Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 1-15 febbraio 2015


Francia - Centinaia di tombe profanate in un cimitero ebraico

Atti di vandalismo presso il cimitero di Sarre Union. Il ministro degli Interni francese Cazeneuve ha condannato il gesto definendolo "odioso" e garantendo che tutto sarà fatto per garantire "la nostra irriducibile volontà di vivere insieme, in libertà".

Il Ministro degli Interni francesi Bernard Cazeneuve ha definito "un atto odioso" quello verificatosi domenica 15 febbraio in un cimitero ebraico nella località di Sarre Union, nella regione della Bas-Rhin: sono state infatti profanate centinaia di tombe, un gesto che non può che indignare, specie se relazionato ad un clima sociale in Europa molto pesante, anche in virtù dei fatti delle ultime settimane, tra Francia e Danimarca. Cazeneuve, che oggi si è appunto recato a Copenaghen per rendere omaggio alle due vittime della doppia sparatoria di ieri nella capitale danese, per le quali un uomo è stato identificato come il responsabile di entrambe le sparatorie, ha proseguito aggiungendo che "La Repubblica non tollererà questa nuova ferita che colpisce i valori che tutti i francesi condividono". Non si tratta d'altronde della prima volta in cui il cimitero ebraico sia vittima di una viltà simile. Nel 1988 una sessantina di tombe ebraiche erano state rivoltate e lo stesso era accaduto nel 2001 ad altre 50, completamente saccheggiate.
  Il Ministro degli Interni francese non ha chiarito ulteriori particolari riguardanti l'attacco vandalico al cimitero di Sarre Union, precisando come tutto "sarà fatto affinché si riescano ad identificare e intercettare il luogo dove si trovino gli autori di questa ignominia". Lo ha promesso garantendo che il prefetto della Bas Rhin e il procuratore della Repubblica di Saverne si sono immediatamente resi disponibili alle istituzioni per concorrere a questo obiettivo. La conclusione di Cazeneuve ha concluso confermando l'intolleranza ad ogni forma di violenza, "alcuna manifestazione d'irrispetto, di odio per tutte le forme di razzismo, intolleranza religiosa potranno indebolire la nostra irriducibile volontà di vivere insieme, in libertà assoluta".

(fanpage, 15 febbraio 2015)


Attentati di Copenhagen: le reazioni nel mondo ebraico

di Pino Salerno

 
La Grande Sinagoga di Copenaghen
La European Jewish Association ha chiesto con forza maggiore protezione delle istituzioni ebraiche in Europa, sull'onda degli attentati di Copenhagen, in cui sono state uccise due persone, una delle quali era Dan Uzan, un ebreo di 37 anni che prestava servizio volontario come sorvegliante alla grande Sinagoga della capitale danese. Il direttore generale dell'Associazione, Rabbi Menachem Margolin, ha detto che i leader europei non hanno fatto abbastanza per combattere gli attacchi e i pregiudizi antisemiti, ed ha sostenuto che occorre dare sicurezza "a tutte le istituzioni ebraiche 24 ore al giorno per 7 giorni su 7". La comunità ebraica di Copenhagen "è davvero sotto tensione", ha detto il rabbi Yitzhak Leventhal della Chabad House di Copenhagen, ed ha aggiunto che "questo è un attacco contro il diritto degli ebrei di esistere qui. Il terrore non è una ragione sufficiente per andarsene in Israele. Si spera che le forze di sicurezza facciano ciò che devono, ma le nostre vite devono continuare. L'obiettivo del terrorismo è di cambiare le nostre vite, e noi non lo permetteremo ". Il Rabbi di Copenhagen ha poi detto: "Non è un momento facile. Abbiamo perso un amato membro della comunità ed ora dobbiamo continuare a fare ciò che facevamo, ovvero, aiutare gli ebrei danesi a condurre una vita normale. Questa è la vera risposta contro un atto di terrorismo crudele, vile e spietato".

- La comunità ebraica di Copenhagen ricorda Dan Uzan
  Dan Uzan, l'ebreo ucciso, faceva la guardia volontaria durante la Cerimonia della Bar Mitzvah nella Sinagoga al centro di Copenhagen, verso l'una della notte tra sabato e domenica. Jair Melchior, uno degli anziani della comunità ebraica di Copenhagen ha detto: "era un grande amico. Sempre qui ad aiutare e a fare qualunque cosa. È cresciuto nella comunità: alla scuola ebraica e poi in altri istituti ebraici. Ha dato cuore e tempo, ed ora la sua vita, per la comunità". Melchior ha aggiunto: "questo attacco è parte della stessa cosa che vediamo oggi in Europa e in molti altri posti, sia che si tratti di Isis, sia che si tratti di Al-Qaeda - cose che la comunità islamica ha moltissima difficoltà ad affrontare. E noi cerchiamo di lavorare con loro per fermarli e prevenirli e spero di avere la loro piena collaborazione, e io so che ce la faremo, perché l'abbiamo già fatto in passato".

- La reazione delle comunità ebraiche in Europa
  Il Rabbi Barry Marcus, della Central Synagogue di Londra commenta: "alcuni anni fa abbiamo avuto notizia dai nostri colleghi di Copenhagen che ai genitori veniva detto di portare via i figli dalle scuole materne perché non potevano più garantire la loro sicurezza. Ciò che è accaduto sabato notte è scioccante, ma non siamo sorpresi. Vi è stata un'irrigazione di antisemitismo che goccia dopo goccia ha permesso questa fioritura". Il Rabbi Marcus collega l'antisemitismo ad un crescente estremismo islamico. Ha sostenuto: "in Francia, dopo l'attacco contro Charlie Hebdo, il tizio che entrò nel supermercato kosher aveva già chiarito che voleva uccidere ebrei. Ed è ciò che spesso viene dimenticato, perché nessuno intende affrontare la realtà".
Intanto, con un tweet, si fanno sentire gli studenti ebrei della European Union of Jewish Students: "siamo stati svegliati da una tragedia stamani - i nostri pensieri e le nostre preghiere sono per le vittime e le loro famiglie". In un comunicato diffuso più tardi, gli studenti ebrei scrivono: "l'Unione Mondiale degli Studenti Ebraici e l'Unione Europea degli Studenti Ebraici insieme chiedono a tutti di manifestare solidarietà con la comunità ebraica usando l'hashtag #IgoToSynagogue per esprimere che il diritto degli ebrei di professare e vivere il loro ebraismo in sicurezza e pace è interesse di tutti, per assumere una posizione ferma di fronte all'antisemitismo. Chiediamo a tutti di manifestare davanti alle ambasciate danesi di tutto il mondo, per esprimere la solidarietà con il popolo danese che ha sofferto gli attacchi terroristici di ieri, accendere una candela in memoria delle vittime, vigilare e restare forti contro il terrorismo. Baruch Dayan ha Emet - possa il loro ricordo essere una benedizione".

(Jobsnews.it, 15 febbraio 2015)


Ebrei a Livorno

di Giulio Busi

Francesca Bregoli, Mediterranean Enlightenment. Livornese jews, Tuscan Culture, and Eighteenth Century Reform, Stanford University Press, pagg. 338, e 60,32
Mettetevi nei panni di un povero inquisitore. Navi che arrivano tutti i giorni. Mercanti, marinai e avventurieri in cerca di guai. Prostitute, rinnegati e miscredenti. «Il governo non riesce a impedire che s'introducano in città merci di contrabbando e neppure noi possiamo fermare i libri proibiti». È il 1738, e i censori di Livorno scrivono sconsolati a Roma: cosa ci si può aspettare da un porto di mare, se non confusione, affari poco limpidi e idee spudorate? Se poi nel suddetto porto prospera una comunità ebraica orgogliosa e variopinta, gli affanni dell'Inquisizione sono davvero garantiti. Gli ebrei, si sa, amano i libri, li leggono, li stampano, li vendono. Per Livorno passa mezza diaspora mediterranea, ciascuno con le proprie merci, e con i suoi volumi - in ebraico, spagnolo, portoghese, vatti a fidare di cosa c'è scritto.
   Nel suo bello studio sull'ebraismo livornese del Settecento, Francesca Bregoli spiega le ragioni di tanta vitalità intellettuale. Voluto dal governo mediceo già alla fine del 500, l'insediamento giudaico a Livorno fu determinante per lo sviluppo economico della città. Accanto ai traffici, la comunità livornese sviluppò una propria via alla cultura, in equilibrio tra innovazione e tradizione. Se in Inghilterra e in Prussia l'Illuminismo spinse molti ebrei a ripensare o ad abbandonare progressivamente la religione degli avi, nel laboratorio privilegiato delle città tirrenica, al riparo della protezione governativa, parecchi ebrei furono conservatori in materia di fede e innovatori nelle scienze o nelle arti. Il caso forse più sorprendente è quello di Joseph Attias, possessore di una bellissima biblioteca, apprezzata, tra gli altri, da Muratori e da Montesquieu, e frequentata da professori e spiriti liberi della vicina università di Pisa. «Port scholar», «erudito di porto» lo definisce Bregoli, cum bona pace inquisitorum.

(Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2015)


Netanyahu: "L'ondata di attacchi continuerà". Pacifici: "Israele storico rifugio da minacce"

Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu esorta ancora una volta gli ebrei d'Europa ad emigrare in Israele. "Gli ebrei vengono uccisi in Europa solo perché sono ebrei - ha detto oggi Netanyahu dopo l'attacco della scorsa notte alla sinagoga di Copenaghen - questa ondata di attacchi continuerà. Io dico agli ebrei d'Europa: Israele è la vostra casa".
   "Non c'è nulla di strano: è l'appello ricorrente che ogni leader israeliano rivolge sempre agli ebrei che non vivono in Israele", commenta il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, raggiunto a Berlino dall'AdnKronos.
   "Forse può incidere anche il fatto che in Israele si è in campagna elettorale e dunque per Netanyahu è una dimostrazione di forza politica l'offrire ospitalità nel Paese. Ma ricordo appelli analoghi rivolti da Shimon Peres, sia come presidente che come ministro - prosegue Pacifici - Del resto, non bisogna mai dimenticare che Israele nasce come rifugio del popolo ebraico di fronte a qualunque minaccia: dal dopoguerra in Europa alle situazioni nel Corno d'Africa, dall'allora Unione Sovietica all'America Latina, penso prima all'Argentina e poi al Venezuela".
   Per Pacifici, "Israele vuol continuare a mandare un messaggio forte, quale focolare del popolo ebraico. Specie in questo momento che vede nuovamente l'ebreo come 'target', come obiettivo della strategia del terrore. Ciò non significa che automaticamente ogni ebreo debba rispondere positivamente a quell'appello. Per quanto riguarda ad esempio Roma, chi nella nostra comunità decide di andare a Gerusalemme o a Tel Aviv lo fa non per motivi di sicurezza ma per le opportunità che Israele offre dal punto di vista dell'economia, dll'imprenditorialità, della ricerca".

(Adnkronos, 15 febbraio 2015)


Ci sono profughi e profughi

di Deborah Fait

Pochi giorni fa, il 10 febbraio, sono stati commemorati gli italiani morti nelle foibe, donne, uomini, bambini, spesso gettati vivi, legati l'uno all'altro, dentro quelle voragini carsiche. Più di 10.000 persone furono ammazzate dai comunisti di Tito, in parte fucilati nelle loro case, per le strade delle loro città, torturati a morte, altre migliaia furono infoibate. Questo scempio avvenne dal 1943 al 1947, a guerra gia' finita. Trieste fu l'unica città italiana che visse la liberazione come un incubo perché per 40 giorni le squadre titine imperversarono torturando, uccidendo, deportando migliaia di cittadini innocenti. Il Maresciallo Tito voleva Trieste, le sue truppe, ma anche molti abitanti sloveni del Carso triestino, urlavano Trst je nas, Trieste è nostra. Questo eccidio, insieme alla pulizia etnica dell'Istria e della Dalmazia che dovevano diventare slave e comuniste, è passato sotto silenzio, un silenzio inaudito di cui la storia dovrà rendere conto.
   Soltanto il 10 febbraio 2005, 50 anni dopo la tragedia, il Parlamento italiano ha dedicato la Giornata del Ricordo ai morti nelle foibe, un riconoscimento contestato, vergognosamente, dalla sinistra italiana. Tra quelli che hanno firmato contro, ecco alcuni nomi eccellenti: Armando Cossutta, Oliviero Diliberto (l'innamorato di Arafat), Giuliano Pisapia (ricordatelo, milanesi!), Marco Rizzo (altro innamorato di Arafat), Nichi Vendola!!! Questi firmatari del NO e altre decine di scellerati dell'opposizione di quegli anni non volevano che l'eccidio comunista fosse ricordato ritenendo i morti delle foibe indegni perché scacciati da un regime comunista quindi, secondo loro, fascisti, quindi... sempre secondo loro... punibili con la morte e l'esilio. Ogni anno i sinistri (gli stessi che amano il terrorismo palestinese, quello di Al Qaeda e tutti i terrorismi islamici, quelli che adesso non proferiscono parola contro lo Stato islamico) rifiutano di partecipare alla Giornata del Ricordo delle foibe, ogni anno i nullafacenti teppisti dei centri sociali cercano di disturbare le manifestazioni. Quest'anno sono andati a gettare bombe carta a Trento! Vergogna marcia! Una vergogna tutta italiana contro la Memoria della Shoà e contro il Ricordo degli infoibati, un'Italia venduta ai palestinesi dal Lodo Moro e che permise al terrorismo nero, rosso e palestinese di fare scempio su tutto il territorio nazionale.
 
Crevatini-Hrvatini
   Io ero piccola ma ricordo la casa dei miei nonni in un borgo che in italiano si chiamava Crevatini e in sloveno Hrevatin, era abitato da italiani che parlavano un dialetto molto simile al veneto, ricordo mia nonna e i suoi racconti della famiglia che aveva costruito quella casa più di 400 anni prima, ricordo l'amicizia della gente, le porte delle case di pietra sempre aperte, l'asino, il cane Boby con cui giocavo, il frinire, al tramonto, delle cicale che gareggiavano coi grilli a chi faceva più baccano. Andavamo a caccia di maggiolini, e se noi bambini avevamo fame potevamo entrare in una qualsiasi di quelle porte aperte, chiedere un panino, un frutto, in bicchiere di latte, tutti si conoscevano, si aiutavano, avevano umanità, pazienza e allegria. Un mondo scomparso.
   Quando tornai, anni dopo, nella casa dei miei nonni, quel bel dialetto così musicale era scomparso sostituito da una lingua dura piena di consonanti, le porte non erano più aperte, tutto era cupo, mi sentivo spiata con sospetto da dietro le finestre, eravamo i "talianski", le antiche case di pietra col porticato di vite e i grappoli che pendevano sulla testa, erano state demolite e al loro posto avevano costruito brutte e anonime case di cemento con orrende verande di plastica e alti muri di mattoni tra una e l'altra. Gli italiani non c'erano più, tutte le mie amiche d'infanzia erano andate via, chi a Trieste, chi in altre città italiane, chi in Australia. Solo mia nonna era rimasta nella "corte", parlava il suo dialetto coi nuovi vicini croati che stranamente la capivano, diceva che avrebbe lasciato la sua casa "solo dopo morta". E così fece. Dall'Istria furono cacciati dalle loro case, dalle loro terre, dai luoghi dove vivevano (loro per davvero) da centinaia d'anni, 350.000 italiani. Una pulizia etnica portata a termine con tutti i crismi, una lunga scia di umanità che camminava verso chissà dove, coi carretti pieni di sedie , tavoli, materassi. Le porte delle case lasciate aperte perché sapevano che non vi sarebbero tornati mai più. Alcuni furono imbarcati sulle navi verso Ancona o Trieste, messi nelle baracche dei campi profughi, altri sui treni verso città italiane che li avrebbero accolti malissimo , "fascisti" gli urlavano. La grassa, dotta e rossa Bologna rifiutò di rifocillarli quando arrivarono in stazione, rifiutarono loro anche l'acqua. Italiani, brava gente, che negavano aiuto ad altri italiani.
   Con gli anni quei profughi ripresero in mano la loro vita, le baracche furono trasformate in piccole casette con i fiori alle finestre, pian piano tutti si sistemarono e molti emigrarono. Nessuno mai andò a gettare bombe contro quelli che si erano impossessati delle loro case e delle loro terre, nessuno si trasformò in terrorista. Nessuno! Gli istriani vivevano in quelle terre da sempre, da tempi immemorabili, erano le loro terre, non erano arrivati da altri paesi! Gente civile, pacifica, lavoratori che pensarono solo a ricominciare tutto da capo anche in paesi stranieri, anche dall'altra parte del mondo, misero le chiavi delle case avite nei cassetti, per ricordo, senza mai sbandierarle, senza mai urlare che là sarebbero tornati. Sapevano che era finita per sempre, che non avevano più "dove tornare" come scriveva Fulvio Tomizza, accettarono il loro destino forzato di profughi pensando a rifarsi una vita nel ricordo e colla nostalgia dei tempi passati e perduti. Le innumerevoli associazioni istriane, createsi dopo l'esilio, servivano a mantenere nel cuore della gente il ricordo delle tradizioni e l'amore per la terra perduta, non sono mai state covi dove alimentare odio e violenza.

(Inviato dall'autrice, 15 febbraio 2015)


(Notizie su Israele, 15 febbraio 2015)


Copenaghen - Doppio attentato davanti a una sinagoga e dopo un dibattito sull'Islam

La prima sparatoria in un coffee bar durante un incontro pubblico sulla libertà di espressione, dove era presente anche il vignettista Lars Vilks, uno degli autori delle cosiddette "vignette blasfeme" su Maometto. La seconda davanti a una sinagoga. Poco lontano un uomo ha sparato contro la polizia ed è stato ucciso. Nei due attentati sono morte due persone e feriti cinque agenti.

 
Impressionante l'audio diffuso a poche ore dalla sparatoria. Al caffé Krudttonden si stava tenendo un convegno in ricordo di Charlie Hebdo. All'improvviso si sentono diversi spari e il panico prende il sopravvento all'interno del locale.
COPENHAGEN, 15 febbraio 2015 - La polizia danese ha sparato a una persona uccidendola nel corso dell'intensa caccia all'uomo che è scattata dopo le sparatorie che si sono verificate a Copenhagen, in un caffè dove era in corso un dibattito sull'Islam e fuori da una sinagoga, e che hanno provocato la morte di due persone e il ferimento di altre cinque.
   In entrambi i casi, la polizia non è riuscita a catturare l'assalitore e ha lanciato una caccia all'uomo con elicotteri e veicoli blindati per le strade della capitale.
   Nelle prime ore della mattina, le forze di sicurezza hanno fatto sapere di aver sparato colpi di arma da fuoco e di aver ucciso un uomo a Norrebro, nei pressi di una stazione, area di Copenhagen non distante dai luoghi dei due attacchi. L'uomo è, presumibilmente, il responsabile di entrambe le sparatorie di ieri. Dalle prime indagini condotte dalla polizia danese "nulla suggerisce che ci sia un altro attentatore" coinvolto: lo ha reso noto Joergen Skov, un investigatore della polizia. La vittima aveva aperto il fuoco contro gli agenti, nonostante gli avvertimenti di questi ultimi.
   La prima sparatoria ieri è avvenuta in un centro culturale, dove era in corso un dibattito sulla libertà di espressione, che vedeva tra gli inviati l'artista svedese Lars Vilks, il quale vive da anni sotto scorta per le minacce di estremisti islamici in seguito alla pubblicazioni di alcune sue vignette satiriche su Maometto. Qui una persona è morta e tre poliziotti sono rimasti feriti.
   Alcune ore dopo, un'altra sparatoria si è verificata in città, nei pressi di una sinagoga. Qui un'altra persona ha perso la vita dopo essere stata colpita alla testa da uno sparo, e altri due poliziotti sono rimasti feriti. Le autorità danesi hanno elevato al massimo l'allerta nella capitale, con un dispiegamento massiccio di poliziotti, per la ricerca di sospetti.

- L'uomo ucciso in sinagoga era il guardiano ebreo
  L'uomo rimasto ucciso nell'attacco alla sinagoga di Copenhagen era un membro della comunità ebraica locale che svolgeva le funzioni di guardiano. Lo ha detto alla radio israeliana un rabbino di Copenhagen. La vittima proteggeva lo svolgimento di una cerimonia religiosa, assieme con agenti delle forze di sicurezza. "La porta di ingresso alla sinagoga era tenuta chiusa", ha detto alla radio militare il rabbino Yitzhak Loeventhal, che ha lasciato quel luogo di preghiera poco prima dell'attentato. "L'ingresso era presidiato e ciò ha impedito agli assalitori di entrare". All'interno della sinagoga ieri sera era celebrata la cerimonia di maggiore età di una ebrea dodicenne (bar mitzvah), alla presenza di decine di invitati. Secondo i media israeliani, il guardiano ebreo avrebbe dunque impedito che nella sinagoga avesse luogo un attentato di più grave portata.

- Premier danese
  l primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt, ha definito gli attacchi a un convegno ieri e davanti a una sinagoga questa mattina "un cinico atto di terrore contro la Danimarca". Lo riferisce il quotidiano britannico The Guardian." Questa è una mattina molto triste, i nostri pensieri vanno alle vittime e alle loro famiglie - ha sottolineato il premier in un comunicato -. Due persone innocenti hanno perso la vita in seguito a un cinico atto di terrore contro la Danimarca". Thorning-Schmidt ha tra l'altro osservato che la polizia ha agito "rapidamente e in modo focalizzato per garantire la sicurezza dei cittadini".

- Appello di Netanyahu agli ebrei europei: Israele è la vostra casa
  All'indomani degli attentati a Copenaghen, in cui è stata presa di mira anche una sinagoga, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha rinnovato l'appello agli ebrei d'Europa a immigrare in Israele. "Gli ebrei sono uccisi sul suolo europeo solo perché sono ebrei", ha detto il premier ai ministri, nel corso del consueto appuntamento settimanale del governo. "Questa ondata di attentati continuerà. Io dico agli ebrei dell'Europa: Israele è la vostra casa".

(Quotidiano.net, 15 febbraio 2015)


La guerra è qui

Riceviamo e diffondiamo.

Era il 2005 ed ero partita dall'Italia decisa a manifestare contro lo sgombero forzato dei villaggi israeliani nella striscia di Gaza.
Tramite amici sono stata invitata sul palco della manifestazione in Piazza Rabin a Tel Aviv.
Ero una delle poche "laiche" e sicuramente l'unica non ebrea.
Ho potuto parlare con Claudio Pagliara che allora era l'inviato Rai in medioriente.
Il mio intervento non è stato trasmesso perchè censurato, ma quello che ho detto era sintetizzato in poche frasi:
I villaggi israeliani nella striscia di Gaza e in Giudea e Samaria sono il giubbotto antiproiettile di Israele.
Se si rimuovono Israele sarà attaccato e ci saranno nuove guerre.
Israele è il giubbotto antiproiettile dell'Europa, se cade la guerra sarà in Europa.
Avevo purtroppo ragione, infatti Israele ha dovuto combattere 4 guerre in questi pochi anni, perchè bombardato incessantemente proprio da dove risiedevano i suoi cittadini.
A Gaza governa una organizzazione finanziata dall'Europa, ma dichiarata terroristica dal parlamento egiziano e sicuramente affiliata a tutti i gruppi più radicali islamici
Ora devo aggiungere che la Sicilia è diventata il giubbotto antiproiettile dell'Italia come l'Italia lo è dell'Europa.
Spero che qualcuno o più di uno si sveglino, perché a nessuno piace essere una Cassandra.

Dott.ssa Claudia Collina

(Notizie su Israele, 15 febbraio 2015)


Nuove opportunità di lavoro e start up: ecco come Israele vince la sfida mondiale

Tel Aviv capitale dell'innovazione.

di Giuseppe Crimaldi

TEL AVIV - Vista da vicino, Tel Aviv è molto più di una città che si è conquistata la fama di centro di divertimenti, mare e dolce vita notturna. Tra i grattacieli che continuano a crescere modificando di continuo il profilo della skyline, al di là di una modernità che esplode tra le vetrine delle gallerie d'arte, delle mostre psichedeliche e in una giornata cui sembrano non bastare mai le canoniche ventiquattr'ore nasce e cresce una nuova generazione di israeliani sempre più protagonisti del futuro.
   Perché ormai è di qui che passano le coordinate della Startup Nation: un vero e proprio miracolo industriale capace di spostare addirittura i colossi aziendali dalla Silicon Valley californiana in questo spigolo di Medio Oriente.
   Tel Aviv è oggi una delle aree a più alto tasso innovativo del pianeta. Tra le oltre 5000 startup presenti nel Paese l'80 per cento sono radicate qui. Veri e propri incubatori di idee, brevetti e nuove imprese che, non a caso, fanno gola a qualcosa come 300 multinazionali (a cominciare da Google, Interl, Apple) che stanno di fatto trasferendo i loro interessi sulle rive del Mediterraneo, muovendo qualcosa come più di tre miliardi di dollari in progetti che si trasformeranno in investimenti, e dunque in lavoro. Tanto lavoro e tantissimi guadagni.
   Entrando nel grattacielo della Municipalità messo a disposizione dei giovani studenti di Tel Aviv intuisci che tra noi e loro non ci sono solo duemila chilometri di cielo e mare: in Italia - e soprattutto al Sud - la radicata mentalità della corsa al posto fisso e del concorso pubblico per arrivare ad un'occupazione sono radici ancora troppo profonde per cercare di sviluppare una nuova cultura del lavoro. In Israele invece tutto corre molto più velocemente e fa crescere questa nuova Silicon Valley. Qui la partita dell'innovazione si gioca a tutto campo. E così - puntando la barra su formazione, hi-tech, venture capital e idee - oggi Israele è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per numero di startup.
   All'ottavo piano del grattacielo - in un open space che nemmeno il panorama mozzafiato e la vista sulla città vecchia di Giaffa riescono a distrarre dalla concentrazione - lavorano 50 ragazzi ai quali vengono garantiti per un anno alloggio, strumenti informativi e informatici: tutto il necessario per realizzare un sogno. Dodici mesi di asisstenza formativa garantita. L'anno successivo chi è riuscito a fare il grande salto cede il posto a nuovi studenti, e così via in una giostra di idee e brevetti che verranno venduti al migliore offerente. E' così che sono già stati lanciati brevetti come la caldaia superinnovativa che fa risparmiare dal 50 al 70 per cento di energia elettrica; o la tecnologia rivoluzionaria che consente di ricaricare le batterie del telefonino senza fili e con il wi-fi, semplicemente avvitando un piccolo congegno nell'alloggio di una lampadina.
   Astorre Milano ha lasciato l'Italia per approdare alcuni anni fa in questa Terra Promessa delle Startup. Oggi è managing partner di "Terra Venture partner", fondo che punta sulle energie pulite e rinnovabili: "In Israele - spiega - sono stati varati programmi a supporto della ricerca dove, a fronte di un investimento di 100mila dollari di capitale di rischio nella start up si aggiungono fino a 500mila dollari dello Stato. Non c'è nulla di così vantaggioso e questo modello attrae investitori da tutto il mondo. I fondi pubblici mettono a disposizione circa 375 milioni di dollari l'anno, in grado da soli di dar vita a centinaia di start up, e lo Stato individua pure le aree strategiche: dal biotech alle nanotecnologie, dalla sicurezza all'energia e alle scienze della vita".
   L'azienda di Modena ha da poco realizzato un altro brevetto: si chiama "Silentium" ed è un sistema tecnologico capace di ridurre i rumori attraverso un sistema di onde d'urto prodotte dal rumore stesso e capace di creare una "bolla di silenzio". Applicazioni? Le più svariate: un'azienda ha da poco lanciato sul mercato lo strumento capace di ridurre di due terzi la cappa delle cucine. "Con un progetto che richiede pochi soldi - conclude Modena - si va dal cliente, gli si presenta l'idea e piano piano si conquista il mercato con un introito netto che quasi sempre è di cinque volte maggiore". Come dire: rischio d'impresa ridotto ma, soprattutto, grandi guadagni. E in questi che sono tempi difficili per tutti, con un'azienda su due costretta a chiudere i battenti, non è certo cosa da poco.

(Il Mattino, 15 febbraio 2015)


E per Obama gli jihadisti non sono antisemiti

Prima una disattenzione verbale. Poi una negligenza messa per iscritto. La narrativa del presidente degli Stati Uniti in tema di guerra all'estremismo islamico è impermeabile a una parola: ebrei.

di Noam Benjamin

Per Barack Obama l'antisemitismo non esiste: almeno non quello di origine jihadista che pure continua a insanguinare le strade d'Europa. Nel corso di un'intervista con Vox.com , il capo della Casa Bianca ha affrontato il tema con i giornalisti Ezra Klein e Matthew Yglesias. «Signor presidente - gli chiedono - ritiene che i media tendano a sopravvalutare i rischi del terrorismo islamico?». Domanda capziosa che ignora Tolosa, Bruxelles e Parigi, tanto per elencare tre recenti attacchi jihadisti contro altrettanti obiettivi ebraici in Europa. Anche l'attentato alla maratona di Boston dell'aprile del 2013 aveva natura islamica. Tant'è. «Assolutamente», risponde Obama attaccando a parlare di povertà, di mortalità infantile e di produttività dei raccolti. Concluso l'elenco dei problemi globali, il 44esimo presidente degli Stati Uniti ha un sussulto e torna sul tema: «Il mio primo compito è proteggere il popolo americano ed è perfettamente legittimo che questo si preoccupi quando un pugno di zeloti violenti taglia le teste o spara a casaccio in un alimentari di Parigi».
   Obama è sempre attento a pesare le parole e l'espressione «randomly shoot» non passa inosservata. «L'impiego del termine 'casuale' significa che il presidente nega la natura antisemita dell'attacco?», chiede un reporter durante un briefing alla Casa Bianca. «L'avverbio che il presidente ha usato - si contorce il portavoce Josh Earnest - significa che le persone uccise in quel tragico incidente non sono state uccise per chi fossero ma per il luogo dove si venivano casualmente a trovare». «E il fatto che l'alimentari fosse kasher non vi dice nulla?», insiste il giornalista. «Ho già risposto», chiude Earnest.
   Uno scivolone può capitare a chiunque ma la perseveranza nello stesso errore alimenta il sospetto. Il presidente secondo cui i media esagerano l'allarme anti-islamico è lo stesso che ha chiesto al Congresso pieni poteri per combattere contro il Califfato in Siria e in Iraq. Nella sua richiesta Obama ha elencato le minoranze minacciate dai tagliagole del Califfo: cristiani, yazidi, turkmeni, fino a gli stessi musulmani che non abbracciano il fondamentalismo. «Nella risoluzione del presidente c'è la comprensione per gli attacchi che l'Isis conduce contro i musulmani, contro i cristiani e gli altri: manca però qualunque riferimento agli ebrei». Lo ha dichiarato alla Cnn Lee Zeldin, unico deputato repubblicano di religione ebraica. «Io sono impegnato alla sensibilizzazione contro la crescente ondata di antisemitismo», ha spiegato, invitando poi la Casa Bianca a usare bene le parole. «La strage di Parigi ci ricorda che l'Islam radicale vuole cancellare Israele dalle mappe. Il loro obiettivo non sono solo gli ebrei ma la nostra libertà, il nostro essere americani, l'intero il mondo occidentale». Non la pensa così Obama che solo una settimana fa ha paragonato le atrocità dell'Isis alle violenze commesse dai crociati e dall'Inquisizione. L'accusa di Zeldin getta benzina sul fuoco delle relazioni fra Obama e il mondo ebraico. Lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, ha invitato il premier israeliano Netanyahu parlare al Congresso il prossimo 3 marzo. I Repubblicani vogliono far sapere al presidente che non approvano la sua linea con l'Iran; allo stesso tempo vogliono tirare la volata a quel Netanyahu, in cerca di una rielezione il 17 marzo, che Obama non nasconde di detestare.

(il Giornale, 14 febbraio 2015)


"Gerusalemme non è solo pellegrinaggi"

Ilanit Melchior, direttrice di Jerusalem Development Authority, annuncia il lancio di una campagna su Google per promuovere la città quale destinazione city break.

 
Ilanit Melchior, direttrice di Jerusalem Development Authority
"Gerusalemme non è soltanto una meta di pellegrinaggi, ma una città che ha moltissimo da offrire al turista". Esordisce così Ilanit Melchior, direttrice di Jerusalem Development Authority nella sua intervista a Guida Viaggi. "Il lancio del progetto Open House aiuterà a mostrare una città diversa da quella che conosciamo abitualmente". Per l'esattezza, Open House è un progetto che coinvolge alcune metropoli del mondo (Parigi, New York e Sydney) in cui il turista ha l'occasione di visitare case private, chiese e tutti quei luoghi meno noti del posto.

- Un claim al mese
  Anche quest'anno Jerusalem Development Authority punta su Gerusalemme quale destinazione ideale per un city break di 3-4 giorni. Il mercato italiano resta importante per la città israeliana, se è vero che il nostro Paese dista tra le 3 e le 3 ore e mezza ed è discretamente collegato. "Da quattro anni lavoriamo tenacemente sul vostro mercato - dichiara Melchior - e ci piace molto l'attenzione che il turista italiano rivolge ad arte, cultura e cibo".
La campagnia di promozione del city break è stata lanciata su Google. Ogni mese viene proposto un claim differente a seconda dell'evento principale in quel dato momento. L'attenzione è rivolta soprattutto alla maratona di Gerusalemme che si terrà il 13 marzo prossimo. f.c.

(Guida Viaggi, 14 febbraio 2015)


Troppi premi a sinistra, Bibi cambia giuria

di Fiamma Nirenstein

Ne hanno dette di tutte: che Benjamin Netanyahu odia il Premio Israele perché suo padre, il famoso storico Ben Tzion Netanyahu non l'ha mai ricevuto; che ha voluto evitare che questa volta il premio letterario andasse al candidato David Grossman, scrittore famoso, suo nemico dichiarato, amico della causa palestinese; e di più, che ha tentato di uccidere la cultura, con la C maiuscola, impedendo la libertà di pensiero; che ha politicizzato un premio purissimo, il più importante del Paese.... Diciamo subito che di fronte a tanta sapienza in armi Bibi si è ritirato ieri dall'agone, accettando il consiglio dell'Avvocato dello Stato di rimandare ogni intervento.
   La verità è che Bibi ha sventolato un drappo rosso nell'occasione nel profittevole tempo della campagna elettorale per creare una crepa nel castello della cultura di sinistra israeliana, un vero moloch. Non a caso i tre scrittori che tutto il mondo conosce sono David Grossman, Amos Oz e Aleph Beth Yeoshua… tutti antigovernativi e pacifisti, e bravissimi. Così, quando nel suo ruolo di ministro dell'Educazione ad interim gli hanno portato la lista della giuria, contro la prassi consolidata ha destituito due giudici. Uno di questi, il professor Hirschfeld ha incitato a non servire nell'esercito, e da queste parti la questione è delicata.
   I premiati fra gli artisti e gli scrittori a volte usano la medaglia del Premio Israele per propagandare idee negative su Israele nel mondo. Per esempio il pittore Moshe Gershoni in Canada è andato a dire che Israele ha attitudini naziste, e se lo dice lui che è Premio Israele… Da parte dei giudici e dei candidati, in primis Grossman, ci sono state dimissioni e rinunce di massa. Adesso che Bibi ha fatto marcia indietro dopo un commento su Face Book in cui accusa i giudici di avere idee estremistiche e della necessità che servano un pubblico più largo di quello dei loro amici, vedremo se i giudici e i candidati riprenderanno i loro posti sulla corazzata Premio Israele.

(il Giornale, 14 febbraio 2015)


Gaza: aumento vertiginoso della chirurgia estetica

di Silvia Di Cesare

Le difficoltà economiche e sociali che affliggono la Striscia di Gaza non sembrano impedire ai suoi abitanti di ricorrere alla chirurgia estetica. Il dott. Salah Zaanin iniziò a lavorare nel campo tre anni fa, ma l'aumento della richiesta di interventi lo spinse a decidere di aprire un suo studio privato.
"Siamo un popolo che ama la vita e la bellezza" ha dichiarato Zaanin "a causa delle forti pressioni psicologiche, molte donne hanno iniziato a prendersi cura del loro benessere fisico ed emotivo". Safa, 28 anni di Gaza city, è una di queste donne.
Cinque mesi Safa si è sottoposta a un'operazione di aumento del seno, nella speranza che questo cambiamento fisico la aiutasse a sentirsi meglio psicologicamente e a migliorare il suo rapporto con il partner. "Mio marito voleva sposare un'altra donna a causa del deterioramento del mio corpo dopo la nascita dei miei tre figli".
Non solo le donne, però, fanno ricorso alla chirurgia estetica. Ahmad Hassan, 32 anni, ha deciso di rimuovere le rughe che gli coprivano il viso, dopo esser stato rifiutato da molte donne.
Secondo il dottor Zaanin sono molte le motivazioni alla base di questo amento della domanda: dall'aspetto economico (i costi delle prestazioni di chirurgia estetica a Gaza sono molto inferiori rispetto all'estero), ai cambiamenti sociali che hanno interessato le donne della regione. L'ingresso delle donne nel mondo del lavoro, la loro indipendenza finanziaria e la crescente importanza dell'aspetto fisico nel campo lavorativo e sociale sono, infatti, tutti aspetti che spiegano la crescente popolarità della chirurgia sia tra gli uomini che tra le donne.

(ArabPress, 14 febbraio 2015)


Israele - L'ultima parola sul voto spetta al giudice arabo che rifiuta di cantare l'inno nazionale

Salim Joubran conterà i voti ed annuncerà i risultati, sarà lui a dirimere eventuali contese

di Maurizio Molinari

Salim Joubran
GERUSALEMME - Le elezioni israeliane del 17 marzo sono nelle mani di un arabo. Il presidente della commissione elettorale che conterà i voti ed annuncerà i risultati è infatti l'arabo-cristiano maronita, Salim Joubran. Si tratta dell'unico arabo fra i 15 giudici della Corte Suprema dello Stato Ebraico e in ultima istanza sarà dunque lui a dirimere eventuali contese sul voto, così come a rendere pubblico l'esito della sfida da cui dipenderà il nuovo Parlamento e governo.
Si tratta di un personaggio popolare ma anche controverso. Nato nel 1947 a Haifa, Joubran ha studiato in un convento di francescani ad Accro e si è poi laureato in legge all'Università Ebraica di Gerusalemme. Divenne membro della Corte Suprema nel 2003, è il primo arabo ad essere membro permanente. La popolarità è legata soprattutto al fatto che è stato anche il giudice che ha condannato al carcere l'ex Capo dello Stato, Moshe Katzav, per abusi sessuali, ponendo fine ad uno scandalo che ha causato una ferita profonda nella vita pubblica nazionale.
Ma è anche controverso perché più esponenti della destra nazionalista lo accusano di "odiare la nazione" in quanto si rifiuta di cantare l'inno nazionale "Hatikwa" anche durante le occasioni ufficiali mentre da sinistra gli rimproverano di prestarsi ad essere una "foglia di fico" per celare il "razzismo anti-arabo della società israeliana".

(La Stampa, 13 febbraio 2015)


Ferrara - Ruspe nell'ex carcere per fare spazio al Meis

Ieri i mezzi di demolizione in azione per abbattere la struttura di via Piangipane Occorreranno tre mesi per distruggere i vecchi muri e avviare la ricostruzione.

Ruspe in azione per demolire l'ex carcere di via Piangipane. Dopo i primi interventi che avevano fatto riaprire la struttura nel dicembre del 2011 per ospitare il Meis, il museo dell'ebraismo e della Shoah, sono partiti ora i lavori per il secondo lotto che porterà nel giro di tre mesi alla demolizione di quel fabbricato obsoleto costruito all'inizio del Novecento.
I lavori di demolizione, affidati a una ditta di Parma, hanno lo scopo di fare tabula rasa di alcuni muri e locali del vecchio carcere cittadino. La struttura venne terminata nel 1912, costruita a spese dello Stato, su progetto redatto dagli ingegneri Bertotti e Facchini dell'Ufficio del Genio Civile, in base alle indicazioni del Ministero dell'Interno. Le opere furono dirette dagli ingegneri Ponti e Fabbri dello stesso ufficio ed eseguite dall'impresa Luigi Brandani.
Da allora e per ottant'anni, ha rappresentato le prigioni della città. Il 9 marzo 1992 ci fu il trasferimento dei 130 detenuti nella più moderna casa circondariale di via Arginone. In quasi vent'anni di oblio la struttura e il terreno circostante hanno avuto bisogno di numerose bonifiche e la scelta di trasformare il vecchio carcere nel Meis è stata utile non solo dal punto di vista culturale, ma anche igienico perché la situazione di abbandono era diventata insostenibile. Dopo la prima parte di costruzione del Meis, ora si aspetta, con lo stanziamento di fondi statali, l'ampliamento del museo che sorgerà dalle macerie del vecchio carcere, che verrà demolito in questi mesi per costruire una nuova struttura anche in regola con le normative antisismiche.

(la Nuova Ferrara, 14 febbraio 2015)


Gli ebrei che vogliono lasciare la Francia

Dopo gli attacchi terroristici di gennaio molti hanno paura e vogliono tornare in Israele, racconta il Washington Post.

di Griff Witte

Marc Krief, rabbino della sinagoga di Vincennes-Saint-Mandé
Per tutti i suoi trent'anni, Jennifer Sebag ha vissuto in una comunità che incarna tutto ciò che l'Europa moderna dovrebbe essere: inclusiva, integrata, pacifica e prospera. La città di Saint-Mandé - nella periferia orientale di Parigi - è stata per lungo tempo un rifugio per gli ebrei come Sebag, i cui genitori e nonni furono cacciati dal nativo Nord Africa decenni fa a causa dell'antisemitismo. «Ho sempre detto a tutti che qui siamo molto protetti. È come vivere in un piccolo villaggio», racconta Sebag. Ma in un istante, nel pomeriggio del 9 gennaio, il rifugio di Sebag è diventato un bersaglio. Un uomo armato che più tardi avrebbe detto di agire per conto dello Stato Islamico (o ISIS) è entrato nel supermercato kosher del quartiere, ha cominciato a sparare e ha preso degli ostaggi: l'assedio è andato avanti per qualche ora e alla fine quattro persone, tutte ebree, sono rimaste uccise.
  Passato un mese dall'attacco, gli ebrei di Saint-Mandé stanno pensando di andare via da quella che un tempo sembrava essere la loro terra promessa. Nelle case, nei negozi e nelle sinagoghe - sorvegliate giorno e notte da soldati armati di fucili d'assalto - si parla solo di una cosa: rimanere in Francia e rischiare di diventare i prossimi obiettivi di un attacco da parte degli estremisti islamici, oppure abbandonare il posto che la comunità ebraica locale era orgogliosa di chiamare "casa"? Il governo francese sta cercando di convincere gli ebrei a non andarsene da Saint-Mandé: se nemmeno loro vedono il proprio futuro nel piccolo comune francese - dove hanno vissuto a lungo in armonia con cristiani e musulmani - è ancora più difficile pensare che ci sia speranza per un ideale europeo di coesistenza religiosa.
  Molti ebrei hanno già preso una decisione. Alain Assouline, medico di Saint-Mandé e presidente di un centro ebraico, ha detto: «Il punto non è se se ne andranno o meno. Il punto è quando se ne andranno». Per Sebag, suo marito e i loro tre figli piccoli, la risposta è entro pochi mesi. Da tempo la famiglia di Sebag pensava comunque di trasferirsi per motivi economici: l'attacco al supermercato ha tolto ogni dubbio. La prossima estate Sebag e i suoi familiari andranno in Israele, dove non hanno amici o parenti e non parlano la lingua, e dove si combattono guerre con cadenza regolare. Ripartiranno da zero, come fecero decenni fa i genitori di Sebag. Sebag, che di mestiere fa l'agente immobiliare e vive con la sua famiglia in uno spazioso appartamento di fronte alla zona commerciale di Saint-Mandé, ha detto: «[I miei genitori] arrivarono in Francia dal Marocco e dalla Tunisia perché la Francia era un paese meraviglioso. Fecero ogni tipo di sacrificio. Ci hanno permesso di fare una bella vita, almeno fino a oggi».
  L'attacco al supermercato kosher è stato uno dei tre attacchi compiuti da tre estremisti islamici all'inizio di gennaio del 2014. Tra mercoledì 7 e venerdì 9 gennaio sono state uccise 17 persone, inclusi alcuni disegnatori e giornalisti del settimanale satirico Charlie Hebdo. Di tutte le comunità colpite negli attentati, i 500mila ebrei francesi sono probabilmente quelli che hanno sentito in maniera più intensa gli effetti dell'attacco. Gli ebrei francesi erano già al limite prima che Amedy Coulibaly, un uomo di 32 anni con precedenti penali e figlio di immigrati maliani, prendesse alcuni ostaggi al supermercato kosher tra Parigi e Sain-Mandé.
  L'antisemitismo è in crescita tanto in Francia quanto nel resto d'Europa. Nel Regno Unito, dice un'organizzazione ebraica non profit, solo nel 2014 si sono registrati 1.100 incidenti motivati da antisemitismo, il doppio di quelli registrati nel 2013. La paura di nuove violenze nei confronti degli ebrei è in aumento ed è sentita particolarmente in Francia, dove nel 2012 un attacco a una scuola ebraica di Tolosa ha provocato la morte di un insegnante e tre studenti. L'Agenzia Ebraica, che incoraggia l'immigrazione degli ebrei in Israele, sostiene che il numero di ebrei francesi diretti verso Israele è rimasto stabile per diverso tempo, attorno alle duemila persone l'anno. Nel 2013 ha toccato le 3.400 persone. Nel 2014 è arrivato a più di 7 mila, facendo della Francia il paese che contribuisce di più all'immigrazione verso Israele. Secondo le stime dell'Agenzia Ebraica, nel 2015 si trasferiranno in Israele almeno 15 mila ebrei francesi. Molti altri se ne andranno negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada.
  In una macelleria kosher poco lontano dal supermercato dove è avvenuto l'attacco, la discussione si concentra su dove andare e se abbandonare davvero la Francia. Una giovane donna dice: «Mio marito è pronto, ma io non ancora. Ero a Tel Aviv lo scorso luglio e ho visto i razzi precipitare in mare. Non mi sentirei sicura nemmeno lì». Il macellaio, un uomo di 20 anni di nome Aron Sultan, ha detto che lui e la sua fidanzata stanno decidendo se cominciare una nuova vita in Israele: «I miei genitori hanno lasciato la Tunisia durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973. Mia madre ricorda che andarono in Francia quando gli arabi erano arrivati di fronte alla loro casa, pronti ad ucciderli». Sultan si sta preparando a lasciare la Francia, ma i suoi genitori sono riluttanti: «Ho chiesto a mia madre: "Stiamo aspettando la stessa cosa anche qui? Il momento in cui gli arabi saranno arrivati davanti alla nostra porta pronti ad ucciderci?". È difficile andarsene, ma non ci sentiamo sicuri qui. Non abbiamo scelta».
  Il governo ha cercato di tranquillizzare la comunità ebraica inviando più di diecimila soldati a sorvegliare "siti sensibili", tra cui sinagoghe, centri culturali e scuole ebraiche. Pochi giorni fa tre soldati di guardia a uno di questi siti sono stati assaliti da un uomo armato di coltello nella città di Nizza. Per molti ebrei la presenza dei militari non ha avuto un effetto tranquillizzante, anzi: ha enfatizzato la loro vulnerabilità. Patrick Beaudoin, il sindaco di Saint-Mandé, ha detto che la Francia deve difendere la sua popolazione ebraica ad ogni costo: un esodo di massa potrebbe essere devastante per Saint-Mandé, una città dove un terzo dei 22mila residenti sono ebrei. Marc Krief, rabbino della sinagoga di Vincennes-Saint-Mandé, ha detto: «Non possiamo dire che questi sono jihadisti importati dalla Siria o dall'Iraq. Erano cittadini francesi, cresciuti nelle periferie. Andavano alla moschea locale e lì hanno imparato il jihad». Kiref ha però aggiunto: «Non vedo un paese al mondo dove la sicurezza per gli ebrei sia completa. In Israele c'è la guerra, negli Stati Uniti potrebbe esserci un altro attacco. Non cambierebbe nulla andarsene».

(il Post, 14 febbraio 2015)


Elie Wiesel rompe il sodalizio con Obama. "Sull'Iran sto con Netanyahu"

Il Nobel andrà al Congresso a sostenere il premier israeliano

di Giulio Meotti

Elie Wiesel
ROMA - Nel 2009, Elie Wiesel accompagnò Barack Obama e Angela Merkel in una visita al campo di concentramento di Buchenwald. Nacque allora il sodalizio fra Obama e il sopravvissuto dei crematori di Birkenau diventato profeta di pace, giudice di Dio, coscienza dell'umanità. I due premi Nobel per la Pace annunciarono anche un libro a quattro mani. Oggi, con la pubblicazione sul New York Times di una pagina a pagamento di Wiesel, quel sodalizio ha fine. Almeno per ora. Wiesel ha annunciato, infatti, che sarà sugli spalti del Congresso degli Stati Uniti il 3 marzo per assistere al discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu, mentre la Casa Bianca e il dipartimento di stato le stanno provando tutte per rovinare la festa a "Bibi". Quello di Wiesel è un assist politico e morale a Netanyahu impressionante, considerando anche che a Gerusalemme Netanyahu è apertamente contestato da tutto il milieu intellettuale guidato da David Grossman (ieri lo scrittore si è tirato fuori dalla candidatura per il Premio Israele in aperta contestazione con Netanyahu) e che anche molti capi dell'ebraismo americano si sono schierati contro il suo discorso al Congresso, compresi il capo dell'Anti-Defamation League Abraham Foxman, il rabbino Rick Jacobs e il gruppo di pressione ebraico di sinistra J Street.
   "Molti secoli fa, un uomo malvagio in Persia di nome Haman ordinò di andare per tutte le province e annientare gli ebrei, giovani e vecchi, bambini e donne", scrive Wiesel nel suo manifesto contro l'Iran. "Ora l'Iran, moderna Persia, ha prodotto un nuovo nemico. L'ayatollah Khamenei è stato chiaro come il suo predecessore nel dichiarare il suo obiettivo: 'L'annientamento e la distruzione' di Israele. E vuole acquisire le armi necessarie per adempiere alla promessa mortale". Il 5 marzo, i bambini ebrei nelle sinagoghe di tutto il mondo pronunceranno il nome di Haman durante la festa di Purim. "Capiscono una semplice verità che sfugge ai leader mondiali", scrive Wiesel. "Quando qualcuno al potere minaccia la vostra distruzione, è necessario condannarlo ad alta voce. Il giorno prima di Purim, il premier di Israele affronterà al Congresso il pericolo catastrofico di un Iran nucleare. Ho intenzione di essere lì. Non dovremmo mostrare il nostro sostegno a quello che potrebbe essere l'ultimo avvertimento?". Dovrebbe, eppure molti deputati democratici boicotteranno il discorso di Netanyahu.
   Wiesel si rivolge poi ai capi degli Stati Uniti, impegnati in un accordo con l'Iran che lo trasformerà in un "threshold state", uno stato prenucleare. La Casa Bianca questa settimana ha fatto sapere che non c'è bisogno di una ulteriore estensione dei talks con l'Iran. E' dunque arrivato il momento della verità. "Presidente Obama, vicepresidente Biden, illustri membri del Congresso, vi chiedo: come posso rimanere in silenzio?", scrive Wiesel. "Come ha detto la regina Ester: 'Come posso assistere alla distruzione del mio popolo?'". La posizione del governo israeliano sull'accordo fra America, Europa e Iran è stata chiarita ieri dal ministro Yuval Steinitz, vicinissimo a Netanyahu. Teheran, secondo Steinitz, non ha mostrato di voler cedere sull'arricchimento dell'uranio, il destino del reattore di Arak e l'impianto segreto di Fordo. "Quello che emerge è un quadro a tinte fosche", ha detto Steinitz, lasciando intendere che Gerusalemme potrebbe attaccare le installazioni atomiche di Teheran: "Non abbiamo mai limitato il nostro diritto all'autodifesa a causa di freni diplomatici".
   Nel 1990 a minacciare Tel Aviv e Gerusalemme c'erano gli scud di Saddam Hussein e allora Wiesel scrisse: "Oggi Israele non è una possibilità storica. E' una necessità estrema. Israele è ognuno di noi, e non importa se uno ha scelto di vivere lontano, se ha deciso o no di essere d'accordo con questo governo. Non si può fare una distinzione di comodo, mi va bene il popolo ma non mi va bene il governo. L'opzione della storia è una sola, conferma tutto, o si porta via tutto". Questo non è mai stato tanto vero quanto oggi che Gerusalemme potrebbe doversi preparare a vivere all'ombra dell'uranio arricchito degli ayatollah.

(Il Foglio, 14 febbraio 2015)


Argentina - Incriminata Cristina Kirchner

Il successore del giudice Nisman procede contro la presidenta: «Coprì gli attentatori del centro ebraico».

di Rocco Cotroneo

 
Cristina Kirchner
RIO DI JANEIRO - La fine violenta del suo principale accusatore non salva Cristina Kirchner. Da ieri la presidente argentina è formalmente sotto accusa nel caso Iran-Amia, sospettata cioè di aver coperto i responsabili della strage alla comunità ebraica del 1994. A portare avanti la denuncia preparata da Alberto Nisman - il magistrato trovato morto lo scorso 18 gennaio - è il suo collega Gerardo Pollicita. Sono centinaia di pagine quelle lasciate da Nisman, e la sua morte improvvisa non ha fermato l'indagine. Insieme alla Kirchner, sono accusati il ministro degli Esteri Héctor Timerman e altri tre pezzi grossi dell'attuale potere argentino. Secondo Nisman (e ora il suo successore) il governo di Cristina avrebbe messo in piedi un accordo segreto con Teheran: in cambio di un accordo commerciale - forniture di petrolio a prezzi di favore e vendita di grano -1' Argentina avrebbe desistito dalla pista iraniana sul caso Arnia ed evitato di chiedere l'estradizione dei supposti responsabili. Un insabbiamento di Stato, insomma. Sulla strage che provocò la morte di 85 persone a Buenos Aires esiste difatti una quasi verità giudiziaria: sarebbe stata organizzata da funzionari dell'ambasciata iraniana e messa in pratica da un kamikaze di Hezbollah, con una autobomba. Quattro iraniani, poi fuggiti in patria, avrebbero dovuto essere chiamati a risponderne.
   L'impianto accusatorio di Nisman contro la Kirchner è noto dallo scorso 14 gennaio. Quattro giorni dopo il magistrato avrebbe dovuto riferirne in Parlamento, se non fosse stato trovato morto nel bagno del suo appartamento, con un colpo di pistola alla tempia La fine di Nisman è ancora un mistero. II governo ha tentato di far passare la tesi del suicidio, poi davanti all'improbabilità ha cambiato versione. La Kirchner crede a un complotto di servizi segreti deviati contro di lei, prima attraverso le «menzogne» di Nisman poi organizzandone la morte. Ieri la «presidenta» non ha commentato l'apertura dell'inchiesta - è in vacanza in Patagonia, dove intende festeggiare il suo 62esimo compleanno - mentre il suo braccio destro Anibal Fernandez parla di «manovra» di destabilizzazione democratica». In termini giuridici, dice la Casa Rosada, la messa in accusa del capo di Stato «non ha alcun valore né importanza» e serve solo a provocare clamore nella società. L'opposizione parla invece di «grave situazione istituzionale», considerando che anche il vice della Kirchner, Amado Boudou, è sotto inchiesta per uno scandalo di alcuni anni fa.
   A questo punto assume una importanza ancora maggiore la manifestazione del prossimo 18 febbraio, nelle strade di Buenos Aires. Ideata da cinque magistrati amici di Nisman, e battezzata «marcia del silenzio», prevede una sfilata dal Congresso alla Plaza de Mayo in occasione del primo anniversario della morte del giudice. «Affinché il silenzio rappresenti la pace di cui abbiamo bisogno. Contro l'impunità e a favore della verità», hanno scritto i giudici, tutti convinti che Nisman non si sia tolto la vita. Ma i giorni passano, la vicenda non cessa di essere al centro della vita argentina, e la manifestazione del 18 sta crescendo di significato. I principali leader dell'opposizione hanno confermato la loro presenza «a titolo personale» o «come cittadini». Ci saranno quindi i pretendenti alla successione della Kirchner come Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires, Sergio Massa, Elisa Carriò e Julio Cobos. Il governo ha cercato di sminuire l'importanza dell'evento, disprezzando gli organizzatori, ma c'è chi ritiene che una partecipazione di massa potrebbe dare una spallata definitiva alla presidenta, sempre più isolata e in difficoltà.

(Corriere della Sera, 14 febbraio 2015)


Cybersecurity - Italia e Israele alleati contro gli hacker

L:ambasciatore a Roma Naor Gilon: "Intensificate le relazioni tra i due Paesi sulla difesa cybernetica". Mauro Moretti (Finmeccanica): "Ci muoviamo su tre direttrici: innovazione, opportunità di sviluppo e nuove emergenze".

di Antonello Salerno

La sfida della connected society, con lo sviluppo del cloud e l'Internet of everything alle porte, porta con sé un aspetto che per il futuro sarà sempre più significativo: senza collegamenti a Internet sicuri, e senza la capacità di reagire in tempo reale a ogni attacco informatico, minimizzando i danni e limitando la loro portata, lo sviluppo delle nuove tecnologie nella vita quotidiana non potrà dispiegare tutte le proprie potenzialità.
   Tra i paesi che nel mondo stanno investendo di più nel campo della cybersecurity c'è Israele, dove una vera e propria cittadina, Beer Sheva, ospita università e centri di ricerca, grandi player privati, organizzazioni istituzionali, della difesa nazionale e startup che lavorano gomito a gomito per prevenire le minacce e rendere la vita difficile agli hacker. Criminali che sono sempre meno singoli studenti con il pallino tecnologia, e sempre più esponenti di vere e proprie organizzazioni illegali, che utilizzano la rete per i loro traffici, dalla droga alla pedopornografia. O nel caso di organizzazioni terroristiche, per reclutare adepti e farsi pubblicità.
   Per parlare di questi temi, e per rafforzare il ponte che unisce in questo campo lo Stato di Israele e l'Italia, l'ambasciatore di Israele a Roma, Naor Gilon, ha ospitato ieri sera nella sua residenza capitolina l'incontro organizzato dall'associazione "Diplomatia" a cui hanno preso parte tra gli altri Paolo Ciocca, vicedirettore generale del dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri, Mauro Moretti, Ceo di Finmeccanica, e Nimrod Kozlovski, esperto del settore e professore alla Lawand business School della Tel-Aviv University.
   "Negli ultimi due anni - ha detto nel saluto di benvenuto l'ambasciatore Gilon, ricordano il memorandum of undestanding siglato dai due Paesi -Ie relazioni tra Italia e Israele sulla difesa cibernetica si sono intensificate, con l'obiettivo di dare vita a relazioni bilaterali sia sul piano istituzionale sia su quello industriale. cyber attacchi - ha concluso - sono diventati una recente preoccupazione per governi e aziende. Gli attori, i mezzi e le tecniche di attacco e gli obiettivi cambiano più velocemente delle contromisure, e per questo il nostro Governo ha deciso di finanziare ricerca e sviluppo in questo campo".
   "La cyber security - ha sottolineato Paolo Ciocca - non è una questione di ingegneri o sistemisti, coinvolge tutta l'organizzazione di un'impresa, e può fare danni incalcolabili, fino a mettere a rischio la continuità di un'azienda. Un punto debole, e non conta dove sia, può mettere a rischio tutto il sistema: questo vale per le imprese ma anche per i paesi".
   "L'Italia ora ha una strategia - ha continuato Ciocca - un piano di breve termine, i Cert, ed è stata federata la ricerca italiana in questo campo, con 43 università    e 500 laboratori convenzionati. Ma è fondamentale il rapporto con le imprese: Se le infrastrutture critiche sono abituate a difendersi, le grandi imprese che non sono infrastrutture critiche spesso non sono coscienti dei danni che potrebbero subire da un attacco, mentre le Pmi oltre a non essere consapevoli spesso hanno nemmeno le possibilità economiche di investire. La priorità è raggiungere le imprese di ogni dimensione, a cui il pubblico deve presentarsi come sistema, al di là delle singole competenze".
   "Per il futuro - ha concluso - il salto vero ci sarà nel momento in cui si entrerà nell'lot, quando tutto sarà connesso, ma anche più vulnerabile. La sicurezza sarà il punto di partenza, e per comprenderlo abbiamo bisogno di un salto culturale: non esiste soltanto una minaccia, ma una vera e propria dimensione cyber, che abbraccia tutte le attività della nostra vita. Per gestirne la sicurezza occorre un salto logico, una contaminazione dei saperi e dei luoghi in cui possa avvenire questa contaminazione".
   Di tre direttrici ha parlato Mauro Moretti, Ceo di Finmeccanica, identificandole in "Innovazione, opportunità di sviluppo e nuove emergenze".
   "La minaccia - ha sottolineato Moretti - è da sempre in continua e rapida evoluzione. Da singoli attaccanti gli hacker diventano grandi gruppi, e un attacco ben preparato e su obiettivi paganti potrebbe avere gli stessi effetti di un attacco militare. Fondamentale - afferma - sarà il ruolo dell'intelligence". Poi Moretti ha posto l'accento sulla necessità di investimenti per il settore: "Il presidente Obama - ha detto - ha messo la cyber security al centro dell'agenda nazionale, annunciando lo stanziamento di un miliardo di dollari in più su questo settore, che porta gli Stati Uniti a un investimento complessivo sulla sicurezza informatica di 14 miliardi di dollari l'anno". Poi un passaggio sulla necessità della scolta culturale: "Bisogna passare dal bisogno di sapere al bisogno di condividere - ha detto Moretti - Senza info sharing si continuerà a giocare sulla difensiva, a investire per rimediare ex post: c'è il rischio di compromettere la fiducia delle persone nel passaggio dalla società industriale alla società digitale".
   Nel suo speech il professor Kozlovski ha sottolineato che l'innovazione è la carta vincente nella battaglia della cyber security: non serve limitarsi a gestire le emergenze di oggi, "ma si deve cercare di prevedere quelle che ci troveremo ad affrontare tra 10 o 20 anni, quanto è possibile che gli umani non guidino più le automobili, perché i computer saranno in grado di farlo meglio di loro".
   "Non serve e servirà sempre meno costruire recinti attorno ai propri sistemi informatici - ha sottolineato Kozlovski - non è un firewall che può salvarci da un attacco, né un alert. Non dobbiamo pensare a tenere il nemico fuori dai nostri sistemi, ma partire dal principio che lui è già dentro, e che noi dobbiamo essere in grado di monitorare, predire, intervenire in tempo reale e correggere. Il nuovo paradigma è che la sicurezza deve essere proattiva, condivisa e basata su un sistema di intelligence molto avanzato. Ma se si esauriscono i budget sui vecchi paradigmi, sul costruire i recinti, non si fa innovazione".

(Corriere delle Comunicazioni, 13 febbraio 2015)


Siria: i ribelli anti Assad chiedono il sostegno di Israele

di Francesco Pezzuto

 
Mendi Safadi (a sinistra) con il Dr Kamal Al-Labwani, leader dell'opposizione siriana
DAMASCO, 13 feb - Le forze ribelli siriane, che combattono nella zona sud-occidentale del paese contro l'esercito regolare del presidente Assad, avrebbero chiesto un aiuto militare a Israele. La notizia viene riportata dal quotidiano Jerusalem Post, a seguito di un'intervista rilasciata da Mendi Safadi, ex responsabile del personale del deputato del Likud Ayoob Kara, già viceministro nell'ultimo governo Netanyahu.
Safadi sarebbe da tempo in contatto con i vertici delle milizie anti Assad e, secondo quanto riferito dallo Jerusalem Post, avrebbe incontrato nuovamente membri dell'opposizione siriana in Bulgaria e, in seguito, avrebbe effettuato una ricognizione nelle zone di conflitto. La richiesta avanzata al governo israeliano prevede un nuovo intervento aereo sulle alture del Golan, dove le milizie di Hezbollah e membri della Guardia rivoluzionaria iraniana hanno accerchiato i guerriglieri, già duramente colpiti dalla controffensiva dell'esercito regolare siriano.
La tesi sostenuta da Mendi Safadi è che l'asse Siria - Hezbollah - Iran identifichi, a suo dire erroneamente, tutti i gruppi militari schierati contro Assad come appartenenti a fazioni islamiche estremiste quali al-Qaida e al-Nusra. Per questo motivo Israele dovrebbe "fiaccare" il potenziale dell'asse siriano e sostenere la causa dei ribelli, seguendo l'esempio di quanto fatto con la resistenza curda a Kobani nel conflitto con l'Isis.

(Il Primato Nazionale, 13 febbraio 2015)


Quell'iniziativa di pace ambigua e pericolosa

E' irrazionale scommettere sulla propria stessa esistenza, in un momento come questo, sulla base della vecchia "iniziativa" della Lega Araba.

Con una nuova campagna politica, circa 170 ex alti ufficiali della Difesa chiedono ai cittadini israeliani di votare alle prossime elezioni per partiti che si impegnino ad adottare la cosiddetta "iniziativa di pace araba".
Personalmente ho grande rispetto per questi ex ufficiali che hanno dedicato gran parte della loro vita a difendere la sicurezza di Israele. Ma la storia ha dimostrato che vantare questo curriculum non costituisce necessariamente garanzia di avvedutezza politica. L'establishment della difesa ha sbagliato diverse volte, nei confronti del paese, in particolare per quanto riguarda la capacità di capire i nostri nemici e la tendenza ad attenersi a preconcetti infondati....

