L'Ambasciata d'Israele a Roma ha emesso ieri un comunicato nel quale esprimeva la sua soddisfazione perché la Camera dei deputati non aveva approvato il riconoscimento dello Stato di Palestina.
Capisco la logica dell'Ambasciata che - di fronte a una mozione del Partito Democratico contorta e confusa, nella quale ognuno può leggere tutto e il contrario di tutto - mette in evidenza il fatto che l'auspicio del riconoscimento dello Stato di Palestina è collegato alla sicurezza di Israele e ovviamente al rispetto della sua esistenza. Tuttavia - parlando da uomo libero - mi sono riconosciuto molto di più nell'intervento dell'onorevole Daniele Capezzone - che fa parte di un partito da cui tutto mi divide, Forza Italia - che alla Camera ha sostenuto che coloro che nel Pd sostengono le ragioni di Israele hanno perso l'occasione per condurre una battaglia politica e culturale che avrebbe messo in evidenza le contraddizioni che sono presenti in quel partito a proposito del Medio Oriente.
Certamente la mozione approvata dalla Camera dei deputati è assai diversa da quella di altri Parlamenti europei e in definitiva non impegna il governo a riconoscere lo Stato di Palestina. Ma continua a persistere un atteggiamento di equidistanza che mi sembra inaccettabile. Soprattutto continua a stagnare una cultura pseudopacifista che è quanto di meno sostenibile in un momento come questo.
A questo sento il dovere di aggiungere - per gli amici che hanno aderito al Gruppo di pressione sul Pd - che sono profondamente deluso dal comportamento di chi - non più tardi di 48 ore fa - mi aveva detto che la mozione del Pd sul riconoscimento della Palestina avrebbe collegato questo riconoscimento ad accordi di pace fra lo Stato d'Israele e l'Olp. Capisco che in politica il compromesso è necessario, ma a volte è preferibile restare in minoranza piuttosto che accettare compromessi pasticciati ed equivoci. Per quanto riguarda il futuro del Gruppo di pressione, il mio primo impulso è di considerare chiusa questa esperienza. Preferisco tuttavia vedere prima quali saranno le reazioni a questo voto della Camera e decidere poi a mente fredda.
(L'Opinione, 28 febbraio 2015)
Il vittimismo palestinese e le bugie su Israele. I fatti
di Alessandro Bertoldi
"Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità." È questa la frase più celebre del ministro nazista per la propaganda Joseph Goebbels, un insegnamento che alla fine è risultato essere una delle più note lezioni di quella storia che non si deve ripetere. Non sono pochi i politici e i regimi che nel '900 parrebbe si siano ispirati a questa sua massima per condurre le loro campagne politiche, così anche la strategia comunicativa dei palestinesi pare ispirarsi proprio a quella del gerarca nazista. Non casualmente visto gli storici legami, infatti negli anni '30 il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, capo spirituale dei mussulmani palestinesi, e il leader nazistaAdolf Hitler si incontravano per confrontarsi e scambiarsi sostegno reciproco. Vittimismo,retorica e menzogna sono stati la base su cui i "poveri" palestinesi e i loro strenui difensori hanno costruito un castello di balle, fragile quanto solido e ben noto al grande pubblico.
Fortunatamente esiste però ancora chi si prende la briga di confutare tutte le menzogne che da decenni vengono diffuse sul conflitto israelo-palestinese, sulle condizioni dei palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania ed in particolare contro Israele. È infatti un noto giornalista israeliano storico-scientifico, ad occuparsi da anni di ricercare la semplice verità, dati alla mano, sulla realtà di Israele e Palestina, ma anche su quanto viene detto dai protagonisti delle due realtà e dai loro supporters sparsi nel mondo. Ben-Dror Yemini, è il giornalista israeliano di origini yemenite che sta girando il mondo per raccontare la verità, consentendo a chi lo ascolta di farsi un'idea senza basarsi sui pregiudizi o sui preconcetti. Yemini ha da poco ha fatto tappa in Italia per alcune presentazioni dei suoi dossier, nei quali cita le fonti di ogni sua affermazione e menzione con maniacale precisione, così che quel che dice sia verificabile e inconfutabile.
Qual è la verità snocciolata in dati sulle condizioni dei palestinesi e sul conflitto israelo-palestinese? Lui ce l'ha in tasca. In questi anni abbiamo sentito dire che il conflitto israelo-palestinese è la maggiore causa di violenza nel mondo, che l'oppressione del popolo palestinese da parte di Israele è un dato certo di una violenza sconvolgente, che Gaza è una prigione a cielo aperto o addirittura un lager, cheHamas si occupa di difendere il suo popolo, che è necessario continuare a finanziare e sostenere in ogni forma la resistenza palestinese e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina affinché si possano liberare dall'invasione israeliana fondando uno Stato, che per farlo hanno bisogno di avere i territori "occupati" o addirittura tutto il territorio dell'ex mandato britannico. Abbiamo sentito dire che hanno ragione a voler distruggere Israele perché loro erano lì prima e la fine dell'unico Paese solido, stabile e democratico del Medio oriente sarebbe l'unica soluzione al conflitto.
Niente di più falso, propagandistico e fazioso di quanto ho riportato sopra ma, come sappiamo, ripetere continuamente qualsiasi menzogna rischia di farla divenire verità. La chiave di lettura dello schema che tiene in piedi il "giochetto" politico, diplomatico e mediatico palestinese probabilmente è la questione dei "rifugiati" palestinesi. La scusa umanitaria di ogni scellerata scelta politica dei loro rappresentanti. Il termine "rifugiato" è nato durante il primo esodo palestinese, la cosiddetta "Nakba", la "catastrofe", l'inizio del conflitto che ha portato all'esodo degli arabi locali, i palestinesi, da quello che è divenuto lo Stato ebraico. L'organizzazione delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione (UNRWA), definisce "rifugiato palestinese" una persona "il cui normale luogo di residenza è stata in Palestina tra il giugno 1946 e maggio 1948, che ha perso sia l'abitazione che i mezzi di sussistenza a causa della guerra arabo-israeliana del 1948. La questione della liquidazione dei rifugiati è spesso citata come un potenziale accordo per i negoziati di pace israelo-palestinesi.
La definizione di rifugiato dell'UNRWA copre anche i discendenti delle persone divenute profughi nel 1948 indipendentemente dalla loro residenza nei campi profughi palestinesi o in comunità permanenti. Si tratta di una grande eccezione alla normale definizione di rifugiato. In base a questa definizione, il numero di profughi palestinesi per l'ONU è passata da 711.000 nel 1950 a oltre 4 milioni di iscritti nel 2002, divenuti oggi oltre 5 milioni. La vicenda dei "rifugiati" palestinesi risulta così essere più unica che rara, anomala quanto strumentale al gioco dei terroristi di Hamas, di Hezbollah e dell'Olp. Dal 1913 al 1995 i rifugiati nel mondo sono stati 52 milioni, nessuno di loro è più tale, tranne i palestinesi.
Fu in realtà proprio il presidente della Palestina Abu Mazen a dire più volte negli scorsi anni che "la maggior parte dei palestinesi vive una vita normale", la domanda sorge spontanea allora, come mai sono il popolo che ha ricevuto più aiuti economico-umanitari procapite nella storia di sempre? La risposta è semplice: in qualche modo l'apparato dell'Olp e quello militare terroristico di Hamas devono tirare avanti. Stesse motivazioni per le quali l'Autorità palestinese non ha mai accettato proposte di risoluzione del conflitto, anche quando queste favorivano più i palestinesi degli israeliani, come nel caso della proposta Olmert, del Clinton plane o di Oslo, quando addirittura il principe saudita ambasciatore negli Usa disse che se Arafat avesse rifiutato sarebbe stato un criminale, "atto criminale" che ha ovviamente commesso. Pertanto tutti i palestinesi continueranno a vivere ancora per anni in quello che è considerato universalmente uno status d'emergenza temporaneo. Ripeto, questa forma di tutela non è mai stata data in questi termini e per tutto questo tempo a nessun altro nella storia dell'umanità. Ma facciamo un passo indietro, cosa successe 1948? Il 14 maggio nacque lo Stato d'Israele, che venne riconosciuto da quasi tutti i paesi del mondo, fatta eccezione che per tutti i paesi arabi, furono infatti gli arabi confinanti ad invadere Israele il giorno successivo la sua nascita. Il risultato di quella che divenne la guerra d'indipendenza d'Israele fu la vittoria d'Israele, nonché 850.000 profughi (ebrei) israeliani, un numero superiore di quasi 150.000 persone rispetto a quelli palestinesi. Nonostante questi numeri oggi nessun ebreo o cittadino israeliano è più un profugo, mentre i palestinesi lo sono tutti. Ma vediamo come vivono oggi realmente i palestinesi: la loro aspettativa di vita è di 74-75 anni, notevolmente più alta della media globale che si ferma a 68 e più alta anche di paesi come la Russia e l'Egitto che si fermano mediamente a 70 anni. La mortalità infantile è la più bassa del Medio Oriente, con un'incidenza del 13 per mille che diminuisce ogni anno. Passiamo all'istruzione, settore nel quale i palestinesi raggiungono addirittura dei record, avendo il più alto tasso di laureati del mondo arabo, il 49% della popolazione scolarizzata e il 95% di loro sono alfabetizzati. Se questi sono i risultati della violenta occupazione israeliana c'è solo da sperare che Israele occupi tutto il Medio oriente e oltre. Una cosa è vera rispetto a tutte le accuse, questi dati d'eccellenza per il mondo arabo i palestinesi non li hanno sicuramente ottenuti grazie a se stessi, ma piuttosto grazie ad Israele, che continua, nonostante la loro morosità, a fornire gratuitamente loro acqua, elettricità, cibo e risorse di ogni sorta.
Quantifichiamo la violenza del conflitto israelo-palestinese, di cui sentiamo parlare costantemente, questa che percentuale rappresenta rispetto allaviolenza nel mondo? Lo zero virgola qualcosa percento. Mentre la jihad islamica mondiale può vantare un 29%. L'ultimo dato che ci tengo a fornirvi è il seguente, Hamas, il braccio armato della lotta palestinese contro Israele, riporta ancora nel suo statuto come obiettivo la distruzione dello Stato ebraico e l'eliminazione degli ebrei dalla zona e non è soltanto un'organizzazione palestinese di resistenza anti-israeliana, come vogliono farci credere alcuni, ma si considera ed è considerata parte della jihad, la guerra santa dell'islam. Mi auguro che con questi dati abbiate almeno un po' di strumenti in più per smentire e combattere le tantissime menzogne che ogni giorno vengono diffuse contro Israele, perché difendere Israele è un dovere di ognuno di noi, se cadrà Israele cadrà l'Occidente intero.
(L'intraprendente, febbraio 2015)
Da D'Alema a Santoro ecco la lobby con la kefiah che condiziona la politica
Vip, Ong "pacifiste" finanziate coi soldi pubblici, circoli culturali e associazioni ambientaliste. Tutti in prima linea per boicottare Gerusalemme.
di Fiamma Nirenstein
Peccato e persino un po' penoso che si votino le mozioni filopalestinesi proprio all'indomani della decisione di un tribunale americano di far pagare all'Autorità Palestinese di Abu Mazen, che ha stretto un accordo per un governo di coalizione con Hamas, che non passa giorno senza un messaggio di odio per gli ebrei e di lode per i terroristi.
Peccato perché il voto non aiuta il processo di pace, che anzi così si blocca, ma il fanatismo di scatenati filopalestinesi che agiscono in base a slogan ripetuti cento volte da una macchina propagandistica potentissima, quella della lobby palestinese, che in Italia e in Europa conta milioni di persone.
La lobby filopalestinese è in realtà antisraeliana. Se uno dice antisemita, paga una multa, chi scrive ne sa qualcosa. La lobby ha dei padri italiani e una visione distorta che fa dei palestinesi, come al tempi dei blocchi, un popolo perseguitato dall'imperialismo Usa-israeliano, e di Israele un Paese di apartheid, genocida, etc. Un mucchio di sciocchezze organizzate da centinaia di associazioni che fanno sit-in, boicottaggi, volontariato a Ramallah. Il centro del mondo pro-palestinese è stata sempre una ex parlamentare europea e membro del Cepr, European palestinian relations, grande frequentatrice di Ramallah anche ai tempi della Seconda Intifada, quando gli ebrei saltavano per aria a migliaia. La rete dei movimenti europei e italiani si chiama Eccp, ha rivolto una appello alla Mogherini per boicottare Israele. Il gruppo promuove il Bds, il boicottaggio e aiuta i «prigionieri politici», cioè i criminali regolarmente processati dai tribunali israliani. Dell'Eccp fanno parte fra gli altri l'Assopace Palestina della Morgantini, la Fiom Cgil, gli Amici della Mezza Luna Rossa Palestinese. E tanti altri. La lettera chiedeva la fine dell'accordo Eu-Israele e la firmavano 309 associazioni di tutta Europa e 33 italiane. Fra queste, svariati circoli Arci, l'associazione Salaam ragazzi dell'Olivo (finanziati da Enti locali) le Donne in nero, movimenti Bds Italia e Bds Sardegna. Regioni (Toscana, Emilia Romagna..), Comuni (quello di Napoli voleva promuovere una nuova Flottilla per Gaza!) molte istituzioni locali si pregiano di danneggiare israele. Naturalmente partiti come M5S e Sel e parte del Pd seguono la scia, anche perché la lobby filopalestinese ha dei padri intangibili e dei finanziamenti continui che fluiscono verso le Ong. «Un ponte per», «Operazione Colomba»,«Nexus Emilia Romagna», fra le centinaia, pongono tutto l'impegno nel demonizzare. Le Ong anti-israeliane sono state finanziate per almeno 185 milioni in euro in dieci anni e il contribuente non lo sa. I dati per la maggior parte non sono reperibili sui siti delle Regioni che espongono spesso solo i finanziamenti degli ultimi cinque anni e senza la somma del contributo o il costo del progetto. Ma tant'è, i progetti si assomigliano tutti e sfociano nel boicottaggio. Per esempio, l'ultima acquisizione è che Legambiente, Wwf Italia, Greenpeace hanno assicurato che non intendono collaborare con Beautiful Israel, un bellissimo progetto ecologico.
Fra i leader, Michele Santoro da decenni è un araldo della causa palestinese, a Servizio Pubblico Alessandro Di Battista, di 5 Stelle, che ha dichiarato che il mondo arabo odia l'Occidente a causa del conflitto israelo-palestinese. Isis compresa? Ma il principe politico è D'Alema con la sua passeggiata con gli Hezbollah dopo la guerra in Libano e tante affermazioni livorose. Il padre intellettuale è il filosofo Gianni Vattimo che parla di «stato canaglia» «nazista e fascista» e che vorrebbe combattere a fianco di Hamas. Non lo farà, ma alimenta la locomotiva di odio.
(il Giornale, 28 febbraio 2015)
Distrutti quattordicimila anni di storia in quattodici anni di scempio islamico
Devastate opere in diciassette Paesi, dal neolitico fino all'era moderna È la più ampia distruzione sistematica mai operata dall'uomo.
di Luca Nannipieri
In almeno diciassette paesi nel mondo, tra Africa sahariana e mediterranea, Medio Oriente ed Asia Meridionale, sta avvenendo la più organizzata e sistematica distruzione del patrimonio storico-artistico della Storia.
Da sempre gli uomini hanno abbattuto i simboli del nemico, ma mai era successo che queste devastazioni avvenissero su un territorio così ampio su tutto il pianeta: è quello che maledettamente sta accadendo con il fondamentalismo islamico. Irak, Siria, Libia, Mali, Egitto, Libano, Nigeria, Niger, Cisgiordania, Striscia di Gaza, Indonesia, Afghanistan, Pakistan, India, Algeria, Tunisia, Kurdistan sono le nazioni, a vario grado, più colpite dalle demolizioni. Ma potenzialmente gli attentati, le dinamiti, le mazze e i martelli possono arrivare ovunque.
Il saccheggio e gli abbattimenti messi in atto dagli integralisti islamici, sotto diverse sigle di appartenenza, non conoscono recinto: dal 2001, anno in cui i talebani fecero saltare in aria i grandi Buddha di Bamiyan in Afghanistan, ad oggi si sta verificando la più strutturale guerra alle testimonianze della storia. Tutto ciò che è pre-islamico, avvolto nella jahiliyyaaman ovvero nell'ignoranza della verità svelata da Maometto, oppure tutto ciò che è idolatrico e allontana dalla shari'aaman dalla strada da seguire, deve essere buttato giù: si insegna questo in molte madrassa , cioè nelle scuole, e poi lo si mette in pratica.
Colpito il neolitico di 14mila anni fa nel sito di Tadrart Acacus in Libia; colpita la civiltà assira del II-I millennio a.C. in Irak e Siria; colpita la civiltà egizia al Cairo; colpita la civiltà romana tra Libia ed Egitto, colpito l'induismo a Ayodhya in India, colpito il buddhismo a Borobudur in Indonesia, colpito il cristianesimo tra Nigeria e Niger; colpito l'ebraismo tra Israele e Striscia di Gaza; colpita la stessa tradizione musulmana in Libano o Irak. Non viene risparmiato nulla: templi, moschee, chiese, bassorilievi, mummie, immagini sacre, siti archeologici, manoscritti, sepolcreti.
Negli ultimi 15 anni gli integralisti islamici hanno razziato un patrimonio immenso. L'elencazione dei misfatti è solo grossolana: l'Unesco è impotente, si limita a comunicati d'indignazione; le organizzazioni internazionali come il Cultural Heritage Center dell'Università della Pennsylvania o il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti (Icomos) si dichiarano inadeguate. Manca del tutto una mappatura verificabile della strage in corso.
L'Irak è il paese più colpito dallo Stato islamico del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Ripetute distruzioni nelle città assire di Ninive, Khorsabad e Assur, nelle centinaia di siti mesopotamici. Mosul è una città fantasma, tra le distruzioni la moschea del profeta Giona, i santuari sunniti di Sheikh Fathi e di Sultan Abdullah Bin Asim, il santuario iconico di Yahya Ibin al-Qasim.
In Siria distrutti quasi 300 siti archeologici tra Aleppo e Palmira. Raso al suolo il minareto della Moschea degli Omayyadi ad Aleppo (XI secolo). Sbriciolato un mosaico bizantino (VI secolo) nella città di Al Raqqa. Incendiata la chiesa armena a Deir el Zor, che raccoglieva un memoriale dell'eccidio armeno.
In Libia, mentre l'Isis minaccia Leptis Magna e Sabratha, importanti quanto Pompei, i Fratelli musulmani d'Alba libica, a Tripoli, hanno vandalizzato un vasto patrimonio, tra cui i sepolcreti di Gurgi e della Karamanli, la moschea Mizran, le tombe ottomane.
In Egitto, al Cairo, una bomba ha colpito la biblioteca nazionale, il museo di arte islamica e l'Istituto storico Dar al-Bab al Kutub Khalq. Inoltre razzia al museo nazionale di Malawi a Minya.
A Gaza e in Cisgiordania i bulldozer di Hamas hanno rasato l'antico porto di Anthedon, che possedeva strutture e mosaici romani e bizantini.
Tra Nigeria e Niger l'organizzazione estremista di Boko Haram ha assaltato le chiese cristiane delle città di Niamey, Zinder, Maradi, Gourè, e la chiesa battista di Suleja.
Nel Mali i fondamentalisti di Ansar Dine legati ad Al Qaida hanno colpito le moschee di Timbuctù, la porta della moschea di Sidi Yahya (XV secolo) e 7 dei 16 mausolei dei santi musulmani.
In Libano, incendiati 60mila testi antichi musulmani della biblioteca «al Saeh» a Tripoli. Alle sporadiche distruzioni in India si affiancano quelle più insistenti in Indonesia dagli affiliati all'Isis e dal Fronte di difesa islamico. In Pakistan e Afghanistan, i talebani hanno assaltato statue buddiste e reliquie del Buddha del VII secolo, i siti archeologici della cittadina di Ghazni, che era la capitale dell'Impero ghaznavide intorno al XI sec.
Mai nella storia si è verificato uno scempio dell'arte così vasto. Ora sta accadendo.
(il Giornale, 28 febbraio 2015)
Errori e pasticci che non aiutano. La diplomazia esige chiarezza
Errori e pasticci del Parlamento (anche su Israele).
di Pierluigi Battista
Un brutto dilemma, se si è costretti a scegliere tra un clamoroso e univoco errore e un pasticcio parlamentare per rimediare a quel catastrofico errore. Aver accettato una mozione in cui si appoggia la costruzione di uno Stato palestinese senza esigere al contempo che tutte le componenti palestinesi riconoscano il diritto all'esistenza dello Stato di Israele, è stato per il Pd di Renzi una prova di debolezza.
Un atto di subaltemità culturale a una sinistra, pur sfidata dal premier con baldanza su altri terreni, che ancora non riesce a capire come sia forte la spinta di tipo jihadista, incarnata da Hamas che tiene Gaza come un carcere, che vuole cancellare Israele dalla faccia dalla terra e cacciare gli ebrei dalla terra santa dell'Islam: una deriva fondamentalista che oramai non ha più niente a che spartire con una rivendicazione indipendentista finalizzata alla costruzione di uno Stato nazionale palestinese. La mozione pro-Palestina, approvata grazie al Pd, è proprio questo: attribuisce a Israele la responsabilità della mancanza di uno Stato palestinese e assolve Hamas dalla sua pervicace volontà di negare a Israele il diritto di esistere. Poi, subito dopo, si vota e si approva una mozione che dice, se non proprio il contrario, una cosa molto diversa: che l'auspicio per «due popoli, due Stati» deve essere impegnativo per tutte le parti e condanna Hamas per la sua deliberata volontà di eliminare lo Stato di Israeìe, Solo che un pasticcio, ovviamente interpretabile in modi opposti come tutti i pasticci politico-diplomatici, non sana un errore. E anche il ministro degli Esteri Gentiloni, di cui è nota l'amicizia verso le ragioni dello Stato di Israele, ieri non ha contribuito a far chiarezza sulla posizione del governo italiano e sul principale partito che lo sostiene: il Pd, diviso in posizioni molto diverse e a cui la leadership renziana non riesce, sulle questioni di politica estera, a imprimere una direzione decisa e chiara. Ai pasticci si può sempre rimediare. Ma giornate così imbarazzanti come quella di ieri bisognerebbe dimenticarle.
(Corriere della Sera, 28 febbraio 2015)
Le prime note di agenzia di ieri, con titoli diametralmente opposti, davano subito unidea del pasticcio compiuto in uno stile non direi democristiano (erano più abili nel presentare le cose), ma peggio. Cari ebrei, non fatevi illusioni su Renzi: al momento opportuno, quando sarà messo alle strette, vi svenderà come tutti gli altri in cambio di qualcosa per lui molto più importante. M.C.
A Gerusalemme il Festival dei Suoni dal 9 al 12 marzo
Il Festival dei Suoni di Gerusalemm è giunto alla sua quarta edizione si terrà nella Città Vecchia dal 9 al 12 marzo dalle 19 alle 23.
Il festival è aperto al pubblco.
I visitatori del Festival potranno fruire di una pregevole offerta musicale grazie alle bande e ai gruppi in programma che eseguiranno musica sui palchi e nelle strade centrali dei quartieri della Città Vecchia. Ogni banda ed ensemble suonerà una musica unica dedicata al quartiere e alla zona in cui si svolge, fornendo un'esperienza emozionante per i visitatori nella magica atmosfera della Città Vecchia.
Nel Quartiere armeno si svolgerà un'autentica celebrazione armena.
Musica tradizionale si avrà nel quartiere musulmano, e il quartiere cristiano sarà teatro di una celebrazione di opere liturgiche. Musica israeliana così come musica klezmer arriverà dal quartiere ebraico.
Il Festival sarà allestito lungo un percorso ad anello, partendo dalla Porta di Giaffa, e snodandosi attraverso i quartieri armeno, ebreo, musulmano e cristiano e infine terminando di nuovo alla Porta di Giaffa. Saranno disponibili mappe per i visitatori in modo da facilitare il percorso e la fruizione del Festival.
Il Festival dei Suoni della Città Vecchia è uno dei numerosi festival organizzati nella Città Vecchia per il pubblico. Il prossimo festival sarà Il Festival delle Luci della Città Vecchia, in previsione dal 3 all'11 giugno 2015.
Il Festival è un'iniziativa della Jerusalem Development Authority, del Ministero per gli Affari di Gerusalemme e della Diaspora, e della Municipalità di Gerusalemme, ed è prodotto da Ariel Municipal Company Ltd.
(MondoRaro.com, 28 febbraio 2015)
L'università della guerra agli infedeli
La Westminster University, quella di Jihadi John, è da anni un simbolo dell'odio islamista: imam che vogliono uccidere i gay, capi degli studenti a favore del califfo, conferenze segregate per uomini e donne. Radici e storie.
di Giulio Meotti
ROMA - Accadde già durante l'assalto delle Brigate rosse, quando le università italiane si trasformarono, oltre che in patiboli dove gambizzare e giustiziare professori, in centri di reclutamento del terrorismo rosso (c'era persino una "Brigata dell'ateneo"). Ieri l'Inghilterra si è svegliata con lo stesso incubo alla notizia che "John Jihadi", il boia dello Stato islamico (Is), Mohamed Emwazi, è stato un brillante studente della Westminster University. Un report del Contest (Counter-terrorism strategy) rivela che più del trenta per cento dei terroristi islamici in Gran Bretagna ha una laurea.
Ma la Westminster, che si dice "scioccato" alla notizia di Emwazi, per quindici anni ha consentito che l'islamismo dominasse le sue strutture universitarie. Parlando al Daily Mail, un ex studente della Westminster, Raheem Kassam, che oggi si batte contro l'estremismo nelle università britanniche, ha detto che l'ambiente alla Westminster è l'ideale per la radicalizzazione di studenti come Emwazi. "L'università era un covo di radicalismo quando ero là. Gli atenei di tutto il paese, e l'Università di Westminster in particolare, sono diventate l'obiettivo dei reclutatori degli estremisti".
Ieri la presidenza della Westminster si è affrettata subito a cancellare una conferenza, prevista per i prossimi giorni, con un imam inglese che per gli omosessuali ha in mente lo stesso trattamento dell'Is (lancio dei reietti dai palazzi con folla sottostante). Si tratta di Haitham al Haddad, che giustifica l'uccisione di chi abbandona l'islam, che ha detto che Osama bin Laden è in paradiso, che ha legittimato la mutilazione femminile e che chiama gli ebrei "figli di maiali e scimmie". Nel 2012 una conferenza di Haddad all'Università di Amsterdam venne cancellata grazie all'intervento delle autorità olandesi. Ma per gli atenei inglesi, Haddad aveva pieno di diritto di esporre le sue idee.
I due capi degli studenti della Westminster, Tarik Mahri e Amal Achchi, militano nel gruppo islamista Hizbxut-Tahrir, già guidata dall'imam espulso dall'Inghilterra Ornar Bakri, una organizzazione pani slamica che lavora per l'instaurazione della sharia nel Regno Unito (Mahri ha lanciato l'hastag #bringbackkhilafah, ovvero riportiamo il Califfato). "Hizbut-Tahrir disprezza la democrazia e crede che la legge islamica debba essere imposta su tutto il mondo, con la forza se necessario", dice Shiraz Maher, un ex membro del movimento islamico oggi ricercatore presso il Centro internazionale per lo studio del radicalismo al King College di Londra.
La Islamic Society della Westminster University è stata teatro di celebrazioni per l'attacco alle Torri gemelle di New York. Il Research by Student Rights, un gruppo che monitora la libertà di parola nelle università inglesi, ha denunciato la Westminster per separare studenti maschi e femmine durante la presenza di predicatori islamici, in ottemperanza alla sharia, la legge islamica. Almeno due conferenze "per sole donne" hanno avuto luogo alla Westminster. "Per sessant'anni, gruppi radicali hanno utilizzato come agitatori politici le libertà accademiche del Regno Unito, in alcuni casi per pianificare la sua stessa estinzione" afferma Anthony Glees, autore del libro "When Students Turn to Terror". "Il mondo accademico britannico è sempre stato un rifugio sicuro per i nemici delle società aperte dell'occidente". Adesso sta diventando l'università del Califfato e della guerra agli infedeli.
(Il Foglio, 28 febbraio 2015)
Palestina - La Camera approva due mozioni ma non riconosce lo Stato
Passi avanti verso il riconoscimento dello Stato di Palestina - che rimane ancora lontano - sono stati compiuti alla Camera dei deputati, dove il ministro degli Esteri Gentiloni è intervenuto per dare parere positivo del governo ad una mozione in tal senso. Dopo l'intervento del titolare della Farnesina, la Camera ha votato e approvato entrambe le mozioni presentate, una da Ap-Ncd e l'altra dal Pd. Quest'ultima è stata votata anche da Seld. "Il governo valuta favorevolmente l'impulso parlamentare a promuovere il riconoscimento di uno Stato palestinese e a fare tutti gli sforzi per riprendere il negoziato tra le parti", ha detto il ministro in Aula poco prima del voto.
Due mozioni contrapposte
Davanti al rischio di una spaccatura in seno alla maggioranza, entrambe le mozioni sono state approvate. La mozione Ap e Ncd non prevede espressamente il riconoscimento diretto della Palestina, ma impegna il governo "a promuovere il raggiungimento di un'intesa politica tra Al-Fatah e Hamas che, attraverso il riconoscimento dello stato d'Israele e l'abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese".
"Uno Stato entro i confini del '67"
Mentre la mozione presentata dal Pd è invece più esplicita sulla strada del riconoscimento dello Stato palestinese. Essa impegna il governo "a continuare a sostenere in ogni sede l'obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo stato d'Israele, sulla base del reciproco riconoscimento e con la piena assunzione del reciproco impegno a garantire ai cittadini di vivere in sicurezza al riparo da ogni violenza e da atti di terrorismo". C'è quindi l'impegno per il governo a "promuovere il riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa, tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele".
Esulta Israele: bene il non riconoscimento
"Accogliamo positivamente la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace". E' quanto si legge in un comunicato dell'ambasciata israeliana a Roma.
(Tiscali, 27 febbraio 2015)
Accordo storico: Israele e Giordania berranno la stessa acqua
L'intesa del valore di circa 780 milioni di euro è stata firmata dai ministri Silvan Shalom e Hazim el-Naser
di Elisabetta Moretti
Il Mar Morto
Israele e Giordania hanno firmato un accordo bilaterale per lo scambio dell'acqua, un patto che è stato definito storico dal ministro israeliano per le risorse idriche, in quanto sembrerebbe un possibile passo in avanti per migliorare il dialogo sulle ben note problematiche di questa regione.
Con un valore di 780 milioni di euro il progetto permetterà ai due Paesi di condividere acqua potabile che verrà prodotta da un impianto di desalinizzazione ad Aqaba e contemporaneamente un condotto fornirà acqua salata al Mar Morto che si sta restringendo in maniera allarmante di circa 1,5 metri all'anno. Di conseguenza, alberghi che pochi anni fa erano stati costruiti proprio sul litorale distano ormai dozzine di metri dal bordo dell'acqua.
Israele, inoltre, rilascerà una certa quantità d'acqua anche dal lago Tiberiade oltre a vendere circa 20 milioni di metri cubi di acqua dissalata prodotta ad Aqaba per le risorse idriche da utilizzare poi in Cisgiordania.
Ad ufficializzare l'accordo, che è il risultato di un memorandum di intesa tra i Paesi del dicembre 2013, i ministri Silvan Shalom e Hazim el-Naser. "Io sono profondamente commosso dopo aver messo mano alla penna per firmare l'intesa", ha dichiarato il politico israeliano. "Stiamo realizzando la visione sionista di Theodor Herzel che già nel tardo 19o secolo aveva previsto la necessità di rivitalizzare il Mar Morto. Questo è l'accordo più importante dal momento" ha sottolineato Shalom aggiungendo che in questo modo si raggiunto " il punto più alto di una collaborazione produttiva tra Israele e Giordania".
(In Terris, 27 febbraio 2015)
Palestina, la pace vale più del riconoscimento
di Bernardino Ferrero
La mozione presentata dai parlamentari di Area Popolare (Ncd-Udc) e di Scelta Civica sulla Palestina impegna il Governo italiano, che si è detto favorevole, a sostenere una "ripresa tempestiva" dei negoziati tra israeliani e palestinesi, considerati "la via maestra per la realizzazione degli Accordi di Oslo". La nostra mozione non contiene un riconoscimento esplicito, formale e immediato, dello Stato palestinese e ripropone come stella polare per una soluzione durevole della vicenda quella dei "due popoli, due stati", obiettivo che potrà essere raggiunto soltanto riprendendo le trattative fra le parti.
Abbiamo voluto preservare e mettere al primo posto il dialogo e il processo di pace, a differenza di altri Paesi che con riconoscimenti repentini non hanno contribuito a sostanziali passi avanti nelle trattative. Oggi, l'ambasciata israeliana a Roma ha giudicato "positivamente" le mozioni accolte dal Governo italiano, chiedendo ai palestinesi di tornare al tavolo dei colloqui. Il processo di pace può avvenire solo garantendo la massima sicurezza fra i due popoli ed ecco perché la mozione di AP vincola i palestinesi a una intesa politica tra Al Fatah e Hamas, un accordo che "attraverso il riconoscimento dello Stato di Israele e l'abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese".
Del resto non si può immaginare una soluzione pacifica del lungo conflitto in Medio Oriente fino a quando Hamas - una forza politica che il Consiglio europeo nonostante la controversa sentenza della Corte di Giustizia inserisce ancora nella black-list del terrorismo - non avrà deciso di rinunciare al suo aggressivo militarismo. Nelle settimane scorse Hamas ha condannato la strage dei cristiani copti e la brutale eliminazione del pilota giordano, come a voler prendere le distanze dall'Isis, ma questo non può certo farci dimenticare qual è la storia dell'organizzazione islamista.
Ricordiamo che Hamas prese il potere a Gaza con la violenza, contro gli stessi palestinesi di Fatah. Hamas ha predicato il Califfato Mondiale e coltiva una interpretazione del Corano in chiave antisemita come leva per l'indottrinamento all'odio delle giovani generazioni di palestinesi. Non si possono dimenticare i missili lanciati contro Israele, le bombe nei caffè, sugli autobus e nei supermercati israeliani, gli attacchi kamikaze che hanno fatto migliaia di morti tra i cittadini ebrei, vecchi e bambini compresi. Per non dire delle recenti minacce all'Italia su un eventuale nostra missione di pace in Libia (definita "una crociata").
Anche per questo occorre che i Paesi arabi moderati, si pensi all'Egitto, continuino a svolgere come stanno già facendo un ruolo strategico per contrastare visioni fondamentaliste dell'Islam.
Vedremo se Hamas deciderà di riconoscere lo Stato di Israele e di rinunciare alla militarizzazione di Gaza trovando un accordo con Fatah. Si aprirebbe allora, in linea di principio, la possibilità che la Palestina divenga uno stato 'unitario', ma al di là di tutto, le questioni di frontiera tra Israele e Palestina potranno essere affrontate solo grazie ai negoziati, a scambi e compensazioni tra le parti in gioco, senza imporre precondizioni e soprattutto senza mosse unilaterali sui confini. Uno stato di Palestina potrebbe risolvere in modo positivo una lunga storia di battaglie politiche e di sofferenze, ma qualsiasi idea di confine deve essere difendibile per lo Stato ebraico, che resta baluardo della democrazia in Medio Oriente e nostro leale alleato nella lotta al terrorismo.
(l'Occidentale, 27 febbraio 2015)
Sospesa la maratona di Tel Aviv: troppo caldo
Due persone ricoverate in ospedale
. TEL AVIV, 27 feb - La Maratona di Tel Aviv è stata fermata stamattina a metà gara a causa del caldo (28 gradi) e dell'umidità. Condizioni climatiche, definite 'eccezionali', che hanno provocato il malore di due concorrenti portati subito in ospedale e aiuti sanitari sul campo ad altre 75 persone. La competizione era in corso da nord a sud della città. Nel 2012 durante la gara, svoltasi il 15 marzo, ci fu un morto: anche in quel caso per il caldo e l'umidità.
(ANSA, 27 febbraio 2015)
Israele, la free press non si tocca
Il quotidiano Israel Hayom
Bocciato il primo tentativo di bloccare la diffusione del quotidiano Israel Hayom durante le elezioni, l'avvocato Shachar Ben Meir ci riprova e si appella all'Alta Corte d'Israele. Ben Meir aveva infatti chiesto alla Commissione centrale per le elezioni di sospendere il giornale freepress in quanto, a suo dire, costituiva palese propaganda a favore del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, candidato premier per il partito Likud alle prossime elezioni (previste per il 17 marzo). La Commissione, presieduta dal giudice Salim Joubran, ha però risposto picche, spiegando come non ci siano i presupposti per un provvedimento così forte come la censura richiesta da Ben Meir. Mancavano infatti le prove di una connessione particolarmente consistente tra Israel Hayom e Netanyahu. Il giornale - di proprietà del magnate americano Sheldon Adelson, amico nonché sostenitore di Netanyahu - non ha mai negato di essere schierato a destra, ha spiegato Joubran, ma questo non è sufficiente a definirlo un depliant di propaganda elettorale, non sulla base del suo modo di coprire le notizie. Una censura nata su queste basi, continua il giudice,avrebbe avuto implicazioni su altri quotidiano con una "carta di identità" legata alla sinistra. "Certo, in un mondo utopico, la stampa sarebbe completamente obiettiva e la copertura delle notizie non sarebbe legata a nessuna agenda (politica). - la chiara posizione di Joubran, attuale presidente della Corte Suprema israeliana nonché secondo arabo israeliano a ricoprire questo incarico dopo Abdel Rahman Zuabi - Tuttavia, nella pratica, una stampa di questo tipo - e certamente per quanto riguarda le questioni politiche al centro del dibattito pubblico - non può esistere nel mondo reale".
(moked, 27 febbraio 2015)
Emancipare le donne nello stile palestinese
di Khaled Abu Toameh (*)
Non è facile essere una donna che vive sotto il regime di Hamas nella Striscia di Gaza. Le donne devono far fronte a molte restrizioni, tra cui anche non poter andare in spiaggia da sole o fumare in un luogo pubblico. Inoltre, a una donna è vietato essere vista in pubblico con un uomo che non sia il marito, il padre o un fratello.
Le donne sono anche costrette a osservare in pubblico un rigido codice di abbigliamento islamico, dovendo indossare un velo che copre i capelli (hijab), soprattutto all'università, nei campus dei college e sul posto di lavoro. Tuttavia, queste severe restrizioni non si applicano a chi è disposta a diventare una "martire" nella lotta contro Israele. Pertanto, se una donna non può fumare in un caffè né può camminare in pubblico senza essere accompagnata da un parente uomo, le è permesso, però, di essere reclutata in un campo di addestramento militare per prepararsi alla guerra contro lo Stato ebraico.
Questo è esattamente ciò che accade in questi giorni nella Striscia di Gaza, dove il gentil sesso viene addestrato all'uso di vari tipi di armi, tra cui fucili e mortai. Viene loro insegnato come piantare mine e ordigni esplosivi al confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Finora, 40 combattenti si sono "diplomate" nei campi di addestramento militare, mentre altre 40 stanno ancora imparando come diventare jihadiste e sacrificare la propria vita per cancellare Israele dalla faccia della terra. I campi di addestramento sono organizzati dalle Brigate Nasser Eddin, braccio armato di un gruppo chiamato Comitati di resistenza popolari, responsabile dal 2001 di centinaia di attacchi terroristici contro Israele.
Anche se questo gruppo non è direttamente legato a Hamas, i suoi membri operano spesso in coordinamento con esso e altre organizzazioni radicali della Striscia. Le Brigate Nasser Eddin, che reclutano ora donne come "soldati", sostengono di aver preso parte al sequestro del soldato israeliano Gilad Schalit, nove anni fa. Come Hamas, esse non credono nell'uguaglianza tra uomini e donne in ogni ambito della vita. Essi credono che il ruolo della donna dovrebbe essere limitato ad allevare i figli, servire fedelmente il marito e mantenere la casa pulita. Ma se una donna è disposta a morire nella lotta contro Israele, riceve di colpo un differente tipo di trattamento e le vengono concessi più diritti, incluso quello di allontanarsi dal marito e dalla prole. Inoltre, a queste rappresentanti del gentil sesso è garantito il diritto di essere in compagnia di uomini che non sono parenti stretti e che le addestrano a come far parte del jihad contro Israele.
Secondo un servizio dell'emittente televisiva di Hezbollah Al-Manar, "queste madri si uniscono al jihad, lasciando i loro figli per molte ore, al fine di dedicare il loro tempo e i loro sforzi" all'addestramento militare. "Il loro obiettivo è liberare la Palestina", precisa il servizio giornalistico. Una delle potenziali jihadiste, che dice di chiamarsi Um Sabri, ha raccontato al corrispondente della tv di essersi fatta reclutare dopo aver visto il marito fare lo stesso. Una madre di tre figli ha spiegato che la sua decisione di partecipare ai corsi di addestramento non interferisce con i suoi doveri verso il marito e la prole.
Questa nuova decisione di reclutare donne combattenti fa seguito alla mossa di Hamas di formare un nuovo esercito costituito da adolescenti e giovani palestinesi di età compresa tra i 15 e i 21 anni. Il mese scorso, il movimento islamista si è vantato di aver arruolato circa 17000 ragazzi nel cosiddetto "esercito di liberazione" costituito allo scopo di eliminare Israele e "liberare" Gerusalemme e tutta la Palestina, dal fiume al mare. Hamas e i suoi alleati nella Striscia di Gaza non ci vedono niente di male nell'utilizzare adolescenti e donne nella lotta contro lo Stato ebraico. In realtà, è qualcosa che fanno ormai da molti anni. Nella prossima guerra con Israele, le donne delle Brigate Nasser Eddin e i giovani di Hamas saranno inviati ad affrontare i soldati e i carri armati israeliani.
Ma stavolta sarà una situazione diversa, visto che questi nuovi combattenti saranno armati pesantemente e faranno parte di un esercito o milizia e Hamas e i suoi alleati non potranno dire che si tratta di civili uccisi da Israele. È anche interessante notare che il movimento islamista e altri gruppi armati trovano sempre i soldi per acquistare arme e munizioni e per gestire i campi di addestramento militare, mentre i palestinesi della Striscia continuano a dover affrontare difficoltà economiche, soprattutto in seguito all'ultimo confronto militare con Israele. I preparativi per la prossima guerra sono in corso nel momento in cui migliaia di famiglie palestinesi hanno perso le loro case e continuano a vivere nei rifugi e i dipendenti pubblici non ricevono gli stipendi da molti mesi. Hamas vuole che la comunità internazionale finanzi la ricostruzione della Striscia di Gaza con il pretesto di non avere le risorse necessarie per poterlo fare.
Ma quando si tratta di armare e addestrare le donne e i ragazzi, Hamas e gli altri gruppi palestinesi in qualche modo sembrano trovare sempre abbastanza denaro. Per quanto riguarda l'Autorità palestinese e il suo presidente, Mahmoud Abbas, beh, essi continuano a comportarsi come se vivessero su un altro pianeta, e ciò che accade nella Striscia di Gaza non sono affari loro. Ma questo non li fa desistere dall'intento di continuare ad adoperarsi per convincere il mondo a sostenere uno Stato palestinese dove le donne e i ragazzi sono addestrati a diventare i prossimi "martiri" nella lotta per distruggere Israele.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 27 febbraio 2015 - trad. Angelita La Spada)
Sgarbi insulti e sgambetti. La guerra Netanyahu-Usa
Netanyahu martedì sarà a Washington e accusa: date la bomba agli ayatollah. La replica di Kerry: ci ha spinto a invadere l'Iraq, visto com'è finita?
Secondo la consigliera per la sicurezza nazionale del presidente Obama, Susan Rice, la visita che il premier israeliano Netanyahu farà a Washington il3 marzo sarà «distruttiva». Lui risponde che gli Stati Uniti «hanno rinunciato» a impedire che l'Iran costruisca la bomba atomica. Intanto il capo della diplomazia americana, John Kerry, ricorda al Congresso che «durante l'amministrazione Bush, Netanyahu spinse molto per l'intervento in Iraq, e sappiamo come è finito».
- Relazioni ai minimi
Le relazioni fra Usa e Israele non sono mai scese così in basso, e stiamo parlando solo delle accuse che si sono scambiati in pubblico. Il motivo di lungo termine del contrasto è l'Iran, ma nell'immediato ci sono le elezioni del 17 marzo nello Stato ebraico, e la speranza neppure velata dell'amministrazione Usa che il premier ne esca sconfitto.
I rapporti fra Barack e Bibi non sono mai stati facili, per ragioni caratteriali e ideologiche. Obama non ha creduto alla sincerità di Netanyahu nei tentativi di trovare un'intesa con i palestinesi, e il fallimento della mediazione cercata da Kerry è stato visto come la conferma di questo pregiudizio. Netanyahu probabilmente pensa che Obama nel migliore dei casi non ha una strategia per il Medio Oriente, e nel peggiore ne ha una che mette a rischio la sopravvivenza di Israele.
Così, dopo le incomprensioni sulla Primavera araba, il flirt con i Fratelli Musulmani in Egitto, il ritiro frettoloso dall'Iraq, il mancato intervento contro Assad e il gelo con l'Arabia Saudita, si è arrivati allo scontro quasi aperto sul programma nucleare iraniano. Obama ritiene che potrebbe rappresentare la sua eredità storica in Medio Oriente, chiudendo un conflitto durato quasi quarant'anni, e aprendo la porta a un nuovo equilibrio nella regione capace di soffocare anche il terrorismo. Netanyahu pensa invece che il capo della Casa Bianca stia concedendo l'atomica agli ayatollah, mettendo a rischio la sopravvivenza di Israele. In mezzo ai due si è inserito il Congresso a maggioranza repubblicana, che per fare uno sgarbo al presidente ha invitato il premier a parlare in aula, senza informarlo.
- Colpo basso sul Mossad
La lotta ormai è senza esclusioni di colpi, al punto che qualcuno sospetta che gli «Spy cables» resi pubblici dalIa televisione AI Jazeera siano arrivati proprio dall'amministrazione Usa. Imbarazzano Bibi, mostrando che il Mossad non condivide appieno le sue analisi e i suoi allarmi sul livello di preparazione degli iraniani nella realizzazione della bomba. E la persona che ha gestito il negoziato per conto del dipartimento all'Energia è un ex agente della Cia, che sa al millimetro quali garanzie servono da Teheran per avere la certezza che non possa costruire armi.
La disputa ora riguarda piuttosto la «sunset clause», ossia l'idea che i vincoli imposti all'Iran dall'accordo scadano dopo 10 o 15 anni, consentendo a quel punto agli ayatollah di riprendere in pieno l'attività atomica a scopi civili. Secondo Israele, questo significa solo ritardare la costruzione della bomba, mentre gli Usa puntano sul fatto che fra dieci anni il 76enne Khamenei probabilmente non ci sarà più, e si potrà discutere su nuove basi con una leadership illuminata.
