiori in una strada senza uscita, penseranno e agiranno solo in termini di vendetta.
Tutto ricomincerà da capo e i morti di oggi saranno stati inutili.
Nascerà invece, al posto di questo scenario, un Gandhi in Palestina, illuminato dalla non violenza?
Forse, ma temo proprio di no.
(Cremona Sera, 20 dicembre 2023)
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Lo Stato palestinese è già venuto in essere: il modello Gaza
Per chiunque abbia senso della realtà e non sia prigioniero di una bolla ideologica o in piena malafede, non può non apparire chiaro che chi si avventura ancora a reputare che il venire in essere di uno Stato palestinese sulle colline della Cisgiordania, possa porre fine al conflitto israelo-palestinese (non coinvolgendo più direttamente ormai da mezzo secolo gli stati arabi), sia fuori dalla storia.
Gli arabi, (i “palestinesi” vennero molti decenni dopo), rifiutarono fin dal 1937 un loro ennesimo minuscolo stato regionale, e di nuovo lo rifiutarono nel 1947, e poi senza sosta in seguito. Il motivo è molto semplice e sotto gli occhi di tutti, come la famosa lettera rubata nel omonimo racconto di Edgar Allan Poe, gli arabi non ammettevano che su un territorio considerato islamico e circondato da stati islamici, potesse sorgere uno Stato ebraico.
Per la cultura e la mentalità islamica, gli ebrei erano stati per secoli dhimmi, ovvero cittadini di secondo rango, sottoposti a una speciale tassazione che ne garantiva la protezione, ma di fatto alla mercé dei musulmani.
Non solo, il Corano, pur riconoscendo ad essi lo status di “popolo del libro”, insieme ai cristiani, ne specifica in modo perentorio tratti intrinsecamente negativi e inemendabili.
L’idea che un popolo considerato ontologicamente inferiore e che per secoli si era trovato sotto il dominio musulmano, potesse avere una propria autonomia statuale per giunta su un territorio considerato proprio, è sempre stata considerata intollerabile.
Queste ragioni, profonde, radicate e trasmesse generazionalmente, sono quelle strutturali che hanno impedito che da parte islamica, si potesse giungere ad accettare la legittimità, storica, culturale e politica di Israele. La lotta di “liberazione” contro l'”occupante”, è solo una mascheratura, una superfetazione ideologica costruita a partire dalla metà degli anni Sessanta, su questo assunto.
In realtà un mini Stato palestinese ha già dato prova di sé dal 2007 ad oggi, quando a Gaza, dopo un sanguinoso regolamento dei conti con Fatah, il partito concorrente, Hamas ha preso il potere. Il “non rappresentante” del popolo palestinese, che vinse le elezioni del 2006 con un ampio margine di scarto, ha governato la Striscia per sedici anni consecutivi.
Quando Ariel Sharon decise nel 2005 la smobilitazione degli insediamenti ebraici a Gaza e il collaterale ritiro dei soldati, dichiarò che ora che Gaza era autonoma e non più “occupata” aveva l’occasione di mostrare di che cosa fossero capaci i suoi abitanti e la sua classe dirigente, poteva quindi trasformarsi in una Singapore del Medioriente.
Cosa sia diventata Gaza nell’arco di questi anni è sotto gli occhi di tutti, una centrale terroristica che ha donato a Israele lanci continui di razzi e cinque conflitti, di cui quelli a maggiore intensità precedenti a quello in corso sono stati Piombo Fuso nel 2009, e Margine di Protezione nel 2014. L’apice si è avuto il 7 ottobre scorso.
Solo in una prospettiva onirica si può immaginare che un altro Stato palestinese retto da Fatah, un po’ più grande del mini Stato governato da Hamas e che includesse Gaza e la Cisgiordania, sarebbe un centro di moderazione, benessere e di convivenza pacifica tra palestinesi e israeliani.
L’Autorità Palestinese non ha mai fatto mistero del suo appoggio alle iniziative terroristiche di Hamas, ne ha mai mitigato il proprio estremismo contro lo Stato ebraico. L’odio antiebraico è un must della scolarizzazione primaria nelle scuole sotto la giurisdizione di Fatah. Lo stesso Abu Mazen in più di un’occasione ha rinfrescato la memoria degli ascoltatori con le sue tirate antisemite mentre il suo consigliere per le questioni religiose e giudice supremo per la sharia, Mahmoud al Habbash, nel 2015 affermava: “Il conflitto qui in Palestina tra noi e l’occupazione criminale e i suoi leader criminali, è una ulteriore manifestazione delle nostre prove, è una ulteriore manifestazione dello storico conflitto tra bene e male. Il bene è rappresentato dal Profeta e dai suoi sostenitori, il male è rappresentato dai diavoli e dai loro sostenitori, dai satana e i loro sostenitori”. C’è forse da meravigliarsi? D’altronde la parola “Fatah” è un acronimo invertito dell’arabo Harekat at–Tahrir al–Wataniyyeh al–Falastiniyyeh, che significa “conquista per mezzo del jihad”. La bandiera di Fatah presenta una granata con fucili incrociati sovrapposta alla mappa di Israele a sottolineare la dedizione di Fatah, insieme agli altri gruppi di “liberazione”, alla “lotta armata” contro Israele, ovvero al jihad.
Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante la chiarezza del quadro, l’Occidente, Stati Uniti in testa perorano la nascita nel cuore di Israele di uno Stato jihadista a dimensioni un po’ più larghe rispetto a quello che è già stato realizzato e la cui esistenza è costata in mezza giornata il massacro indiscriminato di 1200 cittadini israeliani e il rapimento di altri 240.
(L'informale, 20 dicembre 2023)
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L’esercito israeliano sostiene di non aver attaccato i cristiani in Gaza
Funzionari cattolici accusano l’esercito israeliano di aver dichiarato guerra alle chiese locali.
di Ryan Jones
Rappresentanti della Chiesa cattolica di Gerusalemme hanno affermato sabato che le forze israeliane hanno deliberatamente ucciso i cristiani nella Striscia di Gaza. Il portavoce delle Forze di difesa israeliane (IDF) ha dichiarato a Israel Heute che ciò è semplicemente falso. Nella sua dichiarazione, il Patriarca latino di Gerusalemme ha affermato che "un cecchino dell'IDF ha ucciso due donne cristiane nella parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, dove la maggior parte delle famiglie cristiane si sono rifugiate dall'inizio della guerra".
Le vittime erano una donna di nome Nahida e sua figlia Samar. Secondo il Patriarca, le truppe israeliane hanno poi aperto il fuoco su altri cristiani presenti nel complesso, ferendo sette persone.
I rappresentanti della Chiesa hanno sottolineato che non c'erano parti in guerra nel luogo e che le vittime sono state "colpite a sangue freddo".
La dichiarazione prosegue affermando che lo stesso giorno l'IDF ha bombardato un'altra istituzione cristiana, il convento delle Suore di Madre Teresa (Missionarie della Carità), dove avevano trovato rifugio dei cristiani disabili.
Poche ore prima, tre cristiani sarebbero stati feriti e i pannelli solari che forniscono elettricità alle strutture cristiane sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati dagli attacchi aerei israeliani.
Il Patriarca ha concluso dicendo che è "incomprensibile per lui come un simile attacco possa essere perpetrato, specialmente mentre tutta la Chiesa si sta preparando al Natale".
Il messaggio, appena velato, era chiaro: gli ebrei, crudeli e senza cuore, stanno deliberatamente attaccando i cristiani, e peggio ancora, nel periodo natalizio!
Il Patriarca latino sa che questo messaggio risuonerà su un vasto pubblico che non si preoccuperà di verificare i fatti. Non solleva nemmeno la questione del perché i funzionari cristiani non sembrano mai criticare i jihadisti di Hamas, che ormai sappiamo tutti essere capaci delle più atroci atrocità.
Israel Heute, tuttavia, ha verificato i fatti e ha ottenuto dal portavoce dell'IDF l'altra versione della storia.
L'esercito israeliano ha inizialmente sottolineato che non attacca i cristiani o i luoghi di culto cristiani a Gaza o altrove. Anzi, l'IDF prende particolari precauzioni quando si tratta di chiese, "alla luce del fatto che le comunità cristiane sono una minoranza in Medio Oriente".
Per quanto riguarda gli eventi di sabato scorso, l'IDF ha detto di non essere sicuro a cosa si riferisse il Patriarca latino. L'esercito israeliano è a conoscenza di un incidente avvenuto in un'altra zona di Gaza, vicino alla Chiesa latina nel quartiere di Shejaiya. Un primo esame indica che le forze dell'IDF che agiscono contro i terroristi di Hamas nell'area stavano agendo contro una minaccia che hanno identificato vicino alla chiesa. L'IDF sta conducendo un'indagine approfondita sull'incidente".
La parrocchia della Sacra Famiglia a cui si riferiva il Patriarca latino si trova nel quartiere di Rimal, a Gaza City. Il portavoce dell'IDF ha detto che i rappresentanti della chiesa hanno contattato l'esercito israeliano sabato mattina per le esplosioni sentite nella zona, ma che "durante il dialogo non ci sono state segnalazioni di un attacco alla chiesa o di civili feriti o uccisi".
L'IDF ha esaminato le operazioni nell'area e ha confermato che non c'è stato alcun attacco da parte delle forze israeliane alla chiesa o nelle sue vicinanze.
Il portavoce dell'esercito ha sottolineato che le forze israeliane "prendono di mira solo i terroristi o le infrastrutture terroristiche e non i civili, indipendentemente dalla religione. L'IDF fa di tutto per non danneggiare i civili non coinvolti. Al contrario, l'organizzazione terroristica che stiamo combattendo fa di tutto per mettere in pericolo i civili, anche usando i luoghi sacri come scudi per le sue attività terroristiche".
Ma non aspettatevi che i cristiani palestinesi locali ammettano gli attacchi di Hamas. È molto più sicuro e conveniente criticare Israele, anche con accuse infondate.
(Israel Heute, 20 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Papa contro l’esercito israeliano
di Ugo Volli
• Cecchini contro una parrocchia?
Fra i molti morti veri della guerra a Gaza, ce ne sono anche alcuni più dubbi, che si prestano però benissimo alla campagna anti-israeliana in corso. È il caso di un incidente che sarebbe accaduto nella parrocchia cattolica della Sacra Famiglia a circa due chilometri dal centro di Gaza City. Scrive il sito cattolico Renovatio: “Il Patriarcato latino di Gerusalemme ha annunciato che l’esercito israeliano ha sparato e ucciso cattolici innocenti in una parrocchia di Gaza, usando anche un carro armato per distruggere il Convento delle Suore di Madre Teresa (Missionarie della Carità). In una dichiarazione pubblicata su Twitter intorno sabato 16 dicembre, il Patriarcato ha riferito che una donna di nome Nahida e sua figlia Samar sono state uccise da un cecchino delle Forze di Difesa Israeliane mentre si trovavano all’interno della parrocchia della Sacra Famiglia, che si trova nella città di Gaza. L’una è stata uccisa mentre cercava di portare in salvo l’altra. Altre sette persone sono state colpite da colpi di arma da fuoco e ferite mentre cercavano di proteggere gli altri all’interno del complesso della chiesa. Non è stato dato alcun avvertimento, non è stata fornita alcuna notifica. Sono stati fucilati a sangue freddo all’interno dei locali della Parrocchia, dove non ci sono belligeranti».