(israele.net, 13 febbraio 2015)


I palestinesi e le elezioni israeliane

di Khaled Abu Toameh (*)

"Noi o lui", è questo lo spot elettorale di Herzog e Livni. Hanno il favore della sinistra nazionale e internazionale, di Abu Mazen, Saeb Erekat, Al Jazeera e Obama. Che si potrebbe volere di più?
Finora, i palestinesi hanno mostrato scarso interesse - per non dire che si sono disinteressati - per le prossime elezioni israeliane, previste per il 17 marzo. Ma se c'è una cosa che la maggior parte dei palestinesi vorrebbe vedere, è la rimozione dal potere del premier Benjamin Netanyahu e dei partiti di destra. In molti modi, i palestinesi sembrano aver aderito alla campagna elettorale contraddistinta dagli slogan "Just Not Bibi!" (Bibi è il nomignolo di Netanyahu) o "Chiunque, basta che non sia Bibi" lanciata dai leader del Campo sionista rivale, Isaac Herzog e Tzipi Livni.
   In privato, alcuni funzionari dell'Autorità palestinese (Ap) di Ramallah, questa settimana, si sono detti fiduciosi del fatto che Netanyahu subirà una sconfitta elettorale. Anche se la linea politica ufficiale dell'Ap non prevede interferenze nelle questioni interne israeliane, questi dirigenti hanno auspicato che siano Herzog e la Livni a formare il prossimo governo. "Chiunque è meglio di Netanyahu", ha detto un alto dirigente di Ramallah. "Anche se siamo scettici in merito alle posizioni di Herzog e della Livni, continuiamo a credere che siano un bene per i palestinesi e per il processo di pace". Un altro funzionario ha sottolineato che Herzog si è recato a Ramallah almeno due volte negli ultimi due anni per incontrare il presidente Mahmoud Abbas.
   "Diversamente da Netanyahu, Herzog e la Livni ritengono che il presidente Abbas sia un partner di pace", ha affermato l'uomo. "Questo è già un buon segno che essi intendono adottare una politica del tutto diversa". In effetti, lo stesso Herzog ha dato ai palestinesi buoni motivi per essere fiduciosi. Dopo l'incontro con il presidente Abbas, a Ramallah, nel 2003, Herzog disse: "Ho avuto l'impressione che abbiamo un partner disposto ad andare lontano per raggiungere la pace e adottare misure creative e coraggiose in merito alle questioni fondamentali". Inoltre, i palestinesi asseriscono di essere stati incoraggiati dalla disponibilità della Livni a fare "concessioni di ampia portata" per il bene della pace. Essi si riferiscono a una recente intervista che la Livni ha rilasciato al Jerusalem Post in cui l'ex ministro dice di non escludere la possibilità di dividere Gerusalemme. In quell'intervista, la Livni ha anche detto se Abbas "un tempo era un terrorista, ora non lo è più".
   Facendo eco all'entusiasmo palestinese verso la Livni, i "Documenti sulla Palestina", che furono rivelati da Al Jazeera nel 2011, citano l'ex negoziatore dell'Olp Ahmed Qurei mentre le confidava "Io voterei per te". I "Documenti sulla Palestina" sono una raccolta di documenti "confidenziali" riguardanti i negoziati di pace israelo-palestinesi. Il dossier ha anche mostrato che il capo negoziatore dell'Olp Saeb Erekat si era offerto di apparire in manifestazioni pubbliche a fianco della Livni per rafforzare la posizione del suo partito. I documenti hanno rivelato che i funzionari dell'Ap cercavano l'aiuto di Washington per appoggiare la Livni. Negli incontri avuti nel 2009 con l'amministrazione Obama, Erekat chiese: "Perché non sbarazzarsi di Lieberman [leader della formazione Yisrael Beitenu] e far entrare Tzipi Livni [nella coalizione di governo]?" Il "dossier sulla Palestina" lascia intendere che la maggior parte dei negoziatori palestinesi è decisamente favorevole alla Livni, secondo un'analisi di Al Jazeera di questi documenti confidenziali.
   I palestinesi sono entusiasti della Livni anche perché lei è stata un membro del governo di Ehud Olmert quando l'ex premier offrì ai palestinesi oltre il 90 per cento della Cisgiordania - un'offerta che alla fine fu respinta da Abbas. Ora l'Autorità palestinese spera che un governo guidato da Herzog e dalla Livni riavvii i negoziati di pace dal punto in cui sono stati interrotti durante il governo Olmert. Ciò significa che i palestinesi non accetteranno qualcosa di meno rispetto a ciò che allora avevano rifiutato. Naturalmente, ci sono altri palestinesi che non sono d'accordo, sostenendo che, nonostante le idee moderate, la Livni ha mostrato anche di gradire una linea dura su alcune delle questioni fondamentali, prima fra tutte la questione del "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi alle loro case in Israele.
   Queste voci discordi fanno riferimento anche all'insistenza dell'ex ministro israeliano sul fatto che i palestinesi debbano riconoscere Israele come Stato ebraico e al ruolo da lei avuto nella guerra di Gaza del 2008-2009. In fin dei conti, non ha molta importanza chi sarà a formare il prossimo governo israeliano. Herzog e la Livni non hanno intenzione di offrire all'Ap molto più di quanto hanno proposto negli ultimi quindici anni gli ex premier Ehud Barak ed Ehud Olmert. Il prossimo governo israeliano affronterà due fazioni palestinesi: una che chiede il 100 per cento di ciò che Israele si prese nel 1948 e una seconda che vuole quasi il 100 per cento della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. E non dimentichiamoci che Hamas e Fatah sono ancora in guerra l'uno contro l'altro. Quindi, anche se il futuro governo israeliano riuscirà a trovare un accordo con il presidente Abbas e la sua Autorità palestinese, di certo, Hamas e molti altri palestinesi non lo accetteranno. Se Hamas continua a volere la distruzione di Israele attraverso la violenza e il terrorismo, l'Autorità palestinese, invece, lavora sodo per isolare e delegittimare Israele mediante i mezzi diplomatici.
   L'Ap sembra determinata a proseguire la sua campagna, a prescindere dall'esito delle elezioni israeliane. Herzog e la Livni non riusciranno a impedire ai palestinesi di presentare le accuse di "crimini di guerra" contro Israele davanti alla Corte penale internazionale. Inoltre, essi non saranno in grado di cambiare l'attuale politica dell'Autorità palestinese, che vuole imporre una soluzione a Israele con l'aiuto della comunità internazionale. Herzog e la Livni possono promettere - quanto vogliono - agli elettori israeliani "un rilancio" del processo di pace con i palestinesi. Ma ciò di cui gli elettori devono rendersi conto è che l'Autorità palestinese ha già preso una decisione strategica per cercare di imporre una soluzione a Israele attraverso la comunità internazionale e non tramite i negoziati. Gli elettori devono anche sapere che qualsiasi accordo con Abbas e l'Ap non è la chiave per la pace e la coesistenza.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 13 febbraio 2015 - trad. Angelita La Spada)


La mia risposta al rav Di Segni

Gli interventi del rav Giuseppe Laras (Corriere della sera, 13 gennaio) e del priore Enzo Bianchi (La Stampa, 18 gennaio) avevano suscitato una presa di posizione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che denunciava sul nostro notiziario quotidiano il pericolo, da parte cristiana, di una lettura a senso unico delle Scritture (29 gennaio). Oggi, sempre sul notiziario quotidiano, la risposta del priore.

di Enzo Bianchi

Enzo Bianchi
Non sono solito rispondere a critiche e obiezioni ingiuste ai miei interventi sulla stampa, ma l'amicizia e la stima che nutro verso rav Giuseppe Laras e verso rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, con i quali ho tenuto conferenze e dibattiti, mi chiedono di ritornare su alcune mie affermazioni apparse nell'articolo pubblicato su La Stampa il 18 gennaio scorso e di interloquire rispettosamente con l'intervento di rav Di Segni su Pagine ebraiche 24 del 29 gennaio.
   Lo faccio in ritardo, essendo venuto a conoscenza di tale intervento solo pochi giorni fa. I lettori che hanno seguito il dibattito non hanno bisogno che lo ripeta qui. Nel mio articolo affermavo semplicemente che sul tema della terra e dello Stato di Israele non pare esserci comprensione della posizione cristiana da parte degli ebrei. Questa mia affermazione ha suscitato le reazioni di rav Di Segni, alle quali per chiarezza voglio rispondere (me ne scuso con i lettori!) attraverso punti precisi.
   Rav Di Segni denuncia una mia incomprensione del rapporto tra il popolo di Israele e la terra di Israele. Non mi sembra sia quanto da me espresso nel mio intervento. Scrivevo solo che noi cristiani abbiamo un'altra comprensione, ma non negavo la comprensione che Israele ha del suo rapporto con la terra che, secondo la Torah, è stata promessa e data ad Abramo e alla sua discendenza. Come può rav Di Segni pensare che io neghi le promesse divine, che non dia ascolto obbediente alla parola di Dio contenuta nelle Scritture di quello che per noi cristiani è Antico Testamento e per gli ebrei Tanakh? Certo, a questo proposito le ermeneutiche cristiana ed ebraica divergono, ma non spetta a noi cristiani indicare o insegnare a voi l'ermeneutica diversa! Noi cristiani non abbiamo né terra né patria, ma io non ho mai pensato di negare le promesse di Dio fatte a Israele e il dono della terra, l'esodo e il dono della conquista, l'esilio e il ritorno, dinamiche di storia di salvezza in cui si rivela il Dio che è Go'el, Salvatore, il Dio in alleanza, la cui fedeltà verso il suo popolo non viene meno.
   Qui devo confessare che mi sento ferito da rav Di Segni, quando mi accusa con queste parole: "Come Bianchi non capisce il rapporto di Israele con la terra d'Israele, così noi non riusciamo a capire (o meglio, troppo bene la comprendiamo…) questa sua ostinata negazione di matrice cristiana (sarebbe meglio dire cattolica) di un elemento fondamentale della fede di Israele basato sulle Scritture, che pure sono i testi che dovremmo condividere". No, caro rav, questo non può dirlo, e tanto meno accusare che una tale visione sia di matrice cattolica (quando proprio la chiesa cattolica è quella che più ha dialogato e dialoga con voi ebrei). Proprio perché noi cristiani non siamo un sostitutivo di Israele, non abbiamo una terra, e la terra di Israele possiamo certo chiamarla santa, ma non è e non può essere nostra e noi, quando vi andiamo per far memoria dei luoghi santi, ci sentiamo ospiti di Israele. Questo la chiesa cattolica dal Concilio in poi lo ha affermato e io lo ribadisco. Le dirò di più: a differenza di molti cristiani, da sempre ho interpretato il ritorno ebraico a Sion come qualcosa di teologicamente significativo; anzi io dico "escatologico", anche perché il vangelo secondo Luca avverte noi cristiani: "Gerusalemme sarà calpestata dai gojim finché i tempi dei gojim non siano compiuti" (Lc 21,24). Dunque, secondo la profezia di Gesù il tempo dei gojim ha una fine e il ritorno degli ebrei nella terra ne è un segno. Tuttavia, occorrendo una qualità profetica per interpretare questo evento, ho sempre preferito essere discreto o tacere. Pertanto, su questo punto - e lei mi ha ascoltato altre volte - non comprendo la sua accusa.
   Quanto invece allo Stato di Israele, noi cristiani, che con molta fatica abbiamo imparato a distinguere Cesare da Dio, la fede dalla politica, e soprattutto come cattolici sentiamo estranea ogni commistione tra stato e fede, tra nazione e chiesa (anche se, ahimè, l'abbiamo praticata fino allo Stato pontificio!), non abbiamo "parole cristiane" da dire, ovvero non possiamo darne una lettura teologica. La messianicità cristiana non ha bisogno né di patria né di Stato, ma non neghiamo che voi ebrei abbiate diritto anche a un assetto politico e statale: appartiene a voi e alla vostra responsabilità la sua edificazione nella giustizia, nella pace e nella solidarietà con gli altri, non ebrei. Noi cristiani per voi siamo i gojim, le genti, e voi stessi affermate che non possiamo essere ebrei, anche se comunità cristiane abitano nella terra di Israele da duemila anni come vostri fratelli gemelli.
   Caro rav Riccardo, quanto al giudaizzare, sono un monaco che ogni giorno prega con voi i Salmi e unisce la sua voce alla vostra preghiera, non mi fraintenda dileggiandomi: giudaizzare non è cantare la Qedushah, celebrare la Pasqua o la Pentecoste cristiane, né ricorrere all'esegesi rabbinica, ma per me è il frutto di una voracità cristiana che tutto vuole prendere dagli altri, senza rispetto e senza lasciare che l'altro resti tale, è essere cristiani e voler sembrare ebrei.
   Un caro saluto e l'assicurazione del mio impegno di ascolto, di dialogo e di rispetto per la vostra presenza e la vostra storia che noi cristiani tante volte abbiamo reso amara.

(moked, 12 febbraio 2015)


La Basilica di San Pietro ha risposto alla Sinagoga. M.C.



Argenti democratici

di Anna Segre

Avere un oggetto della propria famiglia esposto in una mostra non è un'esperienza rara per noi ebrei che, in quanto esigua minoranza, suscitiamo una naturale curiosità e da parte nostra cerchiamo continuamente occasioni per farci conoscere. Nonostante questo devo ammettere di aver provato un particolare orgoglio ieri all'inaugurazione della mostra "Judaica Pedemontana" in un contesto prestigioso come la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. Questa volta non si trattava, come capita spesso nelle nostre Comunità, di una mostra casalinga fatta di oggetti di uso quotidiano, o magari solo di cartelli esplicativi. Questa volta gli oggetti d'argento delle nostre famiglie, quelli che magari abbiamo sotto il naso tutti i giorni, si trovano nell'illustre compagnia di libri molto antichi e preziosi (come è stato spiegato ieri su queste colonne). Eppure il loro accostamento non stona, anzi, tutto sembra incredibilmente familiare: un'Haggadah del XVI secolo aperta alla pagina con Pesach, Matzah e Maror, passo che molti di noi conoscono a memoria fin da quando erano piccoli. La pagina del Talmud che è uguale da secoli. E poi le forme delle lettere, l'impaginazione, i frontespizi: i libri antichi e preziosi non sembrano poi così diversi da quelli che siamo abituati a maneggiare. Ancora di più il discorso vale per gli oggetti d'argento, tutti così familiari che confesso di non essere riuscita a individuare il nostro. Non solo perché le forme tendono a riprodursi attraverso i secoli con una curiosa fedeltà che sembra voler simboleggiare il legame con la tradizione, ma anche perché sono oggetti che usiamo davvero (dalla chanukkiah ai piatti per il seder), che fanno realmente parte della nostra vita. Mi è capitato in passato di notare che nell'ebraismo è difficile distinguere tra alto e basso livello, tra momenti per bambini e momenti per adulti. Ho sempre visto in questo una positiva tendenza a sottolineare l'unità del popolo ebraico, a non marcare troppo le differenze. Forse per lo stesso motivo spesso è difficile distinguere tra oggetti più o meno antichi, più o meno preziosi: i nostri oggetti d'argento sono testimoni di una tradizione, non sono status symbol.

(moked, 13 febbraio 2015)


Ebraistica o giudaistica?

di Cristiana Dobner

Si presenta sempre un dilemma: Ebraistica o giudaistica? Tutto parte dal termine tedesco Judaistik. Nella traduzione italiana dell'Introduzione all'ebraistica (Brescia, Morcelliana, 2013) Stemberger Günter, professore emerito proprio di Judaistik dell'università di Vienna, perimetra chiaramente il dilemma: «L'ebraistica è lo studio scientifico della storia, della cultura e della religione dell'ebraismo dai suoi primordi biblici fino a oggi». Lo studio diviene quindi una mappa per comprendere i percorsi e le tematiche del giudaismo, non facile da comprendere perché si presenta, insieme, poliedrico e unitario, sia in campo spirituale, sia in campo letterario. La disciplina, pur avendo avuto una lunga preistoria, è una materia piuttosto recente. Requisito fondamentale appare la conoscenza dell'ebraico e delle altre lingue in cui sono stati stampati i libri base per procedere nell'indagine, tuttavia esistono ambiti dell'ebraismo «che possono essere studiati anche senza "zavorra filologica"». Con un avvertimento: «In Europa non è possibile affrontare lo studio dell'ebraistica senza tener conto della tradizione cristiana, che condiziona fortemente ogni nostro discorso sui concetti di storia e tradizione». La prospettiva adottata da Günter è «volutamente conservatrice, nella convinzione che le fasi più antiche della cultura ebraica costituiscano il fondamento di ogni sviluppo ulteriore e allo stesso tempo siano i settori in cui più richieste sono le conoscenze specialistiche dello studioso di ebraistica». Un glossario aiuta a risolvere i dubbi che si affacciano a chi legge il manuale che termina con un avvertimento: «Il cerchio si chiude: senza una conoscenza profonda della letteratura della tradizione rabbinica, anche l'accesso alle manifestazioni moderne del pensiero ebraico è possibile solo con difficoltà».

(L'Osservatore Romano, 13 febbraio 2015)


Svastica e scritta nazista nella terra dell'Eccidio

Il saluto "Sieg heil" nella torre grossa del Parco Corsini di Fucecchio. La dura condanna del sindaco Spinelli: «Gesto di un caprone incivile e maleducato».

di Marco Sabia

La torre grossa nel Parco Corsini di Fucecchio e la svastica con la scritta "Sieg heil"
FUCECCHIO (FI) - Nel 2015 ricorre il settantesimo anniversario dalla fine del secondo conflitto mondiale, quello scatenato dalla follia dei nazisti e dei loro alleati (compreso Mussolini): nel 2015 - a Fucecchio - c'è ancora chi inneggia a quell'epopea e - peggio ancora - lo fa pubblicamente, imbrattando la "Torre grossa" nel complesso Corsini con l'aberrante scritta "Sieg Heil", nata dalla volontà del gerarca nazista Joseph Goebbels. Oltretutto - per non farsi mancare niente - sotto lo slogan nazista c'è pure una svastica, come se quelle due parole in lingua tedesca non bastassero. "Sieg Heil" è una frase di lingua tedesca che letteralmente significa "Saluto alla Vittoria". Durante il periodo nazista era uno slogan collettivo usato nei raduni politici. Quando s'incontrava qualcuno, era consuetudine in Germania dare il saluto nazista con le parole "Heil Hitler". "Sieg Heil" era invece utilizzato ai raduni di massa come quello di Norimberga dove migliaia di persone lo gridavano all'unisono. Al grido di un ufficiale nazista della parola "Sieg", la folla rispondeva con "Heil". "Sieg Heil!" era uno slogan nazista molto comune che veniva ripetuto solitamente tre volte durante i comizi, specialmente dopo i discorsi di Hitler.
   Oltre al danno economico e artistico arrecato alla "Torre grossa" c'è quello alla memoria: soltanto pochi mesi fa si è commemorato il settantesimo anniversario dall'Eccidio del Padule di Fucecchio, quando reparti tedeschi sterminarono 176 civili inermi sostenendo che quelli fossero partigiani: donne, anziani e bambini crivellati dalle mitragliatrici, anziani infermi fatti esplodere con le bombe a mano, rastrellamenti col solo scopo di colpire nel morale la popolazione civile.
   Eppure non basta, perché qualcuno ancora non ha capito. Il parco Corsini non è nuovo ad episodi del genere: però tra una frase d'amore e uno slogan nazista c'è una discreta differenza, almeno per quanto riguarda la gravità dell'episodio. Poi è chiaro che per ripulire la parete della torre il costo sarà più o meno lo stesso. Il complesso del parco Corsini non ha telecamere ma è sorvegliato dai volontari dell'Auser nel tardo pomeriggio i quali poi si occupano di chiuderne i cancelli. Ma non ci vuole chissà quale atleta per scavalcare le recinzioni e inoltre per fare un atto vandalico del genere occorrono pochi secondi. E ovviamente chi compie questi gesti è spesso in superiorità numerica rispetto ai guardiani, per cui non farsi beccare è abbastanza semplice. Già in passato l'area era stata colpita e poi ripulita con prodotti specifici. Ma mai niente di riconducibile al nazismo o ad altre ideologie aberranti era comparso, per fortuna. Almeno fino ad oggi, quando l'area verde più bella e conosciuta di Fucecchio si è risvegliata con una ferita che grida vendetta.
   Sul brutto episodio è intervenuto anche il sindaco Alessio Spinelli:«Chi ha compiuto un gesto del genere è un caprone, un maleducato e un incivile. Spero e mi auguro che il responsabile non conosca il significato di quella scritta, perché se lo avesse saputo avrebbe avuto paura a scrivere quello slogan. Nel 2015, in un paese tranquillo e civile come Fucecchio, c'è ancora qualcuno che inneggia a periodi in cui la gente aveva paura ad andare a dormire la notte per colpa di quegli ideali. Non avrebbe nemmeno senso mettere le telecamere, perché a quel punto la scritta sarebbe potuta comparire da un'altra parte, ad esempio sul poggio Salamartano. Noi non possiamo controllare tutto e tutti:è una questione di educazione, di senso civico e di rispetto per il bene comune. Ora non ci resta che recarci sul posto per rimuovere la scritta, in un'area che ha un valore inestimabile per Fucecchio e non solo. Questo è un gesto da condannare assolutamente, sono veramente dispiaciuto ed amareggiato, non c'è molto altro da dire».

(Il Tirreno, 13 febbraio 2015)


Reato di negazionismo, i razzisti e il valore di una legge

Più voci hanno espresso il timore che si vada verso un regime in cui si stemperi il confine sottile tra libertà di opinione e di analisi storica critica. È un timore giustificato.

di Giorgio Israel

Nessuno può seriamente svalutare la generosa intenzione morale che ha animato l'approvazione in Senato di un Disegno di legge che introduce e punisce il reato di negazionismo. Questo atto manifesta i sentimenti di rigetto dell'antisemitismo e del razzismo della nostra classe politica - peraltro autorevolmente ribaditi nel discorso di insediamento del Presidente della Repubblica. Le perplessità nascono in relazione all'efficacia e ai negativi effetti collaterali di una legge del genere.
   Si dice che in tal modo l'Italia si allinea alla legislazione vigente in molti Paesi europei e recepisce una decisione quadro dell'Unione Europea. Il paradosso è che in molti di quei Paesi v'è assai più antisemitismo che non in Italia dove una simile legge finora non c'è stata. Il caso più clamoroso è quello della Francia, dove esistono strumenti giuridici pesanti per sanzionare il reato di negazionismo, il che non ha impedito il diffondersi di un antisemitismo tanto grave e diffuso da alimentare una crescente emigrazione ebraica verso lo Stato di Israele. In certi casi proibire non serve a nulla, o peggio.
   È meglio consentire la pubblicazione di edizioni critiche del Mein Kampf di Hitler o affidare la sua inevitabile diffusione a scandalose "edizioni" in rete con commenti non meno scandalosi, che magari compaiono quanto basta per essere scaricate da migliaia di persone? Ritengo che la risposta debba essere che la prima soluzione è la migliore.
   Occorre piuttosto chiedersi le ragioni del fallimento di queste leggi in quei Paesi, e della Giornata della memoria. La prima causa è dovuta al fatto che il canale principale di alimentazione dell'antisemitismo contemporaneo è l'antisionismo, il quale, a differenza del primo, è largamente tollerato e persino accanitamente difeso. Un'altra causa è legata al fatto che le manifestazioni per la Giornata della memoria sono cresciute a livelli esagerati, divenendo troppo spesso una passerella per autori che trovano così il modo di fare pubblicità alloro ultimo libro confezionato per l'occasione, tormentando una massa di giovani che - come hanno dimostrato recenti sondaggi - faticano a identificare la data della presa del potere di Hitler, se non a dire chi era costui.
   Difatti, il vero problema è il crollo di un'educazione storica seria sostituita sempre più, nel migliore dei casi, da analogie vaghe e nel peggiore da proclami retorici. Sarebbe assai più efficace far conoscere a fondo, nel contesto di un programma scolastico rigoroso, cosa abbia rappresentato il caso Dreyfus o le forme successive di antisemitismo in Germania e in Italia, piuttosto che far retorica e introdurre strumenti punitivi. Si osserva giustamente che l'assenza di leggi punitive ha consentito e consente ad alcuni "docenti" di tenere scandalose lezioni negazioniste. Ma il vero scandalo è che, quando questi docenti sono stati deferiti agli organi di controllo per aver violato elementari principi di deontologia, sono stati assolti. Il male è quindi più profondo, alberga nelle menti, è là che deve essere sradicato, con la cultura, la diffusione dello spirito critico e l'uso della ragione, e non basta reprimerne le manifestazioni visibili.
   Più voci hanno espresso il timore che si vada verso un regime in cui si stemperi il confine sottile tra libertà di opinione e di analisi storica critica. È un timore giustificato, perché proprio la sottigliezza di quel confine rischia di produrre conseguenze pericolose. Ma c'è ancor più da temere la grande ipocrisia che circola in Europa, consistente nel cavarsela di fronte ai problemi con editti improntati a una confusa e unilaterale ideologia "politicamente corretta" che ha il solo effetto di irregimentare le espressioni entro un pensiero unico troppo ipocrita per essere credibile. Ad esempio, occorre chiedersi quale governo europeo ab bia alzato la voce - non preso provvedimenti concreti, ma almeno protestato - nei confronti del governo iraniano per aver bandito un concorso per la miglior vignetta antisemita. Eppure questi sono i canali più potenti che alimentano l'antisemitismo, che non può essere combattuto efficacemente mettendo in prigione qualche untorello di secondo piano.

(Il Messaggero, 13 febbraio 2015)


Torino - Incunaboli e argenti, i tesori ebraici

Biblioteca Nazionale, da oggi al 6 aprile

di Renato Rizzo

 
Uno dei volumi esposti
E' la prima volta che escono dal loro mondo di silenzio e di buio nel quale vivono protetti: manoscritti, incunaboli, cìnquecentine appartenenti allo straordinario fondo di volumi ebraici della Biblioteca Nazionale squadernano da oggi al 6 aprile le proprie meraviglie e i propri segreti in una mostra nella storica sede di piazza Carlo Alberto. Pezzi unici, recentemente restaurati grazie a uno stanziamento di 26 mila euro della Crt, accanto ai quali brillano antichi argenti che rappresentano oggetti liturgici della tradizione ebraica e intrecciano, con i testi, un dialogo ricco di suggestioni e simboli.

- Gli oggetti più preziosi
  Tra i libri - adagiati su morbidi cuscini, il cui valore complessivo di aggira sui 10 milioni - spiccano l'edizione principe dell'Arba Turim stampata a Piove di Sacco nel 1475, un esemplare in pergamena del Pentateuco impresso a Bologna nel 1482, una preziosissima Agadà a colori oltre a curiosi volumi del '500 e del '600 che raccontano «favole» a carattere morale arricchite con raffigurazioni ad acquerello.

- La censura
  Colpiscono in questa mostra dal titolo «Judaica Pedemontana» (da lunedì a venerdì 10-18; sabato 9-13) presentata ieri da Dario Disegni, presidente della Fondazione per i Beni culturali ebraici in Italia, alcuni volumi dalle cui pagine sono state cancellate parole o intere righe: si tratta di testi che i possessori dovevano sottoporre alla censura cattolica affinché li «emendasse» prima di consentirne la lettura. Chi non aderiva all'obbligo era multato e si racconta di casi, non torinesi, in cui la comunità, per violazioni di questo tipo, dovette pagare la pavimentazione d'una intera strada.
Belli, spesso strabilianti gli argenti, molti scelti dall'architetto Gianfranco Fina tra gli oggetti che le famiglie di religione ebraica si tramandano di generazione in generazione e che quasi mai, prima d'ora, erano usciti dalle loro case: piatti per i cibi della Pasqua, contenitori nei quali conservare la composta che ricorda la malta, simbolo del lavoro cui erano obbligati gli ebrei in Egitto, il set per la circoncisione, le coppe nelle quali si versa il vino destinato , al profeta Elia. Ma anche vere opere d'arte come l'elegante lampada sabbatica a otto becchi e la settecentesca corona realizzata a Mantova per i rotoli della Torah: una analoga è stata venduta l'anno scorso in un'asta newyorchese a 700 mila euro.

(La Stampa, 13 febbraio 2015)


Una ventina di ebrei bresciani sogna di tornare nella Terra promessa

«Qui professare la fede è complicato»

di Vittorio Cerdelli

Niente sinagoghe, niente rabbini, niente negozi Kosher. Per professare senza riserve la religione giudaica, i venti ebrei di Brescia devono spostarsi fino a Mantova e Milano, magari cullando un po' il sogno di trasferirsi nella Terra Promessa come stanno facendo migliaia di membri della comunità d'Oltralpe provata dall'attentato al supermercato Kosher messo a segno dopo l'agguato e la strage alla rivista satirica Charlie Hebdo.
   Raphael Janicki, trentanovenne di origine lituana nato in Israele e direttore commerciale di un'azienda metalmeccanica, ci aveva già pensato dopo aver perso il lavoro a causa della crisi poi la sua compagna ha detto no e Raphael è rimasto.
   Eva Bettinzoli, biondissima moglie dell'ebreo yemenita Asaf Harbi e convertitasi all'ebraismo nel 2006, ci sta invece riflettendo: «È un progetto», spiega. Li incontriamo al ristorante «I Silvani» dove ci spiegano le difficoltà di professare una religione che incuriosisce e che divide in una città senza strutture dedicate.
   «La difficoltà più grande, oltre a non avere luoghi di culto se non a Verona, Mantova e Milano, è rispettare le regole alimentari stabilite nella Torah - spiega Rapahel, che per sfatare una credenza diffusa specifica che suo nonno materno era emigrato a Tel Aviv già negli anni '20, albori del sionismo -, io mi sento più israeliano che ebreo, infatti ordinerò un piatto a base di maiale». Già, perché secondo i requisiti del Casherut gli animali impuri come maiale, frutti di mare, commistioni di carne e latte sono proibiti. «Sono vietati anche vini, formaggi, latte e pane non ebraici - continua Raphael -, a Milano ci sono molti negozi Kasher ma un ebreo ortodosso di Brescia dovrebbe essere praticamente vegetariano».
   Eva, che con i figli dai lineamenti arabi dovuti alle origine yemenite parla in ebraico, spiega che l'antisemitismo è ancora diffuso. «È capitato che gli dicessero "sporchi ebrei" ma fortunatamente la nostra comunità è pienamente integrata». La comunità si raduna esclusivamente per le festività più importanti.
«Pasqua ebraica, capodanno, Bar Mitzvah - continua Raphael - è facile trovare israeliani anche all'Outlet Franciacorta, è nei cataloghi turistici». Conferma Eva, che celebra anche lo Yom Kippur. «È il giorno di penitenza, per 25 ore dobbiamo astenerci da tutte le attività». Tensioni con gli arabi? Tutt'altro, ma i «Free Gaza» non fanno piacere.
   «Abbiamo amici siriani, palestinesi e pakistani e ci confrontiamo spesso - spiegano -, non riusciamo però a sopportare le offese becere delle manifestazioni, dimostrano solo grande intolleranza».

(Corriere della Sera - Brescia, 12 febbraio 2015)


La vita negata nella Berlino nazista

Esce «Clandestina» (Einaudi) diario 1940-1945 dell'ebrea Marie Jalowicz. Questo libro non racconta l'orrore dei campi di concentramento, ma quello che venne prima.

di Giorgio Montefoschi

Marie Jalowicz
Marie Jalowicz
Marie Jalowicz
«Quello che sto vivendo non ha la benché minima influenza su di me, sulla mia anima, sulla mia persona». In questa frase, pronunciata silenziosamente nel 1942, in una buia e fredda sera di Berlino, da Marie Jalowicz Simon, una giovane ragazza ebrea di vent'anni di non lontane origini russe ma nata in Germania, è condensato il senso di Clandestina, una delle testimonianze più insolite e sconvolgenti della Letteratura della Memoria.
   Questo libro, infatti, non racconta l'orrore dei campi di concentramento e di sterminio; racconta quello che viene prima: l'inesauribile banalità del male, con la quale non si finisce mal di essere complici, dalla quale un giorno non casualmente sorge l'orrore. E la volontà di non arrendersi: a ogni costo. Proprio come decide di fare Marie appena entrata nella baracca dell'operaio storpio al quale è stata letteralmente «venduta».
   I suoi genitori madre casalinga, padre avvocato, sono morti. La sua numerosa famiglia, una agiata e anche colta famiglia borghese, si è dissolta. L'appartamento di Rosenthaler Strasse, coi suoi bei mobili e il parquet tirato a lucido - nel quale insieme agli zii e alle zie e ai cugini (allegri e ben vestiti) durante il Seder pasquale si cantava attorno al tavolo e veniva narrato l'esodo degli Ebrei dall'Egitto, e dopo il consommé si mangiava la trota blu, e poi si mangiavano leccornie russe e dolci venuti dalla famosa pasticceria Dobrin - è completamente dissolto.
   Lei è rimasta sola. Ma ha rifiutato tutto: ha rifiutato di indossare la stella gialla; si è licenziata dalla fabbrica di bulloni nella quale veniva trattata come una bestia; aiutata dalla resistenza ebraica e da quella tedesca ha contraffatto i suoi documenti, ha cercato di fuggire ed è tornata indietro; ha bussato a una infinità di porte; ha cambiato una infinità di nascondigli; ha subito ogni tipo di degradazione. Ora è nella baracca dell'operaio storpio che vorrebbe ammazzare tutti gli ebrei e ha comprato una donna che gli prepari da mangiare. E lei non si arrende.
   Dovrà aspettare - per dire: sono libera, sono viva - il 23 aprile del 1945, il giorno in cui l'Annata Rossa entrerà a Berlino. Clandestina è il racconto dettagliato, privo di ogni retorica e reticenza, di questi lunghissimi anni d'attesa e di sgomento. E di quelli che li precedono. E hanno date che appartengono alla Storia. E tuttavia, per le incredule vittime della persecuzione, cominciano incredibilmente un giorno, all'improvviso. Come accade a Marie. È il 1933. Marie ha undici anni. Frequenta il Sophien-Lyzeum. Un giorno, la sua insegnante di matematica, la professoressa Draeger, vede davanti alla porta della classe (e come lei lo vede tutta la classe) due uomini in borghese e diventa pallida come un cencio. «Lei ha parenti ebrei» le dicono, mettendole le manette.
   Berlino e i berlinesi, intanto -la smagliante città circondata di laghi e di boschi che conosciamo dai primi romanzi di Nabokov e dai racconti di Isherwood - continuano a vivere come se al di là dell'ottuso spazio quotidiano non esistesse niente. Gli ebrei vengono deportati, sono assediati come topi in una scatola senza buchi, si nascondono, soffrono la fame fino al delirio, si incontrano per strada e fingono di non riconoscersi abbassando gli occhi, si aiutano e si tradiscono, mettono su dei dischi e ballano disperatamente, convivono con oscene megere che ignorano chi sono e vorrebbero soltanto la loro morte, si rompono i denti sul pane duro come il marmo, piangono di fronte a una torta come non hanno pianto per la morte della madre e del padre, scompaiono.
   I berlinesi, quasi tutti (ma non tutti, perché ci sono anche gli antinazisti, pochi, e i comunisti che resistono e per aiutare gli ebrei rischiano la vita), perdono i figli, fanno la fila davanti ai negozi delle verdure e della carne, ascoltano alla radio che i loro soldati muoiono a Stalingrado, vanno al cinema a vedere i film di Marika Roekk, sfilano per le strade a passo di marcia convinti della vittoria finale, si riparano nei rifugi antiaerei, vedono i palazzi della grande capitale crollare uno dopo l'altro e - come se al di fuori di quello spazio quotidiano, preda ormai di una specie di follia collettiva, non esistessero altro che fantasmi - procedono verso il vuoto.
   Innumerevoli sono gli episodi che potrebbero essere citati per descrivere e dare la sensazione mozzafiato di questo libro che invece deve essere letto senza saltare neppure una riga, da capo a fondo. Ce n'è uno, però, che per come rende omaggio alla grandezza di questa sperduta ragazza ebrea gelosa della sua anima, non si può tralasciare. Siamo quasi agli ultimi giorni. In una stanza segreta dell'appartamento in cui Marie ha trovato rifugio, il suo compagno ha istallato un rudimentale apparecchio radiotrasmettitore con il quale si possono ascoltare le emittenti straniere e la famosa campana di Radio Londra con quei rintocchi che aprono il cuore.
   Un giorno, mentre sta risuonando l'allarme, nei sibili delle onde sonore che attraversano il Mediterraneo, i Balcani e arrivano a Berlino, Marie coglie queste due parole:
   Po Jeruschalaim, che significano: qui Gerusalemme. L'emozione è troppo forte. La ragazza che ha nascosto tutto di se stessa, fin quasi al cinismo, esplode e grida: «Chawerim, compagni, sono rinchiusa nell'appartamento pieno di cimici di una nazista di nome BIase insieme a un olandese impossibile. Ma voglio vivere, lotto, faccio il possibile per sopravvivere. Schalom, Schalom!». Poi si sentono altri brandelli d'ebraico. E la linea cade.
   Marie Jalowicz sopravvisse. Si sposò con un inglese, Simon e volle rimanere a Berlino, dove all'università ebbe una cattedra di Storia Antica. Pare che le sue lezioni fossero bellissime. Morì nel 1998. Il libro che ora leggiamo, è la trascrizione di una serie di registrazioni fatte da suo figlio prima della morte. Lei, prima di queste registrazioni, come tutte le persone che sanno quanto è difficile spiegare la sostanza delle cose, per mezzo secolo aveva taciuto.

(Corriere della Sera, 12 febbraio 2015)


Israele accusa Hezbollah: pianificavano l'omicidio dell'ex primo ministro Olmert

L'attentato sarebbe stato progettato in seguito all'uccisone del numero due del partito sciita libanese

di Milena Castigli

Cinque ex-agenti della Cia hanno rivelato di aver partecipato all'assassinio di Imad Mughniyeh, numero due del partito sciita libanese Hezbollah - letteralmente "partito di Dio" - avvenuto nel febbraio del 2008. Il partito è considerato "organizzazione terroristica" da numerosi Stati, tra i quali gli Usa. L'Unione Europea aveva inizialmente rifiutato di qualificarlo come organizzazione terroristica ma, il 10 marzo 2005, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione non vincolante che lo accusa di aver condotto "attività terroriste"; il Consiglio d'Europa ha poi incolpato Imad Mughniyeh di essere un terrorista antisionista.
Mughniyeh è stato ucciso il 12 febbraio 2008 dall'esplosione di un'autobomba all'uscita di un ristorante di Damasco, in Siria. L'operazione, secondo la rivelazione di cinque ex agenti della Cia, sarebbe stata pianificata e condotta sul campo dal Mossad israeliano in collaborazione con gli uomini dell'Intelligence Usa. L'ordigno - "pensato per un'esplosione contenuta e senza danni collaterali" - era stato piazzato nella ruota di scorta di un Suv parcheggiato nelle vicinanze. "La bomba - ha riferito uno degli uomini dell'Intelligence di Washington - era costruita in modo che gli statunitensi potessero collocarla e disinnescarla, ma non azionarla. In North Carolina - prosegue - facemmo scoppiare almeno 25 bombe per essere certi che funzionassero bene".
In risposta all'omicidio di Mughniyeh, pochi mesi dopo Hezbollah aveva pianificato l'uccisione dell'ex primo ministro israeliano Ehud Olmert. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post" riprendendo i media arabi. Secondo le prime indiscrezioni, l'attentato a Olmert sarebbe stato sventato da Mohammed Shurba, agente dello Stato ebraico riuscito ad infiltrarsi nelle alte sfere di Hezbollah. Shurba - riferisce la stampa araba - nel 2009 avrebbe fatto fallire anche un secondo attacco del Partito di Dio ai danni di Israele, che mirava a bombardare l'ambasciata israeliana in Azerbaigian. Tuttavia, almeno al momento, non esistono conferme a riguardo.

(In Terris, 12 febbraio 2015)


Forlì - Al rabbino Luciano Meir Caro il conferimento della cittadinanza onoraria

Ad esporre le ragioni della cittadinanza onoraria, con la consegna della Pergamena di Conferimento, sarà il sindaco di Bertinoro Nevio Zaccarelli.

 
Il rabbino Luciano Caro
FORLÌ - Domenica 22 febbraio, alle 15, seduta straordinaria e solenne del Consiglio Comunale di Bertinoro per trattare un solo importante argomento: il conferimento della cittadinanza onoraria a Luciano Meir Caro. Nato a Torino il 7 agosto 1935, si è laureato in Scienze Politiche, Meir Caro compie gli studi rabbinici perfezionandosi all'Accademia Rabbinica di Gerusalemme. Nel 1975 è stati vice rabbino a Torino; dal 1976 al 1998 è rabbino capo prima a Trieste, poi a Firenze.
Dal 1978 al 1981 è stato membro dell'esecutivo della Federazione Sionistica Italiana e, successivamente, della Consulta Rabbinica Italiana. Dal 1989 è rabbino capo di Ferrara e delle Romagne. Inoltre dal 1995 è presidente del Centro di Cultura Ebraica "Ovadyah Yare da Bertinoro" e siede nel comitato scientifico dell'Associazione "Biblia" di Firenze. Dal 1997 è socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Ferrara. Dal 2002 al 2005 ha prestato opera di consulenza per l'allestimento delle sale dedicate all'Ebraismo del Museo Interreligioso di Bertinoro, affiancando l'attività del senatore Leonardo Melandri.
La collaborazione con il Museo Interreligioso è continuata negli anni con l'organizzazione della visita ufficiale a Bertinoro di Gideon Meir, allora Ambasciatore d'Israele in Italia e con la partecipazione al Convegno "Il dialogo interreligioso come fondamento di civiltà", senza dimenticare i numerosi incontri con le scuole Secondarie di secondo grado dei comprensori romagnoli, finalizzati all'approfondimento di aspetti particolari della cultura ebraica. Ad esporre le ragioni della cittadinanza onoraria, con la consegna della Pergamena di Conferimento, sarà il sindaco di Bertinoro Nevio Zaccarelli. Al termine della cerimonia, intervento musicale a cura di Enrico Fink Quartet e brindisi conclusivo.

(ForlìToday, 11 febbraio 2015)


Il lager di Bolzano, una memoria dimenticata

Lettera al Corriere dell'Alto Adige

Sul Corriere dell'Alto Adige del 21 gennaio, il regista Renzo Fracalossi, per la Giornata della memoria, ci ha raccontato le sanguinarie gesta di Ilse Kohler, la strega di Buchenwald. Non occorre tuttavia cercare in luoghi così lontani per trovare personaggi simili. Bolzano, nel suo piccolo, ha avuto anch'essa il proprio campo di concentramento nella zona di Gries, posto nelle vicinanze del quartiere popolare delle «semi rurali», corredato di propri aguzzini e aguzzine.
   Il campo fu costituito dai nazisti nel 1944, dopo l'armistizio, quando le zone di Bolzano, Trento e Belluno erano già sotto il dominio nazista e costituivano la cosiddetta Zona di operazioni delle Prealpi. Era destinato ad accogliere in massima parte oppositori del nazifascismo, prigionieri politici e militari, e solo per una percentuale minima anche ebrei, zingari e ostaggi. Rimase aperto appena dieci mesi e vi transitarono più di 11.000 prigionieri, destinati ai campi di sterminio nazisti. Quanti vi sostarono furono obbligati al lavoro schiavistico sia a Bolzano, sia in altre zone dell'Alto Adige (campi di concentramento satellite?), quali Merano-Maia Bassa, Certosa in Val Senales, Val Sarentina, Vipiteno, Colle Isarco, Dobbiaco. Lavoravano in turni di lavoro pesantissimi, senza retribuzione, spesso senza cibo, controllati e «spronati» da guardie armate e violente.
   Nel campo di Bolzano lavorava un'intendente preposta a controllare la parte femminile del campo, una tal Elsa Laechert, sembra di origini prussiane. I prigionieri l'avevano soprannominata «la tigre» a causa del suo comportamento violento e imprevedibile, sempre finalizzato a umiliare, aggredire e brutalizzare i prigionieri, uomini e donne, anche fino alle estreme conseguenze. La «Tigre» era solita girare armata di pistola e frustino e - dalla testimonianza di una prigioniera al comando militare alleato di Merano del '45 - «malmenava e prendeva a pugni nelle orecchie chiunque le capitava a tiro. Il suo odio si dirigeva particolarmente contro gli ebrei; è un fatto che essa causò la morte di sei donne ebree».
   Oltre alla «Tigre» agirono nel campo in maniera violentissima contro i prigionieri anche due guardie ucraine, i cosiddetti «Boia di Bolzano» Otto Sein e Michael Seifert, quest'ultimo condannato all'ergastolo nel 2000, a mezzo secolo di distanza, per aver torturato, seviziato e ucciso almeno diciotto prigionieri assieme all'inseparabile Otto Sain, rimasto irrintracciabile. Basta leggersi la sentenza a Seifert per farsi un'idea della vita nellager.
   Ho letto tali notizie su varie pubblicazioni, sia dell'Anpi, sia della Comunità ebraica di Merano, sia dell'Archivio storico di Bolzano, quest'ultimo rappresentato dal mirabile lavoro della dottoressa Carla Giacomozzi, che in anni di ricerche e studi ha saputo raccogliere una grandissima quantità non solo di informazioni, ma anche di oggetti frutto di donazioni delle famiglie dei deportati.
   Mi colpisce particolarmente vedere come, anche in occasione della Giornata della memoria, la nostra città e la nostra provincia si impegnino ben poco nel ricordo di questa pagina nera della nostra storia, sulla quale pesa ancora una cappa di silenzio: il Lager. Perché non sollevare finalmente assieme, italiani e sudtirolesi, senza tentare di accusarci l'un con l'altro, un simile velo che offende le vittime e oscura la nostra possibilità di comprendere la nostra storia? Perché non costruire finalmente un vero «museo del lager», non un angolo in una semirurale, ma un vero e proprio museo, come hanno fatto a Fossoli e alla Risiera di San Sabba, altri lager sorti sotto il dominio nazista nell'Italia del nord?
   Eppure, i tempi sarebbero maturi: qui a Bolzano un primo passo è già stato compiuto aprendo recentemente al pubblico il monumento alla Vittoria. Nel mondo attorno a noi, infuriano gli estremismi religiosi e politici, mietendo migliaia di vittime. La città di Bolzano si è recentemente candidata a divenire capitale della cultura. Non ha vinto il concorso, ma costruendo il museo dellager dimostrerebbe sicuramente di essere, con o senza concorso, una vera capitale della cultura, capace di guardare anche i lati più bui del proprio passato per onorare le vittime e non ripetere gli errori commessi.
Elisabetta Bertolucci, Bolzano
    Gentile signora Bertolucci,
    grazie della ricostruzione storica da lei fatta. Bolzano, grazie soprattutto all'Anpi e alla sua meritoria opera per tenere viva la memoria di quel tragico periodo, non ha certo trascurato il Lager, quel che ne resta, la sua storia e le sue storie di sofferenza. La proposta da lei formulata merita comunque attenzione poiché al riguardo non si fa mai troppo.
(Corriere dell'Alto Adige, 12 febbraio 2015)


La versione di Heidegger

Lettera a Corrado Augias

Dott. Augias, a leggere le ultime rivelazioni dei nuovi "Quaderni neri" di Heidegger viene da pensare a quali abissi possano portare le astrattezze di un filosofo che, chiuso nel suo studio, ignora che cosa sia la Shoah. Con sgomento, si apprende che il filosofo giustificava lo sterminio degli ebrei. Lo considerava non un indicibile genocidio, ma un "autoannientamento". Gli ebrei si sarebbero autoannientati vittime dei demoni da loro stessi sprigionati con la tecnica e il progresso. Gli ebrei, infatti, sarebbero gli agenti della modernità, cioè di quell'epoca che, nel linguaggio "esoterico" del filosofo, ha obliato l'Essere in favore dell'Ente, sradicando l'umanità dalla sua dimora per spingerla ad una perenne deriva verso l'inautenticità e il nichilismo. All' ebraismo vanno attribuiti tutti gli aspetti della vita e del pensiero moderni: dalla Riforma alle Rivoluzioni, agli ideali di libertà, di progresso, al capitalismo, alla democrazia, al bolscevismo.
Ezio Pelino
    Il signor Pelino si riferisce alle anticipazioni che la studiosa Donatella Di Cesare, autrice del recente saggio Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), ha fatto sul Corriere della sera. Si tratta di questo: il "Quaderno nero" numero 97 che sta per essere pubblicato in Germania (presto anche in Italia per Bompiani) contiene sulla Shoah e sugli ebrei affermazioni che sconfessano la diffusa credenza di un "silenzio di Heidegger" dopo Auschwitz. Il filosofo scrisse infatti queste note dopo la guerra quando cominciavano a diffondersi notizie su ciò che era davvero avvenuto nei campi di sterminio (non di concentramento - di sterminio). L'atroce verità non lo scosse. Al contrario egli inserì anche le camere a gas in quella Storia dell'Essere che stava elaborando. Nella sua visione, gli Ebrei, agenti e motori della modernità, avevano distrutto lo spirito dell'Occidente grazie al contributo dato all'accelerazione della tecnica. Il loro sterminio, anch'esso tecnico, era stato il momento apocalittico in cui gli agenti della distruzione si erano a loro volta autodistrutti - il termine è "autoannientati" (Selbstvernichtung). Il disciplinato popolo tedesco avrebbe potuto fermare la rovina ma gli Alleati non lo avevano capito sconfiggendo improvvidamente la Germania Il pensiero di Martin Heidegger non può essere preso alla leggera tale l'importanza che ha avuto. Tuttavia anche in questa complessa elaborazione arriva l'eco di quella congiura mondiale giudaica propalata dai falsi "Protocolli dei savi anziani di Sion" diffusi dalla polizia dello zar. Apprendere di questi giudizi fa pensare che il vero demone della tecnica sia quello che si nasconde in un' astratta tecnica filosofica che arriva a far perdere a un uomo di genio ogni contatto con l'umanità.
(la Repubblica, 12 febbraio 2015)


Giuda

di Francesco Lucrezi

 
Il successo di un romanzo può dipendere da tante cose. Dal suo valore letterario, certamente, ma anche dalla forza di attrazione esercitata dall'argomento trattato, dalla capacità di incuriosire, intrigare, suggestionare i lettori. E, com'è noto, capita a tutti di interrogarsi sui motivi della scarsa affermazione di opere ritenute di alto livello, e della grande risonanza ottenuta da lavori giudicati invece modesti. Ma, come si dice, il pubblico ha sempre ragione, e c'è sempre una spiegazione per ogni successo, come per ogni insuccesso.
   Il grande favore di pubblico incontrato dall'ultimo libro di Amos Oz, "Giuda" (ed. Feltrinelli), era - in ragione del delicato argomento trattato, e della meritata fama dell'autore - prevedibile. Eppure, esso non appare, a mio modesto parere, tra le sue opere migliori.
   E, soprattutto, solleva alcune perplessità sulla natura di quella "questione di ordine religioso" che, come annunciato all'inizio del romanzo, e ribadito sulla quarta di copertina, sarebbe affrontata nel testo, per essere lasciata "irrisolta".
   Un romanzo, certo, è un romanzo, e non va giudicato secondo i parametri di un trattato politico, filosofico o religioso. Ma, quando un testo letterario va a toccare argomenti così indiscutibilmente seri e
Quando un testo letterario va a toccare argomenti così indiscutibilmente seri e densi di significato [...] appare legittimo un giudizio non solo estetico, ma anche etico sui suoi contenuti.
densi di significato - e, oltre tutto, l'autore, oltre che come romanziere, è apprezzato e considerato anche come attento e lucido opinionista e commentatore politico -, il discorso cambia, e appare legittimo un giudizio non solo estetico, ma anche etico sui suoi contenuti.
Il romanzo è articolato su tre diversi livelli temporali. Il presente, ambientato in una Gerusalemme fredda e desolata, nell'inverno tra il 1959 e il 1960, vede in azione dei protagonisti fasciati da dolore, solitudine, incomunicabilità, che, per varie ragioni, cercano di interpretare il senso di due vicende del passato: una più recente, incentrata sulla persona di Shaltiel Abrabanel, dirigente sionista che, alla vigilia della Dichiarazione di Indipendenza di Israele, e della guerra che ne seguì, si oppose a Ben Gurion e all'idea della creazione di uno stato ebraico, a favore dell'utopia di una convivenza pacifica con gli arabi, senza la separazione di stati e confini nazionali, pagando la sua posizione con l'emarginazione e l'isolamento; l'altra, più antica, rappresentata dalla ben nota storia dell'Iscariota.
   Uno dei protagonisti del romanzo immagina che, in realtà, Giuda non sarebbe stato affatto un traditore, ma sarebbe stato l'unico e a comprendere la grandezza della parola del Nazareno, e il suo gesto sarebbe stato finalizzato a fargli compiere l'ultimo, più grande miracolo, dinanzi al quale il mondo avrebbe finalmente compreso il vero significato del messaggio di Gesù. Fallito tale tentativo, Giuda si sarebbe tolta
Due domande affiorano dalle pagine del romanzo, accennate in modo obliquo, insinuante e allusivo [...] Due domande, francamente, alquanto sgradevoli.
la vita, morendo da "primo cristiano, ultimo cristiano, unico cristiano". E, così come Giuda, diciannove secoli dopo, anche Abrabanel avrebbe coltivato un sogno di pace e di amore, per essere anch'egli condannato a essere considerato un 'traditore' della sua gente. Due domande, così, affiorano dalle pagine del romanzo, accennate in modo obliquo, insinuante e allusivo: che ne sarebbe stato della storia del popolo ebraico, e dell'intera umanità, se gli ebrei non avessero 'girato le spalle' alla parola di Cristo, e avessero invece anch'essi compreso quel che aveva compreso Giuda, "primo cristiano, ultimo cristiano, unico cristiano"? E che ne sarebbe stato della storia del popolo ebraico, e dell'intero Medio Oriente, se l'utopia di Abrabanel fosse stata raccolta e condivisa?
   Due domande, francamente, alquanto sgradevoli. Quanto alla seconda, credo che se c'è stato un momento, nella storia degli uomini, in cui la strada da percorrere era una sola, questo è stato proprio, per gli ebrei di Palestina, il 1947-49. Un bivio, in realtà c'era, ma non era affatto tra amore e guerra, ma tra combattere e sopravvivere, o morire. Abrabanel non fu un traditore, ma semplicemente un uomo che, in buona fede, sostenne una posizione sbagliata.
   Quanto a Giuda, speravo che fosse finito il tempo in cui chi si rifiutava - e si rifiuta - di riconoscere un Dio fatto uomo veniva accusato di avere 'girato le spalle' a un messaggio di amore, come se la parola 'amore' avesse fatto allora la sua prima comparsa nella storia dell'umanità, e dovesse essere ineluttabilmente pronunciata da una creatura divina. Ma tant'è.
   In ogni caso, il parallelo tra i due personaggi, su cui si regge l'intera trama del romanzo, appare decisamente forzato. Sono due vicende completamente diverse, inserite in due contesti del tutto lontani l'uno dall'altro, fra cui non c'è proprio niente in comune.

(moked, 11 febbraio 2015)


Festival di Locarno sotto tiro per Israele

Il PC chiede le dimissioni di Marco Solari: "Prima sbatte la porta in faccia ai russi, poi le spalanca ai sionisti!"

Dopo Colombia, Messico, Cile e Brasile, quest'anno sarà Israele il Paese protagonista di Carte Blanche, iniziativa che si tiene nell'ambito del Festival del film di Locarno, in programma dal 5 al 15 agosto 2015.
Una scelta, quella del Paese medio orientale, che ha fatto sobbalzare sulla sedia il Partito comunista del nostro Cantone.
"Marco Solari prima sbatte le porte in faccia ai russi, poi le spalanca ai sionisti!" esclama il segretario politico Massimiliano Ay in un comunicato a nome del partito.
"Dopo aver rifiutato - quasi fossimo ancora in piena guerra fredda - l'offerta della Russia di una vera cooperazione con il Gosfilmofond, cioè la più grande cineteca del mondo, il Festival del film di Locarno comunica che l'edizione 2015, la 68esima dell'importante evento culturale locarnese, sarà caratterizzata da un partenariato con l'Israel Film Fund, emanazione del governo di Tel Aviv" scrive il PC.
"Non c'è bisogno di ricordare" si legge nel comunicato "che Israele è un paese che occupa territori palestinesi che non gli appartengono, che dispone di una legislazione degna dell'apartheid per gli arabi, che bombarda il Libano e che favorisce il separatismo etnico per balcanizzare la Siria, che ha usato persino i terroristi dell'ISIS per raggiungere i suoi scopi egemonici e guerrafondai. Se con quel Paese si vuole collaborare, che almeno si dia forza al cinema indipendente dei registi anti-sionisti che non ricevono sovvenzioni."
"Abbiamo spesso difeso la libertà artistica del Festival del film di Locarno perché lo vorremmo sempre migliore e un fiore all'occhiello dell'offerta culturale del nostro Paese, ma davvero fatichiamo a comprendere queste scelte, soprattutto dopo aver voltato le spalle ai russi creando imbarazzo anche presso l'Ufficio federale della cultura: hanno tutto il sapore della genuflessione agli interessi diplomatici ed economici della lobby sionista presente nel nostro Cantone" conclude il Partito comunista, lanciando una frecciata: "Non sarebbe magari ora che la presidenza del Festival passasse di mano?"

(ticinonews.ch, 12 febbraio 2015)


Affinché si sappia e ci si convinca che oggi l'antisemitismo occidentale, travestito da antisionismo, ha in ogni paese un volto di sinistra. M.C.


Musulmano, letterato da Nobel. Kadaré difende Israele a spada tratta

di Giulio Meotti

 
Ismail Kadaré
ROMA - Il giornalista della France Presse a un certo punto della premiazione gli domanda: "Ma qui, a Gerusalemme, i palestinesi potrebbero obiettarle che la loro libertà è ristretta". Ismail Kadaré gli risponde: "Non mi sono posto questa domanda. lo sono uno scrittore. E vengo da uno dei pochi paesi al mondo che hanno aiutato gli ebrei durante la guerra. Il popolo albanese ha sempre difeso gli ebrei, sotto la monarchia, sotto il comunismo, dopo il comunismo. Ecco perché non ho mai pensato a questo altro problema (dei palestinesi, ndr)".
    L'Albania, infatti, è l'unico paese coinvolto nel Secondo conflitto mondiale in cui non ci siano state deportazioni e che può vantare di aver salvato tutti gli ebrei presenti sul suo territorio. Gli ebrei in Albania erano duecento prima della guerra, mentre alla fine della guerra risultarono essere oltre duemila. Tirana e Gerusalemme sono da anni anche alleati affiatati, entrambi hanno in odio il fondamentalismo islamico ed entrambi hanno fatto del boicottaggio dell'Iran khomeinista una bandiera nell'arena internazionale (il premier albanese Sali Berisha ha definito Mahmoud Ahmadinejad "nazista"). Sono rimasti dunque delusi quelli che avrebbero voluto vedere il più grande scrittore albanese vivente boicottare la cerimonia in cui gli è stato comminato il Premio Gerusalemme, il riconoscimento letterario biennale assegnato a scrittori "il cui lavoro è connesso con i temi della libertà dell'uomo, della società, della politica e del governo", già vinto da Bertrand Russell e Octavio Paz, Coetzee e Naipaul, fino a Murakami e Vargas Llosa (degli italiani lo ha vinto soltanto Ignazio Silone nel 1963). Ismail Kadaré, il cui poema "A mezzogiorno si è riunito l'ufficio politico" suscitò le ire dei custodi dell'ortodossia comunista, e il cui manoscritto, che risale al 1974, non soltanto non venne pubblicato ma venne addirittura sequestrato, a Gerusalemme è andato a ritirare il suo premio. E non ha fatto neppure come lo scrittore inglese Ian McEwan, che ha sì accettato, tre anni fa, ma poi ha usato la cerimonia di premiazione per dare lezioni di morale e politica a Israele. Comunista, musulmano, esule parigino, candidato ogni anno a vincere il premio Nobel per la Letteratura, anche Ismail Kadaré ce le aveva tutte per rifiutare l'onorificenza israeliana. C'era anche un precedente: in passato, la scrittrice sud africana Nadine Gordimer rifiutò il Premio Gerusalemme per motivi politici. E l'annuncio che l'edizione 2001 del Premio sarebbe andata a Susan Sontag generò un'ondata di lettere, appelli e messaggi che misero non poco in imbarazzo la scrittrice Iiberal americana. Invece a Gerusalemme Kadaré c'è andato e ha elogiato perfino Israele di fronte all'opinione pubblica.
    "Servo sionista". "Collaborazionista". "Nemico dei palestinesi". Le accuse in questi giorni contro Kadaré non si contano, come quelle che lo additavano nell'Albania sta lini sta come "decadente", "esistenzialista", "surrealista", "umani sta astratto", i simboli della detestata cultura borghese. Scrittore di romanzi, saggi, poesie e antologie, Kadaré, autore del "Generale dell'armata morta" e dei "Tamburi della pioggia", a Gerusalemme ha detto che Israele affronta "il pericolo della scomparsa" e che questo accomunava l'Albania delle guerre balcaniche e lo stato ebraico di oggi: "Entrambi vivono con la minaccia e l'angoscia della sparizione". Entrambi i paesi hanno a che fare con nemici ostili, l'Albania con lo slavismo di Milosevic e Israele l'islamismo. Per dirla con Mila Kundera, anche lui vincitore del Premio Gerusalemme, "un piccolo paese può scomparire, e lo sa bene". Lo sapeva l'Albania e lo sa Israele.

(Il Foglio, 12 febbraio 2015)


Impressionante tempesta di sabbia e polvere in Israele

A causa del tempo, stamattina lo scalo di Eilat, alla punta sud del paese, è stato chiuso al traffico aereo

Una tempesta di sabbia mista a polvere con raffiche di vento teso (tra 60 e 100 chilometri) e rigide temperature sta investendo in queste ore Israele. Un fenomeno atmosferico che - secondo il ministero dell'ambiente - si sta rivelando il peggiore a livello di inquinamento negli ultimi cinque anni. A causa del tempo, stamattina lo scalo di Eilat, alla punta sud del paese, e' stato chiuso al traffico aereo. Non ci sono conseguenze per ora sullo scalo internazionale di Ben Gurion, vicino Tel Aviv, dove ci sono stesse condizioni di tempo con pioggia mista a sabbia e polvere. Gli impianti sciistici del Monte Hermon - nel nord del paese - sono stati chiusi. Anche in Cisgiordania e' in corso la stessa tempesta di sabbia.

(LaPresse, 11 febbraio 2015)


«Onore alla Brigata ebraica». Il tabù infranto dal Pd milanese

«Onore alla Brigata Ebraica». Il Pd di Milano, nell'anno del settantesimo anniversario della Liberazione, ha deciso di infrangere un tabù celebrando la Brigata Ebraica,l' eroica formazione militare alleata, com posta da 5mila soldati che operarono durante la seconda guerra mondiale inquadrati nell'esercito britannico. Nel corso delle sfilate del 25 aprile degli ultimi anni,le insegne della Brigata Ebraica sono state fatte oggetto di una indegna contestazione, col solito copione di insulti e sputi, da parte delle frange estreme della sinistra. Il Pd milanese ha deciso di dedicare alla Brigata Ebraica un convegno a Palazzo Isimbardi. E la mattina stessa, all'ingresso di Palazzo Isimbardi è stato rinvenuto un graffito oltraggioso.

(il Giornale, 11 febbraio 2015)


La lista di tutti i «foreign fighters». Ecco i 56 che fanno paura all'Italia

Alcuni risultano scomparsi, altri sono ricercati, mentre molti sono ancora in Siria per combattere

di Francesca Musacchio

 
Alcuni risultano scomparsi, altri sono ricercati, mentre molti sono ancora in Siria per combattere insieme agli jihadisti dello Stato islamico e anche con quelli di Jabhat Al Nusra. Nella lista completa dei foreign fighters italiani, composta al momento da 51 nomi che Il Tempo ha avuto modo di visionare, spuntano personaggi inquietanti che hanno alle spalle un percorso all'interno dell'estremismo islamico del nostro paese e non solo. Sedici di questi sono addirittura ricercati perché coinvolti, a vario titolo, in procedimenti giudiziari. L'elenco, poi, comprende anche i nomi degli italiani convertiti che sono diventati combattenti volontari della jihad, oltre ai 17 foreign fighters tenuti sotto stretta osservazione da parte dell'antiterrorismo.
   Un panorama complesso, dunque, che mostra come la radicalizzazione in Italia sia presente, anche se con numeri inferiori rispetto ad altri paese europei. Tra i nomi più noti di mujaheddin italiani, spunta quello di Giuliano Ibrahim Delnevo, il giovane genovese morto in Siria nel giugno del 2013. A seguire, tra i vip della lista, c'è anche l'unica donna convertita, di cui al momento si avrebbe certezza, e che si troverebbe nel Califfato: Maria Giulia Sergio. L'altro profilo noto è quello di Giampiero Filangieri, il calabrese arrestato il 21 luglio scorso dal dipartimento antiterrorismo ad Erbil, nel Kurdistan iracheno,mentre tentava di raggiungere i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi. Tra gli italiani compare anche un marocchino, naturalizzato italiano, El Mehdi Dannoune, che dopo essere stato in Siria, ora sarebbe in cura presso una struttura medica europea a causa di alcuni problemi psichici. Tra i nostri connazionali rientra anche Stefano Costantini, che ha la doppia cittadinanza italo-svizzera, e che fa parte della lista dei nostri foreign fighters. Tra gli stranieri partiti dall'Italia per raggiungere la Siria troviamo altri nomi noti come quello di Anas El Abboubi, noto anche come il rapper Mc Khalifh, marocchino residente in provincia di Brescia partito a settembre 2013 per la Siria, uno dei fautori del gruppo «Sharia4Italy» che fa parte del network jihadista attivo in Europa. Di questo gruppo un altro esponente è Jarmoune Mohamed, attualmente in carcere con l'accusa di terrorismo e sospettato di preparare un attentato alla Sinagoga di Milano. Molti anche i bosniaci e i macedoni che vivevano in Italia, senza aver ottenuto la cittadinanza, e che ad un certo punto hanno deciso di andare a combattere la jihad. È il caso dell'imbianchino bosniaco Ismar Mesinovic (partito dall'Italia per la Siria fra il novembre e il dicembre 2013), e l'operaio macedone Munifer Karamaleski, frequentatori dei centri islamici di Trento e di Pordenone. Secondo la Procura di Venezia a incitare i due alla guerra santa sarebbe stato l'imam radicale Bilal Hussein Bosnic, 42 anni, conosciuto dai suoi come Cheb Bilal. Mesinovic, nato a Doboj (Bosnia) il 22 agosto 1977, si recava a pregare al centro Assalam-Pace di Ponte nelle Alpi ed è morto in Siria, a 37 anni, nel gennaio del 2014. La moglie del combattente ha riferito di aver saputo che il marito era stato gravemente ferito ad Aleppo. Tra i ricercati, invece, troviamo il tunisino Moez Fezzani Ben Abdelkader, ex detenuto a Guantanamo che nel 2011 fu consegnato all'Italia. Nonostante le accuse di terrorismo e i numerosi processi subiti, Fezzani è riuscito a uscirne fuori sempre senza alcuna condanna. Considerato uno dei più pericolosi jihadisti, al momento sarebbe in Libia, dopo essere stato in Siria. Mounir Ben Abdelaziz Ouechtati, invece, è un tunisino che compare nella lista dei ricercati perché nel 2007 è rimasto coinvolto in un'inchiesta della Procura di Perugia. La Digos, infatti, in una moschea di Ponte Felcino, aveva scoperto un vera e propria scuola di terrorismo. Nel 2009 la Corte d'Assise di Perugia condannò a sei anni di reclusione l'imam marocchino Mostapha El Korchi e a 4 e 3 anni e 6 mesi, Mohamed El Jari e Safika Driss, entrambi suoi connazionali. Durante l'indagine gli inquirenti scoprirono i rapporti proprio tra El Korchi e Mounir Ben Abdelaziz Ouechtati, che al tempo avrebbe avuto contatti con personaggi già sotto osservazione a Falluja da parte delle forze della Coalizione. Il tunisino, infatti, avrebbe avuto scambi di telefonate con un'utenza segnalata dalla polizia belga come riconducibile al Gruppo islamico combattente marocchino.
   Ora l'uomo sarebbe in Siria come combattente volontario della jihad. Nell'elenco dell'orrore troviamo un altro ex detenuto di Guantanamo, riconsegnato all'Italia sempre nel 2011 dagli Stati Uniti: Adel Ben Mabrouk, conosciuto come il barbiere della moschea di viale Jenner a Milano. Il tunisino, già appartenente al gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento, compare in numerose indagini dell'antiterrorismo italiano. Nel 2005 è stato destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare con le accuse di terrorismo internazionale, falsificazione e ricettazione di documenti, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, traffico di sostanze stupefacenti e rapina. Ora potrebbe essere morto in Siria.