Nel frattempo, però, la disputa ha un orizzonte immediato nelle elezioni. L'organizzazione V-2015 che lavora per la sconfitta di Netanyahu è guidata da cinque americani fra cui Jeremy Bird, ex direttore nazionale della campagna presidenziale di Obama. Bibi invece ha giocato la carta del Congresso, e sente che sta guadagnando punti in casa, proprio per la reazione di Barack. Se vincerà, poi potrà smettere di trattare con Obama e aspettare la prossima amministrazione.
(La Stampa, 27 febbraio 2015)
Maglie anti-ebrei
La parola «bad», male, cattivo, accanto alla stella di David. E poi ancora un cuore, una croce con «love» accanto ed il simbolo della religione ebraica accostato al verbo «kill», uccidere.
La parola «bad», male, cattivo, accanto alla stella di David. E poi ancora un cuore, una croce con «love» accanto ed il simbolo della religione ebraica accostato al verbo «kill», uccidere. Sono solo alcune delle frasi scritte su centinaia di magliette in vendita in diversi negozi cinesi della zona Selva Candida ed inneggianti l'odio razziale. Gli agenti del XIII gruppo Aurelio della Polizia Locale sono al lavoro da due giorni per identificare gli esercizi commerciali che hanno esposte le t-shirt segnalate: sopralluoghi ed interrogatori sono in corso per identificare il produttore delle maglie, interpretate in diversi casi con l'aiuto di esponenti della comunità ebraica. Il materiale è stato sequestrato e messo a disposizione dell'autorità giudiziaria. S.M.
(Il Tempo, 27 febbraio 2015)
"La Sharia usata per limitare i diritti delle donne"
L'allarme lanciato da un convegno sulla legge islamica tenutosi ad Amman
di Maurizio Molinari
"La Sharia a volte viene adoperata per limitare i diritti delle donne": è l'allarme lanciato da un convegno sulla legge islamica tenutosi ad Amman, in Giordania, sotto il patrocinio del principe Hassan, zio del re Abdullah, per denunciare l'ideologia jihadista. Studiosi dell'Islam, esperti di giurisprudenza e rappresentanti di agenzie internazionali impegnate a difendere i diritti delle donne si sono ritrovati nella cornice dell'Istituto "Wana" (per l'Asia Occidentale ed il Nord Africa) al fine di esaminare le circostanze che vedono la Sharia diventare "strumento di discriminazione contro le donne". Erica Harper, direttore del "Wana", parlando a nome del principe Hassan ha definito la discriminazione delle donne "non giustificata dall'Islam". "Gli abusi che le donne soffrono, sul piano fisico e psicologico, come la loro esclusione e sfruttamento non possono essere giustificati sulla base dell'Islam" ha aggiunto Harper.
Da qui l'appello del convegno al fine di "promuovere la parità di diritti fra i sessi" come anche "innovazione e impresa per sostenere la maggiore integrazione delle donne" nei Paesi musulmani. Hala Lattouf, ex ministro per gli Affari Sociali in Giordania, ha parlato della civiltà islamica come "strumento per rafforzare legalmente lo status delle donne" mentre Ashraf Omari, presidente della Corte della Sharia in Giordania, ha fatto presenti i "timori" di "mancanze di rispetto basate sulla legge islamica".
Da qui la sua proposta di emettere delle "fatwe", editti religiosi, per "affrontare questioni sociali urgenti e proteggere le donne" dalle discriminazioni frutto dell'ideologia di gruppi estremisti violenti come Al Qaeda, Isis e Fratelli Musulmani. Nel complesso il convegno di Amman sembra un ulteriore passo compiuto dalla Giordania nel tentativo di dare una risposta culturale e legale all'ideologia jihadista. Re Abdullah ha parlato di recente con il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi proprio della necessità di iniziative simili per innescare una "rivoluzione religiosa" capace di sradicare la Jihad dal seno dell'Islam.
(La Stampa, 27 febbraio 2015)
Le aziende cinesi vogliono investire in Israele
l governo israeliano sta per effettuare una vendita di alcune società di proprietà dello Stato e gli investitori cinesi sono disposti a trarre vantaggio da alcune di queste opportunità, secondo David Hodak, partner di GKH (Gross, Kleinhendler, Hodak, Halevy, Greenberg &Co), una delle più importanti società di avvocati in Israele. Afferma Hodak: La Cina conosce Israele per la sua tecnologia, non conoscono molto bene il settore industriale e le infrastrutture della nostra economia, ma ne sono molto interessati. Gli investitori cinesi sono stati attratti dai numerosi campi in cui potrebbero investire somme importanti. Continua Hodak: Davvero ci amano, ogni volta che vado ricevo sempre un caloroso benvenuto. In realtà, aggiunge scherzando, gli israeliani non sono sempre noti per la loro cordialità, per cui speriamo che sappiamo guadagnarci questo affetto.... (SiliconWadi, 27 febbraio 2015)
"Evitate la kippah tra i musulmani"
Il presidente del Consiglio degli ebrei in Germania: "Mai nascondersi per paura, ma non è ragionevole farsi identificare da malintenzionati".
BERLINO - Meglio evitare la kippah, in certi contesti. Non è un allarmista, ripete spesso che non bisogna avere paura e anche a Benyamin Netanyahu ha recentemente replicato che scegliere Israele per motivi di sicurezza non sarebbe la cosa giusta da fare. Eppure oggi il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, ha messo in guardia la sua comunità anche sui rischi del copricapo che li identifica. Rinunciarci non è sbagliato, soprattutto in quartieri ad alto tasso di presenza musulmana.
"Gli ebrei non devono nascondersi per paura, e la maggior parte delle istituzioni ebraiche sono ben protette. La questione è però se sia effettivamente ragionevole lasciarsi identificare come ebrei, in quartieri problematici, con un'alta presenza di musulmani. O se sia maglio portare un altro copricapo", ha detto Schuster parlando all'emittente radiofonica Rbb. Parole che non è riuscito a pronunciare, senza osservare di esserne a sua volta sorpreso: "Si tratta di uno sviluppo che non avrei immaginato cinque anni fa, ed è già un po' spaventoso". La kippah del resto, gli ha fatto notare qualche rabbino in giornata, non è un indumento sacro, e dunque può essere sostituito, senza dover affrontare dilemmi.
Josef Schuster succede nel suo incarico a Dieter Graumann, l'uomo che la scorsa estate, dalle pagine del britannico Guardian, aveva sostenuto che gli ebrei vivono oggi "il tempo peggiore dall'era del nazismo". L'affermazione era arrivata nei mesi delle manifestazioni per Gaza che, in Germania come nel resto d'Europa, avevano fatto registrare slogan antisemiti per le strade ed episodi di violenza, in un clima allarmante.
Da allora lo scenario è addirittura peggiorato: gli attentati di Parigi hanno mostrato infatti che gli ebrei possono essere effettivamente un bersaglio del terrorismo islamico. Di qui i nuovi reiterati inviti alla prudenza: su tutti quello di Netanyahu che ha suggerito di lasciare l'Europa e scegliere Israele. Gli ebrei non devono avere paura, è l'esortazione di Schuster, invece, ma oggi nei suoi toni rassicuranti ha aggiunto un tassello: non è insensato non farsi riconoscere.
E, in Germania, non è il primo messaggio di questo tipo. Giorni fa la comunità ebraica di Berlino è stata costretta a camuffare un mensile gratuito per rispondere alle preoccupazioni degli abbonati, che temevano di essere riconosciuti come ebrei attraverso la rivista finendo con l'essere esposti a dei rischi. Adesso il magazine viene spedito in una busta chiusa, praticamente un modo per nasconderlo.
Intanto è la fondazione Amadeu Antonio a confermare che l'agitazione crescente della comunità non sia infondata: i reati di matrice antisemita sono in aumento. Da dati governativi emerge che che l'anno scorso nel Paese ne sono stati registrati 864 (erano stati 788 nel 2013).
(Corriere del Ticino, 26 febbraio 2015)
Giordania e Israele firmano un accordo per un progetto nel Mar Morto
di Roberta Papaleo
Giordania e Israele hanno firmato un accordo per la costruzione di quattro condotti che permetteranno di pompare acqua dal Mar Rosso al Mar Morto per far fronte alla scarsità di risorse idriche. L'accordo segue una lettera di intenti firmata a Washington nel dicembre 2013 da rappresentanti israeliani, giordani e palestinesi dopo più di dieci anni di negoziati.
Da parte sua, il ministro per le Risorse Idriche giordano, Hazem Nasser, ha dichiarato che durante la prima fase del progetto verranno pompati 300 milioni di metri cubici d'acqua su base annua. L'obiettivo finale sarà quello di pompare un massimo di 2 miliardi di metri cubici da ogni condotto. Inoltre, il progetto prevede che parte dell'acqua proveniente dal Mar Rosso venga desalinizzata e distribuita a Israele e Autorità Palestinese.
(ArabPress, 26 febbraio 2015)
Italia-Israele, le iniziative di Confagricoltura in vista di Expo
Giandomenico Consalvo, vicepresidente dell'organizzazione: "Importanti benefici dalla collaborazione tra le nostre agricolture".
Agricoltura e tecnologie al centro dell'incontro Confagricoltura-Israele
"Dalla collaborazione tra le nostre agricolture nasceranno importanti benefici. Proprio per questo puntiamo, con il nostro progetto di internazionalizzazione, ad offrire occasioni di scambio e abbiamo deciso di consolidare una importante cooperazione con Israele, soprattutto in vista di Expo 2015". Lo ha rimarcato il vicepresidente di Confagricoltura, Giandomenico Consalvo, in occasione della presentazione dell'evento "Israele-Italia: tecnologie ed Innovazione in agricoltura. Verso Expo 2015", realizzato in collaborazione con l'Ambasciata d'Israele in Italia, che si è tenuto ieri 25 febbraio a Palazzo della Valle, al quale sono intervenuti S. E. Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia, il direttore generale dell'Agricultural Research Organisation Yoram Kalpulnik e Francesco Loreto, direttore del dipartimento di scienze bioagroalimentari del Cnr. "Gli imprenditori agricoli - ha sottolineato il vice presidente di Confagricoltura - guardano con grande interesse alle tecnologie dell'agricoltura innovativa come quella d'Israele. Siamo molto interessati alla sperimentazione di nuove tecniche e ai risultati ottenuti dalla ricerca israeliana, in particolare nel campo della gestione delle acque e della shelf life delle produzioni, fondamentale per l'export e, proprio in occasione di Expo, riteniamo importante organizzare attività in collaborazione per le imprese associate. Il modello d'integrazione tra ricerca e agricoltura è quello, come sistema Italia, a cui dobbiamo tendere". "Expo 2015 è una grande opportunità, che Confagricoltura intende cogliere. Questo il significato della nostra presenza e delle iniziative prima, durante e dopo l'Esposizione. A Milano - ha concluso il direttore generale dell'organizzazione Luigi Mastrobuono - presenteremo i prodotti dell'agricoltura come opere d'arte, 'democratiche' cioè capaci di arrivare a tutti, in tutto il mondo, in stretta connessione con il territorio, con la nostra tecnologia, con la nostra capacità imprenditoriale, con lo stile italiano. A Palazzo Italia, abbiamo voluto affiancare la Casa degli Atellani, che custodisce la vigna di Leonardo, nelle vicinanze del Cenacolo, dove verranno organizzati incontri e dibattiti, ma anche business e affari, con l'obiettivo di far conoscere il meglio della nostra produzione agroalimentare e il nostro Paese".
(AgroNotizie, 26 febbraio 2015)
Estate 2015, Vueling lancia la nuova rotta Firenze - Tel Aviv
Con questa nuova rotta internazionale per Israele salgono a 16 i collegamenti estivi diretti dallo scalo toscano.
Nuovo volo della compagnia Vueling dall'aeroporto di Firenze. Per la stagione estiva 2015 la nuova rotta partirà dallo scalo di Peretola per arrivare aTel Aviv. Il nuovo collegamento diretto sarà effettuato con un Airbus A319 da 150 posti dal 4 luglio con una frequenza settimanale nella giornata di sabato. Una nuova opportunità, quindi, per chi vorrà raggiungere Israele per scoprire la sua storia millenaria, le sue spiagge e le tante occasioni di divertimento che sa offrire. Allo stesso tempo un'opportunità per Firenze e la Toscana, che potranno contare su un collegamento diretto a disposizione dei turisti provenienti dal paese mediorientale.
La rotta per Tel Aviv si aggiunge alla nuova rotta per Olbia e alle confermate 14 destinazioni operate nell'estate 2014. Diventano quindi 16 i collegamenti diretti di Vueling in partenza dall'aeroporto toscano nella stagione estiva 2015: le 5 destinazioni dirette domestiche di Bari, Cagliari, Catania, Olbia e Palermo e le 11 destinazioni dirette internazionali di Barcellona, Berlino, Copenaghen, Ibiza, Londra, Madrid, Mikonos, Parigi, Santorini, Spalato e Tel Aviv.
Orari dei nuovi voli
Firenze - Tel Aviv 23:40 - 04:00 (sabato)
Tel Aviv - Firenze 05:00 - 07:50 (domenica)
Prezzi a partire da € 108,14 per voli diretti, tasse e spese di gestione incluse.
Pagamento con carta di credito.
(FirenzeToday, 26 febbraio 2015)
Apple in Israele per progettare chip sempre migliori
di Giuseppe Migliorino
Secondo il Wall Street Journal, la crescente presenza di Apple in Israele è focalizzata al miglioramento della progettazione dei processori mobile. Per questo motivo, l'azienda avrebbe assunto la maggior parte dei dipendenti che prima lavoravano nella sede israeliana della Texas Instruments.
Oltre ai dipendenti già assunti, Apple sta cercando nuovi ingegneri specializzati nella progettazione di processori e semiconduttori. Tutti i nuovi assunti lavoreranno presso la sede Apple in Israele.
Grazie a queste mosse, Apple vuole creare un team altamente qualificato che lavorerà soltanto al miglioramento dei processori per iPhone e iPad.
Proprio in questi giorni, Tim Cook si trova in Israele per visitare la sede locale della sua azienda e per incontrare importanti esponenti della politica del paese.
(iPhone Italia, 26 febbraio 2015)
Antisemitismo: gli ebrei in Svizzera sono preoccupati
La comunità ebraica in Svizzera denuncia un aumento delle espressioni di antisemitismo e si dice preoccupata. Alcuni suoi rappresentanti chiedono maggiore solidarietà da parte del governo, che intende prendere sul serio la loro domanda.
di Frédéric Burnand
GINEVRA - La comunità ebraica in Svizzera denuncia un aumento delle espressioni di antisemitismo e si dice preoccupata. Alcuni suoi rappresentanti chiedono maggiore solidarietà da parte del governo, che intende prendere sul serio la loro domanda.
«Oggi, gli attacchi antisemiti sono particolarmente esacerbati. È da qualche tempo che viviamo male queste minacce nei confronti delle comunità ebree. È una situazione causata dall'antisionismo, usato per veicolare l'antisemitismo. Ciò non significa che chi è antisionista sia anche antisemita». Così si esprime Anne Weill-Lévy, avvocata e membro attivo della comunità israelita di Losanna. La giurista tenta di comprendere lo spaventoso ritorno dell'antisemitismo in Europa.
«Questa amalgama tra cittadini di confessione ebrea e la politica del governo israeliano s'è rafforzata negli ultimi anni, come testimonia il fenomeno Dieudonné e le macchinazioni del suo accolito Alain Soral», continua Anne Weill-Lévy. «Che Dieudonné possa cantare Shoananas e che questo faccia ridere il suo pubblico... beh, questo mi ha fatto molto riflettere. È preoccupante che a settanta anni dalla Shoah, nel momento in cui stanno morendo gli ultimi testimoni e sopravvissuti, questo genocidio si trasformi per certuni in un dettaglio storico, come lo ha definito l'ex presidente del Fronte nazionale Jean-Marie Le Pen».
Fondatori del partito Vérité et Réconciliation, Dieudonné e Soral incarnano l'unione tra un anticolonialismo dissoluto e l'estrema destra. Una miscela esplosiva capace di sedurre un certo numero di giovani, anche in Svizzera francese, dove Vérité et Réconciliation ha aperto una sezione.
- La distruzione della cittadinanza
Giornalista, scrittore e professore associato presso l'Università di Neuchâtel, Pierre Hazan descrive l'ambito internazionale in cui prospera l'antisemitismo e le sue nuove espressioni: «Le strutture nazionali sviluppatesi durante il 19o e il 20o secolo si stanno sgretolando. È questa la ragione primaria, cui possiamo aggiungere la perdita di punti di riferimento. Oggi, il sentimento di appartenenza nazionale (la cittadinanza) è soppiantato dalle nuove ideologie».
Pierre Hazan indica i luoghi, dove l'antisemitismo trova terreno fertile: «Il separatismo ucraino, l'implosione della Libia, l'emergere dello Stato Islamico in Iraq e in Siria mostrano come i Paesi, soprattutto quelli fragili, abbiano enormi difficoltà a far valere la loro autorità».
E non è tutto: «Anche nei Paesi con una lunga tradizione statale, come in Europa, si nota un indebolimento del ruolo dello Stato e della cittadinanza. E se a tutto ciò aggiungiamo l'opinione che l'Europa si trova su una parabola discendente, che non è più portatrice di un'ideologia forte, che i suoi rapporti si sono indeboliti, che l'ascensore sociale è quasi fermo, tutto questo crea un vuoto che viene colmato con la negazione delle proprie radici identitarie e con il populismo, fautore dell'esclusione».
A ricordare questa deriva ci pensano i numerosi europei, tra cui anche degli svizzeri, che lasciano il vecchio continente per unirsi ai combattenti dello Stato Islamico. Al loro ritorno, questi giovani minacciano e attaccano quelli che considerano ormai i loro nemici: le persone che difendono la libertà di espressione e gli ebrei.
- Gli ebrei, dei comodi capri espiatori
«Oggi non si sa più che cos'è la Shoah, che cosa significa genocidio, l'uccisione di un gruppo il cui unico errore è di essere nato», ricorda Anne Weill-Lévy. «Il capro espiatorio ebraico sopravvive nei secoli. È a portata di mano con un ventaglio di giustificazioni che si ripresentano costantemente. È più facile prendersela con gli ebrei che con altri gruppi. Non si corrono dei rischi a prendersela con gli ebrei, anche perché i pregiudizi nei riguardi del loro grande influsso e della loro onnipresenza sono infondati».
Come altri ebrei svizzeri, anche Anne Weill-Lévy è stata testimone di un certo lassismo nei confronti del razzismo negli ultimi anni. Ecco un esempio: «L'anno scorso quando nella caffetteria del parlamento vodese un deputato mi ha detto che, alla luce di ciò che sta succedendo in Israele, era giustificato chiedersi se l'uomo con i baffetti (Hitler, ndr.) non avesse fatto bene a concludere il suo piano, mi è mancata letteralmente la terra sotto i piedi».
- Atti antisemiti violenti in Svizzera
Un recente studio ha permesso di tracciare i contorni dell'antisemitismo in Svizzera. Su mandato del Servizio per la lotta al razzismo, l'istituto di ricerca gfs.bern ha elaborato uno strumento per monitorare la coabitazione in Svizzera e recensire le opinioni razziste e discriminatorie della popolazione tra il 2010 e il 2014.
«Il valore indicizzato delle opinioni negative sugli ebrei è rimasto invariato [...]. Gli atteggiamenti sistematicamente antisemiti sono stabilmente attestati su un valore di circa il 10 per cento», si legge nel rapporto. Lo studio non soddisfa completamente Johanne Gurfinkiel, segretario generale del Coordinamento intercomunitario contro l'antisemitismo e la diffamazione (CICAD), con sede a Ginevra.
«Questa ricerca tenta di analizzare il risentimento antisemita. Non si interessa però degli atti e degli scritti pieni di odio nei confronti degli ebrei. Inoltre manca un elemento: l'antigiudaismo che si esprime in questo momento nell'attualità internazionale, ossia l'antisionismo», evidenzia Gurfinkiel.
Il CICAD per la Svizzera romanda e la Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) per la Svizzera tedesca vogliono quindi pubblicare prossimamente il loro rapporto annuale che includerà anche gli atti antisemiti. Visto che lo studio dell'istituto gfs.bern e il rapporto annuale sugli atti antisemiti sono complementari, la vicepresidente della FSCI ci svela alcuni elementi del suo rapporto.
«L'anno scorso abbiamo registrato un aumento considerevole delle manifestazioni antisemite che - soprattutto - si esprimono in maniera sempre più aggressiva, per strada o nelle reti sociali», dice Sabine Simkhovitch-Dreyfus.
«Questo aumento è quasi sempre legato al conflitto in Medio-Oriente - in questo caso, l'offensiva dell'esercito israeliano contro la striscia di Gaza dell'anno scorso - come abbiamo notato anche in passato», spiega la vicepresidente della FSCI. «Ora le manifestazioni sono più visibili e molto più aggressive. Abbiamo costatato inviti a pestare gli zurighesi di confessione ebrea, dichiarazioni che auguravano la morte ai giudei, invocazioni allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, ecc. Queste manifestazioni sono molto più radicali rispetto al passato. È una costatazione condivisa con la CICAD».
- Prima reazione del governo
A lungo silenzioso, mercoledì il governo svizzero ha espresso preoccupazione per la recrudescenza della discriminazione religiosa. Sulle onde della Radiotelelevisione svizzera di lingua francese (RTS), Alain Berset, ministro incaricato degli affari religiosi ha illustrato il punto di vista del governo: "Viviamo in un paese in cui la coesione sociale è molto importante, e questo significa in particolare la tolleranza e il rispetto per le differenze religiose".
Menzionando gli attentati di Parigi e Copenaghen, il ministro ha aggiunto: "Gli atti di antisemitismo o di islamofobia dovrebbe essere l'occasione per ribadire che le persone di origine ebraica sono qui a casa loro e che la loro sicurezza deve essere garantita". Un riferimento al ripetuto invito lanciato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ai membri delle comunità ebraiche in Europa di trasferirsi in Israele.
Herbert Winter, presidente della FSCI ha accolto positivamente la dichiarazione di Alain Berset: "Per la prima volta, è stato detto esplicitamente che il governo prende sul serio la situazione dell'antisemitismo, e che, dopo gli eventi di Parigi e Copenaghen, prende sul serio anche le esigenze di sicurezza della comunità ebraica".
Parlando alla radio pubblica svizzero-tedesca (SRF), Winter ha chiesto alle autorità federali e cantonali di riconsiderare la situazione della sicurezza delle istituzioni ebraiche. Una domanda avanzata questa settimana anche nel corso di un incontro con il ministro della difesa Ueli Maurer. Il presidente della FSCI ha inoltre sollecitato una dichiarazione ufficiale del Consiglio federale sulla questione dell'antisemitismo.
Una richiesta formulata anche dal parlamentare ginevrino Manuel Tornare parlamentare: "Ci vogliono parole chiare di sostegno verso la comunità ebraica, come è stato fatto finora da diversi capi di governo europei. È solo un simbolo, ma un simbolo necessario in questo momento". Il deputato socialista intende interpellare la settimana prossima il governo a questo proposito.
(swissinfo.ch, 26 febbraio 2015 - trad. Luca Beti)
Il falco Bennett: "Ma è in gioco la sopravvivenza di Israele"
di Fabio Scuto
Naftali Bennett, leader di "Focolare ebraico" e Ministro dell'Economia di Israele
GERUSALEMME - Preparerà le valigie e andrà con Benjamin Netanyahu in questa visita negli Stati Uniti già gravida di polemiche per il discusso discorso che il premier d'Israele terrà al Congresso sui pericoli del nucleare iraniano. Perché Naftali Bennett, il leader di "Focolare ebraico" e ministro dell'Economia, condivide le stesse ansie del suo alleato di governo.I due leader si conoscono bene, Bennett stava nel Likud un tempo ed è stato il capo dello staff di Netanyahu nel 2006. Poi lo ha lasciato per fondare un suo partito, che fosse il riferimento per i coloni
contrari a ogni cessione territoriale e per i nazionalisti religiosi. Lui, giovane ex maggiore delle Forze speciali diventato multimilionario con l'hi-tech, è convinto di bissare il successo del 2013 il prossimo 17 marzo e tenere il centrosinistra all'opposizione altrimenti, dice, «per Israele sarà la catastrofe».Rifiuta però l'etichetta di leader di "un partito di estrema destra". «Siamo un partito conservatore di destra, ma certamente non estrema; non nego di essere un "falco" in materia di sicurezza e affari internazionali». Voce sempre su toni convincenti, Bennett sciorina i quattro caposaldi del suo programma: «Educazione, sicurezza, economia e affari esteri».
- I sondaggi danno i due schieramenti principali - destra e centro-sinistra - quasi alla pari. Che accadrebbe se dopo trent'anni la sinistra tornasse al governo? «Sarebbe un disastro. Tutti conoscono più o meno la formula: in qualche anno sarebbe creato lo Stato palestinese in Giudea e Samaria (Bennett non usa mai il termine Cisgiordania o West Bank ma quello biblico, ndr), centinaia di migliaia di israeliani sarebbero evacuati dalle loro case, nel giro di un paio di anni ci sarebbe un colpo di stato e Hamas si impadronirebbe del potere; i tunnel sarebbero scavati sotto l'autostrada e arriverebbero nel centro del Paese, innocenti civili palestinesi morirebbero perché Hamas piazzerebbe lanciamissili al riparo delle loro case, il mondo ci condannerebbe e la nostra posizione internazionale crollerebbe».
- Non le sembra uno scenario apocalittico? «La mia opinione è che questa regione caotica può rimanere tale per i prossimi 5 anni o per i prossimi 500 anni, nessuno è in grado di saperlo. La lezione principale che ho imparato nei due anni in cui sono stato membro del Gabinetto di sicurezza è che non sappiamo nulla. Non sapevamo che l'Egitto di Mubarak sarebbe crollato, come non sapevamo che Morsi lo avrebbe seguito; non sapevamo che la Siria si sarebbe disintegrata, come non prevedevamo che Assad avrebbe resistito. Nessuno aveva previsto l'Is, né dove si sarebbe esteso».
- Che cosa si può fare quindi in questa epoca di caos?
«Prima di tutto bisogna evitare di compiere errori irreparabili».
- Lo Stato palestinese è "un errore irreparabile"?
«Sì. Non bisogna cedere i Territori sotto la tua sovranità per cederli a persone che domani potrebbero essere tue nemiche: nel 2005 abbiamo ceduto Gaza ad Abu Mazen ed ora lì c'è un Hamastan. Sono più che convinto che se ci ritiriamo dalla Giudea e dalla Samaria, sarà anche lì la stessa cosa e ci troveremo l'Is sulla Linea Verde. Non vedo in un prossimo futuro la possibilità di arrivare alla pace con i palestinesi, ma ciò che ritengo auspicabile è una specie di "Piano Marshall" per noi e i palestinesi. Cioè, turismo, economia, commerci, export, import, infrastrutture, c'è così tanto da fare. Ci sono due milioni di palestinesi e 400.000 israeliani che vivono nei territori della Giudea e Samaria: rendiamo loro la vita migliore».
- Davvero ritiene possibile una soluzione pacifica con i palestinesi senza uno Stato palestinese?
«Io non cerco di arrivare alla pace, cerco di arrivare alla calma, e si tratta di una differenza enorme. Abbiamo avuto la calma con la Siria, allo stesso modo in cui abbiamo avuto la calma con l'Egitto. Con uno abbiamo un accordo di pace, con l'altra no, ma fino alla recente disintegrazione della Siria, il confine siriano è stato quello più tranquillo. In Medio Oriente la pace è una visione splendida, ma dobbiamo essere realistici: datemi la calma, la non-belligeranza, e mi accontento».
- Quindi lei è favorevole all'annessione dei Territori palestinesi?
«Certo, sono a favore dell'annessione dei territori dell'area C (quella sotto il completo controllo israeliano, dove si trovano le colonie, ndr), dando la cittadinanza a tutti i palestinesi che ci vivono, e per molti sarà come se avessero vinto un terno al lotto, perché lì la qualità della vita è migliore. Per le aree A (sotto il totale controllo palestinese) e B (controllo militare israeliano e civile palestinese), sono per un'autonomia "maggiorata". E' meno di uno Stato, in quanto non sarebbe aperto al flusso di milioni di discendenti di profughi e non avrebbe un esercito, ma sarebbe totalmente autonomo per tutto il resto, in un'area dove non vivono israeliani, bensì 1 milione e 800.000 palestinesi. Non credo che possa essere attuato subito, perché prima di tutto devo convincere gli israeliani, poi dovremo convincere il resto del mondo».
(la Repubblica, 26 febbraio 2015)
In Germania i giornali israeliti adesso arrivano a casa come stampa clandestina
di Giulio Meotti
Gideon Joffe, Presidente della comunità ebraica di Berlino
ROMA - La rivista mensile della comunità ebraica di Berlino, lo Jüdisches Berlin, da oggi sarà consegnato agli abbonati come una busta anonima, incelofanata, senza scritte identificative. "Abbiamo deciso di farlo, nonostante i notevoli costi aggiuntivi, per ridurre la probabilità di ostilità nei confronti dei nostri più di diecimila membri della comunità", ha detto il portavoce del quotidiano Ilan Kiesling al giornale Tagesspiegel. In un articolo per l'ultimo numero della rivista, Gideon Joffe, capo della comunità ebraica della capitale, scrive: "Gli israeliani sono picchiati a Berlino per il solo fatto di essere ebrei israeliani. Non siamo ancora - lo ripeto ancora - nella fase in cui gli ebrei vengono uccisi in Germania solo perché sono ebrei. Ma alcune misure devono essere prese per proteggere lo stato di diritto democratico". Dunque meglio non turbare il vicino di casa antisemita o dare nell'occhio in quanto lettori di ebraico. Il mensile diventa dunque un samizdat, un foglio carbonaro, da consultare soltanto all'interno della propria abitazione. Spaventati dal numero di minacce terroristiche e dagli allarmi, "alcuni avevano già chiamato, sostenendo di voler disdire l'abbonamento".
Henryk Broder, una delle firme più note del giornalismo tedesco, intellettuale ebreo di origini polacche, editorialista alla Welt dopo una lunga esperienza allo Spiegel, interpreta la decisione della rivista come un segno di capitolazione. "Gli ebrei europei non vogliono prendere il destino nelle proprie mani, amano essere protetti, ma così non capiscono che è come essere perseguitati", dice Broder al Foglio. "Non credo neppure alle parole rassicuranti che vengono dai leader europei sull'antisemitismo, come Valls e Merkel. E' una menzogna, in verità hanno paura della popolazione islamica in Europa. Mentre la protezione delle istituzioni ebraiche è amplificata e agli ebrei si consiglia di non essere 'visibili' nella sfera pubblica, 'ebrei su chiamata' assicurano che si sentono tedeschi a dispetto di tutto. La vita ebraica è stata sempre e ovunque possibile. In Egitto sotto i faraoni, sotto il dominio dei Romani in Palestina, in Spagna, dopo l'editto di espulsione del 1492, e anche nel ghetto di Varsavia, dove c'erano letture e concerti, come Marcel Reich-Ranicki ha descritto nelle sue memorie. E' quasi tutto possibile. Ma a quali condizioni?". Secondo Broder, oggi in Europa è possibile soltanto ristabilendo la figura dell'ebreo di corte. "Proprio come nella storia di 'Süss l'Ebreo', che divenne consigliere politico alla corte del duca Karl Alexander di Württemberg e finì sulla forca. Nel mondo arabo ci sono stati i 'dhimmi', cristiani ed ebrei etichettati come tali e che dovevano pagare una tassa speciale, ma non dovevano temere per la vita fino a quando non si fossero ribellati o avessero chiesto la parità di diritti. Quello a cui stiamo assistendo non è la rinascita della vita ebraica in Germania e in Europa, ma la fine di un esperimento. E' finita. Non c'è vita dopo la morte. Tolosa era il preludio di Bruxelles, Bruxelles ha portato a Parigi e Copenaghen non sarà l'ultima. E gli ebrei continuano a giocare come al solito. Temono di dover essere costretti ad andare in Israele. Tutto ciò che vogliono è una 'maggiore protezione delle istituzioni ebraiche'. Pregare, imparare e festeggiare sotto la supervisione della polizia. E' possibile togliere il dhimmi dal ghetto, ma non il ghetto dal dhimmi".
(Il Foglio, 26 febbraio 2015)
Comunità ebraica di Roma: finisce l'era Pacifici
Il presidente non potrà ricandidarsi alle elezioni del Consiglio di giugno. I tre nomi per la successione.
di Gabriele Isman
Riccardo Pacifici
L'appuntamento è per il 14 giugno, quando la comunità ebraica voterà i suoi 28 nuovi consiglieri che poi eleggeranno il presidente, e per la prima volta dal 1993 Riccardo Pacifici non sarà nella rosa degli aspiranti. Scatterà infatti la norma dello statuto che vieta la ricandidatura a chi ha già effettuato tre mandati. Pacifici, vicepresidente dal 2000 al 2008 e da allora presidente, lascerà quindi l'incarico, ma la sua lista - Per Israele - presenterà per la presidenza Ruth Dureghello, attuale assessore alla Scuola della comunità. "Sono una negoziante, ma preferisco definirmi una brava mamma ebrea - dice lei, 47 anni - . Io sono Ruth e non sono Riccardo, con tutto il rispetto e la gratitudine per quello che Pacifici ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà per l'ebraismo romano".
L'altra candidatura certa è quella di Maurizio Tagliacozzo, imprenditore di 52 anni, compagno di scuola di Pacifici che poi sarà suo testimone di nozze e figlio di Sergio che fu presidente della comunità negli anni Ottanta. "La nostra lista si chiamerà Menorah, come l'associazione culturale e la libreria ebraica che per anni, gratuitamente, abbiamo gestito con mia moglie. Dobbiamo riportare la comunità a essere comunità, sapendo che il ruolo politico è dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane. Noi abbiamo altre priorità: le scuole, risollevare i conti ed essere più attenti al nostro interno che all'esterno".
Non mancherà una terza lista, "Efshar", che in ebraico significa "possibile", attualmente alleata con Pacifici. La figura di riferimento è Raffaele Sassun, 55 anni, imprenditore nel settore dei computer. "La comunità è un piccolissimo ente locale. Dobbiamo rimettere a posto i conti, perché la crisi pesa anche sugli ebrei romani. Abbiamo sempre più poveri da aiutare e genitori che non mandano più i figli nelle nostre scuole per le rette troppo care". Per Sassun alla fine i competitor per il post Pacifici saranno solo tre, ma non è esclusa la possibilità di una lista di sole donne o di giovani. Sul voto comunque Pacifici peserà: la sua candidata è Dureghello, ma alle urne conteranno i suoi 20 anni in Consiglio.
(la Repubblica - Roma, 26 febbraio 2015)
Gianni Morandi correrà la maratona di Gerusalemme
ROMA, 25 feb - Quest'anno la Maratona Internazionale di Gerusalemme, alla sua quinta edizione, ospiterà dall'Italia l'amatissimo Gianni Morandi. "Il 13 marzo di quest'anno, insieme ad alcuni amici appassionati podisti bolognesi - dichiara Gianni Morandi - andrò a Gerusalemme per correre la mezza maratona, nell'ambito della 'Jerusalem International Winner Marathon'. Sarà una bella occasione per rivedere questa meravigliosa città, dove sono già stato, ma più di trent' anni fa. Sono sicuro che correre in quei luoghi pieni di storia, di cultura e di spiritualità, potrà essere veramente entusiasmante, considerato che Gerusalemme è una delle più belle città del mondo" "Siamo felici che il nostro Ministero del Turismo Israeliano, e noi come Ufficio Israeliano del Turismo in Italia - dichiara il direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, Avital Kotzer Adari - abbiamo questa bellissima occasione di avere come nostro ospite Gianni Morandi che correrà in una maratona unica al mondo, poiché Gerusalemme è una città unica. Oltre a visitare la Città Vecchia e Nuova di Gerusalemme Gianni Morandi potrà ammirare anche le altre bellezze della nostra amatissima terra: l'immancabile e ristoratore Mar Morto e la vivacissima e instancabile Tel Aviv".
(Prima Pagina News, 25 febbraio 2015)
Rabbini europei a scuola di autodifesa
In una dozzina si sono ritrovati in un albergo di Praga per la sessione di addestramento
di Maurizio Molinari
Il rabbino capo d'Olanda Binyomin Jacobs è uno dei partecipanti al corso
Una dozzina di rabbini provenienti da più Paesi d'Europa si sono dati appuntamento in un albergo di Praga per apprendere le nozioni fondamentali dell'autodifesa e del pronto soccorso. All'inizio della "sessione di addestramento" ai rabbini sono stati distribuiti dei coltelli di cui hanno poi dovuto simulare l'uso per apprendere dagli istruttori come far fronte a situazioni di urgenza e necessità: dall'aggressione da parte di un terrorista al soccorso dei feriti.
Ad organizzare l'evento è stato il Centro rabbinico d'Europa assieme all'Associazione Ebraico-Europea presieduta da Menachem Margolin, secondo il quale «l'aumento degli atti antisemiti in Europa» combinato con «la crescita dell'odio e le scarse misure adottate dai governi per farvi fronte» dimostra l'urgenza di «sapere difendersi». Fra i partecipanti al "corso sicurezza" per rabbini d'Europa c'è Binyomin Jacobs, rabbino capo d'Olanda, che si è detto «molto contento per la risposte del pubblico e la professionalità degli istruttori».
(La Stampa, 25 febbraio 2015)
L'Arabia Saudita concede a Israele lo spazio aereo per attaccare l'Iran
"Sembra che le potenze occidentali abbiano ceduto sul loro impegno d'impedire che l'Iran ottenga armi nucleari" Lo ha detto Benyamin Netanyahu riguardo alle trattative tra Teheran e i 5+1. "Hanno accettato il fatto - ha accusato il premier israeliano, rivolgendosi a Usa e Ue con toni polemici - che l'Iran svilupperà nei prossimi anni le capacita' per produrre molte bombe. Forse loro possono convivere con questo, ma io non posso accettare un pericolo così grande per Israele".
Secondo un rapporto dei media israeliani, il programma nucleare iraniano ha portato l'Arabia Saudita e Israele ad avvicinarsi.
Una fonte europea di alto livello ha detto che l'Arabia Saudita si è ora offerto di lasciare che caccia israeliani usino il suo spazio aereo per attaccare l'Iran, se necessario. In cambio di Israele dovrebbe fare progressi nei colloqui di pace con i palestinesi.
"Le autorità saudite sono completamente coordinate con Israele su tutte le questioni relative all'Iran," ha detto il funzionario europeo a Bruxelles.
L'utilizzo dello spazio aereo saudita significa che le Forze di Difesa israeliane potrebbero colpire Teheran da una distanza minore, senza dover volare in tutto il Golfo Persico.
Il rapporto di Canale 2 evidenzia anche che sia lo Stato ebraico che la nazione araba sono preoccupati per l'esito dei colloqui di Ginevra, attualmente in corso, sul programma nucleare iraniano
Anche se Gerusalemme e Riyadh non hanno rapporti diplomatici, ci sono state molte notizie non confermate su un possibile coordinamento tra di loro contro l'Iran.
Alcuni altri stati arabi, tra cui l'Egitto, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, hanno espresso preoccupazione per il programma nucleare di Teheran, anche se l'Iran sostiene (ed è confermato anche dal Mossad) che sia stato sviluppato esclusivamente per scopi pacifici.
Tuttavia, questi grandi paesi sunniti temono che permettere all'Iran di continuare l'arricchimento dell'uranio e la costruzione di centrifughe potrebbe lanciare una corsa agli armamenti nucleari nella regione.
Il rapporto di Canale 2 arriva proprio durante aumento delle tensioni tra Washington e Israele sulla posizione degli Stati Uniti sul programma nucleare iraniano. Netanyahu ha avvertito più volte che a Teheran non deve essere permesso di avere capacità nucleari, mentre i funzionari iraniani affermano che il loro programma è puramente per uso civile.
Un documento del Mossad, recentemente trapelato, ha rivelato che Netanyahu avrebbe mentito alle Nazioni Unite sul programma nucleare iraniano, avvertendo che la Repubblica islamica era prossima a completare i suoi "piani di costruzione di un'arma nucleare," per giustificare i diritti di Israele ad agire militarmente, se necessario.
Gli Stati Uniti, insieme a Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia e Germania, noto come il P5 + 1, sono alla ricerca di un accordo globale con l'Iran, per raggiungere un congelamento nucleare di 10 anni del suo programma di arricchimento dell'uranio in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche che gravano sull'Iran.
(ImolaOggi, 25 febbraio 2015)
Il primo passo per sconfiggere il terrorismo dovrebbe essere una battaglia contro l'ipocrisia
di Amit Zarouk*
Amit Zarouk, portavoce e consigliere politico dellAmbasciata d'Israele
La battaglia al terrorismo islamico è sfortunatamente condotta quotidianamente quasi fosse uno stile di vita da parte di noi israeliani. Per molti anni ci siamo considerati - cosa che non è avvenuta da parte di molti in Europa - come il confine del mondo occidentale contro l'onda di estremismo che minaccia i valori fondamentali che sono alla base delle nostre società. Ora che questo ondata di estremismo è arrivata letteralmente sulle coste dell'Europa, in particolare dell'Italia, e che preoccupanti segnali si sono verificati nel centro dell'Europa democratica, la decennale battaglia israeliana sembra più comprensibile.
Per molti anni una propaganda sofisticata ha provato, realizzando il suo obiettivo in molti casi, a convincere i più che il terrore che Israele deve fronteggiare abbia delle giustificazioni politiche e che la soluzione sia solamente una questione politica, che possa esser risolta una volta per tutte e in questo modo metter fine alle minacce.
Sì, sicuramente ci sono nodi politici da risolvere tra noi e i nostri vicini, ma per quanto riguarda organizzazioni terroristiche come Hamas o Hezbollah la soluzione politica da loro proposta è semplicemente la distruzione dello stato d'Israele. Non certo per noi israeliani, ma per ciò che noi rappresentiamo: un'isola di libertà, diritti civili, pluralismo, libertà di professare la propria religione o più semplicemente un'isola democratica nel cuore del Medio Oriente.
Dovrebbe esser affermato chiaramente: Hamas non è altro che uno dei rami dell'albero avvelenato dell'estremismo islamico, lo stesso albero da dove provengono l'Isis e Al Qaeda. Lo stesso vale per Hezbollah in Libano e Siria, un Islam avvelenato di origine sciita e per questo finanziato direttamente dal regime iraniano. Questi non riconoscono Israele all'interno di alcun confine e non accetteranno in alcun modo una presenza occidentale nel Medio Oriente.
Ecco perché il primo step nella lotta al terrorismo islamico dovrebbe esser una spietata lotta all'ipocrisia che sostiene che ci sia differenza tra un terrorismo giustificato e un terrorismo ingiustificato. La stessa ipocrisia che sostiene che Hamas ed Hezbollah siano le braccia armate di partiti politici e per questo non a pieno considerate organizzazioni terroristiche. Immaginate se qualcuno osasse sostenere che ci sia un braccio armato di Isis e una parte politica... dovremmo forse noi distinguere tra politici dell'Isis e miliziani?
Il terrore è il terrore, le organizzazioni terroristiche non dovrebbero essere legittimate fintanto che queste non rinuncino completamente alla morte, fino a quando queste non accetteranno la nostra mera esistenza e le dinamiche di un dialogo politico, solo in questo modo potranno non esser più considerate delle organizzazioni terroristiche.
(L'Huffington Post, 25 febbraio 2015)
Italia-Israele, le iniziative di Confagricoltura in vista di Expo
ROMA - "Dalla collaborazione tra le nostre agricolture nasceranno importanti benefici. Proprio per questo puntiamo, con il nostro progetto di internazionalizzazione, ad offrire occasioni di scambio e abbiamo deciso di consolidare una importante cooperazione con Israele, soprattutto in vista di Expo 2015". Lo ha rimarcato il vice presidente di Confagricoltura, Giandomenico Consalvo, in occasione della presentazione dell'evento "Israele-Italia: Tecnologie ed Innovazione in Agricoltura. Verso Expo 2015?, realizzato in collaborazione con l'Ambasciata d'Israele in Italia, che si è tenuto oggi a Palazzo della Valle, al quale sono intervenuti S. E. Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia, il direttore generale dell'Agricultural Research Organisation Yoram Kalpulnik e Francesco Loreto, direttore del dipartimento di scienze bioagroalimentari del Cnr. "Gli imprenditori agricoli - ha sottolineato il vice presidente di Confagricoltura - guardano con grande interesse alle tecnologie dell'agricoltura innovativa come quella d'Israele. Siamo molto interessati alla sperimentazione di nuove tecniche e ai risultati ottenuti dalla ricerca israeliana, in particolare nel campo della gestione delle acque e della 'shelf life' delle produzioni, fondamentale per l'export e, proprio in occasione di Expo, riteniamo importante organizzare attività in collaborazione per le imprese associate. Il modello d'integrazione tra ricerca e agricoltura è quello, come sistema -Italia, a cui dobbiamo tendere". "Expo 2015 è una grande opportunità, che Confagricoltura intende cogliere. Questo il significato della nostra presenza e delle iniziative prima, durante e dopo l'Esposizione. A Milano - ha concluso il direttore generale dell'organizzazione Luigi Mastrobuono - presenteremo i prodotti dell'agricoltura come opere d'arte, 'democratiche' cioè capaci di arrivare a tutti, in tutto il mondo, in stretta connessione con il territorio, con la nostra tecnologia, con la nostra capacità imprenditoriale, con lo stile italiano. A 'Palazzo Italia', abbiamo voluto affiancare la Casa degli Atellani, che custodisce la vigna di Leonardo, nelle vicinanze del Cenacolo, dove verranno organizzati incontri e dibattiti, ma anche business e affari, con l'obiettivo di far conoscere il meglio della nostra produzione agroalimentare e il nostro Paese".
(il Velino, 25 febbraio 2015)
Banca Etruria (e il suo oro) piace agli israeliani di Bank Hapoalim
L'istituto controllato dagli armatori di Carnival punta al business dell'oro
Bank Hapoalim
Per rilevare la Banca Etruria, prima che il Tesoro la commissariasse su richiesta della Banca d'Italia per gravi carenze patrimoniali, si sarebbe fatta avanti anche un istituto israeliano, Bank Hapoalim. Nelle scorse settimane avrebbe inoltrato alla sede londinese di Mediobanca, advisor della popolare aretina una richiesta di accesso alla data room. L'indiscrezione è pubblicata oggi su il Messaggero. Hapoalim è il principale istituto di credito israeliano, una public company il cui azionista principale con il 20% è la Arison Holding, finanziaria della famiglia Arison che controlla come azionista di maggioranza il colosso delle navi da crociera Carnival.