La dichiarazione porta la firma del Cardinale Pizzaballa, ed è stata anche ripresa espressamente e molto duramente dal Papa:
“Continuo a ricevere notizie molto gravi e dolorose da Gaza. Civili disarmati subiscono bombardamenti e sparatorie. E questo è avvenuto anche all'interno del complesso parrocchiale della Sacra Famiglia, dove non ci sono terroristi, ma famiglie, bambini, malati e disabili, suore. Sì, è guerra, è terrorismo”.
Renovatio dà anche una strana spiegazione della causa dell’episodio citando “Asia News”, l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni estere, secondo cui «testimoni riferiscono che i militari israeliani avrebbero attaccato per la presenza – sebbene la notizia sia palesemente infondata – di un mezzo spara-razzi all’interno della parrocchia». Parlare della “presenza” di un “mezzo lanciarazzi”, che difficilmente si può confondere con due donne, ma dire subito dopo che la “notizia era infondata” è certamente uno strano modo di descrivere l’episodio.
• La smentita dell’esercito israeliano
Il fatto è che l’esercito israeliano, il quale non ha timore di ammettere i suoi errori, come si è visto nel caso dei tre rapiti uccisi per sbaglio, ha smentito con decisione l’episodio. In una dichiarazione scritta, il portavoce militare ha affermato di aver ricevuto la lettera “che descrive un tragico incidente avvenuto nella parrocchia della Sacra Famiglia”. Ha aggiunto però che sabato “rappresentanti della chiesa ci hanno contattato in merito alle esplosioni udite vicino alla chiesa. Durante il dialogo tra noi e i rappresentanti della comunità, non ci sono state date notizie di un attacco alla chiesa, né di civili feriti o uccisi. Una revisione delle operazioni compiute dall’esercito conferma che le cose stanno così”.
Mark Regev, consigliere senior del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha dichiarato: “Rifiuto le parole: ‘uccisione a sangue freddo’. Ciò indicherebbe un attacco deliberato contro i civili; è qualcosa che non facciamo; non spariamo alle persone che vanno in chiesa, semplicemente non succede. Non è questo il modo in cui opera il nostro esercito. Dire che Israele prende deliberatamente di mira i fedeli cristiani è un’accusa terribile e infondata”. Si tratta proprio di un’accusa tremenda, che viene dai vertici della Chiesa e che è categoricamente smentito da Israele. È molto strano che dopo queste denunce violentissime, non siano emerse altre prove, fotografie o testimonianze indipendenti, che i giornali non abbiano trovato nuove notizie, che manchino anche i cognomi delle vittime, insomma che non vi siano conferme o dettagli ulteriori.
È una storia che per ora sembra simile al preteso bombardamento israeliano di un ospedale di Gaza, all’inizio della guerra, con 500 morti, su cui poi si scoprì che la bomba non era israeliana ma dei terroristi, che non aveva colpito l’ospedale ma un parcheggio, che i morti non erano centinaia, ma una ventina circa.
• La situazione sul terreno
A parte questa storia assai poco chiara, la guerra continua su tutti i fronti. A Gaza i militari israeliani continuano a scoprire pozzi, gallerie militari, punti fortificati, depositi di armi in luoghi improbabili come le incubatrici degli ospedali, grosse somme di danaro nascoste dai terroristi e purtroppo continuano anche le perdite di soldati che cadono negli agguati dei terroristi. Oltre ai soliti scambi con Hezbollah al confine libanese, ieri si è attivato il fronte siriano, che era stato piuttosto tranquillo nelle scorse settimane. Nel territorio israeliano ieri è arrivata dalla Siria una salva di missili, che per fortuna sono non sono caduti su obiettivi sensibili. Israele come di consueto ha reagito con l’artiglieria contro i siti di lancio dei missili. Un altro incidente significativo si è avuto invece al confine fra Siria e Giordania, dove l’esercito giordano ha affrontato in un sanguinoso scontro a fuoco un gruppo di contrabbandieri. Sembra che questa volta non cercassero di far passare della droga, ma razzi ad uso dei terroristi in Giudea e Samaria.
(Shalom, 19 dicembre 2023)
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Israele – Hamas, continuano gli scontri: ucciso uno dei principali finanziatori di Hamas
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e lo Shin Bet hanno annunciato congiuntamente l'uccisione di Subhi Farwanah, uno dei principali finanziatori di Hamas, in un attacco aereo a Rafah.
La tensione nella striscia di Gaza raggiunge livelli critici mentre Israele e Hamas si scontrano in pesanti combattimenti, secondo le ultime notizie riportate oggi, 19 dicembre 2023. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e lo Shin Bet hanno annunciato congiuntamente l’uccisione di Subhi Farwanah, uno dei principali finanziatori di Hamas, in un attacco aereo a Rafah.
Farwanah, insieme al fratello, è stato accusato di aver trasferito decine di milioni di dollari a Hamas e al suo braccio armato attraverso un negozio di cambio valute. Quest’ultimo è risultato essere uno dei pochi e cruciali operatori di cambio valute in grado di fornire la necessaria liquidità all’ala militare di Hamas per sostenere i combattimenti, come affermato nell’annuncio congiunto dell’IDF e dello Shin Bet.
La città di Rafah ha subito pesanti perdite, con almeno 29 vittime, tra cui un bambino, in seguito a operazioni israeliane che hanno colpito edifici residenziali durante la notte. La tv satellitare al-Jazeera ha riportato la distruzione di tre palazzi, testimonianza di una situazione sempre più drammatica nella regione.
D’altra parte, le forze israeliane confermano la morte di altri due militari a Gaza, entrambi riservisti. Si tratta di un sergente di 31 anni e di un capitano di 24 anni, caduti in combattimento nel nord della Striscia di Gaza. Secondo il Times of Israel, il numero dei caduti tra le forze israeliane raggiunge ora quota 131 dall’inizio dell’operazione di terra a fine ottobre.
(il Quotidiano italiano, 19 dicembre 2023)
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Mai una parola sui tunnel di Hamas. Ora il Palazzo di vetro attacca Israele che li allaga
di Giulio Meotti
ROMA - Lanciata nel 1904, l’anno scorso la metro di New York ha trasportato 1,8 miliardi di passeggeri. C’è un’altra “metropolitana”. E’ la rete di tunnel sotto Gaza. Il suo obiettivo però non è facilitare la vita, ma portare la morte. Prima del conflitto del maggio 2021, Israele ha facilitato numerosi progetti di ricostruzione e infrastrutture a Gaza, parte del “Meccanismo di Ricostruzione di Gaza” (“GRM”), un accordo tra le Nazioni Unite, l’Autorità palestinese e Israele per consentire il trasferimento di materiali da costruzione a Gaza in seguito al conflitto del 2014. Solo nel 2021, 450 mila tonnellate di cemento e 60 mila tonnellate di strutture per cemento armato. Camion e camion di ghiaia, ferro, cemento, legno e altri materiali passati dal valico di Kerem Shalom verso Gaza da Israele, attaccato il 7 ottobre e da cui domenica sono tornate a passare le merci verso la Striscia.
Senza contare 2,3 miliardi di dollari di aiuti dall’estero (più di mille dollari per abitante di Gaza all’anno) che arrivavano ogni anno nella Striscia e Hamas che taglieggiava il 30 per cento di ogni import, export e ogni provento di attività economica di abitanti di Gaza fuori e dentro la Striscia.
Ieri Israele ha scoperto nei pressi del valico di Erez il più grande sistema di tunnel che si divide in vari rami con una estensione di oltre quattro chilometri e arrivava a soli 400 metri dal confine israeliano. Un progetto, accusa Israele, guidato da Muhammad Sinwar, fratello di Yahya Sinwar. Il sistema del tunnel - che ha avuto un ruolo nell’attacco del 7 ottobre - ha una larghezza sufficiente per un’auto ed è dotato di impianti elettrici e fognari e porte blindate per bloccare l’accesso, progettato per trasportare auto cariche di terroristi da Gaza al confine. “Milioni di dollari sono stati investiti in questo tunnel, ci sono voluti anni per costruire questo tunnel e i veicoli potevano attraversarlo”. Il professore di geologia dell’Università Bar-Ilan di Tel Aviv, Joel Roskin, ha pubblicato libri e articoli sui tunnel. Secondo Roskin, i tunnel di Hamas possono essere profondi fino a 60 metri e ogni tratto di tunnel costa tre milioni di dollari, utilizzando cemento e ferro prefabbricati.
Il leader di Hamas Sinwar nel 2021 si è vantato che ci sono 300 chilometri di tunnel sotto Gaza, l’intera lunghezza della metropolitana di New York City. Forse era un’esagerazione. Ma supponiamo che ci siano 100 chilometri di tunnel: sarebbe il triplo della lunghezza della metropolitana di Roma. Roskin calcola che ogni chilometro di tunnel potrebbe ospitare 2.600 persone. Cento chilometri, fino a 260.000 abitanti di Gaza. Gran parte di questi tunnel sono stati costruiti con il materiale donato dall’Onu a Gaza. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite non ha mai parlato in questi anni dei tunnel di Hamas (se ne conosce l’esistenza almeno dal 2014). Ma ora sì, per criticare la strategia di Israele di inondare la rete di tunnel sotterranei dei terroristi con l’acqua del Mediterraneo, denunciando che la decisione potrebbe avere “gravi impatti negativi sui diritti umani”. “Perché non avete mai condannato Hamas per aver utilizzato fondi delle Nazioni Unite e cemento donato a livello internazionale per costruire centinaia di chilometri di tunnel terroristici, invece di case, ospedali e scuole?”, ha chiesto l’organizzazione UN Watch guidata dall’avvocato internazionale per i diritti umani Hillel Neuer. “Perché esprimi solo la preoccupazione che i tunnel del terrore possano essere distrutti?”. Neuer ha aggiunto che quando l’Egitto ha fatto la stessa cosa (allagando i tunnel di Gaza per fermare il contrabbando), l’Onu non ha detto assolutamente nulla. L’avvocato per i diritti umani Anne Bayefsky è stata ancora più diretta: “L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk è più interessato a proteggere i tunnel del terrore di Hamas nei quali gli ebrei sono stati torturati e uccisi al loro interno”.
Quando ci si domanda: che fine hanno fatto i miliardi di dollari della comunità internazionale a Gaza? Nei tunnel della morte, in gran parte, come sta scoprendo Israele in questi due mesi. E nelle tasche dei capi della jihad palestinese. Ieri l’esercito israeliano ha scoperto una valigia con cinque 1,3 milioni di dollari nell'abitazione di un esponente di spicco di Hamas a Jabalia, a nord di Gaza City.
Il Foglio, 19 dicembre 2023)
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Hamas divulga un nuovo video con tre ostaggi anziani. Israele: “guerra psicologica atroce”
Lunedì 18 dicembre Hamas ha pubblicato un video di propaganda che mostra tre anziani ostaggi israeliani rapiti durante il devastante assalto contro Israele del 7 ottobre. Lo riporta il Times of Israel.
Un uomo che parla nel video si identifica come Chaim Peri, 79 anni, che è stato rapito da Hamas dalla sua casa nel Kibbutz Nir Oz. Gli altri due ostaggi sono Amiram Cooper, 84 anni, e Yoram Metzger, 80, anche loro residenti di Nir Oz.
Nel video parla solo Peri e non ci sono informazioni che indichino quando è stato girato, anche se l’aspetto degli uomini indica che è stato dopo un certo periodo di prigionia.
Hamas ha già pubblicato video simili di ostaggi, in quella che Israele definisce una deplorevole guerra psicologica. La maggior parte dei media israeliani non pubblica i videoclip.