(Tempo, 11 febbraio 2015)


L'esercito svizzero si doterà di droni israeliani

Il programma d'armamento 2015 prevede un ammontare globale di 542 milioni di franchi.

BERNA - L'esercito svizzero dovrebbe acquistare droni israeliani. Lo prevede tra l'altro il programma d'armamento 2015 sottoposto oggi dal Consiglio federale al parlamento, per un ammontare globale di 542 milioni di franchi. Una somma piuttosto modesta, ma potrebbe trattarsi della prima ordinazione per quest'anno.
L'acquisto di sei droni di esplorazione del tipo Hermes 900 dall'impresa israeliana Elbit, comprende anche componenti a terra, simulatore e logistica inclusi, per una costo di 250 milioni, la voce più consistente di tutto il programma. Diversi politici, in particolare nella sinistra, si sono già espressi contro una tale spesa: in particolare vengono rivolte accuse al governo israeliano di violazione dei diritti umani e di aver testato il materiale in Cisgiordania, Gaza e Libano.

(tio - il Portale del Ticino, 11 febbraio 2015)


Polemiche in Germania: nella commissione antisemitismo non ci sono ebrei

La comunità ebraica tedesca accusa: nella commissione non ci sono esperti di origine ebraica. Il ministero dell'Interno ne sta rivalutando la composizione.

BERLINO, 11 febbraio 2015 - C'è chi parla di delusione, chi di indignazione e chi grida allo scandalo. In Germania è nata una commissione per la ricerca e la prevenzione dell'antisemitismo, ma nel gruppo di otto esperti scelto dal ministero dell'Interno non c'è neanche un ebreo. La comunità ebraica tedesca non ha accolto bene la decisione e ha protestato: ora il dicastero di Thomas de Maizière sta rivalutando la composizione della commissione.
   
- La polemica
  Le critiche sono arrivate da più parti. Parla di "scandalo unico" il direttore del centro per gli studi europeo-giudaici Moses Mendelssohn, dell'università di Potsdam. Delusione anche dall'American Jewish Committee (AJC) e dalla fondazione Amadeu-Antonio, che si occupa di diritti umani. La presidente Anetta Kahane ironizza: "Nessuno penserebbe mai di organizzare una conferenza sull'islamofobia, senza invitare rappresentanti musulmani o una tavola rotonda sulla discriminazione sulle donne senza donne".

- La replica del ministero
  Mentre i critici della commissione governativa annunciano la costituzione di un'altra commissione, alternativa, il ministro dell'Interno corre ai ripari. Un portavoce ha fatto sapere che prenderà in considerazione l'interesse delle organizzazioni ebraiche e che valuterà la loro partecipazione. Il portavoce ha fatto poi sapere che non era intenzione escludere le associazioni ebraiche dalla commissione. Il primo rapporto compilato dagli esperti dovrebbe uscire in due anni.

(RaiNews24, 11 febbraio 2015)


Israele - Scoperti i resti di un culto religioso risalente a 8.000 anni

 
Uno dei luoghi di culto, risalente a circa 8.000 anni fa, scoperto nelle montagne di Eilat, rivela una struttura a forma di pene che punta verso i resti di un cerchio di pietre.
 
Sculture in pietra simili a forme umane trovate in quei luoghi di culto.
Alcuni archeologi impegnati in ricerche e scavi nella zona del deserto del Negev tra le montagne di Eilat in Israele hanno scoperti resti di un culto religioso sconosciuto risalente ad almeno 8mila anni fa. I risultati di queste scoperte sono stati pubblicati sul Journal of the Israel Prehistoric Society. Sul luogo quelli che sembrano altari serviti per sacrifici animali e pietre scolpite a forma di organi sessuali. Secondo gli archeologi quanto ritrovato è diverso da qualunque altra cosa conosciuta fino a oggi in quella zona: "I siti recentemente scoperti sono costituiti da piccoli, bassi impianti di pietra circolare, ovale e allungata, come pure una sequenza ripetitiva di una pietra allungata che punta a un cerchio. Contengono anche una serie di oggetti particolari che implicano la loro funzione di luogo di culto" si legge nell'articolo. Secondo gli studiosi questi reperti risalgono all'epoca cosiddetta "Pre- Pottery Neolithic B" e possono servire a conoscere di più delle popolazioni e delle loro credenze religiose che vivevano nel deserto all'epoca delle comunità neolitiche. I temi principali, si legge ancora, riguarderebbero la morte e la vita, temi che appartengono a tutte le società umane dell'epoca.

(ilsussidiario.net, 11 febbraio 2015)


Netanyahu cambia giuria del premio letterario. "Attacco a David Grossman"

Secondo la stampa, il premier ha rimosso due membri della giuria del "Premio Israele per la letteratura" per evitare che il riconoscimento andasse allo scrittore, fortemente critico contro il governo di destra. "Troppo spesso sembra che membri estremisti della giuria concedono premi ai loro amici", ha scritto il capo del governo su Facebook.

Benyamin Netanyahu contro David Grossman. E' l'attrito che, secondo i media di Gerusalemme, si starebbe consumando tra il premier e lo scrittore israeliano. Il capo del governo sarebbe intervenuto a gamba tesa, interferendo sulla composizione della giuria del Premio Israele per la letteratura, rimuovendo d'autorità due accademici della giuria, per evitare che il premio in questione - molto prestigioso nel Paese - fosse attribuito a Grossman, scrittore di fama mondiale e intellettuale fortemente critico nei confronti della destra di governo israeliana.
"Troppo spesso sembra che membri estremisti della giuria concedono premi ai loro amici", ha scritto su Facebook Netanyahu per motivare la sua decisione. Questa situazione un gruppo di "estremisti si passa il testimone e controlla la selezione del Premio - ha aggiunto - deve cambiare". "La composizione della giuria che seleziona i candidati al premio - ha argomentato il premier - deve essere bilanciata e riflettere le varie correnti, posizioni e strati della società israeliana. Tuttavia negli anni sempre più figure radicali, inclusi anti-sionisti, compreso per esempio chi sostiene il rifiuto di servire nell'esercito, sono stati nominati nella giuria e invece sono stati troppo pochi gli autentici rappresentanti delle altre parti della nazione". "Il premio letterario - ha concluso - appartiene a tutto Israele".
Il primo modo utilizzato da Netanyahu per motivare la decisione era stato additare uno dei due membri della giuria sostituiti come un sostenitore della obiezione di coscienza di quanti si rifiutano di servire nei Territori. In un gesto di protesta, altri quattro membri della giuria hanno rassegnato le dimissioni. L'intervento di Netanyahu, affermano, non ha assolutamente precedenti nella storia dell' assegnazione premio.

(il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2015)


Senza conoscere le regole che ci sono per designare i membri di quella giuria, si può dire che gli argomenti di Netanyahu sono più che plausibili. M.C.


Quando Croce accusava Heidegger: «Razzista e servile»

Già nel 1934 il pensatore liberale evidenziò il legame tra il filosofo e il nazismo

di Corrado Ocone

 
Martin Heidegger                                                                 Benedetto Croce
Resto abbastanza meravigliato della meraviglia e dello stupore con cui sono stati accolti dalla stampa italiana i cosiddetti Quaderni neri di Martin Heidegger, soprattutto quelli concernenti il periodo del nazismo e della guerra tedesca (e quindi della persecuzione degli ebrei). Sembra quasi che si scopra all'improvviso che il pensatore tedesco non fosse poi un'anima così candida, coinvolta solo per sbaglio o fraintendimento nel nazismo. Quasi che essere nominati rettore in un'importante università tedesca, quale era Friburgo, nel 1933, e tenere un discorso di insediamento intitolato «L'autoaffermazione dell'università tedesca», tutto organico nello stile e nei contenuti all'ideologia nazionalsocialista, potesse essere stato solo un equivoco. Così come un equivoco, o una sorta di pudore, il successivo, prolungato silenzio: l'omertà continuata fino alla morte su quell'infausto periodo della storia tedesca. A rigor di logica, la meraviglia può spiegarsi solo con la malafede, o, se vogliamo essere meno cattivi, con una sorta di rimozione inconscia; o con il fatto che nessuno si era preso la briga di leggere e capire Heidegger fino in fondo; o, ipotesi estrema, con l'incapacità intellettuale a comprendere i termini di un discorso certo allusivo ma nemmeno del tutto dissimulante.
   Ma la cosa ancora più impressionante è che l'intrinseco nazismo (e quindi di necessità l'antisemitismo) di Heidegger non era affatto sfuggito ai contemporanei, senza che fosse necessario aspettare le presunte «novità» dei Quaderni. Benedetto Croce, che probabilmente non va di moda fra gli intellettuali italiani in quanto liberale, aveva recensito già nel 1934 sulla sua rivista, «La Critica», il discorso di rettorato. Era una stroncatura netta delle idee li espresse e in più dell'intero pensiero heideggeriano, a proposito del quale egli non esitò a parlare di concezione razzistica. «Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico - così scrive il filosofo napoletano -, oggi sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e vero attore, l'umanità».Croce non esita a mettere in luce anche gli elementi opportunistici e utilitaristici del discorso di rettorato, parlando più avanti di «prostituzione» della filosofia agli interessi immediati e materiali. E definendolo, in altra occasione, «indecente e servile». Ancora nel 1939, isolato Heidegger dal regime (non messosi da parte), Croce, scrivendo a Karl Vossler, osserva «Ah, quello Heidegger! Lo avevo indovinato già sei anni fa, attraverso quel che me ne fecero leggere suoi scolari e ammiratori italiani;e avevo preveduto che sarebbe finito come è finito. Bisognerebbe fargli conoscere il precursore che ha avuto in Italia nel Gentile», che però almeno, aggiungeva, di politica ne capiva più di lui.
   Ma, oltre l'opportunismo, c'era appunto, da parte di Heidegger, l'adesione, teorica e da intellettuale quanto si vuole, al nazismo, ai suoi cardini ideologici. Essa, fra l'altro, era stata già ampiamente sottolineata, oltre che da Croce stesso, da tanti altri pensatori, a cominciare da allievi come Karl Jaspers e Hannah Arendt.
   Comunque, il fatto a cui ho accennato, che cioè Croce fosse liberale, e che pertanto proprio non venga considerato in certi dominanti milieu filosofici italiani, non è un dato estrinseco o una battuta. Non dimentichiamo che in ltalia la grande rinascita di interesse per il pensiero del filosofo tedesco, che aveva avuto sempre una discreta ricezione, si ebbe soprattutto a partire dagli anni Ottanta per opera di autori marxisti, o comunque molto caratterizzati politicamente a sinistra. Il fatto che Heidegger avesse in odio l'americanismo, la borghesia, il parlamentarismo, era perciò giudicato positivamente. E la critica all'ebreo era vista come critica al mercante, all'agente del capitalismo. Ciò portava a trascurare la circostanza che, per Heidegger, l'alternativa al mondo moderno era reazionaria e nazionalistica. È giusto richiamare, ovviamente, alla complessità della vita e della filosofia, a non dividere il mondo in buoni e cattivi, come si è fatto in questi giorni, ma francamente dire che nei Quaderni ci siano novità clamorose, mi sembra esagerato.

(Il Mattino, 11 febbraio 2015)


Dal dopoguerra a oggi: l'esodo degli ebrei dall'Europa agli Usa

Uno studio del "Pew Research Center": così sono cambiati i flussi migratori.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - A 70 anni dall'Olocausto la popolazione ebraica in Europa continua a diminuire, con una tendenza all'accelerazione. A rivelarlo è uno studio del "Pew Research Center", curato dal demografo Sergio Della Pergola dell'Università Ebraica di Gerusalemme, secondo il quale nel 1939 circa il 57 per cento degli ebrei del mondo viveva in Europa, nel 1945 si era ridotto al 35 per cento ed ora ad appena il 10 per cento. In termini numerici la riduzione è ancora più evidente perché si passa dai 9,5 milioni di ebrei europei del 1939 ai 3,8 milioni del 1945 per arrivare a 1,4 milioni di oggi.
    Ciò che colpisce del "Global Religious Landscape Report" sulla popolazione ebraica europea è il dato sull'accelerazione della diminuzione numerica nel secondo Dopoguerra: erano infatti 3,2 milioni nel 1960 e 2 milioni nel 1991 prima di arrivare al dato attuale con un arretramento netto negli ultimi 14 anni di 600 mila anime. Il rapporto afferma che gran parte di questo calo è dovuto all'emigrazione verso Israele ma che anche altri fattori hanno pesato, come l'assimilazione ed i matrimoni misti.
    Recenti studi indicano un'accelerazione delle partenze verso Israele, soprattutto da Francia, Belgio e Ucraina a causa di antisemitismo, difficoltà economiche e instabilità interna. E' interessante però notare come David Harris, direttore esecutivo dell'"American Jewish Committee" suggerisca di guardare anche in altre direzioni: "Bisogna tenere conto del flusso di ebrei dall'Europa agli Stati Uniti" ovvero un fenomeno finora poco studiato.

(La Stampa, 11 febbraio 2015)


Milano - Comunità ebraica: crisi e nuovo voto

Il consiglio è decaduto: si va ad elezioni anticipate. Iscritti ancora sconvolti dalla truffa denunciata dai vertici.

di Alberto Giannoni

Walker Meghnagi                                                                          Guido Osimo
MILANO - Crisi, non solo istituzionale. La comunità ebraica di Milano va al voto anticipato per le dimissioni della maggioranza dei suoi consiglieri. Ed è la seconda volta consecutiva che accade dopo la crisi del 20 dicembre. Ma la crisi è anche finanziaria, dal momento che il mondo ebraico milanese è ancora sotto choc per il caso dell'enorme ammanco finanziario che ha sottratto alle casse dell'ente alcuni milioni di euro. Della truffa è stato accusato l'ex tesoriere della comunità, di cui si è scritto che avrebbe anche tentato il suicidio. La vicenda è emersa circa un anno fa, denunciata dal presidente Walker Meghnagi, che ha parlato di «scatole cinesi», e «doppia contabilità». Il caso, che vede la comunità parte civile, ha comprensibilmente sconvolto il mondo ebraico milanese, condizionando le vicende del consigli o, che è era stato eletto nel 2012.
   Nel giugno 2012 Meghnagi aveva vinto le elezioni nettamente con la sua lista «Welcomunity», anche se il sistema elettorato previsto dalla comunità aveva assegnato 10 seggi ai vincitori e 9 alla lista sconfitta, «Ken», di fatto obbligando le parti a una sorta digestione condivisa dell'ente. Il clima di collaborazione si è rotto in autunno, quando Meghnagi ha annunciato le sue dimissioni, accusando l'«opposizione» interna di non aver votato il bilancio, l'atto principe dell'attività istituzionale, reso ancor più importante dalla delicatissima situazione finanziaria, gravata anche dai servizi, di altissimo livello, che la comunità eroga ai suoi componenti: la scuola di via Sally Mayer, la casa di riposo per anziani, l'assistenza domiciliare di anziani e bisognosi, l'aiuto alle famiglie in difficoltà. I dipendenti della comunità sono 180 e i numeri dei bilanci sono cronicamente difficoltosi, tanto che ancora negli ultimi anni hanno fatto affidamento su cospicue eredità e donazioni - cosa che avviene normalmente in associazioni simili, un po' in tutto il mondo.
   Meghnagi ha definito l'astensione della lista Ken «un atto di grave irresponsabilità». Secondo il presidente, i suoi avversari non hanno votato il bilancio perché lui non ha accolto la richiesta di un rimpasto di deleghe all'interno della giunta. La parte avversa ha tentato di ridimensionare. «Avendo ricevuto la relazione sul bilancio il giorno prima del voto - ha detto il consigliere Gadi Schoenheit - abbiamo solo chiesto una riflessione ulteriore su alcuni contenuti, niente di drammatico». La crisi istituzionale tuttavia non è più rientrata. La catena di dimissioni che ha fatto seguito alla rottura ha fatto decadere il consiglio il 26 dicembre. Le prossime elezioni sono fissate al 22 marzo ed entro le 13 del 20 febbraio dovranno essere presentate le candidature singole e di lista. Un'assemblea elettorale le precederà il 10 marzo. Cambierà il numero dei consiglieri: 17 al posto di 19, per effetto dell'applicazione dell'articolo 7 del nuovo Statuto dell'Ucei. È stato deciso inoltre che potrà candidarsi solo chi non ha debiti in corso con la comunità.
   Questa fase di studio pre-elettorale è stata scossa dall'intervento dell'uscente assessore Guido Osimo, che ha parlato di «fallimento di un intera classe dirigente», riferendosi a tutti coloro che hanno ricoperto incarichi nella comunità prima di Meghnagi: nessuno - a suo giudizio - «dovrebbe ripresentarsi alle prossime elezioni». «Nessuna persona che abbia ricoperto le cariche di presidente, assessore alle Finanze, al Personale o segretario della Comunità, dal 1982 fino al momento in cui l'attuale presidente, l'attuale assessore alle Finanze Raffaele Besso, l'attuale assessore al Personale Claudia Terracina e l'attuale segretario (Alfonso Sassun) hanno scoperto gli ammanchi» ha precisato. Ciò come «personale contributo all'indispensabile esigenza che la nostra Comunità volti finalmente pagina».

(il Giornale, 11 febbraio 2015)


Il Labor israeliano è tutto giustizia sociale

La trasformazione del partito che fu di agricoltori e militari.

di Rolla Scolari

MILANO - Herzog chi? Non è una nuova frecciata all'interno del Partito democratico, ma una constatazione sul voto del 17 marzo in Israele. Soltanto un israeliano su cinque ha un'opinione o ha sentito parlare di Yitzhak "Buji" Herzog, candidato premier e principale sfidante di uno dei più longevi primi ministri della storia del paese, Benjamin Netanyahu.
   Herzog è il leader del partito laburista ma anche dell'Unione sionista, alleanza elettorale siglata assieme al movimento dell'ex ministro della Giustizia, Tzipi Livni: a marzo potrebbe ottenere i numeri per strappare la poltrona a Netanyahu. Secondo un sondaggio del sito Times of Israel condotto a febbraio, un robusto 20 per cento della popolazione non avrebbe idea di chi sia il politico che, oltre a essere figlio del sesto presidente israeliano - Chaim Herzog - è in Parlamento da dodici anni, è stato più volte ministro e fu segretario di gabinetto dell'ex premier Ehud Barak. Benché sia in politica da oltre quindici anni, i numeri suggeriscono come Herzog non sia stato capace di lavorare alla propria immagine, neppure in un momento politico come quello che sta attraversando Israele in cui la questione principale del voto è proprio quella al centro del programma laburista. Il 48 per cento degli israeliani, infatti, andrà alle urne pensando alle sorti economiche del paese, il19 per cento alle relazioni tra palestinesi e israeliani, soltanto il 10 per cento alla minaccia nucleare iraniana. E nonostante questi numeri e lo spazio che i laburisti dedicano ai temi sociali ed economici, soltanto il 19 per cento della popolazione ritiene Herzog il candidato adatto per affrontare i problemi dell'economia nazionale (Netanyahu non raccoglie maggiore fiducia sullo stesso tema: ha l'approvazione del 18 per cento degli israeliani).
   L'appuntamento elettorale, il secondo dal 2013, racconta la metamorfosi in corso nel Labor israeliano, "questo storico partito che ha fondato lo stato e lo ha modellato sul suo spirito", come aveva scritto nel gennaio 2012 Naum Barnea, editorialista del quotidiano Yedioth Ahronoth. Già alle scorse elezioni, con l'assenza dalle liste dei rappresentanti dei kibbutz -le storiche comunità agricole fondate fino ad alcuni anni fa sul principio della proprietà comune - aveva sancito il progressivo spostamento del partito dai centri rurali alla classe media urbanizzata. Oggi, con l'aumento del costo della vita, al centro del dibattito politico del partito ci sono la classe media cittadina e la giustizia sociale. Già da diversi anni il processo di pace con i palestinesi, per lungo tempo cuore dell'agenda politica del movimento, è messo in secondo piano dai temi economici. La realtà militare nazionale incarnata da leader laburisti come Ehud Barak e, prima, Yitzhak Rabin - "un soldato diventato uomo di stato", come è scritto nel necrologio che gli dedicò nel 1995 il New York Times - è più lontana dalla quotidianità di politici che, più che dalle file dell'esercito, arrivano dalle redazioni dei giornali, come l'ex leader Shelly Yachimovich, o dalle proteste del 2011 contro il carovita, come la giovane e rossa Stav Shaffir. E proprio lei, che a 29 anni è la più giovane deputata della Knesset, è diventata in poche ore un fenomeno politico per un discorso improvvisato tenuto di fronte agli scranni mezzi vuoti del Parlamento, in cui ha accusato la destra di servire soltanto i propri interessi e quelli degli abitanti degli insediamenti in territorio palestinese. YouTube ha poi fatto rimbalzare quei tre minuti intitolati "Chi è un sionista?" che, in una settimana, l'hanno aiutata ad aggiudicarsi il secondo posto sulla lista delle primarie laburiste. E che raccontano, fondendo l'accento dell'attivista sociale ai toni della tradizione storico-politica dello stato d'Israele, la nuova sfida sociale che sta a cuore alla classe media: "Non fateci prediche sul sionismo, perché il vero sionismo significa dividere il budget in maniera equa tra tutti i cittadini del paese. Il vero sionismo è prendersi cura dei deboli. Il vero sionismo è solidarietà, non soltanto in battaglia ma nella vita di tutti i giorni".

(Il Foglio, 11 febbraio 2015)


Nuova campagna di comunicazione per Israele

 
                                   Avital Kotzer Adari                                                                    Isabella Brega
Israele inaugura il 2015 con alcune novità a partire dalla nuova immagine della campagna di comunicazione e il nuovo volto di chi guiderà per i prossimi anni l'Ente a Milano.
Al Touring Club di Corso Italia a Milano, dove la campagna è stata presentata, gli onori di casa sono stati fatti dal presidente del Tci Franco Iseppi che, eccezionalmente, ha voluto partecipare accogliendo così l'inizio della nuova campagna dell'Ente e appoggiando la prima apparizione ufficiale della nuova direttrice dell'ente, Kotzer Adari, affidando poi la conduzione della serata ad Isabella Brega, volto noto nel mondo del turismo, caporedattore della rivista Touring.
"La nostra campagna parte dalle riviste di turismo: proprio da quello che è il nostro specifico settore vogliamo dare il primo kick off. Quindi procederemo verso il mondo dell'online presentando due formati, uno di 30 ed uno di 20 secondi, che emozioneranno alternando le immagini più belle del payoff 'almeno una volta nella vita'", commenta Adari.
Tre immagini sintetizzano a pieno la molteplicità della destinazione: Gerusalemme 'la Bella' che emoziona con il calore del tramonto dorato, simbolo di spiritualità irrinunciabile; Mar Morto che incanta come uno dei luoghi più vivi e vitali del mondo; Tel Aviv che non smette mai di stupire, giovane ed energica, meta sempre più ricercata da un pubblico giovane e non solo. Il tutto si coniuga con i colori del nuovo logo che Israele ha scelto da un anno, colori che fanno così da sfondo alle tre differenti creatività. Gli ampi body copy descrittivi chiudono con un claim che da solo è già un invito a camminare nella storia: 'Israele, la Terra della Creazione'.

(Travelnostop, 11 febbraio 2015)


Cosa succede tra Libano e Israele?

di Paolo Dionisi

Nelle ultime settimane, tra Hezbollah - il partito islamico libanese filo-iraniano - e Israele la tensione è alle stelle. Il 18 gennaio un missile, sparato da un elicottero israeliano Apache, aveva colpito un convoglio di jeep blindate, nei pressi della città di Quneitra, sulle alture siriane del Golan, uccidendo 8 persone, tra le quali Jihad Mughniyeh, il figlio del comandante delle operazioni di Hezbollah, Imad, morto in un attentato a Damasco nel 2008, e il generale Abu Ali Tabtabai, uno dei capi delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.
   E nei giorni scorsi il Washington Post ha scritto che dietro l'uccisione di Imad Mughniyeh, con un'auto bomba a Damasco il 12 febbraio del 2008, ci fossero agenti della CIA e del Mossad. Citando ex funzionari dell'intelligence americana, secondo il Post la bomba che uccise il comandante Hezbollah era stata costruita in un laboratorio della Cia in North Carolina, affidata poi al Mossad, i cui agenti l'avrebbero innescata a distanza nel centro di Damasco, in comunicazione con gli operativi della Central Intelligence Agency anch'essi presenti nella capitale siriana. Mughniyeh era sospettato di essere la mente del rapimento di ostaggi occidentali in Libano nel 1980 e degli attentati dinamitardi del 1992 all'ambasciata israeliana in Argentina, dove morirono 29 persone, alla caserma dei marines a Beirut nel 1983, dove vennero uccisi 241 soldati americani, del dirottamento del volo TWA 847 nel 1985 e di altre azioni terroriste.
   Commentando l'attacco a Quneitra, il portavoce dell'aviazione israeliana ha affermato che l'operazione è stata condotta contro una cellula di terroristi che si stava preparando a compiere un attentato in territorio israeliano. Il mese scorso jet israeliani al comando del generale Amer Eshel avevano bombardato basi Hezbollah nei pressi dell'aeroporto di Damasco e nella città di Dimas, vicino al confine con il Libano. La risposta dei miliziani del "Partito di Dio" non si è fatta attendere: mercoledì scorso una cellula del nuovo braccio armato di Hezbollah, i sedicenti "Eroi martiri di Quneitra", ha condotto un attacco a un convoglio militare israeliano nella zona delle fattorie di She'ba, lungo il confine libano-israeliano, che ha provocato l'uccisione di due soldati e il ferimento di altri sette.
   L'IDF ha immediatamente bombardato alcune basi del movimento islamista nel sud del Libano, dove ha trovato la morte un casco blu spagnolo della forza di interposizione delle Nazioni Unite (Unifil), trovatosi sulla linea di fuoco. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in un discorso infuocato tenuto alla periferia meridionale di Beirut all'indomani dell'attacco dei suoi uomini contro gli israeliani, ha affermato di non volere una nuova guerra con Israele, ma che il suo movimento è comunque pronto militarmente a farla. Hezbollah è pronto a rispondere a Israele non solo nel sud del Libano, ma ovunque lo riterrà opportuno, ha aggiunto Nasrallah che ha anche accusato Israele di collusioni con il Fronte Al Nusra, la cosiddetta ala di Al Qaeda in Siria, dove Hezbollah combatte al fianco delle truppe lealiste di Damasco. Sulle Alture del Golan, ha continuato il capo di Hezbollah, si trovano migliaia di combattenti armati di Al Nusra, ma "Israele non sembra inquieto di questa presenza; al contrario".
   Secondo il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, una terza guerra con il Libano è diventata inevitabile, aggiungendo che l'attacco di Hezbollah contro i soldati israeliani dei giorni scorsi lungo il confine meridionale ha cambiato le regole del gioco. Secondo il capo della diplomazia israeliana, i miliziani di Hezbollah sono diventati più audaci, più determinati e portano avanti attacchi terroristi con l'intenzione di provocare la reazione di Israele. In effetti, nonostante la guerra civile che insanguina da oltre tre anni la Siria e la drammatica situazione che sta vivendo il Libano per la presenza di quasi 2 milioni di profughi siriani, Hezbollah è ora militarmente più potente che mai. Gli uomini di Nasrallah avrebbero ricevuto dagli alleati siriani e iraniani nuovi missili a guida GPS, dotati di testate con carica fino a 1.100 chili e gittata fino a oltre 240 chilometri, che significa poter colpire Tel Aviv dalle basi del Libano meridionale.
   I miliziani Hezbollah dispongono inoltre di droni armati, che possono trasportare decine di chili di esplosivo. Hanno perfezionato le capacità di ricognizione e di comunicazione con termo-camere e visori notturni di ultima generazione. E non va dimenticata l'esperienza in combattimento che gli uomini di Hezbollah hanno maturato "sul campo", da quando sono stati impiegati, ormai da più di due anni, accanto alle truppe regolari di Bashar Assad contro gli insorti. L'intervento di Hezbollah nella primavera del 2013 è stato determinante nel riequilibrare le sorti dell'esercito lealista e la stessa sopravvivenza del regime; gli uomini di Assad erano infatti sull'orlo del collasso, sconfitti nelle regioni settentrionali, orientali e meridionali del paese, con il morale a terra e i generali che faticavano a mantenere la disciplina e la compattezza delle unità di combattimento. Le unità di Hezbollah, addestrate e spesso comandate da ufficiali della Guardia della Rivoluzione, il corpo d'elite dell'esercito iraniano, hanno riportato un grande successo nella città frontaliera di Al Qusayr, nella provincia di Homs e hanno ribaltato la situazione sul campo. E' stata riaperta la strategica linea di rifornimento che dal Libano va verso la Siria.
   Secondo alcuni analisti dietro l'escalation militare delle ultime settimane ci sarebbero anche interessi economici, legati allo sfruttamento delle risorse di gas scoperte di fronte alle coste libanesi e israeliane. Il Libano ha recentemente annunciato l'intenzione di riaprire la questione del gas nel Mediterraneo e avrebbe avviato contatti con società russe e cinesi. I giacimenti di gas del Mediterraneo orientale dovrebbero essere gestiti da Libano e Israele dal momento che le riserve si trovano nelle zone marittime dei due paesi. Ma Israele punterebbe ad accaparrarsene gran parte a tal punto che il governo di Tel Aviv avrebbe già firmato accordi con Cipro, Giordania ed Egitto, ed è in trattative con l'Europa per la costruzione di un gasdotto. L'indipendenza energetica di Israele è direttamente correlata al controllo del gas nel Mediterraneo orientale.
   In ogni caso, quale che siano le ragioni, un conflitto sarebbe drammatico per tutti. Netanyahu guarda con ansia ai sondaggi che lo danno sconfitto pesantemente alle prossime elezioni politiche di marzo e l'opinione pubblica male comprenderebbe una nuova guerra; per il Libano uno scontro avrebbe conseguenze nefaste per il paese, che finirebbe completamente destabilizzato politicamente, alla mercede di tutti i gruppi terroristici, i rifugiati, i gruppi palestinesi armati. C'è da augurarsi che la prudenza e la saggezza prevalgano e che le armi tacciano al più presto.

(L'Opinione, 11 febbraio 2015)


Ma chi uccide la memoria non si batte in tribunale

di Pierluigi Battista

 
Pierluigi Battista
Il grande storico Pierre Vidal-Naquet non era d'accordo con chi voleva mettere in galera il negazionista Robert Faurisson. Ma scrisse un formidabile libro sugli «assassini della memoria» che rivelò l'abisso di sconcezza, di impostura storiografica, di ignoranza, di pregiudizio nazistoide in cui sprofondava chi negava la stessa esistenza di Auschwitz. Non bisogna fargliela passare liscia, agli «assassini della memoria». Ma con i libri, i fatti, gli argomenti, i documenti, le testimonianze. Non con i poliziotti e i magistrati.
In Francia c'è da tempo una legge che considera reato il negazionismo, ma ogni anno aumenta il numero delle aggressioni contro gli ebrei. In Austria, qualche anno fa, hanno tenuto in prigione David Irving, ma nessun movimento antisemita è risultato indebolito. Senza considerare le occasioni di arbitrio, le omissioni, i silenzi diplomatici, i doppiopesismi.
In Iran nei giorni scorsi hanno indetto un concorso per la miglior vignetta contro gli ebrei: nessuno ha chiesto la chiusura dei rapporti diplomatici con Teheran, dove al tempo dell'allora presidente Ahmadinejad venne addirittura convocato un convegno internazionale per negare l'esistenza delle camere a gas.
Una legge che impedisce di dire è una legge liberticida, anche se animata dalle migliori intenzioni. È la cultura che deve disarmare il negazionismo, non un provvedimento dei magistrati. Si capisce il dolore di chi vede negata l'evidenza storica della Shoah, ma non è con i magistrati che necessariamente interpretano una legge che si vince la battaglia contro gli assassini della memoria.
Nemmeno con l'indifferenza. E anzi, è il compito di una società civile impedire che le menzogne circolino indisturbate. E di insistere, ribadire, ricordare. Mai dandogliela vinta ai manipolatori criptonazisti camuffati da storici. Si può fare, anche senza leggi ambigue e pericolose.

(Corriere della Sera, 11 febbraio 2015)


Negazionismo - Giovanardi: Ddl rischia di diventare un boomerang per gli ebrei

Testo annacquato e indefinito che potrebbe ritorcersi proprio contro Israele. L'introduzione del reato limita la libertà di pensiero e di ricerca.

Il disegno di legge sul negazionismo non solo "limita la libertà di pensiero e di ricerca storiografica" ma rischia di "trasformarsi in un boomerang terribile per gli stessi ebrei". Lo dichiara al VELINO il senatore Ncd Carlo Giovanardi che si oppone al ddl, firmato da esponenti di tutti i partiti, approdato oggi nell'Aula del Senato. Il testo prevede la reclusione fino a tre anni "per chiunque ponga in essere attività di apologia, negazione, minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, così come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale" oppure "propaganda idee, distribuisce, divulga o pubblicizza materiale o informazioni, con qualsiasi mezzo, anche telematico, fondato sulla superiorità o sull'odio razziale, etnico o religioso, ovvero, con particolare riferimento alla violenza e al terrorismo se non punibili come più gravi reati, fa apologia o incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, anche mediante l'impiego diretto od interconnesso di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili".
   "Abbiamo fatto delle udienze conoscitive in commissione alla quali hanno partecipato il top della storiografia italiana e membri autorevoli della Comunità ebraica - spiega Giovanardi -. Il 60 per cento degli intervenuti si è detto contrario a immettere nel nostro ordinamento il reato di negazionismo. L'altro 40 per cento si è detto favorevole a una legge che colpisca esclusivamente l'Olocausto cioè quel fenomeno storico che ha riguardato lo sterminio del popolo ebraico". Nel testo che arriva in Aula, invece, rileva il senatore Ncd, "tutto si allarga e si annacqua" perché oltre all'Olocausto "vengono inseriti in maniera indefinita genocidi, crimini contro l'umanità e crimini di guerra che sono migliaia, dal momento che in quella definizione posso rientrare decine di paesi e centinaia di episodi, di argomenti, di periodi storici. Può finirci dentro di tutto, dalla Serbia alla Bosnia fino all'Uganda e al Burundi. Per stabilire se c'è crimine di guerra o meno ci si deve rifare a sentenze della Corte di Giustizia".
   "Poiché l'aggravante che viene inserita - sottolinea Giovanardi - colpisce anche la propaganda, ciò significa che chi contesta una sentenza, riferita potenzialmente a centinaia di casi, rischia di essere incriminato". Questo "allargamento a dismisura - osserva - può rivelarsi un boomerang terribile per gli ebrei e un aiuto per i negazionisti". Si domanda Giovanardi: "Immaginiamo che qualche organismo internazionale condanni Israele per presunti crimini di guerra a Gaza o nei territori palestinesi. Che succede? Non posso più difendere o fare 'propaganda' a favore per Israele perché rischio una condanna? E allora devo invece sostenere che gli israeliani commettono crimini di guerra o contro l'umanità? E' una situazione assurda. La prima vittima di questa legge assurda rischia di essere proprio la comunità ebraica".
   Il reato di negazionismo, dice ancora Giovanardi, "attenta alla libertà di ricerca e di interpretazione storica dei fatti in nome di una Verità, che non si comprende quale organo possa certificare come dogma indiscutibile". Non solo. Questa legge, aggiunge, "fomenterà i negazionisti, che si sentiranno vittime e finiranno per avere ancora più spazio mediatico". Se la norma all'esame del Senato "riguarderà solo l'Olocausto - conclude il senatore Ncd -, anche io voterò a favore. Se invece mischia e annacqua tutto indefinitamente non potrò che dare voto contrario".

(il Velino, 10 febbraio 2015)


Torino - Vecchio e nuovo antisemitismo

Grande successo a Torino per l'appuntamento in memoria di Vittorio Dan Segre: parte di un ciclo a lui dedicato, che vuole ricordarne l'impegno in nome della pace, l'incontro "Vecchio e nuovo antisemitismo" ha raccolto il pubblico delle grandi occasioni. Con la conferenza del professor David Meghnagi, tenutasi al Circolo dei Lettori, la Comunità Ebraica di Torino ha voluto aprire alla cittadinanza torinese una riflessione sull'antisemitismo dopo i recenti attentati di Parigi, che hanno mostrato la volontà e la capacità della violenza islamista di colpire a fondo il cuore dell'Occidente. Argomenti della serata l'intricata situazione dell'area mediorientale, l'inquietante evoluzione-involuzione dell'Islam nelle sue attuali tendenze e il profondo riflesso che tutto ciò ha oggi sull'Occidente nel suo complesso, insieme alla difficile situazione degli ebrei nei paesi arabi. L'evidente riaccendersi di un antisemitismo sempre più violento e spesso mascherato da antisionismo e il tema della sicurezza dei luoghi ebraici sono state le linee portanti di una occasione tesa a ragionare insieme su alcuni momenti di una situazione sempre più complessa.

(moked, 10 febbraio 2015)


Nazisti in fuga - Arrigo Petacco

di Roberto Matteucci
    "… il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al Hussein, in visita ufficiale ad Auschwitz. Amin era un nemico accanito degli ebrei e ciò che vide nel lager nazista deve averlo pienamente soddisfatto perché, quando a Himmler cominciarono a scarseggiare gli «ariani» per le sue SS, lui contribuì alla costituzione di una divisione SS composta tutta di musulmani." (Pag. 136)
Alla fine della seconda guerra mondiale il mondo era totalmente diverso.
La Germania era distrutta, demolita, aveva avuto circa sette milioni e mezzo di vittime.
Le popolazioni ebree dell'Europa soffrirono un olocausto tremendo, con circa sei milioni di morti mentre i sopravvissuti non avevano un luogo dove andare.
Arrigo Petacco in Nazisti in fuga (Mondadori, Milano, I edizione, ottobre 2014) ci presenta una particolare visione degli eventi del dopo guerra. L'abilità dello storico sta nella grande capacità divulgativa e nel saper presentare avvenimenti, fatti, dati, studi con semplicità.
Per la tesi del libro l'autore ci racconta in parallelo, sia la storia dei carnefici nazisti, sia delle vittime ebree. Appena finita la guerra, entrambi iniziarono una diaspora, una fuga. I cammini segreti erano molto vicini e a volte utilizzavano gli stessi canali.
Oltre cinquemila militari e gerarchi tedeschi fuggirono dall'Europa occupata per andarsene in Sud America o in Medio Oriente.
Contemporaneamente il viaggio degli ebrei era emigrare in Palestina. Lo stato di Israele non era ancora nato.
Su questo interessante parallelismo, il libro ci descrive - con precisione e arricchendolo di dettagli poco famosi - tanti episodi, ma soprattutto ci racconta di uomini veri, reali i quali avevano perso tutto, ma non il desiderio di riprendersi e di continuare la loro battaglia.
I porti di partenza erano italiani: La Spezia per gli ebrei, Genova per i nazisti.
Gli ebrei erano organizzati da Haganàh e muovevano uomini e acquistavano navi.
A Genova invece, attraverso la ratline, la via di fuga era quella dei conventi, attraverso la quale scapparono i nazisti sopravvissuti e non processati a Norimberga.
Petacco pone l'attenzione sulle difficoltà nell'organizzare questi trasferimenti di persone, con addirittura una tremenda precisazione:
    "… mentre la Royal Navy cercava di arginare anche con la forza l'esodo ebraico verso la Palestina, i criminali nazisti riuscivano invece, con minori difficoltà, a trovare scampo nei Paesi arabi e nel Sudamerica." (Pag. 87)
Come riuscirono a fuggire i nazisti?
Petacco ci narra di un'organizzazione perfetta, già predisposta prima della fine della guerra, con utilizzo di vie di fuga già prestabilite, uomini già dislocati nei posti giusti, e soprattutto paesi e leader ben felici ad accoglierli:
    "… così numerosi da far supporre che non si trattasse di fughe individuali e disperate, ma della realizzazione di un piano precedentemente disposto." (Pag. 42)
 
Il piano fu approntato in una riunione segreta a Strasburgo, all'Hotel Maison Rouge durante la guerra. Uomini importanti del nazismo e della Germania avevano capito, le speranze di vittoria erano rimaste poche e perciò prepararono un progetto di fuga, spostando tanti soldi all'estero.
La collaborazione maggiore arrivò dall'Argentina, il presidente Peron era ben disposto ad accoglierli. Determinante fu l'aiuto della chiesa, nel caos dell'Europa, era rimasta forse l'unica struttura ben organizzata e con una gerarchia intatta. Era inoltre in grado di fornire rifugi sicuri, uomini fidati e travestimenti ineguagliabili.
E qui, lo storico ci presenta l'aspetto più appariscente e goloso: l'organizzazione Odessa - Organisation der ehemaligen-SS-Ange-hörigen - organizzazione degli ex appartenenti alle SS. Secondo Petacco fu quest'organismo ad allestire la fuga ordinata di migliaia di ricercati, in mezzo a divisione dell'esercito americano e inglese, i quali controllavano interamente il territorio tedesco e italiano. Senza dimenticare, la presenza armata di gruppi di partigiani, i quali collaboravano attivamente per ripristinare una struttura governativa.
La parte più intrigante è una domanda spontanea.
Che fine ha fatto Odessa? Che è rimasto della struttura? Che fine hanno fatto suoi tanti soldi? Secondo Simon Wiesenthal, avevano - nientemeno - un patrimonio di circa quattro miliardi di marchi d'oro dell'epoca.
Petacco non lo dice o almeno non lo conferma esplicitamente.
Però ci parla della fuga, nel giorno di ferragosto del 1977, del tenente colonello delle SS Herbert Kappler, dall'ospedale militare del Celio a Roma, nascosto comicamente in una valigia.
Una fuga così strana poteva accadere senza un aiuto, un appoggio di una struttura organizzata?
Forse nel 1977 - trenta tre anni dopo la sconfitta dei tedeschi - Odessa era ancora in vita?
Odessa mantenne un segreto impenetrabile, nessuno ancor oggi conosce qualcosa di più sostanzioso, nessuno sa chi sono i partecipanti, i fiancheggiatori, la mente, la gerarchia, la sede e dove sono i suoi miliardi.
Arrigo Petacco in tanti capitoli scrive dei gerarchi nazisti, scrutando nei particolari della loro storia, con peculiarità interessanti e sfumature umane diverse.
Con Heinrich Himmler si dilunga sulla formazione della Gestapo e delle SS: la purezza della razza richiesta per entrare nelle SS, un albero genealogico limpido fino al 1750, il gruppo sanguineo tatuato sul braccio, i ritiri spirituali nel castello di Wewelsburg.
Himmler serve per iniziare la caccia al tesoro. Un patrimonio, presunto, ma spesso reale celato dai nazisti. Fu nascosto, perso, in alcuni casi salvato e inviato all'estero proprio per finanziare la fuga.
Divertenti sono le avventure dei cacciatori di tesori, alcune serie altre ingenue.
Josef Mengele, lo spietato dottore dei lager, è la ragione per parlare della pulizia etnica dei nazisti. E non solo. C'è la pulizia etnica propugnata da chi si dichiara antinazista. Come i fautori dell'eugenetica nella ricca, civile e socialdemocratica Svezia:
    "Nella socialdemocratica Svezia la sterilizzazione degli essere umani di «serie B», era imposta dalla legge e fra il 1935 e il… 1975, quando finalmente quella legge fu abolita, erano state sterilizzate sessantamila persone, per il 95 per cento donne." (Pag. 94)
Ovvero il premio Nobel assegnato ai coniugi Gunnar e Alva Myrdal, teorici dell'eugenetica e famosi socialdemocratici svedesi.
C'è pure il capitolo malizioso. È quello su Albert Speer e la sottintesa omosessualità del rapporto con Hitler.
Si parla degli uomini più vicini a Hitler:
    "… oltre che per me e per Mussolini, Hitler nutriva un affetto particolare per il suo autista Julius Schreck. Teneva addirittura il suo ritratto sulla sua scrivania accanto a quello della madre." (Pag. 166)
Quando arriva ai nazisti fuggiti in Medio Oriente, qualcosa di più chiaro e attuale si avverte.
    "La Siria si dimostrò altrettanto ospitale dell'Argentina nei confronti dei criminali nazisti. I siriani consideravano i nazisti spiritualmente fratelli perché accomunati dall'odio contro gli ebrei." (Pag. 127)
Si arriva alla fine.
Gli ebrei sono fuggiti in Palestina. Nel 1948 fu proclamato lo stato di Israele. Ma dei nazisti e delle loro idee che è successo? E l'organizzazione Odessa è ancora attiva? Quali sono gli scopi attuali, poiché i nazisti della guerra sono tutti morti?
Arrigo Petacco, come storico attento al passato, ma anche al presente arriva alla conclusione:
    "Ma quanto è accaduto in Germania, e sta ancora accadendo nel Medio Oriente, non basta tuttavia a spiegare il permanere della latente ostilità nei confronti degli ebrei che si riscontra anche nei paesi estranei al conflitto arabo-israeliano. Malgrado le tante prove dei crimini che ha provocato, lo spettro dell'antisemitismo continua…" (Pag. 171)
I nazisti saranno morti, ma il nazismo permane. Nel tempo si è evoluto. Si è adeguato alle mode, ai tempi. Ha eliminato le scorie inutili. Perciò come dei camaleonti, hanno mutato perfino il colore, ridipingendo certe tendenza della loro politica. Apertamente si professano antifascisti, antinazisti, antirazzisti, ma le loro idee coincidono con quelle dei nazisti.
Basta osservare l'antisemitismo ritornato in Europa ai livelli pre seconda guerra mondiale.
O gli aspetti nefasti della pulizia umana, com'era Aktion T4. Chi non è perfetto, o chi si presume possa nascere non perfetto è eliminabile per legge.
Non sono le ricerche di Mengele? Siamo sicuri che non siano ritornate?
Ecco i nazisti di ieri e di oggi, cavalcano le stesse idee, le stesse finalità, anche se il cavallo da nero è diventato bianco o rosso.
Sono fuggiti gli uomini ma si sono portati con loro un substrato di retaggi culturali arrivati vivi e vegeti ai giorni d'oggi.
Ma agli occhi attenti, alle letture libere, ai pensieri onesti, i trasformismi non attecchiscono.
È un libro chiaro, deciso, i parallelismi sono fondamentali. La scrittura è semplice, pulita, onesta. Se conosce i fatti, li racconta altrimenti afferma di non sapere, al massimo racconta un'opinione esprimendola sinceramente.
Certo, si diverte con una pletora dei tre puntini sospesivi, è un gioco per l'autore al quale mi adeguo silenziosamente.

(SoloLibri.net, 10 febbraio 2015)


Cento tavolette svelano la vita degli ebrei in Babilonia

Una delle tavolette esposte
GERUSALEMME - Cento tavolette di argilla datate tra il 572 e il 477 avanti Cristo raccontano la vita quotidiana degli ebrei durante l'esilio in Babilonia: i reperti, preziosi per la loro valenza storica, sono esposti per la prima volta al pubblico presso il Bible Lands Museum di Gerusalemme, in una mostra intitolata "Sui fiumi di Babilonia".
L'allestimento comprende un centinaio di tavolette scritte in cuneiforme accadico e cotte al forno; non contengono dati storici particolari, ma la straordinarietà sta proprio nella loro ordinarietà: le tavole contengono atti pubblici, discorsi e minute quotidiane che, secondo lo studioso Filip Vukosavovic, curatore della mostra, «colmano una lacuna cruciale nella comprensione di ciò che accadeva nella vita dei giudei in Babilonia più di 2.500 anni fa», dopo la deportazione, avvenuta in più ondate, imposta da Nabucodonosor.
Giunti in Babilonia - l'odierno Iraq - gli ebrei divennero con il tempo un elemento fondamentale per l'economia dell'impero; secondo Vukosavovic «erano liberi di vivere la loro vita, non erano schiavi; Nabucodonosor non era un sovrano brutale sotto questo aspetto. Sapeva di aver bisogno dei giudei per contribuire a rilanciare l'economia di Babilonia in difficoltà», un impegno che - per quanti non tornarono a Gerusalemme dopo il 539 a.C. - continuò per millenni, sotto diverse dominazioni, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso.
Mistero sulle vicende che hanno permesso alle tavolette di arrivare fino a noi: rinvenute probabilmente nel corso di scavi archeologici effettuati negli anni Settanta e passate di mano sul mercato internazionale delle antichità, sono attualmente proprietà di un collezionista israeliano residente a Londra che le ha messe a disposizione degli studiosi, permettendo loro di constatarne l'importanza.

(Evangelici.net, 10 febbraio 2015)


Netanyahu: «Un dovere parlare al Congresso americano sull'Iran»

Il premier israeliano sul discorso che terrà il 3 marzo senza l'accordo della Casa Bianca: «Nessuno scontro con Obama».

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha replicato alle polemiche sollevate a proposito del discorso che terrà il 3 marzo davanti al Congresso americano sull'Iran senza l'accordo della Casa Bianca.
«Non cerco lo scontro con il presidente Obama ma è mio dovere parlare al Congresso di un tema che minaccia la nostra esistenza», ha detto il presidente. «Parlerò al Congresso prima della data finale del 24 marzo (fissata per la conclusione dei negoziati con Teheran, ndr) perché il Congresso può avere un ruolo importante circa l'accordo nucleare con l'Iran.»

(Lettera43, 10 febbraio 2015)


In Israele il solare a concentrazione lavora 20 ore su 24

 
Da qui due anni una distesa di specchi parabolici ricoprirà 110 acri di deserto di Dimona, nel sud di Israele, lavorando giorno e notte per produrre energia pulita. A regime questi collettori costituiranno l'impianto di solare a concentrazione di Israele Brenmiller Energy, progetto del valore di ben 300 milioni di shekel (circa 77 milioni di dollari) e dalle speciali prestazioni tecniche; il campo solare da 10 MW di potenza, combinerà l'attuale tecnologia termodinamica con un sistema sotterraneo di accumulo energetico in grado di memorizzare il calore del sole per un utilizzo notturno. Il dispositivo di accumulo conserverà l'energia termica trasmessa dagli specchi riscaldando un fluido fino a 550 gradi Celsius.
Nei piani della società c'è l'obiettivo di riuscire a terminare la costruzione entro i primi mesi del 2017 e poi vendere attraverso la rete elettrica l'energia prodotta; grazie al sistema di energy storage (ancora un proof-of-concept) l'impianto sarà in grado di generare elettricità per venti ore al giorno, sostenendo la produzione dunque anche quando il sole è tramontato o nelle giornate particolarmente nuvolose, e compensando le rimanenti quattro ore con l'energia prodotta da biomassa. "Abbiamo una tecnologia competitiva con i carburanti convenzionali con la stessa disponibilità lungo tutto il giorno. Siamo convinti di aver compiuto un importante passo avanti qui", spiega la società in una nota stampa, affermando che la centrale è in grado di portare alla grid parity o al punto in cui il costo delle fonti rinnovabili non è così superiore rispetto alla produzione tramite fonti fossili. In attesa di conoscere se la mega centrale termodinamica rispetterà le promesse, Israele Brenmiller Energy sta portando a compimento un nuovo impianto fotovoltaico a concentrazione da 1,5 MW di potenza nel deserto Negav all'inizio del prossimo anno.

(Rinnovabili.it, 10 febbraio 2015)


Pallamano - Israele supera l'Italia in amichevole

La nazionale italiana di pallamano, dopo il buon pareggio di ieri sera (28-28), cede il passo questa sera a Israele: 35-22 in favore dei padroni di casa nella seconda amichevole disputata a Tel Aviv, utile agli azzurri per preparare le gare di qualificazione ai Campionati Europei 2018 in programma nella primavera prossima. Italia in partita per la prima metà del primo tempo, col tabellone che segna 8-6 in favore di Israele al 19', e in calo fisico nel finale di frazione. Un calo che permette agli avversari di allungare fino al vantaggio di 19-9 che chiude i primi 30' di gioco. Nella ripresa inerzia del match che non cambia: gli israeliani mantengono il risultato dalla propria parte e vincono con un ampio scarto. Per la Nazionale azzurra altri 60' comunque importanti per accrescere l'esperienza dei più giovani, largamente impiegati nell'arco dei due incontri. "Siamo stati in partita per 20', poi ci siamo spenti" commenta il tecnico Fredi Radojkovic a fine partita. "Loro hanno corso moltissimo, noi non siamo riusciti a tenere il ritmo. Abbiamo provato anche qualche soluzione nuova in campo, ma loro hanno corso più di noi, anche sfruttando le tante rotazioni. Abbiamo comunque creato tanto gioco, sbagliando però poi troppo al tiro. Comunque l'ho detto ai ragazzi: non sono preoccupato perché ieri sera abbiamo dimostrato che possiamo giocarcela. Dobbiamo però capire quali sono i nostri limiti quando siamo stanchi. Non possiamo giocare sempre allo stesso modo, quando accusiamo la stanchezza dobbiamo avere più pazienza e intelligenza. Credo che questa partita sia stata una buona lezione in questo senso".

(ITALPRESS, 10 febbraio 2015)


Ecco i quattro finalisti israeliani per l'Eurovision Song Contest 2015

Arriva all'ultimo atto la finale israeliana, che si è sviluppata in queste settimane lungo il canovaccio di The Next Star, un nuovo talent show (che in Italia sarebbe dovuto arrivare sulle reti Mediaset col nome di "The rising star", ma che è stato bocciato). Sono quattro gli artisti che sono giunti all'ultimo atto e che domenica 15 si giocheranno l'accesso all'Eurovision Song Contest 2015 in rappresentanza appunto del Paese mediorientale. Non è ancora invece stato chiarito se ci sarà un secondo contest per scegliere la canzone o se questa verrà scelta internamente.
I quattro finalisti sono Avia Shoshani, due anni fa backing voice proprio sul palco eurovisivo per Moran Mazor e con all'attivo un album nel 2010; Nadav Guedj, già additato dai critici come "Lo Justin Timberlake israeliano"; la giovanissima Sari Nachmias e una singolare ensemble reggae denominata - giocando sull'acconciatura - Iri Levy & The Rasta Hebrew Men, anche loro già con qualche produzione alle spalle.

(Eurofestival News, 10 febbraio 2015)


La Knesset specchio di una lotta all'ultimo voto in vista delle elezioni

Yizhak Herzog, leader del partito laburista che punta a strappare il governo a Likud, si aggira nell'area delle "stanze di partito", per coordinare incontri di strategia elettorale.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - A cinque settimane dal voto politico in Israele, la Knesset è lo specchio di una lotta all'ultimo voto per tentare di guidare il prossimo governo. Il Parlamento di Gerusalemme con i suoi 120 deputati non sospende le attività durante la campagna elettorale e ciò significa che gli eletti di più partiti sfruttano fino all'ultimo aula e corridoi per avvantaggiarsi rispetto alla concorrenza. Yizhak Herzog, leader del partito laburista che punta a strappare il governo a Likud, si aggira in maniche di camicia nell'area delle "stanze di partito", per coordinare incontri di strategia elettorale, e passa poi lunghi periodi nella caffetteria a incontrare leader di altre forze politiche, perché i sondaggi parlano chiaro: servirà una coalizione per arrivare al quorum di 61 seggi e servono molte alleanza per riuscirci.
   I fedelissimi del premier Netanyahu, si dedicano alle comitive di giovani e pensionati che visitano l'edificio della Knesset - ricco di opere d'arte come gli arazzi e mosaici di Marc Chagall - perché ciò gli permette un contatto diretto con i loro elettori, nella consapevolezza che il Likud potrà riuscire a prevalere solo portando alle urne tutti i suoi potenziali sostenitori. All'estrema sinistra della Knesset, i deputati di Meretz, come l'uscente Nizan Horowiz, tradiscono delusione nei confronti di Yair Lapid, che fu il leader laico protagonista delle elezioni di due anni fa con il suo "Yesh Atid", interrogandosi se questa volta sarà piuttosto il nuovo partito "Kulanu" di Moshe Kachlun a risultare decisivo per la formazione delle maggioranza. Fra le forze minori, l'attenzione è tutta sui tre partiti arabi che questa volta hanno deciso di presentarsi assieme nel timore di non riuscire altrimenti a superare la più soglia di sbarramento.
    Nella terrazza del ristorante della Knesset, con vista sulla città, un capannello di deputati di forze aspramente rivali commenta assieme gli ultimi sondaggi di Camil Fuchs, esprimendo comune delusione per l'estrema frammentazione dell'elettorato che fotografano. Ecco perché Yuli Edelstein, presidente della Knesset espresso dal Likud, azzarda una previsione: "Dopo il voto del 17 marzo avremo un governo di unità nazionale oppure si tornerà a votare entro un massimo di due anni". Ovvero: nè Netanyahu nè Herzog sembrano in grado di riuscire a formare una maggioranza senza l'altro.

(La Stampa, 10 febbraio 2015)


L'utopia islamica francese nel segno di Averroè finita con la protesta del prof

di Giulio Meotti

 
Il professor Soufiane Zitouni
Il professore lascia la lavagna e se ne va
ROMA - Estremo nord della Francia, a pochi minuti di treno dal confine con il Belgio. A Lilla sorge il Lycée Averroès, al secondo piano di un edificio di architettura fiamminga che ospita la Lega islamica del nord, sopra alla moschea al Iman e alla libreria musulmana. Al piano di sopra, la sala di preghiera riservata alle donne e la scuola coranica. E' la prima scuola superiore privata musulmana finanziata dallo stato in Francia. Non una madrassa abusiva, ma un esperimento della laicité unico nel suo genere, nato appositamente in risposta ai fatti del 1994, quando a Lilla un gruppo di studentesse furono espulse dal liceo pubblico Faidherbe, dopo che si erano rifiutate di togliersi il chador in classe. Una scuola simbolo a partire anche dal suo stesso nome, quello del filosofo arabo Averroè, che nel Medioevo fu il ponte tra le culture occidentale e orientale. Proprio a testimoniare la scelta repubblicana della scuola in una città che ha conosciuto le piscine separate per uomini e donne, il Lycée Averroès aveva voluto anche assumere dei professori non islamici.
   Adesso quella scuola, quella utopia multiculturale, è scossa dalle dimissioni di uno dei suoi insegnanti, Soufiane Zitouni, che se ne è andato spiegando le sue ragioni in un editoriale durissimo sul quotidiano Libération. Zitouni accusa la sua scuola di essere infarcita di "antisemitismo, settarismo e islamismo". Di origini algerine, docente di Filosofia, Zitouni ha scritto che non poteva più tollerare quanto vedeva ogni giorno nel liceo, definito "territorio islamico finanziato dallo stato". Dopo l'attentato a Charlie Hebdo, Zitouni aveva scritto un articolo chiedendosi se "molti musulmani non hanno un enorme problema con l'umorismo. Maometto stesso ha detto che 'l'inchiostro dello studioso è più prezioso del sangue del martire'''. Gli studenti di Zitouni allora hanno attaccato in classe il loro insegnante, definendolo "leccapiedi dei nemici dell'islam" e "blasfemo".
   Nella sua denuncia su Libération, il docente scrive: "In venti anni di lavoro come insegnante non ho mai sentito tanti slogan antisemiti venire dalla bocca degli studenti". Zitouni voleva far conoscere ai suoi studenti il pensiero e l'opera del filosofo aristotelico da cui la loro scuola prende il nome, Averroé: "Ho scoperto che negli scaffali della scuola non c'erano libri del filosofo andaluso, né libri su di lui. Tuttavia, ho trovato le opere dei fratelli Ramadan, popolari in questa scuola". Si tratta di Tariq e Hani Ramadan. "Un giorno ho iniziato un corso sul filosofo Spinoza e uno studente mi ha chiesto a che titolo perché questo filosofo era ebreo!". Un altro grande problema con i suoi studenti: "La mia presunta ortodossia non islamica", mentre i suoi colleghi musulmani osservanti potevano esercitare le loro abluzioni rituali nei bagni pubblici e la preghiera veniva officiata vicino alla macchina del caffè.
   Nell'Andalusia del XII secolo popolata da cristiani, ebrei, musulmani e governata dagli arabi, lo sviluppo di una setta integralista e punitiva che pretendeva di essere l'unica interprete della parola divina mise in allarme il califfo, il quale per tentare di controllare la setta fece alcune concessioni, il rogo pubblico dei libri, la proibizione d'insegnare e l'esilio di Averroé, suo ex consigliere. Si replica oggi nel famoso lycée della laicità che porta il nome del saggio medievale.

(Il Foglio, 10 febbraio 2015)


Fca-Cnh, accordo in Israele per le tecnologie sul gas

Fiat Chrysler Automobiles, Iveco e Magneti Marelli hanno firmato con l'israeliana Israel Fuel Choices Initiatives un memorandum d'intesa non vincolante per collaborare nello sviluppo di tecnologie basate sul gas naturale.

di Giuseppe Bottero

TORINO - Fiat Chrysler Automobiles e Cnh Industriai fanno un altro passo avanti nella sostenibilità ambientale. Ieri Fca, Iveco e Magneti Marelli hanno firmato un memorandum d'intesa non vincolante con l'ufficio del primo ministro israeliano: un accordo a sostegno della cooperazione per lo sviluppo di tecnologie basate sull'utilizzo del gas naturale. Il colosso dell'auto e il gruppo leader mondiale nei «capital goods» - dalle macchine agricole ai bus passando per camion, veicoli commerciali e trattori - lavoreranno assieme al «Fuel Choices Initiative»: si tratta di un programma decennale del governo che sta trasformando Israele in un polo d'eccellenza nei combustibili alternativi.
I firmatari hanno inoltre discusso la possibilità di creare un programma di cooperazione esteso per la ricerca e lo sviluppo. Un piano a cui parteciperanno anche aziende israeliane che operano nella mobilità intelligente e nell'indotto dell'auto. «Fca e Cnh sono profondamente impegnate a ridurre l'impatto ambientale dei veicoli utilizzati per i trasporti su strada e questa partnership rappresenta un pilastro importante», spiegano le aziende in una nota.

- Straordinari in Campania
  Per il gruppo dell'auto presieduto da John Elkann e guidato dall'ad Sergio Marchionne ci sono buone notizie anche dal mercato interno. Fca ha annullato la cassa integrazione prevista nello stabilimento di Pomigliano il 23 febbraio per soddisfare l'aumento di richieste della Panda, che a anche gennaio è stata l'auto più venduta. Si lavorerà al sabato, il 14, 21 e 28 febbraio. Tre giorni di straordinario, spiegano dalla Fim Campania, dovuti «alle maggiori acquisizioni di ordini da consegnare entro febbraio».

- Cambia l'organigramma
  Il gruppo, ieri, ha inoltre annunciato una serie di cambiamenti nell'organigramma europeo. Fabrizio Curci, finora a capo di Mopar, assume la responsabilità del brand Alfa Romeo per Emea e quella di coordinare a livello globale il piano di lancio dei nuovi prodotti Alfa Romeo a supporto di Harald Wester. Gianluca Italia, responsabile del brand Fiat - ruolo che mantiene ad interim - è stato nominato responsabile del Business Center Italy, la direzione commerciale che comprende tutti i brand venduti in Italia da Fca. Italia sostituisce Santo Ficili, che assume la responsabilità di Mopar per l'Emea. Ad Alessandro Furfaro è assegnata la responsabilità del brand Abarth e a Domenico Gostoli quella di Fiat Professional. Il nuovo responsabile della Supply Chain è Peter Weiss. Heinrik Starup-Hansen ha assunto la responsabilità del Business Center Germany, mentre Jerome Monce è il responsabile di Fleet & Business Sales.

(La Stampa, 10 febbraio 2015)


Napoli - Svastica a scuola, aperta l'inchiesta

La preside si difende: «Non ho preso misure? Ho sospeso tutta la classe».

di Enrica Buongiorno

 
NAPOLI - «L'antisemitismo come ogni forma di intolleranza va sempre condannato e io ho subito preso i provvedimenti del caso». Con queste parole Fiorella Colombai, dirigente scolastica del «Margherita di Savoia», si difende dopo l'accusa di non aver adottato alcuna misura disciplinare dopo il ritrovamento della svastica disegnata sulla lavagna in un'aula del liceo musicale napoletano.
   Era stata Angela Yael Amato, docente di violino dell'istituto facente parte della comunità ebraica, a ritrovare la settimana scorsa il macabro disegno nella classe IV A. La professoressa, scioccata, aveva notato che all' interno della gigantesca croce uncinata nazista c'era disegnato anche un piccolo violino, ad indicare, in maniera inequivocabile, il destinatario di quel messaggio antisemita. «Data la gravità della situazione, ho deciso che la prima cosa da fare fosse cancellare quello scempio così come ho fatto anche con le scritte e le parolacce sui muri della scuola durante l'occupazione - spiega la dirigente scolastica - poi, il pomeriggio dello stesso giorno, ho discusso dell' episodio durante lo scrutinio stabilendo un serio provvedimento. La classe in questione, infatti, giovedì 12 è stata sospesa dalle lezioni. Gli studenti saranno impegnati in una giornata dedicata interamente alla Shoah con video proiezioni, discussioni sul tema ed elaborati, anche se è bene precisare che i responsabili tutt'ora sono ignoti. Di ciò era a conoscenza anche la docente Amato, del resto è tutto scritto nei verbali».
   Nel frattempo, ieri, al liceo di salita Pontecorvo c'è stata una doppia visita' quella del direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale, Luisa Franzese, e dei carabinieri. «Sono in corso delle indagini ma si tratta, sicuramente, di un gesto isolato tra l'altro, pare, non rivolto neanche alla docente di violino. Anche il direttore scolastico regionale, intervenuto per accertarsi personalmente dei fatti accaduti, ha espresso solidarietà al Margherita di Savoia. Questa scuola ha una grande tradizione di multiculturalità e multietnicità, - continua la preside - accoglienza e democrazia sono nel nostro Dna. In passato' non si è verificato mai alcun episodio simile, al contrario abbiamo sempre organizzato incontri di sensibilizzazione sulle tematiche della Shoah».
   Il «Margherita di Savoia» nasce nel lontano 1891 come Scuola Normale femminile. Nel corso degli anni si trasforma seguendo l'evoluzione della scuola italiana e sperimenta nuovi percorsi. Oggi l'istituto riunisce oltre il liceo musicale anche quello linguistico, scientifico, delle scienze sociali, delle scienze umane, economico sociale e socio psicopedagogico e ospita circa mille alunni.
   «Il mio intervento, nel caso in questione, è stato tempestivo e nessuno può permettersi di dire che il dirigente scolastico non abbia preso provvedimenti, - aggiunge con fermezza Fiorella Colombai - dinnanzi a tali gravi episodi, non accettiamo alcun tipo di strumentalizzazione".
   E il sindaco de Magistris è intervenuto con un post su Facebook. «Esprimo assoluta vicinanza alla professoressa Angela Yael Amato per l'infame intimidazione subita all'interno della propria scuola. Napoli è città delle quattro giornate, della rivolta popolare all' occupazione nazi-fascista; Napoli provò a proteggere la propria umanità nella sua eterogeneità dalle legge razziali, come quando un funzionario di polizia del Vomero suggerì a una famiglia di ebrei cosa dovesse fare per non risultare negli elenchi di deportazione. Per questo accolgo l'invito della professoressa Angela Yael Amato e insieme, scuola e amministrazione, organizzeremo un incontro al Margherita di Savoia».