L'interesse di Hapoalim sarebbe stato soprattutto per il business dell'oro, in cui Banca Etruria è forte e opera attraverso la controllata Oro Italia Trading, leader nel settore con oltre 500 milioni di giro d'affari. Bank Hapoalim avrebbe stretto un'alleanza strategica con due fondi stranieri, interessati soprattutto a gestire il business dei crediti in sofferenza dell'istituto: uno di questi sarebbe lo statunitense
York Capital Management. Popolare dell'Etruria fino a due settimane fa presideuta da Lorenzo Rozi con vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle Riforme, Maria Elena da oltre un anno era stata invitata dalla Banca d'Italia a ricercare un acquirente, e per favorire questo processo aveva anche avviato l'iter per la trasformazione in società per azioni.
(Corriere della Sera, 25 febbraio 2015)
La verità dopo dieci anni: Arafat finanziò gli attentati
Giustizia per le famiglie di decine di vittime di origini americane. Anp e Olp devono pagare 655 milioni di dollari. Ma l'Italia vuole riconoscerli come Stato.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - «Mia figlia aveva due anni quando suo padre fu ucciso da un attacco palestinese a Gerusalemme; non ha parlato fino a tre anni, quando all'improvviso ha detto: «Qualcuno ha ucciso mio padre?».
L'ha raccontato Karen Goldberg testimoniando al processo conclusosi due giorni or sono a New York. Come in un film, è finito con il riconoscimento dei veri colpevoli. Piangendo Karen ha ricordato che suo marito Scotty saltò per aria su un autobus durante la seconda Intifada. Tante altre testimonianze hanno fatto rivivere quei giorni terribili fra il 2000 e il 2004, in cui gli ebrei venivano fatti a pezzi nei caffè, sugli autobus, nei supermarket soprattutto a Gerusalemme. Ne furono uccisi più di mille. Negli Stati Uniti, due giorni fa è stata fatta un po' di giustizia per alcune vittime di origine americana che sono coperte da una legge antiterrorismo del 1992. Un tribunale di Manhattan, su richiesta di dieci famiglie i cui cari sono stati in parte feriti gravemente, in parte uccisi, ha riconosciuto colpevole di terrorismo omicida l'Autorità Palestinese (sì, quella di Arafat e di Abu Mazen, stavolta non Hamas) e l'Olp per il loro coinvolgimento diretto in sei attacchi e li ha condannati a pagare dalle casse che in genere vengono rifornite dalle donazioni del mondo intero la bella somma di 655 milioni e mezzo di dollari.
Avvocati bravissimi del gruppo Shurat haDin (Centro legale di Israele) hanno combattuto una battaglia decennale, portando oltre alle storie terribili delle famiglie anche precisi documenti, molti verificabili su Pmw, Palestinian Media Watch, che dimostrano come l'Autorità palestinese abbia motivato, armato, organizzato, fornito la culla genetica di tanti terroristi. Svariati erano impiegati dell'Autorità e dell'Olp. La cronista a suo tempo pubblicò un documento che provava che Arafat, oltre a invitare al martirio, ovvero al terrorismo, forniva consapevolmente i soldi per le cinture esplosive e la preparazione degli attentati alle Brigate di al Aqsa di Marwan Barghuti, che adesso è in carcere con cinque ergastoli e più quarant'anni. Abu Mazen, il moderato su cui il mondo punta, chiama le piazze con i nomi dei terroristi, loda gli shahid, lascia che le sue tv e i suoi siti siano pieni di incitamento, paga in carcere stipendi a tutti i terroristi tanto più alti quanto più lunga la condanna. E tutto il mondo seguita a tassare (un miliardo 400milioni di dollari nella prima metà del 2009, 1,9 nel 2008) i propri cittadini per beneficare una leadership autoritaria e arricchita.
L'autorità palestinese si è dichiarata molto delusa dal verdetto, dopo che hanno testimoniato alcuni fra i suoi più famosi leader come Hanan Ashrawi per dimostrare una inveterata propensione alla moderazione, il mantra su cui si basa la propaganda filopastinese. Su questa narrativa, del tutto falsa e basta verificare su Pmw, si basa anche la rinnovata decisione del Parlamento italiano di calendarizzare per il prossimo venerdì il riconoscimento dello Stato Palestinese. Un gesto sconsiderato contro Israele e il processo di pace, una pura prova di fanatismo senza basi in un momento difficile per gli ebrei di tutto il mondo e per la lotta contro il terrore. Quale Stato? Quello di cui sia Abu Mazen che Hamas sono parte? Quello che ha fomentato l'episodio per cui Robert Coulter ha visto in tv dopo l'esplosione della Caffeteria dell'Università di Gerusalemme, il corpo della figlia uccisa, con i suoi lunghi capelli biondi? Il terrorismo non è un fantasma, ha sempre un nome e un cognome, e in questo caso è stato identificato con prove, documenti, testimonianze. I parlamentari italiani vorranno finalmente capire che di fronte a un simile episodio è proibito far finta di non vedere, di non sentire, di non capire? O non ci importa del terrorismo?
(il Giornale, 25 febbraio 2015)
Glorificazione del martirio per la Palestina
Sulla TV dell'Autonomia Palestinese di Abu Mazen una ragazza dedica al suo zio terrorista un canto di glorificazione del martirio. Lo zio, Sha'aban Hasssuna, è un comandante della Jihad islamica che sta scontando una condanna all'ergastolo.
Se diventiamo martiri andremo in Paradiso.
Se diventiamo martiri andremo in Paradiso.
Non dite che siamo giovani.
Questo modo di vivere ci ha reso adulti.
...
Senza la Palestina, che senso ha l'infanzia?
Bambini, voi osservate il dovere (religioso) e la Sunna (tradizione islamica):
Non c'è altro Dio se non Allah, e lo Shahid (martire) è il prediletto di Allah.
Tu ci hai insegnato il significato dell'eroismo.
...
Anche se ci dessero questo mondo e tutti i suoi tesori,
no, questo non ci farebbe dimenticare [la Palestina]. Niente affatto.
E' il mio paese e io [do] il mio sangue per amor suo.
(Palestinian Media Watch, aprile 2011 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele - Economia: +7,2% nel quarto trimestre 2014
Il Central Bureau of Statistics ha riportato la notizia che l'economia israeliana e' cresciuta, nella seconda meta' del 2014, ad un tasso del 2,6%; sul sentiero gia' avviato nella prima meta' del 2014, quando era stato raggiunto il risultato del 2,7%. Con un +7,2% del quarto trimestre, il PIL ha registrato un balzo notevole,
soprattutto se paragonato al precedente periodo quando, a causa dell'operazione Barriera protettiva, la percentuale era stata pari al solo 0,6%. La crescita del PIL nella seconda meta' del 2014 ha beneficiato dell'aumento del 7,9% della spesa pubblica e del 5,4% del consumo privato.
(Tribuna Economica, 25 febbraio 2015)
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Da Israele nuove critiche all'Onu: "Sul nucleare iraniano sta cambiando opinione"
Un rappresentante governativo israeliano ha dichiarato al "Jerusalem post" di essere seriamente preoccupato dalle potenze mondiali che concedono a Teheran di conservare oltre 6000 centrifughe.
di Hortensia Honorati
Era il 2006 quando il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvava una risoluzione vincolante che invitava l'Iran a sospendere l'arricchimento dell'uranio. Sono passati 9 anni e oggi, da quanto emerge dai colloqui sul nucleare a Ginevra, le potenze mondiali sembrano concedere a Teheran di conservare 6500 centrifughe.
"La direzione che si sta prendendo è preoccupante" ha dichiarato un rappresentante governativo israeliano al Jerusalem Post aggiungendo che le ultime indiscrezioni sul nucleare non sarebbero una novità per Gerusalemme che conosce i dettagli del negoziato da diverso tempo, anche se gli Stati Uniti hanno affermato che negli ultimi mesi "hanno interrotto le comunicazioni sull'argomento con Israele".
"Inizialmente la posizione delle potenze mondiali era molto netta: l'Iran non doveva possedere centrifughe" ha spiegato il politico intervistato dal quotidiano di Gerusalemme in riferimento alla prima delle sei risoluzioni adottate nel 2006 dal Consiglio di Sicurezza in cui l'Iran veniva sollecitata a porre fine alla ricerca sull'arricchimento dell'uranio e alla sviluppo di tecnologie che potrebbero portare alla produzione di armi atomiche.
(In Terris, 25 febbraio 2015)
Quella faccia tosta di Bibi
Sarà referendum su Netanyahu, un caratteraccio di cui Israele si fida. Storia di un guardiano solo e sospettoso. Difensore della famiglia ma con tre matrimoni, oltranzista a parole ma pragmatico nei fatti.
di Giulio Meotti
Era il 1997 quando un giornalista di Haaretz, Ari Shavit, scrisse un pezzo intitolato "L'anno dell'odio per Bibi". Quell'odio dura da vent'anni. Ai primi di marzo Benjamin Netanyahu parlerà per la terza volta al Congresso degli Stati Uniti. E sarà un record, perché l'unico leader straniero a cui è stato concesso un tale onore è stato l'inglese Winston Churchill. Pochi giorni dopo, Netanyahu andrà a elezioni. E se venisse rieletto batterebbe un altro record: sarebbe il primo ministro israeliano più a lungo al potere, anche più del patriarca David Ben Gurion che dominò gli anni Cinquanta e Sessanta.
I detrattori di Bibi lo chiamano "l'Illusionista". Parla un inglese perfetto, senza accenti ebraici. E' profondamente influenzato dalla sua lunga stagione americana, prima da laureando del Mit di Boston (doppia laurea, Architettura e Gestione aziendale), poi da businessman, infine da ambasciatore alle Nazioni Unite. E come molti leader americani, l'israeliano Netanyahu è una contraddizione vivente. Bibi si dice difensore della famiglia, ma vanta tre matrimoni. Considerato vicino agli ebrei religiosi, ma non fa mai sfoggio di devozione. E' l'unico primo ministro israeliano nato dopo la fondazione dello stato, ma ha trascorso metà della sua vita all'estero. Oltranzista a parole e nei libri, governa da pragmatico. Vuole prevenire un nuovo Olocausto, ma sulla stampa si accumulano le sue piccinerie, come "dimenticarsi" sistematicamente di pagare i conti al ristorante. E' nato sugli schermi della Cnn, ma passerà alla storia come il primo ministro israeliano con il peggior rapporto con la stampa (alla Knesset c'è anche una legge contro il quotidiano a lui vicino, Israel Hayom),
La sua è una grande saga familiare, quella dell'aristocrazia ebraica, bianca e di destra, in un paese da sempre guidato dall'élite ashkenazista di sinistra. Il nonno di Bibi, il rabbino Nathan Mileikowsky, a Varsavia dirigeva una famosa scuola ebraica, il ginnasio Krinsky, Viaggiò per tutte le capitali d'Europa perorando, fra i primi, la nascita di uno stato ebraico in Palestina. Nel 1920 arrivò a Tel Aviv, dove ebraicizzò il suo cognome in Netanyahu, il "dono di Dio". Mileikowsky aveva nove figli, il più giovane dei quali diverrà il padre di Netanyahu, Benzion. Anche lui precorse i tempi, andando a sostenere negli Stati Uniti la nascita di Israele durante la Shoah e portando a spalla la bara del guru della destra ebraica, il reietto Vladimir Jabotinsky (Ben-Gurion si oppose finché fu vivo al trasporto delle sue ceneri in Israele).
Bibi è stato segnato dall'influenza di questo padre austero e geniale. Come i Kennedy, i Netanyahu sono isolati, compiaciuti, un po' paranoici. Come i Kennedy, i Netanyahu nutrivano grandi sogni per il loro figlio primogenito, e quando Yoni, come il giovane Joe Kennedy Jr., cadde in combattimento, tutte le speranze furono riposte sul fratello più giovane. E come i Kennedy, la forza motrice della famiglia era un padre convinto di non essere mai stato sufficientemente riconosciuto e apprezzato (gli negarono la cattedra all'Università di Gerusalemme). Considerato uno dei massimi storici dell'Inquisizione, Benzion nel 1962 scioccò amici e parenti esiliando se stesso e la propria famiglia negli Stati Uniti, dove accettò una cattedra al Dropsie College. E anche quando Bibi rimase ferito in una operazione dell' esercito israeliano, i genitori non rientrarono dall'America per far visita al figlio in ospedale. Benzion stava quasi per perdersi anche il matrimonio di Yoni, troppo preso a correggere le bozze del suo capolavoro sull'Inquisizione.
Il padre, scomparso nel 2012, era una sorta di leggenda per i suoi studi, per la sua visione laica e oltranzista della storia ebraica ("gli ebrei e gli arabi sono come due capre che si fronteggiano su un ponte stretto. Una deve saltare nel fiume, ma rischia di morire. La capra più forte farà saltare quella più debole e credo che la potenza ebraica prevarrà"), per la sua forza di carattere, quasi una indifferenza stoica, con la quale liquidava i nemici ("la stampa bolscevica" diceva). Bibi è cresciuto con questa rabbia, dentro a questa epopea di esclusione e di elezione.
Netanyahu, che dal padre ha ereditato soprattutto una visione ideologica e ciclica dell'Olocausto (in questa luce legge l'atomica di Teheran), pianse quando, all'età di quattordici anni, venne improvvisamente costretto a lasciare Israele per andare a vivere in un posto chiamato Pennsylvania. Ma Bibi divenne uno studente brillante alla Cheltenham High School di Wyncote, un sobborgo di Philadelphia, dove gli amici lo chiamavano "Ben". Quella stessa solitudine lo avrebbe spinto a entrare nella Sayeret Matkal, la
Bibi è stato un valoroso soldato, sull'aereo Sabena dirottato nel 1972, all'aeroporto internazionale di Beirut dove fece saltare in aria tredici aerei e in una famosa incursione nel Canale di Suez, dove soltanto gli sforzi di due commilito- ni salvarono Bibi dall'annegamento sotto il peso dell'attrezzatura.
leggendaria unità d'élite d'Israele dove Bibi servirà sotto il comando di Ehud Barak, suo futuro rivale in politica nel 1999 e poi stretto alleato di governo fino al 2013. Bibi è stato un valoroso soldato, sull'aereo Sabena dirottato nel 1972, all'aeroporto internazionale di Beirut dove fece saltare in aria tredici aerei e in una famosa incursione nel Canale di Suez, dove soltanto gli sforzi di due commilitoni salvarono Bibi dall'annegamento sotto il peso dell'attrezzatura. Nel raid della Sabena, Bibi e altri undici si travestirono da tecnici con le tute bianche dell'aeroporto. Sgonfiarono le ruote dell'aereo, finsero di rispondere alle richieste dei terroristi, salirono sulle ali, assaltarono le porte e in novanta secondi di fuoco uccisero i dirottatori. Bibi afferrò una terrorista per i capelli togliendole di mano una granata.
Assieme al padre, l'altra figura che ha determinato la vita e la carriera di Netanyahu è stato il fratello Yoni, icona nazionale, eroe di guerra e unica vittima del leggendario raid di Entebbe. Yoni e Bibi non erano uguali: il fratello maggiore era più introverso, più complesso, più filosofico, più cupo, più romantico, ugualmente dedito al padre ma più indipendente di lui. Le lettere di Yoni a Bibi sono piene di amore e di incoraggiamento. "Tu sei l'unico vero amico che abbia mai avuto", scrisse il fratello a Bibi nel 1967. E tre anni dopo: "Ti amo più di chiunque altro al mondo". Due settimane prima della morte di Yoni, Bibi aveva iniziato un lavoro presso il Boston Consulting Group, dove lavorò assieme a Ira Magaziner, futuro guru della sanità del presidente Clinton.
Se Yoni non fosse stato ucciso nell'aeroporto in Uganda, Bibi non sarebbe mai sceso in politica. Si sarebbe dedicato al business o all'accademia. La morte di Yoni è decisiva per comprendere la solitudine di Netanyahu, che perse una delle poche persone che potevano davvero capirlo, amarlo. Sulla scia di quella tragedia familiare, Netanyahu chiese un periodo di aspettativa per creare quello che diverrà l'Istituto Jonathan, progettato per combattere il terrorismo internazionale. Netanyahu torna in Israele, trova lavoro alle Rim Industries, una società di mobili. Nel maggio del 1981, dopo già un matrimonio fallito con Micky, sposa Fleur (ebrea solo da parte di padre, si sarebbe dovuta convertire). L'anno successivo decolla la sua carriera politica, quando l'ambasciatore israeliano a Washington, Moshe Arens, un vecchio amico di Benzion, gli chiese di essere il suo vice.
Bibi ottiene il posto di Ares e nel corso dei quattro anni successivi avrebbe contribuito a esporre il passato nazista dell' ex generale dell'Onu Kurt Waldheim, ad abrogare la famigerata risoluzione "sionismo è razzismo" e a perorare la causa dell'emigrazione degli ebrei sovietici. Fleur Netanyahu accompagnò il marito in Israele, ma le tensioni nel loro matrimonio crebbero in proporzione alla fama di Bibi, e nel 1988 ci fu il divorzio. La causa non sarebbe stata l'infedeltà, come si è ampiamente sospettato, ma la trascuratezza, fisica e intellettuale. Fleur sarebbe andata a lavorare assieme a Ronald Lauder, uno dei sostenitori di Netanyahu a New York.
Armato di denaro in gran parte proveniente dall'estero e dall'aura di successo, Netanyahu assunse il controllo del Likud da outsider della politica, scavalcando i "principi del partito" Dan Meridor, Ehud Olmert e Zeeb Begin. Incontrò la sua attuale moglie, Sara, nata in un piccolo paese vicino a Haifa da una famiglia religiosa, anche nota come "Airess" per via del mestiere che faceva, la hostess. Sara rimase incinta, e alcuni mesi dopo si sposarono. Netanyahu avrebbe poi avuto una relazione con una assistente, Ruth Bar. Sara lo scopre e in poche ore Netanyahu va in prima serata tv annunciando il tradimento e chiedendo scusa alla moglie.
Gli israeliani non lo interpretarono come un segno di fermezza, ma di debolezza. A nessuno era mai interessato che Ben-Gurion, Moshe Dayan e Golda Meir avessero flirt extraconiugali. E alla maggior parte degli ebrei religiosi sono sempre interessati più i compromessi territoriali che quelli coniugali. In Bibi c'era dunque qualcosa di americano, di infantile, di non abbastanza maturo o padrone di sé. Ma il "Bibigate" non fa deragliare il colosso Netanyahu. E da allora, Sara è stata sempre al fianco del marito, causandogli non pochi guai, visto che fra tate e parrucchieri e il costo dei gelati ogni giorno si raccontano storie da basso impero a casa Netanyahu, dalle scarpe lanciate contro i domestici ai ministri che si alzano per far sedere la consorte. Non potendolo attaccare sul piano politico, se non per il suo innato immobilismo, Bibi è demonizzato attraverso la moglie, dipinta come una sorta di Lady Macbeth.
Sospettoso e solitario, completamente privo di ironia (Larry King una volta disse: "In una scala da uno a dieci, come ospite Bibi è otto. Se avesse un po' di umorismo arriverebbe a dieci"), Netanyahu è da vent'anni psicoanalizzato da ogni giornalista e intellettuale israeliano. Le sue intuizioni e analisi sul medio
Chiedete agli israeliani cosa ne pensano di Bibi e vi daranno due tipi di risposte: chi lo reputa un mostro che ha impedito a Israele di separarsi dai territori biblici della Giudea e della Samaria e chi lo considera il guardiano indispensabile di Israele in un medio oriente che cade a pezzi.
oriente, dalla falsa volontà di pace dei palestinesi alla minaccia della bomba atomica iraniana, si sono rivelate tutte giuste, profeti che persino. Chiedete agli israeliani cosa ne pensano di Bibi e vi daranno due tipi di risposte: chi lo reputa un mostro che ha impedito a Israele di separarsi dai territori biblici della Giudea e della Samaria e chi lo considera il guardiano indispensabile di Israele in un medio oriente che cade a pezzi. Come spiegare dunque la popolarità e il successo di Bibi? Lo ha scritto Tom Segev, un editorialista di Haaretz. Agli israeliani non interessa mai l'onestà: "Vogliono sapere invece quanto vale lo shekel (la loro moneta, ndr), e che non ci siano bombe sotto la loro auto".
In questo Bibi è stato un gigante. Ha liberalizzato e arricchito l'economia israeliana e non a caso gli è stato affibbiato l'appellativo di "Mr. Security" (pensiamo ai kamikaze che ogni giorno esplodevano in Israele sotto i governi di Rabin, Peres o Barak). Oggi Bibi è molto solo. La Casa Bianca di Obama non può vederlo, l'opinione pubblica internazionale lo considera un gangster, il suo stesso establishment di sicurezza lo contraddice sempre, il suo partito è in agitazione.
Bellicoso a parole, Bibi si è sempre dimostrato un leader difensivo, anche in guerra. Mai un azzardo. Per lui, il costo di un eventuale errore per Israele è sempre superiore agli eventuali benefici. Memore del fallito tentativo di assassinio del capo di Hamas, Khaled Meshaal, nelle strade di Amman. L'operazione, ordinata da Netanyahu, fu un fiasco. Da allora, Bibi detesta assumersi dei rischi, compreso il sempre minacciato strike preventivo alle installazioni atomiche iraniane. La sua visione evolve. in continuazione, si adatta. Il grande lascito di Netanyahu è quello di essere riuscito a impiantare nella testa degli israeliani l'idea che il conflitto di cui sono vittime e protagonisti da cento anni non se ne andrà mai via, che devono imparare a gestirlo e non a risolverlo, che devono essere forti, che alla fine prevarranno con il "muro di ferro".
Gli israeliani finora si sono sempre fidati di questa faccia di bronzo dalle tante debolezze ma che, a differenza di altri leader israeliani, più spregiudicati e più naìf, non ha mai messo in pericolo il popolo ebraico. Vedremo se si fideranno anche questa volta. Bibi si ripresenta loro con lo stesso programma di quando impugnava l'M16 e indossava gli scarponi delle teste di cuoio: ogni concessione è una minaccia.
Niente sogni. E' il medio oriente.
(Il Foglio, 25 febbraio 2015)
Vantaggi economici e ingresso in società, agli arabo-isreaeliani piace il servizio civile
Lo stipendio garantito è di 200 dollari al mese, molte ragazze lo scelgono per uscire di casa
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Fra gli arabi-israeliani cade il tabù del servizio civile per lo Stato Ebraico. Nel 2014 in oltre 4000 si sono iscritti al "servizio civile" che in Israele è alternativo al servizio militare. Si tratta di un aumento del 30 per cento rispetto all'anno precedente. Finora molti clan e famiglie arabo-israeliane impedivano ai giovani di parteciparvi ma i numeri suggeriscono una trasformazione in corso. La causa della svolta è soprattutto economica: il servizio civile garantisce, a chi lo sceglie, vantaggi finanziari simili a quelli garantiti ai soldati.
Si spiegano così storie come quella di Majd Abu Diab che da tre mesi svolge le sue mansioni di "sostegno civile" all'ospedale Hadassa di Gerusalemme, aiutando a muoversi molte pazienti anziane di origine araba. Majd è un arabo di Gerusalemme, con cittadinanza giordana, e come lui sono un numero crescente i giovani arabi, drusi e beduini che si avvalgono della possibilità di vestire la divisa - seppur per mansioni civili - andando a lavorare per conto dello Stato Ebraico in centri comunitari, scuole ed ospedali che in gran parte si trovano in aree popolate in maggioranza proprio da arabi.
Lo stipendio garantito è di 200 dollari al mese ma ciò che conta di più è «la possibilità di entrare nella società israeliana» come afferma Sammy Smooha, sociologo dell'Università di Haifa, secondo il quale «sono soprattutto le ragazze araboisraeliane ad essere attirate da queste opzione perché per loro l'alternativa è restare chiuse in casa in attesa del fidanzato che saranno obbligate a sposare». Per gli arabi in Israele l'esercito non è un obbligo ma un'opportunità che possono sfruttare, se lo desiderano. L'aumento delle iscrizioni è dovuta, secondo alcuni studi, all'affermarsi di un pragmatismo assai marcato nelle nuove generazioni.
(La Stampa, 25 febbraio 2015)
Risolvere il mistero di una malattia rara grazie al crowdfunding su internet
I ricercatori dell'Università di Tel Aviv hanno identificato con successo una nuova mutazione genetica che si troverebbe alla fonte di una malattia rara che ha colpito una bambina di tre anni, finanziando la loro ricerca mediante una piattaforma di crowdfunding su internet.
Il Dott. Noam Shomron della Facoltà di Medicina dell'Università di Tel Aviv e il dottorando Ofer Isakov, in collaborazione con le Dott.sse Dorit Lev e Esther Lishinsky del Wolfson Medical Centre, sono riusciti a scoprire una nuova mutazione genetica che provoca un ritardo mentale e gravi problemi di sviluppo nei bambini.
Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Genetics and Genomics. Le malattie rare, ovvero quelle che colpiscono meno di 200.000 persone in tutto il mondo, sono spesso diagnosticate in tenera età, circa il 30% dei bambini affetti non supera i 5 anni di età....
(SiliconWadi, 25 febbraio 2015)
La marijuana kosher dei rabbini di New York
di Andrea Marinelli
Un'azienda del nuovo settore della marijuana - in forte espansione negli Stati dove ormai è legale: Colorado, Oregon, Washington e da oggi anche Alaska - sta lavorando con i rabbini ultraortodossi della Orthodox Union di New York per realizzare prodotti commestibili, che ottengano la certificazione kosher: essendo una pianta, la marijuana non ha bisogno di certificazioni, ma nel caso vengano realizzati prodotti commestibili, allora bisogna stare attenti agli altri ingredienti.
«Sanno che molti malati ebrei nel mangiare seguono la leggi kosher», ha spiegato al New York Post, il rabbino Moshe Elefant, a capo del dipartimento della Orthodox Union che emette le certificazioni, che qualche settimana fa è stato avvicinato da un'azienda del Colorado che produce marijuana. «L'abbiamo trovato affascinante - ha continuato il rabbino - e crediamo che ci sia spazio anche per questo nel mondo delle certificazioni kosher».
A New York la marijuana è legale solo a scopo medico, e i rabbini locali hanno cominciato ad apprezzarne gli effetti benefici. L'uso ricreativo invece resta proibito, sia nello Stato che per la Orthodox Union.
Intanto, però, l'impegno per la legalizzazione della marijuana è condiviso e finanziato da personalità di spicco della comunità ebraica in tutti gli Stati Uniti, a cominciare da George Soros.
(Corriere della Sera, 24 febbraio 2015)
Rivolta dei tassisti in Cisgiordania: "Non accettiamo la riduzione delle tariffe"
La scelta del governo di Abu Mazen di abbassare il costo della corsa da 5,5 Shekel a 4 giudicata "inaccettabile". L'Autorità palestinese: "decisione a favore dei consumatori".
di Maurizio Molinari
RAMALLAH - Rivolta dei tassisti in Cisgiordania. La protesta è partita lunedì da Tulkarem, allargandosi a macchia d'olio nelle altre città dell'Autorità nazionale palestinese: Ramallah, Jenin, Gerico, Nablus, Hebron. A spiegare quanto sta avvenendo è Muawiya Mousa, il capo dei tassisti di Tulkarem: «Non possiamo accettare la riduzione delle tariffe».
È stato il governo di Abu Mazen a decidere di ridurre il costo della singola corsa da 5,5 Shekel a 4 con una diminuzione giudicata "inaccettabile" dai tassisti. Per l'Autorità palestinese si è trattato di una scelta "a favore dei consumatori" dovuta alla riduzione del costo della benzina, ma i tassisti parlano di "insostenibile peso economico" facendo sapere di essere pronti a "scioperare a tempo indeterminato".
Si tratta di una forma di protesta che solleva molti malumori nel pubblico, a causa del fatto che i palestinesi usano soprattutto i taxi, pubblici e collettivi, per spostarsi fra le città della Cisgiordania.
(La Stampa, 24 febbraio 2015)
L'insensata bontà dei Giusti: una giornata per non dimenticare
6 Marzo, giornata europea dei Giusti
di Silvia Costantini
Giunge al suo terzo anno di vita la Giornata europea dei Giusti, istituita per commemorare coloro che si sono opposti personalmente a crimini contro l'umanità e ai totalitarismi.
L'iniziativa nata su proposta della Fondazione Gariwo, e proclamata dal Parlamento Europeo, avrà quest'anno il tema: "Ieri e oggi, i Giusti sempre necessari".
"Lanciamo un appello a tutte le città d'Europa e d'Italia affinché, dopo gli attacchi terroristici che hanno colpito ebrei, arabi, cristiani, da Parigi a Copenaghen, dall'Iraq alla Libia, alla Siria, siano ricordate tutte quelle figure morali, come il francese musulmano Lassana Bathily, che con coraggio cercano di salvare vite e di difendere la dignità umana di fronte agli atti barbari e criminali degli estremisti jihadisti", ha spiegato Gabriele Nissim, presidente della Gariwo.
"La sconfitta di questo nuovo male estremo, che sfida ancora una volta la nostra condizione umana" prosegue Nissim, "non passa attraverso la creazione di muri tra civiltà, ma attraverso la valorizzazione di tutti gli esempi di resistenza nel mondo arabo e musulmano. Non dobbiamo lasciare soli questi nuovi uomini giusti".
La giornata europea dedicata ai Giusti, verrà celebrata sia in Italia che in Europa, attraverso molteplici iniziative:
MILANO
Il 3 marzo a Palazzo Cusani si apriranno le celebrazioni milanesi con il convegno "La Giornata europea dei Giusti - La memoria del Bene e l'educazione alla Responsabilità", organizzato da Gariwo con il Corpo Consolare di Milano e della Lombardia e moderato dall'editorialista del Corriere della Sera Antonio Ferrari. Saranno presenti il Ministro per gli Affari Esteri Paolo Gentiloni, il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e Gabriele Nissim.
Il 6 marzo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Monte Stella, un albero e un cippo, con le iscrizioni di diversi Giusti, saranno dedicati a Razan Zaitouneh avvocatessa siriana attivista dei diritti civili e all'ONU, scomparsa nel 2013 vicino a Damasco rapita da gruppi estremisti jihadisti, e a Ghayath Mattar, giovane pacifista arrestato e ucciso in Siria nel 2011, offriva fiori ai soldati in segno di dialogo e si batteva per i diritti umani e la libertà.
Nell'evento ci sarà la testimonianza di Rana Zaitouneh, che con Gariwo lancerà l'appello affinché l'opinione pubblica si mobiliti per chiedere la liberazione della sorella Razan, oggi nelle mani di un gruppo terrorista jihadista.
ASSISI
Il 6 marzo sarà inaugurato il "Giardino dei Giusti" ad Assisi e a Orzinuovi (BS). Cerimonie in onore dei Giusti avranno luogo anche a Firenze, Roma, Bitonto, Rimini, Bellaria-Igea Marina, Seveso e in altre città italiane.
PRAGA
11 marzo - Al Goethe Institut, Gariwo-Repubblica Ceca organizza un convegno dedicato al centesimo anniversario del genocidi armeno, e al Giusto Armin T. Wegner con Tigran Seiranian, Ambasciatore armeno in Repubblica Ceca, Milada Kilianova, operatrice di pace della NGO ceca People in Need e Jan Machacek, della Biblioteca Vaclav Havel.
VARSAVIA
6 marzo, ore 19.00 - Festa dei Giusti al Museo di Storia degli Ebrei polacchi, il Polin ("Poloinia" in ebraico), che sorge nel cuore dell'ex ghetto della capitale e racconta la storia della presenza millenaria degli ebrei in Polonia.
DÜSSELDORF
6 marzo, ore 14 - Al Parlamento del Land del Nord Reno-Westfalia avrà luogo la cerimonia musical-letteraria in onore di Armin T. Wegner, Giusto per gli ebrei e per gli armeni che tentò invano di denunciare il Metz Yeghern e la persecuzione degli ebrei in Germania, e Dogan Akhanli, che si è battuto per la verità sull'omicidio del giornalista Hrant Dink in Turchia. L'iniziativa è promossa dalla Società A. T. Wegner.
(aleteia, 24 febbraio 2015)
Francia, scintille tra ebrei e musulmani
PARIGI - Scintille in Francia tra il presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche (Crif), Roger Cukierman, e il rettore della Grande Moschea di Parigi nonché presidente dei musulmani di Francia (Cfcm), Dalil Boubakeur. Al termine del vertice Francia-Italia che lo ha visto impegnato per buona parte della giornata all'Eliseo, il presidente francese, François Hollande, ha ricevuto i due massimi esponenti delle comunità ebraica e musulmana di Francia per tentare una riconciliazione.
Le polemiche tra i due sono sorte ieri, quando Cukierman ha detto che il Front National "è un partito per il quale non voterei mai, ma è un partito che oggi non commette violenze. Bisogna dire le cose come stanno - ha aggiunto - oggi tutte le violenze sono commesse da giovani musulmani. Ma si tratta di una piccola minoranza della comunità musulmana e i musulmani sono le prime vittime di questo fenomeno". Una dichiarazione che ha profondamente irritato i musulmani di Francia. Oggi Hollande ha tentato di riconciliare i due.
Al termine dell'incontro all'Eliseo, Cukierman e Boubakeur si sono dati una simbolica stretta di mano davanti ai fotografi, pronunciando una serie di dichiarazioni in cui hanno parlato di conciliazione e fraternità. Ieri, dopo le dichiarazioni dell'esponente ebraico, il Cfcm, presieduto da Boubakeur, aveva deciso di boicottare la cena annuale del Crif.
(Corriere del Ticino, 24 febbraio 2015)
Centodieci tavolette cuneiformi dell'esilio degli ebrei a Babilonia
Centodieci tavolette d'argilla, incise in lingua tardo accadica e risalenti all'antica Babilonia, svelerebbero aspetti della vita quotidiana degli ebrei durante l'esilio babilonese, avvenuto circa 2.500 anni fa.
La collezione, ora in mostra a Gerusalemme, consiste principalmente in certificati amministrativi, contratti di vendita e indirizzi, incisi in caratteri cuneiformi accadici nell'argilla, cotta poi nei forni.
Le tavolette, scoperte in Iraq in circostanze ancora non ben chiarite, descrivono una città chiamata Al-Yahudu, il «villaggio degli ebrei», vicino al fiume Chebar, menzionato nella Bibbia nel libro di Ezechiele (1:1) e documentano, inoltre, nomi ebraici come Gedalyahu, Hanan, Dana, Shaltiel e un certo Nethanyahu, magari antenato dell'attuale primo ministro israeliano.
Testimoniano, infine, del ritorno a Gerusalemme, così come scritto da Neemia (6:15-16), attraverso l'attribuzione di nomi come Yashuv Zadik, «i giusti ritorneranno».
Grazie al costume babilonese di datare ogni documento, e seguendo la cronologia dei re di Babilonia, gli archeologi hanno potuto datare la collezione intorno al 572-477 a. C.
La più antica delle tavolette risalirebbe a circa quindici anni dopo la prima distruzione del tempio a opera di Nabucodonosor II, il re caldeo che deportò gli ebrei a Babilonia.
L'ultima, invece, è databile intorno a 60 anni dopo il ritorno degli esuli a Sion, che avvenne nel 538 a. C. grazie all'intervento di Ciro il Grande che sconfisse Nabucodonosor in battaglia e permise agli ebrei di ritornare in patria.
Quello che, ancora, non si sa è se Al Yahudu fosse un quartiere di Babilonia oppure un insediamento a sé stante, né si sa se l'intera comunità ebraica risiedesse lì o se fosse stata ulteriormente separata: «Già il nome ,"Al Yahudu", ci fa capire molto di come sono stati accolti a Babilonia i deportati: inoltre la presenza di nomi teofori (quelli con il suffisso yahu, ovvero con il nome di Dio all'interno) suggerisce come fosse forte la base giudaica all'interno dell'insediamento.
Le tavolette testimoniano come gli esuli giudei fossero in contatto con altre comunità di deportati, come quella siriana.
La scoperta ci dà innanzitutto una conferma storica di quello che già eravamo a conoscenza ma di cui non avevamo dati certi», afferma il professore Lorenzo Verderame, ricercatore in assiriologia dell'Università La Sapienza di Roma.
Il professor Wayne Horowitz, uno degli archeologi che ha studiato le tavolette, afferma come questa sia un ritrovamento archeologico di assoluta rilevanza, paragonabile alla scoperta dei papiri del mar Morto.
«Per le persone di fede ebraica lo è sicuramente», prosegue Verderame, «dal punto di vista accademico i papiri del mar Morto testimoniano la presenza di una comunità che non conoscevamo, quella degli Esseni, con testi liturgici che ci offrono l'idea di una collettività ben fondata.
Nonostante sia comunque un passo in avanti per lo studio della città di Babilonia, scavata solo in parte a causa di una falda acquifera di superficie, queste tavolette non sono una vera e propria apoteosi, quanto più una sintesi di ciò che già conoscevamo».
Si sa poco sul ritrovamento delle tavolette: gli archeologi ritengono che siano state dissotterrate negli anni Settanta nel sud dell'Iraq, probabilmente in un sito clandestino, e poi vendute nei mercati antiquari internazionali.
L'Iraq ha una legislazione severissima riguardo il trafugamento di materiale archeologico, risalente ai primi anni Venti del secolo scorso.
La recente sparizione di testi ebraici dal museo di Bagdad, avvenuta durante l'ultima guerra del Golfo, ha causato una forte battaglia diplomatica.
Dopo essere state sepolte per decine di secoli, negli ultimi 50 anni le tavolette hanno girato il mondo: dall'Iraq all'Inghilterra, alla Cornell University fino ad arrivare al collezionista David Sofer , il quale ha comprato 110 tavolette, quelle riguardanti principalmente la comunità ebraica, che ha poi prestato al Bible Lands Museum, dove sono ora in mostra nell'esposizione By the rivers of Babylon.
(informazione.it, 24 febbraio 2015)
Hollande lancia l'allarme: "Antisemitismo in aumento, proteggeremo gli ebrei"
Il presidente francese ha partecipato all'annuale cena della principale organizzazione ebraica nazionale.
di Angela Rossi
"Gli ebrei sono a casa loro in Francia, sono gli antisemiti che non hanno posto nella Repubblica", lo ha dichiarato il presidente della Repubblica Francese Francois Hollande, durante un discorso che ha tenuto ieri sera alla cena annuale della principale organizzazione ebraica nazionale, la Crif (Consglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia). Inoltre l'inquilino dell'Eliseo ha annunciato che la Francia agirà con leggi più severe "contro il razzismo, l'antisemitismo e l'omofobia" e che un disegno di legge sarà presentato il prossimo 18 marzo.
La proposta della nuova norma verrà presentata dal primo ministro Manel Valls e sarà "tanto completo quanto concreto", inoltre il presidente francese ha chiesto l'intervento delle "maggiori potenze di internet", che se non "vogliono essere complici del male, devono partecipare a questa regolazione". Alla serata ha parteciapato anche Roger Cukierman, presidente del Cirf, il quale durante il suo discorso ha ricordato le vittime di Charlie Hebdo, l'attacco al supermercato kosher e a Copenaghen. Non ha risparmiato una stoccatina a Marine Le Pen, definendo il Front National "un partito che non voterei mai, non è né frequentabile né ineccepibile. Noi continueremo a non invitare la sig.ra Le Pen a questa cena e sconsiglieremo di votare il Front National".
All'annuale cena non ha però partecipato nessun membro del Consiglio francese del culto mussulmano (Cfcm) e del suo presidente Dalil Boubakeur, rettore della grande moschea di Parigi, il quale non era mai mancato ad un incontro ecumenico religioso e politico. Il discorso del presidente Hollande si colloca in un clima di preoccupazione in cui vivono molti ebrei francesi a causa del crescente antisemitismo, soprattutto da parte dei giovani musulmani.
(In Terris, 24 febbraio 2015)
Antisemitismo: corso di autodifesa per rabbini
Rabbini da tutta l'Europa si sono riuniti a Praga per un corso di autodifesa e primo soccorso promossa dal Centro Rabbinico Europeo e da un' organizzazione ebraica radicale, l'Associazione Ebraica Europea, per fare fronte all'ondata di antisemitismo e aggressioni contro gli ebrei. Nella prima seduta, si sono apprese le tecniche per sopravvivere alle coltellate. Secondo il promotore, rabbino Menachem Margolin, occorre far fronte alla "carente" tutela degli ebrei imputata ai governi europei.
(ANSA, 24 febbraio 2015)
«Antisemitismo di ieri e di oggi, unico antidoto è la conoscenza»
Purtroppo, anche quello non sempre basta
Paolo Mieli conclude oggi al Petruzzellì il «Mese della memoria» con una lezione sulle nuove forme eli intolleranza e di totalitarismo.
di Michele De Feudis
Paolo Mieli
Educare alla cultura contro le discriminazioni per preparare le nuove generazioni contro tutti i totalitarismi, compresi i nuovi all'orizzonte: è questa la proiezione volta al futuro indicata da Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, sulla finalità del Giorno della Memoria. «Mentre per il passato - ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno l'autore de I conti con la storia (Rizzoli) - dobbiamo studiare la Shoah nella sua specificità di genocidio diverso dagli altri, nel presente è importante approfondire ogni tipo di discriminazione, dimostrando l'acquisizione di una sensibilità che unisce, non divide, e ci preserva dal ripetersi delle tragedie dell'uomo».
Lo storico milanese terrà oggi, alle 17 nel foyer del teatro Petruzzelli di Bari, una lectio magistralis dal titolo «L'antisemitismo di ieri e di oggi», presentata e introdotta da Silvia Godelli, assessora alla Cultura della Regione Puglia, nell'ambito della settima edizione del Mese della Memoria.
Per Mieli è essenziale che «gli storici si impegnino a portare sempre più elementi da mettere a disposizione del pubblico più ampio, affinché Shoah e antisemitismo siano conosciuti ancora più a fondo» e ha espresso riserve sull'efficacia di contrastare il negazionismo con leggi ad hoc. «Per combattere questo fenomeno non bisogna portare alla sbarra personaggi suggestivi che possono recuperare nuovi adepti - ha analizzato - ma ci vuole conoscenza, conoscenza e conoscenza, un investimento autentico sulla cultura».
E sul Giorno della Memoria, ha specificato che «ha funzionato molto bene in Italia. Per questa ricorrenza, anche pezzi dell'informazione che non si sarebbero occupati del tema, sono tenuti a occuparsene: la televisione su tutti. E' diventata una occasione per fermarsi a riflettere, come il convegno a cui partecipo oggi a Bari e che si inserisce nel contesto di questa attivazione della memoria». Poi ampliando la riflessione ha ricordato che «la memoria non deve essere ricoltivata solo da storici appassionati di un tema o da chi ha subito un oltraggio ma deve essere diffusa. Vanno studiati, approfonditi e riproposti anche delitti diversi, come il genocidio armeno, di cui quest'anno cade il centenario. E gli stessi ebrei non sono insensibili all'allargamento del campo degli studi contro le uccisioni di massa degli altri popoli».
Nella descrizione dell'antisemitismo e dei nuovi razzismi l'utilizzo degli schemi destra-sinistra, per Mieli «non è utile. Per anni ci siamo cullati sul fatto che l'antisemitismo appartenesse alla destra. Ma dalla "Guerra dei sei giorni" è scaturita una forma di antisemitismo legato a cause del mondo islamico che non può essere definito di destra, ma è vero antisemitismo: non contro militari o rappresentanti di stato israeliani, ma contro sinagoghe, scuole ebraiche in Medio Oriente e in tutto il mondo».
E se gli schematismi sono spesso fuorvianti, Mieli ha ricordato la testimonianza di uno dei più raffinati intellettuali postfascisti italiani, Giano Accame: «Aveva aderito alla Repubblica sociale ma mi stupì per la sensibilità su Israele e antisemitismo. Veniva da uno schieramento opposto al mio - io allora provenivo dalla sinistra extraparlamentare - e mi fece comprendere che certe dicotomie non erano più sufficienti».
«La filmografia ha svolto un importante e lodevole ruolo nella lotta all'antisemitismo - ha affermato ancora lo storico, allievo di Rosario Romeo e Renzo De Felice - e a me è piaciuta la pellicola Hannah Arendt, diretta da Margarethe von Trotta, rispetto ai film di Roberto Benigni o Quentin Tarantino: hanno un tono ironico che non sempre mi convince». Mieli infine ha indicato un ulteriore campo di indagine: «C'è un grande favore nello studio della Shoah, nel ricordarla, ma non si registra uguale partecipazione nei confronti di ebrei che subiscono angherie o vengono uccisi oggi. Come nel caso, raccontato da Angela Nocioni su Il Foglio, dei cartelli offensivi esposti in Patagonia davanti ad un albergo che ospitava turisti israeliani. Per questi avvenimenti lo sdegno è minore rispetto a quello che si manifesta per i fatti tragici avvenuti settant'anni fa. Dovremmo interrogarci sulle ragioni».
(Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2015)
L'ebraismo al Sud riparte dalla sinagoga ritrovata di Trani
Restaurato l'antico tempio risalente al XIII secolo. "In questo posto la storia di un popolo in cammino". Fra i casi più significativi l'ashram di Cisternino oggi meta dell'induismo internazionale moderno. Restituita dal 2005 al culto la chiesa medievale sarà riaperta i13 marzo. E nella regione non mancano altri luoghi di fede minori.
La Sinagoga Scolanova di Trani
GENESI 12:9: «Abramo camminava e viaggiava verso Sud». E, «lasciando Ur-Kasdim per Canaan, ovunque andasse costruiva un altare e proclamava il nome del Dio unico» spiegano i curatori di Lech Lechà, la terza settimana di arte, cultura e letteratura ebraica in programma a Trani e Barletta dal 12 al 17 marzo.L'idea di un Sud che si riappropria della sua Sinagoga è, dunque, il gesto fortemente simbolico di questa edizione e si compirà ufficialmente il 3 marzo a Trani. La Sinagoga Scolanova sarà inaugurata dopo i lavori di restauro cominciati nel settembre del 2014. Interventi che riguardano soprattutto l'Interno dell'edificio e che sono stati coordinati dalla Comunità ebraica di N apoli, cui fa capo la Puglia in accordo con la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici. Ma la Sinagoga non è il solo tempio di altri culti presente in Puglia, storicamente crocevia fra Oriente e Occidente: negli ultimi anni sono state aperti luoghi di culto islamici, un cimitero musulmano a Gioia delCollementreunarealtàasuo modo storica è quella dell' ashram di Cisternino.