Il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha subito etichettato l’ultimo video come “terrore atroce”.
“Ciò dimostra la crudeltà di Hamas contro i civili anziani, innocenti, che necessitano di cure mediche”, ha detto Hagari in una conferenza stampa serale. “Il mondo deve lavorare per consentire l’assistenza medica e verificare le loro condizioni”.
I nostri cuori sono con gli ostaggi e le loro famiglie in ogni momento”, ha continuato Hagari. “Haim, Yoram e Amiram, spero che possiate sentirmi stasera. Dovete sapere che stiamo facendo di tutto per riportarvi a casa sani e salvi. Non avremo pace finché non tornerai.”
Il figlio di Oram Metzger, Roni, ha detto ai media ebraici che suo padre, un diabetico che ha problemi di mobilità, sembra aver perso molto peso e “anni più vecchio”.
“Mio padre non è in buone condizioni”, ha detto a Kan News il giovane Metzger. “Bisogna fare di tutto per riportare a casa [gli ostaggi]”.
Parlando a Ynet, Metzger ha detto che anche Cooper e Peri “non sembrano in buone condizioni, non sono loro stessi. Non si vede un briciolo di vivacità sui loro volti”.
I media ebraici hanno citato anonimi funzionari israeliani secondo le cui valutazioni Hamas avrebbe diffuso il video per fare pressione sul governo affinché accetti un altro accordo sulla liberazione degli ostaggi.
• ACCORDI IN TRATTATIVA
Il nuovo video è arrivato in un momento in cui si segnalano sforzi ad alto livello per elaborare un altro accordo sulla liberazione degli ostaggi, che si dice si concentrerà sui prigionieri anziani.
Il capo del Mossad David Barnea ha incontrato ieri, lunedì 18 dicembre, a Varsavia il direttore della CIA Bill Burns e il primo ministro del Qatar Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani per discutere gli sforzi per raggiungere un nuovo accordo sugli ostaggi, secondo diversi resoconti della stampa ebraica. Anche un funzionario statunitense ha confermato l’incontro all’Associated Press.
Il Qatar è stato un mediatore chiave nel primo accordo sugli ostaggi che ha visto il rilascio di 105 civili – 81 israeliani, 23 cittadini tailandesi e un filippino – dalla prigionia di Hamas a Gaza nell’arco di sette giorni a fine novembre. I lavoratori tailandesi e filippini e un uomo russo-israeliano sono stati rilasciati attraverso accordi separati con questi paesi.
In cambio, Israele ha accettato il rilascio dei prigionieri palestinesi, tutte donne e adolescenti delinquenti, in un rapporto di 3 a 1, il che significa che in totale sono stati liberati 240 donne palestinesi e prigionieri di sicurezza minorenni per 80 donne e bambini israeliani.
Si ritiene che a Gaza siano rimasti 129 ostaggi, non tutti vivi. Quattro ostaggi sono stati rilasciati prima della prima tregua e uno è stato salvato dalle truppe. Sono stati recuperati anche i corpi di otto ostaggi e restituiti a Israele i corpi di altri tre uccisi per errore dai militari venerdì. Le Forze di Difesa Israeliane hanno confermato la morte di 21 persone ancora detenute da Hamas, citando nuove informazioni e scoperte ottenute dalle truppe che operano a Gaza.
Dopo la morte dei tre ostaggi per mano delle truppe dell’IDF a Gaza la scorsa settimana, diversi rapporti pubblicati sabato sera hanno indicato che Israele stava cercando di intensificare gli sforzi per raggiungere un nuovo accordo sugli ostaggi con Hamas.
Le morti hanno anche alimentato le richieste in Israele affinché il governo raggiunga un accordo e centinaia di persone hanno manifestato a Tel Aviv chiedendo la negoziazione di un accordo per il rilascio di tutti gli ostaggi rimasti.
Citando funzionari egiziani, Kan ha riferito sabato sera che funzionari egiziani e del Qatar hanno offerto nei giorni scorsi un nuovo accordo a Hamas che prevede il rilascio di uomini anziani e malati e delle rimanenti donne e bambini in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi anziani. Non è chiaro se l’offerta sia stata fatta dopo le consultazioni con Israele. Kan ha detto che Hamas finora non ha risposto alla proposta.
(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2023)
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La pazienza nei confronti di Israele sta finendo
Nelle ultime settimane, sui social media sono apparsi tre volte più articoli contro Israele che articoli a favore. Un'analisi della società israeliana Media Intelligence Group, MIG, mostra quanto sia diventato cupo il discorso su Internet e in particolare sui social network. Il fenomeno geopolitico viene spiegato in termini di natura: perché il vento cambia direzione? Le masse d'aria calda salgono verso l'alto e risucchiano l'aria fredda e pesante sopra il mare. Il vento soffia dal mare verso la costa. Durante la notte, il vento cambia direzione perché l'acqua trattiene il calore più a lungo della terraferma e anche l'aria sovrastante è più calda e sale. Il vento allora gira e soffia dalla terra al mare. Regole simili esistono anche in politica. All'inizio, il mondo aveva ancora una cortese simpatia per Israele a causa delle atrocità, perché dopo tutto gli abitanti di Israele sono solo esseri umani. Ma poi, da un giorno all'altro, le sofferenze dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono diventate sempre più calde. Il vento è cambiato e con esso la politica contro Israele. Come kitesurfer e redattore, so qualcosa sia del vento nel mare che del vento nella politica.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - L'83% degli articoli in rete sul tema della guerra sono ora diretti contro Israele. Sui principali siti di informazione all'estero viene pubblicato un numero tre volte superiore di articoli che ritraggono Israele in una luce negativa piuttosto che in una positiva. La comprensione verso Israele sta diminuendo. Era prevedibile, lo avevamo detto, perché è sempre così. L'opinione pubblica mondiale ha semplicemente dimenticato ciò che è accaduto in Israele il 7 ottobre e ascolta solo la voce dei palestinesi.
È allarmante che un recente e drammatico sondaggio (The Harris Poll - Harvard) abbia rilevato che più della metà dei giovani statunitensi vede una nuova soluzione per Israele: La terra di Israele dovrebbe essere consegnata ai palestinesi. Il 51% degli americani tra i 18 e i 24 anni ha dichiarato che la soluzione al conflitto israelo-palestinese sarà effettivamente la fine dello Stato di Israele. Il 60% ritiene giustificato l'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e ritiene Israele responsabile di genocidio. La metà di loro sostiene Hamas.
Dal 7 ottobre, i network hanno raccontato la guerra di Israele contro Hamas. La maggioranza assoluta dei post sui social network e degli articoli sui principali media internazionali è diretta contro Israele. Secondo la società MIG AI, dal 7 ottobre sono stati scritti in totale 1,9 milioni di post che hanno ricevuto like, condivisioni e commenti in relazione alla guerra delle "Spade di Ferro" di Israele. Di questi, più di 1,5 milioni di post erano diretti contro Israele, con una maggioranza assoluta dell'83%. Solo il 9% dei post era a favore di Israele, mentre l'8% era neutrale. Questi post hanno ricevuto un totale di 4,3 miliardi di like, condivisioni e commenti.
Ci sono state molte manifestazioni di antisemitismo, propaganda anti-israeliana e diffusione di fake news contro Israele sui social media", spiega Jonatan Hasidim, CEO del MIG. "Inoltre, sono sorti vari racconti sull'esistenza di Israele. Uno Stato terrorista che commette genocidi e uccide deliberatamente bambini e cittadini. Questo è un punto importante perché molte persone, soprattutto i giovani, sono influenzate ed esposte ai discorsi sulla guerra sui social media".
La copertura che Israele ha ricevuto sui siti di notizie è più equilibrata, ma il sentimento internazionale negativo prevale - per ogni articolo che ritrae Israele in una luce positiva, sono stati scritti circa tre articoli che ritraggono Israele in una luce negativa. Dei circa 372.000 articoli pubblicati su siti web con oltre un milione di visite al mese sul tema della guerra, il 64% era neutrale, il 28% era anti-israeliano e l'8% era pro-israeliano. Ma per quanto riguarda il 64%, va detto che vede l'esistenza di Israele in futuro solo in una soluzione a due Stati e non riconosce il diritto di Israele a esistere nel cuore biblico di Giudea e Samaria. Le principali organizzazioni mediatiche che hanno parlato di Israele sono state il sito di notizie argentino Infobae, il sito di notizie britannico Daily Mail Online, l'agenzia di stampa russa RIA Novosti, l'agenzia di stampa internazionale Reuters e l'agenzia di stampa turca Anadolu.
"All'inizio della guerra, sembrava che i media internazionali si concentrassero maggiormente sulla esposizione delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. Ma dopo poco tempo, la copertura è cambiata e si è concentrata sulla distruzione e sul bombardamento di Gaza da parte di Israele", ha sottolineato Hasidim a N12. "Man mano che la massiccia offensiva di terra progrediva e i danni ai civili e ai bambini venivano resi noti, anche la copertura aumentava con un sentimento negativo e quindi con la delegittimazione delle attività dell'esercito israeliano a Gaza". La copertura positiva è stata caratterizzata da riferimenti a storie personali di israeliani rapiti e uccisi, evidenziando la brutalità della barbarie di Hamas. I siti di notizie hanno riferito in modo più equilibrato e informativo rispetto al discorso sui social media, che era chiaramente prevenuto a favore di Gaza e di Hamas.
Ecco perché il servizio mediatico di Israel Heute è più importante che mai in questi giorni, perché riportiamo ciò che accade nel Paese, non siamo neutrali e obiettivi, ma onesti e responsabili nei confronti dei nostri nemici. A proposito, nella Bibbia nemmeno Dio era neutrale e obiettivo nei suoi resoconti, ma sempre dalla parte di Israele.
(Israel Heute, 19 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il connubio nazi-islamico e le sue conseguenze storiche
Matthias Küntzel, Nazis, Islamic Antisemitism and the Middle East, The 1948 Arab War Against Israel and the Aftershocks of World War II. Routledge, 2023
di Niram Ferretti
Nel suo ultimo libro, che segue di ventun anni la prima pubblicazione del seminale Il jihad e l‘0dio contro gli ebrei, l’islamismo, il nazismo e le radici dell‘11 settembre, pubblicato in italiano nel 2019, Matthias Küntzel, ricuce un’altra volta la trama che lega l’influenza del nazionalsocialismo sul mondo islamico, riprendendo e ulteriormente elaborando alcune delle tematiche affrontate nel testo precedente.
Lo fa qui esplicitando tre aspetti decisivi che ci permettono di inquadrare meglio un episodio come l’eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas nei confronti di 1200 cittadini israeliani. Il primo è la specificità dell’antisemitismo islamico risalente alle origini stesse dell’Islam, il secondo è il ruolo avuto nel sostenerlo da parte di Amin al-Husseini, il Mufti di Gerusalemme e da parte dei Fratelli Musulmani, la più vasta e influente organizzazione islamica della seconda metà del Novecento, il terzo è quanto esso abbia influito come propellente per l’aggressione nel 1948 degli Stati arabi nei confronti di Israele.
E questa guerra, a cui Küntzel dedica il quarto capitolo del suo volume, l’episodio più pregnante e decisivo che ci consente di leggere in una cornice di riferimento ad un tempo più ampia e inquietante lo stesso conflitto arabo-israeliano fino ai nostri giorni e dunque fino alla guerra ancora in corso tra Israele e Hamas.