(Il Mattino, 10 febbraio 2015)


Le comunità ebraiche chiedono aiuto all'Europa

Crescono le minacce di terrorismo e antisemitismo. Il punto con gli analisti a Tel Aviv.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - L'Europa sfidata da terrorismo e antisemitismo è chiamata a dare risposte urgenti per migliorare la sicurezza delle comunità ebraiche: se ne è parlato ad un evento nella sede della residenza dell'ambasciatore di Italia a Tel Aviv a cui hanno partecipato alcuni dei più apprezzati analisti dei fenomeni di razzismo e jihadismo. Dina Porat, titolare del Kantor Center di Gerusalemme ed autorità di livello mondiale sull'antisemitismo, ha descritto la situazione di allarme parlando dell'intenzione di un crescente numero di ebrei europei di lasciare i propri Paesi a causa dell'affermarsi di "un'intolleranza particolarmente crudele nelle sue manifestazioni fisiche" sommata a un clima descritto da chi lo soffre come "intriso d'odio fino al punto da spingere i singoli a negare la propria identità".
    L'ex generale Yaakov Amidror, che è stato consigliere per la sicurezza nazionale del premier Benjamin Netanyahu, ha attribuito tale atmosfera ad "un clima antisionista in molti Paesi europei, dovuto a un aprioristico sostegno ai palestinesi in qualsiasi contesto". Per Amidror boicottaggi anti-israeliani, denunce pubbliche e identificazione sistematica dello Stato Ebraico "con il Male" hanno "anche responsabilità politiche" che a suo avviso si estendono al finanziamento di gruppi "ostili" che operano in Israele nei Territori. Per illustrare cosa intende per "clima" Amidror ha raccontato un aneddoto relativo all'inizio del recente conflitto di Gaza quando un alto rappresentante europeo da Bruxelles lo chiamò per chiedergli spiegazioni sui alcune scritte offensive apposte alle pareti di una moschea di Nablus senza però chiedergli nulla sui razzi lanciati contro le città israeliane da Hamas: "Quando gli chiesi perché non mi domandava nulla sugli attacchi di Hamas, mi rispose che dovevo tener conto delle sensibilità di Bruxelles".
    David Harris, direttore esecutivo dell'American Jewish Committee , ha indicato la genesi della sovrapposizione fra terrorismo e antisemitismo in Europa in tre fattori: il ritorno dei jihadisti europei da Iraq e Siria, la possibilità per loro di spostarsi liberamente grazie agli accordi di Shengen e l'impatto delle carceri, soprattutto in Francia, dove l'estremismo contagia molti detenuti spingendoli alla conversione alle forme più radicali di Islam. L'ambasciatore dell'Ue in Israele, Lars Faaborg-Andersen, ha sottolineato gli sforzi in corso da parte di Bruxelles per arginare e sconfiggere i rigurgiti di antisemitismo osservando però di non condividere l'opinione di chi attribuisce tale intolleranza alle "critiche legittime all operato del governo israeliano" soprattutto nei confronti dei palestinesi che vivono nei Territori. Alla fine è stato l'ambasciatore italiano, Francesco Maria Talò, a indicare un punto di convergenza fra "Israele, Europa, Stati Uniti, Egitto, Giordania e Giappone, tutti Paesi colpiti dal brutale terrorismo" accomunati dalla "volontà di reagire dei rispettivi popoli che resta la migliore garanzia di sconfiggere chi ci minaccia".

(La Stampa, 10 febbraio 2015)


Milano - La musica in aiuto della ricerca

Le poltrone rosse, le decorazioni dorate, un grande Maestro, una buona causa, un appuntamento consueto. Anche quest'anno, come avviene da più di vent'anni, il 9 febbraio va in scena al Teatro alla Scala di Milano il concerto a sostegno della ricerca sull'Alzheimer dell'IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri a Milano insieme all'Istituto Weizmann di Scienze di Rehovot in Israele.
Il Maestro Zubin Mehta dirigerà l'Orchestra Filarmonica della Scala in un concerto la cui scaletta prevede l'esecuzione di diverse musiche di Ludwig van Beethoven: Egmont, Ouverture; Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 'Eroica'. L'impegno della Fondazione Negri Weizmann si concentra sul sostegno alla ricerca sulle cause della malattia di Alzheimer condotta dai due Istituti. I fondi raccolti con il concerto contribuiranno alla realizzazione di un laboratorio comune di ricerca al fine di rendere ancora più efficace lo scambio scientifico tra i due Istituti per lo sviluppo di progetti in collaborazione. Lo scambio di conoscenze e di esperienze scientifiche consentirà un miglior sviluppo di progetti condivisi, garantendo tempi di esecuzione più brevi e una crescita culturale capace di affrontare meglio le problematiche che l'Alzheimer propone. "La disponibilità di risorse economiche adeguate - ha spiegato Robert Parienti, delegato generale per l'Europa dell'Istituto Weizmann - permetterà di alimentare questo progetto allargando i contenuti della ricerca e soprattutto creando le condizioni per lo scambio di giovani ricercatori per l'acquisizione diretta di competenze scientifiche e metodologiche essenziali".

(moked, 9 febbraio 2015)


Palestinese risiede illegalmente in Israele, ma salva due ebrei da un linciaggio

Due storie che si intrecciano, tra Israele e il West Bank, entrambe a lieto fine.
Un 38enne palestinese viene scoperto a risiedere illegalmente in Israele con falsi documenti, ma il giudice israeliano chiede clemenza nei suoi confronti perché mesi prima si era contraddistinto per un grande merito: aveva salvato la vita a due ebrei che stavano per essere linciati.
L'estate scorsa, poco tempo prima dell'Operazione Margine Protettivo, due israeliani ebrei, un medico e suo figlio, si perdono nei meandri del West Bank, andando a finire accidentalmente in un villaggio arabo. È durante il periodo del Ramadan, per le vie le luci sono a festa e nelle strade riversa molta gente. È notte e il guidatore è molto nervoso; cerca di uscire dal villaggio il prima possibile, ma gli abitanti del luogo suggeriscono indicazioni sbagliate, probabilmente proprio per indurli in errore....

(Progetto Dreyfus, 9 febbraio 2015)


Dentro l'orrore dei lager il triestino Bruno Weiss compose ottima musica

Comporre musica nei campi di concentramento prima di morire. Trovare l'ispirazione giusta per trascrivere ex novo arie liriche, partiture sinfoniche, canzoni di jazz e di cabaret...

di Orazio La Rocca

 
Bruno Bjelinski
Concerto per clarinetto e violini:
Comporre musica nei campi di concentramento prima di morire. Trovare l'ispirazione giusta per trascrivere ex novo arie liriche, partiture sinfoniche, canzoni di jazz e di cabaret in attesa delle camere a gas, sotto il peso di atroci violenze fisiche e psicologiche. Impossibile da crederci. Detta così sembra una sorta di una delle tante favole emerse dagli orrori della seconda guerra mondiale. Eppure è tutto vero.
  Come dire, c'è "qualcosa" che non è morta nei luoghi di sterminio nazisti, malgrado la furia omicida delle Ss, le camere a gas, le persecuzioni, le atrocità che portarono allo sterminio di circa 6 milioni di ebrei innocenti. È la musica - in tutte le sue forme classica, sinfonica, lirica, jazz, leggera - composta quasi tutta clandestinamente da un manipolo di irriducibili musicisti internati - finora ne sono stati individuati oltre 1600 - che, prima di scomparire nei lager tra atroci sofferenze, ebbero la forza di dare vita a spartiti, arie, opere, componimenti classici e leggeri. Musicisti-eroi rastrellati dalle varie comunità ebraiche europee, Italia compresa, tra i quali anche il compositore triestino Bruno Weiss, uno dei pochissimi artisti che riuscì a scappare da un campo di concentramento; ma anche musicisti nativi in aree vicine come la Slovenia e l'Austria.
  Artisti che, dopo circa 70 anni dalla fine della guerra, sono usciti dal tunnel dell'oblio grazie al lavoro di ricerca del professor Francesco Lotoro, pianista, docente del Conservatorio "Giordano” di Foggia, esponente della Comunità ebraica di Trani,una vita dedicata al recupero delle musiche nei lager nazisti, che a ragione definisce «patrimonio dell'umanità» che merita di essere conosciuto dal grande pubblico «sia dal punto di vista morale che artistico».
  Tra i 1600 autori internati - racconta il professor Lotoro - c'era anche il maestro ebreo Bruno Weiss nato a Trieste nel 1909 e morto a Silba, in Croazia, il 3 settembre del 1992. Cambiò - con la vana speranza di sfuggire alle persecuzioni naziste - il suo cognome da Weiss a Bjelinski (derivazione della parola Bijeli, che significa bianco in lingua croata). Laureato in giurisprudenza all'Università di Zagabria, successivamente studiò musica all'Accademia di Musica di Zagabria sotto Blagoje Bersa e Franjo Dugan. Durante la Seconda guerra mondiale fu rastrellato e internato in un campo di concentramento delle Ss, ma nel 1943, con l'aiuto di un amico, riuscì a fuggire e si unì ai partigiani sull'isola di Kor›ula. Scrisse opere, balletti, sinfonie, due concerti per violoncello, musiche per pianoforte e altro, molte delle quali concepite negli anni trascorsi nei lager.
  Anche la vicina Slovenia ha avuto i suoi compositori-eroi vittime dei nazisti. Tra i nomi più significativi Božida Kantušer, nato a Pavlovci nel 1921 e morto a Parigi nel 1999, come Weiss uscito indenne dai campi nazisti per pura fortuna. Compositore, studiò violino e viola presso la scuola di musica di Celje. Nel 1941 fuggì dai nazisti e riparò a Lubiana, dove studiò composizione con Sre›ko Koporc. Molto impegnato in attività politiche antinaziste, fu arrestato dai fascisti nel 1942 e deportato in un campo di concentramento per Slavi in Italia, dove continuò la sua attività di compositore pur in mezzo a tante difficoltà. Al suo ritorno dal confino nel 1943, fu colpito dal paratifo. Dopo la fine della Guerra si stabilì di nuovo a Lubiana per continuare i suoi studi di composizione con Koporc. Nel 1950 si trasferì a Parigi.
  Un altro musicista sloveno internato dai nazisti fu Blaž Arni›. Docente, attivista politico e scrittore, nel 1932 si iscrisse al Partito Comunista di Jugoslavia. Arrestato e imprigionato nel 1934 a Sremska Mitrovica, dove rimase prigioniero per quattro anni. In seguito tornò a Celje, dove nel 1940 fu nuovamente arrestato, e imprigionato a Bileca. Qui scrisse la famosa canzone Bile›anka componendo testo e musica. Nel 1941 si unì ai partigiani jugoslavi in Slovenia. Durante l'occupazione tedesca della Slovenia due suoi figli morirono di stenti.
  Tra i musicisti internati ed uccisi ad Auschwitz, l'ebreo austriaco Marcel Tyberg, nato a Vienna nel 1893 e morto nel 1944. Pianista e compositore tra i più geniali della sua epoca, dopo il 1920 la famiglia si trasferì ad Abbazzia (Opatija); nel 1944 Tyberg fu arrestato e internato prima alla Risiera di San Saba e successivamente ad Auschwitz-Birkenau, dove trovò la morte nel dicembre 1944. Scrisse Sinfonie, Sonate e altri grandi capolavori, molti dei quali anche durante i mesi di reclusione.
  Lunga è la lista dei nomi e delle musiche composte nei lager - a partire da Auschwitz, ma anche da tanti altri analoghi luoghi di internamento sparsi in Europa e nei vari teatri di guerra nel corso della seconda guerra mondiale -. Una piccola, ma significativa, rassegna di quegli spartiti è stata eseguita alll'Auditorium Parco della musica di Roma in occasione della recente giornata della Memoria e del settantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz nel concerto "Tutto ciò che mi resta - Il miracolo della musica composta nei lager", con la partecipazione straordinaria di Ute Lemper. L'evento - curato dal professor Lotoro - si è svolto sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica italiana ed è stato organizzato da Viviana Kasam e Marilena Citelli Francese e dalla Fondazione Musica per Roma in coproduzione con l'Accademia nazionale di Santa Cecilia e l'Unione delle Comunità ebraiche italiane.
  I testi e le musiche - alcuni tra i brani più significativi delle opere catalogate e salvate dai lagee e inserite nella monumentale enciclopedia Tesaurus Musicae Concentrationariae curata dal professor Lotoro - sono stati interpretati da un cast di artisti internazionali. Ute Lemper ha contato in maniera suggestiva ed ispirata "Il Tango di Auschwitz", musica scritta da un anonimo compositore ebreo prima di entrare nella camera a gas. L'attore Marco Baliani ha letto la genesi degli spartiti composti nei campi da autori ebrei che, «tra le atrocità del posto, erano costretti dai loro aguzzini ad esibirsi, tra l'altro, per intrattenere i gerarchi nazisti, a comporre musiche originali, molte delle quali furono tenute nascoste, un patrimonio artistico-musicale che solo dopo lunghe ricerche svolte nel dopoguerra, ora possono vedere la luce», spiega Lotoro nel corso dei suoi incontri culturali in giro per l'Italia. Dalle ricerche del professore («Ma c'è ancora tanto da lavorare e da scoprire», è solito ripetere) risulta che gli oltre 1600 musicisti internati composero circa 5 mila le partiture «solo il 10 per cento delle quali finora totalmente recuperate, circa 500 composizioni».
  Vale a dire note struggenti concepite da una comunità internazionale di musicisti, in gran parte ebrei, ma anche di altre nazionalità, che nei momenti più bui della seconda guerra mondiale furono in grado comporre musica per "combattere" con le sole note le atrocità naziste e di dare vita anche a decine di formazioni musicali, sia maschili che femminili, come a Birchenau, come ad Auschwitz dove si esibivano contemporaneamente ben sei gruppi, tra cui anche complessi jazz e cabaret.
  Il gruppo più noto è forse quello che appare nella storica gigantografia esposta ancora oggi all'ingresso di Auschwitz, «dove i musicisti su ordine degli aguzzini nazisti erano costretti a suonare tutti i giorni per dar vita ad un finto clima di serena accoglienza per l'arrivo degli internati», quegli stessi musicisti che, insieme a tanti altri sfortunati colleghi - conclude Lotoro - «composero musiche struggenti che l'atrocità nazista non riuscì a distruggere e che oggi contribuiscono a ricordarci, con la forza della musica, uno dei momenti più drammatici della nostra storia. Per non dimenticare»

(Il Piccolo, 9 febbraio 2015)


Tra Napoli e Israele relazioni sempre più intense

Presentato questa mattina il nuovo volo che da fine marzo collegherà due volte a settimana Capodichino con Tel Aviv. L'ambasciatore israeliano Gilon: "A Napoli ci sentiamo a casa. Bello rafforzare questa relazione".

di Mario Parisi

 
NAPOLI, 9 feb - Napoli e Israele saranno sempre più vicine, grazie al nuovo volo diretto che dal 30 marzo prossimo collegherà lo scalo partenopeo di Capodichino con Tel Aviv. L'importante novità è stata illustrata questa mattina all'Hotel Mediterraneo nel centro cittadino, alla presenza tra gli altri dell'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon.
"Sono onorato di essere qui quest'oggi - ha detto Gilon - perchè a Napoli mi sento a casa. Grande, infatti, è la vicinanza tra questa città ed Israele, nell'ambito di una comune cultura mediterranea. Sono sicuro che grazie a questo collegamento, crescerà il numero di turisti israeliani in Campania, così come sarà sicuramente propizia l'occasione per intensificare ulteriormente e rafforzare ancor di più le relazioni culturali,
I collegamenti in questione saranno effettuati dalla El Al Israel Airlines con aeromobili Boeing 737/800 di nuovissima generazione, ogni lunedì e venerdi a partire dal 30 marzo, sia in arrivo da Tel Aviv che in partenza da Napoli.
Il volo partirà da Tel Aviv alle ore 08.00 locali ed arriverà a Napoli alle ore 10.25 locali, per poi ripartire da Capodichino alle ore 11.30 locali con arrivo a Tel Aviv alle ore 15.45 locali, per una durata di 3 ore e 15 minuti.
"Oggi è una bellissima giornata - ha affermato in conferenza stampa l'assessore comunale alla Cultura e al Turismo Nino Daniele - . Vengono infatti confermate le forti relazioni e l'amicizia tra Napoli ed Israele, ma soprattutto la vocazione multiculturale della nostra città".
"Si tratta di una scelta intelligente - il commento dell'assessore regionale al Turismo Pasquale Sommese - . Le presenze turistiche in Campania continuano ad aumentare e ciò significa che siamo sulla strada giusta".

(NapoliToday, 9 febbraio 2015)


Israele preoccupata per quanto accade ai confini

GERUSALEMME - Apprensione a Gerusalemme per quanto sta accadendo ai confini tra Egitto, Israele e Giordania.
Lo si legge sulla testata ebraica Haaretz secondo cui: «L'apprensione domina per via degli attacchi degli eserciti giordani ed egiziani contro Da'ash» in risposta agli attacchi di questa organizzazione e della sua filiale nel Sinai contro questi due paesi. La Giordania ha intensificato i raid aerei contro i siti gestiti dallo Stato Islamico a seguito la pubblicazione di ISIS del video che mostra l'uccisione di pilota giordano Kasasbeh, arso vivo. Anche l'Egitto ha intensificato gli attacchi contro i membri dell'organizzazione "I sostenitori di Gerusalemme" nel Sinai, che hanno annunciato la loro alleanza con ISIS, dopo un attacco contro l'esercito, che ha portato alla morte di 32 persone il mese scorso, le autorità egiziane hanno accusato del fatto il movimento di Hamas, con l'aiuto di "sostenitori di Gerusalemme", e le autorità hanno deciso di processare in tribunale un egiziano al-Qassam, l'ala militare di Hamas, con l'accusa di terrorismo».
Le sfide nel Sinai hanno avvicinato Israele e l'Egitto. La Giordania ha re-invitao il suo ambasciatore a Tel Aviv dopo tre mesi di protesta per l'atteggiamento di Israele nei confronti di Gerusalemme e in particolare sul Monte del Tempio.
A quanto si apprende dalla testata le intelligence dei paesi dovrebbero collaborare soprattutto al confine con il Sinai, Giordania, Siria e l'Iraq.
Secondo la testata israeliana i continui raid aerei giordani metteranno rischio la sicurezza nel Regno. D'altra parte la situazione nel Sinai porterebbe a due sviluppi. La prima riguarda la pressione esercitata dall'Egitto su Hamas, come il ritardo della ricostruzione delle operazioni a Gaza, che potrebbe preludere a nuovi scontri tra Hamas e Israele. Il secondo sviluppo è che Israele sia attaccata dai "sostenitori di Gerusalemme" come è accaduto nel mese di agosto 2011, quando l'organizzazione ha lanciato un attacco che ha ucciso otto israeliani.

(AGC, 9 febbraio 2015)


Oltremare - Satira elettorale

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Il lato migliore della stagione delle elezioni è la satira che propaga. Come un masso lanciato in una pozzanghera, mentre affonda schizza acqua, non proprio pulitissima, tutto intorno a raggio, senza fare distinzioni.
Basta accendere la televisione, e ricordarsi che in Israele esistono solo 3 canali nazionali di notizie, e il resto è film o serie televisive, per trovare comici che imitano i politici, si travestono da politici, o fanno finti telegiornali per prendere in giro i politici.
Per capire che cosa dicono e a cha fatto o dato si riferiscono le battute occorre una profonda conoscenza della società e politica israeliana, e dopo sette anni non rido ancora il 100% delle volte che il pubblico in sala si sbellica. Se andassi a vedere i programmi in registrazione probabilmente le telecamere mi coglierebbero nel giro di platea con la stessa espressione tesa e attenta di uno studente al quarto anno di fisica durante un esperimento che potrebbe far saltare l'edificio.
Sì, la satira è difficile per chi non è madrelingua e non è cresciuto qui. Ma insegna moltissimo: è molto più leggera di quella che ricordo in Italia, manca soprattutto di acrimonia. Credo che sia perchè alla fine in un popolo di otto milioni di persone i politici fanno parte delle nostre vite quotidiane. Un po' come nei paesini di una volta si incontrava il sindaco per strada e lo si sgridava per non aver riparato un palo della luce: anche qui il politico è qualcuno che conosci, che critichi o apprezzi o tutte e due le cose insieme. Non è raro che gli originali vadano a farsi ridere in faccia nelle trasmissioni di satira - e anzi, esserci, come si sa, conta molto di più di qualunque battuta a loro spese.
Negli ultimi giorni l'atmosfera si sta facendo un po' meno leggera, le accuse fra i partiti e fra gli ego immensi dei loro leader cominciano a salire di livello. Per fortuna la sera potremo riderne di nuovo davanti alla tivù.

(moked, 9 febbraio 2015)


Israele distrugge un tunnel di Hamas

Partiva da Sajaya a Gaza e arrivava nel kibbutz Nahal Oz

GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha annunciato di aver distrutto un tunnel di Hamas scoperto nel corso dell'operazione 'Margine protettivo' della scorsa estate. La galleria sotterranea partiva dalle vicinanze di Sajaya a Gaza per sbucare al kibbutz Nahal Oz oltre la barriera di protezione.
Il percorso del tunnel era controllato dai militari fin dalla passata guerra con Hamas. Sul luogo -ha riportato l'esercito - sono state trovate molte armi vecchie.

(ANSA, 9 febbraio 2015)


Il primato italiano di Moovit, l'app dei bus locali

Nata a Tel Aviv, monitora 23 località e guida alla via più rapida per muoversi con i mezzi pubblici in città.

di Elena Comelli

 
Moovit! Non è un'esortazione, ma una nuova app che sta rivoluzionando il mercato del trasporto pubblico locale, in particolare in Italia, dove ha già raccolto 1,2 milioni di utilizzatori in poco più di un anno, Con 500 città al suo attivo, di cui 23 italiane, la bandierina che sorride è in grado di guidarci a destinazione sui mezzi pubblici di luoghi in cui non siamo mai stati, semplicemente inserendo un indirizzo di partenza e uno di arrivo, senza bisogno di comprare mappe cartacee o di scaricare altre app specifiche per navigare tra linee di bus e metropolitane sconosciute.
   Moovit è sufficiente per muoversi a proprio agio in mezzo mondo, da Tel Aviv dov'è nata a New York, Londra o Parigi. Non a caso l'icona della bandierina si è insediata ormai stabilmente in 15 milioni di smartphone fra Europa, Asia e Stati Uniti, creando una vasta community di utenti, uniti dalle esigenze di mobilità,
   «La particolarità di Moovit è proprio la possibilità per gli utenti di segnalare a tutti gli altri qualsiasi variazione nel servizio dei mezzi di trasporto che stanno utilizzando, dal blocco di una linea per un pacco sospetto, al ritardo anomalo del bus che conduce all'aeroporto», spiega Alex Torres, vicepresidente della start-up israeliana, che aggiunge continuamente nuove città alla rete e la scorsa settimana ha concluso un accordo con il Comune di Torino.
   Grazie a questa possibilità, che la distingue da tutte le altre app per la mobilità, i server di Moovit raccolgono da 2 a 3 miliardi di dati al mese dagli utenti: una massa d'informazioni che la rende perfino più aggiornata delle app ufficiali delle società dei trasporti. «Gli italiani credono nella comunità e sono un Paese molto turistico, ecco perché qui il nostro servizio ha tanto successo», commenta Torres,
   Ma si può forse anche aggiungere il dato della scarsa funzionalità delle app dei singoli comuni, troppo pesanti e farraginose. Prima in Europa (davanti a Germania, Francia, Inghilterra e Spagna), !'Italia è il quarto Paese al mondo per numero di utilizzatori di Moovit, preceduta solo da Usa, Brasile e Israele, Con una copertura attuale di 23 città italiane (Bergamo, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Massa Carrara, Matera, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Pisa, Roma, Salerno, Sassari, Siena, Taranto, Torino, Trento, Trieste, Udine e Venezia), !'Italia rappresenta quindi un mercato chiave per l'azienda, che negli ultimi sei mesi ha raddoppiato il numero di utenti,
   Per ora Moovit si può scaricare gratuitamente e non ha ancora previsto fonti di reddito, che in seguito potrebbero arrivare dalla vendita dei biglietti o della stessa app, Il fondatore, Nir Erez, se lo può permettere, visto che ha già ricevuto oltre 80 milioni di finanziamenti in tre round, di cui l'ultimo, da 50 milioni, pochi giorni fa, a cui hanno partecipato le società di venture capital di Nokia, Bmw, Bernard Arnault, Keolis (la società di trasporti locali delle ferrovie francesi Sncf), oltre a Sequoia capital, Gemini e alle israeliane Vaizra e Brm, che avevano già finanziato l'azienda nei primi round.
   È curioso notare che fra i sostenitori di Moovit c'è anche Bmw, che in questo modo sostiene i mezzi pubblici contro la mobilità privata sulle sue lussuose quattro ruote, «Migliorare la mobilità urbana è uno dei temi più affascinanti e complessi che la nostra generazione sta affrontando», ha detto Bernhard Blaettel, presidente di Bmw iventures, Con più di 7 miliardi di persone nel pianeta, di cui oltre la metà vivono in un contesto urbano, è chiaro che alla lunga non si potrà rispondere alle necessità di mobilità urbana con le auto private, Meglio mettersi in anticipo dalla parte di quelli che contribuiscono a risolvere un problema quotidiano per milioni di persone,

(Corriere della Sera, 9 febbraio 2015)


Festival di Locarno, fari puntati su Israele

Carte Blanche 2015 sarà dedicata al cinema del paese mediorientale

La quinta edizione di Carte Blanche, l'iniziativa del Festival del film Locarno dedicata ai film in fase di post-produzione, si concentrerà quest'anno su Israele. I titoli che verranno selezionati avranno la possibilità di essere presentati di fronte ai professionisti del settore presenti a Locarno durante gli Industry Days.
  Grazie a un partenariato con l'Israel Film Fund, che coordina la parte relativa ai film in corso d'opera dell'iniziativa, Carte Blanche selezionerà dai 5 ai 7 film in fase di post-produzione. I produttori dei film scelti parteciperanno al Festival di Locarno e presenteranno le loro opere ai professionisti del settore. Al fine di agevolarne la finalizzazione e la distribuzione, i film saranno proiettati per venditori, compratori, programmatori e rappresentanti dei fondi di sostegno alla post-produzione presenti a Locarno durante gli Industry Days (8 - 10 agosto). Una giuria composta da professionisti del settore sarà infine chiamata ad attribuire al miglior film un premio del valore di 10'000 CHF.
  L'iniziativa, inaugurata nel 2011, si propone di offrire una finestra sui film in fase di post-produzione. Le edizioni precedenti sono state dedicate a Colombia, Messico, Cile e Brasile.
  Nadia Dresti, Delegata alla Direzione artistica e Head of International: "Dai successi ottenuti sulla Piazza Grande da Eran Riklis con The Syrian Bride, The Human Resources Manager e Dancing Arabs, alla rivelazione del talento di Nadav Lapid con il cortometraggio Kvish (2006) e nel Concorso internazionale del 2010 con Hashoter , gli incontri tra il Festival di Locarno e il cinema israeliano si sono sempre confermati fertili. Con la prossima edizione e la collaborazione con l'Israel Film Fund, questo legame sarà ulteriormente rafforzato attraverso la Carte Blanche, che fa del presente un punto di partenza per guardare al futuro. "
  L'Israel Film Fund raccoglierà le iscrizioni dei film in fase di finalizzazione, fino al 1 maggio 2015. La composizione dei titoli selezionati dal Festival sarà annunciata nel mese di luglio.
  A partire da quest'anno, l'iniziativa Carte Blanche Extra garantirà inoltre una continuità al successo delle precedenti edizioni e ai solidi contatti che si sono creati con gli istituti di promozione nazionale: Cinema do Brasil, CinemaChile, Proimagenes Colombia e IMCINE (Messico). Fino a quattro produttori emergenti per ogni paese saranno infatti invitati a Locarno per presentare i loro progetti all'industria europea e internazionale durante gli Industry Days, che si confermano sempre più come luogo privilegiato per sviluppare il networking del settore. Una serie di pranzi professionali con i rappresentanti dell'industria internazionale completa la nuova offerta e andrà a creare un "Latino Corner" dinamico e produttivo.
  Un successo comprovato anche dai percorsi significativi e dai prestigiosi riconoscimenti di cui sono stati protagonisti numerosi film selezionati in questi anni a Carte Blanche. Da La Playa DC (Juan Andrés Arango, Colombia), selezionato in Un Certain Regard di Cannes, a Matar a un hombre (Alejandro Fernàndez Almendras, Cile), vincitore lo scorso anno al Sundance e in numerosi altri festival, fino ai più recenti brasiliani The Second Mother (Anna Muylaert), premiato con lo Special Jury Award for Acting al Sundance e mostrato in questi giorni a Berlino nella sezione Panorama Special, e O Touro (Larissa Figuereido), selezionato nel programma Bright Future 2015 di Rotterdam.
  Il coordinamento dell'iniziativa è di Markus Duffner, Project Manager Carte Blanche.
La 68a edizione del Festival del film Locarno si terrà dal 5 al 15 agosto 2015.

(Ticino News, 9 febbraio 2015)


Alitalia: potenziati i voli da Roma a Tel Aviv

Alitalia ha deciso di incrementare la propria offerta relativa alla rotta Italia-Israele. La compagnia aerea ha voluto potenziare i collegamenti per Tel Aviv in partenza da Roma Fiumicino dal prossimo mese di marzo, salendo da 26 a 29 voli a settimana.
I voli dallo scalo capitolino verso la città israeliana saranno garantiti tutti i giorni della settimana, con 5 collegamenti al giorno il giovedì e il sabato, 4 collegamenti giornalieri il lunedì, il martedì, il venerdì e la domenica ed, infine, 3 collegamenti al giorno il mercoledì. I voli per Tel Aviv di Alitalia saranno serviti con Airbus A320 e A321 configurati nelle classi di servizio Ottima e Classica.
Grazie ai nuovi collegamenti sarà consentito partire in base alle esigenze personali, sfruttando i vari voli in partenza durante tutto l'arco della giornata. Dopo il successo ottenuto l'anno scorso su tale rotta, Alitalia ha deciso di potenziarla. Per conoscere gli orari di partenza ed i prezzi dei biglietti aerei da Roma a Tel Aviv si consiglia di consultare il sito ufficiale del vettore italiano.

(ViaggiOK.net, 8 febbraio 2015)


L'Unione Europea finanzia costruzioni abusive palestinesi in violazione degli Accordi di Oslo

Come se spettasse all'Europa decidere quali debbano essere i confini fra Israele e futuro stato palestinese

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha incaricato il ministro della difesa Moshe Ya'alon di procedere con i piani per la demolizione di circa 400 strutture palestinesi costruite illegalmente in Cisgiordania con finanziamenti europei.
La disposizione del primo ministro è venuta poco dopo che giovedì un reportage sul britannico Daily Mail ha rivelato che l'Unione Europea ha investito decine di milioni di euro nella costruzione di strutture edificate senza permesso in aree sotto giurisdizione israeliana.
Documenti ufficiali dell'Unione Europea scoperti dal giornale affermano che gli edifici sono destinati ad "aprire la strada per lo sviluppo e una maggiore autorità dell'Autorità Palestinese nell'Area C", un obiettivo che sembra indicare una chiara presa di posizione a favore delle rivendicazioni di una delle due parti su territori tutt'ora sotto controllo israeliano e che sono oggetto di negoziato secondo gli accordi sin qui firmati da israeliani e palestinesi.....

(israele.net, 9 febbraio 2015)


Una fuga silenziosa

L'espulsione e la fuga degli ebrei dai Paesi arabi sono state una tragedia che ha cambiato una parte della diaspora e ha modificato il tessuto sociale.

di David Meghnagi

Sono nato e cresciuto in un paese arabo che ho lasciato per sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia della mia famiglia in poco più di vent'anni. Lungo l'arco di due decenni, centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del mondo arabo e islamico. Le minoranze ebraiche non avevano partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano un pericolo per nessuno. La loro fuga fu silenziosa, ignorata dalla stampa internazionale. Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato ai resti delle antiche civiltà che avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe. La centralità della Shoah nel dibattito sulla legittimità dell'esistenza di Israele ha fatto sì che la memoria delle sofferenze degli ebrei del mondo arabo fosse occultata per lungo tempo agli occhi anche degli israeliani.
   Solo di recente in Israele e nelle comunità ebraiche del mondo, è stata compresa l'enorme valenza simbolica dell'esodo ebraico dal mondo arabo, per controbattere le false equazioni che fanno da sfondo a un nuovo antisemitismo. I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una differenza. Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo. Gli abitati ebraici caduti in mano agli eserciti arabi vennero
La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L'arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica.
cancellati dalla faccia della terra, le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All'interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case. La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L'arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica. Pur con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso d'insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di riscatto dopo secoli di umiliazioni. Diversa è la situazione alla quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica. Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi, l'idea di una loro integrazione nei paesi arabi circostanti o lontani fu violentemente osteggiata.
   Il verdetto religioso e nazionalista era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della nazione araba e dell'umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni. Chi avesse tentato un accordo, era un traditore da eliminare. Aver considerato l'esistenza di Israele un'onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un'immaturità politica, l'origine di un fallimento più generale. La questione dei profughi poteva essere vista come uno dei tanti dolorosi scambi fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come è del resto accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, per le popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli indù e i musulmani al momento dell'indipendenza del Pakistan e dell'India. O per l'Italia, con i profughi dall'Istria trasformati per decenni in fantasmi, privati di uno spazio condiviso per il dolore. Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A vincere nelle guerre che hanno scandito periodicamente la recente storia del Vicino Oriente, non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà dei soldati che travolsero le armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno 1967 era composta dai figli delle mellah e delle hara, oggetto di disprezzo e di umiliazioni,
Non essere riusciti a «risolvere» il problema israeliano con i «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant'anni prima, era la fonte di "un'infelicità" che nel delirio ha finito per trasformare i crimini tentati in «olocausti subiti»
considerati dalla cultura araba "inadatti" alla guerra, che potevano al più aspirare a essere «protetti » in cambio di un atto di sottomissione. Non essere riusciti a «risolvere» il problema israeliano con i «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant'anni prima, era la fonte di "un'infelicità" che nel delirio ha finito per trasformare i crimini tentati in «olocausti subiti». Fin quando fu possibile spiegare l'umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l'aggressione congiunta israeliana e anglo-francese, l'autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più sopportabile, l'onore arabo rinnovato dalla promessa che in futuro le cose sarebbero andate diversamente.
   Quando alla prova dei fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l'incarnazione del male. La campana a morte per i regimi nazionalisti fu ritardata dal sostegno massiccio profuso dall'Unione Sovietica nel rimettere in piedi l'esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l'Egitto riconquistò «l'onore perduto». La crisi del nazionalismo panarabo spianava la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l'Occidente cristiano e l'Islam, con Israele nel ruolo di «Stato crociato» e di «piccolo Satana» al servizio del «grande Satana».
   Nella logica islamista la jihad dei palestinesi «non riguarda solo i palestinesi ma tutto l'Islam». «L'onta della Naqba», un'idea che nel mondo arabo si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, è assurta a simbolo di una sequenza più ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica. In questa logica perversa e criminale, che salda l'antisemitismo più antico con quello più recente, lo stato nato per offrire un rifugio agli ebrei, diventa "l'ebreo degli Stati".

(Shalom, gennaio 2015)


«Amos, Amos, perché mi deridi?» (3)

8 febbraio 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco   

Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz   
come ho scritto nella mia precedente lettera, nella casa arcana del tuo romanzo si aggirano due fantasmi, corrispondenti alle due anime del sionismo: quella nazionalista e quella universalista. Prima della venuta di Shemuel era questo il dibattito latente nella casa, anche se da molti anni non più espresso apertamente.
   Ma con la venuta del giovane studente universitario qualcosa cambia.

- UN ALTRO FANTASMA ENTRA NELLA CASA
   E' il fantasma di Gesù, o più precisamente, di "Gesù in una prospettiva ebraica", come dice il titolo della tesi di dottorato di Shemuel. Alla contrapposizione tra universalismo e nazionalismo in Israele viene così accostata, a dire il vero in modo un po' artificiale e posticcio, una singolare discussione sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Di questi due discorsi paralleli che si svolgono all'interno del romanzo, tralascerò deliberatamente il primo, almeno in un primo momento, e mi concentrerò sul secondo: Gesù in una prospettiva ebraica.
   Per far trascorrere in qualche modo le cinque ore pomeridiane del suo servizio quotidiano, Shemuel decide di leggere a Gershom ogni tanto qualche brano del suo lavoro di tesi.
   "In tre punti diversi del Talmud babilonese - legge - compaiono in contesti diversi esplicite dichiarazioni di disprezzo nei confronti di Gesù, descritto come un discepolo sapiente deviato dalla retta via o come uno stregone dedito all'idolatria, o anche come un uomo dissoluto desideroso di un pentimento che non gli era stato concesso. Ma nel corso delle generazioni questi tre passi furono espunti da tutte le versioni a stampa del Talmud senza lasciare praticamente traccia, perché gli ebrei avevano 'una paura terribile delle possibili' conseguenze che avrebbero patito dai loro vicini cristiani, se costoro avessero letto quei brevi passi. Il poeta Yanay, vissuto in terra d'Israele nel V o forse VI secolo, compose un acrostico anticristiano che era una satira feroce 'di coloro che dicono ai perversi salva/ che scelgono l'idolo abominevole/... che si rivolgono al sospeso sino all'alba' e via di seguito" (p.56).
   Contrariamente a quello che forse ci si poteva aspettare, Gershom non sembra affatto interessato ad ascoltare simili denigrazioni di Gesù. "Basta, basta - risponde - queste cose abominevoli non si possono proprio sentire, del resto ti avevo solo chiesto di spiegarmi che cosa è Gesù per gli ebrei, non cosa è per gli stolti" (p.57).
   In uno dei giorni seguenti, dopo un'altra lettura dello stesso tipo, Gershom comincia a dare segni d'insofferenza, e a Shemuel che gli fa notare la conoscenza storica degli autori da lui citati, risponde:
   "Ma quale conoscenza, qui non c'è nessuna conoscenza, a parte forse qualche brutto stereotipo, roba da pescivendoli al mercato. II frasario di quegli ebrei che disprezzavano così Gesù e i suoi seguaci assomigliava in tutto e per tutto agli abominii di antisemiti d'ogni sorta quando infangano gli ebrei e l'ebraismo. Ma che senso ha discutere con Gesù il Nazareno? - concluse tristemente Wald -, l'uomo deve elevarsi un pochetto, non scendere nella fogna. Invero è lecito, certo che è lecito financo ragionevole, discutere con Gesù, ad esempio, sulla questione dell'amore universale: è davvero ammissibile questa cosa che tutti noi senza alcuna eccezione possiamo amare sempre tutti senza eccezione? Davvero Gesù stesso ha sempre amato tutti? Ha davvero amato, ad esempio, i cambiavalute alle porte del Tempio, mentre lo prendeva quella rabbia, saltava su e capovolgeva furiosamente i loro banchetti? O quando dichiara 'non sono venuto a portare la pace in terra ma la spada' - non è che in quel momento si era scordato il precetto dell'amore universale e quello di porgere l'altra guancia? O anche quando ordina ai suoi apostoli di essere 'astuti come serpenti e candidi come colombe'? E soprattutto laggiù, secondo Luca, quando ordina che i nemici che si sono rifiutati di accogliere il suo regno siano condotti al suo cospetto e uccisi sotto i suoi occhi? Dove era finito, in quel momento, il comandamento di amare anche - e soprattutto - i nostri nemici? Del resto, chi ama tutti non ama nessuno, in fondo. Già. Ecco, così sì che è lecito discutere con Gesù il Nazareno. Così e non con ingiurie da fogna" (p.80).
   Poi aggiunge: "Quegli ebrei lì, se solo avessero avuto la possibilità e il potere, di sicuro avrebbero perseguitato i seguaci di Gesù e li avrebbero tormentati non meno di quanto i cristiani nemici d'Israele abbiano fatto con gli ebrei" (p.80).
   Di qui si riconosce che Wald è un ebreo laico integrale: a lui non interessano le diatribe teologiche sulla divinità di Gesù, il suo concepimento virginale, la sua risurrezione dai morti e altri temi che fanno accanire i religiosi gli uni contro gli altri, ebrei o cristiani che siano, i quali alla fine dimostrano di essere soltanto avidi di potere. A lui interessa il sublime messaggio d'amore di Gesù, che però non manca di lasciargli aperti molti interrogativi. Alla fine arriva a dire a Shemuel: "Anche il tuo Gesù era un grande sognatore, forse il più grande sognatore di tutti i tempi" (p.153). La valutazione dunque è positiva, ma subito dopo aggiunge: "Ma i suoi discepoli no. Loro erano avidi di potere e hanno fatto la fine di tutti i loro simili del mondo: sono diventati dei macellai." Niente di originale dunque: come tanti altri laici illuminati, Gershom parla bene di Gesù e male dei suoi discepoli. Dal punto di vista morale soltanto, naturalmente, tutto il resto non conta.
  Wald però definisce meglio il suo pensiero con una precisazione aggiuntiva: "Ti dico anche che malgrado tutto quello che ho detto prima, beati i sognatori e sventurati coloro che hanno gli occhi aperti. I primi non ci salveranno di certo, né noi né i loro discepoli, ma senza sogni e senza sognatori la maledizione peserebbe mille volte di più. È per merito dei sognatori se anche noi, i disincantati, siamo un po' meno di pietra e disperati di quanto saremmo senza di loro" (p.153).
   Ecco dunque, secondo l'ebreo laico Gershom Wald, il ruolo positivo dei sognatori come Gesù: produrre palliativi ideologici che non liberano nessuno, non risolvono niente, ma servono almeno a lenire le sofferenze prodotte dalla dura realtà.
   
- PERCHÉ GLI EBREI HANNO RESPINTO GESÙ?
  Mentre a Gershom la figura di Gesù pone domande sulla possibilità dell'amore universale, gli interrogativi di Shemuel sono un po' diversi. Un giorno decide di parlarne ad Atalia.
   "Non ho difficoltà a capire come mai gli ebrei hanno respinto il cristianesimo
- spiega alla vedova. - Ma Gesù non era affatto un cristiano. Gesù è nato ebreo e da ebreo è morto. Non ha mai pensato di fondare una nuova religione. E' stato Paolo, cioè Shaul di Tarso, a inventare il cristianesimo. Gesù per parte sua ha esplicitamente detto: 'Non sono venuto per cambiare nulla della Torah'" (p.129).
  Anche qui niente di originale. Per alcuni, dire che è stato Saulo di Tarso a inventare la religione cristiana è come, per altri, dire che sono stati gli ebrei a provocare la Prima guerra mondiale: due cose evidenti, che non hanno alcun bisogno di dimostrazione. Shemuel però aggiunge qualcosa di più personale: "Se gli ebrei l'avessero accolto (Gesù), tutta la storia sarebbe stata completamente diversa. La chiesa non sarebbe mai esistita. E forse l'Europa intera avrebbe accolto una forma di ebraismo ammorbidito e distillato. E così ci saremmo risparmiati la Diaspora, le persecuzioni, i pogrom, l'Inquisizione, i massacri, le espulsioni e pure la Shoah" (p.129).
  L'interrogativo di Shemuel dunque è scottante, ma anche un po' imbarazzante per un ebreo, perché alla fine arriva a dire, anche lui, che tutti i mali dell'Europa, persecuzioni, pogrom, inquisizione, massacri, espulsioni, Shoah sono colpa degli ebrei, perché se avessero accolto Gesù, non come Dio, certo, e neppure come Figlio di Dio, ma come portatore del suo "messaggio dell'amore universale, del perdono e della pietà e della bontà" (p. 131), tutti questi guai non sarebbero piovuti addosso a loro. E neppure a noi.
  Shemuel però non pensa a questo; l'interrogativo che lo tormenta è sempre lo stesso: perché gli ebrei non hanno accolto Gesù? "È proprio questa la domanda che mi pongo - dice ad Atalia - , e ancora non ho trovato risposta. Visto in una prospettiva contemporanea, lui era una specie di ebreo riformato. O neanche riformato, piuttosto fondamentalista, non nel senso di fanatico, piuttosto in quello di ritorno alle radici pure, ai fondamentali. Aspirava a depurare la fede ebraica di tutte le ridondanze rituali che si erano accumulate, di tutte le scorie che il sacerdozio aveva prodotto e i farisei moltiplicato. È naturale che i sacerdoti abbiano visto in lui un nemico" (p.129).
  Qui si potrebbe pensare che Shemuel dia la risposta tradizionale, cioè che sacerdoti e farisei, impauriti dalle agitazioni di popolo e invidiosi del prestigio ottenuto da Gesù, decisero di fare fuori il molesto sovvertitore dell'ordine pubblico. Invece no. La tesi esplicativa di Shemuel è un'altra, davvero originale, mai sentito nulla di simile in vita mia.

- MA GLI EBREI NON HANNO RESPINTO GESÙ
   Anche Shemuel, come Gershom, ha una grande ammirazione per Gesù, per il suo "messaggio dell'amore universale, del perdono e della pietà e della bontà" (p.131), tanto che Atalia gli chiede: sei cristiano? "Sono ateo - risponde Shemuel - il piccolo Yossi Siton, tre anni e mezzo, investito e ucciso ieri mentre correva dietro alla sua palla verde, non lontano di qui, in via Gaza, è dimostrazione sufficiente del fatto che Dio non esiste. Non credo neanche lontanamente al fatto che Gesù fosse Dio o figlio di Dio. Ma lo amo" (p.131).
  E alla fine Shemuel, continuando a scrivere nel suo lavoro di tesi, arriva a spiegare, soprattutto a se stesso, come mai sia potuto accadere che Gesù è finito in croce.
  Le cose sono andate così.
  In quel tempo i sacerdoti e i farisei facevano ben attenzione a monitorare i movimenti dei fanatici che si presentavano come il Messia o come un suo annunciatore, e naturalmente avevano agito così anche nel caso di Gesù. Alla fine però si erano convinti che Gesù non era pericoloso e quindi non valeva la pena di stare a contrastarlo, tanto prima o poi il fuoco si sarebbe spento da solo, come in tanti altri casi.
  All'inizio, certo, avevano mandato qualcuno a spiarlo, perché così richiedeva il protocollo che si usava seguire in questi casi, ma il fatto singolare è che la spia da loro incaricata era proprio Giuda Iscariota, il quale quindi in un primo momento entra in gioco non come discepolo di Gesù, ma come inviato dell'establishement sacerdotale.
  Giuda comincia regolarmente il suo lavoro di spia per conto dei sacerdoti, ma poi accade un fatto del tutto inaspettato.
  "A questo punto si verifica una svolta sorprendente nel corso degli eventi. L'uomo che era stato mandato dai sacerdoti di Gerusalemme a spiare il visionario di Galilea, a smascherarlo, divenne un fervido adepto. La personalità di Gesù, l'amore caldo e travolgente che emanava intorno a sé, quel miscuglio di semplicità, umiltà, empatia, intimità con cui ogni essere umano,
la frase è monca, non sta in piedi
unito allo slancio morale, alla grandezza della visione, alla penetrante bellezza delle parabole che Gesù usava, e il fascino della sua strabiliante novella, tutto ciò trasforma quell'uomo razionale, lucido e scettico venuto dalla città di Keriot in un fervente seguace del Salvatore e del suo messaggio. Giuda Iscariota si trasforma così in un discepolo convinto fino alla morte del Nazareno [...]
  Giuda Iscariota è diventato Giuda il cristiano. Il più entusiasta degli apostoli. Di più: è stato il primo uomo al mondo ad aver creduto con un atto di fede alla divinità di Gesù. A credere nella sua onnipotenza. A credere nel fatto che presto tutti gli uomini da un capo all' altro del mondo avrebbero visto la luce e la redenzione sarebbe arrivata" [...]
  Per qualche ragione, Giuda, che era un uomo di mondo e se ne intendeva non poco in fatto di quelle che oggi si chiamano pubbliche relazioni e ripercussioni sociali, decise che Gesù doveva abbandonare la Galilea e salire a Gerusaleme. Che doveva conquistare la regina, cioè Gerusalemme. Di fronte a tutto il popolo e sotto gli occhi del mondo intero, doveva operare un prodigio quale non si era mai visto da che il Signore aveva creato il cielo e la terra. Gesù che aveva camminato sulle acque del mare di Galilea, Gesù che aveva resuscitato dalla morte la bambina e Lazzaro, Gesù che aveva trasformato l'acqua in vino e aveva cacciato i demoni e guarito i malati con il contatto della sua mano e dell'orlo della sua veste, doveva essere crocifisso sotto gli occhi di tutta Gerusalemme. E sotto gli occhi di tutta Gerusalemme si sarebbe liberato e sarebbe sceso vivo e vegeto dalla croce, presentandosi sano e salvo in piedi per terra, davanti alla croce. Tutto il mondo, dai sacerdoti ai più umili contadini, romani e idumei ed ellenizzanti, farisei e sadducei ed esseni, samaritani, ricchi e poveri, centinaia di migliaia di pellegrini saliti a Gerusalemme da tutto il paese e anche dai paesi vicini in occasione della festa di Pasqua: tutti sarebbero caduti in ginocchio, nella polvere. Con ciò sarebbe cominciato il Regno dei Cieli. A Gerusalemme. Di fronte al popolo e al mondo. E precisamente il venerdì prima della festa di Pasqua. In occasione del raduno più grande. Ma Gesù era molto incerto se seguire il consiglio di Giuda e salire a Gerusalemme. Nel profondo del suo cuore di bambino, da sempre il dubbio lo rodeva: sono proprio io l'uomo? Sono davvero io l'uomo? [...]
  "Giuda non si arrese: sei tu l'uomo. Tu sei il Salvatore. Tu sei figlio di Dio, tu sei Dio. Tu sei destinato a salvare l'umanità. Dal cielo ti è stato ordinato di andare a Gerusalemme e compiervi i tuoi miracoli, tu farai a Gerusalemme il miracolo più grande di tutti, scenderai vivo e vegeto dalla croce, e tutta Gerusalemme cadrà ai tuoi piedi. Roma stessa cadrà ai tuoi piedi. Il giorno della tua crocifissione sarà il giorno della redenzione universale. È l'ultima prova cui tuo padre che è nei cieli ti sottopone, tu la affronterai perché sei il nostro Salvatore. Dopo questa prova comincerà l'era del riscatto dell'umanità. Quel giorno stesso arriverà il Regno dei Cieli"
(p.165-167).
   I sacerdoti, scrive Shemuel nei suoi appunti, avevano capito che Gesù, come tanti altri prima di lui, non era pericoloso, e anche Pilato aveva ben poca voglia di fare un'altra crocifissione, ma alla fine per pigrizia si lasciò convincere, tanto una crocifissione in più o una in meno non faceva molta differenza. Non è a loro quindi che si deve la morte di Gesù. L'unico, vero ideatore della crocifissione è un altro, e alla fine Shemuel lo presenta.
  "Giuda Iscariota è l'ideatore, l'organizzatore, il regista e il produttore del dramma della crocifissione. In questo avevano ragione tutti coloro che in ogni tempo l'hanno disprezzato e vituperato. Forse avevano ancor più ragione di quanto non pensassero. Ma per tutto il tempo in cui Gesù agonizzò sulla croce fra i tormenti, ora dopo ora sotto il sole cocente, con il sangue che colava dalle ferite e le mosche che vi volavano sopra, anche quando gli diedero dell'aceto da bere, la fede di Giuda non vacillò nemmeno per un momento: ecco, ecco che viene. Ecco che Dio sorgerà dalla croce e scrollerà via i chiodi e scenderà dalla croce e dirà a tutto il popolo prostrato faccia a terra, attonito: amatevi gli uni con gli altri.
  "E Gesù? Mentre andava morendo sulla croce, nell'ora nona, l'ora in cui la gente lo prese in giro gridando Salva te stesso se puoi e scendi dalla croce (Marco 15,30), ancora lo rodeva il dubbio: sono io l'uomo? Ciononostante, tentò forse ancora, nei suoi ultimi istanti, di tener fede alla promessa di Giuda. Con le poche forze che gli restavano tirò le mani e i piedi inchiodati alla croce, tirò e si torturò, tirò e urlò di dolore, tirò e invocò suo Padre ch'è nei cieli, tirò e morì con sulle labbra le parole tratte dal libro dei Salmi, 'Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato' (22,1). Queste parole potevano affiorare solo alle labbra di un uomo morente che crede, o cerca di credere che Dio possa effettivamente aiutarlo a strappare via i chiodi, produrre un miracolo e scendere sano e salvo dalla croce. Con queste parole Gesù morì dissanguato come un uomo comune, come chi è fatto di carne e sangue.
  "E Giuda, il cui scopo e senso della vita si infransero sotto i suoi occhi sgomenti, Giuda che capì di aver causato con le proprie mani la morte dell'uomo che più amava e ammirava, se ne andò a impiccarsi. Così, così morì il primo cristiano. L'ultimo cristiano. L'unico cristiano.
"
  
 
Nelle interviste che tu Amos hai rilasciato per illustrare il tuo libro, hai più volte ripetuto (e in questo hai ragione) che molti cristiani hanno fatto di Giuda il prototipo dell'ebreo infido e traditore. Sei andato anche oltre: hai detto addirittura che Giuda è la Cernobyl dell'antisemitismo. Secondo la tua schematizzazione, i cristiani in sostanza direbbero questo: Gesù è il primo cristiano che muore per il tradimento dell'ebreo Giuda; tu rovesci abilmente le cose e dici: Giuda è il primo cristiano che con la sua teologia provoca la morte dell'ebreo Gesù. Giuda è il vostro cristiano, Gesù è il nostro ebreo. Complimenti! Una mossa da maestro. Ma con questo restiamo nel campo di un gioco come quello degli scacchi, e non è certo il caso di continuare la partita.
  Il Gesù di Oz è una derisione del Gesù dei Vangeli.
  Ma non temere, non ti succederà nulla. Al massimo, se ti capitasse di passare dalle parti del Vaticano, potrebbe arrivarti un pugno. Niente di più. Ma da parte mia comunque non avresti nemmeno quello. Come tanti altri credenti in Cristo, quello che tu dici su Gesù non offende me, ma piuttosto mi rende dispiaciuto per te.
  Visto che hai letto i Vangeli, certamente saprai che lo scherno è parte integrante della sofferenza di Gesù: uno scherno che non è mai cessato di esserci e oggi anzi sta aumentando. Penso che avrai letto anche il libro degli Atti e avrai visto che cosa è capitato a Saulo di Tarso, quello che avrebbe inventato il cristianesimo:
    "Saulo, sempre spirante minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote, e gli chiese delle lettere per le sinagoghe di Damasco affinché, se avesse trovato dei seguaci della Via, uomini e donne, li potesse condurre legati a Gerusalemme. E durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che, d'improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Egli domandò: «Chi sei, Signore?» E il Signore: «Io sono Gesù, che tu perseguiti. Àlzati, entra nella città e ti sarà detto quello che devi fare». (Atti 9:1-6)
  Il tuo libro comunque ha un merito: aver riportato al centro dell'attenzione, anche in un tema che sembra esserne lontano come il sionismo, la persona di Gesù.
  Varrà la pena di continuare a parlarne.
  Shalom,
  Marcello
fine 3a puntata - continua
puntate precedenti


(Notizie su Israele, 8 febbraio 2015)


La professoressa è ebrea, sulla lavagna una svastica: bufera a scuola

AI liceo musicale. La denuncia:«Nessuna solidarietà dalla preside»

di Enrica Buongiorno

 
Angela Amato
 
NAPOLI - Una gigantesca svastica sulla lavagna. Scoperta shock al liceo «Margherita di Savoia» di Napoli. La notizia rimbalza in rete nella serata di ieri grazie ad un tweet di Mario Coppeto, presidente della Municipalità Vomero Arenella che scrive: «Grave atto antisemita al Margherita di Savoia contro una professoressa musicista della comunità ebraica».
   La docente in questione è Angela Yael Amato, violinista, la stessa a fare la scoperta della svastica due giorni fa, entrando in classe. «Non era mai accaduta una cosa del genere, mai si erano verificati episodi di razzismo. In realtà avevo notato atteggiamenti scostanti di alcuni studenti anni fa quando organizzammo la giornata sulla Shoah a scuola. In quest'occasione mi sarei aspettata un'immediata denuncia da parte della preside, invece la svastica è stata subito cancellata dalla lavagna senza che sia stato preso poi alcun provvedimento».
   I vandali-razzisti hanno disegnato accanto alla svastica anche un violino proprio per indirizzare un messaggio chiaro alla docente, oltre ad aver sfasciato il sediolino del pianoforte. Intanto, sul sito internet del liceo musicale di Salita Pontecorvo (centro storico nei pressi di piazza Dante) non compare alcunché.
   «La professoressa mi ha chiamato al telefono spiegandomi l'accaduto e chiedendomi sostegno per organizzare una giornata con gli studenti sul tema dell'antisemitismo - spiega Coppeto - del resto, soltanto domenica scorsa, Angela Amato aveva tenuto un concerto nella sala Silvia Ruotolo della Municipalità Vomero Arenella. Scrivere il tweet e postarlo poi su Facebook mi è parsa la cosa migliore da fare affinché tutti sapessero dell'accaduto».
   L'episodio è stato segnalato anche al sindaco De Magistris per coinvolgerlo nell'organizzazione della giornata della Shoa aliceo. «Facciamo tante cose per sensibilizzare la cittadinanza e i ragazzi sul delicato tema dell'antisemitismo - aggiunge Mario Coppeto, anche componente nazionale di Sinistra ecologia e libertà - e giustificare l'accaduto definendolo una bravata è profondamente sbagliato e significa non aver fatto bene il proprio lavoro come comunità educante».
   Si potrebbe pensare ad una recrudescenza di intolleranze razziali dopo i fatti di Charlie Hebdo. «Se così fosse, allora a maggior ragione questi fatti non vanno taciuti ma stigmatizzati».

(Il Mattino, 8 febbraio 2015)


Come reinventare lo jiddisch perduto

di Luigi Reitani

In misura corrispondente ai cambiamenti in atto nella società tedesca, anche la letteratura della Germania è sempre più multiculturale e presenta trale sue file numerosi scrittori con radici all'estero. È questo il caso di Katja Petrowskaja, nata nel 1970 nella sovietica Kiev, che dopo gli studi in letteratura a Tartu e a Mosca alla fine degli anni Novanta ha deciso di trasferirsi a Berlino. La sua opera prima Forse Esther, con la quale nel 2013 ha vinto il "Premio Ingeborg Bachmann", è ora proposta nelle edizioni Adelphi, che mettono così fine a una lunga diffidenza verso la narrativa contemporanea di lingua tedesca, se si considera che l'ultimo autore da loro pubblicato è stato W.G. Sebald.
È proprio alla poetica di Sebald l'autrice sembra riallacciarsi, mettendo al centro del suo libro non tanto la storia, intesa come insieme di eventi oggettivamente documentabili, ma la memoria, ovvero il tormentato lavoro di scavo nel passato, spesso sulla base di labili tracce, che non portano a una ricostruzione certa, ma solo a «fantasie di avvicinamento». Della sua bisnonna, ad esempio, la narratrice ignora persino il nome preciso. Ma questa figura, chiamata con affettuosa ironia Forse Esther, è ritratta nel suo stentato aggirarsi nelle strade di Kiev dopo l'occupazione tedesca, ligia al comando impartito a tutti gli ebrei di presentarsi a un appuntamento che li condurrà al massacro (si tratta del famigerato eccidio di Babji Iar, di cui parla anche Littel nelle Benevole). Il romanzo familiare della Shoah è certo un genere molto diffuso, ma Petrowskaja riesce a reinventarlo insistendo sul carattere di viaggio dei suoi racconti, con una freschezza linguistica sorprendente, quasi volesse ridare una nuova vita allo jiddisch per sempre perduto dei suoi antenati, o forse insegnare ai tedeschi (in russo, i "muti") a parlare, come da generazioni appunto la sua famiglia, fondatrice di scuole per sordomuti.

Katja Petrowkaja, Forse Esther, traduzione di Ada Vigliani, Adelphi, Milano, pagg. 241, € 18,00

(Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2015)


Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»

Nei nuovi «Quaderni neri» del filosofo l'interpretazione choc della Shoah.

di Donatella Di Cesare

Due pagine con le note scritte di suo pugno da Martin Heidegger dal 1931 al 1969.
La Shoah è «l'autoannientamento degli ebrei». Questa tesi di Heidegger affiora nel nuovo volume dei Quaderni neri, curato da Peter Trawny, che sta per essere pubblicato in Germania dall'editore Klostermann (Gesamtausgabe 97, Anmerkungen I-V). Si tratta delle Note risalenti al periodo cruciale che va dal 1942 al 1948. Fa parte del volume, di 560 pagine, anche il quaderno del 1945/46, che sembrava fosse andato perduto e che è stato recuperato la scorsa primavera.
   Gli ultimi anni del conflitto planetario, la sconfitta della Germania, la presenza delle forze alleate sul suolo tedesco sono gli eventi che fanno da sfondo a quella che, anche altrove, Heidegger chiama «storia dell'Essere», il cammino della filosofia in grado di aprire un varco per la salvezza dell'Occidente. Dopo il 1945 il cammino non si interrompe, ma si ripiega su di sé, fra tornanti e vie traverse. Heidegger non smette di cercare l'«altro inizio», l'alba dell'Europa, sebbene orientarsi sia divenuto quasi impossibile. Le macerie della Germania attestano, senza equivoci, il fallimento della missione affidata al popolo tedesco. Insieme a questo naufragio epocale Heidegger vive anche il proprio tracollo accademico: l'ex rettore di Friburgo nel 1946 viene interdetto dall'insegnamento.
   Il volume 97 dei Quaderni neri offre, dunque, una prospettiva inedita sul pensiero di Heidegger. Tanto più che, come quelli già pubblicati, coniuga riflessione filosofica e analisi puntuale degli avvenimenti storici.
   Ma questo volume è destinato a lasciare il segno soprattutto perché cancella un luogo comune della filosofia del Novecento: il «silenzio di Heidegger» dopo Auschwitz. Se gli ebrei hanno un ruolo di primo piano nei precedenti Quaderni neri, che vanno dal 1931 al 1941, se la «questione ebraica» è strettamente connessa alla questione dell'essere — come ho cercato di mostrare nel mio libro recente — non può sorprendere che Heidegger parli della Shoah e la consideri sia sotto l'aspetto filosofico sia sotto quello politico.
   Selbstvernichtung, autoannientamento è la parola chiave: gli ebrei si sarebbero autoannientati. Nessuno potrebbe allora essere chiamato in causa, se non gli ebrei stessi. Già nei quaderni del 1940 e del 1941, quando viene avanzata l'esigenza di una «purificazione dell'Essere», fa la sua inquietante comparsa il termine «autoannientamento».
   La quarta parte dei Quaderni neri di Martin Heidegger (1889-1976), di cui Donatella Di Cesare anticipa i contenuti più scottanti in questo articolo, comprende le note scritte dal filosofo nel periodo dal 1942 al 1948. Sta per pubblicare questo materiale, a cura di Peter Trawny, l'editore tedesco Klostermann, come volume 97 delle Opere complete (Gesamtausgabe) di Heidegger
   Rigoroso e coerente, Heidegger non fa che trarre la conclusione da tutto quel che ha detto in precedenza. Gli ebrei sono gli agenti della modernità; ne hanno diffuso i mali. Hanno deturpato lo «spirito» dell'Occidente, minandolo dall'interno. Complici della metafisica, hanno portato ovunque l'accelerazione della tecnica. L'accusa non potrebbe essere più grave.
   Solo la Germania, grazie alla ferrea coesione del suo popolo, avrebbe potuto arginare gli effetti devastanti della tecnica. Ecco perché il conflitto planetario è stato anzitutto la guerra dei tedeschi contro gli ebrei. Se questi ultimi sono stati annientati nei lager, è per via di quel dispositivo, di quell'ingranaggio che, complottando per il dominio del mondo, hanno ovunque promosso e favorito. Il nesso fra tecnica e Shoah non deve sfuggire. Ed è proprio Heidegger ad avervi fatto allusione altrove. Che cos'è infatti Auschwitz se non l'industrializzazione della morte, la «fabbricazione dei cadaveri»?
   In linea con il suo antisemitismo metafisico, Heidegger vede dunque nello sterminio un «autoannientamento». La Judenschaft, la «comunità degli ebrei» — scrive nel 1942 — «è nell'epoca dell'Occidente cristiano, cioè della metafisica, il principio di distruzione». Poco più avanti aggiunge: «Solo quando quel che è essenzialmente "ebraico", in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico, viene raggiunto il culmine dell'autoannientamento nella storia».
   La Shoah avrebbe allora un ruolo decisivo nella storia dell'Essere, perché coinciderebbe con il «sommo compimento della tecnica» che, dopo aver usurato ogni cosa, consuma se stessa. In tal senso lo sterminio degli ebrei rappresenterebbe quel momento apocalittico in cui ciò che distrugge finisce per autodistruggersi. Culmine «dell'autoannientamento nella storia», la Shoah rende quindi possibile la «purificazione dell'Essere».
   Ma si raggiunge questo culmine? Si autoannienta l'ebraismo mondiale ad Auschwitz? Al termine non dovrebbero esserci vincitori e vinti — categorie ancora metafisiche. Piuttosto l'Ebreo è la fine che deve semplicemente finire; solo così può emergere l'«altro inizio» e intravedersi il nuovo mattino europeo.
   Quando Heidegger scrive, nel 1942, le officine hitleriane della morte funzionano a ritmo serrato. Eppure, dopo la guerra, il «culmine dell'autoannientamento» non sembra raggiunto. Gli agenti della macchinazione — malgrado i milioni di morti — potrebbero persino apparire vittoriosi. Allora costituirebbero un pericolo immane per i tedeschi, perché li trascinerebbero nel loro «ingranaggio di morte».
   Dopo il 1945 Heidegger osserva: gli «elementi estranei» continuano a deturpare la «nostra defraudata essenza». E si interroga sui tedeschi, sulla «facilità con cui si lasciano sedurre dagli stranieri», sulla loro «incapacità politica», sulla «radicalità con cui compiono anche gli errori più eclatanti».
   In fondo la posizione di Heidegger non è dissimile da quella di Carl Schmitt e di molti altri tedeschi che si sentono sconfitti, ma solo militarmente e solo in forma temporanea. Gli ebrei, eliminati dal corpo della nazione, vengono avvertiti come una presenza spettrale e ingombrante.
   Nel volume 97 dei Quaderni neri compare, a questo proposito, una lunga annotazione di Heidegger che farà certo discutere. L'occasione è offerta dai volantini distribuiti alla popolazione tedesca dal comando alleato, nei quali, sotto le foto dei lager liberati, è scritto: «Queste azioni infami sono colpa vostra!».
   Heidegger replica: «Il mancato riconoscimento di questo destino (il destino del popolo tedesco), l'averci repressi nel nostro volere il mondo, non sarebbe forse, una "colpa", e una "colpa collettiva" ancor più essenziale, la cui enormità non può essere misurata all'orrore delle "camere a gas", una colpa più terribile di tutti i "crimini" ufficialmente "stigmatizzabili", della quale nessuno si scuserà nel futuro? Si intuisce già ora che il popolo e la terra tedeschi non sono che un solo campo di concentramento (ein einziges Kz) — quale il mondo non ha ancora visto e che il mondo non vuole vedere — un non-volere ben più volente e consenziente della nostra assenza di volontà verso l'inselvatichirsi del nazionalsocialismo».
   Gli alleati non hanno compreso la missione dei tedeschi e li hanno fermati nel loro progetto planetario. Questo crimine sarebbe ben più grave di tutti gli altri crimini, questa colpa non avrebbe termini di paragone, neppure con le «camere a gas» (espressione inserita tra virgolette!). Per la storia dell'Essere il vero incommensurabile misfatto è quello compiuto contro il popolo tedesco che avrebbe dovuto salvare l'Occidente.
   Ma Heidegger non crede che sia tutto finito — proprio perché il «culmine dell'autoannientamento» non è stato raggiunto. C'è ancora un futuro per la Germania, e per l'Europa guidata dal popolo tedesco. Si moltiplicano allora gli interrogativi. Heidegger pensava a un Quarto Reich? E perché, a metà degli anni Settanta, ha progettato la pubblicazione dei Quaderni neri? Che cosa si aspettava dall'Europa in cui noi oggi viviamo?
   Certo sarebbe semplice — come sembra suggerire Emanuele Severino — lasciare da parte i Quaderni neri. Ma a vietarlo è lo stesso Heidegger. Qui non si tratta infatti di documenti storici (come nel caso aperto decenni fa da Victor Farías), bensì degli scritti stessi del filosofo, strettamente connessi con il resto della sua opera. Si può capire allora l'esigenza di rileggere ad esempio Essere e tempo — come ha fatto al convegno di Parigi il giovane filosofo israeliano Cédric Cohen-Skalli, paragonando Heidegger a Walter Benjamin. Il che non vuol dire, come pretenderebbero alcuni, proscrivere o bandire Heidegger, ma confrontarsi con la complessità della sua riflessione in modo aperto e critico. Sarebbe questa forse, per la filosofia, l'occasione per pensare nella sua profondità abissale la Shoah.