Mentre nel cuore della sinagoga di Trani, principale punto di riferimento per il culto ebraico in Puglia, sta il senso di secoli di storia. Innanzitutto il XIII quello della sua edificazione nell'antico quartiere ebraico che ancora oggi si percorre inseguiti dal vento, si è a pochi passi dal mare e l'aria è salmastra. Gli ebrei vengono cacciati nel Meridione d'Italia nel 1541 «momento in cui viene a mancare l'ebreo come interlocutore ne dialogo tra le fedi e le culture». La sorte della sinagoga è sorella di quella di altre presenti in Puglia, diventa una chiesa cristiana intitolata a Santa Maria di Scolanova. E devono passare quasi altri cinquecento anni prima di ritrovare il suo uso originario. Nel 2005, precisamente, quando viene restituita a quella comunità ebraica che, in realtà, aveva qui un'altra sinagoga quella di Scola Grande, edificata nel 1246, riaperta nel 2009 come sede della sezione ebraica del Museo diocesano dell'Arcidiocesi di Trani- Barletta- Bisceglie. E ce n'erano altre due, distrutte nel Settecento, a dire di una città centrale per la comunità ebraica e che questo ruolo si è ripresa diventando anche cuore pulsante della custodia del patrimonio culturale. E come dimostrano i giorni dell' ebraismo di "Lech Lechà" che quest'anno coincide con la festa ebraica di Purìm.
Moltissimi gli eventi che abbracceranno la cultura ebraica nelle sue diverse manifestazioni: convegni su ebraismo, storia ebraica e Israele, Fiera del libro ebraico e presentazioni di libri, lezioni rabbiniche, concerti, danze, cucina kasher, studio dei testi scritturali e lo Shabbath da celebrare proprio in piazzetta Scolanova da dove si accede alla Sinagoga. Il 7, in chiusura, ci sarà anche la Notte dell' ebraismo tranese. In città, saranno coinvolte anche altre location come l'auditorium San Luigi, il liceo De Sanctis, il ristorante Taverna Portanova dove avvicinarsi alla cucina kasher.
«Quando si parla di ebraismo - spiegano i direttori artistici Cosimo Yehudà Pagliara, Francesco Lotoro e Ottavio Di Grazia - si intende quello che risiede nel coraggio degli ebrei che dopo 500 anni riaprirono la Sinagoga Scolanova di Trani ripristinandone culto e vita ebraica; la rinascita dell'ebraismo pugliese costituisce un'inesauribile fonte di arricchimento della cultura mediterranea ed è stata di stimolo alla rinascita dell'ebraismo in Calabria e Sicilia».
(la Repubblica, 24 febbraio 2015)
Israele inventa la cucina del futuro ispirata a Star Trek
Accogliere il forno Goji è come iniziare a giocare a Monopoly ed avere già Parco della Vittoria e Viale dei Giardini: si è già due passi avanti e i nostri desideri sono soddisfatti! Il nuovo forno a microonde Goji ci proietta direttamente al 24o secolo, nel mondo di Star Trek, come molto vicino al sintetizzatore di alimenti. Il Professor Shlomo Ben-Haim, fondatore e presidente di Goji Food Solutions, e il tuo team di specialisti hanno trovato la combinazione vincente. Originariamente mirato ai servizi sanitari, la tecnologia di trasferimento di energia sviluppata dalla società israeliana promette un risparmio di tempo considerevole, riduzione dei consumi energetici ed un piatto sano e completo pronto in pochi minuti....
(SiliconWadi, 24 febbraio 2015)
Bertinoro - Cittadinanza onoraria per il rabbino Luciano Meir Caro
Bertinoro - Piazza della Libertà
Bertinoro - La maestosa Rocca
Domenica si è svolto a Bertinoro il consiglio comunale per il conferimento della cittadinanza onoraria al rabbino Luciano Meir Caro. "Una città come Bertinoro conosciuta da sempre come "la città dell'Ospitalità" non poteva essere oggi più orgogliosa nel conferire il riconoscimento di Cittadino Onorario a una delle persone che più di tutte in questi anni ha rinsaldato l'antico legame che il nostro paese ha con il mondo e con le culture", afferma "Insieme Per Bertinoro" (Pd, Sel, Verdi e Psi).
"Culture che hanno permesso a Bertinoro di essere ricordata in tutto il mondo, come testimonia la vita e la diffusione del celebre commentatore della Mishna Ovadyah Yare da Bertinoro: proprio la cultura ebraica e il grande esempio che Obadiah detto "il Gran Bertinoro" ha saputo trasmettere con tanta volontà che oggi ci permettono di conferire con altrettanta volontà la cittadinanza onoraria al rabbino Luciano Meir Caro - continua -. Proprio grazie al contributo del Rav. Caro l'allestimento delle sale del nostro Museo Interreligioso, un gioiello unico e primo museo in Italia dedicato alle principali religioni monoteiste, è potuto essere così accurato così come meticolosa è stata la disponibilità dimostrata in tante situazioni in questi anni che lo hanno visto agire in prima persona a titolo assolutamente gratuito. Noi Consiglieri del gruppo Insieme Per Bertinoro, siamo quindi lieti di onorare il suo impegno che contribuisce a rendere alto il prestigio bertinorese e italiano a vantaggio dell'intero patrimonio culturale nazionale".
"In un mondo che oggi risente del fanatismo di alcuni pseudo-religiosi che vogliono trasformare il valore del dialogo religioso in un falso valore di scontro religioso e culturale, noi siamo consapevoli che princìpi come la fraternità, l'ascolto, la solidarietà sono strutture portanti dell'uomo che vanno al di là di qualsiasi differenza interpretativa sul reciproco credo religioso e servono per condividere una più ampia possibilità di vivere una vita che non preveda la morte altrui come obiettivo di crescita personale - prosegue "Insieme Per Bertinoro -. La storia insegna che antisemitismo, guerre religiose non si sono mai avvicinate a nessun Dio ma hanno allontanato gli uomini da loro stessi facendoli somigliare più a bestie che a esseri intelligenti. E' un insegnamento da ricordare, una verità da mostrare e una promessa che da Bertinoro oggi è riconosciuta e celebrata a partire da questa Cittadinanza Onoraria, importante e speciale".
(ForlìToday, 23 febbraio 2015)
Sventati attentati suicidi Hamas
Una cellula di Hamas che progettava una serie di attacchi - fra cui attentati suicidi - è stata neutralizzata nelle settimane passate a Hebron, in Cisgiordania. Lo afferma il portavoce militare israeliano secondo cui complessivamente sono stati arrestati 11 membri, trovati in possesso di armi e di esplosivi. Con l'approssimarsi delle elezioni politiche (17 marzo) cresce, secondo i servizi di sicurezza israeliani, il pericolo di attentati palestinesi. Ieri a Gerusalemme il sindaco Nir Barkat ed una sua guardia del corpo hanno neutralizzato un giovane palestinese dopo che questi aveva pugnalato un ebreo ortodosso in una affollata strada della città.
(L'Unione Sarda, 23 febbraio 2015)
Catena umana con mille musulmani per difendere la sinagoga
OSLO - Ad Oslo in Norvegia, più di mille musulmani hanno formato uno scudo umano intorno alla sinagoga. Scopo di questo "anello della pace" era quello di offrire una protezione simbolica alla comunità ebraica. I partecipanti hanno scandito lo slogan "no all'antisemitismo, no all'Islamofobia".
L'iniziativa è stata organizzata una settimana dopo l'attentato avvenuto in Danimarca. Qui, Omar Abdel Hamid El-Hussein ha ucciso due persone in una sinagoga di Copenaghen durante un sulla libertà d'espressione nato con lo scopo di ricordare le vittime dell'attacco al giornale satirico Charlie Hebdo avvenuta a Parigi il 7 gennaio.
(blitz quotidiano, 23 febbraio 2015)
Gli ebrei di Francia premiano l'eroe musulmano del supermercato kosher
Omaggio a Lassana Bathily stasera alla cena con Hollande
PARIGI, 23 feb. - Dopo aver ottenuto la cittadinanza onoraria francese, Lassana Bathily - il ragazzo di religione musulmana che ha contribuito a proteggere numerosi ostaggi ebrei durante l'assalto jihadista all'Hyper Cacher di Parigi - verrà premiato questa sera dal consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif).
"Lassana ha mostrato che tutti uniti possiamo battere il terrorismo", ha detto a radio Europe 1 il presidente del Crif, Roger Cukierman, riferendosi al ragazzo di origini maliane ormai noto come l'eroe dell'Hyper Cacher, il supermercato di Porte de Vincennes, teatro della strage perpetrata il 9 gennaio scorso da Amedy Coulibaly.
Circa settecento invitati sono attesi questa sera alla cena annuale del Crif, un appuntamento tradizionale a cui partecipano anche esponenti di primo piano della maggioranza e dell'opposizione, tra cui il presidente François Hollande e il premier Manuel Valls.
Lassana, 24 anni, che si definisce "musulmano praticante", arrivato in Francia come immigrato irregolare nel 2006, aveva ottenuto il permesso di soggiorno nel 2011 dopo essersi diplomato e aver sempre lavorato. Aveva presentato una richiesta per la cittadinanza francese nel luglio 2014. La procedura di naturalizzazione è stata però accelerata e "trattata con il rispetto dovuto al suo eroismo". Lo scorso 20 gennaio, nel corso di una cerimonia solenne con Manuel Valls e il ministero dell'Interno Bernard Cazeneuve, Lassana ha ufficialmente ottenuto la cittadinanza francese. Mentre su internet c'è chi chiede per lui la Legion d'Onore
(ANSAmed, 23 febbraio 2015)
Cholent e birra, apre a Gerusalemme il primo bar per ultraortodossi
Il locale evoca le osterie degli shtetl nell'Europa dell'Est e propone i cibi della tradizione ashkenazita.
di Maurizio Molinari
L'Haradi Bar di Guela è il primo aperto in Israele
GERUSALEMME - Si chiama «Kretshme», offre cholent e birra, si trova nel quartiere di Geula ed accoglie i clienti con musiche klezmer: è il primo «Haredi Bar» di Israele ovvero un ristorante immaginato e realizzato per andare incontro al pubblico dei «haredim», gli ultraortodossi.
La scommessa di puntare su questo di mercato si spiega con il fatto che si tratta di quasi il 20 per cento della popolazione di Israele che ha spesso difficoltà nell'andare a cena fuori perché il livello di «casherut» - rispetto delle norme alimentari ebraiche - è più alto di quanto viene generalmente offerto da ristoranti, bar e caffè. Inoltre si tratta di un pubblico che si trova più ad agio con l'yiddish - la lingua degli ebrei dell'Europa dell'Est - anziché l'ebraico - considerato un idioma sacro e dunque adoperato solo per gli studi - senza contare la predilezione per cibi come il cholent che vengono dalla tradizione culinaria ashkenazita.
Zissel Cohen, uno dei proprietari, ha così pensato di offrire tutto questo realizzando «Kretshme» (luogo pubblico in yiddish) in un ambiente che evoca le osterie degli shtetl nell'Europa dell'Est, aprendo i battenti a Geula ovvero uno dei quartieri di Gerusalemme più popolato da «haredim».
Il servizio ai tavoli da parte di camerieri vestiti in abiti tradizionali inizia al calar della sera, dura fino a mezzanotte e finora ha registrato quasi sempre il tutto esaurito grazie a coppie sposate e studenti di yeshivot (scuole religiose). A distinguere il menù è anche l'ampia scelta offerta in termini di vodka ed altri liquori tipici dell'Europa dell'Est, sullo sfondo di musica klezmer.
(La Stampa, 23 febbraio 2015)
Usa, Olp e Anp a processo per attacchi in Israele
La causa per alcuni attentati risalenti al 2004. Giuria stabilisce anche maxi-risarcimento.
L'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) potranno essere portati alla sbarra a New York per una causa civile di risarcimento per alcuni attentati terroristici compiuti in Israele oltre 10 anni fa, in cui rimasero uccisi o feriti degli americani.
RIMBORSO DA 218 MILIONI - Lo ha stabilito una giuria a New York, che ha anche fissato a 218,5 milioni di dollari l'ammontare a cui le famiglie dovrebbero aver diritto, cifra che però viene automaticamente triplicata a 655,5 milioni, in base ad una legge speciale americana sul terrorismo.
La stessa legge, l'Anti-Terrorism Act, che consente agli americani vittime del terrorismo internazionale di rivolgersi alla giustizia Usa, è stata peraltro applicata a settembre da un tribunale federale di New York che ha giudicato la Arab Bank responsabile di aver fornito consapevolmente assistenza finanziaria ad Hamas, che gli Usa considerano una organizzazione terrorista.
ATTACCHI TRA IL 2002 E IL 2004 - L'ammontare dei risarcimenti, in questo caso, non è stato ancora stabilito. La causa contro l'Olp e Anp è stata avviata dalle famiglie di dieci cittadini americani colpiti in sei attacchi diversi tra il 2002 e il 2004, in cui in tutto morirono 33 persone e altre 430 rimasero ferite.
Nel corso delle udienze svolte finora, gli avvocati delle famiglie delle vittime hanno mostrato dei documenti per provare che le autorità palestinesi fornirono consapevolmente sostegno materiale ai terroristi che misero in atto quegli attentati.
In particolare, hanno mostrato che le autorità palestinesi hanno continuato a pagare il salario a dei loro dipendenti finiti in prigione per azioni di terrorismo e hanno fatto donazioni alle famiglie di attentatori sucidi.
I legali delle autorità palestinesi hanno invece sostenuto che non ci sono prove per attestare la partecipazione dei loro clienti ad attività di terrorismo, anche se alcuni membri delle forze di sicurezza palestinesi sono stati condannati in Israele per il loro coinvolgimento in attentati.
OPPOSIZIONE PER ANNI - «Hanno agito per motivi personali, non per conto delle autorita' palestinesi», ha affermato la difesa. Sin dall'avvio del procedimento legale, Olp e Anp si sono opposti per anni a che il processo si svolgesse negli Stati Uniti, sostenendo che il tribunale newyorkese a cui si sono rivolte le famiglie delle vittime è fuori giurisdizione, e che la sede appropriata sarebbe stata la Cisgiordania, e non New York. Oggi, una giuria ha infine dato loro torto.
(Lettera43, 23 febbraio 2015)
Uomo forte e "babysitter" d'Israele. Netanyahu corre verso le elezioni
Il premier israeliano punta su spot "leggeri", ma anche a presentarsi come unica voce credibile. E accusa la sinistra: "Dareste Gerusalemme ai jihadisti".
di Andrea Cortellari
Mancano meno di trenta giorni dall'appuntamento con le urne che consegnerà ad Israele un nuovo parlamento e la campagna mediatica orchestrata dal primo ministro Benjamin Netanyahu continua a imporsi all'attenzione degli elettori - e dei media internazionali - per un mix di sfrontatezza e sarcasmo che l'ha caratterizzata fin dall'inizio.
Uscito trionfante dalle primarie del Likud a inizio anno, Netanyahu ha chiarito fin da subito in quale ruolo veda se stesso e in quale invece i suoi avversari politici, improntando l'aspetto comunicativo della sua campagna elettorale sulla costruzione di un'immagine da uomo forte, non priva di qualche paternalismo.
Gli spot disseminati durante gli ultimi due mesi ne sono un ottimo esempio. Netanyahu si è prestato alla macchina da presa, abbandonando i panni austeri del politico, per calarsi in quelli del maestro d'asilo e del babysitter, o "Bibi-sitter", per utilizzare il facile gioco di parole del video.
Se per sé il premier israeliano riserva il ruolo di guida e custode, è altrettanto chiaro dove si collochino gli altri nomi della politica locale, compresi quelli che con il Likud sono stati alleati nella coalizione di governo e poi messi alla porta dopo l'ennesimo scontro, come Tzipi Livni (HaTnuah, ora Campo sionista) e Yair Lapid (Yesh Atid).
Il Likud, spiega senza mezzi termini una delle clip elettorali, è l'unica scelta. In alternativa si potrebbe optare sugli alleati Tzipi o "Buji" (Isaac Herzog, che tutti conoscono però con questo soprannome). Ma se Israele si prendesse una serata libera, lasciando i bambini con la tata, Herzog "si venderebbe pure le pareti" e Livni in poche ore "traslocherebbe dai vicini".
La metafora non è per niente nascosta. Al segretario di HaTnuah, Netanyahu rinfaccia un voltafaccia politico, mentre attacca le posizioni sulla questione palestinese di Herzog, che in caso di vittoria ha promesso un "piano Marshall" per Gaza. E d'altra parte le critiche non mancano neppure per i partiti di destra.
In un altro spot elettorale - in cui Netanyahu viene presentato come il maestro di una classe d'asilo particolarmente irrequieta - Naftali Bennett (HaBayit HaYehudi) è un bambino che ha un rapporto d'amicizia complicato con il centrista Lapid e Avigdor Lieberman (Israel Beytenu) il compagno barbuto ed egoista, che "dovrebbe imparare a condividere".
Il tema è chiaro: l'incapacità politica delle possibili alternative, siano messe alla prova nelle questioni interne o sul piano internazionale. E se Netanyahu vede nei suoi avversari dei politici incapaci di una posizione ferma nei confronti degli Stati Uniti, dall'altra parte ricorda che se Ben Gurion avesse dato ascolto a Washington, Israele non sarebbe mai nato.
Un duello a colpi di spot sorregge un confronto che procede tra molti colpi sotto la cintura, su cui il presidente della Repubblica si è espresso con una certa preoccupazione. "La gente vuole soluzioni - ha detto Rivlin -, vuole una leadership le cui motivazioni derivino da valori e contenuti, capace di prendere decisioni".
I sondaggi danno Campo sionista e Likud molto vicini, ma la sfida sarà poi quella di costituire una coalizione in grado di governare. E se da un lato Herzog parla di "un abisso" che separa i contendenti, dall'altra Netanyahu non risparmia nulla. Accusa Campo sionista di non avere volontà sufficiente a ostacolare il nucleare iraniano o evitare che Hamas prenda il controllo della Cisgiordania. E in uno spot provoca: "La sinistra si arrenderà al terrore".
Proprio dell'Iran, Netanyahu parlerà di fronte al Congresso di Washington, in un discorso sulla cui opportunità a pochi giorni dalle elezioni si è scatenato un ampio dibattito politico sia in Israele che negli Stati Uniti. L'invito è arrivato dallo speaker della Camera, controllata dai repubblicani, in un frangente in cui la discussione per un possibile accordo sul programma nucleare di Teheran è ancora aperta.
Obama ha annunciato che non vedrà il premier israeliano, il suo vice che sarà in missione all'estero. "Il protocollo suggerisce - ha detto nei giorni scorsi un portavoce della Casa Bianca - che il leader di un Paese contatti il governo del Paese in cui si appresta a recarsi in visita".
Sulla questione iraniana, uno dei punti di forza del pensiero politico di Netanyahu, ha rincarato la dose anche il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che teme il discorso negli Stati Uniti si trasformi in un palcoscenico per il Likud. "Non può spiegare al mondo come combattere il terrorismo - ha detto -, se non è in grado di sconfiggere la sua minaccia più vicina, Hamas".
(il Giornale, 23 febbraio 2015)
Il sindaco di Gerusalemme blocca un terrorista
Nir Barkat, primo cittadino di Gerusalemme, ha bloccato ieri un palestinese che aveva appena pugnalato un ebreo religioso. "Stavamo percorrendo in auto la piazza Tzahal - ha detto Barkat - quando le mie guardie hanno scorto un terrorista armato di coltello. Ci ha minacciati con la sua arma ma noi lo abbiamo afferrato e trattenuto fino all'arrivo della polizia. Subito dopo abbiamo prestato le prime cure al ferito", che non è in pericolo di vita. Barkat ha alle spalle un servizio militare da ufficiale paracadutista. L'attentatore è un palestinese di 18 anni che, secondo i primi accertamenti, non aveva il permesso di stare a Gerusalemme.
(il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2015)
Della Pergola: L'Europa ha perso l'1% dei suoi ebrei
Antisemitismo, attentati e violenze. Nonostante tutto non c'è una vera diaspora dall'Ue, dice il demografo Della Pergola, che svela i dati. «La stampa esagera».
L'uomo che conta gli ebrei - quanti nascono e quanti muoiono, quali Paesi lasciano e quali invece scelgono - ha un nome italiano che inizia per S perché se avesse vinto Stalin contro Hitler, pensava suo padre, una speranza c'era ancora.
Sergio Della Pergola, professore e statistico, è nato a Trieste da una famiglia ebraica sopravvissuta all'Olocausto, e oggi è il più esperto demografo del popolo ebraico a livello mondiale.
Le cifre elaborate nel suo ufficio della Hebrew University di Gerusalemme compaiono in tutte le ricerche diffuse in giro per il mondo.
EBREI D'OCCIDENTE IN DECLINO - L'ultimo studio sul declino degli ebrei in Occidente, pubblicato il 9 febbraio dal centro di ricerca americano Pew Research, vi attinge a piene mani.
Ma il professore ha in mano numeri ancora più aggiornati, ricalcolati anno per anno sui dati dell'ufficio di statistica dello Stato di Israele.
E a poche ore dalle candele e dalle lacrime e dalle raffiche di mitra di Copenaghen, le snocciola al telefono e smentisce l'allarmismo usato dal premier israeliano Netanyahu per richiamare cittadini a Tel Aviv.
«C'È UN DISAGIO DIFFUSO» - «Nel 2014», spiega a Lettera43.it, «la Francia ha registrato il più alto numero di migrazioni di ebrei in Israele, il Belgio e l'Italia hanno segnato il record dal 1970, ma si tratta in media dell'1% del totale degli ebrei europei».
Insomma, sintetizza riepilogando i numeri, «c'è un disagio diffuso, ma non un esodo come titolano i giornali». Oggi in Europa vivono circa 1 milione e 100 mila ebrei. Nel 1945, dopo l'Olocausto, erano 3,8. E ancora nel 2010 erano 1 milione e 400 mila. La diminuzione degli ebrei europei corre negli Anni 10 del 2000 al ritmo di 100 mila residenti in meno all'anno. Ma il fenomeno è stato «drammatizzato», dice Della Pergola.
I numeri, spiega il professore, nascondono fattori come l'invecchiamento della popolazione e la bassa natalità: tutti fenomeni che conosciamo bene.
E poi anche l'assimilazione: cioè la tendenza di una minoranza a farsi assimilare culturalmente dalla maggioranza per esempio attraverso i matrimoni misti.
PESANO LA CRISI E L'ANTISEMITISMO - L'incremento dell'immigrazione ebraica dall'Europa verso altri Paesi è una piccola parte, anche se significativa. Perché è il frutto della crisi economica, ma anche dell'aumento dell'antisemitismo e della violenza.
E gli effetti si leggono nel registro dei nuovi cittadini arrivati in Israele. Secondo il professore in media l'1% degli ebrei europei è entrato a Tel Aviv nell'ultimo anno.
NEL 2014 6.500 INGRESSI DALLA FRANCIA - Nel 2014, racconta il demografo, si contano 5 mila nuovi ingressi dall'Ucraina della guerra civile - i 70 mila ebrei ucraini vivono sono soprattutto nell'Est russofono dove si spara e si muore - ma persino di più, 6.500, dalla Repubblica francese, la nazione europea con la comunità più numerosa pari a 485 mila residenti.
Dall'Italia sono partiti in 322, dal Belgio in 224, cifre che sembrano un nonnulla, ma che rappresentano l'1% della popolazione ebraica totale nei due Paesi.
DIFFUSA SENSAZIONE DI INSICUREZZA - Nel caso italiano, dice Della Pergola, è difficile distinguere quali sono le motivazioni: ci sono tanti piccoli commercianti o lavoratori precari che scelgono di tornare in Israele per sfuggire alla crisi economica.
Francia e Belgio sono più chiaramente Paesi 'sotto pressione': «Gli ebrei lasciano l'Europa per gli Usa e Israele perché si sentono insicuri», commenta il professore.
Della Pergola racconta il sentimento delle comunità ebraiche: «In questi anni ho visto anche la stampa del Vecchio Continente raccontare in maniera poca equa il rapporto tra Israele e Palestina. E questo influisce. La critica al governo israeliano non dovrebbe coincidere con l'antisemitismo, ma si stanno sovrapponendo, anche se metà degli israeliani vanno in piazza contro Netanyahu».
E poi, ovviamente ci sono i fatti tragici di Parigi e Copenaghen: «I killer erano cittadini europei, questo è un problema europeo».
«OSTILITÀ PERCEPITA» - «La Francia», aggiunge, «dopo il massacro ha schierato 5 mila poliziotti a protezione delle sue sinagoghe, ma comprende che non è rassicurante: c'è un'ostilità percepita che rende gli ebrei europei impazienti».
I demografi non sono profeti. Però Della Pergola qualche in previsione è in grado di farla: «Difficile che qualcosa cambi nel giro di sei o 12 mesi, gli stessi fattori continuano a operare».
NON È UNA QUESTIONE EBRAICA - «L'Unione europea deve ripensare la sua sicurezza, ma anche la sua politica estera, deve reagire con più determinazione contro l'Isis, ma non ha senso creare un'atmosfera di isteria. E non ha senso parlare solo della questione ebraica. In quelle stragi sono morti anche giornalisti e poliziotti. E allora se l'Europa non è un posto per gli ebrei, allora non lo è nemmeno per le forze dell'ordine e i cronisti».
(Lettera43, 23 febbraio 2015)
Dove andare in vacanza nel 2015
È un buon momento per programmare un viaggio. Touring Club Italiano ha selezionato durante la recente Bit (Borsa Internazionale del Turismo) alcune destinazioni in grado di offrire suggestioni non del tutto scontate.
Ad Avitar Kotzer Adari, direttrice dell'Ente del turismo israeliano, è stato chiesto: "Che cosa si può fare in Israele?" Ecco la sua risposta.
(Fonte: Touring Club Italiano, 23 febbraio 2015)
Stati arabi preoccupati quanto Israele per un cattivo accordo sul nucleare iraniano
Netanyahu "stupefatto" che le trattative proseguano anche dopo le accuse all'Iran ribadite nell'ultimo rapporto AIEA.
Come Israele, anche i paesi arabi esprimono preoccupazione per i dettagli dell'accordo che potrebbe essere accettato dalle potenze mondiali guidate dagli Stati Uniti, circa il controverso programma nucleare iraniano, anche se lo fanno quasi soltanto nei loro colloqui privati con i rappresentanti degli Stati Uniti. Lo ha scritto sabato il Wall Street Journal.
Sebbene gli esponenti arabi stiano bene attenti a non schierarsi a fianco di Israele nelle loro dichiarazioni pubbliche, la loro preoccupazione rispetto all'eventualità di un Iran dotato di armi nucleari sono in effetti del tutto simili a quelle che Gerusalemme espone da tempo pubblicamente, e il loro atteggiamento verso l'attuale stato dei negoziati sul nucleare fra Teheran e potenze occidentali è altrettanto pessimista, stando al reportage del Wall Street Journal....
(israele.net, 23 febbraio 2015)
Heidegger profeta del IV Reich
L'antisemitismo è insito nella sua opera. Sperava nel ritorno del dominio tedesco. I taccuini del filosofo tedesco fanno luce sul suo rapporto con l'ideologia nazista.
di Emmanuel Faye
Le anticipazioni di alcuni passaggi del prossimo volume dei Quaderni neri in uscita a marzo, fornite da Donatella Di Cesare sulla «Lettura» del «Corriere» lo scorso 8 febbraio, spingono ad approfondire ulteriormente la ricerca su quanto radicati siano nel pensiero di Martin Heidegger i temi nazisti. La proposta di leggere il suo antisemitismo in modo differente da quello propriamente nazista appare infatti problematica, poiché la progressiva pubblicazione di questi Quaderni, sempre più simile a un sinistro romanzo a puntate, viene via via confermando l'introduzione del nazismo nella filosofia da parte di Heidegger. Il mio lavoro, lungi dall'indagare l'adesione heideggeriana al nazionalsocialismo come una questione biografica o un errore politico, mira a dimostrare che questa si inscriveva nei fondamenti della sua opera.
Il primo documento che testimonia l'antisemitismo di Heidegger risale al 1916, nel pieno della Prima guerra mondiale. Si tratta di una lettera alla moglie Elfride in cui egli si rammarica della «giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università», affermando che «la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti forze interiori» per riuscire a emergere. Le modalità per raggiungere tale scopo si chiariscono in un'altra lettera segreta del 1929 al consigliere Schwoerer, in cui Heidegger mostra la violenza del suo risentimento antisemita prendendosela con la «crescente giudaizzazione», che secondo lui si era impossessata della «vita spirituale tedesca» e iindica che il solo modo di «riprendere il cammino» consiste nel dotarla «di forze e di educatori autentici, provenienti dal territorio». Un cammino che egli si avvia a «riprendere» in modo esplicito nei suoi corsi universitari più virulenti degli anni 1933-34, poi pubblicati postumi secondo la sua volontà tra i volumi delle proprie Opere complete, da lui definiti appunto «cammini, non opere».
Nel volume 97 si leggerà che Heidegger vede lo sterminio nazista nei termini di un «autoannientamento» degli ebrei, che tuttavia non è andato completamente a buon fine per colpa degli Alleati. Questi, non avendo compreso il «destino del popolo tedesco», lo avrebbero represso nel suo «volere il mondo». Heidegger però non perde le speranze e pensa che ci sia ancora un futuro per il compimento di tale «destino». A fronte di queste rivelazioni ci si domanda ora se egli pensasse a un IV Reich e a quale scopo abbia progettato la pubblicazione dei Quaderni neri. Io sostengo da anni, in base a un'analisi minuziosa dei suoi scritti, che sebbene Heidegger si sia sforzato di differenziare, dopo il crollo del III Reich, l'avvento dell'«altro inizio» evocato nei suoi Contributi alla filosofia da quanto si era compiuto tra il 1933 e il 1945, ciò non è stato altro che una strategia di sopravvivenza. Si trattava infatti di prendere la distanza adeguata da un'impresa il cui fallimento era stato totale. Non però per rinnegarla - visto che nell'intervista a «Der Spiegel» del 1966, pubblicata postuma dieci anni dopo, egli approverà ancora la direzione «sufficiente» della relazione tra uomo e «essenza della tecnica» intrapresa dal nazionalsocialismo - ma per prepararne il ritorno in forme nuove, anticipate attraverso la diffusione della sua opera intesa a tale scopo.
Nel suo corso invernale del 1933-34 intitolato Dell'essenza della verità, Heidegger parla di «condurre le possibilità fondamentali dell'essenza della stirpe originariamente germanica verso la dominazione» e ciò si lega strettamente allo scopo di «guadagnare la sovrana levatura della nostra essenza», che possiamo leggere nei Quaderni neri dello stesso inverno. La parola «essenza» (Wesen) giunge a raccogliere l'intera significazione razziale del suo progetto. Heidegger non ha bisogno di impiegare costantemente il termine «razza», che per lui è una parola straniera, ma gli preferisce spesso termini tedeschi come Stamm, Geschlecht, Art (stirpe, genere, schiatta) oppure semplicemente «essenza». Questo è molto vicino alla terminologia di Hitler, che nel Mein Kampf impiega più volte il vocabolario dell'essenza a proposito della razza e nel 1933 equipara l'appartenenza a una determinata razza alla «propria essenza. Nel 1938 Heidegger precisa nei Quaderni neri, sottolineando lui stesso il termine essenza, che il «principio del tedesco è quello di combattere per la sua essenza più propria», dove tale combattimento non è un imperativo universale, ma il «principio» del solo popolo tedesco.
Il combattere per l'essenza più propria concederebbe al popolo tedesco il diritto di annientare tutto ciò che la minacciano Nel corso invernale del 1933-34 Heidegger propone ai suoi studenti di porsi come obiettivo di lungo periodo l'«annientamento totale» (völlige Vernichtung) del nemico interno «incrostato nella radice più intima del popolo», cioè gli ebrei assimilati. Nel 1941, mentre si va precisando la politica nazionalsocialista di costringere con ogni mezzo i dirigenti delle comunità ebraiche a coinvolgersi nell'organizzazione della loro propria distruzione, egli scrive nei Quaderni neri che «il genere più alto e l'atto più alto della politica consiste nel manovrare con il nemico per metterlo in una situazione in cui si trova costretto a procedere al proprio autoannientamento».
Ecco dunque l'intreccio dei due termini Vernichtung e Selbstvernichtung, annientamento e autoannientamento, che dovrà essere ben analizzato nei prossimi Quaderni neri. Ma certamente è possibile osservare da subito che la reversibilità tra carnefici e vittime, manifestata da Heidegger nei passaggi già noti del volume 97, è stata un luogo comune dei nazisti più incalliti all'indomani della sconfitta militare e dei negazionisti che sono loro succeduti.
Gli ebrei sono designati da Heidegger nei Quaderni neri come coloro che sono «senza suolo», «senza essenza», «senza mondo». Si scopre così che l'esistenziale dell'essere-nel-mondo può essere utilizzato dal suo autore come un termine discriminatorio a scopi antisemiti. Occorre ricordare che Heidegger utilizza l'espressione «senza mondo» per designare l'infraumano: benché l'animale non sia un «formatore di mondo», solo la pietra è detta «senza mondo» nel suo corso Concetti fondamentali della metafisica dell'inverno 1929-30.
Per Heidegger gli ebrei non hanno posto nel mondo o, meglio, non lo hanno mai avuto. Questa disumanizzazione totale è ciò che ho chiamato negazionismo ontologico di Heidegger nei confronti degli ebrei, che nelle Conferenze di Brema del 1949 giunge fino a escluderli, insieme a tutte le altre vittime dei campi di concentramento, dall'essere-per-la-morte. Tale negazionismo ontologico, di cui Livia Profeti ha saputo dimostrare la convergenza con la «pulsione di annullamento» scoperta dallo psichiatra italiano Massimo Fagioli, vuole significare che Heidegger non solo nega la realtà storica dei fatti, riducendo il numero delle vittime nonché ogni specificità del genocidio nazista, ma annulla l'«essere» stesso delle vittime dei campi.
L'antisemitismo di Heìdegger è documentato a partire dal 1916, così come è documentato che dal 1934 egli prefigurava la totale Vernichtung, annientamento o sterminio che dir si voglia, degli ebrei. Argomentare filosoficamente il carattere di tale antisemitismo e di tale razzismo significa, per me, opporsi all'introduzione del nazismo nella filosofia da parte dell'autore dei sinistri enunciati dei Quaderni neri.
(Corriere della Sera, 23 febbraio 2015)
Leggi razziali, vitalizio per i neonati ebrei
La Corte dei Conti accetta il ricorso presentato da alcuni cittadini
di Michela Allegri
Non importa se oggi hanno più di 70 anni e se il ricordo delle violenze subìte sia lontano nel tempo o addirittura impossibile da recuperare nella memoria. Anche i neonati ebrei venuti alla luce in pieno regime fascista, quando erano in vigore le leggi razziali, hanno diritto all'assegno vitalizio di benemerenza, che spetta a chi è stato vittima di persecuzioni. Lo stabilisce la Corte dei Conti del Lazio, in due sentenze con cui accetta il ricorso di cittadini di religione ebraica a cui l'indennizzo in questione era stato negato dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Uno dei ricorrenti, a pochi giorni dalla nascita' venne abbandonato dalla madre che, essendo cattolica, temeva di essere perseguitata per aver avuto una relazione con un uomo ebreo. Il bimbo dovette vivere sotto falso nome per 6 anni. L'altro, invece, nacque in un convento in cui i genitori si rifugiarono per evitare la deportazione, rischiando di morire di parto a causa di una condizione sanitaria precaria. I giudici definiscono le vicende «gravi», perché «la violazione di diritti primari è stata commessa in danno di un bambino indifeso». È il '43 quando M.B. nasce da padre ebreo e madre cattolica. Viste le leggi razziali promulgate nel '38, i genitori decidono che il bimbo non avrebbe portato il nome del papà: viene registrato con il cognome della mamma che, poco tempo, per paura di essere deportata, abbandona compagno e figlioletto. Nell'ottobre dello stesso anno, le milizie fasciste chiudono l'attività commerciale della famiglia. M.B. e il padre si rifugiano nel convento delle Suore Francescane di Roma. Per i giudici, il ricorrente «subì la privazione della figura materna, della libertà e di una normale vita familiare. Tali privazioni configurano una violenza morale». Nel maggio del 1944, M.D. nasce in un istituto di suore dove i genitori ebrei si sono rifugiati per sfuggire alle persecuzioni. Come si legge negli attestati di testimoni dell'epoca, «venne alla luce senza la dovuta assistenza e in condizioni di difficoltà, correndo pericolo di vita».
(Il Messaggero, 23 febbraio 2015)
Israele dagli Usa altri 14 F-35
GERUSALEMME, 22 feb. - Israele ha siglato con gli Stati Uniti un accordo per l'acquisto di altri 14 caccia F-35 (oltre ai 19 gia' ordinati) per un totale di 110 milioni di dollari per velivolo. Lo ha annunciato il ministero della Difesa di Tel Aviv, secondo cui l'intesa e' stata raggiunta nel fine settimana nel corso di un incontro tra una delegazione israeliana e l'amministrazione del progetto F-35 nella sede del dipartimento della Difesa Usa.
In totale, le forze aeree israeliane si doteranno cosi' di 33 F-35: le consegne inizieranno entro la fine del 2016 e dovrebbero terminare per il 2021. L'accordo prevede un esborso complessivo di 2,82 miliardi di dollari per Israele e include l'acquisizione di simulatori e programmi di addestramento e manutenzione. Sui velivoli saranno montate armi di fabbricazione israeliana.
(AGI, 22 febbraio 2015)
L'uomo che creava le parole
Eliezer Ben Yehuda è «il padre dell'ebraico moderno»: dedicò la vita a una lingua per gli ebrei.
di Giovanni Zagni
Eliezer Ben Yehuda
Nel mondo si parlano oggi circa settemila lingue. Il numero è in costante calo, dato che circa un quarto di esse è parlata da meno di centomila persone e rischia seriamente di scomparire nell'arco di poche generazioni. L'Unesco stima che circa duemilacinquecento lingue siano oggi a rischio di estinzione, un effetto particolare della globalizzazione che crea una sincera sofferenza nei linguisti.
C'è però un caso, unico al mondo, in cui una lingua che centocinquant'anni fa aveva un numero di parlanti prossimo allo zero e oggi ne ha circa otto milioni. Gode di ottima salute e ha percorso la strada inversa a quella di centinaia di altri idiomi.
Quasi tutte le città, in Israele, hanno una strada dedicata a Eliezer Ben Yehuda, chiamato «il padre dell'ebraico moderno». Ben Yehuda ha riscoperto, inventato o ricreato le parole che oggi si usano in ebraico per chiamare i giornali, la pistola, il gelato, i batteri, la frittata, la bambola, persino i mobili e i calzini o concetti più astratti come la cerimonia, l'identità o la migrazione. Per decenni la sua vita fu dedicata allo scopo di far tornare l'ebraico una lingua viva e parlata in Palestina, ben prima che nascesse lo stato di Israele con la sua storia tragica e travagliata.
- LA NASCITA DI UNA LINGUA
La prima menzione del popolo ebraico è in una stele di granito nero del 1207 a.C., oggi al museo egizio del Cairo, che celebra le vittorie del faraone egiziano. Gli ebrei vi compaiono, senza molto rilievo, come uno dei tanti popoli che Merneptah ha sottomesso durante una spedizione nella terra di Canaan, l'antico nome del territorio che corrisponde più o meno a Israele e Palestina.
I faraoni, infatti, dominarono l'intera terra di Canaan per tutto il periodo in cui, secondo il racconto biblico, il popolo eletto si dedicò alle guerre di conquista che lo avrebbero portato a dominare su tutto il paese. I re israeliti elencati nei libri biblici erano vassalli dell'Egitto, un fatto supportato da una miriade di prove archeologiche, mentre non ce n'è alcuna dell'esodo di massa dalla terra dei faraoni e della successiva conquista, come raccontata dalla Bibbia.
Come per molti altri popoli, le prime fasi della storia del popolo ebraico - e quelle decisive per la narrazione delle proprie origini - sono avvolte nell'incertezza e oggetto di grandi discussioni.
A quel passato nebuloso risale anche la nascita della lingua ebraica, inizialmente un dialetto dell'antica lingua cananea, nella seconda metà del II millennio a.C. Dal punto di vista della classificazione, l'ebraico è una delle circa settanta lingue cosiddetti semitiche, un numero che comprende idiomi vivi tutt'oggi, come l'arabo e l'etiope, o morti, come il babilonese, l'assiro e il fenicio.
Si pensa che l'ebraico abbia smesso di essere una lingua viva a tutti gli effetti al tempo dei Maccabei, intorno al III secolo dopo Cristo, venendo sostituito dall'aramaico e dal greco. Ma il fatto che rimanesse la lingua dei testi sacri e della preghiera ne assicurò una tenace sopravvivenza, soprattutto per iscritto. Non morì del tutto, insomma; si limitò al culto, ai testi religiosi e a qualche sporadico utilizzo artistico, mentre gli ebrei della Diaspora presero a parlare la lingua della terra in cui si trasferirono.
In Germania, durante il Medioevo, gli ebrei non facevano eccezione, ma scrivevano il tedesco del tempo con i caratteri ebraici. Quando molti di loro furono costretti a trasferirsi in Polonia e in Russia, si portarono con sé anche la lingua. Isolati nei ghetti cittadini e negli shtetl, la loro parlata non passò attraverso i cambiamenti che avrebbero dato vita al tedesco moderno, ma si mescolò via via con parole prese in prestito da altre lingue e dall'ebraico della Bibbia. La lingua prese il nome di yiddish, e fino alla metà del Novecento fu quella parlata dalla maggioranza degli ebrei europei.
- L'ILLUMINISMO EBRAICO
I primi tentativi di far rinascere l'uso dell'ebraico come lingua viva appartengono al movimento illuminista ebraico, l'Haskalah. A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, alcuni intellettuali pensarono che la comunità ebraica europea dovesse tornare alla purezza dell'ebraico biblico per avere una lingua comune.
Il compito degli autori dell'Haskalah non era facile: spesso dovevano ricorrere a lunghe perifrasi per non deviare dal limitato lessico della Bibbia, mentre piegare agli usi moderni quella lingua costringeva a soluzioni creative sul piano della grammatica. Molti, invece delle perifrasi, non si facevano problemi a importare parole dalle lingue contemporanee, in particolare il tedesco. Ma tutti, dal romanziere Abraham Mapu all'autore e traduttore Mendele Mocher Seforim, si rendevano conto che il lessico biblico era insufficiente.
La questione linguistica si intrecciava con quella del cosiddetto sionismo: gli ebrei erano profondamente divisi tra chi pensava che anche il proprio popolo avesse diritto a una "nazione" e chi invece credeva che il proprio futuro stesse in una maggiore assimilazione con le società europee. Al di fuori dei circoli intellettuali, comunque, alla fine dell'Ottocento l'ebraico era utilizzato quasi esclusivamente come lingua della preghiera, non molto diversamente dal latino fino agli anni Sessanta. Poteva occasionalmente essere usata come lingua franca tra due persone che non ne avevano un'altra in comune, ma nessuno la utilizzava per la comunicazione quotidiana.
- FATTI E PAROLE
Sul dibattito arrivò improvvisamente un articolo pubblicato nel 1879 su un importante mensile viennese rivolto alla comunità ebraica e chiamato Hashahar ("l'alba"). Il titolo era "Una domanda importante" e l'autore, che si firmava con lo pseudonimo di Eliezer Ben Yehuda, era uno sconosciuto e povero studente di origini lituane. Aveva ventun anni ed era un uomo dai capelli chiari, gli occhi marroni e l'aria fragile del malato cronico. A Parigi, dove si era trasferito per studiare medicina, aveva scoperto di avere la tubercolosi.
Nel suo articolo, Ben Yehuda difendeva con grande forza la causa del sionismo e la necessità per gli ebrei di avere una sola terra e una sola lingua. Le sue idee ravvivarono il dibattito pro e contro la sua posizione radicale, fin quando lo studente non decise di abbandonare tutto e partire con pochi miseri risparmi alla volta della Palestina. Avrebbe fatto seguire l'esempio alle parole.
Ben Yehuda era nato Eliezer Perlman a Luzhki, allora parte dell'impero dello zar Alessandro II (oggi in Bielorussia). Notando la sua intelligenza e il suo amore per i libri, i suoi genitori volevano che diventasse un rabbino e per questo lo avviarono nel percorso educativo-religioso tipico degli ebrei dell'est Europa. Ma alla yeshiva, la scuola rabbinica, venne in contatto per la prima volta con le idee dell'Illuminismo ebraico e il pensiero, considerato da molti sovversivo, che la lingua della Bibbia potesse tornare ad essere una lingua viva.
Quando salpò dal Cairo alla volta di Giaffa, insieme a sua moglie Deborah, aveva pubblicato da poco l'articolo che lo aveva reso conosciuto e deciso di cambiare il suo cognome in Ben Yehuda, che si era scelto per ricordare il padre - il cui nome yiddish, Leib, corrisponde a Yehuda in ebraico - ma anche la terra di Giuda. Arrivò a Gerusalemme nell'estate del 1881.
Nella piccola comunità ebraica di Gerusalemme, lontana anni luce da Parigi non solo geograficamente, la giovane coppia dovette abbracciare in fretta gli usi e i costumi dell'ortodossia religiosa ashkenazita. Gli ebrei in Palestina, allora una remota provincia dell'impero ottomano, erano poche decine di migliaia di persone, quasi tutte a Gerusalemme.
Erano una comunità assai povera, che si manteneva per lo più con le offerte che inviavano gli ebrei di tutto il mondo a chi era rimasto a pregare nella città santa, l'antica capitale del regno di Israele. E poi erano un gruppo diviso, lungo le linee tracciate dalle loro terre d'origine: Russia, Germania, Francia, Inghilterra. Tra le molte cose che li separavano, c'era sicuramente anche la mancanza di una lingua in comune.
Eliezer Ben Yehuda cominciò la sua nuova vita facendo il giornalista; poi l'Alliance Israélite Universelle aprì una scuola a Gerusalemme e gli chiese di fare l'insegnante. Lui disse che avrebbe accettato esclusivamente se avesse potuto insegnare solo in ebraico, permesso che gli venne accordato. Sui giornali e nelle aule, Ben Yehuda prese a lavorare per realizzare il suo sogno di resuscitare la lingua ebraica.
Ma l'idea non venne ben accolta da tutti. Secondo molti, utilizzare la lingua ebraica per la quotidianità e non per scopi religiosi era irrimediabilmente blasfemo, un giudizio che aveva molto seguito anche in Europa. Sulla strada per la scuola, a volte l'insegnante veniva preso a sassate.
- LA PRIMA MADRE EBRAICA
Quando la moglie rimase incinta del loro primo figlio, Eliezer Ben Yehuda la convinse che il piccolo sarebbe cresciuto sentendo parlare unicamente ebraico per i suoi primi anni di vita. Nel 1882 nacque il bambino, a cui venne dato il nome Ben Zion, e Deborah diventò «la prima madre ebraica in duemila anni», secondo la formula impiegata spesso dal marito.