Scrive Küntzel nell’introduzione, “Sussiste un legame ideologico tra la guerra dei nazisti contro gli ebrei e quella degli arabi contro gli israeliani tre anni dopo, così che la seconda può essere interpretata come una scossa di assestamento della grande catastrofe del 1939-1945”.
Come si è formato questo legame ideologico viene dettagliato nei capitoli precedenti, a partire dal primo, dove l’autore affronta come aveva già fatto in passato, non solo nel testo sopra citato, ma in numerosi articoli scritti nel corsi degli anni, il tema dell’antisemitismo islamico, risalendo alle sue fonti religiose coraniche. Si tratta del giacimento antigiudaico necessario al formarsi di quello antisemita successivo, ovvero il prodotto della propaganda nazista incaricata nel 1938 di svolgere questo specifico compito per il mondo islamico attraverso le apposite trasmissioni radio a onda corta che si propagavano da Zeesen, un piccolo paese a 40 chilometri da Berlino.
Il suggerimento di predisporre delle trasmissioni in arabo venne dato ai nazisti alla fine del 1937 da Said Imam, un associato di Amin-al-Husseini. Sul rapporto di quest’ultimo con il Terzo Reich, la letteratura è ormai consolidata, e le opere di David Motadel, Klaus Gensicke, e quella scritta in coppia da Barry Rubin e Wolfgang G. Schwanitz, sono una fonte di conoscenza importante data per acquisita nelle sue linee generali.
Küntzel mostra come, nel contesto dell’antigiudaismo islamico risalente al Corano, gli ebrei vengano rappresentati come coloro che, alla pari dei cristiani, non hanno accettato l’autorevolezza di Maometto, ma, a loro aggravio hanno tramato contro di lui. Nel Corano, seppure l’immagine degli ebrei venga degradata non è alonata da un potere diabolico come nell’antigiudaismo cristiano, mentre essa si ingigantisce a dismisura nell’antisemitismo nazista, per il quale gli ebrei sono sostanzialmente demoni che attentano al benessere della società e come tali devono essere distrutti.
L’aspetto cospirazionista dell’antisemitismo che deriva dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso creato a fine Ottocento dall’Ocrana, la polizia segreta zarista, si coagula con quello razziale nazista creando una miscela micidiale. A sua volta esso verrà travasato nel contenitore di quello islamico creando una combinazione unica. “Solo qui è presente l’antigiudaismo degradante dell’Islam ai suoi esordi e l’antisemitismo cospirazionista moderno”, scrive Küntzel .
Per l’autore è evidente, sulla base di documenti, dichiarazioni, trasmissioni radio, come, solo alla luce dell’influenza pervasiva di questo combinato disposto esiziale, sia possibile spiegare in modo convincente il farsi strada nel mondo arabo, a partire dal 1938 in poi e contro posizioni più moderate, il sempre più radicale rifiuto nei confronti della nascita di uno Stato ebraico nella Palestina mandataria. Viene sottolineato il ruolo determinante avuto, prima e dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dal Mufti di Gerusalemme, a cui fu permesso di rientrare in Egitto e di non finire sotto processo per crimini di guerra, e quello della Fratellanza Musulmana, che lo appoggiava apertamente e condivideva il suo antisemitismo virulento.
Il piano originario nazista era quello di mettere fine alla presenza ebraica in Palestina e dunque di abortire la stessa nascita di Israele. Al fine di questo progetto il Mufti aveva fornito la propria preziosa collaborazione.
“Per i nazisti, la soluzione finale della questione ebraica non era ristretta all’Europa. ‘Questa guerra terminerà con una rivoluzione antisemita mondiale e la distruzione degli ebrei in tutto il mondo’, dichiarava una direttiva del partito nazista del maggio 1943. Era la volontà esplicita di Hitler di espandere il programma di omicidio di massa conosciuto come ‘soluzione finale’ ai circa 700,000 ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente”.
Questa volontà ereditata dal nazismo di eliminare tutti gli ebrei stanziali in Palestina si sarebbe nuovamente ripresentata nel 1948, quando, dopo il rifiuto arabo di accettare il piano di partizione proposto dalle Nazioni Unite il 23 novembre del 1947, gli eserciti arabi decisero, nonostante una iniziale titubanza, di attaccare Israele allo scopo di distruggerlo. La titubanza venne vinta, secondo l’autore, dalla fortissima pressione della piazza, istigata soprattutto dai Fratelli Musulmani.
La matrice antisemita del conflitto è quindi un elemento fondamentale, se non l’elemento fondamentale del suo darsi fino ad oggi, è la linfa vitale che lo ha tenuto in vita e ancora lo tiene in vita. In questo senso, lo Statuto di Hamas, costola palestinese della Fratellanza, rappresenta un documento emblematico. Come ricorda Küntzel, “Un ulteriore documento centrale dell’antisemitismo islamico è lo Statuto di Hamas pubblicato nell’agosto del 1988…Nel 2017 Hamas ha pubblicato una versione più moderata. Rappresentanti di Hamas, tuttavia, hanno messo in chiaro che la versione del 1988 non è stata ripudiata”.
Lo Statuto di Hamas ci porta ai giorni nostri e all’eccidio del 7 ottobre e ci consente di vedere con terribile chiarezza tramite l’itinerario esposto nel libro, come questo episodio si iscriva completamente nel contesto ideologico di cui il testo traccia con accuratezza la genesi.
I volenterosi carnefici di Hitler, dei quali, con una efferatezza ancora maggiore, quelli di Hamas si sono incaricati di continuare l’opera, sono l’anello più robusto della lunga catena di odio e di volontà programmatica eliminazionista, che, come l’autore di questo libro illuminate ci permette di capire, ha cominciato a essere forgiata dalla fine degli anni Trenta.
La conclusione che si trae è che, diversamente da quella che è ritenuta la vulgata più in voga, sposata acriticamente dalle Cancellerie mondiali, il nucleo del conflitto non risiede in una disputa territoriale, nella mancanza di uno Stato “palestinese”, e dunque di una legittimità nazionale frustrata, ma dall’antisemitismo più accanito, trasmesso da generazione in generazione.
Questa diagnosi necessita di una cura molto più difficile perché ha bisogno di una riforma culturale e politica profonda, di un cambiamento di mentalità che, nell’ambito dell’accanimento islamico anti-ebraico e oggi soprattutto anti israeliano, non è ancora lontanamente all’orizzonte.
(L'informale, 19 dicembre 2023)
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Hamas, trovato il mega tunnel. E a Gaza è assalto ai tir di aiuti
di Fiamma Nirenstein
Combattere dentro Gaza non è come affrontare un nemico normale, non è una guerra conosciuta, descritta nei libri di strategia. Non ci sono regole di combattimento, né divise, solo un nemico perverso. Israele, che discute amaramente il disastro dei tre ostaggi uccisi per sbaglio venerdì dall'esercito, ieri ha dovuto sobbalzare di nuovo alla scoperta di un tunnel gigantesco, una costruzione strategica in cui Hamas ha messo tutto il cemento che secondo gli accordi, riceveva per costruire case e scuole: è 50 metri sotto terra, fuori coperto da hangar e serre, è lunga decine di chilometri ma Israele ne ha scoperti 4 fino all'uscita del passaggio di Erez. In un filmato, il fratello di Sinwar, Mohammed, numero due dell'esercito terrorista, guida un veicolo al suo interno. Da Erez i cittadini di Gaza andavano a lavorare e all'ospedale, la galleria punta sul cuore di Israele. Nel tunnel possono entrare veicoli e armi, è progettata per la prossima invasione, ma conservata per il prossimo eccidio. Le uscite interne sono in centro; è fornita di elettricità, acqua, gas.
Il disastro dei rapiti uccisi sofferto venerdì scorso a Sejaya, è al centro della discussione: si dibatte il codice di guerra dei soldati, cercando di non infierire dato il sacrificio continuo. La situazione sul campo è dura, siamo già a 122 soldati uccisi, oggi ne sono morti tre: Joseph Avner Doran, 26 anni, Shalev Zaltsman, 24, e Boris Dunavesky, 21. Tutta Israele li piange, e così ogni giorno. Ma la critica ha portato ieri il capo di Stato maggiore Herzi Halevi a entrare a Gaza per parlare sul campo: combattete, siate coraggiosi e forti, siete eroi, ha detto, ma i ragazzi fuggiti da Hamas erano senza camicia, sventolavano una bandiera bianca, hanno gridato in ebraico «azilu» (aiuto): «Da adesso almeno, imparate, quando si vedono le mani in alto, se c'è una bandiera bianca non si spara mai. E soprattutto, soldati, non smettete mai di pensare, usate il cervello anche durante la battaglia». Al funerale di Alon Shamris, del kibbutz Kfar Aza, il fratello Yonathan ha lanciato un'epica requisitoria in cui ha accusato il governo, ha promesso la vendetta politica. Le accuse sono puntate specie su Netanyahu: lo si accusa di scansarsi dalla responsabilità che invece il Capo di Stato Maggiore e il Ministro della Difesa si sono presi. I parenti dei rapiti chiedono un accordo che liberi tutti i rapiti a qualsiasi prezzo. Ma anche altri genitori chiedono di onorare il sacrificio della vita dei loro figli soldati andando fino in fondo nella guerra contro Hamas, una guerra, ripetono, di sopravvivenza per Israele stesso: ieri Netanyahu ha letto pubblicamente una loro lettera, e si è impegnato a raggiungere la vittoria. Anche Jake Sullivan ha ricevuto una lettera simile: lascia che Israele combatta quanto e come è necessario. Se Sinwar immagina che a gennaio la guerra si fermi o rallenti, come chiedono gli Usa, temporeggerà anche sui rapiti, che continuano a morire nelle sue mani.
Intanto è difficile per Israele anche soddisfare Biden con gli aiuti umanitari, la gente assale i camion di aiuti sfidando persino Hamas. È difficile combattere, spiegano i soldati, quando si è su un terreno sconquassato, dove ogni cittadino che ti si avvicina può essere una trappola umana zeppa di esplosivo; quando per esempio a Jabalia si scopre, che nella camera dei bambini da sotto la culla si diparte un tunnel; che in un ospedale si sono trovate armi dentro le incubatrici; che trappole per attirare i soldati sono state fatte con neonati di gomma che piangono con parole in ebraico; che il terrorismo suicida è frequente. Tuttavia, dopo la visita del Capo di Stato maggiore i soldati sanno meglio che i rapiti possono spuntare fuori da edifici che forniscono loro rifugio. Una roulette russa.
(il Giornale, 18 dicembre 2023)
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Un missile colpisce il kibbutz Sasa. Le parole di Angelica Edna Calò
di Michelle Zarfati
Ieri un missile ha colpito il kibbutz Sasa, situato nel nord d’Israele al confine con il Libano, fortunatamente senza vittime. Nel kibbutz risiedono attualmente quaranta persone. Il missile ha colpito un edificio disabitato, pertanto la popolazione è stata evacuata e l’attacco non ha causato feriti.
“La notizia mi ha messo molto in agitazione perché ha colpito un luogo vicino a dove abito io. - ha spiegato a ‘Shalom’ Angelica Edna Calò, che risiede nel kibbutz - Ad oggi non c’è davvero motivo di continuare a colpire. In questo momento mi trovo in Italia per un giro di Hasbarà, ma una volta tornata in Israele, dovrò decidere se tornare nel kibbutz o andare insieme agli altri abitanti evacuati vicino al lago di Tiberiade. Tutto mi mette davvero in una situazione difficile, io vorrei rimanere a casa mia e aiutare il kibbutz, purtroppo le condizioni ad oggi non lo rendono possibile”.