(Corriere della Sera, 8 febbraio 2015)


Israele, parla Jennifer: «Io, nipote nera del nazista Amon Goeth»

Jennifer Teege
TEL AVIV - Jennifer Teege ne è sicura: il nonno avrebbe sicuramente sparato anche a lei. Così come faceva con gli ebrei prendendoli di mira ogni mattina dalla veranda di casa che sovrastava il campo di concentramento di Plaszow in Polonia.
   Per il semplice fatto che anche lei come nera, per il nonno, come gli ebrei apparteneva ad una razza inferiore. Una caratteristica dunque imperdonabile agli occhi del progenitore: il macellaio Amon Goeth, l'SS direttore del campo interpretato da Ralph Fiennes in `Schindler's List' di Steven Spielberg.
   Una vicenda incredibile quella della Teege, nipote di Goeth che, dopo aver scoperto il passato nazista della sua famiglia materna, ha trovato il coraggio, dopo anni di psicoanalisi, di raccontarne la storia in un libro in arrivo alla `Fiera internazionale' di Gerusalemme, in programma dall'8 al 12 febbraio.
Teege, nata a Monaco in Germania nel 1970, è frutto della relazione fugace tra un nigeriano e Monika, a sua volta figlia di Amon Goeth e Irene Kalder, una impiegata della Wehrmacht che divenne durante la guerra l'amante dell'assassinio di Plaszow.
   A presentare Kalder a Goeth fu lo stesso Oskar Schindler bisognoso di avere buoni rapporti con il nazista in modo da ottenere lavoratori ebrei per la sua azienda e salvarli. Goeth era già sposato in Austria ma questo non gli impedì di fare di Irene Kalder la sua vera compagna: i due vivevano insieme nel lusso più sfarzoso nella casa che sovrastava il campo di concentramento dove morirono 8.000 ebrei.
Si sarebbero anche sposati ma l'arrivo dei sovietici mise fine ai progetti. Goeth fu portato in giudizio: ritenuto responsabile della morte degli ebrei di Plaszov e di altri 2.000 uccisi nell'evacuazione del Ghetto di Cracovia (quello in cui nel film di Spielberg c'è la bambina dal capottino rosso), fu condannato a morte e impiccato nel 1946.
   Le sue ultime parole furono, `Heil Hitler'. Irene e Monika Goeth sopravvissero. Sessantadue anni dopo, nel 2008, Jennifer Teege - che poco dopo la nascita fu data in adozione ad una altra famiglia, senza però perdere fino ai sette anni la relazione con quella biologica - scoprì casualmente in una biblioteca ad Amburgo un libro che aveva come copertina la foto della madre e di cui ignorava l'esistenza. In quel libro Monika raccontava della madre Irene e del padre Amon Goeth.
   Per Teege fu un fulmine a ciel sereno: «il primo shock fu quello - ha raccontato ad Haaretz - di apprendere da un libro la storia, che mi era stata nascosta, della mia famiglia biologica. Il secondo furono le informazioni su mio nonno». Ma c'è di più: senza saper nulla di questo passato, Teege ha vissuto dal 1990 al 1995 in Israele dove ha appreso l'ebraico, ha molti amici e ha lavorato tra l'altro al Goethe Institut. E lì spesso - ha ricordato - venivano sopravvissuti alla Shoah con il numero impresso sul braccio.
   Jennifer Teege ha detto oggi di aver voluto con forza che il suo libro (uscito nel 2013 in Germania) fosse tradotto in ebraico per far conoscere la sua storia e «di attendere ora con impazienza come sarà accolto». Non a caso il libro si intitola: `Amon. Mio nonno mi avrebbe sparato'.

(Il Secolo XIX, 8 febbraio 2015)


Nasce Yakar, il Centro di Studi di Etica e Diritto commerciale ebraico

 
Di fronte alla complessità del mercato finanziario ed assicurativo che vede sempre di più l'importanza dei fattori ETICI e RELIGIOSI a supporto delle scelte economiche e di ripartizione dei RISCHI, l'Associazione Culturale Ebraica YAKAR propone un ciclo di lezioni sull'impatto dei principi del diritto ebraico nel settore finanziario ed assicurativo.
   L'iniziativa si pone il duplice obiettivo: da una parte di fare conoscere agli operatori economici di reli-gione EBRAICA ed agli studenti universitari delle facoltà di Economia e Giurisprudenza i principi in materia di economia e finanza ribaditi all'interno dei testi ebraici (Talmud, Mishnà). Questo aspetto è effettuato sotto la Direzione accademica del Rav Umberto PIPERNO.
   Dall'altra parte l'iniziativa ha l'obiettivo di correlare tali principi di carattere giuridico/religioso ebraico con la specifica problematica di RISCHIO connessa all'applicazione dei suddetti all'ambito finanziario ed assicurativo. Questo aspetto è effettuato sotto la Direzione accademica del Prof. Luigi PASTORELLI.
   L'iniziativa verrà presentata il giorno martedì 10 febbraio alle ore 17.30 presso il Collegio Lombardo Periti Esperti & Consulenti in Corso Vittorio Emanuele II no 30 a Milano al 3o Piano.
Prenotazione obbligatoria: schultz@schultzrisk.com
Tel. Rav Piperno 380.3032983
Tel. Prof. Pastorelli 340.8050776
Sede delle lezioni: Collegio Periti Esperti & Consulenti Corso Vittorio Emanuele II, no 30, Milano

(Kolot, 8 febbraio 2015)


Come i media ingannano l'opinione pubblica su Israele

La tecnica è consolidata e collaudata: in tempo di guerra, prima si riporta la reazione israeliana, enfatizzandola, e più avanti, quando l'attenzione del lettore si appanna, si cita frettolosamente la causa scatenante; solitamente, l'aggressione da parte palestinese. Oppure: si tace sulle vittime - spesso civili - israeliane, e si versano lacrime di coccodrillo per i poveri terroristi, rei di agguati, aggressioni e lesioni gravi.
Dopotutto, sotto la prospettiva del jihad questa tecnica è comprensibile: tutto il mondo è waqf, proprietà islamica, e un buon musulmano ha il dovere di esercitare qualunque mezzo per ricondurla al legittimo proprietario; anche se quella terra è stata occupata diversi secoli addietro. Vale per Israele come vale per l'Andalusia spagnola, la Sicilia, l'Armenia, l'India. E chi aggredisce non è mai colpevole; anzi, è meritevole di encomio, perché elemento di una guerra difensiva, giusta e legittima. Mentre chi subisce l'aggressione deve soccombere perché rappresenta un'aggressione nei confronti di Allah.
Comprensibile come la tecnica del jihad venga coniugata quotidianamente dall'Islam più violento. Meno comprensibile che a questa quotidiana aggressione si prestino i media occidentali. Che risultano talmente parziali, con le loro omissioni e con una titolazione costruita ad arte, da risultare spesso grotteschi. Cosa non si fa, per apparire simpatizzanti nei confronti della "causa palestinese"...

(Il Borghesino, 08 febbraio 2015)


Re Abdallah di Giordania in uniforme da combattimento sfida i terroristi dell'Isis

Pronto all’offensiva

Re Abdallah di Giordania
E' giallo sulla sorte di una donna americana in ostaggio dei terroristi islamici. L'Isis ha annunciato la morte, la cooperante Kayla Jean Mueller, in un raid aereo giordano. Lo scrive su twitter la direttrice del Site Rita Katz. I terroristi riferiscono che la donna "è rimasta uccisa quando un aereo giordano ha colpito l'edificio dove si trovava nel governatorato di Raqqa, in Siria", scrive il Site, il sito di monitoraggio del jihadismo sul web. Al momento "non ci sono prove" che la cooperante americana Kayla Jean Mueller sia rimasta uccisa in un bombardamento dei caccia giordani contro obiettivi jihadisti a Raqqa, nel nord della Siria, hanno detto fonti del Pentagono citate dalla Cnn.
I genitori di Kayla continuano a sperare che sia ancora viva. "Siamo fiduciosi che Kayla sia viva, vi imploriamo di contattarci in privato". E' l'appello rivolto ai leader dello Stato Islamico dal padre e la madre della 26enne, originaria di Prescott in Arizona. I genitori hanno fatto sapere che la giovane è stata rapita in Siria nell'agosto del 2013 e fino ad oggi il suo nome era stato tenuto segreto.
"Sono solidale con il popolo siriano, rifiuto la brutalità e gli omicidi che le autorità siriane stanno commettendo contro i siriani, perché il silenzio significa complicità con questi crimini". Sono le parole della giovane Kayla Jean Mueller, la giovane cooperante sequestrata dall'Isis e morta in Siria, in un video postato nell'ottobre del 2011 quando annunciò la sua partecipazione al 'Syrian sit-in' su youtube, firmandolo dall'Arizona.
Dopo l'esecuzione del tenente giordano Mouath al Kasasbeh, bruciato vivo dai terroristi dell'Isis, la Giordania urla vendetta. A cavalcare l'indignazione è prorpio re Abdallah II, che in una foto si mostra in uniforme da combattimento. Abdallah II ha seguito l'Accademia militare brittannica, sulle orme del padre Hussein. Ed i jet giordani preparano l'attacco all'Isis, con messaggi di morte scritti sulle bombe. Ci sarebbero già alcuni obiettivi colpiti. "Mostreremo loro l'inferno". "Da una coraggiosa pilota giordana a
 
Baghdadi": sono alcuni dei messaggi scritti a mano dai militari di Amman sulle bombe caricate sui caccia prima di lanciare la rappresaglia contro l'Isis. "Non pensiate che Dio sia all'oscuro di quello che i malfattori stanno facendo", recita invece la scritta su un foglio mostrata da un pilota prima del decollo.
C'è anche stato un rafforzamento delle truppe giordane lungo il confine con la regione irachena di Al Anbar, dove è forte la presenza dell'Isis. L'esercito di Amman si è schierato nell'area di Ruwaished, opposta alla città di frontiera irachena di Trebil.

- Dalla Germania cento donne verso la Jihad in Siria e Iraq
  Circa cento donne, la maggior parte tra i 16 e i 27 anni, sono già partite dalla Germania per raggiungere gli jihadisti dello Stato islamico (Isis) e di altre organizzazioni estremistiche in Siria e Iraq. Lo scrive il settimanale Der Spiegel secondo un'anticipazione, citando fonti della sicurezza interna. Stando alle informazioni raccolte, la maggior parte di queste donne hanno seguito i propri mariti nella 'guerra santa'. Ma ci sono anche casi di radicali islamiche partite da sole. Secondo recenti informazioni del ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maiziere, dalla Germania finora sono partiti oltre 600 islamisti per unirsi ai radicali in Medio Oriente.
La strategia della Giordania non è solo quella militare. Il Paese ha rimesso in libertà nelle ultime ore un leader jihadista noto per esser stato il padre spirituale del qaedista Abu Mussab Zarqawi e di aver esplicitamente accusato di miscredenza il regime saudita. Il 55enne Abu Muhammad al Maqdisi, alias Issam Taher al Barqawi, con passaporto giordano ma di origini palestinesi, potrebbe essere usato dalle autorità giordane per rivolgere ai suoi seguaci sermoni anti-Stato islamico. Parlando già ad una tv giordana, Abu Muhammad al Maqdisi ha affermato che la barbara uccisione di Kassasbe "non è accettabile da nessuna fede, da nessun essere umano". Il leader qaedista, già autore di libelli contro la casa reale saudita alleata della Giordania, si è anche presentato come il mediatore chiave nel tentativo di scambio di prigionieri avviato da Amman con l'Isis le settimane scorse. "Quando parlavo con loro (i miliziani dello Stato islamico) mentivano e rimanevano vaghi. Non erano interessanti veramente allo scambio", ha
affermato il 55enne. Sulla nascita lo scorso giugno del cosiddetto Stato islamico guidato dal leader dell'Isis, Abu Bakr al Baghdadi, Maqdisi ha detto che "lo Stato basato sulla legge islamica deve unire e non dividere i musulmani".
Spopola sulla Rete la foto della regina Rania di Giordania ritratta ieri mentre abbraccia una bimba, parente del pilota militare giordano ucciso dallo Stato islamico. L'immagine della regina, con i capelli coperti da un velo bianco, simbolo di lutto, che stringe al petto la bimba, anch'essa velata, è l'icona del dolore attorno al quale si è stretto tutto il regno hascemita per il "martirio" di Kassasbe.

(ANSA, 7 febbraio 2015)


Re in cravatta

Come il sovrano (musulmano) di Giordania
è diventato l'altro baluardo nella lotta al terrorismo islamico

di Giulio Meotti

Commentatori palestinesi, come Riad Malki, già negli anni passati avevano parlato dell"'opzione giordana" come l'unica speranza per sconfiggere l'islam politico. Chissà cosa direbbero oggi che Amman ha mosso aerei e fatwe contro lo Stato islamico (ieri, secondo alcune voci, in questi bombardamenti sarebbe rimasto ucciso l'ultimo ostaggio americano nelle mani dell'Isis, la cooperante 26enne Kayla Jean Mueller). Per dirla con Daniel Greenfield, analista di Islam radicale, "i paesi che combattono il terrorismo in maniera più spietata sono ... i paesi musulmani". Nei giornali e nelle televisioni si rimpalla lo slogan "l'Isis non è islam". Lo dice anche Obama. E' una lingua di legno che non decifra il Califfato risorto dopo cento anni, la sua predicazione dei kalashnikov. Ma se c'è qualcuno che può impugnare quella bandiera è il re giordano Abdallah, il capo del "regno traditore" che, con la sua bellissima moglie senza velo, sfida vivente al letteralismo coranico che vorrebbe le donne in gabbia, si è sempre distinto per una funzione di rottura nel mondo arabo-musulmano. E' l'unico capo di stato islamico ad aver avuto il coraggio di chiedere ad Arafat vivente, in piena Intifada dei terroristi suicidi, di "darsi un'occhiata allo specchio per vedere" se stesse aiutando il suo popolo. Anche la sua discendenza non è casuale, visto che è il pronipote del penultimo custode della Mecca (Hussein al Hashemi, alleato di Lawrence di Arabia, è suo trisavolo), discendente di Maometto. Su Israele, la dinastia giordana è stata rivoluzionaria. Il prozio di Abdallah, Feisal, da re dell'Iraq nel 1920, scrisse a Chaim Weizmann, futuro primo presidente di Israele: "Noi arabi, specie quelli colti, consideriamo con la più grande simpatia il movimento sionista". Il bisnonno di Abdallah, di cui il re attuale porta il nome, fu ucciso da un sicario del Muftì di Gerusalemme perché stava per siglare con Golda Meir (andata ad Amman clandestinamente) una pace separata con Israele. Suo padre, re Hussein, stava per essere travolto da un'insurrezione palestinese nel 1970 e il risultato fu il "settembre nero" (10 mila uccisi in un solo colpo). Fu la prima, incomparabile violenza contro il terrorismo islamico. Abdallah sfida gli arabi a dismettere l'antisemitismo e iniziare la Riforma dell'islam. Per questo ha bandito Hamas (Khaled Meshaal venne espulso da Amman e riparò a Damasco). E non a caso la lettera dei "138 saggi dell'islam'' di interlocuzione con Benedetto XVI fu diffusa dal principe Ghazi bin Talal, esponente della casa reale giordana.
Assieme ad Abdallah c'è il generale egiziano Abdel Fattah al Sisi, in guerra anche lui con la politica del "takfir", la scomunica dell'eretico, l'infedele. Due giorni fa, al Sisi, dopo l'ennesimo attentato, ha detto che l'Egitto è sotto attacco di Fratellanza musulmana, al Qaida, Isis e Hamas, mettendoli tutti assieme, senza distinguo o irenismi. Sisi ha poi inserito Hamas nella lista nera dei terroristi. Ironico, visto che l'Unione europea l'ha appena tolta dalla sua. Come ci spiega Ashraf Ramelah, direttore di Voice of the copts, "Sisi sta cercando di rivoluzionare l'islam. Se non lo uccidono prima". In medio oriente oggi, sia teologicamente sia politicamente, c'è solo un binomio: Sisi o Isis, il re in cravatta o il califfo col turbante.

(Il Foglio, 7 febbraio 2015)


Antisemitismo, sinistra e terrorismo negli anni '70. La morte di Stefano Taché

L'errore politico di sostenere un estremista leader palestinese che non si è fatto scrupolo di usare l'Italia come teatro di attentati terroristici.

di Leonardo Rossi

La morte di Stefano Taché. Le violenze palestinesi scambiate per resistenza. La rabbia della comunità ebraica italiana che accusò l'Italia di averla lasciata sola. L'omaggio di Mattarella. La critica a Israele, scudo per un antisemitismo moderno e più accettato. Ne parliamo con Arturo Marzano, ricercatore alla Università di Pisa e autore del libro "Attentato alla Sinagoga".

- Che cosa accadde, Marzano, e in quale contesto maturò la decisione di compiere l'attentato?
  «Nel libro che ho scritto insieme a Guri Schwarz, ricostruiamo come l'attentato del 9 ottobre 1982 si sia inserito all'interno di una vasta ondata di atti terroristici di matrice palestinese che colpì, con crescente intensità a partire dal 1980, diversi obiettivi ebraici in tutta Europa: Berlino, Anversa, Parigi, Vienna. In alcuni casi, i responsabili sono ancora ignoti; in altri, invece, sono stati chiaramente identificati e coincidono con il gruppo terroristico che colpì gli ebrei romani e che l'anno successivo uccise a Lisbona Issam Sartawi, figura di rilievo dell'Olp noto per le sue posizioni favorevoli al dialogo con gli israeliani. Il commando terroristico responsabile dell'attentato alla Sinagoga centrale di Roma era, infatti, legato al gruppo di Abu Nidal, che stava in quegli anni conducendo una vera e propria guerra contro l'Olp, la cui politica veniva ritenuta troppo moderata».

- Come reagirono la comunità ebraica e le forze politiche? Vi furono accenti di solidarietà?
  
«La prima risposta fu chiaramente caratterizza da dolore e rabbia. La comunità ebraica di Roma ritenne responsabile la società e la politica italiana, e l'accusò di avere lasciati soli gli ebrei italiani nel corso dei mesi precedenti. Durante l'invasione israeliana del Libano iniziata nel giugno di quell'anno, infatti, gran parte della stampa aveva condannato la politica israeliana con molta durezza, commettendo in molti casi l'errore di non distinguere tra governo di Israele ed ebrei italiani, come se questi ultimi fossero in qualche modo responsabili di quanto accadeva in Medio Oriente. Il Presidente della Repubblica Pertini partecipò al funerale di Stefano Gay Tachè, per testimoniare la vicinanza delle istituzioni, e le forze politiche tutte si strinsero attorno alla comunità ebraica di Roma. Come scriviamo nel volume, il partito comunista in particolare si interrogò, proprio a partire dal tragico attentato, dell'atteggiamento da lui tenuto rispetto alle vicende israelo-palestinesi, indagando sulle possibili commistioni tra le legittime critiche nei confronti di Israele e un'inaccettabile deriva antisemita che, in alcuni casi, tali critiche avevano avuto proprio nell'estate del 1982».

- Per la posizione italiana sul conflitto israelo-palestinese, nel libro si parla di "equidistanza sbilanciata". In che senso?
  
«A partire dal 1967, le principali forze politiche italiane portarono avanti una posizione di maggiore vicinanza ai paesi arabi rispetto a Israele, evitando, però, che si incrinassero i rapporti con Israele. Nel 1982, i tre principali partiti (Dc, Pci, Psi) avevano sul conflitto israele-palestinese posizioni simili, con una forte vicinanza all'Olp senza, però, che venisse mai messo in discussione il diritto all'esistenza di Israele».

- Come si può spiegare l'enorme credito di cui Arafat godeva in Italia, ma anche nel mondo?
  
«Arafat, così come altri leader di quella che, dagli anni Settanta in poi, è stata definita la "Resistenza palestinese", godeva di ampio credito perché l'Olp era riuscito a presentare la propria lotta contro Israele come parte di una più ampia battaglia, condotta in Vietnam, a Cuba e in altri contesti del Terzo Mondo, contro l'imperialismo. In Italia, in particolare, i palestinesi vennero percepiti da ampi settori dell'opinione pubblica come parte di una nuova Resistenza, che si ricollegava direttamente alla lotta di liberazione contro i nazi-fascisti del biennio 1943-45».

- Che era a gridare "Ora e sempre resistenza", che significato può avere l'accostamento partigiani e palestinesi?
  
«Proprio per quello che dicevo, i palestinesi vennero identificati nei contesti della sinistra extra-parlamentare, ma anche in tante frange della sinistra parlamentare, come i nuovi partigiani. Tuttavia, se i palestinesi erano i nuovi partigiani, la conseguenza logica di tale accostamento era un altro parallelismo, quello tra israeliani e nazisti. E questa similitudine venne utilizzata ampliamente dalla stampa e dalla pubblicistica italiana soprattutto nell'estate del 1982, durante le drammatiche vicende dell'invasione israeliana del Libano».

- Si può dire che è esistito, accanto a un antisemitismo di destra, anche un antisemitismo di sinistra?
  
«Assolutamente sì. E la storiografia ha ampliamento messo in luce tale esistenza. Nello specifico del conflitto israelo-palestinese, a partire dai primi anni Cinquanta l'Unione Sovietica e gli altri paesi comunisti dell'est Europa fecero riscorso a tutta una serie di retoriche provenienti dall'"archivio anti-ebraico" per attaccare lo Stato di Israele, influenzando anche i partiti comunisti dell'Europa Occidentale. Con questo, non intendo affatto dire che le posizioni critiche della sinistra italiana nei confronti di Israele fossero (o siano) anti-semite. Esisteva (ed esiste tuttora) un'assoluta legittimità a criticare le politiche dello Stato di Israele. Tuttavia, in alcuni casi, c'era (e c'è) il rischio che all'interno di tali critiche si annidino posizioni antisemite, che invece non hanno alcun tipo di legittimità. Mai».

- A trent'anni di distanza, voi scrivete che "molti interrogativi sono ancora aperti". Quali per esempio?
  
«La prima questione ancora aperta è relativa a dove sia finito uno degli attentatori, il palestinese di passaporto giordano Osama Abdel al-Zomar, l'unico la cui colpevolezza sia stata provata in sede giudiziaria. Al contempo, non è chiaro se il commando palestinese abbia avuto appoggi logistici da parte di gruppi terroristici italiani. Ciò non sorprenderebbe più di tanto, visti i numerosi contatti tra gruppi terroristici italiani e palestinesi, ma su questo punto sarebbero necessarie ulteriori indagini, sia da parte di storici, sia delle autorità giudiziari».

- Il presidente Mattarella ha voluto omaggiare la piccola vittima dell'attentato, è stata una decisione forte e un segnale importante verso la comunità ebraica. Lei pensa che l'Italia abbia abbassato la guardia nei confronti dell'antisemitismo?
  
«Certamente vi è in Europa un'ondata preoccupante di antisemitismo, legata sia all'estrema destra, sia ai movimenti islamisti. L'antisemitismo - così come il razzismo, la xenofobia, l'omofobia - è un fenomeno duro a morire. E soprattutto in periodi di crisi economica, il rischio è che vi sia un aumento. È dunque necessario che la politica faccia la sua parte, certamente evitando toni e termini che non possono trovare alcun tipo di spazio nel discorso pubblico. Tuttavia, sono fenomeni che vanno combattuti con un forte impegno nel campo dell'educazione, a partire dalla scuola, che insegni i valori dell'integrazione, dell'uguaglianza e della solidarietà. Solo in questo modo, l'antisemitismo, e le altre forme di razzismo, potrà essere sconfitto».

(Giornale dell'Imbria, 7 febbraio 2015)


I fiori del male

Bruxelles, capitale dei suicidi e del jihad, dove il cristianesimo si sta spegnendo e a un gaio nichilismo subentra l'islam.

di Giulio Meotti

Era il 30 marzo 2013 e Robert Rediger all'epoca viveva a Bruxelles. Aveva voglia di un drink al bar Metropolis, capolavoro dell'art nouveau. "Passavo per caso e vidi un cartello che diceva che il bar avrebbe chiuso quella sera. Ero sbalordito. Ho chiesto ai camerieri. Hanno confermato; non conoscevano i motivi precisi della chiusura. Adesso tutti questo stava per scomparire, di colpo, nel cuore della capitale d'Europa… E' stato in quel preciso momento che ho capito: l'Europa aveva già commesso il proprio suicidio". E' a Bruxelles che Michel Houellebecq celebra la conversione all'islam di uno dei protagonisti del suo ultimo romanzo "Sottomissione".
  Nei giorni scorsi il Belgio ha raggiunto un nuovo record: il più alto numero pro capite di combattenti islamici in Siria e Iraq rispetto a qualsiasi altro paese europeo. Bruxelles è diventata la capitale della
Muriel Degauque, una ragazza belga cattolica originaria di Charleroi, si convertì all'islam, cambiò il proprio nome in Myriam
e trovò la morte vicino a Baghdad come bomba umana.
guerra santa, oltre che dell'Unione europea. La prima cittadina del Vecchio continente a morire sui campi di battaglia del jihad fu Muriel Degauque, una ragazza belga cattolica originaria di Charleroi, la capitale del carbone e di quel sobborgo di Marcinelle nei cui cunicoli, una mattina dell'agosto 1956, trovarono la morte oltre cento operai italiani. Muriel si convertì all'islam, cambiò il proprio nome in Myriam (un congedo dal Belgio in cui era nata e cresciuta) e trovò la morte vicino a Baghdad come bomba umana. Era il 9 novembre 2005. Ma già nel 2001, due giorni prima dell'11 settembre, due tunisini reclutati in Belgio erano riusciti a farsi passare da giornalisti e a uccidere, facendosi esplodere, il comandante afghano Massoud, nemico di al Qaida e dei talebani.
  La scoperta del ruolo centrale del Belgio nello scacchiere del terrorismo è casuale: tutto inizia nel marzo 2004, quando la polizia olandese ferma un panettiere belga, Khalid Bouloudo, per un faro dell'auto rotto. Contro di lui c'è un mandato d'arresto internazionale che lo accusa di essere coinvolto negli attentati di Casablanca. E' l'operazione "Asparagi", prodotto tipico della città fiamminga di Maaseik, dove risiede Bouloudo. Tra gli arrestati Hassan el Haski, mente degli attentati di Madrid, Mourad Chabarou, reclutatore di combattenti per l'Iraq, e Youssef Belhadj, autore del video di rivendicazione di Madrid. Sono affiliati al Gruppo islamico combattente, in contatto con il gruppo olandese Hofstad, legato all'omicidio di Theo van Gogh.
  Com'è stato possibile che Maaseik, la città di Van Eyck e Rubens e del cristianesimo belga, sia diventata allora una centrale del terrorismo islamico in tutta Europa e oggi una delle città con più reclutamenti per la guerra santa in Siria e Iraq?
  Lo chiamano "Belgistan", è la triste evoluzione di un paese agiato, annoiato e scettico che non è mai riuscito a sostituire altri ideali a quelli tramontati dell'impero. Eppure, parlate con un belga: vi darà la sensazione di un uomo soddisfatto. La questione sociale? Sotto controllo. La vita famigliare? Decente. Le distrazioni alle fatiche quotidiane? Abbondano. Paura della guerra? Nessuno ci pensa. E' la gaia incoscienza del Belgio, caratteristica del borghese confortato da una sorte propizia. Un mondo di caffè, di teatri, di circoli municipali, di fanfare operaie, di vini cordiali, di lavoro per tutti, di conversazioni argute, di carillons, di librerie, di cooperative prosperose, ricco di umore meridionale (i belgi sono i meridionali del nord).
  Bruxelles era destinata a diventare, come Londra, Parigi o Atene, il luogo per eccellenza della fusione nazionale. Doveva funzionare come un crogiuolo, dove si sarebbero mescolati funzionari valloni, fiamminghi e stranieri e si sarebbe creato l'homo belgicus. Messi fra Germania, Francia e Olanda, si direbbe che i belgi abbiano assorbito attraverso le frontiere la brillante grazia dei francesi, la pacata struttura psicologica degli olandesi, la vocazione al lavoro dei tedeschi. Essi costituiscono l'esempio massimo di sintesi dell'uomo qualunque europeo, la cerniera di mondo latino e germanico e con essa l'incontro di due aspetti squisitamente europei del cristianesimo: il cattolicesimo e la riforma. Eppure, il paese è malato. E avanza lo spettro di una nuova religione.
  Il Belgio, oltre a detenere il record di jihadisti in Europa, è oggi il primo paese europeo per tasso di suicidi. Sono i suoi fiori del male. Il più noto suicida è il premio Nobel per la Medicina, Christian de Duve,
Sei suicidi al giorno. Duemila all'anno. Con un tasso di suicidio stimato a più di venti ogni cento-mila abitanti, il Belgio batte tutti i record in Europa occidentale.
che si è ucciso due anni fa tramite iniezione letale in un surreale, ultimo incontro con i suoi quattro figli. Sei suicidi al giorno. Duemila all'anno. Con un tasso di suicidio stimato a più di venti ogni 100 mila abitanti, il Belgio batte tutti i record in Europa occidentale (la media mondiale è di 14,5 per 100 mila abitanti). Il suicidio è la prima causa di mortalità tra i belgi che hanno tra i 25 e i 44 anni e la seconda causa, dopo gli incidenti automobilistici, fra quanti ne hanno tra i 15 e i 24. Una gioventù bella ma malata. I giovani belgi, afferma con desolazione il quotidiano Libre Belgique, "soffrono la vita" .
  Secondo uno studio, compilato dai professori Moens, Haenen e Van de Voorde sulla base di dati forniti dall'Organizzazione mondiale della Sanità, il numero dei suicidi fra i giovani è aumentato dell'81 per cento rispetto a dieci anni fa. E sono ancora troppi, affermano gli studiosi di Lovanio, quelli che vengono spiegati in altro modo: misteriosi incidenti stradali, inspiegabili avvelenamenti che mascherano talora le reali intenzioni della vittima. E' la "legge del silenzio" che per motivi umanitari induce molti medici a risparmiare ulteriore dolore ai genitori e ai parenti registrando un'altra causa sul certificato di morte. La tragica statistica si gonfierebbe, inoltre, se andassero a segno alcuni dei tentativi di suicidio (migliaia) che si registrano ogni anno, e se considerassimo anche la legge dell'eutanasia, con altre sei morti al giorno. In Belgio è nato anche il primo "supermercato della morte". A Flémalle, una cittadina poco lontano da Liegi. Le lapidi? In quarta fila. Le corone? In fondo a destra. Le bare? A sinistra.
  Un paese dominato dal nichilismo, dove l'islam è già oggi la prima religione del paese. Nelle scuole di Bruxelles l'insegnamento della religione musulmana ha superato per numero di studenti quello della religione cattolica. Lo dice il Centro di ricerca e informazione sociopolitica: secondo l'indagine, fra i ragazzi degli istituti primari, nell'ora di religione per scelta delle famiglie il 43 per cento studia l'islam (una quota che si attesta al 41,4 nei licei); il 27,9 per cento segue corsi di "morale laica" (ateismo), e solo il 23,3 per cento ha optato per la fede cattolica.
  Già oggi, a Bruxelles un cittadino su tre è musulmano, e il nome più frequente all'anagrafe fra i nuovi residenti è Mohammed. Nel 2035 la città sarà a maggioranza musulmana. I grandi momenti della vita, come battesimi, matrimoni e funerali, in Belgio non sono più legati alla cristianità, in un paese i cui simboli sono stati a lungo l'Adorazione dell'agnello di Van Eyck, la Madonna di Bruges di Michelangelo, i quadri di Bruegel, Memling, Van der Weyde, la cattedrale di Anversa, il cane di Sant'Uberto e l'università di Lovanio (fondata da Papa Martino V).
  A Bruxelles oggi soltanto sette matrimoni su cento sono cattolici, i bambini battezzati sono solo il 14,8 per cento e i funerali cattolici si fermano al 22,6 per cento. "E' la fine del cattolicesimo sociologico", dice uno studio del Crisp citato dal quotidiano Le Soir. Di recente, le autorità belghe hanno deciso che le feste cardine della cultura europea e cristiana, come Ognissanti, Natale e la Pasqua, dovevano essere sostituite dalle più neutre "Vacanze d'autunno", "Vacanze d'inverno" e "Vacanze di primavera". Un solstizio laicista. E due anni fa ha debuttato il nuovo albero di Natale secolarizzato, simbolo di un paese trasparente, senz'anima. Non più l'abete delle foreste delle Ardenne, ma un Xmas Tree di acciaio, luci e proiezioni video.
  Fu nel 1986 che avvenne la svolta, quando per la prima volta l'antica università cattolica di Lovanio nominò un rettore ateo. Fondata nel 1425 per iniziativa del duca Giovanni IV di Brabante, autorizzato da una bolla pontificia di Martino V, l'ateneo era sempre stato un centro di cultura umanistica e un caposaldo nella lotta contro la Riforma luterana. Oggi produce alcune delle idee più progressiste d'Europa. Fu lì che si riunirono i capi della riforma cattolica, il tedesco Karl Rahner, il belga Edward Schillebeeckx, padre del "nuovo catechismo olandese", i francesi Yves Marie Congar e Marie Dominique Chenu, lo statunitense Gregory Baum, severo critico dell'enciclica Humanae vitae e lo svizzero-tedesco Hans Küng, teorico della fallibilità papale. Oggi Lovanio offre il primo corso di laurea in Teologia islamica in Europa.
  Di pari passo, infatti, il Belgio adottava la forma più radicale di multiculturalismo che l'Europa abbia mai
Nel 1974, il governo belga rico-nobbe ufficialmente la religione islamica. Il primo risultato di questo riconoscimento fu l'ap- provazione, nel 1975, dell'inse- rimento della religione islamica
nel curriculum scolastico.
conosciuto. Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Il primo risultato di questo riconoscimento fu l'approvazione, nel 1975, dell'inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. I musulmani in Belgio sono al 75 per cento praticanti. "Una gioventù radicalizzata, che rifiuta i valori occidentali", scrive la giornalista fiamminga Hind Fraihi: "A Bruxelles, ci sono isole come Molenbeek, dove si fatica a credere di essere in Belgio". Il proselitismo intanto straripa.
Il numero totale dei belgi convertiti all'islam è stimato in 20 mila. Nei tribunali, la sharia interferisce insidiosamente nei giudizi dei magistrati e ad Anversa è nata la prima corte che legifera con la legge islamica. Le scuole pubbliche distribuiscono anche pasti halal. Negli ultimi anni in molti quartieri di Bruxelles sono scomparse le donne e ricomparsi i veli integrali. I mercati sono in mano alla comunità musulmana e in molti quartieri non esistono più macellerie con costolette di maiale. Ad Anderlecht, un comune brussellese ad alta densità islamica ma anche con un'importante comunità ebraica, non si contano più gli atti di antisemitismo e gli ebrei stanno fuggendo dal paese dopo la strage al Museo ebraico della capitale di un anno fa. Gli alloctoni illuminati come Mimount Bousakla - politica di origine marocchina che attacca il dogma del multiculturalismo - sono minacciati di morte dai fondamentalisti islamici. A due passi dalle istituzioni europee, gli imam predicano contro Bruxelles, "capitale degli infedeli".
  Molte chiese, appena macchiate da qualche incrostazione della controriforma spagnola, sono rimaste esteriormente uguali. Ma dentro sono diventate delle moschee, come la Signora del Perpetuo Soccorso. In una chiesa di Bruges è conservato il "Sangue Santo", che un conte di Fiandra riportò dalla Palestina dopo una crociata. Ma il prodigio della liquefazione, dicono le guide, non avviene più da parecchi secoli. Si è seccato.

(Il Foglio, 7 febbraio 2015)


Quel “Sangue Santo” riportato dalla Palestina dopo una crociata è purtroppo il segno che la cosiddetta società giudaico-cristiana europea era in realtà una società pagana “cristianizzata”. E’ inutile rimpiangerla: è destinata a scomparire, come la società islamica ora crescente, come la languente libertina nichilistica società occidentale dei nostri giorni. Si avvicina il giorno della resa dei conti davanti a Dio di popoli e nazioni. M.C.


Visita guidata a Marsala e Mazara del Vallo: un itinerario ebraico nella Sicilia occidentale

 
Gli scribi
Nell'ambito del Corso di Cultura e Storia dell'Arte Ebraica, organizzato da SiciliAntica, si terrà Domenica 8 Febbraio 2015 una visita guidata a Marsala e Mazara del Vallo: un itinerario ebraico nella Sicilia occidentale. A Marsala la visita si svolgerà intorno alla Vie Frisella e D'Anna che attraversavano il quartiere della Universitas Judeorum. Qui erano la Sinagoga, la Platea Pubblica Judeorum, la Scola de li judei e, alle due estremità, l'antico palazzo dei Pretori romani (poi Palazzo Ferro e quindi Monastero di Santo Stefano) e l'antica Cattedrale di Lilibeo, odierna Chiesa di San Matteo. Il percorso si concluderà nella Chiesa Madre di San Tommaso Becket, Arcivescovo di Canterbury, fondata nella seconda metà del XII secolo, ampliata e rifondata nel XVII secolo, principale monumento della città dove fino al 1492 si svolgevano cerimonie in cui la comunità ebraica era obbligatoriamente coinvolta.
   La visita sarà guidata da Enrico Caruso, Direttore del Parco Archeologico di Monte Jato. Nel pomeriggio a Mazara del Vallo, itinerario ebraico medievale nella kasbah. Si inizia con la Piazza San Michele dei Normanni, già "Platea della Jureca": antico luogo di mercato e riunione, successivamente l'antica sinagoga, oggi Chiesa di S. Agostino: dopo l'espulsione degli Ebrei di Mazara, probabilmente nel 1496 l'edificio venne affidato ai Padri Eremitani di Sant'Agostino. Venne poi, nel 1741, concesso ai Padri della Congregazione della Buona Morte, che dal 1750 al 1780 vi edificarono un'altra più ampia struttura circolare. Un'epigrafe ricorda l'antica funzione. Si segnala il bel campanile dalla guglia maiolicata.
   Si prosegue con il percorso nella Giudecca, antico quartiere ebraico. La struttura topografica dell'abitato, tipica del Medioevo mediterraneo, è caratterizzata da viuzze strette e tortuose, unità abitative serrate e sequenze di cortili interni. Si percorreranno Via Goti, già Rua de la Jureca (quartiere di Turri Martha), Via di Porta Palermo, Piazza di Porta Palermo. Fuori di Porta Palermo era l'iniziale residenza del gruppo ebraico, con il bagno, l'ospedale, la sinagoga, il cimitero (di cui furono rinvenute alcune tombe in occasione della recente urbanizzazione). Interessante percorrere il Vicolo Vipera, il più antico di Mazara, che ha conservato la pavimentazione originale; la Via Bagno conduce a Piazzetta Bagno, laddove la tradizione toponomastica riconosce il luogo della purificazione ebraica.
   L'itinerario si conclude al Museo Diocesano di Mazara del Vallo: ha sede all'interno del monumentale edificio settecentesco del Seminario. Si segnalano: il monumento Montaperto, già nella Cattedrale, capolavoro di Domenico Gagini; il Sant'Ignazio e il Christus Dolens in alabastro carnicino di Ignazio Marabitti; la grande Sala degli Argenti con un "tesoro" costituito da argenti e paramenti sacri che datano dall'età medievale ai nostri giorni. Attualmente al Museo è visitabile la mostra "Minima Sacra. Arte e devozione nella Diocesi di Mazara del Vallo".
   La visita sarà guidata da Francesca Paola Massara, Docente di Archeologia, Arte e Iconografia Cristiana - Facoltà Teologica "S. Giovanni Evangelista" di Palermo. Per iscrizioni 346.8241076 - Email: palermo@siciliantica.it.

(TrapaniOK.it, 7 febbraio 2015)


Jihadisti dell'Isis a caccia di occidentali da rapire

Lo ha riferito alla Cnn una fonte dei servizi mediorientali. I miliziani dello 'Stato islamico' sarebbero a corto di prigionieri occidentali e la loro intenzione sarebbe quella di portarli, una volta rapiti, nel loro 'califfato' in Siria per sfruttarli nella propaganda mediatica e fare pressioni sui Paesi di origine.

Jihadisti dell'isis a caccia di cittadini occidentali da prendere in ostaggio. A riferirlo alla Cnn una fonte dei servizi mediorientali, secondo cui i miliziani sunniti hanno pianificato agguati in particolare in Libano e in Giordania. Gli jihadisti - stando sempre a quanto riferito dalla fonte dell'emittente Usa - hanno intenzione di portare gli ostaggi nel loro 'califfato' in Siria, per sfruttarli nella propaganda mediatica e fare pressioni sui Paesi di origine dei rapiti.
   Dopo le decapitazioni, l'esecuzione del pilota giordano Muad Kasasbeh e l'annuncio della morte della volontaria americana Kayla Jean Mueller - che secondo l'lsis sarebbe stata uccisa in un raid aereo giordano - i miliziani sarebbero rimasti a corto di prigionieri. Non è chiaro quanti ostaggi siano ancora nelle loro mani, anche perché i governi mantengono il massimo riserbo e conducono spesso trattative segrete per non mettere in pericolo la vita dei rapiti.
   Secondo l'emittente americana, lo Stato islamico ha risorse finanziarie sufficienti per corrompere guardie di frontiera, in modo da consentire ai propri miliziani di raggiungere gli altri Paesi e portare a termine i sequestri. "La frontiera è molto, molto permeabile", ha spiegato il colonnello Rick Francona, ex militare americano attachè in Siria. Inoltre, i miliziani godrebbero di appoggi di gruppi terroristici affiliati, anche in Stati nordafricani, in grado di commettere rapimenti e di trasferire i prigionieri nelle 'carceri' dell'lsis nella città siriana di Raqqa. Particolarmente a rischio sarebbero i cooperanti che lavorano nei campi profughi in Libano e in Giordania.

(RaiNews24, 7 febbraio 2015)


Mezzi di propaganda, scudi umani. Così il Califfo fa politica con gli ostaggi

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Divulgare la brutalità del Califfato, scompaginare la coalizione guidata dagli Usa, portare la guerra in Europa, moltiplicare i proseliti, irridere il nemico e ottenere vantaggi tattici: sono gli obiettivi che Abu Bakr al Baghdadi,Califfo dello Stato Islamico (Isis), persegue con una gestione degli ostaggi che somma malvagità e cinismo.

MOSSE STUDIATE A TAVOLINO
L'americano James Foley è il primo ad essere decapitato, il 19 agosto, e l'intento è duplice. Primo: a 50 giorni dalla nascita del Califfato, trasformare la jihad in un messaggio globale grazie alla miscela fra brutalità della decapitazione ed efficienza delle produzioni video. Secondo: a due settimane dall'inizio dei raid Usa contro Isis far capire a Obama che pagherà un prezzo alto di sangue. Il 2 settembre viene decapitato l'americano Steven Satloff e poi identica sorte tocca ai britannici David Haines e Alan Henning. Scenografia e metodo delle esecuzioni si ripetono per far capire che Isis punisce in ugual misura Usa e alleati. Vuole portare lo scompiglio nella coalizione: nel «Messaggio agli alleati degli Usa» letto dal boia di Haines si esplicita l'intenzione di «rispondere ai bombardamenti contro di noi». È la sintesi della guerra asimmetrica: voi bombardate, noi decapitiamo.

LA VENDETTA
A fine ottobre il Califfo sopravvive a un raid Usa e la reazione è brutale: l'americano Peter Kassig viene decapitato in un video che mostra 18 soldati siriani sgozzati da altrettanti jihadisti, molti dei quali francesi e inglesi a volto scoperto. Si svela così l'esistenza delle brigate europee a cui un audio del Califfo chiede di «far esplodere i vulcani del jihad in terre nemiche ». È l'annuncio di attacchi in Europa, retrovia della coalizione, grazie a reclute jihadiste locali attirate dai video con esecuzioni cruente.
La conferma dell'uso di ostaggi a fini tattici viene dalle vicende parallele di 46 diplomatici turchi e 29 soldati libanesi catturati. I turchi, presi a Mosul, vengono restituiti incolumi ad Ankara al termine di un negoziato segreto reso possibile dalla scelta di Erdogan di resistere alle pressioni Usa per l'impiego di truppe di terra. I libanesi, catturati nell'Arsal, sono a tutt'oggi oggetto di trattative con Beirut, a cui Isis chiede la liberazione delle jihadiste detenute, inclusa l'ex moglie di al Baghdadi.

LA RICHIESTA DI RISCATTI
Ancora in vita è John Cantlie, il britannico che diventa reporter pro-Isis in una serie di video in cui irride la coalizione: dai falliti blitz ai milioni spesi. Cantlie è Moun'arma preziosa nella guerra di propaganda per reclutare, anche qui sostenuto da tecnici video di grandi qualità. Già con Foley, Isis aveva provato a chiedere riscatti economici ma in segreto. Con i giapponesi Haruna Yukawa e Kenji Goto la richiesta diventa pubblica - 200 milioni di dollari - tradendo la difficoltà nel reperire liquidi a seguito del crollo del greggio.
Tokyo non paga, Isis mette sul piatto un riscatto umano: la jihadista Sajida al Rishawi detenuta da Amman, che però reagisce impiccandola. Il pilota giordano Muath Kasasbeh arso vivo è una sfida al re Abdullah, alleato della coalizione, che si comprende meglio guardando il video dell'esecuzione: disseminato di notizie top-segret. Nel caso dell'americana Kayla Jean Mueller l'obiettivo tattico è palese: annunciarne la morte sotto le bombe giordane per innescare tensioni Washington-Amman.

SCUDI UMANI
È un metodo che ricorda l'uso degli scudi umani da parte di Saddam nel 1991. D'altra parte un terzo dei 25 capi militari del Califfato vengono dal Baath iracheno. Sono questi veterani di Saddam, a cominciare dai generali, al-Turkmani e al-Anbari, a spingere il Califfo all'uso più cinico degli ostaggi. Mentre la malvagità viene da Omar al- Shishani, il caucasico dai modi spietati che guida i volontari stranieri ed è dunque il diretto superiore di Jihadi John, il boia con accento di Oxford.

(La Stampa, 7 febbraio 2015)


Maratona di Tel Aviv 2015

Tutto pronto per il più grande evento sportivo della storia di Israele.

La citta' che non si ferma mai accogliera' un numero record di partecipanti con una gran voglia di divertirsi alla lunga serie di eventi che circondano l'intera maratona
Più di 40.000 corridori sono attesi a Tel Aviv per partecipare alla Tel Aviv Samsung Marathon del 27 febbraio 2015. I runner provenienti da Israele e da tutto il mondo saranno i protagonisti del più grande evento sportivo internazionale di Israele. Con un percorso di 42,195 km, la maratona finirà vicino al Ganey Yehoshua Park con un party post-gara per i partecipanti ed eventi per tutta la notte. A Rabin Square dal 22-25 febbraio il ritrovo con la distribuzione dei kit, conferenze e stand per corridori gestiti dai leader mondiali delle società sportive. Non mancherà il tradizionale pasta party che si svolgerà la sera prima della maratona. L'evento sarà una giornata di festa con musica lungo tutto il percorso, in sintonia con il fascino e la fama mondiale della città di Tel Aviv.
Ron Huldai, sindaco di Tel Aviv-Yafo, ha dichiarato: "La Tel Aviv Marathon 2015 è una delle gare più spettacolari in Israele e si affianca alle grandi maratone mondiali. La maratona è una grande festa, non solo per gli atleti, ma anche per gli abitanti della città e dei suoi visitatori, e quest'anno siamo lieti di festeggiare con un numero record di partecipanti".
La maratona comprende tutta la città, passando per il cuore di Tel Aviv, le sue strade principali e siti. Il percorso comprende il sensazionale Rothschild Boulevard e altri viali alberati della città "che non si ferma mai", la vasta collezione di edifici Bauhaus, i grattacieli Azrieli, gli 8 chilometri di passeggiata lungo la spiaggia che si affaccia sul Mediterraneo, il Sarona Templar Colony, HaYarkon Park e l'antica città di Jaffa con il suo porto storico.
Tel Aviv Samsung Marathon 2015 prevede di attirare 150.000 persone che parteciperanno alla lunga serie di eventi che circondano l'intera maratona. Altri eventi sportivi sono una mezza maratona da 10 km e 5 km e una gara a hand-cycle. Il primato dello scorso anno è stato raggiunto da Ezechiele Koech dal Kenya e dovrebbe essere rotto anche quest'anno. Il premio in denaro è di $ 25.000 a disposizione di quegli uomini e donne capaci di completare l'intera maratona in tempi designati. I corridori internazionali sfideranno gli israeliani (tra cui gli 800 funzionari di polizia più in forma di Israele) per il primo posto.

(SportEconomy, 6 febbraio 2015)


L'Occidente nei confronti dei palestinesi adotta una strategia sciaguratamente sbagliata

Il caso che deflagra nuovamente oggi non è nuovo per i nostri quattro lettori. Ce ne siamo occupati giusto quattro mesi fa: in violazione degli accordi interinali che seguirono la sottoscrizione del Trattato di Oslo del 1993, l'Autorità Palestinese sta costruendo illegalmente nell'area C del West Bank; quella sotto il pieno e legittimo controllo israeliano, sulla base delle intese sottoscritte all'epoca dall'OLP. Aspetto forse ancor più grave, l'attività edilizia beneficia del patrocinio addirittura dell'Unione Europea, che impiega un giorno sì e l'altro pure a puntare il dito contro presunte irregolarità israeliane nei territori contesi.
Siamo a febbraio e l'illecito non è stato sanato; al contrario: come riporta oggi il Jerusalem Post, centinaia di strutture abitative sono state costruite non lontano da Gerusalemme, fra Ma'aleh Adumim e la zona E1. Il governo israeliano è al corrente di questa attività, ma nicchia nel denunciare l'abuso, nel tentativo di non inasprire i già tesi rapporti con Bruxelles.....

(Il Borghesino, 6 febbraio 2015)


Uruguay - Espulso un diplomatico iraniano sospettato per un attentato all'ambasciata di Israele

di Federica Macagnone

Allerta massima nelle ambasciate israeliane all'estero: l'Uruguay ha espulso due settimane fa un diplomatico iraniano che, secondo fonti di alto livello a Gerusalemme, risultava coinvolto nel collocamento di un ordigno esplosivo vicino all'Ambasciata di Israele lo scorso 8 gennaio a Montevideo.
    L'otto gennaio gli artificieri dell'esercito uruguaiano hanno fatto brillare un ordigno esplosivo artigianale scoperto vicino al World Trade Centre di Montevideo, un edificio al centro della città, che ospita al nono piano l'ambasciata di Israele. L'unità anti-esplosivi dell'Esercito è intervenuta dopo che erano state evacuate tutte le persone presenti e ha neutralizzato l'ordigno. Anche se il dispositivo si trovava all'esterno dall'edificio, i funzionari a Gerusalemme pensano che si trattasse di una prova di attentato.
  L'allerta nelle ambasciate israeliane è salito ai livelli massimi dopo l'uccisione del figlio di uno dei leader di Hezbollah, Jihad Mughniyeh, e di un generale iraniano nel corso di un attacco attribuito a Gerusalemme. Adesso si teme che possano essere effettuate ritorsioni tramite attentati alle ambasciate israeliane all'estero.
  Il gruppo terroristico di Hezbollah ha una struttura stabile in Sud America, grazie agli emigrati libanesi sciiti: a loro sono riconducibili gli attentati di Buenos Aires degli anni '90, in cui morirono più di 100 persone.

(Il Messaggero, 6 febbraio 2015)


Gerusalemme incontra gli operatori italiani alla Bit di Milano

Anche quest'anno la Jerusalem Development Authority sarà presente alla Bit presso lo stand di Israele, padiglione 18, stand L22/M29, per incontrare operatori del settore e visitatori consumer. Sarà presente Ilanit Melchior, direttrice turismo della Jerusalem Development Authority. Inoltre, il 12 febbraio alle ore 20, la Jerusalem Development Authority insieme all'Ente del turismo di Israele (rappresentato dalla direttrice Avital Kotzer Adari), alla compagnia di bandiera El Al nella persona della direttrice Oranit Bet Halachmi e alla Jerusalem Hotel Association, rappresentata dal direttore Arie Sommer, incontreranno stampa e partner trade presso l'hotel Nh President.

(Travel Quotidiano, 6 febbraio 2015)


Angelo Donati, incontro in memoria del modenese che salvò 2500 ebrei

Presso la Fondazione San Filippo Neri

 
Angelo Donati
MODENA - Sabato 7 febbraio alle 18.30 è presenta la storia di Angelo Donati, il modenese che salvò più di 2.500 ebrei. L'incontro si tiene alla Residenza San Filippo Neri di via S. Orsola 52, e vede la partecipazione della storica Patrizia Di Luca e di Claudio Silingardi, direttore dell'Istituto storico di Modena, nell'iniziativa "Angelo Donati, cittadino italiano di religione ebraica. Da Modena all'Europa".

LA STORIA DI UN EROE - Ancora poco conosciuta in Italia, la figura di Angelo Donati è conservata nella memoria di tantissimi ebrei e i suoi meriti ne hanno fatto una figura quasi leggendaria, di cui si parla anche nel romanzo "Stella errante" del Premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio. Diplomatico in Francia per l'Italia e la Repubblica di San Marino, Donati riuscì a far allontanare da Nizza più di 2.500 ebrei che furono trasferiti, evitando le zone occupate dai tedeschi, nella "residence force" di St. Martin Vèsubie o in Savoia.

LA MOSTRA - Nelle sale attigue rimane allestita fino a domenica 8 febbraio la mostra "Immagini dal silenzio. La prima mostra nazionale dei lager nazisti attraverso l'Italia 1955-1960", con ingresso gratuito sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19. L'incontro e la mostra sono organizzati da Comune di Modena, Istituto storico di Modena, Fondazione Fossoli , Anpi provinciale.

ANGELO DONATI - Nasce a Modena il 3 febbraio 1885 da una famiglia ebrea da tempo integrata nel contesto sociale ed economico della città. Modenese da generazioni, trascorre parte della sua vita a Parigi, dove era giunto durante la Prima Guerra Mondiale come Ufficiale di Collegamento tra l'esercito italiano e quello francese. Impegnato in attività finanziarie e imprenditoriali, a partire dagli Anni Venti ricopre in Francia importanti ruoli diplomatici e consolari per l'Italia e la Repubblica di San Marino, e dal 1933 inizia la sua attività di aiuto in favore degli ebrei nella Germania nazista. Nel 1940 si trasferisce a Nizza e diventa il principale punto di riferimento per il salvataggio di migliaia di perseguitati ebrei. Insignito della onorificenza di Grand'Ufficiale della Corona d'Italia e di quella sanmarinese di Commendatore dell'Ordine di Sant'Agata, nominato dal Governo francese Commendatore della Legion d'Onore, nel 2004 riceve dal Presidente della Repubblica italiana "in memoria" (Angelo Donati muore nel 1960) la Medaglia d'oro al Merito civile.

(Modena Today, 6 febbraio 2015)


Il Mossad ci avverte: 162 infiltrati in Italia

Ieri altre due espulsioni

di Mirko Molteni

Due nuove espulsioni di sospetti islamisti da Genova e da Varese, ripropongono il tema della sorveglianza antiterrorismo. Sono almeno 17 i «combattenti stranieri» dell'Isis provenienti dall'Italia, parte italiani convertiti all'Islam, parte immigrati. Nel conteggio, alcuni uccisi in combattimento in Siria e Iraq, come il genovese Giuliano Delnevo, ma di molti presunti caduti non v' è certezza se irreperibili i corpi. Fanno parte del più ampio gruppo di 59 volontari che hanno legami con l'Italia anche solo per transito. Si aggiungono ben 162 infiltrati dell'Isis sul nostro territorio, stando alle «dritte» che il Mossad, il servizio segreto israeliano, ha passato agli 007 nostrani. Lo ha segnalato ieri il Tempo, mentre le espulsioni delle ultime ore confermano una situazione delicata. A Genova il 37enne franco-tunisino Sahbi Chriaa è stato processato per direttissima a un anno di carcere per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Sospetto estremista, era stato arrestato a Lavagna il 10 gennaio e nel carcere di Marassi inneggiava alla jihad. Proprio ieri mattina durante l'udienza era giunta alla polizia una telefonata anonima che segnalava una bomba nel tribunale ligure. Falso allarme. Chriaa, definito «indesiderabile», è stato accompagnato dalla polizia alla frontiera di Ventimiglia per essere consegnato ai francesi. Sempre ieri è stato espulso dall'Italia su ordine del ministero degli Interni il figlio 34enne dell'ex-imam di Varese, il noto Abdelmajid Zergout, che secondo l'ordinanza «avrebbe espresso sostegno alle attività del Califfato». In particolare, il marocchino può «essere plagiabile dai terroristi e diventare parte attiva dell'organizzazione» poiché ha frequentato su internet «siti che inneggiano alla jihad esprimendo opinioni favorevoli a quanto sta accadendo in Siria e in Iraq e all'avanzata dello Stato islamico».
   È stato in serata portato all' aeroporto di Malpensa e non potrà rientrare in Italia per molto tempo. Essendo il giovane Zergout sposato a un'italiana e con una vita da lavoratore, la notizia è stata accolta con incredulità a Brunello, dove risiede. La sorella: «Gli dicevo: non credi che scrivendo queste cose avrai dei problemi? Mi rispondeva: Siamo in un Paese democratico. Esprimo la mia opinione». Dalla lista dei sorvegliati, molti nomi rilanciati dalla stampa. Come il 30enne calabrese Giampiero F., convertito le cui tracce nel luglio 2014 si perdono a Simak, al confine turco-siriano. Da settembre 2013 ha invece lasciato Brescia per la Siria Anas El Abboubi, che fa ®parte del gruppo integralista «Sharia for Italy», che sogna la legge islamica a casa nostra. Il bosniaco Ismar Mesinovic, che abitava vicino a Belluno, sarebbe morto ad Aleppo a gennaio 2014, ma non è ancora sicuro. Il convertito Mario S., italiano con passaporto tedesco, ha passato nel luglio 2013 la frontiera fra Bulgaria e Turchia per sparire nel nulla. Transitati dal nostro Paese anche Ayman Ramadan, Abde Irrhamn EInahass, Mohamed Hamrouni.

(Libero, 6 febbraio 2015)


Conferenza stampa per il collegamento diretto Napoli - Tel Aviv

NAPOLI - Lunedì 9 febbraio 2015, alle ore 12:00 presso la prestigiosa sala convegni dell'hotel Reinassance-Mediterraneo di Napoli, si terrà la conferenza stampa di presentazione del primo collegamento aereo diretto Napoli - Tel Aviv fornito dalla compagnia aerea israeliana EL AL Airlines per conto della società israeliana Sun D'Or, di proprietà della stessa compagnia EL AL.
Il primo volo, previsto per lunedì 30 marzo 2015, partirà dall'Aeroporto di Napoli-Capodichino e impiegherà poco più di tre ore per raggiungere la destinazione prescelta.
I collegamenti saranno operativi nelle giornate di lunedì e venerdì ed effettueranno la tratta Tel Aviv-Napoli e viceversa.
All'evento parteciperanno, il Presidente dell'Associazione Italo-Israeliana per il Mediterraneo, Dott. Marco Mansueto; il Presidente di Federalberghi Napoli, Dott. Salvatore Naldi; il Direttore dell'area manager EL AL per il centro Europa, Dott.ssa Oranit Beithalahmi Amir; il Country Manager Italy MSC Crociere, Dott. Leonardo Massa; l'Amministratore delegato Gesac, Dott. Armando Brunini; il Sindaco di Napoli, Dott. Luigi De Magistris; l'Assessore regionale al Turismo, Dott. Pasquale Sommese; il Consigliere per gli Affari turistici dell'Ambasciata d'Israele, Dott. Avital Kotzer Adari e concluderà l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Dott. Naor Gilon.

(JulieNews, 6 febbraio 2015)


Iran, negazionismo di Stato

di Alon Altaras

La Shoah, uno dei genocidi più grandi della storia umana, turba molto gli antisemiti del XXI secolo. Sapendo che nei prossimi dieci-quindici anni gli ultimi testimoni sopravissuti ai campi della morte moriranno, essi aspettano l'occasione giusta per mettere in dubbio questo colossale crimine contro l'umanità. Qualche giorno fa, il giornale The Teheran Times ha indetto un concorso internazionale di disegni che ha come tematica la negazione della Shoah. Sono previsti dei premi in denaro: 12.000 dollari al vincitore, 8.000 a chi arriva secondo, mentre il terzo godrà di soli 5.000. È particolare e anche comico che gli iraniani lancino concorsi del genere scegliendo proprio la valuta americana come compenso. Era più logico - se di logica si può parlare quando uno Stato decide di dichiararsi negazionista - scegliere la valuta iraniana per premiare questa fiera del cattivo gusto antisemita.
   Non è la prima volta che l'Iran - o meglio, i suoi giornali - organizza gare di negazione. Nel 2006 il quotidiano iraniano Hamshahri aveva già organizzato una manifestazione del genere, nella quale l'italiano Alessandro Gatto è risultato degno di un premio speciale per il suo contributo visivo all'odio contro gli ebrei (può essere un'idea fare un'intervista a questo vignettista in qualità di esperto di vignette di odio).
   Nel 2006 gli iraniani non si limitarono alle vignette. Nel dicembre si radunarono 67 "storici" e "studiosi" di 30 paesi - anche quelli europei che allo sterminio avevano contribuito, anche da Germania e Austria dove il negazionismo è un reato perseguibile per legge - sostenendo che la Shoah non è mai esistita. Il convegno era organizzato dal ministero degli Affari Esteri iraniano (figuriamoci che materiale didattico viene diffuso nelle scuole su questo tema). In quell'occasione arrivarono a Teheran decine di negazionisti e venne costruito un modellino del campo di concentramento di Auschwitz.
   Gli organizzatori di eventi simili, intervistati dai quotidiani occidentali come l'Observer inglese, spiegano che se l'Occidente ritiene si possano fare vignette contro il profeta Mohammed, allora non si capisce perché la libertà di parola non permette loro di sollevare dubbi e domande sulla Shoah come evento storico. Forse può illuminare i colleghi giornalisti iraniani sapere che le 150 librerie della catena Steimatzky in Israele, che volevano distribuire il numero di Charlie Hebdo dopo la strage in redazione, hanno accolto la richiesta degli esponenti politici arabo-israeliani di non esporre il numero. Steimatzky ha deciso di venderlo solo dietro richiesta per email, senza metterlo in vista.
   Ovviamente l'analogia tra le vignette di Charlie Hebdo sul profeta musulmano e la negazione di uno sterminio di milioni di persone pianificato scientificamente, non sta in piedi. Direi anzi che è una retorica perversa di chi non nota che, pronunciando questo tipo di argomentazione, altro non rivela che il suo becero antisemitismo.
   I tempi in cui, nel nome dell'Islam, il cosiddetto "califfato" decapita persone di ogni nazione e provenienza (commettendo alla lettera crimini contro l'umanità) e si affretta a bruciare vivi esseri umani, non sono i tempi per il negazionismo di Stato, tipo quello iraniano. La mia domanda è di principio: può uno Stato essere membro delle Nazioni Unite e allo stesso tempo negare la distruzione del popolo ebraico in Europa? In un mondo civile il negazionismo deve essere punito severamente, anche nelle più prestigiose sedi internazionali. E chi nega i crimini del passato non deve possedere armi che lo rendano in grado di commettere gli stermini del futuro.