Una cura maniacale venne impiegata dalla coppia per impedire che il primogenito sentisse anche una sola frase in una lingua diversa dall'ebraico. Le storie, o le leggende, intorno a questo bambino sono tantissime: dal divieto alla moglie di canticchiare ninnananne in russo al permesso accordato a una donna del luogo di aiutare la moglie nei giorni successivi al parto, all'unica condizione però che non pronunciasse una sola parola, poiché non sapeva l'ebraico.
L'idea venne salutata con scetticismo anche dagli stessi amici e protettori di Ben Yehuda, alcuni dei quali pensarono che il bambino sarebbe cresciuto con qualche ritardo nello sviluppo. Ben Zion Ben Yehuda cominciò a parlare piuttosto tardi, dopo i due anni, ma quando lo fece parlava un perfetto ebraico - e solo ebraico, per la gioia dei suoi genitori.
Nel frattempo, la decisione di Ben Yehuda di trasferirsi in Palestina stava venendo emulata sempre più spesso. I pogrom dell'Europa orientale del 1881-1882 portarono migliaia di ebrei a emigrare. Alcuni di loro si imbarcarono verso la Palestina, mentre l'ideologia sionista convinceva alcuni giovani idealisti come Ben Yehuda a scegliere la stessa destinazione del porto di Giaffa.
Tra il 1881 e il 1903, circa 28 mila persone costituirono la prima migrazione consistente e concentrata nel tempo verso la Palestina, quella che la storia israeliana chiama "la prima aliyah", dalla parola ebraica che significa 'ascesa'. Altre quattro sarebbero seguite fino al 1939; tra il 1948 e il 1951, e dal 1968 a oggi, lo stato di Israele ha avuto un ministero specificamente dedicato all'aliyah.
Il numero di adepti al credo linguistico di Ben Yehuda, nel frattempo, cresceva. L'uomo fondò insieme a un piccolo gruppo di intellettuali di Gerusalemme l'Esercito per la Difesa del Linguaggio, che si proponeva di utilizzare solo l'ebraico in ogni occasione pubblica e privata - e di riprendere, per strada o al mercato, chi avessero sentito parlare una lingua differente. Alcuni insegnanti presero a insegnare la lingua ebraica parlando ebraico, un altro passo decisivo per la diffusione della lingua.
Poco tempo dopo la nascita del primo figlio Ben Yehuda si convinse che mancava uno strumento fondamentale per la sua missione linguistica, uno strumento che deve esistere in tutte le lingue che si rispettino: un dizionario. Decise che avrebbe intrapreso il compito di crearne uno aggiornato per la lingua ebraica da solo, buttandosi in un'impresa colossale che lo avrebbe impegnato per cinquant'anni e letteralmente fino al suo ultimo respiro. La prima parola che creò fu millon, che significa, molto propriamente, "dizionario", e che sostituiva sefir millim, calco dal tedesco Wörterbuch ("libro di parole").
Nel frattempo, continuò la sua attività di giornalista. Fino all'inizio della Prima guerra mondiale avrebbe pubblicato e diretto tre diversi giornali. Soprattutto nei primi anni, non si limitava alle rubriche linguistiche che accompagnavano la sua impresa principale, ma si lasciava andare a editoriali di fuoco che non risparmiarono diversi bersagli della comunità ebraica di Gerusalemme.
In difficoltà con l'affitto, si lanciò in un'invettiva contro i grandi proprietari immobiliari cittadini; altro bersaglio era l'establishment della comunità che gestiva le offerte dall'estero mantenendola arretrata, bigotta e dipendente dall'assistenza esterna.
Crescendo nella fama e nell'ossessione per la sua missione autoimposta, Ben Yehuda venne soprannominato nella comunità ebraica di Gerusalemme Ha-Apikoros, ovvero "l'eretico": ironia della sorte, con una parola presa in prestito dal greco. E così si creò un altro aspetto fondamentale della sua leggenda: quello di essere in grado di farsi nemici con molta maggior facilità rispetto agli amici.
- IL DIZIONARIO
Nel campo più quieto della lessicografica, il modo di procedere di Ben Yehuda consisteva nell'individuare la parola di cui l'ebraico aveva ancora bisogno, scartare qualche termine in uso nel caso non fosse convincente o non sufficientemente "semita" - magari perché un prestito da qualche lingua europea - e riscoprire un candidato più convincente pescando da un enorme bacino formato dalla letteratura ebraica di tutte le epoche, dalla Bibbia agli antichi testi religiosi e alla produzione artistica successiva.
Prova dell'antichità e dell'appropriatezza del termine era spesso un confronto con l'arabo, a cui si ricorreva, adattandolo, anche per i casi in cui la letteratura non fornisse un equivalente convincente. Per i suffissi e la morfologia si ricorreva spesso all'aramaico, la lingua che probabilmente era parlata da Gesù. Le parole che nella Bibbia comparivano poco spesso venivano dotate di un preciso significato, in modo da poter entrare nell'uso.
Le scelte di Ben Yehuda si sono rivelate spesso fortunate. Per esempio, nell'ebraico moderno, il mobile si chiama rahit, ma più spesso è usato al plurale, rehitim. Fu introdotta da Ben Yehuda nel 1891, che la usò di passaggio in un articolo che parlava di cronaca locale. La frase suonava così: «nella grande sede della società russa hanno fatto grandi piani per accogliere l'importante visitatore e hanno speso 25 mila franchi sui rehitim di una sola stanza».
A rehitim si accompagnava una nota a pié di pagina che spiegava dove avesse scovato il termine, che nella Bibbia compare in un singolo versetto del primo capitolo del Cantico dei cantici: «di cedro sono le travi della nostra casa, di cipresso il nostro soffitto». In arabo c'era un termine simile, un po' desueto, che poteva essere usato anche per i mobili, rahat, e questo confortava Ben Yehuda sull'antichità della parola. E così l'ebraico ebbe il suo termine per chiamare i mobili.
Non tutte le parole che si usano oggi in Israele per indicare oggetti moderni sono state introdotte da Ben Yehuda, naturalmente. Le ondate di immigrati dall'Europa portarono con loro i propri prestiti e neologismi dalla tenace resistenza, mentre nella stessa Palestina le discussioni linguistiche portavano a discussioni e a soluzioni diverse. Nel nord del paese, ad esempio, si diffuse fino al 1920 un sistema di pronuncia alternativo, promosso da I. Epstein e altri insegnanti di lingua.
Se alcune proposte di Ben Yehuda non ebbero fortuna, molte altre sì - esistono brevi dizionari che le elencano, ad esempio questo - mentre altri si aggiungevano in quegli anni nel compito di trovare il lessico della lingua rinascente.
La parola ebraica per "velluto", ad esempio - ketifa - fu scelta da un altro dei primi insegnanti di ebraico in Israele, David Yudelevich. Quando si trovò a tradurre nella "nuova" lingua il Don Chisciotte di Cervantes, nel 1894, molte parole mancavano all'appello, e una di queste era l'equivalente di "velluto". Yudelevich si rivolse all'arabo, credendo di aver trovato il sinonimo esatto per la stoffa appunto in ketifa.
Ma katifat in arabo non significa "velluto", bensì la pianta dell'amaranto, e viene usata a volte anche per indicare un vestito di buona qualità. Yudelevich non si accorse della sottigliezza e la sua proposta, usata per la prima volta per le gesta del cavaliere della Mancia, passò nel dizionario di Ben Yehuda, e di lì all'uso corrente.
Negli anni della sua impresa linguistica, Ben Yehuda dovette affrontare anche l'opposizione delle autorità ottomane, che chiusero e censurarono più volte le sue pubblicazioni. Il primo volume del suo dizionario vide la luce solo nel 1908, a Berlino, dopo diversi tentativi falliti. Nel frattempo, Ben Yehuda fondò e promosse una miriade di associazioni dedicate alla causa sionista e naturalmente alla diffusione della lingua ebraica.
La Prima guerra mondiale interruppe le pubblicazioni con il quinto volume, l'ultimo che Ben Yehuda avrebbe visto da vivo. La tubercolosi, di cui Ben Yehuda aveva sofferto per gran parte della sua vita, lo uccise il 16 dicembre 1922, anni prima della nascita dello stato di Israele.
Quello stesso anno, l'amministrazione britannica della Palestina riconobbe l'ebraico come una delle lingue ufficiali del paese. Il processo di diffusione era ancora in corso e così anche la stessa "creazione" della lingua e le animate discussioni intorno ad essa (che non sono concluse neppure oggi): la prima grammatica dell'ebraico di Israele è del 1934.
Ma nel frattempo il dizionario di Ben Yehuda venne continuato nei decenni successivi dai professori dell'università di Gerusalemme M.H. Segal e N.H. Tur-Sinai, fino al diciassettesimo e ultimo volume, pubblicato nel 1959. La sua lunga eredità nella storia e nella cultura ebraica è testimoniata da molte celebrazioni e riconoscimenti ufficiali in Israele, ma prima ancora nelle parole pronunciate ogni giorno da milioni di persone.
(LINKIESTA, 22 febbraio 2015)
A Trani e Barletta appuntamento a marzo con Lech Lechà Purim
Terza edizione della Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica
Tornano in Puglia i giorni forti dell'ebraismo di Trani e Puglia grazie a Lech Lechà, la Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica, quest'anno alla sua terza edizione in coincidenza con la festa ebraica di Purìm. In programma nelle città di Trani e Barletta, è un appuntamento atteso con grande entusiasmo non solo da quanti vivono l'identità e la cultura ebraica in prima persona ma anche da parte di tutti coloro - e sono ogni anno di più - che desiderano conoscere maggiormente e profondamente l'ebraismo; un'aspettativa più che legittima in un territorio come quello del Sud nel quale i rapporti con la cultura ebraica vantano un passato plurimillenario.
La Conferenza Stampa di presentazione è in programma a Bari, presso la sede della Mediateca Regionale (Via Zanardelli 30) il prossimo 23 febbraio alle ore 11.30; interverranno Silvia Godelli (Assessore al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia), Pier Luigi Campagnano (Presidente della Comunità ebraica di Napoli), Cosimo Yehudà Pagliara (referente regionale della comunità di Napoli), Francesco Lotoro (pianista).
Saranno a decine gli eventi che fra Trani e Barletta "racconteranno" la cultura ebraica: conferenze, presentazioni di libri, concerti, danze, cucina kasher, studio dei testi scritturali e lo Shabbath nell'incantevole scenario di Piazzetta Scolanova dinanzi alla Sinagoga, tornata a nuovo splendore dopo i recenti lavori di restauro. Altre location a Trani saranno l'Auditorium San Luigi (Piazza Mazzini), il Liceo Statale Classico e Scienze Umane F. De Sanctis e il Ristorante Taverna Portanova dove si potrà mangiare kasher sotto stretta sorveglianza rabbinica; mentre a Barletta Lech Lechà farà capo al Liceo Artistico N. Garrone (Via Cassandro 2), alla Sala Comunità S. Antonio (Via Madonna degli Angeli) e alla Sala Athenaeum (Via Madonna degli Angeli 29).
Il titolo della nuova edizione del Lech Lechà - il cui vasto programma sarà illustrato in Conferenza Stampa - ha voluto legarsi quest'anno a una imminente ricorrenza ebraica, la festa di Purim: essa cade il 14 del mese di Adàr, secondo il calendario ebraico (4-5 marzo 2015 secondo il calendario civile). È una festa gioiosa istituita successivamente a quelle stabilite dalla Toràh in ricordo della salvezza del popolo ebraico ad opera della regina Ester. La tradizione vuole che durante il Regno di Assuero, re di Persia e di Media, avvenne che il più potente dei dignitari del re, Hamàn fu indispettito da Mordechài, cugino e tutore della regina Ester, il quale non si inchinava al suo passaggio. Hamàn istigò il re Assuero a emettere l'ordine di distruggere tutto il popolo ebraico cui Mordechài apparteneva. Fu perciò estratto il pur (la sorte) del giorno in cui la distruzione sarebbe avvenuta: il 13 di Adàr. La regina Ester riuscì tuttavia a capovolgere le sorti ottenendo la distruzione di Hamàn e la salvezza degli ebrei di Persia. Questi avvenimenti sono narrati nella Meghillàth Ester (Rotolo di Ester) che viene letta in tale ricorrenza.
"Ancora a Sud, verso Trani e la Puglia - ha dichiarato Silvia Godelli, Assessore al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia - Una settimana intera di manifestazioni culturali che rieditano tradizioni fondamentali dell'ebraismo spaziando oltre i confini della contemporaneità alla ricerca di radici antiche e di prospettive per il futuro. L'intenso titolo di questo festival (Lech Lechà ossia Va' verso te stesso) richiama simbolicamente la dimensione dell'interiorità, i valori del dialogo spirituale, le ragioni più profonde della relazione con sé stessi e con l'alterità. "Quando si parla di ebraismo - sottolinea la Direzione Artistica, quest'anno condivisa da Cosimo Yehudà Pagliara, Francesco Lotoro e Ottavio Di Grazia - si intende quello che risiede nel coraggio degli ebrei che dopo 500 anni riaprirono la Sinagoga Scolanova di Trani ripristinandone culto e vita ebraica; la rinascita dell'ebraismo pugliese costituisce una inesauribile fonte di arricchimento della cultura mediterranea ed è stata di stimolo alla rinascita dell'ebraismo in Calabria e Sicilia." "Credo ci siano tutti i presupposti per definire Lech Lechà uno dei più importanti eventi in assoluto dell'ebraismo italiano. - aggiunge Pier Luigi Campagnano, Presidente Comunità ebraica di Napoli - L'impegno per la promozione dell'ebraismo e del dialogo intermediterraneo promosso dagli ebrei di Puglia è fondamentale nell'Italia ebraica; la Comunità di Napoli, responsabile per la circoscrizione del Meridione, sosterrà con ogni mezzo la rinascita dell'ebraismo nel Mezzogiorno. L'auspicio è che esso si riveli altresì momento ideale per la promozione dei valori dell'interculturalità, autentica bandiera dell'ebraismo e delle culture del Mediterraneo."
(ZeroVentiquattro, 22 febbraio 2015)
Musulmani ed ebrei insieme per sconfiggere il terrorismo
di Rachel Silvera
"Appuntamento alle 18.30 alla sinagoga di Oslo per il Fredens Ring, l'anello della pace". È con un invito lanciato su Facebook che Hajrah Arshad, 17 anni, e altri otto ragazzi hanno riunito ieri più di mille cittadini musulmani che, insieme, hanno circondato la sinagoga della capitale norvegese per lanciare una ferma condanna agli attacchi perpetrati in Europa dalla frangia estremista dell'Islam a una settimana dall'agguato alla sinagoga centrale di Copenaghen nel quale è stato ucciso la guardia volontaria Dan Uzan.
Un'iniziativa fortemente simbolica lanciata sui social con queste parole: "Islam significa proteggere i nostri fratelli e sorelle indipendentemente dalla religione alla quale appartengono. Islam significa essere al di sopra dell'odio e non scendere mai al livello di chi odia. Islam significa proteggersi l'un l'altro. I musulmani vogliono mostrare quanto sia forte la loro condanna verso ogni tipo di antisemitismo".
Entusiasta Ervin Kohn, presidente della Comunità ebraica di Oslo, che ha definito l'evento 'unico'. "È stato bellissimo fare l'avdalah (la preghiera della fine dello Shabbat) davanti a 1300 persone. Non era mai successo prima", scrive Kohn su Twitter. Mentre la giovane Arshad, anima dell'evento ha spiegato: "Dopo l'attacco terroristico a Copenaghen, questo ci è sembrato il momento adatto per prendere le distanze dall'ondata di odio che sta colpendo gli ebrei".
Sul Times of Israel è poi il columinist Waqas Sarwar a firmare un articolo dal titolo "Perché io, un musulmano, andrò in sinagoga" nel quale scrive quanto i musulmani e gli ebrei siano legati da destini simili: "Dobbiamo imparare a vivere insieme in pace e armonia, riconoscendo le religioni dell'altro, la storia e condividendo quello che abbiamo in comune. E questa non è un'opzione. Proprio per questo insieme a tanti altri sono andato in sinagoga sabato. Per proteggere i miei fratelli e sorelle ebree".
Prima di loro erano stati i musulmani inglesi che per contrastare le sanguinose azioni dell'Isis avevano lanciato l'hashtag 'Not in my name', non in mio nome, prendendo le distanze da chi vuole dimostrare che l'Islam sia sinonimo di morte.
Perché, come ha scritto Roger Cohen, "solo i musulmani coraggiosi, in definitiva, potranno sconfiggere i mercanti di morte jihadisti con le loro bandiere nere".
(moked, 22 febbraio 2015)
Gli ultimi ebrei
Sulaiman Marrahabi: A Sada vivevamo in pace con tutti. Poi gli houti ci hanno fatto fuggire nella capitale Habboub Salim Musa: «Dal 2008 non possiamo più lavorare. Dal governo abbiamo avuto un trilocale a famiglia, beni alimentari e un piccolo assegno».
di Laura Silvia Battaglia
Per una ventina di giorni Sulaiman Marrahabi non è uscito dal tourist compounddovevive e non ha nemmeno voluto che nessuno lo andasse a trovare. Si è giustificato così: «La nuova situazione politica in Yemen mi preoccupa». Poi, dopo un paio di mesi, si è convinto quantomeno a ricevere visite ma non nasconde la sua agitazione da quando i ribelli sciiti hanno in mano la capitale.
Sulaiman è uno dei pochissimi ebrei yemeniti rimasti che vivono nell' ex Arabia Felix. Sono 84 persone in totale, di cui 55 nella capitale Sanaa, distretto di Tourist city di fronte all'ambasciata americana. Proprio due famiglie di sei persone sono state appena evacuate il 15 febbraio e trasferite con un volo charter in Israele. Gli altri 29 ebrei sono dislocati nel distretto di Raidah, nella provincia di Amran, Per tutti sarebbe pronto un programma di trasferimento nella Terra promessa, secondo il Jerusalem Post. Vivono in concreto apartheid fisico e culturale dal 2008, da quando cioè ricevettero un ultimatum all'esodo dalla comunità Houti, musulmana sciita, nel Nord del Paese, a Sada. E oggi, queste 55 persone a suo tempo sfollate da Sada a Sanaa, sono ancora più preoccupate a causa del cambio della guardia al governo del Paese e al maggiore spazio dato alla minoranza sciita nei posti chiave (dall'esercito ai ministeri), dopo una breve guerra civile nella capitale durata una settimana nel settembre dello scorso anno.
Qui, nella tana di al-Qaeda, nessuno si preoccupa più di loro, nemmeno nella Giornata della memoria. Ma c'è un motivo preciso che non è religioso e non è culturale ma politico. Gli ebrei yemeniti, pur essendo pochissimi, sono stati travolti dalla intransigenza degli Houti che, al grido «Morte all'America, morte a Israele», hanno lanciato le loro milizie ispirate a Hezbollah in tutte le aree a nord di Sanaa, hanno fatto piazza pulita di chiunque si opponesse loro - capi tribù, istituzioni governative -, imponendosi con la forza' fino ad arrivare a conquistare la capitale, complice la debolezza del governo, la mancanza di sicurezza e la scarsa leadership post-rivoluzione dei Fratelli musulmani, che iniziava a riprodurre i modelli familistici dell' ex dittatore Saleh.
Nella comunità di Sada, nell' area di al-Salem, hanno sempre vissuto in armonia con gli altri yemeniti: «Tradizioni e famiglie separate, certo, ma condivisione degli eventi storici familiari in relazioni di lavoro e buon vicinato», ricorda Suleiman. Del resto, gli ebrei \ sono sempre stati rispettati e apprezzati per le loro capacità artigiane come gioiellieri e carpentieri. Fino a quel giorno del 2008: «La lettera degli Houti ci intimava di sfollare in dieci giorni. Se non lo avessimo fatto ci avrebbero ucciso. L'accusa era di essere collaborazionisti dei governi di Israele e Stati Uniti tramite l'allora governo di 'Ali 'AbdAllah Saleh», Il governo yemenita si premurò comunque di salvare la comunità. Gli ebrei di Sada rimasero per un mese in hotel. poi vennero trasferiti nella capitale in elicottero.
Il rabbino Youssif Salem Musa racconta tra le lacrime che hanno dovuto lasciare case e proprietà senza poterle rivendicare. Oggi le loro terre, le case e financo la loro grande biblioteca che contiene un'antica Torah e altri libri sacri, vecchi di duecento anni, sono state distrutte dagli Houti. Le terre confiscate senza possibilità di reclamo.
Habboub Salim Musa è il rappresentante della comunità: «Dal 2008 il governo ci ha concesso un trilocale a famiglia per quattordici famiglie in tutto' una fornitura mensile di beni alimentari di prima necessità, dallo zucchero, al riso, alla farina, e un assegno mensile di 185 dollari per l'acquisto di carne, frutta e ortaggi. Ogni uomo riceve anche un assegno mensile di cinquemila riyal» (circa venti euro). La ragione è semplice: nessuno di loro può aprire un negozio e l'unico ebreo della comunità che aveva un impiego governativo è un coltivatore. Da quando un membro della comunità è stato ucciso a freddo nel 2012 al mercato del qat (la droga leggera locale diffusa dappertutto). senza alcuna ragione apparente, tutti hanno paura. Luomo non aveva precedenti penali, non aveva litigato con nessuno. Così, il rabbino Yahia Yusuf spiega che «i movimenti dei membri della comunità sono molto limitati». Infatti Sulaiman non si avventura da nessuna parte fuori di qui: «La mia vita è nel compound ma sogno di tornare nella mia terra. Temo però che farò la fine di molti parenti. Sono emigrati in Israele alcuni anni fa e non metteranno più piede qui, nemmeno per morire». Prima del 1948 gli ebrei in Yemen erano 63mila. Tra giugno 1949 e il settembre 1950 la stragrande maggioranza della popolazione ebraica dello Yemen è stata trasferita in Israele con l'Operazione "Magie Carpet"
Haim Hashash è uno di costoro e non vuole riaprire quella botola. Alla fine lo fa dopo molte insistenze e inizia cantando una canzone di Rabbi Shabazi sulla Terra promessa. Per lui che ha novant'anni e che dal 1948 vive in Israele, tornare alle memorie precedenti lo sfollamento è una violenza: «Lo Yemen è il luogo più bello del mondo: rimuovo sempre la certezza che io non possa più tornarci. Però nella mia infanzia abbiamo sempre vissuto con il mito della Terra promessa e tutti gli ebrei dello Yemen fecero di tutto per andarci. Il governo di Israele ha sempre facilitato i trasferimenti, non senza chiedere innumerevoli permessi ai governi succedutisi nel tempo». Nella sua storia, l'esodo non fu necessario fino al 1947, per un motivo molto preciso: «Nel tempo, la nostra serenità e incolumità è stata garantita dai singoli imam. Anche nella nostra località, al- Tawila, vicino a Sanaa, l'ago della bilancia è stato l'imam». Haim ha un grande ricordo di lui, della sua saggezza, del fatto che proteggesse la comunità. Assassinato nel 1947, - in concomitanza con la rivoluzione del generale Rais al- Jamal, che cambiò il volto al vecchio Yemen -l'imam "buono" lasciò il posto al caos: «Iniziarono per noi ruberie, minacce, violenze, finché non siamo scappati verso il campo Hashed vicino ad Aden. Qui un aereo israeliano ci ha portato nella Terra promessa». Haim Hashash ha gli occhi che sono già due otri di lacrime. Ha smesso di giocherellare con le mani e chiede solo di non parlare più. La sua Terra promessa resta sempre quella che ha lasciato.
(Avvenire, 22 febbraio 2015)
Riconoscere lo Stato palestinese, un'idea azzardata
di Giovanni Jannuzzi
Il mondo di oggi è già abbastanza complicato (e le ragioni di conflitto politico in Italia sono già abbastanza numerose) per non peggiorare ancora la situazione con iniziative sbagliate e destinate a dividere. Riconoscere ora lo Stato palestinese è un'iniziativa che viene dai Governi di Francia e di Svezia. In Italia è stata zelantemente ripresa da una parte del PD e (poteva mancare?) da SEL, sempre pronto a lanciarsi nella più evidenti stupidaggini, pur che odorino di sinistra pura e dura.
Una stupidaggine? Sì. Nella striscia di Gaza esiste già, sulla base degli Accordi di Oslo, una "Autonomia palestinese" che funziona, a tutti i fini, come uno Stato indipendente. Nessuno (a parte l'Iran per interposta persona) mette bocca nei suoi affari interni. Gli israeliani intervengono solo per reagire agli attacchi contro il loro territorio che da lì provengano. L'Autonomia palestinese è rappresentata all'ONU e in altri organismi internazionali in qualità di osservatore (la stessa della Santa Sede) e nella maggior parte dei Paesi i suoi rappresentanti hanno, di fatto, statuto diplomatico. Sotto questi aspetti, dunque, il riconoscimento statuale non aggiungerebbe nulla di nuovo. Però, sarebbe visto da una parte come una vittoria e dall'altra come una sconfitta e non potrebbe che rendere più lontana la razionalità che sola può condurre alla pace (altrettanto farebbe, specularmente, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, di tanto in tanto rilanciato dalla destra americana).
Il sistema degli Accordi di Oslo punta a due Stati, uno palestinese e uno israeliano, che convivano pacificamente entro frontiere sicure e riconosciute. È vicino questo obiettivo? Nemmeno per sogno!
Quali che siano le intenzioni delle Autorità palestinesi, la politica a Gaza è fortemente condizionata da Hamas, un organismo terroristico che punta ufficialmente alla distru- zione di Israele, finanziato e ad- destrato dall'Iran, e autore di tutti gli attacchi alla popolazione e al territorio israeliani.
Guardiamo la realtà in faccia e senza i paraocchi dell'ideologia: quali che siano le intenzioni delle Autorità palestinesi, la politica a Gaza è fortemente condizionata da Hamas, un organismo terroristico che punta ufficialmente alla distruzione di Israele, finanziato e addestrato dall'Iran, e autore criminale di tutti gli attacchi alla popolazione e al territorio israeliani (criminale anche nei confronti degli stessi abitanti di Gaza, che pagano con il loro sangue il prezzo delle inevitabili reazioni di Tel Aviv). Nel Libano, lo stesso obiettivo se lo propone un'altra organizzazione terroristica proiraniana, Hezbollah. In molti Paesi arabi o musulmani, la lotta a Israele è un assioma dichiarato e indiscusso. Ma i terroristi non si limitano ad attaccare lo Stato di Isarele. Uccidono anche gli ebrei disseminati nel mondo, specie in Europa, e dissacrano le loro chiese e le loro tombe. Ci indigniamo, anche a sinistra, per questi attacchi e ci commuoviamo nel ricordo dell'Olocausto. Con che coerenza potremmo fare un gesto che va contro i sentimenti e gli interessi di quel popolo e gioca a favore dei suoi nemici?
Non dubito che l'iniziativa sia, alla radice, benintenzionata. Qualcuno spera forse ingenuamente di accelerare così il processo di pace. E magari qualche furbetto pensa di ingraziarsi il favore del mondo arabo-musulmano. Ingenuo! Qualche applauso da quella parte lo riceverebbe, ma credono veramente di spuntare così di un solo millimetro l'odio dichiarato del fanatismo islamico contro di noi? Credono veramente che i terroristi dell'IS, di Al-Qaeda e via dicendo, si preoccupino veramente dei Palestinesi? Ciechi, che non hanno ancora capito di che pasta è fatto il terrorismo islamico!
Giochetti politici, in fondo innocui? No. Si tratta di un'iniziativa che alla fine può recare solo danno al processo di pace, offendendo e alienando la parte israeliana e ringalluzzendo la parte palestinese in modo da renderla meno disposta a un compromesso. Non sarebbe la prima volta: ogni volta che quella parte ha ottenuto una vittoria diplomatica, con certe disgraziate risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'ONU, ogni qualvolta si è illusa di avere il favore di certi Paesi o forze politiche europee, sempre ne ha tratto l'impulso per fare passi indietro nel cammino negoziale. Perché la capacità araba di autoilludersi è senza fine. Che stimolo avrebbe l'Autorità palestinese ad accettare le necessarie concessioni alla sicurezza di Israele, a impedire le attività terroristiche di Hamas, in cambio di una statualità che le verrebbe comunque e gratuitamente riconosciuta?
Altra questione: diciamo a destra e manca che vogliamo una politica estera "europea" e protestiamo quando manca. Sul conflitto israelo-arabo l'Europa ha, dalla Dichiarazione di Venezia degli anni '80, una linea definita e da allora immutata: due Stati conviventi in regime di sicurezza reciproca, entro frontiere riconosciute. Un fatto così politicamente rilevante come il riconoscimento dello Stato palestinese non dovrebbe essere frutto di una decisione collettiva?
Iniziativa, dunque, sotto ogni aspetto sbagliata. Che la proponga il PD, in quanto partito politico, è dopotutto un suo diritto (una chiosa, però: quando ho visto che tra i promotori c'era l'on. Bersani, un tipo che le ha sbagliate sempre tutte, mi sono convinto ancora di più che si tratta di un errore). Ma in Italia la politica estera la fanno il Governo e il Parlamento e deve risultare dalla volontà, come minimo, della maggioranza e possibilmente di un più ampio arco che includa anche le forze che, come FI, condividono i principi e gli obiettivi basici della nostra politica internazionale. Non credo che nessuno al centro e a destra sia disposto ad associarvisi (e a questo fine mi sia permesso rivolgere un appello personale al PPE e ai suoi rappresentanti in Parlamento). Ascoltando il Presidente del Consiglio giovedì sera nel programma "Virus", mi è parso prudente sull'argomento. Speriamolo! Renzi è un politico pragmatico, spero che non voglia aggiungere altra inutile legna ad un fuoco già pericoloso!
(Futuro Europa, 22 febbraio 2015)
La Palestina Stato? Una decisione folle
Assurda richiesta del Pd
di Nerio Fornasier
L'assassino di Copenaghen era figlio di immigrati palestinesi. I tagliagole che hanno giustiziato i 21 egiziani in Sinai erano fuoriusciti di Gaza che, con la Cisgiordania, i politici di Francia e ltalia vorrebbero riconoscere come Stato. Ma uno Stato, qualunque esso sia, deve fornire delle referenze democratiche per essere riconosciuto come tale e la cosiddetta Autorità palestinese ha tutti i requisiti per essere riconosciuta come avversario e nemico. È vero che la pace si fa tra i nemici e lsraele e Gaza certamente lo sono, ma da qui a riconoscere la dignità di Stato alla seconda ne corre. Nella sua Costituzione si predica la distruzione di lsraele e finché dura questa condizione tutti i riconoscimenti sono, per la democrazia, inconcepibili.
(il Giornale, 22 febbraio 2015)
Alla Comunità ebraica l'uomo che sfida i jihadisti
Per la maggioranza corrono Besso e Romano Che ha denunciato i fondamentalisti a Milano
di Alberto Giannoni
Raffaele Besso
Si apre una nuova era, per gli ebrei milanesi - e non solo per loro. Sono state depositate le liste che concorreranno alle elezioni per la formazione del nuovo Consiglio della Comunità ebraica cittadina. E fra le novità più rilevanti, saltano agli occhi il rinnovamento delle squadre, la frammentazione, e il «ticket» proposto dalla lista dei vincitori uscenti. Ha deciso di non ricandidarsi il presidente Walker Meghnagi, dimissionario dopo che la «sinistra» interna ha deciso di tirarsi indietro sull'approvazione del bilancio - atto delicatissimo in una fase di crisi finanziaria. La lista«Wellcommunity», dunque, punta tutto su un «ticket». Nella testa di lista, prima degli altri candidati che sono rigorosamente disposti in ordine alfabetico - compare una coppia di candidati. Il primo è Raffaele Besso, assessore uscente a cui viene ascritto il merito di aver scoperto il buco creato nelle casse della comunità da una truffa milionaria - così è stata denunciata. Accanto a Besso, uomo di esperienza, dal profilo tecnico, viene candidato un giovane che ha fatto molto parlare di sé in questi anni a Milano. Si tratta di Davide Romano:45 anni, già segretario per un biennio dei Giovani ebrei, Romano è soprattutto il fondatore e segretario degli «Amici di Israele», l'associazione che si è resa protagonista di battaglie molto coraggiose e visibili in difesa dello Stato ebraico e contro i fondamentalisti che lo minacciano. Agli Amici di Israele si deve per esempio la riscoperta della Brigata Ebraica, le cui insegne da alcuni anni vengono portate in corteo il 25 aprile, nel giorno che ricorda la Liberazione, evento cui la formazione ebraica dette un decisivo contributo. Negli ultimi anni, a Milano, Romano si è reso protagonista di alcune decisive prese di posizione contro il fanatismo religioso.
Ha contestato la partecipazione al Ramadan musulmano dell'Arena di un imam che in passato aveva inneggiato alle azioni kamikaze dei bambini. Più di recente ha proposto una manifestazione comune fra ebrei, musulmani e cristiani contro l'Isis. E ha chiesto provocatoriamente di assegnare la moschea di Milano a un musulmano perseguitato dalle minacce dei fondamentalisti. La lista «Wellcornmunity» dovrà vedersela soprattutto con i rivali storici di «Ken», la «sinistra» che si presenta come «Lechaim-Ken nuova vita per la Comunità». Le liste in corsa sono 5. Delle tre minori, una si caratterizza politicamente come orientata a sinistra, le altre sono formazioni di outsider. Ma il sistema elettorale ultra proporzionale con preferenze potrebbe portare a un risultato in cui non vince nessuno.
(il Giornale, 22 febbraio 2015)
Una falsa autorità morale
Il ricorso all'Onu. Solo da noi mi pare l'Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male.
di Ernesto Galli della Loggia
Meglio chiarirlo subito: per sbarrare la strada all'Isis va benissimo cercare ogni possibile via diplomatica (puntare al «dialogo» mi sembra davvero un po' troppo); egualmente giustissimo non affrettare in alcun modo un'eventuale soluzione militare della questione Libia. Tutto ciò per dire che in vista di qualunque decisione nel merito di tale questione mi sembra più che sensato guardare alle Nazioni Unite. Considerare cioè il Palazzo di Vetro come una sede preliminare ineludibile di qualunque via futura si scelga. Tuttavia, da ciò a celebrare il culto dell'Onu, a proclamarne obbligatoria l'osservanza in ogni circostanza, come sono inclini a fare da sempre una parte dell'opinione pubblica italiana e la totalità della classe politica, ce ne corre (o dovrebbe corrercene).
Invece solo da noi, mi pare, l'Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male negli affari del mondo. Solo nel nostro discorso pubblico o quasi le sue pronunce sono generalmente accolte come l'inappellabile voce della giustizia. Da qui la necessità - sentita in Italia come assoluta - di un consenso dell'Onu stessa per attestare la liceità di qualsivoglia uso della forza: non già, come invece è, per dichiararne semplicemente la conformità formale al deliberato dell'organizzazione. Deliberato - bisognerà pur ricordarlo - che non proviene però da nessuna autorità imparziale (tipo tribunale o gruppo di «saggi» o esperti super partes ), bensì da un'assemblea di Stati. Di quei «freddi mostri», come li definì a suo tempo un grande europeo, i quali sono soliti giudicare legale o meno l'uso della forza (come del resto qualunque altra cosa) sempre e comunque in base a un solo criterio: il proprio interesse politico (o, ciò che è la stessa cosa, il proprio schieramento ideologico di appartenenza). Quale autentico valore morale abbia una simile pronuncia può essere oggetto perlomeno di qualche dubbio. Del resto il carattere moralmente spurio perché fondamentalmente solo politico delle pronunce delle Nazioni Unite è attestato dal suo stesso statuto, quando istituisce il diritto di veto. Cioè la regola per cui qualunque verdetto dell'Assemblea generale degli Stati è di fatto reso inoperante e perciò nullo dal diritto riconosciuto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di opporre la loro volontà contraria. Che razza di accertamento legale, e tanto più etico, è mai quello che può concludersi in questo modo?
Un'ulteriore riprova della base in realtà assai debole su cui poggia l'autorità delle Nazioni Unite è data dagli stessi che per un altro verso si presentano come i loro più convinti paladini. Cioè da coloro che si riconoscono nelle culture politiche che maggiormente auspicano in ogni occasione il ricorso all'Onu e l'ossequio alle sue risoluzioni. Per esempio i cattolici in generale e le gerarchie vaticane: gli uni e le altre sempre pronti a sostenere l'opportunità dell'intervento del Palazzo di Vetro, l'uso delle sue istanze e l'adeguamento alle sue direttive quando si tratta di tensioni e scontri politici tra gli Stati, di minacce di guerra. Quando però si tratta di questioni di diversa natura come l'aborto, la definizione di genere o il matrimonio tra persone dello stesso sesso - questioni dove l'etica conta davvero - allora, invece, all'Onu e ai suoi meccanismi decisionali non vengono più attribuiti, chissà perché, alcuna autorità e alcun valore. Così come del resto una vasta parte dell'opinione pubblica occidentale non attribuisce neppure lei alcun valore alle varie, pazzotiche (per non dir peggio) delibere delle Nazioni Unite in materia di razzismo, sionismo e via dicendo.
La verità, come non è difficile capire, è che dietro il ritornello del ricorso all'Onu che domina la politica estera dell'Europa c'è innanzitutto l'inconsistenza di quella politica. E subito dopo il deperimento del concetto tout court di politica in senso forte: come decisione per l'appunto sulla pace e sulla guerra, sulla vita e sulla morte. E questo è, a sua volta, l'effetto dell'incertezza che regna nella nostra coscienza su che cosa siamo e sul suo senso, su che cosa dunque ci è consentito di volere e sui mezzi da impiegare per volerlo. Ormai anche il concetto primordiale di autodifesa ci appare un concetto problematico. Per qualunque cosa o quasi abbiamo bisogno del consenso degli altri, e per metterci a posto la coscienza ci diciamo che è così perché sono gli altri meglio di noi a sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Anche se dentro di noi sappiamo benissimo che gli altri, in realtà, ci indicheranno solo ciò che sembrerà più utile per loro.
(Corriere della Sera, 22 febbraio 2015)
Il prete montanaro ricordato fra i Giusti
di Chiara Beria Di Argentine
Giulio Segre con il nipote Tommaso
«Ricordo don Cirillo con gli scarponi chiodati sotto la tonaca, la giaccavento e un basco blu che correva su e giù da una frazione all'altra. Era veloce e agile come uno scoiattolo», sorride Giulio Segre. Dicembre 1943.
In fuga dai nazifascisti una famiglia di Saluzzo -Vittorio Segre, la moglie Eugenia Bigo e il piccolo Giulio di 7 anni - arrivano a Cormaiore, nome durante il fascismo di Courmayeur. I Gebirgsjaeger tedeschi a controllare i valichi, le SS ad Aosta, 5 mila lire di taglia a chi segnalava un ebreo; gelo, fame e nessuna via di fuga possibile per la Svizzera. Vittorio disperato chiede aiuto al parroco, don Cirillo Perron. E il prete di Valtournenche che saliva verso il cielo scalando il Dente del Gigante nasconde il bambino sconosciuto nello stanzino segreto dietro la sagrestia. Procura documenti falsi e lo fa passare per un suo nipote.
27 Gennaio 2015. Giornata della memoria nel 70o anniversario della liberazione di Auschwitz, il campo di concentramento dove 29 dei 45 appartenenti alla Comunità ebraica di Saluzzo furono deportati e da dove non tornarono più. Tra i morti anche Moise ed Emma, i nonni paterni di Giulio e una prozia. Dentista in pensione, ultimo ebreo di Saluzzo, Segre come ogni anno ha parlato della Shoah ai giovani. Nonostante i morti in Francia e Belgio («L'antisemitismo ogni tanto rimette fuori la testa») e la cagionevole salute (da tempo ha perso i biondi capelli che l'aiutarono a mimetizzarsi in Valle, ora ha anche i baffi bianchi) quest'anno Segre ha vissuto la ricorrenza con altro spirito. Da Israele è arrivata a Segre e al nipote di don Cirillo, don Donato Perron, la notizia che il prete montanaro per 50 anni parroco di Courmayeur è stato nominato «Giusto tra le nazioni», massima onorificenza a chi ha rischiato la vita per salvare anche un solo ebreo dallo sterminio.
«Avevo un debito di riconoscenza e ho pensato a Yad Vashem di Gerusalemme dove sono ricordati quasi 25 mila "Giusti"». dice Giulio Segre. «Gli italiani sono circa 550, non tanti. C'è Carlo Angela, padre del giornalista, Gino Bartali e parecchi sacerdoti. Don Cirillo credo sia il primo valdostano». Mi spiega, poi, le varie fasi dell'istruttoria e con quanta ansia ha atteso il risultato. «Ho segnalato quasi 2 anni fa al Cdec, il Centro documentazione ebraica di Milano, la mia storia. Ho fatto tradurre in inglese il libro "Don Cirillo e il nipotino" che mia figlia Elena mi ha convinto a scrivere e che Fusta, un piccolo editore saluzzese, ha pubblicato nel 2012. Una commissione, assai severa, di giudici ed ex deportati ha vagliato le testimonianze. Ora è arrivata la bella notizia».
Domando a Segre: ma perché ha atteso tanti anni? Don Cirillo, sacerdote molto amato da generazioni di abitanti di Courmayeur e di villeggianti, è morto nel lontano 1996. «È vero. Sono colpevole di memoria sopita per non dire negata», sospira. Narra di quando, alla fine della guerra, la sua famiglia si riunì (il padre si era nascosto a Milano e Novara; la madre di religione cattolica pur di rivederlo anche se di nascosto era tornata nel 1944 a Courmayeur) e trovò la casa di Saluzzo occupata da altri. Suo padre, ripreso il lavoro di odontotecnico, non parlava mai del passato. «Il venerdì sera lui m'accompagnava in sinagoga; con mia madre andavo la domenica a messa. Sono cresciuto così, non ateo ma laico. Dio è uno solo; è indifferente pregarlo in ebraico o, come m'insegnò don Cirillo, in latino. Alla scomparsa di mio padre a Saluzzo non c'era più nessun ebreo (Giuseppe, mio fratello minore, vive a Torino dove è presidente della Comunità). Allora, mi sono detto che qualcuno doveva pur occuparsi della sinagoga o di potare le rose al cimitero ma, soprattutto, delle nostre tradizioni e radici. Il libro? Volevo lasciare una traccia ai miei nipoti. È alla 3a edizione, non credevo che la mia piccola storia potesse interessare».
I giorni della guerra sotto il Monte Bianco, i falò accesi dai partigiani di notte su La Saxe, i cannoni tedeschi contro Dolonne e un bimbo ebreo protetto in realtà non solo dal parroco. A Giulio Segre sedicenti registi hanno chiesto soldi per farne un film, eroi e sciacalli nascono in ogni generazione.
(La Stampa, 22 febbraio 2015)
Centinaia di musulmani proteggono la sinagoga di Oslo
Un gesto di pace lanciato da una 17.enne sui social all'indomani degli attacchi terroristici di Copenaghen.
OSLO - Mano nella mano, col calare della sera e la fine del giorno di shabbat centinaia di musulmani norvegesi hanno formato un 'anello di pace' a protezione della principale sinagoga di Oslo. Un gesto simbolico lanciato quasi casualmente su Facebook da giovani scandinavi di fede islamica all'indomani degli attacchi terroristici di Copenaghen che hanno colpito uno dei tempi ebraici della capitale danese causando anche la morte di un uomo.
All'appello postato sul social network da una giovane musulmana, Hajdar Ashrad, 17 anni, hanno risposto anche non islamici in una mobilitazione che è andata al di là delle aspettative, soprattutto se si pensa che in Norvegia gli ebrei sono una netta minoranza (non più di un migliaio) a fronte dei musulmani che sono arrivati a contare quasi 200 mila presenze in un Paese di neanche 5.5 milioni di abitanti.
Organizzata in modo da finire con il termine dello shabbat, per consentire anche agli ebrei usciti dalla sinagoga di unirsi al cerchio di pace, la manifestazione ha preso il via in un clima di solidarietà e unione, fra strette misure di sicurezza che il governo di Oslo ha deciso dopo gli attentati di Copenaghen, stabilendo anche che la strada che conduce al tempio resterà per sempre chiusa al traffico.
Su Facebook del resto i giovani organizzatori erano stati chiari e determinati: "Se i jihadisti vogliono usare violenza nel nome dell'Islam - avevano scritto a inizio settimana - devono prima passare attraverso noi musulmani. Poiché l'Islam significa proteggere i nostri fratelli e sorelle a prescindere dalla loro religione, significa superare l'odio e non sprofondare allo stesso livello dei nemici... Noi musulmani vogliano dimostrare che disprezziamo profondamente ogni tipo di odio nei confronti degli ebrei formando un cerchio umano attorno alla sinagoga".
Parole semplici che hanno avuto più forza delle scontate dichiarazioni ufficiali di rifiuto e cordoglio che seguono ogni attentato. Parole che sono state molto apprezzate dalla comunità ebraica, il cui capo, Ervin Khon ha salutato l'iniziativa come "una chance per cambiare le dinamiche in Scandinavia", dove i rigurgiti di antisemitismo cominciano davvero a preoccupare cittadini e politica. Si assiste ad una crescita dei partiti di destra populisti che prendono posizione contro l'immigrazione (di ogni religione per la verità, e con frequenti accenti anti islamici) e contro ogni mescolanza: l'autore delle stragi di Oslo e Utoya, Anders Breivick, era solito farneticare contro "l'annacquamento straniero del sangue norvegese".
In un'intervista a The Local svedese, la presidente del Consiglio ebraico, Lena Posner-Korosi, ha definito questa epoca "la peggiore per gli ebrei dall'Olocausto", mentre l'ex capo rabbino di Danimarca, Rabbi Bent Lexner, ha dichiarato alla radio dell'esercito israeliano di essere "scioccato. Non abbiamo mai pensato che una cosa del genere potesse accadere in Danimarca". La stessa premier danese Hellen Thorning Schmidt all'indomani degli attentati ha osservato che "quando si attacca la comunità ebraica, si attacca la democrazia".
Il cerchio di pace della sinagoga di Oslo è dunque, per gli organizzatori, una piccola risposta a tutti gli episodi di intolleranza religiosa (compresi i roghi di due moschee a Malmoe e le 'caccè all'islamico) che nell'ultimo anno si sono susseguiti in Scandinavia: "Dobbiamo decidere in che tipo di società vogliamo vivere", dice Zeeshan Malik, 37 anni, mentre Hassam Raja esprime tutta la "vergogna di sentir dire che i musulmani vogliono sempre uccidere gli ebrei". Così, nonostante gli epigoni di Breivick, a Oslo stasera hanno 'mescolato le mani e si sono stretti in un cerchio.