Angelica Edna Calò assieme alla sua famiglia e ad altri abituanti del kibbutz non vorrebbe lasciare la sua casa, nonostante il continuo lancio di missili da parte di Hamas ed Hezbollah. “Mi chiedo però il perché. Siamo al di là della linea verde, non siamo minimamente in Libano, non c’è nessun motivo di attaccarci. Hezbollah vuole identificarsi con quanto accaduto a Gaza e per questo attacca” ha aggiunto Calò.
Nata a Roma, Angelica Edna Calò ha scelto di vivere in Israele coltivando il sogno della pace. Da sempre cittadina del nord d’Israele, dove la tensione dal 7 ottobre è cresciuta giorno dopo giorno. Fondatrice di “Beresheet LaShalom- Un inizio per la Pace”, teatro-danza per tutti, Angelica si è sempre impegnata per il costante dialogo.
Dall’inizio del conflitto, il bilancio delle vittime continua a salire e le condizioni degli abitanti dei Kibbutzim diventano sempre più complesse. Molti di loro, prevalentemente gli abitanti a nord del paese, hanno dovuto abbandonare le loro case per essere evacuati in altre zone d’Israele. Mentre i kibbutzim del sud dello Stato ebraico hanno pagato il prezzo più alto durante il terribile massacro di Hamas.
(Shalom, 18 dicembre 2023)
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Israele contro il male
La lettera del capo del servizio segreto al segretario generale dell’Onu. “Siamo lo strato protettivo tra coloro che piangono la morte e coloro che la adorano”.
Il capo dello Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), Ronen Bar, ha indirizzato una lunga e toccante lettera riportata dal Jerusalem Post al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, in cui scrive, tra le altre cose: “Siamo determinati a completare la nostra missione a Gaza. Per vedere un mondo più sicuro ci si dovrebbe astenere dall’interferire o dal fermarci”. Ha aggiunto: “La Carta delle Nazioni Unite afferma che l’obiettivo dell’organizzazione è quello di ‘rinnovare la fede nei diritti umani più basilari, nella dignità umana e nell’importanza della vita umana, e nell’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne’. Hamas governa la Striscia di Gaza da 17 anni e ignora grossolanamente questi princìpi e i bisogni dei 2,2 milioni di cittadini che vivono a Gaza. Durante le attività di Hamas del 7 ottobre, non vi è stato rispetto né diritto di sorta. L’Onu è stata fondata per garantire il ‘mai più’ in qualsiasi parte del mondo. Ma il giorno del massacro di ottobre, ciò è stato smentito in piena forza. Gli ebrei sono stati brutalmente assassinati, solo perché erano ebrei. L’Idf è un esercito che opera in conformità con i più alti princìpi morali. Non agiamo deliberatamente contro i civili”.
“La realtà – continua Bar – ci obbliga ad agire in un ambiente civile. Siamo costretti a farlo da un’organizzazione terroristica che agisce come sovrana sul terreno e uccide civili, israeliani e abitanti di Gaza, dal primo giorno della sua fondazione. E’ ora di ricordarle, signor Segretario generale, che lo stesso Yahya Sinwar è stato condannato a cinque ergastoli in Israele per aver ucciso palestinesi, non ebrei. Gaza dovrebbe essere liberata da Hamas, non da Israele. Hamas è l’Isis”.
Ronen Bar aggiunge: “In segno di rispetto per le migliaia di vite che sono già andate perdute e per salvarne molte altre, vi preghiamo di aiutarci a rimuovere il dominio del male dalla Striscia di Gaza e a ripristinare la fiducia nei diritti umani più basilari, la dignità umana e il valore della vita umana, come scritto nella Carta delle Nazioni Unite. Aiutateci a ripristinare la fede nella parità di diritti tra uomini e donne, palestinesi, israeliani, musulmani, cristiani, ebrei e altri. Aiutateci a riportare indietro i nostri padri e madri, i nostri fratelli e sorelle, a casa. Aiutateci a riportare a casa i nostri nonni. Aiutateci a salvare i nostri bambini e a restituirli alle loro famiglie, per iniziare a curare le nostre ferite” (al momento in cui la lettera fu inviata al Segretario generale dell’Onu, la maggior parte dei bambini detenuti da Hamas non erano ancora stati restituiti).
All’inizio della sua lettera, Bar menziona che alcuni mesi fa è arrivato al palazzo delle Nazioni Unite per un incontro che avrebbe dovuto aver luogo con il Segretario generale, ma che, data la sua assenza, si è finalmente svolto con il suo vice, Asha-Rose Migiro. Bar ha scritto a Guterres che in quell’incontro aveva descritto al vicesegretario generale la situazione di tensione in medio oriente, in particolare intorno al Libano, alla Cisgiordania e a Gaza. “Le ho sottolineato”, scrive Bar, “i rischi dell’esplosione di un conflitto su più fronti, e forse anche globale, alla luce della grande tensione tra le potenze. Le ho chiesto che l’Onu rafforzi i fattori stabilizzanti nell’area e aiuti a neutralizzare i fattori che causano instabilità. Tra le altre cose – scrive ancora Bar – ho menzionato il leader di Hamas, Yahya Sanwar, e la necessità di fare pressione su di lui, perché restituisca i corpi dei nostri combattenti e dei civili israeliani. Ho sottolineato la necessità di risolvere il problema del contrabbando di armi a Gaza e il problema del duplice utilizzo dei materiali che vengono trasferiti dal Sinai a Gaza, e ho chiesto l’aiuto delle Nazioni Unite su questi temi. Purtroppo nessuna di queste mie richieste ha avuto risposta, ed è accaduto ciò che tutti temevamo accadesse”.
A questo punto Bar ha criticato le parole dello stesso Segretario generale: “Ho sentito le sue dichiarazioni riguardo ai recenti avvenimenti in Israele e a Gaza, Lei ha creato una simmetria tra gli atti di crudeltà e la violazione dei diritti umani tra Israele e Hamas, e niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Crimini contro l’umanità e crimini di guerra sono stati commessi contro Israele, israeliani e altre nazionalità. Ulteriori crimini di guerra furono commessi quando Hamas sparò e ferì civili che cercavano di lasciare la parte settentrionale della Striscia di Gaza, dopo gli avvertimenti di Israele, rifiutandosi di essere uno scudo umano al servizio di Hamas. I crimini di guerra sono stati commessi quando Hamas ha utilizzato gli ospedali come quartieri generali di combattimento e gli aiuti umanitari come copertura per operazioni terroristiche. Il tentativo di creare un parallelo morale fra i terroristi di Hamas e le forze di difesa dell’Idf è sbagliato e ripugnante a livello morale. Non c’è equilibrio se si paragonano gli atti di omicidio e tortura di bambini e neonati alla sfortunata ma necessaria sofferenza dei civili che vengono cinicamente usati da Hamas come scudi umani. Hamas sfrutta i cittadini di Gaza per i suoi bisogni manipolativi e le sue pubbliche relazioni”.
“Bisogna capire – conclude Bar – che il 7 ottobre la realtà del mondo libero è cambiata radicalmente. Abbiamo prove evidenti che dimostrano che i crimini contro l’umanità, brutalmente commessi da Hamas, facevano parte del suo piano operativo. Sabato 7 ottobre, migliaia di terroristi di Hamas hanno fatto ciò che i loro leader avevano ordinato loro di fare: hanno violentato le nostre mogli e le nostre figlie, hanno strangolato i nostri bambini, hanno bruciato le nostre case con intere famiglie all’interno, hanno torturato le madri davanti ai loro figli e i bambini davanti alle loro madri. Dopo di loro, sono arrivate orde di rivoltosi che hanno seminato distruzione e morte nelle nostre tranquille comunità. Gli autori di questi crimini non appartengono alla razza umana e non sono umani. Questa non è una guerra ideologica o religiosa, è una lotta tra il bene e il male. Israele si trova in prima linea, in difesa del mondo libero, in piedi tra l’oscurità e la luce, tra la barbarie e l’umanità. Noi siamo lo strato protettivo tra coloro che piangono la morte e coloro che la adorano”.
Il Foglio, 18 dicembre 2023 - trad. Giulio Meotti )
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Hamas al bando: la Svizzera non resta neutrale
di Anna Balestrieri
Lo Stato federale è uscito dalla propria proverbiale neutralità per condannare fermamente Hamas e vietarne il supporto e la diffusione in Svizzera.
Il 22 novembre 2023 è nata una proposta di legge, sottoposta dall’Esecutivo federale al Parlamento, per il divieto dell’organizzazione palestinese in Svizzera. “La legge fornirà alle autorità federali gli strumenti necessari per contrastare qualsiasi attività di Hamas o sostegno all’organizzazione in Svizzera.” Il governo svizzero ha annunciato che introdurrà la legislazione entro la fine di febbraio, “considerando questa la risposta più adeguata alla situazione che regna in Medio Oriente dal 7 ottobre”. La direzione politica del Consiglio federale era, in verità, già delineata nella fase immediatamente successiva allo scoppio della guerra del 7 ottobre.
L’11 ottobre, quattro giorni dopo l’attacco di Hamas ad Israele, il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) aveva sospeso i finanziamenti milionari a sei organizzazioni della società civile palestinese e a cinque israeliane in cooperazione internazionale con il governo svizzero. A seguito delle indagini, tre delle ONG palestinesi avevano visto rescisso il loro contratto con il governo elvetico. L’Esecutivo aveva incaricato il DFAE “di chiarire quali fossero le opzioni giuridiche per mettere al bando Hamas.”
La difficoltà nell’elaborazione di una strategia stava nell’assenza di divieto o sanzioni riguardo Hamas da parte delle Nazioni Unite, a differenza di quanto avvenuto in passato contro lo Stato Islamico (ISIS-Daesh) ed Al Qaeda. È stato Carlo Sommaruga, rappresentante dei socialdemocratici svizzeri di Ginevra, a dare voce ai dubbi circa l’opportunità di una presa di posizione della Svizzera. “La messa al bando di Hamas sarebbe un errore ”.
Il partito dei perplessi, tuttavia, sembra non aver prevalso e la proposta di legge dovrebbe essere approvata entro la fine del febbraio 2024. D’altra parte, la Legge federale sulle attività informative individua tra le responsabilità dello stato quelle di “individuare tempestivamente e sventare minacce per la sicurezza interna o esterna rappresentate dal terrorismo [e … ] dall’estremismo violento; ed “accertare, osservare e valutare fatti rilevanti sotto il profilo della politica di sicurezza che avvengono all’estero”.
Il governo svizzero non ha mancato tuttavia di ribadire la necessità di pensare al futuro politico della regione, che vedrà la pace solo con la realizzazione del progetto dei due stati, osteggiato in primis da Hamas. “Hamas non mira alla pace con Israele e la sua popolazione giudeo-arabo-cristiana. ” si diceva all’Assemblea Federale del Parlamento svizzero nel giugno del 2021.
Il Consiglio federale ha stanziato 90 milioni di franchi (93,36 milioni di euro) in aiuti umanitari per la regione all’inizio di novembre, esprimendo “profondo dolore per le migliaia di civili.