(il Fatto Quotidiano - blog, 6 febbraio 2015)


Ma Bibi non molla

«Troppo falco per le colombe e troppo colomba per i falchi, Netanyahu ha fatto sempre più fatica a gestire i rapporti con la comunità internazionale, soprattutto dopo che il ritiro da Gaza ha contribuito a creare nella Striscia uno Stato fuori dal controllo persino della leadership palestinese di Ramallah».

di Paola Peduzzi

 
A metà degli anni Ottanta Netanyahu era l'israeliano più conosciuto d'America. Si ritrovò quasi per caso a fare l'ambasciatore all'Onu, ma già prima era il diplomatico di riferimento di Israele per il pubblico americano: sempre in televisione, con il suo inglese quasi senza accento, chiaro nelle spiegazioni, concreto nelle decisioni, fermo nella strategia, cantore impeccabile dell'eccezionalismo ebraico. Imparò in quegli anni molto dei media americani e altrettanto della politica di Washington, costruendo contatti al Congresso che poi si sarebbero rivelati utili - soprattutto ora che, per la prima volta da sempre, il gelo è calato tra la Casa Bianca e Tel Aviv
   Quando c'è da prepararsi per un' elezione contesa, Benjamin Netanyahu chiama gli americani. Lo fece nel 1996, la prima volta che fu eletto primo ministro di Israele, e lo fa ancora oggi, in vista del voto anticipato (da lui) del 17 marzo. Non si tratta degli americani di governo - di questo governo poi men che meno, con Barack Obama e la sua amministrazione Netanyahu non ha ancora trovato pace - ma degli strateghi elettorali, che sono i migliori del mondo. Così in Israele è arrivato john McLaughlin, decano dei guru repubblicani che ha fatto vincere Arnold Schwarzenegger in California, [eb Bush in Florida e Stephen Harper in Canada. A lui si affida Netanyahu per una tornata elettorale che non sarà facile, perché il "King Bibi" celebrato un paio di anni fa sulla copertina di Time nel frattempo è sempre meno re, e rischia di vedersi scippare il regno sotto agli occhi.
Il rapporto con l'America ha segnato la vita di Netanyahu, fin da quando era piccolo.
   Tre volte primo ministro, capitano per cinque anni dell'unità d'elite Sayeret Matkal, Bibi (tutti lo chiamano così) pianse quando suo padre Benizon, storico e attivista sionista, figura centrale nella formazione del premier, gli disse, lui ragazzino, che si sarebbero trasferiti negli Stati Uniti. Al college, "il mondo era diviso tra nerd e sportivi, io ero entrambi", ha raccontato e questo lo ha reso molto forte a scuola ma anche spesso escluso. La vita americana è stata il trampolino di Netanyahu: gli studi al Mit (disse no a Yale, perché la tecnologia gli pareva più importante, studiò architettura e poi Business administration) e l'esperienza in una società di consulenza fecero sì che il futuro premier assorbisse lezioni di economia sui vantaggi competitivi e sul muoversi per primi che poi avrebbe trasferito nella politica israeliana. A metà degli anni Ottanta Netanyahu era l'israeliano più conosciuto d'America. Si ritrovò quasi per caso a fare l'ambasciatore all'Onu, ma già prima era il diplomatico di riferimento di Israele per il pubblico americano: sempre in televisione, con il suo inglese quasi senza accento, chiaro nelle spiegazioni, concreto nelle decisioni, fermo nella strategia, cantore impeccabile dell'eccezionalismo ebraico. Imparò in quegli anni molto dei media americani e altrettanto della politica di Washington, costruendo contatti al Congresso che poi si sarebbero rivelati utili - soprattutto ora che, per la prima volta da sempre, il gelo è calato tra la Casa Bianca e Tel Aviv.
   Gli anni Novanta furono i migliori per Netanyahu. Fu eletto premier, il primo nato dopo la creazione dello Stato di Israele, governò una coalizione instabile, criticò il processo di pace con i palestinesi ma poi firmò gli accordi di Oslo con Arafat, alienandosi la simpatia della destra israeliana, e forse anche quella di suo padre. Quando nel 1999 Netanyahu perse le elezioni, papà Benizon disse: "Bibi non ha avuto successo, ha fatto molti errori, ma credo che abbia imparato la lezione". Dicono che prima di sposare un uomo è bene conoscere i suoi genitori, e in questo caso l'adagio da nonnine è quanto mai azzeccato. Benizon ha forgiato la testa di Netanyahu, così come la morte del fratello Yoni, nell'operazione di Entebbe nel 1979, ha delimitato il cuore del premier, Benizon - che è morto a 102 anni nel 2012 - pensava che la storia degli ebrei fosse una storia di olocausti e che gli arabi sarebbero stati felici soltanto quando il popolo ebraico avrebbe smesso di esistere. È anche per questo che, come ha scritto il Time, Bibi "non ha mai fatto pace con il processo di pace", pur essendo stato l'autore, tra negoziati e liberismo economico, di svolte decisive nel rapporto tra israeliani e palestinesi. Non si fida, Netanyahu. Di niente. Chi lo dice che gli iraniani sono razionali? Hanno mai mostrato razionalità? Chi lo dice che i palestinesi vogliono la pace? Hanno mai provato a cercarla? Datemi le prove, e vi crederò. Non vuol sentire parlare dei confini del 1967, cui s'appigliano tutti i negoziati degli ultimi decenni, perché dice che c'era la guerra prima del 1967 e c'è stata dopo: non può essere uno spartiacque una data che non ha cambiato nulla. La data che conta è quella della fondazione dello Stato di Israele, il 1948, soltanto da lì, dice, si può ripartire. Ma troppo falco per le colombe e troppo colomba per i falchi, Netanyahu ha fatto sempre più fatica a gestire i rapporti con la comunità internazionale, soprattutto dopo che il ritiro da Gaza - che lui contestò fino a ritirarsi dalla compagine che sosteneva l'allora premier Ariel Sharon - ha contribuito a creare nella Striscia uno Stato fuori dal controllo persino della leadership palestinese di Ramallah. Con la minaccia iraniana e lo strike israeliano sempre atteso da molti commentatori, Netanyahu si è ritrovato più solo, accompagnato soltanto da quel pregiudizio negativo che lo circonda, soprattutto nella dolente Europa che spinge per il riconoscimento alle Nazioni unite di uno Stato palestinese - un riconoscimento unilaterale che scavalca tutte le road map patrocinate dalle Nazioni unite, solenne contraddizione. Nell'ultima guerra a Gaza, l'estate scorsa, si è ripetuto uno schema già visto, con Netanyahu il più cauto tra i falchi, ma dipinto come un criminale di guerra in molti media occidentali: mentre molti chiedevano di dare un colpo definitivo al terrorismo di Hamas lui puntava al contenimento. Tra un paio d'anni saremo da capo, gli dicevano, ma lui insisteva: arriviamoci tra due anni, fidatevi di me.
   È ambizioso e combattivo, Netanyahu, ed è già resuscitato una volta: "Nel 1999 pensavo di essere finito, che la mia carriera politica fosse chiusa per sempre", ha detto. In quell'anno il laburista Ehud Barak vinse le elezioni (sempre grazie a un guru americano). Non è andata così, e per lui, che si affida al passato e alla storia per decifrare il futuro, la sua è una bella storia, che si intreccia, con le lacrime di ragazzino e poi con quelle di adulto (ferito nel cuore e forse ferito oggi anche da una politica statunitense che non comprende più) alla storia americana.

(formiche.net, 6 febbraio 2015)


Ci sono ebrei, anche ebrei israeliani, che odiano Netanyahu più di quanto potrebbe odiarlo un arabo musulmano palestinese ammiratore dello stato islamico. Avranno i loro buoni motivi, certamente, che di lontano non si possono scorgere. C’è un elemento però che dovrebbe far riflettere: gli occidentali che detestano, stigmatizzano, criticano Israele cominciano quasi sempre i loro discorsi parlando male di Netanyahu. Le cose, fanno capire, andrebbero molto meglio senza di lui. Lo dicono per il bene di Israele, naturalmente. Convincono i loro discorsi? M.C.


Ogni giorno uccidono 12 cristiani

Ecco i dati choc dell'organizzazione Open Doors: nel 2014 più di 4.000 morti Dopo l'attentato a Charlie Hebdo sono moltiplicati i raid contro le chiese.

di Luca Rocca

L'«ecumenismo del sangue». È così che, poco tempo fa, Papa Francesco ha definito la persecuzione dei cristiani nel mondo, spiegando che quando si tratta di ucciderli, poco importa la «differenza di confessione», la sopraffazione avviene «semplicemente perché sono cristiani,
I numeri sui «testimoni della croce» perseguitati nel mondo fanno rabbrividire: migliaia ammazzati ogni anno per la loro fede. E nemmeno le chiese scampano alla furia degli integralisti musulmani. Il rapporto dell'Onu sui bambini cristiani crocifissi e sepolti vivi in Iraq, è dunque orrore che si aggiunge ad orrore.

STRAGE CRISTIANA
Ogni anno il numero dei cristiani uccisi aumenta drammaticamente. Nel 2012 sono stati 1.201, l'anno successivo 2.123, ma nel periodo di tempo che va dal novembre 2013 al 31 ottobre 2014, come documentato dall'organizzazione americana protestante Open Doors, donne, uomini e bambini massacrati per la loro fede sono stati 4.344, il quadruplo rispetto a solo due anni fa. Un atroce incremento che ha una spiegazione: la nascita dell'Isis, che si dedica alla "caccia al cristiano" in Siria e Iraq, e di Boko Haram in Nigeria e non solo. Ieri i terroristi dello Stato islamico hanno ordinato che siano rimosse tutte le croci dalle chiese nella nazione di Bashar al-Assad, mentre pochi giorni fa a Mosul, nel nord dell'Iraq, i jihadisti dell'Isis hanno ammazzato Murtada Ablahad, un sacerdote cristiano di 44 anni. Lo hanno tenuto prigioniero da quando, nel giugno scorso, si sono impadroniti della città. I colpi di pistola che hanno tolto la vita a padre Ablahad sono stati sparati per via del mancato pagamento del riscatto. Se secondo Open Doors i cristiani uccisi, picchiati, torturati e messi in prigione nel mondo sono 100 milioni, nel "Libro nero della condizione dei cristiani nel mondo", scritto da Jean-Michel di Falco, Timothy Radcliffe eAndrea Riccardi, «da 150 a 200 milioni di cristiani (cattolici, protestanti, ortodossi) vengono discriminati o perseguitati». Gli autori scrivono, inoltre, che l'80% degli atti di persecuzione religiosa è orientato contro i cristiani.

LISTA MORTALE
Open Doors ha pubblicato la World Watch List 2015, che contiene l'elenco dei primi 50 Paesi dove i cristiani vengono oppressi, uccisi, cacciati. Fra i Paesi a maggioranza musulmana dove i «testimoni della croce» vengono massacrati, non ci sono solo Siria, Iraq e Nigeria, ma anche Somalia, Afghanistan, Sudan, Iran, Pakistan, Eritrea, Egitto, Brunei. Nella stessa lista compaiono per la prima volta Messico, Turchia e Azerbaijan, mentre Sudan ed Eritrea rientrano ormai nei primi dieci posti dove i cristiani non hanno più pace. Ma il Paese che mantiene il terribile primato nella persecuzione dei cristiani, è la Corea del Nord, che nelle sue prigioni detiene circa 70mila cristiani.

CHIESE AL ROGO
Nel periodo preso in esame da Open Doors, le chiese bruciate o distrutte sono state circa 1.062. Ma dopo la pubblicazione delle vignette su Maometto da parte del settimanale satirico Charlie Hebdo, la "furia integralista" islamica, con centinaia di persone che urlavano "Allah u Akbar", si è scatenata in Niger, dove sono state incendiate 45 chiese, provocando la morte di almeno 10 persone, 170 feriti e 180 arresti. N ella capitale Niamey, le chiese sono prima state saccheggiate, date alle fiamme, e una scuola cristiana è stata bruciata. A Zinder, la seconda città del Niger, centinaia di cristiani si sono salvati fuggendo nei campi militari. Secondo Open Doors, il 2014 è stato l'annus horribilis per i cristiani, ma «il peggio deve ancora venire».

INDIA VERSUS CRISTIANI
Nel 2014 anche l'India si è dimostrata terra intollerante verso i cristiani. Secondo un rapporto dell'organizzazione non governativa Catholic Secular Forum, nell'anno appena trascorso, che ha visto la conquista del potere anche di gruppi radicali indu, 7mila seguaci di Cristo sono stati vittime di aggressioni, mentre cinque, tra cui un bambino di 11 anni, so-
no stati uccisi. Il rapporto parla anche della campagna "ghar wapasi", cioè "torna a casa", messa in atto dall'estrema destra, che prevede la "riconversione" all'induismo di 273mila persone appartenenti a minoranze religiose nello Stato dell'Uttar Pradesh. Lo stato centrale del Chhattisgarh, dove risiede una grossa comunità tribale convertita al cristianesimo, è quello dove i seguaci della croce rischiano di più. In India le proteste dei cristiani vengono indirizzate verso il premier Narendra Modi, che mai ha proferito parola per condannare le violenze. Nemmeno quando a New Delhi una chiesa è stata incendiata.

(Il Tempo, 6 febbraio 2015)


Ma per l’ONU la pace nel mondo è messa a rischio dal progetto del governo israeliano di costruire case a Gerusalemme Est. I palestinesi hanno parlato di "crimine contro l'umanità".


Nessuno solidarizza con i giornalisti palestinesi?

Fa piacere scorgere su Rai News, nelle trasmissioni notturne di Rai Tre e sulle onde radio di Mamma Rai, la presenza di giornalisti che si presentano per "palestinesi". Ieri mattina a "Tutta la città ne parla" è intervenuto Samir al Qariouty, opinionista per la BBC e Al Jazeera, ma soprattutto: giornalista palestinese. Sorvoliamo sulle tesi fantasiose proposte - la sanguinosa guerra civile in Siria, le esecuzioni sommarie in Iran, le lapidazioni in Arabia Saudita, le impiccagioni degli omosessuali a Gaza, le decapitazioni dello Stato Islamico, la crocifissione dei cristiani nel mondo arabo: tutto sono spiegati dalla contesa dei territori ad est del Giordano fra Israele e palestinesi - e soffermiamoci sulla capacità di questo giornalista di manifestare liberamente le proprie opinioni....

(Il Borghesino, 5 febbraio 2015)


L'ambasciatore israeliano in Svizzera rischia il siluramento

L'ambasciatore a Berna è stato convocato a Gerusalemme a seguito di commenti critici su Twitter nei confronti del primo ministro Netanhayu.

L'ambasciatore d'Israele in Svizzera, Yigal Caspi, e due altri diplomatici israeliani sono stati convocati a Gerusalemme per aver pubblicato su Twitter dei commenti critici nei confronti del primo ministro Benjamin Netanhayu. Tutti e tre rischiano il licenziamento, come indica oggi in una nota il ministro israeliano degli affari esteri.
Caspi, ambasciatore a Berna dal 2012, è accusato di aver ritwittato i commenti di alcuni giornalisti israeliani che denunciavano in anticipo il discorso sull'Iran che Netanyahu deve pronunciare il prossimo 3 marzo davanti al Congresso americano.
Secondo il quotidiano Jediot Ahronot il ministro degli affari esteri Avigdor Liebermann avrebbe già ordinato la sospensione dei tre diplomatici.
Il portavoce del ministero si è limitato a confermare che i tre sono stati convocati per un colloquio "al fine di verificare se sono effettivamente gli autori dei commenti apparsi sui loro account Twitter."

(Ticinonews, 5 febbraio 2015)


Nel 2014 almeno 17 mila ebrei hanno lasciato l'Europa per Israele.

«È ora di farsi qualche domanda». Maglia nera per Francia e Ucraina. Intervista a Sergio Della Pergola, docente dell'università ebraica di Gerusalemme, tra i più grandi studiosi di demografia dell'ebraismo: «È anche colpa della stampa».

di Leone Grotti

 
«Si sa che le percezioni tendono sempre a esagerare i numeri e la realtà, però non sono mai infondate». Lo sa bene Sergio Della Pergola, docente dell'università ebraica di Gerusalemme e tra i più grandi studiosi mondiali di demografia dell'ebraismo. A tempi.it il professore che vive a Gerusalemme cita qualche dato da una delle sue ultime indagini: nel 2012, il 68 per cento degli ebrei in Italia, Germania e Regno Unito percepiva un incremento di atteggiamenti antisemiti nella società. Erano d'accordo anche l'89 per cento degli ebrei francesi. Il 52 per cento degli ebrei francesi, e il 22 per cento di quelli italiani, inoltre, pensava anche di emigrare.
Nel 2014, 6.500 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, al pari di 323 che hanno lasciato l'Italia. E ancora non c'era stata la strage del 9 gennaio all'Hyper Cacher, dove il terrorista Amedy Coulibaly ha ucciso quattro ebrei, e ancora non c'era stato l'episodio di Nizza, dove Moussa Coulibaly (non imparentato con il primo) ha accoltellato tre soldati che proteggevano un centro ebraico. Non solo, secondo i dati diffusi dall'ente addetto all'immigrazione in Israele, nei prossimi dieci anni 120 mila ebrei francesi si trasferiranno in Israele.

- Professore Della Pergola, che problema ha l'Europa con gli ebrei?
  Se gli ebrei, che hanno contribuito a costruire la cultura europea, non si trovano più bene in Europa, allora significa che c'è qualcosa che non funziona. Questo è un grave monito e credo che l'Europa dovrebbe farsi qualche domanda.

- Qual è l'entità del fenomeno dell'emigrazione dall'Europa degli ebrei?
  Nel 2014, 25 mila ebrei da tutto il mondo si sono trasferiti in Israele. Di questi, due terzi provengono dall'Europa. Al primo posto c'è la Francia, con 6.500 partenze, record assoluto nella storia della République. Al secondo, invece, c'è un paese dell'Europa orientale: l'Ucraina, con cinquemila defezioni. Ma questi numeri sono parziali.

- Cioè?
  Questi sono i dati ufficiali israeliani, che però tengono conto solo di chi si è già registrato e non di quelli che sono entrati come turisti e si registreranno solo in futuro. I numeri, quindi, andrebbero più o meno raddoppiati. In secondo luogo, se è vero che dalla Francia alla fine è partito solo l'1 per cento degli ebrei, che sono circa 500 mila, è la progressione a spaventare: nel 2012 se ne sono andati in duemila, nel 2013 in tremila, nel 2014 in 6.500. Nel 2015 questo numero aumenterà ancora. In terzo luogo, Israele non è l'unica terra di approdo per gli ebrei: ci sono anche il Canada o gli Stati Uniti.
Il disagio degli ebrei europei si può forse riassumere in questa battuta di un ebreo francese sceso in piazza a Parigi contro gli attentati: «Se ci fosse stata solamente la presa di ostaggi all'Hyper cacher venerdì, e non l'attentato contro Charlie Hebdo mercoledì, oggi ci sarebbe stata una simile insurrezione repubblicana? Non credo».
Ragionare con i "se" è sempre difficile, ma penso che abbia ragione. È l'abnorme sterminio di una redazione, e non il fatto ebraico, da molti visto come normale, ad aver mobilitato la gente. Questa interpretazione è un po' amara ma abbastanza vicina alla realtà.

- Perché sempre più ebrei lasciano l'Europa?
  Innanzitutto, non bisogna dimenticare la crisi economica: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri, hanno gli stessi problemi e quindi soffrono la crisi. La comunità ebraica, però, si sente anche insicura a causa di una aggressione morale perpetrata nei loro confronti.

- Che tipo di aggressione morale?
  I filoni nell'opinione antisemita sono tre. Il primo è quello classico razzista e nazi-fascista: gli ebrei sono strapotenti, dominano l'economia e hanno causato la crisi. Queste panzane sono un vecchio bagaglio nazista ancora presente. Il secondo riguarda la negazione della Shoah: chi dice cioè che l'Olocausto non è mai avvenuto o che è stato sopravvalutato o che gli ebrei sfruttano la Shoah per altri fini. Queste opinioni, oltre che offensive, sono molto diffuse.

- E il terzo filone?
  È quello anti-israeliano, secondo cui gli israeliani sono i nuovi nazisti del Medio Oriente che impongono la politica agli Stati Uniti e altre simili baggianate che hanno come scopo quello di delegittimare uno Stato sovrano. Spesso tra questi filoni si può distinguere, spesso sotto uno si trovano anche gli altri due.
Quanto hanno influito nell'emigrazione degli ebrei europei gli attacchi da parte di estremisti islamici?
Ha influito, ma questa è una cosa che riguarda tutto l'Occidente. Se infatti in Israele sono abituati a subire attacchi terroristici, per i Paesi occidentali questo è un fatto nuovo e ancora più inquietante. Israele ha un efficace sistema di difesa già sviluppato per ridurre certi problemi, ma chi non ha mai fatto attenzione a questi fenomeni ora è spiazzato. Negli ultimi anni in Medio Oriente c'è stato un incredibile cambio di marcia ma la gente non capisce che questi fenomeni ci sono sempre stati. Israele lo sa.
In Francia ha fatto scalpore ieri un annuncio di lavoro che recitava: «Cercasi grafico, se possibile non ebreo».

- Come si contrasta questo fenomeno?
  Prima di tutto bisogna lavorare sull'educazione e l'istruzione. Io ho apprezzato ad esempio che il nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella si sia recato come prima cosa alle Fosse Ardeatine, dove metà dei trucidati erano ebrei. Questo è un esempio educativo. Le istituzioni italiane, devo dire, fanno quello che possono ma la stampa ha un grande problema.

- Quale?
  Il mondo mediatico è inquinato dal terzo filone di cui parlavo prima: Israele viene sempre criticato e descritto in modo negativo. Pensiamo alla guerra di Gaza di questa estate: se ne è sempre parlato in modo unilaterale. Si parlava giustamente della tragica sofferenza dei palestinesi ma mai della causa, e cioè delle migliaia di missili che i palestinesi hanno lanciato contro Israele, provocando la durissima risposta. Se poi Israele ha costruito rifugi e un sistema missilistico di difesa, Hamas ha posto le rampe di lancio dei missili sui tetti delle scuole e degli ospedali. Così, gli attacchi di risposta degli israeliani hanno colpito anche i civili, che non dovevano essere colpiti. Se, come fa quasi tutta la stampa, si parla delle conseguenze senza mai parlare della causa si fa un discorso fortemente anti-educativo.

(Tempi, 5 febbraio 2015)


L'Egitto contro Hamas

Il Cairo ha confermato ciò che tutti sanno, ma preferiscono tacere: che Hamas ha fatto di Gaza un centro del terrorismo, e non solo contro Israele.

Mentre il resto del mondo diventa incredibilmente condiscendente verso Hamas, l'ala militare di Hamas, le Brigate Izzadin Kassam, sono state ufficialmente bollate come organizzazione terroristica da parte dell'Egitto: una decisione che è una vera pietra miliare, e non soltanto perché è la prima volta che un paese arabo osa prendere posizione contro una formazione della "resistenza palestinese" votata a combattere Israele. Una franchezza finora considerata pura eresia.
Sotto la guida del presidente Abdel Fattah a-Sissi, l'Egitto ha coraggiosamente abbandonato la scontata messinscena dei paesi arabi fratelli che ufficialmente prendono le parti di Hamas mentre, dietro il sostegno di facciata, la temono e la deplorano....

(israele.net, 6 febbraio 2015)


Proteste a Tel Aviv contro il divieto di distribuzione di Charlie Hebdo

GERUSALEMME - Proteste a Tel Aviv contro il divieto di distribuire in Israele il settimanale satirico francese Charlie Hebdo, la cui redazione e' stata decimata in un attentato a Parigi il 7 gennaio. Diversi attivisti del partito nazionalista Ysrael Beitenu, ha riferito Yedioth Ahronoth, si sono radunati davanti al Palazzo dell'Indipendenza, chiedendo ai passanti di firmare una petizione e mostrando loro il settimanale, senza pero' consegnarlo per non violare il bando imposto dalla Commissione centrale per elezioni. Si tratta di "un serio attacco alla liberta' di espressione, e' una capitolazione al terrorismo islamico radicale e ai suoi rappresentanti alla Knesset", si legge nella petizione che attacca il deputato arabo-israeliano, Ahmed Tibi, promotore del divieto. "Il tentativo di vietare la distribuzione di questo settimanale e' semplicemente una resa all'estorsione e all'intimidazione", ha sottolineato Avigdor Lieberman, leader del partito nazionalista e ministro degli Esteri nel governo di Benjamin Netanyahu.
Sulla copertina dell'ultimo numero di Charlie Hebdo, il primo dopo l'assalto armato contro la redazione parigina in cui sono morti 8 giornalisti, c'e' una vignetta di Maometto che piange e dice "tutto e' perdonato".

(AGI, 5 febbraio 2015)


Doppio anniversario per la Bibbia ebraica di Disegni

FIRENZE - Doppio anniversario per la Bibbia ebraica tradotta dal rabbino Dario Disegni, ancora oggi punto di riferimento per la cultura ebraica italiana: il primo volume, dedicato a Pentateuco e Haftaroth, venne pubblicato 55 anni fa e riproposto nel 1995 dalla casa editrice Giuntina.
Era il 1960 quando il rabbino Dario Disegni (1878-1967), dopo anni di intenso lavoro, dava alle stampe la sua traduzione del Pentateuco e delle Haftaroth. Maestro di ebraismo, fondatore della Scuola rabbinica di Torino intitolata a Shemuel Zevì Margulies, fucina di studiosi che ancora oggi coprono numerose cattedre rabbiniche italiane, Disegni dedicò l'ultimo decennio della sua vita all'ambizioso progetto di una nuova traduzione del Tanakh, il testo biblico, a oltre un secolo dalla più recente traduzione allora disponibile. Del progetto fu non solo ideatore e coordinatore, ma anche traduttore insieme ad altri esperti di rilievo.
Il testo biblico venne pubblicato in quattro volumi, usciti dal 1960 al 1967 seguendo la disposizione della Bibbia ebraica: Pentateuco e Haftaroth, Profeti anteriori, Profeti posteriori, Agiografi (pubblicato postumo a pochi mesi dalla scomparsa del curatore). L'opera vide tre edizioni, presto esaurite, ed è oggi nuovamente disponibile grazie all'impegno dell'Editrice La Giuntina, che dal 1995 ha intrapreso la ristampa dei quattro volumi.
Il primo, di cui quest'anno ricorre contemporaneamente il 45.mo anniversario della pubblicazione e il 20.mo della nuova edizione, comprende i primi cinque libri della Bibbia (la Torah) e le Haftaroth, i passi tratti dai Profeti che vengono letti tradizionalmente «dopo quello del Pentateuco (Parascià) la mattina dei sabati, dei giorni di festa solenne», collegati di norma al passo della Torah cui sono accostati.
Il testo italiano, proposto nel volume con l'originale ebraico a fronte, è arricchito di note che indirizzano la comprensione del contesto e il senso del dettato biblico, con lo scopo di «rendere più chiaro - spiegava il curatore a margine della prima edizione - il senso di passi difficili, di qualche indicazione storica o geografica o spiegazione rituale»; l'edizione del 1990 ripropone la traduzione nella versione originale senza adattamenti o aggiornamenti linguistici, ed è caratterizzata dall'adesione letterale al testo, «a evitare - spiega la prefazione - che trasposizioni in prosa letteraria distolgano dalla grandiosità del testo».
Tra gli studiosi coinvolti nella traduzione figurano, oltre allo stesso Dario Disegni (Esodo), Alfredo Sabato Toaff (Genesi), Menachem Emanuele Artom (Levitico), Ermanno Friedenthal (Numeri), Elio Toaff (Deuteronomio), Elia Samuele Artom (Haftaroth) e Alfredo Ravenna per gli indici dei nomi e dei passi biblici. Nomi che rivelano la passione del curatore e il notevole impegno profuso nella realizzazione dell'opera, giustificato dall'importanza del "Libro per eccellenza" che, ribadisce il prefatore, «ha costituito da sempre per gli ebrei la fonte del proprio sapere, della propria cultura, dei propri insegnamenti»; un testo che, ammonisce Disegni stesso, è una «creazione letteraria del tutto speciale» e come tale andrebbe letto, interpretato, rispettato.

Il libro:
Bibbia ebraica. Pentateuco e Haftaroth
a cura di rav. Dario Disegni
ed. Giuntina, 1995
490 pp - 32 euro

(Evangelici.net, 5 febbraio 2015)


Vita sempre più a rischio violenze per gli ebrei inglesi

di Ivano Abbadessa

Il numero di atti antisemiti segnalati nel Regno Unito ha raggiunto un livello record lo scorso anno. La Community Security Trust (CST), organismo che monitora il grado di antisemitismo tra i sudditi di Sua Maestà, ha registrato 1.168 incidenti sul territorio britannico nel 2014 - più del doppio dei 535 casi che hanno avuto luogo nel 2013. Secondo gli esperti si tratta del dato più alto dal 1984, anno in cui la CST ha iniziato le sue rilevazioni. In uno dei peggiori incidenti, classificato come di "estrema violenza", a Londra una vittima è stata fatta oggetto di insulti e colpita con un bicchiere e una mazza da baseball. In totale sono stati 81 gli episodi di aggressioni fisiche, mentre per la maggior parte dei casi si è trattato di abusi verbali, lettere d'odio e bullismo sui social media. Per gli autori dell'inchiesta, l'aumento delle tensioni nella Striscia di Gaza durante l'estate scorsa sembra essere stato il principale fattore che ha contribuito alla crescita dei fenomeni di violenza contro gli ebrei.

(West, 5 febbraio 2015)


I tanti falò umani islamisti che non ci scandalizzano

I cristiani in Pakistan, gli americani di Falluja, gli ebrei israeliani. Bruciati vivi senza indignazione.

di Giulio Meotti

Ormai lo Stato islamico (Is) è assurto a simbolo assoluto dell'orrore, esorcizzato in quanto "barbarie", mica è vero islam. E nella classifica dell'orrore svetta adesso il rogo del soldato giordano, bruciato vivo nella sua gabbia, in filmato hd. La vittima perfetta. Un musulmano ucciso da altri musulmani, con il re giordano Abdullah che promette "guerra spietata" contro l'Is e i saggi di al Azhar che chiamano a esemplari e raccapriccianti punizioni (come la crocefissione) per gli aguzzini del Califfato. Ma la stessa indignazione collettiva, lo stesso scoramento sulle prime pagine dei nostri giornali, lo stesso stupore non lo abbiamo visto per le vittime "sbagliate", sbagliate per la loro identità e il luogo in cui si è consumato il rogo umano, di tanti altri falò islamisti.
   Due mesi fa, nel Pakistan occidentalizzante, due giovani cristiani sono stati bruciati vivi, spinti con la forza in una fornace per mattoni da una folla inferocita di quattrocento persone che l'Is invidierebbe perché deve costringerla, la sua folla, ad assistere alle macabre esibizioni. I due cristiani erano sposati, avevano tre figli e Shama era anche incinta del quarto. Prima di loro ci sono stati i cinque cristiani bruciati vivi nell'isola di Giava, in Indonesia, dopo essere rimasti intrappolati in una chiesa cui una folla inferocita di migliaia di islamici aveva dato fuoco. E ancora i 42 studenti nigeriani bruciati vivi un anno fa nel rogo della scuola pubblica di Mamudo da parte degli apocalittici di Boko Haram. Ma questi cristiani trasformati in ceri umani non accendono editoriali, sono paria di cui l'occidente non vuole sentire parlare. E anche nel mondo islamico, i roghi umani spesso finiscono per anestetizzare le nostre coscienze, dagli slogan sui muri della Siria ("Assad o bruciamo tutto", dicono i lealisti di Damasco) al grande rogo di "infedeli" in Algeria, centinaia di persone arse vive negli anni Novanta, quando i terroristi islamici erano inebriati di sangue come gli inconsci attori di un girone infernale falstaffiano. E quando nella primavera del 2004 quattro contractor americani furono bruciati vivi e impiccati alle travi di ferro sull'Eufrate davanti a una folla festante, per loro non soltanto ci fu indifferenza, in tanti godevano da noi nel vedere i loro resti, il glorioso popolo iracheno che si riappropriava del proprio destino, minacciato dalle baionette americane, dai quattro "mercenari" del Nord Carolina.
   Per quanto riguarda Israele poi, l'opinione pubblica si è scatenata sulle storie di civili palestinesi bruciati appositamente dalle bombe al fosforo di Tsahal, la cui esistenza sarebbe poi stata smentita. Allo stesso tempo facciamo finta di non vedere, anzi sosteniamo e finanziamo, i palestinesi che dedicano strade e piazze di Nablus e Ramallah alla "martire Dalal Mughrabi", la terrorista che guidò il commando che nel 1978 bruciò vivi, questa volta davvero, tredici bambini israeliani in un autobus sulla costa. O il pullman 830, in servizio tra Tel Aviv e Tiberiade, che all'incrocio di Megiddo prese fuoco per un kamikaze alla guida di una Renault carica di tritolo. Il bus bruciò per un'ora intera. Diciassette israeliani furono arsi vivi. Un mese fa, una ragazzina israeliana è stata bruciata viva per un attacco terroristico in Samaria. Ayala Shapira ha combattuto fra la vita e la morte per un mese, e soltanto adesso sta recuperando. Per lei, neanche una riga. Forse perché era una "colona"? In Israele ci sono tanti bambini con il viso bruciato, le mani inutilizzabili, c'è gente impazzita e che ha detto di non voler più vivere perché sente ancora l'odore di carne bruciata. Si arriva a Ilan Halimi, la prima vittima di questa nuova ondata di antisemitismo in Francia, un ragazzo rapito, torturato per due settimane e infine bruciato vivo in una squallida banlieue parigina.
   Cristiani, americani, israeliani. Dei loro roghi umani non ci scandalizziamo mai. Per non dire di peggio.

(Il Foglio, 5 febbraio 2015)


Lia Levi e l'omaggio a Taché: "Ora lo Stato chieda scusa per l'orrore delle leggi razziali"

Intervista a Lia Levi

di Paolo Conti

 
Lia Levi
ROMA - Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato, nel suo discorso di insediamento, l'assassinio di Stefano Gay Taché «il nostro bambino, un bambino italiano». Lei, Lia Levi, da vent'anni scrive libri (l'ultimo «Il braccialetto», edizioni e/o) con un tema di fondo: la difficoltà degli ebrei italiani di «sentirsi» cittadini a pieno titolo.

- Pensa che oggi gli ebrei italiani si sentano cittadini «completi»?
  «Non credo ci sia ora questo problema. Ce ne sono altri. Vedo molte forme di antisemitismo nascoste sotto la veste dell'antisionismo. E vedo soprattutto questa divisione tra ebrei italiani "buoni", che prendono le distanze dal governo israeliano, e quelli "cattivi" che non lo fanno. Un metro di giudizio manicheo che mette in discussione, per gli ebrei italiani, la libertà dei propri sentimenti»

- Fatto sta che, come ha scritto ieri Pierluigi Battista in un commento alle parole di Mattarella, la morte di Stefano Gay Taché è stata a lungo rimossa, dimenticata.
  «In modo vergognoso, senza dubbio. C'era un momento politico particolare, in cui era "scorretto" attaccare tutto ciò che riguardava l'universo palestinese. In base a quell'odioso equivoco, un bambino italiano ucciso per mano palestinese per anni non è apparso nella lista delle vittime del terrorismo stilata dal Quirinale. Qualcosa di incredibile e scandaloso. Poi, negli anni, è cresciuta la presa di coscienza, la sensibilizzazione sulla Memoria, sulla Shoah. L'opinione pubblica ora è molto consapevole, attenta. Ma manca ancora un tassello».

- Quale tassello manca, a suo avviso, Lia Levi?
  «Una questione per niente secondaria che riguarda le leggi razziali. Fu il governo fascista del tempo a emanarle. In Francia lo Stato ha chiesto scusa per questa atrocità alla sua comunità ebraica. Non parliamo di ciò che è avvenuto in Germania. Anche la Chiesa cattolica ha chiesto scusa. Ma il governo italiano non ha mai compiuto un analogo atto pubblico. Le leggi razziali non furono un atto isolato ma consentirono la deportazione e lo sterminio di tanti ebrei italiani. Insomma, se gli italiani hanno preso coscienza degli orrori compiuti dai nazisti, non si può certo dire che lo stesso sia accaduto sulle leggi razziali varate qui, in Italia. Una volta, durante una manifestazione, chiesi il perché alle autorità. Mi venne risposto che la Costituzione si fonda sull'antifascismo e che quella era una implicita presa di distanza. Mi sembrò una risposta insufficiente».

- Pensa che dopo il riferimento del presidente Mattarella a Stefano Gay Taché possa accadere qualcosa?
  «Me lo auguro sinceramente. Mi sembra arrivato il momento storico adatto, soprattutto il personaggio giusto al Quirinale che ha avuto, con quella frase, una autentica illuminazione. Quando gli ebrei italiani continuano a indignarsi, e non a lamentarsi come qualcuno dice, ricordiamoci che hanno le loro ragioni. E poi la funzione degli ebrei è da sempre quella di esprimere indignazione. Infatti sono il pepe, anzi la forza propulsiva della società occidentale».

(Corriere della Sera, 5 febbraio 2015)


Scintille tra ebrei e musulmani al tavolo interreligioso

Pacifici: rifiutano la mano che gli tendiamo

di Franca Giansoldati

ROMA - Scintille. Incomprensioni. Ruggini. Il dialogo tra le fedi è sicuramente tortuoso. Oggi pomeriggio la distanza tra gli ebrei romani e i musulmani della Grande Moschea si è misurata tutta mentre era in corso il Tavolo interreligioso. Questa riunione periodica che aveva come titolo: "note di fede per una unica armonia", ed era promossa dall'UNAR, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha mostrato ancora una volta i rapporti tra i vari principi religiosi può essere un esercizio assai complicato, una strada in salita.
  I problemi sono nati quando Abdellah Redouane, direttore del centro culturale islamico, ha liquidato, forse un po' in malo modo, la proposta di Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, il quale suggeriva di prendere spunto dai metodi di gestione basati sulla trasparenza che da anni vengono adottati dalle comunità ebraiche per la loro vita interna. A proposito di nomine, di come individuare il personale religioso, dove verifica, integrità morale e controllo sono azioni conseguenti. Per gli ebrei un meccanismo consolidato che va a tutela degli stessi iscritti. "Mi chiedo cosa ci può insegnare una comunità di appena 30 mila anime a una che invece ne conta 1.600.000?".
   Pacifici qualche ora dopo su Twitter commentava l'episodio: "Reduane ha allontanato la mano tesa" che la comunità ebraica gli aveva porto. "Alla faccia del dialogo". Come dire che "i musulmani non hanno nulla da imparare dalle minoranze ebraiche" anche se queste sono radicate sul territorio italiano da secoli. Il disaccordo, come spesso accade, nasce da lontano.
   Dietro questa lite ci sono ruggini che risalgono ad un decennio fa, quando la comunità ebraica fece un passo distensivo e andò in visita alla Grande Moschea. Un gesto storico di conciliazione. La delegazione fu accolta da Reduane e un paio di funzionari, senza quell'enfasi che il protocollo avrebbe previsto. L'imam, però, quel giorno non c'era perché era gravemente malato, così come non c'erano i membri che compongono il gruppo dirigente. Naturalmente la comunità islamica romana avrebbe dovuto ricambiare la visita alla Sinagoga ma una fatwa emessa dall'Egitto impedì di concretizzarla.
   Insomma, tutto in salita e complicato. "É compito della politica - ha detto il Sottosegretario Biondelli, promotore del Tavolo - prevenire e combattere le discriminazioni ponendo le condizioni per favorire il dialogo anziché lo scontro, la conoscenza in luogo della paura e della diffidenza".

(Il Messaggero, 5 febbraio 2015)


Crimini di guerra a Gaza: a capo della commissione Onu la giurista McGowan Davis

La giurista americana Mary McGowan Davis sostituisce William Schabas dimessosi lunedì dopo le accuse di parzialità mosse da Tel Aviv.


di Milena Castigli

Mary McGowan Davis
Il presidente del Consiglio Onu per i diritti umani Joachim Ruecker ha nominato la giurista americana Mary McGowan Davis a capo dell'inchiesta aperta dalle Nazioni Unite per accertare possibili crimini di guerra commessi da Israele durante l'offensiva militare a Gaza iniziata il 13 giugno 2014. La Davis sostituisce l'accademico canadese William Schabas, dimessosi lunedì dopo le accuse di antisemitismo mossegli dal governo israeliano. Secondo Tel Aviv, Schabas avrebbe prestato attività di consulenza all'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) nel 2012, mettendo così in dubbio l'imparzialità del giurista, professore di Diritto internazionale presso l'Università di Londra.
Schabas, da parte sua, in una lettera consegnata alla commissione, ha dichiarato la sua intenzione di farsi da parte per evitare strumentalizzazioni del rapporto finale sull'attacco contro Gaza, che sarà reso pubblico il 23 marzo. Nella missiva, l'accademico si è difeso affermando che l'opinione legale che scrisse per l'Olp nel 2012 (e per la quale fu pagato 1.300 dollari) era solo un consiglio legale che aveva già fornito in passato ad altre organizzazioni e governi.
Martedì mattina il premier israeliano Benjamin Netanayu aveva chiesto l'archiviazione della commissione Onu incaricata di indagare sugli eventi di Gaza. Già lo scorso agosto - quando venne istituito il team - il premier senza mezzi termini lo aveva definito "comitato dei diritti dei terroristi, un corpo anti-israeliano" che non ha niente a che vedere con i diritti dell'uomo. "Si tratta della stessa commissione che nel 2014 ha preso più decisioni contro Israele che contro Iran, Siria e Nord Corea messi insieme. Dovrebbero indagare Hamas, non Israele", aveva dichiarato in quella occasione.

(In Terris, 5 febbraio 2015)


L'antisemitismo, una tradizione francese

Da Voltaire a Vichy, l'odio per gli ebrei. L'accusa di Kouchner

Editoriale
Non passa giorno, ormai, che dalla Francia non arrivino notizie di attacchi ai centri ebraici, di minacce per strada ai passanti ebrei, di intimidazioni quotidiane agli studenti ebrei, di stragi vere e proprie. Sull'ondata di emozione pubblica seguita ai quattro morti del supermercato kasher di Parigi, si sono lette infinite giaculatorie su come la Francia ami i suoi ebrei, su come non ne possa fare a meno, pena la perdita della sua anima repubblicana.
   In questo clima si sta per aprire anche il processo liberticida al comico Dieudonné. Ieri sono arrivate le dichiarazioni dell'ex ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, il quale ha detto invece che l'antisemitismo è una "tradizione francese". Un'accusa pesante. Che risale all'illuminismo di Voltaire e alla sua giudeofobia ("non troverete negli ebrei che un popolo ignorante e barbaro che unisce da tempo la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione" diceva il bardo della tolleranza, che dopo la strage a Charlie Hebdo è tornato in testa alle vendite dei libri). Un odio assillante che ha contaminato anche i massimi teorici del socialismo come Fourier, Toussenel e Proudhon.
   Si arriva al caso Dreyfus, il capitano ebreo per il quale non si sollevarono le sinistre francesi, che fino all'ultimo mostrarono disprezzo per la disputa e la definirono una peripezia borghese-capitalista (solo Jaurès, tardivamente, si proclamò dreyfusardo) e per il quale non si schierarono gli scrittori e gli artisti francesi, almeno fino al momento in cui, nel 1898, Emile Zola gridò solitario al presidente della Repubblica il suo "J'accuse".
   Poi c'è la Francia di Vichy, solerte, ligia, compiacente, un caso unico di collaborazionismo in Europa, che fu coautrice oltre che serva, nel genocidio nazista degli ebrei.
   Infine c'è il generale De Gaulle, il padre della patria, che nel 1967, un anno fatale per il destino di Israele, definiva gli ebrei "un popolo elitario, sicuro di sé e dominatore", imponendo loro l'embargo delle armi. E' questo cuore nero e conformista dell'antisemitismo con cui la Francia non ha mai fatto davvero i conti.
   E che continua a perseguitare i suoi ebrei.

(Il Foglio, 5 febbraio 2015)


Come in un libro aperto, la vita degli ebrei in esilio 2.500 anni fa

In mostra al Bible Lands Museum di Gerusalemme, più di cento tavolette di Babilonia scritte in cuneiforme accadico.

Una nuova mostra di antiche tavolette d'argilla scoperte nel moderno Iraq getta luce per la prima volta sulla vita quotidiana degli ebrei esiliati in Babilonia circa 2.500 anni fa.
Intitolata "Sui fiumi di Babilonia" (dal Salmo 136: "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion, ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre"), la mostra si basa su più di cento tavolette cuneiformi, ciascuna non più grande del palmo della mano di un adulto, che documentano in dettaglio scambi e contratti tra i giudei portati via, o "convinti" ad andar via da Gerusalemme dal re Nabucodonosor intorno al 600 a.e.v....

(israele.net, 4 febbraio 2015)


Cominciamo dalle scuole a insegnare la tolleranza

di Davide Romano

 
Davide Romano
Il 27 gennaio la Regione Lombardia ha approvato una contestata legge anti moschee sull'onda delle stragi di Parigi. Resto dell'idea che a preoccuparci non debbano essere tanto le mura di una moschea, quanto chi e cosa viene predicato al suo interno. Se guardassimo però oltre queste battaglie simboliche, noteremmo invece come dal territorio ci arrivano segnali preoccupanti - sebbene meno rumorosi - a partire dalle nostre scuole.
   Proprio nei giorni intorno al 27 gennaio, Giorno della Memoria, ho incontrato migliaia di studenti per parlare di cosa sia stato il campo di concentramento di Auschwitz. E di quanto sia importante che esso faccia parte del patrimonio culturale europeo, perché nessuna minoranza venga mai più perseguitata. Ma ho parlato anche con diversi insegnanti di quelle scuole, che mi hanno lanciato un grido di allarme: ci sono sempre più studenti di origine araba che non accettano il Giorno della Memoria. Mi hanno raccontato di una studentessa che si è rifiutata di partecipare. Un altro studente invece è intervenuto, ma affermando che "la Shoah è tutta propaganda". E così via.
   Personalmente, devo purtroppo confermare tale allarme. Insieme a una ex deportata, ho recentemente partecipato a un incontro con le scuole. Mentre l'anziana donna raccontava con dolore la propria esperienza nel campo di Bergen Belsen, un gruppo di ragazzi di origine magrebina l'ha contestata. A un certo punto hanno tirato fuori perfino una bandiera (segno che la contestazione era preparata), finché il resto dei loro compagni non li ha zittiti.
   Io tuttora voglio credere che l'ex deportata - visto che eravamo in un teatro molto grande, e i contestatori in fondo - non si sia accorta di tutto quello che stava accadendo. Il solo pensare che possa avere sentito urlare slogan senza senso durante la sua testimonianza, mi atterrisce. Al termine dei nostri interventi, giunto il momento delle domande, uno di quei ragazzi è venuto a chiedere "perché non la smettiamo di ricordare queste cose?". D'altro canto è anche bello ricordare come al termine dell'incontro, una studentessa mi ha avvicinato per dirmi:" io sono musulmana, e voglio dirvi che sto dalla vostra parte. Quelli sono pazzi".
   Anche in Francia, già quindici anni fa, non era facile parlare di Shoah con studenti di origine araba. Poi cominciò il crescendo di aggressioni agli ebrei per strada, per finire con gli attentati degli ultimi anni. Dobbiamo quindi trovare nuove strade per rivolgerci anche a loro: proponendo magari degli eroi musulmani positivi. Mentre i media li tempestano di modelli negativi, forse la scuola potrebbe aiutarli a scoprire il lato bello e tollerante dell'islam.
   Illuminanti ad esempio, i comportamenti dell'Albania o del Marocco negli anni '40. In entrambi i paesi - a stragrande maggioranza islamica - non un ebreo fu deportato. Così come sarebbero da ricordare i settanta Giusti musulmani che salvarono ebrei a rischio della propria vita. Chi davvero teme il futuro estremismo islamico dovrebbe forse urlare di meno, e ascoltare di più le parole dei nostri insegnanti. Per aiutarli. Loro, col futuro, ci lavorano ogni giorno.

(la Repubblica, 4 febbraio 2015)


La macchina che filtra l'aria e la trasforma in acqua

di Maurizio Molinari.

Al secondo piano di un edificio anonimo al 33 di Rechov Lazarov lavora Arye Kochavi, l'inventore incluso da «Foreign Policy» e «Fast Company» nella classifica dei «più importanti innovatori» del 2014, ovvero una delle stelle della «Start Up Nation» che si appresta a sbarcare in Italia con il Padiglione di Israele all'Expo di Milano.
  Il merito di Kochavi è aver fondato «Water Gen», start-up che ha creato in 24 mesi due gioielli della tecnologia che portano acqua potabile a chi ne ha bisogno. «Genius» è un generatore di acqua dall'atmosfera che produce da 250 a 800 litri al giorno e «Spring» è un purificatore portatile, in grado di operare in qualsiasi condizione, filtrando 180 litri ogni 24 ore. Catturare l'umidità per trasformarla in acqua è la tecnologia-base dei condizionatori d'aria e la scoperta rivoluzionaria di Kochavi, 47 anni, è stata riuscire a produrre più acqua con meno energia. «Usando l'aria fredda per raffreddare l'aria che entra nel "Genius"», come spiega, ammettendo che «l'idea è stata mia, ma il merito di averla realizzata è di un ingegnere di 70 anni».

- L'interesse degli eserciti
  Poiché l'acqua è uno dei beni più richiesti, le conseguenze sono state immediate. «Genius» è stato acquistato dagli eserciti di Usa, Gran Bretagna, Francia e Israele per garantire la disponibilità di acqua a truppe in «avamposti avanzati» - in zone come l'Afghanistan, il Mali o il Golan - perché «un soldato ha bisogno di 3 litri al giorno per operare e "Genius" è dunque in grado di sostenere una compagnia». Anche l'Esercito italiano ha iniziato i test con i prodotti di «Water Gen», pensando ai rifornimenti per le truppe in zone impervie del Terzo Mondo. Ma è sul fronte civile che la richiesta è più massiccia. Kochavi è appena tornato dal Gujarat, dove il governo dell'India l'ha invitato per pianificare uno sbarco in grande stile, ovvero la creazione di un impianto per produrre migliaia di «Genius» e «Spring». Il motivo è che in India milioni di famiglie non hanno accesso all'acqua potabile e il presidente Modi vuole distribuire 1000 «Genius» in altrettanti villaggi al fine di migliorare l'alimentazione e bloccare la piaga delle morti da cancro alla soglia dei 40 anni, causate dall'inquinamento. «La richiesta del governo è iniziare dai villaggi per continuare creando dei "Genius" più piccoli che le famiglie potranno tenere nelle case, rompendo il tabù dell'acqua potabile». Anche perché con «Water-Gen» l'acqua costerà 1,7 rupie al litro contro le attuali 17, necessarie per acquistare un litro di acqua in bottiglia. I purificatori «Spring» sono invece destinati ad aiutare le popolazioni colpite da disastri naturali: hanno debuttato in occasione dei soccorsi alle Filippine, investite nel 2013 dal tifone Haiyan, e «sono in grado di purificare l'acqua di qualsiasi fiume, lago o campo, anche dei più contaminati».
  La visione che spinge Kochavi è quella di un Pianeta dove «non vi saranno più 3,4 milioni di persone che muoiono ogni anno a causa di acqua infetta» o «780 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile». La collaborazione con l'India è «il primo passo in questa direzione» che «Water-Gen» affronta con un personale ristretto: poco più di 30 dipendenti, inclusi 20 ingegneri, accomunati dal «condividere le emozioni e le sfide come avviene nei reparti delle truppe speciali». Kochavi ne è stato un comandante nell'Idf - l'esercito israeliano - ed è questa esperienza che l'ha portato a comprendere che «serviva l'acqua per i soldati nelle postazioni più remote». Sotto tale aspetto «Water Gen» è lo specchio della «Start Up Nation» israeliana anche perché si giova del sostegno finanziario che il governo garantisce all'alta tecnologia: «Ogni anno l'Ente per la Scienza rimborsa alle aziende il 40% delle spese per ricerca e sviluppo, per una spesa di 300 milioni di dollari».

- Il padiglione all'Expo
  E' questo lo «spirito del Padiglione di Israele all'Expo», spiega il commissario Elazar Cohen, perché «davanti alle necessità dell'uomo non ci fermiamo, ma riconosciamo le sfide da superare». Da qui la scelta, affidata all'architetto David Knafo. di realizzare il Padiglione come un «campo verticale» di grano, mais e riso irrigato con un sistema hi-tech che risparmia acqua.

(La Stampa, 4 febbraio 2015)


Italia e Israele, nel futuro gemellaggio per l'Ambiente

Puntano a uno scambio di conoscenze e tecnologie

Scambio di esperienze e confronto sulle più urgenti problematiche ambientaliste fra Italia e Israele, che puntano a trasferirsi il know how in vari settori per migliorare la tutela dell'ambiente. Così i due Paesi intendono collaborare e lo hanno spiegato in occasione della festività ebraica di 'Tu Bishvat-il Capodanno degli alberi' e in vista di Expo 2015.
In occasione dell'Expo, "sull'ambiente bisogna cogliere l'attenzione di tutti i Paesi del mondo" e per questo ci sarà una giornata dedicata all'approfondimento dei temi ambientali ha detto il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti, incontrando i rappresentanti del Council for a beautiful Israel, l'ambasciatore dello Stato di Israele, Naor Gilon e i presidenti delle associazioni ambientaliste Greenpeace, Legambiente, Wwf e Italia Nostra.
Italia e Israele puntano dunque a creare un gemellaggio con l'obiettivo di tutelare l'ambiente e le risorse del proprio Paese e ad uno scambio di tecnologie e nuove pratiche. In Israele, "piantare alberi è una tradizione", tanto che "ne sono stati piantati 240 milioni", ha spiegato il biologo marino Angelo Colorni, del Centro nazionale di Marecoltura israeliano. Su una superficie di 250mila ettari in Israele - ha ricordato - ci sono 150 riserve naturali e 65 parchi naturali.
Nel rilevare che in Israele "è positivo il bilancio fra alberi tagliati e quelli piantati", l'ambasciatore Gilon ha auspicato che in occasione dell'Expo ci sia anche un incontro interreligioso fra cibo e ambiente.
Parlando del proprio campo di ricerca, l'acquacoltura, Colorni ha rilevato il gran lavoro fatto per la "riabilitazione dei fiumi di Israele, troppo scarsi" che grazie a "massicci sforzi del governo sono sati riportati in vita con la presenza di numerosi pesci". Grandi sforzi sono stati compiuti anche per sviluppare tecnologie per l'allevamento di pesci di acqua salata (dalle orate alle spigole) anche a fronte del problema dell'inquinamento delle acque del golfo. Motivo per cui tonnellate di pesci sono state trasferite nel mar Mediterraneo.
Il Council for a beautiful Israel ha contribuito a questo e altri progetti, per esempio nel riciclo dei rifiuti o nella sensibilizzazione contro i mozziconi di sigarette per strada o i residui di cani e gatti (quelli randagi sono 3 milioni), promuovendo il senso civico e quello della bellezza. E fra le iniziative anche la pulizia delle spiagge e la sensibilizzazione nelle scuole verso i problemi ambientali. Il ministro Gian Luca Galletti ha rilevato che "non si può prescindere dall'Ambiente": pur riconoscendo l'importanza della tecnologia bisogna riconoscere e fare i conti la natura, ad esempio i cambiamenti climatici e i fenomeni meteo estremi. Quindi, bisogna pensare all'oggi ma anche a quello che si lascia alle generazioni future. "Occorre trovare un punto di convergenza anche con Paesi distanti e a prescindere dalle differenze religiose o culturali", ha detto il ministro portando ad esempio la sua visita in Cina dove lo smog è come una nebbia perenne: "quello dei cinesi è anche un nostro problema".
Nell'incontro organizzato da 'The italian council for a beatiful Israel' con il Ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, l'Ambasciatore dello Stato di Israele, Naor Gilon, e i rappresentanti delle associazioni Legambiente Vittorio Cogliati Dezza, Greenpeace Andrea Purgatori, Wwf Fulco Pratesi, Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana, è stato rivolto loro l'invito di un viaggio in Israele per conoscere quali risorse vengono impiegate nella difesa della natura. La scelta del Capodanno degli alberi è stata fatta "per testimoniare che gli Ebrei nascono come popolo di pastori per poi diventare anche agricoltori che quindi imparano presto a celebrare le proprie feste sublimando i cicli della natura: la semina, il raccolto, le primizie, gli alberi. Tu Bishvat (detta anche Rosh-ha-shanà Lailanoth: capodanno degli alberi) cade il 15 di Shevat secondo il calendario ebraico che, essendo lunare e quindi più aderente ai cicli della natura, non corrisponde ad una data fissa del calendario gregoriano".

(ANSA, 4 febbraio 2015)


Francia, assalto al centro ebraico. Due soldati feriti a colpi di coltello

di Stefano Montefiori

PARIGI - Il colonnello Jean-Pìerre Bedu ha potuto rivedere con calma le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza e ha raccontato nei dettagli l'aggressione all'Afp: intorno alle 14 di ieri, nel pieno centro di Nizza, all'ingresso del palazzo che ospita il concistoro ebraico e Radio Chalom, «un individuo si è avvicinato ai militari lasciando cadere un sacchetto di plastica davanti a loro, per distogliere l'attenzione. Ha estratto dalla manica un coltello e ha puntato direttamente al volto del primo soldato, forse perché si è accorto che era protetto da un giubbotto antiproiettili. Il militare è rimasto ferito al viso in modo piuttosto grave, ha un taglio molto profondo a livello dello zigomo. Il secondo soldato ha schivato molti colpi ed è stato ferito abbastanza gravemente a un braccio. Il terzo militare ha immobilizzato l'individuo gettandolo a terra nei secondi immediatamente successivi».
   L'individuo, racconta ancora il colonnello, aveva con sé due coltelli, e quello che ha usato aveva una lama di almeno 20 centimetri. Così si è svolto il nuovo attacco, sul quale indaga la Procura antiterrorismo, a quasi un mese dagli attentati di Parigi. L'autore ha trent'anni, ha origini maliane e si chiama Moussa Coulibaly. Il cognome è lo stesso di Amédy Coulibaly, il terrorista islamico che il 9 gennaio ha ucciso quattro ebrei nell'assalto al supermercato Irosher di Vincennes. Sembra che tra i due non ci sia legame di parentela (Coulibaly è un nome comune in Mali). Secondo la radio Europe l, l'uomo avrebbe gridato «Je suis 100% Coulibaly», ma manca una conferma ufficiale.
   Come nel caso dei terroristi di Parigi, anche Moussa Coulibaly era controllato dai servizi segreti. Pregiudicato per furto e violenze, nel dicembre scorso è stato notato fare del proselitismo islamico nella sua palestra a Mantes-Ia-Ville, alla periferia di Parigi. Alla fine di gennaio ha lasciato la capitale, il 28 gennaio si è presentato all'aeroporto di Ajaccio, in Corsica. e ha preso un volo solo andata per Istanbul, in Turchia, abituale porta di ingresso dei jihadisti diretti in Siria. La polizia di frontiera francese ha avvertito i servizi che hanno avvisato le autorità turche: all'arrivo a Istanbul Moussa Coulibaly è stato rimesso subito su un aereo verso la Francia. Qui è stato interrogato e lasciato libero. Ieri l'aggressione.
   I tre militari attaccati fanno parte dei circa 10 mila soldati che dopo i fatti di Parigi sono stati dispiegati su tutto il territorio nazionale a difesa dei «siti sensibili. Appartenenti al 54 o reggimento di Hyères, avevano il compito di proteggere il concistoro di Nizza e la radio della comunità ebraica. Poco prima di attaccarli, Moussa Coulibaly è stato fermato da un controllore sul tram di Nizza, e multato perché senza biglietto. Era in compagnia di un uomo originario del Ciad e con passaporto canadese, che più tardi è stato arrestato e che potrebbe essere un complice.
   Secondo il presidente del concistoro di Francia, Joèl Mergul, «è evidente che gli ultimi attentati non sono serviti di lezione e ancora meno di avvertimento agli estremisti, che continuano a prendersela con la comunità ebraica». Pochi giorni fa il Crif (Consiglio delle istituzioni ebraiche di Francia) ha diffuso cifre inquietanti: 851 atti antisemiti registrati nel 2014 contro 423 nel 2013, ossia il doppio.

(Corriere della Sera, 4 febbraio 2015)


Miano Tour Operator: pronto al decollo il primo educational in Israele

Era stato annunciato sulle nostre pagine virtuali lo scorso dicembre, ora il primo educational di Miano Tour Operator per Israele sta per decollare. La partenza è prevista per domani, giovedì 5 febbraio, quando un gruppo di agenti di viaggio, con in valigia un grosso carico di voglia di scoprire, partirà alla scoperta di una destinazione dal gusto poliedrico e universale che "non è solo Terra Santa", come continuano a ripetere dal giovane tour operator siciliano.
Gli agenti di viaggio sono stati accuratamente selezionati tra i migliori partner del tour operator, tra quelli che hanno maggiori potenzialità di contribuire con la loro conoscenza del mercato e con il loro bacino qualificato di utenti, allo sviluppo della nuova destinazione di Miano Tour Operator.
Il gruppo avrà modo di gustare il sapore storico di alcuni siti come Cesarea e Masada, il sapore mondano e moderno di Tel Aviv e della Gerusalemme moderna, il sapore spirituale, storico, monumentale e anche fortemente etnico della Gerusalemme moderna, passando anche per il sapore di sale, è il caso di dirlo, delle acque termali e terapeutiche del mar morto.

(Travelnostop, 4 febbraio 2015)


Indagava su Israele per l'Onu ma era sul libro paga dell'Olp

Scandalo a Palazzo di Vetro. Si dimette il presidente della Commissione d'Inchiesta sugli attacchi del 2014 a Gaza. Netanyahu: "Nominare Schabas a capo dell'inchiesta Onu è stato come chiedere a Caino di scoprire chi ha ucciso Abele."

di Carlo Panella

 
William Schabas
Nuova meschina figura dell'Onu: William Schabas è stato costretto a dare le dimissioni da presidente della Commissione di Inchiesta sulla violazione dei diritti umani commessi da Israele durante l'ultima occupazione di Gaza. Un incidente che squalifica ulteriormente - se ce ne fosse bisogno - quella Commissione dei Diritti Umani della Nazioni Unite che a suo tempo assegnò la presidenza persino alla Libia di Gheddafi. Soprattutto, dimostrazione che gli alti responsabili dell'Onu, oltre a essere scandalosamente schierati con i palestinesi, hanno anche un quoziente d'intelligenza e una prassi politica demenziali. Schabas, infatti, è stato costretto a lasciare l'incarico dopo avere rilasciato dichiarazioni di questo tenore: «Il primo ministro d'Israele, Benjamin Netanyahu, e il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, sono maestri di dichiarazioni ridicole e stravaganti e credo continueranno a rilasciarle». Un giudizio equilibrato ed equidistante, come si vede. Non solo, Jerusalem Post di martedì ha rivelato con prove inoppugnabili che lo stesso Schabas, che è un accademico canadese, ha lavorato come consulente, e quindi è stato a libro paga, della Olp. Esempio preclaro di imparzialità e di professionalità politica made in Onu. Secco il commento di Netanyahu: «Nominare Schabas a capo dell'inchiesta Onu è stato come chiedere a Caino di scoprire chi ha ucciso Abele». Naturalmente, il premier israeliano ha colto l'occasione di queste dimissioni dalle motivazioni scandalose per chiedere che l'Onu archivi del tutto l'inchiesta e che non pubblichi quindi il primo Rapporto previsto il 3 marzo prossimo. Netanyhau ha anche attaccato, e nel suo complesso, la Commissione per i Diritti Umani dell'Onu (Unhrc), accusandola di essere «un organismo anti israeliano» che nel 2014 ha approvato più risoluzioni contro Israele che l'Iran, la Siria e la Corea del nord messi assieme». Questo dato è tanto inequivocabile e scandaloso e dipende dalla composizione "paritaria" di questo, come di tutti gli organismi dell'Onu, che fa sì che i diritti umani vengano monitorati dai Paesi che più li violano al mondo, uniti solo e unicamente dall'odio verso Israele (che molti dei suoi paesi membri si rifiutano peraltro di riconoscere).
   Questo episodio, apparentemente marginale, è invece di importanza cruciale alla luce della avventurista manovra avviata dal leader dell'Olp Abu Mazen. Questi, incapace persino di mantenere un accordo di governo unitario con Hamas - in un clima di guerra civile palestinese a bassa tensione - ha infatti deciso di scaricare la sua debolezza interna sul fronte palestinese, aggredendo Israele sul piano diplomatico. Passaggio cruciale di questa strategia avventurista è stata la domanda di iscrizione della sua Autorità Nazionale Palestinese al Tribunale Penale Internazionale, davanti al quale si prepara a denunciare Israele per «crimini contro l'umanità». Durissima è stata la reazione di Israele, come di Obama nei confronti di una mossa, finalizzata con tutta evidenza non a concludere una trattativa positiva con Israele per la nascita di uno Stato Palestinese, ma solo a rinfocolare l'odio antisionista e antiebraico e a dare armi alla propaganda araba più oltranzista. È dunque evidente che il rapporto Onu sull'ultima guerra di Gaza, scritto sotto la direzione dell'anti israeliano Schabas, costituirà un atto d'accusa determinante davanti a questo tribunale. A questo proposito è bene ricordare che l'ultimo Rapporto dell'Onu sulla precedente operazione di Israele a Gaza "Piombo fuso" del 2008, è stato clamorosamente smentito dallo stesso presidente di allora di questa stessa Commissione. Dopo tre anni dalla sua pubblicazione infatti, il sud africano Richard Goldstone ha ammesso che le sue accuse di crimini di guerra a Israele erano inattendibili per la ovvia ragione che Hamas - che aveva iniziato le ostilità, nascondendo le sue batterie di missili tra i civili, come sempre - non aveva risposto alla sua Commissione e quindi le sue responsabilità primarie erano semplicemente state ignorate: «Oggi sappiamo molto di più su quanto avvenne nella guerra di Gaza del 2008-2009 rispetto al periodo nel quale condussi l'inchiesta; se avessi saputo allora ciò che sappiamo oggi, il Rapporto Goldstone sarebbe stato differente. Israele infatti ha dedicato risorse significative per indagare su oltre 400 accuse riguardo alle proprie operazioni militari, mentre Hamas non ha svolto alcuna indagine sul lancio di missili e mortai contro Israele».