(Corriere del Ticino, 21 febbraio 2015)
Ferrara - La persecuzione razziale raccontata agli studenti
Cesare Moisè Finzi ospite dell'Istituto Einaudi: "Siete voi la nostra speranza"
di Silvia Malacarne
FERRARA - "Quel giorno che cambiò la mia vita" è il titolo dell'ultimo libro di Cesare Moisè Finzi e si riferisce precisamente al 3 settembre del 1938: quella mattina, alla tenera età di 8 anni, un bambino lesse sulla prima pagina del quotidiano "Insegnanti e studenti ebrei esclusi dalle scuole governative e pareggiate".
È con queste parole che Cesare Finzi inizia a raccontare la sua storia agli studenti dell'Istituto Einaudi, durante l'incontro che si è tenuto giovedì 19 febbraio presso l'Aula Magna della scuola. Il professor Oscar Ghesini lo ha presentato, valorizzando il coraggio di quelle persone che, tenendo incontri nelle scuole, ripercorrono ogni volta un viaggio a ritroso nel dolore.
L'aula era gremita di ragazzi attenti e coinvolti in un racconto molto interessante, ma soprattutto toccante. Finzi ha spiegato come la sua vita, da serena e tranquilla che era, iniziò a cambiare quando aveva solamente 8 anni. Lui e la sua famiglia, come il cospicuo numero di ebrei che nel 1938 viveva a Ferrara, furono costretti a dichiarare di appartenere ad una razza considerata inferiore, attraverso la deposizione di un documento scritto.
Quando iniziarono a circolare le leggi razziali fasciste agli ebrei vennero imposti numerosi divieti e negati altrettanti diritti; ma la sua vita non fu più la stessa quando vennero comandate le leggi tedesche, che colpivano tutti gli individui classificati come "diversi".
Cesare Finzi racconta ai ragazzi che la sua famiglia fu costretta alla fuga perchè in quegli anni la "caccia all'ebreo" era spietata. La loro fortuna fu incontrare persone disposte ad aiutarli, anziché denunciarli: ottennero ciascuno una cartà d'identità con un nome falso, senza il timbro di appartenenza alla razza ebraiaca, e la tessera annonaria, necessaria per ricevere prima di tutto generi alimentari. Riuscirono così a sopravvivere mescolandosi al resto della popolazione.
Finzi ha ribadito più e più volte come la sua salvezza, il suo non venir mai deportato e il suo essere ancora vivo oggi, siano dovuti in gran parte al buon cuore di tutte quelle persone che hanno messo a rischio se stessi per aiutare lui e la sua famiglia.
Quando dopo il 25 aprile del 1945 potè finalmente tornare nella sua casa, a Ferrera, proseguì gli studi e divenne un cardiologo. Oggi, pensionato da diversi anni, ha deciso di diffondere la sua storia e farla conoscere ai più giovani. Ha concluso il suo racconto, commosso, con queste parole: "Siete voi la nostra speranza. Dovete combattere per la ragione, la giustizia, l'umanità, per evitare che tragedie simili non si ripetano mai più".
(estense.com, 21 febbraio 2015)
Spettacolari nevicate in Israele, Giordania e Libano: la situazione torna alla normalità
Anche il deserto del Negev - una zona delle zone piùaride di Israele - ha avuto la sua spruzzata di neve
Ieri il Medio Oriente è stato ricoperto da una spessa coltre bianca. Le principali arterie di accesso dalla fascia costiera e dalla Cisgiordania erano ostruite, e nelle strade solo pochi veicoli azzardavano avventurarsi senza catene o pneumatici adatti. La bufera era stata largamente prevista e dunque grazie alle ruspe del municipio e a mezzi blindati dell'esercito all'interno della citta' le strade principali erano percorse da mezzi pubblici. A Mea Shearim, un rione ortodosso ebraico, i bambini si sono dilettati a fare pupazzi di neve che avevano le forme di austeri rabbini. Nella Spianata delle Moschee - uno dei luoghi piu' contesi fra palestinesi ed israeliani - si sono visti fedeli islamici divertirsi nell'affrontarsi a decine con palle di neve. Nel sottostante Muro del Pianto, i fedeli ortodossi ebrei vestiti di nero spiccavano sullo sfondo del manto nevoso, alto una ventina di centimetri. Nelle previsioni era stata anticipata una delle tempeste di neve piu' importanti degli ultimi anni. La realta' e' stata piu' contenuta e gia' nel pomeriggio a Gerusalemme e' stata quasi ripristinata la normalita'. Comunque abbondanti nevicate si sono avute anche nelle alture del Golan; nei monti della Galilea; nelle elevazioni della Cisgiordania, da Nablus a Hebron. E anche il deserto del Negev - una zona delle zone piu' aride di Israele - ha avuto la sua spruzzata di neve.
(MeteoWeb.eu, 21 febbraio 2015)
«Amos, Amos, perché mi deridi?» (5)
22 febbraio 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco
Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz
quello che mi ha spinto a leggere il tuo ultimo romanzo è stato proprio il riferimento alla persona di Giuda, e dunque a quella di Gesù. Il motivo per cui hai voluto far intervenire i Vangeli in un intreccio romanzesco che poteva benissimo farne a meno, ancora non mi è chiaro. Ai personaggi del tuo libro, e probabilmente anche a te, le antiche e sempre attuali questioni dottrinali sulla persona di Gesù non interessano nulla. Dispute sulla sua nascita, se sia avvenuta per l'opera dello Spirito Santo o di un soldato romano; sulla sua morte, se sia da imputare al Sinedrio ebraico o al Governatore romano; sulla sua risurrezione, se sia davvero avvenuta o sia una menzogna inventata in seguito dai suoi discepoli, sono fatti su cui non pensi che valga la pena discutere.
Tuttavia sono questioni che hanno a che vedere con la verità: pongono domande del tipo "è vero? è falso?" A te però questo non sembra che interessi. Tu non sei, né vuoi essere, uno scienziato: sei un romanziere, un artista, e in quanto tale non fai ricerche su qualcosa di oggettivo: tu crei. La tua creazione però non è da considerare opera di pura fantasia, perché la netta distinzione tra immaginazione e realtà oggi non è più attuale. Nella nostra diffusa cultura postmoderna non si ricerca la verità (al singolare), ma si creano tante verità (al plurale) da mettere a confronto le une con le altre in modo educato e pacifico. Ti sei creato dunque il tuo Gesù con spezzoni di documenti raccolti un po' qua un po' là, tenuti insieme da un collante di fantasia molto debole, con un risultato che è una mezza favola in cui si vedono ectoplasmi muoversi in una sudicia semioscurità.
Ma fino a qui rimaniamo nella legittima e opinabilissima critica del valore letterario di un'opera. Quello che a me interessa invece è l'uso della Bibbia che fanno i tuoi personaggi, anche perché non si può escludere che qualche tuo lettore sappia di Gesù poco di più di quello che legge nel tuo libro.
Evidentemente a te interessa presentare un Gesù che non soltanto non è Dio, né ha mai preteso di esserlo, ma non ha niente a che fare neppure con i cristiani: il tuo Gesù è un vero ebreo, un puro ebreo, ligio osservatore della legge di Mosè, anche se senza le durezze e i fanatismi di certi scribi e farisei di quel tempo.
Trovi allora che servano ai tuoi scopi alcune citazioni tratte dal Vangelo di Matteo: "'Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutto quello che vi dicono" (Matteo 23,2-3). E aggiungi: "Se ne deduce che Gesù riconosce non soltanto la Torah scritta ma (anche) la Torah orale: 'Non sono venuto per abolire la legge ma per adempierla' (Matteo 5, 17). E ancora: 'Fino a quando non passeranno il cielo e la terra, nulla passerà dalla legge' (5,18)".
Capisco che tu abbia voluto costruirti un Gesù su misura per renderlo adatto alle esigenze letterarie del tuo romanzo, ma perché torcere a questo scopo i testi biblici, inserendo nel racconto elementi non solo fantastici, ma anche falsi?
Nel suo famoso Sermone sul Monte Gesù ripete più volte con forza: "Voi avete udito che fu detto agli antichi... (Torah orale), ma io vi dico". Chi avrebbe oggi il coraggio di contrastare in modo così netto l'autorità degli antichi saggi e contrapporre ad essa un perentorio e indiscutibile: "Ma io vi dico!"? Si possono già immaginare le risposte: "E tu chi sei? sei forse il nostro Papa?" Ed è più che comprensibile: anch'io direi la stessa cosa, perché il Papa effettivamente si è assunto, senza averne alcun diritto, un'autorità che appartiene soltanto a Gesù, e non ad altri.
Molto usata, anche dai cristiani di una certa corrente, è poi un'altra frase di Gesù che riporti nel tuo libro: "Non sono venuto per abolire la legge ma per adempierla". Secondo alcuni, questo significa cheGesù ha voluto soltanto umanizzare la Torah, ammorbidirla, privarla di quegli elementi formalisti che aveva ai suoi giorni, ma non certo eliminarla. Evidentemente hai voluto mantenere Gesù nel campo prettamente ebraico, impedendone il rapimento da parte dei cristiani. A loro hai lasciato Giuda. Molto volentieri. "Visto in una prospettiva contemporanea - dice infatti il tuo Shemuel -, lui era una specie di ebreo riformato. O neanche riformato, piuttosto fondamentalista, non nel senso di fanatico, piuttosto in quello di ritorno alle radici pure, ai fondamentali. Aspirava a depurare la fede ebraica di tutte le ridondanze rituali che si erano accumulate, di tutte le scorie che il sacerdozio aveva prodotto e i farisei moltiplicato" (p.128).
E' vero che Gesù ha denunciato e anche ridicolizzato certi modi puntigliosi e ipocriti di osservare i precetti della legge, ma certamente nel suo insegnamento sulla legge non ha fatto sconti; in nessun modo Gesù può essere paragonato a un ebreo riformato dei nostri giorni. La differenza sta nella risposta a questa domanda: "Per quale motivo e a quale scopo devono essere osservati i precetti della Torah?" Che cosa risponde l'ebreo riformato? Che cosa risponde Gesù?
I precetti sono un imperativo, e come ogni imperativo richiedono il sostegno di un indicativo. Non è filosofia, è qualcosa che si trova nella Bibbia, patrimonio del tuo popolo. Le dieci parole pronunciate da Dio sul monte Sinai sono ordini secchi, imperativi che non ammettono obiezioni, ma sono preceduti da una proposizione indicativa che ne sta a fondamento e senza la quale tutto il resto non avrebbe senso: "Io sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù" (Esodo 20:2). Se non si crede a questo indicativo che manifesta l'opera di Dio nel passato, che senso ha sottomettersi a una moltitudine di imperativi imposti da qualcuno in cui non si crede? Ma prima ancora di un indicativo che ricorda il passato, Dio aveva dato a Mosè un indicativo riguardante il futuro: "'Or dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa'" (Esodo 19:5-6). I precetti della prima versione delle tavole della legge dunque sono inseriti tra un'azione liberatoria di Dio nel passato e un progetto di cammino con Dio nel futuro.
L'opera di Gesù si svolge in un sottofondo biblico dello stesso tipo. Gesù non comincia facendo nobili esortazioni morali, dando buoni consigli, dicendo a tutti: "Mi raccomando, siate buoni, non vi azzuffate, vogliatevi bene". Il Gesù dei Vangeli non ha niente a che vedere con i predicatori dell'amore universale tra gli uomini, con i sognatori che buttano sugli altri il peso dei loro sogni, facendoli diventare incubi sulle spalle altrui, ossessioni che rendono ancora più difficile sopportare le misere angustie del presente. Gesù comincia il suo ministero "sanando ogni malattia ed ogni infermità fra il popolo" (Matteo 4:23). Prima ancora di parlare, Gesù opera. E le sue sono opere di amore: un amore che libera, guarisce.
Gesù però non ha risolto completamente il problema della malattia in Israele: di malati sicuramente ce n'erano ancora molti. D'altra parte, neanche Dio ha risolto completamente i problemi del popolo ebraico liberandolo dalla schiavitù d'Egitto. Che significato hanno allora le opere potenti fatte da Gesù? Sono espressioni d'amore, risponderà qualcuno. Sì, certo, ma non basta. A un malato io posso esprimere il mio amore sincero, ma questo non lo farà guarire. Del resto, non sono state forse espressioni d'amore gli interventi di Dio verso il suo popolo in Egitto? Certamente, e la Scrittura lo mette bene in evidenza: "L'Eterno disse: Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi angariatori; perché conosco i suoi affanni" (Esodo 3:7). E dopo aver visto, che ha fatto? Se fosse stato uno come noi, starebbe ancora lì a piangere, ad affliggersi con gli afflitti, esprimendo in questo modo il suo grande amore, certo, ma senza poter fare niente di concreto per cambiare realmente le cose.
Ma che poteva fare Mose, l'incaricato di Dio? Aveva davanti a sé il Faraone, la più grande potenza mondiale del tempo, che non era affatto disposta a lasciar cambiare la situazione dei disprezzati ebrei. Dio non si presenta di persona al Faraone, cosa che certamente avrebbe chiuso subito il caso, ma incarica Mosè di portare un suo ordine al sovrano: "Così dice l'Eterno, il Dio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto" (Esodo 5:1). Si può ben capire la sorpresa e l'irritazione del potente Faraone, che avrà pensato: "Dunque questi cenciosi ebrei hanno anche loro un dio? un dio che si permette di dare ordini a me? e chi è questo dio?" "Il Faraone rispose: Chi è l'Eterno ch'io debba ubbidire alla sua voce e lasciar andare Israele? Io non conosco l'Eterno, e non lascerò affatto andare Israele" (Esodo 5:2). Così il Signore è stato costretto a presentarsi. E lha fatto in modo discreto, non direttamente, ma attraverso dei segni. Segni della sua autorità: le dieci piaghe. Il Dio d'Israele non è il protettore degli ebrei come Sant'Uberto è il patrono dei cacciatori (così almeno vuole la tradizione popolare cattolica): non c'è autorità superiore alla sua. Quindi, quando si parla di Dio, si stia attenti a non porre con arroganza la domanda: "Chi è? io non so chi è; io non lo conosco". Perché Dio potrebbe presentarsi, anzi, prima o poi certamente lo farà. E allora saranno guai.
Come si vede, la domanda: chi è? riferita a Dio, si è posta fin dall'inizio della storia del popolo ebraico. E la domanda: chi è? riferita a Gesù, si è posta fin dall'inizio del suo ministero. E continua a porsi ancora oggi.
Con le sue potenti opere liberatorie, Gesù ha cominciato a dare elementi per rispondere a questa domanda: i suoi sono segni messianici di autorità. Un'autorità d'amore, salvifica, liberatrice, ma un'autorità totale, di provenienza divina, come quella usata da Mosè.
Dopo aver mostrato la sua fattuale autorità di liberatore dalla schiavitù del male, Gesù è salito sul monte per mostrare con la bocca la sua autorità di governatore. Vale dunque anche qui quello che si era visto al tempo di Mosè: Colui che ha il potere di liberare, ha anche il diritto di comandare. L'Eterno, che udendo i gemiti del suo popolo scende a liberarlo, durante il viaggio verso la Terra Promessa scende ancora una volta per dare ordini.
Gli ordini dati da Dio al popolo però non devono essere visti come una specie di pagamento per la liberazione ricevuta, come il rovescio della medaglia. Si parla infatti di dono della legge. Ma anche questo termine ha bisogno di essere chiarito, perché qualcuno potrebbe immaginarsi un Dio che al suo popolo dice più o meno questo: "Vi ho fatto un dono prezioso, l'ho fatto soltanto a voi e quindi questo vi mette in una posizione di privilegio e responsabilità. Abbiatene cura, parlatene fra di voi, discutete, litigate, praticatelo nel modo che vi sembra migliore, ma non venitemi a disturbare con le vostre domande e nessuno vada in giro a dire che ha saputo da me qual è l'interpretazione autentica da dare ai miei ordini, perché non sarebbe vero. D'ora in poi ve la dovete sbrigare fra di voi. Shalom".
Ecco, qui comincia il disagio provocato da Gesù tra le autorità religiose di quel tempo, e non solo. Non sono stati certi particolari, stranissimi precetti introdotti da Gesù a creare il malessere fra gli scribi e i farisei, perché molti studiosi hanno dimostrato che l'insegnamento morale di Gesù non si discosta di molto da quello rabbinico, e tuttavia questo non fa di Gesù soltanto uno dei molti rabbini. Alla fine del suo Sermone sul Monte le folle non dicono: "Ma che bel discorso, che belle parole, che insegnamenti edificanti!". L'elemento sottolineato dall'evangelista è un altro: la sorpresa. Sorpresa non per le sue parole, ma per lui. Gesù parlava con autorità; un'autorità che non avevano mai avvertito prima di quel momento. "Ora, quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle stupivano del suo insegnamento, perché egli le ammaestrava come uno che ha autorità e non come gli scribi." (Matteo 7:28-29).
Ma di questo sermone, o meglio, di Colui che l'ha pronunciato, varrà la pena di continuare a parlare.
Shalom,
Marcello
Il Roma Club Gerusalemme apre una scuola calcio per bambini israeliani e palestinesi
Un'iniziativa importante quella del Roma Club Gerusalemme, un invito alla pace e all'unificazione per i due popoli, da sempre in conflitto.
Quando non è coinvolto in scandali, episodi di razzismo e gesti di violenza, il calcio può essere anche uno strumento utile per unificare, e pacificare. Parlare di pace in questa situazione, per i gravi "dissidi" tra le due parti, è utopico, ma sicuramente il gesto degli italiani del Roma Club Gerusalemme di fondare una scuola calcio aperta sia a bambini palestinesi, sia a quelli insraeliani, è uno di quegli eventi degni di nota in un periodo nel quale il conflitto insraelo-palestinese continua a spargere sangue tra i due popoli, bambini compresi.
Da Copenaghen a Milano, l'insicurezza degli ebrei (e di tutti)
di Daniele Nahum
Subito dopo aver appreso dell'attentato alla Sinagoga di Copenaghen mi si è raggelato il sangue e il file della memoria mi ha fatto venire in mente un episodio della mia vita risalente a dodici anni fa. Stavo facendo l'interrail con degli amici e mi trovavo proprio a Copenaghen.
Quel sabato mattina decidemmo di andare in Sinagoga.
In genere è un luogo che in Italia frequento poco ma quando espatrio, forse per tenermi ancorato alle mie radici, cerco di andarci per la funzione dello Shabbat. Di quel sabato mi sono rimaste impresse due cose. La prima cosa era che la Sinagoga era ben presidiata e si notava la presenza di un importante servizio di sicurezza. Mi ricordo perfettamente che pensai:
"Non è eccessiva tutta questa protezione per una città come Copenaghen?".
Purtroppo i fatti, a distanza di dodici anni, non mi hanno dato ragione. La seconda cosa che mi è affiorata per la mente fu la gentilezza con cui ci accolsero gli ebrei danesi. Ricordo che dopo la funzione ci invitarono a mangiare insieme a loro in un centro ebraico adiacente alla Sinagoga. Passammo un pomeriggio davvero molto bello, con la piacevole sensazione di stare in famiglia.
Dal mio punto di vista, da questi attacchi antisemiti l'Italia e l'Europa devono trarre una amara lezione: uccidere gli ebrei è uno degli obiettivi principali del terrorismo islamico internazionale.
Dobbiamo iniziare ad essere consapevoli che quello che è successo prima a Parigi e poi a Copenaghen, può succedere anche nella nostra Milano e in qualsiasi altra città italiana. Inoltre, l'attentato alla Sinagoga di Roma dove perse la vita il piccolo Stefano Gay Taché, deve farci sempre ricordare che il nostro Paese non è immune agli attentati terroristici contro obiettivi ebraici. Chiaramente questi fatti hanno inevitabilmente fatto aumentare il sentimento di insicurezza tra gli ebrei italiani. Ora però l'Europa non può abdicare contro chi vorrebbe portare le lancette della storia ai tempi del medioevo. Dunque, per le democrazie europee, diventa d'uopo mettere in campo delle politiche che preservino i valori di libertà, democrazia e convivenza tra le diverse culture che il Continente europeo plasticamente rappresenta.
Partendo appunto dagli strumenti da mettere in campo per sconfiggere la piaga dell'antisemitismo.
Non credo però che la soluzione prospettata sia quella del Premier israeliano Nethanyau, cioè quello di invitare gli ebrei danesi ad emigrare in Israele. La giusta soluzione per l'Europa sarebbe quella di creare una società integrata e unita nella diversità. Bisogna puntare su questi valori chiaramente rafforzando la sicurezza dell'Unione Europea. Inoltre la presenza degli ebrei in Europa è millenaria. In genere la presenza ebraica in Europa ha avuto la funzione di misurare la temperatura della tolleranza delle nostre società.
Quando la minoranza ebraica è stata perseguitata, le libertà nel continente europeo hanno sempre vacillato.
(Corriere della Sera - Milano, 21 febbraio 2015)
Vichy, il carabiniere che salvò tremila ebrei
di Monica Zornetta
Il carabiniere Massimo Tosti
C'è stato un periodo, durante la seconda guerra mondiale, e un luogo, nel cuore dell'Europa, in cui migliaia di ebrei riuscirono a sottrarsi alla furia persecutrice dei nazisti e della polizia collaborazionista francese, aiutati da gruppi di soldati e di ufficiali dei carabinieri e dell'esercito italiano. Il luogo era la Francia meridionale, l'allora État Français presieduto con pugno di ferro dal maresciallo Pétain; il periodo quello compreso tra la fine del novembre 1942 e l'8 settembre '43, vale a dire i dieci lunghi mesi di occupazione dei dipartimenti amministrati da Vichy da parte delle forze dell'Asse. Di questo pezzo di storia, da più parti definito incredibile considerate le feroci leggi razziali in vigore in tutti i territori europei controllati dai tedeschi, si è parlato molto poco. E lo si è fatto solo in tempi relativamente recenti, rispolverando per esempio l'episodio di Saint-Martin-Vésubie, il paesino a nord di Nizza occupato dai militari italiani e diventato il rifugio sicuro per moltissimi ebrei.
Mai, però, si è parlato di "quegli" italiani, degli uomini in divisa che, sfidando il cinismo degli accordi politici, il rischio di scontri a fuoco con gli alleati germanici e di cruente rappresaglie contro le proprie famiglie, si sono rifiutati di consegnare alla Gestapo e alla polizia di Vichy gli elenchi degli ebrei di quel Paese. Non li hanno arrestati né respinti alle frontiere né tantomeno caricati nei treni piombati diretti ai campi di concentramento. Hanno semplicemente obbedito alla legge della fratellanza prima che alle leggi di guerra.
Il capitano dei carabinieri reali Massimo Tosti, classe 1901, molisano di pochissime parole e di molti fatti, è stato uno di loro. Uno di "quegli" italiani che si potrebbero definire "eroi". Dislocato insieme al Decimo Battaglione Carabinieri Mobilitato (dipendente dalla Legione Mobile di Milano) nei territori costieri di Mentone e Nizza, tra il 1942 e anche successivamente all'8 settembre '43 l'ufficiale aiutò centinaia di persone, ebrei, ma anche militanti antifascisti, a salvarsi. E, per farlo, mise in pericolo la sua vita e quella della famiglia. Per non parlare della carriera. Tosti, come confermano alcune lettere autografe ritrovate dal figlio e dalla nipote nella sua ultima residenza a Milano, dove è morto nel 1976, facilitò l'arrivo nel dipartimento delle Alpi marittime di diverse migliaia di perseguitati di religione ebraica. Francesi, ma anche olandesi e belgi. Fornì falsi documenti e sistemazioni sicure nei territori dell'entroterra occupati dagli italiani.
In queste preziose operazioni l'ufficiale godeva della collaborazione del celebre banchiere italo-francese, già console generale della Repubblica di San Marino, Angelo Donati, il Pape des juifs come lo chiamavano sprezzantemente le milizie transalpine, che strappò al pericolo della morte quasi tremila persone trasferendole nel villaggio di San-Martin-Vésubie.
E fu proprio il modenese Donati, nel 1945, a ricordare in una missiva il lodevole contributo offerto da Tosti alla causa ebraica. «Il detto ufficiale - si legge - ha dimostrato senso di comprensione e di umanità, facilitando l'arrivo di circa quattromila ebrei nelle Alpi marittime e la loro sistemazione in centri designati di comune accordo fra il comando dei carabinieri e il sottoscritto, interpretando nel senso il più favorevole agli ebrei le disposizioni delle superiori autorità. Il capitano Tosti, insieme al capitano Salvi - prosegue il documento firmato da Donati -, dopo l'8 settembre 1943 ha provvisto di falsi documenti un numero importante di ebrei stranieri che avevano attraversato le frontiere per rifugiarsi in Italia e sfuggire alla Gestapo».
Sebbene sconosciuta in Italia, la loro opera, e quella dei carabinieri italiani, ha avuto una certa risonanza a livello internazionale tanto da essere evocata, continuava Donati, «in congressi mondiali ebraici, tenutisi negli Stati Uniti». E, ancora, ai due ufficiali ha dedicato alcune righe anche lo storico e filosofo franco-russo Léon Poliakov nel saggio La Condition des Juifs en France sous l'Occupation italienne (1946). Oltre a Donati, molti altri ebrei messi in salvo dal capitano, gli scrissero, anni dopo, lettere piene di stima, riconoscenza e affetto. E pure molti antifascisti liguri che egli sottrasse alla fucilazione e alla deportazione misero nero su bianco la loro gratitudine, a guerra finita.
«Ciò che fece mio padre è stata una scoperta anche per me, visto che non parlò mai di queste cose in famiglia - spiega il figlio Giancarlo, oggi settantottenne - non sapevo che papà avesse aiutato così tanta gente. Sapevo invece che era ricercato dalle SS e che, per questo, dalla fine del '43 al '45 aveva vissuto col timore che da un momento all'altro lo andassero ad arrestare per attività sovversiva. Ero bambino, ma ricordo che qualche volta alcune persone, che ho saputo poi essere ebree, venivano a casa nostra e lo pregavano di tenere con sé i loro gioielli, riconoscendo in lui una integrità e una umanità ben più profonde di quelli che erano i principi inculcati a un ufficiale dei carabinieri reali».
Parole capaci, da sole, di riassumere l'intera storia di Massimo Tosti (terminò la carriera col grado di tenente colonnello) e che diventano una lezione importante, raccolta, non da ultimo, da colui che al tempo era un suo giovane e promettente collaboratore: il capitano, e futuro generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
(Avvenire, 21 febbraio 2015)
La sharia sbarca in America. Aperto il primo "tribunale islamico" in Texas
Il tribunale islamico nel Texas
I membri del tribunale islamico
Anche negli Stati Uniti c'è un tribunale della sharia. Per ora è una organizzazione no profit che si chiama "Islamic Tribunal" con sede a Irving (Dallas), dove risiede una delle più grandi comunità di musulmani in America, ma naturalmente la notizia, diffusa circa un mese fa, è diventata subito un caso, visto che lo stesso "tribunale" non solo si offre di risolvere controversie a partire dalla "legge coranica", ma nel suo sito (da cui è tratta la foto a lato) si ripromette anche di «costituire un precedente che sia emulato e replicato in tutto il paese». I quattro giudici che compongono il "tribunale islamico", tre dei quali sono imam, sostengono che è possibile, sfruttando l'istituto dell'arbitrato, ricorrere al loro giudizio su alcune materie: basta presentare alle autorità un documento che attesti esplicitamente la volontà di partecipare a una risoluzione della controversia fondata sulla sharia. Nella dichiarazione di intenti, l'organizzazione sostiene di voler aiutare i musulmani «scontenti» del sistema giuridico americano per quanto riguarda le cause civili relative a divorzio, affari, immobili. Restano esclusi i processi penali, materia nella quale il la sharia confliggerebbe con le leggi degli Stati Uniti.
SHARIA FIRST - «Le corti degli Stati Uniti - si legge ancora sul sito dell'organizzazione - sono care e formate da giuristi incompetenti», ecco perché i musulmani d'America se non vogliono rinunciare alla giustizia terrena «sono obbligati a trovare un modo di risolvere conflitti e dispute in accordo con i princìpi della legge islamica e con la sua eredità legale di equità e giustizia, in modo ragionevole ed economico». Il punto è: in base a quale criterio decide l'imam nel caso in cui la sharia e la legge texana entrassero in contrasto? «Seguiremmo la sharia», ha ammesso Taher El-badawi, uno dei giudici, in una intervista a Breitbart News che ha fatto molto rumore. Nella chiacchierata con il giornalista El-badawi ribadisce più volte che comunque il ricorso al "tribunale islamico" è sempre su base volontaria, e se una parte in causa non fosse soddisfatta del verdetto può sempre rivolgersi al tribunale del Texas. Tuttavia il giurista sharaitico non accetta di spiegare a quali conseguenze può andare incontro chi decida di non seguire le sentenze dei quattro.
IL SINDACO SI RIBELLA - Un paio di settimane fa anche il sindaco di Irving, Beth Van Duyne, è intervenuta sul caso, sottolineando in un post su Facebook che «il tribunale della sharia NON è stato approvato o istituito dal Comune» e che «la Corte Suprema del Texas non consente l'applicazione del diritto straniero» all'interno dello stato. Van Duyne ricorda di essere obbligata a rispettare le leggi dello Stato e la Costituzione americana in forza del giuramento pronunciato come sindaco, e assicura che lavorerà per contrastare ogni «violazione dei diritti fondamentali». Tutt'altro che intenzionata a minimizzare la vicenda e le sue possibili conseguenze, la prima cittadina di Irving aggiunge infine che «la nostra nazione non può essere così eccessivamente sensibile nel difendere altre culture che noi smettiamo di proteggere la nostra».
IL PRECEDENTE BRITANNICO - Il timore espresso da diversi osservatori è che anche negli Stati Uniti i tribunali della sharia si diffondano come in Gran Bretagna, dove l'arbitrato sulla base della legge coranica è stato accettato da principio solo per alcune materie, che poi però sono andate inevitabilmente aumentando, fino di fatto a rendere possibile l'emanazione di sentenze - per esempio in casi di abusi domestici - molto controverse rispetto alla legislazione del paese.
(Tempi, 21 febbraio 2015)
Agli ebrei busta bianca invece della stella gialla
Spedizione anonima per la rivista della comunità israelita di Berlino
BERLINO - Il mensile ebraico consegnato nella posta Meglio in busta anonima, per non turbare l'eventuale vicino di casa antisemita, ovvero per proteggere l'identità della famiglia abbonata. Succede a Berlino. Dalla prossima edizione, Jüdisches Berlin verrà assimilato a un foglio carbonaro, da consultare nel segreto della propria abitazione.
A differenza di tanti altri Paesi europei dove l'antisemitismo impazza, la Germania continua a essere relativamente più sicura per i suoi cittadini di fede ebraica. In controtendenza rispetto al panorama europeo, la Repubblica federale tedesca ospita una comunità ebraica in espansione, passata dal 1990 a oggi da 30mila a oltre 120mila unità. Sono stati gli ebrei in fuga dall'exUrss a ripopolare le comunità della Germania ovest. Nell'ex est spicca poi Berlino, che ospita anche alcune migliaia di israeliani in cerca di fortuna nella locomotiva d'Europa. I memoriali per ricordare l'orrore nazista non mancano, così come sono numerose le campagne a favore della memoria e della conoscenza reciproca. Fino al prossimo marzo, per esempio, il museo ebraico di Berlino ospita una mostra sulla circoncisione rituale. E tuttavia neppure la Germania pentita del suo passato nazista è immune all'odio per gli ebrei. Lo si è visto la scorsa estate, in occasione dell'ultimo conflitto fra Israele e Hamas, quando le strade di Berlino hanno ospitato violente manifestazioni anti-israeliane, a tratti apertamente antisemite. Fra gli slogan dei sedicenti amici della Palestina, in prevalenza arabi e turchi, ha risuonato un sinistro: «Ebreo, ebreo, vile maiale! Vieni fuori a combattere!». Nell'autunno una Angela Merkel scandalizzata organizzava una manifestazione pubblica alla Porta di Brandenburgo per dire che «chi attacca gli ebrei attacca tutta la Germania». Impensabile, poi, che nei teatri o sui canali televisivi tedeschi si permettano gli sconci antisemiti a cui ha abituato il pubblico francese il controverso comico Dieudonné M'bala M'bala.
Tuttavia, l'impegno delle istituzioni non basta. Il segnale d'allarme è stato lanciato da Ilan Kiesling, portavoce della comunità ebraica di Berlino. Intervistato dal Tagesspiegel, Kiesling ha spiegato che la decisione serve «a ridurre le possibilità di atti ostili nei confronti dei nostri abbonati». Spaventati dal moltiplicarsi degli allarmi, «alcuni avevano già chiamato, sostenendo di valutare se disdire l'abbonamento». Eccesso di precauzione Forse no, se si considera che domenica scorsa la polizia ha annullato all'ultimo minuto il carnevale di Braunschweig - il più amato e frequentato nel nord del Paese - a causa di una non meglio specificata minaccia di origine salafita. Chiari di luna che hanno spaventato i lettori di Jüdisches Berlin. E se 70 anni fa la Germania metteva una stella gialla sugli ebrei per renderli più riconoscibili, oggi questi cercano di proteggersi con una busta bianca. Anonima.
(il Giornale, 21 febbraio 2015)
Gerusalemme imbiancata: la città santa coperta di neve
Tra giovedì e venerdì forte nevicata a Gerusalemme. La città santa per tre religioni si è svegliata sotto una coltre di una ventina di centimetri. Il ministro dell'Istruzione ha chiuso le scuole e i bambini si sono precipitati a giocare a palle di neve come nella spianata delle Moschee.
(Reuters, 20 febbraio 2015)
Cyberasse tra Baku e Gerusalemme
BAKU (Azerbaijan) - Nasce un asse di cooperazione in sicurezza informatica tra Israele e Azerbaijan, discusso a Baku in una riunione tra Ali Abbasov, ministro Comunicazioni dell'Azerbaigian e delle alte tecnologie con Iris Zur Bargury, capo dipartimento dell'Agenzia per le Cyber tecnologie del governo israeliano, e Rafael Harpaz, ambasciatore di Israele in Azerbaigian.
Harpaz detto che attualmente Israele e Azerbaijan stanno collaborando strettamente in diversi settori, e una delle aree di cooperazione più importanti è il settore delle Itc.
La cooperazione tra i due paesi in questo settore si basa su un accordo intergovernativo e l'Azerbaigian è pronto ad apprendere, dall'esperienza di Israele nella lotta contro la criminalità informatica, nuove metodologie in materia della sicurezza delle informazioni, come aveva detto in precedenza il Centro sicurezza elettronica azero.
Israele ha creato una struttura chiamata Tehila per combattere le minacce informatiche nel 1997, e ha costituito la National Information Security Management nel 2002.
Inoltre, il National Cyber Headquarters, istituito nel gennaio 2012, è responsabile della formazione della politica di sicurezza nazionale nel cyberspazio, e dello sviluppo della cooperazione tra gli organismi di esperti israeliani e internazionali in materia di sicurezza informatica.
L'Azerbaijan mira a rafforzare la sicurezza informatica nel settore delle Itc che è in rapida crescita nel paese, e che subisce circa il novanta per cento degli attacchi informatici dall'estero.
(agc, 20 febbraio 2015)
Il carrello della spesa "Israele-free" che Abu Mazen sogna in Palestina
Due settimane di tempo per dare fondo alle scorte di prodotti "nemici" nei market, poi tolleranza zero.
di Lucio Di Marzo
I prodotti palestinesi da un lato e quelli israeliani dall'altro. Dove per "l'altro" si intende proprio in un supermercato diverso.
Nei territori della Cisgiordania, una commissione istituita dal presidente Abu Mazen ha appena messo al bando i generi alimentari di cinque grandi società.
Tnuva, Jafora-Tabori e Prigat, Osem e Strauss-Elite sono finite tutte sotto la scure palestinese, che ha impedito così l'acquisto di prodotti caseari, bibite e alimentari. Una decisione che lascerà ai commercianti qualche giorno per far fuori le scorte e poi ognuno per la sua strada.
Tra due settimane cominceranno le prime ispezioni nei supermercati, che si assicureranno che i commercianti rispettino il bando autarchico imposto dall'Autorità nazionale palestinese, che ha descritto la mossa come "una risposta al congelamento delle tasse doganali" che Israele raccoglie per conto loro e che ha bloccato da gennaio, dopo l'annuncio palestinese dell'adesione alla Corte penale internazionale.
(il Giornale, 20 febbraio 2015)
Campagna palestinese finanziata dalla Ue
di Khaled Abu Toameh (*)
Fatah, la fazione di Mahmoud Abbas al potere in Cisgiordania sta cercando di distogliere l'attenzione dai suoi problemi interni istigando ulteriormente i palestinesi e la comunità internazionale contro Israele. Nelle ultime settimane, uomini armati di Fatah e poliziotti dell'Autorità palestinese (Ap) si sono scontrati quasi ogni giorno nei campi profughi di Balata e Jenin, nel nord della Cisgiordania.
Nel frattempo, i leader di Fatah sono occupati a denigrarsi a vicenda - un segnale delle profonde divisioni esistenti tra i vertici della fazione. Questo incitamento, che tra l'altro vuole rilanciare la vecchia tesi confutata che dietro la morte di Yasser Arafat, nel 2004, ci fosse Israele e invoca il boicottaggio delle aziende israeliane, sta facendo il gioco di Hamas e di altri palestinesi che si oppongono a qualsiasi processo di pace con gli israeliani. Durante la sua recente visita in Svezia, Abbas ha annunciato che sarebbe sua intenzione rilanciare i negoziati di pace con Israele. Ma mentre ne parlava a Stoccolma, i leader della sua fazione Fatah, in Cisgiordania, inviavano un messaggio completamente diverso ai palestinesi.
A differenza di Abbas, questi leader non hanno parlato di un qualsiasi processo di pace con Israele. Piuttosto, hanno detto che avrebbero radicalizzato i palestinesi e dato loro motivo di odiare ancora di più
Mentre Abbas stava inaugurando l'ambasciata palestinese nel centro di Stoccolma, i suoi funzionari tenevano una conferenza stampa a Ramallah per annunciare il boicot- taggio delle aziende israeliane.
Israele. Naturalmente, le voci degli alti vertici di Fatah, strettamente legati al presidente dell'Ap, non hanno raggiunto i funzionari del governo svedese, che hanno cercato in tutti i modi di accogliere Abbas in pompa magna. Così, mentre Abbas stava inaugurando l'ambasciata palestinese nel centro di Stoccolma, la prima sede diplomatica palestinese in Europa Occidentale, i suoi funzionari tenevano una conferenza stampa a Ramallah per annunciare il boicottaggio delle aziende israeliane. Nel corso della conferenza stampa, Mahmoud Aloul, un alto dirigente di Fatah, ha annunciato una nuova campagna per boicottare i prodotti di sei aziende alimentari israeliane.
Aloul ha ordinato ai negozianti palestinesi di rimuovere dagli scaffali entro due settimane i prodotti israeliani. Poi, "gli attivisti delle fazioni palestinesi faranno il giro dei territori per confiscare le merci", egli ha detto. Questa campagna di Fatah non è senza precedenti. In passato, gli attivisti di Fatah, in Cisgiordania, hanno svolto un ruolo importante nella campagna "anti-normalizzazione", volta a vanificare ogni incontro tra palestinesi e israeliani. Questi attivisti sono anche contrari alle partire di calcio tra i bambini israeliani e palestinesi e alle riunioni cui partecipano i giornalisti di entrambi i lati. Inoltre, mentre Abbas la settimana scorsa è stato in visita a Bruxelles, al Parlamento europeo, dove è stato accolto dal presidente Martin Schultz, e ha avuto dei colloqui con i leader dell'UE su come rilanciare il processo di pace con Israele, un altro dirigente di Fatah ha reiterato la falsa accusa che dietro "l'avvelenamento" di Yasser Arafat c'era Israele. Tawfik Tirawi, membro del Comitato centrale di Fatah ed ex capo dei servizi segreti dell'Ap in Cisgiordania, ha fatto "la rivelazione drammatica" durante un'intervista a un'emittente tv palestinese di Bethlehem. Tirawi, che dirige la commissione d'inchiesta sulla morte di Arafat, ha così asserito: "Siamo riusciti a identificare chi ha messo il veleno (nel cibo di Arafat). Abbiamo solo bisogno di un po' di tempo per confermare le nostri indagini. Ma naturalmente sappiamo che c'era Israele dietro l'assassinio. Stiamo cercando la persona direttamente coinvolta".
Tirawi non ha rivelato l'identità di questa persona, né ha fornito alcuna prova che c'è Israele dietro il presunto delitto. Ma reiterando l'accusa contro Israele, l'alto papavero di Fatah sta semplicemente
Chiedere di boicottare gli israeliani e i loro prodotti alimentari come può spianare la strada alla pace e alla convivenza?
alimentando più odio contro lo Stato ebraico. Una simile accusa infondata come può aiutare il rilancio del processo di pace di cui parla Abbas? E chiedere di boicottare gli israeliani e i loro prodotti alimentari come può spianare la strada alla pace e alla convivenza? Questi sono solamente due esempi recenti di come Abbas e l'Autorità palestinese dominata da Fatah stiano conducendo la loro gente a un eterno confronto, e non alla riconciliazione, con Israele. Si aggiungano a ciò le minacce quotidiane di Abbas e dei leader dell'Ap di portare Israele davanti alla Corte penale internazionale per "crimini di guerra".
Una volta dichiarato l'obiettivo di punire e boicottare Israele, è assai difficile parlare di un qualsiasi futuro processo di pace. Abbas e la sua fazione "moderata" di Fatah non solo non sono riusciti a preparare la loro popolazione alla pace con Israele, ma continuano a fare propaganda anti-israeliana tra i palestinesi e altri arabi. Se il presidente dell'Ap e Fatah avessero già stabilito che molti israeliani sono dei "criminali di guerra" che hanno anche avvelenato Yasser Arafat, come potrebbero tornare a sedersi al tavolo dei negoziati con Israele? E come potranno giustificare alla loro gente che hanno deciso di riprendere i negoziati di pace con dei "criminali di guerra"?
L'istigazione anti-israeliana e la campagna volta a delegittimare Israele hanno reso pericoloso anche per i bambini palestinesi giocare a calcio con quelli israeliani. In queste circostanze, è diventato pericoloso anche per gli attivisti israeliani per la pace recarsi a Ramallah per vedere i colleghi palestinesi. I leader dell'UE che Abbas ha da poco incontrato o non sono a conoscenza dell'istigazione anti-israeliana di Fatah oppure preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia. In entrambi i casi, l'Unione Europea non aiuta la causa della pace in Medio Oriente. Al contrario, l'Ue continua a chiudere un occhio sulla campagna contro Israele e la finanzia generosamente attraverso decine di organizzazioni non governative nei territori palestinesi.
(*) Gatestone Institut
(L'Opinione, 20 febbraio 2015 - trad. Angelita La Spada)
Israele, Giordania e Libano sotto fitte nevicate
ROMA, 20 feb. - Israele, la Giordania e il Libano si sono svegliati sotto la neve e con delle temperature glaciali, condizioni meteorologiche insolite che hanno spinto le autorità a chiudere strade e scuole e a consigliare alla popolazione di non uscire di casa.
"Sta nevicando abbondantemente a Gerusalemme dove sono già caduti circa 25 centimetri di neve e continuerà a nevicare per tutta la giornata", ha annunciato il Servizio meteo israeliano. Le scuole sono state chiuse per oggi e anche le due principali autostrade che portano a Gerusalemme - che salgono fino 795 metri - nei due sensi di circolazione per alcune ore, secondo la polizia. Prima della loro riapertura verso mezzogiorno, solo alcune macchine si erano avventurate sulle strade scivolse ad eccezione dei veicoli d'emergenza o delle 4?4. L'esercito ha deciso di mettere a disposizione dei veicoli muniti di catene per aiutare la popolazione civile. Fenomeno rarissimo, la neve è caduta anche sul deserto del Neguev, nel Sud di Israele. La neve ha anche ricoperto una gran parte della Cisgiordnia, spingendo le autorità palestinesi a consigliare alla popolazione di non mettersi in macchina né di avventurarsi all'esterno se non in caso di assoluta necessità. Nel dicembre 2013, la regione aveva registrato le più abbondanti nevicate degli ultimi decenni. Nel 1920, un metro di neve era caduto su Gerusalemme e bloccato delle strade in Israele e in Cisgiordania.
In Giordania, Paese vicino, la maggior parte delle autostrade sono state bloccate, anche nella capitale Amman. Anche qui le autorità hanno invitato la popolazione a rimanere rintanata in casa. Secondo le previsioni, la neve continuerà a cadere fino a domani notte con temperature intorno allo zero. In Libano, decine di scuole in tutto il Paese hanno chiuso i battenti e le autorità hanno bloccato diverse strade di montagna. "Questa stagione è abbastanza insolita ma non senza precedenti", ha dichiarato Wissam Abu Hashfeh, del Servizio meteo del Libano. "Ci sono state delle forti grandinate a Beirut e la neve è caduta a 200 metri di altitudine", ha aggiunto.
(ContattoNews, 20 febbraio 2015)
Israele: +7,2% nel quarto trimestre
L'economia israeliana è cresciuta nel quarto trimestre del 2014, si tratta della sua più forte crescita in quasi otto anni, con un incremento del 7,2% dopo un rallentamento registrato nel corso del trimestre precedente.
Il conflitto di Gaza, durato 50 giorni tra luglio e agosto, ha pesato sull'attività nel terzo trimestre, in particolare nel settore del turismo. La crescita in questo trimestre ha visto tuttavia un rialzo pari allo 0,6% contro lo 0,4% precedente ed una contrazione dello 0,4% nella prima stima.
Gli economisti intervistati da Reuters attendevano una crescita del 3,3% nel ritmo di un anno.
Il rimbalzo è stato generale, dalle esportazioni al consumo interno attraverso la spesa pubblica e anche nel settore degli investimenti. Questo porta il tasso di crescita per l'intero anno del 2014 al 2,9%, più della stima preventivata che si aggirava attorno al 2,6% ma leggermente inferiore al 3,2% registrato nel 2013.
Le esportazioni, che rappresentano circa il 40% dell'attività economica complessiva, sono salite al 7,3 % nel quarto trimestre, secondo l'Ufficio centrale di statistica. La spesa privata, un altro indicatore molto importante, è cresciuta del 6,8%. Gli investimenti in attività immobilizzate hanno guadagnato circa l'8,7 %, dopo un declino registrato nei tre trimestri precedenti.
Come si legge in un articolo comparso su Capital.fr, l'ultimo periodo di crescita che risulta essere tanto vigorosa come quella registrata nel 2014, risale solo al primo trimestre del 2007, pochi mesi dopo la guerra in Libano.