(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2023)
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Le sofferenze palestinesi sono interamente responsabilità di Hamas
“Il cessate il fuoco dipende da loro: basta che si arrendano e liberino gli ostaggi. Potrebbero arrivarci persino l’Onu e Guterres”
da Yedioth Ahronoth (12/12)
Quando le terribili immagini delle sofferenze dei civili di Gaza inondano i media e infiammano le passioni al di là di ogni pensiero razionale, la sfida è rimanere lucidi riguardo alle responsabilità per gli orrori a cui assistiamo” scrive Boah Beck su Yedioth Ahronoth, il primo quotidiano israeliano. “Ricade interamente su Hamas la colpa per tutte le sofferenze subite dagli abitanti di Gaza dopo il 7 ottobre, tanto è vero che fino al 6 ottobre non c’era alcun motivo perché Israele scatenasse la sua forza militare su Gaza.
In effetti, la mattanza del 7 ottobre è stata in parte resa possibile proprio dal fatto che Hamas ha ingannato Israele facendo credere che fosse interessata più allo sviluppo economico della Striscia che a un ennesimo sanguinoso conflitto. Ma il 7 ottobre Hamas ha invaso il territorio sovrano di Israele, ha rapito oltre 230 israeliani e in un giorno ha massacrato circa 1.400 persone, l’equivalente in proporzione di diciassette volte la strage dell’11 settembre negli Stati Uniti. Inoltre, l’orribile ferocia di quegli omicidi e rapimenti, anche in numeri molto più modesti, avrebbe spinto qualunque altro paese a reagire in modo anche più aggressivo e determinato di quanto Israele abbia fatto finora. Con ‘un solo’ 11 settembre, gli Stati Uniti si sono lanciati per decenni in guerra contro due paesi dall’altra parte del pianeta, causando centinaia di migliaia di morti anche civili. Pertanto una pesante risposta militare alle atrocità di massa commesse da Hamas era del tutto prevedibile, il che fa di Hamas l’unico e consapevole responsabile del conflitto che ha scatenato.
La Carta di Hamas proclama apertamente l’obiettivo di uccidere tutti gli ebrei, ma tale obiettivo non era mai stato perseguito su una scala così devastante e con atrocità così mostruose, orgogliosamente registrate e diffuse dalla stessa Hamas. Hamas ha apertamente dichiarato che intende ripetere più e più volte il 7 ottobre fino alla distruzione di Israele. Dunque non possono esserci dubbi sulle sue intenzioni, né alcuna illusione che Israele possa in qualche modo convivere con un vicino del genere, o che ci sia qualche speranza di coesistenza pacifica con i palestinesi dentro o fuori Gaza finché c’è di mezzo Hamas. Quindi ricade su Hamas la colpa per aver iniziato l’attuale guerra e ricade su Hamas la colpa per ogni singolo giorno in cui la guerra continua, con tutte le sue conseguenze in fatto di vittime civili, danni alle proprietà, crisi umanitarie e miseria generale. Hamas può porre fine immediatamente a tutte le sofferenze di Gaza rilasciando tutti gli ostaggi e offrendo una resa incondizionata, cosa che ovviamente porterebbe alla cessazione di ogni azione dell’esercito israeliano non appena la capitolazione di Hamas fosse comprovata. Quanto a lungo questa guerra farà danni e vittime a Gaza dipende interamente da Hamas.
Dopo il massacro del 7 ottobre, tutti sanno che l’operazione militare di Israele non potrà fermarsi finché la minaccia di genocidio posta da Hamas ai civili israeliani non sarà eliminata. Quindi l’unica domanda è: quanti morti e quanta distruzione Hamas intende infliggere ai civili di Gaza prima di smettere di combattere? E la comunità internazionale farà pressione su Hamas affinché accetti la sconfitta ‘al più presto’ e si arrenda senza condizioni, al fine di risparmiare ai civili di Gaza ulteriori morti e devastazioni”.
Il Foglio, 18 dicembre 2023)
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Ribellarsi ai diktat vaccinali era possibile
Alcune «pecore nere» non si sono piegate agli ordini antiscientifici delle istituzioni. E’ il caso del presidente dell'Albo odontoiatri della Spezia, che per non violare il codice deontologico ha pagato di persona. Bisognerebbe denunciare chi non ha fatto come lui.
di Silvana De Mari
La santificazione del siero anti Covid è stata resa possibile dal boicottaggio delle cure domiciliari da parte dell’Ordine dei medici.
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Costringere i dottori a inocularsi è un tradimento della libertà terapeutica: i responsabili dovrebbero risponderne in tribunale.
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E poi è arrivato il vaccino. E arrivato il 25 dicembre, come Gesù bambino. È passato dal Brennero, scortato da polizia, carabinieri, lagunari, paracadutisti, sommergibilisti, agenti di custodia, vigili urbani e boyscout. La scena del Brennero è stata molto bella. Più che una scena, una sceneggiata: dato che il farmaco arrivava dal Belgio, sarebbe stato più logico che passasse dalla Francia, più logico ma meno coreografico. Il furgone è stato poi aperto da un signora in camice bianco che ha preso la scatola con le mani: ma non doveva essere conservato a -80°? Dovevano essere -80°, ma andavano bene anche -70, forse -20, va bene anche un normale frigo, e alla fine lo hanno fatto sulle spiagge. Anche i dati sulla durata dell'immunità che conferiva sono stati sofferti e controversi e attraverso passaggi successivi si è passati dall'infinito o comunque almeno 10 anni a sei mesi, forse tre. Di conseguenza il numero delle inoculazioni necessarie secondo una scienza certa e inappellabile è passato da una dose assolutamente sufficiente a un numero indefinito e quindi potenzialmente infinito.
Ippocrateorg.org, associazione di medici per le terapie domiciliari, ha curato 70.000 pazienti, tutti documentati, con una mortalità dello 0,2%, 14 morti su 70.000 curati. I 14 decessi sono stati tutti di pazienti anziani, con patologie pregresse, presi in carico tardi, quando già la malattia era avanzata. La malattia era talmente grave e devastante per la società che nei mesi da settembre 2019 a gennaio 2020 in cui non è stata dichiarata né contrastata a livello statale, non ce ne siamo nemmeno accorti. La malattia è passata sulla popolazione Amish, un gruppo religioso della Pennsylvania che vive come nell'Ottocento, senza che se ne accorgesse, esattamente come non se ne sono accorti nei nostri campi nomadi e in Africa. Mentre il professor Bassetti brancolava nel buio (parole sue), l'Oms ha boicottato le terapie domiciliari, così che tachipirina, vigile attesa e intubazione hanno moltiplicato i morti. Politiche folli e anti scientifiche di chiusure hanno reso la vita un inferno, così che il mitico vaccino è diventato nella mente di molti l'unica possibilità di uscita dall'inferno. Questo li ha spinti a mettersi in coda agli hub vaccinali dalla petalosa forma di fiori, senza porsi domande. Si è sviluppato un odio isterico contro chi si è rifiutato di farsi iniettare farmaci sperimentali per prevenire una malattia curabile, l'odio che si ha per il peggior nemico, chi per pura malignità o scempiaggine ti sta impedendo l'unica uscita dall'inferno. In questa corsa a chi fa peggio, l'Italia ha brillato nel gruppo di testa, e ha anche tra le sue medaglie al disonore l'aver rifiutato il plasma iperimmune del professor De Donno, una terapia logica, efficace, economica, finita con derisione e denunce e poi una morte con lati oscuri.
Il vaccino è arrivato preceduto da un marketing spettacolare ed è stato imposto grazie alla demonizzazione delle terapie domiciliari. Gravissime le responsabilità degli Ordini dei medici nell'ostacolare le cure. Chi dava le cure giuste è stato sospeso o radiato. Molti studi, tra cui quello sulla tossicità gravissima della clorochina, erano semplicemente falsi. Quando la falsità è stata riconosciuta, lo studio è stato ritirato ma i redattori della rivista Lancet che lo aveva pubblicato non si sono dimessi. E stato millantato per questi medicinali il 95% di efficacia e nessun effetto collaterale importante.
Il 95% di efficacia era però un dato che riguardava l'efficacia relativa. L'efficacia assoluta è dello 0,8%: chiarisco questa impressionante differenza. Su 1.000 persone inoculate con questi farmaci 50 si ammalano di Covid. Vale la pena ricordare che la malattia colpisce solo una piccola percentuale della popolazione in maniera sintomatica. Su 1.000 persone non inoculate quante se ne ammalano? 58. La differenza quindi tra inoculati e non inoculati, l'efficacia assoluta, è dello 0,8%. Questi numeri erano intuibili già con i dati forniti inizialmente dalla Pfizer. Noi abbiamo sempre saputo che i farmaci hanno un'efficacia di meno dell’1%. Anche calcolando solo il loro costo economico, tuttora segreto, la cosiddetta vaccinazione non avrebbe avuto nessun senso.
Poi ci sono però gli effetti collaterali. È molto facile curare un malato Covid. Tutti noi che abbiamo usato i protocolli che avevano senso, siamo riusciti senza difficoltà a guarire migliaia e migliaia di persone. Per curare un danno da vaccino non c'è nessun protocollo. Ci vuole una squadra di specialisti. E stato iniettato un farmaco sulla cui scheda tecnica è scritto che «non si conosce la genotossicità, non si conosce la cancerogenicità e non si conoscono gli effetti a distanza», I presidenti degli Ordini dei medici hanno firmato le mail che ingiungevano ai medici di inocularsi un farmaco in fase sperimentale senza nessuna capacità dichiarata di fermare la trasmissione della malattia. Scrivendo quella mail, i presidenti degli Ordini dei medici non solo hanno dimostrato di non essere capaci di leggere le schede tecniche dei farmaci, ma hanno tradito anche il loro giuramento. Per diventare presidente degli Ordini dei medici, occorre impegnarsi a rispettare la libertà terapeutica del medico. Costringere il medico a inocularsi viola questo giuramento, quindi i presidenti degli Ordini dei medici sono denunciabili. E sufficiente un'unica pecora nera perché l'affermazione che tutte le Pecore sono bianche sia falsa. E sufficiente un unico presidente degli Ordini dei medici che non si sia uniformato a questo scempio, per dimostrare che era possibile rifiutarsi e che quindi avere eseguito gli ordini ministeriali è stata una colpa. Sandro Sanvenero, è stato presidente dell'albo odontoiatri dell'Ordine dei medici della Spezia dal 2006 al 2022, quando è stato destituito per aver espresso l'intenzione di rifiutarsi dal firmare le sospensioni per omessa vaccinazione Covid-19. Sulla regolarità di tale atto, il Consiglio di Stato ha rinviato al giudizio di merito. Gli iscritti avevano votato contro la destituzione, ma la loro volontà non è stata considerata. Sanvenero a gennaio 2022 ha scritto a tutti i presidenti d'Italia affermando che il Green passerà contrario agli obblighi imposti ai medici dal giuramento professionale e chiedendo un dibattito scientifico perché la normativa appariva in contrasto con le evidenze dei dati «sul campo». A maggio 2022 ha convocato un'assemblea straordinaria degli iscritti e ha rimesso la sua carica di presidente alla decisione assembleare, essendosi determinato a non firmare nessuna sospensione, poiché era palese l'inefficacia dei vaccini. Gli iscritti hanno votato a suo favore, ma la loro volontà non è stata considerata. Sanvenero ha ricordato che l'Ordine è un soggetto che per legge «concorre con le autorità locali e centrali nello studio e nell'attuazione dei provvedimenti», che è dotato di autonomia, e, soprattutto è dotato di poteri di «sussidiarietà» nei confronti degli altri organi componenti lo Stato; con una prevalenza dei principi etici su quelli normativi, giurando il medico fedeltà ad essi e non alla legge.