(Libero, 4 febbraio 2015)

*


L'inquisitore di Israele prendeva soldi dall'Olp. Si dimette dall'Onu

di Giulio Meotti

ROMA - Le commissioni d'inchiesta dell'Onu sulle guerre di Israele non hanno molta fortuna. La prima, sull'operazione "Piombo fuso", capitanata dal magistrato sudafricano Richard Goldstone, si concluse con la clamorosa abiura da parte del suo stesso autore ("se avessi saputo allora quello che so oggi, il rapporto Goldstone sarebbe stato molto diverso"). La seconda commissione, sulla guerra a Gaza della scorsa estate, ieri ha assistito alle dimissioni del suo capo, il professore canadese William Schabas, a causa di un clamoroso conflitto di interessi.
   Gli israeliani, che lo scorso dicembre avevano comunicato che non avrebbero mai collaborato con la commissione fino a quando non sarebbe stata composta da persone veramente imparziali e al di sopra delle parti, nei giorni scorsi avevano depositato al Consiglio del diritti umani di Ginevra una denuncia formale per la cacciata del professor Schabas, citando, tra le altre cose, una sua consulenza del 2012 che Schabas, docente di Diritto internazionale presso la Middlesex University di Londra, aveva svolto per l'Organizzazione per la liberazione della Palestina. Consulenza pagata 1.300 dollari.
   Appena nominato, lo scorso agosto, Schabas disse: "La mia ambizione è portare Netanyahu davanti alla Corte penale internazionale" per i crimini commessi da Gerusalemme durante Piombo fuso. Dettaglio: all'epoca dell'operazione Piombo fuso, Netanyahu non era al governo e il primo ministro era Ehud Olmert. La procura della Corte internazionale dell'Aia ha appena annunciato di avere avviato una "inchiesta preliminare" su Israele, che il procuratore capo, Fatou Bensouda, ha promesso sarà "indipendente e imparziale".
   In un articolo per una rivista di legge scritto nel dicembre 2010, il professor Schabas aveva dichiarato che Netanyahu va considerato "il singolo individuo che con più probabilità minaccia la sopravvivenza di Israele". Schabas aveva anche detto in un'intervista: "Perché stiamo cercando il presidente del Sudan per il Darfur e non il presidente di Israele per Gaza?". Nel 2011, Schabas ha sponsorizzato un Centro per i diritti umani e la diversità culturale in Iran. Il centro, che accusa Israele di politiche di apartheid, ha forti legami con il regime iraniano, che al momento era guidato da Mahmoud Ahmadinejad. In uno di quei viaggi Schabas dichiarò che "l'Iran ha il diritto di acquisire armi atomiche a scopi difensivi". L'ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, Ron Prosor, ha detto che far presiedere a Schabas una Commissione di inchiesta "è come invitare l'Is a organizzare all'Onu una settimana sulla tolleranza religiosa", mentre il ministro degli Esteri del Canada John Baird (connazionale di Schabas) ha dichiarato che "il Consiglio Onu dei diritti umani continua a essere una vergogna in fatto di promozione dei diritti umani".
   Ieri, dopo le dimissioni di Schabas, Netanyahu ha chiesto al Consiglio dei diritti umani di accantonare il rapporto sulla guerra di Gaza. Nel 2014 quel Consiglio dell'Onu ha approvato 57 risoluzioni contro Israele, 14 contro la Siria, sette contro la Corea del nord e quattro contro l'Iran.

(Il Foglio, 3 febbraio 2015)


SiciliAntica. Si parla della presenza ebraica in Sicilia

Nuova lezione al Corso di Cultura e Storia dell'Arte Ebraica organizzato da SiciliAntica in collaborazione con l'Istituto Siciliano Studi ebraici, UniPegaso, Officina di Studi Medievali e Fildis. Giovedì 5 febbraio 2015 alle ore 16,30, dopo la presentazione di Alfonso Lo Cascio, della Presidenza Regionale SiciliAntica, si terrà la terza lezione dal titolo "Gli Ebrei e la Sicilia". Relatrice sarà Luciana Pepi, Docente di Filosofia ebraica medievale presso l'Università di Palermo. Il giorno successivo, venerdì 6 febbraio, sempre alle ore 16,30, Marcello Grifò, dell'Istituto Siciliano di Studi Patristici e Tardoantichi "J.H. Newman" - Facoltà Teologica di Sicilia "S. Giovanni Evangelista" di Palermo parlerà di "Alcuni momenti della cultura letteraria ebraica in Sicilia".
Mentre Domenica 8 febbraio è prevista la visita guidata a Mazara del Vallo e Marsala. Il Corso prevede nove lezioni dedicate alla presenza ebraica in Sicilia nelle diverse età storiche fino alla loro espulsione del 1492, le comunità nelle tre Valli in cui era divisa l'Isola, le loro sinagoghe, l'alfabeto e i suoi simboli, la letteratura e i manufatti. Previste inoltre visite guidate a Palermo, Mazara del Vallo, Marsala, Siracusa, Modica. Le lezioni si terranno a Palermo presso Unipegaso, Via Maqueda, 383 (Palazzo Mazzarino). Alla fine del Corso sarà rilasciato un attestato di partecipazione.

(Cefaluweb, 4 febbraio 2015)


"Onorato che abbia pensato a Stefano". Il fratello e l'omaggio di Mattarella al piccolo Taché

di Simona Casalini

Il piccolo Stefano Taché fu ucciso da un ordigno di matrice fondamentalista alla Sinagoga di Roma. Era il 9 ottobre 1982, un sabato mattina, alla fine della festa di Sukkot, dedicata soprattutto alle famiglie, ai bambini, in cui si celebra la maggiore età dei ragazzi. Erano le 11,56 quando una macchina si accostò al lungotevere e scesero cinque persone armate. Tre granate investirono le famiglie che uscivano dal Tempio, dalla porta laterale. Poi le sventagliate delle mitragliatrici. Stefano Gaj Taché morì dopo poche ore, suo fratello Gadiel, di quattro anni, rimase in fin di vita per settimane, furono ferite altre 37 persone. Città sotto shock. L'allora rabbino capo Toaff spiegò al presidente Pertini che voleva partecipare ai funerali di Stefano che non poteva garantirgli l'incolumità. In Sinagoga comparvero anche molti manifesti "Non vogliamo pietà, vogliamo giustizia". Giustizia che ancora non è stata fatta perché solo uno dei cinque terroristi fu preso in Grecia, condannato all'ergastolo in contumacia ma subito estradato in Libia. E non risulta che abbia mai fatto un giorno di carcere. A trent'anni di distanza, nel 2012, Napolitano si recò per la prima volta in Sinagoga. Il fratello Gadiel ora ha 36 anni, e non dimentica. Felice che il neo presidente Mattarella si sia ricordato della tragedia che colpì la sua famiglia, delle parole usate per il fratello ucciso, il sacrificio di "un nostro bambino, un bambino italiano".

- Gadiel, lei è il fratello di Stefano, ha sentito le parole di ricordo del presidente Mattarella?
  "Sì, e sono onorato e felice che un presidente abbia parlato della sua tragedia, in un momento come questo, in cui il terrorismo è la battaglia più difficile che il mondo sta affrontando".

- Se lo aspettava?
  "No, sinceramente no. Poi però ripensandoci ho riflettuto sul fatto che io e lui abbiamo qualcosa in comune: tutti e due abbiamo avuto i fratelli uccisi dal terrorismo, due violenze diverse, lui la mafia, io terrorismo internazionale, ma abbiamo vissuto due lutti simili. E allora ho capito che siamo sulla stessa lunghezza d'onda".

- Anche lei stava seguendo in diretta il discorso del presidente?
  "Sì, ma in contemporanea stavo lavorando, lo ascoltavo di sottofondo e quando ho sentito il nome di Stefano pensavo di aver capito male, ma ho alzato subito il volume. E sì, parlava proprio di lui".

- Pensa di scriverle qualche riga di ringraziamento?
  "Sì, assolutamente ma mi piacerebbe anche conoscerlo subito di persona, anche insieme alla Comunità ebraica. Oppure venga lui a trovarci, sarebbe un grande onore. E del resto, un nuovo presidente che come atto d'avvio del suo settennato si reca da solo a pregare alle Fosse Ardeatine merita grande rispetto e l'abbraccio di tutti gli italiani"

Più tardi, in un colloquio dopo la cerimonia di insediamento al Quirinale, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, ha espresso a Mattarella "la gratitudine degli ebrei italiani sia per la presenza alle Fosse Ardeatine, sia per il ricordo di Stefano Gaj Taché" definendoli "due momenti indelebili nella memoria".
"Così facendo ci ha abbracciati condividendo con tutti noi un dolore che non potremo mai estirpare - ha sottolineato il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici - Io sono figlio di quell'attentato. Mio padre è stato ferito in quell'attacco. Il gesto del Presidente della Repubblica riempie il cuore di speranza degli ebrei romani e italiani".

(la Repubblica, 3 febbraio 2015)


Boom di studenti di italiano in Israele

Nell'ultimo anno sono stati oltre cinquemila. A Gerusalemme gli "Stati generali".

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Nella stanza 403 del Beit Mayersdorf l'Università Ebraica di Gerusalemme si parla italiano. L'occasione sono gli "Stati generali della lingua italiana" in Israele ovvero l'incontro fra amministratori, docenti, scuole, atenei dello Stato ebraico e istituzioni italiane protagoniste del network di iniziative tese ad andare incontro ad una richiesta crescente di apprendimento della lingua di Dante. E' Simonetta Della Seta, coordinatrice dell'evento, a spiegare le dimensioni del fenomeno: "In Israele supera quota 5000 il numero di studenti di italiano in licei e università, sono 800 le scuole dell'obbligo lo prevedono nei curriculum, tutte le università hanno cattedre di italiano e il ministero dell'Istruzione consente di portarlo come materia agli esami di maturità".
   Sono almeno 200 gli studenti che lo hanno fatto nel 2014. Dietro il boom di iscrizioni e richieste c'è un crescente interesse per cultura, design, moda e cucina italiana fra le nuove generazioni. I protagonisti degli "Stati generali" descrivono il fenomeno intervenendo nei rispettivi gruppi di lavoro. Tamar Kehat, ispettrice della lingua italiana al ministero dell'Educazione, parla delle "scuole dell'obbligo a Tel Aviv e Ramat Gan che offrono lezioni di italiano ai bambini in età elementare".
   Antonella Mirone, lettrice all'Università Ebraica, si sofferma sul progetto dell'ateneo di Bar Ilan di creare una cattedra per traduzioni simultanee italiano-ebraico. Simonetta De Felicis, direttrice dell'Istituto italiano di Cultura a Tel Aviv, assieme al collega Maurizio Dessalvi di Haifa, sottolinea l'interesse dei giovani israeliani per l'italiano "tecnico" ovvero declinato nella conoscenza dei linguaggi specifici delle diverse professioni. Cristina Caputo, dell'ufficio commerciale dell'ambasciata italiana, vede in questa tendenza "un'opportunità per investimenti, aziende e scambi". E Manuela Consonni, docente alla facoltà di Storia dell'Università di Gerusalemme e veterana dell'insegnamento in italiano a Mt Scopus, racconta come "classi miste di ebrei ed arabi trovano nello studio della nostra lingua un punto di incontro" assegnando all'idioma di Dante un ruolo nel difficile dialogo fra i due popoli.
   A concludere è l'ambasciatore d'Italia Francesco Talò, individuando nell'italiano una "lingua utile" per moltiplicare scambi, umani e commerciali, fra i due Paesi come anche per costruire "nuove opportunità di crescita comune" andando incontro ad una richiesta di conoscenza del nostro idioma che svela "un'attrazione per l'identità italiana" destinata ad offrire "nuove opportunità". La giornata degli "Stati Generali" si è conclusa con la premiazione di una canzone ed una poesia in lingua italiana fra quelle presentate da numerosi studenti israeliani.

(La Stampa, 3 febbraio 2015)


È al-Sisi il riformatore dell'Islam tanto atteso?

di Daniel Pipes

 
Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi
In un discorso ampiamente elogiato, tenuto il 1o gennaio all'Università Al-Azhar del Cairo, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si è rivolto alla leadership religiosa del paese, dicendo che è ormai giunto il momento di riformare l'Islam. Sisi ha ottenuto il plauso occidentale per questo, tra cui una nomination per il Premio Nobel per la Pace, ma io nutro delle riserve sul suo discorso.
   Per cominciare, indipendentemente dalla bontà delle idee di Sisi, nessun politico - e soprattutto nessun uomo forte - ha modernizzato l'Islam. In Turchia, le riforme di Atatürk sono state sistematicamente invertite. Dieci anni fa, anche re Abdullah II di Giordania e il presidente pakistano Pervez Musharraf tennero dei discorsi interessanti sulla "vera voce dell'Islam" e sulla "moderazione illuminata" che subito sparirono nel nulla. Sì, è vero, le riflessioni di Sisi sono forti, ma egli non è un'autorità religiosa e, con ogni probabilità, anche queste considerazioni spariranno senza lasciare traccia.
   Per quanto riguarda il contenuto, Sisi ha elogiato la fede islamica e ha focalizzato l'attenzione su ciò che lui chiama fikr, un termine che letteralmente significa pensiero, ma in questo contesto vuol dire idee sbagliate. Il rais si è lamentato del fatto che le idee sbagliate, senza però specificare quali fossero, sono state sacralizzate e che la leadership religiosa non osa criticarle. Ma Sisi le ha criticate e in un arabo colloquiale davvero insolito per discutere di simili argomenti, ha detto: "È inconcepibile che le idee sbagliate che noi riteniamo più sacre facciano in modo che l'intera umma [la comunità musulmana] sia fonte di preoccupazione, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo. Questo non è possibile!".
   Tuttavia, è esattamente questo ciò che è accaduto: "Si è arrivati al punto che i musulmani si sono inimicati il mondo intero. È concepibile che 1,6 miliardi [di musulmani] vogliano uccidere il resto della popolazione mondiale di 7 miliardi, per far prosperare i musulmani? Questo è impossibile". Sisi ha continuato, strappando deboli applausi ai dignitari religiosi seduti davanti a lui, invitandoli a promuovere "una rivoluzione religiosa". A parte questo, la comunità musulmana "viene lacerata, distrutta e va all'inferno". Complimenti a Sisi per le parole dure utilizzate per affrontare questo problema; la sua franchezza è in netto contrasto con il linguaggio incomprensibile dei suoi omologhi occidentali che hanno la pretesa di dire che l'attuale ondata di violenza non ha nulla a che fare con l'Islam. (Delle numerose osservazioni clamorosamente errate, la mia preferita è quella di Howard Dean, l'ex governatore del Vermont, che ha reagito al massacro al giornale Charlie Hebdo dicendo: "Ho smesso di chiamare queste persone terroristi musulmani. Sono musulmani quanto me".)
   Il rais, però, non ha fornito dettagli sulla rivoluzione che desidera; cosa potrebbe avere in mente? Contrariamente a quanto dicono i suoi ammiratori, credo che Sisi difenda una versione edulcorata dell'islamismo, che delimiti la piena applicazione della legge islamica (la Shari'a) alla sfera pubblica. Diversi indizi rivelano che il presidente egiziano è stato un islamista. Egli era un musulmano praticante che a quanto pare ha imparato a memoria il Corano. Il Financial Times ha scoperto che sua moglie porta l'hijab (il velo) e una delle sue figlie indossa il niqab (il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi e le mani). Il presidente dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, ha nominato Sisi suo ministro della Difesa proprio perché vedeva nell'allora generale un alleato.
   Nel 2005-2006, quando studiava in Pennsylvania, il rais scrisse una tesina che argomentava a favore di una democrazia adattata all'Islam che "assomiglierebbe poco" al suo prototipo occidentale ma che "avrà una forma propria e dei tratti religiosi più marcati". La sua versione di democrazia non separava moschea e Stato ma si fondava sui "precetti islamici", implicando l'obbligo per gli organi governativi di "prendere in considerazione i precetti islamici nello svolgimento delle loro funzioni". In altre parole, la Shari'a ha la meglio sulla volontà popolare.
   In questo stesso scritto, Sisi si è in parte schierato con i salafiti, quegli islamisti dalla barba lunga o che indossano il burqa e che cercano di vivere come Maometto. Il rais ha descritto il califfato dei primi tempi non soltanto come "la forma ideale di governo" ma anche come "l'obiettivo di qualsiasi nuova forma di governo", sperando nel rilancio della "forma primitiva" del califfato.
   È di certo possibile che le idee di Sisi sull'Islam, come quelle di molti egiziani, si siano evolute, soprattutto dopo la sua rottura con Morsi avvenuta due anni fa. In effetti, corre voce che egli si sia affiliato al movimento coranista radicalmente anti-islamista, il cui leader, Ahmed Subhy Mansour, è citato nella tesina dello studente Sisi. Ma Mansour sospetta che il rais "giochi con le parole" e aspetta di vedere se intende affrontare seriamente le riforme.
   In effetti, finché non ne sapremo di più sulle idee personali di Sisi e non vedremo cosa farà dopo, io interpreto il suo discorso non come una presa di posizione contro tutto l'islamismo ma solo contro la sua forma violenta, quella forma che sta devastando la Nigeria, la Somalia, la Siria-Iraq e il Pakistan e che ha messo sotto assedio città come Boston, Ottawa, Sydney e Parigi. Come altri leader più tranquilli, Sisi promuove la Shari'a attraverso l'evoluzione e il sostegno popolare, anziché attraverso la rivoluzione e la brutalità. Sicuramente il fatto che non ci sarà alcuna violenza è un progresso rispetto alla violenza. Ma non è certo quella riforma dell'Islam che chi non è musulmano spera di vedere - soprattutto se si rammenta che operare in seno al sistema ha più probabilità di successo.
   Una vera riforma necessita di studiosi dell'Islam, non di uomini forti, e rifiuta di applicare la Shari'a alla sfera pubblica. Per entrambe queste ragioni, è improbabile che Sisi sia quel riformatore tanto atteso.

(L'Opinione, 3 febbraio 2015 - trad. Angelita La Spada)


I rapporti tesi fra i due leader fanno sembrare verosimile la provocazione di un giornale on-line

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - I dissapori fra Barack Obama e Benjamin Netanyahu sono talmente pronunciati da far scivolare i media iraniani su una notizia satirica. A pubblicarla è "Israel Daily", il settimanale online con la dicitura "Because all news is satirical" nella homepage. Ma la storia che pubblica è talmente verosimile, nel quadro delle tensioni personali fra i due leader, da sembrare vera. «Il premier israeliano ha scoperto per caso che il presidente americano gli ha tolto l'amicizia da Facebook» scrive Rober Pumper, raccontando che se ne è accorto «quasi per caso, guardando la pagina Facebook di Eric Holder», ministro della Giustizia Usa uscente.
Il commento è velenoso: «Probabilmente Obama ne aveva abbastanza di vedere Sara Netanyahu sul proprio newsfeed ed ora vorrebbe chiedere l'amicizia a Javad Zarif» ministro degli Esteri iraniano. Siti Internet di giornali e tv iraniane si affrettano a riprendere e rilanciare la notizia come se fosse realmente avvenuta. E la tv libanese Al Manar - degli Hezbollah - la celebra come la conferma di una rottura fra Obama e Netanyahu parallela al riavvicinamento fra Washington e Teheran nel negoziato sul nucleare. Le reazioni iraniane fanno a loro volta scalpore in Israele, dove sono i notiziari radio del mattino a descrivere il corto circuito fra politica e satira, dovuto alle scintille personali - ed assai reali - che segnano il rapporto fra i leader dei due Paesi alleati.

(La Stampa, 3 febbraio 2015)


Tu biShevat - Che specie vegetali usare

di Roberto Jona

 
Rosh Hashanà Lailanot in origine era solo una data termine: finiva un anno e ne iniziava un altro.
   E questo serviva per precisare l'osservanza di alcuni precetti 'agricoli': quando portare i prodotti agricoli al Santuario, come misurare il divieto di mangiare i frutti prodotti nei primi tre anni e così via. Strappati dalla Terra di Israele, l'osservanza di questi precetti divenne impossibile e di conseguenza la celebrazione di questa ricorrenza perse significato pratico. E quindi Rosh HaShanà Lailanot cadde in disuso. Ma a partire dal 16o secolo i cabbalisti di Safed ne riattivarono la celebrazione, in un modo coerente con la mancanza del Santuario, diffondendo tra le Comunità del mondo un 'Seder' specifico per questa ricorrenza.
   Al centro di questo Seder ci sono le sette specie della Terra d'Israele.
   Occorre notare che la Torah spesso parla 'per mezzo' delle specie vegetali. Per ogni ricorrenza od occasione c'è un assortimento di specie vegetali diverso e i nostri Maestri si sono soffermati sulle differenze per trarne indicazioni e simbolismi diversi. Oggi ci sembra un metodo strano e artificioso, ma non bisogna dimenticare che due/tre millenni fa la vita di tutti era basata esclusivamente sull'agricoltura e sulle piante. L'indicazione di una specie piuttosto che un'altra evocava, senza bisogno di alcuna spiegazione, pregi e carenze di quella specie, rischi e difficoltà nella sua coltivazione.
   Ed i concetti simboleggiati dalle diverse specie apparivano chiari ed evidenti agli occhi degli agricoltori nostri antenati. Non è possibile in questa sede addentrarsi nel significato diverso dei vari assortimenti, ma, solo per citare un piccolo esempio, tutti ricorderanno che le quattro specie utilizzate recentemente per Sukkot sono associate all'uomo, alle sue parti del corpo e/o a abitudini pregevoli o peccaminose dell'essere umano.
   Le sette specie sono citate nel libro di Devarim a proposito della Terra d'Israele che viene definita "un paese di frumento e di orzo, di viti, di fichi, melograni, di olive da olio e di miele (è stato interpretato come palma da datteri i cui frutti spremuti a maturazione danno una pasta dolce, appunto come il miele)" (Deuter.8:8). Il richiamo a questo passo della Torah ha dato un senso eminentemente agricolo e nazionale alla ricorrenza e alla sua celebrazione. Nella Torah vengono promessi al popolo che vaga nel deserto questi prodotti ed in particolari i frutti di questi alberi che in buona parte erano poco o affatto conosciuti in Egitto. Ma poco prima (Deut.8:6,7) è detto: "Osserverai dunque i precetti del Signore tuo Dio, percorrendo le Sue vie e venerandolo, poiché Iddio ti porterà in una terra buona, in un paese irrigato da corsi d'acqua, dove sorgenti e acque sotterranee sgorgano a valle e a monte". Il richiamo a queste 7 specie durante la celebrazione di Tu-Bishvat è quindi un richiamo generale ad una condotta corretta per meritare il ritorno nella Terra Promessa ai nostri Padri.
   Una Terra buona che può nutrirci e darci sostentamento e benessere per il tramite di questa produzione agricola articolata e completa. Una sorta di Sionismo "ante litteram" che ha sempre caratterizzato i riti del nostro Popolo ed in special modo quello di Pesach ("l'anno prossimo a Gerusalemme"). Interessante è l'analisi climatologica della Terra di Israele che troviamo nel trattato talmudico Babà Batrà (147a) che sottolinea gli effetti benefici sull'agricoltura dei venti dominanti, purché arrivino nella stagione appropriata. Il vento da nord-ovest, in primavera, è benefico fino a quando il frumento non ha raggiunto un terzo della sua maturazione, ma è dannoso per gli olivi quando sono in fioritura, prima dell'impollinazione. Infatti si tratta di un vento fresco che attraversando il mare si carica di umidità che rilascia sui campi sotto forma di pioggia, secondo la promessa del Signore: "è un paese di monti e di valli che viene irrigato dalla pioggia del cielo" (Deut. 11,11).
   Il vento opposto da sud-est provenendo dal deserto, aumenta la temperatura, ma è secco. Per essere utile deve essere moderato: allora scalda e favorisce la crescita e la maturazione delle olive, della vite, delle palme da datteri e del melograno.
   Ma guai se soffia troppo forte e troppo presto, prima che nel frumento si sia sviluppato l'amido (= farina): il granello resta vuoto e il raccolto manca. Era l'incubo nei sogni del Faraone: "Spuntarono sette spighe sottili, disseccate dal vento orientale" (Gen.41:6). Interessante è che questa delicato equilibrio meteorologico era visivamente rappresentato nel Santuario ponendo il tavolo (sul quale venivano posati i pani [frumento]) sul lato nord rispetto all'Altare, mentre la Menorà (alimentata con olio) ardeva sul lato sud.
   È importante notare che queste sette specie godono di uno status privilegiato nella liturgia ebraica. Le primizie da portare al Santuario a Shavuoth dovevano provenire da queste specie: non era ammesso portare frutti altre specie, anche se maturi in quell'epoca dell'anno. Vedremo in futuro il simbolismo di ognuna di queste specie, ma per il momento ci si può limitare a constatare che i prodotti nati dal delicato equilibrio tra i venti e le piogge, accennato sopra non possono che essere il frutto della benevolenza del Signore promessa nel deserto ai nostri padri, scoraggiando derive idolatriche alternative stimolate dal successo di produzioni diverse.
   È quindi ovvio che i cabalisti di Safed nel riprendere la celebrazione di una ricorrenza antica si attenessero rigidamente ai dettami della Torà, e del Talmud per esaltare il legame tra il popolo disperso e la Terra dei Padri.

(moked, 3 febbraio 2015)


Hezbollah si fa beffe della volontà del Consiglio di Sicurezza

Netanyahu critico verso il ruolo dell'Unifil, mentre il capo di stato maggiore ribadisce: per i jihadisti il conflitto palestinese è solo un pretesto.

In una conversazione telefonica con il Segretario Generale dell'Onu Ban Ki-moon, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accusato domenica le Nazioni Unite di non riuscire ad attuare la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, spiegando che i soldati della forza interinale delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) "non riferiscono del traffico di armi in corso nel Libano meridionale".
Approvata all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza nel mese di agosto del 2006, la risoluzione 1701 è servita per porre termine a 34 giorni di combattimenti tra le Forze di Difesa israeliane e le milizie sciite filo-iraniane Hezbollah, uno scontro conosciuto come la seconda guerra in Libano. La risoluzione prevedeva il disarmo di tutti i gruppi armati, compreso Hezbollah, e il divieto di ogni presenza militare nel Libano meridionale ad eccezione dell'esercito regolare libanese e dei caschi blu dell'Unifil: due disposizioni che non sono mai stati attuate....

(israele.net, 3 febbraio 2015)


Israele: stormi di uccelli in volo, è spettacolo nel cielo

a cura di Ermanno Accardi

Stormi perfettamente sincronizzati di volatili danno spettacolo, in questo periodo dell'anno, nei cieli di della città beduina di Rahat, nel Sud del Paese. Il fenomeno si chiama "Murmuration", e secondo gli ornitologi del posto ha lo scopo di aiutare gli uccelli a trovare più facilmente il cibo e a difendersi dagli assalti dei rapaci, che raramente attaccano i grandi stormi, che sono tornati su Israele e il Mare di Galilea dal 2012, dopo un'assenza di circa 20 anni. Gli esperti non conoscono ancora le ragioni di questa lunga latitanza; l'unico dato certo è che gli stormi arrivano dalla Russia e dall'Europa Centrale e che fino ai primi anni '90 erano numerosissimi, nell'ordine delle decine di milioni di esemplari, mentre oggi si contano in poche centinaia di migliaia. Il momento di miglior avvistamento è al tramonto, per una ventina di minuti circa.

(la Repubblica, 3 febbraio 2015)


Una promessa di nome Israele

Il rapporto con la terra destinata da Dio ad Abramo è fulcro di storia e spiritualità per il popolo ebraico.

di
Giuseppe Laras

La Terra di Israele, in quanto eredità nazionale e Terra Santa, ha giocato e gioca un ruolo unico e centrale nella storia dd popolo ebraico. La spinta che lungo i secoli, e ancor più negli ultimi centocinquant'anni, ha portato a un crescente ritorno degli ebrei in Israele è stata anzitutto di natura spirituale, ancorché sollecitata dall'esacerbarsi dell'antisemitismo.
   Una sollecitazione spirituale mai sopita, radicata nella promessa fatta da Dio ad Abramo, da sempre fondamentale per la vita, la fede e l'autocomprensione del popolo ebraico. Il rapporto con la Terra di Israele è infatti essenziale per la comprensione ebraica di sé in relazione all'alleanza biblica con Dio, e per moltissimi ebrei Israele è una questione esistenziale prima ancora che meramente politica.
   Chi era Abramo, ovvero il primo ebreo? Abramo rappresenta una rivoluzione intellettuale, morale e spirituale per l'intera storia umana: il passaggio dall'idolatria al monoteismo. L'idolatria non è in primo luogo una questione "teoretica", bensì una questione etica, che riguarda azioni e comportamenti: con Abramo si attua quindi un salto di qualità tanto etico che intellettivo. Abramo ci insegna che il monoteismo non è unicamente un'acquisizione dogmatica, come tale forse statica, ma un percorso esistenziale e religioso delicato, in continua evoluzione. L'intelletto credente riconosce distintamente e intimamente il primato del divino, ossia l'incomparabilità di Dio con ogni altra realtà o valore. Il monoteismo è la grande conquista di una vita di fede, non il primo incerto passo mosso.
   Nella Torah sette volte Dio apparve ad Abramo, rivolgendosi a lui, interpellandolo, mettendolo alla prova, facendogli promesse e benedicendolo con la benedizione della posterità e con la benedizione dell'eredità della Terra di Israele. È in questa speciale relazione tra Israele e la Terra di Israele, costitutiva del patto tra Dio e il popolo ebraico, che si fondono tra loro elementi nazionali ed elementi religiosi, afflati universalistici e caratteri particolaristici, la comprensione dell'esperienza drammatica dell'esilio e il destino di Israele, così come l'attitudine particolare degli ebrei nei confronti di quella particolare Terra. Così disse Dio ad Abramo: «lo sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei, per darti questo paese perché tu lo possegga» (Gen 15,7).
   Con Abramo, e dunque con la sua discendenza e con la Terra che è parte del patto del Patriarca con Dio, si ha una rifondazione del creato. Nei primi versi della Genesi, rinvianti all'Opera della Creazione, cinque volte compare la parola "or", luce. Con l'avvento di Abramo nella storia biblica e umana, la radice "barekh" - benedire/benedizione - ricorre anch'essa cinque volte (Gen 12,1-3). Una rifondazione morale attraverso la Torah, dunque, dell'umanità e del creare, ove si intrecciano inscindibilmente, come è destino e dovere di Israele e della Terra di Israele, necessario particolarismo ed eccezionale universalismo messianico, in quanto "in te saranno benedette tutte le famiglie della Terra» (Gen 12,3).
   Se provvidenziale fu la comprensione che Abramo ebbe del suo abbandono di Ur e dell'esilio prefiguratogli dei suoi discendenti in Egitto, al pari della loro liberazione, è innegabile che oggi, per la maggior parte degli ebrei di tutto il mondo, la rinascita della sovranità nazionale in Terra di Israele sia avvertita, pur con tutte le sue enormi difficoltà, come il disegno di Dio per il popolo ebraico e, attraverso di esso, per tutta l'umanità.

(Luoghi dell'Infinito, febbraio 2015)


Bellissimo! L’ultima frase potrebbe essere detta così: “La rinascita della sovranità nazionale in Terra di Israele manifesta il disegno di Dio per il popolo ebraico e, attraverso di esso, per tutta l'umanità.” M.C.


Milano - Scritte contro gli ebrei prima del convegno in Provincia

Sono apparse davanti a Palazzo Isimbardi

Scritte antisemite davanti a Palazzo Isimbardi prima che iniziasse la conferenza sulla Brigata Ebraica, lunedì 2 febbraio. Era in programma la conferenza sulla Brigata Ebraica e sul suo ruolo durante la Resistenza contro l'occupazione nazista in Italia. "Invitiamo gli autori del gesto ad essere presenti alla conferenza", ha replicato su Facebook Daniele Nahum, uno degli organizzatori: "Magari imparano qualcosa sul contributo che questi cinquemila eroi diedero per liberare l'Europa dal nazifascismo".

(MilanoToday, 3 febbraio 2015)


La reale "Resistenza" dell'Europa
     Articolo OTTIMO!


di Bassam Tawil (*)

Gli europei, sia i civili sia il personale delle forze dell'ordine, possono ben stare in ansia, chiedendosi cosa faranno, una volta tornati a casa, quelle migliaia di giovani donne e uomini musulmani che hanno lasciato i loro paesi d'origine per unirsi alle organizzazioni terroristiche islamiste in Iraq, in Siria, in Yemen e in Africa. Gli europei hanno motivo di preoccuparsi: molti jihadisti che ritorneranno sono stati addestrati per uccidere i civili. Quando essi faranno ritorno nei paesi dove hanno trovato rifugio i loro genitori per sottrarsi alla miseria politica ed economica del mondo arabo e musulmano, molti di questi mujaheddin progetteranno di uccidere i loro ospiti in nome dell'Islam estremista. Essi chiameranno "infedeli" chi li ospita e li uccideranno per il "crimine" di non essere musulmani.
  Anche se i paesi occidentali puntano erroneamente i riflettori sul Medio Oriente, il vero pericolo è nel loro cortile di casa. Migliaia di giovani uomini sono ancora sottoposti a un lavaggio di cervello da parte degli imam delle moschee di tutta Europa. Coloro che ritornano dalla Siria e dall'Iraq operano apertamente - organizzando e rimanendo in attesa di ordini - in nome della libertà di espressione. Quando gli ordini arriveranno, le bombe e i fucili non richiederanno viaggi in Medio Oriente perché sono già pronti. Gli imam nelle moschee e gli operativi musulmani si nascondono dietro l'ideologia della democrazia, la sua libertà di parola e di culto, la libertà individuale e il pluralismo - proprio come fece Maometto durante i giorni della jahiliyya (l'epoca dell'ignoranza, il periodo prima dell'Islam) quando il profeta iniziò a diffondere l'Islam in una Mecca politeistica, che allora permise anche la libertà di parola.
  Le condizioni per l'attività islamica in Europa sono perfette. L'Occidente ha solo buone intenzioni: desidera integrare i suoi musulmani socialmente ed economicamente. Sì, è vero, la maggior parte dei
Il rifiuto degli occidentali di credere che i musulmani estremisti sono seri quando affermano che il loro piano è quello di conquistare il mondo e imporre la sharia, può essere probabilmente il risultato della paura.
musulmani non è terrorista, ma il fatto che la maggior parte dei terroristi sia musulmana è lentamente interiorizzato da un'opinione pubblica che soffre di ingenuità e di una grave mancanza di comprensione dell'Islam radicale e violento. Il rifiuto degli occidentali di credere che i musulmani estremisti sono seri quando affermano che il loro piano è quello di conquistare il mondo e imporre la sharia, può essere probabilmente il risultato della paura - di subire un danno fisico, finanziario o politico - o della correttezza politica. Nella migliore delle ipotesi questo fa perdere di vista le intenzioni dell'Islam radicale, mentre nella peggiore delle ipotesi le nasconde.
  Chiunque riveli questi intenti è tacciato di essere "islamofobo", "razzista" oppure è accusato di "odio razziale". Queste accuse sono appositamente concepite per neutralizzare ogni opposizione sul nascere. Gli occidentali non capiscono il piano di azione degli islamisti. Le accuse li rendono impotenti; la loro impotenza viene trasmessa agli islamisti, che poi sentono l'odore del sangue nell'acqua e intensificano le loro richiese e le attività criminali. Il problema più grave delle agenzie di intelligence occidentali è che la maggior parte dei loro agenti non capisce l'arabo. Questa lacuna non gli permette di cogliere le sfumature dei discorsi fatti dagli imam e dagli operativi. Peggio ancora, gli occidentali sembrano non capire la mentalità araba. Gli imam e gli operativi lavorano senza sosta e molto sottilmente nelle loro comunità per accelerare il processo di isolamento e alienazione. Essi alimentano il senso di privazione e rifiuto dei musulmani indigenti.
  Parlano di vittorie parziali delle organizzazioni terroristiche islamiste in Medio Oriente. Esaltano la reputazione del terrorismo e infondono una paura dell'Islam radicale come se fosse una minacciosa potenza emergente. Mentre l'Islam radicale acquista forza e influenza, l'Europa è sempre più impotente riguardo alle popolazioni ebraiche e cristiane, e demonizza i suoi ebrei. Man mano che gli islamisti aumentano in numero e potenza, diventano più temuti, più violenti e più attraenti per i giovani, per quei giovani musulmani trascurati ed emarginati attratti dal loro potere e ben felici di essere reclutati per una nuova "patria". L'unica reazione attiva in Occidente è la comparsa di vari gruppi che affermano che rimetteranno l'Islam a quello che loro dicono essere il suo posto. La pazienza di questi gruppi pare si stia esaurendo e uno scontro violento sembra possibile.
  Purtroppo, né gli ideologi dell'Islam radicale né i leader del mondo musulmano moderato capiscono lo spirito pluralista dell'Europa o il danno che fanno acuendo questa tensione. Uno scontro danneggerà la maggior parte di quei musulmani che vivono in Europa e cercano soltanto di avere una vita normale. Sfortunatamente, i paesi musulmani che sostengono il terrorismo e incitano al terrorismo globale - paesi sunniti come la Turchia, il Qatar e l'Arabia Saudita come pure l'Iran sciita e il suo emissario terrorista, Hezbollah - preparano il terreno per la distruzione delle loro comunità islamiche in Europa, in nome di un Islam regressivo ed estremista. A gettare benzina sul fuoco dei manifestanti europei, ci ha pensato il presidente turco Erdogan che lascia intendere che l'Europa e Israele siano da biasimare per i massacri al giornale Charlie Hebdo e al supermercato kosher di Parigi, mentre il mufti egiziano minaccia l'Europa di pene dell'inferno e di un bagno di sangue se le vignette "che offendono il profeta" continueranno a essere pubblicate.
  I moderati delle comunità islamiche in Europa si rendono conto della tragedia che incombe sulla coesistenza pacifica tra musulmani e cristiani e si impegnano a condannare i responsabili estremisti di ciò. Le loro voci però sono troppo deboli per essere ascoltate. Questi coraggiosi imam non estremisti e leader di quartiere sanno che gli operativi terroristi spesso tacciano di essere "infedeli" coloro che osano condannare le loro azioni. Essi hanno comprensibilmente paura di ciò che accadrà loro, se si opporranno apertamente alla violenza e all'istigazione. Nel frattempo, mentre l'economia europea si disintegra, gli immigrati, la maggior parte dei quali sono musulmani provenienti dalla Turchia e dall'Africa, continuano ad affluire in Europa. Man mano che l'indottrinamento all'odio verso l'Occidente continua a intensificarsi, nessun paese europeo - e nemmeno gli Stati Uniti - ha trovato un modo per tenere fuori dalle moschee, dai centri comunitari e dai nascondigli gli indottrinamenti islamisti violenti e radicali. Gli europei vorrebbero tanto riuscire a credere che l'eredità dell'Islam è priva di incitamenti alla violenza contro l'Occidente.
  Essi pensano che esiste un Islam non violento, che non trasformerà il retaggio islamico in un modello per la violenza e il terrorismo. Un Islam non violento e non estremista esiste, ma non è quello che viene commercializzato dagli imam ciarlatani e da altri operativi estremisti che fingono di essere "moderati". L'Occidente è stato abbindolato. Miliardi di dollari, inclusi i proventi illeciti riciclati, sono inviati dal Qatar,
Nascondendo la testa sotto la sabbia e non adottando delle misure legittime per preservare il diritto alla vita, l'Occidente impedisce a se stesso e alla propria popolazione di comprendere la reale minaccia posta dall'Islam estremista.
dall'Arabia Saudita, dalla Turchia e dall'Iran per finanziare l'incitamento e le attività terroristiche nelle scuole, nelle università e negli enti di beneficenza islamici radicali dei paesi occidentali. I governi occidentali sono delle vittime e sono stati ingannati dai soldi del petrolio, dalla sofistica islamica, dai blocchi elettorali e dalla correttezza politica Nascondendo la testa sotto la sabbia e non adottando delle misure legittime per preservare il diritto alla vita - cosa che anzi può talvolta incidere su alcuni diritti individuali - l'Occidente impedisce a se stesso e alla propria popolazione di comprendere la reale minaccia posta dall'Islam estremista. Se l'Europa vuole prendere le misure necessarie per proteggersi, sta perdendo la gara. Non ci vuole un profeta per sapere quello che sta per accadere, ne è consapevole anche un semplice osservatore come il defunto leader libico Muammar Gheddafi, che aveva detto che l'Europa sarebbe caduta in mano ai musulmani senza colpo ferire.
  La verità è che, per capire come l'Europa si stia deteriorando e procedendo verso l'autodistruzione, si dovrebbe guardare all'inefficace politica dell'appeasement utilizzata dall'Europa in generale e dalla Francia in particolare per affrontare i conflitti in Medio Oriente - gli anni votati al cinismo, alla codardia e alla distorsione della verità al servizio di gretti interessi personali a breve termine Le politiche europee danneggiano in primo luogo i palestinesi perché esse incoraggiano le organizzazioni radicali come Hamas, la Jihad islamica e ora lo Stato Islamico, che arrestano i progressi verso la creazione di uno Stato palestinese. Quando l'Europa sostiene che Hamas è "un legittimo movimento di resistenza" - anziché una pericolosa organizzazione terroristica priva di moralità - silura ogni possibilità di creare uno Stato di Palestina debitamente governato e in cui il potere non sarà esercitato, né ora né in futuro, da scatenati terroristi islamisti.
  Che ci piaccia o no - e francamente al sottoscritto non piace - è Israele l'ultimo baluardo che impedisce all'islamismo radicale di travolgere l'Europa. Tuttavia, è da decenni che la Francia appoggia il mondo arabo-musulmano contro Israele, a causa di un antisemitismo latente e non così celato, del petrolio, e soprattutto, della pressione politica esercitata dalla sua comunità islamica indottrinata. L'ipocrisia e il tradimento della Francia sono famosi nel corso della storia. Nella sua debolezza, la Francia cerca di ingraziarsi gli arabi e l'Islam radicale, invitando al ricatto e predisponendosi alla sottomissione. Tenuto conto del comportamento dell'Europa in generale e della Francia in particolare, non dovrebbe sorprendere che aggiogando noi palestinesi come animali da allevamento ai nostri leader, che poi sono le vere bestie, si tradiscono i palestinesi.
  Le politiche dell'Europa volte a incoraggiare gruppi come Hamas, che sposano costantemente la violenza, demoliscono gli sforzi palestinesi di creare uno Stato palestinese responsabile che potrebbe riuscire a porre fine al conflitto con Israele. I francesi hanno ingenuamente abboccato: essi ora associano la "Resistenza" palestinese alla coraggiosa Résistance clandestina francese che combatté i tedeschi nella Seconda guerra mondiale. E poiché essi ammirano questa Résistance, pensano erroneamente che anche la "Resistenza" palestinese debba essere un'ottima cosa. Ma come ben sanno, questi due tipi di Resistenza non si possono paragonare. Quando si parla di "Resistenza" palestinese si intendono le organizzazioni terroristiche che reprimono la propria popolazione. Esse non oppongono resistenza a una forza del male, perché sono una forza del male. Il problema è che mettendo gli arabi nelle condizioni di sbarazzarsi degli ebrei - in modo che gli europei possano illudersi di non avere nulla a che fare con ciò - non si farà del male solo agli ebrei e ai palestinesi.
  Incoraggiando Hamas, la Jihad islamica e ora anche lo Stato islamico nella regione, essi si faranno ottusamente male. Ecco perché apertamente o meno, i francesi appoggiano ipocritamente il terrorismo
I francesi appoggiano le Nazioni Unite e l'UNRWA, che perpetuano il problema palestinese, invece di chiedere ai paesi arabi di conce- dere loro la cittadinanza e renderli liberi. La verità è che essi non si preoccupano realmente dei pale- stinesi, ma hanno a cuore solo la distruzione di Israele.
palestinese anziché sostenere degli sforzi concreti per una fine pacifica del conflitto israelo-palestinese. Ma stanno scommettendo sul cavallo sbagliato. Questo è anche il motivo per cui i francesi appoggiano le Nazioni Unite e l'UNRWA, che perpetuano il problema palestinese, invece di chiedere ai paesi arabi, dove risiedono molti palestinesi, di assorbirli, concedergli la cittadinanza e renderli liberi. La verità è che essi non si preoccupano realmente dei palestinesi, ma hanno a cuore solo la distruzione di Israele. Ecco perché l'Unione Europea ha rimosso Hamas dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche. E qualcosa di simile è stata la decisione della Francia di riconoscere unilateralmente lo "Stato di Palestina" - nonostante il fatto che il governo di consenso nazionale palestinese sia composto da Hamas e dall'Olp.
  Entrambe sono delle organizzazioni terroristiche impenitenti. Entrambe non solo istigano al terrorismo e alla violenza e chiedono l'estinzione di Israele, ma educano i loro figli solo alla violenza, quando non li utilizzano come carne da macello. Tutto questo sembrerebbe mostrare ciò che la Francia ha veramente a cuore, e che non ha nulla a che fare con la libertà di espressione, la democrazia, la buona governance e men che meno con il benessere dei palestinesi. L'unica cosa chiara è che i francesi vogliono sbarazzarsi degli ebrei. L'ipocrisia della Francia nel chiamare gli israeliani "invasori" ignora il fatto che Israele non ha invaso, conquistato e occupato uno Stato palestinese perché non è mai esistito uno Stato palestinese. La Francia ignora anche che, in tutta onestà, gli israeliani non hanno mai detto di voler distruggere il popolo palestinese, mentre, a essere franchi, ogni giorno noi palestinesi parliamo di come distruggere Israele ed elaboriamo delle strategie a riguardo.
  La Francia, inoltre, ignora il fatto che la cosiddetta "Resistenza" palestinese - sotto forma di Olp, Fatah, Hamas, Jihad islamica palestinese, Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Fronte democratico per la liberazione della Palestina e di Comitati di resistenza popolare - sin dal suo inizio e in tutta la sua storia, non ha fatto altro che uccidere e mutilare civili ebrei. Ora, nei nuovi apici di ipocrisia, la Corte penale internazionale (Cpi) vuole indagare Israele per crimini di guerra perché ha avuto il coraggio di difendersi dal terrorismo, mentre cosa ha fatto l'Europa? L'Europa, di fronte ai massacri e alle atrocità commesse dai musulmani estremisti, ha invitato ogni dittatore che foraggia i terroristi a unirsi a una marcia di protesta contro gli assassini che sono stati pagati da questi dittatori. L'Europa sonnecchia mentre le organizzazioni palestinesi proseguono gli incessanti sforzi volti a distruggere i palestinesi, così come Israele e gli ebrei. Poi, l'Europa si sveglia periodicamente per sostenere la "Resistenza" palestinese, che non somiglia affatto alla Résistance francese della Seconda guerra mondiale. Un proverbio arabo dice: "Un cane avrà una coda storta pur tenendola steccata per quarant'anni".
  Non c'è alcuna differenza tra le aspirazioni di Hamas di "liberarsi dell'occupazione sionista" e le aspirazioni dell'Islam radicale di affrancarsi "dall'occupazione cristiana", in Europa - dalla Francia all'Andalusia, a Vienna - per consentire all'Islam di conquistare il mondo. La propensione dei francesi a credere che il terrorismo, che sia palestinese o Hezbollah, sia "Resistenza legittima" è ai minimi storici. Nessun terrorismo è legittimo: non il terrorismo contro gli ebrei, non il terrorismo contro i palestinesi, non il terrorismo contro i cristiani in Medio Oriente e non il terrorismo contro i vignettisti in Francia. Per il bene del futuro Stato palestinese, tutta la "Resistenza" dovrebbe far fronte all'Islam radicale, rappresentato da gruppi come Hamas, la Jihad islamica, al-Qaeda, i Fratelli musulmani e lo Stato islamico, tanto per citarne alcuni. È a questi gruppi che dovremmo opporci. Non dovremmo permettergli di governarci in qualche "Stato palestinese" islamista.


(*) Gatestone Institute

L'Opinione, 3 febbraio 2015 - trad. Angelita La Spada)


Padova - Presentazione del libro "La superbia dei gentili"

Comunicato stampa EDIPI

Libreria IBS - Padova
In occasione delle iniziative per il Giorno della Memoria 2015, "Evangelici d'Italia per Israele", in collaborazione con la libreria IBS di Padova (via Altinate, 63 - tel 049.8774810), presenterà il libro di Marcello Cicchese "La superbia dei Gentili, alle origini dell'odio antigiudaico".
La presentazione avrà luogo giovedì 12 febbraio dalle ore 18:00 alle 19:00, presso la sede della libreria. Sarà presente l'autore e seguirà un breve dibattito con il pubblico presente.
Per maggiori informazioni: tnt@bhb.it - 3475788106 - www.edipi.net

(EDIPI, febbraio 2015)


La superbia dei gentili verso gli ebrei non è di tipo personale: non è l'orgoglio dell'intellettuale, non è l'altezzosità della bella donna, non è l'alterigia dell'uomo potente. Che cos'è allora? E' fierezza di appartenere ad una certa società, unita al disprezzo commiserante per chi appartiene ad un'altra società. In questo caso le società in gioco sono due: quella ebraica e quella cristiana. Per illustrare la cosa si può pensare alle tifoserie di due squadre di calcio della medesima città. Se il Milan vince il derby cittadino, il milanista si sente fiero della "sua" squadra e commisera l'interista che mastica amaro per la sconfitta della "sua" squadra. E questo anche se i due tifosi non sanno nemmeno tirare due calci al pallone. Non si tratta dunque di orgoglio personale, ma di un sentimento di superiorità determinato dall'appartenenza ad una società ritenuta superiore. Posso essere un pessimo cristiano e non avere difficoltà ad ammetterlo, e tuttavia dichiarare con tranquilla sicurezza che "il cristianesimo è superiore all'ebraismo" e sottolineare con compiacimento che "i cristiani credono in Gesù mentre gli ebrei no". E se gli ebrei che mi ascoltano si sentono colpiti, la colpa è loro. Perché da parte mia posso assicurare che, come ha detto qualcuno: "Io non sono antisemita, sono loro che sono ebrei".

 

La doppia spia ebrea che ingannò i nazisti "liberando" Malta

Ingaggiato dai tedeschi, fece il doppio gioco a favore degli Alleati. Contribuendo al salvataggio dell'isola e alla sconfitta dell'Asse.

di Nicholas Farrell

Uno degli 007 inglesi più importanti della Seconda Guerra mondiale fu un ebreo italiano nato a Genova nel 1902 che «salvò» Malta dai nazifascisti e che «fece vincere» Montgomery ad El-Alamein. La sua storia - basata su una ricerca approfondita compiuta negli archivi inglesi - ora è raccontata per la prima volta non da un fantasista qualunque, ma da uno dei maggiori storici dei servizi segreti britannici.
   L'autore si chiama Rupert Allason, ex deputato conservatore, il quale firma i suoi libri con lo pseudonimo Nigel West. Il libro, Double Cross in Cairo , è stato pubblicato l'11 gennaio scorso a Londra dall'editore Biteback.
   Il James Bond ebreo del Mediterraneo, protagonista del libro, si chiamava Renato Levi, era figlio di un padre inglese e di un'attrice italiana, Dolores Domenici, la quale era la proprietaria dell'Hotel Select a Genova e dell'Hotel Miramare a Rapallo. Levi, educato in Svizzera, aveva un passaporto inglese grazie al padre, ed era anche un gran donnaiolo e un bon vivant .
   Scoppiata la Guerra, nel 1939 fu assunto in Italia come spia dai tedeschi, ma subito dopo si presentò ai servizi segreti inglesi tramite il Consolato inglese a Genova, rivelando tutto. Così, diventò un double-agent , cioè: faceva finta di spiare per conto dei tedeschi quando in realtà spiava per gli inglesi. I tedeschi gli avevano dato il nome in codice «Roberto», gli inglesi invece lo chiamavano «Cheese» (formaggio), ovvero l'esca tradizionale usata per catturare i topi. Fu spedito prima a Parigi dai tedeschi, fino alla sconfitta della Francia nel maggio 1940, e quando tornò in Italia cominciò a lavorare anche per i servizi segreti italiani.
   Nel febbraio 1941 i tedeschi lo mandarono dall'Italia in Egitto, al Cairo, dove si mise presto in contatto con i servizi segreti inglesi che decisero di sfruttarlo per creare una finta rete di spie allo scopo di ingannare i tedeschi e gli italiani. Si trattava, fra l'altro, di inventare un radio operator inesistente, chiamato Paul Nicosoff e una sua amante cretese, inesistente pure lei, nome in codice «Blonde Girl Moll». Nicosoff suona come «Knickers off», vale a dire: «cavati le knickers», cioè le mutande.
   L'ufficiale dei servizi inglesi al Cairo che gestiva Levi e che aveva inventato questa finta rete di spie si chiamava Evan Simpson, prima della guerra lavorava come giornalista per il famoso settimanale inglese The Spectator ed era anche autore di alcuni romanzi. In un rapporto ai suoi superiori, Simpson scrisse a proposito di Levi: «È un bugiardo nato e capace di inventare qualsiasi storia falsa all'improvviso per evitare guai. Ama l'avventura e adora le donne. Questo lavoro gli dà la possibilità di viaggiare e di avere in tasca somme enormi di denaro che altrimenti non avrebbe mai».
   Nella primavera del 1941, gli inglesi rimandarono Levi dal Cairo in Italia, dove però fu arrestato dagli italiani non perché ebreo, e neppure per le sue attività di double agent , bensì per le sue attività di contrabbando. Così fu incarcerato prima alle Isole Tremiti, e poi a San Severo, in Puglia, fino alla caduta di Mussolini, avvenuta nel luglio del 1943. Nel frattempo, però, la sua finta rete di spie era rimasta in piedi e né i tedeschi, né gli italiani si resero mai conto di nulla. Così, la rete di «Cheese» mandò all'Abwehr, il servizio d' intelligence militare tedesco, quasi 500 messaggi in codice - un record assoluto, per un double agent inglese - e secondo i tedeschi la rete «Cheese» fu la loro principale fonte di notizie in tutto il Medio Oriente.
   L'attività principale della rete «Cheese» era l'inganno. In particolare, esagerava alla grande sui numeri delle forze britanniche presenti nel Nord Africa. «Grazie alla rete Cheese nel luglio del 1942, ad esempio, l'Asse credeva nell'esistenza di 14 divisioni britanniche immaginarie», scrive West. «L'Asse accettò tutte queste notizie come completamente attendibili. \ Di conseguenza, Rommel rimandò il suo assalto contro le forze britanniche nel Nord Africa fino alla fine di agosto 1942, quando ormai Montgomery aveva accumulato le forze necessarie per sconfiggerlo».
   La rete «Cheese» - che diventò sempre più vasta, anche se di fatto inesistente - aveva anche persuaso i nazifascisti, nella stessa estate del 1942, ai primi di agosto, che un attacco britannico all'isola di Creta fosse imminente. Dopodiché gli italiani trasferirono gran parte della loro flotta da Malta a Creta il che consentì a un massiccio convoglio di navi inglesi di raggiungere Malta. Il convoglio, soprannominato Pedestal, consisteva in una trentina di navi della «Royal Navy» (fra queste c'erano anche quattro portaerei), che faceva scorta a una flotta di navi mercantili carica di petrolio, armi e alimentari.
   L'operazione di depistaggio riuscì, e così Malta - e tutto il mondo libero - era salva. Ma a un costo altissimo: una ventina di navi inglesi furono distrutte (compresa una portaerei) e si contarono 400 morti. Chi controllava Malta, però, controllava tutta l'Africa del Nord, e anche l'Europa. Se ne rese ben conto Mussolini, a differenza di Hitler, ormai ossessionato com'era dalla Russia sovietica. La mancata conquista di Malta da parte dai nazifascisti fu un errore fatale per le sorti dell'Asse.
   Allo stesso tempo Rommel, e per lo stesso motivo - cioè per paura di un'invasione nemica di Creta -, aveva deciso di lasciare gran parte delle sue truppe sull'isola greca, invece di portarle in Africa. Era stato ingannato pure lui dai messaggi radiofonici in codice spediti da «Cheese» all'Abwehr. Per lo stesso motivo, convinto dell'esistenza di tante divisioni di soldati inglesi in più in Egitto, rimandava la sua offensiva contro l'Ottava Armata britannica.
   E così, con sempre meno benzina, grazie al controllo alleato del Canale di Sicilia tramite Malta, e con mezzi ridotti il destino di Rommel fu segnato. Quando attaccò finalmente gli inglesi alla fine di agosto 1942, loro nel frattempo si erano davvero rinforzati.
   Renato Levi, il quale aveva sposato un'australiana e aveva gestito la fabbrica di barche della sua famiglia a Bombay, in India, morì nel 1954, all'età di 52 anni, e il suo ruolo chiave nella Seconda guerra mondiale rimase ignoto. Evan Simpson, il giornalista-romanziere che gestiva la rete «Cheese» dal Cairo mentre Levi fu incarcerato in Italia, si era suicidato nel 1953, sparandosi in faccia con una doppietta. Lui pure morto nell'oblio totale.

(il Giornale, 3 febbraio 2015)


La Giordania rimanda l'ambasciatore in Israele

La Giordania avrebbe deciso di rimandare il proprio ambasciatore in Israele. Lo dicono fonti israeliane, citate dai media. L'inviato di Amman mancava dallo stato ebraico da tre mesi: fu richiamato in patria nel momento di massima tensione sugli incidenti sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, del cui status anche la Giordania è garante.

(ANSA, 2 febbraio 2015)


In Israele 'almeno una volta nella vita'

di Dorina Landi

 
Avital Kotzer Adari
Nella sede del Touring Club, e alla presenza del presidente Franco Iseppi, Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio Nazionale del Turismo Israeliano in Italia, ha presentato la nuova e giovane immagine della campagna di comunicazione dell'ente.
«Una campagna - come ha sottolineato la direttrice - rivolta a un pubblico sempre più curioso e attento alle novità, sottolineata dal payoff "Almeno una volta nella vita". Ma non solo una volta, in quanto i volti di Israele da scoprire sono numerosi. La comunicazione è declinata con tre cartelloni che sottolineano le tante attrattive del Paese in cui tutto ha avuto inizio, una destinazione che offre prospettive di soggiorni unici, in grado di offrire le emozioni più diverse».
Avital Kotzer Adari ha poi evidenziato alcune delle principali attrattive di Israele: «Il Mar Morto, uno dei luoghi più particolari e vitali nel mondo, una spa a cielo aperto; Tel Aviv, città che non si ferma mai, divertente e vivace che stupisce sempre, molto amata in particolare dai giovani; Gerusalemme, dove spiritualità e cultura si respirano nelle antiche pietre che raccontano la storia del mondo».
Oltre ai cartelloni, la campagna prevede due brevi filmati visibili online che rispecchiano le valenze e l'evoluzione della destinazione. www.goisrael.it

(Agenzia di Viaggi, 2 febbraio 2015)


Silicon Wadi: crescita record per gli investimenti tecnologici in Israele

Secondo Silicon Wadi, nuovo magazine online nato dalla collaborazione di studiosi ed esperti provenienti da Israele, Francia ed Italia, gli investimenti tecnologici in Israele sono uno dei trend del momento.

Uno dei settori più promettenti in cui investire nel corso del 2015 è senza dubbio quello tecnologico, che assicura interessanti margini di guadagno soprattutto nei Paesi del mondo a più alto concentrato di innovazione. Fra gli stati al momento più in vista per tale trend c'è Israele, che già nel corso del 2014 ha fatto segnare incrementi record per gli investimenti nel settore hi- ech.
Secondo le ultime stime dell'IVC, il centro di ricerca Israel Venture Capital, le imprese israeliane del settore innovazione hanno potuto contare nell'anno passato su una raccolta da 3,4 miliardi di dollari, una cifra record mai raggiunta negli anni precedenti, in cui si erano comunque visti aumenti considerevoli.
A credere nel potenziale delle start up e nel comparto R&D israeliano sono stati soprattutto i titolari di fondi di venture capital e numerosi investitori internazionali, che hanno portato ad ottimi risultati un trend in crescita. A riportare questa notizia è il nuovo magazine online dedicato all'innovazione tecnologica e al mondo hi - tech israeliano Silicon Wadi, gemello di una nota rivista francese, nato dalla collaborazione di studiosi ed esperti provenienti da Israele, Francia ed Italia.
La neonata rivista ha il fine di informare e aggiornare addetti ai lavori e interessati su quanto avviene nel business hi-tech e finanziario israeliano, offrendo una panoramica completa per tutti gli operatori che in Israele e all'interno dell'Unione Europea condividono conoscenze e competenze di economia, tecnologia e finanza.
Per rimanere sempre aggiornati su notizie, novità e avvenimenti del mondo finanziario israeliano, e in particolare su quello che ha più a cuore l'innovazione tecnologica e le scoperte scientifiche, è possibile infatti visitare la sezione Economia della rivista, che riporta una serie di utili aggiornamenti in merito.
Gli aggiornamenti di Silicon Wadi sono disponibili non solo attraverso il sito internet ufficiale, ma anche attraverso i profili social di Facebook e Twitter.

(Bassi Tassi, 2 febbraio 2015)


Netanyahu si traveste da babysitter. E lo spot fa il giro della rete

Diffuso un filmato dal comitato elettorale del partito Likud

"Volevate un baby sitter? Ecco un bibi-sitter!" Benjamin Netanyahu si presenta così, col suo soprannome, a una coppia che apre la porta di casa credendo di vedere la bambinaia. La scena è quella di uno spot elettorale girato dal comitato elettorale del partito israeliano Likud, in vista delle elezioni anticipate che si terranno il 17 marzo.
Nello spot si attaccano gli avversari del primo ministro: l'ex ministro della Giustizia Tzipi Livni, che "sarebbe già da un'altra parte" se dovesse badare lei ai figli della coppia. E poi anche Isaac Herzog, detto Buji, capo dell'opposizione di sinistra: "Sarebbero i nostri figli a badare a lui! Darebbe via anche il tappeto!", dicono i due. Netanyahu poi si rivolge alla telecamera, con un appello elettorale: "Alle prossime elezioni dovremo scegliere chi baderà ai nostri bambini. Alle prossime elezioni scegliete soltanto Likud". Il premier israeliano ironizza anche su uno dei suoi slogan, quando la coppia torna a casa e dice "pace" (shalom), Netanyahu risponde dicendo: "non incondizionata".

(RaiNews24, 2 febbraio 2015)


Netanyahu blocca il trasferimento di 100 milioni di dollari all'AP

Lo riferisce Israel ha-Yom: sono i dazi doganali raccolti da Israele a gennaio per conto dell'Autorità Palestinese. Era già accaduto a inizio gennaio e a dicembre. Il provvedimento è la risposta alla decisione delle autorità palestinesi di rivolgersi alla Corte penale internazionale.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha bloccato il trasferimento all'Autorità Palestinese di 100 milioni di dollari. Lo riferisce Israel ha-Yom: sono i dazi doganali raccolti da Israele a gennaio per conto dell'AP. Il provvedimento è la risposta alla decisione delle autorità palestinesi di rivolgersi alla Corte penale internazionale.
Il mese scorso, precisa il giornale filo governativo, Israele aveva analogamente congelato dazi doganali raccolti per l'AP per un valore di 500 milioni di shekel, circa 120 milioni di dollari. Fonti politiche hanno spiegato che i congelamenti mensili proseguiranno fino quando Israele avrà deciso una politica definitiva dopo che "il presidente Abu Mazen ha varcato una linea rossa rivolgendosi alla Corte penale internazionale, per 'crimini di guerrà asseritamente compiuti da Israele a Gaza e in Cisgiordania".
Domenica, in una conversazione con il segretario generale dell' Onu Ban ki-Moon Netanyahu ha detto che così facendo Abu Mazen ha compiuto "un passo pericoloso" che rischia di "destabilizzare" la Regione. Intanto la stampa palestinese riferisce che l'AP incontra già gravi difficoltà per pagare gli stipendi dei propri dipendenti.
In Israele si e' entrati ormai nella vigilia delle elezioni politiche e Netanyahu deve misurarsi in particolare con rivali di estrema destra: fra questi il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman (leader di Israel Beitenu) e il ministro dell'Economia Naftali Bennett (leader di Focolare ebraico). Anche questa considerazione e' stata probabilmente tenuta in conto quando Netanyahu aveva ordinato il congelamento dei dazi doganali raccolti per l'AP nel mese di dicembre: appunto 500 milioni di shekel. Questi fondi, secondo la radio militare, sarebbero stati utilizzati per saldare i debiti accumulati dall'AP verso la Societa' elettrica israeliana e verso centri medici. In passato Israele era già ricorso a questa misura punitiva verso i palestinesi, ma e' stato costretto a recedere in seguito a forti pressioni diplomatiche.

(il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015)


Se c'è già chi rinnega gli eroi della parola libera

di Pierluigi Battista

 
Ayaan Hirsi Ali
Morire per una vignetta, giusto una marcia per farti festa una domenica e poi essere dimenticato da tutti quelli che una mattina si sono fatti belli con #jesuis Charlie? Ma figurarsi. Saggio Mark ZuckeIberg, che ba promesso a Erdogan di cancellare le vignette su Maometto dalla Facebook turca Saggio il comune di Colonia, in Germania, che ha vietato a un carro di carnevale di ricordare quei 12 poveretti che sono stati ammazzati, armati di una matita, nella redazione di Charlie Hebdo: avrebbe turbato la «leggerezza» carnevalesca, dicono. Saggi i responsabili del Victoria and Albert Museum di Londra che hanno prima esposto, poi nascosto un ritratto del Profeta: niente di blasfemo, ma non si sa mai
   Perché sarà pure bello morire da eroi, ma quando il mondo si dimentica di te dopo una lacrimuccia repubblicana e ti dà in pasto ai professionisti della paura, allora non si capisce perché creare tanto imbarazzo tra i sopravvissuti, che poi sono costretti pure a giurare sui sacri principi della libertà d'espressione. Mica vorranno fare la fine di Ayaan Hirshi Ali, la traditrice, l'apostata, la compagna di lavoro del regista Theo van Gogh accoltellato da fanatici di cui non vorrei qui, in nome della libertà d'espressione, specificare il credo religioso, quell'Ayaan Hirsi Ali a cui i vicini di casa hanno chiesto di andarsene, perché era troppo pericolosa. A Salman Rushdie, dopo anni di impossibile e tetra vita blindata, è andata di lusso. Ma mica uno può sfidare il destino di Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese di Rushdie che è morto pugnalato da fanatici di una religione che (sempre festeggiando la libertà di stampa e nell'imperituro ricordo di Charlie Hebdo) sarebbe il caso di non menzionate, e di cui oggi nessuno ricorda nemmeno il nome: ammazzato e dimenticato.
   Bisogna essere più duttili, più prudenti.
   Bisogna fare come la Yale University Press che in un volume sulle «vignette della discordia» ha preferito nemmeno pubblicarle, quelle vignette: solo testo scritto. Criticare Israele, ma evitare di dire che Israele è circondato da un mare di nemici che dicono di volerli semplicemente «sgozzare», gli ebrei, sia quelli di Israele, sia quelli che frequentano un supermarket kosher a Parigi. Altrimenti ti devi aspettare, certo non l'uccisione, ma almeno uno schiaffetto, una piccola sberla Un pugno. Tanto una marcia repubblicana dura un giorno, ma sottoterra Charlie ci sta per l'eternità. dimenticato.