(Siliconwadi, 20 febbraio 2015)
«Non cederemo alla sharia»
Parlano gli scrittori scampati alla strage nel caffé di Copenaghen.
di Giulio Meotti
Agnieska Kolek
ROMA - "Sono nata in Polonia, dove i comunisti controllavano la radio, allora molto popolare, per influenzare la popolazione. La sottomissione al comunismo avvenne attraverso l'indebolimento delle persone. Oggi l'islamismo fa lo stesso attraverso la paura". A parlare così al Foglio è l'artista polacca
Agnieska Kolek, che il giorno dell'attentato al caffè Krudttonden di Copenaghen sedeva al fianco del vignettista Lars Vilks. "Ero al fianco di Vilks e usavamo lo stesso computer. Quando hanno iniziato a sparare, mi sono gettata a terra, ero la più vicina alla porta di ingresso. Così ho sentito il terrorista gridare 'Allah Akbar'". A Copenaghen tira un'aria di sospetto e di paura. Il governo ha imposto la chiusura di Radio Shalom, l'emittente ebraica della capitale danese, e della scuola Caroline. "Motivi di sicurezza". Non era mai successo nella storia della comunità ebraica danese. Ieri un sospetto pacco bomba è stato recapitato alla redazione del quotidiano svedese Nerikes Allehanda, il giornale che ha pubblicato le vignette di Vilks.
Fra gli scrittori, chi di più ha la sensazione di essere davvero una sopravvissuta è Helle Brix. E' stata lei, scrittrice e giornalista danese, a organizzare il convegno su arte, islam e blasfemia dentro al caffè Krudttonden. E' stata Helle Brix a fondare il "Vilks Committee", per aiutare l'artista svedese da giorni diventato un fantasma. C'era lei con Vilks dentro la stanza refrigerante del caffé preso d'assalto dai terroristi islamici.
L'associazione della Brix a ottobre aveva assegnato un premio al settimanale Charlie Hebdo. Tre mesi prima della strage di Parigi. C'è paura adesso fra i partecipanti alle riunioni di quell'associazione presa di mira dai terroristi, come l'artista spagnolo Abdel Azcona, gli artisti danesi Kristian von Hornsleth e Bjørn Nørgaard, il giornalista Iben Foss, la scrittrice Kristina Stoltz, e fra chi ha fondato l'associazione, come l'artista Uwe Max Jensen, l'attore Farshad Kholgi, il giornalista ed editore Niels Ivar Larsen e il sociologo Jaleh Tavakoli.
Helle Brix
"Ero molto nervosa nell'ultimo mese, specie dopo l'attacco a Charlie Hebdo", racconta Helle Brix al Foglio. "A ottobre il nostro comitato aveva assegnato un premio all'attuale direttore della rivista francese. Avevamo già avuto sette incontri, quindi perché non fidarsi? Il prossimo incontro pubblico, in autunno, dovremo però farlo dentro al Parlamento di Copenaghen. Sono molto triste perché una persona è appena morta durante un dibattito e un'altra alla sinagoga. Ho ancora i brividi. Sono andata al memoriale il lunedì sera, seppure per poco tempo. Il suono emesso da quelle trentamila persone che applaudivano mi ricordava troppo gli spari. Detto questo, voglio continuare la mia routine, in questi giorni sto ancora lavorando normalmente e mi sento bene".
La scrittrice danese Helle Brix è comunque ottimista: "Ho visto la solidarietà e la risposta che c'è stata a Copenaghen. La libertà di espressione è il cuore della civiltà occidentale, se cediamo su questo sarà la fine. Non è questione di destra o di sinistra, nel nostro comitato di sette personalità ci sono anche due artisti di sinistra. Io credo che fino a quando un paese non viene colpito, fino a quando non succede qualcosa di concreto, non reagisce. E' orribile da dire, ma a volte sembra che questo sia necessario per far capire alla gente la gravità del problema qui in Europa. Tuttavia, sappiamo tutti molto bene che la questione ora non è se questo accadrà di nuovo altrove in Europa, ma dove e come si verificherà".
Flemming Rose
E' riapparso in televisione anche l'ex redattore culturale capo del Jyllands Posten, Flemming Rose, dopo anni di silenzio, e ha scelto di parlare di come si rifiuta di essere relegato in un silenzio di tomba. "Il terrore vuole intimidire tutti", prosegue Brix. "E' come nel romanzo 'La svolta' di Klaus Mann, il clima che si respirava prima dell'avvento al potere di Hitler. Nel libro vi è una descrizione di una riunione in cui la sorella di Klaus Erika, che è un'attrice, recita una poesia contro la guerra. I nazisti in sala alzarono i manganelli. Un'altra volta Erika descrive la stampa nazista come un uomo senza testa. Perché non si può parlare di una società libera, se non siamo in grado di sfidare qualsiasi dogma. Anche l'islam". Eppure c'è chi vi chiede di essere più prudenti, di non provocare, di abbandonare l'arte blasfema: "Se dobbiamo abbandonare le vignette, allora gli ebrei dovrebbero smettere anche di andare in sinagoga? Questa è la logica della capitolazione. Non c'è soluzione di mezzo fra sharia e democrazia".
L'artista polacca Agnieska Kolek la pone in questi termini: "L'occidente è libertà di espressione", dice al Foglio. "L'alternativa sono le frustate in Arabia Saudita al blogger Badawi. In Europa c'è una avanguardia
Hans Bendix: Hitler contende con il Ministro dell'Economia tedesco Hjalmar Schacht
di musulmani che vuole imporre, parola per parola, la loro idea di società, attraverso la paura e le pallottole. E' una guerra iniziata con Salman Rushdie. Il problema è che il multiculturalismo aiuta questi fanatici considerandoli vittime, dei poveretti, mentre i loro leader fanno il lavaggio del cervello ai giovani, li ghettizzano, li segregano. Due settimane fa, a Londra, di fronte a Dawning Street c'è stata una
manifestazione contro Charlie Hebdo. E' questa la loro idea di democrazia. Un cartello diceva 'la democrazia è un cancro'. Non ho dubbi che si debba continuare, per me, per la mia famiglia, per le nuove generazioni. Perché se è facilissimo perdere la libertà, è persino più difficile riottenerla". L'Europa ha già tentato la via dell'appeasement. Hitler era al potere in Germania quando nel 1933 un vignettista danese di nome Hans Bendix realizzò delle caricature sul Führer e il nazismo, profetizzando la distruzione dell'Europa. La Danimarca allora chiese di fermare queste vignette satiriche e minacciò Bendix di licenziamento da un giornale socialdemocratico. Di lì a poco, mai sazia di capitolazioni, la Germania invase Copenaghen.
E per spiegare il proprio impegno nella Resistenza, Jean Cavaillès diceva di preferire Paris-Soir al Völkische Beobachter. Chissà se domani, anziché Charlie Hebdo, non dovremo leggere al Ahram.
(Il Foglio, 20 febbraio 2015)
Il Pd pronto alla mozione pro-Palestina
di Cristofaro Sola
Di porcata non c'è stata solo la vituperata legge elettorale varata nel 2005. In questi ultimi tempi, almeno da quando è la sinistra a scandire il passo dei governi, di porcate se ne sono viste parecchie. E, a breve, se ne sta preparando un'altra. Monumentale. Stavolta ai danni dello Stato d'Israele.
Il Partito Democratico è pronto a presentare in Parlamento una mozione con la quale l'Italia riconosce l'esistenza dello Stato sovrano e indipendente di Palestina. A dirla così sembrerebbe una bella cosa, ma non lo è. Per molte ragioni. In primo luogo, una decisione del genere, non preventivamente concordata con il governo di Gerusalemme, significherebbe rinnegare l'amicizia che ha legato finora la nostra Repubblica a quella israeliana. In secondo luogo, assecondare l'astuta strategia di Abu Mazen, che vorrebbe giungere a vincere la partita del riconoscimento dello Stato di Palestina senza passare per i patti negoziali con il governo di Gerusalemme, sarebbe darla vinta a coloro che non accreditano Israele come interlocutore infungibile del processo di pace nella regione mediorientale.
Ciò che gli italiani non sanno e che questa sinistra non vuole dire è che la dirigenza palestinese non ha
proseguito nel negoziato bilaterale perché non aveva alcun mandato ad accettare il principio del diritto
La dirigenza palestinese non ha proseguito nel negoziato bilaterale perché non aveva alcun mandato ad accettare il principio del diritto all'esistenza su suolo palestinese di un'entità statuale ebraica.
all'esistenza su suolo palestinese di un'entità statuale ebraica. Riconoscimento richiesto dagli israeliani come condizione propedeutica alla stipula del trattato definitivo. In terzo luogo, la mozione che s'intende proporre metterebbe ancora una volta di più l'Italia a ruota dei paesi membri della Ue che dirigono la musica. Germania, Francia e Gran Bretagna in testa. Che la loro ostilità nei riguardi dello Stato d'Israele fosse nota non lo scopriamo oggi.
Ma che l'Italia di Renzi dopo le tante genuflessioni si appresti anche a questa ulteriore abiura della nostra politica delle alleanze, non era nel conto. La questione è resa ancor più grave dal fatto che l'Autorità Nazionale Palestinese non ha chiarito il suo ambiguo rapporto con l'altra metà del cielo palestinese, quella rappresentata dalle milizie di Hamas le quali sono dichiaratamente per la distruzione fisica di Israele. A questo punto sorge un sospetto, vista la strana coincidenza temporale nella quale si colloca l'iniziativa del Pd. Non è che c'entri qualcosa la minaccia di qualche giorno fa lanciata da Hamas all'indirizzo dell'Italia?
Non è che il brusco invito di Hamas, inviato al nostro governo, a non azzardarsi a mettere piede in Libia, abbia contribuito ad aumentare la paura tra i nostri valorosi governanti? Forse, più banalmente, siamo alla solita "sindrome di Stoccolma" che affligge da tempo le classi dirigenti del nostro paese. Più ci minacciano e più ci piacciono. Eppure ciò che sta accadendo in questo ore in Medio Oriente e in Nord Africa dovrebbe indurre a più attente riflessioni sulla questione israelo-palestinese.
La pace non è un dogma da imporre dall'alto ma un processo da costruire dal basso, a partire dai giusti bisogni e dalle legittime aspirazioni delle parti in campo. La storia passata, fatta di lotte sanguinose e di accordi traditi, non può essere rimossa dai luoghi del confronto. Al contrario, essa costituisce parte integrante del processo di costruzione condiviso dei nuovi assetti territoriali. A patto che la si racconti tutta e con il massimo dell'onestà possibile. Invece, come al solito, si finirà per dare ragione a Napoleone Bonaparte nel dire che la storia è una favola su cui ci si è messi d'accordo. Ora però bisognerà vedere se tutto il Pd è pronto a raccontare la medesima favoletta, cucita a misura delle pulsioni antisemite che sopravvivono nel vecchio continente.
Per il momento sono iniziati i mal di pancia. Speriamo che continuino perché non è proprio il momento per una carognata del genere. Di certo non è il momento per un altro hashtag: Israele stai sereno.
(L'Opinione, 20 febbraio 2015)
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NazISIS alla conquista di Cinecittà
di Alan D. Baumann
Hamas, l'organizzazione terroristica vicina ai Fratelli Musulmani egiziani, ha diffuso lunedì un comunicato nel quale si sostenevano le minacce di quella parte dell'ISIS (sarebbe meglio dire NazIsis) presente in Libia. Salah Bardawil, citato dall'agenzia Palinfo, ritiene che un intervento europeo in Libia verrebbe considerato come "una nuova Crociata contro Paesi arabi e musulmani".
Prendendo la palla al balzo, alcuni nostri eletti al Parlamento (vari PD, il PSI, il SEL e diversi Pentastellati) hanno sollecitato il riconoscimento dello Stato di Palestina. Secondo questi le minacce dal fronte del Mediterraneo potrebbero essere neutralizzate spostando l'obice contro Israele. Una sorta di contentino che andrebbe dato ad un'organizzazione già al governo di un paese che per ora non c'è. Hamas è al potere centrale e non solo di Gaza. Hamas è presente in quell'autorità presieduta dalla marionetta Abu Mazen che sfila in prima fila a Parigi contro il terrorismo islamico, cioè contro se stesso, mentre gli europei plaudono.
L'arma cui si approfittano le voci del terrore è degna dei master in comunicazione. Non solo filmati professionali di decapitazioni ma interessi nei media e in frange governative europee. E' dato accertato
In Italia un arabo che ne uccide un altro non provoca la benché minima reazione, mentre la difesa di Israele da un attacco missilistico perpetuo, offre lo spunto per manifestare quello sdegno gratuito composto da ignoranza e razzismo che taccia gli israeliani da nazisti.
che in Italia un arabo che ne uccide un altro non provoca la benché minima reazione, mentre la difesa di Israele da un attacco missilistico perpetuo, offre lo spunto per manifestare quello sdegno gratuito composto da ignoranza e razzismo che taccia gli israeliani da nazisti. Certa comunicazione e certa politica costituiscono non solo in Italia, la punta di diamante becera ed ignorante di una discreta fascia della popolazione. Per questo viviamo le notizie dalla Libia come quelle dalla Siria: semplici news lontane che non ci riguardano.
D'altronde non si deve certo sparare ad un barcone stracolmo di gente sofferente, ma la storia recente insegna come sotto le scuole e gli ospedali annidino le rampe lanciamissili e quanto sia facile imbottire di esplosivo un bambino. L'Europa non aiuta, è impreparata. Si difende cedendo altri pezzi importanti dell'etica e dell'economia. L'Unesco riconosce Gaza come patrimonio dell'Umanità, mentre grandi società degli Emirati acquistano di tutto. Ma i vari Bin Laden o Abu qualcosa, da chi ricevono i soldi?
I libici ed i loro mercenari si dicono al sud di Roma: vorranno conquistare la sede del cristianesimo od appropriarsi di Cinecittà per assodare le loro doti comunicative?
L'Europa è veramente un carrozzone di cui spesso l'Italia ne è il cocchiere. Se questi sono i nostri statisti...
(L'Opinione, 20 febbraio 2015)
Pd e Palestina: un'assurda mozione da accantonare
Matteo Renzi dovrebbe imporsi sui suoi colleghi di partito decisi a votare un documento sbagliato: non si tiene conto del fatto che Gaza è nelle mani di Hamas, il gruppo che vuole la scomparsa degli ebrei in Terra Santa.
di Pierluigi Battista.
Sempre molto determinato a battere il conservatorismo che ancora paralizza il suo partito, si tratti di Jobs act o di riforme istituzionali, il premier Matteo Renzi, che certo non vuole male allo Stato di Israele, dovrebbe imporsi anche con i suoi amici del Pd decisi a votare un'assurda mozione pro Palestina. L'assurdità ovviamente non sta nell'auspicare la nascita di uno Stato palestinese, ma nel non voler vedere che oggi una parte del territorio palestinese, Gaza, è nelle mani di Hamas: un gruppo che non vuole riconoscere lo Stato di Israele, che vuole eliminare tutti gli ebrei che inquinano la terra sacra, e che fa parte della jihad che oggi sta scatenando l'offensiva antiebraica anche in Europa.
Mentre invece si sta imponendo un altro pregiudizio, fuorviante e pericoloso: che sia Israele il nemico
È una manipolazione della storia. È un accecamento collettivo. E anche una vergogna, quando la demoniz- zazione di Israele si traduce nel boicottaggio organizzato delle merci israeliane, quando le uni- versità europee chiudono la porta in faccia agli studiosi israeliani.
della pace, che sia Israele a non voler imboccare la strada maestra di «due popoli, due Stati». È una manipolazione della storia. È un accecamento collettivo. E anche una vergogna, quando la demonizzazione di Israele si traduce nel boicottaggio organizzato delle merci israeliane, quando le università europee chiudono la porta in faccia agli studiosi israeliani, un concentrato di incultura, ignoranza antiscientifica, fanatismo e antisemitismo che certo non ha bisogno di mozioni ambigue per alimentare un'atmosfera in Europa così ammorbata da costringere, dicono gli ultimi dati, un ebreo su quattro ad andare via dal Vecchio Continente.
Poi si può dire tutto il male possibile dei governi israeliani, della loro cecità, di una politica che non ferma ma anzi incentiva nuovi insediamenti nelle terre che dovrebbero formare l'ossatura di un futuro Stato palestinese. Ma intanto un partito come il Pd non può far finta di non vedere che quella di Israele è l'unica democrazia del Medio Oriente, che la sua opinione pubblica è divisa come in tutte le democrazie che accettano il pluralismo politico e culturale. Provate a entrare in una libreria di Tel Aviv e di Gerusalemme: troverete tutti i testi più critici dell'antisionismo ebraico, troverete tutti i testi di un grande intellettuale palestinese scomparso come Edward Said, censurato e boicottato dalla dirigenza palestinese sin dai tempi di Arafat, troverete critica durissima ai governi di destra e di sinistra. Provate e entrare in una libreria di tutte la capitali dei Paesi mediorientali che fanno la guerra santa ad Israele: solo propaganda di regime, tutto censurato, tutto sotto un controllo totalitario.
In Israele si discute apertamente della politica nei confronti dei palestinesi e delle condizioni che potrebbero portare a una convivenza stabile tra due popoli e due Stati. A Gaza regna il terrore. Lo stesso Abu Mazen sembra prigioniero della sua impotenza politica. Se le mozioni pro Stato palestinese avessero un minimo di equilibrio chiederebbero tassativamente che le componenti della leadership palestinese accettassero senza indugio la legittimità dello Stato di Israele. In caso contrario, non sarebbe solo una scelta pericolosa, ma si configurerebbe come un accanimento nei confronti dello Stato ebraico. Il Partito democratico non può permettersi di commettere un errore tanto colossale.
Poi ci sarebbe anche una questione di banale opportunità, questo sospetto impegnarsi per mettere spalle al muro Israele mentre profanano i cimiteri ebraici, fanno strage nei supermercati kosher, fanno
Far finta che non esista alcuna correlazione tra chi spara missili da Gaza per uccidere il maggior numero possibile di ebrei israeliani e le cellule jihadiste che hanno deciso di perseguitare gli ebrei europei è davvero una prova di cecità.
Chi non vede dà prova di cecità,
ma chi fa finta di non vedere dà prova di complicità.
scempio dei simboli della Shoah. Ma mettiamo tra parentesi l'opportunità, e accettiamo anche l'argomento ambiguo ma molto diffuso che considera ricattatorio mettere in relazione l'antisemitismo scatenato con le botte in testa diplomatiche allo Stato di Israele. Solo che questa identificazione viene fatta propria,
interamente e senza residui, esattamente da chi sta facendo dell'antisionismo la bandiera del nuovo, omicida, aggressivo, stragista antisemitismo. Non vedere questa connessione, far finta che non esista alcuna correlazione tra chi spara missili da Gaza per uccidere il maggior numero possibile di ebrei israeliani e le cellule jihadiste che hanno deciso di perseguitare gli ebrei europei è davvero una prova di cecità. E allora se una mozione parlamentare si rivolgesse ad ambedue le parti e costringesse Hamas a riconoscere l'esistenza dello Stato di Israele almeno si sarebbe raggiunto un minimo di equilibrio. Non un atto che tenga conto della storia, perché a Camp David Israele è stato a un passo da una serie di concessioni che avrebbero dato vita allo Stato palestinese. Ma per lo meno una sollecitazione che non apparisse come un gesto di deliberato isolamento di Israele.
Dunque Matteo Renzi dica al Pd di non farsi trascinare nella follia di una delegittimazione unilaterale di Israele e proprio in un momento come questo, proprio quando l'Isis dimostra tutta la sua pericolosità, proprio quando a Parigi e Copenaghen l'offensiva fondamentalista dimostra un'aggressività e una pericolosità assoluta. Una mozione da accantonare. Un tragico errore da non commettere.
(Corriere della Sera, 20 febbraio 2015)
Museo della Shoah. Paserman si dimette. ''Troppi ritardi. Il Comune assente"
La protesta del presidente della Fondazione. "Manca la volontà politica, non si farà mai. Gravi responsabilità del sindaco Marino. Il 4 novembre sono stati aggiudicati i lavori di Villa Torlonia ma dopo tre mesi non sono iniziati".
di Gabriele Isman
Leone Paserman
«Dubito che il Museo della Shoah si farà mai. Manca la volontà politica. Io intanto mi sono dimesso». Fino a ieri Leone Paserman, ex numero uno della comunità ebraica romana, era il presidente della Fondazione Museo della Shoah. Con una lettera indirizzata ai membri del Collegio dei Fondatori ha lasciato l'incarico che ricopriva dal luglio 2008, «ma ad abbandonare ci pensavo da tempo».
- Perché si è dimesso, ingegnere Paserman? «Quando ieri mattina è arrivato l'ultimo rinvio della riunione del cda per impegni del sindaco, ho capito che non potevo proseguire nel mio incarico».
- Eppure meno di un mese fa, il 26 gennaio, eravate tutti sorridenti alla consegna della Casina dei Vallati alla Fondazione. In venti giorni cosa è cambiato? «Quella è stata una recita per la stampa alla vigilia della Giornata della Memoria. Alcuni giorni dopo abbiamo scoperto che quei locali ci erano stati assegnati soltanto per due anni, perché per un tempo superiore sarebbe stato necessario un concorso. Ma tutte le case di cui si legge sui giornali in questi giorni e le sedi di partito sono state assegnate con un bando? Noi alla Casina dei Vallati non ci siamo neanche più entrati: a marzo finirà il trasloco della Sovrintendenza».
- Cos'altro rimprovera al Campidoglio? «Il 4 novembre sono stati aggiudicati in via provvisoria i lavori del Museo a Villa Torlonia. Secondo il cronoprogramma dell'assessore Masini un mese dopo avremmo avuto l'aggiudicazione definitiva. Di mesi ne sono passati 3 e ancora aspettiamo. Ho scritto al neo assessore ai lavori pubblici Pucci, successore di Masini, ma non mi ha neanche risposto, E da quattro mesi non riusciamo neppure a riunire il cda: una volta è impegnato Marino, una volta Zingaretti, e le riunioni si rinviano. Sa qual è la verità? Manca la volontà politica di realizzare il museo».
- E alla Comunità ebraica di cui lei è stato anche presidente prima di Riccardo Pacifici non rimprovera nulla? «Non so quanto Pacifici sia convinto di quel Museo a Villa Torlonia. In fondo l'idea di realizzarlo all'Eur era sua, e meno male che non è andata a buon fine. L'Ente Eur sta fallendo».
- Quando ha scritto la lettera di dimissioni?
«Ieri sera (mercoledì, ndr) è arrivata la notizia dell'ennesimo rinvio della riunione, e al Pitigliani, alla presentazione di un libro con il ministro Gentiloni ho raccontato il mio disagio e ho criticato il sindaco».
- Marino c'era?
«No, c'era solo Zingaretti. Forse il sindaco si è offeso, ma io ho dato notizie vere, e verificabili.
- Sull'impegno per il Museo meglio Marino o Alemanno? «Alemanno forse aveva problemi di coscienza e non trovava il coraggio di opporsi. L'amministrazione di centrosinistra antifascista sente di impegnarsi meno».
- Le sue dimissioni sono irrevocabili? «Io sono tranquillo, ma mi spiace per i 13 collaboratori della Fondazione. Potrei tornare indietro soltanto in presenza di veri fatti nuovi, come l'aggiudicazione definitiva dei lavori. Altrimenti ci proverà qualcun altro al posto mio».
(la Repubblica, 20 febbraio 2015)
Dopo il sabato, la domenica
di Emanuele Boffì
Intervistato da Libero l'indomani dell'attentato a Charlie Hebdo e all'alimentari kosher Hyper Cacher, il filosofo francese Alain Finkielkraut disse che la profezia romanzesca di Michel Houellebecq si stava già realizzando in Francia. Quel che lo scrittore aveva immaginato accadere nel 2022 (la democratica islamizzazione del paese dei Lumi), sta già accadendo oggi, nel 2015. Mauro Zanon su Libero ha fatto notare che in Francia alle elezioni dipartimentali di marzo si presenterà l'Udmf, per ora minuscolo partito musulmano che, con un programma incentrato su educazione e finanza islamica, punta alle presidenziali del 2017.
Per chi ha letto Soumission, le analogie si sprecano, Ma anche chi rifiutasse incredulo un imminente inveramento della distopia houellebecqiana dovrebbe fare i conti con la crescita nella società transalpina di viscerali sentimenti ostili verso la laicité e l'ebraismo. Nel 2014, 6.500 ebrei hanno lasciato il paese per Israele. In tutta Europa sono stati 17-18 mila solo lo scorso anno. Anche nel libro di Houellebecq, l'amante ebrea del protagonista abbandona la Francia per "tornare a casa". Anche se "casa" significa scud e qassam.
Il rabbino italiano Giuseppe Laras ha messo In guardia l'Occidente e i cristiani. Ignorare l'odio verso gli ebrei, trattare coi guanti il radicalismo islamico ha portato solo tragedie, vedi cent'anni fa gli armeni e oggi i cristiani di Mosul. Perché nella prospettiva del jihad, dopo il popolo del sabato, viene quello della domenica.
(Tempi, 19 febbraio 2015)
Attese nevicate a Gerusalemme
Neve nel Negev (foto d'archivio)
La neve potrebbe cadere anche sulle colline del Negev
Israele si prepara a un'ondata di maltempo che già da oggi si è annunciata con temporali, freddo inusuale e vento teso. Nelle prossime ore, e domani, si attendono forti nevicate a Gerusalemme, nei circondari, e in Cisgiordania. Secondo le previsioni la neve potrebbe cadere anche sulle colline del Negev e nei pressi di Modin, cittadina vicina a Tel Aviv. Nel nord del Paese la neve coprirà sia il Monte Hermon sia le Alture del Golan e potrebbe scendere anche nell'alta Galilea.
(ANSA, 19 febbraio 2015)
Altro che jihad, la priorità del Pd è premiare i terroristi di Hamas
Mozione Dem per riconoscere la Palestina: un aiuto agli islamici che ci intimano di non intervenire a Tripoli. Ma il voto, che imbarazza la maggioranza, salta ancora.
di Massimiliano Scafi
ROMA - Riconoscere lo Stato della Palestina? Il Pd, sfidando l'ira di Israele, è «pronto» a presentare una sua mozione alla Montecitorio e farla mettere ai voti entro un paio di giorni. Il testo, preparato dal responsabile esteri del partito Enzo Amendola e presentato nel pomeriggio all'assemblea del gruppo della Camera, ricalca la risoluzione del Parlamento europeo del dicembre scorso ma resterà però «aperto fino all'ultimo» perché si sta cercando di armonizzarlo con altre due analoghe mozioni di Sel e Psi. Prudente Ncd, entusiasti i grillini, contraria la Lega: tutti e tre depositerrano altrettante mozioni. Irritazione da Gerusalemme. «Qualsiasi riconoscimento prematuro non farebbe altro che incoraggiare i palestinesi a non ritornare ai negoziati e allontanerebbe ulteriormente le possibilità di una pace», questo il commento a caldo dell'ambasciata israeliana nel nostro Paese.
La situazione era già abbastanza rovente. Il caos libico, le minacce lanciate dall'Isis, «siamo a sud di Roma», poi l'avvertimento di Hamas all'Italia: «Non intervenite militarmente in Libia, sarebbe considerata una crociata». In questo quadro la scelta del Nazareno sembra destinata ad alzare altre polemiche. Ma il Pd intende andare avanti, con l'idea di «trovare la massima condivisione» e voleva presentarsi già oggi in Parlamento, se l'ostruzionismo sul decreto Milleproroghe non avesse fatto slittare i tempi. «Noi siamo pronti al dibattito e al voto in aula - dice il capogruppo Roberto Speranza - . Continuiamo a cercare un'intesa con gli altri, ma in assenza di accordo la mozione sarà solo del Partito democratico».
In realtà anche a sinistra, e pure dentro il partito di Renzi, ci sono almeno tre posizioni. C'è chi si accontenta dellla richiesta di un «mutuo riconoscimento» tra Israele a Palestina, chi si batte per un riconoscimento esplicito dello Stato palestinese e c'è chi vuole andre oltre «per essere più espliciti». E sul tavolo ci sono anche le altre due mozioni, la prima firmata da Erasmo Palazzotto, Sel, la seconda dalla socialista Pia Locatelli. I due documenti sono stati presentati a Montecitorio alla presenza di Arturo Scotto, capogruppo vendoliano alla Camera, dell'ex vicepresidente del Parlamento europeo Luisa Morgantini e di un ex ambasciatore e negoziatore israeliano, Ilan Baruch, giunto Roma per sostenere «il riconoscimento, spero incondizionato, dello Stato di Palestina».
Poi c'è pure un testo di Ncd che prevede l'attuazione del principio «due popoli due Stati» ma solo nell'ambito del rispetto delle trattative fra le parti. «Il riconoscimento unilaterale sarebbe un errore», spiega Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione Esteri, che però non esclude un appoggio alla risoluzione del Pd, a seconda di come uscirà. La Lega invece vuole «bandire ogni tentativo dell'Anp di ottenere riconoscimenti ideologici» e «fermare Hamas», per questo è contraria ad atti unilaterali «in assenza di accordi bilaterali con Israele». M5S è disposto a votare tutto. «Non ha importanza quale mozione sarà approvata - sostiene Gianluca Rizzo - , quello che conta è restituire i diritti al popolo palestinese».
Sono 135 i Paesi del mondo che hanno ufficializzato il riconoscimento, tra questi alcuni dell'Est Europa prima di entrare nella Ue, e la Svezia, con un voto storico lo scorso ottobre: il governo svedese ha annunciato l'apertura di un'ambasciata palestinese a Stoccolma. Nel Regno Unito, in Francia e in Spagna sono passati voti parlamentari non vincolanti per i governi, che hanno comunque provocato le proteste di Gerusalemme. Nel dicembre scorso un gruppo di 800 personalità israeliane, tra cui gli scrittori Oz, Yehoshua e Grossman, ha inviato un appello ai parlamenti europei caldeggiando il riconoscimento della Palestina. Ora tocca all'Italia?
(il Giornale, 19 febbraio 2015)
Quali sionisti
di Daniel Funaro
Possiamo ancora definirci sionisti? Non è una domanda banale, ma è la necessaria riflessione che dovremmo affrontare il prima possibile.
Sembra infatti che una parte consistente di coloro che un tempo si dichiaravano sionisti abbiano smesso oggi di ragionare come tali. Come spiegare altrimenti la decisione di alcuni di criticare la scelta d'Israele di definirsi uno Stato ebraico o quella di attaccare il primo ministro israeliano per aver invitato gli ebrei a tornare a casa? Non possiamo che pensare che sia così, anche perché non vogliamo immaginare che questa scelta sia puramente politica per attaccare Netanyahu, il che significherebbe svendere le ragioni del sionismo alla propaganda politica; e allora siamo costretti a pensare che alcuni sionisti non lo siano più e che anzi ne siano diventati oppositori.
E non può essere altrimenti perché su alcuni punti non ci possono essere ambiguità: Israele è uno Stato ebraico che ha come scopo quello di far tornare a casa gli ebrei di tutto il mondo.
Questo in parole povere è il sionismo e se qualcuno lo avesse dimenticato si rilegga pure le parole di Teodoro Herzl che nel suo saggio del 1896 "Lo Stato Ebraico" progetta la nascita dello Stato d'Israele ricordando come sì, anche l'antisemitismo costituisca una spinta alla nascita d'Israele. Eppure molti sembra che lo abbiano dimenticato, più per ragioni politiche che ideologiche, come se questa non fosse una colpa; ma di fronte alla crescita dei nostri nemici non dobbiamo indietreggiare, né temere di affermare le ragioni d'Israele per compiacere i politici dei paesi che non ci difendono dagli attentati, dobbiamo trovare invece la forza per ribadire che le ragioni che portarono alla nascita d'Israele sono ancora valide a prescindere dai politici israeliani che le sostengono.
(moked, 19 febbraio 2015)
Negazionismo: ma che bel pasticcio
Delle migliori intenzioni è lastricata la via dell'inferno. Quando si tratta di nuove leggi, sulle quali vi sono disparità di opinioni, interessi opposti e, assai frequentemente idee di fondo poco chiare, l'inferno è rappresentato da quella orrenda voragine della razionalità e dell'armonia ordinamentale che oggi caratterizza la legislazione del nostro Paese, dal pasticcio inestricabile delle parole e dei concetti che deliziano i nostri testi legislativi.
Ecco dunque il reato di "negazionismo".
Il Presidente del Senato, Grasso, ammette che il Ramo del Parlamento (già un po' rinsecchito secondo la riforma-rottamazione di Renzi) da lui presieduto abbia approvato una legge che introduce tale reato. Ma è vero pure che in altre sedi (ed anche nel titolo del progetto approvato), si cerca di negare che si tratti dell'introduzione di un nuovo reato. Insomma c'è un prudente (si fa per dire) negazionismo per l'introduzione del reato di negazionismo. Un pasticcio all'italiana fondato sulla reciproca presa in giro di gente che la pensa in modo opposto o che non pensa nulla né sa che cosa potrebbe pensare.
La questione del "negazionismo" cioè delle teorie (se così possono chiamarsi) che sostengono che lo sterminio di milioni di Ebrei da parte dei Nazisti non è mai avvenuto, che è pura fantasia, non è questione che dovrebbe interessare il diritto ed il diritto penale in particolare, ma piuttosto, che so, la psichiatria cui compete il compito di studiare quelle forme maniacali di negazione di verità evidenti o di affermazione di fatti e fenomeni inesistenti.
Affermare, magari, sulla base di pretese analisi chimiche dei mattoni dei forni crematori di Auschwitz o di altre simili "prove" che quei milioni di Ebrei non sono stati mai uccisi, che sono, quindi, sopravvissuti alla guerra magari nascondendosi per calunniare i poveri nazisti è pura follia. Di fronte alla quale, peraltro, non si è neppure portati al compatimento che suscitano le malattie del corpo e della mente.
E' anche vero che questa follia è, per qualche verso, dello stesso ceppo di quella che spinse allora milioni
La "proibizione" del negazionismo è sicuramente un gravissimo errore. Proibire di essere cretini, di essere folli, di negare l'evidenza potrà essere comprensibile reazione immediata, ma non è certo da quella che le persone normali devono lasciarsi guidare per i propri comportamenti.
di Tedeschi (e di altri Europei) a concepire e realizzare quell'orrendo massacro.
Detto questo, la "proibizione" delle pubbliche affermazioni del negazionismo è sicuramente un gravissimo errore. Proibire di essere cretini, di essere folli, di negare l'evidenza potrà essere comprensibile reazione immediata. Ma non è certo quella dalla quale le persone normali devono, poi, lasciarsi guidare per i propri comportamenti. Gli imbecilli, sono, oltre che fastidiosi, pericolosi, ma il modo di levarseli d'attorno e di mettersi al sicuro dal pericolo che essi rappresentano non è certo quello di proibire la loro imbecillità, conferendo così ad essa una sorta di giustificazione di chi sa quale verità che si vuole nascondere.
D'altro canto essere intelligenti, anche solo normalmente, ha il suo prezzo.
Ora la proposta di introdurre il reato di negazionismo non è recentissima ed effettivamente in altri Paesi è divenuta legge.
Così in Francia, dove, peraltro, anche la grammatica e l'uso della lingua francese è fatta oggetto di interventi legislativi.
Bisogna dire che, a fronte di tali proposte non sono mancate ed, anzi, per qualche tempo è sembrato fossero prevalenti, le voci contrarie, che sottolineavano che si introduceva così un reato di opinione (ma il problema non era esattamente quello).
Ma i sostenitori della "proibizione" non si sono dati per vinti. C'è del resto in Europa e nel mondo una pericolosa pretesa di imporre la verità per legge. In Turchia, invece del "negazionismo" si perseguita giudiziariamente chi afferma che nel 1915 oltre un milione di Armeni d'ogni sesso, età, condizione furono sterminati dai Turchi.
E gli Armeni dal loro canto chiedono che sia, invece, vietato e punito negare che quello sterminio del loro popolo è avvenuto.
Ma, se è umano che tra le popolazioni scampate ai genocidi la suscettibilità nei confronti di atteggiamenti tesi a minimizzare o escludere le colpe immani degli assassini non si badi troppo a criteri di razionalità e di armonia ordinamentale del diritto, meno facilmente concepibile è che l'ipocrisia e l'ignoranza di altri, meno direttamente colpiti da quei crimini ceda a compromessi logici impossibili, che, poi non sono che dei camuffamenti della repressione penale del cosiddetto "negazionismo": il negazionismo dissimulato ed impasticciato.
Il Senato è riuscito a fare ciò.
Il disegno di legge licenziato dal Senato è, infatti, un bruttissimo pasticcio all'italiana, con il quale i
Il disegno di legge licenziato dal Senato è un bruttissimo pasticcio all'italiana, con il quale i legislatori sono riusciti ad aggiungere alla inammissibile criminalizzazione della negazione di una verità il ricorso ai giuochi di parole e agli espedienti miserevoli di una retorica inconcludente.
legislatori, vittime forse del compiacimento per quella che ritengono una loro insuperabile furbizia sono riusciti ad aggiungere alla in sé inammissibile criminalizzazione della negazione di una verità che si ritiene bisognosa del supporto dell'obbligo di riconoscerla per tale (non sono passati due secoli da quando la negazione di Dio non è più reato da punire con le pene più gravi) aggiunge il ricorso ai giuochi di parole ed agli espedienti miserevoli di una retorica inconcludente.
I rilievi contro l'introduzione del reato di "negazionismo" come reato di opinione non erano infatti rimasti senza effetto.
Così tra alcuni Senatori e la Comunità Ebraica di Roma si ritenne di poter mettere a punto "un disegno di legge che non configuri un reato d'opinione ma vada a colpire atti lesivi della dignità umana".
Il che, considerato che ciò dovesse comprendere proprio la repressione del negazionismo era (ed è) la quadratura del cerchio.
C'è da aggiungere che, malgrado questa affermazione di ricerca di un compromesso, né gli esponenti della Comunità Ebraica né il Presidente del Senato hanno poi (dopo l'approvazione del testo del Senato) cercato di nascondere che l'intendimento era e rimaneva quello di "colpire i falsari che tentano di negare la Shoah". Gattegna, presidente della Comunità, ha espresso soddisfazione per essersi provveduto alla necessità di dotarci di una legge che introducesse il reato di negazionismo " l'Italia finalmente esprime in maniera chiara (!!??!!) gli orientamenti presenti in altri paesi".
A parte queste ammissioni, il disegno che non doveva configurare un reato di opinione, in effetti non sembra, prima facie, introdurre una nuova fattispecie penale oggettiva, ma un'aggravante del reato di istigazione all'odio razziale, presente in un articolo della legge di "contrasto e repressione dei crimini di genocidio e contro l'umanità ".
Il testo della nuova (futura) legge da una parte giudiziosamente limita la persecuzione dell'istigazione a commettere quei particolari delitti nel caso che essa sia compiuta "pubblicamente" e poi aggiunge il comma 3 bis, per il quale "la pena è aumentata se la propaganda, la pubblica ed il pubblico incitamento (???) si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah ovvero dei crimini di genocidio dei crimini contro 'umanità etc.".
Ora è evidente che o chi ha scritto (o anche solo letto) quel testo e fa dichiarazioni come quelle di Gattegna, Pacifici e Grasso di giubilo per l'introduzione di un "reato di negazionismo" non dice il vero.
Oppure, e questo è più grave, chi ritiene di poter fare quelle affermazioni dà per scontato che gli interpreti (cioè la Magistratura) provvederanno a ritenere che chi affermasse l'inesistenza totale o parziale dell'Olocausto compierebbe con ciò l'istigazione all'odio razziale ed a compiere reato di genocidio.
L'affermazione, per quanto idiota e provocatoria, dell'inesistenza dell'Olocausto non è infatti in sé e per sé una istigazione al disprezzo della stirpe ebraica. Se la legge, invece, considera un'aggravante effettuare l'istigazione all'odio, etc. etc. "attraverso la negazione", è la legge che dà a tale affermazione l'equivalenza all'istigazione all'odio ed al genocidio.
Insomma, attraverso un giro di parole, attribuendo ad una affermazione il significato che in sé non ha la si equipara penalmente all'istigazione all'odio".
Questo non significa certamente evitare di cadere nella formulazione di un reato d'opinione.
Significa criminalizzare l'opinione attraverso la falsificazione di quella espressa veramente dal soggetto.
Ma, soprattutto, questo modo di esprimersi è ambiguo e tale da prestarsi ad incertezze interpetrative, così da violare l'art. 25 comma 2 della Costituzione.
E' stato un grande giurista, guarda caso, israelita, Volterra, Giudice Costituzionale in un'epoca in cui ben più alto era il prestigio della Corte, a specificare, con la sentenza sul reato di plagio (Art. 603 c.p.) in data 8 giugno 1880 n. 96 che il principio di legalità è leso ogni volta che la pena è comminata con la formulazione di una "fattispecie penale apparente", tale per la labilità e l'inconcludenza di cui essa sia affetta.
Ciò che è vietato dalla Costituzione per la formulazione di ipotesi di reato, lo è pure per la formulazione di aggravanti. Ed ancor più certo è che sia vietato creare nuovi reati attraverso la formulazione incerta, inconcludente ed ambigua di aggravanti che finiscono per doversi considerare nuove ipotesi camuffate e travisate di altri reati e non di quello di cui dovrebbero al caso, applicarsi.
Un altro pasticcio all'Italiana, dicevamo, con il quale pasticcio non si rende certo omaggio alle vittime di uno sterminio, in quel caso stoltamente e, certo, odiosamente negato.
Ci spiace, sinceramente, che a collaborare a questo ennesimo attentato alla limpidezza delle nostre norme penali sia stata la Comunità Ebraica, della quale è comprensibile lo sdegno, che non deve però essere "compensato" con la violazione dell'armonia e della logica del nostro sistema penale.
Gli Ebrei Italiani hanno dato al nostro, al loro Paese anche il contributo della scienza di grandi giuristi. Abbiamo già ricordato, nello specifico, il pensiero di Volterra. Non ripudiamoli offrendo loro un inconcludente e poco degno ulteriore sacrificio del diritto, in una pretesa difesa della loro stirpe dall'imbecillità di alcuni insani negazionisti.
(Giustizia Giusta, 19 febbraio 2015)
«È un provvedimento inutile. Quella Nazione oggi non esiste»
Parla Sandro Di Castro, ex presidente della comunità ebraica di Roma .
di Pietro De Leo
Sandro Di Castro
Il calendario della Camera, con il voto di fiducia di stasera sul decreto Milleproroghe, ha fatto slittare quello sulle mozioni di riconoscimento dello Stato palestinese. Un tema che, nei prossimi giorni, è destinato ad accendere il dibattito, vista la delicatezza del momento internazionale. Una mozione di riconoscimento «è un qualcosa che non serve a nulla», spiega Sandro De Castro, presidente dell'associazione umanitaria Benè Berith ed ex presidente della comunità ebraica di Roma. «Gli Stati europei - sottolinea De Castro - possono anche decidere di riconoscere la Palestina. Ma a cosa serve? La Palestina è uno Stato che attualmente non esiste. Serve un percorso molto complesso, bisogna fare ben altre cose».
- Tipo? «Sicuramente guidare al meglio la formazione dei giovani palestinesi. A scuola studiano su libri di testo che negano la Shoah. In tv guardano cartoni animati dove si invita ad "uccidere l'ebreo"».
- E sul piano politico? «C'è il problema della rappresentanza ufficiale. Noi abbiamo Hamas da una parte, che gestisce tutta la parte di Gaza. C'è Abu Mazen, che dovrebbe essere il vero rappresentante, ma lo fanno contare molto poco. È una situazione estremamente fluida. Un riconoscimento fatto in questo modo, quindi, lascia il tempo che trova. È un qualcosa di molto effimero».
- Ma l'Europa va proprio quella direzione...
«Gli europei fanno molta confusione sul tema. Da tempo. Specie quando si parla di "tornare ai confini del '48". Anche in quel caso, infatti, lo Stato palestinese non esisterebbe, perché Gaza era sotto il controllo egiziano. La Cisgiordania, era sotto la Giordania. C'è una grandissima ignoranza su tutte queste questioni, una tendenza a parlare per slogan, senza approfondire la realtà di quel territorio. Fintanto che esisterà un tale condizionamento ideologico, non suffragato dai fatti, non si andrà da nessuna parte».
- Cosa bisognerebbe fare, quindi?
«Incentivare il processo di pace come lo concepisce Israele, con degli incontri bilaterali, anche se è molto difficile esistendo, appunto, il problema di quali sono gli interlocutori. La logica del dialogo, quindi, è un discorso molto complicato, che non c'entra nulla con i riconoscimenti spettacolari».
- L'Europa sembra avere una specie di complesso verso Hamas
«Ricordo l'impegno del ministro Frattini per far inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. L'Europa, in generale, sta prendendo una piega molto brutta. Non sta facendo una politica che vada incontro alla reale situazione in Medio Oriente. E ci sono rischi seri, perché quando si sottovalutano le situazioni, poi il terrorismo ce lo troviamo dentro casa».
- Anche in Italia non si è mai formata una vera coscienza su questi temi
«Tutto viene dal '68, dove maturò una vicinanza quelli che apparentemente erano i più deboli, i palestinesi. Un'intera classe politica è maturata in questo modo. E non solo. Il mondo arabo è stato molto abile, negli anni '70 e '80 ad infiltrarsi nei sindacati, e nei media, e quindi ad influenzare le campagne stampa. Hanno sempre detto che la lobby ebraica condizionava i media. Io invito tutti ad andare a leggere i giornali degli anni '80. Per capire il clima di ostilità verso gli ebrei prima dell'attentato alla Sinagoga del 9 ottobre dell' '82, dove morì il piccolo Stefano Taché e io stesso rimasi ferito».
- Ora tutto questo sembra tornare. E si parla ogni giorno di un problema sicurezza per gli Ebrei in Europa.
«È una questione vera, in Francia da un sacco di tempo gli ebrei non vivono tranquilli. In Paesi ancora più a Nord, i Parlamenti addirittura approvano delle leggi che eliminano la libertà di professare liberamente il nostro culto, vietando ad esempio la circoncisione o la macellazione rituale. In molti casi ci sono rigurgiti dell'antisemitismo di destra. Ma quello che ormai è insostenibile è l'antisemitismo arabo».
- E in Italia vi sentite al sicuro?
«Rispetto al trend europeo, le cose vanno molto meglio. Le Forze dell'Ordine, a cui c'è da fare un plauso sincero, stanno facendo il massimo per proteggere i siti ebraici. Però, ripeto, è un trend europeo, e bisogna vigilare».
(Il Messaggero, 19 febbraio 2015)
L'israeliano Haick inventa lo SniffPhone per rilevare il cancro
Considerato in tutto il mondo come uno dei migliori ricercatori della sua generazione, il professor Hossam Haick ha dedicato gli ultimi suoi studi sulle tecniche per rilevare il cancro. La sua più recente innovazione, SniffPhone, è in linea con le precedenti ricerche sulla composizione chimica delle molecole odoranti. Nato dall'unione con NaNose e di uno smartphone, lo SniffPhone è stato pensato per integrare il sistema di diagnostica del nano-nose (naso elettronico).