Il vaccino non è mai stato in grado di raggiungere gli obbiettivi fissati dalla legge, cioè la prevenzione dell'infezione. Non essendo raggiungibile il fine, le sanzioni non potevano essere applicate e l'Ordine che deve far rispettare i principi etici (tra cui anche il consenso del paziente al trattamento sanitario) non poteva essere colui che «estorceva» tale consenso. Sandro Sanvenero ha dimostrato che sarebbe stato possibile, per i presidenti provinciali, opporsi alla sospensione degli iscritti renitenti all'obbligo. Quindi coloro che non si sono opposti sono denunciabili, sia per aver violato il codice deontologico, sia per gli eventuali danni da vaccino incorsi ai medici che loro hanno costretto a inocularsi per poter lavorare.
(La Verità, 18 dicembre 2023)
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«Keren» una parola profetica per il Messia
Sulla parola ebraica "Keren". Parte 1.
di Gabriele Monacis
La Bibbia è ricca di immagini simboliche che trasmettono un messaggio vivido al lettore. Così tutti amiamo i versetti del Salmo in cui il cantore usa la parola "roccia" per descrivere Dio. Per esempio, dice: "Il Signore è la mia roccia, la mia fortezza e il mio salvatore" (Salmo 18,3). Quando leggiamo questo versetto, ci rendiamo conto senza doverci pensare molto che Dio è come una roccia: forte, sicuro, assolutamente affidabile e degno di fiducia. Questo profondo messaggio su Dio ci giunge attraverso il semplice uso simbolico della parola "roccia", utilizzata in questo versetto come immagine della natura di Dio.
Nel Nuovo Testamento, Giovanni Battista usa una potente immagine simbolica per presentare il Signore Gesù ai suoi ascoltatori: "Ecco l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!" (Giovanni 1:29). Gli agnelli sono generalmente considerati animali innocui, persino "innocenti". Quando Giovanni Battista chiamò Gesù "agnello", fu chiaro a tutti i suoi ascoltatori che intendeva dire che Gesù era venuto nel mondo come agnello sacrificale per dare la sua vita innocente per il peccato del mondo.
Vorrei ora richiamare la nostra attenzione sulla parola ebraica keren (קרן). Letteralmente significa "corno" e, come "roccia" o "agnello", è usata nella Bibbia non solo in senso letterale ma anche in senso figurato. In questo caso, non descrive le corna degli animali, ma è un'immagine della forza e del potere umano. Nelle nostre traduzioni bibliche, keren viene talvolta tradotto letteralmente come "corno", talvolta come "forza" o "vigore". Nel Salmo 92:11, ad esempio, il salmista usa il keren simbolicamente per descrivere la forza che ha ricevuto da Dio: "Ma tu innalzi il mio corno come quello di un bufalo".
Il significato simbolico del "corno" come immagine della forza umana deriva dalla bellezza della creazione di Dio, dove alcuni animali hanno corna o corna di bell'aspetto, come il bufalo nel Salmo 92, il cervo e molti altri. Sono animali dalla forza speciale e le loro corna danno loro un vantaggio in battaglia con gli altri animali. Fanno un'impressione splendida, persino regale, all'osservatore, e questo deriva dalle loro corna.
Nell'Antico Testamento, la parola keren non si riferisce solo alle corna degli animali o (simbolicamente) alla forza umana, ma anche agli angoli dell'altare degli olocausti (Esodo 27,2 e numerosi altri passi del Pentateuco). Può anche riferirsi al "corno dell'unzione" che, riempito d'olio, veniva usato per ungere un re - come in 1 Samuele 16:1, dove Dio incarica Samuele di ungere Davide come re d'Israele.
In una serie di articoli, vogliamo intraprendere un viaggio attraverso la Bibbia ed esaminare la maggior parte dei passaggi in cui ricorre la parola keren. Nel farlo, esamineremo i vari contesti di questa parola per comprendere meglio la vita di nostro Signore Gesù Cristo e ciò che ha fatto per coloro che credono in Lui. Vedremo che il keren può essere visto come una parola profetica che predice ciò che il Messia promesso da Dio nell'Antico Testamento farà per redimere molti dai loro peccati e dare loro la vita.
Nel Nuovo Testamento c'è un versetto che conferma che la parola keren era intesa profeticamente anche da coloro che aspettavano il Messia prima della sua prima venuta. Alla fine di Luca 1 troviamo il canto di lode di Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Pochi mesi prima della nascita di Gesù, Zaccaria, pieno di Spirito Santo, profetizza:
"[Dio] ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti che erano nei tempi antichi..." (Luca 1, 69-70).
Con queste parole, Zaccaria loda Dio per l'invio del Messia, la discendenza della casa di Davide, che Egli ha promesso per bocca dei suoi profeti e che verrà e dovrà venire a redimere il suo popolo Israele. Nella versione originale greca del Vangelo di Luca, Zaccaria chiama Gesù "keras soterias" (κέρας σωτηρίας) - un'espressione che può essere tradotta letteralmente come "corno della salvezza". Zaccaria rappresenta qui il popolo di Dio di quel tempo che attendeva la venuta del Messia. Quando queste persone leggevano la parola ebraica keren nell'Antico Testamento, molto probabilmente la intendevano come una parola profetica che poteva essere associata alla persona del Messia e alla sua opera di redenzione.
(1. continua)
(Nachrichten aus Israel – April 2022)
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Razzi di Hamas anche su Gerusalemme
Ora pure la popolazione araba rientra fra i possibili obiettivi dei terroristi islamici. Uccisi per errore tre ostaggi.
di Mirko Molteni
Hamas non demorde e lancia su Israele ripetute sventagliate di razzi, che, seppure imprecise e vulnerabili al sistema di intercettazione Iran Dome, riescono se non altro ad alimentare la paura fra la popolazione, come arma letteralmente terroristica.
Ieri dalla Striscia di Gaza sono decollati ulteriori ordigni che sono arrivati fino a Gerusalemme. Peraltro mettendo a rischio non solo incolumità e beni dei cittadini israeliani ebrei, ma anche di quelli arabo-israeliani e palestinesi della parte Est della città. Eppure Hamas ha rivendicato l'attacco definendolo «una risposta al massacro di civili a Gaza».
• ARMI IRANIANE Data la distanza di oltre 75 km fra la Striscia e l'antica (e attuale) capitale dello Stato ebraico, è probabile che Hamas abbia usato nell' azione i razzi iraniani Fajr 5 o le loro copie palestinesi Qassam M75, ordigni lunghi 6,5 metri, del peso totale di 900 kg di cui 175 kg di esplosivo. Un numero imprecisato di razzi è arrivato in pochi minuti nell'area fra Gerusalemme e Beit Shemesh, e uno di essi s'è perfino schiantato non lontano dall'ospedale di Ramallah, per ironia, sede dell'Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, che contrasta Israele, ma è anche rivale di Hamas. Almeno sei razzi sono stati abbattuti dai missili dell'Iran Dome e non ci sono state vittime, mentre fra i pochi danni si registrano la caduta di rottami su una linea elettrica e il fracassamento di alcuni pollai.
I combattimenti segnano intanto nuove tragedie per gli inermi. Ieri sera, il portavoce militare israeliano, contrammiraglio Daniel Hagari, ha ammesso che «per un tragico errore le truppe hanno sparato su tre ostaggi uccidendoli». Hagari ha spiegato che il dramma s'è consumato a Sehjaya, una delle aree dove più feroce è la lotta: «È un tragico incidente, ne portiamo la responsabilità. È una zona dove i soldati si imbattono in molti terroristi, inclusi kamikaze». Gli sfortunati ostaggi erano Yotam Haìm, rapito dal kibbutz di Kfar Aza, e Samer Talalka, dal kibbutz di Nir Arn, mentre del terzo, la famiglia non ha autorizzato la diffusione del nome.
Un raid di un drone israeliano su una scuola di Khan Yunis gestita dall'UNRWA ha causato almeno tre morti, fra cui un bambino, secondo il Guardian, mentre Al Jazeera parla di 33 defunti, In mattinata, l'Unità 504 dell'intelligence militare e la 551° Brigata hanno
trovato senza vita il giovane ostaggio franco-israeliano Elia Toledano, 28 anni, rapito il 7 ottobre dal festival musicale Supernova del Kibbutz Re'im, Poi il portavoce del governo israeliano, Eylon Levy, ha stimato che «20 dei 132 ostaggi rimasti a Gaza siano morti». Al Jazeera ha comunicato che due suoi giornalisti, Wael al-Dahdouh e Samer Abu Daqa erano rimasti feriti in mattinata a Khan Yunis e che poi verso sera fartificAbu Daqa è spirato. Hamas orchestra invece a tavolino perfino trappole-bomba camuffate da bambolotti. Artificieri dell'Idf hanno scoperto in un vicolo stretto fra Jabalya e Beit Lahia bambole sul terreno vestite con colori sgargianti, a simulare bambini, oltre a un altoparlante che diffondeva canzoni in ebraico, quasi a suggerire che ci fossero degli ostaggi israeliani da liberare.
• TRAPPOLE ESPLOSIVE In realtà dagli edifici del vicolo, vedette di Hamas erano pronte a sparare e far saltare cariche esplosive al primo avvicinarsi dei soldati. Il piano è stato però sventato. Ieri sono morti altri tre militari israeliani e il totale dei caduti è arrivato a 119. Erano il sergente Oz Shmuel Aradi, 19 anni, del Battaglione Lahav, il soldato Shai Uriel Pìzern, 28 anni, e il sergente Tomer Shlomo Myara, 28 anni, del 710° Battaglione. La lotta è concentrata su Khan Yunis, roccaforte del capo di Hamas Yahya Sinwar. E proprio ieri l'esercito ha comunicato che «i commandos della Brigata Maglan sono penetrati molto in profondità nel sobborgo, raggiungendo la casa abbandonata di Sinwar e sequestrando armi e documenti». Hanno anche ucciso molti miliziani sbucati dai tunnel. Un'altra galleria è stata distrutta a Shujaya, mentre Hamas, sulle voci di allagamento della rete sotterranea ribatte: «È costruita per resistere a tutti i possibili attacchi israeliani, compreso il pompaggio dell'acqua».
Libero, 16 dicembre 2023)
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Le speranze vane di una pace con Hamas
Inutile dialogare coi jihadisti, vogliono eliminare Israele. E in Cisgiordania tifano per loro.
di Fiamma Nirenstein
Mentre Jake Sullivan, consigliere strategico di Biden, tesseva ieri la sua tela di speranza di pace a nome del presidente degli Stati Uniti prima a Gerusalemme con Netanyahu, Gallant e tutto il gabinetto, e poi a Ramallah da Abu Mazen, Hamas si è fatto vivo: ha sparato sei missili su Gerusalemme, di cui quattro bloccati da Iron Dome, uno caduto su un edificio a Beith Shemesh. Ma l'ultimo, per un espressivo scherzo della sorte, mentre qui a Gerusalemme correvamo nei rifugi con le famiglie in casa per la serata di Shabbat, è finito sull'ospedale di Ramallah. Così Hamas ha fornito un'ulteriore tessera che può far capire a Sullivan come stanno le cose: la sua ferocia ideologica contro i cittadini di Israele non ha mai fine, molto oltre il campo di battaglia, dentro le case. È apparsa ancora più ridicola la ciarlataneria di Mousa Abu Marzuk, uno dei «pragmatici» di Hamas, che ha detto che forse si potrebbe, in modo da rientrare nei ranghi militanti dell'Olp, riconoscere Israele. Due menzogne in una, la prima percepibile a prima vista: Hamas è nato per uccidere uno a uno gli ebrei, è scritto nella sua Carta. In secondo luogo perché l'Olp alla fine non ha mai riconosciuto Israele. Hamas dopo quello che ha fatto il 7 ottobre può piacere solo a chi vuole distruggere la civiltà occidentale e uccidere gli ebrei. Non a Biden.
Il consigliere ha spiegato come gli Usa siano vigorosamente al fianco di Israele in guerra e per gli ostaggi, ma si aspettano un rallentamento delle operazioni, chiedendo precisi «stadi» in discesa a partire dalla prima settimana di gennaio; e che ci si avvii verso un piano per il day after che al centro metta l'Anp di Abu Mazen. Questo, come prolusione a un recupero del disegno dei «due stati per due popoli». Ma Hamas l'ha mandato a dire anche ieri: un declino programmato non fa fronte all'accanimento con cui, per esempio, da Gaza si sparano missili che danno la caccia ai cittadini di Gerusalemme. I lanciamissili, le riserve missilistiche, sono state preparate da Sinwar per una lunga guerra di posizione; il rallentare, darsi delle scadenze, cedere al ricatto dell'uso dei cittadini come scudi umani è apprezzabile per il rispetto della gente di Gaza, ma non consente la conclusione della missione. L'insistenza americana porta risultati, come per esempio l'apertura del valico di Kerem Shalom per far entrare duecento camion di rifornimenti; crea più attenzione nel favorire l'evacuazione della gente, anche se Hamas seguita a impedirla. Ma i dieci soldati uccisi due giorni fa sono stati assaliti da dentro una scuola... tutto è ancora Hamas. Quanto al Fatah di Abu Mazen cui, sia pure in versione «riabilitata», Sullivan guarda disegnandolo come un futuro partner, Hamas ormai in Cisgiordania lo schiaccia. Gli israeliani in battaglia due giorni fa a Jenin hanno scoperto una quantità senza precedenti di armi pesanti e fatto 70 prigionieri sospetti di Hamas. Secondo il Palestinian Center for Policy Survey and Research (Pcpsr), il 72% dei palestinesi sono d'accordo con quello che Hamas ha fatto il 7 di ottobre, e fra questi, l'85% nel West Bank; il supporto per Hamas è triplicato. Il 60% dei palestinesi chiede le dimissioni di Abu Mazen.
Gli Usa giocano quindi una partita molto rischiosa, la stessa che si è lasciato che Hamas giocasse fino alla trasformazione in belva. Si capisce che Biden debba giocare una carta pacifista adatta al suo elettorato a fronte di un'opinione pubblica di cui l'Onu cinicamente si fa portabandiera, quella della tregua a costo della vita di Israele. Israele certo non vuol perdere il rapporto con Biden, ma quante vite dei suoi soldati in una guerra rallentata questo può costare? E quanto alla fine, questo conviene agli Usa stessi?
(il Giornale, 16 dicembre 2023)
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Collegamento con Fiamma Nirenstein da Gerusalemme sulla guerra tra Israele e Hamas
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Il capo del Mossad in Europa tratta per gli ostaggi con il Qatar
Netanyahu si era inizialmente opposto alla trattativa tra il Mossad e il Qatar, ma poi ha dovuto cedere sotto la forte pressione dei parenti degli ostaggi.
di Paola P. Goldberger
Il capo del Mossad, David Barnea, dovrebbe incontrare il primo ministro del Qatar, Mohammed Bin Abdul Rahman Al Thani, in Europa questo fine settimana, per negoziare un accordo volto al rilascio dei rapiti a Gaza.
Si tratta del primo incontro tra un alto funzionario israeliano e uno del Qatar dopo la fine del cessate il fuoco.
Il ritorno al tavolo delle discussioni arriva mentre le famiglie degli ostaggi aumentano la pressione per il ritorno dei loro cari da Gaza. Il precedente accordo è fallito due settimane fa dopo che Hamas si è rifiutato di rilasciare il resto delle donne rapite.
Hamas ha incolpato Israele per il fallimento dell’accordo e ha affermato che le donne che Israele aveva chiesto di rilasciare erano soldati dell’IDF.
Secondo quanto riportato da Axios la scorsa settimana, i mediatori del Qatar hanno contattato i funzionari israeliani per verificare se ci fosse interesse a riaprire i negoziati indiretti con l’organizzazione terroristica di Hamas.
I mediatori avrebbero chiesto agli attori israeliani del negoziato se sarebbero disposti ad accettare un accordo che permetta il rilascio delle donne prigioniere e di altre persone che rientrano negli “elementi umanitari”, come i feriti gravi, le persone con problemi medici e gli uomini anziani.
In seguito alla proposta iniziale del Qatar, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e altri membri del Gabinetto di Guerra si sono opposti al viaggio di Barnea. Tuttavia, in seguito alle reazioni, Netanyahu ha cambiato rotta e ha permesso al capo del Mossad di contattare i funzionari del Qatar.
Hamas detiene ancora più di 130 ostaggi, dopo che molti sono stati rilasciati nell’ambito di un accordo che ha messo in pausa i combattimenti a Gaza per diversi giorni. Diversi ostaggi sono stati uccisi durante la prigionia nell’ultima settimana. Ieri tre ostaggi sono stati uccisi da “fuoco amico”, scambiati erroneamente per terroristi di Hamas. La dinamica non è chiara. L’IDF ha aperto un’inchiesta.
(Rights Reporter, 16 dicembre 2023)
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Studio: l'84% dei bambini israeliani ha problemi di salute mentale
GERUSALEMME (inn) - Il massacro di Hamas del 7 ottobre e la guerra che ha alimentato hanno un impatto massiccio sulla salute mentale dei bambini israeliani. È quanto emerge da uno studio dell'organizzazione "Goshen", che si occupa di assistenza all'infanzia, e dell'Associazione pediatrica. È stato redatto un mese dopo l'attacco terroristico a Israele.
Secondo lo studio, l'84% dei bambini e delle bambine soffre di stress emotivo. Il 40% dei genitori ne è affetto. Tuttavia, secondo il quotidiano online "Times of Israel", solo il 14% ha cercato un aiuto professionale per sé o per i propri figli. 493 genitori di bambini fino a dodici anni sono stati intervistati in tutto il Paese.
Tra i bambini e le bambine che hanno vissuto in prima persona il massacro o la guerra, il 93% ha problemi emotivi. Il 69% di questi bambini soffre di ansia.
• La Knesset onora i servizi di sicurezza
Nel frattempo, la Knesset ha tenuto una cerimonia speciale in onore delle forze di sicurezza e di soccorso. Giovedì è stata accesa l'ottava candela del candelabro di Hanukkah. Erano rappresentati l'esercito, la polizia, la polizia di frontiera, i servizi di soccorso "Magen David Adom" e "United Hatzalah", nonché i vigili del fuoco e le autorità carcerarie.
Il presidente della Knesset Amir Ochana (Likud) ha elogiato gli sforzi dei servizi di sicurezza dopo il massacro. Il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica) ha ricordato i soccorritori uccisi il 7 ottobre. Le luci sono state accese dalla famiglia di Gil Tasa e di suo figlio Or, entrambi uccisi a Netiv HaAssara.
• Presidente del CICR: Hamas non è ricettivo alle pressioni
Il Presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Mirjana Spoljaric, ha visitato Israele giovedì. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha dichiarato, durante un incontro a Tel Aviv, che la Croce Rossa potrebbe fare più di prima per contribuire alla restituzione degli ostaggi rimasti. L'organizzazione ha tutto il diritto di esercitare pressioni pubbliche sul gruppo terroristico di Hamas. Ha voluto dare all'organizzazione dei farmaci da portare ai rapiti.
Secondo un articolo del "Jerusalem Post", Spoljaric ha risposto che Hamas non è ricettivo a tali pressioni: "Più pressione pubblica sembriamo esercitare, più chiudono la porta".
In risposta alle critiche del CICR sull'alto numero di vittime a Gaza, Netanyahu ha spiegato: "C'è una differenza tra l'omicidio deliberato e sistematico, la mutilazione e la minaccia ai civili, cioè il terrore, e le conseguenze non volute, le vittime non volute che accompagnano ogni guerra".
Il capo del governo ha aggiunto: "Vorrei esprimere la mia gratitudine per il vostro aiuto nel garantire il rilascio degli ostaggi. Ma allo stesso tempo, alcune delle dichiarazioni che sono arrivate dalla vostra organizzazione non sembrano fare la distinzione che ho fatto io".
• Scoperti altri corpi di ostaggi
Nella Striscia di Gaza, intanto, l'esercito ha scoperto i corpi di due soldati di 19 anni rapiti il 7 ottobre: Nik Beiser di Be'er Sheva e Ron Scherman di Lehavim.
Un'unità speciale ha anche trovato il corpo di Elia Toledano, 28 anni, che era stato rapito dal Nova Festival. I resti sono stati portati in Israele nella notte.
Tre soldati sono stati uccisi durante i combattimenti contro i terroristi di Hamas. Altri quattro sono stati feriti, tra cui due ufficiali.
• La pioggia complica la situazione dei civili nella Striscia di Gaza
La situazione degli sfollati palestinesi nel sud dell'enclave costiera continua a peggiorare. Mercoledì si è scatenata una fredda pioggia invernale, che molte tende a Rafah non possono sopportare, scrive il "Times of Israel". Mancano cibo, servizi igienici, materassi e coperte.
L'autorità israeliana COGAT ha annunciato martedì di aver installato 50 lavatoi. Ne seguiranno altre centinaia.
• Esercito: un razzo di Hezbollah su cinque colpisce il Libano
Continuano gli attacchi di Hezbollah contro il nord di Israele. Secondo l'esercito, tuttavia, uno su cinque delle centinaia di migliaia di razzi ha colpito il territorio libanese. La scorsa settimana, ad esempio, otto razzi di una raffica lanciata dalla milizia terroristica non sono riusciti a raggiungere Israele.
I militari hanno ricordato che gli attacchi costituiscono una violazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa aveva posto fine alla Seconda guerra del Libano nel 2006 dopo cinque settimane. "I razzi mirano a danneggiare e uccidere - mettendo così in pericolo sia i civili israeliani che quelli libanesi. L'esercito israeliano continuerà a difendere il confine settentrionale da qualsiasi minaccia", ha scritto l'esercito sulla Piattaforma X.
• Nave da carico Hapag-Lloyd attaccata
Ci sono stati nuovi attacchi anche nel Mar Rosso. Una nave container della compagnia di navigazione tedesca Hapag-Lloyd, la "Al Jasrah", è stata colpita. Un portavoce della compagnia di navigazione ha dichiarato che la nave ha subito danni. Non ci sono state vittime. Diversi media hanno riferito che a bordo è scoppiato un incendio.
La "Al Jasrah" batte bandiera liberiana. È in viaggio dalla città greca del Pireo attraverso il Canale di Suez in direzione di Singapore. Il cargo ha potuto continuare il suo viaggio.
Un'altra nave è stata colpita venerdì nel Mar Rosso. Anche la "MSC Palatium III" batte bandiera liberiana. Anche in questo caso l'equipaggio è rimasto illeso.
Il governo tedesco ha condannato gli attacchi alle navi nel Mar Rosso. I terroristi huthi sostenuti dall'Iran nello Yemen sono presumibilmente dietro anche a questo attacco.
(Israelnetz, 16 dicembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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