(Corriere della Sera, 2 febbraio 2015)


Netanyahu critica l'azione dei caschi blu in Libano e accusa l'Iran

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato i caschi blu dell'Onu presenti nel sud del Libano di non applicare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza, adottata dopo la guerra del 2006 tra Israele e il gruppo sciita libanese Hezbollah, che vieta il traffico di armi.
In un colloquio telefonico con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, Netanyahu ha sottolineato che i "soldati di Unifil non rendono conto del traffico di armi nel sud del Libano" nei loro rapporti.
Mercoledì scorso, due soldati israeliani sono rimasti uccisi in un attacco messo a segno da Hezbollah alla frontiera tra Israele e Libano. Per rappresaglia, Israele ha bombardato diverse località nel sud del Libano, dove si trovano postazioni dell'esercito libanese e dell'Unifil, e un casco blu spagnolo è rimasto ucciso. Israele non ha ammesso in via ufficiale la propria responsabilità nella morte del peacekeeper, tuttavia Madrid ha sostenuto che il militare è stato ucciso dal fuoco israeliano. "Il primo ministro ha espresso rammarico per la morte del soldato spagnolo e ha accettato di condurre un'indagine congiunta con il premier spagnolo Mariano Rajoy", si legge in un comunicato stampa.
Nel colloquio con Ban, Netanyahu ha anche sostenuto che la "comunità internazionale deve puntare il dito contro l'Iran, responsabile dell'attacco alla nostra frontiera nord e che sta cercando di creare un fronte terroristico contro Israele sulle alture del Golan"

(Il diario del lavoro, 2 febbraio 2015)


Perché le ONG europee e la Croce Rossa sono i reali nemici in Israele

Traduzione di un articolo apparso su Forward domenica 8 gennaio 2015. L'autore scopre che la Terra Promessa ha un problema tedesco.

di Tuvia Tenenbom

 
Tuvia Tenenbom
Il mio vero nome, per quelli che mi conoscono con altri nomi, è Tuvia.
Sono nato in una comunità ebraica estremamente anti-sionista, ultra-ortodossa in Israele conosciuta come "Hazon-Ishnikes", tra gente che è certa che loro sono il popolo più vicino a Dio e che loro sono gli unici suoi rappresentanti sulla Terra. Mettiamola facile, sono nato nell'élite dell'élite dell'ebraismo religioso odierno.
Seguendo i passi dei miei avi, una lunga serie di rabbini, nella mia gioventù ho passato ogni momento da sveglio studiando le regole di Dio. Vero, la vita non era sempre perfetta, specialmente nei mesi estivi quando la temperatura raggiungeva i 100 gradi (fahrenheit, circa 40 gradi Celsius n.d.t) e dovevo andare in giro con quello che i miei maestri mi insegnavano essere i "vestiti ebraici", un cappotto di lana nero e un cappello pesante, ma oltre a questo, onestamente, la vita era non meglio che perfetta.
Ma poi, in un freddo giorno invernale, ho avuto tra le mani tutti i tipi di libri e immagini e ho trovato che mi avevano mentito. I nostri vestiti neri da "ebrei" mi facevano spaventosamente sembrare come i nobili non ebrei polacchi e i borghesi austriaci di due secoli fa; la glorificazione nella nostra comunità delle vergini era più in linea con le idee nelle società islamiche; e il modo in cui i miei rabbini mi prevenivano da ogni interesse verso la sessualità, "tu non devi mai guardare le femmine" mi ricordavano sempre, mi sembrava più di radice cattolica che ebraica.
In linea con la mia natura di rappresentante di Dio, ho consultato il cielo e ho lasciato il movimento ultra ortodosso. Mi sono unito al mondo Modern Orthodox e, nel processo, sono diventato un fervente sionista di destra.
E con il passare di qualche anno mi sono arruolato nell'esercito israeliano. Come soldato, mi sono sentito un vero padrone. Guidavo carri armati nel deserto e portavo un grosso fucile d'assalto quando ero in città. Un giorno, quando camminavo nelle strade di Gerusalemme, credendo di essere il Re David della Bibbia, i miei occhi incontrarono quelli di una ragazzina araba vestita in un lungo vestito bianco che stava sul tetto della sua casa. Lei stava là, in piedi e fiera. Mi guardò e poi cantò una piacevole canzone in arabo che catturò il mio cuore e la mia mente. La guardai anche io, una estrema bellezza, con una voce da angelo e mi innamorai di lei di colpo. La sua canzone, conclusi immediatamente, era molto più pericolosa di ogni mio proiettile.
Quello stesso giorno divenni di sinistra, di estrema sinistra per essere esatti, e mi innamorai di tutti gli arabi.
Essendo giovane e ingenuo, pensavo che il mio nuovo amore corresse giù e si precipitasse nelle mani di Re Davide, cioè io.
Semplicemente non successe. Lei ignorò questo Re.
Non ci volevo credere. Come poteva non innamorarsi di un uomo sexy come me?
Sì, ero sexy!
 
Vedete, in quegli anni, giovani volontari tedeschi venivano in Israele in massa per aiutare gli ebrei dello stato ebraico, perché si sentivano in colpa per quello che avevano fatto i loro genitori, zii e zie agli ebrei qualche decina di anni prima. Per loro, io ero il più sexy uomo vivente perché i miei genitori sopravvissero a malapena ai nazisti e gran parte della mia famiglia evaporò in cielo attraverso qualche forno crematorio.
Già, purtroppo, per la bellezza araba io non ero niente di speciale.
Ci volle tempo ma alla fine mi adattai al fatto di essere rifiutato dalla ragazza araba, e da quel giorno loro erano "arabi" non "palestinesi". E passando gli anni, abbandonai il fucile e decisi di essere di centro e di studiare in una università.
Ma mia madre, che credeva che andare in una università laica fosse la peggior cosa che un ebreo potesse fare, non riusciva a smettere di piangere quando le riferii la mia decisione.
Non volendo fare a mia madre quello che le fecero i nazisti, lasciai Israele.
Questo fu 33 anni fa.
Andai negli USA e passai i successivi 15 anni in diverse università, studiando tutto e qualsiasi cosa pensassi fosse interessante. Ho fondato il Teatro Ebraico di New York, dove circa 20 mie commedie sono state rappresentate e iniziai a scrivere per varie testate americane e europee, soprattutto per il giornale tedesco Die Zeit.
Alla fine del 2012 fu pubblicato il mio libro "Ho dormito nella stanza di Hitler" ("Allein unter Deutschen" in tedesco), un viaggio di sei mesi nella psiche dei tedeschi contemporanei. Il libro, che documenta la scioccante profondità dell'antisemitismo tedesco odierno, è diventato un best seller di Spiegel. Un anno dopo il mio editore mi chiese se volessi scrivere un libro su Israele, usando la stessa tecnica che ho impiegato per il primo libro, formalmente: viaggiare per il paese, guardando tutto e tutti, parlando con chiunque e poi scrivere su tutto questo, dettaglio dopo dettaglio.
Accettai e volai in Israele.
I giorni e i mesi sono passati e sono ancora in Israele.
L'Israele di questi giorni non è l'Israele che ricordavo. Andate, per esempio, le belle volontarie tedesche.
No, no, lasciatemi essere più preciso, loro sono qui, le giovani tedesche, ma adesso, per la maggior parte almeno, sono occupate a fare cose che ti fanno sentire colpevole. In questi giorni sono molto occupate a insegnare agli arabi il metodo migliore per combattere gli ebrei. Lasciatemi tornare indietro. Questi volontari tedeschi si sentono molto colpevoli per quello che i loro nonni fecero agli ebrei e perciò, adesso, loro aiutano gli arabi a combattere contro gli ebrei.
Questo può non avere molto senso per voi, ma per questi tedeschi la logica non gioca un ruolo principale.
Ecco un esempio: ero seduto vicino a una coppia di giovani ragazze tedesche in un evento anti-israeliano che si teneva all'Università Al-Quds in Gerusalemme, nella quale ci veniva detto che lo stato di Israele fu creato da bande di massacratori ebrei che vennero in questa parte del mondo per nessuna ragione ovvia e sgozzarono migliaia di civili addormentati nel mezzo della notte. Le ragazze applaudirono. "Tre anni fa" una di loro mi disse " sono stata volontaria per Israele e mi sono innamorata del popolo ebraico".
"E' per questo che hai deciso di venire ancora?" chiesi.
"Sì"
 
"Tre anni fa ti sei innamorata degli ebrei e quindi tu adesso aiuti i palestinesi?"
Lei mi guardò incredula, molto arrabbiata: "Che cosa stai tentando di dire?"
Sì, i volontari tedeschi sono cambiati. E anche gli ebrei sono altrettanto cambiati.
Per me, gli ultra ortodossi odierni sembrano più simili a fedeli pagani dell'età del bronzo che polacchi o austriaci del secolo passato. In questi giorni, per esempio, puoi vedere rabbino su rabbino fare i più strani "miracoli", come aiutare la gente a "sembrare attrattiva" attraverso delle benedizioni, promettendo inoltre ai loro ingenui "seguaci" delle "comode suite in paradiso", tutto questo con degli oboli straordinari, ovviamente.
Gli ultra-ortodossi non sono gli unici ad essere cambiati. I Modern-Orthodox adesso, con mi sorpresa, sono quasi l'esatta copia degli ultra-ortodossi della mia gioventù. 30 anni fa, i ragazzi e le ragazze Modern-Orthodox amavano ballare insieme il pomeriggio di shabbat. Adesso, ai ragazzi non è permesso toccare le ragazze, lasciamoli ballare tra di loro.
Oggigiorno anche la gente di sinistra ha subito un grosso cambiamento. Qualcuno dirige ONG che sono sovvenzionate con milioni e milioni di dollari da donatori stranieri e passano i loro giorni e notti seguendo un sogno: distruggere l'identità ebraica di questo paese.
"Alla fine qui ci dovrà essere un solo stato con un uomo, un voto", mi ha detto un artista di sinistra.
Siccome i palestinesi sono quasi la maggioranza in questo stato singolo, lo stato ebraico cesserà di esistere, giusto? Chiesi.
"Io lo sogno questo!" ha detto
Ho incontrato molta gente come lui che orgogliosamente dichiarava di amare la cultura palestinese.
Parli Arabo? chiedevo loro.
"No" è la risposta che ricevevo.
Hai letto il Corano o qualche altre fonte Islamica?
"Non ancora" era quello che di solito mi dicevano.
È sbalorditivo come gente che dedica la sua esistenza a proteggere l'identità e la cultura palestinese non pensi neppure di studiarla questa cultura.
 
Io ho studiato l'arabo, il Corano, Hadith e qualsiasi altra cosa su cui potessi mettere le mani e non vado sempre in giro a proclamare il mio amore. L'élite israeliana di sinistra che ho incontrato conosce Kant, Nietzsche, Sartre e Aristotele, ma non conosce il Corano o Hadith, e neppure la lingua araba.
A fianco degli ebrei ci sono gli arabi qui, ovviamente. Sono cambiati?
Oh, sì lo sono!
I sorrisi che ero abituato a vedere sulle loro facce 33 anni fa sono ora totalmente spariti. Prima Europa e America fornivano incalcolabili quantità di denaro in varie "iniziative di pace", gli arabi e gli ebrei si mischiavano abbastanza bene. Non era il paradiso, ma nemmeno New York lo è. Ricordo che potevo andare a Ramallah, Nablus, Bethleem, proprio ovunque. Mi piaceva il cibo e la musica araba e ne fruivo quando volevo. Adesso gli ebrei israeliani possono andare a Nablus, Gaza o Ramallah?
"C'era un bus qui," mi ha detto un israeliano della città meridionale di Askelon, "il bus pubblico numero 16, e potevamo andare a Gaza. Eravamo in buoni rapporti, i gazamiti e gli israeliani. Lavoravamo insieme, mangiavamo insieme e ci facevamo visita a vicenda. La vita era differente allora. Ora Gaza è un mondo separato. Non possiamo andare da loro e loro non possono venire da noi"
Sono stato nella casa di uno dei più importanti leader palestinesi, il General Maggiore Jibril Rajoub, un uomo che molti israeliani pensano essere il più moderato del OLP. "Se Hitler si svegliasse dalla sua tomba (è stato cremato, n.d.t.) e vedesse la brutalità di Israele, potrebbe essere scioccato", mi ha detto.
Uno dei suoi uomini mi ha detto, abbracciandomi forte: "Tutti noi, tutti i palestinesi, siamo tedeschi".
Qui mi conoscono come "Tobi il tedesco", un nome che uso quando sono con i palestinesi e loro amano me, quest'uomo ariano. Fossi stato Tuvia, un nome che mi identifica come ebreo, ci sarebbero state buone possibilità che non sarei in vita adesso. In nessun posto in Palestina, o "area A" secondo i termini di Oslo, si può trovare un ebreo, a meno che non sia stato rapito e probabilmente ucciso.
Jibril mi aveva preso in simpatia. E, per essere onesto, anche a me piaceva. Mi disse che il mio nome non doveva essere più Tobi.
Questo maestro dello spionaggio palestinese ha capito che io non sono Tobi?
Per grazia e compassione di Allah, no. "Il tuo nome, da adesso è Abu Ali" mi ha detto. Abu Ali, che rappresenta rispetto e coraggio in arabo palestinese, è anche il nome con cui qualche palestinese chiama Adolf Hitler.
Ebbene sì: che differenza fanno 33 anni.
Come è avvenuto questo cambiamento nelle relazioni arabo-ebraiche? ci sono voluti mesi di vagabondaggio nelle strade per rivelare la presenza di persone che hanno lavorato duro per portare questo cambiamento .
 
Chi sono queste persone?
Purtroppo, sono gli attivisti delle ONG che vagabondano in questa terra spargendo odio. Non sono gli unici, c'è un altro colpevole: l'Unione Europea.
Per essere onesto, non sono i soli colpevoli qui intorno. L'americana Agency for Inernational Development, differentemente da quello che comunemente si pensa, è fatta di persone rette. Ma USAID è un piccolo giocatore in confronto con gli europei, così prendiamocela con gli europei per ora.
Sorpreso? Sì, lo sono stato. Ma la realtà è il più grande assassino delle sorprese, e la realtà qui è straordinariamente velenosa.
Se qui tu sei un turista, o se perfino vivi qui, molto probabilmente non fai molta attenzione a questo. Ma se tu devi scrivere un libro su questo paese e non puoi chiudere gli occhi e le orecchie, la realtà rivela se stessa.
L'ho capita male? controlliamo.
Per piacere, venite con me in un viaggio a Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di questo paese. Forse siete stati lì e oggi ci sto andando lì anch'io. Al contrario di molti di voi, suppongo, sto andando a Yad Vashem con un viaggio pagato dall'EU tramite un finanziamento della Commissione Europea.
Mi unisco a una ONG italiana, la "Casa della Pace" di Milano, che porta giovani italiani nel paese con l'intento di far conoscere Israele in prima persona. Questa ONG utilizza anche una guida israeliana che si chiama Itamar.
"Benvenuti in Israele, Palestina" dice Itamar, parlando ad un microfono e poi ci dice di essere un ex-ebreo.
Mentre camminiamo attraverso il museo, Itamar fa del suo meglio per trasformare la storia della Seconda Guerra Mondiale in una storia contemporanea, facendo paragoni tra i Nazisti di ieri ed Israele di oggi.
"In Israele oggi gli africani sono messi in campi di concentramento" dice Itamar, riferendosi agli immigranti illegali sudanesi ed eritrei che, a quanto sembra, ci fa credere che siano bruciati nei crematori dappertutto in Israele.
 
Quando il tour prosegue, ci spostiamo nella sezione con più morti ebrei, dove un visitatore normale prende atto della più potente fase dello stermino di massa di milioni di ebrei. Ma il nostro ex-ebreo ha altre cose in testa. Lui dice: "Quello che vedete qui (a Yad Vashem) è visto tutto dalla prospettiva delle vittime ebree, questo è dopotutto un museo ebraico. Ma quello che vedete qui, con ebrei e nazisti, sta anche succedendo oggi, in Palestina. Quello che sta avvenendo qui in Israele è un Olocausto."
Sono felice, se così si può dire, che mia madre sia morta e non debba sentire questo.
Come persona privata, Itamar è autorizzato ad avere queste idee. Ma il fatto interessante qui è che la EU sta pagando un "ex-ebreo", un uomo che loro dovrebbero sapere che parla male degli ebrei, per guidare un gruppo di turisti a Yad Vashem.
E poi c'è la Croce Rossa o come è conosciuta ufficialmente, ICRC. Questa è la gente retta della Terra che guida meravigliosi camioncini bianchi con piccole croci rosse e aiuta sempre la gente bisognosa.
Bene, non è proprio così.
La gente della Croce Rossa che ho incontrato qui fa cose molto più importanti che assistere i malati o prendersi cura delle persone bisognose. Per esempio: spende risorse reclutando e/o equipaggiando arabi con strumenti adatti per catturare e registrare i cattivi ebrei che vagabondano in questo pezzo di terra. Israele è un occupante, loro insegnano agli arabi, e gli arabi devono combattere gli occupanti ebrei. Quando fu occupata questa terra? No, no, non dire 1967. Questa terra fu occupata nel 1948.
Come lo so?
No, non ho letto della Croce Rossa nei giornali. I media qui, come ho imparato duramente, non sono il posto dove si trovano i fatti. Per scoprire cosa stanno facendo le persone della Croce Rossa, mi sono unito a loro in un giro in una città araba, Jenin, e ho visto di prima mano come loro operano.
Il mio giorno con i ragazzi della Croce Rossa è iniziato stranamente. Mi sono mostrato negli uffici della ICRC nel quartiere di Sheikh Jarrah e mi sono imbarcato sul furgone che mi avrebbe portato a Jenin.
Mentre stavamo guidando, il rappresentante della Croce Rossa mi ha detto: "quando loro (Israele) demoliscono una casa, noi arriviamo insieme alla PRC (Pelestinian Red Crescent, Mezzaluna Rossa Palestinese n.d.t) e offriamo i kit per l'igiene e tende per le persone che hanno appena perso la casa. Tutti gli edifici in Sheikh Jarrah hanno ordini di evacuazione e Israele mette qui i coloni."
Questo suona veramente male. Quante case sono state demolite in Sheikh Jarrah fino ad ora? gli ho chiesto.
 
Lui ha provato a sommarle tutte nella sua testa ed è uscito con la somma esatta: ZERO.
Questo non ha molto senso, ma non sembra interessare. La Croce rossa non si vergogna nemmeno di condividere i suoi pensieri di odio per scritto, se sei un giornalista tedesco ovviamente. In una email dalla Croce Rossa, mi è stato detto che la Croce Rossa distribuisce le sue analisi sulle questioni dei diritti dell'uomo "con gli stati appartenenti alla Convenzione di Ginevra e loro seguono la nostra interpretazione della legge, con l'eccezione di Israele",
Israele, apparentemente, è il solo paese sulla terra che viola la Quarta Convenzione di Ginevra e i regolamenti della legge umanitaria internazionale. Maledetti ebrei.
In aggiunta alle ONG straniere operanti nell'area, le ONG israeliane sono anche loro molto attive qui, poiché la loro maggiore sorgente di introito viene dall'estero.
Una delle più famose ONG israeliane è B'Tselem, che è bellamente finanziata con mezzi tedeschi.
B'Tselem ha reso pubbliche varie storie sulla violazione di diritti umani da parte del governo ed esercito israeliano. Come l'hanno fatto? B'Tselem ha ricercatori sul campo, circa 10 in tutto, tutti palestinesi.
Ho incontrato un ricercatore di B'Tselem che si chiamava Atef e mi ha preso per testimoniare di prima mano le orribili cose che gli ebrei avrebbero fatto. Purtroppo, quando siamo arrivati dove i cattivi ebrei avrebbero dovuto essere, non abbiamo visto alcun ebreo. Invece, Atef mi ha presentato alcuni abitanti del luogo.
Abbiamo parlato un poco e improvvisamente il capo della famiglia mi ha accusato, dicendo che io "pago denaro agli ebrei!"
"Quando io ho pagato denaro a qualche ebreo?" ho chiesto io, Tobi il Tedesco,.
"Beh, non tu personalmente, ma il tuo popolo, i tedeschi", ha detto.
Ho ricordato ai miei nuovi amici che noi, i tedeschi, non abbiamo scelta che pagare gli ebrei perché li abbiamo ammazzati nella seconda guerra mondiale.
Atef, il ricercatore, ha interrotto: "Questa è una bugia, non ci credo" ha detto.
L'olocausto così come noi tutti lo conosciamo è un invenzione degli ebrei.
E gli ebrei di B'Tselem dicono che questo uomo è un ricercatore di punta.
Queste storie sono solo una goccia nel secchio di quello che ho trovato in questa terra e nel tempo che ho passato ho capito come dovevo chiamare il mio nuovo libro: "Catch the Jew!" (Acchiappa l'ebreo, N.d.T.), tre parole che raccontano la storia moderna di ebrei, arabi e illuminato mondo occidentale.
 
Quando "catch the Jew!" usci in Israele, le stazioni TV israeliane trasmisero qualche video che io diedi loro, che descrivevano qualche storia che c'è nel libro. Un video era su B'Tselem. Ma B'Tselem si oppose al servizio e disse che il video era stato tirato fuori dal contesto. Misi allora una versione più lunga del video su Facebook.
Solo dopo che Haaretz riportò che io avevo citato correttamente il borsista di B'Tselem, l'organizzazione finalmente ammise la verità e licenziò Atef.
Ma Atef fu solo il caso. B'Tselem è una delle tante ONG che operano qui, ognuna dedicata ai "diritti dell'uomo" e alla "pace", ma in realtà dedicate alla distruzione dello stato di Israele e alla delegittimazione dei cittadini ebrei.
Questo suona duro, lo so ma purtroppo questa è la realtà.
Come si può immaginare, le ONG costano milioni su milioni e qualcuno deve pagare per loro. La domanda è: chi?
Secondo agli agenti dell'Intelligence con cui ho parlato, la maggior parte del denaro europeo anti-Israele viene dalla Germania. I finanziamenti tedeschi delle ONG piene d'odio non costituiscono il solo convogliamento tedesco in attività anti-israeliane qui. Guardate per un momento i vari partiti tedeschi che operano qui attraverso le loro fondazioni affiliate. Per quanto loro pubblicamente lo neghino, finanziano coscientemente gli anti-semiti.
Siccome io sono sul punto di partire, mi chiedo che cosa sembrerà questo paese da qui a 33 anni. Non sono sicuro, perché da tanto tempo ho smesso di essere il rappresentante di Dio, ma scommetto che se i tedeschi continuano sulla loro strada, fra 33 anni qui non ci sarà più un solo ebreo .

(Forward, 8 gennaio 2015 - trad. David Levy)


Se è l'Egitto a mettere fuori legge Hamas

di Fiamma Nirenstein

Ci vuole una grande lite nella famiglia araba perché si gridino delle verità impronunciabili: nessuno, nel mondo musulmano aveva mai osato legare il nome di Hamas, insieme a quello della Fratellanza musulmana, a quello dell'Isis e di Al Qaeda. Ma Abdel Fattah al Sisi, dopo l'ennesimo attentato ha svelato come vede le cose: l'Egitto, ha detto accigliato alla tv, è l'oggetto delle mire di tutto il terrorismo internazionale capitanato dalla Fratellanza musulmana, e del disegno di dominarlo fanno parte anche Al Qaeda,l'Isis con la sue dependance egiziana, Ansar Bayt al Maqdis e, novità, Hamas. Si, anche Hamas è stata messa dopo i terribili attentati che da mesi riempiono l'Egitto di sangue nella lista delle organizzazioni terroriste che al Sisi condanna: «Abbiamo una sola scelta» ha detto ai suoi militari, parlando da generale, «o il Sinai o la morte». Una frase forte che rimanda ai tempi della guerra contro Israele, una toccata delle corde patriottiche più profonde. Hamas è stato inserito dalla Corte suprema, per la sua componente militare, le Brigate Izz ad Din al Qassam, nella lista delle organizzazioni terroristiche. E la ferita sanguina, dato che Gaza ha un confine vitale con il Sinai, ed ha adesso sul confine una lunga fossa di serpenti difficile da saltare.
   L'esercito egiziano sa essere molto duro, in Sinai dietro ogni duna c'è una jeep bene armata e molto severa. I capi di Hamas hanno reagito, protestando che da ora in poi all'Egitto verrà tolto l'incarico di gestire il rapporto con Israele, giocando sulla fiducia internazionale che crea a Sisi essere l'honest broker. Ismail Haniye ha anche detto che «le Brigate sono una fonte di orgoglio rispetto e coraggio», e che l'Egitto fa il gioco di Israele. Qualcuno ha anche ricordato che Hamas è stato appena sfilato dall'Europa dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ci facciamo al solito una bella figura. Dopo l'uccisione di 31 soldati giovedì scorso, l'uso delle armi di Hamas che passano sotto le sabbie del confine hanno sfinito l'Egitto. Sisi non è disposto a perdere tempo in salamelecchi e vuole combattere per il Sinai ora percorso da terroristi e beduini loro complici, perché sa che l'Egitto è il maggiore se non l'unico argine musulmano contro l'Isis.
   Già quando in ottobre l'Egitto ebbe 30 morti a opera di Ansar Bayt al Maqdis, che ancora non si chiamava «Provincia del Sinai» (del Califfato, cioè), l'Egitto si affrettò a chiudere quante più gallerie sotterranee possibile, fu creato lungo il confine una zona cuscinetto di mille metri, le case furono distrutte, i beduini e i gazani che abitavano là sloggiati (viene da chiedersi: come mai tutte le anime belle antisraeliane stavolta non dissero una parola). Ma nonostante le misure radicali e lo scontro mortale all'interno della famiglia sunnita, l'ultimo attacco è giunto giovedì, con quattro incursioni contro le forze di sicurezza del Nord Sinai che hanno ucciso 31 fra ufficiali e soldati. Intanto nel week end 25 persone sono state uccise dalle forze di polizia che hanno colpito folle di dimostranti. La guerra è anche per le strade del Cairo. Il potere del generale è assediato e si batte con dura determinazione. Sisi ha spiegato che la Fratellanza musulmana è la più potente fra tutte le organizzazioni islamiste alla conquista del mondo. Ma è noto che è proprio questo che divide l'Egitto da Obama, che dall' estromissione di Morsi ha diminuito gli aiuti anche se il pane manca. Solo una settimana fa, ha scritto l'ambasciatore israeliano Zvi Marzel, una delegazione della Fratellanza è stata ricevuta dal dipartimento di Stato, e poi ha postato le foto per ogni dove. È mai possibile che l'amministrazione Obama riesca sempre a danneggiare i suoi amici?

(il Giornale, 2 febbraio 2015)


Elezioni in Israele: partiti arabi tra rischio di implosione e speranza di integrazione

di Luca Lampugnani

 
La Knesset israeliana
Con un accordo siglato la settimana scorsa le tre più importanti formazioni politiche arabo-israeliane hanno dato vita ad un'unica lista che correrà alle elezioni del prossimo marzo per il rinnovo della Knesset. Nonostante le differenze e le diffidenze, il punto di incontro tra i comunisti marxisti di Hadash, gli islamisti di Ram-Ta'al e i nazionalisti laici di Balad ha trovato la sua ragion d'essere nella lotta a quella che i rispettivi leader delle diverse anime partitiche hanno definito la "destra razzista" di Israele, senza dimenticare tuttavia che l'operazione è anche sintomo di una necessaria battaglia alla sopravvivenza politica.
In tal senso, la fusione della rappresentanza araba nella Camera israeliana è la diretta conseguenza dell'innalzamento della soglia di sbarramento al 3,25%, misura fortemente sponsorizzata dall'attuale premiership al fine di garatire una maggiore governabilità al Paese. Motivazione, questa, ovviamente contestata da molti, bollata come mero pretesto con cui nascondere un preciso disegno per eliminare la politica arabo-israeliana dalla Knesset.
Ad ogni modo, secondo alcuni sondaggi preliminari riportati tra gli altri dal Wall Street Journal, l'unica lista che unisce Hadash, Ram-Ta'al e Balad potrebbe attestarsi all'indomani delle elezioni di marzo come la quarta forza del Paese, potenzialmente in grado di aggiudicarsi un numero variabile di seggi tra gli 11 e i 13 su 120. Se queste previsioni dovessero essere confermate dal voto, la fusione tra i partiti arabi rimarrebbe all'ombra solamente dei più noti Likud (il partito del premier Benjamin Netanyahu), Hamahane Hatzioni (fusione dei laburisti israeliani con Hatnuah, tradotto come Campo Sionista dal nome inglese Zionist Camp) e Habayit Hayehudi (formazione guidata da Naftali Bennett, collocata a destra della destra e nota come Casa Ebraica).

- Il rischio di implosione interna
  Tuttavia, mentre numerosi osservatori ed analisti ritengono che l'avvento della lista unita potrebbe scuotere la solitamente bassa affluenza alle urne degli arabi israeliani, una questione ben più centrale accompagna il cammino della stessa: riuscirà a resistere alle profonde ed innegabili divisioni interne? Attorno alla domanda si concentrano ovviamente numerose attenzioni, e secondo il Jerusalem Post la possibilità di un'implosione interna in corso d'opera è molto probabile.
Innanzitutto, il richio principale riguarda il diverso peso specifico che le tre formazioni avranno all'interno della lista, e in tal senso la leadership di Ayman Odeh (numero uno del comunista Hadash) dovrà lavorare senza sosta per smussare gli angoli ed evitare quindi la rottura. Non a caso, infatti, in numerose dichiarazioni citate dal JP emerge un'identità unitaria basata pressoché unicamente sulla lotta alla già citata "destra razzista" israeliana e al raggiungimento di migliori condizioni sociali per gli arabi di Tel Aviv, questioni effettivamente care all'unisono a tutte e tre i partiti.
Per quanto riguarda altri temi, al contrario, le divisioni sono nette. Ad esempio, sul caso del Charlie Hebdo e della sua pubblicazione in Israele, uno scontro indiretto si è consumato negli ultimi giorni tra Masud Gnaim, membro dell'islamista Ram-Ta'al - assolutamente contrario - e Dov Henin, politico di Hadash e a favore della libertà di espressione in ogni sua forma.

- Una speranza per l'integrazione?
  Indubbiamente, qualora la lista unita dei tre principali partiti arabo-israeliani dovesse ottenere un buon numero di seggi, la sua importanza all'interno della Knesset potrebbe essere il potenziale punto di partenza di un nuovo processo integrativo tra il popolo ebreo e quello arabo di Israele. La formazione unita potrebbe infatti rappresentare un alleato - interno ed esterno - per quei partiti politici più aperti al dialogo, fungendo quindi da sorta di puntello con cui aprire una crepa nel muro che - come tra Israele e Palestina - divide internamente a Tel Aviv gli ebrei dagli arabi.
Si tratta ovviamente di un processo che, se effettivamente avviato, richiederà un numero indefinito di anni e di mediazioni. Strada che può tuttavia trovare una sua implementazione attraverso una serie di riforme condivise e condivisibili, come ad esempio l'innalzamento del salario minimo, proposta avanzata alla Knesset dai comunisti di Hadash.

(International Business Times, 1 febbraio 2015)


Iran contro Israele. Teheran lancia un concorso di vignette satiriche

Il tema è la "negazione dell'Olocausto"

Un concorso internazionale di vignette in risposta ai disegni satirici pubblicati da Charlie Hebdo. Tema: la negazione dell'Olocausto. È la provocazione lanciata dall'istituto iraniano del fumetto che ha messo in palio sostanziosi premi in denaro - 12.000, 8.000 e 5.000 dollari - per i primi tre classificati. I lavori saranno esposti al Museo Palestinese d'Arte Contemporanea di Teheran.
Non è la prima volta che in Iran si tiene un concorso di vignette negazioniste, era accaduto già nel 2006, ma in questo caso, hanno detto gli organizzatori al quotidiano Teheran Times, l'iniziativa è una reazione alle "offensive vignette" su Maometto pubblicate dal settimanale francese che lo scorso 7 gennaio è stato vittima del feroce attentato terrorista in cui sono morte 12 persone.
Intanto, su Twitter e Facebook sta diventando sempre più popolare la campagna #IloveMohammad, lanciata per "denunciare l'orrore del terrorismo da parte dei musulmani e rispondere all'islamofobià". Secondo l'agenzia ufficiale Irna, l'iniziativa ha già ricevuto 5.000 tweet, 500mila 'mi piace' su Facebook e 22.000 adesioni su Instagram.
Intanto Charlie Hebdo rischia di non vedere la luce per molto tempo. Se il numero 1.179 del settimanale, il primo dopo il massacro di 12 persone nella redazione, ha toccato i 7 milioni di copie, il numero 1.180 non vedrà la luce né il 4 né l'11 febbraio. Anzi al momento non esiste una data, ha spiegato Anne Hommel, responsabile della comunicazione di Charlie: "Non è una rinuncia o un arretramento davanti alle minacce islamiste - ha aggiunto - ma un semplice problema di stress e stanchezza della redazione", provata dal massacro del direttore, Charb, e di altri 3 vignettisti, dai funerali e dalla fatica di pubblicare in condizioni estremamente difficili il numero dopo la strage.

(L'Huffington Post, 1 febbraio 2015)


Ecco come i terroristi islamici entrano in Italia

Antakya, Turchia. Alla fine dello scorso anno un esponente dello Stato Islamico ha attraversato il confine siriano, si è installato in una città portuale della Turchia, e lì ha avviato una missione di infiltrazione di jihadisti in Europa. Dice che sta riuscendo nell'impresa, nel corso di un'intervista nei pressi del confine fra Siria e Turchia.
L'esponente, un siriano barbuto sulla trentina, afferma che l'ISIS sta inviando combattenti sotto copertura in Europa. Li fa entrare illegalmente dalla Turchia a gruppetti, nascosti in navi da carico fra centinaia di rifugiati. Afferma che i combattenti intendono porre in pratica le minacce dell'ISIS di attaccare l'Occidente, in rappresaglia per gli attacchi subiti da parte degli Stati Uniti a partire dalla scorsa estate in Iraq, e dall'autunno i Siria: «se qualcuno mi attacca», dichiara a BuzzFeed News in condizioni di anonimato, «può star certo che risponderò all'attacco»....

(Il Borghesino, 1 febbraio 2015)


Se la memoria diventa labile

di Cristiano Bendin

FERRARA - Sarà stata colpa del freddo o di una pubblicizzazione poco efficace ma mi ha fatto una certa impressione constatare che alla visita organizzata venerdì ai 'luoghi della persecuzione degli ebrei ferraresi' si sono presentate cinque persone. Ma perché - mi sono chiesto - una città in cui è vissuto e ha lavorato Giorgio Bassani, che ha pagato un tributo così alto e qualificato di vite umane dall'emanazione delle leggi razziali del '38 fino al 1945 e nella quale ha prosperato - arricchendola - una delle più feconde e antiche comunità ebraiche d'Italia, snobba un evento così simbolico, per quanto piccolo?
   Ebbene, tentando di capire se le ragioni di quell'insuccesso fossero banali (il clima ostile, l'affollarsi di molti eventi e cerimonie in pochi giorni o semplicemente lo scarso appeal dell'iniziativa) o più serie, mi sono sorte spontenee alcune riflessioni. Che offro a voi, lettori, in totale libertà senza puntare il dito ma solo come stimolo. Non è che la Giornata della memoria, che la città di Ferrara e i principali centri della provincia stanno tuttora celebrando con una serie di iniziative di rara qualità culturale e intensità emotiva, sta diventando un po' troppo retorica al punto da stancare (o assuefare) la gente, ivi compresi i ferraresi? E' un tema che, in modo più autorevole, si stanno ponendo alcuni esponenti del mondo ebraico italiano. Uno fra tutti il rabbino Giuseppe Laras.
   In un recente intervento, infatti, egli ha messo in guardia dai rischi di una Giornata della memoria «addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie», invitando le più alte cariche dello Stato ad andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma vittima del rastrellamento nazifascista, «per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, col plauso, la collaborazione, l'assenso e i silenzi di moltissimi italiani».
Insomma, secondo Laras, organizzata come è attualmente, «sembra riguardare un qualcosa lontano nel tempo, accaduto soltanto in Germania o in Polonia. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente».
   Altro tema: non è che la nostra memoria - e il nostro amore empatico e solidale per gli ebrei (ma lo stesso discorso vale per gli armeni e per tutti i perseguitati) in ragione di quanto patito - cessa una volta finite le celebrazioni ufficiali? E che ad una parte di noi, per citare ancora Laras, «gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi?». Non è così a Ferrara o in Italia ma in Francia - dove gli ebrei stanno fuggendo a migliaia - e nel cuore d'Europa sta tornando, come ha denunciato Bernard-Henry Lévi all'Onu, lo spettro dell'antisemitismo. Ecco, forse occorrerebbe ripensare questa ricorrenza affinché attivasse una memoria dinamica e contribuisse davvero a sradicare i germi del pregiudizio.

(il Resto del Carlino, 1 febbraio 2015)


«Amos, Amos, perché mi deridi?» (2)

1 febbraio 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco   

Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz   
nella mia lettera precedente avevo scritto che il tuo libro potrebbe chiamarsi "La parabola del buon citrullo". Non è un titolo denigratorio, basti pensare che il famoso scrittore russo a cui sei stato paragonato e da cui certamente hai tratto ispirazioni, Fëdor Dostoevskij, quando in un suo romanzo volle rappresentare un uomo "positivamente buono" (cosa che per sua stessa ammissione non gli riuscì del tutto), scelse per la sua opera un titolo che certamente non suona molto bene: "L'idiota". Il citrullo del tuo romanzo, Shemuel Asch, e l'idiota di Dostoevskij, il principe Myskin, hanno una cosa in comune: alludono entrambi alla persona di Gesù, anche se in forma diversa; e in entrambi i casi i due personaggi non finiscono bene: escono di scena da sconfitti. ll russo Myskin ripiomba in uno stato di definitiva demenza e il tuo Shemel continua a permanere in uno stato di perpetuo dubbio.
  Espressiva è la frase monca con cui chiudi il romanzo: "E domandò a se stesso." Che si domandò Shemuel? Non si sa. Forse con questo hai voluto dire di non aver scritto un romanzo a tesi; di aver presentato diverse posizioni tutte degne di essere prese in considerazione. Può darsi. Forse. O forse il tuo è soltanto un artificio letterario per tenere sulla corda i lettori e assicurarti il loro interesse anche dopo che hanno finito di leggere il libro. Il dubbio resta. L'enigma pure. Si dice e non si dice. E a me, che da giovane avevo interesse non solo per la letteratura russa ma anche per i poeti romaneschi, è venuto subito in mente Trilussa: "Quann'uno ner parlà dice e nun dice finisce pe' fa' crede pure a quello che nemmanco je passa p'er cervello".
  Ma a parte questo, bisognerebbe dire che temi di importanza vitale come Gesù e Israele non sembrano adatti per fantasiose invenzioni artistico-letterarie, siano esse drammatiche o umoristiche.
  Dei due interessi che abbiamo in comune, di cui ho detto la volta scorsa, Gesù e Israele, è evidente che per te il primo in ordine di tempo e importanza è Israele, e più precisamente il sionismo. Cercherò allora di esprimere quello che ne ho capito leggendo il tuo libro.

- FANTASMI CHE SI AGGIRANO NEL SILENZIO DELLA CASA
  Il luogo arcano in cui entra il giovane Shemuel è una casa in cui si aggirano due fantasmi che prima l'abitavano in carne ed ossa: Shaltiel Abrabanel, padre di Atalia, e Micah Wald, figlio di Gershom e marito di Atalia. Il primo risulterà essere una vittima del sionismo universalista, il secondo del sionismo nazionalista. Carnefice di entrambi sarebbe Ben Gurion, presentato come unico responsabile della nascita dello Stato d'Israele.
   Abrabanel appare come controparte di Ben Gurion, perché avrebbe tentato in tutti i modi di convincere il comitato sionista a non proclamare lo Stato d'Israele, nella convinzione che questo li avrebbe condannati ad un'eterna guerra con gli arabi. Ma tutti - riferisce la figlia Atalia -, si ostinarono a seguire il "pifferaio magico" Ben Gurion. Così, con la creazione dello stato ebraico ebbe inizio un'interminabile, sanguinosa contesa degli ebrei contro tutti gli altri.
   Atalia era dalla parte del padre Shaltiel, mentre Gershom, convinto ormai che lo scontro con gli arabi fosse inevitabile, era dalla parte di Ben Gurion. Aveva quindi caldamente appoggiato la guerra, tanto caldamente che il figlio Micah ne rimase affascinato e decise di arruolarsi volontariamente nell'esercito, anche se per motivi di salute avrebbe potuto esserne esonerato. La moglie Atalia aveva tentato in tutti i modi di dissuaderlo, ma invano: Micah andò a combattere e fu ucciso; e anche in un modo barbaro e feroce, come si seppe in seguito. Dopo di che nella casa scese il silenzio: nessuno aveva più voglia di parlare dell'argomento.
  Qualche anno dopo Abrabanel si spense, abbandonato da tutti come traditore del popolo, e nella casa rimasero soltanto Atalia e Gershom, in un accordo di mutuo interesse, ma senza nessuna comunione di affetti e di pensieri.

- L'ARRIVO DI SHEMUEL FA RIAPRIRE IL DISCORSO
  Un giorno Gershom sente il bisogno di spiegare al giovane idealista i motivi per cui continua ad essere dalla parte di Ben Gurion:
   "Ben Gurion vede a volte cose che altri non vedono, o vedono solo dopo molti anni. Non mi annovero certo nella galassia di coloro che vogliono cambiare il mondo, ma quest'uomo non è un idealista, anzi, è un grande realista. E' l'unico che si è accorto per tempo di un piccolo spiraglio nella Storia ed è riuscito a farci passare al momento giusto per quello spiraglio. No. Non lui da solo. Certo che no. Se non fosse per mio figlio e i suoi compagni, saremmo tutti morti" (p.118).
  Replica di Shemuel: "Perché mai pensa che gli arabi non abbiano diritto di opporsi con tutte le forze a degli estranei arrivati improvvisamente qui come da un altro pianeta, che gli hanno preso la terra, campi e paesi e città, tombe dei loro avi e eredità dei loro figli? Noi ci raccontiamo che siamo venuti in terra d'Israele solo per costruire ed esseme costruiti, per ripristinare i nostri giorni, come dice la Bibbia, per riscattare l'eredità dei nostri progenitori ecc., ma me lo dica lei se c'è al mondo un popolo che avrebbe accolto a braccia aperte un'invasione repentina di centinaia di migliaia di sconosciuti, e poi anche milioni, piombati qui da lontano con la bizzarra pretesa che i loro testi sacri che si sono portati dietro così da lontano promettono a loro e solo a loro tutta la terra. Allora?" (p.119).
  Gershom insiste: "Shaltiel Abrabanel, il padre di Atalia, nel '48 cercò invano di convincere Ben Gurion che era ancora possibile arrivare a un accordo con gli arabi in merito alla cacciata degli inglesi e alla creazione di un'unica comunità per arabi ed ebrei, a condizione di rinunciare all'idea di uno stato ebraico. Ebbene. Per questo motivo fu cacciato dal Comitato esecutivo sionista e dalla direzione dell'Agenzia Ebraica, che in fondo era il governo ebraico non ufficiale alla fine del Mandato Britannico. Un giorno, se Atalia se la sente potrà raccontarti tutta questa storia. Quanto a me, non mi vergogno di ammettere che in questa disputa ero fermamente al fianco del crudele realismo di Ben Gurion e contro il pensiero radicale di Abrabanel". (p.119)
  Nuova replica di Shemuel: "Ben Gurion è stato forse da giovane un leader operaio, una specie di tribuno popolare, ma oggi come oggi è a capo di uno stato nazionalista e ipocrita e non fa che seminare intorno a sé una specie di vuota fraseologia biblica sul rinnovamento dei nostri giorni e la realizzazione dell'utopia profetica" (p.122).
  Come si può riconoscere da queste battute, in origine il tema discusso nella casa era la presenza del popolo ebraico sulla terra d'Israele: in sostanza, la natura stessa del sionismo.

- SIONISMO E NAZIONE
  Il sionismo nasce indubbiamente come movimento nazionale, non in senso aggressivo e colonialista, come dice qualcuno, ma, al contrario, come aspirazione a costruirsi una propria casa anche per togliere il disturbo dalle case altrui. Nel 1879, quindi ben prima dell'apparizione sulla scena di Theodor Herzl, l'ebreo lituano Eliezer Ben Yehuda pubblicò sulla rivista ebraica di Vienna "Hashahar" (L'alba) un articolo dal titolo "Una questione degna di nota". In esso si diceva:
    "Se è vero che tutti i singoli popoli hanno diritto di difendere la loro nazionalità e proteggersi dall'estinzione, allora anche noi, gli ebrei, dobbiamo avere lo stesso diritto. Perché il nostro destino dovrebbe essere più misero di quello di tutti gli altri? Perché dovremmo soffocare la speranza di un ritorno, la speranza di divenire una nazione nella nostra terra abbandonata, che ancora piange i suoi figli cacciati in terre remote duemila anni fa? Perché non dovremmo seguire l'esempio delle altre nazioni, grandi e piccole, e fare qualche cosa per proteggere il nostro popolo dallo sterminio? Perché non dovremmo sollevarci e guardare al futuro? Perché restiamo con le mani in mano e non facciamo nulla che possa gettare le basi su cui costruire la salvezza del nostro popolo? Se ci importa che il nome di Israele non si cancelli dalla faccia della terra, dobbiamo creare un centro per tutti gli israeliti: un cuore dal quale il sangue scorra lungo le arterie di tutto il corpo e lo richiami a nuova vita. Soltanto il ritorno a Eretz Israel può rispondere a questo scopo." ("Dio ha scelto Israele", p.53)
   Che questo centro avrebbe dovuto essere una nazione come tutte le altre, è ovvio: qualunque altra soluzione non avrebbe modificato la posizione di stranieri degli ebrei. Tralasciando qui tutte le questioni di legittimità giuridica internazionale, di cui anche su queste pagine si tratta, resta il fatto che in Eretz Israel dopo la costituzione dello Stato gli ebrei per non essere distrutti hanno dovuto combattere. E anche se alla guerra non erano più abituati ormai da secoli, la cosa straordinaria, imprevista da tutti, è che hanno vinto.
  Questo fatto ha cambiato radicalmente le cose, sia fuori che dentro il popolo ebraico. Fuori, perché molti hanno dovuto aggiornare il loro repertorio antiebraico, rivedendo alcuni elementi e aggiungendone degli altri; dentro, perché per difendersi gli ebrei, da una parte hanno dovuto decidersi ad uccidere e dall'altra hanno cominciato a subire uccisioni non più come effetto di sopraffazioni subite passivamente, ma come risposta ad azioni di guerra attivamente condotta.
   E' a questo punto che emerge la tensione tra le due anime del sionismo, quella universalista e quella nazionalista. "Se andiamo a Sion per vivere in pace e contribuire a portare armonia tra i popoli - dice l'universalista - e poi il risultato è che quando siamo lì non facciamo altro che scannarci a vicenda, che ci andiamo a fare?" "Certo - risponde il nazionalista -, tutti vorremmo poter vivere gli uni accanto agli altri in pace ed armonia, ma se gli altri al solo vederci si scagliano contro di noi e vogliono distruggerci, che facciamo? Lasciamo che per amor di pace ci scannino a loro piacimento? Prima pensiamo a sopravvivere come popolo e nazione, anche con le armi in pugno, poi vedremo se sarà possibile convivere in pace con i vicini."
   Di quest'ultimo parere era all'inizio anche Gershom Wald, ma le cose cambiarono un po' quando il suo unico figlio Micah non tornò più dalla guerra. I fatti personali spesso incidono sulle idee generali e le modificano; del resto è comprensibile: si può essere assolutamente convinti dell'inevitabilità di una guerra giusta, ma quando tra le proprie fila cominciano ad ammucchiarsi i morti, molti morti, più morti del previsto; e quando poi ci si rende conto che anche dall'altra parte ci sono molti morti, anche più dei propri, ecco che sopravviene la domanda: ma era proprio inevitabile questa guerra? Non si sarebbe potuto trovare un modo più pacifico per risolvere i contrasti? Qualcuno allora si lancia nell'estremismo del pensiero: pace assoluta, totale, pace adesso, senza se e senza ma.
   Tra questi c'era anche Shaltiel Abrabanel, l'anti Ben Gurion. Secondo Atalia, il padre "non apparteneva al nostro tempo" (p. 248). Compare qui lo stereotipo ricorrente nel libro del traditore, considerato tale perché vivendo anticipamente tempi ancora da venire si trova ad essere incompreso e disprezzato dai suoi contemporanei.
   "Lo chiamavano traditore," racconta Gershom a Shemuel "perché la remota possibilità che si era aperta a metà degli anni trenta per l'aspirazione a fondare uno stato ebraico indipendente, per quanto con un minuscolo pezzo di terra, questa remota possibilità aveva conquistato gli animi. Anche il mio. Abrabanel, dal canto suo, non credeva in nessuno stato: Neanche in uno stato binazionale. Neanche in uno stato comune a arabi ed ebrei. Era l'idea in sé di un mondo diviso in centinaia di stati con frontiere, filo spinato, passaporti, bandiere, eserciti e monete diverse, che trovava assurda, arcaica, primitiva, omicida, un'idea ormai superata, che doveva quanto prima estinguersi. Mi diceva: perché avete tanta fretta di fondare qui nel sangue e nel fuoco uno staterello lillipuziano, a prezzo di una guerra eterna, che tanto ben presto non ci saranno più stati al mondo e al loro posto ci saranno comunità di gente che parla lingue diverse vivranno le une accanto alle altre facendo a meno di quei nefasti giocattoli che sono i fucili e gli eserciti e le frontiere la vasta gamma di strumenti di distruzione?"
   
Gershom non riusciva ad essere d'accordo con Shaltiel, anche se forse avrebbe voluto, ma quanto alla speranza di poter vivere insieme in pace e amore, ormai era totalmente disincantato.
   "Io, mio caro, - dice a Shemuel - non credo nell'amore universale. L'amore esiste in dosi modiche. Si possono amare forse cinque fra uomini e donne, dieci magari, talvolta financo quindici. E anche questo solo assai di rado. Ma se uno arriva e mi dice che ama tutto il Terzo mondo, ama l'America Latina, o ama il sesso femminile, quello non è amore ma retorica. Pura demagogia. Slogan. Non siamo nati per amare più di una manciata di persone" (p.151).
    Ma il dolore per la morte di Micah non gli consentiva nemmeno di accettare con serenità l'idea che si dovesse andare a morire per la patria. Non gli sarebbe stato facile ripetere la famosa frase di Trumpeldor, l'eroe di Tel Hai: "E' bello morire per la patria!" La perdita del figlio aveva reso Gershom secco e amaro:
   "So che dei caduti nella guerra del '48 si usa dire che la loro morte non è stata invano. Del resto l'ho sempre detto anche io, lo dicevano tutti. Mah. Come avrei potuto non dirlo? Il poeta Nathan Alterman scrive: 'Forse una volta ogni mille anni la nostra morte ha un senso'. Ma faccio sempre più fatica a ripetere quelle parole. Il fantasma di Shaltiel mi sta piantato in gola. Shaltiel diceva che secondo lui chi muore in questo mondo, non solo i caduti di tutte le guerre, anche chi muore per un incidente o di malattia e financo di vecchiaia, tutti i morti sono uguali da sempre e per sempre, tutti muoiono assolutamente invano" (p.196).

- LA NOVITÀ DELL'USO DELLA FORZA
  Dal tempo della rivolta di Bar Kochba nel 135 fino alla fondazione dello Stato d'Israele il popolo ebraico aveva rinunciato all'uso della forza per uscire da situazioni difficili. Le vie usate per sopravvivere in mezzo a popolazioni ostili erano sostanzialmente due: l'adattamento o la fuga. Chi spingeva per forme di reazione violenta non era ben visto: l'esperienza aveva mostrato che in questo modo, alla resa dei conti, la situazione finiva sempre per peggiorare. L'unica eccezione potrebbe sembrare la rivolta del ghetto di Varsavia, ma quella non fu un'azione fatta per risolvere realisticamente un problema di sopravvivenza, ma come segno e memoria da lasciare agli uomini che sarebbero venuti dopo.
   L'inaspettata, miracolosa vittoria nella guerra del '48 fu un altro segno. Questa volta però non fu un segno lasciato agli uomini da altri uomini: fu un segno lasciato agli uomini da Dio. Un segno che annunciava un decreto di Dio: עם ישרעל חי! Il popolo d'Israele vive! Vive perché DEVE vivere, perché questa è la volontà di Colui che l'ha generato e ha detto a Gerusalemme: VIVI!
    "Io ti passai accanto, vidi che ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi (חיי, imperativo), tu che sei nel sangue! Ti ripetei: Vivi (חיי), tu che sei nel sangue!" (Ezechiele 16:6).
    Ma tu, Amos, credi in Dio? A nessuno dei tuoi personaggi, tutti ebrei, capita mai di usare un qualsiasi termine che faccia riferimento a Dio. Non è strano? Sì, dovrebbe essere strano, ma non lo è, se si guarda alla realtà dei fatti. Quindi, in un romanzo in cui nessuno crede in Dio non è strano che anche la questione della forza sia trattata etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Così fa l'idealista umanitario Shemuel:
   "Fino a un certo punto si può forse capire un popolo che per millenni ha ben conosciuto la forza dei libri, la forza della preghiera, la forza dei precetti, dello studio e della memorizzazione, la forza del fervore religioso, la forza della trattativa e della mediazione, ma che la forza della forza l'ha conosciuta solo a suon di percosse. E che ora a un tratto si ritrova con l'arma in pugno. Carriarmati e cannoni e aeroplani caccia. È appena appena naturale che si ubriachi di forza e tenda a credere che usando la forza si possa fare di tutto. E allora, secondo lei, che cosa non si può in alcun modo fare con l'uso della forza?" (p.122)
   
Gershom non lo sa, e allora Shemuel glielo spiega:
   "La verità è che tutta la forza del mondo non basta per trasformare l'odio in amore. Colui che odia lo si può trasformare in servo, ma non in uno che ama. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare il fanatico in illuminato. Tutta la forza del mondo non basta per trasformare in amico chi ha sete di vendetta. Ed ecco, proprio queste sono le questioni esistenziali dello stato d'Israele: trasformare il nemico in sodale, il fanatico in moderato, il vendicatore in amico. Ho forse detto che non abbiamo bisogno della forza militare? Assolutamente no. Lungi da me il pensare una cosa così idiota. Esattamente come lei, so anche io che la nostra forza militare si frappone tra noi e la nostra morte, anche adesso che lei e io stiamo discutendo qui, fra noi due. La forza ha per intanto la capacità di impedire il nostro sterminio. A condizione di ricordare sempre, in ogni istante, che nel nostro caso la forza può solo impedire. Non definire né risolvere. Solo impedire la disgrazia, per un certo tempo" (p.122).
   E' assolutamente vero quello che dice Shemuel: "Tutta la forza del mondo non basta per trasformare l'odio in amore". Sarà questo riferimento all'amore a far entrare nella casa arcana, insieme al giovane idealista, anche il nome di Gesù. Quale Gesù?
   Ne parleremo in una prossima occasisone.
   Shalom,
   Marcello
fine 2a puntata - continua
puntata precedente

(Notizie su Israele, 1 febbraio 2015)


Egitto - l tribunale ha messo al bando il braccio militare di Hamas: «Sono terroristi»

Un tribunale egiziano ha messo al bando il braccio militare di Hamas, aggiungendolo alla lista delle organizzazioni terroristiche. Lo riportano i media locali, spiegando che la decisione di annoverare le Brigate al-Qassam tra i gruppi terroristici è stata presa dal tribunale del Cairo che si occupa dei casi urgenti.Il movimento palestinese di resistenza Hamas è una diramazione dei Fratelli Musulmani, movimento che le autorità egiziane hanno messo al bando nel 2013, subito dopo aver destituito il presidente islamico Mohamed Morsi.Da allora, centinaia di esponenti della Fratellanza sono stati arrestati e tutti i beni del gruppo sono stati sequestrati. Il paese è inoltre impegnato in una dura lotta contro i gruppi islamici armati nella penisola del Sinai e nelle aree confinanti con la Striscia di Gaza.

(Il Messaggero, 1 febbraio 2015)


Palatucci, eroe nascosto antinazista

A 70 anni dalla morte e mentre si attendono le conclusioni della commissione sulla sua attività, studi recenti confermano l'aiuto agli ebrei dell'ex questore di Fiume. Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni giovedì prossimo visiterà a Campagna, nel Salernitano, il museo a lui dedicato. Nuove smentite delle accuse di collaborazionismo con i tedeschi

di Angelo Picariello

Settanta anni fa, mentre il campo di Auschwitz era già stato liberato dalle truppe dell'Armata rossa, Giovanni Palatucci era alla fine dei suoi giorni a Dachau, che sarebbe stato liberato solo 4 mesi dopo dalle truppe americane. Il 70esimo anniversario della morte dell'ex questore di Fiume, avvenuta il 10 febbraio 1945 a seguito di un'epidemia di tifo petecchiale, passerà senza grandi clamori mentre non si è ancora spenta l'eco delle polemiche suscitate dalla campagna di stampa scaturita dalle ricerche del Primo Levi center di New York che ha messo in discussione la fondatezza della fama di salvatore di migliaia di ebrei del funzionario di polizia di origini irpine, fino a descriverlo come delatore delle Ss.
   A breve si attende l'esito delle ulteriori ricerche sul caso portate avanti dalla Commissione promossa dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane insediatasi presso il Cdec di Milano e presieduta da Michele Sarfatti che ha passato al vaglio tutte le nuove acquisizioni.
   Messi in discussione sono anche i molteplici riconoscimenti ottenuti da Palatucci, dalle celebrazioni che si tennero in suo onore in Israele, a Ramat Gan, il 23 aprile 1953, alla medaglia d'oro conferita nel 1955 dall'Unione delle Comunità israelitiche d'Italia, fino alla proclamazione, nel settembre 1990, a Giusto fra le Nazioni da parte dello YadVashem. Riconoscimenti scaturiti sulla scorta della diretta testimonianza dei salvati.
   «Il tema diventa delicato, a oltre 70 anni da quei drammatici avvenimenti, con i superstiti ormai ridotti al lumicino, si rischia di rimettere in discussione tutta la storiografia della Shoah», dice Nazareno Giusti, giovane studioso lucchese. che già aveva dato alle stampe una pubblicazione a fumetti sull'ex questore di Fiume e ora esce con il volume Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire pubblicato da Tra le Righe - Andrea Giannasi Editore (pagine 158, euro 14), una prima ricostruzione in chiave critica delle nuove ricerche attraverso approfondimenti e interviste. Particolarmente interessante l'apporto di Roberto Malini, poeta, scrittore e storico della Shoah, che in una lunga intervista confessa le sue iniziali titubanze fino ad arrivare alla convinzione piena della grandezza di Palatucci. Tanto da aprire un carteggio con la presidente del Primo Levi Center, e anche con Nathan Cassuto, membro della presidenza dello Yad Vaschem, ottenendo dalla prima l'assicurazione che la ricerca è solo all'inizio (sebbene i danni arrecati siano difficilmente riparabili) e dal secondo la negazione di ogni intenzione da parte del Memoriale dell'Olocausto di rivedere la sua posizione, come pure era stato scritto dal New York Times.
   
È nota la stretta collaborazione che ci fu fra l'ex questore di Fiume e lo zio Giuseppe Maria Palatucci che era vescovo a Campagna, località dell'entroterra salernitano in cui era situato un centro di internamento verso il quale Palatucci tentava di indirizzare molti dei salvati. E giovedì prossimo, il 5 febbraio, al museo allestito presso l'ex campo di San Bartolomeo, ospite del Comitato Palatucci di Campagna, sarà in visita il rabbino capo della comunità di Roma Riccardo di Segni, che in serata interverrà a Saleeno anche un incontro organizzato dal Rotary proprio sulla figura di Palatucci. Un segnale importante. Lo stesso Di Segni, nella prefazione al saggio del pittore ebreo Georges De Canino (Il poliziotto che cercava le stelle) del 2011, aveva definito Palatucci un «funzionario che ebbe il coraggio di resistere alla barbarie nazifascista»,
   E sempre su iniziativa del comitato Palatucci di Campagna, presieduto da Michele Aiello, esce un altro saggio, L'affaire Palatucci. Giusto o collaborazionista dei nazisti (pagine 80, edizioni Comitato Palatucci) a opera di Giovanni Preziosi, che ha messo insieme le sue nuove ricerche pubblicate sull'Osservatore romano e sulla rivista Christianitas, che hanno fatto piena luce, fra l'altro, su alcuni salvataggi. Come quello di due ebrei fiumani, America Ermolli ed Ernesto Laufer - con l'intervento del frate francescano milanese padre Enrico Zucca e del commissario Mario Scarpa, che era stato collaboratore di Palatucci a Fiume - o della giovane profuga ebrea Mika Eisler; di cui molto si è scritto come la presunta fidanzata di Palatucci, e della madre Dragica Braun.
   Ma in questi mesi un'altra inchiesta giornalistica ha confutato un caposaldo delle accuse piovute su Palatucci. Sulla Voce di Romagna Aldo Viroli, venendo in possesso di un documento conservato dalla Società di studi storici fiumani, ha ricostruito la storia della presunta delazione di Palatucci che sarebbe stata all'origine dell'arresto di un'intera famiglia rifugiatasi a Ravenna, la famiglia Berger, intercettata in provincia di Varese mentre cercava di espatriare attraverso il confine svizzero. Innanzitutto il biglietto che informa la questura ravennate non è firmato da Palatucci, ma da altro funzionario "pel questore". Inoltre la data del biglietto, "urgente" solo formalmente, è del 23 maggio 1944, mentre l'arresto della famiglia era già avvenuto il 4 maggio. Un'informativa quindi tardiva e reticente, mentre una componente della famiglia scampata all'arresto racconta invece degli aiuti ricevuti da Palatucci.
   La tesi del Palatucci-collaboratore dei nazisti, insomma, proprio non regge. Resta in piedi invece la diatriba sui numeri. Ma anche su questo sarà difficile confutare quanto scriveva Settimio Sorani, presidente della Delasem, la società di assistenza ebraica, che nel suo memoriale indicava in Palatucci il referente unico dell'organizzazione a Fiume. Città di confine al tempo, e i numeri dei salvataggi sono legati in massima parte a una stima sugli ebrei in fuga dal regime degli ustascia. Sorani nel dare conto di ben 12.200 profughi "controllati" e trattenuti nei campi nel territorio sotto controllo delle truppe italiane al di là del confine (sfuggiti alle persecuzioni, e in gran parte poi salvatisi) sostiene che «debbono aggiungersi un numero indeterminato di persone non registrate perché entrate in Italia illegalmente senza regolari visti d'ingresso».
   E la porta di ingresso in Italia era Fiume, dove il commissario dell'ufficio stranieri, poi divenuto questore, «provvedeva ad allontanare alla chetichella gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati».

(La Stampa, 1 febbraio 2015)


Nel Giorno della Memoria la Shoah diventa una festa

Il ricordo va vissuto tutti i giorni: se viene imposto è inutile.

di Maurizio Maggiani

Martedì scorso si è celebrato in tutto il Paese il Giorno della Memoria. L'Onu stessa ha decretato il 27 gennaio Giorno della Memoria, memoria dell'Olocausto nazista, memoria della Shoah. È stato scelto il 27 gennaio perché in quel giorno del '45 le truppe sovietiche sul fronte ucraino arrivarono ai cancelli di Auschwitz,li aprirono e trovarono quello che trovarono. Non è che
quel giorno fosse finito qualcosa, i campi di sterminio e di concentramento lavorarono in territorio tedesco fino alla resa nazista, fino ai primi giorni del maggio dello stesso anno, ma cominciò qualcosa. Cominciò il tempo in cui nessuno poteva dire di non sapere, di non aver saputo, di poter dimenticare. Il Giorno della Memoria è anche una legge dello Stato italiano, una legge firmata dal governo Amato nel luglio del 2000.
   A proposito di memoria, è curioso notare come, rovistando nelle rassegne stampa dell'epoca, nelle dichiarazioni ufficiali riportate non si facesse mai cenno al fatto che Auschwitz fosse stato liberato da truppe sovietiche, ma piuttosto da anonimi "alleati". Credo che quella sorta di pudore, o di riserbo mnemonico, fosse dovuta al fatto che quello Amato era un governo di centrosinistra, e a quel tempo si stava particolarmente attenti a non dare l'impressione di nostalgie veterocomuniste. Oggi no, oggi si dice tranquillamente che furono truppe del famigerato regime comunista di Josif Stalin. Ma non è di Stalin che voglio parlare, bensì della Memoria, così com'è con la lettera maiuscola. E allora racconto questo piccolo episodio che mi è stato riferito da un'amica insegnante. Che lunedì al suono della campanella ha salutato i suoi studenti che hanno ricambiato. Uno tra loro, uno tra i più attenti e studiosi, un alunno modello,lo ha fatto, in placida, serena acquiescenza, così: allora profe ci vediamo domani per la festa della Shoah.
   Sì, certo, perché no? Il Giorno della Memoria è un'istituzione,l'istituzione si fa celebrazione,la celebrazione è, nella sintesi di qualunque studente, che non si fa lezione, e se non si fa lezione allora il Giorno della Memoria è festa, la festa della Shoah. Per inciso, la visita degli studenti a Auschwitz, così encomiabile, non è forse programmata negli istituti come "gita scolastica"? Quest'anno, dice la profe con giustificato orgoglio,li ho convinti, non si va in gita a Parigi ma si va a Auschwitz. Ma è mai possibile andare in gita a Auschwitz, essere in festa per la Shoah? Non credo. Allora cosa accade alla memoria quando ci mettiamo su la M maiuscola, quando la istituzionalizziamo? E se non lo facessimo che ne sarebbe della memoria senza la maiuscola?
   Io vivo nella memoria, a volte mi viene da pensare di essere una Colonna Traiana vivente, avvolto, scolpito dalle memorie della mia storia e della storia collettiva della mia gente, dei miei compagni umani. Sono cresciuto nella memoria, quando portare memoria era per la classe dei poveracci, dei disgraziati morti di fame, dei perseguitati per ragione di giustizia, l'unico strumento per non soccombere all'annientamento, alla inesistenza, all'alienazione. Ricordo ogni cosa che mi è stata detta, che mi è stata fatta vedere o sentire. Ma in casa, per la via, nel quartiere, non c'è mai stata l'ora o la giornata della memoria. Fosse così non mi ricorderei niente. Perché istituzionalizzare e celebrare è ossificare, mineralizzare, marmorizzare, ingessare, come sono irrimediabilmente marmorei e ingessati i celebranti, talvolta imago mortis. Mentre la memoria o è viva, plasmatica, movimentata, vivida, mutevole, o si consuma e decede. A differenza del celebrare, il portare memoria non ha relazione col dogma, e ne ha di traslato con la verità. La verità è equivoca, lo è da quando le hanno messo la V maiuscola, appunto, e sono le dittature a volercela mettere la maiuscola. La memoria è sincera, anche quando si contraddice, ed è nella sua natura movimentata di contraddirsi. Per questo chi porta memoria è in cerca di altre memorie, e le mette in relazione, confliggenti e concordanti, e così si accrescono in verità, verità degli uomini, verità delle cose, verità della storia, senza bisogno di metterci la V maiuscola. Per questo la memoria è un oggetto estremamente delicato, fragile, bisognoso di costante intenzione e di cura assidua, una cura collettiva, di comunità familiare, civica, elettiva, che non è esercizio di legge, ma pratica del vivere. Per esistere davvero Auschwitz, o la fame di mio padre, devono esserci tutti i santi giorni, da qualche parte qui con noi. Non qui con me, qui con NOI. E questo non è il tempo della memoria, perché non è il tempo della comunità. E' il tempo delle celebrazioni palliative del passato sentimento comune. E così un ragazzo, ovvero l'unica speranza del perdurare della memoria, può dire senza alcuna intenzione di insulto o senza distrazione, ma per logica conseguenza, che il 27 gennaio è la festa della Shoah.

(Il Secolo XIX, 1 febbraio 2015)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.