Lo SniffPhone è un sensore sensibile agli adori ed è in grado di rilevare il cancro allo stadio iniziale. Più piccolo rispetto al suo predecessore è destinato ad un uso esterno e si innesta sullo smartphone. Soffiando all'interno, i micro e nano sensori captano e analizzano le informazioni che successivamente vengono trasmesse allo smartphone. Quest'ultimo poco dopo visualizza la diagnosi sul display.
Con il nuovo SniffPhone è ora possibile diagnosticare precocemente la malattia o addirittura impedire, in caso di rischio, di contrarre la malattia prima che si manifesti.
Ad esempio, ad oggi, SniffPhone può rilevare il cancro al polmone, considerato il più letale di tutti i tumori, prima di qualsiasi altro test, consentendo al paziente di intervenire in tempo. Invece di effettuare esami del sangue, biopsie, scanner e altri esami invasivi, è sufficiente soffiare nello SniffPhone per diagnosticare la malattia. Molte sono le malattie che possono essere diagnosticate in tempi record e quindi essere trattate immediatamente. Supponendo che il paziente sia sottoposto alle cure immediatamente dopo la diagnosi con lo SniffPhone, questa nuova tecnologia potrà salvare vite umane.
La fama del Prof. Haick nella comunità di ricerca è pari solo alla sua reputazione nel mondo accademico. Premiato per eccellenza nell'insegnamento, ha supervisionato il lavoro di molti studenti di talento a livello universitario e laureati di tutto il mondo. Per tutti questi meriti è stato richiesto come insegnante di nanotecnologie in inglese e arabo al Technion. Egli è anche Editore associato del Journal or Translational Engineering in Health and Medicine, membro di numerose riviste specializzate, è anche capo consuente scientifico di diverse aziende ed istituti di tutto il mondo.
(Fonte: Siliconwadi, 19 febbraio 2015)
"Mossa inutile e dannosa rischia di fare un favore soltanto agli estremisti"
di Vincenzo Nigro
ROMA. «Vorrei rivolgermi con rispetto e amicizia agli italiani, ai loro rappresentanti supremi che decidono di votare o meno una mozione sul riconoscimento della Palestina. Vorrei dire una cosa molto semplice: questa mozione è solo un fatto simbolico, ma è inopportuna e negativa, e soprattutto inutile perché cade nel momento in cui in Israele c'è un governo di transizione, in attesa delle elezioni. Non capisco come mai in Italia si arrivi per ultimi a votare questa mozione, e lo si fa a pochi giorni dalle elezioni nel mio paese.»
Naor Gilon,l'ambasciatore di lsraele a Roma, è in visita in Sicilia: al telefono trasmette una sorpresa sincera, soprattutto sui tempi, peraltro in serata poi slittati: «La mozione servirà solo a far dire a qualcuno che "l'Italia ci ha tradito", cosa che noi sappiamo non essere vera».
- Ambasciatore, è chiaro che tutte queste mozioni sono "inutili", non effettive. Ma sono il segno che una parte crescente delle opinioni pubbliche europee ritengono che Israele abbia perso troppo tempo con i palestinesi. «Questo tipo di operazione ha innanzi tutto elementi di politica interna. Mi preme dire una cosa chiara: aiuta davvero al pace soltanto capire che essa non può che essere negoziata. Da Oslo in poi, tutti i primi ministri di Israele hanno riconosciuto che uno Stato palestinese dovrà esistere. Ma deve nascere da un negoziato.»
- Israele sembra però ormai incapace di negoziare seriamente: lo stesso Netanyahu, se volesse concedere qualcosa sarebbe sotto ricatto della destra estrema. Questo può essere un modo per far capire che il mondo si aspetta che cambiate posizione.
«Ma noi non accetteremo mai uno Stato palestina nato per imposizione esterna. Noi dobbiamo avere garanzie totali sullo Stato palestinese che potrebbe nascere al nostro fianco. Dobbiamo negoziare qualcosa che non sia una nuova entità vittima possibile del nuovo terrorismo che sta dilagando in tutto il Medio Oriente.»
- E' rimasto sorpreso dalla posizione del Pd? Gentiloni e lo stesso Renzi avevano detto di condividere la posizione di Angela Merkel, che ha bloccato un voto simle in Germania.
«Io sento ogni giorno gli esponenti del Pd, ogni settimana il loro responsabile Esteri Enzo Amendola. Spero che il testo della loro mozione tenga in considerazione le posizioni che lsraele ha presentato a loro molte volte.»
- E quali sono?
«Una risoluzione che non ricorda chiaramente ai palestinesi che un loro Stato nascerà da un negoziato è un sostegno gratuito a chi vuol fare da solo, a chi vuole aggirare le posizioni di Israele. E le posizioni di Israele sono costruite per provare a garantire la sopravvivenza di Israele stessa. Una mozione sbagliata non farà vivere la Palestina, ma darà altro sostegno agli estremisti, a chi alla fine crede che non ci sia prezzo da pagare per avere uno Stato: e il prezzo sarebbe garantire che Israele possa vivere in pace e sicurezza.»
(la Repubblica, 19 febbraio 2015)
Maratona di Gerusalemme: la capitale di Israele pronta ad accogliere runners da tutto il mondo
Evento unico al mondo, un giorno di festa per tutti i popoli.
Sono attesi oltre 2.500 runner, tra cui professionisti provenienti da tutto il mondo, per la Maratona di Gerusalemme. La International Jerusalem Winner Marathon, è uno dei più grandi eventi sportivi di Israele e si disputerà venerdì 13 marzo 2015. Il percorso attraversa tutti i 3000 anni di storia della capitale di Israele e siti della storia passata e presente dello stato come la Knesset, il mercato di Machane Yehuda, il Monte Scopus, la Città Vecchia, la Torre di Davide, la passeggiata Haas e altro ancora.
La Jerusalem Winter Marathon combina agonismo e paesaggi stupendi, aria fresca di montagna e siti culturali unici. Quello che si disputerà all'inizio della primavera in Israele sarà sicuramente un'esperienza stimolante, entusiasmante e indimenticabile per tutti i corridori e non solo.
l percorso, partenza e arrivo al Sacher Garden, inizia alle 6:00 con queste diverse modalità:
Maratona 42,2 Km
Mezza Maratona 21,1 km
10 km
Gara competitiva di 5km
Gara aperta a tutti di 5 km
Gara di beneficenza di 800 M
Gara di biciclette a mano.
La consegna dei Kit (Maglia New Balance; Pettorina con numero; Timing Chip e discount vouchers) per i corridori si svolgerà presso il Centro Congressi internazionale di Gerusalemme, Binyanei Hauma (Jerusalem International Convention Center), il 10-12 marzo dalle 15:00 alle 22:00 e non il giorno della gara. L'ingresso è aperto al pubblico. Assieme al documenti di riconoscimento i runner dovranno portare anche un certificato medico che attesti la capacità di correre la maratona.
La sera prima della gara è prevista l'immancabile Pasta Night al Centro Congressi, Binyanei Hauma, dove i corridori possono mangiare, gratis, i carboidrati necessari, in diversi menu, per gareggiare tutti i 42.2 Km. La Pasta night è una grande evento dove è possibile conoscere gli altri partecipanti alla competizione, i partecipanti alla maratona mangeranno gratis, altrimenti si possono pagare 24 dollari.
Il ritrovo dell'evento, il Sacher Garden è dotato di stand, deposito, ristorazione, informazioni, camerini, bagni, sinagoga e centro medico. Tutti i partecipanti e visitatori sono invitati ad andare sul posto per vivere tutti gli eventi della maratona di Gerusalemme.
L'evento nella capitale di Israele è stato voluto fortemente dall'uomo che ha rivoluzionato completamente, in meglio, la città di Gerusalemme, il sindaco Nir Barkat.
Per iscriversi e avere maggiori informazioni visitate il sito: www.jerusalem-marathon.com
(SportEconomy.it, 19 febbraio 2015)
L'Isis fa abbracciare Egitto e Israele
Svolta nei rapporti tra i due popoli rivali da millenni. Netanyahu a Sisi: "Fianco a fianco contro i terroristi".
di Fiamma Nirenstein
«Israele continuerà ad essere fianco a fianco con l'Egitto nella sua battaglia con il terrorismo che minaccia tutti noi». Così ha detto ieri il primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu. Primo ebreo dal tempo dei Faraoni a considerarsi in guerra contro nemici comuni insieme all'Egitto. Fianco a fianco, i due antichi nemici di tutte le guerre dal 1948, i dubitosi amici della pace del 1979, i nervosi vicini divisi da una striscia di deserto in cui gli oleodotti saltano e le milizie terroriste impazzano. Fianco a fianco: è di più della pace del 1979, che pure travolse di emozioni e di speranze tutto il mondo. «Non più guerre, non più sangue, non più minacce» disse Menachem Begin nel suo appello al popolo egiziano, trasmesso due giorni dopo l'inaspettata dichiarazione del presidente Sadat in cui annunciava la volontà di andare alla Knesset.
Sadat disse al presidente Ezer Weitzman: «Io sono un uomo di parola, non più guerre». E più o meno ha avuto ragione. Adesso bisognerebbe che Abdel Fattah al Sisi rispondesse a Netanyahu: «Anche noi siamo al vostro fianco». Questo non capiterà facilmente, ma di fatto quello che Bibi disegna con la sua coraggiosa dichiarazione è un'alleanza strategica dopo la pace del 1979. L'opinione pubblica egiziana, al contrario di quella israeliana, affamata di pace col mondo arabo, ha maldigerito i rapporti diplomatici fra i due Paesi, la famosa Guerra dei Sei Giorni, in cui l'aviazione egiziana fu distrutta a terra con un blitz israeliano. In tutte le guerre arabe, a partire dal 1948, l'Egitto ha avuto fino alla pace un ruolo da leone, la famosa cantate Umm Kultum, la favorita di Nasser, cantava una canzone che ripeteva nel ritornello: «Sgozza sgozza». La pace non ha portato simpatia: nel 2003 le forze aeree egiziane sorvolarono le strutture nucleari di Dimona, e là si rischiò un nuovo conflitto. L'ambasciatore è stato richiamato fra l'82 e l'88 e poi nella seconda Intifada, fra il 2001 e il 2005, quando gli israeliani morivano sulle bombe terroriste palestinesi.
La primavera araba portò al potere la Fratellanza musulmana, Morsi suggerì più volte che il trattato di pace era da cassare, ma non osò romperlo, e Israele stette bene attenta a non fare mosse. Nel 2011 l'Egitto aprì il passaggio di Rafah contro il blocco di Gaza; a Morsi piaceva Hamas. L'ambasciata israeliana è stata quasi espugnata diverse volte, durante la «Primavera» 85 diplomatici sono stati evacuati mentre la folla inferocita voleva linciarli. Poi le cose sono cambiate: il generale Sisi è giunto al potere con una rivoluzione che è stata in parte anche un colpo militare contro la Fratellanza musulmana, e intanto il panorama strategico, come in un film dell'orrore, è risultato costituito di sabbie mobili che generavano mostri. Il mondo sunnita, di cui l'Egitto fa parte, si è trovato dilaniato, dopo Al Qaeda, dalla violenza dell'Isis e dei suoi succedanei Jabat al Nusra e Ansar Beit al Makdes, che in gran parte hanno giurato fedeltà a Abu Abkr al Baghdadi, il nuovo Califfo. La spericolata offensiva dell'Egitto in Libia, il suo tentativo di creare una «Forza araba» (Giordania, Golfo, Arabia Saudita) che combatta ovunque le milizie dello Stato islamico, la sua determinazione a rispondere allo sgozzamento mostruoso dei 21 copti egiziani (dopo il rogo del pilota giordano) disegna una guerra strategica dell'Egitto con le altre forze sunnite all'esercito terrorista: quasi di sicuro, riesca o meno a portarsi subito dietro i nuovi alleati, ancora cauti e tentennanti, pure l'alleanza è fatta, ed è forte di un remoto sostegno russo che entra nel giuoco mentre gli Stati Uniti disegnano un altro tipo di alleanza, quella dello scambio di lettere fra Obama e Khamenei. Obama pensa di conquistare l'alleanza col nemico acerrimo dell'Occidente, l'Iran che progetta la bomba atomica e coltiva un disegno egemonico che già gli consente di controllare Teheran, Beirut, Sana, Damasco.
Israele è in una scatola di fragile cristallo, in mezzo a tutto ciò: il rapporto con l'Egitto e la nuova alleanza moderata sembra essenziale e in fondo l'unico possibile, perché certo il rapporto Obama-Khamenei non promette niente di buono. Sisi ha disegnato l'Egitto come la diga contro il terrorismo, e Israele è interessato a condividere questa strada, che copre un lato del problema. Nessuno come Bibi è attaccato sia dalla parte sunnita estrema che da quella sciita.
Per Israele è fondamentale il fatto che l'Egitto abbia dichiarato Hamas un'organizzazione terrorista e di fatto lo combatta come parte integrante della Fratellanza musulmana. Israele è odiato dalle organizzazioni terroriste sunnite ed è anche minacciato dall'Iran che con gli hezbollah e il permesso di Assad occupano il confine siriano del Golan, e ancor più dal pessimo accordo che si disegna all'orizzonte sulla questione atomica. L'Egitto e i Paesi arabi moderati sono il suo interlocutore naturale.
(il Giornale, 19 febbraio 2015)
Copenaghen: l'ultimo saluto a Dan Uzan, il guardiano ''eroe'' della Sinagoga
A Copenaghen in centinaia, tra massime misure di sicurezza, hanno dato l'ultimo saluto a Dan Uzan, una delle due vittime del duplice attentato di sabato. Il 37enne, di origine ebraica, è stato ucciso nel secondo attacco davanti a una sinagoga. Al suo funerale erano presenti il primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt e l'ex primo ministro danese Lars Løkke Rasmussen.
''Non si può far tornare la Danimarca indietro nel tempo. Ho parlato con il presidente della comunità ebraica ed è rimasto molto colpito dal grande sostegno ricevuto. Tanti danesi sono venuti a deporre fiori e candele accese. Tutta il popolo danese ha espresso solidarietà e vicinanza. In Danimarca la libertà di muoversi non deve essere preclusa dalla fede religiosa'', ha detto Lars Løkke Rasmussen.
Dan Uzan, padre israeliano e madre danese, era il guardiano della sinagoga ed era molto attivo nella piccola comunità ebraica di Copenaghen. "Un ragazzo buono, sempre pronto ad aiutare", nel ricordo del rabbino capo della Danimarca Jair Melchior. Per tutti un eroe che con il suo intervento ha evitato una strage, impedendo all'attentatore di entrare nella sinagoga.
(euronews, 18 febbraio 2015)
Capezzone: no al riconoscimento dello Stato palestinese
"Israele e gli ebrei non sono solo 'Israele' e gli 'ebrei': sono il simbolo stesso del nostro Occidente. Lo sono per noi, e lo sono anche per i nemici dell'Occidente, per i nostri nemici, per i nemici della libertà e della democrazia, ad ogni latitudine". Lo dichiara Daniele Capezzone, esponente di Forza Italia e presidente della commissione Finanze della Camera. "L'eventuale riconoscimento di uno Stato palestinese al di fuori di un accordo di pace complessivo tra le parti - continua Capezzone - non favorirebbe la ripresa dei negoziati diretti, ma al contrario rappresenterebbe un ulteriore ostacolo sulla via della pace, perché avrebbe l'effetto di aumentare il livello di diffidenza tra le parti e, soprattutto, di Israele nei confronti della comunità internazionale, compromettendo e vanificando l'importante ruolo di mediazione che l'Unione europea e in particolare l'Italia stanno da decenni svolgendo e devono continuare a svolgere ".
Per Capezzone però, "anche al di là di questo, c'è un punto politico di fondo. La legittima aspirazione palestinese di un riconoscimento statuale non può trovare soddisfazione prima che l'altrettanto legittimo diritto degli israeliani alla sicurezza non sia assicurato attraverso l'abbandono da parte palestinese di qualsiasi aspirazione alla distruzione di Israele e atto d'aggressione ai suoi danni. Va detta una cosa chiara. I popoli israeliano e palestinese hanno entrambi diritto a vivere in pace e in sicurezza, ma ciò può essere garantito, oltre che dalla soluzione 'due popoli, due stati', solo se anche il futuro Stato palestinese sarà uno Stato democratico, in grado di garantire ai suoi cittadini libertà e diritti umani fondamentali. E quindi - prosegue il parlamentare azzurro - l'eventuale riconoscimento di uno Stato palestinese senza aver prima sciolto in un negoziato diretto i nodi del complesso negoziato, e soprattutto in presenza di un forte conflitto tra Anp e Hamas, quest'ultima un'organizzazione terroristica, per il controllo dei territori palestinesi, costituirebbe una minaccia all'esistenza stessa di Israele, ma anche nei confronti dello stesso popolo palestinese, che è, e sarebbe ancor più esposto non solo all'oppressione e alle violenze di Hamas, ma anche - conclude Capezzone - alle incresciose conseguenze delle legittime azioni difensive di Israele in risposta agli atti di aggressione lanciati dalla Striscia di Gaza o da altre zone dei territori palestinesi".
(il Velino, 18 febbraio 2015)
Riemerge davanti a Cesarea un tesoro inestimabile
Quasi 2.000 monete d'oro risalenti al Califfato fatimide
CESAREA - L'archeologia subacquea celebra un'altra straordinaria scoperta. I sub del Dipartimento israeliano alle antichità hanno effettuato il più grande recupero di monete d'oro davanti alle coste di Cesarea, circa 2.000 pezzi che risalgono a un migliaio di anni fa.
Come spesso capita, si è trattato di un colpo di fortuna, all'indomani di una violenta tempesta che ha sconvolto il fondo sabbioso, quando i membri di un diving della cittadina di Cesarea, sede di un importante porto di epoca romana, hanno riportato in superficie un mucchio di monete d'oro del peso di quasi dieci chili e dal valore inestimabile. È il maggior ritrovamento del genere mai scoperto in Israele.
"Qualche settimana fa, spiega Kobi Sharvit, direttore del settore di archeologia subacquea israeliana, un gruppo di sommozzatori stava effettuando un'immersione sportiva a Cesarea quando ha trovato alcune monete d'oro. Che sono rapidamente diventate qualche dozzina. La cosa più incredibile è che ci hanno subito segnalato il ritrovamento", aggiunge divertito e sollevato Sharvit.
I subacquei del Dipartimento alle antichità hanno poi setacciato il sito e recuperato quasi 2.000 monete d'oro, di diverse denominazioni, che circolavano all'interno dei confini del Califfato fatimide che regnò sul il Medioriente e il Nordafrica tra il 909 e il 1171.
Ulteriori e più approfondite campagne di scavo accerteranno, si spera, l'origine di quel tesoro. Le ipotesi intanto si sprecano. C'è chi parla del relitto di una nave che trasportava ricchezze alla volta del governo centrale in Egitto, dopo avere raccolto le tasse locali. O delle paghe della guarnigione militare di Cesarea o magari di una nave mercantile che commerciava sulle rotte dei porti e della città del Mediterraneo.
Il ritrovamento è stato definito inestimabile dalle autorità ed è diventato patrimonio dello Stato ebraico. Che per legge non riconosce alcuna percentuale ad alcuno, nemmeno a degli onesti galantuomini in neoprene.
(askanews, 18 febbraio 2015)
Wall Street Journal incensa Mattarella, un leader unico in Europa
ROMA, 18 feb. - "Le sue prime parole ed i suoi primi gesti lo hanno gia' distinto dai suoi omologhi europei"; "conforta vedere che c'e' almeno un Paese in Europa che ha la volonta' di affrontare i maggiori problemi del nostro tempo": si apre e si chiude con queste parole un lungo elogio che il Wall Street Journal dedica a Sergio Mattarella, a firma di un columnist storico del giornale come Michael Ledeen.
L'Italia " ha avuto per lungo tempo un ruolo guida sul piano politico e culturale sul resto del Continente" ed il Capo dello Stato, rileva Ledeen, "ha un passato politico nel solco della tradizione, provenendo dalla corrente di sinistra dell'ormai scomparsa Democrazia Cristiana. Ma nulla della sua biografia avrebbe fatto presagire che il nuovo presidente avrebbe reso tanto rapidamente un pubblico omaggio agli ebrei italiani". Inoltre "Mattarella ha pronunciato un discorso nel quale ha esortato la comunita' internazionale a 'mettere in campo tutte le risorse' nella lotta al terrorismo", in cui ha citato esplicitamente il nome di Stefano Tache'. "E' difficile immaginare un altro Capo di stato che pronuncia un simile discorso", prosegue il Wall Street Journal, "le parole del Presidente Mattarella riflettono senza dubbio anche i sentimenti del primo ministro italiano, Matteo Renzi, un cattolico che ha molto aiutato la comunita' ebraica di Firenze quando era sindaco della citta'". Ora "le iniziative italiane segnalano la presenza di forze del cambiamento che e' difficile vedere altrove", continua l'analisi del quotidiano americano, "I 35.000 ebrei italiani, una comunita' numericamente esigua rispetto al mezzo milione di ebrei francesi, sono decisamente piu' sicuri rispetto ai correligionari di Francia ed Inghilterra. Non vi e' mai stato un movimento antisemita di massa, in Italia, in parte anche grazie alla presenza di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco, che hanno sempre sostenuto gli ebrei".
Ma "non e' soltanto per il trattamento degli ebrei che l'Italia si sta dimostrando diversa dal resto d'Europa", continua il Wall Street Journal, "l'Italia e' stata generosa anche nel sostenere le attivita' antiterrorismo in Medioriente, in particolare a fianco dei curdi nella guerra all'Isis".
Questo mentre "tedeschi e francesi continuano a cedere di fronte all'avventurismo russo in Ucraina". Da parte loro, semmai, "i jet italiani lo scorso gennaio hanno intercettato aerei russi nell'Europa del Nord s li hanno scortati fuori dei cieli dell'Unione Europea".
(AGI, 18 febbraio 2015)
Lech Lechà: Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica
L'Eterno disse ad Abramo: 'Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò" (Genesi 12:1)
Tornano in Puglia i giorni forti dell'ebraismo di Trani e Puglia grazie a Lech Lechà, la Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica, quest'anno alla sua terza edizione in coincidenza con la festa ebraica di Purìm. In programma nelle città di Trani e Barletta, è un appuntamento atteso con grande entusiasmo non solo da quanti vivono l'identità e la cultura ebraica in prima persona ma anche da parte di tutti coloro - e sono ogni anno di più - che desiderano conoscere maggiormente e profondamente l'ebraismo; un'aspettativa più che legittima in un territorio come quello del Sud nel quale i rapporti con la cultura ebraica vantano un passato plurimillenario.
La Conferenza Stampa di presentazione è in programma a Bari, presso la sede della Mediateca Regionale (Via Zanardelli 30) il prossimo 23 febbraio alle ore 11.30; interverranno Silvia Godelli (Assessore al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia), Pier Luigi Campagnano (Presidente della Comunità ebraica di Napoli), Cosimo Yehudà Pagliara (referente regionale della comunità di Napoli), Francesco Lotoro (pianista). Saranno a decine gli eventi che fra Trani e Barletta "racconteranno" la cultura ebraica: conferenze, presentazioni di libri, concerti, danze, cucina kasher, studio dei testi scritturali e lo Shabbath nell'incantevole scenario di Piazzetta Scolanova dinanzi alla Sinagoga, tornata a nuovo splendore dopo i recenti lavori di restauro.
Altre location a Trani saranno l'Auditorium San Luigi (Piazza Mazzini), il Liceo Statale Classico e Scienze Umane F. De Sanctis e il Ristorante Taverna Portanova dove si potrà mangiare kasher sotto stretta sorveglianza rabbinica; mentre a Barletta Lech Lechà farà capo al Liceo Artistico N. Garrone (Via Cassandro 2), alla Sala Comunità S. Antonio (Via Madonna degli Angeli) e alla Sala Athenaeum (Via Madonna degli Angeli 29).
Il titolo della nuova edizione del Lech Lechà - il cui vasto programma sarà illustrato in Conferenza Stampa - ha voluto legarsi quest'anno a una imminente ricorrenza ebraica, la festa di Purim: essa cade il 14 del mese di Adàr, secondo il calendario ebraico (4-5 marzo 2015 secondo il calendario civile). È una festa gioiosa istituita successivamente a quelle stabilite dalla Toràh in ricordo della salvezza del popolo ebraico ad opera della regina Ester. La tradizione vuole che durante il Regno di Assuero, re di Persia e di Media, avvenne che il più potente dei dignitari del re, Hamàn fu indispettito da Mordechài, cugino e tutore della regina Ester, il quale non si inchinava al suo passaggio. Hamàn istigò il re Assuero a emettere l'ordine di distruggere tutto il popolo ebraico cui Mordechài apparteneva. Fu perciò estratto il pur (la sorte) del giorno in cui la distruzione sarebbe avvenuta: il 13 di Adàr. La regina Ester riuscì tuttavia a capovolgere le sorti ottenendo la distruzione di Hamàn e la salvezza degli ebrei di Persia.
Questi avvenimenti sono narrati nella Meghillàth Ester (Rotolo di Ester) che viene letta in tale ricorrenza. "Ancora a Sud, verso Trani e la Puglia - ha dichiarato Silvia Godelli, Assessore al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia - Una settimana intera di manifestazioni culturali che rieditano tradizioni fondamentali dell'ebraismo spaziando oltre i confini della contemporaneità alla ricerca di radici antiche e di prospettive per il futuro. L'intenso titolo di questo festival (Lech Lechà ossia Va' verso te stesso) richiama simbolicamente la dimensione dell'interiorità, i valori del dialogo spirituale, le ragioni più profonde della relazione con sé stessi e con l'alterità.
"Quando si parla di ebraismo - sottolinea la Direzione Artistica, quest'anno condivisa da Cosimo Yehudà Pagliara, Francesco Lotoro e Ottavio Di Grazia - si intende quello che risiede nel coraggio degli ebrei che dopo 500 anni riaprirono la Sinagoga Scolanova di Trani ripristinandone culto e vita ebraica; la rinascita dell'ebraismo pugliese costituisce una inesauribile fonte di arricchimento della cultura mediterranea ed è stata di stimolo alla rinascita dell'ebraismo in Calabria e Sicilia." "Credo ci siano tutti i presupposti per definire Lech Lechà uno dei più importanti eventi in assoluto dell'ebraismo italiano. - aggiunge Pier Luigi Campagnano, Presidente Comunità ebraica di Napoli - L'impegno per la promozione dell'ebraismo e del dialogo intermediterraneo promosso dagli ebrei di Puglia è fondamentale nell'Italia ebraica; la Comunità di Napoli, responsabile per la circoscrizione del Meridione, sosterrà con ogni mezzo la rinascita dell'ebraismo nel Mezzogiorno. L'auspicio è che esso si riveli altresì momento ideale per la promozione dei valori dell'interculturalità, autentica bandiera dell'ebraismo e delle culture del Mediterraneo."
(Adnkronos, 18 febbraio 2015)
I numeri choc dell'odio europeo. È fuggito un ebreo su quattro
Insicurezza e crisi spingono verso Israele: ne restano poco più di un milione, 600mila in meno rispetto al 1991. Migrano da Ucraina, Ungheria, Francia. E anche dall'Italia.
di Noam Benjamin
Adolf Hitler ci voleva arrivare con lo sterminio, ma l'antisemitismo e la crisi economica potrebbero portare allo stesso risultato: un'Europa Judenfrei , senza ebrei.
L'ultimo studio del Pew Research Center di Washington parla chiaro: all'inizio di questo decennio gli ebrei del Vecchio continente erano 1,4 milioni, seicentomila in meno rispetto al 1991.
Dapprima lo sterminio ha cancellato sei milioni di vite. Poi il crollo della cortina di ferro ha provocato un esodo biblico: un milione di persone ha lasciato l'ex Urss alla volta di Israele mentre in 320mila hanno scelto gli Usa. Altri 200mila ebrei russofoni sono emigrati in Germania, paradossalmente, l'unico Paese europeo dove la popolazione ebraica è cresciuta. «Numeri che non mi stupiscono», spiega al telefono da Gerusalemme il decano dei demografi israeliani, Sergio Della Pergola. «In Germania l'economia tira e il governo è fra i più attivi nel riconoscere le responsabilità dello sterminio. Bisogna darne atto ai tedeschi. Un memoriale della Shoah grande come due campi di calcio lo troviamo accanto alla Porta di Brandeburgo, non certo all'Arco di Trionfo o al Vittoriano». Inoltre, continua Della Pergola, «la Germania è vicina alla Russia per cultura e clima». Più a Occidente colpisce invece la fuga degli ebrei francesi, belgi, svedesi e italiani. È merito degli appelli di Netanyahu agli ebrei europei affinché si trasferiscano in Israele? Della Pergola sorride. «Figuriamoci se qualcuno fa l'aliyah (la salita verso lo Stato ebraico) perché glielo dice Netanyahu! Questo è uno slogan di tutti i primi ministri da Ben Gurion a Golda Meir. Ariel Sharon lo disse a Parigi e suscitò uno scandalo. Chi immigra lo fa perché si sente di farlo». I numeri del 2014 dimostrano che i recenti appelli del leader del Likud non sono necessari. «Nel 2014 sono arrivati in Israele 6.500 ebrei francesi, oltre l'1% della popolazione ebraica d'Oltralpe: non è un esodo ma è comunque massimo storico». Numeri più piccoli ma significativi anche dall'Italia, «da dove sono arrivati in 323, il secondo dato più alto dalla Guerra dei Sei Giorni».
Due le ragioni di un fenomeno in crescita da alcuni anni: l'azione combinata dell'intolleranza (dal pregiudizio antisionista dei media agli atti di violenza antisemita) e della crisi economica che sferza l'Europa dal 2008. «Lo vediamo dal profilo dei nuovi immigrati, spesso di estrazione piuttosto modesta». All'insicurezza economica gli ebrei europei devono aggiungere quella sociale e culturale: in tempi di magra il pregiudizio è sempre in agguato. Curiosa la situazione del Regno Unito, dove gli atti di antisemitismo registrati nel 2014 hanno toccato un picco senza precedenti ma dove pure si registra l'immigrazione di molti ebrei francesi, fra i 4 e i 5mila solo negli ultimi due anni: «Da una nostra indagine condotta in nove Paesi, l'Inghilterra è percepita come meno antisemita, ma è ovvio che emigrare dall'Europa in Europa non è una soluzione».
Se gli ebrei occidentali si spostano col contagocce, l'emigrazione dall'Ucraina e dall'Ungheria è più evidente: nella prima, ricorda Della Pergola, «gli ebrei vivono in maggioranza nelle zone russofone di guerra; nella seconda esiste un antisemitismo di stampo fascista». Tornando al Belpaese, osserva il professore, «è significativo che da un anno Israele ha reso disponibile in italiano l'esame psicometrico per gli studenti che vogliano accedere alle sue università. Mi hanno detto che si sono iscritti in 180 ragazzi: ma in Italia gli ebrei diciottenni saranno al massimo 250. Se tutti e 180 immigrassero in Israele sarebbe una catastrofe per l'ebraismo italiano». Per Della Pergola si tratta di una «grossa crisi potenziale legata innanzitutto alla mancanza di impiego. Ma il punto è un altro», conclude: «Dove va l'Europa? Se crescerà e si integrerà, gli ebrei resteranno. Ma se l'Ue fallisce e l'euro si spacca, oppure se si arriva a un'islamizzazione furibonda, allora non ci sarà più spazio per gli ebrei. A oggi la risposta non è molto chiara».
(il Giornale, 18 febbraio 2015)
Un nuovo nazismo contro Gerusalemme
Sotto i tizzoni spenti resta la cenere calda del vecchio antisemitismo europeo, ma un fenomeno nuovo ha scatenato il disastro e svegliato gli zombie. Si tratta della capillare diffusione di un antisemitismo islamista.
di Fiamma Nirenstein
Prima di tutto, cos'è davvero l'antisemitismo assassino che percorre l'Europa? Sì, sotto i tizzoni spenti resta la cenere calda del vecchio antisemitismo europeo, ma un fenomeno nuovo ha scatenato il disastro e svegliato gli zombie.
Si tratta della capillare diffusione di un antisemitismo islamista (no, non sono semiti anche gli arabi, «semita» è un aggettivo puramente linguistico, non razziale) che ha soprattutto, sulla scorta di Haj Amin al Husseini e poi di Arafat, criminalizzato alla maniera nazista gli ebrei che osarono fondare Israele. Così Israele è diventato, a causa di un serie di bugie ben orchestrate, uno Stato di apartheid (pazzesco, basta passeggiare in un mall), uno Stato genocida (i palestinesi sono triplicati), uno Stato che cerca i bambini per ucciderli nel sonno e i giovani per rubargli gli organi (su Aftonbladet , giornale svedese), un Paese in cui gli ebrei sono stati solo da turisti o da occupanti. L'antisemitismo odierno utilizza il moderno mito della crudeltà di Israele per ripristinare classici stereotipi: il potere, la crudeltà, il cinismo, il pasto di sangue. «Morte agli ebrei» si è gridato nelle manifestazioni per Gaza. L'antisemitismo odierno è israelofobia, ben accolta dalla sinistra e dalla destra estreme. Ma non lo si vuol sapere e quindi non si stabilirà mai una difesa attendibile per la comunità ebraica.
Tre tipi di dichiarazioni da parte dei leader europei non risultano affatto rassicuranti. La prima dice: «Prenderemo i colpevoli. Difenderemo gli ebrei perché sono parte di noi». La seconda ripete: «La matrice però non è islamista. Sono dei pazzi casuali»; la terza chiede: «Non ve ne andate, siete i nostri ebrei». Molte dichiarazioni affettuose, gentili di Merkel, della prima ministra danese, anche di Renzi, ripetono che l'Europa è per gli ebrei «casa vostra», sottintendendo il biasimo per Netanyahu per aver detto che il rifugio naturale, se lo vogliono, è Israele. Certo, è loro diritto invitare i «loro» ebrei a restare. Ma la sconfitta europea che i leader percepiscono e denunciano nella partenza degli ebrei, non è certo maggiore di quella di vederli morire falciati da un terrorista per le strade di Parigi, di Marsiglia, di Copenhagen, Bruxelles. Gli ebrei non appartengono, sono: come ogni popolo hanno diritto alla vita e alla sicurezza. Anche nella diaspora sono un popolo unico con tradizioni svariate, appartengono a un'unica identità morale e culturale che ha travalicato i millenni anche se parlano francese o tedesco.
In Israele l'unione di tante genti e proprio il rispetto della loro diversa provenienza ha creato una comunità affettuosa e compatta, anche se con i suoi difetti (disse Ben Gurion: saremo un Pese vero quando avremo i nostri ladri e le nostre prostitute) che si difende in modo ordinato dai vicini aggressivi, senza temere che un terrorista dell'Isis entri inaspettato in un asilo, in un museo, in un supermarket, in una sinagoga... E quando, se non ora che gli ebrei hanno paura di indossare la kippà o la stella di David, Netanyahu doveva dirgli: venite tranquilli, questa è casa vostra. I paesi europei, si sentono sconfitti se gli ebrei partono? Ma la sconfitta è precedente, risiede nella pavidità dell'Europa, nella sua crisi di identità e di coscienza, nei pericoli enormi, fisici e morali, che corre essa stessa.
Israele ha diritto all'esistenza, ma non ha diritto a difendere la sua esistenza. Gli ebrei devono restare qui perché questa è casa loro, ma in questa casa sono capiti, tollerati, difesi e sostenuti quelli che dicono apertamente e manifestano nei fatti di volervi uccidere. Come non ebreo, dico agli ebrei che mi vergogno dellipocrisia con cui i governanti non ebrei parlano di voi e vi considerano. M.C.
(il Giornale, 18 febbraio 2015)
Scoperte duemila monete d'oro al largo di Israele
E' stata una recente tempesta a smuovere il fondo e a permettere ai reperti di venire alla luce.
Dei sub hanno scoperto un immenso tesoro al largo della costa di Israele. Sono stati recuperati dal fondo del Mediterraneo (in quello che era un tempo il porto di Cesarea) ben duemila pezzi d'oro, datati a circa mille anni fa, e descritti come "inestimabili". E' stata una recente tempesta a smuovere il fondo e a permettere ai reperti di venire alla luce.
Le monete (forse parte di un carico finito sui fondali a causa di un affondamento) sono ora di proprietà dello Stato, e i sub che le hanno scovate non potranno né tenerle né hanno diritto ad alcun compenso.
(Meteoweb, 18 febbraio 2015)
Finalmente una buona notizia per Israele!
Musulmani a difesa di una sinagoga? Si, succede a Oslo
"Se i jihadisti vogliono usare la violenza in nome dell'Islam, devono prima passare attraverso noi musulmani," ha detto uno dei promotori della manifestazione.
"L'Islam significa di proteggere i nostri fratelli e sorelle, a prescindere dalla loro religione.
L'Islam significa superare l'odio e non sprofondare allo stesso livello dei nemici. L'Islam significa difendere l'un l'altro.
Noi musulmani vogliamo dimostrare che disprezziamo profondamente tutti i tipi odio verso gli ebrei, e che saremo lì per sostenerli. Formeremo quindi un cerchio umano intorno alla sinagoga di Oslo sabato 21 febbraio", ha scritto nel loro messaggio da parte degli organizzatori.
Dopo l'attacco alla sinagoga di Copenhagen questo fine settimana, gli attivisti anti-islamici hanno cercato di far nascere un sentimento antimusulmano.
Nel frattempo, i vari tentativi di formare un norvegese PEGIDA (Patriotic Europeans Against the Islamization of the West) sembrano essere crollate. Una manifestazione ad Oslo è stata annullata, perché gli organizzatori si erano dimenticati di chiedere i permessi in comune.
Nel frattempo, un gruppo di giovani musulmani si sentiva stanco di essere accusato di terrorismo e antisemitismo e ha deciso di organizzare una manifestazione di solidarietà con gli ebrei norvegesi. Provenendo da diversi ambienti della comunità e moschee, hanno creato un evento di Facebook che ora viene condiviso attraverso i social media, e hanno già diverse centinaia di "mi piace".
L'iniziativa Cerchio di Pace è stata accolta con favore dal capo della comunità ebraica di Oslo, Ervin Kohn e la disposizione è che avvenga dopo Shabat (celebrazione del Sabato) in modo che i membri della congregazione ebraica possono anche partecipare.
(da Hope not Hate, periodico antifascista e antirazzista inglese)
(leggilanotizia.it, 17 febbraio 2015)
La legittimazione dell'antisemitismo
I recenti attentati in Europa dimostrano che le parole possono uccidere
"L'appello ad uccidere tutti gli ebrei è una legittima critica di Israele". Questo terrificante concetto non è stato proferito dai capi iraniani né dai loro alleati di Hezbollah, e nemmeno dal portavoce di Hamas, nel qual caso non costituirebbe una grande notizia. Questo concetto è stato espresso nientemeno che dall'ufficio del procuratore generale della città di Linz, in Austria: il funzionario legale di un moderno paese occidentale.
Sì, proprio nel paese che ha dato i natali ad Adolf Hitler si è toccato un nuovo culmine di ingiustizia e cinismo. Nella mente dei questi austriaci, lo stato di Israele è così orrendo che invocare la distruzione sua e di tutti gli ebrei viene considerata una "critica legittima"....
(israele.net, 17 febbraio 2015)
Per la Ricerca & Sviluppo fuori degli Stati Uniti Apple si fida solo di Israele!
Con una capitalizzazione di mercato di oltre 700 miliardi di dollari e vendite record pari a 74,6 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2015, Apple è senza dubbio la più importante azienda al mondo.
Tim Cook, il suo amministratore delegato ha annunciato recentemente l'apertura di un nuovo centro di Ricerca e Sviluppo (R&D) in Israele. Secondo il quotidiano israeliano Calcalist che riporta le notizie economiche in Israele, il CEO di Apple è atteso in Israele proprio in questi giorni per l'apertura dei nuovi uffici.
Gli uffici si trovano a Herzliya e ospiteranno circa 800 dipendenti su una superficie totale di circa 17.000 metri quadrati. Oltre ai nuovi uffici della Apple, Tim Cook si prevede possa incontrare anche i rappresentanti di Governo tra cui l'ex presidente Shimon Peres e le grandi figure del Paese nell'ambito del settore high-tech.
Circa un anno fa, nel marzo 2014, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu incontrò Tim Cook, presso la Apple di Cupertino, nel corso di un viaggio ufficiale in California.
Nonostante la loro visita fosse rimasta riservata, il CEO di Apple aveva effettivamente accennato all'importanza della Ricerca e Sviluppo nella filosofia di Apple. L'idea di una futura apertura di uffici in Israele potrebbe essere nata durante questo incontro.
Per Apple non si tratta del primo scambio con Israele. La società è già impegnata nel territorio grazie alle sue molteplici attività. Già nel 2012, la società aveva acquistato Anobit, un'azienda israeliana specializzata nella progettazione di memoria flash. Questo investimento ha segnato l'inizio di Apple nel campo dello sviluppo tecnologico in Israele.
L'anno seguente, Apple stava portando a termine l'acquisizione di PrimeSense, una società israeliana specializzata nello sviluppo di hardware e software in grado di rilevare il movimento in 3 dimensioni. Gli ingegneri di PrimeSense stanno lavorando sull'attrezzatura fotografica per il sistema operativo mobile iOs e per i televisori.
Con già due progetti di ricerca e sviluppo attualmente operati in Israele, uno a Ra'anana, e l'altro nel quartiere degli affari di Haifa, Israele è il paese con la più alta attività di R&D di Apple al di fuori degli Stati Uniti. In un momento in cui il Giappone attende sempre l'annuncio ufficiale per un centro di ricerca e sviluppo a Tokyo, Israele accoglie il suo terzo centro R&D. Nonostante non si sappia a cosa esattamente sarà dedicato questo nuovo polo, è chiaro però che al lavoro ci saranno i tecnici considerati tra i migliori al mondo.
Con tutti gli sforzi compiuti da Apple per stabilirsi in Israele e l'immenso potenziale tecnologico della Startup Nation, si spera che possano essere sancite nuove collaborazioni nel paese e nuove alleanze tra Stati Uniti e Israele. Scommettiamo su una prossima apertura di un Apple Store in Israele? Rimanete sintonizzati!
(Siliconwadi, 17 febbraio 2015)
Riciclavano soldi per gli Hezbollah, perquisizioni a La Spezia
LA SPEZIA - Cinque fratelli, di origini libanesi, sono indagati dalla procura di Torino per finanziamento al terrorismo e riciclaggio internazionale. Secondo la guardia di finanza, che ha effettuato le indagini, ripulivano il denaro proveniente da un ingente traffico di droga per finanziare l'attività degli Hezbollah.
La guardia di finanza ha perquisito la casa e le aziende dei cinque fratelli, che avevano aperto attività di compravendita di auto e macchine agricole nel Cuneese e nella zona di La Spezia. L'indagine è coordinata dal pm Antonio Rinaudo, della Direzione distrettuale antimafia di Torino, competente per il reato di terrorismo. Gli inquirenti hanno ricevuto segnalazioni sull'attività dei cinque fratelli da Fbi e Dea.
Per gli investigatori americani, i soldi arrivati ai fratelli provengono da un traffico internazionale di droga. A loro spettava il compito di riciclare il denaro, che serviva poi a finanziare le attività degli Hezbollah.
Perquisizioni sono state eseguite dalla guardia di finanza, nell'ambito dell'inchiesta sul riciclaggio di soldi per gli Hezbollah, in Piemonte, Liguria e Toscana. Due dei cinque fratelli libanesi indagati risiedono in provincia di Cuneo, uno in provincia della Spezia e i restanti due in Libano, anche se vengono frequentemente nel nostro Paese. All'indagine `Araba Fenice, coordinata dal pm Antonio Rinaudo, hanno collaborato anche l'Fbi e l'Europol. È stato accertato che le aziende italiane che facevano riferimento ai fratelli, che operavano nel settore della compravendita delle auto e dei macchinari industriali e agricoli usati, ricevevano fondi da riciclare provenienti da società inserite in blacklist dalle autorità statunitensi in quanto collegate, in entrata e in uscita, a trafficanti internazionali di droga e a Hezbollah.
Complessivamente vi sarebbe stata una movimentazione di capitali pari a 70milioni di euro, in entrata e in uscita. Molti dei mezzi acquistati in Italia venivano poi imbarcati al porto di Anversa, in Belgio, per i Paesi del centro dell'Africa. Qui sarebbero avvenute ulteriori compravendite i cui proventi sarebbero finiti nuovamente all'organizzazione terroristica libanese.
(La Spezia, 17 febbraio 2015)
Un reporter indossa una kippah e gira per Parigi: insulti dai passanti
di Giordano Stabile
PARIGI - Davvero al vita per gli ebrei di Francia è diventata insostenibile? Il corrispondente da Parigi del sito Ngr (www.nrg.co.il) del quotidiano «Maariv» (vicino al premier israeliano Benjamin Netanyahu) ha fatto un esperimento. Zvika Klein si è messo una kippah e ha passeggiato per le strade di un quartiere a maggioranza musulmana. Era preceduto da un cameraman con una video camera Go Pro.
In un minuto e 36 secondi ha ricevuto sette diversi tipi di insulti, da «cane» a «è venuto a farsi fottere», da «frocio» agli sputi. Un video che sicuramente accenderà ancora di più le polemiche fra Netanyahu, che ha invitato gli ebrei europei a trasferirsi in Israele e i leader europei, Hollande e Merkel in testa, che ieri hanno ribattuto che in Europa la sicurezza per le comunità ebraiche è garantita.
(Il Secolo XIX, 17 febbraio 2015)
Pacifici: "Qui se porto la kippah non succede niente. Stiamo bene in Italia"
Roma non è come Parigi. Un giornalista israeliano, Zvika Klein, ha camminato per Parigi con indosso la Kippah, il tradizionale copricapo utilizzato dagli ebrei maschi, per capire quanto la capitale francese sia un posto sicuro per la comunità ebraica. Con lui un cameramen con le telecamere nascoste. Un esperimento simile a quello che ormai è stato tentato in molte città del mondo con ragazze che camminano per strada. Il risultato lo sentite: insulti, intimidazioni, minacce. "A Roma non succede", dice a Effetto Giorno Riccardo Pacifici presidente della Comunità ebraica di Roma che, racconta, "tutti i giorni giro per strada con la kippah, il clima è completamente diverso". E all'invito del premier israeliano Netanyahu agli ebrei europei a lasciare il vecchio continente per Israele risponde: "sono inviti che fanno da sempre tutti i leader israeliani, noi stiamo bene in Italia, ci sentiamo protetti dalle forze di sicurezza italiane, andremo in Israele in libertà e non costretti".
Pacifici da Berlino: